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W. B. Yeats,
La Rosa della Guerra
PROLOGO
Louis MacNeice,
Il ponte bruciato
UNO
Il primo colpo mi prese sul braccio e per poco non me lo spezzò. Attesi
stoicamente il secondo e il terzo. Prima o poi, uno mi avrebbe fatto perdere
i sensi e questo era tutto ciò che potevo sperare: una morte rapida, senza
dolore.
Poi udii un rumore inatteso, che però riconobbi subito. Il secco rumore
di uno sparo, seguito da altri due. Gli assalitori più vicini a me caddero a
terra, morti stecchiti. Senza perdere tempo a riflettere sulla mia buona for-
tuna, afferrai prima una spada e poi l'altra. Erano armi pesanti, poco ma-
neggevoli, più adatte ai pirati che agli schermidori, ma non mi occorreva
altro. Adesso avevo la possibilità di sopravvivere!
Indietreggiai verso il punto dove avevo visto cadere von Bek e con la
coda dell'occhio lo vidi che si rialzava, dopo essere rimasto con un ginoc-
chio a terra; teneva a due mani una pistola automatica dalla cui canna usci-
va ancora un filo di fumo.
Era passato molto tempo dall'ultima volta che avevo visto quel genere di
arma. Con una sorta di cupo divertimento, capii che von Bek non era del
tutto disarmato, quando era passato dalla sua terra al Maaschanheem. Ap-
prezzai la presenza di spirito che lo aveva indotto a portare con sé un og-
getto utilissimo in un mondo come quello!
«Dammi una spada!» gridò il mio compagno. «Mi restano solo due colpi
e preferisco tenerli per qualche altra occasione.»
Senza guardarlo, gli lanciai una delle mie spade; insieme avanzammo
verso i nostri nemici, già demoralizzati dalle esplosioni inattese. Chiara-
mente non avevano mai visto armi da fuoco.
Ringhiando di rabbia, il capo del gruppo scagliò contro di me un'altra
clava, ma non ebbi difficoltà a scansarla. Gli altri si affrettarono a imitarlo,
cercando di colpirci con una vera gragnola di quelle rozze armi, ma noi le
evitammo o le parammo con la spada. Un attimo più tardi eravamo faccia a
faccia con i nostri assalitori, che parevano avere perso gran parte della loro
baldanza.
Ne uccisi due prima di riuscire a riflettere su quanto stavo facendo. Da
un'eternità ero abituato a quel genere di duelli, e sapevo che in quei fran-
genti occorreva colpire per uccidere, se non si voleva correre il rischio di
perdere la vita. Ma, giunto al terzo avversario, recuperai la ragione quanto
bastava per limitarmi a fargli volare via dalla mano la spada. Intanto von
Bek, che chiaramente - come tanti della sua classe sociale - era un esperto
schermidore, si era sbarazzato di altri due assalitori, e ora ne rimaneva me-
no della metà.
A quel punto il loro capo ci gridò di fermarci.
«Ritiro quanto ho detto! Non siete Vermi di Palude, l'ho capito. È stato
un errore assalirvi senza parlare con voi. Abbassate la spada, signori, e par-
lamenteremo. Chiamo a testimoni gli dèi, ma non mi sono mai rifiutato di
ammettere un mio errore.»
Circospetti, abbassammo la spada, ma ci tenemmo pronti a un eventuale
tradimento da parte sua e dei suoi uomini.
I nostri avversari, comunque, con grande ostentazione rinfoderarono la
spada e aiutarono i compagni feriti. Quanto ai morti, tolsero loro le borse e
le armi rimaste. Ma il capo gridò loro di fermarsi.
«Li spoglieremo quando avremo trovato un accordo soddisfacente per
tutti» disse. «Guardate, ormai siamo vicini a casa.»
Guardai nella direzione da lui indicata e con grande stupore vidi che l'e-
dificio - o il gruppo di edifici - verso cui ci eravamo diretti era ormai più
vicino. Scorsi distintamente il fumo dei comignoli, le bandiere sulle torret-
te, le luci che tremolavano qua e là sugli spalti.
«Allora, signori» ci disse il capo del gruppo. «Che cosa facciamo? Avete
ucciso un buon numero di noi, perciò direi che possiamo giudicarci almeno
alla pari, visto che siamo stati noi a iniziare ma che non avete ferite gravi.
Inoltre avete due delle nostre spade, che sono oggetti di notevole valore.
Siete disposti ad andarvene per la vostra strada e a lasciar perdere ogni di-
scussione?»
«Questo mondo è talmente privo di leggi che si può assalire a piacimen-
to un'altra persona senza subire alcuna conseguenza?» chiese von Bek.
«Allora non è affatto migliore di quello che ho appena lasciato!»
Mi parve che continuare in quel tipo di discussione fosse solo una perdi-
ta di tempo. Ormai sapevo da tempo che gli uomini di quel genere, qua-
lunque fosse il mondo dove vivevano, non avevano né la voglia né l'intel-
ligenza occorrente per capire un sottile argomento morale. A quanto pare-
va, ci avevano scambiato per qualche genere di fuorilegge e ora, constatato
che non lo eravamo affatto, ci mostravano maggiore rispetto, anche se a
malincuore. Secondo me, conveniva farsi portare nella loro città, nonostan-
te il possibile rischio, e vedere se potevamo offrire i nostri servigi ai loro
padroni.
Lo dissi a von Bek, in poche parole, ma il mio compagno pareva assai ri-
luttante a lasciar cadere la questione morale. Era ovvio che si trattava di un
uomo dai saldi principi (del resto occorreva quel tipo di persone per non
soccombere al terrore ispirato da Hitler) e io lo rispettavo per quello. Ma lo
pregai di rimandare ogni giudizio al futuro, non appena li avessimo cono-
sciuti meglio. «Mi sembrano assai primitivi» gli feci osservare. «Non ab-
biamo molto da temere da loro. Inoltre, potrebbe essere il solo modo per
conoscere meglio questo mondo e, eventualmente, per uscirne.»
Come un cane da guardia che, ringhiando, cerca solo di difendere i pa-
droni (nel suo caso i suoi ideali), von Bek si arrese. «Ma è meglio tenere le
spade» aggiunse.
Ormai era buio. I nostri assalitori cominciavano a dare segni di nervosi-
smo. «Se dobbiamo parlamentare ancora» disse all'improvviso il loro capo
«forse potreste farlo come nostri ospiti. Per questa notte non vi toccheremo
più, ve lo prometto. Vi do la mia Promessa di Bordo.»
La cosa pareva avere una grande importanza per lui; quanto a me, ero
pronto ad accettare la sua parola. Pensando che avessi esitazioni ad accet-
tare, l'uomo si sfilò l'elmetto grigioverde e se lo portò dinanzi al cuore.
«Dovete sapere, signori» ci disse «che il mio nome è Mopher Gorb, fu-
stiere di Armiad naam Sliforg ig Vortan.» Anche il fatto di dare il proprio
nome pareva un atto assai importante.
«Chi è Armiad?» gli domandai; vidi che sulla sua faccia sgraziata com-
pariva un'espressione di grande sorpresa.
«Come?» fece. «È il baron-capitano della nostra nave-città, che prende il
nome di Scudo Corrucciato e rende conto all'ancoraggio della Mano che
Afferra. Avrete sentito parlare almeno di questa, se non di Armiad, succes-
sore del baron-capitano Nedau naam Sliforg ig Vortan...»
Con un gemito, von Bek sollevò la mano. «Basta, basta! Tutti questi
nomi mi fanno venire il mal di testa. Sono d'accordo, accettiamo la vostra
ospitalità e vi ringraziamo.»
Mopher Gorb, tuttavia, non accennò a muoversi. Evidentemente, aspet-
tava qualcosa da noi, poi compresi che cosa dovessi fare. Mi sfilai l'elmet-
to a forma di cono e me lo appoggiai sul petto, davanti al cuore. «E io sono
John Daker, chiamato anche Erekosë, già Campione di re Rigenos, giunto
dal Castello di Ghiaccio e dal Fiordo Scarlatto, e il mio compagno è il mio
fratello di spada, il conte Ulrich von Bek, proveniente dalla città di Bek,
nel principato di Sassonia del regno dei Germani...»
Proseguii ancora un poco nella stessa vena, finché non giudicai di aver-
gli dato un numero soddisfacente di nomi e di titoli, anche se non doveva-
no significare molto, per lui. Ma, chiaramente, l'offerta del proprio nome e
del proprio titolo costituiva l'indicazione che si era intenzionati a mantene-
re la parola data.
Quanto a von Bek, meno abituato a quel genere di incontri e meno adat-
tabile di me, stava quasi per scoppiare a ridere ed evitava di guardare dalla
mia parte.
Mentre parlavamo, intanto, la nave-città aveva continuato a ingrandirsi.
Ora capii che la sua enorme mole era in movimento. Non era una normale
città o un normale castello, ma una nave di qualche genere, incredibilmen-
te grande (anche se assai inferiore ai nostri transatlantici) e mossa da qual-
che tipo di motore che era il diretto responsabile del fumo da me visto in
precedenza e confuso con normale fumo di domestici comignoli.
Comunque, potevo essere scusato se l'avevo confuso con una fortezza
medievale, quando l'avevo visto da lontano. I camini parevano collocati a
caso, qui e là. Le torrette, le torri, le guglie e i merli sembravano di pietra,
anche se più probabilmente si trattava di legno e di canne, e quelle che mi
erano parse aste per bandiere erano in realtà alti alberi a cui erano assicura-
ti pennoni, vele e una selva di cordame simile alla tela di un ragno impaz-
zito, e una grande varietà di bandiere incredibilmente sudice. Il fumo dei
camini era grigio con una sfumatura giallognola di qualche ritorno di
fiamma dai cilindri roventi, che anche se non pareva minacciare i ponti
sottostanti, indubbiamente doveva riempirli di fuliggine da cima a fondo.
