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Guida alla lingua di Apollo
Copyright.
Il libro
Carro funebre!
Non so correre
E masticare gomme
Insieme. E allora?
LAGO TEMESCAL
Basta dire no
Ciao a tutti
La mia canzone è:
Vado in guerra
Oh, i sogni.
Cari lettori, se siete stanchi di sentir parlare dei miei orribili
incubi semidivini, non ve ne farò una colpa. Pensate soltanto a
come mi sentivo io a sperimentarli in prima persona. Era come
se la Pizia di Delhi si fosse seduta per sbaglio sul proprio
cellulare e avesse continuato a chiamarmi per tutta la notte,
borbottando versi profetici che non avevo chiesto e che non
avevo nessuna voglia di ascoltare.
Vidi una fila di yacht di lusso che sfrecciava tra le onde
illuminate dalla luna sulla costa della California: cinquanta
imbarcazioni disposte in una V molto serrata, orlate di luci
lungo la prua, con i gagliardetti purpurei che schioccavano al
vento sulle torri di comando illuminate. I ponti pullulavano di
mostri d’ogni genere: ciclopi, centauri selvaggi, pandai dalle
grandi orecchie e blemmi con la faccia sul petto. Sul ponte di
poppa di ogni yacht, una piccola, litigiosa folla di creature
sembrava intenta a costruire qualcosa di simile a un capanno
o… a un’arma d’assedio.
Il mio sogno fece uno zoom sul ponte della nave di testa.
L’equipaggio si dava un gran daffare, controllava monitor e
regolava strumentazioni di bordo. Pigramente accomodati alle
loro spalle, su identiche poltroncine reclinabili dalla
tappezzeria dorata, c’erano due delle persone che amavo di
meno al mondo.
A sinistra sedeva l’imperatore Commodo. I pantaloncini
celesti mettevano in risalto i polpacci perfetti e abbronzati e i
piedi nudi curatissimi. Portava una felpa grigia con cappuccio
degli Indianapolis Colts aperta, a scoprire il petto e gli
addominali scolpiti. Aveva un bel coraggio a indossare quella
felpa, dopo l’umiliazione che gli avevamo inflitto proprio
nello stadio di Indianapolis soltanto poche settimane prima.
(Certo, avevamo umiliato anche noi stessi, ma a quello
preferivo non pensare.)
Il suo volto era quasi come lo ricordavo: fastidiosamente
bello, dal profilo altezzoso e cesellato, con i riccioli dorati a
incorniciare la fronte. La pelle intorno agli occhi tuttavia
sembrava ustionata. Aveva le pupille annebbiate. L’ultima
volta che ci eravamo incontrati, lo avevo accecato con
un’esplosione di fulgore divino, e a quanto pareva non era
ancora guarito. Fu l’unica cosa che mi piacque di quella scena.
Sull’altra poltroncina sedeva Gaio Giulio Cesare Augusto
Germanico, altrimenti noto come Caligola.
La rabbia tinse il mio sogno di un rosa sanguigno. Come
poteva starsene adagiato lì in assoluto relax, con quel ridicolo
completo da capitano – scarpe e pantaloni bianchi, giacca blu e
camicia a righe senza colletto, cappello da ufficiale poggiato
sulle ventitré sui riccioli castani – quando solo pochi giorni
prima aveva ucciso Jason Grace? Come osava sorseggiare una
bevanda ghiacciata e rinfrescante guarnita con tre ciliegie al
maraschino – Tre! Mostruoso! – sorridendo in modo così
compiaciuto?
Caligola sembrava abbastanza umano, ma sapevo bene che
non era il caso di attribuirgli una qualunque forma di
compassione. Quanto avrei voluto strangolarlo. Ma, ahimè,
non potevo fare altro che osservarlo con rancore.
«Pilota, a che velocità procediamo?» chiese pigramente.
«Cinque nodi, signore» rispose uno dei mortali in uniforme.
«Devo accelerare?»
«No, no.» Caligola spiccò una delle ciliegie al maraschino e
se la lanciò in bocca. Masticò e sorrise, mostrando i denti rossi
di succo. «Anzi, rallentiamo a quattro nodi. Il viaggio è metà
del divertimento!»
«Sissignore!»
Commodo si incupì. Fece roteare il ghiaccio nel bicchiere,
che conteneva un liquido chiaro e frizzante con dello sciroppo
rosso sul fondo. Aveva solo due ciliegie al maraschino, senza
dubbio perché Caligola non gli avrebbe mai permesso di
eguagliarlo in qualcosa.
«Non capisco perché ci muoviamo così lentamente»
brontolò. «Se fossimo andati al massimo, a quest’ora saremmo
già arrivati.»
Caligola ridacchiò. «Amico mio, è tutta una questione di
tempismo. Dobbiamo garantire al nostro alleato defunto la
migliore finestra d’attacco.»
Commodo rabbrividì. «Odio il nostro alleato defunto. Sei
sicuro che si possa controllare?»
«Ne abbiamo già parlato.» Il tono cantilenante di Caligola
era leggero e arioso e piacevolmente omicida, come a dire:
“La prossima volta che osi mettere in dubbio le mie parole,
controllerò te con un po’ di cianuro nel bicchiere”. «Devi
fidarti di me, Commodo. Ricorda chi è venuto in tuo soccorso
nel momento del bisogno.»
«Ti ho già ringraziato una decina di volte» replicò lui. «E
poi, non è stata colpa mia. Come facevo a sapere che Apollo
aveva ancora della luce in sé?» Strizzò dolorosamente le
palpebre. «Ti ha battuto… e ha battuto anche il tuo cavallo.»
Una nuvola attraversò il volto di Caligola. «Sì, be’, presto
pareggeremo i conti. Fra le tue truppe e le mie, abbiamo forze
più che sufficienti per sovrastare la malconcia Dodicesima
Legione. E se si mostreranno troppo testardi per arrendersi,
abbiamo sempre il Piano B.» Chiamò qualcuno dietro le sue
spalle. «Ehi, Boost?»
Un pandos accorse dal ponte di poppa, le enormi orecchie
pelose che sbatacchiavano come due tappeti. Fra le mani
stringeva un grosso foglio di carta, con i segni di numerose
piegature, come fosse una mappa o un foglio di istruzioni. «Sì,
Princeps?»
«Riferisci i progressi in corso.»
«Ah.» La faccia pelosa di Boost ebbe un fremito. «Buoni!
Sono buoni, padrone! Ancora una… settimana.»
«Una settimana» constatò Caligola.
«Be’, signore, queste istruzioni…» Boost capovolse il
foglio e lo guardò accigliato. «Stiamo ancora cercando di
individuare tutti gli “slot A” dei “pezzi numero sette”. E non ci
hanno mandato abbastanza dadi. E le batterie necessarie non
sono delle dimensioni standard, così…»
«Una settimana» ripeté Caligola, con lo stesso tono
amabile. «Eppure la luna di sangue sorgerà tra…»
Il pandos trasalì. «Cinque giorni.»
