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La Ginestra o il fiore del deserto

La Ginestra è un poema di 317 versi endecasillabi sciolti suddivisi in sette strofe, composto da
Leopardi negli ultimi anni della sua vita e considerato il suo testamento spirituale, la summa del
suo pensiero filosofico e poetico.
Introduzione generale
1) In quale scenario naturale è stata composta La Ginestra? 2) Cosa rappresenta il Vesuvio per
Leopardi e qual è la differenza rispetto alla visione che ne avevano Goethe e Stendahl e più in
generale i viaggiatori europei del Grand tour? 3) Cosa rappresenta il fiore della ginestra? Di cosa è
il simbolo?

1) Leopardi compose La Ginestra negli ultimi anni della sua vita durante il soggiorno napoletano
presso Torre del Greco, ospite della magnifica villa dei conti Ferrigni, dalla quale poteva godere di
una splendida vista sul mare e sul monte Vesuvio: è questo lo scenario naturale che ispirò il
testamento spirituale della Ginestra, che è la summa poetica del pensiero filosofico di Leopardi.
2) Il Vesuvio rappresenta la potenza distruttiva e implacabile della natura, che travolge e
sommerge l’opera dell’uomo e tutti gli esseri viventi senza alcuna pietà; Leopardi, a differenza
degli intellettuali del Grand Tour che scrivevano le loro impressioni sul monte Vesuvio a distanza di
anni, compone la Ginestra con l’immagine del monte dinanzi agli occhi, dunque nella piena
consapevolezza della sua forza, della sua imponenza e della sua potenza devastatrice. Non c’è solo
il Vesuvio, ma anche la timida ginestra, il cui straordinario rigoglio si oppone alla forza
annientatrice, al nulla creato dalla lava del vulcano.
3) La ginestra è il simbolo della fragilità umana, dell’uomo che, pur nella sua sostanziale debolezza
e limitatezza, accetta il suo destino a testa alta, senza piegare il capo, con la stessa dignità con cui
il fiore del deserto attende la sua fine. La ginestra rappresenta tuttavia anche il mistero della vita
che si rinnova continuamente, che rinasce dalle ceneri del vulcano.

Prima strofa
1.La prima strofa si può suddividere in due parti: individuale e sintetizzane il contenuto. 2) Quali
sono gli elementi del paesaggio? C’è una contrapposizione tra loro?
1) Nella prima strofa i vv. 1-36 descrivono il paesaggio di rovine alle pendici del Vesuvio e poi delle
contrade di Roma dove fiorisce la ginestra, che con il suo profumo, segno di vita, si contrappone
all’aridità e alla solitudine di quei luoghi: essa abbellisce il paesaggio desolato, è compagna di
fortune abbattute (delle rovine delle antiche città romane), è gentile e mostra compassione per le
sciagure altrui. Dal v. 37 inizia la polemica nei confronti di quanti esaltano la condizione umana e
celebrano la civiltà e il progresso. Vengano costoro su queste pendici – li invita con amara ironia il
poeta – a constatare con i propri occhi quanto il genere umano stia a cuore alla natura amorosa, a
vedere in questi luoghi le magnifiche sorti e progressive. Chi crede nel continuo e inarrestabile
progresso dell’umanità, dice il poeta, venga qui a vedere come esso è in balia della natura. Il
confronto tra il paesaggio di rovina che caratterizza nel presente le pendici del Vesuvio e lo
splendore che contraddistingueva gli stessi luoghi al tempo dell’antica Roma, prima della terribile
eruzione vulcanica del 79 d.C., spinge a riflettere sulla fragilità della condizione umana, nonché
sulla indifferenza crudele della natura. Ed entrambe le cose fanno da contrasto con le ideologie
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ottimistiche dominanti tra i moderati fiorentini contro i quali in particolare Leopardi si scaglia in
questa parte del canto.
