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SCUOLA DI MEDICINA E CHIRURGIA

Corso di Laurea in Fisioterapia


Dipartimento di Biomedicina Sperimentale e Neuroscienze Cliniche

LA RIABILITAZIONE DEL PAZIENTE CON


SCOMPENSO CARDIACO

TESI DI LAUREA DI
Federica Evola RELATORE
MATRICOLA
Dott. Domenico Di Raimondo
0626794

ANNO ACCADEMICO 2016 - 2017

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INDICE

INTRODUZIONE 1

CAPITOLO I:
LO SCOMPENSO CARDIACO

1.1 DEFINIZIONE 4
1.2 PATOGENESI 10
1.3 EZIOLOGIA 12
1.4 EPIDEMIOLOGIA 13
1.3 LA DIAGNOSI E TEST DIAGNOSTICI 16
1.4 IL TRATTAMENTO FARMACOLOGICO 19

CAPITOLO II:
LA RIABILITAZIONE NEI PAZIANTI CON
SCOMPENSO CARDIACO

2.1 INTRODUZIONE ALLA RIABILITAZIONE 22


CARDIOVASCOLARE: LE LINEE GUIDA
NAZIONALI
2.2 IL PAZIENTE SCOMPENSATO: LA VALUTAZIONE 26
DEL FISIOTERAPISTA
2.3 IL CICLO RIABILITATIVO CARDIOLOGICO 27
2.4 IL TRAINING FISICO 31
2.5 ALLENAMENTO AEROBICO E ALLENAMENTO DI 35
FORZA

CONCLUSIONE 38

BIBLIOGRAFIA 39
INTRODUZIONE

L’incidenza e la prevalenza dello scompenso cardiaco cronico (SCC)


hanno avuto un notevole incremento negli ultimi anni, dovuto in
parte all’aumento dell’età media della popolazione e in parte ai
successi della terapia farmacologica, la quale ha permesso ai pazienti
con patologiche cardiovascolari gravi di vivere più a lungo. Pertanto,
lo SCC è divenuto un problema clinico sempre più frequente e
particolarmente “costoso” a livello economico per il sistema
sanitario.
Nel primo capitolo verrà introdotto lo scompenso cardiaco come
sindrome clinica complessa, si parlerà delle tipologie di scompenso,
i sintomi e i segni, quindi ne saranno trattate eziologia,
epidemiologia, diagnosi e trattamento.
L’aspetto clinico più rilevante dello SCC è la ridotta capacità
lavorativa, dovuta alla comparsa di dispnea e fatica, che limitano lo
sforzo fisico che il paziente è in grado di effettuare.
Il cuore e la periferia, il muscolo scheletrico, in particolare, sono
strettamente collegati sia nei soggetti sani sia nei pazienti con SCC;
di conseguenza è stata avanzata l’ipotesi di sfruttare questi
collegamenti, da cui risultarono importanti implicazioni cliniche e
terapeutiche. Una delle principali è l’applicazione di programmi di
training fisico, che in passato venivano sconsigliati in pazienti affetti
da SCC.
L’esercizio fisico costituisce una condizione fisiologica in cui tutti i
meccanismi di controllo delle funzioni dell’organismo umano
entrano in gioco. Il sistema nervoso autonomo partecipa alla
regolazione del respiro, della temperatura corporea, del trasporto
dell’ossigeno dall’aria ambiente ai tessuti e del metabolismo
muscolare. Nello scompenso cardiaco cronico (SCC) tali risposte
sono profondamente alterate e contribuiscono a determinare il
caratteristico quadro clinico di questa sindrome, ovvero la riduzione
più o meno marcata della capacità lavorativa del paziente.

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Il secondo capitolo infatti verterà nello specifico sulla
riabilitazione cardiovascolare in soggetti con scompenso
cardiaco, ci si focalizzerà in particolare sulle fasi dell’intervento
riabilitativo, facendo particolare attenzione alla valutazione
funzionale svolta dal terapista, all’elaborazione del programma
più adatto, alle necessità che il paziente espone, agli obiettivi e
quindi si discuterà riguardo le modalità di training a cui il
paziente può sottoporsi con piena partecipazione.
Sono numerose le evidenze cliniche e sperimentali che hanno ormai
dimostrato i benefici del training fisico, documentando come gli
effetti dell’attività fisica in questi pazienti agisce con un incremento
della capacità lavorativa in assenza di conseguenze dannose sulla
funzione ventricolare e sull’emodinamica centrale. In aggiunta,
numerosi studi hanno confermato l’efficacia e la non pericolosità
dell’attività fisica in pazienti clinicamente stabili. Gli effetti sul
sistema neurovegetativo, la minor suscettibilità alle aritmie
ventricolari e la possibilità di condizionare la progressione della
malattia hanno portato ad una riduzione del rischio di morbilità e
mortalità.

Al momento non esistono indicazioni precise su quale sia l’intensità


di attività fisica ottimale da usare nel programma di training in
soggetti con scompenso cardiaco; per esempio l’interval training
(IT) è un tipo di approccio innovativo per quanto riguarda il training
fisico nel trattamento dello scompenso cardiaco, poiché l’intensità di
attività usata nell’interval training (IT) è superiore all’intensità usata
nei classici protocolli di training fisico.
Durante un esercizio fisico di tipo massimale, l’aumento delle
richieste metaboliche da parte dei gruppi muscolari coinvolti nello
sforzo può essere considerevole. In soggetti sani, non allenati, il
consumo di ossigeno può aumentare di circa 10 volte rispetto al
valore misurato in condizioni di riposo. La variazione del consumo
di ossigeno è relazionata alla portata cardiaca e all’estrazione
periferica di ossigeno, cioè della differenza artero-venosa di

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ossigeno. Entrambi i parametri tendono ad aumentare nell’esercizio
fisico, tuttavia l’aumento della frequenza cardiaca durante esercizio,
rappresenta il principale e talora unico meccanismo di aumento della
portata cardiaca nei pazienti con SCC. Tuttavia, la frequenza
cardiaca al massimo dello sforzo è spesso ridotta, poiché nonostante
i pazienti con SCC presentano una maggiore concentrazione ematica
di noradrenalina e adrenalina rispetto ai soggetti normali, sia a riposo
che durante sforzo, il cuore dei pazienti con SCC è meno sensibile
alle catecolamine. Da non dimenticare inoltre che spesso la
frequenza può essere influenzata da farmaci ad azione antagonista
sul sistema neuro-ormonale. La gittata sistolica, analogamente al
soggetto normale, aumenta nelle fasi iniziali dello sforzo, per poi
rimanere stabile o ridursi lievemente nelle fasi successive. Tuttavia,
nei pazienti affetti da SCC la gittata sistolica è già ridotta a riposo, e
aumenta in misura molto modesta durante sforzo. In pazienti con
SCC in classe NYHA III, la gittata sistolica durante sforzo può
rimanere addirittura immutata rispetto al basale.
Anche le modificazioni a livello polmonare sono fondamentali, in
quanto l’emodinamica polmonare ha un ruolo importante nella
genesi dei sintomi: si assiste ad un aumento dei valori pressori
polmonari in relazione alla modesta, o addirittura mancata, riduzione
delle resistenze vascolari durante sforzo rispetto ai valori a riposo.
L’incremento delle pressioni polmonari è rapido ed evidente sin
dalle prime fasi dello sforzo. Mentre il profilo emodinamico a riposo
è debolmente correlato con la capacità funzionale nei pazienti con
SCC, la risposta emodinamica durante sforzo, e in particolare
l’incremento della portata cardiaca, mostra una correlazione
significativa con il VO2picco.

