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Indice

Copertina
L’immagine
Il libro
L’autore
Frontespizio
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Guida alla lingua di Apollo
Copyright.
Il libro

Trasformato in un adolescente mortale, bandito dall’Olimpo e privato


della propria sfolgorante bellezza, Apollo deve ora affrontare la
perdita più grave: quella di un amico, Jason Grace. Deciso a tributare
all’eroe tutti gli onori, l’ex divinità lo conduce al Campo Giove per
consegnarlo alla terra cui appartiene.

Ma qui lo attende un’amara rivelazione: dopo aver approntato una


disperata resistenza contro gli imperatori del Triumvirato, i semidei
devono respingere un nemico ancora più spietato di Caligola,
Commodo e Nerone messi insieme… Tarquinio il Superbo, l’ultimo re
di Roma! Presto attaccherà con le sue armate di non-morti e lo farà
nel giorno più propizio, quando nel cielo scintillerà la luna di sangue e
l’esercito di ossa sarà al culmine della ferocia. L’unica speranza di
salvezza è trovare la tomba del tiranno, che si nasconde nel luogo più
imprevedibile del mondo: sotto una luccicante, innocua giostra di
cavallucci. Insieme alle amiche Meg, Hazel, Reyna e Lavinia, Apollo
è di nuovo pronto a una travolgente, eroica, esilarante sfida!
L’autore
Rick Riordan

Autore per ragazzi e adulti, è stato premiato con i


riconoscimenti più importanti del genere mystery.

Vive a Boston con la moglie e i due figli. Le


saghe “Percy Jackson e gli dei dell’Olimpo”,
“Eroi dell’Olimpo”, “The Kane Chronicles”,
“Magnus Chase e gli dei di Asgard” e “Le sfide
di Apollo” hanno venduto più di 40 milioni di copie nel mondo.
Rick Riordan
LE SFIDE DI APOLLO
La tomba del tiranno
Traduzione di Loredana Baldinucci e Laura Melosi
In memoria di Diane Martinez,

che ha cambiato in meglio la vita di molti


La Profezia Oscura
Parole memorabili prendon fuoco
Pria che sul Diavol sorga luna nuova.
Il Tevere di corpi sarà il loco
Se il mutaforma affronterà la prova.
Eppure il sole a sud dovrà viaggiare
fra meandri scuri e lande della morte.
Bianco il cavallo che dovrà trovare
del cruciverba il fiato avere in sorte.
A ovest nel palazzo ei dovrà andare;
radici antiche l’altra troverà.
Le scarpe del nemico come usare
la guida con gli zoccoli saprà.
I tre or noti e il Tevere raggiunto,
Apollo ballerà, l’attimo è giunto.
1

Non sono cibo

Giù le zampe dal mio

Carro funebre!

Sono un convinto sostenitore della restituzione dei cadaveri.


È un semplice atto di cortesia, non vi pare? Un guerriero
muore, e si dovrebbe fare il possibile affinché il suo corpo sia
reso alla sua gente per i riti funebri. Forse sono all’antica. Del
resto, ho più di quattromila anni. Ma trovo incivile che non si
disponga in modo adeguato dei cadaveri.
Prendete Achille durante la guerra di Troia, per esempio.
Una carogna totale. Legò a un carro il corpo dell’eroe troiano
Ettore e lo trascinò intorno alle mura della città per giorni.
Alla fine convinsi Zeus a insistere perché quel bullo restituisse
il corpo di Ettore ai suoi genitori, in modo che ricevesse una
degna sepoltura. Insomma, dai. Abbi un po’ di rispetto per le
persone che ammazzi.
Poi ci fu Oliver Cromwell. Non ero un suo ammiratore, ma
vi prego. Prima, gli inglesi lo seppelliscono con tutti gli onori.
Poi decidono che lo odiano, così lo tirano fuori e “giustiziano”
il suo corpo. Poi la sua testa cade dalla picca in cui è rimasta
infilzata per decenni e passa da un collezionista all’altro per
almeno tre secoli, come un disgustoso souvenir. Finché, nel
1960, bisbigliai nelle orecchie di certe persone influenti:
«Adesso basta! Sono il divino Apollo, e vi ordino di seppellire
quella cosa. Mi date il voltastomaco».
Quando toccò a Jason Grace, amico nonché fratellastro
caduto in battaglia, non avevo intenzione di lasciare nulla al
caso. Avrei scortato personalmente la sua bara fino al Campo
Giove e gli avrei dato il mio estremo saluto.
Considerato l’attacco dei ghoul e tutto il resto, si rivelò una
gran bella mossa.
La baia di San Francisco era un calderone di rame fuso nel
tramonto quando atterrammo con il nostro aereo privato
all’aeroporto di Oakland. Sì, ho detto il nostro aereo privato. Il
volo charter era un regalo d’addio della nostra amica Piper
McLean e di suo padre, la stella del cinema. (Tutti dovrebbero
avere almeno un amico con un genitore che è una stella del
cinema.)
Ad aspettarci accanto alla pista c’era un’altra sorpresa che
doveva essere opera dei McLean: uno sfavillante carro funebre
nero.
Io e Meg McCaffrey ci sgranchimmo le gambe mentre
l’equipaggio di terra prelevava mestamente la bara di Jason
dalla stiva del Cessna. La cassa di mogano levigato
risplendeva alla luce della sera. Le finiture d’ottone
scintillavano di rosso. Quella bellezza suscitò in me un
sentimento di odio. La morte non dovrebbe essere bella.
L’equipaggio caricò la bara nel carro funebre, poi trasferì il
nostro bagaglio sul sedile posteriore. Non avevamo molto: lo
zaino di Meg e il mio (per gentile concessione del negozio
Follie Militari di Marco), il mio arco, la faretra e l’ukulele, più
un paio di album di schizzi e un plastico che avevamo
ereditato da Jason.
Firmai qualche scartoffia, ricevetti le condoglianze
dell’equipaggio di volo, quindi scambiai una stretta di mano
con un simpatico impresario di pompe funebri che mi
consegnò le chiavi dell’auto e se ne andò.
Guardai prima le chiavi, poi Meg, che stava addentando la
testa di un pesce rosso. C’era una bella scorta di barattoli pieni
di caramelle gommose a forma di pesce rosso sull’aereo.
C’era. Ora non più. Meg aveva portato sull’orlo del collasso
l’intero ecosistema dei pesci gommosi tutto da sola.
«Devo guidare io?» domandai. «È un carro funebre a
noleggio?»
Meg fece spallucce. Durante il volo, aveva voluto a tutti i
costi sdraiarsi sul divano del Cessna, così aveva il caschetto
scuro tutto spiaccicato su un lato della testa. Una delle punte
dei suoi occhiali con gli strass sbucava tra i capelli come la
pinna stroboscopica di uno squalo.
Il resto del suo abbigliamento non era in condizioni
migliori: scarpe da ginnastica rosse e flosce, leggings gialli
consunti e l’amatissimo scamiciato verde al ginocchio che
aveva ricevuto in dono dalla madre di Percy Jackson. E
quando dico “amatissimo”, mi riferisco al fatto che lo
scamiciato aveva vissuto talmente tante battaglie ed era stato
lavato e rammendato talmente tante volte da somigliare più a
una mongolfiera sgonfia che a un capo di vestiario. Ma era
intorno alla vita che Meg portava il suo pezzo forte: la cintura
da giardinaggio multitasche, perché i figli di Demetra non
escono mai di casa senza indossarne una.
«Io non ho la patente» disse, come se avessi bisogno che mi
si ricordasse che la mia vita era nelle mani di una dodicenne.
«Però mi siedo davanti.»
“Sedersi davanti” non sembrava la cosa più appropriata da
dire trattandosi di un carro funebre. Meg però saltellò come se
niente fosse fino al lato del passeggero e salì in macchina. Io
mi misi al volante. Ben presto ci lasciammo l’aeroporto alle
spalle, viaggiando in direzione nord sulla I-880 nella nostra
lutto-mobile nera.
Ah, la baia di San Francisco… avevo trascorso bei momenti
da quelle parti. Quel bacino vasto e irregolare era pieno zeppo
di persone e luoghi interessanti. Adoravo le colline verdi e
dorate, la costa percorsa dalla nebbia, l’intrico scintillante dei
ponti e il folle zigzagare dei quartieri addossati gli uni agli altri
come passeggeri della metropolitana all’ora di punta.
Negli anni Cinquanta, avevo suonato insieme a Dizzy
Gillespie a Fillmore. Durante la Summer of Love, avevo
partecipato a una jam session improvvisata nel Golden Gate
Park con i Grateful Dead. (Adorabili, ma c’era davvero
bisogno di tutti quegli interminabili assolo?) Negli anni
Ottanta, a Oakland, frequentavo Stan Burrell – altrimenti noto
come MC Hammer – mentre lui faceva da apripista al pop-rap.
Non posso vantare meriti sulla musica di Stan, però gli diedi
molti consigli di moda. I pantaloni di lamé dorato? Un’idea
mia. Grazie, fashionisti, non c’è di che.
La maggior parte della baia mi riportava alla mente bei
ricordi. Ma, mentre guidavo, non potevo fare a meno di
lanciare qualche occhiata a nord-ovest, verso Marin County e
la vetta scura del Monte Tamalpais. Noi divinità conoscevamo
quel luogo come Monte Otri, sede dei Titani. Anche se i nostri
antichi nemici erano stati sconfitti e il loro palazzo era ormai
distrutto, riuscivo ancora a percepire l’attrazione malvagia che
esercitava quel posto, come un magnete che stesse cercando di
estrarre il ferro dal mio sangue purtroppo mortale.
Feci del mio meglio per scacciare quella sensazione.
Avevamo altri problemi al momento. E poi la nostra meta era
il Campo Giove, un territorio amico su quel lato della baia.
Avevo le spalle coperte da Meg. Stavo guidando un carro
funebre. Cosa poteva mai andare storto?
L’autostrada si snodava lungo la pianura della baia
orientale, superando magazzini e aree portuali, centri
commerciali e file di bungalow fatiscenti. Alla nostra destra
sorgeva il centro di Oakland, con il piccolo agglomerato di
modesti grattacieli che guardava con aria di sfida San
Francisco, la vicina più popolare sul lato opposto della baia,
come a dire: “Ehi, ci siamo anche noi!”.
Meg allungò la schiena sul sedile, appoggiò le scarpe da
ginnastica sul cruscotto e aprì uno spiraglio nel finestrino. «Mi
piace questo posto.»
«Siamo appena arrivati» le feci notare. «Cos’è che ti piace?
I magazzini abbandonati? L’insegna del Pollo&Waffle di Bo?»
«La natura.»
«Il cemento è natura?»
«Ci sono anche gli alberi. Le piante fiorite. L’umidità
dell’aria. Gli eucalipti hanno un buon profumo. Non è
come…»
Non ci fu bisogno di dire altro. I giorni trascorsi nella
California del Sud erano stati segnati da temperature torride,
siccità estrema e incendi che infuriavano ovunque: tutto grazie
al magico Labirinto di fuoco sotto il controllo di Caligola e
della sua amichetta Medea, maga rancorosa e traboccante di
odio. La baia non aveva nessuno di questi problemi. Non al
momento, almeno.
Avevamo ucciso Medea. Avevamo estinto il Labirinto di
fuoco. Avevamo liberato la Sibilla Eritrea e portato sollievo ai
mortali e agli spiriti della natura appassiti.
Ma Caligola era fin troppo vivo e vegeto. Lui e gli altri
imperatori del Triumvirato intendevano ancora controllare tutti
gli Oracoli, conquistare il mondo e scrivere il futuro a loro
sadica immagine e somiglianza. In quello stesso istante, la
malvagia flotta di lussuosi yacht di Caligola stava facendo
rotta verso San Francisco per attaccare il Campo Giove.
Potevo solo immaginare il genere di distruzione infernale che
l’imperatore avrebbe scatenato su Oakland e sul Pollo&Waffle
di Bo.
Anche se fossimo riusciti a sconfiggere il Triumvirato,
c’era ancora l’Oracolo maggiore, quello di Delfi, sotto il
controllo della mia antica nemesi, Pitone. Come potevo
sconfiggerlo nella mia attuale forma di sedicenne smidollato?
Non ne avevo idea.
Ma… ehi! A parte questo, era tutto okay. Gli eucalipti
avevano un buon profumo.
Il traffico rallentò allo svincolo della I-580. A quanto
pareva, gli automobilisti della California non rispettavano
l’usanza di dare la precedenza ai carri funebri. Forse
pensavano che, essendo almeno uno dei nostri passeggeri già
morto, non avessimo fretta.
«Sai come si arriva al Campo Giove?» chiese Meg mentre
giocava con i comandi del finestrino, alzando e abbassando il
vetro. Wiiir. Wiiir. Wiiir.
«Certo.»
«L’hai detto pure per il Campo Mezzosangue.»
«E infatti ci siamo arrivati! Alla fine.»
«Congelati e mezzi morti.»
«Senti, l’ingresso del campo è laggiù.» Indicai con un gesto
vago le colline di Oakland. «C’è un passaggio segreto nel
Caldecott Tunnel… o qualcosa del genere.»
«Qualcosa del genere?»
«Be’, non ho mai guidato davvero fino al campo» ammisi.
«Di solito scendo dal cielo con il mio glorioso carro del sole.
Ma so che il Caldecott Tunnel è l’ingresso principale.
Probabilmente c’è un cartello. Forse una corsia preferenziale
per semidei.»
Meg mi scrutò da sopra le lenti degli occhiali. «Sei il dio
più scemo del mondo.» Sollevò il finestrino con un ultimo
wiiir e poi SHLUMP!
Il suono mi ricordò in modo inquietante quello della lama
di una ghigliottina.
Prendemmo la Highway 24 diretti a ovest. L’ingorgo si
diradò man mano che ci avvicinavamo alle colline. Le corsie
sopraelevate attraversavano quartieri di strade tortuose, alte
conifere, case intonacate di bianco abbarbicate sui fianchi di
burroni erbosi.
Un cartello segnalava: INGRESSO CALDECOTT TUNNEL 3 KM .
La cosa avrebbe dovuto consolarmi: presto avremmo varcato i
confini del Campo Giove e saremmo entrati in una valle molto
ben difesa e magicamente mimetizzata, in cui un’intera
legione romana poteva proteggermi dalle mie preoccupazioni,
almeno per un po’.
Allora perché mi formicolavano i peli sulla nuca come tanti
vermi marini?
Qualcosa non tornava. Cominciai a pensare che
l’inquietudine che avvertivo fin da quando eravamo atterrati
forse non dipendeva dalla lontana minaccia di Caligola, o
dall’antica sede dei Titani sul Monte Tamalpais, ma da
qualcosa di più imminente… qualcosa di malevolo, che si
avvicinava.
Lanciai un’occhiata allo specchietto retrovisore. Fra le
tendine velate del lunotto posteriore vidi soltanto il traffico.
Ma poi, sulla superficie levigata della bara di Jason, scorsi il
riflesso di una sagoma scura che si muoveva, come se un
oggetto di dimensioni umane avesse appena superato in volo il
fianco del carro funebre.
«Ehm… Meg?» Cercai di mantenere la voce calma. «Vedi
qualcosa di insolito alle nostre spalle?»
«Insolito? Tipo cosa?»
THUMP.
Il carro funebre sobbalzò come se una roulotte piena di
rottami ci avesse appena agganciato. Sopra la mia testa, sul
tettuccio, comparvero due impronte di piedi.
«Qualcosa è appena atterrato sul tettuccio» dedusse Meg.
«Grazie, Sherlock McCaffrey! Puoi farlo scendere?»
«Io? E come?»
Domanda seccante ma giusta. Meg poteva trasformare gli
anelli che indossava sul dito medio di ciascuna mano in
micidiali siccae, spade ricurve d’oro imperiale; tuttavia, se le
evocava in luoghi molto stretti, come l’interno di un carro
funebre, a) non avrebbe avuto lo spazio necessario a usarle e
b) avrebbe rischiato di infilzare me e/o se stessa.
CREEEK. CREEEK. Le impronte di piedi si fecero più
profonde mentre la creatura distribuiva meglio il proprio peso,
come un surfista sulla tavola. Doveva essere pesantissima per
affondare nel tettuccio di metallo.
Un gemito mi si formò in gola. Mi tremavano le mani sul
volante. Rimpiansi l’arco e la faretra sul sedile posteriore, ma
tanto non avrei potuto usarli. Il GSFIC – ovvero Guidare e
Sparare Frecce In Contemporanea – è vietatissimo, ragazzi.
Non si può.
«Forse puoi aprire il finestrino» dissi a Meg. «Ti sporgi e
gli dici di andarsene.»
«Ehm, credo proprio di no.» (Oh dei, quanto era cocciuta.)
«Che ne dici di provare a scrollarlo via?»
Prima che riuscissi a spiegarle che era una pessima idea
dato che stavamo viaggiando a ottanta chilometri orari su
un’autostrada, udii un suono simile a quello delle lattine che si
aprono: il sibilo nitido dell’aria che attraversa il metallo. Un
artiglio sbucò dal soffitto: era un unghione bianco sporco,
grosso quanto la punta di un trapano. Poi ne spuntò un altro. E
un altro. E un altro ancora, finché il rivestimento interno
dell’auto non fu costellato di dieci spunzoni bianchi e aguzzi:
il numero perfetto per due mani molto grosse.
«Meg?!» strillai. «Potresti…?»
Non so come avrei finito la frase. Proteggermi? Uccidere
quel coso? Controllare se ho portato un paio di mutande di
scorta?
Ma fui bruscamente interrotto dalla creatura, che strappò il
tettuccio come se il carro funebre fosse un pacco e noi il suo
regalo di compleanno.
Affacciato allo squarcio, mi fissava un umanoide
cadaverico e avvizzito, con la pelle nero-bluastra che luccicava
come quella di una mosca, gli occhi due orbite bianche e i
denti che colavano saliva. Indossava un perizoma di penne
nere e untuose che svolazzavano nell’aria. L’odore che
emanava era più putrido di quello di un cassonetto… e,
credetemi, io ne so qualcosa.
«CIBO!» ululò.
«Uccidilo!» urlai a Meg.
«Sterza!» ribatté lei.
Uno dei molti aspetti fastidiosi dell’essere imprigionato nel
mio insignificante corpo mortale era questo: essere totalmente
asservito a Meg McCaffrey. Dovevo obbedire a ogni suo
comando. Perciò quando gridò: «Sterza!», sterzai bruscamente
verso destra. Il carro funebre si comportò meravigliosamente.
Sbandò per tre corsie di traffico, si fiondò dritto contro il
guardrail e precipitò nel canyon sottostante.
2

Ehi, ma che vuoi?

Chi è che vuoi mangiare?

Quel morto è mio!

Mi piacciono le macchine volanti. Però preferisco quelle


davvero in grado di volare.
Quando il carro funebre raggiunse il punto di gravità zero,
ebbi qualche microsecondo per apprezzare lo scenario
sottostante: un delizioso laghetto orlato di eucalipti e sentieri,
con una spiaggetta sulla sponda opposta, dove un gruppo di
persone si rilassava in un picnic pomeridiano.
“Oh, bene” pensò una piccola parte del mio cervello.
“Forse almeno atterreremo in acqua.”
Poi cominciammo a precipitare: non verso il lago, ma verso
gli alberi.
Un suono simile al do acuto di Luciano Pavarotti nel Don
Giovanni fuoriuscì dalla mia gola. Incollai le mani al volante.
Mentre ci tuffavamo tra gli eucalipti, il ghoul scomparve
dal tettuccio della nostra auto, come se i rami degli alberi lo
avessero allontanato di proposito. Altri rami sembrarono
piegarsi intorno al carro funebre, rallentando la nostra caduta,
lasciandoci precipitare da una fronda odorosa di caramelle per
la tosse all’altra, finché non atterrammo su tutte e quattro le
ruote con un tonfo assordante. Troppo tardi per servire
davvero a qualcosa, gli airbag scoppiarono, e mi ritrovai con la
testa spiaccicata contro il sedile.
Macchioline gialle mi danzavano davanti agli occhi. Il
sapore del sangue mi bruciava in gola. Brancolai alla ricerca
della maniglia, sgusciai faticosamente fra l’airbag e il sedile, e
caddi fuori su un letto di erba fresca e soffice. «Bleurp!»
esclamai.
Udii Meg che vomitava da qualche parte nei paraggi.
Almeno era ancora viva. A poche centinaia di metri alla mia
sinistra, l’acqua si infrangeva dolcemente sulla sponda del
lago. Sopra la mia testa, quasi sulla cima dell’eucalipto più
grande, il nostro cadaverico e nero-bluastro amico ringhiava e
si contorceva, intrappolato in una gabbia di rami.
Faticavo a rialzarmi. Mi pulsava il naso. Mi sentivo le
narici piene di pomata al mentolo. «Meg?»
Comparve barcollando davanti al muso della macchina. Le
si stavano formando lividi a forma di cerchio intorno agli
occhi, merito senza dubbio dell’airbag del lato passeggero. Gli
occhiali però erano intatti, anche se messi di traverso. «Lo sai
che sterzi proprio da schifo?»
«Oh, santi numi!» protestai. «Sei stata tu a ordinarmi di…»
Vacillai. «Aspetta. Com’è che siamo ancora vivi? Sei stata tu a
piegare i rami?»
«Ma va?» Mosse le mani di scatto, e le due siccae d’oro
imperiale comparvero in un lampo. Meg le usò come racchette
da sci per reggersi in piedi. «Non tratterranno il mostro ancora
per molto. Tieniti pronto.»
«Cosa?!» strillai. «Aspetta. No. Non sono pronto!» Riuscii
a rimettermi in piedi appoggiandomi allo sportello dell’auto.
Dall’altra parte del lago, quelli del picnic si alzarono dalle
coperte. Probabilmente un carro funebre che cade giù dal cielo
aveva attirato la loro attenzione.
Avevo la vista sfocata, ma c’era qualcosa di singolare in
quel gruppetto… Possibile che qualcuno indossasse
un’armatura? E che un altro avesse zoccoli caprini?
Ma, anche se fossero stati amici, erano troppo lontani per
aiutarci.
Zoppicai appoggiandomi al carro funebre e spalancai lo
sportello posteriore. La bara di Jason sembrava sana e salva.
Afferrai l’arco e la faretra. Il mio ukulele era svanito da
qualche parte sotto gli airbag scoppiati. Avrei dovuto farne a
meno.
Sopra di noi, la creatura ululava agitandosi nella gabbia di
rami.
Meg barcollò. Aveva la fronte imperlata di sudore.
Poi il ghoul si liberò e rovinò verso il basso, atterrando a
pochi metri di distanza. Sperai che si rompesse le gambe
nell’impatto, ma niente da fare. Si trascinò per qualche metro,
lasciando crateri umidi nell’erba, quindi si raddrizzò e ringhiò,
con i denti bianchi e aguzzi simili a due palizzate speculari.
«UCCIDI E MANGIA!» strepitò.
Che voce adorabile. Il ghoul avrebbe potuto tenere testa a
qualsiasi gruppo death metal norvegese.
«Aspetta!» ribattei con una vocina acuta. «Io ti… io ti
conosco.» Agitai il dito, come se potesse servire a riattivare un
ricordo. Stretto nell’altra mano, l’arco tremava. Le frecce
vibravano nella faretra. «A-aspetta, ora vedrai che mi ritorna
in mente.»
Il ghoul esitò. Ho sempre creduto che alla maggior parte
delle creature senzienti piaccia essere riconosciute. Qualunque
cosa siamo – divinità, persone o mostri bavosi in perizoma di
piume d’avvoltoio – apprezziamo che gli altri pronuncino il
nostro nome e riconoscano la nostra esistenza.
Ovviamente, stavo solo cercando di guadagnare tempo.
Speravo che Meg riprendesse fiato, attaccasse la creatura e la
facesse a fettine sottili come pappardelle. Al momento, però,
sembrava capace di usare le due spade solo come stampelle.
Controllare alberi giganti doveva essere stancante, ma non
poteva rimandare l’esaurimento delle forze a dopo
l’eliminazione di Pannolino di Avvoltoio?
Aspettate un attimo. Pannolino di Avvoltoio… Diedi
un’altra occhiata al ghoul: quella strana pelle nera e bluastra,
gli occhi lattiginosi, la bocca troppo grande e le narici a
fessura. Puzzava di carne rancida. Indossava le piume di un
uccello necrofago…
«Sì, sì, ti conosco!» esclamai. «Sei un eurynomos.»
Vi sfido a ricordare e pronunciare un nome del genere
quando hai la lingua di piombo, tremi di terrore e ti è appena
esploso un airbag in faccia.
Il mostro arricciò le labbra, facendo gocciolare filamenti di
bava argentata giù dal mento. «SÌ! CIBO SA IL MIO
NOME!»
«Ma tu divori i cadaveri!» protestai. «Dovresti essere negli
Inferi a lavorare per Ade!»
Il ghoul inclinò la testa come per sforzarsi di ricordare le
parole “Inferi” e “Ade”. Sembrava gradirle meno di “uccidi” e
“mangia”. «ADE MI DAVA MORTI VECCHI!» strillò. «IL
PADRONE MI DÀ MORTI FRESCHI!»
«Il padrone?»
«IL PADRONE!»
Quanto avrei voluto che evitasse di gridare. Era privo di
orecchie visibili, perciò forse aveva uno scarso controllo del
volume. O forse voleva soltanto coprire il più ampio raggio
possibile con i suoi spruzzi di saliva.
«Se ti riferisci a Caligola, sono certo che ti avrà fatto
promesse di ogni genere» tirai a indovinare. «Ma, fidati di me,
Caligola non…»
«AH! STUPIDO CIBO! CALIGOLA NON È IL
PADRONE!»
«Non è il padrone?»
«NON È IL PADRONE!»
«MEG!» gridai. Argh… Adesso lo stavo facendo io.
«Sì?» Con aria feroce e battagliera iniziò a venire verso di
me a passo di nonnina, sostenendosi sulle grucce-spada.
«Dammi… un… minuto.»
Non avrebbe guidato lei quella battaglia, era chiaro. Se
lasciavo che Pannolino di Avvoltoio le si accostasse, l’avrebbe
uccisa, e trovavo l’idea inaccettabile al 95 per cento.
«Be’, eurynomos, chiunque sia il tuo padrone, tu non
ucciderai e non mangerai nessuno oggi!» Sfilai una freccia
dalla faretra. La incoccai e presi la mira, come avevo fatto
letteralmente milioni di volte, ma il risultato non fu molto
impressionante considerate le mani tremanti e le ginocchia di
gelatina.
Perché i mortali tremano quando hanno paura? Sembra così
controproducente. Se avessi creato io gli umani, li avrei dotati
di una saldezza d’acciaio e di una forza sovrumana nei
momenti di terrore.
Il ghoul sibilò, spruzzando bava. «PRESTO GLI
ESERCITI DEL MIO PADRONE RISORGERANNO!» urlò.
«FINIREMO IL LAVORO! DIVORERÒ CIBO FINO
ALL’OSSO… E CIBO SI UNIRÀ A NOI!»
“Cibo si unirà a noi”? Il mio stomaco sperimentò
un’improvvisa perdita di pressione in cabina.
Ricordai il motivo per cui Ade amava così tanto i suoi
eurynomoi. Bastava un lievissimo graffio dei loro artigli a
provocare una malattia devastante nei mortali. E, quando
morivano, quei mortali risorgevano come vrykolakai, per dirla
come i Greci, o, in gergo televisivo, come zombie.
Ma c’era di peggio. Quando un eurynomos riusciva a
divorare la carne di un cadavere fino all’osso, lo scheletro si
rianimava sotto forma del guerriero non-morto più feroce e
spietato che esistesse al mondo. Molti di questi scheletri
servivano come guardie scelte del palazzo di Ade, e quello di
certo non era un ruolo a cui aspiravo.
«Meg?» Continuai a tenere la freccia puntata sul petto del
ghoul. «Sta’ indietro. Non lasciare che questo coso ti graffi.»
«Ma…»
«Ti prego» supplicai. «Per una volta, fidati di me.»
Pannolino di Avvoltoio ringhiò. «CIBO PARLA TROPPO!
FAME!»
Mi attaccò.
Scoccai la mia freccia.
Andai a segno – al centro del petto del ghoul – ma la
freccia rimbalzò come una mazza di gomma sul metallo.
La punta di bronzo celeste però doveva avergli fatto male.
La creatura lanciò un grido acuto e si fermò, con
un’increspatura fumante sullo sterno. Ma era ancora fin troppo
viva. Forse, se fossi riuscito a colpirla venti o trenta volte nello
stesso punto esatto, sarei riuscito a ferirla sul serio.
Con le mani tremanti, incoccai un’altra freccia. «E-era solo
un avvertimento!» bluffai. «La prossima ti ucciderà!»
Pannolino di Avvoltoio emise un verso gorgogliante.
Sperai quasi che fosse un rantolo di morte a scoppio
ritardato. Poi mi resi conto che stava solo ridendo.
«VUOI CHE MANGI PRIMA ALTRO CIBO? TI LASCIO
PER DOLCE?» Ritirò gli artigli, indicando il carro funebre.
Non capivo. Mi rifiutavo di capire. Voleva mangiarsi gli
airbag? La tappezzeria?
Meg ci arrivò prima di me. Urlò di rabbia.
Quella creatura divorava i morti. E noi guidavamo un carro
funebre.
«NO!» gridò Meg. «Lascialo stare!» Si fece avanti,
sollevando le spade, ma barcollava e non era nelle condizioni
di affrontare il ghoul.
La scansai con una spinta, mettendomi tra lei e il mostro, e
cominciai a bersagliarlo di frecce.
I proiettili però rimbalzavano su quella pellaccia nero-
bluastra, lasciando solo ferite fumanti e fastidiosamente non
letali. Pannolino di Avvoltoio continuava ad avanzare verso di
me, ringhiando dal dolore, trasalendo a ogni colpo.
Era a un metro e mezzo di distanza.
Arrivato a meno di un metro, allargò gli artigli per
squarciarmi il viso.
Da qualche parte alle mie spalle, una voce femminile gridò:
«EHI!».
Il richiamo distrasse Pannolino di Avvoltoio abbastanza a
lungo da permettermi di cadere gloriosamente sulle chiappe.
Mi allontanai carponi dalle sue grinfie.
Il mostro strizzò gli occhi, confuso dal suo nuovo pubblico.
Poco lontano, un curioso assortimento di fauni e driadi, forse
una decina in tutto, stava cercando di nascondersi alle spalle di
una giovane spilungona dai capelli rosa, vestita con l’armatura
dei legionari romani, che stava manovrando goffamente una
qualche arma da lancio.
Oh, santo cielo! Una manubalista. Una pesante balestra
romana portatile. Quegli affari erano tremendi. Lenti. Potenti.
Notoriamente inaffidabili.
Il dardo era incoccato. La ragazza girò la manovella, con le
mani che tremavano quanto le mie.
Nel frattempo, alla mia sinistra, Meg gemeva nell’erba,
cercando di rimettersi in piedi. «Mi hai spinto» si lamentò,
anche se senza dubbio intendeva: “Grazie, Apollo, di avermi
salvato la vita”.
La ragazza con i capelli rosa sollevò la manubalista. Con
quelle lunghe gambe un po’ traballanti, mi ricordava il
cucciolo di una giraffa. «Allontanati» ordinò al mostro.
Pannolino di Avvoltoio le rivolse il peculiare sibilo a
spruzzo. «ALTRO CIBO! VI UNIRETE TUTTI AI MORTI
DEL RE!»
«Senti, bello…» Uno dei fauni si grattò nervosamente la
pancia sotto la maglietta con la scritta REPUBBLICA POPOLARE
DI BERKELEY . «Così non ci siamo.»

«Non ci siamo» gli fecero eco diversi suoi amici.


«NON POTETE CONTRASTARMI, ROMANI!» ringhiò il
ghoul. «HO GIÀ ASSAGGIATO LA CARNE DEI VOSTRI
COMPAGNI! ALLA LUNA DI SANGUE, VI UNIRETE A
LORO…»
TUNK!
Un dardo di balestra si materializzò al centro del petto di
Pannolino di Avvoltoio.
Per la sorpresa, il mostro spalancò gli occhi lattiginosi. La
legionaria romana sembrava altrettanto sbigottita.
«Ehi, guarda che l’hai colpito» disse uno dei fauni, come se
la cosa avesse urtato la sua sensibilità.
Il ghoul si sgretolò in un mucchietto di polvere e piume
d’avvoltoio. Il dardo d’oro imperiale tintinnò a terra.
Meg mi si avvicinò barcollando. «Visto? È così che dovevi
ucciderlo.»
«Oh, piantala» brontolai.
Ci voltammo a guardare la nostra improbabile salvatrice.
La ragazza con i capelli rosa stava osservando accigliata il
mucchio di polvere. Le tremava il mento, come se fosse sul
punto di piangere. «Odio questi cosi» borbottò.
«Li-li hai già combattuti?» chiesi.
Mi guardò come se la mia domanda fosse così stupida da
risultare offensiva.
Uno dei fauni le diede un colpetto di gomito. «Lavinia,
ehi… chiedigli chi sono.»
«Ah, giusto.» Lavinia si schiarì la voce. «Chi siete?»
Mi alzai, sforzandomi di ritrovare un contegno. «Io sono
Apollo. Lei è Meg. Grazie di averci salvati.»
Lavinia sgranò gli occhi. «Apollo… nel senso di…?»
«È una lunga storia. Stiamo trasportando il corpo del nostro
amico Jason Grace al Campo Giove, per la sepoltura. Ci potete
aiutare?»
«Jason Grace… è morto?» Lavinia rimase a bocca aperta.
Prima che potessi rispondere, da qualche parte sulla
Highway 24 si levò un inquietante grido di rabbia.
«Ehm… ma quei cosi di solito non girano in coppia?» si
intromise uno dei fauni.
Lavinia deglutì. «Sì. Ragazzi, vi portiamo al campo. Poi
parleremo di…» Indicò con un gesto impacciato il carro
funebre. «… di chi è morto e perché.»
3

Non so correre

E masticare gomme

Insieme. E allora?

Quanti spiriti della natura ci vogliono per trasportare una bara?


La risposta resterà un mistero, dal momento che tutte le
driadi e i fauni tranne uno si dispersero tra gli alberi non
appena ebbero compreso che c’era da faticare. Anche l’ultimo
fauno ci avrebbe abbandonati, ma Lavinia lo agguantò per un
polso.
«Oh, no. Tu non te ne vai, Don.»
Dietro le lenti tonde dalle sfumature arcobaleno dei suoi
occhiali, il fauno Don sgranò gli occhi per il panico. Gli tremò
anche il pizzetto: un tic facciale che mi fece rimpiangere il
satiro Grover.
(Nel caso ve lo domandiate, fauni e satiri in teoria sono la
stessa cosa. I fauni sono soltanto la versione romana dei satiri,
e non sono altrettanto bravi in… be’, in niente, a dire il vero.)
«Ehi, vorrei tanto aiutarvi» disse Don. «Ma mi sono appena
ricordato di un appuntamento…»
«I fauni non hanno appuntamenti» replicò Lavinia.
«Ho lasciato l’auto in doppia fila…»
«Non ce l’hai, l’auto.»
«Devo dare da mangiare al cane…»
«Don!» sbottò Lavinia. «Me lo devi.»
«E va bene.» Don sfilò il polso dalla sua presa e se lo
strofinò con aria risentita. «Senti, solo perché ti ho detto che
Quercia Velenosa sarebbe venuta al picnic, non vuol dire che
te lo avevo promesso.»
La faccia di Lavinia divenne color terracotta. «Non mi
riferivo a quello! Ti ho coperto un milione di volte. E tu
adesso devi aiutarmi con… questo.» Indicò con un gesto vago
me, il carro funebre, il mondo in generale.
Mi chiesi se Lavinia fosse arrivata da poco al Campo
Giove. Non sembrava a suo agio nell’armatura da legionario.
Continuava a scrollare le spalle, piegare le ginocchia e
giocherellare con l’argentea stella di David che portava appesa
al collo. I dolci occhi castani e la zazzera di capelli rosa non
facevano che accentuare la mia prima impressione: sembrava
un cucciolo di giraffa che si era allontanato per la prima volta
dalla mamma e che stava esplorando la savana chiedendosi:
“Perché sono qui?”.
Meg si mise al mio fianco, aggrappandosi alla faretra per
reggersi meglio in piedi, e rischiando così di strozzarmi con la
tracolla. «Chi è Quercia Velenosa?»
«Meg, non sono affari tuoi» la rimproverai. «Ma, tirando a
indovinare, direi che Quercia Velenosa è una driade per la
quale Lavinia ha un certo interesse, proprio come te con
Giosuè a Palm Springs.»
Meg protestò a viva voce. «Io non avevo nessun interesse
per…»
Lavinia le fece eco. «Io non ho nessun interesse per…»
Si zittirono entrambe, guardandosi imbronciate.
«E comunque…» riprese Meg. «Quercia Velenosa non è…
velenosa?»
Lavinia alzò le mani al cielo come a dire: “Ancora?”.
«Quercia Velenosa è una meraviglia! Ma questo non vuol dire
che uscirei con lei…»
Don fece un verso di scherno. «Se lo dici tu.»
La legionaria lo fulminò con uno sguardo acuminato come
un dardo. «Ma ci penserei… se ci fosse una bella sintonia,
ecco. Ed è per questo che ho deciso di sottrarmi di nascosto
dal mio turno di pattuglia per partecipare al picnic, dove Don
mi aveva assicurato che…»
«Ehi, ehi!» Don sorrise nervoso. «Non dovevamo
accompagnare questi ragazzi al campo? E il carro funebre? Ce
la fa a muoversi?»
Ritiro quello che ho detto sui fauni. Qualcosa la sanno fare:
Don era piuttosto bravo a cambiare argomento.
A uno sguardo più attento, capii quanto l’auto fosse
danneggiata. A parte le ammaccature e i graffi aromatizzati
all’eucalipto, il muso si era accartocciato quando eravamo
andati a sbattere contro il guardrail. Ormai somigliava alla
fisarmonica di Flaco Jiménez dopo lo scontro con la mia
mazza da baseball. (Spiacente, Flaco, ma suonavi così bene
che mi sono ingelosito, e quella fisarmonica doveva morire.)
«Possiamo trasportare noi la bara» suggerì Lavinia. «Noi
quattro.»
Un altro grido stridulo e inferocito tagliò l’aria della sera.
Sembrava più vicino stavolta, come se venisse da qualche
parte a nord dell’autostrada.
«Non ce la faremo mai, se dobbiamo arrampicarci e tornare
al Caldecott Tunnel da qui» obiettai.
«C’è un’altra strada» rivelò Lavinia. «Un ingresso segreto
al campo. Un po’ più vicino.»
«Mi piace» commentò Meg.
«Il fatto è… che io dovrei essere di guardia in questo
momento. Il mio turno sta per finire. Non so per quanto ancora
la mia compagna riuscirà a coprirmi. Perciò, una volta al
campo, fate parlare me quando bisognerà raccontare dove e
come ci siamo incontrati.»
Don rabbrividì. «Se scoprono che Lavinia ha saltato di
nuovo il servizio di guardia…»
«Di nuovo?» domandai.
«Sta’ zitto, Don!» lo seccò Lavinia.
Da un certo punto di vista, i guai di Lavinia sembravano
sciocchezze in confronto a, per dire, schiattare ed essere
divorati da un mostro. Ma, d’altro canto, sapevo che le
punizioni in vigore nelle legioni romane potevano essere
molto dure. Spesso coinvolgevano fruste, catene e animali
idrofobi, un po’ come un concerto di Ozzy Osbourne negli
anni Ottanta.
«Deve proprio piacerti un sacco questa Quercia Velenosa»
osservai.
Lavinia sbuffò. Raccolse il dardo della manubalista e me lo
agitò contro con aria minacciosa. «Io aiuto voi e voi aiutate
me. È questo il patto.»
Meg parlò anche per me. «Affare fatto. Quanto possiamo
correre veloci con una bara?»
Non molto.
Dopo aver recuperato il resto delle nostre cose dal carro
funebre, io e Meg sollevammo la bara da dietro. Lavinia e Don
la presero da davanti. Cominciammo a trasportarla con una
goffa corsetta lungo il lago. Continuavo a voltarmi per
controllare la cima degli alberi, sperando che non piovessero
giù dal cielo altri ghoul.
Lavinia giurava che l’ingresso segreto era vicino, proprio
sull’altra sponda. Il problema era esattamente quello: l’altra
sponda. Dato che non eravamo in grado di camminare
sull’acqua, dovevamo trasportare la bara di Jason ancora per
mezzo chilometro lungo la spiaggia.
«E dai!» mi rispose Lavinia quando provai a lamentarmi.
«Siamo corsi qui dalla spiaggia per aiutarvi, ragazzi. Il minimo
che possiate fare è tornare indietro insieme a noi.»
«Sì, ma questa cassa pesa» protestai.
Don annuì. «Sono d’accordo con lui.»
Lavinia fece un verso di scherno. «Dovreste provare a
marciare per trenta chilometri in armatura.»
«No, grazie» borbottai.
Meg non disse nulla. Anche se era molto pallida e aveva il
respiro affannato, si caricò il suo lato della bara senza un
lamento, probabilmente solo per farmi sentire in colpa.
Alla fine raggiungemmo la spiaggia del picnic. Un cartello
all’imboccatura del sentiero diceva:

LAGO TEMESCAL

NUOTATE A VOSTRO RISCHIO E PERICOLO

Tipico dei mortali: ti avvisano del pericolo di affogare, ma


non dei mostri divoratori di cadaveri.
Lavinia ci condusse subito a un piccolo edificio di pietra
che fungeva da bagno e spogliatoio. Sul muro posteriore
esterno, seminascosta dietro un cespuglio di more, c’era
un’anonima porta di metallo, che Lavinia aprì con un calcio.
Dentro, un grande tubo di cemento si calava nell’oscurità.
«Immagino che i mortali non ne siano a conoscenza»
commentai.
Don ridacchiò. «Figurati! Pensano che ci sia il generatore
elettrico, qui dentro. Neanche la maggior parte dei legionari sa
che esiste. Solo quelli più svegli, come Lavinia.»
«Non pensare di cavartela così» gli disse lei. Poi propose:
«Mettiamo giù la cassa per un secondo».
Pronunciai una muta preghiera di ringraziamento. Mi
facevano male le spalle. Avevo la schiena zuppa di sudore.
Proprio come quella volta in cui Era mi aveva fatto trascinare
un trono d’oro massiccio per tutto il suo salotto olimpico
finché non aveva trovato il punto esatto in cui collocarlo. Ah,
quella dea!
Lavinia si sfilò dalla tasca dei jeans un pacchetto di gomme
da masticare. Se ne mise tre in bocca, poi le offrì a me e Meg.
«No, grazie» risposi.
Meg annuì. «Io sì, grazie.»
«Pure io» disse Don.
Lavinia allontanò subito il pacchetto dalla sua portata. «Lo
sai che le gomme ti fanno male. L’ultima volta sei rimasto
abbracciato alla tazza del water per giorni.»
Il fauno mise il broncio. «Ma sono buone.»
Lavinia sbirciò all’interno della condotta, masticando
furiosamente. «È troppo stretta per trasportare la bara in
quattro. Io faccio strada. Don, tu e Apollo…» Aggrottò la
fronte, come se non riuscisse ancora a credere che quello fosse
il mio nome. «Prendete un’estremità a testa.»
«Solo noi due?» protestai.
«Ecco, infatti!» concordò Don.
«Fate finta che sia un divano» replicò Lavinia, come se la
cosa per me avesse senso. «E tu… com’è che ti chiami? Peg?»
«Meg.»
«Non potresti lasciare qualcosa qui? Tipo… quel plastico
che hai sottobraccio? Cos’è, un progetto per la scuola?»
Meg doveva essere sfinita, perché non la fulminò con lo
sguardo, non le diede un pugno e non le fece nemmeno
spuntare gerani dalle orecchie. Si spostò di lato, proteggendo
con il corpo il plastico di Jason. «No. È una cosa importante.»
«Okay.» Lavinia si grattò un sopracciglio, che era rosa
proprio come i suoi capelli. «Allora stai in fondo alla fila.
Guardaci le spalle. L’ingresso non si può chiudere a chiave, e
questo significa…»
Con un tempismo perfetto, dall’altra sponda del lago ci
raggiunse l’ululato più forte sentito fino ad allora. Era pieno di
rabbia, come se il ghoul avesse appena scoperto il mucchio di
polvere con pannolino di piume d’avvoltoio del compagno
caduto.
«Andiamo!» ordinò Lavinia.
Cominciai a rivedere la mia prima impressione della nostra
amica dai capelli rosa. Per essere una giraffina spaventata,
sapeva mostrarsi alquanto autoritaria.
Scendemmo in fila indiana nel tubo, io reggendo il retro
della bara e Don il davanti.
La gomma di Lavinia diffondeva un po’ di profumo
nell’aria stantia, così la galleria sapeva di zucchero filato e
muffa. Trasalivo ogni volta che la legionaria faceva scoppiare
un palloncino.
Ben presto, presero a farmi male le dita per il peso della
cassa. «Quanto manca?» chiesi.
«Siamo appena entrati» commentò Lavinia.
«Non… molto, vero?»
«Sui cinquecento metri, direi.»
Cercai di grugnire come un vero uomo. Mi uscì una specie
di piagnucolio.
«Ragazzi» disse Meg alle mie spalle. «Dobbiamo fare più
in fretta.»
«Vedi qualcosa?» chiese Don.
«Non ancora» replicò Meg. «È solo una sensazione.»
Sensazioni. Quanto le odio.
Solo le nostre armi ci facevano un po’ di luce. Le rifiniture
d’oro della manubalista appesa alle spalle di Lavinia creavano
un alone spettrale intorno ai suoi capelli rosa. Il bagliore delle
spade di Meg gettava le nostre ombre allungate sulle pareti,
tanto che sembrava quasi di avanzare in mezzo a una folla di
fantasmi. Ogni volta che Don si voltava a guardare, le lenti
arcobaleno dei suoi occhiali sembravano baluginare nel buio
come chiazze d’olio sull’acqua.
Mi bruciavano le mani e le braccia per lo sforzo, ma Don
non sembrava avere problemi. Decisi che non avrei implorato
pietà prima del fauno.
D’un tratto la strada si allargò e divenne pianeggiante.
Pensai che fosse un buon segno, anche se né Meg né Lavinia si
offrirono di aiutarci a trasportare la cassa.
Alla fine le mie mani si rifiutarono di proseguire. «Stop!»
Io e Don riuscimmo a posare a terra la bara di Jason un
attimo prima che mi cadesse giù da sola. Avevo le dita segnate
da profonde scanalature rosse. Bolle d’acqua mi si stavano già
formando sui palmi. Mi sentivo come se avessi suonato la
chitarra jazz per nove ore di fila in una sfida con Pat Metheny,
usando una pesantissima Fender Stratocaster di ferro.
«Ahi» borbottai, perché un tempo ero il dio della poesia e
ho grandi capacità descrittive.
«Non possiamo fermarci a lungo» ci avvisò Lavinia. «Il
mio turno di pattuglia dovrebbe quasi essere finito, ormai. La
mia compagna si starà chiedendo che fine abbia fatto.»
Mi veniva quasi da ridere. Avevo dimenticato che
dovevamo preoccuparci della fuga di Lavinia insieme a tutti i
nostri altri problemi. «Dici che ti farà rapporto?»
Lavinia puntò lo sguardo nel buio. «No, se non è costretta.
È il mio centurione, ma è in gamba.»
«Il tuo centurione ti ha dato il permesso di sgattaiolare
via?»
«Non proprio.» Lavinia giocherellò con il ciondolo a forma
di stella di David. «Ha soltanto chiuso un occhio, diciamo…
perché capisce.»
Don ridacchiò. «Capisce come si sta quando si ha una cotta
per qualcuno?»
«No!» protestò Lavinia. «Capisce quanto è faticoso starsene
lì impalate di guardia per cinque ore di fila. Bah, io non ci
riesco! E ci riesco ancora meno dopo tutto quello che è
successo!»
Riflettei sul modo in cui giocherellava con la collana,
continuando a masticare con forza e senza mai trovare pace su
quelle gambe lunghe. La maggior parte dei semidei soffriva di
una qualche forma di iperattività o deficit dell’attenzione.
Sono strutturati per essere sempre in movimento, pronti per
saltare da una battaglia a un’altra. Ma, quanto a iperattività,
Lavinia li batteva tutti.
«Quando dici “dopo tutto quello che è successo”…»
cominciai.
Ma, prima che potessi finire la domanda, Don si irrigidì,
con il naso e il pizzetto frementi. Avevo trascorso abbastanza
tempo nel Labirinto con Grover Underwood per sapere cosa
significava.
«Cos’hai fiutato?» domandai.
«Non ne sono sicuro… ma è vicino.» Il fauno tirò su col
naso. «E che puzza!»
«Oh.» Arrossii. «Mi sono fatto la doccia stamattina, ma
quando sono sotto sforzo, questo corpo mortale suda e…»
«Non sei tu. Ascolta!» Meg si girò verso la direzione da cui
eravamo venuti. Sollevò le spade e rimase in attesa.
Lavinia si sfilò la manubalista dalle spalle e scrutò
nell’oscurità di fronte a noi.
Alla fine, oltre i battiti accelerati del mio cuore, udii un
tintinnio metallico e l’eco di passi sulla pietra. Qualcuno stava
correndo verso di noi.
«Stanno arrivando» disse Meg.
«No, aspetta» replicò Lavinia. «È lei!»
Ebbi la sensazione che Meg e Lavinia stessero parlando di
due cose diverse, e nessuna delle due mi piaceva.
«Lei chi?» domandai.
«Stanno arrivando dove?» squittì Don.
Lavinia sollevò una mano e gridò: «Sono qui!».
«Sssh» disse Meg, ancora rivolta verso la strada da cui
eravamo venuti. «Lavinia, che stai facendo?»
Poi, dalla direzione del Campo Giove, una ragazza entrò di
corsa nel nostro cerchio di luce.
Aveva più o meno la stessa età di Lavinia, quattordici o
quindici anni, la pelle scura e gli occhi d’ambra. Una cascata
di riccioli castani le ricadeva sulle spalle. Gli schinieri e il
pettorale della legione scintillavano sopra un paio di jeans e
una maglietta viola. Indossava l’insegna dei centurioni e aveva
una spatha da cavalleria appesa al fianco.
Ah, sì… la conoscevo. Faceva parte dell’equipaggio
dell’Argo II. «Hazel Levesque!» esclamai. «Grazie agli dei.»
Hazel si fermò di colpo. Probabilmente si chiedeva chi
fossi, come facessi a conoscerla e come mai stessi sorridendo
come uno scemo. Lanciò uno sguardo a Don, poi a Meg, infine
alla bara. «Lavinia, che sta succedendo?»
«Ragazzi, abbiamo compagnia» la interruppe Meg. E non si
riferiva a Hazel.
Alle nostre spalle, al limite della luce emanata dalle spade
di Meg, si aggirava famelica una sagoma scura, con la pelle
nero-bluastra luccicante e i denti che colavano saliva. Poi un
altro ghoul identico emerse dalle tenebre dietro di lui.
La solita fortuna. Gli eurynomoi avevano ordinato un
“ammazzane uno, prendine due” sul menu.
4

Che dite, canto?

Okay, non mi sbudellate

Basta dire no

«Oh» pigolò Don con la sua vocina sottile. «Ecco cos’era


quella puzza.»
«Ma non viaggiavano in coppia?» mi lamentai.
«Anche in tre» piagnucolò il fauno. «A volte.»
Gli eurynomoi ringhiarono, accovacciandosi a un passo di
distanza dalle lame di Meg.
Alle mie spalle, Lavinia cominciò ad armare la manubalista
– clic, clic, clic – ma era così lenta da caricare che non sarebbe
stata pronta prima di giovedì.
La spatha di Hazel frusciò quando la sguainò dal fodero.
Anche quella non era l’arma ideale per combattere in spazi
ristretti.
Meg sembrava incerta sul da farsi. Doveva attaccare, tenere
la posizione o svenire dalla stanchezza? Che gli dei
benedicano il suo piccolo grande cuore, aveva ancora il
plastico di Jason sotto braccio, cosa che non l’avrebbe di certo
aiutata in battaglia.
Frugai tra le mie cose alla ricerca di un’arma e mi ritrovai
in mano l’ukulele. Perché no? Era solo un tantino più ridicolo
di una spatha o di una manubalista.
Anche se avevo il naso ammaccato dall’airbag del carro
funebre, il mio olfatto non ne aveva risentito… purtroppo. Mi
bruciavano le narici e mi lacrimavano gli occhi per la
combinazione del tanfo dei ghoul con il profumo delle gomme
da masticare.
«CIBO!» disse il primo mostro.
«CIBO!» concordò il secondo.
Sembravano felicissimi, come se fossero di fronte al loro
piatto preferito che non gli veniva servito da secoli.
Hazel parlò con voce calma e ferma. «Ragazzi, ci siamo già
scontrati con queste creature durante la battaglia. Non fatevi
graffiare.»
Dal modo in cui disse “la battaglia” mi fece pensare che
potesse esserci un solo, unico e terribile evento a cui si
riferiva. Mi tornò in mente ciò che Leo Valdez ci aveva detto a
Los Angeles: il Campo Giove aveva subito gravi danni e
aveva perso molti validi guerrieri nell’ultimo scontro.
Cominciavo a intuire l’entità dell’evento.
«Niente graffi» concordai. «Meg, tienili a bada. Proverò
con una canzone.»
La mia idea era semplice: strimpellare un motivetto
sonnacchioso, stordire i mostri e ucciderli con garbo e civiltà.
Avevo sottovalutato l’odio che gli eurynomoi nutrono verso
gli ukulele. Non appena annunciai le mie intenzioni, si
lanciarono all’attacco con un ululato.
Arretrai goffamente e caddi seduto sulla bara di Jason. Don
strillò e si rannicchiò su se stesso. Lavinia continuò ad
armeggiare con la manubalista. Hazel strillò: «Fate un buco!»,
parole che al momento per me non avevano senso.
Meg entrò in azione, mozzando il braccio di un ghoul e
ferendone un altro alle gambe, ma i suoi movimenti erano
rallentati, e con il plastico sotto un braccio riusciva a usare con
efficacia solo una delle lame. Se i ghoul avessero cercato di
ucciderla, non avrebbe avuto scampo. Invece la oltrepassarono
di netto, pur di impedirmi di suonare anche un solo accordo.
Perché, quando si tratta di musica, tutti pensano di essere
degli intenditori?
«CIBO!» strillò il ghoul senza un braccio, tuffandosi verso
di me con i restanti cinque artigli sguainati.
Cercai di tirare indietro la pancia. Davvero.
Maledetti rotolini di grasso! Se fossi stato nella mia forma
divina, gli artigli del mostro non mi avrebbero mai sfiorato. I
miei addominali di bronzo avrebbero schernito con sdegno il
solo tentativo. Ma ahimè, il corpo di Lester mi deluse per
l’ennesima volta.
L’eurynomos mi sfiorò il ventre, poco più giù del mio
ukulele. La punta del suo dito medio – appena appena – trovò
la carne. E il suo artiglio attraversò la mia maglietta e mi solcò
la pancia come un rasoio spuntato.
Mi scansai di lato allontanandomi dalla bara di Jason,
mentre il sangue caldo mi colava sotto la cintura dei pantaloni.
Hazel Levesque lanciò un urlo di sfida. Scavalcò al volo la
cassa e conficcò la spatha nella clavicola del mostro, creando
il primo eurynomos allo spiedo della storia.
Il ghoul strillò e arretrò di qualche passo, strappandole
l’arma di mano. La ferita però fumava per effetto dell’oro
imperiale. Poi – non c’è un modo più delicato per dirlo – il
mostro esplose in un cumulo di mozziconi fumanti di cenere.
La spatha sferragliò a terra.
Il secondo ghoul si era fermato ad affrontare Meg, come di
solito succede se una fastidiosa dodicenne ti ha appena
affettato le cosce, ma al grido del suo compagno si voltò verso
di noi.
Era un’ottima apertura per Meg, però lei, anziché colpire,
superò il mostro e corse al mio fianco, ritraendo le spade negli
anelli. «Stai bene?» domandò. «Oh, NO! Stai sanguinando.
Avevi detto che non dovevo farmi graffiare. E poi ti fai
graffiare tu!»
Non sapevo se commuovermi per la sua preoccupazione o
se offendermi per il suo tono. «Non l’avevo mica messo in
programma, Meg.»
«Ragazzi!» gridò Lavinia.
Il ghoul si fece avanti, piazzandosi tra Hazel e la sua spatha
caduta. Don continuava a stare rannicchiato. La manubalista di
Lavinia non era ancora pronta. Io e Meg eravamo incastrati
l’uno di fianco all’altra accanto alla bara di Jason.
In pratica restava solo Hazel, a mani vuote, come unico
ostacolo tra l’eurynomos e un pasto di cinque portate.
La creatura sibilò: «Non potete vincere». Poi la sua voce
cambiò, facendosi più profonda, più modulata. «Vi unirete ai
vostri compagni nella mia tomba.»
Fra la testa che mi pulsava e il dolore nella pancia, faticavo
a seguire le sue parole, ma Hazel sembrò capire.
«Chi sei?» domandò. «Smetti di nasconderti dietro le tue
creature e fatti vedere!»
L’eurynomos strizzò le palpebre. Il bianco lattiginoso degli
occhi lasciò il posto a un bagliore purpureo, come di fiamme
iodate. «Hazel Levesque. Tu più di tutti dovresti comprendere
il fragile confine tra la vita e la morte. Ma non temere. Avrò un
posto speciale per te al mio fianco, insieme al tuo amato
Frank. Sarete dei gloriosi scheletri.»
Hazel strinse i pugni. Quando si voltò a guardarci,
l’espressione sul suo viso era intimidatoria quasi quanto quella
del ghoul. «State indietro» ci ordinò. «Più che potete.»
Meg mi trascinò all’estremità opposta della bara. Mi
sentivo come se mi avessero cucito una cerniera incandescente
sulla pancia. Lavinia afferrò Don per il colletto della maglietta
e lo tirò via, fino a un punto più sicuro per rannicchiarsi.
Il mostro ridacchiò. «Come pensi di battermi, Hazel? Con
questa?» Allontanò la spatha con un calcio, verso la galleria
buia. «Ho evocato altri non-morti. Arriveranno presto.»
Nonostante il dolore, cercai di rialzarmi. Non potevo
abbandonare Hazel.
Ma Lavinia mi mise una mano su una spalla. «Aspetta»
mormorò. «Hazel ha tutto sotto controllo.»
Mi sembrò un ridicolo eccesso di ottimismo ma, a mio
discapito, devo dire che rimasi dov’ero. Il sangue caldo
cominciò a inzupparmi le mutande. O almeno, mi augurai che
fosse sangue.
Con un dito artigliato l’eurynomos si asciugò la saliva dalla
bocca. «A meno che tu non voglia fuggire e abbandonare
questa graziosa bara, tanto vale che ti arrendi. Siamo forti nel
sottosuolo, figlia di Plutone. Troppo forti per te.»
«Ma davvero?» La voce di Hazel rimase ferma. Sembrava
quasi che stesse facendo semplicemente conversazione. «Siete
forti nel sottosuolo. Buono a sapersi.»
La galleria tremò. Reticoli di crepe comparvero sulle pareti,
squarci irregolari nella pietra. Sotto i piedi del mostro eruppe
una colonna di quarzo, infilzando la creatura al soffitto e
riducendola a una nuvola di coriandoli di piume d’avvoltoio.
Hazel si voltò a guardarci come se non fosse successo
niente di eccezionale. «Don, Lavinia, portate questa…»
Guardò la bara con disagio. «Portatela fuori di qui. Tu…»
Indicò Meg. «Aiuta il tuo amico, per favore. Abbiamo dei
guaritori al campo capaci di curare quel genere di graffio.»
«Aspetta!» esclamai. «Ma c-che è successo? Quella
voce…»
«Non è la prima volta che mi capita con i ghoul» rispose
lei, cupa. «Ve lo spiego dopo. Ora sbrigatevi. Io arrivo tra un
secondo.» Feci per protestare, ma Hazel mi fermò scuotendo la
testa. «Vado soltanto a recuperare la mia spada e ad
assicurarmi che nessuno di quei mostri possa più seguirci.
Andate!»
Sassi e polvere cominciarono a piovere da nuove crepe sul
soffitto. Forse quella di andarsene non era poi una cattiva idea.
Appoggiandomi a Meg, riuscii ad avanzare barcollando.
Lavinia e Don si occuparono della bara di Jason. Stavo così
male che non ebbi nemmeno l’energia per gridare a Lavinia di
fare finta che fosse un divano.
Dopo una quindicina di metri, il tunnel dietro di noi vibrò
perfino più forte di prima. Mi voltai appena in tempo per
beccarmi una nuvola di detriti in faccia.
«Hazel?» chiamò Lavinia nel turbinio di polvere.
Un secondo dopo, Hazel Levesque emerse dal buio,
ricoperta di quarzo scintillante da capo a piedi e con la spatha
luccicante in mano. «Sto bene» annunciò. «Ma nessuno uscirà
più di nascosto da questa via. Ora…» Indicò la bara.
«Qualcuno mi vuole dire chi c’è lì dentro?»
Io no di certo.
Non dopo aver visto come Hazel infilzava i nemici.
Però… lo dovevo a Jason. Hazel era sua amica.
Mi feci forza, aprii la bocca per parlare, ma fu Hazel a
darmi il pugno nello stomaco.
«È Jason!» esclamò, come se qualcuno le avesse bisbigliato
quell’informazione all’orecchio. «Oh, dei!» Corse verso la
bara, cadde in ginocchio e gettò le braccia sul coperchio.
Liberò un unico, straziato singhiozzo. Poi chinò il capo e
rimase lì, a tremare in silenzio. Alcune ciocche dei suoi capelli
si stesero sulla polvere di quarzo, spargendosi sulla superficie
di legno levigato e disegnando linee irregolari come i
diagrammi di un sismografo. Senza sollevare lo sguardo,
mormorò: «Ho avuto degli incubi. Una nave. Un uomo a
cavallo. Una… lancia. Com’è successo?».
Feci del mio meglio per spiegarle tutto. Le raccontai della
mia caduta nel mondo mortale, delle mie avventure con Meg,
della nostra battaglia a bordo dello yacht di Caligola e di come
Jason era morto per salvarci. Fu come riportare a galla il
dolore e il terrore provati. Ricordai il penetrante odore di
ozono degli spiriti del vento che turbinavano intorno a Meg e a
Jason, il morso delle manette sui miei polsi, la boria con cui
Caligola aveva gridato: “Non te ne andrai vivo da qui!”.
Era tutto così orribile che per un attimo dimenticai la ferita
micidiale che mi attraversava la pancia.
Lavinia guardava il pavimento. Meg faceva del suo meglio
per tamponare la fuoriuscita di sangue con i vestiti di ricambio
prelevati dallo zaino.
Don guardava il soffitto, dove una nuova crepa si stava
aprendo sopra le nostre teste. «Detesto interrompervi» disse.
«Ma forse sarebbe meglio continuare il discorso fuori.»
Hazel premette le dita sul coperchio della bara. «Sono così
arrabbiata con te. Come hai potuto fare questo a Piper? A noi?
Dovevi permetterci di essere al tuo fianco. Cosa ti è saltato in
mente?»
Mi ci volle qualche attimo per capire che non stava
parlando con noi. Stava parlando con Jason.
Lentamente, Hazel si alzò. Le tremava la bocca. Raddrizzò
la schiena, come per evocare delle colonne di quarzo interiori
capaci di sorreggere il suo scheletro. «Lasciate che vi aiuti»
disse. «Portiamolo a casa.»
Avanzammo in silenzio, il corteo funebre più triste che si
fosse mai visto. Tutti noi eravamo ricoperti di polvere e cenere
di mostro. Di fronte alla bara, Lavinia era agitatissima, e
gettava di quando in quando un’occhiata alla figlia di Plutone,
che camminava con gli occhi puntati avanti. Hazel non
sembrava neppure essersi accorta della piuma d’avvoltoio che
svolazzava impigliata alla manica della sua maglietta.
Meg e Don reggevano la cassa da dietro. Gli occhi di Meg
erano sempre più neri dopo il volo in macchina, e cominciava
ad assomigliare a un grosso procione malvestito. Don aveva
sviluppato un curioso tic e continuava a piegare la testa a
sinistra, come per ascoltare quello che la spalla aveva da dirgli.
Io li seguivo barcollando, con uno dei vestiti di Meg
premuto sulla pancia. Il sanguinamento sembrava essersi
fermato, ma il taglio bruciava ancora. Sperai che Hazel avesse
ragione sulle capacità dei guaritori del Campo Giove. Non ci
tenevo a diventare una comparsa di The Walking Dead.
La calma di Hazel mi metteva a disagio. Avrei quasi
preferito che si fosse messa a gridare e a lanciarmi oggetti. La
sua sofferenza era come la fredda gravità di una montagna.
Potevi stare al suo fianco e chiudere gli occhi, e anche se non
potevi vederla né sentirla sapevi che c’era… pesante, potente,
una forza geologica talmente antica che al confronto anche gli
dei immortali sembravano moscerini. Ebbi paura di cosa
sarebbe successo se le emozioni di Hazel si fossero
trasformate in un vulcano attivo.
Alla fine sbucammo all’aria aperta. Eravamo su un
promontorio roccioso a metà di un’altura, con la valle di
Nuova Roma distesa ai nostri piedi. Alla luce del crepuscolo,
le colline erano viola. La brezza fresca sapeva di legna
bruciata e lillà.
«Wow!» esclamò Meg, osservando il panorama.
Proprio come ricordavo, il Piccolo Tevere serpeggiava nella
valle creando uno scintillante ghirigoro che alimentava un
laghetto azzurro nel punto in cui avrebbe potuto trovarsi il
centro del campo. Sulla sponda settentrionale sorgeva Nuova
Roma, una versione ridotta della città imperiale originaria.
Dopo quello che Leo aveva detto sulla recente battaglia, mi
ero aspettato di vederla rasa al suolo. A quella distanza
tuttavia, nella luce sfocata della sera, ogni cosa sembrava
immutata: bianchi palazzi scintillanti con i tetti di tegole rosse,
la cupola del Senato, il Circo Massimo e il Colosseo.
Sulla sponda meridionale del lago sorgeva invece la Collina
dei Templi, con il suo caotico assortimento di monumenti. In
cima, a sovrastare il tutto, c’era l’edificio dedicato all’ego
smisurato di mio padre, il tempio di Giove Ottimo Massimo.
Se possibile, la sua incarnazione romana era perfino più
insopportabile di Zeus, la personificazione greca originaria. (E
sì, noi divinità abbiamo personalità multiple, perché voi
mortali continuate a cambiare idea su come siamo fatti. È
esasperante.)
In passato avevo sempre odiato la vista della Collina dei
Templi, perché il mio non era il più grande. Ovviamente,
avrebbe dovuto esserlo. Al momento invece odiavo quella
vista per un motivo diverso. Non riuscivo a pensare ad altro
che al plastico che Meg aveva con sé e ai quaderni nel suo
zaino: la Collina dei Templi così come Jason l’aveva
reimmaginata. In confronto a quel modellino di polistirolo,
con gli appunti scritti a mano e le casette del Monopoli
incollate sopra, la collina vera e propria sembrava un tributo
insignificante. Non era nulla paragonata alla bontà di Jason, al
suo fervente desiderio di onorare ogni singolo dio, nessuno
escluso.
Distolsi lo sguardo.
Direttamente sotto di noi, a meno di un chilometro dalla
sporgenza su cui eravamo, sorgeva il Campo Giove. Con le
mura picchettate, le torri di guardia, le trincee e le file ordinate
di baracche che costeggiavano le due vie principali, avrebbe
potuto essere l’accampamento di una qualsiasi legione
romana, ovunque nel vecchio impero, in un qualunque
momento dei tanti secoli di dominio romano. I Romani erano
talmente costanti nel modo in cui costruivano le loro
fortificazioni – sia che fossero per una notte o per un decennio
– che se conoscevi un campo, li conoscevi tutti. Potevi
svegliarti nel cuore della notte, muoverti nel buio più totale, e
tuttavia sapere dove si trovava ogni cosa. Certo, quando
facevo visita ai campi romani, di solito passavo tutto il tempo
nella tenda del comandante, mollemente sdraiato a
sbocconcellare grappoli d’uva come facevo con Commodo… e
– oh, dei! – perché mi stavo torturando con questi ricordi?
«Va bene.» La voce di Hazel mi riscosse dai miei pensieri
malinconici. «Ecco quello che diremo quando arriviamo al
campo. Lavinia, tu sei andata al lago su mio ordine, perché
avevi visto il carro funebre precipitare oltre il guardrail. Io
sono rimasta di servizio fino al cambio di guardia, poi sono
corsa ad aiutarti perché ho pensato che potessi essere in
pericolo. Abbiamo combattuto contro i mostri, abbiamo
salvato loro e via dicendo. Capito?»
«Ehm, a proposito…» intervenne Don. «Sono sicuro che da
qui in poi potete cavarvela da soli, giusto? Considerato che
potreste finire nei guai, ecco, pensavo di filar…»
Lavinia gli rivolse uno sguardo severo.
«Di restare qui con voi» si corresse il fauno. «Sono sempre
felice di dare una mano.»
Hazel allentò la presa sulla maniglia della cassa.
«Ricordate, siamo una guardia d’onore. Non importa come
siamo ridotti, abbiamo un dovere da compiere. Stiamo
portando a casa un compagno caduto. Chiaro?»
«Sì, centurione» rispose Lavinia, in tono mite. «E… Hazel?
Grazie.»
La figlia di Plutone trasalì, come se rimpiangesse di avere
un cuore tenero. «Una volta arrivati ai Principia…» Puntò gli
occhi su di me. «Il nostro divino ospite potrà spiegare al
comando cosa è successo a Jason Grace.»
5

Ciao a tutti

La mia canzone è:

“Sì, faccio schifo”

Le sentinelle della legione ci videro già da molto lontano, da


brave sentinelle della legione.
Quando il nostro gruppo arrivò alle porte principali del
campo, si era già radunata una folla. I semidei si disposero ai
lati della strada e, in un silenzio incuriosito, ci guardarono
attraversare il campo con la bara di Jason. Nessuno ci chiese
nulla. Nessuno provò a fermarci. Il peso di tutti quegli sguardi
era opprimente.
Hazel ci condusse subito lungo la Via Praetoria.
Alcuni legionari erano sui portici delle baracche, con le
armature semilucidate temporaneamente dimenticate, le
chitarre messe da parte, le partite a carte lasciate a metà. I Lari,
le divinità domestiche della legione dal tipico bagliore
violaceo, si aggiravano nell’aria, trapassando pareti o persone
senza nessun riguardo per gli spazi personali. Aquile giganti
volteggiavano nel cielo, scrutandoci come potenziali e gustosi
roditori.
Cominciai a rendermi conto di quanto fosse rada la folla. Il
campo sembrava… non proprio deserto, ma solo mezzo pieno.
Alcuni giovani eroi camminavano con le stampelle. Altri
avevano un braccio ingessato. Forse diversi di loro erano
all’interno delle baracche o in infermeria, o erano impegnati in
qualche estenuante marcia di esercitazione, ma non mi
piacevano le espressioni sofferte e tormentate dei legionari che
ci osservavano.
Ripensai alle parole arroganti che l’eurynomos aveva
pronunciato al lago: “HO GIÀ ASSAGGIATO LA CARNE
DEI VOSTRI COMPAGNI! ALLA LUNA DI SANGUE, VI
UNIRETE A LORO”.
Non sapevo cosa fosse una “luna di sangue” – le faccende
lunari rientravano più nelle competenze di mia sorella – ma
non suonava bene. Ne avevo avuto abbastanza di sangue. E,
dall’aria che avevano quei legionari, anche loro non ne
potevano più.
Poi ripensai a un’altra cosa che il mostro aveva detto: “VI
UNIRETE TUTTI AI MORTI DEL RE!”. Mi tornarono in
mente le parole della profezia che avevamo ricevuto nel
Labirinto di fuoco, e un’idea inquietante cominciò a prendere
forma nella mia mente. Feci del mio meglio per sopprimerla.
Per quel giorno avevo già fatto il pieno di terrore.
Superammo le botteghe dei mercanti che avevano il
permesso di operare all’interno del campo: solo i servizi più
essenziali, come un concessionario di bighe, un’armeria, un
magazzino per gladiatori e un caffè. Di fronte a quest’ultimo
c’era un barista a due teste, che ci guardava con la stessa
espressione incupita su entrambe le facce, il grembiule verde
macchiato di schiuma di cappuccino.
Alla fine giungemmo all’incrocio principale, dove le strade
finivano davanti ai Principia. Sulle scale dell’edificio bianco
del quartier generale, i pretori ci stavano aspettando.
Rischiai quasi di non riconoscere Frank Zhang. La prima
volta che lo avevo visto, quando io ero un dio e lui un
pivellino della legione, Frank era un ragazzone con la faccia
da bambino, i capelli a spazzola e un’adorabile fissazione per
il tiro con l’arco. Si era messo in testa che potessi essere suo
padre. Mi rivolgeva preghiere in continuazione. Sul serio, era
così carino che sarei stato felice di adottarlo… ma, ahimè, era
uno dei figli di Marte.
La seconda volta che lo avevo incontrato, durante il suo
viaggio sull’Argo II, aveva appena avuto un improvviso scatto
di crescita (o una magica iniezione di testosterone, fate voi):
era più alto, più forte, più imponente, conservando però
sempre un nonsoché di adorabile e tenero, da orso grizzly.
Come avevo spesso osservato nei giovani che devono
ancora finire di crescere, il peso aveva iniziato a rimettersi in
pari con l’altezza. Era di nuovo un ragazzone corpulento, con
le guance da pizzicotti, solo che era più grosso e più
muscoloso di prima. Sembrava che si fosse appena alzato dal
letto per venirci incontro, anche se era già sera. Aveva una
specie di onda tra i capelli, e una gamba dei jeans infilata nel
calzino. Indossava la giacca di un pigiama di seta gialla ornato
di aquile e orsi: una scelta ardita, che stava cercando di
nascondere il più possibile con il mantello da pretore.
Una cosa che non era cambiata era il suo portamento,
quella postura leggermente goffa, la fronte appena accigliata in
un’espressione perplessa, come se si stesse chiedendo:
“Dovrei davvero essere qui?”.
Una sensazione comprensibile, suppongo. Frank aveva
scalato i ranghi da probatio a centurione e infine a pretore in
tempi record. Era dall’epoca di Giulio Cesare che un ufficiale
romano non faceva una carriera così rapida e brillante. Un
paragone che non avrei mai condiviso con Frank, tuttavia,
considerato com’era finita per il mio vecchio amico Giulio.
Spostai lo sguardo da Frank alla giovane donna al suo
fianco: il pretore Reyna Avila Ramírez-Arellano… e ricordai.
Una palla da bowling di panico si formò nel mio cuore e
rotolò fino alle viscere. Meno male che non stavo trasportando
la bara di Jason, altrimenti l’avrei lasciata cadere.
Come posso spiegarvelo?
Vi è mai capitato di fare un’esperienza così dolorosa o
imbarazzante da dimenticarvi che sia mai accaduta? La mente
si dissocia, fugge da quell’episodio gridando “no, no, no” e si
rifiuta di ammetterne il ricordo, giusto? È quello che è
successo a me con Reyna Avila Ramírez-Arellano.
Oh, sì, sapevo chi era. Conoscevo il suo nome e la sua
reputazione. Eravamo destinati a incontrarla al Campo Giove:
la profezia che avevamo decifrato nel Labirinto di fuoco me lo
aveva detto chiaramente.
Ma il mio confuso cervello mortale si era rifiutato di fare il
collegamento più importante: ovvero che questa Reyna era
quella Reyna, colei il cui volto mi era stato mostrato tanto
tempo prima da una certa fastidiosa dea dell’amore.
“È lei!” urlò il mio cervello, mentre le stavo di fronte in
tutta la mia flaccida e brufolosa gloria, con un vestitino
insanguinato premuto sulla pancia. “Oh, cavoli, è bellissima!”
“Ora la riconosci?” mi risposi urlando mentalmente. “Ora
ne vuoi parlare? Non puoi dimenticartela di nuovo, per
favore?”
“Ma, ecco, non ti ricordi le parole di Afrodite?” insistette il
mio cervello. “Devi stare alla larga da Reyna o…”
“Sì, me le ricordo! Chiudi il becco!”
Anche voi avete conversazioni del genere con il vostro
cervello, vero? È una cosa normalissima, giusto?
Reyna era davvero bellissima e imponente. La sua armatura
d’oro imperiale era avvolta in un mantello viola. Le medaglie
al valore militare scintillavano sul suo petto. La coda di
cavallo scura le ondeggiava sulle spalle come una frusta, e i
suoi occhi di ossidiana erano intensi e penetranti quanto quelli
delle aquile che volteggiavano sopra di noi.
Riuscii a smettere di guardarla soltanto con uno sforzo.
Avevo il volto in fiamme per l’umiliazione. Mi sembrava
ancora di sentire le risate degli altri dei quando Afrodite mi
aveva fatto la sua proclamazione, i suoi severi ammonimenti
nel caso avessi mai osato…
PING!
La manubalista di Lavinia scelse proprio quell’istante per
caricarsi da sola, attirando sulla ragazza l’attenzione di tutti.
«Ehm, allora…» balbettò. «Eravamo in servizio quando ho
visto un carro funebre che precipitava oltre il guardrail…»
Reyna sollevò una mano per zittirla. «Centurione
Levesque.» Il tono del pretore era misurato e stanco, come se
il nostro non fosse il primo malconcio corteo a presentarsi con
una bara al campo. «Il tuo rapporto, per favore.»
Hazel lanciò un’occhiata agli altri tre: insieme, posarono
delicatamente la cassa a terra. «Pretori, abbiamo salvato questi
viaggiatori ai confini del campo» cominciò Hazel. «Lei è
Meg.»
«Ciao» disse Meg. «C’è un bagno? Devo fare la pipì.»
Hazel la guardò frustrata. «Ehm, tra un secondo, Meg. E lui
è…» Esitò, come se non riuscisse a credere a quanto stava per
dire. «Lui è Apollo.»
La folla mormorò confusa. Captai frammenti di
conversazione.
«Ha detto…?»
«Non sarà davvero…?»
«Ma va’, figurati se…?»
«Gli hanno dato il nome di…»
«Sì, nei suoi sogni forse…»
«Calma» ordinò Frank Zhang, accostandosi ancora di più il
mantello per nascondere la giacca del pigiama. Mi studiò,
forse alla ricerca di un segno che io fossi davvero Apollo, il
dio che aveva sempre ammirato. Strizzò gli occhi come se la
sola idea gli avesse mandato in cortocircuito il cervello.
«Hazel, potresti… spiegarcelo meglio?» chiese. «E potresti,
ehm… dirci della bara?»
Hazel puntò i suoi occhi dorati nei miei, impartendomi un
ordine muto: “Diglielo”.
Non sapevo come cominciare.
Non sono mai stato un grande oratore come Giulio Cesare o
Cicerone. Non sono mai stato un inventore di colossali
fandonie come Ermes (ah, lui sì che ne raccontava di belle).
Come potevo spiegare i molti mesi di esperienze terrificanti
che avevano fatto sì che io e Meg ci trovassimo lì, con il corpo
del nostro eroico amico?
Abbassai lo sguardo sul mio ukulele.
Ripensai a Piper McLean a bordo degli yacht di Caligola,
quando aveva iniziato a cantare in mezzo a un’intera truppa di
mercenari induriti. Li avevi resi innocui, incantandoli con la
sua serenata sulla malinconia e il rimpianto.
Non avevo il dono della lingua ammaliatrice come Piper.
Ma ero un musicista, e Jason meritava sicuramente un tributo.
Dopo quello che era successo con gli eurynomoi, però,
avevo un po’ paura di usare l’ukulele, così cominciai a cantare
a cappella.
Intonando le prime note, mi tremò la voce. Non avevo idea
di cosa stessi facendo. Le parole prendevano forma dentro di
me come le nuvole di detriti che Hazel aveva sollevato
facendo crollare il tunnel.
Cantai della mia caduta dall’Olimpo, di come ero atterrato a
New York finendo al servizio di Meg McCaffrey. Cantai del
tempo trascorso al Campo Mezzosangue, dove avevamo
scoperto che il Triumvirato tramava per controllare i grandi
Oracoli e con essi il futuro del mondo. Cantai dell’infanzia di
Meg, dei terribili anni di abusi psicologici passati con Nerone,
e di come eravamo finalmente riusciti a scacciarlo dal Bosco
di Dodona. Cantai della nostra battaglia contro Commodo alla
Waystation di Indianapolis, del nostro straziante viaggio
all’interno del Labirinto di fuoco di Caligola per liberare la
Sibilla Eritrea.
Dopo ogni verso, cantai un ritornello su Jason: la sua ultima
battaglia sullo yacht di Caligola, il coraggio con cui aveva
affrontato la morte affinché noi potessimo vivere e continuare
la nostra impresa. Tutto ciò che avevamo vissuto aveva portato
al sacrificio di Jason. Tutto ciò che sarebbe accaduto poi, se
fossimo stati così fortunati da sconfiggere il Triumvirato e
Pitone a Delfi, sarebbe stato possibile grazie a lui.
Cantai un’intera canzone che non parlava affatto di me. (Lo
so, anch’io stento a crederci.) Era La caduta di Jason Grace.
Negli ultimi versi, cantai del sogno di Jason per la Collina dei
Templi, del suo progetto di aggiungere templi fino a che ogni
singolo dio e ogni singola dea, per quanto oscuri fossero,
avesse ricevuto gli onori adeguati.
Presi il plastico dalle mani di Meg, lo sollevai per mostrarlo
all’assemblea di semidei, poi lo appoggiai sulla bara di Jason
come fosse la bandiera di un soldato.
Non so di preciso quanto durò la mia canzone. Quando
arrivai all’ultimo verso, il cielo era ormai buio. Mi sentivo la
gola bollente e secca come la cartuccia di un proiettile esploso.
Le aquile giganti si erano radunate sui tetti vicini. Mi
guardavano con un’espressione simile al rispetto.
I volti dei legionari erano rigati di lacrime. Alcuni tiravano
su col naso, asciugandolo con le mani. Altri piangevano piano,
abbracciati.
Compresi che non stavano piangendo solo per Jason. La
canzone aveva liberato il dolore collettivo per l’ultima
battaglia combattuta, per le perdite che, com’era evidente,
dovevano essere state estreme. La canzone di Jason divenne la
loro canzone. Onorando lui, stavamo onorando tutti i caduti.
Sulle scale dei Principia, i pretori si riscossero
dall’angoscia. Reyna trasse un lungo respiro tremante.
Scambiò uno sguardo con Frank, che faticava a trattenere il
fremito del labbro inferiore. Raggiunsero un accordo muto.
«Terremo un funerale di Stato» annunciò Reyna.
«E realizzeremo il suo sogno» aggiunse Frank. «Quei
templi… tutto ciò che Jas…» Non riuscì a pronunciare il suo
nome. Dovette contare fino a cinque per riprendersi. «Tutto
ciò che ha immaginato. Costruiremo tutto in un fine
settimana.»
Percepii il cambiamento nell’umore della folla, palpabile
come un fronte meteorologico, il dolore che si trasformava in
una determinazione d’acciaio.
Alcuni annuirono e mormorarono il loro assenso. Si udì
qualche “Ave”, e tutti ben presto si unirono al grido,
picchiando con i giavellotti sugli scudi.
Nessuno batté ciglio all’idea di ricostruire la Collina dei
Templi in soli due giorni, un compito che sarebbe stato
impossibile perfino per i più esperti soldati del genio. Ma
quella era una legione romana.
«Apollo e Meg saranno ospiti del Campo Giove» disse
Reyna. «Gli troveremo un alloggio…»
«E un bagno?» supplicò Meg, che ormai saltellava con le
ginocchia incrociate.
Reyna riuscì a risponderle con un debole sorriso. «Certo.
Insieme, piangeremo e onoreremo i nostri morti. E dopo
discuteremo del nostro piano di guerra.»
I legionari esultarono battendo gli scudi.
Aprii la bocca per dire qualcosa di eloquente, per
ringraziare Reyna e Frank per la loro ospitalità.
Ma tutta l’energia che mi era rimasta l’avevo spesa per la
canzone. La ferita bruciava. E la testa mi girava come un
carosello.
Caddi a faccia avanti e morsi la polvere.
6

Vado in guerra

Con un cocktail squisito

Oh, sì! Tremate!

