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OPERE DI VERGA

Le opere di Verga possono essere divise in 3 diversi periodi (anche se Croce sostiene il contrario poiché le
opere di Verga contengono sempre questo realismo/verismo):

Il primo periodo è ancora legato al Romanticismo, infatti siamo alla fine dell’800 e Verga subisce
l’influenza appunto del romanzo romantico (legato a motivi politici); come dice Croce, in questi romanzi,
pur essendoci la storia del Risorgimento, motivi legati alla patria, alla politica e motivi amorosi, ci sono
sempre personaggi che sono VINTI, subiscono qualcosa e ne pagano le conseguenze, avvertono una
sconfitta interiormente e lottano per la vita (quindi anche se consideriamo 3 periodi in realtà i personaggi di
Verga sono sempre sconfitti, in tutti i suoi romanzi).

Il secondo periodo rappresenta il momento in cui i personaggi vivono delle storie particolari, per esempio
l’opera più riuscita tra queste è “Storia di una capinera”: narra la storia di una ragazza costretta a
monacarsi, a prendere i voti contro la sua volontà. Sono storie torbide, i personaggi subiscono, tuttavia qui
il ceto sociale che fa sfondo è ancora legato all’aristocrazia e alla borghesia. Verga solo nel 1874
comincerà ad avvertire il distacco dal Romanticismo, dal mondo borghese e aristocratico e c’è la svolta
verso il Verismo; infatti poi diverrà anche amico di Capuana (teorico del Verismo) e leggerà le opere di Zola.
Prima di giungere al terzo periodo, cioè quello verista a tutti gli effetti, dobbiamo ricordare che
l’attenzione di Verga verso i ceti umili vien appunto anche dalla lettura dell’Assomoir di Zola (l’Assomoir è
il 7° romanzo del ciclo dei Rougon-Macquart, infatti la protagonista, Gervasia, apparteneva alla famiglia
Macquart, e il titolo significa “ammazzatoio”; Assomoir era il nome di un’osteria nella quale si rifugiavano
tutti coloro i quali vanno ad annegare nell’alcol tutta la loro miseria, disperazione. Chiaramente è un
ambiente fatto di persone umili con una condizione economica particolare dunque si danno all’alcol, sono
personaggi vinti). Sarà proprio questo romanzo di Zola che darà a Verga la svolta, c’è il passaggio dal ceto
borghese-aristocratico all’analisi del ceto più umile.
Nel 1874 Verga si rende conto che ormai deve avvicinarsi in pieno al Verismo con storie che analizzano la
realtà circostante: la novella “Nedda” segna questo passaggio (Nedda era una bracciante che lavorava
duramente per dar da vivere alla madre malata, poi si sposa con un giovane di cui era innamorata e avrà
una bambina; tuttavia la mamma muore e anche morirà cadendo da un albero e morirà anche la bambina,
dunque vediamo come Nedda tenta di migliorar la sua condizione ma avvengono diverse disgrazie, è la
figura della donna sofferente). “Rosso Malpelo” è invece considerato il primo racconto verista a tutti gli
effetti. Questo è dunque il terzo periodo cioè quello verista. Notiamo che scrive anche il Ciclo dei Vinti,
una lezione sicuramente zoliana (infatti anche Zola scrisse il ciclo dei Rougon-Macquart tenendo presente
l’ottica scientifica). Il ciclo di Verga doveva contenere 5 romanzi, ognuno di essi doveva rappresentare
qualcosa:

1. I Malvoglia: rappresenta la lotta dei bisogni naturali


2. Mastro Don Gesualdo: avidità di ricchezza; lavoratore che accumula ricchezze diventando un Don,
ma, per arrivare all’apice della scala sociale, sposa una vedova aristocratica la quale aveva già una
figlia (nata dalla relazione tra questa donna con un cugino) quindi c’è la tematica dell’avidità
3. La duchessa di Leyra: vanità aristocratica
4. L’onorevole Scipioni: ambizione dell’uomo
5. L’uomo di lusso: doveva contenere una sintesi di tutte le ambizioni umane

