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TEATRO ITALIANO DEL NOVECENTO

CAPITOLO 1- UNA PARVENZA DI INDUSTRIA


A partire dal 1906 Ruggero Ruggeri sente il bisogno di annotare nei taccuini
giorno per giorno incassi lordi e netti di ogni singola rappresentazione.
L’eccezionale sistematicità che lo distingue, da un lato tramanda a futura
memoria documenti preziosi per puntualizzare repertori e guadagni di troupes
primarie tipiche del primo ‘900 italiano, dall’altro sembra costituire la risposta
più razionale a uno status dello spettacolo contemporaneo dominato dall’esigenza
di rapportarsi al pubblico attraverso rappresentazioni di calcolato successo. I
taccuini svelano la politica culturale di un capocomico giunto alla sua fase
suprema e ultima: considerare i prodotti scenici alla stregua di mere confezioni
risultanti dal connubio tra materie prime drammaturgiche e prestazioni
interpretative più o meno corrispondenti alla domanda di mercato. Nel 1906
Ruggeri inaugura un sodalizio di 3 anni con Emma Gramatica e viene
annunciato dal “Piccolo Faust” il 15 novembre 1905 e nel primo anno la
compagnia mise in scena 61 lavori in tre o più atti e una trentina di commedie
ecc. in 3 anni di attività offre al pubblico delle principali città italiane un numero
di allestimenti incredibile. Laddove l’inflazione dei titoli in repertorio era resa
possibile da messinscene che non prevedevano studio né regia né vere e proprie
prove né realizzazioni scenografiche e costumisti che appositamente concepite
per la singola occasione. La qualità media delle rappresentazioni poteva meritarsi
fortune e giudizi simili a quelli cui andò incontro anche una produzione
significativa come quella di Gramatica-Ruggeri. Il record degli incassi è per La
Gelosia di Zelinda e Lindoro in commemorazione per il due centenario della
nascita di Goldoni, ma la rappresentazione non ha repliche. La stroncatura della
critica si fonda sul confronto tra consuetudini dei palcoscenici stranieri e
convenzioni di quelli italici: la troupe che decide di commemorare Goldoni
sembra preoccuparsi non tanto di onorarne la fama, quanto di sfruttarne
economicamente il prestigio culturale. Il prodotto scenico offerto dalla
compagnia capocomicale all’italiana secondo la tradizione non si realizza nella
meditata messinscena di un testo, ma nella calcolata esecuzione di una
elementare ma efficace ricetta di gastronomia tonale: se il pezzo forte della serata
è il dramma serio, occorre stemperarne l’atmosfera col finale farsesco. Dei più di
130 lavori di quella compagnia, circa 50 compaiono nei menus poposti per
esplicare le funzioni ora del dessert ora del digestivo offerto dalla ditta. Soltanto
23 rappresentazioni si concentrano su autori italiani, mentre le altre si fondano su
un repertorio straniero soprattutto francese. Su 2060 rappresentazioni straniere in
Italia, 1700 erano francesi. Nel repertorio di Gramatica-Ruggeri figurano
soprattutto i lavori di Sardou, Berstein, Bataille e Wolf. Di italiane importanti
ci furono Più che l’amore e Il Duello di Paolo Ferrari, le cui gradevoli
confezioni drammaturgiche svettano a pari merito con le prove di Roberto
Bracco e sono seguite da quelle di Giacosa, Rovetta e Praga. Si scommette
quindi su nomi e su generi che danno garanzie. Tra nel novità spicca Carità
Mondana di Giannino Antona Traversi che riscosse molto successo, e Il
Giorno della Cresima di Rovetta, che invece fu un fiasco. Gli spogli elenchi e
aride cifre in cui si risolvono i Taccuini di Ruggeri risultano quindi significativi
in quanto i dati statistici che essi potevano venire estrapolati servivano all’attore
da bussola per orientare il proprio interesse economico. C’è la storia di una
situazione capocomicale che vede ormai i protagonisti della scena di prosa
italiana rassegnati alla necessità di tutelare i propri guadagni. In questa
prospettiva, il fatto che la troupe di Gramatica- Ruggeri affidi le sue fortune alla
drammaturgia brillante francese ne svela l’assoluta subalternità a una condizione
strutturale del mercato tutta dominata dai termini di conflitto in corso tra le
ragioni di un certo impresariato e le rivendicazioni impresariali del neonato
professionismo drammaturgico nazionale.
Dal 1903 inizia la lunga storia dei conflitti di interesse tra la Società Autori
Italiani e l’intraprendenza commerciale di Adolfo Re Ricciardi, che debutta a
teatro acquistando qualche commedia italiana e molte francesi per rivenderle ai
capocomici italiani. Erano copioni privi dell’impaccio della natura socio-
linguistica. Re Ricciardi intuisce la ricchezza del filone e comincia a comprare
dalla Francia tutto quello che gli capita. A lui fa capo uno staff di letterati
italiani ben pagati che in poco tempo gli voltano un testo francese fresco di
premiere mettendo in grado di debuttare nel giro di un mese o due anche il
capocomico italiano che ne ha acquistato il diritto di rappresentazione e ciò non
piace alla SIA. Nei primissimi anni del secolo il capocomicato nazionale si
trova a gestire un teatro le cui potenzialità economiche sembrano risolversi nel
richiamo di un repertorio fondato sulle strutture forti della piece bien faite, un
prodotto di facile smercio. È l’esecuzione cattivante di un testo garantito da un
marchio di fabbrica che ne certifica il successo. Le chance di sfruttamento del
mercato tendono a spostarsi dall’esibizionismo mattatoriale al motore
drammaturgico della macchina scenica. La battaglia tra Re Ricciardi e la SIA
sta nel contrasto tra dilagare merci importate dalla Francia e la promozione di
un made in Italy. Nel 1903 Praga vota una mozione secondo la quale anche in
Italia tutti gli autori dovevano essere amministrati dalla SIA. Iniziò allora un
periodo di relativa calma fra i due contendenti che si interruppe nel 1907,
quando si cominciò a prospettare l’ipotesi della creazione di un vero e proprio
trust di compagnie tra i Chiarella e Re Ricciardi. Partì quindi di nuovo
l’offensiva della SIA che negò a tutte le compagnie coinvolte nella trust la
facoltà di recitare opere di autori italiani. Quindi il teatro italiano ha ormai
assunto l’aspetto di un mercato dello spettacolo complesso perché il peso
del’interpretazione attoriale deve fare i conti con il valore che vanno
acquistando le macchine d’effetti delle confezioni drammaturgiche a la page.
La compagnia capocomicale si trova così stretta entro le tenaglie della
distribuzione. Il plusvalore di una simile parvenza di industria sembra consistere
soprattutto nei proventi della percentuale sul diritto d’autore e controllo sulla
distribuzione. Il cartello dei drammaturghi italiani di Praga non è meno
discutibile di quello di Re Ricciardi, si guarda alla dissoluzione dell’antica
famiglia comica secondo una prospettiva per cui economia vuole che abbia
luogo un processo di realizzazione incentrato su due dominanti esclusive: testi
drammatici ben congegnati e messinscene dove si manifestino le qualità
specialistiche di un buon mestiere interpretativo. Ne derivano una serie di
spostamenti nell’assetto del sistema teatrale italiano. Già nel 1905 il café
concert declina. L’iniziativa per una costruzione nuova manca e il teatro di
varietà in Italia non ha l’incremento che il pubblico non sarebbe alieno dal
dargli.
Il 21 aprile 1908 al Teatro dei Filodrammatici di Milano una compagnia di
studenti porta in scena Turlupineide di Renato Simoni, prima rivista italica
moderna di stampo satirico nei confronti delle celebrità politiche e mondane più
in vista. Sempre nel 1908 Scarpetta e Rocco Gaudieri, con L’ommo che vola,
avevano tentato di realizzare il prototipo partenopeo del nuovo genere. Solo alla
fine degli anni ’20 la versione nostrale della revue giocherà l’azzardo di
splendide e ricche bellezze immerse in mises en scene di meraviglia lussuosità.
Le accozzaglie di quadri fanno leva sul provincialismo remoto delle tentazioni
di Parigi e Berlino, usano gli attraits del colore locale e della malizia goliardica
per riciclare e comporre in forma musical-drammaturgica tanto più
commercialmente redditizia quanto meno incisivamente anarcoide. Confezione
calibrata dello sfruttamento intensivo di prodotti concepiti per soddisfare ogni
plausibile tendenza nei gusti del pubblico. Così nel 1917 Gramsci dirà che
Guignol ha fatto del terrore fisico tutto il dramma della vita dell’uomo, quindi
lo ha ridotto a pura macchina materiale. L’origine marionettistica di Guignol ha
reso marionette anche gli uomini del teatro propriamente detto. Guignol però ha
avuto il merito di aver formato degli attori eccellenti che acquistavano una
capacità di rinnovamento che rendeva possibile la varietà e la novità degli
atteggiamenti. Gramsci si sente comunque in dovere di precisare come gli
interpreti di un simile repertorio abbiano saputo specializzarsi nella
riproduzione plastica del terrore. La scelta esclusiva del Grand Guignol fa parte
di un complesso di fenomeni emblematici delle mutazioni essenziali che va
subendo il quadro dello spettacolo italiano novecentesco, da un lato il sorgere di
troupes mirate allo sfruttamento intensivo di un singolo genere, dall’altro il
definirsi di nuove tipologie d’attore, distinte dal loro specializzarsi nella
migliore restituzione di un certo tipo di repertorio. Il centro motore del teatro
era un insieme di ruoli in grado di adattare a sé qualsiasi tipo di testo. Secondo
l’ottica moderna, il teatro è macchina di prodotti calibrati industrialmente per
rispondere alla domanda di un preciso settore del mercato. Sono linee guida
lungo le quali vengono a svilupparsi altri processi di specializzazione intrapresi
dalle compagnie del periodo giolittiano. La pochade culmina nelle fortune delle
imprese accentrate intorno al nome di Dina Galli. Sichel è colui che permette a
Talli di scoprire sé stesso e di giungere a quel successo che gli darà la
possibilità di creare la Talli-Gramatica-Calabresi. Dina Galli non riuscì
subito a ingranare, finché Talli non la inserì nello spettacolo Dame de chez
Maxim’s, una pochade. La Galli che aveva scoperto uno stile di recitazione più
moderno per la pochade, grazie al quale riusciva a rendere meno volgari, più
signorili certe parti, aveva bisogno di un linguaggio della scena adatto ai suoi
mezzi. Proprio il configurarsi di una serie di utensili linguistici della scena
formulati a misura del più redditizio commercio di prodotti drammaturgici le
cui strutture elementari mirano al facile effetto: il piacere della rivalsa satirica, il
brivido nero, l’ammicco elegante ed equivoco e la frenesia della pochade. Si
tratta di innovazioni organizzative ed espressive funzionali a ciascun settore del
repertorio francese monopolizzato da Re Ricciardi, motivate dalla forza di
volontà di sanare evidenti situazioni di arretratezza del sistema nazionale nei
confronti dei meglio organizzati ambiti stranieri. Non mancano segnali di una
chiara volontà di risolverle applicando ad esse programmi di razionalizzazione e
specializzazione tesi a combattere le remore del pressapochismo artigianale.
Esempi sono i molteplici tentativi di Martoglio di costruire una compagnia
dialettale siciliana sorretta dal supporto culturale di grandi scrittori meridionali.
Questi progetti hanno il merito di indicare una via praticabile per trasformare in
segmento di mercato nazionale ciò che sembrava essere mero fenomeno di
arretratezza socio-linguistica tipico della cultura italiana: l’esistenza di
regionalismi teatrali circoscritti entro angusti confini. I processi di conversione
che spingono tante compagnie giolittiane ad adottare moduli recitativi e scelte
di repertorio specializzati nel produrre singole tipologie spettacolari di calcolato
successo sembrano indicare come le preferenze del pubblico siano ormai
orientate verso allestimenti dove ogni interprete sappia rendersi ingranaggio ben
inserito nelle dinamiche di una macchina tutta finalizzata a suscitare precisi
effetti scenici. È necessaria una organizzazione del lavoro che richiede
competenze, tempi e spazi appropriati. Ipotesi del teatro stabile: nel 1905
Edoardo Boutet, la Drammatica Compagnia di Roma, all’Argentina, nel 1912
condotta da Marco Praga, la troupe del Manzoni di Milano. Entrambi nascono
per offrire un supporto strutturale alla politica della SIA: intendono contribuire
alla promozione della drammaturgia contemporanea italiana valorizzandola
anche in virtù di messinscene che non risultino afflitte dal pressapochismo
stilistico tipico dell’artigianato capocomicale. Tra i direttori figura Ettore
Paladini, responsabile di gran parte degli allestimenti primo novecenteschi
passati alla storia come esempi di una cura compositiva incomparabile con le
convenzioni abitudinarie dei palcoscenici del tempo.
Talli aveva ab origine la stoffa del regista che fu costretto a usare per
essere un rigoroso concertatore di allestimenti interpretativi al servizio del
testo drammatico. Qualsiasi potenziale istanza registica si trova stretta
come in una morsa tra le resistenze delle convenzioni mattatori ali e il
dinamismo di monopoli tesi a valorizzare il repertorio d’autore. Meriti e
limiti di Talli coincidono e coesistono nelle sue battaglie contro la rigidità
dei ruoli a favore di un attore plastico, contro i malvezzi dello scarso studio
e abitudine al suggeritore, contro le approssimazioni scenografiche,
costumisti che in favore di ricostruzioni ambientali coerenti. Nel 1909
esplode all’Argentina La cena delle beffe di Sem Benelli che ricorderà
Cardarelli, il quale non può esimersi né dal ricordare di essere stato la
prima vittima del loro fascino né dal rendere omaggio alla inconcepibile
vitalità spettacolare delle pur inconsistenti immagini da essi prodotte. La
fortuna dello spettacolo è legata al fatto che l’opera poté fruire di una
particolare accuratezza e ricchezza scenografica e di costumi e di un cast
nel quale si realizzava un complesso di interpreti tutti di buon livello. C’era
un linguaggio scenico nel cui alveo confluiscono le risultanze sia di una
scrittura adeguata a vellicare certi sogni d’evasione verso un facile sublime
coltivati dal pubblico piccolo borghese dell’Italia giolittiana, sia di una
direzione artistica capace di realizzare un illusionismo scenico funzionale
ai fantasmi del testo. Efficacissima versione in scala ridotta del teatro di
poesia già perseguito dallo sperimentalismo dannunziano di cattivo gusto,
che sa comporsi nella coerenza segnica di una teatralità dello pseudo-
sublime finalmente ben calibrata alla domanda del mercato dello spettacolo
nazionale. Addio Giovinezza di Nino Oxilia e Camasio, Scampolo di
Niccodemi, la Nemica e la Maestrina sono testi ben valorizzati da
allestimenti che recano la firma dell’autore o il marchio di fabbrica di
troupes specializzate nel genere brillante. Questi lavori sembrano
rispondere all’istanza di un analogo e contrapposto polo: lo pseudo
verismo prosastico patetico-brillante. Gli spettatori vengono conquistati da
linguaggi scenici di ben congegnata e cattivante coerenza rappresentativa.
Dal 1909 alla Prima Guerra Mondiale il sistema teatrale italiano contempla
nitidi e fortunati esempi di una drammaturgia d’autore le cui soluzioni
linguistiche incontrano largo favore nelle platee ed emergono scelte e
moduli espressivi improntati a criteri di confezione specialistica di prodotti
finalizzati al più razionale sfruttamento di tutti i possibili settori del
mercato. Intento di normalizzare rendendo le forme di spettacolo che
offrono risposte immediate alle tendenze evidenti e superficiali di una
domanda di spensierato o corrivo intrattenimento il più possibile
competitive. Ne deriva una situazione favorevole al definirsi di formule
improntate alle logiche di buon mestiere e produzione seriale accettabile
ma poco propizia al manifestarsi di quelle deviazioni della norma.
Epoca delle occasioni mancate, come spettacolo futurista odiato dal pubblico
tanto che Marinetti dovette salire sul palco, il quale non si preoccupa di
propiziare alla sua pièce un qualche successo, ma sembra predisporne con
calcolata cura un fallimento tale da far notizia. Il primo intervento
marinettiano sul teatro va letto alla luce di una strategia concepita per inverare
la teoresi paradossale ed eversiva del primo Manifesto e per artificiare intorno
a quest’ultima cassa di risonanza del genere ben simboleggiato dai 468 articoli
di commento a un gesto. Scelta di far accompagnare la pubblicazione dell’atto
di nascita del Futurismo con la stesura originale francese del dramma dato in
prima assoluta a Torino. Si ha l’impressione che Marinetti coltivasse il sogno
di essere consacrato nuovo enfant terrible delle scene moderne in Francia.
Tutto si svolge come se il Vate del Futurismo avesse scelto di importare in
Italia un moderno specimen annacquato dallo sperimentalismo europeo primo
novecentesco per suscitare un clamore che gli permettesse di presentarsi sui
palchi parigini già aureolato dalla fama di scandaloso provocatore, ma ciò non
riuscì. Le posizioni iniziali di Marinetti nei confronti del teatro risultano
ancora prigioniere dell’impasse che le costringe a oscillare tra una percezione
nitida e strumentale della forza comunicativa immanente allo spettacolo e una
poetica del dramma improntata a vetusti criteri di letterarietà. Infatti il
Manifesto si risolve nella rivendicazione dei significati radicalmente
antipassisti che dovrebbero risultare dalla scelta del verso libero come unico
linguaggio moderno per l’opus rappresentativo. Non contesta neppure i topoi
situazionali emblematici della più vieta teatralità di facile consumo, è convinto
di poterne esorcizzare il vacuo convenzionalismo esclusivamente attraverso un
gioco di scrittura forse perché il suo movimento rispondeva al bisogno di
cambiar metodo per poter davvero liberare dai ceppi tradizionali e mercantili il
genio lirico italiano minacciato di morte. Marinetti affitta teatri in cui di
solito si svolgevano spettacoli regolari. Sono scelte ben calibrate per far sì che
i temi dell’eversione culturale e ideologica possano tradursi in forma di evento
esibizionistico provocatoriamente atto a usurpare lo spazio delle tradizionali
messinscene. È un assalto ai teatri che soltanto tatticamente svela e batte in
breccia la vacuità e le funzioni affatto mercantili dei prodotti scenici
convenzionali e dei loro rapporti di comodo col pubblico. Mentre tende a
sistematizzare in luce, di schemi fenomenologici brutalmente funzionali ai
livelli di una civiltà di massa dello spettacolo un nesso psicagogico non
dissimile da quello già individuato in certe esperienze dannunziane. Sembra
operare attraverso moduli presi a prestito degli angoli polarmente opposti di
una teatralità intesa nel suo senso più lato: le condizioni pubbliche di poesie
tipiche di taluni ambiti culturali. La struttura-modello delle serate futuristiche
nasce da una accorta miscelatura delle due soluzioni: la prima,
decontestualizzata dall’aura di tensione al sublime cui perlopiù si informa e la
seconda, spinta verso esiti di pretesa serietà e di gioco violento che ne
riconducono ai minimi termini le valenze comiche. È sulla scorta di queste
convinzioni che Marinetti sembra superare i limiti dei suoi primi interventi,
per ipotizzare lo stravolgimento parodico assoluto di tutti gli statuti scenici
dell’arte e del mercato dello spettacolo. Il Manifesto del Teatro di Varietà
viene pubblicato quando i punti chiave del suo programma hanno già trovato
esemplificazioni significative. Ettore Petrolini dal 1907 aveva proposto un
primo saggio di quelle graffianti e grottesche parodie del romanticume e dello
pseudo classicismo. Si trattava di exploits di una drammaturgia d’attore
pienamente capace di restituire in termini di polemica comicità le immagini
prostituite cui l’interesse commerciale degli autori e dei teatranti avevano
ridotto e continuavano a ridurre le chances del repertorio moderno. Il
Futurismo poi non fa nulla di concreto per collegarsi sul piano operativo né
con un Petrolini né con altri. Decide di riciclare gli epifenomeni meno
inquietanti del café chantant nel quadro composto della rivista.
è Nel 1913 Edward Gordon Craig decide di fondare una scuola di teatro presso
l’Arena Goldoni insegnando movimento, dizione, ginnastica, musica,
educazione della voce, disegno e pittura di scene, ideazione e fatturazione di
costumi. Il tentativo craighiano disegna l’ipotesi di una struttura concepita per
introdurre nel teatro forme di educazione pratica adeguate alle autonome
specificità materiali del linguaggio scenico secondo la prospettiva dove qualsiasi
genere espressivo è posto in luce al pari dignità. Nel 1914 sceglie di far tradurre
in inglese e pubblicare su The Mask la versione originaria del Teatro di Varietà
di Marinetti postillando i significati ultimi del manifesto con delle note.