Oh, i sogni.
Cari lettori, se siete stanchi di sentir parlare dei miei orribili
incubi semidivini, non ve ne farò una colpa. Pensate soltanto a
come mi sentivo io a sperimentarli in prima persona. Era come
se la Pizia di Delhi si fosse seduta per sbaglio sul proprio
cellulare e avesse continuato a chiamarmi per tutta la notte,
borbottando versi profetici che non avevo chiesto e che non
avevo nessuna voglia di ascoltare.
Vidi una fila di yacht di lusso che sfrecciava tra le onde
illuminate dalla luna sulla costa della California: cinquanta
imbarcazioni disposte in una V molto serrata, orlate di luci
lungo la prua, con i gagliardetti purpurei che schioccavano al
vento sulle torri di comando illuminate. I ponti pullulavano di
mostri d’ogni genere: ciclopi, centauri selvaggi, pandai dalle
grandi orecchie e blemmi con la faccia sul petto. Sul ponte di
poppa di ogni yacht, una piccola, litigiosa folla di creature
sembrava intenta a costruire qualcosa di simile a un capanno
o… a un’arma d’assedio.
Il mio sogno fece uno zoom sul ponte della nave di testa.
L’equipaggio si dava un gran daffare, controllava monitor e
regolava strumentazioni di bordo. Pigramente accomodati alle
loro spalle, su identiche poltroncine reclinabili dalla
tappezzeria dorata, c’erano due delle persone che amavo di
meno al mondo.
A sinistra sedeva l’imperatore Commodo. I pantaloncini
celesti mettevano in risalto i polpacci perfetti e abbronzati e i
piedi nudi curatissimi. Portava una felpa grigia con cappuccio
degli Indianapolis Colts aperta, a scoprire il petto e gli
addominali scolpiti. Aveva un bel coraggio a indossare quella
felpa, dopo l’umiliazione che gli avevamo inflitto proprio
nello stadio di Indianapolis soltanto poche settimane prima.
(Certo, avevamo umiliato anche noi stessi, ma a quello
preferivo non pensare.)
Il suo volto era quasi come lo ricordavo: fastidiosamente
bello, dal profilo altezzoso e cesellato, con i riccioli dorati a
incorniciare la fronte. La pelle intorno agli occhi tuttavia
sembrava ustionata. Aveva le pupille annebbiate. L’ultima
volta che ci eravamo incontrati, lo avevo accecato con
un’esplosione di fulgore divino, e a quanto pareva non era
ancora guarito. Fu l’unica cosa che mi piacque di quella scena.
Sull’altra poltroncina sedeva Gaio Giulio Cesare Augusto
Germanico, altrimenti noto come Caligola.
La rabbia tinse il mio sogno di un rosa sanguigno. Come
poteva starsene adagiato lì in assoluto relax, con quel ridicolo
completo da capitano – scarpe e pantaloni bianchi, giacca blu e
camicia a righe senza colletto, cappello da ufficiale poggiato
sulle ventitré sui riccioli castani – quando solo pochi giorni
prima aveva ucciso Jason Grace? Come osava sorseggiare una
bevanda ghiacciata e rinfrescante guarnita con tre ciliegie al
maraschino – Tre! Mostruoso! – sorridendo in modo così
compiaciuto?
Caligola sembrava abbastanza umano, ma sapevo bene che
non era il caso di attribuirgli una qualunque forma di
compassione. Quanto avrei voluto strangolarlo. Ma, ahimè,
non potevo fare altro che osservarlo con rancore.
«Pilota, a che velocità procediamo?» chiese pigramente.
«Cinque nodi, signore» rispose uno dei mortali in uniforme.
«Devo accelerare?»
«No, no.» Caligola spiccò una delle ciliegie al maraschino e
se la lanciò in bocca. Masticò e sorrise, mostrando i denti rossi
di succo. «Anzi, rallentiamo a quattro nodi. Il viaggio è metà
del divertimento!»
«Sissignore!»
Commodo si incupì. Fece roteare il ghiaccio nel bicchiere,
che conteneva un liquido chiaro e frizzante con dello sciroppo
rosso sul fondo. Aveva solo due ciliegie al maraschino, senza
dubbio perché Caligola non gli avrebbe mai permesso di
eguagliarlo in qualcosa.
«Non capisco perché ci muoviamo così lentamente»
brontolò. «Se fossimo andati al massimo, a quest’ora saremmo
già arrivati.»
Caligola ridacchiò. «Amico mio, è tutta una questione di
tempismo. Dobbiamo garantire al nostro alleato defunto la
migliore finestra d’attacco.»
Commodo rabbrividì. «Odio il nostro alleato defunto. Sei
sicuro che si possa controllare?»
«Ne abbiamo già parlato.» Il tono cantilenante di Caligola
era leggero e arioso e piacevolmente omicida, come a dire:
“La prossima volta che osi mettere in dubbio le mie parole,
controllerò te con un po’ di cianuro nel bicchiere”. «Devi
fidarti di me, Commodo. Ricorda chi è venuto in tuo soccorso
nel momento del bisogno.»
«Ti ho già ringraziato una decina di volte» replicò lui. «E
poi, non è stata colpa mia. Come facevo a sapere che Apollo
aveva ancora della luce in sé?» Strizzò dolorosamente le
palpebre. «Ti ha battuto… e ha battuto anche il tuo cavallo.»
Una nuvola attraversò il volto di Caligola. «Sì, be’, presto
pareggeremo i conti. Fra le tue truppe e le mie, abbiamo forze
più che sufficienti per sovrastare la malconcia Dodicesima
Legione. E se si mostreranno troppo testardi per arrendersi,
abbiamo sempre il Piano B.» Chiamò qualcuno dietro le sue
spalle. «Ehi, Boost?»
Un pandos accorse dal ponte di poppa, le enormi orecchie
pelose che sbatacchiavano come due tappeti. Fra le mani
stringeva un grosso foglio di carta, con i segni di numerose
piegature, come fosse una mappa o un foglio di istruzioni. «Sì,
Princeps?»
«Riferisci i progressi in corso.»
«Ah.» La faccia pelosa di Boost ebbe un fremito. «Buoni!
Sono buoni, padrone! Ancora una… settimana.»
«Una settimana» constatò Caligola.
«Be’, signore, queste istruzioni…» Boost capovolse il
foglio e lo guardò accigliato. «Stiamo ancora cercando di
individuare tutti gli “slot A” dei “pezzi numero sette”. E non ci
hanno mandato abbastanza dadi. E le batterie necessarie non
sono delle dimensioni standard, così…»
«Una settimana» ripeté Caligola, con lo stesso tono
amabile. «Eppure la luna di sangue sorgerà tra…»
Il pandos trasalì. «Cinque giorni.»
«Perciò avrete finito il lavoro tra cinque giorni? Ottimo!
Continuate.»
Boost deglutì, poi corse via a tutta velocità, per quanto gli
consentissero i suoi piedi pelosi.
Caligola sorrise al collega imperatore. «Vedi, Commodo?
Presto il Campo Giove sarà nostro. Con un po’ di fortuna,
anche i Libri Sibillini saranno nelle nostre mani. E a quel
punto avremo un potere di contrattazione adeguato. Quando
giungerà l’ora di affrontare Pitone e suddividerci il mondo,
ricorderai chi ti ha aiutato… e chi no.»
«Oh, me lo ricorderò. Stupido Nerone.» Con la cannuccia,
Commodo punzecchiò i cubetti di ghiaccio nel bicchiere.
«Come hai detto che si chiama questo cocktail? Shirley
Temple?»
«No, quello è il Roy Rogers. Il mio è lo Shirley Temple.»
«E sei sicuro che i guerrieri moderni bevano questa roba
prima di andare in battaglia?»
«Assolutamente» confermò Caligola. «Ora goditi il viaggio,
amico mio. Hai ben cinque giorni per migliorare la tua
abbronzatura e recuperare la vista. E poi ci gusteremo una
deliziosa carneficina sulla baia!»
La scena scomparve, e io precipitai in una gelida oscurità.
Mi ritrovai in una sala di pietra male illuminata e piena di
fetidi, gemebondi e irrequieti non-morti. Alcuni erano
avvizziti come mummie egizie. Altri sembravano quasi vivi,
se non si consideravano le orrende ferite che li avevano uccisi.
In fondo alla stanza, tra due colonne grezze, sedeva… una
presenza, avvolta in una foschia color magenta. Sollevò il
volto scheletrico, mi fissò con gli occhi ardenti di luce
purpurea – gli stessi occhi che il ghoul aveva posato su di me
nel tunnel – e scoppiò a ridere.
La ferita sul mio ventre si accese come una pista di polvere
da sparo.
Mi svegliai con un urlo straziante, scosso dai tremiti e
zuppo di sudore. Ero in una strana stanza.
«Anche tu?» chiese Meg.
Era in piedi accanto alla mia branda, e si sporgeva sul
davanzale di una finestra aperta armeggiando su una fioriera.
Le tasche della sua cintura da giardinaggio erano gonfie di
bulbi, pacchetti di semenze e attrezzi. In una mano infangata
stringeva una paletta. Ah, i figli di Demetra. Non puoi portarli
da nessuna parte senza che si mettano a giocare con la terra.
«Ch-che succede?» Cercai di mettermi a sedere, ma fu un
errore.
La ferita sulla pancia era davvero una pista infuocata di
dolore. Chinai lo sguardo e scoprii di essere avvolto in bende
che odoravano di erbe e unguenti. Se i guaritori del campo mi
avevano già medicato, perché la ferita mi faceva ancora così
male?
«Dove siamo?» gracidai.
«Al caffè.»
Anche per gli standard di Meg, era un’affermazione
ridicola.
La nostra stanza non era un caffè. Non c’era nessun
bancone, non c’erano macchine espresso, non c’era nessun
barista e non c’erano brioche. Era un semplice cubo intonacato
di bianco, con due brande accostate al muro e poste l’una di
fronte all’altra, una finestra aperta nel mezzo e una botola in
fondo, cosa che mi indusse a pensare che ci trovassimo a un
piano superiore. Poteva benissimo essere una cella, solo che
non c’erano sbarre alla finestra e la mia branda avrebbe dovuto
essere più comoda. (Sì, lo so per certo. Ho compiuto qualche
ricerca sul campo nella prigione di Folsom insieme a Johnny
Cash. Lunga storia.)
«Il caffè è di sotto» chiarì Meg. «Questa è la soffitta di
Bombilo.»
Ricordai il barista bicefalo con il grembiule verde che ci
aveva guardato male sulla Via Praetoria. Mi chiesi perché
fosse stato così gentile da offrirci un alloggio e perché, con
tutti i posti che c’erano, la legione avesse deciso di sistemarci
lì. «Ma di preciso, come mai ci…?»
«Spezia di Lemuria» rispose Meg. «Bombilo era il fornitore
più vicino. Serviva ai guaritori per la tua ferita.» Si strinse
nelle spalle – come a dire: “Guaritori, che ci vuoi fare?” –
quindi tornò a piantare i suoi bulbi.
Annusai le bende. Uno degli odori che riconobbi era in
effetti spezia di Lemuria. Roba efficace contro i non-morti,
anche se il Festival di Lemuria era a giugno ed eravamo
appena in aprile… Ah, non c’era da stupirsi che fossimo finiti
in un caffè. Ogni anno, gli esercizi commerciali sembravano
avviare la stagione di Lemuria un po’ prima. Caffellatte
speziato, muffin speziati… Come se non vedessimo l’ora di
festeggiare la stagione dell’esorcismo con dolcetti che
sapevano vagamente di fagioli e sepolcri impolverati. Slurp.
Di che altro sapeva l’unguento? Crochi, mirra, schegge
d’avorio di unicorno? Oh, quei guaritori romani erano bravi.
Allora perché non mi sentivo meglio?
«Non hanno voluto spostarti di nuovo» disse Meg. «Così
siamo rimasti qui. È a posto. Il bagno è di sotto. E il caffè è
gratis.»
«Tu non bevi caffè.»
«Ora sì.»
Rabbrividii. «Una Meg con la caffeina. Proprio quello che
mi serviva. Quanto tempo sono rimasto incosciente?»
«Un giorno e mezzo.»
«Cosa?!»
«Avevi bisogno di dormire. E poi, dai meno fastidio da
svenuto.»
Non avevo le energie per risponderle a tono. Mi strofinai
gli occhi, poi mi costrinsi a mettermi seduto, ricacciando
indietro il dolore e la nausea.
Meg mi studiò con preoccupazione: dovevo apparire
persino peggio di come mi sentivo. «Quanto fa male?» chiese.
«Sto bene» mentii. «Che volevi dire prima, quando mi hai
chiesto “anche tu”?»
L’espressione sul suo viso si chiuse come una saracinesca.
«Incubi. Mi sono svegliata urlando, un paio di volte. Tu te la
sei dormita, ma…» Meg sfilò un grumo di terra dalla paletta.
«Questo posto mi ricorda… lo sai.»
Come avevo fatto a non pensarci? Meg era cresciuta nella
dimora imperiale di Nerone, in mezzo a servitori che
parlavano latino e guardie in armatura romana, stendardi viola
e porpora e insegne del vecchio impero. Dopo
quell’esperienza, il Campo Giove non poteva che riportarle
alla mente ricordi sgraditi.
«Mi dispiace» le dissi. «Hai sognato… niente che dovrei
sapere?»
«Il solito.» Dal tono in cui lo disse, era chiaro che non
avrebbe approfondito il concetto. «E tu?»
Ripensai al mio sogno con i due imperatori che facevano
comodamente rotta verso di noi, bevendo cocktail guarniti di
ciliegine mentre le loro truppe assemblavano in fretta e furia
armi segrete ordinate all’IKEA .
“Il nostro alleato defunto.”
“Piano B.”
“Cinque giorni.”
Rividi quegli occhi ardenti di luce purpurea in una sala
piena di non-morti. I morti del re.
«Il solito» confermai. «Mi aiuti ad alzarmi?»
Era doloroso stare in piedi ma, se ero rimasto a letto per un
giorno e mezzo, volevo muovermi prima che i miei muscoli si
riducessero in pappa. E poi, cominciavo a rendermi conto di
avere fame e sete… e, per usare le parole immortali di Meg
McCaffrey, mi scappava la pipì. I corpi mortali sono una vera
seccatura.
Reggendomi forte al davanzale, mi affacciai a guardare
fuori. Sotto di me, i semidei si affaccendavano lungo la Via
Praetoria – chi per trasportare rifornimenti, chi per correre a
fare rapporto – in un concitato andirivieni tra le baracche e la
mensa. La cappa del lutto e dello shock sembrava svanita.
Tutti avevano un’aria impegnata e decisa.
Allungando il collo verso sud, riuscii a scorgere la Collina
dei Templi, che ferveva di attività. Le macchine d’assedio
erano state riconvertite in gru e scavatori. C’erano impalcature
ovunque. Rumori di martelli e pietre spaccate risuonavano per
tutta la valle. Dal punto in cui mi trovavo, riuscivo a
individuare almeno dieci nuovi piccoli templi più due grandi
che non esistevano ancora al nostro arrivo, e altri ancora erano
in costruzione.
«Caspita» mormorai. «Questi Romani non perdono tempo.»
«Stasera ci sarà il funerale di Jason» mi informò Meg.
«Cercano di finire i lavori in tempo.»
A giudicare dall’angolatura del sole, dovevano essere più o
meno le due del pomeriggio. Di quel passo, pensai che la
legione avrebbe avuto tutto il tempo di finire la Collina dei
Templi e magari pure di costruire un paio di stadi prima di
cena.
Jason ne sarebbe stato fiero. Avrei tanto voluto che fosse lì
a vedere con i suoi occhi quello che era riuscito a ispirare.
Un velo nero mi passò davanti agli occhi. Forse stavo per
svenire di nuovo?
Poi mi resi conto che qualcosa di nero mi era veramente
passato davanti agli occhi, attraversando la finestra. Mi voltai
e vidi un corvo seduto sulla mia branda.
Arruffò le penne color petrolio, scrutandomi con un
occhietto nero e malvagio. SQUAWK!
«Meg? Lo vedi anche tu?» domandai.
«Sì.» Non alzò nemmeno gli occhi dai suoi bulbi. «Ciao,
Frank! Come va?»
L’uccello mutò forma, plasmandosi a poco a poco in una
sagoma umana e corpulenta. Le penne si tramutarono in
vestiti, finché davanti a noi non sedette Frank Zhang, con i
capelli lavati e pettinati a dovere e una maglietta del campo al
posto della giacca del pigiama.
«Ciao, Meg» rispose, come se fosse normalissimo cambiare
specie durante una conversazione. «Tutto procede secondo i
piani. Sono passato soltanto a vedere se Apollo si era svegliato
e… ovviamente sì.» Mi salutò con un gesto imbarazzato della
mano. «Cioè, sì, sei sveglio. Visto che io, ehm, sono seduto
sulla tua branda. Forse dovrei alzarmi.» Si alzò, si aggiustò la
maglietta… e poi non seppe più dove mettere le mani.
Un tempo ero abituato al nervosismo dei mortali che
incontravo, ma in quel momento ci misi qualche attimo a
capire che Frank era intimorito da me. Forse, essendo un
mutaforma, faceva meno fatica della maggior parte degli altri
a credere che, nonostante le mie insipide sembianze mortali,
dentro di me ero ancora lo stesso dio del tiro con l’arco.
Visto? Ve l’avevo detto che Frank era adorabile.
«Comunque, io e Meg abbiamo parlato, fra ieri e oggi,
mentre tu eri svenuto… cioè, mentre eri in convalescenza…
cioè, mentre dormivi, ecco» disse il figlio di Marte. «Va bene
così, eh. Avevi bisogno di dormire. Spero che tu stia meglio.»
Mi sentivo uno straccio, ma non potevo non sorridere. «Sei
stato molto gentile con noi, pretore Zhang. Grazie.»
«Ehm, figurati. È un… ehm, un onore, considerato che
sei… che eri…»
«Bah! Frank…» Meg alzò gli occhi dalla sua fioriera. «È
soltanto Lester. Non trattarlo come se fosse chissà chi.»
«E dai, Meg. Se Frank vuole trattarmi come chissà chi…»
«Frank, diglielo.»
Il pretore guardò prima lei e poi me un paio di volte, come
per accertarsi che il Meg&Apollo Show fosse finito. «Allora,
Meg mi ha spiegato la profezia che avete ricevuto nel
Labirinto di fuoco. Apollo si troverà di fronte alla morte nella
tomba di Tarquinio se la porta che conduce alla divinità
ammutolita non sarà aperta dalla figlia di Bellona, giusto?»
Rabbrividii. Non volevo che mi si ricordassero quelle
parole, soprattutto considerati i miei sogni, e quell’accenno al
fatto che avrei affrontato la morte. Già fatto, grazie. Avevo
pure una bella ferita come souvenir.
«Sì» confermai debolmente. «Immagino che abbiate già
capito cosa significhi e intrapreso le azioni necessarie,
giusto?»
«Ehm, non proprio» rispose Frank. «Ma la profezia, in
effetti, ha risposto ad alcune domande a proposito di… be’, di
alcune delle cose che sono successe da queste parti. Ha dato a
Ella e Tyson informazioni sufficienti per lavorare. Pensano di
avere una pista.»
«Ella e Tyson…» Scavai nel mio fumoso cervello mortale.
«L’arpia e il ciclope che stanno cercando di ricostruire i Libri
Sibillini.»
«Proprio loro» confermò Frank. «Se te la senti, pensavo che
potremmo farci un giro per Nuova Roma.»
7

Che bel giretto

Stracolmo di dolore

Auguri, Lester!

Non me la sentivo.
Mi faceva malissimo la pancia. Mi reggevo a malapena in
piedi. Anche dopo avere usato il bagno, essermi lavato, vestito
e nutrito con un caffellatte e un muffin speziati del nostro
scorbutico ospite Bombilo, non capivo come sarei riuscito a
farmi i due chilometri a piedi o giù di lì per arrivare a Nuova
Roma.
Non avevo alcun desiderio di scoprire altro sulla profezia
del Labirinto di fuoco. Non volevo affrontare altre sfide
impossibili, tanto meno dopo il sogno di quella cosa nella
tomba. Non volevo neppure essere un umano. Ma, ahimè, non
avevo scelta.
Come dicono i mortali? Stringi i denti? Ecco. Diciamo che
li strinsi parecchio.
Meg rimase al campo. Aveva un appuntamento per dare da
mangiare agli unicorni con Lavinia di lì a un’ora, e aveva
paura di perderlo allontanandosi troppo. Data la reputazione di
Lavinia di sparire senza permesso, pensai che fosse una
preoccupazione ragionevole.
Frank mi condusse oltre il cancello principale. Le sentinelle
scattarono sull’attenti. Dovettero restarci piuttosto a lungo,
considerato che mi muovevo alla velocità di uno sciroppo
freddo. Mi accorsi che mi studiavano con preoccupazione,
forse perché temevano che potessi lanciarmi in un’altra
canzone straziante, o forse perché non riuscivano ancora a
credere che un tempo quel malridotto e zoppicante esemplare
di adolescente fosse il dio Apollo.
Il pomeriggio era in puro stile californiano: cielo turchese,
erba dorata che si increspava sulle colline, eucalipti e cedri che
frusciavano nella brezza tiepida. Uno spettacolo che avrebbe
dovuto scacciare qualunque pensiero di gallerie buie e ghoul
raccapriccianti, eppure non riuscì a togliermi dal naso l’odore
di sepolcro impolverato. Il caffellatte speziato servì a poco.
Frank teneva il mio passo, restandomi vicino a sufficienza
nel caso mi sentissi troppo malfermo e volessi appoggiarmi a
lui, ma non insistette per aiutarmi.
«Allora, che succede fra te e Reyna?» esordì infine.
Inciampai, infliggendomi nuove fitte di dolore nella pancia.
«Cosa? Niente.»
Frank gettò via una penna di corvo che gli era rimasta
impigliata nel mantello. Mi chiesi come funzionasse quella
faccenda, di preciso. Ritrovarsi addosso residui sparsi della
forma precedente… Gli capitava mai di buttare via una piuma
e accorgersi soltanto dopo che… Ops! Ho appena gettato via
un mignolo?
Avevo sentito dire che Frank era in grado di trasformarsi
addirittura in uno sciame di api. Perfino io, un’ex divinità
abituata a trasformarsi di continuo, non avevo idea di come ci
riuscisse.
«È solo che… quando hai visto Reyna, sei rimasto di
sasso» disse. «Non so, come se ti fossi appena ricordato che le
devi dei soldi o roba del genere.»
Dovetti trattenere una risata amara. Magari il mio problema
con Reyna fosse stato così semplice.
L’evento mi era tornato in mente con chiarezza cristallina:
Afrodite che mi rimproverava e mi metteva in guardia,
dandomi una lavata di capo come solo lei sapeva fare. “Non
oserai avvicinarti a lei con la tua indegna, brutta faccia divina,
o giuro sullo Stige che…”
E naturalmente lo aveva fatto nella sala del trono, al
cospetto di tutti gli altri dei dell’Olimpo, che se la spassavano
nel modo più crudele gridando “Oooh!”. Anche mio padre si
era unito al coro. Ogni secondo della scena gli era piaciuto
tantissimo.
Rabbrividii.
«Non succede niente fra me e Reyna» risposi onestamente.
«Avremo scambiato al massimo due parole.»
Frank mi studiò in viso. Si rese conto che stavo tacendo
qualcosa, ma non insistette. «Okay. Be’, la vedrai stasera al
funerale. Sta cercando di dormire un po’, adesso.»
Stavo quasi per chiedergli come mai dormisse in pieno
pomeriggio, ma poi ricordai che Frank indossava la giacca del
pigiama quando l’avevamo incontrato all’ora di cena. Era
successo davvero due giorni prima?
«Fate a turno» intuii. «Così uno di voi due è sempre in
servizio. Giusto?»
«È l’unico modo» confermò Frank. «Siamo ancora in
massima allerta. Tutti sono sul chi vive. C’è stato così tanto da
fare dopo la battaglia…»
Aveva pronunciato la parola “battaglia” come aveva fatto
Hazel, come se fosse un punto di svolta unico e inconfondibile
della storia.
Come tutte le profezie che io e Meg avevamo ricevuto
durante le nostre avventure, l’incubo predetto nella Profezia
Oscura riguardo al Campo Giove era scolpito nella mia mente:
Parole memorabili prendon fuoco
Pria che sul Diavol sorga luna nuova.
Il Tevere di corpi sarà il loco
Se il mutaforma affronterà la prova.
Dopo averla udita, Leo Valdez si era precipitato ad
attraversare il Paese sul suo drago di bronzo, nella speranza di
avvisare il campo. Secondo Leo, era arrivato appena in tempo,
ma i Romani avevano comunque dovuto pagare un prezzo
carissimo.
Frank dovette comprendere la mia espressione addolorata.
«Sarebbe andata peggio se non fosse stato per te» disse,
facendomi sentire ancora più in colpa. «Se non avessi mandato
Leo ad avvisarci. Si è presentato qui un giorno all’improvviso,
calando dal cielo.»
«Dev’essere stato uno shock. Anche voi pensavate che
fosse morto…»
Gli occhi scuri di Frank scintillarono come se fossero
ancora quelli di un corvo. «Sì. Eravamo così infuriati con lui
per averci fatto preoccupare, che ci siamo messi in fila per
picchiarlo a turno.»
«Anche noi al Campo Mezzosangue» replicai. «I Greci
l’hanno presa allo stesso modo.»
«Mmm…» Frank spostò lo sguardo verso l’orizzonte.
«Abbiamo avuto circa ventiquattr’ore per prepararci. È
servito. Ma non è stato abbastanza. Sono venuti da laggiù.»
Indicò a nord verso le colline di Berkeley. «Non finivano mai.
Non so come altro dirlo. Avevo già combattuto contro dei non-
morti, ma questi…» Scosse la testa. «Hazel li ha chiamati
zombie. Mia nonna li avrebbe chiamati jiangshi. I Romani
hanno un sacco di parole per definirli: immortuos, lamia,
nuntius.»
«Messaggero» dissi, traducendo l’ultima parola. Mi era
sempre sembrato un termine strano. Messaggero di chi? Non
di Ade. Lui odia quando i cadaveri se ne vanno a zonzo per il
mondo mortale. Gli fanno fare la figura del guardiano
distratto.
«I Greci li chiamano vrykolakai» dissi. «Di solito, è raro
vederne anche solo uno.»
«Erano centinaia» riprese Frank. «Insieme a decine di
quelle altre creature spettrali, gli eurynomoi, che facevano da
mandriani. Li abbiamo abbattuti. Ma continuavano a spuntarne
altri. Ti immagineresti che un drago sputafuoco possa
cambiare i giochi, ma anche per Festus c’è stato un limite. I
non-morti non sono infiammabili come si potrebbe pensare.»
Ade me lo aveva spiegato una volta, in uno dei suoi
famigerati e goffi tentativi di parlare del più e del meno. Le
fiamme non sono un deterrente per i non-morti. Gli zombie si
limitano ad attraversarle, e se diventano un po’ più
bruciacchiati per questo, pazienza. Ecco perché Ade non usa il
Flegetonte, il Fiume di fuoco, come confine del suo regno.
L’acqua corrente tuttavia è un’altra storia, soprattutto le acque
magiche e oscure dello Stige.
Studiai la corrente luccicante del Piccolo Tevere. D’un
tratto, uno dei versi della Profezia Oscura acquistò un senso.
«Il Tevere di corpi sarà il loco. Li avete fermati al fiume.»
Frank annuì. «A quelle creature non piace l’acqua fresca. È
stato così che abbiamo rovesciato le sorti della battaglia. Ma i
corpi a cui si riferisce la profezia non sono solo quelli che
pensi.»
«Che vuoi dire?»
«ALT!» gridò una voce proprio davanti a me.
Ero così assorto nella storia di Frank, che non mi ero reso
conto di quanto fossimo ormai vicini alla città. Non avevo
nemmeno notato la statua sul ciglio della strada finché non mi
aveva urlato contro.
Terminus, il dio dei confini, era proprio come lo ricordavo.
Dalla vita in su, era un uomo finemente cesellato: naso grosso,
capelli ricci e un’espressione scorbutica (forse perché nessuno
gli aveva mai scolpito un paio di braccia). Dalla vita in giù, era
un blocco di marmo bianco. Ai bei tempi, lo prendevo in giro
suggerendogli di provare i jeans skinny, perché fanno
sembrare più magri. Da come mi guardava, se lo ricordava
pure lui.
«Bene, bene» disse. «Chi è che abbiamo qui?»
Sospirai. «Terminus, non possiamo andare oltre?»
«No!» abbaiò. «No, non possiamo. Documenti, prego.»
Frank si schiarì la voce. «Ehm, Terminus…» Si picchiettò
gli allori da pretore sul pettorale dell’armatura.
«Sì, pretore Frank Zhang. Tu puoi passare. Ma il tuo amico,
qui…»
«Terminus! Sai benissimo chi sono» protestai.
«Documenti!»
Una fredda e viscida sensazione mi risalì dallo stomaco
rivestito di spezie. «Oh, non vorrai mica…?»
«Carta d’identità o patente, prego.»
Avrei tanto voluto protestare contro quella crudeltà gratuita.
Ma, ahimè, è inutile litigare con i burocrati, i vigili urbani e le
divinità di confine. Serve solo a prolungare le sofferenze.
Scrollando le spalle, tirai fuori il portafogli ed estrassi la
patente che Zeus mi aveva fornito quand’ero caduto sulla
Terra. Nome: Lester Papadopoulos. Età: sedici anni. Stato:
New York. Foto: 100% acido negli occhi.
«Dammela» ordinò Terminus.
«Ma se…?» Mi fermai prima di aggiungere “non hai le
mani”: Terminus era di un’ostinazione maniacale riguardo ai
suoi arti fantasma. Sollevai la patente in modo che potesse
studiarla. Anche Frank si sporse a guardare incuriosito, poi
colse la mia occhiataccia e si allontanò.
«Molto bene, Lester» gracchiò. «È insolito avere un
visitatore mortale in città… un visitatore molto, molto mortale.
Ma suppongo che possiamo concedertelo. Sei venuto per
comprarti una nuova toga? O forse un paio di jeans skinny?»
Inghiottii l’amarezza. Esiste nessuno di più vendicativo di
un dio minore che finalmente può avere la meglio su un dio di
prima categoria?
«Possiamo passare?» chiesi.
«Armi da dichiarare?»
Ai bei tempi, avrei risposto: “Solo la mia personalità da
urlo”. Ma, ahimè, non riuscivo più nemmeno a trovarlo
ironico. La domanda però mi pose un dubbio importante: che
fine avevano fatto l’ukulele, l’arco e la faretra? Forse li
avevano infilati sotto il mio letto? Se i Romani mi avevano
perso la faretra, insieme alla profetica e detestabile Freccia di
Dodona parlante, avrei dovuto comprare loro un dono di
ringraziamento.
«Niente armi» borbottai.
«Molto bene» stabilì Terminus. «Potete passare. E auguri
per il tuo imminente compleanno, Lester.»
«Per… che cosa?»
«Circolare! Avanti il prossimo!»
Non c’era nessuno alle nostre spalle, ma Terminus ci
scacciò verso la città urlando alla fila inesistente di visitatori di
non spingere e mettersi in coda.
«Il tuo compleanno è vicino?» chiese Frank mentre
avanzavamo. «Auguri!»
«Non dovrebbe.» Guardai la patente. «Qui c’è scritto 8
aprile, ma non torna. Sono nato nel settimo giorno del settimo
mese. Certo, i mesi erano diversi allora. Vediamo… il mese di
Gamelione? Ma quello era in inverno…»
«Hai diciassette anni, ora? O quattromiladiciassette?»
chiese Frank. «E come festeggiano gli dei? Ti piacciono le
torte?» Sembrava speranzoso sulla faccenda delle torte, come
se immaginasse una mostruosa costruzione decorata d’oro con
diciassette candeline romane in cima.
Cercai di calcolare la mia data di nascita giusta. Lo sforzo
mi fece venire il mal di testa. Anche quando avevo una
memoria divina, detestavo le date: il vecchio calendario
lunare, il calendario giuliano, il calendario gregoriano, l’anno
bisestile, l’ora legale. Argh. Non potevamo chiamare tutti i
giorni Apollodì e farcelo bastare?
Però Zeus mi aveva decisamente assegnato una nuova data
di nascita: l’8 aprile. Perché? Il mio numero sacro era il sette.
Non c’erano sette nella data 8/4. Nemmeno la somma era
divisibile per sette. Perché Zeus aveva voluto che il mio
compleanno cadesse di lì a quattro giorni?
Mi fermai di colpo, come se anche le mie gambe si fossero
trasformate in un piedistallo. Nel mio sogno, Caligola aveva
insistito affinché i pandai finissero il lavoro in tempo per la
luna di sangue, di lì a cinque giorni. Se quello che avevo visto
era successo la notte prima, allora cinque giorni, incluso quello
presente, portavano dritti a… l’8 aprile.
«Che c’è?» chiese Frank. «Perché hai la faccia grigia?»
«Penso che mio padre mi abbia lasciato un avvertimento. O
forse una minaccia?» risposi. «E Terminus me l’ha appena
fatto notare.»
«Perché il tuo compleanno dovrebbe essere una minaccia?»
«Adesso sono mortale. I compleanni sono sempre una
minaccia.» Cercai di contenere l’ansia. Avrei tanto voluto
voltarmi e darmela a gambe, ma non avrei saputo dove andare.
Potevo solo entrare a Nuova Roma, e raccogliere nuove
sgradite informazioni sul mio infausto e imminente destino.
«Fai strada, Frank Zhang» dissi a malincuore, infilando la
patente nel portafogli. «Forse Tyson ed Ella avranno delle
risposte.»
Nuova Roma… la città in cui ci sono maggiori probabilità di
trovare gli dei dell’Olimpo in circolazione sotto mentite
spoglie. (Seguita a poca distanza da New York, e da Cozumel,
in Messico, durante le vacanze di primavera. Non ce ne
abbiate.)
Quando ero un dio, aleggiavo spesso sopra i suoi tetti rossi
senza farmi vedere, oppure passeggiavo in forma mortale fra
le sue strade, godendomi i suoni e i profumi dei bei tempi
andati dell’impero.
Non era identica all’Antica Roma, ovvio. Avevano
apportato diverse modifiche. Non c’erano schiavi, tanto per
cominciare. E l’igiene personale era molto migliorata. La
Suburra – il quartiere malfamato straripante di gente e brutti
palazzoni – non esisteva.
Nuova Roma non era nemmeno una triste imitazione stile
parco dei divertimenti, come una finta Torre Eiffel a Las
Vegas. Era una città viva in cui l’antico e il moderno si
mescolavano liberamente. Attraversando il Foro, udii
conversazioni in una decina di lingue diverse, tra cui il latino.
Un gruppo musicale si esibiva in una jam session con lire,
chitarre e washboard. I bambini giocavano nelle fontane
mentre gli adulti sedevano sotto i pergolati poco lontano,
all’ombra delle viti. I Lari fluttuavano qua e là, diventando più
visibili nelle lunghe ombre del pomeriggio. Persone di ogni
tipo si mescolavano e chiacchieravano: monocefale, bicefale e
perfino cinocefale, con la testa canina che mostrava i denti,
lasciava penzolare la lingua e abbaiava per dire la propria.
Era una Roma più piccola, più gentile, migliore: la Roma di
cui avevamo sempre ritenuto capaci i mortali, ma che i mortali
non avevano mai realizzato. E sì, certo, noi dei venivamo qui
per nostalgia, per rivivere quei secoli meravigliosi in cui
eravamo adorati in lungo e in largo, e il profumo dei sacrifici
ardenti si spandeva nell’aria.
Lo so, vi sembrerà patetico… come quelle crociere per
vecchietti che coccolano i fan di band preistoriche. Ma che
posso dire? La nostalgia è uno di quei malanni che
l’immortalità non cura.
Quando arrivammo nei pressi del Senato, cominciai a
riconoscere i resti della recente battaglia. Le crepe sulla cupola
scintillavano di adesivo d’argento. I muri di alcuni edifici
erano stati rattoppati e ridipinti in fretta e furia. Come al
campo, le strade cittadine sembravano meno affollate di
quanto ricordassi, e di quando in quando – se un cinocefalo
abbaiava o se il martello di un fabbro picchiava contro un
pezzo d’armatura – le persone trasalivano, come per chiedersi
se fosse il caso di cercare riparo.
Quella era una città traumatizzata, che cercava con tutte le
forze di tornare alla normalità. E in base a quanto avevo visto
nei miei sogni, Nuova Roma stava per essere traumatizzata di
nuovo nel giro di pochi giorni.
«Quante sono state le perdite?» chiesi a Frank.
Avevo paura di conoscere la cifra esatta, ma dovevo
saperlo.
Frank si guardò intorno, per controllare che nessuno ci
sentisse. Stavamo risalendo una delle molte stradine lastricate
e tortuose che si addentravano nei quartieri residenziali della
città.
«È difficile dirlo con precisione» mi rispose. «Per quanto
riguarda la legione, almeno venticinque. Sono quelli che
mancano all’appello. La nostra forza massima ammonta…
ammontava a duecentocinquanta. Non che siamo mai stati così
tanti tutti insieme al campo. Però… la battaglia ci ha
letteralmente decimati.»
Fu come se mi avesse appena trapassato un Lare. La
decimazione, un’antica punizione per le legioni ribelli, era una
brutta faccenda: si uccideva un soldato ogni dieci, a caso, non
importava se fosse colpevole o innocente.
«Mi dispiace, Frank. Avrei dovuto…»
Non sapevo come finire la frase. Avrei dovuto cosa? Non
ero più un dio. Non potevo più schioccare le dita e fare
esplodere gli zombie a migliaia di chilometri di distanza. Ah,
non avevo mai apprezzato come si deve questi piaceri
semplici!
Frank si strinse nel mantello. «I civili sono stati colpiti di
più. Molti ex legionari di Nuova Roma sono venuti ad aiutarci.
Sono sempre stati le nostre riserve. Ma, come ti dicevo prima,
quel verso della profezia che hai citato: Il Tevere di corpi sarà
il loco… I corpi nel Tevere sono quelli degli zombie, certo.
Ma anche dei nostri. E la cosa più brutta è che non sappiamo
quanti siano di preciso, perché sono scomparsi.»
La mia ferita cominciò a ribollire. «In che senso,
scomparsi?»
«Alcuni sono stati trascinati via quando i non-morti si sono
ritirati. Abbiamo cercato di recuperarli, ma…» Frank scosse il
capo. «Sono stati inghiottiti dalla terra. Nemmeno Hazel è
riuscita a spiegarselo. Molti sono finiti sott’acqua durante la
battaglia nel Piccolo Tevere. Le naiadi hanno provato a
cercarli per noi, ma non c’è stato nulla da fare.»
Non diede voce alla cosa più orribile di tutte sottintesa alle
sue parole, ma di sicuro la pensava. I loro morti non erano
semplicemente scomparsi. Sarebbero tornati: come nemici.
Frank teneva lo sguardo fisso sul lastrico. «Cerco di non
pensarci troppo. Dovrei essere la figura di comando, quello
che sa sempre il fatto suo, no? Ma… prima, per esempio,
quando abbiamo visto Terminus… Di solito c’è sempre una
bambina con lui, Julia, ad aiutarlo. Ha sette anni. Adorabile.»
«Oggi non c’era.»
«No» confermò Frank. «È in affido presso una nuova
famiglia. Entrambi i suoi genitori sono morti nella battaglia.»
Dovetti fermarmi. Era troppo. Mi appoggiai con una mano
al muro.
Un’altra bambina innocente costretta a soffrire, come Meg
McCaffrey quando Nerone aveva ucciso suo padre… o come
Georgina, quando l’avevano sottratta a sua madre a
Indianapolis. Tre mostruosi imperatori romani avevano
mandato in pezzi così tante vite. Dovevo fermarli.
Frank mi prese per un braccio, con garbo. «Un passo alla
volta. È l’unico modo per farlo.»
Ero andato al Campo Giove per sostenere i Romani. E
invece era il pretore romano che stava sostenendo me.
Continuammo a camminare, oltrepassando bar e negozi.
Cercai di concentrarmi su qualcosa di positivo. Le viti erano
cariche di boccioli. Le fontane funzionavano ancora. Gli
edifici di quel quartiere erano tutti intatti.
«Almeno… almeno la città non è bruciata» azzardai con
poca convinzione.
Frank si accigliò come se non ci vedesse nessun motivo di
ottimismo. «Che vuoi dire?»
«C’è un altro verso della profezia: Parole memorabili
prendon fuoco. Si riferisce al lavoro di Ella e Tyson sui Libri
Sibillini, vero? I libri sono al sicuro, perché siete riusciti a
evitare l’incendio della città.»
«Oh.» Frank emise un verso a metà fra un colpo di tosse e
una risata. «Già, ehm, la cosa buffa è…» Si fermò di fronte a
una libreria dall’aria eccentrica.
Dipinta sulla tenda da sole verde c’era soltanto una parola:
LIBRI . Pile di tascabili usati erano a disposizione di tutti sul
marciapiede. In vetrina, un grosso gatto arancione si godeva il
sole in cima a una catasta di dizionari.
«Spesso i versi delle profezie hanno un significato diverso
da quello che ci si aspetta.» Frank bussò alla porta: tre colpi
piccoli, due lenti, due veloci.
Subito, la porta si spalancò verso l’interno, e sulla soglia, a
petto nudo, comparve un ciclope sorridente.
«Entrate!» disse Tyson. «Mi sto facendo un tatuaggio!»
8

Vuoi tatuaggio?

Gratis in libreria

Più gatto omaggio

Piccolo consiglio: non entrate mai in un luogo in cui un


ciclope si sta facendo tatuare. Il tanfo è indimenticabile, come
una vasca bollente piena di inchiostro e borsellini di cuoio. La
pelle dei ciclopi è molto più coriacea di quella umana e
bisogna usare aghi super-riscaldati per iniettare l’inchiostro, da
cui l’odore ripugnante di bruciato.
Come facevo a saperlo? Avevo lunghi e brutti trascorsi con
i ciclopi.
Millenni prima, avevo ucciso quattro dei ciclopi preferiti di
mio padre perché avevano fabbricato il fulmine che aveva
ucciso mio figlio Asclepio. (E anche perché non potevo
uccidere il vero assassino, vale a dire, ehm, Zeus.) È così che
sono stato esiliato per la prima volta sulla Terra in forma
mortale. La puzza di ciclope bruciato mi riportava alla mente
quei ricordi meravigliosi.
Poi mi ero imbattuto nei ciclopi moltissime altre volte nel
corso dei secoli: avevo combattuto al loro fianco durante la
prima guerra dei Titani (sempre con una molletta da bucato sul
naso), avevo cercato di insegnare loro come costruire un arco
perfetto, anche se non avevano nessun senso della profondità.
E ne avevo sorpreso uno al gabinetto durante i miei viaggi nel
Labirinto con Meg e Grover. Un’immagine che non mi leverò
mai dalla testa.
Badate, non avevo nessun problema con Tyson. Percy
Jackson lo aveva riconosciuto come fratello. Dopo l’ultima
guerra contro Crono, Zeus lo aveva ricompensato con il titolo
di generale e un gran bel bastone.
Nella categoria dei ciclopi, Tyson era tollerabile. Non
occupava molto più spazio di un umano particolarmente
grosso. Non aveva mai forgiato un fulmine che avesse ucciso
qualcuno di mio gradimento. Il suo occhione castano e gentile
e il suo grande sorriso gli conferivano un’aria da cucciolo
quasi pari a quella di Frank ma, soprattutto, si stava dedicando
anima e corpo ad aiutare l’arpia Ella nella ricostruzione dei
Libri Sibillini.
Ricostruire libri profetici è sempre un buon modo per
ingraziarsi un dio della profezia.
Tuttavia, quando Tyson si voltò per condurci dentro, dovetti
sopprimere un sussulto di terrore. Sembrava che si stesse
facendo incidere sulla schiena l’opera completa di Charles
Dickens. Dal collo alla base delle scapole si srotolavano righe
su righe violacee di testo in miniatura, interrotte soltanto dai
segni bianchi di vecchie cicatrici.
Accanto a me, Frank bisbigliò: «Non farlo».
Mi accorsi di avere le lacrime agli occhi. Provavo dolore
per Tyson all’idea di tutti quei tatuaggi, e degli abusi che
doveva aver subito per essersi procurato quelle cicatrici. Avrei
voluto singhiozzare “Poverino!”, se non addirittura dargli un
bell’abbraccio (c’è sempre una prima volta), ma Frank mi
stava avvisando di non trattare la schiena del ciclope come se
fosse chissà che.
Mi asciugai le lacrime e cercai di ricompormi.
Arrivati al centro del negozio, Tyson si fermò e si voltò a
guardarci. Sorrise, allargando le braccia con orgoglio. «Visto?
Libri!»
Non mentiva. Dal banco informazioni con cassa
incorporata, al centro della stanza, si irradiavano scaffali in
tutte le direzioni, pieni zeppi di tomi di ogni forma e
dimensione. Due scalette conducevano a un ballatoio protetto
da ringhiere, e anche lì si intravedevano pareti tappezzate di
libri. Comode poltroncine imbottite riempivano ogni angolo
disponibile. Grandi finestre si aprivano sulla vista
dell’acquedotto cittadino e delle colline. La luce del sole fluiva
dentro come miele caldo, regalando al negozio un’atmosfera
accogliente e sonnolenta.
Sarebbe stato il posto ideale per abbandonarsi su una sedia
a sfogliare un romanzo, se non fosse stato per l’odore
pestilenziale di cuoio e olio bollente. Non vedevo attrezzi da
tatuatore da nessuna parte, ma in fondo, sotto un cartello che
diceva RACCOLTE SPECIALI , pesanti tende di velluto
sembravano coprire l’ingresso di una stanza sul retro.
«Fantastico» commentai, cercando di non apparire troppo
dubbioso.
«Libri!» ripeté Tyson. «Perché è una libreria!»
«Ma certo.» Annuii con garbo. «Ed è… ehm, la tua?»
Tyson mise il broncio. «No. Un po’. Il proprietario è morto.
Nella battaglia. È stato triste.»
«Ah.» Non sapevo cosa rispondere. «A ogni modo, è bello
rivederti, Tyson. Probabilmente non mi riconosci in questa
forma, ma…»
«Tu sei Apollo!» Rise. «Sei buffo adesso.»
Frank si coprì la bocca e tossicchiò, senza dubbio per
nascondere un sorriso. «Tyson, c’è Ella? Volevo che Apollo
sapesse quello che avete scoperto.»
«Ella è sul retro. Mi stava facendo un tatuaggio!» Si chinò
verso di me e abbassò la voce. «Ella è carina. Ma… sssh! Non
vuole che glielo dica, si imbarazza. E poi mi imbarazzo pure
io.»
«Non glielo dirò» promisi. «Fai strada, generale Tyson.»
«Generale.» Tyson rise ancora. «Sì. Sono io. Ho dato un
po’ di botte in guerra!» Trottò via come se stesse cavalcando
un cavalluccio giocattolo e si infilò oltre le tende.
Una parte di me avrebbe voluto voltarsi, andarsene e
portare Frank a prenderci un altro caffè. Temevo quello che
avremmo trovato oltre quelle tende.
Poi qualcosa ai miei piedi disse: Miao.
Il gatto mi aveva trovato. L’enorme felino rosso, che
probabilmente aveva mangiato tutti gli altri gatti della libreria
per arrivare a quelle dimensioni, strusciò il suo testone contro
la mia gamba.
«Mi sta toccando» mi lamentai.
«Lui è Aristofane. È innocuo.» Frank sorrise. «E poi, lo sai
come la pensano i Romani sui gatti.»
«Sì, sì, non me lo ricordare.» Non ero mai stato un grande
fan dei felini. Sono egoisti, presuntuosi e si credono i padroni
del mondo. In altre parole, diciamolo… non mi piace la
competizione.
Per i Romani tuttavia i gatti erano un simbolo di libertà e
indipendenza. A loro era concesso di vagabondare ovunque,
perfino nei templi. Diverse volte nel corso dei secoli mi ero
ritrovato con un altare fetido di pipì felina.
Miao, disse di nuovo Aristofane. I suoi occhi assonnati, di
un verde pallido come polpa di lime, sembravano dire:
“Adesso sei mio e dopo, forse, potrei usarti per fare pipì”.
«Devo andare» dissi al gatto. «Frank Zhang, troviamo la
nostra arpia.»
Come sospettavo, la stanza delle raccolte speciali era stata
adibita a bottega di tatuaggi.
Gli scaffali colmi di volumi rilegati in pelle, rotoli di
pergamena e tavolette d’argilla fitte di scrittura cuneiforme
erano stati spostati. Al centro della stanza si stagliava una
poltrona reclinabile con i braccioli in pelle nera, che scintillava
sotto una lampada a LED . La postazione di lavoro era
equipaggiata con quattro macchine da tatuaggi elettriche e
ronzanti, munite di aghi d’acciaio e collegate a tubicini
d’inchiostro.
Personalmente, non mi sono mai fatto un tatuaggio. Quando
ero un dio, se volevo dell’inchiostro sulla pelle, bastava che lo
desiderassi ed era lì. Ma tutto quell’armamentario mi faceva
pensare a qualcosa che Efesto avrebbe potuto tentare… un
esperimento da dentista pazzo degli dei, forse.
In un angolo in fondo, una scaletta conduceva a un
ballatoio simile a quello della stanza principale. Lassù,
qualcuno aveva allestito due zone notte: un nido d’arpia fatto
di paglia, stoffa e carta straccia, e una specie di fortino di
cartone costruito con vecchi scatoloni. Decisi di non indagare.
Ella l’arpia camminava avanti e indietro accanto alla
poltrona, borbottando come se stesse litigando da sola.
Aristofane, che ci aveva accompagnati dentro, cominciò a
seguirla cercando di accostare la testa alle sue zampe coriacee
di volatile. Di quando in quando, una delle piume color
ruggine volava via e il gatto cercava di acchiapparla con un
balzo. Ella lo ignorava. Sembravano una coppia voluta
dall’Elisio.
«Fuoco…» borbottava Ella. «Fuoco con… bla, bla… bla
ponte. Due volte… bla bla… Mmm.»
Sembrava agitata, anche se intuii che quello doveva essere
il suo stato abituale. Da quel poco che sapevo, Percy, Hazel e
Frank avevano conosciuto Ella a Portland, nella biblioteca
principale dell’Oregon. Viveva lì, nutrendosi di avanzi, in un
nido fatto di romanzi abbandonati. In qualche modo, a un certo
punto, l’arpia si era imbattuta in una copia dei Libri Sibillini,
tre tomi che tutti credevano perduti per sempre in un incendio
alla fine dell’impero romano. (In pratica, sul versante
profetico, era come il ritrovamento di un album ignoto di
Bessie Smith, o del fumetto numero 1 di Batman del 1940 in
ottime condizioni.)
Con la sua memoria fotografica, anche se alquanto
sconnessa, Ella era così diventata l’unica depositaria di quelle
antiche profezie. Percy, Hazel e Frank l’avevano portata al
Campo Giove, dove avrebbe potuto vivere al sicuro e magari
ricostruire i libri perduti con l’aiuto di Tyson, il suo devoto
fidanzato. (O ragazzo-ciclope? O… dolce metà di un’altra
specie?)
A parte questo, Ella era un enigma avvolto in piume rosse
avvolte in una veste di lino.
«No, no, no.» Si passò una mano tra le folte onde di capelli
rossi, grattandosi così forte lo scalpo da farmi temere che si
graffiasse. «Mancano le parole. Parole, parole, parole. Amleto,
Atto Secondo, Scena Seconda.»
Sembrava in buona salute per essere un’ex arpia
vagabonda. Il volto umanoide era spigoloso ma non emaciato.
Le piume delle braccia erano ben curate. Sembrava del peso
giusto in termini aviari, perciò evidentemente mangiava a
sufficienza semi o tacos o quello che è. Nel suo andirivieni, le
zampe artigliate avevano lasciato una scia molto nitida sul
tappeto.
«Ella, guarda!» annunciò Tyson. «Amici!»
Ella si accigliò, facendo scivolare lo sguardo da Frank a me
come se fossimo delle fastidiose distrazioni di nessuna
importanza, quadri storti alle pareti.
«No» decise. Le sue lunghe dita schioccarono tutte insieme.
«Tyson deve fare altri tatuaggi.»
«Okay!» Tyson sorrise come se fosse una bellissima notizia
e raggiunse in quattro salti la poltrona reclinabile.
«Aspetta» supplicai. Già era tremendo sentire l’odore dei
tatuaggi. Se li avessi visti fare, di sicuro avrei vomitato
addosso ad Aristofane. «Ella, prima di cominciare, potresti
spiegarci cosa sta succedendo, per favore?»
«Cosa sta succedendo: What’s Going On, Marvin Gaye,
1971» rispose lei.
«Sì, lo so» replicai. «L’ho aiutato io a scrivere la canzone.»
«No.» Ella scosse la testa. «L’hanno scritta Renaldo
Benson, Al Cleveland e Marvin Gaye, ispirandosi a un brutto
caso di violenza da parte della polizia.»
Frank mi guardò con un sorrisetto ironico. «Non si può
discutere con un’arpia.»
«No» concordò Ella. «Non si può.» Fece qualche passo
avanti e mi studiò con più attenzione, fiutandomi la pancia
bendata e punzecchiandomi con un dito nel petto. Le sue
piume luccicavano come ruggine nella pioggia. «Sei Apollo!»
annunciò. «Sei tutto sbagliato, però. Il corpo è sbagliato.
L’invasione degli ultracorpi, diretto da Don Siegel, 1956.»
Non mi piaceva essere paragonato a un film horror in
bianco e nero, ma mi avevano appena detto di non discutere
con un’arpia.
Nel frattempo, Tyson regolò la poltrona in posizione lettino
e si distese. Le ultime righe purpuree si incresparono sulla sua
schiena muscolosa e martoriata dalle cicatrici. «Pronto!»
annunciò.
Alla fine ci arrivai.
«Parole memorabili prendon fuoco…» ripetei. «Stai
riscrivendo i Libri Sibillini su Tyson con gli aghi infuocati.
Ecco cosa significava la profezia.»
«Esatto.» Ella punzecchiò le mie maniglie dell’amore come
per valutare se fossero una superficie di scrittura adeguata.
«Mmm… no, no. Troppo flaccido.»
«Grazie» brontolai.
Frank spostava il peso da un piede all’altro, come se
improvvisamente fosse imbarazzato all’idea della propria
personale superficie di scrittura. «Ella dice che è l’unico modo
in cui riesce a registrare le parole nell’ordine giusto» spiegò.
«Sulla pelle viva.»
La cosa non avrebbe dovuto sorprendermi. Nel giro degli
ultimi mesi, avevo decifrato profezie provenienti dalle voci
degli alberi, dalle allucinazioni nel buio di una grotta e
calpestando cruciverba infuocati. In confronto, ricomporre un
manoscritto sulla schiena di un ciclope mi sembrava un gesto
del tutto normale.
«Ma… a che punto siete arrivati?» domandai.
«Alla prima lombare» rispose Ella.
Non stava scherzando.
«Pronto!» Con la faccia in giù sul lettino delle torture,
Tyson agitò i piedi contento. «Oh, cavoli! I tatuaggi mi fanno
il solletico!»
«Ella» riprovai. «Quello che volevo dire è: avete scoperto
niente di utile per noi riguardo a… non lo so… certe minacce
in arrivo fra quattro o cinque giorni? Frank mi ha detto che
avete una pista…»
«Già, già. Trova la tomba.» L’arpia mi punzecchiò di nuovo
le maniglie dell’amore. «Morte, morte, morte. Tanta morte.»
9

Cari amici,

Siamo qui riuniti perché…

Era fa schifo

Se c’è una cosa peggiore dell’udire le parole “morte, morte,


morte”, è udire quelle stesse parole sottolineate da un dito che
ti punzecchia i fianchi flaccidi.
«Non potresti essere un po’ più precisa?»
In realtà avrei voluto chiederle: “Potresti far scomparire
tutto questo e piantarla di punzecchiarmi?”. Ma dubitavo che
potesse esaudire anche soltanto uno dei due desideri.
«Rimandi testuali» disse Ella.
«Come, scusa?»
«La tomba di Tarquinio» continuò. «Le parole del Labirinto
di fuoco. Frank mi ha detto: “Apollo si troverà di fronte alla
morte nella tomba di Tarquinio se la porta che conduce alla
divinità ammutolita non sarà aperta dalla figlia di Bellona”.»
«Conosco la profezia» replicai. «E vorrei tanto che la gente
smettesse di ricordarmela. Ma di preciso cosa significa?»
«Ho controllato i rimandi testuali sull’indice di Tyson…
Tarquinio e Bellona e divinità ammutolita.»
Mi voltai verso Frank, che sembrava essere l’unica altra
persona nella stanza a dire cose sensate. «Sull’indice di
Tyson?»
Frank si strinse nelle spalle. «Non sarebbe un granché come
libro di consultazione se non avesse un indice.»
«Dietro la coscia!» esclamò Tyson, che continuava a
scalciare felice, nell’attesa di essere marchiato a fuoco con
aghi incandescenti. «Vuoi vedere?»
«No! Santi numi, no.» Mi rivolsi nuovamente a Ella. «Così
hai controllato…»
«Già, già» confermò Ella. «Bellona e divinità ammutolita?
Niente. Mmm.» Si picchiettò la tempia con un dito. «Servono
altre parole per loro. Ma tomba di Tarquinio? Sì. C’è un
verso.» Zampettò fino al lettino, subito tallonata da Aristofane,
che cercava di acchiappare le sue piume con le zampe. Ella
diede qualche colpetto su una scapola di Tyson. «Qui.»
Tyson ridacchiò.
«Un gatto selvatico vicino alle luci che ruotano» lesse ad
alta voce. «La tomba di Tarquinio con i cavalli che brillano.
Per aprire la sua porta, due-cinquanta-quattro…»
Miao, fece Aristofane.
«No, Aristofane» disse Ella, addolcendo la voce. «Tu non
sei un gatto selvatico.»
La bestiola rispose facendo le fusa come una motosega.
Aspettai altre parole profetiche. Per la maggior parte, i
Libri Sibillini erano una specie di Le gioie della cucina, con
ricette sacrificali per placare gli dei in caso di determinate
catastrofi. Le locuste ti rovinano il raccolto? Prova con il
soufflé di Cerere accompagnato da pagnotte al miele, e
arrostisci il tutto sul suo altare per tre giorni. Il terremoto
distrugge la tua città? Quando Nettuno tornerà a casa stasera,
sorprendilo con tre tori neri spennellati di olio santo e arsi in
una fossa con rametti di rosmarino!
Ma Ella aveva finito di leggere.
«Frank, ci hai capito qualcosa?» domandai.
Lui si accigliò. «Io contavo su di te!»
Quando gli sarebbe entrato nella zucca che soltanto perché
ero il dio della profezia non significava che capivo le profezie?
Ero anche il dio della poesia: comprendevo forse le metafore
della Terra desolata di T.S. Eliot? No.
«Ella, è possibile che i versi descrivano un luogo preciso?»
domandai.
«Già, già. Ed è anche vicino, probabilmente. Ma solo per
entrarci e guardarsi intorno. Trovare le cose giuste e
andarsene. Non per uccidere Tarquinio il Superbo. No, no. È
troppo morto per essere ucciso. Per questo, mmm… servono
più parole.»
Frank Zhang giocherellò con il distintivo della corona
muraria sul pettorale dell’armatura. «Tarquinio il Superbo,
ultimo re di Roma. Era considerato un mito perfino ai tempi
della Roma imperiale. La sua tomba non è mai stata scoperta.
Perché dovrebbe trovarsi…?» Indicò con un gesto tutto
intorno a noi.
«In questo angolino di mondo?» conclusi. «Probabilmente
per la stessa ragione per cui il Monte Olimpo si trova nei cieli
di New York, e il Campo Giove nella baia di San Francisco.»
«Okay, giusto» ammise Frank. «Però, se la tomba di un re
romano si trova vicino al Campo Giove, perché lo veniamo a
sapere soltanto adesso? Perché l’attacco dei non-morti?»
Non avevo una risposta pronta. Mi ero concentrato così
tanto su Caligola e Commodo che non avevo pensato troppo a
Tarquinio il Superbo. Per quanto fosse malvagio, Tarquinio era
stato un giocatore di bassa lega in confronto agli imperatori. E
non capivo nemmeno perché un re romano leggendario,
barbarico e a quanto pareva non-morto, dovesse unire le
proprie forze con il Triumvirato.
Un ricordo lontano mi diede i brividi… non poteva essere
una coincidenza che Tarquinio si manifestasse proprio quando
Ella e Tyson stavano ricostruendo i Libri Sibillini.
Ripensai al mio sogno con quell’entità dagli occhi purpurei,
la voce profonda che aveva posseduto l’eurynomos nella
galleria: “Tu più di tutti dovresti comprendere il fragile
confine tra la vita e la morte”.
La ferita sulla mia pancia pulsò. Per una volta, così, tanto
per cambiare, avrei voluto imbattermi in una tomba i cui
occupanti fossero davvero morti.
«Allora, Ella… ci stai suggerendo di trovare questa tomba»
conclusi.
«Già, già. Entrate nella tomba. Tomb Raider per PC ,
PlayStation e Sega Saturn, 1996. Le tombe di Atuan, Ursula Le
Guin, 1970.»
Stavolta notai a malapena l’insensatezza della sua risposta.
Se fossi rimasto ancora a lungo, probabilmente avrei iniziato a
parlare in ellese pure io, rigurgitando voci di Wikipedia a ogni
frase. Dovevo andarmene prima che accadesse.
«Però entriamo solo per guardarci intorno» dissi. «Trovare
le cose giuste…»
«Le cose giuste. Già, già.»
«E poi?»
«Tornare vivi. Stayin’ Alive, secondo singolo estratto dalla
colonna sonora del film La febbre del sabato sera, 1977.»
«Giusto. E… sei sicura che non ci siano altre informazioni
nell’indice del ciclope che possano tornarci, ehm… utili?»
«Mmm…» Ella fissò Frank, poi si avvicinò per fiutargli il
viso. «Pezzo di legno con la punta carbonizzata. Bla bla. No.
Questo viene dopo.»
Frank non avrebbe potuto assomigliare di più a un animale
in trappola nemmeno se ne avesse preso le sembianze. «Ehm,
Ella? Meglio non parlare di quel pezzo di legno.»
Questo mi ricordò uno degli altri motivi per cui mi piaceva
Frank Zhang. Anche lui era un membro del club “Io Odio
Era”. Nel suo caso, Era aveva inspiegabilmente legato la sua
forza vitale a un pezzetto di legno, che a quanto avevo sentito
dire, Frank portava sempre con sé. Se il legno fosse bruciato
fino a consumarsi, così sarebbe successo a lui. Tipico di quella
maniaca del controllo di Era: “Ti voglio bene e sei il mio eroe
speciale e poi prendi questo bastoncino, quando brucerà tu
morirai, AHAHAHAHAH”. Quanto detestavo quella donna.
Ella arruffò le penne, fornendo ad Aristofane un sacco di
nuovi bersagli con cui giocare. «Fuoco con… bla bla ponte.
Due volte bla bla… Mmm. No. Questo viene dopo. Tyson ha
bisogno di un tatuaggio.»
«Evviva!» esclamò Tyson. «Mi puoi fare anche un disegno
di Arcobaleno? È il mio amico, un pesce pony!»
«Un arcobaleno è luce bianca» spiegò Ella. «Rifratta
attraverso goccioline d’acqua.»
«Ma è anche un pesce pony!» ribatté Tyson.
«Uff» commentò Ella.
Ebbi la sensazione di avere appena assistito alla cosa più
simile a un litigio che l’arpia e il ciclope avessero mai avuto.
«Voi due potete andare.» Ella ci scacciò. «Tornate domani.
Forse fra tre giorni. Ancora non lo so.»
Stavo per protestare che avevamo solo quattro giorni prima
che gli yacht di Caligola arrivassero e il Campo Giove subisse
un altro attacco distruttivo.
Ma Frank mi fermò toccandomi un braccio. «Dobbiamo
andare. Lasciamola lavorare. E poi è quasi ora dell’adunata
serale.»
Dopo quell’accenno al pezzetto di legno, avevo la
sensazione che avrebbe usato qualunque scusa degna di un
fauno per andarsene dalla libreria.
La mia ultima immagine della stanza per le raccolte speciali
fu Ella con la pistola per tatuaggi in mano che incideva parole
fumanti sulla schiena di Tyson, mentre il ciclope ridacchiava
gridando: «MI FAI IL SOLLETICO!» e Aristofane usava le
zampe coriacee dell’arpia per affilarsi le unghie.
Certe scene, come i tatuaggi di un ciclope, diventano
indelebili una volta scolpite nella mente.
Frank si affrettò a tornare al campo, al passo più veloce che la
mia ferita potesse tollerare.
Avrei voluto chiedergli dei commenti di Ella, ma non mi
sembrava dell’umore giusto per parlare. Ogni tanto si portava
la mano alla cintura, di fianco. Dietro la spada inguainata,
intravidi un sacchetto di stoffa. Non lo avevo notato prima, ma
intuii che era il luogo in cui aveva riposto il suo souvenir-
della-maledizione-mortale-di-Era.
O forse Frank era così serio perché sapeva cosa ci aspettava
all’adunata serale.
La legione si era riunita per il corteo funebre.
Alla testa della colonna c’era Annibale, l’elefante della
legione, rivestito di kevlar e fiori neri. Era lui a trainare il
carro con la bara di Jason, drappeggiata di porpora e oro.
Quattro coorti si erano messe in fila dietro la bara, con i Lari
che volteggiavano tra i legionari. La Quinta Coorte, l’unità di
Jason, forniva le guardie d’onore e i tedofori ai lati del carro.
In mezzo a loro, tra Hazel e Lavinia, c’era Meg McCaffrey.
Mi guardò con la faccia scura e mimò con la bocca le parole:
“Sei in ritardo”.
Frank si affrettò a portarsi al fianco di Reyna, che era in
attesa accanto ad Annibale.
Il pretore più anziano in carica sembrava stremato, come se
avesse trascorso le ultime ore a piangere in privato per poi
rimettersi in sesto alla bell’e meglio per l’occasione. Accanto a
lei c’era il vessillifero, che sorreggeva l’Aquila della
Dodicesima Legione.
La vicinanza con l’insegna mi fece venire la pelle d’oca.
L’aquila dorata esalava potere di Giove. L’aria intorno
crepitava di energia.
«Apollo.» Il tono di Reyna era formale, gli occhi due pozzi
vuoti. «Sei pronto?»
«Per…?» La domanda mi si spense in gola.
Tutti mi fissavano pieni di aspettativa. Volevano un’altra
canzone?
No. Naturalmente. La legione non aveva più un alto
sacerdote: avevano perso il Pontifex Maximus. L’augure
precedente, il mio discendente Ottaviano, era morto durante la
battaglia contro Gea. (E faticavo a dispiacermene, ma questa è
un’altra storia.) La scelta più logica per officiare sarebbe
ricaduta su Jason, che però era l’ospite d’onore. Questo
significava che io, un’ex divinità, ero l’autorità spirituale più
alta in grado. Si aspettavano che fossi io a dirigere i riti
funebri.
I Romani tenevano moltissimo alle formalità. Non potevo
esimermi senza che il mio gesto venisse preso come un cattivo
auspicio. E poi, dovevo rendere onore a Jason nel modo
migliore possibile, per quanto nella misera e triste versione di
Lester Papadopoulos.
Cercai di ricordare l’invocazione romana corretta.
“Carissimi…?” No.
“Perché questa notte è diversa da…?” No.
Ah!
«Venite, amici!» esclamai. «Scortiamo questo nostro
fratello al suo banchetto finale.»
Me l’ero cavata, credo. Nessuno sembrava scandalizzato.
Mi voltai e mi avviai fuori dal forte, seguito dall’intera legione
in un silenzio irreale.
Lungo la strada verso la Collina dei Templi, ebbi un
momento di panico. E se avessi condotto il corteo nella
direzione sbagliata? E se fossimo finiti in un parcheggio?
L’aquila dorata dell’insegna si stagliava minacciosa sopra la
mia spalla, caricando l’aria di ozono bruciato. Tra i ronzii e i
crepitii del suo potere, mi sembrò quasi di sentire la voce di
Giove, come trasmessa via radio: “TUA LA COLPA. TUA LA
PUNIZIONE”.
A gennaio, quand’ero caduto sulla Terra, quelle parole mi
erano sembrate terribilmente ingiuste. Lì a Nuova Roma
invece, mentre accompagnavo Jason Grace nel luogo del suo
eterno riposo, ci credevo anch’io. Molte delle cose che erano
successe erano colpa mia. Ed erano così tante che non avrei
mai potuto fare ammenda.
Jason mi aveva estorto una promessa: “Quando sarai di
nuovo un dio, ricordatelo. Ricorda cosa significa essere
umani”.
Intendevo mantenere la promessa, se fossi vissuto
abbastanza. Ma, nel frattempo, dovevo onorare Jason in modi
più urgenti: proteggendo il Campo Giove, sconfiggendo il
Triumvirato e, secondo Ella, calandomi nella tomba di un re
non-morto.
Le parole dell’arpia mi risuonavano nella mente: “Un gatto
selvatico vicino alle luci che ruotano. La tomba di Tarquinio
con i cavalli che brillano. Per aprire la sua porta, due-
cinquanta-quattro…”.
Perfino per una profezia, erano versi incomprensibili.
La Sibilla Cumana era sempre stata vaga e prolissa.
Rifiutava qualsiasi forma di editing. Aveva scritto nove interi
volumi di Libri Sibillini. No, sul serio, a chi servono nove libri
per finire una serie? Segretamente, avevo provato una certa
soddisfazione quando non era riuscita a venderli ai Romani
finché non si era decisa a ridurli in una trilogia. Gli altri sei
volumi erano finiti tra le fiamme quando…
Mi bloccai.
Alle mie spalle, il corteo si fermò strascicando i piedi.
«Apollo?» bisbigliò Reyna.
Non dovevo fermarmi. Stavo officiando il funerale di
Jason. Non potevo lasciarmi cadere a terra, rannicchiarmi in
posizione fetale e piangere. Decisamente no. Ma, per le brache
di Giove, perché il mio cervello continuava a ricordarmi fatti
importanti nei momenti più inopportuni?
Certo che Tarquinio il Superbo era collegato ai Libri
Sibillini. Certo che aveva scelto proprio quel momento per
manifestarsi, scatenando un esercito di non-morti contro il
Campo Giove. E la stessa Sibilla Cumana… Possibile che…?
«Apollo» ripeté Reyna, con più insistenza.
«Sto bene» mentii.
Un problema alla volta. Jason Grace meritava la mia
completa attenzione. Misi a tacere con la forza i miei pensieri
turbolenti e ripresi a camminare.
Quando giunsi alla Collina dei Templi, non fu difficile
capire dove andare. Alla base del tempio di Giove si ergeva
un’elaborata pira di legno. Su ogni angolo, una guardia
d’onore aspettava con una torcia accesa. La bara di Jason
sarebbe arsa all’ombra del tempio di nostro padre. Una scelta
amaramente appropriata.
Le coorti della legione si disposero in semicerchio intorno
alla pira, con i Lari che brillavano tra i ranghi come candele.
La Quinta Coorte prelevò la bara e la depose sulla pira.
Annibale e il suo carro funebre furono condotti via.
Alle spalle della legione, ai margini del cerchio di luce
creato dalle torce, le aurae – le ninfe della brezza – allestivano
tavolini pieghevoli e tovaglie nere. Altri volavano intorno con
brocche di bevande, pile di piatti e ceste piene di cose da
mangiare. I funerali romani non erano completi senza un
ultimo pasto in onore del defunto. Soltanto dopo la
condivisione del cibo, gli amici di Jason sarebbero stati certi
che il suo spirito era sano e salvo in viaggio verso gli Inferi,
immune dall’umiliazione di diventare uno spettro o uno
zombie.
Mentre i legionari si sistemavano, Reyna e Frank mi
raggiunsero di fronte alla pira.
«Mi hai fatto preoccupare» disse la figlia di Bellona. «Ti fa
ancora male la ferita?»
«No, va meglio» risposi, forse più per rassicurare me che
lei. E poi, perché doveva sembrare così bella alla luce delle
fiamme?
«Chiederemo ai guaritori di controllarla di nuovo» promise
Frank. «Perché ti sei fermato lungo la strada?»
«Mi è solo… tornata in mente una cosa. Ve lo dico dopo.
Non siete riusciti ad avvertire la famiglia di Jason, vero?
Thalia?»
I pretori si scambiarono un’occhiata frustrata.
«Ci abbiamo provato, ovviamente» disse Reyna. «Thalia
era la sua unica parente in vita. Ma con i problemi di
comunicazione…»
Annuii, per niente sorpreso. Una delle cose più irritanti che
il Triumvirato aveva fatto era stata interrompere ogni forma di
comunicazione magica usata dai semidei. I messaggi-Iride
venivano respinti. Le lettere inviate tramite gli spiriti del vento
non arrivavano. Perfino la tecnologia mortale, che i semidei
cercavano di evitare perché attirava i mostri, ormai non
funzionava più. Come c’erano riusciti? Non ne avevo idea.
«Vorrei che potessimo aspettare Thalia» dissi, mentre
l’ultimo legionario della Quinta Coorte si allontanava dalla
pira dopo avervi deposto la bara.
«Anch’io» concordò Reyna. «Ma…»
Annuii. «Lo so.»
I riti funebri romani andavano adempiuti il prima possibile.
La cremazione era necessaria per consentire allo spirito di
Jason di andare oltre. La cerimonia avrebbe aiutato la
comunità a superare il lutto… o quantomeno a rivolgere la sua
attenzione alla nuova minaccia imminente.
«Cominciamo» dissi.
Reyna e Frank tornarono in prima linea.
Iniziai a parlare. I versi latini si riversavano d’istinto fuori
dalla mia bocca. Ero a malapena consapevole del significato
delle mie parole. Avevo già cantato le lodi di Jason al mio
arrivo, in modo profondamente personale. Quella invece era
una formalità necessaria.
In un angolino del mio cervello, mi chiesi se era così che si
sentivano i mortali quando rivolgevano le loro preghiere a me.
Forse la loro devozione non era altro che un esercizio
automatico della memoria, mentre le loro menti vagavano
altrove, disinteressate alla mia gloria. Trovavo l’idea
stranamente… comprensibile. Adesso che ero mortale, perché
non potevo praticare anch’io quella forma di resistenza non
violenta nei confronti degli dei?
Conclusi la mia benedizione.
Con un gesto ordinai alle aurae di distribuire il banchetto,
ponendo il primo piatto sopra la bara, in modo che Jason
potesse simbolicamente condividere un ultimo pasto con i suoi
fratelli nel mondo mortale. A quel punto, una volta accesa la
pira, l’anima avrebbe attraversato lo Stige, come diceva la
tradizione romana.
Prima che le torce si avvicinassero al legno, tuttavia, un
mesto ululato riecheggiò in lontananza, subito seguito da un
altro, più vicino. Un brivido inquieto percorse tutti i semidei
presenti. Non erano allarmati, non proprio, ma decisamente
sorpresi, come se non si aspettassero altri ospiti. Hannibal
barrì e batté le grosse zampe a terra.
Ai margini dell’assemblea, molti lupi grigi emersero dalla
penombra: decine di bestie enormi, che gemevano per la morte
di Jason, un membro del loro branco.
E proprio alle spalle della pira, sui gradini del tempio di
Giove, comparve l’esemplare più grande di tutti, con la
pelliccia che scintillava al bagliore delle torce.
Percepii l’intera legione che tratteneva il fiato. Nessuno si
inginocchiò. Di fronte alla dea Lupa, lo spirito custode di
Roma, non ci si inginocchia né si manifestano segni di
debolezza. Restammo tutti in piedi in segno di rispetto, ben
saldi al nostro posto, mentre il branco ululava intorno a noi.
Alla fine Lupa mi fissò con i suoi occhi gialli. Arricciando
appena le labbra, mi comunicò un semplice ordine: “Vieni”.
Poi si voltò ed entrò nell’oscurità del tempio.
Reyna si portò al mio fianco. «A quanto pare, la dea vuole
scambiare due parole in privato con te.» Aggrottò la fronte con
preoccupazione. «Noi cominciamo il banchetto. Tu vai.
Speriamo che Lupa non sia arrabbiata. O affamata.»
10

Cantate con me:

Chi ha paura del lupo

Cattivo? Io sì

Lupa era arrabbiata e affamata.


Non parlavo correntemente il lupese, ma avevo trascorso
abbastanza tempo con il branco di mia sorella per
comprenderne le basi. Le emozioni erano la cosa più facile da
leggere. Lupa, come tutti gli esemplari della sua specie, si
esprimeva attraverso una combinazione di sguardi, ringhi,
scatti impercettibili delle orecchie, posture e feromoni. Era una
lingua molto elegante, anche se inadatta ai distici poetici.
Credetemi, ci avevo provato. Niente fa rima con grrr-grrr-
grrr.
Lupa tremava di rabbia per la morte di Jason. I chetoni che
percepivo nel suo fiato indicavano che non mangiava da
giorni. L’ira la rendeva affamata. La fame amplificava la sua
ira. E le narici frementi le dicevano che il mucchietto di carne
mortale più vicino alla portata delle sue zampe ero io.
Ciononostante, la seguii all’interno dell’enorme tempio di
Giove. Non avevo molta scelta.
Colonne grandi quanto sequoie circondavano il padiglione,
sostenendo una cupola dorata. Il pavimento era un variopinto
mosaico di iscrizioni latine: profezie, epitaffi, cupe minacce
che intimavano di adorare Giove o assaggiare la sua folgore.
Al centro, dietro un altare di marmo, si ergeva un’immensa
statua d’oro di papà in persona: Giove Ottimo Massimo,
drappeggiato in una toga di seta viola grande quanto la vela di
una nave. Aveva un’aria severa, saggia e paterna, anche se
nella realtà era soltanto una delle tre cose.
A vedermelo davanti così grande e grosso, con la folgore
alzata, dovetti combattere l’istinto di rannicchiarmi e
implorare. Sapevo che era solo una statua ma, se siete mai stati
traumatizzati da qualcuno, so che mi capite. Non ci vuole
molto per innescare le antiche paure: un suono, una situazione
familiare. O una statua d’oro di quindici metri che rappresenta
chi ti ha maltrattato… anche questo funziona.
Lupa era ferma di fronte all’altare. Una foschia sottile
avvolgeva la sua pelliccia, come se emanasse mercurio.
“È la tua ora” mi disse. O qualcosa del genere. I suoi gesti
trasmettevano urgenza e aspettativa. Voleva che facessi
qualcosa. Dal suo odore capivo che non era sicura che ne fossi
capace.
Deglutii, che in lupese significa chiaro e tondo: “Sono
terrorizzato”. Ma Lupa aveva senz’altro già fiutato la mia
paura. Era impossibile mentire nella sua lingua. Minacciare,
bullizzare, blandire… sì. Ma mentire spudoratamente?
Nossignore.
«La mia ora» ripetei. «Per fare cosa, di preciso?»
Lupa morse l’aria, infastidita. “Per essere Apollo. Il branco
ha bisogno di te.”
Avrei tanto voluto gridare: “Ci sto provando! Non è così
facile!”, ma cercai di controllare il mio linguaggio corporeo
per non inviarle questo messaggio.
Parlare faccia a faccia con una divinità è pericoloso. Ero
fuori allenamento. Certo, avevo incontrato Britomarti a
Indianapolis, ma lei non contava. Si divertiva troppo a
torturarmi per decidere di uccidermi davvero. Con Lupa,
invece… dovevo essere prudente.
Perfino quand’ero un dio, non ero mai stato capace di
comprendere davvero la Madre dei Lupi. Non si faceva vedere
spesso. Non veniva mai alle cene dei Saturnali di famiglia.
Non si era presentata mai una volta al nostro cineforum
mensile, nemmeno quando avevamo scelto Balla coi lupi.
«Va bene» concessi. «Ho capito. Alludi agli ultimi versi
della Profezia Oscura. Ho raggiunto il Tevere e via dicendo.
Ora dovrei “ballare”. Non devo intenderla in modo letterale,
giusto?»
Lo stomaco di Lupa brontolò. Più parlavo, più il mio odore
sembrava appetitoso.
“Il branco è debole.” Accennò con un’occhiata alla pira
funebre. “Troppi morti. Quando il nemico circonderà questo
luogo, dovrai mostrare forza. Dovrai chiedere aiuto.”
Cercai di sopprimere un’altra manifestazione di irritazione
lupesca. Lupa era una dea. Quella era la sua città, era il suo
campo. Aveva un branco di lupi soprannaturali ai suoi ordini.
Perché non ci aiutava lei?
Ma naturalmente conoscevo la risposta. I lupi non
combattono in prima linea. Sono cacciatori che attaccano solo
se in superiorità numerica. Lupa si aspettava che i Romani
risolvessero da soli i loro problemi. Dovevano essere
autosufficienti o morire. Lei li consigliava. Faceva da mentore
e guida. Li ammoniva. Ma non avrebbe combattuto al posto
loro. Al posto nostro.
Allora perché mi stava esortando a chiamare aiuto? E a che
genere di aiuto si riferiva?
L’espressione sul mio viso e la postura del mio corpo
dovettero trasmetterle la domanda.
Fece scattare rapidamente le orecchie. “A nord. Esplora la
tomba. Trova le risposte. Questo è il primo passo.”
Fuori, ai piedi del tempio, la pira funebre crepitava tra le
fiamme. Il fumo penetrò nella rotonda aperta, accarezzando la
statua di Giove. Mi augurai che lassù da qualche parte,
sull’Olimpo, le divine narici di papà stessero soffrendo.
«Tarquinio il Superbo» dissi. «È stato lui a mandare i non-
morti. Attaccherà di nuovo alla luna di sangue.»
Le narici di Lupa fremettero, confermando la mia
supposizione. “Hai il suo tanfo addosso. Fai attenzione nella
sua tomba. Gli imperatori sono stati degli sciocchi a chiamarlo
in causa.”
“Imperatore” era un concetto difficile da esprimere in
lupese. Il termine si poteva tradurre con “lupo alfa”,
“capobranco” o “sottomettiti-a-me-prima-che-ti strappi-la-
giugulare”. Ero abbastanza certo di avere interpretato Lupa
correttamente. I suoi feromoni suggerivano una mescolanza di
emozioni: pericolo, disgusto, preoccupazione, sdegno, ancora
pericolo.
Mi misi una mano sulla ferita bendata. Stavo guarendo…
vero? Mi avevano spalmato sulla pelle abbastanza spezie e
scaglie d’avorio di unicorno da uccidere un mastodonte
zombie. Ma non mi piaceva l’espressione preoccupata di
Lupa, né l’idea di avere il tanfo di qualcuno addosso,
soprattutto se quel tanfo apparteneva a un re non-morto.
«Quando avrò esplorato questa tomba, e ne sarò uscito
vivo… cosa dovrò fare poi?» domandai.
“La via sarà più chiara. Sconfiggere il grande silenzio. Poi
chiamare aiuto. Altrimenti, il branco morirà.”
Non ero molto sicuro di aver compreso quei versi.
«Sconfiggere il silenzio. Vuoi dire… la divinità ammutolita?
La porta che Reyna dovrebbe aprire?»
La sua fu una risposta frustrante, ambivalente. Potevo
intenderla come: “Sì e no” o “Più o meno”, ma anche “Perché
sei così stupido?”.
Sollevai lo sguardo sul Grande Papà Dorato.
Era stato Zeus a cacciarmi in quel guaio. Mi aveva
strappato i miei poteri e mandato sulla Terra per liberare gli
Oracoli, sconfiggere gli imperatori e… Oh, aspettate! Adesso
mi toccavano pure un re non-morto e un dio ammutolito! Mi
augurai che la fuliggine della pira stesse dando a Giove un
gran fastidio. Quasi quasi mi sarei voluto arrampicare su
quelle gambone per scrivergli sul petto: LAVAMI!
Chiusi gli occhi. Probabilmente non era la cosa più saggia
da fare al cospetto di una lupa gigantesca, ma avevo troppe
idee confuse per la testa. Pensai ai Libri Sibillini, alle varie
prescrizioni che contenevano per evitare i disastri. Riflettei su
cosa Lupa intendesse dire con “il grande silenzio”. E con
l’ordine di “chiamare aiuto”.
Aprii gli occhi di scatto. «Aiuto. Nel senso di… un aiuto
divino? Vuoi dire che se esco vivo da quella tomba… e
sconfiggo quel… coso ammutolito… potrei riuscire a
chiamare un aiuto divino?»
Lupa rispose con un profondo brontolio di petto.
“Finalmente capisci. Questo sarà l’inizio. Il primo passo per
riunirti al tuo branco.”
Fu come se il mio cuore si stesse buttando giù da una rampa
di scale. Il messaggio di Lupa sembrava troppo bello per
essere vero. Avrei potuto contattare i miei compagni
dell’Olimpo, sebbene Zeus avesse ordinato loro di starmi
lontano durante la mia avventura umana. Forse sarei perfino
stato in grado di invocare il loro aiuto per salvare il Campo
Giove. A un tratto mi sentii davvero meglio. Non mi faceva
nemmeno più male la ferita. Sentii formicolare una sensazione
che non provavo da così tanto tempo che stentai a
riconoscerla: speranza.
“Attento.” Lupa mi riportò alla realtà con un ringhio cupo.
“La via è dura. Affronterai altri sacrifici. Morte. Sangue.”
«No.» La guardai negli occhi: un pericoloso segnale di
sfida che sorprese me quanto lei. «No, ce la farò. Non
permetterò che ci siano altre perdite. Dev’esserci un modo.»
Riuscii a sostenere il suo sguardo per altri due o tre secondi
prima di distogliere il mio.
Lupa sbuffò dal naso – un verso di noncuranza, come a dire
“ovviamente ho vinto io” – ma mi sembrò di intercettare anche
un briciolo di burbera approvazione. Capii che aveva
apprezzato quello sfoggio di sicurezza, anche se non credeva
che fossi capace di mantenere fede alle mie parole. O forse
proprio per questo.
“Ritorna al banchetto” ordinò. “Di’ loro che hai la mia
benedizione. Continua ad agire con forza. È così che
cominciamo.”
Studiai le vecchie profezie incastonate nel pavimento a
mosaico. Avevo perso degli amici per colpa del Triumvirato.
Avevo sofferto. Ma mi resi conto che pure Lupa aveva
sofferto. I suoi figli romani erano stati decimati. Portava con
sé il dolore di tutte le loro morti. Eppure doveva agire con
forza, anche se il branco rischiava di trovarsi sull’orlo
dell’estinzione.
Non si poteva mentire nella lingua dei lupi. Ma si poteva
bluffare. E qualche volta bisogna bluffare per tenere unito un
branco in lutto. Com’è che dicono i mortali? Fingi di riuscirci
finché non ci riesci? Una filosofia molto lupesca.
«Grazie.» Sollevai lo sguardo, ma Lupa era svanita. Di lei
restava solo una foschia argentata, che si mescolava al fumo
della pira di Jason.
A Reyna e Frank riportai la versione più semplice: avevo
ricevuto la benedizione della dea Lupa. Promisi di raccontare
di più il giorno seguente, dopo averlo compreso meglio io
stesso. Nel frattempo, confidavo che nella legione si spargesse
la voce che Lupa mi aveva garantito la sua guida. Per il
momento, sarebbe stato abbastanza. Quei semidei avevano
bisogno di tutte le rassicurazioni possibili.
Mentre la pira ardeva, Frank e Hazel rimasero lì vicino
mano nella mano, per assicurarsi che Jason compisse il suo
ultimo viaggio. Io mi sedetti su una coperta insieme a Meg,
che spazzolò ogni forma di cibo disponibile, senza mai
smettere di parlare del magnifico pomeriggio passato con gli
unicorni. Si vantò che Lavinia le aveva perfino permesso di
pulire le stalle.
«Mi sa che ti ha fatto uno scherzetto alla Tom Sawyer»
osservai.
Meg aggrottò la fronte, con la bocca piena di hamburger.
«Che significa?»
«Niente. Cos’è che stavi dicendo sulla cacca degli
unicorni?» Mi sforzai di mangiare ma, nonostante la fame, il
cibo sapeva di polvere.
Quando le ultime braci della pira si spensero e gli spiriti del
vento portarono via i resti del banchetto, tornammo al campo
al seguito dei legionari.
Nella soffitta di Bombilo restai a guardare le crepe sul
muro, disteso sulla branda. Immaginai che fossero i versi
tatuati sulla schiena del ciclope. Se li avessi fissati abbastanza
a lungo, forse avrebbero iniziato ad avere un senso, o almeno
avrei trovato l’indice.
Meg mi tirò una scarpa. «Devi riposare. Domani c’è la
riunione del Senato.»
Mi tolsi la sua scarpa rossa dal petto. «Non dormi neanche
tu.»
«Sì, ma tu dovrai parlare. Vorranno conoscere il tuo piano.»
«Il mio piano?»
«Sì, hai capito… come… un’orazione. Roba che li ispiri
eccetera. Per convincerli su cosa fare. E poi loro voteranno e
via dicendo.»
«Un pomeriggio nelle stalle degli unicorni, e sei un’esperta
di procedure senatoriali romane.»
«Me l’ha detto Lavinia.» Meg sembrava sicura al cento per
cento. Era sdraiata sulla sua branda, e lanciava l’altra scarpa in
aria per poi riprenderla al volo. Come ci riuscisse senza
occhiali, non ne ho la più pallida idea.
Senza quelle lenti con gli strass, il suo viso sembrava
cresciuto, gli occhi più scuri e seri. Avrei perfino detto che
sembrava più matura, se non fosse tornata dalla giornata nelle
stalle indossando una maglietta glitterata verde con la scritta
UNICORNES IMPERANT!

«E se io non avessi un piano?» domandai.


Mi aspettavo che mi tirasse l’altra scarpa. Invece rispose:
«Ce l’hai».
«Ce l’ho?»
«Sì. Forse non ce l’hai ancora tutto chiaro in mente, ma
domattina ce l’avrai.»
Mi stava dando un ordine, o stava esprimendo fiducia nei
miei confronti? Non capivo. Forse stava solo sottovalutando
enormemente i pericoli che ci aspettavano.
“Continua ad agire con forza” mi aveva detto Lupa. “È così
che cominciamo.”
«Va bene» dissi, titubante. «Be’, per cominciare, stavo
pensando che potremmo…»
«Adesso no! Domani. Niente spoiler.»
Ah. Ecco la Meg che conoscevo e sopportavo.
«Ma perché ce l’hai tanto con gli spoiler?» chiesi.
«Li odio.»
«Sto solo cercando di ragionare di strategia con…»
«No.»
«Riflettere insieme sulle idee che…»
«No.» Gettò via la scarpa, si mise un cuscino sopra la testa
e mi ordinò con voce soffocata: «Dormi!».
Non potevo oppormi a un ordine diretto. La stanchezza mi
invase e chiusi gli occhi, le palpebre pesanti come macigni.
11

Gomme e gossip:

Lavinia ne ha per tutti

I senatori

Come si distingue un sogno da un incubo?


