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GIOVANNI PASCOLI

VITA
Giovanni Pascoli nasce a San Mauro di Romagna (Forlì) il 31 dicembre 1855, otterrà una
solida formazione classica. Alla serenità della fanciullezza subentra improvvisamente un
periodo denso di luttuosi episodi. Il 10 agosto 1867, il giorno di San Lorenzo, il padre viene
ucciso a tradimento da ignoti, mentre torna in calesse dalla fiera di Cesena. L'assassinio,
avvenuto per ragioni rimaste sconosciute, lascia un segno indelebile nella sensibilità di
Pascoli, che indaga per anni sulle cause e sui mandanti del delitto, rimasti tuttavia sempre
ufficialmente ignoti e impuniti.
Nel 1868 muore di tifo la sorella Margherita e la madre; nel 1871 muore il fratello prediletto
e il compagno di collegio Luigi. Questa dolorosa e precoce esperienza di morte, che
ritorna in modo ossessivo nella produzione del poeta, alimenta nel giovane Pascoli il
sentimento del male e dell'ingiustizia, insieme allo sgomento di un inesplicabile destino di
morte che incombe sull'esistenza umana.
Giovanni completa gli studi liceali prima a Rimini, poi a Firenze e, ottenuta una borsa di
studio per l'università di Bologna, si iscrive alla Facoltà di Lettere. Frequenta
assiduamente le lezioni di Carducci e si avvicina agli ambienti politici socialisti.
Per aver partecipato nel 1875 a una dimostrazione perde la borsa di studio ed è costretto
ad abbandonare l'università. Inizia allora un periodo di dure necessità economiche e di
sconforto. Verrà arrestato e condotto in carcere, per poi essere rilasciato.
Riprese gli studi universitari e nel 1882 si laurea in Lettere diventando un professore di
latino e greco nella lontana Matera, poi a Massa, dove chiama a vivere in sé le sorelle Ida
e Maria, e infine a Livorno, sua residenza fino al 1895. Nell'estate 1894 a Roma entra
nell'esclusivo cenacolo del «Convito», la rivista estetizzante alla quale inizia a collaborare.
Nel 1895 la sorella Ida si sposa. Per Giovanni queste nozze sono un tradimento del nido
familiare che egli ha voluto ricostruire fino dal 1884 e che ha cercato gelosamente di
tutelare da sollecitazioni esterne. Si trasferisce nel 1895, con la sorella Maria, a
Castelvecchio di Barga, in Garfagnana, dove prende in affitto una villa in campagna, e
riprende a insegnare. Gli anni dell'insegnamento universitario coincidono con un momento
d'intensa produzione. Nel 1911 a Barga celebra la spedizione di Libia e tenne un discorso
pubblico, per approvare l’impresa.
Nel 1905 la nomina come successore di Carducci nella cattedra di Letteratura italiana
all'università di Bologna, si proclamerà “allievo di Carducci e Virgilio”, poiché da una parte
da peso all’eredità della poesia classica, della cultura classica e si sente in dovere di
esprimere le istanze democratiche della contemporaneità, modernità.
Pascoli muore il 6 aprile a Bologna ed è sepolto nella casa di Castelvecchio. Alla sua
morte escono alcune sue opere, a cura della sorella Maria.
POETICA
Dalla tragedia familiare derivano l’attaccamento alle sorelle, l'ostinata difesa del nido
familiare, la propria protettiva chiusura al mondo. Il senso di amarezza, di esclusione, di
angoscia esistenziale trovano la loro motivazione nel trauma infantile della perdita del
padre e della madre.
Pascoli si presenta come poeta complesso, le sue opere, sorrette da una solida
conoscenza della poesia classica e contemporanea, complicate da un'attenta
orchestrazione fonica e verbale, percorsa da un'intensa tensione simbolica, è
espressione di un rapporto con la realtà non convenzionale, non pacificato, ma inquieto e
tormentato. In Pascoli si riflette quella condizione di disagio e di sfiducia nella scienza e
nei valori positivi che caratterizza la cultura di fine secolo, segnata dal tramonto del
Positivismo e dall'affermarsi di tendenze spiritualistiche e idealistiche.
Il poeta denuncia apertamente il fallimento della scienza incapace di fornire una
spiegazione razionale del mondo e di rispondere alle domande esistenziali sul senso della
vita. La scienza non solo non ha saputo liberare l'individuo dalla paura della morte, ma lo
ha anche privato delle «illusioni pietose della fede». Il mondo appare a Pascoli disgregato,
privo di un centro e di una logica coerente, dominato dall'inquietante presenza di un
insondabile mistero di fronte al quale la scienza non può che arrendersi impotente.