CAPITOLO 2- OLTRE I PERSONAGGI SCIOCCHI, VERSO IL


SOGNO DELLA CASA D’ARTE

Nel febbraio 1915 Marinetti compone il manifesto del Teatro Futurista


sintetico. L’obiettivo sembra essere il procedimento formale di scrittura della
pièce bien faite. Per aprire la strada alla creatività totale, il manifesto sceglie di
proporre un programma in positivo articolato secondo stentorei proclami: abolire
totalmente la tecnica; porre sulla scena tutte le scoperte che la loro genialità
andava facendo sul subcosciente; fraternizzare calorosamente coi comici; abolire
la farsa, il vaudeville, la pochade, la commedia, il dramma e la tragedia. Permane
il gusto di rendere omaggio ai valori comici del varietà e al tipo di rapporto col
pubblico che esso sa instaurare, infrangendo la quarta parete. Intento di sostituire
una drammaturgia d’autore tesa a qualificarsi come futurista in virtù delle sue
specificità formali. La tecnica compositiva passatista che va rifiutata risulta
essere quella dei tempi lunghi in cui si articolano gli sviluppi della trama: occorre
sintetizzare fatti e idee nel minor numero di parole e gesti. La forma drammatica
deve rispondere ai ritmi di produzione e di ricezione che distinguono i prodotti
tecnologici e i processi estetici dell’era industriale. D’Annunzio domanda al
cinematografo il compito di sgombrare dai suoi personaggi sciocchi una scena
moderna che ritiene disonorata perché ridotta a basso commercio. Si limita a
postularlo come incognita sospesa tra la crisi della parola e ancora nebulose
esigenze di forme e ritmi spettacolari la cui poiesis promani dalla dimensione
della danza e della musica. Anche la teoresi futurista del 1915 punta parte dei
suoi riflettori sui rapporti fra specificità estetiche del cinema e convenzioni
espressive della rappresentazione drammatica tradizionale. Ritiene di primaria
importanza sottolineare le distinzioni qualitativamente connesse al fattore ritmo
sulla scorta di una ben poco avanguardistica fiducia di eludere la crisi della
parola demandandole l’onere e l’onore di concepire forme rappresentative
concorrenziali a quelle tipiche del mezzo cinematografico. Francesco Cangiullo
avrà modo di confessare che tanto lui quanto Marinetti avevano maturato serie
riserve sui limiti del programma consacrato alle sintesi.
Concezione di teatro che insisteva nell’attribuire al poeta drammatico un ruolo
iperbolicamente precipuo nei destini dello spettacolo senza valutare i fattori
concreti nei quali si manifesta l’autonomia del linguaggio. Il primato del prodotto
drammaturgico confezionato secondo regole precise, sui moduli di traduzione
spettacolare riconvertiti in chiave funzionale a rendere esteticamente più
appetibile quel prodotto, è quello che cercavano. Le sintesi futuriste possono
produrre intelligenti e interessanti modelli di trasgressione nei confronti del
dialogo scenico tradizionale, ma non sono in grado di realizzare una alternativa
estetica radicale alla coerenza linguistica. L’unico fattore di novità scaturisce
dall’interno del sistema di normalizzazione che era andato perfezionandosi in
quegli anni, e riguarda un campo vicino a quello dei personaggi sciocchi che
D’Annunzio aveva individuato quale cifra esponenziale per eccellenza della
negatività assoluta cui si erano votati i trafficanti di drammaturgia.
Le miscele e i personaggi irreali sono quelli del grottesco, l’unica tendenza
drammatica abnorme che abbia saputo emergere da quel panorama di esiti
espressivi che D’Annunzio aveva ritenuto opportuno omogeneizzare e
riassumere sotto il titolo di merce abominevole. Significativa è la Maschera e il
volto di Luigi Chiarelli, che il 2 giugno 1916 Tilgher recensì come
disposizione di spirito pirandelliana, il suo riso non è mai schietto e sincero ma
ha un alcunché di amaro. L’opera costituisce l’epifenomeno inaugurale di una
vera e propria stagione del grottesco che sembra svilupparsi lungo la linea di un
continuum costellato di esiti minori e punte di rilievo. Tilgher per illustrare
l’umorismo da un lato trasforma in embrione di genere gli spunti
anticonvenzionali emergenti della rappresentazione di un singolo lavoro,
dall’altro riconduce questi spunti a un comune denominatore della poetica
letteraria espressa nel saggio del 1908. Secondo Marco Praga Chiarelli aveva
scritto l’opera sul serio e per essere recitata sul serio, ma qualcuno dopo averla
letta gli disse che era una graziosissima farsa, allora cancellò la parola commedia
e la sostituì con grottesco, la fece recitare come una farsa. Chiarelli aveva scritto
a Talli che Praga riteneva il testo molto originale e interessante oltre che
divertente. Il misterioso consulente avrebbe potuto rinvenire autentici o supposti
fattori di comicità nel testo solo a condizione di riflettere sugli eventuali effetti
scenici che potevano derivare da una rappresentazione in chiave
parodisticamente disincantata o esilarante. Si tratta di un dispositivo situazionale
artificiato con materie desunte dalle convenzioni tipiche di un teatro risolto nelle
formule canoniche della pièce bien faite. Riplasmate attraverso una disposizione
di spirito tale da deformare e scomporre le pretese integraliste di queste
convenzioni sino a esibirle sotto il duplice aspetto della maschera. Un
procedimento simile a quello pirandelliano e non immune dalla suggestione di
certe immagini guida di esso. Grottesca poteva essere definita la situazione clou
del dramma di Chiarelli, in quanto questo era l’aggettivo meglio indicato a
connotare sinteticamente l’ambivalenza patetico-comica dell’uomo devoto al
tragico delle leggi d’onore ma incapace di praticarlo. Era però necessario che un
simile spunto fosse corroborato da additivi validi a farne una cifra esponenziale
attendibile della crisi d’immagine vissuta e riflessa da parte dell’umanità primo
novecentesca e di una teatralità in grado di evidenziare quella crisi. L’opera si
inserì in un contesto dove avevano ormai qualche peso sia le polemiche alla
D’Annunzio sia la teoria e pratica pirandelliane di una concezione dell’arte
impegnata a restituire immagini inquietanti della condizione umana
contemporanea facendo leva su scelte espressive eterodosse. Anche nel caso del
grottesco si verifica una fondamentale confluenza tra novità strutturali del testo e
moduli interpretativi atti ad esaltarne talune potenzialità. In quest’opera Talli,
che prima riteneva inadatta alla rappresentazione, accetta di metterla in scena
trasfigurando però in chiave caricaturale la figura dell’amante. L’intelligenza
scenica di Talli e il suo contributo alle fortune del nuovo indirizzo espressivo si
manifestano non solo attraverso scelte tipiche concepite per attribuire a parti di
un copione colori e toni non previsti dalla scrittura, ma anche nella capacità di
comprendere e valorizzare in giusta misura le novità formali del migliore giovine
teatro. Gramsci infatti riconoscerà a denti stretti che il suo allestimento si
distingue per molta abilità scenografica e per la viva abilità dialogica. Questi
risultati scenici sono l’unico residuo apprezzabile di una operazione che si è
risolta nella latitanza completa della forma drammatica. Secondo Talli la
parabola pirandelliana è forma di una perduta sapienza teatrale che consiste in un
orientamento rappresentativo teso a mettere in gioco con intelligenza critica le
strutture formali su cui sceglie di fondarsi. Se esiste un minimo denominatore
comune per quella costellazione di opere che andrà sotto il nome di teatro del
grottesco, esso va indicato nella prospettiva critica da cui i loro autori scelgono
di guardare tanto alla vita quanto al teatro, sforzandosi di rappresentare entrambi
in quali dimensioni hanno luogo i giochi di forme. Simili punte di coscienza
riflessa si manifestano attraverso la soluzione espressiva di quel tipo di
personaggio in cui sembra consistere il dato segnaletico saliente del genere
grottesco: il raisonneur. Già presente nei prodotti francesi della pièce bien faite,
si afferma quale emergenza distintiva della giovine scuola per svolgere la
funzione di portavoce didascalico delle prospettive ideologiche da cui l’autore
guarda ai grandi complessi tematici che va rappresentando e alle componenti
base della costruzione artistica attraverso cui questi complessi devono prendere
forma. In Così è (se vi pare) la funzione scettico-critica dell’io narrante si
converte nei moduli espressivi che definiscono Laudisi: immagine scenica di una
intelligenza superiore la quale, inserita in una rete di conflitti intersoggettivi,
guarda ad essi come uno spettatore disincantato può guardare a una
rappresentazione dopo aver rifiutato di immedesimarsi. Il teatro del grottesco
immette dentro il complesso scenico della costruzione drammatica una
prospettiva anticonformista d’autore che si proclama tanto consapevole
dell’artificiosità del contesto artistico cui sta dando vita quanto critica nei
confronti delle realtà umane cui sono volte le intenzioni rappresentative in quel
contesto. Il contesto di giovine scuola può essere sia accolto che confutato,
perché l’elemento in grado di accomunare esiti diversi come quelli delle
commedie di Chiarelli e pirandelliane consiste in diverse qualità di
partecipazione a una temperie culturale distinta dalla coscienza del punto critico
cui è ormai pervenuto a livello di critica professionale e responsabilità
ideologica. Le conseguenze socio-culturali della condizione bellica comportano
prospettive potenzialmente critiche nei confronti delle più futili convenzioni del
vivere borghese e di un’arte compiaciuta di ritrarle in forme complici ed
ammiccanti. È difficile trovarsi d’accordo nel prendere coscienza della vacuità di
un mondo di fantocci dediti a intrecciare vicende di un falso amore e false pietà.
Per alcuni la realtà della guerra rende inattuali le guerricciole fasulle che
dovrebbero far sembrare drammatica la routine dei menages borghesi e si tratta
di quella parte cui ora può cercare di risolversi, sperando in un successo, una
serie di drammaturghi intenzionati a qualificarsi per una sorta di scissione di
responsabilità. Istanza di portare sulla scena una voce d’autore in grado di
esprimere petizioni di principio anticonformiste mettendo sotto i riflettori
l’artificiosità della norma sociale e delle scelte rappresentative finalizzate a
illustrarla senza rompere del tutto con le sue logiche di fondo e senza
denunciarla in quanto nuda macchina di sembianze in autentiche. Il successo
della giovine scuola dipende anche dal suo attestarsi a latere dei confini estremi
entro i quali possono oscillare le forme di abituale consumo tipiche del sistema
teatrale vigente. Si tratta di un sistema che tocca i vertici della sua espansione
economica in condizioni di mercato sfavorevoli ad accogliere tipologie
differenziate di spettacolo di prosa.
La maggior parte del pubblico era costituito dalla classe degli esonerati che si
andava arricchendo e che quindi poteva permettersi il lusso di spese voluttuarie.
Sin dal 1916 vengono a esaltarsi le spinte intese al più duro sfruttamento
monopolistico della gestione delle sale destinate a spettacolo, tanto da permettere
il sorgere di una ferrea rete di controllo sui principali assi del sistema teatrale,
quel consorzio per la gestione delle principali sale italiane fondato da Giuseppe
Paradossi insieme ai Chiarella e Suvini-Zerboni. Poteva dirsi ormai realizzato
quel trust dell’industria teatrale le cui scelte di repertorio attiravano gli sdegni di
Gramsci, spingendolo a esemplificarne in luce di amaro sarcasmo le
conseguenze esemplari sulla cultura dello spettacolo torinese, dicendo che la città
era completamente tagliata fuori dalla vita teatrale italiana. La replica di
Chiarella fa notare come siano state 14 le compagnie di prosa primarie ospitate
nelle sale torinesi del trust dall’ottobre 1916 all’aprile dell’anno dopo. gli
approssimativi dati statistici offerti da Gramsci rispondono alla volontà di
sottolineare fino all’esasperazione una comune linea di tendenza. Confezioni di
consumo ed emergenze innovative della drammaturgia contemporanea circolano
abbastanza agevolmente sullo sfondo di un panorama distinto da frenesia di
divertimento e da profitti di guerra in parte disponibili a trasformarsi nelle
interessenze che agenti e impresari sperano di lucrare da tutti i generi di
spettacolo. Ma è un quadro destinato a mutare già nei primi anni del dopoguerra,
quando la crisi accenna a far sentire i suoi influssi anche in ambito teatrale. Qui si
avvertono i primi sintomi di uno stato di disagio destinato a segnare l’intero
sistema. Tra il 1922 e il 1927 si verifica una pesante diminuzione nel numero
delle compagnie operanti in Italia. La linea di tendenza che spinge verso una
forte contrazione delle strutture operanti sul mercato dello spettacolo corre
parallela agli sviluppi di un processo destinato a mutare l’intero quadro del
settore e a spingerlo verso prospettive tipiche di una moderna società delle
masse. Il teatro fu sorpassato dal cinema, in rapida ascesa. Il mondo dello
spettacolo italiano si avvia verso un nuovo assetto del mercato, che vede salire in
primo piano i prodotti del cinema, già nel 1917 era emersa l’evidenza di un
pubblico diverso da quello tradizionale: il coacervo di coloro che per la prima
volta potevano permettersi il lusso di spese voluttuarie determina l’effetto di
boom teatrale del periodo bellico alimentando gli appetiti economici e le
tendenze monopolistiche del consorzio e favorendone l’inventarsi nelle scelte
tipiche di quella politica culturale bassamente speculativa. Le varie componenti
produttive del teatro di prosa vengono a trovarsi strette entro una rete di pressioni
tese a modificarle in senso funzionale alle ragioni del più immediato interesse. I
capocomici denunciano il formarsi di uno stato di cose per il quale l’esercizio
della loro industria è reso troppo difficile a causa dei contratti strettamene
onerosi. E gli attori ormai sindacalizzati nella Lega di miglioramento fra gli
artisti drammatici, stipulano un contratto di locazione d’opera che segna il
definitivo tramonto dei vecchi statuti artigianali della professione. Ne derivano
una serie di tensioni destinate a risolversi nell’agosto del 1921 quando firmarono
un accordo secondo il quale i responsabili delle compagnie si impegnavano a
inviare al teatro l’elenco artistico con le novità e repertorio dal quale verranno
scelti gli spettacoli. Il potere del Consorzio si era esteso alla supervisione dei
repertori delle compagnie sempre sottoposto alle esigenze della tournee. In
pratica veniva sancita la parziale subordinazione degli orientamenti artistici delle
compagnie agli interessi di mercato del monopolio. Le sole vittime indifese erano
il teatro d’autore impegnato in prevalenza verso esiti artistici disinteressati e la
sperimentazione di linguaggi non conformi ai moduli dello spettacolo di facile
consumo. La crisi degli anni ’20 risulta percorsa da vettori che puntano verso
formule di salvaguardia della dimensione estetico-culturale del teatro. Persino
Marinetti e Cangiullo scelgono di affidare le sorti delle loro proposte a una
troupe che vuole presentarsi come strumento per eccellenza della spettacolarità
futurista. Si tratta di tentativi emblematici di una tensione che non avrà seguito,
ma che rimane alla base di altri progetti e altri esperimenti dello spettacolo di
prosa.
Il sogno di un teatro d’arte non è tramontato nelle speranze di chi si ostina a
interessarsi alle sorti della cultura artistica. Il teatro d’arte vorrà denominarsi
l’impresa pirandelliana all’Odescalchi di Roma del 1925-27: tutta concepita tanto
per valorizzare al massimo un’esperienza compositiva ormai assunta ai vertici di
riconoscimento indiscussi quanto per ospitare scelte di repertorio affatto libere
dai condizionamenti negativi del mercato. Si muovono altre iniziative minori,
effimere o di lunga durata caratteristiche degli anni ’20, minima costellazione di
esperimenti che non riusciranno a uscire dalla misura della provvisoria
alternativa d’elite allo spettacolo di consumo, era un coacervo di esperienze le
quali risultano poi incapaci di offrire una qualche immagine risolutiva della
contraddizione nascosta sotto l’etichetta unificante cui possono intitolarsi. Parlare
di teatro d’arte è pur sempre un modo di eludere la questione relativa
all’autentica specificità dell’arte teatrale che consiste nella migliore esecuzione
scenica del testo concepito quale supremo prodotto della poiesis drammatica,
mentre altri tendono ad individuarla nelle forme di una scrittura scenica
autonoma dal mero dovere di servizio nei confronti dell’opus letterario. Il teatro
degli indipendenti di Anton Giulio Bragaglia, misterioso ed elegante
meandro,aperto a novità ben individuate da Gobetti, mette in prima linea quello
che concerne l’attore e le scene e le sue intenzioni sono istintivamente teatrali.
L’istintiva teatralità di Bragaglia non si risolve solo nel creare un ambiente di
colori e valori tanto confusi ad arte quanto suggestivi, ma culmina nel profilarsi
di una scrittura non drammaturgica affidata ai segni della presenta attoriale,
danza moderna, scena e luci. Un autore del calibro di Pirandello dovrebbe
figurare in quanto fornitore di centrali segmenti espressivi di un discorso la cui
sintassi ama attraversarli con intenti non diversi da quelli per i quali cerca di
insistere sia sui ritmi della trasparente ballerina sia sulle provocazioni di sintesi e
parodie. La storia degli indipendenti paga pur sempre un prezzo notevole al gusto
acritico di pretesi benedetti valori teatrali che sono poi quelli puramente
meccanici, aridi, tecnici, di presupposto, tramatura, mestiere, e ciò si vede nelle
messinscene di Bragaglia. Il visivo di ispessisce, assumendo contorni e materia,
la coscienza che la parola non è in grado di creare l’atmosfera teatrale, comincia
a premere verso una scenicità sempre più fastosa, in netto contrasto con la
struttura poveristica del teatro degli indipendenti, rifugge solo la passione per la
scenotecnica. Del teatro teatrale si intitola un saggio di poetica del 1929, il cui
fondatore degli Indipendenti formula una sintesi delle sue posizioni. Il teatro dei
fantocci e Il tramonto del grande attore si affermano esempi di teoresi in qualche
modo fondate sul riconoscimento delle specifiche funzioni artistiche svolte dalle
varie componenti materiali della rappresentazione: e impegnate a collegarsi con
talune punte avanzate del pensiero europeo primo novecentesco in materia. Va
riconosciuto a Bragaglia il merito di aver svolto una importante funzione
pioneristica, il che non esime dal dovere di segnalare il particolarissimo campo di
opzioni concrete verso cui tanto la sua poetica quanto i principi espressi da
D’Amico tendono a spingere l’auspicato rinnovamento della scena nazionale. Il
direttore degli Indipendenti punta sulla scenotecnica inseguendo una direttrice
visiva. Il presupposto che lo spettacolare sia importato d’ocularità, così il suo
teatro teatrale rischia di naufragare in un formulario di ricette per il bene operare
mentre il volto sgargiante del tecnicismo scenico è solo un lustrino per
nascondere il vuoto di motivazioni sociali. Indubbio eccesso di storicità distintivo
della linea di D’Amico tesa verso una politica teatrale di accorto compromesso
tra novità sceniche del ‘900 europeo e la tradizione italiana. Ed è entro questi due
esclusivi termini estremi che si trova costretto a muoversi negli anni ’20 un
qualsiasi discorso impegnato a rivendicare tutte le istanze genericamente
riassunte entro il concetto di teatro d’arte. Nel gennaio 1927 il regime fascista
ordina la chiusura dei tabarins, fingendo di non accorgersi di un fatto incidentale
ma non trascurabile, cioè che il sacrosanto provvedimento colpisce una
istituzione nota anche fuori di Roma, Italia e Europa: il teatrino degli
Indipendenti di Bragaglia. Il decreto sembra voler tagliare le radici
cabarettistiche della vitalità dove aveva avuto origine e da cui traeva alimento
energetico la sperimentazione di Bragaglia. Lo fa in un momento in cui il
cattolico D’Amico alza la voce con impegno per difendere la sopravvivenza del
suo fascistissimo antagonista in un sistema di sovvenzioni e provvidenze che lo
sottraggono al mercato, ponendolo sotto tutela statale.