2) «Il paesaggio (distante anni luce da quello degli idilli, anzi decisamente antiidillico)» - commenta
Baldi «si suddivide in tre quadri: il «formidabil monte» in cui si concreta, cioè si materializza
l’immagine della potenza distruttiva della natura; le «erme contrade» intorno a Roma, immagine
di desolazione e di abbandono, che richiama l’azione corrosiva del tempo e il perire irrimediabile di
tutte le cose; le «ceneri infeconde» e l’ «impietrata lava», immagine di morte, oggettivazione
sensibile del destino delle creature, vittime della malvagia potenza della natura». Dall’altra parte,
in opposizione allo sterminator Vesevo e alla desolazione delle rovine dell’antico impero romano, si
staglia la ginestra, connotata positivamente: è «contenta dei deserti e li abbellisce; è sempre
compagna di afflitte fortune, è gentile, in opposizione alla spietata minaccia del vulcano;
commisera i danni altrui, consola la desolazione del deserto con il suo profumo. La ginestra assume
quindi un denso valore simbolico: come indicano gli attributi elencati, rappresenta la pietà verso la
sofferenza degli esseri perseguitati dalla natura».

Seconda strofa (polemica contro il secolo sciocco e superbo): agli intellettuali del suo tempo L.
rimprovera di aver abbandonata la via della ragione tracciata a partire dal Rinascimento per
abbracciare l’illusione consolatoria dello spiritualismo e della religione. Al secolo e alle sue scelte si
contrappone il poeta, fedele seguace del vero.

Terza strofa
1) Soffermiamo la nostra attenzione prima sui vv. 1-110 (la prima sequenza) e poi sui vv. 111-117:
qui Leopardi definisce la vera nobiltà spirituale ricorrendo al simbolo dell’uomo «di povero stato e
membra inferme». Chi è, cosa rappresenta e a quale altro modello viene contrapposto (vv. 1-110)?
In cosa consiste la vera nobiltà spirituale per Leopardi (vv. 111-125)? 2) Nella seconda parte (vv.
126-157) il modello della vera nobiltà spirituale passa dal piano individuale a uno collettivo: a suo
modo Leopardi propone una visione alternativa alle idee che combatte, la possibilità di un
progresso ben diverso da quello prospettato dalle ideologie dominanti del primo Ottocento.
Quale? Su quali valori si fonda?
1) L’uomo di povero stato e membra inferme è colui che saggiamente accetta la sua condizione e
non la nasconde a sé e agli altri, che non simula una ricchezza e una prestanza fisica posticce,
diventando così ridicolo e sciocco. Egli si comporta dunque con dignità solo se dichiara
apertamente la propria condizione e non si spaccia per ricco e prestante. Alla figura dell’uomo
infermo che accetta la propria condizione senza dissimularla, si contrappone colui che presume di
essere forte e nobile (magnanimo animale) e di questo si vanta, senza rendersi conto che basta un
minimo sussulto della Natura perché il suo orgoglio si vanifichi. In questa prima parte Leopardi
mette alla berlina, se così si può dire, il comportamento dominante nelle ideologie diffuse negli
anni in cui egli compone La ginestra: le felicità sconosciute (fati eccelsi e nove felicità) promesse
con insopportabile orgoglio (fetido orgoglio) dagli intellettuali coevi in innumerevoli scritti. Contro
tale orgoglio e contro tali promesse di felicità, Leopardi rievoca in sintesi alcune ragioni della
fragilità degli uomini: disastri naturali, epidemie. La vera nobiltà spirituale consiste nel «guardare
coraggiosamente in faccia il destino comune e nel dire il vero sulla condizione infelice ed effimera
del genere umano, mostrandosi forti nel soffrire e fraternamente solidali con gli altri uomini». È
dunque veramente nobile d’animo colui che riconosce apertamente e senza vergogna la verità
della propria condizione infelice, che si mostra grande e forte nel soffrire e non incolpa delle sue
disgrazie gli altri uomini, ma le attribuisce alla natura.
2) Dalla definizione di un atteggiamento dignitoso e nobile da parte del singolo individuo si risale
alla configurazione di un modello sociale collettivo, che porti tutti gli uomini a conoscere e a
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dichiarare l’infelicità della propria condizione, a definire l’ostilità della natura verso di essi, a
stabilire un’alleanza con gli altri uomini (la social catena) e a soccorrersi scambievolmente nei
bisogni ora dell’uno ora dell’altro.
