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MICHAEL MOORCOCK

IL DRAGO NELLA SPADA


(The Dragon In The Sword, 1986)

a Minerva, la più nobile delle romane

Rosa di Rose tutte, di tutto il mondo Rosa!


Or anche tu giungesti dove l'onda furiosa
Batte i moli del pianto ed udisti la nota
Della squilla che chiama; vaga dolce e remota.
Stanca d'eternità, la Bellezza t'ha nata
Da noi e dalla grigia marina onda salata.
Le nostre navi allascano le lor vele pensose,
E attendon l'ugual fato, ch'a loro Dio dispose;
E quando le Sue guerre le avranno alfin sconfitte,
E affonderanno sotto le bianche stelle invitte
Non s'alzerà più il gemito fioco del nostro cuore
Triste perché non vive, triste perché non muore.

W. B. Yeats,
La Rosa della Guerra

PROLOGO

Sono John Daker, vittima dei sogni di un mondo intero.


E sono Erekosë, che nonostante fosse il Campione dell'Umanità distrus-
se l'intera razza umana. Ma sono anche Urlik Skarsol, il Signore del Ca-
stello di Ghiaccio che impugnò la Spada Nera. E Ilian di Garathorm, Elric
l'Uccisore di Donne, Hawkmoon, Corum e mille altri: uomini, donne e an-
drogini. Sono stato ciascuno di loro. Tutti guerrieri nell'eterna Guerra
dell'Equilibrio Cosmico, guerrieri che cercano di far trionfare la giustizia
in un universo incessantemente minacciato dalle incursioni del Caos, di
imporre l'ordine del Tempo a un'esistenza che non possiede fine o princi-
pio; e tuttavia la mia vera condanna non è quella di essere stato ciascuno di
loro.
La mia vera condanna è ricordare, anche se in modo sfocato, ciascuna
delle mie distinte incarnazioni, ogni momento di un'infinità di vite, di una
molteplicità di epoche e di mondi, ciascuno coesistente con gli altri, ma
tutti in successione tra loro.
Per me il Tempo è costituito di tre dolori nello stesso istante: il patimen-
to del Presente, il lungo tormento del Passato e la terribile prospettiva di
innumerevoli Futuri. Il Tempo è anche un complesso di realtà che si inter-
secano in modo sottile, di conseguenze imprevedibili e di cause inesplica-
bili, di tensioni e dipendenze profonde.
Ancora adesso non so realmente perché sia stato scelto proprio io per
questo destino, o come giunsi a chiudere un ciclo che, anche se non mi ha
lasciato libero, almeno promette di mitigare la mia pena.
So soltanto che il mio destino consiste nel lottare eternamente e nel non
raggiungere la pace che per pochi istanti, perché sono il Campione Eterno,
il difensore della giustizia e nello stesso tempo il suo distruttore. In me tut-
ta l'umanità è in guerra. In me, maschio e femmina si combinano, in me
combattono; in me infinite razze aspirano a realizzare i propri miti e i pro-
pri sogni...
Eppure, io sono una creatura umana esattamente come ogni mio simile.
Con la stessa facilità posso cadere preda dell'amore o della disperazione,
dell'odio o della paura.
Ero John Daker e lo sono ancora, e alla fine sono riuscito a raggiungere
una certa pace, la parvenza di una conclusione. Questo è il mio tentativo di
scrivere la mia ultima storia...
Ho già parlato di re Rigenos e di come mi avesse chiamato per combat-
tere contro gli Eldren, di come mi fossi innamorato e di come fossi giunto
a commettere un peccato terribile. Ho già raccontato di quel che mi era
successo quando (credo come punizione del mio crimine) fui chiamato a
Rowenarc, come venissi spinto a impugnare contro la mia volontà la Spada
Nera, come incontrai la Regina d'Argento e quel che abbiamo fatto insieme
nelle pianure glaciali del Sud.
Credo anche di avere narrato, in occasioni diverse da questa, altre mie
avventure (o forse le ha riferite qualche altra persona a cui le ho racconta-
te); ho anche accennato a come finii per viaggiare su una nave nera, guida-
ta da un comandante cieco.
Non ricordo, però, se ho mai descritto come lasciai il mondo del Ghiac-
ciaio Meridionale o la mia identità di Urlik Skarsol, perciò comincerò la
mia storia con i miei ultimi ricordi del pianeta morente, le cui terre cade-
vano progressivamente preda del freddo e i cui torbidi mari erano così
densi di sale da poter virtualmente sostenere il peso di un uomo adulto. Ed
essendo riuscito su quel mondo a rimediare, almeno in una piccola misura,
ai miei antichi peccati, mi ero augurato di potermi nuovamente riunire con
il mio unico e solo amore, la bellissima principessa degli Eldren, Ermi-
zhad.
Anche se ero un eroe per coloro che avevo aiutato, cominciavo a sentir-
mi sempre più solo. Inoltre, andavo sempre più soggetto ad accessi di me-
lanconia quasi suicida. A volte venivo colto da una collera folle contro il
mio destino, contro chiunque e qualunque cosa mi separassero dalla donna
che con la sua immagine e il suo viso riempiva tutte le mie ore, tanto di
sonno quanto di veglia. Ermizhad! Ermizhad! Chi mai aveva amato con al-
trettanta profondità? Con altrettanta costanza?
Nel mio carro di bronzo e d'argento, tirato da grandi orsi bianchi, avevo
percorso l'intero Ghiacciaio Meridionale, senza mai trovare tregua, con la
mente piena di ricordi, e avevo continuato a pregare perché Ermizhad mi
venisse restituita, avevo continuato a soffrire per lei. Dormivo pochissimo.
Di tanto in tanto ritornavo al Fiordo Scarlatto, dove molte persone erano
liete di ascoltare le mie parole e di darmi la loro amicizia, ma a quel punto
le normali faccende della vita mi risultavano quasi irritanti.
Per non sembrare scortese, evitavo quanto più possibile la compagnia e
l'ospitalità di quelle persone. Mi chiudevo nelle mie stanze e laggiù, se-
miaddormentato, sempre esausto, cercavo di spingere la mia anima in un
limbo, di staccarmi dal mio corpo, di frugare nel piano astrale (così lo
chiamavo io) alla ricerca del mio perduto amore. Ma già sapevo che i piani
dell'esistenza erano troppo numerosi, che c'era una sterminata varietà di
possibili cronologie e geografie.
Come avrei potuto esaminarli tutti fino a trovare la mia Ermizhad?
Mi era stato detto che avrei potuto trovarla a Tanelorn. Ma dov'era Tane-
lorn? Dai miei ricordi di altre esistenze sapevo che quella città assumeva
molte forme ed era eternamente elusiva, anche a una persona abituata a
muoversi tra gli strati molteplici del Milione di Sfere. Che possibilità ave-
vo io, legato a un unico corpo, a un unico piano terrestre, di trovare Tane-
lorn? Se fossero bastati il desiderio e la passione, avrei scoperto la città
almeno una decina di volte.
Poi, a poco a poco, la stanchezza prese il sopravvento. Alcuni di coloro
che mi conoscevano pensavano che potesse condurmi alla morte, altri che
la mia volontà sarebbe stata troppo forte per permetterlo. Accettai comun-
que le loro medicine, che infine mi diedero un sonno profondo. E in quel
sonno, quasi con una sorta di gioia, cominciarono a comparirmi strani so-
gni.
Dapprima mi pareva di galleggiare alla deriva in un informe oceano di
colori e di luci che turbinavano in tutte le direzioni. Poi gradualmente
compresi che lo spettacolo cui assistevo era un'immagine del multiverso.
Almeno in piccola parte, percepivo nello stesso tempo ogni singolo strato
di realtà, ogni periodo. E di conseguenza i miei sensi non riuscivano a di-
stinguere alcuno specifico dettaglio in quella visione stupefacente.
Poi mi accorsi di cadere, molto lentamente, attraverso tutte quelle epo-
che e quei regni di realtà, attraverso mondi interi, città, gruppi di uomini e
donne, foreste, montagne, oceani, finché non scorsi davanti a me una pic-
cola isola coperta di verde e priva di rilievi, che presentava un rassicurante
aspetto di solidità. Quando i miei piedi vi si posarono, colsi il profumo del-
l'erba fresca, vidi piccole zolle di terra, fiori di campo.
Tutto quell'ambiente mi parve meravigliosamente semplice, nonostante
fosse parte del ribollente caos di puro colore, delle maree di luce che co-
stantemente cambiavano intensità. Su quel frammento di realtà scorsi
un'alta figura. Indossava un'armatura che la ricopriva completamente, tutta
ricoperta dello stesso motivo a scacchi gialli e neri; la visiera dell'elmo era
calata sulla faccia, tanto che non potevo vedere chi vi fosse all'interno.
Comunque, riconobbi la figura perché l'avevo già incontrata in prece-
denza. La conoscevo come Cavaliere in Nero e Giallo. Ora lo salutai, ma
non mi restituì il saluto; per qualche istante mi domandai se non fosse
morto congelato, all'interno dell'armatura. Tra noi sventolava una bandiera
di colore chiaro, priva di insegne. Sarebbe potuta essere la bandiera della
tregua, a parte il fatto che tra noi non c'era ostilità.
Il Cavaliere era un uomo enorme, più alto di me che pure sono più alto
della media. L'ultima volta che ci eravamo incontrati, ci trovavamo sulla
cima di una collina e guardavamo le armate dell'umanità combattere in
lungo e in largo per tutta la valle. Ora non c'era nulla da guardare. Avrei
voluto che si togliesse l'elmo e mi rivelasse il volto. Ma lui non pareva in-
tenzionato a farlo. Avrei voluto che mi parlasse. Ma non mi parlò. Avrei
voluto che mi assicurasse di non essere morto. Ma lui non mi diede nessu-
na rassicurazione.
Il sogno si ripeté molte volte. Notte dopo notte lo supplicai di rivelarsi,
gli rivolsi le stesse domande che gli avevo sempre rivolto e non ebbi rispo-
sta.
Poi una notte ci fu finalmente un cambiamento. Prima che potessi inizia-
re le rituali domande, il Cavaliere in Nero e Giallo si rivolse a me e mi par-
lò...
«Te l'ho già detto altre volte. Risponderò a ogni domanda che tu vorrai
rivolgermi.» Parlò come se riprendesse una conversazione di cui m'ero
scordato l'inizio.
«Come posso raggiungere Ermizhad?»
«Facendoti trasportare dalla Nave Nera.»
«E dove la potrò trovare?» chiesi io.
«Sarà la nave a raggiungerti.»
«Quanto dovrò aspettare?»
«Più di quanto vorresti. Ma devi frenare la tua impazienza.»
«Non è una risposta sufficiente.»
«Ti assicuro di non potertene dare altre.»
«Come ti chiami?» gli domandai.
«Al pari di te, anch'io ho molti nomi. Sono il Cavaliere in Nero e Giallo.
Sono il Guerriero che Non Può Lottare. A volte sono chiamato lo Stendar-
do Nero.»
«Fammi vedere la tua faccia.»
«No» rispose.
«Perché?»
«Ah, ora, si tratta di una questione delicata. Penso che dipenda dal fatto
che non è ancora giunto il momento. Se dovessi mostrarti più del necessa-
rio, finirei per toccare troppe altre cronologie. Il Caos, devi sapere, minac-
cia costantemente tutto quel che esiste in tutte le realtà del multiverso. L'E-
quilibrio Cosmico pende troppo marcatamente in suo favore. Occorre so-
stenere la Legge. Dobbiamo procedere con grande attenzione, se non vo-
gliamo causare ulteriori danni. Presto saprai il mio nome. Lo so. Presto, in-
tendo dire, nei termini del tuo corso temporale. Nei termini del mio po-
trebbero passare diecimila anni.»
«Non puoi aiutarmi a raggiungere Ermizhad?»
«Ti ho già spiegato che devi aspettare la nave.»
«Quando potrò finalmente trovare la pace della mente?» chiesi.
«Quando tutti i tuoi compiti saranno finiti» mi rispose. «O prima che ci
siano compiti da svolgere.»
«Sei davvero crudele, Cavaliere in Nero e Giallo, a rispondermi in modo
tanto vago.»
«Ti assicuro, John Daker, che non ho risposte più chiare. Non sei il solo
ad accusarmi di crudeltà...»
Sollevò il braccio, come per indicarmi qualcosa; e ora potei scorgere da-
vanti a noi un'alta rupe. In cima, quasi sull'orlo, c'erano numerose figure,
in parte a piedi, in parte in sella (e non tutte le loro cavalcature erano nor-
mali cavalli, chiaramente): file su file di guerrieri, coperti di armature am-
maccate dai colpi. Ero abbastanza vicino, scoprii, per osservare il loro vol-
to. Avevano lo sguardo inespressivo di coloro che ormai si sono abituati a
vedere troppe sofferenze. Non riuscivano a vederci, ma avevo l'impressio-
ne che invocassero il nostro nome... o almeno quello del Cavaliere in Nero
e Giallo.
Gridai verso di loro: «Chi siete?»
Ed essi mi risposero, sollevando la testa per intonare una spaventosa li-
tania: «Siamo i perduti. Siamo gli ultimi. Siamo i reietti. Siamo i Guerrieri
della Fine del Tempo. Siamo gli sconfitti, siamo i disperati, siamo i traditi.
Siamo i veterani di mille guerre combattute nella memoria.»
Era come se avessi dato loro un segnale, l'occasione di esprimere i loro
terrori, i loro desideri e il loro secolare dolore. Cantavano con una sola vo-
ce, fredda e malanconica. Capii che da tutta l'eternità erano fermi sull'orlo
della rupe, e che avevano parlato solo quando avevo chiesto la loro identi-
tà. Invece di terminare, il loro canto divenne progressivamente più forte.
«Siamo i Guerrieri della Fine del Tempo. Dove sono le nostre gioie?
Dove i nostri dolori? Dov'è la nostra paura? Siamo i muti, i sordi, i ciechi.
Siamo coloro che non possono morire. Fa tanto freddo alla Fine del Tem-
po. Dove sono le nostre madri e i nostri padri? Dove sono i nostri figli? Fa
troppo freddo alla Fine del Mondo! Siamo i non nati, gli ignoti, i non mor-
ti. Fa troppo freddo alla Fine del Tempo! Siamo stanchi. Siamo esausti.
Siamo stanchi e il Tempo è alla Fine...»
Il loro dolore era talmente intenso da costringermi a coprirmi con le ma-
ni le orecchie. «No!» gridai. «No! Non dovete invocare me. Dovete andare
via!»
Poi scese il silenzio. Erano spariti.
Mi voltai a parlare con il Cavaliere in Nero e Giallo, ma anch'egli era
sparito. Che fosse uno di quei guerrieri? Il loro capo, forse? Oppure, mi
domandai, che tutti quegli armati fossero solo gli aspetti di un unico indi-
viduo... di me stesso?
Non solo mi era impossibile rispondere a queste domande, ma in realtà
capii che preferivo non sapere la risposta.
Non so se accadde allora, o in qualche altro momento, in qualche altro
sogno. Ma mi trovai su una spiaggia rocciosa affacciata su un oceano co-
perto da una nebbia fittissima.
A tutta prima non riuscii a vedere nulla, in mezzo alla nebbia che tutto
nascondeva, poi, gradualmente, percepii una sagoma nera e riconobbi una
nave ormeggiata all'ancora, vicino alla riva.
Capii che era la Nave Nera.
A bordo della nave, come minuscoli puntini visibili qua e là, ardevano
piccole luci arancioni. Un chiarore caldo, rassicurante. Inoltre mi pareva di
udire alcune voci, che echeggiavano dal ponte all'alberatura e viceversa.
Penso di avere chiamato le persone che erano a bordo, e che quelle mi
avessero risposto, perché poco più tardi - forse dopo essere salito su una
lancia - mi trovai sul ponte principale, davanti a un uomo altro e magro,
vestito di un giaccone di pelle, da marinaio, che gli arrivava fino alle gi-
nocchia. L'uomo mi posava la mano sulla spalla, come per salutarmi.
Un altro ricordo è questo: ogni centimetro della nave era scolpito a dise-
gni particolari, a volte geometrici, a volte raffiguranti creature bizzarre, in-
tere vicende o episodi appartenenti a storie che non avrei saputo immagi-
nare.
«Viaggi di nuovo con noi» disse il capitano.
«Di nuovo» confermai, anche se, in quel momento, non riuscivo a ricor-
dare quando avessi navigato con lui in precedenza.
Nel seguito del sogno lasciai varie volte la nave, in diversi travestimenti,
e mi dedicai ad avventure di ogni sorta. Una mi tornò alla mente con mag-
giore nitidezza delle altre; ricordai persino il mio nome. Era Clen del Clen
Gar. Ricordai una sorta di guerra tra il Cielo e l'Inferno. Ricordai inganni e
tradimenti, e una vittoria di qualche genere. Poi mi trovai nuovamente a
bordo della nave.
«Ermizhad! Tanelorn! Facciamo rotta laggiù?»
Il capitano sollevò la mano e, con la punta delle lunghe dita, mi asciugò
le lacrime.
«Non ancora» disse.
«Allora, non intendo passare altro tempo a bordo di questa nave...»
Sempre più incollerito, avvertii il capitano: non sarebbe riuscito a tenermi
prigioniero. Non intendevo rimanere legato alla sua nave. Intendevo deci-
dere a modo mio il mio destino.
Lui non si oppose alla mia partenza, anche se pareva rattristato nel ve-
dermi andare via.
Un istante più tardi ero nuovamente sveglio, nel mio letto, nelle mie
stanze del Fiordo Scarlatto, in preda alla febbre, credo. Ero circondato da
servitori accorsi nell'udire le mie grida e tra loro vidi farsi strada la bella
figura e i capelli rossi di Bladrak Morningspear, che una volta mi aveva
salvato la vita. Aveva l'espressione preoccupata. Ricordo che gli gridai di
aiutarmi, di prendere il pugnale e di liberarmi dal mio corpo.
«Uccidimi, Bladrak, se sei mio amico!»
Ma lui non volle farlo. Altre notti giunsero e finirono, lunghissime. Nei
sogni, a volte mi pareva di essere nuovamente sulla nave, a volte no. Altre
volte mi pareva che qualcuno chiamasse il mio nome. Ermizhad? Era lei a
invocarmi? Sentivo la presenza di una donna...
Ma quando posai nuovamente gli occhi su un nuovo visitatore, il volto
che scorsi era quello di un nano dalla faccia affilata. Danzava e caprioleg-
giava, canterellando tra sé, ed era evidente come non mi avesse visto. Mi
pareva di conoscerlo, ma non ricordavo il suo nome.
«Chi sei?» gli chiesi. «Sei stato mandato dal timoniere cieco? O vieni
dal Cavaliere in Nero e Giallo?»
Forse le mie parole lo colsero alla sprovvista. Il nano si voltò verso di
me, per la prima volta; poi si sfilò dalla testa la cappa e mi rivolse un sorri-
so ironico.
«Chi sono?» chiese «Non intendevo metterti a disagio. Un tempo era-
vamo amici, John Daker.»
«Mi conosci con quel vecchio nome? Come Daker?»
«Ti conosco con tutti i tuoi nomi. Ma soltanto due li porterai più di una
volta. Non è un indovinello?»
«Lo è. Devo cercare la risposta, adesso?» chiesi.
«Se pensi di doverne avere una. Tu fai molte domande, John Daker.»
«Preferirei che mi chiamassi Erekosë.»
«Il tuo desiderio sarà soddisfatto. Ora, eccoti una risposta diretta, dopo
tanto tempo! Non sono tanto cattivo, eh, come nano?»
«Adesso ricordo! Sei Jermays lo Storpio. Sei una persona come me: l'in-
carnazione di uno dei molteplici aspetti della stessa creatura. Ci siamo in-
contrati nella caverna del cervo marino.»
Mi rammentai anche della nostra conversazione. Era stato lui a parlarmi
per primo della Spada Nera?
«Eravamo vecchi anici, ser Campione, ma già allora non riuscivi a ricor-
darti di me, come non ci riesci ora. Forse hai troppe cose da ricordare, eh?
Non mi sento offeso, comunque. A quanto vedo, devi avere perso la tua
spada.»
«Non intendo impugnarla, mai più. Era una lama terribile. Non ne avrò
mai più bisogno. Né di quella, né di altre spade come lei. Ricordo che par-
lavi di due spade...»
«Ho detto che a volte ce ne sono due. Ma che forse si trattava di un'illu-
sione e in realtà ce n'era una sola. Non ne sono certo. Tu impugnavi quella
che chiamerai (o che hai chiamato) Stormbringer. Adesso, penso, cercherai
Mournblade.»
«Accennavi a qualche destino legato alle due spade. E suggerivi che il
mio destino fosse collegato al loro...»
«Ah, davvero? Be', la tua memoria è migliorata. Bene, bene. Ti sarà di
buon aiuto, ne sono certo. O magari no. Sapevi già che ciascuna di quelle
spade è un contenitore di qualcosa d'altro? Sono state forgiate, se ho capito
bene, per essere riempite, per essere abitate, o, se preferisci metterla così,
per possedere un'anima. La cosa ti confonde, lo vedo. Purtroppo, neanch'io
ho le idee molto chiare. Ricevo qualche avvisaglia, naturalmente. Premo-
nizioni dei nostri molteplici destini. E queste sono spesso mescolate tra lo-
ro. Se continuassi a parlarne riuscirei soltanto a confondere te, e probabil-
mente anche me! Già vedo che non stai bene. È solo un po' di malattia fisi-
ca o si estende anche al cervello?»
«Puoi aiutarmi a trovare Ermizhad, Jermays? Puoi dirmi dove si trova
Tanelorn? Non voglio sapere altro. Tutto il resto non mi interessa. Non
voglio più sentir parlare di destini, di spade, di navi e di strani mondi. Do-
v'è Tanelorn?»
«La nave fa rotta laggiù, vero? Mi pare di capire che Tanelorn è la sua
destinazione finale. Ci sono tante città chiamate Tanelorn e la nave porta
un carico di altrettante identità. Eppure, tutte sono la stessa, o qualche a-
spetto della stessa personalità. La cosa è un po' troppo complicata per me,
ser Campione. Devi ritornare a bordo.»
«Non voglio ritornare sulla Nave Nera.»
«Sei sbarcato troppo presto.»
«Non sapevo dove quella nave mi stesse portando» risposi. «Temevo di
perdere la rotta e di non poter mai più trovare Ermizhad.»
«Ecco perché te ne sei andato! Credevi di avere trovato la tua meta? Che
ci fossero altri modi per trovarla?»
«Sono sbarcato contro la volontà del capitano? Verrò punito per averlo
fatto?»
«Improbabile. Il capitano non è un grande punitore. Non è un arbitro.
Piuttosto, è un trasferitore, direi. Ma sarai tu a scoprirlo di persona, una
volta risalito a bordo» mi assicurò.
«Non voglio ritornare su quella nave.»
Mi passai la mano sugli occhi per togliere un velo di lacrime e di sudore
e fu come se avessi cancellato anche Jermays dalla mia vista, perché il na-
no era scomparso.
Mi alzai e mi rivestii, gridando di portarmi la mia vecchia armatura. Or-
dinai di mettermela addosso, anche se riuscivo a malapena a stare in piedi.
Poi ordinai una grande slitta da mare, con aggiogati i grandi aironi adde-
strati a trainarla su quelle pianure salate e ondeggianti, quegli oceani mo-
renti. Ringhiai contro coloro che intendevano seguirmi. Ordinai loro di fa-
re ritorno al Fiordo Scarlatto. Rifiutai la loro amicizia.
Poi, con tutta la rapidità che mi era possibile, mi allontanai alla vista di
tutto il genere umano, sparii nella notte greve di salsedine, sollevando la
testa al cielo e ululando come un cane, piangendo per la mia Ermizhad.
Non ottenni risposta. Né me l'ero aspettata. Perciò, al suo posto, chiamai il
capitano della Nave Nera. Mi appellai a ogni dio e dea di cui sapessi il
nome. E alla fine chiamai me stesso: John Daker, Erekosë, Urlik, Clen, El-
ric, Hawkmooh, Corum e tutti gli altri; per ultima mi rivolsi alla Spada Ne-
ra, ma le mie parole vennero accolte dal più terribile e spietato dei silenzi.
Infine alzai lo sguardo verso la pallida luce dell'alba e mi parve di scor-
gere una grande rupe su cui si allineava una fila di guerrieri sparuti. Gli
stessi che da un'eternità erano fermi laggiù, sul ciglio, ciascuno con la mia
faccia. Poi mi accorsi di avere visto soltanto le nubi, fitte come l'oceano su
cui viaggiavo.
«Ermizhad! Dove sei? Chi, che cosa, mi potrà mai portare a te?»
Udivo solo un vento tagliente, sgradevole, sussurrare vicino all'orizzon-
te. Udivo battere le ali dei miei aironi, il tonfo della mia slitta sulla super-
ficie delle acque, e la mia stessa voce dire che c'era solo una cosa che po-
tessi fare, dato che nessun potere sarebbe mai giunto in mio aiuto. Del re-
sto, era la ragione che mi aveva spinto a recarmi laggiù da solo. Che mi
aveva indotto a indossare la completa armatura da guerra di Urlik Skarsol,
Signore del Castello di Ghiaccio.
«Devi gettarti nel mare» mi dissi. «Devi lasciarti affogare. Devi affonda-
re nei flutti. Con la morte troverai certamente una nuova incarnazione.
Forse tornerai a essere Erekosë e ti ricongiungerai alla tua Ermizhad: do-
potutto, sarà un atto di fede che neppure gli dèi possono ignorare. Forse è
proprio quello che attendono. Vedere fino a che punto sei disposto ad arri-
vare. E vedere con che sincerità la ami.» Così dicendo lasciai le redini dei
grandi uccelli e mi preparai a tuffarmi nelle acque viscose di quell'orrendo
oceano.
Ma ora, sulla piattaforma, accanto a me, c'era il Cavaliere in Nero e
Giallo, che mi teneva per la spalla con la sua mano d'acciaio. Nell'altra im-
pugnava lo Stendardo Nero. E questa volta sollevò la visiera e finalmente
potei vederlo in volto.
Quel volto era il ricordo della passata grandezza. Comunicava un'enor-
me, antica saggezza. Quel volto aveva visto assai più di quanto desiderassi
vedere in tutte le mie incarnazioni. La struttura ossea era fine e ascetica,
occhi grandi, penetranti e autorevoli. Aveva la pelle color del giaietto luci-
dato, la voce profonda, con il pieno potere del tuono che s'avvicina.
«Non sarebbe un atto di coraggio, Campione» mi avvertì. «Tutt'al più,
sarebbe una follia. Credi di poter trovare qualcosa, ma il tuo atto sarebbe
solo quello di una persona che cerca di porre fine a un tormento. Ci sono
aspetti del Campione assai più sgradevoli di quello che conosci attualmen-
te. E, inoltre, posso farti sapere che questa particolare prova non durerà an-
cora per molto. Ti avrei raggiunto prima, ma i miei compiti mi portavano
altrove.»
«Che compiti?» chiesi.
«Compiti che riguardavano te, naturalmente. Ma è una storia che si sta
svolgendo in un altro mondo e forse nel tuo futuro, perché il Milione di
Sfere rotola attraverso lo spazio e il tempo a molte velocità diverse e il
punto dello spazio e del tempo in cui si intersecano è spesso una sorpresa,
anche per me. Ma ti assicuro che è un pessimo momento per liberarti della
tua vita... o anche solo di questo corpo.»
Scosse la testa. «Non intendo parlarti delle conseguenze, anche se ho
l'impressione che non sarebbero gradevoli. Davanti a te si apre in questo
momento una grande avventura dalle incredibili conseguenze. Se svolgerai
il tuo dovere di Campione nel modo più efficace, potresti essere parzial-
mente liberato da questo destino. Potresti dar luogo a un inizio e a una
conclusione di grandissima importanza. Lasciati chiamare. Li hai uditi,
credo.»
«Nelle voci che ho udito non sono riuscito a distinguere niente del gene-
re. Non saranno per caso quei guerrieri che gridano...»
«Gridano per essere liberati dalla loro particolare condanna» asserì il
Cavaliere in Nero e Giallo. «No, coloro che ti chiamano sono altri, come
sei già stato chiamato altre volte. Non hai sentito alcun nome? Un nome
che non conosci?»
«Non mi pare.»
«Questo significa che devi ritornare sulla Nave Nera. Non riesco a pen-
sare altro. Sono assai perplesso...»
«Se sei perplesso tu, ser Cavaliere, allora io sono al massimo della con-
fusione! Non ho alcun desiderio di riconsegnarmi a quell'uomo e alla sua
nave, mi danno un senso di impotenza. Inoltre, continuo a indossare il cor-
po di Urlik, e così conciato non posso certamente trovare Ermizhad. Devo
tornare a essere Erekosë o John Daker.»
«Forse la tua nuova identità non era ancora pronta. I vincoli e gli equili-
bri da rispettare sono estremamente delicati. Ma so che devi ritornare sulla
nave.»
«Non puoi dirmi altro?» protestai. «Non puoi darmi altre speranze, oltre
all'affermazione che se salirò di nuovo a bordo della Nave Nera troverò la
mia Ermizhad?»
«Perdonami, ser Campione.» La mano del gigante nero rimase sulla mia
spalla. «Non sono del tutto onnisciente. Come si può esserlo, quando l'inte-
ra struttura dello Spazio e del Tempo è fluttuante?»
«Che cosa intendi dire?»
«Che posso riferirti soltanto quello che percepisco io stesso. Fatti nuo-
vamente prendere a bordo di quella nave, non posso dirti altro. Da essa, ti
posso assicurare, sarai trasportato fino a coloro che hanno bisogno del tuo
aiuto e che, a loro volta, hanno il potere di darti una parziale liberazione
dal tuo attuale tormento. Inoltre sarete uniti in un modo che promette una
maggiore, più salda unità. È quanto riesco a percepire.»
«Ma dove posso cercare la nave?»
«Se hai intenzione di salirvi, la nave ti troverà. Verrà da te, non temere.»
Ciò detto, il Cavaliere in Nero e Giallo emise un lungo fischio; dalla fo-
schia di colore arancione giunse al galoppo un grande stallone, i cui zocco-
li colpivano l'acqua senza affondarvi e il Cavaliere vi montò sopra.
Lo stallone aveva il mantello nero come la pelle del suo padrone; mi
chiesi con meraviglia come potesse reggersi su quelle onde senza affonda-
re neppure di un dito. Anzi, il suo arrivo mi sorprese a tal punto che mi
scordai di rivolgere altre domande al suo cavaliere. Riuscii solo a guardar-
lo a bocca aperta mentre sollevava verso di me lo Stendardo Nero, a mo' di
saluto, voltava il cavallo da battaglia verso le nubi e si allontanava al ga-
loppo.
Ero ancora perplesso, ma il Cavaliere in Nero e Giallo mi aveva portato
una sorta di speranza e mi aveva impedito di compiere una follia. Adesso
non avevo più intenzione di uccidermi, anche se non avevo alcuna voglia
di salire nuovamente a bordo della Nave Nera. Per ora, mi dissi, mi sarei
steso sulla mia slitta, e avrei lasciato che gli aironi mi portassero dove vo-
levano (forse mi avrebbero riportato al Fiordo Scarlatto, perché presto a-
vrebbero raggiunto il limite della resistenza; o forse si sarebbero appollaia-
ti sulla slitta con me, prima di proseguire il viaggio attraverso l'oceano; ma
sapevo che presto o tardi sarebbero ritornati indietro). Mi ero dimenticato
di chiedere al Cavaliere il suo nome. A volte un nome portava con sé il ri-
sveglio dei ricordi, il presagio del futuro che mi sarebbe toccato, il ricordo
di episodi del mio passato.
Così dormii, e mentre dormivo i sogni fecero ritorno. Sentii voci che
giungevano da una grande distanza e capii che era il canto dei Guerrieri al-
la Fine del Tempo.
«Chi siete?» li supplicai. Cominciavo a stancarmi di tutte quelle doman-
de senza risposta. C'erano troppi misteri. Poi il canto dei guerrieri cambiò
intonazione, e infine udii un singolo nome: «Sharadim! Sharadim!»
Quella parola non aveva alcun significato per me. Non era il mio nome,
lo sapevo. Non lo era mai stato e non era destinato a esserlo. Mi chiesi se
non fossi vittima di uno spaventoso errore cosmico...
«Sharadim! Sharadim! Il drago è nella spada! Sharadim! Sharadim!
Vieni a noi, ti supplichiamo! Sharadim! Sharadim! Bisogna liberare il dra-
go!»
«Ma io non sono Sharadim» dissi a voce alta. «Non posso aiutarvi»
«Principessa Sharadim, non rifiutare il nostro appello!»
«Non sono una principessa e non sono la vostra Sharadim. Aspetto di
essere chiamato, è vero. Ma la persona che volete è un'altra.»
Che ci fosse un'altra povera anima condannata al pari di me? Che ce ne
fossero molte?
«Un drago liberato è una razza sciolta dalle sue catene! Non lasciarci più
in esilio, Sharadim! Ascolta, la dragonessa del fuoco ruggisce dentro la
spada. Anch'essa vuole riunirsi al suo re. Liberaci tutti, Sharadim! Libera-
ci! Solo una persona del tuo sangue può prendere la spada e fare quel che è
necessario!»
L'appello aveva qualcosa di familiare, ma sapevo nel fondo delle mie os-
sa di non essere Sharadim. Per dirla come l'avrebbe detta John Daker, ero
un apparecchio radio che riceveva messaggi sulla lunghezza d'onda sba-
gliata. E la situazione aveva il suo lato beffardo, perché desideravo con tut-
te le forze di lasciare il mio corpo per entrare in un altro, preferibilmente in
quello di Erekosë, vicino alla sua Ermizhad.
Eppure non potevo rifiutare il loro appello. Il canto divenne più forte e
mi parve addirittura di vedere figure d'ombra - figure femminili - disposte
in cerchio attorno a me. Ma ero ancora sulla slitta: sentivo sotto le mani,
mentre dormivo, la sua superficie irregolare. Il cerchio continuò a girare
lentamente attorno a me, prima in senso orario, poi nell'altro verso. Ma era
solo il cerchio esterno. Quello interno era di fiamme bianche che quasi mi
accecavano.
«Non posso venire! Non sono colui che cercate! Dovete guardare altro-
ve! C'è bisogno di me in un altro luogo...»
«Libera la dragonessa del fuoco! Libera la dragonessa del fuoco! Shara-
dim! Sharadim! Liberala, Sharadim!»
«No!» gridai. «Sono io colui che dovete liberare! Credetemi, vi prego,
chiunque voi siate, non sono colui che cercate! Lasciatemi andare! Lascia-
temi!»
«Sharadim! Sharadim! Libera la dragonessa!»
Le voci parevano quasi disperate come la mia. Ma per quanto le chia-
massi, il loro canto era troppo forte e impediva loro di udirmi. Provai un
senso di affinità con loro; volevo parlare e dare loro le poche informazioni
di cui disponevo, ma non erano in grado di sentire la mia voce.
In tutto ciò, comunque, mi parve di ricordare una precedente conversa-
zione. Qualcuno che mi aveva parlato di un drago contenuto in una spada?
Forse una conversazione con il Cavaliere in Nero e Giallo. O con Jermays
lo Storpio. O era stato il capitano a riferirmi che ero stato scelto per cercare
una simile spada, e a chiedermi se lasciavo la nave per quella ragione?
Non ricordavo. Tutti quei sogni tendevano a mescolarsi insieme; e, allo
stesso modo, gran parte delle mie precedenti incarnazioni finivano per es-
sere indistinguibili l'una dall'altra, mi tornavano alla mente senza essere
chiamate, come la polvere del fondo, che sale improvvisamente alla super-
ficie di un lago e altrettanto misteriosamente torna a sprofondarvi.
Ora una voce gridava: «Elric!» E un'altra: «Asquiol!» Diverse voci, in
gruppo, chiamavano Corum. Altre ancora volevano Hawkmoon, Rashono,
Malan'ni. Gridai loro di smettere. Nessuna chiamava Erekosë. Nessuno
chiamava me! Eppure sapevo di essere tutte quelle persone. Quelle e mol-
te, moltissime altre.
Ma non ero Sharadim.
Corsi via da quelle voci. Supplicai che mi lasciassero libero. La sola co-
sa che desiderassi era Ermizhad. I miei piedi affondarono un poco nella
crosta di sale dell'oceano. Pensai che, dopotutto, sarei affogato lo stesso,
perché non ero più sulla slitta. Camminavo nell'acqua alta fino alla mia co-
scia, e tenevo alta la spada, sopra la testa. Davanti a me, alta sullo sfondo
della nebbia, c'era una grande nave, con altissimi castelli di poppa e di
prua, un robusto, massiccio albero maestro, su cui era legata una vela pe-
sante; una nave dai parapetti di legno coperti di fini sculture e dalla prua
curva, massiccia, e con grandi ruote del timone sui due castelli. Cominciai
a gridare.
«Capitano!» gridai. «Capitano! Sono io! Sono Erekosë, ritorno a voi!
Sono qui per ultimare il mio compito. Farò quello che volete!»
«Ah, ser Campione. Speravo di trovarvi qui. Salite a bordo, siate il ben-
venuto. Non ci sono altri passeggeri, per ora. Ma presto avrete molto da fa-
re..."
Il capitano si era rivolto a me: ora capii di avere lasciato il mondo di
Rowenarc, il Ghiacciaio Meridionale e il Fiordo Scarlatto; me li ero lascia-
ti alle spalle per sempre. I miei compagni avrebbero pensato che, inoltra-
tomi nell'oceano, avessi incontrato un cervo marino o fossi affogato. Rim-
piangevo una sola cosa: la maleducazione con cui mi ero accomiatato da
Bladrak Morningspear, che era sempre stato un buon amico.
«Il viaggio sarà lungo, capitano?» Salii la scala di corda che era stata
abbassata per me, e mi accorsi di indossare soltanto un gonnellino di cuoio
leggero, un paio di sandali e una larga striscia di stoffa, a bandoliera sul
petto. Fissai negli occhi il capitano che mi sorrideva e che, tendendo la
mano muscolosa, mi aiutava a scavalcare la murata. Indossava le stesse
semplici vesti che gli avevo già visto, compresa la lunga giubba da marina-
io, di pelle di puledro.
«No, ser Campione. Penso che questa parte del vostro viaggio vi sem-
brerà abbastanza breve. C'è uno scontro fra la Legge, il Caos e le ambizio-
ni dell'arciduca Balarizaaf, di qualunque scontro si tratti!»
«Non conoscete la nostra destinazione?» chiesi, mentre lo seguivo fino
alla sua piccola cabina sotto il castello di poppa, dove era imbandito un ta-
volo per noi due soli. Il profumo del cibo era eccellente. Mi indicò di sede-
re di fronte a lui.
Poi rispose alla mia domanda. «Penso che si tratti del Maaschanheem»
disse. «Conoscete quel Regno?»
«No.»
«Allora lo conoscerete presto. Ma forse non dovrei parlare. A volte pos-
so essere ingannevole, come bussola. Comunque, la destinazione è l'ultimo
dei nostri problemi. Mangiate, perché presto dovrete sbarcare. Questo cibo
vi darà forza per il vostro compito.»
Si unì a me al tavolo. Il cibo era nutriente e mi saziò, ma fu il vino a
farmi davvero bene. Un vino robusto, che mi diede scopo ed energia.
«Forse potreste dirmi qualcosa del Maaschanheem, capitano» dissi.
«È un mondo non molto lontano da quello che conoscevate come John
Daker. Assai più vicino, in realtà, di ogni altro che abbiate visitato finora.
La gente del mondo di Daker che capisce queste cose lo definisce un regno
delle loro Terre di Mezzo, perché spesso le orbite dei due mondi si interse-
cano, anche se solo certi adepti possono passare da un regno all'altro. Co-
munque, la Terra di John Daker non fa veramente parte del sistema a cui
appartiene Maaschanheem. In quel sistema ci sono sei regni e i loro abitan-
ti li chiamano i Regni della Ruota.»
«Sei pianeti?» chiesi io.
«No, ser Campione. Sei Regni. Sei piani cosmici che ruotano intorno a
un centro comune, che si muovono indipendentemente l'uno dall'altro e o-
scillano intorno a un asse, cosicché, nei diversi punti della loro traiettoria,
ciascuno presenta all'altro una sfaccettatura diversa; però, nello stesso
tempo, ciascuno di essi ruota attorno a un Sole come quello che vi è fami-
liare, come quello che siete abituato a vedere nel vostro cielo. Il cielo di
John Daker.»
E proseguì: «Infatti il Milione di Sfere sono altrettanti aspetti dello stes-
so pianeta, quello che Daker chiamava Terra, esattamente come voi siete
un singolo aspetto di un'infinità di eroi. Alcuni si rivolgono a questo in-
sieme chiamandolo il multiverso, e voi lo sapete. Una sfera dentro l'altra,
una superficie che scivola sull'altra, un regno sull'altro, a volte incontran-
dosi e formando passaggi tra l'uno e l'altro. Ma a volte non si incontrano
per periodi lunghissimi. Poi, naturalmente, attraversare la barriera tra i vari
piani è sempre difficile, a meno che non si navighi tra i regni in una nave
come la nostra.»
«Ser Capitano» osservai a questo punto «quello che avete fatto, è un ri-
tratto assai cupo, per una persona come me, che cerca un ben determinato
obiettivo in quella molteplicità di esistenze...»
«Dovreste rallegrarvene, Campione. Se non esistesse tutta questa varietà,
voi non potreste vivere. Se esistesse un solo aspetto della vostra Terra, un
solo aspetto di voi stesso, uno solo per la Legge e il Caos, sarebbe svanito
poco dopo essere stato creato. Il Milione di Sfere offre infinite varietà e
possibilità.»
«Che la Legge poi soffoca?»
«Sì, o che il Caos lascerebbe sfrenarsi. Ecco perché voi lottate per l'E-
quilibrio Cosmico. Per mantenere un vero pareggio tra i due, in modo che
l'umanità possa fiorire ed esplorare tutto il suo potenziale. Vi tocca una
grande responsabilità, ser Campione, qualunque aspetto voi prendiate.»
«E l'aspetto che prenderò ora? Potrebbe essere quello di una donna? Di
una certa principessa Sharadim?»
Il capitano scosse la testa. «Non credo. Scoprirete presto il vostro nome.
E se concluderete con successo questa avventura, dovete promettermi di ri-
tornare da me quando verrò a cercarvi. Me lo promettete?»
«Perché dovrei farlo?» chiesi io.
«Perché è assai probabile che vi sia utile, credete a me.»
«E se non dovessi ritornare?»
«Non saprei che dire.»
«Allora non posso promettere. Mi sono risolto a esigere risposte più spe-
cifiche alle mie domande, ser Capitano. Posso dirvi solo questo: è probabi-
le che torni ancora una volta a cercare la vostra nave, ma non posso esser-
ne sicuro.»
«Cercare la nostra nave? Sarebbe più facile trovare Tanelorn senza rice-
vere aiuto.» Il capitano mi parve divertito della mia affermazione. «Non
sono gli altri a trovarci. Siamo noi a cercarli.» Poi mi guardò con aria sin-
ceramente preoccupata, scuotendo la testa. Cortesemente, ma bruscamente,
mise fine alla conversazione. «Ormai è tardi. Dovete dormire e riposare
ancora.»
Mi accompagnò a una delle grandi cabine a poppa della nave. Il luogo
avrebbe potuto accogliere molti passeggeri, ma il solo occupante ero io.
Mi scelsi una cuccetta, mi lavai con l'acqua dell'apposito catino e mi diste-
si per prendere sonno. Ironicamente, riflettei che forse mi stavo addormen-
tando all'interno di un sogno, posto dentro un altro sogno contenuto in un
terzo sogno. Quanti strati di realtà percepivo in quel momento, oltre a
quelli di cui mi aveva parlato il capitano?
Anche ora, quando scivolai nel sonno, percepii lo stesso canto, le stesse
donne, e anche ora cercai di dire loro che stavano evocando la persona
sbagliata. Adesso lo sapevo con certezza. Mi era stato confermato dal capi-
tano stesso.
«Non sono la vostra principessa Sharadim!»
«Sharadim! Libera il drago! Sharadim! Impugna la spada! Sharadim, il
drago è imprigionato nell'acciaio forgiato dal Caos! Sharadim, vieni con
noi all'Adunanza! Principessa Sharadim, solo tu puoi impugnare la spada.
Vieni a noi, principessa Sharadim! Ti aspetteremo laggiù!»
«Non sono Sharadim!»
Ma le voci stavano ormai svanendo; il loro canto lasciava il posto a un
altro.
«Siamo gli stanchi, siamo i tristi, siamo coloro che non vedono. Siamo i
Guerrieri alla Fine del Tempo. Siamo stanchi, siamo esausti. Siamo stanchi
di amare...» per pochi istanti tornai a vedere i guerrieri che attendevano ai
Confini del Tempo. Cercai di parlare loro, ma erano già scomparsi. Gridai,
scoprii di essere sveglio, e accanto alla mia cuccetta c'era il capitano.
«John Daker, è giunto il tempo di lasciarci di nuovo.»
All'esterno della nave era buio e coperto di nebbia come sempre. Sulla
mia testa, la vela era gonfia come il ventre di un bambino sofferente di i-
nedia. Poi, all'improvviso, si svuotò di tutto il vento e si abbatté contro
l'albero. Ebbi l'impressione che la nave fosse di nuovo all'ancora.
Il capitano indicò la balaustra e io seguii la direzione del suo sguardo.
Osservai in basso, dove c'era un altro uomo, identico al capitano e che co-
me lui non poteva vedere. Mi fece segno di scendere la scaletta e di unirmi
a lui nella scialuppa. Mi accorsi di non avere né il kilt né la spada. Ero nu-
do.
«Fatemi prendere qualche vestito. Un'arma» chiesi.
Il capitano, accanto a me, scosse la testa. «Troverai ad aspettarti tutto
quel che ti occorre, John Daker. Un corpo, un nome, un'arma... Ricorda pe-
rò una cosa: sarà meglio per te, se ritornerai sulla nave quando verremo a
cercarti.»
«Preferirei conservare l'illusione, almeno per un momento, di avere un
certo dominio del mio destino» gli dissi.
E mentre scendevo la scaletta e montavo nella scialuppa mi parve di udi-
re la gentile risata del capitano. Non mi derideva. Non ironizzava su di me.
Eppure, era il suo commento sulla mia ultima affermazione.
La scialuppa mi portò fuori della nebbia e in un'alba gelida. La luce gri-
gia del cielo illuminava strisce di nubi altrettanto grigie. Grandi uccelli
bianchi battevano rumorosamente le ali al di sopra di quella che pareva
una vasta palude, scintillante di acqua grigia. Con grigi ciuffi di canne. E
ferma a poca distanza, su una piccola propaggine di terra, scorsi anche una
figura umana. Assomigliava a una statua, tanto era immobile e rigida. Ep-
pure, nel mio cuore, sapevo che non era né di metallo né di pietra. La figu-
ra, sapevo, era di carne. Riuscivo anche a distinguere almeno in parte i
suoi lineamenti...
Potevo già vedere che era vestita di cuoio scuro, aderente, con una pe-
sante cappa di cuoio sulle spalle, un tozzo elmo conico sulla testa. In mano
teneva una lunga picca e pareva appoggiarsi a essa; inoltre portava altre
armi più difficili da distinguere nei dettagli.
Mentre la nostra scialuppa si avvicinava a quella figura rigida, ne scorsi
un'altra in lontananza. Si trattava di un uomo, vestito in un modo che non
mi sembrava per nulla adatto al mondo in cui si muoveva. Portava quelli
che mi parvero i resti di giacca e calzoni alla maniera del ventesimo seco-
lo. Aveva il volto segnato dalle intemperie, occhi color azzurro pallido e
volto marcato da qualcosa di più che dal vento e dal sole. Non dimostrava
più di trentacinque anni. Era a capo scoperto, aveva capelli biondo cenere
e mi parve alto e robusto, ma un po' troppo magro. Dal suo aspetto pareva
pronto a crollare, quando salutò la statua e gridò qualcosa che non riuscii a
distinguere. Con quella che era chiaramente pura forza di volontà, conti-
nuò a camminare incespicando sul gelido terreno spoglio fra le paludi.
Il gemello del capitano mi fece segno di scendere a terra. Io ero assai ri-
luttante. Quando posai sul terreno cedevole un piede nudo, l'uomo mi parlò
ancora.
«John Daker» mi disse «permettimi di augurarti qualcosa di diverso dal-
la semplice fortuna. Lascia che ti auguri questo: che, quando sarà necessa-
rio, nel momento di maggiore bisogno, tu sappia fare appello alle tue risor-
se di coraggio e di sanità mentale! Arrivederci! Mi auguro che tu voglia di
nuovo fare vela con noi...»
Queste parole non contribuirono certamente a sollevarmi lo spirito, ma
solo a farmi allontanare ancor più alacremente dalla barca. «Da parte mia»
mormorai tra me e me «mi auguro di non dovervi più rivedere, te e la tua
nave...»
Ma la scialuppa, il rematore e la figura immobile erano già svaniti. Con
il collo irrigidito dal freddo, girai la testa per cercarli, e all'improvviso mi
accorsi che non sentivo più il vento gelido. Compresi immediatamente
perché la figura fosse scomparsa. Adesso ero al suo interno: ora io la abi-
tavo e io la animavo. Però non conoscevo ancor il mio nome o il mio sco-
po in quel nuovo regno.
L'uomo dai capelli biondi stava ancora avanzando verso di me, conti-
nuava a gridare per richiamare la mia attenzione. Sollevai la pesante picca
in segno di saluto.
E subito provai una dolorosa fitta di paura. Avevo il netto presentimento
che in quella nuova incarnazione avrei rischiato di perdere tutto quel che
avessi mai posseduto; tutto quel che avessi mai desiderato...
LIBRO PRIMO