Mi chiesi come la sua popolazione riuscisse a vivere in una simile sporci-
zia.
Mentre il vascello rumoroso e massiccio avanzava lentamente nell'acqua
bassa della palude, scoprii che il puzzo dei nostri assalitori era caratteristi-
co della loro nave. Anche da lontano venni colpito da mille odori repellen-
ti, compreso quello del fumo ammorbante. Le fornaci che alimentavano
quei camini dovevano bruciare ogni sorta di rifiuti, pensai.
Von Bek mi guardò, come se intendesse rifiutare l'ospitalità di Mopher
Gorb, ma sapevo che ormai era troppo tardi per quel genere di rinuncia.
Desideravo conoscere meglio quel mondo, e non intendevo offendere i
suoi abitanti, col rischio che poi si sentissero spinti dal proprio orgoglio a
non darci tregua finché non ci avessero ucciso. Mi disse qualcosa, ma non
riuscii a capire le sue parole, coperte dalle grida e dai rumori provenienti
dalla nave, ormai giunta davanti a noi e gigantesca sullo sfondo grigio del-
la sera.
Scossi la testa. Von Bek si strinse nelle spalle e trasse di tasca un fazzo-
letto di seta, ben ripiegato. Poi se lo portò davanti alla bocca, con espres-
sione schizzinosa, e finse - a quanto capii - di avere il raffreddore.
Tutt'intorno al gigantesco scafo, che era un mosaico di metallo e di le-
gno e che portava le tracce di centinaia di riparazioni, le acque della baia
ribollivano e schizzavano in tutte le direzioni, coprendoci di schiuma, di
qualche pezzo di terra e di una buona dose di fango. Trassi un respiro di
sollievo quando si abbassò una sorta di ponte levatoio, nella parte bassa
dello scafo e nei pressi della grande poppa ricurva, e Mopher Gorb fece un
passo avanti per parlare in tono rassicurante a qualche persona all'interno.
«Non sono Vermi di Palude, ma ospiti onorati. Credo che vengano da un
altro regno e che si rechino all'Adunanza. Ci siamo scambiati i nomi. Ci
imbarchiamo in pace!»
Una piccola parte del mio cervello si mise subito all'erta. Nelle parole
c'era un termine a me familiare, anche se non avrei saputo dire con preci-
sione perché lo fosse.
Mopher aveva parlato di «Adunanza». Dove avevo già udito quella paro-
le? In che sogno? In quale precedente incarnazione? Oppure, che si trattas-
se di una premonizione? Tra le tante sue sfaccettature, la condanna del
Campione Eterno consisteva anche nel ricordare non solo il passato, ma
anche il futuro. Tempo e Conseguenze non sono la stessa cosa, per quelli
come me.
Comunque, per quanto mi sforzassi, non sarei riuscito a trovare un chia-
rimento, e perciò preferii accantonare il problema, mentre seguivamo Mo-
pher Gorb, fustiere dello Scudo Corrucciato (che, come ci era stato detto,
era il nome dello scafo) nei cupi e puzzolentissimi budelli dalla nave che
era anche la sua casa.
Mentre salivamo lungo la passatoia, il fetore che mi assalì era così forte
da farmi quasi venire i conati del vomito, ma riuscii a controllarmi. All'in-
terno della nave erano accese molte lucerne: potei vedere che il pavimento
su cui passavamo era costituito di tavole di legno: attraverso le aperture tra
l'ima e l'altra riuscii a scorgere il ponte sottostante, dove molti uomini se-
minudi correvano avanti e indietro per la manutenzione dei rulli su cui si
muoveva la grande nave.
Dall'apertura vidi una serie di passatoie, alcune di metallo, altre di legno,
altre costituite da semplici funi tese tra due passerelle. Sentii voci e grida
che si levavano al di sopra del basso tambureggiare dei rulli e capii che e-
rano uomini e donne intenti, evidentemente, a oliare e ripulire il macchina-
rio in movimento. Poi salimmo lungo una scaletta di legno e ci trovammo
in una grande cabina piena di armi e di corazze, accudite da un individuo
sudato, alto quasi due metri e talmente grasso da far pensare che riuscisse a
muoversi soltanto grazie a un particolare miracolo.
«Avete scambiato i nomi e siete i benvenuti a bordo dello Scudo Cor-
rucciato, signori. Io sono Drejit Uphi, Maestro d'Arme del nostro scafo.
Vedo che avete due delle nostre spade e vi sarei obbligato se voleste resti-
tuirle. Anche tu, Mopher. E gli altri. Tutte le spade sono state consegnate.
E anche le corazze. Ma gli altri? Dobbiamo mandare gli apprendisti a spo-
gliarli?»
Mopher era arrossito. «Sì» rispose. «Abbiamo attaccato questi ospiti,
pensando che fossero vermi di palude, ma loro stessi ci hanno convinto del
contrario. Umfit, Ior, Wetch, Gobshot, Pnatt e Strote devono essere spo-
gliati. Ormai sono legna da ardere.»
L'accenno alla «legna da ardere» mi fece capire perché il fumo dei ca-
mini fosse particolarmente ripugnante e perché ogni cosa, a bordo, era co-
perta da una patina sottile, oleosa e densa.
Drejit Uphi si strinse nelle spalle. «Congratulazioni, signori. Siete degli
ottimi combattenti; quei guerrieri erano astuti, pieni di esperienza.» Lo dis-
se con la maggior cortesia possibile, ma era chiaramente in collera, sia nei
riguardi di Mopher sia in quelli nostri.
A nessuno venne in mente di farsi dare la pistola di von Bek, e di conse-
guenza mi sentii un po' più sicuro, quando - dopo che Mopher si fu tolto la
corazza per rivelare una giubba di cotone sudicio e un paio di calzoni lar-
ghi - seguimmo il Fustiere ai piani superiori della nave-città.
Lo scafo era affollatissimo, proprio come una città del Medioevo, e c'e-
rano persone in ogni passaggio, viuzza e corridoio, che portavano pesi, si
chiamavano tra loro, discutevano o litigavano. Tutti erano sudici, molto
pallidi e con un'aria malaticcia; inoltre, naturalmente, non c'era un centi-
metro quadro di pelle o di vestito che non fosse pieno di quella particolare
cenere oleosa, che cadeva su tutto, bruciava in gola e copriva la nostra pel-
le. Quando ci trovammo di nuovo all'aperto, nella fresca aria della notte, e
attraversammo un lungo ponte che, se fosse stato sulla terraferma, avrei e-
tichettato come la piazza del mercato, tutt'e due starnutivamo e avevamo
gli occhi e il naso che colavano.
Mopher se ne accorse e rise. «Presto o tardi» ci assicurò «il nostro corpo
si abitua. Guardate me! A vedermi non lo credereste, ma ormai ho nei
polmoni una buona metà delle carogne di questa nave!»
E scoppiò di nuovo a ridere.
Mi afferrai alla balaustra per non cadere: il ponte tremava sotto la spinta
del vento e oscillava col moto della nave, che continuava a procedere sen-
za soste. In alto, tra gli alberi, scorsi molte figure al lavoro, mentre altre
scivolavano su e giù per le sartie, illuminate da improvvisi sprazzi di
fiamme e di ceneri che venivano dai camini. I pezzi di cenere più grandi,
vidi ora, finivano contro reti di fil di ferro che circondavano i camini, e si
raccoglievano su di esse o ricadevano all'interno.
Von Bek scosse la testa. «Per quanto sia squallida e abborracciata, que-
sta nave è un vero miracolo di ingegneria folle! Suppongo che sia mossa
dal vapore.»
Mopher aveva udito le sue parole. «I Folfeg sono famosi per i loro mec-
canismi scientifici» ci assicurò. «Mio nonno era un Folfeg, dell'ancoraggio
del Gambero Zoppo. Fu lui a costruire le caldaie dei grande Lucertolone
Ardente, la nave che tentò di seguire Ilabard Kreyin oltre il Bordo del
Mondo. Lo scafo ha fatto ritorno - come è ben noto in tutto il Maaschan-
heem - con un intero equipaggio di morti, ma il motore non si guastò. Quel
motore riuscì a riportarla sino al Gambero Zoppo. All'epoca delle Guerre
tra gli Scafi, conquistò quattordici ancoraggi nemici, tra cui la Bandiera
Stracciata, il Ramo di Felce, l'Aragosta Liberata, il Pescecane da Caccia e
il Luccio Spezzato, per non parlare dei loro scafi.»
Anche se mi lasciò indifferente, il racconto incuriosì von Bek, che gli
chiese: «Da che cosa derivano i nomi dei vostri ancoraggi? Suppongo che
si tratti delle strisce di terraferma tra cui viaggiano i vostri scafi.»
Anche ora il fustiere mi parve leggermente confuso. «Proprio così, si-
gnore. Gli ancoraggi prendono il nome dalla figura più simile a loro, sulla
mappa. Dalla forma del terreno, signore.»
«Certo» rispose von Bek, portandosi nuovamente il fazzoletto davanti
alla faccia. La sua voce ci giunse attutita. «Scusate la mia ingenuità.»
«Potete rivolgere tutte le domande che volete, qui sullo scafo» gli assi-
curò Mopher. Si sforzò di sorridere, ma il suo viso scuro rimase accigliato.
«Infatti ci siamo scambiati i nomi e le sole cose che non possiamo comu-
nicarvi sono quelle sacre.»
Eravamo giunti alla fine del ponte; davanti a noi c'era una saracinesca,
una spessa inferriata dietro cui si scorgeva una sala in penombra, dove ar-
devano alcune lanterne. A un grido di Mopher, l'inferriata si sollevò e noi
entrammo nella sala. Le pareti erano decorate a disegni complessi e ora mi
accorsi che la saracinesca era coperta di una finissima garza. In quella par-
te della nave, la fuliggine che penetrava era pochissima.