Di questi 5 romanzi quelli completi sono solo i primi 2, gli altri non saranno mai appunto completati e
pubblicati. In questi cinque romanzi l’uomo è vinto da una forza superiore contro la quale non può fare
alcunché. Verga completa solo i primi due romanzi perché doveva prestare attenzione al ceto degli umili,
una fascia di popolo che soffre e che è presa dal desiderio di migliorare la propria condizione economica e
sociale (nei Malavoglia abbiamo la storia della famiglia Toscano in un piccolo borgo di pescatori ad Aci
Trezza, Mastro Don Gesualdo è un muratore; in “La roba” notiamo proprio l’attaccamento di questi uomini
a ciò che hanno costruito anche a costo di grandi sacrifici, sono tutte persone ), gli altri romanzi dovevano
rappresentare le cose a cui l’uomo ambisce ma che non riesce a soddisfare, dunque Verga si ferma perché
non reputa giusto continuare a scrivere. Nei Malavoglia inoltre la famiglia Toscano vive di determinati
ideali che, forse nel periodo in cui viveva Verga, gli uomini avevano dimenticato (come l’amore verso la
famiglia, il rispetto per il lavoro ecc.). Anche nella famiglia Toscano ritroveremo soprannomi cosi come in
Rosso Malpelo (in cui è evidente questo nuovo tipo di scrivere il romanzo più legato alla propria regione) e
anche termini dialettali. Tutto ciò Verga lo riprende da Zola, l’Assomoir ha come protagoniste persone
semplici e c’è anche l’uso di uno stile a sua volta semplice, dialettale. Tuttavia Verga supera
l’impersonalità di Zola e fa usa della tecnica dell’eclissi, fa parlare il popolo, il narratore rappresenta una
persona della folla (che conosce bene i Malvoglia, che conosce le tradizioni tipiche meridionali, che sa bene
che Rosso Malpelo era chiamato così perché la tradizione voleva che coloro con i capelli rossi fossero
cattivi…).

• DIFFERENZE TRA IL ROMANZO DI VERGA E IL ROMANZONO DI MANZONI: sicuramente anche in Verga


c’è la lezione manzoniana infatti entrambi scelgono come protagonisti gli umili, persone che subivano.
Tuttavia Manzoni supera la fase pessimista riguardo la vita attraverso l’avvicinarsi alla fede; Verga è
più pessimista, per lui non c’è una soluzione: per esempio nei Malavoglia con la perdita del carico di
lupini seguiranno diverse disgrazie. Nei Malavoglia Verga costruisce in modo eccezionale anche il
conflitto tra due generazioni diverse, quindi ecco il realismo con la figura del vecchio ‘Ntoni (il quale
pur soffrendo per la morte del figlio si preoccupa del dover restituire il debito) e il giovane ‘Ntoni. Alla
fine del racconto troviamo Alessi e a Mena (la quale rifiuterà al mano di una persona di cui forse era
innamorata e che poteva migliorare la sua condizione, per la vergogna di avere una sorella, Lia, che si
prostituiva e si vergognava anche del giovane ‘Ntoni il quale non viveva più secondo gli ideali con cui
era stato cresciuto ma si dedica a guadagni loschi e facili) e l’unico che appunto riuscirà a chiudere
questa “spirale” sarà proprio Alessi che racquista la casa del Nespolo, è grazie a lui se si ricrea un
nucleo familiare. Quando il giovane ‘Ntoni torna nel proprio paese si sente ormai un estraneo e va
via.

Rosso Malpelo
TRAMA: la novella inizia con la presentazione del personaggio di Malpelo, un giovane che lavora in una
cava di sabbia siciliana e che è ritenuto da tutti essere malvagio a causa dei suoi capelli rossi. Per questo
motivo il giovane è malvoluto dalla sua famiglia, che si vergogna di lui, e maltrattato dai suoi compagni di
lavoro. In risposta a questo Malpelo vive completamente isolato. Nel racconto si dice che lo tenevano a
lavorare lì solo perché il padre era morto nella cava in seguito al crollo di una parete. Viene descritta la
morte del padre, a cui Malpelo è presente. Tutti gli uomini giunti in soccorso rinunciano subito a salvarlo,
giudicando l’impresa impossibile, e solo Malpelo continua a scavare inutilmente per tirarlo fuori dalle
macerie. Tornato a lavoro dopo la morte del genitore, Malpelo è ancora più solitario e i compagni si
accaniscono di più su di lui. Gli vengono affidati tutti i lavori più duri e pericolosi. A questo punto entra in
scena un altro personaggio, il giovane Ranocchio, momentaneamente zoppo dopo un incidente. Malpelo
inizia a tormentare il ragazzo, ma in questo comportamento si cela il suo modo di essergli amico e di
prepararlo per il mondo. Viene descritto anche un ritorno a casa del protagonista, che si reca dalla madre e
la sorella. Le due donne però si vergognano di lui e non vedono l’ora che torni alla cava a lavorare.
In questo momento viene ritrovato il cadavere del padre, evento che sconvolge moltissimo Malpelo. Il
ragazzo prende i vestiti del genitore e inizia a custodirli con gelosia. Anche l’asino che Malpelo usava
picchiare viene trovato morto e il suo cadavere viene mangiato dalle bestie. Il protagonista porta Ranocchio
a vedere la scena per dargli una lezione sulla vita, ma il ragazzino non vivrà mai la vita a cui Malpelo lo sta
preparando: Ranocchio, infatti, si ammala e Malpelo fa appena in tempo ad andare a trovarlo prima che
muoia. Nel finale Malpelo viene mandato in esplorazione in una zona pericolosa della cava e non fa più
ritorno, presumibilmente morto nel labirinto dei cunicoli.