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CAPITOLO I
LO SCOMPENSO CARDIACO

1.1 DEFIZIONE ED EPIDEMIOLOGIA

Lo scompenso cardiaco è una condizione generica connessa a


diverse patologie. Dal punto di vista didattico corrisponde al termine
INSUFFICIENZA CARDIACA, ovvero a quella condizione
fisiopatologica in cui il cuore non è in grado di pompare una quantità
di sangue idonea a soddisfare tutte le richieste dell'organismo
metabolico. Quindi consiste nell'incapacità del cuore di pompare il
sangue in maniera efficace e con la giusta pressione.
Ne risulta che i vari organi e tessuti del corpo umano ricevono meno
ossigeno del dovuto e ciò ha, ovviamente, serie ripercussioni sulla
qualità della vita.
In genere, il cuore di un individuo con scompenso cardiaco – il
cosiddetto "scompensato" – presenta un miocardio debole o troppo
rigido, che gli impedisce di funzionare correttamente.
È opportuno precisare, fin da subito, un aspetto dello scompenso
cardiaco spesso poco chiaro o frainteso: la presenza di insufficienza
cardiaca non significa che il cuore non sta funzionando, ma vuol dire
che l'organo cardiaco sta lavorando male quindi in maniera
inefficace.
Per descrivere le caratteristiche particolari dello scompenso cardiaco
nel corso degli anni, sono state introdotte diverse classificazioni, che
differiscono in base al parametro di riferimento, che può essere: il
prevalere di un particolare meccanismo patogenetico o
fisiopatologico o il tipo di presentazione clinica. Sebbene questi
termini spesso non rispecchino in modo adeguato i meccanismi e le
manifestazioni cliniche dello scompenso, essi sono ancora
ampiamente utilizzati nella pratica clinica per la loro capacità di
sintetizzare alcuni aspetti dello scompenso.

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La prima classificazione che verrà trattata riguarda la
differenziazione tra scompenso cardiaco sistolico e scompenso
cardiaco diastolico.
La compromissione della funzione contrattile del miocardio
ventricolare è la causa più frequente di scompenso cardiaco e prende
il nome di scompenso sistolico. Esso è caratterizzato da un primum
movens che è rappresentato dalla ridotta funzione sistolica, con
ridotta frazione d’eiezione e portata cardiaca, cui segue un
inadeguato svuotamento ventricolare, dilatazione e aumento della
pressione telediastolica ventricolare.
In diversi casi, però, i sintomi di scompenso possono essere presenti
in pazienti con normale funzione sistolica e dipendono invece da
un’alterata funzione diastolica, dovuta a una ridotta distensibilità
miocardica. Il deficit di rilasciamento ventricolare causa
un’eccessiva elevazione della pressione diastolica e segni di
congestione a monte (edema polmonare), in presenza di una normale
funzione sistolica a riposo (normale FE). Oggi queste forme vengono
definite come Heart Failure with Preserved Ejection Fraction
(HFPEF). Questa difficoltà di rilasciamento in fase di diastole, se
importante, può compromettere il riempimento diastolico
ventricolare, causando un aumento delle pressioni endocavitarie
telediastoliche e, quindi, nel circolo venoso a monte e, nei casi più
gravi, può compromettere anche la gittata sistolica.
Tuttavia le due forme non devono essere considerate come due entità
fisiopatologiche distinte giacché lo scompenso cardiaco diastolico è
spesso diagnosticato sulla base di segni e sintomi di scompenso con
FEVS a riposo conservata (normale FEVS). La forma diastolica è
comunque più comune negli anziani, piuttosto che ne giovani.
In ogni caso infatti gli effetti sono i medesimi: l’aumento della
pressione venosa a monte e/o dalla riduzione della gittata sistolica a
valle della camera insufficiente.
Altra classificazione suddivide lo scompenso cardiaco acuto e lo
scompenso cardiaco cronico. Mentre il termine scompenso cardiaco
cronico indica uno stato di insufficienza cardiaca, più o meno

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compensata e sintomatica, stabile nel tempo, il termine scompenso
cardiaco acuto indica invece la comparsa improvvisa o in breve
tempo di sintomi e/o segni di insufficienza cardiaca importanti.
Questo può essere causato da patologie che impongono
improvvisamente al cuore un carico di lavoro eccessivo, come, per
esempio, una grave crisi ipertensiva, la rottura di un lembo valvolare
per endocardite o anche un improvviso ostacolo al riempimento
cardiaco (come nel tamponamento cardiaco o per un’ostruzione
dell’ostio mitralico).
Quadri clinici specifici, particolarmente gravi, di scompenso
cardiaco acuto sono l’edema polmonare acuto e lo shock cardiogeno.
Infine, altra importante classificazione, differenzia lo scompenso
cardiaco destro da quello sinistro. Ciò perché, alcune patologie
possono prevalentemente o esclusivamente interessare solo una delle
sezioni del cuore. In caso di compromissione delle sezioni sinistre
(atrio e/o ventricolo) l’aumento della pressione venosa, la
congestione e l’edema si verificano nel circolo polmonare
(scompenso cardiaco sinistro); se, viceversa, esso è dovuto alla
compromissione del ventricolo e/o dell’atrio destro, gli stessi
processi patologici hanno luogo nella circolazione venosa sistemica
(scompenso cardiaco destro). Anche segni e sintomi possono essere
diversi in quanto: nello scompenso cardiaco sinistro prevarranno i
sintomi di dispnea e i segni di stasi polmonare all’auscultazione
toracica, mentre nello scompenso cardiaco destro prevarranno i
segni di una significativa congestione venosa periferica (turgore
delle giugulari, edemi periferici, epatomegalia). La forma più
comune è sicuramente quella sinistra ciò perché le malattie cardiache
che più spesso sono causa di insufficienza cardiaca (la cardiopatia
ischemica, l’ipertensione arteriosa e i vizi valvolari importanti)
coinvolgono esclusivamente o prevalentemente le sezioni sinistre
del cuore.

La terminologia principalmente utilizzata per la descrizione dello


scompenso cardiaco adotta la misurazione della frazione di eiezione

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ventricolare sinistra (FE). Lo scompenso cardiaco interessa
un’ampia gamma di pazienti, da quelli con FE normale, tipicamente
maggiore o uguale al 50%, e scompenso cardiaco con FE preservata,
a quelli con FE ridotta, ossia con FE inferiore al 40%, e scompenso
cardiaco con FE ridotta (Tabella 1.1).

Tabella 1.1 - Definizione dello scompenso cardiaco con frazione di


eiezione preservata (HFpEF), media (HFmrEF) e ridotta (HFrEF)

Fonte: Ponikowski P. et al., 2016.

Tra lo scompenso cardiaco ridotto e scompenso cardiaco preservato


è stato inoltre individuata un’altra tipologia, che prende il nome di
scompenso cardiaco intermedio; questi pazienti presentano una FE
compresa tra 40% e 40% e presentano lieve disfunzione sistolica, ma
con caratteristiche di disfunzione diastolica (Tabella 1.1).
Nei pazienti in cui non è presente una malattia miocardica sinistro
ventricolare rilevabile, lo scompenso cardiaco può essere legato ad
altre cause cardiovascolari, quali ipertensione polmonare, o malattie
delle valvole cardiache. I pazienti con patologie non cardiovascolari
(per esempio l'anemia, o malattie polmonari, renali o epatiche)
possono avere sintomi simili o identici a quelli dello scompenso
cardiaco, ognuno dei quali può complicare o esacerbare la sindrome.

Per quanto riguarda la sintomatologia, nello stadio molto precoce


della patologia, alcuni soggetti sono del tutto asintomatici. Altri

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sottovalutano la stanchezza e il respiro affannoso come semplici
segni dell'età che avanza.
A causa dell'incapacità del cuore di pompare il sangue efficacemente
e di fornire ossigeno a organi come reni e cervello, i soggetti affetti
da scompenso cardiaco possono presentare una serie di sintomi,
come:
o Dispnea
o Mancanza di energia, sensazione di stanchezza
o Difficoltà a dormire di notte a causa dei problemi di respirazione
o Tosse con espettorato "schiumoso"
o Addome gonfio o dolente, perdita di appetito
o Aumento della minzione notturna
o Confusione, deterioramento della memoria
I segni tipici dello scompenso cardiaco sono:
 Aumento della pressione venosa centrale
 Rumore stasi polmonare
 Edemi declivi
 Versamenti
 Pelle fredda, cianotica, sudata e pallida
 Aumento della frequenza cardiaca
Secondo la New York Heart Association (NYHA) lo scompenso
cardiaco può essere classificato in base al grado di limitazione
dell'attività fisica, cioè in base alla sua gravità. In particolare
vengono individuate quattro classi. La definizione delle classi è
basata sui sintomi che si manifestano durante l'esercizio dell'attività
(tabella 1.2).