Ora echeggiò un suono di tromba (uno strepito sgraziato) e da una galle-
ria scarsamente illuminata, sopra di noi, ci giunse una voce:
«Salute ai nostri onorati ospiti. Che festeggino questa notte con il baron-
capitano e che viaggino con noi fino all'Adunanza.»
Non riuscivamo a vedere colui che aveva parlato, ma a quanto pareva si
trattava semplicemente di un araldo. Un attimo più tardi, da una scala po-
sta in fondo alla sala, giunse di fretta un individuo tozzo e massiccio, con
la faccia da pugilatore e il comportamento di un uomo aggressivo e impa-
ziente che si sforza di controllare la collera.
Teneva all'altezza del cuore una semplice calotta, e indossava una giub-
ba di broccato dai colori sgargianti, rosso, oro e blu; sulle gambe massicce
portava un paio di calzoni larghi, appesantiti al fondo da grosse e multico-
lori palline di feltro. In testa aveva uno dei più assurdi copricapi che avessi
mai visto in tutti i miei viaggi nel multiverso, e non mi stupii che non se lo
fosse tolto per la rituale copertura del cuore. Il cappello era alto almeno un
metro, assomigliava a un antico cappello a cilindro ma aveva una tesa assai
più stretta. Penso che fosse irrigidito all'interno, ma tendeva a pencolare
selvaggiamente in tutte le direzioni ed era di un chiassoso colore giallo,
talmente chiaro che temetti di venirne accecato.
Il proprietario di quel costume, chiaramente, non solo doveva giudicarlo
perfettamente congruo, ma anche assai elegante. Quando giunse in fondo
alla scala, si fermò, ci rivolse un breve cenno di saluto, poi si rivolse a
Mopher Gorb.
«Sei congedato, fustiere» disse al nostro accompagnatore. «E sono certo
di non dirti niente di nuovo, se ti informo che non sei più il responsabile di
riempire i fusti, per il presente viaggio. Hai dato prova di scarso discerni-
mento, quando hai preso per vermi di palude i nostri ospiti onorati. E a
causa del tuo errore hai perso ottimi uomini.»
Mopher Gorb gli rivolse un profondo inchino. «Accetto quanto mi dite,
baron-capitano.»
La nave tremò all'improvviso e parve gemere e lamentarsi nel profondo
del suo essere. Per qualche istante, finché il sussulto non terminò, tutti
fummo costretti ad afferrarci al sostegno più vicino. Poi Mopher Gorb con-
tinuò: «Consegno i miei fusti a colui che prenderà il mio posto e gli auguro
di catturare buoni vermi per le nostre caldaie.»
Anche se non capivo del tutto le sue parole, di nuovo fui sul punto di
vomitare.
Mopher Gorb si affrettò a uscire dalla sala e la saracinesca venne subito
calata dietro di lui. Il baron-capitano venne avanti tutto impettito, con il
grande cappello che gli dondolava sulla testa.
«Sono Armiad naam Sliforg ig Vortan, baron-capitano di questo scafo,
che rende conto alla Mano che Afferra. Sono profondamente onorato di
dare il benvenuto a voi e al vostro amico.»
Si rivolse direttamente a me e nella voce gli colsi un tono conciliante che
in qualche modo mi mise a disagio. Notando la mia sorpresa, mi sorrise.
«Sappiamo, signore» mi disse «che i nomi da voi dati al mio fustiere so-
no solo una parte dei vostri titoli, e ben capisco che non abbiate voluto
sminuirvi offrendo il vostro vero nome e grado a una persona come lui.
Tuttavia, come baron-capitano, mi è permesso, vero, di rivolgermi a voi
col nome più noto, almeno nel nostro Maaschanheem?»
«Voi conoscete il mio nome, baron-capitano?»
«Oh, certamente, vostra altezza. Riconosco il vostro volto dalla nostra
letteratura. Tutti conoscono le vostre prodezze contro i pirati Tynur. La
vostra ricerca della Vecchia Cagna e di sua figlia. Il mistero da voi risolto
che riguardava la Città Selvaggia. E tantissime altre. Siete un eroe per noi
del Maaschanheem, vostra altezza, come nel vostro stesso Draachenheem.
Non so dirvi quanto sia grande la mia felicità di potervi accogliere, senza
alcun desiderio di pubblicità per questo scafo o per me stesso. Vorrei che
fosse chiara una cosa: che siamo profondamente onorati di avervi a bor-
do.»
Dovetti compiere un grande sforzo per non sorridere dei goffi e un po'
penosi tentativi con cui lo sgradevole ometto cercava di dare prova delle
sue buone maniere. Decisi di assumere un tono altezzoso, visto che se lo
aspettava.
«E dunque, signor mio, che nome mi dareste?»
«Oh, altezza!» ridacchiò. «Ma il principe Flamadin, Signore Eletto del
Valadek ed eroe di tutt'e sei i Regni della Ruota!»
A quanto pareva, finalmente ero venuto a conoscenza del mio nome. E
ancora una volta, temevo, ci si aspettava da me più di quanto non fossi di-
sposto a dare.
Von Bek commentò ironicamente: «Avete nascosto questo grande segre-
to anche a me, principe Flamadin.»
Gli avevo già spiegato la mia situazione. Ora gli rivolsi un'occhiataccia.
«E adesso, buoni signori, dovete essere miei ospiti al banchetto che ho
fatto preparare in vostro onore» disse il baron-capitano Armiad, indicando
con la calotta il lato opposto della sala, la cui parete si stava lentamente
sollevando per rivelare una stanza vivacemente illuminata, con una tavola
imbandita e coperta di una grande varietà di cibi dall'aspetto poco invitan-
te.
Anche ora evitai lo sguardo di von Bek e mi augurai che fosse possibile
- anche se ne dubitavo - trovare almeno un boccone che non offendesse il
palato.
«Se ho capito bene» disse Armiad, accompagnandoci al nostro posto «a-
vete deciso di compiere sul nostro scafo il tragitto fino all'Adunanza.»
Essendo assai curioso di sapere la natura di quella Adunanza, gli rivolsi
un cenno affermativo.
«Evidentemente avete iniziato una nuova avventura» disse Armiad.
Quando si sedette accanto a me, il suo enorme cappello dondolò pericolo-
samente. Anche se meno forte, il suo odore non era granché diverso dal
puzzo dei suoi subordinati.
Avevo già capito che genere di persona fosse: un uomo che non solo, in
generale, odiava le buone maniere, ma che non amava neppure la normale
buona creanza tra persone dello stesso rango. Inoltre ero convinto che se
non gli fosse convenuto accoglierci come ospiti, non avrebbe perso tempo
a farci tagliare la gola e a ficcare i nostri cadaveri nei suoi fusti e nelle sue
caldaie. Mi rallegrai del fatto che avesse riconosciuto in me il suo principe
Flamadin (o che mi avesse confuso con lui!) e decisi di accettare dalla sua
ospitalità il meno possibile.
Mentre mangiavamo gli chiesi quanto mancava, secondo lui, al nostro
arrivo all'Adunanza.
«Altri due giorni, non di più. Ma perché, mio buon signore, siete ansioso
di arrivare laggiù prima che tutti si siano riuniti? Se così è, possiamo au-
mentare la velocità. È una semplice questione di regolazioni meccaniche e
di consumo di combustibile...»
Mi affrettai a scuotere la testa. «Due giorni è eccellente. E a questa Adu-
nanza ci saranno tutti?»
«Come sapete, altezza, i rappresentanti di tutt'e sei i Regni. Naturalmen-
te non posso parlare per qualche visitatore fuori del normale. Come sapete,
l'abbiamo sempre tenuta nel Maaschanheem, indipendentemente dal fatto
che i Regni si riunissero o no. Tutti gli anni a partire dall'armistizio, quan-
do infine cessarono le Guerre tra gli Scafi. Verranno in molti, tutti sotto la
bandiera della tregua; naturalmente, anche i Vermi di Palude, quegli orribi-
li rinnegati senza scafo e senza ancoraggio, possono venire senza finire nei
fusti. Sì, tutto considerato, vostra altezza, ci sarà una bella compagnia. E io
mi assicurerò che abbiate una buona posizione tra gli scafi più privilegiati.
Nessuno oserebbe opporvi un rifiuto. Lo Scudo Corrucciato è a vostra di-
sposizione!»
«Vi sono molto obbligato, baron-capitano.»
I servitori cominciarono ad andare e venire, e a mettere sotto il nostro
naso piatti dall'aspetto disgustoso, ma, a quanto pareva, rifiutarli non costi-
tuiva un'offesa, perché nessuno se ne adontò. Notai che, al pari di me, von
Bek si accontentava di un'insalata di piante delle paludi relativamente gu-
stose.
Von Bek prese la parola per la prima volta. «Vogliate perdonarmi, ba-
ron-capitano. Come sua altezza vi avrà certamente informato, i passati in-
cidenti mi hanno reso un po' leggero di memoria. Quali sono gli altri regni
a cui vi siete riferito, oltre al vostro, naturalmente?»
Apprezzai la domanda diretta e quel modo di interrogare senza coinvol-
germi in domande che potevano imbarazzarmi.
«Come sua altezza sa» rispose Armiad, frenando a malapena il fastidio
«i nostri regni sono sei: i Regni della Ruota. Sono Maaschanheem, che è
questo Regno. Poi Draachenheem, dove regna il principe Flamadin quando
non è in cerca di avventure altrove!» Rivolse un cenno nella mia direzione.
«Il terzo è Gheestenheem, Regno delle Donne Fantasma, le donne canniba-
li. Gli altri tre regni sono Barganheem, proprietà dei misteriosi Principi
Orsi; Fluugensheem, la cui popolazione è difesa dall'Isola Volante, e infine
Rootsenheem, i cui guerrieri si verniciano la pelle con il colore del sangue.
Naturalmente c'è poi il Regno del Centro, ma nessuno vi entra e nessuno
ne esce. Noi lo chiamiamo Alptroomensheem, le Marche dell'Incubo. Vi è
sufficiente a rinfrescare i ricordi, conte von Bek?»