CAPITOLO 3- TELE DI RAGNO, TEATRO DI STATO E PRETESI


GIGANTI

Già nel 1920 il sottosegretario alle Belle Arti Giovanni Rosadi era riuscito ad
ottenere che il governo desse vita a una Commissione Straordinaria per la
musica e le arti drammatiche. La prima fase di lavoro di questo gruppo produce
una serie di raccomandazioni intese a sottrarre l’arte scenica agli arbitrii dei
virtuosi più o meno incolti che hanno oggi il dominio morale di creare un ufficio
del Teatro alle dipendenze del Ministero delle Belle Arti, progettare un Teatro
d’Arte stabile che abbia sede a Roma. Nel 1921 la Commissione acquista il
titolo di Permanente e viene dotata di fondi che dovrebbero servirle per le
imprese ritenute più utili al sostegno e alla promozione della qualità artistica
degli allestimenti. Ne deriva la scelta di devolvere i fondi disponibili per
finanziare l’attività di una compagnia distinta da alto livello della direzione
artistica e da un repertorio di qualità. La Commissione decide di devolvere un
premio ad una formazione diretta da Virgilio Talli con Ruggiero Ruggeri e
Alda Borelli. Questo intervento rimarrà isolato a lungo e può essere considerato
solo un lontano preludio alle scelte maturate dal regime fascista nel 1935,
quando Mussolini avvia quella riorganizzazione della scena drammatica
nazionale che condusse ad una tendenziale selezione del mercato a favore delle
principali compagnie. Un decreto del giugno 1938 perfezionò ulteriormente il
meccanismo assegnando ai finanziamenti ministeriali un carattere integrativo di
altre sovvenzioni concesse dalle province. Contribuzione media di 5.000 lire per
ognuno dei numerosi testi allestiti dalle compagnie. Si parte dal sogno di un
teatro dove drammaturghi e intellettuali dovrebbero gestire e controllare
sovvenzioni di stato nei confronti di compagnie rigorosamente selezionate. Si
arriva alla realtà di un mondo della prosa su cui cadono a pioggia contributi
calcolati secondo consuetudine da un sistema burocratico che li elargisce in
ossequio alle norme politiche vigenti nei ministeri preposti a cultura e
propaganda. La crisi del settore assume i contorni della mutazione strutturale di
fondo, dove sono in gioco i rapporti concorrenziali tra forme di spettacolo,
corrispondenti o non alla società di massa. A partire dagli anni ’30 la questione
fondamentale è Il Teatro non deve morire. Il fronte degli addetti ai lavori si
presenta lacerato da contraddizioni profonde che coinvolgono e contrappongono
gli interessi dei gestori delle sale, dei capocomici, dei drammaturghi e attori. La
commissione straordinaria guidata da D’Amico cerca di far leva su una scelta
pattuglia di autori di successo supportati dal favore di un capocomico
d’eccezione qual è Talli. Il suo primo progetto è concepito nella prospettiva di
una riforma strutturale tesa a ricompattare le sparse membra del settore
purificandole da vizi inveterati. L’unico parto concreto della Commissione
risulta utile solo alla SIA. Il concetto di Teatro d’Arte si rivela essere una
bandiera sventolata a copertura di istanze culturali divergenti. Quella di
Pirandello tende verso strutture in grado di sostenere economicamente e
scenicamente anche la personale ricerca d’autore, quella di Praga, preoccupata
di continuare l’offensiva contro il vecchio sistema capocomicale, quella di
D’Amico volta a inverare per gradi un più complesso e articolato progetto di
Teatro Nazionale. Sono posizioni che hanno solo due punti in comune: la
coscienza dell’impossibilità di aprire spazi adeguati all’espressione artistica in
un regime di libero mercato selvaggio e la certezza che solo un intervento statale
possa creare spazi del genere. Qualsiasi battaglia a favore di un nuovo teatro non
debba scontrarsi con eventuali interessi politici sottintesi a quegli interventi. Nel
1925 il Teatro d’Arte e teatro di stato sembrano diventare terminologie
equivalenti per identificare un’unica realtà. Pirandello insieme a Paolo
Giordani nel 1926 presenta un progetto di teatro nazionale. D’Amico salutava
l’inaugurazione dell’esperimento pirandelliano preoccupandosi di tracciare
profonde linee di confine tra gli indirizzi artistici di tante ipotesi convergenti. Si
legge un velenoso cenno polemico contro gli Indipendenti e verso una mozione
d’ordine in favore del grande teatro che D’Amico si permette di avanzare sia per
ribadire la propria ostilità alla linea bragagliana sia per riservarsi un margine di
non coincidenza con quella di Pirandello. D’Amico rifiuta di figurare tra i
promotori del teatro d’Arte romano. La strategia di riforma perseguita
dall’intellettuale cattolico punta verso soluzioni forti che soltanto l’intervento
pubblico può essere interessato davvero a realizzare. L’ideologia e l’estetica di
D’Amico scommettono con scelta tanto sincera quanto appassionata su una idea
di teatro dove trionfano i valori poetici e socialmente pedagogici del testo
drammatico. Ne deriva un appello allo stato diverso da Bragaglia e Pirandello,
i quali auspicano aiuti governativi sui quali non potrebbe non aleggiare il
sospetto di fungere da reti di protezione per esperienze minoritarie aperte al
rischio di potenziali devianze da convenzioni artistiche facilmente integrabili a
un sistema. Ancora da altri versanti provengono parabole artistiche di singolare
portata. Come avviene lungo il canale dove il comico del varietà riesce a
convertirsi in quintessenza parodistica del sentimentalismo esagerato, oppure
produce una drammaturgia d’autore le cui linee di forza hanno potenzialità che
ben risaltano dall’asciutta poetica che le ispira. È attraverso simili avventure che
viene a delinearsi un panorama sparso di emergenze isolate e destinate a
raggiungere gradi differenti di qualità espressiva. Queste manifestazioni di
autentica vitalità sono contornate da quella temperie di effervescenze anarcoidi,
di scomposizioni positivamente provocatorie e di sperimentalismi formali
esasperati che il Futurismo aveva contribuito a far nascere e a diffondere.
Abbiamo il confuso e instabile intersecarsi di una sequela di maggiori e minori
tele di ragno, abbastanza vischiose da saper catturare e sorreggere fenomeni ed
epifenomeni di un anticonformismo ora rigorosamente sofferto ora concitato e
approssimativo.
Le punte di rilievo emergenti sino agli anni ’30 sono in certo modo di casa, come
Nostra Dea di Pirandello del 1925 dove la donna manichino cambia personalità
a seconda dell’abito che indossa e diventa un’allegoria pubblicitaria del nuovo
mondo. Il motivo cardine dell’opera di Bontempelli si colloca lungo una linea
ideale che sembra correre dal pirandelliano Vestire gli ignudi a Tre vestiti che
ballano di Rosso di San secondo: drammi fondati sull’emblema simbologico
della veste esteriore in cui si risolve l’apparenza vitale di individualità che lo
status mondano intende ridurre a indifferenti prestanome di mere funzioni. È uno
schema che può richiamare La Maschera e il Volto poiché qui si tratta di
rappresentare la condizione dell’uomo contemporaneo in quanto frustrante
sequenza di adeguamenti coatti alle immagini che su di essa vengono proiettate
dai meccanismi di relazione tipici del nuovo mondo. Per quanto possa
prolungarsi l’impiego del raisonneur, siamo in una temperie lontana dalle
versioni che ne avevano offerto gli indirizzi espressivi riassunti all’insegna del
grottesco. L’accento cade sulla prospettiva di una incombente risoluzione
integrale dell’esistere nell’assoluta vacuità di rappresentazioni che non hanno
nulla da rappresentare, se non la propria coazione all’offrirsi in spettacolo.
Bontempelli diceva che i modelli operativi vengono individuati dallo scrittore
nelle forme analfabete verso cui si dirigono irresistibilmente le brame insaziabili
di spettacolo del nuovo pubblico urbano. Bontempelli si fa da intellettuale
organico di tale emarginazione, lo spettacolo e la follia sono i binomi di
un’intesa che va riguadagnata. La nuova scena occidentale dovrà recuperare il
magico arcaico per penetrare l’inconscio collettivo contemporaneo e inventarsi
una tipologia adatta all’individuo medio. Già in Nostra Dea il discorso
rappresentativo intorno a una società di massa dello spettacolo intende realizzarsi
attraverso l’evidenza di tipologie medie: i fantasmi di Afrodite e di Efesto
affiorano in equilibrio precario tra umorismo e seriosità, per soffondere di aure
magiche le epifanie della donna-oggetto. Scelta di rimettere in gioco prospettive
materiali e mito-logici impiegati quali media linguistici di ipotetica alta
funzionalità per provocare l’attenzione di un pubblico che si avverte essere preda
di mutamenti epocali. È anche la traccia cui in un modo o nell’altro fanno
riferimento avventure compositive disparate. La proposta della nuova prassi
drammatica svela in controluce le ragioni innervate a fondo entro i plessi della
più inquietante problematica teatrale contemporanea. L’ultimo mito è spinto
irresistibilmente a gravitare intorno a un nucleo tematico che Pirandello non
riuscirà mai ad esprimere in forma compiuta. Anche la Compagnia della
Contessa non è frutto di fantasia poetica, bensì preciso riferimento alle
esperienze artistiche della contessa Olga De Dieterichs Ferraris. Ma neppure il
tema della rappresentazione destinata a naufragare contro le incomprensioni di
un pubblico primitivo sarebbe privo di riferimenti a esperienze storiche, infatti a
Canicattì i Sei Personaggi in Cerca d’autore fu un insuccesso perché il pubblico
non comprese nulla del dramma, non accorgendosi neanche della fine che non è
segnata dalla chiusura del sipario. La maggior parte del pubblico era formata da
contadini. La genesi dei Giganti può aver preso l’avvio dal clamoroso impatto tra
il sofferto sperimentalismo dei Sei personaggi e l’assoluta impossibilità di
recepirne linguaggio e forme. L’incidente di Canicattì poteva aver senso
emblematico agli occhi di Pirandello solo se veniva considerato epifenomeno
simbolico di un confronto arte-barbarie tale da riguardare i nuovissimi rapporti
tra società e spettacolo indotti dai sistemi industriali di massa contemporanei. La
particolare sintassi dei Giganti trasfigura quindi in mito-logica troupe dell’attrice
Ilse Paulsen e i primitivi siciliani o sardi in imprenditori e operai di
un’iperbolica isola-falansterio senza nome. Pirandello intuisce una qualche
forma di assimilazione tra i fallimenti della propria impresa capocomicale e
quelli di un gruppo che D’Amico considerava esponente per eccellenza degli
invisi piccoli teatri d’elite. Lo scrittore avrebbe infine scelto di individuare
questa negatività nelle forme di massimo difetto di immedesimazione e nel
desiderio di considerare gli attori meri ‘antocci funzionali solo a placare la più
indeterminata e confusa sete di divertimento. Tra il 1928 e 36 l’assillo costante
del grande drammaturgo è costituito dall’immagine mitologica del probabile
scontro finale tra tutto ciò che si riassume sotto l’etichetta di teatro piccolo e la
dimensione culturale di una civiltà di massa che si volge allo spettacolo
rigettandone qualsiasi tensione estetica di stampo tradizionale. L’isola dei
tecnocrati moderni contempla la presenza dell’edificio destinato alla
rappresentazione in quanto lo ritiene spazio desueto, ma anche il fatto che
Pirandello non abbia potuto dargli espressione compiuta deve avere un qualche
significato, soprattutto se poniamo a mente gli sviluppi reali del processo
compositivo dell’opera che devia e sosta a lungo tra i fantasmi della Villa di
Cotrone. In uno spazio di elitarissima teatralità ideale dove sono possibili almeno
sporadici rapporti di perfetta sintesi rappresentativa tra la trance artistica della
grande attrice, le immagini mitopoietiche del capolavoro drammatico e la magia
di effetti del mago-regista. Gli anni del tormentato iter compositivo dei Giganti
coincidono con quelli che vedono entrare in azione un vero e proprio
decisionismo di regime. La depressione economica e i processi sociali suscitati
spinsero il governo verso una maggiore attenzione al mondo dello spettacolo ed
alle organizzazioni ricreative e culturali di massa.
Nel 1931 fu accentuata l’azione e il controllo di accentramento delle funzioni
amministrative con una nuova legge per la censura dei testi. Le tre prime scelte
teatrali del fascismo puntano ad una amministrazione centralizzata del settore, al
controllo politico sulla produzione, alla diffusione degli spettacoli di prosa tra un
pubblico diverso da quello abituato a frequentare palchi e platee. L’opera
nazionale del Dopolavoro si occupa di ideare e organizzare i teatri mobili, i
Carri dei Tespi per portare il teatro nelle regioni e nelle città dove il teatro non
c’è. Né le loro caratteristiche e i loro criteri operativi sembrano tali da risultare
conformi ai sogni del nuovo spettacolo di massa che Bontempelli riformulerà al
Consiglio Volta. dopo aver compiuto qualche sporadico e infelice tentativo di
promuovere un teatro di massa concepito sulla falsariga di quello dei primi anni
della rivoluzione sovietica, il Fascismo adotta una linea tutta finalizzata a
organizzare in forme razionali l’approccio dopolavoristico tra il pubblico
popolare e un modello di spettacolo di prosa appiattito sui canoni della facile
comunicatività. Dopo i Carri di Tespi nel 1936 viene istituito il Sabato Teatrale,
che offre a basso costo gli allestimenti normali delle compagnie di giro e nel
1937 ci furono rappresentazioni nel Castello Sforzesco e nelle Terme di
Caracalla. Quindi scelta di politica culturale che si rivolge alle persone
contemporanee per offrire loro una versione minimale della festa moderna
teorizzata da Rousseau. L’utopia dello spettacolo di massa risulta essere mera
formula ideologica intesa a frustrare le tensioni positive di quanti avevano
combattuto e combattevano in nome del teatro d’arte e a etichettare
esclusivamente quel complesso di mutamenti strutturali del settore che
costituisce l’autentica novità prodotta dal regime. Nel 1934 venne fondata
l’Unità Nazionale di Arte Teatrale (UNAT) che creò una frattura con il sistema
tradizionale delle compagnie e grande diffusione dell’avanspettacolo la cui
programmazione appariva completamente regolata dal Consorzio. Sistema
concepito per costruire attorno a tutte le forme di spettacolo una rete finanziaria
di sostegno pagata dai contribuenti e sottoposta al controllo della burocrazia
governativa. Ma è proprio nell’ambito dello stabilirsi di questo assetto che
possono prender corpo anche talune istituzioni cardine delle riforme che
D’Amico andava propugnando da quasi un ventennio, tra cui l’Accademia
Nazionale di Arte Drammatica che forniva agli allievi un insegnamento
completo diviso in due studi, quello preparatorio e quello pratico. La nuova
istituzione nasce dunque per rispondere alle due istanze basilari per cui D’Amico
si era sempre battuto: formare attori di nuovo stampo e attribuire la
responsabilità assoluta della messinscena a una direzione artistica in grado di
coordinare gli allestimenti. A D’Amico preme soprattutto che il regista sia
disciplinato coordinatore e garante della fedele traduzione in termini di evidenza
spettacolare di una idea largamente recepita del testo. È proprio un contrasto
attorno al concetto di disciplina che porta, nel 1939, il dissidio tra il Presidente
dell’accademia e Pavlova, prima insegnante di regia. Il tutto finì con le
dimissioni di Pavlova sostituita da Guido Salvini, consacrato primo vero regista
della storia italiana dal suo allestimento della Nave di D’Annunzio a Venezia il
2 settembre 1938. Grandissimo spettacolo all’aperto. Il contrasto di fondo tra i
due riguardava la concezione dell’attore. L’interprete cui pensa D’Amico è
remoto dall’essere umano che Pavlova ritiene di dover sconvolgere onde
portarlo a un livello di sofferta pienezza espressiva. Il traguardo cui vuole
tendere la didattica dell’Accademia è una formalizzazione stilisticamente
apprezzabile delle tecniche utili a eseguire parte di un testo. La pedagogia
seguita dalla Pavlova invece punta verso la messa in moto di dinamiche interiori
atte ad alimentare la partecipazione creativa dell’interprete. La linea vincente
esorcizza la linea creativa contribuendo all’affermazione dell’antilingua cui
Claudio Meldolesi ha indicato come esito estremo dell’attore funzionale al
servizio di una concezione idealisticamente riduttiva dei rapporti fra testo e
messinscena. L’epoca propiziata dalle scelte dell’Accademia darà i suoi frutti
oltre l’orizzonte del periodo fascista, le scene italiane degli anni ’30- seconda
guerra continuano ad ospitare compagnie imperniate sia su versioni manieriste
della recitazione del grande attore sia su quelle tendenze interpretative di
brillante raffinatezza al cui vertice si colloca l’esperienza di Sergio Tofano. Il
repertorio del Consumo corrente trova i suoi emblemi più significativi nelle
fortune delle compagnie leggere portate dall’Ungheria, nonché di prodotti
italiani costruiti sul fortunatissimo stampo di Due Dozzine di rose scarlatte di
Aldo De Benedetti del 1936, dedicata a illustrare gli equivoci nati attorno a un
mazzo di fiori tra marito e moglie. Le passioni collettive d’impronta fascista
affollarono solo gli spazi di circuiti amatoriali. E quando conobbero
l’entusiastico favore di platee normali come nel caso della trilogia storico
politica abbozzata dal Duce e portata a compimento da Gioacchino Forzano.
Autentica drammaturgia e autentica rappresentazione di regime sono quelle che
scelgono di continuare a soddisfare i patemi di comodo e le fantasticherie
d’evasione tipici di una condizione borghese deprecata a parole. Le sue
fenomenologie successive allo spegnersi dell’astro pirandelliano disegnano un
panorama di emergenze sparse, traiettorie destinate a colmare certe lacune
tipiche della nostra cultura scenica. Rispondono alla prima esigenza quegli
approcci alla migliore drammaturgia straniera moderna che trovano una sede
privilegiata nel Teatro delle Belle Arti di Bragaglia. Nella seconda linea si
muove Natale in casa Cupiello di de Filippo che realizza prima della tragedia
bellica le grandi prove d’esordio del percorso di sbloccare il teatro dialettale e
portarlo in quello nazionale.

CAPITOLO 4- L’AMBIZIONE DI ESSERE ESEMPLARI

Tra il 25 luglio e la Liberazione il microcosmo delle scene italiane entra in una