Pertanto «alla falsa idea di progresso diffusa dalle ideologie ottimistiche del suo tempo e, che
consisteva nel mito di una nuova età dell’oro garantita dalle riforme politiche e dalle conquiste
tecnologiche, che avrebbero assicurato la pace, l’abbondanza dei beni materiali e il dominio sulla
natura, contrappone quello che è per lui il progresso autentico, di tipo civile e morale: se gli uomini
avessero coscienza della loro infelicità e della loro miseria e del fatto che la responsabile di ciò è la
natura, sarebbero indotti a coalizzarsi contro la loro impalcabile nemica. Questo rinsalderebbe i
legami sociali, la social catena: invece di combattersi e sopraffarsi a vicenda, per egoismo e
avidità, come sempre fanno, essi unirebbero le loro forze contro la natura. Il bisogno di lottare
contro di essa indurrebbe alla solidarietà reciproca, alla fraternità. Di qui nascerebbe «vero amor»
tra gli uomini, ma anche giustizia e pietà, rapporti civili onesti e retti». È un progresso, quello
prospettato da Leopardi, che non assicurerebbe la felicità agli uomini (il poeta continua a escludere
la felicità anche nella Ginestra), ma garantirebbe una società più civile e più giusta, in cui gli uomini
non sarebbero più aggressivi gli uni contro gli altri come le belve. (Baldi p. 601 ad loc. )

Quarta strofa
1) La quarta strofa si può suddividere in due sezioni: nella prima, dal v. 158 alla metà del v. 185 lo
sguardo del poeta si sofferma ancora sul paesaggio desolato dell’arida schiena del Vesuvio per poi
protendersi in una duplice direzione. Quale e qual è l’esito di tale contemplazione meditativa? 2)
Nella seconda parte Leopardi critica quale convinzione radicata negli intellettuali e più in generale
nell’uomo del suo tempo (considera i vv. 187-198)? Di cosa non si rendono conto e di cosa invece
si illudono?
1. Dalle pendici desolate del Vesuvio il poeta alza lo sguardo al cielo trapunto di stelle che brillano
nella notte serena (prima direttrice): a questo punto l’occhio di Leopardi sembra sdoppiarsi per
guardare non solo dalla terra al cielo ma anche nella direzione inversa, prima dal punto di vista
delle stelle, poi, con una dilatazione di respiro cosmico, delle remote galassie che agli uomini
sembrano «nebulose». Dalla doppia visione (che tanto ricorda certe meditazioni dello Zibaldone e
lo stesso Infinito) scaturisce la riflessione sulla relatività delle cose: piccolo e grande, vicino e
lontano non sono dimensioni assolute; se le stelle paiono minuscole allo sguardo che le osservas
dalla terra, sarà a sua volta la terre – rovesciando il punto di vista – ad apparire dalle stelle come
un «punto». L’esito di questa meditazione cosmica, frutto della contemplazione di uno spettacolo
astronomico che sembra osservato attraverso il cannocchiale di Galileo, è espresso dalla domanda
finale al v. 185: al pensier mio, cioè alla luce di questa meditazione, cos’è l’uomo se non un punto
insignificante, un nulla nell’immensità del tutto?
2. Pur essendo minima parte sulla terra che è a sua volta minima parte di un sistema solare
sperduto e ignoto tra infiniti altri, l’uomo pretende di essere il centro del creato e di avere ricevuto
spesso visite dagli dei creatori; e continua a pretendere ciò anche dopo una stagione, come quella
del razionalismo tra Cinquecento e Settecento, che sembrava aver liberato per sempre la civiltà da
questi «sogni». Il mistero spaventoso della grandezza dell’universo non spinge Leopardi a vedere la
necessità di una divinità creatrice; al contrario, diviene al dimostrazione della solitudine e della
marginalità dell’uomo. Pertanto, accanto alla vena antireligiosa, la quarta strofa della Ginestra
presenta una contestazione della mentalità antropocentrica di gran parte dei sistemi di pensiero
esistenti, in particolare, nell’epoca della Restaurazione, tra il provvidenzialismo cattolico e
l’idealismo laico. «L’idea dell’infinita piccolezza dell’uomo offre lo spunto per una ripresa della
polemica contro le posizioni religiose, che favoleggiano sull’uomo assegnato come signore e fine
dell’universo e sulle divinità che scendono sulla terra a conversare piacevolmente con gli uomini».
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Quinta strofa
1) La parte più ampia della quinta strofa è occupata da una similitudine: individuala (dal v. x al v. y)
e spiega in cosa consiste. 2) Qual è la conclusione che il poeta trae dalla similitudine e qual è il
rapporto con il contenuto della strofa precedente?