Pascoli, come risulta dal suo testo programmatico Il fanciullino (1897), si allinea su
posizioni di scrittura allusiva, emblematica, simbolista. Ciò significa che nella sua poesia
non conta la descrizione degli oggetti reali, bensì contano le risonanze emotive che gli
oggetti reali evocano nell'interiorità del soggetto, nella sua memoria privata e personale.
La realtà non è però abolita, ma, al contrario, restituita nella sua precisione e concretezza,
per alludere, attraverso una fitta rete di corrispondenze di tipo analogico-sinestetico, a una
realtà diversa rispetto a quella visibile e razionalmente verificabile. Pur conservando la loro
consistenza fisica e la loro esattezza, gli oggetti si caricano di profonde valenze
emblematiche e allusive.
la poesia pascoliana: la base di partenza è sempre realistica (positivistica), costituita da
oggetti quotidiani, ma questi dati di partenza acquistano fattezze particolari, significati
imprevisti, legati alla soggettiva emotività del poeta. Si capisce allora perché questi oggetti
così modificati rivelino un senso non oggettivamente determinato, ma variabile a seconda
della sensibilità dell'osservatore. Perciò la poesia pascoliana non è suscettibile di
un'interpretazione univoca, definita polisemia, cioè pluralità di significati.
La soggettività emotiva del poeta è sempre orientata a dare espressione ai propri traumi
interiori, a trasformare la propria tragica esperienza personale in nuova forma conoscitiva.
Il punto di partenza per il poeta è spesso la concretezza del semplice oggetto quotidiano.
Perciò la sua poesia si distacca dal gusto aulico e rivendica la poeticità delle piccole cose.
La poesia infatti, per Pascoli, non dipende dalla maggiore o minore dignità dell'oggetto
prescelto, ma (come risulta dalla prosa Il fanciullino) dalla spontanea freschezza
d'ispirazione di chi guarda. La poesia pascoliana può anche guardare in alto. Dalle umili
immagini campestri, con i paesaggi familiari s'innalza talvolta a visioni astrali, a
meditazioni sul destino umano e dell'universo, tanto da comunicare lo smarrimento, la
vertigine, il brivido cosmico.
Di fronte al trauma familiare, la poesia per Pascoli acquista valore di compensazione,
come rifugio molti temi infatti comunicano difesa e protezione: il nido, come luogo caldo e
rassicurante, difesa dal male che si trova di fuori, l'interno familiare, la culla, le campane,
gli uccelli, i fiori, che si presentano come sistema di difesa dai pericoli della vita.
Pascoli utilizza parole umili e quotidiane, vocaboli di origine dialettale, le piccole cose della
poesia sono espresse da una lingua esatta e determinatissima, precisa rispetto ai dati del
reale che costituisce uno degli aspetti fondamentali del linguaggio pascoliano. La
concretezza terminologica costituisce la base di partenza, da cui si sviluppa una poesia
allusiva, emblematica, visionaria Plurilinguismo pascoliano
La trasformazione dell'oggetto realistico in oggetto allusivo e simbolico si avvale del
fonosimbolismo, cioè di una varia e complessa orchestrazione fonica che avvolge i versi
pascoliani di una originalissima magia musicale. Il fonosimbolismo consiste nell’uso della
rima, ma anche di allitterazioni, assonanze, rassomiglianze o identità di suono tra
componenti vocaliche o consonantiche delle varie parole. Pascoli avvicina strettamente
poesia e musica per conferire alla propria scrittura un'intensa carica di allusività fonica e di
ambiguità semantica. I termini sono scelti per la loro forza evocativa, per l'incanto del
significante, piuttosto che per il loro valore semantico.
Pascoli introduce nel discorso poetico la rottura tra ritmo metrico e sviluppo sintattico. La
sfasatura tra ritmo e sintassi è soprattutto affidata all'adozione sistematica
dell'enjambement e all'impiego di una fittissima interpunzione (puntini di sospensione,
esclamative, interrogative). All'effetto di disintegrazione ritmica e sintattica del verso
contribuiscono anche lo stile nominale (assenza del verbo) e la sintassi paratattica,
affidata a periodi brevi, talvolta brevissimi, accostati per asindeto. Gli elementi formali, che
frantumano l'ordine ritmico-sintattico e le sequenze logiche della rappresentazione,
servono a trasmettere al lettore l'angosciata visione pascoliana del mondo, il dubbio, il
mistero, l'ignoto. I puntini di sospensione, evocano l'inespresso e l'inesprimibile, le
parentesi interrogative, le interruzioni esclamative, le ripetizioni, angosce e ossessioni.