«Perciò avrete finito il lavoro tra cinque giorni? Ottimo!
Continuate.»
Boost deglutì, poi corse via a tutta velocità, per quanto gli
consentissero i suoi piedi pelosi.
Caligola sorrise al collega imperatore. «Vedi, Commodo?
Presto il Campo Giove sarà nostro. Con un po’ di fortuna,
anche i Libri Sibillini saranno nelle nostre mani. E a quel
punto avremo un potere di contrattazione adeguato. Quando
giungerà l’ora di affrontare Pitone e suddividerci il mondo,
ricorderai chi ti ha aiutato… e chi no.»
«Oh, me lo ricorderò. Stupido Nerone.» Con la cannuccia,
Commodo punzecchiò i cubetti di ghiaccio nel bicchiere.
«Come hai detto che si chiama questo cocktail? Shirley
Temple?»
«No, quello è il Roy Rogers. Il mio è lo Shirley Temple.»
«E sei sicuro che i guerrieri moderni bevano questa roba
prima di andare in battaglia?»
«Assolutamente» confermò Caligola. «Ora goditi il viaggio,
amico mio. Hai ben cinque giorni per migliorare la tua
abbronzatura e recuperare la vista. E poi ci gusteremo una
deliziosa carneficina sulla baia!»
La scena scomparve, e io precipitai in una gelida oscurità.
Mi ritrovai in una sala di pietra male illuminata e piena di
fetidi, gemebondi e irrequieti non-morti. Alcuni erano
avvizziti come mummie egizie. Altri sembravano quasi vivi,
se non si consideravano le orrende ferite che li avevano uccisi.
In fondo alla stanza, tra due colonne grezze, sedeva… una
presenza, avvolta in una foschia color magenta. Sollevò il
volto scheletrico, mi fissò con gli occhi ardenti di luce
purpurea – gli stessi occhi che il ghoul aveva posato su di me
nel tunnel – e scoppiò a ridere.
La ferita sul mio ventre si accese come una pista di polvere
da sparo.
Mi svegliai con un urlo straziante, scosso dai tremiti e
zuppo di sudore. Ero in una strana stanza.
«Anche tu?» chiese Meg.
Era in piedi accanto alla mia branda, e si sporgeva sul
davanzale di una finestra aperta armeggiando su una fioriera.
Le tasche della sua cintura da giardinaggio erano gonfie di
bulbi, pacchetti di semenze e attrezzi. In una mano infangata
stringeva una paletta. Ah, i figli di Demetra. Non puoi portarli
da nessuna parte senza che si mettano a giocare con la terra.
«Ch-che succede?» Cercai di mettermi a sedere, ma fu un
errore.
La ferita sulla pancia era davvero una pista infuocata di
dolore. Chinai lo sguardo e scoprii di essere avvolto in bende
che odoravano di erbe e unguenti. Se i guaritori del campo mi
avevano già medicato, perché la ferita mi faceva ancora così
male?
«Dove siamo?» gracidai.
«Al caffè.»
Anche per gli standard di Meg, era un’affermazione
ridicola.
La nostra stanza non era un caffè. Non c’era nessun
bancone, non c’erano macchine espresso, non c’era nessun
barista e non c’erano brioche. Era un semplice cubo intonacato
di bianco, con due brande accostate al muro e poste l’una di
fronte all’altra, una finestra aperta nel mezzo e una botola in
fondo, cosa che mi indusse a pensare che ci trovassimo a un
piano superiore. Poteva benissimo essere una cella, solo che
non c’erano sbarre alla finestra e la mia branda avrebbe dovuto
essere più comoda. (Sì, lo so per certo. Ho compiuto qualche
ricerca sul campo nella prigione di Folsom insieme a Johnny
Cash. Lunga storia.)
«Il caffè è di sotto» chiarì Meg. «Questa è la soffitta di
Bombilo.»
Ricordai il barista bicefalo con il grembiule verde che ci
aveva guardato male sulla Via Praetoria. Mi chiesi perché
fosse stato così gentile da offrirci un alloggio e perché, con
tutti i posti che c’erano, la legione avesse deciso di sistemarci
lì. «Ma di preciso, come mai ci…?»
«Spezia di Lemuria» rispose Meg. «Bombilo era il fornitore
più vicino. Serviva ai guaritori per la tua ferita.» Si strinse
nelle spalle – come a dire: “Guaritori, che ci vuoi fare?” –
quindi tornò a piantare i suoi bulbi.
Annusai le bende. Uno degli odori che riconobbi era in
effetti spezia di Lemuria. Roba efficace contro i non-morti,
anche se il Festival di Lemuria era a giugno ed eravamo
appena in aprile… Ah, non c’era da stupirsi che fossimo finiti
in un caffè. Ogni anno, gli esercizi commerciali sembravano
avviare la stagione di Lemuria un po’ prima. Caffellatte
speziato, muffin speziati… Come se non vedessimo l’ora di
festeggiare la stagione dell’esorcismo con dolcetti che
sapevano vagamente di fagioli e sepolcri impolverati. Slurp.
Di che altro sapeva l’unguento? Crochi, mirra, schegge
d’avorio di unicorno? Oh, quei guaritori romani erano bravi.
Allora perché non mi sentivo meglio?
«Non hanno voluto spostarti di nuovo» disse Meg. «Così
siamo rimasti qui. È a posto. Il bagno è di sotto. E il caffè è
gratis.»
«Tu non bevi caffè.»
«Ora sì.»
Rabbrividii. «Una Meg con la caffeina. Proprio quello che
mi serviva. Quanto tempo sono rimasto incosciente?»
«Un giorno e mezzo.»
«Cosa?!»
«Avevi bisogno di dormire. E poi, dai meno fastidio da
svenuto.»
Non avevo le energie per risponderle a tono. Mi strofinai
gli occhi, poi mi costrinsi a mettermi seduto, ricacciando
indietro il dolore e la nausea.
Meg mi studiò con preoccupazione: dovevo apparire
persino peggio di come mi sentivo. «Quanto fa male?» chiese.
«Sto bene» mentii. «Che volevi dire prima, quando mi hai
chiesto “anche tu”?»
L’espressione sul suo viso si chiuse come una saracinesca.
«Incubi. Mi sono svegliata urlando, un paio di volte. Tu te la
sei dormita, ma…» Meg sfilò un grumo di terra dalla paletta.
«Questo posto mi ricorda… lo sai.»