1) La quinta strofa si apre con un’ampia similitudine, che rafforza la tesi esposta nella strofa
precedente: la caduta di un frutto giunto a naturale maturazione distrugge un formicaio allo stesso
modo in cui un’eruzione vulcanica, prodotto di fenomeni geologici che si sottraggono al controllo
umano, è in grado di devastare le floride costruzioni realizzate dal paziente lavoro degli uomini.
Tutto rientra nel perpetuo ciclo di rinascita e morte che regola il sistema naturale: trova dunque
conferma il principio – già asserito nello Zibaldone, in molte Operette morali e nel Canto notturno
del pastore errante – secondo il quale il mondo non è fatto per l’uomo. La prospettiva
antropocentrica, dopo essere stata messa in crisi a cospetto della vastità del cosmo, viene qui
verificata attraverso un esempio che ricade sul terreno dell’esperienza pratica (il frutto che giunto
a maturazione cade dall’albero e senza volerlo annienta un formicaio, la lava del Vesuvio che
devasta intere città e le distrugge, città che diventano pascolo per le capre, a testimonianza del
perpetuo alternarsi di vita e morte, produzione e distruzione proprio del meccanismo della natura).
2) Secondo il poeta i due eventi sono sostanzialmente simili: la diversa grandezza non implica
infatti una diversa importanza, se non nell’ottica specifica dell’uomo, mentre la diversa frequenza
(la morte è un evento più frequente tra le formiche che tra gli uomini) ha ragioni tutte materiali e
naturali: l’uomo si riproduce con più lentezza delle formiche (il genere umano è meno soggetto alle
stragi solo perché meno numeroso rispetto alle formiche, ma non per questo più caro alla Natura).
Il legame con la strofa precedente è dato dalla polemica contro la visione antropocentrica, come
attesta il paragone con le formiche: l’uomo è assimilato a un insetto minimo e insignificante, che se
vogliamo ha lo stesso valore del «punto» della quarta strofa. Crolla l’idea che l’uomo sia un essere
«speciale», a cui Dio ha affidato il compito di dominare la natura e tutte le sue creature: in realtà,
l’esperienza concreta – la sorte del formicaio schiacciato dal pomo e quella delle splendide città
romane travolte dalla tempesta infuocata di cenere, di lapilli e di lava eruttata dallo sterminator
Vesevo – insegna l’esatto contrario. L’uomo è una creatura minima, fragile, esposta ai colpi di una
natura nemica e matrigna.

Sesta strofa (la potenza distruttiva del vulcano come prova concreta dell’indifferenza della
natura alle sorti dell’uomo): ancora oggi, il contadino sorveglia il vulcano, fugge quando il fiume di
lava si avvicina e lo contempla mentre ricopre inesorabile la sua casa e il suo campo, esattamente
come milleottocento anni fa distrusse templi, case e palazzi. La natura è sempre quella,
immutabile; eppure l’uomo crede di essere eterno.

Settima strofa
1) Il canto si chiude ad anello. Perché? 2) Sintetizza il contenuto della strofa. 3) Individua tutti gli
aggettivi e in generale le espressioni con funzioni attributiva riferite alla ginestra e spiegane il
significato: a) quali sono le analogie tra la ginestra e la condizione umana? b) quali sono le
caratteristiche salienti del fiore e di cosa esso è il simbolo (o allegoria moderna come direbbe il
critico R. Luperini)?
1) Il canto si chiude ad anello, perché il poeta ritorna all’immagine iniziale della ginestra e del
paesaggio brullo e arido delle pendici del Vesuvio.
2) La ginestra, che abbellisce i luoghi desolati con i suoi cespugli profumati, sopraffatta di nuovo
dalla lava, piegherà il capo senza opporre resistenza, accettando con umiltà e dignità il proprio
destino, senza prostrarsi a implorare il suo futuro oppressor, cioè la lava del vulcano, di
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risparmiarla, o a ergersi orgogliosa di sé, volgendo il capo alle stelle (dunque convinta di avere
origine da Dio) oppure verso il deserto (come se lo dominasse [il capo è eretto verso le stelle, se si
presume una propria origine divina, ed eretto sopra il deserto, come se lo si dominasse, secondo
orgoglio che discende dal primo]).