La novella fu pubblicata una prima volta nell’agosto del 1878 sul quotidiano romano “Fanfulla”, poi nel
febbraio 1880 come opuscolo della rivista “Biblioteca dell’artigiano” edita dalla Lega Italiana del patto di
fratellanza per la diffusione di buone letture, fu quindi inserita nella raccolta “Vita dei campi” del 1880.
La vicenda di Rosso Malpelo illustra perfettamente la sconsolata visione del mondo dell’autore, infatti
pur essendo profondamente ancorata alla realtà siciliana, la novella presenta una situazione universale: il
destino è immodificabile, il carattere violento e brutale dei rapporti umani viene accettato dagli individui
come un dato ineluttabile. Per scrivere questa novella, e le altre che fanno parte della raccolta “Vita dei
campi”, Verga parte dalla lettura dell’Assomoir di Zola che dà una spinta all’autore il quale ora non parla
più del mondo borghese e aristocratico. Rosso Malpelo rappresenta l’inizio a tutti gli effetti della fase
verista di Verga (che ricordiamo comincia con la novella Nedda la quale rappresenta la svolta cioè il
momento in cui Verga si avvicina sempre di più al verismo). Rosso Malpelo dunque rappresenta il
momento in cui l’attenzione dell’autore è diretta ai personaggi umili che soffrono (infatti la novella del
1874, cioè Nedda, era comunque ancora intrisa di amore e passione ora invece abbiamo personaggi che
lottano per la vita).

In Rosso Malpelo notiamo l’ECLISSI dell’autore, cioè non è Verga a parlare poiché il narratore non è
onnisciente, chi narra non è all’altezza di Verga ma è semplicemente un portatore della voce del popolo,
di un mondo rurale, primitivo, rosso, è un qualcuno interno alla storia (dunque, a differenza del narratore
onnisciente di Manzoni, non è portatore di verità perché per esempio riporta tradizioni che non sono vere
come quella sui capelli rossi) e ciò lo vediamo sin dalle prime righe quando questo giovane comincia a
presentare Rosso Malpelo, il quale viene definito così perché è un’abitudine meridionale quella di dare
soprannomi; il narratore condivide la tradizione secondo la quale chi ha i capelli rossi è malvagio e lo
vediamo proprio nel giudizio di alcune azioni svolte da rosso mal pelo da parte del narratore della folla
(anche la stessa famiglia del ragazzo non ha una buona considerazione di lui).

Lo stile utilizzato da Verga è semplice e caratterizzato da un lessico che talvolta riporta espressioni
dialettali proprio perché il narratore è uno del popolo, ma l’autore si serve di termini dialettali e proverbi
anche perché in questo modo il popolo stesso, la massa ha la possibilità di leggere la novella.

Nella fase verista di Verga oltre all’eclissi notiamo anche lo straniamento rovesciato: tecnica tipica della
letteratura russa che Verga definisce rovesciato e lo troviamo in tutte le sue opere, l’autore userà anche
dei termini che vanno ad indicare questo straniamento. Per esempio nel caso della novella che stiamo
considerando, Rosso Malpelo viene considerato cattivo quando in realtà non lo è, anzi si rivela essere un
ragazzo generoso, umile, povero e pronto ad aiutare chi ha bisogno.

Bettonica: è un’erba; sta significare che il rosso mal pelo era conosciuto da tutti proprio come quest’erba

Ingrottato: cunicolo della cava

Il suo diavolo gli sussurrasse nelle orecchie: i personaggi del racconto hanno un concetto particolare di
questo ragazzo il quale sperava di ritrovare il padre e per questo scavava disperatamente nella speranza di
vederlo, tuttavia il narratore lo fa sembrare un atteggiamento di un indemoniato quindi non a fin di bene.

Pareva che gli fosse entrato il diavolo in corpo: il narratore dice che è come se Malpelo si fosse incattivito
ancora di più

Ranocchio: Rosso Malpelo dava la sua parte di pane a questo ragazzo soprannominato ranocchio tuttavia il
popolo diceva che faceva ciò solo per tiranneggiarlo (quindi il giudizio del narratore vede il buon gesto di
rosso malpelo al contrario)
Imparerai a darne anche tu: lotta per la sopravvivenza