Dormiva sulla vetta di un'alta sacra pietra


E il sogno a lui veniva e di tutto sognava,
E quanto più sognava, più solo si pensava
E più gli pareva d'essersi lasciato il futuro alle spalle;

Ma quando si risvegliò irrigidito e discese nella valle


Alla prima luce dell'alba, alla luce mesta,
Guardarlo corrucciata gli parve la foresta
E davanti a lui si dispiegò tutto il passato;

E il suo drago, perduto da tempo, gli stava davanti in agguato,


Non gli si poteva sfuggire né sperarlo assopito;
In cuor suo sapeva di doversi ritenere finito,
E che la morte era solo una parte della sua sorte tetra.

Louis MacNeice,
Il ponte bruciato

UNO

L'uomo si chiamava Ulrich von Bek ed era fuggito da un campo di con-


centramento tedesco chiamato Sachsenhausen. La sua colpa era di essere
cristiano e di avere parlato contro il nazismo. Era stato liberato (grazie al-
l'intervento di amici autorevoli) nel 1938. L'anno seguente, quando il suo
tentativo di uccidere Adolf Hitler era fallito, era sfuggito alla Gestapo en-
trando nel regno in cui ci trovavamo entrambi. Io lo chiamavo Maaschan-
heem, ma lui lo chiamava semplicemente Terra di Mezzo. Accolse con
sorpresa la notizia che conoscessi perfettamente il mondo da cui era giun-
to.
«Mi sembri piuttosto un guerriero della saga dei Nibelunghi!» mi disse.
«E parli lo strano tedesco arcaico che pare essere la lingua del luogo. Dici
che la tua origine è inglese?»
Non vedevo la necessità di dilungarmi sulla mia esistenza nei panni di
John Daker, né di riferire che ero nato in un mondo in cui Hitler era stato
sconfitto. Da tempo mi ero accorto che quel genere di rivelazioni finiva
spesso per avere conseguenze disastrose. Ulrich von Bek era laggiù non
soltanto per sfuggire alla Gestapo, ma anche per trovare il modo di elimi-
nare il mostro che s'era impadronito dell'anima del suo paese. Le mie paro-
le avrebbero rischiato di allontanarlo dalla strada tracciata per lui dal suo
destino. Per quel che ne sapevo io, poteva essere stato proprio von Bek a
fare in modo che Hitler finisse sconfitto! Gli spiegai quel poco della mia
situazione che mi pareva appropriato e anche questo fu sufficiente a la-
sciarlo a bocca aperta.
«Resta il fatto» gli dissi «che nessuno di noi è in grado di affrontare nel
modo migliore questo mondo. Ma almeno tu hai il vantaggio di conoscere
il tuo nome!»
«Non hai alcun ricordo del Maaschanheem?»
«Nessuno. La sola cosa che ho è la solita capacità di parlare la lingua del
luogo dove mi trovo. Dicevi di avere una mappa?»
«Una vecchia eredità di famiglia che ho perso nella lotta di cui ti ho par-
lato, con quelle persone che volevano trascinarmi via. Ma non era molto
precisa. Secondo me era stata disegnata in un indeterminato momento del
secolo quindicesimo. Mi ha permesso di raggiungere questo luogo e spera-
vo che mi permettesse di andarmene, una volta cessate le ragioni che mi
tengono qui, ma ora temo di doverci rimanere per sempre, a meno di non
trovare qualcuno che mi aiuti a lasciarlo.»
«Il luogo è abitato, almeno» osservai. «Hai già incontrato qualcuno degli
abitanti. Alcuni di loro potrebbero aiutarti.»
Formavamo davvero una strana coppia. Io indossavo abiti che mi pare-
vano adatti al terreno, con stivali alti fino al ginocchio, una sorta di gancio
di bronzo (simile a un arpione per salmoni) dal lungo manico, un coltello
curvo con una stretta lama e un tascapane contenente carne secca, qualche
moneta, un blocco di inchiostro, un pennello per scrivere e vari fogli -
piuttosto granulosi -di carta di stracci. Non mi dava alcuna indicazione del-
la mia identità, ma almeno non avevo la sfortuna di indossare un vestito
stracciato di flanella grigia, un chiassoso pullover inglese e una camicia
senza colletto. Gli offrii il mio mantello, ma per il momento lo rifiutò. Dis-
se di essersi ormai abituato all'uggioso clima del luogo.
Eravamo in uno strano genere di mondo. Le nubi grigie si aprivano di
tanto in tanto e lasciavano filtrare il debole chiarore del sole, che illumina-
va una distesa di acqua stagnante in tutte le direzioni. Il mondo pareva co-
stituito di lunghe strisce di terra prive di alture, divise da paludi e fiumi-
ciattoli. Gli alberi erano rarissimi e solo qualche cespuglio offriva riparo
agli uccelli acquatici dagli strani colori e ai bizzarri animaletti che scorge-
vamo di tanto in tanto.
Poco più tardi sedevamo insieme su un monticello coperto d'erba, ci
guardavamo attorno e masticavamo la carne secca che avevo trovato nel
tascapane. Von Bek (il quale aggiunse con leggero imbarazzo di essere un
conte, nel suo paese) era affamato ed era ovvio che faticava a non divorare
il cibo senza prima masticarlo debitamente. Decidemmo che tanto valeva
rimanere insieme, poiché la nostra situazione era pressoché la stessa. Lui
mi fece notare di essere laggiù con lo scopo di trovare il modo per elimina-
re Hitler e che questo doveva sempre essere il suo primo pensiero. A mia
volta gli ricordai che anch'io ero deciso a portare alla fine un compito par-
ticolare, ma che, se la cosa non interferiva con la mia missione, sarei stato
più che lieto di considerarlo mio alleato.
A questo punto von Bek socchiuse gli occhi e indicò qualcosa alle mie
spalle. Quando mi voltai, vidi in lontananza quella che pareva la sagoma di
un edificio non meglio identificabile. Ero certo di non averlo visto in pre-
cedenza, ma pensai che la nebbia me l'avesse nascosto. Comunque era
troppo lontano perché si potessero distinguere i particolari.
«In ogni caso» dissi al mio compagno «penso sia meglio dirigerci lag-
giù.»
Il conte von Bek annuì vigorosamente. «Chi non risica non rosica» ri-
spose. Lo guardai. Grazie al cibo e al riposo mi pareva assai migliorato, sia
fisicamente, sia come umore e adesso era diventato una persona assai più
allegra e poco incline a lamentarsi. Quello che quando ero a scuola, mil-
lenni fa, definivamo «il tedesco del tipo migliore».
Il cammino attraverso la palude era lungo e faticoso. Dovevamo fermar-
ci continuamente, saggiare il terreno con la mia picca o con l'arpione che
adesso avevo affidato a von Bek, cercando il modo di passare da un fazzo-
letto di terraferma all'altro, aiutandoci per non sprofondare fino al petto in
qualche ingannevole distesa d'acqua, per non cadere in mezzo alle taglienti
foglie delle canne che in quella zona parevano costituire la principale ve-
getazione locale. A volte riuscivamo a scorgere l'edificio, davanti a noi, a
volte spariva in lontananza. Ma nel complesso dava l'impressione di essere
grosso come una piccola cittadina, o un grande castello.
«Direi che ha un aspetto decisamente medievale» commentò von Bek.
«Chissà per quale motivo, mi ricorda Norimberga.»
«Be'» gli risposi «auguriamoci che i suoi occupanti non siano come
quelli che la governano attualmente nel tuo mondo!»
Anche ora mi parve leggermente sorpreso dalle mie approfondite cono-
scenze sulla Terra; tra me e me decisi di non lasciarmi sfuggire altri com-
menti sulla Germania nazista e sul ventesimo secolo da cui giungevamo
entrambi.
Mentre lo aiutavo ad attraversare un tratto di palude particolarmente in-
sidioso, von Bek mi chiese: «È possibile che fossimo predestinati a incon-
traci qui? Che i nostri destini siano in qualche modo legati?»
«Scusami se ti sembro troppo sbrigativo» gli risposi «ma ho già sentito
troppi discorsi riguardanti i destini e i piani cosmici. Mi hanno stufato.
Ormai desidero solo trovare la donna che amo e rimanere con lei in un
luogo dove nessuno ci disturbi!»
Mi parve d'accordo. «Ammetto che tutto questo parlare di destini e di
apocalissi ha qualcosa di wagneriano. Mi ricorda sgradevolmente i nazisti
e il modo in cui hanno svilito i miti e le leggende della nostra gente per
giustificare i loro orrendi crimini.»
«Ho sentito ogni sorta di giustificazioni dei peggiori atti di crudeltà e di
barbarie» convenni con lui. «E quasi tutte facevano appello ai sentimenti e
ai più elevati ideali, sia quando si trattava di frustare un'altra persona nelle
opere di Sade, sia quando il leader di una nazione invitava il suo popolo a
uccidere ed essere ucciso.»
Mi pareva che l'aria si fosse fatta più fredda e che si avvicinasse la piog-
gia. Insistetti con von Bek perché prendesse il mio mantello; alla fine lo
accettò. Appoggiai la picca su una piccola altura, vicino a un gruppo di
canne particolarmente alte, ed egli posò l'arpione sul terreno, mentre si
drappeggiava sulle spalle il mantello di pelle.
«È una mia impressione, o il cielo è davvero più scuro?» si chiese, al-
zando la testa. «Non riesco a calcolare bene il trascorrere del tempo, in
questo mondo. Sono qui da due notti, ma non ho ancora capito quanto sia-
no lunghe le giornate.»
Anch'io avevo l'impressione che si avvicinasse il crepuscolo, e stavo per
suggerire di dare un'altra occhiata al mio tascapane, per vedere se avevamo
qualche modo di accendere un fuoco, quando venni improvvisamente col-
pito da un forte urto alla spalla; la percossa mi fece cadere sul terreno, a
faccia in giù.
Ero con un ginocchio sul terreno e mi stavo girando per raggiungere la
picca che, oltre al coltello, era la mia sola arma, quando una dozzina di
guerrieri protetti da armature di foggia singolare uscì dal nascondiglio die-
tro le canne e avanzò in fretta verso di noi.
Uno di loro aveva scagliato la clava che mi aveva fatto cadere a terra.
Von Bek gridò e si chinò a raccogliere l'arpione, ma una seconda clava lo
colpì alla tempia.
«Fermatevi!» gridai a quegli uomini. «Perché non parlamentare, prima
di assalirci? Non siamo vostri nemici!»
«Questa è una vostra illusione, amico mio» brontolò uno di loro, mentre
gli altri ridevano minacciosamente a quella battuta.
Von Bek era rotolato su un fianco e si teneva la faccia. Nel punto colpito
dalla clava gli si stava già allargando un grosso livido.
«Ci uccidete senza darci la possibilità di difenderci?» gridò ai nostri as-
salitori.
«Vi uccidiamo come meglio ci pare» gli venne risposto. «I Vermi di Pa-
lude sono preda di tutti, e voi non potete dire di non saperlo.»
Ora potei vedere meglio la loro armatura: era di cuoio e di lamelle me-
talliche, dipinte di verde chiaro e di grigio per meglio mimetizzarsi nel pa-
esaggio. Anche le loro armi avevano lo stesso colore; inoltre, gli uomini si
erano sparsi fango sulle parti esposte, allo scopo di passare inosservati.
Come se quell'abbigliamento non fosse abbastanza barbarico, il loro aspet-
to peggiore era l'odore mefitico emanato dai loro corpi: una mescolanza di
fetore umano, escrementi di animali e di marciume delle paludi. Senza usa-
re la clava, sarebbe bastato quello a buttare a terra una delle loro vittime!
Non sapevo a che cosa si riferissero parlando di «Vermi di Palude», ma
di una cosa ero certo: non avevamo molte possibilità di sopravvivere all'at-
tacco della dozzina di persone che, brandendo spade e bastoni, avanzavano
ridendo verso di noi.
Cercai di afferrare la picca, ma il colpo l'aveva fatta volare lontano da
me. Provai ad avvicinarmi alla mia arma, attraverso l'erba bagnata e cede-
vole, pur sapendo che un'altra clava o una spada mi avrebbe raggiunto
prima che riuscissi ad afferrarla.
E von Bek era in una situazione peggiore della mia.
La sola cosa che mi venne in mente fu quella di lanciargli un grido d'av-
vertimento.
«Scappa!» gli gridai. «Scappa, von Bek! È inutile farsi ammazzare tutt'e
due!»
Di attimo in attimo, il cielo si faceva sempre più scuro. Il mio compagno
aveva ancora una piccola possibilità di fuggire nella notte.
Quanto a me, sollevai istintivamente le braccia mentre tutte quelle armi
si preparavano a uccidermi.
DUE