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Tabella 1.2 Classificazione funzionale dei pazienti cardiopatici della New York
Heart Association (NYHA)

Classe I Pazienti senza limitazioni dell’attività fisica. L’attività fisica abituale non causa
sintomi

Classe II Lieve limitazione dell’attività fisica. Il paziente è asintomatico a riposo, ma l’attività


fisica abituale causa sintomi

Classe III Grave limitazione dell’attività fisica. Il paziente è asintomatico a riposo, ma un’attività
fisica anche inferiore a quella abituale causa sintomi

Classe IV Impossibilità di eseguire qualsiasi attività fisica senza avere disturbi. Il paziente può
presentare sintomi di scompenso cardiaco anche a riposo. I disturbi aumentano se
viene intrapresa una qualsiasi attività fisica

Questa classificazione viene utilizzata anche per descrivere l'effetto


del trattamento e si basa sui sintomi che si manifestano durante
l'esercizio dell'attività.
La dispnea è senz’altro il sintomo più frequente e caratteristico dello
scompenso e consiste in una sensazione di fatica a respirare associata
a una sensazione di fame d’aria o mancanza di respiro. È provocata
dalla congestione polmonare, che appunto provoca edema
interstiziale e riduce perciò la distensibilità dei polmoni e
l’ossigenazione del sangue. Ciò fa aumentare il lavoro dei muscoli
respiratori, che possono per di più essere male ossigenati per effetto
dell’ipoperfusione periferica, e contribuisce a determinare la
sensazione di mancanza di aria.
Nei casi lievi o iniziali di scompenso la dispnea si manifesta solo per
sforzi intensi, o comunque in condizioni che richiedono un aumento
del lavoro e della portata cardiaca. Nei casi più gravi invece compare
anche per sforzi di lieve entità e, nei casi avanzati, anche a riposo;
per esempio con la semplice assunzione della posizione supina. Per
questo motivo il paziente ha la necessità di assumere o mantenere la
posizione eretta per poter respirare normalmente (condizione
definita ortopnea).

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Anche l’attività muscolare è un parametro da attenzionare, i sintomi
relativi all’attività muscolare, secondari all’ipoperfusione dei
muscoli, sono piuttosto frequenti, ma spesso sfumati e aspecifici, e
consistono nella facile comparsa di astenia durante attività fisica.

1.2.1 PATOGENESI

Lo scompenso cardiaco si manifesta, come abbiamo accennato, con


una disfunzione della contrattilità cardiaca (disfunzione sistolica) e
del rilasciamento cardiaco (disfunzione diastolica). Tali disfunzioni
fanno sì che il nostro organismo si attivi attraverso meccanismi di
compenso, attraverso il sistema neuro-endocrino, che hanno lo scopo
di mantenere la portata cardiaca su valori normali. Ciò che accade è
che nei gradi più lievi di scompenso questi aggiustamenti riescono a
garantire un adeguato flusso ematico in qualunque condizione. Nei
casi di scompenso moderato, tuttavia, essi potranno consentire il
mantenimento di una normale portata cardiaca solo a riposo, ma non
sotto sforzo (quando è richiesto un aumento rilevante della gittata
stessa). Nei casi più gravi, infine, essi saranno incapaci di garantire
una gittata sufficiente anche per sforzi lievi, o addirittura a riposo.
Cosa più grave è che nei casi più avanzati questi meccanismi,
soprattutto quando il loro grado di attivazione è elevato, possono
progressivamente comportare effetti negativi sulla funzione
cardiocircolatoria, che finiscono con il contribuire a peggiorare, in
un circolo vizioso, il quadro clinico dello scompenso cardiaco,
compartecipando e precipitando l'insufficienza e la congestione
dell'apparato circolatorio.

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Principali meccanismi neuroendocrini di compenso nello scompenso
cardiaco, innescati dalla riduzione della gittata sistolica e dalla
conseguente stimolazione di chemocettori e meccanocettori localizzati nel
miocardio, nell’aorta e nel bulbo carotideo (Fonte: “Medicina Interna
Sistematica” C.Rugarli)

I meccanismi di compenso che si mettono in atto quando è presente


l’insufficienza cardiaca, e che contribuiscono a far sì che per un certo
periodo di tempo la patologia rimanga asintomatica, sono di due tipi:
centrali e periferici. Quelli centrali consistono fondamentalmente in
un adattamento delle fibrocellule miocardiche, e comprendono
ipertrofia e dilatazione ventricolare, con prevalente dilatazione e
conseguente aumento del volume cardiaco; il meccanismo è basato
sulla Legge di Starling, secondo la quale un allungamento delle fibre
miocardiche in diastole determina un aumento della forza contrattile
del cuore. I meccanismi periferici sono fondamentalmente:
l’attivazione del Sistema Renina-Angiotensina-Aldosterone, con
conseguente vasocostrizione e ritenzione idrosalina, e l’attivazione
del Sistema Nervoso Simpatico, che ha un’azione ino-dromo-crono-

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batmotropa positiva, con conseguente vasocostrizione periferica
artero-venosa.
I diversi meccanismi compensatori provocano un aumento della
volemia e aumentano le pressioni di riempimento delle camere
cardiache, la frequenza cardiaca e la massa del cuore, in modo da
mantenere la funzione di pompa del cuore e di favorire una
ridistribuzione del sangue. Tuttavia, nonostante questi meccanismi
compensatori, la capacità del cuore di contrarsi e di rilasciarsi può
ridursi progressivamente con ulteriore aggravamento dello
scompenso cardiaco. Si instaura alla fine un circolo vizioso, che
contribuisce a peggiorare ulteriormente la prestazione ventricolare.

1.2.2 EPIDEMIOLOGIA

Oltre i 65 anni lo scompenso cardiaco rappresenta la prima causa di


ricovero in ospedale; anche per questo è considerato un problema di
salute pubblica di enorme rilievo. A soffrire di scompenso cardiaco
in Italia sono circa 600.000 persone e si stima che la sua frequenza
raddoppi a ogni decade di età (dopo i 65 anni arriva al 10% circa).
È dunque una condizione legata all’allungamento della vita media e
quindi all’invecchiamento generale della popolazione dovuto
all’aumento della sopravvivenza e al miglioramento del trattamento
dell’infarto del miocardio e delle malattie croniche (diabete,
ipertensione ecc.) che lo provocano. L'età quindi costituisce una
condizione di rischio molto importante, l'incidenza rimane bassa
nelle persone tra i 40 e i 50 anni, mentre sale fino al 10% nei soggetti
con età superiore a 75 anni.
L'incidenza di questa patologia è in netto aumento anche a causa
dell'aumentata sopravvivenza in seguito ad infarto miocardico acuto.
Ma soprattutto, appunto, a causa dell'invecchiamento, poiché la
degenerazione degli organi, fa sì che l'efficienza cardiaca diminuisca
amplificando l'effetto di eventuali patologie. L'IC veniva coinvolta
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nelle cause del decesso "per cause naturali" ovverosia la morte per
invecchiamento senza sintomi apparenti: in effetti quando la
contrattilità cardiaca si riduce progressivamente, quale ne sia la
causa, l'effetto finale è un ipo-perfusione degli organi vitali ed in
particolare del cervello, del rene e del fegato con il progressivo
deterioramento funzionale degli stessi sino, in taluni casi,
al coma irreversibile per insufficienza renale acuta ed insufficienza
epatica.
L’adozione di stili di vita che prevengano l’insorgenza di queste
condizioni è dunque una strategia fondamentale per prevenire lo
scompenso cardiaco.
Da attenzionare anche i dati secondo cui, nell’età adulta, lo
scompenso è più frequente negli uomini che nelle donne, a causa
della maggiore prevalenza di cardiopatia ischemica; la differenza
tende comunque ad annullarsi con il passare degli anni.