Se c’è di mezzo un libro che brucia, probabilmente è un
incubo.
Mi ritrovai nella sala del Senato romano, non la magnifica e
famosa sala della Repubblica o dell’Impero, ma la vecchia sala
del Senato del regno romano. Le pareti di fango e mattoni
erano impiastricciate di bianco e rosso. Il pavimento sporco
era coperto di paglia. Dai fuochi dei bracieri di bronzo si
levavano volute di fuliggine e fumo che annerivano l’intonaco
del soffitto.
Niente marmi raffinati. Niente sete esotiche né splendori di
porpore imperiali. Quella era Roma nella sua forma più grezza
e antica: tutta ferocia e brutalità. Le guardie reali indossavano
tuniche sudate sotto le armature di cuoio. Le loro lance di ferro
nero erano rozze, gli elmi ricavati da teste di lupo. Alcune
schiave erano inginocchiate ai piedi del trono, che era una
lastra di pietra sbozzata coperta di pellicce. Ai lati della stanza
erano allineate grossolane panche di legno: i seggi per i
senatori, che vi sedevano più come prigionieri o spettatori che
come influenti politici. In quell’epoca, avevano un solo vero
potere: votare il nuovo re quando il vecchio moriva. Per il
resto, dovevano solo applaudire o tacere come richiesto.
Sul trono sedeva Lucio Tarquinio il Superbo: settimo re di
Roma, assassino, calcolatore e schiavista, una vera meraviglia.
Il suo volto era come una lucida porcellana tagliata con il
coltello da bistecca: la bocca larga e scintillante atteggiata in
una smorfia di disappunto, gli zigomi troppo pronunciati, il
naso rotto e ricomposto in una brutta linea storta, gli occhi
sospettosi dalle palpebre pesanti e i capelli lunghi e untuosi
come argilla bagnata.
Solo pochi anni prima, quand’era salito al trono, Tarquinio
veniva lodato per la bellezza mascolina e per la forza fisica.
Aveva incantato i senatori con lusinghe e doni, poi si era
adagiato sul trono del suocero e li aveva convinti a
confermarlo come nuovo re.
Quando il vecchio sovrano era corso a protestare dal
momento che, be’, era ancora vivo e vegeto, Tarquinio lo
aveva sollevato come un sacco di patate, lo aveva trascinato
fuori e poi gettato in strada, dove la figlia del vecchio re –
nonché moglie del nuovo – aveva investito con il carro lo
sventurato, macchiando le ruote con il suo sangue.
Un inizio incantevole per un regno incantevole.
Ormai su Tarquinio era calato tutto il peso degli anni. Si era
ingobbito e ingrossato, come se tutti i progetti edilizi che
aveva imposto ai sudditi si fossero accumulati sopra le sue
spalle. Indossava un mantello di pelle di lupo. La sua veste era
di un rosa così scuro e screziato che era impossibile capire se
fosse una tunica rossa chiazzata di candeggina o una tunica
bianca sporca di sangue.
Oltre alle guardie, l’unica altra persona presente nella
stanza era una vecchia di fronte al trono. Per via del mantello
rosato con cappuccio, la sagoma massiccia e la schiena
ingobbita, sembrava quasi un riflesso satirico del re: una
caricatura di Tarquinio. Custodiva sotto un braccio sei tomi
rilegati in pelle, ciascuno grande quanto una maglietta piegata
e altrettanto floscio.
Il re la guardò con profondo disappunto. «Sei tornata.
Perché?»
«Per farti la stessa offerta.» La voce della donna era molto
roca, come se avesse gridato per tutto il giorno.
Quando si calò il cappuccio, i capelli grigi e untuosi e il
volto macilento la fecero assomigliare ancora di più a una
gemella di Tarquinio. Ma non lo era. Era la Sibilla Cumana.
Nel riconoscerla, mi si strinse il cuore. Un tempo era una
giovane deliziosa: brillante, determinata, con una vera
passione per il lavoro profetico. Voleva cambiare il mondo.
Poi le cose tra noi si erano inasprite… e io avevo cambiato lei.
L’aspetto che aveva nel sogno era solo l’inizio della mia
maledizione. Sarebbe molto, molto peggiorato nel corso dei
secoli. Come avevo fatto a dimenticarmene? Come avevo
potuto essere così crudele? Il senso di colpa per le mie azioni
bruciava più del graffio di qualsiasi ghoul.
Tarquinio si sistemò più comodamente sul trono. Cercò di
ridere, ma gli uscì un verso più simile a un latrato di allarme.
«Devi essere pazza, donna. Il tuo prezzo originario avrebbe
mandato in bancarotta il mio regno, e allora mi stavi offrendo
nove libri. Ne hai bruciati tre, e adesso torni qui a offrirmene
soltanto sei, per la stessa somma esorbitante?»
La donna gli porse i volumi in pelle, con una mano posata
sopra il mucchio come se si apprestasse a pronunciare un
giuramento. «La conoscenza costa, re di Roma. Meno ce n’è,
più alto è il suo valore. Accontentati che non ti stia chiedendo
il doppio.»
«Oh, capisco! Dovrei esserti grato, allora.» Il re cercò con
lo sguardo il sostegno del pubblico di prigionieri.
A quel cenno, avrebbero dovuto ridere e sbeffeggiare la
donna. Ma nessuno lo fece. Avevano più paura della Sibilla
che del re.
«Non mi aspetto alcuna gratitudine da quelli come te»
gracchiò la Sibilla. «Ma dovresti agire per il tuo interesse, e
nell’interesse del tuo regno. Ti sto offrendo importanti
informazioni sul futuro… come evitare disastri, come invocare
l’aiuto degli dei, come fare di Roma un grande impero. È tutto
qui. O almeno… ne rimangono sei libri.»
«Ridicolo!» sbottò il re. «Avrei dovuto farti giustiziare per
la tua insolenza!»
«Ah, magari fosse possibile.» La voce della Sibilla era
aspra e calma come un mattino artico. «Rifiuti la mia offerta,
dunque?»
«Sono il sommo sacerdote, oltre che il re!» gridò Tarquinio.
«Soltanto io decido come placare gli dei! Non mi servono i…»
La Sibilla prese i primi tre libri della pila e li gettò nel
braciere più vicino, come se niente fosse. Nonostante la
rilegatura in pelle, i volumi presero fuoco all’istante, quasi
fossero scritti in cherosene su fogli di carta di riso. In un solo,
grande boato, andarono distrutti.
Le guardie strinsero le lance. I senatori mormorarono
inquieti. Forse percepivano quello che percepivo io: un sospiro
d’angoscia del cosmo, il respiro esalato dal destino nell’attimo
in cui così tanti volumi di sapere profetico svanivano dal
mondo, gettando un’ombra sul futuro, lasciando intere
generazioni nelle tenebre.
Come aveva potuto farlo? Perché?
Forse era il suo modo per vendicarsi di me. L’avevo
criticata per avere scritto troppi libri, per non avermi permesso
di rivedere il suo lavoro. Ma, quando aveva scritto i Libri
Sibillini, ce l’avevo con lei per ragioni diverse. Avevo già
scagliato la mia maledizione, il nostro rapporto era
irreparabile. Bruciando i suoi stessi libri, sputava sulle mie
critiche, sul dono profetico che le avevo elargito e sul prezzo
troppo alto che aveva pagato per essere la mia Sibilla.
O forse era motivata da qualcosa di diverso dall’amarezza.
Forse aveva una ragione per sfidare Tarquinio e infliggergli
una punizione così alta per la sua testardaggine.
«Ti offro un’ultima occasione» disse al re. «Tre libri
profetici, allo stesso prezzo di prima.»
«Allo stesso prezzo…» Il re soffocava di rabbia.
Vedevo con chiarezza quanto avrebbe voluto rifiutare.
Avrebbe voluto ricoprire la Sibilla di insulti e ordinare alle
guardie di infilzarla sul posto.
Ma i senatori si stavano agitando, mormoravano. I volti
delle guardie erano pallidi di paura. Le schiave cercavano il
più possibile di nascondersi dietro la pedana del trono.
I Romani erano un popolo superstizioso.
Tarquinio lo sapeva.
Come sommo sacerdote, aveva il dovere di proteggere il
popolo intercedendo presso gli dei. In nessuna circostanza
poteva suscitare la loro ira. Quella vecchia gli stava offrendo il
suo sapere profetico per aiutare il regno. Tutti i presenti nella
sala percepivano il suo potere, la sua vicinanza agli dei.
Se Tarquinio le avesse permesso di bruciare gli ultimi libri,
se avesse respinto la sua offerta… forse non sarebbe stata la
Sibilla a finire infilzata dalle guardie.
«Allora?» lo incalzò lei, avvicinando alle fiamme i tre
volumi rimasti.
Tarquinio inghiottì la rabbia. A denti stretti, si costrinse a
pronunciare le parole: «Accetto le tue condizioni».
«Bene» disse la Sibilla, senza mostrare un’ombra di
sollievo né di delusione. «Che il pagamento venga portato alla
Linea del Pomerio. Quando l’avrò ricevuto, i libri saranno
tuoi.» E scomparve in un lampo di luce azzurra.
Il mio sogno si dissolse con lei.
«Mettiti il lenzuolo.» Meg mi lanciò una toga in faccia, e non
fu il modo più carino per svegliarmi.
Strizzai le palpebre, ancora insonnolito, con l’odore di
fumo, paglia ammuffita e legionari sudati che si attardava nelle
mie narici. «Una toga? Ma io non sono un senatore.»
«Sei un senatore onorario, perché una volta eri un dio e via
dicendo.» Meg mise il broncio. «A me non la fanno mettere.»
Per un attimo, mi comparve davanti alla mente l’orribile
immagine di Meg vestita con una toga dei colori del semaforo,
con semi da giardino che traboccavano dalle pieghe della
stoffa. Doveva accontentarsi della maglietta glitterata con
l’unicorno.
Bombilo mi salutò con la solita occhiataccia di buongiorno
quando scesi al piano di sotto per occupare il bagno del bar.
Mi lavai e mi cambiai le bende con un kit che i guaritori ci
avevano premurosamente lasciato in camera. Il graffio non
sembrava peggiorato, ma era ancora raggrinzito e infiammato.
Bruciava ancora. Era normale, giusto? Cercai di convincermi
di sì. Sapete come dicono: i dottori divini sono i peggiori
pazienti divini.
Mi vestii e, mentre cercavo di ricordare come si drappeggia
una toga, riflettei sulle cose che avevo saputo grazie al mio
sogno. Numero uno: ero una persona orribile che rovinava la
vita della gente. Numero due: di tutte le cose brutte che avevo
fatto nel corso degli ultimi quattromila anni, non ce n’era una
che non tornasse a chiedere il conto e a mordermi il podex. E
stavo cominciando a pensare di meritarmelo.
La Sibilla Cumana. Oh, Apollo, ma che ti era saltato in
mente?
Ahimè, sapevo benissimo cosa mi era saltato in mente: era
una bella ragazza con cui volevo stare, sebbene fosse la mia
Sibilla. Poi lei mi aveva battuto in astuzia e io, siccome non ho
mai saputo perdere, l’avevo maledetta.
Non c’era da stupirsi che ora dovessi pagarne il prezzo,
rintracciando proprio il malvagio re romano a cui un tempo lei
aveva venduto i Libri Sibillini. Se Tarquinio era ancora
aggrappato a una qualche forma di raccapricciante esistenza di
non-morte, possibile che pure la Sibilla Cumana fosse viva?
Rabbrividii al pensiero dell’aspetto che poteva avere dopo
tutti quei secoli, e di quanto odio aveva probabilmente
accumulato nei miei confronti.
Ma una cosa per volta: dovevo comunicare al Senato il mio
grandioso piano per raddrizzare la situazione e salvarci tutti.
Avevo un grandioso piano? Per quanto scioccante potesse
sembrare, forse sì. O, almeno, avevo gli inizi di un grandioso
piano. Un grandioso indice, diciamo.
Uscendo, io e Meg agguantammo due caffellatte speziati e
un paio di muffin ai mirtilli – perché Meg aveva senz’altro
bisogno di altri zuccheri e caffeina – e ci unimmo alle file di
semidei diretti in città.
Quando arrivammo al Senato, tutti stavano prendendo
posto. Di fianco alla tribuna, i pretori Reyna e Frank
indossavano l’oro e la porpora delle grandi occasioni. La
prima fila di panche era occupata dai dieci senatori del campo
– ciascuno con la toga bianca bordata di porpora – insieme ai
veterani più anziani, ai disabili, e infine a Ella e Tyson. Ella
era piuttosto agitata, e faceva del proprio meglio per non
infastidire troppo il senatore a sinistra. Dall’altro lato, Tyson
sorrideva a un Lare e agitava le dita nella vaporosa gabbia
toracica dello spirito.
Alle loro spalle, il semicerchio della tribuna era pieno
zeppo di Lari, legionari, veterani in pensione e altri cittadini di
Nuova Roma. Non vedevo una sala conferenze così piena da
quando Charles Dickens tenne il suo secondo tour americano
nel 1867. (Che spettacolo. Ho ancora una maglietta
autografata e incorniciata appesa in camera mia, nel Palazzo
del Sole.)
Pensavo di dovermi sedere davanti, dal momento che
indossavo un lenzuolo onorario, ma non c’era posto. Poi
intravidi Lavinia (grazie, capelli rosa) che si sbracciava verso
di noi dall’ultima fila. Ci aveva preso dei posti. Un gesto
premuroso. O forse voleva qualcosa.
Quando ci fummo accomodati accanto a lei, Lavinia e Meg
si scambiarono la stretta di mano Supersegreta della
Sorellanza degli Unicorni, poi la legionaria si voltò e mi diede
una gomitata. «Allora sei davvero Apollo, dopotutto! Di certo
conosci mia madre.»
«Co-cosa?»
Le sue sopracciglia mi distraevano troppo, quel giorno. Le
radici scure avevano iniziato a intravedersi sotto la tintura rosa
e sembravano un po’ decentrate, galleggianti, come se stessero
per fluttuare via dal viso.
«Sì, mia madre» ripeté, facendo scoppiare uno dei suoi
palloncini. «Tersicore.»
«La… la musa della danza. Mi stai chiedendo se è tua
madre o se la conosco?»
«Certo che è mia madre.»
«Certo che la conosco.»
«Bene!» Lavinia batté una serie di colpetti sulle ginocchia,
come se suonasse la batteria, quasi a dimostrare che aveva il
ritmo della danza nel sangue sebbene fosse così maldestra.
«Voglio sapere tutti i gossip!»
«I gossip?»
«Non l’ho mai incontrata.»
«Oh, ehm…» Nel corso dei secoli, avevo avuto molte
conversazioni con semidei che volevano conoscere meglio i
loro divini e assenti genitori. Non finivano mai bene.
Cercai di riportare alla memoria un’immagine di Tersicore,
ma i miei ricordi olimpici si facevano ogni giorno più fiochi.
Rammentavo vagamente la musa che saltellava in uno dei
parchi dell’Olimpo, lasciando petali di rosa sulla sua scia, tra
una piroetta e l’altra. A dire la verità, Tersicore non era mai
stata la mia preferita tra le nove muse. Tendeva a rubarmi la
scena che mi spettava di diritto.
«Aveva il tuo stesso colore di capelli» mi sforzai di
ricordare.
«Rosa?»
«No… castano. Aveva un sacco di energia nervosa, credo,
come te. Era felice solo se era in movimento, ma…» La mia
voce si spense.
Cosa potevo dire senza sembrare cattivo? Tersicore era
piena di grazia, equilibrata e non somigliava a una giraffina
barcollante? Lavinia era sicura che non ci fosse stato un
errore? Non riuscivo a credere che fossero parenti.
«Ma cosa?» mi incalzò lei.
«Niente. Faccio fatica a ricordare.»
Intanto, ai piedi della tribuna, Reyna stava richiamando tutti
all’ordine. «Prendete posto, per favore! Dobbiamo cominciare.
Dakota, puoi farti più in là per lasciar sedere… Grazie.»
Lavinia mi scrutò scettica. «Sono i gossip più insipidi di
sempre. Se non puoi raccontarmi nulla su mia madre, almeno
dimmi che succede tra te e la signorina pretore giù in fondo.»
Mi agitai. La panca all’improvviso sembrava molto più
dura sotto il mio podex. «Non c’è niente da dire.»
«Oh, per favore. Ho visto come la guardi di soppiatto da
quando sei arrivato. L’ha visto anche Meg.»
«L’ho visto anch’io» confermò Meg.
«Pure Frank Zhang l’ha visto.» Lavinia alzò le mani come
se quella fosse la prova del nove.
Reyna cominciò a rivolgersi alla folla: «Senatori, ospiti,
abbiamo convocato questa seduta d’emergenza per
discutere…».
«Sul serio» bisbigliai a Lavinia. «È imbarazzante. Non
capiresti.»
Lei sbuffò. «Imbarazzante? Come quando dici al tuo
rabbino che porterai la tua ragazza alla festa del bat mitzvah?
O come quando comunichi a tuo padre che l’unico ballo che ti
interessa è il tip-tap, e che non porterai avanti la tradizione
della famiglia Asimov? So benissimo cosa vuol dire
imbarazzante.»
Reyna intanto continuava a parlare. «Alla luce dell’estremo
sacrificio di Jason Grace, e della nostra recente battaglia
contro i non-morti, dobbiamo prendere molto seriamente la
minaccia…»
«Aspetta un attimo» bisbigliai a Lavinia. «Tuo padre è
Sergei Asimov? Il ballerino? La…» Mi fermai prima di
continuare con “la stella supersexy del balletto russo” ma, a
giudicare dal modo in cui Lavinia roteò gli occhi, sapeva cosa
stavo pensando.
«Sì, sì» rispose. «Smettila di cambiare argomento. Vuoi
vuotare il sacco su…»
«Lavinia Asimov!» chiamò Reyna dai piedi della tribuna.
«Hai qualcosa da dire?»
Tutti si voltarono a guardarci. Alcuni legionari fecero un
verso di scherno, come se quella non fosse la prima volta che
Lavinia veniva richiamata durante una seduta del Senato.
Lei si guardò intorno, poi si puntò un dito al petto come se
non fosse sicura di essere proprio la Lavinia Asimov a cui il
pretore si stava rivolgendo. «Nossignora. Sto bene così.»
Reyna non sembrò gradire il “nossignora”. «Ho notato che
stai masticando una gomma. Ne hai portate abbastanza per
tutto il Senato?»
«Ehm, ecco…» Lavinia si tirò fuori dalle tasche un sacco di
pacchetti. Scrutò la folla, facendo una rapida stima. «Forse sì.»
Reyna alzò gli occhi al cielo, come per chiedere agli dei:
“Perché devo essere l’unica adulta in questo posto?”. «Voglio
supporre che tu stessi solo cercando di attirare l’attenzione
sull’ospite seduto accanto a te, che ha delle informazioni
importanti da condividere» continuò il pretore. «Lester
Papadopoulos, alzati e parla al Senato!»
12

Io ho un piano

Per un piano riguardo

Al mio piano, ehm…

Di solito, quando sto per esibirmi, aspetto dietro le quinte.


Dopo che il presentatore mi ha annunciato e la folla ha iniziato
a fremere per l’impazienza, mi lancio oltre il sipario, i riflettori
mi illuminano e ta-dah! Sono UN DIO!
La presentazione di Reyna non suscitò un boato di applausi.
“Lester Papadopoulos, alzati e parla al Senato” era più o meno
eccitante quanto: “Ora guarderemo un PowerPoint sugli
avverbi”.
Non appena cominciai a scendere nel corridoio centrale,
Lavinia mi fece lo sgambetto. Mi voltai per fulminarla con lo
sguardo, e lei mi rispose con un faccino angelico, come se il
suo piede fosse capitato lì per sbaglio. Considerata la
lunghezza delle sue gambe, forse era perfino vero.
Tutti mi guardavano mentre mi facevo largo goffamente tra
la folla, cercando di non inciampare nella toga.
«Scusate. Permesso. Scusate.»
Quando arrivai ai piedi della tribuna, il pubblico era
all’apice della noia e dell’impazienza. Senza dubbio se ne
sarebbero stati tutti lì a controllare il cellulare, solo che i
semidei non possono usare gli smartphone senza rischiare
l’attacco di un mostro, perciò non avevano alternative:
dovevano guardare me. Due giorni prima li avevo incantati
con un fantastico tributo musicale a Jason Grace, ma poi
cos’altro avevo fatto per loro? Solo i Lari sembravano contenti
dell’attesa. Potevano restare seduti su quelle panche dure per
l’eternità.
Dall’ultima fila, Meg mi salutò con la mano. Più che:
“Coraggio, andrai alla grande”, la sua espressione diceva:
“Datti una mossa”.
Voltai lo sguardo su Tyson, che mi sorrideva in prima fila.
Quando ti ritrovi a concentrarti su un ciclope tra la folla in
cerca di sostegno morale, sai già che sarà un fiasco.
«Allora… salve a tutti.»
Inizio grandioso. Sperai che un altro scoppio di ispirazione
improvvisa mi regalasse una seconda canzone. Non successe
nulla. Avevo lasciato l’ukulele nella mia stanza, sicuro che
Terminus lo avrebbe confiscato come arma, se avessi cercato
di portarlo in città.
«Ho cattive notizie» continuai. «Più un’altra cattiva notizia.
Da cosa vogliamo cominciare?»
Tutti si scambiarono occhiate preoccupate.
Lavinia strillò: «Vai con le cattive notizie! È sempre la
scelta migliore».
«Ehi» la rimproverò Frank. «Un po’ di decoro, eh?»
Avendo ristabilito la solennità della seduta, il pretore mi fece
cenno di continuare.
«Gli imperatori Commodo e Caligola hanno unito le forze»
esordii. Descrissi quello che avevo visto nel mio sogno. «In
questo stesso istante, stanno navigando verso di noi con una
flotta di cinquanta yacht, tutti equipaggiati con non so quale
terribile nuova arma. Arriveranno per la luna di sangue che, se
ho ben capito, sarà fra tre giorni, l’8 aprile. Data che, guarda
caso, è anche il compleanno di Lester Papadopoulos.»
«Tanti auguri!» esclamò Tyson.
«Grazie. E poi, non so di preciso cosa sia la luna di
sangue.»
Una mano si alzò nella seconda fila.
«Di’ pure, Ida» disse Reyna, quindi aggiunse a mio
beneficio: «Centurione della Seconda Coorte, figlia di Luna».
«Sul serio?» Non volevo sembrare incredulo, ma Luna, una
titana, aveva il compito di occuparsi della luna prima che mia
sorella Artemide assumesse l’incarico. A quanto mi risultava,
era svanita da millenni. Ma, del resto, avevo pensato che non
fosse rimasto più nulla di Helios, il titano del sole, finché non
avevo scoperto che Medea stava raccogliendo brandelli della
sua coscienza per surriscaldare il Labirinto di fuoco. Quei
Titani erano come l’acne. Continuavano a rispuntare.
«Sì, sul serio.» Ida si alzò, con la faccia scura. «Una luna di
sangue è una luna piena che sembra rossa perché è in corso
un’eclissi totale. È un pessimo momento per combattere contro
i non-morti. Sono particolarmente forti in notti come queste.»
«A dire il vero…» Ella si alzò, mangiucchiandosi gli artigli.
«A dire il vero, il colore rosso è determinato dalla dispersione
di luce riflessa originata dall’alba e dal tramonto della Terra.
Una vera luna di sangue si riferisce a quattro eclissi lunari di
fila. La prossima sarà l’8 aprile, già già. L’almanacco del
contadino. Supplemento con il calendario lunare.» L’arpia si
mise di nuovo a sedere, lasciando il pubblico in un silenzio
sbigottito. Non c’è niente di più sconcertante di una creatura
soprannaturale che ti spiega i misteri della scienza.
«Grazie, Ida ed Ella» disse Reyna. «Lester, hai altro da
aggiungere?»
Il suo tono suggeriva che sarebbe stato ottimo se avessi
finito così, dal momento che le informazioni rivelate erano già
sufficienti a scatenare il panico generale.
«Temo di sì» risposi. «Gli imperatori si sono alleati con
Tarquinio il Superbo.»
I Lari presenti si incupirono e tremolarono.
«Impossibile!» gridò uno.
«Orribile!» esclamò un altro.
«Moriremo tutti!» disse un altro ancora, dimenticando di
essere già morto.
«Calma, ragazzi» intervenne Frank. «Lasciamo parlare
Apollo.»
Il suo stile di comando era meno formale di quello di
Reyna, ma sembrava suscitare pari rispetto. Il pubblico si
tranquillizzò, in attesa che continuassi.
«Tarquinio ora è una specie di creatura non-morta» spiegai.
«La sua tomba è qui nelle vicinanze. È lui il responsabile
dell’attacco che avete respinto con la luna nuova…»
«Che è un altro pessimo momento per combattere contro i
non-morti» aggiunse Ida.
«E attaccherà di nuovo alla luna di sangue, in concomitanza
con l’assalto degli imperatori.» Feci del mio meglio per
spiegare quello che avevo visto nei miei sogni, e quello di cui
io e Frank avevamo discusso con Ella. Non nominai il pezzo
di legno maledetto: in parte perché non sapevo bene cosa
fosse, in parte perché Frank mi guardava con occhi supplicanti
da orsacchiotto. «Tarquinio fu il primo ad acquistare i Libri
Sibillini» continuai. «Per questo c’è un senso, anche se un po’
perverso, nel fatto che sia tornato ora, quando il Campo Giove
sta cercando di ricostruire quelle profezie. Tarquinio sarebbe
stato… invocato dall’opera di Ella.»
«Infuriato» suggerì Ella. «Imbestialito. Omicida.»
Guardando l’arpia, pensai alla Sibilla Cumana e alla
terribile maledizione che avevo gettato su di lei. Mi chiesi
quanto potesse soffrire Ella, proprio perché l’avevamo
costretta a dedicarsi all’ambito profetico. Ripensai alle parole
con cui Lupa mi aveva messo in guardia: “Affronterai altri
sacrifici. Morte. Sangue”.
Scacciai quell’idea con forza. «Comunque, Tarquinio era
già abbastanza mostruoso in vita. I Romani lo disprezzavano
così tanto che si liberarono della monarchia per sempre.
Perfino a distanza di secoli, gli imperatori non osavano
chiamarsi re. Tarquinio morì in esilio. La sua tomba non fu
mai trovata.»
«E adesso è qui» constatò Reyna.
Non era una domanda. Accettava senza problemi il fatto
che un’antica tomba romana potesse spuntare nel Nord della
California, dove non c’entrava un tubo. Gli dei si spostavano. I
campi semidivini pure. Il covo di un malvagio non-morto si
trasferiva a due passi dal campo? Era solo la nostra solita
sfortuna. Avevamo un serio bisogno di leggi mitologico-
territoriali più severe.
In prima fila, accanto a Hazel, un senatore si alzò per
prendere la parola. Aveva i capelli ricci e neri, gli occhi azzurri
un po’ sbilenchi e una striscia rosso ciliegia sopra il labbro
superiore. «Ricapitoliamo: fra tre giorni affronteremo
l’invasione di due imperatori malvagi, i loro eserciti e
cinquanta navi cariche di armi che non conosciamo, insieme a
un’altra ondata di non-morti come quella che ci ha quasi
distrutti l’ultima volta, quando eravamo molto più forti. Se
queste sono le cattive notizie, qual è l’altra cattiva notizia?»
«Immagino che ci stiamo arrivando, Dakota.» Reyna si
rivolse a me: «Giusto, Lester?».
«L’altra cattiva notizia è che ho un piano» risposi. «Ma sarà
difficile, forse impossibile, e alcune parti non sono
esattamente… ancora un piano, ecco.»
Dakota si strofinò le mani. «Bene, mi sto esaltando.
Sentiamo!» Si rimise a sedere, si sfilò una fiaschetta dalla toga
e bevve un sorso. A giudicare dall’odore che si sparse
nell’aria, era Super Fresh, una bibita energetica.
Trassi un respiro profondo. «Allora… in pratica i Libri
Sibillini sono una specie di ricettario per le emergenze, giusto?
Sacrifici. Preghiere rituali. Alcuni sono pensati per placare
l’ira degli dei. Altri per invocare l’aiuto divino contro il
nemico. Io credo… anzi, sono abbastanza sicuro che, se
riuscissimo a trovare la ricetta giusta per la nostra situazione, e
seguissimo le sue istruzioni, forse potrei riuscire a evocare un
aiuto dall’Olimpo.»
Nessuno rise, nessuno mi diede del pazzo. Gli dei non
intervenivano spesso negli affari dei semidei, ma in rare
occasioni succedeva. L’idea non era del tutto irrealizzabile.
D’altro canto, nessuno sembrava particolarmente sicuro che io
riuscissi a metterla in pratica.
Un altro senatore alzò la mano. «Ehm, sono il senatore
Larry della Terza Coorte, figlio di Mercurio. Quando parli di
un aiuto, intendi… battaglioni divini che si calano dal cielo sui
loro carri, o i soliti dei che ci benedicono, della serie: “Ehi,
buona fortuna, legionari!”.»
«Bella domanda, senatore Larry» ammisi. «Probabilmente
sarà qualcosa a metà fra i due estremi. Ma sono sicuro che si
tratterà di un vero aiuto, capace di rovesciare le sorti della
battaglia. Potrebbe essere l’unico modo per salvare Nuova
Roma. E devo credere che Zeus… ehm, Giove… abbia fissato
il mio cosiddetto compleanno l’8 aprile per un motivo.
Dovrebbe segnare il punto di svolta, il giorno in cui
finalmente…» Mi si incrinò la voce. Decisi di tenere per me il
seguito di quel ragionamento: l’8 aprile poteva essere il giorno
in cui cominciavo a dimostrarmi degno di ricongiungermi agli
dei, oppure il mio ultimo compleanno di sempre, il giorno in
cui mi disintegravo una volta per tutte in un’esplosione di
fiamme.
Altri mormorii dalla folla. Tante facce cupe. Ma non
intercettai nessuna forma di panico. Nemmeno i Lari
gridarono: “Moriremo tutti!”. Erano semidei romani, in fin dei
conti. Erano abituati ad affrontare situazioni estreme, minime
probabilità di riuscita e nemici forti.
«Bene!» esclamò Hazel Levesque, parlando per la prima
volta. «Come troviamo questa ricetta? Da dove cominciamo?»
Apprezzai il suo tono sicuro. Era come se stesse chiedendo
di poter dare una mano a compiere qualcosa di estremamente
fattibile, tipo portare la spesa o infilzare mostri con una lancia
di quarzo.
«Il primo passo è trovare la tomba di Tarquinio» risposi.
«E ucciderlo!» strillò uno dei Lari.
«No, Marco Apuleio!» lo rimproverò un compagno.
«Tarquinio è morto come noi!»
«E allora?» brontolò l’altro. «Che si fa, gli chiediamo
gentilmente di lasciarci in pace? Stiamo parlando di Tarquinio
il Superbo! È un pazzo!»
«Il primo passo è solo esplorare la tomba» ripetei. «E poi…
ehm, scoprire le cose giuste, come ha detto Ella.»
«Già già» confermò l’arpia. «Ella ha detto proprio così.»
«Devo presumere che se l’impresa mi riesce, e ne vengo
fuori vivo, tutti sapremo di più su come procedere» aggiunsi.
«In questo momento, l’unica cosa che posso dire con certezza
è che il passo successivo prevede il ritrovamento di una
divinità ammutolita, qualunque cosa significhi.»
«Ma tu non conosci tutti gli dei, Apollo?» Frank si sporse
in avanti sul suo seggio. «Sì, insomma… sei uno di loro. Lo
eri, quantomeno. Esiste un dio del silenzio?»
Sospirai. «Frank, riesco a ricordare a malapena la mia
famiglia divina. Ci sono centinaia di divinità minori. Non
ricordo nessun dio silenzioso. Certo, se ce ne fosse uno, dubito
che saremmo molto amici, considerato che sono il dio della
musica.»
Frank sembrò mortificato, e io mi sentii in colpa. Non
volevo sfogare le mie frustrazioni su una delle poche persone
che mi chiamava ancora Apollo senza un filo di ironia.
«Affrontiamo una cosa alla volta» suggerì Reyna. «Primo,
la tomba di Tarquinio. Abbiamo una pista sulla sua
collocazione, giusto, Ella?»
«Già già.» L’arpia chiuse gli occhi e recitò: «Un gatto
selvatico vicino alle luci che ruotano. La tomba di Tarquinio
con i cavalli che brillano. Per aprire la sua porta, due-
cinquanta-quattro…».
«È una profezia!» esclamò Tyson. «Ce l’ho sulla schiena!»
Il ciclope si alzò e si strappò la maglietta così in fretta che era
come se non avesse fatto altro che aspettare la scusa buona per
farlo. «Visto?»
Gli spettatori si sporsero tutti a guardare, nonostante fosse
impossibile leggere i tatuaggi da lontano.
«Ho anche un pesce pony su un fianco, proprio vicino al
rene» annunciò orgoglioso. «Non è carino?»
Hazel distolse lo sguardo per non svenire dall’imbarazzo.
«Tyson, non potresti…? Sono sicura che il pesce pony è
adorabile, ma… ti rimetti la maglietta, per favore? Qualcuno
sa cosa significano questi versi, per caso?»
I Romani osservarono un momento di silenzio per la morte
di ogni forma di comprensibilità tipica di qualunque profezia.
Lavinia fece un verso di scherno. «Sul serio? Non ci arriva
nessuno?»
«Lavinia» intervenne Reyna, con voce stanca. «Vuoi forse
dire che tu…?»
«Io so dove si trova questa tomba. Certo.» Lavinia allargò
le mani. «Cioè, un gatto selvatico vicino alle luci che ruotano.
La tomba di Tarquinio con i cavalli che brillano. A Tilden
Park c’è un vialetto che si chiama così, Wildcat Drive, il
vialetto del gatto selvatico. Proprio oltre le colline.» Indicò
verso nord. «E i cavalli che brillano, le luci che ruotano? È la
giostra di Tilden Park, no?»
«Oooooh!» Diversi Lari annuirono, come se passassero
tutto il loro tempo libero sulla giostra locale.
Frank si agitò sul seggio. «Pensi che la tomba di un
malvagio re romano si trovi sotto una giostra?»
«Ehi, non l’ho scritta io, la profezia» replicò Lavinia. «E
poi, non è che l’ipotesi abbia meno senso di tutte le altre cose
che abbiamo affrontato.»
Nessuno trovò niente da ridire. I semidei mangiano
assurdità per colazione, pranzo e cena.
«E va bene, allora» concluse Reyna. «Abbiamo un
obiettivo. Ci serve una missione. Una missione breve, dal
momento che è molto limitata. Dobbiamo designare una
squadra di eroi e farla approvare dal Senato.»
«Noi.» Meg si alzò. «Dobbiamo essere io e Lester.»
Deglutii. «Ha ragione» dissi, e fu il mio atto eroico del
giorno. «Fa parte della mia personale e più grande impresa di
riconquistare il mio posto fra gli dei. Sono stato io a portare
questo guaio alla vostra porta. Devo rimediare. Vi prego, non
cercate di dissuadermi.»
Aspettai disperatamente, ma invano, che qualcuno ci
provasse.
«Vengo anch’io. Serve un centurione che conduca la
missione» disse Hazel Levesque, alzandosi. «Se la tomba si
trova sottoterra, be’… è la mia specialità.» Il suo tono diceva
anche: “E poi ho un conto in sospeso”.
Perfetto. Anche se, pensando a come Hazel aveva fatto
crollare quel tunnel che ci aveva condotti al campo, ebbi
l’improvvisa e terrificante visione di me schiacciato sotto una
giostra.
«Siamo a tre, dunque» ricapitolò Reyna. «Il numero giusto
per una missione. Ora…»
«Due e mezzo» la interruppe Meg.
Reyna si accigliò. «Come, scusa?»
«Lester è il mio servitore. Siamo una squadra. Non conta
come uno intero.»
«Oh, e dai!» protestai.
«Così possiamo portare qualcun altro» propose Meg.
Frank raddrizzò la schiena. «Sarei felice di…»
«Sì, se non avessi i tuoi doveri di pretore da adempiere»
concluse Reyna al posto suo, scoccandogli un’occhiata della
serie: “Non osare mollarmi qui da sola, bello”. «Mentre la
squadra è in missione, tutti noi dobbiamo approntare le difese
della valle. C’è un sacco di lavoro da fare.»
«Giusto.» Frank scrollò le spalle. «Allora, c’è nessun altro
che…?»
POP!
Il rumore fu così forte che metà dei Lari scomparve,
allarmata. Diversi senatori si nascosero sotto il seggio.
Nell’ultima fila, Lavinia aveva la faccia impiastricciata di
gomma rosa. Si affrettò a tirarla via e se la rimise in bocca.
«Lavinia. Ottimo» disse Reyna. «Grazie di esserti offerta
volontaria.»
«Io… ma…»
«Che il Senato esprima il suo voto!» esclamò Reyna.
«Mandiamo Hazel, Lester, Meg e Lavinia in missione per
trovare la tomba di Tarquinio?»
Il provvedimento passò all’unanimità.
Avevamo ricevuto la piena approvazione del Senato per
trovare una tomba nascosta sotto una giostra e affrontare il
peggior sovrano della storia romana, che guarda caso era
anche uno zombie signore dei non-morti.
La mia giornata continuava a migliorare.
13

Sono un disastro

In amore. Con tutti.

Vuoi uscire con me?

«Come se masticare gomme fosse un reato.» Lavinia lanciò un


pezzetto di sandwich giù dal tetto, che fu subito ghermito da
un gabbiano.
Per il nostro pranzo al sacco aveva portato me, Hazel e Meg
al suo pensatoio preferito: il tetto della torre dell’Università di
Nuova Roma, di cui aveva scoperto l’accesso da sola. Certo, le
persone non erano incoraggiate a salire lassù, ma la cosa non
era nemmeno proibita, e quello era proprio il genere di
territorio che Lavinia amava frequentare.
Spiegò che le piaceva sedersi lì perché era giusto sopra il
Giardino del Fauno, il pensatoio preferito di Reyna. Al
momento lei non c’era, ma ogni volta che capitava da quelle
parti Lavinia poteva guardarla dall’alto in basso e gongolare:
“Ah ah, il mio pensatoio è più in alto del tuo”.
Seduto in posizione precaria sulle tegole inclinate, con una
focaccia smangiucchiata in grembo, potevo scorgere l’intera
città e tutta la valle distese sotto di noi: tutto ciò che
rischiavamo di perdere con l’imminente invasione. Ancora più
in là, si stendevano la piana di Oakland e la baia di San
Francisco, che di lì a pochi giorni sarebbe stata punteggiata
degli yacht da guerra di Caligola.
«No, sul serio.» Lavinia gettò un altro pezzetto di
formaggio grigliato ai gabbiani. «Se i legionari facessero una
stupida escursione di tanto in tanto, conoscerebbero Wildcat
Drive.»
Annuii, anche se sospettavo che la maggior parte dei
legionari, che trascorrevano una vagonata di tempo a marciare
in armatura pesante, probabilmente non considerava il
trekking tutto questo spasso. Lavinia invece sembrava
conoscere ogni strada secondaria, ogni sentiero e tunnel
segreto nel giro di trenta chilometri intorno al Campo Giove.
Forse perché non si poteva mai dire quando sarebbe stato
necessario sgattaiolare fuori per un appuntamento con una
graziosa cicuta o una micidiale belladonna.
Seduta accanto a me, Hazel ignorava il panino vegetariano
e brontolava sottovoce: «Frank, non posso crederci. Provare a
offrirsi volontario… Come se non bastassero tutti i numeri che
ha fatto in battaglia».
Poco più un là, avendo già spazzolato il pranzo, Meg
favoriva la digestione facendo la ruota. Ogni volta che tornava
in posizione eretta, ritrovando l’equilibrio su quelle tegole
precarie, il cuore mi balzava un po’ più su in gola.
«Meg, per favore, potresti non farlo?» domandai.
«È divertente.» Puntò gli occhi all’orizzonte e annunciò:
«Voglio un unicorno». Poi fece un’altra ruota.
Lavinia borbottò: «Hai fatto scoppiare un palloncino di
gomma… sei perfetta per la missione!».
«Perché deve piacermi un ragazzo che ha tutta questa
voglia di morire?» rimuginava Hazel.
«Meg, se continui così cadrai» dissi.
«Mi accontenterei di un unicorno piccolino» precisò Meg,
ignorandomi. «Non è giusto che qui ne abbiano così tanti e io
non ne abbia nessuno.»
Continuammo questa disarmonia a quattro voci finché
un’aquila gigante non piombò giù dal cielo, ghermì quel che
restava del formaggio grigliato dalle mani di Lavinia e
volteggiò via, lasciandosi alle spalle uno stormo di gabbiani
irritati.
«Tipico.» Lavinia si pulì le dita sui pantaloni. «Non posso
nemmeno mangiare un sandwich in santa pace.»
Mi ficcai il resto della focaccia in bocca, casomai l’aquila
fosse tornata per il secondo.
«Be’, almeno abbiamo il pomeriggio libero per mettere a
punto un piano» disse Hazel, passando metà del suo panino
vegetariano a Lavinia.
Lavinia la guardò perplessa. Non sapeva come rispondere a
quel gesto di gentilezza. «Io… ehm, grazie. Ma, cioè, cosa c’è
da pianificare? Andiamo alla giostra, troviamo la tomba,
cerchiamo di non morire.»
Inghiottii l’ultimo boccone, sperando che servisse a far
tornare il cuore nella collocazione giusta. «Forse dovremmo
concentrarci sull’ultima parte: non morire. Per esempio,
perché aspettare fino a stasera? Non sarebbe più sicuro agire di
giorno?»
«È sempre buio sottoterra» osservò Hazel. «E poi, di
giorno, la giostra è piena di bambini. Non voglio che restino
feriti. Di notte, il posto sarà deserto.»
Meg si lasciò cadere accanto a noi. I suoi capelli
sembravano un cespuglio di sambuco spettinato. «Allora,
Hazel, sai fare altre cose fighe sottoterra? Ho sentito dire che
puoi evocare diamanti e rubini.»
Hazel si accigliò. «Hai sentito dire da chi?»
«Be’, da Lavinia.»
«Santi numi!» protestò Lavinia. «Grazie tante, Meg!»
Hazel scrutò il cielo, come augurandosi che un’aquila
gigante venisse a portarsela via. «Sono in grado di evocare i
metalli preziosi, sì. Le ricchezze della terra. È un dono di
Plutone. Ma le cose che evoco non si possono spendere, Meg.»
Mi appoggiai con la schiena contro il tetto. «Sono
maledette? Mi sembra di ricordare qualcosa del genere… e
non perché Lavinia abbia spifferato nulla» mi affrettai a
precisare.
Hazel giocherellò con il panino. «Non è più una
maledizione. Ai vecchi tempi, non riuscivo a controllarla.
Diamanti, monete d’oro e cose del genere spuntavano dal
terreno all’improvviso quand’ero nervosa.»
«Forte» commentò Meg.
«Per niente» le assicurò Hazel. «Se qualcuno raccoglieva
quei tesori e cercava di spenderli, accadevano cose orribili.»
«Oh!» Meg aggrottò la fronte. «E adesso?»
«Da quando ho incontrato Frank…» Hazel esitò. «Molto
tempo fa, Plutone mi disse che un discendente di Poseidone
avrebbe spazzato via la mia maledizione. È complicato, ma
Frank è un discendente di Poseidone da parte di madre.
Quando abbiamo cominciato a uscire insieme… lui è… una
bella persona, capite? Non che mi serva un fusto per risolvere
i miei problemi…»
«Un fusto?» chiese Meg.
Hazel ebbe un fremito all’occhio destro. «Scusa. Sono
cresciuta negli anni Trenta del Novecento. A volte il mio
vocabolario ne risente. Non che mi serva un ragazzo per
risolvere i miei problemi. È solo che pure Frank aveva la sua
maledizione, e mi capiva. Ci siamo aiutati a vicenda in certi
periodi difficili… parlando, imparando a essere di nuovo
felici. Mi fa sentire…»
«Amata?» suggerii.
Lavinia incrociò il mio sguardo e disse, muovendo solo le
labbra: “Adorabile”.
Hazel raccolse i piedi sotto il corpo. «Non so perché vi sto
dicendo queste cose. Ma… sì. Ora riesco a controllare molto
meglio i miei poteri. Le pietre preziose non spuntano a caso
dal terreno quando mi arrabbio. Però non si possono spendere.
Credo… ho la sensazione che Plutone non gradirebbe. Non
voglio scoprire cosa succederebbe se qualcuno ci provasse.»
Meg mise il broncio. «Quindi non puoi regalarmi neanche
un diamantino? Così, solo per il gusto di averlo?»
«Meg!» la rimproverai.
«Nemmeno un rubino?»
«Meg.»
«Uffa, e va bene.» Meg si guardò imbronciata la maglietta
con l’unicorno, senza dubbio pensando a quanto sarebbe stata
bella tempestata di qualche milione di dollari di pietre
preziose. «Voglio solo combattere contro tutti quei cosi.»
«Vedrai che il tuo desiderio si avvererà» disse Hazel. «Ma,
ricorda, stanotte l’idea è di esplorare e raccogliere
informazioni. Dovremo essere molto furtivi.»
«Sì, Meg» concordai. «Perché, come ricorderai, Apollo si
troverà di fronte alla morte nella tomba di Tarquinio. Se devo
trovarmi di fronte alla morte, preferirei farlo nascosto
nell’ombra, per poi scappare via senza che la morte si sia
accorta della mia presenza.»
Meg sembrava esasperata, come se avessi appena suggerito
una regola ingiusta ad acchiapparello. «Okay. Sarò molto
furtiva.»
«Bene» commentò Hazel. «E, Lavinia, niente gomme.»
«Ehi, fidati di me. So essere molto, molto furtiva.» Agitò i
piedi. «Sono la figlia di Tersicore, no?»
«Mmm… e va bene» concluse Hazel. «Raccogliamo le
nostre cose e riposiamoci un po’. Ci vediamo al Campo di
Marte al tramonto.»
Riposare avrebbe dovuto essere un compito semplice.
Meg uscì per esplorare il campo (leggi: per andare di nuovo
dagli unicorni), così restai da solo nella nostra soffitta sopra il
caffè. Mi distesi sulla branda, godendomi il silenzio, scrutando
gli iris appena piantati da Meg e già fioriti sul davanzale. Ma
non riuscii lo stesso ad addormentarmi.
Sentivo la ferita pulsare sulla pancia. E mi ronzava la testa.
Pensai a Hazel Levesque e a Frank, che l’aveva liberata
dalla sua maledizione. Tutti meritano qualcuno capace di
liberarli dalle loro maledizioni, facendoli sentire amati. Ma
non era quello il mio destino. Perfino le mie più grandi storie
d’amore avevano causato maledizioni anziché eliminarle.
Dafne. Giacinto.
E in seguito, sì, anche la Sibilla Cumana.
Ricordai il giorno in cui sedevamo insieme sulla spiaggia. Il
Mediterraneo si stendeva di fronte a noi come una lastra di
vetro azzurro. Alle nostre spalle, sulla collina in cui la Sibilla
aveva la sua grotta, gli olivi si beavano al sole mentre le cicale
ronzavano nella calura estiva dell’Italia meridionale. In
lontananza, si stagliava il profilo nebuloso del Vesuvio.
Rievocare un’immagine della Sibilla in persona fu più
difficile: non la vecchia ingobbita e ingrigita nella sala del
trono di Tarquinio, ma la giovane e bellissima donna che era
su quella spiaggia, secoli prima, quando Cuma era ancora una
colonia greca.
Amavo tutto di lei: il modo in cui i suoi capelli castano-
ramati catturavano i raggi del sole, lo scintillio arguto dei suoi
occhi, la facilità con cui sorrideva. Non sembrava importarle
molto che fossi un dio, sebbene avesse abbandonato tutto per
diventare il mio Oracolo: la sua famiglia, il suo futuro, perfino
il suo nome. Dopo essersi votata a me, era nota semplicemente
come la Sibilla, la voce di Apollo.
Ma a me non bastava. Ero cotto di lei. Mi ero convinto che
fosse amore: il vero, unico amore che avrebbe cancellato tutti i
miei errori passati. Volevo che la Sibilla fosse la mia
compagna per l’eternità. E stavo passando quel pomeriggio tra
lusinghe e preghiere.
«Potresti essere molto di più della mia sacerdotessa»
incalzai. «Sposami!»
Lei rise. «Non puoi dire sul serio.»
«Certo che sì! Chiedimi qualunque cosa in cambio e
l’avrai.»
Giocherellò con una ciocca di capelli. «Non ho mai
desiderato altro che essere la Sibilla, guidare la gente verso un
futuro migliore. E questo me l’hai già dato. Perciò, ah ah… è
colpa tua.»
«Ma… ma tu hai soltanto una vita!» protestai. «Se fossi
immortale, potresti guidare gli esseri umani verso un futuro
migliore per sempre, al mio fianco!»
Mi guardò di sbieco. «Apollo, per favore. Ti stancheresti di
me nel giro di una settimana.»
«Mai!»
Raccolse due manciate di sabbia. «Quindi mi stai dicendo
che, se io desiderassi tanti anni di vita quanti sono i granelli di
questa sabbia, me li daresti.»
«Concesso!» esclamai. E subito sentii una porzione del mio
potere fluire nella sua forza vitale. «E ora, amore mio…»
«Ehi, ehi, piano!» Sparpagliò la sabbia, scattò in piedi e si
ritrasse come se all’improvviso fossi diventato radioattivo.
«Era solo un’ipotesi, rubacuori! Non ho detto di essere
d’accordo…»
«Quel che è fatto è fatto!» Mi alzai. «Non puoi rimangiarti
il desiderio. Ora devi onorare la tua parte del patto.»
Il panico danzò nei suoi occhi. «Io non… non posso. Non
lo farò!»
Risi, pensando che fosse solo nervosa. Allargai le braccia.
«Non avere paura.»
«Certo che ho paura!» Si allontanò ancora di più. «Non
accade mai nulla di buono ai tuoi amanti! Io volevo solo essere
la tua Sibilla, e ora hai rovinato tutto!»
Mi crollò il sorriso sulle labbra. Tutto il mio ardore si
raffreddò, tramutandosi in tempesta. «Non suscitare la mia ira,
Sibilla. Io ti sto offrendo l’universo. Ti ho dato una vita quasi
immortale. Non puoi rifiutare il pagamento.»
«Il pagamento?» Strinse i pugni. «Osi considerarmi una
transazione commerciale?»
Mi accigliai. Quel pomeriggio non stava andando affatto
secondo i miei piani. «Non intendevo… Ovviamente, non
stavo…»
«Allora, divino Apollo, se questa è una transazione,
rinvierò il pagamento finché la tua parte del patto non sarà
onorata fino in fondo» ringhiò. «L’hai detto tu stesso: una vita
quasi immortale. Vivrò finché i granelli di sabbia non saranno
esauriti, giusto? Torna da me alla conclusione di questo tempo.
Allora, se mi vorrai, sarò tua.»
Mi caddero le braccia. A un tratto, tutte le cose che amavo
della Sibilla divennero le cose che odiavo: la sua
testardaggine, la sua mancanza di deferenza, la sua
esasperante, inaccessibile bellezza. Soprattutto la sua bellezza.
«Molto bene.» La mia voce divenne più gelida di quanto
dovrebbe mai essere la voce di un dio del sole. «Vuoi
impugnare i cavilli del nostro contratto? Ti ho promesso la
vita, non la giovinezza. Avrai i tuoi secoli di esistenza.
Rimarrai la mia Sibilla. Non posso portarti via queste cose,
una volta concesse. Ma invecchierai. Avvizzirai. Non sarai in
grado di morire.»
«Sempre meglio che darti quello che vuoi!» Le sue erano
parole di sfida, ma la sua voce tremava di paura.
«Bene!» sbottai.
«Bene!» gridò lei di rimando.
Svanii in una colonna di fiamme, dopo essere riuscito a
rendere davvero tutto molto assurdo.
Nel corso dei secoli la Sibilla era avvizzita, proprio come
avevo minacciato. La sua forma fisica era durata più a lungo di
quella di qualsiasi comune mortale, ma il dolore che le avevo
causato, l’agonia costante… Anche se mi fossi pentito di
quella frettolosa maledizione, non avrei potuto ritirarla, così
come lei non aveva potuto rimangiarsi il suo desiderio. Poi,
intorno alla fine dell’Impero Romano, mi era giunta voce che
il corpo della Sibilla si era sgretolato completamente, e che
tuttavia non poteva ancora morire. I suoi servitori
conservavano la sua forza vitale, il fievole sospiro della sua
voce, in un barattolo di vetro.
Pensavo che il vaso fosse andato perduto. Che i granelli di
sabbia della Sibilla si fossero finalmente esauriti. E se mi
sbagliavo? Se era ancora viva, dubitavo che usasse il debole
sospiro della sua voce per fungere da influencer in favore di
Apollo.
Meritavo il suo odio. Ora lo capivo.
Oh, Jason Grace… ti avevo promesso di non dimenticare
cosa significa essere umani. Ma perché la vergogna umana
deve bruciare così tanto? Perché non si può spegnere
premendo un interruttore?
Pensando alla Sibilla, non potei evitare di riflettere
sull’altra giovane donna afflitta da una maledizione: Reyna
Avila Ramírez-Arellano.
Ero stato preso alla sprovvista il giorno in cui, entrando
nella sala del trono dell’Olimpo, puntualmente in ritardo,
avevo trovato Venere che rimirava l’immagine luminosa di
una giovane donna che fluttuava sul suo palmo. L’espressione
della dea era stanca e turbata… una cosa che non vedevo
spesso.
«Chi è?» domandai. «È bellissima.»
Non ci volle altro perché Venere scatenasse la propria furia.
Mi rivelò il destino di Reyna: nessun semidio sarebbe mai
stato in grado di guarire il suo cuore. Ma questo NON
significava che io fossi la risposta al problema di Reyna. Tutto
il contrario. Di fronte all’intero consesso degli dei, Venere
dichiarò che ero indegno, un disastro. Avevo rovinato ogni mia
singola relazione, e dovevo tenere la mia brutta faccia divina
alla larga da Reyna, o lei mi avrebbe maledetto con ancora più
sfortuna romantica di quanta ne avessi già avuta.
Le risate di scherno degli altri dei mi risuonavano ancora
nelle orecchie.
Se non fosse stato per quell’incontro casuale, forse non
avrei mai nemmeno saputo dell’esistenza di Reyna. Di certo
non avevo mire su di lei. Ma si vuole sempre quello che non si
può avere. Dopo che Venere l’aveva dichiarata off-limits, ne
restai affascinato.
Perché Venere era stata così dura con me? Cosa significava
il destino di Reyna?
Ora pensavo di saperlo. Come Lester Papadopoulos, non
avevo più “una brutta faccia divina”. Non ero né un mortale,
né un dio, né un semidio. Possibile che Venere sapesse che
tutto questo sarebbe accaduto un giorno? Mi aveva mostrato
Reyna, intimandomi di starle alla larga, proprio perché fossi
ossessionato da lei?
Venere era una dea astuta. Le sue tattiche erano come
scatole cinesi. Se il mio destino era che fossi io il vero amore
di Reyna, che fossi io a eliminare la sua maledizione come
Frank aveva fatto con Hazel, Venere lo avrebbe permesso?
Ma, allo stesso tempo, aveva ragione: io ero un disastro in
amore. Avevo rovinato qualsiasi relazione avessi avuto, non
avevo portato altro che sventura e distruzione nella vita delle
giovani donne e dei giovani uomini che avevo amato. Come
potevo credere di essere degno di Reyna?
Rimasi disteso sulla branda, tormentato da questi pensieri,
fino al tardo pomeriggio. Alla fine rinunciai all’idea di
riposare. Raccolsi le mie cose: l’arco e la faretra, l’ukulele e lo
zaino, e uscii. Mi serviva una guida, e riuscivo a pensare a un
solo modo per ottenerla.
14

Freccia restia

Oh, donami il permesso

Di svignarmela

Avevo il Campo di Marte tutto per me.


Dato che non c’erano giochi di guerra in programma quella
sera, potevo spassarmela in quello squallore finché volevo,
ammirando rottami di bighe, merlature franate, fosse fumanti e
trincee zeppe di picche affilate. Un’altra passeggiata romantica
al tramonto sprecata perché non avevo nessuno con cui
condividerla.
Mi arrampicai su una vecchia torre d’assedio e mi sedetti di
fronte alle colline settentrionali. Con un respiro profondo,
frugai nella faretra e tirai fuori la Freccia di Dodona. Era da
diversi giorni che non parlavo con il mio esasperante e sagace
dardo, e consideravo la cosa una vittoria; ma, in quel
momento, che gli dei mi assistessero, non sapevo a chi altri
rivolgermi.
«Ho bisogno di aiuto» le dissi.
La freccia rimase muta, forse sbigottita per la mia
ammissione. O forse avevo tirato fuori la freccia sbagliata e
stavo parlando con un oggetto inanimato.
Alla fine l’asta vibrò nella mia mano. La sua voce mi
risuonò nella mente come un diapason. «TU DICI IL VERO.
MA COSA INTENDI DI PRECISO?»
Il suo tono era meno derisorio del solito. La cosa mi
spaventò.
«Io… dovrei mostrarmi forte» dissi. «Secondo Lupa, dovrei
salvare tutti in qualche modo, altrimenti il branco… Nuova
Roma… morirà. Ma come faccio?»
Raccontai alla freccia tutto quello che era successo negli
ultimi giorni: l’incontro con gli eurynomoi, i sogni con gli
imperatori e Tarquinio, la conversazione con Lupa, la missione
che il Senato ci aveva affidato. Con mia sorpresa, fu un
sollievo vuotare il sacco. Considerato che non aveva orecchie,
la freccia era un’ottima ascoltatrice. E non aveva mai l’aria
annoiata, scioccata o disgustata, perché non aveva una faccia.
«Ho attraversato il Tevere proprio come diceva la profezia»
conclusi, tirando le somme. «Ora come dovrei “ballare”? C’è
un modo per resettare questo corpo mortale?»
La freccia ronzò. «RIFLETTERE IO DEBBO.»
«Tutto qui? Non mi dai neanche un consiglio? Un
commento stizzito?»
«ORSÙ, LESTER, CHE SMANIA! RIFLETTERE IO
DEBBO. DAMMI TEMPO.»
«Ma non ce l’ho, il tempo! Andremo alla tomba di
Tarquinio fra…» Lanciai un’occhiata verso ovest, dove il sole
stava cominciando a calare dietro le colline. «Praticamente
adesso!»
«L’ULTIMA TUA SFIDA NON SARÀ CODESTO
VIAGGIO NELLA TOMBA. A MENO CHE SCHIFO NON
FARAI NELLA PIÙ TERRIBIL GUISA.»
«E questo dovrebbe incoraggiarmi?»
«NON COMBATTERE IL RE» disse la freccia. «ODI CIÒ
CHE ABBISOGNA DI SAPER E POI… SVIGNATELA.»
«Mi hai appena detto di… svignarmela?»
«LA MIA FAVELLA CERCA DI ESSER CHIARA, SON
QUI A ELARGIRTI UN DONO, EPPUR TU TI LAMENTI.»
«Apprezzo i doni come chiunque altro. Ma, se devo
contribuire a questa missione e non limitarmi a starmene
rintanato in un angolo, devo sapere come…» Mi si incrinò la
voce. «Come posso tornare a essere me.»
La vibrazione della freccia risuonò quasi come le fusa di un
gatto che cerchi di lenire un umano malato. «CERTO TU SEI
CHE QUESTO È IL TUO DESIO?»
«Che vuoi dire?» replicai. «È il senso di ogni cosa! Sto
facendo tutto questo per…»
«Stai parlando con una freccia?» chiese una voce alle mie
spalle.
Ai piedi della torre d’assedio c’era Frank Zhang. Accanto a
lui, Annibale l’elefante pestava con impazienza le zampe nel
fango.
«Ciao» gracidai, con la voce ancora incrinata
dall’emozione. «Stavo soltanto… Questa freccia dà consigli
profetici. Parla… nella mia testa.»
Che gli dei lo benedicano, Frank riuscì a restare
impassibile. «Okay. Posso andarmene se…»
«No, no.» Feci scivolare la freccia nella faretra. «Ha
bisogno di tempo per riflettere. Tu che ci fai qui?»
«Porto a spasso l’elefante.» Il figlio di Marte indicò
Annibale, nel caso mi chiedessi di quale elefante parlasse.
«Diventa molto irrequieto quando non ci sono i giochi di
guerra. Se ne occupava Bobby, ma…» Frank scrollò le spalle
con aria impotente.
Afferrai il senso: Bobby era caduto in battaglia. Era rimasto
ucciso o… forse peggio.
Annibale emise un brontolio profondo. Avvolse la
proboscide intorno a un ariete spezzato, lo raccolse e cominciò
a batterlo a terra come il pestello di un mortaio.
Ripensai a Livia, la mia amica elefantessa della Waystation,
a Indianapolis. Anche lei era affranta dal dolore, dopo aver
perso il proprio compagno nei brutali giochi di Commodo. Se
fossimo sopravvissuti alla battaglia imminente, forse avrei
potuto presentarle Annibale. Sarebbero stati una bella coppia.
Mi mollai uno schiaffo interiore. Che mi saltava in mente?
Avevo fin troppe preoccupazioni per mettermi a progettare
incontri romantici fra pachidermi.
Scesi dalla torre, facendo attenzione a proteggere la pancia
bendata.
Frank mi studiò, forse preoccupato per la rigidità dei miei
movimenti. «Pronto per la missione?»
«Qualcuno ha mai risposto di sì?» replicai.
«Non hai tutti i torti.»
«E tu e Reyna che farete mentre noi non ci siamo?»
Frank si passò una mano tra i capelli a spazzola. «Tutto il
possibile. Puntelleremo le difese della valle. Chiederemo a
Ella e Tyson di continuare a lavorare sui Libri Sibillini.
Manderemo le aquile a perlustrare la costa. Continueremo a
far esercitare la legione in modo che non pensino troppo a ciò
che sta arrivando. Ma, soprattutto, cercheremo di rassicurare i
legionari che andrà tutto bene.»
“In altre parole, mentirete” pensai, anche se era
un’osservazione amara e poco gentile.
Annibale ficcò l’ariete in verticale dentro un pozzo. Diede
qualche colpetto affettuoso al tronco di legno dell’arma come
a dire: “Ecco qua, piccolino. Adesso puoi ricominciare a
crescere”. Perfino l’elefante era un inguaribile ottimista.
«Non so come fai a restare così fiducioso dopo tutto quello
che è successo» confessai.
Frank tirò un calcio a un sasso. «Qual è l’alternativa?»
«Un crollo nervoso? La fuga?» suggerii. «Considera che
questa faccenda della mortalità è una cosa nuova per me.»
«Be’, non posso dire di non averci pensato… ma non sono
scelte possibili quando sei un pretore.» Frank si scurì in viso.
«Però sono preoccupato per Reyna. Porta questo peso sulle
spalle da molto più tempo di me. Da anni più di me. E la fatica
è… non lo so. Vorrei poterla aiutare di più.»
Ripensai all’ammonimento di Venere: “Non oserai
avvicinarti a lei con la tua indegna, brutta faccia divina”. Non
sapevo cosa fosse più terrificante: l’idea che potessi
peggiorare la vita di Reyna, o che potessi renderle la vita
migliore.
Frank però fraintese la mia espressione preoccupata. «Ehi,
te la caverai. Hazel ti terrà al sicuro. È una semidea molto
potente.»
Annuii, cercando di inghiottire il saporaccio amaro che mi
era salito in bocca. Ero stanco del fatto che gli altri si
preoccupassero per la mia sicurezza. Avevo consultato la
freccia proprio perché speravo di capire come tornare a fare il
contrario: occuparmi io della sicurezza degli altri. Era così
facile quando avevo i miei poteri divini.
“Davvero?” domandò un’altra parte del mio cervello. “Hai
tenuto al sicuro la Sibilla? E Giacinto? E Dafne? E tuo figlio
Asclepio? Devo continuare?”
“Oh, chiudi il becco!” protestai.
«Hazel sembra più preoccupata per te» mi azzardai a dire.
«Ha accennato a certi numeri che avresti fatto in battaglia…»
Frank scrollò le spalle come per togliersi un cubetto di
ghiaccio da dentro la maglietta. «Ma quali numeri… Ho fatto
soltanto il mio dovere.»
«E il tuo pezzo di legno?» Indicai il sacchetto che gli
pendeva dalla cintura. «Non sei preoccupato di ciò che ha
detto Ella? A proposito di fuochi e ponti?»
Frank mi rivolse un mezzo sorriso. «Preoccuparmi, io?»
Infilò una mano nel sacchetto e, come se niente fosse, tirò
fuori il bastoncino a cui era legata la sua vita: un pezzo di
legno annerito grande quanto un telecomando della TV . Lo
lanciò in aria e lo riprese, e per poco non mi venne un colpo.
Tanto valeva strapparsi il cuore dal petto e mettersi a fare il
giocoliere con quello.
Perfino Annibale era imbarazzato. Si agitò sulle grosse
zampe e scosse la testa massiccia.
«Non dovresti chiuderlo nella cassaforte dei Principia?»
domandai. «O almeno rivestirlo con qualche sostanza ignifuga,
per esempio?»
«Il sacchetto è ignifugo. Grazie a Leo» rispose Frank.
«Hazel l’ha portato al posto mio per un po’. Abbiamo riflettuto
su altri possibili modi per proteggerlo. Ma, a dire il vero,
ormai ho imparato ad accettare il pericolo. Preferisco averlo
con me. Sai come funziona con le profezie. Più provi a
evitarle, meno ci riesci.»
Non potevo dargli torto. Eppure c’era una linea sottile fra
accettare il proprio destino e tentare la sorte.
«Immagino che Hazel, però, pensi che tu sia un po’
sconsiderato» dissi.
«Ne parliamo di continuo.» Frank fece scivolare il pezzetto
di legno nel sacchetto. «Ma, te lo assicuro, non ho nessuna
voglia di morire. Solo che non posso permettere alla paura di
trattenermi. Ogni volta che guido la legione in battaglia, devo
dare tutto in prima linea. È l’unico modo per impegnarsi al
cento per cento. Per vincere.»
«Tipico di Marte» osservai. «E, nonostante le mie molte
divergenze con lui, lo dico come un complimento.»
Frank annuì. «Sai, mi trovavo proprio qui quando Marte è
apparso sul campo di battaglia lo scorso anno, per reclamarmi
come figlio. Sembrano secoli fa.» Mi lanciò un rapido
sguardo. «Non riesco a credere di aver pensato…»
«Che tu fossi figlio mio? Ma come, ci assomigliamo
tanto!»
Frank non poté trattenere una risata. «Vedi di badare a te
stesso, okay? Non credo che riuscirei a sopportare un mondo
senza Apollo.»
Era così sincero che mi fece salire le lacrime agli occhi.
Avevo cominciato ad accettare che nessuno volesse il ritorno
di Apollo: né i miei colleghi divini, né i semidei, forse
nemmeno la mia freccia parlante. Eppure Frank Zhang credeva
ancora in me.
Prima che potessi fare qualcosa di imbarazzante – tipo
abbracciarlo, o scoppiare a piangere, o cominciare a credere di
valere qualcosa – scorsi le mie tre compagne di missione in
avvicinamento.
Lavinia indossava una maglietta del campo e un paio di
jeans strappati sopra una calzamaglia d’argento. Le sue
sneakers sfoggiavano lacci glitterati rosa in tono con i capelli,
scelti senza dubbio per essere molto, molto furtiva. Portava la
manubalista poggiata su una spalla.
Hazel aveva optato per un look un po’ più in stile ninja:
jeans neri e cardigan dello stesso colore. La grossa spatha era
appesa alla cintura. Mi ricordai che aveva una predilezione per
quell’arma perché a volte combatteva a cavallo di Arion, il
destriero immortale. Ahimè, dubitavo che potesse evocarlo per
la nostra impresa quel giorno. Un cavallo magico non ci
sarebbe stato di grande aiuto per aggirarci furtivi in una tomba
sotterranea.
Quanto a Meg… era vestita da Meg. Le scarpe da
ginnastica rosse e i leggings gialli cozzavano terribilmente con
la sua nuova maglietta con l’unicorno, che a quanto pareva era
decisa a consumare fino all’orlo. Si era messa dei cerotti sulle
guance, come una guerriera o una giocatrice di football. Forse
pensava che le dessero un’aria “da dura”, anche se erano
decorati con i disegnini di Dora l’Esploratrice.
«E quelli a che servono?» domandai.
«Per non farmi andare la luce negli occhi.»
«Tra poco sarà notte. E andiamo sottoterra.»
«Mi fanno sembrare minacciosa.»
«Neanche un po’.»
«Zitto» ordinò Meg. Perciò dovetti tacere.
Hazel sfiorò il gomito di Frank. «Posso parlarti un
secondo?»
Non era una vera domanda. Lo condusse fuori portata
d’orecchio, seguita da Annibale, il quale evidentemente
riteneva che la loro conversazione privata richiedesse la
presenza di un elefante.
«Ahi.» Lavinia si rivolse a me e Meg. «Mi sa che ne
avremo per un po’. Quando quei due cominciano a fare le
chiocce… giuro, se potessero rivestirsi di gommapiuma a
vicenda, lo farebbero.»
Il suo tono era in parte sarcastico, in parte malinconico,
come se desiderasse anche lei una fidanzata che volesse
rivestirla di gommapiuma. Come non capirla.
Hazel e Frank ebbero uno scambio colmo di
preoccupazione. Non sentivo una parola, ma non era difficile
immaginare cosa si stessero dicendo:
Sono preoccupata per te.
No, io sono preoccupato per te.
Ma io sono più preoccupata.
No, io sono più preoccupato.
Nel frattempo, Annibale batteva le zampe e sbruffava come
se si stesse divertendo.
Alla fine Hazel poggiò le dita su un braccio di Frank, quasi
che temesse di vederselo svanire davanti in una nuvola di
fumo. Poi tornò da noi con passo deciso. «Bene» annunciò con
la faccia cupa. «Andiamo a scovare questa tomba, prima che
cambi idea.»
15

Giostra o incubo?

Oh, bambini, giocate

È bellissima

«Bella serata per un’escursione» osservò Lavinia.


La cosa triste? Secondo me, diceva sul serio.
A quel punto, scarpinavamo sulle colline di Berkeley da più
di un’ora. Faceva fresco, eppure grondavo di sudore e avevo il
fiatone. Perché le colline dovevano essere in salita? Lavinia
non si accontentava di restare in pianura, oh no. Voleva
conquistare ogni vetta, chissà poi perché. E noi, come degli
sciocchi, le andavamo dietro.
Avevamo attraversato i confini del Campo Giove senza
problemi. Terminus non si era nemmeno fatto vivo per
controllare i nostri passaporti. Per il momento non ci avevano
accostato né ghoul né fauni accattoni.
Lo scenario era bello, dovevo ammetterlo. Il sentiero
serpeggiava tra cespugli di alloro e salvia profumata. Alla
nostra sinistra, una nebbia argentata e luminescente ricopriva
la baia di San Francisco. Di fronte a noi, le colline formavano
un arcipelago di tenebre nel deserto delle luci urbane. I parchi
regionali e le riserve naturali avevano protetto l’area, spiegò
Lavinia.
«Fate solo attenzione ai leoni di montagna» disse. «Ce ne
sono dappertutto, in queste colline.»
«Stiamo per affrontare i non-morti e ci dici di fare
attenzione ai leoni di montagna?» replicai.
Lavinia mi guardò come si guarda un povero scemo.
Aveva ragione, naturalmente. Con la fortuna che avevo,
non potevo escludere di aver fatto tutta quella strada,
combattuto mostri e imperatori malvagi, per finire ammazzato
da un gatto troppo cresciuto.
«Quanto manca?» chiesi.
«Di nuovo?» replicò Lavinia. «Stavolta non stai mica
trasportando una bara. Siamo a metà strada, più o meno.»
«A metà strada. E non avremmo potuto prendere una
macchina o un’aquila gigante o un elefante?»
Hazel Levesque mi diede una pacca sulle spalle. «Rilassati,
Apollo. A piedi attiriamo meno l’attenzione. E poi, è una
missione facile. La maggior parte delle mie erano del tipo:
“Vai in Alaska a combattere praticamente tutto ciò che incontri
per strada”. Oppure: “Naviga per mezzo mondo e soffri il mal
di mare per mesi”. Questa è solo: “Andate oltre la collina a
controllare una giostra”.»
«Una giostra infestata di zombie» specificai. «E abbiamo
superato più di una collina.»
Hazel lanciò un’occhiata a Meg. «Si lamenta sempre così
tanto?»
«Prima frignava molto di più.»
Hazel fischiò piano.
«Lo so» concordò Meg. «È un bambinone.»
«Come, prego?!?»
«Sssh!» Lavinia fece scoppiare un palloncino gigantesco.
«Dobbiamo essere molto furtivi, ricordate?»
Proseguimmo lungo il sentiero per un’altra ora o giù di lì.
Superammo un lago argentato nascosto fra le colline, e non
potei fare a meno di pensare che mia sorella avrebbe adorato
quel posto. Oh, quanto avrei voluto vederla comparire con le
sue Cacciatrici!
Eravamo molto diversi, ma Artemide mi capiva. Okay,
okay, diciamo che mi sopportava. La maggior parte del tempo.
E va bene, mi sopportava per un po’. Quanto desideravo
rivedere il suo bellissimo e detestabile viso. Ecco che razza di
patetico cuore solitario ero diventato.
Meg camminava a pochi metri da me, di fianco a Lavinia,
per condividere le sue gomme e parlare di unicorni. Hazel
avanzava al mio fianco, anche se avevo la sensazione che lo
facesse solo per controllare che non svenissi per strada.
«Non stai un granché bene» notò.
«Da cosa l’hai capito? Il sudore freddo? Il respiro corto?»
Nel buio, gli occhi dorati di Hazel mi ricordavano quelli di
un gufo: sembrava estremamente all’erta, pronta a volare via o
attaccare a seconda del bisogno. «Come va la ferita?»
«Meglio» risposi, anche se stava diventando sempre più
difficile crederci.
«Basta che non ti fai più graffiare, va bene?» Hazel si rifece
la coda, ma era una battaglia persa. Aveva i capelli così lunghi,
ricci e folti che continuavano a sfuggire all’elastico. «C’è
qualcos’altro che puoi dirmi su Tarquinio? Punti deboli? Zone
d’ombra? Cose che non sopporta?»
«Non vi insegnano Storia romana durante gli addestramenti
della legione?»
«Be’, sì. Ma forse mi sono distratta durante le lezioni.
Andavo alla scuola cattolica a New Orleans, negli anni Trenta.
Sono bravissima a non ascoltare gli insegnanti.»
«Mmm… ti capisco. Socrate. Molto brillante. Ma i suoi
gruppi di discussione non erano propriamente uno spasso.»
«Allora, Tarquinio.»
«Giusto. È assetato di potere. Arrogante. Violento. Capace
di uccidere chiunque gli intralci la strada.»
«Come gli imperatori.»
«Ma senza alcuna forma di raffinatezza. Tarquinio era
anche ossessionato dai progetti edilizi. Fu lui a cominciare i
lavori del tempio di Giove. Oltre che le fogne principali di
Roma.»
«Aspirava alla fama eterna.»
«I suoi sudditi a un certo punto erano così sfiniti dalle tasse
e dai lavori forzati che si ribellarono.»
«Non amavano scavare le fogne? Chissà perché.»
Capii che Hazel non puntava tanto alle mie informazioni,
quanto piuttosto a distrarmi dalle mie ansie. Lo apprezzavo,
ma faticavo a ricambiare il suo sorriso. Continuavo a pensare
alla voce di Tarquinio che parlava attraverso quel ghoul nel
tunnel. Conosceva il nome di Hazel. Le aveva promesso un
posto speciale nella sua orda di non-morti.
«Tarquinio è astuto» dissi. «Come ogni vero psicopatico, è
sempre stato bravo a manipolare le persone. Quanto alle sue
debolezze, non so che dirti. Forse che non è capace di
fermarsi. Perfino dopo che l’avevano scacciato da Roma, non
ha mai smesso di provare a riconquistare la corona.
Continuava a stringere alleanze e ad attaccare la città, anche
quand’era chiaro che non aveva le forze sufficienti per
vincere.»
«A quanto pare, non si è ancora arreso.» Hazel scansò un
ramo di eucalipto che ci ingombrava la strada. «Be’, ci
atterremo al piano: entriamo di nascosto, investighiamo,
usciamo. Almeno Frank è al sicuro al campo.»
«Perché, per te la sua vita conta più della nostra?»
«No. Be’…»
«Puoi fermarti al no.»
Hazel si strinse nelle spalle. «È solo che Frank sembra
cercare il pericolo, ultimamente. Non ti ha raccontato cosa ha
fatto durante la Battaglia della Luna Nuova, vero?»
«Ha detto che l’esito della battaglia si è rovesciato sul
Piccolo Tevere. Agli zombie non piace l’acqua corrente.»
«È stato Frank a rovesciare l’esito della battaglia, quasi
tutto da solo. I semidei gli cadevano intorno come mosche.
Non ha smesso di combattere… mutando forma di continuo.
Prima un serpente gigantesco, poi un drago, poi un
ippopotamo.» Hazel rabbrividì. «Come ippopotamo è
terrificante. Quando io e Reyna siamo riuscite ad arrivare con
i rinforzi, il nemico era già in ritirata. Frank non ha avuto
paura. E io…» La sua voce si fece tesa. «Io non voglio
perderlo. Soprattutto dopo quello che è successo a Jason.»
Cercai di riconciliare quella versione di Frank Zhang,
ippopotamo temerario e macchina assassina, con il pretore
pacioccone e coccoloso che dormiva con un pigiama di seta
giallo ornato di aquile e orsi. Ripensai alla disinvoltura con cui
aveva lanciato in aria il suo pezzetto di legno. Mi aveva
assicurato di non avere alcuna voglia di morire. Ma, del resto,
neppure Jason Grace ce l’aveva.
«Non ho intenzione di perdere nessun altro» dissi a Hazel.
Mi fermai un attimo prima di pronunciare una promessa.
La dea del fiume Stige mi aveva scorticato vivo per i miei
giuramenti infranti. E mi aveva avvisato: tutti quelli che avevo
intorno avrebbero pagato per i miei crimini. Anche Lupa
aveva previsto altro sangue e sacrifici. Come potevo
promettere a Hazel che avrei protetto uno qualsiasi di noi?
Lavinia e Meg si fermarono così bruscamente che per poco
non finii loro addosso.
«Visto?» Lavinia indicò oltre un varco tra gli alberi. «Ci
siamo quasi.»
Nella valle sottostante, un parcheggio vuoto e un’area
picnic occupavano una radura che si apriva nel bosco di
sequoie. In fondo al prato, muta e immobile, si ergeva una
giostra, con le luci accese e fiammeggianti.
«Perché è accesa?» mi chiesi.
«Forse c’è qualcuno» disse Hazel.
«Mi piacciono le giostre!» esclamò Meg, e prese a scendere
il sentiero.
La giostra era sormontata da una cupola marroncina, simile a
un casco coloniale. Dietro una ringhiera di metallo gialla e
azzurra, le cavalcature scintillavano di migliaia di luci. Gli
animali dipinti gettavano ombre distorte nell’erba. I cavalli
sembravano pietrificati dal panico, con gli occhi sgranati e le
zampe anteriori impennate. La testa di una zebra era sollevata
come in agonia. Un gallo gigante mostrava la cresta rossa e
tendeva le zampe artigliate. C’era anche un cavalluccio marino
come Arcobaleno, l’amico di Tyson, solo che era un pesce
pony con un brutto ghigno sul muso. Che razza di genitori
avrebbero mai fatto cavalcare quelle creature infernali ai loro
bambini? Forse Zeus.
Ci avvicinammo con cautela, ma non comparve nulla a
ostacolarci, né vivo, né morto. Il posto sembrava vuoto, solo
inspiegabilmente acceso.
Le spade scintillanti di Meg facevano luccicare l’erba ai
suoi piedi. Lavinia stringeva la manubalista innescata. Con i
capelli rosa e quella corporatura allampanata, avrebbe potuto
benissimo salire di nascosto sulla giostra e mescolarsi tra gli
animali, ma decisi di non condividere quell’osservazione: non
volevo farmi sparare. Hazel aveva preferito non sguainare la
spada. Perfino a mani nude, irradiava più pericolo di noi tre
messi insieme.
Mi chiesi se non fosse il caso di tirare fuori l’arco. Poi
abbassai lo sguardo e mi resi conto di avere istintivamente già
approntato il mio ukulele da combattimento. Bene. Potevo
contribuire con un bel motivetto allegro se ci fossimo trovati
in battaglia. Contava come atto di eroismo?
«C’è qualcosa che non va» mormorò Lavinia.
«Tu credi?» Meg si accovacciò. Mise a terra una delle
spade e toccò l’erba con la punta delle dita: la sua mano fece
increspare il prato come un sasso gettato in uno stagno. «C’è
qualcosa che non va nel terreno» annunciò. «Le radici non
vogliono arrivare in profondità.»
Hazel inarcò le sopracciglia. «Sai parlare con le piante?»
«Non è proprio parlare» rispose Meg. «Però sì. Nemmeno
agli alberi piace questo posto. Stanno cercando di crescere il
più lontano possibile dalla giostra.»
«Mi sa che non sono tanto veloci» osservai.
Hazel studiò i dintorni. «Vediamo cosa riesco a scoprire
io.» Si inginocchiò accanto al basamento della giostra e
schiacciò il palmo contro il cemento. Non ci furono
increspature, né boati, né scosse; ma, dopo aver contato fino a
tre, Hazel allontanò la mano. Barcollò all’indietro, rischiando
di inciampare su Lavinia. «Oh, dei.» Tremava in tutto il corpo.
«C’è… un’enorme rete di gallerie qui sotto.»
Mi si seccò la bocca. «Parte del Labirinto?»
«No, non credo. Sembra autonoma. La struttura è antica,
ma… non è qui da molto. Non ha senso, lo so.»
«Sì, invece» replicai. «La tomba si è spostata.»
«O è cresciuta altrove» suggerì Meg. «Come una talea. O
una spora fungina.»
«Che schifo» commentò Lavinia.
Hazel si strinse nelle braccia. «Questo posto è pieno di
morte. Voglio dire… sono una figlia di Plutone. Sono stata
negli Inferi. Ma questo luogo in qualche modo è peggio.»
«Non mi piace» borbottò Lavinia.
Guardai il mio ukulele, rimpiangendo di non essermi
portato uno strumento più grande dietro cui nascondermi. Un
contrabbasso, magari. «Come facciamo a entrare?» chiesi.
Speravo che la risposta fosse: “Ops, non possiamo”.
«Laggiù.» Hazel indicò una sezione di cemento che non
sembrava diversa dal resto.
La seguimmo.
Passò le dita sopra la superficie scura, scoprendo
scanalature argentate e lucenti che disegnavano i contorni di
una lastra rettangolare delle dimensioni di una bara. Oh, ma
perché dovevo fare proprio un’analogia del genere?
Lasciò la mano sospesa al centro del rettangolo. «Credo di
dover scrivere qualcosa qui. Una combinazione, forse?»
«Per aprire la sua porta, due-cinquanta-quattro» ricordò
Lavinia.
«Aspetta!» esclamai. «Ci sono un sacco di modi per
scrivere due-cinquanta-quattro.»
Hazel annuì. «Proviamo con i numeri romani, allora?»
«Sì. Ma duecentocinquantaquattro si scrive in modo diverso
da due-cinquanta-quattro.»
«Allora cosa dobbiamo scrivere?» chiese Meg.
Cercai di ragionare. «Tarquinio avrà scelto quel numero per
un motivo. Qualcosa che lo riguarda.»
Lavinia fece scoppiare un piccolo palloncino rosa. «Tipo
quando usi la data del tuo compleanno come password?»
«Esatto» confermai. «Ma dubito che userebbe la data del
compleanno per la sua tomba. Forse la data della morte? Solo
che non torna. Nessuno sa di preciso quando sia morto, perché
era in esilio e fu sepolto in segreto, ma più o meno doveva
essere il 495 avanti Cristo, non il 254.»
«Stai usando il sistema di datazione sbagliato» obiettò Meg.
La guardammo stupiti.
«Che c’è?» replicò lei. «Sono cresciuta nel palazzo di un
imperatore. Tutte le date erano calcolate in base alla
fondazione di Roma. Ab Urbe condita. Giusto?»
«Santi numi!» esclamai. «Bravissima, Meg. 254 anni dalla
fondazione di Roma sarebbe… vediamo, il 500 ab Urbe
condita, che è piuttosto vicino al 495.»
« Abbastanza da rischiare?»
«Sì» risposi, cercando di attingere a tutta la sicurezza del
mio Frank Zhang interiore. «Scrivilo come una data romana:
duecento e cinquantaquattro. CCLIV.»
Hazel lo fece. I numeri d’argento si illuminarono. L’intera
lastra di pietra si dissolse in fumo, rivelando dei gradini che si
calavano nelle tenebre.
«Bene, allora» annunciò la figlia di Plutone. «Ho la
sensazione che la prossima parte sarà più difficile. Seguitemi.
Mettete i piedi solo dove li metto io. E non fate rumore.»
16

Nuovo Tarquinio

Come il vecchio Tarquinio

Con meno carne

Perciò… niente canzoncine allegre con il mio ukulele.


E va bene.
Seguii Hazel senza fiatare e imboccai le scale per calarmi
nella tomba-carosello.
Mentre scendevamo, mi chiesi perché Tarquinio avesse
scelto di risiedere proprio sotto una giostra. Sua moglie aveva
investito il proprio stesso padre con il carro, sotto i suoi occhi.
Forse gli piaceva l’idea di un circuito di cavalli e mostri che
correvano senza fine sopra il luogo del suo estremo riposo,
facendo la guardia con i musi inferociti. Anche se poi a
cavalcarli erano soprattutto bambini mortali (che, immagino,
erano feroci a modo loro). Tarquinio aveva un crudele senso
dell’umorismo. Gli piaceva smembrare le famiglie,
trasformare la loro gioia in angoscia. Non si faceva scrupolo di
usare i bambini come scudi umani. Senza dubbio aveva
trovato divertente collocare la sua tomba sotto quella colorata
attrazione.
Sentivo vacillare i piedi dal terrore. Mi dissi che c’era un
motivo per cui mi stavo calando nel covo di quell’assassino. In
quel momento non ricordavo quale fosse, ma doveva essercene
uno.
I gradini terminavano in un lungo corridoio, con le pareti di
pietra ornate di file di maschere mortuarie di gesso. All’inizio,
non mi sembrò strano. La maggior parte dei Romani
benestanti conservava una raccolta di maschere del genere per
onorare i propri avi. Poi notai le espressioni. Come gli animali
della giostra in superficie, i loro volti di gesso erano pietrificati
in attimi di panico, agonia, furia e terrore. Quelli non erano avi
onorati. Erano trofei.
Lanciai un’occhiata a Meg e Lavinia dietro di me. Meg, ai
piedi delle scale, bloccava ogni possibile ritirata. L’unicorno
glitterato della sua maglietta mi sorrise beffardo.
Lavinia incrociò il mio sguardo come a dire: “Sì, queste
maschere fanno orrore. Ora datti una mossa”.
Seguimmo Hazel lungo il corridoio. Ogni fruscio, ogni
rintocco metallico delle nostre armi riecheggiava contro il
soffitto a volta. Di sicuro, sopra di noi, a diversi chilometri di
distanza, il Laboratorio Sismico Nazionale di Berkeley stava
registrando il mio battito cardiaco sui suoi sismografi e
metteva in guardia la popolazione sull’arrivo di possibili
terremoti.
Il tunnel si diramò varie volte, ma Hazel sembrava sempre
sapere in quale direzione andare. Di quando in quando si
fermava, si voltava verso di noi e indicava con urgenza un
punto del pavimento, per ricordarci di non deviare mai dai suoi
passi. Non sapevo cosa sarebbe successo se non avessi
obbedito, ma non avevo nessun desiderio che la mia maschera
si aggiungesse alla collezione di Tarquinio.
Dopo quelle che mi parvero ore, cominciai a udire uno
sgocciolio da qualche parte davanti a noi. Il tunnel si apriva in
una stanza circolare che sembrava una grande cisterna. Il
pavimento si riduceva a uno stretto percorso di pietra che
attraversava una pozza d’acqua scura. Sulla parete opposta,
appesi ad alcuni ganci, c’erano cinque o sei cesti di vimini
simili a trappole per aragoste, ciascuno dei quali con
un’apertura circolare grande abbastanza per contenere… oh,
dei. Per contenere la testa di una persona.
Mi uscì una specie di uggiolio dalla bocca.
Hazel si voltò a guardarmi e mimò con le labbra: “Che
c’è?”.
I brandelli di una storia riemersero dalla melma del mio
cervello: Tarquinio aveva giustiziato uno dei suoi nemici
affogandolo in una vasca sacra. Prima gli aveva legato le mani,
poi gli aveva infilato la testa in una gabbia di vimini e infine
aveva lasciato cadere a poco a poco dei sassi nella gabbia,
finché l’uomo non ce l’aveva più fatta a tenere la testa fuori
dall’acqua.
A quanto pareva, il re apprezzava ancora quella particolare
forma di intrattenimento.
Scossi la testa. “Meglio che tu non lo sappia.”
Hazel, da saggia ragazza qual era, mi prese in parola. E ci
fece proseguire. Ma un attimo prima di entrare nell’ambiente
successivo sollevò una mano per avvertirci.
Ci fermammo. Seguendo la direzione del suo sguardo,
riuscii a distinguere due scheletri di guardia all’estremità della
stanza, ai fianchi di un arco scolpito nella pietra. Le guardie
erano l’una di fronte all’altra e indossavano gli elmi da guerra
completi, e probabilmente era questo il motivo per cui non si
erano ancora accorti di noi. Se avessimo fatto il minimo
rumore, se si fossero voltati dalla nostra parte per un
qualunque motivo, ci avrebbero visti.
Erano a una ventina di metri di distanza. Il pavimento era
cosparso di vecchie ossa umane. Coglierli di sorpresa era
impossibile. Erano guerrieri scheletro, le forze speciali del
mondo dei non-morti. Quanta voglia avevo di combatterli?
Meno di zero. Rabbrividii, chiedendomi chi fossero stati prima
che gli eurynomoi li spolpassero fino all’osso.
Incrociai lo sguardo di Hazel, poi indicai la direzione da cui
eravamo venuti. “Ritirata?”
Lei scosse la testa. “Aspetta.” Chiuse gli occhi,
concentratissima. Una goccia di sudore le scivolò lungo una
tempia.
Le due guardie scattarono sull’attenti. Si voltarono verso
l’arco di pietra e lo attraversarono con passo marziale, l’una di
fianco all’altra, scomparendo nell’oscurità.
A bocca aperta, Lavinia per poco non lasciò cadere la
gomma. «Come hai…?» bisbigliò.
Hazel si portò un dito alle labbra, poi con un gesto ci ordinò
di seguirla.
La stanza adesso era vuota, a parte le ossa sparse sul
pavimento. Forse i guerrieri scheletro andavano lì a procurarsi
le parti di ricambio. Sopra l’arco di pietra, lungo tutta la
parete, c’era un ballatoio a cui si accedeva da due rampe di
scale laterali. Le ringhiere erano intricati tralicci fatti di ossa
umane ritorte, cosa che non mi fece nessunissimo effetto. Sul
ballatoio si aprivano due soglie: a parte l’arco principale
imboccato dai nostri scheletrici amici, erano le uniche altre
uscite.
Hazel ci fece salire dalla rampa di sinistra. Poi, per ragioni
note a lei sola, attraversò tutto il ballatoio e imboccò la soglia
a destra. La seguimmo.
In fondo al breve corridoio, cinque o sei metri più avanti,
una luce di fiamme illuminava un altro ballatoio con una
ringhiera di ossa, identico a quello che avevamo appena
lasciato. Non riuscivo a scorgere molto della stanza su cui si
affacciava, ma era chiaramente occupata. Una voce profonda
riecheggiava fino a noi… una voce che conoscevo.
Meg fece scattare i polsi, ritraendo le spade negli anelli.
Non perché non fossimo in pericolo, ma perché capiva che
perfino quel poco di bagliore in più avrebbe potuto tradirci.
Lavinia si sfilò un telo incerato dalla tasca posteriore e lo
avvolse intorno alla manubalista. Hazel mi lanciò un’occhiata
di avvertimento del tutto inutile.
Sapevo cosa c’era poco più avanti. Tarquinio il Superbo e
la sua corte.
Mi accovacciai dietro il traliccio di ossa del ballatoio e sbirciai
la sala del trono sottostante, augurandomi disperatamente che
nessuno dei non-morti sollevasse lo sguardo e si accorgesse di
noi. O ci fiutasse. Oh, corpo umano, perché il tuo odore deve
essere così pungente dopo diverse ore di trekking?
Sulla parete opposta, fra due robusti pilastri di pietra, c’era
un sarcofago cesellato di bassorilievi che ritraevano mostri e
animali selvatici, molto simili alle cavalcature della giostra di
Tilden Park. Comodamente adagiata sul coperchio del
sarcofago c’era la creatura un tempo nota come Tarquinio il
Superbo. Le vesti, che non vedevano acqua da diverse migliaia
di anni, gli pendevano addosso in brandelli ammuffiti. Il corpo
avvizzito era ridotto a un nero scheletro. Chiazze di muschio
crescevano sulla mascella e sul cranio, come una forma
grottesca di barba e capelli. Sottili volute di baluginante gas
purpureo si insinuavano nella gabbia toracica, si
attorcigliavano alle giunture, salivano fino al collo ed
entravano nel teschio, accendendo un’infuocata luce violetta
nelle orbite vuote.
Qualunque cosa fosse quella luce, sembrava tenerlo
insieme. Probabilmente non era la sua anima; dubitavo che
Tarquinio ne avesse mai avuta una. Più plausibilmente era solo
odio e ambizione, un rifiuto testardo di arrendersi perfino di
fronte al fatto di essere morto da un tempo infinito.
Il re sembrava impegnato a dare una lavata di capo ai due
scheletri che Hazel aveva manipolato.
«Vi ho forse chiamati?» domandò. «No, non l’ho fatto.
Allora perché siete qui?»
Gli scheletri si guardarono come per chiedersi la stessa
cosa.
«Tornate ai vostri posti!» gridò Tarquinio.
Le guardie tornarono da dove erano venute, a passo di
marcia.
Così restavano solo tre eurynomoi e una mezza dozzina di
zombie in giro per la stanza, anche se avevo la sensazione che
ce ne fossero altri direttamente sotto il ballatoio. La cosa
peggiore: gli zombie – vrykolakai, o comunque vogliate
chiamarli – erano ex legionari romani, con l’armatura
ammaccata e i vestiti strappati, la pelle gonfia, le labbra blu,
gli squarci delle ferite aperti sul petto e sulle membra.
Il dolore della mia ferita divenne quasi intollerabile. Le
parole della profezia del Labirinto di fuoco giravano in loop
nella mia testa. Apollo si troverà di fronte alla morte, Apollo si
troverà di fronte alla morte…
Accanto a me, Lavinia tremava, con gli occhi pieni di
lacrime. Aveva lo sguardo fisso su uno dei legionari morti: un
giovane dai lunghi capelli castani, con un lato del viso
ustionato. Un ex amico, intuii. Hazel le strinse forte una spalla;
forse per consolarla, forse per ricordarle di restare zitta.
Meg si inginocchiò al mio fianco. Avrei voluto un
pennarello indelebile per spegnere definitivamente quegli
strass scintillanti dai suoi occhiali. Sembrava intenta a contare
il numero dei nemici, come per calcolare quanto ci avrebbe
messo ad abbatterli tutti. Avevo molta fiducia nelle sue abilità
di spadaccina, almeno quando non era esausta dopo aver
piegato eucalipti al suo volere, ma sapevo pure che quei
nemici erano troppi, e troppo potenti.
Le toccai un ginocchio per richiamare la sua attenzione.
Scossi la testa e mi diedi dei colpetti a un orecchio, per
ricordarle che eravamo lì per spiare, non per combattere.
Mi fece la linguaccia.
Che posso dire, eravamo fatti così.
Sotto di noi, Tarquinio brontolò qualcosa a proposito
dell’impossibilità di trovare dei bravi servitori. «Qualcuno ha
visto Celio? Dove si è cacciato? CELIO!»
Un attimo dopo, un eurynomos entrò strascicando i piedi da
un tunnel laterale. Si inginocchiò al cospetto del re e strillò:
«MANGIARE CARNE! PREEESTO!».
Tarquinio sibilò. «Celio, ne abbiamo già discusso.
Controllati!»
Celio si diede uno schiaffo. «Sì, mio re. Sono terribilmente
dispiaciuto.» La sua voce adesso aveva un accento britannico e
misurato. «La flotta sta viaggiando in orario. Dovrebbe
arrivare fra tre giorni, in tempo per la luna di sangue.»
«Molto bene. E le nostre truppe?»
«MANGIARE CARNE!» Celio si mollò un altro schiaffo.
«Chiedo venia, sire. Sì, è tutto pronto. I Romani non
sospettano nulla. Quando si allontaneranno per affrontare gli
imperatori, noi colpiremo!»
«Bene. È imperativo prendere la città come prima cosa.
Quando arriveranno gli imperatori, voglio averne già il
controllo! Che brucino pure il resto della baia se lo desiderano,
ma la città è mia.»
Meg strinse i pugni così forte da sbiancare le nocche quanto
le ossa della ringhiera. Dopo le recenti esperienze con le driadi
stravolte dal caldo nella California del Sud, era diventata un
po’ sensibile ogni volta che un megalomane minacciava di
incendiare il loro ambiente.
Le rivolsi la mia più seria occhiata da “mantieni la calma”,
ma lei non volle guardarmi.
Sotto di noi, Tarquinio stava dicendo: «E la divinità
ammutolita?».
«Molto ben custodita, sire» assicurò Celio.
Il sovrano si fermò a riflettere. «Mmm… Raddoppiate
comunque lo stormo. Dobbiamo essere sicuri.»
«Ma, mio re, i Romani non possono di certo sapere della
Sutro…»
«Silenzio!» ordinò Tarquinio.
Celio piagnucolò. «Sì, mio re. CARNE! Chiedo venia, mio
re. MANGIARE CARNE!»
Tarquinio sollevò il teschio purpureo verso il nostro
ballatoio.
Pregai che non ci avesse visto. Lavinia smise di masticare
la gomma. Hazel sembrava concentratissima, forse stava
cercando di convincerlo a distogliere lo sguardo. Io contai
mentalmente fino a dieci.
Al dieci, Tarquinio ridacchiò. «Celio, sembra che potrai
mangiare la tua carne prima di quanto pensassi.»
«Padrone?»
«Abbiamo degli intrusi.» Tarquinio alzò il tono di voce.
«Scendete, voi quattro! Venite al cospetto del vostro nuovo
re!»
17

Meg, non farlo… MEG!