Il primo colpo mi prese sul braccio e per poco non me lo spezzò. Attesi
stoicamente il secondo e il terzo. Prima o poi, uno mi avrebbe fatto perdere
i sensi e questo era tutto ciò che potevo sperare: una morte rapida, senza
dolore.
Poi udii un rumore inatteso, che però riconobbi subito. Il secco rumore
di uno sparo, seguito da altri due. Gli assalitori più vicini a me caddero a
terra, morti stecchiti. Senza perdere tempo a riflettere sulla mia buona for-
tuna, afferrai prima una spada e poi l'altra. Erano armi pesanti, poco ma-
neggevoli, più adatte ai pirati che agli schermidori, ma non mi occorreva
altro. Adesso avevo la possibilità di sopravvivere!
Indietreggiai verso il punto dove avevo visto cadere von Bek e con la
coda dell'occhio lo vidi che si rialzava, dopo essere rimasto con un ginoc-
chio a terra; teneva a due mani una pistola automatica dalla cui canna usci-
va ancora un filo di fumo.
Era passato molto tempo dall'ultima volta che avevo visto quel genere di
arma. Con una sorta di cupo divertimento, capii che von Bek non era del
tutto disarmato, quando era passato dalla sua terra al Maaschanheem. Ap-
prezzai la presenza di spirito che lo aveva indotto a portare con sé un og-
getto utilissimo in un mondo come quello!
«Dammi una spada!» gridò il mio compagno. «Mi restano solo due colpi
e preferisco tenerli per qualche altra occasione.»
Senza guardarlo, gli lanciai una delle mie spade; insieme avanzammo
verso i nostri nemici, già demoralizzati dalle esplosioni inattese. Chiara-
mente non avevano mai visto armi da fuoco.
Ringhiando di rabbia, il capo del gruppo scagliò contro di me un'altra
clava, ma non ebbi difficoltà a scansarla. Gli altri si affrettarono a imitarlo,
cercando di colpirci con una vera gragnola di quelle rozze armi, ma noi le
evitammo o le parammo con la spada. Un attimo più tardi eravamo faccia a
faccia con i nostri assalitori, che parevano avere perso gran parte della loro
baldanza.
Ne uccisi due prima di riuscire a riflettere su quanto stavo facendo. Da
un'eternità ero abituato a quel genere di duelli, e sapevo che in quei fran-
genti occorreva colpire per uccidere, se non si voleva correre il rischio di
perdere la vita. Ma, giunto al terzo avversario, recuperai la ragione quanto
bastava per limitarmi a fargli volare via dalla mano la spada. Intanto von
Bek, che chiaramente - come tanti della sua classe sociale - era un esperto
schermidore, si era sbarazzato di altri due assalitori, e ora ne rimaneva me-
no della metà.
A quel punto il loro capo ci gridò di fermarci.
«Ritiro quanto ho detto! Non siete Vermi di Palude, l'ho capito. È stato
un errore assalirvi senza parlare con voi. Abbassate la spada, signori, e par-
lamenteremo. Chiamo a testimoni gli dèi, ma non mi sono mai rifiutato di
ammettere un mio errore.»
Circospetti, abbassammo la spada, ma ci tenemmo pronti a un eventuale
tradimento da parte sua e dei suoi uomini.
I nostri avversari, comunque, con grande ostentazione rinfoderarono la
spada e aiutarono i compagni feriti. Quanto ai morti, tolsero loro le borse e
le armi rimaste. Ma il capo gridò loro di fermarsi.
«Li spoglieremo quando avremo trovato un accordo soddisfacente per
tutti» disse. «Guardate, ormai siamo vicini a casa.»
Guardai nella direzione da lui indicata e con grande stupore vidi che l'e-
dificio - o il gruppo di edifici - verso cui ci eravamo diretti era ormai più
vicino. Scorsi distintamente il fumo dei comignoli, le bandiere sulle torret-
te, le luci che tremolavano qua e là sugli spalti.
«Allora, signori» ci disse il capo del gruppo. «Che cosa facciamo? Avete
ucciso un buon numero di noi, perciò direi che possiamo giudicarci almeno
alla pari, visto che siamo stati noi a iniziare ma che non avete ferite gravi.
Inoltre avete due delle nostre spade, che sono oggetti di notevole valore.
Siete disposti ad andarvene per la vostra strada e a lasciar perdere ogni di-
scussione?»
«Questo mondo è talmente privo di leggi che si può assalire a piacimen-
to un'altra persona senza subire alcuna conseguenza?» chiese von Bek.
«Allora non è affatto migliore di quello che ho appena lasciato!»
Mi parve che continuare in quel tipo di discussione fosse solo una perdi-
ta di tempo. Ormai sapevo da tempo che gli uomini di quel genere, qua-
lunque fosse il mondo dove vivevano, non avevano né la voglia né l'intel-
ligenza occorrente per capire un sottile argomento morale. A quanto pare-
va, ci avevano scambiato per qualche genere di fuorilegge e ora, constatato
che non lo eravamo affatto, ci mostravano maggiore rispetto, anche se a
malincuore. Secondo me, conveniva farsi portare nella loro città, nonostan-
te il possibile rischio, e vedere se potevamo offrire i nostri servigi ai loro
padroni.
Lo dissi a von Bek, in poche parole, ma il mio compagno pareva assai ri-
luttante a lasciar cadere la questione morale. Era ovvio che si trattava di un
uomo dai saldi principi (del resto occorreva quel tipo di persone per non
soccombere al terrore ispirato da Hitler) e io lo rispettavo per quello. Ma lo
pregai di rimandare ogni giudizio al futuro, non appena li avessimo cono-
sciuti meglio. «Mi sembrano assai primitivi» gli feci osservare. «Non ab-
biamo molto da temere da loro. Inoltre, potrebbe essere il solo modo per
conoscere meglio questo mondo e, eventualmente, per uscirne.»
Come un cane da guardia che, ringhiando, cerca solo di difendere i pa-
droni (nel suo caso i suoi ideali), von Bek si arrese. «Ma è meglio tenere le
spade» aggiunse.
Ormai era buio. I nostri assalitori cominciavano a dare segni di nervosi-
smo. «Se dobbiamo parlamentare ancora» disse all'improvviso il loro capo
«forse potreste farlo come nostri ospiti. Per questa notte non vi toccheremo
più, ve lo prometto. Vi do la mia Promessa di Bordo.»
La cosa pareva avere una grande importanza per lui; quanto a me, ero
pronto ad accettare la sua parola. Pensando che avessi esitazioni ad accet-
tare, l'uomo si sfilò l'elmetto grigioverde e se lo portò dinanzi al cuore.
«Dovete sapere, signori» ci disse «che il mio nome è Mopher Gorb, fu-
stiere di Armiad naam Sliforg ig Vortan.» Anche il fatto di dare il proprio
nome pareva un atto assai importante.
«Chi è Armiad?» gli domandai; vidi che sulla sua faccia sgraziata com-
pariva un'espressione di grande sorpresa.
«Come?» fece. «È il baron-capitano della nostra nave-città, che prende il
nome di Scudo Corrucciato e rende conto all'ancoraggio della Mano che
Afferra. Avrete sentito parlare almeno di questa, se non di Armiad, succes-
sore del baron-capitano Nedau naam Sliforg ig Vortan...»
Con un gemito, von Bek sollevò la mano. «Basta, basta! Tutti questi
nomi mi fanno venire il mal di testa. Sono d'accordo, accettiamo la vostra
ospitalità e vi ringraziamo.»
Mopher Gorb, tuttavia, non accennò a muoversi. Evidentemente, aspet-
tava qualcosa da noi, poi compresi che cosa dovessi fare. Mi sfilai l'elmet-
to a forma di cono e me lo appoggiai sul petto, davanti al cuore. «E io sono
John Daker, chiamato anche Erekosë, già Campione di re Rigenos, giunto
dal Castello di Ghiaccio e dal Fiordo Scarlatto, e il mio compagno è il mio
fratello di spada, il conte Ulrich von Bek, proveniente dalla città di Bek,
nel principato di Sassonia del regno dei Germani...»
Proseguii ancora un poco nella stessa vena, finché non giudicai di aver-
gli dato un numero soddisfacente di nomi e di titoli, anche se non doveva-
no significare molto, per lui. Ma, chiaramente, l'offerta del proprio nome e
del proprio titolo costituiva l'indicazione che si era intenzionati a mantene-
re la parola data.
Quanto a von Bek, meno abituato a quel genere di incontri e meno adat-
tabile di me, stava quasi per scoppiare a ridere ed evitava di guardare dalla
mia parte.
Mentre parlavamo, intanto, la nave-città aveva continuato a ingrandirsi.
Ora capii che la sua enorme mole era in movimento. Non era una normale
città o un normale castello, ma una nave di qualche genere, incredibilmen-
te grande (anche se assai inferiore ai nostri transatlantici) e mossa da qual-
che tipo di motore che era il diretto responsabile del fumo da me visto in
precedenza e confuso con normale fumo di domestici comignoli.
Comunque, potevo essere scusato se l'avevo confuso con una fortezza
medievale, quando l'avevo visto da lontano. I camini parevano collocati a
caso, qui e là. Le torrette, le torri, le guglie e i merli sembravano di pietra,
anche se più probabilmente si trattava di legno e di canne, e quelle che mi
erano parse aste per bandiere erano in realtà alti alberi a cui erano assicura-
ti pennoni, vele e una selva di cordame simile alla tela di un ragno impaz-
zito, e una grande varietà di bandiere incredibilmente sudice. Il fumo dei
camini era grigio con una sfumatura giallognola di qualche ritorno di
fiamma dai cilindri roventi, che anche se non pareva minacciare i ponti
sottostanti, indubbiamente doveva riempirli di fuliggine da cima a fondo.
Mi chiesi come la sua popolazione riuscisse a vivere in una simile sporci-
zia.
Mentre il vascello rumoroso e massiccio avanzava lentamente nell'acqua
bassa della palude, scoprii che il puzzo dei nostri assalitori era caratteristi-
co della loro nave. Anche da lontano venni colpito da mille odori repellen-
ti, compreso quello del fumo ammorbante. Le fornaci che alimentavano
quei camini dovevano bruciare ogni sorta di rifiuti, pensai.
Von Bek mi guardò, come se intendesse rifiutare l'ospitalità di Mopher
Gorb, ma sapevo che ormai era troppo tardi per quel genere di rinuncia.
Desideravo conoscere meglio quel mondo, e non intendevo offendere i
suoi abitanti, col rischio che poi si sentissero spinti dal proprio orgoglio a
non darci tregua finché non ci avessero ucciso. Mi disse qualcosa, ma non
riuscii a capire le sue parole, coperte dalle grida e dai rumori provenienti
dalla nave, ormai giunta davanti a noi e gigantesca sullo sfondo grigio del-
la sera.
Scossi la testa. Von Bek si strinse nelle spalle e trasse di tasca un fazzo-
letto di seta, ben ripiegato. Poi se lo portò davanti alla bocca, con espres-
sione schizzinosa, e finse - a quanto capii - di avere il raffreddore.
Tutt'intorno al gigantesco scafo, che era un mosaico di metallo e di le-
gno e che portava le tracce di centinaia di riparazioni, le acque della baia
ribollivano e schizzavano in tutte le direzioni, coprendoci di schiuma, di
qualche pezzo di terra e di una buona dose di fango. Trassi un respiro di
sollievo quando si abbassò una sorta di ponte levatoio, nella parte bassa
dello scafo e nei pressi della grande poppa ricurva, e Mopher Gorb fece un
passo avanti per parlare in tono rassicurante a qualche persona all'interno.
«Non sono Vermi di Palude, ma ospiti onorati. Credo che vengano da un
altro regno e che si rechino all'Adunanza. Ci siamo scambiati i nomi. Ci
imbarchiamo in pace!»
Una piccola parte del mio cervello si mise subito all'erta. Nelle parole
c'era un termine a me familiare, anche se non avrei saputo dire con preci-
sione perché lo fosse.
Mopher aveva parlato di «Adunanza». Dove avevo già udito quella paro-
le? In che sogno? In quale precedente incarnazione? Oppure, che si trattas-
se di una premonizione? Tra le tante sue sfaccettature, la condanna del
Campione Eterno consisteva anche nel ricordare non solo il passato, ma
anche il futuro. Tempo e Conseguenze non sono la stessa cosa, per quelli
come me.
Comunque, per quanto mi sforzassi, non sarei riuscito a trovare un chia-
rimento, e perciò preferii accantonare il problema, mentre seguivamo Mo-
pher Gorb, fustiere dello Scudo Corrucciato (che, come ci era stato detto,
era il nome dello scafo) nei cupi e puzzolentissimi budelli dalla nave che
era anche la sua casa.
Mentre salivamo lungo la passatoia, il fetore che mi assalì era così forte
da farmi quasi venire i conati del vomito, ma riuscii a controllarmi. All'in-
terno della nave erano accese molte lucerne: potei vedere che il pavimento
su cui passavamo era costituito di tavole di legno: attraverso le aperture tra
l'ima e l'altra riuscii a scorgere il ponte sottostante, dove molti uomini se-
minudi correvano avanti e indietro per la manutenzione dei rulli su cui si
muoveva la grande nave.
Dall'apertura vidi una serie di passatoie, alcune di metallo, altre di legno,
altre costituite da semplici funi tese tra due passerelle. Sentii voci e grida
che si levavano al di sopra del basso tambureggiare dei rulli e capii che e-
rano uomini e donne intenti, evidentemente, a oliare e ripulire il macchina-
rio in movimento. Poi salimmo lungo una scaletta di legno e ci trovammo
in una grande cabina piena di armi e di corazze, accudite da un individuo
sudato, alto quasi due metri e talmente grasso da far pensare che riuscisse a
muoversi soltanto grazie a un particolare miracolo.
«Avete scambiato i nomi e siete i benvenuti a bordo dello Scudo Cor-
rucciato, signori. Io sono Drejit Uphi, Maestro d'Arme del nostro scafo.
Vedo che avete due delle nostre spade e vi sarei obbligato se voleste resti-
tuirle. Anche tu, Mopher. E gli altri. Tutte le spade sono state consegnate.
E anche le corazze. Ma gli altri? Dobbiamo mandare gli apprendisti a spo-
gliarli?»
Mopher era arrossito. «Sì» rispose. «Abbiamo attaccato questi ospiti,
pensando che fossero vermi di palude, ma loro stessi ci hanno convinto del
contrario. Umfit, Ior, Wetch, Gobshot, Pnatt e Strote devono essere spo-
gliati. Ormai sono legna da ardere.»
L'accenno alla «legna da ardere» mi fece capire perché il fumo dei ca-
mini fosse particolarmente ripugnante e perché ogni cosa, a bordo, era co-
perta da una patina sottile, oleosa e densa.
Drejit Uphi si strinse nelle spalle. «Congratulazioni, signori. Siete degli
ottimi combattenti; quei guerrieri erano astuti, pieni di esperienza.» Lo dis-
se con la maggior cortesia possibile, ma era chiaramente in collera, sia nei
riguardi di Mopher sia in quelli nostri.
A nessuno venne in mente di farsi dare la pistola di von Bek, e di conse-
guenza mi sentii un po' più sicuro, quando - dopo che Mopher si fu tolto la
corazza per rivelare una giubba di cotone sudicio e un paio di calzoni lar-
ghi - seguimmo il Fustiere ai piani superiori della nave-città.
Lo scafo era affollatissimo, proprio come una città del Medioevo, e c'e-
rano persone in ogni passaggio, viuzza e corridoio, che portavano pesi, si
chiamavano tra loro, discutevano o litigavano. Tutti erano sudici, molto
pallidi e con un'aria malaticcia; inoltre, naturalmente, non c'era un centi-
metro quadro di pelle o di vestito che non fosse pieno di quella particolare
cenere oleosa, che cadeva su tutto, bruciava in gola e copriva la nostra pel-
le. Quando ci trovammo di nuovo all'aperto, nella fresca aria della notte, e
attraversammo un lungo ponte che, se fosse stato sulla terraferma, avrei e-
tichettato come la piazza del mercato, tutt'e due starnutivamo e avevamo
gli occhi e il naso che colavano.
Mopher se ne accorse e rise. «Presto o tardi» ci assicurò «il nostro corpo
si abitua. Guardate me! A vedermi non lo credereste, ma ormai ho nei
polmoni una buona metà delle carogne di questa nave!»
E scoppiò di nuovo a ridere.
Mi afferrai alla balaustra per non cadere: il ponte tremava sotto la spinta
del vento e oscillava col moto della nave, che continuava a procedere sen-
za soste. In alto, tra gli alberi, scorsi molte figure al lavoro, mentre altre
scivolavano su e giù per le sartie, illuminate da improvvisi sprazzi di
fiamme e di ceneri che venivano dai camini. I pezzi di cenere più grandi,
vidi ora, finivano contro reti di fil di ferro che circondavano i camini, e si
raccoglievano su di esse o ricadevano all'interno.
Von Bek scosse la testa. «Per quanto sia squallida e abborracciata, que-
sta nave è un vero miracolo di ingegneria folle! Suppongo che sia mossa
dal vapore.»
Mopher aveva udito le sue parole. «I Folfeg sono famosi per i loro mec-
canismi scientifici» ci assicurò. «Mio nonno era un Folfeg, dell'ancoraggio
del Gambero Zoppo. Fu lui a costruire le caldaie dei grande Lucertolone
Ardente, la nave che tentò di seguire Ilabard Kreyin oltre il Bordo del
Mondo. Lo scafo ha fatto ritorno - come è ben noto in tutto il Maaschan-
heem - con un intero equipaggio di morti, ma il motore non si guastò. Quel
motore riuscì a riportarla sino al Gambero Zoppo. All'epoca delle Guerre
tra gli Scafi, conquistò quattordici ancoraggi nemici, tra cui la Bandiera
Stracciata, il Ramo di Felce, l'Aragosta Liberata, il Pescecane da Caccia e
il Luccio Spezzato, per non parlare dei loro scafi.»
Anche se mi lasciò indifferente, il racconto incuriosì von Bek, che gli
chiese: «Da che cosa derivano i nomi dei vostri ancoraggi? Suppongo che
si tratti delle strisce di terraferma tra cui viaggiano i vostri scafi.»
Anche ora il fustiere mi parve leggermente confuso. «Proprio così, si-
gnore. Gli ancoraggi prendono il nome dalla figura più simile a loro, sulla
mappa. Dalla forma del terreno, signore.»
«Certo» rispose von Bek, portandosi nuovamente il fazzoletto davanti
alla faccia. La sua voce ci giunse attutita. «Scusate la mia ingenuità.»
«Potete rivolgere tutte le domande che volete, qui sullo scafo» gli assi-
curò Mopher. Si sforzò di sorridere, ma il suo viso scuro rimase accigliato.
«Infatti ci siamo scambiati i nomi e le sole cose che non possiamo comu-
nicarvi sono quelle sacre.»
Eravamo giunti alla fine del ponte; davanti a noi c'era una saracinesca,
una spessa inferriata dietro cui si scorgeva una sala in penombra, dove ar-
devano alcune lanterne. A un grido di Mopher, l'inferriata si sollevò e noi
entrammo nella sala. Le pareti erano decorate a disegni complessi e ora mi
accorsi che la saracinesca era coperta di una finissima garza. In quella par-
te della nave, la fuliggine che penetrava era pochissima.
Ora echeggiò un suono di tromba (uno strepito sgraziato) e da una galle-
ria scarsamente illuminata, sopra di noi, ci giunse una voce:
«Salute ai nostri onorati ospiti. Che festeggino questa notte con il baron-
capitano e che viaggino con noi fino all'Adunanza.»
Non riuscivamo a vedere colui che aveva parlato, ma a quanto pareva si
trattava semplicemente di un araldo. Un attimo più tardi, da una scala po-
sta in fondo alla sala, giunse di fretta un individuo tozzo e massiccio, con
la faccia da pugilatore e il comportamento di un uomo aggressivo e impa-
ziente che si sforza di controllare la collera.
Teneva all'altezza del cuore una semplice calotta, e indossava una giub-
ba di broccato dai colori sgargianti, rosso, oro e blu; sulle gambe massicce
portava un paio di calzoni larghi, appesantiti al fondo da grosse e multico-
lori palline di feltro. In testa aveva uno dei più assurdi copricapi che avessi
mai visto in tutti i miei viaggi nel multiverso, e non mi stupii che non se lo
fosse tolto per la rituale copertura del cuore. Il cappello era alto almeno un
metro, assomigliava a un antico cappello a cilindro ma aveva una tesa assai
più stretta. Penso che fosse irrigidito all'interno, ma tendeva a pencolare
selvaggiamente in tutte le direzioni ed era di un chiassoso colore giallo,
talmente chiaro che temetti di venirne accecato.
Il proprietario di quel costume, chiaramente, non solo doveva giudicarlo
perfettamente congruo, ma anche assai elegante. Quando giunse in fondo
alla scala, si fermò, ci rivolse un breve cenno di saluto, poi si rivolse a
Mopher Gorb.
«Sei congedato, fustiere» disse al nostro accompagnatore. «E sono certo
di non dirti niente di nuovo, se ti informo che non sei più il responsabile di
riempire i fusti, per il presente viaggio. Hai dato prova di scarso discerni-
mento, quando hai preso per vermi di palude i nostri ospiti onorati. E a
causa del tuo errore hai perso ottimi uomini.»
Mopher Gorb gli rivolse un profondo inchino. «Accetto quanto mi dite,
baron-capitano.»
La nave tremò all'improvviso e parve gemere e lamentarsi nel profondo
del suo essere. Per qualche istante, finché il sussulto non terminò, tutti
fummo costretti ad afferrarci al sostegno più vicino. Poi Mopher Gorb con-
tinuò: «Consegno i miei fusti a colui che prenderà il mio posto e gli auguro
di catturare buoni vermi per le nostre caldaie.»
Anche se non capivo del tutto le sue parole, di nuovo fui sul punto di
vomitare.
Mopher Gorb si affrettò a uscire dalla sala e la saracinesca venne subito
calata dietro di lui. Il baron-capitano venne avanti tutto impettito, con il
grande cappello che gli dondolava sulla testa.
«Sono Armiad naam Sliforg ig Vortan, baron-capitano di questo scafo,
che rende conto alla Mano che Afferra. Sono profondamente onorato di
dare il benvenuto a voi e al vostro amico.»
Si rivolse direttamente a me e nella voce gli colsi un tono conciliante che
in qualche modo mi mise a disagio. Notando la mia sorpresa, mi sorrise.
«Sappiamo, signore» mi disse «che i nomi da voi dati al mio fustiere so-
no solo una parte dei vostri titoli, e ben capisco che non abbiate voluto
sminuirvi offrendo il vostro vero nome e grado a una persona come lui.
Tuttavia, come baron-capitano, mi è permesso, vero, di rivolgermi a voi
col nome più noto, almeno nel nostro Maaschanheem?»
«Voi conoscete il mio nome, baron-capitano?»
«Oh, certamente, vostra altezza. Riconosco il vostro volto dalla nostra
letteratura. Tutti conoscono le vostre prodezze contro i pirati Tynur. La
vostra ricerca della Vecchia Cagna e di sua figlia. Il mistero da voi risolto
che riguardava la Città Selvaggia. E tantissime altre. Siete un eroe per noi
del Maaschanheem, vostra altezza, come nel vostro stesso Draachenheem.
Non so dirvi quanto sia grande la mia felicità di potervi accogliere, senza
alcun desiderio di pubblicità per questo scafo o per me stesso. Vorrei che
fosse chiara una cosa: che siamo profondamente onorati di avervi a bor-
do.»
Dovetti compiere un grande sforzo per non sorridere dei goffi e un po'
penosi tentativi con cui lo sgradevole ometto cercava di dare prova delle
sue buone maniere. Decisi di assumere un tono altezzoso, visto che se lo
aspettava.
«E dunque, signor mio, che nome mi dareste?»
«Oh, altezza!» ridacchiò. «Ma il principe Flamadin, Signore Eletto del
Valadek ed eroe di tutt'e sei i Regni della Ruota!»
A quanto pareva, finalmente ero venuto a conoscenza del mio nome. E
ancora una volta, temevo, ci si aspettava da me più di quanto non fossi di-
sposto a dare.
Von Bek commentò ironicamente: «Avete nascosto questo grande segre-
to anche a me, principe Flamadin.»
Gli avevo già spiegato la mia situazione. Ora gli rivolsi un'occhiataccia.
«E adesso, buoni signori, dovete essere miei ospiti al banchetto che ho
fatto preparare in vostro onore» disse il baron-capitano Armiad, indicando
con la calotta il lato opposto della sala, la cui parete si stava lentamente
sollevando per rivelare una stanza vivacemente illuminata, con una tavola
imbandita e coperta di una grande varietà di cibi dall'aspetto poco invitan-
te.
Anche ora evitai lo sguardo di von Bek e mi augurai che fosse possibile
- anche se ne dubitavo - trovare almeno un boccone che non offendesse il
palato.
«Se ho capito bene» disse Armiad, accompagnandoci al nostro posto «a-
vete deciso di compiere sul nostro scafo il tragitto fino all'Adunanza.»
Essendo assai curioso di sapere la natura di quella Adunanza, gli rivolsi
un cenno affermativo.
«Evidentemente avete iniziato una nuova avventura» disse Armiad.
Quando si sedette accanto a me, il suo enorme cappello dondolò pericolo-
samente. Anche se meno forte, il suo odore non era granché diverso dal
puzzo dei suoi subordinati.
Avevo già capito che genere di persona fosse: un uomo che non solo, in
generale, odiava le buone maniere, ma che non amava neppure la normale
buona creanza tra persone dello stesso rango. Inoltre ero convinto che se
non gli fosse convenuto accoglierci come ospiti, non avrebbe perso tempo
a farci tagliare la gola e a ficcare i nostri cadaveri nei suoi fusti e nelle sue
caldaie. Mi rallegrai del fatto che avesse riconosciuto in me il suo principe
Flamadin (o che mi avesse confuso con lui!) e decisi di accettare dalla sua
ospitalità il meno possibile.
Mentre mangiavamo gli chiesi quanto mancava, secondo lui, al nostro
arrivo all'Adunanza.
«Altri due giorni, non di più. Ma perché, mio buon signore, siete ansioso
di arrivare laggiù prima che tutti si siano riuniti? Se così è, possiamo au-
mentare la velocità. È una semplice questione di regolazioni meccaniche e
di consumo di combustibile...»
Mi affrettai a scuotere la testa. «Due giorni è eccellente. E a questa Adu-
nanza ci saranno tutti?»
«Come sapete, altezza, i rappresentanti di tutt'e sei i Regni. Naturalmen-
te non posso parlare per qualche visitatore fuori del normale. Come sapete,
l'abbiamo sempre tenuta nel Maaschanheem, indipendentemente dal fatto
che i Regni si riunissero o no. Tutti gli anni a partire dall'armistizio, quan-
do infine cessarono le Guerre tra gli Scafi. Verranno in molti, tutti sotto la
bandiera della tregua; naturalmente, anche i Vermi di Palude, quegli orribi-
li rinnegati senza scafo e senza ancoraggio, possono venire senza finire nei
fusti. Sì, tutto considerato, vostra altezza, ci sarà una bella compagnia. E io
mi assicurerò che abbiate una buona posizione tra gli scafi più privilegiati.
Nessuno oserebbe opporvi un rifiuto. Lo Scudo Corrucciato è a vostra di-
sposizione!»
«Vi sono molto obbligato, baron-capitano.»
I servitori cominciarono ad andare e venire, e a mettere sotto il nostro
naso piatti dall'aspetto disgustoso, ma, a quanto pareva, rifiutarli non costi-
tuiva un'offesa, perché nessuno se ne adontò. Notai che, al pari di me, von
Bek si accontentava di un'insalata di piante delle paludi relativamente gu-
stose.
Von Bek prese la parola per la prima volta. «Vogliate perdonarmi, ba-
ron-capitano. Come sua altezza vi avrà certamente informato, i passati in-
cidenti mi hanno reso un po' leggero di memoria. Quali sono gli altri regni
a cui vi siete riferito, oltre al vostro, naturalmente?»
Apprezzai la domanda diretta e quel modo di interrogare senza coinvol-
germi in domande che potevano imbarazzarmi.
«Come sua altezza sa» rispose Armiad, frenando a malapena il fastidio
«i nostri regni sono sei: i Regni della Ruota. Sono Maaschanheem, che è
questo Regno. Poi Draachenheem, dove regna il principe Flamadin quando
non è in cerca di avventure altrove!» Rivolse un cenno nella mia direzione.
«Il terzo è Gheestenheem, Regno delle Donne Fantasma, le donne canniba-
li. Gli altri tre regni sono Barganheem, proprietà dei misteriosi Principi
Orsi; Fluugensheem, la cui popolazione è difesa dall'Isola Volante, e infine
Rootsenheem, i cui guerrieri si verniciano la pelle con il colore del sangue.
Naturalmente c'è poi il Regno del Centro, ma nessuno vi entra e nessuno
ne esce. Noi lo chiamiamo Alptroomensheem, le Marche dell'Incubo. Vi è
sufficiente a rinfrescare i ricordi, conte von Bek?»
«Del tutto, baron-capitano. Vi ringrazio di esservi preso il fastidio di ri-
cordarmeli. Ma temo di non avere mai avuto molta memoria per i nomi,