Per tanti aspetti, la poesia di Pascoli è sensibilissima alle inquietudini della modernità, ma
nasce dentro un'officina di straordinaria rielaborazione della tradizione classica.
LA POETICA DEL FANCIULLINO
Il fanciullino è edito a puntate nella rivista fiorentina «Il Marzocco» nel 1897 e poi,
pubblicata nel 1903, il saggio di 20 capitoli.
La teoria pascoliana si sviluppa intorno all'immagine del fanciullino come metafora del
poeta. Per Pascoli, poeta è chi riesce a mantenere l'ingenua disposizione infantile nei
confronti della realtà, prestando voce a quel fanciullino interiore che ognuno continua a
portare dentro di sé; poeta è chi sa cogliere nell'esperienza comune le impressioni meno
percettibili; chi sa guardare le solite cose con occhi nuovi.
Guardare le solite cose con occhi nuovi p.382
Il poeta dà voce al «fanciullino» che si trova in ogni individuo, e che crescendo viene
relegato in un angolo della nostra personalità (fanciullino rimane dentro di noi anche
quando cresciamo). Basta poco per riscoprirlo: è la parte di noi che ha paura del buio,
perché vi immagina cose che non esistono; che parla agli animali e agli oggetti; che trova
il dolore nell'allegria e viceversa; che trova connessioni e somiglianze tra le cose. È
davvero in ognuno di noi. La prospettiva del fanciullino rivela l'incanto della natura,
trasmette l'intuizione della bellezza, consente di scoprire un inedito volto del mondo. Così
concepita, la poesia acquista anche un ruolo civile e sociale, perché unisce tutti gli esseri
umani, in virtù del «fanciullo» che è in loro, e dunque invita alla fratellanza, al di là delle
barriere di classe.
Il fanciullino-poeta è in grado di attingere a una percezione incontaminata della realtà.
Spingendo lo sguardo al di là delle apparenze consuete, il poeta scopre negli oggetti
segrete affinità che sfuggono allo sguardo comune. La poesia non è invenzione ma
scoperta di qualche cosa che vive nelle cose, di quel particolare che si può cogliere
soltanto liberandosi dal peso delle convenzioni. La poesia non è rappresentazione
razionale né cognizione logica, ma intuizione, improvvisa illuminazione, visione, forma di
conoscenza intuitiva e rivelatrice.
Per esprimere questa nuova visione della realtà è necessario un linguaggio nuovo,
preciso, oggettivo, che tuttavia, attraverso le analogie, trasformi il volto della realtà. Pascoli
sostiene che la poesia non deve proporsi finalità pratiche, ma deve essere poesia pura,
deve svelare la veritàla parola ha un aspetto evocativo, il poeta ci dà sospetto che una
parola possa significare altro, bisogna andare oltre al significato.
Pascoli sta additando un particolare modo di identificare il poeta e ci ricorda come il poeta
parli soprattutto a sé stesso. Il vero poeta è colui che non parla per il pubblico ma chi parla
a sé stesso perché può sentire nella sua anima la voce del fanciullino.
LE RACCOLTE
Pascoli scrive tre raccolte:
o Myricae
o I poemetti pubblicata nel 1897, ampi componimenti in forma di racconto, e
costruiscono il romanzo di una campagna felice, rifugio contro le minacce del
mondo esterno. Essi si propongono, con la difesa della piccola proprietà rurale,
come il tentativo di ricostruire il disperso «nido» familiare. Nei Poemetti si assiste a
un innalzamento di tono rispetto a Myricae, segnalato dalla stessa epigrafe
virgiliana (quarta egloga) Paulo maiora canamus ("cantiamo di cose un po' più
elevate"), che indica la ricerca di una poesia più alta nel registro espressivo e nella
materia.
o I Canti di Castelvecchio

MYRICAE
Myricae è la prima raccolta pascoliana pubblicata in una prima edizione nel 1891, che
comprende ventidue poesie, arricchita fino a 156 della quinta edizione (1900).
Il significato del titolo, derivato da un verso della quarta egloga di Virgilio nelle Bucoliche:
arbusta iuvant humilesque myricae = si addicono gli arboscelli e le umili tamerici. La scelta
del titolo Myricae indica quindi la volontà di una poesia umile, legata a oggetti comuni e
modesti, a situazioni quotidiane tratte dalla vita di tutti i giorni, ma vi è dominante la
memoria dolorosa del trauma familiare.