Come avevo fatto a non pensarci? Meg era cresciuta nella
dimora imperiale di Nerone, in mezzo a servitori che
parlavano latino e guardie in armatura romana, stendardi viola
e porpora e insegne del vecchio impero. Dopo
quell’esperienza, il Campo Giove non poteva che riportarle
alla mente ricordi sgraditi.
«Mi dispiace» le dissi. «Hai sognato… niente che dovrei
sapere?»
«Il solito.» Dal tono in cui lo disse, era chiaro che non
avrebbe approfondito il concetto. «E tu?»
Ripensai al mio sogno con i due imperatori che facevano
comodamente rotta verso di noi, bevendo cocktail guarniti di
ciliegine mentre le loro truppe assemblavano in fretta e furia
armi segrete ordinate all’IKEA .
“Il nostro alleato defunto.”
“Piano B.”
“Cinque giorni.”
Rividi quegli occhi ardenti di luce purpurea in una sala
piena di non-morti. I morti del re.
«Il solito» confermai. «Mi aiuti ad alzarmi?»
Era doloroso stare in piedi ma, se ero rimasto a letto per un
giorno e mezzo, volevo muovermi prima che i miei muscoli si
riducessero in pappa. E poi, cominciavo a rendermi conto di
avere fame e sete… e, per usare le parole immortali di Meg
McCaffrey, mi scappava la pipì. I corpi mortali sono una vera
seccatura.
Reggendomi forte al davanzale, mi affacciai a guardare
fuori. Sotto di me, i semidei si affaccendavano lungo la Via
Praetoria – chi per trasportare rifornimenti, chi per correre a
fare rapporto – in un concitato andirivieni tra le baracche e la
mensa. La cappa del lutto e dello shock sembrava svanita.
Tutti avevano un’aria impegnata e decisa.
Allungando il collo verso sud, riuscii a scorgere la Collina
dei Templi, che ferveva di attività. Le macchine d’assedio
erano state riconvertite in gru e scavatori. C’erano impalcature
ovunque. Rumori di martelli e pietre spaccate risuonavano per
tutta la valle. Dal punto in cui mi trovavo, riuscivo a
individuare almeno dieci nuovi piccoli templi più due grandi
che non esistevano ancora al nostro arrivo, e altri ancora erano
in costruzione.
«Caspita» mormorai. «Questi Romani non perdono tempo.»
«Stasera ci sarà il funerale di Jason» mi informò Meg.
«Cercano di finire i lavori in tempo.»
A giudicare dall’angolatura del sole, dovevano essere più o
meno le due del pomeriggio. Di quel passo, pensai che la
legione avrebbe avuto tutto il tempo di finire la Collina dei
Templi e magari pure di costruire un paio di stadi prima di
cena.
Jason ne sarebbe stato fiero. Avrei tanto voluto che fosse lì
a vedere con i suoi occhi quello che era riuscito a ispirare.
Un velo nero mi passò davanti agli occhi. Forse stavo per
svenire di nuovo?
Poi mi resi conto che qualcosa di nero mi era veramente
passato davanti agli occhi, attraversando la finestra. Mi voltai
e vidi un corvo seduto sulla mia branda.
Arruffò le penne color petrolio, scrutandomi con un
occhietto nero e malvagio. SQUAWK!
«Meg? Lo vedi anche tu?» domandai.
«Sì.» Non alzò nemmeno gli occhi dai suoi bulbi. «Ciao,
Frank! Come va?»
L’uccello mutò forma, plasmandosi a poco a poco in una
sagoma umana e corpulenta. Le penne si tramutarono in
vestiti, finché davanti a noi non sedette Frank Zhang, con i
capelli lavati e pettinati a dovere e una maglietta del campo al
posto della giacca del pigiama.
«Ciao, Meg» rispose, come se fosse normalissimo cambiare
specie durante una conversazione. «Tutto procede secondo i
piani. Sono passato soltanto a vedere se Apollo si era svegliato
e… ovviamente sì.» Mi salutò con un gesto imbarazzato della
mano. «Cioè, sì, sei sveglio. Visto che io, ehm, sono seduto
sulla tua branda. Forse dovrei alzarmi.» Si alzò, si aggiustò la
maglietta… e poi non seppe più dove mettere le mani.
Un tempo ero abituato al nervosismo dei mortali che
incontravo, ma in quel momento ci misi qualche attimo a
capire che Frank era intimorito da me. Forse, essendo un
mutaforma, faceva meno fatica della maggior parte degli altri
a credere che, nonostante le mie insipide sembianze mortali,
dentro di me ero ancora lo stesso dio del tiro con l’arco.
Visto? Ve l’avevo detto che Frank era adorabile.
«Comunque, io e Meg abbiamo parlato, fra ieri e oggi,
mentre tu eri svenuto… cioè, mentre eri in convalescenza…
cioè, mentre dormivi, ecco» disse il figlio di Marte. «Va bene
così, eh. Avevi bisogno di dormire. Spero che tu stia meglio.»
Mi sentivo uno straccio, ma non potevo non sorridere. «Sei
stato molto gentile con noi, pretore Zhang. Grazie.»
«Ehm, figurati. È un… ehm, un onore, considerato che
sei… che eri…»
«Bah! Frank…» Meg alzò gli occhi dalla sua fioriera. «È
soltanto Lester. Non trattarlo come se fosse chissà chi.»
«E dai, Meg. Se Frank vuole trattarmi come chissà chi…»
«Frank, diglielo.»
Il pretore guardò prima lei e poi me un paio di volte, come
per accertarsi che il Meg&Apollo Show fosse finito. «Allora,
Meg mi ha spiegato la profezia che avete ricevuto nel
Labirinto di fuoco. Apollo si troverà di fronte alla morte nella
tomba di Tarquinio se la porta che conduce alla divinità
ammutolita non sarà aperta dalla figlia di Bellona, giusto?»
Rabbrividii. Non volevo che mi si ricordassero quelle
parole, soprattutto considerati i miei sogni, e quell’accenno al
fatto che avrei affrontato la morte. Già fatto, grazie. Avevo
pure una bella ferita come souvenir.
«Sì» confermai debolmente. «Immagino che abbiate già
capito cosa significhi e intrapreso le azioni necessarie,
giusto?»
«Ehm, non proprio» rispose Frank. «Ma la profezia, in
effetti, ha risposto ad alcune domande a proposito di… be’, di
alcune delle cose che sono successe da queste parti. Ha dato a
Ella e Tyson informazioni sufficienti per lavorare. Pensano di
avere una pista.»
«Ella e Tyson…» Scavai nel mio fumoso cervello mortale.
«L’arpia e il ciclope che stanno cercando di ricostruire i Libri
Sibillini.»
«Proprio loro» confermò Frank. «Se te la senti, pensavo che
potremmo farci un giro per Nuova Roma.»
7
Stracolmo di dolore
Auguri, Lester!
Non me la sentivo.