Okay, facci ammazzare

Va bene così

Sperai che ci fossero altri quattro intrusi nascosti da qualche


parte sul nostro ballatoio. Tarquinio si stava di certo
rivolgendo a loro, non a noi.
Con il pollice, Hazel indicò l’uscita, nel gesto universale
per dire: “VAMOOOS!”. Lavinia cominciò a sgattaiolare via a
quattro zampe. Stavo per seguirla quando Meg rovinò ogni
cosa.
Si alzò in tutta la sua altezza (che trattandosi di Meg, non
era poi molta), evocò le sue spade e balzò giù scavalcando la
ringhiera.
«MEEEEEEEEEG!» urlai, a metà fra il grido di guerra e
“Che diavolo stai facendo, per Ade?”. Senza neanche
rendermene conto, ero già scattato in piedi, arco alla mano,
freccia incoccata. Ne feci volare una, poi un’altra, e un’altra
ancora.
Hazel borbottò un’imprecazione che una vera signora degli
anni Trenta non avrebbe mai dovuto conoscere, sguainò la
spada da cavalleria e si gettò nella mischia, per non lasciare
sola Meg. Lavinia si alzò e cercò di scoprire la manubalista,
ma l’incerata si era impigliata nel teniere.
Altri non-morti si fiondarono numerosi su Meg da sotto il
ballatoio. Le sue spade gemelle roteavano e scattavano a
destra e a manca, mozzando arti e teste, riducendo gli zombie
in polvere. Hazel decapitò Celio e si voltò ad affrontare altri
due eurynomoi.
L’ex legionario con il volto ustionato l’avrebbe pugnalata
alle spalle, ma Lavinia liberò la manubalista appena in tempo:
il dardo dorato colpì lo zombie tra le scapole, facendolo
implodere in un mucchietto di vestiti e armatura. «Scusa,
Bobby!» esclamò Lavinia con un singhiozzo.
Presi l’appunto mentale di non rivelare mai ad Annibale
come il suo ex addestratore aveva incontrato la fine.
Continuai a scoccare frecce finché nella faretra rimase
soltanto la Freccia di Dodona. Ripensandoci, mi resi conto che
avevo scoccato una decina di frecce in trenta secondi, e tutte
erano andate a segno. Mi fumavano letteralmente le dita. Non
tiravo una raffica del genere da quand’ero un dio.
La cosa mi avrebbe dovuto rallegrare, ma qualunque forma
di soddisfazione fu troncata di netto dalla risata di Tarquinio.
Mentre Hazel e Meg abbattevano i suoi ultimi tirapiedi, il re si
alzò dal sarcofago e applaudì. Non c’è niente di più sinistro
del battito lento di due mani scheletriche.
«Magnifico!» esclamò. «Oh, un gran bello spettacolo!
Sarete degli ottimi membri della mia squadra!»
Meg si lanciò all’attacco.
Il re non la toccò, ma con un semplice scatto della mano
una forza invisibile fece volare la ragazzina contro il muro
opposto. Le sue spade caddero a terra.
Un verso gutturale mi uscì dalla gola. Scavalcai la ringhiera
con un salto, atterrai sull’asta di una delle mie frecce (che sono
in tutto e per tutto infide come bucce di banana), scivolai e
caddi su un fianco. Non era stato uno dei miei ingressi più
eroici.
Nel frattempo, Hazel stava provando a correre verso
Tarquinio. Fu scaraventata via con un’altra esplosione di forza
invisibile.
La grassa risata del re riempì la stanza. Dai corridoi ai lati
del sarcofago ci giunse il clangore di armature e di passi
strascicati, sempre più vicino. Sopra di me, sul ballatoio,
Lavinia cercava furiosamente di armare la manubalista. Se
fossi riuscito a guadagnare un’altra ventina di minuti o giù di
lì, forse lei sarebbe riuscita a scoccare un altro dardo.
«Bene, Apollo» esordì Tarquinio, mentre riccioli di vapore
purpureo gli uscivano dalle orbite per insinuarsi nella bocca.
Che schifo. «Nessuno di noi due è invecchiato bene, vero?»
Mi batteva forte il cuore. Cercai delle frecce riutilizzabili,
ma trovai solo altre aste spezzate. Fui quasi tentato di usare la
Freccia di Dodona, ma non potevo rischiare di consegnare a
Tarquinio un’arma profetica. Le frecce parlanti potevano
essere torturate? Non volevo scoprirlo.
Meg si rimise in piedi. Sembrava illesa ma arrabbiata, come
di solito accadeva quando qualcuno la scaraventava contro un
muro. Immaginai che stessimo pensando la stessa cosa: quella
situazione era troppo familiare, ricordava troppo lo yacht di
Caligola quando Meg e Jason erano stati imprigionati dai
venti. Non potevo permettere che si presentasse un altro
scenario del genere. Ero stanco di monarchi malvagi che ci
lanciavano per aria come bambole di pezza.
Hazel si rialzò, ricoperta dalla testa ai piedi da polvere di
zombie. Di certo la cosa non poteva giovare al suo apparato
respiratorio. In un angolino del mio cervello, mi chiesi se non
potevamo domandare a Giustizia, la dea romana della legge, di
intentare una causa contro Tarquinio per condizioni mortuarie
nocive alla salute.
«Ragazzi, state indietro» disse Hazel.
Era lo stesso ordine che aveva dato nel tunnel che ci aveva
portati al campo, un attimo prima di far crollare il soffitto sul
mostro.
Tarquinio rise. «Ah, Hazel Levesque, i tuoi astuti trucchetti
con i sassi non funzioneranno qui. Questa è la sede del mio
potere! I miei rinforzi arriveranno a momenti. Sarà più facile
se non opporrete resistenza alla morte. Mi dicono che così è
meno doloroso.»
Sopra di me, Lavinia continuava ad armare la manubalista.
Meg raccolse le spade. «Scappiamo o combattiamo,
ragazzi?»
Dal modo in cui guardava Tarquinio, non era difficile
capire la sua preferenza.
«Oh, bambina, puoi provare a scappare, ma ben presto
combatterai al mio fianco con quelle tue splendide lame»
dichiarò il re. «Quanto ad Apollo… non andrà da nessuna
parte.» E incurvò le dita.
Era distante da me, ma la ferita nelle mie viscere si
contrasse, lanciandomi dolorosissime fitte nella cassa toracica
e all’inguine. Urlai. Mi si riempirono gli occhi di lacrime.
«Smettila!» gridò Lavinia. Saltò giù dal ballatoio e atterrò
accanto a me. «Cosa gli stai facendo?»
Meg attaccò di nuovo il re non-morto, forse sperando di
prenderlo in contropiede.
Senza nemmeno degnarla di uno sguardo, Tarquinio la
scaraventò via con un’altra esplosione di forza.
Hazel se ne stava là immobile e rigida come una colonna,
con gli occhi fissi sul muro alle spalle del re. Minuscole crepe
cominciarono a spandersi come una ragnatela sulla pietra.
«Ma come, Lavinia, non capisci?» rispose il re. «Sto
richiamando Apollo a casa!» Ghignò: l’unica espressione
facciale di cui era capace, considerato che non aveva la faccia.
«Il povero Lester mi avrebbe cercato comunque alla fine, dopo
che il veleno avesse invaso il suo cervello. Ma portarmelo qui
in anticipo… che bel regalo!» Strinse il pugno ossuto.
Il mio dolore triplicò. Emisi un gemito piagnucolante.
Vedevo rosso. Com’era possibile soffrire così tanto eppure non
morire?
«Lascialo stare!» urlò Meg.
Dai tunnel ai lati del sarcofago di Tarquinio, altri zombie
cominciarono a riversarsi nella stanza.
«Scappate.» Annaspai. «Filate via di qui.»
Adesso capivo i versi del Labirinto di fuoco: avrei
incontrato la morte nella tomba di Tarquinio, o un fato
peggiore della morte. Ma non avrei mai permesso che pure le
mie amiche morissero.
Testarde e irritanti com’erano, si rifiutarono di andarsene.
«Apollo è il mio servitore adesso, Meg McCaffrey» disse
Tarquinio. «Non dovresti dolerti per lui, davvero. È terribile
con le persone che ama. Chiedi alla Sibilla.» Il re mi squadrò
dalla testa ai piedi, mentre io mi contorcevo come un insetto
infilzato con uno spillo su un pannello di sughero. «Spero che
la Sibilla duri abbastanza a lungo da vederti umiliato. Per lei
potrebbe essere l’ultima goccia. E quando quei goffi
imperatori arriveranno, vedranno il vero terrore di un re di
Roma!»
Hazel emise un potente grido. Il muro alle spalle del re
crollò, portandosi dietro metà soffitto. Tarquinio e le sue
truppe scomparvero sotto una valanga di massi grandi quanto
mezzi d’assalto.
Il mio dolore si smorzò ai livelli di una semplice agonia.
Lavinia e Meg mi tirarono in piedi. Brutte linee di infezione
mi erano salite fino alle braccia. Probabilmente non era un
buon segno.
Hazel ci raggiunse barcollando. Aveva le cornee ingrigite
dallo sforzo. «Dobbiamo sbrigarci.»
Lavinia lanciò un’occhiata alla pila di macerie. «Ma non
è…?»
«Non è morto» confermò la figlia di Plutone, amareggiata.
«Sento che si agita là sotto, che cerca di…» Rabbrividì. «Non
ha importanza. Arriveranno altri non-morti. Andiamo!»
Hazel avanzava zoppicando e con il fiato grosso mentre ci
faceva di nuovo strada in una diversa serie di tunnel. Meg fece
da guardia alla nostra ritirata, abbattendo con le spade i pochi
zombie che ogni tanto capitavano sul nostro cammino. Lavinia
invece doveva sostenere la maggior parte del mio peso, ma era
molto più forte di quanto desse a vedere, nonché molto più
agile. Sembrava non avere problemi a trascinare la mia misera
carcassa per tutta la tomba.
Quanto a me, ero solo semicosciente di quanto mi accadeva
intorno. Il mio arco cozzava contro l’ukulele, producendo un
accordo aperto e stonato in armonia perfetta con il mio
cervello stordito.
Cos’era appena successo?
Dopo quello splendido attimo di maestria divina con l’arco,
la mia ferita aveva subito una bruttissima ricaduta, forse
terminale. Dovevo ammettere che non stavo affatto
migliorando. Tarquinio aveva parlato di un veleno che si
faceva a poco a poco strada nel mio cervello. Nonostante tutti
gli sforzi dei guaritori del campo, mi stavo trasformando, stavo
diventando una delle creature del re. Trovandomi di fronte a
lui, avevo accelerato il processo.
Tale consapevolezza avrebbe dovuto terrorizzarmi. Il fatto
che riuscissi a pensarci con tanto distacco era di per sé
preoccupante. La parte forte in medicina della mia mente
stabilì che stavo andando in shock. O che forse, sì, stavo
morendo.
Hazel si fermò all’incrocio di due corridoi. «Io non… non
lo so.»
«In che senso?» domandò Meg.
Le cornee di Hazel erano ancora del colore dell’argilla
bagnata. «Non riesco a capire di preciso dove dobbiamo
andare. Dovrebbe esserci un’uscita da queste parti. Siamo
vicini alla superficie ma… mi dispiace, ragazzi.»
Meg ritrasse le lame. «Non c’è problema. Fa’ la guardia.»
«Che stai facendo?» chiese Lavinia.
Meg toccò la parete più vicina. Il soffitto si mosse e si
incrinò.
Per un attimo mi passò davanti agli occhi l’immagine di noi
che finivamo sepolti sotto tonnellate di roccia, come
Tarquinio. Considerate le mie condizioni, non mi sembrò un
brutto modo per morire.
Invece innumerevoli radici di alberi si fecero strada fra le
crepe, si infittirono e spostarono le pietre. Perfino da ex dio
abituato alla magia, ne rimasi incantato. Le radici roteavano e
si attorcigliavano insieme, spingendo via la terra e facendo
entrare la fioca luce della luna, finché non ci trovammo ai
piedi di una sorta di scivolo lievemente inclinato – scavato
dalle radici? – costellato di punti di appoggio per i piedi e per
le mani.
Meg fiutò l’aria che veniva dall’alto. «Via libera, sembra.
Andiamo.»
Mentre Hazel faceva la guardia, Meg e Lavinia unirono le
forze per farmi arrampicare: l’una tirava, l’altra spingeva. Era
tutto poco dignitoso, ma il pensiero della manubalista mezza
carica di Lavinia che ciondolava da qualche parte vicino al
mio sensibile posteriore mi diede l’incentivo giusto per non
mollare.
Sbucammo ai piedi di una sequoia, nel cuore della foresta.
La giostra non si vedeva da nessuna parte. Meg aiutò Hazel a
salire, poi toccò il tronco della sequoia. Lo scivolo scavato
dalle radici si richiuse, subito sommerso dall’erba.
Hazel si reggeva in piedi a fatica. «Dove siamo?»
«Si va di qua» annunciò Lavinia. E mi caricò di nuovo in
spalla, ignorando le mie proteste.
Stavo bene, davvero. Stavo soltanto morendo un po’.
Avanzammo zoppicando lungo un sentiero, fra le imponenti
sequoie. Non riuscivo a scorgere le stelle né un qualche segno
utile a orientarmi. Non avevo idea della direzione in cui
stavamo andando, ma Lavinia proseguiva imperterrita.
«Come fai a sapere dove siamo?» le domandai.
«Te l’ho detto. Mi piace esplorare.»
“Deve proprio piacerle quella Quercia Velenosa” pensai per
l’ennesima volta. Poi mi chiesi se Lavinia semplicemente non
si sentisse più a casa nella natura che al campo. Lei e mia
sorella sarebbero andate molto d’accordo.
«Qualcuna di voi è ferita?» domandai. «I ghoul vi hanno
graffiate?»
Le ragazze scossero la testa.
«E tu?» Meg indicò la mia pancia. «Pensavo che stessi
migliorando.»
«Mi sa che sono stato troppo ottimista.» Avrei voluto
rimproverarla per com’era saltata giù dal ballatoio rischiando
di farci ammazzare tutti, ma non ne avevo le forze. E poi, a
guardarla bene, ebbi la sensazione che quella faccia scontrosa
potesse scoppiare in lacrime più in fretta di come si era
sgretolato il soffitto di Tarquinio.
Hazel mi studiò con sospetto. «A quest’ora avresti dovuto
essere guarito. Non capisco.»
«Lavinia, mi daresti una gomma?» domandai.
«Sul serio?» Si rovistò in tasca e me ne passò una.
«Hai una pessima influenza.» Con dita di piombo, riuscii a
scartare la gomma e a infilarmela in bocca. Era
disgustosamente dolce. Sapeva di rosa. Ma era comunque
meglio del veleno acido del ghoul che mi si stava gonfiando in
gola. Masticai, contento di potermi concentrare su qualcosa di
diverso dalle dita scheletriche di Tarquinio che si incurvavano
conficcandomi falci di fuoco nelle viscere. E quello che aveva
detto della Sibilla… No, non potevo trarne le conseguenze in
quel momento.
Dopo qualche centinaio di anni di tortuoso trekking,
arrivammo a un piccolo ruscello.
«Siamo vicini» disse Lavinia.
Hazel lanciò uno sguardo alle nostre spalle. «Sento che ci
stanno seguendo. Sono una decina. E sono veloci.»
Io non vedevo né udivo nulla, ma mi fidai di lei. «Voi
andate. Sarete più svelte senza di me.»
«Non esiste» disse Meg.
«Tieni, prendilo tu.» Lavinia mi porse a Meg come se fossi
un sacchetto della spesa. «Voi attraversate il ruscello e salite
quella collina. Da lì vedrete il Campo Giove.»
Meg si raddrizzò gli occhiali sudici. «E tu?»
«Li allontano.» Lavinia diede dei colpetti alla manubalista.
«È una pessima idea» dissi.
«È la mia specialità» replicò lei.
Non avrei saputo dire se si riferisse all’allontare i nemici o
alle pessime idee.
«Ha ragione» decise Hazel. «Fa’ attenzione, legionaria. Ci
vediamo al campo.»
Lavinia annuì e sfrecciò nel bosco.
«Sicura che sia la mossa più saggia?» chiesi a Hazel.
«No» ammise la figlia di Plutone. «Ma, qualunque cosa
faccia, Lavinia riesce sempre a tornare illesa. Ora vediamo di
riaccompagnarti a casa.»
18

Cucina Pranjal:

Lo zombie a fuoco lento

Bon appétit, oui!

Casa. Che parola magnifica.


Non avevo idea di cosa significasse, ma suonava bene.
Da qualche parte lungo il sentiero che ci riportava al
campo, la mia mente deve essersi staccata dal corpo. Non
ricordo di essere svenuto. Non ricordo quando abbiamo
raggiunto la valle. Ma, a un certo punto, la mia coscienza volò
via come un palloncino verso il cielo.
Sognai case. Ne avevo mai avuta veramente una?
Delo mi aveva dato i natali, ma solo perché mia madre
Latona, incinta, vi aveva trovato rifugio per sottrarsi all’ira di
Era. L’isola servì da santuario d’emergenza per me e mia
sorella, ma non la sentii mai come una vera casa, non più del
sedile posteriore di un taxi per un bambino nato durante la
corsa in ospedale.
Il Monte Olimpo? Avevo un palazzo, lassù. Ci andavo per
le feste comandate. Ma lo avevo sempre considerato
soprattutto il posto in cui mio padre viveva con la mia
matrigna.
Il Palazzo del Sole? Apparteneva a Helios, un tempo. Io
avevo solo rifatto gli arredi.
Perfino Delfi, il mio Oracolo maggiore, in origine era il
covo di Pitone. E puoi provarci quanto vuoi, ma l’odore di
pelle di serpente non se ne va mai da una caverna vulcanica.
Era una triste constatazione ma, nei miei quattromila anni e
passa, le volte in cui mi ero sentito a casa risalivano tutte agli
ultimi mesi: al Campo Mezzosangue, quando condividevo la
capanna con i miei figli semidivini; alla Waystation con
Emma, Jo, Georgina, Leo e Calipso, seduti tutti insieme
intorno al tavolo a tagliare le verdure dell’orto per cena; alla
Cisterna di Palm Springs con Meg, Grover, Mellie, il coach
Hedge e uno spinoso assortimento di driadi dei cactus; e ora al
Campo Giove, dove i Romani, straziati dal dolore e pieni di
preoccupazioni, nonostante i molti problemi in corso, e
nonostante il fatto che io portassi disastri e afflizioni ovunque
andassi, mi avevano accolto con rispetto, dandomi una soffitta
sopra il caffè e bellissimi lenzuoli da indossare.
Quei luoghi erano casa. Se io meritassi o meno di farne
parte… questa era un’altra domanda.
Avrei tanto voluto attardarmi su quei ricordi lieti. Forse
stavo morendo, o almeno lo sospettavo. Magari giacevo a terra
nella foresta, in coma, mentre il veleno si spandeva per tutte le
mie vene. Volevo che i miei ultimi pensieri fossero felici. Ma
il mio cervello aveva piani diversi.
Mi ritrovai nella caverna di Delfi.
Poco lontano, avvolto in fumi gialli e arancioni, la sagoma
fin troppo nota di Pitone si trascinava nelle tenebre, come il
drago di Komodo più grosso e puzzolente del mondo. Il suo
odore acido era opprimente, come una vera e propria pressione
fisica che mi schiacciava i polmoni e faceva strillare le mie
cavità nasali. I suoi occhi penetravano il vapore sulfureo come
lampioni.
«Pensi che queste piccole vittorie contino qualcosa?» La
voce tonante di Pitone mi fece tremare i denti. «Pensi che
portino da qualche parte?»
Non riuscivo a parlare. Avevo ancora il sapore della gomma
in bocca, ed ero grato per quella dolcezza nauseante: mi
ricordava che esisteva un mondo al di fuori di quella grotta
degli orrori.
Pitone incombeva sempre più vicino. Avrei voluto prendere
il mio arco, ma avevo le braccia paralizzate.
«Non sono servite a nulla» disse. «Le morti che hai causato
– le morti che causerai – non contano. Potrai anche vincere
ogni battaglia, ma perderai la guerra. Come al solito, non
comprendi cosa c’è davvero in gioco. Affrontami, e morirai.»
Aprì le immense fauci, snudando i denti luccicanti di saliva.
«BLEAH!» Spalancai gli occhi, agitando braccia e gambe.
«Oh, bene» disse una voce. «Sei sveglio.»
Ero disteso a terra in una qualche sorta di struttura di legno,
come… Ah, una stalla. L’odore di fieno e letame di cavallo mi
riempì le narici. Una coperta di tela ruvida mi solleticava la
schiena. Due facce che non conoscevo mi scrutavano dall’alto.
Una apparteneva a un bel giovane dai lucenti capelli neri che
incoronavano una fronte ampia e scura.
L’altra faccia apparteneva a un unicorno. Il suo muso
luccicava di muco. Aveva gli occhi di un azzurro inquietante,
grandi e immobili, fissi su di me, come se gli facessi gola.
Appesa sulla punta del suo corno c’era una grattugia.
«BLEAH!» dissi di nuovo.
«Calmati, tonto» disse Meg da qualche parte alla mia
sinistra. «Sei tra amici.»
Indicai debolmente l’unicorno. «Grattugia?»
«Sì» confermò quel giovane adorabile. «È il modo più
semplice per far piovere una dose di schegge d’avorio di
unicorno direttamente nella ferita. A Buster non dispiace, vero
Buster?»
Buster l’unicorno continuò a fissarmi. Mi chiesi perfino se
fosse vivo, o se non facesse parte della scenografia. L’avevano
portato dentro spingendolo sulle ruote?
«Mi chiamo Pranjal» disse il giovane. «Sono il guaritore
capo della legione. Ti ho già curato al tuo arrivo la prima
volta, ma non ci siamo davvero incontrati perché, be’, eri
svenuto. Sono figlio di Asclepio. Perciò tu dovresti essere mio
nonno.»
Emisi un gemito. «Ti prego, non chiamarmi nonno. Mi
sento già abbastanza male. Le… le altre stanno bene? Lavinia?
Hazel?»
Meg comparve sopra di me. Aveva gli occhiali puliti, i
capelli lavati e si era perfino cambiata, perciò dovevo essere
rimasto fuori uso per un bel po’. «Stiamo tutte bene. Lavinia è
tornata poco dopo di noi. Ma tu sei quasi morto.» Meg
sembrava seccata, come se la mia morte l’avrebbe infastidita
oltre misura. «Avresti dovuto dirmi com’era ridotta male la
ferita.»
«Pensavo… pensavo che sarebbe guarita.»
Pranjal aggrottò le sopracciglia. «Sì, be’… avrebbe dovuto.
Hai ricevuto ottime cure, se posso dirlo. Conosciamo le
infezioni da ghoul. Di solito si curano, se prese entro le prime
ventiquattr’ore.»
«Ma tu non rispondi al trattamento» intervenne Meg,
guardandomi storto.
«Non è colpa mia!»
«Potrebbe essere la tua parte divina» rifletté Pranjal. «Non
avevo mai avuto un paziente dal passato divino. Forse ti rende
più resistente alle cure semidivine, o più suscettibile alle ferite
dei non-morti. Non ne ho idea.»
Mi sollevai sui gomiti. Ero a petto nudo, e la ferita era
bendata di fresco perciò non potevo capire che aspetto avesse,
ma il dolore si era placato in una sofferenza più sorda. Volute
di infezione purpurea si levavano ancora dalla mia pancia,
risalivano il petto e si spargevano fin sulle braccia. Il colore
però era meno vivido di prima, e tendeva a un debole viola
lavanda.
«Qualunque cosa tu abbia fatto, di sicuro è servita»
commentai.
«Vedremo.» Il volto accigliato di Pranjal non era
incoraggiante. «Ho provato un miscuglio speciale, una specie
di equivalente magico degli antibiotici ad ampio spettro.
Richiede una particolare varietà di stellaria media – un
centocchio magico – che non cresce nel Nord della
California.»
«Adesso sì» annunciò Meg.
«Sì» confermò Pranjal con un sorriso. «Forse farei meglio a
tenermi Meg vicina. È molto utile con le piante medicinali.»
La figlia di Demetra arrossì.
Buster non si era ancora mosso. Non aveva nemmeno
sbattuto le palpebre. Sperai che Pranjal gli mettesse un
cucchiaio sotto le narici per verificare che respirasse.
«A ogni modo, la pomata che ho usato non è una cura»
continuò il guaritore. «Servirà solo a rallentare il tuo… il tuo
stato.»
Il mio stato. Che fantastico eufemismo per dire che mi
stavo trasformando in un cadavere ambulante.
«E se volessi una cura?» chiesi. «Cosa che, in effetti…
vorrei?»
«Ci vorrà un potere di guarigione più forte di quello di cui
io sono capace» confessò Pranjal. «Un potere di livello
divino.»
Mi veniva da piangere. Decisi che Pranjal doveva
migliorare il modo in cui gestiva il suo rapporto con i pazienti,
forse procurandosi una serie di cure da banco che non
richiedessero interventi divini.
«Potremmo provare con altre schegge d’avorio di
unicorno» suggerì Meg. «È divertente. Cioè, magari
funziona.»
Tra la voglia smodata di Meg di usare la grattugia e lo
sguardo affamato di Buster, cominciavo a sentirmi come un
piatto di pasta. «Suppongo che non abbiate una pista per
rintracciare qualche divinità guaritrice disponibile, eh?»
«A dire il vero, se te la senti, ti dovresti vestire» disse
Pranjal. «Meg ti accompagnerà ai Principia. Reyna e Frank
sono ansiosi di parlarti.»
Meg ebbe pietà di me.
Prima di incontrare i pretori, mi riportò da Bombilo per
permettermi di lavarmi e cambiarmi. Dopo, ci fermammo a
mangiare un boccone alla mensa. A giudicare dall’angolatura
del sole e dalla sala quasi vuota, doveva essere tardo
pomeriggio, anche se non era ora di cena. Ero rimasto privo di
sensi per quasi un giorno intero.
Mancava ancora un giorno all’8 aprile, alla luna di sangue e
al compleanno di Lester, in cui due imperatori malvagi e un re
non-morto avrebbero distrutto il Campo Giove. Ma cercai di
guardare il lato positivo: alla mensa servivano i bastoncini di
pesce.
Quando ebbi finito di mangiare (un piccolo segreto
culinario per voi: il ketchup sta da dio con le patatine fritte e i
bastoncini di pesce), Meg mi scortò lungo la Via Praetoria
verso il quartier generale della legione.
La maggior parte dei Romani doveva essere impegnata
altrove nei compiti previsti per quell’ora del giorno –
marciare, scavare trincee, giocare a Fortius Nitius? – non ne
avevo idea. I pochi legionari che incontrammo per strada mi
fissarono, interrompendo le loro conversazioni. Doveva essersi
sparsa la voce della nostra avventura nella tomba di Tarquinio.
Forse sapevano che avevo un piccolissimo problema di
trasformazione-in-zombie in corso e stavano solo aspettando
che mi mettessi a gridare la mia fame di cervelli.
Quel pensiero mi fece rabbrividire. Mi sentivo talmente
meglio, in quel momento. Riuscivo a camminare senza
trasalire a ogni passo. Il sole brillava. Avevo mangiato bene.
Com’era possibile che fossi ancora avvelenato?
La negazione è una cosa potente.
Purtroppo sospettavo che Pranjal avesse ragione. Aveva
solo rallentato l’infezione. Il mio stato andava oltre le capacità
dei guaritori del campo, greci o romani che fossero. Mi serviva
un aiuto divino, una cosa che Zeus aveva espressamente
proibito a tutti gli altri dei.
Le guardie del praetorium ci fecero subito passare. Dentro,
Reyna e Frank sedevano dietro un lungo tavolo carico di
mappe, libri, pugnali e un grosso barattolo di caramelle
gommose. Addossata al muro, in fondo alla stanza, c’era
l’aquila dorata della legione, che ronzava di energia.
Trovarmela così vicina mi fece drizzare i peli sulle braccia.
Non sapevo come facessero i pretori a tollerare la sua presenza
continua alle loro spalle. Non avevano letto gli articoli del
bollettino medico sugli effetti dell’esposizione prolungata alle
insegne elettromagnetiche romane?
Frank sembrava pronto per la battaglia, aveva indosso
l’armatura completa. Stavolta era Reyna a sembrare appena
caduta giù dal letto. Indossava il mantello viola drappeggiato
alla bell’e meglio sopra una maglietta extra-large con la scritta
PUERTO RICO FUERTE . Mi chiesi se dormisse con quella, anche
se non erano affari miei. Il lato sinistro dei suoi capelli era un
ammasso confuso di ciocche nere e spettinate. Dormiva da
quel lato, quindi? Ma, di nuovo, non erano affari miei.
Accovacciati sul tappeto ai suoi piedi c’erano due automi
che non avevo mai visto prima: una coppia di levrieri, uno
d’oro e uno d’argento. Sollevarono entrambi la testa quando
mi videro, poi fiutarono l’aria come a dire: “Ehi, mamma,
questo qui puzza di zombie. Possiamo ucciderlo?”.
Reyna li tranquillizzò. Prese una manciata di caramelle
gommose dal barattolo e le lanciò ai cani. Non so come
potessero piacergli i dolciumi, ma li acchiapparono al volo, poi
si sistemarono di nuovo con la testa sul tappeto.
«Ehm, bei cani» commentai. «Perché non li avevo mai
visti?»
«Aurum e Argentum erano fuori in missione» rispose
Reyna, in un tono che scoraggiava ulteriori domande. «Come
sta la tua ferita?»
«Lei sta alla grande» replicai. «Io non tanto.»
«Sta meglio di prima» intervenne Meg. «Ci ho grattugiato
sopra un po’ d’avorio di unicorno. È stato divertente.»
«Anche Pranjal mi ha aiutato» aggiunsi.
Con un cenno, Frank ci invitò a sederci. «Mettetevi comodi,
ragazzi.»
Comodi? Si fa per dire. Gli sgabelli pieghevoli a tre gambe
non sembravano confortevoli come i seggi dei pretori. E poi
mi ricordarono il tripode dell’Oracolo di Delfi, che a sua volta
mi fece ripensare a Rachel Elizabeth Dare del Campo
Mezzosangue, che stava non così pazientemente aspettando
che le restituissi i poteri profetici. Pensare a lei mi riportò alla
mente la grotta di Delfi, e la grotta mi fece pensare a Pitone,
che mi rammentò il mio incubo e quanto avessi paura di
morire. Come odio il flusso di coscienza.
Quando ci fummo accomodati, Reyna stese un rotolo di
pergamena sul tavolo. «Allora, è da ieri che lavoriamo con
Ella e Tyson per cercare di decifrare altri versi della profezia.»
«Abbiamo fatto dei progressi» aggiunse Frank. «Pensiamo
di aver trovato la ricetta di cui hai parlato nella seduta del
Senato… il rituale che potrebbe evocare l’aiuto divino per
salvare il campo.»
«Ma è fantastico, giusto?» Meg allungò la mano verso il
barattolo di caramelle, ma la ritrasse subito al ringhio di
Aurum e Argentum.
«Forse.» Reyna scambiò uno sguardo preoccupato con
Frank. «Il fatto è che, se interpretiamo i versi nel modo
giusto… il rituale esige un sacrificio mortale.»
I bastoncini di pesce cominciarono a duellare con le
patatine nel mio stomaco.
«Non è possibile» dissi. «Noi divinità non chiederemmo
mai a voi mortali di sacrificare un vostro simile. Abbiamo
smesso secoli fa! O millenni fa, non riesco a ricordarlo. Ma
sono sicuro che abbiamo smesso!»
Frank si aggrappò ai braccioli del seggio. «Sì, è questo il
punto. A morire non deve essere un mortale.»
«No.» Reyna mi guardò dritto negli occhi. «Sembra che il
rituale richieda la morte di un dio.»
19

Oh, libro, parla!

Qual è il mio destino?

In Appendice

Perché mi guardavano tutti?


Non era colpa mia se ero l’unico (ex) dio nella stanza.
Reyna si chinò sopra la pergamena e fece scorrere il dito su
alcuni punti del testo. «Frank ha copiato queste righe dalla
schiena di Tyson. Come potrete immaginare, sembrano più un
manuale di istruzioni che una profezia…»
Non stavo più nella pelle. In senso negativo. Volevo
strappare quella pergamena dalle mani di Reyna e leggere la
brutta notizia con i miei occhi. C’era scritto il mio nome?
Sacrificare me non poteva compiacere gli dei, giusto? Se noi
dei dell’Olimpo avessimo cominciato a sacrificarci a vicenda,
la cosa avrebbe creato un terribile precedente.
Meg adocchiava il barattolo delle caramelle, mentre i
levrieri adocchiavano lei. «Quale dio morirà?»
«Be’, quella riga in particolare…» Reyna socchiuse gli
occhi per vederci meglio, poi passò la pergamena a Frank.
«Che c’è scritto qui?»
Frank era imbarazzato. «Infranto. Scusa, stavo scrivendo in
fretta.»
«No, no, figurati. La tua calligrafia è migliore della mia.»
«Potete per favore dirmi cosa c’è scritto?» supplicai.
«Giusto. Scusa» rispose Reyna. «Non è molto poetico,
come il sonetto che hai ricevuto a Indianapolis…»
«Reyna!»
«Okay, okay. C’è scritto: Va tutto fatto nel giorno di
maggior bisogno: raccogliete gli ingredienti per un’offerta
bruciata del tipo sei (vedi appendice B)…»
«Siamo spacciati» gemetti. «Non riusciremo mai a
procurarci quegli ingredienti… qualunque cosa siano.»
«No, no, questa è la parte facile» mi rassicurò Frank. «Ella
ha la lista completa. Dice che sono cose comuni.» Fece cenno
a Reyna di continuare.
«Aggiungete l’ultimo respiro del dio che non parla, una
volta che la sua anima è stata liberata, insieme al vetro
infranto» lesse Reyna ad alta voce. «Poi la preghiera per
evocare la divinità singola (vedi Appendice C).» Riprese fiato.
«Non abbiamo ancora il testo della preghiera, ma Ella è sicura
di riuscire a trascriverla prima che inizi la battaglia, ora che sa
cosa cercare nell’Appendice C.»
Frank mi scrutò per capire la mia reazione. «Ci trovi
qualcosa che abbia un senso nel resto?»
Ero così sollevato che per poco non scivolai giù dallo
sgabello. «Mi avete fatto prendere un colpo. Pensavo… Be’,
mi hanno chiamato in un sacco di modi, ma mai “il dio che
non parla”. Sembra che dobbiamo trovare la divinità
ammutolita di cui abbiamo già discusso e poi… ehm…»
«Dobbiamo ucciderla?» chiese Reyna. «Come si può
compiacere gli dei uccidendo un altro dio?»
Non sapevo cosa rispondere. Ma, del resto, molte profezie
sembrano illogiche finché non si avverano. Appaiono ovvie
soltanto con il senno di poi.
«Forse se sapessimo di quale dio stiamo parlando…» Mi
diedi dei colpetti sul ginocchio, con il pugno chiuso. «Sento
che dovrei saperlo, ma è sepolto in profondità. Un ricordo
oscuro. Non avete controllato in biblioteca o su Google, eh?»
«Certo che ci abbiamo provato» rispose Frank. «Non
abbiamo trovato nessun dio del silenzio, né greco né romano.»
Né greco né romano. Avevo la netta sensazione che mi
stesse sfuggendo qualcosa, tipo… una parte del mio cervello.
L’ultimo respiro. L’anima liberata. Sembravano proprio le
istruzioni di un sacrificio.
«Devo pensarci su» decisi. «Quanto al resto delle
istruzioni… il vetro infranto sembra una richiesta un po’
strana, ma non dovrebbe essere difficile procurarselo.»
«Potremmo rompere il barattolo delle caramelle» suggerì
Meg.
Reyna e Frank la ignorarono educatamente.
«E quando parla di evocare la divinità singola?» chiese
Frank. «Mi sa che non avremo una schiera di dei che
accorrono al galoppo sui loro carri, eh?»
«Probabilmente no» concordai.
Sentii il cuore accelerare i battiti. La possibilità di parlare di
nuovo anche soltanto con uno dei miei pari dell’Olimpo dopo
tutto quel tempo… di evocare un vero, scatenato, massiccio e
autentico aiuto divino al cento per cento… era un’idea
esaltante e terrificante al tempo stesso. Avrei potuto scegliere
chi, o era predeterminato dalla preghiera? «Comunque sia,
anche un solo dio può fare la differenza.»
Meg fece spallucce. «Dipende dal dio.»
«Questa era cattiva» commentai.
«E l’ultima riga?» chiese Reyna. «La preghiera deve essere
pronunciata attraverso l’arcobaleno.»
«Un messaggio-Iride» dissi, felice di poter rispondere ad
almeno una domanda. «È una cosa greca, un modo di
implorare Iride, la dea dell’arcobaleno, affinché porti il
messaggio… in questo caso, una preghiera sul Monte Olimpo.
La formula è molto semplice.»
«Ma…» Frank aggrottò la fronte. «Percy mi ha parlato di
questi messaggi-Iride. Non funzionano più, vero? Da quando
tutti i nostri mezzi di comunicazione sono stati interrotti.»
“Comunicazione interrotta” pensai. “Dio ammutolito.”
Mi sembrò quasi di essere caduto sul fondo di una piscina
gelida. «Oh. Quanto sono stupido.»
Meg ridacchiò, ma si trattenne dal rispondere con uno dei
molti commenti sarcastici che senza dubbio le affollavano la
mente.
Io, a mia volta, mi trattenni dall’impulso di spingerla giù
dallo sgabello. «Questo dio ammutolito, chiunque sia… E se
fosse lui la ragione per cui le nostre comunicazioni non
funzionano? E se il Triumvirato avesse in qualche modo
imbrigliato il suo potere per impedirci di parlare tra noi e di
implorare l’aiuto degli dei?»
Reyna incrociò le braccia, nascondendo così la parola
FUERTE stampata sulla sua maglietta. «Stai dicendo che questo
dio ammutolito è in combutta con il Triumvirato? E noi
dobbiamo ucciderlo per riaprire i nostri canali di
comunicazione? Così poi possiamo mandare un messaggio-
Iride, compiere il rituale e ottenere l’aiuto divino? Io continuo
a bloccarmi sulla questione: uccidere un dio.»
Ripensai alla Sibilla Eritrea, che avevamo salvato dalla sua
prigione nel Labirinto di fuoco. «Forse questo dio non è con
loro di sua spontanea volontà. Forse è stato intrappolato o…
non lo so, costretto in qualche modo.»
«E noi lo liberiamo facendolo fuori?» chiese Frank. «Devo
parlarne con Reyna. Mi sembra un metodo un po’ brusco.»
«Un modo per scoprirlo è andare in quel posto, quel…
Sutro» intervenne Meg. «Posso dare da mangiare ai cani?»
Senza aspettare risposta, afferrò il barattolo delle caramelle e
lo aprì.
Aurum e Argentum, avendo udito le parole magiche “dare
da mangiare” e “cani”, non ringhiarono né cercarono di
dilaniare Meg. Si alzarono, si avvicinarono e rimasero seduti a
guardarla, con gli occhi come gemme preziose che mandavano
un unico messaggio: “Ti prego, ti prego, ti prego”.
Meg diede loro una sola caramella gommosa a testa e ne
prese due per sé. Due per i cani, due per se stessa. Un
traguardo diplomatico senza precedenti.
«Meg ha ragione. Sutro è il posto che ha nominato il
tirapiedi di Tarquinio» ricordai. «Probabilmente è lì che
troveremo il dio ammutolito.»
«Il Monte Sutro?» chiese Reyna. «O la Sutro Tower? Ha
specificato?»
Frank inarcò un sopracciglio. «Non è lo stesso posto? Per
me è sempre stata la collina di Sutro.»
«A dire il vero, il Monte Sutro è l’altura più grande»
precisò Reyna. «L’antenna invece è su un’altra collina, lì
accanto. È quella la Sutro Tower. Lo so perché ad Aurum e
Argentum piace passeggiare da quelle parti.»
Sentendosi nominare, i levrieri voltarono la testa, per poi
tornare subito a scrutare la mano di Meg e il barattolo di
caramelle.
Cercai di immaginare Reyna che se ne andava a zonzo con i
cani così, solo per passare il tempo. Chissà se Lavinia lo
sapeva. Forse era diventata un’escursionista tanto appassionata
per cercare di superare il pretore anche in quello, un po’ come
il pensatoio che aveva scelto apposta perché era più in alto di
quello di Reyna.
Poi decisi che provare a psicanalizzare la mia amica
ballerina di tip-tap con i capelli rosa e la manubalista era una
causa persa.
«Ma questo posto è vicino?» Meg stava lentamente facendo
fuori tutte le caramelle gommose verdi, dimostrando di avere
un pollice verde diverso dal solito.
«È dall’altra parte della baia, a San Francisco» rispose
Reyna. «La torre è enorme. Si vede da tutta la baia, però.»
«Strano posto per tenere nascosto qualcuno» commentò
Frank. «Ma, del resto, anche una tomba sotto una giostra non è
male.»
Cercai di ricordare se fossi mai stato alla Sutro Tower, o in
qualcuno di quegli altri posti con lo stesso nome nelle
vicinanze. Non mi venne in mente nulla, ma le istruzioni dei
Libri Sibillini mi avevano lasciato profondamente inquieto.
L’ultimo respiro di un dio non era un ingrediente che la
maggior parte degli antichi templi romani tenevano in
dispensa. E liberare l’anima di un dio era davvero un
esperimento che i Romani non dovevano provare a fare senza
la supervisione di un adulto.
Se il dio ammutolito faceva parte della strategia di controllo
del Triumvirato, cosa c’entrava Tarquinio? E quello che aveva
detto sulla Sibilla – “Spero che la Sibilla duri abbastanza a
lungo per vederti umiliato. Per lei potrebbe essere l’ultima
goccia” – era solo un modo per confondermi o…? Se la Sibilla
Cumana era ancora viva ed era prigioniera di Tarquinio, ero
obbligato ad aiutarla.
“Aiutarla?” replicò la parte cinica del mio cervello. “Come
l’hai aiutata in passato?”
«Ovunque si trovi il dio ammutolito, sarà protetto da molte
guardie, soprattutto adesso. Tarquinio ormai sa che proveremo
a scovare il suo nascondiglio.»
«E dobbiamo farlo prima dell’8 aprile» ricordò Reyna. «Il
giorno di maggior bisogno.»
Frank sbuffò. «Meno male che quel giorno non abbiamo
nient’altro da fare. Tipo resistere a un’invasione su due fronti,
per esempio.»
«Santi numi, Meg!» esclamò Reyna. «Così finirai per stare
male. E non riuscirò mai a eliminare tutto quello zucchero
dagli ingranaggi di Aurum e Argentum.»
«E va bene.» Meg rimise il barattolo di caramelle sul
tavolo, ma non prima di averne ghermita un’ultima manciata
per sé e per i suoi complici canini. «E così dobbiamo aspettare
fino a dopodomani? Cosa facciamo nel frattempo?»
«Oh, il da fare non manca» assicurò Frank. «Pianifichiamo.
Costruiamo le difese. E domani dedicheremo la giornata ai
giochi di guerra. Dobbiamo addestrare la legione a qualsiasi
scenario possibile. E poi…» Gli mancò la voce, come se si
fosse reso conto di stare per dire qualcosa che era meglio
tacere. Si portò la mano alla custodia in cui teneva il pezzetto
di legno.
Mi chiesi se non avesse preso qualche appunto in più dalle
righe profetiche di Ella e Tyson. Forse altre farneticazioni
dell’arpia a proposito di ponti, fuochi e bla bla bla. Se così era,
Frank non aveva evidentemente voglia di condividerli con noi.
«E poi, voi dovreste riposare prima della missione» riprese.
«Dovrete partire per Sutro di primo mattino, il giorno del
compleanno di Lester.»
«Possiamo per favore non chiamarlo così?» supplicai.
«E comunque, a chi ti riferisci?» chiese Reyna. «Servirà un
altro voto del Senato per decidere a chi affidare la missione.»
«Ma no» replicò Frank. «Certo, possiamo consultare i
senatori, ma questo è chiaramente un prolungamento della
missione originaria. E poi, siamo in guerra, e noi due abbiamo
pieno potere esecutivo.»
Reyna scrutò con attenzione il collega. «Caspita, Frank
Zhang. Hai studiato il manuale dei pretori, vedo.»
«Un pochino.» Frank si schiarì la voce. «Comunque,
sappiamo chi deve andare. Apollo, Meg… e tu. La porta che
conduce alla divinità ammutolita deve essere aperta dalla figlia
di Bellona, giusto?»
«Ma…» Reyna guardava ora noi, ora lui. «Non posso
andarmene così il giorno della battaglia. Il potere di Bellona
risiede tutto nella forza numerica. Devo guidare le truppe.»
«E lo farai, non appena tornata da San Francisco» garantì
Frank. «Nel frattempo, ci penso io a resistere all’assedio. Ho
tutto sotto controllo.»
Reyna esitò, ma mi sembrò di intravedere uno scintillio nei
suoi occhi. «Sei sicuro, Frank? Cioè, sì, certo che ce la puoi
fare. Lo so, ma…»
«Me la caverò.» Il figlio di Marte sorrise con convinzione.
«Apollo e Meg hanno bisogno di te in questa missione. Vai.»
Perché Reyna sembrava così entusiasta? Il suo lavoro
doveva essere davvero stressante se, dopo aver portato il peso
del comando così a lungo, non vedeva l’ora di partire
all’avventura e attraversare la baia per uccidere un dio.
«Allora… va bene» disse, fingendo una riluttanza che
evidentemente non provava.
«È deciso, allora.» Frank si rivolse a me e Meg. «Voi
riposate, ragazzi. Domani sarà una giornata impegnativa. Ci
servirà il vostro aiuto nei giochi di guerra. Ho in mente un
compito speciale per ciascuno di voi.»
20

Sfera di morte

Risparmiami le fiamme

Non me la sento

Oh, caspita, un compito speciale!


Morivo dalla voglia di sapere cosa fosse. O forse era
soltanto il veleno che mi scorreva nelle vene.
Non appena tornai nella soffitta sopra il caffè, crollai sulla
branda.
Meg sbuffò. «Fuori c’è ancora luce. Hai dormito tutto il
giorno.»
«Cercare di non trasformarsi in zombie è un duro lavoro.»
«Lo so!» sbottò lei. «Mi dispiace!»
Alzai lo sguardo, stupito dal suo tono. Meg diede un calcio
a un vecchio bicchiere di carta, lanciandolo in fondo alla
stanza. Si lasciò cadere sul suo letto e fissò imbronciata il
pavimento.
«Meg?»
Nella fioriera sul davanzale, i suoi iris crescevano così alla
svelta che i fiori si aprivano con uno scoppio, come popcorn.
Fino a pochi minuti prima, Meg mi insultava allegramente e si
ingozzava di caramelle gommose. Adesso… stava piangendo?
«Meg.» Mi tirai su, cercando di non trasalire per il dolore.
«Meg, non è colpa tua se mi hanno ferito.»
Lei si rigirò l’anello sul dito della mano destra, poi quello
sul dito della sinistra, come se all’improvviso le andassero
stretti. «Pensavo solo che, se fossi riuscita a ucciderlo…» Si
asciugò il naso. «Come succede in certe storie. Uccidi il
cattivo e liberi le persone che lui ha trasformato.»
Ci misi qualche secondo a metabolizzare le sue parole. Ero
quasi sicuro che la dinamica che aveva appena descritto
funzionasse per i vampiri, non per gli zombie, ma capii cosa
intendeva. «Stai parlando di Tarquinio, vero? Sei saltata giù
nella sala del trono perché… volevi salvare me?»
«Ma va’?» borbottò lei, senza una punta di ironia.
Mi portai una mano sull’addome fasciato. Mi ero così
arrabbiato per l’avventatezza di Meg nella tomba che l’avevo
presa soltanto come una reazione impulsiva al piano di
Tarquinio di lasciar bruciare la baia. E invece era saltata nella
mischia per me, con la speranza che uccidere Tarquinio
servisse a cancellare la mia maledizione. E questo prima
ancora che avessimo compreso la reale gravità del mio stato.
Meg doveva essere più preoccupata, o più intuitiva, di quanto
desse a vedere.
Così però non c’era più gusto a criticarla.
«Oh, Meg.» Scossi la testa. «È stato un gesto folle e
insensato, e ti voglio bene per questo. Ma non essere così dura
con te stessa. Le cure di Pranjal mi hanno fatto guadagnare
tempo. E anche tu, ovviamente, con le tue erbe magiche e la
grattugia. Hai fatto tutto quello che potevi. Quando
evocheremo l’aiuto divino, chiederò la completa guarigione. E
tornerò come nuovo, ne sono certo. O almeno, nuovo per
quanto sia possibile a un Lester.»
Meg piegò il capo, tanto che i suoi occhiali sghembi per
una volta sembrarono in posizione orizzontale. «Come fai a
dirlo? Questo dio che invocheremo ci metterà a disposizione
tre desideri o roba del genere?»
Ci pensai su. Quando i miei fedeli mi invocavano, mi ero
mai presentato offrendo loro tre desideri? Macché! Forse un
desiderio, se era una cosa che volevo anch’io. E se il rituale mi
concedeva di evocare un solo dio, chi avrei scelto, ammesso di
poter scegliere? Forse mio figlio Asclepio sarebbe stato in
grado di curarmi, ma non avrebbe mai potuto sconfiggere le
forze degli imperatori romani e le orde di non-morti. Marte ci
avrebbe garantito il successo sul campo di battaglia, ma
avrebbe guardato la mia ferita e borbottato qualcosa tipo:
“Già, brutta storia. Muori con valore!”.
E avevo il coraggio di starmene là, con i segni
dell’infezione che mi arrivavano fino alle braccia, a dire a Meg
che non doveva preoccuparsi.
«Non lo so, Meg» confessai. «Hai ragione. Non posso
essere certo che andrà tutto bene. Ma posso prometterti che
non mi arrenderò. Abbiamo fatto tanta strada. Non permetterò
a un graffio sulla pancia di impedirci di sconfiggere il
Triumvirato.»
Le colava così tanto moccio dalle narici che Buster
l’unicorno sarebbe stato fiero di lei. Tirò su col naso,
asciugandosi il labbro con le nocche. «Non voglio perdere
nessun altro.»
Le rotelle del mio cervello non andavano alla velocità
giusta. Faticai a comprendere appieno che quando parlava di
“nessun altro”, Meg intendeva me.
Mi tornò alla mente uno dei suoi primi ricordi, a cui avevo
assistito in sogno: era stata costretta a guardare il corpo senza
vita del padre sulle scale della Grand Central Station, mentre
Nerone, il suo assassino, l’abbracciava e le prometteva che si
sarebbe preso cura di lei.
Ripensai a quando mi aveva tradito nel Bosco di Dodona
per paura della Bestia, il lato oscuro di Nerone, e a quanto
c’era stata male, poi, quando ci eravamo ritrovati a
Indianapolis. Allora aveva preso tutta la rabbia malriposta e la
colpa e la frustrazione che aveva provato e le aveva riversate
su Caligola (che, a essere sinceri, se lo meritava alla grande).
Meg, incapace di scagliarsi contro Nerone, aveva desiderato
con tutta se stessa di uccidere Caligola. La morte di Jason
invece l’aveva distrutta.
Ora, oltre a tutti i brutti ricordi che le insegne romane al
Campo Giove risvegliavano in lei, doveva confrontarsi anche
con la prospettiva di perdere me. In un lampo di shock, come
un unicorno che ti compare all’improvviso davanti alla faccia,
mi resi conto che, nonostante tutte le seccature che mi
procurava e il fatto che mi comandasse a bacchetta, Meg
teneva molto a me. Nel corso degli ultimi tre mesi ero stato il
suo solo, fedele amico, così come lei lo era stata per me.
L’unica altra persona che poteva contendermi il posto era
Pesca, lo spirito della frutta suo compare, e non lo vedevamo
da Indianapolis. All’inizio avevo pensato che fosse solo
capriccioso nel suo modo di scegliere quando presentarsi e
quando no, come la maggior parte delle creature
soprannaturali. Ma se avesse provato a seguirci a Palm
Springs, dove anche i cactus faticavano a sopravvivere…
Dubitavo delle possibilità di sopravvivenza di un albero di
pesche in quelle condizioni, figuriamoci nel Labirinto di
fuoco.
Meg non me lo aveva nominato nemmeno una volta. Ormai
mi rendevo conto che pure la sua assenza doveva esserle
pesata, insieme a tutte le altre preoccupazioni.
Che amico orribilmente scarso ero stato.
«Vieni qui.» Allargai le braccia. «Per favore…»
Meg esitò. Continuando a tirare su col naso, si alzò dalla
branda e si avvicinò strascicando i piedi. Poi si tuffò nel mio
abbraccio come se io fossi un bel materasso comodo.
Mi uscì un piccolo grugnito, sorpreso da quanto fosse
solida e pesante. Profumava di bucce di mela e fango, ma non
mi dispiaceva. Non mi dispiacevano nemmeno il moccio e le
lacrime che mi inzuppavano la spalla.
Mi ero sempre chiesto che effetto faceva avere un fratellino
o una sorellina. A volte trattavo Artemide come tale, dato che
sono nato qualche minuto prima di lei, ma lo facevo
soprattutto per indispettirla. Con Meg, era come se fosse vero.
Avevo qualcuno che dipendeva da me, che aveva bisogno che
ci fossi, per quanto ci irritassimo a vicenda. Pensai a Hazel e a
Frank e al loro modo di cancellare le maledizioni. E mi dissi
che quel genere di amore poteva venire da molti tipi di
relazione.
«Okay.» Meg si scansò, asciugandosi con furia le lacrime.
«Basta così. Tu dormi. Io… io vado o cena o boh.»
Per molto tempo dopo che se ne fu andata, rimasi sdraiato a
fissare il soffitto.
Dal caffè al piano di sotto saliva della musica, le note
gradevoli del sassofono di Horace Silver punteggiate dal sibilo
della macchina dell’espresso e dalla doppia voce di Bombilo
che cantava. Dopo i pochi giorni trascorsi con quei rumori di
sottofondo li trovavo confortanti, perfino piacevoli. Mi
addormentai piano, augurandomi di fare sogni confusi e
rassicuranti in cui io e Meg saltellavamo per i prati baciati dal
sole insieme ai nostri amici: l’elefante, l’unicorno e i levrieri.
Invece mi ritrovai con gli imperatori.
Nella mia classifica dei Luoghi Meno Desiderati al Mondo, lo
yacht di Caligola occupava uno dei primi posti insieme alla
tomba di Tarquinio, l’abisso eterno del Chaos e la fabbrica di
formaggio Limburger a Liegi, in Belgio, dove i calzini da
ginnastica sporchi si rifugiavano per trovare un po’ di
conforto.
Commodo oziava disteso su una sdraio, con uno specchio
d’alluminio abbronzante intorno al collo che gli rifletteva il
sole del pomeriggio direttamente sul viso. Gli occhi
infiammati però erano coperti da lenti scure. Indossava solo un
costume rosa e un paio di ciabattine dello stesso colore. Non
feci assolutamente caso al modo in cui l’olio abbronzante
luccicava sul suo corpo forte e muscoloso.
Caligola era in piedi accanto a lui nel suo completo da
capitano: giacca bianca, pantaloni scuri e camicia a righe, tutto
stirato di fresco. Il suo volto crudele sembrava quasi angelico
mentre si meravigliava del marchingegno che adesso occupava
quasi tutto il ponte di poppa. Il mortaio da guerra era grande
quanto una piscina sopraelevata, con un bordo spesso almeno
sessanta centimetri e un diametro abbastanza grande da poterci
entrare con la macchina. Annidata nella canna, una massiccia
sfera verde riluceva come una palla per criceti radioattiva.
I pandai si affaccendavano in giro per il ponte, con le
grandi orecchie flosce a ciondoloni, le mani pelose che
inserivano cavi e oliavano ingranaggi alla base dell’arma a una
velocità soprannaturale. Alcuni erano ancora così giovani da
avere la pelliccia candida, e mi si strinse il cuore pensando alla
mia breve amicizia con Crest, il giovane aspirante musicista
che aveva perso la vita nel Labirinto di fuoco.
«È magnifico!» esclamò Caligola raggiante, girando
intorno al mortaio. «È pronto per il test?»
«Sì, mio signore!» rispose il pandos Boost. «Naturalmente,
ogni sfera di fuoco greco è molto, molto cara, perciò…»
«FALLO!» gridò Caligola.
Boost trasalì con uno strilletto e corse al pannello di
controllo.
Fuoco greco. Odiavo quella roba, e io ero un dio del sole
che guidava un carro infuocato. Viscoso, verde e
inestinguibile, il fuoco greco era malvagio, punto e basta. Un
calice sarebbe stato sufficiente a ridurre in cenere un intero
edificio, e quella sfera lucente ne conteneva più di quanto
avessi mai visto in vita mia in un solo luogo.
«Ehi, Commodo!» chiamò Caligola. «Questo dovrebbe
piacerti, fai attenzione.»
«Sono attentissimo» replicò Commodo, voltando il viso per
prendere meglio il sole.
Caligola sospirò. «Boost, procedi pure.»
Boost gridò le istruzioni nella sua lingua. I pandai suoi
compagni girarono manovelle e rotearono quadranti, facendo
ruotare lentamente il mortaio fino a puntarlo verso il mare
aperto. Boost verificò i dati sul pannello di controllo, poi
gridò: «Unus, duo, tres!».
Con una vibrazione possente, il mortaio fece fuoco. L’intera
nave tremò per il contraccolpo. La gigantesca palla per criceti
partì a razzo e salì in alto fino a diventare piccola come una
biglia verde, poi ricadde giù, verso l’orizzonte. Il cielo si
accese di una luce smeraldo.
Un attimo dopo, raffiche d’aria rovente investirono la nave
con un odore di sale bruciato e pesce cotto. In lontananza, un
geyser di fuoco verde spumeggiava nel mare bollente.
«Oooh, delizioso.» Caligola sorrise a Boost. «E avete un
proiettile per ogni nave?»
«Sì, mio signore. Come da suo ordine.»
«La gittata?»
«Quando ci saremo lasciati alle spalle Treasure Island,
saremo in grado di puntare tutte le armi sul Campo Giove, mio
signore. Nessuna difesa magica potrà fermare una raffica di
questa portata. Sarà l’annientamento totale!»
«Bene» commentò l’imperatore. «Proprio il mio genere di
annientamento.»
«Ma, ricorda, prima tentiamo l’assalto via terra» intervenne
Commodo dalla sua sdraio, senza essersi nemmeno voltato a
guardare l’esplosione. «Forse saranno saggi e si arrenderanno!
Vogliamo Nuova Roma intatta e il ciclope e l’arpia vivi, se
possibile.»
«Sì, sì» replicò Caligola. «Se possibile.» Sembrò
assaporare quelle parole come una splendida bugia. I suoi
occhi luccicavano malvagi in quel verde tramonto artificiale.
«In ogni caso, sarà divertente.»
Mi svegliai con il sole in faccia. Per un secondo pensai quasi
di trovarmi su una sdraio accanto a Commodo, con uno
specchio abbronzante intorno al collo. Invece no. I giorni in
cui io e Commodo ce ne andavamo a zonzo insieme erano
finiti da un pezzo.
Mi tirai su, stordito, disorientato e disidratato. Perché c’era
ancora luce fuori?
Poi mi resi conto che, a giudicare dall’angolatura del sole
che entrava nella stanza, doveva essere quasi mezzogiorno.
Ancora una volta, avevo dormito per tutta la notte e per metà
del giorno seguente. E mi sentivo ancora esausto.
Mi premetti con delicatezza una mano sulle bende. Inorridii
nello scoprire che la ferita mi faceva di nuovo male. Le linee
purpuree dell’infezione si erano scurite. Questo poteva
significare una cosa sola: era ora di indossare una maglietta a
maniche lunghe. Qualunque cosa fosse successa nelle
ventiquattr’ore successive, non avrei caricato altre
preoccupazioni sulle spalle di Meg. Avrei tenuto duro fino al
momento di stramazzare al suolo.
Wow! Ma chi ero diventato?
Quando mi fui cambiato, uscii a passi incerti dal caffè di
Bombilo. La maggior parte della legione si era riunita nella
mensa per pranzo. Come al solito, lo stanzone fremeva di
attività. I semidei, raggruppati in coorti, se ne stavano
comodamente sdraiati sui divani e si servivano dai piatti che le
aurae deponevano sui tavolini sfrecciando in aria con le mani
cariche di vassoi e brocche. Appesi alle travi di cedro, gli
stendardi di guerra e le insegne delle coorti si increspavano
nella brezza. Quando finivano di mangiare, i commensali si
alzavano con prudenza e si allontanavano a capo chino, per
non farsi decapitare per sbaglio da un piatto volante di
affettati. Tranne i Lari, naturalmente. A loro non importava
quale genere di prelibatezza gli attraversava la zucca.
Vidi Frank al tavolo degli ufficiali, assorto in una fitta
conversazione con Hazel e gli altri centurioni. Reyna non si
vedeva da nessuna parte: forse stava facendo un pisolino o si
preparava per le esercitazioni di guerra del pomeriggio.
Considerato quello che ci attendeva l’indomani, Frank aveva
un’aria molto rilassata. Mentre chiacchierava con gli altri
ufficiali, si lasciò perfino sfuggire un sorriso, mettendo tutti a
loro agio.
Quanto sarebbe stato semplice distruggere la loro fragile
sicurezza, pensai. Sarebbe bastato descrivere la flottiglia di
yacht armati che avevo visto in sogno. Non ancora, decisi.
Non aveva senso rovinargli il pranzo.
«Ehi, Lester!» gridò Lavinia dall’altra parte della stanza,
gesticolando verso di me come se fossi il cameriere.
Raggiunsi lei e Meg al tavolo della Quinta Coorte. Un’aura
mi depositò un calice d’acqua nella mano, poi lasciò un’intera
brocca sul tavolo. A quanto pareva, la mia disidratazione era
evidente.
Lavinia si sporse verso di me, con le sopracciglia inarcate
in un arcobaleno rosa e nocciola. «Allora, è vero?»
Scoccai un’occhiata scura a Meg, chiedendomi quale delle
mie molte storie imbarazzanti avesse rivelato. Ma era troppo
impegnata a ingozzarsi di hot dog per badare a me.
«Vero cosa?» domandai.
«Le scarpe.»
«Le scarpe?»
Lavinia lanciò le braccia in aria. «Le scarpe da ballo di
Tersicore! Meg ci stava raccontando quello che è successo
sugli yacht di Caligola. Ha detto che tu e quella Piper avete
visto un paio di scarpe di Tersicore!»
«Oh.» Me n’ero completamente dimenticato, così come mi
ero dimenticato di averlo raccontato a Meg. Strano, ma gli altri
eventi a bordo delle navi di Caligola – la nostra cattura, Jason
ucciso sotto i nostri occhi, la miracolosa salvezza – avevano
oscurato i ricordi della collezione di scarpe dell’imperatore.
«Meg, fra tutte le cose che potevi raccontare, perché
proprio questo?» domandai.
«Non è stata un’idea mia.» Meg riuscì in qualche modo ad
articolare una risposta con mezzo hot dog in bocca. «A
Lavinia piacciono le scarpe.»
«Be’, cos’altro pensavi che potessi chiedere?» replicò
Lavinia. «Mi dici che l’imperatore ha un’intera nave di scarpe,
ovvio che io voglia sapere se c’erano delle scarpe da ballo!
Allora Lester, è vero?»
«Be’ ecco… sì. Abbiamo visto un paio di…»
«Wow!» Lavinia appoggiò la schiena al divano, incrociò le
braccia e mi guardò malissimo. «No, dico: wow! E me lo riveli
soltanto adesso? Sai quanto sono rare quelle scarpe? Quanto
sono importanti…» Sembrò quasi strozzarsi per
l’indignazione. «Wow!»
Intorno al tavolo, i compagni di Lavinia stavano reagendo
nei modi più diversi. Alcuni alzarono gli occhi al cielo, altri
fecero smorfie di scherno, altri ancora continuarono a
mangiare come se niente potesse più sorprenderli.
Un ragazzo più grande con i capelli crespi osò prendere le
mie difese. «Lavinia, Apollo ha altre cose a cui pensare.»
«Oh, santi numi, Thomas!» lo fulminò lei. «Ovvio che non
capisci! Non ti togli mai quegli stivali!»
Thomas si guardò accigliato gli anfibi della divisa. «E
allora? Hanno la soletta di sostegno per l’arco del piede.»
«Sì, certo.» Lavinia si rivolse a Meg. «Dobbiamo trovare
un modo per tornare a bordo di quella nave e recuperare quelle
scarpe.»
«Ma…»
«Lavinia» intervenni io. «Non si può.»
Forse notò la paura e l’urgenza nella mia voce. Nel corso
degli ultimi giorni avevo sviluppato una strana simpatia per
Lavinia. Non volevo che si candidasse a una carneficina,
soprattutto dopo i mortai carichi di fuoco greco che avevo
visto in sogno.
Fece scorrere il suo ciondolo con la stella di David avanti e
indietro sulla catenina. «Hai saputo qualcosa di nuovo? Sputa
il rospo.»
Prima che potessi rispondere, un vassoio di cibo mi volò tra
le mani. Le aurae avevano deciso che avevo bisogno di pollo e
patatine fritte. In abbondanza. Oppure avevano sentito le
parole “spiattella tutto” e le avevano prese come un ordine.
Un attimo dopo, Hazel e l’altro centurione della Quinta
Coorte si alzarono. Lui era quel ragazzo con i capelli scuri e le
strane macchie rosse intorno alla bocca. Ah, sì. Dakota, figlio
di Bacco.
«Che succede?» domandò.
«Lester ha saputo qualcosa.» Lavinia mi guardò ansiosa di
sapere, come se potessi nasconderle l’esatta collocazione del
tutù magico di Tersicore (che, tanto perché si sappia, non vedo
da secoli).
Trassi un respiro profondo. Non ero sicuro che quello fosse
il posto giusto per parlare del mio sogno. Probabilmente avrei
dovuto riferirlo prima ai pretori. Ma Hazel mi rivolse un cenno
come a dire: “Parla”, e decisi di farmelo bastare.
Descrissi quello che avevo visto: un mortaio pesante di
ultima generazione dell’IKEA , fatto e finito, che sparava una
gigantesca palla per criceti verde fiammante sull’Oceano
Pacifico. Spiegai che gli imperatori avevano cinquanta
macchine come quella, una per ogni nave, e che sarebbero
state pronte ad annientare il Campo Giove non appena
avessero preso posizione nella baia.
La faccia di Dakota divenne rossa come la sua bocca. «Mi
serve altro Super Fresh.»
Il fatto che non gli volasse in mano nessun calice, mi fece
capire che le aurae non erano d’accordo.
Lavinia sembrava avere appena ricevuto uno schiaffo con
una delle scarpette da ballo della madre.
Meg continuava a divorare hot dog come se fossero gli
ultimi della sua vita.
Hazel si mordicchiava il labbro, concentratissima, forse per
cercare di estrarre un benché minimo risvolto positivo da
quello che avevo raccontato. Era più difficile che estrarre
diamanti dal pavimento. «E va bene, ragazzi, sentite.
Sapevamo che gli imperatori stavano assemblando delle armi
segrete. Almeno ora sappiamo di cosa si tratta. Riferirò
l’informazione ai pretori, ma non cambierà nulla. Avete tutti
fatto un ottimo lavoro alle esercitazioni di stamani…» Esitò.
Poi, in un moto di generosità, decise di non aggiungere:
“Tranne Apollo, che ha dormito tutta la mattina”. «Questo
pomeriggio, uno dei nostri giochi di guerra includerà
l’abbordaggio delle navi nemiche. Possiamo prepararci.»
Dalle espressioni intorno al tavolo, intuii che la Quinta
Coorte non si sentiva molto rassicurata. I Romani non sono
mai stati noti per le abilità navali. A quanto mi risultava, la
“marina” del Campo Giove consisteva in un manipolo di
vecchie triremi che usavano solo per le finte battaglie navali
del Colosseo, più una barca a remi ancorata ad Alameda. Più
che per escogitare un piano di battaglia efficace,
l’esercitazione sull’abbordaggio delle navi nemiche sarebbe
servita soprattutto a distrarre i legionari dal loro destino
imminente.
Thomas si strofinò la fronte. «Odio la mia vita.»
«Tieni duro, legionario» disse Hazel. «Ci siamo arruolati
per questo. Per difendere il retaggio di Roma.»
«Dai suoi stessi imperatori» aggiunse Thomas, affranto.
«Mi dispiace dirvelo, ma la maggiore minaccia per
l’impero sono stati spesso i suoi stessi imperatori» affermai.
Nessuno trovò nulla da ridire.
Al tavolo degli ufficiali, Frank Zhang si alzò. Per tutto lo
stanzone, brocche e vassoi volanti si fermarono a mezz’aria, in
rispettosa attesa. «Legionari!» annunciò, riuscendo perfino a
sorridere deciso. «Le attività ricominceranno sul Campo di
Marte fra venti minuti. Dateci dentro come se ne andasse della
vostra vita, perché è così!»
21

Visto, ragazzi?

È così che non si fa

Ora andate

«Come va la ferita?» chiese Hazel.


Sapevo che aveva ottime intenzioni, ma cominciavo a
essere stanco di quella domanda, e ancora più stanco di quella
ferita.
Uscimmo fianco a fianco dal cancello principale, diretti al
Campo di Marte. A pochi passi da noi, Meg faceva la ruota per
strada. Come ci riuscisse senza rigurgitare i quattro hot dog
che si era mangiata, rimaneva un mistero.
«Oh, sai… tutto considerato, sto bene» risposi, in un
pessimo tentativo di fingermi allegro.
Il mio vecchio sé immortale avrebbe riso. “Bene? Vuoi
scherzare?”
Nel corso degli ultimi mesi, avevo ridotto drasticamente le
mie aspettative. Ormai, “bene” significava “sono ancora in
grado di camminare e respirare”.
«Me ne sarei dovuta accorgere prima» disse Hazel. «La tua
aura di morte si fa più intensa ogni ora che passa.»
«Possiamo evitare di parlare della mia aura di morte?»
«Scusa, è solo che… vorrei che Nico fosse qui. Forse lui
saprebbe cosa fare.»
Non mi sarebbe dispiaciuto vedere il fratellastro di Hazel.
Nico Di Angelo, figlio di Ade, era stato molto utile quando
avevamo combattuto contro Nerone al Campo Mezzosangue.
E il suo ragazzo, mio figlio Will Solace, era un ottimo
guaritore. Eppure sospettavo che nemmeno loro avrebbero
potuto aiutarmi, non più di quanto Pranjal avesse già fatto. Se
Will e Nico fossero stati lì, sarebbero state solo altre due
persone di cui preoccuparmi, due persone care che mi
osservavano con angoscia chiedendosi quanto mancava alla
mia trasformazione completa in zombie.
«Apprezzo l’intenzione, ma…» mi interruppi. «Cosa sta
facendo Lavinia?»
A un centinaio di metri di distanza, Lavinia e Don il fauno
erano fermi su un ponte che attraversava il Piccolo Tevere – in
tutt’altra direzione rispetto al Campo di Marte – e stavano
chiaramente litigando. Forse non avrei dovuto farlo notare a
Hazel. Ma, del resto, se Lavinia voleva passare inosservata,
avrebbe scelto un’altra tinta per capelli – fantasia mimetica,
per esempio? – e avrebbe evitato di gesticolare tanto.
«Non lo so.» L’espressione di Hazel sembrava quella di una
madre stanca che aveva appena sorpreso la figlia nell’atto di
provare a scavalcare il recinto delle scimmie per l’ennesima
volta. «Lavinia!»
La figlia di Tersicore allungò lo sguardo verso di noi e tirò
su una mano come a dire: “Un minuto e arrivo!”, poi tornò a
litigare con Don.
«Sono troppo giovane per avere l’ulcera?» borbottò Hazel.
Non avevo molte occasioni di divertirmi, date le
circostanze, ma quel commento mi fece ridere.
Mentre ci avvicinavamo al Campo di Marte, vidi i legionari
che si distribuivano nelle varie coorti, spostandosi di attività in
attività in quella piana desolata. Un gruppo stava scavando
trincee difensive. Un altro si era radunato sulla riva di un lago
artificiale che non era nemmeno lì il giorno prima, in attesa di
abbordare due navi finte che non somigliavano minimamente
agli yacht di Caligola. Un terzo gruppo scivolava su una
collinetta servendosi degli scudi.
Hazel sospirò. «E quello ovviamente è il mio gruppo di
disgraziati. Se vuoi scusarmi, vado a insegnargli come si fanno
fuori i ghoul.» Corse via, lasciandomi lì con la mia compagna
acrobata.
«Allora, dove andiamo?» chiesi a Meg. «Frank ha detto che
avevamo dei compiti speciali.»
«Proprio così.» Meg indicò l’estremità del campo, dove la
Quinta Coorte era in attesa in un poligono di tiro. «Tu
insegnerai tiro con l’arco.»
«Io insegnerò cosa?»
«Frank ha tenuto le lezioni del mattino, visto che tu non ti
svegliavi mai. Ora tocca a te.»
«Ma… io non sono in grado di insegnare come Lester,
soprattutto nelle mie condizioni! E poi, i Romani non si
affidano mai agli archi in battaglia. Pensano che non siano
armi alla loro altezza!»
«Bisogna pensare in modo nuovo se vogliamo battere gli
imperatori» replicò Meg. «Prendi me. Io armerò gli unicorni.»
«Tu… aspetta… cosa?»
«Te lo spiego dopo.» La figlia di Demetra saltellò via verso
un ampio galoppatoio ad anello, dove la Prima Coorte e una
mandria di unicorni si scrutavano con sospetto. Non riuscivo a
immaginare come Meg pensasse di armare quelle pacifiche
creature, né chi le avesse dato il permesso di provarci, ma ebbi
l’improvvisa e orrenda visione di legionari e unicorni che si
attaccavano a vicenda armati di grattugie. Decisi che non
erano affari miei.
Con un sospiro, mi voltai verso il poligono di tiro e andai a
incontrare i miei nuovi allievi.
L’unica cosa più spaventosa dell’essere un pessimo arciere fu
scoprire che all’improvviso mi riusciva di nuovo benissimo.
Lo so, non sembrerebbe un problema, ma da quand’ero
diventato mortale avevo sperimentato pochissime e casuali
manifestazioni di abilità divine. Ogni volta i miei poteri erano
svaniti alla svelta, lasciandomi più amareggiato e disilluso di
prima.
Certo, avevo mandato a segno un’intera faretra di frecce
nella tomba di Tarquinio, ma questo non significava che
potessi farlo di nuovo. Se nel provare a dimostrare una vera e
propria tecnica di fronte a un’intera coorte avessi finito
soltanto col centrare gli unicorni di Meg sulle chiappe, sarei
morto di vergogna prima ancora che il veleno avesse la
meglio.
«Bene, ragazzi» cominciai. «Possiamo iniziare.»
Dakota stava frugando nella sua faretra macchiata
d’umidità, nel tentativo di recuperare una freccia che non fosse
storta. Chissà perché, pensava che fosse un’ottima idea tenere
nella sauna le attrezzature per il tiro con l’arco. Thomas e un
altro legionario – Marcus? – stavano usando gli archi per tirare
di scherma. Il vessillifero della legione, Jacob, stava tendendo
la corda… tenendo l’impennaggio della freccia direttamente
davanti all’occhio, il che spiegava la benda che gli copriva
l’occhio sinistro dopo le lezioni della mattina; sembrava
morire dalla voglia di accecarsi del tutto.
«Coraggio, gente!» esclamò Lavinia. Era arrivata in ritardo
senza che nessuno lo notasse (era uno dei suoi superpoteri) e si
assunse il compito di aiutarmi a richiamare le truppe
all’ordine. «Magari Apollo ha qualcosa da insegnare!»
Tossicchiai. Avevo affrontato folle di spettatori ben più
numerose. Perché ero così nervoso? Oh, giusto. Perché ero un
sedicenne imbranato e incompetente.
«Allora… parliamo di come prendere la mira.» Mi si
incrinò la voce. «Piedi divaricati. Tendete la corda. Individuate
il bersaglio con l’occhio dominante. O, nel caso di Jacob, con
l’unico occhio funzionante. Puntate servendovi del mirino, se
ne avete uno.»
«Io non ce l’ho» protestò Marcus.
«È quella specie di cerchietto lì.» Lavinia glielo mostrò.
«Okay, ce l’ho» si corresse Marcus.
«Poi scoccate» dissi. «Così.»
Puntai al bersaglio più vicino. Poi al successivo, e a quello
dopo ancora… un colpo dietro l’altro, in una specie di trance.
Soltanto dopo il ventesimo colpo mi resi conto di avere
fatto sempre centro, due frecce per ogni bersaglio, il più
lontano dei quali a duecento metri di distanza. Un gioco da
ragazzi per Apollo. Per Lester, impossibile.
I legionari mi guardavano a bocca aperta.
«E dovremmo farlo anche noi?» domandò Dakota.
Lavinia mi diede un pugno su un braccio. «Visto, ragazzi?
Ve l’avevo detto che Apollo non fa poi così schifo!»
Dovetti concordare con lei. Mi sentivo stranamente meno
schifoso del solito.
Quello sfoggio di bravura però mi aveva risucchiato le
forze. Non somigliava alle altre manifestazioni temporanee di
potere divino che avevo sperimentato. Fui tentato di chiedere
un’altra faretra per vedere se fossi in grado di mantenere lo
stesso livello, ma preferii non tentare la sorte.
«Allora…» balbettai. «Io, ehm, non mi aspetto che siate
subito così bravi. Stavo solo dimostrando cosa è possibile fare
con tanto esercizio. Proviamo, che ne dite?»
Fu un sollievo non essere più al centro dell’attenzione.
Organizzai la coorte in una linea di fuoco e camminai in
mezzo ai ranghi, distribuendo i miei consigli agli arcieri.
Nonostante le frecce storte, Dakota non era poi così terribile.
Colpì perfino il bersaglio un paio di volte. Jacob riuscì a non
accecarsi l’altro occhio. Thomas e Marcus mandarono la
maggior parte delle loro frecce a terra, facendo saltare sassi
che finivano un po’ dappertutto, trincee incluse. Suscitarono
diversi: «Ehi, attenti!» dalla Quarta Coorte, ancora intenta a
scavare.
Dopo un’ora di frustrazione con un comune arco, Lavinia ci
rinunciò e tornò alla manubalista. Abbatté il bersaglio dei
cinquanta metri al primo colpo.
«Perché insisti a voler usare quel mostro di lentezza?»
domandai. «Se soffri di iperattività e via dicendo, un
normalissimo arco non ti darebbe più soddisfazione?»
Lavinia si strinse nelle spalle. «Forse, ma la manubalista fa
più scena. A proposito…» Mi si accostò con il volto serio.
«Ho bisogno di parlarti.»
«Mmm… la cosa non mi piace.»
«No, infatti. Io…»
In lontananza, si udì suonare un corno.
«Bene, ragazzi!» esclamò Dakota. «È ora di ruotare le
attività! Buon lavoro di squadra!»
Lavinia mi mollò un altro pugno su un braccio. «A più
tardi, Lester.»
La Quinta Coorte lasciò cadere gli archi e corse verso
l’attività successiva, lasciando a me il compito di recuperare
tutte le frecce. Maledetti.
Trascorsi il resto del pomeriggio al poligono, a lavorare a
turno con tutte le coorti. Con il passare delle ore, sia il tiro con
l’arco sia l’insegnamento mi intimorirono sempre di meno.
Quando conclusi l’opera con l’ultimo gruppo, la Prima Coorte,
mi ero ormai convinto che il mio talento di arciere era tornato
per sempre.
Non capivo perché. Non riuscivo ancora a tirare al mio
vecchio livello divino, ma ero decisamente più bravo della
media di ogni semidio o campione olimpico. Avevo
cominciato a “ballare”. Stavo quasi per tirare fuori la Freccia
di Dodona e vantarmi: “Hai visto che so fare?”, ma non volevo
portarmi sfortuna da solo. E poi, la consapevolezza che stavo
morendo di avvelenamento zombie alla vigilia di una grande
battaglia toglieva un po’ di entusiasmo al fatto di riuscire di
nuovo a fare centro.
I legionari erano rimasti adeguatamente impressionati.
Alcuni avevano perfino imparato qualcosa, tipo come tirare
una freccia senza rimetterci un occhio né uccidere il tizio che
ti sta accanto. Eppure capivo che erano più entusiasti delle
altre attività. Mi erano arrivate molte voci sugli unicorni e
sulle tecniche anti-ghoul di Hazel. Larry della Terza Coorte si
era divertito così tanto ad abbordare le navi che andava
dicendo a tutti di voler fare il pirata da grande. Sospettavo che
la maggior parte dei legionari avessero preferito perfino i
lavori di scavo delle trincee alle mie lezioni.
Era tarda sera quando suonò l’ultimo corno e le coorti
tornarono sfinite al campo. Ero affamato ed esausto. Mi chiesi
se era così che si sentivano gli insegnanti mortali dopo un
intero giorno di lezioni. Se la risposta era sì, non capivo come
ci riuscissero. Mi augurai che fossero adeguatamente
ricompensati con oro, diamanti e spezie rare.
Almeno le coorti sembravano tutte di buon umore. Se lo
scopo dei pretori era distrarre la mente dei legionari dalla
paura e sollevare il morale alla vigilia della battaglia, il
pomeriggio era stato un successo. Se invece l’obiettivo era
addestrare la legione a respingere i nemici… allora ero
tutt’altro che speranzoso. Inoltre, per l’intera giornata, tutti
avevano meticolosamente evitato di parlare della cosa
peggiore dell’attacco imminente. I Romani avrebbero dovuto
affrontare i loro ex commilitoni, ridotti a zombie sotto il
controllo di Tarquinio. Ricordavo quanto fosse stato difficile
per Lavinia abbattere Bobby nella tomba. Mi chiesi se il
morale della legione avrebbe retto quando si fossero trovati di
fronte allo stesso dilemma cinquanta o sessanta volte di
seguito.
Stavo per imboccare la Via Principalis, diretto alla mensa,
quando una voce disse: «Pssst!».
Nascosti nel vicolo tra il caffè di Bombilo e la bottega del
carrozziere c’erano Lavinia e Don. Il fauno indossava
addirittura un trench sopra la maglietta colorata, come se
servisse a farlo passare inosservato.
Lavinia aveva coperto i capelli rosa con un berretto nero.
«Vieni qui!» sibilò.
«Ma la cena…»
«Abbiamo bisogno di te.»
«È una rapina?»
Lei mi venne incontro, mi afferrò per un braccio e mi tirò
dentro il vicolo.
«Non preoccuparti, bello» mi disse Don. «Non è una
rapina! Ma, ehm, se ti avanzano degli spiccioli…»
«Piantala, Don» lo fulminò Lavinia.
«La pianto» concordò lui.
«Lester, devi venire con noi» disse la figlia di Tersicore.
«Sono stanco. Ho fame. E non ho spiccioli. Non potremmo
aspettare…?»
«No. Perché domani rischiamo di morire tutti, ed è una cosa
importante. Usciremo di nascosto.»
«Usciremo di nascosto?»
«Eh, già» confermò Don. «È un po’ come quando si esce di
solito. Però, di nascosto.»
«Perché?»
«Vedrai.» Il tono di Lavinia era quanto mai inquietante,
come se non riuscisse a trovare le parole per descrivere la mia
bara. Dovevo vederla di persona.
«E se ci beccano?»
«Oh!» Don si illuminò. «Questa la so. Alla prima
infrazione, sei di turno nelle latrine per un mese. Ma tanto, se
domani moriamo tutti, non importa!»
E con questa nota felice, Lavinia e Don mi presero per
mano e mi trascinarono ancora di più nelle tenebre.
22

Canto di piante

E cespugli eroici

Ispiratevi!