1.2.3 EZIOLOGIA

Le cause di scompenso cardiaco sono numerose, spesso infatti alla


base vi è una moltitudine di insulti che il miocardio subisce,
dall'ipertensione arteriosa alle coronaropatie.
In seguito a ciò il cuore deve modificare la sua attività e questo
comporta una modifica dei volumi e degli spessori del ventricolo
sinistro
Per semplificarne la consultazione, i cardiologi hanno pensato di
suddividerle in tre grandi categorie, che sono:
o La categoria delle alterazioni meccaniche
o La categoria delle malattie del miocardio (o malattie del muscolo
cardiaco)
o La categoria delle disfunzioni elettrofisiologiche (o turbe del ritmo
cardiaco)

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Prima di analizzare nel dettaglio le categorie sopraccitate, è bene
precisare che, spesso, lo scompenso cardiaco è frutto di un insieme
di fattori scatenanti; è molto raro, infatti, che sia una circostanza
soltanto a pregiudicare il buon funzionamento dell'organo cardiaco.
Le alterazioni meccaniche includono: l’ipertensione, la stenosi
valvolare, l’insufficienza valvolare, shunt cardiaci, pericardite,
tamponamento cardiaco, aneurisma ventricolare.
Le malattie del miocardio comprendono: cardiomiopatie,
miocardite, infarto del miocardio, alterazioni del tessuto muscolare
di origine metabolica
(Es. ipotiroidismo, ipertiroidismo e diabete), oppure assunzione di
alcuni farmaci, ad esempio chemioterapici.
Le disfunzioni elettrofisiologiche che possono indurre scompenso
cardiaco sono: asistolia, fibrillazione ventricolare, tachicardia
ventricolare, fibrillazione atriale.
L’eziologia dello scompenso cardiaco varia all’interno delle varie
regioni del mondo e tra di esse. Non vi è accordo rispetto a un singolo
sistema di classificazione delle cause dello scompenso cardiaco, con
frequente sovrapposizione delle varie categorie (Tabella 1.3).

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Tabella 1.3 – Eziologie dello scompenso cardiaco

Fonte: Ponikowski P. et al., 2016.

Le cause possono inoltre essere suddivise in:


 Cause sottostanti, dove vengono comprese tutte le anomalie
congenite o quelle acquisite, che possono riconoscersi nel quadro
clinico dello scompenso cardiaco cronico
 Cause scatenanti, dove si riscontrano eventi che hanno determinato
il peggioramento della capacità contrattile del cuore e possono
identificarsi con lo scompenso cardiaco acuto.
Abbiamo già descritto le differenza tra SC acuto e SC cronico, in cui
il termine scompenso cardiaco acuto può indicare o un evento acuto
de novo oppure un aggravamento dello scompenso cardiaco cronico
(SCC), caratterizzato da segni di congestione polmonare, incluso

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l’edema polmonare. Lo SCC è spesso contraddistinto da
riacutizzazioni e costituisce la forma più diffusa di questa sindrome.
Le fasi di instabilità si realizzano in seguito a diversi fattori
precipitanti, quali ischemia miocardica (Sindrome coronarica acuta),
miocardite acuta, valvulopatia acuta, come la rottura delle corde
tendinee, aritmie (Tachicardia ventricolare o Fibrillazione atriale),
embolia polmonare con tipico scompenso del ventricolo sinistro,
tamponamento cardiaco, tamponamento cardiaco (Alcool, FANS),
polmonite, infezioni da virus, eccessi alimentari o assimilazione di
dosi elevate di sodio, mancato rispetto della terapia.

1.3 DIAGNOSI

Anche se gli aspetti strumentali e laboratoristici sono fondamentali,


la diagnosi di scompenso è principalmente una diagnosi clinica,
basata su segni e sintomi. La raccolta delle informazioni deve essere
completa ed accurata per evitare le false diagnosi.
L’anamnesi risulta quindi fondamentale, si ricercano elementi quali:
ipertensione, DM, dislipidemia, fumo di sigaretta, familiarità per
malattie CV. Oppure storia di cardiopatia ischemica, valvulopatie,
aterosclerosi periferica, febbre reumatica, esposizione a farmaci
(antracicline, ciclofosfamide), assunzione di alcool e droghe,
infezioni, malattie del connettivo, amiloidosi, feocromocitoma.
Lavorando con tempi ristretti su pazienti solitamente complessi e
affetti da più̀ patologie, è indispensabile disporre di un approccio
clinico standardizzato, che permetta di evitare omissioni o
valutazioni tecnicamente non corrette. Quanto segue vuole essere un
aiuto in tal senso.
I sintomi da indagare sempre, sono i seguenti: dispnea, ortopnea,
affaticabilità, edema, nicturia, oliguria, dolore addominale,
oppressione precordiale.
I sintomi dipendono da:
o Ritenzione idrica ed aumentate pressioni di riempimento:

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o Congestione polmonare (dispnea da sforzo/riposo, edema
polmonare)
o Congestione venosa sistemica (epato-splenomegalia, turgore
giugulari, edemi arti inferiori)
o Ridotta portata cardiaca:
o Ipoafflusso muscolare (astenia, ridotta tolleranza esercizio fisico)
o Ipoafflusso renale
o Ipoafflusso cerebrale
o Ipoafflusso cutaneo (cute pallida e fredda)

Tabella 1.4 – Sintomi e segni tipici dello scompenso cardiaco

Fonte: Ponikowski P. et al., 2016.

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Sfortunatamente questi sintomi vengono riportati frequentemente
nella pratica ambulatoriale e non compaiono esclusivamente in caso
di scompenso, ma possono essere dovuti ad altre patologie.
L'accuratezza diagnostica dei singoli sintomi è molto bassa. È anche
opportuno ricordare che nei soggetti anziani (che, per altro,
costituiscono la larga maggioranza dei pazienti con scompenso) i
sintomi correlati allo sforzo possono non comparire per
l’autolimitazione delle attività: il paziente si stanca, limita quindi le
sue attività, non avverte più i sintomi e considera poi normale e
abituale questa attività ridotta. Un altro motivo per non riferire i
sintomi è attribuirli semplicemente alla vecchiaia, considerandoli,
ancora una volta, normali. Può anche essere utile ricordare che le
donne tendono meno facilmente, rispetto agli uomini, a riconoscere
come tali i sintomi di scompenso. Per meglio indagare questi aspetti
può essere utile chiedere al paziente quali attività era solito svolgere
o, comunque, desidererebbe compiere, ma che ora non sono più̀
agevoli a causa della “mancanza di fiato” o della debolezza.
L'esame obiettivo tende ad evidenziare gli elementi indicativi di
malattia cardiaca, a ricercarne la causa e a valutare la presenza di
patologie non cardiache che possano giustificare i sintomi riferiti dal
paziente. I principali segni indicativi di cardiopatia, da ricercare sono
sempre, i seguenti: tachicardia, elevata pressione giugulare,
alterazione del battito apicale, galoppo, soffi patologici, sibili/rantoli
polmonari, edemi declivi, congestione viscerale
Anche in questo caso, questi elementi obiettivi non sono presenti
esclusivamente in caso di scompenso cardiaco.
In fase di diagnosi iniziale si procede con l’analisi della
concentrazione plasmatica dei peptidi natriuretici (PN), se elevati si
richiedono ulteriori indagini. Si procede con elettrocardiogramma
(ECG), non è specifico per questo tipo di diagnosi ma poiché le
anormalità segnalate dall’ECG forniscono informazioni
sull’eziologia (per esempio infarto del miocardio) e sono di ausilio
nell’individuazione di una terapia, effettuare tale esame è parte della
routine diagnostica dello scompenso cardiaco.