Mi faceva malissimo la pancia. Mi reggevo a malapena in
piedi. Anche dopo avere usato il bagno, essermi lavato, vestito
e nutrito con un caffellatte e un muffin speziati del nostro
scorbutico ospite Bombilo, non capivo come sarei riuscito a
farmi i due chilometri a piedi o giù di lì per arrivare a Nuova
Roma.
Non avevo alcun desiderio di scoprire altro sulla profezia
del Labirinto di fuoco. Non volevo affrontare altre sfide
impossibili, tanto meno dopo il sogno di quella cosa nella
tomba. Non volevo neppure essere un umano. Ma, ahimè, non
avevo scelta.
Come dicono i mortali? Stringi i denti? Ecco. Diciamo che
li strinsi parecchio.
Meg rimase al campo. Aveva un appuntamento per dare da
mangiare agli unicorni con Lavinia di lì a un’ora, e aveva
paura di perderlo allontanandosi troppo. Data la reputazione di
Lavinia di sparire senza permesso, pensai che fosse una
preoccupazione ragionevole.
Frank mi condusse oltre il cancello principale. Le sentinelle
scattarono sull’attenti. Dovettero restarci piuttosto a lungo,
considerato che mi muovevo alla velocità di uno sciroppo
freddo. Mi accorsi che mi studiavano con preoccupazione,
forse perché temevano che potessi lanciarmi in un’altra
canzone straziante, o forse perché non riuscivano ancora a
credere che un tempo quel malridotto e zoppicante esemplare
di adolescente fosse il dio Apollo.
Il pomeriggio era in puro stile californiano: cielo turchese,
erba dorata che si increspava sulle colline, eucalipti e cedri che
frusciavano nella brezza tiepida. Uno spettacolo che avrebbe
dovuto scacciare qualunque pensiero di gallerie buie e ghoul
raccapriccianti, eppure non riuscì a togliermi dal naso l’odore
di sepolcro impolverato. Il caffellatte speziato servì a poco.
Frank teneva il mio passo, restandomi vicino a sufficienza
nel caso mi sentissi troppo malfermo e volessi appoggiarmi a
lui, ma non insistette per aiutarmi.
«Allora, che succede fra te e Reyna?» esordì infine.
Inciampai, infliggendomi nuove fitte di dolore nella pancia.
«Cosa? Niente.»
Frank gettò via una penna di corvo che gli era rimasta
impigliata nel mantello. Mi chiesi come funzionasse quella
faccenda, di preciso. Ritrovarsi addosso residui sparsi della
forma precedente… Gli capitava mai di buttare via una piuma
e accorgersi soltanto dopo che… Ops! Ho appena gettato via
un mignolo?
Avevo sentito dire che Frank era in grado di trasformarsi
addirittura in uno sciame di api. Perfino io, un’ex divinità
abituata a trasformarsi di continuo, non avevo idea di come ci
riuscisse.
«È solo che… quando hai visto Reyna, sei rimasto di
sasso» disse. «Non so, come se ti fossi appena ricordato che le
devi dei soldi o roba del genere.»
Dovetti trattenere una risata amara. Magari il mio problema
con Reyna fosse stato così semplice.
L’evento mi era tornato in mente con chiarezza cristallina:
Afrodite che mi rimproverava e mi metteva in guardia,
dandomi una lavata di capo come solo lei sapeva fare. “Non
oserai avvicinarti a lei con la tua indegna, brutta faccia divina,
o giuro sullo Stige che…”
E naturalmente lo aveva fatto nella sala del trono, al
cospetto di tutti gli altri dei dell’Olimpo, che se la spassavano
nel modo più crudele gridando “Oooh!”. Anche mio padre si
era unito al coro. Ogni secondo della scena gli era piaciuto
tantissimo.
Rabbrividii.
«Non succede niente fra me e Reyna» risposi onestamente.
«Avremo scambiato al massimo due parole.»
Frank mi studiò in viso. Si rese conto che stavo tacendo
qualcosa, ma non insistette. «Okay. Be’, la vedrai stasera al
funerale. Sta cercando di dormire un po’, adesso.»
Stavo quasi per chiedergli come mai dormisse in pieno
pomeriggio, ma poi ricordai che Frank indossava la giacca del
pigiama quando l’avevamo incontrato all’ora di cena. Era
successo davvero due giorni prima?
«Fate a turno» intuii. «Così uno di voi due è sempre in
servizio. Giusto?»
«È l’unico modo» confermò Frank. «Siamo ancora in
massima allerta. Tutti sono sul chi vive. C’è stato così tanto da
fare dopo la battaglia…»
Aveva pronunciato la parola “battaglia” come aveva fatto
Hazel, come se fosse un punto di svolta unico e inconfondibile
della storia.
Come tutte le profezie che io e Meg avevamo ricevuto
durante le nostre avventure, l’incubo predetto nella Profezia
Oscura riguardo al Campo Giove era scolpito nella mia mente:
Parole memorabili prendon fuoco
Pria che sul Diavol sorga luna nuova.
Il Tevere di corpi sarà il loco
Se il mutaforma affronterà la prova.
Dopo averla udita, Leo Valdez si era precipitato ad
attraversare il Paese sul suo drago di bronzo, nella speranza di
avvisare il campo. Secondo Leo, era arrivato appena in tempo,
ma i Romani avevano comunque dovuto pagare un prezzo
carissimo.
Frank dovette comprendere la mia espressione addolorata.
«Sarebbe andata peggio se non fosse stato per te» disse,
facendomi sentire ancora più in colpa. «Se non avessi mandato
Leo ad avvisarci. Si è presentato qui un giorno all’improvviso,
calando dal cielo.»
«Dev’essere stato uno shock. Anche voi pensavate che
fosse morto…»
Gli occhi scuri di Frank scintillarono come se fossero
ancora quelli di un corvo. «Sì. Eravamo così infuriati con lui
per averci fatto preoccupare, che ci siamo messi in fila per
picchiarlo a turno.»
«Anche noi al Campo Mezzosangue» replicai. «I Greci
l’hanno presa allo stesso modo.»
«Mmm…» Frank spostò lo sguardo verso l’orizzonte.
«Abbiamo avuto circa ventiquattr’ore per prepararci. È
servito. Ma non è stato abbastanza. Sono venuti da laggiù.»
Indicò a nord verso le colline di Berkeley. «Non finivano mai.
Non so come altro dirlo. Avevo già combattuto contro dei non-
morti, ma questi…» Scosse la testa. «Hazel li ha chiamati
zombie. Mia nonna li avrebbe chiamati jiangshi. I Romani
hanno un sacco di parole per definirli: immortuos, lamia,
nuntius.»