fase di quasi completa eclisse. Si realizzano sporadici spettacoli di semplice
intrattenimento. I primi cenni di ripresa post-bellica furono stentati, nel biennio
1945-46 le compagnie primarie produssero circa 100 spettacoli e un incremento
ci fu solo nel 1947-48. La lentezza della ripresa teatrale dipese da reticenze
marginali. Gli impresari indugiarono incerti se esibire i loro soldi: i capocomici
rimasero perplessi circa il repertorio da inscenare, mentre il pubblico preferì la
cautela, non sarebbe stato prudente infatti tornare ad abusare da subito dei
pubblici divertimenti. Tra gli allestimenti del ‘45 ci fu La Mandragola di
Machiavelli, che la Compagnia Sociale diretta da Stefano Landi presentò al
Quirino di Roma, ma non ebbe successo. la stessa commedia avrebbe dovuto
inaugurare nel 1937 l’attività del teatro delle belle arti di Bragaglia, se il veto di
Mussolini contro l’immoralità e anticlericalismo dell’opera non l’avesse
impedito. Il persistere di quella pretesa di controllo politico sul teatro che il
Fascismo aveva istituzionalizzato rientra in un quadro di trasformazioni senza
troppe fratture che riguarda i nuclei strutturali di gestione dei settori produttivi
della cultura italiana. Dal 1947 al 1953 il vero responsabile dello spettacolo fu
Giulio Andreotti, che usò una combinazione di forze di mercato e censura e
disturbo ideologico. Neppure l’impegno politico della migliore intellettualità
resistenziale è riuscito a individuare e a contrastare il vero ostacolo contro cui
sarebbero state destinate a infrangersi le speranze di rinnovamento globale del
teatro italiano: il persistere e il perfezionarsi di un sistema di gestione dello
spettacolo favorevole a soddisfare interessi privati disposti a ogni sorta di
commercio con i potenti di turno. Negli anni ’40 fu redatto un Manifesto del
Teatro di Roma, e tra i firmatari figuravano alcuni protagonisti di quegli anni:
Orazio Costa e Vito Pandolfi. Costa era stato l’artefice di uno dei 3 spettacoli
cui la critica riconosce il merito di una qualità espressiva altra rispetto ai moduli
degli allestimenti di Salvini. Era in termini di tesa orchestrazione mimica,
recitativa e visionaria che Costa traduceva in pratica i principi di una più matura
poetica autonoma della regia: “il regista è colui che crea alla rappresentazione
una coscienza spirituale..”. orientate in questo modo saranno I due fratelli di
Della Porta e L’opera dello straccione di John Gray, curati rispettivamente da
Guerrieri e Pandolfi. Nel primo lavoro il responsabile della messinscena aveva
letto il testo attraversandone le strutture con moti irriverenti di ascendenza
bragagliana, ma ispirati ad una coerenza più provocatoria; la seconda opera fu
meno comprensiva, infatti attualizzava in evidenti termini di critica al Fascismo il
capolavoro del ‘700 inglese. La nuova regia del 1943 si confronta con l’opera
scritta non per realizzare la fedele trascrizione in termini materialmente
rappresentativi del suo autentico o presunto statuto teatrale e originario, bensì
perché la elegge quale forma di archetipi validi tanto per il passato quanto per il
presente, ma che solo attraverso il coerente gioco espressivo di segni e moduli
specifici della composizione scenica possono divenire proposte artistiche di idee-
guida valide a testimoniare pro o contro questo o quel senso dell’ordine culturale
di quel tempo.
Strehler divenne il più deciso avversario della coesistenza fra vecchio e nuovo
teatro. Diceva che occorreva riportare al grado zero la comunicazione
rappresentativa e rinnegare gli artifici abbaglianti. La dominante registica che
andava proiettandosi verso le scene del dopoguerra non era sorretta solo da
generosissime tensioni etiche verso questa o quella forma di nuovo teatro, ma
amava dichiararsi disponibile a compromessi con le abitudini produttive delle
strutture di stampo tradizionale. Ettore Giannini si era impegnato a dimostrare
l’integrabilità della regia nelle compagnie di giro, aveva dei mesi per prevedere
l’opera che realizzava. Venne a configurarsi la supremazia di una inedita
funzione creativa, che si proclama responsabile suprema degli esiti estetici e
delle valenze socio-culturali della rappresentazione. Quindi tra il 1943-45 si
configurarono le molte parabole individuali della generazione destinata a
incontrarsi e scontrarsi con i fattori di continuità del sistema. Tra il 1944 e il
1946 sono in molti a impegnarsi per formare o nuovi teatri sperimentali o nuclei
di promozione culturale atti a favorirne la nascita. A Genova sorse il
“Pirandello”, che dal ’44 al ’46 offrì al pubblico allestimenti di famosi autori cui
cooperarono in qualità di scenografi anche Emanuele Luzzati e Giorgio Ratto.
A Milano Paolo Grassi e Giorgio Strehler attraversano l’esperienza del circolo
“Diogene” e delle sue letture con dibattito di proposte drammaturgiche spaziate
da Kaiser a Brecht, da Joppolo a Sartre. A Padova prende corpo un teatro
universitario dove si studia e si verifica anche la possibilità di restituire al
pubblico moderno un autore del calibro di Ruzante. C’è una irrequieta ricerca di
definizione di un repertorio sino ad allora recluso agli spettatori italiani o dalle
censure del regime o dal conservatorismo della cultura idealista.
Luchino Visconti sembra voler disegnare una stagione emblematica del processo
di provincializzazione che la scena nazionale deve conoscere, ma anche Strehler
firma il suo primo spettacolo di rilievo portando in scena all’Odeon Il lutto si
addice a Elettra di O’Neil, che ottiene una vera e propria consacrazione da parte
della critica, come avviene anche per L’albergo dei poveri di Gorkij. Con queste
opere fanno il loro ingresso nella cultura scenica italiana spunti tematici e motivi
di dibattito sinora largamente elusi come il discorso intorno all’omosessualità o
una risentita polemica sociale. Fu proprio il secondo allestimento di Strehler a
inaugurare il Piccolo. L’accento era posto sulla supremazia dell’evento
spettacolare concepito secondo l’ottica della nuova regia, mentre l’ipotesi di
favorire fertili sviluppi della drammaturgia italiana contemporanea veniva
collocata a livello delle eventualità che non comportano progetti specifici. Anche
dal punto di vista economico-organizzativo la neonata struttura milanese si
fondava su scelte accortamente realistiche. Grassi propose e ottenne che un
edificio teatrale di proprietà pubblica venisse messo a disposizione di un Ente
autonomo comunale, concepito sulla falsariga degli enti lirici e preposto alla
gestione del nuovo teatro e che l’intera struttura del Piccolo fosse sottoposta al
controllo di un Consiglio di amministrazione presieduto dal sindaco di Milano e
composto da due rappresentanti della Camera del lavoro incaricati di tutelare gli
interessi culturali della classe lavoratrice. Quindi il loro fu un collegamento
concreto tra la loro creatura e le punte politiche avanzate dalle forze protagoniste
della resistenza. Si tratta di un aggancio destinato a risolversi in massima parte a
livello di mera indicazione formale tutta operata dall’ombra di un concetto di
servizio pubblico definita da Giorgio Guazzotti nel 1965 come teatro come
luogo di incontro di ceti sociali e di interessi, in cui l’obiettivo per tutti ha valore
più come accezione quantitativa che non come affermazione di polemica
classista. Tanto la particolare congiura storico–politica del 1947-48 quanto lo
status reale del teatro costretto ad attraversarla sono più complesse delle etichette
di comodo adoperate per cifrarle in sintesi, sì che anche il determinarsi di
servizio pubblico per tutti risulta meno lineare di quello proposto prima. Il
Piccolo dovette già nel secondo anno fare i conti con autorevoli pressioni intese a
mettere in forse ulteriori contributi, finché si giunse nel 1948 alla Legge
Andreotti che penalizzava le attività di prosa rispetto a quelle degli altri generi di
spettacolo. La sconfitta poi delle sinistre alle elezioni avrebbe determinato il
crollo di gran parte delle speranze nutrite sull’onda dello slancio resistenziale.
Coscienza infelice di un settore che, se identifica le proprie ragioni con quelle
economiche del libero mercato, davvero può dire di non avere più vita autentica
in quanto le sue strutture risultano ormai avvezze a lavorare in perdita. Nel caso
del Piccolo, il concreto determinarsi delle scelte che andranno sotto l’etichetta di
servizio pubblico interclassista, dipende da certe tattiche concepite per tenere in
vita il teatro e dai loro esiti contingenti. Da qui deriveranno le pratiche
organizzative quali quelle tese a favorire continuità di rapporti fiduciari ed
economici tra spettatori e istituzione, oppure quelle in varie forme concepite sia
per supportare culturalmente la proposta di spettacoli sia per l’alfabetizzazione
del pubblico ai linguaggi della scena antica e moderna. Il capolavoro di
ingegneria escogitato da Grassi ebbe il merito di configurare un modello
praticabile di teatro stabile a gestione pubblica. Questo modello rappresentava un
buon esempio di cosa fosse possibile fare se ci si poneva nell’ottica difensivistica
della costrizione a salvaguardare al meglio i destini di un settore che tanto il
potere quanto il mercato sembravano voler consegnare ai margini estremi della
cultura e dell’economia. Nel 1951 venne fondato il Teatro d’Arte a Genova, poi
trasformatosi in Stabile municipale; nel ’55 si inaugurano le attività del Teatro
Stabile di Torino; tra il 1948-54 Orazio Costa guida a Roma una compagnia
ispirata alle scelte di gestione che non si discostano molto da quelle del Piccolo.
Il miracolo milanese ha il merito di aprire la strada a un processo che sembra
essere di tale portata da investire l’intero sistema nazionale. È indubbio che il
complesso delle nuove strutture avrebbe determinato il configurarsi di un
soggetto forte in grado di far valere il proprio peso sulle decisioni di politica
culturale nei confronti del settore spettacolo. Ma gli esiti fallimentari toccati in
sorte a tanti tentativi dimostrano come non sia esistita la volontà chiara ed
energica di generalizzare l’esperienza del servizio pubblico. Solamente Milano-
Genova-Torino riusciranno a qualificarsi come epifenomeni di punta di un fare
teatro per molti versi e per un breve periodo davvero alternativo alle abitudini
decrepite o appena riverniciate del sistema italiano. Il modello del Piccolo si
consegna alle sue varianti genovesi e torinesi proponendosi come quello spazio
privilegiato ove risulti praticabile una certa arte della regia. . Lo spettacolo
cardine fu Arlecchino servitore di due padroni, in cui Marcello Moretti e gli
altri attori diedero l’impressione di declinare a ritmi di gioco vertiginoso, tutti i
lazzi e gli stilemi della più pura e astratta teatralità di alta convenzione. Il
Goldoni di Strehler non ha nulla da spartire né con il goldonismo scenico
tradizionale di ascendenza ottocentesca né con i cliches accademici o scolastici di
impronta idealistico-letteraria. È l’autore che assume e riplasma sulla pagina
scritta la lezione di una lingua e di una sapienza teatrali di cui erano depositari i
committenti del testo. Il regista legge questo Goldoni per ritrovare in esso i