neppure nei miei momenti migliori.»
Con un certo sollievo, o almeno così mi parve, il baron-capitano tornò a
rivolgere verso di me il suo sguardo bellicoso, ai limiti della maleducazio-
ne. «E la vostra promessa sposa ci raggiungerà all'Adunanza, altezza? O la
principessa Sharadim è rimasta a custodire il Regno mentre voi partivate
alla ricerca di nuove avventure?»
«Ah, vero...» dissi io, preso alla sprovvista e incapace di nascondere la
sorpresa. «La principessa Sharadim. Non posso ancora assicurarlo.»
E in qualche punto della mia mente, anche allora, tornai a sentire il canto
disperato.
«Sharadim! Sharadim! La dragonessa del fuoco dev'essere liberata!»
A quel punto asserii di essere stato colto da un'improvvisa stanchezza e
pregai il baron-capitano Armiad di permettermi di ritirarmi.
Quando fui nella mia cabina, fui raggiunto da von Bek, le cui stanze era-
no vicino alle mie. «Non mi sembri del tutto a posto, Herr Daker» mi dis-
se. «Temi che l'inganno sia scoperto e che il vero principe faccia la sua
comparsa all'Adunanza di cui s'è parlato?»
«Oh» gli risposi «sono pressoché certo di essere io il vero principe, ami-
co mio. Ma la cosa che mi ha colpito maggiormente è tutt'altra: dal mo-
mento in cui ho messo piede in questo mondo, il solo nome da me udito e
che mi fosse in qualche modo familiare è quello della donna che, a quanto
pare, è la mia fidanzata!»
Von Bek commentò: «Be', almeno saprai cosa si aspetta da te, nel caso
dovessi incontrarla.»
«Può darsi» risposi, ma interiormente ero profondamente turbato, e non
avrei saputo dirne la ragione.
Quella notte dormii poco e male.
Il sonno cominciava a farmi paura.

TRE

L'indomani non incontrai difficoltà a svegliarmi. La notte era stata piena


di visioni e di allucinazioni, con le donne che salmodiavano, i guerrieri di-
sperati, le voci che invocavano non soltanto Sharadim ma anche me...
chiamandomi con mille nomi diversi.
Quando von Bek mi raggiunse, ero intento a dare gli ultimi ritocchi alla
toeletta. Anche ora mi disse che non avevo un bell'aspetto. «Quei tuoi so-
gni sono una condizione permanente della vita che mi hai descritto?»
«Non permanente» gli risposi «ma frequente.»
«Non ti invidio, Herr Daker.»
A von Bek erano stati dati abiti puliti, ma il mio nuovo compagno di av-
venture era abbastanza impacciato nel muoversi con indosso la camicia e i
calzoni di pelle leggera, la giubba di cuoio spesso e gli alti stivali del Maa-
schanheem.
«Mi sembra di essere uno di quei briganti del teatro romantico» com-
mentò. Pareva divertito del proprio aspetto; da parte mia confesso che ero
lieto della sua compagnia. Allontanava i miei pensieri, almeno, dalle pre-
monizioni e dai sogni cupi.
«Almeno» disse «questi abiti sono abbastanza puliti! E vedo che ti han-
no dato dell'acqua calda. Penso che dobbiamo ritenerci fortunati. Eri così
preoccupato, ieri sera, che mi sono dimenticato di ringraziarti dell'aiuto.»
Mi tese la mano. «Sarei lieto di poterti offrire la mia amicizia, signore.»
Gli strinsi la mano, con calore. «E puoi contare sulla mia» gli risposi.
«Sono lieto di avere un compagno come te. Non mi aspettavo di trovarne
uno simile.»
«Ho letto di molte meraviglie delle Terre di Mezzo» osservò lui «ma
niente di così strano come questa grande nave su rulli. Mi sono alzato pre-
sto per esaminare i suoi macchinari. Sono molto primitivi - macchine a va-
pore, naturalmente - ma funzionano e raggiungono il loro scopo. Non ave-
vo mai visto tanti pistoni e bielle in così diversi stati di anzianità. La co-
struzione deve essere estremamente vecchia e non ci sono stati grandi am-
modernamenti, almeno da un secolo in qua. Tutto è rabberciato e rattoppa-
to, legato col fil di ferro, saldato alla meno peggio.»
Sorrise. «I focolari e le caldaie» riprese «sono enormi. E stranamente ef-
ficienti. Muovono un tonnellaggio almeno pari a quello della vostra Queen
Elizabeth, soltanto parzialmente sostenuto dall'acqua. Naturalmente le oc-
corre più manodopera che in un transatlantico, e forse c'è un legame tra le
due cose. Ma le mie conoscenze di meccanica, devo ammettere, si limitano
a un anno presso un istituto tecnico dietro insistenza di mio padre. Era un
progressista!»
«Più del mio» commentai. «Io non so assolutamente nulla di meccanica,
ma mi piacerebbe conoscerla. Non che abbia mai dovuto servirmi di quel
tipo di conoscenze nei mondi che ho visitato. Nei mondi del multiverso, la
magia è molto più all'ordine del giorno. Almeno, quello che noi del vente-
simo secolo chiamavamo magia.»
Mi rivolse uno dei suoi sorrisi ironici. «La mia famiglia» disse «ha an-
che una certa familiarità con la magia, tra le altre cose.»
Il conte von Bek passò allora a raccontarmi la storia della sua famiglia,
che risaliva al diciassettesimo secolo. A quanto pareva, i suoi antenati ave-
vano sempre conosciuto il modo per passare in Regni di altri mondi dove
valevano leggi naturali differenti.
«Dovrebbero esserci anche le relative tradizioni» continuò «ma non ne
abbiamo mai incontrate, a parte una che probabilmente è falsa, almeno in
parte!»
A causa di quella tradizione aveva cercato nella sua lotta contro Hitler
l'aiuto di colui che chiamava «Satana». Questi - che gli era apparso come
un individuo molto alto, di pelle nera - lo aveva aiutato a passare nelle Ter-
re di Mezzo, spiegandogli che laggiù forse avrebbe trovato il modo di
sconfiggere il Cancelliere.
E concluse: «Ma se si trattasse dello stesso Satana che è stato cacciato
dal Cielo o se sia una divinità minore, un semidio imprigionato, non sono
in grado di dirlo. Comunque, mi ha aiutato.»
Quella confessione mi diede un notevole sollievo. Già temevo di non po-
ter spiegare a von Bek certi fenomeni che ormai mi erano familiari. Il Re-
gno del Maaschanheem, comunque, non pareva possedere granché, nel
campo delle meraviglie sovrannaturali, a parte conoscere l'esistenza di altri
piani della realtà. Sotto quell'aspetto mi toglieva la preoccupazione di do-
ver spiegare ai suoi abitanti la mia presenza.
Von Bek, che, come mi aveva detto, aveva già parzialmente esplorato la
nave, mi condusse lungo i cigolanti corridoi di legno di quello che comin-
ciavo a chiamare il palazzo del baron-capitano e in una piccola cabina con
le pareti coperte di tessuti a quadri che mi parvero troppo fini per essere
stati prodotti in quel mondo. Laggiù era stata preparata una tavola per me;
assaggiai un pezzo di formaggio salato e farinoso, un morso di pane duro,
un sorso di yogurt molto leggero e alla fine bevvi un bicchiere d'acqua tie-
pida, abbastanza pulita, e mangiai l'uovo sodo di qualche uccello a me
sconosciuto.
Dopo la piccola colazione seguii von Bek lungo un altro labirinto di cor-
ridoi stretti e cigolanti, poi per una esilissima passatoia tesa tra due alberi.
Quest'ultima dondolava a tal punto che mi sentii girare la testa e dovetti
tenermi alla ringhiera di corda. A parecchi metri sotto di me, la gente era al
lavoro: vidi carri tirati da bestie simili a buoi, udii le donne chiamarsi da
una finestra all'altra dei leggeri edifici. Vidi bambini che giocavano tra le
sartie più basse mentre i cani abbaiavano ai loro piedi. Dappertutto grava-
va una fitta coltre di fumo che oscurava completamente molte scene; poi,
di tanto in tanto, il vento portava via tutto ed era possibile respirare l'aria
pulita dell'immensa, scintillante palude su cui lo Scudo Corrucciato si
muoveva con una sorta di ponderosa dignità tutta sua.
Anche se piatto e pressoché tutto dello stesso colore grigioverde, potei
constatare che il Maaschanheem era un luogo magnifico, a proprio modo.
Le nubi non si aprivano mai per molto tempo, ma la luce che vi filtrava era
sempre diversa e ogni volta dava risalto a particolari differenti dei laghi,
delle paludi e delle sottili strisce di terraferma, gli ancoraggi di quella po-
polazione nomade. Si scorgevano galleggiare sull'acqua stormi di uccelli
strani e bellissimi, altri s'infilavano tra le canne, e a volte si alzavano in vo-
lo, come una sola, grande massa scura e si allontanavano verso l'invisibile
orizzonte.
Molti animali dall'aspetto bizzarro scivolavano tra l'erba o sollevavano
la testa, con aria perplessa, dalla superficie dell'acqua. Quello che mi stupì
maggiormente era un animale simile a una foca, ma grande più di un leone
di mare. A quanto ci venne detto, gli avevano dato un nome non molto fan-
tasioso: vaasarhund, che nella lingua locale - la stessa per tutt'e sei i Regni
della Ruota -significava 'cane acquatico'. Naturalmente, fin dal mio arrivo
su quel mondo parlavo perfettamente quella lingua: assai meglio di von
Bek, anche se era legata al ceppo delle lingue germaniche. Era una mesco-
lanza di alto tedesco, olandese, e anche di inglese e di norreno, e ricordai
quanto mi aveva detto il capitano cieco, ossia che quel gruppo di mondi
aveva stretti legami con la terra dove ero vissuto con il nome di John Da-
ker.
I cani acquatici amavano giocare come le nostre foche e seguivano la
nave a distanza di sicurezza quando essa entrava in qualche tratto di palude
più profondo (comunque, senza mai perdere il contatto tra i rulli e il fon-
do), latravano verso di noi e saltavano fuori dell'acqua per cogliere le bri-
ciole che venivano gettate loro dalla nave.
Quella mattina scoprii molto presto che la nave stessa e le persone che vi
vivevano non avevano nulla di intrinsecamente sinistro o minaccioso, an-
che se l'attuale signore e i suoi fustieri erano straordinariamente odiosi.
Tutti si erano rassegnati a vivere tra la fuliggine dei fumaioli ed erano abi-
tuati al puzzo del luogo, ma parevano abbastanza allegri e amichevoli, una
volta assicuratisi che non intendevamo fare loro del male e che non erava-
mo Vermi di Palude: un termine generico, scoprimmo, per indicare le per-
sone che non avevano una loro nave-città, o erano stati esiliati per qualche
crimine o avevano scelto di vivere a terra.
Alcuni di quei fuorilegge si riunivano in bande e attaccavano le navi, se
ne avevano l'occasione, o ne rapivano qualche abitante, ma neanch'essi, a
parer mio, erano tutti malvagi o meritavano di essere uccisi. Venimmo a
sapere che era stato il baron-capitano Armiad a stabilire che tutti gli abi-
tanti della terraferma fossero uccisi e che i loro corpi finissero nel focolare
della nave.
«Col risultato» ci disse una donna intenta a ripulire la pelle di un anima-
le «che nessun abitante della terraferma vuole più commerciare con lo
Scudo Corrucciato, ormai. Siamo costretti a prendere quel che possiamo
dall'ancoraggio e a dipendere da quel che i Fustieri recuperano dai Vermi
di Palude.» Si strinse nelle spalle. «Ma sono le nuove regole.»
Scoprimmo che il modo più rapido per andare da una parte all'altra della
città consisteva nell'usare le passatoie tra gli alberi. In questo modo si evi-
tavano i corridoi e i passaggi tortuosi che attraversavano i vari ponti e tra
cui era facile perdersi. Ogni albero aveva la sua scala fissa, circondata da
una sorta di gabbia che permetteva di tenere meglio la presa e che impedi-
va di precipitare sugli edifici sottostanti.
In seguito incontrammo un gruppo di giovani, uomini e donne, eviden-
temente appartenenti a qualche sorta di nobiltà, anche se vestiti abbastanza
male e non molto più puliti dei popolani. Vennero a trovarci quando ci vi-
dero passare su uno dei castelli, mentre andavamo a vedere la poppa della
nave e i suoi mostruosi timoni, che erano usati per frenare e per cambiare
rotta e che scavavano profondi solchi nel fango. Una giovane donna dallo
sguardo intelligente, di una ventina di anni, che portava un vecchio abito di
cuoio simile a quello di von Bek, fu la prima a prendere la parola.
«Sono Bellanda naam Folfag ig Fornster» si presentò, togliendosi il cap-
pello e portandoselo sul cuore. «Volevamo congratularci con voi per il vo-
stro combattimento con Mopher Gorb e i suoi raccoglitori. Si sono un po'
troppo abituati a dare la caccia a esiliati mezzo morti di fame. Speriamo
che imparino la lezione da quel che è successo ieri, anche se non credo che
quella gente sia capace di imparare qualcosa.»
Ci presentò i suoi due fratelli e i loro amici.
«Voi tutti avete l'aria di studenti» commentò von Bek. «C'è una scuola,
qui a bordo?»
«Sì, c'è» rispose la giovane «e quando è aperta noi la frequentiamo. Ma
da quando il nostro nuovo baron-capitano ha preso il potere, lo studio non
viene molto incoraggiato. Armiad disprezza cordialmente quelle che se-
condo lui sono attività decadenti. Negli scorsi tre anni ha cercato di sco-
raggiare in tutti i modi gli artisti e gli intellettuali, e il nostro scafo viene
virtualmente messo al bando da tutti gli altri. Coloro che potevano lasciare
lo Scudo Corrucciato, che avevano qualche capacità o qualche conoscenza
da offrire alle altre navi, se ne sono già andati. Ma noi abbiamo solo la no-
stra gioventù e la nostra ansia di imparare. Abbiamo scarse speranze di
cambiare scafo, almeno per qualche anno. Nella storia della nostra nave ci
sono stati peggiori tiranni, peggiori guerrafondai, peggiori imbecilli, ma è
sgradevole essere presi in giro da tutto il regno e sapere che nessuna per-
sona di un'altra nave sarebbe disposta a sposarti, o anche solo a farsi vede-
re con te. Solo all'Adunanza riusciamo a stabilire una sorta di comunica-
zione, ma si tratta di occasioni ufficiali e di periodi troppo brevi.»
«E se lasciaste del tutto la nave?...» cominciò von Bek.
«Proprio così. Vermi di palude. Possiamo solo augurarci che l'attuale ba-
ron-capitano caschi in mezzo ai rulli o trovi presto la morte in qualche al-
tro modo! Quell'uomo appartiene alla peggiore specie di arrivisti.»
«Il titolo non è ereditario?» chiesi io.
«Sì, in genere. Ma Armiad ha deposto il nostro vecchio signore. Armiad
era l'intendente del baron-capitano Nedau e, come spesso avviene quando
il comandante diventa vecchio senza avere figli, l'amministratore ha finito
per assumere su di sé gran parte del comando. Noi eravamo pronti a eleg-
gere un nuovo baron-capitano tra i famigliari di Nedau. Era parente di mia
madre, per esempio, dalla parte dei Fornster. Oppure lo zio di Arbrek...»
Ci indicò Arbrek, un giovane dai capelli rossi, talmente timido che ora la
sua faccia aveva assunto il colore della capigliatura, e proseguì: «Un nobi-
le dei Rendep che aveva un vecchio Legame di Rima con il capitano. Op-
pure il Doowreshi dei Santi Monicani, che era il suo parente più prossimo,
anche se da qualche anno aveva fatto voto di castità, in clausura, e si era
dedicato ai suoi studi. Tutti costoro erano legittimi candidati. Poi, a causa
della sua leggerezza di testa (non poteva trattarsi d'altro) il nostro baron-
capitano ha chiesto un Duello di Sangue.»
Vedendo che non conoscevamo quell'uso, ci spiegò: «Si tratta di un ritu-
ale che non è più stato praticato dall'epoca della Guerra tra Scafi, tanti anni
fa. Ma è ancora scritto sul Palo delle Leggi e occorre rispettarlo. Quanto
poi al motivo che ha convinto Nedau a sfidare Armiad, non l'abbiamo mai
scoperto, ma pensiamo che sia stato quest'ultimo a spingerlo, o con qual-
che insulto, o minacciando di rivelare qualche segreto.»
Fece una smorfia di disgusto. «Quale che sia la causa, Armiad ha accet-
tato il Duello di Sangue, naturalmente, e i due si sono affrontati sulla pas-
serella volante, quella che collega i due alberi di mezzana. Abbiamo guar-
dato dal basso, come vuole una tradizione che nessuna persona oggi viven-
te ricordava più, e anche se il fumo di un comignolo ha oscurato la conclu-
sione della lotta, non c'è dubbio che Nedau fosse stato pugnalato al cuore
prima di cadere nella piazza del mercato, precipitando da un'altezza di
trenta e più braccia. E così, grazie a una vecchia legge che non è mai stata
cambiata, il nostro nuovo baron-capitano è un tiranno volgare e ignoran-
te.»
Von Bek commentò: «Conosco anch'io quel genere di tiranni. Ma vi ri-
tenete al sicuro, nel fare questi discorsi a voce alta e in pubblico?»
«Forse no» ammise la ragazza «ma so che è un vigliacco. Inoltre è pre-
occupato del fatto che gli altri baron-capitani non vogliono avere alcun
rapporto con lui. Non lo invitano ad alcuna cerimonia, non vengono in vi-
sita sulla nostra nave. Non prendiamo più parte alle riunioni delle navi. La
sola cosa che ci resta è l'Adunanza annuale, quando tutti devono radunarsi
e non sono ammessi litigi. Ma anche allora le altre navi si limitano a quel
minimo di contatti richiesto dalle buone maniere.»
Proseguì: «Lo Scudo Corrucciato ha adesso la nomea di essere una nave
di barbari, come ne esistevano solo nel più lontano passato, prima ancora
della Guerra degli Scafi. Ecco il risultato ottenuto da Armiad facendo ap-
pello a quell'antica legge. O con l'assassinio del suo padrone, diciamo noi.
Ma se dovesse commettere altri crimini contro la sua gente - per esempio,
far tacere i parenti del vecchio baron-capitano, come noi - perderebbe la
sua sola possibilità di farsi accettare nel gruppo degli altri capitani.»
Gli altri annuirono; lei continuò: «I suoi sforzi di guadagnarsi la loro
simpatia sono altrettanto ridicoli quanto sono volgari e disgustosi i suoi
piani e le sue macchinazioni. Ogni volta che tenta di guadagnarli a sé, con
doni, prove di coraggio, o con esempi della propria fermezza, come la sua
particolare politica nei riguardi dei Vermi di Palude, riesce soltanto ad al-
lontanarli maggiormente.» Bellanda sorrise. «È uno dei pochi divertimenti
che ancora ci restino a bordo dello Scudo Corrucciato.»
«E non c'è modo di deporlo?» chiesi.
«No, principe Flamadin. Solo un baron-capitano può chiedere un Duello
di Sangue.»
«Gli altri baron-capitani non possono aiutarvi a eliminarlo?» volle sape-
re von Bek.
«No, glielo proibisce la legge. Fa parte della Grande Tregua, quando è
finalmente cessata la Guerra degli Scafi. È proibito interferire negli affari
interni di un'altra nave-città» spiegò Arbrek, balbettando per l'emozione.
«Noi tutti andiamo fieri di quella legge, ma questa volta non favorisce lo
Scudo Corrucciato...»
«Adesso capite» concluse Bellanda con un leggero sorriso «perché Ar-
miad coltiva la vostra amicizia? Abbiamo sentito dire che vi ha fatto le fe-
ste come un cane, principe Flamadin.»
«Ammetto che non è stata la più gradevole esperienza fra tutte quelle
che ho conosciuto» ammisi. «Perché fa così, visto che non sente il dovere
di comportarsi in modo civile con la sua gente?»
«È convinto di essere il più forte. Però, voi siete più forte di lui, nel suo
modo di vedere le cose. Ma la vera ragione che lo spinge a volere la vostra
amicizia, secondo me, è da cercare nel suo desiderio di impressionare gli
altri baron-capitani in occasione dell'Adunanza. Se avrà al suo fianco il
famoso principe Flamadin del Valadek quando arriva all'Isola delle Adu-
nanze, pensa di poter essere accettato da tutti.»
Von Bek era alquanto divertito. Scoppiò a ridere. «Ed è il solo motivo?»
«Il principale, almeno» rispose la donna, ridendo a sua volta. «È una
persona semplice, vero?»
«Più sono semplici, più possono essere pericolosi» intervenni io. «Vor-
rei poter fare qualcosa per voi, Bellanda, liberandovi di questa tirannia.»
«Possiamo solo augurarci che gli succeda presto qualche incidente» con-
cluse lei. Parlava senza preoccupazioni. Chiaramente nessuno di quei gio-
vani intendeva davvero contribuire ad aumentare il numero di omicidi
commessi sulla loro nave.
Ero lieto che Bellanda mi avesse riferito quei particolari illuminanti. De-
cisi di approfittare ulteriormente del suo aiuto. «Ieri sera» le dissi «ho sa-
puto da Armiad che sono considerato come una sorta di eroe popolare, al-
meno da una parte della popolazione. Ha citato alcune avventure che non
mi sono del tutto familiari. Sapete che cosa intendesse dire?»
Lei tornò a ridere. «Voi dovete essere molto modesto, principe Flama-
din. O fingete di esserlo, ma in modo assai abile e affascinante. Saprete
certamente che nel Maaschanheem, e anche negli altri Regni, ne sono cer-
ta, le vostre avventure vengono raccontate da ogni cantastorie della piazza
del mercato. In tutto il Maaschanheem circolano libri, non tutti stampati
nelle nostre navi da stampa, che pretendono di descrivere come abbiate
sconfitto quel certo orco o come abbiate salvato quell'altra fanciulla. Non
mi direte di non averli mai visti!»
«Ecco» disse uno dei più giovani, mostrandomi un fascicolo dalla coper-
tina colorata che mi richiamò alla mente i romanzi popolari del primo Ot-
tocento. «Vedete? Volevo chiedervi di firmarlo, signore.»
Von Bek disse piano: «Mi avevi detto di essere un eroe nelle tue prece-
denti incarnazioni, Herr Daker, e adesso ne ho anche la prova!»
Con mio grande imbarazzo prese il libro che il ragazzo gli porgeva e gli
diede un'occhiata mentre me lo passava. Scorsi un'incisione che mi ritraeva
in sella a una creatura simile a una lucertola: levando in alto la spada, mi
lanciavo all'assalto di un animale che sembrava un incrocio tra un cane ac-
quatico e un grosso babbuino. In sella, dietro di me, sedeva una giovane
donna dall'aria atterrita e in alto, sul disegno stesso, come nei pulp
magazine a me familiari, c'era il titolo: «Il principe Flamadin, Campione
dei Sei mondi».
All'interno, in una prosa dalle forti tinte, c'era una storia -chiaramente di
fantasia - in cui si descrivevano le mie coraggiose imprese, i miei nobilis-
simi sentimenti, la mia straordinaria bellezza e così via. Ero stupito e im-
barazzato, ma mi scoprii a firmare Flamadin con uno svolazzo, prima di
restituire il volumetto. L'avevo fatto meccanicamente. Forse, dopotutto,
ero davvero io. La mia reazione era quella familiare, così come trovavo
familiare scrivere e leggere nella lingua del luogo.
Sospirai. Nonostante le mie esperienze, non avevo mai incontrato nulla
di così comune e di così straordinario nello stesso tempo. In quel mondo
ero una specie di eroe, ma un eroe le cui imprese erano state del tutto ro-
manzate. Come era successo a Jesse James, Buffalo Bill o, in misura mino-
re, alle celebrità sportive o musicali del ventesimo secolo!
Von Bek parve leggermi nel pensiero. «Non sapevo di avere fatto amici-
zia con una persona della fama di Arsenio Lupin o di Sherlock Holmes»
commentò.
«È la verità?» chiese il ragazzo. «È difficile credere che abbiate compiu-
to tante imprese, signore, e che siate ancora abbastanza giovane!»
«La verità la lascio decidere a te» gli risposi. «Oserei dire, comunque,
che in quel libro c'è un grosso lavoro di abbellimento.»
«Be'» intervenne Bellanda, con un largo sorriso. «Per me, sono pronta a
credere ogni parola. Circolano chiacchiere in cui si dice che il vero potere
lo ha vostra sorella, che voi non fate altro che prestare il vostro nome agli
scrittori di storie sensazionali. Ma ora che vi ho conosciuto, principe Fla-
madin, posso dire che siete un eroe dalla cima dei capelli alle piante dei
piedi!»
«Siete molto gentile» le risposi con un inchino «ma sono certo che anche
mia sorella meriti molta fiducia.»
«La principessa Sharadim? Non ha mai voluto che il suo nome compa-
risse in quelle pagine, a quanto si sa.»
«Sharadim?» Di nuovo quel nome! Eppure, il giorno prima, era stata de-
scritta come la mia fidanzata.
«Sì...» Bellanda mi guardò con stupore. «Ho detto qualcosa che non a-
vrei dovuto dire, principe Flamadin, ridendo e scherzando?»
«No, no. Il nome Sharadim è molto comune nella mia terra?» Solo dopo
averla rivolta, mi accorsi di quanto fosse sciocca la domanda. La giovane
era sempre più confusa.
«Non riesco a seguirvi, signore...»
Ancora una volta venni salvato da von Bek. «Credevo che la principessa
Sharadim fosse la promessa sposa del principe.»
«È come dite, signore» confermò Bellanda. «Ed è anche sua sorella. Si
tratta di una tradizione del vostro regno, vero?» Era ancor più confusa. «Se
ho ripetuto uno stupido pettegolezzo o se ho dato eccessivamente retta a
quei romanzi, vi chiedo scusa...»
Mi ripresi quanto bastava per risponderle: «Oh, non c'è nulla di cui dob-
biate scusarvi...» Mi avvicinai alla balaustra della torretta e mi appoggiai a
essa. Il vento che soffiava dal basso cacciò via il fumo e mi rinfrescò i
polmoni e la pelle, mi schiarì la mente. «Sono stanco. A volte dimentico le
cose...»
«Andiamo» mi disse von Bek, rivolgendo qualche parola di scusa ai
giovani. «Ti riaccompagno nella cabina. Un'ora di riposo ti farà sentire
meglio.»
Mi lasciai condurre via, mentre gli studenti ci guardavano con aria assai
perplessa.
Al nostro ritorno alla cabina, trovammo un messaggero ad attenderci pa-
zientemente davanti alla porta. «Miei signori» ci disse «il baron-capitano
vi porge i suoi rispetti. Vi attende a pranzo, all'ora che farà comodo a voi.»
«Significa che dobbiamo unirci a lui non appena possibile?» gli chiese
von Bek.
«Se non vi dà incomodo, signore.»
Entrammo nella cabina e mi lasciai cadere pesantemente nella mia cuc-
cetta. «Mi devi perdonare, von Bek. Quelle rivelazioni non dovrebbero
colpirmi tanto. Se non fosse stato per quei sogni... per quelle donne che mi
chiamavano Sharadim...»
«Credo di capire» annuì lui. «Tuttavia dovresti cercare di resistere. Non
dobbiamo inimicarci questa gente. Almeno, non così presto. Credo che gli
intellettuali siano curiosi di sapere se sei davvero l'eroe descritto da quei
libri. Probabilmente circola la voce che il principe Flamadin sia soltanto
una marionetta in mano altrui. Non ti ha dato quell'impressione?»
Annuii. «Forse è per quel motivo che chiamano Sharadim.»
«Non sono certo d'avere capito.»
«Fa pensare che sia lei a detenere il vero potere e che suo fratello - e suo
promesso sposo - sia solo un impostore. Forse le conviene che il fratello
sia una leggenda vivente, un eroe popolare. Situazioni del genere si sono
viste anche nel nostro mondo.»
«Non avevo pensato a questo aspetto, ma è effettivamente possibile»
annuì von Bek. «Significa che tu e Flamadin del Valadek non siete neces-
sariamente la stessa persona?»
«Il guscio cambia, von Bek. Quelli che rimangono inalterati sono lo spi-
rito e il carattere. Non è la prima volta che mi incarno nel corpo di un eroe
che poi risulta assai diverso dalle aspettative generali.»
«Se fossi, per così dire, nei tuoi panni» aggiunse von Bek «mi chiederei
un'altra cosa, ossia perché sei venuto a trovarti proprio in questo mondo.
Pensi di scoprire presto la risposta?»
«Amico mio» gli risposi «a questo punto non sono più sicuro di nulla.»
Mi alzai e raddrizzai le spalle. «Prepariamoci alle brutte esperienze che
dovremo sopportare al pranzo del baron-capitano.»
Quando uscimmo dalla cabina, von Bek commentò: «Mi domando se la
principessa Sharadim presenzierà all'Adunanza. Confesso che sono sempre
più curioso di vederla. E tu?»
Mi sforzai di sorridere. «È un incontro che mi spaventa moltissimo, a-
mico mio. Ho il presentimento che ci porterà solo dolore e paura.»
Von Bek mi guardò con grande serietà. «Sarei portato a non dare molto
peso a questa affermazione» mormorò «se non ti leggessi sulla faccia un
terrore così profondo.»