«Messaggero» dissi, traducendo l’ultima parola. Mi era
sempre sembrato un termine strano. Messaggero di chi? Non
di Ade. Lui odia quando i cadaveri se ne vanno a zonzo per il
mondo mortale. Gli fanno fare la figura del guardiano
distratto.
«I Greci li chiamano vrykolakai» dissi. «Di solito, è raro
vederne anche solo uno.»
«Erano centinaia» riprese Frank. «Insieme a decine di
quelle altre creature spettrali, gli eurynomoi, che facevano da
mandriani. Li abbiamo abbattuti. Ma continuavano a spuntarne
altri. Ti immagineresti che un drago sputafuoco possa
cambiare i giochi, ma anche per Festus c’è stato un limite. I
non-morti non sono infiammabili come si potrebbe pensare.»
Ade me lo aveva spiegato una volta, in uno dei suoi
famigerati e goffi tentativi di parlare del più e del meno. Le
fiamme non sono un deterrente per i non-morti. Gli zombie si
limitano ad attraversarle, e se diventano un po’ più
bruciacchiati per questo, pazienza. Ecco perché Ade non usa il
Flegetonte, il Fiume di fuoco, come confine del suo regno.
L’acqua corrente tuttavia è un’altra storia, soprattutto le acque
magiche e oscure dello Stige.
Studiai la corrente luccicante del Piccolo Tevere. D’un
tratto, uno dei versi della Profezia Oscura acquistò un senso.
«Il Tevere di corpi sarà il loco. Li avete fermati al fiume.»
Frank annuì. «A quelle creature non piace l’acqua fresca. È
stato così che abbiamo rovesciato le sorti della battaglia. Ma i
corpi a cui si riferisce la profezia non sono solo quelli che
pensi.»
«Che vuoi dire?»
«ALT!» gridò una voce proprio davanti a me.
Ero così assorto nella storia di Frank, che non mi ero reso
conto di quanto fossimo ormai vicini alla città. Non avevo
nemmeno notato la statua sul ciglio della strada finché non mi
aveva urlato contro.
Terminus, il dio dei confini, era proprio come lo ricordavo.
Dalla vita in su, era un uomo finemente cesellato: naso grosso,
capelli ricci e un’espressione scorbutica (forse perché nessuno
gli aveva mai scolpito un paio di braccia). Dalla vita in giù, era
un blocco di marmo bianco. Ai bei tempi, lo prendevo in giro
suggerendogli di provare i jeans skinny, perché fanno
sembrare più magri. Da come mi guardava, se lo ricordava
pure lui.
«Bene, bene» disse. «Chi è che abbiamo qui?»
Sospirai. «Terminus, non possiamo andare oltre?»
«No!» abbaiò. «No, non possiamo. Documenti, prego.»
Frank si schiarì la voce. «Ehm, Terminus…» Si picchiettò
gli allori da pretore sul pettorale dell’armatura.
«Sì, pretore Frank Zhang. Tu puoi passare. Ma il tuo amico,
qui…»
«Terminus! Sai benissimo chi sono» protestai.
«Documenti!»
Una fredda e viscida sensazione mi risalì dallo stomaco
rivestito di spezie. «Oh, non vorrai mica…?»
«Carta d’identità o patente, prego.»
Avrei tanto voluto protestare contro quella crudeltà gratuita.
Ma, ahimè, è inutile litigare con i burocrati, i vigili urbani e le
divinità di confine. Serve solo a prolungare le sofferenze.
Scrollando le spalle, tirai fuori il portafogli ed estrassi la
patente che Zeus mi aveva fornito quand’ero caduto sulla
Terra. Nome: Lester Papadopoulos. Età: sedici anni. Stato:
New York. Foto: 100% acido negli occhi.
«Dammela» ordinò Terminus.
«Ma se…?» Mi fermai prima di aggiungere “non hai le
mani”: Terminus era di un’ostinazione maniacale riguardo ai
suoi arti fantasma. Sollevai la patente in modo che potesse
studiarla. Anche Frank si sporse a guardare incuriosito, poi
colse la mia occhiataccia e si allontanò.
«Molto bene, Lester» gracchiò. «È insolito avere un
visitatore mortale in città… un visitatore molto, molto mortale.
Ma suppongo che possiamo concedertelo. Sei venuto per
comprarti una nuova toga? O forse un paio di jeans skinny?»
Inghiottii l’amarezza. Esiste nessuno di più vendicativo di
un dio minore che finalmente può avere la meglio su un dio di
prima categoria?
«Possiamo passare?» chiesi.
«Armi da dichiarare?»
Ai bei tempi, avrei risposto: “Solo la mia personalità da
urlo”. Ma, ahimè, non riuscivo più nemmeno a trovarlo
ironico. La domanda però mi pose un dubbio importante: che
fine avevano fatto l’ukulele, l’arco e la faretra? Forse li
avevano infilati sotto il mio letto? Se i Romani mi avevano
perso la faretra, insieme alla profetica e detestabile Freccia di
Dodona parlante, avrei dovuto comprare loro un dono di
ringraziamento.
«Niente armi» borbottai.
«Molto bene» stabilì Terminus. «Potete passare. E auguri
per il tuo imminente compleanno, Lester.»
«Per… che cosa?»
«Circolare! Avanti il prossimo!»
Non c’era nessuno alle nostre spalle, ma Terminus ci
scacciò verso la città urlando alla fila inesistente di visitatori di
non spingere e mettersi in coda.
«Il tuo compleanno è vicino?» chiese Frank mentre
avanzavamo. «Auguri!»
«Non dovrebbe.» Guardai la patente. «Qui c’è scritto 8
aprile, ma non torna. Sono nato nel settimo giorno del settimo
mese. Certo, i mesi erano diversi allora. Vediamo… il mese di
Gamelione? Ma quello era in inverno…»
«Hai diciassette anni, ora? O quattromiladiciassette?»
chiese Frank. «E come festeggiano gli dei? Ti piacciono le
torte?» Sembrava speranzoso sulla faccenda delle torte, come
se immaginasse una mostruosa costruzione decorata d’oro con
diciassette candeline romane in cima.
Cercai di calcolare la mia data di nascita giusta. Lo sforzo
mi fece venire il mal di testa. Anche quando avevo una
memoria divina, detestavo le date: il vecchio calendario
lunare, il calendario giuliano, il calendario gregoriano, l’anno
bisestile, l’ora legale. Argh. Non potevamo chiamare tutti i
giorni Apollodì e farcelo bastare?
Però Zeus mi aveva decisamente assegnato una nuova data
di nascita: l’8 aprile. Perché? Il mio numero sacro era il sette.
Non c’erano sette nella data 8/4. Nemmeno la somma era
divisibile per sette. Perché Zeus aveva voluto che il mio
compleanno cadesse di lì a quattro giorni?