Uscire di nascosto da un campo militare romano non avrebbe


dovuto essere così facile.
Una volta superati il varco nella recinzione, la trincea, il
tunnel, i picchetti di guardia e le sentinelle sulle torri del
campo, Don fu felice di spiegarmi come aveva organizzato il
tutto. «Bello, questo posto è progettato per impedire ai nemici
di entrare. Non per impedire a un singolo legionario di uscire
o, diciamo, a un bravo fauno in cerca di un pasto caldo di
entrare. Se conosci i turni delle pattuglie e sei disposto a
cambiare di continuo i punti di accesso, è facile.»
«Piuttosto impegnativo per un fauno» notai.
Don sorrise. «Ehi, amico. Oziare è un duro lavoro.»
«Ci aspetta una lunga camminata» disse Lavinia. «È meglio
se ci muoviamo.»
Cercai di trattenere un gemito. Un’altra escursione notturna
con Lavinia non rientrava fra i miei programmi della serata.
Però ero curioso, dovevo ammetterlo. Perché mi aveva detto di
volermi parlare, prima? Perché lei e Don stavano litigando, nel
pomeriggio? Dove stavamo andando?
Con gli occhi tempestosi e il berretto nero a coprire i
capelli, Lavinia sembrava inquieta e determinata, più simile a
una gazzella in allerta che a una goffa giraffina. Una volta
avevo visto suo padre Sergei Asimov esibirsi con il Balletto di
Mosca. Aveva la stessa identica espressione sul viso prima di
lanciarsi in un triplo grand jeté.
Avrei voluto chiedere a Lavinia cosa stava succedendo, ma
da come si muoveva era chiaro che non era dell’umore di fare
conversazione. Non ancora, in ogni caso. Scarpinammo in
silenzio fuori dalla valle e per le strade di Berkeley.
Doveva essere mezzanotte circa quando arrivammo al
People’s Park.
Non ci andavo dal 1969, quando ci avevo fatto un salto per
godermi un po’ di musica hippie e di flower power, e invece
mi ero ritrovato nel bel mezzo di una rivolta studentesca. Non
c’era stato niente di hippie nei manganelli, nei fucili e nei gas
lacrimogeni della polizia. Avevo dovuto attingere a tutto il mio
autocontrollo divino per non rivelare la mia vera forma e
ridurre tutti in cenere nel raggio di dieci chilometri.
A decenni di distanza, il parco sembrava ancora reduce
dalle sommosse. Il prato spelacchiato era cosparso di mucchi
di vestiti abbandonati e cartelli dipinti con slogan tipo SPAZIO
VERDE, NON DORMITORIO e SALVATE IL NOSTRO PARCO .
Diversi tronconi di alberi erano stati decorati con vasi di fiori e
collanine, come un tempio ai caduti. I cestini della spazzatura
traboccavano di rifiuti. I senzatetto dormivano sulle panchine
o si affaccendavano intorno ai carrelli pieni dei loro averi
terreni.
In fondo alla piazza, su un palchetto di compensato, c’era il
più grande sit-in di driadi e fauni che avessi mai visto. Non mi
stupiva il fatto che i fauni popolassero quel parco. Potevano
poltrire a loro piacimento, chiedere l’elemosina e mangiare
avanzi dai cestini della spazzatura senza che nessuno battesse
ciglio. Le driadi però non me le aspettavo. Ce n’erano almeno
una ventina. Alcune dovevano essere gli spiriti degli eucalipti
e delle sequoie locali, ma la maggior parte, a giudicare
dall’aria malaticcia, dovevano essere le driadi del prato, dei
cespugli e delle erbacce del parco. (Non che io giudichi le
driadi delle erbacce. Conosco alcuni adorabili esemplari di
digitaria.)
I fauni e le driadi sedevano in un ampio cerchio come per
prepararsi a cantare intorno a un falò invisibile. Ebbi la
sensazione che stessero aspettando noi – me – per iniziare la
musica.
Ero già abbastanza nervoso. Poi mi accorsi di un volto
familiare e per poco non mi cadde la mascella, e non ero
ancora uno zombie. «Pesca?»
Quel piccolo diavolo di karpos scoprì le zanne e rispose:
«Pesca!».
I rami delle sue ali avevano perso un po’ di foglie. I capelli
ricci e un tempo verdi erano di un marrone appassito sulle
punte, e gli occhi gialli come lampioni non brillavano con
l’intensità che ricordavo. Chissà quante ne aveva passate per
rintracciarci nella California del Nord. Però ringhiava tale e
quale a prima, e mi intimidiva abbastanza da farmi temere per
la mia vescica.
«Dove sei stato?» domandai.
«Pesca!»
«Meg sa che sei qui? Come hai…?»
Lavinia mi strinse una spalla. «Ehi, Apollo. Non abbiamo
molto tempo. Pesca ci ha raccontato quello che ha visto nella
California del Sud, ma è arrivato troppo tardi per rendersi
utile. È volato qui più in fretta che ha potuto. Vuole che sia tu
a raccontare per primo quello che è successo laggiù.»
Scrutai i volti nella folla. Gli spiriti della natura
sembravano spaventati, ansiosi e arrabbiati… ma per lo più
erano stanchi di essere arrabbiati. Avevo già visto quello
sguardo molte volte fra le driadi in questi ultimi tempi della
civiltà umana. C’è un limite all’inquinamento che una pianta
può respirare, bere e tollerare tra i suoi rami prima di
cominciare a perdere ogni speranza.
E Lavinia voleva che le scoraggiassi del tutto raccontando
quanto era successo ai loro simili a Los Angeles, nonché la
portata della distruzione incendiaria che li attendeva
l’indomani. In altre parole, voleva farmi linciare da una folla
inferocita di arbusti.
Deglutii. «Ehm…»
«Aspetta, ho una cosa che può esserti d’aiuto.» Lavinia si
sfilò lo zaino dalle spalle. Non avevo fatto molta attenzione a
quanto fosse pieno, dato che se ne andava sempre in giro con
un sacco di attrezzatura dietro. Quando lo aprì, l’ultima cosa
che mi aspettavo che tirasse fuori era il mio ukulele: pulito,
rimesso a nuovo e con le corde scintillanti.
«Ma come…?»
«L’ho rubato dalla tua stanza» rispose lei, come se fosse un
gesto ovvio tra amici. «Non volevi svegliarti. L’ho portato da
una mia amica che ripara gli strumenti… Marilyn, figlia di
Euterpe. Hai presente, la musa della musica?»
«Sì, sì… la conosco Euterpe. Certo. La sua specialità sono i
flauti, non gli ukulele. Ma la tastiera è perfetta, adesso.
Marilyn deve essere… Sono così…» Mi accorsi di blaterare a
vanvera. «Grazie.»
Lavinia mi guardò con la sua espressione più decisa, come
per ordinarmi di non rendere vano quello sforzo. Si fece
indietro e si unì al cerchio degli spiriti della natura.
Suonai un accordo. Lavinia aveva ragione. Lo strumento
era decisamente d’aiuto. Non per nascondercisi dietro (come
avevo scoperto, non ci si può nascondere dietro un ukulele).
Ma rendeva più salda la mia voce. Dopo qualche mesto
accordo minore, cominciai a cantare La caduta di Jason
Grace, come al mio arrivo al Campo Giove. La canzone, però,
prese rapidamente un’altra strada. Come tutti i bravi artisti,
adattai il materiale al pubblico.
Cantai dei fuochi e della siccità che avevano seccato la
California del Sud. Cantai dei cactus e dei satiri coraggiosi
della Cisterna di Palm Springs, che avevano combattuto
valorosamente per scoprire la causa della distruzione. Cantai
delle driadi Agave e Salvadanaio, rimaste gravemente ferite
nel Labirinto di fuoco, e di come Salvadanaio fosse morta fra
le braccia di Aloe Vera. Aggiunsi qualche strofa speranzosa su
Meg e sulla rinascita delle driadi meliadi, e raccontai come
avevamo distrutto il Labirinto di fuoco e dato così
all’ambiente almeno un’opportunità di guarigione. Ma non
potevo nascondere i pericoli che ci aspettavano. Descrissi
quello che avevo visto nei miei sogni: gli yacht che si
avvicinavano con i loro mortai armati di fiamme, la
devastazione infernale che sarebbe piovuta su tutta la baia.
Dopo l’ultimo accordo, alzai lo sguardo. Lacrime verdi
luccicavano negli occhi delle driadi. I fauni piangevano
apertamente.
Pesca si rivolse alla folla e ringhiò: «Pesca!».
Stavolta fui abbastanza certo di capire il senso: “Visto? Ve
l’avevo detto!”.
Don tirò su col naso, poi si asciugò gli occhi con la
cartaccia di un burrito. «Allora è vero. Sta succedendo. Che
Fauno ci protegga!»
Lavinia si asciugò le lacrime con il braccio. «Grazie,
Apollo.»
Quasi le avessi fatto un favore. Perché, allora, mi sentivo
come se avessi preso a calci nelle radici ogni singolo spirito
della natura presente? Avevo trascorso un sacco di tempo a
preoccuparmi per la sorte di Nuova Roma e del Campo Giove,
degli Oracoli, dei miei amici e di me stesso. Ma quegli olmi e
quelle digitarie meritavano lo stesso di vivere. Anche loro si
trovavano di fronte alla morte. Erano terrorizzati. Se gli
imperatori avessero usato i mortai, le piante non avrebbero
avuto nessuna possibilità di sopravvivere. Anche quei
senzatetto mortali con i loro carrelli lì al parco sarebbero
bruciati, insieme ai legionari. Le loro vite non valevano di
meno.
I mortali non avrebbero capito il disastro. Lo avrebbero
attribuito a incendi improvvisi o a qualunque altra causa il loro
cervello mortale fosse stato in grado di comprendere. Ma io
avrei saputo la verità. Se l’immensa, pazzesca, bellissima
distesa costiera della California fosse bruciata, sarebbe stato
perché non ero riuscito a fermare i miei nemici.
«Bene, gente» riprese Lavinia, dopo una breve pausa per
ricomporsi. «Lo avete sentito. Gli imperatori saranno qui
domani sera.»
«Ma così non abbiamo tempo» osservò la driade di una
sequoia. «Se faranno alla baia quello che hanno fatto a Los
Angeles…»
La paura si diffuse tra la folla come una brezza gelida.
«La legione li combatterà, però. Giusto?» chiese un fauno
terrorizzato. «Cioè, magari vincerà.»
«E dai, Reginald» lo rimbrottò una driade. «Vuoi davvero
dipendere dai mortali? Pensi davvero che ci proteggeranno?
Quando mai ha funzionato?»
Ci fu un mormorio di assenso generale.
«A dire il vero, Frank e Reyna ci stanno provando»
intervenne Lavinia. «Manderanno una piccola squadra speciale
a intercettare le navi, Michael Kahale e qualche altro semidio
scelto. Ma non sono ottimista.»
«Non lo sapevo» osservai. «Come l’hai scoperto?»
Lavinia inarcò un sopracciglio rosa come a dire: “Per
favore”. «E il nostro Lester proverà a evocare l’aiuto divino
con non so quale rituale supersegreto, ma…»
Non c’era bisogno che continuasse. Non era ottimista
nemmeno su quel fronte.
«Allora che farete?» domandai. «Cosa potete fare?» Non
volevo sembrare critico. Ma davvero non riuscivo a
immaginare quali opzioni avessero.
Le espressioni di panico dei fauni sembravano indizi del
loro piano: procurarsi i biglietti del pullman per l’Oregon il
prima possibile. Ma questo non avrebbe aiutato le driadi.
Erano letteralmente radicate nel loro suolo natio. Forse
potevano andare in ibernazione profonda, come avevano fatto
le driadi del Sud. Ma sarebbe bastato per sopportare una
tempesta di fiamme? Avevo sentito parlare di certe specie di
piante che germinano e crescono dopo che incendi hanno
devastato il terreno, ma dubitavo che fosse un fenomeno molto
comune.
E poi, non sapevo molto del ciclo vitale delle driadi, né di
come si proteggessero dai disastri climatici. Forse se avessi
trascorso più tempo a parlare con loro nel corso dei secoli
anziché cercare di sedurle…
Wow. Non conoscevo più nemmeno me stesso.
«Abbiamo molte cose di cui discutere» disse una delle
driadi.
«Pesca» concordò Pesca. Mi guardò con un messaggio
chiaro negli occhi: “Vattene subito”.
Avevo una marea di domande da fargli: perché si era
assentato così a lungo? Perché lui era qui e Meg non c’era?
Ma sospettavo che non avrei ricevuto risposte, quella sera.
O almeno, niente che non fosse un ringhio, un morso o la
parola “pesca”. Ripensai a quello che la driade aveva detto a
proposito del non fidarsi dei mortali per risolvere i problemi
degli spiriti della natura. A quanto pareva, la cosa includeva
me. Avevo riferito il messaggio. Adesso ero congedato.
Avevo già il cuore pesante, e Meg in quel momento era così
fragile… non sapevo come avrei fatto a dirle che il suo piccolo
diavolo col pannolino era diventato un frutto ribelle.
«Ti riaccompagno al campo» mi disse Lavinia. «Domani ti
aspetta una grande giornata.»
Lasciammo Don con gli altri, tutti impegnati in una fitta
conversazione per affrontare la crisi, e ripercorremmo i nostri
passi lungo Telegraph Avenue.
Dopo un paio di isolati, trovai il coraggio di chiedere:
«Cosa faranno?».
Lavinia trasalì come se si fosse dimenticata della mia
presenza. «Vuoi dire, cosa faremo. Perché io sto con loro.»
Mi salì un groppo in gola. «Lavinia, mi stai spaventando.
Cos’hai in mente?»
«Ho cercato di non pensarci…» borbottò. Nel bagliore dei
lampioni, alcune ciocche dei suoi capelli rosa erano sfuggite al
berretto e sembravano fluttuarle intorno al viso come zucchero
filato. «Dopo quello che abbiamo visto nella tomba… Bobby e
gli altri… dopo che hai descritto quello che ci aspetta
domani…»
«Lavinia, ti prego…»
«Non posso rientrare nei ranghi come un buon soldato. Io
che serro gli scudi e marcio verso la morte con tutti gli altri?
Così non aiuterei nessuno.»
«Ma…»
«Non chiedermelo, è meglio» ringhiò, riuscendo a
intimidirmi quasi quanto Pesca. «Ed è decisamente meglio se
non dici niente a nessuno di questa notte. Ora diamoci una
mossa.»
Per tutto il resto del cammino, ignorò le mie domande.
Aveva una nuvola nera al profumo di gomma da masticare
sopra la testa. Mi accompagnò sano e salvo oltre le sentinelle,
sotto il muro e fino al caffè, e poi scomparve nel buio senza
neanche salutare.
Forse avrei dovuto fermarla. Dare l’allarme. Farla arrestare.
Ma a cosa sarebbe servito? Avevo l’impressione che Lavinia
non si fosse mai sentita a proprio agio nella legione. In fin dei
conti, passava tutto il tempo a cercare uscite segrete e sentieri
nascosti per andarsene dalla valle. E adesso, alla fine, era
esplosa.
Ebbi la brutta sensazione che non l’avrei più rivista.
Sarebbe saltata sul primo autobus per Portland insieme a
qualche decina di fauni, e per quanto cercassi di avercela con
lei riuscivo solo a provare una gran tristezza. Al posto suo,
avrei agito diversamente?
Quando tornai nella nostra stanza, Meg dormiva della
grossa. Russava pure. Aveva gli occhiali ancora in mano, e le
lenzuola avvolte intorno ai piedi. Feci del mio meglio per
rimboccarle. Chissà se stava facendo qualche brutto sogno sul
suo amico Pesca che tramava con le driadi locali a pochi
chilometri di distanza. Il giorno dopo, avrei dovuto decidere
cosa dirle. Per il momento, l’avrei lasciata dormire.
Mi infilai nella mia branda, sicuro di rigirarmi inquieto fino
al mattino.
Invece crollai in un istante.
Quando mi svegliai, avevo la luce del primo mattino in viso. Il
letto di Meg era vuoto. Mi resi conto che avevo dormito come
un morto: senza sogni né visioni. La cosa non mi consolò.
Quando anche gli incubi ammutoliscono, significa che c’è
qualcos’altro in arrivo: qualcosa di peggiore.
Mi vestii e raccolsi le mie cose, cercando di non pensare a
quanto mi sentissi stanco, né a quanto mi facesse male la
ferita. Poi afferrai un muffin e un caffè al volo da Bombilo e
uscii a cercare i miei amici. Quel giorno, in un modo o
nell’altro, si sarebbe deciso il destino di Nuova Roma.
23

In un pick-up con

Cani, armi e quello

Scemo di Lester

Reyna e Meg mi aspettavano davanti al cancello del campo,


anche se riconobbi a malapena la prima. Al posto degli abiti da
pretore, indossava scarpe da jogging blu, jeans skinny, una
maglietta a maniche lunghe color bronzo e un cardigan
incrociato. Con i capelli tirati indietro in una treccia e le
guance lievemente truccate, poteva passare per una delle tante
migliaia di studentesse della baia a cui nessuno avrebbe fatto
particolare attenzione. Immaginai che fosse quello il punto.
«Che c’è?» mi domandò.
Mi resi conto che la stavo fissando. «Niente.»
Meg sbruffò. Indossava come sempre lo scamiciato verde, i
leggings gialli e le sneakers alla caviglia rosse, per cui si
poteva confondere con le migliaia di studentesse del primo
anno della baia, a parte il fatto che era alta come una
dodicenne, aveva la cintura da giardinaggio e attaccato al
colletto un distintivo rosa che sfoggiava la testa stilizzata di un
unicorno con le tibie incrociate. Mi domandai se lo avesse
comprato in un negozio di souvenir a Nuova Roma o se invece
se lo fosse fatto fare espressamente. Entrambe le opzioni erano
inquietanti.
Reyna allargò le mani. «Sono in borghese, Apollo, sì.
Perfino con la Foschia che aiuta a nascondere le cose,
camminare per San Francisco in armatura può attirare occhiate
strane.»
«No. Certo. Stai benissimo. Cioè, bene.» Perché mi
sudavano i palmi delle mani? «Insomma, possiamo andare
adesso?»
Reyna si mise due dita in bocca e lanciò un fischio talmente
acuto da sturarmi le trombe di Eustachio. Da dentro il forte, i
suoi due levrieri di metallo arrivarono di corsa, abbaiando
come piccole armi da fuoco.
«Oh, bene» dissi, cercando di reprimere l’istinto di fuggire
per il panico. «Stanno arrivando i tuoi cani.»
Reyna sorrise. «Be’, ci rimarrebbero male se andassi in
macchina a San Francisco senza di loro.»
«In macchina?» Stavo per aggiungere: “Quale macchina?”
quando udii un clacson provenire dalla città. Lungo la strada di
solito riservata ai legionari e agli elefanti in marcia arrivò
rombando un pick-up Chevy quattro per quattro, tutto
scassato, rosso brillante.
Al volante c’era Hazel Levesque, con Frank Zhang di
fianco.
Non fecero in tempo a fermarsi che Aurum e Argentum
balzarono sul pianale del camioncino, scodinzolanti e con le
lingue di metallo penzoloni.
Hazel scese dalla cabina. «Ho fatto il pieno, pretore!»
«Grazie, centurione. Come vanno le lezioni di guida?»
«Bene! Non sono neppure andata a sbattere contro
Terminus stavolta».
«Un bel progresso» concordò Reyna.
Frank ci raggiunse facendo il giro dal lato del passeggero.
«Sì, Hazel sarà pronta per le strade pubbliche in meno di
niente.»
Avevo tante domande per la testa. Dove lo tenevano quel
pick-up? C’era una stazione di servizio a Nuova Roma?
Perché avevo scarpinato così tanto se era possibile andare in
macchina?
Meg mi batté sul tempo con la vera domanda: «Posso
viaggiare dietro insieme ai cani?».
«Nossignora» rispose Reyna. «Starai seduta in cabina con
la cintura di sicurezza allacciata.»
«Uffa.» Meg corse a coccolare i cani.
Frank strinse Reyna in un grande abbraccio da orso (senza
trasformarsi in orso). «Fa’ attenzione là fuori, okay?»
Reyna non sapeva come reagire a quella manifestazione di
affetto. Irrigidì le braccia, poi diede al suo collega pretore una
pacca imbarazzata sulla schiena. «Anche tu» disse. «Notizie
della squadra d’attacco speciale?»
«Sono partiti prima dell’alba» rispose Frank. «Kahale era
soddisfatto, ma…» Scrollò le spalle, come a dire che ormai la
missione del reparto speciale contro gli yacht era nelle mani
degli dei. E questo, da ex dio, posso dirvi che non era
rassicurante.
Reyna si girò verso Hazel. «E i picchetti anti-zombie?»
«Siamo pronti» riferì Hazel. «Se le orde di Tarquinio
vengono dalla stessa direzione di prima, andranno incontro a
brutte sorprese. Ho posizionato delle trappole anche lungo gli
altri accessi alla città. Speriamo di fermarli prima di
ingaggiare un corpo a corpo, così…» Esitò, evidentemente
restia a finire la frase.
Pensai di aver capito. “Così non dobbiamo vedere le loro
facce.” Se la legione doveva affrontare un’ondata di compagni
non-morti, sarebbe stato molto meglio distruggerli a distanza,
senza l’angoscia di dover riconoscere gli ex amici.
«Vorrei solo…» Hazel scosse la testa. «Be’, ho ancora
paura che Tarquinio abbia in mente qualcos’altro. Dovrei
essere in grado di comprenderlo, ma…» Si diede un colpetto
sulla fronte come se volesse resettarsi il cervello. Quanto la
capivo.
«Hai fatto molto» la rassicurò Frank. «Se hanno in serbo
delle sorprese, risponderemo.»
Reyna annuì. «Okay, allora, noi partiamo. Non dimenticarti
di rifornire le catapulte.»
«Certo» disse il figlio di Marte.
«E ricontrolla con il quartiermastro quelle maledette
barricate.»
«Certo.»
«E…» Reyna si bloccò. «Sai quello che fai. Scusa.»
Frank fece un gran sorriso. «Portateci qualunque cosa ci
serva per evocare l’aiuto divino. Manterremo il campo integro
finché non sarete tornati.»
Hazel osservò con aria preoccupata la tenuta di Reyna. «La
tua spada è nel pick-up. Sicura di non voler prendere uno
scudo o altro?»
«No. Ho il mio mantello. Neutralizzerò la maggior parte
delle armi.» Reyna si sfiorò il collo del cardigan incrociato,
che si srotolò all’istante formando il mantello da pretore.
Il sorriso di Frank svanì. «Anche il mio mantello lo fa?»
«Ci vediamo, ragazzi!» Reyna si mise al volante.
«Aspettate, anche il mio mantello devia le armi?» ci gridò
Frank. «E si trasforma in un cardigan incrociato?»
Mentre ci allontanavamo, vidi nello specchietto retrovisore
Frank Zhang che osservava con attenzione le cuciture del suo
mantello.
La nostra prima sfida della mattinata: la corsia di accesso al
Bay Bridge.
Uscire dal Campo Giove non era stato un problema. Una
strada sterrata ben nascosta conduceva dalla valle alle colline,
per poi sfociare fra le strade residenziali di East Oakland. Da lì
imboccammo l’Highway 24 fino alla Interstate 580. A quel
punto cominciò il vero divertimento.
I pendolari, a quanto pareva, non avevano saputo che
eravamo impegnati in una missione cruciale per salvare la
metropoli. Si rifiutavano caparbiamente di togliersi di mezzo.
Forse avremmo dovuto prendere dei mezzi di trasporto
pubblici, ma dubitai che lasciassero salire due micidiali automi
canini sui treni della BART .
Reyna tamburellava con le dita sul volante, borbottando i
testi di Tego Calderón suonato dal preistorico lettore CD del
pick-up. Apprezzavo il reggaeton come tutti gli dei greci, ma
forse non era il tipo di musica che avrei scelto per placare i
nervi la mattina di un’impresa quasi impossibile. Lo trovavo
un tantino troppo energico per la mia agitazione
precombattimento.
Seduta in mezzo a noi, Meg rovistava fra i semi nella sua
cintura da giardinaggio. Ci aveva raccontato che durante la
battaglia nella tomba tanti sacchetti si erano aperti e mescolati,
e ora stava cercando di capire quali erano quali. Questo voleva
dire che di tanto in tanto sollevava un seme e lo fissava finché
non fioriva e diventava un dente di leone, un pomodoro, una
melanzana o un girasole. Nel giro di poco tempo, la cabina
profumava come il reparto giardinaggio di un negozio per il
fai-da-te.
Non avevo raccontato a Meg che avevo visto Pesca. Non
sapevo neanche come cominciare la conversazione. “Ehi, lo
sai che il tuo karpos tiene riunioni clandestine con i fauni e le
digitarie a People’s Park?”
Più aspettavo a dirle qualcosa, più diventava difficile.
Ripetevo a me stesso che non era una buona idea distrarre Meg
durante una missione importante. Volevo rispettare i desideri
di Lavinia e non spifferare tutto. È vero, non avevo visto
Lavinia quella mattina prima della nostra partenza, ma forse i
suoi piani non erano scellerati come pensavo. Forse non era
ancora partita per l’Oregon.
In realtà, non parlai perché ero un codardo. Avevo paura di
far arrabbiare le due pericolose fanciulle con cui viaggiavo,
una delle quali avrebbe potuto farmi ridurre a pezzi da un paio
di levrieri di metallo, mentre l’altra avrebbe potuto farmi
spuntare dei cavoli dal naso.
Attraversammo lentamente il ponte mentre Reyna
tamburellava con le dita al ritmo di El Que Sabe, Sabe. Chi lo
sa, lo sa. Ero al settantacinque per cento sicuro che non ci
fosse nessun messaggio segreto nella sua scelta dei brani.
«Quando arriviamo, dobbiamo parcheggiare alla base della
collina e salire a piedi. La zona intorno alla Sutro Tower è off-
limits» ci disse.
«Così hai deciso che il nostro obiettivo è la torre, e non il
Monte Sutro» osservai.
«Non posso saperlo con certezza, ovviamente. Ma ho
ricontrollato l’elenco di zone calde di Thalia. La torre c’era.»
«L’elenco di che?»
Reyna sbatté le palpebre. «Non te l’avevo detto? Thalia e le
Cacciatrici di Artemide tengono un elenco aggiornato dei
luoghi in cui hanno notato insolite attività di mostri, roba che
non riescono a spiegare fino in fondo. La Sutro Tower è uno di
questi. Thalia mi ha mandato l’elenco delle località nella baia,
in modo che il Campo Giove possa tenerle d’occhio.»
«Quante sono le zone calde?» domandò Meg. «Possiamo
visitarle tutte?»
Reyna le diede una piccola gomitata scherzosa. «Mi piace il
tuo spirito, Killer, ma ce ne sono decine solo a San Francisco.
Noi – voglio dire la legione – cerchiamo di tenerle d’occhio
tutte, ma sono tante. In particolare negli ultimi tempi…»
“Con le battaglie” pensai. “E i morti.”
Mi chiesi il motivo della piccola esitazione nella voce di
Reyna quando aveva detto “noi” e poi aveva chiarito che
intendeva dire “la legione”. Mi domandai di quanti altri “noi”
Reyna Avila Ramírez-Arellano si sentisse parte. Senz’altro
non me l’ero mai immaginata in borghese, alla guida di un
pick-up scassato, a portare i suoi levrieri di metallo a farsi un
giro. Ed era rimasta in contatto con Thalia Grace, la vice di
mia sorella, leader delle Cacciatrici di Artemide.
Ero geloso, e lo detestavo.
«Come fai a conoscere Thalia?» Cercai di sembrare
disinvolto. A giudicare dallo sguardo strabico di Meg, avevo
clamorosamente fallito.
Reyna parve non accorgersene. Cambiò corsia per
guadagnare terreno in mezzo al traffico. Sul retro, Aurum e
Argentum abbaiavano festosi, eccitati dall’avventura in corso.
«Io e Thalia abbiamo combattuto insieme contro Orione a
Puerto Rico» rispose. «Sia le Amazzoni sia le Cacciatrici
hanno perso tante ragazze in gamba. Questo genere di cose…
queste esperienze condivise… In ogni caso, sì, siamo rimaste
in contatto.»
«In che modo? Le linee di comunicazione sono tutte
interrotte.»
«Con le lettere.»
«Lettere…» Mi sembrava di ricordarmi cosa fossero,
risalivano più o meno all’epoca della cartapecora e dei sigilli
di cera. «Vuoi dire… quando scrivi qualcosa a mano, infili il
foglio in una busta, ci attacchi sopra un francobollo e…»
«E poi spedisci il tutto. Esatto. Insomma, ci possono volere
settimane o mesi tra una lettera e l’altra, ma Thalia è una
buona amica di penna.»
Cercai di capire. Pensando a Thalia Grace, mi venivano in
mente molte possibili descrizioni. “Amica di penna” però non
era tra queste.
«E poi dove le spedisci le lettere?» domandai. «Le
Cacciatrici sono sempre in movimento.»
«Hanno una casella postale nel Wyoming e… Ma perché
stiamo parliamo di questo?»
Meg strinse un seme tra le dita. Un geranio fiorì
all’improvviso. «È lì che sono andati i tuoi cani? A cercare
Thalia?»
Non capii come fosse riuscita a fare quel collegamento, ma
Reyna annuì.
«Subito dopo il tuo arrivo ho scritto a Thalia di… insomma,
di Jason» disse. «Sapevo che era molto difficile che ricevesse
il messaggio, così ho mandato anche Aurum e Argentum a
cercarla, nel caso in cui le Cacciatrici fossero state in zona. Ma
niente.»
Immaginai quello che poteva accadere se Thalia avesse
ricevuto la lettera di Reyna. Si sarebbe precipitata al Campo
Giove alla testa delle Cacciatrici, pronta ad aiutarci a
combattere contro gli imperatori e le orde di non-morti di
Tarquinio? O avrebbe rivolto la sua ira contro di me? Thalia
mi aveva già tolto dai guai una volta a Indianapolis e io, a mo’
di ringraziamento, avevo fatto uccidere suo fratello a Santa
Barbara. Dubitavo che qualcuno avrebbe avuto qualcosa da
obiettare se una freccia vagante delle Cacciatrici mi avesse
scelto come bersaglio durante la battaglia. Rabbrividii, grato
per la lentezza del servizio postale degli Stati Uniti.
Superammo Treasure Island, che segnava il punto di Bay
Bridge a metà strada fra Oakland e San Francisco. Pensai alla
flotta di Caligola, che sarebbe passata dall’isola più tardi
quella sera stessa, pronta a scaricare le sue truppe e, se
necessario, il suo arsenale di bombe di fuoco greco sulla
ignara East Bay. Maledissi la lentezza del servizio postale
degli Stati Uniti.
«Allora…» dissi, facendo un secondo tentativo di sembrare
disinvolto. «Tu e Thalia siete, ehm…»
Reyna inarcò un sopracciglio. «Legate sentimentalmente?»
«Be’, volevo solo… volevo solo dire… ehm.» “Oh,
complimenti, Apollo.” Ho accennato al fatto che un tempo ero
il dio della poesia?
Reyna alzò gli occhi al cielo. «Se avessi un denarius per
tutte le volte in cui me lo hanno chiesto… A parte il fatto che
Thalia è nelle Cacciatrici, e quindi ha fatto voto di nubilato,
ma perché una grande amicizia deve sempre sfociare in una
storia d’amore? Thalia è un’amica fantastica. Perché dovrei
rischiare di incasinare tutto?»
«Ehm…»
«Era una domanda retorica» aggiunse Reyna. «Non mi
serve una risposta.»
«So che cosa significa “retorica”.» Presi mentalmente nota
di ricontrollare la definizione del termine insieme a Socrate la
prossima volta che mi fossi trovato in Grecia. Poi ricordai che
Socrate era morto. «Pensavo solo…»
«Adoro questa canzone» ci interruppe Meg. «Alza il
volume!»
Dubitai che Meg nutrisse il minimo interesse verso Tego
Calderón, ma il suo intervento potrebbe avermi salvato la vita.
Reyna alzò il volume al massimo, ponendo così fine al mio
tentato suicidio tramite conversazione disinvolta.
Rimanemmo in silenzio per il resto del tragitto verso la
città, ascoltando Tego Calderón che cantava Punto y Aparte e i
levrieri di Reyna che abbaiavano contenti come armi
semiautomatiche la sera dell’ultimo dell’anno.
24

Metto la mia

Brutta faccia divina

Dove non si può

Per essere una zona così popolosa, San Francisco aveva un


numero sorprendente di aree deserte. Parcheggiammo ai piedi
della collina della torre. Alla nostra destra, un campo di sassi
ed erbacce dava su una vista spettacolare della città. Alla
nostra sinistra, il declivio era così fitto di eucalipti che
avremmo quasi potuto usare i tronchi come gradini.
Dalla sommità della collina, più o meno mezzo chilometro
sopra di noi, la Sutro Tower svettava nella nebbia, con le travi
maestre e i piloni bianchi e rossi a formare un gigantesco
tripode. Mi ricordò in modo piuttosto sgradevole la sede
dell’Oracolo di Delfi. O il sostegno di una pira funeraria.
«C’è un ripetitore alla base.» Reyna indicò la cima del
colle. «Potremmo avere a che fare con guardie mortali,
staccionate, filo spinato e questo genere di cose. Più,
qualunque cosa Tarquinio abbia messo ad aspettarci.»
«Fantastico!» esclamò Meg. «Andiamo!»
I levrieri non avevano bisogno di incoraggiamento. Si
lanciarono verso la cima, facendosi largo attraverso il
sottobosco. Meg li seguì, evidentemente decisa a strapparsi i
vestiti su quanti più rovi e cespugli possibile.
Reyna dovette aver notato la mia espressione affranta
mentre contemplavo la salita. «Non preoccuparti, possiamo
prendercela con calma. Aurum e Argentum sanno di dovermi
aspettare in cima.»
«E Meg?» Immaginavo la mia giovane amica che andava
alla carica da sola in una stazione ripetitrice piena di guardie,
zombie e altre “fantastiche” sorprese.
«Giusto» commentò Reyna. «Optiamo per una via di mezzo
allora.»
Feci del mio meglio, il che comportava una valanga di
respiri affannati, di sudore e di pause appoggiato agli alberi
per riprendere fiato. Le mie abilità di arciere saranno anche
state potenziate, e stavo migliorando con la musica, ma la mia
capacità di resistenza era ancora cento per cento Lester.
Almeno Reyna non mi chiese come stava la ferita. La
risposta sarebbe stata “un po’ peggio di malissimo”.
Quando mi ero vestito quella mattina, avevo evitato di
guardarmi la pancia, ma non potevo ignorare il dolore pulsante
né le volute di infezione che mi lambivano i polsi e il collo, e
che neppure la mia felpa con il cappuccio a maniche lunghe
riusciva a nascondere. Di tanto in tanto, mi si annebbiava la
vista, e il mondo si tingeva di un nauseabondo color
melanzana. Sentivo un lontano sussurro nella testa… la voce
di Tarquinio che mi invitava a ritornare nella sua tomba.
Finora la voce era stata solo un fastidio, ma avevo la
sensazione che sarebbe diventata più forte finché non avrei più
potuto ignorarla… o evitare di obbedirle.
Dissi a me stesso che dovevo solo trattenermi fino a quella
sera. Poi avrei potuto evocare l’aiuto divino e farmi curare. O
morire in battaglia. A quel punto, entrambe le opzioni erano
preferibili a una dolorosa e lenta discesa verso la non-morte.
Reyna camminava accanto a me usando la spada inguainata
per tastare il terreno, come se si aspettasse di trovare delle
mine. Davanti a noi, attraverso il fitto fogliame, non riuscivo a
scorgere né Meg né i levrieri, ma li sentivo avanzare dal
fruscio delle foglie e dai ramoscelli calpestati. Se qualche
sentinella ci aspettava in cima, non l’avremmo certo colta di
sorpresa.
«Allora, hai intenzione di dirmelo?» chiese Reyna,
evidentemente contenta che Meg fosse fuori portata
d’orecchio.
Il mio cuore accelerò i battiti fino a raggiungere un tempo
di sei ottavi, perfetto per la marcia di una parata. «Dirti cosa?»
Reyna inarcò le sopracciglia, della serie: “Stai
scherzando?”. «Da quando sei arrivato al campo, ti comporti
in modo nervoso. Mi fissi come se fossi io quella che è stata
infettata. Poi eviti il contatto visivo. Balbetti. Ti agiti. Queste
cose io le noto.»
«Ah.» Avanzai di qualche altro passo. Forse, se mi fossi
concentrato sulla camminata, Reyna avrebbe lasciato cadere il
discorso.
«Senti, non voglio insistere» riprese. «Ma qualunque cosa
stia succedendo, preferirei che non restasse in sospeso tra noi
quando entriamo in battaglia.»
Deglutii. Avrei voluto avere una delle gomme di Lavinia
per attenuare il sapore del veleno e della paura.
Reyna aveva ragione. Che morissi quel giorno, mi
trasformassi in zombie o in qualche modo riuscissi a
sopravvivere, sarebbe stato meglio affrontare il mio destino
con la coscienza pulita e senza segreti. Tanto per cominciare,
dovevo dire a Meg che avevo incontrato Pesca. Dovevo anche
dirle che non la odiavo. In effetti, mi stava molto simpatica.
Okay, lo ammetto, le volevo molto bene. Era la sorellina
irritante che non avevo mai avuto.
Quanto a Reyna, non sapevo se io ero la risposta al suo
destino o meno. Venere avrebbe potuto maledirmi perché
mettevo le cose in chiaro con lei, ma dovevo dire a Reyna
quello che mi pesava sul cuore. Difficilmente avrei avuto
un’altra opportunità.
«Si tratta di Venere» dissi.
L’espressione di Reyna si indurì. Toccava a lei adesso
fissare il fianco del colle e sperare che la conversazione finisse
lì. «Capisco.»
«Mi ha detto…»
«La sua piccola predizione.» Reyna sputò le parole come
fossero semi immangiabili. «Nessun mortale o semidio guarirà
mai il mio cuore.»
«Non volevo impicciarmi degli affari tuoi» giurai. «È solo
che…»
«Oh, ti credo. A Venere piacciono i pettegolezzi. Dubito
che ci sia qualcuno al Campo Giove che non sappia cosa mi ha
detto a Charleston.»
«Davvero?»
Reyna strappò un ramo secco da un cespuglio e lo agitò nel
sottobosco. «Ho partecipato a una missione insieme a Jason,
un paio di anni fa. Venere mi diede un’unica occhiata e stabilì
che… Non lo so. Che ero a pezzi? Che avevo bisogno di una
guarigione romantica? Fai tu. Ero tornata al campo a malapena
da un giorno quando cominciarono le maldicenze. Nessuno
ammetteva di sapere, ma tutti sapevano. Gli sguardi che mi
beccavo dicevano: “Oh, povera Reyna”. La gente mi suggeriva
come se niente fosse le persone con cui uscire.»
Non sembrava arrabbiata. Era più prostrata, sfinita.
Ricordai quanto Frank Zhang fosse preoccupato per il fatto
che Reyna sopportava il peso del comando da tanto tempo e
quanto desiderasse fare di più per darle una mano. A quanto
pareva, tanti legionari volevano aiutare Reyna. E non tutto
quell’aiuto era stato ben accetto o ritenuto utile.
«Il fatto è che io non sono a pezzi.»
«Certo che no.»
«Allora perché sei sempre così nervoso? Che cosa c’entra
Venere? Per favore, non dirmi che è compassione.»
«N-no. Niente del genere.»
Davanti a noi, udivo Meg che scarpinava fra gli sterpi. Di
tanto in tanto diceva: «Ehi, come va?» in tono colloquiale,
come se incontrasse un conoscente per strada. Immaginai che
parlasse con le driadi del luogo. Oppure le ipotetiche guardie
che stavamo cercando erano parecchio scarse nel loro lavoro.
«Vedi…» Annaspai alla ricerca delle parole giuste.
«All’epoca in cui ero un dio, Venere mi diede un
avvertimento. Su di te.»
Aurum e Argentum sfrecciarono fuori dai cespugli per
controllare la mamma; i loro sorrisi scintillavano come
trappole per orsi appena lucidate. Oh, bene. Avevo un
pubblico.
Reyna diede una pacca sulla testa di Aurum, distrattamente.
«Vai avanti, Lester.»
«Ehm…» La banda musicale nel mio flusso sanguigno
adesso stava eseguendo manovre a passo di corsa. «Be’, sono
entrato nella sala del trono un giorno, e Venere stava studiando
il tuo ologramma, e io ho chiesto – del tutto en passant, bada
bene – “Chi è?” e lei mi ha raccontato il tuo… il tuo destino,
immagino. La cosa sul guarire il tuo cuore. Poi mi… mi ha
dato una strigliata. Mi ha impedito di avvicinarmi a te. Mi ha
detto che mi avrebbe maledetto per sempre, se avessi mai
cercato di farti la corte. È stato assolutamente gratuito. E
anche imbarazzante.»
L’espressione di Reyna rimase fredda e dura come
travertino. «Farmi la corte? No, dico, ma si usa ancora? Le
persone fanno ancora la corte?»
«Non lo so. Ma mi sono tenuto alla larga. Te ne sarai
accorta. Non che avrei fatto diversamente senza
quell’avvertimento. Non sapevo neanche chi eri.»
Reyna scavalcò un tronco caduto e mi porse una mano, che
rifiutai. Non mi piaceva il modo in cui i suoi levrieri mi
sorridevano.
«Quindi, in altre parole… come possiamo dire? Sei
preoccupato che Venere ti fulmini perché invadi il mio spazio
personale?» commentò. «Fossi in te non me ne preoccuperei,
Lester. Non sei più un dio. Né stai cercando di farmi la corte,
mi pare chiaro. Siamo compagni in una missione.»
Doveva proprio colpirmi esattamente nel punto in cui
faceva più male? La verità.
«Sì» dissi. «Ma pensavo…»
Perché era così difficile? Avevo già parlato d’amore con le
donne. E con gli uomini. E con gli dei. E con le ninfe. E ogni
tanto con una bella statua prima di rendermi conto che era una
statua. Come mai allora le vene del mio collo minacciavano di
esplodere?
«Pensavo che se… se fosse utile…» proseguii. «Forse era
destino che… be’, sai, non sono più un dio, come hai detto tu.
E Venere è stata piuttosto chiara dicendo che non dovevo
avvicinare la mia brutta faccia divina a te. Ma Venere…
insomma, i suoi piani sono sempre intricati. Magari stava
esercitando la psicologia inversa, per così dire. Se fossimo
destinati a… ehm… io potrei aiutarti.»
Reyna si fermò. I suoi cani piegarono la testa di metallo
verso di lei, forse cercando di valutare lo stato d’animo della
padrona; poi fissarono me, con i loro occhi di gemme freddi e
accusatori.
«Lester.» Reyna sospirò. «Che Tartaro stai dicendo? Non
sono dell’umore adatto per gli indovinelli.»
«Che forse la risposta sono io» mi lasciai sfuggire. «Per
guarire il tuo cuore. Potrei… insomma, essere il tuo ragazzo.
Come Lester. Se tu lo volessi. Io e te. Sai, tipo… esatto.»
Ero assolutamente sicuro che lassù sul Monte Olimpo tutti
gli dei avevano tirato fuori il telefonino e mi filmavano per poi
postare i video su EuterpeTube.
Reyna mi fissò abbastanza a lungo da consentire alla banda
musicale nel mio flusso sanguigno di suonare una strofa intera
di un inno patriottico. I suoi occhi erano cupi e minacciosi.
Aveva un’espressione indecifrabile, come la superficie esterna
di un marchingegno esplosivo.
Stava per uccidermi.
No. Avrebbe ordinato ai cani di uccidermi. Quando Meg
fosse corsa in mio aiuto, sarebbe stato troppo tardi. O, peggio
ancora, Meg avrebbe aiutato Reyna a seppellire il cadavere, e
nessuno se ne sarebbe accorto.
Una volta rientrati al campo, i Romani avrebbero chiesto:
“Che ne è stato di Apollo?”.
“Chi?” avrebbe detto Reyna. “Ah, quel tizio? Non lo so, lo
abbiamo perso.”
“Oh, bene!” avrebbero risposto i Romani, e la cosa sarebbe
finita lì.
Reyna irrigidì la bocca in una smorfia. Si piegò in avanti,
stringendosi le ginocchia. Cominciò a tremare. Oh, dei, che
avevo combinato?
Forse avrei dovuto consolarla, stringerla fra le mie braccia.
Forse avrei dovuto darmela a gambe. Perché ero così negato
per le storie d’amore?
Reyna emise un suono cigolante, poi una specie di
piagnucolio prolungato. L’avevo davvero ferita!
Infine si raddrizzò, mentre le lacrime le rigavano il viso, e
scoppiò a ridere. Fu come sentire il suono dell’acqua che
tornava a scorrere nell’alveo di un torrente secco da secoli. E,
una volta iniziato, sembrava non riuscire più a fermarsi. Reyna
si piegò in due, si drizzò di nuovo, si appoggiò a un albero e
guardò i cani come per condividere il divertimento.
«Oh… santi… numi» sibilò. Riuscì a trattenere l’ilarità
abbastanza a lungo da guardarmi sbattendo le palpebre tra le
lacrime, come per assicurarsi che fossi lì per davvero e che lei
avesse sentito bene quello che avevo detto. «Tu. Io?
AHAHAHAHAHAHAH.»
Aurum e Argentum sembravano perplessi quanto me. Si
guardarono l’un l’altro, poi guardarono me, come a dire: “Che
cos’hai fatto alla nostra mamma? Se le hai fatto del male, ti
uccideremo”.
La risata di Reyna rotolò lungo la collina.
Quando mi ripresi dallo shock iniziale, cominciarono a
bruciarmi le orecchie. Negli ultimi mesi avevo sperimentato
diverse umiliazioni. Ma essere messo in ridicolo,
spudoratamente, quando non cercavo di essere divertente…
Questo era un nuovo record al ribasso.
«Non capisco perché…»
«AHAHAHAHAHAH!»
«Non stavo dicendo che…»
«AHAHAHAHAHAH! Smettila, per favore. Mi fai
morire!»
«Non prendetela alla lettera!» gridai a beneficio dei cani.
«E pensavi che…?» Sembrava che Reyna non sapesse se
indicare me, se stessa o il cielo. «Davvero? Aspetta… I miei
cani avrebbero attaccato se tu avessi mentito. Oh… Wow!
AHAHAHAHAHAHAH!»
«Quindi è un “no”» sbuffai. «Bene. Ho capito. Ti puoi
fermare…»
Mentre Reyna si asciugava gli occhi, la sua risata si
trasformò in uno squittio asmatico. «Apollo, quand’eri un
dio…» Si sforzò di respirare. «Tipo, con i tuoi poteri, la tua
bellezza eccetera…»
«Non dire altro. Naturalmente avresti…»
«Sarebbe stato un NO chiaro e tondo.»
Sgranai gli occhi. «Sono allibito!»
«E come Lester… insomma, sei dolce e simpaticamente
imbranato…»
«Simpaticamente imbranato?»
«Ma… Wow! È sempre un grosso NO. Ahahahahahah!»
Un mortale di minore importanza si sarebbe polverizzato
seduta stante, per implosione dell’autostima.
In quel momento, mentre mi respingeva in modo così netto,
Reyna era più bella e desiderabile che mai. Buffo come
funzionano queste cose.
Meg spuntò dai cespugli. «Ragazzi, non c’è nessuno lassù,
ma…» Si bloccò, osservando la scena, poi lanciò un’occhiata
ai levrieri in cerca di spiegazioni.
“Non chiederlo a noi!” sembrava che dicessero i loro musi
di metallo. “La mamma non si comporta mai così.”
«Cosa c’è di tanto buffo?» domandò Meg. Un sorriso le si
insinuò sulle labbra, come se volesse unirsi alla presa in giro.
Di cui io, ovviamente, ero l’oggetto.
«Niente.» Reyna trattenne il respiro per un momento, poi
sbruffò di nuovo.
Reyna Avila Ramírez-Arellano, figlia di Bellona, temuto
pretore della Dodicesima Legione, era in preda a un attacco di
ridarella.
Alla fine sembrò recuperare un po’ di autocontrollo. Aveva
gli occhi accesi e divertiti, le guance rosse come barbabietole,
e un sorriso che la faceva sembrare una persona diversa: una
persona felice.
«Grazie, Lester» disse. «Ne avevo bisogno. Adesso
andiamo a cercare il dio ammutolito, okay?» E fece strada
lungo la collina, stringendosi le costole come se il torace le
facesse ancora male per le troppe risate.
Su due piedi decisi che, se fossi mai tornato un dio, avrei
riorganizzato l’ordine della mia lista della vendetta. Venere
aveva appena guadagnato il primo posto.
25

Paralizzato

Tipo dio abbagliato

Dai fari. Già!

I guardiani non erano un problema.


Non c’erano.
In mezzo a un’ampia distesa di rocce ed erbacce, la
stazione ripetitrice era annidata ai piedi della Sutro Tower.
L’edificio squadrato e marrone aveva una serie di paraboliche
bianche che punteggiavano il tetto come funghi velenosi dopo
un acquazzone. La porta era spalancata. Le finestre erano buie.
Il parcheggio davanti all’ingresso era vuoto.
«C’è qualcosa di strano» mormorò Reyna. «Tarquinio non
aveva detto che avrebbero raddoppiato i guardiani?»
«Raddoppiato il gregge… mi pare» la corresse Meg. «Ma
non vedo né pecore né altro.»
L’idea mi fece rabbrividire. Nel corso dei millenni, avevo
visto diverse greggi di pecore guardiane. Tendevano a essere
velenose e/o carnivore e puzzavano di maglione ammuffito.
«Apollo, qualche idea?» mi domandò Reyna.
Perlomeno riusciva a guardarmi senza scoppiare a ridere,
ma non mi azzardai a parlare. Mi limitai a scuotere la testa con
aria inerme. In questo ero bravo.
«Forse siamo nel posto sbagliato?» domandò Meg.
Reyna si morse il labbro inferiore. «Qualcosa qui non torna
di sicuro. Fatemi vedere dentro la stazione. Aurum e
Argentum possono fare una rapida ricerca. Se incontriamo
qualche mortale, dirò che stavo facendo un’escursione e mi
sono persa. Voi, ragazzi, aspettate qui. Se sentite abbaiare,
significa guai.»
Attraversò di corsa il campo, con Aurum e Argentum alle
calcagna, e scomparve dentro l’edificio.
Meg mi guardò da sopra le lenti degli occhiali. «Come hai
fatto a farla ridere?»
«Non era mia intenzione. E poi, non è illegale far ridere
qualcuno.»
«Le hai chiesto di diventare la tua ragazza, vero?»
«Io… che cosa? No. Una specie. Sì.»
«È stata una stupidaggine.»
Trovai umiliante che la mia vita amorosa fosse criticata da
una ragazzina che indossava un distintivo con un unicorno e le
tibie incrociate. «Non puoi capire.»
Meg sbruffò.
A quanto pare, ero fonte di divertimento per tutti quel
giorno.
Studiai la torre che incombeva su di noi. Lungo il fianco
della colonna di supporto più vicina, una specie di scivolo con
le nervature d’acciaio racchiudeva una fila di gradini da
arrampicata, a formare un tunnel che si sarebbe potuto salire –
se uno fosse stato abbastanza folle – per raggiungere la prima
fila di travi, che erano irte di altre paraboliche e antenne per i
cellulari. Da lì, i pioli proseguivano verso l’alto dentro una
bassa coltre di nebbia che inghiottiva la parte superiore della
torre. Nella bianca foschia, una V nera e caliginosa fluttuava
comparendo e sparendo alla vista: era un uccello.
Rabbrividii, pensando alle strigi che ci avevano attaccato
nel Labirinto di fuoco. Ma le strigi cacciavano solo di notte.
Quella sagoma scura doveva essere qualcos’altro, forse un
falco a caccia di topi. Per le leggi della statistica, di quando in
quando dovevo pur imbattermi in una creatura che non aveva
intenzione di uccidermi, giusto?
Eppure quella sagoma sfuggente mi riempì di terrore. Mi
fece pensare alle tante volte in cui avevo rischiato la pelle con
Meg McCaffrey, e alla promessa che avevo fatto a me stesso di
essere sincero con lei, ai bei vecchi tempi… ovvero dieci
minuti prima, quando ancora Reyna non aveva bombardato la
mia autostima con missili a testata atomica.
«Meg» dissi. «Ieri sera…»
«Hai visto Pesca. Lo so.»
Sembrava parlasse del tempo. Teneva lo sguardo fisso sulla
soglia della stazione ripetitrice.
«Lo sai?»
«È nei paraggi da un paio di giorni.»
«L’hai visto?» chiesi.
«Ho avvertito la sua presenza. Ha i suoi motivi per starsene
lontano. Non gli piacciono i Romani. Lavora a un piano per
aiutare gli spiriti della natura locali.»
«E… se quel piano fosse aiutarli a fuggire?»
Nella luce grigia e diffusa del banco di nebbia, gli occhiali
di Meg sembravano minuscole paraboliche. «Pensi che sia
questo ciò che vuole? O che vogliono gli spiriti della natura?»
Ricordai le espressioni timorose dei fauni al People’s Park,
la rabbia esausta delle driadi. «Non lo so. Ma Lavinia…»
«Sì. È con loro.» Meg diede un’alzata di spalle. «I
centurioni hanno notato la sua assenza all’appello della
mattina. Stanno cercando di minimizzare la cosa. Fa male al
morale.»
Fissai la mia giovane compagna, che evidentemente aveva
preso lezioni da Lavinia in Corso avanzato di Pettegolezzi sul
Campo. «Reyna lo sa?»
«Che Lavinia è sparita? Certo. Dov’è andata? No. Non lo
so neanch’io, davvero. Qualunque cosa lei, Pesca e gli altri
stiano pianificando, noi non possiamo farci molto, al
momento. Abbiamo altre cose di cui preoccuparci.»
Incrociai le braccia. «Bene, sono felice che abbiamo avuto
questa chiacchierata, così mi sono potuto alleggerire di tutte le
cose che già sapevi. Stavo anche per dire che per me sei
importante e che potrei perfino volerti bene come a una
sorella, ma…»
«Anche questo lo so già.» Meg mi fece un sorriso sghembo,
dandomi conferma che Nerone avrebbe dovuto portarla
dall’ortodontista quando era più piccola. «Va bene. Sei
diventato anche meno irritante.»
«Uff!»
«Guarda, ecco che arriva Reyna.»
E così si concluse il nostro momento di calore familiare,
mentre la figlia di Bellona riemergeva dalla stazione, con
l’espressione turbata. I levrieri le giravano allegramente
intorno, come se fossero in attesa di caramelle gommose.
«Il posto è vuoto» annunciò Reyna. «Sembra che se ne
siano andati tutti di corsa. Direi che qualcosa li ha fatti
sloggiare… tipo la minaccia di una bomba, forse.»
Aggrottai la fronte. «In tal caso, non ci dovrebbero essere i
mezzi d’emergenza?»
«La Foschia» ipotizzò Meg. «Avrebbe potuto far vedere ai
mortali qualunque cosa per farli uscire da qui. Per sgombrare
la scena prima…»
Stavo per chiedere “prima di cosa?”, ma non volevo sentire
la risposta.
Meg aveva ragione, ovviamente. La Foschia era una strana
forza. A volte manipolava le menti mortali dopo un evento
sovrannaturale, per arginare i danni. Altre volte operava prima
di una catastrofe spingendo via i mortali che altrimenti
avrebbero potuto diventare vittime collaterali, come piccole
onde che si increspano in uno stagno al primo passo di un
drago, avvertendo della catastrofe imminente.
«Bene. Se è così, allora siamo nel posto giusto» disse
Reyna. «E posso solo pensare a un’altra direzione da
esplorare.» Con lo sguardo seguì i piloni della Sutro Tower
finché non scomparvero nella nebbia. «Chi vuole salire per
primo?»
Volere? Ma quando mai. Diciamo che mi scelsero come
volontario.
Il motivo ufficiale era che così Reyna avrebbe potuto
sostenermi nel caso avessi cominciato a vacillare sulla scala. Il
motivo ufficioso era che così non mi sarei potuto tirare
indietro in caso di attacco di panico. Meg salì per ultima,
immagino perché così avrebbe avuto il tempo di selezionare i
semi da giardino adatti da lanciare contro i nostri nemici
mentre loro mi sbranavano la faccia e Reyna mi spingeva
avanti.
Aurum e Argentum, non potendo arrampicarsi, rimasero
giù di guardia, da pelandroni privi di pollice opponibile quali
erano. Se fossimo morti precipitando, i cani sarebbero stati lì
ad abbaiare tutti contenti davanti ai nostri cadaveri. La cosa mi
dava grande conforto.
I pioli erano sdrucciolevoli e freddi. Le nervature d’acciaio
dello scivolo mi davano la sensazione di strisciare dentro una
gigantesca molla magica. Immaginai che fossero una specie di
dispositivo di sicurezza, ma non riuscivano assolutamente a
rassicurarmi. Se fossi caduto, sarebbero semplicemente stati
altri oggetti molesti contro cui andare a sbattere mentre
scendevo giù.
Dopo qualche minuto, i miei arti cominciarono a vibrare e
le mie dita a tremare. La prima serie di travi non sembrava
avvicinarsi affatto. Guardai giù e vidi che eravamo da poco
passati vicino ai piatti radar sul tetto della stazione.
Il vento gelido mi flagellava il torace, scompigliandomi la
felpa e sbatacchiando le frecce nella faretra. Chiunque fossero
le guardie di Tarquinio, se mi avessero preso su quella scala,
l’arco e l’ukulele non mi sarebbero serviti a niente. Perlomeno
un gregge di pecore assassine non sapeva salire le scale.
Nel frattempo, nella nebbia sopra di noi, vorticavano altre
sagome scure. Erano senz’altro uccelli di qualche tipo.
Rammentai a me stesso che non potevano essere strigi, eppure
una sensazione nauseante di pericolo mi attanagliava lo
stomaco.
E se…?
“Smettila, Apollo” mi rimproverai. “Ora non puoi fare altro
che continuare a salire.”
Mi concentrai su un gradino scivoloso e pericoloso alla
volta. Le suole delle mie scarpe cigolavano contro il metallo.
Sotto di me, Meg chiese: «Ragazzi, lo sentite un profumo di
rose?».
Mi domandai se stesse cercando di farmi ridere. «Di rose?
Perché, nel nome dei dodici dei, dovrei sentire un profumo di
rose quassù?»
«L’unico odore che sento è quello delle scarpe di Lester»
disse Reyna. «Mi sa che ha pestato qualcosa.»
«Una grossa pozza di vergogna» bofonchiai.
«Io sento un profumo di rose» insistette Meg. «Boh. Non
fermatevi.»
Obbedii, visto che non avevo altra scelta.
Alla fine raggiungemmo la prima serie di travi. Una
passerella correva lungo le travate, consentendoci di fermarci a
riposare in piedi per qualche minuto. Ci trovavamo una
ventina di metri sopra la stazione ripetitrice, ma sembrava di
essere molto più in alto. Sotto di noi si stendeva una griglia
infinita di isolati che si ingarbugliavano e si attorcigliavano
lungo le colline. I disegni creati dalle strade mi ricordavano
l’alfabeto tailandese. (La dea Nang Kwak aveva cercato di
insegnarmi la sua lingua in passato, durante una cenetta a base
di noodles piccanti, ma ero una frana.)
Giù nel parcheggio, Aurum e Argentum guardavano verso
di noi scodinzolando. Sembrava che aspettassero di vederci
fare qualcosa. La parte meschina di me avrebbe voluto
scagliare una freccia sulla cima della collina successiva e
gridare: “ANDATE A PRENDERLA!”, ma dubitai che Reyna
avrebbe apprezzato.
«È divertente quassù» concluse Meg. Fece la ruota perché
si divertiva a farmi venire le palpitazioni.
Scrutai il triangolo di passerelle, sperando di vedere
qualcosa oltre i cavi e l’attrezzatura satellitare, preferibilmente
qualcosa con l’etichetta: PREMERE QUESTO PULSANTE PER
PORTARE A TERMINE LA MISSIONE E RITIRARE LA
RICOMPENSA .

«Ovviamente no» bofonchiai tra me e me. «Tarquinio non è


certo così gentile da mettere al livello più basso qualunque
cosa ci serva.»
«Di sicuro non ci sono dei ammutoliti da queste parti» disse
Reyna.
«Grazie tante.»
Lei sorrise. A quanto pareva, era ancora di buon umore
grazie al mio passo falso nella pozza della vergogna di poco
prima. «E non vedo nessuna porta. La profezia non diceva che
avrei dovuto aprire una porta?»
«Potrebbe essere una porta metaforica» ipotizzai. «Ma hai
ragione tu, non c’è niente qui per noi.»
Meg indicò il livello successivo di travi, una ventina di
metri più in alto, a malapena visibili in mezzo al banco di
nebbia. «Il profumo di rose è più forte da lassù» disse.
«Dobbiamo continuare a salire.»
Fiutai l’aria. Sentii solo un lieve odore di eucalipto che
proveniva dal bosco sotto di noi, il sudore che mi si
raffreddava sulla pelle e la zaffata acida di antisettico e
infezione che saliva dalla mia pancia fasciata. «Urrà!» dissi.
«Saliamo ancora!»
Stavolta fu Reyna ad andare per prima. Non c’era nessuna
gabbia protettiva per raggiungere il secondo livello, solo
gradini di metallo nudo su un fianco della travata, come se i
costruttori avessero concluso: “Marmocchio, se sei arrivato fin
qui devi essere pazzo, quindi niente più dispositivi di
sicurezza!”. Adesso che lo scivolo con le nervature d’acciaio
non c’era più, mi resi conto che in effetti mi aveva dato un
certo conforto a livello psicologico. Almeno potevo far finta di
trovarmi dentro una struttura sicura, non a fare free climbing
come un matto su una torre gigantesca.
Non riuscivo a capire il motivo per cui Tarquinio avesse
messo una cosa importante come il suo dio ammutolito in
cima a una torre radio. E poi, perché si era alleato con gli
imperatori? Perché il profumo di rose indicava che ci stavamo
avvicinando alla meta? Perché quegli uccelli scuri
continuavano a volteggiare sopra di noi nella nebbia? Non
avevano freddo? Non avevano un lavoro?
Eppure non nutrivo dubbi sul fatto che dovevamo scalare
quel mostruoso treppiedi. Sembrava la cosa giusta da fare,
ovvero: sembrava terrificante e sbagliata. Avevo la brutta
sensazione che presto tutto mi sarebbe stato chiaro, e che non
mi sarebbe piaciuto per niente.
Mi sentivo come se fossi al buio a fissare piccole luci
sconnesse in lontananza. Mi domandavo cosa fossero ma,
quando alla fine avrei capito: “Ehi, sono i fari di un grosso
camion che viene sparato verso di me”, sarebbe stato troppo
tardi.
Eravamo a metà strada verso la seconda serie di travi
quando un’ombra furiosa spuntò dalla nebbia, sfrecciando
sopra le mie spalle. Il vento prodotto dalle sue ali per poco non
mi scaraventò giù dalla scala.
«Wow!» Meg mi afferrò la caviglia sinistra, anche se non
servì a tenermi fermo. «Che cos’era?»
Vidi di sfuggita l’uccello mentre scompariva di nuovo nella
nebbia: lucide ali nere, becco nero, occhi neri.
Mi venne un nodo in gola mentre uno dei fari del famoso
camion si fece chiarissimo. «Un corvo.»
«Un corvo?» Reyna mi guardò dall’alto con la fronte
aggrottata. «Ma era un coso enorme!»
Vero, la creatura che mi aveva tormentato doveva avere
un’apertura alare di almeno sei metri, ma sentimmo gracchiare
furiosamente da qualche parte nella foschia, e ogni dubbio si
dissolse.
«Corvi, al plurale» mi corressi. «Corvi giganti.»
Una mezza dozzina di corvi calò all’improvviso su di noi,
puntando gli occhietti neri e famelici come laser, per valutare i
nostri punti deboli più teneri e saporiti.
«Ma Tarquinio non aveva parlato di un gregge?» domandò
Reyna.
«Mi sa che ci siamo confusi» ammisi con un pigolio.
«Aveva detto stormo.»
«Uno stormo di corvi.» Meg sembrava per metà incredula,
per metà affascinata. «Certo che come guardiani sono molto
più carini delle pecore!»
Avrei voluto trovarmi in qualunque altro posto, tipo a letto,
sotto un grosso strato di calde trapunte di kevlar. In ogni caso,
sapevo che ai corvi non interessavano i nostri complimenti. Ci
avrebbero ucciso, a prescindere da quanto Meg pensava che
fossero carini. E poi definire carini i corvi mi sembrava
un’esagerazione bella e buona.
«Sono qui per via di Coronide» dissi affranto. «È colpa
mia.»
«Chi è Coronide?» domandò Reyna.
«È una lunga storia.» Gridai verso gli uccelli: «Ragazzi, mi
sono scusato un milione di volte!».
I corvi risposero gracchiando furiosi. Un’altra decina di
uccelli spuntò fuori dalla nebbia e cominciò a girarci intorno.
«Ci faranno a pezzi!» esclamai. «Dobbiamo ritirarci!
Torniamo alla prima piattaforma.»
«La seconda piattaforma è più vicina» replicò Reyna.
«Continuiamo a salire!»
«Forse ci stanno solo controllando» suggerì Meg. «Forse
non ci attaccheranno.»
Non avrebbe dovuto dirlo.
I corvi sono bastian contrari. Lo so bene: sono stato io a
plasmarli. Non appena Meg espresse la speranza che non ci
attaccassero, i corvi ci attaccarono.
26

Vorrei cantare

Un bel classico per voi

Non mi colpite!

Con il senno di poi, avrei dovuto dare ai corvi dei becchi di


spugna: carini, morbidi, soffici e incapaci di ferire. Già che
c’ero, avrei dovuto aggiungere anche degli artigli giocattolo.
E invece nooo. Li avevo dotati di becchi simili a coltelli
dentellati e artigli come ganci da macello. Che cosa mi era
saltato in mente?
Meg gridò quando uno degli uccelli si tuffò accanto a lei,
graffiandole un braccio.
Un altro volò contro le gambe di Reyna. Lei gli assestò un
calcio, ma il suo tallone lo mancò e si scontrò con il mio naso.
«OHIIIII!» gridai, con la faccia pulsante per il dolore.
«Scusa!» Reyna cercò di salire, ma gli uccelli mulinavano
intorno a noi, tirando stilettate, artigliando e strappandoci
pezzi di vestiti di dosso.
Quel delirio mi fece tornare in mente il mio concerto di
addio a Tessalonica, nel 435 avanti Cristo. (Mi piaceva fare
una tournée di addio ogni dieci anni o giù di lì, per tenere i fan
sulle spine.) Dioniso si era presentato con tutte le sue menadi a
caccia di souvenir. Non era un bel ricordo.
«Lester, chi è Coronide?» gridò Reyna, sguainando la
spada. «Perché ti stavi scusando con gli uccelli?»
«Li ho creati io!» Mi ero appena rotto il naso, perciò
quando parlavo sembrava che facessi i gargarismi con lo
sciroppo.
I corvi gracchiarono indignati. Uno scese in picchiata, e i
suoi artigli mancarono per un pelo il mio occhio sinistro.
Reyna roteava la spada come una pazza, cercando di tenere
lo stormo a bada.
«Be’, non puoi distruggerli?» domandò Meg.
Ai corvi l’idea non piacque. Uno si tuffò su di lei. Meg gli
lanciò un seme, lui lo afferrò d’istinto… e gli esplose un’intera
zucca nel becco. Così, sbilanciato dalle fauci in stile
Halloween, il corvo precipitò a terra.
«Okay, non li ho esattamente creati» confessai. «Li ho solo
trasformati in quello che sono adesso. E, no, non posso
distruggerli.»
Ancora altre grida furiose degli uccelli, ma per il momento
si tenevano alla larga, diffidenti nei confronti della ragazza con
la spada e dell’altra con i gustosi semi esplosivi.
Tarquinio aveva scelto le guardie perfette per tenermi
lontano dal dio ammutolito. I corvi mi odiavano. Forse
lavoravano gratis, senza neanche l’assicurazione sanitaria,
sperando solo di avere l’occasione di abbattermi.
Sospettai che l’unico motivo per cui eravamo ancora vivi
era che gli uccelli stavano decidendo chi avrebbe avuto l’onore
dell’omicidio. Erano troppo grossi per attaccare tutti in
contemporanea.
Ogni verso inferocito era una rivendicazione dei miei
gustosi bocconcini: “Il fegato lo prendo io!”.
“No, lo prendo io!”
“Bene, allora io prendo i reni!”
I corvi sono avidi almeno quanto sono bastian contrari.
Ahimè, non potevamo contare sul fatto che continuassero a
litigare a lungo. Saremmo morti non appena avessero stabilito
il giusto ordine di beccata.
Reyna tentò di colpirne uno che si stava avvicinando
troppo. Diede un’occhiata alla passerella sulla trave sopra di
noi, forse calcolando se avrebbe avuto il tempo di
raggiungerla. A giudicare dall’espressione frustrata, la sua
conclusione era “no”.
«Lester, ho bisogno di capire» disse. «Dimmi come
facciamo a sconfiggere questi cosi.»
«Non lo so!» gemetti. «Ai bei tempi andati, i corvi erano
gentili e bianchi come le colombe, okay? Ma erano
terribilmente pettegoli. Una volta uscii con questa ragazza di
nome Coronide. I corvi scoprirono che mi stava tradendo, e
me lo vennero a dire. Ero così arrabbiato che convinsi
Artemide a uccidere Coronide per me. Poi punii i corvi per la
loro linguaccia facendoli diventare neri.»
Reyna mi fissò come se stesse prendendo in considerazione
l’idea di darmi un altro calcio sul naso. «Questa storia è
assurda a tantissimi livelli.»
«È sbagliatissima» concordò Meg. «Hai chiesto a tua
sorella di uccidere una ragazza che ti tradiva?»
«Be’, io…»
«Poi hai punito gli uccelli che te lo avevano detto?»
aggiunse Reyna. «Facendoli diventare neri, come se nero fosse
sinonimo di cattivo e bianco significasse buono?»
«Messa così, sembra brutta, lo so» protestai. «Ma è solo
quello che successe quando la mia maledizione li abbrustolì.
Li rese anche carnivori e con un brutto carattere.»
«Oh, così è molto meglio» disse Reyna.
«Se ti facciamo divorare dagli uccelli, lasceranno Reyna e
me in pace?» domandò Meg.
«Che cosa?!» Temevo che Meg non stesse scherzando. La
sua espressione non diceva affatto: “Scherzo”. Diceva: “Sono
seria”. «Sentite, ero arrabbiato! Sì, me la presi con gli uccelli,
ma dopo qualche secolo mi calmai. E mi scusai con loro. A
quel punto ormai quasi gli piaceva essere carnivori e con un
brutto carattere. Quanto a Coronide, insomma, almeno salvai il
bambino che aspettava quando Artemide la uccise. Era
Asclepio, il dio della medicina!»
«La tua ragazza era incinta quando la facesti uccidere?»
Reyna mi sferrò un altro calcio in faccia.
Riuscii a schivarlo, dato che mi ero allenato tanto a
rannicchiarmi, ma mi addolorava sapere che stavolta non
aveva mirato a un corvo in arrivo. Oh, no. Voleva proprio
sfondarmi i denti.
«Fai schifo» concordò Meg.
«Hai ragione, non ho scusanti. Ma possiamo parlarne
dopo?» la implorai. «O magari mai più? Ero un dio all’epoca!
Non sapevo quello che stavo facendo!»
Qualche mese prima, un’affermazione del genere non
avrebbe avuto senso per me. In quel momento invece
sembrava vera. Era come se Meg mi avesse prestato i suoi
spessi occhiali tempestati di strass e, con mio grande orrore,
quelli mi avessero corretto la vista. Non mi piaceva come ogni
cosa sembrava piccola, volgare e meschina, una volta resa in
tutta la sua nitida bruttezza dalla magia della Meg-o-Vision.
Soprattutto non mi piaceva il modo in cui apparivo io, non
solo il Lester attuale, ma il dio un tempo noto con il nome di
Apollo.
Reyna e Meg si scambiarono un’occhiata, come in un tacito
accordo: la linea di azione più pratica era sopravvivere ai corvi
per potermi uccidere loro stesse dopo.
«Se rimaniamo qui siamo morti.» Reyna brandì la spada
contro un altro avido carnivoro. «Non possiamo tenerli lontano
e salire allo stesso tempo. Qualche idea?»
I corvi ne avevano una. Si chiamava attacco a oltranza.
Sciamarono giù, beccando, graffiando e gracidando con
rabbia.
«Mi dispiace!» urlai, tentando futilmente di colpire gli
uccelli. «Mi dispiace!»
I corvi non accettarono le mie scuse. Con gli artigli mi
strapparono i gambali dei pantaloni. Un becco si infilò a forza
dentro la mia faretra e per poco non mi tirò giù dalla scala,
lasciandomi i piedi penzoloni per un lungo attimo di terrore.
Reyna continuava a menare colpi alla cieca. Meg
imprecava e lanciava semi come se fossero coriandoli gettati
dal carro allegorico più brutto mai esistito. Un corvo gigante
coperto di giunchiglie perse il controllo e precipitò verso terra.
Un altro piombò giù come un sasso, con lo stomaco che gli si
gonfiava a forma di zucca violina.
La mia presa sui gradini si indebolì. Perdevo sangue dal
naso, ma non potevo distrarmi neanche un secondo per
asciugarlo.
Reyna aveva ragione. Se non ci muovevamo, eravamo
spacciati. E non potevamo muoverci.
Scrutai la trave maestra sopra di noi. Se fossimo riusciti a
raggiungerla, avremmo potuto stare in piedi e usare le braccia.
Avremmo avuto una piccola ma concreta possibilità di
combattere.
All’estremità della passerella, a ridosso del pilone di
supporto successivo, c’era una grossa cassa rettangolare tipo
container. Rimasi sorpreso di non averla notata prima, ma in
confronto alle dimensioni della torre, il container sembrava
piccolo e insignificante, semplicemente un altro cuneo di
metallo rosso. Non avevo idea di cosa fosse esattamente – un
deposito per la manutenzione? Un piccolo magazzino? – ma ci
avrebbe offerto riparo, se fossimo riusciti a trovare un modo
per entrare.
«Laggiù!» gridai.
Reyna seguì il mio sguardo. «Se riusciamo a
raggiungerlo… Dobbiamo guadagnare tempo. Apollo, che
cos’è ripugnante per i corvi? C’è qualcosa che detestano?»
«Più di me?»
«Non amano molto le giunchiglie» osservò Meg, mentre un
altro uccello ornato di festoni floreali si avvitava su se stesso.
«Ci serve qualcosa per cacciarli via tutti» affermò Reyna,
brandendo di nuovo la spada. «Una cosa che odino più di
Apollo.» Le si illuminarono gli occhi. «Apollo, canta!»
Tanto valeva che mi desse un altro calcio in faccia. «Non
ho una voce così brutta!»
«Ma sei… eri il dio della musica, giusto? Se riesci a
incantare una folla, dovresti essere capace di repellerne una.
Scegli una canzone che questi uccelli detestino!»
Fantastico! Non solo Reyna mi aveva riso in faccia e rotto
il naso, ero diventato anche il suo punto di riferimento per
suscitare repulsione.
Eppure… ero colpito dal modo in cui aveva detto che “ero”
un dio. Non sembrava che lo intendesse come un insulto. Lo
aveva detto quasi come una concessione, come se sapesse che
ero stato una divinità terribile, ma nutrisse la speranza che
fossi capace di diventare un essere migliore, più utile, forse
perfino degno di perdono.
«Okay» dissi. «Fammi pensare.»
I corvi non avevano intenzione di lasciarmelo fare.
Gracchiavano e sciamavano in un turbinio di piume nere e
artigli puntuti. Reyna e Meg facevano del loro meglio per
respingerli, ma non riuscivano a coprirmi del tutto. Un becco
mi ferì sul collo, mancando per un pelo la carotide. Gli artigli
mi graffiarono un lato del viso.
Non potevo pensare al dolore.
Volevo cantare per Reyna, per dimostrare che ero cambiato
davvero. Non ero più il dio che aveva ucciso Coronide e creato
i corvi, o maledetto la Sibilla Cumana, o fatto una qualunque
delle altre cose egoiste che in passato avevo compiuto con la
stessa tranquillità con cui sceglievo come guarnire la mia
ambrosia.
Era il momento di rendermi utile. Dovevo essere repellente
per le mie amiche!
Rovistai fra millenni di ricordi, cercando di trovare una
qualsiasi delle mie esibizioni musicali che fosse stata un fiasco
totale. No, no. Non me ne veniva in mente neppure una. E gli
uccelli continuavano ad attaccare…
Gli uccelli che attaccano.
Un’idea mi scintillò alla base del cranio.
Ricordai una storia che i miei figli Austin e Kayla mi
avevano raccontato, al Campo Mezzosangue. Eravamo seduti
davanti al fuoco di bivacco e loro si erano messi a scherzare
sui cattivi gusti di Chirone in fatto di musica. Dicevano che,
diversi anni prima, Percy Jackson era riuscito a respingere uno
stormo di uccelli di Stinfalo suonando quello che Chirone
aveva sul suo stereo portatile. Che cosa aveva suonato? Qual
era il brano preferito di Chirone?
«VOLARE!» urlai.
Meg alzò la testa e mi guardò, con uno strano geranio
infilato fra i capelli. «Eh?»
«È una canzone italiana di cui Dean Martin ha fatto una
cover» dissi. «Potrebbe essere insopportabile per gli uccelli.
Non ne sono sicuro, però.»
«Be’, prova!» gridò Reyna. I corvi le graffiavano e
beccavano furiosamente il mantello, incapaci di romperne il
tessuto magico. Sul lato frontale però era indifesa. Ogni volta
che Reyna brandiva la spada, un uccello le piombava addosso,
colpendole il petto e le braccia scoperte. La sua maglietta a
maniche lunghe si stava rapidamente trasformando in una a
maniche corte.
Canalizzai il mio lato musicale peggiore. Immaginai di
essere su un palco a Las Vegas, con una fila di bicchieri di
Martini vuoti sul pianoforte alle mie spalle. Indossavo uno
smoking di velluto. Avevo appena fumato un pacchetto di
sigarette. Davanti a me sedeva una folla di fan adoranti, affetti
da sordità tonale.
«VOOO-LA-REEEEE!» urlai, modulando la voce in modo
tale da aggiungere una ventina di sillabe al testo. «OH! OH!»
La reazione dei corvi fu immediata. Arretrarono come se
all’improvviso fossimo diventati antipasti vegetariani. Alcuni
si lanciarono di peso contro le travi maestre di metallo,
facendo vibrare tutta la torre.
«Continua!» gridò Meg.
Formulate come un ordine, le sue parole mi costrinsero a
obbedire. Con tante scuse a Domenico Modugno, che ha
scritto la canzone, diedi a “Volare” il trattamento completo alla
Dean Martin.
«CAAAAN-TA-REEEE! OH! OH! OH! OH!»
Un tempo era solo una bella canzone sconosciuta in
America. In origine, Modugno l’aveva intitolata Nel blu
dipinto di blu che, insomma, non è un granché come titolo.
Non so perché gli artisti facciano sempre così. Cercano le
sfumature. Voglio dire, dai, ragazzi, non girate intorno alle
cose, andate al sodo.
Comunque, in America Nel blu dipinto di blu sarebbe
potuta svanire nell’oblio se Dean Martin non se ne fosse
impossessato, non l’avesse rimpacchettata come Volare, non
avesse aggiunto settemila violini e vocalist di supporto e non
l’avesse trasformata in un classico da piano bar di terz’ordine.
Io non avevo vocalist di supporto. L’unica cosa che avevo
era la mia voce, ma feci il possibile per risultare tremendo.
Perfino quando ero un dio e potevo parlare tutte le lingue
che volevo, non avevo mai cantato bene in italiano:
continuavo a mescolarlo con il latino, così sembravo Giulio
Cesare con il raffreddore. E il mio nuovo naso rotto rendeva il
tutto ancora più orribile.
Urlavo e gorgheggiavo, strizzando forte gli occhi e
aggrappandomi alla scala mentre i corvi mi svolazzavano
intorno, gracidando raccapricciati per la mia orrenda
interpretazione. In basso, i levrieri di Reyna abbaiavano come
se avessero perso la madre.
Ero talmente concentrato nel massacrare la canzone di
Modugno che non mi resi conto che i corvi si erano
ammutoliti, finché Meg non gridò: «APOLLO, BASTA!».
Mi impappinai a metà di un ritornello. Quando aprii gli
occhi, i corvi erano spariti. Da qualche parte nella nebbia, i
loro versi indignati si fecero sempre più deboli mentre lo
stormo si spostava in cerca di prede più silenziose e meno
rivoltanti.
«Le mie orecchie!» si lamentò Reyna. «Oh, santi numi, le
mie orecchie non guariranno mai!»
«I corvi torneranno» le avvertii. Mi sentivo la gola come il
tamburo di una betoniera. «Non appena riusciranno a
comprare abbastanza cuffie fonoisolanti per volatili,
torneranno. Adesso salite! Non riuscirei mai a cantare un’altra
canzone di Dean Martin.»
27

Indovinello:

Dio, comincia con la A,

Vuole uccidermi

Non appena raggiunsi la passerella, mi aggrappai al parapetto.


Non capivo se mi tremavano le gambe o se era la torre a
vacillare. Mi sembrava di essere tornato sulla trireme da
diporto di Poseidone, quella trainata dalle balenottere azzurre.
“Oh, sarà una bella gita” aveva promesso il dio. “Ti
divertirai.”
Sotto i nostri piedi, San Francisco si stendeva come una
trapunta sgualcita verde e grigia, con i bordi sfilacciati e
coperti di nebbia. Sentii una fitta di nostalgia per i miei giorni
sul carro del sole. Oh, San Francisco! Ogni volta che vedevo
quella splendida città dall’alto, capivo che la mia giornata di
viaggio era quasi conclusa. Potevo finalmente parcheggiare il
carro al Palazzo del Sole, rilassarmi per la serata e lasciare che
qualunque altra forza che controllava il giorno e la notte
subentrasse al posto mio. (Mi dispiace, Hawaii. Vi adoro, ma
non avrei fatto lo straordinario per darvi l’alba.)
I corvi non si vedevano da nessuna parte. Il che non
significava niente. Una cortina di nebbia nascondeva ancora la
sommità della torre e gli assassini sarebbero potuti spuntare da
un momento all’altro. Non era giusto che degli uccelli con
un’apertura alare di sei metri potessero piombarci addosso con
tanta facilità.
All’estremità della passerella c’era il container. Il profumo
di rose era talmente forte ormai che lo sentivo anch’io, e
sembrava provenire da lì. Feci un passo in quella direzione e
barcollai all’istante.
«Attento!» Reyna mi prese per un braccio.
Un guizzo di energia mi attraversò il corpo, e mi sentii
subito più saldo sulle gambe. Forse l’avevo immaginato. O
forse ero solo scioccato che Reyna avesse avuto un contatto
fisico con me senza che questo comportasse piazzarmi uno
scarponcino in faccia.
«Sto bene» dissi. Un’abilità divina non mi aveva ancora
abbandonato: la capacità di mentire.
«Hai bisogno di cure mediche» replicò Reyna. «Hai una
faccia che fa orrore.»
«Grazie.»
«Ho io le provviste» annunciò Meg.
Frugò nelle tasche della cintura da giardinaggio. Ero
terrorizzato che cercasse di rattopparmi il viso con le
buganvillee in fiore, invece tirò fuori nastro, garza e
fazzolettini imbevuti di alcol.
Quindi con Pranjal non aveva imparato solo a usare la
grattugia.
Armeggiò con il mio viso, poi controllò me e Reyna per
vedere se avevamo tagli e punture particolarmente profondi.
Ne avevamo in abbondanza. Di lì a poco, tutti e tre eravamo
conciati come reduci della guerra d’indipendenza americana.
Avremmo potuto trascorrere l’intero pomeriggio a fasciarci a
vicenda, ma non avevamo tutto questo tempo a disposizione.
Meg si girò per osservare il container. Aveva ancora un
geranio tenace infilato fra i capelli. I brandelli del vestito le si
increspavano intorno come alghe marine.
«Che cos’è quell’affare?» domandò. «Che ci fa quassù, e
perché profuma di rose?»
Ottime domande.
Giudicare dimensioni e distanza era difficile dall’alto della
torre. Appoggiato contro le travi maestre, il container
sembrava vicino e piccolo, ma era probabilmente a un isolato
buono da noi, e più grande della roulotte personale di Marlon
Brando sul set del Padrino. (Wow, da dove mi spuntava fuori
questo ricordo? Ah, i bei tempi.) Installare quell’enorme
scatola rossa sulla Sutro Tower doveva essere stata un’impresa
ardua. Ma, del resto, se il Triumvirato possedeva abbastanza
contanti per cinquanta yacht di lusso, poteva anche permettersi
qualche elicottero cargo.
La domanda più importante era: perché?
Dai lati del container, scintillanti cavi di bronzo e oro
serpeggiavano verso l’esterno, intrecciati intorno al pilone e
alle travi come cavi di terra collegati ad antenne paraboliche,
antenne per i cellulari e centraline elettriche. Cosa c’era là
dentro? Una qualche specie di stazione di monitoraggio? La
serra di rose più costosa al mondo? O forse il marchingegno
più complicato mai esistito per guardare a sbafo i canali TV a
pagamento?
L’estremità più vicina del container era dotata di portelloni
di carico, con le aste di bloccaggio verticali chiuse da file di
pesanti catene. Qualunque cosa contenesse, doveva rimanere lì
dentro.
«Qualche idea?» domandò Reyna.
«Cercare di entrare in quel container è una pessima idea»
affermai. «Ma è l’unica che ho.»
«Okay.» Reyna scrutò la nebbia sopra le nostre teste.
«Muoviamoci prima che i corvi tornino per il bis.»
Meg evocò le spade gemelle. Fece strada lungo la
passerella, ma dopo cinque o sei metri si fermò all’improvviso
come se fosse andata a sbattere contro una parete invisibile. Si
girò verso di noi. «Ragazzi, sono… io o… qualcosa di
strano?»
Pensai che il calcio in faccia mi avesse messo in
cortocircuito il cervello. «Cosa, Meg?»
«Ho detto… sbagliato, tipo… freddo e…»
Lanciai un’occhiata a Reyna. «Tu hai sentito?»
«Ci arriva solo la metà di quello che dice. Perché le nostre
voci invece funzionano?»
Osservai il breve tratto di passerella che ci separava da Meg
e uno sgradevole sospetto mi frullò nella mente. «Meg, fai un
passo indietro verso di me, per favore.»
«Perché… che io…?»
«Fallo e basta.»
Meg arretrò. «Allora, ragazzi, sentite qualcosa di strano
anche voi? Tipo, una specie di freddo?» Aggrottò la fronte.
«Un attimo… adesso va meglio.»
«Facevi cadere le parole» disse Reyna.
«Facevo cosa?»
Le ragazze mi guardarono sperando in una spiegazione.
Purtroppo pensavo di averne una… o almeno l’inizio di una. Il
camion metaforico con i fari metaforici si stava avvicinando
per mettermi metaforicamente sotto.
«Aspettate qui un secondo» dissi. «Voglio provare una
cosa.»
Feci qualche passo verso il container. Arrivato nel punto in
cui prima si trovava Meg, sentii la differenza, come se avessi
varcato la soglia di un freezer industriale.
Altri tre metri e non sentivo più il vento, né il rumore dei
cavi metallici che sbattevano sui lati della torre, né il sangue
che mi scorreva nelle orecchie. Schioccai le dita. Nessun
rumore.
Il panico mi salì nel petto. Silenzio assoluto: il peggior
incubo di un dio della musica.
Mi girai verso Reyna e Meg. Tentai di gridare: “Mi sentite
adesso?”.
Niente. Le mie corde vocali vibravano, ma le onde sonore
sembravano svanire prima ancora di uscirmi di bocca.
Meg disse qualcosa che non riuscii a sentire. Reyna allargò
le braccia.
Feci loro cenno di aspettare. Poi trassi un profondo respiro
e mi costrinsi a proseguire verso il container. Mi fermai alla
distanza di un braccio dai portelloni di carico.
Il profumo di rose veniva sicuramente dal suo interno. Le
catene nelle aste di bloccaggio erano di pesante oro imperiale,
una quantità del raro metallo magico sufficiente a comprare un
palazzo di discrete dimensioni sul Monte Olimpo. Perfino
nella mia forma mortale sentivo il potere che irradiava dal
container: non solo il pesante silenzio, ma l’aura di freddo
pungente emanata dalle difese e maledizioni poste sui
portelloni e sulle pareti di metallo. Per tenere fuori noi. Per
tenere dentro qualcosa.
Sul portellone a sinistra, stampata in vernice bianca, c’era
una parola in arabo:

Il mio arabo era ancora più arrugginito del mio italiano alla
Dean Martin, ma ero piuttosto sicuro che fosse il nome di una
città: ALESSANDRIA , nello specifico Alessandria d’Egitto.
Le ginocchia per poco non mi cedettero. La vista cominciò
a vacillare. Forse singhiozzavo, ma non lo sentivo.
Lentamente, afferrando il parapetto per sostenermi, tornai
dalle mie amiche barcollando. Capii che avevo lasciato la zona
del silenzio soltanto quando sentii mormorare: «No, no, no,
no».
Meg mi afferrò prima che precipitassi giù. «Che c’è? Cos’è
successo?»
«Credo di capire» dissi. «Il dio ammutolito.»
«Chi è?» domandò Reyna.
«Non lo so.»
Reyna sbatté le palpebre. «Ma hai appena detto che…»
«Credo di capire. Ricordare chi è di preciso è più difficile.
Sono piuttosto sicuro che abbiamo a che fare con una divinità
tolemaica, dell’epoca in cui i Greci governavano l’Egitto.»
Meg guardò il container alle mie spalle. «Quindi c’è un dio
nella cassa.»
«Sì, Meg. Una divinità ibrida greco-egizia di scarsissima
importanza, credo, ed è il motivo per cui molto probabilmente
non si trovava negli archivi del Campo Giove.»
«Se è di così scarsa importanza, perché sembri così
spaventato?» osservò Reyna.
Un briciolo della mia antica alterigia divina mi pervase. I
mortali. Non capivano mai.
«Le divinità tolemaiche sono tremende» risposi. «Sono
imprevedibili, instabili, pericolose, insicure…»
«Come un dio normale, quindi» disse Meg.
«Ti odio» ribattei.
«Credevo che mi volessi bene.»
«Sono multitasking. Le rose erano il simbolo di questo dio.
Non… non mi ricordo perché. Forse Venere c’entra qualcosa?
Questo dio era responsabile dei segreti. Ai vecchi tempi, se i
leader appendevano una rosa al soffitto di una sala delle
conferenze significava che tutte le persone coinvolte in quella
conversazione dovevano mantenere il segreto. Lo chiamavano
sub rosa, sotto la rosa.»
«Sai tutte queste cose, ma non sai il nome del dio?»
commentò Reyna.
«Io non… lui è…» Un ringhio frustrato mi uscì dalla gola.
«Ce l’ho quasi. Dovrei avercelo. Ma non penso a questo dio da
millenni. È una divinità molto oscura. È come chiedermi di
ricordare il nome di un particolare cantante di supporto con cui
ho lavorato nel Rinascimento. Forse se tu non mi avessi tirato
un calcio in testa…»
«Dopo la storia di Coronide?» ribatté Reyna. «Te lo
meritavi.»
«Esatto» concordò Meg.
Sospirai. «Voi due avete un’influenza terribile l’una
sull’altra.»
Senza togliermi gli occhi di dosso, Reyna e Meg si diedero
un cinque.
«Forse la Freccia di Dodona può aiutarmi a rinfrescare la
memoria» dissi. «Almeno mi insulta con una lingua forbita.»
Estrassi la freccia dalla faretra. «Oh, dardo profetico, mi serve
la tua guida!»
Nessuna risposta.
Mi domandai se la freccia fosse stata addormentata dalla
magia che circondava il container. Poi mi resi conto che c’era
una spiegazione più semplice. Rimisi la freccia nella faretra e
ne tirai fuori un’altra.
«Avevi preso la freccia sbagliata, vero?» intuì Meg.
«No!» le risposi brusco. «Non capisci il mio ragionamento.
Torno nella mia sfera del silenzio.»
«Ma…»
Me ne andai via prima che Meg potesse finire.
Solo quando fui di nuovo circondato dal freddo silenzio mi
venne in mente che poteva essere difficile portare avanti una
conversazione con la freccia, se non potevo parlare.
Pace. Ero troppo orgoglioso per tornare indietro. Se io e la
freccia non avessimo potuto comunicare telepaticamente, avrei
fatto finta di avere una conversazione intelligente mentre
Reyna e Meg continuavano a guardarmi.
«Oh, dardo profetico!» tentai di nuovo. Le mie corde vocali
vibrarono, ma non uscì nessun suono: una sensazione
inquietante che potevo paragonare solo all’affogamento. «Mi
serve la tua guida!»
«FELICITAZIONI!» disse la freccia. La sua voce risuonò
nella mia testa – più una sensazione tattile che udibile –
facendomi sbatacchiare i bulbi oculari.
«Grazie» dissi. «Aspetta. Rallegramenti per cosa?»
«HAI TROVATO IL TUO RITMO. O QUANTOMENO IL
PRINCIPIO DEL TUO RITMO. SOSPETTAVO CHE
SAREBBE ANDATA IN CODESTA GUISA, A TEMPO
DEBITO. I RALLEGRAMENTI SON D’UOPO.»
«Oh.» Fissai la punta della freccia, in attesa di un “ma”.
Non arrivò. Rimasi così sorpreso che riuscii solo a balbettare:
«Gr-grazie».
«NON C’È DI CHE.»
«Abbiamo appena avuto uno scambio civile?»
«ORBENE, SÌ» rifletté la freccia. «E LA COSA MI
TURBA. MA TANT’È… DI QUALE “RAGIONAMENTO”
PARLAVI CON LE TUE DONZELLE? NEL CASO TUO, DI
SOLITO È PIÙ UN BRANCOLAMENTO.»
«E ti pareva…» brontolai. «Per favore, alla mia memoria
serve una spinta supplementare. Questo dio ammutolito è quel
tizio che viene dall’Egitto, giusto?»
«NON MALE, MESSERE» commentò la freccia. «HAI
RISTRETTO IL CAMPO A TUTTI GLI DEI EGIZI.»
«E dai, hai capito. C’era quel dio tolemaico… Il tizio
strano. Era il dio del silenzio e dei segreti. Anche se non lo
era, esattamente. Se puoi darmi il suo nome, penso che il resto
dei miei ricordi arriverà di conseguenza.»
«OHIBÒ! TI PARE CHE LA MIA SAGGEZZA SI
COMPRI COSÌ A BUON MERCATO? IL NOME
VORRESTI SENZA FATICA ALCUNA?»
«E come definiresti scalare la Sutro Tower?» domandai.
«Farsi sbrindellare dai corvi, farsi prendere a calci in faccia ed
essere costretto a cantare come Dean Martin?»
«UNO SPASSO.»
Forse gridai un paio di cosette, ma la sfera del silenzio le
censurò, quindi dovrete usare la vostra immaginazione.
«E va bene!» sbottai infine. «Puoi darmi almeno un
suggerimento?»
«ORBENE, IL NOME COMINCIA CON LA “A”!»
«Ade… Ares… Atena… Un sacco di nomi di dei
cominciano con la A… Apollo!»
«APOLLO? DICI SUL SERIO?»
«Sto solo facendo un po’ di brainstorming. A, hai detto…»
«PENSA AL TUO MEDICO PREFERITO.»
«Io. Aspetta. Mio figlio Asclepio?»
Il sospiro della freccia mi fece sbatacchiare perfino le ossa.
«IL TUO MEDICO MORTALE PREFERITO.»
«Dottor Kildare, dottor Destino, dottor House, dottor
Who… Oh! Intendi Ippocrate. Ma non comincia con la A e
non è un dio tolemaico.»
«MI FARAI USCIR DI SENNO» si lamentò la freccia.
«IPPOCRATE È UN SUGGERIMENTO. IL NOME CHE
CERCHI È SIMILE ASSAI. ALTRO NON DEVI CHE
CAMBIARE DUE LETTERE.»
«Quali?» Ero petulante e lo sapevo, ma non mi sono mai
piaciuti gli indovinelli, anche prima della mia orrenda
esperienza nel Labirinto di fuoco.
«TI DARÒ UN ULTIMO SUGGERIMENTO. PENSA A
QUALE DEI FRATELLI MARX PREFERISCI.»
«I Fratelli Marx? Ma come fai a conoscerli? Sono degli
anni Trenta del secolo scorso! Sì, certo, li adoravo. Hanno
portato un po’ di luce in un decennio così tetro, ma… Un
attimo. Quello che suonava l’arpa. Arpo. Ho sempre trovato la
sua musica dolce e triste e… Comincia con la A, però…»
Il silenzio intorno a me si fece più freddo e pesante.
“Arpo” pensai. “Ippocrate. Mettendo i nomi insieme si
ottiene…”
«Arpocrate? Freccia, ti prego, dimmi che non è la risposta
giusta. Dimmi che non è lui ad aspettarci in quel container.»
La freccia non replicò, e la presi come la conferma delle
mie peggiori paure.
Rimisi la mia forbitissima amica nella faretra e tornai
arrancando da Reyna e Meg.
Meg aggrottò la fronte. «Non mi piace la tua faccia.»
«Neanche a me» aggiunse Reyna. «Cos’hai scoperto?»
Lasciai vagare lo sguardo nella nebbia, rimpiangendo di
non avere più a che fare con una cosa semplice come uno
stormo di corvi assassini. Come avevo sospettato, il nome del
dio aveva riattivato i miei ricordi… ricordi brutti e sgraditi.
«So quale dio ci troviamo davanti» annunciai. «La buona
notizia è che non è molto potente, per essere un dio. Ed è il più
oscuro che si possa immaginare. Una vera celebrità di serie
D.»
Reyna incrociò le braccia. «Ma?»
«Ma… be’.» Mi schiarii la voce. «Io e Arpocrate non
andavamo molto d’accordo. Mi pare che abbia… ehm, giurato
che prima o poi mi avrebbe polverizzato.»
28

A tutti serve

Una mano sulla spalla

Per avanzare

«Polverizzato» ripeté Reyna.