QUATTRO

Il baron-capitano Armiad voleva chiedermi un favore. Dopo la mia di-


scussione con i giovani studenti, non provai alcuna particolare sorpresa
quando alla fine giunse a dirmi quello che voleva: se gli avessi fatto l'ono-
re di accompagnarlo su un'altra nave, poco prima dell'Adunanza.
«Le navi non arrivano tutte insieme all'Isola delle Adunanze, ma spesso
alcune viaggiano affiancate per parecchie miglia, prima di giungere all'iso-
la stessa. Ormai le vedette più alte hanno avvistato tre altre navi. Dai se-
gnali che inalberano, sono la Ragazza in Verde, la Lama Sicura e la Nuova
Discussione, tutte provenienti dagli ancoraggi più lontani. Devono avere
tenuto un'ottima media per essere così vicine all'Isola delle Adunanze. È
consuetudine dei baron-capitani di farsi visite di cortesia, da una nave
all'altra, in momenti come questi, le visite vengono rifiutate soltanto in ca-
so di epidemie a bordo o di qualche altra grande crisi. Vorrei allinearmi al-
la Nuova Discussione e alzare le bandiere per dirle che vogliamo recarci in
visita. A voi e al vostro amico non piacerebbe visitare un'altra nave?»
«Saremo lieti di venire» risposi. Non solo volevo confrontarle tra loro,
ma volevo accertarmi di che considerazione godesse il baron-capitano da
parte dei suoi colleghi. Da quel che aveva detto, non era possibile impedir-
gli di salire sull'altra nave. Ed era ovvio che volesse mostrare l'ospite ai
suoi colleghi capitani, in modo che la voce si diffondesse prima dell'Adu-
nanza. Con questo sperava di farsi accettare dagli altri o, almeno, di ottene-
re maggiore prestigio.
Chiaramente, le mie parole gli avevano tolto una preoccupazione. I suoi
lineamenti da suino si rilassarono. Mi parve quasi sul punto di sorridermi.
«Bene. Farò alzare i segnali.»
Poco più tardi mormorò qualche parola di scusa e ci lasciò da soli. Con-
tinuammo a esplorare la nave e di nuovo finimmo per incontrare Bellanda
e i suoi amici, che erano senza dubbio le persone più interessanti da noi
conosciute in quel mondo. Ci fecero salire in alto, su un albero della nave,
e ci mostrarono il fumo degli altri scafi, in lento avvicinamento tra loro nel
tragitto che li portava all'Isola delle Adunanze.
Un ragazzo pallido chiamato Jurgin aveva un binocolo e conosceva le
insegne di tutte le navi. Ne pronunciò il nome a mano a mano che le rico-
nosceva: «C'è il Vecchio Contratto, che rende conto alla Testa Galleggian-
te. Ed ecco la Ragazza in Verde, che rende conto alla Brocca Spezzata...»
Gli chiesi come facesse a dirlo ed egli mi passò il binocolo. «È semplice,
altezza. Le bandiere rappresentano l'oggetto corrispondente alla sagoma
dell'ancoraggio sulla mappa, e i nomi sono quelli dell'oggetto rappresenta-
to. Un po' come si fa con le costellazioni. Nella maggior parte dei casi, i
nomi degli scafi sono molto antichi e corrispondono a quelli delle navi a
vela su cui viaggiavano i nostri lontani antenati. Poi, gradualmente le navi
si sono ingrandite fino a diventare le città mobili dove abitiamo oggi.»
Grazie al binocolo, dopo qualche istante riuscii a vedere la bandiera che
sventolava dal più alto albero della nave accanto a noi. Era un simbolo ros-
so in campo nero.
«Mi sembra una creatura demoniaca» dissi. «Un orco o qualcosa del ge-
nere.»
Jurgin rise. «È la bandiera dell'ancoraggio dell'Uomo Brutto e perciò lo
scafo è la Nuova Discussione, dell'estremo Nord. È quella che andrete a
visitare questa sera, vero?»
Rimasi colpito dalle sue conoscenze. «Come lo sai? Avete delle spie a
corte?»
Il giovane scosse la testa e continuò a ridere. «La cosa è molto più sem-
plice, altezza.» Indicò l'albero maestro, sopra di noi, dove un gran numero
di bandiere si agitava al debole vento. «È quanto dicono i nostri segnali. E
la Nuova Discussione ha risposto con la debita cortesia (e probabilmente
con una certa riluttanza, trattandosi del nostro baron-capitano) che siete i
benvenuti a bordo, un'ora prima del crepuscolo. La qual cosa» continuò
con un sorriso «significa che avrete unicamente un'ora di visita, perché
Armiad non ama attraversare la palude di notte. Probabilmente teme la
vendetta di tutti i cosiddetti Vermi di Palude che ha gettato nei suoi focola-
ri. Senza dubbio sono pienamente informati di questo suo limite anche sul-
la Nuova Discussione!»
Qualche ora più tardi, io e von Bek accompagnavamo il baron-capitano
Armiad naam Sliforg ig Vortan - tutto abbigliato nel suo complesso (e ri-
dicolo) abito ufficiale - in una sorta di zatterone a ruote che veniva spinto
da una dozzina di uomini forniti di pali (anch'essi con una livrea rutilante)
e che a volte galleggiava, a volte rotolava, sui laghetti e sulle paludi, in di-
rezione della Nuova Discussione, ora giunta assai vicino al nostro Scudo
Corrucciato.
Con il suo mantello a riquadri e i suoi calzoni rigonfi, l'enorme cappello
pencolante, la giubba grottescamente imbottita, Armiad era a malapena in
grado di muoversi. A quanto avevo capito, aveva visto il disegno in un
vecchio volume illustrato e s'era convinto che fosse la giusta, tradizionale
divisa di un baron-capitano. Aveva incontrato una certa difficoltà a scende-
re nella zattera e doveva tenere con tutt'e due le mani il cappello quando il
vento minacciava di portarglielo via. Molto lentamente gli uomini ci spin-
sero verso l'altro scafo, mentre Armiad gridava loro di fare attenzione, di
non fare schizzi nella nostra direzione, di non dare scrolloni alla barca.
Vestiti normalmente e privi di armi, noi non avevamo quel genere di
problema.
La Nuova Discussione era altrettanto ammaccata e rappezzata quanto lo
Scudo Corrucciato, e dava l'impressione di essere ancora più vecchia, ma
era in condizioni assai migliori della nostra nave. Il fumo che usciva dalle
ciminiere non era né giallognolo né oleoso e i fumaioli erano disposti in
modo da far cadere sui ponti una minima quantità di cenere. Le bandiere
erano molto più pulite (anche se era impossibile che non raccogliessero la
fuliggine) e dappertutto la vernice era più fresca. Si notava una certa cura
nella manutenzione dello scafo e avevo l'impressione che fosse stata tirata
a lucido per l'imminente Adunanza. Mi parve strano che Armiad non pre-
ferisse mantenere più pulita la propria nave e non capisse che il suo disor-
dine suggeriva soltanto i limiti della sua intelligenza, il basso morale della
sua gente e una decina di altre considerazioni negative.
Arrivammo finalmente alla grande mole dell'altra nave, avanzando
nell'acqua gelida finché non raggiungemmo la rampa abbassata per noi.
Con qualche fatica, gli uomini spinsero la zattera sulla rampa e all'interno
della Nuova Discussione io mi guardai attorno con curiosità.
L'aspetto generale era quello che conoscevamo già, ma c'era un ordine,
un rigore che faceva sembrare la nave di Armiad una vecchia bagnarola in
disarmo rispetto a una nave militare. Inoltre, anche se avevano corazze si-
mili a quelle che avevamo visto indossare dagli uomini dello Scudo Cor-
rucciato, gli uomini che ci presentarono le armi erano di gran lunga più
puliti e chiaramente avrebbero preferito non dover accogliere a bordo gen-
te come noi.
Infatti, anche se io e von Bek ci eravamo lavati da capo a piedi e aveva-
mo chiesto abiti puliti, era bastato il tragitto dalle nostre cabine alla zattera
per coprirci si sudiciume. Inoltre non dubitavo che avessimo addosso il
puzzo del nostro scafo, anche se ormai c'eravamo assuefatti ad esso. In
qualsiasi caso, una cosa era chiara: la gente della Nuova Discussione tro-
vava estremamente ridicolo il vestito di Armiad, esattamente come lo tro-
vavamo ridicolo noi!
Capimmo anche un'altra cosa: non era solo lo snobismo a tenere lontano
da Armiad gli altri baron-capitani. Del resto, anche se l'avessero fatto per
quella ragione, le parole e l'atteggiamento di Armiad avrebbero confermato
ogni loro pregiudizio.
Anche se pareva non accorgersi dell'impressione che dava, il disagio di
Armiad si vedeva perfettamente. Fece offensivi commenti sul gruppo ve-
nuto ad accoglierci, mentre ci veniva dato il saluto ufficiale e ci scambia-
vamo i nomi. Con la quintessenza della pomposità annunciò i nostri, di-
cendo che ci aveva portato sulla Nuova Discussione in veste di ospiti, e mi
parve al settimo cielo quando i padroni di casa mostrarono sorpresa, o ad-
dirittura stupore, nel riconoscermi.
«Proprio così» disse a tutti. «Il principe Flamadin e il suo compagno
hanno scelto il nostro scafo, lo Scudo Corrucciato, per farsi portare fino al-
l'Adunanza. E per tutta la durata dell'incontro la nostra nave sarà il loro
quartier generale. E ora, amici miei, portateci dai vostri padroni. Il principe
Flamadin non è abituato a perdere tempo con gli inferiori.»
Assai imbarazzato da questa mancanza di educazione e desideroso di far
capire ai nostri ospiti che non condividevo le osservazioni di Armiad, li
seguii lungo una serie di rampe che portavano ai ponti superiori. Anche
lassù c'era una fiorente città, con stradine serpeggianti, scalette, taverne,
negozi di cibarie, e perfino un teatro. Von Bek mormorò parole di appro-
vazione, ma Armiad, che veniva tra me e lui, continuò a dire a bassa voce
che vedeva segni di decadenza dappertutto. In Inghilterra avevo già incon-
trato persone che consideravano un segno di decadenza la pulizia persona-
le e che avrebbero trovato una conferma di tale opinione nell'arte e nell'e-
leganza che parevano fiorire sulla Nuova Discussione. Io, in qualsiasi caso,
tentai di conversare con il gruppo di accoglienza, composto di giovani
dall'aria abbastanza cortese, ma vidi che avevano qualche esitazione a ri-
spondermi, anche quando lodavo l'ordine e la bellezza della loro nave.
Procedendo per una serie di passatoie giungemmo a quello che doveva
essere un grosso edificio pubblico. Quest'ultimo non aveva le saracinesche
e le altre fortificazioni del palazzo di Armiad; passando sotto un arco a se-
sto acuto entrammo in una sorta di cortile circondato da un elegante colon-
nato. Dalla nostra sinistra ora uscì un altro gruppo di uomini e donne, tutti
abbastanza anziani.
I nuovi venuti indossavano lunghe vesti di velluto scuro, cappelli flosci
ornati di una penna d'uccello, ciascuna diversa dall'altra, e guanti di pelle
dai colori vivaci. Il viso era nascosto da una maschera di garza: ora se la
sfilarono e se la portarono sul cuore, in una variante del gesto che ci aveva
rivolto Mopher Gorb quando avevamo ucciso i suoi fustieri. Rimasi molto
colpito dalle loro espressioni di grande dignità e mi stupii nel constatare
che tutti, meno un uomo e una donna, avessero la pelle scura. Invece, il
gruppo che era venuto ad accoglierci all'arrivo era costituito di uomini di
pelle bianca.
Nonostante si comportassero con educazione impeccabile e ci salutasse-
ro con grande decoro, era chiaro che la nostra presenza non era gradita. E,
altrettanto chiaramente non facevano molta differenza tra Armiad, me stes-
so e von Bek (cosa che non mancò di ferire il mio orgoglio, com'è natura-
le!) Nel complesso, anche se non fecero nulla di intrinsecamente scortese,
mi diedero l'impressione di un gruppo di patrizi romani costretti a soppor-
tare la visita di un gruppo di rozzi barbari.
«Salute a voi, onorati ospiti dello Scudo Corrucciato. Noi, consiglieri
del baron-capitano Denou Praz, Fratello in Rima dei Toirset Laren e nostro
Difensore dall'Orso delle Nevi, vi diamo il benvenuto a nome suo e vi pre-
ghiamo di unirvi a noi per un piccolo rinfresco nella nostra sala delle ac-
coglienze.»
«Ben lieti, ben lieti» rispose Armiad, con un gesto magniloquente... su-
bito interrotto perché dovette raddrizzarsi il cappello. «Siamo più che ono-
rati di essere vostri ospiti, il principe Flamadin e io.»
Anche ora la loro reazione al mio nome fu tutt'altro che entusiasmante,
ma la loro autodisciplina era troppo grande e non si permisero alcuna e-
spressione di fastidio. Con un inchino ci condussero verso il colonnato, ci
fecero attraversare porte con pannelli di vetri tipo cattedrale, fino a un'ele-
gante sala illuminata da lampade di rame, interamente decorata, anche sul
basso soffitto, di scene risalenti al lontano passato della nave e in gran par-
te legate a viaggi in mezzo a banchi di ghiaccio. Ricordai che la nave veni-
va dal Nord: evidentemente era abituata a viaggiare nei pressi del Polo
(sempre che quella terra possedesse un Polo nel senso in cui lo intendevo
io).
In fondo al tavolo c'era una sedia tappezzata di broccato. Il suo occupan-
te ora si alzò, si sfilò la mascherina e se la portò sul cuore. Era molto vec-
chio, aveva un aspetto fragile e parlava con una voce leggermente chioc-
cia.
«Baron-capitano Armiad, principe Flamadin, conte Ulrich von Bek» ci
salutò «sono il baron-capitano Denou Praz; vi prego, venite avanti e sedete
accanto a me.»
«Ci siamo già visti un paio di volte, fratello Denou Praz» disse Armiad,
in un tono di familiarità assai invadente. «Forse ve ne ricorderete. Alla
Conferenza degli Scafi, a bordo dell'Occhio del Leopardo e l'anno scorso
sulla Mia Zia Jeroldeen, per il funerale di nostro fratello Grallerif.»
«Mi ricordo bene di voi, fratello Armiad. Il vostro scafo è contento?»
«Eccezionalmente contento, grazie. E il vostro?»
«Grazie, siamo in equilibrio, penso.»
Da quelle poche battute era ovvio che Denou Praz intendeva mantenere
la conversazione a un livello puramente ufficiale. Armiad, però, proseguì
intemeratamente.
«Non capita tutti i giorni di avere tra noi un Principe Eletto del Valadek»
disse.
«No davvero» rispose Denou Praz, senza molto entusiasmo. «Non che,
naturalmente, il nostro nobile Flamadin sia ancora Principe Eletto della sua
gente.»
L'affermazione fu un vero shock per Armiad. Sapevo che Denou Praz
l'aveva detto apposta, e che la frase era pericolosamente ai margini della
buona educazione comunemente accettata, ma non capii che cosa intendes-
se dire.
«Non è più l'Eletto?» chiese il piccolo capitano.
«Il nostro buon gentiluomo non ve l'ha detto?» chiese Denou Praz, men-
tre i consiglieri sedevano a tavola. Tutti gli occhi erano puntati verso di
me.
Io scossi la testa. «Non comprendo. Forse, baron-capitano Denou Praz,
vorrete spiegarvi?»
«Se non lo giudicate un atto d'inospitalità...» Anche Denou Praz era stu-
pito. Probabilmente non s'era aspettato che gli rispondessi così. Ma ero ri-
masto sorpreso dalle sue parole e avevo deciso di correre il rischio e di
chiedere direttamente a lui la spiegazione. «La notizia circola da vario
tempo. Abbiamo saputo del vostro esilio, ordinato da vostra sorella Shara-
dim perché vi rifiutavate di sposarla. E che avete lasciato tutte le vostre ca-
riche. Scusatemi, buon signore, ma preferirei non proseguire per non ri-
schiar di violare le leggi dell'ospitalità.»
«No, baron-capitano, vi prego di proseguire» gli assicurai. «La vostra
storia contribuirà a chiarire molte cose che costituiscono un mistero anche
per me.»
Mi parve leggermente esitante, come se si inoltrasse su un terreno dove
non aveva la certezza delle proprie affermazioni. «La storia prosegue rac-
contando che la principessa Sharadim ha minacciato di denunciare un vo-
stro crimine - o una serie di inganni - e che avete cercato di ucciderla. Ma
anche allora, a quel che si dice, vi avrebbe perdonato se aveste accettato di
prendere il posto che vi spettava al suo fianco, come Signori Congiunti del
Draachenheem. Ma voi vi siete rifiutato e avete sostenuto che preferivate
andare incontro a nuove avventure negli altri Regni.»
«Ossia mi sono comportato come un idolo popolare, viziato e pieno di
sé» commentai. «E dite che, frustrato nei miei desideri egoistici, ho cercato
di uccidere mia sorella?»
«È la storia che ci è giunta dal Draachenheem, buon signore. Una dichia-
razione, anzi, firmata dalla stessa principessa Sharadim. In base a quel do-
cumento, voi non siete più un Principe Eletto, ma un fuorilegge.»
«Un fuorilegge!» esclamò Armiad, alzandosi parzialmente dalla sedia.
Se non si fosse ricordato del luogo dov'era, forse avrebbe battuto il pugno
sul tavolo. «Un fuorilegge! Non mi avete detto nulla di questo, quando sie-
te salito sul mio scafo. Non avete detto nulla del genere quando avete dato
il vostro nome al mio Fustiere.»
«Il nome che ho dato al vostro fustiere, baron-capitano Armiad, non era
quello di Flamadin. Siete stato voi a nominare Flamadin per primo.»
«Ah! Un inganno, un raggiro.»
Denou Praz inorridì a una così grave mancanza di cortesia. Sollevò la
mano sottile. «Buoni signori!»
Anche i consiglieri erano allibiti. Una delle donne che ci avevano accol-
to si affrettò a dire: «Vi porgiamo le nostre scuse, se abbiamo offeso i no-
stri ospiti...»
«L'offeso» disse Armiad a voce alta, rosso in faccia e ancor più brutto
del solito «sono io, ma non accuso voi, buoni consiglieri, e neppure voi,
fratello Denou Praz. La mia buona volontà, la mia intelligenza, il mio inte-
ro scafo sono stati insultati da questi imbroglioni. Avrebbero dovuto spie-
garmi perché si trovavano sul nostro ancoraggio!»
«La notizia ha avuto ampia diffusione» osservò Denou Praz. «E non mi
sembra che il buon signore Flamadin abbia tentato di ingannare qualcuno.
Dopotutto, è stato egli stesso a chiedermi di riferire la sostanza di quei
rapporti. Se li avesse conosciuti o se avesse voluto mantenere il segreto,
perché comportarsi così?»
«Vi chiedo scusa, signore» dissi allora, rivolto ad Armiad. «Io e il mio
compagno non intendevamo recare biasimo al vostro scafo, né fingere di
essere più di quel che abbiamo detto inizialmente.»
«Io ero all'oscuro di tutto!» ruggì Armiad.
«Ma i giornali...» disse tranquillamente una delle donne. «Su tutti, nes-
suno escluso, c'erano lunghi articoli.»
«Non lascio che quell'immondizia entri nel mio scafo» rispose Armiad.
«È deleteria per la morale.»
Ora capii perché una storia conosciuta in tutto il Maaschanheem non a-
vesse raggiunto l'orecchio di un filisteo come Armiad.
«Siete un imbroglione!» mi gridò. I suoi occhi mandavano fiamme; si
guardò attorno con aria truce, aggrottando le sopracciglia; poi, compren-
dendo che riusciva soltanto a guadagnarsi la disapprovazione dei presenti,
si sforzò di tenere la bocca chiusa.
«Questi buoni signori sono vostri ospiti, comunque» intervenne Denou
Praz, ravviandosi con mano delicata il pizzetto bianco. «Almeno fino al-
l'Adunanza, siete tenuto a estendere loro la vostra ospitalità.»
Armiad espirò rumorosamente. Scattò nuovamente in piedi. «La legge
non prevede deroghe? Non posso dire che mi hanno fornito nomi falsi?»
«Siete stato voi a chiamare Flamadin questo buon gentiluomo?» chiese
un vecchio che sedeva in fondo alla tavola.
«L'ho riconosciuto. Non è quel che avrebbe fatto chiunque?»
«Non avete atteso che dichiarasse il suo nome, ma siete stato voi a dar-
glielo. Ciò significa che non ha ottenuto asilo sul vostro scafo con un in-
ganno deliberato. Pare che la colpa sia da attribuire a un autoinganno, per-
ciò.»
«Ossia sostenete che la colpa è mia.»
Il consigliere tacque. Armiad sbuffò e divenne ancor più rosso in faccia.
Mi fissò con ira. «Avreste dovuto dirmi che non siete più Principe Eletto,
che siete un criminale, ricercato nel vostro stesso regno. Un Verme di Pa-
lude, insomma!»
«Per favore, buoni signori!» Il baron-capitano sollevò la mano sottile,
dalla pelle bruna. «Non è il giusto comportamento di un ospite...»
Armiad, nel suo disperato desiderio di farsi accettare dai suoi pari, cercò
di dominarsi. «Siete i benvenuti sulla mia nave» ci disse «finché l'Adunan-
za non sarà terminata.» Poi si volse a Denou Praz. «Perdonate questa in-
frazione dell'etichetta, fratello Denou Praz. Se avessi saputo che cosa por-
tavo sulla vostra nave, credetemi, non mi sarei mai...»
La donna di prima lo interruppe. «Queste scuse non sono richieste» disse
«né rientrano nella nostra tradizionale etichetta. Ci siamo scambiati i nomi
e abbiamo assicurato l'ospitalità, e questo è tutto, vi supplico di ricordar-
lo.»
Il resto dell'incontro si svolse in un'atmosfera molto tesa, a dire poco. Io
e von Bek ci guardammo senza riuscire a parlare, mentre Armiad conti-
nuava a sbuffare e a brontolare e rispondeva in tono scorbutico alle frasi
cerimoniali che il baron-capitano e il suo Consiglio gli rivolgevano. Il pic-
colo capitano pareva indeciso. Non aveva alcuna voglia di rimanere in un
luogo dove aveva subito quella che gli pareva una grave umiliazione, ma
ancor minore era la sua voglia di portarci via con sé. Alla fine, però, quan-
do vide che cominciava a farsi buio, ci fece segno di alzarci. Rivolse un
inchino a Denou Praz e si sforzò di ringraziarlo per l'ospitalità, scusandosi
per la tensione da lui portata.
Von Bek e io mormorammo qualche breve frase di saluto, e il baron-
capitano Denou Praz ci disse con cortesia: «Non sono abituato a giudicare
le persone in base a quel che i giornali dicono di loro. La mia opinione è
che non abbiate mai cercato la precedente fama che nell'immaginazione
popolare vi ha fatto diventare un eroe e che ora, proprio perché avete im-
personato la parte di quanto vi era di più coraggioso e di nobile, diate
un'impressione più negativa del dovuto. Spero che perdoniate l'infrazione
della buona cortesia che mi ha indotto a dare un giudizio su di voi, mio
buon signore, senza conoscervi e senza conoscere la vostra storia.»
«Non c'è bisogno di scuse, baron-capitano. Vi ringrazio della gentilezza
e dell'ospitalità. Se dovessi mai ritornare sulla vostra nave, mi auguro di
poterlo fare dopo essermi dimostrato degno di posare i piedi sui ponti della
Nuova Discussione.»
«Belle chiacchiere» brontolò Armiad, mentre venivamo accompagnati
lungo i ponti e le passatoie oscillanti fino al punto dove ci attendeva la zat-
tera che doveva riportarci allo Scudo Corrucciato. «Da un uomo che ha
tentato di uccidere la propria sorella! E per quale motivo? Perché intende-
va rivelare a tutti la sua vera natura! Siete un imbroglione e un malfattore.
Vi avverto, non sarete più il benvenuto a bordo della nostra nave una volta
conclusasi l'Adunanza. A quel punto deciderete voi se rischiare la vita ne-
gli ancoraggi o se scegliere una nave cui rendere conto, entro le venti ore.
Sempre che una nave vi accetti, cosa di cui dubito. Potete considerarvi già
morti, tutt'e due.»
La zattera scese lungo la rampa ed entrò nella palude. Era quasi notte e
soffiava un vento gelido che faceva frusciare i canneti. Armiad rabbrividì.
«Più in fretta, poltroni!» esclamò colpendo col pugno l'uomo più vicino a
lui. «Voi due» tornò a rivolgersi a noi «non abuserete dell'ospitalità di al-
cuna altra nave. Prima di domani, quando comincerà l'Adunanza, tutti sa-
pranno di voi. Potete giudicarvi fortunati che all'Adunanza non sia permes-
so alcun versamento di sangue, neppure quello di un insetto. Vi sfiderei io
stesso, se vi giudicassi degni di una sfida...»
«Un Duello di Sangue, mio signor barone?» chiese von Bek, incapace di
resistere a quella frecciata. Pareva divertito dall'intera faccenda. «Intendete
sfidare a duello il principe Flamadin? Mi pareva che fosse un diritto di un
baron-capitano, vero?»
A quelle parole, Armiad gli lanciò un'occhiata così feroce da poter dare
fuoco alla palude. «Frenate la lingua, conte von Bek. Non so che crimini
abbiate commesso, ma sono certo che verranno alla luce. Anche voi sarete
punito dei vostri inganni!»
Von Bek mormorò, rivolto verso di me: «È ben vero quanto si dice, os-
sia che niente fa infuriare un uomo quanto la scoperta di essersi ingannato
da sé.»
Armiad lo udì. «Vi sono limiti alla tradizionale ospitalità, conte von
Bek» ci ammonì. «Se doveste infrangerli mi sarebbe permesso, in base alla
legge, di mandarvi in esilio o di assegnarvi punizioni peggiori. Dipendesse
da me, vi impiccherei a un pennone. Ringraziate della loro intercessione
quei vecchi deboli e decadenti della Nuova Discussione e gli altri come lo-
ro. Per vostra fortuna io rispetto la legge. Mentre voi, evidentemente, no.»
Non badai al resto. Ero intento a riflettere, e cominciavo a capire perché
il principe Flamadin si fosse ritrovato, tutto solo, nel bel mezzo del Maa-
schanheem. Ma perché si era rifiutato di sposare la sorella, dato che era
quanto ci si aspettava da lui? E aveva davvero cercato di ucciderla? Ed era
davvero un bugiardo e un traditore, e Sharadim aveva minacciato di de-
nunciarlo? Se la cosa era vera, era comprensibile che tutti si fossero voltati
contro di lui. La gente finiva per odiare i propri eroi, se scopriva in loro
qualche normale debolezza umana!
A malincuore, Armiad ci permise di ritornare con lui al suo palazzo.
«Ma fate attenzione» ci avvisò. «La minima infrazione della legge da parte
vostra, e avrò la scusa che mi occorre per cacciarvi via...»
Ritornammo nelle nostre cabine.
Quando fummo nelle mie stanze, von Bek si concesse finalmente una ri-
sata. «Il povero baron-capitano pensava di guadagnare prestigio dalla tua
presenza e ha scoperto di avere fatto un'altra figuraccia con i suoi colleghi!
Oh, come gli piacerebbe tagliarci la gola! Questa sera metterò la sbarra alla
porta, prima di andare a dormire. Non vorrei prendere aria e morire di raf-
freddore!»
Io non riuscivo a ridere, soprattutto perché mi rimanevano ancora da ri-
solvere parecchi misteri. Mi ero giudicato fortunato a possedere autorità e
prestigio in quel mondo, ma adesso mi erano stati tolti. E se la vera forza
del Draachenheem era mia sorella Sharadim, perché ero stato evocato in
quel corpo?
Non avevo mai provato niente di simile. Chiunque fossero quelle donne,
chiamavano Sharadim, la mia gemella forse perché sapevano che la vera
forza era la sua e io ero solo un mentitore che aveva prestato il suo nome a
una serie di pubblicazioni sensazionalistiche. La spiegazione era logica e
credibile. Eppure il Cavaliere in Nero e Giallo e il capitano cieco sostene-
vano la necessità che il Campione Eterno si recasse in quel regno.
Feci del mio meglio per allontanare dalla mente quelle domande e cercai
di considerare i problemi più immediati. «I costumi locali» ricordai «ci
permettono di rimanere qui per tutto il tempo dell'Adunanza. Poi saremo
dei fuorilegge... preda designata dei fustieri di Armiad. Riassumendo, è
questa la situazione?»
«È come era parso anche a me» confermò von Bek. «Il baron-capitano
pareva convinto che nessuno ci avrebbe assunto. Non che sia molto deside-
roso di guadagnarmi il passaggio con il lavoro, su una di queste navi.»
Mentre parlava, la cabina diede un forte scrollone e per poco non finim-
mo contro la parete. Lo Scudo Corrucciato era di nuovo in moto.
«Che possibilità abbiamo» continuò von Bek «di passare in un altro Re-
gno? Mi pareva che la cosa non fosse difficile, nelle Terre di Mezzo.»
«La migliore soluzione» riflettei «consiste nel rimanere qui e aspettare
che finisca l'Adunanza. Allora sapremo chi ancora si fida del principe
Flamadin, chi non crede alle parole di sua sorella Sharadim e chi sincera-
mente mi odia.»
«La mia impressione è che al momento non troverai molti amici. O tu -
come principe Flamadin - sei responsabile di quei crimini, oppure sei vit-
tima di un'efficiente propaganda. So cosa si prova a diventare un bandito
da un giorno all'altro. Hitler e Goebbels sono dei veri maestri, in quest'arte.
D'altra parte, una volta presenti all'Adunanza potrebbe essere possibile di-
mostrare che non sei colpevole di quanto ti accusano.»
«Da dove potrei cominciare?»
«Non lo sapremo fino a domani. Intanto è consigliabile rimanere dove
siamo. Hai notato che al mio arrivo ho suonato per chiamare un camerie-
re?»
«E non ne è arrivato nessuno» conclusi io. «A quanto pare, riceveremo
solo il minimo possibile di ospitalità, da parte di Armiad.»
Nessuno di noi aveva fame. Ci ripulimmo come meglio possibile e ci ri-
tirammo nelle nostre cuccette. Sapevo di dover riposare, ma gli incubi era-
no particolarmente forti. Le voci continuavano a chiamare il nome di Sha-
radim. Mi davano un vero tormento. E poi, a mano a mano che sprofonda-
vo in quel particolare sogno, cominciai a distinguere meglio le donne che
invocavano la mia sorella gemella. Erano alte e straordinariamente belle,
sia nel viso sia nel corpo. Avevano le figure snelle, flessuose, che cono-
scevo bene, il mento appuntito, gli alti zigomi e i grandi occhi a mandorla,
le orecchie delicate i capelli sottili delle donne eldren.
I loro costumi erano diversi da quelli che conoscevo, ma questa era la
sola differenza. Le donne che formavano un cerchio attorno al fuoco dalle
fiamme bianchissime, e le cui voci riempivano l'oscurità, appartenevano
senza dubbio agli Eldren. Erano della razza che a volte era chiamata Va-
dhagh, a volte Melnibonei. Una razza che era cugina prima del popolo di
John Daker. Come Campione Eterno ero appartenuto a entrambe. Come
Erekosë avevo amato una donna delle loro.
Poi, all'improvviso, quando le fiamme bianche si abbassarono e potei
vedere meglio ciò che si trovava dietro di esse, mi sentii tremare di estasi e
paura insieme . Gridai, tesi le braccia, ansioso di accarezzare il volto che
avevo infine riconosciuto.
«Ermizhad!» esclamai. «Oh, amore mio! Sono qui. Sono qui. Portami da
te, al di là delle fiamme! Sono qui!»
Ma la donna, che aveva le braccia infilate in quelle delle sorelle, non mi
ascoltava, aveva gli occhi chiusi. Continuò a cantare e a ondeggiare, canta-
re e ondeggiare. E io cominciai a essere assalito dai dubbi. A chiedermi se
fosse davvero lei. La mia sola speranza era che fossero gli Eldren a chia-
marmi: a chiamare Sharadim confondendola con me. Il fuoco divampò e
mi abbagliò e allora la rividi. Fui quasi certo che si trattasse del mio perdu-
to amore.
Poi il sogno mi trascinò via da quella visione e mi consegnò a un'altra.
Questa volta non avevo idea di quale fosse il mio nome. Vidi un cielo ros-
so nel quale volavano i draghi, in cerchi lentissimi. Enormi bestie alate,
simili a rettili, che parevano obbedire a un gruppo di persone ferme sulle
rovine annerite di una città. Io non ero uno di loro, ma le guardavo da un
punto posto nel mezzo del gruppo. Anch'esse assomigliavano agli Eldren,
anche se i loro costumi erano assai più complessi, quasi ricercati.
Anche se non capivo come potessi saperlo, sapevo che erano Eldren di
un altro luogo, di un altro tempo. Sembravano preoccupati. Tra loro e le
bestie che volavano sulla loro testa c'era un rapporto che trovavo difficile
capire, anche se mi pareva di averne un ricordo (o una premonizione, che
per uno come me era la stessa cosa). Cercai di parlare a uno dei miei com-
pagni, ma essi non parevano in grado di vedermi. Poco più tardi sentii che
mi allontanavo da loro e mi trovai su una pianura priva di orizzonte, coper-
ta di uno strato traslucido che pareva cristallo.
Il piano di cristallo cambiò colore, passando dal verde al viola e all'az-
zurro e di nuovo al verde, come se fosse stato creato da poco e avesse an-
cora bisogno di stabilizzarsi. Una creatura di sconvolgente bellezza, con la
pelle dorata e gli occhi più benevoli che avessi mai avuto occasione di fis-
sare, mi stava parlando. Ma per qualche motivo io ero von Bek. Le parole
erano assolutamente prive di significato per me, perché anche questa volta
erano rivolte all'individuo sbagliato. Cercai di dire a quella meravigliosa
creatura la verità, ma le mie labbra non si mossero. Ero una statua, fatta
della stessa sostanza vetrosa e cangiante che costituiva il piano.
«Siamo i perduti, siamo gli ultimi, siamo i reietti. Siamo i Guerrieri alla
Fine del Tempo. Siamo i freddi, gli storpi, i sordi, i ciechi. I soldati conge-
lati dal Fato; i veterani di mille guerre vissute nella mente...»
Tornai a vedere i guerrieri schierati in formazione sull'orlo di un grande
strapiombo, al di sopra di un abisso insondabile. Si rivolgevano a me o
parlavano ogni volta che sentivano la presenza di qualcuno che li ascolta-
va?
Vidi anche un uomo che indossava un'armatura nera e gialla, in sella a
un grande cavallo da guerra dal pelo nero, sull'altra riva di un fiume dalle
acque tumultuose. Lo chiamai, ma non mi udì o preferì ignorarmi. E tutta-
via lasciò dietro di sé il proprio nome, sulle ali del vento. Il Cavaliere in
Nero e Giallo si chiamava Sepiriz, scoprii ora...
Poi, per un istante, tornai a vedere il viso di Ermizhad. Udii per pochi
secondi il canto, che adesso echeggiava assai più forte.
«Sharadim! Sharadim! Aiutaci, Sharadim! Libera la dragonessa! Libera
il drago del fuoco, Sharadim! E libera il nostro popolo!»
«Ermizhad!» gridai.
Aprii gli occhi e mi accorsi di gridare il suo nome in faccia a un Ulrich
von Bek preoccupato e stupito.
«Sveglia, amico mio» mi disse. «Penso che siamo arrivati all'Isola delle
Adunanze. Vieni a vedere.»
Scossi la testa. In me era ancora troppo vivo il ricordo dei sogni.
«Non ti senti bene?» mi chiese. «Vuoi che cerchi un dottore? Sempre
che abbiano quel tipo di persona su questo disgustoso battello.»
Trassi alcuni profondi respiri. «Scusami, non intendevo spaventarti. Ho
fatto un sogno.»
«Della donna che cerchi? La donna che ami?»
«Sì.»
«Gridavi il suo nome. Mi dispiace di averti disturbato. Ti lascio solo, in
modo che tu possa riprenderti...»
«No, von Bek. Ti prego, rimani. In questo momento, la cosa di cui ho
maggiormente bisogno è la compagnia di un amico. Sei già stato sul ponte,
vero?»
«Non riuscivo a dormire a causa dei movimenti della nave. E della puz-
za. Forse sarò schizzinoso, ma mi ricorda eccessivamente il campo di con-
centramento dove mi avevano mandato.»
Non potei che dargli ragione: ora capivo un po' meglio il suo odio per la
nave di Armiad.
In poco tempo mi vestii, dopo essermi ripulito come meglio potevo, e
seguii von Bek fino a una galleria che correva a fianco dei nostri apparta-
menti e che ci permetteva di vedere l'intero lato della nave. Attraverso il
fumo, la selva di corde, le bandiere, i camini e le torrette, vidi che eravamo
davvero fermi, con la prua verso l'interno, su un isolotto circolare di terra-
ferma, nel cui punto centrale era rizzato un semplice monolito di pietra,
simile ad alcuni da me visti in Cornovaglia quando ero John Daker.
Le navi già arrivate erano una cinquantina e con le loro grandi masse gi-
ganteggiavano sulle piccole figure umane che si muovevano attorno a loro.
Continuavano a soffiare vapore dai camini, ma in modo un po' saltuario.
Di tanto in tanto uno degli scafi mandava un grande sbuffo e soffiava fumo
verso il cielo, facendomi pensare a un gruppo di balene arenate sulla
spiaggia, anche se la loro disposizione non era per nulla casuale. Infatti la
precisione con cui si erano disposte, la scrupolosa distanza che mantene-
vano l'una dall'altra erano straordinarie.
Gli scafi formavano un semicerchio attorno all'isola. Dall'altro lato c'era
un gruppo di vascelli sottili ed eleganti che assomigliavano alle navi gre-
che, con i remi sollevati e relativamente poche vele sugli alberi. Erano me-
ravigliosamente decorati e riccamente ornati di bandiere. Sembravano le
navi di rappresentanza di una nazione molto potente. Accanto ad essi c'e-
rano sei scafi più piccoli che a modo loro erano impressionanti come i pre-
cedenti. Da poppa a prua erano completamente dipinti di bianco e ogni lo-
ro parte era dello stesso colore: alberi, vele, remi... anche la singola ban-
diera che sventolava in cima all'albero di maestra era bianca, a parte un
piccolo simbolo nero ricamato nella parte sinistra: una semplice croce con
le punte uncinate.
Le successive erano tre navi assai più grandi e massicce, anch'esse a va-
pore, ma diversissime da ogni altra imbarcazione da me vista. Erano di le-
gno, con alti casseri, boccaporti per i remi o i cannoni, un singolo fumaiolo
lungo e piatto nella sezione poppiera e sette od otto piccole ruote a pale su
ciascun lato. Dava quasi l'impressione che qualcuno avesse sentito parlare
dei battelli fluviali e avesse cercato di realizzarne uno a fantasia, senza
preoccuparsi della sua efficienza, ma non ero la persona più adatta a dare
quel genere di giudizi: nonostante la loro mole, probabilmente funzionava-
no in modo perfetto.
Fermi accanto ai battelli a pale c'erano numerosi vascelli a forma di di-
sco, ciascuno dei quali pareva ricavato da un unico pezzo di legno (anche
se l'albero da cui era stato preso doveva essere enorme) con scalmi su tutta
la circonferenza in cui erano infilati lunghi remi di legno. Questi ultimi va-
scelli parevano adatti ad affrontare soltanto qualche piccolo specchio d'ac-
qua interno: evidentemente i loro occupanti non avevano dovuto attraver-
sare alcun oceano per raggiungere l'isola.
Per ultimi, tra i navigli del Maaschanheem e le navi-disco, c'era un sin-
golo vascello che pareva l'arca di Noè dei disegni infantili. Era di legno,
con poppa e prua appuntite; sul ponte c'era un singolo casamento centrale,
di forma semplicissima ma su quattro livelli, con porte e finestre collocate
a regolari intervalli ma di disegno elementare, senza alcun tentativo di de-
corazioni. A incuriosirmi maggiormente, però, fu il fatto che le porte erano
molto più grandi di quanto non fosse necessario per esseri umani di norma-
le altezza. Non vi era alcuna bandiera e né io né von Bek capimmo a chi
appartenesse.
Alcune figure erano scese dalle imbarcazioni, ma erano troppo lontane
perché si potessero distinguere i particolari. I passeggeri delle navi bianche
erano completamente ricoperti di vesti candide, quelli delle decoratissime
galee erano abbigliati con la stessa ricchezza delle loro navi, come c'era da
aspettarsi. Coloro che erano scesi dai vascelli discoidali avevano innalzato
grandi tende a forma di piramide e - a giudicare dal fumo che si levava da
una di esse - erano intenti a cuocere il cibo. Non c'era traccia degli occu-
panti dell'Arca.
Rimpiansi di non avere il binocolo di Jurgin, perché ero curioso di cono-
scere gli abitanti dei Sei Regni.
Mentre ci scambiavamo ipotesi sull'identità delle navi, qualcuno gridò
dall'alto: «Divertitevi finché potete, miei signori, perché dopo l'Adunanza
il divertimento finirà. Vedremo se un ex principe del Valadek sa correre
meglio dei Vermi di Palude!»
Era Armiad, incollerito e rosso in faccia. Indossava una veste da mattino
rossa e viola, e si sporgeva da un balcone posto sopra di noi, alla nostra
destra; stringeva i pugni come se fosse ansioso di distruggerci.
Noi gli rivolgemmo un inchino, gli augurammo la buona giornata e rien-
trammo: avevamo deciso di lasciare la cabina - con la precauzione di por-
tare con noi tutte le nostre proprietà - e di andare a cercare i nostri giovani
amici, nella speranza che non disdegnassero la nostra compagnia.
Scoprimmo Bellanda e i suoi compagni seduti su un tratto di balaustra e
intenti a giocare una sorta di partita a dama. Ci guardarono con sorpresa e,
sia pure con riluttanza, si alzarono per salutarci.
«Chiaramente, avete saputo le ultime notizie» dissi a Bellanda, nel cui
viso, giovane e aggraziato, si scorgeva un leggero imbarazzo. «A quanto
pare, sono passato dal ruolo di eroe a quello di bandito. Ma siete disposta
ad accettare la mia parola, almeno per il momento, che non so nulla dei
crimini di cui mi accusano?»
«Non mi sembrate una persona disposta ad abbandonare tanto facilmente
le proprie responsabilità, né a tentare di uccidere una sorella» disse lenta-
mente la giovane. Mi guardò in viso. «E non sareste diventato un eroe po-
polare se non riusciste a dare un'impressione di onestà. Da un bel viso è
difficile distinguere un cuore, diciamo noi dello Scudo Corrucciato. È più
facile capirlo da un viso sgraziato...»
Si guardò attorno per un istante, poi tornò a fissarmi e continuò dicendo
con sincerità: «Perciò, principe Flamadin - o devo dire ex principe? - pen-
so di essere d'accordo con i miei compagni nell'offrirvi il beneficio del
dubbio. Dobbiamo fidarci di noi. Meglio che credere alle fantasie dei ro-
manzi popolari o agli editti del nostro buon baron-capitano Armiad!» Rise.
«Ma perché vi dovrebbe importare della nostra opinione, eroe o malfattore
che siate? Noi non siamo in grado di aiutarvi, e neppure di minacciarvi,
qui sullo Scudo Corrucciato. Siamo in una condizione di completa impo-
tenza.»
«Credo che il principe Flamadin cerchi soprattutto la vostra amicizia»
disse piano Ulrich von Bek. «Infatti, è almeno una conferma del valore di
ciò in cui crediamo.»
«Ci volete adulare, signor conte?» chiese lei, sorridendo al mio compa-
gno. Ora fu lui a mostrarsi confuso.
Guardando fra l'alberatura, scorsi il giovane Jurgin, intento a osservare
con il binocolo le altre navi. Scambiai ancora qualche parola con gli altri,
poi mi arrampicai sulle sartie fino a sedermi accanto a lui. «C'è qualcosa di
particolarmente interessante?» gli chiesi.
Il giovane scosse la testa. «Stavo solo osservando con invidia le altre
navi. Siamo lo scafo più sporco, più povero e peggio in arnese di tutti. E
pensare che un tempo andavamo orgogliosi del nostro aspetto! Però non
capisco come faccia, Armiad, a non accorgersi di quel che è successo al
nostro scafo dal giorno in cui ha ucciso il vecchio baron-capitano. Che
pensava di ottenere, con quella impresa?»
«Molte volte» gli risposi «i miserabili pensano che a dare la felicità sia il
potere di per se stesso. Cercano di impadronirsi di quel potere, con ogni
mezzo, e poi non capiscono perché si sentano altrettanto miserabili come
quando hanno iniziato. Armiad ha ucciso per qualcosa che, secondo lui, gli
avrebbe portato la felicità; ora forse la sua unica soddisfazione consiste nel
poter rendere infelici anche tutti gli altri e nel non essere il solo a soffrire!»
«Mi pare una teoria un po' complessa, principe Flamadin. A proposito,
continuiamo a chiamarvi così? Vi ho visto parlare con Bellanda e penso
che gli altri abbiano deciso di rimanere vostri amici. Ma se avete rinuncia-
to ai vostri titoli...»
«Chiamami Flamadin, se preferisci. Sono venuto a chiederti in prestito il
binocolo. Mi hanno particolarmente incuriosito la nave più grossa, quella
senza decorazioni, e le persone vestite di bianco. Sai forse chi siano?»
«La nave più grande è l'unico vascello di quel genere posseduto dai
Principi Orsi. Senza dubbio rimarranno all'interno finché non sarà iniziata
l'Adunanza vera e propria. Quanto alle donne vestite di bianco, si dice che
siano cannibali. Non sono come gli altri esseri umani. Mettono al mondo
soltanto femmine e questo significa che devono comprare o rapire uomini
negli altri Regni, per ovvi motivi. Noi le chiamiamo le Donne Fantasma.
Sono rivestite da capo a piedi delle loro armature d'avorio e raramente le
vediamo in faccia. Fin da bambini ci insegnano a tenerci lontano da loro e
dalle loro navi. A volte fanno incursioni negli altri Regni per rapire gli
uomini e in tal caso preferiscono prendere i bambini e i più giovani. Natu-
ralmente, durante il tempo dell'Adunanza, prendono solo quello che viene
dato loro in scambio. La vostra gente commercia con loro e credo che lo
farebbe anche Armiad, se non temesse di incorrere nel più completo ostra-
cismo da parte degli altri baron-capitani. Sono passati molti secoli dall'ul-
tima volta che i nostri scafi hanno fatto commercio di schiavi.»
«Allora» commentai io «la mia gente, gli uomini del Draachenheem, fa
commercio di esseri umani?»
«Non lo sapevate, principe? Pensavamo che lo sapessero tutti. Oppure è
un commercio che viene praticato soltanto durante le Adunanze?»
«Devi regolarti come soffrissi di mancanze di memoria, Jurgin. Quando
si tratta delle faccende interne del Draachenheem, le ignoro al pari di te.»
«La cosa peggiore» mi disse Jurgin, porgendomi il binocolo «è che le
Donne Fantasma hanno la fama di nutrirsi di carne umana. Sono come le
femmine dei ragni: mangiano i maschi non appena il loro compito è termi-
nato.»
«Come ragni, hanno un aspetto molto elegante» commentai io, che ave-
vo messo a fuoco un gruppo di quelle donne. Parlavano tra loro e parevano
stare scomode nella loro armatura d'avorio che, ora che le vedevo meglio,
non era semplicemente bianca, ma aveva tutte le gradazioni di colore pos-
sedute dall'avorio, quando viene usato per farci dei soprammobili: dal gial-
lo leggero al marrone chiaro. Le armature erano coperte di figure intagliate
che facevano pensare alle sculture orientali.
Notai un altro particolare: i vari pezzi erano uniti grazie a spille d'osso e
a cinghie di cuoio e si articolavano meravigliosamente in modo da rac-
chiudere l'intero corpo, cosicché quelle donne sembravano eleganti insetti
dal carapace bizzarramente istoriato. Erano più alte della media e si muo-
vevano con un'eleganza che le rendeva molto attraenti. Era difficile crede-
re che gente di tale bellezza potesse essere schiavista e cannibale.
Due delle donne ora si accostarono per parlare. Una scosse con irritazio-
ne la testa, cosicché l'altra fu costretta a ripetere quello che aveva detto;
poi, con fastidio, la prima sollevò la visiera.
Ora potei vedere in viso quella donna, almeno in parte.
Era giovane e straordinariamente bella. Aveva la pelle chiara e gli occhi
neri e grandi. Aveva il viso lungo, a forma di cuore, che caratterizzava gli
Eldren e, quando si voltò nella mia direzione, per poco non lasciai sfuggire
il binocolo.
Avevo dinanzi a me il volto di una delle donne che assillavano i miei
sogni, che avevano invocato mia sorella Sharadim, che avevano parlato di-
speratamente di un drago e di una spada...
Ma a lasciarmi così scosso fu un'altra cosa: avevo riconosciuto il volto.
Era la donna che avevo cercato per tutti gli eoni; la donna che giorno e
notte sognavo di riavere con me...
Era il volto della mia diletta Ermizhad!