Il tessuto poetico è costruito mediante il libero susseguirsi e aggregarsi di impressioni e
sensazioni. Il paesaggio non offre immagini ben ordinate, si assiste invece a un
moltiplicarsi dei piani della visione, che mancano di un centro prospettico cui ricondurre i
tanti diversi particolari sui quali si fissa, di volta in volta, lo sguardo del poeta.
È presente in Myricae il tipico intreccio tra determinato e indeterminato, tra dato concreto e
cenno allusivo. Gli oggetti concreti e quotidiani si dissolvono, attraverso l'adozione della
tecnica fonosimbolica e di particolari soluzioni sintattiche, in uno sfondo indefinito, in un
clima di sospeso e indecifrabile mistero.
Prefazione (Livorno, marzo 1894)
Pascoli ama la natura e la celebra in tutti i suoi aspetti. Eppure non siamo di fronte a
semplici idilli campestri: dietro a queste descrizioni si nascondono inquietudini e
suggestioni, quasi sempre legate all'idea della morte. È il fanciullino che ha la capacità di
leggere al di là dell'apparenza, di trovare simmetrie e analogie misteriose fra le cose, in un
costante dialogo con il passato: Pascoli parla con i propri morti, si potrebbe addirittura dire
che "vive" con loro.
Vengono dunque indicati i temi della raccolta (ambivalenza):
o La morte del padre che diventa simbolo del dolore provocato dalla storia, simbolo
del dolore provocato dalla crudeltà umana
o La natura in una visione positiva, che è madre consolatrice e dimensione della
serenità
Il sentimento della natura è però associata alla morte, da una parte è forza consolatrice
(natura diurna) ma dall’altra parte è legata alla morte (natura notturna) ma Pascoli lascia
un dubbio, come fa ad essere consolatrice se porta alla morte? A questa domanda non dà
una risposta.
X agosto p. 402
Il poeta rievoca l'assassinio del padre, ucciso il 10 agosto 1867 (san Lorenzo), nel giorno
dell'anno in cui si manifesta con maggiore intensità il fenomeno delle stelle cadenti, viste
come lacrime versate dal cielo per la cattiveria del genere umano. Una rondine viene
uccisa mentre torna al nido con la cena per i suoi piccoli, che aspettano invano. Allo
stesso modo è stato ucciso il padre di Pascoli, che tornava a casa con due bambole in
dono, che ora restano rivolte verso il cielo lontano, mentre nella casa solitaria lo aspettano
inutilmente. La tragedia domestica e il dolore personale diventano vicenda universale. Il
cielo infinito, che sfavilla con mille luci e che non conosce l'angoscia della morte, inonda
d'un pianto di stelle la Terra, questo piccolo pianeta opaco, dominato dal dolore e dalla
sofferenza per la malvagità degli esseri umani.
C’è una corrispondenza tra la prima e l'ultima strofa. La strofa iniziale e quella finale si
corrispondono sotto il profilo sia tematico («il pianto» del cielo che e chiude circolarmente
apre la lirica) sia grammaticale. A differenza delle strofe centrali (in terza persona),
entrambe le quartine si rivolgono infatti direttamente a un interlocutore (san Lorenzo nella
prima, il Cielo nell'ultima) e hanno come punto di riferimento il cielo. La Terra non è che un
minuscolo frammento intriso di male e il cielo, che non conosce sofferenza né morte, può
solo ricoprirla d'un «pianto di stelle».
Rigorosa anche la simmetria tra le strofe centrali, costruite, a due a due, sul parallelismo
tra l'uccisione della rondine (II e III) e l'assassinio del padre (IV e V), rafforzato dalla
ripetizione, attraverso procedimenti anaforici, di formule identiche o molto simili. Si osservi,
all'interno della simbologia del nido cara a Pascoli, lo scambio tra mondo umano e
animale: il nido del la rondine è un «tetto», la casa dell'uomo un «nido». Da notare anche
l'associazione sinestesica al v. 15 («restò negli aperti occhi un grido»): a un'immagine di
tipo visivo (la smorfia di terrore stampata sul viso dell'ucciso) ne corrisponde una di tipo
uditivo (il grido).
Il padre e la rondine diventano emblemi della sofferenza e dell'ingiustizia che dominano la
vita sulla Terra. La vicenda privata diviene vicenda universale, al che concorre anche la
non dichiarata identità dell'uomo ucciso, nascosta dietro la categoria generale e l'articolo
indeterminativo («un uomo»).