«Sì.»
«Che gli hai fatto?» domandò Meg.
Cercai di apparire offeso. «Niente! L’avrò preso un po’ in
giro, ma era un dio di scarsissima importanza. Con un’aria
piuttosto scema. Forse ho fatto qualche battuta alle sue spalle
davanti agli altri dei dell’Olimpo.»
Reyna aggrottò le sopracciglia. «Praticamente l’hai
bullizzato.»
«No! Insomma… è vero che ho scritto “Fatemi fuori” a
lettere scintillanti sul retro della sua toga. E forse sono stato un
po’ duro quando l’ho legato e rinchiuso nelle scuderie con i
miei cavalli ardenti durante la notte…»
«OH, SANTI NUMI!» esclamò Meg. «Sei tremendo!»
Soffocai l’impellente desiderio di difendermi. Avrei voluto
urlare: “Be, almeno non l’ho ucciso come ho fatto con
Coronide quand’era incinta!”. Ma non era un granché come
replica arguta.
Ripensando ai miei scontri con Arpocrate, mi resi conto che
ero stato davvero tremendo. Se qualcuno avesse trattato me,
Lester, nel modo in cui io avevo trattato quel povero dio
tolemaico, avrei voluto nascondermi in una buca e morire. E a
essere sincero, all’epoca in cui ero un dio, ero stato bullizzato
anch’io… soltanto che il bullo era mio padre. Avrei dovuto
avere il buon senso di non infliggere agli altri la stessa
sofferenza.
Erano secoli che non pensavo ad Arpocrate. Prenderlo in
giro non mi era sembrato chissà che. Immagino che questo
rendesse la cosa ancora più grave. Avevo preso alla leggera i
nostri scontri. Dubitavo che lo avesse fatto anche lui.
I corvi di Coronide… Arpocrate…
Non era un caso che mi stessero perseguitando tutti e due
quel giorno, come gli Spettri dei Saturnali Passati. Tarquinio
aveva orchestrato tutto avendo in mente me. Mi costringeva ad
affrontare i miei abissi peggiori. Anche se fossi sopravvissuto
alle sfide, le mie amiche stavano vedendo esattamente il verme
che ero. Il peso della vergogna mi avrebbe schiacciato e
sopraffatto, proprio come i sassi che Tarquinio aggiungeva
nella gabbia intorno alla testa del nemico finché il carico non
superava il limite. Il prigioniero crollava e affogava in una
pozza bassa e Tarquinio poteva sostenere: “Non l’ho ucciso io.
Non era abbastanza forte, tutto qui”.
Trassi un respiro profondo. «Va bene, ero un bullo. Adesso
lo capisco. Filerò dritto in quel container e mi scuserò. E
speriamo che Arpocrate non mi polverizzi.»
Reyna non sembrava entusiasta. Si tirò su una manica,
scoprendo un semplice orologio nero al polso. Controllò l’ora,
forse domandandosi quanto tempo ci sarebbe voluto per
vedermi polverizzato e tornare al campo.
«Va bene, ma… sempre che riusciamo ad attraversare
quelle porte, cosa ci ritroviamo davanti?» chiese. «Raccontami
di Arpocrate.»
Cercai di rievocare un’immagine del dio nella mia mente.
«Di solito sembra un bambino. Di una decina di anni, direi.»
«Bullizzavi un decenne» brontolò Meg.
«Ho detto che sembra avere dieci anni. Non che ha dieci
anni. Ha la testa rasata, con una coda di cavallo su un lato.»
«È un’usanza egizia?» domandò Reyna.
«Sì, per i bambini. In origine, Arpocrate era l’incarnazione
del dio Horus. Per la precisione, di Harpa-Khruti, Horus
bambino. In ogni caso, quando Alessandro Magno invase
l’Egitto, i Greci trovarono tutte queste statue del dio e non
sapevano cosa farsene. Di solito veniva raffigurato con un dito
sulle labbra.» Glielo mostrai.
«Tipo “stai zitto”» disse Meg.
«Proprio quello che pensarono i Greci. Ma il gesto non
aveva niente a che fare con “Sssh!”. Simboleggiava il
geroglifico per “bambino”. Ciononostante, i Greci decisero
che doveva essere il dio del silenzio e dei segreti. Gli
cambiarono il nome in Arpocrate. Gli costruirono alcuni
santuari, cominciarono ad adorarlo, e boom, ecco nato un dio
ibrido greco-egizio.»
Meg sbruffò. «Non può essere così semplice creare un
nuovo dio.»
«Mai sottovalutare il potere di migliaia di menti umane che
credono tutte alla stessa cosa. Possono ricreare la realtà. A
volte in meglio, a volte no.»
Reyna scrutò le porte. «E adesso Arpocrate è lì dentro.
Credi che sia abbastanza potente da provocare tutti i nostri
problemi con le comunicazioni?»
«Non dovrebbe. Non capisco come…»
«Quei cavi.» Meg li indicò. «Collegano il container alla
torre. Non potrebbero rubare il segnale in qualche modo?
Forse è per questo che si trova quassù, su una torre delle
telecomunicazioni.»
Reyna annuì, approvando il ragionamento. «Meg, la
prossima volta che devo sistemare una console, chiamerò te.
Forse possiamo tagliare soltanto i cavi senza aprire la cassa.»
L’idea mi piaceva: un indizio piuttosto valido che non
avrebbe funzionato.
«Non basterà» conclusi. «La figlia di Bellona deve aprire le
porte della divinità ammutolita, giusto? E perché la nostra
evocazione rituale funzioni, ci serve l’ultimo fiato del dio
dopo che la sua… ehm, anima è stata liberata.»
Parlare della profezia sibillina stando al sicuro nell’ufficio
dei pretori era una cosa. Parlarne sulla Sutro Tower, davanti al
grande container rosso del dio, era tutt’altra.
Ebbi una profonda sensazione di disagio che non aveva
niente a che vedere con il freddo, né con la vicinanza della
sfera del silenzio, né con il veleno zombie che mi circolava nel
sangue. Pochi attimi prima avevo ammesso di aver bullizzato
Arpocrate. Avevo deciso di scusarmi. E poi, cosa? Lo avrei
ucciso per una profezia? Un altro sasso cadde nella gabbia
invisibile intorno alla mia testa.
Meg doveva pensarla allo stesso modo. Fece la sua migliore
espressione da “Non mi va proprio” e cominciò a giocherellare
con i brandelli del vestito. «Non dobbiamo mica… insomma,
no, vero? Voglio dire, anche se questo Arpo-coso lavora per
gli imperatori…»
«Non credo, sai.» Reyna indicò con un cenno le catene
sulle aste di bloccaggio. «Sembra che venga tenuto dentro. È
un prigioniero.»
«È ancora peggio» commentò Meg.
Dalla mia posizione, riuscivo a scorgere a malapena la
scritta bianca in arabo che significava “Alessandria” sulla
porta del container. Immaginai il Triumvirato che scovava
Arpocrate in qualche tempio sepolto nel deserto egiziano, lo
cacciava a forza in quel container e poi lo spediva in America
come un carico di terza classe. Probabilmente per gli
imperatori non era altro che l’ennesimo giocattolo pericoloso
della loro collezione, come i mostri addestrati e i lacchè
umanoidi.
E perché non permettere a Tarquinio di essere il suo
custode? Gli imperatori potevano allearsi con il tiranno non-
morto, almeno temporaneamente, per rendere l’invasione del
Campo Giove un po’ più semplice. Potevano lasciare che
Tarquinio approntasse contro di me la sua trappola più crudele.
Se io uccidevo Arpocrate o se lui uccideva me, che cosa gliene
sarebbe venuto al Triumvirato, alla fine? In entrambi i modi, lo
avrebbero trovato divertente: un altro scontro fra gladiatori per
spezzare la monotonia delle loro vite immortali.
La ferita sul collo riprese a farmi male. Mi resi conto che la
rabbia mi faceva serrare la mandibola.
«Ci dev’essere un altro modo» dissi. «La profezia non può
voler dire che dobbiamo uccidere Arpocrate. Parliamo con lui.
Troviamo una soluzione.»
«Ma come facciamo? Irradia silenzio» osservò Reyna.
«Questa è una buona domanda» ammisi. «Ma andiamo con
ordine. Dobbiamo aprire quelle porte. Voi due potete tagliare
le catene?»
Meg sembrò scandalizzata. «Con le mie spade?»
«Be’, pensavo che funzionassero meglio dei tuoi denti. Tu
che dici?»
«Lame d’oro imperiale che tagliano catene d’oro
imperiale?» intervenne Reyna. «Forse ce la faremo a
spezzarle, ma faremmo notte. Non abbiamo tutto questo
tempo. Ho un’altra idea: la forza divina.» E mi guardò.
«Ma io non ce l’ho!» protestai.
«Hai di nuovo la tua abilità di arciere» replicò lei. «E la tua
abilità di musicista.»
«La canzone volante non contava» disse Meg.
«Si intitola Volare» precisai.
«Il punto è che io potrei essere in grado di incrementare la
tua forza» continuò Reyna. «Credo sia per questo che sono
qui.»
Ripensai alla scossa di energia che avevo sentito quando mi
aveva toccato il braccio. Non era attrazione fisica, e nemmeno
una vibrazione di avvertimento da parte di Venere. Mi ricordai
di una cosa che aveva detto a Frank prima che lasciassimo il
campo. «Il potere di Bellona!» esclamai. «Ha qualcosa a che
fare con la forza numerica?»
Reyna annuì. «Posso amplificare le abilità delle altre
persone. Più grande è il gruppo, meglio è, ma anche se siamo
in tre… potremmo bastare per accrescere il tuo potere a
sufficienza da sventrare quelle porte.»
«Ma così vale lo stesso?» domandò Meg. «Cioè, se Reyna
non apre la porta di persona, non sarebbe un po’ come barare
rispetto alla profezia?»
Reyna scrollò le spalle. «Le profezie non significano mai
quello che uno pensa, giusto? Se Apollo può aprire la porta
grazie al mio aiuto, sono sempre io a esserne responsabile,
no?»
«E poi…» Indicai l’orizzonte. Rimanevano diverse ore di
luce, ma la luna piena stava sorgendo, enorme e bianca, sopra
le colline di Marin County. Di lì a poco sarebbe diventata
rosso sangue… e così, temevo, sarebbero diventati un sacco di
nostri amici. «Il tempo a nostra disposizione sta scadendo. Se
possiamo barare, bariamo.»
Mi resi conto che come ultime parole prima di morire
sarebbero state terribili. Ma Reyna e Meg mi seguirono
comunque nel gelido silenzio.
Raggiunte le porte, Reyna prese per mano Meg. Poi si girò
verso di me: “Pronto?”. E mi piantò l’altra mano su una spalla.
Un’ondata di forza mi pervase. Risi di gioia muta. Mi sentii
potente come quella volta nei boschi del Campo Mezzosangue,
quando avevo lanciato in orbita uno dei bodyguard di Nerone.
Il potere di Reyna era strepitoso! Se avessi potuto convincerla
a seguirmi durante tutta la mia avventura mortale, con una
mano sulla spalla e una catena di altri venti o trenta semidei
dietro di lei, scommetto che non ci sarebbe stato niente che
non avrei potuto fare!
Afferrai le prime catene in alto e le strappai come se
fossero di carta crespa. Poi toccò alle successive e alle
successive ancora. L’oro imperiale si spezzava e si
accartocciava tra le mie mani senza fare rumore. Le aste di
bloccaggio d’acciaio sembravano friabili come grissini mentre
le tiravo via.
Rimanevano soltanto le maniglie della porta.
Forse il potere mi aveva dato alla testa. Mi voltai a lanciare
un’occhiata a Reyna e Meg con un sorrisetto compiaciuto,
pronto ad accettare la loro adulazione.
Invece le ragazze mi guardarono come se avessi piegato in
due anche loro.
Meg barcollava, la pelle verde come un fagiolino. La cute
intorno agli occhi di Reyna era tesa per il dolore; le vene sulle
sue tempie sembravano saette sporgenti. La mia ondata di
energia le stava friggendo.
“Concludi” mimò Reyna con le labbra. E con lo sguardo
aggiunse una muta supplica: “Prima che sveniamo”.
Mortificato e pieno di vergogna, afferrai le maniglie della
porta. Le mie amiche mi avevano portato fin là. Se Arpocrate
mi stava davvero aspettando dentro il container, avrei fatto in
modo che tutta la forza della sua rabbia ricadesse su di me,
non su Reyna e Meg.
Con uno strattone aprii la porta ed entrai.
29

Mai sentito

Un silenzio assordante?

Io, sì. Lo giuro

All’istante mi ritrovai carponi sotto il peso del potere dell’altro


dio.
Il silenzio mi avvolse come titanio liquido. Il profumo
stucchevole di rose era travolgente.
Mi ero dimenticato il modo in cui Arpocrate comunicava:
attraverso raffiche di immagini mentali, opprimenti e prive di
suono. All’epoca in cui ero un dio, la trovavo una cosa
seccante. Come umano invece mi rendevo conto che poteva
spappolarmi il cervello. Al momento mi mandava un solo
messaggio continuo: TU? TI ODIO!
Alle mie spalle, Reyna era in ginocchio, con le mani a
coppa sulle orecchie, e urlava in silenzio. Meg era rannicchiata
su un fianco e scalciava come per togliersi di dosso una
coperta pesantissima.
Un attimo prima strappavo il metallo come se fosse carta.
Un attimo dopo riuscivo a malapena a sollevare la testa per
sostenere lo sguardo di Arpocrate.
Il dio fluttuava a gambe incrociate in fondo alla stanza.
Era ancora grande come un bambino di dieci anni, e ancora
conciato in modo ridicolo, con la toga e una specie di corona-
birillo in testa, come tantissime divinità tolemaiche confuse
che non riuscivano a decidere se essere egizie o greco-romane.
La coda di cavallo gli pendeva da un lato della testa rasata. E,
naturalmente, teneva ancora un dito sulla bocca come il
bibliotecario più frustrato ed esaurito del mondo: Sssh!
Non poteva fare altrimenti. Mi ricordai che ad Arpocrate
occorreva tutta la propria forza di volontà per togliere il dito
dalla bocca. Non appena smetteva di concentrarsi, la mano gli
tornava in posizione di scatto. Nei tempi antichi la trovavo una
cosa spassosa. In quel momento invece non mi sembrò più
così divertente.
I secoli non erano stati gentili con lui. Aveva la pelle rugosa
e cadente. La carnagione un tempo color bronzo era di un
malsano color porcellana. Gli occhi incavati ardevano di
rabbia e autocommiserazione.
Stretti intorno ai polsi e alle caviglie, ceppi d’oro imperiale
lo collegavano a una serie di catene, corde e cavi, alcuni
agganciati a elaborati pannelli di controllo, altri convogliati
attraverso dei fori nelle pareti del container che portavano alla
superstruttura della torre. L’impianto sembrava progettato per
risucchiare il potere di Arpocrate e amplificarlo, trasmettendo
così il suo magico silenzio in tutto il mondo. Era questa
l’origine di tutti i nostri problemi di comunicazione: un dio
piccolo, triste, arrabbiato e caduto nel dimenticatoio.
Ci misi un po’ a capire perché rimanesse imprigionato.
Perfino prosciugata del proprio potere, una divinità minore
avrebbe dovuto essere capace di spezzare qualche catena.
Arpocrate sembrava solo e indifeso.
Poi li notai. Ai fianchi del dio, così aggrovigliati alle catene
da distinguersi a fatica nella confusione generale prodotta dai
macchinari e dai fili, c’erano due oggetti fluttuanti che non
vedevo da millenni: asce cerimoniali gemelle, alte circa un
metro e venti, con una lama a mezzaluna e uno spesso fascio
di verghe di legno legate intorno al manico.
Fasces. Il massimo simbolo della potenza romana.
Mi si piegarono le costole come archi soltanto a guardarle.
Ai vecchi tempi, i potenti ufficiali romani non uscivano mai di
casa senza una processione di littori, ciascuno dei quali
portava una di quelle asce fasciate per far sapere alla plebe che
stava arrivando una persona importante. Più erano i fasces, più
importante era l’ufficiale.
Nel Ventesimo secolo, Mussolini riportò in auge quel
simbolo quando divenne dittatore. Il fascismo deve il suo
nome proprio a quelle scuri fasciate.
La cosa di per sé era già un pessimo segno ma, come se
questo non bastasse, i fasces davanti a me non erano di quelli
ordinari. Le lame erano d’oro imperiale. Avvolti intorno al
fascio di verghe c’erano stendardi di seta con ricamati sopra i
nomi dei proprietari. Era visibile un numero sufficiente di
lettere da consentirmi di indovinare cosa dicevano. Sulla
sinistra: LUCIUS AELIUS AURELIUS COMMODUS . Sulla destra:
GAIUS IULIUS CAESAR AUGUSTUS GERMANICUS , altrimenti
noto come Caligola.
Erano i fasces personali dei due imperatori, usati per
prosciugare il potere di Arpocrate e tenerlo schiavo.
Il dio mi guardò torvo. Mi costrinse a vedere nella mia
mente immagini dolorose: io che gli infilavo la testa nella
tazza del wc sul Monte Olimpo; io che ridevo come un pazzo
mentre gli legavo i polsi e le caviglie e lo chiudevo nelle
scuderie insieme ai miei cavalli sputafuoco. Decine di altri
incontri di cui mi ero completamente dimenticato, e in
ciascuno di essi io ero felice, bello e potente come uno degli
imperatori del Triumvirato, e altrettanto crudele.
Mi sentivo pulsare il cranio per la pressione esercitata
dall’attacco di Arpocrate. I capillari mi scoppiavano dentro il
naso rotto, sulla fronte, nelle orecchie. Alle mie spalle, Meg e
Reyna si dimenavano agonizzanti.
La figlia di Bellona incrociò il mio sguardo. Le colava il
sangue dal naso. Sembrava che chiedesse: “Bene, genio? E
ora?”.
Strisciando, mi avvicinai ad Arpocrate.
Con esitazione, ricorrendo a una serie di immagini mentali,
cercai di trasmettergli una domanda: “Come sei finito qui?”.
Mi raffigurai Caligola e Commodo che lo assalivano, lo
legavano, lo costringevano a eseguire i loro ordini. Immaginai
Arpocrate che fluttuava da solo in quella cassa scura per mesi,
anni, incapace di liberarsi dal potere dei fasces; Arpocrate che
diventava sempre più debole, mentre gli imperatori
utilizzavano il suo silenzio per tenere i campi semidivini al
buio, isolati, e il Triumvirato prosperava con la solita politica:
divide et impera.
Arpocrate era loro prigioniero, non loro alleato.
Avevo ragione?
Arpocrate replicò con un accesso di raggelante rancore.
Lo presi sia come un “sì” sia come un “Fai schifo, Apollo”.
Forzò altre visioni nella mia mente. Vidi Commodo e
Caligola in piedi dov’ero io in quel momento mentre
sorridevano crudeli e lo schernivano.
“Dovresti essere dalla nostra parte” gli stava dicendo
Caligola telepaticamente. “Dovresti avere il desiderio di
aiutare noi!”
Arpocrate si era rifiutato. Forse non poteva sconfiggere
quei bulli, ma intendeva combatterli con tutte le forze che gli
erano rimaste. Era per questo che sembrava così deperito.
Gli mandai un palpito di solidarietà e rimpianto. Arpocrate
lo eliminò con disprezzo.
Il fatto che entrambi odiassimo il Triumvirato non ci
rendeva amici. Arpocrate non aveva mai dimenticato la mia
crudeltà. Se non fosse stato frenato dai fasces, avrebbe già
fatto saltare in aria me e le mie amiche trasformandoci in una
nebbiolina di atomi.
Mi mostrò questa immagine a colori vividi. Intuivo che gli
dava piacere.
Meg tentò di unirsi alla nostra discussione telepatica.
All’inizio tutto quello che riuscì a inviargli fu una sensazione
ingarbugliata di dolore e confusione. Poi riuscì a concentrarsi.
Vidi suo padre che le sorrideva dall’alto, porgendole una rosa.
Per lei, la rosa era un simbolo di amore, non di segreti. Quindi
vidi suo padre morto sui gradini della Grand Central Station,
assassinato da Nerone. Inviò ad Arpocrate la storia della
propria vita colta in una manciata di istantanee dolorose. Lei
se ne intendeva di mostri. Era stata tirata su dalla Bestia. A
prescindere da quanto Arpocrate mi odiasse – e Meg era
d’accordo che potevo essere davvero stupido, a volte –
dovevamo collaborare per fermare il Triumvirato.
Arpocrate fece a pezzi i pensieri di Meg, con rabbia. Come
osava avere la presunzione di comprendere la sua tristezza?
Reyna tentò un approccio diverso. Condivise i propri
ricordi dell’ultimo attacco di Tarquinio al Campo Giove: i
feriti e i morti erano tantissimi, i loro corpi trascinati via dai
ghoul per essere rianimati come vrykolakai. Reyna mostrò ad
Arpocrate la propria più grande paura: che dopo tutte le loro
battaglie, dopo secoli di difesa delle migliori tradizioni di
Roma, la Dodicesima Legione potesse trovarsi di fronte alla
propria fine quella sera stessa.
Arpocrate rimase impassibile. Rivolse la sua attenzione a
me, seppellendomi sotto una valanga di odio.
“Va bene!” lo supplicai. “Uccidi me, se vuoi. Ma mi
dispiace! Sono cambiato!”
Gli inviai la serie di fallimenti più tremendi e imbarazzanti
che avevo subito da quand’ero diventato mortale: io che
piangevo sul cadavere del grifone Eloisa alla Waystation, io
che tenevo tra le braccia Crest il pandos mentre moriva nel
Labirinto di fuoco e, ovviamente, io che guardavo impotente
Caligola mentre uccideva Jason Grace.
Per un attimo, l’ira di Arpocrate vacillò.
Come minimo, ero riuscito a sorprenderlo. Non si aspettava
che provassi rimpianto né vergogna. Non erano i miei tipici
stati d’animo.
“Se ci lasci distruggere i fasces, questo ti renderà libero”
pensai. “E danneggerà anche gli imperatori, giusto?”
Gli mostrai una visione di Reyna e Meg che tagliavano i
fasces con le loro lame, e le asce cerimoniali che esplodevano.
“Sì.” Arpocrate mi rispose telepaticamente, aggiungendo
una punta di rosso acceso alla visione.
Gli avevo proposto una cosa che desiderava.
Reyna intervenne. Rappresentò Commodo e Caligola in
ginocchio, che gemevano per il dolore. I fasces erano collegati
a loro. Avevano corso un grosso rischio a lasciare le loro asce
nella Sutro Tower. Se i fasces fossero stati distrutti, gli
imperatori sarebbero stati indeboliti e resi vulnerabili prima
della battaglia.
“Sì” ripeté Arpocrate.
La pressione del silenzio si allentò. Riuscivo quasi a
respirare di nuovo senza angoscia. Reyna si rimise in piedi
barcollando. Aiutò Meg e me a rialzarci.
Purtroppo non eravamo fuori pericolo. Immaginai
un’infinità di cose terribili che Arpocrate poteva farci se lo
avessimo liberato. E, dato che stavamo comunicando con la
mente, non potei fare a meno di trasmettere queste mie paure.
Lo sguardo truce di Arpocrate non mi rassicurò.
Gli imperatori dovevano averlo previsto. Erano scaltri,
cinici, dotati di una logica tremenda. Sapevano che, se avessi
realmente liberato Arpocrate, il primo atto del dio sarebbe
stato uccidermi. Per gli imperatori, la potenziale perdita dei
loro fasces pesava meno del potenziale beneficio della mia
distruzione… e meno del divertimento dato dal sapere che me
l’ero procurata da solo.
Reyna mi toccò una spalla, facendomi trasalire suo
malgrado. Lei e Meg avevano sguainato le armi. Stavano
aspettando che mi decidessi. Volevo davvero rischiare una
cosa simile?
Osservai il dio. “Fai quello che vuoi di me” gli trasmisi con
il pensiero. “Ma risparmia le mie amiche. Ti prego.”
I suoi occhi sprigionavano rancore, ma anche un briciolo di
gioia. Sembrava che Arpocrate aspettasse che io mi rendessi
conto di qualcosa, come se mi avesse scritto sullo zaino
FATEMI FUORI mentre non guardavo.

Poi vidi cosa teneva in grembo. Non lo avevo notato mentre


ero carponi, ma in piedi era difficile non scorgerlo: un
barattolo di vetro, apparentemente vuoto, sigillato da un
coperchio di metallo.
Ebbi la sensazione che Tarquinio avesse appena lasciato
cadere l’ultimo sasso nella gabbia intorno alla mia testa.
Immaginai gli imperatori che strillavano di gioia sul ponte
dello yacht di Caligola.
Pettegolezzi risalenti a secoli prima vorticavano nella mia
testa: “Il corpo della Sibilla si è disintegrato… Non può
morire… I suoi servi hanno conservato la sua forza vitale… la
sua voce… in un barattolo di vetro”.
Arpocrate cullava tra le braccia tutto ciò che era rimasto
della Sibilla Cumana, l’ennesima persona che aveva tutte le
ragioni per odiarmi; una persona che gli imperatori e Tarquinio
sapevano che mi sarei sentito in obbligo di aiutare.
Mi avevano posto di fronte alla scelta più dura: fuggire,
lasciare che il Triumvirato vincesse e assistere alla distruzione
dei miei amici mortali, oppure liberare due miei acerrimi
nemici e affrontare lo stesso destino di Jason Grace.
Era una decisione semplice.
Mi girai verso Reyna e Meg e trasmisi loro più chiaramente
possibile il pensiero: “Distruggete i fasces. Liberate
Arpocrate”.
30

Una voce e uno Sssh!

Esiste coppia più strana?

Direi di no

A quanto pare, fu una pessima idea.


Reyna e Meg si spostarono con cautela, come quando ci si
avvicina a un animale feroce in trappola, o a un immortale
furibondo. Si misero in posizione ai lati di Arpocrate,
sollevarono le lame sopra i fasces e con le labbra mimarono:
“Uno, due, tre!”.
Fu quasi come se i fasces non avessero aspettato altro.
Anche se Reyna poco prima aveva protestato che le lame
d’oro imperiale ci avrebbero messo una vita a fare a pezzi le
catene d’oro imperiale, la sua spada e quelle di Meg tagliarono
le corde e i cavi come se non fossero soltanto visioni.
Le lame taglienti colpirono i fasces e li mandarono in
frantumi: le verghe esplosero in mille schegge, i manici si
spezzarono, le mezzelune dorate ruzzolarono per terra.
Le ragazze arretrarono, sorprese del loro stesso successo.
Arpocrate mi rivolse un sorriso sottile e crudele.
Senza emettere alcun suono, i ceppi alle mani e ai piedi del
dio si incrinarono e scomparvero come ghiaccio a primavera. I
cavi e le catene rimasti si contrassero e annerirono,
arrotolandosi contro le pareti. Arpocrate allungò la mano
libera – quella con cui non faceva il gesto “Sssh! Sto per
ucciderti” – e le due mezzelune dorate dei fasces spezzati
volarono nella sua presa. Le dita gli si fecero incandescenti. Le
lame si fusero. L’oro colò dai suoi pugni fino a formare una
pozza ai suoi piedi.
Una vocina terrorizzata nella mia testa disse: “Be’, sta
andando alla grande”.
Il dio si tolse dal grembo il barattolo di vetro. Lo sollevò
sui polpastrelli, quasi fosse una sfera di cristallo. Per un attimo
ebbi paura che gli riservasse lo stesso trattamento, fondendo
tutto quello che era rimasto della Sibilla solo per farmi
dispetto.
Invece il dio prese d’assalto la mia mente con nuove
immagini.
Vidi un eurynomos entrare a grandi passi nella prigione di
Arpocrate, con il barattolo di vetro sottobraccio. Il ghoul aveva
la bava alla bocca, gli occhi fiammeggianti e color porpora.
Arpocrate si dimenava nelle catene. Non era lì da molto.
Voleva annientare l’eurynomos con il silenzio, ma il ghoul
sembrava impassibile. Il suo corpo era guidato da un’altra
mente, una mente lontana, nella tomba del tiranno.
Anche attraverso la telepatia era chiaro che la voce era
quella di Tarquinio, pesante e brutale come le ruote di un carro
sopra la carne viva. “Ti ho portato un’amica” disse. “Cerca di
non romperla.”
Il ghoul lanciò il barattolo ad Arpocrate, che lo afferrò
sorpreso, poi zoppicò via ridacchiando maligno e legò con le
catene le porte del container.
Rimasto da solo al buio, il primo pensiero di Arpocrate fu
di spaccare il barattolo. Un qualunque oggetto ricevuto da
Tarquinio doveva essere una trappola o un veleno, se non
peggio. Ma era curioso. Un’amica? Arpocrate non aveva mai
avuto un amico o un’amica in vita sua. Non era sicuro di
afferrare bene il concetto.
Percepì una forza vitale dentro il vaso: debole, triste,
evanescente ma viva e forse più antica di lui. Aprì il
coperchio. Una voce debolissima cominciò a parlargli,
rompendo il suo silenzio come se non esistesse.
Dopo tanti millenni, Arpocrate, il dio ammutolito, aveva
quasi dimenticato il suono. Pianse di gioia. Il dio e la Sibilla
cominciarono a conversare.
Erano entrambi consapevoli di essere pedine, prigionieri. Si
trovavano lì solo perché servivano agli imperatori e al loro
nuovo alleato, Tarquinio. Al pari di Arpocrate, anche la Sibilla
si era rifiutata di collaborare con chi l’aveva imprigionata.
Non aveva rivelato loro niente del futuro. Perché avrebbe
dovuto? La Sibilla era al di là del dolore e della sofferenza.
Non le era rimasto letteralmente niente da perdere e desiderava
solo morire.
Arpocrate condivideva questo suo sentimento. Era stanco di
trascorrere i millenni consumandosi lentamente, in attesa di
diventare abbastanza oscuro e dimenticato dal genere umano,
da poter cessare di esistere del tutto. La sua vita era sempre
stata amara, un’infinita sequela di delusioni, di scherni subiti,
di atti di bullismo. Voleva soltanto riposare. Il riposo eterno
delle divinità estinte.
Condivisero le loro storie. Strinsero amicizia a partire
dall’odio che nutrivano per me. Si resero conto che era ciò che
Tarquinio voleva. Li aveva messi insieme sperando che
sarebbero diventati amici in modo da usarli l’uno contro
l’altra. Ma non riuscirono a resistere ai sentimenti che
provavano.
“Un attimo.” Interruppi la storia di Arpocrate. “Voi due
state… insieme?”
Non avrei dovuto domandarlo. Non avevo intenzione di
trasmettere un pensiero tanto incredulo, tipo: “Come fa un dio
dello Sssh! a innamorarsi di una voce in un barattolo di
vetro?”.
La rabbia di Arpocrate mi schiacciò, facendomi cedere le
ginocchia. La pressione dell’aria aumentò come se fossi
precipitato in un abisso. Per poco non svenni, ma immaginai
che Arpocrate non lo avrebbe permesso. Mi voleva cosciente,
capace di soffrire.
Mi inondò di amarezza e odio come in una specie di nausea
al contrario. Invece di rigettare tutto quello che mi faceva stare
male, ero costretto a ingurgitarlo.
Le mie giunture cominciarono a disfarsi, le mie corde
vocali a dissolversi. Forse Arpocrate era pronto a morire, ma
questo non significava che non mi avrebbe ucciso prima. Gli
avrebbe dato una grande soddisfazione.
Chinai la testa, digrignando i denti davanti all’inevitabile.
“Bene” pensai. “Me lo merito. Risparmia le mie amiche
però. Ti prego.”
La pressione si allentò.
Guardai in alto, attraverso una cortina di dolore.
Davanti a me, Reyna e Meg stavano in piedi spalla contro
spalla, al cospetto del dio.
Gli inviarono la loro raffica di immagini. Reyna mi ritrasse
mentre cantavo La caduta di Jason Grace alla legione, mentre
celebravo con le lacrime agli occhi il rito alla pira funeraria di
Jason, e mentre mi mostravo sciocco, imbranato e sprovveduto
quando mi ero proposto a lei, procurandole la risata più bella e
purificante di tutti gli ultimi anni. (Grazie, Reyna.)
Meg gli mostrò come l’avevo salvata nella tana dei
myrmekes al Campo Mezzosangue, cantando i miei deprimenti
insuccessi sentimentali con una tale sincerità da stordire le
formiche giganti. Mostrò la mia gentilezza verso l’elefantessa
Livia e Crest, e soprattutto verso di lei, quando ci eravamo
abbracciati nella nostra soffitta sopra il caffè e le avevo
promesso che non mi sarei mai arreso.
In tutti i loro ricordi sembravo così umano… ma nel senso
migliore possibile. Senza parole, le mie amiche chiesero ad
Arpocrate se fossi ancora la persona che odiava così tanto.
Il dio aggrottò la fronte, valutando la richiesta delle due
ragazze.
Poi una vocina parlò – parlò per davvero – da dentro il
barattolo di vetro sigillato.
«Basta.»
Era così fievole e smorzata, che non avrei neanche dovuto
percepirla. Solo il silenzio assoluto del container la rese
udibile, anche se non avevo idea di come fosse riuscita a
superare il campo di attutimento del suono di Arpocrate. Era
senza dubbio la Sibilla. Riconobbi il suo tono provocatorio, lo
stesso di quando secoli prima aveva giurato che non mi
avrebbe mai amato finché non si fosse esaurito ogni granello
di sabbia: “Torna da me alla conclusione di questo tempo.
Allora, se mi vorrai, sarò tua”.
E ora, eccoci qua, dalla parte sbagliata dell’eternità,
nessuno di noi nella forma adatta per scegliere l’altro.
Arpocrate osservò il barattolo, la sua espressione si fece
triste e malinconica. Sembrava che le chiedesse: “Sei sicura?”.
«Questo è quanto ho previsto» sussurrò la Sibilla.
«Finalmente, riposeremo.»
Una nuova immagine apparve nella mia mente: i versi dei
Libri Sibillini, nitide lettere nere su una pelle così bianca da
farmi strizzare gli occhi. Le parole fumavano come se fossero
appena uscite dall’ago di un’arpia tatuatrice: L’ultimo respiro
del dio che non parla, una volta che la sua anima è stata
liberata, insieme al vetro infranto.
Anche Arpocrate aveva visto quelle parole, a giudicare dal
modo in cui trasalì. Rimasi in attesa che ne elaborasse il
significato, si arrabbiasse di nuovo, e decidesse che se l’anima
di qualcuno doveva proprio essere liberata, quell’anima
sarebbe stata la mia.
Quando ero un dio, di rado pensavo al passare del tempo.
Secolo più, secolo meno, che differenza faceva? In quel
momento invece pensai a quanto tempo prima la Sibilla aveva
scritto quei versi. Li aveva scarabocchiati nei Libri Sibillini
originali all’epoca in cui Roma era ancora un piccolo regno.
La Sibilla sapeva il loro significato anche allora? Si era resa
conto che non sarebbe diventata altro che una voce in un
barattolo, chiusa in una cassa di metallo buia insieme al suo
ragazzo che profumava di rose e sembrava un decenne
avvizzito con la toga e una corona a birillo in testa? Se la
risposta era sì, come faceva a non avere voglia di uccidermi
più dello stesso Arpocrate?
Il dio sbirciò nel contenitore, forse per avere una
conversazione telepatica privata con la sua amata Sibilla.
Reyna e Meg si spostarono, facendo del loro meglio per
togliermi dalla visuale del dio. Forse pensavano che si potesse
dimenticare della mia presenza, se non mi vedeva. Mi
vergognai un po’ a sbirciare da dietro le loro gambe, ma ero
così esaurito e stordito che dubitavo di riuscire a stare in piedi.
A prescindere dalle immagini che Arpocrate mi aveva
mostrato o da quanto fosse stanco di vivere, non riuscivo a
immaginare che si sarebbe arreso facilmente. “Oh, devi
uccidermi per quella faccenda della profezia? Okay, certo!
Pugnalami qui!”
E ancor meno riuscivo a immaginare che ci lasciasse
prendere il barattolo della Sibilla per farlo a pezzi per il nostro
rituale. Avevano trovato l’amore. Perché mai avrebbero voluto
morire?
Alla fine Arpocrate annuì, come se fossero giunti a un
accordo. Tese il volto per la concentrazione, allontanò il dito
dalla bocca, sollevò il barattolo verso le labbra e gli diede un
bacio delicato. Di solito, non mi sarei commosso nel vedere un
uomo che accarezzava un barattolo, ma il gesto di Arpocrate
era così sconsolato e sincero che mi si formò un nodo in gola.
Girò il coperchio.
«Addio, Apollo» disse la voce della Sibilla, più nitida
adesso. «Ti perdono. Non perché tu lo meriti, e nemmeno per
il tuo bene. Ma perché non cadrò nell’oblio portandomi dietro
l’odio quando posso portarmi dietro l’amore.»
Anche se avessi potuto parlare, non avrei saputo cosa dire.
Ero sotto shock. Il suo tono di voce non richiedeva nessuna
risposta, nessuna scusa. La Sibilla non aveva bisogno di niente
né voleva niente da me. Era quasi come se fossi io quello che
veniva cancellato.
Arpocrate incrociò il mio sguardo. I suoi occhi erano
ancora accesi di risentimento, ma intuivo che stava cercando
di lasciarlo andare. Quello sforzo sembrava ancora più arduo
per lui che tenere la mano lontana dalla bocca.
Senza volerlo, chiesi: “Perché lo stai facendo? Perché
acconsenti a morire?”.
Era nel mio interesse che lo facesse, certo. Ma non aveva
senso. Aveva trovato un’altra anima per cui vivere. E poi,
troppe altre persone si erano sacrificate per le mie imprese.
Capii in quel momento, meglio di quanto avessi mai capito,
perché a volte è necessario morire. Come mortale, avevo fatto
quella scelta soltanto qualche minuto prima per salvare le mie
amiche. Ma un dio che accetta di cessare di esistere,
soprattutto quando è libero e innamorato? No, questo non lo
capivo.
Arpocrate mi fece un sorriso mesto. La mia confusione, il
panico che provavo, alla fine devono avergli dato quello di cui
aveva bisogno per non avercela più con me. Tra noi due, era
lui il dio più saggio. Capiva qualcosa che io non capivo. E di
certo non mi avrebbe dato nessuna risposta.
Mi mandò un’ultima immagine: io davanti a un altare, che
compivo un sacrificio rivolto al cielo. Lo interpretai come un
ordine: “Fa’ che ne valga la pena. Non sbagliare”.
Poi trasse un sospiro profondo. Noi restammo a guardare,
allibiti, mentre cominciava a sgretolarsi, la faccia che si
incrinava, la corona che crollava come la torre di un castello di
sabbia. Il suo ultimo respiro, un barlume argenteo di
evanescente forza vitale, entrò vorticando nel barattolo di
vetro per stare con la Sibilla. Fece appena in tempo a chiudere
il coperchio prima che le sue braccia e il torace si
trasformassero in grossi frammenti di polvere, dopodiché
Arpocrate svanì.
Reyna si lanciò in avanti e afferrò il barattolo prima che
colpisse il pavimento. «C’è mancato poco» disse, e così mi
resi conto che il silenzio del dio era stato infranto.
Tutto sembrava troppo rumoroso: il mio stesso respiro, lo
sfrigolio dei fili elettrici tagliati, il cigolio delle pareti del
container al vento.
Meg aveva ancora un colorito da legume. Fissò il barattolo
in mano a Reyna come se fosse preoccupata che potesse
esplodere. «Loro sono…?»
«Credo…» Le parole mi si strozzarono in gola. Mi
tamponai la faccia e scoprii di avere le guance bagnate.
«Credo che siano spariti. Per sempre. L’ultimo respiro del dio
Arpocrate è tutto quello che rimane nel barattolo, ormai.»
Reyna sbirciò nel vetro. «Ma la Sibilla…?» Si girò verso di
me e per poco non fece cadere il barattolo. «Santi numi,
Apollo. Hai un’aria tremenda!»
«Una faccia che fa orrore. Sì, me lo ricordo.»
«No. Voglio dire, sei peggiorato. L’infezione. Quando è
diventata così?»
Meg mi guardò socchiudendo gli occhi. «Oh, che schifo.
Dobbiamo farti guarire alla svelta.»
Ero felice di non avere uno specchio né la fotocamera di un
cellulare per vedere che faccia avevo. Potevo solo supporre
che i segni di infezione purpurea avessero superato il collo e
ormai mi stessero disegnando nuovi motivi sulle guance. Però
non mi sentivo più zombie di prima. La ferita allo stomaco
pulsava come al solito. Ma forse significava soltanto che il
mio sistema nervoso stava smettendo di funzionare.
«Aiutatemi ad alzarmi, per favore» dissi.
Dovettero tirarmi su in due. Posai una mano sul pavimento
per puntellarmi, tra le verghe dei fasces spezzati, e mi ritrovai
una scheggia nel palmo. E ti pareva.
Barcollai sulle gambe molli, appoggiandomi prima a Reyna
e poi a Meg, e cercai di ricordare come si fa a stare in piedi.
Non volevo guardare il barattolo di vetro, ma non riuscii a
trattenermi. Non c’era traccia della forza vitale di Arpocrate
all’interno. Dovevo fidarmi e credere che il suo ultimo respiro
fosse lì dentro. O le cose stavano così, oppure quando
avessimo cercato di fare la nostra evocazione, avrei scoperto
che mi aveva giocato un ultimo, bruttissimo tiro.
Quanto alla Sibilla, non percepivo la sua presenza. Il suo
ultimo granello di sabbia era scivolato via, ne ero sicuro.
Aveva scelto di uscire dall’universo insieme ad Arpocrate:
l’ultima esperienza condivisa tra due improbabili innamorati.
Sul vetro del barattolo, all’esterno, c’erano ancora i resti
appiccicosi di un’etichetta di carta. Una scritta sbiadita diceva:
MARMELLATA DI UVA . Tarquinio e gli imperatori dovevano
rendere conto di tante cose.
«Ma come hanno fatto?» Reyna rabbrividì. «Un dio può
farlo? Può scegliere di non esistere più?»
Avrei voluto rispondere che “gli dei possono fare tutto”, ma
la verità era che non ne avevo idea. La domanda più
importante era: perché un dio avrebbe dovuto desiderarlo?
Quando Arpocrate mi aveva lanciato quell’ultimo mesto
sorriso, aveva voluto alludere al fatto che un giorno avrei
potuto capire? Un giorno, perfino gli dei dell’Olimpo
sarebbero stati reliquie dimenticate che bramavano
l’inesistenza?
Con le unghie mi tolsi la scheggia dal palmo della mano. Il
sangue fuoriuscì, rosso, normale, umano. Scorse lungo il solco
della mia linea della vita, un pessimo segno. Meno male che
non credevo a certe cose…
«Dobbiamo tornare indietro» disse Reyna. «Ce la fai a
muover…?»
«Sssh!» intervenne Meg, portandosi un dito alle labbra.
Temetti che stesse facendo l’imitazione di Arpocrate più
inappropriata di sempre. Poi mi resi conto che era molto seria.
Le mie orecchie tornate da poco sensibili colsero quello che
sentiva lei: i versi fievoli e distanti di uccelli furibondi. I corvi
stavano tornando.
31

Che spettacolo

La luna di sangue! Uff…

Sono bloccato

Uscimmo dal container giusto in tempo per ricevere un attacco


in picchiata.
Un corvo sfrecciò davanti a Reyna e le staccò con il becco
una ciocca di capelli.
«Ahi!» gridò lei. «Okay, ora basta.»
Mi diede il barattolo di vetro e preparò la spada.
Un secondo corvo arrivò a tiro e Reyna lo liquidò con un
fendente. Le lame gemelle di Meg frullarono un terzo uccello,
trasformandolo in una nuvola nera. Così rimanevano solo altri
trenta o quaranta neri deltaplani di sventura assetati di sangue
che sciamavano intorno alla torre.
Sentii montare un’ondata di rabbia. Decisi che con il
rancore dei corvi avevo chiuso. Un sacco di gente aveva validi
motivi per odiarmi: Arpocrate, la Sibilla, Coronide, Dafne… e
forse qualche altra decina. Okay, forse qualche altro centinaio.
Ma i corvi? Stavano benissimo! Erano diventati giganteschi!
Adoravano il loro nuovo lavoro di assassini carnivori. Basta
con il senso di colpa!
Misi il barattolo di vetro al sicuro nello zaino. Poi mi tolsi
l’arco di spalla. «Smammate o morirete!» gridai agli uccelli.
«È il mio ultimo avvertimento!»
I corvi gracchiarono e gracidarono per schernirmi. Uno si
tuffò su di me e si beccò una freccia tra gli occhi. Precipitò
giù, avvitandosi in una spirale di piume.
Scelsi un altro bersaglio e lo abbattei. Poi un terzo. E un
quarto.
Il gracchiare dei corvi si trasformò in un guazzabuglio di
versi d’allarme. Allargarono il cerchio, forse pensando che
così non sarei riuscito a colpirli. Gli dimostrai che si
sbagliavano.
Continuai a tirare finché non ne ebbi fatti fuori una decina.
«Ho portato delle frecce in più oggi!» gridai. «Chi vuole la
prossima?»
Alla fine gli uccelli afferrarono il messaggio. Con qualche
strillo di saluto – di certo impubblicabili commenti sulla mia
famiglia di origine – interruppero l’attacco e volarono a nord
in direzione di Marin County.
«Bravo» mi disse Meg, ritraendo le lame.
Riuscii a malapena a rispondere con un cenno di assenso e
qualche sibilo. Gocce di sudore mi si congelavano sulla fronte.
Mi sentivo le gambe molli come patatine fritte bagnate.
Scendere mi sembrava impossibile, figuriamoci partire
all’arrembaggio per una serata spassosa in cui avrei dovuto
evocare divinità, combattere fino alla morte e forse
trasformarmi in uno zombie.
«Oh, santi numi!» Reyna guardò nella direzione in cui era
sparito lo stormo. Le sue dita sondavano distrattamente il
cuoio capelluto nel punto in cui il corvo le aveva staccato una
ciocca.
«Ricresceranno» dissi.
«Cosa? No, non parlo dei capelli. Guardate!»
Indicò il Golden Gate Bridge.
Dovevamo essere rimasti nel container molto più tempo di
quanto pensassi. Il sole era ormai basso a occidente. La luna
piena era sorta sopra il Monte Tamalpais. Il caldo del
pomeriggio aveva consumato tutta la nebbia, dandoci una
perfetta visione della flotta bianca – cinquanta splendidi yacht
disposti a V – che oltrepassava tranquillamente il faro di Point
Bonita ai bordi di Marin Headlands, diretta verso il ponte.
Superato quello, sarebbe entrata serenamente nella baia di San
Francisco.
Avevo un saporaccio di polvere divina in bocca. «Quanto
tempo abbiamo?»
Reyna controllò l’orologio. «Quelle vappae se la stanno
prendendo comoda, ma anche alla velocità con cui stanno
navigando saranno in posizione per fare fuoco sul campo entro
il tramonto. Forse due ore?»
In circostanze diverse, forse avrei apprezzato l’utilizzo del
termine vappa. Era da un pezzo che non sentivo qualcuno
chiamare i propri nemici “vino andato a male”. Nel linguaggio
moderno, il significato più prossimo sarebbe stato “canaglia”.
«Quanto tempo ci vorrà per raggiungere il campo?»
domandai.
«Nel traffico del venerdì pomeriggio?» Reyna fece un
rapido calcolo. «Un po’ più di due ore.»
Da una delle tasche della sua cintura da giardinaggio, Meg
tirò fuori una manciata di semi. «Mi sa che è meglio se ci
sbrighiamo, allora.»
Non avevo mai sentito parlare di Jack e il fagiolo magico. Ma
non mi sembrava un mito greco.
Quando Meg disse che avremmo dovuto usare un’uscita
alla Jack e il fagiolo magico, non capii cosa volesse dire,
neanche mentre spargeva manciate di semi lungo il pilone più
vicino, facendoli esplodere fino a formare una cannicciata di
materiale erbaceo che arrivava fino a terra.
«Saltate giù» ordinò.
«Ma…»
«Non sei certo nelle condizioni di scendere la scala» ribatté.
«Così sarà più veloce. È un po’ come cadere. Ma con le
piante.»
Quella descrizione non mi piacque per niente.
Reyna si limitò a scrollare le spalle. «Ma sì!»
Lanciò una gamba sopra il parapetto e saltò. Le piante
l’afferrarono e cominciarono a passarsela al volo con salti di
un metro e mezzo alla volta, come in una catena umana. Il
pretore all’inizio strillò e agitò le braccia, ma arrivata quasi a
metà strada, gridò: «NON… È… AFFATTO… MALE!».
Poi toccò a me. Non era male: era malissimo. Urlai. Mi
ritrovai a testa in giù. Mi agitai alla ricerca di qualcosa a cui
aggrapparmi, ma ero totalmente alla mercé di rampicanti e
felci. Era come precipitare in caduta libera dentro un sacco di
foglie grande quanto un grattacielo, però con le foglie vive e
vegete e molto sensibili.
Arrivato in fondo, le piante mi posarono gentilmente
sull’erba accanto a Reyna, che sembrava spalmata di fiori.
Meg atterrò accanto a noi e si accasciò tra le mie braccia.
«Tante piante» mormorò. Poi gettò gli occhi all’indietro e
cominciò a russare. Niente più fagioli magici quel giorno.
Aurum e Argentum ci corsero incontro, dimenando la coda
e guaendo. Dalle centinaia di piume nere sparse nel
parcheggio, intuii che i levrieri si erano divertiti con gli uccelli
che avevo fatto precipitare.
Non ero nelle condizioni di camminare, figuriamoci se
potevo portare Meg, ma in qualche modo io e Reyna
riuscimmo a tornare al pick-up arrancando lungo la collina
mentre trascinavamo Meg. Sospettai che Reyna stesse usando
le strabilianti abilità di figlia di Bellona per prestarmi un po’
della sua forza, anche se dubitavo che ne avesse ancora molta.
Arrivati al pick-up, fischiò. I cani saltarono sul cassone. A
fatica riuscimmo a sistemare al centro del sedile la nostra
Maga del Fagiolo, che era ancora svenuta. Io collassai accanto
a lei. Reyna mise in moto, e ci lanciammo a rotta di collo
lungo la collina.
Per quasi un minuto e mezzo procedemmo a meraviglia.
Poi arrivammo al Castro District e ci ritrovammo bloccati nel
traffico del venerdì che si incanalava verso l’autostrada. Quasi
quasi rimpiangevo la catena di fagioli magici… almeno ci
avrebbero rispedito a Oakland più in fretta.
Dopo il tempo trascorso con Arpocrate, tutto sembrava
orribilmente rumoroso: il motore del pick-up, le chiacchiere
dei passanti, il rimbombo delle casse delle altre auto.
Stringevo con delicatezza lo zaino, cercando di trarre conforto
dal fatto che il barattolo di vetro fosse intatto. Avevamo
centrato l’obiettivo, anche se faticavo a credere che la Sibilla e
Arpocrate fossero spariti.
Ma non era il momento di rielaborare l’ennesimo,
traumatico lutto. Ci avrei pensato poi, sempre che fossi stato
ancora vivo. Avrei dovuto escogitare un sistema per onorare
degnamente la loro scomparsa. Come si commemorava la
morte di un dio del silenzio? Un minuto di silenzio sembrava
troppo ovvio. Forse un minuto di urla?
Insomma, una cosa per volta. Prima dovevo sopravvivere
alla battaglia imminente. Poi avrei capito se e cosa urlare in
suo onore.
Reyna notò la mia espressione preoccupata. «Sei stato
bravo sulla torre» disse. «Ti sei fatto avanti.»
Sembrava sincera. Ma le sue lodi mi fecero provare ancora
più vergogna.
«Sto tenendo in mano l’ultimo respiro di un dio che
bullizzavo, chiuso nel barattolo di una Sibilla che ho
maledetto» replicai, affranto. «Un barattolo protetto da uccelli
che ho trasformato in macchine assassine perché avevano
spettegolato sul tradimento della mia ragazza… ragazza che
poi ho fatto assassinare.»
«Tutto vero» ammise Reyna. «Solo che adesso te ne rendi
conto.»
«È orribile.»
Mi rivolse un piccolo sorriso. «Be’, è questo il punto. Fai
una cosa brutta, te ne penti e ti comporti meglio. È segno che
forse stai sviluppando una coscienza.»
Cercai di ricordarmi quali dei avevano creato la coscienza
umana. L’avevamo creata noi, o gli umani l’avevano
sviluppata per conto loro? Dare ai mortali il senso di ciò che è
giusto non sembra il genere di cose di cui un dio si vanterebbe
sulla propria pagina Facebook.
«Apprezzo quello che dici. Ma per colpa dei miei errori
passati, tu e Meg avete rischiato di restare uccise» riuscii a
commentare. «Se Arpocrate vi avesse fatto fuori quando
cercavate di proteggermi…»
L’idea era troppo tremenda. La mia piccola coscienza
nuova di zecca mi sarebbe esplosa dentro come una bomba a
mano.
Reyna mi diede una pacca su una spalla. «Non abbiamo
fatto altro che mostrare ad Arpocrate quanto sei cambiato. E
lui lo ha riconosciuto. Hai rimediato a tutte le brutte cose che
hai fatto? No. Ma continui ad allungare la lista delle “cose
positive”. Questo è il massimo che ciascuno di noi può fare.»
Allungare la lista delle cose positive. Reyna parlava di
questo superpotere come se fosse davvero alla mia portata.
«Grazie» dissi.
Lei studiò con preoccupazione la mia faccia, forse notando
quanta strada avevano fatto i segni purpurei dell’infezione
sulle mie guance. «Puoi ringraziarmi rimanendo vivo, okay?
Ci servi per il rituale di evocazione.»
Mentre percorrevamo la rampa di accesso alla Interstate 80,
intravidi la baia oltre lo skyline del centro. Ormai gli yacht
erano scivolati sotto il Golden Gate Bridge. A quanto pareva,
il taglio delle corde di Arpocrate e la distruzione dei fasces
non avevano scoraggiato per niente gli imperatori.
Davanti alle grandi navi si stendevano scie argentee lasciate
da decine di barche più piccole che si dirigevano verso la costa
della East Bay. Unità da sbarco, immaginai. E quelle barche si
muovevano molto più velocemente di noi.
Sopra il Monte Tam, la luna piena si tinse lentamente di
rosso ciliegia.
Nel frattempo, Aurum e Argentum abbaiavano
allegramente nel cassone del pick-up. Reyna tamburellava con
le dita sul volante, borbottando: «Vámonos, vámonos». Meg
russava appoggiata contro di me, sbavando sulla mia
maglietta. Perché mi voleva tanto bene.
Ci stavamo lentamente avvicinando al Bay Bridge quando
alla fine Reyna disse: «Non lo sopporto. Le navi non
avrebbero dovuto superare il Golden Gate».
«Perché no?» domandai.
«Apri il cassetto del cruscotto, per favore. All’interno ci
dovrebbe essere un rotolo.»
Esitai. Chissà quale pericolo si nascondeva nel cruscotto
del pick-up di un pretore! Con cautela, rovistai dietro i
documenti dell’assicurazione, i pacchetti di fazzoletti di carta,
le buste di cibo per cani…
«Questo?» Sollevai un floscio cilindro di pergamena.
«Esatto. Stendilo e vedi se funziona.»
«Vuoi dire che è un rotolo per le comunicazioni?»
Reyna annuì. «Lo farei io, ma è pericoloso guidare e
leggere in contemporanea.»
«Ehm… okay.» Srotolai la pergamena.
Era intonsa. Non accadde niente.
Mi domandai se dovessi pronunciare qualche parola magica
o fornire il numero di carta di credito o roba del genere. Poi,
sopra il rotolo, baluginò una debole sfera di luce che
lentamente diventò un Frank Zhang olografico in miniatura.
«Wow!» Il minuscolo Frank per poco non saltò fuori dalla
sua minuscola armatura. «Apollo?»
«Ciao!» gli dissi. Poi rivolto a Reyna: «Funziona».
Lei annuì. «Frank, mi senti?»
Il figlio di Marte socchiuse gli occhi. Dovevamo apparirgli
anche noi minuscoli e sfocati. «Quella è…? Posso a
malapena… Reyna?»
«Sì, sono io. Siamo sulla strada del ritorno. Le navi stanno
arrivando!»
«Lo so… Rapporto da ricognitore…» La voce di Frank si
incrinò. Sembrava che fosse in una specie di ampia grotta, con
i legionari che si davano da fare alle sue spalle, scavavano
buche e trasportavano grosse urne.
«Che cosa stai facendo?» domandò Reyna. «Dove sei?»
«Caldecott…» rispose Frank. «Solo… cose per la difesa.»
Non capivo se in quel momento la sua voce arrivasse
distorta per via delle interferenze o se fosse lui a voler essere
evasivo. A giudicare dalla sua espressione, lo avevamo
beccato in un momento poco opportuno.
«Notizie… Michael?» chiese (cambiando decisamente
discorso). «Dovrebbe… ormai.»
«Che cosa?» replicò Reyna, a voce abbastanza alta da
indurre Meg a emettere una specie di grugnito. «No, stavo per
chiederti se tu avessi saputo niente. Dovevano fermare gli
yacht al Golden Gate. Dato che le navi sono passate…» Lasciò
la frase in sospeso.
Potevano essere tanti i motivi per cui Michael Kahale e la
sua squadra speciale non erano riusciti a fermare gli yacht
degli imperatori. Nessuno di essi era buono, e nessuno di essi
cambiava quello che sarebbe accaduto poi. Ormai le uniche
cose che si frapponevano tra il Campo Giove e
l’annientamento erano l’orgoglio degli imperatori, che li
spingeva a tentare prima un attacco via terra, e un barattolo di
marmellata vuoto che forse ci avrebbe permesso di evocare
l’aiuto divino.
«Aspetta!» disse Reyna. «Di’ a Ella di preparare
l’occorrente per il rituale!»
«Non…? Cosa?» La faccia di Frank si fuse, diventando una
macchia di luce colorata. La sua voce sembrava ghiaia scossa
in una lattina di alluminio. «Io… Hazel… Devo…»
Il rotolo prese fuoco all’improvviso, e non era decisamente
quello di cui avevo bisogno in quell’istante fra le gambe dei
miei pantaloni.
Mentre cercavo di spegnere le braci con le mani, Meg si
svegliò, sbadigliando e sbattendo le palpebre. «Che hai
combinato?» domandò.
«Niente! Non sapevo che il messaggio si sarebbe
autodistrutto!»
«Pessimo collegamento» commentò Reyna. «Il silenzio si
starà interrompendo lentamente… come se si stesse facendo
largo a poco a poco dall’epicentro della Sutro Tower. Abbiamo
surriscaldato il rotolo.»
«È possibile.» Calpestai gli ultimi pezzi di pergamena per
spegnerli. «Speriamo di riuscire a mandare un messaggio-Iride
una volta arrivati al campo.»
«Se arriviamo al campo» brontolò Reyna. «Questo traffico
non… Ma che… ?!» Indicò un cartello stradale lampeggiante
davanti a noi: HIGHWAY 24 CHIUSA ALL’ALTEZZA DEL
CALDECOTT TUNNEL PER LAVORI DI EMERGENZA. CERCARE
STRADE ALTERNATIVE.

«Lavori di emergenza?» disse Meg. «Credete che sia


ancora la Foschia, per togliere la gente dai piedi?»
«Può darsi.» Reyna corrugò la fronte guardando le file di
auto davanti a noi. «Non c’è da meravigliarsi che ci sia tutta
questa coda. Che cosa stava facendo Frank nel tunnel? Non
abbiamo discusso di nessun…» Aggrottò le sopracciglia, come
se le fosse venuto in mente un pensiero sgradevole.
«Dobbiamo tornare indietro. Alla svelta.»
«Agli imperatori servirà del tempo per organizzare l’attacco
via terra» osservai. «Non useranno il fuoco greco prima di
aver provato a prendere il campo ancora integro. Forse… forse
il traffico rallenterà anche loro. Dovranno cercare rotte
alternative.»
«Sono in barca, scemo» ricordò Meg.
Aveva ragione. E una volta che le forze d’assalto fossero
sbarcate, sarebbero avanzate a piedi, non in macchina. Eppure
mi piaceva l’immagine degli imperatori e del loro esercito che
si avvicinavano al Caldecott Tunnel, vedevano una serie di
segnali lampeggianti e di coni arancioni e concludevano: “Be’,
dannazione. Dobbiamo tornare domani”.
«Potremmo mollare il pick-up» suggerì Reyna. Poi ci
lanciò un’occhiata e scartò l’idea. Nessuno di noi era nelle
condizioni di correre una mezza maratona fino al Campo
Giove. Imprecò a bassa voce. «Dobbiamo… Ah!»
Un camion dei lavori avanzava lentamente davanti a noi,
con un operaio che tirava su i coni che per qualche ignota
ragione avevano bloccato la corsia. Tipico. Venerdì all’ora di
punta, con il Caldecott Tunnel interrotto, dovevano chiudere
una corsia sul ponte più trafficato della zona. Questo però
significava che davanti al camion dei lavori c’era una corsia
vuota, lungo la quale era assolutamente illegale guidare, che si
stendeva fin dove Lester poteva spingere lo sguardo.
«Reggetevi forte» ci avvisò Reyna. Sterzò non appena
superammo il camion dei lavori, buttò giù una mezza dozzina
di coni arancioni e sparò il motore a tutto gas.
Il camion diede fiato al clacson e fece lampeggiare i fari. I
levrieri di Reyna abbaiarono e dimenarono la coda in tutta
risposta, come a dire: “Ciao ciao, ci vediamo!”.
Immaginai che presto avremmo avuto qualche pattuglia
della polizia stradale pronta a inseguirci in fondo al ponte, ma
per il momento sfrecciavamo nel traffico a una velocità che
sarebbe stata lodevole anche per il mio carro del sole.
Raggiungemmo il versante di Oakland. Ancora nessuna
traccia di inseguitori. Reyna deviò sulla 580, sfondando una
serie di divisori stradali arancioni e salendo a razzo sulla
corsia di accesso della Highway 24. Ignorò educatamente i tizi
con i caschi di protezione che agitavano i segnalatori di
pericolo e ci urlavano contro.
Avevamo trovato la nostra rotta alternativa. Era la rotta
normale che, secondo i cartelli, non avremmo dovuto
prendere.
Lanciai un’occhiata dietro di noi. Ancora nessun poliziotto.
In mare, gli yacht degli imperatori avevano superato Treasure
Island e stavano prendendo posizione, formando lungo la baia
una lussuosa collana di macchine assassine da miliardi di
dollari. Non vidi tracce dei loro mezzi da sbarco più piccoli, e
ciò significava che dovevano aver raggiunto la riva. Non era
una buona notizia.
D’altro canto, ci stavamo divertendo parecchio. Ci
lanciammo lungo il cavalcavia chiuso al traffico: la nostra
destinazione era ormai a pochi chilometri di distanza.
«Ce la faremo» dissi, come uno scemo.
Ancora una volta, avevo infranto la Prima Legge di Percy
Jackson: non dire mai che qualcosa funzionerà perché, non
appena lo fai, smetterà di funzionare.
SBAM!
Sopra le nostre teste, tacche a forma di piede apparvero sul
tettuccio del pick-up. Il veicolo vacillò sotto il peso
supplementare. Era l’ennesimo déjà ghoul.
Aurum e Argentum abbaiarono furiosamente.
«Eurynomoi!» gridò Meg.
«Da dove arrivano?» mi lamentai. «Se ne stanno a
ciondolare sui cartelli dell’autostrada tutto il giorno in attesa di
lanciarsi giù?»
Gli artigli bucarono il metallo e la tappezzeria. Sapevo che
cosa sarebbe accaduto dopo: una bella installazione sul
lucernario.
«Apollo, prendi tu il volante!» urlò Reyna. «Meg, il pedale
dell’acceleratore!»
Per un attimo, pensai che fosse una specie di preghiera. Nei
momenti di crisi, i miei seguaci spesso mi imploravano:
“Apollo, prendi tu il volante”, sperando che li guidassi in
mezzo ai loro problemi. La maggior parte delle volte però non
lo intendevano alla lettera, io non mi trovavo fisicamente sul
sedile del passeggero, e loro non aggiungevano niente su Meg
e sui pedali dell’acceleratore.
Reyna non rimase ad aspettare che capissi. Lasciò la presa e
allungò le mani dietro il sedile, cercando a tastoni un’arma. Io
mi fiondai di lato e afferrai il volante. Meg mise un piede
sull’acceleratore.
Lo spazio era troppo ristretto per usare la spada, ma la cosa
non preoccupò Reyna, perché aveva anche i pugnali. Ne
sguainò uno, lanciò un’occhiata al tettuccio che si piegava e
cominciava a rompersi sopra le nostre teste e mormorò:
«Nessuno può trattare così il mio pick-up».
Un sacco di cose accaddero nei due secondi successivi.
Il tettuccio si squarciò, rivelando la vista disgustosa e
familiare di un eurynomos color mosca, con gli occhi bianchi
sporgenti, le zanne gocciolanti di saliva, il perizoma di piume
d’avvoltoio che svolazzava al vento.
L’odore di carne rancida aleggiò nella cabina facendomi
girare la testa per la nausea. Tutto il veleno da zombie nel mio
corpo sembrò accendersi di colpo.
L’eurynomos gridò: «CIIIIIB…».
Il suo grido di battaglia fu però bruscamente interrotto da
Reyna, che si lanciò verso l’alto e conficcò il pugnale dritto
nel pannolino da avvoltoio.
A quanto pareva, aveva studiato i punti deboli dei ghoul, e
ne aveva trovato uno. L’eurynomos cadde giù dal pick-up, e
sarebbe stato meraviglioso, se non avessi provato anch’io la
sensazione di ricevere una pugnalata nel pannolino.
Dissi: «Glurg». La mano mi scivolò dal volante.
Spaventata, Meg premette il pedale dell’acceleratore.
Con Reyna ancora mezza fuori dalla cabina e i levrieri che
guaivano furiosamente, il nostro pick-up virò bruscamente
sulla rampa e andò a schiantarsi dritto sul guardrail,
sfondandolo. Che fortuna. Per la seconda volta, mi ritrovai a
volare giù da un’autostrada della East Bay a bordo di un’auto
che non era in grado di volare.
32

Super offerta

Sui pick-up poco usati,

Gentili clienti!

Una volta mio figlio Asclepio mi spiegò lo scopo dello shock


fisico.
Mi disse che era un meccanismo di sicurezza per affrontare
i traumi. Quando il cervello umano vive un’esperienza troppo
violenta e spaventosa da elaborare, smette semplicemente di
registrare. Minuti, ore, perfino giornate intere possono
trasformarsi in un vuoto totale nella memoria della vittima.
Forse questo spiega il motivo per cui io non avevo nessuna
reminiscenza dello schianto del pick-up. Dopo aver sfondato il
guardrail, il primo ricordo che ho è di aver barcollato in giro
per il parcheggio di un supermercato, spingendo un carrello
della spesa a tre ruote con dentro Meg. Borbottavo i versi di
una famosa canzone di Otis Redding, (Sittin’ on) The Dock of
the Bay. Meg, mezza svenuta, agitava svogliatamente una
mano, cercando di dirigermi.
Il carrello andò a sbattere contro un mucchio di metallo
accartocciato e fumante: un pick-up Silverado rosso con le
gomme a terra, i parabrezza rotti e gli airbag esplosi. Un
autista sconsiderato era precipitato giù dal cielo proprio sopra
la fila dei carrelli, schiacciandone una decina sotto il peso
dell’auto.
Chi farebbe mai una cosa simile?
Un attimo…
Sentii ringhiare. A poche macchine di distanza, due levrieri
di metallo controllavano con fare protettivo la loro padrona,
tenendo a bada una piccola folla di spettatori. Una giovane
vestita di viola e oro – ah, sì, lei me la ricordavo! Le piaceva
ridere di me! – era appoggiata sui gomiti e faceva grandi
smorfie, con la gamba sinistra piegata a un’angolatura
innaturale. La sua faccia aveva lo stesso colore dell’asfalto.
«Reyna!» Appoggiai il carrello con dentro Meg al pick-up e
corsi ad aiutare la figlia di Bellona.
Aurum e Argentum mi lasciarono passare.
«Oh. Oh. Oh…» Non riuscii a dire altro. Avrei dovuto
sapere cosa fare. Ero un guaritore. Ma quella frattura… argh!
«Sono viva» disse Reyna a denti stretti. «Meg?»
«Fa la direttrice d’orchestra» risposi.
Una delle clienti del supermercato si avvicinò con cautela,
sfidando la furia dei cani. «Ho chiamato il pronto soccorso.
Posso fare qualcos’altro?»
«Se la caverà!» strillai. «Grazie! Sono… un dottore?»
La donna mortale sbatté le palpebre. «Lo sta chiedendo a
me?»
«No. Sono un dottore!»
«Ehi!» disse un altro cliente. «L’altra sua amica sta
rotolando via.»
«ARGH!» Mi precipitai dietro Meg, che stava gridando:
«Vaiiii!» mentre prendeva lo slancio nel carrello di plastica
rossa. Afferrai le maniglie e la riportai al fianco di Reyna.
La figlia di Bellona tentò di muoversi, ma si sentì soffocare
per il dolore. «Mi sa che… svengo.»
«No, no, no.» “Pensa, Apollo, pensa.” Dovevo aspettare i
paramedici mortali che non ne sapevano niente di nettare e
ambrosia? Dovevo cercare altre forniture del pronto soccorso
nella cintura da giardinaggio di Meg?
Una voce familiare gridò dall’altra parte del parcheggio:
«Grazie a tutti. Ora ce ne occupiamo noi!».
Lavinia Asimov corse verso di noi, con una decina di naiadi
e fauni al seguito, tra cui molti che riconoscevo dal People’s
Park. Diversi erano in mimetica, coperti di rampicanti e rami
come se fossero appena scesi da un fagiolo magico. Lavinia
indossava pantaloni mimetici rosa e una canottiera verde; la
manubalista le sferragliava sulla spalla. Con i capelli e le
sopracciglia rosa, e la mandibola che non smetteva un secondo
di masticare, era l’essenza stessa di una figura autorevole.
«Questa è una scena del crimine!» annunciò ai mortali.
«Grazie, gentili clienti. Per favore, circolare!»
Il tono di Lavinia – o forse i levrieri che abbaiavano – alla
fine convinsero i curiosi a disperdersi. Si sentivano però delle
sirene in lontananza. Di lì a breve saremmo stati circondati da
paramedici o dalla polizia stradale, se non da entrambi. I
mortali non sono abituati come me ai veicoli che precipitano
dai cavalcavia.
Fissai la nostra amica dai capelli rosa. «Lavinia, che cosa ci
fai qui?»
«Missione segreta!» annunciò lei.
«Hai lasciato la tua postazione» borbottò Reyna. «Ora sì
che sei nei guai.»
Gli spiriti della natura amici di Lavinia sembravano agitati,
stavano quasi per disperdersi, ma la loro leader ricoperta di
rosa li calmò con un’occhiata. I levrieri di Reyna non
ringhiarono né attaccarono, e questo significava che non
avevano rilevato nessuna menzogna nelle sue parole.
«Con il dovuto rispetto, pretore, sembra che tu sia nei guai
più di me, al momento» replicò Lavinia. «Harold, Felipe,
steccatele la gamba e portatela via di qui prima che arrivino
altri mortali. Reginald, spingi il carrello di Meg. Lotoya,
recupera tutte le provviste che hanno nel pick-up, per favore.
Io aiuterò Apollo. Andiamo verso il bosco. Subito!»
La definizione di “bosco” di Lavinia era piuttosto generosa. Io
l’avrei chiamato “burrone dove vanno a morire i carrelli della
spesa”. Ciononostante, il suo plotone del People’s Park si
mosse con sorprendente efficienza. In una manciata di minuti
ci avevano messo tutti al sicuro nascondendoci nel fossato, tra
i carrelli rotti e gli alberi coperti di immondizia, mentre i
mezzi d’emergenza arrivavano nel parcheggio a sirene
spiegate.
Harold e Felipe steccarono la gamba di Reyna, facendola
solo urlare e vomitare un po’. Altri due fauni costruirono per
lei una barella fatta di rami e vestiti vecchi, mentre Aurum e
Argentum cercarono di contribuire portando dei legnetti… o
forse volevano solo giocare a riporto. Reginald liberò Meg dal
carrello della spesa e la rianimò imboccandola con l’ambrosia.
Un paio di driadi controllarono se fossi ferito – oltre alla
ben nota ferita che avevo già – ma non potevano fare molto.
Non gradirono l’aspetto della mia faccia infetta né il mio
odore da zombie. Purtroppo nessuno spirito della natura
poteva guarirmi dal mio stato.
Mentre se ne andavano, una sussurrò all’altra: «Quando
sarà buio pesto…».
«Lo so» disse l’amica. «Con la luna di sangue di stanotte?
Poverino…»
Decisi di ignorarle. Sembrava il modo migliore per evitare
di scoppiare in lacrime.
Lotoya – doveva essere una driade di sequoia, a giudicare
dalla pelle bordeaux e dalle notevoli dimensioni – si accucciò
accanto a me e depositò tutte le provviste che aveva recuperato
nel pick-up. Afferrai disperatamente non l’arco e la faretra e
neppure l’ukulele, ma il mio zaino. Per poco non svenni per
l’emozione quando scoprii che il barattolo di vetro al suo
interno era ancora intatto.
«Grazie» le dissi.
Lotoya annuì con aria cupa. «Un buon barattolo di
marmellata è difficile da trovare.»
Reyna si sforzò di tirarsi su a sedere in mezzo ai fauni che
le stavano addosso. «Stiamo perdendo tempo. Dobbiamo
tornare al campo!»
Lavinia aggrottò le sopracciglia rosa. «Non andrai da
nessuna parte con quella gamba, pretore. E, anche se potessi,
non saresti di grande aiuto. Ti possiamo guarire più in fretta se
ti rilassi…»
«Rilassarmi? La legione ha bisogno di me! E ha bisogno
anche di te, Lavinia! Come hai potuto disertare?»
«Okay, innanzitutto, non ho disertato. Non conosci tutti i
fatti.»
«Hai abbandonato il campo senza permesso. Hai…» Reyna
si chinò in avanti troppo in fretta e restò senza fiato per il
dolore.
I fauni le afferrarono le spalle. L’aiutarono a rilassarsi,
spostandola con cautela sulla nuova lettiga dalla bella
imbottitura di muschio, spazzatura e vecchie magliette
scolorite.
«Hai abbandonato i tuoi compagni» gracchiò Reyna. «I tuoi
amici.»
«Sono qui» replicò Lavinia. «Chiederò a Felipe di
addormentarti con una ninnananna per farti riposare e
guarire.»
«No! Tu… tu non puoi fuggire.»
«Chi ha parlato di fuggire?» Lavinia sbruffò. «Ricordati,
Reyna, questo era il tuo piano di riserva. Il piano L per
Lavinia! Quando torneremo tutti al campo, mi ringrazierai.
Dirai a tutti che è stata una tua idea.»
«Che cosa? Io non farei mai… Io non ti ho dato nessuna…
Questo è ammutinamento!»
Lanciai un’occhiata ai levrieri, aspettando che si alzassero
in difesa della padrona e sbranassero Lavinia. Stranamente
continuarono a girare intorno a Reyna, leccandole di tanto in
tanto la faccia o annusandole la gamba rotta. Sembravano
preoccupati per le sue condizioni fisiche, ma del tutto
indifferenti alle menzogne di Lavinia.
«Lavinia, dovrò denunciarti con l’accusa di diserzione» la
supplicò Reyna. «Non farlo. Non costringermi a…»
«Ora, Felipe» ordinò Lavinia.
Il fauno sollevò il flauto e suonò una ninnananna tenera e
placida, accanto alla testa di Reyna.
«Non puoi!» La figlia di Bellona si sforzò di tenere gli
occhi aperti. «Non lo farai. Aaagggh…»
Si afflosciò e cominciò a russare.
«Così va meglio.» Lavinia si girò verso di me. «Non
preoccuparti. La lascerò in un posto sicuro con un paio di
fauni, e naturalmente Aurum e Argentum. Qualcuno si
occuperà di lei mentre guarisce. Tu e Meg fate quello che
dovete fare.»
L’atteggiamento sicuro e il tono di comando la rendevano
quasi irriconoscibile rispetto alla legionaria goffa e nervosa
che avevamo incontrato al lago Temescal. Mi faceva pensare
più a Reyna, e a Meg. Soprattutto, però, sembrava una
versione più forte di se stessa: una Lavinia che aveva deciso
quello che doveva fare e non si sarebbe fermata finché non lo
avesse fatto.
«Dove stai andando?» chiesi, ancora perplesso. «Perché
non torni al campo con noi?»
Meg venne verso di noi barcollando, con briciole di
ambrosia appiccicate intorno alle labbra. «Lasciala in pace» mi
ordinò. Poi si rivolse a Lavinia: «Pesca è…?».
Lavinia scosse la testa. «Pesca e Don sono con il gruppo
avanzato, a prendere contatti con le nereidi.»
«Ah, okay.» Meg si imbronciò. «E le forze di terra degli
imperatori?»
«Sono già passate. Ci siamo nascosti e siamo rimasti a
guardare.» L’espressione di Lavinia si fece cupa. «Sì… Non
va. Sono sicura che staranno combattendo con la legione
quando arriverete lì. Ricordi il sentiero di cui ti ho parlato?»
«Sì» confermò Meg. «Okay, buona fortuna.»
«Ehi, aspettate.» Cercai di fare il segno del timeout, anche
se con le mie mani scoordinate sembrava più una tenda. «Di
che state parlando? Quale sentiero? Perché venire fin quaggiù
solo per nascondersi mentre passa l’esercito nemico? Perché
Pesca e Don parlano con… un attimo. Le nereidi?»
Le nereidi sono spiriti del mare. Quelle più vicine… Oh.
Non vedevo granché dal nostro burrone pieno di
spazzatura. Senz’altro non vedevo la baia di San Francisco o la
fila di yacht che stavano prendendo posizione per fare fuoco
sul campo. Ma sapevo che eravamo vicini.
Guardai Lavinia con rinnovato rispetto. O mancanza di
rispetto. Qual è la reazione migliore quando ti accorgi che
qualcuno che consideravi pazzo si rivela ancora più pazzo di
quanto sospettassi?
«Lavinia, non starai mica pensando di…?»
«Fermati. Altrimenti chiedo a Felipe di mettere a nanna
anche te.»
«Ma Michael Kahale…»
«Sì, lo sappiamo. Ha fallito. Le truppe degli imperatori se
ne stavano vantando mentre marciavano davanti a noi. È
un’altra cosa per cui dovranno pagare.»
Parole coraggiose, ma i suoi occhi tradivano un barlume di
preoccupazione, rivelandomi che era più terrorizzata di quanto
lasciasse trapelare. Non era facile mantenere i nervi saldi, e
impedire alle sue truppe improvvisate di perdersi d’animo.
Non aveva bisogno che le ricordassi quanto folle era il suo
piano.
«Abbiamo tutti molto da fare» concluse Lavinia. «Buona
fortuna!» Scompigliò i capelli di Meg, che non avevano
bisogno di essere ancora più scompigliati. «Driadi, fauni:
muoviamoci!»
Harold e Felipe tirarono su la barella di fortuna di Reyna e
presero ad avanzare lungo il fosso, con Aurum e Argentum
che saltellavano intorno come a dire: “Oh, che bello, un’altra
gita!”. Lavinia e gli altri li seguirono. Ben presto si persero
nella boscaglia, svanendo nel verde come solo gli spiriti della
natura e le ragazze con i capelli rosa sanno fare.
Meg studiò il mio viso. «Sei tutto intero?»
Mi veniva quasi da ridere. Come le saltava in mente?
Avevo del veleno zombie che mi scorreva in tutto il corpo,
fino alla faccia. Le driadi pensavano che mi sarei trasformato
in un servo non-morto di Tarquinio non appena si fosse fatto
buio. Tremavo per lo sfinimento e per la paura. Tra noi e il
campo c’era un esercito nemico, e Lavinia stava guidando un
attacco suicida contro la flotta imperiale insieme a spiriti della
natura del tutto privi di esperienza, lì dove un’unità d’élite
delle forze speciali aveva già fallito.
Quando era stata l’ultima volta in cui mi ero sentito “tutto
intero”? Avrei voluto credere che fosse stato quand’ero un dio,
ma non corrispondeva a verità. Non ero del tutto me stesso da
secoli. Forse da millenni.
Al momento mi sentivo più come “un buco nero”, un vuoto
nel cosmo attraverso il quale Arpocrate, la Sibilla e un sacco
di altre persone a cui tenevo erano svanite.
«Me la caverò» dissi.
«Meno male. Guarda là.» Meg indicò verso le colline di
Oakland.
Mi sembrò di vedere della nebbia, ma la nebbia non si alza
in verticale dalle colline. Vicino al perimetro del Campo
Giove, c’erano diversi incendi in corso.
«Ci servono delle ruote» dichiarò Meg.
33

Oh, benvenuti

In guerra, miei cari!

Tornate presto!

Okay, ma perché proprio le biciclette?


Capivo che le auto erano fuori discussione. Ne avevamo già
schiantate abbastanza per quella settimana. Capivo che andare
di corsa al campo era impossibile, dato che ci reggevamo a
stento in piedi.
Ma perché i semidei non avevano una app per evocare un
passaggio delle aquile giganti? Decisi che ne avrei creata una
non appena fossi tornato un dio. Subito dopo aver scoperto un
modo per consentire ai semidei di usare gli smartphone in
sicurezza.
Sulla strada davanti al supermercato c’era una rastrelliera di
biciclette a noleggio giallo fluo. Meg inserì una carta di credito
nel terminal del chiosco (dove avesse trovato la carta, non ne
avevo la minima idea), liberò due bici dalla rastrelliera e me
ne porse una.
Oh, gioia e tripudio. Adesso potevamo lanciarci in battaglia
pedalando come antichi guerrieri giallo fluo.
Viaggiammo lungo le stradine laterali e i marciapiedi,
usando le colonne di fumo sulle colline come punti di
riferimento. Con la Highway 24 chiusa, il traffico era intasato
ovunque, e gli automobilisti arrabbiati suonavano il clacson,
gridavano e minacciavano atti di violenza. Fui tentato di dir
loro che, se avevano così tanta voglia di battagliare, bastava
che ci seguissero. Ci avrebbe fatto comodo uno stuolo di
pendolari inferociti dalla nostra parte.
Quando superammo la Rockbridge BART Station,
scorgemmo le prime truppe nemiche. Numerosi pandai
pattugliavano la piattaforma elevata, con le orecchie scure e
pelose piegate intorno al corpo come giubbotti da pompiere;
impugnavano asce dalla testa piatta. Alcuni carri dei pompieri
erano parcheggiati lungo College Avenue, con le luci che
lampeggiavano nel sottopassaggio. Altri finti pompieri pandai
sorvegliavano le porte della stazione, mandando via i mortali.
Sperai che i veri pompieri stessero bene, perché i pompieri
sono importanti e anche perché sono sexy e… no, non era un
dettaglio fondamentale in quel frangente.
«Da questa parte!» Meg girò verso la collina più scoscesa
che riuscì a trovare, solo per irritarmi. Ero costretto a pedalare
in piedi, spingendo con tutto il mio peso per avanzare a
dispetto della pendenza.
In cima, altre cattive notizie.
Davanti a noi, schierate lungo le colline più alte, le truppe
nemiche marciavano accanite verso il Campo Giove. C’erano
squadre di blemmi, pandai e perfino di Gegenees – i Figli della
Terra, giganti a sei braccia che avevano servito Gea nei
Recenti Fastidi – tutti che avanzavano fra trincee in fiamme,
barricate armate e legionari romani che cercavano di mettere a
frutto le mie lezioni di tiro con l’arco. Nella penombra della
sera, riuscivo a scorgere solo frammenti della battaglia. A
giudicare dalla massa di armature scintillanti e dalla foresta di
gagliardetti, la parte principale dell’esercito degli imperatori
era concentrata sulla Highway 24, e avanzava a fatica verso il
Caldecott Tunnel. Le catapulte nemiche scagliavano proiettili
verso le postazioni della legione, ma la maggior parte di questi
scomparivano in esplosioni di luce purpurea non appena si
avvicinavano. Supposi che fosse opera di Terminus, il quale
faceva la sua parte per difendere i confini.
Nel frattempo, alla base del tunnel, lampi e fulmini misero
in evidenza la posizione dello stendardo della legione. Riccioli
di elettricità zigzagavano lungo i fianchi delle colline,
inarcandosi sulle linee nemiche e polverizzandole. Le baliste
del Campo Giove scagliavano gigantesche lance
fiammeggianti sugli invasori, sventagliandole tra le linee
nemiche e appiccando altri incendi nella foresta. Le truppe
degli imperatori continuavano ad avanzare.
Quelle che procedevano meglio erano stipate dietro grossi
mezzi corazzati che strisciavano su otto gambe e… Oh, dei!
Fu come se il mio stomaco fosse rimasto impigliato nella
catena della bici. Non erano mezzi corazzati.
«Myrmekes» dissi. «Meg, sono myr…»
«Li vedo.» Non rallentò neppure. «Non cambia niente.
Muoviamoci!»
Come, non cambiava niente? Avevamo affrontato un nido
di formiche giganti al Campo Mezzosangue ed eravamo vivi
per miracolo. Meg per poco non era stata ridotta in un purè di
larva.
Adesso ci trovavamo davanti dei myrmekes addestrati alla
guerra che spezzavano gli alberi con le chele e scioglievano
con l’acido i picchetti difensivi del campo. Una vetta di orrore
nuova di zecca.
«Non supereremo mai le linee nemiche!» protestai.
«Il tunnel segreto di Lavinia.»
«È crollato!»
«Non quel tunnel. Un tunnel segreto diverso.»
«Quanti ne ha?»
«Non lo so. Tanti?»
Concluso quel discorso di incitamento da vera oratrice,
Meg continuò a pedalare. Io la seguii, non avendo niente di
meglio da fare.
Mi condusse in fondo a una strada cieca, fino alla cabina di
un generatore ai piedi di una torre elettrica. La zona era
circondata da una barriera di filo spinato, ma il cancello era
spalancato. Se Meg mi avesse detto di salire sulla torre, avrei
gettato la spugna e fatto la pace con il mio destino di zombie.
Invece indicò un lato della cabina, dove c’erano porte di
metallo murate nel cemento come l’ingresso di un rifugio
antiatomico.
«Tienimi la bici.» Meg saltò giù dal sellino ed evocò una
delle spade. Con un solo colpo tagliò le catene chiuse con il
lucchetto, poi aprì le porte, rivelando un pozzo scuro che
scendeva giù a un’angolatura precaria. «Perfetto. C’entra
anche la bici.»
«Cosa?»
Meg saltò di nuovo in sella e si tuffò nel tunnel. Il clic, clic,
clic della catena della bici riecheggiò sulle pareti di cemento.
«Hai una definizione molto ampia del termine “perfetto”»
brontolai. Dopodiché la seguii a ruota.
Con mia grande sorpresa, nell’assoluta oscurità del tunnel,
la bici fluo scintillava davvero. Avrei dovuto immaginarlo.
Davanti a me, vedevo la fievole apparizione della macchina da
guerra fluorescente di Meg. Quando guardai giù, l’aura gialla
della bici per poco non mi accecò. Non mi aiutava granché a
scendere lungo il pozzo scosceso, ma mi avrebbe reso un
bersaglio molto più facile da individuare nel buio. Urrà!
Contro ogni previsione, non fui sbalzato di sella né mi
spezzai il collo. Il tunnel si fece pianeggiante e poi cominciò
di nuovo a salire. Mi domandai chi avesse scavato quella
galleria e perché non avesse installato un comodo sistema di
risalita per non farmi sprecare tanta energia sui pedali.
Da qualche parte sopra di noi, un’esplosione fece vibrare il
tunnel fornendoci un’eccellente motivazione per andare avanti.
Dopo aver sudato e boccheggiato un altro po’, scorsi un
fievole quadrato di luce davanti a noi: un’uscita coperta di
rami.
Meg ci si lanciò dritta in mezzo. Io la seguii malfermo, e
sbucai in un paesaggio illuminato da fuochi e lampi e scosso
dai rumori del caos.
Eravamo arrivati nel bel mezzo della zona di guerra.
Vi darò un consiglio gratuito.
Se volete fare una capatina in battaglia, il luogo in cui non
vi conviene farvi trovare è nel bel mezzo del combattimento.
Raccomando la zona in fondo, dove il generale spesso ha una
comoda tenda con antipasti e bevande a disposizione.
Ma il cuore della battaglia? No. Non va mai bene,
soprattutto se arrivi su una bici giallo fluo.
Non appena io e Meg spuntammo fuori, fummo individuati
da una decina di grossi umanoidi coperti di ispidi peli biondi.
Ci indicarono e si misero a urlare.
Khromandae. Wow. Non ne vedevo uno da quando Dioniso
aveva invaso l’India in preda ai fumi dell’alcol prima
dell’Anno Zero. Hanno splendidi occhi grigi, ma questa è
l’unica cosa lusinghiera che posso dire sul loro conto. Perché
con la pelliccia bionda, sporca e irsuta sembrano dei Muppet
in versione stracci da spolvero. E dubito che usino mai il filo
interdentale su quelle fauci canine. Sono creature forti,
aggressive, capaci di comunicare solo con urla che sfondano i
timpani. Una volta chiesi ad Ares e Afrodite se i khromandae
fossero il frutto segreto del loro amore, perché erano una
perfetta combinazione di entrambi. Non la presero molto bene.
Meg, come qualunque ragazzina ragionevole messa di
fronte a una decina di giganti pelosi, saltò giù dalla bici, evocò
le spade e andò alla carica. Io gridai allarmato e tesi il mio
arco. Mi erano rimaste poche frecce dopo aver giocato ad
acchiapparello con i corvi, ma riuscii a uccidere sei
khromandae prima che Meg li raggiungesse. E, sebbene fosse
sfinita, fece abilmente fuori gli altri sei con un rapido
movimento delle lame dorate.
Risi di cuore per la soddisfazione. Era bellissimo sentirmi
di nuovo un ottimo arciere e vedere com’era brava Meg con le
spade. Che squadra eravamo!
È uno dei pericoli della battaglia. (Oltre alla morte.)
Quando le cose vanno bene, tendi a non guardare più in là del
tuo naso. Ti concentri sulla tua piccola zona e dimentichi il
quadro generale. Mentre Meg dava all’ultimo khromanda un
bel taglio di capelli, ehm… di peli in mezzo al torace, osai
addirittura pensare che stessimo vincendo!
Poi esaminai i dintorni, e mi resi conto che eravamo
circondati da tutta una serie di “non hai vinto”. Formiche
giganti si facevano strada a passi pesanti nella nostra
direzione, sputando acido per sgombrare dai combattenti il
fianco della collina. Diversi corpi fumanti in armatura romana
erano sparsi nel sottobosco, e non avevo nessuna voglia di
pensare a chi potessero essere né a come fossero morti.
Pandai in giubbotti antiproiettile e caschi neri, quasi
invisibili al crepuscolo, si libravano sulle gigantesche orecchie
come su un parapendio, piombando sui semidei ignari. Più in
alto, le aquile giganti combattevano contro i corvi giganti, con
le punte delle ali che scintillavano al chiarore della luna rosso
sangue. Un centinaio di metri alla mia sinistra, cinocefali
sollevavano le loro teste di cane con un ululato e si lanciavano
in battaglia, schiantandosi contro gli scudi della coorte più
vicina – la Terza? – che sembrava piccola, isolata e in terribile
minoranza numerica in mezzo a un mare di brutti ceffi.
Quella era solo la nostra collina. Vedevo fuochi che
ardevano lungo tutto il fronte occidentale ai confini della
vallata, forse un chilometro di battaglie sparse. Le baliste
sparavano lance scintillanti dalle vette. Le catapulte
scagliavano massi che si frantumavano all’impatto,
spruzzando schegge d’oro imperiale sulle linee nemiche.
Ceppi fiammeggianti – sempre un gioco spassoso alle feste
romane – rotolavano lungo i fianchi delle colline, sfondando
squadroni di Figli della Terra.
Nonostante gli sforzi della legione, tuttavia, il nemico
continuava ad avanzare. Sulle corsie vuote della Highway 24
in direzione est, le colonne principali degli imperatori
marciavano verso il Caldecott Tunnel, con gli stendardi d’oro
e porpora issati. I colori romani. Gli imperatori romani decisi a
distruggere l’ultima autentica legione romana.
“Dunque è questa la fine” pensai con amarezza. Non
saremmo caduti combattendo contro minacce esterne, ma
contro il lato peggiore della nostra stessa storia.
«TESTUGGINE!» Il grido di un centurione riportò la mia
attenzione alla Terza Coorte. Stavano cercando in tutti i modi
di proteggersi creando una formazione a tartaruga con gli
scudi, mentre con un unico ringhio i cinocefali sciamavano su
di loro come un’onda di pellicce e artigli.
«Meg!» gridai, indicando la coorte in pericolo.
Lei corse in loro soccorso, e io la seguii. Quando ci
fermammo raccolsi da terra una faretra abbandonata, cercando
di non pensare al motivo per cui era stata lasciata lì, e spedii
una nuova raffica di frecce contro il branco di belve. Ne uccisi
sei. Sette. Otto. Ma erano ancora troppi. Meg urlò come una
furia e si lanciò contro gli uomini dalla testa di cane più vicini.
Fu subito circondata, ma la nostra avanzata aveva distratto il
branco, dando alla Terza Coorte qualche prezioso secondo per
raggrupparsi.
«Offensiva Romolo!» gridò il centurione.
Se avete mai visto un porcellino di terra che srotola il
guscio rivelando centinaia di zampe, allora potete immaginare
la scena: la Terza Coorte ruppe la testuggine e formò una
foresta irta di lance, infilzando i cinocefali.
Ne rimasi così colpito che per poco non mi feci staccare la
testa da un cinocefalo solitario. Un attimo prima che ci
riuscisse, il centurione Larry scagliò il giavellotto. Il mostro
cadde ai miei piedi, impalato in mezzo alla pelosissima
groppa.
«Ce l’avete fatta!» Larry ci fece un gran sorriso. «Dov’è
Reyna?»
«Sta bene» dissi. «Ehm, è viva.»
«Ottimo! Frank vuole vedervi, il prima possibile!»
Meg si portò al mio fianco, con il passo incerto e il fiato
grosso. Le sue lame gemelle luccicavano di appiccicosa roba
di mostro. «Ehi, Larry. Come va?»
«Una favola!» Larry sembrava felicissimo. «Carl, Reza…
accompagnate subito questi due dal pretore Zhang.»
«Sissignore!» I nostri accompagnatori ci diressero verso il
Caldecott Tunnel, mentre alle nostre spalle Larry richiamava
le truppe all’azione. «Forza, legionari! Ci siamo addestrati per
questo. Ce la possiamo fare!»
Dopo qualche altro minuto a schivare pandai, saltare crateri
infuocati e scansare folle di mostri, Carl e Reza ci portarono
sani e salvi al posto di comando di Frank Zhang, all’entrata del
Caldecott Tunnel.
Con mio grande disappunto, non c’erano antipasti né
bevande. Non c’era neanche una tenda: solo un gruppo di
legionari stressati in tenuta da campo che correvano avanti e
indietro portando ordini e rinforzando le difese.
Sopra di noi, sulla terrazza di cemento che si allungava
sopra l’imbocco della galleria, il vessillifero Jacob se ne stava
con l’aquila della legione e un paio di osservatori a tenere
d’occhio tutte le vie d’accesso. Ogni volta che un nemico si
avvicinava troppo, Jacob lo faceva fuori, come il giudice di un
talent show in versione Giove: «ZAP! Tu sei fuori! ZAP! Tu
sei fuori!». Purtroppo aveva usato l’aquila così tanto che stava
cominciando a fumare. Anche gli oggetti magici più potenti
hanno i loro limiti. Lo stendardo della legione stava per entrare
in sciopero.
Non appena Frank Zhang ci vide, fu come se si fosse
appena tolto di dosso un peso enorme. «Grazie agli dei!
Apollo, hai una faccia terribile! Dov’è Reyna?»
«È una lunga storia.» Stavo per lanciarmi in una versione
breve della lunga storia quando Hazel Levesque si
materializzò in groppa a un cavallo accanto a me. Fu un ottimo
sistema per testare se il mio cuore funzionava ancora bene.
«Che sta succedendo?» domandò Hazel. «Apollo, hai una
faccia…»
«Lo so.» Sospirai.
Arion, il destriero immortale veloce come un fulmine, mi
guardò di traverso e nitrì come a dire: “Questo babbeo non può
essere Apollo”.
«Anch’io sono felice di rivederti» replicai.
Raccontai brevemente quanto era accaduto, con Meg che
ogni tanto aggiungeva commenti utilissimi tipo: «È stato
stupido», oppure: «È stato ancora più stupido» e: «Si è
comportato bene, poi di nuovo da stupido».
Quando Hazel venne a sapere del nostro incontro nel
parcheggio del supermercato, digrignò i denti. «Lavinia! Giuro
che se succede qualcosa a Reyna…»
«Concentriamoci su quello che possiamo controllare» disse
Frank, anche se sembrava scosso dall’assenza di Reyna.
«Apollo, ti faremo guadagnare tutto il tempo possibile per la
tua evocazione. Terminus sta facendo il massimo per rallentare
gli imperatori. In questo momento, ho le baliste e le catapulte
puntate sui myrmekes. Se non abbattiamo loro, non fermeremo
mai l’avanzata.»
Hazel fece una smorfia. «Le prime quattro coorti sono
sparse sulle colline. Io e Arion siamo andati avanti e indietro
fra una coorte e l’altra secondo le necessità, ma…» Si bloccò
prima di affermare l’ovvio: “Stiamo perdendo terreno”.
«Frank, se puoi fare a meno di me per un minuto, porto Apollo
e Meg alla Collina dei Templi. Ella e Tyson stanno
aspettando.»
«Andate!»
«Un attimo» dissi. Non che non fossi super ansioso di
evocare un dio con un barattolo di marmellata, ma una cosa
che Hazel aveva detto mi aveva turbato. «Se le prime quattro
coorti sono qui, dov’è la Quinta?»
«A difendere Nuova Roma» rispose Hazel. «Dakota è con
loro. Al momento, grazie agli dei, la città è al sicuro. Nessuna
traccia di Tarquinio.»
POP! Proprio accanto a me apparve il busto marmoreo di
Terminus, con un berretto militare in testa. Indossava un
cappotto kaki dell’esercito britannico della Prima guerra
mondiale, che lo copriva fino alla base del piedistallo. Con le
maniche vuote, avrebbe potuto essere un reduce delle trincee
della Somme. Purtroppo ne avevo incontrati parecchi nella
Grande Guerra.
«La città non è al sicuro!» annunciò. «Tarquinio sta
attaccando!»
«Che cosa?!» Hazel sembrava personalmente offesa. «Da
dove?»
«Da sotto!»
«Le fogne, maledizione!» Hazel imprecò. «Ma come…?»
«Tarquinio ha costruito la Cloaca Maxima originale di
Roma» le rammentai. «Conosce bene le fogne.»
«Lo so! Ho sigillato io stessa le uscite!»
«Be’, in qualche modo lui le ha dissigillate!» replicò
Terminus. «Alla Quinta Coorte serve aiuto. Subito!»
Hazel vacillò, innervosita dall’idea che Tarquinio potesse
vincerla in astuzia.
«Vai» le disse Frank. «Manderò la Quarta Coorte a darti
rinforzi.»
Hazel fece una risata nervosa. «Per lasciare voi qui con solo
tre coorti? No.»
«Non c’è problema» ribatté Frank. «Terminus, puoi aprire
le nostre barriere difensive qui al cancello principale?»
«Perché dovrei?»
«Proviamo la strategia wakanda.»
«La che?»
«Convoglieremo il nemico in un unico punto» spiegò
Frank.
Terminus si accigliò. «Non ricordo nessuna strategia
“wakanda” nei manuali militari romani. Ma va benissimo.»
Hazel aggrottò la fronte. «Frank, non farai nessuna
stupidag…»
«Possiamo concentrare i nostri qui e tenere il tunnel. Posso
farlo.» Riuscì a mettere insieme un altro sorriso fiducioso.
«Buona fortuna, ragazzi. Ci vediamo dall’altra parte!»
“O forse no” pensai.
Frank non aspettò altre proteste. Si mise in marcia,
gridando ai messaggeri di formare le truppe e mandare la
Quarta Coorte a Nuova Roma. Mi tornarono in mente le
immagini confuse che avevo visto nel rotolo olografico: Frank
che gridava ordini nel Caldecott Tunnel, gli operai che
scavavano e trasportavano urne. Ricordai le parole criptiche di
Ella sui ponti e sui fuochi… Non mi piaceva dove mi
portavano quei pensieri.
«In sella, ragazzi» disse Hazel, porgendomi una mano.
Arion nitrì indignato.
«Sì, lo so. Non ti piace portare tre persone.» Hazel gli fece
una carezza. «Li lasciamo alla Collina dei Templi e poi
andiamo dritti in città. Ci saranno un sacco di non-morti da
calpestare, te lo prometto.»
La cosa sembrò rabbonire il cavallo.
Mi arrampicai dietro Hazel. Meg occupò la terza postazione
sul sedere di Arion.
Ebbi a malapena il tempo di cingere la vita di Hazel prima
che Arion schizzasse via lasciando il mio stomaco sul fianco
delle colline affacciate su Oakland.
34

Giocate con noi:

Riempite gli spazi

Bianchi…. et voilà!