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Si procede infine con ecocardiografia, che risulta essere il test di
maggior utilità per stabilire la diagnosi di scompenso cardiaco. Tale
esame fornisce informazioni immediate sul volume, sulla funzione
sistolica e diastolica ventricolare, ispessimento della parete,
funzionamento delle valvole e ipertensione polmonare; si tratta di
informazioni cruciali non solo per stabilire la diagnosi ma anche per
determinare il trattamento più adeguato.
Altri test diagnostici utilizzati sono la radiografia del torace,
l’ecocardiografia transtoracica, l’ecocardiografia transesofagea,
l’ecocardiografia da stress, la risonanza magnetica cardiaca, la
Tomografia ad emissione di fotone singolo (SPECT), la scintigrafia
ventricolare, la tomografia ad emissione di positroni (PET),
l’angiografia coronarica, tomografia cardiaca computerizzata (TC).

1.4 TRATTAMENTO FARMACOLOGICO

Il trattamento dello scompenso cardiaco è multidisciplinare e


prevede vari livelli d'approccio. L'obiettivo finale dell'equipe medica
è quello di ridurre i sintomi per migliorare la qualità della vita,
rallentare la progressione della patologia, ridurre l'ospedalizzazione
e aumentare la sopravvivenza. Il trattamento dello scompenso
cardiaco prevede l'utilizzo di diversi presidi: si parte innanzitutto
dalle modifiche dello stile di vita e delle abitudini alimentari, quali
ad esempio la riduzione dell'apporto di sale, il controllo dei bilanci
idrici, la pratica di attività fisica moderata periodica etc.
Quindi terapia farmacologica, spesso composta dall'associazione da
più farmaci, tra cui inibitori dell’enzima
di conversione dell'angiotensina (ACEI), che riducono la mortalità e
morbilità, betabloccanti, in particolare laddove il paziente presenta
una storia di infarto del miocardio e disfunzione sistolica sinistro
ventricolare, al fine di ridurre il rischio di decesso, antagonista del
recettore mineralcorticoide (MRA) così da ridurre il rischio di
ospedalizzazione e il tasso di mortalità, inibitori del recettore
dell’angiotensina e della neprilisina (ARNI), che nel lungo termine

19
riportano risultati migliori rispetto agli ACEI nella riduzione
dell’ospedalizzazione per peggioramento dello scompenso cardiaco,
antagonisti del recettore dell'angiotensina II (ARB). L’efficacia dei
farmaci e delle loro combinazioni è determinata soprattutto dal tipo
di scompenso e dalla sintomatologia che lo accompagna, ad
esempio: nel caso di scompenso cardiaco preservato, relativamente
ai sintomi, laddove sia presente congestione, si raccomanda
l’assunzione di diuretici.
Qui di seguito, vengono elencati i principali farmaci utilizzati in caso
di scompenso cardiaco, sia in caso della forma che della forma acuta,
con gli effetti che questi provocano nell’organismo (tabella 1.5).

Tabella 1.5 Princi Tabella 1.5 Principali presidi farmacologici nella terapia dello scompenso cardiaco

Scompenso cardiaco Principali effetti nello scompenso


cardiaco

Cronico
ACE-inibitori e antagonisti Inibizione degli effetti
recettoriali dell’angiotensina II dell’angiotensina II
β-bloccanti Riduzione del postcarico
Effetti antiadrenergici
Miglioramento della risposta
adrenergica
Effetto “antiaritmico”

Nitrati Vasodilatazione venosa periferica


Riduzione del precarico

Idralazina Vasodilatazione arteriolare

Diuretici dell’ansa e tiazidici Aumento dell’escrezione di Na+ e


liquidi
Riduzione del precarico

Antialdosteronici Blanda azione diuretica


Risparmio di K+

Glicosidi digitalici Attività inotropa positiva


Riduzione della frequenza cardiaca
durante fibrillazione atriale

20
Acuto
Diuretici dell’ansa Aumento dell’escrezione di Na+ e
liquidi
Riduzione del precarico

Nitrati Vasodilatazione venosa periferica


Riduzione del precarico

Nitroprussiato di sodio Vasodilazione sia venosa sia arteriosa


Riduzione di precarico e postcarico

Glicosidi digitalici Attività inotropa positiva


Riduzione della frequenza cardiaca
durante la fibrillazione atriale

Amine simpaticomimetiche Attività inotropa positiva


Effetto diuretico a basse dosi

Inibitori della fosfodiesterasi Attività inotropa positiva


Effetto vasodilatatore arterioso

Morfina Vasodilatazione venosa periferica


Riduzione del precarico
Azione antidolorifica e sedativa

Fonte: “Medicina Interna Sistematica” C.Rugarli

21
CAPITOLO II
INTRODUZIONE ALLA RIABILITAZIONE

CARDIOVASCOLARE:

2.1 LE LINEE GUIDA NAZIONALI

La riabilitazione cardiovascolare si caratterizza per un alto grado di


complessità, multidimensionalità e multifattorialità. Sulla base delle
evidenze scientifiche, l’Organizzazione Mondiale della Sanità
(OMS) ha definito la riabilitazione cardiologica come processo
multifattoriale, attivo e dinamico che ha il fine di favorire la stabilità
clinica, ridurre le disabilità conseguenti alla malattia e supportare al
mantenimento e alla ripresa di un ruolo attivo nella società con
l’obiettivo di ridurre il rischio di successivi eventi cardiovascolari,
di migliorare la qualità della vita e di incidere complessivamente in
modo positivo sulla sopravvivenza. Le malattie cardiovascolari sono
la causa principale di morte in tutti i paesi del mondo occidentale,
inclusa l’Italia, e sono la causa più frequente di disabilità.
L’assorbimento di risorse economico-sanitarie da esse indotte (in
particolare quelle legate alle ospedalizzazioni, alla spesa
farmaceutica e al ricorso alle prestazioni ambulatoriali) ne fa la
principale fonte di spesa sanitaria nel nostro Paese, senza peraltro
considerare la perdita di produttività in una popolazione spesso
ancora in età lavorativa. La necessità di Linee guida in riabilitazione
Cardiologica rappresenta quindi un tassello molto importante e tra i
più “cost-effective” nella gestione del paziente cardiopatico.
Attualmente si riconosce che la combinazione di un adeguato
monitoraggio ed intervento clinico, un programma di esercizio fisico
e di interventi strutturati educazionali e psico-comportamentali
rappresentino la forma più efficace di CR. I programmi di CR
includono le seguenti componenti:
- assistenza clinica volta alla stabilizzazione;

22
- valutazione del rischio cardiovascolare globale;
- identificazione di obiettivi specifici per la riduzione di ciascun
fattore di rischio;
- formulazione di un piano di trattamento individuale che includa: a)
interventi terapeutici ottimizzati finalizzati alla riduzione del rischio;
b) programmi educazionali strutturati dedicati e finalizzati ad un
effettivo cambiamento dello stile di vita (abolizione del fumo, dieta
appropriata, controllo del peso, dell’ansia e della depressione); c)
prescrizione di un programma di attività fisica finalizzato a ridurre
le disabilità conseguenti alla cardiopatia, migliorare la capacità
funzionale e favorire il reinserimento sociale e lavorativo;
- interventi di mantenimento allo scopo di consolidare i risultati
ottenuti e favorire l’aderenza a lungo termine, garantendo la
continuità assistenziale.
Queste componenti si integrano nel progetto riabilitativo individuale
che identifica gli obiettivi da raggiungere nel singolo paziente con
gli strumenti a disposizione e nell’intervallo di tempo in cui si
prevede di poter effettuare l’intervento. Questo approccio, effettuato
secondo la logica del disease management, appare particolarmente
innovativo perché permette la misurazione dell’efficacia
dell’intervento sulla base di indicatori definiti a priori.
La realizzazione del progetto riabilitativo prevede la presenza di
un’équipe muldisciplinare, formata solitamente da: medico
(cardiologo), coordinatrice infermieristica, infermiere, operatore
socio-sanitaro, fisioterapista, psicologo, dietista, logopedista.
Gli obiettivi dell’intervento sono nel breve termine e comprendono:
il perseguimento della stabilità clinica, miglioramento della
tolleranza allo sforzo, dei sintomi di angina e di scompenso,
miglioramento del profilo di rischio cardiovascolare, migliore
qualità di vita, maggiore autonomia funzionale con riduzione della
dipendenza e della disabilità, ancora, ridurre il rischio di successivi
eventi cardiovascolari, ritardare la progressione del processo
aterosclerotico e della cardiopatia sottostante e il deterioramento
clinico, ridurre morbilità e mortalità.