Mi fermai di colpo, come se anche le mie gambe si fossero
trasformate in un piedistallo. Nel mio sogno, Caligola aveva
insistito affinché i pandai finissero il lavoro in tempo per la
luna di sangue, di lì a cinque giorni. Se quello che avevo visto
era successo la notte prima, allora cinque giorni, incluso quello
presente, portavano dritti a… l’8 aprile.
«Che c’è?» chiese Frank. «Perché hai la faccia grigia?»
«Penso che mio padre mi abbia lasciato un avvertimento. O
forse una minaccia?» risposi. «E Terminus me l’ha appena
fatto notare.»
«Perché il tuo compleanno dovrebbe essere una minaccia?»
«Adesso sono mortale. I compleanni sono sempre una
minaccia.» Cercai di contenere l’ansia. Avrei tanto voluto
voltarmi e darmela a gambe, ma non avrei saputo dove andare.
Potevo solo entrare a Nuova Roma, e raccogliere nuove
sgradite informazioni sul mio infausto e imminente destino.
«Fai strada, Frank Zhang» dissi a malincuore, infilando la
patente nel portafogli. «Forse Tyson ed Ella avranno delle
risposte.»
Nuova Roma… la città in cui ci sono maggiori probabilità di
trovare gli dei dell’Olimpo in circolazione sotto mentite
spoglie. (Seguita a poca distanza da New York, e da Cozumel,
in Messico, durante le vacanze di primavera. Non ce ne
abbiate.)
Quando ero un dio, aleggiavo spesso sopra i suoi tetti rossi
senza farmi vedere, oppure passeggiavo in forma mortale fra
le sue strade, godendomi i suoni e i profumi dei bei tempi
andati dell’impero.
Non era identica all’Antica Roma, ovvio. Avevano
apportato diverse modifiche. Non c’erano schiavi, tanto per
cominciare. E l’igiene personale era molto migliorata. La
Suburra – il quartiere malfamato straripante di gente e brutti
palazzoni – non esisteva.
Nuova Roma non era nemmeno una triste imitazione stile
parco dei divertimenti, come una finta Torre Eiffel a Las
Vegas. Era una città viva in cui l’antico e il moderno si
mescolavano liberamente. Attraversando il Foro, udii
conversazioni in una decina di lingue diverse, tra cui il latino.
Un gruppo musicale si esibiva in una jam session con lire,
chitarre e washboard. I bambini giocavano nelle fontane
mentre gli adulti sedevano sotto i pergolati poco lontano,
all’ombra delle viti. I Lari fluttuavano qua e là, diventando più
visibili nelle lunghe ombre del pomeriggio. Persone di ogni
tipo si mescolavano e chiacchieravano: monocefale, bicefale e
perfino cinocefale, con la testa canina che mostrava i denti,
lasciava penzolare la lingua e abbaiava per dire la propria.
Era una Roma più piccola, più gentile, migliore: la Roma di
cui avevamo sempre ritenuto capaci i mortali, ma che i mortali
non avevano mai realizzato. E sì, certo, noi dei venivamo qui
per nostalgia, per rivivere quei secoli meravigliosi in cui
eravamo adorati in lungo e in largo, e il profumo dei sacrifici
ardenti si spandeva nell’aria.
Lo so, vi sembrerà patetico… come quelle crociere per
vecchietti che coccolano i fan di band preistoriche. Ma che
posso dire? La nostalgia è uno di quei malanni che
l’immortalità non cura.
Quando arrivammo nei pressi del Senato, cominciai a
riconoscere i resti della recente battaglia. Le crepe sulla cupola
scintillavano di adesivo d’argento. I muri di alcuni edifici
erano stati rattoppati e ridipinti in fretta e furia. Come al
campo, le strade cittadine sembravano meno affollate di
quanto ricordassi, e di quando in quando – se un cinocefalo
abbaiava o se il martello di un fabbro picchiava contro un
pezzo d’armatura – le persone trasalivano, come per chiedersi
se fosse il caso di cercare riparo.
Quella era una città traumatizzata, che cercava con tutte le
forze di tornare alla normalità. E in base a quanto avevo visto
nei miei sogni, Nuova Roma stava per essere traumatizzata di
nuovo nel giro di pochi giorni.
«Quante sono state le perdite?» chiesi a Frank.
Avevo paura di conoscere la cifra esatta, ma dovevo
saperlo.
Frank si guardò intorno, per controllare che nessuno ci
sentisse. Stavamo risalendo una delle molte stradine lastricate
e tortuose che si addentravano nei quartieri residenziali della
città.
«È difficile dirlo con precisione» mi rispose. «Per quanto
riguarda la legione, almeno venticinque. Sono quelli che
mancano all’appello. La nostra forza massima ammonta…
ammontava a duecentocinquanta. Non che siamo mai stati così
tanti tutti insieme al campo. Però… la battaglia ci ha
letteralmente decimati.»
Fu come se mi avesse appena trapassato un Lare. La
decimazione, un’antica punizione per le legioni ribelli, era una
brutta faccenda: si uccideva un soldato ogni dieci, a caso, non
importava se fosse colpevole o innocente.
«Mi dispiace, Frank. Avrei dovuto…»
Non sapevo come finire la frase. Avrei dovuto cosa? Non
ero più un dio. Non potevo più schioccare le dita e fare
esplodere gli zombie a migliaia di chilometri di distanza. Ah,
non avevo mai apprezzato come si deve questi piaceri
semplici!
Frank si strinse nel mantello. «I civili sono stati colpiti di
più. Molti ex legionari di Nuova Roma sono venuti ad aiutarci.
Sono sempre stati le nostre riserve. Ma, come ti dicevo prima,
quel verso della profezia che hai citato: Il Tevere di corpi sarà
il loco… I corpi nel Tevere sono quelli degli zombie, certo.
Ma anche dei nostri. E la cosa più brutta è che non sappiamo
quanti siano di preciso, perché sono scomparsi.»
La mia ferita cominciò a ribollire. «In che senso,
scomparsi?»
«Alcuni sono stati trascinati via quando i non-morti si sono
ritirati. Abbiamo cercato di recuperarli, ma…» Frank scosse il
capo. «Sono stati inghiottiti dalla terra. Nemmeno Hazel è
riuscita a spiegarselo. Molti sono finiti sott’acqua durante la
battaglia nel Piccolo Tevere. Le naiadi hanno provato a
cercarli per noi, ma non c’è stato nulla da fare.»
Non diede voce alla cosa più orribile di tutte sottintesa alle
sue parole, ma di sicuro la pensava. I loro morti non erano
semplicemente scomparsi. Sarebbero tornati: come nemici.
Frank teneva lo sguardo fisso sul lastrico. «Cerco di non
pensarci troppo. Dovrei essere la figura di comando, quello
che sa sempre il fatto suo, no? Ma… prima, per esempio,
quando abbiamo visto Terminus… Di solito c’è sempre una
bambina con lui, Julia, ad aiutarlo. Ha sette anni. Adorabile.»