L’assiuolo p.405
In un paesaggio notturno, silenzioso, illuminato dal chiarore di un'invisibile luna, in
prossimità del mare e nell'imminenza di un temporale, il poeta percepisce lievi rumori e
misteriosi suoni naturali. In particolare, è colpito dal verso di un assiolo, rapace uccello
notturno, che risuona nell'aria come un singhiozzo, come un messaggio di morte.
Pochi e minimi sono gli aspetti del paesaggio ma, attraverso una libera trama di
corrispondenze analogiche e l'adozione della tecnica fonosimbolica, il poeta dissolve i
contorni del quadro, sfuma gli oggetti, suggerisce dietro di essi il movimento di presenze
inquietanti.
Si crea un paesaggio magico, un mondo popolato di presenze misteriose, invisibili come la
luna, che c'è ma non si vede. Cogliendo lo spunto offertogli dalle credenze contadine,
secondo cui il canto dell'assiolo annuncia disgrazie, il poeta istituisce una corrispondenza
tra il verso dell'uccello e il suo lugubre annuncio, come tra i suoni delle cavallette e quelli
dei sistri, strumenti rituali usati nelle cerimonie funebri dell'antico Egitto.
Il disegno del quadro non segue una successione logica, ma procede per rapide intuizioni,
per circolari ritorni (il ritornello «chiù»), che suggeriscono la percezione di un turbativo
mistero. Le tre strofe sono strutturate secondo uno schema simile: alle immagini tranquille
e serene della prima quartina, si sostituiscono nelle seconde immagini più angoscianti e
misteriose che si materializzano nel lugubre verso dell'assiolo. Anche nell'ultima strofa,
l'immagine della luce lunare che si riflette sulle cime degli alberi, è accostata a note non
liete. A sottolineare l'incertezza e l'ambiguità torna, una domanda che, rafforzata
dall'avverbio «forse» e dai puntini di sospensione, introduce l'enigmatica immagine delle
«invisibili porte» che sono probabilmente quelle della morte. E infine il verso dell'assiolo si
trasforma in autentico «pianto di morte».
Il fonosimbolismo viene usato per comunicare il senso di mistero e di inquietudine.
Numerose sono le allitterazioni con valore onomatopeico. Il grido lamentoso dell'assiuolo
finisce così per condensare ogni altra immagine intorno a un'unica voce di tristezza
cosmica. Ne deriva l'intuizione del vivere come dolore, come fatale precipitare verso la
morte.
La parola “chiù”, è ripetuta alla fine di ogni verso, è una anafora, che da ritmo e musicalità
e allo stesso tempo è anche un’onomatopea, parola che riproduce il suono. Nel verso 11-
12-13 viene ripetuta la parola “sentivo” anaforicamente, nel verso 11 è assimilato
all’azione ondosa del mare, al verso 12 sentire come rumore, al verso 13 sentire come
sensazione psicologica, affettiva. È presente anche un climax ascendente, da una voce si
passa ad un singulto che alla fine diventa un pianto: il pianto corrisponde alla
consapevolezza della mortevalore del simbolo (impressionismo simbolico).
Le immagini devono essere indefinite e suggestive, per dare la sensazione di mistero. Il
poeta cerca di proporre accostamenti analogici per farci comprendere più in profondità. La
paratassi, punteggiatura toglie le congiunzioni, mancanza di nessi logici che bisogna
intuirli e non sono immediatamente percepibili. Importante è anche il fonosimbolismo, per
valorizzare la funzione musicale del testo e accentuare la progressione delle immagini che
non hanno solo visione ma anche supporto uditivo. Infine le rime, che sono esaltate in ogni
verso da una rete di assonanze e consonanze, utilizzate per esprimere realtà simbolica,
fonosimbolismo.
Novembre p.391
La bella giornata novembrina sembra evocare la primavera, con l'aria tanto limpida da far
pensare che il biancospino sia già fiorito. Ma non è così: tutt'intorno vi sono rami secchi e
terreno gelato; l'unico suono è il quasi impercettibile cadere delle foglie. Non è primavera,
ma è la “falsa" estate di san Martino, il breve periodo di tiepide giornate che ricorre spesso
ai primi di novembre, ricorrenza vicino al giorno dei morti, 2 novembre.
2 momenti: prima strofa, che è illusione di una stagione, primavera, 2-3 strofa che è
illusione del simbolo, la natura nel suo aspetto reale e simbolico racchiude la verità della
morte.