23
Qualunque programma di RC prevede: innanzitutto la stratificazione
prognostica del rischio attraverso valutazione clinica ed indagini
strumentali adeguate che consentono di identificare gli obiettivi
specifici per ognuno dei fattori che influenzano il rischio
cardiovascolare; in secondo luogo, si passa all’elaborazione di un
piano di trattamento individuale (PRI), che includa: cambiamento
dello stile di vita, prescrizione di attività fisica ed intervento di
mantenimento a lungo termine con lo scopo di consolidare i risultati
ottenuti; in terzo luogo, la valutazione degli aspetti psicologici,
sociali e lavorativi del paziente per la realizzazione di interventi il
più possibile specifici e mirati.
Queste componenti non sono oggetto di variazione, ciò che cambia
da caso a caso è l’attività fisica che viene svolta. Il training fisico in
particolare deve essere calibrato e personalizzato in base alle
condizioni fisiche del paziente e alle conseguenze della malattia.
I livelli dell’intervento riabilitativo viene classificato dall’OMS in
tre categorie in base alla difficoltà dell’intervento stesso:

Livello uno (avanzato)


Preferibilmente in un ospedale ad indirizzo riabilitativo, dove sono
disponibili servizi e prestazioni di alta specialità, riservati ai pazienti
nella fase post-acuta della malattia e a pazienti a rischio elevato;

Livello due (intermedio)


Si sviluppa all’interno di un ospedale per acuti, riservato a pazienti
in fase post-acuta e a rischio intermedio;

Livello tre (base)


Detto anche ambulatoriale, riservato a pazienti a basso rischio,
cronici, stabili, con la finalità di mantenere un alto grado di
indipendenza, promuovere un effettivo cambiamento dello stile di
vita per un’efficace prevenzione secondaria, e che prevede cure e

24
interventi anche nell’ambito della comunità (attraverso palestre, club
coronarici, ecc.).

Gli interventi riabilitativi più diffusi e più complessi sono quelli


sviluppati a livello ospedaliero questo perché comprendono la forma
di riabilitazione degenziale per pazienti più complicati, instabili a
medio-alto rischio e disabili.
La riabilitazione ambulatoriale, invece, è meno complessa per la
presenza di pazienti più autonomi, più stabili, a basso rischio e che
quindi richiedono minore supervisione.

I livelli di assistenza previsti dall’OMS si sono sviluppate in Italia


con il DM 7/5/1998 (linee guida nazionali per la riabilitazione) e con
il supporto delle linee guida elaborate dalle Società Scientifiche
nazionali e internazionali di settore, e che sono riassumibili nel modo
seguente:

• RC “intensiva” in regime di degenza (riabilitazione degenziale o


residenziale), eroga assistenza attraverso due livelli di cura, il
ricovero ordinario (codice 56) e il day-hospital per pazienti a medio-
alto rischio, disabili e più complessi.
La durata dell’intervento intensivo è di norma di 2-6 settimane per il
ricovero ordinario e 4-8 settimane per l’accesso in day-hospital. La
durata è regolata (così come la priorità d’accesso) sul grado di
complessità assistenziale del paziente. Le indicazioni sono riportate;

• RC “intensiva” in regime ambulatoriale per pazienti a basso


rischio, comunque clinicamente stabili e che non richiedono speciale
supervisione. Si realizza attraverso unità di CR ambulatoriale che
erogano interventi rivolti a pazienti che hanno superato la fase acuta
della patologia cardiovascolare, a basso rischio di instabilità clinica
a riposo o in attività di recupero sotto sforzo e senza necessità di
tutela medica infermieristica per le 24 h.

25
2.2. IL PAZIANTE SCOMPENSATO: LA VALUTAZIONE DEL
FISIOTERAPISTA

Compito del fisioterapista è elaborare un programma riabilitativo


individuale (PRI), incentrato quindi sulla specificità del paziente.
Il ciclo riabilitativo ha inizio con la valutazione iniziale dello stato
del paziente, procedendo con la stratificazione del rischio a seconda
del grado di stabilità, nel corso della quale si procede a verificare le
condizioni cliniche generali, lo stato funzionale degli organi e degli
apparati, il livello di deterioramento fisico, lo stato delle capacità
motorie, la funzione cardiovascolare sotto sforzo, la comorbilità e la
terapia farmacologia in atto. Particolare attenzione è posta anche allo
stato nutrizionale e alle abitudini alimentari, entrambi influenzabili
in modo negativo da condizioni di tipo sociale o economiche più o
meno disagiate, o medico, quali edentulia e iporessia. Infine, il
terapista si concentra anche sulla “persona”, valutandone gli stati
emotivi e cognitivi, la qualità e quantità del supporto sociale e
familiare, si conclude educando il paziente alla corretta gestione del
programma di riabilitazione e della terapia farmacologica. È
opportuno indagare sulle abilità e/o disabilità del paziente e le
limitazioni alla vita quotidiana, ad esempio: la deambulazione, il
salire e scendere le scale, la capacità di svolgere attività domestiche,
di cura ed igiene personale, di attività ricreative e di hobby.
Il fisioterapista quindi valuterà:
• i passaggi posturali
• la stazione eretta e la deambulazione
• la dipendenza fisica
• lo stato clinico generale (stabile o instabile)
• la presenza di comorbilità
• il livello di comprensione, di attenzione, di interesse.
Queste informazioni saranno utili per organizzare il tipo di
intervento riabilitativo, che può essere singolo o di gruppo, può
svolgersi in camera o in palestra etc. Può inoltre capire le necessità

26
del paziente e gli ausili da utilizzare (es.: deambulatore, bastone, pep
mask, ossigeno terapia etc.)

2.3 IL CICLO RIABILITATIVO CARDIOLOGICO

Nel paziente con scompenso cardiaco l’approccio riabilitativo può


essere di due tipi: di allenamento o di riadattamento. Il ciclo può
inoltre essere di tipo degenziale (per pazienti che hanno superato la
fase acuta della malattia, ma che permangono a medio- alto rischio
potenziale di instabilità clinica) o ambulatoriale (per pazienti che
sono ormai stabili e autonomi); altra differenza è la riabilitazione
intensiva e quella estensiva. Quella intensiva viene messa in atto
nell’immediato del post-acuto, quando il paziente raggiunge una fase
di stabilità; quella estensiva è invece quella di “mantenimento” a
lungo termine, attuata per i pazienti a basso rischio ed è basato su
interventi di: controllo terapeutico, programma di training fisico,
programma di educazione e prevenzione sanitaria.

Nel caso in cui il paziente si trovi in una fase di instabilità, quindi in


terapia intensiva o semi-intensiva, gli obiettivi stessi del programma
saranno: monitoraggio del paziente, evitare rischi e danni secondari,
valutare i problemi clinici, riadattare il paziente alle ADL, intervento
informativo del paziente. Questa fase si realizza con un graduale
ritorno alle azioni di vita quotidiana (alimentarsi, vestirsi, andare in
bagno etc.) e avviene attraverso riabilitazione respiratoria,
mobilizzazione attiva-assistita, passaggi posturali e deambulazione.