Tyson ed Ella non erano molto bravi ad aspettare.


Li trovammo sui gradini del tempio di Giove: Ella
camminava avanti e indietro e si torceva le mani, Tyson
saltava su e giù per l’emozione come un pugile pronto per il
primo round.
Appese alla cintura intorno alla vita di Ella, pesanti borse di
tela dondolavano e cozzavano rumorosamente insieme come il
giocattolo da scrivania nell’ufficio di Efesto con le piccole
sfere che sbattevano l’una contro l’altra. (Detestavo andare in
quell’ufficio. I giocattoli da scrivania di Efesto erano talmente
ipnotizzanti che mi ritrovavo a fissarli per ore, talvolta per
decenni. Mi sono perso tutti gli anni Ottanta del 1400 in
questo modo.)
Non appena ci vide, Tyson proruppe in un gran sorriso.
«Evviva!» esclamò. Il suo torace nudo era ormai
completamente ricoperto di tatuaggi con i versi della profezia.
«Zoom Pony!»
Non fui sorpreso che avesse soprannominato Arion “Zoom
Pony” né che sembrasse più felice di vedere il cavallo che di
vedere me. Fui sorpreso che Arion, malgrado qualche sbruffata
risentita, permettesse al ciclope di accarezzargli il muso. Lo
stallone non mi era mai sembrato un tipo da coccole. Ma, del
resto, Tyson e Arion erano imparentati per via di Poseidone, e
questo li rendeva una specie di fratelli e… Sapete una cosa?
Smetto di pensare a questa storia prima che mi si fonda il
cervello.
Ella si avvicinò a passettini rapidi. «Sei in ritardo. Molto in
ritardo. Forza, Apollo.»
Ricacciai indietro l’impulso di dirle che ci erano successe
diverse cosette nel frattempo. Scesi dalla groppa di Arion e
aspettai Meg.
Lei però rimase in sella insieme a Hazel. «Non hai bisogno
di me per l’evocazione. Aiuterò Hazel a sguinzagliare gli
unicorni.»
«Ma…»
«Buona fortuna» tagliò corto Hazel.
Arion svanì, lasciando una scia di fumo lungo il fianco
della collina e Tyson che accarezzava l’aria.
«Oh-oh.» Il ciclope fece il broncio. «Zoom Pony è partito.»
«Eh sì, lui fa così.» Cercai di convincermi che Meg se la
sarebbe cavata. L’avrei rivista presto. Le sue ultime parole per
me non sarebbero state “sguinzagliare gli unicorni”. «Ora, se
siamo pronti…»
«In ritardo. Più in ritardo che pronti» si lamentò Ella.
«Scegli un tempio. Sì. Devi scegliere.»
«Devo scegliere?»
«Evocazione di una singola divinità!» Tyson fece del
proprio meglio per arrotolarsi una gamba dei pantaloni mentre
saltellava verso di me su un piede solo. «Ecco qua, te lo faccio
rivedere. È sulla coscia.»
«Non c’è problema!» gli dissi. «Me lo ricordo. È solo
che…» Scrutai la collina. C’erano così tanti templi e
santuari… ancora di più adesso che la legione aveva portato a
termine tutte le opere di costruzione ispirate al progetto di
Jason. Tantissime statue di divinità mi fissavano.
Come membro del pantheon, trovavo antipatico scegliere
soltanto una tra le divinità. Era come scegliere il figlio o il
musicista preferito. Se sei capace di sceglierne uno solo, stai
facendo un torto a qualcuno.
E poi, sceglierne una soltanto avrebbe voluto dire che tutte
le altre divinità si sarebbero infuriate con me. Perfino se in
realtà si sarebbero rifiutate di aiutarmi o mi avrebbero riso in
faccia se glielo avessi chiesto. Si sarebbero comunque offese
di non essere in cima alla mia lista. Conoscevo il modo di
pensare delle divinità. Una volta ero una di loro.
Certo, c’erano alcuni no ovvi. Non avrei evocato Giunone.
Non mi sarei preso la briga di evocare Venere, soprattutto
perché il venerdì dedicava la serata alla spa insieme alle Tre
Grazie. Somnus era un’idea sbagliata in partenza: avrebbe
risposto alla mia chiamata, avrebbe promesso di arrivare
subito e poi si sarebbe riaddormentato.
Fissai la gigantesca statua di Giove Ottimo Massimo; la sua
toga purpurea si increspava come il mantello di un matador.
“Dai” sembrava che mi dicesse. “Sai che è questo che vuoi.”
Il più potente tra gli dei dell’Olimpo. Rientrava senz’altro
fra i suoi poteri sbaragliare gli eserciti degli imperatori, guarire
la mia ferita da zombie e rimettere in sesto il Campo Giove
(che, dopotutto, si chiamava così in suo onore). Avrebbe
potuto anche notare tutte le gesta eroiche che avevo compiuto,
decidere che avevo sofferto abbastanza e liberarmi dalla forma
mortale che mi era stata inflitta per punizione.
D’altro canto, avrebbe anche potuto non farlo. Forse si
aspettava che cercassi il suo aiuto. Io glielo avrei chiesto, e poi
lui avrebbe fatto rimbombare i cieli con la sua poderosa risata
e un profondo e divino: “Scordatelo!”.
Con mio grande stupore, mi resi conto che non desideravo
così disperatamente riconquistare il mio stato divino. Non
volevo neanche così disperatamente vivere. Se Giove si
aspettava che andassi da lui a chiedere aiuto strisciando e
implorando pietà, poteva cacciare la sua folgore dritta nella
Cloaca Maxima.
La scelta era sempre stata una sola. Nel profondo del cuore,
avevo sempre saputo quale divinità avrei dovuto invocare.
«Seguitemi» dissi a Ella e a Tyson.
Corsi verso il tempio di Diana.
Ora, ammetto che non sono mai stato un grandissimo fan
della versione romana di Artemide. Come ho già detto, non ho
mai avuto la sensazione di essere cambiato molto durante
l’epoca romana. Sono rimasto semplicemente Apollo.
Artemide invece…
Avete presente quando vostra sorella attraversa gli anni
difficili dell’adolescenza? Ecco! Artemide si cambia il nome
in Diana, si taglia i capelli, esce con un diverso gruppo di
vergini cacciatrici, più ostile, poi comincia a bazzicare Ecate e
la luna e si comporta in modo strano.
All’inizio, quando ci trasferimmo a Roma, noi due eravamo
adorati come in passato – divinità gemelle con il nostro tempio
personale – ma nel giro di poco tempo Diana se ne andò e
cominciò a fare i suoi comodi. Non parlavamo più come
quando eravamo giovani e greci, capite cosa intendo?
Avevo qualche timore a evocare la sua incarnazione
romana, ma mi serviva aiuto, e Artemide – scusate, Diana –
era la divinità che più probabilmente mi avrebbe risposto,
anche se poi me lo avrebbe fatto pesare per l’eternità. Inoltre,
mi mancava in modo tremendo. Sì, l’ho detto. Se dovevo
morire quella sera, cosa che sembrava sempre più probabile, ci
tenevo a rivedere mia sorella per l’ultima volta.
Il suo tempio era un giardino all’aperto, come ci si può
aspettare da una dea della natura selvaggia. All’interno di un
anello di querce scintillava uno stagno argenteo con un unico
geyser perpetuo che gorgogliava al centro. Immaginai che quel
luogo intendesse evocare il vecchio santuario con il boschetto
di querce sul lago di Nemi, uno dei primi posti in cui i Romani
l’avevano adorata. Ai bordi dello stagno c’era una buca per il
fuoco riempita di legna, pronta per essere accesa. Mi
domandai se la legione si prendesse tutta quella cura di ogni
santuario e tempio, nell’eventualità che a qualcuno venisse
voglia di un sacrificio all’ultimo minuto, nel cuore della notte.
«Apollo deve accendere il fuoco» disse Ella. «Io mescolerò
gli ingredienti.»
«Io danzerò!» dichiarò Tyson.
Non sapevo se facesse parte del rituale o se Tyson ne
avesse semplicemente voglia, ma quando un ciclope tatuato
decide di lanciarsi in un numero di danza è meglio non porre
domande.
Mentre Ella rovistava nelle sacche delle provviste e tirava
fuori erbe, spezie e fiale di unguenti, mi resi conto di quanto
tempo era passato dall’ultima volta in cui avevo mangiato.
Perché il mio stomaco non borbottava? Gettai uno sguardo alla
luna di sangue che sorgeva sulla cima delle colline. Mi augurai
che il mio pasto successivo non sarebbe stato “cerveeeeeelli”.
Cercai una torcia o una scatola di fiammiferi. Niente. Poi
pensai: ovvio. La legna c’era, ma Diana, l’eterna esperta di
natura selvaggia, si aspettava che accendessi il fuoco da solo.
Mi sfilai l’arco di spalla e tirai fuori una freccia. Formai
una piccola catasta con gli sterpi più secchi e leggeri. Era
trascorso molto tempo dall’ultima volta in cui avevo accesso
un fuoco con il buon vecchio metodo mortale – sfregare una
freccia sulla corda dell’arco per creare frizione – ma ci provai.
Feci una mezza dozzina di tentativi e per poco non mi cavai un
occhio. Jacob, il mio allievo di tiro con l’arco, ne sarebbe stato
orgoglioso.
Cercai di ignorare il rumore delle esplosioni in lontananza.
Continuai a far roteare la freccia finché non ebbi la sensazione
che la ferita sulla pancia si aprisse. Mi si formarono vesciche
sulle mani, che scoppiarono presto, lasciandomi le dita viscide.
Il dio del sole che faceva fatica ad accendere il fuoco… Non
avrebbero mai smesso di prendermi in giro.
Finalmente riuscii a creare una minuscola fiamma. Dopo
averla protetta con le mani, averci soffiato sopra e aver pregato
dalla disperazione, il fuoco si accese. Mi alzai, tremando di
stanchezza.
Tyson continuava a danzare al ritmo della sua musica
interiore, allargando le braccia e roteando come una Julie
Andrews di centoventi chili piena di tatuaggi nel remake di
Tutti insieme appassionatamente, versione Quentin Tarantino.
(Quentin avrebbe tanto voluto farlo, ma l’ho convinto che era
una pessima idea. Potete ringraziarmi dopo.)
Ella cominciò a spruzzare sul fuoco le sue misture
brevettate di unguenti, spezie ed erbe. Il fumo aveva lo stesso
odore di quello di un banchetto d’estate nel Mediterraneo. Mi
colmò di un senso di pace. Ah, i bei tempi felici in cui noi
divinità eravamo venerate da milioni di fedeli! Piaceri
semplici come quello si apprezzano soltanto quando non ci
sono più.
La vallata si acquietò, come se fossi tornato nella sfera del
silenzio di Arpocrate. Forse era solo un momento di calma
nella battaglia, ma ebbi la sensazione che tutto il Campo Giove
stesse trattenendo il fiato in attesa che concludessi il rituale.
Con le mani tremanti, estrassi dallo zaino il barattolo di
vetro della Sibilla. «E adesso?» chiesi a Ella.
«Tyson, bello il tuo balletto.» Con un cenno del braccio,
Ella richiamò il ciclope. «Ora mostra ad Apollo la tua ascella.»
Tyson si avvicinò a passi pesanti, sorridendo tutto sudato.
Sollevò il braccio sinistro e lo portò molto più vicino alla mia
faccia di quanto avrei gradito. «Ci vedi?»
«Oh, santi numi!» Indietreggiai. «Ella, come mai hai scritto
il rituale per l’evocazione proprio nell’ascella?»
«È lì che doveva andare» rispose lei.
Tyson rise. «Mi ha fatto un gran solletico!»
«Ora… ora comincio.» Cercai di concentrarmi sulle parole
e non sull’ascella pelosa intorno alla quale erano scritte. Tentai
di non respirare più del necessario. Ci tengo però a dire una
cosa: l’igiene personale di Tyson era eccellente. Ogni volta
che fui costretto a inspirare non svenni per il tanfo, nonostante
la sudata che aveva fatto ballando. L’unico odore che
individuai fu un pizzico di burro di arachidi. Perché? Non
avevo nessuna voglia di saperlo.
«Oh, protettrice di Roma!» lessi ad alta voce. «Oh, inserire
qui il nome!»
«Ehm» intervenne Ella. «Qui dovresti…»
«Ricomincio. Oh, protettrice di Roma! Oh, Diana, dea
della caccia! Ascolta la nostra supplica e accetta la nostra
offerta!»
Non ricordo tutti i versi. Se me li ricordassi, in ogni caso
non li trascriverei qui correndo il rischio di farli usare da
chiunque. L’evocazione di Diana accompagnata dai sacrifici è
la definizione stessa di “Ragazzi, non tentate l’esperimento a
casa”.
Diverse volte, mi sentii soffocare dal pianto. Ebbi la
tentazione di aggiungere dei brani personali, di far sapere a
Diana che non era una persona qualunque a invocarla. Ero io!
E io ero speciale. Ma rimasi fedele ai versi scritti nell’ascella.
Nel momento appropriato – “inserire qui il sacrificio” – lasciai
cadere nel fuoco il barattolo della Sibilla. Temetti che sarebbe
rimasto lì a riscaldarsi intatto, ma il vetro si frantumò subito,
rilasciando un sospiro di fumi argentei. Mi augurai di non aver
sprecato l’ultimo fiato del dio ammutolito.
Conclusi l’incantesimo. Tyson per fortuna abbassò il
braccio.
Ella prima guardò il fuoco, poi il cielo, tirando su con il
naso per la tensione. «Apollo ha esitato» disse. «Non ha letto
bene il terzo verso. Probabilmente ha incasinato tutto.
Speriamo di no.»
«La tua fiducia mi commuove» commentai.
Ma condividevo la sua preoccupazione. Non vidi tracce di
aiuti divini nel cielo. La luna piena e rossa continuò a
lanciarmi occhiate maligne, inondando il paesaggio di luce
sanguigna. Nessun corno da caccia suonò in lontananza.
Udimmo solo una nuova raffica di esplosioni dalle colline di
Oakland e grida di battaglia da Nuova Roma.
«Hai incasinato tutto» concluse Ella.
«Ci vuole tempo!» replicai. «Gli dei non sempre si fanno
vivi subito. Una volta mi ci sono voluti dieci anni per
rispondere alle preghiere che giungevano da Pompei, e quando
sono arrivato… Ma forse non è un buon esempio.»
Ella si torse le mani. «Tyson ed Ella aspetteranno qui nel
caso la dea si facesse viva. Apollo deve andare a combattere.»
«Oooh.» Tyson fece il broncio. «Anch’io voglio
combattere!»
«Tyson aspetterà qui con Ella» insistette l’arpia. «Apollo,
vai.»
Scrutai la vallata. Diversi tetti di Nuova Roma erano già a
fuoco. Meg probabilmente era a combattere per le strade,
facendo solo-gli-dei-sanno-cosa con i suoi unicorni armati.
Hazel sarà stata a rinforzare disperatamente le difese mentre
gli zombie e i ghoul salivano a frotte dalle fogne attaccando i
civili. Avevano bisogno di aiuto, e ci avrei messo di meno a
raggiungere Nuova Roma che il Caldecott Tunnel.
Ma al solo pensiero di unirmi alla battaglia in città sentii lo
stomaco bruciare dal dolore. Mi ricordai di com’ero crollato
nella tomba del tiranno. Sarei stato di scarsa utilità contro
Tarquinio. La sua vicinanza avrebbe soltanto accelerato la mia
promozione a Zombie del Mese.
Guardai le colline di Oakland, il loro profilo illuminato dai
lampi delle esplosioni. Ormai gli imperatori si stavano
sicuramente scontrando con le difese di Frank al Caldecott
Tunnel. Senza Arion o una bici fluo a noleggio, non ero certo
di riuscire ad arrivare in tempo per combinare qualcosa di
buono, ma sembrava l’opzione meno terribile.
«All’attacco» mormorai, con aria sconsolata. E partii di
corsa lungo la vallata.
35

Un bell’affare!

Due corpo a corpo

al prezzo di uno

La cosa più imbarazzante? Mentre ansimavo e sbuffavo lungo


la collina, mi ritrovai a canticchiare La cavalcata delle
Valchirie. Maledetto Richard Wagner. Maledetto il film
Apocalypse Now.
Quando raggiunsi la cima, ero stordito e madido di sudore.
Osservai la scena sottostante e conclusi che la mia presenza
non avrebbe significato nulla. Ero arrivato troppo tardi.
Le colline erano una landa sfregiata di trincee, armature in
frantumi e macchine da guerra rotte. Le truppe degli
imperatori erano disposte in colonne lungo un centinaio di
metri della Highway 24. Invece di migliaia di creature, erano
qualche centinaio: una combinazione di guardie del corpo
germaniche, khromandae, pandai e altre tribù umanoidi. Una
piccola fortuna: non era rimasto nessun myrmeke. La strategia
di Frank di prendere di mira le formiche giganti aveva
funzionato.
All’entrata del Caldecott, proprio sotto di me, c’era quel
che rimaneva della Dodicesima Legione. Una decina di laceri
semidei formava una parete di scudi di fronte alle corsie di
accesso. Una giovane donna che non riconoscevo reggeva lo
stendardo della legione, e ciò poteva significare soltanto che
Jacob era stato ucciso o gravemente ferito. L’aquila d’oro
surriscaldata emetteva così tanto fumo che faticavo a
distinguerla. Non avrebbe fatto fuori altri nemici quel giorno.
Annibale l’elefante se ne stava con le truppe nella bardatura
di kevlar, la proboscide e le zampe sanguinanti per le decine di
tagli subiti. In testa alla fila si ergeva un orso Kodiak alto due
metri e mezzo: Frank Zhang, supposi. C’erano tre frecce
conficcate nella sua spalla, ma gli artigli erano sguainati e
pronti per continuare a combattere.
Mi si strinse il cuore. Forse, sotto forma di grosso orso,
Frank poteva sopravvivere con qualche freccia nella spalla.
Ma cosa sarebbe successo una volta tornato umano?
Quanto agli altri sopravvissuti… non riuscivo a credere che
i legionari che vedevo fossero tutto ciò che rimaneva di tre
coorti. Forse quelli che mancavano all’appello non erano morti
ma feriti. Forse avrei dovuto consolarmi pensando che, per
ogni legionario caduto, centinaia di nemici erano stati
annientati. Ma avevano un’aria talmente tragica, erano rimasti
così disperatamente in pochi a difendere l’accesso al Campo
Giove…
Spostai lo sguardo oltre la superstrada, verso la baia, e persi
ogni speranza. La flotta degli imperatori era ancora schierata:
una serie di palazzi galleggianti pronti a farci piovere addosso
distruzione e a festeggiare la vittoria in pompa magna.
Anche se in qualche modo fossimo riusciti a distruggere
tutti i nemici rimasti sulla Highway 24, quelle navi erano al di
là della nostra portata. Qualunque cosa Lavinia avesse
programmato, aveva evidentemente fallito. Con un solo
ordine, gli imperatori potevano mettere a ferro e fuoco l’intero
campo.
Un rumore di zoccoli e ruote riportò la mia attenzione sulle
linee nemiche. Le loro colonne si separarono. Gli imperatori in
persona uscirono per parlamentare, l’uno di fianco all’altro, su
un carro dorato.
Era come se Commodo e Caligola avessero fatto a gara per
scegliere l’armatura più pacchiana, e avessero perso entrambi.
Erano rivestiti da capo a piedi d’oro imperiale: schinieri,
gonnellini, pettorali, guanti, elmi, il tutto abbellito da elaborati
disegni di gorgoni e furie e fittamente adorno di gemme
preziose. Le visiere avevano la foggia di demoni ghignanti.
Riuscivo a distinguerli tra loro soltanto perché Commodo era
più alto e largo di spalle.
A trainare il carro c’erano due cavalli bianchi… No, non
erano cavalli. Avevano lunghe cicatrici ai lati della colonna
vertebrale e chiari segni di scudisciate sul garrese. I loro
accompagnatori/torturatori stringevano le redini e tenevano
pronti i bastoni nel caso le bestie si facessero venire strane
idee.
Oh, santi numi…
Caddi in ginocchio e vomitai. Fra tutti gli orrori che avevo
visto, quello mi parve il peggiore. Quei destrieri un tempo
erano stati magnifici pegasi. Che razza di mostro taglia le ali a
un pegaso?
Gli imperatori volevano mandare un messaggio:
intendevano dominare il mondo a ogni costo. Non si sarebbero
fermati davanti a niente. Avrebbero mutilato e storpiato.
Avrebbero ucciso e distrutto. Non c’era niente di sacro al di
fuori del loro potere.
Mi alzai traballante. La mia disperazione si trasformò in
un’ondata di rabbia traboccante.
Urlai: «NO!».
Il mio grido echeggiò attraverso la forra. La scorta degli
imperatori si fermò sferragliando. Centinaia di volti si girarono
verso l’alto, cercando di individuare la fonte del rumore. Scesi
a tentoni lungo la collina, persi il punto di appoggio, feci un
salto mortale, andai a sbattere contro un albero, mi rimisi in
piedi a fatica e andai avanti.
Nessuno cercò di spararmi. Nessuno gridò: «Urrà! Siamo
salvi». I difensori di Frank e le truppe degli imperatori
rimasero semplicemente a guardare, attoniti, mentre io
scendevo: un ragazzino malconcio, solo, con indosso vestiti a
brandelli e scarpe incrostate di fango, con un ukulele e un arco
a tracolla. Era, sospettai, l’arrivo di rinforzi meno imponente
della storia.
Alla fine raggiunsi i legionari sull’autostrada.
Caligola mi studiò da una quindicina di metri di distanza
sull’asfalto. E scoppiò a ridere.
Con esitazione, le sue truppe seguirono il suo esempio; tutti
tranne i Germani, che ridevano di rado.
«Scusate, qualcuno potrebbe mettere le didascalie a questa
scena?» chiese Commodo. «Che cosa sta succedendo?»
D’un tratto mi resi conto che Commodo non aveva
recuperato la vista come aveva sperato. Probabilmente, pensai
con amara soddisfazione, dopo il mio lampo di accecante
splendore divino alla Waystation, riusciva a vedere qualcosa
nella piena luce del giorno, ma niente di notte. Una piccola
benedizione, se solo avessi capito come sfruttarla.
«Magari potessi descriverla» rispose Caligola, in tono
asciutto. «Il potente dio Apollo è arrivato in soccorso, e non ha
mai avuto una cera migliore.»
«C’è del sarcasmo?» domandò Commodo. «Ha un aspetto
orribile?»
«Sì.»
«AH AH!» Commodo fece una risata forzata. «Ah, Apollo,
hai un aspetto orribile!»
Mi tremavano le mani. Incoccai una freccia e la lanciai
contro la faccia di Caligola. Non sbagliai mira, ma
l’imperatore colpì il missile di piatto, scansandolo come se
fosse un tafano sonnacchioso.
«Non metterti in imbarazzo, Lester. Lascia parlare i leader.»
Caligola girò la sua visiera sogghignante verso l’orso Kodiak.
«Allora, Frank Zhang? Hai l’occasione di arrenderti con
onore. Inchinati al cospetto del tuo imperatore!»
«Dei tuoi imperatori» lo corresse Commodo.
«Sì, certo» disse Caligola, mellifluo. «Pretore Zhang, hai il
dovere morale di riconoscere l’autorità romana, e l’autorità
romana siamo noi! Insieme, possiamo ricostruire questo
campo e portare la tua legione alla gloria! Basta nascondersi.
Basta rannicchiarsi dietro i labili confini di Terminus. È ora di
essere veri Romani e conquistare il mondo. Unisciti a noi.
Impara dall’errore compiuto da Jason Grace.»
Gridai di nuovo. Stavolta, lanciai una freccia contro
Commodo. Sì, fu una cosa meschina. Pensai che sarebbe stato
più semplice colpire un imperatore cieco, ma anche lui scansò
la freccia senza problemi.
«Che colpo scadente, Apollo!» urlò. «Il mio udito e i miei
riflessi sono in piena forma.»
L’orso Kodiak rugliò e con un artiglio spezzò le aste delle
frecce conficcate nella spalla. Poi si ritrasformò in Frank
Zhang. Le punte delle frecce gli perforarono il pettorale
all’altezza della spalla. Frank aveva perso l’elmo. Aveva un
lato del corpo madido di sangue e un’espressione di pura
determinazione stampata in viso.
Accanto a lui, Annibale barriva e dava zampate per terra,
pronto a partire alla carica.
«No, amico.» Frank lanciò un’occhiata agli ultimi
compagni rimasti. Erano spossati e feriti, ma ancora pronti a
seguirlo fino alla morte. «È già stato versato abbastanza
sangue.»
Caligola inclinò la testa a sottolineare che era d’accordo.
«Quindi vi arrendete, giusto?»
«Oh, no.» Frank si raddrizzò, anche se lo sforzo lo fece
trasalire. «Ho una soluzione alternativa. Giochiamoci gli
spolia opima.»
Sussurri nervosi si propagarono tra le colonne degli
imperatori. I guerrieri germani inarcarono le sopracciglia
cespugliose. Qualcuno dei legionari di Frank fu sul punto di
dire qualcosa – tipo: “Sei pazzo?” – ma preferì tenere la lingua
a freno.
Commodo scoppiò a ridere. Si tolse l’elmo, scoprendo i
riccioli spettinati, la barba, il viso bello e crudele. Aveva uno
sguardo lattiginoso e vacuo, con la pelle intorno agli occhi
ancora butterata, come se gli avessero schizzato dell’acido in
faccia. «Un corpo a corpo? Mi piace l’idea!»
«Vi sfido tutti e due» propose Frank. «Tu e Caligola contro
di me. Se vincete voi, attraversate il tunnel e il campo è
vostro.»
Commodo si strofinò le mani. «Splendido!»
«Un attimo.» Caligola si tolse l’elmo. Non sembrava molto
convinto. Gli scintillavano gli occhi. Senza dubbio stava
prendendo in considerazione le varie angolature della
questione, con la mente a mille. «È troppo bello per essere
vero. A che gioco stai giocando, Zhang?»
«O io ammazzo voi o muoio» rispose Frank. «Tutto qui.
Sconfiggete me, e potrete marciare dritti nel campo. Ordinerò
al resto delle mie truppe di ritirarsi. Potrete avere la vostra
sfilata trionfale a Nuova Roma come avete sempre
desiderato.» Frank si girò verso uno dei suoi compagni. «Hai
sentito, Colum? Questi sono i miei ordini. Se muoio, dovrai
assicurarti che vengano rispettati.»
Colum aprì bocca come per rispondere, ma preferì tacere.
Si limitò ad annuire con aria cupa.
Caligola aggrottò la fronte. «Contendersi gli spolia opima?
È così primitivo. Non si fa più da…» Si fermò, forse
ricordandosi il tipo di truppe che aveva alle proprie spalle:
Germani “primitivi” che consideravano il corpo a corpo come
il modo più onorevole per un leader di vincere una battaglia.
Ai tempi andati, i Romani la vedevano allo stesso modo. Il
primo re, Romolo, aveva personalmente sconfitto un re
nemico, Acrone, strappandogli di dosso l’armatura e le armi.
Per secoli poi, i generali romani avevano cercato di emularlo,
dandosi la pena di cercare i leader nemici sul campo di
battaglia per sfidarli in un corpo a corpo e rivendicare gli
spolia opima: le armi e l’armatura dello sconfitto. Era la
massima esibizione di coraggio per un vero soldato romano.
Lo stratagemma di Frank era astuto. Gli imperatori non
potevano rifiutare la sfida senza perdere la faccia davanti alle
truppe. D’altro canto, Frank era ferito gravemente. Non
avrebbe potuto vincere senza un aiuto.
«Due contro due!» strillai, cogliendo di sorpresa perfino me
stesso. «Combatterò anch’io!»
La mia uscita provocò un altro scroscio di risate da parte
delle truppe degli imperatori. Commodo disse: «Meglio
ancora!».
Frank sembrava terrorizzato: non era questo il tipo di
“grazie” che mi sarei aspettato.
«Apollo, no» disse. «Posso occuparmene da solo. Togliti
dai piedi!»
Qualche mese prima sarei stato felice di lasciare che Frank
si lanciasse in quel disperato scontro da solo mentre io mi
rilassavo in poltrona, smangiucchiando uva fresca e
controllando i messaggi sul cellulare. Adesso no, non dopo
Jason Grace. Lanciai un’occhiata ai poveri pegasi mutilati
incatenati al carro degli imperatori e decisi che non potevo
vivere in un mondo dove una simile crudeltà rimaneva
impunita.
«Mi dispiace, Frank. Non lo affronterai da solo.» Guardai
Caligola. «Allora, Scarpetta, che ne dici? Il tuo collega
imperatore ha già accettato. Tu ci stai, o ti terrorizziamo
troppo?»
Caligola allargò le narici. «Abbiamo migliaia di anni di
vita» disse, come se stesse spiegando una banalità a uno
studente lento di comprendonio. «Siamo dei.»
«E io sono figlio di Marte» ribatté Frank, «pretore della
Dodicesima Legione Fulminata. Io non ho paura di morire. E
voi?»
Gli imperatori rimasero in silenzio per cinque secondi
buoni.
Alla fine Caligola gridò: «Gregorix!».
Uno dei Germani si avvicinò con una corsetta lenta. Con
quella stazza enorme, la chioma e la barba irsute e la spessa
armatura di cuoio, sembrava Frank sotto forma di orso Kodiak,
solo più brutto. «Signore?» grugnì.
«Le truppe devono rimanere dove sono» ordinò Caligola.
«Nessuna interferenza mentre Commodo e io uccidiamo il
pretore Zhang e il suo dio da compagnia. Capito?»
Gregorix mi studiò. Immaginai i suoi pensieri: stava
lottando tra sé e sé con le sue idee sull’onore. Il corpo a corpo
andava bene. Il corpo a corpo contro un guerriero ferito e uno
smidollato infettato da uno zombie, tuttavia, non era un
granché come vittoria. Sarebbe stato meglio massacrarci tutti e
marciare dritti dentro il campo. Ma era stata lanciata una sfida.
Le sfide andavano accettate. Il suo compito però era di
proteggere gli imperatori, e se quella era una trappola…
Scommetto che in quel momento Gregorix rimpianse di non
aver proseguito gli studi per laurearsi in economia come sua
madre aveva sempre desiderato. Essere una guardia del corpo
era mentalmente estenuante.
«Molto bene, signore» disse.
Frank si girò verso le truppe rimaste. «Voi andate. Trovate
Hazel. Difendete la città da Tarquinio.»
Annibale barrì in segno protesta.
«Anche tu, amico» disse Frank. «Nessun elefante morirà
oggi.»
Annibale si offese. Neanche i semidei erano contenti della
cosa, ma erano legionari romani, troppo ben addestrati per
disobbedire a un ordine diretto. Si ritirarono nel tunnel, con
l’elefante e lo stendardo della legione, lasciando soltanto
Frank Zhang e me a rappresentare la squadra del Campo
Giove.
Mentre gli imperatori scendevano dal carro dorato, Frank si
girò verso di me e mi cinse in un abbraccio sudato e
sanguinante. Avevo sempre immaginato che fosse un tipo a cui
piacevano gli abbracci, per cui il gesto non mi sorprese, finché
non mi sussurrò all’orecchio: «Stai interferendo con il mio
piano. Quando dico: “Tempo scaduto” non mi importa dove
sei o come sta andando lo scontro, voglio che tu scappi
lontano da me il più veloce possibile. È un ordine». Mi diede
una pacca sulla schiena e mi lasciò andare.
Avrei voluto protestare: “Tu non sei il mio capo!”. Non ero
andato lì per fuggire a comando. Fuggire mi riusciva
benissimo da solo. Non avevo nessuna intenzione di
permettere che un altro amico si sacrificasse per il mio bene.
Tuttavia non conoscevo il piano di Frank. Avrei dovuto
aspettare e capire che cosa aveva in mente. E dopo avrei
potuto decidere cosa fare. Del resto, se speravamo di vincere
un duello all’ultimo sangue contro Commodo e Caligola, non
sarebbe stato per la nostra forza superiore né per le nostre
affascinanti personalità. Ci serviva un trucco, uno bello serio.
Gli imperatori vennero a grandi passi verso di noi
sull’asfalto bruciato e deformato.
Da vicino, la loro armatura era ancora più orrenda.
Sembrava che il pettorale di Caligola fosse stato ricoperto di
colla vinilica e poi fatto rotolare nelle vetrine di Tiffany & Co.
«Bene.» Ci fece un sorriso luminoso e freddo come la sua
collezione di gioielli. «Cominciamo?»
Commodo si tolse i guanti. Aveva mani enormi, ruvide,
callose, come se passasse il tempo libero a prendere a pugni un
muro di mattoni. Non riuscivo a credere che secoli prima le
avevo strette con affetto.
«Caligola, tu prendi Zhang» disse. «Io prendo Apollo. Non
mi serve la vista per trovarlo. Basta che segua le mie orecchie.
Apollo è quello che piagnucola.»
Detestavo che mi conoscesse così bene.
Frank sguainò la spada. Perdeva ancora sangue dalla spalla
ferita. Non capivo come pensasse di riuscire a reggersi in
piedi, figuriamoci a combattere. Con l’altra mano sfiorò la
sacca di pelle che conteneva il pezzetto di legno. «Allora, le
regole sono chiare» disse. «Non ce ne sono. Noi vi uccideremo
e voi morirete.» Poi con la mano fece un gesto agli imperatori:
«Fatevi sotto!».
36

No, di nuovo! No!

Quante sillabe ha

“Disperazione”?

Forse penserete che, pur indebolito com’ero, sarei stato capace


di tenermi fuori dalla portata di un avversario cieco.
Ecco, vi sbagliate.
Commodo non era neanche a tre metri da me quando gli
scagliai contro un’altra freccia. Ma lui in qualche modo la
schivò, mi strappò l’arco di mano e lo spezzò su un ginocchio.
«Maleducato!» gridai.
Con il senno di poi, avrei dovuto impiegare meglio quel
millisecondo. Commodo mi tirò un pugno dritto sul torace.
Vacillai e caddi sulle chiappe, con i polmoni in fiamme e lo
sterno palpitante. Un colpo del genere avrebbe dovuto
uccidermi. Forse la mia forza divina aveva deciso di fare una
comparsa a sorpresa? Comunque fosse, sprecai l’occasione di
contrattaccare. Ero troppo impegnato a strisciare via,
piangendo per il dolore.
Commodo rise, rivolgendosi alle sue truppe. «Visto?
Piagnucola sempre!»
I suoi seguaci applaudirono. Commodo sprecò del tempo
prezioso a crogiolarsi nella loro adulazione. Non riusciva a
trattenersi dal fare lo showman. Doveva anche aver capito che
io non sarei andato da nessuna parte.
Lanciai un’occhiata a Frank. Lui e Caligola si giravano
intorno, scambiandosi di tanto in tanto dei colpi e mettendo
alla prova le difese l’uno dell’altro. Con le frecce conficcate
nella spalla, Frank non poteva fare altro che risparmiare il suo
lato sinistro. Si muoveva con rigidità, lasciando una scia di
orme sanguinanti sull’asfalto che mi ricordarono – in modo del
tutto inappropriato – uno schema di ballo che Fred Astaire mi
aveva passato una volta.
Caligola gli si aggirava intorno con il piglio del predatore.
Sfoggiava lo stesso sorriso compiaciuto che aveva sul viso
quando aveva colpito Jason Grace alla schiena. Un sorriso che
aveva infestato i miei incubi per settimane.
Mi riscossi dallo stordimento. Dovevo fare qualcosa. Ah, sì.
Non dovevo morire. Era quella la cosa in cima alla mia lista.
Riuscii ad alzarmi. Cercai a tentoni la spada, poi mi ricordai
di non averne una. Ormai la mia unica arma era l’ukulele.
Suonare una canzone per un nemico che mi dava la caccia a
orecchio non mi sembrava la mossa più saggia, ma provai
l’accordatura dell’ukulele.
Commodo udì vibrare le corde. Si girò e sguainò la spada.
Per essere un omone con un’armatura ingioiellata si
muoveva fin troppo veloce. Prima ancora che riuscissi a
decidere quale brano di Dean Martin suonargli, Commodo mi
colpì, e per poco non mi squarciò la pancia. La punta della sua
lama scintillò cozzando contro il corpo di bronzo dell’ukulele.
Poi, con entrambe le mani, l’imperatore sollevò in alto la
spada per tagliarmi in due.
Balzai in avanti e gli piantai il mio strumento nello
stomaco. «Ah-ha!»
Ci furono due problemi: 1) aveva lo stomaco coperto
dall’armatura, 2) l’ukulele aveva il fondo arrotondato. Presi
mentalmente nota del fatto che, se fossi sopravvissuto, ne avrei
progettata una nuova versione con degli spunzoni alla base e
forse un lanciafiamme: un ukulele degno dei Kiss.
Il contrattacco di Commodo mi avrebbe ucciso, se non
avesse riso tanto. Mi scansai con un salto, mentre la sua spada
piombava giù affondando nel punto in cui mi trovavo poco
prima. Una cosa positiva delle battaglie in autostrada: tutte le
esplosioni e i fulmini di prima avevano ammorbidito l’asfalto.
Mentre Commodo tentava di tirare via la spada incastrata,
andai alla carica e tentai un colpo di wrestling.
Con mia grande sorpresa, riuscii davvero a fargli perdere
l’equilibrio. Commodo vacillò e atterrò sulle chiappe protette
dall’armatura, lasciando la spada conficcata a terra.
Nessuno nell’esercito degli imperatori mi applaudì.
Pubblico difficile.
Feci un passo indietro, cercando di riprendere fiato. Sentii
la pressione di qualcuno sulla schiena. Strillai, terrorizzato che
Caligola stesse per infilzarmi, ma era solo Frank. Caligola, a
cinque o sei metri di distanza, imprecava togliendosi la sabbia
dagli occhi.
«Ricordati quello che ti ho detto» mi rammentò Frank.
«Perché lo stai facendo?» gli chiesi ansimando.
«È l’unico modo. Se siamo fortunati, guadagniamo tempo.»
«Guadagniamo tempo.»
«In attesa dell’aiuto divino. Lo stiamo ancora aspettando,
giusto?»
Deglutii. «Può darsi.»
«Apollo, per favore, dimmi che hai eseguito il rituale di
evocazione.»
«Certo!»
«Allora stiamo guadagnando tempo» insistette Frank.
«E se i soccorsi non arrivano?»
«Allora dovrai fidarti di me. Fa’ quello che ti ho detto. Al
mio segnale, esci dal tunnel.»
Non ero sicuro di quello che volesse dire. Non eravamo nel
tunnel, ma la nostra chiacchierata era conclusa.
Commodo e Caligola ci piombarono addosso in
contemporanea.
«Sabbia negli occhi, Zhang?» ringhiò Caligola.
«Vergogna.»
Incrociarono le lame mentre Caligola spingeva Frank verso
l’imbocco del Caldecott Tunnel… oppure era Frank a lasciarsi
spingere? Il clangore del metallo riecheggiò nell’ingresso
vuoto.
Con uno strattone, Commodo liberò la spada dall’asfalto.
«Okay, Apollo. È stato divertente. Ma adesso devi morire.»
Urlò e si lanciò alla carica. Dalle profondità della galleria, gli
tornò indietro la sua stessa voce.
“L’eco” pensai.
Corsi verso il tunnel.
L’eco poteva creare confusione in chi dipendeva dall’udito.
Dentro la galleria, avrei potuto evitare meglio Commodo. Sì…
ecco qual era la mia strategia. Non mi ero soltanto dato alla
fuga perché preso dal panico. Entrare nel tunnel era un piano
ragionato e perfettamente equilibrato che, guarda caso,
implicava che fuggissi urlando.
Mi girai prima che Commodo mi raggiungesse. Brandii
l’ukulele, con l’intenzione di imprimergli la cassa armonica
sul viso, ma l’imperatore anticipò la mia mossa strappandomi
di mano lo strumento.
Mi allontanai da lui incespicando, e Commodo commise il
più odioso dei crimini: con un enorme pugno, accartocciò il
mio ukulele come una lattina di alluminio e lo gettò via.
«Eresia!» ruggii.
Una rabbia smisurata si impossessò di me. Vi sfido a
provare qualcosa di diverso quando avete appena assistito alla
distruzione del vostro ukulele. Chiunque perderebbe la testa.
Il mio primo cazzotto lasciò un cratere grosso come un
pugno nel pettorale d’oro dell’imperatore. “Oh” pensai in
qualche angolino remoto del mio cervello. “Salve, forza
divina!”
Perso l’equilibrio, Commodo cominciò a menare colpi
come un pazzo. Gli bloccai il braccio e gli tirai un cazzotto sul
naso, provocando uno squish che trovai deliziosamente
disgustoso.
Commodo ululò, mentre il sangue gli bagnava i baffi. «Tu
bi hai colbito? Ti abbazzo!»
«Non mi abbazzi!» gli risposi urlando a mia volta. «Mi è
tornata la forza!»
«Ah! Io non ho bai berso la bia! Sono ancora il bigliore!»
Detesto quando un criminale megalomane fa osservazioni
sensate.
Mi fu addosso in un lampo. Io mi abbassai sotto il suo
braccio e gli tirai un calcio sulla schiena, spingendolo contro il
guardrail su un lato della galleria. Commodo sbatté la fronte
contro il metallo, producendo un suono aggraziato come
quello di un triangolo: DING!
Avrei dovuto esserne molto soddisfatto, peccato solo che la
rabbia derivante dalla distruzione del mio ukulele stava
venendo meno, e con essa la mia esplosione di forza divina.
Sentivo il veleno zombie scorrermi nei capillari, addentrandosi
dolorosamente in ogni parte del corpo. Era come se la ferita
sulla pancia si stesse disfacendo e stesse per spargere la mia
imbottitura ovunque, simile a un malconcio orsetto di peluche
in versione divina.
E poi, all’improvviso, notai la presenza di tante grosse e
anonime casse impilate lungo un lato del tunnel, che
occupavano l’intera lunghezza della passerella sopraelevata
per i pedoni. Lungo l’altro lato della galleria, il margine della
strada era spaccato e fiancheggiato da grossi barili di plastica
arancione. Non era una cosa insolita di per sé, ma mi colpì il
fatto che fossero praticamente della dimensione giusta per
contenere le urne che avevo visto trasportare dagli operai di
Frank durante la chiamata con il rotolo olografico.
Inoltre, più o meno ogni metro e mezzo, un sottile solco era
stato inciso sull’asfalto nel senso della larghezza della strada.
Ancora una volta, non era una cosa insolita di per sé: forse il
dipartimento delle autostrade stava eseguendo lavori di
asfaltatura. Ma ogni solco scintillava di una specie di
liquido… Petrolio?
Messe insieme, tutte queste cose mi crearono un profondo
disagio, e Frank continuava a ritirarsi sempre più all’interno
della galleria, invitando Caligola a seguirlo.
A quanto pareva, anche il luogotenente di Caligola,
Gregorix, cominciava a preoccuparsi. Gridò: «Mio imperatore!
Si sta allontanando troppo…».
«Chiudi il becco, Greg!» ribatté Caligola. «Se ci tieni alla
lingua, non dirmi come combattere!»
Commodo stava ancora cercando di rialzarsi.
Caligola fece per conficcare la spada nel torace di Frank,
ma il pretore non c’era. Al suo posto un uccellino – un
rondone comune, a giudicare dalla coda a forma di boomerang
– schizzò dritto verso la faccia dell’imperatore.
Frank di uccelli se ne intendeva. I rondoni non erano né
grossi, né di grande effetto. Non erano minacciosi come i
falchi o le aquile, ma erano incredibilmente agili e veloci.
Beccò l’occhio sinistro di Caligola e schizzò via, lasciando
l’imperatore a urlare di dolore e a menare colpi alla cieca.
Frank si materializzò in forma umana accanto a me. Aveva
gli occhi incavati e spenti. Il braccio ferito gli pendeva inerte
lungo un fianco.
«Se vuoi dare davvero una mano, azzoppa Commodo»
disse a voce bassa. «Non credo di poterli trattenere entrambi.»
«Cosa…?»
Frank si trasformò di nuovo in rondone e sparì, lanciandosi
su Caligola, che imprecò e riprese a menare colpi contro il
minuscolo uccello.
Commodo mi attaccò un’altra volta, e fu abbastanza scaltro
da non annunciarsi urlando. Quando mi accorsi che mi stava
piombando addosso – con il sangue che ribolliva dalle narici e
un profondo solco a forma di guardrail sulla fronte – era
troppo tardi.
Mi sbatté un pugno sullo stomaco, nel punto esatto in cui
non volevo essere colpito. Caddi gemendo come un corpo
morto, come se non avessi ossa.
Fuori, le truppe nemiche proruppero in un nuovo scroscio
di applausi. Ancora una volta Commodo si girò per bearsi
della loro adulazione. Mi secca ammettere che, invece di
sentirmi sollevato per quei secondi di vita in più, mi
dispiacque che non mi facesse fuori più in fretta.
Ogni cellula del mio miserabile corpo mortale urlava:
“Falla finita!”. Essere ucciso non poteva farmi più male di
quanto già ne sentissi. Se fossi morto, forse, almeno sarei
tornato come uno zombie e avrei staccato con un morso il naso
di Commodo.
Ormai ero sicuro che Diana non sarebbe venuta in nostro
soccorso. Forse avevo incasinato tutto durante il rituale, come
temeva Ella. Forse mia sorella non aveva ricevuto la chiamata.
O forse Giove le aveva vietato di aiutarmi minacciandola di
farle condividere la mia punizione mortale.
Comunque fosse, anche Frank doveva aver capito che la
nostra situazione era disperata. Eravamo ben oltre la fase del
“guadagnare tempo”. Eravamo nella fase “morire inutilmente
fa un male tremendo”.
La mia visione era ridotta a un cono rosso sfocato, ma mi
concentrai sui polpacci di Commodo che camminava davanti a
me ringraziando i suoi fan adoranti. Legato con una cinghia a
un polpaccio c’era un pugnale. Commodo se ne portava
sempre dietro uno, ai vecchi tempi: quando sei un imperatore,
la paranoia non ti abbandona mai. Potresti essere assassinato
dal maggiordomo, dal cameriere, dal lavandaio o dal tuo
migliore amico. E poi, nonostante tutte le tue precauzioni, il
tuo ex amante divino travestito da allenatore finisce per
affogarti nella vasca da bagno. Sorpresa!
“Azzoppa Commodo” mi aveva detto Frank.
Avevo esaurito le forze, ma volevo soddisfare la sua ultima
richiesta. Glielo dovevo.
Il mio corpo urlava in segno di protesta mentre allungavo la
mano e afferravo il pugnale. Venne via senza problemi dal
fodero, tenuto ben oliato proprio a quello scopo. Commodo
non se ne accorse nemmeno. Lo pugnalai sul retro del
ginocchio sinistro e poi sul destro prima che avesse addirittura
registrato il dolore. L’imperatore urlò e crollò in avanti,
vomitando oscenità in latino che non sentivo più dal regno di
Vespasiano.
Azzoppamento compiuto. Lasciai cadere il coltello,
stremato. Rimasi in attesa di capire che cosa mi avrebbe
ucciso. Gli imperatori? Il veleno zombie? La suspense?
Allungai il collo per vedere come se la cavava il mio amico
rondone. Non bene, a quanto pareva. Caligola mise a segno un
bel colpo con il piatto della lama, sbatacchiando Frank contro
il muro. L’uccellino precipitò inerme, e Frank recuperò la
forma umana appena in tempo per colpire la terra di faccia.
Caligola mi sorrise, con l’occhio ferito chiuso e la voce
piena di rivoltante gioia. «Stai guardando, Apollo? Ricordi che
cosa succede dopo?» Sollevò la spada sopra la schiena di
Frank.
«NO!» urlai.
Non potevo assistere alla morte di un altro amico. In
qualche modo riuscii ad alzarmi, ma fui troppo lento. Caligola
abbassò la lama, che si piegò in due contro il mantello di
Frank come uno scovolino da pipa. Grazie agli dei che si
occupano della moda militare! La cappa da pretore poteva
deviare le armi, anche se la capacità di trasformarsi in un
cardigan incrociato rimaneva incomprensibile.
Caligola ringhiò per la frustrazione. Sguainò il pugnale, ma
Frank aveva recuperato abbastanza forza da rimettersi in piedi.
Scaraventò Caligola contro il muro e con la mano buona cinse
la gola dell’imperatore.
«Tempo scaduto!» ruggì.
Tempo scaduto. Un attimo… era il segnale per me. Dovevo
fuggire. Ma non potevo. Rimasi a guardare, paralizzato dal
terrore, mentre Caligola seppelliva il pugnale nella pancia di
Frank.
«Sì, esatto» gracchiò l’imperatore. «È scaduto, per te!»
Frank strinse più forte la mano, schiacciando la gola di
Caligola e facendogli diventare la faccia di un acceso color
porpora. Usando il braccio ferito, e procurandosi
probabilmente un dolore straziante, il figlio di Marte estrasse il
pezzetto di legno dalla custodia.
«Frank!» singhiozzai.
Mi lanciò un’occhiata, ordinandomi in silenzio:
“VATTENE”.
Non potevo sopportarlo. Non un’altra volta. Non come con
Jason. Ero vagamente consapevole del fatto che Commodo
stesse cercando di strisciare verso di me per afferrarmi le
caviglie.
Frank sollevò il pezzetto di legno davanti alla faccia di
Caligola. L’imperatore lottò e si dimenò, ma Frank si dimostrò
più forte attingendo, sospettai, a tutto quello che rimaneva
della sua vita mortale.
«Se devo bruciare, tanto vale che bruci per bene» disse.
«Questo è per Jason.»
Il pezzo di legno prese fuoco spontaneamente, come se non
avesse aspettato altro da anni.
Caligola sgranò gli occhi dal panico. Le fiamme ruggirono
intorno al corpo di Frank, incendiando il petrolio in uno dei
solchi sull’asfalto, una miccia liquida che correva in entrambe
le direzioni verso le casse e i barili arancioni che riempivano il
tunnel. Gli imperatori non erano gli unici ad avere una scorta
di fuoco greco.
Non sono orgoglioso di quello che accadde dopo. Mentre
Frank diventava una colonna di fuoco e l’imperatore Caligola
si disintegrava in tizzoni incandescenti, io eseguii l’ultimo
ordine di Frank. Con un salto superai Commodo e mi
precipitai all’aria aperta. Alle mie spalle, il Caldecott Tunnel
eruttò come un vulcano.
37

C’è un’esplosione?

Io non c’entro, giuro

È stato Greg? Boh!

Un’ustione di terzo grado fu la cosa meno dolorosa che quel


tunnel mi regalò.
Arrivai all’aperto barcollando, con la schiena sfrigolante e
le mani fumanti; avevo la sensazione che ogni singolo
muscolo del mio corpo fosse stato sfregiato da un rasoio.
Davanti a me si stendeva ciò che restava delle truppe degli
imperatori: centinaia di guerrieri pronti a combattere. In
lontananza, schierati lungo la baia, cinquanta yacht erano in
attesa, pronti a far fuoco con l’artiglieria del giorno del
giudizio.
Niente di tutto questo faceva male quanto la
consapevolezza di avere abbandonato Frank Zhang tra le
fiamme.
Caligola non esisteva più. Lo percepii, come se la terra
avesse tirato un sospiro di sollievo mentre la sua coscienza si
disintegrava in un’esplosione di plasma incandescente. Ma a
quale prezzo! Frank. Il nostro bellissimo, maldestro,
impacciato, coraggioso, forte, dolce e nobile Frank.
Avrei pianto, ma avevo i dotti lacrimali secchi come le gole
del deserto del Mojave.
Le forze nemiche sembravano allibite quanto me. Perfino i
Germani erano a bocca aperta. Ci vuole qualcosa di grosso per
far restare così una guardia imperiale. Assistere all’esplosione
dei propri capi in un enorme boato infuocato che fuoriesce dal
fianco di una montagna… ecco, questo funziona.
Alle mie spalle, una voce a malapena umana farfugliò:
«Urgsshhh…».
Mi girai.
Ero troppo morto dentro per provare paura o disgusto.
Ovviamente Commodo era ancora vivo. Strisciò fuori dalla
caverna piena di fumo sui gomiti, con l’armatura mezza
disciolta e la pelle ricoperta di cenere. Il suo viso, un tempo
bello, sembrava un pezzo bruciato di pane al pomodoro.
Non lo avevo azzoppato bene. In qualche modo, avevo
mancato le arterie. Avevo incasinato tutto, perfino l’ultima
richiesta di Frank.
Nessuno tra i soldati si precipitò ad aiutare l’imperatore.
Rimasero paralizzati per l’incredulità. Forse non
riconoscevano Commodo in quella creatura distrutta. Forse
pensavano che stesse facendo un altro dei suoi spettacoli e
aspettavano il momento giusto per applaudire.
Incredibilmente Commodo si rimise in piedi, barcollando
come Elvis alla fine della carriera. «Navi!» gracchiò.
Farfugliava così tanto che per un attimo pensai che avesse
gridato qualcos’altro. Suppongo che le sue truppe avessero
pensato la stessa cosa, dato che non fecero niente.
«Fuoco!» gemette Commodo. E ancora una volta avrebbe
potuto semplicemente significare: “Ehi, guardate, vado a
fuoco!”.
Capii il suo ordine soltanto un attimo dopo, quando
Gregorix gridò: «FATE UN SEGNALE AGLI YACHT!».
Per poco non mi strozzai con la mia stessa lingua.
Commodo mi fece un sorriso spettrale. I suoi occhi
scintillavano di odio.
Non so dove trovai la forza, ma andai alla carica e lo
placcai. Finimmo sull’asfalto, io con le gambe a cavalcioni sul
suo torace, le mani strette intorno alla gola come era accaduto
migliaia di anni addietro, quando lo avevo ucciso la prima
volta. Tuttavia non provavo nessun rimorso agrodolce, nessun
residuo di amore nostalgico. Commodo lottò, ma i suoi pugni
erano come carta. Emisi un ruggito gutturale. Un canto con
una sola nota: rabbia pura. E un solo volume: il massimo.
Sotto questo furibondo attacco sonoro, Commodo si
sgretolò in polvere.
La mia voce si spense. Fissai i palmi vuoti delle mie mani.
Mi alzai in piedi e arretrai, inorridito. La sagoma carbonizzata
del corpo dell’imperatore rimase sull’asfalto. Sentivo ancora il
battito della carotide sotto le dita. Che cosa avevo fatto? Nelle
migliaia di anni in cui ero vissuto non avevo mai ucciso
nessuno con la voce. Quando cantavo, la gente spesso diceva
che le piaceva da morire, ma non lo intendeva mai alla lettera.
Le truppe imperiali mi fissarono allibite. Ancora un attimo
e avrebbero attaccato, ma furono distratte da un lanciarazzi
sparato nelle vicinanze. Una sfera di fuoco arancione delle
dimensioni di una pallina da tennis descrisse un arco nel cielo,
seguita da una scia di fumo dello stesso colore.
Le truppe si girarono verso la baia, in attesa dello
spettacolo di fuochi artificiali che avrebbe distrutto il Campo
Giove. Lo ammetto: sebbene fossi stanco, inerme ed
emotivamente a pezzi, anch’io non potei fare a meno di
guardare.
Su cinquanta ponti di poppa, si videro scintillare puntini
verdi mentre le cariche di fuoco greco venivano scoperte nei
mortai. Immaginai i tecnici pandai che si affrettavano a
inserire le coordinate definitive.
“Per favore, Artemide, adesso sarebbe un momento
fantastico per farti viva” pregai.
Cinquanta palle infuocate volarono in cielo, verdi come
smeraldi su una collana fluttuante, illuminando l’intera baia. Si
levarono dritte verso l’alto, sforzandosi di guadagnare quota.
La paura si trasformò in perplessità. Due o tre cose di volo
le sapevo. Non si può decollare con un angolo di novanta
gradi. Se avessi provato a farlo con il carro del sole… be’, per
prima cosa, sarei caduto, sembrando davvero stupido. Ma poi
neanche i cavalli sarebbero stati capaci di percorrere una salita
tanto ripida. Sarebbero ruzzolati l’uno sull’altro e si sarebbero
schiantati all’indietro sui cancelli del palazzo del sole. Ci
sarebbe stata l’alba a oriente, seguita subito dopo da un
tramonto a oriente e da tanti nitriti arrabbiati.
Perché i mortai erano puntati in quel modo?
Le sfere infuocate verdi percorsero altri quindici metri, poi
trenta. Rallentarono. Sulla Highway 24 l’intero esercito
nemico imitò i loro movimenti, drizzandosi sempre più man
mano che i proiettili salivano finché tutti i Germani, i
khromandae e gli altri brutti ceffi della loro ghenga si
ritrovarono in punta di piedi, pronti a levitare. Le sfere
infuocate si fermarono e aleggiarono a mezz’aria.
Dopodiché gli smeraldi caddero giù, dritti sugli yacht da cui
erano stati scagliati.
Il risultato fu un caos degno degli stessi imperatori.
Cinquanta yacht esplosero in piccoli funghi atomici,
mandando per aria coriandoli di legno, metallo e corpi
mostruosi in fiamme. La flotta multimiliardaria di Caligola fu
ridotta a una serie di macchie di petrolio fiammeggianti sulla
superficie della baia.
Scoppiai a ridere, credo. Lo so, una reazione piuttosto
insensibile da parte mia, considerato l’impatto ambientale del
disastro. E anche tremendamente inappropriata, visto quanto
ero distrutto per Frank. Ma non riuscii a trattenermi.
Le truppe nemiche si girarono come un sol uomo a
fissarmi.
“Oh, giusto” rammentai a me stesso. “Mi trovo ancora di
fronte a centinaia di creature ostili.”
Ma non sembravano molto ostili. Sbigottite e insicure,
piuttosto.
Avevo distrutto Commodo con un urlo. Avevo contribuito a
ridurre Caligola in cenere. Nonostante il mio aspetto dimesso,
le truppe avevano sentito dire che in passato ero stato un dio.
Era possibile, si stavano probabilmente chiedendo, che in
qualche modo avessi provocato la distruzione della flotta?
In effetti, non avevo idea di che cosa fosse andato storto
con le armi delle navi. Dubitai che dipendesse da Artemide,
non sembrava una cosa da lei. Quanto a Lavinia… non
riuscivo a capire come avrebbe potuto mettere a segno un
colpo del genere con una manciata di satiri, qualche driade e
un po’ di gomma da masticare.
Sapevo di non essere stato io.
Ma l’esercito non lo sapeva.
Misi insieme gli ultimi brandelli di coraggio che avevo.
Attinsi alla mia antica arroganza, quella dei tempi in cui
amavo prendermi il merito di cose che non avevo fatto (finché
erano positive e di grande effetto). Feci a Gregorix e al suo
esercito un sorriso crudele, in perfetto stile imperatore.
«BUUUUU!» gridai.
Le truppe ruppero le file e corsero via. Si sparpagliarono in
preda al panico lungo l’autostrada; qualcuno saltò sopra i
guardrail dritto nel vuoto, soltanto per fuggire da me più in
fretta. Solo i poveri pegasi mutilati rimasero lì, perché non
avevano scelta. Erano ancora legati e con i finimenti indosso;
le ruote del carro erano state fissate all’asfalto per evitare che
fuggissero via imbizzarriti. In ogni caso, dubitavo che
avrebbero voluto seguire i loro aguzzini.
Crollai in ginocchio. La ferita sulla pancia pulsava. Non mi
sentivo più la schiena carbonizzata. Mi sembrava che il cuore
pompasse piombo liquido e gelido. Sarei morto entro breve. O
non-morto. Non aveva molta importanza. I due imperatori
erano scomparsi. La loro flotta era stata distrutta. Frank non
c’era più.
Sulla baia, le pozze di petrolio fiammeggiante eruttavano
colonne di fumo che si tingevano di arancione alla luce della
luna di sangue. Era senza dubbio il più bell’incendio che
avessi mai visto.
Dopo un attimo di scioccato silenzio, i servizi d’emergenza
della baia registrarono il nuovo problema. La East Bay era già
stata dichiarata zona del disastro. Dopo la chiusura della
galleria e la misteriosa serie di incendi ed esplosioni sulle
colline, le sirene riecheggiavano per tutta la pianura. Le luci
d’emergenza guizzavano ovunque sulle strade intasate.
I vascelli della Guardia Costiera si unirono alle danze,
fendendo l’acqua per raggiungere gli sversamenti di petrolio.
Gli elicotteri della polizia e dei media virarono verso la scena
da una decina di direzioni diverse, come attratti da una
calamita. Quella notte, la Foschia avrebbe fatto gli
straordinari.
Ebbi la tentazione di stendermi a dormire in strada. Sapevo
che, se lo avessi fatto, sarei morto; ma almeno non avrei più
sofferto. Oh, Frank.
E perché Artemide non era venuta ad aiutarmi? Non ero
arrabbiato con lei. Capivo fin troppo bene il comportamento
degli dei, tutte le varie motivazioni per non farsi vivi quando li
chiami. Eppure faceva male lo stesso essere ignorato dalla
propria sorella.
Un nitrito indignato mi riscosse dai miei pensieri. I pegasi
mi stavano guardando storto. Quello sulla sinistra aveva un
occhio cieco, poverino, ma si scrollò la briglia e fece una
specie di pernacchia come a dire: “Riprenditi, bello”.
Il pegaso aveva ragione. Altre persone soffrivano. Alcune
di loro avevano bisogno del mio aiuto. Tarquinio era ancora
vivo, lo percepivo nel mio sangue infetto. Hazel e Meg
probabilmente stavano combattendo contro i non-morti nelle
strade di Nuova Roma.
Non sarei stato molto utile, ma dovevo tentare. Sarei morto
insieme ai miei amici, o loro mi avrebbero tagliato la testa
dopo che mi fossi trasformato in un divoratore di cervelli. È a
questo che servono gli amici.
Mi alzai e, vacillando, mi avvicinai ai pegasi. «Mi dispiace
tanto per quello che vi è successo» dissi. «Siete animali
splendidi e vi meritate di meglio.»
Mono-Occhio sbruffò come a dire: “Davvero?”.
«Adesso vi libero, se me lo permettete.»
Armeggiai con i finimenti e con la bardatura. Trovai un
pugnale abbandonato sull’asfalto e spezzai le manette
acuminate e il filo spinato conficcati nella carne degli animali.
Evitai accuratamente gli zoccoli nell’eventualità che
decidessero che mi meritavo un calcio in testa.
Poi cominciai a canticchiare a bocca chiusa una canzone di
Dean Martin che raccontava esattamente la settimana
tremenda che stavo vivendo.
«Ecco» dissi una volta liberati i pegasi. «Non ho nessun
diritto di chiedervi niente, ma se foste disponibili a darmi un
passaggio sulle colline, i miei amici sono in pericolo.»
Il pegaso sulla destra, che aveva ancora entrambi gli occhi
ma a cui erano state tagliate crudelmente le orecchie, nitrì un
netto: “NO!”. Trotterellò verso l’uscita di College Avenue, poi
si fermò a metà strada e si voltò a lanciare un’occhiata al suo
amico.
Mono-Occhio sbruffò e scosse la criniera. Immaginai che il
suo breve scambio muto con Orecchie Mozzate andasse più o
meno così:
Mono-Occhio: Glielo do io un passaggio a questo sfigato.
Tu va’ pure. Ti raggiungo.
Orecchie Mozzate: Sei pazzo, amico. Se ti crea problemi,
dagli un calcio in testa.
Mono-Occhio: Certo.
Orecchie Mozzate trotterellò via e scomparve nella notte.
Non potevo biasimarlo se aveva deciso di andarsene. Mi
augurai che trovasse un luogo sicuro per riposare e guarire.
Mono-Occhio nitrì verso di me. Allora?
Lanciai un’ultima occhiata al Caldecott Tunnel. L’interno
era ancora un turbinio di fiamme verdi. Anche senza
carburante, il fuoco greco avrebbe continuato a bruciare e
bruciare ancora, e quella conflagrazione era partita grazie alla
forza vitale di Frank: un’ultima fiammata di eroismo che
aveva vaporizzato Caligola. Non pretendevo di capire il gesto
di Frank, né perché avesse compiuto quella scelta, ma
compresi che secondo lui era l’unico modo. Aveva brillato tra
le fiamme, come meglio aveva potuto. L’ultima parola che
Caligola aveva udito mentre saltava in aria trasformandosi in
minuscole particelle di fuliggine era stata “Jason”.
Mi avvicinai alla galleria. Riuscii a malapena ad arrivare a
una quindicina di metri dall’imbocco prima che il respiro mi
venisse risucchiato dai polmoni.
«FRANK!» gridai. «FRANK?»
Non c’erano speranze, lo sapevo. Era impossibile che fosse
ancora vivo. Il corpo immortale di Caligola si era disintegrato
all’istante. Frank al massimo poteva essere durato qualche
secondo di più, per pura forza di volontà e coraggio, solo per
assicurarsi di averlo fatto fuori insieme a se stesso.
Avrei voluto piangere. Ricordavo vagamente di avere avuto
i dotti lacrimali, tanto tanto prima.
Ormai l’unica cosa che avevo era la disperazione, insieme
alla consapevolezza che finché non fossi morto avrei dovuto
tentare di aiutare gli amici rimasti, a prescindere da quanto
stessi male.
«Mi dispiace tanto» dissi alle fiamme.
Le fiamme non risposero. A loro non importava chi o cosa
avevano distrutto.
Fissai lo sguardo sulla cresta della collina. Hazel, Meg e
quello che rimaneva della Dodicesima Legione erano sull’altro
versante, a lottare contro i non-morti. Era lì che dovevo
trovarmi anch’io.
«Okay» dissi a Mono-Occhio. «Sono pronto.»
38

Due parole:

unicorni svizzeri.

Che precisione!

Se vi capiterà mai l’occasione di vedere degli unicorni armati


in azione, evitatela. Non riuscireste più a toglierveli dalla testa.
Mentre ci avvicinavamo alla città, notai le tracce della
battaglia in corso: colonne di fumo, fiamme che lambivano la
cima degli edifici, urla, strepiti, esplosioni. Insomma, le solite
cose.
Mono-Occhio mi lasciò alla Linea del Pomerio. Sbruffò in
un tono che sembrava dire: “Ecco, buona fortuna”, poi partì al
galoppo. I pegasi sono creature intelligenti.
Lanciai un’occhiata alla Collina dei Templi, sperando di
scorgere nuvole temporalesche in arrivo, un’aura divina di
luce argentea che inondava il fianco del colle o un esercito di
Cacciatrici di mia sorella che partiva alla carica. Niente di
tutto questo. Mi domandai se Ella e Tyson stessero ancora
camminando intorno al tempio di Diana, controllando il fuoco
ogni trenta secondi per vedere se i frammenti del vaso di
marmellata della Sibilla erano già cotti.
Ancora una volta, ero la cavalleria e dovevo fare tutto da
solo. Scusa, Nuova Roma. Corsi lentamente verso il Foro, e fu
lì che intravidi per la prima volta gli unicorni. E quelli non
erano decisamente le solite cose.
Meg in persona guidava la carica. Non cavalcava un
unicorno. Nessuno che abbia a cuore la propria vita (o il
cavallo dei pantaloni) oserebbe mai cavalcarne uno. Correva
però al loro fianco, spronandoli a dare il massimo mentre si
fiondavano in battaglia al galoppo. Gli animali, ricoperti di
kevlar, avevano i loro nomi stampati in lettere maiuscole sulla
cassa toracica: MUFFIN, ERCOLINO, FURIADELWEST, SHIRLEY e
ORAZIO , i Cinque Unicorni dell’Apocalisse. I loro caschi di
cuoio mi ricordavano quelli usati dai giocatori di football negli
anni Venti del Novecento. I corni dei destrieri erano muniti di
– come dire… accessori? – accessori progettati appositamente.
Immaginatevi, se ci riuscite, enormi coltellini svizzeri dotati di
un ampio assortimento di strumenti di distruzione.
Meg e i suoi amici cozzarono contro un’orda di vrykolakai,
ex legionari uccisi nel precedente assalto di Tarquinio, a
giudicare dai pezzi sgangherati di armatura che indossavano.
Un soldato del Campo Giove avrebbe avuto difficoltà ad
attaccare i vecchi compagni, ma Meg non aveva simili
scrupoli. Roteava le spade, facendoli a fette e a cubetti, e
creando mucchi di zombie alla julienne.
Con una rapida mossa del muso, i suoi amici equini
attivarono i loro accessori preferiti: la lama di una spada, un
rasoio gigantesco, un cavatappi, una forchetta e una lima da
unghie. (Ercolino scelse la lima da unghie, e la cosa non mi
sorprese.) Avanzarono in mezzo ai non-morti trafiggendoli,
avvitandoli, inforcandoli e limandoli fino all’annientamento.
Forse vi chiederete perché non trovavo raccapricciante che
Meg usasse gli unicorni per la guerra, mentre avevo trovato
raccapricciante che gli imperatori avessero usato i pegasi per il
loro carro. A parte la differenza più ovvia – gli unicorni non
erano stati torturati né mutilati – era chiaro che i destrieri con
un corno solo se la stavano spassando. Dopo essere stati
trattati per secoli come incantevoli e graziose creature che
saltellano nei prati e danzano nell’arcobaleno, si sentivano
finalmente apprezzati per quello che erano. Meg aveva
riconosciuto il loro talento naturale nel prendere a calci il
didietro dei non-morti.
«Ehi!» Meg mi fece un gran sorriso quando mi vide, come
se fossi appena tornato dal bagno invece che dall’orlo del
giorno del giudizio. «Sta andando alla grande. Gli unicorni
sono immuni ai graffi e ai morsi dei non-morti!»
Shirley sbuffò, evidentemente soddisfatta di se stessa. Mi
mostrò il suo accessorio a cavatappi, come a dire: “Sì, esatto.
Non sono il tuo Pony Arcobaleno”.
«E gli imperatori?» mi chiese Meg.
«Morti. Ma…» Mi si incrinò la voce.
Meg mi scrutò in viso. Mi conosceva bene, era stata al mio
fianco in momenti tragici. Si incupì. «Okay. Piangerai dopo.
Adesso dobbiamo trovare Hazel. È…» Indicò vagamente con
una mano verso il centro della città. «Da qualche parte. E così
pure Tarquinio.»
Nell’udire il suo nome mi si contorsero le budella. Perché,
oh, perché non potevo essere un unicorno?
Risalimmo le stradine strette e tortuose di Nuova Roma
insieme al nostro branco di unicorni svizzeri. La battaglia si
svolgeva perlopiù in gruppi di combattimento casa per casa.
Le famiglie avevano barricato le abitazioni. I negozi erano
sbarrati da assi. Gli arcieri erano appostati alle finestre degli
ultimi piani, pronti a colpire gli zombie. Bande erranti di
eurynomoi attaccavano qualunque creatura vivente gli
capitasse a tiro.
Per quanto la scena fosse orribile, c’era nell’aria qualcosa
di stranamente sottotono. Sì, Tarquinio aveva inondato la città
di non-morti. Ogni griglia di accesso alle fogne e ogni tombino
erano aperti. Ma il re non stava attaccando in forze,
setacciando sistematicamente la città per prenderne il
controllo. Piccoli gruppi di non-morti spuntavano qua e là
costringendo drappelli di legionari ad accorrere per difendere
questa o quella zona della città. Sembrava più un diversivo che
un’invasione, come se Tarquinio fosse alla ricerca di qualcosa
di specifico e non volesse essere disturbato.
Qualcosa di specifico… come una serie di Libri Sibillini
che aveva pagato dei bei soldoni nel 530 avanti Cristo.
Il mio cuore pompò di nuovo piombo freddo. «La libreria.
Meg, la libreria!»
Lei aggrottò la fronte, forse domandandosi perché volessi
comprare dei libri in un momento del genere. Poi le apparve
chiaro davanti agli occhi. «Oh.» Prese velocità, correndo così
forte che gli unicorni dovettero mettersi al trotto.
Non ho idea di come feci a starle dietro. Immagino che a
quel punto il mio corpo fosse così disperato che si limitò a
dire: “Correre incontro alla morte? Okay. Pazienza!”.
Mentre salivamo lungo la collina, la battaglia si fece più
intensa. Superammo parte della Quarta Coorte che combatteva
contro decine di ghoul sbavanti sul marciapiede davanti a un
caffè. Dalle finestre, adulti e bambini li bersagliavano di
oggetti – sassi, vasi, padelle, bottiglie – mentre i legionari
provavano a infilzarli con le lance.
Qualche isolato più avanti trovammo Terminus, con il
cappotto della Prima guerra mondiale costellato di fori di
proiettile e la faccia di marmo ormai priva del naso.
Accovacciata dietro il suo piedistallo c’era una ragazzina – la
sua aiutante Julia, immaginai – che impugnava un coltello da
bistecca.
Terminus si girò verso di noi con una tale furia che ebbi
paura ci riducesse in un mucchietto di moduli per la
dichiarazione doganale. «Oh, sei tu» bofonchiò. «I miei
confini hanno fallito. Spero che tu abbia portato rinforzi.»
Guardai la ragazzina terrorizzata dietro di lui: era ferina,
feroce, pronta a balzare. Mi domandai chi proteggeva chi.
«Ehm… più o meno.»
«Capisco.» La faccia del vecchio dio si indurì un po’ di più,
anche se non avrebbe dovuto essere possibile considerato che
era di marmo. «Bene. Ho concentrato gli ultimi sprazzi del
mio potere qui, intorno a Julia. Potranno anche distruggere
Roma, ma non faranno del male a questa ragazza!»
«Né a questa statua!» aggiunse Julia.
Mi sentii il cuore di marmellata. «Oggi vinceremo,
promesso.» In qualche modo riuscii a dirlo come se ci credessi
davvero. «Dov’è Hazel?»
«Laggiù!» Terminus indicò con le sue braccia inesistenti. A
giudicare dallo sguardo (non potevo più seguire il suo naso),
supposi che volesse dire a sinistra.
Corremmo in quella direzione finché non trovammo un
altro gruppo di legionari.
«Dov’è Hazel?» chiese Meg.
«Da quella parte!» gridò Leila. «A due isolati da qui,
credo.»
«Grazie!» Meg guizzò via accompagnata dalla guardia
d’onore di unicorni con la lima da unghie e il cavatappi in
posizione di tiro.
Trovammo Hazel proprio dove Leila aveva predetto: due
isolati più avanti, nel punto in cui la strada si allargava in una
piazza. Lei e Arion erano circondati da zombie, che li
superavano di circa venti a uno. Arion non sembrava
particolarmente preoccupato, ma sbruffava e nitriva per la
frustrazione, incapace com’era di sfruttare la sua velocità in
spazi tanto ristretti. Hazel menava colpi a destra e a manca con
la spatha, mentre lo stallone allontanava a calci i nemici.
Hazel sarebbe stata benissimo capace di gestire la
situazione da sola, ma i nostri unicorni non poterono resistere
all’opportunità di prendere a calci nel sedere altri zombie. Si
buttarono nella mischia, facendo a fette, stappando e limando i
non-morti in una fantastica carneficina multifunzione.
Meg si lanciò in battaglia facendo vorticare le lame
gemelle. Io perlustrai la strada alla ricerca di armi da lancio
abbandonate. Non fu difficile trovarle. Raccolsi da terra un
arco e una faretra e mi misi all’opera, procurando agli zombie
dei bei piercing sul cranio, molto alla moda.
Non appena Hazel si rese conto che eravamo noi, rise
sollevata, poi scrutò alle mie spalle, forse cercando Frank.
Incrociai il suo sguardo e purtroppo la mia espressione le
comunicò tutto quello che non voleva sentirsi dire.
Tante emozioni le attraversarono il volto: incredulità,
desolazione, poi rabbia. Spronando Arion, urlò infuriata e si
fiondò in mezzo agli ultimi zombie rimasti, che non ebbero
scampo.
Quando la piazza fu al sicuro, Hazel mi si avvicinò al
piccolo trotto. «Cos’è successo?»
«Io… Frank… Gli imperatori…»
Fu tutto quello che riuscii a dire. Non era un gran racconto,
ma Hazel ne colse il succo.
Si chinò in avanti, fino a toccare con la fronte la criniera di
Arion. Cominciò a dondolarsi e mormorare, stringendosi il
polso come una giocatrice di softball che si è appena rotta una
mano e cerca di placare il dolore. Alla fine raddrizzò la
schiena. Trasse un respiro tremante. Scese di groppa, cinse le
braccia intorno al collo di Arion e gli sussurrò qualcosa
all’orecchio.
Il destriero annuì. Hazel fece un passo indietro, e Arion
corse via: una scia bianca che sfrecciava a occidente verso il
Caldecott Tunnel. Avrei voluto avvisare Hazel che non c’era
niente da trovare laggiù, ma non lo feci. Ormai capivo un po’
meglio cosa fosse la sofferenza. Il dolore di ognuno dura
quanto deve; ha bisogno di seguire il proprio percorso.
«Dove possiamo trovare Tarquinio?» domandò Hazel. Ma
in realtà voleva dire: “Chi posso uccidere per sentirmi
meglio?”.
Sapevo che la risposta era “nessuno”. Ma, ancora una volta,
non discussi con lei. Come uno scemo, l’accompagnai alla
libreria per incontrare faccia a faccia il re non-morto.
Due eurynomoi erano di guardia all’ingresso, e questo voleva
dire che Tarquinio si trovava già dentro. Pregai che Tyson ed
Ella fossero ancora alla Collina dei Templi.
Con un rapido movimento della mano, Hazel evocò da terra
due pietre preziose. Rubini? Opali di fuoco? Mi schizzarono
accanto così in fretta che non li vidi bene. Colpirono i ghoul
proprio in mezzo agli occhi, riducendoli a un mucchietto di
polvere. Gli unicorni ci rimasero un po’ male, sia perché non
avevano potuto usare gli accessori da guerra, sia perché si
rendevano conto che stavamo varcando una porta troppo
piccola per loro.
«Andate a cercare altri nemici» disse Meg. «Divertitevi!»
I Cinque Unicorni dell’Apocalisse si impennarono
allegramente e partirono al galoppo per eseguire gli ordini
della mia amica.
Mi fiondai in libreria, con Hazel e Meg alle calcagna, e mi
aprii un varco in una folla di non-morti. Alcuni vrykolakai si
trascinavano nel corridoio delle novità, forse alla ricerca degli
ultimi romanzi sugli zombie. Altri picchiavano sugli scaffali
della sezione di storia come se sapessero di appartenere al
passato. Un ghoul sbavava sfogliando Il libro illustrato degli
avvoltoi, seduto su una comoda poltrona da lettura. Un altro,
accovacciato sul ballatoio, masticava allegramente un’edizione
rilegata in pelle di Grandi speranze.
Tarquinio stesso era troppo impegnato per notare il nostro
arrivo. Ci dava le spalle, al banco delle informazioni, e gridava
al gatto della libreria: «Rispondimi, bestiaccia! Dove sono i
Libri?».
Aristofane era seduto sul banco, con una zampa in aria, e si
leccava con calma il bassoventre; un gesto che, a quanto mi
risultava, era ritenuto maleducato al cospetto dei reali.
«Ti distruggerò!» disse Tarquinio.
Il gatto sollevò lo sguardo per un attimo, soffiò e poi tornò
a occuparsi della propria toilette personale.
«Tarquinio, lascialo in pace!» gridai, anche se non
sembrava che Aristofane avesse bisogno del mio aiuto.
Il re si girò, e in un istante mi ricordai perché non avrei
dovuto stargli vicino. Un’ondata di nausea mi invase,
facendomi crollare in ginocchio. Il veleno mi bruciava nel
sangue. Mi sentii rivoltare la pelle come un calzino. Nessuno
degli zombie attaccò. Si limitarono a fissarmi con i loro occhi
spenti, come se aspettassero che mi mettessi il cartellino con
su scritto CIAO, IL MIO NOME ERAELLIPSIS_CHARACTER e
cominciassi a socializzare.
Tarquinio si era presentato in grande spolvero per quella
serata speciale. Indossava un vecchio mantello rosso sopra
l’armatura corrosa. Anelli d’oro adornavano le sue dita
scheletriche. La corona d’oro sembrava lucidata di fresco e
creava un bel contrasto con il cranio marcio. Volute di viscido
neon color porpora gli serpeggiavano intorno alle membra,
torcendosi dentro e fuori dalla gabbia toracica e cingendogli le
ossa del collo. Poiché la sua faccia era un teschio, non sapevo
se stesse sorridendo, ma quando parlò, sembrò felice di
vedermi.
«Bene, allora! Hai ucciso gli imperatori, vero, mio servo
fedele? Parla!»
Non avevo nessuna voglia di raccontargli niente, ma una
gigantesca mano invisibile mi strinse il diaframma,
strappandomi le parole di bocca. «Morti. Sono morti.» Dovetti
mordermi la lingua per evitare di aggiungere “signore”.
«Ottimo!» commentò Tarquinio. «Quante belle morti
stasera. E il pretore Frank…?»
«No.» Hazel mi superò con una spallata. «Tarquinio, non
osare pronunciare il suo nome.»
«Ah! È morto, allora. Ottimo!» Il re annusò l’aria,
facendosi scorrere gas purpureo nelle fessure nasali. «La città
è satura di paura, angoscia, smarrimento. Meraviglioso!
Apollo, adesso sei mio, ovviamente. Sento il tuo cuore che
pompa i suoi ultimi battiti. E Hazel Levesque… temo che tu
debba morire per avermi fatto crollare addosso la sala del
trono. Un tiro molto brutto. Ma la giovane McCaffrey… sono
talmente di buonumore che potrei permetterle di fuggire a
gambe levate, per spargere la voce del mio trionfo! Solo,
ovviamente, se il mio servo fedele decide di collaborare e mi
spiega il significato di questo» concluse indicando il gatto.
«È un gatto» dissi.
Il buonumore di Tarquinio andò a farsi benedire. Ringhiò, e
un’altra ondata di dolore trasformò la mia colonna vertebrale
in plastilina.
Meg mi prese per un braccio prima che sbattessi il viso
sulla moquette. «Lascialo in pace!» urlò. «Io non fuggo da
nessuna parte, scordatelo.»
«Dove sono i Libri Sibillini?» chiese Tarquinio. «Qui non
ci sono!» Liquidò con un ampio gesto del braccio tutti gli
scaffali, poi guardò Aristofane. «E questa creatura non vuole
parlare! L’arpia e il ciclope che stavano riscrivendo le
profezie… sento che sono stati qui, ma se ne sono andati.
Dove sono adesso?»
Dissi una muta preghiera di ringraziamento per la
testardaggine delle arpie. Ella e Tyson dovevano essere ancora
alla Collina dei Templi ad aspettare i soccorsi divini che non
arrivavano.
Meg sbruffò. «Sei stupido per essere un re. I Libri non sono
qui. Non sono neanche libri.»
Tarquinio osservò la mia piccola padrona, poi si girò verso i
suoi zombie. «Che lingua parla la ragazzina? Qualcuno ha
capito qualcosa?»
Gli zombie lo fissarono attoniti. I ghoul erano troppo
impegnati a leggere il libro sugli avvoltoi e a mangiare Grandi
speranze.
Tarquinio si girò di nuovo verso di me. «Che vuol dire?
Dove sono i Libri? E come mai non sono libri?»
Ancora una volta, mi sentii stringere il petto. Le parole mi
uscirono dolorosamente di bocca. «Tyson. Ciclope. Profezie
tatuate sulla sua pelle. È sulla Collina dei Templi con…»
«Zitto!» ordinò Meg. Mi si tappò la bocca, ma era troppo
tardi. Le parole erano già uscite dalla stalla. No, aspettate,
com’è l’espressione giusta?
Tarquinio inclinò il teschio. «La sedia nella stanza sul
retro… Sì. Sì, adesso capisco. Geniale! Dovrò tenere in vita
questa arpia e osservarla mentre pratica la sua arte. Le profezie
scritte sulla pelle? Oh, niente male davvero!»
«Non te ne andrai mai da qui» ringhiò Hazel. «Le mie
truppe stanno togliendo di mezzo i tuoi ultimi invasori. Siamo
rimasti solo noi adesso. E tu stai per trovare il tuo eterno
riposo… a pezzettini.»
«Oh, mia cara. Credevi che quella fosse l’invasione?»
Tarquinio fece una risata sibilante. «Quelle erano solo le mie
pattuglie speciali, con il compito di dividere e confondere tutti
voi mentre io venivo a recuperare i Libri. Adesso che so dove
sono, la città può essere saccheggiata come si deve! Il resto del
mio esercito dovrebbe arrivare attraverso le fogne proprio…»
Schioccò le dita scheletriche. «Adesso!»
39

Qui non compare

Capitan Mutanda, no

No, ma… forse sì!