«Del tutto, baron-capitano. Vi ringrazio di esservi preso il fastidio di ri-
cordarmeli. Ma temo di non avere mai avuto molta memoria per i nomi,
neppure nei miei momenti migliori.»
Con un certo sollievo, o almeno così mi parve, il baron-capitano tornò a
rivolgere verso di me il suo sguardo bellicoso, ai limiti della maleducazio-
ne. «E la vostra promessa sposa ci raggiungerà all'Adunanza, altezza? O la
principessa Sharadim è rimasta a custodire il Regno mentre voi partivate
alla ricerca di nuove avventure?»
«Ah, vero...» dissi io, preso alla sprovvista e incapace di nascondere la
sorpresa. «La principessa Sharadim. Non posso ancora assicurarlo.»
E in qualche punto della mia mente, anche allora, tornai a sentire il canto
disperato.
«Sharadim! Sharadim! La dragonessa del fuoco dev'essere liberata!»
A quel punto asserii di essere stato colto da un'improvvisa stanchezza e
pregai il baron-capitano Armiad di permettermi di ritirarmi.
Quando fui nella mia cabina, fui raggiunto da von Bek, le cui stanze era-
no vicino alle mie. «Non mi sembri del tutto a posto, Herr Daker» mi dis-
se. «Temi che l'inganno sia scoperto e che il vero principe faccia la sua
comparsa all'Adunanza di cui s'è parlato?»
«Oh» gli risposi «sono pressoché certo di essere io il vero principe, ami-
co mio. Ma la cosa che mi ha colpito maggiormente è tutt'altra: dal mo-
mento in cui ho messo piede in questo mondo, il solo nome da me udito e
che mi fosse in qualche modo familiare è quello della donna che, a quanto
pare, è la mia fidanzata!»
Von Bek commentò: «Be', almeno saprai cosa si aspetta da te, nel caso
dovessi incontrarla.»
«Può darsi» risposi, ma interiormente ero profondamente turbato, e non
avrei saputo dirne la ragione.
Quella notte dormii poco e male.
Il sonno cominciava a farmi paura.
TRE
QUATTRO
CINQUE
LIBRO SECONDO
UNO
DUE
«Per prima cosa» disse lady Phalizaarn, alzandosi dal suo posto, in mez-
zo alle altre donne sedute in terra «vi devo avvertire del grave pericolo che
corriamo. Per molti anni abbiamo cercato la nostra gente, gli Eldren, nel
desiderio di raggiungerla. Il sistema da noi adottato per preservare la razza
ci risulta molto sgradevole, come forse avrete saputo. In verità gli uomini
che acquistiamo vengono trattati bene e godono di quasi tutti i privilegi
della comunità, ma resta una situazione innaturale. Preferiremmo procreare
con individui che avessero una possibilità di scelta.»
Fece una breve pausa, poi proseguì: «Ultimamente ci siamo imbarcate in
una serie di esperimenti, nel tentativo di rintracciare la nostra gente, nella
convinzione di poterci riunire con essa, una volta che l'avessimo trovata.
Tuttavia abbiamo scoperto molti aspetti che ignoravamo. Inoltre, siamo
state costrette al compromesso e, alla fine, alcune di noi hanno preso una
via sbagliata. Adesso, per esempio, le conoscenze di vostra sorella Shara-
dim sono assai superiori a quelle che le avremmo dato, se avessimo cono-
sciuto meglio il suo carattere.»
«Quanto a questo» risposi io «dovete illuminarmi voi.» Io e von Bek e-
ravamo seduti a gambe incrociate davanti alle donne, che in gran parte pa-
revano avere la stessa età di Phalizaarn, anche se un piccolo numero erano
più giovani e un paio erano più anziane. Alisaard non era presente, né
scorsi altre donne del gruppo che ci aveva salvato dalla nave di Armiad.
«Così faremo» promise l'Annunciatrice Eletta. Ma prima ci espose bre-
vemente la storia della sua gente: di come una manciata di superstiti fosse
stata costretta a nascondersi a causa delle soverchianti forze dei barbari
umani. Alla fine avevano deciso di fuggire in un altro regno dove i Mab-
den non potessero seguirli. Laggiù contavano di iniziare una nuova vita.
Avevano già esplorato vari altri mondi ma ne avevano cercato uno in cui
non si fossero insediati gli uomini, e individuato un sistema per scoprirli.
Al loro ritorno, i primi esploratori del nuovo mondo avevano portato con
sé due grandi bestie che li avevano seguiti per curiosità. Già era noto che
quelle bestie sapevano come ritornare al loro mondo creando una nuova
porta tra i due reami. Gli Eldren avevano pensato di lasciare libere le bestie
e di seguirle. Le creature non avevano alcuna ostilità verso gli Eldren, anzi,
tra loro c'era una sorta di rispetto reciproco difficile da definire.
Gli Eldren non avrebbero incontrato difficoltà a vivere nello stesso
mondo delle bestie. Così, mentre un gruppo seguiva la bestia di sesso ma-
schile nella galleria da essa creata, il secondo gruppo, composto di sole
donne, doveva partire poco più tardi, una volta che gli uomini si fossero
assicurati che non c'erano pericoli.
Così le donne Eldren avevano atteso per qualche tempo, e poi, ormai
certe che non v'erano pericoli, avevano inviato la bestia di sesso femmini-
le. Tuttavia, mentre la seguivano all'interno della galleria, la bestia era spa-
rita. C'era stata una sorta di lotta, l'impressione che la bestia tentasse di av-
vertirli, e alla fine il gruppo di donne Eldren si era ritrovato su quel mon-
do, Gheestenheem. La bestia che doveva assicurare loro la salvezza aveva
perso la strada o era stata rapita.
«In qualche modo la galleria si era spostata» continuò Phalizaarn. «La
struttura del multiverso è come quella degli ingranaggi di un orologio. Ba-
sta un'oscillazione del pendolo e vi trovate in un altro mondo, che può es-
sere lontanissimo, nel tempo e nello spazio, da quello da voi cercato. È
quanto è successo a noi. Fino a poco tempo non sapevamo che cosa fosse
successo alla bestia che avrebbe dovuto guidarci.»
Continuò: «Per poter sopravvivere, siamo state costrette a servirci delle
nostre conoscenze di alchimia, per poter avere figli dai maschi che erano
giunti qui dai reami degli uomini. Alla fine scoprimmo di poter comprare
quei maschi da vari commercianti dei Sei Regni. Solo in occasione dell'A-
dunanza si intersecano tutti i Regni, ma a volte non è difficile raggiunger-
ne qualcun altro, se ne abbiamo bisogno. Nello stesso tempo ci siamo de-
dicate a uno studio della natura del multiverso, delle modalità secondo cui
le orbite di alcuni mondi intersecano quelle di altri.
«Per mezzo delle nostre medium, le stesse che si sono messe in contatto
con voi pensando di mettersi in contatto con Sharadim, siamo riuscite a
comunicare occasionalmente con i nostri uomini. È divenuto chiaro che
l'unico modo per raggiungerli consisteva nel trovare la bestia che inizial-
mente aveva cercato di guidarci. Poi, alcuni anni fa, è sorto un altro grave
problema. Abbiamo scoperto che le erbe impiegate dalla nostra alchimia
diventavano sempre più rare. Non sappiamo perché. Forse un semplice
cambiamento climatico.
«Nelle nostre serre speciali possiamo coltivare piante molto simili a es-
se, ma non hanno le stesse proprietà. Così, ci restano pochissime fonti di
quelle sostanze. Abbiamo pochissime figlie. Presto non ne nasceranno più
e la nostra razza morirà. Ecco perché la nostra richiesta di aiuto era così
urgente. A quel punto si è presentato a noi un individuo che ha detto di sa-
pere come rintracciare la nostra bestia, ma che in tutto il multiverso c'era
una sola creatura capace di trovarla, non solo, ma destinata a farlo. Chiamò
questa creatura il Campione Eterno.»
Un'altra donna parlò, senza alzarsi dal punto in cui sedeva sul pavimen-
to. «Non sapevamo se fosse maschio o femmina, umano o Eldren. La sola
cosa che avessimo era l'Actorios. La gemma.»
«Ci ha detto che vi avremmo trovato grazie a quella gemma» riprese
Phalizaarn. Da un sacchetto che portava alla vita estrasse una pietra e me
la mostrò, tenendola sul palmo della mano. «La riconoscete?»
Qualcosa, dentro di me, riconobbe la pietra, ma nessun ricordo affiorò
alla mia mente. Scossi la testa.
Phalizaarn sorrise. «Be', sembra che la gemma riconosca voi.»
La gemma, che pareva piena di nebbia o di fumo multicolore, parve qua-
si muoversi nella sua mano. Io sentii un grande bisogno di possederla. A-
vrei allungato la mano per prenderla, ma riuscii a trattenermi.
«È tua» disse qualcuno, dietro di me. Io e von Bek ci voltammo. «È tua.
Prendila» ripeté il nuovo venuto.
Non più vestito della sua corazza nera e gialla, ma con un'ampia veste
color porpora, il gigante nero Sepiriz mi guardò con divertimento e com-
passione. «Sarà sempre tua, dovunque tu la veda» proseguì. «Prendila. Ti
servirà. Qui ha terminato il suo ciclo.»
La gemma era tiepida. Mi parve di toccare carne viva. Quando la strinsi
nella mano, rabbrividii. Mi parve che irradiasse dentro di me un'ondata di
energia. «Grazie.» Mi inchinai all'Annunciatrice Eletta e a Sepiriz, poi in-
filai la pietra nella mia borsa. «Sei tu l'oracolo di cui parlavano, Sepiriz?
Le confondi a forza di misteri come fai con me?» Lo dissi con grande af-
fetto.
«Un giorno quell'Actorius ornerà l'Anello dei Re» m'informò il gigante
«e tu lo avrai al dito. Ma adesso hai un compito assai più immediato. Un
compito, John Daker, che potrebbe procurarti almeno una parte di quel che
desideri.»