3) La ginestra è flessibile (lenta), capace di adeguarsi e di sopravvivere in un ambiente ostile,
dunque capace di tener testa se vogliamo alla Natura nemica, ma senza l’atteggiamento di
superbia e di orgoglio che è proprio invece della specie umana; è profumata e bella, abbellisce e
profuma i luoghi segnati dalla distruzione e dalla morte, offrendo un contributo positivo alla
difficile situazione nella quale è stata posta dal destino; davanti alla forza devastante della lava
che la annienterà, la ginestra si comporterà con una dignità sconosciuta all’uomo: cederà (non
renitente, senza opporre resistenza; renitente deriva dal latino renītens -entis, part. pres. di reniti
«resistere, contrastare», e significa che oppone forte resistenza), benché innocente (cioè senza
colpa, dunque implicitamente non meriterebbe tale destino) alla forza che l’annienterà; e tuttavia
non commetterà un atto di viltà – tipica invece degli uomini – implorando pietà proprio da quella
forza, né tenterà di consolarsi con folli affermazioni di immortalità, sia che si fondino sulla fede
religiosa nell’aldilà (innalzamento verso le stelle), sia che si basino invece sulla fiducia laica (ma
parimenti infondata) nella capacità dell’uomo di procurarsi da solo, per mezzo dei valori culturali,
una durata oltre la morte e attraverso il tempo (innalzamento sul deserto: quest’ultimo caso è
quello invece fatto proprio da Foscolo nei Sepolcri). a) La ginestra è simile all’uomo per due aspetti
essenziali: al v. 117 lo stato dell’uomo è detto basso e frale, allo stesso modo le stirpi della ginestra
sono frali ed essa è un cespuglio di basso fusto. Essa si differenzia tuttavia dall’uomo, perché è più
saggia e meno inferma, in quanto non si crede immortale e, di conseguenza, non si inorgoglisce
della propria condizione, né davanti al cielo né nei confronti dei suoi simili sulla terra, ma neanche
supplica la morte perché la risparmi. Non resiste, non si umilia, non si innalza: si limita a vivere, in
attesa della morte inevitabile. Il senso della sua vita sta nell’offerta di colore e di profumo, di
bellezza e di vita, in un luogo desolato e arido, un po’ come la letteratura e la poesia. La ginestra si
carica dunque di una doppia valenza simbolica (o allegorica): da una parte è il simbolo/allegoria di
un modello di comportamento che Leopardi addita a sé e agli altri uomini, dall’altra è una
concretizzazione simbolica di una forma di poesia, quella incentrata sulla bellezza e sulla riflessione
filosofica, cioè quella di Leopardi, in un mondo, quello del secolo superbo e sciocco, che la ritiene
inutile o scomoda, non in linea con i tempi (ricordiamoci che all’epoca di Leopardi domina il genere
della lirica patriottica e religiosa: basti pensare alla produzione lirica di Manzoni che percorre
proprio questi due filoni, con gli Inni sacri e i componimenti di ispirazione patriottica in sintonia con
il clima risorgimentale come Marzo 1821).

Temi fondamentali
1a. Il fiore Il primo tema fondamentale è costituito proprio dal fiore della ginestra, al quale
della Leopardi attribuisce una valenza simbolica o meglio allegorica, come sostiene il
ginestra critico R. Luperini. Per capirlo, partiamo dall’analisi del titolo composito e, alla luce
di quanto abbiamo desunto dalla lettura del testo, proviamo a rispondere alla
seguente domanda: quali immagini forti, di potente significatività evocano il titolo
e il sottotitolo?
Il titolo e il sottotitolo evocano due immagini forti, di potente significatività: da un
lato il fiore della ginestra, con la sua forza cromatica (il giallo), il suo profumo, il suo
attecchire su terreni scoscesi e impervi, la sua umile resistenza alla furia
devastatrice della Natura; dall’altro il deserto, qui rappresentato dalla falde laviche
del Vesuvio, proiezione fisica del nulla dell’esistenza, della solitudine cosmica. Sia il
vulcano sia il fiore non sono pure metafore o proiezioni dell’immaginazione, ma
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sono figure reali scaturite da un hic et nunc, da un qui e ora, esplicitato con forza
dall’attacco (qui sull’arida schiena …) e ribadito a intervalli più o meno regolari nel
corso del canto (Or ti riveggo in questo suol al v. 14; «questi campi» vv. 17 ecc.). La
scena che il poeta ha di fronte è quella di un paesaggio concreto, fissato e letto
entro precise coordinate geografiche e stratificazioni storiche (il villanello che cerca
di sottrarsi alla furia del vulcano, oggi, e ieri Pompei sommersa dalle ceneri dello
sterminator Vesevo). Nello stesso tempo, però, questo paesaggio è l’allegoria
moderna della verità e della vanità delle umane aspirazioni: un paesaggio
«petroso», arido e desolato traduce in maniera concreta il pensiero della nullità
delle cose e rende visibile la vittoria della Natura sulla Storia (la Natura «ognor
verde», che perennemente sta, grazie all’eterno circuito di produzione e
distruzione, contrapposta ai popoli, alle lingue e agli imperi che cadono
inesorabilmente, che sono destinati a scomparire).