«Oggi non c’era.»
«No» confermò Frank. «È in affido presso una nuova
famiglia. Entrambi i suoi genitori sono morti nella battaglia.»
Dovetti fermarmi. Era troppo. Mi appoggiai con una mano
al muro.
Un’altra bambina innocente costretta a soffrire, come Meg
McCaffrey quando Nerone aveva ucciso suo padre… o come
Georgina, quando l’avevano sottratta a sua madre a
Indianapolis. Tre mostruosi imperatori romani avevano
mandato in pezzi così tante vite. Dovevo fermarli.
Frank mi prese per un braccio, con garbo. «Un passo alla
volta. È l’unico modo per farlo.»
Ero andato al Campo Giove per sostenere i Romani. E
invece era il pretore romano che stava sostenendo me.
Continuammo a camminare, oltrepassando bar e negozi.
Cercai di concentrarmi su qualcosa di positivo. Le viti erano
cariche di boccioli. Le fontane funzionavano ancora. Gli
edifici di quel quartiere erano tutti intatti.
«Almeno… almeno la città non è bruciata» azzardai con
poca convinzione.
Frank si accigliò come se non ci vedesse nessun motivo di
ottimismo. «Che vuoi dire?»
«C’è un altro verso della profezia: Parole memorabili
prendon fuoco. Si riferisce al lavoro di Ella e Tyson sui Libri
Sibillini, vero? I libri sono al sicuro, perché siete riusciti a
evitare l’incendio della città.»
«Oh.» Frank emise un verso a metà fra un colpo di tosse e
una risata. «Già, ehm, la cosa buffa è…» Si fermò di fronte a
una libreria dall’aria eccentrica.
Dipinta sulla tenda da sole verde c’era soltanto una parola:
LIBRI . Pile di tascabili usati erano a disposizione di tutti sul
marciapiede. In vetrina, un grosso gatto arancione si godeva il
sole in cima a una catasta di dizionari.
«Spesso i versi delle profezie hanno un significato diverso
da quello che ci si aspetta.» Frank bussò alla porta: tre colpi
piccoli, due lenti, due veloci.
Subito, la porta si spalancò verso l’interno, e sulla soglia, a
petto nudo, comparve un ciclope sorridente.
«Entrate!» disse Tyson. «Mi sto facendo un tatuaggio!»
8
Vuoi tatuaggio?
Gratis in libreria
Cari amici,
Era fa schifo
Cattivo? Io sì
Gomme e gossip:
I senatori
Io ho un piano
Sono un disastro
Freccia restia
Di svignarmela
Giostra o incubo?
È bellissima
Nuovo Tarquinio
Va bene così
Cucina Pranjal:
In Appendice
Sfera di morte
Risparmiami le fiamme
Non me la sento
Visto, ragazzi?
Ora andate
Canto di piante
E cespugli eroici
Ispiratevi!
In un pick-up con
Scemo di Lester
Metto la mia
Paralizzato
Vorrei cantare
Non mi colpite!
Indovinello:
Vuole uccidermi
Il mio arabo era ancora più arrugginito del mio italiano alla
Dean Martin, ma ero piuttosto sicuro che fosse il nome di una
città: ALESSANDRIA , nello specifico Alessandria d’Egitto.
Le ginocchia per poco non mi cedettero. La vista cominciò
a vacillare. Forse singhiozzavo, ma non lo sentivo.
Lentamente, afferrando il parapetto per sostenermi, tornai
dalle mie amiche barcollando. Capii che avevo lasciato la zona
del silenzio soltanto quando sentii mormorare: «No, no, no,
no».
Meg mi afferrò prima che precipitassi giù. «Che c’è? Cos’è
successo?»
«Credo di capire» dissi. «Il dio ammutolito.»
«Chi è?» domandò Reyna.
«Non lo so.»
Reyna sbatté le palpebre. «Ma hai appena detto che…»
«Credo di capire. Ricordare chi è di preciso è più difficile.
Sono piuttosto sicuro che abbiamo a che fare con una divinità
tolemaica, dell’epoca in cui i Greci governavano l’Egitto.»
Meg guardò il container alle mie spalle. «Quindi c’è un dio
nella cassa.»
«Sì, Meg. Una divinità ibrida greco-egizia di scarsissima
importanza, credo, ed è il motivo per cui molto probabilmente
non si trovava negli archivi del Campo Giove.»
«Se è di così scarsa importanza, perché sembri così
spaventato?» osservò Reyna.
Un briciolo della mia antica alterigia divina mi pervase. I
mortali. Non capivano mai.
«Le divinità tolemaiche sono tremende» risposi. «Sono
imprevedibili, instabili, pericolose, insicure…»
«Come un dio normale, quindi» disse Meg.
«Ti odio» ribattei.
«Credevo che mi volessi bene.»
«Sono multitasking. Le rose erano il simbolo di questo dio.
Non… non mi ricordo perché. Forse Venere c’entra qualcosa?
Questo dio era responsabile dei segreti. Ai vecchi tempi, se i
leader appendevano una rosa al soffitto di una sala delle
conferenze significava che tutte le persone coinvolte in quella
conversazione dovevano mantenere il segreto. Lo chiamavano
sub rosa, sotto la rosa.»
«Sai tutte queste cose, ma non sai il nome del dio?»
commentò Reyna.
«Io non… lui è…» Un ringhio frustrato mi uscì dalla gola.
«Ce l’ho quasi. Dovrei avercelo. Ma non penso a questo dio da
millenni. È una divinità molto oscura. È come chiedermi di
ricordare il nome di un particolare cantante di supporto con cui
ho lavorato nel Rinascimento. Forse se tu non mi avessi tirato
un calcio in testa…»
«Dopo la storia di Coronide?» ribatté Reyna. «Te lo
meritavi.»
«Esatto» concordò Meg.
Sospirai. «Voi due avete un’influenza terribile l’una
sull’altra.»
Senza togliermi gli occhi di dosso, Reyna e Meg si diedero
un cinque.
«Forse la Freccia di Dodona può aiutarmi a rinfrescare la
memoria» dissi. «Almeno mi insulta con una lingua forbita.»
Estrassi la freccia dalla faretra. «Oh, dardo profetico, mi serve
la tua guida!»
Nessuna risposta.
Mi domandai se la freccia fosse stata addormentata dalla
magia che circondava il container. Poi mi resi conto che c’era
una spiegazione più semplice. Rimisi la freccia nella faretra e
ne tirai fuori un’altra.
«Avevi preso la freccia sbagliata, vero?» intuì Meg.
«No!» le risposi brusco. «Non capisci il mio ragionamento.
Torno nella mia sfera del silenzio.»