«Promessa un po' vaga, ser cavaliere» osservai.
Sepiriz non si scompose. «Oso esprimermi con precisione solo su certi
argomenti. L'equilibrio è particolarmente delicato, in questo momento...
preferirei non romperlo. Almeno per ora. La lady Phalizaarn ti ha descritto
la bestia da loro perduta?»
«Ricordo bene le parole dell'incantesimo» gli dissi. «È un drago del fuo-
co. Una dragonessa. Ed è prigioniera, ho capito. Chiedevano che io - o
meglio Sharadim - liberasse la creatura. È intrappolata in un mondo che
posso visitare soltanto io?»
«Non esattamente. È intrappolata in un oggetto che soltanto tu puoi im-
pugnare...»
«Quella maledetta spada!» Feci un passo indietro e scossi violentemente
la testa. «No! No, Sepiriz, non sono disposto a riprenderla! La Spada Nera
è malvagia. Non mi piace il suo influsso su di me...»
«Non si tratta della stessa spada» mi rispose lui, con calma. «Almeno,
non nell'aspetto a cui mi riferisco. Alcuni dicono che le spade gemelle so-
no una sola. Altri che hanno mille forme. Ma io ne dubito. La lama è stata
forgiata in modo da accogliere un'anima - o quella che noi definiremmo ta-
le: uno spirito, un demone, quello che vuoi tu - e fu solo per una depreca-
bile coincidenza che la dragonessa venne intrappolata dentro di essa, in
modo da riempire il vuoto interno, per così dire, della spada.»
«Quei draghi sono certamente enormi. E la spada...»
«Le banali questioni di spazio e tempo non hanno importanza per le for-
ze di cui parlo e che tu dovresti ormai conoscere» mi rispose Sepiriz, sol-
levando la mano. «La spada era stata forgiata da poco. Coloro che l'aveva-
no fabbricata non avevano ancora terminato il loro lavoro. La lama, per
così dire, si stava raffreddando. Poi, all'improvviso, ci fu un grande som-
movimento che si diffuse per tutto il multiverso.
«Già allora il Caos e la Legge lottavano per impadronirsi della lama e
della sua gemella. Le dimensioni vennero ripiegate su se stesse, interi cicli
storici cambiarono in pochi istanti, le leggi medesime della natura cambia-
rono. E proprio allora il drago - il secondo drago - tentò di attraversare le
barriere tra i Regni per fare ritorno al proprio mondo. Fu una coincidenza
imprevedibile. A causa del grande sommovimento, rimase intrappolata al-
l'interno della spada. Nessun incantesimo fu più in grado di liberarla.
«La lama era stata creata in modo da poter ospitare un'anima. Una volta
che l'avesse avuta, poteva lasciarla libera soltanto in conseguenza di un ca-
so portentoso. E tu sei il solo che possa liberare il drago. La spada è un og-
getto potentissimo, anche senza di te. Nelle mani sbagliate potrebbe recare
danni a tutto ciò che amiamo, forse distruggerlo per sempre. Sharadim
stessa crede nella spada. Ha udito le voci che la chiamavano, ha fatto alcu-
ne domande, ha ricevuto certe risposte. Adesso vuole impadronirsi di
quell'oggetto di potere. Intende dominare i Sei Regni, e con la Spada del
Drago potrebbe raggiungere facilmente quello scopo.»
«Come sai che la principessa Sharadim è malvagia?» chiesi, rivolto a
Sepiriz. «Fra la popolazione dei Sei Regni - almeno fra la maggioranza
della popolazione - è considerata come la somma di tutte le virtù.»
Fu lady Phalizaarn a rispondermi. «Semplicissimo. L'abbiamo scoperto
recentemente, dopo una spedizione commerciale nel Draachenheem. Ab-
biamo comprato una partita di uomini, tutti facenti parte, fino a poco pri-
ma, della corte. Molti erano nobili e Sharadim li aveva venduti a noi per
farli tacere. Succede spesso che noi diventiamo un comodo sistema per e-
liminare gli indesiderati, da quando abbiamo diffuso la voce che mangia-
mo gli uomini da noi acquistati. Alcuni di quegli uomini avevano visto
Sharadim avvelenare il vino che vi ha offerto al ritorno dalla vostra ultima
impresa. La principessa s'è comprata la fedeltà di alcuni cortigiani, poi ha
arrestato gli altri con l'accusa di essere cospiratori e sostenitori di Flamadin
e li ha venduti a noi.»
«Perché ha cercato di avvelenarmi?» chiesi.
«Vi siete rifiutato di sposarla. Eravate disgustato delle sue macchinazio-
ni e della sua crudeltà. Per anni vi ha incoraggiato a recarvi all'estero in
cerca di avventure. La cosa era in accordo con il vostro temperamento e lei
vi garantiva che il regno era al sicuro nelle sue mani. Gradualmente, però,
siete riuscito a scoprire quello che stava facendo, come continuasse a cor-
rompere tutto ciò che giudicavate onorevole e preparasse la guerra tra il
Draachenheem e gli altri Regni. L'avete minacciata di informare tutti in
occasione della prossima Adunanza. Intanto lei aveva capito qualcosa di
ciò che le comunicavano le donne eldren e aveva capito che in realtà cer-
cavano voi. Aveva parecchi motivi per uccidervi.»
«Allora, se sono morto, come posso essere qui?» chiesi io.
«È un mistero, davvero. Vari uomini oggi presenti nel nostro mondo vi
hanno visto morire. Hanno detto che il vostro corpo era pallido e rigido.»
«E che cosa è successo al mio corpo?»
«Alcuni pensano che sia nascosto nelle stanze segrete di Sharadim. La
quale vi pratica i riti più disgustosi...»
«Questo porta come corollario la domanda: 'Chi sono io?'» osservai.
«Visto che non sono il principe Flamadin.»
«Tu sei il principe» intervenne Sepiriz. «Nessuno ne dubita. Ma non rie-
scono a capire come sei riuscito a fuggire.»
«Allora volete che cerchi quella spada? E poi?»
«Bisogna portarla all'Isola delle Adunanze. Le donne eldren sapranno
che cosa farne.»
«E sai dove posso trovare la spada?» chiesi.
«Abbiamo solo qualche voce. Ha cambiato possessore più volte. E, co-
me risultato, molti di coloro che volevano usarla per i propri scopi hanno
incontrato una morte terribile.»
«Allora, perché non lasciare che la trovi Sharadim?» osservai. «Morta
lei, posso prendere la spada e portarla alle Eldren...»
«L'umorismo non è mai stato il tuo forte, Campione» rispose Sepiriz,
scuotendo tristemente la testa. «Sharadim avrà certo trovato qualche siste-
ma per controllare la spada. Può avere trovato il sistema di rendersi invul-
nerabile alla specifica maledizione di quell'arma. Non è stupida, e neppure
ignorante. Sa come usare la spada, una volta che l'abbia trovata. In questo
momento ha già mandato i suoi emissari a raccogliere informazioni.»
«Allora ne sa più di te, lord Sepiriz?»
«Sa qualcosa. Ma è più che sufficiente.»
«Devo cercare di arrivare alla spada prima di lei? O devo trovare qual-
che mezzo per fermarla? Non mi è chiaro quel che vuoi da me, mio signo-
re.»
A quel punto, Sepiriz doveva avere notato la mia scarsa voglia di obbe-
dire. Non avevo alcuna intenzione di rivedere un'altra spada come la Spada
Nera, tanto meno di impugnarla.
«Mi aspetto che adempia il tuo destino, Campione.»
«E se mi rifiutassi?»
«Non conosceresti neppure un istante di libertà, per un'eternità dopo l'al-
tra. Soffrirai in modo ancor più terribile di coloro che il tuo egoismo ha
consegnato a un orrore infinito. Il Caos gioca una parte in tutto questo. Hai
mai sentito parlare dell'arciduca Balarizaaf? È uno dei più ambiziosi Si-
gnori del Caos. Sharadim sta trattando con lui, gli ha offerto un'alleanza.
Se il Caos dovesse impadronirsi dei Sei Regni, i popoli conquistati cono-
scerebbero soltanto un'orrenda distruzione, uno spaventoso tormento, El-
dren o umani che fossero. Sharadim cerca solo il potere, che le permetterà
di soddisfare i suoi capricci perversi. È un ottimo strumento in mano all'ar-
ciduca Balarizaaf. E Balarizaaf conosce assai meglio di lei il valore della
spada.»
«Allora, è una contesa tra Legge e Caos?» chiesi io. E aggiunsi: «Ma
questa volta devo combattere per la Legge.»
«È la volontà dell'Equilibrio» rispose Sepiriz, e mi parve di cogliere uno
strano tocco di pietà nella sua voce profonda.
«Non mi fido di te, né di chiunque altro della tua risma» gli dissi. «Ma
non posso fare altro. Tuttavia non intendo fare nulla se non mi assicurerai
che, con le mie azioni, sarò d'aiuto a queste donne eldren, perché la mia
fedeltà va agli Eldren, e non a qualche grande forza cosmica. Se riuscirò
nella mia missione, potranno riunirsi ai loro uomini?»
«Questa è una cosa che posso prometterti» mi rispose Sepiriz. Pareva
colpito dalle mie parole, più che offeso dal tono.
«Allora farò del mio meglio per trovare la Spada del Drago e per liberare
la sua prigioniera» gli assicurai.
«Dunque, ho la tua promessa» disse Sepiriz, chiaramente lieto della mia
decisione. Dall'espressione del suo viso, mi parve che si prendesse un ap-
punto mentale. Inoltre, era chiaro che gli avevo tolto una grave preoccupa-
zione.
Von Bek fece un passo avanti. «Perdonate l'interruzione, signori, ma vi
sarei assai obbligato se poteste darmi una risposta: anch'io ho un corso d'a-
zione predeterminato o dovrò limitarmi a fare del mio meglio per tornar-
mene a casa?»