principi grammaticali e le scansioni ritmiche di quella sintassi essenziale dello
spettacolo che costituisce senso e tormento della ricerca scenica. Ne deriva un
risultato tale da costituire un modello di espressività destinato a perdurare nel
tempo in quanto opus-testimone esemplare di una svolta storica non eludibile.
Con quest’opera la regia consegue qualcosa di simile alla persistenza oltre
l’effimero di norma segnalata quale dato distintivo della grande letteratura
drammatica: lo spettacolo è prova d’autore a firma di un regista. L’attività del
Piccolo veniva a coincidere senza molti margini di scollamento con il processo di
formazione dell’intuizione stehleriana. Il repertorio dello stabile milanese
risponde all’intento di articolare con precisione un vero e proprio sistema di
cosiddetti discorsi critici, il quale termine esclude l’azzardo sperimentale e
presuppone la volontà di condurre la ricerca verificando le possibilità di un filone
drammaturgico sia per ciò che esso offre sul piano dell’intensità emotiva e
validità del contenuto sia per la capacità di risonanza che può ottenere presso il
pubblico. È critico in quanto storicizza il rapporto pubblico-palcoscenico, tende a
portare nel lavoro teatrale quelle tendenze di revisione e aggiornamento critico
che si presuppone vivevano nel pubblico di quel momento storico. Nel caso di
Strehler risulta fuorviante parlare di discorsi sistematici: il suo cammino si
sviluppa aprendosi a ventaglio verso una pluralità di approcci critici a un
paesaggio drammaturgico abbastanza esteso e diversificato. A partire dal 1956 le
scelte di Strehler portano in primo piano il repertorio brechtiano, verso e oltre il
1960 sembrò delinearsi quella che fu definita una vera e propria moda
brechtiana: tale da ingenerare vaghe ricette di drammaturgia didattico-politica, di
recitazione non immedesimata e di effetti scenici estranianti. La supremazia
assoluta del lavoro registico contribuiva a propiziare suo malgrado la falsa
credenza che tutto si risolvesse grazie a una qualche miscela approssimativa di
forme ideologiche d’engagement.
Le benemerenze della regia e degli stabili risaltano in tutta chiarezza se
consideriamo il loro apporto alla promozione di repertori non supini alle ragioni
del facile consumo, bensì aperti a molti classici e a molte incursioni incisive
nella migliore drammaturgia straniera, o se pensiamo ai moduli critici di lettura
cui vengono sottoposti taluni capolavori e riscoperte. A partire dalla Locandiera
di Goldoni, che Visconti nel 1952 restituì in una versione destinata a non
incontrare i favori di D’Amico. In realtà lo stile goldoniano non appartiene né
all’autore veneto né al suo ‘700, solo la risultante di comodo di una somma di
stilemi leziosi che le peggiori esegesi letterarie e le più viete abitudini
rappresentative avevano sottoposto alle complesse sostanze autentiche di opere
quali La Locandiera. Visconti aveva individuato nei maliziosi e inquietanti
giochi erotici della protagonista i veri temi cardine del testo, e intendeva
sottolinearne pregnanza e novità attraverso una ambientazione lineare e scabra
alla Morandi, un recitare dimesso in quanto teso ad azzerare il chiacchiericcio
melodico del goldonismo di maniera per rendersi espressione verosimile di
sentimenti e pensieri ancorati alle cose. Sempre nel 1952 Squarzina realizza la
prima versione integrale dell’Amleto. Il regista assume su di sé anche l’incarico
di tradurre il testo in inglese. a distanza di 11 anni, De Bosio porta al Theatre des
Nationes di Parigi la sua ultima versione della Moscheta di Ruzante. Ludovico
Zorzi dichiara che la prova dello stabile torinese è da porsi tra i migliori
contributi apparsi nel campo degli studi ruzantiani di quegli ultimi anni. Ma già
all’inizio del decennio Strehler aveva pensato al regista come a una figura
intermedia fra l’attore, lo spettatore e il critico. Il teatro di regia emergente dal
periodo della ricostruzione post-bellica porta in primo piano anche un lavoro di
scavo profondo sulle matrici culturali del testo, che si pone oltre i limiti di
qualsiasi tradizionale processo o traduttivo o interpretativo. Ciò non esclude che
un simile atteggiarsi tenda verso esiti espressivi i quali si risolvono in discorsi
scenici di autonoma significanza. La figura del regista demiurgo impostasi sulle
scene dell’Italia post-resistenziale è quella che si sforza di realizzare il massimo
equilibrio tra un mestiere in qualche modo rapportabile al lavoro del critico e un
mestiere i cui tratti segnaletici includano la responsabilità creativa dell’autore
drammatico. Questo equilibrio si risolverebbe nel giustificare i facili criteri di
giudizio della maggiore o minore fedeltà di una certa regia a un certo testo.
Proprio le false categorie del rispetto e tradimento di una pretesa univocità
espressiva originaria immanente all’opera rappresentata servono a eludere la
vera contraddizione di fondo della regia critico-creativa: il suo stabilirsi in
quanto fattore chiamato a comporre tutte le antinomie del fare spettacolo, ma
trasferendole sul piano esclusivo di una operatività secondo cui attore e
spettatore sono mero strumento e destinatario di un opus artistico di sintesi
intellettuale tra impresa esegetica e produzione di senso poetico.
L’avvento del regista-critico-autore coincide con il profilarsi di quella perdita di
contatto tra scena e scrittura che farà parlare di perenne stato di crisi della
drammaturgia nazionale. L’egemonia della più radicale versione italica del
metteur en scène restituisce gli autori a uno status di idealistica separatezza dalla
materialità del fare teatro. Si limita ad auspicare che nuovi drammaturghi
vengano incontro alle esemplari forme produttive appena manifestatesi. Queste
si determineranno secondo linee tali da mantenersi davvero aperte solo nei
confronti o del testo-capolavoro di stampo tradizionale o del testo. L’organico
dei teatri stabili italiani non ha mai previsto la figura del dramaturg, potenziale
cultore di una pratica di scrittura teatrale da realizzarsi sul margine di confluenza
tra l’ideazione rappresentativa concepita a tavolino e l’immediata verifica della
prassi scenica. Ciò costituisce il segno evidente dell’indifferenza a propiziare
nessi dialettici di un qualche peso per la corretta impostazione di quel problema.
Troppe preoccupazioni di equilibrio politico fanno sì che la nostra drammaturgia
continui ad avere manifestazioni estremamente discontinue e la figura di chi
scrive per il teatro si avvia a diventare una specie in via di estinzione. Le
principali punte emergenti della drammaturgia nazionale post-pirandelliana
possono essere indicate in opere strutturalmente e nematicamente tese a
rappresentare forme eventuali dell’esame di coscienza donde avrebbe dovuto
prendere le mosse la ricostruzione etica della società italiana uscita dal fascismo.
Processo a Gesù: occasione di uno psicodramma concepito per procedere verso
l’incontro con la poligenesi morale promessa dal dio fatto uomo, che dovrebbe
mantenersi viva nei valori di amore e fede esaltati da un cattolicesimo non
esteriore. Alle contraddizioni di una società ora lassista ora puritana faceva
riferimento La Governante di Vitaliano Brancati che, nel 1952, suscitò clamori
perché le sue recite furono proibite dai democristiani in quanto c’era un discorso
sull’omosessualità femminile. Sono opere che si attestano su schemi collaudati
per ottenere sicuri effetti di suspence, i personaggi che vivono l’esame di
coscienza ne percorrono le tappe attraverso i moduli dell’inchiesta o familiare o
giudiziaria. La drammaturgia superstite dei primi anni ’50 si muove di
preferenza sulla linea di un ritorno all’ordine tale da implicare la più netta cesura
o con le provocazioni tentate dall’avanguardia storica o con le sostanze
innovative della ricerca pirandelliana. La sperimentazione dell’espressività viene
così ad appiattirsi sulla scelta di formule comunicative adatte ad instaurare
rapporti cattivanti con il pubblico. Occorre fare i conti con certe caratteristiche
dei suoi cartelloni fondati su intenti di chiara pedagogia e sulla riproposta di
classici e attenti all’equilibrio tra offerte di indirizzo ideologico esplicitamente
ben definito.
I temi delle colpe individuali e collettive e delle scelte che l’individuo deve
compiere per sopportarne o riscattarne le conseguenze nel passato e nel presente
erano stati al centro anche della trilogia post-bellica di De Filippo. Nel 1954
l’attore assume la gestione del San Ferdinando e pone le basi di un
individualissimo teatro stabile di quasi regia. Svela i segni di una risposta coatta
alla perdita dell’identità artistica che la figura dell’attore andava subendo: dal suo
auspicato riciclarsi in efficiente maestranza sino al suo rendersi funzionale per
tutti i dettati della regia. Le diverse tipologie attoriali del periodo devono fare i
conti con una prospettiva vincente entro i cui reticoli sono previsti solo quei
margini di autonomo contributo che possono dare massima energia e forma
davvero efficace all’interpretazione. I pochissimi testimoni superstiti di una
qualità altra di recitare sono destinati a parabole d’arte che hanno le stigmate di
una oltranza eretica disposta a dialogare con teatro e regia. Esponenti della prima
grande generazione dell’Accademia cercano di offrire una versione
ideologicamente aggiornata del grande attore all’italiana o danno vita a troupes
autonome, dove è qualcuno degli attori consociati a farsi carico di una istanza
registica non dissimile da quella vigente nelle strutture pubbliche e private.
L’unico scarto dalla norma che abbia prodotto risultati significativi è
rappresentato da quanti sperimentarono la via del teatro da camera. Tra il 1950-
51 Alberto Bonucci, Vittorio Caprioli e Franca Valeri fondano il gruppo dei
Gobbi, che proponeva l’eliminazione di ogni noiosità, valorizzazione delle
peculiarità individuali, privilegia mento dei tratti minuti di espressione, effetti più
mobili in un flusso continuo di spunti sempre riaperti. Giustino Durano, Dario
Fo e Franco Parenti presentano due anti-riviste fondate sulla satira politica
d’attualità e risolte in una coerenza energica di ritmi e gesti surreali che
conquistarono anche il pur severo sguardo critico di Nicola Chiaromonte,
dicendo che l’effetto di brio e di gioventù è ottenuto grazie all’artificio e alla
costrizione della pantomima, la quale imprime allo spettacolo una vivacità
ritmica che lo sostiene anche nei momenti vuoti. Proprio le esperienze del teatro
da camera e dell’antirivista rivendicano le potenzialità creative dell’attore non
funzionale. È proprio in questo ambito che può svilupparsi l’itinerario di Dario
Fo verso quel mosaico linguistico ed espressivo che costituirà la cifra
esponenziale forte di una scrittura scenica altra da quelle abituali alle imprese
registiche e alle convenzioni letterarie della drammaturgia d’autore. Itinerario
destinato a svilupparsi attraversando una tappa dal sapore ironicamente
simbolico: nel 1958 la stagione inaugurale del teatro stabile di Torino diretto da
De Bosio presenta Comica finale, scritto, diretto e interpretato da Fo.

