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David Gemmell

IL LEONE DI MACEDONIA

Romanzo
1990 by David A. Gemmell

Titolo originale: Lion of Macedon

Traduzione di Annarita Guarnieri


La storia di Lion of Macedon è nata su
un’isola della Grecia, all’ombra di un’acro-
oli in rovina e sotto le mura di una fortezza
costruita dai cavalieri crociati. Le prime idee
sono affiorate in una baia che si dice abbia
offerto riparo a San Paolo durante il suo
viaggio verso Roma: Lindos, sull’isola di
Rodi, è un luogo di tranquilla bellezza e di
grande fascino, e la gente che vi abita
rispecchia tali qualità.
Questo romanzo è dedicato con grande
affetto alle persone che hanno reso il mio
viaggio a Lindos un’esperienza piena di ma-
gia: a Vasilis ed a Tsambika del Flora’s Bar,
a «Crispy» ed a «Jax», a Kate e ad Alex.
Ed a Brian Gorton ed alla sua adorabile
moglie Kath, per avermi donato gli «Occhi».

Ringrazio il mio curatore Liza Reeves, il revisore di bozze Jean Maund ed i lettori
campione Val Gemmell, Edith Graham, Tom Taylor ed il «giovane Jim della Penguin», che
mi ha costretto a riscrivere tutto da cima a fondo. Speciali ringraziamenti a Stella Graham,
che ha frugato fra decine di massicci volumi alla ricerca di ispirazione ed a Paul Henderson,
che ha vagliato il manoscritto per controllarne l’accuratezza storica.
PREFAZIONE DELL’AUTORE

Il mondo degli antichi Greci era fatto di tumulti e di guerre, di intrighi e di tradimenti.
Non esisteva una nazione greca e la terra divisa era governata da decine di città stato che
lottavano continuamente per ottenere il predominio.
Per secoli le grandi città di Atene e di Sparta lottarono sulla terra e sul mare per
accaparrarsi il diritto di diventare le dominatrici della Grecia, e nel corso di quelle guerre
Tebe, Corinto, Orcomeno, Platea... tutte queste città cambiarono fazione più volte e la
Vittoria volò da uno schieramento all’altro, sempre una sgualdrina che proseguiva per la sua
strada con dolci promesse che non era intenzionata a mantenere.
Le guerre greche erano finanziate dalla Persia, timorosa che una Grecia unificata potesse
cercare di dominare il mondo. Nel tempo i Persiani divennero sempre più ricchi, il loro
impero fiorì nell’Asia e nell’Egitto, il loro potere si fece sentire in ogni città del mondo
civilizzato, e tuttavia essi continuarono a seguire con occhio attento gli eventi della Grecia,
perché due volte avevano invaso il suo territorio e due volte avevano riportato spaventose
sconfitte.
Gli Ateniesi e i loro alleati avevano schiacciato infatti l’esercito di Dario sul campo di
Maratona, e in reazione a questo il figlio di Dario, Serse, aveva raccolto un enorme esercito
che ammontava a più di un quarto di milione di uomini per sottomettere la Grecia una volta
per tutte.
Un piccolo contingente spartano aveva bloccato loro il cammino al passo delle
Termopili, trattenendoli per giorni, e anche se alla fine i Persiani erano riusciti a passare e a
saccheggiare Atene, devastando le terre circostanti, erano poi stati sconfitti in maniera
definitiva in due battaglie. Sulla terraferma cinquemila Spartani guidati dal generale
Pausania avevano inflitto un’umiliante sconfitta alle orde persiane, mentre sul mare l’ammi-
raglio ateniese Temistocle aveva distrutto la loro flotta a Salamina.
Da allora la Persia non aveva più tentato di invadere la Grecia, cercando invece di
governarla con gli intrighi.
Gli eventi descritti in Lion of Macedon (cioè la presa della Cadmea, le battaglie alle
Termopili, a Leuctra e ad Heraclea Lincestis) hanno tutti fondamenti storici e i personaggi
principali (Parmenion, Senofonte, Epaminonda e Filippo il Macedone) hanno tutti calpestato
quelle antiche montagne e pianure, seguendo le rispettive strade fatte di onore, di lealtà e di
dovere.
La vicenda di Lion of Macedon è però stata creata da me, perché la storia ufficiale ha
praticamente dimenticato Parmenion, tanto che nessuno è in grado di stabilire se sia stato il
re dei Pelagoni, un avventuriero macedone o un mercenario della Tessaglia.
Quale che sia la verità, io spero però che la sua ombra sorriderà nella Sala degli Eroi
quando questa storia arriverà fino a lui.

David A. Gemmell
Hastings 1990
LIBRO PRIMO

Gli ateniesi sono un popolo meraviglioso. Eleggono dieci nuovi generali ogni
anno. In tutta la mia vita io ne ho conosciuto soltanto uno… Parmenion.

Filippo II di Macedonia
PRIMAVERA, 389 A.C.

Tutto cominciò a causa del morboso desiderio di conoscere il giorno della


propria morte. Percorse gli illimitati sentieri del futuro, seguendo la miriade di
linee che portavano ai possibili domani, scoprendo che in alcuni futuri era morta di
malattia o di una pestilenza, in altri di un attacco cardiaco o di un assassinio. In uno
in particolare era caduta da cavallo, anche se cavalcare le riusciva tanto sgradevole
che non riusciva a immaginare come avessero potuto persuaderla a montare su
quella bestia.
Mentre seguiva senza uno scopo preciso tutte quelle possibili alternative, si
accorse però di un’ombra scura al limitare estremo del suo ultimo domani: in
qualsiasi modo lei morisse, l’ombra era costantemente presente, e questo aveva
cominciato a tormentarla. Con tutte le migliaia di futuri che esistevano, com’era
possibile che quell’ombra ci fosse sempre? Con esitazione, si mosse oltre i giorni
della sua morte e vide i futuri espandersi e allargarsi. Adesso l’ombra era più forte,
la sua malvagità addirittura palpabile, e in un momento che la spinse oltre i confini
del terrore lei si rese conto che l’ombra stava a sua volta acquistando
consapevolezza della sua presenza.
Tamis non era però priva di coraggio: facendosi forza, scelse un sentiero e volò
dritta verso il cuore dell’ombra, avvertendo il potere del Dio Oscuro che le
penetrava nell’anima come un acido. Non riuscì a mantenere a lungo la sua
presenza là e ben presto tornò alla sicurezza transitoria offerta dalla concretezza del
presente.
Da allora ciò che aveva scoperto divenne un terribile peso che opprimeva di
continuo l’anziana sacerdotessa, perché sapeva di non poterlo dividere con nessuno
ed era al tempo stesso consapevole che il momento più critico... quello in cui
sarebbe divenuto necessario affrontare il male... sarebbe giunto soltanto dopo la
sua morte.
Si mise allora a pregare con maggiore intensità di quanto avesse mai fatto,
lasciando che i suoi pensieri vorticassero nel cosmo; un’oscurità crebbe nella sua
mente e in essa brillò una singola luce che le permise di scorgere un volto segnato
ma forte, dai lineamenti aquilini e dai penetranti occhi azzurri sovrastati da un
elmo di ferro. Il volto si fece indistinto fino a scomparire e fu rimpiazzato da quello
di un ragazzo, ma gli occhi rimasero di un azzurro intenso e la bocca continuò ad
essere serrata in una linea decisa. Poi un nome affiorò in lei... ma era quello di un
salvatore o di un distruggitore? Tamis non poteva saperlo, poteva soltanto sperare
mentre quel nome le echeggiava nella mente come un tuono lontano.
Parmenion!
SPARTA, ESTATE, 385 A.C.

Lo aggredirono emergendo silenziosamente dall’ombra, con il volto mascherato


da un cappuccio e i bastoni di legno sollevati.
Parmenion saettò verso sinistra... ma altri due assalitori corsero a bloccargli la
strada e un randello gli passò sibilando accanto alla testa, sfiorandogli la spalla; per
tutta risposta il suo pungo calò contro il volto mascherato e lui deviò verso destra,
spiccando la corsa in direzione della Strada del Commiato, dove i freddi occhi di
marmo della statua di Atena parvero abbassare lo sguardo su di lui e attirarlo verso
la dea. Parmenion balzò sulla base della statua e si arrampicò fino ad addossarsi
alle sue gambe di pietra.
– Vieni giù! Vieni giù! – cantilenarono i suoi tormentatori. – Abbiamo qualcosa
per te, mezzosangue!
– Allora venite quassù a darmelo! – ribatté lui.
I cinque assalitori scattarono in avanti di corsa: il piede di Parmenion raggiunse
il primo di essi alla faccia, gettandolo indietro, ma la tempo stesso un randello gli
calò sulla gamba e gli fece perdere l’equilibrio; rotolando su se stesso, Parmenion
sferrò un altro calcio che buttò a terra un assalitore, poi si rialzò e superò gli
avversari con un salto, atterrando pesantemente sulla strada. Un randello lanciato
da qualcuno lo colpì fra le scapole, facendolo barcollare, e immediatamente i suoi
tormentatori gli furono addosso, bloccandogli le braccia.
– Ora ti teniamo – disse una voce, soffocata dalla sciarpa di lana che copriva la
bocca.
– Non hai bisogno della maschera, Gryllus – sibilò Parmenion. – Ti riconosco
dall’odore.
– Non ti presenterai alla finale di domani – ingiunse un’altra voce. – Hai
capito? Non avrebbero mai dovuto permetterti di partecipare. I Giochi del Generale
sono per gli Spartani, non per i mezzosangue.
Parmenion si rilassò, assumendo un atteggiamento sottomesso e chinando il
capo... ma non appena la stretta intorno alle sue braccia si allentò lui si liberò con
uno strattone e sferrò un pugno contro la faccia di Gryllus. Gli altri gli furono
subito addosso con i pugni e con i piedi fino a ridurlo in ginocchio, poi Gryllus lo
risollevò per i capelli mentre gli altri tornavano a bloccargli le braccia.
– Sei stato tu a chiederlo – dichiarò, traendo indietro il pugno.
Il dolore esplose lungo la mascella di Parmenion, che si accasciò contro coloro
che lo trattenevano mentre i colpi continuavano a piovere su di lui... corti e
possenti ganci al ventre e alla faccia.
Parmenion però non lanciò un solo grido.
Non sento dolore, disse a se stesso. Io non sento dolore.
– Cosa succede laggiù?
– È la guardia notturna! – sussurrò uno dei suoi tormentatori.
Abbandonando la stretta intorno alle sue braccia i cinque fuggirono in un vicolo
e Parmenion cadde al suolo rotolando su se stesso, sovrastato dalla silenziosa
statua di Atena dei Viandanti. Mentre si sollevava in piedi barcollando e gemendo,
due soldati corsero verso di lui.
– Cosa ti è successo, ragazzo? – chiese il primo, stringendogli una spalla.
– Sono caduto – rispose lui, liberandosi con una scrollata dalli mano del soldato
e sputando un po’ di sangue.
– E devo supporre che i tuoi amici ti stessero aiutando a rialzarti? – ribatté
l’uomo, con un grugnito. – Perché non prosegui con noi per un po’?
– Non ho bisogno di scorta – rifiutò Parmenion.
– Sono ancora nel vicolo – lo avvertì a bassa voce il soldato, fissando i suoi
chiari occhi azzurri.
– Non ne dubito – rispose Parmenion, – ma non mi coglieranno di nuovo alla
sprovvista.
Non appena i soldati si furono allontanati Parmenion trasse un profondo respiro
e cominciò a correre, infilandosi nei vicoli e deviando a destra e a sinistra in modo
da puntare sempre verso la piazza del mercato. Per un po’ sentì gli inseguitori che
gli venivano dietro, poi però rimase soltanto il silenzio della notte.
Gli altri ragazzi si sarebbero aspettati che lui si dirigesse verso gli
alloggiamenti o verso la casa di sua madre, ma non avrebbe fatto nessuna delle due
cose. Invece, attraversò di corsa il mercato deserto e proseguì verso il santuario
collinare che dominava la città.
Vicino alla statua di Atena, una vecchia emerse dall’ombra sotto la luce della
luna, appoggiandosi ad un lungo bastone, e con un profondo sospiro si adagiò su
un sedile di marmo... stanca nel corpo e con la mente sfiorata dal rammarico.
– Mi dispiace, Parmenion – disse. – Sei forte, ma io ti devo rendere di ferro
perché sei un uomo segnato dal destino.
Pensò quindi agli altri ragazzi degli alloggiamenti: quanto era facile indurli ad
odiare il mezzosangue con un semplice incantesimo... guarire un foruncolo
richiedeva una maggiore energia psichica che incoraggiare l’odio, un pensiero
amaro che le strappò un brivido.
Sollevando lo sguardo verso la statua, vide gli occhi di marmo che la fissavano.
– Non essere così altezzosa – sussurrò. – Io conosco il tuo vero nome, donna di
pietra, conosco le tue debolezze e i tuoi desideri, ed ho più potere di te.
Si issò quindi lentamente in piedi, e in quel momento un volto le affiorò nella
mente, inducendola a sorridere. Nonostante i suoi incantesimi, Parmenion aveva un
amico, un ragazzo impervio all’odio, e anche se la cosa andava contro i suoi piani,
lei la trovava stranamente confortante.
– Dolce Hermias – mormorò. – Se tutti gli uomini fossero come te il mio lavoro
non sarebbe necessario.

Parmenion sedette su una roccia per attendere l’alba, con il ventre contratto
dalla fame ma la mascella troppo dolorante per masticare il pane stantio che aveva
conservato dalla colazione del giorno precedente. Il sole sorse lentamente sulle
rosse colline della catena di Parnon e le acque del fiume Eurota scintillarono vive
sotto i suoi raggi, il cui calore toccò anche il corpo di Parmenion, strappandogli un
brivido involontario. L’addestramento spartano insegnava ad un uomo a ignorare il
dolore, a chiudere la mente al freddo o al caldo, cose che lui era riuscito ad
assimilare in grande misura... ma adesso il ritrovato calore del sole servì soltanto a
ricordargli quanto avesse avuto freddo durante quella lunga notte trascorsa
nascosto sul santuario collinare al di sopra della città.
La statua di Zeus, il padre celeste... una figura maestosa e barbuta alta quasi
quattro metri... contemplava le terre ad ovest della città, dando l’impressione di
scrutare il monte Ilias. Rabbrividendo ancora una volta, Parmenion staccò con
esitazione un morso di pane nero, soffocando un gemito quando una fitta di dolore
gli attraversò la mascella... il pugno di Gryllus era stato violento e lui, trattenuto
com’era, non aveva potuto lasciarsi andare all’indietro per attutirne l’impatto.
Infilandosi un dito in bocca, scoprì che un dente si era allentato e riprese a
mangiare con maggiore cautela, staccando il pane a piccoli pezzi e masticandolo
con il lato destro della bocca. Quando ebbe finito quella misera colazione, si alzò
in piedi: il fianco sinistro gli doleva, quindi sollevò il chitone per esaminare la zona
e scoprì un livido purpureo e una chiazza di sangue sopra il fianco.
Accennò a stiracchiarsi, poi si immobilizzò nel sentire qualcuno che si
muoveva su per il Sentiero Scosceso e si affrettò a ripararsi dietro il marmoreo
Santuario delle Muse, accoccolandosi per aspettare chi stava arrivando con il cuore
che gli pulsava con violenza mentre raccoglieva una scheggia di marmo affilata
come la lama di un’ascia: se lo avessero aggredito ancora qualcuno sarebbe morto.
Nel suo campo visivo entrò la figura avvolta in una tunica azzurra di un
ragazzo snello con i ricci capelli scuri e le folte sopracciglia, e nel riconoscere in
lui Hermias, il suo unico amico, Parmenion si sentì sopraffare dal sollievo.
Lasciata cadere la pietra si issò stancamente in piedi e non appena lo vide Hermias
gli corse incontro, afferrandolo per le spalle.
– Oh, Savra, amico mio, quanto ancora dovrai soffrire?
– La giornata di oggi vedrà la fine dei miei problemi... forse – replicò
Parmenion, costringendosi a sorridere.
– Soltanto se perderai, Savra... e devi perdere, perché altrimenti potrebbero
ucciderti. Temo che lo faranno! – esclamò Hermias, fissando i chiari occhi azzurri
del suo amico senza però scorgere in essi traccia di compromesso. – Non hai
intenzione di perdere, vero? – concluse, con tristezza.
– Forse... se Leonida sarà più abile e se i giudici lo favoriranno – replicò
Parmenion, scrollando le spalle.
– È ovvio che lo favoriranno. Gryllus dice che Agisaleus verrà ad assistere...
pensi che i giudici permetteranno che il nipote del re venga umiliato?
– Dal momento che le cose stanno così, perché sei preoccupato? – domandò
Parmenion, posando una mano sulla spalla dell’amico. – Perderò, e sarà finita...
però non intendo giocare per perdere.
Hermias si sedette ai piedi della statua di Zeus e tirò fuori due mele dalla sacca
che portava alla cintura, porgendone una a Parmenion che l’addentò con cautela.
– Perché sei tanto cocciuto? – gli chiese. – Si tratta del tuo sangue macedone?
– E perché non del mio sangue spartano, Hermias? Nessuno di questi due
popoli è noto per la sua propensione a cedere terreno.
– Non intendevo offenderti, Savra, e tu lo sai.
– No, tu non lo faresti mai – convenne il giovane più alto, prendendo la mano
dell’amico. Però rifletti su questo... mi chiami Savra, lucertola, e pensi a me come
ad un barbaro mezzosangue.
Hermias si ritrasse con espressione ferita.
– Sei mio amico – protestò.
– Non si tratta di questo, Hermias, e la tua non è una risposta accettabile. Non
puoi fare a meno di essere quello che sei... uno Spartano purosangue che discende
da una linea di eroi che risale a molto tempo prima delle Termopili. Tuo padre
stesso ha marciato cori Lisandro e non ha mai conosciuto la sconfitta.
Probabilmente hai degli amici fra gli iloti e le altre classi di schiavi, ma continui a
vederli comunque come schiavi.
– Anche tu hai avuto un padre spartano che è tornato in patria sul suo scudo,
con tutte le ferite sul petto – insistette Hermias. – Anche tu sei uno Spartano.
– Ma ho una madre macedone – gli ricordò Parmenion, mentre si toglieva la
tunica, sussultando nel protendere le braccia sopra la testa: il suo corpo magro era
segnato da lividi e tagli, il ginocchio destro si era gonfiato e anche il volto
angoloso appariva ammaccato, con l’occhio destro quasi chiuso. – Questi sono i
segni che porto a causa del mio sangue. Quando mi hanno prelevato dalla casa di
mia madre avevo appena sette anni e da quel giorno ad oggi non ho mai visto
sorgere il sole su un corpo che non fosse segnato da qualche ferita.
– Anch’io ho riportato dei lividi – gli ricordò Hermias. – Tutti i ragazzi spartani
devono soffrire... altrimenti non ci sarebbero uomini spartani e noi non saremmo
più il popolo preminente. Però ho capito cosa intendi dire, Sav... Parmenion. Pare
che Leonida ti odi... e senza dubbio è un nemico potente... ma potresti andare da lui
e chiedergli di servirlo, così queste cose cesserebbero.
– Mai! Riderebbe di me e mi getterebbe in strada.
– Potrebbe farlo, ma anche così le persecuzioni finirebbero.
– Tu lo faresti se fossi al mio posto?
– No.
– E allora perché dovrei farlo io? – sibilò Parmenion, fissando sul volto
dell’amico lo sguardo dei suoi occhi chiari.
– Sei duro con me, Parmenion – sospirò Hermias, – però hai ragione. Ti amo
come un fratello e tuttavia non ti vedo come uno Spartano. Lo faccio dentro la mia
testa, ma nel mio cuore...
– E allora perché dovrebbero accettarmi gli altri, che non sono miei amici?
– Dacci tempo... danne a tutti noi. Comunque sappi questo: qualsiasi cosa tu
scelga di fare io ti sarò accanto – promise Hermias, in tono sommesso.
– È una cosa di cui non ho mai dubitato. Ora chiamami Savra... venendo da te
ha un suono piacevole.
– Sarò al tuo fianco durante la competizione e pregherò Atena dei Viandanti per
la tua vittoria – promise Hermias, sorridendo. – Ora dimmi, vuoi che resti qui con
te?
– No... ma grazie lo stesso. Mi fermerò per un po’ con Padre Zeus, rifletterò e
pregherò. Ci vedremo alla casa di Senofonte tre ore prima di mezzogiorno per la
competizione. Hermias annuì e si allontanò; Parmenion lo osservò andare via, poi
riportò la propria attenzione sulla città.
Sparta, la patria di eroi, il luogo di nascita dei migliori guerrieri che avessero
mai calpestato la verde terra. Da qui, meno di un secolo prima, il leggendario re
guerriero era partito per il Passo delle Termopili con trecento guerrieri e settecento
iloti, fronteggiando con quel piccolo contingente un esercito di Persiani che
contava oltre un quarto di milione di uomini.
E tuttavia gli Spartani avevano resistito, respingendo il nemico, fino a quando il
re persiano Serse aveva mandato in campo i suoi Immortali: diecimila fra i migliori
guerrieri che la Persia era in grado di trovare nel suo grande impero, perfettamente
addestrati. E gli Spartani li avevano umiliati... Parmenion sentì il cuore che gli si
gonfiava di orgoglio nell’immaginare quegli uomini dall’espressione cupa con i
loro elmi di bronzo che coprivano tutta la faccia, i loro mantelli rossi come il
sangue e le spade lucenti. La potenza della Persia... la nazione più potente del
mondo... si era infranta sulle spade di trecento Spartani. Parmenion si girò verso
sudest dove, ora nascosto alla vista, si levava il monumento al re che era morto alle
Termopili. Traditi da un Greco, gli Spartani erano stati circondati e massacrati.
Quando il tradimento era stato scoperto, il re era stato incitato dagli alleati a
fuggire, e le sue parole di risposta si erano incise nel cuore di tutti gli Spartani:
«Uno Spartano lascia il campo impugnando lo scudo... o disteso su di esso. Non ci
sarà ritirata.» A Parmenion sembrava ironico che il suo più grande eroe e il suo
peggiore nemico dovessero avere in comune la stessa discendenza e lo stesso
nome... Leonida... e a volte si chiedeva se il re della leggenda fosse stato crudele
quanto il ragazzo che ne portava il nome, sperando che non fosse stato così.
Arrampicatosi sul punto più alto dell’acropoli, abbassò lo sguardo sull’abitato
che sorgeva in cerchio intorno alla collina: in esso abitavano meno di trentamila
persone, e tuttavia Sparta era temuta dall’Arcadia all’Asia Minore, da Atene
all’Illiria. Nessun esercito spartano era mai stato sconfitto in una battaglia da un
nemico ad esso pari numericamente e i fanti spartani... gli opliti... valevano
ciascuno quanto tre Ateniesi, cinque Tebani, dieci Corinti e venti Persiani... cifre
che venivano inculcate nella mente dei bambini spartani e che essi ricordavano con
orgoglio.
I Macedoni non erano neppure ritenuti degni di essere inseriti in quella
classifica: barbari e indisciplinati al punto che non erano quasi considerati Greci,
essi erano divisi in tribù collinari dalla scarsa cultura, tranne quella che rubavano a
chi era migliore di loro.
– Io sono uno Spartano – mormorò Parmenion. – Non sono un Macedone.
La statua di Zeus continuava a fissare il lontano Monte Ilias; mentre la
guardava Parmenion ebbe l’impressione che le sue parole suonassero vacue e il
ricordo della conversazione avuta pochi minuti prima con Hermias gli strappò un
sospiro.
– Sei duro con me, Parmenion – aveva sospirato Hermias, – però hai ragione.
Ti amo come un fratello e tuttavia non ti vedo come uno Spartano. Lo faccio dentro
la mia testa, ma nel mio cuore...
– E allora perché dovrebbero accettarmi gli altri, che non sono miei amici?
Da bambino, Parmenion aveva avuto ben pochi problemi con i suoi coetanei ma
dall’età di sette anni, quando tutti i bambini venivano prelevati dalla casa dei
genitori e trasferiti negli alloggiamenti per essere addestrati come guerrieri, lui
aveva cominciato a soffrire il tormento derivante dal proprio sangue impuro. Era
stato là che Leonida... che portava il nome del glorioso re del passato... aveva
iniziato a deriderlo, pretendendo che si inchinasse davanti a lui come si addiceva
all’appartenente a una razza di schiavi. Per tutta risposta Parmenion gli si era
scagliato contro cercando di colpire con i pugni il volto del bambino più grande,
ma Leonida gli aveva inflitto una dolorosa battuta... quella volta e molte altre in
seguito. La cosa peggiore era che Leonida apparteneva ad una nobile famiglia
spartana, per cui molti altri ragazzi degli alloggiamenti cercavano di ottenere i suoi
favori, il che aveva fatto di Parmenion un fuoricasta scacciato e odiato da tutti
tranne che da Hermias... perfino Leonida non si poteva rivoltare contro di lui,
perché era figlio di Parnas, un amico del re.
Per otto anni Parmenion aveva sopportato i colpi e gli insulti, convinto che un
giorno avrebbe visto gli altri considerarlo finalmente un fratello spartano, e la
giornata di oggi avrebbe dovuto segnare quel suo tanto atteso trionfo. Nei Giochi
del Generale aveva avuto infatti un successo che era andato oltre tutti i suoi sogni,
arrivando addirittura alla finale... ma fra tutti i giovani di Sparta gli era toccato
avere come diretto avversario proprio Leonida.
Come Hermias aveva cercato di dirgli, quella vittoria gli avrebbe portato
soltanto altra sofferenza, e tuttavia lui non poteva... non voleva... prendere in
considerazione la possibilità di giocare per perdere. Ogni anno i Giochi del
Generale erano il punto culminante del calendario degli apprendisti guerrieri dei
molti alloggiamenti di Sparta, perché il vincitore avrebbe indossato la corona di
lauro e stretto il Bastone della Vittoria, sarebbe stato lo stratega... il maestro!
Il Gioco prevedeva la contrapposizione di due eserciti e i contendenti agivano
da generali, impartendo ordini e scegliendo le formazioni. I soldati erano figure
intagliate nel legno per cui non c’era spargimento di sangue e non c’erano morti; le
perdite venivano decise da due giudici che per farlo si servivano di dadi numerati.
Raccolto un bastone, Parmenion tracciò un rettangolo nella polvere,
immaginando la falange spartana, oltre mille guerrieri con gli scudi congiunti e le
lance tenute pronte: quello era il contingente principale del gioco, nel quale la
cavalleria veniva per seconda. Alla sua destra abbozzò quindi il disegno di un
secondo blocco, quello degli Sciriti, vassalli di Sparta che combattevano accanto ai
loro signori. Uomini resistenti, duri e spietati, gli Sciriti non avevano però mai il
permesso di prendere posto in prima fila in una battaglia perché non erano
Spartani... e di conseguenza erano quasi subumani.
Questo era dunque il suo esercito... tremila uomini formati dalla fanteria e dalla
cavalleria spartana e dalle riserve degli Sciriti. Leonida avrebbe avuto il comando
di un contingente identico al suo.
Chiudendo gli occhi, ricordò la finale dell’anno precedente, che aveva avuto
luogo negli Alloggiamenti Menelao: la battaglia era durata due ore e molto prima
della sua conclusione Parmenion si era annoiato e si era allontanato verso il
mercato. Si era infatti trattato di uno scontro di attrito, in cui entrambe le falangi
erano impegnate direttamente una contro l’altra, mentre i giudici continuavano a
lanciare i dadi e a rimuovere contendenti dalla lotta, fino a quando infine l’esercito
Bianco aveva avuto la meglio sul Rosso.
Osservando la cosa, Parmenion era giunto alla conclusione che si trattava di
una fatica inutile: a cosa serviva una vittoria del genere se alla conclusione il
vincitore si ritrovava con meno di cento uomini a sua disposizione? Nella vita reale
un condottiero del genere sarebbe stato facilmente sopraffatto da un secondo
contingente nemico.
Una battaglia non doveva essere combattuta in quel modo.
Lo scontro di oggi sarebbe però stato diverso: che lui avesse vinto o perso, tutti
lo avrebbero ricordato. Lentamente, Parmenion cominciò ad abbozzare le
formazioni, a riflettere e a pianificare, ma nel frattempo la sua mente prese a
vagare e lui si trovò a ripensare alla Grande Corsa di tre settimane prima. Aveva
previsto tutto, si era addestrato e aveva sognato di portare sulla fronte la corona di
alloro del vincitore.
La Grande Corsa si snodava per trenta chilometri sotto il massacrante sole
estivo, sulle pendici collinari e i pendii coperti di cespugli dei Monti Parnon: con le
gambe dolenti e i polmoni brucianti, tutti i giovani uomini di Sparta si
confrontavano in un’unica grande gara che costituiva la prova estrema della loro
forza e del loro coraggio giovanili.
Parmenion aveva distanziato tutti: Leonida, Nestus, Hermias, Learcus e i
migliori degli altri alloggiamenti. Tutti avevano mangiato la sua polvere e lottato
alle sue spalle per raggiungerlo e Leonida aveva retto meglio degli altri,
tallonandolo con cupa determinazione, ma a diciotto chilometri dalla meta era stato
spezzato dallo scatto finale di Parmenion.
A quel punto Parmenion si era diretto verso casa, conservando le ultime energie
per lo scatto fino all’agorà, dove il re attendeva con la corona di lauro della
vittoria.
Quando ormai la città si profilava in lontananza, bianca e accogliente, lui aveva
però incontrato un vecchio che tirava a mano il suo carretto lungo il Cammino dei
Soldati, ai piedi del bosco di olivi, e aveva visto con sgomento la ruota destra del
carro staccarsi e il veicolo inclinarsi rovesciando nella polvere ogni suo contenuto.
Rallentando il passo, aveva notato che il vecchio stava lottando per allentare un
cappio infilato nel moncone all’estremità del braccio destro... era un mutilato. Stac-
cando a fatica gli occhi dalla scena, Parmenion aveva continuato a correre.
– Aiutami, ragazzo! – aveva però chiamato il vecchio, e Parmenion aveva
ridotto l’andatura, voltandosi.
Leonida era molto indietro rispetto a lui e fuori dalla sua visuale... per un
momento aveva cercato di valutare quanto tempo aveva, poi aveva sceso di corsa il
pendio con un’imprecazione, i ingnocchiandosi accanto alla ruota: anche se era
crepata, aveva cercato lo stesso di rimetterla al suo posto, infilandola a forza
nell’assale, ma essa aveva retto per un momento soltanto, poi si era infranta in
parecchi pezzi. Il vecchio si era allora accasciato per terra accanto al carro, e
nell’incontrare il suo sguardo Parmenion vi aveva letto dolore, sconfitta e abbatti-
mento. La tunica dell’uomo era logora, con i colori da tempo lavati via dalle
piogge invernali e scoloriti dal sole, i suoi sandali erano sottili come pergamena.
– Dove stai andando? – gli aveva chiesto.
– Mio figlio vive in un insediamento ad un’ora da qui – aveva replicato il
vecchio, indicando verso sud, e nel guardare la pelle rugosa del suo raccio
Parmenion aveva notato che era segnata dalle cicatrici molte vecchie ferite
di spada.
– Sei uno Spartano? – aveva domandato.
– Uno Scirita.
Alzatosi in piedi, Parmenion aveva fissato il carretto, su cui erano ammucchiati
vasi e anfore, parecchie vecchie coperte e una corazza e un elmo di uno stile che
lui aveva visto dipinto soltanto su vasi e murali.
Ti aiuterò ad arrivare a casa – aveva detto infine.
– C’è stato un tempo, ragazzo, in cui non avrei avuto bisogno di aiuto.
– Lo so. Andiamo, io sosterrò l’assale se tu puoi tirare e dirigere il carretto.
Sentendo un rumore di piedi in corsa, Parmenion aveva sollevato lo sguardo nel
momento in cui Leonida lo oltrepassava correndo lungo la cresta della collina;
senza distogliere gli occhi e ricacciando indietro la propria delusione, aveva
afferrato l’assale e raddrizzato il carretto, poi il vecchio aveva preso il suo posto fra
le stanghe e insieme i due si erano avviati lentamente verso sud.
Era ormai il crepuscolo quando finalmente Parmenion aveva attraversato le
porte, trovando ad aspettarlo parecchi giovani degli alloggiamenti.
– Cosa ti è successo, mezzosangue? Ti sei perso? – lo avevano deriso.
– È più probabile che si sia disteso per riposare – aveva sogghignato un altro. –
Questi sanguemisti non hanno resistenza.
– Ultimo! Ultimo! Ultimo! – avevano cantilenato, mentre lui continuava la
corsa fino alla piazza del mercato, dove il suo istruttore degli alloggiamenti,
Lepidus, stava aspettando di contare i suoi ragazzi per riportarli à casa.
– Cosa ti è successo, nel nome dell’Ade? – gli aveva chiesto il soldato. – Gli
Alloggiamenti Licurgo avrebbero dovuto A conseguire la vittoria, invece siamo
arrivati sesti, grazie a te.
Parmenion non aveva detto nulla... cosa c’era infatti da dire?
Questo però apparteneva al passato, e il passato era morto. Sentendo i morsi
della fame, scese fino alla piazza del mercato e proseguì lungo la Strada del
Commiato fino agli alloggiamenti. Nella sala mensa, si mise in coda con gli altri
ragazzi degli Alloggiamenti Licurgo per ricevere la ciotola di zuppa e il pezzo di
pane nero, poi si sedette in disparte, solo, senza che nessuno gli rivolgesse la
parola. Leonida si trovava dalla parte opposta della sala, seduto con Gryllus e con
una dozzina di altri, e tutti finsero di non notarlo. Parmenion mangiò il suo pasto,
godendo della sensazione di avere lo stomaco pieno, poi se ne andò e si diresse alla
piccola casa di sua madre.
La trovò nel cortile, seduta sotto il sole, e lei sollevò lo sguardo con un sorriso.
Era spaventosamente pallida, con gli occhi infossati, e quando le sfiorò una spalla,
baciandola con dolcezza, le sue labbra toccarono le ossa sotto la pelle tesa e secca.
– Stai mangiando? – le chiese.
– Non ho appetito – sussurrò lei, – ma il sole mi fa bene, mi fa sentire viva.
Parmenion le andò a prendere un bicchiere d’acqua e sedette accanto a lei sulla
panca di pietra.
– La finale avrà luogo oggi? – volle sapere sua madre.
– Sì.
Lei annuì, e una ciocca di capelli scuri le cadde sulla fronte.
– Sei calda – osservò Parmenion, allontanando la ciocca con una carezza. –
Dovresti tornare dentro.
– Più tardi. Perché hai il viso ammaccato?
– Sono caduto durante una corsa. Sono stato goffo. Come ti senti?
– Stanca, figlio mio, molto stanca. Il re verrà alla casa di Senofonte per vederti
vincere?
– Ha detto che lo farà... ma potrei non vincere.
– È vero, è stato il mio orgoglio di madre a parlare. Però farai del tuo meglio, e
questo è sufficiente. Sei ancora popolare presso gli altri ragazzi?
– Sì.
– Tuo padre ne sarebbe stato contento, perché anche lui era popolare. Però non
è mai arrivato alla finale dei Giochi del Generale. Sarebbe stato così orgoglioso di
te.
– C’è qualcosa che posso fare per te? Posso portarti qualcosa da mangiare? –
domandò Parmenion, prendendole una mano e tenendola stretta, quasi cercasse con
la forza di volontà di infondere la propria energia nei fragili arti di lei.
– Non ho bisogno di nulla. Sai, negli ultimi giorni mi sono trovata a ripensare
alle foreste e alle pianure della Macedonia. Continuo a sognare un cavallo bianco
sul fianco di una collina: io sono seduta su un prato e il cavallo viene verso di me.
Desidero così tanto cavalcarlo, sentire il vento sulla faccia e fra i capelli. È un
cavallo alto, con un bel collo, ma mi sveglio sempre prima che mi raggiunga.
– Questi sono buoni presagi – osservò Parmenion. – Lascia che ti aiuti a
rientrare poi andrò a chiamare Rhea, che cucinerà per te. Devi mangiare, madre,
altrimenti non recupererai mai le forze.
– No, no, voglio restare seduta qui per un po’ per sonnecchiare al sole. Vieni da
me dopo il Gioco e raccontami tutto.
Per qualche tempo Parmenion le rimase accanto, ma sua madre appoggiò la
testa su un logoro cuscino e si addormentò. Entrato in casa, lui si lavò allora il
corpo dalla polvere e si pettinò i capelli neri, infilandosi quindi un chitone pulito e
il suo secondo paio di sandali. Il chitone non era ricamato ed era troppo piccolo per
lui, arrivandogli a stento a metà coscia, e vestito così si sentiva un ilota... uno
schiavo. Raggiunta la casa vicina, bussò quindi con le nocche contro l’intelaiatura
della porta e una donna di bassa statura con i capelli rossi venne fuori e gli sorrise
nel vederlo.
– Andrò io da lei – disse, prima ancora che lui aprisse bocca.
– Non credo che mangi a sufficienza – osservò Parmenion. – Diventa ogni
giorno più magra.
– Era prevedibile – osservò Rhea, con voce triste.
– No! – scattò Parmenion. – Adesso che è arrivata l’estate lei migliorerà. Lo so.
Senza attendere risposta spiccò quindi la corsa, oltrepassando gli alloggiamenti
e raggiungendo la Strada del Commiato per dirigersi verso la casa di Senofonte.

Nel giorno del Gioco, Senofonte si svegliò presto: il sole stava appena
superando i picchi orientali e i suoi lunghi e sottili raggi di luce attraversavano le
imposte incurvate della camera da letto. Rotolando su un fianco, Senofonte
gemette: gli faceva sempre piacere cenare con il re, ma come la vita spesso di-
mostrava tutti i piaceri andavano pagati e adesso lui aveva la testa che pulsava
dolorosamente e lo stomaco sottosopra. Tratto un profondo respiro si sollevò a
sedere, respingendo le sottili coltri e abbassando lo sguardo sul proprio torso: i
muscoli del ventre sviluppati e tesi smentivano i suoi quarantasette anni e la pelle
del corpo e del volto era abbronzata per i frequenti esercizi che lui effettuava nudo
sotto il sole del primo mattino.
Il generale si alzò e si stiracchiò davanti allo specchio di bronzo. La sua vista
non era più quella di un tempo e fu costretto ad avvicinarsi per osservare il proprio
riflesso, notando con disgusto la pelle che si accasciava un poco sotto gli occhi e le
strisce argentee che cominciavano ad apparire fra l’oro dei suoi capelli. Detestava
il processo dell’invecchiamento e temeva il giorno in cui gli amanti sarebbero
venuti a lui per dovere o per denaro e non per desiderio.
Il giovane della notte precedente era rimasto affascinato da lui, ma più di ogni
altra cosa aveva desiderato di essere visto con Senofonte, l’eroe della Marcia fino
al Mare, il ribelle ateniese che era riconosciuto come uno dei più grandi generali
della sua epoca. Sulla scia di questo pensiero ritemprante Senofonte ridacchiò e si
allontanò dallo specchio, spalancando le imposte per sentire il sole sulla pelle
prima di tornare a sedersi sul letto.
La Marcia fino al Mare, l’anno della gloria. Era stata opera del Fato, la volontà
di Atena oppure pura e semplice fortuna? E come poteva un uomo riuscire mai a
scoprirlo? Fuori il sole splendeva e la giornata era priva di nubi proprio come quel
giorno a Cunaxa quando tutti i suoi sogni e le sue convinzioni erano stati messi alla
prova, il giorno in cui Ciro aveva combattuto per il proprio diritto di nascita. Il suo
sguardo si fece appannato mentre gli eventi di quel giorno riaffioravano nei bui
corridoi della sua memoria...
Ciro, avvenente come Apollo e coraggioso quanto Eracle, aveva guidato le sue
truppe in Persia per combattere per la corona che gli spettava di diritto, e Senofonte
si era sentito certo che non potessero perdere, perché gli dèi favorivano sempre i
coraggiosi e favorivano doppiamente i giusti. Inoltre il nemico, per quanto
numericamente superiore, non aveva capacità strategiche né il valore necessario
per sconfiggere i mercenari greci che erano fedeli a Ciro. Di conseguenza la
conclusione della battaglia era prevedibile a priori.
Le due forze si erano incontrate vicino al villaggio di Cunaxa. All’epoca
Senofonte era stato un ufficiale di grado minore agli ordini di Proxenus, e ancora
adesso ricordava l’improvviso timore che lo aveva assalito quando aveva visto per
la prima volta il nemico che si allargava in un vasto schieramento di battaglia.
Dopo aver ordinato ai suoi uomini di assumere una formazione serrata aveva atteso
gli ordini. I Persiani avevano levato un grande ruggito, battendo le aste delle lance
contro gli scudi, ma i Greci erano rimasti silenziosi mentre Ciro faceva galoppare il
suo cavallo lungo la prima linea, gridando:
– Per gli dèi e per la gloria!
Per quanto numericamente inferiore, la falange greca si era lanciata alla carica
contro le orde persiane, che avevano ceduto ed erano fuggite. Simile ad un dio sul
suo stallone bianco, Ciro si era lanciato in un feroce assalto contro il centro dello
schieramento nemico, costringendo il fratello traditore... il re Artaserse... a fuggire
dal campo. Quella era stata la gloria della vittoria, l’adempimento del destino!
Senofonte rabbrividì e si avvicinò alla finestra, fissando le sommità dei tetti
senza però vederle... quello che stava vedendo era la luce del sole sulla punta delle
lance e ciò che sentiva erano le urla dei morenti e la cacofonia del cozzare delle
spade sugli scudi a Cunaxa quando i Greci, schierati su quattro file, avevano messo
in fuga i barbari.
La vittoria era loro, la giustizia aveva prevalso come tutti gli uomini di buon
cuore sapevano che sarebbe successo. E poi?
Senofonte sospirò. Poi un comune soldato persiano... probabilmente un
contadino, visto che non poteva permettersi né armatura né spada... aveva scagliato
un sasso che aveva raggiunto Ciro alla tempia, gettandolo di sella. Il nemico, già
lanciato nella fuga, lo aveva visto cadere ed era tornato a raggrupparsi, caricando e
abbattendosi sul coraggioso Ciro mente questi lottava per rialzarsi. Il giovane era
stato trapassato una ventina di volte, poi la sua testa e la mano destra erano state
tagliate.
La vittoria, da sempre moglie incostante, era fuggita via dai Greci.
Quel giorno gli dèi erano morti nel cuore di Senofonte, anche se il suo intelletto
lottava per conservare una tenue parvenza di fede. Senza gli dèi il mondo non era
nulla, un luogo di tormento e di disillusione privo di ordine e di ragione, e tuttavia
dopo Cunaxa lui aveva conosciuto di rado la serenità mentale.
Il generale trasse un profondo respiro e lottò per reprimere quegli amari ricordi
mentre qualcuno bussava con discrezione alla sua porta.
– Avanti – disse, e il suo servitore anziano Tinus entrò con un boccale di vino
abbondantemente annacquato. Accettandolo, Senofonte lo ringraziò con un sorriso.
Altri due servitori andarono a prendere acqua di sorgente per il bagno, poi lo
asciugarono e gli portarono la sua armatura che era stata lucidata al punto che il
bronzo splendeva come oro e l’elmo di ferro aveva il bagliore dell’argento più
puro. Un servitore aiutò Senofonte a indossare la tunica di lino bianco mentre
l’altro gli sollevò la corazza sulla testa e strinse le cinghie lungo i fianchi; un
gonnellino di cuoio rinforzato con il bronzo venne quindi passato intorno alla vita
del generale e legato sul fianco, gli schinieri di bronzo vennero fissati ai polpacci.
Senofonte segnalò allora ai servitori di andare via e prese la cintura con la spada: il
cuoio era segnato e il fodero di bronzo aveva molte ammaccature, ma la spada
dentro di esso era di ferro e affilata. Estraendola, lui apprezzò lo squisito equilibrio
della corta lama e dell’impugnatura di cuoio, poi tornò a riporre l’arma nel fodero
con un sospiro prima di affibbiarsi la cintura in vita. Infine sollevò l’elmo e passò
una mano sulla bianca cresta di crine di cavallo.
Con l’elmo sotto il braccio si girò verso la porta, Tinus l’aprì e lui uscì nel
cortile, dove tre serve si inchinarono al suo passaggio. Senofonte rispose con un
sorriso e sollevò il volto verso la luce del sole: era una bella giornata.
Tre iloti stavano preparando il recinto di sabbia secondo le istruzioni dei
giudici, modellando colline, valli e corsi d’acqua, e Senofonte si fermò per
esaminare il loro lavoro.
– Rendete quella collina più alta e ripida – suggerì ad uno degli uomini, – e
allargate la vallata perché è là che si svolgerà la battaglia e ci dovrà essere spazio
per girare le linee.
Continuò quindi a camminare oltrepassando le porte aperte del cortile e
raggiungendo il pendio della collina e il Tempio di Atena dagli Occhi. Non era un
grande tempio, appena tre pilastri che sostenevano un basso tetto, ma dentro c’era
un altare sacro. Senofonte entrò nell’edificio, togliendosi la spada e appoggiandola
accanto all’ingresso, poi si inginocchiò sotto l’altare su cui si levava la statua
d’argento di una donna alta e snella, che indossava un elmo dorico spinto indietro
sul capo e brandiva una spada affilata.
– Sia lode a te, Atena, Dea della Saggezza e della Guerra – disse. – Un soldato
ti saluta.
Chiuse quindi gli occhi in preghiera, ripetendo le parole familiari che aveva
usato per la prima volta cinque anni prima, quando aveva lasciato le terre dei
Persiani.
– Io sono un soldato, Atena, non permettere che questa sia la fine delle mie
glorie. Ho conseguito così poco, permettimi di vivere abbastanza a lungo da
portare la tua statua nel cuore delle terre dei barbari.
Lanciò quindi un’occhiata alla statua, sperando in una risposta ma sapendo che
alla sua preghiera sarebbe seguito soltanto il silenzio. Alzatosi, uscì
indietreggiando dal tempietto e in quel momento notò un movimento sull’acropoli:
due ragazzi si stavano abbracciando, e socchiudendo gli occhi lui riconobbe in uno
di essi Hermias. L’altro doveva essere il mezzosangue, quello che tutti chiamavano
Savra, un ragazzo strano che aveva l’abitudine di correre spesso sui tetti e lungo la
sommità dei muri. Senofonte lo aveva visto da vicino soltanto in due occasioni, e
aveva notato che con il suo naso ricurvo e aquilino Savra non era avvenente come
Leonida né decisamente bello come Hermias, e tuttavia in lui c’era qualcosa che
colpiva. I suoi occhi azzurri avevano un’espressione penetrante, al tempo stesso
guardinga e di sfida, e lui aveva un portamento orgoglioso che contrastava con la
sua povertà. La prima volta lo aveva incontrato mentre correva lungo la Strada del
Commiato inseguito da altri quattro ragazzi; nella seconda occasione Savra era
invece seduto con Hermias vicino al Tempio di Afrodite e d’un tratto aveva sorriso
in risposta a qualche commento dell’amico, un gesto che aveva trasformato il suo
volto, facendo scomparire l’espressione cupa. Il cambiamento aveva talmente
colpito Senofonte che si era fermato a fissare il ragazzo, e a quel punto Savra aveva
sollevato lo sguardo, accorgendosi di essere osservato. Subito la sua espressione
era mutata, come una maschera che scivolasse al suo posto, e l’Ateniese aveva
avvertito un gelo improvviso quando quegli occhi chiari si erano messi a fuoco su
di lui.
I suoi pensieri si rivolsero quindi al brillante Leonida: quello sì che era un vero
Spartano, alto e splendidamente proporzionato, con il portamento orgoglioso e i
capelli simili a fili d’oro. Senofonte era convinto che in Leonida ci fosse una
grandezza che era dono degli dèi: non capitava spesso che l’Ateniese aspettasse
con impazienza la conclusione dei Giochi del Generale, ma quel giorno stava
apprezzando l’imminente scontro di volontà.
Il generale si avvicinò al campo di addestramento noto come il Pianoro: quello
era il luogo dove di solito al crepuscolo i ragazzi più giovani ingaggiavano finte
battaglie usando bastoni invece che spade, ma ogni sei giorni l’esercito spartano vi
svolgeva le proprie manovre. Quello era però un giorno speciale, come Senofonte
ben sapeva nell’attraversare il basso ponte a sud del Pianoro, perché oggi avrebbe
avuto luogo la parata dell’Età Virile. Anche se gli era costata l’esilio da Atene, la
sua ammirazione per il sistema militare spartano perdurava intatta, perché gli
Spartani avevano evoluto l’esercito perfetto usando principi così semplici che
Senofonte era meravigliato che nessun’altra città stato li avesse ancora copiati. Gli
uomini venivano schierati a seconda dei loro anni a partire dall’Età Virile,
vent’anni, il che voleva dire che bambini che erano cresciuti insieme, avevano
imparato insieme e avevano forgiato una stretta amicizia nell’infanzia si sarebbero
poi trovati fianco a fianco nella falange e con il passare degli anni sarebbero
rimasti insieme, combattendo gli uni accanto agli altri fino allo scadere dei
vent’anni dal raggiungimento dell’Età Virile, momento a partire dal quale sarebbe
stato loro permesso di ritirarsi dal servizio.
Era questo che rendeva invincibile l’esercito spartano: la formazione a falange
aveva molteplici strati, con la prima linea formata da uomini di trent’anni e quindi
con dieci anni di esperienza dall’Età Virile... individui duri e stagionati e tuttavia
ancora giovani e forti, uomini abituati ad una disciplina di fatto che avevano
combattuto e vinto molte battaglie. Dietro di loro c’erano i guerrieri che avevano
passato l’Età Virile da vent’anni, orgogliosi, segnati dalle battaglie e possenti. Alle
loro spalle erano schierate le nuove reclute, perché potessero vedere con i loro
occhi come combattevano i guerrieri spartani, e dietro ancora venivano in ordine di
età crescente le linee di quanti avevano già passato l’Età Virile. C’era quindi da
meravigliarsi che l’esercito spartano non fosse mai stato sconfitto sul campo da un
nemico di pari numero?
– Perché ti rifiuti di capire? – si chiese Senofonte, pensando alla sua città
natale, Atene. – Volevi essere suprema e avresti dovuto esserlo, ma no... ti sei
rifiutata di imparare dai tuoi nemici.
Atene e Sparta avevano combattuto una lunga e costosa guerra per tutto il
Peloponneso, e quando l’esercito di Sparta aveva assediato Atene, vent’anni prima,
Senofonte aveva passato il periodo peggiore della sua vita: la Città di Atena,
benedetta dagli dèi, si era dovuta arrendere, e Senofonte non avrebbe mai di-
menticato la vergogna di quel giorno.
E tuttavia, da quel soldato e studioso dell’arte della guerra che era, come
avrebbe potuto odiare gli Spartani che avevano portato tale arte a vette prima mai
sognate?
– Come sempre, sei equipaggiato per la battaglia – commentò Agisaleus.
Senofonte sbatté le palpebre, sorpreso, perché la sua mente era stata molto
lontana, poi sorrise in maniera quasi contrita all’indirizzo del re spartano, che
sedeva su una stretta panca di pietra all’ombra di un cipresso.
– Chiedo scusa, mio signore – replicò, inchinandosi. – Mi ero perso nei miei
pensieri.
Agisaleus scosse il capo, alzandosi in piedi, e soltanto allora il piede sinistro
distorto e piegato risultò evidente. Avvenente, con la barba scura e intensi occhi
azzurri, Agisaleus era il primo re spartano della storia che fosse macchiato da una
deformità fisica, cosa che gli sarebbe costata la corona se il generale Lisandro non
avesse perorato il suo caso davanti agli dèi e agli uomini.
– Tu pensi troppo, Ateniese – dichiarò il re, prendendo Senofonte per un
braccio. – Di cosa si trattava questa mattina? Di Atene? Della Persia? Della
mancanza di campagne militari? Oppure desideri tornare nella tua tenuta di
Olimpia e negare a tutti noi il piacere della tua compagnia?
– Pensavo ad Atene – ammise Senofonte, e Agisaleus annuì, scrutando il suo
volto con occhi astuti.
– Essere definito un traditore e bandito dalla propria patria non è una cosa da
poco, ma le prospettive cambiano, amico mio. Se tu avessi detenuto una posizione
di maggiore rilievo ad Atene forse la guerra non sarebbe stata tanto terribile o non
ci sarebbe addirittura stata una guerra, e in quel caso tu saresti stato un eroe. Per
quanto mi concerne, sono felice che tu non abbia comandato un esercito contro di
noi, perché le nostre perdite sarebbero state molto più elevate.
– Ma non avreste perso? – domandò Senofonte.
– Forse qualche scontro secondario – ammise Agisaleus, con una risatina, –
perché una battaglia non è fatta soltanto dall’abilità dei generali ma anche dalla
qualità dei guerrieri.
I due uomini raggiunsero la cresta di una bassa collina e sedettero sulla prima
fila di sedili di pietra che sovrastavano il Pianoro.
La linea dell’Età Virile, formata da duecentoquaranta uomini, stava venendo
incorporata nella formazione otto, e Senofonte osservò con interesse le nuove
reclute che si esercitavano... insieme a tremila soldati regolari... a caricare, a
ruotare, ad avanzare e ad aggirare sul fianco.
L’entusiasmo di quei giovani sudati aumentò in maniera notevole quando
s’accorsero che il re si trovava sulla collina sopra di loro, ma Agisaleus non li stava
guardando e tornò invece a rivolgersi a Senofonte.
– Siamo stati troppo insulari – dichiarò, togliendosi l’elmo con il pennacchio
rosso e posandolo sul sedile accanto a sé.
– Insulari? – ripeté Senofonte. – Questa non è la più grande forza di Sparta?
– Forza e debolezza, amico mio, sono spesso vicine quanto marito e moglie.
Siamo forti perché siamo orgogliosi, siamo deboli perché il nostro orgoglio non ci
ha mai permesso di crescere – spiegò Agisaleus, allargando il braccio per indicare
la terra circostante. – Dove siamo? Nel profondo sud, lontano dalle strade
commerciali, una piccola città stato. Il nostro orgoglio non ci permette di contrarre
matrimoni misti anche se questo non è contrario a nessuna legge, e il numero dei
veri Spartani resta quindi sempre molto basso. Su quel campo ci sono tremila
uomini, un terzo del nostro esercito... ed è per questo che possiamo vincere le
battaglie ma non costruire un impero. Tu avverti il dolore di Atene? Essa
sopravviverà e prospererà molto tempo dopo che noi Spartani saremo polvere,
perché ha il mare ed è il centro, il cuore della Grecia. Noi potremo anche
sconfiggerla in un migliaio di battaglie, e tuttavia perderemo la guerra. – Agisaleus
scosse il capo e rabbrividì. – La Bestia di Ghiaccio è passata sulla mia anima – si
scusò. – Perdonami se sono stato cupo.
Senofonte riportò lo sguardo sugli uomini che stavano combattendo sul
Pianoro, riflettendo che le dolenti parole del re avevano racchiuso una grande
verità: nonostante tutta la sua potenza militare, Sparta era una piccola città stato
con una popolazione diminuita dalle terribili guerre che avevano infuriato per tutto
il Peloponneso. Lanciando un’occhiata in tralice all’amico, si affrettò a cambiare
argomento.
– Offrirai tu il premio ai Giochi del Generale?
Agisaleus sorrise e ogni traccia di malinconia lo abbandonò.
– Oggi ho un dono speciale per il vincitore... una delle sette spade del Re
Leonida.
– Un dono principesco, mio signore – sussurrò Senofonte, sgranando gli occhi.
– Mio nipote appartiene alla discendenza del re guerriero e porta lo stesso nome
– replicò Agisaleus, scrollando le spalle, – quindi è giusto che abbia quell’arma.
Era mia intenzione dargliela per il suo compleanno, fra tre settimane, ma così ser-
virà a solennizzare l’occasione e a dare al ragazzo un bel ricordo del giorno in cui
ha vinto i Giochi. Li ho vinti anch’io, trent’anni fa.
– Sarà uno splendido gesto, mio signore, ma... e se non vincesse?
– Sii serio, Senofonte. È contrapposto ad un mezzosangue macedone, un ragaz-
zo che è a un passo dall’essere un ilota, quindi come può non vincere? Leonida è
uno Spartano di sangue reale e in ogni caso, dal momento che tu sei il capo
giudice, sono certo di poter contare su un risultato giusto.
– Giusto? – ribatté Senofonte, distogliendo il volto per nascondere la propria
ira. – Cerchiamo almeno di essere onesti!
– Oh, non essere seccato con me – replicò Agisaleus, gettando un braccio
intorno alle sue spalle. – È soltanto un gioco per bambini, quindi che male c’è?
– Davvero, che male c’è? – ripeté Senofonte.

Parmenion rallentò la corsa nell’avvicinarsi alle mura bianche della casa di


Senofonte. I visitatori si stavano già radunando e fra essi poté scorgere anche
Hermias al limitare della folla, intento a parlare con Gryllus... l’ira divampò ancora
in lui al ricordo dei secchi pugni decisi che aveva incassato durante la notte e provò
il desiderio di attraversare a grandi passi la strada affollata per afferrare Gryllus per
i capelli e sbattergli la testa contro la parete fino a macchiare le pietre di sangue.
Calmati! si ingiunse.
Sapeva benissimo che Gryllus sarebbe stato presente, in primo luogo perché era
il figlio di Senofonte e quella era la sua casa, e in secondo luogo perché era
incaricato di reggere il Mantello Nero per Leonida, ma gli seccava il fatto che
Gryllus fosse accettato e perfino apprezzato dagli altri giovani degli alloggiamenti.
Per quale motivo quell’Ateniese era riuscito a conquistarsi la loro simpatia e lui
no? Dopo tutto, Gryllus non aveva sangue spartano, mentre suo padre era stato un
eroe. Allontanando quei pensieri dalla mente Parmenion si fece largo fra la folla,
avvicinandosi ai due giovani: Gryllus fu il primo a vederlo e il sorriso gli si raggelò
sul volto, mentre lo sguardo gli si incupiva.
– Benvenuto al giorno della tua umiliazione – disse.
– Allontanati da me, Gryllus – avvertì Parmenion, con un tremito d’ira nella
voce. – La tua vista mi fa venire il vomito. E ricorda questo: se mai mi attaccherai
ancora ti ucciderò. Niente colpi e lividi, questa volta, ma soltanto i vermi e la
morte!
Il figlio di Senofonte indietreggiò barcollando come se fosse stato
schiaffeggiato in pieno volto, lasciando cadere il mantello nero che aveva in mano;
in fretta, lo raccolse e svanì oltre la porta della sua casa.
Parmenion si volse allora verso Hermias e tentò di sorridere, ma i muscoli della
sua faccia erano troppo tesi e quindi si protese invece ad abbracciare l’amico, che
però si trasse indietro.
– Sta attento – avvertì. – È un cattivo presagio toccare il mantello!
Parmenion abbassò lo sguardo sull’indumento di lana nera drappeggiato sul
braccio di Hermias.
– È soltanto un mantello – sussurrò, sfiorandolo con le dita.
Chi avesse perso il confronto avrebbe lasciato il campo di battaglia avvolto in
esso e con il cappuccio alzato per nascondere la propria vergogna: nessuno
Spartano avrebbe mai considerato una simile umiliazione con qualcosa di diverso
dal disgusto, ma a Parmenion non importava. Se Leonida avesse vinto questo
sarebbe stato per lui già una vergogna sufficiente, e portare il mantello non gli
avrebbe dato nessun fastidio ulteriore.
– Vieni – disse Hermias, prendendolo per un braccio. – Camminiamo per un
po’... non dobbiamo arrivare in anticipo. Come sta tua madre?
– Sta recuperando le forze – rispose Parmenion, consapevole della menzogna e
tuttavia sentendo il bisogno che fosse vero. Mentre si allontanavano sentì un
applauso alle loro spalle e nel guardarsi indietro vide arrivare il biondo Leonida,
osservando con invidia come i presenti gli si raccogliessero subito intorno.
I due giovani si avviarono su per il sentiero sassoso che portava al Santuario di
Ammon, un piccolo edificio circolare di pietra bianca con la facciata decorata da
opliti di marmo: da lì era possibile vedere il Lago Sacro e oltre la città, fra gli albe-
ri, il tempio di Afrodite, la Dea dell’Amore.
– Sei nervoso? – domandò Hermias, quando si sedettero sotto le statue di
marmo.
– Ho lo stomaco contratto, ma la mente è calma – replicò Parmenion.
– Quale formazione userai?
– Una nuova – spiegò Parmenion, esponendo il suo piano. Hermias ascoltò in
silenzio, poi scosse il capo.
– Non lo devi fare, Savra! Per favore, ascoltami! È impensabile.
– È soltanto una battaglia fasulla, Hermias – ridacchiò Parmenion, sorpreso
dalla reazione dell’amico, – fatta di soldati di legno e di lanci di dadi. Lo scopo non
è forse quello di vincere?
– Sì, sì, ma... non lo permetteranno mai. Per gli dèi, Savra, non te ne rendi
conto?
– No – rispose Parmenion, – e del resto che importanza ha? In questo modo
nessuno dovrà restarsene seduto per due ore: che io vinca o perda tutto finirà in
pochi minuti.
– Io non lo penso – sussurrò Hermias. – Torniamo indietro.
Il cortile di Senofonte era affollato e gli ospiti stavano prendendo posto sui
sedili disposti lungo il muro occidentale, dove avrebbero potuto sedere all’ombra.
In mezzo a loro, Parmenion si sentì ancora più consapevole della povertà che
rivelava con il suo chitone troppo corto, ma del resto sua madre aveva soltanto un
piccolo appezzamento di terra e dallo scarso reddito che esso forniva doveva
ricavare il denaro sufficiente per il cibo, per il vestiario e per l’addestramento di
Parmenion. Tutti i giovani Spartani dovevano infatti pagare per l’alloggiamento e il
cibo, e l’impossibilità di farlo significava la perdita della loro condizione sociale:
quando la povertà si abbatteva su una famiglia, i suoi componenti perdevano non
soltanto il diritto di votare ma anche quello di definirsi Spartani, e si trattava della
più grande vergogna che un uomo potesse subire. Se fosse stato espulso dagli
alloggiamenti, Parmenion avrebbe dovuto cercare un lavoro e sarebbe diventato un
individuo socialmente appena superiore agli iloti.
Riscuotendosi da quei cupi pensieri, fissò lo sguardo sul campo di battaglia
modellato nella sabbia che misurava tre metri quadrati. I soldati intagliati nel legno
erano schierati accanto ad esso, quelli Oro a sinistra e quelli Rossi sulla destra:
grezzi e privi di decorazioni, essi apparivano comunque splendidi e Parmenion si
chinò per raccogliere la prima fila di opliti dello schieramento Oro. Le figure erano
state intagliate nel legno bianco, ma gli anni lo avevano tinto di giallo: sulla
piccola trave di sostegno erano fissate appena dieci sagome, ma esse rappresenta-
vano cento guerrieri in armatura pesante, muniti di scudo rotondo, di lancia e di
spada corta. Le figure erano state intagliate con grande cura per ogni particolare,
perfino il gonnellino di cuoio e gli schinieri di bronzo, e soltanto gli elmi erano or-
mai fuori moda... strutturati in modo da coprire tutto il volto e piumati, erano stati
accantonati trent’anni prima. Nonostante questo, quei guerrieri intagliati erano però
antichi e quasi sacri, perché il grande Leonida della leggenda li aveva usati quando
aveva vinto gli Undicesimi Giochi.
Rimessa al suo posto la fila degli Spartani, Parmenion si spostò a quella degli
Sciriti, che erano intagliati con minore accuratezza ed erano meno antichi: gli
uomini erano privi di lancia e portavano cappelli rotondi di cuoio.
Un’ombra cadde su di lui e nel sollevare lo sguardo Parmenion vide un uomo
alto che portava una tunica gialla bordata d’oro: di rado gli era capitato di
incontrare un guerriero di così bell’aspetto, con i capelli dorati striati d’argento e
gli occhi del colore azzurro del cielo estivo.
– Tu devi essere Parmenion – affermò l’uomo, con un sorriso. – Benvenuto
nella mia casa, giovane generale.
– Ti ringrazio, signore. È un onore essere qui.
– Infatti – convenne Senofonte, – ma è un onore che ti sei guadagnato.
Passeggia un po’ con me.
Parmenion seguì Senofonte fino ad un’alcova riparata e decorata con magnifici
fiori purpurei che erano drappeggiati lungo le pareti come il mantello di un re.
– Abbiamo già tirato a sorte e la prima mossa è toccata a te. Ora riferiscimi i
primi tre ordini che intendi impartire – disse Senofonte.
Parmenion trasse un profondo respiro, esitando a rispondere: per la prima volta
il controllo dei nervi parve venirgli meno e lui si trovò a fissare la folla raccolta nel
cortile. In una vera battaglia, una volta che lo scontro era cominciato era pratica-
mente impossibile cambiare in fretta strategia, con migliaia di uomini impegnati
ormai a lottare gli uni contro gli altri fra il clangore delle spade e degli scudi, ed era
per questo che nel Gioco i primi tre ordini dovevano essere riferiti ai giudici, in
modo che nessun concorrente potesse improvvisamente cambiare idea di fronte ad
una mossa più abile del suo avversario.
– Sto aspettando, giovanotto – sussurrò Senofonte.
Parmenion spostò allora lo sguardo sull’avvenente Ateniese e gli espose gli
ordini che intendeva dare, osservando le sue reazioni.
Senofonte ascoltò senza espressione, poi sospirò e scosse il capo.
– Non spetta al giudice anziano offrire consigli, quindi ti dirò soltanto che se
Leonida dovesse scegliere una qualsiasi di quattro... o forse cinque alternative tu
verresti messo in rotta in maniera catastrofica. Hai preso in considerazione quest’e-
ventualità, vero?
– Sì, signore.
– E hai anche considerato il problema delle tradizioni e dell’orgoglio spartano?
– Desidero soltanto vincere la battaglia.
Senofonte esitò, consapevole di essere già andato al di là dei propri doveri, e
alla fine annuì tornando al rituale.
– Possano gli dèi favorirti, Spartano – disse, inchinandosi. Parmenion ricambiò
l’inchino e osservò l’Ateniese allontanarsi a grandi passi verso il punto in cui era in
attesa Leonida. Deglutendo a fatica, si disse che se il generale era amico di Leonida
e si fosse lasciato sfuggire anche solo un accenno al suo piano di battaglia...
Non ci pensare neppure! si rimproverò immediatamente. Senofonte è un grande
generale e non si piegherebbe mai a fare una cosa così vile.
Quello era l’uomo che dopo la sconfitta di Cunaxa aveva visto i suoi amici
brutalmente assassinati e aveva assunto il comando del demoralizzato esercito
greco per poi attraversare combattendo il vasto impero persiano fino ad arrivare al
mare. Senofonte non lo avrebbe tradito.
Ma lui è anche il padre di Gryllus, si trovò a pensare subito dopo, e un amico
della famiglia di Leonida.
La folla si alzò in piedi e Parmenion vide entrare Agisaleus, fiancheggiato dai
suoi generali e dai suoi due amanti. Il re rispose con un inchino all’applauso della
folla, poi raggiunse zoppicando il seggio al centro della prima fila, subito a ridosso
del campo di battaglia. Con la bocca arida, Parmenion si diresse verso il punto in
cui era in attesa Hermias, distogliendo lo sguardo dal mantello nero.
Senofonte chiamò quindi a sé gli altri due giudici, parlò con loro per alcuni
minuti e andò a prendere posto accanto al re. Il primo dei due giudici, un uomo
anziano con corti capelli bianchi e una barba ben curata, si avvicinò a Parmenion.
– Io sono Clearcus – disse. – Disporrò l’esercito come tu hai ordinato, generale.
Potrai chiedere i miei consigli soltanto in merito ad eventuali sospensioni della
contesa, ma per niente altro. – Aprì quindi una sacca che portava al fianco e tirò
fuori tre dadi d’osso: nelle sei rientranze di ciascun osso erano dipinti numeri che
andavano da tre ad otto. – Per decidere le perdite userò questi dadi: la cifra più alta
e quella più bassa non saranno prese in considerazione, e la terza indicherà il
numero. dei caduti. Hai capito tutto?
– Certamente – rispose Parmenion.
– È sufficiente un semplice sì – affermò Clearcus.
– Sì – replicò Parmenion.
Clearcus andò a prendere posto accanto ai soldati di legno ingiallito, mentre il
secondo giudice si piazzava dall’altro lato del campo, vicino al soldati di legno
rosso.
Per la prima volta Parmenion incontrò lo sguardo di Leonida, e l’altro ragazzo
gli rivolse un sogghigno con un’espressione beffarda nello sguardo. Leonida era
considerato bello, ma nonostante i capelli biondi e la bocca ben modellata, Parme-
nion vide in lui soltanto la bruttezza della crudeltà.
Com’era usanza, i due avversari girarono intorno al campo per fronteggiarsi.
– Intendi arrenderti all’Oro spartano? – domandò Parmenion, seguendo il
rituale.
– Il Rosso spartano non si arrende mai – replicò Leonida. – Preparati a morire.
La folla applaudì e il re si alzò in piedi, sollevando una mano per chiedere
silenzio.
– Amici miei, oggi offro un dono speciale per il vincitore: una delle sette spade
del Re Leonida! – esclamò, alzando l’arma di ferro che riflesse la luce del sole
brillando come argento.
Tutt’intorno si levò un grande ruggito.
– Ti umilierò, mezzosangue – sussurrò Leonida, protendendosi verso
Parmenion.
– Il tuo fiato puzza più del posteriore di una mucca – ribatté Parmenion,
godendo dell’immediato rossore che tinse le guance di Leonida, poi entrambi i
giovani tornarono ai loro posti.
– Cominciate! – ordinò Senofonte.
– Il generale Parmenion – scandì Clearcus, venendo avanti, – ha ordinato di
disporre le truppe nella quinta formazione di Lisandro, con gli Sciriti sulla sinistra,
su sedici file, gli Spartani al centro, su sedici file e i lanciatori di giavellotto
mercenari alle spalle della cavalleria, sulla destra. Il generale prende posto dietro lo
schieramento centrale.
Parmenion vide parecchi guerrieri fra la folla scuotere il capo in segno di
disapprovazione e ne intuì facilmente il motivo: nessun generale poteva aspettarsi
che i suoi uomini combattessero per lui se non aveva il coraggio di stare con loro in
prima linea.
Tre iloti vennero avanti e sollevarono le file di soldati di legno per disporle
sulla sabbia, poi il secondo giudice si rivolse a sua volta alla folla.
– Il generale Leonida ha scelto la terza formazione di Agisaleus, con gli
Spartani a destra, su dieci file, la cavalleria al centro, gli Sciriti e i lanciatori di
giavellotto sulla sinistra. Ha scelto come sua posizione la seconda linea del centro.
Dai presenti si levò un applauso e Leonida s’inchinò: come doveva fare un
generale spartano, lui aveva scelto di porsi vicino alla prima fila.
La folla si protese in avanti, fissando con attenzione le formazioni. a ovvio che
Parmenion stava progettando uno scontro sulla difensiva, pronto a respingere un
attacco frontale, mentre Leonida aveva steso al massimo il proprio schieramento e
stava di certo progettando il tradizionale attacco trasversale da sinistra,
manovrando al tempo stesso per accerchiare il nemico. Adesso la priorità sarebbe
spettata al lancio dei dadi che avrebbe stabilito le rispettive perdite.
Clearcus si schiarì la gola e tutti fra la folla ebbero la certezza di conoscere già
l’ordine che sarebbe seguito... la formazione stessa lo rendeva ovvio: nessuna
mossa. L’Oro spartano avrebbe atteso che Leonida attaccasse, facendo affidamento
soltanto sui dadi per decidere il risultato dello scontro. Ogni conversazione però
s’interruppe non appena Clearcus cominciò a parlare.
– Il generale Parmenion ordina alla cavalleria di caricare deviando verso il
centro nemico.
L’attenzione di tutti si accentrò sul giudice accanto a Leonida. Le prime tre
mosse non potevano essere cambiate ed ora molto dipendeva da come Leonida
avrebbe usato la sua cavalleria. Era insolito, anche se non senza precedenti, che
una carica di cavalleria venisse usata come mossa di apertura.
– Il generale Leonida ordina ai lanciatori di giavellotto e agli Sciriti di avanzare
sulla destra.
A questo punto i sussurri degli spettatori si intensificarono, perché era evidente
che Leonida non aveva previsto un attacco della cavalleria e non aveva impartito
ordini di sorta ai suoi cavalieri.
Un ilota munito di un’asta per le misurazioni spostò in avanti i cavalieri gialli,
poi i giudici conferirono fra loro e Senofonte si rivolse alla folla.
– Si conviene all’unanimità che la violenza della carica ha messo in rotta la
cavalleria avversaria, costringendola a ritrarsi fra le file degli opliti. Leonida ha
subito la perdita di sessanta uomini, Parmenion ne ha persi nove.
La voce di Clearcus si levò quindi a sovrastare il clamore che era seguito
all’annuncio.
– Il generale Parmenion ordina agli Spartani e agli Sciriti di unire gli
schieramenti e di avanzare di corsa, su trentadue file, contro la destra del nemico.
Immobile, Parmenion fissò lo sguardo su Leonida, che stava guardando con
orrore quell’avanzata in massa, e non ebbe difficoltà a intuire ciò che l’avversario
stava provando: Leonida era di fronte non ad un solo piano di battaglia
improbabile, ma addirittura a due, perché nessun contingente spartano avrebbe mai
preso in considerazione la possibilità di unire le file con gli Sciriti e nessun esercito
greco avrebbe mai attaccato la destra del nemico, cioè il punto in cui esso era più
forte. Farlo significava esporre un fianco vulnerabile perché lo scudo veniva retto
con la sinistra e quindi la falange in avanzata sarebbe stata esposta al lancio di
giavellotti, di pietre e di frecce.
Ma non qui, pensò, non oggi.
Il centro dello schieramento di Leonida era infatti stato devastato dalla sua
stessa cavalleria e non c’erano peltasti o arcieri abbastanza vicini da poter
tempestare di missili il suo schieramento in avanzata. Parmenion sollevò lo
sguardo perché voleva vedere e ricordare ogni cambiamento di espressione sul
volto del suo nemico, desiderava memorizzare il momento in cui la consapevolezza
della sconfitta avrebbe cominciato a registrarsi su di esso.
– Il generale Leonida ordina alle sei file della retroguardia di uscire in fuori e
accerchiare il nemico.
Sebbene esultante, Parmenion mascherò i propri sentimenti, rendendo
indecifrabili i propri lineamenti e tradendo la sua eccitazione soltanto con il
dilatarsi delle narici e l’accelerarsi del proprio respiro. Leonida era sconfitto: una
carica in massa stava puntando contro la sua destra e lui aveva appena ridotto il
proprio schieramento ad appena quattro file.
Gli iloti sollevarono i blocchi di figure e li portarono in avanti, mentre i giudici
non avevano neppure bisogno di conferire fra loro: ogni soldato presente sapeva
infatti quello che sarebbe successo quando la falange di trentadue file si fosse
abbattuta su uno schieramento che ne contava appena quattro. La forza e il
coraggio di quei pochi combattenti non sarebbero bastati ad arrestare l’impulso
della carica, quindi Leonida non era soltanto sconfitto... era annientato. Il giovane
Spartano fissò i soldati di legno, poi indietreggiò bruscamente e conferì in fretta
con il giudice, le cui parole successive sconvolsero Parmenion.
– Il generale Leonida chiede ai giudici di annullare il secondo ordine del
generale Parmenion sulla base del fatto che è privo di credibilità. Se un tale ordine
venisse impartito in battaglia senza dubbio gli Spartani rifiuterebbero di obbedire.
Arrossendo in volto, Parmenion guardò in direzione del re, ma Agisaleus si
appoggiò contro lo schienale del suo seggio e cominciò a conversare con il giovane
che sedeva alla sua destra. Intanto Senofonte chiamò a sé i giudici, lontano dalla
folla, e anche se non ebbero modo di sentire tutti poterono vedere che la
discussione che ne seguì fu molto accesa.
Parmenion sentì il cuore che gli veniva meno nel fissare il minuscolo campo di
battaglia e i soldati di legno immobilizzati ai loro posti. I giudici potevano
squalificarlo? Senza dubbio potevano.
Chi sei tu, Parmenion? si chiese, sollevando lo sguardo sulle file degli
spettatori. Sei soltanto un mezzosangue impoverito, quindi a loro che importa di
te? Questo è il giorno di Leonida, e tu gli hai rovinato tutto.
Senofonte tornò quindi verso il recinto di sabbia e la folla tacque in attesa del
verdetto... perfino il re si protese in avanti fissando lo sguardo sull’Ateniese.
– La questione è davvero interessante e i giudici si sono divisi in merito ad
essa. È vero che unire le file con gli Sciriti non verrebbe considerato onorevole e
neppure probabile – esordì il generale, poi fece una pausa e Parmenion vide molte
teste annuìre in segno di assenso, sentendo su di sé lo sguardo di Leonida.
Il suo avversario si concesse un piccolo sorriso e Parmenion si sorprese a
deglutire a fatica.
– Tuttavia – continuò Senofonte, – a me sembra che qui non si tratti tanto di
una questione di onore quanto di tattica e di disciplina. Conoscendo le forze del
nemico e sapendo che lui aveva fatto ricorso a questa formazione nelle sue ultime
cinque battaglie, il generale Parmenion ha scelto una linea d’azione insolita. Io
sono un Ateniese, ma parlo con l’autorità di chi ammira più di chiunque altro le
qualità dell’esercito spartano, e affermo che qui si tratta soltanto di un problema di
disciplina. La contestazione si regge o cade su un solo punto: gli Spartani
rifiuterebbero di obbedire ad un ordine del genere? La risposta è semplice: quando,
in tutta la loro gloriosa storia, gli Spartani hanno mai rifiutato di obbedire ad un
solo ordine? – Senofonte fece un’altra pausa, lasciando scorrere lo sguardo sulle
file degli spettatori e posandolo infine sul re. – La mossa è valida – concluse. – Il
generale Leonida è sconfitto... e dal momento che si è posizionato in seconda fila è
anche stato ucciso. La giornata è dell’Oro spartano, e il generale Parmenion è lo
stratega supremo.
Non ci furono applausi, ma a Parmenion non importò. Si girò invece verso
Hermias, che gettò da un lato il mantello nero e corse in avanti per abbracciare
l’amico.
La folla era sconvolta e il Re Agisaleus fissò Senofonte con espressione irata,
ma l’Ateniese si limitò a scrollare le spalle e ad allontanarsi. Poi cominciarono i
sussurri mentre i vecchi soldati presenti discutevano la strategia usata da
Parmenion, e nel frattempo Leonida si alzò e indietreggiò incespicando. Gryllus gli
si avvicinò per offrirgli il Mantello della Vergogna, ma Leonida lo respinse con un
cenno e si allontanò a grandi passi dal cortile.
Intanto un anziano ilota emerse dall’ombra e sfiorò la spalla di Parmenion.
– Signore, alle porte c’è una donna che dice che devi andare subito con lei.
– Una donna? Quale donna? – domandò Parmenion.
– È qualcosa che ha a che vedere con tua madre, signore. Ogni sensazione di
trionfo e di gioia abbandonò Parmenion, che barcollò come se fosse stato colpito e
lasciò di corsa il cortile.

Mentre il giovane spartano oltrepassava di corsa le porte il silenzio calò sulla


folla e Agisaleus si alzò in piedi, avanzando verso Senofonte con gli occhi scuriti
dall’ira.
Questo non sarebbe dovuto succedere! – sibilò.
– Lo so, sire – annuì Senofonte, tenendo bassa la voce, – ma nessuno di noi si
aspettava che Leonida agisse così malamente. Non ha dimostrato la minima abilità
strategica ed ha trattato il nemico con disprezzo. Comunque tu sei il re, sire, e
quindi il giudice supremo di Sparta. Se lo desideri, è tuo diritto modificare il mio
giudizio.
Agisaleus si girò a fissare i soldati di legno che giacevano dimenticati nella
sabbia.
– No – disse infine, – hai agito giustamente, Senofonte... ma che io sia dannato
se intendo offrire di persona la spada a quel mezzosangue. Prendi, dagliela tu.
Senofonte accettò l’arma con un inchino, poi il re si allontanò scuotendo il capo
e la folla si disperse dietro di lui. Mentre l’Ateniese si spostava nell’ombra del
porticato dell’androne e si sedeva in silenzio, riflettendo su Parmenion, suo figlio
Gryllus gli si avvicinò.
– È stata una cosa vergognosa, padre – affermò.
– È vero – convenne il generale. – Leonida non ha indossato il Mantello della
Vergogna, il che costituisce un modo di agire sconveniente.
– Non era questo che intendevo... e tu lo sai. L’esercito spartano non
permetterebbe mai a dei cani come gli Sciriti di mescolarsi alle sue file, era una
mossa che nessuno poteva prevedere e si sarebbe dovuto far ripartire il confronto
dall’inizio.
– Vattene, ragazzo – ribatté Senofonte, – e cerca di non parlare di cose che non
capisci.
– Perché mi odi, padre? – ritorse Gryllus, arrossendo ma senza muoversi.
Quelle parole scossero l’Ateniese.
– Io non ti odio, Gryllus, e mi dispiace che tu lo pensi – affermò, alzandosi e
avvicinandosi al ragazzo con le braccia aperte, pronto a stringerlo a sé.
– No, non mi toccare! – esclamò Gryllus, indietreggiando. – Non voglio niente
da te.
Poi si girò e attraversò di corsa il cortile, uscendo sulla strada. Rimasto solo,
Senofonte sospirò: aveva tentato così duramente di allevare bene quel bambino,
istruendolo con pazienza e tentando di instillargli il senso dell’onore, della lealtà e
del coraggio, ma era stato tutto inutile e nel guardarlo crescere aveva visto spuntare
in lui i semi dell’arroganza e della crudeltà, della vanità e dell’inganno.
– Non ti odio – sussurrò, – ma non ti posso amare.
Era sul punto di rientrare in casa quando scorse un vecchio fermo accanto al
recinto di sabbia, con lo sguardo fisso sui soldati di legno; come padrone di casa,
Senofonte si sentì obbligato dalle buone maniere ad andare a parlare con lui, quindi
si avviò con passo lento attraverso il cortile.
– Posso offrirti qualche rinfresco? – domandò. Il vecchio sollevò lo sguardo sul
volto del generale.
– Non ti ricordi di me? – chiese a sua volta, mostrando il moncherino del
braccio destro.
– Pasian? Dolce Hera! Ti credevo morto!
– Dovrei esserlo... e a volte preferirei che così fosse. Mi hanno tagliato la mano
destra, generale, lasciandomi a morire dissanguato, ma sono riuscito a tornare a
casa, anche se mi ci sono voluti sedici anni – sorrise Pasian, mostrando i denti
spezzati e marci. – A casa – ripeté, con voce malinconica. – Ci siamo aperti un
varco fra i Persiani e ci siamo attestati in un cerchio di massi. Potevamo vedere
Agisaleus e il contingente principale e pensavamo che sarebbero venuti in nostro
aiuto, ma non lo hanno fatto... dopo tutto, eravamo soltanto Sciriti. Siamo morti ad
uno ad uno, ed io ho ucciso undici uomini, quel giorno. La cosa non ha fatto molto
piacere ai Persiani, che mi hanno mozzato la mano. Io sono però riuscito ad
arrestare il sangue ed ho trovato un contadino che ha cauterizzato la ferita con la
pece bollente.
– Vieni dentro, amico mio, e lascia che ti offra del vino, e del cibo.
– No, ma ti ringrazio per il pensiero. Sono venuto soltanto per vedere il
ragazzo... per assistere alla sua vittoria.
– Leonida?
– No, l’altro ragazzo... Savra. Non è uno Spartano, Senofonte, e possano gli dèi
essere lodati per questo.
– Come fai a conoscerlo? Non era ancora nato quando sei andato a combattere
in Persia.
– L’ho incontrato sulla strada, generale... quando ero ormai quasi a casa. Sai,
non mi ero reso conto di quanto fossi diventato vecchio finché non ho visto le
colline della mia infanzia. Per tutti questi anni ho lottato per tornare a casa... e ci
sono arrivato come uno storpio decrepito con un carretto rotto. Ho chiesto aiuto a
quel ragazzo e lui mi ha assistito, accompagnandomi fino alla casa di mio figlio
senza neppure dirmi che farlo gli è costato la vittoria nella Grande Corsa. Riesci a
immaginarlo?
– Mi pare che sia arrivato ultimo – osservò Senofonte.
– Era il primo... in vista della città. Ed io non ho nulla da dargli, nessun avere,
neppure una moneta. Però ho intenzione di ripagare il mio debito reclamando il
pagamento di un altro, Senofonte: io ti ho salvato la vita due volte... sei disposto ad
onorare questo debito?
– Sai che lo farò... così come spero che tu sappia che se fossi stato in Persia con
Agisaleus sarei venuto in tuo aiuto.
– Non ne dubito, generale – annuì Pasian. – A quanto ho capito quel ragazzo è
un mezzosangue con poco denaro e ancor meno influenza. Aiutalo, Senofonte.
– Lo farò, te lo prometto.
Pasian sorrise e accennò ad allontanarsi, soffermandosi però per dare un’ultima
occhiata al recinto di sabbia.
– Ho apprezzato la battaglia – commentò, da sopra la spalla. – È stato piacevole
vedere gli Spartani umiliati.

Attraversando a precipizio le porte del cortile, Parmenion uscì nella strada,


deserta in quell’ora centrale della giornata, continuando a correre senza avvertire
l’intensità del sole sulla pelle né il dolore dei lividi, senza vedere le case che
oltrepassava né accorgersi dei cani uggiolanti che gli correvano dietro ringhiando.
La sua mente era piena del suono ruggente dell’angoscia e tutto quello che
poteva vedere era l’immagine del volto materno che gli fluttuava davanti agli
occhi... dolce e sorridente, calmo e comprensivo.
Lei stava morendo.
Morendo...
Quella parola martellava ripetutamente dentro di lui e nonostante la vista
appannata continuò a correre disperatamente. Adesso era consapevole di averlo
sempre saputo, da quando la carne aveva cominciato a dissolversi dal volto un
tempo bellissimo, gli arti si erano fatti scheletrici e lo sguardo sempre più spento,
da quando erano giunti tutti gli altri segni di sofferenza e di dolore... ma non era
stato in grado di fronteggiare quella consapevolezza e aveva distolto da essa lo
sguardo e la mente.
Arrivato alla Strada del Commiato attraversò il quartiere più povero della città,
andando a sbattere contro un grasso mercante e gettandolo a terra. Le imprecazioni
dell’uomo aleggiarono nell’aria dietro di lui.
La porta della sua casa era bloccata da un capannello di vicini raccolti in
silenzio intorno alla soglia: aprendosi un varco in mezzo ad essi Parmenion trovò
Rhea che sedeva accanto al letto, mentre il dottore, Astion, era in piedi nel piccolo
cortile, con le spalle rivolte alla stanza. Parmenion si arrestò sulla soglia e il cuore
prese a battergli all’impazzata quando Rhea si girò verso di lui.
– Se n’è andata – disse la donna, alzandosi e accostandosi a lui per circondarlo
con le braccia grassocce. – Adesso non soffre più.
Le lacrime rigarono il volto di Parmenion mentre lui fissava il corpo snello
steso sul letto.
– Non mi ha aspettato – sussurrò.
Rhea lo abbracciò ancora per un momento, poi si accostò alla soglia e allontanò
con gentilezza vicini e amici; chiusa la porta dietro di loro, tornò accanto al letto e
si sedette, prendendo fra le proprie la mano sottile di Artema.
– Vieni – disse a Parmenion, – siedi accanto a lei dall’altra parte e dille addio.
Parmenion si avvicinò incespicando e strinse la mano destra della madre,
sedendo in silenzio per qualche tempo in compagnia di Rhea; Astion entrò a dare
un’occhiata ma vedendo che gli altri due non gli badavano se ne andò senza far
rumore.
– Alla fine ha parlato di te – disse Rhea, – dell’orgoglio che provava nei tuoi
confronti. Voleva aspettare per vederti e sapere come stavi.
– Ho vinto, madre – sussurrò Parmenion, stringendo le dita prive di vita. – Ho
vinto davanti a tutti – ripeté, abbassando lo sguardo sul volto di Artema: gli occhi
erano chiusi, i lineamenti immoti.
– Ha un aspetto sereno – mormorò Rhea.
Parmenion scosse il capo. Non riusciva a vedere la serenità, vedeva soltanto la
terribile finalità della morte, l’immobilità totale, la separazione. E tuttavia la mano
della madre era ancora calda, le dita flessibili. Quanto volte lei lo aveva accarez-
zato per allontanare il dolore o gli aveva preso il volto fra quelle mani? Sentì un
terribile nodo serrargli lo stomaco e salire a gonfiargli la gola, poi le lacrime
presero a scorrere più liberamente, scivolandogli lungo il viso e cadendo sulla
mano di sua madre.
– Ha parlato anche di un cavallo bianco – continuò Rhea. – Poteva vederlo sul
pendio di una collina: stava venendo a prenderla e ha detto che su di esso avrebbe
cavalcato fino alla Macedonia. Se può esserti di conforto, ha detto anche di vedere
tuo padre, che la stava aspettando.
Incapace di parlare, Parmenion allungò una mano a sfiorare il volto materno.
– Dille addio – sussurrò Rhea. – Dille addio.
– Non posso – singhiozzò Parmenion. – Non ancora. Lasciami solo per un po’...
per favore, Rhea!
– Devo preparare il... va bene, tornerò fra un po’ – rispose la donna,
avvicinandosi alla porta per poi fermarsi sulla soglia. – Le volevo bene, era
un’ottima donna e una buona amica. Sentirò la sua mancanza, Parmenion, perché
in lei non c’era traccia di malvagità e meritava una sorte migliore.
Non appena sentì la porta che si chiudeva, Parmenion diede finalmente libero
sfogo al suo dolore e prese a singhiozzare incontrollabilmente, con la mente
sopraffatta da un susseguirsi di immagini. Riusciva a ricordare suo padre soltanto
in modo vago, come un enorme gigante scuro che si muoveva per la casa, ma sua
madre era stata sempre con lui. All’età di setta anni, quando secondo l’usanza lui
era stato portato a vivere negli alloggiamenti con gli altri ragazzi, sua madre aveva
pianto e lo aveva stretto a sé come se la sua vita fosse stata in pericolo, e in seguito
lui era sgusciato spesso via, arrampicandosi sui tetti e sui muri, per tornare a
trovarla.
Adesso non l’avrebbe vista mai più.
– Se mi amassi torneresti indietro – disse. – Non mi avresti mai lasciato.
Sapeva che erano parole insensate, ma non riuscì a impedirsi di pronunciarle.
Rimase seduto con il cadavere fino a quando la luce del giorno cominciò a
svanire, poi sentì la porta che si apriva e si aspettò di sentire sulla spalla la mano di
Rhea.
– Ti ho portato il tuo trofeo, generale – disse Senofonte, in tono sommesso. –
Coprile il volto ed esci in cortile a parlare con me.
– Non posso coprire il suo volto! – protestò Parmenion.
– Lei non è più qui, ragazzo, se n’è andata – insistette il generale, portandosi
dall’altro lato del letto. – Quello che vedi è il mantello che indossava. Coprirla non
è una cosa terribile.
Il suo tono di voce era gentile, e Parmenion sollevò lo sguardo su di lui
ricacciando indietro le lacrime; con delicatezza, tirò quindi il lenzuolo bianco fino
a nascondere il volto immoto.
– Parliamo per un po’ – suggerì Senofonte, guidando il ragazzo nel cortile e
sedendo su una panca di pietra. Adesso l’Ateniese indossava un lungo mantello di
lana blu su una tunica di lino bianco e portava sandali alti fino al polpaccio fatti del
cuoio migliore, ma nonostante questo era pur sempre evidente la sua natura di
soldato. In mano stringeva la spada di Leonida, che porse a Parmenion.
Il giovane l’accantonò senza neppure guardarla.
– Nei giorni a venire acquisterà per te maggiore importanza – annuì questi, –
ma lasciamo perdere. Tu sei giovane, Parmenion, e la vita ha ancora in serbo per te
molti dolori, anche se nessuno di essi ti toccherà mai in profondità come questo. Tu
sei però un ragazzo sensato e sai che tutte le persone muoiono: ho parlato con i tuoi
vicini a proposito di tua madre, ed ho saputo che stava soffrendo molto.
– So che soffriva e so quanto lottava. Io volevo... volevo costruire qualcosa per
lei... una casa... non so. Però volevo che fosse felice, che avesse quello che
desiderava. Al mercato c’era una stoffa bordata d’oro che le piaceva... una stoffa
lucente adatta per il vestito di una regina, ha detto. Noi però non ce la potevamo
permettere, così io ho rubato quella stoffa, ma lei l’ha riportata indietro. Non aveva
niente.
– Tu vedi poche cose – replicò Senofonte, scuotendo il capo. – Lei aveva un
marito che amava e un figlio che adorava... credi che volesse di più? Sì, è possibile
che lo desiderasse, ma questo è un mondo crudele, Parmenion, e tutto ciò che qual-
siasi uomo... o donna... si può aspettare è un po’ di felicità. Stando ai vicini, tua
madre era felice: non sapeva nulla dei tuoi... problemi... con gli altri giovani,
rideva, cantava e danzava durante le feste. Certo, adesso è morta e non canterà più,
ma non soffrirà neppure, né diventerà vecchia e rugosa, vivendo più a lungo di suo
figlio.
– Perché sei venuto qui? – domandò il ragazzo. – Avresti potuto farmi portare
la spada.
– È vero – sorrise Senofonte. – Vieni con me a casa mia, Parmenion. Ceneremo
e mi parlerai di tua madre... è importante parlare di lei e farla accompagnare dalle
nostre lodi, così gli dèi sapranno che era una donna molto buona e la accoglieranno
con ottimo vino... e con un vestito di stoffa scintillante, bordata d’oro.
– Non voglio lasciarla – insistette Parmenion.
– È troppo tardi, perché se n’è già andata. Ora la devono preparare per la
sepoltura e non sta bene che un uomo assista ai misteri femminili. Vieni.
Parmenion seguì il generale fuori della casa e insieme percorsero in silenzio la
Strada del Commiato, oltrepassando il mercato fino ad arrivare alle dimore più
grandi dei nobili.
La casa di Senofonte appariva diversa senza la folla e ora che il recinto di
sabbia era stato rimosso. Il profumo dei fiori purpurei che crescevano sulle pareti
era ovunque e un servitore stava portando fuori parecchie lampade per rischiarare il
cortile; seduto nell’aria calda e pesante della notte, Senofonte ascoltò mentre
Parmenion gli raccontava la storia della vita di sua madre.
I servitori portarono il vino e alcuno dolcetti, e i due uomini rimasero alzati a
parlare fino a tardi; infine Senofonte accompagnò Parmenion in una piccola stanza
sul retro della casa.
– Dormi bene, amico mio – augurò il generale. – Domani ci occuperemo dei
tuoi affari. – Accennò quindi ad andarsene ma poi si arrestò sulla soglia,
chiedendo: – Dimmi, perché sei arrivato ultimo nella Grande Corsa?
– Ho commesso un errore – rispose Parmenion.
– Un errore che rimpiangi?
Parmenion vide di nuovo il volto del vecchio e la disperazione nel suo sguardo.
– No – disse. – Alcune cose sono più importanti di una vittoria.
– Cerca di ricordarlo – replicò l’Ateniese.