CINQUE

Ebbi l'impressione di essere rimasto per un tempo infinito a rimirare il


volto della mia amata. Non so come riuscissi a rimanere sull'albero senza
cadere. Continuavo a ripetere senza sosta il suo nome. Poi, con ansia, cer-
cai di seguirla quando si mosse. La vidi sorridere all'altra donna, scambiare
con lei qualche ultima battuta, poi sollevare la mano per chiudere di nuovo
la visiera.
«No!» gridai; non volevo che nascondesse quel volto bellissimo. «Ermi-
zhad! No! Sono io, Erekosë! Non senti la mia voce? Ti ho cercato per tan-
to tempo...»
Mi parve che qualcuno cercasse di tenermi fermo. Cercai di divincolar-
mi, ma erano in troppi. Lentamente mi riportarono sul ponte, e qualcuno
mi chiese se mi fosse successo qualcosa. Ma io riuscivo solo a ripetere il
nome della mia amata e a cercare di sciogliermi per correre a lei. «Ermi-
zhad!»
Sapevo in cuor mio che non si trattava della mia moglie Eldren, ma
semplicemente di una donna che le assomigliava. Lo sapevo, ma cercavo
di oppormi a quella realtà esattamente come cercavo di oppormi agli amici
che mi trattenevano e che mi guardavano con stupore.
«Daker! Herr Daker! Che cosa succede? È un'allucinazione?» Il conte
von Bek mi teneva ferma la testa e mi guardava in viso. «Ti stai compor-
tando come se fossi impazzito!»
Trassi un profondo respiro. Ansimavo. Sudavo. Sentii di odiare tutti co-
loro che mi trattenevano, ma cercai di riacquistare la calma. «Ho visto una
donna che pare la sorella gemella di Ermizhad» spiegai al mio amico. «La
stessa donna che mi è apparsa nel sogno di questa notte. Ci deve essere un
legame tra le due cose. In ogni caso, so che non può essere lei; non sono
impazzito fino a tal punto di credere in una cosa talmente illogica. Ma la
sua vista ha fatto risuonare tutte le corde del mio cuore, come se la donna
che ho visto fosse veramente la mia Ermizhad. Devo raggiungerla, von
Bek. Devo interrogarla.»
«Non potete andare» disse Bellanda, dietro di me. «Lo vieta la legge. Gli
unici incontri permessi sono quelli ufficiali. L'Adunanza vera e proprio
non è ancora iniziata. Dovete aspettare.»
«Non posso aspettare» le dissi con semplicità. «Ho già aspettato trop-
po.» Ma abbandonai ogni resistenza e sentii che non mi trattenevano più.
«Nessun'altra creatura potrebbe capire da quante vite la cerco...»
I miei compagni annuirono, e io chiusi gli occhi. Poi schiusi leggermen-
te le palpebre. Vedevo dinanzi a me il tragitto che mi avrebbe permesso di
raggiungere la riva.
Un momento più tardi scattar, raggiunsi la balaustra e la scavalcai, mi
afferrai a una delle corde e poi, scivolando e appoggiandomi alle paratie,
raggiunsi il ponte inferiore. Mentre alcuni lavoratori mi gridavano di allon-
tanarmi, mi feci strada in mezzo a gruppi di uomini che tiravano funi, ad
altri che spingevano barili in direzione dei rulli, ad altri ancora che porta-
vano grosse tavole di legno, del tipo usato per riparare il fasciame.
Li ignorai tutti, corsi verso la murata e trovai le corde da cui si calavano
coloro che ispezionavano la chiglia. Scivolando lungo una di esse, giunsi
su una passerella oscillante, da essa raggiunsi una lunga scala di corda e
scesi fino a terra. Poi comincia a correre sull'erba dell'isolotto, verso le na-
vi delle cosiddette Donne Fantasma.
Ero a metà strada, e vedevo già il monolito innalzarsi sopra di me, quan-
do i miei inseguitori (non mi ero accorto di essere inseguito) riuscirono a
raggiungermi. All'improvviso fui bloccato da una rete robusta e vidi coloro
che la tenevano ferma: von Bek, Bellanda, alcuni degli studenti e un grup-
po di fustieri.
«Principe Flamadin!» mi chiamò Bellanda. «Armiad cerca solo una scu-
sa per uccidervi. Entrate in un altro accampamento prima dell'Adunanza e
la pena potrebbe essere la morte!»
«Non m'importa. Devo vedere Ermizhad» risposi. «L'ho vista... lei o
qualcuno che può darmi sue notizie. Lasciatemi andare, vi supplico!»
Si fece avanti von Bek. «Daker! Amico mio! Questi uomini hanno l'in-
carico di ucciderti, se necessario. Per fortuna sono disgustati dagli ordini di
Armiad, ma saranno costretti a obbedirgli, se non ritornerai in te.»
Annuii. Rischiavo di perdere del tutto la ragione. Inoltre facevo correre
un rischio a coloro che mi avevano dato la loro amicizia. Mi costrinsi a ri-
cordare le normali decenze umane.
Quando mi risollevai avevo ripreso la padronanza di me. Chiesi scusa a
tutti. Mi voltai e ritornai alla nostra nave. Visto da terra, quel raduno di va-
scelli era ancor più impressionante. Pareva che tutti i grandi transatlantici
del mondo, compreso il Titanio, si fossero riuniti laggiù, ciascuno ormeg-
giato con precisione con la prua verso l'isola, ciascuno con un'intera e
complessa città medievale sul ponte.
La vista delle navi servì ad allontanare la mia attenzione da Ermizhad,
per qualche minuto. Sapevo di essere in preda a una sorta di allucinazione
continua, a un prolungamento del mio sogno della notte precedente. Eppu-
re, non c'erano dubbi, la donna assomigliava a Ermizhad in ogni particola-
re, fino alla forma della bocca e alla sfumatura di colore degli occhi. Perciò
le Donne Fantasma appartenevano agli Eldren.
Eppure non appartenevano allo stesso tempo, e neppure al medesimo
mondo da cui ero stato portato via contro la mia volontà. Mi imposi di en-
trare in contatto con quelle donne non appena mi fosse stato possibile. For-
se avrebbero potuto indicarmi dove trovare Ermizhad. E spiegarmi perché
invocavano Sharadim.
Io e von Bek avevamo fatto bene a portare con noi tutte le nostre pro-
prietà, nel lasciare le nostre cabine. Quando ci presentammo davanti alla
saracinesca di Armiad e dicemmo alla guardia di aprirla, nessuno rispose.
Dovemmo chiamare altre due volte prima che qualcuno ci rispondesse, e
non riuscimmo a distinguere le parole.
«Parlate!» gli gridò von Bek. «Che succede?»
Alla fine, dall'altra parte, una guardia ci rispose che la porta era bloccata
e che sarebbero occorse parecchie ore per ripararla.
Io e von Bek ci scambiammo un'occhiata e sorridemmo. Era la conferma
dei nostri sospetti. Armiad non poteva cacciarci via dalla nave, ma faceva
del suo meglio per renderci la vita impossibile.
Per conto mio ero lieto di essermi liberato della sua compagnia; così fa-
cemmo ritorno alla zona dove si riunivano i nostri amici studenti. Alcuni
di loro erano presenti, impegnati nel loro eterno gioco di dama. Invece
Bellanda, a quanto ci dissero, era andata a lezione da un insegnante che re-
centemente era stato cacciato dalla loro scuola.
Con l'aiuto di Jurgin, il quale pareva ancora ben disposto verso di noi,
continuammo a osservare i preparativi dell'Adunanza. Si stavano erigendo,
stalli, recinti, tende e altri edifici provvisori. Ciascun gruppo dei Sei Regni
aveva portato alcuni beni che voleva scambiare, oltre ad animali domestici,
pubblicazioni e attrezzi. La gente del Draachenheem pareva un po' sprez-
zante nei riguardi degli altri, mentre le Donne Fantasma si tenevano rigo-
rosamente da parte.
Uno dei gruppi pareva relativamente abituato a commerciare. Avevano
l'aspetto di persone abituate a portare le loro merci in un gran numero di
località. Questo pareva evidente dal modo in cui montavano gli stalli, os-
servavano i vicini, parlavano tra loro. La sola cosa che mi sorprendeva era
l'aspetto inefficiente della loro nave, ma forse erano abituati e viaggiare
per via di terra, nei loro commerci. Erano mercanti del Fluugensheem: il
mondo che, a quanto ci avevano detto, era protetto da un'isola volante. Per
gente chiamata in modo così esotico parevano persone fin troppo normali.
Non si scorgeva ancora segno di coloro che erano venuti con la strana
arca, né degli occupanti dei tre vascelli dalle ruote a pala.
«Questa sera» mi spiegò Jurgin «ci sarà la prima cerimonia: quella in cui
tutti annunciano la propria presenza e danno i propri nomi. Allora li vedre-
te tutti, compresi i Principi Orsi.»
Non volle aggiungere altro. Quando gli chiesi da dove avessero preso
quel nome, si limitò a sorridere. Dato che mi interessavano soltanto coloro
che erano chiamate Donne Fantasma, non badai molto alla sua ironia.
Non c'è bisogno di dire che né io né von Bek facevano parte di coloro
che vennero invitati alla prima cerimonia, ma guardammo dall'alberatura
dello Scudo Corrucciato la gente dei Sei Regni che si radunava attorno al
monolito. Mi raccontarono che si chiamava la Pietra delle Adunanze e che
era stata innalzata parecchi secoli prima, allorché erano iniziate quelle
strane riunioni.
Prima di allora, mi spiegò Bellanda, i vari Regni si erano guardati tra lo-
ro con paura e superstizione e c'erano state occasionali scaramucce tra lo-
ro. Gradualmente, con il crescere della familiarità, avevano trovato quel si-
stema per commerciare e per scambiarsi informazioni. A quanto ci venne
riferito, ogni tredici mesi e mezzo i Sei Regni si intersecavano in modo che
da ciascuno di essi si poteva passare negli altri. Il periodo era breve - tre
giorni circa - ma era sufficiente per condurre quei commerci, a patto che si
seguissero criteri molto rigorosi. Non si poteva perdere tempo in attività
estranee a quelle concordate.
Ora i pratici mercanti del Fluugensheem presero il loro posto a fianco
del monolito. Poi le Donne Fantasma del Gheestenheem si portarono dal-
l'altra parte della Pietra, seguiti poi da sei baron-capitani del Maaschanhe-
em, sei splendidi lord del Draachenheem e - scesi dagli strani battelli a va-
pore - sei abitanti del Rootsenheem, con guanti di metallo e la parte alta
della testa coperta da maschere metalliche. Ma il gruppo che mi stupì
maggiormente fu l'ultimo.
Il nome di Principi Orsi descriveva esattamente la loro natura. Le cinque
grandi, eleganti bestie che uscirono dall'arca e scesero la rampa non erano
affatto umane. Erano orsi, più grossi di un grizzly, che indossavano sete
fruscianti e plaid dai colori vivaci; ciascuno di loro aveva sulle spalle una
sorta di sottile armatura su cui sventolava una bandiera, sospesa sopra la
loro testa: senza dubbio l'insegna della famiglia.
Von Bek aggrottò la fronte. «Sono stupefatto. Mi sembra di vedere i
leggendari fondatori di Berlino! Conosci le nostre leggende... Nella mia
famiglia si tramandano storie di bestie intelligenti e io avevo sempre cre-
duto che si trattasse di lupi, ma senza dubbio si trattava di orsi. Hai mai vi-
sto qualcosa di simile ai Principi Orsi, Daker?»
«Nulla di simile» confermai. Ero assai impressionato dalla loro bellezza.
Presto anch'essi erano raggruppati davanti alla Pietra delle Adunanze e dal
nostro posto di osservazione riuscimmo a cogliere alcune parole della ce-
rimonia. Ogni persona diede il proprio nome, poi spiegò perché fosse ve-
nuta all'Adunanza. Terminato questo, uno dei baron-capitani dichiarò: «A
domani!»
«A domani!» risposero gli altri. Poi ciascun gruppo, separatamente dagli
altri, fece ritorno alla propria nave.
Quando le Donne Fantasma avevano annunciato il loro nome, avevo te-
so l'orecchio, ma non avevo udito nulla che assomigliasse, sia pur remota-
mente, a 'Ermizhad'.
Quella notte fummo ospitati dagli studenti e dormimmo nella loro cabi-
na, già affollata prima della nostra venuta, dove continuammo a respirare
ceneri, subimmo un vero assedio da parte degli spifferi e rotolammo per
tutta la notte a causa di improvvisi sussulti della nave che, anche se non
viaggiava, continuava a fremere come una persona dal sonno disturbato. A
volte mi pareva che lo Scudo Corrucciato fosse in sintonia con il mio stato
di mente.
Anche quella notte il mio sonno venne continuamente interrotto dagli
incubi. Sentii le Donne Fantasma cantare di nuovo, ma non nei miei sogni:
il canto veniva dal loro accampamento. Avrei voluto raggiungerle, ma
quando mi alzai con l'intenzione di calarmi di nuovo a terra, von Bek e
Jurgin mi afferrarono e mi costrinsero a fermarmi.
«Devi avere pazienza» disse von Bek. «Ricorda la promessa che ci hai
fatto.»
«Ma continuano a chiamare Sharadim» risposi. «Devo sapere che cosa
vogliono.»
«Vogliono lei, senza dubbio. Non te» mi rispose von Bek, con preoccu-
pazione. «Se te ne andassi ora, Armiad e i suoi uomini ti vedrebbero e si
riterrebbero in diritto di ucciderti. Perché correre questo rischio, visto che
domani le regole dell'Adunanza ti permetteranno di raggiungerle?»
Ammisi che mi stavo comportando stupidamente. Mi costrinsi a tornare
a letto e di lì continuai a guardare, attraverso le fessure del soffitto, gli oc-
casionali schizzi di ceneri ardenti, il cielo grigio e umido e cercai di non
pensare a Ermizhad e alle Donne Fantasma. Dormii un poco, ma il sonno
servì solo a far echeggiare nella mia mente, con maggiore forza, le loro
voci.
«Non sono Sharadim!» gridai a un certo punto. Era l'alba. Attorno a me
gli studenti si stavano svegliando. Bellanda si fece strada in mezzo ai corpi
addormentati. «Che cosa succede, Flamadin?»
«Non sono Sharadim» le spiegai. «Vogliono che io sia mia sorella. Per-
ché? Non chiamano me. Ossia, chiamano me, ma si servono del nome di
mia sorella. È possibile che Sharadim e Flamadin siano la stessa persona?»
«Siete gemelli. Ma uno è maschio e l'altra è femmina. È impossibile
prendervi per lei...» Bellanda non riusciva a parlare bene; era ancora mez-
zo addormentata. «Scusatemi. Ho l'impressione di avere detto delle scioc-
chezze.»
Le posai la mano sulla spalla, per scusarmi. «No, Bellanda, sono io a
dovermi scusare. Ultimamente, dico sciocchezze per gran parte del tem-
po.»
Lei sorrise. «Allora, se pensate questo, non potete essere del tutto pazzo.
Dite che quelle donne hanno continuato a invocare per tutta la notte la
principessa Sharadim? Io non sono riuscita a udirle chiaramente, mi pareva
una sorta di incantesimo. Credono che Sharadim sia una creatura sovran-
naturale?»
«Non lo so. Finora avevo sempre riconosciuto il nome che udivo nel so-
gni. E rispondevo all'evocazione. Sono stato Urlik Skarsol, poi sono stato
molti altri guerrieri, in altrettante incarnazioni, e infine di nuovo Skarsol e
adesso Flamadin. Il fatto è, Bellanda, che, nel profondo delle mie ossa, so-
no sicuro di una cosa: la persona che dovrebbero chiamare sono io e non
lei.»
Ma, già mentre le dicevo queste parole, anche a me stesso parvero i deli-
ri di un egocentrico, e forse lo erano davvero. Perciò, invece di proseguire,
mi strinsi nelle spalle a tornai ad avvolgermi nella coperta.
«Più tardi» conclusi «avrò la possibilità di rispondere loro direttamente.»
Dormii ancora per un poco, sognando piacevolmente della mia vita con
Ermizhad, quando eravamo insieme a capo degli Eldren.
Quando mi risvegliai, tutti erano già in piedi. Mi stirai i muscoli e ince-
spicai fino alle toilette pubbliche, dove cercai come meglio possibile di to-
gliermi dalla pelle lo strato oleoso di sudiciume.
Quando andai a guardare nuovamente l'Isola delle Adunanze, lo spetta-
colo mi riempì di stupore.
In alcune parti c'erano gruppi di persone occupate in fitte conversazioni.
Vidi due dei principi Orsi seduti in terra accanto a una delle Donne Fanta-
sma che mostrava loro una grossa mappa, e tutt'e tre discutevano animata-
mente. Altrove le tende dei banchi da mercato davano l'illusione che si
trattasse di una semplice fiera, cosa però smentita da un recinto contenente
due brutti lucertoloni dall'aria collerica, ritti sulle zampe posteriori e grossi
come dinosauri, che aprivano la bocca rossa per cercare di mordere due
uomini del Maaschanheem; questi ultimi indicavano alcune parti dei fini-
menti e della sella e chiedevano informazioni al venditore, un uomo alto
del Draachenheem. Senza dubbio erano le lucertole a dare a quel regno il
suo nome, che significava 'paese dei draghi'.
Nell'isola era in mostra ogni genere di animali straordinari, oltre a bestie
a me più familiari. C'erano anche mercanzie di cui non riuscivo assoluta-
mente a capire la natura, ma che evidentemente dovevano essere assai ri-
chieste, se i proprietari si erano presi la briga di portarle all'isola.
I suoni che si levavano da tutti questi traffici erano alti ma ragionevol-
mente amichevoli. C'erano molte persone che viaggiavano in piccoli grup-
pi senza vendere e senza comprare, ma semplicemente per godersi lo spet-
tacolo. Nei pressi della grande arca -il vascello dei Principi Orsi - si scor-
geva però un particolare assai meno gradevole. Laggiù, parecchi adole-
scenti, nudi e incatenati insieme, erano sottoposti all'ispezione delle Donne
Fantasma. Non riuscivo a credere che un gruppo di Eldren potesse essersi
corrotto fino al punto di tenere schiavi e di mangiare carne umana.
«E quella sarebbe la razza tanto superiore ai normali esseri umani?»
chiese von Bek. Lo disse in tono ironico, ma era chiaro che lo spettacolo lo
disgustava. «Non credo di poter trovare molto aiuto per la mia missione, su
quest'isola, se si tollerano simili cose.»
Bellanda ci raggiunse. «I Principi Orsi vivono in un Regno dove gli uo-
mini sono selvaggi e si uccidono e si divorano tra loro. Così i principi lo ri-
tengono un normale costume degli esseri umani e non vedono perché non
dovrebbero approfittarne. I ragazzi sono trattati bene... dagli orsi, intendo
dire.»
«E che cosa se ne fanno, quelle donne?»
«Li comprano per riprodursi» rispose Bellanda. Si strinse nelle spalle.
«Si limitano a invertire la situazione che troviamo spesso tra la nostra gen-
te.»
«A parte il fatto che non mettiamo in pentola e non mangiamo le nostre
mogli» ribatté von Bek.
Bellanda non fece commenti.
«Nonostante tutto» dissi io «ho intenzione di scendere laggiù. Voglio
andare dalle Donne Fantasma e rivolgere loro alcune domande. Penso che
sia permesso farlo, vero?»
«È permesso scambiare informazioni» mi rispose la giovane «ma non
dovete interrompere una trattativa mentre si sta ancora svolgendo.»
Scendemmo dalla nave in compagnia di molti altri suoi passeggeri che
erano interessati allo spettacolo e che volevano dare un'occhiata alle merci.
Accompagnato da von Bek, perciò, mi diressi subito all'area vicino alle
navi bianche, dove le Donne Fantasma avevano rizzato le loro tende tessu-
te in seta robusta. Non trovando nessuno all'esterno, entrai nella tenda
principale. Non c'erano guardie all'ingresso. Entrai e subito dovetti fer-
marmi per lo stupore.
Dietro di me, von Bek esclamò: «Mio Dio! Un vero mercato delle vac-
che!»
Il luogo puzzava di corpi umani. Era laggiù che gli schiavisti avevano
portato i loro beni per sottoporli all'esame delle acquirenti. Uno in partico-
lare, con la faccia segnata di cicatrici e gli occhi fiammeggianti, mi colpì.
Alcuni erano visibilmente imbarazzati o si vergognavano della loro profes-
sione. Altri preferivano trattare i loro affari in modo più privato.
Nella penombra della tenda scorsi almeno una decina di recinti: l'erba
dell'isola era stata coperta di paglia e all'interno si scorgevano giovani di
tutte le età, alcuni con i segni di ogni genere di ferocia, mentre altri si te-
nevano ritti, senza piegare la schiena, e fissavano con ira le maschere delle
Donne Fantasma che li esaminavano. Altri erano semplicemente passivi,
docili come animali.
Quello che mi stupì maggiormente, però, fu la vista del baron-capitano
Armiad, che stava evidentemente per concludere una transazione con una
delle donne vestite d'avorio. Un suo tirapiedi, che chiaramente non appar-
teneva al normale personale della nave, custodiva un gruppo di sei ragazzi
legati tra loro da una corda al collo: la corda era unica e passava dal collo
dell'uno a quello dell'altro. Armiad illustrava alla donna i loro pregi, con
battute che lei non capiva o fingeva di non capire. Senza dubbio il nostro
buon capitano aveva scoperto un modo conveniente per liberarsi della po-
polazione in eccesso e, dato che gli altri uomini del Maaschanheem odia-
vano la tratta degli schiavi, si sentiva abbastanza al sicuro da occhi indi-
screti.
Nel bel mezzo di un sorriso lascivo, il baron-capitano alzò la testa, vide
che io e von Bek lo guardavamo e gridò con rabbia: «Spie, oltre che fuori-
legge! Ecco come volete vendicarvi di me per avere denunciato le vostre
malefatte!»
Io sollevai le mani per mostrargli che non intendevo interferire con i
suoi affari. Ma Armiad era già in collera. Afferrò la corda e la strappò di
mano al suo aiutante, poi la gettò in terra. Venne verso di me e continuò a
gridare.
«Tenete questi maledetti schiavi!» gridò alla Donna Fantasma, che lo
guardava con sorpresa. «Mangiateli questa sera per cena, con i miei omag-
gi. Vieni, Rooper» si rivolse al suo accompagnatore «abbiamo cambiato
idea.»
Si fermò quando giunse davanti a me. Era rosso in faccia e ora sollevò la
testa per guardarmi. «Flamadin, rinnegato. Perché mi avete seguito? Spe-
ravate di ricattarmi? Di umiliarmi ancor di più davanti agli altri baron-
capitani? Be', la verità è che non volevo venderli. Cercavo di liberarli.»
«Non mi interessano i vostri affari, Armiad» gli dissi in tono gelido. «E
ancor meno mi interessano le vostre menzogne.»
«Mi date del mentitore?»
Mi strinsi nelle spalle. «Sono venuto a parlare con le Donne Fantasma.
Vi prego di continuare con i vostri affari. Fate quello che vi pare. Non in-
tendo avere a che fare con voi, baron-capitano.»
«Avete un tono assai altezzoso, per una persona che ha cercato di assas-
sinare una sorella e per un esiliato in disgrazia.»
Cercò di colpirmi, e io feci un passo indietro. Dalla tunica che indossava
- e che, diversamente dal solito, era priva di tutti gli ornamenti da lui amati
- estrasse un lungo coltello. All'Adunanza erano vietate le armi, lo sapevo.
Lo stesso von Bek aveva lasciato la pistola a Bellanda. Cercai di afferrare
Armiad per il polso, ma lui indietreggiò. Continuò a guardarmi con ira, an-
simando come un cane rabbioso. Poi si lanciò di nuovo contro di me, sol-
levando il pugnale.
A quel punto tutti gridarono all'interno del tendone. In pochi istanti era
stata violata una decina di leggi antichissime. Io mi limitai a tenere lontano
Armiad, e gridai a von Bek di aiutarmi.
Il mio amico, però, era stato a sua volta aggredito dall'aiutante di Armiad
e doveva difendersi da un altro coltello. Indietreggiammo verso l'uscita
della tenda, gridando aiuto e cercando di instillare un po' buon senso in
Armiad e Rooper, che richiamavano l'attenzione generale e facevano una
pessima figura.
Poi giunse una decina di uomini che fermò Armiad e il suo aiutante e
tolse loro di mano il coltello.
«Mi difendevo da quel delinquente» disse Armiad. «I coltelli sono i loro,
lo giuro.»
Non pensavo che qualcuno potesse credere a una storia del genere, ma
ora un massiccio draachenheemiano sputò in terra, ai miei piedi.
«Credo che tu mi conosca, Flamadin» disse. «Sono uno di coloro che ti
hanno scelto come nostro signore. Ma tu hai disprezzato la nostra offerta.
E hai fatto anche di peggio. Buon per te, Flamadin, che sull'isola non si
possa spargere sangue. Se non fosse per quello, io stesso leverei un pugna-
le contro di te. Traditore! Imbroglione!» Tornò a sputare.
Ora, virtualmente tutti coloro che ci circondavano mi guardavano con
odio.
Solo le donne, le cui emozioni erano illeggibili dietro la maschera d'avo-
rio, mi guardavano in modo diverso. Ebbi l'impressione che adesso, dopo
avermi riconosciuto, provassero un considerevole interesse per me.
«Finita l'Adunanza faremo in fretta a trovarti, Flamadin!» mi minacciò
ancora l'uomo del Draachenheem. Poi si allontanò in direzione della tenda
dove erano contenuti gli schiavi.
Quando si accorse che la gente era disposta a credere alla sua storia,
Armiad rimase sorpreso al pari di me. Fece in fretta a riprendersi, però, e a
rizzare di nuovo la schiena. Sbuffando di disprezzo, si schiarì la gola e
chiese, rivolto alla folla in generale: «Chi altri oserebbe infrangere le no-
stre antiche leggi?»
Come potemmo vedere, alcuni non gli credevano, ma erano in minoran-
za rispetto a quanti già mi odiavano e sarebbero stati disposti a credermi
colpevole di altri cento delitti, oltre a quelli già noti!
«Armiad» ripetei «vi assicuro che non avevo alcuna intenzione di inter-
ferire con le vostre faccende. Sono venuto a visitare le Donne Fantasma.»
«E chi può venire a parlare con loro, tolto un mercante di schiavi?» chie-
se l'ometto, rivolto in generale alla folla.
Un vecchio alto e robusto si fece strada fino a noi. Impugnava un basto-
ne alto il doppio di lui e aveva il viso rosso. Aveva un portamento severo,
come se fosse pienamente conscio della serietà del suo incarico. «Niente
discussioni, né lotte, né duelli. Queste sono le nostre usanze. Andate per la
vostra strada, buoni signori, e non portate ulteriori disgrazie sulle nostre
teste.»
Ormai le Donne Fantasma avevano occhi solo per me. Mi fissavano con
grande attenzione. Sentii che parlavano tra loro e sentii pronunciare il mio
nome. «Sono qui come amico della razza degli Eldren» dissi loro, con un
inchino.
Non ebbi risposta. Le donne rimasero impassibili come le loro maschere
d'avorio.
«Desidero parlare con voi» continuai.
Anche ora non ebbi risposta. Due delle donne si allontanarono.
Armiad continuava a inveire e ad accusarmi di avere iniziato io. Il vec-
chio, che si era definito come il Mediatore, non si lasciò influenzare. Chi
avesse dato inizio alla lite non aveva importanza. Tutto era rimandato
all'indomani dell'Adunanza. «Entrambi sarete confinati alle vostre navi,
sotto pena di morte. È la legge.»
«Ma io devo parlare alle Donne Fantasma» gli dissi. «Sono venuto ap-
posta. Non avevo alcuna intenzione di attaccare rissa con quel fanfarone.»
«Basta insulti!» insistette il Mediatore. «O vi saranno altre punizioni. Ri-
tornate allo Scudo Corrucciato, buoni signori. Rimarrete laggiù fino alla
conclusione dell'Adunanza.»
Von Bek mormorò: «Con tutte queste persone che guardano, non puoi
fare nulla. Dovrai aspettare la notte.»
Armiad mi sorrideva con aria maligna. Probabilmente stava già macchi-
nando la mia morte. Non penso che molti l'avrebbero biasimato se fosse
stato costretto a imprigionarmi e a condannarmi a morte non appena ter-
minata la riunione. I suoi pensieri erano primitivi: non era difficile imma-
ginarli.
Con riluttanza, perciò, feci ritorno con Armiad alla nave. Eravamo ac-
compagnati dal Mediatore e da un gruppo misto che evidentemente era sta-
to scelto per far rispettare la legge. Non era facile capire come lasciare la
nave e trovare le Donne Fantasma.
Mi guardai alle spalle: le donne si erano riunite in gruppo e mi stavano
guardando; parevano essersi scordate di ogni altro impegno. Chiaramente
erano molto interessate a ricevere una mia visita. Ma non sapevo che cosa
volessero e come pensassero di utilizzarmi.
Giunti alla nave, Armiad lasciò che il Mediatore e i suoi accompagnatori
ci portassero nelle nostre vecchie cabine. Continuava a sorridere. Le cose
erano andate bene per lui, dopotutto. Non sapevo come intendesse accusa-
re me e von Bek, né di cosa ci avrebbe accusati, ma sapevo che il baron-
capitano aveva già in mente qualche piano.
Le sue ultime parole, prima di raggiungere le sue stanze, furono un alle-
gro: «E tra breve, buoni signori, rimpiangerete che le Donne Fantasma non
vi abbiano preso e, ancora vivi, non vi strappino la carne di dosso per
mangiarla davanti ai vostri occhi, mentre il resto di voi arrostisce lenta-
mente.»
Von Bek sollevò un sopracciglio. «Sempre più gradevole della vostra
cucina, baron-capitano.»
Armiad aggrottò la fronte perché non aveva capito la battuta. Poi, per
questione di principio, ci rivolse un'occhiata torva e sparì.
Pochi istanti più tardi sentimmo che la porta veniva sbarrata dall'esterno.
Potevamo uscire nel balcone, ma per giungere ai ponti sottostanti avrem-
mo dovuto affrontare una discesa lunga e ardua, e non eravamo sicuri che
Armiad non ci avesse lasciato quella via di fuga per intrappolarci meglio.
Dovevamo fare bene i nostri piani e cercare una via di fuga meno evidente.
Era probabile che avessimo a disposizione una notte intera, ma non c'era
da farci affidamento.
«Non credo che sia astuto come lo giudichi» disse von Bek. Stava già
cercando qualcosa che ci potesse servire come corda.
Da parte mia avevo bisogno di riflettere. Sedetti sul letto e meccanica-
mente lo aiutai ad annodare le coperte, mentre passavo in rassegna gli av-
venimenti della mattinata.
«Le Donne Fantasma mi hanno riconosciuto» dissi.
Von Bek rise. «Sì, e anche il resto del campo. Ma ho l'impressione che
non fossero in molti a darti ragione! Per tanti, qui, il tuo rifiuto di onorare
la tradizione costituisce un crimine peggiore del tentativo di uccidere tua
sorella! Conosco perfettamente questo modo di ragionare. Anche i miei
connazionali ragionano così. Che possibilità credi di avere, anche se riu-
scissi a lasciare questa nave? La maggior parte degli altri, con la possibile
esclusione dei Principi Orsi e delle Donne Fantasma, si metterebbe a darti
allegramente la caccia. E dove ci rifugeremmo, amico mio?»
«Ammetto di essermi posto la stessa domanda» gli risposi, sorridendo.
«Speravo che tu potessi fornirmi la soluzione.»
«Per prima cosa dobbiamo passare in rassegna le possibili vie di fuga»
rispose. «Poi dobbiamo aspettare la notte. Prima di allora, non otterremo
niente.»
«Temo che tu non abbia avuto molta fortuna ad allearti con me» gli dis-
si, in tono di scusa.
Von Bek rise. «Non credo di avere avuto molta scelta, amico mio. Non ti
pare?»
Il mio compagno aveva la capacità di strapparmi sempre un sorriso, e di
questo gli ero grato. Una volta esaminate tutte le strade che potevano por-
tarci alla libertà (non ce n'era nessuna che offrisse grandi garanzie di riu-
scita) mi stesi sul letto e cercai di capire perché le Donne Fantasma mi
guardassero con tanto interesse. Che mi avessero assurdamente confuso
con la mia sorella gemella Sharadim?
Alla fine scese la notte. Noi avevamo deciso di attenerci al nostro origi-
nale piano di fuga: dal balcone all'albero più vicino, e di lì a terra, lungo le
sartie. Non avevamo armi, dato che von Bek aveva affidato a Bellanda la
sua pistola. La nostra unica speranza consisteva nel riuscire a sfuggire ai
nostri inseguitori, nel caso ci vedessero.
Così, poco più tardi, ci trovavamo sul balcone, alla gelida aria della not-
te, e in lontananza udivamo le voci di centinaia di persone appartenenti a
ogni razza e ogni cultura - alcune di esse non umane - che celebravano la
loro strana riunione. Von Bek si era procurato una specie di grappino, uti-
lizzando parti di mobilio. Il piano consisteva nel lanciarlo in mezzo alle
corde, nella speranza che resistesse.
Il conte mi sussurrò di prendere le nostre lenzuola annodate e di tenermi
pronto a dargli corda, non appena mi avesse dato l'ordine, poi lanciò il
grappino verso l'albero. Sentii che colpiva, che rimaneva in bilico per
qualche istante e poi cadeva nel vuoto. Al quarto o quinto tentativo, però,
l'attrezzo fece presa. Diedi corda finché von Bek non mi disse basta; vidi
che ne legava il capo alla ringhiera del balcone.
«Adesso dobbiamo affidarci alla nostra buona fortuna» mormorò. «Vado
prima io?»
Scossi la testa. Dato che tutto l'accaduto era frutto delle mie ossessioni,
il minimo che potessi fare era correre il rischio maggiore. Scavalcai la rin-
ghiera e mi calai dall'altra parte, mi afferrai alla corda e, sospeso all'appi-
glio, cominciai ad avviarmi a cambiamano verso l'albero.
A quel punto, una voce sopra di noi esclamò trionfalmente: «I ladri ten-
tano la fuga! Catturateli, in fretta!»
L'intera nave parve improvvisamente riempirsi di uomini che puntavano
le lanterne contro von Bek, il quale scavalcava in quel momento il balcone,
e su di me che, penzolante dalla corda, non potevo andare né avanti né in-
dietro.
«Ci arrendiamo!» esclamò von Bek, facendo quello che giudicai buon
viso a cattiva sorte. «Ritorniamo nella nostra prigione.»
La risposta di Armiad era piena di una gioia malvagia. «Oh, no, non ri-
tornerete, buoni signori. Cadrete sul ponte e vi spaccherete un certo nume-
ro di ossa, prima che noi si riesca a catturarvi...»
«Sei un bastardo capace di uccidere a sangue freddo, oltre che un male-
ducato e un nuovo ricco» ribatté von Bek. Mentre parlava, aveva sciolto il
nodo della corda; che intendesse farmi precipitare per darmi una sorta di
colpo di grazia? Poi, si lasciò cadere, afferrò la corda sotto di me e gridò:
«Tieni duro, Herr Daker!»
La corda scivolò via dalla balaustra e noi volammo sempre più veloce-
mente verso l'albero, colpendo corde catramate che ci graffiarono le mani e
la faccia, ma facendo anche cadere a terra i nemici che ci attendevano sul-
l'alberatura. Cominciammo a scendere lungo le sartie.
Ma la nave era piena di uomini in arme, e non appena raggiungemmo il
ponte, due o tre ci videro e si lanciarono contro di noi.
Noi corremmo verso la balaustra più vicina e guardammo in basso. Non
c'era modo di saltare, non c'era alcun appiglio a cui afferrarsi.
Poi, dall'alto, sentii giungere uno strano ticchettio, come di ossa battute
insieme, e con grande stupore vidi scendere lungo una corda una donna in
armatura bianca. Aveva una spada appesa a un polso, una scure da guerra
appesa all'altro. Atterrò accanto a noi e si mosse con grande efficienza in
avanti, colpendo e affettando quella che sembrava solo aria.
Non riuscii bene a vedere che cosa facesse agli uomini di Armiad, che
rotolarono a terra, fatti a pezzi. Ci fece segno di seguirla e noi fummo ben
lieti di farlo. Ora riuscimmo a vedere, qua e là sulla nave, almeno una doz-
zina di Donne Fantasma... e dovunque fossero non c'erano uomini del Ma-
aschanheem a bloccarci la strada!
Sentii che Armiad scoppiava a ridere. «Addio, cani. Vi lascio al destino
che vi meritate! Sono certo che rimpiangerete quello che vi avrei riservato
io!»
Ora le Donne Fantasma formarono una sorta di barriera mobile attorno a
noi e si mossero rapidamente lungo la nave, abbattendo tutti coloro che
cercavano di fermarle.
In pochi attimi io e von Bek eravamo scesi sulla spiaggia e le donne ci
portavano attraverso l'isola, in direzione del loro accampamento.
Avevano infranto tutte le leggi dell'Adunanza.
Che cosa poteva essere talmente importante da spingerle a correre un ri-
schio così forte? Senza le Adunanze non avrebbero più trovato maschi per
i loro scopi. La loro razza sarebbe certamente finita!
Von Bek mi disse, con voce tremante: «Temo che siamo loro prigionieri,
amico mio, più che loro ospiti. Che diavolo possono volere da noi?»
Una delle donne ci disse con severità: «Fate silenzio. Sono in gioco il
nostro futuro e la nostra stessa esistenza. Siamo venute a cercarvi, non a
combattere contro quegli altri. Ora dobbiamo andarcene immediatamente.»
«Andarvene?» sentivo un nodo allo stomaco. «Dove ci portate?»
«Nel Gheestenheem, naturalmente.»
Von Bek scoppiò in una delle sue caratteristiche risate. «Oh, questo è
troppo, per me. Sono sfuggito alle torture di Hitler solo per finire in tavola
come l'oca natalizia. Mi auguro che mi troviate di vostro gusto, gentili si-
gnore, benché in questo momento tema di essere più magro di quanto non
preferiremmo entrambi.»
Eravamo giunti a una delle sottili navi bianche. Ci spinsero al di là della
murata come due fagotti, mentre sentivo mettere in acqua i remi.
«Allora, von Bek» dissi al mio compagno. «Stiamo per scoprire di per-
sona il mistero del Gheestenheem, non ci pensi?»
Mi rizzai a sedere; nessuno mi fermò quando, facendo leva sul sedile, mi
alzai in piedi e mi sporsi a guardare il mare; vidi solo le acque nere.
Dietro di noi si scorgevano i fuochi e le grandi ombre dell'Isola delle
Adunanze. Ero sicuro che non l'avrei più rivista.
Mi rivolsi alla donna che aveva guidato l'assalto alla nave del Maa-
schanheem. «Perché avete rischiato tutto quello che ha valore per voi? Non
potrete mai più prendere parte a un'Adunanza, lo avete pensato? Comun-
que, da parte mia, tuttora non so se debba ringraziarvi oppure no!»
La donna si stava togliendo l'armatura; ora slacciava le fibbie della visie-
ra. «Lo giudicherete da voi» disse «quando saremo nel Gheestenheem.»
Si tolse la lastra di avorio che le copriva il viso.
Era la donna che avevo già visto. Nel fissare i suoi bellissimi lineamenti,
ricordai un sogno fatto molto tempo prima. Parlavo a Ermizhad e lei mi di-
ceva che non si sarebbe reincarnata eternamente, come succedeva a me,
ma che se il suo spirito fosse mai andato ad abitare un'altra forma, l'aspetto
sarebbe stato lo stesso. E che mi avrebbe amato anche in quella forma.
Non lessi nel suo viso alcuna traccia di riconoscimento, ma nel guardarla
sentii spuntare le lacrime.
Le chiesi: «Sei tu, Ermizhad?»
La donna mi guardò con sorpresa.
«Mi chiamo Alisaard» rispose. «Perché piangete?»

LIBRO SECONDO

Viviamo non immemori - nel nostro esilio dalle sideree rotte


Dell'ora interminabile nel tempo, rubata ad una lunga d'eterni giorni
notte,
Quando gaie e severe danzavano le stelle, rifugiatesi sui monti delle fate
Il lilla respirava in mezzo all'ombra di luci verdi, citrine od azzurrate,
Ma ancora l'avvolgente notte pareva l'orlo fantasma delle cose serrare.
In quell'ora i nostri cuori adoranti erano ritornati a casa dal loro lungo
errare:
Perché la bellezza era corsa dalla bellezza e vi s'affollavano del mago a
volontà
Le ore perdute d'amore che tuttora bruciano in Chi Sempre Vivrà
E i dolci eterni visi che avevano messo in fuga l'ombre terrene dense.
Poi, debole e fragile come una falena, la tua mano bianca palpitando si
spense.
Oh, chi sono io, che torreggia accanto a questa dea dell'aria che tra-
monta?