L’esercizio fisico ha un ruolo principale nella riabilitazione del


paziente scompensato: durante l’esercizio fisico, oltre alla frequenza
cardiaca e al ritorno venoso, aumenta anche la forza contrattile del
miocardio. In questa situazione, infatti, aumenta l’attività del sistema
nervoso simpatico e, quindi, la quantità di noradrenalina liberata

27
dalle terminazioni nervose simpatiche del cuore, con conseguente
aumento della stimolazione dei recettori β-adrenergici del
miocardio. Il grado di stimolazione nervosa dei recettori β-
adrenergici cardiaci rappresenta il meccanismo fisiologico più
importante alla base della riserva di contrattilità del cuore.
Nei pazienti affetti da insufficienza cardiaca cronica, tuttavia, è
molto frequente la manifestazione di un forte disagio nell’effettuare
l’esercizio fisico che può portare il paziente a rifiutarsi
completamente di partecipare alla riabilitazione, con conseguenti
effetti negativi generalizzati sulla funzione cardiocircolatoria, sulla
tendenza dei muscoli scheletrici all’atrofia.
Il paziente presenta infatti una ridotta capacità ad eseguire attività
fisica aerobica con precoce insorgenza di astenia. La capacità di
compiere un esercizio infatti dipende fisiologicamente da un
incremento della gittata cardiaca adeguato al livello di esercizio e
dalla capacità dei muscoli di utilizzare l’O2 fornito dal sangue.
L’intolleranza all’esercizio nei pazienti con scompenso cardiaco ha
una eziologia multifattoriale: anomalie periferiche piuttosto che
cardiache sembrano essere i principali determinanti della limitazione
funzionale, queste riguardano il flusso ematico, la funzione
endoteliale, i muscoli, la distribuzione della gittata cardiaca, gli
ergoriflessi.
È dunque fondamentale che l’operatore guidi in modo adeguato il
paziente nel training fisico in quanto questo, interrompendo il circolo
vizioso appena descritto, consente un adattamento funzionale e
strutturale degli apparati, con conseguente miglioramento
emodinamico, ventilatorio e metabolico.
I criteri necessari per iniziare il training sono:
 Stabilità emodinamica da almeno 3 settimane
 Capacità di parlare senza dispnea (frequenza respiratoria <30 atti
respiratori/min)
 Frequenza cardiaca a riposo <110 b/m’
 Percezione inferiore a “moderata fatica” durante esercizio (scala di
Borg).
28
Il ruolo del Fisioterapista occupa un posto di centrale importanza,
per agire sui sintomi dello scompenso, prevenendo così i danni legati
all’inattività fisica, portando ad un miglioramento della qualità di
vita del soggetto; contemporaneamente fornendo il giusto supporto
psicologico per affrontare i propri timori.
La tipologia di esercizio fisico da proporre al paziente varia a
seconda degli aspetti fisiologici e fisiopatologici dell’attività e degli
effetti acuti o cronici che si possono ottenere. Verranno quindi
differenziate attività di tipo dinamico che richiedono un impegno
cardiocircolatorio costante (attività aerobiche prolungate) o
intermittente; oppure attività statiche, o ancora di potenza (tabella
2.1).

Tabella 2.1 - Classificazione delle attività fisiche, sportive e di


palestra

29
Fonte: Giada F. et al. 2007, p. 23.

Ognuna di queste attività richiederà un’intensità di sforzo,


proporzionale alle richieste metaboliche dei muscoli impegnati.
L’unità di misura che permette di calcolare questa richiesta è il MET,
equivalente metabolico, pari all’ossigeno consumato per le funzioni
basali dei vari organi da un uomo in condizione di riposo, stimato in
3,5 ml di O2 per Kg di peso corporeo per minuto.
L’efficacia del programma riabilitativo aumenta se il suo avvio è
precoce, se lo stesso dura per molto tempo, e se l’operatore lo
sottopone a continua rivalutazione, adottando l’intensità degli
esercizi (riducendola o aumentandola) a seconda della risposta che
ottiene dal paziente.
Oltre all’intensità, altri parametri da valutare sono: modalità,
frequenza di allenamento, durata, progressione e sicurezza.

30
2.3 IL TRAINING FISICO

La corretta prescrizione del training fisico in termini di intensità è


cruciale per ottenere un adeguato stimolo allenante e per contenere i
rischi.
La seduta di allenamento prevede una fase di riscaldamento, seguita
dalla fase di carico di lavoro in cui le modalità sono di due tipi:
endurance training ed interval training. Infine una fase di
defaticamento.
Il riscaldamento ha come obiettivo quello di preparare il sistema
cardiovascolare e muscolare all’esercizio e viene effettuato
attraverso esercizi di ginnastica respiratoria, esercizi callistenici a
basso carico e streching, per una durata complessiva di circa 5’-10’.
La ginnastica callistenica è un'attività motoria che permette di
utilizzare il peso del proprio corpo e la forza di gravità come
resistenza, per migliorare l’ampiezza e la capacità articolare e per
sviluppare la forza muscolare. La ginnastica callistenica prevede
ripetizioni consecutive di un esercizio, in numero variabile a seconda
del compito motorio. Aumentando il numero delle ripetizioni, si può
gradualmente migliorare la resistenza e la forza di un determinato
gruppo muscolare. In questo lavoro è importante adottare il principio
del "debole sovraccarico" e della progressività dell’impegno che
implica l'aumento di ripetizioni al proprio allenamento abituale allo
scopo di renderlo un po' più intenso.
L’allenamento callistenico permette quindi di ottenere il
potenziamento della resistenza, della forza fisica e di incrementare
inoltre la flessibilità e la coordinazione. Essi vengono selezionati
secondo alcuni criteri che sono: la facilità di apprendimento e di
esecuzione, la modulabilità, l’incremento della frequenza cardiaca,
fatica rilevata attraverso scala di Borg. Qui di seguito sono
rappresentati alcuni degli esercizi callistenici che i pazienti possono
svolgere durante il training fisico (figura 2.2).

31
2.2 Esempi di Esercizi Callistenici

32
Fonte: Associazione AISC

Si passa quindi alla fase di carico di lavoro allenante, che ha come


obiettivo finale il miglioramento della performance fisica del
soggetto. La frequenza cardiaca considerata allenante varia dal 50%
all’80% della frequenza cardiaca massima. Nei pazienti debilitati ci
si mantiene invece ad un’intensità minore (40%-50%), che viene
però parzialmente compensata dalla durata e dalla frequenza delle
sessioni di allenamento. Solitamente, data la correlazione tra
consumo di ossigeno e frequenza cardiaca, è proprio quest’ultima ad

33
essere presa come parametro di riferimento per la prescrizione del
training fisico, anche se la sua applicabilità è poi condizionata dallo
stato clinico del paziente scompensato, dall’uso di farmaci beta-
bloccanti o dalla presenza di aritmie.
Questa fase si realizza attraverso due modalità, precedentemente
introdotte:
 Endurance training o continuos training: ovvero un lavoro
moderato, prolungato nel tempo, senza periodi di riposo,
come la cyclette, il cammino, la corsa e gli esercizi a corpo libero
effettuai senza intervalli. È considerato come la forma di esercizio
che permette il massimo dell’incremento della capacità aerobica
 Interval training: alternanza di periodi di lavoro con intensità
prestabilita a periodi di riposo o di lavoro leggero, più adatto a chi
ha difficoltà nell’adattamento allo sforzo.
La durata sarà di 20’-30’.

Si conclude quindi con la fase di defaticamento, il cui obiettivo è


ottenere il graduale ripristino delle condizioni a riposo di pressione
arteriosa e frequenza cardiaca, attraverso esercizi di intensità
decrescente.