Seduta accanto al fuoco morente, Tamis stava guardando le ombre sempre più
tenui che danzavano sulle rozze pareti bianche della sua piccola stanza; la notte era
silenziosa, tranne che per il secco frusciare delle foglie smosse dal vento notturno
che sussurrava fra gli alberi.
La vecchia attese, ascoltando.
Non mi sbagliavo, disse a se stessa, in tono di sfida.
Un ramo sbatté contro la sua finestra con l’intensificarsi del vento, il fuoco si
levò in un’ultima intensa fiammata prima di affievolirsi, e dopo aver aggiunto altri
rami secchi per alimentarlo la vecchia si avvolse uno scialle intorno alle spalle.
Le palpebre le si abbassarono sotto il peso della stanchezza, e tuttavia continuò
a sedere accanto al fuoco, respirando appena e con il cuore che batteva in maniera
irregolare.
Con il passare delle ore notturne sentì poi il rumore di un cavallo al passo, il
lento e ritmico battere degli zoccoli contro il terreno cotto dal sole; con un sospiro
si issò in piedi, prese il bastone e si portò sulla soglia aperta, dove si soffermò a
fissare gli alberi resi spettrali dalle ombre.
Adesso il rumore era più vicino, e tuttavia non si scorgeva nessun cavallo.
Chiudendo gli occhi fisici, Tamis aprì quelli dello spirito e vide l’alto stallone
bianco attraversare la radura per fermarsi davanti a lei: era una bestia enorme, alta
quasi diciotto palmi, con gli occhi del colore dell’opale.
Con un sospiro, Tamis accantonò lo scialle e prese invece un mantello di lana
grigia, fermandoselo sulle spalle con una spilla di turchesi; lasciata la porta aperta
si addentrò nella notte in direzione della città, seguita dallo spettrale cavallo
bianco.
I suoi pensieri erano cupi mentre attraversava lentamente la piazza del mercato
semideserta, con il bastone che batteva a intervalli contro le lastre di pietra della
pavimentazione. La madre di Parmenion era stata una buona donna, gentile e affet-
tuosa.
E tu l’hai uccisa, sussurrò una voce nella sua mente.
– No, non l’ho fatto – ribatté ad alta voce.
L’hai lasciata morire. Non è la stessa cosa?
– Molte persone muoiono. Sono forse responsabile di tutte?
La volevi morta. Volevi che il bambino soffrisse da solo.
– Per renderlo forte. Lui è la speranza del mondo, e colui che è destinato a
sfidare il Dio Oscuro, e deve essere un uomo di potere.
La voce tacque, ma Tamis comprese che non era convinta.
Stai diventando vecchia, si rimproverò. Non esiste nessuna voce, sei tu che
parli con te stessa, e simili discussioni sono inutili.
– Io parlo con la voce della ragione – dichiarò all’aria notturna, – lei parla con
la voce del cuore.
E dentro di te non c’è posto per una voce del genere?
– Lasciami in pace! Faccio quello che deve essere fatto!
Un gruppo di uomini sedeva poco lontano sotto la luce della luna, intento a
giocare a dadi. Parecchi di essi sollevarono lo sguardo al passaggio della vecchia e
uno di essi si tracciò senza parere sul petto il segno del Cerchio per tenere a bada il
male. Tamis sorrise della cosa, poi l’accantonò dalla propria mente.
Arrivata alla casa di Parmenion chiuse gli occhi e lasciò che il suo spirito
entrasse, librandosi nella stanza dove Artema giaceva avvolta nei lini funebri. Ciò
che lei cercava però non era lì, quindi la maga tornò nel proprio corpo e riprese
stancamente a camminare lungo le strade rischiarate dalla luna, seguita dallo
stallone, fino a trovarsi davanti alle porte della casa di Senofonte. Di nuovo il suo
spirito si librò, attraversando la casa e salendo le scale fino alla piccola stanza in
cui Parmenion giaceva perso nei suoi sogni.
Vicino al letto aleggiava una pallida figura bianca ed eterea, simile a nebbia
modellata in una scultura, priva di lineamenti e lucente. Tamis sentì le
sopraffacenti emozioni che permeavano la stanza... amore e perdita, e un dolore
devastante. I sogni che stava facendo strapparono un gemito a Parmenion e la fi-
gura indistinta tremolò. Adesso Tamis poté avvertire confusione e sofferenza,
mentre un pallido braccio si protendeva verso il ragazzo senza però riuscire a
toccarlo.
– È il momento – sussurrò la vecchia.
– No. – La singola parola rimase sospesa nell’aria, non un rifiuto ma una
supplica.
– Anche se fosse sveglio non ti potrebbe vedere. Vieni via, ti guiderò io.
– Dove?
– Ad un luogo dove potrai riposare.
– Mio figlio – mormorò la figura, tornando a girarsi verso il letto.
– Sarà un grande uomo, salverà il mondo dall’oscurità.
– Mio figlio – ripeté lo spettro, come se non avesse sentito.
– Non appartieni più a questo mondo – affermò Tamis. – Digli addio in fretta,
perché presto giungerà l’alba.
– Sembra così sperduto – sussurrò lo spettro. – Devo restare per confortarlo. –
La nebbia acquistò maggiore consistenza, assumendo i lineamenti di Artema, che
si girò verso Tamis. – Io ti conosco. Sei la veggente.
– Infatti.
– Perché vuoi portarmi via da mio figlio?
– Non appartieni più a questo mondo – ripeté Tamis. – Tu... sei morta.
– Morta? Oh, sì, ricordo.
Tamis si fece forza per resistere al dolore nato dalla consapevolezza che ora
emanava dallo spettro.
– Non potrò più stringerlo a me! Non posso sopportarlo – gemette Artema, e
Tamis dovette volgere le spalle all’angoscia che c’era nei suoi occhi.
– Seguimi – ordinò, e tornò al proprio corpo. Per un po’ attese in silenzio oltre
le porte, e alla fine la figura spettrale apparve nel cortile.
– Hai detto che diventerà un grande uomo – disse Artema, – ma sarà felice?
– Sì – mentì Tamis.
– Allora devo essere contenta. Mi ricongiungerò a suo padre?
– Non posso dirlo, perché non mi è possibile andare dove tu stai per recarti,
però pregherò perché sia come tu desideri. Monta sul cavallo, perché lui soltanto
conosce i Sentieri dei Morti, e ti condurrà al sicuro.
La figura di nebbia fluì sulla groppa dello stallone.
– Ti occuperai di mio figlio? – chiese Artema. – Sarai sua amica?
– Mi occuperò di lui – promise Tamis, – e provvederò perché abbia tutto ciò
che gli servirà per realizzare il suo destino. Ora va’ !
Lo stallone sollevò il capo e cominciò ad avviarsi verso la collina della
sepoltura; Tamis lo seguì con lo sguardo fino a quando scomparve alla vista, poi si
lasciò cadere seduta su una panca di marmo.
Ma sarà felice?
Quella domanda la stava tormentando ed ebbe l’effetto di mutare il suo umore
dal dolore all’ira.
– I forti non hanno bisogno della felicità. Lui avrà gloria e fama, e il suo nome
sarà sussurrato con timore dagli uomini di tutte le nazioni. Intere generazioni
conosceranno la felicità grazie a lui... di certo questo è sufficiente – mormorò, poi
sollevò lo sguardo verso la finestra della stanza di Parmenion e aggiunse: – In ogni
caso ti dovrà bastare, stratega, perché è tutto quello che ti posso dare.

Parmenion si svegliò nel cuore della notte con la mente annebbiata e incerta e si
sedette sul letto non sapendo bene dove si trovasse. La luce della luna penetrava a
fiotti dalla finestra aperta, e nel sollevare lo sguardo verso l’astro notturno lui rivi-
de il volto materno freddo e immoto nella morte; la realtà lo colpì allora con
maggiore violenza di qualsiasi pugno mai ricevuto da Gryllus e dagli altri,
raggiungendolo dritto al cuore. Alzatosi dal letto si accostò alla finestra, che si
affacciava sul cortile, e nel fissare il quadrato vuoto della recinzione vide che il
campo di battaglia era stato smantellato e che la scena del suo trionfo era tornata ad
essere soltanto una distesa di acciottolato. Ripensò alla vittoria conseguita, ma essa
era nulla in confronto all’enormità della sua perdita, soltanto un gioco per bam-
bini... come aveva potuto attribuirle tanta importanza? Lanciò quindi un’occhiata al
letto, chiedendosi che cosa lo avesse svegliato, e di colpo ricordò.
Aveva sognato un cavallo bianco che galoppava su una distesa di colline verdi.
Di nuovo sollevò lo sguardo verso la luna e le stelle, che apparivano così
distanti, irraggiungibili e intoccabili.
Come sua madre...
Il senso di separazione era intollerabile. Sedutosi su una sedia dall’alto
schienale lasciò che la brezza notturna gli rinfrescasse il volto: che importanza
aveva adesso se gli altri lo disprezzavano? L’unica persona che lo amava se ne era
andata.
Che cosa farai, Parmenion? Dove andrai? si chiese.
Rimase seduto accanto alla finestra fino all’alba, osservando il sole sorgere ad
est oltre i picchi dei monti Parnon.
Poi la porta alle sue spalle si aprì: nel girarsi lui vide l’uomo chiamato
Clearcus, il suo giudice nei giochi, e si alzò con un inchino.
– Non c’è bisogno che mi accordi il tuo rispetto – avvertì l’uomo. – Qui io sono
poco più di un servitore. Il padrone di casa ti invita a fare colazione con lui.
Parmenion annuì e l’uomo accennò ad andarsene, ma all’ultimo momento si
girò con un’espressione più dolce sul volto.
– Probabilmente non significa nulla per te, ragazzo, ma mi dispiace per tua
madre. La mia è morta quando avevo undici anni, e non è una perdita che si possa
dimenticare.
– Ti ringrazio – rispose Parmenion. Le lacrime gli salirono agli occhi ma lui si
costrinse a controllarsi mentre seguiva Clearcus nel cortile dove Senofonte sedeva
in attesa.
– Confido che tu abbia dormito bene, giovane stratega – salutò il generale,
alzandosi in piedi con un sorriso.
– Sì, signore, grazie.
– Siediti e mangia qualcosa. Ci sono pane e miele... ne ho scoperto i benefici
durante la mia campagna in Persia e ti garantisco che permettono di dare bene
inizio alla giornata.
Parmenion tagliò parecchie fette di pane fresco e le cosparse di miele.
– Ho mandato un messaggio agli alloggiamenti – lo informò intanto Senofonte.
– Oggi non sei obbligato ad essere presente al raduno, quindi ho pensato che
avremmo potuto fare una cavalcata verso il Monte Ilias.
– Io non sono un buon cavaliere, signore – ammise Parmenion. – Non mi posso
permettere un cavallo.
– Allora come fai a sapere se sei un buon cavaliere o meno? Goditi il tuo
pasto... poi vedremo quanto sei bravo a cavalcare.
Finita la colazione, attraversarono la casa fino alle lunghe stalle sul retro, che
contenevano sei stalli e cinque cavalli.
– Scegli tu – disse Senofonte. – Esaminali e decidi quale montare.
Parmenion entrò in ciascuno stallo, fingendo di esaminare i cavalli. Senza
sapere cosa doveva guardare, si limitò ad accarezzare ogni animale, passando la
mano sull’ampia groppa di ognuno. Fra gli altri c’era un grigio dal bel collo
arcuato e dalla groppa robusta, ma il modo pieno di pregiudizio con cui guardò
Parmenion pareva promettere soltanto dolore, quindi alla fine il giovane scelse una
giumenta saura alta quindici palmi.
– Spiegami il perché della tua scelta – volle sapere Senofonte, mentre passava
la briglia intorno alla testa della giumenta e la conduceva nel cortile.
– Quando l’ho accarezzata ha strofinato il muso contro la mia mano, mentre gli
altri sono rimasti indifferenti... tutti tranne il grigio, che credo volesse staccarmi le
dita con un morso.
– Lo avrebbe fatto – ammise Senofonte, – comunque hai scelto ottimamente,
perché quella giumenta ha una buona indole, è pronta ad obbedire e nulla la
spaventa. – Nel parlare sistemò uno shabraque di pelle di capra sulla groppa
dell’animale. – Non scivolerà, ma ricorda di stringere con le cosce e non con i
polpacci – avvertì, sistemando invece sulla groppa del grigio uno splendido
shabraque di pelle di leopardo. – In Persia molti usano sedili di cuoio indurito che
sono fissati con cinghie alla groppa dell’animale, ma cose del genere vanno bene
per i barbari, Parmenion. Un gentiluomo usa soltanto una coperta o una pelle
animale.
L’aria era fresca, perché il sole del primo mattino non aveva ancora l’intensità
spossante che avrebbe acquisito entro poche ore; i due guidarono a mano i cavalli
oltre il Pianoro e uscirono sulle ondulate colline a settentrione della città; a quel
punto Senofonte congiunse le mani a coppa per aiutare Parmenion a montare in
sella, poi afferrò la criniera del grigio e gli balzò in groppa con un volteggio
disinvolto, sicuro ed aggraziato al punto che Parmenion si trovò ad invidiare il suo
stile.
– Cominceremo conducendo i cavalli al passo per dare loro il tempo di abituarsi
al peso – avvertì Senofonte, protendendosi in avanti per accarezzare il collo della
sua cavalcatura.
– Ti importa dei cavalli – osservò Parmenion. – Li tratti come amici.
– Sono amici – precisò Senofonte. – Ci sono in giro troppi stolti che sono
convinti di poter sottomettere un cavallo con la frusta e indurlo ad obbedire.
Possono sottometterlo, quanto a questo non ci sono dubbi, ma un cavallo senza
spirito è una bestia inutile. Rispondi a questo, stratega... in battaglia preferiresti
fare affidamento su un uomo che ti ama oppure su uno che hai percosso e
tormentato?
– La risposta è ovvia, signore: preferirei avere accanto un amico.
– Esatto. Perché dovrebbe essere diverso con un cavallo o un cane?
Insieme cavalcarono lungo le colline fino ad arrivare ad una pianura uniforme
coperta di erba secca.
– Lasciamo loro un po’ di libertà! – disse allora Senofonte, battendo una pacca
sulla groppa del grigio.
L’animale spiccò la corsa e la giumenta lo seguì subito; sulla sua groppa,
Parmenion serrò le ginocchia e si protese in avanti, lasciandosi prendere
dall’esaltazione della corsa mentre il battito degli zoccoli gli echeggiava negli
orecchi. Si sentiva vivo, veramente e meravigliosamente vivo.
Dopo parecchi minuti Senofonte fece deviare il cavallo a destra e si diresse
verso un boschetto di cipressi che cresceva ad est. Una volta là obbligò il castrato
grigio a rallentare al passo e Parmenion gli si affiancò al trotto.
– Te la sei cavata bene – approvò l’Ateniese, balzando a terra e sorridendo al
ragazzo.
– È una bella bestia, molto bella – replicò il giovane, smontando a sua volta.
– Allora accarezzala e diglielo.
– Mi può capire?
– Certamente no, ma può sentire il tuo tono di voce e comprendere dal tuo
tocco che sei contento di lei.
– Ha un nome? – domandò Parmenion, mentre passava le dita fra la criniera
scura.
– Si chiama Bella, è originaria della Tracia ed ha il cuore di un leone.
Impastoiati i cavalli, sedettero sotto i cipressi e d’un tratto Parmenion si sentì a
disagio: perché era lì? Che interesse poteva avere per lui quel leggendario
Ateniese? Non desiderava lasciarsi sedurre da Senofonte, e neppure voleva essere
messo nella posizione di dover rifiutare un corteggiatore così potente.
– Cosa stai pensando? – domandò senza preavviso il generale.
– Stavo pensando ai cavalli – mentì Parmenion.
– Non avere paura di me, ragazzo – disse Senofonte, annuendo. – Io ti sono
amico... e niente di più.
– Sei capace di leggere i miei pensieri?
– No, ma sono un generale ed è facile capire cosa stai pensando perché sei
giovane e ingenuo. Nel tuo confronto con Leonida hai lottato per impedire che
l’esaltazione del trionfo ti apparisse sul volto e quello è stato un errore, perché hai
trasformato i tuoi lineamenti in una maschera ma i tuoi occhi hanno continuato a
brillare della più pura malizia. Se desideri nascondere i tuoi sentimenti, devi prima
ingannare te stesso e quando guardi un nemico che odi devi fingere nella tua mente
che sia invece un amico. In questo modo il tuo volto si addolcirà e tu sorriderai in
maniera più naturale. Non tentare di essere inespressivo, perché serve soltanto a
rivelare al tuo nemico che stai nascondendo qualcosa. Inoltre, quando puoi, cerca
di usare anche un pizzico di onestà, che è il migliore di tutti i travestimenti.
Comunque queste sono riflessioni per un altro giorno... adesso ti stavi chiedendo
perché Senofonte si sta interessando a te. La risposta non è complicata: ti ho
osservato affrontare Leonida e sono rimasto colpito dall’ampiezza della tua
visione. La guerra è un’arte, non una scienza, ed è una cosa che tu comprendi in
maniera istintiva. Hai studiato Leonida ed hai scoperto le sue debolezze, poi hai
deciso di rischiare... e la cosa ti è riuscita meravigliosamente. Inoltre ti sei servito
bene della tua cavalleria, e questa è una dote rara in uno Spartano.
– Però non ho entusiasmato il pubblico – commentò Parmenion.
– Anche in questo c’è una lezione da apprendere, stratega: hai vinto, ma hai
permesso che la massima porzione di gloria andasse agli Sciriti. Se mai le razze
schiave cominciassero a pensare di essere pari agli Spartani ci sarebbe un’altra
rivolta e allora città stato come Atene e Tebe combinerebbero ancora le loro forze
per invadere le terre spartane. È una questione di equilibrio... ed è questo che i
guerrieri presenti fra la folla hanno capito.
– Allora ho sbagliato? – volle sapere Parmenion.
– In un gioco? No. Nella vita reale sì.
– Allora perché mi hai dato la vittoria? – insistette il giovane.
– Hai vinto la battaglia – rispose Senofonte. – In un gioco il fatto che avresti
poi perso la guerra non ha nessuna importanza.
Il generale si alzò e tornò alla sua cavalcatura, seguito da Parmenion.
– Mi farai da maestro? – chiese il giovane, prima di poter trattenere le proprie
parole.
– Forse – rispose Senofonte. – Ora andiamo.

Leonida mosse tre passi di corsa e scagliò il giavellotto in alto nell’aria,


osservando il suo arco ricurvo mentre il sole si rifletteva sulla punta di ferro
dell’arma che cadde con grazia fino a piantarsi con un tonfo nella terra cotta dal
sole una dozzina di passi più lontano rispetto ai tiri migliori degli altri ragazzi.
Leonida si girò, sollevando le braccia, e una ventina di giovani applaudirono.
In genere a questo punto l’ufficiale degli alloggiamenti, Lepidus, era solito
tirare a sua volta, e Leonida spostò lo sguardo su di lui.
Scuotendo il capo, Lepidus raccolse il giavellotto e indietreggiò di sette passi,
soppesando l’arma prima di correre in avanti e di lanciarla con un grugnito di
sforzo. Nel momento stesso in cui il giavellotto lasciava la mano dell’ufficiale,
Leonida si concesse un sorriso di trionfo.
Lepidus guardò il giavellotto cadere a meno di tre passi di distanza da quello di
Leonida, poi si girò e s’inchinò all’uomo più giovane.
– Hai un braccio robusto – affermò con calore, – ma non pieghi abbastanza il
corpo all’indietro nel lanciare. Puoi migliorare almeno di altri otto passi, quindi
lavora per riuscirci.
– Lo farò, signore – promise Leonida.
– Adesso mi piacerebbe vedervi correre, signori – disse Lepidus. – Venti giri
del percorso di gara, se non vi dispiace.
– E se ci dispiacesse? – gridò un ragazzo delle ultime file.
– Venticinque giri – ribatté Lepidus.
Dalle file si levò un gemito collettivo, ma i ragazzi raggiunsero il punto di
partenza e Lepidus si andò a sedere su una panca di legno all’ombra per osservarli
mentre correvano. Gryllus scattò subito in testa seguito da Learcus, e al tempo
stesso Leonida andò a piazzarsi al quarto posto dietro Hermias. Nel seguire la
corsa, Lepidus si massaggiò la spalla in cui era conficcata una punta di lancia
persiana, piantata sotto l’osso: la giuntura gli doleva spaventosamente d’inverno e
anche d’estate qualsiasi sforzo fisico, come scagliare un giavellotto, gli causava un
dolore sordo.
Lepidus sollevò lo sguardo quando i ragazzi sudati gli passarono davanti,
invidiando la loro gioventù e la loro energia e ricordando il tempo in cui anche lui
era stato un ragazzo negli alloggiamenti, che attendeva con impazienza di marciare
in battaglia con la falange.
– Più sforzo, giovane Pausias! – gridò, scorgendo un ragazzo in coda al gruppo,
e il colpevole si affrettò a portarsi in mezzo agli altri con uno scatto per
nascondersi dal suo occhio critico.
Intanto la mente di Lepidus prese a vagare e lui rivide la propria giovinezza,
dicendosi che a quel tempo Sparta era diversa, più aderente ai principi del divino
Licurgo: ai ragazzi degli alloggiamenti erano concesse soltanto due tuniche, una
per l’estate e una per l’inverno, non c’erano menestrelli che si esibissero nel Teatro
di Marmo, non c’erano commedie o feste nelle case dei ricchi. Una ciotola di
zuppa scura al giorno per i ragazzi e una disciplina di ferro mantenuta con il
randello, una razza selezionata per le battaglie. Tornando a guardare i ragazzi
rifletté che erano forti e orgogliosi, ma Leonida aveva molte tuniche e un mantello
caldo per difendersi dal vento dell’inverno, ed Hermias trascorreva la maggior
parte delle sere nella casa dei suoi genitori, mangiando buon cibo e bevendo vino
annacquato; il giovane Learcus aveva una daga decorata in oro opera di un
artigiano di Tebe mentre il pigro Pausias si riempiva il ventre con i dolci al miele e
correva con la rapidità di un maiale malato. Quei ragazzi non sopravvivevano Con
una ciotola di zuppa al giorno.
Riportando lo sguardo su Leonida, vide che il giovane si era spostato al
secondo posto e stava correndo dietro a Gryllus: l’Ateniese era un buon corridore,
ma Lepidus sapeva che Leonida avrebbe accelerato all’ultima curva e lo avrebbe
lasciato alle proprie spalle con il fiato corto. Soltanto Parmenion era in grado di
reggere l’andatura imposta da Leonida, ma mai per venticinque giri, una distanza
su cui la maggiore forza fisica di Leonida si faceva sentire.
Usare gli Sciriti al fianco dei veri uomini! Lepidus scosse il capo, ricordando
come quella mattina fosse stato convocato dall’ufficiale anziano proprio a causa di
quella mossa.
– Non è stata opera mia, signore – aveva detto a quel vecchio dagli occhi
incupiti.
– Allora avrebbe dovuto esserlo – era scattato l’anziano generale. – Il re è
rimasto contrariato ed uno dei nostri giovani migliori è stato coperto di vergogna.
Stai dicendo che quel ragazzo non ha mai usato una simile mossa nelle
esercitazioni?
– Mai, signore – aveva risposto Lepidus, con un crescente senso di disagio.
Quell’uomo era stato il suo ufficiale comandante in sette campagne, e anche se
adesso avevano entrambi oltrepassato l’Età Virile da oltre quarant’anni il generale
continuava a ispirargli un reverenziale timore.
– Raddrizzalo, Lepidus. Dove andremo a finire se permettiamo agli uomini di
Sparta di sviluppare simili metodi sconvolgenti?
– È un mezzosangue, signore, e non sarà mai uno Spartano.
– Suo padre era un ottimo guerriero – aveva ribattuto il generale, – e sua madre
si è sempre comportata bene. Però ho capito cosa intendi dire: il suo sangue sta
venendo fuori. Manda il ragazzo da me.
– È con Senofonte. Sua madre verrà sepolta oggi e l’Ateniese lo sta ospitando a
casa sua.
– Non voglio che uno dei miei ragazzi diventi l’efebo di quell’uomo! – aveva
esclamato il generale, picchiando un pugno sul tavolo.
– Provvederò perché sia qui domani.
– Fallo – aveva grugnito il vecchio. – Inoltre, Lepidus, non ci sarà nessuna
presentazione del Bastone della Vittoria.
– Signore?
– Nessuna presentazione, quest’anno.
Lepidus aveva fissato il vecchio negli occhi, deglutendo a fatica.
– Il ragazzo non mi piace molto, signore, ma ha vinto. Come possiamo
rifiutargli il Bastone?
– Dobbiamo dare un esempio: sai che i miei iloti stanno parlando della sua
vittoria e che la cosa si è risaputa fra gli Sciriti?
Lepidus non aveva aggiunto altro. Adesso se ne stava seduto all’ombra di un
alto cipresso, osservando i ragazzi correre e ricordando quella conversazione.
Parmenion non gli piaceva molto, perché lo vedeva come un giovane astuto e
subdolo, ma si era guadagnato il Bastone e non era giusto privarlo del suo trionfo.
Si chiese quindi come gli altri avrebbero accolto quella decisione: Parmenion non
era popolare, ma di solito la notte della consegna era una festa attesa con
impazienza ogni anno.
La corsa stava arrivando allo stadio finale, quindi Lepidus si alzò e si portò nel
centro del campo.
Gryllus era ancora in testa, ma ora Hermias era accanto a Leonida e stava
lottando per il secondo posto, bloccando le possibilità del giovane più alto di
superare Gryllus all’esterno. Leonida si gettò verso destra, spingendo di lato
Hermias che barcollò e perse terreno mentre Leonida scattava in avanti, raggiun-
gendo Gryllus appena prima del traguardo e superandolo all’ultimo istante.
Hermias arrivò quinto.
Lepidus attese che i giovani avessero ripreso fiato, poi li chiamò intorno a sé.
– Un’ottima corsa... tranne che nel tuo caso, Pausias. Ancora cinque giri, per
favore.
Gli altri levarono grida di derisione mentre il grasso giovane si avviava alla sua
corsa solitaria.
– Ed ora gli avvisi, signori. Innanzitutto, le prove olimpioniche. Leonida e
Parmenion rappresenteranno gli alloggiamenti nelle corse su media e lunga
distanza, e Leonida gareggerà anche nel giavellotto insieme a Nestus. Hermias e
Asiron ci rappresenteranno nella corsa su breve distanza. Parlerò ancora con gli
atleti in questione dopo aver congedato il resto di voi. Secondo punto: quattro
ragazzi sono arrivati in ritardo al raduno, questa mattina, il che non costituisce un
buon esempio per i membri più giovani degli alloggiamenti. Noi siamo Spartani,
signori, e questo significa che comprendiamo la disciplina, quindi che non succeda
di nuovo. Terzo punto: la presentazione del Bastone della Vittoria...
Il suo sguardo si posò su Leonida e lui vide un fugace sorriso affiorare sulle
labbra del giovane... Leonida lo sapeva già, e questa scoperta attizzò l’ira nel suo
animo.
– Quest’anno la presentazione non avrà luogo e non ci saranno festeggiamenti –
concluse. Con suo grande stupore dai ragazzi si levò un applauso che lo fece
incupire in volto. – Signori! – gridò, sollevando le braccia e riportando il silenzio.
– Non capisco la causa di questa gioia: qualcuno me la vuole spiegare? Tu, signore
– aggiunse, indicando Learcus.
– Savra ha barato – rispose Learcus, e Lepidus vide parecchi altri annuìre in
segno di assenso.
– Non ha barato! – ruggì l’ufficiale. – Ha vinto! E questo è ciò che ci si aspetta
facciano gli Spartani. Lasciate che chiarisca bene qualcosa a tutti voi: se Leonida
avesse ordinato alla sua cavalleria di avanzare, avrebbe potuto intercettare la
carica. A questo punto, quando fosse avanzato a sua volta, Parmenion avrebbe
esposto il fianco ai giavellotti e alle frecce e sarebbe stato annientato. Io non
giustifico il modo in cui si è servito degli Sciriti, ma quando vedo degli Spartani
piangere per una sconfitta mi sento prossimo alla disperazione. Siete congedati.
Ruotando sui tacchi, Lepidus si allontanò a grandi passi dal campo di
addestramento, lasciandosi alle spalle i ragazzi sconcertati.
– Non credevo che Savra gli piacesse – sussurrò Learcus.
– Quello che ha detto è giusto – replicò Leonida.
– No, Savra ha barato – intervenne Gryllus.
Leonida si alzò e si girò verso gli altri.
– Lepidus aveva ragione! Ho sottovalutato Savra e lui mi ha umiliato... avrei
dovuto indossare il Mantello della Vergogna. C’èra una dozzina di modi in cui
avrei potuto schiacciarlo se soltanto avessi intuito il suo piano, e tre in cui avrei
potuto vincere anche se non avessi capito le sue intenzioni, però non me ne sono
servito. Ora non ne parliamo più.
Leonida si allontanò a grandi passi e subito Gryllus si girò verso Learcus,
protendendosi verso di lui.
– Oggi il mezzosangue resterà a casa di mio padre – sussurrò, – ma stanotte
andrà a casa per i riti funebri.
– E allora?
– Allora non potrà correre alle Olimpiadi se avrà le gambe lese.
– Non so...
– Ha umiliato il nostro amico! – sibilò Gryllus.
– E se tuo padre lo scoprisse?
– Sarà buio, e Savra non farà mai i nostri nomi.
– Stanotte, allora – convenne Learcus.

Il corpo, avvolto in teli di lino bianco, venne sollevato dal letto e deposto su
una lunghezza di robusta tela tesa fra due pali. Parmenion osservò mentre le donne
portavano sua madre fuori della Casa della Morte e verso la collina della sepoltura.
C’erano quattro portatrici vestite di bianco e la florida Rhea che le seguiva come
Madre del Pianto. Alle sue spalle procedeva Parmenion, affiancato dal generale
ateniese Senofonte.
Il terreno di sepoltura era oltre il Teatro di Marmo, ad est della città, e la
piccola processione si snodò attraverso la piazza del mercato ribollente di vita e
oltre il Monumento a Pausania e a Leonida.
All’imboccatura della grotta una vecchia sedeva in attesa, con i capelli bianchi
che si agitavano al soffio della brezza leggera.
– Chi chiede di camminare con i morti? – domandò.
– La mia amica Artema – rispose Rhea, facendosi avanti.
– Chi porta il prezzo per attraversare il fiume?
– Io, Parmenion – dichiarò il ragazzo, lasciando cadere una tetra dracma
d’argento nella mano protesa della vecchia, che piegò il capo da un lato, fissando
su di lui gli occhi pallidi. Per un momento la donna rimase immobile come la
morte, poi il suo sguardo si spostò verso il punto in cui Senofonte era fermo in
silenzio.
– Colui che È e Colui che Sarà – sussurrò quindi la vecchia. – Invitami a casa
tua, generale.
Quella deviazione dal rituale sconvolse Senofonte, che trasse un profondo
respiro.
– Come desideri, vecchia madre – rispose.
– Portate il morto al suo riposo – scandì quindi là vecchia. Rhea ordinò alle
portatrici di avanzare e l’oscurità della grotta le inghiottì, mentre i due uomini si
fermavano all’ingresso.
– Non ho potuto permettermi le prefiche – osservò Parmenion. – Gli dèi la
terranno in minore considerazione per questo?
– Un punto interessante da discutere – replicò Senofonte. – Gli dèi si lasciano
fuorviare dalle lacrime e dai lamenti fasulli? Ne dubito. Uomini per bene sono
morti senza essere pianti né notati, mentre altri dalla consumata malvagità hanno
avuto migliaia di dolenti al loro funerale. È piacevole pensare che gli dèi siano
dotati di maggiore discernimento degli uomini.
– Tu ci credi?
– Io credo che ci sono poteri che governano la nostra vita, e che noi attribuiamo
ad essi molti nomi.
– Pensi che lei tornerà a vivere?
– Mi piacerebbe supporlo. Vieni, passeggiamo per un po’, oggi non fa troppo
caldo.
Insieme tornarono con passo tranquillo verso il Monumento a Pausania e a
Leonida. Si trattava di un enorme cubo di marmo sovrastato dalla statua di un
oplita spartano, e nella base era incisa la storia della grande battaglia di Platea, in
cui i Persiani invasori erano stati schiacciati dal potere della falange spartana.
Liberatosi del suo mantello bianco, Senofonte si sedette all’ombra, e quando
un’anziana vedova si avvicinò offrendo dei melograni le lasciò cadere nel palmo
della mano una moneta, comprandone tre e gettandone uno a Parmenion.
– Qual è la lezione che ci insegna Platea? – gli chiese, prendendo una daga
dalla cintura e tagliando in quattro il suo frutto.
– La lezione? – ripeté Parmenion, poi scrollò le spalle e aggiunse: – Hanno
avanzato contro il centro persiano, che ha ceduto e si è dato alla fuga. Cosa
dovremmo imparare?
– Perché i Persiani sono fuggiti?
Parmenion sedette accanto al generale, sbucciando il suo frutto e mangiandone
la pofpa per poi sputare i semi sul terreno.
– Non lo so... erano spaventati?
– È ovvio che erano spaventati. Rifletti! – scattò Senofonte. Parmenion arrossì
in volto, sentendosi imbarazzato.
– Non so abbastanza della battaglia – ammise, – e non ti posso rispondere.
Senofonte parve rilassarsi e finì di mangiare il suo melograno, appoggiandosi
poi contro il fresco schienale di marmo.
– Esamina le prove, Parmenion.
– Non so cosa vuoi!
– Se riuscirai a rispondere alla mia domanda allora farò quello che tu vuoi... ti
istruirò. In caso contrario non ci sarebbe senso a farlo. Rifletti sulla cosa e vieni da
me questa sera – replicò Senofonte, alzandosi e allontanandosi.
Parmenion rimase seduto a lungo, riflettendo sulla domanda, ma la risposta
continuò a sfuggirgli. Sceso al mercato, strisciò dietro una bancarella e rubò due
pasticci: anche se venne scorto dal proprietario riuscì comunque a sgattaiolare in
un vicolo e si allontanò lungo la Strada del Commiato prima che il vecchio potesse
prenderlo. I giovani Spartani venivano incoraggiati a integrare i loro magri pasti
con il furto e se colti sul fatto venivano puniti severamente... non per aver rubato
ma per essersi lasciati sorprendere.
Sulla Strada del Commiato il giovane scorse due uomini anziani che sedevano
uno accanto all’altro vicino al palazzo di Agisaleus, e si accostò loro inchinandosi.
Dopo un po’ uno dei due sollevò lo sguardo, mostrando di accorgersi della sua pre-
senza.
– Allora? – chiese.
– Signore – disse Parmenion, – sai quale sia la lezione insegnata dalla battaglia
di Platea?
– Lezione? – replicò l’uomo. – Quale lezione? La sola lezione è stata impartita
ai Persiani e al mondo: non si affronta un esercito spartano aspettandosi di vincere.
Che stupida domanda da porre!
– Ti ringrazio, signore – rispose Parmenion, inchinandosi e allontanandosi.
Che sorta di indovinello gli aveva sottoposto Senofonte? Possibile che la
risposta fosse tanto ovvia? E se era così, perché l’Ateniese gli aveva rivolto la
domanda? Parmenion raggiunse di corsa l’acropoli, dove mangiò i suoi pasticci
fissando le montagne del Taigeto.
«Esamina le prove» aveva detto Senofonte. Quali prove? Cinquemila Spartani
avevano affrontato il grande esercito di Serse sul campo di Platea, i Persiani erano
stati annientati e la guerra vinta. Il generale degli Spartani era stato Pausania.
Quale lezione?
Alzatosi in piedi, Parmenion scese la collina in direzione del monumento, dove
lesse la descrizione della battaglia incisa nel marmo, senza però che essa gli
dicesse qualcosa che lui già non sapeva. Quali erano allora le prove?
Cominciò ad irritarsi: l’Ateniese non voleva addestrarlo ed aveva trovato una
scusa, sottoponendogli un problema che non aveva risposta in modo da poterlo poi
respingere. Nonostante la sua irritazione Parmenion accantonò però quel pensiero
perché Senofonte non aveva bisogno di scuse... un semplice «no» sarebbe stato
sufficiente.
Il monumento a Pausania e a Leonida...
Esso incombeva su di lui, con il suo segreto nascosto nella pietra. Parmenion
sollevò lo sguardo sulla statua dell’oplita: la lunga lancia del guerriero era spezzata
e tuttavia lui appariva lo stesso possente.
Si trattava di Leonida o di Pausania, o di un soldato qualsiasi? Leonida? Perché
il re ucciso alle Termopili figurava nel monumento eretto ai vincitori di Platea? Lui
era caduto alcuni mesi prima. I Greci avevano chiesto agli Spartani di essere la
punta di diamante della loro armata contro l’imminente invasione persiana, ma in
quel periodo gli Spartani stavano celebrando una festa religiosa e i sacerdoti
avevano rifiutato di permettere una mossa del genere. Il re spartano Leonida aveva
però ottenuto il permesso di prendere la propria guardia personale di trecento
uomini e di raggiungere il Passo delle Termopili, dove aveva bloccato l’avanzata
delle orde persiane. Lo schieramento spartano aveva retto anche dopo essere stato
tradito e circondato, e i Persiani avevano finito gli avversari con frecce e giavellotti
perché avevano troppa paura di avvicinarsi a loro.
Come il sole che emergesse dalle nubi, la risposta alla domanda di Senofonte
brillò nella mente di Parmenion. Qual era la lezione di Platea? Che anche nella
sconfitta c’è la vittoria: i Persiani, troppo spaventati perfino per affrontare quanto
rimaneva dei trecento delle Termopili, si erano alla fine trovati faccia a faccia con
cinquemila guerrieri Spartani, avevano visto il loro schieramento avanzare con le
lance puntate ed erano fuggiti. Per questo il monumento era dedicato ad entrambe
le battaglie, perché Platea era anche una vittoria di Re Leonida, una vittoria
ottenuta con il coraggio, la sfida e la morte di un eroe.
– Ti saluto, Leonida – sussurrò, sollevando lo sguardo sull’oplita di marmo.

I servi di Senofonte si trassero indietro quando la vecchia oltrepassò le porte


della sua casa e nessuno osò avvicinarlesi. Lei si accorse del loro timore e sorrise
senza divertimento mentre si fermava appoggiandosi al suo bastone, in attesa del
padrone di casa.
Poteva avvertire su di sé la pressione di molti sguardi, che un tempo avrebbero
brillato di desiderio... una volta la semplice vista di Tamis avrebbe destato la
passione e indotto gli uomini ad uccidere il loro stesso fratello soltanto per avere il
diritto di tenerle la mano. La vecchia fece una smorfia e sputò per terra. Una
volta... ma a chi importava ciò che era stato una volta? Il suo primo marito era
morto in una guerra contro Atene, il secondo in una battaglia in Tracia. Il terzo
aveva contratto una febbre in un’estate torrida in cui l’acqua era marcita, ed era
morto in preda all’agonia mentre Tamis era in visita a Delfi. Quell’ultimo avrebbe
potuto salvarlo... se avesse saputo della sua malattia. Avrebbe potuto? Avrebbe
voluto? Che importanza aveva adesso? Ormai il passato era morto.
Sentì una porta che si apriva e il rumore dei passi sicuri del generale ateniese
che si avvicinava. Osservandolo tanto con lo sguardo fisico quanto con il suo
Talento, vide al tempo stesso il suo corpo avvenente e il bagliore del fuoco della
sua anima.
– Benvenuta nella mia casa, signora – salutò Senofonte.
– Accompagnami all’ombra e lasciami bere – disse la vecchia.
La sua mano le toccò il braccio e lei avvertì il suo potere, che la sconcertò,
ricordandole la Tamis della giovinezza. Poi il vigore della luce del sole si attenuò
quando lui la condusse nell’ombra di un’alcova sulla destra, dove avvertì il
profumo di molti fiori e la frescura della parete di pietra. Sedutasi, attese in silenzio
finché un servitore non le ebbe portato un boccale d’acqua fresca attinta dal pozzo.
– Hai un messaggio per me da parte della dea? – chiese Senofonte.
Tamis sorseggiò l’acqua, ma essa le toccò un nervo esposto in un dente che
stava marcendo e lei posò il boccale sul tavolo di marmo.
– Non troverai quello che desideri, Ateniese. Non ci saranno altre guerre per te,
né altra gloria sul campo di battaglia – disse, e nell’avvertire la sua delusione
intensa e amara aggiunse in tono più sommesso: – Tuttavia sarai ricordato per
mille anni a venire.
– Com’è possibile, se le mie glorie finiscono qui?
– Non lo so, Senofonte, ma puoi fidarti delle mie parole. Non sono però venuta
qui per parlare di te, ma del cucciolo.
– Il cucciolo? Quale cucciolo?
– Il ragazzo che ha sepolto sua madre, Colui che Sarà. Lui conoscerà gloria e
dolore, tragedia e trionfo. È lui quello importante.
– Ma è soltanto un bambino, non è un re e neppure un nobile. Cosa può fare?
Tamis finì di bere l’acqua. In quel posto si sentiva a proprio agio e tuttavia
sapeva di non essere gradita. Sarebbe stato piacevole trascorrere la giornata
nell’ombra, ripensando ai giorni più felici della sua lunga, lunga vita. Sospirò.
– Il suo è un destino di gloria, ma il suo nome non sarà ricordato come il tuo
anche se lui guiderà eserciti attraverso il mondo. È tuo dovere insegnargli e dargli
ciò che possiedi.
– Io non possiedo nulla! – scattò Senofonte. – Non sono ricco e non detengo il
comando.
– Tu hai tutto ciò lui ha bisogno, Ateniese, immagazzinato nella tua mente.
Conosci il cuore degli uomini e l’evolversi delle battaglie. Dagli questi doni e
guardalo crescere.
– Lui porterà Sparta alla gloria?
– Sparta? – replicò la vecchia, con una cupa risata. – I giorni di Sparta sono
contati, Senofonte. Abbiamo il re storpio, perché lo hanno eletto senza dare ascolto
all’oracolo. Lisandro ha pensato di sapere cosa era meglio... come gli uomini sono
propensi a fare... ma non ci saranno nuove glorie per Sparta. No, il ragazzo andrà
altrove. Sarai tu a mandarlo, quando arriverà il momento – concluse Tamis,
alzandosi in piedi.
– È tutto qui? – domandò Senofonte, alzandosi a sua volta. – Mi hai riempito di
enigmi. Perché non mi puoi dire di più?
– Perché questo è tutto quello che so, Ateniese. Pensi che gli dèi concedano ai
loro servitori di condividere tutto il loro sapere? Ho fatto quello che dovevo. Non
so altro.
Con quella menzogna sulle labbra, Tamis uscì sotto la luce del sole e si
allontanò lungo la strada.

Lentamente, percorse le vie di Sparta e proseguì fino ad oltrepassare il piccolo


lago e il Tempio di Afrodite, seguendo uno stretto sentiero che portava alla porta
della sua casa... una bassa e misera costruzione di una sola stanza con una fossa
centrale per il fuoco e un’apertura nel tetto per permettere la fuoriuscita del fumo.
In un angolo c’era un pagliericcio come letto, ma quello era l’unico arredo.
Tamis si accoccolò davanti al fuoco spento, sollevando la mano e pronunciando tre
parole, in risposta alle quali le fiamme si levarono dalle ceneri fredde, bruciando
intensamente. Per qualche tempo la vecchia rimase a fissare le lingue di fiamma
danzanti, ma alla fine il peso della solitudine ebbe la meglio su di lei e le spalle le
si accasciarono.
– Dove sei, Cassandra? – sussurrò. – Vieni da me.
Le fiamme si levarono più alte, arricciandosi come se cercassero di avviluppare
una sfera invisibile, poi una faccia prese lentamente forma in mezzo ad esse, un
volto regale dalle ossa fini, con un lungo naso aquilino... non bello, di certo, ma
avvenente e forte, incorniciato da ricciuti capelli biondi.
– Perché mi desti dal mio sonno? – chiese la donna nel fuoco.
– Mi sento sola.
– Usi i tuoi poteri con eccessiva imprudenza, Tamis, e con poca saggezza.
– Perché non dovrei chiamarti? – domandò la vecchia. – Anch’io ho bisogno di
amici... di compagnia.
– Il mondo pullula di esseri viventi – ribatté la donna nel fuoco, – e dovrebbero
essere loro i tuoi amici. Se però devi parlare, io sono obbligata ad ascoltare.
Tamis annuì e raccontò a Cassandra dell’ombra nel futuro, dell’avvento del Dio
Oscuro.
– E questo cosa c’entra con te? – domandò Cassandra. –
Fa parte della perenne battaglia fra la Fonte e lo Spirito del Caos.
– Io posso impedire la nascita, so che posso farlo.
– Impedire la... che cosa stai dicendo? Hai visto ciò che sarà. Come puoi
cambiarlo?
– E tu come puoi chiedermi una cosa simile? – ritorse Tamis. – Sai meglio di
me che ci sono migliaia di migliaia di possibili futuri, tutti dipendenti da decisioni
limitate prese da uomini e donne... sì, e perfino da bambini e da animali.
– Il che è esattamente quello che sto dicendo io, Tamis. Non ti sono stati dati i
tuoi poteri perché manipolassi gli eventi... non è mai stato questo il modo di agire
della Fonte.
– Allora forse avrebbe dovuto esserlo – scattò Tamis. – Ho studiato centinaia di
possibili futuri, e in quattro almeno il Dio Oscuro può essere bloccato. Tutto quello
che dovevo fare era seguire a ritroso quelle linee fino all’unico elemento capace di
cambiare il corso della storia, ed è ciò che ho fatto.
– Stai parlando del giovane Parmenion – affermò con tristezza la donna nel
fuoco. – Ti sbagli, Tamis, e dovresti smettere di immischiarti. Questa è una materia
che va al di là delle tue capacità, che è più grande di mondi interi, in quanto fa
parte della lotta cosmica fra il Caos e l’Armonia. Non hai idea del danno che puoi
causare.
– Danno? – ripeté Tamis. – Conosco il danno che sarà causato se al Dio Oscuro
sarà permesso di vivere e di percorrere la terra sotto forma umana. Le montagne
saranno bagnate di sangue e i fiumi emetteranno fumo... la terra diventerà una
landa desolata.
– Capisco – commentò Cassandra. – E naturalmente tu sola hai il potere di
opporti a questo male.
– Non essere paternalistica! Pensi che dovrei vivere come hai fatto tu,
pronunciando profezie che non vengono credute da nessuno? A cosa servono? A
cosa ti sono servite? Vattene!
Il fuoco si spense e il volto scomparve.
Tamis sospirò. Giusto o sbagliato che fosse, il suo cammino
era fissato, i piani erano stabiliti. Parmenion sarebbe diventato
il Guerriero della Luce, che avrebbe tenuto a bada l’oscurità.
Non immischiarsi! Chi pensavano che avesse distrutto i piani dell’ultima Venuta,
oltre vent’anni prima, quando il bambino stava per essere generato dal re persiano?
Chi era entrata nella mente della concubina nella notte stessa del concepimento e
l’aveva indotta a salire sulla sommità della torre per poi gettarsi sulle pietre
sottostanti?
– Sono stata io! – sibilò. – Io!
E ti sbagliavi! affermò una piccola voce nella sua mente. Come ti sbagli
adesso. Parmenion ha la sua vita da vivere e non spetta a te alterare il suo destino.
– Non lo sto alterando – dichiarò ad alta voce. – Lo sto aiutando ad adempierlo.
Gli deve essere permesso di scegliere.
– Gli offrirò io le scelte, nei momenti culminanti della sua vita andrò da lui e gli
offrirò le sue scelte.
E se ti sbagliassi, Tamis?
– Non mi sbaglio, e il Dio Oscuro deve essere fermato. Verrà fermato. Ora
lasciami in pace!
Nel silenzio che seguì Tamis si guardò intorno nella stanza squallida,
sentendosi il cuore pesante. Con i suoi poteri si sarebbe potuta garantire un ricco
palazzo e una vita di splendori, invece aveva scelto questo.
– Ho offerto i miei doni alla Fonte – disse alla stanza, – e la Luce è con me in
tutto quello che faccio.
Non c’era nessuno che potesse controbattere, e tuttavia Tamis continuò a
sentirsi insicura. Puntando un dito verso il fuoco pronunciò un nome, in risposta al
quale apparve il volto di un uomo.
– Suona per me, Orfeo, lascia che la musica plachi il mio cuore.
Mentre le dolci note della lira echeggiavano nella stanza, Tamis si avvicinò al
proprio letto e si distese sulla schiena, pensando ai futuri che aveva visto. In tre di
essi il Dio Oscuro era nato a Sparta, la città dominante della Grecia.
Tre erano i possibili padri: Learcus, che poteva arrivare alla grandezza; Nestus,
che era imparentato con la famiglia reale; Cleombrotus, che sarebbe stato re.
– Ora vedremo il tuo destino, Parmenion – sussurrò, chiudendo gli occhi. – Ora
vedremo.

Sdraiato sulla collina ad est della città, Parmenion stava osservando le ragazze
correre e giocare. Questo suo interesse nelle loro attività lo sorprendeva, perché
non era un passatempo che avrebbe preso in considerazione fino all’estate
precedente... ricordava ancora il giorno in cui un nuovo tipo di gioia era entrato
nella sua vita. Stava correndo su e giù per il fianco della collina quando una voce
dolce come la nascita del mattino gli aveva rivolto la parola.
– Cosa stai facendo?
Girandosi Parmenion aveva visto una ragazza di circa quattordici anni, vestita
con una semplice tunica bianca attraverso la quale lui poteva vedere non soltanto la
forma squisita dei suoi piccoli seni ma anche i capezzoli che premevano contro il
lino sottile; le sue gambe erano lisce e abbronzate, la vita stretta, i fianchi ben
arrotondati. Con un senso di colpa aveva sollevato lo sguardo, consapevole del
proprio crescente rossore, e si era trovato a fissare due ampi occhi grigi circondati
da un volto di incredibile bellezza.
– Stavo... correndo – aveva risposto.
– L’ho visto – aveva ribattuto lei, sollevando una mano per passare le dita fra i
capelli dorati tendenti al rosso; a Parmenion era parso che i raggi del sole fossero
rimasti intrappolati in quei riccioli, splendendovi come gioielli. – Ma vuoi dirmi
perché lo fai? – aveva continuato lei. – Corri su e giù per la collina, avanti e
indietro, ed è una cosa che non ha senso.
– Lepidus... il mio ufficiale degli alloggiamenti... dice che servirà a rinforzarmi
le gambe. Io sono veloce.
– Ed io sono Derae – aveva scherzato lei.
– Non mi chiamo Veloce.
– Lo so... stavo soltanto scherzando.
– Capisco. Ora... ora devo andare.
Parmenion si era girato ed era fuggito su per la collina: sorprendentemente, se
si teneva conto dei suoi sforzi precedenti, aveva raggiunto una velocità che non
avrebbe mai creduto possibile.
Per quasi un anno, dopo quell’incontro, si era recato sulle colline e sui campi al
di là del lago per osservare le ragazze che correvano. Lepidus gli aveva spiegato
che soltanto a Sparta alle donne era permesso di sviluppare il loro corpo e che nelle
altre città stato simili esercizi erano considerati indecenti, in quanto si sosteneva
che incitavano gli uomini a commettere gravi crimini. Mentre giaceva steso sul
ventre, in preda ad un disagio piacevolissimo e intento a seguire Derae con lo
sguardo, Parmenion rifletté che quell’opinione poteva benissimo essere fondata.
Vide le ragazze allinearsi per una breve corsa: Derae era all’esterno e vinse con
facilità correndo con grandi falcate, con i piedi che sembravano non sfiorare quasi
il terreno erboso.
In quell’anno aveva trovato soltanto due volte il coraggio di rivolgerle la parola
mentre lei si avvicinava al campo, ed in entrambe le occasioni Derae lo aveva
salutato con un allegro sorriso e un cenno della mano, correndo però via prima che
lui potesse avviare una conversazione. A Parmenion non importava, per lui era
sufficiente poterla guardare ogni settimana, e poi sapeva benissimo che conoscerla
meglio non gli sarebbe servito a nulla perché agli uomini di Sparta non era
permesso di s osarsi prima di raggiungere l’Età Virile, a vent’anni.
Ancora quattro anni. Un’eternità.
Dopo un’ora le ragazze finirono i loro esercizi e si prepararono a tornare a casa.
Parmenion rotolò sulla schiena e chiuse gli occhi per proteggerli dall’aspro
bagliore del sole, riposando con le mani incrociate sotto il collo e riflettendo su
molte cose. Pensò al suo confronto con Leonida e agli incessanti tormenti di cui era
fatto oggetto negli alloggiamenti, a Senofonte, ad Hermias e a Derae; cercò di non
pensare molto a sua madre perché la ferita era ancora troppo recente, e quando il
suo volto gli fluttuò davanti all’occhio della mente si sentì perdere il controllo.
Un’ombra cadde su di lui.
– Perché mi osservi? – chiese Derae.
Parmenion si sollevò di scatto a sedere e la trovò inginocchiata nell’erba
accanto a lui.
– Non ti ho sentita avvicinarti.
– Non hai risposto alla mia domanda, giovane Veloce.
– Mi piace guardarti – spiegò lui, con un sorriso. – Corri bene, ma penso che
agiti troppo le braccia.
– Allora mi osservi per poter criticare il mio stile nella corsa?
– No, non era questo che intendevo – replicò lui, traendo un profondo respiro
ed esalando poi lentamente il fiato. – Credo che tu lo sappia e che stia di nuovo
scherzando a mie spese.
– Soltanto un poco, Parmenion – annuì lei.
Con un senso di esaltazione, il giovane pensò che se lei conosceva il suo nome
questo poteva soltanto significare che aveva fatto domande sul suo conto e che era
interessata a lui.
– Come fai a sapere come mi chiamo?
– Ho assistito al tuo confronto con Leonida.
– Oh – mormorò lui, deluso. – Come hai potuto, visto che alle donne non è
permesso di presenziare?
– Mio padre è un intimo amico di Senofonte, e il generale ha permesso a noi tre
ragazze di assistere da una finestra del piano superiore. Abbiamo dovuto fare a
turno, per evitare che ci notassero. Hai usato una tattica interessante.
– Ho vinto – sottolineò Parmenion, sulla difensiva.
– Lo so, ti ho appena detto che ero presente.
– Scusami, ho pensato che mi stessi criticando... tutti gli altri lo hanno fatto.
– Non avevi neppure bisogno di usare gli Sciriti – ribatté lei, annuendo con
espressione solenne. – Se fossi avanzato su sedici file avresti potuto comunque
infrangere lo schieramento di Leonida, che era ridotto ad appena quattro file.
– Lo so anch’io – ammise lui, scrollando le spalle, – ma non posso cancellare
quella mossa.
– Hai ancora la spada?
– Certamente. Perché non dovrei?
– È molto preziosa e avresti potuto venderla.
– Mai! È una delle sette spade, e la custodirò per tutta la vita.
– È un vero peccato – commentò Derae, alzandosi in piedi con agilità, – perché
mi sarebbe piaciuto comprarla.
– A cosa ti servirebbe una spada? – domandò Parmenion, alzandosi a sua volta.
– L’avrei data a mio fratello.
– Sarebbe uno splendido dono. Ti secca che ti guardi mentre corri?
– Dovrebbe seccarmi? – controbatté lei, sorridendo.
– Sei promessa?
– Non ancora, anche se mio padre comincia a parlarne. È una proposta,
Parmenion?
Prima che lui potesse rispondere una mano lo afferrò per la spalla, tirandolo
all’indietro; immediatamente Parmenion ruotò su se stesso e il suo pugno
raggiunse la mascella di Leonida, che barcollò all’indietro. Per un momento il
giovane Spartano biondo si massaggiò il mento, poi tornò ad avanzare.
– Smettetela! – gridò Derae, ma i due la ignorarono, assolutamente concentrati
uno sull’altro.
Leonida scattò quindi in avanti con un finto gancio a cui seguì un diretto che
raggiunse in pieno la faccia di Parmenion; questi assecondò l’impeto del colpo e al
tempo stesso afferrò la tunica dell’avversario, sferrandogli una ginocchiata
all’inguine. Con un grugnito di dolore, Leonida si piegò in avanti e Parmenion gli
assestò un colpo alla faccia con la propria fronte, così forte che il suo avversario si
accasciò e cadde quasi al suolo. Parmenion lo spinse lontano da sé, poi notò una
pietra grossa e aguzza che sporgeva nell’erba e si affrettò ad estrarla l terreno e ad
avanzare contro lo stordito Leonida con l’intenso desiderio di fracassargli il cranio.
Derae scattò in avanti a bloccargli il passo e la sua mano aperta calò sulla
guancia di lui con un sonoro schiocco. Parmenion le chiuse una mano intorno alla
gola, sollevando la pietra... poi s’immobilizzò nel leggere il terrore nei suoi occhi.
Lasciata cadere la pietra, indietreggiò di qualche passo.
– Io... mi dispiace... lui... lui è mio nemico.
– È mio fratello – disse Derae, con espressione fredda quanto la pietra che lui
aveva lasciato cadere.
Intanto Leonida si era ripreso e si portò al fianco della ragazza.
– Avvicinati ancora a mia sorella... e ne dovrai rispondere a me con una lama in
mano.
Improvvisamente Parmenion scoppiò a ridere, anche se si trattò di un suono
privo di umorismo.
– Sarebbe un piacere – sibilò, – perché sappiamo entrambi quale lama avrei io
in pugno, quella che tu non possiederai mai... anche se la tua anima la desidera.
Però non temere, Leonida, perché non voglio nulla da te... o dalla tua famiglia.
– Pensi che abbia paura di te, contadino?
– Se non ne hai... dovresti averne. Affrontami pure quando e dove vorrai,
maiale arrogante, ma sappi questo... io ti distruggerò.
Con quelle parole Parmenion girò sui tacchi e si allontanò.

Lasciato il campo di addestramento, Hermias attraversò di corsa le strade


cittadine e la piazza del mercato fino ad arrivare al lago proprio quando le ragazze
stavano per andare via. In giro non si scorgeva traccia di Parmenion, e lui stava per
allontanarsi al riparo degli alberi ma Derae lo vide e agitò la mano in un gesto di
saluto; con un sorriso timido Hermias si fece allora avanti e Derae gli corse
incontro, baciandolo su una guancia.
– Non ti si vede spesso qui, cugino. Stai sviluppando un interesse per le
ragazze?
Intanto due amiche di Derae si erano accostate e stavano toccando la tunica del
giovane, con l’apparente scusa di esaminarne la stoffa.
– Sto cercando il mio amico Parmenion – spiegò Hermias, arrossendo.
– Era qui, ma ora non più – scattò Derae, oscurandosi in volto.
– Ti ha offesa? – domandò Hermias, in tono timoroso.
Per un momento Derae non rispose, perché sapeva che Leonida si sarebbe
infuriato se avesse saputo che lei aveva raccontato della sua sconfitta; al tempo
stesso, però, si sentiva spinta a parlare dell’incidente, quindi passò il braccio sotto
quello di Hermias e si allontanò con lui dalle altre ragazze per andare a sedersi
all’ombra vicino al Lago del Santuario. Una volta soli, spiegò al cugino tutto
quello che era successo.
– Tu non puoi sapere quello che lui ha sofferto, Derae – disse infine Hermias. –
Per qualche motivo... e non riesco a immaginare quale possa essere... Parmenion è
odiato da tutti e nulla di quello che fa sembra mai andare bene. Quando vince una
corsa non ci sono applausi, neppure se corre contro i ragazzi degli altri
alloggiamenti, e tuttavia lui è gentile, pieno di riguardi. Gli altri lo assalgono in
gruppi e lo colpiscono con i bastoni, anche se sono pochi quelli che oserebbero
fronteggiarlo da solo.
– Ma mio fratello non sarebbe mai disposto a prendere parte a simili atti
malvagi – protestò Derae. – Lui è nobile e forte, e non si assocerebbe mai ad un
branco del genere.
– Sono d’accordo con te, perché ho sempre... rispettato Leonida. Tuttavia, le
aggressioni avvengono in suo nome e lui non fa nessun tentativo per porvi fine.
L’ultimo attacco si è verificato la notte prima della finale dei Giochi e Parmenion è
stato costretto a nascondersi per tutta la notte sull’acropoli. Hai visto i lividi che ha
riportato.
Derae raccolse una pietra piatta e la scagliò sulla superficie del lago,
osservandola rimbalzare sull’acqua azzurra.
– Nessuno è mai odiato senza motivo – osservò quindi. – È evidente che lui è
arrogante e di umile nascita. Leonida dice che è un mezzosangue, e tuttavia si
pavoneggia in mezzo ai veri Spartani guardandoli dall’alto in basso.
– In questo c’è del vero – convenne Hermias, annuendo, – ma quando tutti sono
contro di te, ti rimane soltanto l’orgoglio e Parmenion non intende permettere loro
di umiliarlo. Gli avevo consigliato di giocare per perdere la finale, ma lui non ha
voluto farlo e guarda cosa è successo. Adesso è odiato ancora più di prima. Che
futuro c’è per lui, Derae? Comincia ad essere a corto di denaro e non ha una
posizione sociale definita.
– Non ha nessun amico... tranne te?
– Nessuno. C’è una ragazza, so che la osserva ogni settimana e quando parla di
lei è un uomo diverso, però non conosco il suo nome e dubito che le abbia mai
rivolto la parola.
– Lo ha fatto – replicò Derae. – L’ha perfino afferrata per la gola e minacciata
con una pietra.
Hermias chiuse gli occhi e si appoggiò all’indietro fino ad adagiare la testa
sull’erba.
– Allora si trattava di te. Non riesco a capire... è stato forse maledetto alla
nascita da qualche spirito malvagio? Devo trovarlo.
– Invece credo che dovresti evitarlo, Hermias. Ho guardato nei suoi occhi e vi
ho scorto qualcosa di letale che mi ha raggelato il sangue.
– È mio amico – ribatté Hermias, alzandosi agilmente in piedi, – ed ho delle
notizie da dargli. Prima però devo parlare con Leonida. Dove posso trovarlo?
– Ha detto che intendeva andare ad esercitarsi con la spada e con la lancia,
quindi dovrebbe essere al campo di addestramento. Però non dirgli che sono stata
io a parlarti della cosa.
– Per favore, Derae, altrimenti penserà che sia stato Parmenion a mandarmi da
lui.
– Molto bene, Hermias – assentì Derae, alzandosi in piedi a sua volta. – Digli
pure che hai parlato con me, ma bada che adesso Leonida considera Parmenion
come un suo nemico giurato e non troverai in lui nessun confronto.
Con indosso la corazza, il gonnellino e gli schinieri, Leonida stava lottando
contro un giovane di nome Nestus, e il campo di addestramento echeggiava del
clangore delle spade sugli scudi mentre i due si attaccavano a vicenda. I
contendenti non stavano infatti usando le spade di legno da addestramento ma le
corte lame di ferro proprie degli opliti, e c’era tensione fra gli spettatori mentre
giravano in cerchio uno intorno all’altro cercando un’apertura. Nestus, un giovane
dalla struttura possente, era il campione dell’alloggiamento nell’uso della spada
corta, ma Leonida era un combattente freddo, forte e veloce; entrambi i giovani
avevano ormai il respiro affannoso e un rivoletto di sangue colava da una leggera
ferita sul braccio di Nestus, gocciolando nella polvere. Leonida scattò in avanti ma
Nestus gli andò incontro e il suo scudo si abbatté contro quello dell’avversario,
scagliandolo al suolo: immediatamente Nestus gli fu addosso, puntandogli la spada
alla gola. Un applauso sommesso si levò dagli spettatori e Leonida sorrise,
alzandosi in piedi e abbandonando lo scudo per poi abbracciare l’avversario e con-
gratularsi con lui prima di tornare all’ombra dove erano appese le fiasche con
l’acqua.
Hermias gli corse incontro e lo aiutò a rimuovere la corazza.
– Grazie, cugino – disse Leonida, asciugandosi il sudore dalla faccia. –
Dannazione, se è bravo... però mi sto avvicinando ai suoi livelli, non credi?
– Sì – convenne Hermias. – Hai avuto l’opportunità di un affondo all’inguine.
In uno scontro reale l’avresti sfruttata... e avresti vinto.
– Te ne sei accorto? Sì, Nestus ha l’abitudine di tenere lo scudo troppo alto. Per
quale motivo sei venuto qui? Certo non per combattere.
– No – convenne Hermias, traendo un profondo respiro. – Sono venuto per
parlare di Savra – spiegò quindi, distogliendo lo sguardo dal volto del cugino e
preparandosi allo scoppio d’ira che era certo avrebbe fatto seguito alle sue parole.
– Ha parlato con te? – domandò invece Leonida, in tono sommesso.
– No, è stata Derae a dirmi tutto – replicò Hermias, lanciando un’occhiata a
Leonida e scoprendo con sconcerto che in lui non c’era traccia d’ira.
– E cosa vuoi da me?
– Che si ponga fine alle percosse e alla violenza.
– Sono cose che non hanno nulla a che vedere con me. Io non le approvo e ne
vengo a conoscenza soltanto dopo che si sono verificate. Lui non è popolare –
affermò Leonida, scrollando le spalle. – Cosa vorresti che facessi?
– Dovresti dire a Gryllus e a Learcus che queste... aggressioni... ti contrariano.
– E perché dovrei?
– Perché sei un uomo nobile. Non sei un vigliacco e non hai bisogno che
qualcuno combatta per te le tue battaglie.
– Adulazione, Hermias? – ridacchiò Leonida.
– Certo, ma sono comunque convinto che sia la verità. Non possono indurlo a
sottomettersi con le percosse e un giorno lo uccideranno... per che cosa? Perché
pensano che questo farebbe piacere a te. Ti farebbe piacere, cugino?
– Sì – ammise Leonida, – però hai ragione. È una cosa vile e non voglio avervi
parte alcuna. Vedrò che la cosa abbia fine, Hermias, ed avrei già dovuto farlo da
tempo. Ho provato vergogna nel vederlo arrivare alla finale segnato da quelle
ferite.
– Ti sono debitore, cugino.
– No – lo contraddisse Leonida, – sono io ad essere in debito con te. Però sappi
questo: Parmenion ed io siamo nemici e un giorno io lo ucciderò.
Hermias cercò Parmenion per due ore e alla fine lo trovò seduto su un blocco di
granito ai piedi della statua di Atena dei Viandanti.
– Perché tanto cupo, stratega? – chiese, sedendogli accanto.
– Non mi chiamare così. Un giorno, forse, ma non ora.
– Il tuo volto è come una nube temporalesca, Savra. Stai pensando al tuo
scontro con Leonida?
– Come lo hai saputo?
– Ho parlato con Derae. Non sapevo che fosse lei la ragazza che andavi a
guardare.
Parmenion scagliò una pietra in un campo vicino, sparpagliando uno stormo di
grossi uccelli neri e grigi.
– Detesto i corvi. Quando ero piccolo avevo paura di loro perché pensavo che
potessero volare dentro dalla mia finestra e mangiarmi l’anima. Avevo sentito uno
dei miei vicini dire che i corvi avevano mangiato gli occhi di mio padre, sul campo
di battaglia, e di notte piangevo e mi sembrava di sentire nella mente il battito delle
loro ali.
– Preferisci restare solo, Savra? Non temere di offendermi. Parmenion si
costrinse a sorridere e passò un braccio intorno alle spalle dell’amico.
– Non voglio essere solo, Hermias... ma è ciò che sono – rispose, poi si alzò e
raccolse un’altra pietra, scagliandola in alto sopra il campo. – Cosa c’è qui per me,
Hermias? Cosa posso sperare di diventare?
– Cosa vorresti diventare?
– Non lo so, davvero – replicò Parmenion, scuotendo il capo. – Una volta
desideravo soltanto essere un oplita spartano, armato di scudo, di spada e di lancia.
Volevo marciare con il re in terre straniere e arricchirmi con il bottino, ma ultima-
mente ho cominciato a fare strani sogni...
Lasciò a mezzo la frase e scivolò nel silenzio.
– Continua! – lo incitò Hermias. – A volte i sogni sono messaggi degli dèi. Hai
sognato un’aquila? È un buon presagio, come lo sono anche i leoni.
– Non ci sono animali – spiegò Parmenion, – soltanto uomini armati per la
guerra. Ci sono due eserciti che si affrontano su una pianura, ed io sono un
generale. Le falangi scattano in avanti e la polvere si alza, soffocando le grida di
guerra. Uno dei due eserciti è spartano, perché i guerrieri hanno il mantello rosso
sangue. La strage è terribile e vedo il re giacere a terra morto. Poi mi sveglio.
Hermias rimase in silenzio per un lungo momento, poi improvvisamente
sorrise.
– Hai detto che nel sogno sei un generale, e di certo questo deve essere un buon
presagio... e suppongo anche uno destinato ad avverarsi, perché non c’è nessuno
che ti possa superare in astuzia, Savra. E con te a guidarla, come potrebbe Sparta
perdere?
– È questo il punto, amico mio. Io non sono un generale dell’esercito spartano...
ed è il re di Sparta a morire.
– Zitto! – sussurrò Hermias. – Non dovresti dire cose del genere. Allontana
tutto dalla tua mente: non si è trattato affatto di un presagio... stavi sognando i
Giochi del Generale, ecco tutto. Ci hai pensato per tanto tempo e te ne è venuto
molto dolore. Dimentica ogni cosa, Savra e non ne parlare più. Comunque, ho una
notizia che ti solleverà il morale... te lo metto.
– Allora dimmela, amico mio, perché ho proprio bisogno di essere rallegrato.
– Leonida ha preso le tue parti oggi nel campo di addestramento, e così ha fatto
anche Lepidus. Leonida ha ammesso di aver giocato male e che tu meritavi di
vincere. Gli altri stavano sostenendo che hai barato... ma lui ti ha difeso. Non è
meraviglioso?
– Posso quasi sentire gli dèi cantare di gioia – commentò Parmenion.
– Ma non capisci? Questo significa che la smetteranno di tormentarti. Sei libero
da ogni persecuzione.
– Vedremo. Lo giudicherò in base a quanti presenzieranno alla mia
celebrazione della vittoria.
– Ho anche un’altra notizia che è meno piacevole – replicò Hermias, in tono
triste. – Non c’è un modo facile per dirtelo, Savra, ma non ci sarà nessuna
cerimonia della vittoria.
– Questa sì che è una sorpresa! – esclamò Parmenion, con una cupa risata.
Scuro in volto, saltò quindi giù dal blocco di granito e rivolse lo sguardo verso la
dea di pietra. – Che cosa ho fatto, Atena, perché gli dèi debbano odiarmi? Sono
malvagio? Forse lo sono... ma un giorno li ripagherò per tutte le loro crudeltà, lo
giuro!
Hermias non disse nulla, ma avvertì un’improvvisa fitta di paura quando nel
guardare il volto dell’amico scorse nei suoi occhi un odio gelido. Sceso a sua volta
dal blocco, si accostò a Parmenion.
– Non odiare anche me!
Parmenion sbatté le palpebre e scosse il capo.
– Odiare te, amico mio? Come potrei mai odiarti? Sei stato come un fratello per
me e non lo dimenticherò mai. Mai! Siamo stati fratelli e lo saremo ancora per tutti
i giorni della nostra vita. Te lo prometto. Adesso devo andare a casa di Senofonte.
Ci vediamo più tardi... vieni a casa mia, questa sera.
– Verrò. Sta’ attento.
– Perché dovrei stare attento? – ribatté Parmenion. – Non hai detto tu che la
guerra è finita?

Senofonte condusse Parmenion in un’ampia stanza sul lato orientale della casa,
un ambiente fresco e luminoso.
– Allora? – domandò il generale, adagiandosi su un divano. – Hai una risposta
alla domanda su Platea?
– Le Termopili – annuì Parmenion, – hanno insinuato il pensiero della sconfitta
nel cuore dei Persiani.
– Ottimo! Ottimo! Sono molto soddisfatto di te. Ti ho detto che la guerra è
un’arte, ed è vero, ma l’arte consiste nel vincere la battaglia prima che le spade
vengano snudate. Se il tuo opponente è convinto di perdere... perderà. È questo che
è successo a Platea. I Persiani... che non erano stati in grado di affrontare appena
trecento Spartani... hanno ceduto al panico quando se ne sono trovati di fronte
cinquemila. Un generale deve lavorare sul cuore degli uomini... non soltanto dei
suoi ma anche dei nemici.
– Questo significa che mi istruirai? – domandò Parmenion.
– Infatti. Sai leggere?
– Poco, signore. Mia madre mi ha insegnato... ma non è un’abilità che venga
tenuta in molta considerazione negli alloggiamenti.
– Allora devi imparare. Posseggo libri che devono essere studiati, ci sono
strategie che devi memorizzare. Un generale non è diverso da un fabbro,
Parmenion: ha molti strumenti e deve conoscere il valore e lo scopo di ciascuno di
essi.
– C’è una domanda che ti devo porre, signore – affermò Parmenion, traendo un
profondo respiro. – Spero che non ti offenda.
– Non lo sapremo finché non l’avrai formulata – sorrise il generale.
– Non sono ricco e neppure benvoluto, ed è probabile che quando raggiungerà
l’Età Virile nessuna mensa degli Anziani mi voglia accettare. Quindi signore, per
quanto io desideri essere istruito da te, a cosa servirà tutto questo?
– C’è molto di vero in quello che dici, giovane stratega – replicò Senofonte,
annuendo con espressione grave. – Nel migliore dei casi potrai aspirare alla Prima
Schiera, nel peggio sarai un guerriero qualsiasi. Tu hai però il potenziale per
diventare grande, per essere un condottiero di uomini... lo so, e in merito non esiste
giudice migliore di me. Può darsi però che il tuo futuro non sia a Sparta... il che
sarà una perdita per la città. Tu cosa desideri?
– Soltanto di essere accettato, signore – rispose Parmenion, scrollando le spalle,
– di poter camminare a testa alta e di sentire gli uomini dire «ecco Parmenion, lo
Spartano».
– È tutto quello che desideri? Sii onesto, stratega. Parmenion deglutì a fatica,
poi sollevò lo sguardo fino a incontrare quello penetrante del generale.
– No, signore, non è tutto. Desidero ridurre i miei nemici in polvere, portare
loro la disperazione. Voglio essere un generale come te e condurre gli uomini in
battaglia. Ho fatto un sogno che vorrei si realizzasse – concluse, con un improvviso
sorriso.
– Può darsi che non ti riesca di ottenere tutto quello che desideri – commentò
Senofonte, – ma io ti insegnerò quello che so. Ti darò le conoscenze, ma sarai tu a
dover decidere come usarle.
Un servitore portò del cibo e vino allungato con acqua, e mentre mangiavano
Parmenion ascoltò Senofonte parlare della Marcia fino al Mare e dei pericoli che
avevano tormentato i Greci. Il generale delineò le proprie strategie e i propri
successi, ma parlò anche dei propri fallimenti e ne spiegò le ragioni. Le ore
trascorsero in fretta e Parmenion si sentì come un uomo che stesse morendo di sete
e avesse trovato il Pozzo dell’Acqua della Vita.
Poteva vedere tutto con estrema chiarezza... i Greci demoralizzati dopo la
battaglia di Cunaxa e tuttavia decisi a mantenere la loro formazione, il re persiano
Artaserse che prometteva loro di lasciarli arrivare sani e salvi fino al mare
attraversando il suo regno e poi assassinava a tradimento i generali, convinto che
senza condottieri gli opliti greci sarebbero caduti facile preda della sua cavalleria. I
Greci avevano però tenuto duro, eleggendo nuovi generali fra cui Senofonte stesso,
e durante i mesi che erano seguiti avevano marciato attraverso la Persia mettendo
in rotta gli eserciti mandati contro di loro e attraversando terre ignote. I pericoli che
avevano affrontato erano stati molteplici... innumerevoli nemici, il rischio di
morire di fame, le pianure coperte di ghiaccio e le vallate devastate dalle piene.
Però Senofonte li aveva tenuti uniti finché avevano raggiunto il mare e la salvezza.
– Sulla terra non esiste un guerriero che possa reggere il confronto con un
Greco – spiegò Senofonte. – Soltanto noi comprendiamo la natura della disciplina
e non esiste un re civilizzato Che non desideri assoldare mercenari greci come
spina dorsale del suo esercito. I più grandi fra i Greci, poi, sono gli Spartani... ne
comprendi il perché?
– Sì – rispose Parmenion. – I nostri nemici sanno nel loro cuore che noi siamo i
vincitori, e anche noi lo sappiamo.
– Sparta non sarà mai conquistata, Parmenion.
– A meno che non si trovi di fronte un nemico con una pari determinazione e
un numero di uomini maggiore.
– Ma questo non succederà. Abbiamo una terra divisa in città stato, ciascuna
timorosa dei suoi vicini. Se Atene e Tebe unissero di nuovo le forze contro Sparta
molte città stato avrebbero paura di una simile alleanza e si unirebbero a Sparta per
contrapporvisi. La nostra terra ha una lunga storia di simili dispute, di alleanze
fatte e infrante, di decine di diversi gruppi che si sono traditi a vicenda
ripetutamente. Nessuna città ha mai ottenuto una vittoria completa. Avremmo
dovuto conquistare il mondo, Parmenion, ma non lo faremo mai perché siamo trop-
po occupati a combatterci fra noi – concluse Senofonte, alzandosi. – Si sta facendo
tardi e devi tornare a casa tua. Vieni da me fra tre giorni. Ceneremo insieme e ti
mostrerò i libri del futuro.
– Istruisci anche Gryllus, signore? – domandò Parmenion, alzandosi.
– Sarò il tuo insegnante e tu potrai pormi domande relative alla strategia –
ribatté Senofonte, incupendosi in volto, – ma non ne porre in merito alla mia
famiglia!
– Chiedo scusa, signore, non volevo offenderti.
– Ed io non dovrei essere tanto irritabile. Gryllus è un ragazzo tormentato
perché non ha una sua città di appartenenza. Come te, desidera essere accettato e
ammirato, ma n ha cervello. Sua madre era una donna splendida, Parmenion, ma
dannatamente ottusa. Era come se gli dèi, avendole riversato addosso tanta
bellezza, avessero deciso che il cervello era un lusso di cui non aveva bisogno, e
mio figlio ha preso da lei. Ora però non ne parliamo più.

Il silenzio della notte ammantava la città mentre Parmenion percorreva con


passo tranquillo le vie rischiarate dalla luna. In alto sull’acropoli poteva distinguere
appena l’alta statua di Zeus e i pilastri della Casa di Bronzo. Giunto all’ampia
Strada del Commiato, si fermò davanti al palazzo reale e indugiò ad osservare le
guardie che lo pattugliavano: il Palazzo del Prezzo del Bestiame, dimora di
Agisaleus. Quello era a suo parere un nome davvero strano per il palazzo di un re,
dovuto al fatto che uno degli antichi re di Sparta si era trovato a corto di denaro e
aveva sposato la figlia di un ricco mercante di bestiame di Corinto, ottenendo in
dote quattromila capi di bestiame e costruendo quel palazzo con il ricavato della
loro vendita. Parmenion fissò l’edificio, con le sue colossali colonne e il lungo tetto
inclinato, ricordando come in un primo tempo avesse creduto che l’antico re avesse
dimostrato un fine senso dell’umorismo nel chiamare così la propria dimora;
adesso però si rendeva conto che si era trattato piuttosto di un senso di colpa...
costretto a sposare una straniera, il re aveva immortalato la sua vergogna perché
venisse condivisa dalle generazioni future.
Gli Spartani erano un popolo davvero strano.
Erano la sola razza in tutta la Grecia che prelevasse i bambini maschi da piccoli
dalle loro case per addestrarli come guerrieri e che permettesse alle donne di
esercitarsi nel fisico e di diventare forti per generare guerrieri che protraessero la
gloria di Sparta.
Parmenion continuò a camminare fino a raggiungere la strada parallela a quella
della sua casa; là si fermò e scalò un alto muro, cercando con dita agili gli appigli
nelle fessure della calcina; issatosi sul tetto coperto di tegole, scivolò quindi in
avanti per dare un’occhiata alla porta della sua piccola dimora. Hermias aveva
detto che la campagna di odio nei suoi confronti era finita, ma Parmenion non gli
credeva, quindi scivolò in avanti sul tetto badando a tenersi nell’ombra e scrutò per
parecchi minuti il vicolo sottostante, guardando e ascoltando con attenzione.
Proprio quando era ormai certo che la via fosse sgombra scorse un movimento
verso occidente e riconobbe Hermias che stava correndo lungo la via lastricata.
Stava per gridargli un saluto quando cinque figure si staccarono dall’ombra e
balzarono addosso al giovane in corsa: dall’alto, Parmenion vide che gli assalitori
brandivano bastoni e randelli, e vide Hermias crollare al suolo sotto un colpo che
gli si abbatté sul cranio. Alzatosi in piedi, Parmenion si gettò dal tetto in modo da
andare ad atterrare con spaventosa violenza con i piedi contro la schiena di una
delle figure mascherate. Ci fu il rumore nauseante di un osso che si spezzava e la
sua vittima crollò urlando sull’acciottolato: Parmenion cadde con essa e si rialzò
rotolando, abbassandosi per schivare un bastone che aveva sibilato verso la sua
testa e sferrando un pugno contro una faccia mascherata. Il cappuccio cadde
all’indietro e Parmenion riconobbe Gryllus: con il sangue che gli colava dalle
labbra ferite, l’Ateniese si scagliò all’attacco, ma Parmenion gli si fece sotto e
riuscì ad assestargli due pugni nello stomaco seguiti da un gancio sinistro sull’o-
recchio. Gryllus si accasciò al suolo e in quel momento un bastone si abbatté sulla
schiena di Parmenion, scagliandolo in avanti; il giovane ruotò però su se stesso e
bloccò il colpo successivo con gli avambracci, afferrando poi l’avversario per il
mantello e trascinandolo in avanti. I due si scontrarono di testa, ma Parmenion
aveva chinato la sua in modo da far sì che la sua fronte fracassasse il naso
dell’avversario, che si liberò con uno strattone e si allontanò barcollando. Raccolto
il bastone caduto, Parmenion lo fece roteare minacciosamente contro gli altri che lo
incalzavano, raggiungendo al braccio l’avversario più vicino. Il ragazzo da lui
attaccato per primo giaceva privo di sensi per terra, e Gryllus era fuggito, quindi
adesso i suoi nemici erano soltanto tre e uno di essi si era appena tratto indietro con
il braccio che gli pendeva inutilizzabile lungo il fianco.
Parmenion si scagliò allora contro i due avversari rimasti, piantando il bastone
nel ventre del primo per poi lanciarsi addosso al secondo; il suo impeto lo fece
cadere e rotolare al suolo insieme all’altro ragazzo, che nel rialzarsi tirò fuori un
coltello, la cui lama scintillò maligna sotto la luce della luna.
– Adesso morirai, mezzosangue! – sibilò la voce di Learcus.
I due ragazzi ancora in grado di muoversi si allontanarono di corsa mentre
Parmenion si sollevava agilmente a sua volta, stringendo a due mani il bastone.
Learcus scattò in avanti, ma Parmenion si spostò di lato e calò con forza il bastone
sul polso dell’assalitore, che si lasciò sfuggire la daga dalle dita. Avanzando di un
passo, Parmenion la raccolse.
Learcus prese allora a indietreggiare e Parmenion lo incalzò fino a quando
l’altro ragazzo si venne a trovare con le spalle al muro.
Lanciando un’occhiata alla sagoma immota di Hermias, Parmenion si accorse
allora che il sangue stava sgorgando da una ferita alla tempia dell’amico.
– Ti sei spinto troppo oltre – disse a Learcus, con voce che era poco più di un
sussurro e con un bagliore nello sguardo. – Troppo oltre – ripeté, allungando una
mano a spingere indietro il cappuccio che nascondeva il volto dell’altro.
Il coltello affondò nel ventre di Learcus e salì a lacerargli i polmoni, mentre
Parmenion si faceva ancora più vicino, fino a portare il proprio volto a pochi
centimetri da quello dello stupefatto e agonizzante avversario.
– È questo che si prova morendo, maledetto Spartano.
– Oh, dèi... – gemette Learcus, accasciandosi contro la parete.
– Adesso le preghiere non ti aiuteranno – ritorse Parmenion, afferrandolo per i
capelli e issandolo di nuovo in piedi.
Dalla gola di Learcus uscì un respiro rantolante e i suoi occhi si chiusero.
Traendosi di lato, Parmenion lasciò cadere a terra il corpo e abbassò lo sguardo su
di esso, sentendo la sua ira che si dissolveva e la daga che gli scivolava di mano.
Poco lontano Hermias gemette e subito Parmenion si affrettò a correre al suo
fianco.
– Stai bene? – gli chiese.
– La testa... mi duole...
– Lascia che ti aiuti.
– Hai una mano ferita – osservò Hermias, toccando il sangue che la macchiava.
– Non è mio – borbottò Parmenion, indicando il corpo di Learcus.
– Lo hai ucciso? Non ci credo. Oh, Parmenion.
– Lascia che ti porti dentro... poi andrò a cercare l’ufficiale della guardia.
Entro un’ora il corpo fu rimosso e Parmenion venne scortato da Lepidus agli
alloggiamenti, dove l’anziano generale era in attesa sulla soglia del dormitorio.
Senza una parola, il generale si girò e salì a grandi passi le scale fino ad una stanza
che dominava il cortile centrale; là si sedette su una panca e segnalò a Lepidus di
prendere posto accanto a lui, in modo che Parmenion si venisse a trovare in piedi di
fronte a loro. Il giovane fissò i due volti alla luce tremolante della lampada.
Conosceva bene Lepidus e sapeva che era un uomo duro ma giusto, mentre del
generale sapeva soltanto che era un fanatico della disciplina e un veterano di molte
battaglie.
– Cos’hai da dire? – domandò il vecchio, fissandolo con occhi roventi e
parlando con voce aspra quanto lo stridere di una spada che esce dal fodero.
– Cinque uomini incappucciati hanno assalito un mio amico – replicò Parme-
nion. – Cosa avrei dovuto fare? Sono andato in suo aiuto.
– Hai ucciso un altro Spartano... un giovane di buona famiglia.
– Ho ucciso un vigliacco che con un gruppo di amici armati di bastone ha
assalito un giovane disarmato.
– Non essere insolente con me, ragazzo!
– Allora non assumere un atteggiamento paternalistico, signore!
Il generale sbatté le palpebre e serrò i pugni possenti in maniera tale che
Parmenion si sentì certo che stesse per alzarsi e colpirlo, ma poi il vecchio trasse
un profondo respiro e si calmò.
– Descrivimi tutto quello che è successo – ordinò. Parmenion obbedì,
omettendo soltanto la sua conversazione finale con Learcus.
– È vero che non sei popolare presso gli altri ragazzi? – domandò il generale.
– Sì.
– Ed è anche vero che sei stato vittima del loro... divertimento già in passato?
– Sì.
– Allora quando li hai attaccati sapevi che probabilmente stavano dando la
caccia a te... e che il tuo amico è stato assalito per errore.
– Certamente. Hermias è molto amato.
– In questo caso, se avessi atteso finché avessero capito il loro errore, non ci
sarebbe stata nessuna battaglia e loro se ne sarebbero andati. Sei d’accordo?
– Al momento non ci ho pensato... anche se posso vedere che hai ragione,
generale. Però ho visto il mio amico cadere sotto la loro aggressione e sono andato
in suo aiuto.
– Sei balzato addosso ad un ragazzo, spezzandogli la spalla, ne hai colpito un
altro con un bastone rompendogli un braccio e hai trafitto l’ultimo, uccidendolo. È
colpa tua, mezzosangue, hai capito? Un ottimo ragazzo giace morto perché tu non
hai pensato, e soltanto un selvaggio può addurre come scusa la mancanza di
riflessione. Se dipendesse da me moriresti per questo. Sparisci dalla mia vista.
Lepidus attese di sentire il rumore dei passi del ragazzo lungo le scale, poi si
alzò e si avvicinò alla porta, chiudendola.
– Quel ragazzo è una vergogna – commentò il vecchio.
– No, signore – lo corresse tristemente Lepidus. – Quello che è successo
stanotte in questa stanza è una vergogna.
– Osi criticarmi?
– Come Spartano è un mio diritto – ribatté Lepidus, fissandolo. – È andato in
aiuto di un amico, rischiando la propria vita e senza esitare. Proprio tu, fra tutti gli
uomini, dovresti rendertene conto. Domani non ci sarà nessun giudizio contro di
lui, altrimenti darò io la giusta versione dei fatti.
Girandosi, Lepidus lasciò la stanza senza aggiungere altro. Uscito nella notte, si
trovò a tornare sulla scena della lotta e nel vedere che una lampada ardeva nella
casa di Parmenion andò a bussare alla porta.
Parmenion venne ad aprire e si spostò di lato per lasciar entrare l’ufficiale, che
avanzò nella piccola abitazione e si sedette sullo stretto giaciglio, rifiutando il
boccale d’acqua che Parmenion gli stava offrendo.
– Voglio che tu allontani dalla mente quello che è successo stanotte agli
alloggiamenti – disse, – e vorrei che perdonassi il generale. Learcus era suo nipote
e lui gli voleva bene. Quello che hai fatto è stato ammirevole. Hai capito?
– Sì, signore, ammirevole.
Siediti qui accanto a me, Parmenion – invitò Lepidus, e quando il ragazzo ebbe
obbedito proseguì: – Ora dammi la mano e guardami negli occhi.
Parmenion fece come gli era stato detto e avvertì la forza della stretta
dell’ufficiale, leggendo la preoccupazione sul suo volto.
– Ascoltami, ragazzo. Pare che siamo rimasti in pochi a capire cosa significhi
essere uno Spartano. Quando lottiamo, lo facciamo per vincere, difendiamo gli
amici e uccidiamo i nemici. L’attacco contro Hermias è stato una vigliaccheria e tu
hai agito bene. Sono orgoglioso di te.
– Non ero obbligato ad uccidere Learcus – confessò Parmenion.
– Non lo ammettere con nessuno... hai capito?
– Sì – replicò il giovane, mentre tutti gli avvenimenti degli ultimi giorni gli si
affastellavano nella mente, minacciando di sopraffarlo: la morte di sua madre, la
vittoria nei Giochi, la perdita di Derae e adesso l’uccisione di Learcus. – Sì,
capisco.
– Ascoltami, eri preoccupato per un amico ed hai affrontato una banda da solo.
È stato un atto coraggioso e... sì, hai ucciso qualcuno. La questione importante...
vitale... è se ti è piaciuto ucciderlo.
– No – affermò Parmenion.
– Allora non ti preoccupare.
Parmenion guardò l’ufficiale negli occhi e annuì.
Però mi è piaciuto ucciderlo, pensò, possano gli dèi perdonarmi. Vorrei averli
potuti uccidere tutti.

Appoggiandosi al bastone, Tamis fissò il servitore inginocchiato davanti a lei.


– Il mio padrone, Parnas, richiede che tu ti affretti a venire a casa sua – disse
l’uomo, evitando il suo sguardo.
– Richiede? Quando suo figlio giace morente? Di certo volevi dire che mi
prega.
– Il nobile Parnas non lo farebbe mai, ma io ti imploro, Onorata Anziana. Salva
Hermias – supplicò il servitore, con le lacrime agli occhi.
– Forse posso salvarlo... e forse no – rispose la vecchia. – Riferisci al tuo
padrone che chiederò agli dèi di guidarmi. Ora va’.
Tamis si girò e scomparve nel buio interno della sua dimora. Adesso il fuoco
era quasi consumato, ma quando lei sedette davanti ad esso le fiamme tornarono a
levarsi alte, formando il volto di Cassandra.
– Non ti ho convocata – disse Tamis. – Vattene.
– Devi guarire il ragazzo, Tamis. È tuo dovere.
– Non mi parlare di dovere. Learcus è morto ed io ho negato all’Oscuro un
possibile padre della sua carne. Quello era mio dovere. Hermias sta provocando un
ritardo nello sviluppo di Parmenion, che a causa della loro amicizia conserva
ancora in parte un’anima gentile. Non sono stata io a far sì che Hermias restasse
ferito, non ho nessuna responsabilità in merito... è stata la volontà della Fonte. Ora
lui morirà, perché nel suo cervello c’è un grumo di sangue, e non appena esso si
sposterà per lui sarà la fine.
– Ma tu puoi risanarlo – insistette la donna nel fuoco.
– No. Quando sarà morto Parmenion diventerà un uomo fatto di ferro. Ne ho
bisogno.
– Tamis, come puoi onestamente credere che questa sia la volontà della Fonte?
Come puoi pensare che essa voglia la morte di un ragazzo che non ha malvagità
nel cuore?
– Non tenermi delle prediche, Cassandra. Bambini privi di malvagità muoiono
di continuo... muoiono negli incendi, a causa della siccità e nelle guerre. Forse che
la Fonte ne impedisce la morte? No, ed io non mi lamento più al riguardo. Questo è
il Suo mondo, e se Essa sceglie che degli innocenti muoiano, è Suo diritto farlo. Io
non ho causato nessun male ad Hermias... anche se mi intralciava la strada. Adesso
però lui sta morendo, ed io interpreto la cosa come una risposta alle mie preghiere.
Chiudendo gli occhi, Tamis fluttuò fuori del proprio corpo. sollevandosi
attraverso il tetto e librandosi sopra la città.
La casa di Parnas sorgeva nella parte orientale di Sparta, e lei volò verso di
essa, soffermandosi nel cortile inghirlandato di fiori dove era in attesa un gruppo di
amici di Hermias. Parmenion era fermo da solo presso la parete più lontana,
ignorato.
– Dicono che nella notte abbia vomitato e che poi sia svenuto stava dicendo il
grasso Pausias. – Il suo colorito è orribile e anche se il chirurgo gli ha fatto un
salasso questo non è servito a nulla.
– È forte – replicò Nestus, – e sono certo che guarirà. Il campione di spada
lanciò un’occhiata in direzione di Parmenion, poi si avvicinò a lui.
– Cosa è successo la scorsa notte? – chiese. – Ho sentito ogni sorta di voci.
– Hermias è stato attaccato – rispose Parmenion, – e lo hanno colpito alla testa
con un randello. Quando l’ho portato a casa appariva stordito.
– Dicono che hai ucciso Learcus. È vero?
– Non sapevo che si trattava di Learcus – mentì Parmenion. – Era soltanto un
membro del gruppo che stava aggredendo Hermias.
– Questa è una brutta cosa. Savra – sospirò Nestus, – molto brutta. Non posso
dire che tu mi sia mai stato simpatico, ma sai anche che non ho mai avuto parte
alcuna negli attacchi contro di te.
– Lo so.
– Se Hermias dovesse morire gli altri saranno incriminati per il suo omicidio.
– Non morirà! – scattò Parmenion.
Un movimento vicino alle porte attrasse la sua attenzione e nel girarsi vide
Derae e due delle sue amiche entrare nel cortile. La ragazza si accorse di lui ma
non mostrò di averlo riconosciuto mentre raggiungeva lentamente le porte aperte
dell’androne.
Tamis entrò nell’edificio principale, attratta dal bagliore dell’anima della
ragazza che splendeva come una concentrazione di luce stellare.
Il padre di Hermias era seduto nell’androne intento a parlare con il chirurgo,
Astion. Quando Derae entrò sollevò lo sguardo e si alzò in piedi, con il volto teso e
scavato, baciandola sulla guancia e offrendole del vino annacquato.
– Posso vederlo? – chiese lei.
– Sta morendo, mia cara – replicò Parnas, con voce incrinata.
– È mio amico... il mio più caro amico – ribatté Derae.
– Lasciami andare da lui.
Scrollando le spalle, Parnas le permise di entrare nella camera da letto dove
Hermias giaceva pallido quanto le coltri di lino che coprivano il suo corpo.
Sedutasi accanto a lui, Derae sollevò una mano per accarezzargli la fronte.
– No! – urlò Tamis, anche se nessuno poteva sentirla. L’anima di Derae ebbe
un bagliore più intenso, riversando su Hermias una luce accecante, e Tamis stentò
a credere a quello che stava vedendo: sulla tempia del ragazzo la luce si fece dorata
e poi rossa, e il grumo di sangue sotto l’osso cominciò a dissolversi. Hermias
gemette e aprì gli occhi.
– Derae? – sussurrò. – Cosa ci fai qui? È sconveniente.
– Mi hanno detto che stavi morendo – sorrise la ragazza, – ma posso vedere che
non è così.
– Ho fatto un sogno terribile – mormorò lui. – Ero in un luogo oscuro dove non
crescevano piante e non c’erano uccelli che cantassero. Ma il ricordo comincia già
a svanire...
– Ed è giusto che sia così, perché fuori brilla il sole e tutti i tuoi amici si sono
raccolti qui.
– Parmenion?
– C’è anche lui – confermò Derae, mentre il suo sorriso svaniva. – Ora ti
lascerò perché tu possa riposare. Alzatasi in piedi, tornò nell’androne.
– È sveglio, e il suo colorito è buono – disse a Parnas. Il nobile corse nella
stanza da letto per abbracciare il figlio ancora sconcertato.
– Che cosa hai fatto? – chiese il chirurgo, afferrando Derae per un braccio.
– Non ho fatto nulla. Si è svegliato non appena mi sono seduta.
Nell’ascoltare quelle parole, Tamis sentì destarsi la propria ira.
Non lo sai, stupida ragazza! Hai il Talento e non te ne rendi conto!
Furiosa, la veggente tornò nel proprio corpo. Il fuoco era spento e la stanza era
immersa nell’oscurità. Il potere di Derae era un elemento nuovo, quindi Tamis fece
appello alle proprie forze e cominciò a percorrere i sentieri di questo nuovo futuro.