Se sei più debole…allora si lascia vincere: lotta per la sopravvivenza

Malpelo si sforza di essere cattivo perché sa che tutti lo considerano tale

Rosso Malpelo alla fine sacrifica se stesso perché sa che anche se muore nessuno lo piangerà. Perché Verga
si serve di questo straniamento in questa novella? Grazie ad esso l’autore stravolge la figura di Rosso
Malpelo (l’apparente insensibilità di Malpelo e l’insensibilità degli operai finiscono per sembrare normali
ecco perché viene definito rovesciato). È evidente che Rosso Malpelo, pur essendosi formato
nell’ambiente disumano della cava, ha conservato alcuni valori autentici come il senso della giustizia (per
esempio si scaglia contro il padrone per gli omicidi bianchi dato che anche il parte ne è una vittima). Il
punto di vista del narratore con le sue incomprensioni esercita un processo di straniamento e fa apparire
strano e incomprensibile ciò che invece dovrebbe essere normale cioè i sentimenti autentici e i valori (ciò
deriva appunto dal fatto che il narratore è portavoce di un mondo disumano). Questo straniamento, che
scaturisce dall’accettazione del punto di vista che domina tutta la realtà oggettiva, ha la funzione di negare
i valori che invece dovrebbero essere normali (Rosso Malpelo pur essendo buono alla fine si autoconvince
di essere cattivo a causa del giudizio degli altri). Con lo straniamento inoltre, mette in evidenza il fatto che il
mondo sia regolato da un meccanismo particolare che è la lotta per la vita (nessun padre di famiglia voleva
rischiare la propria vita quindi alla fine Rosso Malpelo si sacrifica perché comunque nessuno lo cercherà)
dunque esprime il suo pessimismo.

La roba
Tra il primo e il secondo romanzo del Ciclo dei vinti, cioè i Malavoglia e Mastro Don Gesualdo, trascorsero
otto anni e durante questo intervallo Verga pubblica “Il marito di Elena”, un romanzo che doveva far parte
del Ciclo ma che non rientrava nel suo disegno iniziale e che analizzava le inquietudini di una moglie
borghese molto ambiziosa che manda in rovina il marito, quindi si tratta di un’opera “lontana” dal Ciclo dei
vinti. La novella “La roba” fa invece parte della raccolta Novelle rusticane: già dal titolo capiamo che
tratta di personaggi della campagna siciliana (rus, ruris in latino significa “campagna”) in una prospettiva
pessimistica in cui è presente il dominio dei moventi economici dell’agire dell’uomo (rivelazione di come
la fame e la miseria possano soffocare ogni sentimento). Fu pubblicata per la prima volta sulla rivista
“Rassegna settimanale” nel 1880 e poi fu messa nella raccolta delle Novelle rusticane nel 1883. Questa
novella, come le altre che fanno parte della raccolta Novelle rusticane, rappresenta questa nuova
direzione della ricerca verghiana dopo i Malavoglia, cioè un abbandono di ogni mitizzazione romantica del
mondo rurale, quindi non ci sono più gli ideali ma il concetto della roba (cioè dell’utile) inteso come
attaccamento a quello che si ha, all’interesse e alla propria rivalutazione economica.

TRAMA: Il protagonista è Mazzarò, un contadino siciliano di umili origini il quale, dopo aver lavorato sodo
per un lungo periodo della sua vita alle dipendenze di un padrone, riuscì grazie alla sua forza di volontà e
avidità ad accumulare una ricchezza considerevole. Mazzarò possedeva fattorie, grandi come piccoli
villaggi, con magazzini che sembravano chiese, possedeva un numero incredibile d’uliveti, di vigne, aveva
talmente tanta roba (per roba s’intendeva in siciliano terre) che persino il sole che tramontava e gli uccelli
che volavano sembravano sue. Mazzarò è descritto come un uomo con la pancia grassa che all’apparenza
non valeva niente ma che con ingegno e astuzia era riuscito a diventare padrone di molte terre, rispettato
da tutto il paese, di carattere umile e gran lavoratore, era famoso, oltre che per la sua ricchezza, per la sua
avidità, per lui i soldi non erano un mezzo per migliorare la propria condizione di vita, ma solamente un
continuo accumulare di terre e ricchezze senza godersele; infatti, nonostante fosse ricchissimo, mangiava
poco, (probabilmente meno dei contadini alle proprie dipendenze) e solo pane e cipolle, inoltre per non
spendere troppi soldi, non fumava, non beveva vino, non usava tabacco, insomma non aveva nessun vizio e
addirittura il contadino per risparmiare invece di tenere il cappello siciliano di seta come i baroni, teneva un
cappello di feltro, come i più umili contadini. Mazzarò era così attaccato alla sua roba, perché si ricordava
quando negli anni passati doveva lavorare duramente a volte fino a 14 ore al giorno senza smettere, con la
schiena curva, in qualsiasi condizione climatica quindi per lui ora era un’esigenza normale accumulare
ricchezze su ricchezze, senza mai riposare. L’unico problema di Mazzarò era quello di non avere nulla oltre
alla sua roba, nessun affetto, né figli, né cugini, né parenti, a cui donare le terre dopo la sua morte e visto
che per lui si stava avvicinando il periodo della vecchiaia, il solo pensiero di dover abbandonare le sue terre
lo faceva diventare matto, talmente matto che arrivava ad ammazzare le sue bestie a colpi di bastone
strillando:” Roba mia vientene con me”.