La poesia sviluppa il motivo del rapporto apparenza-realtà, attraverso il contrasto tra la
cristallina limpidezza di una bella giornata novembrina, che sembra evocare la primavera,
e la realtà dell'inverno che isterilisce la natura nell'immobilità del gelo. Pascoli pone
l'accento sull'illusorietà delle apparenze, sull'inganno della natura che, dietro labili
immagini di vita e di calore, nasconde la fredda realtà della morte. Il «Ma» spezza subito
l'incanto e introduce, arida e spoglia, la vera realtà del presente.
Le immagini di vita, di luce, di calore, presenti nella prima quartina, sono rese dalla
successione di suoni chiari e aperti. Ma l'impressione di dolcezza primaverile, è smentita
dalla quartina seguente che, introdotta dal «Ma», presenta la fenomenologia di una natura
minacciosa e ostile.
L'idea della morte si compendia nell'ossimoro «estate, / fredda, dei morti», mentre
l’accostamento, sottolineato dal forte enjambement, tra l'estate di san Martino e la
ricorrenza celebrativa dei defunti sigilla il senso della poesia: l'inganno dei sensi dinanzi a
una realtà che illude e delude, dinanzi a una natura che nasconde dietro immagini di vita
la presenza della morte.
La dialettica vita-morte è resa anche con opposte notazioni cromatiche. Da un lato
luminosità, purezza cristallina, senso di vita nascente, dall’altro compaiono immagini di
“nerezza”, di negazione, assenza, vuoto: la natura è priva di vita e di suoni.
Il lampo p.395
L'improvviso bagliore del lampo, che illumina la notte, assume la forza di una visione
allucinata, di una fulminea rivelazione. Il cielo e la terra, nell'attimo repentino che squarcia
d'un tratto il buio della notte, rivelano il loro volto tragico. Una casa bianca appare e poi
scompare, illuminata per un attimo, come un occhio che si apre e si chiude.
Il lampo è stato infatti concepito quale metafora degli ultimi istanti di vita del padre
agonizzante. L'improvvisa apparizione del lampo, che sconvolge gli aspetti della natura,
assume la forza di una visione allucinata, di una fulminea rivelazione. Il cielo e la terra,
nell'attimo repentino del bagliore che illumina d'un tratto la notte, rivelano il loro volto
tragico. Il verso iniziale, introdotto dalla congiunzione «E», ha la solennità di una sentenza
biblica che enuncia una tragica verità, anticipata dai due punti. La luce improvvisa del
lampo mette infatti a nudo, anche se solo per un attimo, la vera essenza dell'universo: il
mondo non appare più compatto e ordinato, bensì tragicamente lacerato e ferito.
La terra è descritta con espressioni che fanno pensare all'agonia di un essere vivente, il
cielo con aggettivi che trasmettono l'idea di una catastrofe imminente e insieme alludono
alla sofferenza umana.
Allo sconvolgimento degli elementi naturali si contrappone la casa, segno di presenza
umana, ultimo rifugio prima dello scatenarsi della tempesta. Simbolo del nido, essa non si
presenta però come un luogo sicuro e protettivo, ma appare fragile e precaria nel «tacito
tumulto» (ossimoro e allitterazione insieme), nel silenzio allucinato che precede lo scoppio
del tuono. La casa affiora per un attimo per poi essere anch'essa inghiottita dalle tenebre.
Questa impressione culmina nell'associazione analogica, tra la casa e l'occhio, che
rimanda allusivamente all'ultimo sguardo del padre che apre gli occhi, fissati con
espressione di terrore sullo spaventoso scenario di una realtà sconvolta, per richiuderli
subito nella buia oscurità della morte («notte nera»). Il trauma della morte del padre
diventa esperienza conoscitiva: il trauma personale è proiettato in senso simbolico nei
versi, tanto da coinvolgere l'intera natura.
Il tuono p.398
La situazione immaginata è successiva a quella presentata in Il lampo: la catastrofe è
avvenuta, tutte le cose sono immerse nell'oscurità (nella «notte nera»), il mondo è
precipitato nel caos e il fragore del tuono appare l'ultimo atto di un'apocalisse ormai
compiuta. Al frastuono minaccioso del tuono, simbolo del franare dell'universo, si
contrappongono infine le immagini rassicuranti della madre e della culla, emblemi del
“nido”.