'A.E.' (George Russell),


Afrodite

UNO

Mi rammento ben pochi altri particolari di quel viaggio: il mio successi-


vo ricordo risale all'alba del giorno seguente. Rammento però che il sole si
levava rosso, grande e incorporeo, tremolando nell'aria carica di vapore, e
che la sua luce dava una sorta di sfumatura rosa e scarlatta alle onde. Il
vento era teso, gonfiava la bianca vela, e il sole ci illuminava, cosicché,
mentre facevamo rotta in direzione del sole, tutti eravamo dello stesso co-
lore dell'oceano di sangue.
Poi, gradualmente, scorsi qualcosa di diverso, davanti a noi. Pareva che
dal mare si alzassero alcune gigantesche colonne d'acqua. Ma, come mi
accorsi poco più tardi, non si trattava di acqua, bensì di luce. Grandi cilin-
dri di luce che scendevano dal cielo e illuminavano una vasta area di mare.
Dietro di esse c'erano solo nebbia, schiuma e nubi, ma entro l'area chiusa
tra le colonne la superficie del mare era assolutamente calma.
Von Bek era a prua e con una mano si teneva a una cima, con l'altra si
proteggeva gli occhi dal riverbero del sole. Era emozionatissimo. Aveva la
faccia bagnata di schiuma. Pareva avere ritrovato il gusto della vita.
Anch'io ero lieto degli spruzzi di acqua salata che mi avevano tolto di dos-
so il sudiciume dello Scudo Corrucciato.
«Che meraviglia della natura!» esclamò von Bek. «Come pensi che si sia
formata, Daker?»
Scossi la testa. «In questi casi, penso sempre che si tratti di magia.» Poi
scoppiai a ridere, accorgendomi dell'assurdità delle mie parole.
Scuotendo la testa dai capelli rosso scuro, Alisaard ci raggiunse dai ponti
inferiori. «Ah» commentò con grande serietà «avete visto l'Entrata.»
«Entrata?» chiese von Bek. «Che entrata?»
«L'Entrata al Gheestenheem, naturalmente.» Pareva giudicare affasci-
nante la sua ingenuità e io sentii un'imprevista fitta di gelosia. Perché non
doveva provare simpatia per chi le aggradava di più? Anche se assomiglia-
va alla mia Ermizhad, non si trattava di lei. Ma era difficile ricordarselo,
tanto era forte la somiglianza.
Poi la donna si voltò verso di me: «Avete dormito? O avete pianto tutta
la notte, principe Flamadin?» Lo disse in tono per metà incuriosito e per
metà di comprensione. Trovavo sempre più difficile credere che quelle
donne fossero crudeli schiaviste e cannibali. Anche se sapevo per espe-
rienza che spesso le culture più urbane e civili hanno qualche aspetto che,
per quanto normale ai loro occhi, può sembrare orribile agli altri. Tuttavia
quelle donne avevano la grazia caratteristica degli Eldren con cui ero vis-
suto.
«Siete state voi a soprannominarvi 'Donne Fantasma'?» le chiesi, soprat-
tutto per richiamare la sua attenzione.
«No» mi rispose «ma abbiamo scoperto da tempo che la nostra migliore
arma di difesa sta nello sfruttare a nostro vantaggio la superstizione uma-
na. L'armatura ha molte funzioni utili, soprattutto quando siamo in prossi-
mità di quelle ciminiere fumose, ma serve anche a mantenere una sorta di
mistero e spaventa chi fosse intenzionato a offenderci o aggredirci.»
«Come vi chiamate, allora?» le chiesi. Ero ansioso di conoscere la sua
risposta.
«Siamo le donne della razza degli Eldren» mi spiegò.
«E la vostra gente abita del Gheestenheem?» Il mio cuore batteva a pre-
cipizio.
«Solo le donne abitano nel Gheestenheem» rispose.
«Solo voi? Non esistono uomini?»
«Esistono, ma sono rimasti isolati. C'è stato un esodo. Gli Eldren sono
stati cacciati via dal loro Regno d'origine, ad opera di un gruppo di barbari
umani chiamati i Mabden. Noi abbiamo cercato rifugio altrove, ma nel
corso del viaggio ci siamo separati. Perciò, da parecchi secoli, per ripro-
durci dobbiamo servirci dei maschi umani. Da una simile unione, però,
vengono al mondo soltanto femmine; il sangue rimane puro, ma per noi è
un processo sgradevole.»
«Che cosa succede ai maschi, quando hanno svolto la loro funzione?»
Alisaard rise, sollevando la testa dalla linea elegante, e il sole trasformò i
suoi capelli in un'aureola di fuoco. «Pensate che vogliamo ingrassarvi per
un banchetto, principe Flamadin? Conoscerete la risposta quando saremo
nel Gheestenheem!»
«Perché avete corso un così grave rischio» chiesi «allo scopo di salvar-
ci?»
«Non siamo venute per salvarvi» mi spiegò. «Non sapevamo che foste in
pericolo. Intendevamo parlare con voi. Poi, quando abbiamo visto quel che
stava succedendo, abbiamo deciso di aiutarvi.»
«Allora siete venute per catturarmi?»
«Per parlare con voi. Preferite essere riportato su quella nave puzzolen-
te?»
Mi affrettati a dirle che non avevo alcuna intenzione di rimettere piede
sullo Scudo Corrucciato. «E quando intendete darmi una spiegazione?»
chiesi ancora.
«Quando saremo nel Gheestenheem» rispose lei. «Osservate!»
Ormai le colonne di luce erano alte sopra di noi, anche se la nave non le
aveva ancora raggiunte. Adesso la nave bianca era incandescente di luce
riflessa; all'inizio avevo pensato che le colonne fossero completamente
bianche come il marmo, ma ora mi accorsi che avevano tutti i colori
dell'arcobaleno.
A poppa, alcune donne spingevano con forza i remi che facevano da ti-
mone, manovrando con attenzione la nave in mezzo alle colonne.
«È pericoloso toccarle» ci spiegò Alisaard. «In pochi istanti potrebbero
ridurre in cenere una nave come la nostra.»
La luce abbagliante mi aveva già semiaccecato. Mi parve di scorgere
grandi ondate che ribollivano attorno alla base delle colonne, mi parve che
la nave venisse spinta verso l'alto, venisse spinta ora verso l'uno, ora verso
l'altro dei pilastri di luce.
Ma il nostro equipaggio era esperto: all'improvviso ci trovammo al di là
delle turbolenze, con la nave che rollava piano su un mare perfettamente
immobile, in un silenzio totale. Mi pareva di essere in una gigantesca gal-
leria che si stendeva all'infinito. Non riuscivo a scorgerne la fine. Al suo
interno, però, regnava un'atmosfera di grande serenità che allontanava ogni
paura provata al nostro ingresso.
Von Bek era stupitissimo. «È magnifico! È davvero magia?»
«Siete superstizioso come quegli altri, conte von Bek?» commentò Ali-
saard. «Avrei creduto altrimenti.»
«È un fenomeno che va al di là della scienza che mi è stata insegnata» le
rispose lui, sorridendo. «Che cosa può essere, se non magia?»
«Noi lo giudichiamo un fenomeno del tutto naturale. Si verifica ogni
volta che le dimensioni del nostro mondo intersecano quelle di un altro. In
tal caso si forma una sorta di vortice. Da quello, se ci sono sufficienti mo-
tivi, o curiosità, o coraggio, è possibile raggiungere i Regni della Ruota.
Abbiamo carte che ci informano del luogo e del momento in cui le Entrate
si formano, dove è più probabile che conducano e così via. Dato che si
tratta di un fenomeno regolare e prevedibile, noi non lo consideriamo ma-
gico. La definizione vi pare sensata?»
«Sensatissima, mia signora» rispose von Bek, inarcando le sopracciglia.
«Anche se dubito di poter convincere qualcuno dell'esistenza di un simile
tunnel, si trattasse pure di Albert Einstein.»
Anche se non era in grado di capire il riferimento, la donna sorrise a sua
volta. Non c'era alcun dubbio: Alisaard lo trovava simpatico. Con me era
molto più circospetta e non riuscivo realmente a comprenderne la ragione,
a meno che non credesse anche lei alla storia del mio tradimento. A un
tratto capii! Quelle donne volevano Sharadim, la mia sorella gemella! Che
intendessero consegnarmi a lei - come criminale ricercato - in cambio del
suo aiuto? Dopotutto erano abituate a fare commercio di uomini. Che io
fossi ridotto a oggetto di scambio?
Ma tutti questi pensieri mi si allontanarono dalla mente non appena la
nave cominciò a girare su se stessa. Non appena prese a roteare, noi fum-
mo proiettati contro il legno delle murate, anche se la rotazione non fu mai
così rapida da scagliarci fuori bordo. Poi, gradualmente, la nave si sollevò
nell'aria, come se la galleria ci aspirasse in un'altra dimensione! La nave si
rovesciò su se stessa, e io pensai che saremmo caduti nell'acqua, ma in
qualche modo la direzione della gravità rimase quella giusta.
Qualche istante più tardi ci trovammo a fare rotta lungo la galleria, come
se fossimo trasportati dalla rapida corrente di un fiume. Mi aspettavo di
vedere gli argini, al nostro fianco, ma riuscii solo a scorgere lo scintillante
arcobaleno di colori. Anche ora mi scoprii sul punto di piangere, ma ora
mi commuovevo per la bellezza e la meraviglia di quel che vedevo.
«È come se i raggi di più di un sole venissero concentrati insieme da una
lente» disse von Bek fermandosi accanto a me. «Sono curioso di conoscere
meglio questi Sei Regni.»
«A quanto so io, nel multiverso ci sono decine di gruppi diversi» gli
spiegai «esattamente come ci sono vari generi di stelle e di pianeti, e cia-
scuno obbedisce alle proprie leggi fisiche. Per la maggior parte degli abi-
tanti della nostra terra si tratta di Regni che non riusciamo percepire, tutto
qui. La ragione non la so; a volte ho l'impressione che il nostro mondo sia
una sorta di colonia per una razza sottosviluppata, dato che tante delle altre
danno per scontata l'esistenza del multiverso.»
«Io sarei lieto di vivere in un mondo dove si goda di questi spettacoli»
commentò von Bek.
La nave continuava a percorrere rapidamente la galleria. Notai però che
le donne al timone rimanevano all'erta. Mi chiesi se non ci fosse qualche
nuovo pericolo.
Poi la nave prese nuovamente a girare su se stessa e cambiò assetto, e
per qualche istante ci parve di essere piombati in un pozzo di tenebre. I
membri dell'equipaggio presero a gridarsi ordini, come se si stessero pre-
parando a qualche nuovo prodigio. Alisaard ci disse di tenerci forte alla
murata.
«E pregate che la nave arrivi nel Gheestenheem» terminò. «Queste galle-
rie sono famose per cambiare direzione e lasciare alla deriva i viaggiatori
fino alla successiva rivoluzione!»
L'oscurità era completa; non riuscivo a scorgere i miei compagni. Poi
ebbi la sensazione viscerale che si prova in un ascensore che scende rapi-
damente, sentii cigolare il fasciame della nave e infine, con grande lentez-
za, la luce fece ritorno. Eravamo tornati a beccheggiare su acque normali,
ed eravamo ancora circondati dalle colonne di luce, anche se assai meno
luminose di prima.
«Passiamo in fretta! Passiamo in fretta!» gridò Alisaard.
Con un grande sobbalzo, la nave si lanciò in avanti e si diresse verso le
colonne; le donne al timone spinsero con tutte le loro forze contro la barra.
Superammo ancora un'onda e ci trovammo al di là delle strane colonne di
luce, sulla cresta, e finalmente scorsi la nostra meta: una lontana linea co-
stiera che mi fece venire alla mente, per qualche vaga ragione, le bianche
scogliere di Dover. Sulla cima si scorgeva una distesa di colline ondulate,
coperta da una vegetazione lussureggiante.
Intorno a noi, la luce dorata del sole splendeva su un mare profondamen-
te azzurro. Nel cielo turchino si scorgevano piccole nubi bianche. Mi ero
quasi dimenticato l'aspetto di un normale paesaggio estivo. Erano passate
intere eternità da quando avevo visto panorami simili. In effetti non li ve-
devo da quando ero stato strappato a Ermizhad.
«Mio Dio!» esclamò von Bek. «Non sembra l'Inghilterra? O forse l'Ir-
landa?»
Quelle parole non avevano alcun significato per Alisaard. La donna
scosse la testa. «Voi siete un intero dizionario di nomi stranieri, conte von
Bek. Dovete avere viaggiato molto, vero?»
A quel punto il mio compagno fu costretto a ridere. «Ora siete voi, mia
buona signora, a dare prova di ingenuità involontaria» disse. «Vi assicuro
che i miei viaggi sono assai tranquilli e domestici, rispetto a quelli che voi
date per scontati.»
«Suppongo che quel che non ci è familiare ci sembri assai più esotico di
quanto non sia realmente.» La donna godeva della brezza che le ravviava i
capelli e s'era tolta i bracciali dell'armatura -come avevano fatto anche le
sue compagne - per sentire sulla pelle il calore del sole. «Un mondo piutto-
sto deprimente, il Maaschanheem» continuò. «Colpa di tutte quelle paludi
e di quel grigio, suppongo.» Guardava davanti a sé, dove le scogliere si a-
privano per dare accesso a una grande baia. Entro la curva di quel golfo
naturale si scorgeva un piccolo porto, e dietro i moli una città che saliva
lungo il fianco dei monti, su tre lati della baia.
«Ecco Barobanay!» disse Alisaard, con sollievo. «Possiamo tornare a
essere noi stesse. Odio queste finzioni.» Batté le nocche sulla corazza d'a-
vorio.
Lungo i moli di Barobanay erano ormeggiate molte altre navi, di tutti i
generi, ma non ce n'era nessuna come le nostre. Evidentemente le navi
bianche facevano parte del travestimento che le Donne Fantasma adottava-
no per tenere a distanza le altre razze.
La nave accostò al molo, i remi vennero ritirati a bordo e dal ponte furo-
no lanciate le cime d'ormeggio, che vennero afferrate da giovani donne e
uomini fermi sul molo, i quali poi li avvolsero attorno agli argani. Le don-
ne appartenevano chiaramente agli Eldren mentre gli uomini erano altret-
tanto ovviamente di razza umana. Né gli uni né le altre avevano l'aspetto di
schiavi. Ne accennai ad Alisaard.
«A parte il fatto di non godere di certi diritti» mi spiegò «gli uomini so-
no abbastanza soddisfatti.»
«Eppure» osservò von Bek, in tono ragionevole «qualcuno cercherà
sempre di scappare, per quanto sia soddisfacente la loro vita.»
«Prima dovrebbero imparare a usare le nostre Gallerie d'Entrata» rispose
Alisaard, mentre la nave urtava conto il molo.
Aspettammo che venisse poggiata una passerella tra la murata e il molo,
poi Alisaard ci precedette sulla terraferma e ci guidò in una piccola piazza
pavimentata di cubetti di porfido e lungo una stradina ripida e serpeggian-
te, fino a un edificio alto, in uno stile che richiamava alla mente il gotico, a
una certa distanza dalla riva. La costruzione aveva l'aspetto di un edificio
pubblico.
Il sole era caldo sulla nostra pelle, quando arrivammo dinanzi all'edifi-
cio.
«Il nostro Palazzo del Consiglio» spiegò Alisaard. «Un edificio abba-
stanza modesto, ma è il perno del nostro sistema di governo.»
«Ha l'aria pratica e senza fronzoli degli edifici municipali delle nostre
antiche città tedesche» commentò von Bek, in tono di approvazione. «Inol-
tre» aggiunse «è assai più elegante di qualsiasi ambiente che abbia visto
negli ultimi tempi. Pensa solo, Daker, a come potrebbero ridurlo i fustieri
di Armiad!»
Non potevo che essere d'accordo.
All'interno, le stanze erano fresche e bene arredate, piene di piante e fiori
profumati. Il pavimento era di marmo, ma era quasi del tutto ricoperto di
bei tappeti, e l'ossidiana verde delle colonne e dei caminetti non aveva nul-
la di gelido. Alle pareti erano appesi arazzi, in gran parte a disegni astratti,
e i soffitti erano decorati con squisiti e complessi arabeschi. L'intero edifi-
cio aveva un'aria dignitosa, antica, e mi pareva difficile credere che quelle
donne degli Eldren intendessero usarmi come merce di scambio.
Una donna più anziana, con i capelli argentei acconciati in alto sulla te-
sta e il viso che, com'era tipico della sua razza, non mostrava i tratti meno
attraenti dell'età che invece colpiscono noi umani, ci raggiunse da una por-
ticina alla nostra destra.
«Allora vi siete lasciato convincere a raggiungerci, principe Flamadin»
disse con calore la nuova venuta. «Vi sono molto riconoscente.»
Alisaard le presentò Ulrich von Bek e spiegò a grandi linee che cosa fos-
se accaduto. La donna - che indossava un'ampia veste di colore rosso e oro
- ci diede il benvenuto e si presentò come l'Annunciatrice Eletta, Phaliza-
arn. «Ma, naturalmente, nessuno vi ha spiegato perché vi abbiamo cercato,
principe Flamadin.»
«Avevo l'impressione, lady Phalizaarn, che voleste l'aiuto di mia sorella
Sharadim.»
La donna mi guardò con stupore. Ci fece segno di precederla in un'altra
stanza: una serra piena di fiori meravigliosi. «Come lo sapete?» mi chiese.
«Mia signora» risposi «in queste cose ho una sorta di sesto senso. È ve-
ro?»
Si fermò accanto a un rododendro viola. Mi parve imbarazzata dalle mie
parole. «È vero, principe Flamadin, che alcune di noi hanno provato - con
mezzi non convenzionali - a evocare vostra sorella, o almeno a chiederle
aiuto. Non gli è stato vietato di farlo, ma in generale sono state disapprova-
te da tutti, compreso il Consiglio. Ci è parso un sistema improbabile e bar-
barico per raggiungere la principessa Sharadim.»
«Quelle donne, dunque, non rappresentano tutti gli Eldren?»
«Solo una parte.» L'annunciatrice Eletta rivolse un'occhiata ad Alisaard,
con espressione interrogativa, e la giovane abbassò lo sguardo. Chiaramen-
te la nostra salvatrice era una di quelle donne che avevano cercato mia so-
rella con mezzi barbarici. Comunque, mi chiesi, perché mi avevano salvato
da Armiad? Perché erano venute a cercarmi?
Prima di rivolgere quelle domande, però, mi sentii in dovere di prendere
le difese di Alisaard. «Devo dirvi, signora, che sono abituato a rispondere
a quel tipo di incantesimi.» Sorrisi ad Alisaard, che mi aveva guardato con
sorpresa. «Non è la prima volta che sono stato chiamato al di là della bar-
riera tra i mondi. Ma non capisco perché sia giunto a me il richiamo per
Sharadim.»
«Perché Sharadim non è la persona che cerchiamo» rispose Alisaard,
semplicemente. «Devo ammettere che fino a ieri ero pronta a dire che l'o-
racolo ci aveva male indirizzato. Ero convinta che nessun essere umano di
sesso maschile poteva avere il rapporto con gli Eldren necessario per aiu-
tarci. Naturalmente vi conoscevamo entrambi. Sapevamo che eravate ge-
melli. Abbiamo pensato che l'oracolo, parlando di Flamadin, intendesse
parlare di sua sorella Sharadim.»
«Ci sono stati molti dibattiti su questo» disse gentilmente lady Phaliza-
arn. «In questo stesso edificio.»
«Due notti or sono» spiegò Alisaard «abbiamo tentato ancora una volta
di chiamare Sharadim. Pensavamo che il luogo migliore per farlo fosse l'I-
sola delle Adunanze. Quella volta abbiamo sentito perfettamente il potere
che scorreva dentro di noi. Era più forte del solito. Abbiamo acceso il fuo-
co, abbiamo unito le braccia e ci siamo concentrate. E per la prima volta ci
è giunta una visione della persona da noi cercata. Penso che abbiate capito
di chi fosse la faccia.»
«Avete visto il principe Flamadin» commentò la lady Phalizaarn, cer-
cando di nascondere la soddisfazione. «E poi l'avete visto in carne e os-
sa...»
«Ricordando che avevate dato alla capitana Danifel l'incarico di avvici-
nare il principe Flamadin se l'avesse visto all'Adunanza, ci siamo recate da
lei e abbiamo ammesso il nostro errore. Insieme siamo poi andate a fare
visita al principe Flamadin. Siamo state costrette a raggiungerlo in segreto
a causa della natura dell'Adunanza e al carattere del bruto che comanda
sulla particolare nave che ospitava il principe Flamadin e il suo amico.
Con nostro grande stupore abbiamo scoperto il principe e il conte von Bek
mentre tentavano la fuga. Così li abbiamo aiutati.»
«Alisaard» disse gentilmente lady Phalizaarn «ti sei preoccupata di invi-
tare il principe Flamadin nel Gheestenheem? Hai lasciato a lui la decisio-
ne?»
«Nell'eccitazione del momento me ne sono scordata, lady Annunciatrice
Eletta. Chiedo scusa a tutti. Temevamo di essere inseguiti.»
«Inseguiti?»
«Sì, c'era il rischio che ci inseguissero i nemici assetati di sangue da cui
ci ha salvati Alisaard» si affrettò a spiegare von Bek. «Ci avete salvato la
vita, signora. E, naturalmente, avremmo immediatamente accettato il vo-
stro invito, se ci fosse stato comunicato a voce.»
La lady Phalizaarn sorrise. Anche lei, evidentemente, era affascinata dal-
le buone maniere, stile vecchia Germania, del mio compagno. «Siete un
cortigiano nato, conte von Bek. O forse è meglio dire un diplomatico na-
to.»
«Preferisco quest'ultimo, mia signora. Noi von Bek non siamo mai stati
molto amici dei monarchi. Un membro della famiglia è stato perfino eletto
all'Assemblea nazionale francese!»
Anche questa battuta andò persa per le nostre interlocutrici. Io ero in
grado di capirla, ma per le due donne era come una lingua sconosciuta. Un
giorno anche von Bek avrebbe imparato - come l'avevo imparato io - a in-
trattenere una conversazione senza citare particolari della terra o del secolo
in cui era nato.
«Non ho ancora idea di quel che vogliate da me» dissi con educazione.
«Vi assicuro, mia signora, che sono qui di mia piena volontà, visto che tut-
ti sono contro di me, ma sarò franco con voi. Non ho alcun vero ricordo di
essere il principe Flamadin. Da pochi giorni abito questo corpo; se Flama-
din possiede qualche conoscenza che vi occorre, temo che risulterò una de-
lusione per voi.»
Lady Phalizaarn mi sorrise. «Provo un forte sollievo nell'udirlo, principe
Flamadin. L'accuratezza del nostro 'oracolo', come Alisaard si ostina a
chiamarlo, riceve un'ulteriore conferma. Ma saprete tutto quando si riunirà
il Consiglio. Non posso parlare finché non mi verranno date istruzioni.»
«Quando si riunirà il Consiglio?» volli sapere.
«Questo pomeriggio. Siete liberi di visitare la nostra città, se lo desidera-
te. Abbiamo riservato per voi alcune camere in questo edificio. Qualunque
cosa vi occorra, abiti, cibo, non esitate a chiederla. Non so dire la mia gioia
di avervi con noi, principe Flamadin. Temevo che ormai fosse troppo tar-
di!»
Su quella nota misteriosa ci congedammo da lei. Alisaard ci mostrò le
stanze che erano state preparate per accogliermi. «Non vi aspettavamo,
conte von Bek, e perciò occorrerà qualche ora per preparare il vostro ap-
partamento. Intanto ci sono due camere comunicanti, con un divano abba-
stanza grande anche per un uomo alto come voi.»
Aprii la porta e dissi con gioia: «Ecco ciò che cercavo!» Era un'enorme
vasca da bagno che ricordava quelle dell'epoca vittoriana, anche se non si
scorgevano tubature. «Esiste un sistema per ottenere acqua calda?»
La donna mi indicò una corda appesa a fianco della vasca: io l'avevo
presa per un campanello. «Due strattoni per la calda» ci spiegò. «Uno per
la fredda.»
«E da dove esce» chiesi «l'acqua che arriva nella vasca?»
«Passa per i tubi» rispose. Mi indicò una sporgenza all'interno della va-
sca, che io avevo scambiato per un elemento decorativo. «Ed esce di lì.»
Me lo disse col tono che avrebbe usato per indicare a un barbaro i primi
rudimenti della civiltà.
«Grazie» le risposi. «Credo di poterne presto imparare il funzionamen-
to.»
Il sapone che mi porse era una sorta di polvere abrasiva, ma si sciolse
senza problemi nell'acqua. Il primo getto di acqua calda per poco non mi
uccise, tanto era bollente. Scoprii che la donna si era dimenticata di dirmi
che per avere acqua tiepida occorrevano tre strattoni.
Mentre io ero nella vasca, von Bek si era soffermato a chiacchierare con
Alisaard, che tuttavia, quando io uscii dal bagno, si era già allontanata. Il
mio compagno poté approfittare della mia scoperta dell'acqua tiepida e,
mentre si insaponava, continuò allegramente a parlarmi.
«Ho chiesto ad Alisaarise la sua razza può avere figli da quella umana»
mi informò. «Mi ha risposto di non saperlo, ma che non è un'esperta
dell'argomento. A quanto pare, il metodo da loro usato è tutt'altro che
semplice. Ha detto che occorre 'molta alchimia'. Presumibilmente occorre
qualche prodotto chimico, tra le varie cose. Che si tratti di una forma di in-
seminazione artificiale?»
«Purtroppo» risposi «non ne so nulla. Comunque, gli Eldren hanno sem-
pre avuto una forte predisposizione naturale per la medicina. Quel che mi
incuriosisce, però, è come le donne abbiano finito per separarsi dagli uo-
mini. Inoltre mi chiedo se questi Eldren siano i discendenti di quelli che
conoscevo, o se magari siano i loro antenati.»
«Qui trovo difficile seguirti» confessò von Bek. Cominciò a fischiettare
un motivetto jazz che era assai popolare alla sua epoca (ossia qualche anno
prima della mia vita nei panni di John Daker).
Le stanze erano arredate nello stile che avevamo visto nel resto del pa-
lazzo, con grandi mobili di legno scolpito, arazzi e tappeti. Sul mio letto
c'era una coperta la cui fattura, a giudicare dal ricamo, doveva avere ri-
chiesto cinquant'anni di lavoro. Il luogo era pieno di fiori e dalle finestre si
scorgeva un cortile con un sentiero coperto di ghiaia, un prato verde e, in
centro, una fontana. Tutto dava un'impressione di grande tranquillità e
pensai che sarei stato felice di potermi stabilire in quel regno. Ma sapevo
di non poterlo fare. Anche ora sentii una fitta di dolore quasi fisico e pro-
vai un'immensa nostalgia della mia Ermizhad!
«Be'» disse poi von Bek, mentre si asciugava «se non avessi impegni ur-
genti con il mio amico Adolfo - il nostro amato Cancelliere tedesco - direi
che Barobanay sarebbe un eccellente luogo per passarci le vacanze.»
«Oh, certo» risposi io, distratto. «Comunque, von Bek, ho l'impressione
che tra poco saremo sin troppo indaffarati per poter pensare al riposo. A
quanto mi pare di capire, queste donne avevano urgente bisogno di noi.
Non ho ancora capito, però, perché chiamassero Sharadim e non me. Ali-
saard ti ha fornito qualche nuova spiegazione?»
«Credo che fosse una questione di principio» mi rispose. «Stentava a
credere che un maschio della razza umana potesse risultare di qualche uti-
lità! Credo si basasse sulla sua esperienza. Poi, naturalmente, c'era la storia
dell'omicidio, vero o probabile che fosse.»
«Come? Il tentativo di uccidere Sharadim, quello di cui mi accusavano?
O pensano che sia riuscito a ucciderla?»
«No, naturalmente no.» Von Bek si grattò la fronte, perplesso. «O forse
non c'eri, quando Alisaard ne ha parlato. A quanto pare, il principe Flama-
din è morto. La storia che è stata diffusa delle autorità del Draachenheem è
esattamente il contrario di quella vera. A quanto si sa, Flamadin è stato uc-
ciso per ordine della sorella!» Von Bek parve trovare divertente la cosa.
Mi diede una pacca sulla spalla. «Come gira, il mondo, eh?»
«Oh, certo» mormorai, mentre il mio cuore accelerava i battiti. «Gira
davvero in fretta...»

DUE

«Per prima cosa» disse lady Phalizaarn, alzandosi dal suo posto, in mez-
zo alle altre donne sedute in terra «vi devo avvertire del grave pericolo che
corriamo. Per molti anni abbiamo cercato la nostra gente, gli Eldren, nel
desiderio di raggiungerla. Il sistema da noi adottato per preservare la razza
ci risulta molto sgradevole, come forse avrete saputo. In verità gli uomini
che acquistiamo vengono trattati bene e godono di quasi tutti i privilegi
della comunità, ma resta una situazione innaturale. Preferiremmo procreare
con individui che avessero una possibilità di scelta.»
Fece una breve pausa, poi proseguì: «Ultimamente ci siamo imbarcate in
una serie di esperimenti, nel tentativo di rintracciare la nostra gente, nella
convinzione di poterci riunire con essa, una volta che l'avessimo trovata.
Tuttavia abbiamo scoperto molti aspetti che ignoravamo. Inoltre, siamo
state costrette al compromesso e, alla fine, alcune di noi hanno preso una
via sbagliata. Adesso, per esempio, le conoscenze di vostra sorella Shara-
dim sono assai superiori a quelle che le avremmo dato, se avessimo cono-
sciuto meglio il suo carattere.»
«Quanto a questo» risposi io «dovete illuminarmi voi.» Io e von Bek e-
ravamo seduti a gambe incrociate davanti alle donne, che in gran parte pa-
revano avere la stessa età di Phalizaarn, anche se un piccolo numero erano
più giovani e un paio erano più anziane. Alisaard non era presente, né
scorsi altre donne del gruppo che ci aveva salvato dalla nave di Armiad.
«Così faremo» promise l'Annunciatrice Eletta. Ma prima ci espose bre-
vemente la storia della sua gente: di come una manciata di superstiti fosse
stata costretta a nascondersi a causa delle soverchianti forze dei barbari
umani. Alla fine avevano deciso di fuggire in un altro regno dove i Mab-
den non potessero seguirli. Laggiù contavano di iniziare una nuova vita.
Avevano già esplorato vari altri mondi ma ne avevano cercato uno in cui
non si fossero insediati gli uomini, e individuato un sistema per scoprirli.
Al loro ritorno, i primi esploratori del nuovo mondo avevano portato con
sé due grandi bestie che li avevano seguiti per curiosità. Già era noto che
quelle bestie sapevano come ritornare al loro mondo creando una nuova
porta tra i due reami. Gli Eldren avevano pensato di lasciare libere le bestie
e di seguirle. Le creature non avevano alcuna ostilità verso gli Eldren, anzi,
tra loro c'era una sorta di rispetto reciproco difficile da definire.
Gli Eldren non avrebbero incontrato difficoltà a vivere nello stesso
mondo delle bestie. Così, mentre un gruppo seguiva la bestia di sesso ma-
schile nella galleria da essa creata, il secondo gruppo, composto di sole
donne, doveva partire poco più tardi, una volta che gli uomini si fossero
assicurati che non c'erano pericoli.
Così le donne Eldren avevano atteso per qualche tempo, e poi, ormai
certe che non v'erano pericoli, avevano inviato la bestia di sesso femmini-
le. Tuttavia, mentre la seguivano all'interno della galleria, la bestia era spa-
rita. C'era stata una sorta di lotta, l'impressione che la bestia tentasse di av-
vertirli, e alla fine il gruppo di donne Eldren si era ritrovato su quel mon-
do, Gheestenheem. La bestia che doveva assicurare loro la salvezza aveva
perso la strada o era stata rapita.
«In qualche modo la galleria si era spostata» continuò Phalizaarn. «La
struttura del multiverso è come quella degli ingranaggi di un orologio. Ba-
sta un'oscillazione del pendolo e vi trovate in un altro mondo, che può es-
sere lontanissimo, nel tempo e nello spazio, da quello da voi cercato. È
quanto è successo a noi. Fino a poco tempo non sapevamo che cosa fosse
successo alla bestia che avrebbe dovuto guidarci.»
Continuò: «Per poter sopravvivere, siamo state costrette a servirci delle
nostre conoscenze di alchimia, per poter avere figli dai maschi che erano
giunti qui dai reami degli uomini. Alla fine scoprimmo di poter comprare
quei maschi da vari commercianti dei Sei Regni. Solo in occasione dell'A-
dunanza si intersecano tutti i Regni, ma a volte non è difficile raggiunger-
ne qualcun altro, se ne abbiamo bisogno. Nello stesso tempo ci siamo de-
dicate a uno studio della natura del multiverso, delle modalità secondo cui
le orbite di alcuni mondi intersecano quelle di altri.
«Per mezzo delle nostre medium, le stesse che si sono messe in contatto
con voi pensando di mettersi in contatto con Sharadim, siamo riuscite a
comunicare occasionalmente con i nostri uomini. È divenuto chiaro che
l'unico modo per raggiungerli consisteva nel trovare la bestia che inizial-
mente aveva cercato di guidarci. Poi, alcuni anni fa, è sorto un altro grave
problema. Abbiamo scoperto che le erbe impiegate dalla nostra alchimia
diventavano sempre più rare. Non sappiamo perché. Forse un semplice
cambiamento climatico.
«Nelle nostre serre speciali possiamo coltivare piante molto simili a es-
se, ma non hanno le stesse proprietà. Così, ci restano pochissime fonti di
quelle sostanze. Abbiamo pochissime figlie. Presto non ne nasceranno più
e la nostra razza morirà. Ecco perché la nostra richiesta di aiuto era così
urgente. A quel punto si è presentato a noi un individuo che ha detto di sa-
pere come rintracciare la nostra bestia, ma che in tutto il multiverso c'era
una sola creatura capace di trovarla, non solo, ma destinata a farlo. Chiamò
questa creatura il Campione Eterno.»
Un'altra donna parlò, senza alzarsi dal punto in cui sedeva sul pavimen-
to. «Non sapevamo se fosse maschio o femmina, umano o Eldren. La sola
cosa che avessimo era l'Actorios. La gemma.»
«Ci ha detto che vi avremmo trovato grazie a quella gemma» riprese
Phalizaarn. Da un sacchetto che portava alla vita estrasse una pietra e me
la mostrò, tenendola sul palmo della mano. «La riconoscete?»
Qualcosa, dentro di me, riconobbe la pietra, ma nessun ricordo affiorò
alla mia mente. Scossi la testa.
Phalizaarn sorrise. «Be', sembra che la gemma riconosca voi.»
La gemma, che pareva piena di nebbia o di fumo multicolore, parve qua-
si muoversi nella sua mano. Io sentii un grande bisogno di possederla. A-
vrei allungato la mano per prenderla, ma riuscii a trattenermi.
«È tua» disse qualcuno, dietro di me. Io e von Bek ci voltammo. «È tua.
Prendila» ripeté il nuovo venuto.
Non più vestito della sua corazza nera e gialla, ma con un'ampia veste
color porpora, il gigante nero Sepiriz mi guardò con divertimento e com-
passione. «Sarà sempre tua, dovunque tu la veda» proseguì. «Prendila. Ti
servirà. Qui ha terminato il suo ciclo.»
La gemma era tiepida. Mi parve di toccare carne viva. Quando la strinsi
nella mano, rabbrividii. Mi parve che irradiasse dentro di me un'ondata di
energia. «Grazie.» Mi inchinai all'Annunciatrice Eletta e a Sepiriz, poi in-
filai la pietra nella mia borsa. «Sei tu l'oracolo di cui parlavano, Sepiriz?
Le confondi a forza di misteri come fai con me?» Lo dissi con grande af-
fetto.
«Un giorno quell'Actorius ornerà l'Anello dei Re» m'informò il gigante
«e tu lo avrai al dito. Ma adesso hai un compito assai più immediato. Un
compito, John Daker, che potrebbe procurarti almeno una parte di quel che
desideri.»
«Promessa un po' vaga, ser cavaliere» osservai.
Sepiriz non si scompose. «Oso esprimermi con precisione solo su certi
argomenti. L'equilibrio è particolarmente delicato, in questo momento...
preferirei non romperlo. Almeno per ora. La lady Phalizaarn ti ha descritto
la bestia da loro perduta?»
«Ricordo bene le parole dell'incantesimo» gli dissi. «È un drago del fuo-
co. Una dragonessa. Ed è prigioniera, ho capito. Chiedevano che io - o
meglio Sharadim - liberasse la creatura. È intrappolata in un mondo che
posso visitare soltanto io?»
«Non esattamente. È intrappolata in un oggetto che soltanto tu puoi im-
pugnare...»
«Quella maledetta spada!» Feci un passo indietro e scossi violentemente
la testa. «No! No, Sepiriz, non sono disposto a riprenderla! La Spada Nera
è malvagia. Non mi piace il suo influsso su di me...»
«Non si tratta della stessa spada» mi rispose lui, con calma. «Almeno,
non nell'aspetto a cui mi riferisco. Alcuni dicono che le spade gemelle so-
no una sola. Altri che hanno mille forme. Ma io ne dubito. La lama è stata
forgiata in modo da accogliere un'anima - o quella che noi definiremmo ta-
le: uno spirito, un demone, quello che vuoi tu - e fu solo per una depreca-
bile coincidenza che la dragonessa venne intrappolata dentro di essa, in
modo da riempire il vuoto interno, per così dire, della spada.»
«Quei draghi sono certamente enormi. E la spada...»
«Le banali questioni di spazio e tempo non hanno importanza per le for-
ze di cui parlo e che tu dovresti ormai conoscere» mi rispose Sepiriz, sol-
levando la mano. «La spada era stata forgiata da poco. Coloro che l'aveva-
no fabbricata non avevano ancora terminato il loro lavoro. La lama, per
così dire, si stava raffreddando. Poi, all'improvviso, ci fu un grande som-
movimento che si diffuse per tutto il multiverso.
«Già allora il Caos e la Legge lottavano per impadronirsi della lama e
della sua gemella. Le dimensioni vennero ripiegate su se stesse, interi cicli
storici cambiarono in pochi istanti, le leggi medesime della natura cambia-
rono. E proprio allora il drago - il secondo drago - tentò di attraversare le
barriere tra i Regni per fare ritorno al proprio mondo. Fu una coincidenza
imprevedibile. A causa del grande sommovimento, rimase intrappolata al-
l'interno della spada. Nessun incantesimo fu più in grado di liberarla.
«La lama era stata creata in modo da poter ospitare un'anima. Una volta
che l'avesse avuta, poteva lasciarla libera soltanto in conseguenza di un ca-
so portentoso. E tu sei il solo che possa liberare il drago. La spada è un og-
getto potentissimo, anche senza di te. Nelle mani sbagliate potrebbe recare
danni a tutto ciò che amiamo, forse distruggerlo per sempre. Sharadim
stessa crede nella spada. Ha udito le voci che la chiamavano, ha fatto alcu-
ne domande, ha ricevuto certe risposte. Adesso vuole impadronirsi di
quell'oggetto di potere. Intende dominare i Sei Regni, e con la Spada del
Drago potrebbe raggiungere facilmente quello scopo.»
«Come sai che la principessa Sharadim è malvagia?» chiesi, rivolto a
Sepiriz. «Fra la popolazione dei Sei Regni - almeno fra la maggioranza
della popolazione - è considerata come la somma di tutte le virtù.»
Fu lady Phalizaarn a rispondermi. «Semplicissimo. L'abbiamo scoperto
recentemente, dopo una spedizione commerciale nel Draachenheem. Ab-
biamo comprato una partita di uomini, tutti facenti parte, fino a poco pri-
ma, della corte. Molti erano nobili e Sharadim li aveva venduti a noi per
farli tacere. Succede spesso che noi diventiamo un comodo sistema per e-
liminare gli indesiderati, da quando abbiamo diffuso la voce che mangia-
mo gli uomini da noi acquistati. Alcuni di quegli uomini avevano visto
Sharadim avvelenare il vino che vi ha offerto al ritorno dalla vostra ultima
impresa. La principessa s'è comprata la fedeltà di alcuni cortigiani, poi ha
arrestato gli altri con l'accusa di essere cospiratori e sostenitori di Flamadin
e li ha venduti a noi.»
«Perché ha cercato di avvelenarmi?» chiesi.
«Vi siete rifiutato di sposarla. Eravate disgustato delle sue macchinazio-
ni e della sua crudeltà. Per anni vi ha incoraggiato a recarvi all'estero in
cerca di avventure. La cosa era in accordo con il vostro temperamento e lei
vi garantiva che il regno era al sicuro nelle sue mani. Gradualmente, però,
siete riuscito a scoprire quello che stava facendo, come continuasse a cor-
rompere tutto ciò che giudicavate onorevole e preparasse la guerra tra il
Draachenheem e gli altri Regni. L'avete minacciata di informare tutti in
occasione della prossima Adunanza. Intanto lei aveva capito qualcosa di
ciò che le comunicavano le donne eldren e aveva capito che in realtà cer-
cavano voi. Aveva parecchi motivi per uccidervi.»
«Allora, se sono morto, come posso essere qui?» chiesi io.
«È un mistero, davvero. Vari uomini oggi presenti nel nostro mondo vi
hanno visto morire. Hanno detto che il vostro corpo era pallido e rigido.»
«E che cosa è successo al mio corpo?»
«Alcuni pensano che sia nascosto nelle stanze segrete di Sharadim. La
quale vi pratica i riti più disgustosi...»
«Questo porta come corollario la domanda: 'Chi sono io?'» osservai.
«Visto che non sono il principe Flamadin.»
«Tu sei il principe» intervenne Sepiriz. «Nessuno ne dubita. Ma non rie-
scono a capire come sei riuscito a fuggire.»
«Allora volete che cerchi quella spada? E poi?»
«Bisogna portarla all'Isola delle Adunanze. Le donne eldren sapranno
che cosa farne.»
«E sai dove posso trovare la spada?» chiesi.
«Abbiamo solo qualche voce. Ha cambiato possessore più volte. E, co-
me risultato, molti di coloro che volevano usarla per i propri scopi hanno
incontrato una morte terribile.»
«Allora, perché non lasciare che la trovi Sharadim?» osservai. «Morta
lei, posso prendere la spada e portarla alle Eldren...»
«L'umorismo non è mai stato il tuo forte, Campione» rispose Sepiriz,
scuotendo tristemente la testa. «Sharadim avrà certo trovato qualche siste-
ma per controllare la spada. Può avere trovato il sistema di rendersi invul-
nerabile alla specifica maledizione di quell'arma. Non è stupida, e neppure
ignorante. Sa come usare la spada, una volta che l'abbia trovata. In questo
momento ha già mandato i suoi emissari a raccogliere informazioni.»
«Allora ne sa più di te, lord Sepiriz?»
«Sa qualcosa. Ma è più che sufficiente.»
«Devo cercare di arrivare alla spada prima di lei? O devo trovare qual-
che mezzo per fermarla? Non mi è chiaro quel che vuoi da me, mio signo-
re.»
A quel punto, Sepiriz doveva avere notato la mia scarsa voglia di obbe-
dire. Non avevo alcuna intenzione di rivedere un'altra spada come la Spada
Nera, tanto meno di impugnarla.
«Mi aspetto che adempia il tuo destino, Campione.»
«E se mi rifiutassi?»
«Non conosceresti neppure un istante di libertà, per un'eternità dopo l'al-
tra. Soffrirai in modo ancor più terribile di coloro che il tuo egoismo ha
consegnato a un orrore infinito. Il Caos gioca una parte in tutto questo. Hai
mai sentito parlare dell'arciduca Balarizaaf? È uno dei più ambiziosi Si-
gnori del Caos. Sharadim sta trattando con lui, gli ha offerto un'alleanza.
Se il Caos dovesse impadronirsi dei Sei Regni, i popoli conquistati cono-
scerebbero soltanto un'orrenda distruzione, uno spaventoso tormento, El-
dren o umani che fossero. Sharadim cerca solo il potere, che le permetterà
di soddisfare i suoi capricci perversi. È un ottimo strumento in mano all'ar-
ciduca Balarizaaf. E Balarizaaf conosce assai meglio di lei il valore della
spada.»
«Allora, è una contesa tra Legge e Caos?» chiesi io. E aggiunsi: «Ma
questa volta devo combattere per la Legge.»
«È la volontà dell'Equilibrio» rispose Sepiriz, e mi parve di cogliere uno
strano tocco di pietà nella sua voce profonda.
«Non mi fido di te, né di chiunque altro della tua risma» gli dissi. «Ma
non posso fare altro. Tuttavia non intendo fare nulla se non mi assicurerai
che, con le mie azioni, sarò d'aiuto a queste donne eldren, perché la mia
fedeltà va agli Eldren, e non a qualche grande forza cosmica. Se riuscirò
nella mia missione, potranno riunirsi ai loro uomini?»
«Questa è una cosa che posso prometterti» mi rispose Sepiriz. Pareva
colpito dalle mie parole, più che offeso dal tono.
«Allora farò del mio meglio per trovare la Spada del Drago e per liberare
la sua prigioniera» gli assicurai.
«Dunque, ho la tua promessa» disse Sepiriz, chiaramente lieto della mia
decisione. Dall'espressione del suo viso, mi parve che si prendesse un ap-
punto mentale. Inoltre, era chiaro che gli avevo tolto una grave preoccupa-
zione.
Von Bek fece un passo avanti. «Perdonate l'interruzione, signori, ma vi
sarei assai obbligato se poteste darmi una risposta: anch'io ho un corso d'a-
zione predeterminato o dovrò limitarmi a fare del mio meglio per tornar-
mene a casa?»
Sepiriz posò la mano sul braccio del conte sassone. «Mio giovane ami-
co, le cose sono assai più semplici per ciò che riguarda te e posso spiegar-
mi più chiaramente. Se continuerai questa impresa e aiuterai il Campione
ad adempiere il suo destino, ti prometto che raggiungerai lo scopo da te
desiderato.»
«La sconfitta di Hitler e del suo nazismo?»
«Lo giuro.»
Mi era difficile rimanere zitto, perché sapevo benissimo che i nazisti e-
rano destinati alla sconfitta. Poi, all'improvviso, ebbi il sospetto che potes-
sero vincere, ma che forse saremmo stati io e von Bek a mettere in moto il
processo che li avrebbe portati alla distruzione. Capivo adesso perché Se-
piriz era costretto a parlare per enigmi. Il Cavaliere conosceva più di un fu-
turo. Forse conosceva un milione di futuri alternativi, un milione di mondi
diversi, un milione di epoche storiche differenti...
«Benissimo» rispondeva intanto von Bek. «Allora continuerò questa im-
presa. Almeno per ora.»
«Anche Alisaard verrà con voi» intervenne lady Phalizaarn. «Si è offerta
volontaria, dato che è una delle responsabili di avere fatto eccessive rivela-
zioni a Sharadim. E, naturalmente, porterete con voi gli uomini.»
«Gli uomini?» feci io. «Che uomini?» Mi guardai attorno, stupidamente.
«I cortigiani esiliati di Sharadim» mi spiegò lei.
«E perché dovrei prenderli?»
«Come testimoni» rispose Sepiriz «dato che il tuo primo compito consi-
sterà nell'andare subito nel Draachenheem ad affrontare tua sorella accu-
sandola e portando le prove di quello che ha fatto. Se le venisse tolto il po-
tere, il tuo compito sarebbe assai più facile.»
«Pensi che si possa riuscire? Noi tre e un pugno di uomini?»
«Non hai scelta» rispose Sepiriz, con gravità. «È il primo compito che
dovrai svolgere, se vuoi trovare la Spada del Drago. Non c'è inizio miglio-
re. Affrontando la tua malvagia gemella, Sharadim, stabilirai la configura-
zione che sarà presa da tutto il resto della tua ricerca. Ricorda, Campione,
che tempo e materia sono forgiati dalle nostre azioni. È una delle poche
costanti del multiverso. Siamo noi a imporgli la logica, per la nostra so-
pravvivenza. Crea una buona configurazione di partenza e ti avvicinerai di
un passo a compiere il destino da te desiderato...»
«Il destino!» Gli sorrisi senza alcuno umorismo. Per un istante provai la
tentazione di ribellarmi. Stavo quasi per girarmi e per uscire dalla sala, per
dire a Sepiriz che non volevo più avere a che fare con tutte quelle cose.
Ero stufo di misteri e di destini.
Ma l'occhio mi cadde sul viso di quelle donne eldren e vidi, nascoste sot-
to la grazia e la dignità, anche l'ansia e la disperazione profonda. Mi fer-
mai. Era il popolo che avevo scelto di servire a dispetto della mia stessa
razza. Non potevo tradirlo in quel momento.
Ma solo per amore di Ermizhad - non certo per Sepiriz e la sua oratoria -
avrei preso la strada del Draachenheem e laggiù sarei andato a sfidare il
male.
«Partiremo domattina all'alba» promisi.