LA FIGURA DI MAZZARÒ: innanzitutto notiamo che, come in Rosso Malpelo, anche qui il narratore non è
Verga ma è un personaggio interno al racconto che presenta Mazzarò come un uomo rozzo, semplice ma
molto intelligente che ha sacrificato tutto pur di accumulare la roba (intesa non come soldi ma come
proprietà, voleva togliere a chi prima era suo padrone le terre, poiché è felice nel vedere suoi debitori
coloro che prima erano suoi padroni) infatti rappresenta l’uomo che si è fatto da solo. Questo
personaggio ha sempre accumulato nella sua vita diventando ricco (anticipa Mastro Don Gesualdo),
pensava solo ai suoi interessi, ad accumulare questa roba e sacrifica gli affetti familiari (per esempio si
lamenta dei soldi, 12 tarì, spesi per il funerale della madre). La ricchezza di quest’uomo si evince già
dall’inizio del racconto, quando un viandante che percorre il lago di Lentini in provincia di Siracusa e chiede
di chi siano le terre che vede, la risposta che gli viene data è sempre “di Mazzarò”. Tuttavia nella parte
finale Mazzarò va fuori di testa perché sa che prima o poi dovrà abbandonare questa roba senza poterla
dare a nessuno (non ha più una famiglia) e che questo accumulare non è servito a nulla, (soprattutto
quando vede un giovane il quale anche se povero a qualcosa in più rispetto a lui cioè vive la sua vita.

TEMATICHE DELLA NOVELLA:

1. Ammirazione da parte di Mazzarò verso l’accumulo capitalistico (accrescere il proprio capitale);


riesce ad avere grandi ricchezze e c’è la celebrazione di questa roba accumulata (lui stesso si
autocelebra) ma quando si rende conto che ormai è vecchio va fuori di testa perché pur di
accumulare ha sacrificato tutto e non può lasciare questa roba a nessuno (infatti quando vede un
ragazzo, anche se povero, Mazzarò invidia il fatto che gli avesse tutta la vita davanti).
2. Quali sono le virtù “eroiche” di questo personaggio? Intelligenza, energia e la capacità di
sacrificare ogni cosa alla roba; Mazzarò è una specie di santo/martire dell’accumulo capitalistico.
3. Il tendere oltre gli obiettivi raggiunti che fa di Mazzarò quasi un eroe, egli crede di essere potente
oltre i limiti e ciò lo spinge a porsi in una posizione antagonistica rispetto all’autorità che poteva
avere per esempio un re (Mazzarò vuole essere superiore al re e ciò lo si evince nelle righe del
testo). Tuttavia alla fine dovrà lasciare ogni cosa e viene fuori l’odio verso tutta la roba accumulata
infatti comincia a distruggere ciò che possiede.

Come abbiamo visto nella novella di Rosso Malpelo, anche qui Verga utilizza lo STRANIAMENTO
ROVESCIATO: il punto di vista del narratore non è di Verga ma di qualcuno vicino alla mentalità di Mazzarò
e ci presenta la logica della roba in modo “mitico” quasi come se fosse qualcosa di sovrumano. Ciò che ci
può sembrare strano (come l’avidità in questo caso) nella novella il narratore lo descrive come normale
(Mazzarò viene infatti celebrato; è un po’ quello che vedremo nei Malavoglia quando zio Crocifisso viene
definito benefattore).

I Malavoglia
Questo romanzo rappresenta il capolavoro di Verga in cui narra delle vicissitudini di Aci Trezza, in
particolare di una famiglia di pescatori, la famiglia Toscano (definita Malavoglia dal popolo anche se in
realtà era una famiglia onesta legata a diversi valori come la famiglia e il lavoro): essa è costituita da
Padron ‘Ntoni, il figlio di Padon ‘Ntoni cioè Bastianazzo e sua moglie Maruzza la Longa e poi i 5 nipoti di
Padron ‘Ntoni che sono il Giovane ‘Ntoni, Alessi, Mena, Luca e Lia. La famiglia Toscano viveva di pesca e le
uniche ricchezze che possedeva erano: la barca cioè la Provvidenza (è un nome dato anche in modo ironico
da Verga poiché con la sua distruzione cominciano le sventure per la famiglia, quindi non è la Provvidenza
di Manzoni) e la Casa del Nespolo (chiamata così perché di fianco vi era un albero di nespolo). Il periodo
storico che fa da sfondo al romanzo è caratterizzato dagli anni successivi all’Unità d’Italia, all’incirca tra il
1863-1876, in un piccolo borgo di pescatori, Aci Trezza, poco distante da Catania. Verga riesce a costruire la
storia mettendo a nudo la Sicilia del dopo Unità d’Italia: quello che compare nel romanzo rappresenta la
realtà che vivono questi personaggi come conseguenza alla miseria dell’Italia meridionale (per il popolo
del sud, dopo l’Unità d’Italia la situazione non migliora infatti per esempio c’erano anche il brigantaggio e la
leva obbligatoria per uno Stato che il sud non riconosce).