Il canto della madre che culla il bambino costituisce una presenza protettiva, una sicura
difesa del nido, degli affetti familiari contro il mondo ostile. Il componimento, che si apre
con segnali di morte e con l'immagine «nera» del nulla, si conclude con l'annuncio di un
rifiorire della vita. A comunicare il superamento dell'angoscia è l'aggettivo «soave», posto
in posizione centrale, rafforzato dalla cesura e rilevato dalla lenta cadenza sillabica. La
parola «culla», in chiusura di verso e di componimento, rima con il «nulla» del v. 1: questo
richiamo non cancella il significato salvifico del nido, ma ne rende labile e fragile la durata
e l'esistenza (la pace si raggiunge nel nulla).
Si ha una prevalenza dei verbi che riproducono il rumore del tuono al v. 4 («rimbombò,
rimbalzò, rotolò») si susseguono per asindeto, le altre tre forme verbali
(«tacque»,«rimareggiò»,«vanì») sono unite dalla congiunzione, a smorzarne la violenza e
a introdurre il rallentamento ritmico della chiusa.
Nel Tuono domina l'impressione acustica, che rende la minaccia sonora del fenomeno
naturale. Ci sono numerose allitterazioni e onomatopee, suoni.
Temporale p.400
Sembra un quadretto naturalistico: l'inizio di un temporale, colto attraverso una serie di
rapide impressioni uditive e visive (il tuono in lontananza, il cielo illuminato dai lampi). Le
immagini, tuttavia, rimandano non alla realtà tangibile della rappresentazione ma alle
sensazioni dell’io.
Il componimento è costituito di sette versi con una quasi totale assenza di verbi. Tra gli
oggetti rappresentati si instaura una trama di analogie segrete, di nessi allusivi. Questa
struttura sintattica, a brevi frasi staccate, fatte di nomi, aggettivi, con stile ellittico e
nominale, è lo strumento espressivo più adatto a rendere il susseguirsi di impressioni
fuggevoli e l'immediatezza di percezioni soggettive.
Tutta la poesia si fonda su una successione cromatica in cui colori chiari e scuri si
alternano: all'iniziale rosso subentra il nero, poi il bianco, poi di nuovo il nero e infine
ancora il bianco. Ne risulta un quadro dalle tinte vivaci e decise, che mira non tanto alla
riproduzione esatta della scena, quanto alla frammentaria e rapida evocazione di una
sensazione colta nella sua immediatezza. La nota di colore bianco cui rimanda
implicitamente il casolare allude a una speranza, a una possibilità di riscatto. La stessa
immagine dell'ala di gabbiano, associata analogicamente, per il colore bianco, al casolare,
conferma questa interpretazione simbolica. Quest’associazione dipende dalla soggettività
del poeta. Del resto il volo, lo staccarsi da terra, vale anche come metafora della
liberazione dagli affanni e dalle sofferenze della vita.
CANTI DI CASTELVECCHIO
Pubblicata a Bologna nell'aprile 1903, la raccolta comprende, nella sua stampa definitiva
(1912), testi composti dal 1897 al 1907. A definire il libro e il medesimo motto virgiliano
che definisce Myricae: arbusta iuvant humilesque myricae ('s addicono gli arboscelli e le
umili tamerici").
Il tema dei propri morti, il non riuscire mai a seppellirli una volta per tutte, l'ossessione del
ritorno al passato da parte del poeta e l'angoscia di quello stesso passato che invade e
incombe sul presente, sono dati centrali nei Canti di Castelvecchio.
L'eterno rinnovarsi della natura è infatti messo in rapporto con la sorte umana, della quale
si avverte angosciosamente la precarietà e la finitezza. Gli stessi dati realistici della vita
campestre alludono, per via analogica, al sovrasenso delle cose, a una realtà che va al di
là di quella fenomenica, razionalmente sperimentabile e verificabile.
Il gelsomino notturno p.425
La poesia è elaborata in occasione del matrimonio dell’amico Gabriele Bagnanti.
Il poeta osserva nella notte due scene parallele: il ciclo erotico-sessuale della
fecondazione dei fiori, che si conclude simbolicamente con l'immagine dei petali sgualciti,
l'intimità di una prima notte di matrimonio, nell'interno di una casa. L'alba porta una
feconda promessa di felicità. Al poeta, che osserva dall'esterno, spetta il ruolo di chi si
sente escluso dal rapporto con gli altri e con il mondo.