CAPITOLO 5- DAI VECCHI SIPARI DI FERRO A NUOVI INCENDI

Le novità strutturali e gli esiti artistici determinatisi nel primo quindicennio post-
bellico si collocano sullo sfondo di diagrammi statistici poco rassicuranti, poiché
la ricostruzione delle tendenze relative ai dati sugli spettatori forniti dalla SIAE
mostra come la diminuzione delle presenze a teatro sia progressiva e costante.
Tra il 1950-60 ci furono dimezzamento del pubblico e quindi crollo delle
compagnie minori e forte indebolimento delle attività periferiche a vantaggio dei
grandi centri urbani. La discesa a picco che si verifica per il teatro non conosce
soste dal 1950 al 1963, quando sembra stabilizzarsi attorno al limite più basso
della sua parabola negativa. Alla concorrenza del cinematografo si
sovrappongono i primi effetti della televisione. Ciò è dato dai grandi mutamenti
che i flussi continui di spettacoli elettronici a portata della più agevole utenza
domestica includono nelle generazioni immerse ab origine entro la loro corrente.
Solo all’altezza dei maturi anni ’60 l’incognita televisiva farà sentire il suo peso
entro le equazioni teatrali preoccupate di risolvere il problema della migliore
presa sul pubblico. I motivi di turbamento che incombono sulle scene
provengono all’inizio da altre direzioni, e sono ravvisabili lungo il fronte che gli
stabili avevano cercato di aprire e di gestire: un dialogo tra lo spettacolo d’arte
registicamente inteso e la politica culturale che sembra compiacersi di recitare
con metodo una strana commedia fitta di episodi il cui lungo calendario conosce
tappe di valore simbolico: L’ufficiale reclutatore aveva suscitato le reazioni di un
organo confessionale cittadino; Il diavolo e il buon dio di Sartre venne
denunciato per vilipendio alla religione e il giornale “L’Italia” invitò a porre
rimedio all’inquietante situazione creatasi in seguito alla messa in scena
strehleriana di Vita di Galileo. Gli anni 1962-63 sono quelli che vedono profilarsi
un embrionale sistema di teatri stabili. A Milano con Strehler, a Torino De
Bosio e a Genova Squarzina. I cartelloni stagionali dei tre istituti prevedono
ormai scambi regolari degli spettacoli prodotti da ognuno di essi. Si profila una
strategia intesa a bloccare, attraverso tattiche di logoramento, il potenziale salto
di qualità del teatro a gestione pubblica. È una formula di lotta in grado di agire
sulle contraddizioni interne delle strutture organizzative degli stabili, poiché
questi si reggono sul dualismo che avvicina e contrappone al loro vertice un
direttore artistico e un direttore amministrativo, ma rappresentano due parti in
contrasto e devono imporsi un programma di un ammorbidimento dei rispettivi
punti di vista. Il teatro inteso come servizio pubblico finisce col determinarsi
quale appendice e specchio del compromesso escogitato per risolvere le tensioni
del quadro post-resistenziale. In questo gioco le mosse importanti riguardano
solo gli eventuali spostamenti di equilibrio nella gestione di un settore, e il tipo
strumentalizzante che l’indirizzo gestionale maggioritario riesce a operare nel
settore. Tra il 1962-64 la scena della politica italiana infatti ha per protagonista
assoluto il conflitto tra i divergenti interessi coperti dalle formule di governo di
centro-destra e di centro-sinistra. La bene orchestrata campagna di interventi
intimidatori che si susseguono in questi anni riesce efficace in quanto può far
leva sulle contraddizioni interne degli stabili. Sull’identificarsi del loro profilo
culturale con la personalità del regista-direttore, Vita di Galileo si rivela un
monstrum che le strutture del teatro italiano non sono preparate ad accogliere e
ciò si ripercuote sull’organismo che lo ha prodotto, come ne risente il regista-
guida. La summa del discorso registico post-resistenziale si declina in chiave di
poiesis scenica che risponde alle difficoltà del periodo giocando l’azzardo di
esaltarsi in una sorta di iperbole formale dei segni e del respiro cronologico,
ritenuti indispensabili a manifestarne l’assoluta autonomia espressiva.
Lo Strehler degli anni ’60 percorre le vie di un gigantismo dello spettacolo che
dovrebbe sfidare sia il gioco dei potenti sia i tiepidi interessi del pubblico
contemporaneo. È una partita che si chiude nel 1966 con la decisione di portare
in scena per la seconda volta l’ultimo mito dell’autore agrigentino, i Giganti,
sottoponendolo a una lettura dove i temi del sofferto autobiografismo poetico
acquistano valenze tali da spingersi ben oltre i limiti dell’esperienza individuale.
Nell’allestimento dell’opera, la regia manifesta i sensi tormentati delle
lacerazioni che affliggono il suo rapporto con sé stessa e con l’ordine vigente. La
sequenza della vestizione è un rito magico cui seguiva la battaglia contro i
Giganti e rappresentata con una pantomima. Dopo la lotta il carretto è spezzato
dal grigio sipario di ferro che sostituisce il velluto tradizionale, e il sipario è
azionato dall’inconscio collettivo degli spettatori. Ma il sipario di ferro è il
congegno simbolo che la norma di legge impone ai teatri per impedire che
eventuali incendi suscitati da quanto avviene in scena possano propagarsi.
L’inconscio collettivo che lo manovra risponde alla subordinazione degli
spettatori nei confronti dell’autorità stabilita. Il tema saliente e conclusivo dello
spettacolo intende assurgere a emblema dell’apocalisse eventuale che incombe
sulla compagine complessiva del contemporaneo teatro italiano. Ma questa reca i
segni di una storia abbastanza simile a quella inauguratasi con l’avvento della
regia. Il mago di Strehler imitava gesti e toni tipici del regista, supportando
l’autoritratto di un creatore di vive immagini che si finge continuamente servo
d’autore, mentre si pone quale unico autore dello spettacolo. Il volto reale cui si
ispira appartiene a una stirpe fondatasi anche su statuti tesi a inglobare e a
piegare l’inventiva metaforicamente strutturata dell’attore. Lo schianto della
carretta dei comici è un urlo di provocazione contro il silenzio in cui erano cadute
parole vecchie già di due anni. L’estremo limite di rottura segnalato da Strehler
era tale solo per le migliori speranze nutrite dal suo organismo. Oltre quel
confine esisteva il lunghissimo regno di una stasi conforme ai disegni di molte
amministrazioni che avrebbe investito il panorama complessivo del teatro
servizio pubblico.
Proprio nel 1966 Carmelo Bene realizza Il Rosa e il Nero e Nostra signora dei
turchi. Il giovane attore già da due anni si era imposto all’attenzione del pubblico
normale e della critica, emergendo da un ambito dove la parola cantina aveva
assunto un senso non esclusivamente edilizio. Luoghi quindi non sempre dotati
di sipario di ferro, cui un numero esiguo di spettatori amava accedere proprio per
il piacere di sentirsi presente a certe vampate provocatorie. Bene proponeva lo
scandalo di un’arte capace di manifestare il prodursi di un pensiero teatrale
irriducibile a qualsivoglia ideologismo, fedele soltanto alla coerenza religiosa di
una eresia ben testimoniata dall’incipit de il Rosa e il Nero, in cui i due fasci di
luce sembrano due persone che dialogano. La pagina drammaturgica pone fuori
causa l’abitudinaria didascalia preliminare di ambiente, per rendersi spazio
privilegiato di un discorso autonomo dei fattori artistici a partire dai quali
l’evento scenico prende forma. L’oggetto del vedere negato è lo spettacolo di
prosa in senso canonico, e il miracolo della vista auspicato per coloro cui
risultano non godibili gli orpelli della messinscena d’abitudine deve assurgere a
illuminazione dello sguardo teso verso qualcosa che sta al di là delle porte. Al
centro ci sarà un protagonismo assoluto dell’attorialità creativa che giocherà tutti
i registri e i timbri e le inflessioni del patrimonio superstite del grande attore
all’italiana, citandoli e riciclandoli quali tessere segniche dei mosaici composti
dalla poesia nei confronti del personaggio convenzionale. L’eccezione alla regola
determinata da Carmelo Bene tra il 1960-66 tradisce anche funzioni
specialistiche e routines espressive in spirito di fedeltà a un teatro concepito
quale complesso formale conchiuso nella propria autonomia estetica. Tutt’altra è
la prospettiva cui accenna la ricerca di Carlo Quartucci: inventare dispositivi
scenici in grado di stabilire un contatto più vivo e diretto con il pubblico. È
possibile a condizione di destrutturare l’impianto logistico che materializza e
sancisce la dicotomia tra quanti si offrono in spettacolo e quanti li contemplano
passivi, collegando il gruppo realizzatore alla comunità in ascolto. L’indirizzo
seguito dall’eterodossia di Quartucci assume come bersaglio la linea di
demarcazione estetica tra prodotto rappresentativo e pubblico fruitore, per
cancellarla instaurando al suo posto le strategie del discorso co-esistenzialmente
dialettico tra un gruppo realizzatore e una comunità in ascolto per esporre agli
astanti lo svolgersi di un gioco le cui regole sono palesi, e i cui temi riguardano
in egual misura chi deve giocarlo a livello di vita reale e chi ne propone una
forma organizzata. Se Quartucci faceva passare le linee portanti del suo discorso
sul coinvolgimento attraverso un campo di segni e sonorità inflessi in forme che
sembravano recuperare alcune lezioni delle avanguardie storiche europee, nello
stesso anno si moltiplicavano le prove di una ricerca rigorosamente incentrata
solo sulle potenziali tecniche di un teatro inteso quale gioco e rito di pura
aystesis della immagine e del movimento. Mario Ricci proponeva al pubblico
situazioni affatto sganciate da qualsiasi ipotesi drammaturgica d’attore o autore, e
per nulla preoccupate di eventuali valenze etico-sociali dell’evento scenico,
poiché bisognava innanzitutto stabilire attraverso strumenti che fossero estranei
alle avanguardie contemporanee o tradizionali, i limiti di comunicazione e rottura
con il pubblico. Il problema era quello di arrivare in quella zona dell’individuo
spettatore genericamente definito mnemonico-eccezionale, attraverso immagini
tra loro collegate solo tecnicamente. Effetti di luce, colori, suoni, oggetti,
presenze umane che non danno vita a personaggi: è quanto più lontano dalle
immagini di vita umana ora dolorosa, ora redenta ma sempre integra. Le strutture
minimali donde nascono le prove di Carmelo Bene, Carlo Quantucci e Mario
Ricci e dove il pubblico è alieno dal configurarsi secondo criteri di pacifica
convivenza tra produttori e consumatori. Le 3 diverse parabole rispondono a
ragioni che solo una forzatura esegetica potrebbe omologare. Il loro manifestarsi
all’altezza di un ben preciso momento storico permette di considerarle anche
quali elementi sintomatici per eccellenza di un quadro complessivo dove urgono
emergenze disparate in rapporto critico con fattori costitutivi e conseguenze di
quel malessere.
Attorno al 1965 si addensano le discussioni relative a possibili cause ed
auspicate soluzioni della crisi drammaturgica che sembra costituire la cancrena
per eccellenza del settore. La rivista “Sipario” dedica ampie sezioni dei suoi
palinsesti a dibattiti impegnati sui grandi temi de Gli scrittori e il teatro e del
Teatro e letteratura, coinvolgendo la quasi totalità delle grandi firme
contemporanee. Il solo Pasolini seppe ricondurre le cose ai loro giusti termini,
evitando le secche dell’inutile discorso intorno agli eventuali contributi che
narratori e poeti avrebbero potuto offrire alle sorti del dramma, per focalizzare la
questione dell’italiano parlato. Se da un lato ci si sforzava di istituire rapporti tra
l’opera del grande innovatore francese e lo psicodramma di Moreno, dall’altro
venivano assemblati Genet, Brook, l’happening statunitense e il Living
Theatre. In realtà, a far precipitare il discorso verso l’angolazione prospettica di
un fare teatro crudelmente alternativo era stata proprio l’irruzione in Italia del
Living Theatre di Julian Beck e Judith Malina, esule in Europa dal 1964. I
castissimi flashes di nudità presi a prestito dall’oltranza censoria di centro-
sinistra erano solo epifanie necessarie di un discorso teatrale i cui veri motivi di
scandalo consistevano nel suo proporsi in forme di performance attoriale e di
nuovi rapporti con gli spettatori allora ben cifrati dalle parole di Judith Malina.
Il gruppo statunitense da un lato offriva l’immagine di eventi scenici
rigorosamente concepiti secondo l’ottica di un teatro politico all’altezza dei
tempi, e dall’altro introduceva entro una cultura sin troppo avvezza a petizioni di
principio ideologico fondate sulla fiducia delle parole il contagio di scelte
espressive indubbiamente valide per investire lo spettatore anche dal versante dei
nervi e del sangue. E dava l’esempio di un gruppo qualificato dedito agli esercizi
di quel particolare training psico-fisico il cui obiettivo consisteva nel far crescere
esperienze dove l’individuo cominciasse a risolvere i problemi del suo disagio
esistenziale e sociale. Il Living quindi appariva come una comunità che offriva
risposta alle esigenze largamente diffuse e non necessitate a indirizzarsi lungo le
direttrici dell’impegno politico esplicito.
All’altezza del 1965, teorie e pratiche di Grotowski suonavano ricche di
risonanze relative alla diffusa polemica contro la civiltà dei consumi e contro la
civiltà delle immagini propiziata dai media tecnologici in auge. Da un teatro
ricco di mezzi dove sono utilizzate arti plastiche, luci e musica a un teatro povero
in quanto tutto rappreso nel cerchio di quanto avviene tra spettatore e attore. Il
teatro povero di Grotowski viene così ad inserire i propri stimoli in fronte di
aperture nei confronti della ricerca mondiale contemporanea che ancora andrà
incrementandosi di riferimenti ad altre punte avanzate dall’avanguardia scenica
americana. Su questo sfondo si colloca l’ipotesi di stringere in unità le sparse
membra della sperimentazione nostrale cui intendeva dar corpo il Convegno di
Ivrea per un Nuovo teatro. Tra i firmatari dell’invito al Convegno figuravano
Carmelo Bene, Carlo Quartucci, Giuliano Scabia e Aldo Trionfo. Il concetto
di Nuovo teatro dipendeva dall’esigenza di far fronte comune contro le posizioni
dominanti sulle strutture del settore. La neo-avanguardia era una somma di
diversità costrette a confrontarsi con problemi di lavoro analoghi, nonché
preoccupate di trovarsi ridotte ad una dimensione sperimentale, costretta però ad
allinearsi alle posizioni dominanti. L’insieme del Nuovo teatro si sentiva
obbligato a interrogarsi sulle vie da percorrere in una contingenza storica dove
poteva risultare autolesionistico il rifiuto radicale delle organizzazioni di
pubblico alle quali anche le nuove proposte pretendevano di avere diritto. Gli
elementi di discussione del convegno negavano qualsiasi validità all’attuale
artefatta distinzione tra teatri primari e teatri minori di ricerca, e tentavano di far
leva sull’auspicabile arretramento del concetto di teatro come servizio pubblico
in favore di un più vasto e profondo interesse per un’effettiva penetrazione del
teatro nel corpo sociale. Ne dipese il profilarsi di una aumentata capacità di
recepimento e distribuzione e diffusione del prodotto teatrale da parte di
organismi non specializzati. Di qui la necessità di concepire strutture atte a
sostenere in concreto le ragioni di un teatro laboratorio e di un teatro collettivo.
La riforma dei teatri a gestione pubblica avrebbe dovuto tendere verso il
costituirsi di soluzioni organizzative tali da accogliere e favorire tutti gli sviluppi
eventuali di un discorso artistico a più direzioni e su linee di ricerca e
sperimentazione nettamente caratterizzate da un’articolazione che investa in
pieno la composizione degli organici ecc. la prospettiva degli Elementi additava
un’ipotesi di riforma tanto radicale da comportare una soluzione politica del
problema, c’era il rifiuto di qualsiasi remora estrinseca al libero manifestarsi di
poetiche eterodosse. Risultava inevitabile ipotizzare equazioni la cui incognita
risolutiva non era alla portata di critici, attori e registi: apparteneva al campo
degli eventuali spostamenti di rapporti si forza tra monopolio dei gruppi di potere
e movimento di sviluppo all’interno del corpo sociale. Il manifesto omologava le
emergenze solo al comune denominatore del loro pieno diritto di cittadinanza
entro un sistema organizzato per ghettizzarle, per rendere visibili le istanze
estetiche cui esse rispondevano. Ne sospendeva però le chances di sopravvivenza
e di crescita sul margine dell’alternativa tra le capacità dei singoli di escogitare
strategie atte a farli convivere con il sistema vigente e l’attesa che questo sistema
potesse venir rimosso da una alternativa politica intenzionata anche a tradurre in
norma tante individue eccezioni. Carlo Quartucci era riuscito nel 1964 a
svolgere la sua ricerca nell’ambito di un Teatro studio posto sotto l’egida dello
Stabile genovese, ma aveva ritenuto opportuno rompere questa forma di
collaborazione. Alcuni organismi di servizio pubblico si erano posti il problema
di allargare l’ambito delle loro attività sino a istituire una qualche forma di
contatto con i percorsi sperimentali del Nuovo teatro, ma era chiaro che non
potevano esistere né rapporti paritetici né soluzioni di equilibrata sintesi
produttiva tra la Realpolitik degli stabili e la politica d’assalto di quanti
intendevano espandere i discorsi a un pubblico più vasto. Dal punto di vista degli
enti modellatisi sull’esempio del Piccolo, si trattava di riuscire a far presa su
emergenze storiche non facilmente conciliabili con le soluzioni strutturali cui
erano pervenuti i loro statuti d’origine. Secondo ipotesi tattiche le quali
proveranno a intervenire in quegli ambienti cui poteva alludere l’auspicio di una
effettiva penetrazione del teatro del corpo sociale. Dal 1969 figura il termine
decentramento inteso a riassumere nuove politiche di territorio che
permetteranno di poter pubblicizzare bilanci di un certo tenore. Le politiche di
decentramento attuate dai principali stabili conseguirono l’obiettivo di
moltiplicare il numero delle piazze cui veniva estesa l’offerta di spettacoli. Il
servizio pubblico seppe sovente rendersi promotore di iniziative culturali che
andavano al di là della mera distribuzione di prodotti scenici. Resta innegabile
però che le logiche di fondo cui tanti interventi si ispirarono non erano dettate
dalla volontà di liberare le energie creative degli abitanti dei piccoli centri,
mentre tendevano a disegnare un panorama che non sarebbe stato troppo ingiusto
riprodurre dicendo che si piantavano tendoni da circo direttamente nei quartieri
dormitorio e si provvedeva a tacitare i fermenti e le rivendicazioni di cooperative
teatrali e gruppi sperimentali scomodi a cui veniva garantito con un certo numero
di rappresentazioni pagate un certo giro. La strategia della Realpolitik risponde
alle mutazioni in corso della cultura e società degli anni ’60 adottando tattiche
concepite per incanalare entro l’alveo dello sviluppo quantitativo articolato di un
discorso non disposto a lasciar contestare la qualità di fondo delle strutture cui si
appoggia la sua sintassi. Si somma poi il respiro di sollievo di alcune gerarchie
dell’ente torinese. Ma la situazione è talmente delicata da far pensare che, al
decentramento dei servizi, sia un po’ troppo pericoloso aggiungere ancora una
visione affatto decentrata del nesso istituzionale che deve intercorrere tra quanti
si vogliono destinati a produrre teatro e quanti andrebbero coltivati solo affinché
possano infoltire i ranghi del pubblico consumatore.