TRE

Eravamo in dodici nella piccola nave che, dopo essere entrata fra le co-
lonne di luce, ora percorreva la galleria che collega i mondi. Alisaard, che
indossava nuovamente la sua armatura d'avorio, era al timone, mentre gli
altri si tenevano alle murate e guardavano a occhi sgranati la scena. Gli al-
tri nove erano nobili del Draachenheem. Due di loro erano Principi Eredi-
tari, capi di intere nazioni, rapiti la notte in cui era stato assassinato Fla-
madin. Quattro altri erano Sceriffi Eletti di grandi città e gli ultimi tre era-
no i Cavalieri di Corte che avevano visto somministrare il veleno.
«Molti altri sono morti» mi disse il principe ereditario Ottro, un uomo
anziano con la faccia segnata di lunghe cicatrici. «Ma non poteva uccidere
tutti, e perciò ci ha venduto alle donne del Gheestenheem. Pensate, saremo
i primi a ritornare da quel Regno.»
«Ma votati al silenzio» gli ricordò il giovane Federit Shaus. «Dobbiamo
a quelle donne degli Eldren più della nostra vita.»
Tutt'e nove annuirono. Avevano giurato di non parlare della vera natura
del Gheestenheem.
La nave continuò a correre nella luce di tutti i colori dell'arcobaleno,
sobbalzando e virando di tanto in tanto, come se incontrasse resistenza, ma
senza rallentare. Poi, all'improvviso, eravamo di nuovo a beccheggiare
sull'acqua azzurra del mare, tra due colonne e, un istante più tardi, il vento
gonfiò la nostra vela: ci trovammo in un normale oceano, con il cielo sere-
no sopra di noi e una buona brezza a poppa.
Due uomini del Draachenheem consultarono la mappa di Alisaard e le
diedero una buona idea della nostra posizione. Facevamo rotta verso il Va-
ladek, la terra cui appartenevano Sharadim e Flamadin. Alcuni uomini del
Draachenheem avrebbero voluto fare ritorno alle loro terre, per raccogliere
un esercito e marciare contro Sharadim, ma Sepiriz aveva insistito perché
ci recassimo direttamente nel Valadek.
Presto avvistammo la costa. Scorgemmo grandi rupi nere sullo sfondo
del cielo azzurro pallido. Mi ricordarono le rupi che vedevo in sogno, quel-
le dei Guerrieri alla Fine del Tempo. C'erano schiuma e scogli e pochi po-
sti dove attraccare.
«È la grande forza del Valadek» commentò Madvad di Drane, un indivi-
duo dai capelli neri e dalle sopracciglia straordinariamente folte. «Come
isola è virtualmente invulnerabile agli attacchi dal mare. I suoi pochi porti
sono ben custoditi.»
«Prendiamo terra in uno di quelli?» chiese von Bek.
Madvad scosse la testa. «Conosciamo una piccola cala dove è possibile
sbarcare con la marea. Stiamo cercando quella.»
Era quasi notte quando riuscimmo a sbarcare sulla gelida pietra di una
stretta spiaggia circondata da alti scogli di basalto in cima ai quali sorge-
vano le rovine di un antico castello. La nave venne trainata fino a una ca-
verna e uno dei cavalieri, Ruberd di Hanzo, ci accompagnò per una serie di
aperture segrete e lungo un'antica scalinata finché non ci trovammo fra le
rovine.
«Una volta erano abitate da una delle nostre più nobili famiglie» disse
Ruberd. «I vostri antenati, principe Flamadin.» S'interruppe, leggermente
imbarazzato. «O dovrei parlare semplicemente degli 'antenati del principe
Flamadin'? Ci avete detto che non siete più voi, mio signore, ma giurerei
che siete il nostro Principe Eletto.»
Mi era parso inutile ingannare quelle persone oneste, perciò avevo loro
detto una parte della verità, nei limiti di quello che sarebbero riusciti a
comprendere.
«Nelle vicinanze c'è un villaggio, vero?» chiese il vecchio Ottro. «Cer-
chiamo di raggiungerlo in fretta. Sento la mancanza di qualcosa da man-
giare e di una pinta di birra. Ci fermiamo laggiù per la notte, vero, e prose-
guiamo a cavallo domani?»
«Domattina all'alba.» Gli ricordai il nostro piano: «Dobbiamo raggiun-
gere Rhetalik prima di mezzogiorno, allorché Sharadim si farà incoronare
imperatrice.» Rhetalik era la capitale del Regno.
«Certo, giovane quasi principe» mi assicurò. «Conosco perfettamente
l'urgenza. Ma si pensa e si agisce meglio, dopo un buon pasto e qualche
ora di riposo.»
Io e Alisaard ci avvolgemmo nel mantello per non suscitare eccessive
curiosità da parte degli abitanti del villaggio, poi trovammo una taverna
abbastanza grande per accogliere l'intero gruppo. Anzi, il proprietario era
deliziato di avere tanti ospiti. Avevamo un mucchio di monete locali e le
spendemmo generosamente. Cenammo bene e dormimmo comodamente, e
l'indomani mattina scegliemmo i cavalli migliori. Poi ci avviammo verso
Rhetalik. Dovevamo costituire uno strano spettacolo agli occhi degli abi-
tanti del luogo: io vestito di cuoio come un cacciatore di palude, von Bek
con giacca, camicia e calzoni simili a quelli che indossava al suo arrivo (e
fabbricati per lui dalle Eldren, che gli avevano dato anche guanti, stivali e
un largo cappello), due signori del Draachenheem con le sete policrome e
le stoffe dei loro clan, quattro in armature d'avorio prestate loro e tre con
un assortimento di abiti presi tra quelli di cui disponevano i magazzini del
Gheestenheem.
Io cavalcavo in testa a quello strano gruppo, con von Bek da una parte e
Alisaard dall'altra. Quest'ultima, per abitudine, s'era infilata l'elmo. Le El-
dren non mostravano mai la faccia alla gente degli altri Regni. Avevano
cucito un bandiera per me, che la portavo legata alla lancia, ma al momen-
to era arrotolata e coperta. Inoltre, ogni volta che vedevamo qualcuno sulla
strada, mi affrettavo a sollevare il cappuccio del mantello. Non intendevo
farmi riconoscere così presto.
Gradualmente la strada di terra battuta si allargò. Poi giungemmo in un
tratto pavimentato con grandi lastre di pietra e incontrammo altre persone
che si muovevano nella stessa direzione. Avevano un aspetto festoso e
provenivano da tutte le classi sociali. C'erano uomini e donne dall'aspetto
chiaramente monastico e altri di gusti chiaramente secolari. Uomini, donne
e bambini, tutti indossavano i loro abiti migliori, in una confusione di colo-
ri vivaci.
Quegli abitanti del Draachenheem amavano le stoffe colorate e i disegni
a riquadri multicolori e non avevano nulla in contrario a indossare una de-
cina di colori diversi. I loro gusti mi parvero assai attraenti e cominciai a
sentirmi piuttosto sciatto nella mia monotona tenuta di cuoio. Presto di
fianco alla strada cominciammo a scorgere grandi statue dorate, raffiguran-
ti uomini o donne, gruppi, animali di ogni sorta, pur se col predominio di
quelle grandi lucertole che avevo visto all'Adunanza. Tuttavia i lucertoloni
non parevano di impiego comune: per la maggior parte della gente, il ca-
vallo, il bue e l'asino erano le consuete bestie da soma, anche se ogni tanto
scorgevamo una grossa creatura, vagamente imparentata con il cinghiale,
che, grazie a una robusta sella di legno, serviva come animale da sella e da
carico.
«Guardate!» mi disse il principe Ottro, affiancandosi a me. «È il mo-
mento migliore per arrivare a Rhetalik senza farci notare, come avevo det-
to.»
La città era circondata da alte mura di calda arenaria rossa, e in alto si
scorgevano grandi punte di pietra, simili ai merli di un castello medievale,
ma di forma completamente diversa. Ciascuna di quelle punte aveva un fo-
ro in centro, in modo che un soldato vi si potesse riparare e scagliare frecce
senza correre il rischio di essere colpito. La città era stata costruita per re-
sistere a un assedio, anche se Ottro mi assicurò che da molti anni tutto il
Draachenheem era in pace. All'interno delle mura c'erano case fortificate
allo stesso modo, ricchi palazzi, mercati coperti, canali, edifici religiosi,
magazzini e tutti i tipi di edificio che si possono trovare in una complessa
città commerciale.
Rhetalik pareva costruita su un terreno in discesa: tutte le sue strette vie
portavano verso il lago situato al suo centro. Laggiù, su un isolotto artifi-
ciale costruito in tempi antichi, c'era un grande palazzo di marmo, quarzo,
terracotta e pietra calcarea: un palazzo che scintillava alla luce del sole e
che rifletteva la miriade di colori degli alti obelischi eretti tutt'intorno al
perimetro dell'isola. Sulle torri del palazzo sventolavano cento diverse
bandiere, ciascuna delle quali era un'opera d'arte. Un ponte sottile, elegan-
temente arcuato, portava a un elegante posto di guardia, in pietra scolpita,
cui facevano da piantone sentinelle con l'armatura di gala, elaboratissima e
assolutamente priva di valore pratico, dall'aspetto più fantasioso che si
possa immaginare.
L'effetto barocco di quella armatura era ulteriormente accresciuto dagli
animali bardati e sellati in modo altrettanto fantastico, che, accovacciati
accanto alle sentinelle, erano immobili quanto i loro padroni. Erano le
grandi lucertole da corsa che avevo già visto in precedenza: i draghi che
davano nome a quel mondo. Ottro mi aveva spiegato come, nei tempi anti-
chi, quelle creature fossero numerosissime e gli uomini avessero dovuto
combatterle per impadronirsi del territorio.
Fermammo i cavalli accanto a un muretto da cui si vedevano il lago e il
castello. Tutt'intorno a noi le strade erano tutte impavesate, piene di ban-
diere che scintillavano di minuscoli specchi, piene di scudi e corazze tirati
a lucido, cosicché l'intero luogo splendeva di riflessi argentei. Gli abitanti
del Valadek festeggiavano l'incoronazione della loro Imperatrice. C'era
musica dappertutto, folle di uomini e donne in giubilo, che facevano festa
nei vicoli e nelle strade.
«Abbastanza condivisa, questa allegria» commentò von Bek, sporgendo-
si in avanti perché aveva la schiena indolenzita. Erano passati vari anni
dall'ultima volta che era montato in sella. «Difficile credere che festeggino
la nomina di una persona che dovrebbe essere la personificazione del ma-
le!»
«Il male cresce meglio dietro una maschera» disse Ottro, con aria cupa. I
suoi compagni annuirono con altrettanta gravità.
«E la maschera migliore è semplice» continuò il giovane Federit Shaus.
«Onesto patriottismo. Gioioso idealismo...»
«Siete un po' cinico, mio giovane amico» gli fece von Bek, con un sorri-
so. «Ma purtroppo la mia esperienza non può che darvi ragione. Fatemi
vedere qualcuno che grida: 'Per la mia patria, nel bene o nel male!' e io vi
farò vedere una persona disposta a sterminare senza battere ciglio metà dei
suoi compatrioti nel nome del patriottismo.»
«Qualcuno una volta ha detto che 'nazione' è solo un eufemismo per
'crimine'» intervenne Ottro. «In questo caso posso dirmi d'accordo. Shara-
dim ha abusato dell'affetto e della fiducia del proprio popolo. L'hanno elet-
ta Imperatrice di questo grande regno perché sono convinti che rappresenti
quanto c'è di meglio nell'umana natura. Inoltre gode della loro compren-
sione. Il fratello non ha cercato di ucciderla? Non è stato dimostrato che
Sharadim ha sofferto per anni, desiderosa di mantenere la reputazione di
suo fratello, facendo credere a tutti che fosse nobile e buono mentre invece
era l'essenza stessa dell'egoismo e della codardia?» Scosse la testa, profon-
damente amareggiato.
«Be'» intervenni io «visto che suo fratello dovrebbe essere morto dopo
avervi ucciso...» la storia messa in circolazione da Sharadim era appunto
questa «...pensate quanto sarà felice di scoprire di avere avuto ragione,
quando si fidava di lui!»
«Ci ucciderà non appena ci riconoscerà. Lo ripeto ancora una volta.»
Von Bek non credeva che il nostro piano potesse funzionare.
«Non penso che Sepiriz, nonostante le sue astuzie e le sue macchinazio-
ni, ci manderebbe a morte sicura» rispose Alisaard. «Dobbiamo fidarci del
suo giudizio; del resto, conosce assai più cose di noi.»
«Non amo l'idea di essere un semplice pedone della sua cosmica partita
a scacchi» osservò von Bek.
«Neanch'io.» Mi strinsi nelle spalle. «Anche se posso dare l'impressione
di esserci ormai abituato. Continuo a credere che la volontà individuale
possa ottenere gli stessi risultati delle alleanze tra uomini e dèi di cui parla
Sepiriz. Più di una volta ho avuto l'impressione che gli dèi si siano lasciati
prendere la mano a tal punto, dal loro gioco, dalle loro politiche cosmiche,
da avere ormai perso di vista il loro scopo originale.»
«Allora non avete molto rispetto per gli dèi e i semidei» fece Alisaard,
portandosi rapidamente la mano davanti alla bocca, scordandosi di avere la
visiera abbassata. «Confesso che anche noi del Gheestenheem non nutria-
mo molta ammirazione per quelle entità. Spesso quel che trapela fino a noi
richiama alla mente i giochi dei bambini!»
«Purtroppo» rispose von Bek «sono bambini che amano il potere assai
più di noi uomini, e quando lo raggiungono sono in grado di distruggere
quanti non desiderano prendere parte al gioco.»
Alverid di Prucca si sfilò il mantello. Era più taciturno degli altri uomini
del Draachenheem. Il suo principato era lontano dal Valadek, verso ovest,
e laggiù la gente aveva la fama di parlare poco e riflettere molto. «Sia co-
me sia» disse «dovremmo passare alla realizzazione del nostro piano. Pre-
sto sarà mezzogiorno. Ricordate tutti quello che dobbiamo fare?»
«Non è un piano complesso» rispose von Bek. Tirò le redini. «Proce-
diamo, allora.»
Muovendoci lentamente in mezzo alla folla festante, giungemmo final-
mente al ponte. Anche dal nostro lato era custodito da Cavalieri del Drago,
fermi sull'attenti accanto ai loro lucertoloni. Al nostro arrivo ci rivolsero il
saluto.
«Siamo la delegazione invitata dai Sei Regni» disse Alisaard. «Venuta a
porgere i suoi rispetti alla vostra nuova Imperatrice.»
Una delle guardie aggrottò la fronte. «Invitata, signora?»
«Invitata. Dalla vostra principessa imperatrice Sharadim. Dobbiamo a-
spettare qui con i venditori di cianfrusaglie e dobbiamo passare dall'ingres-
so della servitù? Mi aspettavo un'accoglienza più calorosa, da parte di una
donna come me...»
Le guardie si scambiarono un'occhiata e con aria un po' sottomessa ci la-
sciarono passare. E, visto che le prime guardie non ci avevano fermato, le
altre ci fecero entrare senza altre domande.
«Adesso, seguite me» disse Ottro, portandosi in testa al nostro gruppo.
Era la persona che conosceva meglio il palazzo e il protocollo. Spinse in
avanti il cavallo, fino a un grande arco di granito, largo almeno quattro me-
tri e spesso tre. Di qui passammo in un elegante cortile ammantato di prati
e con sentieri di ghiaia. Lo attraversammo, anche ora senza essere fermati
da alcuna guardia, e io mi guardai intorno. Le alte mura del palazzo ci cir-
condavano da tutti i lati, sormontate da guglie elegantissime, quasi eteree
nella loro snellezza. Eppure avevo l'impressione di entrare in una trappola
da cui sarebbe stato impossibile fuggire.
Passammo sotto un secondo arco, e poi sotto un terzo, e infine scor-
gemmo un gruppo di giovani in livrea verde e marrone. Ottro li riconobbe.
«Scudieri» gridò loro. «Prendete i nostri cavalli o arriveremo tardi alla ce-
rimonia!»
Gli scudieri corsero verso di noi per obbedire. Smontammo e Ottro si di-
resse senza esitazione verso la porta centrale; di lì entrò in quello che era
senza dubbio un appartamento privato, ma che al momento era vuoto.
«Conoscevo la dama che abita qui» ci disse, a mo' di spiegazione. «Fac-
ciamo in fretta, amici. Finora siamo stati fortunati.»
Aprì la porta e ci mostrò un fresco corridoio dagli alti soffitti e dai ten-
doni sgargianti dei colori che quella gente amava. Incontrammo alcuni
giovani che indossavano la livrea verde e marrone, una giovane donna con
una veste bianca e rossa, un vecchio con un'ampia sciarpa di stoffa posta a
bandoliera attraverso il petto e bordata di pelliccia: ci guardarono incurio-
siti mentre seguivamo Ottro, svoltavamo altre due volte, salivamo lungo
alcune rampe di scale marmoree e infine arrivavamo a una pesante porta di
legno. Il principe la aprì con cautela, poi ci fece segno di seguirlo.
Ci trovammo in una camera buia, priva di occupanti. Tutte le finestre e-
rano chiuse con gli scuri. Nel centro, in un grosso vaso, ardeva un incenso
dal profumo pesante. Grandi piante dalle larghe foglie crescevano a profu-
sione in tutta la stanza e davano all'ambiente l'aspetto di una serra. C'era
una forte umidità che faceva pensare ai tropici.
«Cos'è questo posto?» chiese von Bek, con un brivido. «Vi si respira
un'atmosfera assai diversa da tutto il resto.»
«È la stanza dov'è morto il principe Flamadin, signore» gli rispose uno
dei cavalieri di corte. «Su quel divano.» Ce lo mostrò. «Quello che avete
sentito, signore, è l'odore del male.»
«Perché la tengono al buio?» chiesi io.
«Perché dicono che Sharadim comunica ancora con l'anima del fratello
morto...»
Fui io, questa volta, a rabbrividire. Si riferivano all'anima del corpo da
me abitato in quel momento?
«Ho sentito dire che conserva il cadavere in una di queste stanze» disse
un altro. «Nel ghiaccio. Incorrotto. Esattamente nelle condizioni in cui era
all'istante della morte.»
«Semplici voci» ribattei con fastidio.
«Certo, altezza» si affrettò a dire il giovane. Poi aggrottò la fronte. Riu-
scivo perfettamente a capirlo. Non era il solo a sentirsi confuso. A quanto
si sapeva, ero stato assassinato in quella stanza... o, almeno, era stato as-
sassinato un individuo pressoché identico a me. Mi portai la mano alla
fronte. Mi girava la testa.
Von Bek mi tenne per il braccio. «Appoggiati a me. Dio solo sa cosa stai
provando in questo momento. È già abbastanza brutto per me...»
Con il suo aiuto riuscii a riprendere la padronanza di me stesso. Se-
guimmo Ottro lungo una serie di altre camere, tutte buie e malsane come
l'ultima, finché non fummo dinanzi a una porta doppia. Ottro si fermò.
Dall'altra parte della porta ci giungevano forti rumori. Musica. Voci so-
nore. Applausi.
Capivo il nostro piano, ma trovavo difficile credere che fossimo già arri-
vati a tanto. Il mio cuore accelerò i battiti. Rivolsi a Ottro un cenno d'as-
senso.
Con un brusco movimento, il vecchio sfilò la sbarra e spinse violente-
mente la porta, facendola sbattere rumorosamente contro il muro.
Scorgemmo davanti a noi un mare di colori, di metallo e di seta, di facce
che si voltavano dalla nostra parte, sorprese dallo schianto.
Eravamo giunti alla grande sala delle cerimonie del Valadek, che sotto il
suo alto soffitto a volta ospitava una profusione di lance e bandiere, di ar-
mature e di ogni tipo di vesti lussuose, in una predominanza di rosso e di
bianco, di oro e di nero. Dalle grandi vetrate poste dirimpetto a noi entrava
l'accecante luce del sole.
I mosaici, i tendaggi, i vetri istoriati facevano un magnifico contrasto
con la pietra chiara della sala e parevano far convergere lo sguardo verso il
centro, dove, su un trono di ossidiana verde e azzurra, si stava alzando in
quel momento una donna straordinariamente bella. Il suo sguardo incrociò
il mio quando giunsi al primo degli ampi scalini che scendevano al palco
su cui posava il trono.
Accanto a lei c'erano uomini e donne che indossavano lunghe vesti: le
massime autorità religiose del Valadek, anch'esse costituite di fratelli e so-
relle sposati tra loro, come era nostro costume da duemila anni. Sharadim
portava l'antica Veste della Vittoria, che da secoli non era più stata indos-
sata da alcun Valadek. Né ci auguravamo di doverla indossare, perché era
una veste di guerra e significava conquista con la forza delle armi. Shara-
dim l'aveva offerta a me e io l'avevo rifiutata.
Teneva in mano la Mezza Spada, un'antica arma dei nostri barbari ante-
nati, che a quanto si diceva, anche se si era spezzata nel corso della batta-
glia, era stata ancora in grado di uccidere l'ultimo superstite della prece-
dente dinastia Anishad, una bambina di sei anni, dando così il regno alla
nostra famiglia. Questa l'aveva poi tenuto fino alla riforma della monarchia
con cui veniva dato al popolo il potere di eleggere principi e principesse.
Flamadin e Sharadim erano stati eletti perché erano gemelli, cosa che co-
stituiva il migliore augurio di prosperità. Sarebbe stato nostro dovere spo-
sarci per benedire la nazione, e il popolo sapeva che una simile unione a-
vrebbe portato fortuna.
La popolazione però non sapeva che Sharadim voleva l'unione per un
solo fine: perché sarebbe servita ad aumentare il suo potere. Ricordavo la
nostra discussione, il suo disgusto per quella che lei giudicava una mia de-
bolezza. Le avevo ricordato come fossimo stati eletti, come il nostro potere
fosse un dono del popolo, come dovessimo rispondere al Parlamento e al
Consiglio. Ma lei s'era limitata a riderne.
«Da tre secoli e mezzo» mi aveva risposto «il nostro sangue attende di
essere vendicato. Da tre secoli e mezzo la nostra famiglia morde il freno in
attesa del momento opportuno, consapevole che quel momento sarebbe
giunto, consapevole che quegli idioti se ne sarebbero scordati, perché se i
Valadek avessero voluto eliminare i loro giusti sovrani, noi Bharalleen di
Sardatria, avrebbero dovuto fare come noi con gli Anishad e uccidere l'in-
tera famiglia, fino ai cugini più lontani. Noi apparteniamo pienamente a
quel sangue, Flamadin. La nostra gente ci grida di realizzare il nostro de-
stino...»
«No!» gridai ora, dall'alto degli scalini.
Sharadim sgranò gli occhi mentre scendevo lentamente verso di lei.
«No, Sharadim» continuai. «Non otterrai tanto facilmente il potere. Vo-
glio almeno che il mondo conosca gli orrendi mezzi con cui lo hai raggiun-
to. Devono sapere che porterai disordine, orrore, sangue e sofferenza a
questo regno. Devono sapere che intendi allearti con i più tenebrosi poteri
del Caos, che intendi conquistare prima questo regno, poi farti Imperatrice
dei Sei Regni della Ruota. Devono sapere che sei pronta ad abbattere le
barriere che trattengono le forze delle Marche dell'Incubo. Coloro che fan-
no parte di questa grande assemblea devono sapere, Sharadim, sorella mia,
che provi solo disprezzo per loro; infatti ritenevano che il nostro sangue si
fosse annacquato, mentre in realtà tu ritieni che la lunga attesa lo abbia fat-
to diventare ancora più forte. Devono sapere, Sharadim, tu che prima hai
cercato di sedurmi e poi di uccidermi, come giudichi il loro semplice entu-
siasmo e la loro buona volontà. Devono sapere che aspiri a diventare im-
mortale, a entrare a far parte del pantheon del Caos!»
Già sapevo l'effetto che le mie parole avrebbero avuto in quella grande
sala. La mia voce echeggiò sulle pareti. Le mie parole furono come coltel-
li, ciascuna colpì in pieno centro il bersaglio. Eppure, fino a quel momen-
to, non sapevo quello che avrei detto.
Poi le parole mi erano giunte tutt'a un tratto alla mente. Per qualche mi-
nuto, a quanto capivo, l'anima di Flamadin era entrata in me, e io avevo
posseduto i ricordi dell'ultimo incontro con la sorella.
Avevo pensato di fare qualche rivelazione dinanzi ai nobili di una decina
di nazioni, riuniti per l'incoronazione, ma non avevo pensato, neppure per
un istante, che si sarebbe trattato di accuse così specifiche e accurate! Al-
l'inizio ero io a possedere il corpo del principe Flamadin. Ora la mente di
Flamadin aveva preso possesso della mia.
«Confida loro tutti i tuoi pensieri, sorellina!» proseguii, mentre conti-
nuavo a scendere. Ora passavo tra mucchi di rose rosse e rose rosa, e il lo-
ro profumo dolciastro mi entrava nelle narici come una droga. «Di' loro la
verità!»
Sharadim gettò a terra la Mezza Spada che, fino a un attimo prima, ave-
va continuato ad accarezzare come si accarezza un amante. Aveva il viso
pieno d'odio, ma anche, nello stesso tempo, di una sorta di gioia e di esal-
tazione, come se all'improvviso avesse riscoperto in sé un'ammirazione per
il fratello, da tempo dimenticata.
Alcuni petali di rosa si sollevarono pigramente nei grandi raggi di luce
che scendevano dalle invetriate. Mi fermai di nuovo, con le mani sui fian-
chi, l'intero corpo che la sfidava. «Dillo, Sharadim, sorella mia!»
Nella sua voce, quando parlò, non c'era nessuna traccia di dubbio. Anzi,
conteneva una gelida, orribile autorità. E un tono sprezzante.
«Il principe Flamadin è morto, messere. E voi non siete altro che un vol-
gare impostore!»

QUATTRO

Fino a quel momento non mi ero ancora sfilato il cappuccio. Ora me lo


sfilai e da ogni parte della sala giunse un mormorio di riconoscimento.
Sharadim fece un passo indietro, impaurita, come se avesse visto uno spet-
tro; altri si sporsero in avanti per vedermi meglio. E da dietro il trono, a un
cenno di Sharadim, giunse una cinquantina di armati che impugnavano le
lance da cerimonia e che la circondarono.
Indicai dietro di me. «Se sono un impostore, chi sono queste persone?
Signori, non riconoscete i vostri pari?»
Ottro, principe ereditario di Waldana, si mise al mio fianco. Poi si fecero
avanti Madvad, duca di Drane, Halmad principe ereditario del Ruradani e
gli altri nobili venuti dal Gheestenheem.
«Gli uomini che hai venduto come schiavi, Sharadim» continuai.
«Scommetto che ora rimpiangi di non averli uccisi come tanti altri!»
«Magia nera!» esclamò mia sorella. «Fantasmi evocati dal Caos! Ma i
miei soldati li distruggeranno, non abbiate timore.»
Intanto, però, molti altri nobili si facevano avanti. Un vecchio di alta sta-
tura, con una corona di conchiglie colorate, sollevò la mano. «In questa sa-
la non si deve versare sangue. Conosco Ottro di Waldana come se fosse
mio fratello. Hanno detto che eri partito in esplorazione, Ottro, alla ricerca
di nuove porte verso gli altri Regni. È così?»
«Sono stato arrestato, principe Albret, mentre salivo sulla nave che do-
veva riportarmi nelle mie terre. L'arresto era stato ordinato dalla principes-
sa Sharadim. Una settimana più tardi, io e coloro che vedete con me sono
stati venduti alle Donne Fantasma, come schiavi.»
Altro mormorio tra la folla.
«Noi abbiamo acquistato questi uomini in completa buona fede» disse
Alisaard, senza aprire la visiera. «Ma quando abbiamo saputo la loro ori-
gine abbiamo deciso di ridare loro la libertà.»
«Questa è una miserabile bugia» esclamò Sharadim, tornando a sedere
sul trono. «Quando mai le Donne Fantasma si sono preoccupate di infor-
marsi dell'origine dei loro schiavi? È una congiura, nata tra nobili ribelli e
nemici stranieri e avente lo scopo di screditarmi per indebolire il Draa-
chenheem...»
«Ribelli?» chiese il principe Ottro, scendendo alcuni scalini, fino a por-
tarsi davanti a me. «E scusate, signora, contro chi ci ribelleremmo? La vo-
stra autorità è puramente cerimoniale, no? E, se non lo fosse, perché non
rivelate questo particolare?»
«Parlavo di traditori comuni» ribatté lei. «Contro il nostro Regno e tutte
le sue nazioni. Non sono scomparsi a causa di un arresto, ma perché cerca-
vano alleanza con le donne del Gheestenheem. Sono loro a voler corrom-
pere le nostre tradizioni. Sono loro a cercare il potere per dominare tutti gli
altri.»
La faccia di Sharadim era il ritratto della virtù offesa. La sua pelle chiara
pareva brillare di onestà e i suoi grandi occhi azzurri non erano mai parsi
più innocenti.
«Sono stata scelta come Imperatrice del Regno» proseguì «dietro sugge-
rimento di vari baroni e principi ereditari. Se la cosa deve portare dissensi
anziché dare nuova unità al Draachenheem, sarò io la prima a rifiutare l'o-
nore...»
Tra i presenti, ci furono numerose grida di approvazione; altri gridarono
a Sharadim di lasciarci perdere.
«Questa donna ha ingannato l'intero Regno» proseguì Ottro. «Porterà la
rovina e la più nera disperazione a tutti noi, lo so. È una maestra d'inganni.
Vedete questo ragazzo?» Si girò verso il giovane Federit Shaus e gli disse
di avvicinarsi. «Molti di voi l'avranno riconosciuto. Un cavaliere alle di-
pendenze del principe Flamadin. Ha visto la principessa Sharadim avvele-
nare il vino con cui intendeva assassinare il fratello. Ha visto cadere il
principe...»
«Io avrei assassinato mio fratello?» chiese Sharadim, fissando con stu-
pore i nobili raccolti attorno a lei. «Assassinato? Non capisco. Non diceva-
te che quest'uomo è il principe Flamadin?»
«Sono io.»
«E siete stato assassinato, signor mio?»
Molti risero, nella sala.
«Il tentativo è fallito, signora.»
«Non ho ucciso il principe Flamadin. Il principe è stato esiliato perché
ha cercato di uccidermi. Tutto il mondo lo sa. Tutt'e Sei i Reami lo sanno.
Molti pensano che avrei dovuto farlo giustiziare. Molti mi giudicano trop-
po indulgente. Se questo è il principe Flamadin ritornato dall'esilio, allora
ha infranto la legge e deve essere arrestato.»
«Principessa Sharadim» dissi io. «Avete fatto un po' troppo in fretta a
darmi dell'impostore. Sarebbe stato più normale pensare che fossi Flama-
din ritornato al palazzo.»
«Mio fratello aveva le sue debolezze, signore, ma non è mai stato uno
sciocco!»
Altre approvazioni e altre risate da parte della folla. Ma una parte dei
presenti cominciava ad avere qualche dubbio.
«Non è così che si deve fare» esclamò il vecchio con la coroncina di
conchiglie. «Come Maestro ereditario delle Cerimonie, devo usare la mia
autorità in questa disputa. Tutto dovrà essere risolto in accordo alla legge.
Ciascuno deve avere la possibilità di parlare. Basterà un giorno, ne sono
certo, per ascoltarvi tutti. E allora, se tutto sarà in ordine, l'incoronazione
potrà avere luogo. Che ne dite, vostra maestà? E voi, signori e signore? Se
vogliamo che tutti siano soddisfatti, convoco un'udienza. In questa sala, al-
l'ora di metà pomeriggio.»
Sharadim non poteva rifiutarsi; quanto a noi, era meglio di quanto non
avessimo sperato. Accettammo subito.
«Sharadim!» esclamai. «Mi concedi un'udienza privata? Tu e tre compa-
gni di tua scelta. Io e tre dei miei?»
Lei ebbe qualche istante di esitazione, guardò da un lato della sala come
per cercare consiglio. Poi annuì.
«Nell'anticamera, tra mezz'ora» rispose. «Ma non riuscirete a convin-
cermi, signore di essere il fratello esiliato. Non penserete che sia disposta
ad accettarvi come sangue del mio sangue?»
«Allora, che cosa sono, signora, un fantasma?»
Senza muovermi dal mio posto, aspettai che lei e le sue guardie lascias-
sero la sala, in un turbinare di sete colorate e di metallo lucido, mentre il
Maestro delle Cerimonie ci fece segno di seguirlo in direzione di un'altra
porta, fino a una camera tranquilla, illuminata da un'unica finestra tonda,
posta all'altezza del soffitto. Chiuse la porta, poi trasse un sospiro di sollie-
vo.
«Principe Ottro» disse «temevo che vi avessero assassinato. E anche voi,
principe Flamadin. Di tanto in tanto abbiamo udito sgradevoli voci. Quan-
to a me, le vostre parole di oggi non fanno che confermare i miei preceden-
ti sospetti. Non uno dei nobili che hanno votato per eleggerla Imperatrice
appartiene al tipo di persone che inviterei volontariamente a casa mia. Tut-
ta gente ambiziosa, interessata e vana, che si crede di meritare un potere
superiore a quello di cui dispone. Ed è quello che Sharadim deve avergli
offerto.
«Naturalmente ci sono altre persone, più disinteressate, che la seguono
per normale - benché malinteso - idealismo. La vedono come una sorta di
divinità in terra, come una personificazione delle loro speranze e dei loro
sogni. Ho l'impressione che la bellezza abbia molto a che fare con il suo
successo. Tuttavia non occorrevano le vostre drammatiche dichiarazioni di
oggi per convincermi che siamo a un passo dalla completa tirannia. Già
Sharadim comincia a parlare, anche se in modo suadente, di come i Regni
vicini siano invidiosi della nostra ricchezza, della necessità di adottare
maggiori difese e così via.»
«Gli uomini tendono sempre a sottovalutare le donne» disse Alisaard,
con un tono di soddisfazione nella voce «e questo, a volte, permette loro di
raccogliere assai più potere di quanto non si immaginino i maschi. L'ho
notato nei mie studi di storia, e nei miei viaggi tra i Regni.»
«Credetemi, signora, io non la sottovaluto affatto» commentò il Maestro
delle Cerimonie, facendoci segno di sedere al lungo tavolo di noce. «Ri-
corderete, principe Flamadin, che vi avevo avvertito di adottare maggiore
cautela. Ma non eravate disposto a credere ai progetti di vostra sorella, alla
sua perfidia. Lei vi trattava come un figlio viziato, un po' scapestrato, e
non come un fratello. E questo vi permetteva di correre qua e là in cerca di
avventure, mentre lei gradualmente si procurava altri alleati. Anche a quel
punto, però, non avreste immaginato il livello della sua malvagità se non
avesse perso la pazienza e non vi avesse ordinato di sposarla per consoli-
dare la sua posizione. Ha pensato di potervi controllare, o almeno di poter-
vi mantenere a una buona distanza dalla corte. Invece, voi vi siete opposto.
Vi siete opposto alle sue ambizioni, ai suoi metodi, alla sua stessa filosofi-
a. Lei ha cercato di convincervi, lo so. Poi che cosa è successo?»
«Ha cercato di uccidermi» risposi.
«E ha messo in giro la voce che eravate stato voi a cercare di assassinar-
la. Che vi opponevate alle nostre idee e alle nostre tradizioni. È come se in
lei si fosse reincarnata Sheralian, regina del Valadek, che di tanto in tanto
riempiva il lago col sangue di coloro che considerava ostili. Avevo già in-
dovinato gran parte di quanto avete detto oggi, ma non avevo capito la sua
intenzione di rimettere la vostra dinastia sul trono del Draachenheem. E
avete detto che cerca aiuto dal Caos? Il Caos non è più entrato nei Sei Re-
gni dall'epoca della Guerra degli Stregoni, più di mille anni fa. È chiuso
nel mezzo, nel Regno dell'Incubo. Abbiamo giurato di non lasciarlo più
uscire.»
«Ho saputo che è già in comunicazione con l'arciduca Balarizaaf del Ca-
os. Ha cercato il suo aiuto per realizzare le proprie ambizioni.»
«E quale potrà essere il prezzo dell'arciduca, mi chiedo?» Il Maestro del-