1b.Il Secondo il critico R. Luperini nella Ginestra Leopardi, rappresentando un paesaggio
paesaggio brullo e desolato, una natura ostile ravvivata soltanto dal calore del giallo della
del Vesuvio ginestra, vuole in realtà tentare un nuovo metodo di ragionamento, un nuovo
come percorso di ricerca della verità, riconducibile alle procedure dell’allegoria
allegoria moderna. Per capire il significato di tale considerazione, chiediamoci: a) cos’è
morderna un’allegoria? b) chi l’ha utilizzata prima di Leopardi, in che modo e a che scopo? c)
cosa c’è di allegorico nello scenario naturale della Ginestra? d) in che senso tale
allegoria è moderna? Che uso ne fa Leopardi?
a) L’allegoria (dal gr. ἀλληγορία, comp. di ἄλλος «altro» e tema di ἀγορεύω
«parlare», dunque parlare in modo diverso) è una figura retorica per cui un
concetto astratto (ideale, morale, religioso, politico) viene espresso attraverso una
serie di immagini concrete alle quali l’autore ha attribuito un significato metaforico.
Rispetto alla metafora e al simbolo, tuttavia, l’allegoria presenta due tratti distintivi:
il processo che permette di decodificare, cioè di interpretare l’allegoria è di tipo
razionale e intellettualistico, non intuitivo né immediato. Così, per es. mentre si
intuisce che la volpe è simbolo della furbizia (perché una lunga tradizione
antropologico-culturale la identifica come tale da millenni), per capire che la lupa
dantesca rappresenta il peccato dell’avarizia o avidità è necessario fare un
ragionamento, riflettere sul possibile legame tra l’elemento concretamente
rappresentato e descritto dal poeta e la valenza simbolica che quest’ultimo ha
deciso di attribuirgli; b) la relazione che si viene a stabilire tra particolare e
universale nell’allegoria non è di tipo assoluto (la lupa non sarà sempre e
comunque il simbolo dell’avarizia, il leone dantesco potrà anche essere il simbolo
della forza violenta, e non solo della superbia, mentre la volpe sarà sempre e
comunque il simbolo della furbizia), ma relativo e culturale, cioè verificabile in ogni
specifica circostanza e suscettibile di discussione critica, discussione che si sviluppa
nel processo dell’interpretazione. c) L’allegoria per antonomasia nella letteratura
italiana è la Commedia dantesca nel suo complesso: l’uomo Dante non è altri che
l’allegoria dell’umanità intera che compie un viaggio di espiazione e redenzione dal
peccato che si conclude con la contemplazione della gloria celeste (nel mezzo del
cammin di nostra vita mi ritrovai); oltre a questo, occorre sottolineare come nella
Commedia ogni aspetto della realtà concreta del mondo oltremondano, dalla
pioggia di fango che tormenta i golosi del sesto canto dell’Inferno all’aurora con cui
si apre la seconda cantica del Purgatorio, è reale e al contempo rinvia a una
dimensione ulteriore di natura simbolica; il legame tra la realtà concreta descritta e
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vissuta dal poeta e la valenza simbolica è di natura allegorica, poiché richiede un


ragionamento, una discussione e uno sforzo interpretativo per essere
correttamente identificato. D) Cosa c’è dunque di allegorico nello scenario naturale
della Ginestra leopardiana? In cosa consiste il percorso di ricerca di senso messo in
atto da Leopardi in questo suo ultimo canto? Come in altri canti – pensiamo alla
Quiete dopo la tempesta, alla Sera del dì di festa e soprattutto al Cantico notturno
di un pastore errante d’Asia – anche qui troviamo delle descrizioni, fondate
sull’esperienza e su particolari materiali verificabile anche da altri (Leopardi
descrive un paesaggio concreto come attestano peraltro i deittici, le indicazioni di
luogo, non immaginario);è in queste descrizioni che il poeta trova la risposta a
quelle domande che il pastore, protagonista del Cantico notturno, aveva posto alla
luna silenziosa: lo scenario naturale delle pendici del Vesuvio,allegoria della
condizione umana, smentisce la concezione ottimistica e la fiducia nel progresso
dominanti; la visione dell’universo e della sua immensità, scaturita dalla
contemplazione del cielo stellato, suggerisce la piccolezza e la marginalità
dell’uomo nel cosmo, rendendo improbabile e assurda la fiducia che una qualche
divinità si occupi di lui; la persistenza delle eruzioni vulcaniche anche nel presente
(il villanello che tenta inutilmente di sottrarre sé e la propria famiglia dalla furia
della lava devastatrice) smentisce l’idea di progresso, e suggerisce una visione
della natura nemica contro la quale gli uomini dovrebbero allearsi nella social
catena rifondando la civiltà sui valori di solidarietà onestà e giustizia.