CAPITOLO 6- I VOLTI DELL’EVERSIONE E GLI SPECCHI DELLA


MEDIOCRITA’

Quello che, dalla prospettiva del 1967, poteva ancora sembrare un movimento di
sviluppo all’interno del corpo sociale, assume i connotati della rivolta contro le
forme in cui si erano stabilizzate le contraddizioni della società uscita dalla
guerra e dalla Resistenza. I nuovi soggetti storici tendono a identificarsi anche
attraverso processi di recupero e di gestione in proprio delle dinamiche creative
divenute patrimonio tecnici stico delle diverse specializzazioni artistiche.
Diviene possibile scindere le esigenze di una teatralità focalizzando l’insorgere
di bisogni largamente condivisi e tali da postulare risposte che dovrebbero
essere qualitativamente altre rispetto ai limiti di qualsiasi formula
convenzionale. Le istituzioni ufficiali del settore ritengono di risolvere il
problema spostando la causa di un decentramento che irradi verso tutti gli spazi
periferici immaginabili prodotti e funzioni concepite per confermare sine die la
loro centralità. Molti individui decidono invece di affrontarlo secondo l’ottica di
una copernicana perdita del centro che li induce ad avventurarsi oltre i confini
del comodo del sistema. Nel 1968 Strehler abbandona il Piccolo e forma una
sua compagnia. L’11 dicembre dello stesso anno va in scena il primo spettacolo
della Comunità Teatrale dell’Emilia-Romagna, Gli Uccelli di Aristofane, che
intende offrire l’immagine di un collettivo lavoro scenico irriducibile ai moduli
di produzione e di amministrazione tipici degli stabili o del libero mercato. Il
gruppo nasce come libera associazione di attori intenzionati a rapportarsi
direttamente agli enti teatrali della regione, ma attraverso creazioni sceniche
poste al culmine di un processo dove si realizzi la piena autonomia di un nuovo
tipo di operazione teatrale. Assemblea permanente e lavoro collettivo
dovrebbero costituire le linee guida di un processo nel cui sviluppo si cancellino
i tratti alienanti del teatro di regia e venga evitato il rischio della ricerca
espressiva puramente individuale. La logica interna del gruppo si proietta
all’esterno nelle forme di una struttura di produzione democratica concepita per
dialogare con gli amministratori di sinistra delle sale dello spettacolo. Si muove
su ipotesi strategiche in qualche modo parallele. Gli spettacoli di Fo e degli altri
gruppi gemelli raccolgono pubblici vastissimi, mezzo milione di associati già al
primo anno di attività, e ciò proprio quando gli Stabili attraversano una crisi di
abbonamenti e di influenza culturale. Il rapporto con la sinistra si risolve
nell’adottare le minute articolazioni e l’etichetta protettiva dell’associazionismo
culturale che essa controlla, per figurare un anti-sistema di spettacoli riservati ai
soci tesserati. L’accorto escamotage attorno all’art.68 permette a Dario Fo di
distribuire a un vastissimo pubblico il repertorio di quel teatro politico d’attore
che contempla la più efficace performance rappresentativa di Mistero Buffo o di
Legami pure che tanto io spacco tutto lo stesso. Nel 1971 il fragile equilibrio
che reggeva la sinistra dell’ARCI e Fo si rompe, lasciando spazio alle inventive
ormai sganciate anche da qualsiasi rapporto col Partito Comunista. Dopo la
rottura con l’ARCI, Nuova Scena si trasforma nel circolo La Comune, nome
scelto per la storica esperienza parigina di autogestione proletaria. Il rifiuto del
circuito tradizionale sembra così rovesciarsi in immagini simbolo di perfetta
coincidenza tra il fare teatro e il fare politica: tra il formarsi di nuclei
rivoluzionari spontanei tesi a collegarsi in una rete organizzata e di luoghi
alternativi. Nel 1974 La Comune occupa la Palazzina Liberty di Milano e ha il
compito supremo di spiegare e tradurre in termini di persuasione rappresentativa
uno slogan: Non si paga, non si paga. Il rifiuto del circuito pubblico e privato
approda al completo risolversi dello specialismo estetico nel discorso
propagandistico. Ma gli indubbi successi degli spettacoli destinati a veicolare
questo discorso dipendono dalla presenzialità scenica di Fo e dal suo carisma:
rimandano a un antico teatro d’attore ben riciclato in sintonia con le attese delle
nuove folle sessantottesche. Il rifiuto del centro espresso da Strehler non era
diverso, e si era tradotto nel recupero della compagnia privata a totale gestione
registica. Un altro fenomeno contemporaneo sembrò addirittura voler cancellare
l’asse portante per eccellenza dell’arte teatrale: il suo consistere in eventi
organizzati per istituire una qualche forma di comunione tra organismi vivi.
Esplode sull’onda del ’68 quell’insieme di ricerche destinate a conglobarsi sotto
il termine di animazione, un modo di fare teatro senza autore, regista, copione,
palcoscenico ecc. Ciò indicava una maggiore partecipazione dello spettatore
liberato attraverso una serie di tecniche decondizionanti, spinto a sperimentare
attraverso modalità espressive diverse, la propria creatività, in una tensione di
partecipazione al lavoro collettivo che ha come traguardo una completa
socializzazione dell’individuo. La meta finale è la maturità umana e
intellettuale. Le iniziative spinte a confluire nei vari rivoli dell’animazione
nascono da esigenze e ambiti diversificati. Già dal 1960 nella scuola primaria si
erano manifestate tendenze pedagogiche le quali sostenevano l’utilità di guidare
i ragazzi a drammatizzare i dati del processo didattico, per riportare alla vita le
esperienze che si erano fissate nel linguaggio astratto. Nel ’65 Mario Lodi
aveva condotto una serie di esperienze dove la drammatizzazione assurgeva a
esercizio linguistico autonomo, in virtù del quale i bambini potevano parlare
delle proprie esperienze in termini spettacolari non dissimili da quelli cui
risultavano abituati: il risultato fu la grammatica nuova. Nel ’69 anche la
psicologia si interroga sulle mutazioni generazionali che vanno sconvolgendo i
panorami delle società contemporanee. Elvio Fachinelli presenterà uno dei testi
guida più discussi intorno all’animazione: Il Programma per un teatro
proletario di bambini. A simili proposte rispondevano Giuliano Scabia e
Franco Passatore, il quale conduce sistematicamente una serie di esperienze
tese a rovesciare l’ottica della convenzionale rappresentazione per i giovani, per
calare loro stessi nella realtà giovanile. Il rifiuto dei normali processi di
creazione scenica e l’incontro con il potenziale rappresentativo latente nel modo
di percepire infantile è scoperta di una teatralità rivoluzionaria in quanto tutta
risolta nel procedere insieme e ritorno alla pura ankè mitologico-sociale dello
sviluppo dello spettacolo. Il senso della parola teatro è quello di ampliarsi a
dismisura, fino a coincidere quasi con ogni momento di espressione
dell’esistenza umana. Il gruppo di Passatore e De Stefanis sceglierà di
intitolarsi “Teatro-gioco-vita”. Ci fu un ventaglio di proposte che si propone di
usare le tecniche rappresentative quali strumenti antropologicamente elementari
di una pedagogia tesa a liberare gli individui dai condizionamenti dei sistemi
neocapitalistici e a proiettarli verso una socialità insieme davvero comunitaria e
creativa. Nasce quindi la figura dell’animatore, che alcuni considerano non
immune dal rischio di strumentalizzazione, poiché la sua forza eversiva dei
valori tradizionalmente correnti potrebbe essere piegata a servire le istanze di un
campo industriale cui sembrano sempre più interessare lavoratori
intelligentemente attivi e partecipi. Il periodo della constatazione generale
presenta una singolare ricchezza di eventi scenici destinati a far storia, come Sir
e Lady Machbeth di Leo De Berardinis e Perla Peragallo, dove vengono
portate alle estreme conseguenze le linee di ricerca inaugurate, l’Amleto di
Shakespeare, che si fondava sul confronto agonico tra attore e teatro ormai
consegnatosi alle tracce dei fotogrammi filmici o del nastro magnetico. Leo e
Perla avevano affrontato la faticosa messinscena attraversando immaginario e
testo shakespeariani per mezzo di un dialogo di contrasto entro proiezioni
filmiche e deformazioni sonore affidate ai microfoni, onde stringere in unità le
componenti davvero necessarie di un autentico teatro-vita, con attori. Testo e
immagini proiettate nella prospettiva della provocazione intellettuale. Le scelte
espressive di Leo e Perla si indirizzano verso un linguaggio efficace per porre
in gioco “i segni velenosi che giorno per giorno ci scrivono addosso”, ma
nell’ottica di spremerne antidoti capaci di ricondurre lo spettatore al contatto
con l’immediatezza delle cose. Così denunciano l’emergenza di una nuova
attorialità, tesa a rendersi testimone del proprio tempo, e decisa a orbitare fuori
da usi antiquati del teatro inteso come mezzo. Contro l’estetica della
contemplazione convenzionale muove ancora nel ’69 L’Orlando di Sanguineti
e allestito da Luca Ronconi al festival di Spoleto con 45 attori. L’elemento
dominante è una festa corale, da piazza. In realtà il lavoro ronconiano nasce da
una rigorosa esegesi strutturalista del poema ariostesco e proprio le coordinate
spazio-temporali dell’opera autorizzavano il regista a proporre un equivalente
scenico del processo compositivo seguito dall’autore. Ne derivava il piano di
una organizzazione spaziale a molteplici fuochi e di un ritmo teatrale concepito
per immergere lo spettatore entro una pluralità di azioni tatticamente posizionate
per indurlo a muoversi con libertà tra le forme sparse del contesto spettacolare.
Si trattava di indurre nel pubblico atteggiamenti di partecipazione festiva simili
a quelli propiziati dall’impianto scenografico del dramma a stazioni medievale.
L’obiettivo cui tende la poetica di Ronconi comporta parole d’ordine che
sembrano appartenere a tutte le esperienze più significative fiorite attorno al ’68
e identifica il clima generale che ne favorisce il determinarsi. Il vissuto del
regista è strategia di forme concepite in funzione di una aisthetis in grado di far
vivere al pubblico, attraverso le risultanze di un profondo attraversamento
critico delle strutture testuali in cui si sia inverata. Così il viaggio che lo
spettatore è chiamato a compiere per vivere le stazioni espressive dell’Orlando
si configura in termini ben diversi da quelli di un altro percorso-emblema dello
spirito sessantottino: l’itinerario disegnato dal Camion di Carlo Quartucci, un
contenitore mobile di situazioni in parte reali e in parte fantastiche, veicolate e
condotte lungo le piste di un’Italia on the road. I percorsi dell’automezzo
fantastico di Quartucci disegnano una mappa del situazionismo assoluto cui
approda una teatralità senza teatro, dove l’attore-regista sceglie di essere puparo
e meccanico di una macchina mobile di labirinti, proposti per catturare e
sprigionare sedimenti ed energie dell’esistenza reale e del gusto ludico-
rappresentativo che dovrebbero appartenere tanto a lui quanto agli spettatori.
L’erranza di Camion si configura in forma di ideale corrispondenza ai tracciati
di una umanità di individui che sembrano errare alla ricerca inesausta di gesti e
terre in cui identificarsi senza mediazioni cerebralistiche e così l’avventura
stessa è conoscenza. È un fare teatro che non intende consistere nella quasi
statica compiutezza dei suoi prodotti, ma giocare in pieno l’azzardo di affidarsi
al confuso movimentismo del proprio prodursi tra tensioni aperte entro termini
estremi posti oltre le chiusure del palcoscenico.
Il Woyzeck di Cecchi sceglie di mantenersi allo stato fluido della prova
permanente, prende le distanze dalle attese di sala del pubblico consueto e si apre
a chi accoglie le dinamiche di un work in progress. La messinscena dell’opera di
Buchnerm nel ’69 resta sospesa al punto di squilibrio determinato dal suo
volontario esporsi in quanto viaggio verso un ignoto disponibile a svelarsi solo
mediante la perdita di tutto ciò che risulti inessenziale a esprimerlo. È proprio in
virtù di una simile rinuncia a concludere però che la prova teatrale può assumere
i tratti di una prova iniziatica valida a certificare il grado di necessità di una
determinata opzione creativa. Il Granteatro infatti ritorna a frequentare Woyzeck
nel ’72, posizionandosi ab initio per restituire i sensi ultimi del tragico
buchneriano a quello spettatore che quel conflitto lo conosce quotidianamente.
Anche l’ultima fase delle lunghe prove di lavoro va ben oltre l’esperimento del
’69, sino a coinvolgere un gruppo di operai immigrati del Lingotto torinese, che
daranno contributi alla ricerca di un linguaggio insieme aderente allo specifico
italiano contemporaneo. Ciò era per il Granteatro il superamento della tradizione
napoletana verso forme della tradizione del teatro popolare italiano. Dal primo al
secondo approccio con Woyzech, il teatro della contestazione esprime l’iter
esemplare di una ricerca condotta sul versante della lotta per la riconquista di
forme espressive entro cui possa tornare a scorrere l’energia di superstiti
tradizioni popolari. È una linea di tendenza che aveva trovato manifestazione
tanto proto tipica quanto fortunata con un ben diverso esperimento formale su
strutture attente ai moduli da cantastorie: Mistero Buffo di Fo è un collage di
monologhi, preceduti e intervallati da chiose introduttive, dove il solitario