«Ma…»
Me ne andai via prima che Meg potesse finire.
Solo quando fui di nuovo circondato dal freddo silenzio mi
venne in mente che poteva essere difficile portare avanti una
conversazione con la freccia, se non potevo parlare.
Pace. Ero troppo orgoglioso per tornare indietro. Se io e la
freccia non avessimo potuto comunicare telepaticamente, avrei
fatto finta di avere una conversazione intelligente mentre
Reyna e Meg continuavano a guardarmi.
«Oh, dardo profetico!» tentai di nuovo. Le mie corde vocali
vibrarono, ma non uscì nessun suono: una sensazione
inquietante che potevo paragonare solo all’affogamento. «Mi
serve la tua guida!»
«FELICITAZIONI!» disse la freccia. La sua voce risuonò
nella mia testa – più una sensazione tattile che udibile –
facendomi sbatacchiare i bulbi oculari.
«Grazie» dissi. «Aspetta. Rallegramenti per cosa?»
«HAI TROVATO IL TUO RITMO. O QUANTOMENO IL
PRINCIPIO DEL TUO RITMO. SOSPETTAVO CHE
SAREBBE ANDATA IN CODESTA GUISA, A TEMPO
DEBITO. I RALLEGRAMENTI SON D’UOPO.»
«Oh.» Fissai la punta della freccia, in attesa di un “ma”.
Non arrivò. Rimasi così sorpreso che riuscii solo a balbettare:
«Gr-grazie».
«NON C’È DI CHE.»
«Abbiamo appena avuto uno scambio civile?»
«ORBENE, SÌ» rifletté la freccia. «E LA COSA MI
TURBA. MA TANT’È… DI QUALE “RAGIONAMENTO”
PARLAVI CON LE TUE DONZELLE? NEL CASO TUO, DI
SOLITO È PIÙ UN BRANCOLAMENTO.»
«E ti pareva…» brontolai. «Per favore, alla mia memoria
serve una spinta supplementare. Questo dio ammutolito è quel
tizio che viene dall’Egitto, giusto?»
«NON MALE, MESSERE» commentò la freccia. «HAI
RISTRETTO IL CAMPO A TUTTI GLI DEI EGIZI.»
«E dai, hai capito. C’era quel dio tolemaico… Il tizio
strano. Era il dio del silenzio e dei segreti. Anche se non lo
era, esattamente. Se puoi darmi il suo nome, penso che il resto
dei miei ricordi arriverà di conseguenza.»
«OHIBÒ! TI PARE CHE LA MIA SAGGEZZA SI
COMPRI COSÌ A BUON MERCATO? IL NOME
VORRESTI SENZA FATICA ALCUNA?»
«E come definiresti scalare la Sutro Tower?» domandai.
«Farsi sbrindellare dai corvi, farsi prendere a calci in faccia ed
essere costretto a cantare come Dean Martin?»
«UNO SPASSO.»
Forse gridai un paio di cosette, ma la sfera del silenzio le
censurò, quindi dovrete usare la vostra immaginazione.
«E va bene!» sbottai infine. «Puoi darmi almeno un
suggerimento?»
«ORBENE, IL NOME COMINCIA CON LA “A”!»
«Ade… Ares… Atena… Un sacco di nomi di dei
cominciano con la A… Apollo!»
«APOLLO? DICI SUL SERIO?»
«Sto solo facendo un po’ di brainstorming. A, hai detto…»
«PENSA AL TUO MEDICO PREFERITO.»
«Io. Aspetta. Mio figlio Asclepio?»
Il sospiro della freccia mi fece sbatacchiare perfino le ossa.
«IL TUO MEDICO MORTALE PREFERITO.»
«Dottor Kildare, dottor Destino, dottor House, dottor
Who… Oh! Intendi Ippocrate. Ma non comincia con la A e
non è un dio tolemaico.»
«MI FARAI USCIR DI SENNO» si lamentò la freccia.
«IPPOCRATE È UN SUGGERIMENTO. IL NOME CHE
CERCHI È SIMILE ASSAI. ALTRO NON DEVI CHE
CAMBIARE DUE LETTERE.»
«Quali?» Ero petulante e lo sapevo, ma non mi sono mai
piaciuti gli indovinelli, anche prima della mia orrenda
esperienza nel Labirinto di fuoco.
«TI DARÒ UN ULTIMO SUGGERIMENTO. PENSA A
QUALE DEI FRATELLI MARX PREFERISCI.»
«I Fratelli Marx? Ma come fai a conoscerli? Sono degli
anni Trenta del secolo scorso! Sì, certo, li adoravo. Hanno
portato un po’ di luce in un decennio così tetro, ma… Un
attimo. Quello che suonava l’arpa. Arpo. Ho sempre trovato la
sua musica dolce e triste e… Comincia con la A, però…»
Il silenzio intorno a me si fece più freddo e pesante.
“Arpo” pensai. “Ippocrate. Mettendo i nomi insieme si
ottiene…”
«Arpocrate? Freccia, ti prego, dimmi che non è la risposta
giusta. Dimmi che non è lui ad aspettarci in quel container.»
La freccia non replicò, e la presi come la conferma delle
mie peggiori paure.
Rimisi la mia forbitissima amica nella faretra e tornai
arrancando da Reyna e Meg.
Meg aggrottò la fronte. «Non mi piace la tua faccia.»
«Neanche a me» aggiunse Reyna. «Cos’hai scoperto?»
Lasciai vagare lo sguardo nella nebbia, rimpiangendo di
non avere più a che fare con una cosa semplice come uno
stormo di corvi assassini. Come avevo sospettato, il nome del
dio aveva riattivato i miei ricordi… ricordi brutti e sgraditi.
«So quale dio ci troviamo davanti» annunciai. «La buona
notizia è che non è molto potente, per essere un dio. Ed è il più
oscuro che si possa immaginare. Una vera celebrità di serie
D.»
Reyna incrociò le braccia. «Ma?»
«Ma… be’.» Mi schiarii la voce. «Io e Arpocrate non
andavamo molto d’accordo. Mi pare che abbia… ehm, giurato
che prima o poi mi avrebbe polverizzato.»
28
A tutti serve
Per avanzare
Mai sentito
Un silenzio assordante?
Direi di no
Che spettacolo
Sono bloccato
Super offerta
Gentili clienti!
Oh, benvenuti
Tornate presto!
Bianchi…. et voilà!
Un bell’affare!
al prezzo di uno
Quante sillabe ha
“Disperazione”?
C’è un’esplosione?
Due parole:
unicorni svizzeri.
Che precisione!
Capitan Mutanda, no
Basta lacrime!
Lacrimali nuovi
Odiatemi pure
Intanto godetevi
La torta. Urrà!
Ricchi cotillon!
Un viaggio infernale
E un bel cupcake!