2.La visione Un altro tema fondamentale è la visione della natura: a) da quali elementi è
della natura rappresentata? b) come viene concepita dal poeta? In sintonia con la visione
espressa altrove, per es. nelle Operette morali e nel Cantico notturno, oppure no?
La natura è qui rappresentata dal vulcano e dalla sua potenza distruttiva: essa è
«madre di parto e di voler matrigna» (v. 125), ci à cioè la vita come una madre, ma
non ci ama (un concetto simile era stato espresso da Leopardi nel Dialogo tra la
Natura e un Islandese e nel Cantico notturno), non vuole il nostro bene, come la
matrgna delle favole. Il suo «voler», cioè le sue finalità, i suoi scopi non coincidono
con quelli degli uomini, perché nel sistema della natura l’uomo (il cui obiettivo è la
ricerca della felicità) non è che un minuscolo ingranaggio non indispensabile al
funzionamento generale. La morte, soprattutto, che procura agli uomini così tanto
dolore, è necessaria alla perpetuazione della vita in generale. Non a caso la Natura
ha la meglio sulla Storia: mentre le opere dell’ingegno umano sono destinate a
consumarsi, a sfiorire, sono effimere, benché sembrino eterne (Pompei, l’impero
romano e simili), la Natura è «verde ognor». La forza della natura consiste nella sua
durata, nella lentezza delle sue trasformazioni, e perciò nell’indifferenza al breve
respiro delle vicende umane: sulle rovine delle grandi città romane devastate dalla
furia del vulcano «pasce la capra». Attraverso questa immagine potente della
natura nemica che «procede per sì lungo cammino / che sembra star», cioè che
sembra eterna mentre la vicenda umana è breve ed effimera (caggiono i regni
intanto, passan genti e linguaggi), Leopardi invita i suoi contemporanei a riflettere
sul fatto che le leggi materiali (le bronzee leggi della natura nel suo ciclo perpetuo
di produzione e distruzione, di vita e di morte) sono superiori alle condizioni
storiche (che prima o poi tutto ciò che è umano è destinato a finire, perché l’uomo
non è altro che un minuscolo ingranaggio della macchina della natura), che l’uomo
è quindi subordinato alle forze della natura, che dominarle, piegarle a proprio
favore in nome del progresso, è una pia illusione: a testimoniarlo bastano le
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imponenti rovine di Pompei e la schiena arida del monte Vesevo.