Alcuni dei personaggi e dei temi giunti a pieno sviluppo nel romanzo erano già stati annunciati dalla
novella Fantasticheria (che fa parte di Vita dei Campi) in cui narra la vicenda di un uomo che invia una
lettera ad una donna francese ricordandole la visita che entrambi avevamo fatto ad Aci Trezza, tuttavia ella,
appena nota la monotonia della vita in quel luogo, se ne va perché non le sembrava il luogo da lei
auspicato. La voce narrante scrive la lettera inviata a quest’amica per spiegare l’ideale di questa gente di
Aci Trezza (ecco perché dice anche che questo popolo è come un’ostrica poiché legata alla famiglia e al
lavoro).

All’interno del romanzo notiamo due concezioni di vita diverse: quella della vecchia generazione e quella
della nuova generazione. Padron ‘Ntoni si sente legato alla tradizione e crede in alcuni valori che voleva
trasmettere a figli e nipoti (questi ideali, visti come un culto, come qualcosa di prezioso, riguardano per
esempio la famiglia e il lavoro). Al contrario, la nuova generazione, rappresentata dal Giovane ‘Ntoni, si
ribella all’immobilismo dell’ambiente in cui vive, rifiuta questi valori e desidera uscire da questa
condizione per condurre una vita diversa.

Anche in questo romanzo Verga si eclissa, lascia parlare il popolo, e i personaggi che predilige sono Padron
‘Ntoni e Alessi (il quale si sforza di ricostruire il nucleo familiare con grandi sacrifici). Nel racconto fa da
protagonista anche la folla, la gente del paese che partecipa con giudizi e commenti. Anche il paesaggio
partecipa alla narrazione a volte compiangendo la sorte dei personaggi mentre altre volte sembra quasi
indifferente. Con la tecnica del discorso indiretto libero si racconta come il villaggio interpreta l’ansia di
Padron ‘Ntoni che scruta il mare: la folla non prende in considerazione che Padron ‘Ntoni sia preoccupato
per il figlio, al contrario pensa che lo sia per il carico di lupini, per il mancato guadagno e per il debito che
dovrà pagare (conflitto tra la visione del mondo dei Malavoglia e quella del paese).

Nel corso della lettura notiamo come Verga utilizzi diversi soprannomi quasi come se volesse creare un
contrasto con la realtà (per esempio Maruzza che veniva definita la Longa anche se in realtà è bassa, o
ancora la barca definita Provvidenza che però non mantiene ciò che doveva auspicare). Infatti possiamo
dire che, come Manzoni voleva che il romanzo “I Promessi Sposi” fosse capito dal popolo, anche Verga
vuole che accada ciò per “I Malavoglia”, infatti si serve a tratti di proverbi, espressioni dialettali, di un
linguaggio quotidiano (è un romanzo rivolto al popolo, agli umili).

TRAMA: il giovane ‘Ntoni, nipote di Padron ‘Ntoni, deve partire per il servizio militare e la famiglia è
costretta ad assumere un lavoratore. A ciò si aggiunge una cattiva annata per la pesca e Mena, la figlia
maggiore, si deve sposare. Padron ‘Ntoni decide allora di tentare la via del commercio dunque il racconto
inizia con la speculazione che Padron ‘Ntoni fa nella speranza di migliorare le condizioni della famiglia.
Padron ‘Ntoni si fa dare un carico di lupini da Zio Crocifisso per venderlo ma durante il tragitto si ha una
tempesta, la barca affonda con il carico e Bastianazzo muore. È così che inizia una serie di disgrazie per la
famiglia Toscano: il colera uccide Maruzza, intanto il Giovane ‘Ntoni si unisce a uomini di malaffare,
infatti ferirà il brigadiere Don Michele che lo aveva sorpreso in un commercio illegale. Viene processato e
il suo difensore disse che in realtà il Giovane ‘Ntoni aveva ferito il brigadiere per motivi d’onore poiché
quest’ultimo aveva tentato di sedurre la sorella Lia. Il Giovane ‘Ntoni viene condannato a 5 anni, nel
frattempo Lia crede di essere colpevole di ciò che è successo a Don Michele, dunque se ne va di casa e si
dà alla prostituzione. Luca muore nella battaglia di Lissa, Padron ‘Ntoni si ammala e muore e la Casa del
Nespolo viene presa da Zio Crocifisso (perché la famiglia Toscano non era riuscita a pagare il debito).
L’unico che cercherà di ricostruire il ciclo familiare sarà Alessi che sposa Nunziata e fa di tutto per
riscattare la Casa del Nespolo. Insieme ad Alessi va ad abitare anche la sorella Mena, la quale aveva
rifiutato la proposta di matrimonio di Compare Alfio poiché si vergognava del fatto che la sorella Lia
fosse una prostituta, dunque vivrà nella Casa del Nespolo crescendo i nipoti. Dopo 5 anni, il Giovane
‘Ntoni torna ad Aci Trezza e alla Casa del Nespolo tuttavia si sente in colpa perché era venuto meno al
patto di onestà e solidarietà verso la famiglia, ma avverte anche la sensazione di essere un estraneo così
lascia definitivamente il proprio paese.

