La cultura di Svevo
I maestri di pensiero
Il pensiero di Svevo fu influenzato da tre filosofi: per primo Schopenhauer, che affermava un pessimismo radicale
indicando come unica via di salvezza dal dolore la contemplazione e la rinuncia; in seguito Svevo conobbe
Nietzsche, da cui poté trarre l’idea del soggetto come pluralità di stati in fluido divenire; per ultimo ebbe come
riferimento Darwin, l’autore che professava i concetti di “selezione naturale” e di “lotta per la vita”.
I rapporti con il marxismo e la psicoanalisi
La sua breve simpatia per il socialismo lo portò per un certo periodo a conformarsi con il pensiero marxista, da cui
trasse la chiara percezione dei conflitti di classe e la consapevolezza che tutti i fenomeni, compresa la psicologia
individuale, sono condizionati dalle realtà delle classi: ciò significa che la nostra psiche è tale perché è collocata in
un certo contesto.
Del marxismo però non condivise le concrete proposte politiche come la dittatura del proletariato e la
collettivizzazione, ma preferì prospettive di tipo utopistico.
Della psicoanalisi, invece, lo interessavano le tortuosità della e le ambivalenze della psiche profonda: Svevo non
apprezzò però la psicoanalisi come terapia, perché la riconosceva solo come strumento conoscitivo e letterario,
capace di indagare la realtà psichica.
I maestri letterari
Sul piano letterario gli autori che più lo influenzano sono i romanzieri realisti francesi dell’Ottocento, Balzac,
Stendhal e Flaubert. In particolare da “Madame Bovary” di Flaubert prende il “bovarismo” (= la maniera
impietosa di rappresentare la miseria della coscienza del piccolo borghese) e lo applica ai personaggi sveviani: per
esempio il bovarismo è un tratto caratterizzante dei due eroi dei suoi primi due romanzi (Alfonso Nitti e Emilio
Brentani).
Influenze minori arrivarono anche da altri autori, come Zola (romanziere naturalista), Bourget (romanziere
psicologico), Dostoievskij, che si addentra nella psiche, Swift e Dickens (umoristi inglesi) e infine il già citato
Joyce.
T2 Il ritratto dell’inetto
Sono le pagine iniziali del romanzo, da cui emerge già con chiarezza la fisionomia del protagonista.
È il brano in cui Emilio insiste nel chiarire con Angiolina che le sue intenzioni non sono serie e che i due
dovrebbero procedere cauti: la menzogna si sviluppa su due livelli: 1) Emilio adduce come scusa di non potersi
impegnare seriamente con la ragazza per i doveri a cui è legato; 2) mente anche a sé stesso per motivare il
proposito di non intrecciare un legame serio citando “famiglia” e “carriera”. Infatti quella che lui considera
famiglia è la convivenza con la sorella, mentre la carriera non è che un “modesto impieguccio”.
Nel brano Angiolina viene descritta come “il volto illuminato dalla vita”, “raggiante di gioventù e bellezza”,
caratteristiche che non corrispondono alla reale donna, ma filtrate dalla prospettiva di Emilio che trasfigura la
ragazza in simbolo.
Questa idealizzazione di Angiolina viene assunta da Emilio come antidoto alla sua “senilità”, sentita come una
vera e propria malattia: l’opposizione malattia-salute è del personaggio, non dell’autore, e non è che un sogno
evasivo come tanti altri.
La narrazione è etero diegetica e il narratore non si eclissa, anzi, interviene frequentemente a giudicare e
commentare, anche con un sarcasmo eloquente.