Nata come poesia d'occasione per le nozze, Il gelsomino notturno presenta due vicende
che si svolgono nello stesso momento, nell'arco di una notte. Tra eros naturale (la
fecondazione dei fiori) ed eros umano è stabilito uno stretto parallelismo: l'unico estraneo
è il poeta che pensa ai suoi cari (v.2). Questo canto alla vita si rivela dunque, per l'autore,
un appressamento alla morte, una tormentata meditazione sulla propria vita non vissuta.
La simbologia floreale presenta una particolare valenza erotica. L'aprirsi del gelsomino,
con cui ha inizio la lirica, insieme al diffondersi di un intenso profumo è un invito all'amore.
Il componimento è percorso dalla compresenza dialettica di amore e morte. Il tema
funebre risalta con sottili allusioni che si succedono fin dall'incipit, alternandosi con
l'immagine del fiore che invita all'amore. Nella terza strofa le immagini suggeriscono il
mistero della vita che si rinnova, mentre nel verso seguente l'erba che nasce allude alla
continuazione della vita, al suo imporsi oltre la morte.
I POEMETTI
Vengono pubblicati nel 1897 contemporaneamente alla quarta edizione di Myricae. La
terza stampa del 1904 aveva come titolo i primi poemetti, mentre la quarta stampa del
1909 con il titolo di nuovi poemetti.
Sono ampi componimenti in forma di racconto, e costruiscono il romanzo di una
campagna felice, rifugio contro le minacce del mondo esterno. Essi si propongono, con la
difesa della piccola proprietà rurale, come il tentativo di ricostruire il disperso «nido»
familiare. Nei Poemetti si assiste a un innalzamento di tono rispetto a Myricae, segnalato
dalla stessa epigrafe virgiliana (quarta egloga) Paulo maiora canamus ("cantiamo di cose
un po' più elevate"), che indica la ricerca di una poesia più alta nel registro espressivo e
nella materia. Viene utilizzata la terzina dantesca, l’endecasillabo e la rima incatenata
mentre il verso è finalizzato alla narrazione.
In questi pometti si ha la presa di coscienza del disfacimento del nido e delle vecchie
tradizioni contadine dell’Italia che conosce. Per colpa dell’ingiustizia vede il popolo
disgregarsi, mentre la poesia diventa rifugio dove l’individuo può tornare ai valori
tradizionali.
Italy p.420
Il poemetto venne composto nel 1904, il testo si compone di due canti: il primo canto è
articolato in 9 capitoli, il secondo in 20 brevi capitoli. L'occasione esterna è un episodio di
storia locale, avvenuto alla famiglia di un piccolo agricoltore, amico di Pascoli. I figli
dell'agricoltore, rimasto con la moglie al paese, sono emigrati negli Stati Uniti. Nel febbraio
1903 arriva al paese (Caprona, frazione di Castelvecchio) una nipotina dell'agricoltore,
nata a Cincinnati (Ohio), malata di tisi e bisognosa di cure. La bimba, dopo un primo
miglioramento, muore nel 1906. Nel poemetto, la bambina, di nome Molly, dapprima
detesta l'Italia, poi si lega d'affetto profondo alla nonna, con la quale all'inizio non riesce a
comunicare. Molly nel racconto, diversamente dalla realtà, è descritta guarita e in piena
salute, mentre è in partenza per gli Stati Uniti, con la promessa di tornare in Italia.
La piccola Molly, di otto anni, figlia di emigrati italiani residenti a Cincinnati, è tornata a
Caprona accompagnata dallo zio Joe e dalla zia Ghita, per curarsi e rimettersi in salute. A
Caprona è assistita dai vecchi nonni. Rimessa in salute, la bimba con i due zii riparte per
gli Usa, e promette di tornare in Italia. Tutto il paese partecipa a questo addio, inviando
saluti per i parenti emigrati in passato; il tempo è bello, le rondini volano nel cielo, ma
Molly è triste: ai bimbi del paese, suoi compagni di giochi, promette di ritornare.
Il poemetto evidenzia l'interesse di Pascoli per la questione dell'emigrazione, che è
fenomeno rilevante delle pessime condizioni economiche in Italia tra fine Ottocento e
primo Novecento. Il poeta denuncia l’emigrazione, che comporta sradicamento dalla terra
d'origine, crisi d'identità, problemi enormi di integrazione in luoghi lontani e diversi dal
Paese di provenienza, per cultura, lingua, usi, costumi.
Il poemetto presenta un originale impasto linguistico. Vi troviamo, infatti, parole inglesi,
parole inglesi italianizzate e storpiate dagli emigranti, cioè il cosiddetto "italiese"
(ibridazione di italiano e inglese).

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