III CAPITOLO “La Tragedia”


È il capitolo introduttivo in cui viene descritta la tragedia che vivrà la famiglia Toscano con la perdita della
Provvidenza e la morte di Bastianazzo. All’interno del brano vi sono diverse espressioni dialettali e
proverbi che rappresentano le similitudini popolari, infatti è il popolo che parla nel romanzo. Il narratore
dunque umanizza ciò che vede cioè la tempesta (per esempio il vento o il mare).

A seguito del brano letto c’è la parte in cui la gente e Zio Crocifisso si recano alla Casa del Nespolo per la
morte di Bastianazzo, ma in realtà Zio Crocifisso si reca lì solo per vedere le condizioni della Casa del
Nespolo; Zio Crocifisso però verrà definito come benefattore dal popolo.
Questa frase pronunciata da un personaggio che fa parte del popolo mette in evidenza che quando ci si
impegna per migliorare la propria condizione si è in realtà degli stolti, dunque, mentre Padron ‘Ntoni è
preoccupato, il signore che parla giudica dalla sua prospettiva secondo l’utile (sono sue prospettive
diverse). C’è un contrasto tra il concetto di vita dei Toscano (che vivono con onestà, amore per la famiglia
e dedizione al lavoro) e il concetto di vita della folla (che capisce solo l’utile, l’interesse immediato e il
guadagno).

XV CAPITOLO “L’addio”
Il brano “L’addio” del romanzo dei Malavoglia ne rappresenta le pagine finali. ‘Ntoni, uscito dal carcere
dove ha scontato la pena per l’accoltellamento del brigadiere Don Michele, torna al paese a far visita ai
suoi familiari. Ricordiamo che il giovane ‘Ntoni rappresenta la nuova generazione, colui che si oppone
all’immobilismo dei personaggi verghiani, ma alla fine anche lui sarà un vinto infatti, pur essendo
speranzoso in un cambiamento positivo ad Aci Trezza, in realtà si rende conto che questo cambiamento
non c’è stato, tutto è tornato come prima e addirittura non vi sono più alcuni membri della sua famiglia
(è proprio nel momento in cui il Giovane ‘Ntoni chiede dove si trovano il nonno e la sorella Lia che i silenzi
di Alessi hanno un significato particolare, poiché stanno ad indicare il fatto che il Vecchio ‘Ntoni è morto e
che anche la sorella è come se fosse morta perché li ha lasciati per continuare il proprio lavoro come
prostituta). Appena giunto alla sua Casa del Nespolo, ‘Ntoni è profondamente cambiato: in un primo
momento non lo riconosce nemmeno il fratello (anche il cane infatti abbaia). Tutto è mutato, niente è più
come prima. Una tremenda serie di disgrazie ha distrutto la famiglia e, dopo la morte di Padron ‘Ntoni, è
iniziata una lenta e faticosa opera di ricostruzione: Alessi, lavorando duramente, recupera la Casa del
Nespolo, può sposare Nunziata e dare vita a una famiglia. Mena rinuncia invece a sposarsi con Compare
Alfio perché decide di dedicarsi interamente alle cure della casa e dei nipoti, permettendo così alla
famiglia di ricostruirsi pienamente. Da questa situazione però ‘Ntoni è escluso ed è consapevole del
destino di emarginazione che lo attende. ‘Ntoni passa la notte insieme a ciò che è rimasto della famiglia,
Alessi, la moglie Nunziata e Mena, e nonostante i tentativi di Alessi nel chiedergli di restare, il giovane
‘Ntoni ripete spesso che Aci Trezza non è più un luogo adatta a lui e che deve andarsene. Infatti si sente
un estraneo soprattutto perché aveva desiderato cambiare la sua condizione di vita rinunciando agli
ideali della vecchia generazione (a cui apparteneva il nonno, il Vecchio ‘Ntoni). Come detto in precedenza il
‘Ntoni è anche lui un vinto e quindi decide di ripartire poiché non si sente più parte integrante della
famiglia, è escluso. Parte all’alba in modo che nessuno possa vederlo, è il momento in cui gli abitanti di
Aci Trezza iniziano un nuovo giorno ripetendo sempre le stesse azioni, per il Giovane ‘Ntoni invece
iniziano nuova vita (infatti Verga si serve del termine “cominciar”).

Notiamo un utilizzo particolare dei verbi: Verga utilizza tempi al modo indicativo al passato remoto e
all’imperfetto; al passato per trattare ciò che è stato vissuto in precedenza (fu entrato, fu messo) e
all’imperfetto per indicare una situazione duratura che si stava vivendo (osavano, sembrava, andava
guardando). Il passato remoto indica le azioni di ‘Ntoni, tutte rapportabili alla partenza, all’abbandono di un
mondo e alla rottura di un equilibrio, mentre l’imperfetto viene impiegato per descrivere la vita del paese
che riprende.