Era il crepuscolo quando Leonida venne convocato nelle stanze dell’Ufficiale


Anziano degli alloggiamenti. Per la maggior parte della giornata il giovane aveva
cavalcato lungo le rive del fiume Eurota e aveva appreso della tragedia della notte
precedente soltanto quando al suo ritorno aveva trovato Lepidus che lo aspettava
nelle stalle.
Il soldato gli aveva detto ben poco mentre salivano le scale che portavano alle
stanze del generale. All’interno, seduti accanto all’Ufficiale Anziano, c’erano due
efori della città... consiglieri responsabili dell’organizzazione quotidiana della
rigida struttura sociale, legale ed economica di Sparta. Leonida si inchinò ad
entrambi, riconoscendo uno di essi come Memnas, un amico di suo padre. Memnas
era il primo magistrato ed era a capo della guardia notturna e della milizia.
– Il tuo amico Learcus giace assassinato – dichiarò l’Ufficiale Anziano,
alzandosi in piedi.
– Assassinato? – ripeté Leonida, sconvolto da quel termine. – Mi hanno detto
che è stato ucciso in una lotta.
– È quanto siamo qui per stabilire – intervenne Memnas, un uomo snello e
basso con una barba a tre punte e lineamenti aquilini; avvolto negli abiti scuri
propri degli efori sembrava fragile, e tuttavia aveva marciato in Persia con
Agisaleus e si diceva che avesse combattuto come un leone. – Siediti, ragazzo. Ti
abbiamo chiesto di venire qui perché tu possa comprovare le affermazioni del
responsabile dell’uccisione.
– Non ero presente. Come posso aiutarvi?
– Due ragazzi... tuoi amici... giacciono feriti, uno con la spalla fratturata e
l’altro con il braccio rotto. Non vogliono dire nulla dell’incidente, tranne che si è
trattato di una rissa e che non hanno visto infliggere il colpo che ha ucciso Learcus.
Dicono anche che Parmenion li ha aggrediti senza preavviso e negano di aver fatto
del male ad Hermias.
– Cosa volete che faccia? – domandò Leonida. – Non appartengo alla milizia e
non sono neppure un membro della guardia notturna.
– Appartieni però ad una nobile famiglia e sei tenuto in grande considerazione
negli alloggiamenti. Scopri la verità e torna da noi entro due ore, altrimenti ci sarà
un’inchiesta ufficiale... e pubblica... che indipendentemente dal suo risultato
danneggerà la reputazione degli Alloggiamenti Licurgo.
– Farò quello che posso... ma non prometto nulla – ribatté Leonida.
Trovò Gryllus nel gimnasium. Il naso del giovane Ateniese era gonfio, i suoi
occhi erano illividiti. Leonida si fece accompagnare da lui fino al quadrato,
trovando un angolo tranquillo rischiarato dalle torce del Tempio dell’Oracolo, e là
Gryllus gli disse tutto quello che riusciva a ricordare della lotta.
– Lo ha assassinato, Leon! – esclamò infine. – Ancora non ci posso credere!
– Gli avete teso un agguato di notte, incappucciati e mascherati... e non per la
prima volta, Gryllus. Cosa vi aspettavate? Che vi accogliesse con un mazzo di
fiori?
– Lo ha ucciso con la sua stessa daga, io l’ho visto. Lo ha fatto indietreggiare
fino al muro e lo ha trafitto.
– Hai visto e non hai fatto nulla?
– Cosa potevo fare? È un demone... è posseduto. È balzato su di noi dal cielo.
Non sapevamo che si trattasse di Hermias, volevamo soltanto impedire a Savra di
correre nelle prove olimpioniche. Lo abbiamo fatto per te... per vendicare la tua
vergogna!
La mano di Leonida si sollevò di scatto, circondando la gola di Gryllus.
– Non avete fatto niente per me! – sibilò il giovane. – È da molto tempo che
scorgo in te questa caratteristica, Ateniese... ti piace infliggere sofferenza, ma non
sei uomo abbastanza da farlo da solo, quindi corri in branco da quel cane vigliacco
che sei. Adesso ascoltami: domattina dovrai aver già lasciato Sparta. Non
m’importa dove andrai, ma se sarai ancora qui verrò a cercarti io stesso e ti
sventrerò con un coltello dalla lama smussata.
– Oh, per favore, Leonida...
– Taci! Non dirai a nessun altro della tua... infamia. La morte di Learcus grava
sulla tua testa, e un giorno soffrirai per questo. Leonida tornò dagli efori all’ora
stabilita.
– Hai scoperto la verità? – domandò Memnas.
– Sì, signore. Un gruppo di giovani ha attaccato Hermias, credendo che si
trattasse di Parmenion. Il mezzosangue è privo di colpa: ha agito per salvare il suo
amico.
– I nomi degli altri giovani?
– Questo non rientrava nelle istruzioni che mi hai dato, signore. Comunque il
capo del gruppo... un Ateniese... lascerà la città stanotte stessa e non tornerà.
– Forse è la cosa migliore – commentò Memnas.
Due ore dopo l’alba i cinquecento giovani degli Alloggiamenti Licurgo furono
condotti sul campo di addestramento, dove i capofila ordinarono loro di schierarsi
e di attendere l’Ufficiale Anziano. Ai bambini del primo e del secondo anno fu
permesso di sedersi davanti, mentre quelli che andavano da nove a diciannove anni
rimasero in silenzio sull’attenti. Tutti i giovani più grandi sapevano ormai della
tragedia, e nessuno di loro aveva rivolto la parola a Parmenion da quando era stata
convocata l’adunata.
Il giovane lanciò occhiate a destra e a sinistra, notando che i ragazzi ai suoi lati
si erano spostati leggermente, isolandolo, ma non reagì a quel comportamento e
rimase invece immobile a testa alta, desiderando che la giornata passasse in fretta.
I bambini delle prime due file si alzarono in piedi quando l’Ufficiale Anziano
apparve fiancheggiato da due consiglieri cittadini che indossavano la tunica
cerimoniale blu scuro, e Parmenion si sentì assalire dal panico. Gli efori avevano
un aspetto cupo e lui li immaginò nell’atto di portarlo via e di scortarlo al luogo
delle esecuzioni. Distogliendo lo sguardo dai due, lo spostò sul generale, che era in
armatura completa e aveva un aspetto ancora più feroce di quando lui lo aveva
incontrato la notte precedente.
– Molti di voi già sanno della morte del nostro compagno
Learcus – ruggì il vecchio, scrutando file con lo sguardo, poi accennò ai due
consiglieri e proseguì: – Gli efori hanno indagato a fondo e nella loro saggezza
hanno dichiarato chiuso l’incidente. Così sia. Oggi il corpo del nostro amico verrà
preparato e domani presenzieremo alla sua cremazione. Il lamento sarà cantato da
Leonida. È tutto!
Con quelle parole il generale indietreggiò, ruotò sui tacchi e si allontanò.
Lepidus ordinò allora ai ragazzi di sedersi e conferì per qualche momento con
gli efori prima di avvicinarsi a Parmenion e di trarlo in disparte.
– Questo è stato duro per te e ti sei comportato bene. Però c’è qualcos’altro...
dopo la giornata di oggi non farai più parte degli Alloggiamenti Licurgo. Dalla
prossima settimana sarai trasferito al gruppo Menelao.
– E che ne sarà del conto che ho qui alla mensa? Ho appena pagato per tutto
l’anno... e non ho più denaro.
– Ti presterò io la somma – propose Lepidus. – Vorrei potertela regalare, ma
non sono un uomo ricco.
– No! Non intendo andarmene – protestò Parmenion, lottando per controllare la
propria rabbia. – Non ci sono cause valide e rifiuto il trasferimento.
– Qui la vita sarà intollerabile per te, ragazzo! Non te ne rendi conto? La tua
presenza distruggerebbe il morale e il sistema degli alloggiamenti dipende dal
morale... questo lo capisci, vero?
– Sì, lo capisco – rispose Parmenion, in tono sommesso. – Vorrei vedere
l’Ufficiale Anziano per discutere del trasferimento.
– Lui non ti vuole vedere – avvertì Lepidus, consapevole di un cambiamento
avvenuto in Parmenion senza però riuscire a stabilire di cosa si trattasse.
– Quello che lui vuole non ha importanza. Se non intende vedermi, allora
rimarrò. Diglielo, Lepidus! – ritorse Parmenion, allontanandosi senza aggiungere
una sola parola.
Quel pomeriggio venne convocato nelle stanze dell’Ufficiale Anziano, che non
sollevò lo sguardo dallo scrittoio quando lui entrò.
– Sii breve – disse in tono secco. Sentendo lo stridere di una sedia sul
pavimento, sollevò lo sguardo e rimase sconvolto nel vedere che Parmenion si era
seduto davanti a lui. – Cosa credi di fare? – chiese.
– Sto trattando, generale – rispose Parmenion, incontrando lo sguardo
dell’uomo più anziano e sostenendolo. – Vuoi che me ne vada? Anch’io desidero
andare via, ma c’è la questione del mio conto presso la mensa. Tre giorni fa ho
pagato oltre centoquaranta dracme a questi alloggiamenti, e mia madre aveva
venduto un terzo del nostro terreno per ricavare quei soldi.
– Non è un mio problema – dichiarò il vecchio.
– Invece sì – ribatté Parmenion. – Dal momento che ho pagato, resterò qui. Non
hai diritto di chiedere che me ne vada, perché non ho infranto nessuna regola.
– Infranto...? Hai assassinato un ragazzo! – ringhiò il generale, issandosi in
piedi.
– Non secondo gli efori – sottolineò Parmenion, con calma. – Dunque, se
desideri che me ne vada, mi fornirai duecento dracme. È sufficientemente chiaro
per te... signore?
Per quasi un minuto il generale lo fissò in silenzio, paonazzo in volto, poi
sorrise e si rilassò.
– E così il tuo sangue macedone finalmente affiora in superficie... non c’è in
tutto quel territorio un uomo che non venderebbe la moglie per comprare una
pecora. Molto bene, contadino, avrai le tue duecento dracme... per quello che ti
potranno servire. Puoi anche restare in uno qualsiasi degli alloggiamenti, ma
quando arriverai all’Età Virile non troverai nessuno disposto a tollerare la tua
presenza in qualsiasi Casa dei Soldati. Non sarai mai uno Spartano, Parmenion.
Mai!
– Nelle tue intenzioni questo sarebbe un insulto? – ridacchiò il giovane. – Io
non lo interpreto come tale. So ciò che sono, generale, e so cosa sei tu. Ti sarei
obbligato se il denaro venisse mandato a casa mia prima del tramonto – concluse,
alzandosi e inchinandosi.
Entro un’ora si trovava di fronte ad un altro vecchio dagli occhi fieri e dalle
labbra serrate. Appoggiandosi all’indietro sulla sedia, Agenor incrociò le mani
dietro la testa dall’incipiente calvizie e studiò il giovane che aveva davanti.
– Non voglio morti qui – affermò.
– Neppure io, signore.
– Però voglio dei combattenti... e dei pensatori. Mi hanno detto che corri bene.
È vero?
– Sì, signore.
– Ottimo. Trovati un letto nel dormitorio occidentale e poi presentati a rapporto
da Solone, sul campo di addestramento.
Parmenion accennò ad andarsene, ma l’uomo si alzò in piedi e lo richiamò con
un cenno.
– Lepidus mi ha parlato bene di te, ragazzo, ha detto che hai avuto momenti
difficili e che li hai sopportati con coraggio. Sappi che qui sarai giudicato soltanto
in base a quello che vedremo... e non in base a quello che abbiamo sentito.
– Non chiedo altro, signore. Grazie.
Issatosi sulla spalla il rotolo con le coperte, Parmenion raggiunse l’ala
occidentale. Tutti i letti di canne tranne due avevano già delle coperte stese su di
essi, quindi lui scelse quello vuoto più lontano dalla porta e si distese. Per un po’
osservò le particelle di polvere che danzavano nei fasci di luce che penetravano da
un’imposta rotta, poi chiuse gli occhi.
Una mano gli toccò la spalla e lui si svegliò all’istante. Nel cielo c’erano le
stelle e la stanza si stava riempiendo di giovani. Sollevando lo sguardo su quello
che lo aveva toccato, vide che si trattava di Hermias.
– Cosa ci fai qui? – gli chiese, alzandosi in piedi e abbracciando l’amico.
– Mi sono trasferito questa mattina – rispose Hermias. – Non volevo che ti
sentissi troppo solo.
Parmenion fu sinceramente commosso. Gli Alloggiamenti Licurgo erano quelli
dove i ricchi mandavano i loro figli e raggruppavano l’elite di Sparta; lui era stato
il solo ragazzo povero presente in essi perché come figlio di un eroe parte dei costi
della sua educazione venivano pagati dal battaglione di suo padre. Di conseguenza
gli riusciva difficile credere che Hermias potesse aver lasciato l’elite per trasferirsi
negli alloggiamenti più umili di Sparta.
– Non avresti dovuto farlo, Hermias, amico mio, ma ne sono lieto. Non so dirti
quanto.
– È un nuovo inizio, Savra, una possibilità di dimenticare il passato.
– Hai ragione – annuì Parmenion.
Ma lui non avrebbe dimenticato e si sarebbe vendicato, avrebbe vissuto in
attesa del giorno in cui i suoi nemici avrebbero giaciuto nella polvere ai suoi piedi,
fissandolo e implorando misericordia.
– Così va meglio, Savra – approvò Hermias. – Mi piace vederti sorridere!
SPARTA, ESTATE, 382 A.C.

Parmenion si adattò in fretta alla vita negli Alloggiamenti Menelao, e nei tre
anni successivi pur non essendo mai popolare incontrò comunque pochi dei
problemi che avevano reso tormentosa la sua permanenza agli Alloggiamenti
Licurgo. Ogni anno lui ed Hermias rappresentavano i loro alloggiamenti nella
corsa a breve e a media distanza, ma negli altri campi rimanevano entrambi
soltanto allievi di livello medio, senza eccellere né risultare inferiori al livello
standard richiesto nel lancio del giavellotto o del disco, nell’uso della spada o nella
lotta. Parmenion amava esercitarsi con la spada corta perché era rapido e forte, ma
soltanto quando era furente la sua abilità diventava letale; comprendendo
comunque a livello, istintivo questa sua caratteristica, non si preoccupava quando
alcuni giovani riuscivano ad avere il sopravvento su di lui nell’addestramento in
quanto nel profondo del suo cuore sapeva che il risultato dello scontro sarebbe
stato diverso se si fosse trattato di un duello fino alla morte.
Come corridore, però, Parmenion era il migliore atleta di Sparta: due volte nel
corso delle competizioni fra gli alloggiamenti ebbe modo di sconfiggere Leonida
nella gara di sei chilometri, ma il terzo anno venne lui stesso battuto di stretta
misura e Leonida venne scelto per rappresentare Sparta nelle imminenti Olimpiadi.
Quella fu una dura delusione per Parmenion, che si era allenato strenuamente
durante il tempo trascorso nei nuovi alloggiamenti.
– Capisco la tua ira – osservò Senofonte, mentre i due sedevano una sera nel
suo cortile, – ma hai fatto del tuo meglio e nessun uomo può chiedere di più a se
stesso.
– Però ho commesso un errore tattico – replicò Parmenion, annuendo. – Ho
cercato di batterlo quando mancavano ancora duecento passi. Lui stava aspettando
la mia mossa ed ha tenuto duro, sconfiggendomi quando il traguardo era ad appena
tre passi.
– Tu lo hai battuto nei giochi di tre anni fa e lui ha sopportato bene la sua
vergogna. Concedigli questo momento di gloria – commentò il generale,
versandosi del vino e aggiungendovi dell’acqua per poi sorseggiare la bevanda.
A cinquant’anni, l’Ateniese era ancora un uomo piacente, anche se adesso i
suoi capelli erano completamente argentei e cominciavano a diradarsi sulla
sommità del capo. Parmenion viveva per le ore che trascorrevano insieme
discutendo di tattica e di strategia, di formazioni e di battaglie; il giovane aveva
imparato quando far ruotare una falange, quando combattere con uno schieramento
assottigliato e quando estenderlo, quando ritirarsi e quando optare per un’azione da
parte dei guerrieri che ancora tenevano insieme la linea. Senofonte amava parlare e
Parmenion era felice di ascoltarlo; a volte poi non concordava con lui in un’analisi
ed entrambi si lanciavano in una discussione che durava fino a notte inoltrata, fino
a quando cioè Parmenion aveva infine il buon senso di lasciarsi convincere da Se-
nofonte, cosa che permise al loro rapporto di crescere e di rafforzarsi. Gryllus era
da tempo stato mandato a vivere con alcuni amici ad Atene e capitava spesso che
Parmenion si fermasse presso il generale ateniese per parecchi giorni di fila,
prendendo il posto di Gryllus nei viaggi estivi che Senofonte faceva alla sua
seconda casa di Olimpia, vicino al mare.
Con il passare degli anni, poi, Senofonte aveva preso l’abitudine di discutere
anche di strategia moderna e di politica con il suo allievo, e Parmenion aveva finito
per individuare nell’Ateniese un crescente cinismo.
– Hai sentito notizie da Tebe? – gli chiese un giorno Senofonte.
– Sì – rispose Parmenion, – anche se in un primo momento non ci potevo
credere. Abbiamo commesso un grave errore e finiremo per rimpiangerlo.
– Tendo ad essere d’accordo con te – dichiarò Senofonte.
Tre mesi prima il re macedone Amyntas aveva richiesto l’aiuto degli Spartani
contro i guerrieri calcidiani che avevano invaso la Macedonia e saccheggiato la sua
capitale, Pella. Agisaleus aveva mandato in suo aiuto tre battaglioni di Spartani,
che avevano schiacciato i Calcidiani, ma durante il viaggio verso nord una
divisione spartana sotto il comando di un generale chiamato Phoebidas si era
impadronita della Cadmea... la fortezza al centro di Tebe. Dal momento che non
era stata dichiarata nessuna guerra contro Tebe e che i Tebani non avevano
collegamenti con i Calcidiani invasori, a molti Greci quella era parsa un’azione
subdola.
– Agisaleus dovrebbe restituire la città ai Tebani – commentò Parmenion.
– Non può farlo – rispose Senofonte, – perché l’orgoglio spartano non lo
consente, però temo quello che ne deriverà. Atene si è pronunciata a sfavore di
Sparta e penso che fra non molto dovremo sopportare un’altra guerra.
– Sei deluso, amico mio – notò il giovane. – Sparta non si è dimostrata una
buona guida per la Grecia.
– Zitto! – si affrettò a dire Senofonte, poi abbassò la voce e proseguì: – Non
dovresti parlare in questo modo in pubblico. I miei servi sono fedeli... ma a me e
non a te, e se uno di loro dovesse accusarti saresti processato per tradimento e non
sopravviveresti.
– Ho forse detto qualcosa di falso? – controbatté Parmenion, a bassa voce.
– E questo cosa c’entra? Se Sparta potesse governare con la metà dell’abilità
che dimostra in battaglia allora tutta la Grecia ne gioirebbe... ma non ne è capace.
Questa è la verità... e dirla ti costerà la vita.
– Altre persone la stanno dicendo – osservò Parmenion. – Agli alloggiamenti
non si parla di altro. Ci sono stati per Sparta alcuni bocconi amari da inghiottire, e
adesso gli Spartani si aggrappano al potere soltanto perché hanno il sostegno dei
Persiani. I discendenti del Re Guerriero che fanno da leccapiedi ai figli di Serse!
– La politica è fatta di espedienti – sussurrò Senofonte. – Rimandiamo però
questa conversazione ad un altro giorno.
Quando saremo a Olimpia potremo uscire a cavallo e parlare con i soli prati a
testimoni del nostro teorico tradimento. Come stai a finanze? – chiese quindi,
mentre entrambi si alzavano e si dirigevano verso le porte.
– Non bene. Ho venduto l’ultima porzione del terreno... mi permetterà di
pagare il conto della mensa fino a primavera.
– E poi?
– E poi lascerò Sparta. Del resto so che nessuna Casa dei Soldati mi
accetterebbe, quindi probabilmente mi unirò ad un reggimento mercenario e girerò
il mondo.
– Potresti vendere la Spada di Leonida – gli ricordò Senofonte.
– Forse lo farò – replicò Parmenion. – Ci vediamo fra due giorni.
I due si strinsero la mano e Parmenion si allontanò nella notte. Sebbene fosse
quasi mezzanotte non si sentiva stanco e camminò fino all’acropoli, sedendo vicino
alla statua di bronzo di Zeus per contemplare il cielo costellato di stelle che
sembravano diamanti. Adesso il vento era freddo, e il suo leggero chitone di lana
non gli offriva molta protezione dal suo soffio, ma lui chiuse la propria mente al
freddo e lasciò vagare lo sguardo sulle montagne.
Gli ultimi tre anni erano stati buoni: era cresciuto di statura e sebbene snello si
era fatto asciutto e possente. Il volto si era assottigliato, perdendo le caratteristiche
infantili e adesso i suoi infossati occhi azzurri avevano un’espressione
meditabonda. Lui sapeva però che il suo non era un volto cordiale, e neppure av-
venente, perché il naso era troppo prominente, le labbra troppo sottili, un insieme
che lo faceva apparire più vecchio dei suoi diciannove anni.
Alla fine il freddo divenne troppo intenso anche per lui, inducendolo ad alzarsi
per andarsene; in quel momento vide una figura avvolta in un mantello con
cappuccio che si allontanava dalla Casa di Bronzo e si dirigeva verso di lui.
– Buona notte – disse, e subito la luce della luna si riflesse sulla lama della daga
che era apparsa nella mano della figura.
– Chi è? – domandò una voce di donna.
– Sono Parmenion e non sono un pericolo per te, signora – rispose lui,
protendendo le mani perché si potesse vedere che erano vuote.
– Cosa ci fai qui? Mi stai spiando?
– Per nulla, stavo godendo della vista delle stelle. Perché dovrei spiarti?
Derae spinse indietro il cappuccio e la luce della luna tinse d’argento i suoi
capelli.
– È passato molto tempo dall’ultima volta che abbiamo parlato, giovane
Veloce.
– È vero – convenne lui. – Cosa ti porta alla Casa di Bronzo a mezzanotte?
– Sono affari miei – ribatté lei, sorridendo per attenuare l’asprezza delle parole.
– Forse anche a me piace guardare le stelle.
In quel momento un movimento al limitare del suo campo visivo attirò
l’attenzione di Parmenion, che nel girare la testa vide un giovane saettare via dietro
il Santuario delle Muse, ma evitò di fare commenti.
– Ti auguro la buona notte – disse infine Derae, e Parmenion rispose con un
inchino, seguendola con lo sguardo mentre si allontanava lungo il sentiero.
Quello a cui stava giocando era un gioco pericoloso, perché alle Spartane non
ancora sposate non era permesso di mescolarsi liberamente con i membri dell’altro
sesso e qualsiasi relazione del genere sarebbe potuta finire con l’esecuzione
capitale o con l’esilio, il che costituiva uno dei motivi per cui i giovani maschi
erano incoraggiati a trovarsi un amante fra i loro compagni. D’un tratto Parmenion
si rese conto di invidiare il giovane che era fuggito e che anche lui sarebbe stato
pronto a rischiare molto pur di avere la possibilità di passare del tempo solo con
Derae. Ricordava ancora il suo corpo snello, i piccoli seni sodi, la vita sottile...
Basta così! si rimproverò.
Tornato a casa, sedette nel piccolo cortile e mangiò una cena tardiva a base di
pesce secco e vino, cibo che gli era costato due oboli. Il pensiero delle finanze in
rapido calo lo depresse. La vendita dell’ultima porzione di terreno gli aveva
fruttato centosettanta dracme, ma ottanta erano servite per pagare la mensa e altre
trenta erano state accantonate per l’acquisto dell’armatura di cui avrebbe avuto
bisogno quando avesse raggiunto l’Età Virile, la primavera successiva. La cifra
rimanente avrebbe dovuto fornirgli di che nutrirsi e vestirsi, e lui scosse il capo
pensando che un mantello nuovo costava venti dracme e che un paio di sandali ne
richiedeva quasi dieci. Quello sarebbe stato un lungo e duro inverno.
Entrato in casa, chiuse le finestre e accese una piccola lanterna; alla sua luce
tirò fuori la Spada di Leonida dalla credenza e la estrasse dal fodero di bronzo: si
trattava di una lama di ferro non più lunga del braccio di un uomo, con l’elsa
decorata di filo d’oro e il pomo formato da un globo di argento purissimo.
Più volte Senofonte lo aveva incitato a venderla e c’erano a Sparta famiglie che
sarebbero state disposte a pagare anche mille dracme per quell’arma dalla storia
tanto illustre, ma ancora una volta Parmenion la ripose nel fodero, sapendo che
sarebbe morto di fame prima di separarsi dall’unico trofeo della sua vita.
Aveva infatti un sogno, e la spada ne era parte. Sarebbe andato in guerra come
mercenario, avrebbe raccolto una grande fortuna ed un esercito e sarebbe poi
tornato a Sparta, umiliando la città e vendicandosi di tutti i nemici della sua
giovinezza. Sapeva che si trattava di un sogno sciocco, ma esso gli dava la forza
per andare avanti anche se era consapevole che molto più probabilmente sarebbe
stato costretto ad arruolarsi come oplita in un contingente mercenario, passando i
suoi giorni a marciare attraverso le sterminate distese della Persia per obbedire ai
capricci di qualsiasi principe avesse avuto denaro sufficiente per assoldare il suo
gruppo. E quanto avrebbe guadagnato? Sette oboli al giorno... appena più di una
dracma. Questo significava che se fosse sopravvissuto per vent’anni in una
compagnia del genere avrebbe... avrebbe soltanto... potuto poi comperare una
porzione di una fattoria o di un terreno, e comunque non si sarebbe trattato di una
proprietà come quella che sua madre... e poi lui... erano stati costretti a vendere.
Infine accantonò dalla mente i pensieri relativi alla sua povertà. Se non altro per
le prossime otto settimane avrebbe potuto godere delle comodità della tenuta che
Senofonte possedeva ad Olimpia: letti morbidi, cibo buono, piacevoli cavalcate e
cacce, e con un po’ di fortuna la compagnia di una delle ragazze arcadi che
sorvegliavano le pecore sulle basse colline. Lo scorso anno ne aveva trovata una
florida e disponibile, che si era rivelata un’esperta insegnante per un inetto giovane
di città. Toltosi il chitone, si infilò nel letto ripensando al suo corpo, ma si accorse
di non ricordare più il viso... davanti agli occhi della sua mente la donna aveva il
volto d Derae.
* * *

Ad un giorno di viaggio dalla città il piccolo gruppo vide dei cavalieri che si
avvicinavano al galoppo e subito Senofonte impugnò la lancia, spronando il
cavallo per andare loro incontro; Parmenion lo seguì mentre Tinus, Clearcus e altri
tre servi rimasero con i carri.
– Credo che sia Leonida! – gridò Parmenion, affiancando il cavallo a quello di
Senofonte.
L’Ateniese tirò le redini e attese con un’espressione preoccupata che non sfuggì
a Parmenion: la cavalleria spartana era stata mandata sulle colline degli Sciriti
dopo che due villaggi erano stati attaccati dai razziatori... mercenari rinnegati che
erano stati congedati dalle autorità di Corinto. Si diceva che il gruppo contasse
oltre trenta uomini.
Riparandosi gli occhi con una mano, Parmenion poté scorgere Leonida che
cavalcava alla testa di un nutrito gruppo di guerrieri ed era seguito da suo padre,
Patroclian. Senofonte sollevò infine una mano in un gesto di saluto e Leonida fece
arrestare il cavallo, mentre Patroclian veniva ad affiancarsi al figlio.
– Questo è un brutto giorno, Senofonte – disse lo Spartano dalla barba rossa. –
Mia figlia Derae è stata presa.
– Presa? Come? – chiese Senofonte.
– Stava cavalcando da sola ad est rispetto alla nostra colonna. Deve essersi
fermata presso un corso d’acqua ed essere smontata di sella... ho un servo della
Tracia che sa decifrare le tracce e ha detto che il suo cavallo deve essere fuggito
quando l’hanno sorpresa. Adesso si stanno dirigendo a nord, verso le colline.
– Naturalmente ci uniremo a voi – si offrì Senofonte. Girato il cavallo,
Parmenion tornò al trotto verso il carro.
– Dammi l’arco – ordinò a Tinus.
L’uomo si protese verso il retro del carro e sollevò un arco di corno con una
faretra di pelle di capra che conteneva venti frecce. Appesosi la faretra alla spalla,
Parmenion scrutò la zona circostante. Patroclian aveva detto che quegli uomini si
erano diretti a nord, ma ormai dovevano aver scoperto che Derae faceva parte di un
gruppo molto più numeroso e avrebbe avuto poco senso che avessero mantenuto la
loro direzione iniziale. A nordest c’era invece una linea di colline fittamente
alberate nelle quali era visibile un alto passo che dava verso nord, quindi senza at-
tendere gli altri lui spronò la giumenta verso quei pendii alberati.
– Dove sta andando, in nome dell’Ade? – domandò Leonida.
– Non lo so e non m’importa – ribatté Patroclian. – Muoviamoci!
I guerrieri si avviarono di nuovo verso nord.
Intanto Parmenion si addentrò fra le alte colline, deviando con il cavallo verso
il passo. Il terreno era infido, fatto di ghiaia scivolosa, e lui fu costretto a far
rallentare la giumenta e a smontare di sella, conducendola a mano fra gli alberi.
Raggiunto un tratto di terreno più sicuro, legò l’animale ad un cespuglio e si
arrampicò su un alto cipresso, scrutando dai suoi rami le colline circostanti senza
però vedere traccia di movimento tranne la polvere del gruppo che stava
galoppando verso nord. Rimase sull’albero per qualche tempo, e stava ormai
cominciando a fronteggiare la possibilità di essersi sbagliato quando parecchi corvi
neri spiccarono in volo da una macchia di alberi ad un paio di centinaia di passi
sulla sua destra. Gli uccelli sembravano in preda al panico e questo indusse
Parmenion a concentrare la propria attenzione su quell’area, sforzandosi di vedere
in mezzo al sottobosco. Dopo un momento o due intravide il bagliore del sole sul
metallo e sentì un cavallo nitrire; subito si affrettò a scendere dall’albero e a
rimontare in sella per avviarsi al galoppo verso il passo.
Vi arrivò prima dei razziatori e tirò le redini al punto che la giumenta nitrì e
s’impennò. Rapido, Parmenion balzò a terra e impastoiò l’animale, poi si
arrampicò su un’alta sporgenza rocciosa che dominava il passo ed estrasse una
freccia dalla faretra, incoccandola nell’arco.
Adesso il cuore gli batteva selvaggiamente e c’era un intenso dolore che gli
pulsava dietro gli occhi. Ultimamente i dolori alla testa erano peggiorati, al punto
da svegliarlo nel cuore della notte e da lasciarlo scosso e in preda alla nausea, ma
quello non era il momento di preoccuparsi del dolore fisico.
La sua reazione alla notizia del rapimento di Derae lo aveva sorpreso. La
ragazza era stata spesso nei suoi pensieri anche se lui non si era mai concesso di
sperare di poterla ottenere, ma adesso che era stato indotto a pensare che gli fosse
stata tolta per sempre aveva sentito levarsi in lui un senso di panico unito alla
consapevolezza che Derae faceva parte dei suoi sogni.
Un sogno stolto! urlò la sua mente, mentre se ne stava accoccolato in attesa dei
razziatori. Leonida non avrebbe mai permesso un simile matrimonio. Matrimonio?
Immaginò Derae ferma accanto a lui vicino alla Pietra Sacra di Hera, con la mano
sulla sua mentre la sacerdotessa legava insieme le loro braccia con foglie di
alloro...
Asciugandosi le mani sudate sulla tunica si costrinse ad allontanare quei
pensieri dalla mente e a fissare la linea del limitare degli alberi, dove il primo degli
esploratori apparve pochi minuti più tardi. Si trattava di un uomo abbronzato dal
sole e con la barba scura, che portava un elmo frigio con la cresta di metallo e un
occhio rosso dipinto sulla fronte e che impugnava una lancia. Accanto a lui
cavalcava un guerriero dall’ampio elmo beota di ferro battuto che stringeva in
pugno un arco con la freccia già incoccata.
Accoccolato dietro le rocce Parmenion rimase in attesa, ascoltando il battere
ritmico e costante degli zoccoli sulla roccia. Quando infine si arrischiò a dare
un’occhiata vide che il gruppo principale di oltre trenta uomini si snodava ora alle
spalle degli esploratori e poté scorgere anche Derae, con le mani legate dietro la
schiena e con il collo stretto da una corda tenuta da un guerriero su un alto stallone
grigio. L’uomo portava un’armatura d’argento e un mantello bianco, e a Parmenion
parve un principe uscito da una leggenda.

Laris spinse lo stallone fuori dagli alberi e diede uno strattone alla corda. La
ragazza quasi incespicò e lui sorrise nel lanciarle un’occhiata. Che splendore! Per
ora non aveva ancora avuto l’occasione di udire le sue grida e di sentirla contorcere
sotto di lui, ma ci sarebbe stato tempo per questo quando si fossero scrollati di
dosso gli inseguitori. Spartani! I vili consiglieri di Corinto erano quasi morti di
paura quando lui aveva parlato di invadere le terre degli Spartani. Possibile che non
si rendessero conto che era possibile sconfiggerli? Se avessero unito le loro forze,
Atene, Tebe e Corinto avrebbero potuto annientare Sparta una volta per tutte e
invece no, le antiche paure facevano da freno. Ricordatevi delle Termopili,
dicevano, ricordatevi della sconfitta subita da Atene vent’anni fa. Ma a chi
importava di eventi vecchi di una vita intera? Nel migliore dei casi gli Spartani
avrebbero potuto schierare in campo quindicimila uomini e la sola Corinto poteva
fornire la metà di quegli effettivi, mentre Atene avrebbe potuto dare il resto. Tebe e
la Lega Beota avrebbero poi potuto raddoppiare il numero dei soldati.
Congedato! La vergogna della cosa bruciava ancora in Laris, ma adesso aveva
dimostrato loro che con quaranta uomini appena era possibile effettuare scorrerie
in profondità nel territorio di Sparta. Certo, avevano trovato ben poco oro e gli uo-
mini erano scontenti, ma lui aveva dimostrato la sua teoria: se quaranta uomini
potevano cavalcare nelle terre dei guerrieri spartani ed emergerne illesi quale
sarebbe stato il risultato se gli attaccanti fossero stati quarantamila?
Sollevando lo sguardo vide gli esploratori addentrarsi nel passo.
Improvvisamente una freccia saettò nell’aria e andò a colpire alla gola
Xanthias, che crollò di sella con un grido orribile. Immediatamente fu il caos,
mentre gli uomini si gettavano di sella e si riparavano dietro le rocce. Laris stesso
scivolò a terra e trascinò Derae accanto a sé.
Poi un giovane Spartano si alzò in piedi in piena vista dei suoi uomini.
– Lasciate andare la donna! – gridò, – e non ci saranno ulteriori uccisioni.
– Chi parla? – urlò Laris, di rimando.
– Un uomo armato d’arco – replicò il guerriero.
– E perché ci dovremmo fidare delle tue parole, uomo con l’arco?
– Guardate alle vostre spalle – consigliò l’arciere. – Vedete quella nube di
polvere? Siete intrappolati e se aspetterete qui morirete, così come morirete se
cercherete di avanzare. Elenca le tue alternative, se vuoi.
– Non vedo nessuno lassù con te – obiettò L ris, alzandosi in piedi e snudando
la spada.
– Davvero? Allora devo essere solo. Attaccami e scoprilo.
– Mostraci i tuoi uomini.
– Il tuo tempo si sta esaurendo, e così anche la mia pazienza. Se non hai
l’intelligenza necessaria per salvare i tuoi compagni forse un altro fra loro sarà
disposto a scegliere al tuo posto.
Le parole del guerriero ferirono Laris: i suoi uomini erano già tutt’altro che
contenti, e adesso quell’arciere solitario stava mettendo in discussione le sue
capacità di capo.
Uno dei suoi si alzò da dietro un masso.
– Per amore di Atena, Laris! Lascia andare la donna e portaci via di qui!
Il capo del gruppo si girò verso Derae e tagliò con il coltello la corda che le
tratteneva i polsi, sfilandole poi il cappio dal collo. Voltandosi, vide lo Spartano
che stava cavalcando verso di lui con l’arco appeso alla spalla e scrutò le rocce alle
sue spalle, senza però vedere nessuno. Si umettò le labbra, convinto che l’arciere
fosse solo e desideroso di piantargli il coltello nel corpo e di vedere la vita che lo
abbandonava.
– Ho detto agli altri di lasciarvi passare e potete fidarvi della mia parola –
sorrise il guerriero. – Al vostro posto però me ne andrei in fretta, perché non posso
garantire per le azioni di coloro che vi inseguono.
Gli uomini corsero ai cavalli e Laris represse a fatica il desiderio di colpire,
perché adesso poteva sentire il rumore dei cavalli degli Spartani che stavano
arrivando. Afferrata la criniera del suo stallone gli balzò in groppa e galoppò oltre
il passo: come si era aspettato, là non c’era nessuno... né arcieri, né opliti, né
frombolieri. Soltanto roccia e ghiaia. Avvertì su di sé gli occhi dei suoi uomini: era
stato ingannato da uno Spartano, un solo uomo lo aveva costretto a restituire la sua
preda.
Adesso cosa avrebbero detto a Corinto?
Parmenion si protese sulla sella, prendendo la mano di Derae e issandola in
groppa dietro di sé, poi spinse la giumenta al passo e si addentrò fra gli alberi.
Entro pochi minuti Patroclian venne al galoppo verso di loro, seguito da
Leonida e dagli altri. Parmenion sollevò una mano e lo Spartano dalla barba rossa
tirò le redini nel momento stesso in cui Derae scivolava a terra.
– Cosa è successo qui? – domandò Leonida, venendo avanti.
– Parmenion e gli altri hanno bloccato il passo – spiegò Derae. – Lui ha ucciso
uno degli esploratori, poi ha trattato promettendo ai razziatori di lasciarli passare se
mi avessero liberata.
– Dove sono questi altri uomini? – domandò Patroclian a Parmenion. – Mi
piacerebbe ringraziarli.
– Non ci sono altri – rispose Parmenion.
Spingendo in avanti la cavalcatura, passò poi in mezzo al gruppo e scese il
pendio ghiaioso fino a raggiungere il carro in attesa. Gettati l’arco e la faretra a
Tinus, prese dal sedile la fiasca dell’acqua e bevve a lungo.
– Hai agito bene, stratega – si complimentò Senofonte, avvicinandosi. –
Abbiamo trovato il punto in cui la pista piegava verso est ma se tu non avessi
bloccato il passo saremmo arrivati troppo tardi. Sono orgoglioso di te. – Gettò
quindi a Tinus una freccia sporca di sangue e aggiunse: – È stato un ottimo colpo
alla base della gola, che ha trapassato la carotide piantandosi nella colonna
vertebrale. Un ottimo colpo!
– Io stavo mirando al petto o al ventre, ma ho compensato eccessivamente
l’inclinazione del pendio.
Senofonte stava per ribattere quando si accorse che le mani di Parmenion
avevano cominciato a tremare, e nel guardare il volto del giovane notò che era
privo di espressione ma pallidissimo.
– Stai bene? – gli chiese.
– La testa mi pulsa e ho delle luci davanti agli occhi.
– Ci accamperemo qui – decise Senofonte.
Parmenion scese di sella e mosse parecchi passi barcollanti prima di crollare in
ginocchio e di vomitare; quando si rialzò inalò grandi boccate d’aria e Senofonte si
affrettò a porgergli la borraccia perché si sciacquasse la bocca.
– Ti senti meglio? – s’informò.
– Sto tremando come una foglia nella tempesta... stento a crederci. Lassù ero
così calmo, mentre ad so mi comporto come un bambino spaventato.
– Quello che hai svolto è stato il lavoro di un uomo, un uomo freddo di nervi...
anzi, con i nervi d’acciaio – garantì Senofonte. – Questa reazione non diminuisce
affatto il tuo operato.
– Mi sento come se avessi delle lance roventi nella testa. Non ho mai
conosciuto un dolore del genere – confessò Parmenion, sedendosi e appoggiandosi
con la schiena alla ruota del carro. – E la luce mi brucia gli occhi.
Tinus si affrettò a scendere a terra per reggere un ampio cappello di paglia sulla
testa del giovane in modo da ripararlo, ma il dolore aumentò d’intensità... e
Parmenion scivolò nell’oscurità.

Durante la notte si svegliò parecchie volte, ma sempre con la testa pervasa da


una luce accecante che portava con sé agonia e nausea. Con uno sforzo di volontà
riuscì infine a trovare rifugio nel sonno e quando riaprì gli occhi l’assenza di dolore
fu quasi una benedizione; era disteso in una stanza fresca con le imposte chiuse e
oltre le pareti imbiancate poteva sentire un sommesso mormorio di conversazione.
Si sollevò infine a sedere e si accorse che aveva il braccio sinistro fasciato... ma
non ricordava di essere stato ferito.
Dall’altra parte della stanza qualcuno smosse una sedia e un uomo basso e
sottile, con lanuginosi capelli grigi gli si avvicinò sorridendo.
– Il dolore è svanito, vero? – chiese l’uomo, con una voce profonda che era
leggermente comica nel provenire da un corpo tanto fragile.
– Sì – confermò Parmenion. – Cosa mi è successo?
– Il mondo è fatto di quattro elementi: terra, aria, fuoco e acqua – spiegò
l’uomo, sedendo sul letto accanto a lui. – Tali elementi sono tenuti in armonia dalla
volontà degli dèi. A quanto mi è dato di capire, tu hai compiuto un atto di raro co-
raggio e in questo modo hai sottoposto il tuo organismo ad un grave stato di
tensione, provocando in esso un eccesso di fuoco che ha riscaldato il tuo sangue e
distrutto la tua armonia interna. Il sangue rovente ti è fluito al cervello causando
intenso dolore e nausea.
– Allora mi hai fatto un salasso – commentò Parmenion, toccandosi la
fasciatura al braccio.
– Infatti. È risaputo che questo serve ad attenuare la pressione. Se dovessi
sentirti debole, ripeterò il procedimento.
– No, mi sento bene.
– Ottimo. Riferirò al generale che ti sei ristabilito, ma sarebbe meglio salassarti
ancora, giovanotto.
– Mi sento davvero bene e il dolore è svanito. La tua abilità è davvero notevole.
– In effetti me la cavo meglio con le ferite, ma studio per ampliare le mie
conoscenze – confessò l’ometto, con un sorriso.
– Questo mi succederà ogni volta che mi troverò davanti ad un pericolo?
– È improbabile. Ho conosciuto molti uomini che soffrivano di questi dolori
alla testa, ma in genere gli attacchi sono rari e si verificano soltanto in casi di
tensione particolarmente grave. Sono frequenti anche presso i clerici, che si
lamentano di avere la vista offuscata e luci che danzano loro davanti agli occhi.
L’oppio trattato secondo la formula egiziana è la cura migliore per questo male, e
ne lascerò un po’ a Senofonte nel caso che dovessi avere un altro attacco.
Parmenion tornò ad adagiarsi sul letto e si addormentò di nuovo; al risveglio
trovò Senofonte seduto accanto a lui.
– Ci hai spaventati tutti, stratega. Il buon dottore voleva praticarti un buco nel
cranio per farne uscire gli umori cattivi, ma io l’ho dissuaso.
– Dove siamo?
– Ad Olimpia.
– Vuoi dire che ho dormito per un intero giorno?
– Più di uno – precisò Senofonte. – È quasi mezzogiorno del secondo giorno.
Speravo di portarti a caccia con me, ma il dottore ha detto che devi riposare.
– Sto abbastanza bene da cavalcare – protestò Parmenion.
– Ne sono certo – convenne Senofonte, in tono conciliante, – ma non intendo
permettertelo. Il dottore ha parlato e seguiremo il suo consiglio. In ogni caso
abbiamo qui un’ospite che ti vuole vedere e sono certo che non troverai da
obiettare a trascorrere un po’ di tempo con lei mentre io sono fuori a caccia con suo
padre.
– Derae? È qui?
– Sta aspettando in giardino. Ragazzo mio, ricorda di apparire debole e stanco,
in modo da destare la sua compassione.
– Ho bisogno di un bagno... e di radermi.
– E di vestirti... non dimenticarlo – aggiunse Senofonte, mentre Parmenion
gettava le coperte lontano dal proprio corpo nudo e si alzava dal letto.
I giardini erano costruiti intorno ad un corso d’acqua poco profondo che
scorreva dalle colline orientali. Alcuni massi bianchi erano stati accuratamente
levigati e disposti in cerchio, parzialmente conficcati nel terreno, e intorno ad essi
erano stati piantati fiori dai colori vivaci seguendo lo stile dei Persiani; sentieri di
pietra si snodavano fra i boschetti di querce e nelle depressioni ombrose erano state
disposte alcune panche di pietra. Qua e là erano disseminate statue provenienti da
Corinto e da Tebe, per lo più raffiguranti la dea Atena in armatura completa anche
se una di esse rappresentava Artemide armata di arco. Accanto ad un piccolo lago
artificiale una serie di altre statue ricordava le dodici fatiche di Ercole e di solito
Parmenion amava sedersi vicino ad esse per godere della brezza fresca che soffiava
sull’acqua... ma non quel giorno. Trovò Derae seduta vicino al ruscello all’ombra
di un salice. La ragazza indossava un chitone bianco lungo fino alle caviglie
bordato d’oro e di verde, e un clamis verde acqua... una lunga striscia rettangolare
di fine lino delicatamente ricamato... le cingeva la vita per poi passarle sulle spalle.
Quando si accorse di lui, Derae si alzò in piedi e sorrise.
– Adesso stai bene, eroe? – chiese.
– Sì. Hai un aspetto splendido e i tuoi abiti sono bellissimi.
– Grazie. Tu però sei pallido.., forse dovresti riposare un poco.
Per parecchi minuti sedettero insieme immersi in un piacevole silenzio, finché
Derae posò la mano sul braccio di lui.
– Volevo ringraziarti. Ero terrorizzata. Non hai idea di come mi sono sentita
quando sei apparso su quella roccia ed hai ordinato che mi lascassero andare. È
stato come se ti avessero mandato gli dèi.
– Forse lo hanno fatto – sussurrò lui, coprendole la mano con la propria.
– Mio padre è rimasto molto impressionato dal tuo coraggio... e dalla tua
capacità di iniziativa. Io ero davvero convinta che con te ci fossero altri uomini.
– Senofonte mi ha insegnato che si consegue la vittoria instillando il pensiero
della sconfitta nel cuore del nemico – spiegò Parmenion, sorridendo. – L’onore va
tutto a lui.
– Ma la gloria è tua. Mi piace vederti sorridere, Savra... ti rende attraente. Non
sorridi abbastanza.
La mano di lei era calda sotto la sua e lui poté avvertire la sua vicinanza,
avvertire l’aroma dell’olio profumato sui suoi capelli mentre inclinava il capo
verso di lui... non riuscì a decifrare l’espressione di lei, ma il volto era leggermente
arrossato, le pupille dilatate e le labbra socchiuse. Istintivamente, Parmenion si
trovò a protendersi in avanti a sua volta e Derae non si trasse indietro: le loro
labbra si toccarono e le braccia di lei gli cinsero il collo mentre Derae gli si
stringeva contro in maniera tale che lui poté sentire i suoi seni contro il proprio
petto. Stordito e al tempo stesso esilarato, Parmenion fece scivolare le dita lungo la
spalla della ragazza e sul braccio, poi la mano di lei si chiuse sulla sua, ma la
delusione di Parmenion durò un momento soltanto perché lei gli trasse la mano
contro il proprio seno.
Poi Derae pose fine all’abbraccio con la stessa rapidità con cui aveva avuto
inizio e si tirò bruscamente indietro.
– Non qui, non ora – implorò.
– Quando? – chiese Parmenion, lottando per tenere sotto controllo le proprie
emozioni.
– Quando se ne saranno andati. Sentiremo i cavalli.
– Sì... i cavalli.
Sedettero in preda ad un innaturale silenzio, aspettando e ascoltando mentre gli
stallieri portavano fuori le cavalcature al di là delle mura del giardino; sentirono le
risate degli uomini, che si vantavano della loro abilità e si derideva a vicenda con
gentile umorismo, poi ci fu il battito degli zoccoli e infine la quiete scese sul
giardino. Alzatosi in piedi, Parmenion prese Derae per mano e la trasse in piedi
accanto a sé, baciandola ancora prima di attraversare con lei le porte del giardino
ed entrare in casa. Una volta che furono nella sua stanza, Parmenion sciolse con
delicatezza i lacci sulla spalla di Derae, e il chitone bianco e verde scivolò al suolo.
Indietreggiando di un passo, lui lasciò vagare lo sguardo sul corpo di lei: le
braccia e il volto erano abbronzati, ma i seni e la vita erano bianchi come il marmo.
Con esitazione, sollevò una mano a sfiorarle il seno, accarezzando gentilmente con
il palmo un capezzolo, poi lei aprì la spilla che gli fermava il chitone e insieme si
spostarono sul letto.
Per qualche tempo si baciarono e accarezzarono, ma poi Derae si adagiò
all’indietro e trasse Parmenion su di sé. Lui gemette nel penetrarla e sentì le gambe
di lei che gli scivolavano sui fianchi... in tutta la sua vita non aveva mai
sperimentato un simile piacere né aveva mai sognato di conoscere tali vertici di
gioia. Sapeva che era una follia, e tuttavia era privo di controllo... né desiderava
averne. Anche il pensiero della morte non aveva adesso più il potere di fermarlo.
Si costrinse però a tenere a freno la propria passione irruenta perché non voleva
che quel momento finisse, e si obbligò ad assumere un ritmo lento mentre apriva
gli occhi per guardare il volto di lei, arrossato e con gli occhi chiusi; quando le
sfiorò le labbra con le proprie Derae rispose avidamente al bacio. Sentendosi
prossimo a raggiungere l’apice, Parmenion scivolò quindi via da lei.
– No – mormorò Derae, tirandolo a sé.
Lui però s’inginocchiò accanto al letto e le accarezzò il ventre piatto con le
labbra, passandosi una gamba di lei sulla spalla.
– Cosa stai facendo? – chiese Derae, cercando di sollevarsi a sedere, ma
Parmenion la respinse giù e abbassò il capo fra le sue gambe.
La peluria di lei risultò morbida come una pelliccia sotto le carezze della sua
lingua e Derae cominciò a gemere, dapprima piano poi sempre più forte,
rabbrividendo infine contro di lui con le mani serrate nei suoi capelli. Risalito sul
letto, Parmenion penetrò in lei ancora una volta e Derae gli cinse il corpo con le
braccia, aggrappandoglisi con forza fino a quando anche lui raggiunse il proprio
apice.
Bagnati di sudore, giacquero quindi uno nelle braccia dell’altro. Adesso che la
passione si era esaurita, Parmenion sentì insorgere di nuovo tutti i propri timori.
Quello che avevano fatto era contro la legge... cosa sarebbe successo se i servitori
li avevano visti rientrare dal giardino mano nella mano? E come potevano non aver
sentito i gemiti di lei e lo scricchiolare del letto? Sollevandosi su un gomito
abbassò lo sguardo sulla ragazza, che giaceva con gli occhi chiusi e il volto
pervaso di una meravigliosa bellezza.
Comprese allora che Derae valeva che per lei si corresse quel rischio... qualsiasi
rischio.
– Ti amo – sussurrò.
– Ho fatto un sogno – disse lei, aprendo gli occhi. – È successo tre giorni fa e
sono andata da una veggente perché me lo spiegasse. Lei mi ha detto che voleva
dire che avrei amato un solo uomo in tutta la mia vita e che lui avrebbe sfidato un
esercito per me.
– Qual era il tuo sogno?
– Ho sognato di essere in un tempio, e intorno era tutto buio. ‘Dov’è il Leone di
Macedonia?’ ho detto. A quel punto il sole ha preso a risplendere ed ho visto un
generale con un elmo dalla cresta bianca: era alto e orgoglioso e camminava con la
luce alle sue spalle. Quando mi ha vista ha aperto le braccia e mi ha definita il suo
amore. Questo è tutto quello che ricordo.
– Perché era tutto buio? Hai detto che splendeva il sole.
– Non lo so, ma quel sogno mi ha turbata. Avrei dovuto pensare subito a te, che
sei per metà macedone. Sei tu il Leone di Macedonia del mio sogno.
– Mi hanno detto che in Macedonia ci sono pochi leoni – ridacchiò Parmenion,
– e non è un paese noto per i suoi generali.
– Non credi al mio sogno?
– Credo che siamo destinati ad essere insieme – replicò lui, – e sfiderei un
esercito per te.
– Lo hai già fatto.
– Quello non era un esercito, era soltanto marmaglia, ma adesso potrei benedire
quei razziatori per averci uniti.
Protendendosi in avanti si chinò a baciarla... e la sua passione si riaccese.

Per cinque giorni i due amanti si incontrarono in segreto, uscendo insieme a


cavallo sulle colline circostanti, dove videro soltanto qualche pastora e trascorsero
le giornate vagando fra i boschi e amandosi nelle vallette riparate.
Per Parmenion quello fu un periodo di beatitudine inimmaginabile: ogni traccia
di amarezza lo abbandonò e lui si crogiolò nella gloria del sole estivo, dei cieli
limpidi e azzurri, della bellezza delle terre circostanti. Le crudeltà che aveva patito
nella sua vita gli apparivano adesso remote, come il ricordo di una nevicata
invernale... riusciva ancora a evocarne le immagini ma non avvertiva più il freddo
gelido della realtà.
La mattina del sesto giorno il suo mondo però cambiò bruscamente. Mentre
stava conducendo la giumenta saura fuori dallo stallo sul retro della casa per
metterle le briglie, Senofonte gli si avvicinò e gli posò una mano sul braccio.
– Non uscire a cavallo, oggi – gli disse, in tono sommesso.
– Ho bisogno di sentire il vento sul volto. Tornerò presto.
– Ho detto di no! – scattò Senofonte. – E se hai bisogno che te lo ricordi, quella
giumenta mi appartiene.
– Allora andrò a piedi! – ribatté Parmenion, arrossendo in volto per l’ira.
– Stolto! Quando comincerai ad usare la mente?
– Cosa vuoi dire?
– Sai esattamente cosa intendo dire. I mie servi sanno dove vuoi andare, io so
dove vuoi andare, e lo sa anche Patroclian. Hai condotto questa storia con la stessa
cautela di un toro in calore.
– Come osi? – tempestò Parmenion. – Mi hai spiato.
– Che bisogno c’era di spiarti? Il primo giorno l’hai posseduta nella tua stanza,
e le sue grida sono echeggiate per tutta la casa. Poi l’hai incontrata sulle colline e
avete camminato tenendovi per mano là dove potevate essere visti per un raggio di
chilometri. Sarebbe nel diritto di Patroclian di farti arrestare e giustiziare, ma lui è
un uomo d’onore e si sente in debito con te per il tuo coraggio.
– Ho intenzione di sposarla – dichiarò Parmenion. – Non è come pensi tu.
– Come ho detto, Parmenion, sei uno stolto! Ora riporta la giumenta nel suo
stallo.
– Permettimi di uscire con Derae. Ho bisogno di parlarle – implorò Parmenion.
– Non ci sarà. È stata rimandata a Sparta.
Parmenion sentì la gola che gli si inaridiva e un nodo che gli serrava il ventre.
– Rimandata? Devo parlare con Patroclian.
Senofonte si girò di scatto e lo colpì in pieno volto con il palmo aperto della
mano, facendolo barcollare.
– Forse il dottore ti ha salassato il cervello – sibilò. – Vuoi riflettere? Hai
violato una vergine... cosa intendi dire a suo padre? Che vuoi sposarla? E cosa hai
da offrire? Quale dote le porterai? Sei uno studente senza un soldo e senza un
appezzamento di terra o una fattoria. Non hai introiti. Tutto quello che hai fatto è
stato rovinare quella ragazza, che ora nessuno vorrà sposare.
– La fai apparire una cosa ignobile – ribatté Parmenion, – ma non lo è.
– Non capisci, vero? – commentò il generale, in tono triste. – Non puoi capire.
Derae è promessa a Nestus e avrebbero dovuto sposarsi in primavera. Quando
verrà a sapere di questa vergogna recata a lui e alla sua famiglia... e lo saprà, dato
che hai agito così apertamente... lui chiederà che gli sia restituita la dote, e nel caso
che dovesse anche condannare Derae pubblicamente lei morirà.
– La salverò io. Lei mi ama, Senofonte. È un dono che gli dèi mi hanno fatto, lo
so, e non permetteranno che le accada nulla di male. Non mi odiare per questo!
– Non ti odio, mio giovane amico – rispose Senofonte, posandogli le mani sulle
spalle. – La tua vita non è stata particolarmente piena di benedizioni. Ora però
ascoltami e cerca di usare quella parte della tua mente che abbiamo addestrato
insieme.
Non pensare a Derae, allontana i tuoi pensieri da ciò che chiami amore e pensa
alla vita come deve essere vissuta. Hai recato grande vergogna a Patroclian e a
tutta la sua famiglia, hai recato vergogna a me ed anche a te stesso. Amore?
L’amore nasce dalla comprensione e dalla compassione. Non parlare quindi di
amore ma parla apertamente e onestamente di desiderio. Hai posto Derae in una
posizione di estremo pericolo... e questo non è il comportamento di chi ama. Hai
distrutto la sua reputazione e contaminato il nome di una nobile discendenza. Dim-
mi, dove appare l’amore, in un quadro del genere?
Parmenion non trovò da replicare e riportò invece la giumenta nel suo stallo,
togliendole la briglia. Improvvisamente gli eventi degli ultimi cinque giorni gli
apparvero come irreali, scene di un sogno. Adesso capiva che Senofonte aveva
ragione: lui aveva recato vergogna al suo amico e macchiato la reputazione di
Derae.
Quando riemerse sotto la luce del sole, Senofonte se ne era andato.
Parmenion si addentrò nei giardini e si fermò accanto alla panca su cui Derae lo
aveva baciato per la prima volta. Doveva esserci un modo per risolvere quel
dilemma, un modo in cui lui e Derae potessero vivere insieme. Alcuni mesi prima
aveva deciso di lasciare Sparta quando fosse arrivato all’Età Virile, ma Derae
aveva cambiato tutto: adesso voleva soltanto avere denaro sufficiente per sposarla
e allevare una famiglia, per pagare il mantenimento dei suoi figli negli
alloggiamenti.
Per la maggior parte della giornata lottò con quel problema, scorgendo soltanto
una soluzione, e quando infine il sole tramontò tornò in casa. Senofonte era seduto
nel cortile, intento a mangiare una cena a base di fichi e di formaggio, e Parmenion
si andò a fermare davanti a lui.
– Mi dispiace, signore. Mi dispiace profondamente per la vergogna che ti ho
recato. È stato un modo terribile di ripagare l’amicizia che mi hai dimostrato.
– Questa è la vita, Parmenion – replicò Senofonte, scrollando le spalle. – Siedi
e mangia qualcosa. Domani cavalcheremo fino al mare e sentiremo il vento fresco
sul volto.
– Quando torneremo a Sparta venderò la Spada di Leonida – affermò
Parmenion, – e con il ricavato sarò in grado di sposare Derae.
– Trascorreremo qui quasi due mesi – gli ricordò in tono triste Senofonte,
distogliendo lo sguardo. – Questo ti darà il tempo di riflettere sui tuoi piani e
permetterà a Patroclian di far sbollire la propria ira. Nel frattempo potrebbero
accadere molte cose... forse i servi non parleranno, o forse Nestus la perdonerà. Chi
può saperlo? Ma se vuoi crescere, Parmenion... se vuoi diventare l’uomo che
dovresti essere... dovrai imparare da questa esperienza.
– E cosa dovrei imparare? A non innamorarmi?
– No, perché nessun uomo lo può fare. Però ti devi rendere conto che l’amore è
una cosa pericolosa perché influisce sulla mente e ci rende ciechi di fronte a realtà
ovvie. Pensa ad Elena e a Paride, che hanno provocato la caduta di Troia. Credi che
fosse questa la loro intenzione? No, erano soltanto amanti. Tu sei uno degli uomini
più intelligenti e dotati di intuito che io abbia mai incontrato, e tuttavia hai agito
come un completo idiota. Se questo è ciò che porta l’amore, sono lieto che esso mi
abbia evitato.
– Finirà bene – sussurrò Parmenion. – Te lo prometto.
– Questo è ancora l’amore che parla. Nessun uomo intelligente fa una promessa
che non può mantenere. Ora mangia, e non ne discutiamo più.

Con il passare delle settimane Parmenion scoprì ancora una volta la profondità
della saggezza di Senofonte. Il suo desiderio e il suo amore per Derae non
diminuirono ma la sua mente si schiarì e lui cominciò ad avvertire un profondo
senso di vergogna per il modo in cui aveva condotto la loro relazione.
Se lo avesse voluto, Patroclian avrebbe potuto sottoporre la questione al
Consiglio, che avrebbe chiesto agli efori la morte di Parmenion. La legge era
talmente specifica al riguardo che non c’era neppure da parlare di una possibile
difesa: qualsiasi Spartano che violasse una vergine era soggetto alla morte per
mezzo del veleno o di una spada. La stessa Derae avrebbe potuto essere sacrificata
ad Ecate, la dea della morte.
Adesso Parmenion era in grado di riesaminare la propria passione alla fredda
luce della logica, ma a dire il vero non rimpiangeva ciò che aveva fatto: il suo
amore con Derae era stato il momento culminante di tutta la sua vita, lo aveva
liberato dalle miserie della sua infanzia ed aveva esorcizzato infelicità ed odio.
Adesso non desiderava più vendicarsi di Leonida, non sognava più di condurre un
esercito contro gli Spartani... tutto quello che voleva era vivere con Derae e
allevare i figli del loro amore.
Durante il giorno cavalcava con Senofonte nell’entroterra del Peloponneso, e
dopo il tramonto correva sui pendii collinari in modo da rinforzare il proprio corpo
e da sfinire la propria passione con l’esercizio fisico.
Di notte sedeva a discutere con il generale ateniese di tattica militare o di
strategie politiche; Senofonte appariva profondamente depresso dal fallimento di
Sparta di fornire una guida sicura alla Grecia e prediceva con aria cupa futuri
disastri.
– Agisaleus non sopporta i Tebani ed esprime pubblicamente il proprio
disprezzo, il che non è una cosa saggia. Io gli voglio bene, ma è cieco ai pericoli
perché non riesce a dimenticare che sono state le azioni di Tebe a costringerlo a
interrompere i suoi successi militari contro i Persiani per tornare in patria. Non è
capace di perdonare.
– E tuttavia – replicò Parmenion, – il suo ritorno dalla Persia gli ha portato
grande onore: ha schiacciato i Tebani ed ha restaurato il prestigio e il potere di
Sparta.
– Questa è l’opinione comune fra gli Spartani – convenne Senofonte, – ma la
realtà è che il solo vincitore è stato la Persia.
– Ma essa non ha avuto parte alcuna nella rivolta, vero?
– Stiamo parlando di politica, Parmenion – rise Senofonte. – Non pensare
soltanto a spade e a campagne militari. Agisaleus aveva invaso la Persia e stava
vincendo, quindi l’oro Persiano... di cui esiste una scorta illimitata... è stato fatto
affluire ad Atene e a Tebe. Con quell’oro le due città hanno armato i loro eserciti,
ed è stato per questo che Agisaleus è dovuto tornare in patria. C’era in solo modo
in cui poteva vincere... ha mandato un ambasciatore in Persia ed ha acconsentito a
diventare un vassallo di quella nazione. La Persia ha abbandonato Tebe e Atene al
loro destino ed ha sovrinteso alle trattative di pace.
– Una buona strategia – convenne Parmenion. – Non mi meraviglia che
l’impero domini da tanto tempo. Con un po’ d’oro ha arrestato un’invasione.
– Ha fatto di meglio: tutte le città greche dell’Asia sono state date ai Persiani.
– Non lo sapevo – commentò Parmenion.
– È una cosa che non viene insegnata ai giovani Spartani, perché ne
danneggerebbe il morale, ma essa costituisce un cancro nascosto in Agisaleus:
adesso lui sa che non potrà mai più marciare contro la Persia, perché in sua assenza
Tebe e Atene insorgerebbero contro Sparta.
– Ma non potrebbe incontrarsi con i loro capi e condurre poi in Persia una
spedizione congiunta?
– Potrebbe – annuì Senofonte, – ma non lo farà mai perché il suo odio lo ha
accecato. Non mi fraintendere, Parmenion: Agisaleus è un buon re e un uomo
eccellente, colto e saggio.
– Faccio fatica a capire – confessò Parmenion.
– Davvero? Amore e odio sono sentimenti molto simili. Pensa alla tua follia
con Derae... ti sei soffermato a considerare i rischi che essa implicava? No.
Agisaleus agisce nello stesso modo... basta menzionare Tebe perché il suo volto
cambi e la sua mano scivoli verso l’impugnatura della spada.
I servi portarono loro una cena a base di pesce e formaggio; per un po’ i due
mangiarono in silenzio, ma Senofonte non aveva appetito e ben presto spinse
indietro il piatto, allungando la mano verso un boccale di vino e aggiungendovi un
po’ d’acqua. Vuotato in fretta il boccale, se ne versò un altro.
– Forse Cleombrotus porterà un cambiamento – suggerì Parmenion.
Sparta aveva infatti due re, sulla base del principio che mentre uno guidava i
guerrieri in battaglia l’altro poteva restare a casa a curare gli interessi della città.
Agisaleus aveva finora diviso il trono con il cugino Agesopolis, che però era un
sempliciotto che appariva di rado in pubblico. Adesso la morte di Agesopolis,
avvenuta quattro mesi prima, aveva visto salire al potere Cleombrotus, un ottimo
guerriero e atleta.
– Dubito che riuscirà a far cambiare idea ad Agisaleus – replicò Senofonte. –
Cleombrotus è abbastanza forte, ma manca di intelletto, ed io temo per Sparta. Gli
dèi rendono orgogliosi coloro che intendono distruggere – citò.
– Di certo l’orgoglio è la grande forza di Sparta – osservò Parmenion,
guardando con preoccupazione Senofonte che aveva riempito ancora il boccale
senza preoccuparsi di annacquare il vino.
– È vero, ma sai quanti veri Spartani restano in tutta la città? Meno di duemila,
perché i costi delle mense sono saliti e gli Spartani più poveri non possono più
permettersi di mandare i loro figli agli alloggiamenti. Pensa a te stesso... tua madre
aveva una buona tenuta e tuttavia ha dovuto venderla per pagare il tuo
mantenimento. È un’assurdità. Fra dieci anni il numero dei guerrieri si sarà
dimezzato ancora... e allora come farà Sparta a continuare a primeggiare? E quanto
tempo passerà prima che si veda applicare davvero la strategia che tu hai usato nei
Giochi?
– Non permettere che questo ti rattristi, Senofonte. Non hai il potere di
cambiare nulla di quanto sta accadendo.
– È questo che mi rattrista – ammise il generale.

Per la prima volta Tamis sentì crescere i propri dubbi. Adesso gli eventi
stavano maturando in fretta e lei avvertiva il potere degli accoliti del Dio Oscuro
che la cercavano e studiavano un modo per attaccare e distruggere l’unica che
poteva annientare i loro piani.
Tamis non era però priva a sua volta di poteri e avvolse la sua anima in un
mantello di invisibilità, evitando gli occhi dello spirito di quanti le davano la caccia
e scivolando vicino ad essi come una brezza che sussurri fra i rami rischiarati dalla
luna.
Learcus era morto, ucciso da Parmenion. Tamis non aveva fatto nulla per
causare la sua morte e tuttavia sapeva che in parte la colpa gravava lo stesso sulle
sue spalle sempre più fragili.
Tutti gli uomini muoiono, continuava a ripetersi. Del resto, non era forse stato
Learcus a nascondersi in un vicolo buio pronto ad attaccare un ragazzo indifeso? Si
era attirato addosso la sua sorte con le proprie mani.
I dubbi continuavano però a tormentarla. Adesso le sue preghiere restavano
quasi sempre senza risposta e lei si sentiva sola contro i servitori del Caos, anche
perché non poteva più evocare Cassandra o qualsiasi altro spirito del passato... le
Vie non erano più aperte per lei.
È solo una prova, si diceva per rassicurarsi. La Fonte è ancora con me, lo so.
Di certo è meglio che poche persone muoiano piuttosto che siano in molti...
intere moltitudini... a soffrire.
Quante volte si era ripetuta quella frase, come un incantesimo contro le proprie
paure? Ora però si era spinta troppo oltre per esitare proprio adesso.
Quando Learcus era morto, i servitori del Dio oscuro avevano accentrato il loro
interesse su Sparta, intessendo i loro incantesimi intorno ai superstiti, Nestus e
Cleombrotus, in modo da sorvegliarli e da proteggerli. Per Tamis era quindi
diventato difficile manipolare in segreto le loro emozioni, incoraggiarli a essere
impetuosi e a mettere a repentaglio la loro vita.
Tuttavia gli Osservatori non potevano controllare tutto e Tamis aveva atteso
con pazienza, pronta a sfruttare qualsiasi momentaneo cedimento, e adesso era
giunto il suo momento. La ragazza Derae era stata denunciata pubblicamente e il
suo promesso, Nestus, era pervaso da un’ira piena di indignazione e dalla
tipicamente spartana bramosia di vendetta. Soltanto la morte dell’uomo che gli
aveva recato vergogna avrebbe potuto soddisfare il suo cuore di guerriero.
Tamis sapeva che gli Osservatori erano furenti, poteva avvertire la loro rabbia e
la loro frustrazione come fiamme nella notte; aprendo le imposte dell’unica finestra
della sua casa, lasciò vagare lo sguardo verso la distante acropoli.
Parmenion si trovava di fronte al primo di molti pericoli, e Tamis era
impossibilitata ad aiutarlo proprio come gli Osservatori non potevano proteggere
Nestus: adesso sarebbe giunto il momento delle spade, della forza e dell’abilità. Al
tempo stesso, gli Osservatori erano sempre più vicini, tanto che presto l’avrebbero
individuata e attaccata, mandando nella notte i demoni a lacerare la sua anima o di
giorno qualche sicario armato di una lama affilata per trapassare la sua fragile
carne.
Girandosi, fissò la squallida stanza che era stata la sua casa per tanti anni
solitari: non avrebbe sentito la sua mancanza, o quella di Sparta, e neppure quella
della Grecia, la dimora del suo spirito.
Aperta la porta, uscì nella luce del sole.
– Per il momento sei solo, Parmenion. Adesso soltanto la tua forza e il tuo
coraggio ti possono aiutare.
Appoggiandosi al bastone, con un lacero mantello grigio avvolto intorno alle
spalle, lasciò lentamente Sparta e non si girò neppure una volta a guardarsi
indietro, neppure per un solo istante permise al rimpianto di sfiorarle il cuore.
Nella sua dimora abbandonata la temperatura calò improvvisamente quando
un’ombra scura si formò sulla parete opposta alla finestra, crescendo e allargandosi
fino a formare la sagoma semitrasparente di una donna alta, incappucciata e velata
di nero.
Per parecchi minuti la donna si mosse per la stanza, frugando con gli occhi
dello spirito, poi scomparve...
... e riaprì gli occhi fisici in un palazzo oltre il mare.
– Ti troverò, Tamis – sussurrò, con voce sommessa e gelida. – E ti recherò la
disperazione.

Tre giorni prima della fine della sua permanenza ad Olimpia, Parmenion rimase
sorpreso di vedere Hermias attraversare a cavallo il lungo prato antistante la casa.
Di solito il suo amico si recava al mare con la famiglia durante la parte più calda
dell’estate, e la loro casa si trovava a parecchie centinaia di leghe da Olimpia.
Durante l’ultimo anno Parmenion si era incontrato di rado con Hermias, perché
il suo amico era diventato intimo del giovane Re Cleombrotus ed era possibile
vedere spesso i due insieme in città o che si recavano a cavalcare sulle montagne
del Taigeto.
Quando gli andò incontro, Parmenion vide che anche Hermias era cambiato
durante il tempo che avevano trascorso agli Alloggiamenti Menelao: a diciannove
anni, il giovane era di una bellezza incredibile e non mostrava ancora traccia di
barba. Un tempo un ottimo corridore, adesso non aveva più la propensione ad
esercitarsi con costanza e lo si vedeva di rado sul terreno di addestramento; di
recente, poi, si era lasciato crescere i capelli e ancora prima che balzasse da cavallo
Parmenion poté sentire l’odore dell’olio persiano profumato di cui essi erano
cosparsi.
– Ben incontrato, fratello – gli gridò, correndogli incontro per abbracciarlo.
Hermias però si ritrasse dal suo abbraccio.
– Ho cattive notizie, Savra. Credendo alle menzogne sul tuo conto, Nestus sta
venendo qui, ed è intenzionato ad ucciderti. Con un sospiro, Parmenion si volse a
fissare le lontane colline.
– Devi andare via – lo incitò Hermias. – Non farti trovare qui quando arriverà.
Dimmi la verità ed io cercherò di convincerlo.
– La verità? – rispose Parmenion. – Cosa vorresti che dicessi. Io amo Derae. La
voglio come moglie... ho bisogno di lei.
– Questo lo accetto – replicò Hermias, – ma lui è convinto che tu l’abbia
violata. Io so che tu non prenderesti mai in considerazione un atto così vile, ma
Nestus è accecato dall’ira. Rifugiati per un po’ sulle colline, mentre io gli parlo.
– Ci siamo amati, e siamo stati stupidi – affermò Parmenion, con voce
sommessa. – Nestus ha ogni diritto di essere furente.
– Allora... è vero? – chiese Hermias, a bocca aperta.
– Non l’ho violata! Noi ci amiamo, Hermias. Cerca di comprendere, amico
mio.
– Cosa c’è da comprendere? Ti sei comportato come... come il Macedone che
sei.
Parmenion si mosse in avanti, protendendo una mano verso il braccio
dell’amico, ma questi si ritrasse.
– Non mi toccare! – esclamò. – Nestus è mio amico, lo è stato da quando
eravamo bambini, ed ora porta su di sé una vergogna che non merita. Io so perché
lo hai fatto, Savra... per vendicarti di Leonida... e ti disprezzo per questo. Prendi un
cavallo e vattene. Va’ dove vuoi, ma non farti trovare qui quando Nestus arriverà.
Con quelle parole Hermias tornò a grandi passi verso il cavallo e balzò in sella.
– Ho rinunciato a molte cose per te, Parmenion, ma adesso rimpiango il giorno
che ti ho incontrato. Quello che hai fatto è stato malvagio e ne deriveranno molte
sofferenze. Io ti amavo... come un amico e un fratello, ma il tuo odio è stato ed è
troppo forte.
– Non è odio – protestò Parmenion, ma Hermias fece girare il cavallo e si
allontanò al galoppo. – Non è odio! – gli gridò ancora dietro Parmenion.
Sconvolto, rimase immobile dov’era mentre Hermias riattraversava il prato al
galoppo, poi sentì alle proprie spalle un rumore di passi ma non si voltò,
continuando ad osservare l’amico finché scomparve in lontananza.
– Quello era un consiglio sensato – commentò Senofonte, con voce triste. –
Prendi la giumenta baia e recati a Corinto. Ti darò denaro a sufficienza per il
viaggio e una lettera per un amico che vive là e che sarà lieto di ospitarti finché
non avrai deciso dove vuoi andare.
– Non posso farlo, perché significherebbe rinunciare a Derae.
– Lei è persa per te comunque.
– Non intendo accettarlo – ribatté Parmenion, girandosi di scatto. – Come posso
accettarlo?
– Sei disposto a morire per il tuo amore?
– Certamente. Cosa vorresti che dicessi?
– E sei anche disposto ad uccidere per esso un uomo innocente?
Parmenion trasse un profondo respiro, lottando alla ricerca della calma che
continuava ad eluderlo. Non conosceva bene Nestus, ma sapeva che non era mai
stato uno dei suoi nemici e che non lo aveva mai tormentato; adesso però Nestus,
come qualsiasi altro Spartano al suo posto, voleva esorcizzare la sua vergogna con
il sangue dell’uomo che lo aveva disonorato.
– Non posso fuggire, Senofonte – affermò infine, incontrando lo sguardo
dell’Ateniese. – La mia vita non sarebbe nulla senza Derae, adesso lo so.
– Quanto sei abile con la spada? – chiese il generale, nascondendo la propria
delusione.
– Me la cavo.
– E Nestus?
– Lui era... ed è.. il campione di spada degli Alloggiamenti Licurgo. È molto
forte.
– Puoi sconfiggerlo?
– Sono malvagio? – controbatté Parmenion, senza rispondere.
– No – replicò Senofonte. – Si tratta del principio dell’azione e della reazione,
ragazzo mio. Una volta in Persia ho conosciuto un uomo a cui era stato chiesto di
portare l’acqua in una zona arida. Quell’uomo aveva costruito una piccola diga che
aveva deviato il corso di un fiume, irrigando i campi e salvando una comunità.
Quelle persone gli erano state grate, perché lui aveva dato loro la vita, e c’erano
state feste e banchetti in suo onore. Lui si era fermato là per parecchi mesi, e una
volta partito era giunto dopo cinque giorni in una città deserta, dove c’erano dei
cadaveri e un corso d’acqua asciutto. Aveva salvato una comunità distruggendone
un’altra. Era malvagio? L’intenzione è tutto ciò che conta. Tu non ti sei prefisso di
portare la vergogna a Nestus o a Derae, ma adesso ne devi subire le conseguenze.
Uno di voi deve morire.
– Non voglio ucciderlo, lo giuro su tutti gli dèi dell’Olimpo – affermò
Parmenion, – ma se fuggirò non potrò mai reclamare Derae. Capisci?
– Puoi prendere a prestito la mia corazza e il mio elmo... supponendo che
Nestus indossi i suoi. Oh, Parmenion, cosa ti ha recato la tua follia?
– Mi ha portato Derae, e non posso rimpiangerlo... anche se ho perduto
Hermias, che è stato mio amico per tutta l’infanzia – replicò Parmenion,
costringendosi a sorridere.
– Vieni a mangiare qualcosa. Il corpo non combatte bene con lo stomaco vuoto,
te lo garantisco. Prendi un po’ di miele, che ti darà forza.
Era ormai tardo pomeriggio quando Nestus e i suoi compagni arrivarono alla
casa dove Parmenion era seduto in compagnia di Senofonte all’ombra del tetto
inclinato coperto di tegole. Alzandosi, l’Ateniese segnalò a Parmenion di restare
dov’era e andò incontro ai cavalieri.
Con Nestus c’erano sei uomini, ma Parmenion ne riconobbe soltanto due:
Leonida ed Hermias.
Benvenuti nella mia casa – salutò Senofonte.
– Cerchiamo l’uomo chiamato Parmenion – affermò Nestus, sollevando una
gamba oltre il collo del cavallo e balzando a terra. Era un giovane alto, largo di
spalle e con i fianchi stretti... non privo di attrattiva, anche se la sua bellezza era
guastata dal naso ad uncino.
– Gli efori hanno concesso il permesso per questo duello? – volle sapere
Senofonte, avvicinandosi.
– Lo hanno concesso – replicò Nestus, infilando una mano nella tunica ed
esibendo una pergamena che porse a Senofonte.
L’Ateniese la srotolò e la lesse in fretta.
– Il tuo onore può essere soddisfatto soltanto dal sangue? – domandò,
restituendo il documento.
– Sì. Sai quello che lui ha fatto, che alternativa ho?
– Come gentiluomo nessuna – ammise Senofonte, in tono sommesso. –
Tuttavia... e bada che non sto parlando in sua difesa e neppure con il suo
permesso... lui non sapeva che eri promesso a quella nobile donna.
– Non è una nobile donna, è una prostituta... resa tale dal mezzosangue che tu
ospiti.
– Allora sarà necessario lo spargimento di sangue – annuì Senofonte. –
Cerchiamo però di agire da gentiluomini. Avete cavalcato a lungo, quindi tu e i
tuoi amici avrete sete. La mia casa è la tua casa. Chiederò ai servi di portare dei
rinfreschi.
– Non sarà necessario, Ateniese – scattò Nestus. – Manda soltanto Parmenion
da me. Lo ucciderò e potremo andarcene.
– Anche se posso capire la tua ira – sussurrò Senofonte, avvicinandosi
maggiormente al giovane, – non si addice ad un gentiluomo di agire in maniera
tanto scortese.
Fissando i chiari occhi azzurri del suo interlocutore, Nestus vi scorse
un’espressione furente.
– Hai ragione, signore. È stata la mia ira a parlare... ed essa non dovrebbe
essere diretta contro di te. Ti ringrazio per la tua cortesia e sono certo che i miei
amici saranno lieti di accettare i rinfreschi. Per quanto mi riguarda, con il tuo
permesso attenderò in giardino il momento dello scontro.
– Ti manderò dell’acqua fresca... a meno che tu non preferisca del vino –
assentì Senofonte, inchinandosi.
– L’acqua sarà sufficiente – ribatté Nestus, allontanandosi a grandi passi verso i
giardini.
Gli altri smontarono e seguirono Senofonte in casa; nessuno di loro guardò
verso Parmenion, che sedeva in silenzio con gli occhi fissi su Nestus, che aveva
preso posto su una panca vicino al ruscello.
Dopo qualche minuto Parmenion sentì qualcuno che si avvicinava e sollevò lo
sguardo, aspettandosi di vedere Senofonte.
– Hai nutrito bene il tuo odio – osservò Leonida, – e la freccia che hai scagliato
ha trovato il suo bersaglio. Alzandosi in piedi, Parmenion fronteggiò il suo antico
nemico.
– Io non ti odio, Leonida, e non odio la tua famiglia. Amo Derae. Ciò che ho
fatto è stato sbagliato e mi vergogno delle mie azioni, ma io intendo sposarla.
Per un momento Leonida rimase in silenzio, il volto indecifrabile.
– Amo mia sorella, anche se è caparbia – disse infine. – Tu però sei mio
nemico, Parmenion, e tale rimarrai fino al giorno della tua morte... che io prego
possa essere oggi. Non puoi resistere contro Nestus.
– Perché questa storia deve continuare? – domandò Parmenion. – Come puoi
nutrire quest’odio nei miei confronti quando presto sposerò tua sorella?
Leonida arrossì in volto e Parmenion scorse nei suoi occhi non soltanto ira ma
anche angoscia.
– Non sarebbe giusto parlarne adesso, prima dello scontro. Se sopravviverai,
allora te lo dirò – ribatté il giovane nobile.
– Dimmelo, e che l’Ade si prenda la giustizia! Avanzando di un passo, Leonida
lo afferrò per la tunica.
– Presto Derae morirà... lo capisci? Mio padre l’ha dichiarata una vittima di
Cassandra e in questo momento è già a bordo di una nave diretta a Troia. Quando
arriveranno vicino alla riva la getteranno in mare. È questo che le hai portato,
mezzosangue! L’hai uccisa!
Quelle parole trapassarono Parmenion come coltelli e lui indietreggiò
barcollando di fronte all’ira che fiammeggiava negli occhi di Leonida. Una vittima
di Cassandra! Ogni anno una giovane donna nubile veniva mandata da Sparta come
sacrificio agli dèi, per essere annegata al largo delle coste di Troia: quella era la
penitenza per l’assassinio della sacerdotessa Cassandra, avvenuto dopo la guerra
troiana di centinaia di anni prima. Tutte le principali città della Grecia erano
obbligate a mandare una vittima.
Le ragazze venivano portate con una nave fino ad un miglio dalla costa
dell’Asia, poi venivano buttate in mare con le mani legate dietro la schiena. Per
Derae non c’era speranza, perché anche se fosse riuscita a liberarsi le mani e a
nuotare fino a riva gli abitanti dei villaggi costieri l’avrebbero inseguita e uccisa.
Anche questo faceva parte del rituale.
– Allora, cos’hai da dire? – sibilò Leonida.
Parmenion però non replicò e uscì invece fuori sotto la luce del sole, estraendo
la spada e soppesandola per calibrarne il peso. Non poteva rispondere al suo
nemico perché ogni sentimento lo aveva abbandonato e si sentiva stranamente
stordito e libero da ogni tormento. Gli avevano tolto l’unica luce che ci fosse mai
stata nella sua vita e lui non intendeva vivere ancora nell’oscurità... era meglio che
Nestus lo uccidesse.
Dopo un po’ Senofonte gli si avvicinò e convocò anche Nestus sul tratto di
terreno piatto antistante la sua casa.
– Ho mandato a chiamare il chirurgo, e credo che sia consigliabile attendere il
suo arrivo per dare inizio al duello.
– I dottori non possono aiutare i morti – osservò Nestus.
– Verissimo, ma è probabile che anche il vincitore riporti delle ferite ed io non
voglio vedere un secondo uomo morire dissanguato.
– Non desidero aspettare – ribatté Nestus. – Presto il sole tramonterà.
Cominciamo.
– Sono d’accordo – assentì Parmenìon.
– Molto bene – si arrese Senofonte, scoccandogli un’occhiata penetrante. –
Entrambi avete la spada ed è presente il numero di testimoni prescritto. Vi
suggerisco di salutarvi a vicenda e di cominciare.
– Non ci sarà nessun saluto per te, mezzosangue – ringhiò Nestus, estraendo la
spada e fissando Parmenion con occhi roventi.
– Come desideri – rispose questi, calmo. – Prima che combattiamo voglio però
che tu sappia che io amo Derae... proprio come l’ami tu.
– Amore? Che ne sai tu? Io la ricorderò con grande affetto... e ricorderò
soprattutto il momento in cui le ho detto il prezzo che avrebbe dovuto pagare per la
mia vergogna. Non appariva più così graziosa quando è caduta in ginocchio
implorando suo padre di non lasciarla morire.
– Hai chiesto tu la sua morte?
– L’ho pretesa... come ho preteso la tua.
– Bene – ribatté Parmenion, sentendo il calore della furia crescente ma
tenendola sotto controllo, – hai fatto quello che volevi con lei. Ora vediamo se sai
combattere bene quanto sai odiare.
Nestus eseguì un affondo improvviso ma la Spada di Leonida si sollevò di
scatto e ci fu un clangore di acciaio quando Parmenion parò il colpo. Nestus tentò
allora con un rovescio, ma Parmenion bloccò anche quello.
Gli osservatori si allargarono intorno ai contendenti, tranne Senofonte che era
tornato all’ombra del tetto e si era seduto proteso in avanti con il mento appoggiato
alle mani, seguendo con attenzione ogni mossa. L’Ateniese si accorse che Nestus
aveva il vantaggio della forza fisica ma che Parmenion era più rapido. Le loro
spade cozzarono ancora e per parecchi minuti i due girarono in cerchio, mettendo
alla prova le rispettive capacità, poi la lama di Parmenion saettò in avanti e tracciò
un solco poco profondo sulla spalla destra di Nestus; il sangue spruzzò a macchiare
la tunica azzurra del giovane e Senofonte si alzò in piedi, raggiungendo gli altri che
stavano incitando l’amico e gridando consigli. Nestus eseguì un affondo diretto alla
gola di Parmenion, ma questi si spostò di lato e raggiunse al fianco l’avversario: la
sua spada gli lacerò la pelle, rimbalzando contro le costole e Nestus si ritrasse con
un grugnito di dolore. Adesso il giovane nobile stava perdendo sangue da due ferite
e gli spettatori scivolarono nel silenzio. D’un tratto Parmenion eseguì una finta alla
testa ma subito abbassò la lama, calandola con violenza sul fianco sinistro
dell’avversario. Una costola si spezzò sotto l’impatto e Nestus lanciò un urlo di
dolore, parando soltanto in parte un secondo affondo che aprì maggiormente la
ferita. Adesso il sangue gli inzuppava la tunica azzurra e gli colava lungo le gambe.
– Basta! – gridò Senofonte. – Indietreggiate uno dall’altro!
Entrambi lo ignorarono. Riducendo le distanze, Parmenion bloccò un debole
affondo di Nestus e gli conficcò la lama nel ventre. Con un urlo terribile Nestus
lasciò cadere la spada e crollò in ginocchio.
Parmenion liberò l’arma con uno strattone e abbassò lo sguardo su di lui.
– Dimmi – sibilò, – era questo l’aspetto di Derae quando era lei in ginocchio a
implorare per la sua vita?
Nestus stava cercando di arginare il sangue che gli fiottava dal ventre; nel
sollevare lo sguardo, vide l’espressione degli occhi di Parmenion.
– Ba... sta – implorò.
– Sei venuto in cerca di morte, e l’hai trovata – ribatté Parmenion.
– No! – urlò Senofonte, quando la Spada di Leonida si sollevò... per ricadere
sulla gola dell’uomo inginocchiato, tranciando la giugulare e le ossa del collo.
Nestus si accasciò da un lato.
Parmenion girò allora le spalle al corpo e concentrò lo sguardo su Leonida.
– Raccogli la sua spada – lo incitò. – Avanti! Prendila... e muori come è morto
lui.
– Sei un selvaggio – disse Leonida, scorgendo la luce della follia negli occhi di
Parmenion, poi avanzò e si inginocchiò accanto a Nestus, girandolo supino e
chiudendogli gli occhi.
Intanto Senofonte venne avanti a sua volta e prese Parmenion per un braccio.
– Vieni via – gli sussurrò. – Vieni via.
– Qualcun altro vuole combattere con me? – gridò Parmenion. I suoi occhi
scrutarono il gruppo ma nessuno dei presenti se la sentì di incontrare il suo
sguardo.
– Vieni via – lo incitò ancora Senofonte. – Questo è un comportamento
sconveniente.
– Sconveniente? – ripeté Parmenion, strappandosi dalla sua stretta. –
Sconveniente? Hanno ucciso Derae e sono venuti ad uccidere me. Cosa c’è di
conveniente in tutto questo?
Senofonte si girò verso Leonida.
– Sul retro della casa c’è un piccolo carro... puoi usarlo per restituire Nestus
alla sua famiglia. Ora vi suggerisco di andarvene – disse, poi si rivolse ancora a
Parmenion e aggiunse: – Riponi la spada, non ci saranno altri combattimenti qui.
L’autorizzazione al duello è stata emessa e obbedita. Ulteriori spargimenti di
sangue non otterranno nulla.
– No – ritorse Parmenion. – Sono venuti per uccidermi, quindi che ci provino.
Lascia che ci provino.
– Se non metti via quella spada e torni in casa, la prossima persona contro cui
dovrai combattere sarò io. Sono stato chiaro?
Parmenion sbatté le palpebre e aprì la bocca per ribattere, ma non trovò parole
da pronunciare. Lasciata cadere la spada, rientrò in casa a grandi passi, superando
Clearcus e Tinus che erano fermi sulla soglia e si trassero di lato per lasciarlo
passare. Una volta nella sua stanza si sedette con la mente che vorticava. Derae se
n’era andata. In quel momento era ancora viva, da qualche parte sul mare, ma entro
pochi giorni sarebbe morta e lui non avrebbe mai conosciuto il momento in cui
questo sarebbe successo.
La porta si aprì ed entrò Clearcus, che portava una bacinella d’acqua e un
asciugamano.
– È meglio che ti pulisca da quel sangue – consigliò, – e che ti cambi la tunica.
Cosa vorresti per cena?
– Cena? – ripeté Parmenion, scuotendo il capo. – Ho appena ucciso un uomo.
Come puoi chiedermi cosa voglio per cena?
– Io ho ucciso molti uomini – replicò Clearcus. – Cosa c’entra questo con il
cibo. Lui era vivo e adesso non lo è più. Era uno stolto: avrebbe dovuto ascoltare il
consiglio di Senofonte e riposarsi prima di combattere, però non lo ha fatto. Al-
lora... cosa vuoi per cena?
Parmenion si alzò in piedi, sentendo la tensione che lo abbandonava nel
guardare in faccia il vecchio.
– Tu non mi odi, vero? Perché? So che non ti piacevo quando mi hai fatto da
giudice ai giochi. Perché adesso ti mostri mio amico?
– Un uomo può cambiare idea, ragazzo – rispose Clearcus, incontrando il suo
sguardo con un sorriso. – Ora, dal momento che sembri incapace di decidere cosa
mangiare, ti preparerò un po’ di pesce nel latte cagliato, un cibo che si addice ad
uno stomaco sottosopra. Adesso lavati e cambiati. Domani ti aspetta una lunga
cavalcata.
– Domani? Dove devo andare, domani?
– Corinto sarebbe un buon posto da dove cominciare una nuova vita, ma credo
che Senofonte ti voglia mandare a Tebe. Là ha un amico chiamato Epaminonda. Ti
piacerà.

– Capita che gli uomini nutrano dei sogni – commentò Senofonte, mentre lui e
Parmenion passeggiavano insieme nel giardino sotto l’intensa luce lunare, – e a
volte penso che gli dèi si facciano beffe di noi. lo volevo conquistare la Persia,
capitanare un esercito unito nel regno più ricco che il mondo abbia mai visto, e
invece conduco la vita di un gentiluomo a riposo. Tu volevi trovare amore e
felicità, e ti sono stati tolti. Però sei giovane, Parmenion, hai tempo davanti a te.
– Tempo? Senza Derae non c’è nulla per cui valga la pena di avere tempo –
rispose Parmenion. – Lo so nel profondo della mia anima. Lei era l’unica. Siamo
stati così vicini, durante quei cinque giorni.
– Probabilmente le mie parole ti sembreranno insensibili, amico mio, ma forse
la tua passione ti trae in inganno. Non sei ancora un uomo di mondo e può darsi
che la tua fosse soltanto un’infatuazione... e a Tebe ci sono molte donne che
possono rendere felice un uomo.
Parmenion lasciò vagare lo sguardo sul lago artificiale, osservando i raggi di
luna che si frammentavano e galleggiavano sulla sua superficie.
– Non amerò mai più – disse. – Non aprirò mai più il mio cuore per rischiare
così tanto dolore. Quando mia madre è morta mi sono sentito sperduto e solo, ma
nel profondo del mio intimo me lo aspettavo... e suppongo che dovevo essermi
preparato a quell’evento. Ma Derae? È come se una bestia dotata di artigli terribili
mi avesse lacerato il petto e strappato il cuore. Non provo nulla, non ho sogni né
speranze. Per un momento, oggi, ero disposto a lasciare che Nestus mi uccidesse,
ma poi mi ha detto di essere stato lui a pretendere la morte di Derae.
– Non è stata una mossa molto intelligente da parte sua, vero? – osservò in tono
asciutto Senofonte, ma Parmenion non sorrise.
– Quando ho ucciso Learcus, quella notte, ho provato un impeto di gioia, mi
sono gloriato della sua morte. Oggi però ho ucciso un uomo che non meritava di
morire, ho guardato la luce della vita svanire dai suoi occhi. La cosa peggiore è che
lui mi ha supplicato di non infliggere il colpo mortale.
– Sarebbe morto fra terribili agonie a causa della ferita allo stomaco –
sottolineò Senofonte. – Se mai, hai posto fine alle sue sofferenze.
– Ma non è questo il punto, vero? – chiese Parmenion, in tono quieto, girandosi
per fronteggiare l’Ateniese.
– No, non lo è. Lo hai distrutto, e non è stata una cosa bella a vedersi. Inoltre ti
sei fatto dei nemici, perché nessuno di coloro che hanno assistito al duello
dimenticherà il modo in cui lui è morto. A Tebe potrai però farti una nuova vita.
Epaminonda è un brav’uomo e troverà un posto per te.
– Derae ha fatto un sogno su di me, ma era fasullo – mormorò Parmenion,
lasciandosi cadere su una panca di marmo. – ha sognato di essere in un tempio e
che io andavo da lei vestito da generale. Nel sogno mi ha chiamato il Leone di
Macedonia.
– Ha un bel suono – commentò Senofonte, avvertendo improvvisamente il gelo
della sera, che gli strappò un brivido. – Torniamo in casa. Ho un dono per te.
Clearcus aveva sistemato il dono su un lungo tavolo, e Parmenion si accostò
innanzitutto alla corazza di bronzo, di fattura semplice e non modellata in modo da
imitare le forme del torace maschile come era nel caso delle armature più costose,
era però una corazza robusta che avrebbe resistito a qualsiasi colpo di spada e al
centro del petto c’era una testa di leone in ferro battuto.
– Forse Derae non si sbagliava troppo – sussurrò Senofonte, quando Parmenion
sollevò lo sguardo su di lui.
Il giovane allungò una mano ad accarezzare con le dita le fauci del leone.
Accanto alla corazza c’era poi un elmo rotondo, anch’esso di bronzo e bordato in
cuoio, e il tutto era completato da schinieri di bronzo e da un gonnellino di cuoio
rinforzato con lo stesso metallo e da una corta daga con la lama ricurva.
– Non so cosa dire – commentò, rivolto all’amico.
– Dovevano essere i doni per il raggiungimento dell’Età Virile, ma credo che
questo sia un momento migliore per darteli. C’è anche un’altra cosa, che spero si
rivelerà utile.
Senofonte sollevò una pergamena rilegata in cuoio e la passò a Parmenion, che
aprì le piccole fibbie e la srotolò.
– È una descrizione dettagliata del mio viaggio attraverso la Persia e della
marcia fino al mare. Non sostengo di essere un grande scrittore, ma nelle mie
annotazioni ci sono molte cose che un soldato può imparare, e più di un amico mi
ha chiesto una copia di quello scritto.
– Non potrò mai ripagare la tua gentilezza – affermò Parmenion, scuotendo il
capo.
– Gli amici non devono mai essere ripagati... è questo che li rende amici. Ora
preparati al tuo viaggio. Con un po’ di fortuna gli Spartani si dimenticheranno di te
con il passare del tempo.
– Non dimenticheranno, Senofonte. Ci penserò io a che non dimentichino.
– Sei un uomo solo, e questi sono pensieri stolti. Sparta è il maggiore potere
della Grecia e rimarrà tale per molto tempo dopo la nostra morte, quindi dimentica
la vendetta, Parmenion. Perfino la potenza della Persia non potrebbe abbattere
Sparta.
– Naturalmente hai ragione – convenne il giovane, abbracciando l’amico.
Quando però lasciò la tenuta al sorgere dell’alba, ripensò al sogno di Derae e
alla guarnigione spartana presente a Tebe... un contingente ostile, temuto e odiato,
che viveva nel centro di una città di trentamila Tebani.
Estratta la spada, fissò la sua lama lucente.
– Io ti voto alla distruzione di Sparta – sussurrò.
Sollevata l’arma, la puntò verso sudovest, e sebbene la città fosse molto al di
fuori del suo raggio visivo immaginò la spada librata su di essa con l’aspro
bagliore del sole che la rendeva infuocata.
– Io porto i semi del vostro odio! – gridò, scagliando al vento le proprie parole,
– e so dove piantarli.
Sì, pensò, Tebe è la giusta destinazione per il Leone di Macedonia.
TEBE, AUTUNNO, 382 A.C.