All’inizio di ogni esercizio l’operatore fornisce al soggetto le


istruzioni sia per svolgere il singolo esercizio sia per controllare la
respirazione e lo scopo a cui essi sono preposti, in modo da rendere
sin dall’inizio il soggetto partecipe dell’attività di training. Nel corso
dell’esercizio, o al termine di questo, l’operatore spiega al paziente
gli eventuali errori commessi in fase di esecuzione, e propone delle
alternative nel caso si siano manifestate delle difficoltà. Infine,
l’operatore sottolinea i progressi fatti, agendo in tal modo
positivamente sui livelli di motivazione del paziente, e
incentivandolo a proseguire con il ciclo riabilitativo.

34
Anche la deambulazione, se eseguita con criterio, può essere una
valida modalità di allenamento: mantenendo la frequenza cardiaca a
20 battiti al minuto al di sopra di quella di base. Si comincia con 5-
10 minuti di marcia al giorno e poi la durata dell'esercizio può essere
aumentata gradualmente fino a 30 minuti al giorno. Durante questa
progressione, sarà possibile osservare la propria tolleranza allo
sforzo.

Per quanto concerne la ginnastica respiratoria, le tecniche


individuabili per questo tipo di pazienti sono diverse: ad esempio si
parla di respiro controllato o breathing control, ovvero un respiro
calmo, a volume corrente, usando la parete inferiore del torace,
mantenendo rilassate le spalle e la parte superiore del torace. Utile
per prevenire il broncospasmo e favorire il rilassamento; oppure gli
esercizi di espansione toracica (Thoracic Expansion Exercise), sono
respiri profondi con accentuazione della fase inspiratoria ed
espiratoria non forzata: dopo una espirazione passiva a FRC, si
richiede all’utente una inspirazione lenta dal naso fino a TLC, con
apnea teleinspiratoria di circa 3secondi, seguita da una espirazione
non-forzata a labbra socchiuse; o ancora le tecniche di espirazione
forzata (Forced Expiration Tecnique): consiste in 1 o 2 Huff, ovvero
espirazioni forzate ma non violente, eseguite contraendo la
muscolatura addominale e mantenendo sia la bocca che la glottide
aperta. Altra modalità è la ACBT (Active Cycle of Breathing
Techniques) composta da periodi di respiro controllato (BC),
esercizi di espansione toracica (TEE) ed espirazioni forzate (FET).

2.4 ALLENAMENTO AEROBICO E ALLEMENTO DI FORZA

Fino a pochi anni fa si pensava che l’esercizio aerobico fosse l’unica


modalità di esercizio "consentito" ai soggetti con scompenso
cardiaco. Negli ultimi anni però, numerose ricerche hanno
dimostrato la possibilità di introdurre in “sicurezza” nella pratica di
un allenamento di forza in questi soggetti.

35
L’allenamento aerobico è infatti da sempre considerato
l’allenamento migliore per i soggetti con scompenso cardiaco, in
quanto permette il miglioramento della capacità aerobica e del
VO2max, parametro di fondamentale importanza in questa tipologia
di soggetti essendo associato al rischio di mortalità cardiovascolare.
Al tal proposito nel 2016 sono stati analizzati 17 studi con l’obiettivo
di definire i motivi per cui l’allenamento aerobico è in grado di
migliorare la capacità aerobica stessa. Da quest'analisi emerge che la
spesa energetica totale (determinata da intensità, durata e frequenza
delle sedute e dalla lunghezza del programma) sembrerebbe
risulti essere il fattore determinante per il miglioramento della
capacità aerobica. A tal proposito, alcuni studi affermano come è
possibile aumentando quindi l’intensità possano essere aumentati
anche gli effetti; altri studi invece mostrano come l’incremento
combinato della frequenza e della durata delle sessioni di
allenamento risultino essere più efficaci nel migliorare la capacità
aerobica, rispetto all’aumento dell’intensità. Quest’ultima
affermazione più accettabile tenendo in considerazione il fattore
aderenza, ovvero la propensione dei soggetti ad aderire alla pratica
riabilitativa. Infatti, intensità di allenamento troppo elevate
influiscono negativamente sull’aderenza, mentre programmi più
lunghi nel tempo, con obiettivi chiari e raggiungibili, sembrerebbero
la facilitino.
Tuttavia gli studi più recenti tendono a considerare maggiormente
l’importanza dell’esercizio di forza, considerato “sicuro” in soggetti
con scompenso cardiaco, comportando miglioramenti non solo della
forza muscolare, ma anche della capacità aerobica (anche se in forma
minore rispetto all’allenamento aerobico); portando una variazione
di richiesta di ossigeno molto elevata durante l’attività fisica,
indurrebbe un miglioramento della portata cardiaca e dell’estrazione
di ossigeno da parte della muscolatura periferica, quindi si ha sì un
miglioramento della capillarizzazione, ma si ha soprattutto un
miglioramento dello scambio arterovenoso tra ossigeno e anidride
carbonica. Una review del 2017 ha analizzato 10 studi con

36
l’obiettivo di verificare la sicurezza e i benefici dell’allenamento di
forza in soggetti con scompenso cardiaco. Dall’analisi emerge come
l’esercizio di forza, eseguito con movimenti lenti e controllati,
determini i benefici migliori per questa capacità funzionale,
comportando un significativo aumento nel trasporto e nell’utilizzo
di ossigeno nei muscoli allenati, grazie a una migliore
redistribuzione del sangue e ad una più efficace funzionalità delle
fibre muscolari e quindi un miglioramento del metabolismo aerobico
delle fibre muscolari stesse. Questo risultato sancisce un risvolto
molto importante, fornendo una forma di allenamento alternativo nei
soggetti con ridotta tolleranza all’esercizio aerobico, specialmente se
anziani. In quanto consente stimoli di allenamento più intensi sui
muscoli periferici, senza portare un ulteriore stress sul cuore, rispetto
all’utilizzo di un protocollo di training continuato (CT).
Inoltre, questa modalità di allenamento risulta fondamentale per
preservare e incrementare la massa muscolare, soprattutto nello
scompenso cardiaco avanzato e nello scompensato cardiaco nel
soggetto anziano, in cui una condizione di sarcopenia porta ad un
incremento del rischio di caduta del 10%, del rischio di
ospedalizzazione, mortalità e autonomia, con una riduzione del 30%
della capacità di svolgere efficacemente le attività quotidiane.
Concludendo, si rinforza il concetto che la pratica di esercizio fisico
in soggetti con scompenso cardiaco è determinante per il decorso
della patologia e per il miglioramento della qualità di vita.
L'allenamento aerobico ad intensità moderata, duraturo nel tempo
comporta benefici probabilmente migliori, soprattutto nei soggetti
ad alto rischio di abbandono. In alternativa, l'allenamento alla forza
può essere utilizzato nei soggetti con ridotta tolleranza allo sforzo
fisico.

37
CONCLUSIONI

Lo scopo della riabilitazione cardiologica è quello di ottenere non


solo il miglior recupero possibile dello stato di salute di un paziente
cardiopatico, ma anche una modificazione della storia naturale della
malattia, attraverso la correzione dei fattori di rischio e
l’ottimizzazione del percorso terapeutico. In questo quadro
l’esercizio fisico ne rappresenta una parte fondamentale, ovviamente
questo deve essere prescritto e svolto in maniera congrua sotto la
guida di personale adeguatamente preparato. Deve inoltre essere
personalizzato rispetto alle condizioni cliniche del paziente e
adattato ai suoi interessi e motivazioni, al fine di ottenere la migliore
compliance possibile. Il paziente infatti deve essere incoraggiato ad
intraprendere l’attività fisica e a superare lo stato di disagio.
È opportuno inoltre che il paziente sia informato riguardo
l’importanza dell’intervento riabilitativo, così da essere più motivato
e consapevole. Nel paziente con scompenso cardiaco, l’esercizio
concorre a: ritardare la progressione della malattia, ridurre la
mortalità e la morbilità, prevenire il deterioramento clinico e la
progressione della disabilità, ridurre la frequenza delle
riospedalizzazioni e migliorare la qualità di vita. Ciò si traduce anche
in una riduzione dei costi sociali della patologia.

38
Bibliografia

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