Sepiriz posò la mano sul braccio del conte sassone. «Mio giovane ami-
co, le cose sono assai più semplici per ciò che riguarda te e posso spiegar-
mi più chiaramente. Se continuerai questa impresa e aiuterai il Campione
ad adempiere il suo destino, ti prometto che raggiungerai lo scopo da te
desiderato.»
«La sconfitta di Hitler e del suo nazismo?»
«Lo giuro.»
Mi era difficile rimanere zitto, perché sapevo benissimo che i nazisti e-
rano destinati alla sconfitta. Poi, all'improvviso, ebbi il sospetto che potes-
sero vincere, ma che forse saremmo stati io e von Bek a mettere in moto il
processo che li avrebbe portati alla distruzione. Capivo adesso perché Se-
piriz era costretto a parlare per enigmi. Il Cavaliere conosceva più di un fu-
turo. Forse conosceva un milione di futuri alternativi, un milione di mondi
diversi, un milione di epoche storiche differenti...
«Benissimo» rispondeva intanto von Bek. «Allora continuerò questa im-
presa. Almeno per ora.»
«Anche Alisaard verrà con voi» intervenne lady Phalizaarn. «Si è offerta
volontaria, dato che è una delle responsabili di avere fatto eccessive rivela-
zioni a Sharadim. E, naturalmente, porterete con voi gli uomini.»
«Gli uomini?» feci io. «Che uomini?» Mi guardai attorno, stupidamente.
«I cortigiani esiliati di Sharadim» mi spiegò lei.
«E perché dovrei prenderli?»
«Come testimoni» rispose Sepiriz «dato che il tuo primo compito consi-
sterà nell'andare subito nel Draachenheem ad affrontare tua sorella accu-
sandola e portando le prove di quello che ha fatto. Se le venisse tolto il po-
tere, il tuo compito sarebbe assai più facile.»
«Pensi che si possa riuscire? Noi tre e un pugno di uomini?»
«Non hai scelta» rispose Sepiriz, con gravità. «È il primo compito che
dovrai svolgere, se vuoi trovare la Spada del Drago. Non c'è inizio miglio-
re. Affrontando la tua malvagia gemella, Sharadim, stabilirai la configura-
zione che sarà presa da tutto il resto della tua ricerca. Ricorda, Campione,
che tempo e materia sono forgiati dalle nostre azioni. È una delle poche
costanti del multiverso. Siamo noi a imporgli la logica, per la nostra so-
pravvivenza. Crea una buona configurazione di partenza e ti avvicinerai di
un passo a compiere il destino da te desiderato...»
«Il destino!» Gli sorrisi senza alcuno umorismo. Per un istante provai la
tentazione di ribellarmi. Stavo quasi per girarmi e per uscire dalla sala, per
dire a Sepiriz che non volevo più avere a che fare con tutte quelle cose.
Ero stufo di misteri e di destini.
Ma l'occhio mi cadde sul viso di quelle donne eldren e vidi, nascoste sot-
to la grazia e la dignità, anche l'ansia e la disperazione profonda. Mi fer-
mai. Era il popolo che avevo scelto di servire a dispetto della mia stessa
razza. Non potevo tradirlo in quel momento.
Ma solo per amore di Ermizhad - non certo per Sepiriz e la sua oratoria -
avrei preso la strada del Draachenheem e laggiù sarei andato a sfidare il
male.
«Partiremo domattina all'alba» promisi.
TRE
Eravamo in dodici nella piccola nave che, dopo essere entrata fra le co-
lonne di luce, ora percorreva la galleria che collega i mondi. Alisaard, che
indossava nuovamente la sua armatura d'avorio, era al timone, mentre gli
altri si tenevano alle murate e guardavano a occhi sgranati la scena. Gli al-
tri nove erano nobili del Draachenheem. Due di loro erano Principi Eredi-
tari, capi di intere nazioni, rapiti la notte in cui era stato assassinato Fla-
madin. Quattro altri erano Sceriffi Eletti di grandi città e gli ultimi tre era-
no i Cavalieri di Corte che avevano visto somministrare il veleno.
«Molti altri sono morti» mi disse il principe ereditario Ottro, un uomo
anziano con la faccia segnata di lunghe cicatrici. «Ma non poteva uccidere
tutti, e perciò ci ha venduto alle donne del Gheestenheem. Pensate, saremo
i primi a ritornare da quel Regno.»
«Ma votati al silenzio» gli ricordò il giovane Federit Shaus. «Dobbiamo
a quelle donne degli Eldren più della nostra vita.»
Tutt'e nove annuirono. Avevano giurato di non parlare della vera natura
del Gheestenheem.
La nave continuò a correre nella luce di tutti i colori dell'arcobaleno,
sobbalzando e virando di tanto in tanto, come se incontrasse resistenza, ma
senza rallentare. Poi, all'improvviso, eravamo di nuovo a beccheggiare
sull'acqua azzurra del mare, tra due colonne e, un istante più tardi, il vento
gonfiò la nostra vela: ci trovammo in un normale oceano, con il cielo sere-
no sopra di noi e una buona brezza a poppa.
Due uomini del Draachenheem consultarono la mappa di Alisaard e le
diedero una buona idea della nostra posizione. Facevamo rotta verso il Va-
ladek, la terra cui appartenevano Sharadim e Flamadin. Alcuni uomini del
Draachenheem avrebbero voluto fare ritorno alle loro terre, per raccogliere
un esercito e marciare contro Sharadim, ma Sepiriz aveva insistito perché
ci recassimo direttamente nel Valadek.
Presto avvistammo la costa. Scorgemmo grandi rupi nere sullo sfondo
del cielo azzurro pallido. Mi ricordarono le rupi che vedevo in sogno, quel-
le dei Guerrieri alla Fine del Tempo. C'erano schiuma e scogli e pochi po-
sti dove attraccare.
«È la grande forza del Valadek» commentò Madvad di Drane, un indivi-
duo dai capelli neri e dalle sopracciglia straordinariamente folte. «Come
isola è virtualmente invulnerabile agli attacchi dal mare. I suoi pochi porti
sono ben custoditi.»
«Prendiamo terra in uno di quelli?» chiese von Bek.
Madvad scosse la testa. «Conosciamo una piccola cala dove è possibile
sbarcare con la marea. Stiamo cercando quella.»
Era quasi notte quando riuscimmo a sbarcare sulla gelida pietra di una
stretta spiaggia circondata da alti scogli di basalto in cima ai quali sorge-
vano le rovine di un antico castello. La nave venne trainata fino a una ca-
verna e uno dei cavalieri, Ruberd di Hanzo, ci accompagnò per una serie di
aperture segrete e lungo un'antica scalinata finché non ci trovammo fra le
rovine.
«Una volta erano abitate da una delle nostre più nobili famiglie» disse
Ruberd. «I vostri antenati, principe Flamadin.» S'interruppe, leggermente
imbarazzato. «O dovrei parlare semplicemente degli 'antenati del principe
Flamadin'? Ci avete detto che non siete più voi, mio signore, ma giurerei
che siete il nostro Principe Eletto.»
Mi era parso inutile ingannare quelle persone oneste, perciò avevo loro
detto una parte della verità, nei limiti di quello che sarebbero riusciti a
comprendere.
«Nelle vicinanze c'è un villaggio, vero?» chiese il vecchio Ottro. «Cer-
chiamo di raggiungerlo in fretta. Sento la mancanza di qualcosa da man-
giare e di una pinta di birra. Ci fermiamo laggiù per la notte, vero, e prose-
guiamo a cavallo domani?»
«Domattina all'alba.» Gli ricordai il nostro piano: «Dobbiamo raggiun-
gere Rhetalik prima di mezzogiorno, allorché Sharadim si farà incoronare
imperatrice.» Rhetalik era la capitale del Regno.
«Certo, giovane quasi principe» mi assicurò. «Conosco perfettamente
l'urgenza. Ma si pensa e si agisce meglio, dopo un buon pasto e qualche
ora di riposo.»
Io e Alisaard ci avvolgemmo nel mantello per non suscitare eccessive
curiosità da parte degli abitanti del villaggio, poi trovammo una taverna
abbastanza grande per accogliere l'intero gruppo. Anzi, il proprietario era
deliziato di avere tanti ospiti. Avevamo un mucchio di monete locali e le
spendemmo generosamente. Cenammo bene e dormimmo comodamente, e
l'indomani mattina scegliemmo i cavalli migliori. Poi ci avviammo verso
Rhetalik. Dovevamo costituire uno strano spettacolo agli occhi degli abi-
tanti del luogo: io vestito di cuoio come un cacciatore di palude, von Bek
con giacca, camicia e calzoni simili a quelli che indossava al suo arrivo (e
fabbricati per lui dalle Eldren, che gli avevano dato anche guanti, stivali e
un largo cappello), due signori del Draachenheem con le sete policrome e
le stoffe dei loro clan, quattro in armature d'avorio prestate loro e tre con
un assortimento di abiti presi tra quelli di cui disponevano i magazzini del
Gheestenheem.
Io cavalcavo in testa a quello strano gruppo, con von Bek da una parte e
Alisaard dall'altra. Quest'ultima, per abitudine, s'era infilata l'elmo. Le El-
dren non mostravano mai la faccia alla gente degli altri Regni. Avevano
cucito un bandiera per me, che la portavo legata alla lancia, ma al momen-
to era arrotolata e coperta. Inoltre, ogni volta che vedevamo qualcuno sulla
strada, mi affrettavo a sollevare il cappuccio del mantello. Non intendevo
farmi riconoscere così presto.
Gradualmente la strada di terra battuta si allargò. Poi giungemmo in un
tratto pavimentato con grandi lastre di pietra e incontrammo altre persone
che si muovevano nella stessa direzione. Avevano un aspetto festoso e
provenivano da tutte le classi sociali. C'erano uomini e donne dall'aspetto
chiaramente monastico e altri di gusti chiaramente secolari. Uomini, donne
e bambini, tutti indossavano i loro abiti migliori, in una confusione di colo-
ri vivaci.