– Non m’importa dei presagi – affermò il guerriero, con voce vibrante. –


Raccogliamo un esercito e scacciamo quei dannati Spartani dal cuore della città.
L’uomo alto accanto alla finestra si girò verso quello che aveva parlato e
sorrise, lasciando che il silenzio si intensificasse mentre scrutava la stanza con i
suoi occhi scuri.
– Non tre – disse infine, – custodiamo nel cuore le speranze della nostra città e
non dobbiamo essere impetuosi. – Ignorando il guerriero fissò quindi lo sguardo in
quello degli occhi verde acqua dell’oratore Calepios. – Gli Spartani hanno
occupato Tebe perché sapevano che non avevamo la forza per opporci a loro. Ciò
che dobbiamo prendere in considerazione è cosa vogliono da noi.
– E come possiamo farlo? – domandò Calepios.
– Quello che vogliono è una spada affilata nel ventre! – ruggì il guerriero,
scattando in piedi.
L’uomo alto gli si avvicinò in fretta, abbassando il tono di voce.
– Perché non ti avvicini maggiormente alla finestra, Pelopida, in modo che tutta
la città ti possa sentire? – scattò.
– Sono nauseato di tutti questi discorsi – replicò Pelopida, ma al tempo stesso
abbassò la voce. – Mi offende il fatto che permettiamo agli Spartani di
pavoneggiarsi per le vie di Tebe.
– Credi di essere il solo a pensarla in questo modo? – ritorse l’uomo alto.
– Mi dispiace, amico mio – si scusò il guerriero, quando i loro sguardi
s’incontrarono, – ma questa faccenda mi serra il ventre e mi annebbia la mente.
Continua.
– Dobbiamo stabilire cosa vogliono gli Spartani... e fare esattamente l’opposto.
Però dobbiamo usare l’astuzia e i sotterfugi, e imparare la pazienza.
L’uomo alto tornò ad accostarsi alla finestra e lasciò vagare lo sguardo sulla
città e sulla collina su cui sorgeva la Cadmea, con le sue alte mura pattugliate dai
soldati spartani.
– A me sembra che gli Spartani desiderino quello che hanno sempre voluto... la
conquista – osservò Calepios. – Vogliono governare. Agisaleus odia Tebe, e adesso
ci tiene in pugno.
– Ma ha quello che vuole? – insistette l’uomo alto. – Credo che gli Spartani
sperino che noi insorgiamo contro di loro e attacchiamo la Cadmea. Se lo faremo,
versando sangue spartano, caleranno su di noi con un esercito, saccheggeranno la
città e forse addirittura la distruggeranno. Non abbiamo una forza con cui opporci a
loro.
– Ci sono altre città – osservò Pelopida. – Potremmo chiedere aiuto.
– Città piene di spie e di lingue sciolte – scattò l’uomo alto. – No, io suggerisco
di organizzarci. Tu dovresti lasciare Tebe, raccogliere dei guerrieri e dirigerti verso
nord, vendendo i tuoi servigi come mercenario in Tessaglia o nell’Illiria o anche in
Macedonia... non importa dove. L’importante è che tu metta insieme un
contingente in vista del giorno in cui sarai richiamato a Tebe.
– Ed io che dovrò fare? – chiese Calepios.
– Adesso i consiglieri a favore degli Spartani la fanno da signori nella città... e
tu dovrai diventare parte della loro élite.
– Ma così sarò odiato dal popolo – protestò l’oratore.
– No! Non dovrai mai parlare degli Spartani in pubblico, né per criticarli né per
lodarli. Invece dovrai dedicarti a lavorare fra i Tebani, aiutando e dando consigli.
Non inviterai nessuno Spartano nella tua casa. Fidati di me, Calepios, abbiamo bi-
sogno di un uomo forte al centro, e le tue capacità sono rispettate da tutti. Avranno
bisogno di te... quanto ne abbiamo noi.
– E tu cosa farai, Epaminonda? – domandò il guerriero.
– Io resterò in città e raccoglierò lentamente sostenitori per la causa. Però
ricordate questo: è vitale che gli Spartani non abbiano nessuna scusa per mandare
un esercito nelle nostre terre... almeno finché non saremo pronti.
In quel momento la porta dell’androne si aprì e Calepios si alzò di scatto dal
suo sedile all’ingresso di un servitore.
– Signore – disse questi all’uomo alto, – c’è uno Spartano che ti vuole vedere.
– Ci hanno scoperto? – sussurrò Calepios, arrossendo in volto.
– È solo? – domandò Epaminonda.
– Si, signore, ed ha una lettera da parte del generale Senofonte.
– Accompagnalo nella stanza orientale. Lo vedrò là – ordinò l’uomo alto, poi si
rivolse agli altri e aggiunse: – Aspettate un poco, poi andate via usando i vicoli sul
retro.
– Sta’ attento, amico mio – avvertì il guerriero. – Senza di te non siamo nulla.

Epaminonda si appoggiò all’indietro sulla sedia con lo sguardo fisso sul volto
del giovane che aveva davanti.
– Come sta il generale? – chiese, tamburellando con le dita sulla scrivania
davanti a sé.
– Sta bene, signore. Ti invia i suoi saluti e una lettera.
– Perché ti ha mandato da me, Parmenion? Io sono soltanto un privato cittadino
in una città governata da... altri. Ti posso offrire ben poco.
– Lo capisco, signore – annuì il giovane. – Però Senofonte ha detto che sei un
soldato molto abile, e credo che sperasse che tu potessi trovarmi un posto
nell’esercito di Tebe.
Epaminonda ridacchiò, un suono privo di umorismo, poi si alzò e si avvicinò
alla finestra, spalancando le imposte.
– Guarda lassù – disse indicando la cittadélla sulla collina. – Quella è la
Cadmea, e la sua guarnigione è composta da Spartani come te. Lassù non ci sono
Tebani.
– Io non sono uno Spartano – replicò Parmenion. – A Sparta ero disprezzato per
il mio sangue per metà macedone. ma se fossi un Tebano starei già cercando un
modo per... persuadere gli Spartani ad andarsene.
– Ma davvero? – ribatté il Tebano con voce fredda, anche se un intenso rossore
si stava diffondendo sulle sue guance magre e butterate. – Ci sono pochi uomini
che tenterebbero un’azione del genere, e per quanto mi concerne ho già detto che
sono un privato cittadino con ben poco interesse per le arti marziali.
– Allora non ti disturberò oltre, signore – dichiarò Parmenion. Lasciata sulla
scrivania la lettera di Senofonte, s’inchinò e si avviò verso la porta.
– Aspetta! – chiamò Epaminonda, non desiderando che quello sgradito
visitatore potesse vedere gli altri suoi ospiti mentre se ne andavano. – Sei uno
straniero in questa città e potrai restare nella mia casa fino a quando non ti avremo
trovato un alloggio adeguato. Dirò ad un servo di prepararti una camera.
– Non sarà necessario. Non desidero rimanere in un luogo dove il benvenuto è
dato così a malincuore.
– Vedo che ami parlare chiaro, quindi sarò altrettanto franco. Non nutro molto
amore per gli Spartani, che siano o meno amici di Senofonte, ma tu sei uno
straniero in una città sconosciuta e trovare un buon alloggio richiede tempo. Ti
invito quindi a ripensarci... e mi scuso per il mio comportamento scortese –
concluse, con un sorriso forzato.
Alla vista di quel sorriso, Parmenion diede l’impressione di rilassarsi.
– Anch’io devo chiederti scusa. Sono fuori posto qui e mi sento imbarazzato.
– Allora ricominciamo daccapo, Parmenion. Vieni a sederti e bevi un po’ di
vino mentre leggo questa lettera.
Tornato al suo sedile, il Tebano srotolò la pergamena e lesse del duello con
Nestus e del bisogno di Parmenion di cercare fortuna in un’altra città.
– Perché hai duellato con quest’uomo... oppure si tratta di una questione
personale? – chiese infine.
– Era fidanzato con una ragazza, e anch’io ero innamorato di lei.
– Capisco. Che ne è stato della ragazza?
– L’hanno sacrificata come vittima di Cassandra.
– Che popolo barbaro siamo – commentò Epaminonda. – Mi stupisce la facilità
con cui critichiamo i popoli delle altre razze, definendoli barbari, quando noi ci
pieghiamo ancora a praticare sacrifici umani.
– Gli dèi li richiedono – osservò Parmenion.
– Non ci sono dèi – ribatté il Tebano. – È tutta un’enorme assurdità... ma ha i
suoi vantaggi.
– Come può avere dei vantaggi qualcosa che non esiste? – domandò il giovane.
– Ci sono due porte che conducono fuori da questa stanza, Parmenion – sorrise
il Tebano. – Se ti dicessi che una è protetta da un leone e che l’altra conduce al
paradiso, quale apriresti?
– Quella del paradiso.
– Esattamente. Il leone non esiste... ma aiuta a dare la certezza che tu apra la
porta che io voglio. È molto semplice. I soldati tendono a credere negli dèi e negli
oracoli, ma nella mia esperienza qualsiasi profezia può essere volta a proprio
vantaggio.
Sentendosi a disagio di fronte a quell’aperta e noncurante blasfemia, Parmenion
cambiò argomento.
– Senofonte mi ha detto che una volta hai combattuto al fianco dell’esercito
spartano – osservò.
– È successo tre anni fa, quando Tebe e Sparta erano alleate contro gli Arcadi.
Allora avevo venticinque anni ed ero molto più ingenuo. Agisaleus mi ha dato
dieci monete d’oro e mi ha detto che avevo combattuto bene... per un Tebano.
– Lo schieramento ha ceduto – disse Parmenion, – ma tu e Pelopida avete unito
gli scudi ed avete bloccato l’avanzata del nemico. Quando Pelopida è caduto,
colpito in sette punti, tu hai protetto il suo corpo finché gli Spartani sono venuti in
tuo aiuto.
– Sai molte cose sul mio conto – osservò Epaminonda, – mentre io so ben poco
di te. Senofonte era il tuo amante?
– No, soltanto un amico. È importante?
– Soltanto alla luce del fatto che devo fidarmi del suo giudizio – replicò
Epaminonda, allargando le mani. – Lui dice che sei dotato come stratega. Ha
ragione?
– Sì.
– Eccellente, niente falsa modestia. Non posso sopportare un uomo che
nasconde le proprie doti – commentò il Tebano, alzandosi in piedi. – Se non sei
troppo stanco per la lunga cavalcata potremmo fare un giro per la città in modo che
ti familiarizzi con la tua nuova casa.
Epaminonda condusse Parmenion fuori attraverso la porta principale che dava
sull’ampia strada che portava a sud verso le Porte di Elettra. Parmenion era entrato
da quelle porte appena un’ora prima, ma adesso si fermò ad osservare le figure in
rilievo intagliante nel portale di pietra: su di esso si vedeva un uomo dalla
muscolatura enorme nell’atto di attaccare una bestia con molte teste.
– È la lotta di Eracle contro l’Idra – spiegò il Tebano. – È stata intagliata da
Alcamene. A nordovest ci sono altre sue opere.
Insieme i due uomini si avviarono lungo le mura di Tebe e attraverso il
mercato, passando accanto a case di marmo bianco e ad altre più piccole fatte di
mattoni d’argilla cotti al sole e dipinti di bianco. C’erano persone dovunque, e
Parmenion rimase colpito dalla varietà dei colori del vestiario e dalle decorazioni
sulle pareti delle case; anche le strade erano pavimentate e decorate con mosaici, al
contrario di quelle di Sparta che erano fatte di terra battuta. D’un tratto Parmenion
si fermò a fissare una donna che sedeva su un muretto: la donna portava un vestito
rosso bordato in oro e pendenti d’argento le ornavano gli orecchi, mentre le labbra
erano di un rosso troppo intenso e i capelli erano di una tinta dorata che lui non
aveva mai visto.
Accorgendosi del suo interesse, la donna si alzò agilmente in piedi.
– Un dono per la dea? – chiese.
– Quale dono? – ribatté Parmenion.
La ragazza scoppiò a ridere ed Epaminonda si affrettò a intervenire.
– Lui è straniero a Tebe, anche se senza dubbio offrirà il suo dono un altro
giorno – rispose, poi prese Parmenion per un braccio e lo guidò lontano dalla
ragazza.
– Quale dono voleva?
– È una sacerdotessa del tempio di Afrodite e ti voleva nel suo letto. Ti sarebbe
costato quaranta oboli, uno al tempio e il resto alla sacerdotessa.
– Incredibile! – sussurrò Parmenion.
Continuarono la loro passeggiata, facendosi largo lentamente fra la gente che
affollava il mercato.
– Non ho mai visto tante cose che attendessero di essere vendute... così tanti
ninnoli e oggetti di poco valore – commentò Parmenion.
– Poco valore? – replicò Epaminonda. – Sono cose piacevoli da guardare e da
indossare, e in questo c’è di certo un valore. Tendo però a dimenticare che sei uno
Spartano e che voi vivete in case di una sola stanza con un’unica sedia fatta di
bastoni aguzzi e un letto con un materasso di spine.
– Non proprio – ribatté Parmenion, sorridendo. – Di tanto in tanto ci
concediamo il lusso di dormire nudi su un freddo pavimento di pietra!
– Uno Spartano con il senso dell’umorismo... non mi meraviglia che non fossi
popolare fra i tuoi compagni. Infine arrivarono alle due statue gemelle di Eracle e
di Atena, che sorgevano alla base meridionale della Cadmea e che erano alte oltre
sei metri e fatte di marmo bianco.
– La più grande opera di Alcamene – affermò Epaminonda. – Quando tu ed io
saremo polvere, dimenticati dalla storia, gli uomini si meraviglieranno ancora della
sua abilità.
– Sono così reali, come due giganti immobilizzati – affermò Parmenion,
abbassando la voce.
– Se Atena esistesse, credo che sarebbe compiaciuta di questa creazione. Si
dice che la modella sia stata una sacerdotessa di Afrodite, ma con un corpo del
genere non mi sorprende.
– Vorrei che non bestemmiassi così – gli disse Parmenion. – Hai mai preso in
considerazione l’ipotesi che potresti sbagliarti? Gli Spartani sono molto religiosi, e
non hanno mai perso una battaglia quando contrapposti ad un nemico numerica-
mente pari a loro.
– Tu mi piaci, Parmenion, quindi ti chiedo di riflettere su questo: Sparta è la
sola città che mantenga un esercito regolare, splendidamente addestrato e
superbamente disciplinato. Non potrebbe essere questo il motivo per cui vince le
battaglie?
– Forse si tratta di entrambe le cose.
– Una risposta degna di un ambasciatore – dichiarò il Tebano, con un ampio
sorriso.
Condusse quindi Parmenion in una piazza aperta dove sedili e tavoli erano stati
disposti sotto alcuni teli che riparavano dal sole; i due sedettero ad un tavolo vuoto
e un ragazzo si avvicinò, inchinandosi.
– Portaci dell’acqua e qualche dolce al miele – ordinò Epaminonda.
Mentre mangiavano, interrogò Parmenion sulla sua vita a Sparta e si fece
raccontare per intero la storia che aveva provocato la sua partenza, ascoltando in
silenzio mentre lo Spartano parlava della propria vita e del suo amore per Derae.
– Innamorarsi è come serrare una spada per la lama – affermò infine il Tebano.
– La tieni in mano ma ad un duro prezzo. Noi abbiamo smesso di mandare vittime
a Cassandra oltre trent’anni fa e Atene ha abbandonato quella disgustosa usanza da
dieci anni. Non ha senso.
– Placa gli dèi – replicò Parmenion, con un accenno di sorriso.
– Io non intendo adorare chi esige il sangue degli innocenti – ribatté il Tebano,
poi sollevò lo sguardo sulla cittadella dell’acropoli, cinta da un alto muro su cui
Parmenion poteva veder passare le sentinelle. – Allora, giovane stratega, per puro e
semplice amore della discussione, come riprenderesti la Cadmea... se fossi un
Tebano?
– Non mi preoccuperei di farlo. Invece prenderei la città.
– Conquisteresti Tebe per salvarla?
– Quanti cittadini vivono dentro o intorno a questa città? Venti, trentamila? –
domandò Parmenion.
– Di più, ma non conosco il loro numero esatto – replicò il Tebano,
protendendosi in avanti e abbassando la voce.
– E quanti Spartani ci sono nella guarnigione?
– Ottocento.
– C’è un pozzo lassù? – chiese ancora Parmenion, sollevando il proprio boccale
d’acqua e vuotandolo.
– No.
– Allora incoraggerei i cittadini a insorgere e ad assediare la Cadmea...
costringendo gli Spartani ad arrendersi per fame.
– E cosa succederebbe quando gli Spartani estraessero le spade e aprissero le
porte? Ci sarebbe il panico e la folla fuggirebbe.
– Sempre che potessero aprire le porte – convenne Parmenion. – Ma se esse
fossero bloccate dall’esterno? Allora i soldati non avrebbero modo di uscire tranne
che calandosi con delle corde, e non riesco proprio a ricordare una battaglia in cui
una falange sia avanzata lasciandosi cadere sul nemico dall’alto.
– Interessante – commentò Epaminonda, – anche se naturalmente si tratta
soltanto di strategia teorica. Però tu mi piaci e penso che diventeremo amici. Ora
muoviamoci, perché ci sono ancora molte cose da vedere.

– È una città meravigliosa – dichiarò più tardi Parmenion, quando tornarono


nella casa di Epaminonda. Un servo portò loro piatti di pane e formaggio e i due
sedettero sulla balconata del primo piano, godendo la frescura dell’ombra sotto la
torreggiante Cadmea.
– Non hai visto neppure un decimo di quello che c’è da vedere – replicò
Epaminonda. – Un tempo la Cadmea era la città e Tebe è cresciuta intorno alla sua
base. Domani vedremo il Teatro e ti mostrerò la Tomba di Ettore e la Grande Porta
Settentrionale.
– Con tutto il rispetto, preferirei vedere il terreno di addestramento. Mi dolgono
i muscoli a causa della cavalcata e mi piacerebbe correre un poco.
– Come preferisci.
Quella notte Parmenion dormì in una stanza al piano superiore della casa, con
la fresca brezza orientale che soffiava attraverso la finestra aperta. Sognò un
tempio antico con grandi colonne infrante, dove una vecchia giaceva su un
pagliericcio accanto ad un altare. Lui le prese la mano e abbassò lo sguardo sui
suoi occhi ciechi. Era un sogno strano, e Parmenion si destò nel cuore della notte
sentendosi calmo e stranamente rinfrescato.
Disteso sul letto, ripensò a Nestus e alla spaventosa paura che gli aveva visto
negli occhi, poi ricordò con dolore l’espressione sul volto di Hermias quando lui si
era girato con la spada insanguinata in mano. Adesso Hermias non era più suo
amico... peggio ancora, Parmenion aveva scorto in lui l’insorgere dell’odio.
Per tutti gli anni della sua infanzia, Hermias era stato il suo unico alleato, leale
e fedele, e adesso lo feriva il pensiero che fra loro si fosse creato un simile abisso,
ma pensò che quello era un altro prezzo che doveva pagare per ottenere la sua ven-
detta.
Vendetta. Quella parola si agitava in lui come una cosa viva... si contorceva,
crescendo e dissolvendo il ricordo del sogno e della calma che lo aveva seguito.
Ottenere vendetta non sarebbe stata una cosa né semplice né rapida, si disse.
Avrebbe dovuto pazientare, imparare le usanze di quella nuova città, cercare i
ribelli che odiavano gli Spartani quanto lui... ma avrebbe dovuto agire con cautela.
Ripensò quindi ad Epaminonda: quello era un uomo da coltivare... un grande
guerriero ma anche un pensatore. Alzatosi dal letto, estrasse la Spada di Leonida
dal fodero, lasciando che la luce della luna si riflettesse sulla lama e la mutasse in
argento mentre dentro di lui insorgeva il desiderio di conficcare quella lama più e
più volte nel cuore dei suoi nemici, di vederla gocciolare del loro sangue.
Ho la pazienza necessaria? si chiese. Quanto posso aspettare?
Nella mente gli echeggiarono le parole di Senofonte: ‘Se può scegliere, un buon
generale non ingaggia mai il combattimento finché non è certo di poter vincere,
così come un guerriero non si lancia incontro al combattimento brandendo un
pezzo di minerale di ferro ma aspetta invece che l’armaiolo gli forgi una lama
affilata’.
Parmenion trasse un profondo respiro e ripose l’arma nel fodero.
– Hai sempre ragione, Senofonte, e sento la tua mancanza – disse. – Aspetterò
il momento propizio.
Tornato a letto, sonnecchiò per un po’ , mentre una cascata di immagini gli si
succedeva nella mente: i Giochi del Generale, la morte di sua madre, Derae che
correva sul terreno di addestramento, Derae che giaceva sotto di lui nel bosco di
querce, Nestus che moriva affogando nel proprio sangue.

E sognò di camminare sul buio fianco di una collina sotto un cielo carminio. In
quel luogo crescevano alberi bianchi, con il tronco fatto di teschi oscenamente
incastrati gli uni contro gli altri, mentre i rami erano formati da lance e spade
serrate da mani scheletriche e i frutti erano teste mozzate che grondavano sangue
sul terreno. Là dove il sangue toccava il suolo crescevano fiori scuri i cui boccioli
avevano la forma di volti umani. Un vento freddo gemeva sui fiori e a Parmenion
parve di udire mille sussurri lontani che sospiravano: ‘Risparmiami! Ri-
sparmiami!’
Un’ombra si mosse sul fianco della collina e lui si girò in tempo per vedere una
figura incappucciata apparire davanti ad un albero.
– Che cosa desideri, giovane guerriero? – chiese una voce di donna che
scaturiva dal cappuccio.
– Sangue e vendetta – rispose lui.
– Li avrai – gli promise la donna.

Parmenion si svegliò all’alba e raggiunse Epaminonda sulla terrazza inferiore


per la colazione. Il Tebano indossava una semplice tunica di un grigio tendente al
verde che faceva apparire malsano il colorito del suo pallido volto butterato, ma gli
occhi scuri erano luminosi e il suo sorriso risultò aperto e amichevole quando
Parmenion si unì a lui.
– Hai accennato al desiderio di correre, Parmenion. Sei un atleta?
– Sono veloce e avrei dovuto rappresentare Sparta alle gare olimpiche. Però ho
commesso un errore nell’ultima corsa e sono stato superato da Leonida.
– Interessante. A Tebe c’è un uomo che corre molto in fretta. È uno Spartano
della cittadella e si chiama Meleager.
– Ho sentito parlare di lui. Un anno fa Leonida lo ha battuto di dieci passi.
– Credi di poterlo sconfiggere?
– Sì, a meno che non gli siano spuntate le ali – replicò Parmenion, spezzando
un pezzo di pane e intingendolo in una ciotola di cipolle, formaggio morbido e
olio.
– Quanto denaro hai? – volle sapere Epaminonda.
– Ho trasferito la proprietà della mia casa a Senofonte e in cambio lui mi ha
dato centoottanta dracme e la giumenta baia. I soldi non dureranno a lungo.
– Effettivamente no. Meleager sa di te?
– Può conoscere il mio nome, ma questo cosa c’entra con il denaro che
posseggo? – replicò Parmenion, scrollando le spalle.
– Qui a Tebe noi scommettiamo sulle corse. Se riuscissi a battere Meleager... e
nessun altro finora è stato in grado di farlo... potresti triplicare e forse anche
quadruplicare i tuoi fondi.
Parmenion si appoggiò contro lo schienale della sedia. A Sparta nessuno
scommetteva, perché era considerata una cosa volgare, ma sarebbe stato piacevole
incrementare le sue finanze, considerato che attualmente aveva appena il denaro
necessario per arrivare fino a primavera. Se avesse quadruplicato la cifra avrebbe
potuto vivere senza sperperi per un paio di anni. Ma che sarebbe successo se
avesse perso? Le corse erano dure e i concorrenti usavano i gomiti e le spalle per
farsi largo, senza contare il pericolo di cadere o di essere fatto inciampare. Nulla
era mai certo, in una gara di corsa.
– Ci penserò su – disse soltanto.
Il terreno di addestramento Iolaus era cinto da querce a nord e a ovest, mentre
ad est si levava il tempio di Artemide della Gloria, una costruzione dall’alto
colonnato dedicata alla dea della caccia, e a sud c’era la leggendaria Tomba di
Ettore, il possente guerriero troiano ucciso da Achille durante la guerra di Troia.
Mentre si scaldava i muscoli delle cosce e dell’inguine in preparazione alla
corsa di addestramento, Parmenion lasciò vagare lo sguardo sulla tomba, una
struttura di marmo decorata con bassorilievi in cui era rappresentato il suo
coraggioso scontro con l’eroe greco. Parmenion aveva sempre provato una grande
ammirazione per Ettore. La maggior parte degli Spartani parlavano di Achille
perché era stato il vincitore, ma a lui sembrava che Ettore avesse dimostrato il
coraggio maggiore fra i due. Un oracolo lo aveva avvertito che combattere contro
Achille avrebbe significato la sua morte perché il suo avversario era invincibile e
nel corso dei dieci anni della guerra di Troia i due si erano accuratamente evitati a
vicenda. Poi in una luminosa mattina di sole Ettore aveva visto Achille venire
verso di lui sul suo cocchio di bronzo, con l’armatura che sembrava fiammeggiare
di fuoco bianco sotto i raggi del sole. I due uomini si erano scontrati sul campo di
battaglia... ed Ettore aveva vinto, abbattendo Achille con un terribile colpo al collo
e guardando la sua nemesi contorcersi nell’agonia della morte.
Quale gloria per Ettore, quale peso tolto dal suo cuore! Adesso avrebbe visto il
figlio neonato crescere fino all’età adulta e avrebbe riavuto la pace che l’oracolo
gli aveva rubato. Inginocchiatosi accanto al corpo, aveva strappato via l’elmo dalla
cresta bianca... soltanto per trovarsi a contemplare il volto spento di Patroclo,
l’amante di Achille. Ettore era indietreggiato in preda alla confusione e allo
sconcerto ed era corso da un prigioniero greco.
– Cosa significa questo? – aveva chiesto. – Perché Patroclo indossava
l’armatura di Achille?
Incapace di incontrare il suo sguardo, l’uomo aveva abbassato il proprio.
– Achille ha deciso di tornare a casa e di non combattere più – aveva risposto.
Ettore però aveva compreso che adesso Achille sarebbe tornato a combattere:
uccidendo Patroclo aveva affrettato lui stesso la propria fine. Balzato sul suo carro
da guerra era tornato alla città di Troia e là aveva atteso la sfida che sapeva sarebbe
giunta.
Entro un’ora Achille si era presentato davanti alle porte...
Parmenion concluse i suoi esercizi e si avvicinò alla tomba, posando la mano su
di essa.
– Sei andato fuori ad affrontarlo, Ettore – disse. – È stato un atto coraggioso e
sei morto come un uomo dovrebbe fare, fronteggiando il nemico.
Le ossa di Ettore erano state portate via dalle rovine di Troia e sepolte a Tebe a
causa di un altro oracolo che aveva detto: ‘Tebani della città di Cadmos, la vostra
terra avrà ricchezze innocenti se porterete fuori dall’Asia le ossa di Ettore.
Portatele a casa e adorate l’eroe per decreto di Zeus.’
I Tebani avevano obbedito e ogni anno, secondo Epaminonda, dichiaravano un
giorno di festa per Ettore, con una grande celebrazione che si teneva sul terreno di
addestramento, dove uomini e donne danzavano e bevevano in onore del Troiano.
E le ricchezze predette dall’oracolo erano giunte, sotto la forma dei commerci con
Atene nel sud e delle esportazioni di merci a nord nella Tessaglia e nella
Macedonia.
Tratto un profondo respiro, Parmenion cominciò a correre. Il percorso era di
dura argilla e formava un grande ovale che circondava il terreno di addestramento.
Cinque circuiti costituivano un chilometro e mezzo e all’inizio lui effettuò un giro
completo correndo con scioltezza ed esaminando il terreno. Le corse cominciavano
e finivano tutte al Tempio di Artemide, quindi lui si arrestò all’ultima curva prima
del traguardo e s’inginocchiò per esaminare la pista. In quel punto era più concava
e l’argilla aveva una superficie più polverosa, il che non costituiva una sorpresa
perché quello era il punto in cui gli atleti effettuavano lo scatto finale e nel corso
degli anni la pista aveva subito un logorio maggiore. Se si non stava attenti, lì si
rischiava di scivolare e di cadere, quindi avrebbe dovuto arrivare largo su quella
curva... ma anche Meleager avrebbe cercato di fare lo stesso.
Parmenion continuò a correre per quasi un’ora, accelerando il passo in brevi
scatti per poi ritrovare un’andatura costante, e alla fine tornò verso il punto in cui
Epaminonda se ne stava disteso all’ombra di un’ampia quercia.
– Corri bene – disse il Tebano, – ma non ho visto prove di una grande velocità.
Meleager è più veloce.
– Non dubito che lo sia – sorrise Parmenion, – ma la velocità viene dalla forza e
la media distanza è un’ottima corsa per privare un uomo proprio di questo. Vuoi
scommettere su di me?
– Certamente. Sei mio ospite e sarebbe scortese non farlo, ma ti consiglio di
non scommettere tutto il tuo denaro su te stesso, Parmenion.
Lo Spartano scoppiò a ridere.
– Quando potrò correre contro di lui? – chiese poi.
– I giochi avranno luogo fra tre settimane e penserò io a presentare il tuo nome.
Come vuoi farti chiamare?
– A Sparta ero noto come Savra.
– Lucertola? – fece Epaminonda. – No, non credo che vada bene. Ci serve
qualcosa che abbia un suono macedone. – Riflettendo, sollevò lo sguardo e
attraverso gli alberi vide il leone di pietra dedicato ad Eracle. – Ci sono – disse. –
Ci atterremo ad un nome semplice e ti chiameremo Leon. Tu corri come un leone,
con quei tuoi scatti di velocità.
– Perché non iscrivermi come Parmenion? Questa storia del nome puzza
d’inganno.
– Puzza soltanto? È un inganno, amico mio, o forse per placare la nostra
coscienza dovremmo parlare di strategia. Per poco non ti sei conquistato un posto
nella squadra che Sparta manderà alle imminenti olimpiadi e se lasciamo che si
sappia nessuno scommetterà contro di te... e non ci sarà denaro da guadagnare. In
questo modo, se dovessi vincere la maggior parte dell’oro che raccoglierai verrà
dalle mani degli Spartani.
– Il denaro mi serve – assentì Parmenion, sorridendo.
– Ecco che mi dai ragione – replicò Epaminonda. – La vittoria della praticità
sui principi. E possa essere così a lungo.
– Sei molto cinico – osservò Parmenion.
– È vero – annuì il Tebano, – ma questa è la lezione che la vita insegna a coloro
che hanno occhi per vedere. Non c’è nessuno che non abbia un prezzo, sia esso
denaro, fama o potere.
– Pensi di avere un prezzo anche tu?
– Certamente. Per la libertà di Tebe sacrificherei qualsiasi cosa.
– Non c’è nulla di disonorevole in questo – obiettò Parmenion.
– Se lo credi davvero, allora hai molto da imparare – rispose il Tebano.

Durante le settimane che precedettero la corsa, Parmenion si allenò duramente


per due ore ogni giorno, accumulando forza e resistenza. Quando poi mancò
soltanto un giorno alla gara rallentò l’addestramento, limitandosi a correre con
passo tranquillo lungo la pista in modo da stendere senza sforzo i muscoli, perché
non aveva nessun desiderio di iniziare la gara sentendosi già stanco. Come Lepidus
era solito dire, non bisognava mai lasciare le proprie forze sul terreno di
addestramento. Finita la corsa, si lavò alla fontana vicino al tempio di Artemide e
come al solito trascorse il pomeriggio gironzolando per la città. Tebe continuava ad
affascinarlo con la sua complessità e i suoi colori ed era stupefatto dall’abilità
dimostrata nella sua costruzione... in confronto ad essa Sparta appariva come un
agglomerato di case di contadini accatastate le une vicino alle altre da una
tempesta.
Gli edifici pubblici erano incredibili, decorati da pilastri colossali e splendide
statue, ma anche le case private erano costruite con eleganza, non con mattoni cotti
al sole ma con pietre modellate in forma poligonale perché combaciassero meglio.
Le finestre erano larghe per permettere che entrasse una maggiore quantità di luce
e le pareti interne erano decorate da dipinti o da arazzi di lana a colori vivaci.
Perfino le case più povere del quartiere settentrionale avevano tetti di tegole di
terracotta e imposte intagliate con abilità, mentre molti cortili vantavano una loro
fontana.
La sua casa a Sparta era stata modesta, ma non più di molte altre: il pavimento
era stato di terra battuta, le pareti di argilla e canne coperte di calcina. Però perfino
la casa di Senofonte, che a lui era parsa splendida, non poteva rivaleggiare con
quella di Epaminonda: ogni piano della costruzione di otto stanze era rivestito di
pietra e decorato con mosaici di tessere bianche e nere disposte in cerchi o
quadrati. La stanza principale, l’androne, era divisa in due da sette divani per gli
ospiti e c’era perfino una stanza da bagno con una cisterna d’acqua all’interno
dell’edificio!
Tebe era semplicemente il posto più eccitante che Parmenion avesse mai visto.
Presso il crepuscolo era poi solito trovarsi un tavolo in una delle molte aree per
mangiare che c’erano vicino alla piazza e ordinare un pasto. I servitori gli
portavano il cibo su vassoi di legno... una pagnotta fresca, un piatto di crema acida,
erbe e olio d’oliva, il tutto seguito da pesce speziato... e lui sedeva sotto le stelle,
concludendo il pasto con qualche dolce al miele e provando la sensazione che gli
dèi lo avessero invitato sull’Olimpo.
Era soltanto più tardi, quando si trovava solo nella sua stanza, che il ricordo di
Derae si abbatteva su di lui, portandogli un dolore intenso che gli serrava il cuore.
Allora si alzava dal letto e fissava con occhi ardenti la città addormentata, in preda
a pensieri amari, mentre i sogni di vendetta crescevano nella sua mente edificando
a poco a poco in lui un tempio di odio.
L’avrebbero pagata.
Chi pagherà? chiese una piccola voce quieta.
Parmenion rifletté su quel pensiero. C’era Leonida che era suo nemico, e poi
tutta la sua vita era stata segnata dal rifiuto e dall’odiato uso del termine
«mezzosangue». Non era stato benaccetto da nessuna parte tranne che nella casa di
Senofonte, e nessuno in Sparta gli aveva mai dato un senso di appartenenza...
neppure Hermias.
Pagheranno, disse a sé stesso: tutta la città pagherà. Verrà il giorno in cui
soltanto sentire il nome di Parmenion strapperà un lamento d’angoscia da
diecimila gole.
E fu in questo modo che riuscì ad attenuare il dolore per la morte di Derae.
Epaminonda trascorse poco tempo con Parmenion nei giorni precedenti la gara,
perché ogni sera si recava a visitare amici che vivevano in parti lontane della città,
uscendo presto e rientrando tardi. Durante quel periodo il Tebano si mostrò freddo
ma non ostile, e Parmenion prese l’abitudine di andare in giro da solo per imparare
a conoscere le strade cittadine e ad orientarsi.
Quasi tutti i giorni vedeva soldati spartani che passeggiavano per il mercato
oppure sedevano nelle aree dove veniva servito il cibo, e gli pareva che parlassero
in tono troppo alto e pomposo, che i loro modi fossero arroganti. Nei momenti in
cui era più calmo si rendeva conto che non era vero... che gli Spartani erano
soltanto stranieri malaccetti in una città a loro estranea... ma ormai il suo odio stava
crescendo e di rado poteva guardare quei soldati senza avvertirne lo spaventoso
potere.
La notte prima della gara Epaminonda lo invitò nell’androne e i due uomini si
adagiarono sui divani per discutere della gara.
– A Meleager piace aspettare accanto a chi conduce la corsa per poi
raggiungere il traguardo quando mancano cento passi – disse il Tebano.
– Mi va benissimo – rispose Parmenion.
– Meleager ha però un amico che corre con lui, un tizio basso con la barba
scura. In tre corse, quando pareva che Meleager stesse per essere sconfitto, quel
suo amico ha inciampato davanti ai piedi di chi conduceva la gara, facendolo
cadere.
– Meleager avrebbe dovuto essere squalificato.
– Forse sì, almeno nella seconda occasione – convenne Epaminonda. – Però è
uno Spartano e le proteste tebane contano poco. Sono riuscito ad ottenere soltanto
quote di tre contro uno. Quanto denaro sei disposto a scommettere?
Parmenion aveva riflettuto a lungo sulla gara. Con una quota di quattro a uno si
sarebbe potuto permettere di conservare un po’ di denaro di riserva, ma così?
Sollevata la sacca che aveva alla cintura, la porse al Tebano.
– Ho centosessantotto dracme. Scommetti tutto.
– È una cosa saggia?
– Sarebbe piacevole avere delle alternative – replicò Parmenion, scrollando le
spalle. – Se dovessi perdere venderò la giumenta baia e cercherò lavoro in un
contingente mercenario. In caso contrario sarò in grado di affittare delle stanze in
cui vivere.
– Sai che se vuoi restare qui sei il benvenuto.
– Sei gentile, ma non voglio essere di peso a nessuno.

Il terreno di addestramento era pieno di gente quando i due uomini vi


arrivarono di buon’ora il mattino successivo, e una serie di posti a sedere erano
stati disposti al centro del campo. Parmenion attese con inquietudine che avessero
inizio le gare di corsa, prima delle quali era previsto un torneo di pugilato; dal
momento che quello era uno sport che non gli interessava, il giovane si avvicinò
alla Tomba di Ettore e sedette all’ombra di una quercia.
La corsa su media distanza era una cosa nuova per i Greci e la preferenza
generale andava ancora allo stadia una corsa in velocità su una distanza di
duecento passi; in molte città, stando a quanto raccontava Senofonte, i terreni di
addestramento non avevano neppure una pista ovale, e i corridori erano costretti ad
andare avanti e indietro su una pista rettilinea fino a percorrere la distanza prevista,
girando intorno a pali piantati nel terreno alle estremità. I Persiani però adoravano
le corse su distanze più lunghe e a poco a poco esse avevano catturato l’interesse
degli spettatori greci, anche se Parmenion sapeva che parte di quell’interesse
derivava dal gusto di scommettere: se doveva scommettere su un uomo, lo
spettatore preferiva guardare una corsa più lunga nella quale il suo entusiasmo
poteva protrarsi più a lungo.
Per qualche tempo sonnecchiò all’ombra, poi venne svegliato da un improvviso
ruggito della folla quando l’ultimo incontro di pugilato si concluse con un knock-
out devastante; alzatosi, andò in cerca di Epaminonda e lo trovò all’estremità set-
tentrionale del campo di addestramento, intento a osservare i lanciatori di
giavellotto.
– È una giornata buona per correre – osservò il Tebano, indicando il cielo. – Le
nubi rendono l’aria più fresca. Come ti senti?
– Avverto una certa rigidità al collo – ammise Parmenion, – ma sono pronto.
Epaminonda gli indicò un punto ad una trentina di passi di distanza, dove un
uomo alto e rasato si stava riscaldando.
– Quello è Meleager – disse, – e poco lontano c’è il suo amico... credo che si
chiami Cletus.
Parmenion li osservò entrambi con attenzione. Meleager stava stirando i
muscoli delle gambe sollevando un piede su una panca per poi chinarsi in avanti, e
non appena ebbe finito procedette a scogliere anche i muscoli dell’inguine; Cletus
invece stava saltellando sul posto e agitando le braccia sopra la testa. Parmenion
notò che Meleager era alto e snello, con il fisico ideale per una corsa a lunga
distanza, e dopo averlo osservato per qualche tempo dovette concludere che i suoi
preparativi erano attenti e precisi, la sua concentrazione assoluta.
– Credo sia ora che cominci a prepararti anche tu – gli ricordò in tono
sommesso Epaminonda, e Parmenion si riscosse con un sussulto.
Era stato così intento a studiare Meleager che si era quasi dimenticato che
avrebbe dovuto gareggiare contro di lui. Con un sorriso colpevole raggiunse il
punto di partenza, si sfilò il chitone e i sandali ed eseguì una rapida serie di
stiramenti per poi correre con mosse sciolte per qualche minuto fino a sentire i
muscoli che perdevano la loro rigidità.
I corridori vennero quindi convocati alla partenza da un uomo anziano con una
corta barba bianca; ad uno ad uno i dodici concorrenti vennero presentati alla folla,
e i sette Tebani presenti fra loro ricevettero le maggiori ovazioni, mentre Meleager
e Cletus furono fatti oggetto di grida di incoraggiamento da parte di un piccolo
contingente di Spartani. Leon il Macedone fu accolto però soltanto da un breve
applauso di cortesia.
Una volta in linea, i corridori fissarono lo sguardo sul vecchio, che sollevò la
mano.
– Via! – gridò.
I Tebani furono i primi a scattare in testa, con gli altri corridori che si
snodavano dietro di loro. Meleager si insinuò accanto a Cletus al quarto posto e
Parmenion accorciò le distanze alle loro spalle. Per i primi cinque dei venti giri
previsti non ci furono cambiamenti, poi Parmenion effettuò la sua mossa, spo-
standosi con scioltezza all’esterno e accelerando l’andatura in brevi scatti di
potenza di mezzo giro fino ad arrivare in testa e ad aprire un vuoto di quindici passi
fra se stesso e il secondo uomo. Ad una curva si arrischiò a lanciarsi un’occhiata
alle proprie spalle e vide che Meleager stava accorciando le distanze. Per qualche
tempo ancora mantenne un’andatura costante, poi effettuò un nuovo scatto di
velocità: adesso aveva i polmoni roventi e i suoi piedi nudi erano escoriati
dall’argilla cotta dal sole. Di lì a poco le nubi si aprirono e l’intensa luce solare
prese a battere sui corridori, facendo scorrere il sudore sul corpo di Parmenion.
All’undicesimo giro Meleager era ancora con lui, nonostante quattro scatti di
velocità che ogni volta avevano mantenuto Parmenion in testa. Lentamente,
inesorabilmente, ogni volta lo Spartano era riuscito a riprenderlo. Senza cedere al
panico, Parmenion tentò altri due scatti, che però ebbero lo stesso risultato dei
precedenti.
Ormai stava cominciando a soffrire, ma si disse che lo stesso doveva valere per
il suo diretto avversario; al sedicesimo giro tentò un ulteriore sforzo, mantenendo il
passo accelerato per quasi tre quarti di giro, e questa volta Meleager rimase
indietro di circa venti passi, perché aveva interpretato male lo scatto e si era
aspettato che Parmenion non riuscisse a portarlo a termine senza crollare. Lo
Spartano cominciò però subito ad accorciare le distanze, e al diciannovesimo ... e
ultimo... giro era ormai appena sei passi più indietro.
Parmenion non osò guardarsi alle spalle perché questo avrebbe infranto il suo
ritmo e a quel punto della gara la cosa avrebbe potuto costargli cara. Ormai stava
arrivando agli ultimi concorrenti ed era pronto a doppiarli. Due erano Tebani, ma
poco più avanti scorse anche Cletus, e dal modo in cui questi continuava a
guardarsi indietro intuì ciò che stava per succedere: lo Spartano gli sarebbe caduto
davanti, trascinandolo a terra, oppure lo avrebbe bloccato finché Meleager non
fosse passato.
Ora poteva sentire il respiro affannoso dello Spartano alle proprie spalle e
quando si avvicinò maggiormente a Cletus intuì il piano di Meleager, che stava
cercando di affiancarlo in modo da serrarlo e da spingerlo contro la schiena
dell’uomo che lo precedeva. Parmenion si sentì pervadere dall’ira, che infuse nuo-
va forza nei suoi arti.
Procedette quindi ad accelerare ulteriormente l’andatura fino a trovarsi subito a
ridosso di Cletus.
– Fammi spazio sull’esterno! – urlò, e al tempo stesso tagliò internamente sulla
propria sinistra.
Lo Spartano inciampò e cadde verso destra, andando a sbattere contro Meleager
ed entrambi rotolarono al suolo mentre Parmenion proseguiva senza intoppi,
entrando nell’ultimo giro di corsa. Adesso la folla era tutta in piedi e vi rimase fino
a quando lui raggiunse il traguardo.
A loro non importava che il vincitore fosse Leon, un ignoto Macedone: quello
che importava era che due Spartani erano rotolati nella polvere ai suoi piedi.
– La prima vittoria del Leone di Macedonia – disse Epaminonda, accorrendo al
suo fianco.
E a Parmenion parve che una nube scura avesse coperto il sole.

Parmenion ammucchiò le proprie vincite sul tavolo di pietra del cortile,


innalzando piccole colonne di monete e fissandole con aperta soddisfazione:
c’erano cinquecentododici dracme, una cifra pari al riscatto di un re per qualcuno
che come lui prima di allora non aveva mai visto e tanto meno posseduto una
simile somma.
C’erano cinque monete d’oro, ciascuna delle quali valeva ventiquattro dracme,
e lui le soppesò chiudendo il pugno intorno ad esse per sentirne il peso mentre il
metallo si riscaldava per il contatto con la sua pelle. Quanto alle quattrocento
dracme d’argento, le aveva impilate in venti colonne che sembravano quelle di un
tempio in miniatura.
Era ricco! Sparpagliando le monete d’oro sul tavolo indugiò a fissare
l’avvenente volto barbuto raffigurato su di esse: quelle erano monete persiane,
stampate con l’immagine di Artaserse che stringeva in pugno l’arco. Sull’altra
faccia c’era invece una donna che teneva in mano una fascina di grano e una spada.
– Vuoi restare a fissarle per tutto il giorno? – chiese Epaminonda.
– Sì – rispose allegramente Parmenion. – E anche per tutto domani!
– Hai corso bene e mi è piaciuto molto il modo in cui hai ingannato Cletus –
ridacchiò il Tebano. – Pensa quanto staranno soffrendo adesso: Meleager si sarà
ridotto in miseria per saldare i suoi debiti.
– Non m’importa di lui – dichiarò Parmenion. – Adesso mi posso permettere di
affittare una casa e forse perfino di assoldare un servitore. Oggi intanto andrò al
mercato e mi comprerò un mantello e parecchie tuniche... e un paio di ottimi san-
dali. Mi serve anche un arco... e un cappello! Forse uno di quei feltri della Tracia.
– Raramente ho visto un uomo tanto felice della propria fortuna – osservò
Epaminonda.
– Allora non sei mai stato povero? – chiese Parmenion.
– Per fortuna è una condizione che non conosco.
I due uomini trascorsero il pomeriggio nella piazza principale del mercato,
dove Parmenion comprò un mantello di lana azzurro cielo, due tuniche di fine lino
e un paio di sandali al polpaccio; oltre a queste cose si concesse anche una
stravaganza... una fascia per la testa di fine cuoio intrecciato con filo d’ oro .
Verso il crepuscolo, i due stavano tornando verso la casa di Epaminonda,
quando il Tebano deviò improvvisamente sulla sinistra e si addentrò in un vicolo.
– Dove stiamo andando? – domandò Parmenion, toccando la manica
dell’amico.
– A casa! – rispose Epaminonda.
– Perché da questa parte?
– Credo che ci stiano seguendo... ma non ti guardare indietro! – scattò il
Tebano, quando Parmenion accennò a voltarsi. – Non voglio che sappiano che li
abbiamo avvistati.
– Perché ci dovrebbero seguire?
– Non lo so, ma quando arriviamo al prossimo angolo... corri!
Il vicolo descrisse una svolta sulla destra e non appena furono fuori vista i due
uomini corsero lungo la strada, deviando a destra e a sinistra nelle vie strette fino a
raggiungere un vicolo alle spalle della casa di Epaminonda. A quel punto il Tebano
si arrestò, e lanciò un’occhiata fuori dell’imboccatura del vicolo: quattro uomini
erano seduti su un basso muro alle spalle della sua casa, tutti armati di spada e di
daga mentre lui e Parmenion erano disarmati. In fretta, Epaminonda si ritrasse e
descrisse un altro giro fino a portarsi sul davanti dell’edificio: anche lì c’era un
gruppo di uomini armati in attesa.
– Cosa facciamo? – chiese Parmenion.
– Abbiamo due alternative: affrontarli oppure andare altrove.
– Ma chi sono?
– Marmaglia, a giudicare dal loro aspetto, e se avessi la spada non esiterei ad
affrontarli. Ma chi è che vogliono... te o me? – replicò Epaminonda, appoggiandosi
ad un muro.
C’erano soltanto due motivi per cui quegli uomini potevano essere in attesa. Il
primo era che le autorità avessero scoperto il piccolo gruppo di ribelli che si
incontrava a casa di Polispercon, il secondo che Meleager avesse appreso la vera
identità di Parmenion e pagato quei furfanti per ottenere vendetta. Nessuno dei due
pensieri era molto confortante, ma Epaminonda si augurò che si trattasse della
seconda ipotesi.
– Mostrami altre vie per arrivare alla casa – gli chiese Parmenion.
– Per quale motivo?
– In modo che possa portarmeli dietro in un inseguimento – sorrise lo Spartano.
– Fidati di me, Epaminonda. Per la maggior parte della mia vita ho vissuto in
questo modo, inseguito, braccato e percosso... ma non questa volta, amico mio. Ora
mostrami i vicoli e le vie posteriori.
Per quasi un’ora i due uomini girovagarono per i vicoli serpeggianti che si
snodavano fra le case fino a quando Parmenion ebbe memorizzato svariati punti di
riferimento, poi tornarono sul retro dell’abitazione di Epaminonda.
– Aspetta qui fino a quando se ne saranno andati – disse Parmenion. – Allora
potrai entrare a prendere la tua spada e la mia.
Si allontanò quindi di corsa nel labirinto di edifici, emergendone ad una
quarantina di passi sulla sinistra rispetto al gruppo in attesa. Uno degli uomini
sollevò lo sguardo e diede di gomito ad un compagno, poi tutti si alzarono in piedi.
– Sei tu l’uomo chiamato Parmenion? – domandò un massiccio guerriero dai
capelli rossi.
– Sono io.
– Prendetelo! – urlò l’uomo, estraendo la spada e scattando in avanti.
Parmenion ruotò sui tacchi e spiccò la corsa nel vicolo, inseguito dai quattro
assalitori. Alle loro spalle, Epaminonda attraversò a precipizio il tratto di terreno
aperto che lo separava dalla casa e picchiò contro la porta. Non appena un servo
venne ad aprire, il Tebano entrò nell’androne e afferrò la propria spada, mandando
il servo nella camera di Parmenion a prendere la Spada di Leonida, poi tornò di
corsa in strada brandendo le due lame.
– Dove vai, padrone? – chiese con voce timorosa il servitore.
Epaminonda lo ignorò.
Sul retro della casa era tutto tranquillo, ed Epaminonda rimase in attesa con la
mente calma e il corpo pronto ad agire. Sarebbe stato inutile addentrarsi nel
labirinto di vicoli ed era meglio aspettare che Parmenion portasse fino a lui i suoi
inseguitori. Accorgendosi di avere la bocca arida, il Tebano si concesse un accenno
di sorriso: era sempre così prima di una battaglia... la bocca arida e la vescica
gonfia. Poi sentì un rumore di piedi in corsa e vide Parmenion avvicinarsi con i
quattro che lo seguivano dappresso. Il giovane Spartano scattò in avanti
protendendo una mano ed Epaminonda gli lanciò la sua spada; afferrandola
abilmente al volo, Parmenion si volse e affrontò gli inseguitori.
I quattro si fermarono immediatamente e si ritrassero un poco, incerti.
– Non abbiamo nulla contro di te – disse ad Epaminonda l’uomo con la barba
rossa.
Il Tebano lo scrutò con attenzione, notando la tunica sporca e la barba arruffata,
ma anche le cicatrici che gli segnavano le braccia.
– Vedo che sei stato un ‘soldato – osservò, – ma da allora sei caduto davvero
molto in basso.
– Ho combattuto per Tebe... per quel che mi è servito – ritorse l’uomo,
arrossendo. – Adesso fatti da parte, Epaminonda, e lasciaci sistemare questo
imbroglione.
– In che modo sareste stati imbrogliati? – volle sapere Epaminonda.
– Ha corso sotto il nome di Leon... mentre in effetti è un corridore di Sparta,
Parmenion.
– Hai perso del denaro? – insistette il Tebano.
– No, perché non ne avevo da scommettere. Adesso però sono stato pagato e
intendo tenere fede all’impegno preso. Fatti da parte!
– Non credo proprio – ribatté Epaminonda. – È un giorno davvero triste quello
in cui un soldato tebano accetta denaro insanguinato da uno Spartano.
– Si fa di necessità virtù – ritorse l’uomo, scrollando le spalle, poi scattò in
avanti con la spada sollevata.
Parmenion gli andò incontro e bloccò il colpo sferrando allo stesso tempo un
pugno al volto dell’avversario con la mano sinistra. L’uomo barcollò all’indietro e
Parmenion spiccò un balzo verso l’alto, raggiungendolo al naso con un calcio e
scagliandolo a terra. Gli altri tre sicari rimasero dove si trovavano mentre il soldato
dai capelli rossi recuperava la spada e si rialzava barcollando.
– Non hai motivo di morire – gli disse Parmenion.
– Ho già preso il denaro – replicò stancamente l’uomo, e avanzò di nuovo
all’attacco, tentando un affondo al ventre.
Parmenion bloccò il colpo con facilità e abbatté l’avversario con un sinistro alla
mascella.
Epaminonda si lanciò allora contro gli altri tre sicari, che cedettero al panico e
fuggirono, mentre Parmenion si inginocchiava accanto all’avversario svenuto.
– Aiutami a portarlo in casa – disse ad Epaminonda.
– Perché?
– Mi piace.
– È una follia – protestò Epaminonda, ma insieme lui e Parmenion trascinarono
il sicario in casa e lo adagiarono su uno dei sette divani dell’androne.
Un servo portò vino ed acqua, e i due uomini attesero che lo sconosciuto dalla
barba rossa si riprendesse. Dopo parecchi minuti questi cominciò a dare segni di
vita.
– Perché non mi hai ucciso? – chiese, sollevandosi a sedere.
– Ho bisogno di un servitore – rispose Parmenion.
– È uno scherzo? – controbatté l’uomo, socchiudendo gli occhi verdi.
– Affatto – garantì lo Spartano. – Ti pagherò cinque oboli al giorno, e il
pagamento sarà effettuato ogni fine mese. Inoltre avrai una tua stanza e da
mangiare.
– È una follia! – protestò Epaminonda. – Questo tizio è venuto per ucciderti.
– Ha preso del denaro ed ha cercato di guadagnarselo. È una cosa che mi piace
– spiegò Parmenion. – Quanto ti hanno dato?
– Dieci dracme – rispose l’uomo.
Parmenion aprì la sacca che portava al fianco e contò trentacinque dracme
d’argento.
– Diventerai il mio servitore? – domandò.
L’uomo abbassò lo sguardo sulle dracme sparse sul tavolo, deglutì a fatica e
infine annuì.
– Come ti chiami?
– Mothac. E il tuo amico ha ragione... questa è una follia. Con un sorriso
Parmenion raccolse le monete e gliele porse.
– Restituirai le dieci dracme all’uomo che ti ha assoldato, e il resto costituisce il
tuo primo mese di paga. Fatti un bagno e comprati una tunica nuova, poi raccogli
le tue cose e torna qui stanotte stessa.
– Ti fidi che io ritorni? Perché?
– Non è difficile rispondere: un uomo pronto a morire per dieci dracme
dovrebbe essere anche pronto a vivere per venticinque al mese.
Senza ribattere, Mothac girò sui tacchi e lasciò la stanza.
– Non lo rivedrai mai più – commentò Epaminonda, scuotendo il capo.
– Vorresti scommettere?
– Devo dedurre che la posta è di trentacinque dracme?
– Esatto. Ti pare accettabile?
– No – ammise Epaminonda. – Mi inchino alla tua evidentemente superiore
conoscenza della razza umana, ma quell’uomo sarà un servitore spaventoso.
Dimmi, perché lo hai fatto?
– Lui non è come gli altri tre. Quelli erano furfanti vigliacchi... lui era almeno
pronto a combattere. La cosa che più conta però è che sapeva di non poter vincere
ma è venuto avanti lo stesso, disposto a morire piuttosto che tenersi denaro che non
aveva guadagnato. Uomini del genere sono rari.
– Temo che su questo non siamo d’accordo – replicò Epaminonda. – Gli
uomini pronti ad uccidere per dieci dracme sono tutt’altro che rari.

L’uomo chiamato Mothac lasciò la casa di Epaminonda, e sebbene si sentisse


stordito e in preda alla nausea l’ira gli diede la forza per continuare a camminare.
Non mangiava da cinque giorni e sapeva che era stato per questo che lo Spartano lo
aveva sconfitto con tanta facilità. Restituire le dieci dracme? Le aveva usate per
pagare il dottore e le medicine che avrebbero ridato le forze ad Elea. Addentratosi
in un vicolo si appoggiò contro un muro e cercò di trovare le energie per tornare a
casa. Le gambe accennarono a cedergli ma lui si afferrò ad una pietra che sporgeva
dalla parete e si issò nuovamente in piedi.
– Non crollare! – ingiunse a se stesso, poi trasse un profondo respiro e
cominciò a camminare.
Gli ci volle quasi mezz’ora per arrivare alla piazza del mercato, dove comprò
un po’ di frutta e di pesce secco che mangiò seduto all’ombra, sentendo le forze
che gli rifluivano nel corpo.
Quello Spartano era uno stolto se si aspettava davvero che lui tornasse.
– Non sarò il servo di nessuno, mai!
Dopo aver mangiato si sentì meglio e si issò in piedi. Lo Spartano lo aveva
coperto di vergogna, facendolo apparire debole e sciocco... appena tre miseri colpi
ed era crollato, una cosa difficile da accettare per un uomo che aveva combattuto
contro le truppe dell’Arcadia e della Tessaglia, della Calcidia e di Sparta. Nessun
uomo lo aveva mai umiliato in quel modo, ma del resto la mancanza di cibo e di
riposo aveva contribuito alla sua umiliazione.
In ogni caso, adesso aveva trentaquattro dracme e tre oboli, che gli sarebbero
bastati per comprare da mangiare per due mesi. Di certo in quel lasso di tempo
Elea si sarebbe rimessa. Tornato al mercato comprò un po’ di provviste e iniziò la
lunga camminata fino a casa, nel cuore del quartiere settentrionale dove gli edifici
erano fatti di mattoni cotti al sole e il pavimento era di terra battuta; il puzzo di
fogna che pervadeva le strade aveva da tempo cessato di dargli fastidio, come
anche i topi che gli attraversavano la strada.
Sei sceso molto in basso, si disse, e non per la prima volta.
Mothac. Quel nome gli era salito alle labbra con una facilità che gli appariva
sorprendente: era una parola antica ché risaliva alla grigia alba dei tempi e che
significava fuoricasta. Era questo ciò che era, ciò che era diventato.
Svoltò nell’ultimo vicolo a ridosso delle mura ed entrò nella sua minuscola
abitazione. Elea stava dormendo con un’espressione serena sul volto, e dopo averle
scoccato un’occhiata lui liberò il cibo dagli involti, preparando un piatto di
melograni e di dolci al miele.
Mentre lavorava immaginò il sorriso di Elea, ricordando il primo giorno che
l’aveva vista, durante la Danza per Ettore: indossava un chitone bianco lungo fino
alla caviglia e i suoi capelli del colore del miele erano fermati da un pettine
d’avorio... lo aveva affascinato subito, rendendolo incapace di staccare lo sguardo
da lei.
Sei settimane più tardi si erano sposati.
Poi però gli Spartani avevano occupato la Cadmea e i consiglieri a favore di
Sparta avevano assunto il controllo della città. La famiglia di Elea era stata
arrestata e condannata a morte per tradimento, le loro proprietà erano state
confiscate. Lo stesso Mothac era stato dichiarato un ricercato e aveva dovuto
cercare rifugio nell’anonimato del quartiere povero della città, dove si era fatto
crescere la barba e aveva cambiato nome.
Senza denaro e senza la speranza di trovare un impiego, aveva progettato di
lasciare Tebe e di unirsi ad una compagnia mercenaria, ma Elea si era ammalata e
il dottore, diagnosticando una febbre polmonare, l’aveva sottoposta a regolari
salassi, che però sembravano averla soltanto indebolita maggiormente.
Mothac portò il piatto nell’altra stanza e lo posò accanto al letto, poi sfiorò la
spalla di Elea... ma lei non si mosse.
– Oh, benedetta Era... no! – sussurrò lui, voltandola supina.
Era morta.
Stringendo la mano di lei fra le proprie rimase seduto dov’era fino al tramonto,
poi si alzò e lasciò la casa, mettendosi a camminare attraverso la città fino a
raggiungere la piazza principale, senza vedere dove andava e senza riuscire a
pensare in maniera coerente. Un uomo lo prese per un braccio.
– Cosa ti è successo, amico mio? Credevamo che ti avessero ucciso!
– Ucciso? – ripeté Mothac, liberandosi con uno strattone. – Vorrei che lo
avessero fatto. Lasciami in pace.
Continuò a camminare senza meta per i lunghi viali, le strade sinuose e i vicoli
senza pensare ad una possibile destinazione, ma alla fine si venne a trovare davanti
alla casa di Epaminonda. Non avendo un altro posto dove andare, si avvicinò alle
ampie porte e picchiò il pugno sul legno.
Un servitore lo condusse dallo Spartano, che era seduto in cortile a sorseggiare
un po’ di vino annacquato, e Mothac si costrinse ad inchinarsi al suo nuovo
padrone. Questi lo scrutò con attenzione e i suoi limpidi occhi azzurri parvero
leggergli nel profondo dell’anima.
– Cosa c’è che non va? – domandò poi.
– Nulla... signore – replicò il Tebano, con voce spenta. – Sono qui. Cosa vuoi
che faccia?
– Siediti e bevi questo – replicò lo Spartano, versando un bicchiere di vino e
porgendoglielo.
Mothac si lasciò cadere sulla panca e svuotò il boccale in un solo sorso,
sentendo il calore del vino che gli si diffondeva nel corpo.
– Ora dimmi cosa è successo – aggiunse lo Spartano.
Mothac però non riuscì a trovare le parole necessarie: invece chinò il capo e le
lacrime presero a scorrergli lungo le guance e nella barba.

Mothac non poté indursi a parlare di Elea, ma per molto tempo ricordò come lo
Spartano non lo avesse pressato di domande, attendendo invece che la sua crisi di
pianto fosse passata per poi chiedere ai servi di portare del cibo e altro vino. Sedet-
tero insieme, bevendo in silenzio, finché Mothac finì per ubriacarsi: a quel punto lo
Spartano condusse il suo nuovo servitore in una camera da letto sul retro
dell’edificio e lo lasciò lì.
Mothac si svegliò all’alba. Vedendo che un chitone nuovo di lino verde era
pronto per lui su una sedia, si alzò, si lavò e si vestì, poi andò in cerca di
Parmenion. Un servitore gli spiegò che lo Spartano era andato al terreno di
addestramento, quindi Mothac vi si recò a sua volta e rimase seduto vicino alla
Tomba di Ettore osservando il suo nuovo padrone correre senza sforzo lungo la
pista, pensando che si muoveva davvero bene e che i suoi piedi non sembravano
quasi toccare il terreno.
Parmenion continuò a correre per oltre un’ora, fino a quando ebbe il corpo
madido di sudore e i muscoli dei polpacci che bruciavano per la fatica; al quel
punto rallentò l’andatura e si diresse verso la Tomba, salutando Mothac con un
cenno della mano e un ampio sorriso.
– Hai dormito bene? – chiese.
– Era un buon letto e non c’è nulla come il vino per dare ad un uomo sogni
piacevoli – annuì Mothac.
– Sono stati piacevoli? – domandò Parmenion, in tono sommesso.
– No. Sei un ottimo corridore, non ne ho mai visto uno migliore.
– Da qualche parte ci deve essere un uomo migliore – sorrise Parmenion. – C’è
sempre.
Cominciò quindi una serie di esercizi di stiramento, tirando con cautela i
muscoli dei polpacci appoggiandosi in avanti contro la pietra della Tomba.
– Intendi gareggiare ancora? – volle sapere Mothac.
– No.
– Allora perché ti eserciti?
– I muscoli erano tesi per via della gara, e se non li avessi riscaldati mi
sarebbero venuti i crampi, cosa che domani mi avrebbe impedito di correre. Mi ha
fatto piacere non vedere aggressori in giro, questa mattina – aggiunse, cambiando
argomento.
– Torneranno – avvertì Mothac. – Ci sono persone decise a vederti morto.
– Non credo che sarò mai un uomo facile da uccidere – ribatté Parmenion,
stendendosi sull’erba, – ma pensarlo potrebbe essere anche semplice arroganza da
parte mia.
– Non mi hai chiesto chi mi ha assoldato per ucciderti – osservò il Tebano.
– Me lo avresti detto?
– No.
– È stato per questo che non te l’ho chiesto.
– Inoltre – aggiunse Mothac, distogliendo lo sguardo, – hai avuto la cortesia di
non chiedere il perché del mio pianto, e te ne sono grato.
– Tutti noi portiamo dentro un dolore, amico mio. Una volta qualcuno mi ha
detto che tutti i mari non sono altro che le Lacrime del Tempo, versate per la
perdita delle persone amate. Può darsi che non sia vero, ma mi piace pensarlo.
Sono lieto che tu sia tornato.
– Non so con certezza perché l’ho fatto – ammise Mothac, con un sorriso
contrito. – Non ne avevo l’intenzione.
– Il motivo non ha importanza. Vieni, torniamo indietro e facciamo colazione.
Quando arrivarono all’ultimo angolo prima della loro meta, Parmenion protese
un braccio e fermò Mothac, poi si sporse e sbirciò verso la strada. Di nuovo
c’erano alcuni uomini armati davanti alla casa e a quella vista Parmenion serrò le
labbra in preda all’ira; poi però trasse un profondo respiro e si costrinse a
controllare la propria furia crescente.
– Va’ loro incontro – disse a Mothac, – e spiega che mi hai appena visto correre
sul terreno di addestramento e che non c’era in giro nessun altro. Dopo tutto non
sarà una menzogna.
Il Tebano annuì e andò di corsa incontro agli uomini in attesa; intanto
Parmenion si acquattò dietro un muretto e rimase nascosto mentre i tre gli
passavano accanto di corsa. Infine si rialzò e raggiunse Mothac.
– Andiamo a mangiare – gli disse.
Epaminonda aveva lasciato la casa la sera prima e non era ancora tornato, e dal
momento che i servi non sapevano o non volevano dire dove fosse andato,
Parmenion e Mothac si disposero a fare colazione senza attendere il padrone di
casa.
– Non dovrei stare con loro? – domandò Mothac, quando i servi portarono il
mangiare dalle cucine.
– Non ancora – replicò Parmenion. – Prima dobbiamo imparare a conoscerci.
Sei mai stato un servitore?
– No – ammise Mothac.
– E io non ho mai avuto un servo prima d’ora. Improvvisamente Mothac
ridacchiò e scosse il capo.
– Cosa c’è di tanto divertente? – volle sapere Parmenion.
– Una volta io avevo dei servi – spiegò il Tebano, scrollando le spalle, – e forse
potrei insegnarti come vanno trattati.
– In effetti mi servirebbe qualche insegnamento – convenne Parmenion, con un
ampio sorriso. – Io posseggo pochissima roba, quindi occuparti delle mie cose non
sarà una fatica per te. Quanto alla mia alimentazione è... spartana? Ho poche
necessità, ma ho bisogno di qualcuno di cui mi possa fidare e con cui poter parlare,
quindi cominciamo con il darti un titolo migliore... sarai il mio compagno. Che te
ne pare?
– Sono al tuo servizio da un giorno appena ed ho già ricevuto una promozione.
Vedo che con te le prospettive di carriera sono buone, ma puoi concedermi ancora
un giorno prima di entrare al tuo servizio? C’è qualcosa che devo finire.
– Certamente – assentì Parmenion, scrutandolo con attenzione. – È una...
faccenda in cui posso esserti d’aiuto?
– No, penserò io a sistemarla.
I due finirono la colazione, poi Mothac lasciò la casa e tornò nella piazza
principale, raggiungendo quindi la Via dei Morti, dove diede dodici dracme ad un
vecchio e gli spiegò come raggiungere la sua casa.
– Io sarò là al tramonto – disse all’addetto alle sepolture. – Bada che le prefiche
levino alti lamenti.
– Saranno le migliori – garantì l’uomo.
Tornato a casa, Mothac indossò di nuovo il suo vecchio chitone, che un tempo
era stato rosso ma adesso era sbiadito fino ad assumere la tinta appena rosata del
cielo dell’alba, poi attese un’ora che arrivassero le donne: erano tre, vestite del
colore grigio del lutto, e lasciandole a preparare Elea per la sepoltura lui si affibbiò
alla vita la spada e la daga e tornò a passo lento fino alla piazza.
Elea se n’era andata e adesso nulla avrebbe potuto riportarla in vita, anche se
lui si augurava che potesse trovare la felicità nell’aldilà, ricongiungendosi ai suoi
genitori. Però avrebbe sentito la sua mancanza... e non l’avrebbe mai dimenticata.
Sapeva che c’erano uomini che si risposavano più di una volta quando la moglie
moriva, ma non lui.
Mai più, decise mentre sedeva in attesa della notte. Quando viaggerò fino
all’aldilà ritroverò Elea e godrò dell’eternità insieme a lei.
Il sole tramontò in un glorioso splendore e le stelle illuminarono il cielo; le vie
cittadine furono rischiarate da torce inserite negli anelli fissati ai muri delle case e
da lanterne appese a delle corde, poi i servitori cominciarono a portare i tavoli nella
piazza, preparando tutto in attesa di quanti sarebbero usciti per cenare. Alzandosi
in piedi, Mothac indietreggiò nell’ombra e continuò ad attendere con pazienza. Le
ore trascorsero e la mezzanotte era ormai prossima quando lo Spartano chiamato
Cletus si avvicinò ad un tavolo e sedette per mangiare. Mothac sapeva il perché
dell’odio di Cletus nei confronti di Parmenion: il corridore Meleager non aveva
potuto saldare tutti i suoi debiti ed era stato rimandato a casa in disgrazia, e senza
l’aiuto di Meleager presto Cletus si sarebbe venuto a trovare a corto di denaro ed
avrebbe dovuto rinunciare ai piaceri della vita che si stava concedendo.
Ciò che ora Cletus voleva... desiderava sopra ogni altra cosa... era vendicarsi
del traditore spartano che lo aveva ingannato.
Mothac poteva capire il suo desiderio di vendetta.
Con infinita pazienza, attese che lo Spartano finisse di mangiare, poi lo seguì
nel lungo tragitto fino ai gradini che portavano alla Cadmea; quando lo Spartano
cominciò a salire il tortuoso sentiero, Mothac si guardò intorno e non appena vide
che in giro non c’era nessuno chiamò Cletus per nome, correndo avanti per
affiancarglisi.
– Hai buone notizie per me, uomo? – gli chiese lo Spartano.
– No – rispose Mothac, piantandogli nel collo la propria daga e conficcandola
profondamente al di sopra della clavicola. Cletus cadde all’indietro, annaspando
per estrarre la spada, ma Mothac gli sferrò un pugno al volto ed estrasse di scatto il
coltello dalla ferita, tranciando la vena iugulare. Sebbene il sangue fiottasse ora
dallo squarcio, Cletus tentò ancora di attaccare, agitando disperatamente la spada,
ma Mothac si ritrasse con un balzo e infine lo Spartano crollò al suolo in preda alle
convulsioni dell’agonia.
Mothac lasciò allora di corsa il sentiero e tornò a casa, togliendosi il chitone
insanguinato e lavandosi con cura; indossata di nuovo la tunica nuova comprata per
lui da Parmenion, raggiunse infine la casa di Epaminonda.
I sicari non avrebbero impiegato molto tempo a scoprire che chi li pagava era
morto.
Quando entrò in casa trovò Parmenion adagiato su uno dei divani dell’androne.
– Hai concluso i tuoi affari? – domandò questi, sollevando lo sguardo su di lui.
– Sì... signore.
– In maniera soddisfacente?
– Non parlerei di soddisfazione, signore. Era più che altro un lavoro necessario.

Allorché portò a Parmenion la notizia dell’assassinio di Cletus, Epaminonda


parve sinceramente sconvolto dall’accaduto.
– Pensavo che non amassi gli Spartani – osservò Parmenion, mentre passeg-
giavano insieme nel giardino che si allargava alla base della grande statua di
Eracle.
Epaminonda si guardò intorno, verificando che nei giardini c’erano poche
persone e nessuna a portata di udito.
– Infatti non li amo, ma non si tratta di questo. Io mi fido di te, Parmenion, ma
si stanno sviluppando piani che non devono essere intralciati in nessun modo e
adesso l’ufficiale spartano che ha il comando della Cadmea ha ordinato
un’indagine ufficiale ed ha anche richiesto altre truppe a Sparta perché teme che
l’assassinio possa essere la mossa che preannuncia una rivolta.
– Il che non è – dichiarò Parmenion, – perché in tal caso tu lo sapresti.
Epaminonda gli scoccò un’occhiata penetrante e un intenso rossore si diffuse
sui suoi lineamenti butterati mentre un sorriso gli incurvava le labbra.
– Hai una mente acuta... anche se per fortuna è abbinata ad una lingua riservata.
Sì, io sono fra coloro che cercano di liberare Tebe ma la cosa richiederà del tempo
e quando saremo prossimi ad agire chiederò il tuo consiglio. Non ho dimenticato il
piano che hai abbozzato.
Intanto si erano arrestati accanto ad una fontana che zampillava dalle braccia di
una statua di Poseidone, il dio del mare, e dopo che Parmenion ebbe bevuto dalla
polla sottostante si sedettero su un sedile di marmo sotto un telo che riparava dal
sole.
– Devi essere più attento – consigliò Parmenion, – perché perfino i servi sanno
che hai degli incontri segreti.
– I miei servi sono fidati, ma ho afferrato il punto. Tuttavia non ho scelta,
perché ci dobbiamo incontrare per poter elaborare i nostri piani.
– Allora fatelo alla luce del sole – suggerì Parmenion.
I due amici tornarono indietro lungo il viale che passava accanto alle Porte di
Elettra, ma invece di andare a casa sua Epaminonda svoltò in un vicolo ombroso e
si fermò davanti ad una porta di ferro, aprendola e segnalando a Parmenion di
entrare. Oltre la porta c’era uno stretto cortile con alte pareti rivestite di boccioli
purpurei, al di là del quale si allargava un altro tratto di cortile pavimentato e
sovrastato da un tetto di rampicanti che crescevano lungo un graticcio di vimini.
Epaminonda guidò lo Spartano nella casa oltre il cortile, dove c’era un piccolo
androne che conteneva sei divani e da cui due porte davano accesso
rispettivamente la prima alla cucine a ed un bagno e l’altra ad un corridoio con tre
camere da letto.
– Di chi è questa casa? – domandò Parmenion.
– È tua – spiegò Epaminonda, con un ampio sorriso. – Ho scommesso tremila
dracme sulla tua corsa e questa casa ne costava appena novecento... ho pensato che
ti si addicesse.
– È vero... ma non posso accettare un dono tanto costoso.
– Certo che puoi... e devi. Ho vinto una somma pari a dieci volte il costo di
questo edificio e poi – proseguì, mentre il suo sorriso svaniva, – questi sono tempi
pericolosi e se venissi arrestato mentre sei ancora mio ospite prenderebbero anche
te.
Parmenion si adagiò su un divano, apprezzando la brezza che soffiava dalla
finestra principale portando con sé il profumo di fiori del giardino.
– Accetto – disse infine, – ma soltanto a titolo di prestito. Dovrai permettermi
di ripagarti questa casa... come e quando potrò.
– Se è ciò che desideri, allora sono d’accordo – convenne Epaminonda.
Parmenion e Mothac si trasferirono il mattino successivo, dopo che il Tebano
ebbe comprato al mercato una scorta di provviste, e sedettero in cortile a godere il
sole del primo mattino.
– Ti hanno visto quando hai ucciso Cletus? – chiese d’un tratto Parmenion.
Mothac fissò gli occhi azzurri del suo padrone e prese in considerazione la
possibilità di mentire, ma alla fine si limitò a scuotere il capo.
– Nelle vicinanze non c’era nessuno.
– Bene... però non intraprendere mai più azioni del genere senza averne prima
parlato con me. Hai capito?
– Sì... signore.
– E non è necessario che usi quell’appellativo. Io mi chiamo Parmenion.
– Era necessario, Parmenion. Lui aveva ordinato la tua morte e finché fosse
vissuto saresti stato in pericolo.
– Lo accetto... e non scambiare le mie critiche per ingratitudine. Però sono
padrone io della mia sorte e non voglio... né mi aspetto... che nessun uomo agisca
al mio posto.
– Non succederà di nuovo.
Durante gli otto mesi successivi Parmenion corse due volte e vinse in entrambi
i casi, una volta contro il campione di Corinto e la seconda contro un atleta di
Atene. Il giovane continuò a gareggiare sotto il nome di Leon e pochi scommisero
contro di lui, il che comportò introiti piuttosto scarsi. Nell’ultima corsa investì su
se stesso duecento dracme per vincerne appena cinquanta.
Quella sera, come sempre dopo una gara difficile, Parmenion stiracchiò le
gambe stanche con una pacata corsa notturna sulla pista rischiarata dalla luna:
esercitandosi in quell’ora tranquilla otteneva non soltanto di sciogliere i muscoli
ma anche di trovare un senso di pace e quasi di soddisfazione. Il suo odio verso
Sparta non era meno potente che in passato, ma adesso era controllato e incatenato:
il giorno della vendetta si stava avvicinando e lui non intendeva affrettare i tempi.
Mentre passava accanto alla Tomba di Ettore un’ombra sbucò dagli alberi e
subito Parmenion si trasse indietro, abbassando la mano verso la daga che portava
al fianco.
– Sono io, Parmenion – chiamò però la voce di Epaminonda, poi il Tebano si
ritrasse fra gli alberi e Parmenion si avvicinò alla Tomba, sedendo su un sedile di
marmo.
– Cosa c’è che non va, amico mio? – sussurrò.
– Mi stanno seguendo di nuovo, anche se per ora credo di averli seminati.
Sapevo che vieni sempre qui dopo le corse ed ho bisogno del tuo aiuto.
– Cosa posso fare?
– È solo questione di tempo prima che mi prendano, e voglio che tu appronti
una strategia per la riconquista della Cadmea. Ci sono però anche lettere che
devono essere recapitate ad alcuni miei amici nelle altre città della Beozia ed
essendo Spartano tu puoi viaggiare senza dare nell’occhio, senza contare che hai
interessi d’affari in tutta la Beozia. Nessuno troverà strano che ti rechi a Tespi o a
Megara. Mi aiuterai?
– Sai che lo farò. Devi portare le lettere qui, avvolte in una pelle oleata, e
lasciarle sotto questo sedile coperte da un po’ di pietre. Nessuno le vedrà e io le
troverò facilmente, dato che vengo a correre quasi tutti i giorni.
– Sei un buon amico, Parmenion. Non lo dimenticherò: Epaminonda si ritrasse
nell’ombra e scomparve.
Durante i quattro mesi che seguirono Parmenion viaggiò undici volte per la
Beozia al fine di portare lettere ai ribelli di Tanagra, di Platea, di Tespi e di
Eraclea; durante quel periodo vide assai di rado Epaminonda ma per mezzo di
Mothac venne a conoscenza della crescente inquietudine diffusa fra i Tebani. Sul
finire dell’estate due soldati spartani furono presi a sassate dalla folla vicino alla
piazza del mercato e salvati soltanto dall’intervento di un contingente di guerrieri
che venne in loro soccorso dalla Cadmea.
La folla indietreggiò all’arrivo dei soldati, ma il suo umore rimase minaccioso.
Estratta la spada gli Spartani si lanciarono in avanti, colpendo gli sfortunati che si
trovavano in prima fila, e a quel punto il panico ebbe la meglio sui Tebani, che si
sparpagliarono in preda al terrore. Parmenion, che si trovava al mercato per
comprare dei sandali nuovi, vide donne e bambini cadere calpestati in mezzo alla
folla in fuga; poi una giovane donna inciampò e cadde per terra direttamente
davanti alla fila spartana che stava avanzando e subito Parmenion scattò in avanti
dalla soglia della bottega in cui si trovava, issando in piedi la donna e portandola
fino alla relativa sicurezza della bottega. Due soldati si staccarono dagli altri per
corrergli dietro.
– Io sono uno Spartano – disse loro Parmenion, quando i due lo minacciarono
con la spada. Il sangue gocciolava dalle lame e la sete di battaglia brillava negli
occhi dei due guerrieri, ma. Parmenion li affrontò senza abbassare lo sguardo.
– Quale strada domina la Via del Commiato? – domandò uno dei due,
sfiorandogli il petto con la lama insanguinata.
– La statua di Atena – ribatté Parmenion. – Già che ci sei, perché non mi chiedi
anche di quanti mattoni è composto il Palazzo del Prezzo del Bestiame?
– Frequenti cattive compagnie – commentò uno dei due soldati. – Bada di
sapere sempre a chi deve andare la tua fedeltà.
– So dove deve andare, fratello, non temere.
I soldati tornarono di corsa nella piazza e Parmenion si girò verso la donna: le
sue labbra erano tinte di un colore rosso sangue e gli occhi erano dipinti nei tre
colori di Afrodite, rosso, azzurro e oro.
– Sei una sacerdotessa? – le chiese.
– No, sono un pastore – ribatté lei.
– Scusami, è stata una domanda sciocca.
La donna avanzò di un passo, premendosi contro di lui.
– Non ti scusare. Per quaranta oboli posso renderti molto felice – sussurrò,
insinuando una mano sotto la sua tunica, ma Parmenion la respinse e lasciò il
negozio. La piazza era cosparsa di corpi, ma ormai i soldati si erano allontanati.
Quella notte ripensò alla sacerdotessa e al calore della mano di lei contro la sua
coscia, e quando la luna si levò alta sulla città si recò al tempio, trovando infine la
donna in una piccola stanza al secondo piano. Allorché lo vide, lei gli rivolse uno
stanco sorriso e accennò a parlare, ma Parmenion la prevenne posandole con
gentilezza un dito sulle labbra.
– Non dire nulla – avvertì con freddezza. – Ho bisogno del tuo corpo... non
della tua voce.
Con il passare dei mesi, le sue visite alla giovane sacerdotessa dai capelli rossi
si moltiplicarono, ma la sua passione era di breve durata e di solito se ne andava
sentendosi triste e pieno di vergogna, perché gli sembrava che avere dei rapporti
con qualsiasi altra donna fosse un tradimento dell’amore che aveva conosciuto con
Derae. Nonostante questo, continuò a tornare una settimana dopo l’altra dalla
donna dai capelli rossi, di cui non si era neppure preoccupato di chiedere il nome.
Le sue scorte di denaro provenienti dalle vincite nelle corse cominciarono ad
assottigliarsi, ma alla fine del terzo anno di permanenza a Tebe sconfisse un
corridore della Tessaglia chiamato Coranus, che aveva vinto di stretta misura la
corsa su media distanza nei giochi olimpici, sconfiggendo Leonida di Sparta.
Questa volta le quote furono di cinque ad uno contro di lui, e Parmenion scommise
tutto quello che possedeva; la corsa si rivelò difficile, e alla fine vinse con appena
la lunghezza di un braccio di vantaggio rispetto al Tessalo... e soltanto perché il
suo avversario incespicò a causa della polvere che copriva l’ultimo tratto di
percorso. Quella fu per lui una dura lezione: mai più avrebbe puntato tutti i suoi
averi su una sola scommessa.
Due giorni più tardi giunse la notizia che Parmenion paventava ormai da quasi
tre anni.
– Epaminonda è stato arrestato insieme a Polispercon – gridò Mothac, entrando
di corsa nel cortile. – Li hanno portati alla Cadmea per torturarli.
LIBRO SECONDO
TEBE, AUTUNNO, 379 A.C.

Dopo aver ordinato a Mothac di restare in casa, Parmenion si diresse verso la


parte occidentale della città e la casa del consigliere Calepios. Un servitore anziano
lo introdusse in una piccola stanza con tre divani, chiedendogli di aspettare lì, e
dopo parecchi minuti un altro servitore venne a prenderlo con un inchino e lo
condusse lungo un corridoio e fino ad un androne dalle elaborate decorazioni, con
le pareti coperte da tappeti e arazzi persiani e il pavimento che sfoggiava un
colorato mosaico rappresentante Eracle nell’atto di uccidere il Leone di Nemea.
Nella stanza erano disposti nove divani e due servi erano pronti con caraffe di
vino e d’acqua, mentre il padrone di casa era adagiato su uno dei divani e
all’apparenza intento a leggere una grande pergamena. All’ingresso di Parmenion
il consigliere sollevò lo sguardo e adottò l’espressione di un uomo piacevolmente
sorpreso di vedere un vecchio amico, ma Parmenion non si lasciò ingannare dalla
messa in scena: l’aria era pervasa di tensione e gli occhi di Calepios tradivano la
paura.
– Benvenuto nella mia casa, giovane Leon – salutò il consigliere, gettando la
pergamena da un lato e alzandosi in piedi. Non era di statura alta e tuttavia era un
uomo a suo modo imponente in maniera sottile, con gli occhi di un verde cupo
sotto le sopracciglia cespugliose e la barba ben curata e arricciata secondo lo stile
dei Persiani. Ciò che gli dava potere era però soprattutto la voce profonda e
vibrante. – A cosa devo questo piacere?
– Possiamo parlare da soli? – domandò Parmenion.
– Siamo soli – replicò Calepios, tradendo inconsciamente le proprie nobili
origini: per lui i servi erano parte della casa quanto lo erano i tavoli e i divani.
Parmenion scoccò allora un’occhiata ai due uomini con le caraffe e Calepios
segnalò loro di andare via; non appena la porta si fu chiusa alle loro spalle il
consigliere invitò con un cenno Parmenion a prendere posto sul divano accanto a
lui ed entrambi si sedettero.
– Quanto sono vicini alla realizzazione i vostri piani? – domandò Parmenion.
– Piani, ragazzo mio? Cosa intendi dire?
– Abbiamo poco tempo per giocare, signore. Polispercon ed Epaminonda sono
stati arrestati, ma tu lo sai già e stai facendo affidamento sul fatto che loro non
dicano niente del tuo coinvolgimento nei piani per riprendere la Cadmea. Ora te lo
chiedo ancora una volta... quanto siete vicini ad attuarli?
Gli occhi verdi di Calepios scrutarono il volto di Parmenion e il consigliere si
irrigidì.
– Epaminonda si fidava di te – mormorò, – ma io non ti posso aiutare in nessun
modo, perché non so di cosa stai parlando.
– Allora può darsi che l’uomo che era con te un momento fa possa offrirci
qualche consiglio – sorrise Parmenion, voltandosi a guardare da sopra la spalla una
lunga tenda ricamata. – Forse sarebbe meglio che uscissi e ti unissi a noi.
La tenda si aprì e ne emerse un uomo alto, largo di spalle e stretto di fianchi,
con le braccia abbronzate segnate da molte cicatrici. Il volto scuro e squadrato era
avvenente, gli occhi erano di un castano tanto scuro da sembrare neri.
– Sei osservatore, Parmenion – commentò il nuovo venuto, con un cupo sorriso.
– Perfino un uomo che passi tutto il suo tempo a bere non tiene al suo fianco
due brocche di vino e due servitori – spiegò Parmenion, – e su questo divano c’era
ancora il calore lasciato dal tuo corpo. Tu sei Pelopida?
– Osservatore e acuto di mente – approvò Pelopida, accostandosi ad un vicino
divano e adagiandosi su un fianco per poi prendere un boccale di vino che si mise a
sorseggiare. – Cosa vorresti che ti dicessimo?
Parmenion osservò l’uomo che aveva combattuto al fianco di Epaminonda,
riportando sette gravi ferite e tuttavia sopravvivendo, l’uomo che con appena trenta
compagni aveva respinto duecento Arcadi in una violenta battaglia. Pelopida
appariva esattamente ciò che era, un combattente senza pari, un uomo fatto per la
guerra.
– Molto tempo fa, Epaminonda mi ha chiesto di approntare un piano per
riprendere la Cadmea ed io l’ho fatto. Stavo soltanto aspettando che lui mi dicesse
quando agire, perché il piano può essere applicato nello spazio di un solo giorno
ma dipende dalle risorse disponibili.
– Deduco che tu stia parlando di uomini – suggerì Pelopida.
– Esatto, ma di uomini che capiscano la necessità della disciplina e del
tempismo.
– Abbiamo in città oltre quattrocento uomini ed entro venti minuti dall’inizio di
un’insurrezione generale nelle strade ci saranno migliaia di Tebani in marcia sulla
Cadmea. Penso che fra tutti potremo uccidere qualche centinaio di Spartani.
– Il mio piano non prevede di uccidere gli Spartani – replicò Parmenion.
– Sei pazzo? – chiese Pelopida. – Questi sono guerrieri Spartani... credi forse
che si arrenderanno senza combattere?
– Sì – rispose semplicemente Parmenion.
– Come? – intervenne Calepios. – Sarebbe contrario ad ogni tradizione.
– In primo luogo – spiegò Parmenion, in tono quieto, – esaminiamo le
alternative. Possiamo assalire la Cadmea e forse prenderla, ma se uccideremo gli
Spartani ad Agisaleus non resterà altra scelta che quella di portare un esercito a
Tebe e riprendere la città, mettendo a morte tutti coloro che hanno partecipato
all’insurrezione. Non avrete il tempo di radunare un esercito, e riprendere la
Cadmea in simili circostanze sarebbe pura follia.
– Stai parlando come un vigliacco! – scattò Pelopida. – Possiamo raccogliere
un esercito... ed io non credo che gli Spartani siano invincibili in battaglia.
– Non lo credo neppure io – convenne Parmenion, mantenendo piana la voce, –
ma esiste un modo per riprendere la Cadmea... senza combattere.
– Sono tutte sciocchezze e non intendo ascoltare oltre – dichiarò Pelopida.
– Deve essere affascinante avere il corpo di un dio senza possedere una mente
degna di esso – commentò Parmenion in tono quieto, mentre il guerriero si alzava.
– Osi insultarmi? – tempestò Pelopida, impallidendo in volto e allungando la
mano verso la daga che portava al fianco.
– Estrai quella lama e morirai – avvertì Parmenion. – E dopo di te morirà anche
Epaminonda, e Tebe rimarrà in catene o sarà del tutto distrutta. – Senza distogliere
lo sguardo da quello del Tebano, il giovane si alzò in piedi a sua volta e proseguì,
con voce tremante di emozione repressa: – Capisci bene una cosa: la mia intera vita
è votata ad un solo sogno... la distruzione di Sparta. Per anni sono stato costretto ad
aspettare la mia vendetta, imparando la pazienza mentre gli artigli dell’ira mi
laceravano l’anima, ed ora il primo momento di quella vendetta è vicino. Riesci a
immaginare quanto desideri vedere morti gli Spartani all’interno della Cadmea?
Come il mio cuore gridi dal desiderio di vederli umiliati, abbattuti, con i loro corpi
gettati in pasto ai corvi? Ma una vendetta così meschina non serve a nulla quando
il sogno più grande continua a vivere. Prima libereremo Tebe e poi cominceremo a
progettare quel giorno più grande. Ora taci, Pelopida, e impara.
Distogliendo l’attenzione dal guerriero, Parmenion si girò verso Calepios e
prese a delineare il suo piano osservando con attenzione ogni cambiamento di
espressione del suo interlocutore. Il consigliere era intelligente, con una mente
acuta, e Parmenion aveva bisogno del suo sostegno; scegliendo le parole con cura,
si mise quindi a parlare in tono quieto, rispondendo ad ogni domanda di Calepios, e
infine si girò ancora verso Pelopida.
– Qual è la tua opinione su tutto questo, guerriero? – chiese.
– Seduti qui sembra un buon piano – replicò Pelopida, scrollando le spalle, –
ma non so come funzionerà nella realtà e continuo a pensare che gli Spartani
porteranno qui un esercito.
– Lo penso anch’io – ammise Parmenion, – ma può darsi che decidano di non
combattere. Credo che Agisaleus cercherà il sostegno di Atene. Tre anni fa gli
Spartani hanno preso la Cadmea perché i dissidenti a loro favorevoli presenti in
città li hanno invitati qui, e da allora hanno sempre sostenuto di essere ospiti,
amici. Tale affermazione si trasformerà in una menzogna se quando chiederemo
loro di andare via torneranno per combattere.
– Di cosa hai bisogno? – domandò Calepios.
– Innanzitutto, di un dottore o di un erborista, ed anche del nome dell’uomo che
rifornisce di provviste gli Spartani, poi tu dovrai preparare un discorso da essere
pronunciato domani nella piazza principale, un’ora prima del crepuscolo.
– E che farò io? – volle sapere Pelopida.
– Tu ucciderai ogni consigliere favorevole agli Spartani – replicò Parmenion,
abbassando la voce.
– Dolce Zeus! – sussurrò Calepios. – Assassinarli? Non c’è un altro modo?
– Sono in cinque – replicò Parmenion, – e due di essi sono buoni oratori. Se li
lasceremo in vita Sparta si servirà di loro come leva per annientare l’insurrezione.
Dopo la presa della Cadmea la città dovrà apparire unita e quei cinque devono mo-
rire.
– Ma uno di loro, Cascus, è mio cugino. Sono cresciuto con lui – disse
Calepios, – e non è un uomo cattivo.
– Ha scelto il lato sbagliato – dichiarò Parmenion, scrollando le spalle, – e
questo lo rende cattivo. Perché Tebe sia libera, quei cinque dovranno morire, ma
tutti i soldati Spartani trovati all’esterno della cittadella dovranno essere presi vivi
e portati alla Cadmea.
– E poi? – domandò Pelopida.
– Poi li libereremo – rispose Parmenion.

Mothac fu svegliato da una mano che gli scrollava una spalla.


– Cosa succede? – borbottò nel sollevarsi a sedere, respingendo quella mano
insistente.
– Ho bisogno di te – disse Parmenion.
– Non è ancora l’alba – osservò Mothac, lanciando un’occhiata fuori della
finestra, poi si grattò la barba rossa e si sfregò gli occhi per liberarli dal sonno,
alzandosi in piedi a fatica e allungando la mano verso il suo chitone. – Cosa
succede?
– La libertà – rispose Parmenion. – Ti aspetterò nell’androne.
Mothac si vestì e si spruzzò d’acqua fredda la faccia. La sera precedente aveva
bevuto parecchi bicchieri di vino non annacquato prima di andare a dormire e
adesso stava rimpiangendo quella stupidaggine. Dopo aver ruttato, trasse un
profondo respiro e raggiunse Parmenion nel piccolo androne. Lo Spartano appariva
stanco e aveva gli occhi cerchiati di scuro.
– Oggi libereremo Epaminonda, ma prima ci sono molte cose da sistemare.
Conosci un uomo chiamato Amta?
– Il mercante di carne nel quartiere sudoccidentale? Cosa c’entra?
– Andrai prima dal chirurgo Horas, e preleverai un pacco di erbe che porterai
ad Amta. Là incontrerai un guerriero alto con la barba scura, che ti dirà cosa fare.
– Erbe? Mercante di carne? Questo cosa c’entra con la liberazione di
Epaminonda?
– Quando avrai ultimato il tuo compito – proseguì Parmenion, ignorando la
domanda, – accompagnerai il guerriero dovunque vada, perché è un uomo ricercato
e non deve essere catturato... di conseguenza utilizzeremo te e altri per portare
messaggi per la città. Qualsiasi cosa ti chieda, obbediscigli.
– Stai parlando di una rivolta – disse Mothac, riducendo la propria voce ad un
sussurro.
– Sì, proprio di questo.
– E gli ufficiali della guardia? Ci sono più di duecento soldati che pattugliano la
città.
– Soldati tebani... speriamo che se ne ricordino. Ora va’, perché abbiamo poco
tempo e ci sono delle persone che devo vedere.
Mothac si gettò sulle spalle il mantello verde scuro.
– Prendi la spada e la daga – gli consigliò Parmenion, e lui annuì.
Pochi minuti più tardi il Tebano era a casa di Horas, il medico, dove un uomo
alto e scheletrico era in attesa nell’ombra della soglia; Mothac gli si avvicinò e
s’inchinò.
– Ti saluto, dottore. Hai un pacco per me?
L’uomo lanciò un’occhiata nervosa alla strada ancora buia, spostando
continuamente lo sguardo di qua e di là.
– Ti garantisco che ci sono soltanto io – lo rassicurò Mothac.
– Questo pacco non ti è stato dato da me... hai capito?
– Certamente.
– Usane il contenuto con parsimonia, spolverandolo con cura sulla carne, ma
cerca di non venire a contatto con esso e se dovesse macchiarti le dita lavale bene.
– Allora è un veleno? – sussurrò Mothac, sorpreso.
– È ovvio che non è veleno! – scattò il medico. – Credi che sia diventato
dottore per poter uccidere la gente? È ciò che quei nobili hanno richiesto: polveri
purganti e per indurre il vomito. Ora vattene di qui e ricorda che io non ho avuto
parte alcuna in tutto questo.
Mothac prese il pacco e si diresse verso la parte settentrionale della città;
mentre aggirava un angolo, un soldato gli si parò davanti, sbarrandogli il passo.
– Dove stai andando, amico? – chiese, mentre altri tre soldati della guardia
entravano nel campo visivo di Mothac.
– A casa, signore – rispose questi, con un sorriso. – C’è qualche problema?
– Sei bene armato per una passeggiata serale – osservò il soldato.
– Conviene sempre essere cauti.
– Va’ pure – annuì il soldato.
Quando arrivò alla casa di Amta il macellaio... un grande edificio che sorgeva
vicino al mattatoio e al magazzino... Mothac si arrestò davanti alle porte principali,
scrutando le ombre alla ricerca dell’uomo che doveva incontrare.
– Tu sei Mothac? – chiese una voce alle sue spalle. Lasciando cadere il pacco
Mothac si girò di scatto cercando di estrarre la spada, ma sentì il freddo
dell’acciaio contro la gola.
– Sono io – replicò. – E tu chi sei?
– Io? Non ti riguarda. Prendi il pacco e andiamo a svegliare il nostro amico.
Le porte non erano sprangate e l’alto guerriero le aprì con facilità, poi i due
uomini sgusciarono nel cortile e nella casa al di là di esso. Tutto era immerso
nell’oscurità, ma grazie alla luce della luna che filtrava attraverso una finestra
aperta poterono individuare una scala addossata alla parete orientale e Mothac
seguì il suo compagno senza nome al secondo piano dell’edificio e fino ad una
camera da letto rivolta ad est. Aperta la porta il guerriero s’insinuò nella stanza,
dove un uomo grasso che russava sonoramente giaceva su un ampio letto posto su
una piattaforma rialzata. Il guerriero si accostò al dormiente e gli posò una mano
sulla spalla: subito il russare s’interruppe e Mothac vide Amta aprire gli occhi,
scoprendo il coltello del guerriero puntato contro la propria grassa gola tremante.
– Buongiorno – salutò il guerriero, con un sorriso. – Sarà un’ottima giornata.
– Cosa vuoi?
– Che mostri il tuo amore per Tebe.
– Certo che amo Tebe, lo sanno tutti.
– E tuttavia rifornisci di cibo la guarnigione degli Spartani.
– Sono un mercante, e non posso rifiutare di vendere le mie merci. Mi
arresterebbero e mi definirebbero un traditore.
– È tutta una questione di prospettiva, caro Amta. Vedi, intendiamo liberare
Tebe, e dopo saremo noi a definirti un traditore.
L’uomo grasso si issò a sedere cercando di non guardare il coltello puntato
contro la sua gola.
– Questo non sarebbe giusto – protestò, con voce ora più controllata. – Non
potreste accusare tutti gli uomini che hanno avuto contatti con gli Spartani, o tutti i
proprietari di botteghe e i mercanti... sì, perfino le prostitute sarebbero da dichia-
rare colpevoli. Tu chi sei?
– Mi chiamo Pelopida.
– E cosa vuoi da me? – domandò il mercante, mentre una rinnovata ondata di
paura gli faceva apparire sul volto improvvise gocce di sudore.
– A che ora prepari la carne per la guarnigione?
– Un’ora prima dell’alba, poi i miei ragazzi la portano alla Cadmea con un
carro.
– Allora diamoci da fare – disse Pelopida, riponendo la daga.
– Cosa c’entra la mia carne con la liberazione di Tebe?
– Abbiamo con noi alcune erbe che ne miglioreranno il sapore.
– Ma se li avvelenerete la colpa ricadrà su di me. Non potete farlo!
– Non è veleno, idiota! – sibilò Pelopida. – Vorrei che lo fosse! Ora alzati da
quel letto e portaci nel tuo magazzino.