Aspettai che tornassero i rumori della battaglia. La libreria era


così silenziosa che sentivo quasi respirare gli zombie.
La città rimase muta.
«Adesso» ripeté Tarquinio, schioccando di nuovo le dita.
«Qualche problema di comunicazione?» domandò Hazel.
Tarquinio sibilò. «Che hai combinato?»
«Io? Ancora niente.» Hazel sguainò la spatha. «Ma le cose
stanno per cambiare.»
Aristofane colpì per primo, avendo deciso di trasformare
quello scontro in una questione personale. Con un miaooo
indignato e nessuna provocazione evidente, il gigantesco
ammasso di pelo arancione si lanciò contro la faccia di
Tarquinio, agganciando gli artigli anteriori alle orbite oculari
del teschio e sferrando con le zampe posteriori un calcio sui
denti marci.
L’assalto colse di sorpresa il re, che vacillò e urlò,
farfugliando parolacce in latino che risultarono
incomprensibili per via delle zampe del gatto in bocca. E fu
così che ebbe inizio la Battaglia della Libreria.
Hazel si lanciò contro Tarquinio. Meg sembrò accettare che
fosse lei la prima a gettarsi sul cattivo in carica, considerato
quello che era accaduto a Frank, così si concentrò sugli
zombie, usando le lame gemelle per infilzare, menare fendenti
e sospingere i mostri verso il settore della saggistica.
Estrassi una freccia con l’intenzione di mirare al ghoul sul
ballatoio, ma mi tremavano troppo le mani. Non mi reggevo in
piedi. Avevo la vista sfocata e vedevo rosso. E, come se non
bastasse, mi resi conto di avere appena estratto l’unica freccia
rimasta nella mia faretra: la Freccia di Dodona.
«NON MOLLARE, APOLLO!» mi disse la freccia. «NON
SOTTOMETTERTI AL SOVRANO NON-MORTO!»
Nella nebbia del mio dolore, mi domandai se non stessi
impazzendo. «Stai cercando di… incoraggiarmi?» L’idea mi
faceva ridere. «Uff, sono stanco!»
E crollai a terra.
Meg mi scavalcò e abbatté uno zombie che stava per
divorarmi la faccia.
«Grazie» borbottai, ma Meg era già passata oltre. A
malincuore, i ghoul avevano messo via i libri e la stavano
circondando.
Hazel cercava di infilzare Tarquinio, che si era appena tolto
Aristofane dalla faccia scaraventandolo via.
Il gatto volò dall’altra parte della stanza con un miagolio
acuto, riuscì ad afferrare il bordo di uno scaffale e si arrampicò
in cima. Poi guardò giù e mi lanciò un’occhiata torva con i
suoi occhi gialli, come a dire: “L’ho fatto apposta, mica è stato
lui”.
La Freccia di Dodona continuava a parlare nella mia testa.
«SEI STATO BRAVO, APOLLO! UN SOL COMPITO OR TI
RIMANE: VIVERE!»
«È un compito durissimo» mugugnai. «Lo detesto.»
«DEVI SOLO ASPETTARE! NON MOLLARE!»
«Aspettare cosa? Non mollare cosa? Oh… Immagino che
non debba mollare te.»
«SÌ!» disse la freccia. «SÌ, FA’ COSÌ. RIMANI CON ME,
APOLLO. NON MORIRE, BELLO, NON CI PROVARE!»
«Cos’è, la battuta di un film?» chiesi. «Di un sacco di film,
a dire il vero… Un attimo, ti importa davvero se muoio?»
«Apollo!» gridò Meg, squarciando Grandi speranze con
una delle sue lame. «Se proprio non vuoi darci una mano,
potresti almeno strisciare in un posto più sicuro?»
Avrei tanto voluto accontentarla. Sul serio. Ma non mi
funzionavano le gambe.
«Oh, guarda» borbottai. «Le mie caviglie stanno
diventando grigie. Oh, wow… Anche le mani!»
«NO!» disse la freccia. «NON MOLLARE!»
«A che pro?»
«CONCENTRATI SULLA MIA VOCE. ORSÙ,
CANTIAMO INSIEME! AMI LE CANZONI, NEVVERO?»
«Oh, Susanna!» gorgheggiai.
«MAGARI UN’ALTRA CANZONE?»
«Non piangere perché…» continuai.
La freccia cedette e si mise a cantare insieme a me, anche
se restò indietro perché voleva tradurre tutto il testo nella sua
lingua arcaizzante.
Era così che sarei morto: seduto sul pavimento di una
libreria mentre mi trasformavo in zombie, tenendo in mano
una freccia parlante e intonando una canzone country.
Neanche le Parche possono prevedere tutte le meraviglie che
l’universo ha in serbo per noi.
Alla fine mi si seccò la voce. Il mio campo visivo si
restrinse. I rumori del combattimento in corso sembravano
raggiungere le mie orecchie dalle estremità di lunghi tubi di
metallo.
Meg stava abbattendo gli ultimi tirapiedi di Tarquinio.
Bene, pensai con distacco. Non volevo che morisse anche lei.
Hazel conficcò la spatha nel petto di Tarquinio. Il re romano
cadde e ululò per il dolore, strappando l’elsa dalla stretta di
Hazel. Crollò contro il banco delle informazioni, stringendo la
lama con le mani scheletriche.
Hazel arretrò, in attesa che il re zombie si dissolvesse.
Invece Tarquinio si rimise in piedi, mentre il gas purpureo
guizzava debolmente nelle sue cavità orbitali. «Ho millenni di
vita» ringhiò. «Non sei riuscita a uccidermi sotto tonnellate di
pietra, Hazel Levesque. Non mi ucciderai con una spada.»
Pensai che a quel punto Hazel gli si avventasse contro e gli
staccasse il cranio a mani nude. La sua rabbia era così
palpabile che riuscivo a fiutarla come un temporale in arrivo.
Un attimo… fiutavo davvero un temporale in arrivo,
insieme ad altri profumi della foresta: aghi di pino, rugiada
mattutina sui fiori di campo, il respiro di cani da caccia.
Un grosso lupo color argento mi leccò la faccia. Lupa?
Un’allucinazione? No… un intero branco di lupi era entrato a
passo svelto in negozio e stava annusando gli scaffali di libri e
i mucchi di polvere di zombie.
Dietro di loro, sulla soglia, c’era una ragazza sui dodici
anni, gli occhi giallo-argentei, i capelli ramati tirati indietro in
una coda di cavallo. Era vestita da caccia, con un paio di
leggings e una corta veste grigia scintillante, e stringeva in
mano un arco bianco. Aveva un volto bellissimo, sereno e
freddo come la luna d’inverno.
Incoccò una freccia d’argento e incrociò lo sguardo di
Hazel, chiedendo il permesso di finire la sua preda. Hazel
annuì e si fece da parte.
La giovane mirò Tarquinio. «Tu, rivoltante coso non-
morto» disse, con voce dura e vibrante di potere. «Quando una
donna ti abbatte, faresti meglio a rimanere abbattuto.»
La sua freccia si conficcò al centro della fronte di
Tarquinio, spaccando l’osso in due. Il re si irrigidì. Le volute
di gas purpureo crepitarono e si dissolsero. Dal punto
d’ingresso della freccia, una piccola onda di fuoco del colore
dei fili d’argento di Natale si propagò dal teschio di Tarquinio
a tutto il corpo, disintegrandolo completamente. La corona
d’oro del re, la freccia d’argento e la spatha di Hazel caddero a
terra.
Sorrisi alla nuova venuta. «Ehi, sorella.» Poi stramazzai su
un fianco.
Il mondo si fece vaporoso, con tutti i colori sbiaditi. Non mi
faceva più male niente.
Ero vagamente consapevole della faccia di Diana che
incombeva su di me, con Meg e Hazel che sbirciavano da
dietro le sue spalle.
«È quasi andato» disse Diana.
E a quel punto me ne andai davvero. La mia mente scivolò
in una pozza di gelide, viscide tenebre.
«Oh no, non ci provare.» La voce di mia sorella mi svegliò di
colpo.
Stavo così bene nella non-esistenza.
La vita mi tornò in corpo: fredda, pungente e ingiustamente
dolorosa. Misi a fuoco la faccia di Diana. Sembrava scocciata.
Tipico.
Quanto a me, mi sentivo sorprendentemente bene. Il dolore
alla pancia era sparito. I muscoli non mi bruciavano più.
Respiravo senza difficoltà. Dovevo aver dormito una vita.
«Quanto tempo sono rimasto svenuto?» gracidai.
«Più o meno tre secondi» mi rispose Diana. «Su, alzati, non
farla tanto lunga.» E mi aiutò a mettermi in piedi.
Ero un po’ instabile, ma fui felicissimo di scoprire che le
mie gambe avevano un briciolo di forza. La mia pelle non era
più grigia. Le tracce di infezione erano sparite. Tenevo ancora
in mano la Freccia di Dodona, ma si era ammutolita, forse per
timore reverenziale al cospetto della dea. O forse stava ancora
cercando di togliersi dalla bocca immaginaria il saporaccio di
Oh, Susanna.
Meg e Hazel erano lì vicino, malandate ma illese. Alcuni
amichevoli lupi grigi giravano intorno alle mie due amiche,
sbattendo il muso contro le loro gambe e annusando le loro
scarpe, che erano state in molti posti interessanti nel corso
della giornata. Aristofane ci squadrò dalla sua postazione
precaria in cima allo scaffale, decise che la cosa non gli
interessava e riprese a lavarsi.
Sorrisi raggiante a mia sorella. Era così bello vedere di
nuovo il suo cipiglio di disapprovazione, della serie: “Non-
riesco-a-credere-che-tu-sia-mio-fratello”. «Ti voglio bene»
dissi, con voce roca per l’emozione.
Lei sbatté le palpebre. Non sapeva come prendere le mie
parole. «Sei davvero cambiato.»
«Mi sei mancata!»
«Sì, ehm… okay. Ora sono qui. Perfino papà non ha potuto
opporsi a un’invocazione sibillina proveniente dalla Collina
dei Templi.»
«Ha funzionato, allora!» Sorrisi a Hazel e Meg. «Ha
funzionato!»
«Già» commentò Meg stancamente. «Ciao, Artemide.»
«Diana» precisò mia sorella. «Comunque ciao, Meg.» Per
lei, mia sorella ebbe un sorriso. «Sei stata brava, giovane
guerriera.»
Meg arrossì. Diede un calcio alla polvere di zombie sparsa
per terra e scrollò le spalle. «Oh, be’…»
Mi controllai lo stomaco, cosa piuttosto semplice visto che
avevo la maglietta a brandelli. Le bende erano svanite insieme
alla ferita purulenta. Era rimasta solo una sottile cicatrice
bianca. «Quindi… sono guarito?» La pancia flaccida mi
confermò che mia sorella non mi aveva fatto recuperare la mia
divina persona. Eh no, sarebbe stato chiedere troppo.
Diana inarcò un sopracciglio. «Be’, non sono la dea della
guarigione, ma sono sempre una dea. Credo di sapermi
occupare della bua del mio fratellino.»
«Fratellino?»
Fece un verso di scherno, poi si girò verso Hazel. «E tu,
centurione, come stai?»
Senza dubbio, Hazel era dolorante e irrigidita, ma si
inginocchiò e chinò la testa da brava romana. «Sto…» Esitò. Il
suo mondo era appena andato in frantumi. Aveva perso Frank.
Decise di non mentire alla dea. «Ho il cuore spezzato e sono
sfinita, mia signora. Ma ti ringrazio di essere venuta in nostro
soccorso.»
L’espressione di Diana si ammorbidì. «Sì. So che è stata
una nottata difficile. Forza, usciamo. È piuttosto soffocante
qui, e l’aria sa di ciclope bruciato.»
I sopravvissuti si stavano lentamente radunando in strada.
Forse un qualche istinto li aveva attratti lì, nel luogo della
sconfitta di Tarquinio. O forse erano solo venuti ad ammirare
sbigottiti il carro d’argento con le quattro renne dorate
parcheggiato davanti alla libreria.
Aquile giganti e falchi da caccia stavano appollaiati insieme
sui tetti. I lupi socializzavano con Annibale l’elefante e gli
unicorni armati. Legionari e cittadini di Nuova Roma si
aggiravano sotto shock.
In fondo all’isolato, insieme a un gruppo di sopravvissuti,
c’era Thalia Grace. Teneva una mano sulla spalla della nuova
vessillifera della legione, per confortarla mentre piangeva.
Indossava i suoi soliti jeans neri, e sul bavero del suo
giubbotto di pelle scintillavano le spille di bande punk. Un
cerchietto d’argento, il simbolo della luogotenente di
Artemide, splendeva tra i suoi capelli dritti e scuri. Dagli occhi
incavati e le spalle curve, intuii che sapeva della morte di
Jason. Forse lo sapeva già da qualche tempo, e aveva
attraversato la prima fase del lutto.
Trasalii per il senso di colpa. Avrei dovuto essere io a darle
la notizia. La parte codarda di me si sentì sollevata di non
dover sostenere l’urto iniziale della rabbia di Thalia. Il resto di
me si sentì malissimo per il sollievo che provavo.
Dovevo andare a parlarle. Poi, qualcosa attrasse la mia
attenzione tra la folla che osservava il carro di Diana. Dentro il
carro si era stipata più gente che in una limousine extralusso la
sera di Capodanno. In mezzo a tutte quelle persone c’era una
giovane spilungona con i capelli rosa.
Mi scappò di bocca un’altra risata del tutto inappropriata.
«Lavinia?»
Lei si voltò e mi sorrise. «Questo carro è fighissimo! Non
voglio scendere.»
Diana sorrise. «Bene, Lavinia Asimov, se vuoi restare a
bordo, dovrai diventare una Cacciatrice.»
«No, no!» Lavinia balzò giù come se le assi del pavimento
del carro fossero diventate di lava. «Senza offesa, mia signora,
ma mi piacciono troppo le ragazze. Cioè… mi piacciono
proprio. Non mi piacciono e basta. Cioè…»
«Capisco» sospirò Diana. «Ah, l’amore romantico. È una
piaga.»
«Lavinia, c-come hai…?» balbettai. «Dove sei…?»
«Questa giovane donna è responsabile della distruzione
della flotta del Triumvirato» intervenne Diana.
«Be’, ho avuto un sacco di aiuto» precisò Lavinia.
«PESCA!» esclamò una voce da qualche parte dentro il
carro.
Era così basso che non l’avevo notato prima, nascosto
com’era dietro la sponda laterale del carro e tutta quella gente,
ma ora Pesca si divincolò dalla ressa e riuscì a sbucare fuori.
Sorrideva con il suo ghigno migliore. Aveva il pannolino
ciondoloni. Le sue ali fronzute frusciavano. Si batté il petto
con i minuscoli pugni e ci guardò con aria molto soddisfatta di
sé.
«Pesca!» gridò Meg.
«PESCA!» concordò Pesca, e volò in braccio a Meg. Mai si
era visto un ricongiungimento così agrodolce tra una ragazzina
e il suo spirito della frutta. Vi furono lacrime e risate, abbracci
e graffi, e “Pesca!” gridati in ogni tono possibile, dal
rimprovero alla mortificazione fino alla gioia più pura.
«Non capisco» dissi, rivolgendomi a Lavinia. «Sei stata tu a
sabotare quei mortai?»
«Be’, sì. Qualcuno doveva pur fermare la flotta.» Lavinia
sembrò quasi offesa. «Sono stata molto attenta durante le
lezioni sulle armi d’assedio e quelle sull’abbordaggio. Non è
stato così difficile. Ci è voluta solo un po’ di prontezza di
riflessi e abilità.»
Hazel riuscì finalmente a chiudere la bocca spalancata.
«Non è stato così difficile?»
«Eravamo motivati! I fauni e le driadi sono stati
eccezionali.» Lavinia si interruppe, rannuvolandosi per un
attimo come se si fosse appena ricordata di una cosa
sgradevole. «Ehm… e anche le nereidi ci hanno aiutato molto.
C’era un solo equipaggio di scheletri a bordo di ogni yacht.
Non tipo dei veri e propri scheletri, ma… avete capito. E poi,
guardate!» Si indicò orgogliosamente i piedi, che sfoggiavano
le scarpette da ballo di Tersicore prelevate direttamente dalla
collezione privata di Caligola.
«E così… hai organizzato un attacco anfibio contro una
flotta nemica per… un paio di scarpe» constatai.
Lavinia sbuffò. «Mica solo per questo, è ovvio.» Eseguì un
numero di tip-tap degno della finale più agguerrita di un talent
show. «Anche per salvare il campo e gli spiriti della natura e la
squadra speciale di Michael Kahale.»
Hazel sollevò le mani come per frenare la valanga di
informazioni. «Aspetta. Non vorrei fare la guastafeste –
insomma, sei stata fantastica – ma hai comunque abbandonato
la tua posizione, Lavinia. Io non ti ho certamente dato il
permesso…»
«Stavo eseguendo gli ordini del pretore» replicò Lavinia,
con orgoglio. «Anzi, anche Reyna ci ha aiutato. È stata fuori
combattimento per un po’, doveva riprendersi, ma si è
svegliata in tempo per instillare in noi il potere di Bellona, un
attimo prima che abbordassimo le navi. Ci ha reso tutti forti e
furtivi e via dicendo.»
«Reyna?» strillai. «Dov’è?»
«Qui» gridò la figlia di Bellona.
Non so come avessi fatto a non vederla. Era nascosta in
mezzo al gruppo di sopravvissuti che parlavano con Thalia.
Forse mi ero concentrato troppo su Thalia, e sulle domande
che non potevo fare a meno di pormi nel vederla (mi avrebbe
ucciso? Me lo meritavo?).
Reyna si avvicinò zoppicando sulle grucce. La gamba rotta
era ingessata e coperta di firme tipo Felipe, Lotoya e Achillea
Millefoglie. Considerato tutto quello che aveva passato, aveva
un aspetto fantastico, anche se le mancava ancora una ciocca
di capelli per via dell’attacco dei corvi, e il suo cardigan viola
aveva urgente bisogno di trascorrere qualche giorno nella
magica lavanderia a secco più vicina.
Thalia sorrise, guardando la sua amica che veniva verso di
noi. Poi incrociò il mio sguardo, e il suo sorriso si spense. Si
incupì. Mi fece un cenno secco col mento – non ostile, solo
triste – come a dire che avevamo delle cose di cui parlare
dopo.
Hazel sospirò. «Grazie agli dei.» Abbracciò Reyna con
delicatezza, stando bene attenta a non farle perdere
l’equilibrio. «È vero che Lavinia stava eseguendo i tuoi
ordini?»
Reyna lanciò un’occhiata alla nostra amica dai capelli rosa.
L’espressione affranta del pretore diceva qualcosa tipo: “Senti,
ti stimo, ma ti odio anche perché avevi ragione tu”. «Sì» riuscì
a dire. «Il piano L è stato una mia idea. Lavinia e i suoi amici
hanno eseguito i miei ordini. Si sono comportati in modo
eroico.»
Lavinia sorrise raggiante. «Visto? Te l’avevo detto.»
Un mormorio sbigottito si sparse tra la folla, come se, dopo
una giornata piena di meraviglie, avessero finalmente assistito
a qualcosa di inspiegabile.
«Ci sono stati tanti eroi ed eroine oggi» dichiarò Diana. «E
tante perdite. Mi dispiace solo che non ce l’abbiamo fatta ad
arrivare prima. Siamo riuscite a incontrarci con le forze di
Lavinia e Reyna solo dopo il loro raid. Ah, poi sì, abbiamo
distrutto la seconda ondata di non-morti che stavano
aspettando nelle fogne.» Fece un gesto noncurante con la
mano, come se annientare le forze di ghoul e zombie di
Tarquinio fosse stato solo un dettaglio.
Oh dei, quanto mi mancava essere un dio.
«Hai salvato anche me» dissi. «Sei qui. Sei davvero qui.»
Diana mi prese la mano e la strinse forte. Fu una stretta
calda, umana. Non ricordavo l’ultima volta che mia sorella mi
aveva dato una dimostrazione così chiara di affetto.
«Aspettiamo a festeggiare» ci avvisò. «Avete tanti feriti di
cui prendervi cura. I medici del campo hanno allestito delle
tende fuori dalla città. Avranno bisogno di tutti i guaritori,
incluso te, fratello.»
Lavinia storse la bocca. «E dovremo celebrare altri funerali.
Oh, dei. Vorrei…»
«Guardate!» urlò Hazel, con la voce di un’ottava più alta
del solito.
Arion stava risalendo al trotto la collina, con una corpulenta
sagoma umana a penzoloni sulla groppa.
«Oh, no.» Mi si strinse il cuore. Ebbi un flashback di
Tempest, il destriero ventus, che depositava il corpo di Jason
sulla spiaggia di Santa Monica. No, non potevo guardare.
Eppure non riuscivo a distogliere lo sguardo.
Il corpo sulla groppa di Arion era immobile e fumante.
Arion si fermò, e la sagoma scivolò giù di lato. Ma non cadde.
Frank Zhang si reggeva sulle proprie gambe. Si girò verso
di noi. I capelli erano ridotti a una cortissima ombra nera e
bruciacchiata. Non aveva più le sopracciglia. I suoi vestiti
erano completamente bruciati, tranne le mutande e il mantello
da pretore. La somiglianza con Capitan Mutanda era piuttosto
imbarazzante.
Si guardò intorno con gli occhi vitrei. «Ehi, gente!»
gracidò. E poi cadde faccia a terra.
40

Basta lacrime!

Sennò mi servono dotti

Lacrimali nuovi

Le priorità cambiano quando ti precipiti al pronto soccorso con


un amico ferito.
Non sembrava più importante che avessimo vinto una
grande battaglia o che io potessi finalmente depennare
Diventare uno zombie dalla lista degli impegni sulla mia
agenda. L’eroismo di Lavinia e le sue nuove scarpe da ballo
furono momentaneamente dimenticate. Anche il mio senso di
colpa per la presenza di Thalia fu messo da parte. Non ci
scambiammo neanche un saluto quando lei venne a prestare
soccorso insieme a tutti gli altri.
Non notai neppure che mia sorella, che era stata al mio
fianco solo pochi attimi prima, era svanita alla chetichella. Mi
ritrovai a sbraitare ordini ai legionari: «Grattugiatemi altro
avorio di unicorno! Procuratemi del nettare, presto! Correre,
correre, correre! Portate Frank Zhang alla tenda dei medici!».
Io e Hazel rimanemmo al capezzale di Frank fino all’alba,
parecchio tempo dopo che gli altri medici ci avevano
assicurato che era fuori pericolo. Nessuno riusciva a spiegarsi
come fosse sopravvissuto, ma il polso era forte, la pelle
incredibilmente priva di ustioni e i polmoni puliti. I fori di
freccia sulla spalla e la ferita da pugnale nell’addome ci
avevano procurato qualche problema, ma ormai erano stati
ricuciti e bendati e stavano guarendo bene. Frank aveva il
sonno agitato, borbottava e muoveva le mani come se cercasse
ancora di strangolare una gola imperiale.
«Dov’è il suo pezzetto di legno?» si preoccupò Hazel.
«Dobbiamo cercarlo? Se è andato perso nel…»
«Non credo» risposi. «L’ho visto bruciare. È stato questo
che ha ucciso Caligola. Il sacrificio di Frank.»
«Allora come…?» Hazel si portò un pugno alla bocca per
bloccare un singhiozzo. Quasi non osava porre la domanda.
«Se la caverà?»
Non avevo risposte da darle. Anni prima, Giunone aveva
decretato che la durata della vita di Frank era legata a quel
bastoncino. Non ero presente quando aveva pronunciato le
parole esatte – evito di starle vicino più del necessario – ma
aveva detto qualcosa a proposito del potere di Frank e del fatto
che avrebbe reso onore alla sua famiglia e via dicendo, anche
se la sua vita sarebbe stata breve e brillante. Anche le Parche
avevano decretato che il giorno in cui quel pezzo di legno
fosse bruciato, Frank sarebbe morto. Eppure il legnetto era
sparito, ma Frank era ancora vivo. Dopo averlo custodito per
così tanti anni, lo aveva bruciato di proposito per…
«Forse è finita così» mormorai.
«Cosa?» chiese Hazel.
«Frank ha preso il controllo del proprio destino» affermai.
«L’unica altra persona che io abbia mai conosciuto ad avere
questo, ehm… questo problema con un pezzetto di legno, ai
vecchi tempi, è stato un principe che si chiamava Meleagro.
Sua madre aveva ricevuto lo stesso tipo di profezia quando lui
era piccolo. Ma non gli disse mai niente. Nascose il bastoncino
e gli lasciò vivere la sua vita. Da grande, divenne una specie di
moccioso viziato e arrogante.»
Hazel prese la mano di Frank tra le sue. «Frank non
potrebbe mai essere così.»
«Lo so» replicai. «In ogni caso, Meleagro finì per uccidere
un mucchio di parenti. Sua madre era inorridita. Andò a
cercare il pezzo di legno e lo gettò nel fuoco. Boom. Fine della
storia.»
Hazel rabbrividì. «È orribile.»
«Il punto è che la famiglia di Frank è stata onesta con lui.
Sua nonna gli ha raccontato della visita di Giunone. Ha messo
la sua vita nelle sue mani, non ha cercato di proteggerlo dalla
dura verità. Ed è stato questo a plasmarlo.»
Hazel annuì. «Sapeva quale sarebbe stato il suo destino.
Come doveva essere il suo destino, in ogni caso. Ancora non
capisco come…»
«È solo un’ipotesi» ammisi. «Frank è entrato nel tunnel
sapendo che poteva morire. Si è sacrificato volontariamente
per una nobile causa. Nel farlo, si è liberato di quel destino.
Bruciando il pezzo di legno, è come se lui… non so, come se
avesse dato origine a un nuovo fuoco. È responsabile del
proprio destino, adesso. Be’, né più né meno di come lo siamo
tutti. L’unica altra spiegazione a cui riesco a pensare è che
Giunone lo abbia liberato dalla sentenza delle Parche.»
Hazel aggrottò la fronte. «Giunone che fa un favore a
qualcuno?»
«Non è da lei, concordo. Ha un debole per Frank, però.»
«Aveva un debole anche per Jason.» La voce di Hazel si
fece tesa. «Non che io mi stia lamentando del fatto che Frank
sia vivo, ovvio. È solo che…»
Non c’era bisogno che finisse la frase. Il fatto che Frank
fosse sopravvissuto era una cosa meravigliosa. Un miracolo.
Ma in qualche modo faceva apparire la perdita di Jason ancora
più ingiusta e dolorosa. Come ex dio, conoscevo tutte le solite
risposte alle lamentele dei mortali sull’ingiustizia della morte.
La morte fa parte della vita. Devi accettarla. La vita non
avrebbe significato senza la morte. I defunti saranno sempre
vivi finché li ricorderemo. Ma come mortale, come amico di
Jason, non trovavo grande consolazione in questi pensieri.
Frank borbottò qualcosa e sbatté a più riprese le palpebre.
Poi aprì gli occhi.
«Oh!» Hazel gli gettò le braccia al collo, soffocandolo in un
abbraccio. Non era il trattamento medico più azzeccato per
qualcuno che aveva appena ripreso conoscenza, ma lasciai
correre.
Frank riuscì a darle delle lievi pacche sulla schiena. «Non
respiro…» gracchiò.
«Oh, scusa.» Hazel si scostò, asciugandosi una lacrima
sulla guancia. «Avrai sete, scommetto.» Frugando cercò la
borraccia e la piegò verso la bocca di Frank, che a fatica bevve
qualche sorso di nettare.
«Ah.» Il figlio di Marte ringraziò con un cenno del capo.
«Allora… siamo… a posto?»
Hazel singhiozzò. «Sì. Sì, siamo a posto. Il campo è salvo.
Tarquinio è morto. E tu… tu hai ucciso Caligola.»
Frank sorrise debolmente. «È stato un piacere.» Si girò
verso di me. «Mi sono perso il dolce?»
«Eh?»
«Il tuo compleanno. Ieri.»
«Ehm… Devo ammettere che me ne sono completamente
dimenticato. Anche della torta.»
«Quindi potrebbe ancora esserci una torta nel nostro futuro.
Bene. Ti senti più vecchio di un anno, almeno?»
«Ci puoi scommettere.»
«Mi hai fatto prendere uno spavento, Frank Zhang» disse
Hazel. «Mi si è spezzato il cuore quando ho pensato…»
Frank la guardò con occhi miti come una pecorella (senza
trasformarsi in una pecora, va detto). «Mi dispiace, Hazel.
Solo che…» Incurvò le dita come per catturare una farfalla
sfuggente. «Era l’unico modo. Ella mi ha rivelato alcuni versi
della profezia, riservati a me… Gli imperatori potevano essere
fermati soltanto dal fuoco appiccato con un preziosissimo
tizzone sul ponte che porta al campo. Ho intuito che si riferisse
al Caldecott Tunnel. Ha detto che Nuova Roma aveva bisogno
di un nuovo Orazio.»
«Orazio Coclite» ricordai. «Bel tipo. Difese Roma tenendo
lontano, da solo, un intero esercito sul ponte Sublicio.»
Frank annuì. «Ho… ho chiesto a Ella di non dirlo a
nessuno. È come se avessi dovuto… digerire la cosa,
tenermela dentro per un po’.» D’istinto si portò una mano alla
cintura, ma il sacchetto di pelle non c’era più.
«Hai rischiato di morire» disse Hazel.
«Sì. La vita ha valore solo perché ha una fine, figliolo.»
«È una citazione?» domandai.
«Di mio padre» rispose Frank. «E aveva ragione. Dovevo
solo essere disposto a correre il rischio.»
Rimanemmo in silenzio per un attimo, soffermandoci a
riflettere sull’enormità del rischio che aveva corso Frank, o
forse solo stupiti che Marte avesse detto una cosa saggia.
«Come hai fatto a sopravvivere al fuoco?»
«Non lo so. Ricordo Caligola che si inceneriva. Sono
svenuto, ho pensato di essere morto. Poi mi sono svegliato in
groppa ad Arion. E adesso sono qui.»
«Ne sono felice.» Hazel lo baciò sulla fronte, con tenerezza.
«Ma ti ammazzo comunque dopo per avermi fatto prendere
uno spavento del genere.»
Frank sorrise. «Giusto. Potrei avere un altro…?»
Forse stava per dire “bacio” o “sorso di nettare” o anche
“momento da solo con il mio migliore amico, Apollo”. Ma,
prima che riuscisse a concludere la frase, roteò gli occhi e
cominciò a russare.
Non tutte le mie visite al capezzale dei malati furono
altrettanto felici.
Durante la mattinata, cercai di vedere quanti più feriti
possibile.
A volte non potei fare altro che restare a guardare i corpi
che venivano preparati per il lavaggio anti-zombie e gli ultimi
riti. Tarquinio era morto, e i suoi ghoul sembravano essersi
dissolti insieme a lui, ma nessuno voleva correre rischi.
Dakota, a lungo centurione della Quinta Legione, era morto
durante la notte a causa delle ferite riportate combattendo in
città. Decidemmo all’unanimità che la sua pira funeraria
avrebbe avuto l’aroma del Super Fresh.
Jacob, l’ex vessillifero della legione nonché mio ex allievo
di tiro con l’arco, era morto al Caldecott Tunnel, colpito in
pieno dallo spray acido di un myrmeke. L’aquila d’oro era
sopravvissuta, come tendono a fare gli oggetti magici, ma non
Jacob. Terrel, la ragazza che aveva afferrato lo stendardo
prima che colpisse terra, gli era rimasta accanto finché non era
morto.
Tantissimi altri erano deceduti. Riconoscevo i loro volti,
anche se ne ignoravo i nomi. Mi sentivo responsabile per
ognuno di loro. Se avessi fatto di più, se avessi agito più
rapidamente, se mi fossi comportato in modo più divino…
La visita più difficile fu quella che feci a Don il fauno. Era
stato portato lì da una squadra di nereidi che lo aveva
recuperato dal naufragio delle navi imperiali. Nonostante il
pericolo, Don era rimasto a bordo per assicurarsi che il
sabotaggio fosse andato a buon fine. A differenza di quanto
era accaduto a Frank, le esplosioni di fuoco greco avevano
devastato il povero Don. Gran parte della pelliccia sulle sue
gambe era stata distrutta dal fuoco. Aveva la pelle ustionata.
Nonostante la miglior musica guaritrice che i suoi amici fauni
potessero suonare per lui, e sebbene fosse ricoperto di una
sostanza medicamentosa scintillante, doveva provare un dolore
tremendo. Solo i suoi occhi erano rimasti gli stessi: azzurri,
luminosi ed estremamente mobili.
In ginocchio accanto a lui, Lavinia gli teneva la mano
sinistra, che per qualche motivo era l’unica parte del corpo
rimasta illesa. Un gruppo di driadi e fauni aspettava poco
lontano, a rispettosa distanza, insieme a Pranjal, il guaritore,
che aveva già fatto tutto quello che poteva.
Quando Don mi vide, fece una smorfia, i denti macchiati di
cenere. «E-ehi, Apollo. Hai degli… degli spiccioli?»
Ricacciai indietro le lacrime. «Oh, Don, mio dolce e
stupido fauno.»
Mi inginocchiai al suo capezzale, dalla parte opposta di
Lavinia. Esaminai la mostruosa situazione di Don, sperando
contro ogni logica di trovare qualcosa da curare, qualcosa che
fosse sfuggito agli altri guaritori, ma ovviamente non c’era
niente. Il fatto che Don fosse sopravvissuto tanto a lungo era
un miracolo.
«Non soffro molto» disse con voce aspra. «Il dottore mi ha
dato della roba per il dolore.»
«Una fantastica bibita alla ciliegia» intervenne Pranjal.
Annuii. Era davvero un potente antidolorifico per i satiri e i
fauni, da somministrare solo nei casi più gravi, per timore che
i pazienti ne diventassero dipendenti.
«Io… io volevo solo…» gemette Don, con gli occhi ancora
più luminosi.
«Risparmia le forze» lo supplicai.
«Per cosa?» Fece una risata grottesca e gracchiante.
«Volevo sapere: fa male? La reincarnazione?»
Avevo gli occhi troppo annebbiati per vedere bene. «Io… io
non mi sono mai reincarnato, Don. Diventare umano come ho
fatto io è diverso, credo. Ma ho sentito dire che la
reincarnazione è una cosa pacifica. Una cosa bella.»
Le driadi e i fauni fecero un cenno di assenso, anche se le
loro espressioni tradivano un misto di paura, tristezza e
disperazione: non erano il miglior team pubblicitario del
Grande Ignoto.
Lavinia mise le mani a coppa intorno alle dita del fauno.
«Sei un eroe, Don. Sei un grande amico.»
«Ehi… figo!» Sembrava che lui avesse difficoltà a
individuare il volto di Lavinia. «Ho paura, Lavinia.»
«Lo so, amico.»
«Spero… chissà se torno sotto forma di cicuta! Una pianta
davvero tosta, eh?»
Lavinia annuì, con labbra tremanti. «Sì. Sì, nel modo più
assoluto.»
«Figo… Ehi, Apollo, sai… sai qual è la differenza tra un
fauno e un satiro…?» Fece un sorriso un po’ più ampio, come
se fosse pronto a sferrare una battuta. La faccia gli si bloccò
così. Il torace smise di muoversi.
Le driadi e i fauni cominciarono a piangere. Lavinia baciò
la mano del fauno, poi si sfilò una gomma dalla borsa e la fece
scivolare religiosamente nel taschino della maglietta di Don.
Un attimo dopo, il corpo di Don crollò con una sorta di
sospiro di sollievo, sbriciolandosi in terriccio fresco. Nel punto
in cui prima c’era il cuore, spuntò un minuscolo virgulto.
Riconobbi subito la forma di quelle foglioline minuscole. Non
erano cicuta. Erano alloro, la pianta che avevo creato dalla
povera Dafne e le cui foglie avevo deciso di trasformare in
ghirlande. L’alloro, l’albero della vittoria.
Una delle driadi mi lanciò un’occhiata. «Sei stato tu?»
Scossi la testa. Ingoiai il saporaccio che avevo in bocca.
«L’unica differenza tra un satiro e un fauno è quello che noi
vediamo in loro» dissi. «E quello che loro vedono in se stessi.
Piantate questo albero in un luogo speciale» chiesi alle driadi.
«Abbiatene cura e lasciatelo crescere in salute e in altezza.
Questo era Don il fauno, un eroe.»
41

Odiatemi pure

Ma non datemi botte

Sulla pancia, eh!

I giorni successivi furono difficili quasi quanto la battaglia


stessa. La guerra lascia dietro di sé una confusione enorme che
non si può lavare via con un secchio e uno straccio.
Rimuovemmo le macerie e puntellammo gli edifici più
danneggiati e precari. Spegnemmo i fuochi, quelli veri e quelli
figurati. Terminus era sopravvissuto alla battaglia, anche se era
debole e scosso. Il suo primo annuncio fu che stava
formalmente adottando la piccola Julia. La bambina sembrava
felicissima, anche se io non sapevo bene come funzionasse la
legge romana sulle adozioni da parte delle statue. Tyson ed
Ella furono rintracciati: erano sani e salvi. Quando Ella seppe
che dopotutto non avevo incasinato l’evocazione, annunciò
che sarebbe tornata in libreria insieme a Tyson per ripulire il
caos, finire i Libri Sibillini e dare da mangiare al gatto, non
necessariamente in quest’ordine. Oh, ed era anche grata che
Frank fosse vivo. Quanto a me… ebbi la sensazione che stesse
ancora prendendo una decisione.
Pesca ci lasciò di nuovo per andare ad aiutare le driadi e i
fauni locali, ma ci promise: «Pesca», che secondo me
significava che lo avremmo rivisto presto.
Con l’aiuto di Thalia, Reyna in qualche modo riuscì a
trovare Mono-Occhio e Orecchie Mozzate, i pegasi del carro
degli imperatori. Si rivolse a loro con toni suadenti,
garantendo la guarigione, e li convinse a tornare con lei al
campo, dove trascorse gran parte del proprio tempo a fasciargli
le ferite e a procurargli buon cibo e tanta aria aperta. Gli
animali capirono che Reyna era un’amica del loro progenitore
immortale, il grande Pegaso in persona. Dopo quello che
avevano passato, dubitai che si sarebbero fidati di chiunque
altro.
Non contammo i morti. Non erano numeri. Erano persone
che avevamo conosciuto, amici con i quali avevamo
combattuto.
Accendemmo le pire funerarie tutte in una notte, ai piedi
del tempio di Zeus, e condividemmo il tradizionale banchetto
in onore dei defunti con cui inviamo nel regno di Plutone i
nostri compagni caduti. I Lari si presentarono al gran
completo, finché il fianco della collina non divenne un campo
scintillante di luce violacea, con gli spiriti più numerosi dei
vivi.
Notai che Reyna si tenne in disparte, lasciando che fosse
Frank a officiare i riti. Il pretore Zhang aveva recuperato
rapidamente le forze. Con indosso l’armatura intera e il
mantello, fu lui a pronunciare l’elogio funebre. I legionari lo
ascoltarono con timore reverenziale, come si fa quando
l’oratore si è appena sacrificato in un’esplosione di fuoco e
poi, in qualche modo, ne è uscito vivo con le mutande e il
mantello intatti.
Anche Hazel diede una mano, passando tra i ranghi e
consolando chi piangeva o sembrava traumatizzato. Reyna
rimase ai margini della folla, appoggiata alle grucce, e fissava
con aria malinconica i legionari come se fossero persone care
che non vedeva da anni e che adesso riconosceva a stento.
Mentre Frank concludeva il discorso, una voce accanto a
me disse: «Ehi!».
Thalia Grace indossava la consueta mise nera e argento.
Alla luce delle pire funerarie, i suoi occhi blu elettrico si
fecero di un viola penetrante. Nel corso degli ultimi giorni
avevamo scambiato qualche parola, ma erano sempre state
chiacchiere superficiali: dove portare le provviste, come
aiutare i feriti. Avevamo evitato il discorso.
«Ehi» risposi, con voce roca.
Thalia incrociò le braccia e si mise a fissare il fuoco. «Non
ti incolpo di nulla, Apollo. Mio fratello…» Esitò, rinsaldando
il respiro. «Jason ha fatto le sue scelte. Gli eroi devono farlo.»
Per qualche motivo, il fatto che non mi accusasse mi fece
sentire ancora più colpevole e indegno. Argh, le emozioni
umane sono come filo spinato. Non c’è un modo sicuro per
afferrarle né superarle.
«Mi dispiace tantissimo» dissi infine.
«Sì. Lo so.» Thalia chiuse gli occhi come se stesse
ascoltando un suono in lontananza, un lupo che ululava nella
foresta, forse. «Ho avuto la lettera di Reyna qualche ora prima
che Diana ricevesse il tuo appello. Un’aura – una delle ninfe
della brezza – l’ha prelevata dalla posta e me l’ha portata di
persona. Una cosa estremamente pericolosa per lei, ma l’ha
fatto lo stesso.» Thalia toccò una delle spillette sul giubbotto:
Iggy and the Stooges, una band di diverse generazioni prima di
lei. «Siamo accorse il più in fretta possibile, però… ho avuto
un po’ di tempo per piangere, urlare e lanciare oggetti.»
Rimasi immobile. Avevo ricordi vividi di Iggy Pop che
lanciava burro di arachidi, cubetti di ghiaccio, angurie e altri
oggetti pericolosi ai fan durante i concerti. Trovavo Thalia di
gran lunga più minacciosa.
«È una cosa molto crudele» continuò. «Perdiamo qualcuno
e finalmente lo ritroviamo, solo per perderlo di nuovo.»
Mi domandai perché avesse parlato al plurale. Sembrava
stesse dicendo che io e lei condividevamo quell’esperienza, la
perdita dell’unico fratello o dell’unica sorella che avevamo.
Ma lei aveva sofferto molto più di me. Mia sorella non poteva
morire. Non potevo perderla per sempre.
Poi, dopo un attimo di disorientamento, come se mi fossi
all’improvviso trovato a testa in giù, mi resi conto che non
parlava di me. Parlava di Artemide-Diana.
Stava forse suggerendo che mia sorella sentiva la mia
mancanza, che aveva perfino pianto per me come Thalia aveva
pianto per Jason?
Thalia doveva aver letto la mia espressione. «La dea è fuori
di sé» disse. «Alla lettera, intendo. A volte si preoccupa così
tanto che si spacca in due, assumendo la forma greca e quella
romana, proprio davanti a me. Probabilmente si infurierà con
me perché te l’ho detto, ma ti ama più di chiunque altro al
mondo.»
Fu come se mi si fosse piantata una biglia in gola. Non
riuscivo a parlare, quindi mi limitai ad annuire.
«Diana non voleva lasciare il campo così alla svelta»
riprese Thalia. «Ma sai com’è. Gli dei non possono trattenersi.
Una volta passato il pericolo, non poteva rischiare di rimanere
oltre. Giove… papà non avrebbe approvato.»
Rabbrividii. Com’era facile dimenticare che quella giovane
donna era anche mia sorella. E Jason era mio fratello. Un
tempo non avrei preso in considerazione quel legame. “Sono
solo semidei” avrei detto. “Non la mia vera famiglia.”
Ormai trovavo quell’idea difficile da accettare, per un
motivo diverso. Non mi sentivo degno di quella parentela. Né
del perdono di Thalia.
Lentamente, il banchetto funebre cominciò a sciogliersi. I
Romani si allontanarono in ordine sparso a gruppetti di due o
tre, diretti a Nuova Roma, dov’era in corso uno speciale
raduno notturno al Palazzo del Senato. Purtroppo la
popolazione della valle si era talmente ridotta che quel solo
edificio era sufficiente a contenere l’intera legione e tutti i
cittadini di Nuova Roma.
Reyna si avvicinò zoppicando.
Thalia le sorrise. «Allora, pretore Ramírez-Arellano, sei
pronta?»
«Sì.» Reyna rispose senza esitazione, anche se non capivo
bene per che cosa dovesse essere pronta. «Ti dispiace se…?»
Indicò me.
Thalia afferrò la spalla dell’amica. «Certo. Ci vediamo al
Palazzo del Senato.» E scomparve nell’oscurità.
«Dai, Lester.» Reyna mi fece l’occhiolino. «Zoppica
insieme a me.»
Zoppicare fu facile. Anche se ero guarito, mi stancavo
facilmente. Non fu un problema camminare al ritmo di Reyna.
I suoi cani Aurum e Argentum non erano con lei, notai, forse
perché Terminus era contrario alla presenza di armi letali
dentro i confini della città.
Camminammo lentamente lungo la strada che portava dalla
Collina dei Templi a Nuova Roma. I legionari ci girarono al
largo, forse percependo che avevamo questioni private da
affrontare.
Reyna mi tenne sulle spine finché non raggiungemmo il
ponte sul Piccolo Tevere. «Volevo ringraziarti» disse.
Il suo sorriso somigliava a quello che aveva sulla collina
della Sutro Tower, quando le avevo proposto di essere la mia
ragazza. Il che non mi lasciava dubbi su ciò che intendeva
dire: non era “Grazie per avermi aiutato a salvare il campo”,
ma “Grazie per avermi fatto fare una bella risata”.
«Figurati» borbottai.
«Non intendo in senso negativo.» Accorgendosi del mio
sguardo dubbioso, Reyna sospirò e fissò il fiume buio, le
piccole onde che si tingevano d’argento al chiarore della luna.
«Non so se riesco a spiegarmi. Per tutta la vita, ho vissuto in
base alle aspettative degli altri. Devi essere questo. Devi essere
quello. Mi capisci?»
«Stai parlando con un ex dio. Avere a che fare con le
aspettative della gente è la descrizione del nostro lavoro.»
Reyna annuì. «Per anni, dovevo essere la brava sorella
minore di Hylla in una situazione familiare difficile. Poi,
sull’isola di Calipso, dovevo essere una serva obbediente. Poi
sono stata una piratessa per un po’. Poi una legionaria. Poi un
pretore.»
«Hai un curriculum notevole» ammisi.
«Ma per tutto il tempo in cui sono stata leader qui ho
cercato un partner. I pretori spesso fanno coppia fissa. Nella
condivisione del potere, ma anche in senso romantico»
aggiunse. «Ho pensato a Jason. Poi per un po’ a Percy
Jackson. Che gli dei mi aiutino, ho preso in considerazione
perfino Ottaviano.» Reyna rabbrividì. «Tutti hanno sempre
cercato di farmi mettere con qualcuno. Thalia. Jason. Gwen.
Perfino Frank. “Oh, sareste perfetti insieme! Ecco la persona
che fa per te!” Ma io non ho mai capito se era una cosa che
volevo davvero o se avevo solo la sensazione di doverla
volere. Le persone, con le migliori intenzioni, mi dicevano
cose tipo: “Oh, poverina! Meriti di avere qualcuno nella tua
vita. Esci con lui. Esci con lei. Esci con uno o una qualunque.
Trova la tua anima gemella”.» Mi guardò per vedere se la
seguivo. Le parole le uscivano di bocca infuocate, veloci,
come se le avesse trattenute troppo a lungo. «E poi l’incontro
con Afrodite. Quello mi ha incasinato di brutto. “Nessun
semidio guarirà il tuo cuore.” Che voleva dire?» Reyna scosse
la testa. «E poi, alla fine, sei arrivato tu.»
«Dobbiamo proprio riparlarne? Sono già abbastanza
imbarazzato.»
«Ma sei stato tu a farmelo capire. Quando mi hai proposto
di uscire insieme…» Reyna trasse un profondo respiro. «Santi
numi. Ho visto com’ero stata ridicola. Com’era ridicola tutta la
situazione. È stato questo a guarire il mio cuore: essere capace
di ridere di nuovo di me stessa, delle mie stupide idee sul
destino. Mi ha permesso di liberarmi, proprio come Frank si è
liberato del suo pezzo di legno. Non mi serve un’altra persona
per guarire il mio cuore. Non mi serve un partner… o meglio,
non fino a quando non lo vorrò io, quando sarò pronta e alle
mie condizioni. Non devo mettermi con qualcuno per forza né
devo prendere per buone le etichette di chiunque altro. Per la
prima volta dopo tanto tempo, ho la sensazione che mi sia
stato tolto un peso di dosso. Quindi grazie.»
«Ehm, prego?»
Reyna rise. «Non capisci? Afrodite ti ha istigato a farlo. Ti
ha convinto con l’inganno perché sapeva che eri l’unico al
mondo con un ego abbastanza grande da reggere un rifiuto.
Potevo riderti in faccia, e tu saresti guarito.»
«Uff.» Sospettai che avesse ragione sul fatto che Afrodite
mi aveva manipolato. Non ero così sicuro che alla dea
importasse se guarivo o meno, però. «Allora cosa significa
questo per te, esattamente? Che progetti ha il pretore Reyna?»
Mentre le facevo la domanda, mi resi conto di conoscere la
risposta.
«Vieni al Palazzo del Senato» disse. «Abbiamo in serbo
alcune sorprese.»
42

Chi vivrà, vedrà!

Intanto godetevi

La torta. Urrà!

La mia prima sorpresa: un posto a sedere in prima fila.


A Meg e a me furono assegnati i seggi d’onore accanto ai
senatori più anziani, ai più importanti cittadini di Nuova Roma
e ai semidei con bisogni speciali di accessibilità. Non appena
Meg mi vide, diede dei leggeri colpi sulla panca accanto a sé,
come se ci fossero altri posti in cui sedersi. La sala era
strapiena. In qualche modo, era rassicurante vederci lì tutti
insieme, anche se la popolazione era molto ridotta e la quantità
di bende bianche presenti era accecante quanto la neve in alta
quota.
Reyna entrò zoppicando dietro di me. L’intera assemblea si
alzò e attese in rispettoso silenzio che raggiungesse il posto da
pretore accanto a Frank. Lui la salutò con un cenno.
Quando si fu seduta, tutti la imitarono.
Reyna fece un gesto a Frank, come a dire: “Che il
divertimento abbia inizio”.
«Allora, richiamo all’ordine quest’assemblea straordinaria
della popolazione di Nuova Roma e della Dodicesima
Legione» esordì Frank rivolgendosi all’uditorio. «Il primo
punto all’ordine del giorno: un ringraziamento formale a tutti.
Siamo sopravvissuti grazie al gioco di squadra. Abbiamo
assestato un durissimo colpo ai nostri nemici. Tarquinio è
morto, davvero morto, finalmente. Due su tre degli imperatori
del Triumvirato sono stati annientati, insieme alla loro flotta e
alle loro truppe. Tutto questo ha avuto un costo molto alto. Ma
vi siete tutti comportati da veri Romani. Vedremo l’alba di un
nuovo giorno!»
Ci furono applausi, alcuni cenni di approvazione e una
manciata di “sì” e di “un nuovo giorno” gridati con esultanza.
Un tizio in fondo, che doveva essersi parecchio distratto nel
corso dell’ultima settimana, disse: «Tarquinio chi?».
«Secondo, voglio rassicurarvi che sono vivo e vegeto.»
Frank si diede una lieve pacca sul petto come a volerlo
dimostrare. «Il mio destino non è più legato a un pezzo di
legno, ed è una cosa bella. E se, per favore, poteste
dimenticarvi di avermi visto in mutande, ve ne sarei grato.»
Strappò qualche risata. Chi lo avrebbe detto che Frank
potesse essere buffo di proposito?
«Ora…» La sua espressione si fece seria. «È nostro dovere
informarvi di alcuni cambiamenti. Reyna?» La guardò con aria
interrogativa, come se si stesse domandando se sarebbe andata
davvero fino in fondo.
«Grazie, Frank.» Reyna si alzò e con lei, ancora una volta,
tutti i partecipanti all’assemblea che riuscivano a stare in piedi.
«Gente. Per favore.» Ci fece cenno di sederci. «È già
abbastanza difficile.»
Quando fummo tutti sistemati, Reyna scrutò le facce tra la
folla: tante, tantissime espressioni piene di apprensione e
tristezza. Sospettai che molti sapessero già quello che stava
per succedere.
«Sono pretore da tanto tempo» riprese Reyna. «È stato un
onore servire la legione. Abbiamo passato brutti quarti d’ora
insieme. Anni molto… interessanti.»
Una risatina nervosa. “Interessanti” era l’aggettivo perfetto.
«Ma è arrivato il momento che io mi faccia da parte»
continuò. «Per cui do le dimissioni come pretore.»
Un gemito di incredulità riempì la sala, come se fossero
appena stati assegnati compiti a casa un venerdì pomeriggio.
«È per motivi personali» continuò Reyna. «Tipo… la mia
salute mentale, per esempio. Ho bisogno di tempo per essere
Reyna Avila Ramírez-Arellano, per scoprire chi sono fuori
dalla legione. Ci potrebbe volere qualche anno, qualche
decennio o qualche secolo. E quindi…» Si tolse il mantello e il
distintivo da pretore e li porse a Frank. Poi chiamò: «Thalia?».
Thalia Grace avanzò lungo il corridoio centrale. Passando,
mi fece l’occhiolino. Si mise davanti a Reyna e disse: «Ripeti
dopo di me: “Prometto fedeltà alla dea Diana. Rinuncio alla
compagnia degli uomini, accetto la verginità eterna e mi
unisco alla Caccia”».
Reyna ripeté quelle parole. Non accadde niente di
visibilmente magico: niente tuoni né fulmini né lustrini
d’argento che piovevano dal soffitto. Ma Reyna aveva l’aria di
una persona a cui era appena stato concesso un prolungamento
della vita in prestito, come in effetti era: un’infinità di anni, a
interessi e anticipo zero.
Thalia le strinse una spalla. «Benvenuta nella Caccia,
sorella!»
Reyna sorrise. «Grazie.» Si girò verso la platea. «E grazie a
tutti voi. Viva Roma!»
La folla si alzò di nuovo e fece una standing ovation a
Reyna. Applaudirono e batterono i piedi così forte che temetti
che la cupola tenuta insieme dall’adesivo potesse crollarci
addosso.
Alla fine, quando Reyna si sedette in prima fila insieme alla
sua nuova leader Thalia (due senatori erano stati più che felici
di cedere loro il posto), tutti rivolsero di nuovo l’attenzione a
Frank Zhang.
«Bene, gente» Frank allargò le braccia. «Potrei ringraziare
Reyna per l’intera giornata. Ha dato così tanto alla legione… È
stata la miglior mentore e amica. Non potrà mai essere
sostituita. D’altro canto, ora sono quassù solo soletto, e
abbiamo un seggio vuoto da pretore. Per cui vorrei raccogliere
le candidature per…»
Lavinia cominciò a cantilenare: «HA-ZEL! HA-ZEL!».
La folla si unì alla svelta.
Hazel sgranò gli occhi. Tentò di resistere finché le persone
sedute accanto a lei non la tirarono in piedi a forza. A quanto
pareva, il suo fan club della Quinta Coorte si era preparato per
l’evenienza. Uno di loro estrasse uno scudo, su cui issarono
Hazel a mo’ di sella. La sollevarono in alto e la trasportarono
al centro della sala del Senato, girandola da una parte all’altra
e continuando a gridare: «HAZEL!».
Reyna applaudiva e gridava insieme a loro. Solo Frank
cercò di rimanere neutrale, anche se dovette nascondere il
sorriso dietro la mano chiusa a pugno.
«Okay, calmatevi» gridò infine il figlio di Marte. «Abbiamo
una candidatura. Ce ne sono altre…?»
«HAZEL! HAZEL!»
«Nessuna obiezione?»
«HAZEL! HAZEL!»
«Dunque riconosco la volontà della Dodicesima Legione. E
così, Hazel Levesque, sei eletta pretore!»
Altre acclamazioni sfrenate.
Mentre le venivano messi indosso il mantello e il distintivo
di Reyna e veniva condotta al seggio, Hazel era sbalordita.
Vedendo Hazel e Frank l’uno a fianco dell’altra, non potei
fare a meno di sorridere. Stavano benissimo insieme: erano
saggi, forti, coraggiosi. I pretori perfetti. Il futuro di Nuova
Roma era in buone mani.
«Grazie» riuscì a dire Hazel, dopo un po’. «Io… io farò
tutto il possibile per essere degna della vostra fiducia. Ma in
questo modo la Quinta Coorte rimane senza un centurione,
quindi…»
La Quinta Coorte cominciò a cantilenare all’unisono:
«LAVINIA! LAVINIA!».
«Che cosa?» La faccia di Lavinia divenne più rosa dei suoi
capelli. «Oh, no. Non sono una brava leader!»
«LAVINIA! LAVINIA!»
«È uno scherzo? Ragazzi, io…»
«Lavinia Asimov!» disse Hazel con un sorriso. «La Quinta
Coorte mi ha letto nel pensiero. Come mio primo atto da
pretore, per il tuo impareggiabile eroismo nella battaglia della
baia di San Francisco, ti promuovo centurione. A meno che il
mio collega pretore non abbia qualche obiezione.»
«Nessuna» disse Frank.
«Allora vieni avanti, Lavinia!»
Accompagnata da altri applausi e fischi, Lavinia si avvicinò
al rostrum e prese il nuovo distintivo. Abbracciò Frank e
Hazel; non era il consueto protocollo militare, ma nessuno
sembrò farci caso. Nessuno applaudì o fischiò più forte di
Meg. Lo so perché mi fece diventare sordo da un orecchio.
«Grazie, ragazzi» disse Lavinia, in tono solenne. «Allora,
Quinta Coorte, per prima cosa impareremo a ballare il tip-tap.
Poi…»
«Grazie, centurione» intervenne Hazel. «Puoi accomodarti,
adesso.»
«Che c’è? Non sto scherzando…»
«Passiamo al punto successivo del nostro ordine del
giorno!» disse Frank, mentre Lavinia tornava saltellando
scontrosamente (ammesso che le due cose insieme siano
possibili) al proprio posto. «Siamo consapevoli che alla
legione occorrerà del tempo per riprendersi. C’è tanto da fare.
Quest’estate ci occuperemo della ricostruzione. Parleremo con
Lupa per trovare altre reclute il più rapidamente possibile, in
modo da uscire da questo scontro più forti che mai. Ma, per il
momento, abbiamo vinto la nostra battaglia e dobbiamo
onorare due persone che l’hanno reso possibile: Apollo, noto
anche come Lester Papadopoulos, e la sua socia, Meg
McCaffrey!»
La folla applaudì così tanto che furono in pochi a sentire la
replica di Meg: «Padrona, non socia», cosa che comunque mi
stava benissimo.
Mentre ci alzavamo per accogliere i ringraziamenti della
legione, mi sentii stranamente a disagio. Ora che finalmente
c’era una folla che mi acclamava, avrei solo voluto mettermi a
sedere e coprirmi la testa con la toga. Avevo fatto così poco in
confronto a Hazel, Reyna o Frank, per non parlare di tutti
quelli che erano morti: Jason, Dakota, Don, Jacob, la Sibilla,
Arpocrate… e decine di altri.
Frank sollevò la mano per chiedere il silenzio. «Ora, so che
voi due avete un’altra lunga e difficile missione che vi aspetta.
C’è ancora un imperatore da prendere a calci nel podex.»
Mentre la folla ridacchiava, avrei voluto che il nostro
successivo incarico fosse semplice come lo aveva dipinto
Frank. C’era il podex di Nerone, certo… ma c’era in sospeso
anche la questioncella di Pitone, il mio vecchio nemico
immortale, che al momento occupava abusivamente il mio
antico luogo sacro a Delfi.
«E, a quanto mi risulta, voi due avete deciso di partire
domani mattina» continuò Frank.
«Davvero?» Mi si incrinò la voce. Mi ero immaginato di
trascorrere un paio di settimane di relax a Nuova Roma,
godendomi i bagni alle terme e magari una gara con le bighe.
«Sssh!» mi zittì Meg. «Sì, è così!»
La cosa non mi fece sentire per niente meglio.
«E poi, so che avete in programma di andare a trovare Ella
e Tyson all’alba» intervenne Hazel. «Per ricevere un aiuto
profetico sulla prossima fase della vostra missione.»
«Davvero?» strillai. L’unica cosa a cui riuscivo a pensare
era Aristofane che si leccava le parti basse.
«Ma stasera vogliamo onorare quello che voi due avete
fatto per il campo» disse Frank. «Senza il vostro aiuto, il
Campo Giove forse non sarebbe più qui. E così vorremmo
omaggiarvi con questi doni.»
Dal fondo della sala, il senatore Larry percorse il corridoio
centrale portando un grosso borsone sportivo. Mi domandai se
la legione ci avesse regalato una vacanza sugli sci al lago
Tahoe. Larry raggiunse il rostrum e posò la sacca a terra. Ci
frugò dentro, estrasse il primo regalo e me lo porse. «Un arco
nuovo!»
Larry aveva sbagliato mestiere a non fare il conduttore di
giochi televisivi a premi.
Il mio primo pensiero: “Oh, figo! Mi serviva proprio un
arco nuovo”.
Poi guardai più attentamente l’arma che avevo tra le mani,
e strillai incredulo: «Il mio arco!».
Meg sbuffò. «Ma certo. Te l’hanno appena dato.»
«No, voglio dire: è il mio mio. Quello originale, di
quand’ero una divinità!»
Sollevai l’arco perché tutti lo potessero ammirare estasiati:
un capolavoro di rovere chiara, con incisi sopra rampicanti
dorati che scintillavano alla luce come fossero in fiamme. La
sua linea curva era intrisa di potere. Se non ricordavo male, la
corda era intessuta di bronzo celeste e fili dei telai delle
Parche, che… caspita, da dove venivano? Non potevo certo
averli rubati io. L’arco non pesava quasi nulla.
«È rimasto per secoli nella stanza del tesoro dei Principia»
disse Frank. «Nessuno riesce a usarlo, è troppo pesante.
Credimi, l’avrei fatto se avessi potuto. Dato che in origine è
stato un tuo regalo alla legione, non potevamo che restituirtelo.
Con il ritorno della tua forza divina, abbiamo pensato che
avresti potuto farne buon uso.»
Non sapevo cosa dire. Di norma ero contrario ai regali
riciclati, ma in quel caso ero sopraffatto dalla gratitudine. Non
riuscivo a ricordare né quando né perché avessi donato
quell’arco alla legione – per secoli li avevo distribuiti come
cotillon alle feste – ma ero senz’altro contento di riaverlo. Tesi
la corda senza alcuna fatica. O la mia forza era più divina di
quanto mi fossi reso conto, o l’arco mi riconosceva come suo
legittimo proprietario. Oh, sì. Potevo fare dei bei danni con
quel gioiellino.
«Grazie» dissi.
Frank sorrise. «Mi dispiace solo che nel magazzino non
avevamo nessun ukulele da guerra.»
Dagli spalti, Lavinia brontolò: «E io che glielo avevo fatto
riparare così bene!».
«Ma abbiamo un regalo per Meg» intervenne Hazel,
ignorando accuratamente il suo nuovo centurione.
Larry frugò ancora nella sacca da Babbo Natale e tirò fuori
una borsa di seta nera delle dimensioni di un mazzo di carte.
Resistetti all’impulso di gridare: “AH! Il mio regalo è più
grande!”.
Meg sbirciò dentro la borsa e rimase senza fiato. «Semi!»
Quella non sarebbe stata la mia reazione, ma lei sembrava
veramente soddisfatta.
Leila, figlia di Cerere, gridò dalle tribune: «Meg, sono semi
molto antichi. Ci siamo ritrovati tutti, noi giardinieri del
campo, e li abbiamo raccolti per te nei silos della nostra serra.
Sinceramente, non so bene cosa diventeranno, ma ti divertirai
a scoprirlo! Spero che tu li possa usare contro l’ultimo
imperatore».
Meg non riuscì a trovare le parole. Annuì e sbatté le
palpebre per ringraziare, con il labbro tremante.
«Bene, allora!» concluse Frank. «So che abbiamo già
mangiato al funerale, ma dobbiamo festeggiare la promozione
di Hazel e Lavinia, augurare a Reyna il meglio per le sue
nuove avventure e salutare Apollo e Meg. E, naturalmente,
abbiamo una torta di compleanno per Lester! La festa è nella
sala della mensa!»
43

Ricchi cotillon!

Un viaggio infernale

E un bel cupcake!

Non so quale fu l’addio più difficile.


Alle prime luci dell’alba, Hazel e Frank vennero al caffè
per ringraziarci un’ultima volta. Dopodiché andarono a
svegliare la legione. Volevano far partire subito i lavori di
riparazione del campo per distogliere l’attenzione di tutti dalle
tante perdite subite e attutire lo shock generale. Vedendoli
allontanarsi insieme lungo la Via Praetoria, ebbi la certezza
che la legione stava per conoscere una nuova età dell’oro.
Come Frank, la Dodicesima Fulminata sarebbe risorta dalle
ceneri (indossando qualcosa di più delle mutande, vogliamo
sperare).
Pochi minuti dopo, Thalia e Reyna arrivarono con il branco
di lupi grigi, i levrieri di metallo e la coppia di pegasi salvati.
La loro partenza mi rattristava quanto quella di mia sorella, ma
conoscevo bene il modo di vivere delle Cacciatrici. Erano
sempre in viaggio.
Reyna mi diede un ultimo abbraccio. «Non vedo l’ora di
fare una lunga vacanza.»
Thalia rise. «Una vacanza? Mi dispiace dovertelo dire, ma
c’è un duro lavoro che ci aspetta! Sono mesi che seguiamo le
tracce della Volpe Teumessia nel Midwest, ma senza grandi
risultati.»
«Esatto» disse Reyna. «Una vacanza.» Diede a Meg un
bacio sulla testa. «Tieni in riga Lester, okay? Non lasciare che
si monti la testa soltanto perché ha un bell’arco nuovo.»
«Conta su di me» rispose Meg.
Purtroppo non avevo motivo di dubitarne.
Quando io e Meg lasciammo il caffè per l’ultima volta,
Bombilo pianse. Davvero. Dietro l’apparenza burbera, saltò
fuori che il barista bicefalo era un vero sentimentale. Ci diede
una decina di focaccine, una busta di caffè in grani, e ci ordinò
di andarcene prima che ricominciasse a frignare. Io presi in
consegna le focaccine. Meg, che gli dei mi aiutino, prese il
caffè.
Al cancello del campo c’era Lavinia ad aspettarci.
Masticava una gomma e lucidava il suo nuovo distintivo da
centurione. «Erano anni che non mi svegliavo così presto» si
lamentò. «Odierò fare l’ufficiale.» Ma la scintilla che aveva
negli occhi raccontava tutta un’altra storia.
«Te la caverai alla grande» disse Meg.
Quando Lavinia si chinò per abbracciarla, notai un’eruzione
cutanea che correva lungo la guancia sinistra e il collo della
signorina Asimov, coperta senza grande successo da un po’ di
fondotinta.
Mi schiarii la voce. «Sei per caso sgattaiolata fuori ieri sera
per vedere Quercia Velenosa?»
Lavinia arrossì in modo adorabile. «E allora? Mi dicono
che la carica di centurione mi rende molto attraente.»
Meg sembrò preoccupata. «Dovrai procurarti una buona
crema alla calamina se vuoi continuare a vederla.»
«Ehi, nessun rapporto è perfetto» replicò Lavinia. «Almeno
con lei so subito quali sono i problemi! Troveremo una
soluzione.»
Non avevo dubbi in merito.
Lavinia mi abbracciò e mi arruffò i capelli. «Farai meglio a
tornare a trovarmi. E vedi di non morire. Ti prendo a calci nel
sedere con le scarpe da ballo se muori.»
«Concetto afferrato» commentai.
Lavinia si lanciò in un ultimo numero di tip-tap con le
scarpe nuove, ci fece un gesto come a dire: “Adesso tocca a
voi”, e schizzò via per radunare la Quinta Coorte. Li aspettava
una lunga giornata di ballo.
Mentre la guardavo allontanarsi, mi meravigliai di quante
cose fossero accadute dalla prima volta in cui Lavinia Asimov
ci aveva accompagnati al campo, non molti giorni prima.
Avevamo sconfitto due imperatori e un re: una mano fortunata
anche nella partita di poker più agguerrita. Avevamo messo a
riposo le anime di un dio e di una sibilla. Avevamo salvato un
campo, una città e un bel paio di scarpe. Ma soprattutto io
avevo rivisto mia sorella, e lei mi aveva rimesso in salute… o
almeno in quello che passava per salute nel caso di Lester
Papadopoulos. Per dirla con le parole di Reyna, avevamo
aggiunto un bel po’ di voci alla nostra lista di “cose positive”.
Io e Meg ci stavamo imbarcando in quella che poteva essere la
nostra ultima missione con buone speranze e il morale
fiducioso… o almeno con una bella dormita alle spalle e una
decina di focaccine.
Facemmo un’ultima gita a Nuova Roma, dove Tyson ed
Ella ci stavano aspettando. Sopra l’entrata della libreria,
un’insegna dipinta di fresco proclamava: LIBRI CICLOPICI .
«Ehi!» gridò Tyson quando varcammo la soglia. «Venite!
Oggi ci sarà la nostra grande inaugurazione!»
«Grandiosa inaugurazione» lo corresse Ella, armeggiando
con un vassoio di cupcake e un mucchio di palloncini al banco
delle informazioni. «Benvenuti da Libri Ciclopici e Profezie
con annesso Gatto Arancione.»
«Non c’entrava tutto sull’insegna» si scusò Tyson.
«Doveva entrarci tutto» ribatté Ella. «Ce ne serve una più
grande.»
In cima al vecchio registratore di cassa, Aristofane
sbadigliò come se la cosa per lui fosse del tutto indifferente.
Portava un minuscolo cappellino da festa e aveva
un’espressione sul muso come a dire: “Indosso questo ridicolo
coso soltanto perché i semidei non hanno il telefonino con la
videocamera e Instagram”.
«I clienti potranno ricevere le profezie per le loro
missioni!» spiegò Tyson, indicandosi il torace, che era coperto
sempre più fittamente di versi sibillini. «E potranno anche
scegliere gli ultimi libri!»
«Io raccomando l’Almanacco del contadino del 1924» ci
disse Ella. «Ne volete una copia?»
«Ehm… magari la prossima volta» risposi. «Ci hanno detto
che avevate una profezia per noi, giusto?»
«Già, già.» Ella fece scorrere le dita lungo le costole di
Tyson, cercando i versi giusti.
Il ciclope ridacchiò, agitandosi tutto.
«Ecco» disse Ella. «Sopra la milza.»
Meraviglioso. La profezia della milza di Tyson.
Ella lesse ad alta voce:
«Figlio di Zeus, l’ultima sfida affronta
La torre di Neron due saliranno
Scaccia la bestia che ti reca onta.»
Rimasi in attesa.
Ella annuì. «Già, già. Ecco qui.» E tornò a occuparsi di
cupcake e palloncini.
«Non è possibile» mi lamentai. «Non ha nessun senso
poetico. Non è un haiku. Non è un sonetto. Non è… Oh.»
Meg mi guardò socchiudendo gli occhi. «Oh, cosa?»
«“Oh”, nel senso di “oh, no”.» Mi ricordai di un giovane
arcigno che avevo incontrato a Firenze nel Medioevo. Era
trascorso molto tempo, ma non dimentico mai chi inventa un
nuovo tipo di poesia. «È terza rima.»
«Che roba è?» domandò Meg.
«È la struttura metrica usata da Dante nella Divina
Commedia. Inferno, Purgatorio, Paradiso… hai presente? Tre
versi. Il primo e il terzo rimano. Il verso di mezzo rima con il
primo della terzina successiva.»
«Non capisco» commentò Meg.
«Voglio un cupcake» annunciò Tyson.
«“Affronta” e “onta” fanno rima» spiegai a Meg. «Il verso
di mezzo termina con “saliranno”. Questo ci dice che quando
troveremo la prossima strofa della profezia, sapremo che è
giusta se il primo e il terzo verso fanno rima con “saliranno”.
La terza rima è come un infinito festone di carta fatto di strofe,
tutte legate insieme.»
Meg aggrottò la fronte. «Ma non c’è una strofa successiva.»
«Qui no» concordai. «Dev’essere laggiù da qualche
parte…» Con la mano indicai vagamente verso est. «Siamo in
una caccia al tesoro. Questo è solo l’inizio.»
«Uff!» Come sempre, Meg aveva sintetizzato alla
perfezione la situazione in cui ci trovavamo.
Era molto “uff”. E poi non mi piaceva il fatto che lo
schema metrico della nostra nuova profezia fosse stato
utilizzato per la discesa nell’Inferno.
«La torre di Nerone» disse Ella, riposizionando l’espositore
dei palloncini. «New York, scommetto. Sì.»
Soffocai un piagnucolio.
L’arpia aveva ragione. Dovevamo tornare a New York,
dov’erano cominciati tutti i miei problemi. A Manhattan, in
centro, dove svettava lo splendido quartier generale del
Triumvirato. Dopodiché avrei dovuto affrontare la bestia che
mi recava onta. Sospettai che quel verso non si riferisse alla
Bestia, l’alter ego di Nerone, ma a una vera e propria bestia,
Pitone, il mio antico nemico. Non avevo idea di come avrei
fatto a raggiungerlo nella sua tana a Delfi, né tanto meno di
come avrei fatto a sconfiggerlo.
«New York.» Meg strinse i denti.
Sapevo quanto doveva costarle quel ritorno. Sarebbe stata
costretta a rimettere piede nella casa degli orrori del patrigno,
dov’era stata abusata emotivamente e mentalmente per anni.
Avrei voluto risparmiarle quella sofferenza, ma sospettavo che
Meg avesse sempre saputo che quel giorno sarebbe arrivato, e
come gran parte della sofferenza che aveva già affrontato, non
poteva fare altro che… be’, affrontarlo.
«Okay» disse Meg in tono deciso. «Come ci arriviamo?»
«Oh! Oh!» Tyson alzò una mano. Aveva la bocca ricoperta
di glassa di cupcake. «Io prenderei un razzo!»
Sgranai gli occhi. «Hai un razzo?»
La sua espressione si spense. «No.»
Guardai fuori dalle finestre panoramiche della libreria. In
lontananza, il sole sorgeva sopra il Monte Diablo. Quel
viaggio di migliaia di chilometri non poteva cominciare con un
razzo, perciò dovevamo trovare un altro modo. Cavalli?
Aquile? Un’auto con il pilota automatico programmata per
non volare giù dai cavalcavia dell’autostrada? Dovevamo
affidarci agli dei. (Qui inserire
AHAHAHAHAHAHAHAHAHAH.) E forse, se eravamo
molto fortunati, potevamo tornare dai nostri vecchi amici al
Campo Mezzosangue una volta rientrati a New York. Quel
pensiero mi infuse coraggio.
«Forza, Meg!» esclamai. «Abbiamo un sacco di chilometri
da fare. Dobbiamo trovare un altro mezzo.» Se ha gradito la
lettura di questo libro la preghiamo di venire a trovarci
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Guida alla lingua di Apollo

Ab Urbe condita: espressione latina per “dalla fondazione


della città”. Per un periodo, i Romani usarono l’acronimo AUC
per indicare gli anni trascorsi dalla fondazione di Roma.
Achille: il più potente tra i guerrieri greci che assediarono
la città di Troia. Straordinariamente forte, aveva un solo punto
debole: il tallone.
Ade: il dio greco della morte, delle pietre e dei metalli
preziosi. Governa gli Inferi. Forma romana: Plutone.
Afrodite: la dea greca dell’amore e della bellezza. Forma
romana: Venere.
Aquila della Dodicesima Legione: lo stendardo del
Campo Giove. L’icona d’oro di un’aquila in cima a un’asta
simboleggia il dio Giove.
Ares: il dio greco della guerra. Figlio di Zeus ed Era,
fratellastro di Atena. Forma romana: Marte.
Argentum: termine latino per “argento”. Il nome di uno dei
due levrieri automi di Reyna, capaci di individuare le
menzogne.
Argo II: trireme volante costruita dalla casa di Efesto al
Campo Mezzosangue per trasportare in Grecia i semidei della
Profezia dei Sette.
Arpia: creatura femminile alata che ghermisce le cose.
Arpocrate: il dio tolemaico del silenzio e dei segreti. Un
adattamento greco di Harpa-Khruti, Horus bambino, spesso
raffigurato nelle opere d’arte con l’indice sulle labbra, un gesto
che in realtà simboleggia l’infanzia.
Artemide: la dea greca della caccia e della luna. Figlia di
Zeus e Leto, gemella di Apollo. Forma romana: Diana.
Asclepio: il dio della medicina, figlio di Apollo. Il tempio a
lui dedicato era il centro di guarigione dell’Antica Grecia.
Forma romana: Esculapio.
Atena: la dea greca della saggezza. Figlia di Zeus. Forma
romana: Minerva.
Aurae (aura, sing.): ninfe della brezza.
Aurum: termine latino per “oro”. Il nome di uno dei due
levrieri automi di Reyna, capaci di individuare le menzogne.
Ave: latino per “salve”, un saluto romano.
Bacco: il dio romano del vino e dell’estasi. Figlio di Giove.
Forma greca: Dioniso.
Balista: arma d’assedio romana, capace di lanciare grandi
proiettili a una lunga distanza.
Bellona: la dea romana della guerra. Figlia di Giove e
Giunone.
Blemmi: creature prive di testa, con la faccia sul torace.
Bosco di Dodona: sede del più antico Oracolo greco,
secondo per importanza solo a quello di Delfi. Il fruscio degli
alberi forniva risposte ai sacerdoti e alle sacerdotesse che vi
soggiornavano.
Britomarti: la dea greca delle reti da caccia e da pesca.
Bronzo celeste: potente metallo magico, mortale per i
mostri, usato per creare armi brandite dagli dei greci e dai loro
figli semidei.
Cacciatrici di Artemide: gruppo di fanciulle fedeli ad
Artemide, dotate di abilità di caccia ed eterna giovinezza, a
patto di rifiutare gli uomini.
Caldecott Tunnel: autostrada a quattro corsie che taglia le
colline di Berkeley e collega Oakland a Orinda, in California.
Contiene un tunnel segreto custodito dai soldati romani che
conduce al Campo Giove.
Caligola: soprannome di Gaio Giulio Cesare Augusto
Germanico, terzo imperatore romano della dinastia giulio-
claudia. Famigerato per la crudeltà e le carneficine che ordinò
durante i quattro anni del suo governo, dal 37 al 41 dopo
Cristo, fu assassinato da alcuni soldati della guardia pretoriana
a seguito di una congiura di senatori e cavalieri.
Campo di Marte: il luogo dove si tengono le esercitazioni
e i giochi di guerra al Campo Giove: in parte campo di
battaglia, in parte area per le feste.
Campo Giove: il campo di addestramento dei semidei
romani, situato tra le colline di Oakland e quelle di Berkeley,
in California.
Campo Mezzosangue: il campo di addestramento dei
semidei greci, situato a Long Island, nello Stato di New York.
Centurione: ufficiale dell’esercito romano.
Cicerone: statista romano, famoso per la sua abilità
oratoria.
Ciclopi: razza primordiale di giganti, muniti di un solo
occhio in mezzo alla fronte.
Cinocefali: creature con corpo umano e testa di cane.
Circus Maximus: stadio progettato per le corse con i
cavalli e con i carri.
Cloaca Maxima: termine latino per “fogna grandissima”.
Collina dei Templi: luogo appena fuori dai confini di
Nuova Roma dove si trovano i templi dedicati a tutte le
divinità.
Colosseo: anfiteatro ellittico usato per le lotte fra i
gladiatori, i giochi di simulazione con i mostri e le finte
battaglie navali.
Commodo: Lucio Aurelio Commodo, figlio
dell’imperatore Marco Aurelio. Nominato imperatore dal
padre all’età di sedici anni, assunse il comando dell’impero a
diciotto, alla morte di Marco Aurelio. Governò Roma dal 180
al 192 dopo Cristo. Era un uomo megalomane e corrotto; si
considerava il Nuovo Ercole e si divertiva a uccidere animali e
a combattere contro i gladiatori al Colosseo.
Coorte: gruppo di quaranta legionari.
Coronide: figlia del re dei Lapiti. Amò Apollo e Ischi e
divenne madre di Asclepio.
Crono: il più giovane dei dodici Titani. Figlio di Urano e
Gea, padre di Zeus. Uccise il padre su richiesta della madre. È
signore del fato, delle messi, della giustizia e del tempo.
Forma romana: Saturno.
Dafne: una bella naiade che attrasse l’attenzione di Apollo.
Fu trasformata dagli dei in una pianta di alloro affinché
potesse sfuggire ad Apollo.
Decimazione: strumento di punizione militare nell’Antica
Roma, consistente nell’uccisione di un soldato ogni dieci, a
prescindere dal fatto che fosse colpevole o meno, in caso di
atti di ammutinamento o codardia.
Delo: isola greca nel Mar Egeo. Luogo di nascita di Apollo.
Demetra: la dea greca dell’agricoltura. Figlia dei Titani
Rea e Crono. Forma romana: Cerere.
Denarius (denarii, pl.): unità di valuta romana.
Diana: la dea romana della caccia e della luna. Figlia di
Zeus e Leto, gemella di Apollo. Forma greca: Artemide.
Dioniso: il dio greco del vino e dell’estasi. Figlio di Zeus.
Forma romana: Bacco.
Driadi: ninfe degli alberi.
Ecate: la dea della magia e dei crocicchi, in grado di
viaggiare liberamente tra il mondo degli umani, quello degli
dei e il regno dei morti. È raffigurata come triplice (giovane,
adulta e vecchia).
Efesto: il dio greco del fuoco, dei vulcani, degli artigiani e
dei fabbri. Figlio di Zeus ed Era, sposo di Afrodite. Forma
romana: Vulcano.
Elisio: il paradiso in cui venivano mandati gli eroi greci
quando gli dei concedevano loro l’immortalità.
Era: la dea greca del matrimonio. Moglie e sorella di Zeus,
matrigna di Apollo. Forma romana: Giunone.
Ermes: il dio greco dei viaggiatori e delle comunicazioni.
Guida degli spiriti dei morti. Forma romana: Mercurio.
Ettore: eroe troiano. Fu ucciso da Achille.
Eurynomoi (eurynomos, sing.): ghoul divoratori di
cadaveri. Vivono negli Inferi e sono controllati da Ade.
Euterpe: la musa della poesia lirica. Figlia di Zeus e
Mnemosine.
Fasces: ascia cerimoniale avvolta in un fascio di bastoncelli
di legno, spesso dotata di lama a forma di luna crescente
rivolta verso l’esterno. Il massimo simbolo di autorità
nell’Antica Roma.
Fauno: il dio romano delle selve. Forma greca: Pan.
Figli della Terra: una razza di giganti a sei braccia, detti
anche Gegenees.
Flegetonte: il Fiume di fuoco degli Inferi.
Foro: il centro della vita a Nuova Roma; una piazza con
statue e fontane costeggiata da botteghe e locali notturni.
Foschia: forza magica che impedisce ai mortali di vedere
gli dei, le creature mitiche e gli eventi soprannaturali
sostituendoli con cose che la mente umana può comprendere.
Fulminata: una legione romana sotto Giulio Cesare, il cui
emblema era un fulmine.
Fuoco greco: liquido verde e viscoso altamente esplosivo
usato come arma incendiaria nelle battaglie navali perché
capace di ardere anche nell’acqua.
Gamelione: settimo mese del calendario attico o ateniese
usato nell’antichità in Attica. Equivale più o meno a
gennaio/febbraio nel calendario gregoriano.
Gea: la dea greca della terra. Moglie di Urano e madre dei
Titani, dei giganti, dei ciclopi e di altre creature.
Germani: popolo tribale che si stabilì a ovest del fiume
Reno.
Giacinto: principe greco, figlio del re di Sparta e amante di
Apollo. Morì mentre tentava di far colpo su Apollo con la
propria abilità nel lancio del disco.
Giove: il dio romano del cielo e re degli dei. Forma greca:
Zeus.
Giulio Cesare: politico e condottiero romano. Divenne
dittatore di Roma, ponendo le basi per la fine della Repubblica
e la nascita dell’impero.
Grazie: le tre Cariti, ovvero Bellezza, Gioia e Abbondanza.
Figlie di Zeus.
Guerra dei Titani: nota anche come Titanomachia. Epico
conflitto decennale fra i Titani del Monte Otri e gli dei
dell’Olimpo, in seguito alla quale gli dei conquistarono il
trono.
Helios: titano, dio del sole. Figlio di Iperione e Teia.
Immortuos: termine latino per “non-morto”.
Inferi: il regno dei morti, dove le anime risiedono per
l’eternità. Governato da Ade.
Iride: la dea greca dell’arcobaleno, nonché messaggera
degli dei.
Jiangshi: termine cinese per “non-morto”.
Khromandae (khromanda, sing.): mostri umanoidi con
occhi grigi, pelliccia bionda irsuta e zanne canine, capaci di
comunicare soltanto con forti grida.
Labirinto: struttura sotterranea originariamente costruita
sull’isola di Creta da Dedalo per contenere il Minotauro.
Labirinto di fuoco: magico labirinto sotterraneo pieno di
rompicapi situato nella California del Sud. È un luogo
controllato dall’imperatore romano Caligola e da Medea, una
maga greca.
Lamia: termine latino per “non-morto”.
Lari: spiriti degli antenati, vegliano sulla casa e sulla
famiglia.
Legionario: soldato dell’esercito romano.
Lemuria: antico continente, adesso perduto, che un tempo
si riteneva fosse situato nell’Oceano Indiano.
Leto: la dea greca della maternità. Madre di Apollo e di
Artemide.
Libri Sibillini: raccolta di profezie in rima scritte in greco
antico.
Lictores: ufficiali che portavano i fasces e agivano come
guardie del corpo degli ufficiali romani.
Linea del Pomerio: il confine di Roma.
Lingua ammaliatrice: dono di Afrodite ai propri figli.
Consiste nella capacità di persuadere con la propria voce.
Luna: titana che si occupava della luna prima di Artemide.
Forma greca: Selene.
Lupa: l’animale sacro, spirito guardiano di Roma. Allattò
Romolo e Remo.
Manubalista: pesante balestra portatile romana.
Marte: il dio romano della guerra. Forma greca: Ares.
Medea: maga, seguace di Ecate. Figlia del re della
Colchide, Eeta, e nipote di Helios, il dio del sole. Moglie
dell’eroe Giasone, che aiutò a recuperare il Vello d’oro.
Meleagro: principe a cui le Parche predissero che sarebbe
morto quando si sarebbe consumato un tizzone. Quando sua
madre scoprì che Meleagro aveva ucciso i suoi due fratelli,
gettò il pezzo di legno nel fuoco, provocando la sua morte.
Meliadi: ninfe greche dei frassini, nate da Gea. Allevarono
Zeus a Creta.
Menadi: seguaci di Dioniso/Bacco, spesso associate alla
frenesia.
Mercurio: il dio romano dei viaggiatori e delle
comunicazioni. Guida degli spiriti dei morti. Forma greca:
Ermes.
Minerva: la dea romana della saggezza. Forma greca:
Atena.
Monte Olimpo: montagna greca. Casa delle dodici divinità
dell’Olimpo.
Muse: divinità greche della letteratura, della scienza e delle
arti, ispiratrici nei secoli di artisti e scrittori. Figlie di Zeus e
Mnemosine, da bambine ebbero Apollo per maestro. I loro
nomi sono: Calliope, Clio, Erato, Euterpe, Melpomene,
Polimnia, Talia, Tersicore, Urania.
Myrmekes (myrmeke, sing.): creature gigantesche simili a
formiche delle dimensioni di un pastore tedesco adulto.
Vivono in formicai enormi, dove custodiscono oro e altre cose
preziose. Sputano veleno e sono dotate di un’armatura
pressoché indistruttibile e di mandibole terribili.
Naiadi: spiriti dell’acqua.
Nereidi: spiriti del mare.
Nerone: fu imperatore romano dal 54 al 68 dopo Cristo,
l’ultimo della dinastia giulio-claudia. Fece giustiziare la madre
e la prima moglie. Molti ritengono che sia stato lui ad aver
appiccato l’incendio che distrusse Roma, ma Nerone diede la
colpa ai cristiani. Edificò un nuovo palazzo sul terreno
incendiato e perse il sostegno del popolo quando le spese di
costruzione lo costrinsero ad aumentare le tasse. Morì suicida.
Ninfe: divinità femminili della natura.
Nuntius: termine latino per “messaggero”.
Nuova Roma: comunità nei pressi del Campo Giove in cui
i semidei vivono insieme in pace, senza interferenze da parte
dei mortali e dei mostri.
Oliver Cromwell: puritano fervente e influente figura
politica, guidò l’esercito parlamentare durante la Guerra Civile
in Inghilterra (1599-1658).
Oracolo di Delfi: l’Oracolo più importante dell’Antica
Grecia. Trasmetteva le profezie di Apollo.
Orazio Coclite: mitico eroe romano che, secondo la
leggenda, difese da solo il ponte Sublicio sul Tevere
dall’esercito etrusco.
Oro imperiale: metallo raro, mortale per i mostri.
Consacrato al Pantheon, a Roma, la sua esistenza era un
segreto gelosamente custodito dagli imperatori.
Palazzo del Senato: l’edificio al Campo Giove dove i
senatori si incontrano per discutere questioni importanti come
l’inizio di una missione o una dichiarazione di guerra.
Pan: il dio greco delle selve. Figlio di Ermes. Forma
romana: Fauno.
Pandai (pandos, sing.): creature leggendarie con orecchie
gigantesche, otto dita alle mani e ai piedi e corpi coperti da
peli bianchi che diventano neri con l’età.
Parche: personificazioni del destino, dette anche Moire.
Controllano il filo della vita per ogni creatura vivente dalla
nascita alla morte. Cloto, tesse il filo della vita; Lachesi, la
misuratrice, ne determina la lunghezza; Atropo, lo taglia.
People’s Park: parco adiacente a Telegraph Avenue a
Berkeley, in California. Fu teatro di un importante scontro fra
gli studenti e la polizia nel maggio 1969.
Piccolo Tevere: il fiume che traccia il confine del Campo
Giove.
Pitone: serpente mostruoso che per ordine di Gea
sorvegliava l’Oracolo di Delfi.
Plutone: il dio romano della morte. Governa gli Inferi.
Forma greca: Ade.
Podex: termine latino per “fondoschiena”.
Poseidone: il dio greco del mare. Figlio dei Titani Crono e
Rea, fratello di Zeus e Ade. Forma romana: Nettuno.
Praetorium: alloggio destinato ai pretori al Campo Giove.
Pretore: magistrato romano, scelto per elezione, e
comandante dell’esercito.
Princeps: termine latino per “primo cittadino” o “primo in
linea”. I primi imperatori romani adottarono questo titolo, che
passò poi a significare “principe di Roma”.
Principia: quartier generale degli accampamenti militari
romani.
Probatio: il rango assegnato ai nuovi membri della legione
al Campo Giove.
Romolo: semidio figlio di Marte, gemello di Remo. Primo
re di Roma, fondò la città nel 753 avanti Cristo.
Satiro: divinità greca della foresta, in parte capra, in parte
uomo. Forma romana: fauno.
Saturnali: antica festività romana che si teneva a dicembre
in onore del dio Saturno, la forma romana di Crono.
Senato: consiglio di dieci rappresentanti eletti dalla legione
al Campo Giove.
Sibilla: sacerdotessa dotata di virtù profetiche ispirate da un
dio.
Sibilla Cumana: sacerdotessa di Apollo che presiedeva
l’Oracolo di Cuma.
Sibilla Eritrea: sacerdotessa di Apollo che presiedeva
l’Oracolo di Eritre, nella Ionia.
Siccae (sicca, sing.): spade corte e ricurve usate in battaglia
nell’Antica Roma.
Somme: battaglia della Prima guerra mondiale combattuta
dai britannici e dai francesi contro i tedeschi sul fiume
Somme, in Francia.
Somnus: il dio romano del sonno. Forma greca: Hypnos.
Spatha: spada della cavalleria romana.
Spolia opima: trofeo d’armi conquistato in singolar tenzone
uccidendo un generale nemico.
Stige: il fiume che delimita il confine tra il mondo mortale
e gli Inferi. Deve il suo nome alla dea dell’odio, una potente
ninfa d’acqua, figlia maggiore del titano del mare, Oceano.
Strigi: grossi uccelli del malaugurio che si nutrono di
sangue.
Sub rosa: termine latino per “sotto la rosa”, intendendo con
ciò “aver fatto giuramento di mantenere il segreto”.
Suburra: zona dell’Antica Roma altamente popolosa,
abitata dalle classi inferiori.
Summer of Love: raduno di più di 100.000 hippie o “figli
dei fiori” nel quartiere di Haight-Ashbury a San Francisco
durante l’estate del 1967. Lì i ragazzi si divertivano a suon di
arte, musica e pratiche spirituali ma protestavano anche contro
il governo e i valori materialistici.
Tarquinio: Lucio Tarquinio detto il Superbo fu il settimo e
ultimo re di Roma, di origine etrusca. Governò la città dal 535
al 509 avanti Cristo, quando, dopo una sollevazione popolare,
fu istituita la Repubblica.
Terminus: il dio romano dei confini.
Tersicore: la musa della danza.
Terza rima: struttura metrica costituita da strofe a tre versi
in cui il primo e il terzo verso rimano tra loro mentre il
secondo rima con il primo della strofa successiva.
Testuggine: formazione di battaglia in cui i legionari
romani univano gli scudi a formare una barriera.
Tevere: il terzo fiume più lungo di Italia, sulle cui sponde
fu fondata Roma. Nelle sue acque i Romani gettavano i
criminali giustiziati.
Titani: potenti divinità greche, discendenti di Gea e Urano.
Dominarono durante l’Età dell’Oro e furono spodestate da una
stirpe di divinità più giovani, gli dei dell’Olimpo.
Tolemaico: inerente ai sovrani greco-egizi che governarono
l’Egitto dal 323 al 30 avanti Cristo.
Trireme: nave da guerra greca a tre ordini di remi.
Triumvirato: alleanza politica formata da tre persone.
Troia: città preromana situata nell’odierna Turchia. Fu
teatro dell’omonima guerra intrapresa dagli Achei (Greci)
dopo che il principe troiano Paride aveva rapito Elena, moglie
del re di Sparta, Menelao.
Uccelli del lago Stinfalo: uccelli mostruosi che si nutrono
di uomini; sono dotati di becco a punta di bronzo celeste, in
grado di squarciare la carne. Possono anche scagliare le piume
contro le loro prede come se fossero frecce.
Urano: personificazione greca del cielo. Marito di Gea e
padre dei Titani.
Vappae: termine latino per “vino andato a male”.
Venere: la dea romana dell’amore. Forma greca: Afrodite.
Venti (ventus, sing.): spiriti della tempesta.
Via Praetoria: la strada principale all’interno del Campo
Giove.
Volpe Teumessia: gigantesca volpe mandata dagli dei
dell’Olimpo a devastare la città di Tebe come punizione per un
misfatto. La bestia era destinata a non venire mai catturata.
Vrykolakai (vrykolakas, sing.): termine greco per “non-
morto”.
Vulcano: il dio romano del fuoco, dei vulcani e dei fabbri.
Forma greca: Efesto.
Waystation: luogo di rifugio per semidei, mostri pacifici e
Cacciatrici di Artemide, situato sotto la Union Station a
Indianapolis.
Zeus: il dio greco del cielo, nonché re degli dei. Forma
romana: Giove.
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Le sfide di Apollo - 4. La tomba del tiranno
di Rick Riordan
Mappa illustrata da Kayley LeFaivre, riprodotta per accordo con Disney
Hyperion Books
L’illustrazione in sovraccoperta è di Daniele Gaspari.
Elementi grafici: © Volodymyr Tverdokhlib/Shutterstock, © SV
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© 2019 Rick Riordan
© 2019 Mondadori Libri S.p.A., Milano, per l’edizione italiana
Pubblicato per accordo con Gallt and Zacker Literary Agency
Titolo dell’opera originale: The Trials of Apollo 4. The Tyrant’s Tomb
Ebook ISBN 9788852096808
COPERTINA || ART DIRECTOR: FERNANDO AMBROSI | GRAPHIC
DESIGNER: DANIELE GASPARI
«L’AUTORE» || FOTO AUTORE: © MARTY UMANS

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