Quegli abitanti del Draachenheem amavano le stoffe colorate e i disegni
a riquadri multicolori e non avevano nulla in contrario a indossare una de-
cina di colori diversi. I loro gusti mi parvero assai attraenti e cominciai a
sentirmi piuttosto sciatto nella mia monotona tenuta di cuoio. Presto di
fianco alla strada cominciammo a scorgere grandi statue dorate, raffiguran-
ti uomini o donne, gruppi, animali di ogni sorta, pur se col predominio di
quelle grandi lucertole che avevo visto all'Adunanza. Tuttavia i lucertoloni
non parevano di impiego comune: per la maggior parte della gente, il ca-
vallo, il bue e l'asino erano le consuete bestie da soma, anche se ogni tanto
scorgevamo una grossa creatura, vagamente imparentata con il cinghiale,
che, grazie a una robusta sella di legno, serviva come animale da sella e da
carico.
«Guardate!» mi disse il principe Ottro, affiancandosi a me. «È il mo-
mento migliore per arrivare a Rhetalik senza farci notare, come avevo det-
to.»
La città era circondata da alte mura di calda arenaria rossa, e in alto si
scorgevano grandi punte di pietra, simili ai merli di un castello medievale,
ma di forma completamente diversa. Ciascuna di quelle punte aveva un fo-
ro in centro, in modo che un soldato vi si potesse riparare e scagliare frecce
senza correre il rischio di essere colpito. La città era stata costruita per re-
sistere a un assedio, anche se Ottro mi assicurò che da molti anni tutto il
Draachenheem era in pace. All'interno delle mura c'erano case fortificate
allo stesso modo, ricchi palazzi, mercati coperti, canali, edifici religiosi,
magazzini e tutti i tipi di edificio che si possono trovare in una complessa
città commerciale.
Rhetalik pareva costruita su un terreno in discesa: tutte le sue strette vie
portavano verso il lago situato al suo centro. Laggiù, su un isolotto artifi-
ciale costruito in tempi antichi, c'era un grande palazzo di marmo, quarzo,
terracotta e pietra calcarea: un palazzo che scintillava alla luce del sole e
che rifletteva la miriade di colori degli alti obelischi eretti tutt'intorno al
perimetro dell'isola. Sulle torri del palazzo sventolavano cento diverse
bandiere, ciascuna delle quali era un'opera d'arte. Un ponte sottile, elegan-
temente arcuato, portava a un elegante posto di guardia, in pietra scolpita,
cui facevano da piantone sentinelle con l'armatura di gala, elaboratissima e
assolutamente priva di valore pratico, dall'aspetto più fantasioso che si
possa immaginare.
L'effetto barocco di quella armatura era ulteriormente accresciuto dagli
animali bardati e sellati in modo altrettanto fantastico, che, accovacciati
accanto alle sentinelle, erano immobili quanto i loro padroni. Erano le
grandi lucertole da corsa che avevo già visto in precedenza: i draghi che
davano nome a quel mondo. Ottro mi aveva spiegato come, nei tempi anti-
chi, quelle creature fossero numerosissime e gli uomini avessero dovuto
combatterle per impadronirsi del territorio.
Fermammo i cavalli accanto a un muretto da cui si vedevano il lago e il
castello. Tutt'intorno a noi le strade erano tutte impavesate, piene di ban-
diere che scintillavano di minuscoli specchi, piene di scudi e corazze tirati
a lucido, cosicché l'intero luogo splendeva di riflessi argentei. Gli abitanti
del Valadek festeggiavano l'incoronazione della loro Imperatrice. C'era
musica dappertutto, folle di uomini e donne in giubilo, che facevano festa
nei vicoli e nelle strade.
«Abbastanza condivisa, questa allegria» commentò von Bek, sporgendo-
si in avanti perché aveva la schiena indolenzita. Erano passati vari anni
dall'ultima volta che era montato in sella. «Difficile credere che festeggino
la nomina di una persona che dovrebbe essere la personificazione del ma-
le!»
«Il male cresce meglio dietro una maschera» disse Ottro, con aria cupa. I
suoi compagni annuirono con altrettanta gravità.
«E la maschera migliore è semplice» continuò il giovane Federit Shaus.
«Onesto patriottismo. Gioioso idealismo...»
«Siete un po' cinico, mio giovane amico» gli fece von Bek, con un sorri-
so. «Ma purtroppo la mia esperienza non può che darvi ragione. Fatemi
vedere qualcuno che grida: 'Per la mia patria, nel bene o nel male!' e io vi
farò vedere una persona disposta a sterminare senza battere ciglio metà dei
suoi compatrioti nel nome del patriottismo.»
«Qualcuno una volta ha detto che 'nazione' è solo un eufemismo per
'crimine'» intervenne Ottro. «In questo caso posso dirmi d'accordo. Shara-
dim ha abusato dell'affetto e della fiducia del proprio popolo. L'hanno elet-
ta Imperatrice di questo grande regno perché sono convinti che rappresenti
quanto c'è di meglio nell'umana natura. Inoltre gode della loro compren-
sione. Il fratello non ha cercato di ucciderla? Non è stato dimostrato che
Sharadim ha sofferto per anni, desiderosa di mantenere la reputazione di
suo fratello, facendo credere a tutti che fosse nobile e buono mentre invece
era l'essenza stessa dell'egoismo e della codardia?» Scosse la testa, profon-
damente amareggiato.
«Be'» intervenni io «visto che suo fratello dovrebbe essere morto dopo
avervi ucciso...» la storia messa in circolazione da Sharadim era appunto
questa «...pensate quanto sarà felice di scoprire di avere avuto ragione,
quando si fidava di lui!»
«Ci ucciderà non appena ci riconoscerà. Lo ripeto ancora una volta.»
Von Bek non credeva che il nostro piano potesse funzionare.
«Non penso che Sepiriz, nonostante le sue astuzie e le sue macchinazio-
ni, ci manderebbe a morte sicura» rispose Alisaard. «Dobbiamo fidarci del
suo giudizio; del resto, conosce assai più cose di noi.»
«Non amo l'idea di essere un semplice pedone della sua cosmica partita
a scacchi» osservò von Bek.
«Neanch'io.» Mi strinsi nelle spalle. «Anche se posso dare l'impressione
di esserci ormai abituato. Continuo a credere che la volontà individuale
possa ottenere gli stessi risultati delle alleanze tra uomini e dèi di cui parla
Sepiriz. Più di una volta ho avuto l'impressione che gli dèi si siano lasciati
prendere la mano a tal punto, dal loro gioco, dalle loro politiche cosmiche,
da avere ormai perso di vista il loro scopo originale.»
«Allora non avete molto rispetto per gli dèi e i semidei» fece Alisaard,
portandosi rapidamente la mano davanti alla bocca, scordandosi di avere la
visiera abbassata. «Confesso che anche noi del Gheestenheem non nutria-
mo molta ammirazione per quelle entità. Spesso quel che trapela fino a noi
richiama alla mente i giochi dei bambini!»
«Purtroppo» rispose von Bek «sono bambini che amano il potere assai
più di noi uomini, e quando lo raggiungono sono in grado di distruggere
quanti non desiderano prendere parte al gioco.»
Alverid di Prucca si sfilò il mantello. Era più taciturno degli altri uomini
del Draachenheem. Il suo principato era lontano dal Valadek, verso ovest,
e laggiù la gente aveva la fama di parlare poco e riflettere molto. «Sia co-
me sia» disse «dovremmo passare alla realizzazione del nostro piano. Pre-
sto sarà mezzogiorno. Ricordate tutti quello che dobbiamo fare?»
«Non è un piano complesso» rispose von Bek. Tirò le redini. «Proce-
diamo, allora.»
Muovendoci lentamente in mezzo alla folla festante, giungemmo final-
mente al ponte. Anche dal nostro lato era custodito da Cavalieri del Drago,
fermi sull'attenti accanto ai loro lucertoloni. Al nostro arrivo ci rivolsero il
saluto.
«Siamo la delegazione invitata dai Sei Regni» disse Alisaard. «Venuta a
porgere i suoi rispetti alla vostra nuova Imperatrice.»
Una delle guardie aggrottò la fronte. «Invitata, signora?»
«Invitata. Dalla vostra principessa imperatrice Sharadim. Dobbiamo a-
spettare qui con i venditori di cianfrusaglie e dobbiamo passare dall'ingres-
so della servitù? Mi aspettavo un'accoglienza più calorosa, da parte di una
donna come me...»
Le guardie si scambiarono un'occhiata e con aria un po' sottomessa ci la-
sciarono passare. E, visto che le prime guardie non ci avevano fermato, le
altre ci fecero entrare senza altre domande.
«Adesso, seguite me» disse Ottro, portandosi in testa al nostro gruppo.
Era la persona che conosceva meglio il palazzo e il protocollo. Spinse in
avanti il cavallo, fino a un grande arco di granito, largo almeno quattro me-
tri e spesso tre. Di qui passammo in un elegante cortile ammantato di prati
e con sentieri di ghiaia. Lo attraversammo, anche ora senza essere fermati
da alcuna guardia, e io mi guardai intorno. Le alte mura del palazzo ci cir-
condavano da tutti i lati, sormontate da guglie elegantissime, quasi eteree
nella loro snellezza. Eppure avevo l'impressione di entrare in una trappola
da cui sarebbe stato impossibile fuggire.
Passammo sotto un secondo arco, e poi sotto un terzo, e infine scor-
gemmo un gruppo di giovani in livrea verde e marrone. Ottro li riconobbe.
«Scudieri» gridò loro. «Prendete i nostri cavalli o arriveremo tardi alla ce-
rimonia!»
Gli scudieri corsero verso di noi per obbedire. Smontammo e Ottro si di-
resse senza esitazione verso la porta centrale; di lì entrò in quello che era
senza dubbio un appartamento privato, ma che al momento era vuoto.