L’alba era sorta da tre ore e ancora Parmenion non aveva avuto modo di
dormire. Adesso era in attesa all’entrata della fucina del fabbro, con la mente che
era un vortice di pensieri che diventavano problemi e di problemi che diventavano
timori.
E se?
E se gli Spartani si fossero accorti che la carne era stata alterata? E se Pelopida
fosse stato sorpreso a mettere il sale nell’acqua? E se la notizia del complotto fosse
trapelata?
La testa gli pulsava e la luce del primo mattino gli feriva gli occhi; sentendosi
debole e in preda alla nausea si sedette sul lato della strada. Dal giorno in cui aveva
salvato Derae aveva sempre sofferto di periodici dolori di testa, ma durante gli
ultimi due anni le crisi si erano fatte più numerose e più intense, tanto che a volte
neppure il suo addestramento spartano era sufficiente a permettergli di sopportare
il dolore e lui aveva preso l’abitudine di bere del succo di papavero quando gli
attacchi diventavano intollerabili. Oggi però non si poteva concedere il sonno
portato dall’oppio e cercò quindi di ignorare le fitte.
Il fabbro, Norac, un uomo enorme con le spalle larghe e un collo da toro, scese
in strada qualche momento più tardi e Parmenion si alzò in piedi per salutarlo.
– Sei mattiniero – commentò Norac, – ma se pensi di poter ottenere un lavoro
veloce scordatelo, perché sono già pieno di ordinazioni.
– Mi servono venti chiodi di ferro per mezzogiorno, ciascuno lungo quanto il
braccio di un uomo – disse Parmenion.
– Non mi hai capito, mio giovane amico. Non posso accettare altro lavoro per
questa settimana.
– Ascoltami, Norac, si dice che tu sia un uomo di cui ci si può fidare – affermò
Parmenion, fissando il fabbro negli occhi castani e infossati. – Mi ha mandato
Pelopida. Hai capito? La parola d’ordine è Eracle.
– A quale scopo ti servono i chiodi? – domandò il fabbro, socchiudendo gli
occhi.
– Per inchiodare dall’esterno le porte della Cadmea. Avremo bisogno anche di
uomini che brandiscano i martelli.
– Per i seni di Hera, ragazzo! Non chiedi molto, vero? È meglio che tu venga
dentro.
La fucina era deserta e Norac si avvicinò alla forgia, aggiungendo esca alle
ceneri roventi e soffiando per dare vita alle fiamme.
– I chiodi non saranno un problema – disse, – ma come potremo piantarli senza
che gli Spartani ci piombino addosso?
– Rapidità e abilità. Una volta che la sbarra sarà al suo posto, sei uomini
correranno fino alle porte. – Parmenion si accostò alla parete opposta e prese
un’asta di lancia da un mucchio che aspettava di essere fornito di punta, mettendola
in verticale e praticando su di essa due tagli con la daga. – Queste sono l’altezza e
lo spessore della sbarra. Le porte sono di quercia, vecchie, stagionate e spesse
quanto la lunghezza della mano di un uomo. Potresti trapassarne una con sei colpi?
– Certo che potrei, ragazzo – dichiarò Norac, flettendo i suoi muscoli
prodigiosi, – ma alla maggior parte degli altri ne serviranno sette o otto.
– Si può raddoppiare la velocità piazzando ad ogni porta quattro uomini muniti
di martello – annuì Parmenion, – ma il tempismo è di vitale importanza. Il
momento di maggiore pericolo sarà quando la folla marcerà verso la Cadmea...
perché è allora che il comandante prenderà in considerazione la possibilità di
mandare fuori le sue truppe.
– Lascia fare a me – promise Norac, e Parmenion sorrise.
– Di solito le porte vengono chiuse al crepuscolo. Porta i chiodi a casa di
Calepios a mezzogiorno, non più tardi, e raduna undici uomini robusti.
Lasciato il fabbro, Parmenion tornò lentamente a casa di Calepios; il
consigliere stava facendo colazione e gli chiese di unirsi a lui, ma Parmenion
rifiutò.
– Hai avuto notizie di Pelopida? – chiese.
– Non ancora. Hai un aspetto spaventoso e il tuo volto ha perso ogni traccia di
colore. Ti senti male?
– Sto bene, sono soltanto stanco. Bisogna spargere per la città la notizia del tuo
discorso, in modo che il massimo numero possibile di persone ti venga ad
ascoltare.
– Lo hai già detto la scorsa notte. È tutto sotto controllo, amico mio.
– Sì, certo – convenne Parmenion, riempiendo d’acqua un boccale e
sorseggiandolo.
– Va’ dentro e dormi per un po’ – gli consigliò Calepios. – Ti sveglierò io al
ritorno di Pelopida.
– Più tardi. Quanti uomini sorveglieranno le porte cittadine? Nessuno deve
andarsene finché Tebe non sarà nostra.
– Ci saranno dieci uomini per ogni porta. Non temere, andrà tutto come hai
progettato.
– Di certo qualcuno verrà alla Cadmea munito di arco nella speranza di poter
scagliare qualche freccia contro gli Spartani, ma tutti i nostri uomini dovranno
essere disarmati. Non ci dovranno essere attacchi al di fuori dei nostri piani.
In quel momento Pelopida e Mothac entrarono nel cortile e Parmenion si alzò
in piedi.
– Allora? – chiese.
– Mothac ed io abbiamo consegnato la carne. Come pensavi, ci hanno lasciati
soli nel magazzino ed ho provveduto a mettere il sale nelle botti dell’acqua. Erano
dieci e siccome all’ultima botte siamo rimasti a corto di sale ho pensato di urinarci
dentro... ma invece abbiamo rovesciato l’acqua per terra.
– Bene! Ben fatto – approvò Parmenion, lasciandosi cadere di nuovo a sedere. –
Allora siamo pronti. Hai già preparato il tuo discorso? – domandò a Calepios.
– Sì – confermò il consigliere, – e lo pronuncerò nell’agorà prima del tramonto,
quando si sarà raccolta una grande folla. Ora vuoi concederti un po’ di riposo?
Parmenion ignorò però quella supplica e si rivolse a Pelopida.
– Cosa mi dici dei consiglieri?
– Gli dèi sono con noi, Parmenion. Mi hanno detto che ci sarà una festa a casa
del poeta Alexandros e che si raduneranno là verso mezzogiorno: berranno e
mangeranno... e manderanno a chiamare delle prostitute. Li prenderemo tutti...
tranne Cascus, il cugino di Calepios.
– No! – scattò Parmenion. – Devono morire tutti.
– Cascus non è più in città – spiegò Pelopida, spostando lo sguardo su Calepios.
– Per uno strano colpo di fortuna è partito due ore fa per la sua tenuta estiva nelle
vicinanze di Corinto.
Parmenion calò con violenza il pugno sul tavolo e fissò in volto Calepios.
– Lo hai avvertito e ci hai messi tutti in pericolo. Lo statista scrollò le spalle e
allargò le braccia.
– Non nego di avergli chiesto di lasciare la città, ma non ho tradito nessuno. Ho
raccontato a Cascus di aver sognato per tre notti di fila la sua morte; gli ho anche
detto di aver riferito il sogno ad una veggente e che lei ha consigliato un
pellegrinaggio al Tempio di Ecate, vicino Corinto. Tutti sanno quanto Cascus sia
religioso... è partito immediatamente.
– È stata una cosa stolta, Calepios – dichiarò Parmenion.
– Se riprenderemo la città Cascus correrà dagli Spartani e loro si serviranno di
lui come di un uomo di paglia per marciare contro di noi. Può darsi che tu ci abbia
condannati tutti.
– Non ho modo di difendermi da questo – ammise lo statista, scuotendo il capo,
– ma Cascus appartiene alla mia famiglia e mi è molto caro. Inoltre, a suo modo
ama Tebe quanto chiunque di noi. In ogni caso non c’è nulla che possa fare per
modificare le mie azioni... e se anche ci fosse mi rifiuterei di cambiarle.
Parmenion aveva l’impressione che la testa stesse per esplodergli. Bevve
dell’altra acqua ed entrò in casa, cercando di sfuggire alla luminosità del cortile.
Mothac gli andò dietro.
– Ho visto statue di marmo con un colorito più vivace del tuo – osservò, mentre
Parmenion si accasciava su un divano.
– Penso che ti ci voglia un po’ di vino.
– No – rifiutò Parmenion, sentendo lo stomaco che gli si contraeva. – Lasciami
solo per un po’, in modo che possa dormire.

Onde violente battevano contro una costa rocciosa e irregolare, mentre i


mostri del profondo con i loro denti seghettati fluttuavano intorno alla figura della
ragazza che si dibatteva per liberarsi le mani. Parmenion nuotò fra le onde,
lottando per raggiungerla prima che il mare scuro la trascinasse verso il basso.
Un’enorme creatura gli passò accanto, tanto vicina che la sua pinna dorsale
gli sfregò contro la gamba, ma poi un’onda colossale lo afferrò e lo scagliò verso
il cielo. Alla sua sommità, lui quasi urlò nel precipitare di nuovo verso il basso. La
sua testa andò sott’acqua e scoprì che poteva respirare anche lì. Il corpo di Derae
fluttuava sotto di lui e Parmenion si tuffò più in profondità, strappando le corde
dai polsi di lei e trascinandola in superficie.
– Vivi! Vivi! – urlò, mentre i mostri giravano loro intorno fissandoli con occhi
del colore degli opali.
Derae riprese i sensi e si aggrappò a lui.
– Mi hai salvata – disse. – Sei venuto ad aiutarmi!

Mothac lo scosse e Parmenion aprì gli occhi con un gemito... dovuto non
soltanto al dolore all’interno del cranio ma anche alla perdita di Derae e del suo
sogno.
– È mezzogiorno? – chiese, sollevandosi a sedere.
– Sì – confermò Mothac.
Alzatosi in piedi, Parmenion passò in cortile. Pelopida era ancora là e con lui
c’erano il fabbro Norac e undici uomini massicci, quattro dei quali avevano enormi
martelli dalla lunga impugnatura.
– Va abbastanza bene per te, stratega? – chiese Norac, sollevando un chiodo di
ferro lungo quanto una corta spada.
– Hai lavorato bene – approvò Parmenion, – ma ora mi piacerebbe vedere i tuoi
uomini all’opera con i martelli.
– Ho portato alcuni chiodi di riserva proprio per questo scopo – replicò il
fabbro.
Due uomini sollevarono una spessa trave di legno e la appoggiarono contro la
parete opposta mentre un terzo teneva al suo posto il chiodo. Piazzatosi di lato,
Norac segnalò ad uno degli uomini con il martello di mettersi dall’altro lato, poi
sollevò il proprio martello e vibrò un colpo violento, contro la testa del chiodo; nel
momento in cui il suo martello rimbalzava all’indietro per il contraccolpo il
secondo uomo colpì a sua volta e la persona che teneva il chiodo si affrettò a
mollare la presa e a tirarsi indietro. Tre colpi più tardi, il chiodo era piantato fino in
fondo.
– Esercitatevi, perché dovrete essere più veloci – disse Parmenion.
Chiamato a sé Pelopida, rientrò quindi nell’androne.
– La festa di cui mi hai parlato a casa di Alexandros... ci saranno delle guardie?
– Sì, perché quegli uomini non sono popolari.
– Quante?
– Forse cinque e forse venti. Non lo so.
– Fuori o dentro la casa?
– Fuori, perché si tratta di un’orgia privata – spiegò Pelopida, con un ampio
sogghigno.
– Ci incontreremo a casa di Alexandros e appronteremo un piano dopo aver
visto quante sono le guardie.
Quando Pelopida se ne fu andato, Calepios si recò nella propria stanza per
ripassare il discorso, lasciando Parmenion solo nell’androne; il giovane rimase per
qualche tempo immerso nei suoi pensieri, ma ad un tratto si accorse di non essere
solo. Girando il capo vide la veggente spartana, Tamis, ferma accanto al tavolo
appoggiata al suo bastone.
Tamis fissò il giovane Spartano gloriandosi del potere della sua anima,
avvertendo il suo dolore e ammirando il coraggio che lui dimostrava nel resistere
ad esso.
Per un momento, Parmenion rimase a guardarla in silenzio con espressione
incredula.
– Bene – disse infine la vecchia, – non mi offri di sedermi, giovane Spartano?
– Certamente – rispose lui, alzandosi per accompagnarla al tavolo, dove le servì
un bicchiere d’acqua. – Come puoi essere qui, signora?
– Io vado dove voglio. Sei deciso a guidare questa insurrezione?
– Sì.
– Dammi la tua mano.
Parmenion obbedì e lei gli coprì il palmo con il proprio.
– Ad ogni battito del suo cuore un uomo ha due scelte – sussurrò. – Tuttavia
ciascuna scelta crea un sentiero che deve essere seguito dovunque esso porti. Tu ti
trovi ad un bivio, Parmenion: davanti a te c’è una strada che porta alla luce del sole
e al riso e un’altra che porta al dolore e alla disperazione. La città di Tebe è nelle
tue mani come un piccolo giocattolo. Sulla strada del sole essa crescerà, ma
sull’altra sarà distrutta, ridotta in polvere e dimenticata. Queste sono le parole che
mi è stato ordinato di pronunciare.
– Quale strada devo scegliere, allora? – chiese lui. – Come posso saperlo?
– Non lo saprai se non molto tempo dopo averla percorsa.
– Allora che scopo ha dirmelo? – scattò lui, ritraendo la propria mano da quella
di lei.
– Tu sei un Prescelto, sei Parmenion, la Morte delle Nazioni. Manderai
centinaia di migliaia di anime incontro al fiume oscuro, urlanti e gementi nel
maledire la loro sorte. È giusto che tu debba conoscere le tue alternative.
– Allora dimmi come percorrere la strada che porta al sole.
– Lo farò, ma come con Cassandra prima di me, le mie parole non altereranno
la tua strada.
– Dimmelo.
– Lascia questa casa e sella la tua giumenta. Abbandona questa città e viaggia
attraverso l’Asia, fino a trovare il Tempio di Hera la Sapiente.
– Ah! Adesso capisco – dichiarò Parmenion. – Strega! Sei una Spartana e sei al
loro servizio, ma non ascolterò le tue menzogne. Libererò Tebe e se dovrà esserci
una città che cadrà in cenere, quella sarà Sparta.
– Certamente – sorrise la donna, mostrando i denti marci e le gengive arrossate.
– Chi parla è la Morte delle Nazioni, e le sue parole saranno ascoltate dagli dèi. Tu
però sbagli nel giudicarmi, Parmenion. Non m’importa nulla di Sparta e dei suoi
sogni e sono lieta del sentiero che hai scelto di percorrere. Tu sei importante per
me... e per il mondo.
– Perché dovrei essere importante per te? – domandò il giovane, ma la vecchia
si limitò a scuotere il capo.
– Tutto ti sarà rivelato a tempo debito. Oggi mi sei piaciuto: la tua mente è
acuta e agile. Presto diventerai un uomo di ferro, l’uomo del destino – dichiarò,
con una risata simile al frusciare del vento fra le foglie morte.
Parmenion non disse nulla, ma le sue dita scivolarono verso l’impugnatura
della daga.
– Quella non ti servirà – affermò la vecchia, in tono sommesso. – Non sono una
minaccia per te e non parlerò a nessuno dei tuoi piani.
Parmenion non replicò, perché non intendeva rischiare la vita di Epaminonda
fidandosi della parola di una strega spartana. La daga scivolò fuori del fodero...
– Parmenion! – chiamò Calepios dalla soglia. – Sono indeciso in merito alla
conclusione del mio discorso. Vuoi venire a sentirla?
Parmenion distolse la propria attenzione per un secondo appena e quando tornò
a guardare verso Tamis... lei era svanita. Barcollando si alzò in piedi e girò su se
stesso con la daga in pugno, ma della vecchia non si scorgeva più traccia.
– Dov’è andata? – chiese a Calepios.
– Chi?
– La vecchia che era qui un momento fa.
– Non ho visto nessuno. Stavi di certo sognando. Ora ascolta la conclusione...
Parmenion corse alla porta. Fuori il fabbro e i suoi uomini stavano martellando
sui chiodi e le porte del cortile erano chiuse.

Parmenion ascoltò il discorso di Calepios, che gli parve pomposo e privo di


credibilità, ma non disse nulla perché la sua mente era concentrata sulle parole di
Tamis. Era stata reale... oppure soltanto un’illusione generata dal dolore? Non
aveva modo di saperlo. Complimentatosi con lo statista per il discorso, lasciò
l’edificio e si avviò sotto l’intensa luce del sole verso la casa di Alexandros. Questi
era un poeta e un attore, e secondo Calepios non eccelleva in nessuna delle due
professioni ma si era fatto un nome presso la nobiltà per la sua abilità
nell’organizzare orge squisite. La sua casa era vicina all’Homoloides, la Grande
Porta Settentrionale, e dominava le colline che portavano verso la Tessaglia.
Trovata la casa, Parmenion sedette su un muro a circa sessanta passi di distanza
dalle porte anteriori, una posizione da cui poteva vedere quattro guardie in corazza
ed elmo, armate di lancia, e poteva sentire la musica e le risa che provenivano
dall’interno. Non si vedeva però ancora traccia di Pelopida... appoggiandosi al
fresco muro di pietra, Parmenion passò ancora una volta in esame i propri piani.
Non c’è altro che tu possa fare, si disse. Ora non dipende più da te.
Quello era però un consiglio che non poteva seguire. Negli anni successivi alla
perdita di Derae la sua mente era stata pervasa da pensieri di vendetta contro di
Spartani, e adesso il giorno era prossimo e l’inizio della sua vendetta imminente.
Ma dov’era Pelopida?
Se non fossero stati uccisi, i consiglieri sarebbero fuggiti presso gli Spartani e
anche se la Cadmea fosse stata ripresa Agisaleus o Cleombrotus avrebbe guidato
un esercito per conquistarla di nuovo. In silenzio, Parmenion imprecò contro lo
stupido e arrogante guerriero tebano.
Il tempo trascorse lentamente, mentre le guardie continuavano a passeggiare
fuori delle porte e dall’interno giungevano risa sempre più rauche. Arrivarono poi
sette sacerdotesse di Afrodite, avvolte in chitoni colorati e con il volto coperto da
fitti veli sotto i pettini dorati e adorni di gemme, e le guardie si trassero di lato per
lasciarle passare. Parmenion chiuse gli occhi per reagire al dolore all’interno della
testa: il piano era già abbastanza complesso senza dover fare affidamento su
uomini come Pelopida.
Un vento freddo gli sfiorò il volto, portandogli un momentaneo sollievo dal
dolore, poi si sollevò a sedere più eretto, consapevole di un cambiamento, di una
differenza. Le guardie passeggiavano ancora e tutto sembrava come prima... ma
dopo qualche istante si rese conto che dall’interno della casa non giungeva più
nessun suono, né di musica né di risa.
Allora l’orgia è cominciata, pensò.
Ma dov’era finito Pelopida, in nome dell’Ade?
Trascorse un’ora. Presto sarebbe giunto il momento in cui Calepios avrebbe
dovuto pronunciare il suo discorso per infiammare la folla e incitarla a marciare
sulla Cadmea. Borbottando un’ultima imprecazione contro i Tebani inaffidabili,
Parmenion si alzò in piedi e accennò ad iniziare il lungo cammino fino all’agorà,
ma un rumore alle sue spalle lo indusse a voltarsi: le porte della casa di Alexandros
si erano aperte e le sacerdotesse stavano emergendo alla luce del sole. Le donne
cominciarono a camminare verso di lui, ma Parmenion non le degnò di un’occhiata
e continuò per la sua strada; non appena svoltò in un vicolo sentì però dietro di sé
un rumore di piedi in corsa e una mano gli cadde sulla spalla.
– Lasciami in pace! – scattò.
– Neppure una parola di saluto? – disse una voce maschile.
Parmenion fissò con sconcerto l’alta sacerdotessa velata, che tirò via il velo e
gli rivolse un sogghigno: il volto che vide era glabro e avvenente, le labbra tinte di
rosso, gli occhi dipinti.
– Lasciami in pace, non voglio nulla da te – ripeté, sollevando una mano per
respingere da sé l’uomo, ma dita possenti gli serrarono il braccio in una morsa di
ferro.
– Non mi riconosci? Sono io, Pelopida! – ridacchiò il guerriero, servendosi del
velo per liberarsi della pittura che gli chiazzava le labbra e gli occhi. – Tu non sei il
solo stratega, amico mio.
Parmenion lasciò scorrere lo sguardo sul resto del gruppo che si stava liberando
delle vesti femminili: ognuno degli uomini era armato di una daga nascosta e
soltanto ora lui si accorse del sangue che macchiava gli indumenti dai colori vivaci.
– Lo avete fatto! – esclamò.
– Sono tutti morti – rispose Pelopida, – e così anche il poeta Alexandros... il
che non è una perdita per nessuno, se vuoi il mio parere.
Lasciato il travestimento nel vicolo il gruppo raggiunse di corsa l’agorà, dove si
stava già raccogliendo una grande folla. Pelopida e i suoi compagni si sparsero fra
la gente, lasciando Parmenion ai piedi dei gradini che portavano al grande Tempio
di Poseidone. Quando infine Calepios sbucò dall’interno del tempio per scendere
lentamente i gradini la folla che contava ormai molte migliaia di persone ruggì il
suo nome e lui parve genuinamente sorpreso di quella ovazione. L’oratore sollevò
quindi una mano per chiedere silenzio e Parmenion si rese conto di temere il
momento in cui avrebbe cominciato a parlare e l’effetto che le sue parole pompose
avrebbero avuto sulla folla eccitata. Lo statista fissò i presenti per parecchi istanti,
poi esordì con voce tonante.
– È passato molto tempo dall’ultima volta che vi ho parlato, amici, ma ho
sempre ritenuto che se non ha nulla di valido da dire un uomo debba restare in
silenzio! I nostri amici e alleati, gli Spartani, sono stati invitati qui tre anni fa dai
consiglieri e dagli efori di Tebe. Io mi sono opposto a questa decisione! Mi sono
opposto allora e mi oppongo anche adesso!
Dai presenti si levò un intenso applauso, ma Calepios chiese il silenzio con un
cenno della mano.
– ‘Perché gli Spartani non dovrebbero occupare la Cadmea?’ hanno chiesto i
consiglieri. ‘Non sono forse nostri amici? Non sono i capi della Grecia? Che male
c’è ad invitare degli ospiti all’interno della città?’ Che male? – tuonò. – Che male?
Un eroe tebano, lodato dallo stesso Agisaleus, langue ora in una cella... con il
corpo torturato e la carne sferzata. E perché? Perché ama Tebe. Sono queste le
azioni di un amico? Sono queste? – gridò.
– No! – ruggì la folla.
Ai piedi dei gradini, Parmenion stentava a credere ai propri orecchi. La
pomposità era svanita senza lasciare traccia e anche se lui aveva già sentito quelle
parole adesso gli sembravano fresche e vibranti. In quel momento scoprì la magia
di un grande oratore: il tempismo e il modo di pronunciare un discorso non erano
sufficienti, in Calepios c’erano anche un carisma e un potere che facevano sì che i
suoi occhi verdi vedessero singolarmente ogni uomo fra la folla e che la sua voce
toccasse ogni cuore.
– Io andrò alla Cadmea – riprese Calepios. – Andrò lassù e dirò agli Spartani:
‘Liberate i nostri amici... e lasciate la città, perché non siete benvenuti qui’. E
anche se mi trascineranno in una prigione, anche se mi sferzeranno con fruste di
fuoco, io continuerò ad oppormi a loro con il potere della mia anima e con il
coraggio di un cuore tebano.
– Uccidiamo gli Spartani! – gridò una voce fra la folla.
– Ucciderli? – replicò Calepios. – Sì, potremmo farlo, perché siamo migliaia e
loro sono pochi, ma non si uccidono gli ospiti sgraditi: li si ringrazia di essere
venuti e li si invita ad andare via. Io intendo salire adesso alla cittadella. Dovrò
farlo da solo?
La risposta giunse assordante, levandosi in una sola parola dalla folla con il
fragore di un tuono.
– No!
Calepios scese i gradini e la folla si aprì davanti a lui, snodandosi poi alle sue
spalle quando si avviò sul lungo sentiero che portava alla Cadmea.

Dal suo nascondiglio fra i massi a circa trenta passi dalle mura della cittadella
Norac attese che gli Spartani chiudessero le porte, asciugandosi sulla tunica le
mani sudate. Intorno a lui, gli altri aspettavano pieni di nervosismo.
– Supponi che aprano le porte prima che i chiodi siano passati dall’altra parte?
– chiese un uomo alla sua sinistra.
– Tieni questo pensiero in mente quando maneggerai il martello – consigliò il
fabbro, – e ricorda anche che in questo momento Epaminonda è nella cittadella e
sta subendo la tortura. E lui ha nella testa non soltanto il mio nome ma anche il tuo.
– Mi pare di vedere la folla – sussurrò un altro uomo, e Norac si arrischiò a
dare un’occhiata da sopra il masso che lo nascondeva.
– Sono loro – convenne. – Ora facciamo la nostra parte.
Il gruppo spiccò la corsa dal nascondiglio verso le porte. Una sentinella sui
bastioni li vide e lanciò un grido, ma prima che potesse scoccare una freccia gli
uomini furono al riparo della sporgenza della torre sovrastante le porte.
– Qui – ordinò Norac, accostando al battente di sinistra l’asta di lancia con il
segno fatto da Parmenion, poi fissò anche il secondo punto d’impatto e si rivolse
agli uomini con i martelli. – Adesso! – gridò, vibrando il primo colpo.
Il clangore del ferro contro il ferro destò un coro di grida da oltre le porte.
– Cosa succede, in nome dell’Ade? – tuonò qualcuno.
– C’è una folla che si sta radunando, signore – rispose un soldato dai bastioni.
– Formazione su cinque file! – gridò l’ufficiale. – Preparatevi ad attaccare e
aprite le porte.
Oltre le mura, Norac sentì un rumore di piedi in corsa mentre i soldati spartani
si affrettavano a formare il quadrato da combattimento.
Il martello del fabbro calò su un chiodo, trapassando la porta e la sbarra
dall’altro lato, poi Norac corse alla propria sinistra e spinse di lato gli altri uomini
con i martelli, il cui chiodo era ancora conficcato per metà. Indietreggiando di un
passo, colpì con tutte le sue forze e la testa del chiodo scomparve nello stagionato
legno di quercia.
– La sbarra non si muove, signore – gridò un soldato spartano dall’interno, e
Norac sorrise nel sentirli grugnire di fatica nel tentativo di sollevare la trave
inchiodata.
Più in basso, la folla stava avanzando verso la cittadella...

Calepios venne avanti di dieci passi e alzò un braccio per far arrestare la massa
di gente alle sue spalle. Sulle mura, un arciere spartano si protese in fuori e scagliò
una freccia che trapassò la spalla di un uomo. La folla indietreggiò.
La voce di Calepios si levò quindi tonante sopra il ruggire della gente infuriata.
– È così che gli amici trattano gli amici? Siamo forse armati? Abbiamo
minacciato violenza?
Il ferito venne portato in città e dalla Cadmea non giunsero altre frecce.
– Dov’è il vostro generale? – gridò Calepios. – Chiamatelo qui perché risponda
di questa atrocità.
Uno Spartano con l’elmo di ferro si affacciò ai bastioni.
– Io sono Arimanes – rispose. – Il soldato che ha tirato la freccia sarà punito per
questo, ma adesso vi chiedo di disperdervi, altrimenti sarò costretto a mandare i
miei uomini contro di voi.
– Non manderai fuori nessuno – gridò di rimando Calepios, – tranne i Tebani
che tenete rinchiusi nelle vostre celle.
– Chi sei tu per darmi ordini? – controbatté Arimanes.
– Sono la voce di Tebe! – replicò Calepios, e un applauso della folla accolse le
sue parole.
Intanto Mothac si era portato accanto a Parmenion.
– Le porte occidentali sono bloccate – lo informò con un sorriso. – Non hanno
modo di uscire.
In quel momento la folla si aprì e un gruppo di soldati tebani marciò fino in
vista delle mura: in mezzo a loro c’erano otto Spartani ammaccati e sanguinanti,
con le mani legate.
– Riprendetevi i vostri soldati – esclamò Calepios, venendo avanti, – perché se
restano qui fuori temo per la loro vita.
– Aprite le porte! – gridò il comandante Spartano e la folla scoppiò in una
fragorosa risata.
– Penso che dovresti calare delle corde – consigliò Calepios.
Oltre le mura, si sentiva ancora il rumore degli uomini che stavano lottando per
smuovere la sbarra e fra la folla furono in molti a farsi beffe degli invisibili
Spartani.
– Per gli dèi, furfanti, pagherete per questo! – tuonò Arimanes.
– Penso che gli dèi siano con noi – replicò Calepios. – A proposito, mi è dato di
capire che nella guarnigione sia scoppiata una malattia. Vi possiamo offrire i
servizi di un medico?
Arimanes replicò con un’imprecazione oscena e scomparve dalla vista. Qualche
minuto più tardi alcune corde furono calate dalle mura e i soldati spartani catturati
si arrampicarono fino ai bastioni. La folla rimase sotto le mura fino al crepuscolo,
poi i più tornarono alle loro case. Pelopida aveva però organizzato un nucleo di
ribelli che rimanessero per tutta la notte davanti alle porte e Calepios si fece
piantare là una tenda, dicendo alla folla che avrebbe atteso fino a quando gli
Spartani avessero accolto il suo invito ad andarsene.
Parmenion, Mothac e Pelopida si unirono a lui.
– Finora è andato tutto come hai detto tu, stratega – affermò Calepios, rivolto a
Parmenion, – ma adesso cosa si fa?
– Domani offrirai di mandare un conciliatore all’interno della Cadmea, ma ne
discuteremo stanotte... se tornerò.
– Non c’è bisogno che tu faccia questo – osservò Mothac. – Il rischio è troppo
grande.
– Gli Spartani non amano consegnare i loro prigionieri – spiegò Parmenion, – e
potrebbero decidere di uccidere Epaminonda... un rischio che non posso correre.
Nel frattempo, amici miei, portate altra legna e ordinate a Norac di sigillare le porte
per bene. Potrebbero segare quelle sbarre in meno di un’ora.
– Credi davvero di poter salvare Epaminonda? Come? – domandò Pelopida.
– A Sparta avevo un altro nome: mi chiamavano Savra, e stanotte vedremo se la
lucertola sa ancora scalare i muri.

Vestito di nero con una camicia a manica lunga e scuri calzoni di stile persiano,
con una corda arrotolata intorno ad una spalla, Parmenion attese che una nube
coprisse la luna prima di correre in silenzio a ridosso delle mura. Anneritosi la
faccia con la terra, si spostò lungo il muro verso est, fino a raggiungere un punto in
cui il terreno scendeva a strapiombo e il muro torreggiava su un precipizio di oltre
sessanta metri.
Il suo ragionamento consisteva nel fatto che in quel punto le mura non
potevano essere assalite da un contingente di assedianti e quindi era improbabile
che la sorveglianza fosse molto stretta. Protendendo le braccia, trovò le prime
fessure fra i blocchi di pietra grigia e vi agganciò le dita.
Sei ancora una lucertola? si chiese.
Le fessure fra i blocchi erano minuscole e poco profonde, ma Parmenion
continuò a salire trovando appigli per i piedi nudi e seguendo con le dita i contorni
dei blocchi fino ad incontrare gli angoli in cui la pietra antica si era logorata in
modo da formare rientranze o sporgenze.
Un centimetro dopo l’altro scalò la parete, con le dita sempre più stanche e i
piedi indolenziti. Soltanto una volta lanciò un’occhiata verso il basso: il terreno
sottostante tremolava alla luce della luna e mentre lo guardava lo stomaco gli si
contrasse. A Sparta non c’erano mai stati edifici tanto alti, e lui si rese conto con un
impeto di panico di aver paura dell’altezza. Spostato lo sguardo sulla parete di
pietra, trasse parecchi profondi respiri e guardò verso l’alto... il parapetto era
ancora una decina di metri più in su rispetto a lui.
Poi un piede gli scivolò.
Come spilli d’acciaio le sue dita si piantarono nella pietra e lui cercò di trovare
un appiglio per i piedi.
Calmati, gli ingiunse la mente, ma il cuore gli martellava in petto mentre
restava sospeso sopra quell’abisso spaventoso. Lasciando che il corpo gli si
rilassasse, premette lentamente il piede destro contro le pietre, cercando con cura
una crepa. Ormai le braccia cominciavano a dolergli, ma era di nuovo calmo e di lì
a poco riuscì a fare leva con i piedi, riprendendo ad avanzare con cautela fino a
venirsi a trovare appena sotto il parapetto.
Chiudendo gli occhi, ascoltò i suoni circostanti, il respiro di un soldato o il
passo leggero di una sentinella, ma non udì nulla. Agganciata la mano intorno al
parapetto si issò in fretta sui bastioni e si accoccolò nell’ombra. Venti passi alla sua
sinistra un soldato spartano era appoggiato alla parete e stava fissando la gente
accampata in basso, mentre sulla destra c’era una scala che portava giù nel cortile.
Furtivo, attraversò i bastioni e scivolò giù per la scala, tenendosi nell’ombra più
fitta.
La Cadmea era un alveare di edifici. Anche se adesso era una cittadella, in
origine era stata l’antica città di Cadmos, e l’attuale Tebe era cresciuta intorno alla
sua base. Molti fra gli edifici più antichi erano in rovina, e Parmenion rabbrividì
nel correre per i vicoli deserti, avvertendo lo spirito del passato che si librava nelle
case vuote e nelle finestre buie.
Un rumore di piedi in marcia lo indusse a nascondersi dentro una soglia: un
topo gli passò sopra un piede nudo e poté sentire altri roditori che si muovevano
poco lontano, ma si costrinse a rimanere immobile e attese che i sei soldati
avessero superato l’antico edificio.
– È debole quanto il piscio di un cane – borbottò uno dei soldati. – Dovremmo
segare quella trave e schiacciare i bastardi là fuori.
– Ma non è il suo modo di fare – commentò un altro. – Probabilmente sarà
nascosto sotto il letto.
Poi uno degli uomini gemette e s’inginocchiò accanto alla strada per vomitare,
e altri due lo aiutarono a rialzarsi in piedi.
– Va’ meglio, Andros?
– È la quarta volta, stanotte. Il mio stomaco non può più reggere per molto.
I soldati si allontanarono e Parmenion proseguì verso ovest, cercando la
residenza del governatore: secondo Pelopida, infatti, le antiche segrete erano sotto
quell’edificio e Arimanes aveva le sue stanze al secondo piano, mentre il primo
veniva usato come sala mensa per gli ufficiali.
All’ombra dell’edificio di fronte, Parmenion indugiò per qualche momento per
vedere se ci fossero delle sentinelle, ma non ce n’erano. In fretta, attraversò il tratto
di terreno aperto e s’infilò in una soglia, venendosi a trovare in un corridoio
rischiarato da torce. Un rumore di voci giungeva dalla sala mensa.
– La carne ben cotta è la cura ideale per un ventre in disordine – sentì dire ad
un uomo.
Non questa volta, pensò cupo. Di fronte alla sala mensa c’era un’altra porta con
una scala che conduceva verso il basso. La raggiunse di corsa e cominciò a
scendere verso le segrete: sulle scale non c’erano torce, ma in basso poteva vedere
il tremolare di una luce.
Avanzando con cautela, raggiunse il fondo della scala e si arrischiò a lanciare
un’occhiata nel corridoio in penombra al di là di essa: sulla destra c’era una fila di
celle mentre a sinistra due guardie sedevano ad un tavolo intente a giocare a dadi.
Parmenion imprecò, perché avrebbe potuto zittire una guardia ma non ne poteva
affrontare due, disarmato com’era.
Pensa! ingiunse a se stesso. Sii uno stratega!
Rimanendo in ascolto dei due uomini intenti a giocare, attese che uno dei due
usasse il nome del compagno, sentendosi al tempo stesso isolato e in pericolo,
intrappolato com’era su quella scala. Se qualcuno fosse arrivato dall’alto per lui
sarebbe stata la fine.
I due continuarono a giocare.
– Sei un porco fortunato, Mentar! – esclamò infine uno di essi.
Parmenion risalì la scala a spirale e si accoccolò nell’oscurità.
– Mentar? – chiamò quindi. – Vieni su!
L’uomo borbottò un’imprecazione, poi Parmenion sentì la sua sedia che
strisciava sul pavimento di pietra; raggiunte le scale, Mentar accennò a salire i
gradini di corsa a due per volta, ma Parmenion si sollevò alle sue spalle e lo colpì
al mento con un pugno, poi lo afferrò per i capelli e gli sbatté la testa contro il
muro, sentendolo accasciarsi fra le sue braccia.
Adagiato il soldato svenuto sui gradini, tornò quindi nel corridoio delle celle. Il
secondo uomo sedeva con le spalle alla scala e stava fischiettando fra sé nel
rotolare i dadi fra le dita. Arrivandogli alle spalle gli calò la mano sul collo e
l’uomo crollò in avanti, con la testa che rimbalzava contro il piano del tavolo.
Le porte delle celle erano di spesso legno di quercia e sprangate nella maniera
più semplice, con una sbarra di legno incastrata di traverso. Due sole porte erano
chiuse in quel modo, e nella prima c’era Polispercon: entrando nella cella, Parme-
nion lo trovò che dormiva con la faccia coperta di lividi e di sangue, e si accorse
che la cella puzzava di vomito e di escrementi. Il Tebano era di costituzione minuta
e Parmenion non ebbe difficoltà a sollevarlo e a trascinarlo nel corridoio.
– Basta – implorò l’uomo.
– Rincuorati, sono qui per salvarti – rispose Parmenion.
– Salvarmi? Abbiamo preso la Cadmea?
– Non ancora – replicò Parmenion, aprendo la seconda porta. Epaminonda era
sveglio ma in condizioni ancora peggiori di quelle di Polispercon... i suoi occhi
erano semplici fessure e il volto era talmente gonfio da essere quasi irriconoscibile.
Parmenion lo aiutò a raggiungere il corridoio, ma lì il Tebano si accasciò al
suolo, incapace di reggersi in piedi. Alla luce delle torce Parmenion si accorse che
aveva le gambe gonfie perché gli avevano percosso i polpacci con dei bastoni.
– Non siete in condizione di arrampicarvi – disse. – Dovrò nascondervi.
– Cercheranno dappertutto – borbottò Polispercon.
– Speriamo di no – scattò Parmenion.
Entro un’ora il giovane Spartano stava di nuovo correndo da solo lungo le
strade deserte. Salito sui bastioni, legò la corda ad un sedile di marmo e si accinse a
scavalcare il parapetto.
– Tu, laggiù! – gridò una sentinella. – Fermati!
Parmenion balzò oltre i bastioni e si fece scivolare lungo la fune con le mani
che bruciavano per l’attrito. Sopra di lui la sentinella stava colpendo la fune con la
sua spada e di lì a poco riuscì a tranciarla, facendone scivolare l’estremità nel
vuoto.
In basso, Parmenion si afferrò ad un appiglio, agganciando le dita in una crepa
proprio nel momento in cui la corda perdeva tensione. Con cautela, completò la
discesa e fece ritorno alla tenda di Calepios.
– Allora? – domandò l’oratore.
– Sono al sicuro – sussurrò Parmenion.

All’alba all’interno della cittadella Arimanes sedeva piegato in due con le mani
strette intorno al ventre. Ormai aveva perso il conto del numero di volte che aveva
vomitato durante la notte e nello stomaco non gli restava altro che bile gialla. Degli
oltre settecentoottanta uomini ai suoi ordini più di cinquecento erano in condizioni
tali da non potersi neppure muovere e gli altri andavano in giro camminando come
uomini feriti... grigi in faccia e con lo sguardo spento. Si rese conto che se i Tebani
avessero deciso di attaccare il suo contingente sarebbe stato sopraffatto in pochi
momenti.
Un aiutante bussò alla porta e Arimanes si alzò in piedi soffocando un gemito.
– Avanti – disse, e lo sforzo di parlare gli fece tremare lo stomaco.
Un giovane ufficiale pallido in volto quanto il suo superiore entrò nella stanza.
– Abbiamo cercato in tutta la Cadmea. I prigionieri devono essere fuggiti.
– È impossibile! – gridò Arimanes. – Epaminonda non poteva quasi
camminare, e tanto meno arrampicarsi. E poi hanno visto un solo uomo scendere le
mura.
– Non è rimasto più nessun posto dove cercare, signore – replicò l’ufficiale.
Arimanes si lasciò ricadere sul giaciglio, chiedendosi se gli dèi non lo avessero
maledetto. Era stata sua intenzione far giustiziare i prigionieri per dimostrare a
quella marmaglia che Sparta non si lasciava intimidire, ma adesso non aveva più
nessun prigioniero e comandava un contingente troppo debole per difendere le
mura.
– Signore – avvertì un secondo ufficiale, entrando nella stanza, – i Tebani
vogliono mandare un uomo per discutere della... situazione.
Arimanes tentò di pensare, ma riflettere in maniera logica era difficile quando
lo stomaco e il ventre erano in piena rivolta.
– Rispondi di sì – ordinò, poi raggiunse barcollando la latrina e si accoccolò
sulla conduttura scoperta.
Sentendosi un po’ meglio, tornò al giaciglio e si distese su un fianco con le
ginocchia raccolte. Non aveva voluto quell’incarico, perché detestava Tebe e la sua
depravazione, ma suo padre aveva insistito che era un onore comandare una
guarnigione spartana... dovunque fosse dislocata. Arimanes si passò una mano fra i
capelli biondi che cominciavano a diradarsi, pensando che avrebbe dato qualsiasi
cosa per un sorso di limpida acqua fresca. Che quei Tebani fossero tutti dannati ai
fuochi dell’Ade!
Alcuni minuti più tardi l’ufficiale fu di ritorno e introdusse nella stanza un
giovane alto con i capelli scuri e gli occhi azzurri; Arimanes riconobbe in lui il
corridore chiamato Leon il Macedone, che si riteneva fosse un mezzosangue
spartano.
– Siediti – sussurrò.
L’uomo venne avanti e gli porse una bottiglia di pietra.
– L’acqua è pulita – disse.
Arimanes accettò la bottiglia e bevve avidamente.
– Perché hanno scelto te? – chiese poi, restituendola.
– Sono per metà spartano di nascita, signore, come forse tu già sai – spiegò con
disinvoltura Parmenion, – però adesso vivo a Tebe. Forse hanno pensato di potersi
fidare di me.
– E possono fidarsi?
– Sembra un incarico facile, e non c’è bisogno di inganno. – replicò Parmenion,
scrollando le spalle.
– Quali sono i loro piani? Intendono attaccare?
– Non lo so, signore, ma hanno ucciso tutti i consiglieri favorevoli agli
Spartani.
– Cosa ti hanno ordinato di dire?
– Promettono un salvacondotto per te e per i tuoi uomini fino a limitare della
città. Là hanno preparato delle tende, con cibo fresco e un medico che possiede
l’antidoto al veleno che avete ingerito.
– Veleno? – sussurrò Arimanes. – Hai detto veleno?
– Sì. Si tratta di un complotto disgustoso... tipico dei Tebani – mentì
Parmenion. – È un veleno ad azione lenta ma uccide entro cinque giorni, e sospetto
sia per questo che finora non hanno attaccato.
– Pensi che ci si possa fidare di loro? Perché non dovrebbero ucciderci non
appena noi... noi... – Arimanes s’interruppe, non riuscendo a pronunciare la parola
arrendersi, e infine concluse: – Non appena saremo usciti di qui.
– Hanno sentito dire che Cleombrotus ha due reggimenti a nord di Corinto –
replicò Parmenion, avanzando leggermente e abbassando la voce. – Potrebbe
essere qui in tre giorni e ritengo che vi lasceranno andare piuttosto che rischiare
che lui marci sulla città.
Arimanes gemette e si piegò in avanti, con la testa che gli vorticava per il
dolore e la nausea che lo soffocava. Il messaggero raccolse una ciotola vuota e la
resse per lui mentre vomitava, poi Arimanes si asciugò la bocca con il dorso della
mano.
– Ci daranno l’antidoto?
– Credo che l’uomo chiamato Calepios sia degno di fiducia – garantì
Parmenion, – e in fin dei conti non ci sarà nulla di vergognoso nel lasciare la città.
Sparta era stata invitata a tenere una guarnigione qui, ma adesso la città ha
cambiato idea e spetta ai re e ai consiglieri trovare una soluzione: i soldati possono
soltanto obbedire agli ordini dei grandi, non creare la politica.
– È vero – convenne Arimanes.
– Cosa devo dire ai Tebani?
– Dì loro che acconsento. Ci vorrà del tempo per segare la sbarra delle porte,
ma poi farò marciare i miei uomini fuori della città.
– Purtroppo, signore, le porte sono fuori discussione. Nella loro eccitazione la
folla le ha bloccate con alcune travi, quindi Calepios suggerisce che vi caliate con
delle corde, venti per volta.
– Corde! – scattò Arimanes. – Vogliono che ce ne andiamo con delle corde?
– Questo dimostra quanto i Tebani vi temano – replicò Parmenion. – Sanno
infatti che anche nella vostra attuale condizione di debolezza un contingente
spartano li potrebbe schiacciare. Questa è una sorta di complimento.
– Che siano dannati ai fuochi dell’Ade! Comunque riferisci loro che accetto.
– Una scelta saggia, signore, e sono certo che non te ne pentirai.
Due ore più tardi l’ultimo degli Spartani aveva lasciato la Cadmea. Parmenion
attese che Norac e gli altri togliessero le travi e segassero la sbarra al di là delle
porte, poi i battenti si spalancarono e Pelopida corse nel cortile agitando i pugni
nell’aria.
– Sono sconfitti! – tuonò, e la folla applaudì, mentre il guerriero si girava verso
Parmenion e lo afferrava per le spalle. – Adesso dimmi dove hai nascosto i nostri
amici.
– Sono ancora nelle segrete.
– Ma hai detto di averli liberati.
– No, ho detto che erano al sicuro. Era inevitabile che gli Spartani perquisissero
la Cadmea, ma speravo che non avrebbero preso in considerazione un nascondiglio
tanto bizzarro, così mi sono limitato a spostarli in una cella all’estremità del corri-
doio. Prendi con te un dottore... perché Epaminonda è stato trattato in maniera
molto aspra.
Mentre Pelopida e una dozzina di uomini correvano verso la casa del
governatore. Mothac si avvicinò a Parmenion.
– Cosa succederà al comandante spartano? – chiese.
– Lo giustizieranno – rispose Parmenion, – poi marceranno su Tebe. Abbiamo
ancora molto da fare.
Quella notte, mentre il chiasso dei festeggiamenti pervadeva l’aria, Parmenion
aprì le porte della sua casa ed entrò barcollando nel cortile, crollando sulla soglia
dell’androne. Mothac lo trovò là nelle prime ore del mattino e si affrettò a portarlo
nella sua camera da letto.
Quella notte Parmenion si svegliò tre volte, e la terza vide incombere su di sé il
medico Horas, che gli praticò nel braccio un taglio con un piccolo coltello ricurvo.
Lo Spartano cercò di lottare per liberarsi, ma Mothac aiutò Horas a tenerlo fermo e
lui svenne ancora una volta.
I suoi sogni furono molti, ma uno continuò a perseguitarlo a più riprese. In esso
lui stava salendo una scala a chiocciola alla ricerca di Derae, e mentre lottava per
salire gli scalini alle sue spalle scomparivano, lasciando soltanto un abisso buio.
Con ostinazione continuò a salire verso una stanza nella quale sapeva che Derae
era in attesa, ma d’un tratto si arrestò perché l’abisso stava crescendo, e si rese
conto con orrore che lo stava attirando dentro di sé e che se avesse aperto la porta
della stanza, essa sarebbe stata a sua volta inghiottita. Non sapendo cosa fare per
salvare il suo amore, mosse un passo fuori della scala e cadde, precipitando
nell’oscurità sottostante.

Seduto accanto al letto, Mothac stava fissando il volto pallido del suo padrone
privo di conoscenza. Contrariamente ai consigli del medico, il Tebano aveva aperto
le imposte per poter vedere con maggiore chiarezza i lineamenti di Parmenion, che
appariva grigio in volto sotto l’abbronzatura, con gli occhi infossati e le guance
scavate; quando Mothac gli posò una mano sul petto, il battito del cuore risultò
incerto e debole.
Durante i primi due giorni che Parmenion aveva trascorso immerso in quella
specie di sonno, Mothac non si era preoccupato troppo e ogni giorno aveva aiutato
il medico Horas a praticargli un salasso, fidando nella spiegazione del dottore
secondo il quale la riconquista della Cadmea aveva prosciugato le energie del
giovane, che stava ora soltanto riposando.
Ma adesso che erano ormai nel quarto giorno, Mothac non credeva più a quella
spiegazione.
Il volto di Parmenion stava dimagrendo a vista d’occhio e non c’era nessun
segno di ritorno alla coscienza. Riempito un boccale di acqua fresca, il Tebano
sollevò la testa di Parmenion e gli accosto il recipiente alle labbra, ma l’acqua
gocciolò lungo i lati della bocca dell’uomo privo di conoscenza e Mothac rinunciò
al suo sforzo.
Sentendo scricchiolare il cancello del giardino si avvicinò alla porta. Horas
entrò in casa, salì le scale che portavano alla camera da letto e aprì il suo rotolo di
coltelli. Mothac fissò con durezza il medico alto e magro: i chirurghi non gli piace-
vano, ma invidiava loro il sapere che possedevano e non avrebbe mai creduto di
poter essere capace di sfidare un uomo tanto abile e intelligente... ma oggi compre-
se che non ci sarebbero stati altri salassi. Con decisione, si avvicinò al medico.
– Metti via quel coltello – disse.
– Cosa significa? – chiese Horas. – Deve essere salassato, altrimenti morirà.
– Sta morendo comunque – replicò Mothac. – Lascialo in pace.
– Sciocchezze – ritorse Horas, sollevando una mano scheletrica e cercando di
spingere Mothac di lato, ma il servitore oppose resistenza e arrossì in volto.
– Avevo una moglie, dottore, e anche lei è stata sottoposta a salassi quotidiani...
finché è morta. Non permetterò che Parmenion la segua. Tu hai detto che stava
riposando per recuperare le forze, ma ti sbagliavi. Ora puoi andartene – dichiarò,
abbassando lo sguardo sulla mano del medico, che era ancora posata contro il suo
petto.
Horas si affrettò a ritrarla e a riporre il coltello, tornando ad arrotolare il tutto.
– Stai interferendo in questioni che non capisci – disse. – Andrò dai giudici e ti
farò rimuovere a forza da questa stanza.
Mothac lo afferrò per la tunica azzurra, tirandolo vicino a sé: ogni traccia di
colore era scomparsa dal suo volto e gli occhi verdi ardevano come il fuoco... tanto
che Horas sbiancò nell’incontrare il loro sguardo.
– Ciò che farai, dottore, sarà andartene di qui, e se intraprenderai qualsiasi
azione che possa provocare la morte di Parmenion io ti darò la caccia e ti strapperò
il cuore. Mi hai capito?
– Sei pazzo – sussurrò Horas.
– No, non lo sono. Sono soltanto un uomo che mantiene le sue promesse. Ed
ora vattene! – esclamò Mothac, assestando al dottore uno spintone verso la porta.
Dopo che l’uomo se ne fu andato, Mothac sedette sulla sedia accanto al letto,
senza avere la minima idea di cosa fare e sentendo il panico che minacciava di
insorgere dentro di lui.
Sorpreso dalla propria reazione, abbassò lo sguardo sul volto di Parmenion,
consapevole per la prima volta di quanto si fosse affezionato all’uomo che serviva.
La cosa gli parve strana, perché sotto molto aspetti Parmenion era una persona ri-
servata, tanto che i suoi sogni e i suoi pensieri restavano un mistero per lui;
raramente parlavano di questioni profonde, non scherzavano mai e non discutevano
mai di desideri segreti e personali. Appoggiandosi all’indietro, Mothac lasciò
vagare lo sguardo fuori della finestra e ricordò la prima notte in cui si era recato
alla casa di Epaminonda, la morte di Elea che era come un coltello rovente piantato
nel suo cuore. Parmenion era rimasto seduto accanto a lui in silenzio e gli aveva
fatto avvertire il suo cameratismo e il suo interessamento senza bisogno di parole.
I tre anni che aveva trascorso al suo servizio erano stati con suo stupore anni
sereni. Il pensiero di Elea rimaneva dentro di lui, ma le schegge pungenti di quel
dolore si erano smussate, permettendogli almeno di ricordare i momenti di gioia.
Lo scricchiolio del cancello lo distrasse dai suoi pensieri e lui si alzò in piedi,
estraendo la daga: se il dottore era tornato portando con sé gli ufficiali della
guardia avrebbe visto cosa voleva dire quando lui faceva una promessa!
La porta si aprì ed entrò Epaminonda. Il volto del Tebano era ancora gonfio, gli
occhi scuri e illividiti, e lui si avvicinò lentamente al letto, abbassando lo sguardo
sull’uomo addormentato.
– Non ci sono miglioramenti? – chiese.
– No – rispose Mothac, riponendo la daga. – Ho impedito al dottore di
salassarlo e lui ha minacciato di rivolgersi alla giustizia.
– Calepios mi ha detto che Parmenion soffriva di terribili dolori alla testa –
replicò Epaminonda, adagiando su una sedia il proprio corpo torturato.
– Gli succedeva qualche volta, soprattutto dopo le corse – confermò Mothac. –
Il dolore era intenso e a volte lui non riusciva più a vedere. Appena un mese fa mi
ha detto che gli attacchi si stavano facendo più frequenti.
– Ho ricevuto una lettera da un amico di Sparta, di nome Senofonte – annuì
Epaminonda. – Lui è stato il mentore di Parmenion per parecchi anni ed ha
assistito al primo attacco. All’epoca il medico ha supposto che ci potesse essere
una crescita maligna nel cranio di Parmenion. Spero che non muoia perché mi
piacerebbe ringraziarlo. Non avrei potuto sopportare ulteriori... maltrattamenti.
– Non morirà – dichiarò Mothac.
Per un po’ Epaminonda non disse nulla, poi sollevò lo sguardo sul servitore.
– Mi sbagliavo sul tuo conto, amico mio – ammise.
– Non ha importanza. Conosci qualcuno che potrebbe aiutarlo?
– C’è un guaritore, un erborista di nome Argonas – rispose Epaminonda,
alzandosi. – Lo scorso anno la Corporazione dei Medici ha cercato di farlo
espellere dalla città, dicendo che era un imbroglione, ma un mio amico giura che
Argonas gli ha salvato la vita e so di un uomo cieco dall’occhio destro che adesso
può vedere di nuovo. Lo manderò qui da te stanotte.
– Ho sentito parlare di lui – replicò Mothac. – Le sue parcelle sono enormi, è
grasso e ricco e tratta i suoi servi peggio che se fossero schiavi.
– Non ho detto che è una compagnia piacevole, ma cerchiamo di essere onesti,
Mothac. Parmenion sta morendo... non credo che potrebbe durare per un’altra
notte. Non ti preoccupare però con il pensiero della parcella, perché penserò io a
saldare il conto. Gli devo molto... tutta Tebe gli deve molto, più di quanto sia
possibile ripagare.
– Già – commentò Mothac, con una secca risata priva di umorismo. – Ho
notato con quale frequenza Calepios ed Pelopida sono venuti a vedere come stava.
– Calepios ha obbedito alle ultime istruzioni di Parmenion – spiegò
Epaminonda, – ed è andato ad Atene per chiedere aiuto contro la vendetta spartana.
Pelopida invece sta addestrando gli opliti nel tentativo di preparare un esercito nel
caso che Cleombrotus ci attacchi. Resta qui con Parmenion. Ti manderò Argonas.
Un’altra cosa, Mothac... mangia qualcosa e concediti un po’ di riposo. Non aiuterai
il tuo padrone ammalandoti a tua volta.
– Sono forte quanto un bue ma hai ragione, cercherò di dormire un poco.
Argonas arrivò alla piccola casa al crepuscolo. Mothac si era addormentato in
cortile e al risveglio trovò un’enorme figura vestita di rosso e avvolta in un
mantello giallo che incombeva su di lui.
– Allora, amico, dov’è il morente? – domandò Argonas, con una voce profonda
che sembrava echeggiare da dentro la vastità del suo petto.
– Nella camera da letto al piano di sopra – rispose Mothac, alzandosi. –
Seguimi.
– Innanzitutto ho bisogno di mangiare qualcosa – dichiarò il medico. – Portami
un po’ di pane e formaggio perché sto morendo di fame.
Si sedette quindi al tavolo del cortile e per un momento Mothac indugiò a
fissarlo, poi si girò e raggiunse a grandi passi la cucina. Per un po’ rimase poi
seduto a guardare mentre Argonas divorava una grossa pagnotta, un assortimento
di formaggi e di carne secca in quantità tale che una famiglia di cinque persone
avrebbe potuto nutrirsi con essa per una giornata intera. Il cibo scomparve senza
che lui sembrasse neppure masticarlo e alla fine il dottore ruttò e si appoggiò
all’indietro, liberandosi la barba lucida dalle briciole.
– E adesso un po’ di vino – disse.
Mothac gliene versò un boccale e lo spinse attraverso il tavolo; mentre Argonas
protendeva la mano grassoccia per chiuderla intorno al recipiente, Mothac notò che
ogni dito sfoggiava un anello d’oro in cui era incastonata una gemma.
Il dottore trangugiò il vino in un solo sorso e si alzò pesantemente in piedi.
– Adesso sono pronto – disse.
Fattosi guidare da Mothac nella camera da letto, indugiò ad osservare
Parmenion alla luce della lanterna mentre Mothac sostava sulla porta e seguiva la
scena con occhio attento... se non altro Argonas non aveva portato coltelli con sé, e
questo era un sollievo. Il medico si chinò quindi in avanti e protese la mano a
sfiorare la fronte di Parmenion: non appena le sue dita ne toccarono la pelle
ardente, lui si ritrasse con un grido.
– Cosa ti succede? – chiese Mothac.
Inizialmente Argonas non replicò e socchiuse gli occhi scuri nell’abbassare lo
sguardo sul morente.
– Se vivrà cambierà il mondo – sussurrò. – Vedo le rovine di un impero e il
crollo di intere nazioni. Sarebbe meglio lasciarlo al suo destino.
– Cosa stai dicendo? Parla chiaro, non riesco a sentirti! – esclamò Mothac,
venendo a fermarsi accanto al medico.
– Non ho detto nulla. Ora taci mentre lo esamino.
Per parecchi minuti Argonas rimase quindi in silenzio, spostando con delicatez-
za le mani sulla testa di Parmenion, poi lasciò la stanza e Mothac lo seguì nel
cortile.
– Ha un cancro – affermò il medico, – proprio al centro del cervello.
– Come puoi dirlo se è dentro il cranio?
– È questa la mia abilità – replicò Argonas, sedendo al tavolo e tornando a
riempire il boccale. – Ho viaggiato dentro la sua testa ed ho trovato quella crescita
maligna.
– Allora morirà? – domandò Mothac.
– Non è assolutamente certo... anche se appare probabile. Ho con me un’erba
che impedisce al cancro di crescere: è estratta dalla pianta del silphium e d’ora in
poi lui ne dovrà prendere un infuso ogni giorno della sua vita, perché il tumore non
scomparirà. Però c’è anche un altro problema... che io non posso risolvere.
– Quale? – incalzò Mothac, allorché Argonas scivolò nel silenzio.
– Quando si... viaggia... nella testa di un uomo, si vedono molte cose, si
provano le sue speranze, i suoi sogni e i suoi tormenti. Lui aveva un amore... una
donna chiamata Derae... ma lei gli è stata tolta. Parmenion si attribuisce la colpa di
quella perdita ed è vuoto dentro perché vive aggrappandosi soltanto ai pensieri di
vendetta. Questo genere di speranza può sostentare un uomo per qualche tempo,
ma la vendetta è figlia dell’oscurità e nell’oscurità non c’è sostentamento.
– Non puoi esprimerti in parole più semplici, medico? – chiese Mothac. –
Dimmi soltanto cosa posso fare.
– Non credo che tu possa fare nulla. Lui ha bisogno di Derae... e non può
averla. Tuttavia, nella remota ipotesi che questo possa rivelarsi utile e che io possa
quindi guadagnare la tariffa pagata da Epaminonda, preparerò l’infuso. Tu dovrai
guardare con attenzione, perché troppo silphium può uccidere e se ne userai troppo
poco il cancro si diffonderà ugualmente. Forse l’infuso lo aiuterà... ma senza Derae
non credo che possa sopravvivere.
– Se sei il mistico che affermi di essere – obiettò Mothac, – come mai non puoi
parlare con lui e riportarlo indietro?
– Ci ho provato – mormorò Argonas, scuotendo tristemente il capo, – ma è
scivolato in un mondo che si è creato da solo, un luogo di oscurità e di terrore nel
quale lotta contro demoni e creature orrende. Non ha potuto sentirmi... o non ha
voluto.
– Quelle creature di cui parli... potrebbero ucciderlo?
– Penso di sì. Vedi, amico mio, sono demoni che lui stesso ha creato: sta
combattendo contro il lato oscuro della sua anima.

L’abisso stava vorticando intorno a lui mentre trapassava con la Spada di


Leonida la gola di un pipistrello coperto di scaglie, grande quanto un uomo e con
ali di cuoio nero. La creatura emise uno spruzzo di sangue che intrise Parmenion
come l’olio di una lanterna, rendendo la spada difficile da stringere, e lui
indietreggiò maggiormente su per la bassa collina. Le creature gli volavano
intorno, tenendosi lontane dalla spada scintillante, ma l’abisso gli lambiva i piedi,
inghiottendo la terra, e nel guardare in basso scorse fuochi distanti che ardevano
nella fossa sottostante, e gli parve di sentire le urla delle anime tormentate.
Era mortalmente stanco, con la testa pervasa da un dolore lancinante.
Alle sue spalle ci fu un battito di ali e lui si voltò appena in tempo per piantare
la spada in un ventre peloso; la creatura gli era però ormai addosso e con i denti
seghettati gli lacerò la carne della spalla. Parmenion si gettò all’indietro,
liberando la spada e troncando di netto la testa del demone, ma intanto l’oscurità
stava inghiottendo la terra intorno alle sue gambe e si trovò a scivolare verso
l’orlo dell’abisso. Rotolando sullo stomaco riuscì ad allontanarsi e corse fino alla
sommità della collina.
Tutt’intorno, simile ad un mare infuriato, l’abisso lo chiamava chiudendosi
inesorabilmente su di lui.
In alto i pipistrelli giravano in cerchio sulla sua testa. Poi sentì la voce.
– Ti amo – disse, e la luce scese in un fiotto dal cielo scuro, incurvandosi in un
ponte fino al paradiso.

* * *
Fermo fuori della recinzione del tempio, Mothac stava aspettando la donna,
sapendo che avrebbe dovuto attendere ancora per qualche tempo perché con lei
c’erano due fedeli. Nelle vicinanze c’era una fontana, e lui sedette ad osservare la
luce delle stelle che si rifletteva nella polla d’acqua sottostante.
Infine gli uomini se ne andarono e Mothac raggiunse l’ingresso del tempio,
svoltando a sinistra verso il corridoio dove le sacerdotesse affittavano le loro stanze
per poi bussare alla porta dell’ultima camera.
– Un momento – disse una voce stanca, poi la porta si aprì e la ragazza dai
capelli rossi esibì un sorriso luminoso chiaramente ripescato dai recessi della
memoria.
– Benvenuto – salutò. – Speravo proprio che un uomo vero venisse ad adorare
la dea.
– Non sono qui per adorarla – spiegò Mothac, oltrepassandola. – Sono venuto
per assoldarti.
– Ti contraddici – osservò lei, mentre il suo sorriso svaniva.
– Per nulla – replicò Mothac, sedendo sull’ampio letto e cercando di ignorare
l’odore delle lenzuola sporche. – Ho un amico che sta morendo...
– Non intendo dividere il letto con nessuno che sia malato – scattò la ragazza.
– Non è malato... e non dovrai dividere il suo letto – la rassicurò Mothac, poi le
spiegò in fretta la malattia di Parmenion e i timori esposti da Argonas.
– E cosa ti aspetti che faccia? – chiese la ragazza. – Non sono una guaritrice.
– Lui viene da te ogni settimana, a volte anche più spesso. Può darsi che ti sia
capitato di vederlo sul terreno di addestramento: si chiama Parmenion, ma corre
come Leon il Macedone.
– Lo conosco. Non parla mai... neppure per salutare. Entra, mi porge il denaro,
mi usa e se ne va. Cosa potrei fare per lui?
– Non lo so – ammise Mothac. – Pensavo che potesse avere dell’affetto per te.
A quel punto la ragazza scoppiò a ridere.
– Credo che dovresti dimenticarti di lui – dichiarò, sedendogli accanto sul letto
e posandogli una mano sulla coscia. –
I tuoi muscoli sono tesi e i tuoi occhi tradiscono lo sfinimento. Sei tu ad avere
bisogno di quello che io posso dare – aggiunse, facendo scivolare la mano più in
alto, ma Mothac le afferrò il polso.
– Non ho altre soluzioni, donna. Ti pagherò per questo servizio. Sei disposta a
farlo?
– Non hai ancora detto cosa vuoi che faccia.
Mothac la fissò negli occhi imbellettati e trasse un profondo respiro.
– Voglio che ti lavi quel colore dal viso e che ti faccia un bagno, poi andremo
alla casa del mio amico.
– Ti costerà venti dracme – ribatté lei, protendendo la mano.
Mothac infilò la mano nella propria sacca e contò dieci dracme.
– Le altre dopo che avrai ultimato il tuo compito – disse. Un’ora più tardi,
quando ormai la luna splendeva sulla città, Mothac e la sacerdotessa entrarono in
casa. Adesso la donna indossava un semplice chitone bianco lungo fino alla
caviglia e un clamis azzurro intorno alle spalle, il suo volto era pulito e agli occhi
di Mothac lei appariva quasi graziosa. La accompagnò nella camera da letto e le
prese la mano.
– Fa’ del tuo meglio, donna – sussurrò, – perché lui significa molto per me.
– Il mio nome è Thetis – disse lei. – Lo preferisco a donna.
– Come desideri, Thetis.
Mothac si chiuse la porta alle spalle e Thetis si accostò al letto, lasciando
scivolare a terra lo scialle e il chitone. Tirate indietro le coltri, si insinuò nel letto
accanto al morente, il cui corpo risultò freddo al tatto. Protendendosi, gli toccò il
collo là dove pulsava la vena e verificò che il suo cuore stava battendo ancora ma
con pulsazioni irregolari e deboli. Accoccolandosi vicino a lui, sollevò la gamba
destra passandogliela sulle cosce e gli accarezzò il petto con una mano, ma sebbene
sentisse il proprio calore che veniva prosciugato Parmenion non si mosse. Thetis
gli sfiorò la guancia con le labbra, poi lasciò scorrere la propria mano lungo il suo
corpo, accarezzandogli la pelle senza però ottenere reazione alcuna, neppure
quando lo baciò sulle labbra.
Non c’era praticamente altro che lei potesse fare, era stanca dopo una lunga
giornata e prese in considerazione l’idea di vestirsi e di reclamare le sue dieci
dracme. Poi però abbassò ancora una volta lo sguardo su quel volto pallido e tirato,
dal naso aquilino e dagli occhi infossati. Cosa aveva detto il servitore? Che
Parmenion aveva perso il suo amore e non riusciva a dimenticarlo?
Stolto, pensò. Soffriamo tutti di perduti amori, ma impariamo a dimenticare,
impariamo a ignorare il dolore.
Ma cos’altro poteva fare?
Adagiando la testa sul cuscino, accostò la bocca all’orecchio di lui.
– Ti amo – sussurrò.
Per un momento non ci fu reazione, ma poi Parmenion sospirò... un alito
sommesso e quasi inudibile. Thetis si tese e prese a sfregare il proprio corpo contro
quello di lui, accarezzandogli con la mano i lombi e l’interno delle cosce.
– Ti amo – ripeté, più forte. Parmenion gemette e lei sentì il suo desiderio
destarsi all’improvviso. – Vieni da me – disse ancora. – Vieni da... Derae.
Il suo corpo s’inarcò improvvisamente.
– Derae?
– Sono qui – mormorò Thetis.
Parmenion rotolò sul fianco, traendola fra le proprie braccia e baciandola con
una passione che Thetis non aveva più sperimentato da molto tempo e che riuscì
quasi a destare i suoi sensi sopiti. Le mani di lui vagarono sul suo corpo, cercando,
toccando, e nel guardarlo negli occhi Thetis vide che adesso erano aperti ma
sfocati, e colmi di lacrime.
– Mi sei mancata – disse lui, – come se ti avessero strappata dal mio cuore.
Thetis lo trasse a sé, incrociando le gambe sui suoi fianchi e guidandolo, ma
dopo essere scivolato dentro di lei Parmenion si fermò. Con gentilezza, chinò il
capo e la baciò, passandole sulle labbra la lingua umida e morbida come seta, poi
cominciò a muoversi in maniera lenta e ritmica e Thetis perse ogni cognizione del
passare del tempo, mentre nonostante tutto il desiderio tornava a lei come un amico
perduto da tempo. Adesso entrambi erano sudati e Thetis si accorse che Parmenion
stava arrivando al culmine, ma di colpo lui rallentò di nuovo e scivolò via da lei.
Thetis sentì le sue labbra sul seno, sul ventre, poi ancora più giù, mentre le mani di
lui le bloccavano le cosce. Inarcando la schiena, chiuse gli occhi e cominciò a
tremare e a gemere, allungando le mani per tenere la testa di lui contro di sé.
L’orgasmo giunse come una serie di spasimi intensi, quasi dolorosi, e quando si
lasciò ricadere sul letto Thetis sentì il calore del corpo di lui che le scivolava sopra
di nuovo. Le loro labbra s’incontrarono in un bacio passionale, poi Parmenion la
penetrò nuovamente e con sua incredulità Thetis si accorse del sopraggiungere un
secondo orgasmo mentre lo tirava a sé con le mani, sentendo la tensione dei suoi
muscoli mentre la sua passione andava crescendo. Gli spasimi furono ancora più
intensi di prima e Thetis gridò senza però udire il suono della propria voce, quindi
avvertì il flusso caldo dell’orgasmo di lui e lo sentì accasciarsi su di lei.
Per un momento rimase immobile sotto il suo peso inerte, poi lo spinse con
gentilezza sulla schiena e vide che adesso i suoi occhi erano nuovamente chiusi.
Per un momento appena si chiese se fosse morto, ma il suo respiro si era fatto
regolare e quando controllò il battito della vena del collo scoprì che era forte e
continuo.
Per alcuni minuti rimase stesa in silenzio accanto all’uomo addormentato, poi si
alzò dal letto senza fare rumore, si vestì e tornò nel cortile dove Mothac stava
sorseggiando un bicchiere di vino.
– Da bere? – chiese lui, senza sollevare lo sguardo.
– Sì – rispose, in tono sommesso, versandosi un boccale di vino e sedendo di
fronte al Tebano. – Credo che vivrà – aggiunse, costringendosi a sorridere.
– L’avevo intuito dal rumore – commentò lui.
– Credeva che fossi Derae – mormorò Thetis, – e vorrei esserlo.
– Ma non lo sei – affermò Mothac, in tono aspro, alzandosi e sparpagliando le
dieci dracme sul tavolo davanti a lei. Thetis raccolse il denaro e lo fissò in volto.
– Ho fatto quello che volevi. Perché adesso sei infuriato con me?
– Non lo so – mentì Mothac, costringendosi ad essere cortese. – Comunque ti
ringrazio. Ora però penso che dovresti andare.
Dopo averle aperto il cancello tornò al suo vino, vuotando in fretta il boccale e
versandosene un altro e poi un altro ancora. Ma il volto di Elea continuò a fluttuare
davanti ai suoi occhi.
IL TEMPIO, ASIA MINORE, 379 A.C.

La sacerdotessa fissò la porta aperta e i lussureggianti campi verdi al di là di


essa, concentrando la propria vista sulle rose che crescevano lungo e sopra
l’architrave dell’apertura... boccioli rossi e bianchi che pervadevano l’aria del loro
profumo.
Questa volta fuggirò, si disse. Questa volta mi concentrerò come non ho mai
fatto prima.
Attingendo a tutta la sua forza di volontà, cominciò a camminare lentamente,
con la mente fissa su un solo pensiero.
Oltrepassare le porte, camminare nei campi.
Un altro passo.
Alcuni uccelli le saettarono sulla testa e lei sollevò lo sguardo per seguirne il
volo: erano aquile, che volavano insieme librandosi sulle correnti termali con
grazia estrema. La sacerdotessa riportò lo sguardo sulle rose sotto la porta.
Badando a non pungersi con le spine, colse un bocciolo e se lo accostò al naso,
spostando poi la propria attenzione sui giardini e sul vecchio che si occupava delle
piante; l’uomo si alzò stancamente in piedi e le si avvicinò.
– Quella rosa è quasi morta – le disse. – Prendi un bocciolo che si deve ancora
aprire, e se lo metterai nell’acqua riempirà la tua stanza di profumo.
– Grazie, Naza – rispose la donna, mentre lui tagliava un paio di boccioli e
glieli metteva in mano, poi ripercorse il sentiero che portava al tempio,
soffermandosi sulla soglia.
Soltanto allora ricordò, e chiuse gli occhi mentre una singola lacrima le
sfuggiva sotto le ciglia e le rotolava lungo la guancia. Non c’era modo di fuggire
attraverso le porte... proprio come non c’era modo di fuggire dalla finestra della
sua stanza. Poteva appoggiarsi al davanzale per godere della luce del sole oppure
contemplare le distanti montagne, ma non appena tentava si scavalcarlo per
lasciare la stanza si ritrovava seduta sul letto con i pensieri confusi.
Era stato così per tre anni, tre anni solitari e dolenti. Rammentò il primo giorno
in cui aveva aperto gli occhi e aveva visto la vecchia seduta accanto al suo letto.
– Come ti senti, bambina? – le aveva chiesto la donna.
– Sto bene – aveva risposto lei. – Chi sei?
– Mi chiamo Tamis, e sono qui per istruirti.
Derae si era sollevata a sedere, ricordando la nave e le mani legate dietro la
schiena, gli uomini che la afferravano e la gettavano oltre la murata... l’impatto
improvviso con l’acqua fredda, la terribile lotta per liberarsi dai legami mentre
scivolava sotto la superficie. Poi però non c’era più nulla... tranne lo strano ricordo
di fluttuare in alto nel cielo notturno verso una luce intensa.
– Cosa mi insegnerai?
– I Misteri – aveva risposto la donna, toccandole la fronte, e lei si era
addormentata di nuovo.
Aveva scoperto l’incantesimo delle porte il terzo giorno, mentre passeggiava da
sola in giardino: quando si era avvicinata per guardare le rune intagliate nella pietra
antica, si era ritrovata nel tempio dal colonnato bianco.
Ci aveva provato altre due volte, poi Tamis si era accorta dei suoi tentativi.
– Non te ne puoi andare, mia cara: adesso sei una sacerdotessa, sei l’erede di
Cassandra.
– Non capisco... non capisco nulla di tutto questo – aveva protestato Derae.
– Tu eri la vittima, e la leggenda dice che qualsiasi ragazza che riesca a
sopravvivere al sacrificio e raggiunga il tempio diviene la sacerdotessa fino a
quando un’altra vittima sopravviverà a sua volta. Lo sapevi anche tu.
– Sì, ma... mi hanno legato le mani, e non ricordo di essere arrivata qui.
– Ma sei qui – aveva ribattuto Tamis, – e di conseguenza io ti devo istruire.
Giorno dopo giorno, la vecchia aveva cercato di insegnarle i Misteri, ma la
ragazza sembrava incapace di capire: non era in grado di sciogliere le catene della
sua anima e di far librare il suo spirito nel cielo, e neppure poteva chiudere gli
occhi per scivolare nella Trance di Risanamento. Era incapace perfino di cose
semplici come tenere in mano un bocciolo di rosa ormai morto e farlo tornare alla
vita con la volontà.
Alla fine del primo anno Tamis l’aveva condotta in un piccolo studio nella
parte posteriore del tempio.
– Ho riflettuto molto sulla tua mancanza di talento – aveva detto, – ed ho
effettuato una ricerca sulle origini della leggenda. Molto tempo fa tu hai elargito un
dono, permettendo ad un uomo di violarti. Questo ha fatto sì che i tuoi poteri ri-
manessero sepolti in profondità e per portarli alla luce dovrai ora essere disposta ad
elargire un altro dono.
– Io non voglio essere una sacerdotessa – aveva protestato Derae. – Non ho
doni da dare. Lasciami andare!
Tamis aveva però continuato a parlare come se non l’avesse sentita, e le sue
parole avevano trapassato Derae come altrettanti coltelli.
– Ti ho guardata risanare Hermias, quando il suo cranio era stato danneggiato,
ed è stato allora che ho capito che eri quella che mi sarebbe succeduta. Puoi farlo,
Derae... ma soltanto elargendo un altro dono. Sai cosa bisogna fare, quindi perché
insisti con questo atteggiamento di sfida?
– Non lo farò! – aveva tempestato la ragazza. – Mai! Non potrai prendere i miei
occhi!
Tamis aveva scrollato le spalle e aveva continuato con pazienza le sue lezioni.
Entro il terzo anno Derae aveva cominciato a mostrare qualche piccolo segno di
successo. Ora se stava ferma in giardino i passeri venivano a posarsi sulle sue mani
e una volta era riuscita a risanare Naza da un taglio al braccio, posando le dita sulla
ferita e sigillandola senza che restasse la cicatrice.
Di notte sognava però ancora di fuggire... di correre sulle colline e di
nascondersi nei boschi lontani per poi trovare in qualche modo la strada per tornare
a Sparta... e da Parmenion.
Però non sarebbe successo oggi, comprese, nel fissare le porte aperte e i campi
che si allargavano al di là di esse; lentamente oltrepassò i pilastri del tempio e
raggiunse l’altare, deponendo su di esso le rose che Naza le aveva dato.
– Quando imparerai, bambina? – chiese Tamis.
– Non sapevo che fossi tornata – replicò la ragazza, voltandosi.
La vecchia le si avvicinò e le posò una mano sulla spalla.
– Deve essere così, quindi cerca di accettarlo: sei la Prescelta.
– Ma io non voglio! – esclamò la ragazza, allontanando la mano della vecchia
dalla propria spalla. – Non l’ho mai voluto.
– Credi che io lo volessi? Volere non rientra nel Talento: ce l’hai o non ce l’hai.
– Ebbene, io non ce l’ho. Non pronuncio profezie e non ho visioni.
Tamis la prese per un braccio e la ricondusse in giardino, facendola sedere
accanto ad una polla dalle pareti bianche.
– Ci sono uomini e donne che moriranno oggi e che non desiderano morire –
disse in tono sommesso. – Tutti hanno lavori lasciati in sospeso, oppure dei
bambini, o un marito o una moglie. Essi non hanno scelta... come non ne hai tu. I
giorni del Dio Oscuro sono vicini, mia cara, e per allora io sarò morta. Quindi
qualcuno dovrà succedermi, qualcuno dotato di coraggio e di spirito, qualcuno a
cui importi il suo compito... e sei sempre stata tu.
– Sei sorda, Tamis? Non ho il Talento.
– Ce l’hai, ma è stato nascosto in profondità e lo troverai quando presenterai il
tuo dono al Signore di Tutte le Cose, quando rinuncerai alla vista.
– No! – esclamò la ragazza. – Non puoi costringermi! Non intendo farlo.
– Nessuno ti costringerà... perché questo distruggerebbe tutto ciò per cui ho
lavorato. Deve essere una tua decisione.
– E se mi rifiutassi?
– Non lo so, bambina. Vorrei saperlo.
– Ma tu sei una maga... puoi vedere il futuro.
Tamis sorrise e si protese in avanti, immergendo la mano piegata a coppa nella
polla e bevendo.
– La vita non è tanto semplice. Ci sono molti futuri e la vita di una singola
persona è come un grande albero: ogni ramo, ogni ramoscello e ogni foglia è un
possibile futuro. Anni fa ho esaminato le mie morti... mi ci è voluto quasi un anno
per esaminarle tutte e alla fine mi sono resa conto che ce n’erano ancora migliaia
da vedere. Adesso la fine è vicina e conosco anche il giorno. Comunque, sì, ti ho
vista accettare la sfida e rifiutarla, ti ho vista vincere e perdere. Ma cosa succederà?
– Sarò in grado di parlare con gli dèi? – domandò la sacerdotessa.
Tamis rimase in silenzio per un lungo momento, poi sospirò.
– Io sono paziente, Derae, ma il tempo comincia a diventare prezioso. Ho
aspettato per tre anni che tu ti rendessi conto che ti era impossibile tornare indietro,
ma adesso è giunto il momento di adottare una diversa linea d’azione. Può darsi
che stia commettendo un errore, ma ti dirò la verità... tutta quanta, anche se sarà
doloroso. Innanzitutto, non esistono dèi così come tu li concepisci: i nomi che
conosciamo, Zeus, Apollo, Afrodite... erano un tempo uomini e donne come me e
te. Questo non significa però che non esistano divinità di sorta, perché al di là dei
miti ci sono le vere forze dell’oscurità e della luce, dell’amore e del caos.
– E tu quale servi? – chiese Derae.
– Non cercare di irritarmi, ragazza – ribatté Tamis. – Se servissi lo Spirito del
Caos avrei preso il tuo dono con la forza!
– Ma è per questo che mi tieni qui. Non sono libera di andarmene.
– Come ho detto, nulla è semplice. Tuttavia io non ti tengo qui per odio ma per
amore: vedi, mia cara, tu non potrai lasciare questo posto... mai più... e non per
opera mia.
– Allora chi è il mio carceriere? – volle sapere lei.
– La tua morte – rispose Tamis.
– Cosa significa? – esclamò Derae, improvvisamente spaventata.
– Mi dispiace, Derae, ma sei morta quando ti hanno gettata dalla nave. Ho
trovato il tuo corpo vicino alle rocce, ti ho portata qui e ti ho richiamata alla vita. È
per questo che non te ne puoi andare.
– Stai mentendo! Dimmi che stai mentendo!
– Se lasciassi il tempio – mormorò Tamis, prendendole la mano, – moriresti
nell’arco di pochi secondi, la tua carne cadrebbe marcia e piena di vermi e le tue
ossa sbiancate giacerebbero nell’erba a meno di dieci passi dalle porte.
– Non ti credo! È un trucco per tenermi qui!
– Ripensa a quel giorno, con le mani legate e i polmoni che si riempivano di
acqua salmastra, ai tuoi tentativi di lotta che si facevano sempre più deboli a mano
a mano che sprofondavi.
– Basta! – urlò Derae, nascondendosi il volto con le mani. – Ti prego, basta!
– Non intendo scusarmi, perché richiamarti in vita mi è costato moltissimo e ha
richiesto tutto il mio potere. Naza mi ha aiutata a portarti qui. Chiedi a lui se non
credi a me.
– Dolce Hera, perché mi dici questo? Sono vissuta qui per tre anni, sperando
che Parmenion venisse da me, pregando e sperando. Ed ora tu hai distrutto tutte le
mie speranze.
– Allora mi credi.
– Vorrei che così non fosse – rispose Derae. – Adesso non rivedrò più
Parmenion. Perché non mi hai lasciata morire?
– Lo rivedrai – insistette Tamis. – Lui è il motivo per cui ti ho salvata. Una
volta che avrai appreso i misteri la tua anima sarà libera di volare dovunque nel
mondo... nel passato o nei molti futuri. Però ti ci vorrà del tempo per apprendere
tutti i misteri... forse anni.
– Cosa importa il tempo ad un morto?
– In questo tempio tu non sei morta. Invecchierai come tutti noi e alla fine il tuo
corpo cederà e la tua anima volerà libera. Quando questo accadrà, io sarò là ad
aspettarti e ti mostrerò il Paradiso.
Derae si alzò in piedi e si appoggiò al bordo della polla per fissare la propria
immagine riflessa, vedendo il rosso dorato dei capelli e il colorito pieno di salute
delle proprie guance; poi si affrettò a distogliere lo sguardo.
– Perché sono stata scelta io? – domandò.
– Perché ami Parmenion.
– Non capisco.
– Il Dio Oscuro sta per giungere, Derae. Non oggi, non quest’anno, ma presto
nascerà con un corpo fisico e crescerà fino a diventare un uomo. Tutto il mondo
cadrà sotto le sue mani e regnerà il caos, scorreranno fiumi di sangue e ci saranno
montagne di cadaveri. Il Dio Oscuro deve essere fermato.
– E Parmenion lo può distruggere?
– È questo l’interrogativo che mi tormenta, ed è per questo che ho bisogno di
te. Quando ho visto per la prima volta l’ombra dei Dio Oscuro, ho pregato la Fonte
perché mi indicasse un modo per sconfiggerlo. A quel punto ho visto Parmenion ed
ho sentito il suo nome echeggiare nelle volte celesti, quindi ho pensato che lui
sarebbe stato la spada che avrebbe abbattuto lo Spirito del Caos. Da allora mi sono
però resa conto che lui è connesso anche al Dio Oscuro ed ho seguito i sentieri del
suo futuro. Lui è la Morte delle Nazioni, e cambierà il mondo.
– Non posso credere una cosa del genere di Parmenion – protestò Derae. – Lui
è buono e gentile.
– Sotto certi aspetti sì, ma dalla tua... da quando lo hai lasciato... si è riempito di
amarezza e di odio, e questi sono sentimenti che servono lo Spirito del Caos. Se
fossi più sicura, provvederei a provocare la sua morte... ma non sono sicura. – Ta-
mis bevve ancora dalla polla, poi si massaggiò gli occhi. – Se vedi un cane
rabbioso che sta per uccidere un bambino, cosa fai?
– Uccido il cane – rispose Derae.
– Ma se puoi vedere nel futuro e sai che quel bambino crescerà fino a diventare
un malvagio distruggitore che devasterà il mondo con il fuoco e con il sangue?
– Lascio che il cane uccida il bambino?
– Esatto... ma che accadrebbe se quel distruggitore fosse destinato a generare
un altro bambino che invece ricostruirà il mondo e porterà ad esso gioia e
splendore per mille anni?
– Mi hai persa per strada, Tamis. Non lo so. Come può chiunque rispondere ad
una domanda del genere?
– Come? – sussurrò la vecchia. – Io mi aggrappo a quella mia prima preghiera,
in cui la Fonte mi ha mostrato Parmenion. Lui è un uomo lacerato, attratto
dall’oscurità e tuttavia desideroso della luce. Quando giungerà il Dio Oscuro
deciderà di servirlo o di contribuire a distruggerlo.
– Si può distruggere un dio? – domandò Derae.
– Non il suo spirito, ma lui verrà nella carne e sotto le spoglie di un uomo... ed
in questo risiederà la sua debolezza.
– Io ti voglio aiutare, Tamis, davvero – dichiarò Derae, traendo un profondo
respiro, – ma non c’è un modo in cui io possa sviluppare i miei... poteri... senza
dare il dono che tu chiedi?
– Non ne abbiamo il tempo – rispose tristemente Tamis. – Ci vorrebbero forse
trent’anni.
– Sarà doloroso?
– Sì – ammise Tamis, – ma si tratterà di un dolore breve... te lo prometto.
– Mostrami Parmenion – disse Derae, – poi ti darò la mia risposta.
– Potrebbe non essere una cosa saggia.
– È il mio prezzo.
– Molto bene, bambina. Prendi la mia mano e chiudi gli occhi.
Il mondo parve sussultare e Derae ebbe l’impressione di precipitare in un
grande vuoto. Aprì gli occhi... e urlò. Tutt’intorno a lei c’erano le stelle, enormi e
brillanti, mentre molto più in basso la luna fluttuava in un mare di oscurità.
– Non temere, Derae, io sono qui con te – affermò la voce di Tamis, e subito
Derae si calmò. Scie di colore le fiammeggiarono intorno, poi si trovò a librarsi
sopra la città di Tebe avvolta nella notte e a contemplare dall’alto le enormi statue
di Eracle e di Atena. Volarono sempre più in basso, fino ad arrivare ad una casa
con un piccolo cortile.
Un uomo con la barba rossa era seduto ad un tavolo, ma dall’alto giungevano i
rumori di una coppia che si stava amando. Si avvicinarono ancora di più, passando
attraverso le pareti della camera da letto.
– Mi sei mancata – disse Parmenion alla donna che giaceva sotto di lui. – È
stato come se mi avessero strappato il cuore.
– Portami indietro – sussurrò Derae. – Portami a casa. Puoi avere il mio dono:
puoi prendere i miei occhi.

Mothac aprì il pacchetto lasciatogli da Argonas e passò le dita fra le foglie


sminuzzate e gli steli che c’erano all’interno. Riempito un grosso boccale di acqua
bollente, vi aggiunse una manciata di foglie e subito un aroma pungente e tanto
dolce da essere quasi nauseante pervase la cucina.
Di sopra Parmenion era sveglio ma non aveva detto nulla, non aveva neppure
girato la testa quando Mothac era andato a dargli un’occhiata; mescolando l’infuso
con un cucchiaio di legno, il servitore tolse le foglie e gli steli che galleggiavano
sulla superficie e salì le scale: Parmenion era ancora a letto, ma si era sollevato a
sedere e stava guardando fuori della finestra aperta.
– Bevi questo – mormorò Mothac, accostandosi al letto. Senza una parola,
Parmenion accettò l’infuso e prese a sorseggiarlo.
– Bevilo tutto – avvertì Mothac, e lo Spartano obbedì in silenzio.
Quando ebbe finito, Mothac prese il boccale vuoto e lo posò per terra accanto al
letto.
– Come ti senti? – chiese, stringendo la mano di Parmenion nella propria.
– Il dolore sta diminuendo – replicò lo Spartano, con voce remota.
– Hai dormito per cinque giorni e ti sei perso i festeggiamenti... la gente si è
messa a ballare nell’agorà. Avresti dovuto vedere.
– È venuta da me, Mothac – sussurrò Parmenion, chiudendo gli occhi. – È
venuta da me da oltre la morte e mi ha salvato sulla Collina del Dolore.
– Chi è venuto da te?
– Derae. Era ancora giovane e splendida – spiegò Parmenion, mentre le lacrime
salivano a velargli gli occhi. – Mi ha liberato, ha portato via il dolore.
Mothac si costrinse a ricacciare indietro le parole di spiegazione che gli erano
salite in gola.
– Bene – disse infine. – Questo è un bene. Ora è tempo che ti alzi dal letto e
faccia entrare un po’ d’aria fresca nei polmoni. Avanti lascia che ti aiuti.
Preso Parmenion per un braccio, lo issò in piedi con cautela e dopo aver
incespicato per un momento lui riuscì a trovare l’equilibrio. Mothac gli portò un
chitone bianco pulito, lo aiutò a vestirsi e lo accompagnò nel cortile.
Fuori il cielo era coperto ma l’aria era tiepida e pervasa da una brezza fresca;
Mothac portò a Parmenion un pasto a base di fichi e di pesce secco e si sentì
sollevato quando gli vide mangiare ogni cosa.
Nei giorni che seguirono la forza tornò a fluire nel corpo smagrito del giovane;
Argonas venne due volte a visitarlo e dopo aver esaminato la sua testa dichiarò in
tono soddisfatto che il tumore stava dormendo.
Anche se si stava riprendendo, Parmenion non usciva però ancora di casa,
dormiva spesso e si interessava molto poco degli affari di Tebe. Ogni giorno
beveva l’infuso preparato da Mothac, mangiava una leggera colazione e
sonnecchiava fin dopo mezzogiorno. Preoccupato per quel comportamento
letargico, Mothac andò a cercare Argonas.
– Non ti preoccupare – lo rassicurò il grasso medico. – Si tratta del silphium,
che è anche un potente sonnifero. Però il suo corpo si abituerà presto ad esso e gli
effetti si attenueranno.
Durante quel periodo Epaminonda non venne mai a trovarli. Mothac informò
Parmenion che i Tebani stavano organizzando un nuovo consiglio cittadino
composto da membri della cospirazione ribelle mentre il guerriero Pelopida aveva
radunato quasi cinquecento giovani Tebani e li stava addestrando per la guerra che
sarebbe quasi certamente scoppiata. Parmenion accolse quelle notizie senza
espressione, senza avanzare opinioni o porre domande.
Un mese dopo la riconquista della Cadmea, poi, Parmenion sentì degli applausi
nelle strade e mandò Mothac a vedere cosa stesse succedendo; il Tebano fu di
ritorno entro pochi minuti.
– È arrivato un contingente ateniese – spiegò. – Sono venuti per aiutarci contro
gli Spartani.
– Mi sembra improbabile – osservò Parmenion, – perché gli Ateniesi non sono
in condizione di poter dichiarare guerra a Sparta: hanno poche forze mentre Sparta
dispone di tre eserciti che potrebbero marciare su Atene senza quasi incontrare op-
posizione. Cerca di scoprire qualcosa di più.
Mothac lasciò la casa di corsa, con il cuore pieno di gioia: la voce di Parmenion
era suonata brusca e autoritaria, e nell’udirla lui aveva provato la stessa sensazione
di un uomo che veda i primi raggi di sole primaverile dopo un lungo inverno. Gli ci
vollero due ore per trovare Epaminonda, che stava tornando da una riunione alla
Cadmea: il condottiero tebano aveva un aspetto stanco, con le spalle accasciate e lo
sguardo opaco.
– Parmenion vuole sapere chi sono quei soldati – gli disse, affiancandosi a lui
nelle strade piene di folla.
– Sono mercenari – spiegò Epaminonda. – Calepios ha comprato i loro servizi
ad Atene. Come sta Parmenion?
– È di nuovo quello di un tempo – rispose Mothac.
– Allora tornerò indietro con te – dichiarò Epaminonda, illuminandosi in viso. –
Ho bisogno di parlargli.
Una tempesta scoppiò su Tebe mentre i tre uomini se ne stavano sdraiati sui
divani dell’androne, e i lampi solcarono il cielo simili alle lance di Ares.
Epaminonda si adagiò all’indietro, appoggiando la testa su un cuscino ricamato e
chiudendo gli occhi.
– Attualmente sono in corso molte discussioni prive di senso – affermò, – tanto
che comincia a sembrare che allontanare gli Spartani sia stata la cosa più semplice
del mondo se paragonata a trovare una linea politica coerente. Ci sono alcuni che
vogliono assoldare mercenari per difendere la città e altri che parlano di incontrare
gli Spartani sul campo, mentre altri ancora esitano e vorrebbero aspettare che
Atene venisse in nostro aiuto. Calepios riferisce che gli Ateniesi sono soddisfatti
della nostra rivolta e ci promettono di tutto... tranne un effettivo sostegno. Sono
felicissimi di vedere gli Spartani umiliati, ma non faranno nulla per aiutarci.
– E cosa mi dici dell’esercito spartano? – domandò Parmenion.
– Cleombrotus ha settemila uomini vicino a Megara... a due giorni di marcia da
noi... ma finora non si è mosso. Cascus è con lui... non avremmo mai dovuto
lasciarlo scappare e da questo punto di vista Calepios ha molto di cui rispondere,
parenti o meno che siano. Cascus sta dicendo a tutti quelli che sono risposti ad
ascoltarlo che la rivolta tebana è stata organizzata da un gruppo di esuli traditori e
che il popolo non li appoggia. Sta incitando Cleombrotus a marciare contro la città,
garantendogli che il popolo tebano insorgerà contro i ribelli.
– Allora perché gli Spartani non si sono mossi? – domandò Mothac.
– Agisaleus è malato. Alcuni dicono che stia morendo, e i presagi non sono
buoni. Io spero che muoia davvero.
– Prega che viva, invece – interloquì Parmenion. – Finché resterà malato gli
Spartani non faranno nulla, mentre se Agisaleus dovesse morire Cleombrotus si
sentirà obbligato a dimostrare la sua forza al popolo di Sparta... e voi non siete
pronti alla guerra.
– Cosa ci consigli, amico mio?
– Le vostre alternative sono limitate – affermò Parmenion. – Ci sono
guarnigioni spartane in tutta la Beozia... a nord, a sud, ad est e ad ovest di Tebe.
Fino a quando non saranno rimosse, non avrete speranza di vittoria, ma non le
potete eliminare finché gli Spartani minacciano di invadervi. Non è un problema
facile da risolvere.
– Abbiamo degli alleati nella Tessaglia, ma da soli non ci possono dare la
vittoria – rifletté Epaminonda, sollevandosi a sedere e massaggiandosi gli occhi. –
La cosa peggiore è che se ci alleassimo ad una forte potenza scambieremmo
soltanto un padrone con un altro.
– Dove sono le guarnigioni spartane più nutrite? – volle sapere Parmenion.
– Ad Orcomeno nel nord, a Tanagra ad ovest, ad Agostena a sud. Abbiamo
degli uomini in ciascuna di quelle città, inviati apposta per tentare di suscitare una
ribellione... ma saggiamente quei ribelli stanno aspettando di vedere come ce la ca-
viamo noi. Siamo come cani che si inseguano la coda: per vincere ci serve il
sostegno di altre città, ma quelle città stanno aspettando di vedere se possiamo
vincere prima di unirsi a noi. Abbiamo bisogno di una vittoria, Parmenion.
– No – replicò lo Spartano. – Questo non è possibile... per ora. Il mio consiglio
è di evitare uno scontro sul campo con Cleombrotus, perché sareste annientati.
– Saremo annientati comunque... quando lui marcerà contro di noi.
Parmenion rimase in silenzio per un momento, con lo sguardo fisso su un punto
imprecisato in alto e sulla destra della parete nord della stanza, poi sollevò
lentamente una mano per massaggiarsi una mascella. Mothac sogghignò ed
Epaminonda assunse un’espressione piena di aspettativa.
– La fuga di Cascus potrebbe forse tornare a nostro vantaggio – disse infine
Parmenion. – Se ha convinto davvero gli Spartani che il popolo di Tebe è pronto ad
insorgere contro di noi, allora è improbabile che Cleombrotus attacchi la città:
devasterà invece il territorio tutt’intorno a noi nella speranza che questa
dimostrazione di forza generi una contro rivolta. L’inverno è quasi alle porte, e con
esso le piogge, e allora la maggior parte degli Spartani tornerà a casa... e noi
colpiremo.
– E dove attaccheremo? Con quali forze? – chiese Epaminonda.
– Ad Atene – rispose Parmenion, con un ampio sorriso, – e ci serviremo
dell’esercito spartano.