protagonismo dell’attore-autore evoca figure e situazioni di un medioevo
costretto a testimoniare in favore della contemporanea lotta per la trasformazione
della natura e per la resistenza contro il potere. La lingua usata per il montaggio è
una re-invenzione, un idioletto di Fo, una koinè dialettale mutuata dalle parlate
medievali del Nord Italia, ricca di allitterazioni e perifrasi sinonimiche. Tutte
queste opere appartengono a un panorama culturale dove emergono ancora le
prime esperienze registiche di Giancarlo Nanni, Giuliano Vasilicò e dove
trovano modo di manifestarsi ulteriori ricerche di espressività scenica condotte
ben oltre il teatro di attore e di regia, come avviene in Sacco di Remondi e
Caporossi, che restituisce l’eterno raffronto tra vittima e carnefice nelle forme di
una rigorosa macchina di eventi sospesi tra assurdo e simbologico. Quella del ’68
fu una stagione assai fertile, con un manifestarsi di pluralismi di discorsi fondati
sulle ragioni autonome di un pensare e operare in termini teatrali, capace di
rendere anacronistica ogni possibile diatriba su crisi della drammaturgia. Si tratta
di saper scorgere il profilarsi di un contesto di cultura aderente alla viva
materialità della pratica rappresentativa e dei dilemmi estremi con cui deve
confrontarsi l’etica individuale e sociale che può concretamente riguardarla. A
partire dagli esordi di Carmelo Bene, una parte significativa del teatro italiano si
rivela disposta a scelte non dettate dalle leggi di mercato e sarà nel gruppo
dell’avanguardia. Le diverse risultanze espressive e le molteplici opzioni anche
sociali e politiche che ne derivano non sono proiettate verso il regno di utopia,
ma rispondono all’urgenza di realismo alternativo della Realpolitik appiattita sul
consenso. Accettano l’azzardo dell’errore poiché lo ritengono il prezzo da pagare
per far si che il teatro non scada a museo di ceree forme dello spettacolo pre-
industriale. La latitudine di erranza corrispondeva all’ampiezza delle oscillazioni
entro cui andavano avvitandosi a spirale le tensioni irrisolte della società italiana,
e quando esploderanno entreranno in cortocircuito le parallele linee-guida delle
devianze percorse dal nuovo teatro e dei vettori di fuga cui si affidano soggetti
storici trascinati a esorbitare dal complessivo sistema dei padri. Tutte le
articolazioni dovranno fronteggiare una rivolta che può essere giudicata in vari
modi, alla quale non si può disconoscere il tratto distintivo del più radicale
abbandono al diritto e al piacere dell’errore. Ci furono due conseguenze: il
potersi confrontare con un pubblico disponibile a verificarne le proposte e il
trovarsi ad agire in un contesto distinto dalla temporanea messa in sacco delle
istituzioni preposte a regolarlo. Tra le conseguenze ha un suo valore il fatto che
l’Italia abbia assunto il ruolo di stazione privilegiata lungo le rotte internazionali
della migliore ricerca teatrale contemporanea. Nel ’69 risultano ospiti il Bread e
Puppet americano, il Theatre du Soleil e altri, ma il ricorso a metodi spicci e a
decreti di espulsione nei confronti dei provocatori italiani e stranieri non è l’unica
risposta concepita per tutelare la coerenza di un sistema che sembra minacciato.
Anche taluni stabili decidono di modificare le proprie strutture gestionali in senso
rivoluzionario, come lo Stabile de L’Aquila che nel ’69 adotta un regime
assembleare: 3 assemblee ognuna con il compito di esprimere i componenti di un
comitato esecutivo il cui ha posto un abbonato. A partire dal 19 febbraio ’69 gli
studenti dell’Accademia avevano occupato la struttura per 55 giorni, fino a
quando il sottosegretario ricevette una delegazione di allievi. Lo statuto che
avrebbe dovuto sostituire quello del ’38 venne redatto ma mai messo in vigore.
Le sorti del confronto teatrale contestazione-norma si definirono lentamente
attraverso l’emergere di fattori tanto più deboli o forti quanto più o meno
dipendenti dalla necessità di inseguire tutte le implicazioni possibili e tutti gli
sviluppi estremi del movimento storico in atto. Nel panorama nazionale e
internazionale dopo il ’69 affiora la necessità di riflessioni e di scelte come quelle
manifestate dal Living, di infrangere ogni barriera tra attore e spettatore dentro il
cerchio del teatro per avventurarsi lungo strade che saranno quelle frequentate
dai soggetti protagonisti delle lotte sociali in corso. È necessario disseminare
negli angoli di ogni quartiere moduli e sequenze di azioni nel cui sviluppo la
posizione di privilegio conquistata dall’arte possa devolversi in sacrificio al
cammino della vita verso quella posizione. Solo così sarà possibile scogliere le
antinomie del rapporto tra rappresentazione e realtà. l’essere in comune auspicato
da Grotowski e quello cui si volge la tensione politica del Living dipendono
entrambi da intenti etici nobilissimi e vogliono rispondere a istanze essenziali da
non riguardare solo un limitato momento storico. Per rivendicare simili obiettivi
posizionano il fenomeno teatro in una dimensione dove è anche possibile
considerarlo come mera metafora o istituzione funzionale al sistema o di
vergognosa imitatio. Ciò dipende da preoccupazioni di polemica contro qualsiasi
forma di basso commercio dello spettacolo, ma il rifiuto delle specificità
artistiche della scena e il giudicarle tutte in funzione di un concetto di padronanza
dell’arte finalizzata solo al successo economico non testimoniano in favore della
pretesa necessità che la parola stessa teatro debba cadere. Valgono a segnalare
come gli impulsi al rinnovamento formale e strutturale e la ricerca di rapporti
qualitativamente altri con il pubblico debbano per forza esorbitare verso esiti di
prassi politica o ricerca antropologica che eludono il problema del miglior
equilibrio praticabile tra poiesis teatrale, società ed economia. Il che può produrre
frutti di grande interesse ma non contribuisce a chiarire quelle contraddizioni di
fondo tra anti-sistema e sistema. Quindi trovare un luogo dove risulti possibile o
attuare pedagogie che provochino l’insorgere dell’autentico interumano o
praticare espressività artistiche non convenzionali è il minimo comune
denominatore debole del ventaglio di esperienze che si agitano negli anni su cui
si estende l’ombra del ’68. È su questa ricerca che ognuna di tali esperienze si
trova costretta a puntare le chances della propria scommessa. Il diffondersi
dell’animazione si arena nelle ambiguità di fondo del fenomeno, a cominciare
dalla figura dell’animatore che oscilla tra il precariato più assoluto e una assoluta
subordinazione alle istituzioni committenti. Gli animatori sono spesso studenti e
neolaureati disoccupati, la cui preparazione è spesso improvvisata. Ma anche il
tentativo di Fo di mettere in piedi un autentico circuito alternativo senza
condizionamenti di distribuzione può considerarsi bloccato dall’impossibilità di
stringere rapporti positivi con le organizzazioni della sinistra tradizionale. E
l’utopia del teatro politico della Comune deve arrendersi alla necessità difensiva
di attestarsi in uno spazio facendo valere il proprio diritto ad appropriarsi di una
sede pubblica. Gli esiti conclusivi degli esperimenti per creare nuove forme
organizzative vanno verso quel modello formale di troupe-cooperativa cui
possono applicarsi le riflessioni di Fo, cioè che la nascita delle cooperative viene
da una trasformazione strutturale che si muove di pari passo alla formazione di
una diversa struttura economica e distruzione del capocomico che non aveva più
nessuna funzione organizzativa e amministrativa. La nascita delle cooperative
risponde a criteri di razionalizzazione di un segmento di libero mercato
prevalentemente imprenditoriali, e la posizione statale nei confronti di questa
novità va ricondotta ai moduli tattici di una strategia dei contributi ministeriali
che si configura in forme volte ad investire qualsiasi tipo di struttura profilatasi
nel frattempo. I teatranti pagano l’iscrizione alla gara sottoforma di tassa e lo
stato mette a disposizione un fondo da distribuire al traguardo della stagione con
una giuria che distribuisce i contanti. L’allestimento degli spettacoli quindi
subisce un nuovo tipo di censura preventiva. La cifra stanziata annualmente viene
ripartita sulla base dell’esito economico dei prodotti, i più tassati verranno
maggiormente finanziati. La politica delle sovvenzioni quindi è tutta mirata a
premiare scelte privatistiche tese all’incremento quantitativo degli spettatori e a
mantenere i gruppi di ricerca in un limbo di strettezze. Il panorama della
situazione post-sessantottesca sembrerebbe allettante perché si passa da 54 a 203
soggetti-sovvenzione e da 8.736 a 20.803 rappresentazioni. La realtà di fondo è
quella di una macchina dove il denaro dei contribuenti viene amministrato
secondo le regole di un gioco di interessi politici e distribuito come l’esca più
efficace a mantenere o attirare il maggior numero di addetti ai lavori
costringendoli a un regime di concorrenza coatta. Gli stabili degli anni ’70
evitano di identificare le loro sorti a vita con la linea creativa di un qualche
regista, preferiscono affidarsi temporaneamente a direttori artistici sui quali deve
pendere la decisione del licenziamento o per scarso successo o per eccessivi costi
di produzione. De Bosio nel ’68 preferisce lasciare per 3 anni le opzioni culturali
a un gruppo di lavoro segnato anche dall’orientamento avanguardista di
Bertolucci, poi viene scelta la linea di alternanze soggette agli umori delle
commissioni di partito. Il servizio pubblico si rivela disposto ad accogliere i
promotori del Nuovo teatro e gli alfieri di una recente inquietudine di ricerca
perché tutti ormai rappresentano solo sé stessi. Il contratto a tempo con singole
esperienze d’arte necessitate a trovar luogo entro strutture forti cui possono
accedere solo a seconda della compatibilità coi vertici politici. La forza di
coesione che aveva permesso il configurarsi di forme organizzative studiate per
superare gli specialisti alienati dai moduli produttivi tradizionali tende a
dissolversi. Il cammino intrapreso dall’interprete in rivolta sfocia in molte
diramazioni comunque segnalate dal cartiglio regia, come avviene nei casi di
Giancarlo Cobelli e di Massimo Castri, mentre i gruppi di ricerca tendono
soprattutto a identificarsi in quanto singolari propositori o di opzioni stilistiche o
di prospettive teatro logiche tali da declinare ogni possibile variante formale
dell’evento-spettacolo. Il complesso fenomenologico che si delinea chiaro verso
la metà degli anni ’70 è costituito dai vettori divergenti di parabole isolate che si
proiettano verso esiti artistici vari da caso a caso, abbandonati alla deriva dei
destini che possono toccare in sorte alle componenti strutturali di un teatro
organizzato solo in funzione di interessi inessenziali alle eventuali ragioni di
fondo della sua presenza entro qualsiasi contesto della viva cultura. Il gruppo di
base intende realizzare nella propria pratica una trasformazione da oggetti a
soggetti e assume lo specifico culturale come luogo di progettazione e
sperimentazione di rapporti sociali diversi, in cui si lotta per la conquista di un
rapporto tra individualità e socialità. Per questo si concorda sulla definizione di
uno specifico teatrale condiviso. Il pubblico attore che essi hanno contribuito a
suscitare crede di aver trovato il luogo per eccellenza dove sia possibile
conquistare positivi rapporti tra individualità e socialità. Ma lo specifico
individuato è solo l’impronta in cavo della volontà radicale di rifiutare qualsiasi
forma di rassegnazione a qualsiasi specialismo. Hanno rilievo morfologie entro le
quali non è difficile individuare l’esatto corrispettivo di talune istanze tese a
trascendere le chiusure estetiche del fare teatro. Già nel 1974 Eugenio Barba
aveva intrapreso un itinerario solo in apparenza coincidente con quello di
Grotowski, ma in realtà tale da porsi a mezza strada tra rifiuto e re-invenzione
della teknè scenica e dei suoi prodotti. Nel ’76 i percorsi di Barba e di alcuni
segmenti del gruppismo confluiscono per tracciare la mappa ipotetica del Terzo
teatro, che dovrebbe porsi oltre il bivio attorno a cui si organizzava e si divideva
quello degli anni ’60, dando spazio a una rivoluzione sociologica: il costume di
una continua produzione culturale di gruppo, ricerca solo apparentemente
separata che permetta scambio e integrazione culturale sulla base di scarti e
differenze fra individui. Oltre la strada maestra di un lavoro estetico costretto a
incanalarsi entro le strettoie del mercato e del sistema che ne determina le sorti
esisterebbe ancora la possibilità di posizionarsi nella prospettiva dello status
nascenti, di ritrovare le fonti di un teatro che sia scambio e integrazione culturale,
per rivivere in progress la grande storia dell’evoluzione creatrice dell’homo
ludens. Attualizzate questa speranza sarebbe la chance superstite del teatro
italiano giunto alle soglie dei tardi anni ’70. Carmelo Bene definisce il teatro
politico e che qualunque rivoluzione fallisce perché entra a patti con la
conflittualità e il teatro di quel tempo rifletteva l’Italia.

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