Riferimento artistico: dipinto di Umberto Boccioni, “Gli addii” (prima versione, 1911). Boccioni è un
pittore futurista (movimento in cui c’è una rivoluzione non solo in campo letterario ma anche artistico); le
pennellate del dipinto rappresentano l’addio, denotano diversi stati d’animo. Nella seconda versione
utilizza tonalità più scure per rappresentare il treno che man mano se ne va con il fumo nero.
Mastro Don Gesualdo
Subito dopo la pubblicazione dei Malavoglia, Verga comincia a lavorare a un nuovo romanzo: Mastro Don
Gesualdo, colui del quale vengono messe in risalto l’intelligenza, la tenacia e l’energia che lo conducono
però alla sconfitta. Il romanzo è molto diverso dai Malavoglia: innanzitutto Verga scrisse diverse stesure di
Mastro Don Gesualdo (probabilmente poiché ebbe alcuni ripensamenti per migliorarlo), inoltre l’intera
storia si svolge in un ambiente più ricco e vario di quello di Aci Trezza, il romanzo infatti spazia dal mondo
degli operai a quello dei ricchi borghesi o aristocratici. Ma la differenza principale è quella della figura del
narratore che manca di coralità. Nei Malavoglia il narratore è qualcuno del popolo che ne condivide in
pieno il pensiero. Qui invece il narratore riporta in maniera fredda la storia ed è pronto anche a porre una
critica: poiché non fa parte del popolo il romanzo si poggia su parti dialogiche, dunque il narratore fa
parlare gli altri e non è coinvolto.

Ovviamente anche la tematica è ben diversa da quella dei Malavoglia: Verga scrive la storia di Mastro Don
Gesualdo, un uomo venuto dal nulla che con intelligenza e tenacia divenne ricchissimo e potente.
Gesualdo tradisce le sue origini contadine, i propri valori e i propri sentimenti. Nella sua ascesa da
muratore a Mastro, ottiene poi il titolo di Don. L' ingente fortuna accumulata gli permette di sposare
un’aristocratica decaduta (infatti Verga fa anche riferimento al fatto che l’aristocrazia stava vivendo la sua
discesa in contrasto con l’ascesa della borghesia), Bianca Trao, già sedotta dal cugino. Tutti gli sforzi di
Gesualdo per stabilire un’intesa con la moglie falliscono e nessuna gioia gli viene dalla nascita della figlia
Isabella, che potrebbe non essere sua. La bambina da adulta sposerà, attraverso un matrimonio di
convenienza, il duca di Leyra. Disprezzato dalla famiglia, emarginato dai nuovi parenti, Gesualdo si
rinchiude sempre di più in se stesso. Solo, ammalato, è accolto a Palermo come ospite non gradito nel
palazzetto di Isabella, che continua a vergognarsi di lui e delle sue origini. Nella lunga agonia prima della
morte, Gesualdo rivive i momenti essenziali della prova esistenza, prendendo coscienza della vanità della
fatica volta all’accumulo.

• TEMATICHE: il romanzo è caratterizzato dall’ascesa e dalla caduta di Gesualdo, la vicenda infatti


rivela il fallimento dell’ideologia della roba. Egli è astuto e intelligente nella gestione degli affari,
tuttavia la necessità economica si viene a identificare con il destino: la sua è una sorte maledetta che lo
costringe a difendere la sua roba contro tutti esattamente come Mazzarò. A Gesualdo tocca perciò una
morte in solitudine che manifesta l’impossibilità di un lieto fine. Gesualdo è un vinto perché ha voluto
abbandonare la situazione sociale che gli è toccata (non ci sono gli ideali della famiglia Toscano), e solo
apparentemente è riuscito nel suo intento; egli muore consapevole del fatto che la sua esistenza è stata
priva di senso.
• SIGNIFICATO DEL TITOLO: da una parte Gesualdo spezza i legami con il proprio ambiente e la propria
famiglia che lo considereranno per sempre un Don, infatti abbandona anche l'amante contadina dalla
quale ha avuto dei figli; dall'altra non viene accettato dal ceto nobiliare che lo tratta come un intruso
e lo considera ancora come un muratore.

La morte di Gesualdo
Sono le ultime pagine del romanzo. Gesualdo, molto malato, si è trasferito a Palermo per vivere nel
palazzo della figlia Isabella e del marito di lei, il duca di Leyra. L'isolamento e la solitudine spingono infatti
Gesualdo a ripensare alla propria vita vedendo con chiarezza il suo fallimento; nel brano prova a parlare
con la figlia Isabella ma in realtà viene sottolineata ancora una volta la distanza tra nobiltà e umiltà. Inoltre
Gesualdo non fa altro che parlare dei beni che ha accumulato, tuttavia muore solo nell’indifferenza
generale venendo anche giudicato dai suoi servi i quali non lo considerano nemmeno più un padrone. Si
ribadisce il pessimismo di Verga.

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