La tensione all’interno della città andò aumentando giorno per giorno; nei
luoghi pubblici scoppiarono discussioni sulla saggezza di espellere gli Spartani e la
paura divenne una cosa quasi palpabile... ma le truppe nemiche rimasero a Megara,
a due giorni di marcia da Tebe, verso sudest. Le notizie che giungevano dai
territori circostanti erano cupe: nella piccola città di Tespi, a nordest di Tebe, un
gruppetto di ribelli aveva posto l’assedio all’acropoli, dove era insediata una
guarnigione spartana, ma il contingente era uscito dalla fortificazione e aveva
ucciso ventitré uomini, mettendo in fuga la folla. Nelle città di Tanagra e di
Agostena parecchi fomentatori di disordini erano stati arrestati, mentre a Platea due
uomini sospettati di ribellione erano stati giustiziati dopo che un traditore li aveva
denunciati.
Con una forza di quattrocento uomini, Pelopida marciò da Tebe per aiutare i
ribelli di Tanagra: i guerrieri uscirono dalle Porte Proitiane, ma furono di ritorno
otto giorni più tardi, dopo essere stati colti in un’imboscata tesa sulle montagne
dagli Spartani: quarantuno uomini erano morti e i feriti ammontavano a ventisei.
Quella fu un’amara sconfitta, e tuttavia Pelopida ne emerse con un notevole
credito, perché pur essendo stato circondato aveva raccolto intorno a sé i suoi
uomini e aveva caricato le file spartane, infrangendole e uccidendo da solo quattro
nemici. A quel punto i Tebani avevano cercato rifugio sulle montagne e gli
Spartani li avevano lasciati andare, perché il tramonto era prossimo e non volevano
perdere degli uomini negli stretti passi montani.
I mercenari ateniesi vennero poi mandati ad Eritrae, insieme a duecento opliti
tebani, al fine di aiutare i ribelli, ma non si ebbero più loro notizie e il timore fra il
popolo tebano andò crescendo. In quel periodo Epaminonda si rivelò un abile
oratore, ma i ribelli sentirono comunque la mancanza delle capacità oratorie di
Calepios, che era rimasto ad Atene.
Intanto l’inverno si avvicinò inesorabilmente, cominciarono le piogge e dal sud
giunse la notizia che Agisaleus era guarito dalla febbre che lo aveva assalito.
E l’esercito spartano avanzò verso nord.

Parmenion peraltro non appariva preoccupato e trascorreva le giornate


leggendo il resoconto di Senofonte della sua marcia attraverso la Persia; era ormai
prossimo il giorno più corto dell’inverno quando un pomeriggio Mothac entrò
nell’androne e si tolse il mantello intriso di pioggia, versandosi un boccale di vino
annacquato.
– Sarà finita entro pochi giorni – commentò in tono cupo. – L’umore della
gente è carico di disperazione e quando arriveranno gli Spartani tutti si
arrenderanno senza combattere.
– Se arriveranno – replicò Parmenion, posando il rotolo di pergamena.
– Come puoi restare così calmo? – scattò Mothac.
– Usando la mente... e non le mie emozioni – dichiarò Parmenion. – Ascoltami.
Le truppe di Sparta non sono addestrate per gli assedi e preferiscono combattere in
campo aperto, perché una falange non può certo scalare delle mura. Io non credo
che Cleombrotus attaccherà la città: lui spera di poter attirare allo scoperto le
nostre forze e tenta di impedire che ci arrivino scorte di viveri.
Mothac non parve però convinto e la sfortuna continuò a perseguitare i Tebani.
I mercenari ateniesi vennero sconfitti e respinti da Eritrae, poi Cleombrotus marciò
attraverso Agostena e Platea, portando il suo esercito ormai quasi in vista di Tebe.
Pelopida avrebbe voluto radunare le forze per attaccare il nemico, ma pareri più
controllati ebbero la meglio sul suo... e finalmente giunse la notizia che Parmenion
sperava di sentire: adesso che l’inverno stava rendendo difficili le manovre,
Cleombrotus divise le sue truppe in due e marciò verso sud attraverso Agostena,
Megara e Corinto, lasciando a Tespi un nutrito contingente agli ordini del generale
Sphodrias.
Subito Parmenion andò a cercare Pelopida ed Epaminonda.
– È arrivato il momento di agire – disse. – Entro primavera Agisaleus sarà di
nuovo in condizione di comandare un esercito e allora sarà lui a guidare un attacco
contro Tebe.
– Cosa possiamo fare? – chiese Pelopida. – Mi si rivolta lo stomaco a restare
qui seduto senza agire, ma quali alternative abbiamo?
– Dobbiamo catturare un messaggero spartano.
– Un messaggero? È questo il tuo piano? – sbuffò Pelopida. – È questo che
porterà la sconfitta agli Spartani?
– Verrà anche il momento per i guerrieri come te, Pelopida... fidati di me –
ridacchiò Parmenion, fissandolo negli occhi. – Questo singolo uomo sarà la pietra
che darà inizio alla valanga, ma è di vitale importanza che venga preso: dovrà es-
sere privato dell’armatura e del vestiario e il suo corpo dovrà essere seppellito in
modo che sia impossibile trovarlo, poi tutto ciò che lui ha con sé dovrà essere
portato qui.
– Sembra abbastanza facile – borbottò Pelopida.
– Allora renderemo la cosa più difficile: nessuno dovrà assistere alla morte del
messaggero e la sua scomparsa dovrà restare un mistero.
– Speriamo almeno che i messaggi che ha con sé si rivelino utili – commentò il
Tebano.
– Neppure questo – lo contraddisse Parmenion. – Gli Spartani non dovranno
mai sapere che li abbiamo intercettati.
– Vorresti essere tanto gentile da spiegare allora lo scopo di tutto questo? –
chiese Pelopida.
Prima di rispondere Parmenion lanciò un’occhiata ad Epaminonda, che annuì.
– Io prenderò il posto di quel messaggero – spiegò allora, – e andrò da
Sphodrias, a Tespi. Però dovremo essere soltanto noi tre a saperlo.
– Sarà come vuoi tu – promise Pelopida. – Manderò subito degli uomini a
sorvegliare tutte le strade provenienti da Tespi.

Nel tornare a casa attraverso la città ammantata nel buio della notte, Parmenion
si sentiva teso ed eccitato e quando passò davanti al Tempio di Afrodite si ricordò
della sacerdotessa dai capelli rossi. Fermatosi accanto alla fontana di marmo lasciò
vagare lo sguardo sul tempio, avvertendo il desiderio che si destava dentro di lui, e
dopo aver controllato il contenuto della sacca del denaro entrò nel tempio e si
avviò lungo il corridoio. Nonostante l’ora tarda, sotto la porta della donna filtrava
la luce di una lanterna: Parmenion accostò l’orecchio al legno, ascoltando per
individuare eventuali rumori all’interno, e un momento più tardi bussò piano. Sentì
il letto scricchiolare quando la donna si alzò in piedi, poi il battente si aprì.
Parmenion protese il denaro, e rimase sorpreso nel vedere il sorriso spontaneo
di lei.
– Sono lieta che tu sia guarito – disse la sacerdotessa.
– Non desidero che parli! – scattò Parmenion, e subito il sorriso si raggelò sulle
labbra di lei, le guance le si tinsero di un cupo rossore.
– Prendi il tuo denaro e vattene! – esclamò, sbattendogli la porta in faccia.
Per un momento Parmenion rimase fermo dov’era, sconcertato, poi tornò sui
suoi passi e raggiunse il freddo conforto del proprio letto. L’incontro con la donna
l’aveva però turbato: la sacerdotessa sapeva che non doveva parlare, erano stati
insieme decine di volte... lui pagava, soddisfaceva il proprio desiderio e se ne
andava. Era una cosa molto semplice. Perché la donna aveva infranto le regole?
Quando si era fermato sulla porta il profumo di lei lo aveva avviluppato,
pervadendogli i sensi, e quando l’aveva rimproverata il volto della donna aveva
espresso shock, sorpresa e un dolore che non riusciva a capire. Avvertiva il
bisogno quasi fisico di andare a cercarla e di scusarsi... ma per che cosa? In che
modo l’aveva offesa?
Alla fine scivolò in un sonno agitato e sognò Derae.
Si svegliò tre ore più tardi e salì sul tetto piatto per guardare l’alba che
illuminava la città, poi spostò lo sguardo verso sudest, dove si levavano i picchi
torreggianti del Monte Citerone e delle catene che si snodavano alle sue spalle.
Questa è una terra splendida, pensò, e tuttavia lottiamo come bambini per il
suo possesso.
Seduto sotto la luce del sole, ripensò alle sue conversazioni con Senofonte.
– La Grecia non si potrà mai innalzare al massimo della gloria – aveva detto il
generale, – perché noi non siamo una nazione completa e non abbiamo una visione
nazionale. Abbiamo i migliori soldati e i migliori generali del mondo e siamo su-
premi sul mare, e tuttavia siamo come un branco di lupi, ci laceriamo a vicenda
mentre i nostri nemici gongolano.
– Ma i lupi trovano sempre un capo – aveva obiettato Parmenion.
– Sì – aveva assentito Senofonte, – e a questo punto cessa il paragone. La
Grecia è composta da decine di città stato, e perfino un grande uomo originario...
per esempio... di Atene, non potrebbe legarla in un tutto unico. Gli Spartani lo invi-
dierebbero e lo temerebbero, e così anche i Tebani, perché non vedrebbero in lui un
Greco ma un Ateniese. Questi odi sono troppo radicati e non potranno essere
sopraffatti... almeno non nell’arco della mia vita. E invece di una Grecia unita e
potente cosa vediamo? La Persia controlla il mondo e si serve di mercenari greci
per farlo... mentre qui noi viviamo in una terra dalle splendide montagne e dal
terreno povero. Dobbiamo importare tutto quello che ci serve dall’Egitto e
dall’Asia, pagando cifre notevoli ai Persiani per ogni transazione.
– E se un uomo solo guidasse una forza congiunta contro i Persiani? – aveva
chiesto Parmenion.
– Dovrebbe essere un colosso fra gli uomini, un semidio come Eracle.
Soprattutto, dovrebbe essere un uomo che non appartenga a nessuna città... un
Greco... e non esiste un uomo del genere, Parmenion. Avevo sperato che Sparta
potesse assumere il predominio, ma Agisaleus non riesce a dimenticare il suo odio
per Tebe e gli Ateniesi succhiano insieme al latte materno l’odio verso Sparta,
mentre Tebani e Corinti disprezzano gli Ateniesi. Dove potrà la Grecia trovare un
capo?
– Tu cosa faresti?
– Se fossi un dio, solleverei la nazione dal mare e la scuoterei fino a ridurre in
polvere tutte le città, poi raccoglierei i superstiti e direi loro di costruire un’unica,
grande città e di chiamarla Grecia.
– E allora – aveva ridacchiato Parmenion, – i superstiti ateniesi occuperebbero
la parte settentrionale della città e chiamerebbero Atene quel distretto, mentre gli
Spartani prenderebbero quello meridionale. A quel punto ciascuno deciderebbe che
il distretto dei vicino è più prezioso del proprio.
– Temo che tu abbia ragione, ragazzo mio, ma accantonando la mia
disperazione in questa situazione c’è anche un aspetto positivo.
– E quale sarebbe?
– Che ci sarà sempre necessità di buoni generali.
Adesso Parmenion sorrise al ricordo di quella conversazione e scese dal tetto.
Mothac gli portò un boccale di infuso di silphium e lui lo bevve in fretta: dalla
notte del miracolo di Derae non aveva più avuto dolori alla testa e il suo corpo si
sentiva nuovamente forte.
– Ho bisogno di correre – disse a Mothac.
Il terreno di addestramento era però ingombro di guerrieri che si esercitavano
con la spada e lo scudo, mèntre Pelopida ruggiva ordini e parecchi ufficiali
circolavano fra gli uomini, offrendo consigli o incoraggiamenti. In disparte,
Parmenion rimase a guardare per parecchi minuti, poi Pelopida si accorse di lui e
lo raggiunse di corsa.
– Si stanno formando bene – commentò il Tebano. – Uomini coraggiosi e
orgogliosi.
– Con il tempo qui riuscirai ad ottenere un ottimo contingente – replicò
Parmenion, scegliendo con cura le parole, – ma quanto lavoro in formazione
serrata hai intenzione di effettuare?
– Concludiamo sempre con una corsa in formazione, ma gli uomini
preferiscono il combattimento libero, che è più competitivo.
– È vero, amico mio, e tu hai ragione. Tuttavia sono certo che sei consapevole
del fatto che quando dovranno affrontare gli Spartani dovranno usare la formazione
serrata. Se si presenteranno sparpagliati in questo modo verranno fatti a pezzi.
– Saresti disposto ad aiutarmi ad addestrarli? – chiese Pelopida.
– Sarebbe un onore – acconsentì Parmenion, e il Tebano lo prese per un
braccio, accompagnandolo sul campo.
– Un attacco splendido! – approvò intanto, in direzione di un guerriero che
aveva bloccato il fendente dell’avversario e lo aveva gettato a terra con una
spallata. L’uomo sorrise e salutò con la lama di legno.
– Come si chiama? – domandò Parmenion, mentre proseguivano.
– Non lo so. Vuoi che lo scopra?
– No – replicò il giovane, in tono sommesso.
Pelopida chiamò intanto a raccolta i soldati, che formarono un enorme
semicerchio intorno a Parmenion.
– Questo è l’uomo che ha progettato la riconquista della Cadmea – ruggì il
guerriero, – lo stratega che si è arrampicato sulle mura ed ha salvato Epaminonda.
Gli uomini scoppiarono in una sonora ovazione e Parmenion arrossì, il cuore
prese a battergli con violenza e lui sentì insorgere una paura irrazionale: Pelopida
parlava con facilità ai soldati ed era evidente che era molto ammirato, ma lui non si
era mai rivolto ad un gruppo prima di allora e sentì i nervi che minacciavano di
cedergli.
– Lui vi addestrerà nelle manovre in formazione serrata – proseguì Pelopida, –
in modo che la prossima volta che incontreremo gli Spartani potremo schiacciarli
in mezzo a noi come un pugno di ferro! Desideri dire qualcosa agli uomini? – chie-
se quindi, rivolgendosi a Parmenion.
– Sì – rispose questi. Intorno c’erano parecchie centinaia di guerrieri seduti per
terra con lo sguardo fisso su di lui... poteva sentire quegli sguardi come un peso
sull’anima e le gambe gli si indebolirono al punto da essere quasi incapaci di soste-
nerlo. – Il combattimento in formazione serrata... – cominciò.
– Non riusciamo a sentire! – gridò qualcuno, dal fondo. Parmenion trasse un
profondo respiro.
– Il combattimento in formazione serrata – gridò, – si basa sulla fratellanza,
sulla comprensione e sull’interessamento reciproco. Significa inoltre anteporre il
bene di tutti a quello dei singoli.
– Ma di cosa sta parlando? – domandò un uomo nella prima fila, quando lui
s’interruppe per riprendere fiato.
Un’onda di risate sommesse si diffuse fra le file e Parmenion sentì l’ira
divampargli nel cuore.
– Alzatevi! – ruggì, con voce vibrante di autorità, e i soldati obbedirono
all’istante. – Ora formate un cerchio completo con me al centro – aggiunse,
raggiungendo a grandi passi il centro del terreno di addestramento, seguito dagli
altri.
– Chi è il migliore con la spada, qui? – domandò, una volta che i guerrieri si
furono disposti in un ampio cerchio di numerose file.
– Pelopida! – gridarono tutti.
– E il peggiore?
Quella domanda fu accolta con il silenzio, poi un giovane tanto magro da
apparire emaciato sollevò la mano.
– Io non sono molto abile... ancora – disse, – ma sto diventando più forte.
Quella confessione fu accolta da altre risate.
– Che entrambi vengano dentro il cerchio – ordinò Parmenion.
Pelopida si alzò in piedi e insieme al giovane venne a fermarsi accanto allo
Spartano.
– Posso dire qualcosa? – chiese a Parmenion, e quando questi annuì si rivolse ai
presenti, esordendo: – Alcuni di voi hanno riso quando il nostro amico... e
fratello... Callines ha ammesso la sua scarsa abilità con la spada. Gli ci è voluto
coraggio per confessarlo – proseguì, fissando i guerrieri con occhi roventi, – e un
uomo dotato di un tale coraggio può soltanto migliorare. E voi lo aiuterete... e vi
aiuterete a vicenda. La causa di Tebe è sacra per me, e ogni uomo che aiuta Tebe
mi è parimenti sacro. Non stiamo soltanto giocando alla guerra, siamo una banda
sacra, i cui membri sono legati uno all’altro nella vita e nella morte, quindi che non
ci siano altre derisioni. Mi dispiace, stratega – concluse il Tebano, indietreggiando.
– Ti prego, continua.
Parmenion lasciò invece che il silenzio si intensificasse. Le parole di Pelopida
lo avevano colto di sorpresa, ma i sentimenti da lui espressi erano validi.
– Oggi avete sentito qualcosa che dovreste imprimere a fuoco nel vostro cuore
– disse infine. – Infatti verrà un giorno, quando sarete vecchi, con i capelli grigi, e i
vostri nipoti giocheranno ai vostri piedi, in cui sentirete altri uomini dire con orgo-
glio: ‘Eccolo là. Era un membro della Banda Sacra.’ E sollevando lo sguardo
vedrete uomini più giovani fissarvi con meraviglia ed invidia. – Fece una pausa,
permettendo di nuovo che il silenzio si prolungasse, poi concluse: – Adesso mi
servono altri due combattenti, uomini rapidi e abili.
Quando tutti e quattro furono pronti, armati di spada e di scudo di bronzo,
Parmenion si avvicinò a Pelopida.
– La tua spada – disse.
Sconcertato, questi gli consegnò l’arma di legno, e Parmenion si girò verso il
giovane schierato accanto al generale tebano.
– Il tuo scudo – ordinò.
L’uomo consegnò lo scudo e Parmenion lasciò cadere le armi lungo il limitare
interno del cerchio di spettatori, ripetendo la manovra con l’altra coppia di uomini.
– Adesso – spiegò agli sconcertati guerrieri, – abbiamo un esempio di
formazione serrata: quattro uomini che dispongono soltanto di due spade e di due
scudi. Il portatore di scudo deve proteggere l’uomo con la spada, ma
personalmente non ha armi d’attacco, mentre l’uomo con la spada deve difendere
anche il portatore di scudo pur non avendo a sua volta uno scudo con cui ripararsi.
Ciascuno dei due deve quindi fare affidamento sull’altro. Ora combattete, signori,
se non vi dispiace.
Pelopida e lo snello Callines avanzarono insieme. Lo spadaccino della coppia
avversaria lanciò subito un attacco ma Pelopida bloccò con il suo scudo e Callines
eseguì un affondo, che venne intercettato dallo scudo dell’avversario. I guerrieri
girarono quindi in cerchio, senza però riuscire a trovare aperture. Dopo alcuni
minuti la coppia avversaria indietreggiò e i suoi componenti conferirono fra loro in
tono sommesso per poi tornare ad avanzare... all’improvviso l’uomo con la spada
si mosse verso destra, cercando di prendere Pelopida sul fianco. Ignorandolo,
questi si lanciò contro il suo compagno: i loro scudi cozzarono violentemente e non
appena l’avversario di Pelopida venne scagliato a terra Callines corse in avanti,
posandogli la spada di legno contro la gola. Nello stesso momento Pelopida ruotò
su se stesso quando l’uomo con la spada gli giunse alle spalle e deviò per un pelo il
colpo con il bordo dello scudo mentre Callines accorreva in suo aiuto. Pelopida
parò un altro affondo, poi picchiò lo scudo contro il braccio destro dell’avversario,
spingendolo indietro, e al tempo stesso Callines piantò la spada di legno contro
l’inguine dell’avversario, che cadde a terra con un gemito.
– Ciò che avete appena visto – affermò allora Parmenion, portandosi al centro
del cerchio e issando l’uomo in piedi, – è stato il vostro peggior combattente che
uccideva due avversari. In essenza, è questo il segreto della falange: uomini comu-
ni e ben addestrati possono risultare magnifici in battaglia, mentre grandi guerrieri
diventano invincibili. Voi sarete invincibili.
Per due ore Parmenion fece esercitare gli uomini, fino a quando Pelopida chiese
una sosta e pose fine all’addestramento, prendendo Parmenion per un braccio e
accompagnandolo all’ombra della Tomba di Ettore.
– Te la sei cavata bene, amico mio, davvero molto bene – commentò il Tebano.
– Ci hai dato un nome pieno di ispirazione e da oggi saremo la Banda Sacra.
– No – replicò Parmenion. – Il nome è stato una tua invenzione, perché lo hai
coniato tu quando hai preso le difese del giovane Callines. Comunque calza bene
ed è vantaggioso che i guerrieri si sentano legati. Sei un ottimo capo.
– Basta con i complimenti, mi mettono a disagio – protestò Pelopida. – Ora
dimmi perché mi hai chiesto il nome del primo combattente che hai visto.
– Non sono io quello che dovrebbe sapere il suo nome, ma tu – sorrise
Parmenion. – Un generale è come un artigiano, che conosce il nome e le virtù di
ogni suo attrezzo. Gli uomini guardano a te come al loro capo, ti ammirano per il
tuo coraggio e la tua forza... come generale non puoi diventare amico di ciascuno
di essi perché questo potrebbe portare ad un rilassamento della disciplina, ma
chiamali tutti per nome e loro combatteranno meglio per te... e per Tebe.
– Ma sconfiggeremo gli Spartani? – domandò Pelopida.
– Se c’è un uomo che può farlo... quello sei tu – garantì Parmenion.

Derae aprì gli occhi... ma l’oscurità era totale. Poteva avvertire un senso di
calore sul lato destro del volto e quando comprese che il sole era sorto pianse per la
sua perdita.
La cecità, il terrore degli esseri umani fin dall’alba dei tempi, perché rendeva
impotenti di fronte ai capricci della natura e alla crudeltà delle bestie selvagge.
L’ultima cosa che aveva visto era stata Tamis che incombeva su di lei reggendo
in mano una fiala di rame dal cui gorgogliante contenuto si levava del vapore, poi
c’era stato il tocco del fuoco sul suo occhio aperto e l’urlo di agonia che aveva
seguito il bacio dell’acido.
Sentì la porta che si apriva e avvertì l’assestamento del letto quando Tamis le
sedette accanto.
– Resta distesa – disse la vecchia, – e ascoltami. Mantieni il corpo immobile e
pensa ad un cielo azzurro e ad un lungo stelo d’oro. Puoi farlo?
– Sì – rispose debolmente Derae.
– Immagina lo stelo d’oro sullo sfondo del cielo e la sua punta che si gonfia e
cresce... piegandosi e torcendosi fino a diventare un cappio che si congiunge allo
stelo come la cruna di un enorme ago d’oro. Lo hai nella mente?
– Sì. Oro sullo fondo dell’azzurro – sussurrò Derae.
– Ora, sotto il cappio, come l’elsa di una spada persiana, altri due steli
scaturiscono dall’oro. Tieni in mente l’oro e l’azzurro e dimmi cosa avverti.
– Mi sembra che nella mia mente ci sia un soffio di aria calda.
– Bene. Ora librati!
Derae si sentì libera da ogni peso, come se pesanti catene di piombo si fossero
improvvisamente aperte, poi si librò... e aprì gli occhi. Il soffitto era molto vicino, e
lei ruotò il proprio spirito in modo da poter abbassare lo sguardo sul corpo che
giaceva sul pagliericcio e su Tamis che le sedeva accanto. La vecchia sollevò lo
sguardo.
– Ora puoi vedere – le disse, – ed hai scoperto uno dei segreti della Fonte: un
dono offerto ad Essa viene restituito centuplicato. Sei libera, Derae, libera di volare
e di imparare! Va’! Viaggia come l’aquila e vedi tutto ciò che desideri. Però non
guardare il futuro, bambina mia, perché non sei ancora pronta.
L’anima di Derae volò via dal tempio, gloriandosi nella luce del sole e volando
attraverso le nubi e sull’oceano. In basso sotto di sé vide la Grecia con le sue alte
montagne e le aride pianure: piccole trireme erano ancorate nel porto di Atene e
parecchie barche da pesca sobbalzavano sull’acqua intorno ad esse. Puntando verso
sudovest, Derae volò a Sparta, librandosi al di sopra della sua vecchia casa e
scorgendo sua madre e le sue sorelle nel cortile.
Vederle in questo modo però le diede dolore... sarebbe stato meglio vedere ciò
che era stato. La scena sotto di lei si fece indistinta, poi si ritrovò a guardare se
stessa che correva oltre le porte di casa e scendeva fino al prato dove si
esercitavano le ragazze, mentre sulla sommità di una vicina collina il giovane
Parmenion se ne stava steso nell’erba, cercando di riuscire a intravederla.
Anche quella scena le diede dolore, ma Derae non poté trattenersi dal seguirla
in tutto il suo evolversi, vedendo di nuovo il proprio salvataggio ad opera di
Parmenion e quel primo giorno di passione nella casa estiva di Senofonte. Non
sopportando di rivivere la propria morte, seguì invece le vicissitudini di Parmenion
e assistette con orrore al duello in cui lui annientò Nestus.
Lo seguì quindi nel suo viaggio fino a Tebe e fu testimone dei suoi brevi
incontro privi di passione con la prostituta Thetis, sentendosi pervadere dall’ira.
Il modo in cui lui progettò la presa della Cadmea destò però in lei un orgoglio
superiore all’ira, e subito dopo assistette stupita al crollo di Parmenion, lo vide
trasportare sul letto e rimase invisibile spettatrice della preoccupazione di Mothac,
della sua ira contro il medico e infine della sua disperata supplica alla prostituta,
Thetis. Questa volta, inoltre, seguì tutta la scena e sentì Parmenion sussurrare il suo
nome nel sonno.
Stava delirando e pensava a lei!
Piena di gioia, avrebbe voluto protendersi per toccarlo e dirgli che era viva e le
importava di lui, ma poi la fredda realtà l’aggredì come l’alito dell’inverno.
Non sono viva, ricordò, e non potrò mai averlo.
Incitò quindi il tempo a riprendere a scorrere... vide Parmenion correre sul
terreno di addestramento e gli fluttuò accanto fino a portare il proprio volto
inconsistente a pochi centimetri dal suo. Protendendosi, cercò di accarezzargli i
capelli scuri, ma le sue dita gli attraversarono la pelle e la testa, e i pensieri di lui le
si riversarono nella mente.
Mentre correva stava ricordando quei pochi giorni sulle montagne, prima che il
loro segreto venisse scoperto, quando si erano amati sui prati e si erano tenuti per
mano fra gli alberi.
Infine si ritrasse dal suo spirito, perché la sua amarezza l’aveva bruciata come
l’acido che le aveva distrutto gli occhi. La sua gioia evaporò e lei fece ritorno al
tempio e ad un mondo di oscurità.
– Cosa hai imparato? – domandò Tamis, mentre l’aiutava a vestirsi.
– Che l’amore è sofferenza – rispose lei, con voce spenta. – Cosa mi insegnerai
oggi?
– Ti insegnerò a vedere. Gli occhi dello spirito sono molto più potenti di quelli
fisici che hai perduto. Concentrati... adesso hai sciolto le catene della tua anima e
fluttui libera dentro il mantello del corpo, che puoi trarre di lato come un velo in
qualsiasi momento tu voglia. Provaci. Pensa all’oro e all’azzurro.
Derae si concentrò sullo stelo ricurvo e si sollevò.
– Non troppo lontano! – gridò Tamis, afferrando il corpo che si era accasciato e
adagiandolo sul pavimento. – Devi mantenere il controllo di te stessa. Torna
indietro!
Derae obbedì e rientrò nel corpo, alzandosi in piedi.
– Ci vorrà dell’allenamento – commentò Tamis, – comunque ora prova spostare
in avanti la tua testa spirituale mantenendo fermo il resto del corpo.
Derae tentò. Per un momento le parve che funzionasse, perché poteva vedere e
al tempo stesso avvertire il proprio corpo, ma poi fu assalita dalle vertigini e andò a
sbattere contro Tamis, che le impedì di cadere.
– Imparerai – promise la vecchia. – Comunque ogni passo è una vittoria. Ora
però dobbiamo lavorare, perché tu devi imparare, e dobbiamo anche identificare
tutte le tue debolezze.
– Perché?
– Adesso partecipi anche tu alla guerra eterna, Derae, ed hai un letale nemico.
Anche il Dio Oscuro ti esaminerà, cercando un modo per distruggerti.
– È un pensiero che spaventa – ammise Derae.
– Ed è giusto che ti spaventi, perché quando arriverà il momento cruciale del
conflitto io sarò già morta e tu sarai sola.

Parmenion indugiò sulla sommità del costone e abbassò lo sguardo sul campo
dell’esercito spartano, disposto in un lungo rettangolo sul fondo della valle nelle
vicinanze di Tespi. In fretta contò le tende: c’erano cinque file di cinquanta tende,
ciascuna delle quali ospitava dieci guerrieri... il che significava un totale di
duemilacinquecento combattenti, senza contare quelli alloggiati in città.
Accarezzò per un momento il collo del castrato nero, poi lo pungolò con i
talloni, incitandolo ad avanzare. Adesso sarebbe cominciato il pericolo, ma con sua
sorpresa Parmenion avvertì insieme alla paura un senso di eccitazione e si rese
conto che erano quelle le cose che davano gioia nella vita... la squisita sensazione
della paura e dell’esaltazione che si combinavano per affinare la mente e i sensi.
Era come se gli anni trascorsi a Tebe fossero stati privi di colore. Sollevando lo
sguardo, contemplò il cielo solcato da qualche nuvola e avvertì l’aria montana che
gli pervadeva i polmoni.
Questa era vita!
Laggiù Ecate, la dea della morte, era in attesa con la sua scura daga snudata,
pronta a prendere la sua vita non appena lui avesse commesso un errore.
Ridacchiando, strinse maggiormente la cinghia che tratteneva l’elmo di cuoio
sotto il mento e prese a canticchiare una vecchia canzone che sua madre gli aveva
insegnato. Nel sentire quel suono il castrato rizzò gli orecchi e scosse la testa: era
una bestia eccellente, tanto che Pelopida aveva detto che era riuscita a distanziare
gli inseguitori e che soltanto un colpo fortunato aveva permesso loro di
raggiungere il cavaliere con una freccia alla base del cranio, sbalzandolo al suolo.
Subito il castrato aveva smesso di correre e si era girato per sfiorare con il muso il
cadavere steso a terra.
L’armatura dell’uomo calzava abbastanza bene a Parmenion, tranne la corazza
che era leggermente larga, e tanto gli schinieri quanto il gonnellino rinforzato in
bronzo sembravano essere stati fatti su misura per lui. Il mantello era di ottima lana
tinta di rosso ed era trattenuto da una spilla d’oro che Parmenion aveva sostituito
con una di bronzo, perché una spilla tanto costosa poteva essere riconosciuta e
provocare domande imbarazzanti.
I documenti del messaggero erano stati portati a Tebe, dove Epaminonda aveva
aperto il messaggio e lo aveva letto. Esso aveva a che vedere con le provviste e con
la necessità di isolare Tebe, ma verso la fine si parlava anche di Atene e
dell’esigenza di rimanere vigili.
– Puoi duplicare lo stile con cui è scritto il messaggio? – aveva chiesto
Epaminonda, mostrando la pergamena ad uno scriba di mezz’età con i capelli
prematuramente bianchi.
– Non sarà difficile – aveva risposto l’uomo, sbirciando il dispaccio.
– Quante righe possiamo aggiungere sopra la firma del re? – aveva domandato
Parmenion.
– Non più di due.
Parmenion aveva preso il messaggio e lo aveva letto parecchie volte. Esso si
concludeva con le parole: Il traditore Calepios sta assoldando mercenari ad Atene.
Siate vigili! Poi c’era uno spazio bianco e infine la firma, Cleombrotus.
Dopo aver riflettuto, Parmenion aveva dettato una breve aggiunta al messaggio,
che lo scriba aveva inserito con cura, e quando aveva letto quelle parole
Epaminonda aveva esibito un cupo sorriso.
– ‘Siate vigili e avanzate sul Pireo, distruggendo ogni forza ostile.’ Se avrà
successo, Parmenion, il tuo inganno provocherà la guerra fra Atene e Sparta.
– Il che potrà tornare soltanto a vantaggio di Tebe – aveva sottolineato
Parmenion.
– Ci sono per te gravi pericoli in tutto questo – gli aveva ricordato il Tebano, in
tono quieto. – E se ti riconoscessero, o non credessero al messaggio? O se c’è una
parola d’ordine, o...
– Allora morirò – lo aveva interrotto Parmenion, secco. – Ma è una cosa che
deve essere fatta.
Adesso, mentre cavalcava verso le tende, Parmenion sentì aumentare la propria
paura. Tre soldati di guardia gli sbarrarono il passo: si trattava di uomini originari
delle montagne degli Sciriti e non di veri Spartani, quindi si limitarono a salutarlo
quando lui si avvicinò, portando il pugno serrato sulla corazza di cuoio. Parmenion
ricambiò il saluto e tirò le redini.
– Cerco il generale Sphodrias – disse.
– È in città, perché risiede nella casa dell’eforo Anaximenes. Oltrepassa le
porte principali e dirigiti verso il tempio di Zeus. Troverai una casa alta, con due
alberi sottili vicino alle porte.
– Ti ringrazio – rispose Parmenion, allontanandosi.
La città, un centro di mercanti specializzato nella fabbricazione di carri da
guerra e nell’addestramento dei cavalli, era meno grande di Tebe e ospitava
soltanto dodicimila abitanti. Oltrepassate le porte, Parmenion vide molti piccoli
spiazzi erbosi su cui pascolavano splendide mandrie, e proseguendo arrivò alla
casa con i due alberi gemelli; là smontò di sella e lasciò il castrato davanti
all’edificio dalle pareti bianche, mentre un servitore si affrettava a venire a
prendere le redini dell’animale e una ragazza vestita di bianco gli si inchinava e lo
pregava di seguirlo all’interno della casa.
Parmenion venne condotto in un ampio androne dove parecchi ufficiali spartani
erano seduti a bere, e là la serva si avvicinò ad un individuo massiccio con una
folta barba rossa; l’uomo si alzò e si piantò le mani sui fianchi, scrutando
Parmenion che s’inchinò profondamente e si avvicinò.
– Allora, chi sei? – chiese Sphodrias, secco.
– Andicles, signore, ed ho un dispaccio da parte del re.
– Non ti ho mai sentito nominare. Dov’è Cleophon?
– È caduto da cavallo e si è rotto la spalla, signore, ma nonostante questo è
deciso a cavalcare con il re questa notte e ad essere al suo fianco durante la
battaglia.
– Cavalcare? Battaglia? Di cosa stai parlando?
– Chiedo scusa, signore – replicò Parmenion, porgendo al generale il cilindro di
cuoio.
Sphodrias tirò fuori la pergamena al suo interno e la srotolò; mentre lui
leggeva, Parmenion lanciò un’occhiata agli altri ufficiali e quando infine il suo
sguardo si posò su un giovane che stava giocando a dadi ad un tavolo vicino alla
finestra lo stomaco gli si contrasse... quell’uomo era Leonida.
– Qui non si parla di numeri – borbottò Sphodrias. – Quanti sono i nemici?
Dove sono accampati? Non posso semplicemente marciare in territorio ateniese e
massacrare i primi uomini in armatura che incontro.
– Si dice che siano cinquemila – si affrettò a spiegare Parmenion.
– Tremila opliti e il resto cavalleria... e corre voce che siano stati pagati con oro
persiano.
– Ci si può sempre aspettare un tradimento dagli Ateniesi – commentò
Sphodrias, annuendo. – Tuttavia dovremo marciare per tutta la notte per coglierli di
sorpresa... e non dubito che abbiano mandato degli esploratori. Dovrai rimanere al
mio fianco mentre informerò i miei ufficiali, perché potrebbero avere delle
domande da rivolgerti.
– Con tutto il rispetto, signore – replicò Parmenion, lottando per mantenere
calma la voce, – il re mi ha ordinato di tornare immediatamente da lui per esporgli
i tuoi piani, in modo che possa unire le sue forze alle tue sulla Piana di Triasia.
– Molto bene. Ordinerò al mio scriba di stilare una risposta.
– Non sarà necessario, signore. Se marcerai per tutta la notte, consiglierò al re
di venirti incontro fra Eleusi ed Atene. Sphodrias annuì e riportò la propria
attenzione sul messaggio.
– Uno strano dispaccio. Comincia parlando di provviste e finisce con
l’invasione di Atene... ma del resto, chi sono io per discutere?
– Sì, signore – replicò Parmenion, salutando.
Il suo sguardo si spostò per un istante su Leonida, che aveva smesso di giocare
a dadi e lo stava fissando con espressione intenta, poi s’inchinò e lasciò la stanza,
camminando con calma fino al cortile. Una volta là, però, spiccò la corsa e aggirò
la casa, raggiungendo le stalle dove il castrato era stato spazzolato e pettinato e lo
shabraque di pelle di leone era stato sistemato con cura su una rastrelliera.
Parmenion lo drappeggiò in fretta sul dorso del cavallo, eliminando le pieghe con
le mani prima di afferrare la criniera dell’animale e di balzargli in groppa.
Nello stesso momento sentì alle proprie spalle un rumore di piedi in corsa e
subito spronò il castrato, oltrepassando al galoppo la figura in corsa di Leonida.
– Aspetta! – gridò il giovane.
Il castrato uscì a precipizio sulla via principale, poi Parmenion lo costrinse a
rallentare fino a raggiungere le porte principali, lasciandolo però libero di
galoppare rapido verso le montagne una volta che le ebbe superate.
Guardandosi alle spalle, notò che due cavalieri stavano lasciando a loro volta al
galoppo la città. Il suo castrato arrivò in cima ad una salita con il respiro affannoso
e Parmenion fu costretto a rallentare per farlo riposare, ma la tempo stesso imboccò
stretti sentieri e piste insidiose su cui pensava che gli inseguitori non si sarebbero
addentrati.
Però si sbagliava. Mentre si stava accampando in una grotta su un costone, sentì
un rumore di cavalli al passo sulla ghiaia all’esterno, e il fuoco che aveva appena
acceso gli impedì di nascondere la propria presenza.
– Venite dentro al calore del fuoco – chiamò, mantenendo un tono allegro e
tranquillo.
Un momento più tardi due uomini si addentrarono nella grotta, uno alto e
pesante, con la barba scura, l’altro snello ma muscoloso. Entrambi avevano spada e
corazza.
– Leonida desidera parlare con te – affermò l’uomo barbuto. – Come ti chiami,
amico?
– Andicles. E tu? – replicò Parmenion, alzandosi in piedi.
– Qual è la tua famiglia? – insistette l’uomo. – Dove vivi?
– In base a quale diritto mi interroghi, Scirita? – tempestò Parmenion. – Da
quando in qua gli schiavi infastidiscono così i loro padroni?
– Sono un uomo libero e un guerriero – dichiarò lo Scirita, arrossendo in volto,
– e anche se non sono uno Spartano non intendo accettare insulti.
– Allora non essere il primo ad offendere! – scattò Parmenion. – Io sono un
messaggero del re e non devo rispondere a nessun uomo. Chi è questo Leonida, che
si arroga il diritto di mandarvi a interrogarmi?
– Per tutti gli dèi! – esclamò in quel momento l’uomo snello, che si era
avvicinato maggiormente. – Leonida aveva ragione! Sei proprio tu, Parmenion!
Parmenion socchiuse gli occhi nel riconoscere l’uomo: era Asiron, uno dei
ragazzi che lo avevano tormentato negli Alloggiamenti Licurgo, dieci anni prima.
– È ovvio che qui ci deve essere qualche errore – affermò, sorridendo.
– No – ribatté Asiron. – Ci scommetterei la vita.
– È quello che hai fatto – esclamò Parmenion, estraendo la spada e sferrando un
rapido colpo di rovescio alla gola dello Spartano.
Asiron si gettò all’indietro davanti alla lama lucente, ma già il sangue gli stava
sprizzando dalla ferita al collo.
Intanto lo Scirita scattò sulla sinistra, estraendo a sua volta la spada con un
sorriso da lupo.
– Finora non ho mai ucciso uno Spartano – sibilò, – ma ho sempre desiderato di
farlo.
Attaccò quindi con rapidità accecante; Parmenion parò e si ritrasse avvertendo
un senso di bruciore all’avambraccio destro... abbassando lo sguardo vide che stava
perdendo sangue da una ferita poco profonda.
– Credo che ti prenderò una fetta per volta – affermò lo Scirita, – a meno che tu
non preferisca arrenderti e metterti alla mia mercé.
– Sei molto abile – osservò Parmenion, mentre prendevano a girarsi intorno.
Lo Scirita sorrise senza replicare, poi si lanciò ancora all’attacco con una finta
al ventre, deviando in ultimo la spada in alto verso la faccia di Parmenion: la lama
scivolò spaventosamente vicina alla sua gola e la punta della spada gli lacerò la
pelle della guancia.
– Una fetta per volta – ripeté lo Scirita.
Parmenion si spostò a sinistra, in modo da mettere il fuoco fra loro, poi fece
scivolare il piede in avanti verso le fiamme e scagliò alcuni rami accesi contro la
faccia dello Scirita: il suo avversario indietreggiò incespicando, con la barba unta
d’olio in fiamme, e Parmenion gli fu subito addosso, piantandogli la spada
nell’inguine. Urlando, il guerriero tentò di vibrare un fendente, ma Parmenion si
abbassò e liberò al tempo stesso la propria lama. Un vivido fiotto di sangue
arterioso scaturì dalla ferita, inondando la gamba dello Scirita, e Parmenion si
trasse indietro, aspettandosi di veder cadere l’avversario... ma questi gli si lanciò
contro. Parmenion riuscì a parare un rapido affondo ma il pugno dell’uomo lo
raggiunse al mento e lo fece cadere sul suolo della grotta, dove lui ebbe la
prontezza di rotolare di lato per evitare la lama dell’avversario, che andò a cadere
accanto alla sua testa scagliando nell’aria una pioggia di scintille. Lo Scirita
barcollò, con il sangue che si raccoglieva in una pozza ai suoi piedi.
– Per gli dèi – borbottò, con la voce impastata. – Credo che tu mi abbia ucciso,
ragazzo.
Poi crollò in ginocchio e lasciò cadere la spada.
Riposta l’arma nel fodero, Parmenion sorresse l’avversario quando questi si
accasciò da un lato e lo adagiò al suolo, sedendogli accanto e guardando il suo
volto che si faceva sempre più pallido.
– Non... sono mai... riuscito... ad uccidere... uno Spa... – mormorò l’uomo, poi
gli occhi gli si chiusero e l’ultimo respiro gli rantolò in gola.
Alzatosi in piedi, Parmenion si accostò ad Asiron. Il giovane aveva picchiato la
testa contro la parete della grotta quando era balzato indietro per difendersi dal
fendente e il taglio che aveva riportato alla gola non era profondo, come
dimostrava il fatto che il sangue si stava già coagulando. Togliendogli la cintura,
Parmenion gli legò le mani dietro la schiena e riaccese il fuoco, poi si tolse i
sandali per dare sollievo al piede destro ustionato dalle fiamme e li scagliò
dall’altra parte della grotta. Asiron impiegò più di un’ora a svegliarsi: allorché
tornò in sé cercò in un primo tempo di lottare contro i legami, poi rinunciò e fissò
lo sguardo su Parmenion.
– Cane traditore! – sibilò.
– Sì, sì – replicò Parmenion, in tono stanco. – Sentiamo prima tutti gli insulti...
così dopo potremo parlare.
– Io non ho nulla da dirti – affermò Asiron, poi il suo sguardo si spostò sul
corpo dello Scirita e lui sgranò gli occhi per la sorpresa. – Dèi, non avrei mai
creduto che potesse essere battuto in un duello con la spada!
– Tutti gli uomini possono essere battuti – osservò Parmenion. – Cosa ti ha
detto Leonida?
– Gli era parso di averti riconosciuto, ma non ne era certo, quindi ha mandato
me... e Damas... ad intercettarti.
– Non ne era certo... questo è un bene – annuì Parmenion. – Allora l’esercito
spartano sta già marciando contro il nemico. Mi chiedo se stiano intonando canti di
battaglia che parlano di gloria. Tu che ne pensi, Asiron?
– Penso che tu sia una vile creatura bastarda.
– È questo il modo di parlare ad un vecchio amico che ha deciso di non
ucciderti?
– Non otterrai ringraziamenti da me.
– Ricordi la notte precedente i Giochi del Generale, quando tu, Learcus e
Gryllus mi avete assalito? – chiese Parmenion, con una risata sommessa. – Ho
trascorso quella notte nascosto sull’acropoli, sognando il giorno in cui vi avrei
potuti ripagare di tutto. Ma del resto i bambini sono pieni di fantasie, giusto?
Mentre tu te ne stai seduto lì, io ho appena mandato un esercito di Sparta ad
invadere Atene, e il mio cuore sta ardendo di soddisfazione.
– Mi dai la nausea! Dov’è la tua fedeltà? E il tuo senso dell’onore?
– Onore? Fedeltà? Ecco, credo che siano stati spremuti fuori dal mio animo a
colpi di bastone da quei buoni gentiluomini spartani tuoi pari che insistevano nel
ritenere che fossi un Macedone... e che non avessi nulla di spartano. A chi dovrei
esprimere la mia fedeltà? – domandò, mentre la voce gli si induriva. – Al popolo
che ha ucciso la donna che amavo? Alla città che mi ha reso un fuoricasta? No,
Asiron, ti ho lasciato in vita per un motivo molto semplice: voglio che tu riferisca a
Leonida che sono stato io ad organizzare la riconquista della Cadmea... e a mettere
Sparta contro Atene. E c’è di più, mio caro, vecchio amico. Sarò ancora io a vedere
Sparta distrutta, i suoi edifici rasi al suolo e il suo potere annientato.
– Chi credi di essere? – domandò Asiron, con una secca risata priva di
umorismo.
– Ti dirò io chi sono – rispose Parmenion, con le parole di Tamis che gli
echeggiavano nella mente. – Sono Parmenion, la Morte delle Nazioni.

Poco dopo l’alba, Parmenion lasciò andare Asiron e si avviò verso Tebe. I tagli
al braccio e al volto stavano guarendo in fretta, ma il piede destro ustionato e
coperto di vesciche ebbe l’effetto di metterlo di cattivo umore mentre si dirigeva al
trotto verso le porte cittadine. Una freccia gli sibilò accanto, poi una seconda e lui
si affrettò a girare il cavallo e a portarsi fuori tiro mentre parecchi cavalieri gli
venivano incontro con la spada sguainata. Subito Parmenion si strappò dalla testa
l’elmo spartano e si fermò per aspettarli.
– Sono io! – gridò. – Parmenion!
I cavalieri, fra i quali riconobbe anche due membri della banda Sacra, lo
circondarono e presero a tempestarlo di domande, ma lui li zittì con un gesto e
proseguì alla volta della città per fare il suo rapporto ad Epaminonda.
Quattro giorni più tardi Parmenion venne svegliato a mezzanotte da alcune
grida che echeggiavano fuori della sua casa. Alzatosi dal letto con irritazione, si
gettò un mantello intorno al corpo nudo e si avviò giù per le scale, incontrandosi
con Mothac nel cortile.
– Chiunque sia, gli fracasserò il cranio – brontolò il Tebano, mentre l’ignoto
schiamazzatore cominciava a picchiare contro le porte. Non appena Mothac aprì i
battenti, Pelopida entrò di corsa seguito da Epaminonda. Il guerriero tebano, che
era manifestamente ubriaco, afferrò Parmenion per la vita e lo sollevò in aria,
facendolo ruotare su se stesso.
– Ce l’hai fatta! – gridò. – Dannazione, ce l’hai fatta!
– Mettimi giù, idiota! Mi stai rompendo le costole. Pelopida lo lasciò andare e
si girò verso Mothac.
– Non te ne stare lì a bocca aperta, uomo! Prendi del vino! Questo è un
festeggiamento.
– Devo rompergli la faccia? – chiese Mothac a Parmenion, senza muoversi di
un millimetro.
– Credo di no. È meglio che tu prenda il vino – rise lo Spartano, poi spostò lo
sguardo su Epaminonda, aggiungendo: – Cosa sta succedendo?
– Un’ora fa è arrivato un messaggero da parte di Calepios, che è ad Atene.
Sphodrias e il suo esercito sono apparsi a nord della città, all’alba di tre giorni fa.
Hanno devastato alcuni villaggi e sono avanzati verso il Pireo. A quel punto un
contingente ateniese è uscito per incontrarli accompagnato dall’ambasciatore di
Sparta, e Sphodrias è stato costretto a ritirarsi. Per tutti gli dèi, avrei voluto essere
là a vedere.
– Ma poi cosa è successo? – insistette Parmenion.
– Lascia che sia io a dirglielo! – intervenne Pelopida, con un sogghigno in
tralice sul volto pervaso da una gioia quasi infantile.
– Continua tu, nobile Pelopida – replicò Epaminonda, con un inchino.
– Gli Ateniesi non erano contenti, oh, no! Il loro consiglio si è riunito ed hanno
deciso di mandare... dolce Zeus, quanto mi piace questo... hanno deciso di mandare
cinquemila opliti e seicento cavalieri in difesa di Tebe. Cinquemila!
– Sono notizie meravigliose – commentò Epaminonda, accettando un boccale
di vino da Mothac mentre Pelopida entrava barcollando nell’androne e si stendeva
su un divano.
– Non è una conclusione ma è un buon inizio – replicò Parmenion, in tono
quieto. – Cosa è successo a Sphodrias?
– È stato richiamato a Sparta... con il suo esercito. La Beozia è libera... tranne
che per le guarnigioni.
– Così adesso Sparta e Atene sono in guerra – sussurrò Parmenion. –
Dovremmo essere al sicuro... almeno fino alla prossima primavera.
– Ed ora le altre città della Beozia cercheranno di liberarsi a loro volta delle
guarnigioni spartane – annuì Epaminonda. – Pelopida lascerà la città domani con la
Banda Sacra per andare in aiuto dei ribelli di Tanagra. Credo che possiamo vince-
re, Parmenion, lo credo davvero.
– Non tentare gli dèi – ammonì Mothac.
– Molto tempo fa mi è stato detto che sarei morto nella battaglia di Mantinea –
rise Epaminonda. – La cosa mi ha spaventato moltissimo, perché la veggente in
questione era la famosa Tamis, amata dagli dèi. Puoi quindi immaginare come mi
sentivo quando insieme a Pelopida mi sono trovato a combattere a Mantinea contro
gli Arcadi. Eravamo circondati e Pelopida è caduto sotto le ferite. Io ho mantenuto
la mia posizione, pronto a morire, ma non sono morto. E perché? Perché non
esistono dèi e tutte le profezie possono essere distorte in modo da significare ciò
che chi le sente vuole che significhino. Tentare gli dèi, Mothac? Io li sfido. Del
resto, anche ammesso che esistano, sono troppo interessati a cambiare la loro
forma e a placare i loro desideri con qualsiasi cosa si muova per preoccuparsi di
quello che un singolo mortale può pensare di loro. Ora penso che dovrei
raccogliere Pelopida e accompagnarlo a casa – concluse, poi di colpo afferrò
Parmenion per un braccio e il sorriso gli svanì dal volto mentre aggiungeva: –
Ancora una volta sei il nostro salvatore, mio spartano amico, e non posso dirti
quanto ti sono grato. Un giorno troverò il modo di ripagarti.
Pelopida si era addormentato sul divano, ma Epaminonda lo scosse fino a
svegliarlo e lo issò in piedi, guidandolo verso le porte. Immediatamente il Tebano
ubriaco intonò un canto di marcia e i due uomini si allontanarono nell’oscurità.

Durante i mesi che seguirono, Parmenion condusse una vita strettamente


privata e trascorse il proprio tempo addestrando gli opliti, correndo e leggendo; di
tanto in tanto partecipava a questa o quella festa come ospite di Epaminonda o di
Calepios, che era tornato in trionfo da Atene, ma per lo più si tenne appartato e
fece lunghe cavalcate nella campagna circostante, esplorando le colline e le vallate
intorno a Tebe.
Con l’avvicinarsi della primavera dell’anno successivo, nella città si diffuse
intensa la speranza che la minaccia spartana fosse stata sopraffatta e che l’antica
Lega Beota potesse essere riformata. Pelopida e la sua Banda Sacra erano stati di
importanza determinante nell’aiutare i ribelli di Tanagra e di Platea ad espellere le
guarnigioni spartane e correva perfino voce che il grande re della Persia intendesse
accogliere la richiesta tebana di autonomia da Sparta.
Poi giunsero notizie spaventose: Agisaleus aveva raccolto un esercito di
undicimila opliti e di duemila cavalieri e stava marciando per schiacciare la
ribellione.
La sera successiva, Mothac si recò a visitare la tomba di Elea e a prendersi cura
dei fiori che vi aveva piantato, facendo ritorno a tarda notte immerso in tristi
pensieri. Quando raggiunse la stretta strada antistante la casa di Parmenion, scorse
una figura che nell’ombra spiccava un balzo per scalare il muro: sbattendo le
palpebre, mise a fuoco la propria vista su quel punto, ma adesso non vi si scorgeva
più nulla. Poi una seconda figura scavalcò il muro della casa di Parmenion.
Pervaso da un senso di gelo, Mothac raggiunse di corsa il cancello, aprendolo.
– Parmenion! – gridò.
Mentre attraversava a precipizio il cortile una sagoma scura emerse con
violenza dall’ombra, andandogli a sbattere contro e la luce della luna si riflesse su
un coltello che gli saettava accanto alla faccia. Rotolando di lato, Mothac si alzò in
piedi bloccando un affondo e calando il pugno contro la faccia dell’avversario, che
cadde all’indietro. Gettandoglisi addosso, Mothac cercò di afferrare il polso della
mano che stringeva il coltello, ma mancò la presa nel buio e la lama gli si piantò
nella spalla sinistra. Il Tebano sferrò allora una ginocchiata all’inguine
dell’avversario, strappandogli un grugnito di dolore, poi gli serrò le mani intorno
alla gola e si proiettò in avanti, sbattendo la testa dell’uomo contro il muro del
cortile. L’assassino si accasciò, ma Mothac gli sbatté la testa contro la pietra altre
tre volte, lasciando andare il cadavere soltanto quando sangue e sostanza cerebrale
scivolarono a bagnargli le mani.
– Parmenion! – gridò di nuovo.

L’assassino chiamato Gleamus imprecò sommessamente nel sentire il servitore


gridare, poi salì di corsa i gradini che portavano al piano superiore dove dormiva il
traditore. Fermatosi fuori della porta rimase in ascolto, ma dall’interno non giunse
nessun suono. Possibile che lo Spartano non avesse sentito il grido?
Era possibile, ma Gleamus esercitava il suo mestiere ormai da quasi vent’anni,
accettando incarichi in Egitto, in Persia, ad Atene e nell’Illiria, ed era sempre
sopravvissuto usando il cervello e non lasciando nulla al caso.
Da giorni ormai stava osservando la casa del traditore, studiando i suoi
movimenti e valutandolo come uomo. La sua preda era un guerriero, perché si
muoveva bene, con agilità, ed era sempre attento. La debolezza risiedeva però nella
casa stessa, perché c’era una sola uscita dalla camera da letto... a meno che un
uomo non volesse saltare nel cortile sottostante, rompendosi sicuramente qualche
osso.
Il piano era già andato male, ma c’era ancora il tempo per guadagnarsi la taglia
offerta da Agisaleus, quindi Gleamus rifletté sulla mossa successiva. Era possibile
che l’uomo oltre la soglia fosse sveglio... ma in questo caso dove si era messo? Il
giorno precedente, quando in casa non c’era nessuno, Gleamus aveva visitato
l’edificio, memorizzando i dettagli della camera da letto, e sapeva che non c’era
dove potersi nascondere perché la camera era piccola. Di conseguenza, restavano
poche alternative all’uomo al suo interno: se era sveglio, si sarebbe messo a sinistra
o a destra della porta. Dietro di lui, Aris e Sturma stavano salendo le scale, ma non
avrebbe avuto bisogno di loro: poteva uccidere quella vittima da solo, dimostrando
così che lui era ancora un maestro.
Sollevato il chiavistello, spalancò la porta con violenza mandandola a sbattere
contro la parete di sinistra; nello stesso momento si accorse che il letto era vuoto e
balzò in avanti con un grido selvaggio, calando il coltello verso destra, nel punto in
cui si doveva trovare il traditore. La lama andò però a sbattere contro la parete.
Momentaneamente sconcertato, Gleamus s’immobilizzò, scrutando la stanza
rischiarata dalla luna. Il traditore era scomparso! Lo aveva visto entrare e non
poteva essere da nessun’altra parte!
Un’ombra si mosse sopra di lui e Gleamus si volse di scatto, sollevando il
coltello... ma era troppo tardi: la spada del traditore gli si piantò in corpo sopra la
clavicola, trapassandogli polmoni. Con un grugnito Gleamus indietreggiò lasciando
cadere a terra la daga, e anche se la vita gli stava sfuggendo dal corpo la sua mente
di assassino non poté fare a meno di ammirare quella mossa: lo Spartano si era
arrampicato sull’architrave sovrastante la porta.
Tanto semplice, pensò.
Il legno del pavimento risultò fresco contro il suo volto, e la sua mente
cominciò a vagare mentre lui rivedeva la casa di suo padre sull’isola di Creta, i
suoi fratelli che giocavano sulle colline, sua madre che per addormentarli cantava
loro canzoni che parlavano degli dèi e degli uomini.
Il sangue gli gorgogliò in gola e il suo ultimo pensiero tornò ad essere per lo
Spartano. Così astuto. Così astu...

Parmenion liberò la spada dal cadavere e si allontanò dalla soglia. Una lama
calò verso la sua faccia ma lui parò con la spada e sferrò un sinistro al mento
dell’aggressore, mandandolo a sbattere contro il terzo sicario che era ancora sulle
scale. Entrambi gli uomini incespicarono e Parmenion balzò loro addosso a piedi in
avanti, raggiungendo con il piede destro il mento del primo uomo. I sue sicari
rotolarono fino al piano di sotto e Parmenion scavalcò la ringhiera della scala,
lasciandosi cadere nell’androne sottostante mentre i due uomini si rialzavano in
piedi.
– Adesso sei morto, mezzosangue – borbottò il primo.
I due si separarono, avanzando dai due lati, ma Parmenion sferrò un attacco
improvviso contro l’uomo sulla destra per poi ruotare su un tallone e calare la
spada sulla gola dell’avversario di sinistra che stava scattando in avanti.
L’assassino cadde al suolo con il sangue che fiottava sui tappeti persiani che copri-
vano il pavimento di pietra e l’ultimo sicario prese a muoversi con cautela, il volto
barbuto che brillava per il sudore.
– Non sono facile da uccidere – mormorò Parmenion, in tono sommesso.
L’uomo indietreggiò verso la porta, ma Mothac incombette alle sue spalle e gli
piantò una daga nei polmoni.
Il sicario si accasciò senza un suono.
Mothac oltrepassò la soglia barcollando e si andò a sedere nel cortile, con l’elsa
di bronzo di un coltello che gli sporgeva dalla spalla. Parmenion accese un paio di
lanterne ed esaminò la ferita.
– Tira fuori questo dannato arnese – grugnì Mothac.
– No, per il momento è meglio che resti dov’è. Impedirà un’eccessiva
fuoriuscita di sangue in attesa che arrivi il medico – replicò Parmenion,
versandogli un bicchiere di vino senza allungarlo con l’acqua. – Non ti muovere, io
tornerò presto con Argonas.
Protendendo una mano, Mothac lo trattenne per un braccio.
– Apprezzo il tuo desiderio di fare in fretta – disse, costringendosi a sorridere, –
ma forse sarebbe meglio se prima ti vestissi.
– Mi hai salvato la vita, Mothac – sorrise Parmenion, addolcendosi in volto, –
ed hai quasi perso la tua. Non lo dimenticherò.
– Non è stato niente, ma potresti almeno dire che faresti lo stesso per me.
Due ore più tardi, dopo che il coltello era stato rimosso e la ferita fasciata,
Mothac stava ormai dormendo e Parmenion stava tenendo compagnia ad Argonas,
osservando il grasso medico divorare un pezzo di prosciutto bagnato da quattro
boccali di vino e poi sei dolci al miele. Alla fine Argonas ruttò e si adagiò
all’indietro sul divano, che scricchiolò sotto il suo peso.
– Conduci davvero una vita interessante, mio giovane amico – commentò. –
Impersoni messaggeri spartani, combatti contro misteriosi sicari nel cuore della
notte. Mi chiedo se non ci siano pericoli a frequentarti.
– Mothac tornerà ad essere quello di prima? – chiese Parmenion, ignorando il
commento.
– La lama ha attraversato la parte carnosa della spalla, dove lui è molto
muscoloso. Non è una ferita rotonda, quindi guarirà più facilmente ed io vi ho
applicato midollo di fico, che dovrebbe aiutare il sangue a coagulare. Avrà un certo
disagio per parecchie settimane, ma i muscoli si salderanno ed entro l’estate
dovrebbe essersi rimesso.
– Ti sono assai grato, Argonas. Mothac significa molto per me.
– Già – convenne Argonas, accarezzandosi la barba, – i buoni servitori sono
difficili da trovare. Io stesso avevo un servitore della Tracia, un uomo meraviglioso
che anticipava ogni mia esigenza prima che mi rendessi conto che esistesse. Non
ho più trovato uno come lui.
– Cosa gli è successo? – domandò Parmenion, più per cortesia che per effettivo
interesse.
– È morto – rispose Argonas, in tono triste. – Soffriva di un cancro nel cervello,
come il tuo, ma era un uomo che non parlava mai dei suoi problemi e quando
infine è crollato era ormai troppo tardi per impedire che morisse. Non dimenticare
mai di prendere l’infuso di silphium, amico mio, perché una morte del genere è
dolorosa a vedersi e ancor più penosa a patirsi. Devo peraltro dire che il tuo
servitore ha trovato per te una cura davvero nuova... la userei io stesso se non
avessi già abbastanza problemi con i miei colleghi.
– Credevo che fosse stato il siplhium a guarirmi – osservò Parmenion.
– Infatti, ma era prima necessario riportarti alla coscienza perché potessi berlo.
Quel Mothac è un uomo premuroso e intelligente, e se mai dovesse decidere di
lasciare il tuo servizio mi farebbe immenso piacere assumerlo.
– Sì, sì, ma cosa ha fatto?
– Non lo ricordi?
– Per pietà, Argonas! Se lo ricordassi, pensi che lo chiederei a te? – scattò
Parmenion, con crescente irritazione.
– Ha portato nel tuo letto la tua prostituta preferita: una sacerdotessa di
Afrodite. Pare che la forza di vivere si rafforzi notevolmente in un uomo il cui
desiderio viene risvegliato.
– No – sussurrò Parmenion, – non è stato così. È stata Derae a venire da me.
Argonas si issò in piedi con un’espressione preoccupata negli occhi scuri.
– Mi dispiace, Parmenion, ho parlato a sproposito... attribuiscilo ad un eccesso
di vino e alla mancanza di sonno. Forse si è trattato di entrambe le donne... Derae
nello spirito e la sacerdotessa nella carne.
Parmenion quasi non lo sentì, perché stava ricordando la sacerdotessa ferma
sulla porta, il suo sorriso, il suo profumo, l’ira e il dolore nei suoi occhi, la porta
che si chiudeva con violenza.
– Hai riflettuto sul perché quei sicari abbiano cercato di ucciderti? – domandò
Argonas.
– Cosa? No, non riesco a immaginare una ragione. Forse erano soltanto ladri.
– Ladri senza tasche o sacchi? Non credo. Bene, ora devo andare. Tornerò
domani per controllare la ferita di Mothac e intascare la mia parcella.
– Sì. Ti ringrazio – rispose Parmenion, in tono distratto.
– E bada a dove cammini, amico mio. Chiunque ha assoldato quegli uomini ne
può sempre assoldare degli altri.

Due giorni più tardi, Parmenion ricevette la visita dell’ufficiale anziano della
milizia cittadina. Menidis aveva quasi settant’anni ed era stato un soldato per oltre
mezzo secolo; negli ultimi dieci anni aveva comandato la piccola milizia che
operava all’interno della città ed era responsabile del pattugliamento delle strade
con il buio e della difesa delle grandi porte di Tebe.
– Quegli uomini erano stranieri – esordì Menidis, scrutando Parmenion con i
suoi acuti occhi grigi da sotto le sopracciglia cespugliose. – Sono giunti in città
quattro giorni fa dalle Porte Proitiane, dicendo di essere arrivati di recente da
Corinto e di essere interessati a comprare carri da guerra tebani. Io sono convinto
che venissero da Sparta. – Il vecchio soldato fece una pausa e attese di vedere
l’effetto che le sue parole avevano avuto sul giovane che gli sedeva davanti, ma
Parmenion rimase impassibile. – Il ruolo che tu hai avuto nel liberarci dalla do-
minazione di Sparta è risaputo – proseguì, – e credo che quegli uomini siano stati
assoldati per ucciderti.
– Hanno fallito – replicò Parmenion, scrollando le spalle.
– Questa volta, ma supponiamo per un momento che siano stati pagati da un
ricco nobile. Uomini del genere sono facili da trovare, e purtroppo lo sei anche tu.
– Mi suggerisci di lasciare Tebe?
– Quello che fai riguarda soltanto te – ribatté il vecchio, con un sorriso. – Potrei
ordinare ad alcuni dei miei uomini di proteggerti dovunque vai e di vegliare sul tuo
sonno, e del resto il nobile Epaminonda ha richiesto che poniamo almeno delle
sentinelle davanti alle tue porte, ma ci saranno sempre momenti in cui ti troverai a
camminare in un viale affollato o ti fermerai al mercato per comprare qualcosa, e
un assassino deciso potrà sempre raggiungerti.
– È vero – ammise Parmenion, – ma non sono propenso a fuggire. Questa è la
mia casa e non voglio le tue guardie qui, anche se ti ringrazio per l’offerta. Se un
assassino deve uccidermi, così sia... ma non sarò una facile vittima.
– Se non fosse stato per il tuo servitore tebano – sottolineò Menidis, – saresti
stato la più facile delle vittime, perché un uomo che dorme può opporre ben poca
resistenza. Tuttavia la scelta è tua e tu hai già deciso – concluse il soldato, alzan-
dosi e allacciandosi l’elmo sotto il mento.
– Dimmi una cosa – chiese Parmenion. – Mi pare di avvertire che non t’importi
molto che quei sicari abbiano successo o meno... come mai?
– Sei molto astuto ed io sono convinto che si debba essere sempre onesti,
quindi ti risponderò. Il fatto che tu abbia deciso di tradire la tua città e di aiutare
Tebe mi dà motivo di esserti grato, ma sei pur sempre uno Spartano, ed io
disprezzo gli Spartani. Ti auguro una buona giornata.
Scuotendo il capo, Parmenion osservò il vecchio allontanarsi... in modo strano,
le parole di Menidis lo preoccupavano più dell’aggressione di quella notte. Con
passo lento e riflessivo, entrò nella stanza di Mothac, dove il servo stava
imprecando mentre tentava di infilare il braccio ferito nel chitone.
– Lascia che ti aiuti – offrì Parmenion, – anche se Argonas ha insistito che
dovresti rimanere a letto per una settimana.
– Due giorni mi sono sembrati una settimana – scattò Mothac.
– Te la senti di camminare?
– Ma certo! Sembro forse un invalido?
Scrutando in volto il Tebano, Parmenion lesse l’ira nei suoi occhi: le guance di
Mothac erano tanto arrossate da avere quasi lo stesso colore della sua barba e il suo
respiro era accelerato.
– Sei un uomo cocciuto, ma faremo come vuoi e usciremo a passeggiare.
Parmenion si armò di spada e di daga, e insieme i due raggiunsero a passo lento
i giardini sul lato orientale del pendio della Cadmea, dove c’erano alcune fontane
per rinfrescare la brezza e fiori che crescevano tutto l’anno. I due uomini sedettero
vicino ad un corso d’acqua poco profondo, sotto le foglie ingiallite di un salice, e
Parmenion riferì la sua conversazione con Menidis.
– Non si è certo ammorbidito con l’età, vero? – ridacchiò Mothac. – Due anni
fa ha arrestato due soldati spartani, fracassando loro il cranio e sostenendo che
stavano molestando una donna tebana di rango, il che è un’assurdità, perché le
donne tebane di rango non hanno il permesso di circolare nelle strade.
– In questo, se non altro, siete arretrati rispetto a Sparta – osservò Parmenion. –
Là le donne camminano liberamente quanto gli uomini, senza restrizioni.
– Vergognoso – osservò Mothac. – Allora come si fa a distinguerle dalle
prostitute?
– A Sparta non ci sono prostitute.
– Non ce ne sono? Incredibile! Non mi meraviglia che gli Spartani siano tanto
ansiosi di conquistare altre città.
– Visto che stiamo parlando di prostitute, Mothac, dimmi qualcosa della notte
che ne hai portata una nel mio letto.
– Come lo hai scoperto?
– Non ha importanza. Perché non me lo hai detto?
Mothac scrollò le spalle, poi sussultò per la fitta di dolore che questo provocò
alla ferita e tentò di massaggiarsela, ottenendo soltanto di peggiorare le cose.
– Eri convinto che fosse stato un miracolo. Volevo dirti la verità, ma... ma non
l’ho fatto. Non ci sono scusanti e mi dispiace, ma non sono riuscito a pensare ad
altro. Comunque a funzionato, giusto?
– Ha funzionato – convenne Parmenion.
– Sei irato?
– Soltanto un po’ triste. Era piacevole sentire che Derae fosse tornata per me...
sia pure soltanto in sogno. Forse ha ragione Epaminonda quando dice che gli dèi
non esistono, anche se spero che si sbagli: quando guardo il cielo, o il mare, o un
bel cavallo, mi piace credere negli dèi, mi piace sentire che c’è un ordine di
qualche tipo, un significato per l’esistenza.
– Capisco cosa vuoi dire... ed io ci credo – dichiarò Mothac, annuendo. – Ci
devo credere, perché dall’altra parte c’è qualcuno che mi aspetta, e se non avessi
questa convinzione mi taglierei la gola.
– È morta il giorno che sei venuto da me – disse Parmenion. – Si chiamava
Elea.
– Come lo sai?
– Quel primo giorno ti ho seguito ed ho visto la processione funebre. Dopo che
te ne sei andato... per uccidere Cletus, a quanto è risultato poi... mi sono avvicinato
alla tomba per porgere i miei omaggi.
– Era una donna meravigliosa – mormorò Mothac. – Non si lamentava mai... e
quando chiudo gli occhi vedo ancora il suo volto.
– Almeno tu hai avuto più di cinque giorni – sussurrò Parmenion, alzandosi. –
Torniamo indietro. Credo che tu sia più stanco di quanto sembri.
All’improvviso un uomo emerse dall’ombra alle loro spalle: la spada di
Parmenion fendette l’aria e l’uomo si ritrasse d’un balzo, con le mani alzate e la
bocca spalancata per lo spavento.
– Non ho armi! Non ne ho! – gridò. Alle sue spalle c’era un bambino di circa
sette anni che si teneva aggrappato al mantello del padre.
– Mi dispiace – si scusò Parmenion, – ma mi hai spaventato.
Riposta la spada nel fodero, indirizzò un sorriso al bambino, che però scoppiò
in pianto.
– Sei più preoccupato di quanto tu dia a vedere – osservò Mothac, mentre
cominciavano la lunga camminata fino a casa.
– Sì, perché mi spaventa sapere che un coltello, una spada o una freccia
potrebbero arrivare da qualsiasi direzione. Tuttavia, se lasciassi Tebe sarei per
sempre ciò che ero quando sono arrivato qui... un povero. Ho investito del denaro
in parecchie imprese commerciali, ma devo ancora restituire ad Epaminonda la
somma che ha pagato per la casa.
– Meglio povero e vivo – commentò Mothac, – che ricco e morto.
– Meglio ancora essere ricco e vivo.
– Potresti unirti alla Banda Sacra. Pelopida sarebbe felice di averti con sé e
anche il più incallito degli assassini avrebbe difficoltà ad avvicinarti.
– Questo è vero – convenne Parmenion, – ma non intendo servire agli ordini di
nessun uomo... tranne forse di Epaminonda, perché lui ed io pensiamo nello stesso
modo. Pelopida è troppo impulsivo e non conviene essere impulsivi quando ci si
trova di fronte gli Spartani.
– Pensi ancora che abbiamo la forza di affrontarli?
– Non è questione di pensarlo, Mothac, io lo so. Per ora però dobbiamo
mantenere una posizione di stallo e rifiutare uno scontro in campo aperto. Quel
momento arriverà, ma dobbiamo avere pazienza.

Leucion aveva dormito male, facendo sogni pieni di ansia e di frustrazione, e si


svegliò presto di pessimo umore, mentre gli altri nove guerrieri dormivano ancora.
Dannazione a quella prostituta! pensò mentre smuoveva le ceneri del fuoco,
trovando infine qualche carbone ardente e aggiungendo foglie secche e ramoscelli
fino a ravvivare la fiamma. Aveva parlato di amore, ma quando il suo denaro era
finito aveva riso di lui e gli aveva ordinato di uscire dalla sua casa. Dannata
prostituta persiana! Le battaglie erano finite e i contingenti di mercenari erano stati
congedati. Leucion ricordava ancora come fossero stati accolti da folle plaudenti
che gettavano fiori sul loro cammino, ma subito dopo erano stati congedati nel giro
di una notte con una manciata di monete e senza una parola di ringraziamento.
Ci disprezzano tutti, comprese. Persiani. E tuttavia dove sarebbero senza di
noi, che combattiamo le loro miserabili battaglie? Sono tutti barbari.
Aperta la sacca che portava la fianco, ne tirò fuori l’ultima moneta. Era d’oro,
calda e pesante, e su un lato era stampato il volto del grande re, mentre dall’altro
c’era un arciere inginocchiato con l’arco teso. I Persiani chiamavano quelle monete
darie, dal nome di Dario il Grande, ma per i mercenari greci esse erano arcieri e
costituivano il solo motivo per cui tanti guerrieri greci combattevano le guerre
persiane.
– Nessun Greco è inattaccabile dagli arcieri persiani – gli aveva detto
Artabazarnes, mentre bevevano insieme, poi era scoppiato in una risata di derisione
e Leucion aveva provato il desiderio di cancellare con i pugni quel sogghigno dal
suo volto.
Seduto davanti al fuoco, sentiva ora la sua ira ardere più intensa delle fiamme.
Pendar si svegliò e lo raggiunse.
– Cosa ti turba? – gli chiese.
– Questo dannato paese.
– Ieri il tuo umore era eccellente.
– Ecco, oggi è oggi! – scattò Leucion. – Sveglia gli uomini e riprendiamo il
cammino. Fino alla città ci sono dieci giorni di cavallo.
– Credi che ci assolderanno?
– Fa’ come ti ho detto! – ruggì Leucion.
Pendar si ritrasse davanti a lui e andò a svegliare gli uomini mentre Leucion si
massaggiava con le dita la corta barba nera. Adesso era tutta arruffata, e lui
desiderava una fiala di olio profumato... e un bagno. Dopo essersi infilato la
corazza, assestò le protezioni per le spalle e si diresse a grandi passi verso il suo
cavallo.
Finalmente gli uomini furono tutti in sella e si avviarono attraverso le verdi
colline, con l’armatura che brillava sotto il sole del mattino; superata un’altura,
avvistarono una serie di piccoli villaggi e un distante tempio dalle colonne bianche,
al di là del quale si allargava il mare scintillante.
Con uno strattone alle redini, Leucion si diresse verso il villaggio più vicino.
Adesso la testa gli pulsava e lui socchiuse gli occhi per resistere al dolore.
Che i vermi possano divorarti, dannata prostituta!
Quando furono vicini al villaggio, lanciò un’occhiata al tempio. Trovandosi in
alto sulle colline, poteva vedere al di là delle sue mura, nei giardini interni, nei
quali stava passeggiando una giovane donna con i capelli fra il rosso e l’oro che
riflettevano la luce del sole e con il corpo snello dai seni che premevano contro
l’abito sottile che aveva indosso.
Una scena affiorò nella mente di Leucion: la donna che si contorceva sotto di
lui, implorandolo di fermarsi, supplicandolo mentre lui le accostava il coltello alla
gola, lo faceva scivolare nella pelle, con il sangue che sprizzava...
Spronato il cavallo al galoppo puntò verso la porta incorniciata di rose.
Mentre ancora si stava avvicinando al tempio, si rese conto che gli altri non gli
avrebbero mai permesso di uccidere la donna senza prima averla posseduta a loro
volta. No, avrebbe dovuto pazientare. Quei pensieri lo sorpresero, perché prima di
allora non aveva mai ritenuto che ci potesse essere qualcosa di gradevole in un
assassinio. Combattere in guerra era piacevole, certo, ma questo desiderio di
uccidere gratuitamente era davvero strano. Tirando le redini balzò dal cavallo e
oltrepassò a grandi passi la porta. La ragazza era inginocchiata accanto ad un
cespuglio di rose, ma sollevò la testa di scatto.
Leucion si accorse che era cieca, e per qualche ragione questo ebbe l’effetto di
accentuare il suo desiderio e il suo senso di potere.
Sentì gli altri che smontavano a loro volta e si fermò, osservando la ragazza: la
sua bellezza era considerevole, più greca che persiana, ma in quel momento a
Leucion non importava la sua nazionalità.
– Chi sei? – chiese lei, con voce sommessa e tuttavia più profonda di quanto si
fosse aspettato, tradendo nell’accento le proprie origini doriche.
È di Sparta o di Corinto, pensò con soddisfazione Leucion. Non gli sarebbe
piaciuta la prospettiva di violentare una donna ateniese.
– Perché non parli? – insistette la donna, ancora senza traccia di paura nella
voce... ma la paura sarebbe giunta, Leucion lo sapeva. Lentamente estrasse il
coltello e avanzò verso di lei.
– Cosa stai facendo? – gridò Pendar.
Leucion lo ignorò e si avvicinò alla donna, avvertendo il profumo dei suoi
capelli nonostante l’aroma intenso delle rose. Protendendo una mano, le afferrò
l’abito all’altezza della spalla e lo lacerò, strappandole poi dal corpo ciò che ne
restava. Nuda, lei indietreggiò incespicando... e finalmente la paura apparve sul suo
volto.
– Smettila! – gridò Pendar, avanzando di corsa e afferrando Leucion per il
braccio. Prima di potersi trattenere, il guerriero si volse di scatto e piantò la lama
nel petto dell’amico.
– Perché? – sussurrò Pendar, accasciandosi contro di lui e scivolando al suolo
dopo aver lasciato una scia di sangue sulla corazza di Leucion.
Questi esitò per un momento, confuso, poi scosse il capo e si girò verso gli altri
uomini.
– Voi volete possederla? – chiese loro.
– Perché no? – rispose Boras, un massiccio guerriero della Tracia. – Sembra
piuttosto tenera.
Gli uomini avanzarono verso la ragazza nuda, Leucion in testa con il coltello
insanguinato sollevato, ma la sacerdotessa non indietreggiò. Invece sollevò una
mano e nel sentire il coltello contorcersi nella sua stretta Leucion abbassò lo
sguardo e urlò... stava stringendo in pugno una vipera, con la testa sollevata e
ritratta per colpire. D’istinto la gettò lontano da sé e la sentì tintinnare sulle pietre.
– Cosa ti succede? – chiese Boras.
– Non hai visto il serpente?
– Sei impazzito? La vuoi per primo... oppure no? Non intendo aspettare troppo
a lungo.
Alle loro spalle echeggiò un ringhio sommesso.
In mezzo a loro apparve una bestia con la testa di un leone e il corpo di un orso,
con zampe enormi munite di artigli e spalle ampie. Le spade saettarono nell’aria e i
guerrieri attaccarono la creatura, che non oppose resistenza quando le lame si pian-
tarono nel suo corpo massiccio. Infine l’essere cadde al suolo, coperto di sangue...
e divenne il loro compagno Metrodorus.
– È una strega! – urlò Boras, indietreggiando.
– Sì, una strega – ripeté la donna cieca, con voce che era quasi un sibilo. – Ed
ora morirete tutti!
– No! – esclamò un’altra voce, e Leucion vide una vecchia avanzare a fatica
lungo il sentiero. Oltrepassati i guerrieri, la vecchia si inginocchiò accanto al corpo
di Metrodorus e posò le mani sulle sue ferite, intonando allo stesso tempo un canto.
Le nubi parvero correre nel cielo per poi immobilizzarsi, il vento dapprima ululò
poi cadde del tutto, e il silenzio che seguì ebbe qualcosa di irreale. Sollevando lo
sguardo, Leucion notò un’aquila sospesa immobile nel cielo, con le ali spalancate;
il canto continuava a levarsi, e gli uomini videro le ferite di Metrodorus richiudersi,
poi il suo corpo fu pervaso da un brivido e infine un gemito gli uscì dalle labbra.
– Provvedi all’altro – ordinò la maga alla ragazza cieca.
– Sono assassini! Meritano di morire! – gridò lei.
La vecchia ignorò però la sua protesta e la giovane sacerdotessa si accostò al
corpo di Pendar, posando la mano sulla ferita al petto. In silenzio, stupefatto,
Leucion vide la ferita chiudersi, poi Pendar si svegliò e fissò la guaritrice cieca.
– Ti hanno fatto del male? – le chiese, e quando lei scosse il capo aggiunse: –
Sto morendo?
– No, stai bene – rispose la ragazza.
Per qualche momento ancora Leucion rimase immobile e stordito sotto la luce
del sole; quando infine il vento riprese a soffiare e l’aquila continuò il suo volo, lui
si avvicinò incespicando a Tamis.
– Non lo so... non ho mai... – balbettò, ma le parole rifiutarono di salirgli alle
labbra.
– Adesso stai bene, Leucion? – chiese Pendar, alzandosi e prendendo l’amico
per un braccio.
Improvvisamente questi scoppiò in pianto.
– Tu mi conosci, Pendar, sai che non farei mai... una cosa del genere.
Tamis si girò verso Derae, ma non disse nulla; la giovane sacerdotessa venne
avanti e prese Leucion per mano.
– Vattene da qui e recati a Tiro – gli disse con voce fredda. – Là troverai ciò
che cerchi.
– Mi dispiace – mormorò lui.
– Non è successo nulla di grave – garantì Derae. Intanto Pendar aveva raccolto
il suo vestito e glielo avvolse intorno, legando insieme i pezzi strappati.
– Invece tu, Pendar, dovresti tornare ad Atene, perché la tua famiglia ha
bisogno di te.
– Lo farò, signora – promise il guerriero.

Dopo che gli uomini se ne furono andati, Tamis si avvicinò alla polla e si
spruzzò il volto di acqua fresca.
– Perché mi hai fermata? – domandò Derae, sedendole accanto.
– Hai toccato Leucion, quindi sai perché è venuto. Lo Spirito del Caos stava
operando per suo tramite.
– Ma avrei potuto ucciderlo.
– E chi avrebbe vinto, Derae? Chi avrebbe conseguito la vittoria? Al Dio
Oscuro non importa nulla di Leucion: lui sapeva che quell’uomo non poteva
distruggerti, ed era te che stava cercando di mettere alla prova. Noi non possiamo
usare le sue armi, perché ogni piccola vittoria conseguita in quel modo porta ad
una sconfitta futura. Io lo so, perché ho ucciso degli uomini. Leucion troverà amore
e felicità a Tiro, alleverà figli che diventeranno uomini buoni e orgogliosi, ma non
dimenticherà mai questo giorno.
– Né lo dimenticherò io – replicò Derae, con un sorriso.
Tamis poté avvertire la sua soddisfazione e per un fugace momento si fuse con
lei, toccando la sua anima come un sussurro che non poteva essere sentito: la
donna spartana stava ricordando con soddisfazione come gli uomini si erano
lanciati sul loro compagno, stava godendo del ricordo del potere.
Tamis si issò in piedi e tornò nella propria stanza. Era stanca e mancò di vedere
l’ombra scura che si stava formando sulla parete alle sue spalle. Sedutasi sul letto,
si versò un bicchiere d’acqua e in quel momento una mano dotata di artigli lunghi e
ricurvi emerse dalla parete dietro di lei; contemporaneamente, l’acqua fredda
venne a contatto con un dente marcio e Tamis si alzò in piedi con un grugnito di
dolore proprio mentre il sole sbucava da dietro una nuvola e i suoi raggi entravano
nella stanza dalla finestra, proiettando sul letto l’ombra degli artigli. Tamis si girò
di scatto nell’istante in cui essi saettavano verso il suo volto. Di scatto sollevò il
braccio e la luce che le scaturì dalle dita si trasformò in un lucente scudo dorato.
Gli artigli stridettero contro di esso e la parete perse consistenza, facendosi meno
solida del fumo quando una grossa testa si spinse fuori di essa. Lentamente la cosa
emerse nella stanza, protendendo verso la vecchia veggente le braccia enormi e le
mani munite di artigli.
– Vattene! – tuonò Tamis, indicando la creatura, ma la luce stava svanendo
dalle sue mani e comprese di aver usato una quantità eccessiva di potere per
risanare l’uomo ucciso.
La creatura si lanciò contro lo scudo, che si spezzò in due e scomparve, poi gli
artigli agganciarono i vestiti di Tamis e lei si sentì trascinare sul pavimento di
pietra verso il buco oscuro là dove prima c’era stata la parete.
La porta si aprì...
Una fiammeggiante lancia di luce colpì il demone in pieno petto. Fumo e
fiamme si levarono dalla bestia e un urlo terribile pervase l’aria, poi gli artigli si
liberarono dalle vesti di Tamis e la creatura si girò contro Derae.
Attendendo che il demone le fosse addosso, la Spartana protese entrambe le
braccia e scariche di lampi le scaturirono dalle dita. La creatura venne scagliata al
suolo e cercò di rialzarsi, ma una luce azzurra l’avvolse, incatenandole le braccia e
le gambe immani.
Derae avanzò fino a fermarsi accanto alla bestia, incombendo su di lei.
– Vattene! – sussurrò, e subito una folata di vento risucchiò il demone
attraverso la parete, che tremolò e tornò ad essere di pietra.
– Hai... agito... bene – approvò Tamis, aggrappandosi al lato del letto per issarsi
in piedi.
– Cos’era quella... cosa?
– Un Cacciatore Notturno. I nostri nemici hanno infranto l’incantesimo che
avevo posto sul tempio, ed ora mi dovrai aiutare a formarne un’altro.
– Sai chi sono i nostri nemici?
– Certamente. Il loro capo si chiama Aida.
– Non possiamo attaccarli?
– Tu non mi ascolti. Non possiamo usare le loro armi.
– Non sono convinta – obiettò Derae. – Come possiamo combatterli se sono
loro ad avere tutte le armi?
– Fidati di me, bambina. Non ho risposte che ti possano convincere. Fidati di
me.
Tamis si distese sul letto e chiuse gli occhi, incapace di guardare la giovane
sacerdotessa: quel giorno la Spartana aveva assaporato due volte le gioie del
potere...
E mentre sprofondava in un sonno spossato a Tamis parve quasi di sentire la
risata del Dio Oscuro.

Giunta alla fine della sua stagione al Tempio di Afrodite, Thetis percorse le
strette strade che portavano alla sua casa nella parte meridionale della città. Una
volta arrivata, lavò via il belletto e gettò in un angolo il lucido chitone e il sottile e
colorato clamis; infilatasi un abito di cotone bianco, si stese su un divano e rimase
a contemplare quegli abiti sporchi: l’indomani li avrebbe bruciati e non avrebbe
visitato mai più il Tempio di Afrodite. Al contrario di molte altre ragazze, lei aveva
investito saggiamente i suoi guadagni presso tre mercanti impegnati nel commercio
delle spezie e presso un altro di Tespi che allevava e addestrava cavalli da guerra.
Adesso la sua posizione finanziaria era sicura: quella casa le era costata
novecentoottanta dracme e aveva anche potuto assumere una serva, una ragazza di
quindici anni della Tessaglia che viveva in una piccola alcova sul retro della
cucina.
Da questo momento in poi la sua vita sarebbe stata priva di preoccupazioni,
senza mani sudate che la palpassero, senza i grugniti dei fedeli che le echeggiavano
nell’orecchio.
Senza Damon, si trovò a pensare, e chiuse gli occhi, appoggiandosi all’indietro
e stringendosi al corpo il cuscino ricamato.
Senza Damon...
Come aveva potuto una persona tanto giovane e atletica morire in quel modo,
crollando sul terreno di addestramento dopo una corsa? Il chirurgo aveva parlato di
una debolezza del cuore, e tuttavia lui era stato tanto forte, con il corpo privo di
grasso e i muscoli saldi e finemente cesellati quanto quelli di Eracle. No, Damon
non aveva nessuna debolezza di cuore, Thetis ne era certa. Era stato abbattuto dagli
dèi che erano gelosi della sua bellezza, e Thetis era stata privata del solo amore che
avrebbe mai conosciuto.
Per qualche tempo sonnecchiò sul divano, poi si alzò e passò in cucina, dove
mangiò pane e formaggio accompagnato da un po’ di acqua fresca. La serva, Cleo,
stava russando sommessamente sul suo letto, e Thetis si mosse per la cucina senza
fare rumore per non svegliarla.
Soddisfatta la fame, tornò al suo divano. I vestiti ammucchiati sul pavimento
attirarono ancora la sua attenzione e si rese conto di non poter aspettare l’indomani
per bruciarli. Estratto il piccolo coltello ricurvo che portava con sé per protezione
personale, ridusse lentamente gli indumenti in minuscoli pezzi fino a quando parve
che il pavimento intorno al divano fosse cosparso di petali di fiore.
Aveva trascorso sei anni di vita indossando quegli abiti... sei lunghi anni pieni
di uomini senza volto e senza nome: barbuti o glabri, grassi o magri, giovani o
vecchi, desideravano tutti lo stesso servizio.
Scosse il capo, cercando di cancellare i ricordi, e il volto di Parmenion affiorò
nella sua mente. Aveva pensato spesso a lui nei mesi trascorsi da quando lo aveva
riportato indietro dalla morte, e si rese conto che questo dipendeva dal contrasto fra
il silenzioso animale in calore che era solito visitarla e l’amante dolce e
appassionato che aveva conosciuto in quella singola notte, mentre lui sognava di...
qual era il suo nome? Derae?
Fisicamente così dissimile dal possente Damon, tuttavia Parmenion possedeva
le stesse qualità di tenerezza e di comprensione dei suoi bisogni. No, ricordò a se
stessa, non dei suoi bisogni: di quelli di Derae.
Tenendo il cuscino stretto a sé si addormentò di nuovo, svegliandosi all’alba.
Nella stanza oltre la cucina, Cleo aveva preparato un bagno caldo e Thetis entrò
nella vasca, restando immersa per qualche tempo prima di lavare anche i corti e
ricci capelli rossi. Allorché si alzò in piedi, Cleo le avvolse intorno un asciu-
gamano caldo per asciugarla, poi le cosparse il corpo di olio profumato e lo grattò
con un coltello d’osso dalla lama arrotondata.
Quando ebbe finito, Thetis indossò un chitone di lino azzurro lungo fino alla
caviglia ed uscì nel cortile, che per quanto lungo e stretto era esposto al sole del
primo mattino; oltre le porte poteva sentire la gente che si muoveva per le strade e
il lontano battere del maglio nella fucina di Norac il fabbro. Per circa un’ora rimase
seduta al sole, poi tornò dentro e raccolse un lavoro di ricamo che aveva
cominciato tre anni prima, una serie di quadrati e di cerchi intrecciati nelle tonalità
del marrone, del verde e del giallo. Ricamare serviva a calmarle la mente.
– C’è un uomo che ti cerca, padrona – avvertì Cleo.
– Un uomo? Non conosco nessun uomo – rispose lei, rendendosi conto mentre
lo diceva che era vero. Si era accoppiata con centinaia, forse migliaia di uomini, e
tuttavia non ne conosceva nessuno.
– Ha chiesto di parlare con te.
– Come si chiama?
La ragazza arrossì e corse nel cortile, tornando dopo un momento con la
risposta.
– Si chiama Parmenion, padrona.
Thetis trasse un profondo respiro, cercando di ricomporsi.
– Fallo entrare, e lasciaci soli – disse poi.
– Lasciarvi soli, padrona? – ripeté Cleo, sorpresa.
– Se avrò bisogno di te ti chiamerò – sorrise Tamis.
Tornò quindi al proprio ricamo mentre la ragazza accompagnava Parmenion da
lei, e sollevò lo sguardo sul visitatore con espressione severa.
– Per favore, siediti – invitò. – Cleo, porta un po’ d’acqua per il nostro ospite.
– Non sarà necessario – rispose lui, sedendosi sul divano opposto. Entrambi
rimasero in silenzio finché Cleo se ne fu andata, chiudendo la porta alle proprie
spalle.
– Non apprezzo gli ospiti che si presentano nella mia casa senza essere stati
invitati – affermò allora Thetis, – e sarei grata se ti sbrigassi a dire che cosa vuoi.
– Sono venuto per scusarmi – rispose Parmenion.
– Per cosa?
Improvvisamente lui esibì un sorriso contrito che rese il suo volto più infantile
e meno severo.
– Non ne sono certo, ma so che è necessario. Vedi, non sapevo che sei stata tu a
riportarmi indietro, quella notte.
– Sono stata pagata per questo – scattò Thetis, lottando per controllare un’ira di
cui non riusciva a capire la ragione.
– Lo so – rispose lui, in tono gentile, – ma sentivo... sento... di averti causato
dolore, ed è una cosa che non desidero.
– Vorresti che fossimo amici? – chiese lei.
– Mi piacerebbe... molto.
– La mia amicizia costava quaranta oboli – disse lei, alzandosi e gettando il
ricamo da un lato, – ma ora non più. Adesso ti prego di andartene. Potrai trovare
molte amiche al tempio, e il prezzo è sempre lo stesso.
– Non era questo che intendevo – replicò Parmenion, alzandosi, – comunque
sarà come vuoi tu. – Si avviò verso la porta ma sulla soglia si girò ancora verso di
lei, aggiungendo: – Io do molto valore all’amicizia, forse perché nella mia vita ho
avuto pochi amici. So che sei stata pagata per quello che hai fatto, ma anche così
mi hai salvato la vita e questo è un debito che porterò con me. Se mai dovessi avere
bisogno di me, io sarò a tua disposizione, senza fare domande. Che tu lo desideri o
no, sono tuo amico.
– Non ho bisogno di amici, Parmenion, ma se mai avrò bisogno di quaranta
oboli, mi ricorderò di te.
Dopo che lui se ne fu andato, Thetis si lasciò cadere sul divano e prese di nuovo
il ricamo.
– Ti tremano le mani, padrona – osservò Cleo, venendo a inginocchiarsi
accanto a lei.
– Non gli si dovrà permettere di entrare ancora qui. La prossima volta che verrà
lo fermerai alla porta. Hai capito?
– Alla porta. Sì, padrona.
Ma i giorni passarono e Parmenion non tornò... e per qualche strano motivo
questo ebbe l’effetto di aumentare l’ira di Thetis nei confronti del giovane
Spartano.
Con il trascorrere della primavera, Thetis scoprì che la sua nuova vita era
sempre più opprimente. Quando era una sacerdotessa, aveva infatti potuto
camminare per le strade di giorno e di notte, mentre nessuna donna tebana per bene
si sarebbe mai fatta vedere in giro sola se non al mercato, e la casa che era stata il
suo sogno divenne ben presto per lei una confortevole prigione. Cleo le portava
quotidianamente notizie, ma le sue conversazioni riguardavano prevalentemente i
vestiti più recenti oppure gli oli profumati o le collane, e la ragazza badò ben poco
alle informazioni sui movimenti delle truppe spartane quando esse entrarono nella
Beozia. Tutto quello che Thetis riuscì a dedurre fu che il re spartano Agisaleus era
riuscito a far passare le sue truppe attraverso i passi del Monte Citerone, nel sud, e
stava ora devastando la regione, mentre Epaminonda aveva fortificato un costone
all’esterno di Tebe con cinquemila opliti ateniesi e tremila soldati tebani.
In realtà non le importava se gli Spartani avrebbero vinto o perso, perché le
sembrava che indipendentemente dalla loro città d’origine i grugniti che le
echeggiavano negli orecchi fossero sempre gli stessi, ma la guerra stava
danneggiando i suoi investimenti, perché gli Spartani avevano confiscato l’ultima
spedizione di oppio quando i carri erano passati attraverso Platea. Per causa loro
Thetis aveva perso quasi seicento dracme e adesso stava facendo affidamento sulle
spezie asiatiche che dovevano arrivare attraverso la Macedonia per mantenere alti i
suoi profitti.
Le riflessioni sulle sue finanze finirono per indurla a ripensare al tempio, e
promise a se stessa che nulla l’avrebbe mai potuta indurre a tornare a quella vita.
Poi le affiorò nella mente il volto di Parmenion.
Dannazione a lui, pensò, perché non viene a farmi visita?