3. La Il terzo tema fondamentale è costituito dalla polemica nei confronti delle
polemica nei «magnifiche sorti e progressive», cioè della fiducia illimitata nelle potenzialità di
confronti progresso umane professata da molti intellettuali coevi (soprattutto quelli
delle dell’Antologia di Viesseux che Leopardi ebbe modo di frequentare), e del secolo
«magnifiche sciocco e superbo. In particolare Leopardi si sofferma sulle contraddizioni del
sorti e pensiero liberale del suo tempo. Il liberalismo (un movimento filosofico e di azione
progressive» politica che riconosce all’individuo un valore autonomo [liberalismo= che riconosce
e del secol la libertà dell’individuo] tende a limitare l’azione statale in base a una costante
“superbo e distinzione di pubblico e di privato. Dal punto di vista storico il liberalismo nasce
sciocco” come ideale che si affianca all'azione della borghesia nel momento in cui essa
combatte contro le monarchie assolute e i privilegi dell'aristocrazia a partire dalla
fine del XVIII secolo. [da Wikipedia ed Enciclopedia Treccani s.v.]), nell’Italia della
Restaurazione, era stato filtrato in gran parte dalla cultura cattolica. Il cattolicesimo
liberale, nato in Francia e diffusosi in Italia attraverso l’Antologia di Viesseux,
criticava le monarchie assolutistiche rivendicando il diritto ad alcune libertà
fondamentali dell’individuo, come quelle di stampa e di espressione, di libera
impresa, e soprattutto di professione di fede religiosa (la fede, secondo i liberali
cattolici, doveva trascinare l’umanità mettendo a proprio servizio la ragione). Il suo
obiettivo pratico, era, di solito, un costituzionalismo moderato (una forma di
governo fondata su una costituzione condivisa da un parlamento e da un monarca)
e cautamente riformista, non certo una rivoluzione sociale a vantaggio dei ceti
popolari (del resto i cattolici in Italia erano per lo più di estrazione nobiliare o alto
borghese). In contrasto con l’Illuminismo, i cattolici liberali si rifiutano di riproporre
il primato della ragione, che doveva invece essere, secondo i cattolici moderati,
subordinata alla fede (rovesciando l’assunto fondamentale della filosofia illuminista
che pone la ragione al di sopra di tutto); in quanto cattolici essi credono in una
visione provvidenziale della storia per cui ogni evento ha una giustificazione
superiore, spesso inconoscibile, nella volontà divina (pensa ai Promessi sposi: la
sofferenza dei due protagonisti non è insensata, ma ha una sua ragion d’essere
nella provvidenza divina; nel suo cammino di redenzione da Milano all’Adda Renzo
riconosce i segni della Provvidenza: il ricovero offertogli da una misera capanna
sulla riva del fiume è interpretato come un segno della volontà superiore che vuole
il suo bene e la sua salvezza ); a ciò si aggiunge un’incrollabile fiducia nelle
possibilità dell’uomo di migliorare sempre la propria condizione grazie al progresso
delle conoscenze scientifiche (debellare le malattie attraverso la somministrazione
di vaccini) e tecniche (il treno, le macchine nella produzione industriale e agricola,
meccanizzazione del lavoro), che hanno indubbi risvolti sociali (emancipazione
delle classi inferiori dalla povertà). La polemica di Loepardi si appunta proprio su
questi due aspetti: a) la subordinazione della ragione alla religione, che egli
considera come un regresso rispetto al razionalismo dei secoli precedenti; b) l’idea
ottimistica di un progresso infinito e soprattutto l’illusione che l’uomo può
dominare la natura e plasmarla e piegarla per i suoi fini, quando è vero l’esatto
contrario come attestano le aride pendici del Vesuvio e le rovine di Pompei; c) la
visione antropocentrica per cui tutto ciò ce esiste in natura è finalizzato al solo
interesse e benessere dell’uomo; è vero il contrario, perché la natura è nemica, non
si cura dell’uomo, è indifferente al suo destino.
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4.La social Nella quarta strofa della Ginestra possiamo individuare una svolta fondamentale
catena del pensiero leopardiano. Nelle precedenti opere in cui polemizzava contro
l’ottimismo progressista dei suoi tempi, Leopardi si limitava a posizioni critiche e
negative, a distruggere i miti ingannevoli degli avversari. Qui invece propone con
vigore una parte costruttiva, una sua alternativa alle idee che combatte» (Baldi, ad
loc., p. 600). Di cosa si tratta? Qual è l’utopia che Leopardi immagina in questi
versi?
Oltre all’aspetto critico-negativo che abbiamo esaminato nel terzo aspetto, La
ginestra propone a noi, oggi, anche un valore positivo: il valore della solidarietà.
Anche questo valore nasce nel clima della filosofia dei Lumi e nello spirito che
aveva animato la Rivoluzione francese. Nell’utopia di Leopardi, la social catena che
unisce tra loro gli uomini di ogni classe e condizione non è solo uno scudo contro
l’ostilità e l’indifferenza della natura, ma anche un’alternativa al modello borghese
e liberale che mette ogni uomo in competizione con il prossimo e fa della lotta per
l’autoaffermazione il motore della società.

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