«Conoscevo la dama che abita qui» ci disse, a mo' di spiegazione. «Fac-
ciamo in fretta, amici. Finora siamo stati fortunati.»
Aprì la porta e ci mostrò un fresco corridoio dagli alti soffitti e dai ten-
doni sgargianti dei colori che quella gente amava. Incontrammo alcuni
giovani che indossavano la livrea verde e marrone, una giovane donna con
una veste bianca e rossa, un vecchio con un'ampia sciarpa di stoffa posta a
bandoliera attraverso il petto e bordata di pelliccia: ci guardarono incurio-
siti mentre seguivamo Ottro, svoltavamo altre due volte, salivamo lungo
alcune rampe di scale marmoree e infine arrivavamo a una pesante porta di
legno. Il principe la aprì con cautela, poi ci fece segno di seguirlo.
Ci trovammo in una camera buia, priva di occupanti. Tutte le finestre e-
rano chiuse con gli scuri. Nel centro, in un grosso vaso, ardeva un incenso
dal profumo pesante. Grandi piante dalle larghe foglie crescevano a profu-
sione in tutta la stanza e davano all'ambiente l'aspetto di una serra. C'era
una forte umidità che faceva pensare ai tropici.
«Cos'è questo posto?» chiese von Bek, con un brivido. «Vi si respira
un'atmosfera assai diversa da tutto il resto.»
«È la stanza dov'è morto il principe Flamadin, signore» gli rispose uno
dei cavalieri di corte. «Su quel divano.» Ce lo mostrò. «Quello che avete
sentito, signore, è l'odore del male.»
«Perché la tengono al buio?» chiesi io.
«Perché dicono che Sharadim comunica ancora con l'anima del fratello
morto...»
Fui io, questa volta, a rabbrividire. Si riferivano all'anima del corpo da
me abitato in quel momento?
«Ho sentito dire che conserva il cadavere in una di queste stanze» disse
un altro. «Nel ghiaccio. Incorrotto. Esattamente nelle condizioni in cui era
all'istante della morte.»
«Semplici voci» ribattei con fastidio.
«Certo, altezza» si affrettò a dire il giovane. Poi aggrottò la fronte. Riu-
scivo perfettamente a capirlo. Non era il solo a sentirsi confuso. A quanto
si sapeva, ero stato assassinato in quella stanza... o, almeno, era stato as-
sassinato un individuo pressoché identico a me. Mi portai la mano alla
fronte. Mi girava la testa.
Von Bek mi tenne per il braccio. «Appoggiati a me. Dio solo sa cosa stai
provando in questo momento. È già abbastanza brutto per me...»
Con il suo aiuto riuscii a riprendere la padronanza di me stesso. Se-
guimmo Ottro lungo una serie di altre camere, tutte buie e malsane come
l'ultima, finché non fummo dinanzi a una porta doppia. Ottro si fermò.
Dall'altra parte della porta ci giungevano forti rumori. Musica. Voci so-
nore. Applausi.
Capivo il nostro piano, ma trovavo difficile credere che fossimo già arri-
vati a tanto. Il mio cuore accelerò i battiti. Rivolsi a Ottro un cenno d'as-
senso.
Con un brusco movimento, il vecchio sfilò la sbarra e spinse violente-
mente la porta, facendola sbattere rumorosamente contro il muro.
Scorgemmo davanti a noi un mare di colori, di metallo e di seta, di facce
che si voltavano dalla nostra parte, sorprese dallo schianto.
Eravamo giunti alla grande sala delle cerimonie del Valadek, che sotto il
suo alto soffitto a volta ospitava una profusione di lance e bandiere, di ar-
mature e di ogni tipo di vesti lussuose, in una predominanza di rosso e di
bianco, di oro e di nero. Dalle grandi vetrate poste dirimpetto a noi entrava
l'accecante luce del sole.
I mosaici, i tendaggi, i vetri istoriati facevano un magnifico contrasto
con la pietra chiara della sala e parevano far convergere lo sguardo verso il
centro, dove, su un trono di ossidiana verde e azzurra, si stava alzando in
quel momento una donna straordinariamente bella. Il suo sguardo incrociò
il mio quando giunsi al primo degli ampi scalini che scendevano al palco
su cui posava il trono.
Accanto a lei c'erano uomini e donne che indossavano lunghe vesti: le
massime autorità religiose del Valadek, anch'esse costituite di fratelli e so-
relle sposati tra loro, come era nostro costume da duemila anni. Sharadim
portava l'antica Veste della Vittoria, che da secoli non era più stata indos-
sata da alcun Valadek. Né ci auguravamo di doverla indossare, perché era
una veste di guerra e significava conquista con la forza delle armi. Shara-
dim l'aveva offerta a me e io l'avevo rifiutata.
Teneva in mano la Mezza Spada, un'antica arma dei nostri barbari ante-
nati, che a quanto si diceva, anche se si era spezzata nel corso della batta-
glia, era stata ancora in grado di uccidere l'ultimo superstite della prece-
dente dinastia Anishad, una bambina di sei anni, dando così il regno alla
nostra famiglia. Questa l'aveva poi tenuto fino alla riforma della monarchia
con cui veniva dato al popolo il potere di eleggere principi e principesse.
Flamadin e Sharadim erano stati eletti perché erano gemelli, cosa che co-
stituiva il migliore augurio di prosperità. Sarebbe stato nostro dovere spo-
sarci per benedire la nazione, e il popolo sapeva che una simile unione a-
vrebbe portato fortuna.
La popolazione però non sapeva che Sharadim voleva l'unione per un
solo fine: perché sarebbe servita ad aumentare il suo potere. Ricordavo la
nostra discussione, il suo disgusto per quella che lei giudicava una mia de-
bolezza. Le avevo ricordato come fossimo stati eletti, come il nostro potere
fosse un dono del popolo, come dovessimo rispondere al Parlamento e al
Consiglio. Ma lei s'era limitata a riderne.
«Da tre secoli e mezzo» mi aveva risposto «il nostro sangue attende di
essere vendicato. Da tre secoli e mezzo la nostra famiglia morde il freno in
attesa del momento opportuno, consapevole che quel momento sarebbe
giunto, consapevole che quegli idioti se ne sarebbero scordati, perché se i
Valadek avessero voluto eliminare i loro giusti sovrani, noi Bharalleen di
Sardatria, avrebbero dovuto fare come noi con gli Anishad e uccidere l'in-
tera famiglia, fino ai cugini più lontani. Noi apparteniamo pienamente a
quel sangue, Flamadin. La nostra gente ci grida di realizzare il nostro de-
stino...»
«No!» gridai ora, dall'alto degli scalini.
Sharadim sgranò gli occhi mentre scendevo lentamente verso di lei.
«No, Sharadim» continuai. «Non otterrai tanto facilmente il potere. Vo-
glio almeno che il mondo conosca gli orrendi mezzi con cui lo hai raggiun-
to. Devono sapere che porterai disordine, orrore, sangue e sofferenza a
questo regno. Devono sapere che intendi allearti con i più tenebrosi poteri
del Caos, che intendi conquistare prima questo regno, poi farti Imperatrice
dei Sei Regni della Ruota. Devono sapere che sei pronta ad abbattere le
barriere che trattengono le forze delle Marche dell'Incubo. Coloro che fan-
no parte di questa grande assemblea devono sapere, Sharadim, sorella mia,
che provi solo disprezzo per loro; infatti ritenevano che il nostro sangue si
fosse annacquato, mentre in realtà tu ritieni che la lunga attesa lo abbia fat-
to diventare ancora più forte. Devono sapere, Sharadim, tu che prima hai
cercato di sedurmi e poi di uccidermi, come giudichi il loro semplice entu-
siasmo e la loro buona volontà. Devono sapere che aspiri a diventare im-
mortale, a entrare a far parte del pantheon del Caos!»
Già sapevo l'effetto che le mie parole avrebbero avuto in quella grande
sala. La mia voce echeggiò sulle pareti. Le mie parole furono come coltel-
li, ciascuna colpì in pieno centro il bersaglio. Eppure, fino a quel momen-
to, non sapevo quello che avrei detto.
Poi le parole mi erano giunte tutt'a un tratto alla mente. Per qualche mi-
nuto, a quanto capivo, l'anima di Flamadin era entrata in me, e io avevo
posseduto i ricordi dell'ultimo incontro con la sorella.
Avevo pensato di fare qualche rivelazione dinanzi ai nobili di una decina
di nazioni, riuniti per l'incoronazione, ma non avevo pensato, neppure per
un istante, che si sarebbe trattato di accuse così specifiche e accurate! Al-
l'inizio ero io a possedere il corpo del principe Flamadin. Ora la mente di
Flamadin aveva preso possesso della mia.
«Confida loro tutti i tuoi pensieri, sorellina!» proseguii, mentre conti-
nuavo a scendere. Ora passavo tra mucchi di rose rosse e rose rosa, e il lo-
ro profumo dolciastro mi entrava nelle narici come una droga. «Di' loro la
verità!»
Sharadim gettò a terra la Mezza Spada che, fino a un attimo prima, ave-
va continuato ad accarezzare come si accarezza un amante. Aveva il viso
pieno d'odio, ma anche, nello stesso tempo, di una sorta di gioia e di esal-
tazione, come se all'improvviso avesse riscoperto in sé un'ammirazione per
il fratello, da tempo dimenticata.
Alcuni petali di rosa si sollevarono pigramente nei grandi raggi di luce
che scendevano dalle invetriate. Mi fermai di nuovo, con le mani sui fian-
chi, l'intero corpo che la sfidava. «Dillo, Sharadim, sorella mia!»
Nella sua voce, quando parlò, non c'era nessuna traccia di dubbio. Anzi,
conteneva una gelida, orribile autorità. E un tono sprezzante.
«Il principe Flamadin è morto, messere. E voi non siete altro che un vol-
gare impostore!»
QUATTRO