Dal momento che Agisaleus era riluttante ad assalire il costone difeso da


Ateniesi e Tebani e che Epaminonda rifiutava di ingaggiare la battaglia in aperta
pianura, la guerra si concluse con una situazione di stallo... gli Spartani
attraversarono la Beozia, saccheggiando villaggi e piccole città e rinforzando le
loro guarnigioni, ma lasciarono in pace Tebe.
Poi Agisaleus si stancò di quella guerra di logoramento e marciò verso la città,
con l’intenzione di attaccare le Porte Proitiane e di radere al suolo Tebe, e i meno
coraggiosi fra i cittadini si diedero alla fuga, caricando le loro cosa su carri e
carretti.
Uno di quei carri trasportava il medico Horas, sua moglie e i suoi tre figli. Il più
piccolo del tre, Symion, si lamentò di un violento mal di testa mentre il carro
viaggiava nella notte alla volta di Tespi, e all’alba il piccolo era già in preda ad una
febbre violenta, con le ghiandole della gola e delle ascelle gonfie. Chiazze rosse gli
si formarono sulla pelle e lui morì entro mezzogiorno; quel pomeriggio lo stesso
Horas sentì insorgere i primi sintomi della febbre e del delirio.
Una pattuglia di esploratori spartani trovò il carro, e dopo aver guardato
all’interno l’ufficiale si affrettò a ritrarsi.
– La peste! – sussurrò al suo aiutante.
– Aiutatemi! – gemette Horas, lottando per scendere dal carro. – Mia moglie e i
miei figli sono malati.
– Resta dove sei – gridò l’ufficiale, segnalando ad un arciere di avanzare. – Da
dove venite?
– Da Tebe, ma non siamo traditori, signore, siamo soltanto malati. Aiutaci... per
favore.
L’ufficiale diresse un segnale all’arciere, che piantò una freccia nel cuore di
Horas; il medico ricadde all’indietro nel carro.
– Bruciate tutto – ordinò l’ufficiale.
– Ma ha detto che dentro ci sono una donna e dei bambini – protestò l’aiutante.
– Allora scendi di sella e poni fine tu alle loro sofferenze! – ritorse l’ufficiale,
girandosi di scatto.
I soldati raccolsero legna da ardere e l’ammucchiarono intorno al carro; entro
pochi momenti la legna secca prese fuoco, e mentre le urla cominciavano a levarsi
dal carro i soldati si rimisero in marcia per andare a riferire ad Agisaleus
dell’incontro fatto.

La peste scoppiò nel quartiere più povero della città, ma si diffuse in fretta.
Temendo che l’esercito potesse esserne contagiato, i consiglieri cittadini
ordinarono di chiudere e di sbarrare le porte e a nessuno venne permesso di uscire
o di entrare nella città. Una folla spaventata attaccò le guardie alle Porte di Elettra,
ma venne respinta dagli arcieri sulle mura comandati dal vecchio guerriero
Menidis.
Entro una settimana oltre un quinto dei trentamila abitanti di Tebe manifestò i
sintomi del gonfiore ghiandolare e delle chiazze rosse che apparivano sulla faccia e
sulle braccia, il conto dei morti aumentò e decine di carri furono trascinati ogni
notte per le vie cittadine per raccogliere i cadaveri che venivano lasciati davanti
alle porte delle case.
Mothac cadde vittima della malattia il nono giorno, e Parmenion lo aiutò a
raggiungere il letto prima di correre a casa di Argonas; il medico però non c’era...
il suo servo riferì a Parmenion che era impegnato a curare i malati nella parte
settentrionale della città. Lo Spartano lasciò quindi un messaggio e fece ritorno a
casa; anche se ormai il cibo scarseggiava, comprò al mercato un po’ di carne secca
e di pane stantio per il quadruplo del loro valore e preparò un brodo per Mothac.
Argonas arrivò al tramonto, con il volto segnato dalla stanchezza e gli occhi
cerchiati di scuro; dopo aver esaminato Mothac, trasse Parmenion in disparte.
– La febbre sarà intensa per due giorni, ed è importante togliere il calore dalla
pelle. Bagnalo ogni ora con acqua tiepida ma non lo asciugare, in modo da
permettere che sia il suo corpo a far evaporare l’acqua, cosa che servirà a
raffreddarlo. A quel punto soffrirà di un freddo intenso e dovrà essere avvolto in
coperte calde fino a quando la febbre tornerà a salire. Ripeti ogni volta la
procedura e assicurati che abbia acqua in abbondanza da bere... con l’aggiunta di
un po’ di sale, ma non troppo altrimenti vomiterà. Se dovesse cominciare il
gonfiore, aspetta che scoppi e spurghi e poi applica del miele.
– Non si può fare altro?
– No. Ho finito le mie erbe quattro giorni fa.
– Siediti e bevi un sorso di vino – lo invitò Parmenion, accostandosi alla caraffa
sullo scaffale della cucina.
– Non ho tempo – protestò Argonas, issandosi in piedi.
– Ascoltami – ribatté Parmenion, trattenendolo per le spalle, – se continui in
questo modo crollerai... e allora non otterrai più nulla. Siediti.
– La maggior parte dei medici è fuggita prima che bloccassero le porte – disse
Argonas, lasciandosi cadere di nuovo a sedere. – Hanno riconosciuto i sintomi in
anticipo, e adesso in città siamo pochi, troppo pochi.
– Perché non sei andato via con loro?
– Era quello che si aspettavano tutti – sorrise Argonas. – Il grasso Argonas che
vive per il denaro, guardate come scappa! Ebbene, apprezzo il denaro, Parmenion,
e amo condurre una vita di piaceri. Sono nato povero, un contadino in una terra
straniera, e molto tempo fa ho deciso che avrei assaporato tutte le cose buone e mi
sarei crogiolato nel lusso. Questo non mi rende però un medico meno coscienzioso.
Hai capito?
– Bevi il vino, amico mio, e crogiolati in un po’ di brodo a buon mercato.
– Non lo è più – commentò Argonas. – I prezzi stanno salendo molto in fretta.
– Quanto è grave l’epidemia? – domandò Parmenion, versando il brodo in una
ciotola e posandola davanti al dottore.
– Non quanto quella che ha colpito Atene. A Tebe ci sono probabilmente
ottomila persone che manifestano i sintomi della peste, ma stranamente molti di
loro si fermano prima di svilupparli del tutto. È letale nei vecchi e nei bambini, ma
gli individui giovani e forti sembrano capaci di resistere. Naturalmente molto
dipende dal gonfiore: se prende solo le ascelle c’è una possibilità di salvarsi, ma se
si estende all’inguine la morte arriva presto – spiegò Argonas, trangugiando il
brodo e alzandosi. – Devo andare. Passerò a controllare Mothac questa sera.
Parmenion lo accompagnò alla porta e lo seguì con lo sguardo mentre si
allontanava lungo la stretta via, scavalcando i cadaveri stesi in file accanto alle
porte.
Quando tornò da lui, Mothac stava sudando abbondantemente, ma aveva le
labbra screpolate e aride. Sollevata la testa del Tebano, Parmenion lo costrinse a
bere un poco, poi gli bagnò il corpo secondo le istruzioni di Argonas. Per due
giorni Mothac quasi non si mosse, e nel delirio invocò il nome di Elea e pianse. Il
terzo giorno un ampio gonfiore si manifestò sotto le ascelle e lui scivolò in uno
stato quasi di coma; per quando sfinito, Parmenion gli rimase accanto giorno e
notte. A poco a poco, il gonfiore sotto il braccio sinistro si fece purpureo e, come
aveva previsto Argonas, si spaccò emettendo del pus acquoso. Parmenion spalmò
del miele sulla ferita e coprì Mothac con coltri pulite.
La mattina successiva, mentre dormiva su una sedia accanto al letto del
Tebano, sentì picchiare alla porta. Sfregandosi gli occhi assonnati, scese
incespicando nel cortile e vide che si trattava della giovane serva, Cleo.
– Si tratta della mia padrona – esclamò la ragazza. – Sta morendo.
Parmenion condusse la ragazza da Mothac e le ordinò di stargli accanto,
spiegandole come accudire e bagnare il malato, poi si avvolse nel mantello, si munì
di spada e di daga e si diresse con cautela verso la casa di Thetis. Le strade erano
cosparse di cadaveri e la piazza del mercato era deserta.
Thetis giaceva sul letto in preda ad un sonno indotto dalla febbre. Tirando
indietro le coltri, Parmenion esaminò il suo corpo nudo e vide che c’erano gonfiori
tanto sotto le ascelle che all’inguine. Dopo averla avvolta in una coperta, la prese
fra le braccia e cominciò lentamente a tornare verso casa.
Lungo la strada s’imbatté in due uomini che guidavano un carro carico di
cadaveri.
– La prendiamo noi! – gli dissero, ma Parmenion scosse il capo e continuò a
camminare barcollando.
I muscoli gli bruciavano per la fatica quando infine arrivò nel cortile e
attraversò l’androne per adagiare il suo carico su un divano. Insieme, lui e Cleo
trasportarono il suo letto al piano di sotto e lo sistemarono accanto a quello di
Mothac.
– Nella stessa stanza sarà più facile accudirli entrambi – spiegò Parmenion alla
ragazza. – Adesso torna a casa, prendi tutto il cibo che avete e portalo qui.
Quando la serva se ne fu andata, Parmenion bagnò Thetis e applicò del miele
alla pustola aperta sotto il suo braccio destro, poi le controllò il battito, che era
erratico e debole, e le sedette accanto tenendole la mano.
– Damon? – sussurrò lei, con le labbra aride.
– No, sono Parmenion.
– Perché mi hai lasciata, Damon? Perché sei morto?
– Era il mio momento – rispose Parmenion, con voce gentile, stringendole la
mano nella sua. – Adesso riposa, ritrova le forze... e vivi.
– Perché? – chiese lei, e quella domanda trapassò Parmenion come una lama
seghettata.
– Perché te lo chiedo io – replicò. – Perché... voglio che tu sia felice. Voglio
sentirti ridere ancora.
Lei però era scivolata di nuovo nel sonno. Presto cominciò a rabbrividire e
Parmenion si affrettò ad avvolgere il suo fragile corpo nelle coperte,
massaggiandole le braccia e le spalle per riscaldarla.
– Ti amo, Damon – disse lei, con voce improvvisamente limpida.
Parmenion avrebbe voluto mentire, come Thetis aveva fatto una volta per lui,
ma non ne fu capace.
– Se mi ami allora vivi – disse invece. – Mi senti? Vivi!

Il tempo trascorreva in fretta per Derae. Ogni giorno imparava cose nuove, e
guariva i malati dei villaggi circostanti, che venivano condotti al tempio su barelle
improvvisate. Risanò la gamba spezzata di un contadino, cancellò un’ulcera
cancerosa dal collo di un bambino, ridiede la vista ad un’adolescente cieca che era
venuta fin lì con suo padre dalla città di Tiro. Per tutte le città della Grecia e
dell’Asia si diffuse a poco a poco la notizia che una nuova guaritrice era giunta al
tempio, e di giorno in giorno le code dei bisognosi di aiuto si fecero sempre più
lunghe.
Tamis era stata assente per parecchi mesi, ma una sera sul tardi fece ritorno e
trovò Derae seduta in giardino a godere della fresca aria notturna. Fuori dalle porte
c’erano già persone che dormivano nei campi in attesa di poter vedere la guaritrice.
– Bentornata a casa – salutò Derae.
– Quelle persone saranno per te una fonte senza fine di sfinimento – commentò
Tamis, indicando i campi. – Verranno da tutto l’impero, da Babilonia e dall’India,
dall’Egitto e dalla Cappadocia. Non potrai mai risanarli tutti.
– Una bambina cieca mi ha chiesto perché non posso guarire me stessa.
– E cosa le hai risposto?
– Le ho detto che non avevo bisogno di essere guarita... ed era vero, il che mi
ha sorpresa. Hai l’aria stanca, Tamis.
– Sono vecchia – scattò lei, – ed è normale che i vecchi siano stanchi... però c’è
qualcosa che devo fare prima di partire di nuovo. Hai visto Parmenion mentre ero
assente?
– Mi piace osservarlo – replicò Derae, arrossendo. – È sbagliato?
– Per nulla, ma per il momento non hai ancora visto nessun futuro. Comunque,
adesso è giunto il momento di percorrere i molti sentieri. prendi la mia mano.
Unendo le loro anime, le due donne volarono alla città di Tebe e alla casa di
Parmenion. L’edificio era avvolto nel buio e dalle strade circostanti si levava un
suono di pianto.
– Cosa succede? – chiese Derae.
– La peste si è abbattuta sulla città – rispose Tamis. – Ora guarda.
Il tempo s’immobilizzò, l’aria tremolò, poi Derae vide Parmenion uscire
barcollando nel cortile con il volto rosso e chiazzato, la gola gonfia; quando lui
crollò al suolo, cercò di andargli accanto, ma Tamis la trattenne.
– Non puoi interferire qui – le disse, – perché questo è il futuro e non si è
ancora verificato: così come non possiamo cambiare il passato, non possiamo
neppure operare nei giorni che devono ancora essere. Continua a guardare.
La scena si offuscò e tornò a formarsi, mostrando Parmenion che moriva nel
suo letto, che moriva per strada, che moriva a casa di Calepios o sul fianco di una
collina. Alla fine Tamis riportò entrambe al tempio, e quando rientrò nel proprio
corpo gemette nel trovare il collo irrigidito e dolente.
– Cosa possiamo fare? – domandò Derae.
– Al momento io non posso fare nulla, perché sono troppo stanca – rispose
Tamis. – Dimmi però, ti senti abbastanza forte da poter usare i tuoi poteri da questa
distanza?
– Sì.
– Bene. Prima però lascia che ti chieda una cosa: come reagiresti se Parmenion
prendesse moglie?
– Moglie? Io... non so. Pensarci mi fa male, ma del resto perché non dovrebbe,
visto che mi ritiene morta... e che in effetti lo sono? Perché me lo chiedi?
– Non è importante. Va’ da lui e salvalo, se puoi. Se non riuscirai a sconfiggere
il contagio, torna a chiamarmi. Intanto io riposerò e recupererò le forze.
Derae si adagiò all’indietro e liberò la propria anima.
Tebe apparve splendente sotto di lei e subito volò alla casa di Parmenion, ma
non lo trovò là. Mothac giaceva a letto malato, e una ragazza sedeva accanto al suo
letto asciugandogli il sudore dalla faccia con un panno bagnato. Librandosi in alto
sopra la casa, Derae scrutò le strade deserte, poi lo vide avanzare barcollando sotto
il peso della donna che stava trasportando.
Riconobbe la prostituta, Thetis, e rimase a guardare mentre Parmenion la
portava in casa e si prendeva cura di lei, ascoltò la donna parlare del suo amore nel
sonno indotto dalla febbre, poi fluttuò accanto a Parmenion e insinuò le mani nella
sua testa, lasciando che i pensieri di lui le fluissero nella mente: stava incitando la
donna a vivere. Rilassando la propria mente, Derae si fuse con Parmenion, fluendo
con il suo sangue attraverso le vene e le arterie.
La peste era dentro di lui, minuscola e debole, ma stava crescendo sotto i suoi
occhi. Concentrando la propria attenzione, lei diede la caccia a tutte le sacche di
corruzione, distruggendole ad una ad una finché, ormai soddisfatta, si ritrasse da
lui. La donna era gonfia sotto la mascella, sotto le ascelle e all’inguine... e stava
morendo.
Parmenion però era al sicuro. Derae salì nel cielo notturno... e si librò lassù,
confusa e incerta. Parmenion voleva che quella donna vivesse... era forse
innamorato di lei? No, i suoi pensieri non parlavano di amore ma di un debito non
pagato. E tuttavia, se l’avesse salvata Parmenion avrebbe potuto finire per amarla,
e così lo avrebbe perso una seconda volta.
Se non la salvo non sarà come se l’avessi uccisa io rifletté. Sta morendo
comunque, la colpa non è mia.
Voleva tornare al tempio... ma non poté farlo. Invece rientrò nella casa e si fuse
con Thetis.
Questa caccia risultò di una difficoltà immensamente maggiore, perché la peste
era dovunque, divampante e letale. Tre volte il cuore di Thetis ebbe un brivido e
per poco non cessò di battere, ma Derae ridiede vita alle ghiandole esauste e river-
sò energia nella donna per poi riprendere la battaglia contro la malattia. Per molto
tempo la peste ebbe la meglio su di lei, moltiplicandosi con rapidità maggiore di
quella con cui le riusciva di distruggerla, e allora Derae tornò al cuore, pulendo il
sangue quando vi passava attraverso e pervadendolo di potere. Infine si rese conto
che la zona di pericolo era all’inguine, dove i gonfiori erano esplosi e stavano
riversando pus pieno di veleno, e concentrò il proprio potere risanante su quei
tessuti. Le ore trascorsero veloci, e Derae era prossima allo sfinimento quando
infine emerse dal corpo di Thetis.
Cominciò quindi il viaggio per tornare al tempio, ma si sentiva la mente
stordita e si trovò a fluttuare sopra un palazzo sconosciuto all’interno del quale una
donna stava urlando. Cercò di concentrarsi.
– È nato! – gridò qualcuno, e un grande applauso si levò dall’esercito
all’esterno del palazzo.
Una nube nera calò improvvisa verso di lei, aprendosi come una bocca
colossale, e nel vedere zanne lunghe quanto un uomo e una lingua purpurea e
biforcuta Derae comprese di essere impotente a resistere.
Una lancia di luce trapassò la bocca proprio quando essa ormai incombeva
sotto di lei.
– Prendi la mia mano! – gridò Tamis.
Ma Derae aveva perso i sensi.
Si svegliò nella propria stanza all’interno del tempio e avvertì la presenza di
Tamis accanto a sé.
– Che cos’era? – domandò.
– Ti eri persa nel futuro, ed hai assistito alla Nascita Oscura.
– Sono stanca, Tamis, così... stanca.
– Allora dormi, bambina mia. Io ti potrò proteggere ancora per un po’.

Cleo tornò con provviste sufficienti per tre giorni di pasti frugali e queste
scorte, unite a quelle di Parmenion, risultarono sufficienti per una settimana.
I giorni si trascinarono lenti. Argonas non si fece più vedere e Parmenion
apprese da uno degli uomini che raccoglievano i cadaveri che il grasso medico
aveva subito la stessa sorte di migliaia di altri... il suo corpo era stato consumato
dalla peste. Mothac cominciò a migliorare, le chiazze rosse scomparvero e il
gonfiore si attenuò, ma lui rimase debole e bisognoso di dormire spesso. Mentre
Cleo lavorava instancabilmente, bagnando la sua padrona, cambiando le lenzuola
sporche, cucinando e pulendo, Parmenion batté la città alla ricerca di cibo, ma per-
fino i cani e i cavalli erano stati macellati da tempo.
Poi, come una tempesta che avesse esaurito la sua violenza, la peste cominciò a
perdere irruenza. I corpi da raccogliere risultarono sempre meno e finalmente le
porte vennero aperte per permettere l’ingresso di un convoglio di carri di viveri
nella città devastata. Lottando, Parmenion riuscì ad aprirsi un varco fra la folla
affamata che circondava i carri ed emerse dalla mischia con un quarto di carne e un
sacco di cereali secchi.
A casa, Cleo cucinò un po’ di carne e imboccò Thetis, che era adesso più
lucida, poi Parmenion e Mothac portarono il letto di lei al piano di sopra per darle
maggiore intimità, mentre Cleo continuò a dormire su un divano nell’androne.
Entro la fine dell’estate, la città ritrovò un aspetto quasi normale. Oltre
quattromila persone erano morte a causa della peste, ma come sottolineò Calepios
si trattava di una minima parte di quelle che sarebbero morte o sarebbero state
ridotte in schiavitù se gli Spartani avessero messo al sacco la città; temendo la
peste, essi avevano invece lasciato la Beozia senza combattere, e adesso le truppe
alleate avevano trincerato i passi del Monte Citerone per impedire loro di
attraversarli ancora. Da Tegira giunse anche la notizia che Pelopida e la Banda
Sacra avevano messo in rotta una divisione spartana numericamente superiore a
loro nella misura di due contro uno e avevano ucciso Phoebidas, lo Spartano
responsabile dell’occupazione della Cadmea quattro anni prima. I soldati sconfitti
non erano truppe spartane regolari bensì mercenari della città di Orcomeno, ma
anche così a Tebe venne indetto un giorno di festa e il rumore delle risa e dei canti
arrivò fino alla stanza dove giaceva Thetis. La donna era ancora molto debole, con
il battito cardiaco affaticato e irregolare, ma quelle risa lontane le risollevarono lo
spirito.
Parmenion entrò portando un vassoio con cibo ed acqua, posò il tutto per terra e
sedette accanto a lei.
– Oggi hai un colorito migliore – osservò. – Mothac è riuscito a trovare qualche
dolce al miele fresco... un mio vecchio amico giurava che sono eccellenti per ridare
le forze.
Gli occhi verdi di lei lo scrutarono in volto, ma Thetis non disse nulla e protese
invece la mano a prendere la sua, con il viso rigato da lacrime improvvise.
– Cosa c’è che non va? – le chiese Parmenion.
– Nulla.
– Allora perché stai piangendo?
– Perché hai fatto questo per me? – ribatté lei. – Perché non mi hai lasciata
morire?
– A volte non ci sono risposte – replicò Parmenion, portandosi la mano di lei
alle labbra e baciandole il palmo. – Tu non sei Derae ed io non sono Damon, ma le
nostre vite si sono incrociate e adesso le linee del destino di ciascuno si sono in-
trecciate. Non ho più molta fede in remote divinità ma credo nel fato e penso che
fossimo destinati ad essere insieme.
– Io non ti amo – mormorò lei, con voce che era poco più di un sussurro.
– Né io amo te, ma mi stai a cuore e sei stata costantemente nella mia mente da
quando ho scoperto la verità su quella notte in cui mi hai riportato indietro. Resta
con me: non ti posso promettere di renderti felice, ma ci proverò.
– Non ti sposerò, Parmenion, ma resterò... e se saremo felici rimarremo
insieme. Sappi però che un giorno potresti svegliarti e scoprire che me ne sono
andata. Se dovesse succedere, prometti che non cercherai di trovarmi.
– Lo prometto – rispose lui. – Ora mangia e ritrova le forze.

L’uomo sostò davanti alle porte della casa di Parmenion sotto la luce della luna.
Controllando che non ci fosse in vista nessuno, insinuò con cautela il coltello nella
fenditura al centro delle porte e sollevò la sbarra che si trovava dall’altra parte. Il
cancello si aprì e la sbarra scivolò di lato verso terra, ma prima che potesse cadere
rumorosamente sulle pietre l’uomo conficcò il proprio coltello nel legno,
bloccandolo fino a quando poté scivolare dentro e adagiare con cautela la sbarra
nel cortile. Riposto il coltello nel fodero, si avviò verso le porte chiuse dell’an-
drone.
Un oggetto freddo gli toccò il collo e una mano gli serrò la spalla.
– Se fosso in te, resterei del tutto immobile – gli disse una voce, nell’orecchio.
– Ho un messaggio per Parmenion – sussurrò l’uomo.
– Il coltello contro la tua gola è molto affilato. Metti le mani dietro la schiena.
L’uomo obbedì e non oppose resistenza mentre gli venivano legati i polsi, poi
si lasciò condurre nell’androne buio e osservò l’uomo dalla barba rossa che l’aveva
catturato accendere tre lanterne.
– Tu sei Mothac?
– Già. Siediti – ribatté il Tebano, spingendo l’uomo su un divano. – Parmenion!
– chiamò quindi, e un momento più tardi un uomo alto e snello, con il volto sottile
e penetranti occhi azzurri entrò nella stanza armato di una spada lucente.
– Clearcus! – esclamò Parmenion, gettando via la spada con un ampio sorriso.
– Proprio io – grugnì il servitore di Senofonte.
– Slegalo – ordinò Parmenion.
Mothac passò il coltello attraverso i lacci che trattenevano i polsi dell’uomo e
Clearcus se li massaggiò per qualche momento; adesso i suoi capelli erano più
bianchi e radi di come il giovane Spartano li ricordasse, le linee del suo volto si
erano fatte più profonde, come tagli di coltello nel cuoio.
– È uno strano momento per una visita – osservò il giovane.
– Il mio signore mi ha chiesto di essere sicuro che non mi notassero – spiegò
Clearcus, infilando una mano nella camicia di lana e tirando fuori una pergamena
che porse a Parmenion.
Questi posò il messaggio da un lato e si sedette di fronte all’uomo più anziano.
– Come sta il generale? – chiese.
– È un uomo triste – replicò Clearcus, scrollando le spalle. – Adesso scrive di
molte cose... equitazione, tattica, la situazione della Grecia. Ogni giorno trascorre
molte ore con i suoi scribi e non riesco a ricordare l’ultima volta che è andato a ca-
valcare o a cacciare. Sta diventando grasso – concluse Clearcus, sputando quasi
quell’ultima parola, come se gli offendesse la bocca pronunciarla.
Parmenion allungò la mano verso la pergamena e soltanto allora si accorse che
Mothac era ancora in piedi, con il coltello in pugno.
– È tutto a posto, amico mio. Questo è Clearcus, un compagno del generale
Senofonte, ed è degno di fiducia.
– È uno Spartano – borbottò Mothac.
– Attento, ragazzo, se non vuoi che ti fracassi il cranio – scattò Clearcus.
– Una volta, forse, nonno – ribatté Mothac, e Clearcus si alzò in piedi di scatto.
– Smettetela entrambi! – ordinò Parmenion. – Qui siamo tutti amici... o
dovremmo esserlo. Da quanto tempo ti trovi a Tebe?
– Sono arrivato questa sera – rispose Clearcus, scoccando un’occhiata omicida
in direzione di Mothac. – Ho fatto visita ad alcuni amici a Corinto, poi ho
comprato un cavallo e sono venuto qui passando da Megara e da Platea.
– Mi fa piacere vederti. Vuoi qualcosa da mangiare e da bere?
– Me ne andrò non appena mi avrai dato una risposta per il mio signore –
replicò lo Spartano, scuotendo il capo.
Mothac augurò allora la buona notte e se ne andò nella sua stanza, lasciandoli
soli; aperta la pergamena, Parmenion sedette vicino ad una lanterna.
Ti saluto, amico, lesse. Gli anni si susseguono, le stagioni accelerano il passo,
il mondo e i suoi affanni vanno alla deriva sempre più lontano da me, e tuttavia
vedo le cose con maggiore chiarezza di quando ero giovane, e con crescente
tristezza.
A Sparta c’era un giovane che ne ha ucciso un altro in un duello a causa di una
donna. Il padre del ragazzo morto piange ancora il figlio ed ha assoldato dei
sicari perché cerchino chi lo ha ucciso, che non risiede più a Sparta. Mi è stato
detto che quattro sicari sono stati già eliminati dal ragazzo, che adesso è un uomo.
Ma ne potrebbero arrivare altri.
Spero che tu stia bene e che la tua vita sia più felice di quella del ragazzo
spartano che ora vive lontano da casa. Penso spesso a quel ragazzo, al suo
coraggio e alla sua solitudine.
Che gli dèi possano alla peggio sorriderti e nel migliore dei casi ignorarti.
Non c’era firma.
Parmenion sollevò lo sguardo sul volto segnato dagli elementi del servitore.
– Hai rischiato molto per portarmi questo, Clearcus. Ti ringrazio.
– Non ringraziare me – rispose il vecchio. – L’ho fatto per il generale. Mi
piacevi, ragazzo, ma questo era molto tempo fa, prima che diventassi un traditore.
Adesso spero che quei sicari ti trovino... prima che tu possa organizzare qualcun
altro di quei tuoi giochi letali.
– Nessuno di voi lo capirà mai, vero? – replicò Parmenion, con voce gelida. –
Voi Spartani vi considerate semidèi, prendete un bambino, lo tormentate per tutta
la vita dicendogli che non è uno Spartano e poi lo accusate di tradimento quando vi
prende alla lettera. Bene, eccoti un pensiero su cui riflettere, Clearcus, tu e tutta la
tua immonda razza: dopo che ho ingannato Sphodrias, sono stato raggiunto da un
guerriero scirita. Aveva combattuto per voi per anni, era stato allevato per com-
battere per voi... e tuttavia quando abbiamo estratto la spada uno contro l’altro mi
ha detto che aveva sempre desiderato uccidere uno Spartano. Siete odiati non
soltanto da Tebe e da Atene, ma dalla stessa gente che combatte al vostro fianco.
Clearcus aprì la bocca per ribattere ma Parmenion sollevò la mano di scatto.
– Non dire nulla, servo! – sibilò. – Hai consegnato il tuo messaggio. Ora
vattene!
Per un momento il vecchio lo fissò con occhi roventi, poi indietreggiò e
scomparve nel buio.
Un momento dopo Mothac entrò nell’androne stringendo ancora in pugno il
coltello.
– Non lasciare che questo ti preoccupi – disse in tono gentile.
– Come mi consiglieresti di fare per evitarlo? – domandò Parmenion, con
un’amara risata. – Dopo che quei sicari mi hanno assalito, Menidis mi ha detto che
non gli importava assolutamente che io vivessi o morissi. Questo è ciò che i Tebani
pensano di me, Mothac... che sono un traditore spartano... ed essere chiamato così
mi ferisce nel profondo.
– Credo che ci dovremmo ubriacare – suggerì Mothac.
– Non è esattamente la risposta che stavo cercando – osservò Parmenion.
– È la migliore che ho.
– Allora dovrà bastare. Prendi la brocca.
TEBE, ESTATE, 371 A.C.

Thetis si svegliò presto, dopo un sonno riposante pieno di sogni piacevoli.


Stiracchiando le braccia, rotolò su un fianco per guardare l’uomo che le dormiva
accanto, poi si protese e allontanò con delicatezza una ciocca di capelli dalla fronte
di lui, che sospirò ma non si svegliò.
Gli ultimi sei anni erano stati buoni per entrambi. A ventinove anni, Parmenion
era al massimo della sua forma ed aveva vinto gare di corsa a Corinto, a Megara, a
Platea e perfino ad Atene. Adesso il suo volto era più affilato, il naso aquilino più
pronunciato e i capelli si stavano lentamente diradando sulla fronte, ma il suo
sorriso era sempre infantile e il suo tocco gentile.
Anni buoni...
Parmenion aveva notato immediatamente la sua scontentezza per essere
virtualmente rinchiusa in casa, e una mattina era tornato da lei dopo essere stato al
mercato, portandole un chitone nero, sandali lunghi fino alla caviglia, un paio di
calzoni di stile persiano e un cappello di feltro.
– Mettiti questi abiti – le aveva detto.
– Vuoi che mi vesta da uomo? – aveva riso lei. – Abbiamo forse bisogno di
simili commedie?
– No – aveva ribattuto Parmenion, con un sorriso divertito, – ma ti insegnerò un
altro modo di cavalcare.
Quella era stata un’avventura che le era piaciuta più di quanto avrebbe ritenuto
possibile. Ancora debole a causa degli effetti della peste, aveva attraversato la città
in sella ad una giumenta saura, con il cappello di feltro che le celava i capelli e il
largo chitone che nascondeva le sue curve femminili, e una volta sulle colline
aveva scoperto la gioia del galoppo, del vento nei capelli e di una velocità
impossibile.
Si erano amati sui prati montani, con i rami di un alto cipresso che li riparavano
dal sole pomeridiano, poi si erano tuffati in un freddo ruscello. Il ricordo di quel
giorno splendeva ancora nitido nei suoi ricordi.
– Quando sarò lontano – aveva detto Parmenion, – tu potrai mandare Mothac a
prendere i cavalli e continuare a cavalcare. Qui c’è libertà e nessuno ti farà doman-
de o si acciglierà per la mancanza di dignità dimostrata da una donna per bene.
– Andato? – aveva domandato. – Dove devi andare?
– Epaminonda ha deciso che è arrivato il momento di liberare la Beozia, quindi
porteremo delle truppe nelle città prigioniere e aiuteremo la loro ribellione.
Dobbiamo rendere questo territorio sicuro contro Sparta.
Cinque settimane più tardi, svegliandosi di primo mattino, Thetis aveva trovato
Parmenion in piedi accanto al letto, vestito con un elmo di bronzo con le protezioni
per le guance in cuoio e una corazza che sfoggiava sul petto la testa di un leone
ruggente; la spada era affibbiata al fianco e il fodero posava contro un gonnellino
di strisce di cuoio bordate di bronzo.
– Allora è oggi? – aveva chiesto.
– Sì.
– Avresti potuto dirmelo la scorsa notte.
– Non volevo che ti addolorassi anzitempo. Starò via un mese, forse due.
Annuendo, lei gli aveva girato le spalle e aveva chiuso gli occhi, fingendo di
dormire, poi si era tormentata per giorni, temendo che Parmenion stesse andando
incontro alla morte.
– Non m’innamorerò di lui – aveva promesso a se stessa. – Non piangerò su un
altro cadavere come ho fatto con Damon.
I suoi timori erano però aumentati quando la notizia degli scontri e degli assedi
era arrivata in città. La guarnigione spartana di Tisbe, formata prevalentemente da
unità mercenarie provenienti da Orcomeno, era uscita per affrontare i Tebani e pri-
ma che i mercenari venissero messi in fuga c’era stata una breve battaglia in cui
diciassette Tebani avevano perso la vita. Le città erano cadute ad una ad una quasi
senza spargimenti di sangue, perché le assediate guarnigioni spartane avevano
acconsentito a ritirarsi a patto che venisse dato loro un salvacondotto attraverso il
Peloponneso, ma a Tebe non erano giunte notizie di Parmenion.
Sei settimane dopo il giorno in cui Thetis aveva rifiutato di dirgli addio, lui era
entrato nel cortile. Thetis lo aveva visto dalla finestra del piano di sopra e si era
impedita di corrergli incontro, costringendosi invece a camminare lentamente e
incontrandolo sulle scale: il suo elmo era ammaccato in due punti e c’era un
profondo solco nella testa di leone che decorava la corazza.
– Ti sono mancato? – aveva chiesto Parmenion, slacciando la cinghia dell’elmo
e sfilandoselo.
– Un poco – aveva ammesso lei. – Sei tornato a casa per restare?
– No. Sono qui perché ho finito il silphium e dovrò tornare indietro domani.
Nella loro stanza, Thetis lo aveva aiutato a rimuovere la corazza e la tunica, e
soltanto allora aveva notato la vivida cicatrice rossa che gli solcava il bicipite
destro.
– Non ha sanguinato molto – aveva spiegato lui, cercando di rassicurarla. – È
stato un mercenario che si è avvicinato troppo, ma Epaminonda lo ha ucciso.
– Non voglio conoscere i dettagli – aveva ribattuto lei, secca. – Ti preparerò un
bagno.
Quella notte si erano amati, ma Thetis non era riuscita a rilassarsi e il bisogno
di Parmenion era stato troppo urgente. Il mattino successivo lui era ripartito di
nuovo.
Con il passare dei mesi Epaminonda, Calepios e gli altri avevano gradualmente
riformato la Lega Beota, lanciandone la rinascita a Tebe dopo un’Assemblea
Generale a cui avevano partecipato i consiglieri di tutte le città liberate. L’incontro
era stato molto democratico e generato molte speranze per l’anno che stava
cominciando.
Parmenion, libero ora che era autunno dai suoi doveri militari, si era però
mostrato meno ottimista per il futuro, e durante una delle loro cavalcate aveva
confidato a Thetis i suoi timori.
– È tutto meno democratico di quanto sembri – aveva spiegato, mentre
sedevano sul prato montano che avevano finito per considerare il loro angolo
privato. – Tebe può porre il veto su qualsiasi decisione e controlla direttamente i
voti di Tespi, di Platea e di Tanagra.
– Perché questo costituisce un problema? – aveva domandato. – Tebe è una
grande città e tutti i nostri consiglieri apprezzano la libertà e l’interessamento per i
diritti degli altri. Hai sentito il discorso di Calepios: il nuovo stato federale della
Beozia non avrà dittatori.
– L’ho sentito, e spero che risulti vero, ma una volta un vecchio amico mi ha
detto che la società è come la punta di una lancia... larga alla base e ristretta alla
sommità. I democratici credono che la si possa rimodellare togliendo la punta, ma
come per magia essa cresce di nuovo. Ci saranno sempre dei re, Thetis, e se non
dei re allora dei dittatori, perché è nella natura dell’uomo lottare per innalzarsi al di
sopra degli altri e imporre a tutti la sua volontà.
– Non c’è nessuno del genere a Tebe – aveva protestato lei. – Forse nei tempi
antichi, ma questo è un mondo moderno, Parmenion, e non è più necessario che sia
così. Epaminonda non sarà mai un dittatore, e neppure Pelopida. E neanche tu.
Credo che ti preoccupi troppo.
Ed era parso che gli anni le dessero ragione. Cinque anni dopo la riconquista
della Cadmea, Atene e Sparta erano giunte ad un accordo di pace che concedeva a
Tebe e alle città della Beozia il diritto di autogovernarsi.
Thetis ricordava bene quell’autunno. Epaminonda era venuto a trovare
Parmenion accompagnato da Calepios per discutere dei termini di quell’accordo.
Contrariamente a tutte le tradizioni, lo Spartano aveva fermato Thetis mentre lei
stava per lasciare la stanza e le aveva segnalato di sedergli accanto.
I due Tebani lo avevano guardato con stupore assoluto.
– In questo modo – aveva spiegato Parmenion, – non dovrò ripetere tutto due
volte, visto che lei insiste per sapere ogni cosa dopo che ve ne siete andati.
– Ma... – aveva balbettato Calepios. – Lei... è una donna...
– È questo il grande oratore? – aveva chiesto Parmenion, lottando per apparire
serio. – Suvvia, Calepios, ormai conosci Thetis da anni e non ti dovrebbe essere
difficile parlare davanti a lei.
– Non è una questione di difficoltà – aveva ribattuto lo statista, secco, – ma di
decoro. So che voi Spartani avete strane idee per quanto concerne le donne, ma qui
a Tebe noi preferiamo mantenere criteri di vita civili. Questioni come quelle che
stiamo per discutere potrebbero soltanto confondere e annoiare Thetis.
– Sono certa che Calepios ha ragione – era intervenuta Thetis, alzandosi, – e gli
sono grata per la sua gentilezza nel pensare a me.
Aveva quindi soffocato la propria ira e si era ritirata nelle sue stanze; in seguito
Parmenion le aveva raccontato ogni cosa, ma non prima di aver dato libero sfogo
alla propria irritazione.
– Saresti dovuta restare! – aveva protestato. – I tuoi consigli sarebbero risultati
preziosi.
– Tu non capisci, stratega. L’incontro non ci sarebbe stato, perché Calepios se
ne sarebbe andato. Non puoi sfidare la tradizione, non a Tebe. Adesso dammi la
tua opinione sulle trattative di pace.
– Atene è a corto di denaro e Sparta è praticamente sull’orlo della bancarotta,
quindi tutto quello che abbiamo ottenuto è soltanto un po’ di respiro. La guerra non
è finita, ma noi useremo saggiamente il tempo che ci viene concesso.
– Quanto tempo?
– Due anni, forse tre – aveva risposto lui, scrollando le spalle. – La questione
non sarà comunque decisa senza una battaglia... e questo significa Tebe contro
Sparta, perché il potere di Atene è prevalentemente marittimo.
– Gli Spartani sono soltanto uomini come gli altri – aveva sottolineato lei.
– Forse, ma non hanno mai perso una battaglia importante contro un nemico
numericamente pari a loro... e qualsiasi cosa succeda noi non possiamo ancora
radunare forze uguali alle loro.
– Penserai a qualcosa, amore mio, sei uno stratega. – Thetis aveva parlato in
tono leggero, ma lui si era rischiarato in volto ed aveva ripreso a sorridere.
Tamis scosse il capo per liberare la mente dai ricordi e si alzò dal letto.
Parmenion gemette nel sonno ma non si svegliò mentre lei si vestiva e scendeva al
piano di sotto, dove Mothac stava già preparando la colazione.
– Un’altra ottima giornata – commentò il Tebano, accogliendola con un sorriso,
quando entrò in cucina.
Adesso c’era un po’ di grigio nella barba rossa di Mothac e i suoi capelli si
stavano assottigliando sulla sommità della testa. Thetis rabbrividì... era bellissimo
starsene a letto a rivivere i ricordi, ma questo aveva l’effetto di rendere più
evidente il passare del tempo.
Cleo se ne era andata da tempo, perché aveva sposato il figlio di Norac il
fabbro, quindi Thetis adesso aiutava Mothac a tenere la casa.
– Dovresti sposarti – gli disse d’un tratto, mentre sedevano in cortile godendo
del sole del primo mattino.
– Avevo una moglie – rispose Mothac, – e non ne voglio un’altra. Però mi
sarebbe piaciuto avere un figlio.
Thetis sentì il proprio buon umore evaporare e le affrettate scuse di Mothac non
fecero altro che accelerare il suo crollo emotivo. Finirono la colazione in silenzio,
poi Mothac tornò in cucina per preparare l’infuso quotidiano di silphium per
Parmenion.
Un figlio. Il solo dono che lei non avrebbe mai potuto dare a Parmenion.
Sapeva da tempo di essere sterile, perché non aveva mai avuto le perdite di
sangue mensili proprie delle altre donne, ma soltanto da quando viveva con
Parmenion quella consapevolezza aveva acquisito un sapore amaro. Parmenion non
ne parlava mai, cosa che la rasserenava un poco, ma lei sapeva che tutti gli uomini
ad un certo punto della loro vita desideravano avere un erede.
Sentì Parmenion che si avvicinava ma non si girò; le sue mani le toccarono le
spalle mentre lui si chinava a baciarle la nuca.
– Buon giorno, signora – le disse.
– Dormi sempre più a lungo – lo rimproverò lei, con un sorriso. – Credo che tu
stia diventando vecchio e pigro.
– Sono rimasto con Calepios fin quasi all’alba.
– È di nuovo la guerra? – domandò lei, fissandolo.
– Non lo so. Epaminonda andrà a Sparta per incontrarsi con Agisaleus.
– È una cosa saggia?
– Ci deve essere un incontro di tutte le città. Agisaleus ha promesso dei
salvacondotti e anche Atene sarà rappresentata. Può darsi che questo porti una pace
duratura.
– Ma tu non lo credi?
– Non riesco a farmi un’idea chiara. Il mio timore è che Atene e Sparta arrivino
ad un accordo lasciando Tebe isolata. In quel caso, Agisaleus sarebbe libero di
condurre le sue forze nella Beozia... e questa volta dovremmo affrontarlo.
– Tebe contro Sparta – sussurrò lei.
– Fino alla morte.
– Ed è questo quello che vuoi? – domandò d’un tratto Thetis.
– Cosa intendi dire?
– Tu odi gli Spartani. Desideri davvero la pace?
– Sei una donna astuta, Thetis – commentò Parmenion, con un sorriso. –
Comunque hai ragione: io non voglio la pace. Questi sono stati anni duri, ma
adesso sono vicino a realizzare il mio sogno. Un giorno gli Spartani verranno... ed
io avrò la mia vendetta.
– E poi? – insistette lei.
– Cosa posso dirti? Ho vissuto tanto a lungo senza nessun altro sogno che non
riesco a vedere nulla oltre l’umiliazione di Sparta. Mi hanno tolto troppe cose e
pagheranno con il sangue e con la vergogna ogni mio momento di sofferenza.
– Pagheranno... oppure tu morirai – gli ricordò lei.
– L’una o l’altra cosa – convenne Parmenion.

* * *
Parmenion ordinò la fine dell’addestramento al combattimento e i guerrieri
della Banda Sacra riposero la spada. Vestiti in armatura completa, stavano sudando
tutti abbondantemente, e alcuni si lasciarono cadere sul duro terreno d’argilla del
campo di addestramento mentre altri andarono a ripararsi all’ombra della Tomba di
Ettore.
– Non siate così pronti a rilassarvi, signori – avvertì Parmenion. – Dieci circuiti
di corsa dovrebbero essere sufficienti per stendere quei muscoli stanchi.
Dalle file si levò un gemito, ma gli uomini cominciarono a correre. Parmenion
stava per unirsi a loro quando notò un ragazzo seduto sotto gli alberi e intento ad
osservare con attenzione le fasi dell’addestramento. Il giovane aveva circa tredici
anni, con capelli scuri e ricci e un volto che con il tempo sarebbe diventato
eccessivamente bello. Ciò che toccò una corda nascosta nell’animo di Parmenion
fu però la sua espressione: il volto era immobile, le sue emozioni mascherate, e
Parmenion ricordò la propria infanzia di molto tempo prima, le prove e le
sofferenze che aveva sopportato a Sparta.
– Stai studiando l’arte della guerra? – chiese, avvicinandosi al ragazzo.
Questi si alzò e si inchinò; non era alto, ma era di corporatura forte.
– È bene studiare le usanze degli stranieri – disse in tono sommesso, fissando
Parmenion con i suoi occhi scuri.
– In cosa consiste il bene?
– Un giorno potremmo essere nemici, e in questo caso saprò come combattete.
Se saremo invece amici o alleati saprò se si può fare affidamento su di voi.
– Capisco – commentò Parmenion. – Sei un ragazzo saggio. Sei forse un
principe?
– Infatti, un principe della Macedonia. Mi chiamo Filippo.
– Io sono Parmenion.
– Lo so, ti ho visto correre. Perché competi sotto un nome macedone?
– Mia madre era macedone – spiegò Parmenion, sedendosi e invitando il
ragazzo a fare altrettanto, – ed il mio è un tributo a lei. Sei ospite nella nostra città?
– Non c’è bisogno che tu sia evasivo, Parmenion – rise il ragazzo. – Io sono un
ostaggio a garanzia del buon comportamento della Macedonia, ma qui la vita è
piacevole e Pammenes si prende buona cura di me. Penso che sia meglio che essere
di nuovo in Macedonia, dove sarei probabilmente ucciso da qualche ansioso
parente.
– Parole aspre, giovane principe.
– Aspre ma vere. Io sono uno di molti fratelli e fratellastri che hanno tutti
qualche diritto al trono, e non rientra nelle nostre usanze lasciare in vita i rivali.
Suppongo che tu riesca a vedere la logica della cosa.
– Sembri accettare la tua situazione con estrema calma, giovane principe.
– Che altro posso fare?
– Non ho risposta a questa domanda – sorrise Parmenion. – Non sono un
principe.
– No – convenne Filippo, – ed io non desidero esserlo, come non vorrei mai
essere re, certamente non della Macedonia.
– Cos’ha che non va la Macedonia? – volle sapere Parmenion. – Ho sentito dire
che è una terra splendida, piena di pianure ondulate, di foreste, di montagne e di
puri ruscelli.
– È vero, Parmenion, ma è anche una terra circondata da potenti nemici. A
occidente ci sono gli Illiri del Re Bardylis, guerrieri duri e forti. A nord ci sono i
Paioni, guerrieri che non amano nulla più dello scendere al sud per razziare. Ad est
ci sono i Traci, buoni cavalieri che formano un’eccellente cavalleria, e a sud ab-
biamo i Tessali e i Tebani. Chi vorrebbe mai essere re di un territorio del genere?
Parmenion non rispose. Gli occhi del ragazzo erano dolenti, il suo umore cupo,
e non c’era nulla che uno Spartano gli potesse dire. Con ogni probabilità il ragazzo
aveva ragione... una volta tornato in Macedonia la sua vita avrebbe avuto scarso
valore. Quel pensiero ebbe l’effetto di deprimerlo.
Fra loro si sviluppò un silenzio carico di disagio e lo Spartano si alzò per
andarsene e raggiungere la Sacra Banda che stava ancora correndo lungo la pista.
Prima però si girò ancora una volta verso il giovane principe.
– Molto tempo fa ho imparato a non cedere mai alla disperazione. La fortuna
può essere incostante, ma ama l’uomo che tenta e poi tenta ancora. Credo che tu
abbia una mente forte, Filippo, sei un pensatore e un pianificatore. La maggior
parte degli uomini si limita a reagire alle circostanze, ma i pensatori le creano: se ci
sono dei parenti che ti vogliono morto, inducili ad amarti, mostra che non
costituisci una minaccia e che puoi essere utile. Soprattutto però, ragazzo, devi
diventare un uomo difficile da uccidere.
– Come posso farlo?
– Restando vivo, pensando a tutti i modi in cui i tuoi nemici potranno aggredirti
e preparandoti a bloccarli. La disperazione è sorella della sconfitta, Filippo, quindi
non lasciare mai che ti tocchi.
Il ragazzo annuì, poi indicò i corridori che si stavano arrestando con passo
barcollante dopo il decimo giro e Parmenion andò loro incontro.
– Credo che sia tutto, signori – disse. – Siate qui domattina, un’ora dopo l’alba.
– Abbi cuore, Parmenion – gemette un ragazzo. – Con questo sono tre giorni di
fila.
– Io non ho cuore – ribatté Parmenion, – sono un uomo di pietra. Un’ora dopo
l’alba, per favore.
Voltandosi verso gli alberi, vide che il ragazzo se ne era andato e sospirò.
– Possano gli dèi favorirti, Filippo di Macedonia – sussurrò.

Per tre settimane parve possibile che la conferenza di pace a Sparta potesse
porre fine ad ogni pensiero di guerra. Gli accordi commerciali furono discussi e
firmati, le dispute di frontiera affrontate e infine risolte; per tutto il tempo
Epaminonda venne trattato come un ospite onorato e per ben due volte cenò con
Agisaleus.
Nella quarta settimana Pelopida tornò a Tebe e raccontò a Parmenion storie
della cortesia che permeava la conferenza.
– Credo che Agisaleus si sia rassegnato a perdere il proprio potere su di noi –
commentò. – C’era anche un rappresentante del grande re, un Persiano con i capelli
biondi e la barba arricciata. Avresti dovuto vedere i vestiti che indossava: Zeus mi
è testimone che aveva più gioielli cuciti addosso di quante siano le stelle del cieli!
Scintillava letteralmente ogni volta che entrava nella stanza.
– Ha parlato? – volle sapere Parmenion.
– Ha aperto la conferenza, portando a tutti noi i saluti e la benedizione del
grande re, affermando che il re era contento che i suoi figli si fossero riconciliati.
– A proposito di re, cosa mi dici di Cleombrotus?
– Non era presente – rispose Pelopida. – Dicono che sia malato. Comunque, se
vuoi il mio parere, Sparta è una città sgomentante: non so come possiate sopportare
la puzza... tutti i rifiuti scorrono nelle strade e le mosche sono più fitte del fumo.
Un brutto posto... per brutta gente.
– Malato? – ripeté Parmenion. – Di cosa?
– Non lo hanno detto, ma non può essere stata una cosa troppo seria, perché
non sembravano preoccupati per la sua assenza. Sai, quando mi hai detto che le
donne spartane avevano il permesso di circolare per le strade in realtà non ti avevo
creduto, ma avevi ragione. Erano dappertutto, e alcune si spogliavano quasi
completamente per correre seminude sui prati. Non so proprio come una così brutta
razza di uomini possa generare simili bellezze. C’era una donna che aveva i fianchi
come...
– Conosco le donne di Sparta – lo interruppe pazientemente Parmenion, –
perché ho vissuto là. Mi preoccupa maggiormente Cleombrotus: è forte come un
toro e non avrebbe mai rinunciato spontaneamente a partecipare alla conferenza.
Che prova hai che fosse effettivamente a Sparta?
– E dove avrebbe dovuto essere?
– Cosa mi dici dell’esercito? Quanti soldati hai visto?
– Agisaleus ha ordinato all’esercito di andare a sud per delle manovre, dicendo
che la conferenza sarebbe andata avanti in un’atmosfera più amichevole senza il
costante fragore degli scudi spartani, che qualcuno avrebbe potuto interpretare
come un modo subdolo di persuasione.
– Dunque tanto il re guerriero quanto l’esercito non erano visibili – commentò
Parmenion. – Questo non ti suggerisce nulla, Pelopida?
Il guerriero tebano si alzò dal divano e si avvicinò alla finestra, contemplando
per un momento il sole che splendeva nel cielo limpido prima di tornare a girarsi
con un sorriso sulle labbra.
– Credi che stiano progettando qualche tradimento? Ne dubito. Se avessero
voluto invaderci avrebbero potuto farlo senza tanti prolungati dibattiti e senza
l’interminabile fila di trattati da firmare.
– Sono d’accordo – convenne Parmenion, – ma in tutto questo c’è un sapore di
fondo che non mi piace. Quanti uomini possiamo riunire in... diciamo in due
giorni?
– Ipoteticamente? Tremila da Tebe e forse un migliaio dalla federazione.
– Non bastano, nel caso che l’esercito di Cleombrotus marci a nord invece che
a sud. Quando è prevista la fine della conferenza?
– Fra dieci... no, nove giorni da oggi. Si concluderà con la firma di un accordo
completo fra l’Alleanza Ateniese, Sparta e la Beozia, poi ci saranno due giorni di
festeggiamenti.
– E quanti uomini potremmo schierare in nove giorni?
– Dèi, Parmenion, sei ossessionato da Sparta? Non possiamo prendere in
considerazione l’idea di riunire l’esercito in questo momento. Se lo facessimo, e si
venisse a sapere alla conferenza, che impressione farebbe? Verremmo accusati di
comportamento aggressivo e il trattato andrebbe in fumo. Perché dobbiamo cercare
tradimenti dietro ogni svolta? Forse gli Spartani si sono rassegnati al riemergere di
Tebe.
– Quanti uomini? – insistette Parmenion. – Ipoteticamente.
Pelopida si versò un boccale di vino annacquato e tornò sul divano.
– Forse settemila... se riuscissimo ad ottenere la cavalleria dalla Tessaglia... ma
se devo essere onesto, attualmente Giasone di Pherae costituisce una causa di
timore grande quanto gli Spartani, forse ancora più grande, perché la sua cavalleria
ammonta già a ventimila uomini e lui ha almeno dodicimila opliti. Credo che
dovremmo guardare verso il nord con trepidazione e che gli Spartani siano ormai
fuori dal gioco.
Senza ribattere, Parmenion rimase in silenzio fissando un punto in alto sulla
parete e accarezzandosi il mento con la destra; dopo qualche tempo, riportò infine
lo sguardo su Pelopida.
– Qui ci sono due punti da considerare, amico mio. Se hai ragione, allora non
abbiamo nulla da temere, ma se le mie paure dovessero trovare conferma allora
tutto ciò per cui abbiamo lottato ci verrà tolto. Supponiamo quindi per un momento
che io abbia ragione e che l’esercito spartano sia più vicino a noi di quanto
pensiamo... dove può essere? In che modo ha intenzione di entrare nella Beozia?
Abbiamo ancora un contingente che sorveglia i passi del Monte Citerone, che
avvisterebbe gli Spartani e darebbe l’allarme; d’alto canto, è improbabile che
cerchino di attraversare il Golfo di Corinto in quanto adesso noi abbiamo dodici
trireme a Creusis. Da dove possono venire allora, Pelopida? Tu conosci il territorio
– concluse, accostandosi ad una cassapanca addossata alla parete opposta e tirando
fuori una mappa della Grecia centrale incisa su una pelle di mucca. Sedutosi
accanto a Pelopida, gli lasciò cadere in grembo la mappa.
– Voglio stare al tuo gioco, Parmenion, anche se penso che questa volta ti
sbagli – dichiarò il Tebano, finendo il vino. – Lasciami riflettere... noi teniamo i
passi meridionali e tutti gli accessi dal Peloponneso, quindi potremmo bloccare
l’esercito spartano per mesi. D’altro canto, come hai detto tu stesso, non possono
attraversare il golfo senza impegnare una battaglia per mare... a meno che non
attraversino molto più a nord, per esempio ad Agion – disse, puntando un dito sulla
mappa. – Allora potrebbero dirigere verso Orcomeno e il lago Copais, potrebbero
attingere altri alleati dalla città e colpire a sudovest attraverso Coronea e Tespi per
arrivare poi a Tebe... e venendo dal nord impedirebbero a qualsiasi aiuto dalla
Tessaglia di arrivare fino a noi.
– Esattamente quello che intendevo – commentò Parmenion. – La maggior
parte delle nostre truppe è a sud per proteggere i passi, ma chi abbiamo al nord?
– Chaireas con mille opliti, per lo più di Megara e di Tanagra, buoni
combattenti e uomini solidi. Hanno la loro base a Tespi.
– Allora manda dei messaggeri a Chaireas e ordinagli di salire al nord per
bloccare i passi a Coronea. Se mi sono sbagliato potremo dire che Chaireas stava
soltanto facendo eseguire delle manovre alle sue truppe.
– A volte non mi piace la tua compagnia – dichiarò Pelopida. – Mio padre era
solito raccontare storie a proposito di demoni oscuri che rubavano l’anima ai
bambini, e dopo io restavo a letto incapace di dormire anche se sapevo che quel ba-
stardo mi voleva soltanto spaventare... non mi è mai stato simpatico. Adesso però
tu mi hai reso nervoso. Faro come suggerisci – sospirò, – ma quando risulterà che
ti sei sbagliato mi dovrai dare il tuo nuovo castrato nero. Che te ne pare?
– D’accordo – ridacchiò Parmenion. – Se invece risulterà che ho avuto ragione,
tu mi darai il tuo scudo nuovo?
– Ma l’ho fatto fare a Corinto e mi è costato il doppio di quello che qualsiasi
uomo ragionevole pagherebbe per un cavallo.
– Vedi – sottolineò Parmenion, – stai già cominciando a prendere in
considerazione la possibilità che io abbia ragione.
– Quello che farò – grugnì Pelopida, – sarà cavalcare il tuo castrato avanti e
indietro sotto le tue porte ogni mattina. Allora vedrai il costo della tua ossessione
per Sparta.
Una settimana dopo giunsero notizie inquietanti, ma non dal nord e da
Chaireas, che stava marciando verso Coronea per fortificare un costone. Calepios
tornò da Sparta e si recò subito a casa di Pelopida, e dopo che il generale tebano
ebbe ascoltato quello che lui aveva da riferire entrambi andarono a cercare Par-
menion, trovandolo sulla pista da corsa, intento a percorrere chilometri con un
ritmo tranquillo. Pelopida gli rivolse un cenno, segnalandogli di raggiungerli.
Parmenion lo assecondò, mascherando la propria irritazione, perché non gli
piaceva che la sua corsa quotidiana fosse disturbata o interrotta. S’inchinò
comunque con cortesia a Calepios e dopo che l’oratore ebbe restituito l’inchino
tutti e tre sedettero sulla nuova panca di marmo accanto alla Tomba di Ettore.
– C’è stata un’insolita svolta negli eventi – affermò allora Calepios. – Ci
stavamo preparando a firmare il trattato di pace quando Epaminonda ha notato che
la parola Beozia era stata trasformata in Tebe. Ne ha chiesto il perché e Agisaleus
gli ha risposto che attualmente era Tebe... e non la Lega Beota... a costituire
l’effettivo potere a nord del Peloponneso. Epaminonda gli ha ricordato che lui era
un rappresentante della Lega e non della sola Tebe, ma lo Spartano è rimasto
inflessibile: Epaminonda doveva firmare per Tebe... o non firmare affatto. Tutti gli
altri hanno già firmato, Parmenion, mentre Epaminonda ha chiesto altri tre giorni
per riflettere sulla cosa e riferirne alla Lega. È per questo che sono qui. Cosa sta
progettando Agisaleus? Perché ha fatto una cosa del genere?
– Per separarci da Atene. Se tutte le città firmeranno... tranne Tebe... allora
saremo dei fuoricasta e Sparta potrà marciare contro di noi senza temere un attacco
da parte di Atene.
– Gli Ateniesi non lo permetterebbero mai – dichiarò Calepios. – Sono stati con
noi dall’inizio.
– Non proprio – gli ricordò Parmenion. – Ci è voluta un’invasione spartana per
spronarli, e adesso devono cominciare a vedere la Lega Beota come una possibile
minaccia. Gli Ateniesi hanno desiderato a lungo il titolo di capi della Grecia, e se
resteranno in disparte a guardare mentre Tebe e Sparta si fanno a pezzi a vicenda...
chi potrà poi prosperare se non loro? Potranno infatti raccogliere i pezzi.
– Allora dovremmo firmare – osservò Pelopida. – Che differenza può fare?
Parmenion scoppiò a ridere e scosse il capo.
– Puoi anche essere un grande guerriero, Pelopida, ma evita di immischiarti
nella politica. Se Epaminonda firmasse, quell’atto sarebbe per tutti i democratici
della Beozia un messaggio da cui dedurrebbero che Tebe si è dichiarata la città
dominante sulle altre, e questo distruggerebbe la Lega. È una manovra ingegnosa, e
Agisaleus si è rivelato astuto come sempre.
– Allora cosa bisogna fare? – domandò Pelopida. – Epaminonda deve firmare
oppure no?
– Non può – dichiarò Parmenion. – Se lo facesse questo significherebbe una
lenta ma sicura morte per la Lega. Invece dobbiamo raccogliere un esercito, perché
ora Agisaleus ci attaccherà sicuramente.
– Non possiamo semplicemente raccogliere un esercito – intervenne Calepios.
– siamo una democrazia. Innanzitutto dovremo convocare i sette generali beoti in
carica, come previsto dalla costituzione, e uno di quei generali è Epaminonda.
– Una regola escogitata da idioti – scattò Parmenion. – Tu cosa farai, Pelopida?
Sei uno dei sette.
– Ordinerò alla Banda Sacra di radunarsi e di raccogliere tutti gli opliti che
potrò trovare a Tebe e nelle aree circostanti. Tutto quello che possiamo fare adesso
è avvertire le altre città e richiedere delle truppe. Non possiamo dare ordini.
– La democrazia è davvero una bestia meravigliosa – commentò Parmenion.

Era quasi l’alba quando Parmenion si avviò per tornare a casa, lungo le strade e
i viali deserti, oltrepassando statue e fontane rischiarate dalla luna con passo cauto,
evitando i vicoli stretti e tenendo sempre la mano sull’elsa della spada.
Nell’attraversare una piazza, notò poi una figura scura e incappucciata seduta
vicino ad una fontana e si guardò ansiosamente intorno, senza però vedere nessun
altro o scorgere angoli in cui si potessero annidare degli assassini. Tranquillizzato,
riprese a camminare.
– Non hai neppure un saluto per una vecchia amica? – chiese la voce secca di
Tamis, quando lui accennò a passare oltre.
Parmenion si fermò, girandosi, e la donna sollevò il capo con un sorriso.
– Sei un essere umano o uno spirito? – chiese Parmenion, sentendo il gelo della
brezza notturna sulla pelle.
– Io sono Tamis – replicò lei.
– Cosa vuoi da me, donna? Perché mi perseguiti?
– Non voglio nulla, Parmenion. Io sono un’osservatrice. Sei appagato?
– Perché non dovrei esserlo? E non mi elargire altre false profezie. Tebe è
ancora in piedi... nonostante le tue parole.
– Non ho detto che sarebbe caduta in un giorno – puntualizzò Tamis, in tono
stanco, – e le mie profezie non sono mai false... a volte vorrei che lo fossero.
Guardati, sei giovane e nel fiore degli anni, senti l’immortalità che ti scorre nelle
vene... se guardi me vedi un cadavere ambulante il cui giusto posto sarebbe una
tomba, vedi una pelle rugosa e denti marci. Pensi che sia questo ciò che sono?
Credi che sia questa Tamis? Guarda meglio, Parmenion – ingiunse, alzandosi e
spingendo indietro il cappuccio.
Per un momento, la sua figura fu avvolta da una luce lunare tanto intensa che
Parmenion non riuscì a sopportarla, quindi il chiarore si attenuò e lui vide davanti a
sé una giovane donna dalla bellezza incredibile, con i capelli d’oro, le labbra piene,
gli occhi di un azzurro intenso, pieni di calore e di cordialità. Poi l’immagine sbiadì
e lui vide la pelle farsi secca e afflosciarsi, le spalle incurvarsi e i fianchi allargarsi.
– Sei una maga! – sussurrò, con la bocca arida. Con una risata secca e
crepitante, Tamis si rimise a sedere.
– È ovvio che sono una maga – replicò, con voce venata di dolore, – ma un
tempo ciò che hai visto era reale e non esiste al mondo una vecchia che non lo
capirebbe. Un giorno, Parmenion, forse anche tu sarai vecchio, con la pelle secca e
chiazzata, con i denti allentati nelle gengive, ma interiormente sarai quello di
sempre... soltanto che ti troverai intrappolato in un guscio che sta decadendo.
– Non ho tempo per queste cose. Che vuoi da me?
– Il tuo odio è ancora forte? – domandò lei. – Desideri ancora la morte di
Sparta?
– Desidero vedere Tebe libera dall’influenza spartana, tutto qui.
– Hai detto ad Asiron di essere la Morte delle Nazioni.
– Come fai a saperlo? – ritorse lui, poi scoppiò in una risata improvvisa e
aggiunse: – Che domanda stupida da rivolgere ad una maga... o ad una spia di
Sparta. Sì, gliel’ho detto, ma è successo alcuni anni fa e forse a quell’epoca le tue
profezie mi preoccupavano ancora, ma adesso non più. Perché hai detto ad
Epaminonda che sarebbe morto a Mantinea? È stata un’altra falsità?
– Sì, ma è una questione fra quel grande uomo e me. Ami Thetis?
– Non so perché mi sto prendendo la briga di parlare con te – dichiarò
Parmenion. – Sono stanco ed ho bisogno di dormire.
E volse le spalle alla vecchia, avviandosi per attraversare la piazza.
– L’ami? – ripeté lei, in tono sommesso.
Parmenion si fermò, con la domanda che gli echeggiava nella mente, poi si
volse lentamente.
– Sì, l’amo, anche se non come amavo... e ancora amo... Derae. Hai un motivo
valido per domandarlo, oppure stai soltanto giocando un altro dei tuoi giochi?
– Una volta ti ho chiesto di lasciare la città e di cercare un nuovo destino nel
tempio di Hera, a Troia, ma non mi hai ascoltata, così come non mi ascolterai ora.
E tuttavia, devo dirtelo: non andare a casa. Lascia Tebe stanotte.
– Sai che non lo farò.
– Lo so – ammise la vecchia, e nella sua voce lui avvertì una tristezza così
intensa che lo ferì con violenza maggiore di un colpo di spada.
Aprì la bocca per parlare, cercando qualche parola gentile di commiato, ma
Tamis si allontanò in fretta, tirandosi il cappuccio sulla faccia.
Il chiarore che precede l’alba stava già rischiarando il cielo quando Parmenion
arrivò alle porte della sua casa. Sbadigliando, sollevò il pugno per bussare, sapendo
che Mothac si sarebbe svegliato immediatamente e avrebbe alzato la sbarra, ma poi
si accorse che il cancello era socchiuso e questo destò in lui una profonda
irritazione. Fin da quella notte in cui Clearcus era entrato con tanta facilità,
Parmenion aveva insistito perché di notte la porta venisse chiusa non soltanto con
la sbarra ma anche con una catena, e non era da Mothac dimenticare un ordine del
genere. Parmenion posò la mano sul cancello, poi esitò, dicendosi che doveva
essere ancora sconvolto dall’incontro con Tamis: probabilmente Mothac aveva
semplicemente bevuto troppo e si era addormentato aspettandolo.
Il suo senso di disagio però non si dissolse, e mormorando un’imprecazione lui
si spostò verso destra fino a trovarsi sotto la parte più bassa del muro, agganciando
le mani sulla sua sommità e issandosi in silenzio verso l’alto, badando ad evitare
con abilità i vasi che aveva disposto lungo la recinzione perché qualsiasi intruso
ignaro della loro presenza potesse rovesciarli e dare l’allarme. In silenzio, ne
spostò due di lato per fare posto al proprio corpo sul muro, poi scrutò il cortile
sottostante e vide due uomini armati in attesa, uno a ciascuna estremità delle porte.
Calatosi nuovamente nel vicolo, estrasse la spada: il cuore gli martellava nel petto
ed aveva la bocca arida, ma trasse parecchi rapidi respiri per calmarsi e avanzò di
soppiatto verso le porte. Sapeva di avere un vantaggio, e cioè che gli assassini si
aspettavano di cogliere la loro vittima di sorpresa. Calò con violenza la spalla
sinistra contro il cancello, che si spalancò, sbattendo al suolo il primo sicario
mentre Parmenion balzava sulla destra e calava la spada sul collo del secondo
uomo. Il primo intanto si rialzò con aria stordita, cercando di afferrare il coltello
perché la spada gli era sfuggita di mano nell’urto, ma la lama di Parmenion gli
trapassò il petto prima che potesse estrarlo.
L’assassino si accasciò contro Parmenion, che estrasse di scatto l’arma e lo
respinse da sé. L’uomo crollò con un gemito nel cortile a faccia in avanti: una
gamba ebbe una contrazione e gli sfinteri gli si rilassarono, pervadendo l’aria di
fetore mentre Parmenion correva verso le porte dell’androne e le spalancava di
scatto.
– Benvenuto – disse un alto Spartano. – Posa la spada... altrimenti la donna
morirà.
La mano sinistra dell’uomo era posata contro la gola di Thetis, ma la destra
stringeva una corta daga, la cui punta premeva contro il fianco della donna.

Thetis si era svegliata nel cuore della notte sentendo il rumore di una zuffa nel
cortile sottostante. Afferrata una daga era corsa al piano di sotto, trovando quattro
uomini in piedi accanto al corpo di Mothac. Senza riflettere, si era scagliata contro
di loro e quando uno di essi aveva cercato di afferrarla si era contorta e gli aveva
piantato in profondità la daga nell’inguine. Un pugno l’aveva raggiunta alla
guancia, gettandola a terra, poi gli intrusi le erano stati addosso, bloccandole le
braccia e strappandole l’arma di mano. L’uomo da lei colpito giaceva immobile
con il sangue che si allargava nel cortile; uno dei tre superstiti l’aveva poi
trascinata nell’androne mentre gli altri spostavano i corpi in cucina.
– Sgualdrina! – aveva esclamato l’uomo che la teneva ferma. – Lo hai ucciso!
E le aveva sferrato un manrovescio che l’aveva fatta crollare al suolo,
avanzando poi verso di lei con una daga.
– Lasciala stare! – aveva ingiunto però il capo del gruppo, un uomo alto che
indossava un chitone verde scuro e stivali per andare a cavallo.
– Ma ha ucciso Cinon! – aveva protestato l’altro.
– Sorvegliate le porte e quando arriverà... uccidetelo! Poi potrai fare quello che
vuoi con la donna.
E così la lunga notte aveva avuto inizio. Durante l’attesa, Thetis aveva deciso di
gridare un avvertimento non appena avesse sentito arrivare Parmenion, ma il primo
suono era stato quello del cancello che si spalancava con violenza, seguito a ruota
dalle urla dei morenti.
Adesso Parmenion era fermo sulla soglia, con i vestiti sporchi di sangue e una
furia terribile nello sguardo.
– Posa la spada... altrimenti la donna morirà.
Thetis notò l’indecisione di Parmenion, vide la sua mano accennare lentamente
a lasciar cadere la spada.
– Non farlo! – gridò. – Ci ucciderà comunque entrambi!
– Taci, sgualdrina! – ordinò lo Spartano.
La spada di Parmenion cadde al suolo.
– Adesso spingila qui con un piede – ordinò il sicario, e Parmenion obbedì di
nuovo. A quel punto lo Spartano gettò Thetis contro la parete e avanzò verso di lui.
– Il tuo momento è venuto, traditore! – sibilò. Parmenion indietreggiò
nell’androne, girando in cerchio intorno all’avversario munito di coltello.
– Chi vi ha mandati? – chiese, con voce calma.
– Io servo il re, e la causa della giustizia – replicò l’uomo, poi scattò
improvvisamente in avanti, tentando di trapassare il ventre di Parmenion.
Questi si spostò di lato e sferrò un pugno che rimbalzò contro il mento
dell’avversario; per tutta risposta il coltello scattò verso la sua faccia, lacerandogli
la spalla.
Nell’urto Thetis aveva picchiato la testa contro il muro e adesso un sottile
rivolo di sangue fluiva da una lacerazione alla tempia; pur avendo la vista
annebbiata, lei strisciò però in avanti sul pavimento e raccolse la spada di
Parmenion, alzandosi lentamente in piedi nonostante la nausea violenta che l’aveva
assalita. Vide Parmenion lottare con l’assassino, che le stava volgendo le spalle e
corse in avanti, piantando la spada nel corpo dello Spartano, che tentò di girarsi ma
fu trattenuto per il polso da Parmenion.
Thetis ricadde all’indietro contro un divano, con la stanza che le ruotava
follemente intorno. Vide i due uomini lottare ancora, il sicario con la spada che gli
sporgeva dalla schiena, poi Parmenion esercitò tutto il proprio peso contro
l’avversario e lo scagliò verso il muro. L’elsa della spada colpì la pietra e piantò la
lama più in profondità nel corpo dell’uomo, le cui labbra si coprirono di sangue
gorgogliante. Parmenion scattò di lato quando il sicario tentò un ultimo, disperato
affondo con la daga, poi gli occhi dell’uomo si chiusero e lui crollò al suolo.
Subito Parmenion corse da Thetis, adagiandola sul divano.
– Stai bene? – le chiese, prendendole il volto fra le mani.
– Sì – rispose lei, debolmente. – Mothac... in cucina. Parmenion si alzò in piedi,
strappando la spada dal corpo dello Spartano, e con la lama insanguinata in mano
attraversò la casa e passò in cucina, dove due corpi giacevano sul pavimento.
Scavalcato il primo, Parmenion si inginocchiò accanto a Mothac, posandogli le dita
contro la gola. Il battito c’era ancora. Strappata la camicia insanguinata del
Tebano, Parmenion mise a nudo due ferite, una in alto sul petto e l’altra sopra il
fianco sinistro. Il flusso di sangue dalla lacerazione al petto stava cessando, ma
l’altra ferita continuava a sanguinare abbondantemente. Ricordando ciò che aveva
visto fare ai chirurghi sul campo di battaglia, Parmenion posò la mano ai lati del
taglio, unendo la pelle e stringendo con forza. Per qualche minuto restò immobile
così, con il sangue che gli scorreva fra le dita, ma poi l’emorragia cominciò
finalmente a rallentare e Mothac gemette.
– Resta disteso – ordinò Parmenion, allentando con delicatezza la presa. Il
sangue scorreva ancora, ma in maniera infinitesimale.
Tornato nell’androne, vide che Thetis si era addormentata e la lasciò riposare,
correndo a casa di Dronicus, il medico che aveva sostituito Argonas. Il dottore, un
Ateniese calvo e glabro, tanto basso da sembrare deforme, aveva un carattere no-
toriamente brusco ma la sua abilità era indiscutibile e, come Argonas prima di lui,
detestava ricorrere ai salassi.
Insieme, i due uomini issarono Mothac sul suo letto, poi Dronicus tappò le
ferite usando lana intrisa di linfa di foglie di fico e le coprì con tamponi di lana
bagnati di vino rosso, tenendo il tutto al suo posto con bende di lino.
Tornato nell’androne, Parmenion si inginocchiò accanto a Thetis e le prese la
mano, baciandole le dita.
Lei si svegliò e gli sorrise.
– Perché è tanto buio? – chiese. – Non puoi accendere una lanterna?
Ormai la luce del sole stava entrando a fiotti dalla finestra, e Parmenion si sentì
raggelare fino nel profondo dell’anima. In fretta, le passò una mano davanti alla
faccia, ma lei non sbatté neppure le palpebre.
– Dronicus! – chiamò, deglutendo a fatica. – Vieni qui, presto!
– Cosa succede? – domandò Thetis. – Accendi una lanterna.
– Fra un momento, amore mio. Fra un momento.
– Mothac sta bene?
– Sì. Dronicus!
Quando il dottore si avvicinò al divano, Parmenion non disse nulla ma passò
ancora la mano davanti al volto di Thetis. Il dottore si protese allora a toccare la
ferita sulla tempia di lei, esercitando una leggera pressione che strappò un gemito
alla donna.
– Sei tu, Parmenion? – chiese, con voce ora impastata.
– Sono qui – sussurrò lui, prendendole la mano.
– Credevo che saremmo morti e che la nostra felicità sarebbe finita. Poi ho
pensato che era il prezzo da pagare per gli anni che avevamo avuto... gli dèi non
amano che si sia felici troppo a lungo. So che può sembrare strano, ma mi sono
resa conto di non avere rimpianti. Tu mi hai riportata alla vita, mi hai fatta
sorridere e ridere. Adesso però... abbiamo... vinto di nuovo e ci saranno altri anni.
Parmenion?
– Sì?
– Ti amo. Ti dispiace che lo dica?
– Non mi dispiace – sussurrò lui, poi lanciò un’occhiata a Dronicus, ma la sua
espressione era indecifrabile. – Cos’ha che non va? – sillabò allora, senza emettere
suoni.
Il medico si alzò e gli segnalò a cenni di restare con la donna, poi uscì in cortile
e si sedette al sole.
– Mi ami? – chiese Thetis, con voce improvvisamente limpida.
Parmenion sentì la gola che gli si contraeva improvvisamente e le lacrime che
gli bruciavano gli occhi.
– Sì – disse.
– Non... riesco... a sentirti. Parmenion? Par...
Il respiro le si spense in gola con un sussurro.
– Thetis! – gridò lui, ma la donna non si mosse e i suoi occhi continuarono a
fissarlo.
Rientrato silenziosamente in casa, Dronicus le abbassò le palpebre, poi prese
Parmenion per un braccio e condusse lo sconvolto Spartano fuori sotto il sole.
– Perché? Era soltanto una piccola ferita.
– Il suo cranio era fratturato alla tempia. Mi dispiace, Parmenion... non so che
altro dire. Però tenta di trarre conforto dal fatto che non ha sofferto: non sapeva di
essere sul punto di morire. Inoltre cerca di ricordare ciò che ha detto sulla vostra
vita insieme. Poche persone conoscono una simile felicità.
Parmenion lo ignorò e si sedette al tavolo del cortile, con lo sguardo fisso sui
fiori che crescevano lungo il muro, senza muoversi neppure quando Menidis e una
squadra di soldati tebani arrivarono per portare via i corpi degli assassini. Poi
l’anziano ufficiale si venne a sedere davanti a lui.
– Puoi dirmi cosa è successo? – chiese.
Parmenion lo fece, con calma e meccanicamente, e non si accorse neppure
quando Menidis si alzò e se ne andò. Al tramonto, Pelopida lo trovò ancora là e gli
sedette accanto.
– Mi dispiace per la tua perdita – disse. – Davvero. Però adesso ti devi scuotere,
Parmenion, perché ho bisogno di te. Tebe ha bisogno di te. Cleombrotus è nel nord
con dodicimila uomini. Chaireas e i suoi sono stati massacrati e la via verso Tebe è
aperta.

Epaminonda sedeva solo sul costone, con lo sguardo abbassato sull’esercito


spartano accampato nella piana di Leuctra, un giorno di marcia ad est rispetto a
Tebe. Lentamente, allentò la cinghia del suo semplice elmo di ferro e se lo tolse,
appoggiandolo sul pendio sassoso e continuando ad osservare i lontani fuochi da
campo.
Un cambiamento di direzione della brezza portò poi fino a lui un suono di risa
proveniente dal campo e i nitriti dei cavalli picchettati oltre i fuochi.
La giornata dell’indomani incombeva nella sua mente come i mostri
semidimenticati dei sogni della sua infanzia: per oltre quindici dei suoi trentasette
anni aveva lavorato, cospirato e rischiato la vita al servizio di Tebe per liberare la
città che amava dal dominio spartano. Ed era arrivato così vicino a farcela.
Così vicino...
Adesso si trovava di fronte ad un esercito di dodicimila uomini... il doppio delle
forze congiunte della Beozia, e il futuro di Tebe era in sospeso come un fragile
gioiello che pendesse su un abisso di fuoco.
A Sparta si era concesso di sognare giorni dorati. Agisaleus era stato gentile e
perfino amichevole, le negoziazioni erano procedute senza intoppi... fino all’amaro
momento in cui lui aveva notato la modifica nel Trattato di Pace, trovandosi preso
come un pesce nella rete. Firmare avrebbe significato la fine della Beozia e non
firmare avrebbe dato il via ad una nuova invasione.
Tratto un profondo respiro chiuse gli occhi, cercando di concentrarsi sui
consigli dei suoi generali, ma tutto quello che poteva vedere era l’esercito spartano,
il migliore della Grecia... di tutto il mondo.
Pensò poi al piano di Parmenion, ma lo accantonò subito dalla mente.
Sentendo un rumore alle proprie spalle sollevò lo sguardo e scorse il generale di
Tespi, Ictinus, un uomo giovane e snello, con l’armatura di ferro che era stata
lucidata fino a farla splendere come l’acciaio. Epaminonda rimase in silenzio,
perché Ictinus aveva il potere di irritarlo ma al tempo stesso era il rappresentante
eletto da Tespi e doveva essere tollerato.
– Non impegneremo battaglia in campo aperto, vero, Epaminonda? – chiese
Ictinus. – I miei uomini sono preoccupati... non per la loro vita, naturalmente, che
darebbero con gioia... con gioia. Tuttavia... sarebbe una follia. Dimmi che non stai
considerando questa alternativa.
– Sto considerando tutte le possibilità, ed esporrò il mio parere ai Sette al
momento convenuto. Adesso, vuoi lasciarmi solo a riflettere?
– Sì, sì. Però, non potremmo difendere il costone? Sì, sarebbe una buona
strategia. Credo...
– Ne parlerò con te fra un’ora, Ictinus... e agli altri Beotarchi – scattò
Epaminonda.
L’uomo si inchinò e se ne andò, ma quasi subito il generale tebano ebbe
l’impressione di sentirlo tornare.
– Per l’amore degli dèi! – esplose. – Vuoi lasciarmi in pace!
– Hai bisogno di bere qualcosa – disse Pelopida, battendogli una pacca sulla
corazza ed esibendo un ampio sorriso.
– Mi dispiace, credevo che fosse quello stolto di Ictinus.
– Qualsiasi cosa accada domani, amico mio, credo che la tua strategia dovrebbe
ignorare i Tespiani. Fuggiranno al primo grido che gli Spartani indirizzeranno
contro di loro.
– Il che ci lascia con cinquemilacinquecento combattenti... contro dodicimila.
Una buona prospettiva, non credi?
– Non m’importa quanti sono... domani li schiacceremo – dichiarò Pelopida,
scrollando le spalle e sputando su una roccia. – Mi piace il piano di Parmenion.
Epaminonda chiuse gli occhi per un momento.
– È fuori di sé da quando Thetis è stata uccisa... e comunque non posso
prendere in considerazione quel piano. Rischiare tutto con una sola mossa,
rischiare l’annientamento? Non interpretare male le mie parole, Pelopida, ma tu
attaccheresti un leone con l’ago di una spilla?
– Perché un leone dovrebbe avere una spilla? – chiese Pelopida, sogghignando.
– Se tutti gli uomini fossero come te – ridacchiò Epaminonda, – non esiterei a
seguire il piano di Parmenion. Però non lo sono, Pelopida. Tu sei... speciale, forse
addirittura unico, e non posso correre un rischio del genere.
– Chiedi a te stesso il perché – suggerì Pelopida.
– So il perché. È in gioco tutto quello per cui ho lavorato.
– Non è questa la risposta e tu lo sai. Una strategia è buona oppure non lo è...
non puoi progettare una battaglia su qualsiasi altra base. Stai dicendo che se dal
risultato dello scontro non dipendesse nulla d’importante tenteresti lo schema
proposto da Parmenion?
– Forse sì – rise Epaminonda, – ma la verità è che sono fuori di senno dalla
paura.
– Pensa a questo: se Parmenion non si fosse reso conto che gli Spartani
avevano intenzione di invaderci non avresti avuto delle truppe con cui bloccare il
passo di Coronea. Anche così, loro hanno preso Creusis e le nostre preziose
trireme, hanno inferto una ferita al nostro orgoglio e alla nostra credibilità... e la
Lega sta vacillando. Se non sferriamo un colpo devastante, saremo finiti
comunque: Tebe cadrà e questa volta Agisaleus ha promesso di radere al suolo la
città e di vendere come schiavi ogni uomo, donna e bambino. Io non vorrei vivere
abbastanza da vedere una cosa del genere... e tu?
Epaminonda si issò in piedi, massaggiandosi il ginocchio destro che gli doleva.
– Anche se fossi d’accordo, non riusciremmo mai a convincere gli altri
Beotarchi.
– Io ho già convinto Bachylides di Megara, e con te siamo tre su sette. Sono
certo che potremmo vincere la votazione.
– Una tattica del genere non è mai stata tentata – obiettò ancora Epaminonda.
– Invece sì – ribatté Pelopida, con espressione assolutamente seria. –
Parmenion mi ha detto che una volta usandola ha vinto un gioco, a Sparta.
Per un momento Epaminonda fissò interdetto l’amico, poi cominciò a ridere;
Pelopida si unì a lui e il suono della loro allegria echeggiò per tutto il campo
silenzioso.

Era quasi mezzogiorno quando gli Spartani e i loro alleati marciarono verso il
centro della pianura assumendo la formazione da battaglia e sfidando i Beoti a
venire ad affrontarli.
Guardando verso destra, Epaminonda osservò il suo esercito che si preparava a
marciare: all’estrema destra c’erano i guerrieri di Tespi agli ordini di Ictinus, che
formavano una falange alle spalle di Parmenion e di quattrocento cavalieri; al
centro era schierata la Banda Sacra, con i lanciatori di giavellotto e gli arcieri alle
spalle, mentre Epaminonda si trovava nella quinta fila del contingente tebano, forte
di quattromila uomini bene armati con corazza ed elmo, gonnellino di cuoio
bordato in metallo e schinieri di bronzo. Ogni uomo portava un largo scudo di
legno rivestito di cuoio e bordato dello stesso metallo. Estratta la corta spada,
Epaminonda si assestò lo scudo sul braccio e lanciò l’ordine con voce possente.
– Avanti! Per Tebe e per la gloria!
L’esercito cominciò a muoversi.
Il generale tebano cercò di deglutire ma aveva la bocca arida e sentiva il cuore
che gli batteva come un tamburo e in maniera irregolare, mentre la sua tensione era
tale che le gambe gli tremavano nel tentativo di regolare il passo con quello degli
uomini ai suoi fianchi. Da quel momento non c’era più possibilità di tornare
indietro.
Le discussioni erano durate fino a tarda notte e non erano certo state
semplificate da uno strano incidente. Quando Epaminonda aveva fatto per sedersi
nella tenda e rivolgersi agli altri sette generali, la sedia si era rotta sotto si lui,
facendolo cadere a terra. All’inizio la cosa era stata accolta soltanto con qualche
risata nervosa, ma poi Ictinus aveva detto ciò che anche gli altri pensavano.
– È un brutto presagio, Epaminonda, molto brutto – aveva affermato, e gli altri
avevano assunto un’espressione nervosa.
– Sì, è un presagio – aveva ribattuto Epaminonda, rialzandosi. – Ci viene
ordinato di non sedere in ozio ma di combattere da uomini.
Poi aveva esposto il piano di battaglia.
– Non è possibile che tu abbia riflettuto a fondo sulla questione – aveva subito
dichiarato Ictinus. – Gli Spartani sono letali. Se dobbiamo attaccarli, allora
colpiamoli sulla sinistra, dove ci sono i mercenari di Orcomeno. Sbaragliamo i loro
alleati e isoliamo Cleombrotus.
– E cosa pensi che farà Cleombrotus mentre noi marciamo verso la sua ala
sinistra? – aveva chiesto Epaminonda. – Te lo dico io cosa farà... girerà il suo
reggimento e ci schiaccerà. No, propongo di colpire direttamente la testa del
serpente.
La discussione si era protratta fin quasi all’alba: Bachylides di Megara e
Pelopida avevano sostenuto Epaminonda dal principio, ma era stato soltanto
quando avevano convinto anche Ganeus di Platea che avevano ottenuto la
maggioranza.
Adesso, mentre marciava giù per il lungo pendio alla volta della pianura,
Epaminonda non poté fare a meno di preoccuparsi per quella decisione. Per molti
anni aveva complottato e programmato, rischiando la propria vita per liberare la
città che amava, ma se si stava sbagliando adesso la sua città sarebbe stata
distrutta... le statue infrante, le case rase al suolo... e la polvere della storia avrebbe
ricoperto la Cadmea deserta. Sentì la mano madida di sudore quando accentuò la
stretta intorno alla spada, e poté avvertire rivoletti gelidi che gli scorrevano lungo
la schiena.
Quattrocento metri più avanti gli Spartani attendevano in silenzio, con le loro
forze allargate in un’ampia mezzaluna; sulla destra era possibile vedere con
chiarezza il re guerriero di Sparta, Cleombrotus, che spiccava con la sua corazza
decorata in oro in mezzo alla sua guardia del corpo.
Lentamente la distanza fra i due eserciti si ridusse, e quando rimasero soltanto
duecento passi Epaminonda ordinò ai suoi uomini di fermarsi. Aveva di fronte la
destra spartana, mentre al centro gli arcieri e i frombolieri nemici stavano
preparando le loro armi. Lanciando un’occhiata nervosa alla sinistra del nemico,
vide seicento cavalieri spartani che stavano galoppando verso la prima linea per
prendere posizione al centro, davanti agli arcieri.
Adesso tutto dipendeva da Parmenion. Epaminonda sollevò la spada in alto
nell’aria.
Guidata da Parmenion, la cavalleria tebana spronò i cavalli al galoppo,
puntando dritta verso la sinistra del nemico: la polvere vorticò intorno ai cavalieri e
il tuono degli zoccoli pervase l’aria... ma alle spalle della cavalleria i Tespiani,
guidati da Ictinus, si voltarono e fuggirono dal campo.
– Dannazione a te, vigliacco! – urlò Epaminonda.
– Faremo senza di loro, generale – disse un uomo, al suo fianco.
– Infatti – convenne Epaminonda, distogliendo lo sguardo dagli uomini in fuga
per spostarlo su Parmenion, che stava galoppando alla testa della cavalleria tebana.
La mente di Parmenion era stranamente calma mentre lui precedeva i
quattrocento cavalieri. La polvere si sollevò in nubi soffocanti ma lui si venne a
trovare davanti ad essa perché il suo cavallo nero si stava dirigendo ad una velocità
spaventosa verso il nemico. In lui non c’erano pensieri di vittoria o di sconfitta:
durante la notte aveva sognato Thetis e Derae, e nei suoi sogni tormentati aveva
visto Leonida, sopportando la sua risata beffarda. Adesso tutto quello che
desiderava era di venirsi a trovare faccia a faccia con gli Spartani, tagliare e
devastare e uccidere.
Quando già la sinistra del nemico stava unendo gli scudi per prepararsi a fare
fronte alla carica, Parmenion tirò la redine sinistra e fece girare lo stallone; alle sue
spalle la cavalleria tebana cambiò a sua volta direzione e deviò verso i cavalieri
spartani che aspettavano al centro dello schieramento. Abbassata la punta della sua
lancia, Parmenion scelse il proprio bersaglio, un ufficiale dal lungo mantello rosso
in sella ad un cavallo grigio.
La cavalleria spartana si rese conto troppo tardi di essere destinata a subire
l’impatto della prima carica. Gli ufficiali urlarono degli ordini nel tentativo di
caricare a loro volta ma ormai i Tebani erano loro addosso... lanciando selvagge
urla di battaglia e gettando di sella gli avversari con le lance. Quella di Parmenion
rimbalzò contro la corazza dell’ufficiale e si piantò nella mascella dell’uomo per
poi fuoriuscire dal cranio. Lo Spartano fu sollevato dalla groppa del cavallo e il
peso del suo corpo morto spezzò l’asta della lancia. Gettata l’altra metà
inutilizzabile, Parmenion estrasse la Spada di Leonida.
Adesso tutt’intorno regnava il caos e la cavalleria spartana era stata costretta a
indietreggiare fra le linee degli arcieri e dei frombolieri... gli uomini privi di
armatura cominciarono a cadere sotto gli zoccoli dei cavalli in preda al panico e il
centro dello schieramento spartano piombò nella confusione totale.
Un cavaliere calò la sciabola verso la testa di Parmenion, ma questi si ritrasse e
rispose piantando la spada nel collo dell’avversario.
Ora un’enorme nuvola di polvere avvolgeva le prime linee dello schieramento e
l’aria si era fatta densa e soffocante.
Alla retroguardia della destra spartana, Leonida vide la cavalleria tebana
deviare per attaccare il centro. In un primo momento non se ne preoccupò troppo,
perché arcieri e lanciatori di giavellotto non avevano molta importanza e come
sempre la battaglia sarebbe stata vinta dalla falange spartana... ma poi qualcosa si
agitò nella sua memoria, un gelido pensiero sussurrante che non gli riusciva di
afferrare del tutto. Stranamente, gli parve di aver già combattuto quella battaglia,
con la cavalleria nemica che attaccava il centro. Spostò lo sguardo in quella
direzione, fissando la vorticante nube di polvere...
E ricordò.
In quello stesso momento il re guerriero Cleombrotus vide le forme che si
muovevano in mezzo alla polvere e si rese conto che i Tebani stavano avanzando
verso di lui. Questo lo rese esultante: si era aspettato che i Beoti fortificassero il
costone e lo sfidassero ad attaccarli, e il fatto che avessero invece la temerarietà di
marciare contro di lui era un dono che non aveva previsto di ricevere.
– Le quattro file posteriori avanzino sul fianco destro! – tuonò.
I guerrieri, Leonida fra loro, si spostarono con prontezza sulla destra,
assottigliando lo schieramento spartano ad appena dodici file e preparandosi ad
accerchiare il nemico che stava avanzando.
Poi in un momento di gelido terrore Leonida vide di nuovo il recinto di sabbia
nella casa di Senofonte e le file ammassate del nemico che si abbattevano sullo
schieramento assottigliato.
– No, sire! – urlò, ma la sua voce si perse nella confusione quando il grido di
guerra tebano si levò come un rombo di tuono protratto.
All’interno della nube di polvere Pelopida e la Banda Sacra avanzarono di
corsa per mettersi davanti al resto dello schieramento tebano e prendere posto alla
testa della carica.
– Morte! Morte! Morte! – ruggì l’esercito, e cominciò a correre.
Disposti in riga per ottanta su cinquanta file di profondità, i Tebani si
abbatterono sullo schieramento frontale degli Spartani come un’ascia su un pezzo
di legno: le prime due file indietreggiarono e cedettero sotto le spade nemiche e la
falange venne lacerata dall’impatto della carica.
Alla testa della Banda Sacra, Pelopida piombò con violenza sugli Spartani,
affiancato da Callines. Una spada scattò verso la testa di Pelopida, ma Callines la
bloccò con lo scudo e piantò la propria lama in profondità nell’inguine
dell’avversario, poi la falange tebana riprese la sua avanzata, sia pure più
lentamente. Senza badare all’assortimento di piccole ferite che gli rigavano di
sangue le braccia e le gambe, Pelopida continuò a colpire e a uccidere con frenesia
crescente.
Alle sue spalle Epaminonda... che si trovava al centro della falange e non era
ancora stato coinvolto nel combattimento... sbirciò fra la polvere nel tentativo di
localizzare il re spartano Cleombrotus, che insieme alla sua guardia del corpo stava
combattendo un po’ più a destra rispetto al fronte principale dell’avanzata nemica.
– Pelopida! – gridò il generale tebano. – Alla tua destra! Alla tua destra!
Per quanto perso nella propria sete di sangue, Pelopida lo sentì e si guardò
intorno: non appena vide Cleombrotus, cominciò a lottare per aprirsi un varco
verso di lui; Callines gli si tenne accanto e proteggendosi a vicenda i due
continuarono a combattere in coppia mentre alle loro spalle la Banda Sacra
modificava la sua linea di avanzata e si dirigeva a sua volta verso il re spartano.
Sulla destra, Leonida si portò a fatica sul davanti delle due linee spartane a cui
era stato ordinato di allargarsi per accerchiare i Tebani, e nel vedere il nemico che
puntava verso il re ordinò loro di serrare le file.
– Il re! Il re! – tuonò, e gli Spartani scattarono in avanti, tentando
disperatamente di raggiungere il monarca assediato. – Indietro, sire! Indietreggia! –
gridò ancora Leonida.
Cleombrotus si rese conto del pericolo, ma non riuscì a indursi a ritirarsi
davanti ai Tebani.
– State saldi – ordinò alla sua guardia del corpo. – Si infrangeranno contro di
noi come il mare sulla pietra. Intanto Parmenion e la cavalleria erano penetrati in
profondità nel centro nemico, mettendo in fuga davanti a loro gli arcieri dotati
soltanto di armatura leggera e la cavalleria nemica. Girandosi verso sinistra,
Parmenion vide la linea di battaglia tebana che stava rallentando nel cercare di
girarsi per schiacciare Cleombrotus, poi spostò lo sguardo verso la destra spartana,
dove Leonida aveva raccolto a sé due file e stava cercando di aprirsi un varco per
salvare il re.
– Tebani, a me! – gridò quindi.
A portata d’udito c’erano soltanto cinquanta cavalieri... ma essi accorsero
subito al galoppo.
– Seguitemi! – ordinò Parmenion, piantando i talloni nei fianchi dello stallone e
caricando la linea spartana.
La sua mossa sorprese gli avversari, che cercarono di girarsi per difendersi, con
il solo risultato di indebolire il loro fronte e di permettere a Pelopida e alla Banda
Sacra di aprirsi un varco.
Cleombrotus imprecò, poi calò con violenza la spada, piantandola nella bocca
di un nemico e trapassandogli il cranio. Un altro Tebano, e poi un altro ancora,
caddero sotto i colpi del re guerriero.
Poi un urlo si levò accanto a lui e Cleombrotus si voltò di scatto, appena in
tempo per vedere il suo amante e compagno, Hermias, cadere al suolo con la gola
squarciata. Un guerriero dalla barba scura con un letale sogghigno dipinto sul volto
balzò verso il re, che parò un primo affondo e poi un secondo. Pelopida sbatté però
poi il proprio scudo contro quello dell’avversario, costringendolo a indietreggiare e
lasciandosi poi cadere in ginocchio per piantare la spada nell’inguine del nemico.
Cleombrotus cercò ancora di combattere, ma il sangue e la vita lo stavano
abbandonando... e con essi anche le forze. Il braccio che reggeva lo scudo gli si
abbassò e il colpo successivo del Tebano gli frantumò la mascella.
Quando il re cadde, il centro spartano cedette. Leonida e i suoi uomini
riuscirono infine a portarsi in prima linea e a raccogliere il corpo del re,
impegnando poi una difensiva azione di retroguardia nei ritirarsi verso
l’accampamento.
La furia della battaglia cominciò allora ad affievolirsi. Gruppi isolati di
Spartani vennero circondati e distrutti, ma Leonida riuscì a raccogliere quanto
restava dell’esercito in una forte posizione difensiva su un costone vicino, mentre
gli alleati di Sparta fuggirono senza più combattere non appena videro cadere
Cleombrotus.
I Tebani si raccolsero intorno a Pelopida e ad Epaminonda, issandoli sulle
spalle e portandoli in giro per il campo di battaglia fra ovazioni assordanti che
giunsero echeggianti fino alle linee degli Spartani.
Appiedato dalla morte del suo cavallo, Parmenion prese a camminare
lentamente fra i corpi contorti dei morti: oltre mille Spartani erano caduti sul
campo contro un numero di perdite tebane che ammontava ad appena duecento
uomini, ma per il momento quelle cifre non significavano nulla per lui, si sentiva
stordito e privo di emozioni. Aveva visto Cleombrotus cadere per mano di
Pelopida, ma la cosa peggiore era stato vedere il Tebano uccidere Hermias qualche
istante prima. Parmenion si inginocchiò accanto al corpo e abbassò lo sguardo sul
volto dell’uomo, vedendo il viso del ragazzo che gli era stato amico.
Gli tornò in mente il ricordo di quella notte in cui si erano seduti ai piedi della
statua di Atena dei Viandanti, la notte in cui lui aveva appreso che non ci sarebbe
stata nessuna celebrazione per la sua vittoria nei Giochi.
– Pagheranno tutti! – aveva promesso, ed Hermias gli aveva posato una mano
sul braccio.
– Non odiare anche me, Savra.
– Odiarti, amico mio? – aveva risposto. – Come potrei mai odiarti? Sei stato
un fratello per me e non lo dimenticherò mai. Mai! Siamo stati fratelli e lo saremo
per tutti i giorni della nostra vita. Te lo prometto.
Chiuse gli occhi del morto e si alzò in piedi. Adesso i chirurghi si stavano
muovendo per il campo di battaglia, rimuovendone i feriti tebani, anche se
Parmenion sapeva che la maggior parte di quegli uomini sarebbe morta, in quanto i
medici abili come Argonas e Dronicus erano rari. Si guardò intorno. Sulla sinistra
giaceva Callines, l’uomo che aveva ammesso di non essere molto abile con la
spada, e più oltre c’era il corpo di Norac il fabbro; in seguito avrebbe saputo di altri
che erano morti quel giorno, come Calepios l’oratore e Melon lo statista. Abbassò
poi lo sguardo sulle proprie mani, coperte di sangue che cominciava a seccarsi e ad
assumere una tinta marrone sporco.
E i corvi stavano già girando in cerchio sulla pianura.
Ricordò i Giochi del Generale, i soldati intagliati nel legno e disposti nel
recinto di sabbia: là non c’era stato sangue né il fetore dei visceri squarciati... era
stato soltanto un gioco di bambini condotto senza dolore sotto il sole di un’altra
epoca.
– Pagheranno tutti – aveva promesso ad Hermias. Ed avevano pagato... ma a
che prezzo? Hermias era morto, e così Derae, ed ora anche Thetis.
Sparta era finita, la sua invincibilità era svanita. Adesso altre città da lei
dominate sarebbero insorte e la sua potenza sarebbe svanita fino a diventare un
ricordo. Non sarebbe stata una cosa immediata, lo sapeva, e ci sarebbero state altre
vittorie per gli Spartani... ma non avrebbero mai più dominato la Grecia.
– Io sono la Morte delle Nazioni – sussurrò.
– O il loro salvatore – suggerì Epaminonda.
– Non ti ho sentito arrivare – osservò Parmenion, girandosi. – Hai vinto, amico
mio, hai conseguito una famosa vittoria e spero che Tebe si dimostri più abile di
Sparta nel governare.
– Noi non cerchiamo di dominare nessuno – protestò Epaminonda.
– Vi sarà imposto, generale – replicò Parmenion, massaggiandosi gli occhi
stanchi. – Per poter essere sicuri, dovrete portare la battaglia sul terreno degli
Spartani e umiliarli. A quel punto gli Ateniesi e i loro alleati avranno paura di voi e
vi marceranno contro. Dominare o morire, queste sono le tue alternative.
– Non essere così cupo, Parmenion. Questa è una nuova epoca in cui non siamo
costretti a ripetere le follie del passato. Gli Spartani manderanno un ambasciatore
per chiedere il permesso di rimuovere i loro morti e sarai tu a riceverlo.
Parmenion scosse il capo.
– Ascoltami – insistette Epaminonda, in tono sommesso, – hai portato con te il
tuo odio per troppi anni, e con questa vittoria puoi seppellirlo per sempre, puoi
essere libero. Fallo per me.
– Come vuoi – acconsentì lo Spartano, sentendosi la mente vuota e prosciugata
di ogni emozione.
Per tutta la sua vita di adulto aveva sognato questo momento, ma adesso che era
giunto si sentiva morto dentro. Thetis gli aveva chiesto cosa avrebbe fatto quando
la sua vittoria fosse stata completa, ma così come non aveva avuto una risposta al-
lora non riusciva a trovarne una adesso. Lasciò scorrere lo sguardo sui corpi
silenziosi che lo attorniavano e si chiese dove fosse la gioia della vittoria, in cosa
consistesse la soddisfazione.
Tre ore più tardi, quando era ormai imminente il crepuscolo, un cavaliere
spartano entrò al trotto nel campo dei Tebani e venne condotto nella tenda dove era
in attesa Parmenion.
– Sapevo che era un tuo piano – dichiarò Leonida. – Cosa si prova ad avere
sconfitto l’esercito della propria terra?
– Sei venuto per riconoscere la sconfitta e per chiedere il permesso di
rimuovere i vostri morti – replicò freddamente Parmenion. – Il permesso vi viene
concesso.
– Non desideri gongolare? – chiese Leonida. – Sono qui, Parmenion, deridimi
quanto vuoi, dimmi come avevi promesso questo e quanto ti fa sentire bene.
– Non posso, e se anche potessi non lo farei. Per poco non ci avete bloccati.
Con una profondità di appena dodici file avete quasi rovesciato le sorti della
battaglia. Se Cleombrotus avesse indietreggiato ed avesse unito le sue forze alle tue
avreste potuto reggere. Non c’è mai stato un esercito tanto coraggioso o di-
sciplinato come quello di Sparta, ed io saluto i vostri morti e il ricordo di tutto ciò
che è stato grande nella storia di Sparta. – Versò quindi due boccali di vino,
porgendone uno allo sconcertato Spartano, e continuò: – Molto tempo fa, tua
sorella voleva comprarti un dono. Allora non l’ho voluto vendere, ma adesso è
giunto il momento di restituirlo.
Slacciandosi la cintura con la spada, porse l’arma leggendaria a Leonida, che
rimase a fissarla con incredulità per poi sedersi di colpo sul pagliericcio presente
nella tenda e tracannare il vino in un solo sorso.
– Cos’è che facciamo gli uni agli altri? – chiese. – Hai vinto onestamente i
Giochi, l’ho detto allora e lo ripeto adesso. Non ho mai chiesto a quei ragazzi di
tormentarti... non sapevo neppure quello che stava succedendo... e vorrei che tu
avessi sposato Derae. Sono però gli eventi a spingerci, Parmenion, le nostre anime
non sono che foglie nella tempesta e soltanto gli dèi sanno dove finiremo a
riposare. Siamo nemici, tu ed io... il Fato lo ha decretato... però sei un uomo
coraggioso e combatti come uno Spartano. Saluto la tua vittoria – concluse, alzan-
dosi e restituendo il boccale vuoto. – Adesso cosa farai?
– Lascerò Tebe e viaggerò. Vedrò il mondo, Leonida.
– Come soldato?
– È tutto quello che ho... tutto ciò che conosco.
– Addio, allora, Parmenion. Se ci incontreremo ancora, farò del mio meglio per
ucciderti.
– Lo so. Possano gli dèi camminare con te, Leonida.
– E con te... stratega.

Tamis era confusa mentre con gli occhi dello spirito osservava Parmenion
restituire la spada leggendaria. Non era così che sarebbero dovute andare le cose,
l’odio fra i due uomini avrebbe dovuto essere rafforzato dagli eventi... tutti i futuri
lo indicavano. Per un momento appena la sua confusione minacciò di diventare
panico, ma poi lei accantonò tutti i dubbi. Che importanza aveva? Adesso tre dei
Prescelti erano morti e ne rimaneva soltanto uno.
E per occuparsi di lui c’era tempo... ad un ostaggio quattordicenne che viveva a
Tebe potevano succedere incidenti di ogni genere.
Di certo quel ragazzo si sarebbe rivelato una minaccia inferiore a Cleombrotus,
il possente re guerriero degli Spartani: dopo tutto, non proveniva neppure da una
città civile, essendo nato e cresciuto fra le foreste e le colline della Macedonia.
Probabilmente sarebbe stato assassinato come suo padre, perché era quello il
destino di quanti erano troppo vicini al trono nelle nazioni retrograde, in quanto il
re eliminava di solito tutti i possibili rivali.
No, decise, non c’era proprio nulla da temere da Filippo di Macedonia.
LIBRO TERZO
TEBE, AUTUNNO, 371 A.C.

Filippo di Macedonia indugiò ad osservare le folle plaudenti che si erano


raccolte lungo le strade per accogliere la marcia trionfale degli inghirlandati eroi di
Leuctra: mai prima di allora un esercito spartano era stato sconfitto in quel modo,
era una cosa impossibile e in qualche modo meravigliosa... perfino per un
Macedone. Filippo poteva quindi comprendere l’irreprimibile gioia delle
moltitudini, perché stavano celebrando un evento che pochi avevano mai creduto
possibile... l’annientamento degli Spartani da parte di un contingente inferiore di
numero.
Le strade erano piene di musica, e Filippo avrebbe voluto lasciare la casa
silenziosa per unirsi alla gente, danzare e dimenticare i suoi tormenti privati.
Pammenes gli aveva però detto di restare ad attendere un visitatore.
Nel parlare il Tebano non era riuscito ad incontrare il suo sguardo ed aveva
continuato a spostare il peso del corpo da un piede all’altro per il nervosismo, e
anche se timore ed ira erano divampati nell’animo di Filippo di fronte a quel
comportamento, lui aveva mascherato i propri sentimenti finché Pammenes se
n’era andato. Ritraendosi dalla finestra, Filippo si versò un bicchiere d’acqua e
rifletté sul problema.
Erano due mesi che non aveva notizie di suo fratello Perdiccas, quindi il timore
che avvertiva adesso non era una cosa nuova: Perdiccas era di tre anni più vecchio
di lui, era più vicino al trono e sarebbe quindi morto per primo. Per questo motivo,
Filippo scriveva continuamente tanto a lui quanto ai suoi cugini e alle sue nipoti...
chiedendo notizie sull’andamento delle mandrie reali e sulla salute dei parenti.
Quando le lettere di Perdiccas avevano cessato di arrivare, per Filippo erano
cominciate le notti insonni mentre lui aspettava il giorno in cui sarebbe giunto un
sicario ad assassinarlo... e adesso il giorno era arrivato. Il pensiero che di certo non
lo avrebbero ucciso a Tebe perché sarebbe stato un atto scortese serviva ben poco a
rassicurarlo, come anche la daga che portava alla cintura: per quanto forte, infatti,
Filippo aveva appena quattordici anni e non poteva tenere testa neppure al più
goffo guerriero adulto... e non ne avrebbero certo mandato uno goffo.
– Cosa devo fare, Crosi? – chiese, rivolgendosi al fantasma del vecchio.
Non ci fu risposta di sorta, ma sussurrare ad alta voce quel nome contribuì a
dissipare la tensione mentre lui ricordava la notte dei coltelli quando il vecchio era
entrato nella sua camera da letto con una spada in mano... all’epoca Filippo aveva
dieci anni... guidandolo in un angolo in ombra della stanza e ordinandogli di
nascondersi dietro un divano.
– Cosa sta succedendo? – aveva chiesto lui.
– Sangue e morte – aveva replicato il vecchio. – Io però ti proteggerò, ragazzo,
non avere timore.
Filippo gli aveva creduto, perché ogni ragazzo di dieci anni ha sempre fiducia
negli adulti. Con la spada in pugno, Crosi si era seduto sul divano e insieme
avevano aspettato fino all’alba, ma non era venuto nessuno.
Per tutta la notte Filippo era rimasto accoccolato dentro una coperta, troppo
spaventato per fare domande sulla natura del pericolo; quando poi il sole era
apparso sulle lontane montagne crousiane, Crosi si era rilassato.
– Vieni fuori, ragazzo – aveva detto, prendendo Filippo per mano e tirandolo a
sé per poi stringerlo in un breve abbraccio. – Tuo padre è morto. Adesso Ptolemaos
governa sulla Macedonia.
– Ma... mio padre è così forte! Non può essere morto.
– Nessun uomo può sopravvivere ad una daga nel cuore, Filippo.
– Chi lo ha fatto? Perché?
– Queste sono domande a cui non risponderò, ragazzo. Comunque per ora non
corri più pericolo... spero.
– Lo zio Ptolemaos si prenderà cura di me – aveva replicato Filippo, e anche a
dieci anni non aveva potuto mancare di notare l’espressione furente apparsa sul
volto del vecchio mentre questi si alzava e gli voltava le spalle. All’epoca non
aveva capito appieno il suo significato, ma la ricordava con chiarezza e adesso
conosceva le risposte, anche se nessuno le aveva mai espresse con chiarezza.
Ptolemaos aveva ucciso il Re Amyntas... lo zio Ptolemaos che tre mesi dopo
aveva sposato la madre di Filippo, Euridice, seppellendola un anno più tardi
accanto al marito assassinato. I genitori di Filippo erano sempre stati freddi nei
confronti del figlio minore, ma nonostante questo lui li aveva amati, adorando il
padre e facendo tutto ciò che gli era possibile per compiacerlo.
L’anno successivo l’acido degli intrighi e delle morti improvvise aveva
bruscamente posto fine all’infanzia di Filippo. Il suo fratello maggiore Alexander,
era stato trovato assassinato nella sua casa estiva di Aigai, ucciso da un ignoto
assalitore, poi tre cugini adulti erano morti in circostanze misteriose.
Proprio in quel periodo era giunta da Tebe la richiesta di ostaggi, dopo brevi e
aspri mesi di conflitti fra l’esercito macedone e un contingente guidato da
Pelopida, il grande guerriero tebano, scontri nei quali i Macedoni erano stati
sconfitti. Ptolemaos aveva mandato dodici ostaggi... compreso Filippo... e durante i
primi tempi trascorsi a Tebe il giovane principe si era sentito al sicuro.
Non avevano permesso a Crosi di accompagnarlo, e il vecchio era morto la
primavera precedente a causa di un attacco di febbri. Filippo lo piangeva ancora e
pregava perché al suo spettro venisse permesso di camminargli accanto finché lui
non fosse stato a sua volta ucciso. Allora forse avrebbero potuto raggiungere
insieme la Terra dei Morti.
Un rumore di passi sulle scale lo strappò ai suoi pensieri; si alzò in piedi... e
scoprì che gli tremavano le gambe.
Nella stanza entrò un alto guerriero in armatura completa, con un pennacchio
bianco sull’elmo; l’uomo non era vecchio, aveva forse diciotto anni, ma i suoi
occhi chiarissimi erano molto freddi.
– Buon giorno – salutò con un inchino. – Sono stato mandato per
riaccompagnarti a casa, Filippo.
– Hai con te delle lettere? – domandò il giovane, notando con orgoglio che la
sua voce non tradiva il terrore che provava.
– Sì, signore, ne ho una di tuo fratello Perdiccas.
– Sta bene?
– È vivo, signore, ma ha sofferto di un accesso di febbre da cui si sta
riprendendo. Io mi chiamo Attalus, e spero che potremo essere amici.
– Amici per la vita, senza dubbio – annuì Filippo, incontrando con i suoi occhi
scuri il freddo sguardo da serpente dell’altro. – Non ti preoccupare, Attalus, io non
ti giudico – aggiunse con un sorriso, quando l’altro lo fissò con perplessità.
– Non sono qui per ucciderti, signore – replicò il guerriero. – I miei ordini sono
espliciti: ti devo condurre alla capitale. Niente di più.
– Allora passeggiamo per un po’ – propose improvvisamente Filippo,
oltrepassando lo stupefatto Attalus.
I due presero a girovagare per le strade, facendosi largo a fatica fra la folla che
si era raccolta sui viali e nell’agorà dove sarebbe venuto a parlare Epaminonda. Il
generale era in ritardo a causa della ressa, ma la folla non era preoccupata e
passava il tempo cantando, danzando e bevendo, pervasa da una felicità tanto
intensa da essere intossicante quasi come il vino. All’aperto Filippo si sentì meglio,
ma nel lanciare un’occhiata ad Attalus si accorse che non si poteva dire lo stesso di
lui; prendendolo per un braccio, lo condusse in una strada laterale deserta e una
volta là estrasse la propria daga, appoggiandosene la punta contro il petto.
– Cosa stai facendo? – domandò Attalus.
Filippo gli prese una mano e la chiuse intorno all’elsa dell’arma.
– Se mi devi uccidere, fallo qui. Nessuno ti vedrà e potrai sempre dire che è
stata opera di un Tebano, il che ti semplificherebbe di parecchio le cose.
– Ascoltami! – sibilò Attalus. – Io sono un uomo del re e faccio ciò che lui mi
ordina. Se mi avesse detto di ucciderti lo avrei fatto, ma devi soltanto tornare a
Pella con me. Come posso fare per convincerti?
– Ci sei appena riuscito – replicò Filippo, riponendo la daga nel fodero con un
sorriso, mentre il cuore gli batteva follemente. – Questi sono giorni pericolosi,
Attalus.
– Di certo sono giorni strani – convenne il giovane guerriero, con un sorriso
teso.
Guardandolo, Filippo pensò che i suoi denti erano troppo sporgenti, come
lapidi, e che i suoi occhi erano quelli di un assassino; ricordando il consiglio di
Parmenion, prese il guerriero per un braccio e gli sorrise ancora con calore.
– Mi piaci – dichiarò. – Quindi, se Ptolemaos dovesse decidere di farmi
uccidere... chiedigli di mandare un altro. Nessun uomo dovrebbe mai essere ucciso
da qualcuno che gli è simpatico.
– Cercherò di ricordarlo.
Il viaggio di ritorno a Pella fu lento e sorprendentemente piacevole, mentre i
due cavalcavano lungo la catena dei Monti Pindos per poi piegare a nordest verso
la città di Aigai, perché Attalus si rivelò un compagno interessante anche se non
divertente e Filippo si scoprì ad ammirare la sua determinata ambizione. Durante il
viaggio, il ragazzo si fece mettere al corrente di quanto era accaduto nel regno. I
Paioni avevano scatenato razzie dal nord, ma Ptolemaos li aveva sconfitti ed aveva
costretto il loro re ad acconsentire al versamento di un tributo annuo di duecento
talenti; la gioia della Macedonia era però stata di breve durata, perché due mesi più
tardi l’esercito illirico del Re Bardylis aveva a sua volta sconfitto Ptolemaos in una
battaglia vicino al lago Prespa, ad occidente, ed in seguito Ptolemaos aveva
acconsentito a pagare a Bardylis un tributo annuo di duecentocinquanta talenti.
– Ci sono troppi lupi che cercano di nutrirsi in un ovile eccessivamente piccolo
– dichiarò Attalus, e Filippo annuì.
La Grecia Settentrionale non era effettivamente piccola, ma con l’Illiria, la
Macedonia, la Paionia e la Tracia che possedevano tutte un esercito e con le città
indipendenti come Olyntus e Anfipoli che assoldavano mercenari, nessun re poteva
assumere il controllo assoluto di quell’area.
Crosi era solito dire che la Grecia Settentrionale era il paradiso dei mercenari,
che non erano mai a corto di lavoro e si potevano arricchire in fretta per poi
comprarsi una fattoria tranquilla nel sud più civilizzato.
Dovunque passarono, Filippo e Attalus scorsero tracce che indicavano la natura
di frontiera dei territori del nord: le città erano dotate di mura, gli insediamenti
protetti da palizzate, non c’erano fattorie o piccole case isolate perché la gente
preferiva raccogliersi in gruppi numerosi, non sapendo mai quando un nemico
sarebbe calato su di essa con il cuore rovente e la spada in pugno.
– Questa è una terra adatta agli uomini – commentò Attalus, mentre
attraversavano le alte montagne con il mantello stretto intorno al corpo per
difendersi dai freddi venti autunnali settentrionali.
– Gli uomini hanno bisogno di una moglie e di figli – replicò Filippo. – I
bambini hanno bisogno di un’educazione e i contadini devono poter coltivare in
pace la terra. La Macedonia è una terra ricca, possiede il legno migliore di tutta la
Grecia e dovrebbe dare incredibili ricchezze, ma non lo fa perché gli uomini
devono diventare guerrieri e dimenticarsi della terra e dei suoi tesori. Dovrebbe
esserci un modo di vivere più proficuo.
– Forse un giorno tu sarai re – rispose Attalus, in tono sommesso, – magari un
grande re. Allora potrai sottomettere gli Illiri e i Traci e vedere realizzato il tuo
sogno.
– Non desidero essere re – dichiarò Filippo, poi sorrise improvvisamente e
aggiunse: – Ricordati di riferirlo a Ptolemaos!
PELLA, MACEDONIA, 371 A.C.

Peila era una città che stava crescendo. Il padre di Filippo, Amyntas, aveva
contratto forti debiti per portare architetti dal sud, progettando viali e templi e
allargando il palazzo; i ricchi nobili della regione erano stati inoltre incoraggiati a
trasferirsi nella capitale, costruendosi delle dimore sulle colline e portando con loro
servitori che avevano bisogno di abitazioni meno costose. Quell’afflusso di nuovi
cittadini aveva trascinato sulla sua scia artigiani e mercanti, e la città era subito
fiorita.
Fermo accanto alla finestra della sua camera da letto nel palazzo reale, Filippo
stava osservando lo spiazzo del mercato oltre le alte mura dei giardini: da dove si
trovava poteva sentire i venditori che gridavano i prezzi e invitavano i clienti agli
acquisti, e desiderava poter lasciare quel minaccioso palazzo per mescolarsi con la
folla.
Questo però non era possibile, perché Ptolemaos aveva detto molto chiaramente
di non desiderare che i suoi giovani nipoti si avventurassero lontano dalla sua vista,
sostenendo di essere preoccupato per la loro sicurezza. La cosa aveva sorpreso
Filippo, in quanto lo zio non sembrava altrettanto preoccupato per la sicurezza del
proprio figlio, Archelaos, che aveva il permesso di cavalcare, di cacciare e di
andare in cerca di prostitute ogni volta che ne aveva voglia. Filippo non aveva
nessuna simpatia per Archelaos, e nonostante i consigli di Parmenion non riusciva
ad indursi a cercare di conquistare la simpatia di quel giovane zotico.
Archelaos era una versione più giovane di suo padre, con lo stesso naso
aquilino, la stessa bocca crudele e lo stesso mento sporgente, e trovando già
difficile essere cortese con lo zio responsabile dell’assassinio di suo padre Filippo
non riusciva a umiliarsi anche davanti all’erede al trono.
Recatosi a trovare il fratello ancora costretto a letto, gli espose quelle
riflessioni.
– Sarebbe inutile cercare di conquistarlo – sussurrò Perdiccas, indebolito dallo
sforzo di parlare. – Archelaos è un porco, per cui interpreterebbe qualsiasi apertura
da parte tua come un segno di debolezza e farebbe del suo meglio per sfruttarla. Io
lo odio... sai cosa mi ha detto la primavera scorsa? Che anche se Ptolemaos mi
lascerà in vita il primo ordine che lui impartirà appena salito al trono sarà di farmi
uccidere.
– Potremmo fuggire dalla regione – suggerì Filippo. – Tu hai quasi diciassette
anni e potresti diventare un mercenario, mentre io potrei essere il tuo servitore.
Una volta raccolto un esercito, poi, potremmo tornare qui.
– Continua pure a sognare, fratellino. Non riesco a liberarmi da questa febbre e
mi sento debole come un puledro di due anni.
Cominciò quindi a tossire e Filippo si affrettò a portargli una coppa d’acqua che
Perdiccas bevve sollevandosi su un gomito. Al contrario del fratello scuro di
capelli e quasi olivastro di carnagione, Perdiccas aveva i capelli biondi e prima
della sua malattia era stato di una bellezza incredibile. Adesso però il suo volto era
teso e scarno, la pelle aveva un colorito malsano, gli occhi erano opachi e bordati
di rosso, le labbra avevano la tonalità azzurrina dei malati di tisi. Filippo si
costrinse a distogliere lo sguardo... Perdiccas stava morendo.
Dopo essere rimasto per qualche tempo con il fratello, il ragazzo tornò nelle
proprie stanze, dove scoprì che gli era stato portato del cibo su un vassoio
d’argento. Lui però non aveva fame, perché quella mattina si era sentito male e
aveva vomitato per un’ora fino a quando dallo stomaco gli era uscita soltanto bile.
Dopo aver bevuto un po’ d’acqua si adagiò su un divano e si addormentò; più tardi
lo destò un abbaiare di cani proveniente dal giardino e ricordò che la cagna da
caccia, Beria, aveva di recente dato alla luce una cucciolata. Sollevatosi a sedere,
avvolse la carne fredda della sua cena in un tovagliolo e la portò in giardino, dove
rimase per qualche tempo a giocare con i cuccioli dando loro da mangiare pezzetti
di carne mentre essi gli si arrampicavano addosso, lo leccavano e lo mordevano per
gioco. Quel passatempo migliorò il suo umore e qualche tempo più tardi fece
ritorno nelle sue stanze, dove un servitore venne a prelevare il vassoio. L’uomo era
un vecchio gentile di nome Hermon, con la barba bianca e acuti occhi azzurri
sovrastati da sopracciglia cespugliose.
– Ti senti meglio, giovane signore? – chiese.
– Sì, grazie.
– Questo è un bene, signore. Vuoi qualche dolce al miele? Sono stati fatti di
fresco.
– No, Hermon, adesso credo che dormirò. Buona notte.
I sogni di Filippo furono agitati e per due volte si svegliò sentendo i cani
abbaiare alla luna e il sibilare del vento che scuoteva le imposte. Alla fine gli
ululati cominciarono ad irritarlo e si gettò un mantello sulle spalle, scendendo in
giardino. La sua stanza era la peggiore del palazzo, vicina ai canili e rivolta a nord,
cosicché non prendeva sole ed era esposta ai peggiori venti invernali. I giardini
erano freddi, i fiori privi di colore ed eterei sotto la luce della luna; Filippo trovò
Beria seduta sotto il muro che ululava in maniera tale da spezzare il cuore: intorno
a lei erano sparsi i corpi dei suoi sei cuccioli, inerti e privi di vita...
inginocchiandosi accanto ad essi, Filippo vide che il terreno era macchiato dal loro
vomito. Afferrata Beria per il collare, il ragazzo la trascinò lontano dai piccoli
corpi e le si inginocchiò accanto, stringendo al petto la grande testa nera del-
l’animale e accarezzandogli gli orecchi. La cagna uggiolò pietosamente e cercò di
tornare dai suoi piccoli.
– Se ne sono andati, tesoro mio – le disse Filippo. – Vieni con me... staremo
insieme, tu ed io.
La cagna lo seguì su per le scale ma subito si avvicinò alla finestra e ricominciò
ad ululare; prendendola per il collare, Filippo la fece stendere sul proprio letto e le
si sdraiò accanto cingendola con le braccia e tenendola stretta finché si addormentò
con la testa contro il suo petto.
Mentre giaceva inquieto nel buio, ricordò poi i pezzi di carne che aveva dato ai
cuccioli.
E ripensò al gentile, vecchio Hermon dagli occhi azzurro chiaro...
* * *

Filippo rimase sveglio per tutta la notte, in preda ad un’ira superiore al timore:
il veleno non era un metodo nuovo di assassinio, ma perché non usare quello di
sempre, la lama di un sicario che dava una morte rapida e sicura? La risposta non
fu difficile da trovare: Ptolemaos non era popolare presso l’esercito perché era
stato sconfitto tanto da Bardylis nell’ovest quanto da Cotys, il re della Tracia,
nell’est. Il suo unico successo era stato contro i deboli Paioni del nord.
Filippo sapeva che come tutti i re anche Ptolemaos governava solo grazie al
consenso di cui godeva. I ricchi nobili macedoni desideravano un uomo che
potesse accrescere le loro fortune, un re che portasse loro la gloria, perché cos’altro
c’era nella vita per un popolo di guerrieri? Adesso quei nobili non erano più
disposti a tollerare l’apparentemente interminabile... e manifesta... catena di
assassinii di possibili rivali, e Ptolemaos stava cercando di procedere con cautela.
Improvvisamente Filippo pensò a Perdiccas... ma certo! Lo stavano
avvelenando a sua volta, in maniera lenta ma inesorabile.
Cosa poteva fare? Di chi si poteva fidare? Rispondere alla seconda domanda
era più facile che rispondere alla prima: non si doveva fidare di nessuno. Alzatosi
dal letto attraversò in silenzio la stanza per non svegliare il cane, e una volta nel
corridoio attraversò il palazzo silenzioso fino alle strette scale delle cucine, dove
mangiò carne e frutta a sazietà. Riempito un piccolo sacco di provviste, tornò
quindi di sopra e raggiunse con cautela la camera del fratello. Perdiccas stava
dormendo e lui lo svegliò posandogli con gentilezza una mano sulla spalla.
– Cosa c’è? – chiese Perdiccas.
– Ti ho portato un po’ di cibo.
– Non ho fame, fratello. Lasciami dormire.
– Ascoltami! – sibilò Filippo. – Ti stanno avvelenando! Perdiccas lo fissò con
espressione incredula, e allora Filippo gli parlò della morte dei cuccioli.
– Possono essere morti per qualsiasi motivo – obiettò Perdiccas, stancamente. –
Succede spesso.
– Forse hai ragione – sussurrò Filippo, – ma in questo caso non ci rimetterai
nulla a stare al mio gioco. In caso contrario la tua vita sarà salva.
Aiutò quindi Perdiccas a sedersi e attese che il fratello avesse mangiato
lentamente un po’ di carne e di formaggio.
– Dammi un sorso d’acqua – chiese quindi Perdiccas, e Filippo riempì una
tazza dalla brocca posata su un tavolo vicino... poi si fermò e si accostò alla
finestra, svuotando all’esterno tanto la tazza quanto la brocca.
– Non possiamo fidarci di nulla che non prendiamo da soli – affermò.
Lasciata ancora una volta la stanza, andò a riempire la brocca nella botte che si
trovava in cucina.
– Nessuno deve sapere dei nostri sospetti – avvertì al suo ritorno. – Devono
credere che stiamo continuando a mangiare il cibo che ci danno.
Perdiccas annuì, poi si lasciò ricadere all’indietro sul letto e si addormentò.
Per quattro giorni Filippo continuò con quelle visite notturne al fratello, e
lentamente il volto di Perdiccas ritrovò un po’ di colorito. La mattina del quinto
giorno Hermon si presentò nella camera di Filippo con un vassoio di formaggio e
fichi ed una caraffa di acqua fresca.
– Hai dormito bene, mio signore? – domandò, con un sorriso gentile.
– Non bene, amico mio – replicò Filippo, in tono volutamente basso e stanco. –
Pare che non riesca a smettere di vomitare e non mi sento molto in forze. Potrei
vedere un dottore?
– Non è necessario, mio signore – replicò Hermon. – Questi... piccoli malesseri
intestinali sono frequenti in autunno. Ti riprenderai presto.
– Ti ringrazio, sei molto gentile. Vuoi tenermi compagnia a colazione? C’è
troppa roba per me.
– Vorrei poterlo fare, mio signore – rispose Hermon, allargando le mani, – ma
non ho ancora ultimato i miei compiti. Godi il tuo pasto. Ti consiglio di costringerti
a mangiare... soltanto così potrai recuperare le forze.
Quando l’uomo se ne fu andato, Filippo si gettò sulle spalle un ampio mantello
azzurro, e dopo aver nascosto la brocca sotto di esso raggiunse in fretta l’ala dei
servi e la camera di Hermon. Sapendo che il vecchio doveva essere con Perdiccas,
entrò nel suo alloggio: vicino alla finestra c’era una brocca d’acqua fresca, e il
giovane si affacciò all’esterno, verificando che in giardino non ci fosse nessuno
prima di svuotare la brocca di Hermon e di riempirla di nuovo dalla propria.
La mattina successiva fu un altro servitore a portargli la colazione.
– Dov’è il mio amico Hermon? – domandò Filippo.
– Non sta bene, signore – spiegò l’uomo, inchinandosi.
– Mi dispiace. Ti prego di riferirgli che spero che si riprenda presto.
Quel pomeriggio Perdiccas si alzò dal letto: aveva ancora le gambe deboli, ma
cominciava a ritrovare le forze.
– Cosa dobbiamo fare? – domandò al fratello minore.
– Questa storia non può continuare – replicò Filippo, in tono sommesso. –
Presto si renderanno conto che non stai più ingerendo il veleno e allora temo che
ricorreranno ad un coltello o ad una spada.
– Avevi accennato alla possibilità di fuggire – suggerì Perdiccas. – Ora penso
di essere abbastanza forte da seguirti, e potremmo dirigerci verso Anfipoli.
– Sarebbe meglio Tebe – controbatté Filippo, – perché là ho degli amici. Però
non possiamo aspettare troppo a lungo... al massimo altri tre giorni, e fino ad allora
dovrai restare a letto e dire a chiunque te lo chieda che ti senti sempre più debole.
Inoltre ci serviranno denaro e cavalli.
– Non ho denaro – disse Perdiccas.
– Penserò al da farsi – promise Filippo.

Inginocchiato davanti ai tre uomini, Hermon sollevò con nervosismo lo sguardo


verso gli occhi da falco di Ptolemaos.
– Devono essere molto forti per resistere alle polveri, sire, ma aumenterò le
dosi e ti prometto che il maggiore morirà entro tre giorni.
– Avrei dovuto darti retta – dichiarò Ptolemaos, con voce profonda e
sepolcrale, rivolto ad Attalus.
– Non è troppo tardi, sire – replicò questi. – Perdiccas è debole e potrei
soffocarlo nel sonno. Nessuno si accorgerebbe di nulla.
– E Filippo?
Attalus esitò.
– Vorrei essere io ad ucciderlo – intervenne improvvisamente Archelaos. – Mi
darebbe piacere.
– Non so cosa ti induca a detestare quel ragazzo – rise suo padre. – Come
persona è abbastanza gradevole, comunque... così sia. Pensa tu ad ucciderlo, ma
non stanotte. Che Perdiccas muoia per primo... Filippo potrà attendere ancora una
settimana o due. – Di colpo, il re tornò a rivolgersi ad Attalus. – Hai detto che non
ci saranno sospetti se i ragazzi verranno soffocati? Non resta nessun segno?
– Nessuno, sire.
Ptolemaos chiamò a sé il figlio con un cenno e gli sussurrò qualcosa
all’orecchio. Annuendo, il principe si avviò come per lasciare la stanza, ma poi si
lanciò all’improvviso su Hermon, bloccandogli le braccia dietro la schiena.
– Fammi vedere! – ordinò il re.
Preso un cuscino ricamato, Attalus coprì la faccia di Hermon e premette con
forza la stoffa contro il naso e la bocca dell’uomo. La vittima si dibatté debolmente
per qualche istante, poi si accasciò con un’ultima contrazione delle gambe e il
fetore del rilassarsi dell’intestino riempì la stanza. Attalus allontanò allora il
cuscino dalla faccia del vecchio e Archelaos lasciò andare il corpo, che scivolò al
suolo. Chinandosi su di esso, Ptolemaos scrutò a lungo il volto del morto.
– Non mi piace la sua espressione – affermò. – Non sembra qualcuno che sia
morto nel sonno.
Ridacchiando, Attalus si inginocchiò accanto al cadavere e gli chiuse la bocca,
abbassando anche le palpebre sugli occhi spenti.
– Sì, così va meglio – sussurrò il re. – Bene, provvedete.
All’approssimarsi della sera, Attalus si ritirò nella propria stanza e sedette a
sorseggiare un po’ di vino. In previsione del lavoro di quella notte non voleva
essere ubriaco, e tuttavia avvertiva l’impulso di svuotare l’intera caraffa... con un
gesto secco respinse la coppa, ricordando il proprio orgoglio per il fatto di avere
una mente ordinata. Cosa gli stava succedendo? Non ebbe difficoltà a trovare la
risposta a quella domanda: non si sentiva a proprio agio al pensiero della morte di
Filippo, anche se non riusciva a capirne il perché. Non provava simpatia per il
ragazzo... lui non aveva mai simpatia per nessuno... e tuttavia si rese conto di non
desiderare di vederlo morto. Tutta quella faccenda stava diventando un pasticcio:
Ptolemaos era uno stolto, perché pur essendo spietato non aveva altre doti oltre a
quella, e Archelaos non era meglio del padre, anzi era addirittura meno dotato di
lui. Di conseguenza l’agitazione nel paese stava crescendo e adesso molti nobili
restavano lontani dal palazzo, mentre il morale dell’esercito era basso... e se
Ptolemaos fosse caduto i suoi favoriti lo avrebbero seguito nella rovina, una fine a
cui Attalus non desiderava assolutamente andare incontro.
Ma cosa posso fare? si chiese.
Il suo umore si andò incupendo insieme al cielo quando si rese conto di non
avere alternative, non ancora. Avrebbe prima ucciso Perdiccas e poi avrebbe
cercato il capo dei dissidenti macedoni, tenendosi pronto a cambiare fazione
quando il giorno del sangue si fosse avvicinato. Imprecando, si versò dell’altro
vino.
Il sicario attese fino a mezzanotte, poi si avviò in silenzio per i corridoi deserti
e arrivò infine alle robuste porte di quercia delle stanze di Perdiccas; notando una
striscia di luce che filtrava sotto i battenti, accostò l’orecchio ad essi e poté sentire
all’interno delle voci, senza però distinguere ciò che stavano dicendo. Con
un’imprecazione sommessa accennò ad andarsene, ma in quel momento la porta si
spalancò e lui si venne a trovare faccia a faccia con Filippo: il ragazzo assunse
un’espressione sconvolta e abbassò di scatto la mano verso la daga.
– Non c’è nulla da temere – lo rassicurò Attalus, oltrepassandolo e sgusciando
nella stanza, dove l’altro principe sedeva su un divano intento a mangiare pane e
formaggio, più in forze di come lui lo avesse mai visto. – Ti stavo cercando ma non
eri nelle tue stanze ed ho pensato che potessi essere qui – proseguì mentendo con
facilità, rivolto a Filippo.
– E perché mi stavi cercando nel cuore della notte? – ribatté il ragazzo, in tono
sospettoso.
– C’è un complotto per ucciderti – spiegò Attalus, – ma è chiaro che lo sai già,
come indica questo banchetto di mezzanotte. Non mi meraviglia che il veleno
abbia mancato di fare effetto... comunque non ha importanza, adesso. Ptolemaos
mi ha ordinato di uccidere tuo fratello stanotte. Il tuo turno verrà la prossima
settimana.
Attalus sentì lo stridere di una spada di ferro che lasciava il fodero e girandosi
di scatto vide Perdiccas avanzare verso di lui con la spada in pugno. Fino ad allora
non si era reso conto di quanto il principe fosse alto o del senso di potere che
emanava da lui.
– Non è necessario – mormorò. – Io sono qui per avvertirvi.
– E perché ti dovrei credere – controbatté Perdiccas, puntandogli la spada
contro la gola.
– Aspetta! – intervenne Filippo, nel vedere il fratello che si irrigidiva in
preparazione per un affondo. – Non essere impulsivo. Io gli credo!
– Grazie – sussurrò Attalus, sollevando lentamente la mano per allontanare la
punta dalla propria gola. – L’interrogativo è cosa fare. Suggerisco di lasciare il
palazzo e di nasconderci ad Anfipoli: una volta là potrete ottenere il supporto dei
nobili insoddisfatti e forse riconquistare il trono.
– No – disse Filippo.
– Che alternativa abbiamo? – chiese Perdiccas.
– Tu conquisterai il trono stanotte – dichiarò Filippo. – Ptolemaos ha
assassinato nostro padre e il trono spetta a te di diritto. Uccideremo il re.
– Per gli dèi, sei pazzo! – esclamò Perdiccas. – Non abbiamo alleati e le guardie
sono fedeli a Ptolemaos. Ci faranno a pezzi.
– Non è vero – controbatté Filippo. – Ptolemaos non è popolare e quindi
nessuno avrà residui di fedeltà nei suoi confronti dopo che sarà morto. Ho visto
Archelaos lasciare il palazzo questo pomeriggio e mi hanno detto che era diretto a
Tebe, il che significa che non costituirà una minaccia. Una volta che il re sarà
morto i nobili si raduneranno per scegliere il suo successore... ma per allora le
guardie avranno già votato a te la loro fedeltà.
– Come puoi esserne certo?
– Il desiderio di essere guidati è insito nella natura degli uomini – spiegò
Filippo. – Inoltre Attalus parlerà loro: è il capitano delle guardie e gli daranno
ascolto. Non è vero, Attalus?
– Forse – convenne il guerriero, cauto. – I rischi sono però comunque enormi.
– Rischi? – rise Filippo. – Per anni ho vissuto con la prospettiva di essere
assassinato, quindi di quali rischi parli? Tutti gli uomini muoiono, ricchi e poveri,
ma se devo morire voglio poterlo fare combattendo e non come un bove in un
recinto che aspetta l’ascia del macellaio.
Mentre ascoltava Filippo esporre il proprio piano, Attalus sentì crescere la
propria ammirazione per quel ragazzo e si trovò a desiderare che fosse più maturo,
perché sarebbe stato un re splendido, un uomo pieno di potere e di intuizione.
Lanciò quindi un’occhiata a Perdiccas: anche in lui c’era della forza, ma era un
uomo inferiore al fratello... e tuttavia se quella folle avventura avesse avuto
successo sarebbe stato Perdiccas a ricevere la corona. Attalus attese che Filippo
avesse finito di parlare, poi si girò verso il maggiore dei due fratelli e si
inginocchiò.
– Sire, spero che dopo che avrai avuto successo non mi biasimerai per aver
servito l’assassino di tuo padre. Io non ho avuto mano nella sua morte – disse.
Perdiccas abbassò lo sguardo su di lui e gli posò una mano sulla spalla.
– Ti perdono, Attalus, e farò in modo che tu venga compensato per il tuo
operato di questa notte.
I tre lasciarono quindi la stanza e Attalus precedette gli altri due attraverso il
palazzo, fino al corridoio antistante le camere del re; là i fratelli si fermarono e lui
continuò ad avanzare a grandi passi verso le due guardie dal mantello nero che
sedevano fuori della camera da letto, segnalando loro con un cenno di seguirlo. I
due uomini si alzarono, si scambiarono un’occhiata e si spostarono verso
l’estremità del corridoio, dove Attalus si era fermato ad aspettarle.
– Avete visto qualcosa di sospetto? – sussurrò Attalus.
– In che senso, signore? – chiese uno dei due.
Alle loro spalle, i due principi uscirono allo scoperto e Attalus si accorse di
avere la bocca arida.
Questa è pura follia, pensò.
– Avete visto qualcuno nel corridoio, questa sera? – chiese, mentre i fratelli
sgusciavano verso la porta della camera da letto.
– Soltanto te, signore, oltre al re stesso. C’è qualche problema?
– Non credo, ma siate vigili.
Dietro le guardie, Filippo aveva aperto la porta ed entrambi i principi stavano
sgusciando nella stanza.
– Certamente, signore. Noi non dormiamo in servizio. Attalus vide la porta
della camera da letto richiudersi.
– Il mondo offre molte sorprese – disse quindi, – e a volte capita soltanto di
trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato.
– Non capisco. – replicò l’uomo.
– No, temevo che non capissi – rispose Attalus, piantandogli la daga in gola. La
seconda guardia rimase immobilizzata per un istante, poi tentò di afferrare la
spada, ma Attalus aveva già liberato la daga e gliela conficcò in un occhio.
Dalla porta della camera del re giunse un urlo spaventoso e Attalus si precipitò
verso di essa, spalancando la porta.
Ptolemaos giaceva sul letto con due spade che gli sporgevano dal petto e dal
ventre. Il re cadde al suolo e cercò di trascinarsi verso la soglia, ma Filippo corse in
avanti e recuperò con uno strattone la propria spada. Ptolemaos urlò ancora... poi la
lama gli tranciò il collo.
Filippo si alzò, si girò e si inginocchiò davanti a Perdiccas.
– Non dovrai mai inginocchiarti in mia presenza, – promise il nuovo re della
Macedonia, facendolo rialzare. – E non dimenticherò mai quello che hai fatto per
me.
IL TEMPIO, ESTATE, 359 A.C.

Negli undici anni trascorsi dalla vittoria conseguita da Parmenion a Leuctra,


Derae aveva fatto molti strani sogni... visioni oscure e malvagie, terrificanti e piene
di demoni. All’inizio Tamis appariva in questi sogni, salvandola e parlandole dei
servitori del Dio Oscuro che cercavano di distruggerle entrambe, ma con il passare
degli anni i poteri di Derae erano cresciuti e lei aveva scoperto che quegli attacchi
notturni le facevano sempre meno paura. Adesso però si era persa all’interno di un
incubo cupo e spaventoso, dove le ombre saettavano appena fuori della sua portata
visiva mentre lei vorticava su se stessa e cercava invano di intravederle. Tutto ciò
che poteva scorgere erano le mura grigie di un castello e l’acqua che brillava sulla
pietra fredda.
L’oscurità si levava come fumo intorno a lei e dall’interno del castello
giungevano il suono di un respiro rauco e lo stridere di artigli contro la pietra del
pavimento. Un dolore lancinante le pervase poi le braccia quando una creatura
coperta di scaglie e di fanghiglia le si scagliò contro: un fascio di luce bianca le
scaturì dalle dita e un urlo spaventoso echeggiò nei corridoi di pietra. Abbassando
lo sguardo sulle proprie braccia, lei vide le lacerazioni sanguinanti che gli artigli le
avevano lasciato nella carne, ma della creatura non si scorgeva più traccia, le resta-
va soltanto il fugace ricordo di freddi occhi color dell’opale e di una bocca ampia e
sottile. In fretta si risanò e tentò di librarsi, ma scoprì di essere intrappolata dal
soffitto e dalle pareti di pietra.
Davanti a lei una pozza di acqua nera e stagnante prese a gorgogliare e si alzò
nell’aria fino ad assumere la forma di una donna ammantata e incappucciata, con il
volto pallido e gli occhi scuri.
– Così tu sei la guaritrice – commentò la donna, con voce sommessa e rauca. –
Sei molto graziosa. Vieni da me.
– Cosa vuoi? – rise Derae, sentendo evaporare la propria paura.
– Voglio sapere chi servi. Tu mi disturbi.
– Perché dovrei turbarti? – ribatté Derae. – Come hai detto tu stessa, sono una
guaritrice e dimoro nel tempio da oltre vent’anni. Non ti conosco neppure, signora.
– Puoi percorrere i molti futuri? – domandò la donna.
– E tu? – ribatté Derae.
– Quello che io posso fare non ti riguarda! – scattò la donna.
– Vedo che non puoi – commentò Derae, in tono sommesso. – Perché la cosa ti
interessa?
La donna sorrise, ma questo non le addolcì i lineamenti.
– Non possiamo essere amiche? Anch’io sono una guaritrice e una veggente.
Ho soltanto avvertito il tuo potere e volevo saperne di più sul tuo conto.
– Non possiamo essere amiche, tu ed io – rifiutò Derae, scuotendo il capo, –
perché serviamo poteri opposti. Del resto tu non desideri l’amicizia, vero? Dì la
verità... oppure temi che ti bruci la lingua?
– Bruciarmela? Vuoi vedere qualcosa che brucia? – sibilò la donna.
Vampate di fiamme scaturirono dalle pareti e la tunica di Derae s’incendiò,
ustionandole la pelle, ma lei non si mosse e non urlò: una sommessa luce dorata la
avviluppò, risanandola e avvolgendosi intorno a lei come un mantello protettivo.
Ormai furente, Derae sollevò una mano e due lance di luce trapassarono il petto
della donna, scagliandola all’indietro e inchiodandola alla parete. La sconosciuta
urlò di dolore, poi toccò le lance ed esse scomparvero all’istante.
– Molto bene – sorrise poi la Donna Oscura. – Mi sbagliavo sul tuo conto... non
ho nulla da temere.
Il castello tremolò, scomparendo, e Derae si risvegliò nel tempio.
La battaglia in quel castello spettrale l’aveva turbata, quindi andò a cercare
Tamis: la vecchia stava ancora dormendo, con la bava che le colava lungo il mento.
Derae la sfiorò con leggerezza ma lei non si svegliò... gli ultimi due decenni non
erano stati pietosi con l’anziana sacerdotessa: i suoi poteri stavano svanendo,
insieme alla vista e all’udito. Derae accentuò la stretta, scuotendola con maggiore
energia.
– Eh? Cosa c’è? – borbottò Tamis, sfregandosi gli occhi. Derae le portò un po’
d’acqua e attese che lei si liberasse dal sonno.
– Perché mi hai disturbata? Stavo sognando il mio primo marito. Che uomo!
Ah! Era come un ariete.
Derae le parlò del castello e della donna ammantata di scuro, e dopo averla
ascoltata fino in fondo Tamis scosse il capo.
– Non so chi fosse. Non siamo però sole in questa lotta, Derae, ci sono altre
come noi, dotate del Talento e della Vista, e mentre alcune di esse servono la Luce,
altre adorano l’Oscurità. Perché la cosa ti ha turbata?
– Quella donna aveva paura di me, ma quando l’ho sconfitta la sua paura è
svanita. Questo non ha senso... giusto?
Tamis si alzò dal letto con un sospiro, mentre la luce dell’alba cominciava a
filtrare dalle imposte chiuse; indossato un semplice abito di lana bianca, uscì
quindi in giardino seguita da Derae.
– Tu l’hai sconfitta. Come? – domandò, e quando Derae glielo ebbe spiegato, la
vecchia sospirò ancora. – Hai tentato di ucciderla, e così facendo lei ti ha sconfitta,
perché non è questa la Via della Fonte. E coloro che non servono la Fonte servono
il Caos.
– Ma non è vero! – protestò Derae. – Io sono una guaritrice, non sono
malvagia.
– No, non sei malvagia – convenne Tamis, con voce stanca. – Ti ho addestrata
male... ho fatto male così tante cose. La mia arroganza è stata enorme: Cassandra
aveva cercato di avvertirmi, ma non le ho dato ascolto. Tuttavia una volta ero
saggia – aggiunse poi, soffermandosi ad annusare un bocciolo di rosa, – conoscevo
molti segreti... però tutta la saggezza è soltanto follia. Crediamo di poter
manipolare le cose, ma veniamo invece manipolati; crediamo di avere il potere ma
siamo soltanto foglie nella tempesta, compiamo opere buone che portano al male.
Tutto è confusione, tutto è vanità.
– Stai male, Tamis? – domandò Derae, prendendola per una mano. – Non ti ho
mai sentita parlare così, prima d’ora.
– Non sto male, sto morendo, Derae, e il mio lavoro è ancora tutto incompiuto.
Ho fatto cose terribili... terribili, e credevo di essere astuta – rise la vecchia, con un
suono arido e secco che finì in una serie di devastanti colpi di tosse, poi si schiarì la
gola e sputò in un cespuglio di rose. – Guardami! La splendida Tamis! È difficile
immaginare che un tempo gli uomini possano avermi desiderata.
– Che cosa hai sognato? – domandò Derae.
– Sognato?
– Hai detto di aver sognato del tuo primo marito. Parlamene.
– Ho visto quanto era bello essere amata, toccata, usare ed essere usata. Ho
visto tutto quello che ho perduto... tutti i miei errori e le mie vanità.
– Mostramelo – sussurrò Derae, posando le mani sulla testa della vecchia.
Tamis si rilassò e Derae nuotò nel suo subconscio, rivedendo la giovane Tamis
che si contorceva sotto un giovane uomo barbuto e possente; senza indugiare ad
osservare la scena, fluttuò ancora più in alto, girandosi nell’aria per frugare...
cercare. E allora la vide: la donna vestita di scuro stava ridendo mentre indicava la
coppia che si amava. Avvicinandosi maggiormente, Derae si accorse che la donna
non era sola e che c’erano indistinte sagome d’ombra tutt’intorno a lei.
– Non era un sogno, Tamis – avvertì, tornando alla realtà dei freschi giardini
immersi nella luce dell’alba, – era quella donna di cui ti ho parlato. È venuta da te,
riempiendoti la mente di disperazione.
– Sciocchezze, l’avrei vista, sono ancora potente! – protestò Tamis. – Perché
cerchi di minare la mia fiducia in me stessa?
– Non lo sto facendo, te lo giuro. Ci stanno attaccando, Tamis... ma perché
proprio adesso?
– La Nascita Oscura è vicina, molto vicina – sussurrò la vecchia. – Forse
avverrà entro un anno, di sicuro fra due. Quella donna era davvero nella mia
mente?
– Sì. Mi dispiace.
– Non importa, tutti i poteri svaniscono – sospirò Tamis.
– Vorrei averti potuto insegnare di più, ma non posso... e un giorno tu mi
odierai – aggiunse, mentre le lacrime le rigavano il volto.
– Mi hai insegnato molte cose, amica mia... mia cara amica. Come potrei
odiarti?
– Hai visto quella donna? Ebbene, essa è una sorta di poetica vendetta –
dichiarò Tamis, – e un giorno ne saprai il perché. Ora però dimmi, dov’è
Parmenion?
– È a Susa, dove il grande re gli ha offerto in dono uno stallone pregiato dopo
la sua vittoria in Mesopotamia.
– Sarà attirato nella lotta per il dominio della Macedonia – disse Tamis. –
Adesso è quello il centro degli eventi, tutti i poteri vengono attirati in quel luogo.
Recati là, subito. Guardalo! Avverti le sensazioni che ti dà.
– Non posso andare adesso, Tamis. Sono troppo preoccupata per te.
– È troppo tardi per preoccuparsi, mia cara, perché il futuro è su di noi e il Dio
Oscuro sta per giungere.
– Ma possiamo ancora fermarlo?
Tamis scrollò le spalle e lasciò vagare lo sguardo intorno a sé nei giardini.
– Guarda quelle rose, sono centinaia e ogni anno generano migliaia di boccioli.
Se ti venisse chiesto di potarle in maniera tale che generassero un solo perfetto
bocciolo e che tutti gli altri rami restassero verdi, potresti farlo?
– Credo di sì, ma ci vorrebbe tutto il mio potere.
– E se ti venisse chiesto di potare tutte le rose del mondo in modo che un solo
cespuglio producesse un solo fiore perfetto?
– Cosa stai dicendo, Tamis?
– Va’ in Macedonia, cara. Io resterò seduta qui a guardare le rose che crescono.
Derae si librò al di sopra del tempio e volò verso ovest, oltrepassando le
montagne della Tracia e le pianure dei grandi fiumi Nestus, Strymon e Axios;
mentre fluttuava nel limpido cielo azzurro rilassò la mente e chiuse gli occhi dello
spirito, lasciandosi portare dai ritmi di potere che pulsavano nella terra sottostante
e si sentì attirare verso sud, oltre il mare e in basso verso una catena montana.
Volando sempre più giù, scorse sotto di sé un gruppo di cavalieri che stavano
inseguendo un leone: la belva si rifugiò fra le rocce e non appena fu fuori della
vista dei suoi inseguitori si girò e si preparò ad attaccare. Uno dei cacciatori, un
avvenente giovane dalla barba scura, si era intanto portato avanti rispetto ai
compagni e dopo aver spinto il cavallo fra le rocce balzò a terra, stringendo in
pugno una leggera lancia da caccia. Il leone scattò alla carica, ma il cacciatore non
cedette al panico e non fuggì. Piegato a terra un ginocchio strinse con maggiore
fermezza la lancia e rimase ad aspettare l’attacco della bestia.
In alto, Derae saettò come una freccia verso il leone.
MACEDONIA, ESTATE 359 A.C.

Filippo arrestò di colpo il cavallo non appena vide il leone correre fra le rocce:
la gioia della caccia lo aveva pervaso e l’intossicante ebbrezza del pericolo si
rivelò come sempre più forte del vino mente lui balzava a terra con leggerezza,
stringendo in pugno la corta lancia da caccia la cui punta di ferro era affilata come
un rasoio.
Gli anni trascorsi dall’assassino di Ptolemaos erano stati clementi con Filippo,
che adesso non era più un ragazzo snello ma un giovane possente e largo di spalle,
con il volto adorno di una curata barba nera lucida quanto la pelliccia di una
pantera. A ventitré anni, Filippo di Macedonia era in pieno rigoglio fisico.
Quando Perdiccas era salito al trono, Filippo aveva conosciuto la pace per la
prima volta da anni. Lasciata la capitale si era trasferito nelle tenute reali al di là
dell’antica capitale Aigai, e là si era concesso tutti i piaceri propri dei nobili
macedoni... bere, cacciare e compagnia femminile. Fra tutte quelle cose, però, era
soprattutto la caccia ad infiammargli il sangue: orsi, lupi, daini, buoi selvatici,
cinghiali e leopardi... la Macedonia era ricca di selvaggina.
I leoni cominciavano però a scarseggiare. Adesso però un maschio irsuto era
sceso dalle montagne per attaccare i branchi di pecore, le capre e il bestiame. Per
cinque giorni i cacciatori ne avevano seguito la pista, perdendola per poi ritrovarla
ancora e spostandosi sempre più verso sud... sembrava che la bestia li stesse
guidando verso il Monte Olimpo, la dimora degli dèi.
– Sii con me, padre Zeus! – sussurrò Filippo, lanciando un’occhiata alla lontana
montagna, poi avanzò lentamente fra le rocce. Sapeva che avrebbe dovuto
aspettare i compagni, ma come al solito era ansioso di abbattere la preda, di essere
il primo a colpire.
Il sole di mezzogiorno gli batteva sulla testa mentre lui avanzava con estrema
lentezza, consapevole che i leoni non avrebbero dovuto essere in circolazione con
quel caldo, preferendo di solito dormire in una zona d’ombra... senza contare che
quello che stavano inseguendo aveva ucciso da poco tempo una grossa pecora,
ingozzandosi di carne piena di grasso. Soppesò la lancia: la punta sarebbe dovuta
penetrare dietro la spalla del leone, piantandosi in profondità nei polmoni e nel
cuore... una cosa pericolosa dato che un solo colpo di zampa della belva poteva
fracassare il costato di un uomo e sventrarlo con gli artigli.
Guardandosi alle spalle, Filippo vide che Attalus e gli altri erano ancora ad una
certa distanza... il sicario dagli occhi chiari si sarebbe infuriato se Filippo fosse
riuscito ad abbattere la preda senza di lui, e quel pensiero strappò una risata al
giovane principe. Attalus era già furente, perché Perdiccas era andato all’ovest con
l’esercito per affrontare Bardylis e non lo aveva portato con sé: nonostante l’aiuto
che il sicario aveva dato loro undici anni prima, infatti, Perdiccas non si era mai
fidato di lui né gli aveva mai permesso di assurgere ad una posizione preminente...
Attalus era ancora soltanto il capitano delle guardie.
Da un punto più avanti, oltre i massi, giunse un ringhio sommesso, profondo e
rombante: il timore sfiorò Filippo con dita di fuoco e lui si crogiolò in esso come se
si fosse trattato delle carezze di una splendida donna.
– Vieni da me – sussurrò.
Il leone saettò fuori dalle rocce, caricando. Era enorme, a Filippo parve più
grosso di un pony, e non c’era tempo per spostarsi di lato e infliggere il colpo che
lo avrebbe ucciso.
Lasciatosi cadere su un ginocchio, Filippo puntellò contro il terreno l’asta della
lancia, con la punta diretta verso la gola del leone. Sapeva che questo non lo
avrebbe fermato, perché l’asta si sarebbe spezzata sotto l’impatto e le zanne della
belva gli avrebbero devastato la faccia: in un istante, comprese che era giunto il
giorno della sua morte, ma rimase comunque calmo e determinato a non morire da
solo. Quel mostro avrebbe percorso accanto a lui la strada dell’Ade.
Alle sue spalle echeggiò un battito di zoccoli, ma i suoi amici non sarebbero
arrivati in tempo per salvarlo.
– Vieni! – ruggì rivolto al leone. – Vieni a morire con me!
Improvvisamente la bestia si contorse come se stesse soffrendo e la sua carica
perse velocità: la testa enorme si sollevò con un ruggito spaventoso che lacerò
l’aria... e il mostro si arrestò a pochi centimetri dalla punta della lancia.
Filippo poté avvertire l’alito rancido della bestia e si trovò a fissare le zanne
lunghe e ricurve come daghe persiane, poi sollevò lo sguardo sugli occhi dorati
della fiera...
Il tempo cessò di scorrere, il momento si protrasse in eterno.
Lentamente Filippo si alzò in piedi e protese la lancia fino a sfiorare con la sua
punta la criniera del leone. La bestia sbatté le
palpebre ma non si mosse e Filippo avvertì, più che vedere, Nicanor che alle sue
spalle stava estraendo una freccia dalla faretra.
– Non scagliare un solo dardo – ordinò, in tono sommesso. Il leone venne
avanti, fino a strusciare la pelliccia contro la gamba del giovane principe, poi si
girò e si allontanò fra le rocce.
– Non ho mai visto una cosa del genere – sussurrò Attalus, sopraggiungendo di
corsa.
– Neppure io – rispose Filippo.
– Lo dobbiamo inseguire?
– Non credo, amico mio, e del resto ho perso la voglia di cacciare – replicò il
giovane, scoccando un’occhiata al punto in cui poco prima si trovava il leone.
– È stato un presagio di qualche tipo? Era davvero un leone? – chiese Attalus.
– Se era un dio, aveva un alito spaventoso – tentò di scherzare Filippo,
lanciando occhiate nervose in direzione dei lontani picchi del Monte Olimpo.
I cacciatori si avviarono con calma alla volta della casa estiva di Filippo, ad una
trentina di chilometri da Aigai, ed erano quasi arrivati quando un messaggero con il
cavallo coperto di schiuma e quasi sfinito giunse al galoppo dal nord e si affiancò a
Filippo.
– Il re è morto – disse, – e l’esercito è distrutto.
– Perdiccas morto? Non ci credo! – esclamò Attalus, ma il cavaliere lo ignorò e
tenne lo sguardo fisso su Filippo.
– Il re è avanzato contro gli Illiri, ma il nostro centro ha ceduto, Perdiccas ha
tentato di controcaricare ma il nemico si aspettava quella mossa e la cavalleria è
stata fatta a pezzi, la testa del re tagliata e messa su una lancia. Abbiamo perso
oltre quattromila uomini.
Filippo non era mai stato molto attaccato al fratello, ma fra loro non c’era
neppure animosità perché il giovane ammirava il re per la sua abilità come statista
e guerriero.
Che fare adesso? si chiese.
Il figlio del re aveva appena due anni e l’esercito... ciò che ne restava... non
avrebbe mai acconsentito che un neonato venisse incoronato re, quale che fosse il
pericolo che minacciava la nazione. Allontanatosi dai suoi uomini smontò di sella e
sedette su un masso, con lo sguardo fisso sul mare: non aveva mai desiderato
essere re, nella sua vita non aveva voluto altro che poter cacciare, bere e concedersi
qualche donna. Perdiccas lo capiva benissimo, ed era stato per questo che non
aveva mai preso in considerazione la possibilità di farlo assassinare.
Da parte sua, Filippo evitava per lo più di ingerirsi degli affari di stato. Aveva
avvertito Perdiccas del pericolo di attaccare gli Illiri, ma battaglie del genere erano
una cosa comune e di rado avevano un esito decisivo: di solito il perdente accon-
sentiva a pagare grosse somme di tributo al vincitore e la vita continuava come
prima. Il fatto però che il re fosse caduto sul campo insieme a quattromila
Macedoni costituiva una tragedia di dimensioni spaventose, una tragedia che
avrebbe gettato nel caos l’equilibrio sempre quanto meno delicato della Grecia set-
tentrionale.
Perdiccas si era rivelato un buon re, popolare e forte, ma aveva avuto
l’ossessione di schiacciare Bardylis e nulla di ciò che Filippo gli aveva detto era
stato sufficiente a distoglierlo da quell’intento .
– Manda a chiamare Parmenion – lo aveva incitato Filippo.
– Non ho bisogno di nessun mezzosangue spartano – aveva replicato Perdiccas.
– Vuoi che venga con te?
Per un momento, Filippo aveva pensato che il fratello gli avrebbe risposto di sì,
perché il suo volto avvenente si era addolcito per un momento... ma poi
l’espressione dura gli era riaffiorata negli occhi.
– No, fratello. Resta ad Aigai e divertiti – aveva detto. Mentre Filippo si girava
per andarsene, Perdiccas aveva però allungato una mano per trattenerlo per una
spalla.
– Non ho mai dimenticato ciò che hai fatto per me – aveva mormorato.
– Lo so, non c’è bisogno che tu lo ripeta.
– Ci sono alcuni che mi hanno incitato ad ucciderti, Filippo, persone che
credono... ah, che importa? Non ho ucciso neppure Archelaos e non si è mai
rivelato una minaccia.
– Non mi temere, fratello – aveva ribattuto Filippo, – perché non desidero
essere re. Guardati però da Bardylis, perché se dovessi perdere ti potrebbe imporre
un tributo che ti riuscirà difficile pagare.
– Io non perderò – aveva sorriso Perdiccas. Riscuotendosi dai ricordi, Filippo
chiamò a sé il cavaliere.
– Dove sono gli Illiri, adesso? – chiese.
– Non sono avanzati, sire. Hanno depredato i morti e adesso sono accampati a
quattro giorni di cavallo da Pella.
– Non mi chiamare sire, perché non sono il re – scattò Filippo, allontanando
l’uomo con un cenno.
Riprese quindi a riflettere, con i pensieri che gli turbinavano nella mente come
una tempesta. L’equilibrio dei poteri era tutto! A occidente gli Illiri, a nord i
Paioni, ad est i Traci e a sud Tebe. Finché ognuna di quelle nazioni aveva un
esercito forte non esistevano pericoli di invasione, ma adesso, con le truppe della
Macedonia decimate, la nazione era esposta alla conquista da parte di chiunque ne
avesse avuto il coraggio. Filippo pensò quindi ai suoi nemici. Prima di tutti c’era
Bardylis, l’astuto re degli Illiri, ottantenne o forse anche più vecchio ma con una
mente astuta quanto quella di un lupo; dopo di lui veniva Cotys, il re della Tracia,
che aveva da poco raggiunto i sessant’anni ed era un monarca avido e spietato il
cui sguardo si sarebbe ora rivolto alle miniere d’oro macedoni che si trovavano a
meno di un giorno di cavallo dal confine della Tracia, verso est. C’erano poi i
Paioni, gruppi tribali del nord che vivevano soltanto per combattere e saccheggiare,
e infine non bisognava dimenticare i Tebani affamati di potere e i pomposi
Ateniesi... e soltanto gli dèi sapevano quanti altri!
– Un timore per volta – si ammonì, poi si chiese cosa sarebbe successo se lui
non avesse tentato di prendere la corona e un nome gli balzò subito alla mente:
Archelaos, il suo fratellastro.
L’odio presente fra loro era più forte del ferro e più freddo di una bufera
invernale. Archelaos avrebbe lottato per prendere il trono... e la sua prima mossa
sarebbe stata quella di vedere morto ogni rivale.
Filippo chiamò infine a sé Attalus.
– Partirò alla volta di Pella – gli disse. – È probabile che Archelaos non abbia
ancora appreso la notizia, e quando lo saprà verrà anche lui alla capitale,
provenendo però da Cercine. Prendi venti uomini... e bada che non sopravviva al
viaggio.
– Un compito che senza dubbio mi piacerà – replicò Attalus, con un cupo
sorriso.
LA CITTÀ DI SUSA, PERSIA, AUTUNNO, 359 A.C.

– È colpa tua – dichiarò Mothac, mentre Parmenion passeggiava avanti e


indietro per la stanza. – Chi altri puoi biasimare?
Lo Spartano si accostò alle ampie porte che davano accesso ai giardini e si
fermò a contemplare le terrazze ricoperte di fiori e gli alberi inghirlandati di
boccioli; i profumi erano dolci e il panorama splendido, ma lui volse le spalle ad
esso con il volto cupo e un’espressione irata negli occhi.
– Biasimo? – ringhiò. – Chi altri è da biasimare se non quel dannato sbarbatello
persiano? Perde settanta uomini perché non si vuole prendere il fastidio di far
sgomberare il terreno dello scontro dai massi. Settanta! E poi ha la sfacciataggine
di venirmi a dire che non ha importanza, che quelli erano soltanto contadini!
– È un principe reale, Parmenion... cosa ti aspettavi quando gli hai revocato
l’incarico? Una lode? Un altro stallone purosangue?
– Persiani! – sibilò Parmenion. – Ne ho la nausea.
– No – lo corresse Mothac, in tono sommesso. – Tu hai la nausea della Persia,
amico mio, e sei troppo astuto per non aver preso in considerazione le conseguenze
dell’aver liquidato Dario in quel modo.
– Cosa stai dicendo? Che volevo vedere revocato il mio incarico?
– Esatto.
– Sciocchezze! Qui abbiamo tutto ciò che un uomo può desiderare. Guardati
intorno, Mothac: sete, comodi divani, una casa splendida. Quanti re in Grecia si
possono vantare di possedere un palazzo del genere? Abbiamo schiavi che
obbediscono ad ogni nostro desiderio e più denaro di quanto ne potremmo
spendere in due vite. Credi che avrei rinunciato spontaneamente a tutto questo?
– Sì.
– Prendiamo un po’ d’aria – borbottò Parmenion, uscendo in giardino e
avviandosi lungo i sentieri pavimentati.
Mothac lo seguì sotto l’intensa luce del sole, imprecando silenziosamente
contro se stesso per aver dimenticato dentro il suo cappello di paglia... durante gli
ultimi dieci anni, infatti, era diventato sempre più calvo, una calamità di cui
considerava completamente responsabile il rovente sole persiano.
– Come ha potuto essere così stupido? – commentò ancora Parmenion. –
Sapeva che non avrebbe potuto ottenere il sostegno dei cocchi da guerra a meno
che non avesse sgombrato il terreno, e aveva mille uomini ai suoi ordini. Ci
sarebbe voluta un’ora, forse due... ma no, il nostro ottimo principe persiano lascia i
suoi uomini seduti a prendere il sole e se ne va sulle colline per farsi un bagno in
un ruscello fresco.
– Qui abbiamo finito comunque – sottolineò il Tebano. – Le Guerre dei Satrapi
sono praticamente concluse, e del resto che altro ti avrebbe potuto chiedere il
grande re? Hai vinto per lui le battaglie nella Cappadocia, nella Frigia, in Egitto, in
Mesopotamia e in altri luoghi di cui non riesco neppure a pronunciare il nome. Non
abbiamo bisogno di altre guerre... restiamo qui a goderci la vecchiaia. Gli dèi
sanno che non ci serve altro denaro.
– Non sono pronto per la vecchiaia, Mothac, amico mio – replicò Parmenion,
scuotendo il capo, poi scrollò le spalle e aggiunse: – Non so cosa voglio, ma non
posso restarmene in ozio. Quali sono state le offerte più recenti?
– Il Satrapo dell’Egitto richiede i tuoi servizi per far fronte agli attacchi delle
tribù del sud.
– Fa troppo caldo – replicò Parmenion.
– Gli Olinti stanno assoldando mercenari perché vorrebbero attaccare la
Macedonia.
– Di nuovo la Macedonia? La cosa mi tenta. Che altro?
– Il re degli Illiri, Bardylis, ti offre un impiego e così anche Cotys della Tracia.
La sua è una buona offerta: due talenti d’oro.
– E cosa mi dici del re macedone... Perdiccas?
– Non abbiamo avuto sue notizie.
Per un po’, Parmenion rimase seduto in silenzio.
– Non sono ansioso di tornare in Grecia... non ancora – disse infine.
Mothac annuì senza rispondere, perché sapeva che i pensieri di Parmenion
erano tornati a posarsi su Epaminonda. L’eroe tebano aveva distrutto gli Spartani e
portato l’esercito di Tebe fino alle porte stesse di Sparta, dove il re, Agisaleus, si
era barricato all’interno delle mura rifiutando ogni sfida ad un combattimento in
campo aperto.
Erano quindi seguiti per Tebe giorni di gloria, ma gli Ateniesi, timorosi delle
ambizioni tebane, si erano alleati con Sparta e sanguinose battaglie si erano
susseguite per sette anni.
Poi, mentre Parmenion si trovava alla grande corte di Susa, era giunta la notizia
di una battaglia vicino a Mantinea: gli Spartani e gli Ateniesi avevano affrontato
insieme Epaminonda, che aveva tentato di ripetere la tattica di Leuctra: una carica
in massa. La manovra aveva però avuto successo soltanto in parte e un contingente
di cavalleria ateniese si era aperto un varco fino ad Epaminonda: il generale era
morto nel momento stesso in cui conseguiva la vittoria e si diceva che ad ucciderlo
fosse stato un capitano ateniese chiamato Gryllus, figlio di Senofonte.
– Era un grande uomo – sussurrò Mothac.
– Cosa? Sì. Com’è che sai sempre quello che sto pensando?
– Siamo amici, Parmenion. Adesso temo per Tebe: Pelopida è morto nella
Tessaglia, Epaminonda se n’è andato... chi è rimasto a combattere per Tebe?
– Non lo so, ma non intendo prendere parte alcuna alla cosa. Senofonte aveva
ragione, la Grecia non sarà mai unita e queste costanti battaglie servono soltanto ad
indebolirla ulteriormente.
Una schiava uscì di corsa dalla casa e s’inchinò a Parmenion per poi rivolgersi
a Mothac.
– C’è un messaggero, signore. Desidera vedere il generale.
– Chi lo ha mandato?
– È un Greco, signore – replicò la ragazza, poi rimase in attesa a testa china.
– Provvedi che gli venga servito del vino. Gli parlerò fra breve – replicò il
Tebano.
Parmenion rimase seduto al sole fino al ritorno di Mothac.
– Allora, chi era?
– Era un Illirico. Bardylis ha ritirato l’offerta che ti ha fatto: pare che anche
senza di te sia riuscito a distruggere l’esercito della Macedonia e ad uccidere
Perdiccas. Potrebbe essere il momento buono per accettare l’offerta di Cotys,
perché adesso Tracia e Illiria combatteranno per aggiudicarsi le spoglie. La
Macedonia è finita.
– Chi è succeduto a Perdiccas?
– Uno dei principi... Filippo, credo.
– L’ho conosciuto a Tebe. Mi piaceva.
– Oh, no – gemette Mothac. – Non ci pensare neppure.
– Pensare a cosa?
– Lo vedo dalla tua espressione, Parmenion. Non hanno esercito e i lupi si
stanno radunando... è follia anche soltanto pensarci, e del resto Filippo non ti ha
fatto nessuna offerta.
– Niente esercito e nemici potenti tutt’intorno – ridacchiò Parmenion. – È molto
invitante, Mothac.
– Nella morte non c’è nulla di invitante! – scattò il Tebano.

Archelaos venne assassinato mentre stava attraversando il fiume Axios, a


nordovest di Pella, e con la sua morte ogni opposizione a Filippo all’interno della
Macedonia venne a cessare. Questo però non pose fine ai suoi problemi, perché gli
Illiri avevano annientato l’esercito macedone nel nordovest e adesso le tribù dei
Paioni avevano invaso la Macedonia dal nord, saccheggiando due città e trenta
villaggi. Il peggio doveva però ancora venire per il nuovo re: nell’est, la Tracia
stava ammassando le sue truppe per un’invasione... pronta a installare sul trono co-
me re fantoccio Pausania, un lontano cugino di Filippo, e dal sud era giunta voce
che gli Ateniesi erano pronti a sostenere un altro cugino, Argaios, che avrebbe
marciato su Pella con un esercito per reclamare il trono.
– Quello che mi sorprende – confidò Filippo a Nicanor, il suo più caro amico, –
è che qualcuno possa desiderare di conquistare il trono adesso, quando ne resta ben
poco che non sia già in mani nemiche.
– Però vincerai tu, Filippo. Vincerai. In tutta la Grecia non c’è un solo uomo
capace di batterti in astuzia.
Filippo scoppiò a ridere e passò un braccio intorno alle spalle dell’amico.
– Sarei più pronto ad accettare la tua affermazione come un complimento se
avesse una base concreta. Io però ho bisogno di un miracolo. Mi serve Parmenion.
– Cosa può fare per noi quello Spartano?
– Può creare un esercito... e me ne serve uno, per le ossa di Eracle. Trovalo per
me, Nicanor. Manda messaggeri, serviti dei veggenti... qualsiasi cosa, ma trovalo.
Allontanando gli altri problemi dalla mente, Filippo si trovò quindi a ricordare i
giorni trascorsi come ostaggio a Tebe, undici anni prima, quando aveva osservato il
leggendario Parmenion addestrare la Sacra Banda. In quell’uomo c’era qualcosa di
particolare, una calma che denunciava una grande forza, e nei suoi occhi chiari
Filippo aveva letto comprensione ed un senso di affinità con il grande guerriero
spartano.
Poi c’era stata la battaglia di Leuctra e la sconfitta del temibile esercito di
Sparta... la vittoria di Parmenion; da quel momento Filippo aveva cominciato a
cercare notizie degli spostamenti dello Spartano, ascoltando con interesse le storie
delle sue vittorie in Egitto e in Persia. I Satrapi gli offrivano fortune in oro e
gioielli, contendendosi i favori del più grande generale della loro epoca, e si diceva
che perfino il grande re fosse ammirato dalla sua abilità.
C’era stata addirittura un’occasione in cui il nemico si era arreso non appena
aveva sentito che Parmenion era stato assoldato per guidare un esercito contro di
esso, perché ormai perfino il suo nome aveva del potere.
Ho bisogno di te, pensò Filippo.
Mentre sostava accanto alla finestra, con la mente lontana, Attalus gli si
avvicinò.
– Che ne dobbiamo fare del bambino, sire? – sussurrò. – Vuoi che sia
ucciso?
Era una domanda ragionevole, e Filippo vi rifletté sopra. Se gli fosse stato
permesso di crescere, un giorno suo nipote avrebbe potuto forse cercare di
conquistare il trono che era stato di suo padre, e del resto era usanza eliminare tutti
gli altri pretendenti.
– Dov’è Simiche? – domandò infine, con un sospiro.
– Come tu hai ordinato, la regina è prigioniera nelle sue stanze, ma ha ancora
con sé tre serve e il figlio.
– Ci penserò io – decise Filippo.
In fretta, lasciò la sala del trono e percorse il lungo corridoio che portava
all’edificio adiacente, verso est. Quando raggiunse l’appartamento della regina le
due guardie di stanza davanti alla porta lo salutarono e lui rispose con un cenno
nell’entrare nella camera personale di Simiche. La regina, una donna minuta con il
volto da elfo e lunghi capelli scuri, sollevò lo sguardo su di lui e riuscì quasi a
impedire che la paura le trapelasse dal volto, mentre il piccolo Amyntas sorrise allo
zio e accennò a dirigersi verso di lui con passo incerto.
Alzandosi in piedi, Simiche prese in braccio il piccolo, accarezzandogli i
riccioli neri; con un gesto, Filippo congedò le cameriere che lasciarono di corsa la
stanza, ma Simiche non disse nulla, non supplicò, limitandosi a stringere
maggiormente a sé il bambino. Dal canto suo, Filippo si sentiva lacerato interior-
mente: la sua mano era sull’elsa del coltello, ma lui si arrestò nel centro della
stanza, confuso e incerto. Undici anni prima, Perdiccas avrebbe potuto ordinare la
sua morte, ma non lo aveva fatto, e adesso lui si trovava davanti alla donna che il
fratello aveva amato e al figlio che aveva adorato.
– Il bambino sarà al sicuro, Simiche – disse infine, con un sospiro, – e non gli
accadrà nulla di male. Ti trasferirai con lui nella mia casa estiva e lo alleverai là.
Provvederò anche perché tu abbia una buona rendita che ti permetta di pensare alla
sua educazione.
– Non mi ingannare, Filippo – replicò lei. – Se hai intenzione di ucciderci, fallo
adesso e non destare false speranze. Sii uomo... e usa quel coltello. Non opporrò
resistenza.
– Hai la mia parola, Simiche. Non si parlerà neppure di uccidere il bambino.
La donna chiuse gli occhi e chinò il capo. Le lacrime presero a solcarle il volto
e l’allentarsi della tensione la fece tremare mentre stringeva a sé il figlio,
baciandogli il volto; il piccolo lottò per liberarsi da quell’intensa manifestazione
emotiva e quando Filippo sedette accanto alla regina, cingendola con un braccio, si
protese a tirargli ridendo la barba scura.
– Che gli dèi ti benedicano – sussurrò Simiche.
– Non si stanno impegnando molto, attualmente – replicò Filippo.
– Lo faranno – promise la donna. – Perdiccas ti amava, Filippo... ma al tempo
stesso provava nei tuoi confronti un reverenziale timore perché vedeva in te la
grandezza, come la vedo io ora. Cosa farai?
Filippo scrollò le spalle e arruffò i capelli al bambino.
– Non ho esercito e sono sotto attacco da ovest, da nord, da est e da sud. Credo
che mi raderò la testa e diventerò un attore girovago... un lettore di commedie.
– Penserai a qualcosa – replicò lei, scoppiando infine a ridere. – Cos’è che ti
serve maggiormente?
– Tempo – rispose Filippo, senza esitazione.
– Chi è il tuo nemico più pericoloso?
– Quel vecchio lupo di Bardylis. I suoi Illiri hanno già distrutto l’esercito e se
lui dovesse marciare su Pella non potrei fare nulla per fermarlo.
– Dicono che abbia una figlia incredibilmente brutta – mormorò Simiche. – Si
chiama Audata e lui ha tentato... senza successo... di darla in moglie a principi di
basso rango. Oserei dire che ha ormai rinunciato a trovare un re che la sposi.
– Una moglie incredibilmente brutta? È una cosa che ho sempre desiderato –
replicò Filippo, e le loro risa pervasero la stanza.

I giorni trascorsero contrassegnati da una minacciosa mancanza di movimento


da parte dei nemici, e Filippo lavorò fino a tarda notte per preparare messaggi da
inviare ad Atene, ad amici nella Tessaglia e ad Anfipoli; al tempo stesso mandò
Nicanor da Bardylis, in Illiria, chiedendo formalmente sua figlia Audata in moglie
e promettendo di pagare un tributo di cinquecento talenti all’anno a partire dal
giorno del matrimonio. Al re della Tracia, Cotys, inviò invece una lunga lettera in
cui gli garantiva la propria amicizia... ma a portarla fu il gelido Attalus.
Insieme alla lettera, Filippo gli consegnò due piccole fiale di metallo, ciascuna
contrassegnata da lettere diverse.
– Questa – spiegò, – contiene un veleno letale ma ad azione lenta, e quest’altro
è un antidoto. Devi trovare il modo di avvelenare il re senza che i sospetti possano
ricadere su di te. Cotys ha tre figli che si odiano a vicenda e una volta che il
vecchio sarà morto non si uniranno mai per minacciarci.
– Te la stai cavando davvero molto bene, amico mio – sorrise Attalus. –
Credevo che non desiderassi essere re.
– Un uomo deve accettare ciò che gli dèi gli impongono – rispose Filippo. –
Però è di vitale importanza che Cotys muoia. Prima che questo succeda, cerca il
pretendente, Pausania, e digli che sei in attrito con me e che desideri servirlo a mio
danno. Lascio a te di scegliere come ucciderlo... ma bada che muoia.
– Non vorrei dare l’impressione di essere un mercenario cretese, sire, ma
sarebbe piacevole sapere che al ritorno otterrò un’onorata posizione al tuo servizio.
Annuendo, Filippo prese l’alto guerriero per un braccio e lo condusse verso un
divano accanto ad una fontana interna in marmo.
– Non c’è bisogno che mi chiami sire quando non c’è nessun altro presente. Tu
sei mio amico, Attalus, e mi fido di te come di nessun altro: sei la mano destra del
re e prospererai insieme a me. Ti fidi di me?
– Certamente.
– Allora fa’ ciò che ti chiedo.
– Parli già come un re – ridacchiò Attalus. – Molto bene, Filippo.
In quel momento la porta si aprì e un servitore entrò con un inchino.
– Mio signore, l’ambasciatore di Atene chiede di essere ricevuto.
– Digli che sarò subito da lui – rispose Filippo, alzandosi e traendo un profondo
respiro, poi congedò Attalus e passò nella propria camera da letto dove si cambiò
d’abito, indossando una lunga tunica azzurro chiaro e un mantello persiano di
ottima lana blu scuro.
Quando ebbe finito si sedette e lasciò che i suoi pensieri fluttuassero sui
problemi che doveva affrontare, identificando ciascuno di essi e preparandosi
all’incontro... rimuovere Atene dalla mischia era infatti una priorità urgente, che
però si sarebbe potuta rivelare costosa. Ancora una volta le città della Grecia sta-
vano combattendo fra loro per il predominio, e adesso che Parmenion aveva
definitivamente rimosso Sparta dalla lotta effettiva per il potere essa si era
intensificata fra Tebe e Atene, inducendole a formare ciascuna delle alleanze che
garantissero loro la supremazia. Perdiccas aveva favorito i Tebani, mandando
truppe macedoni nella città indipendente di Anfipoli per aiutarli contro
un’aggressione ateniese; la cosa aveva comprensibilmente irritato gli Ateniesi che
dominavano su Anfipoli e non volevano perdere quell’importante insediamento
che dominava tutte le strade commerciali che seguivano il grande fiume Strymon,
anche se i suoi abitanti non volevano saperne del controllo ateniese e stavano
lottando per l’indipendenza ormai da oltre cinquant’anni.
Ora però Atene aveva inviato un esercito per rimuovere Filippo dal trono e lui
non aveva truppe con cui difendersi: se gli Ateniesi avessero avuto successo,
Anfipoli sarebbe caduta comunque.
Cintosi la fronte con un sottile cerchietto d’oro, Filippo raggiunse la sala del
trono per incontrarsi con Aischines, un uomo basso e robusto, con la faccia del
malsano colore carminio di coloro che soffrono di cuore.
– Benvenuto, Aischines, posso confidare che tu goda di buona salute? – salutò
Filippo, con un ampio sorriso.
– Non mi posso lamentare, sire – replicò l’ambasciatore, con voce profonda e
con accento perfetto e scandito. – Comunque vedo che tu sei in forma eccellente,
come un giovane Eracle.
– Vorrei avere soltanto dodici fatiche da portare a termine! – rise Filippo. –
Comunque non ti devo angustiare con i miei problemi. Ho mandato dei messaggi
ad Atene, una città che ho sempre ammirato, e spero che la nostra amicizia sarà
duratura.
– Purtroppo questo non era un atteggiamento condiviso dal tuo defunto fratello
– replicò Aischines. – Lui sembrava preferire i Tebani ed ha perfino... se mi è
concesso osare di accennarvi... inviato delle truppe contro di noi nella battaglia per
la riconquista di Anfipoli.
– Purtroppo mio fratello non condivideva le mie opinioni in merito ad Atene –
annuì Filippo. – Lui non vedeva quella città come la madre della democrazia e non
comprendeva la vera natura della sua grandezza. Credo che fosse rimasto abba-
gliato dalle gesta di Parmenion e di Epaminonda e che confidasse di veder
prosperare la nostra nazione grazie alla saggezza di Tebe. Una vergogna, davvero –
commentò, scuotendo il capo. – Ora però passeggiamo un poco e godiamo del
fresco della sera mentre parliamo.
Precedette quindi l’ospite lungo il corridoio esterno e verso i giardini reali,
indicando i diversi fiori che Simiche aveva piantato ricavandoli da semi importati
dalla Persia; mentre passeggiavano, però, la mente di Filippo era in fermento: se
non del suo diretto sostegno, aveva bisogno almeno dell’accettazione di Atene,
perché un esercito da essa finanziato stava marciando per rubargli il regno e porre
Argaios sul trono e le forze macedoni non erano per il momento ancora pronte ad
un’altra grande battaglia. Poteva però d’altro canto essere tanto impulsivo da
rinunciare ad Anfipoli, una città di importanza vitale per il traffico marittimo nel
Golfo Termaico?
Muoviti con cautela, Filippo, si ammonì.
I due si arrestarono vicino ad un alto muro e sedettero sotto un albero carico di
boccioli purpurei.
– Sarò franco con te, Aischines – sospirò Filippo, – e del resto le tue spie sanno
già dei miei contatti con Tebe.
Aischines annuì con aria grave e questo divertì interiormente Filippo, dal
momento che contatti del genere non esistevano.
– Essi desiderano mandarmi un esercito, ma come entrambi sappiamo il loro
scopo non è quello di proteggere la Macedonia ma piuttosto di impedire ad Atene
di riconquistare Anfipoli. Io non ho bisogno di altre lunghe guerre combattute sul
suolo macedone e non voglio nuovi padroni... piuttosto, desidero l’amicizia della
principale città della Grecia.
– I Tebani cercano soltanto il potere della tirannia – rispose Aischines,
soppesando con cura le parole. – Non hanno cultura e dov’è la loro filosofia? Nel
potere che viene dalla spada? Negli ultimi cento anni hanno conosciuto soltanto
due grandi uomini, quelli che tu hai già menzionato, e dopo che Pelopida è morto
in Tessaglia ed Epaminonda è caduto a Mantinea non c’è stato più nessuno che li
potesse sostituire. I Tebani sono una potenza in declino mentre Atene sta
ascendendo ancora una volta.
– Sono d’accordo – convenne Filippo, in tono condiscendente, – ma quali
possibilità ho? Gli Illiri hanno invaso la parte superiore del mio regno, i Paioni
stanno saccheggiando il nord e i Traci si stanno ammassando lungo i miei confini,
decisi a mettere Pausania sul trono. Sono minacciato da tutte le parti e se Tebe è la
sola risposta, allora dovrò scegliere Tebe... e cinquemila opliti che renderanno
sicuro il mio trono.
– Soltanto per Tebe, sire, non per te.
– Ti conosco appena da pochi momenti, Aischines, ma vedo che sei un uomo di
cui mi posso fidare – dichiarò Filippo, girandosi in modo da guardare l’Ateniese
negli occhi. – Sei un ottimo parlatore a beneficio della tua città e sei un uomo nobi-
le ed onesto, quindi se mi dici che Atene desidera la mia amicizia io ti credo... e
rifiuterò l’offerta di Tebe.
Aischines deglutì a fatica. Finora nessuno dei due aveva accennato al
contingente ateniese che stava marciando per sostenere Argaios.
– C’è ancora la questione di Anfipoli – sottolineò. – Come tu ben sai, è una
città ateniese e noi vorremmo riportarla nella Lega. A quanto mi è dato di capire, tu
attualmente hai là una guarnigione, esatto?
– Che sarà ritirata nel momento in cui arriveremo ad un accordo – promise
Filippo. – Io non considero Anfipoli una città macedone. A dire la verità i suoi
abitanti hanno chiesto il nostro aiuto e mio fratello... commettendo, io credo, un
errore... ha acconsentito ad aiutarli. Adesso però dimmi, Aischines, quale
messaggio devo mandare a Tebe?
– Vedo che sei un uomo colto e saggio – affermò l’ambasciatore, – e ti
garantisco che Atene rispetta uomini del genere... e desidera soltanto essere loro
amica. Manderò immediatamente il mio rapporto al consiglio e tornerò subito da
te.
– È stato un incontro piacevole, mio caro Aischines – dichiarò Filippo,
alzandosi in piedi. – Spero che domani vorrai tenermi compagnia a teatro, dove
rappresentano una nuova commedia che desideravo da tempo vedere. Gli attori
sono Ateniesi e sarebbe un onore per loro... e per me... se tu mi sedessi accanto.
Aischines s’inchinò.
Filippo lo riaccompagnò nel palazzo e tornò quindi nelle sue stanze, con il
volto incupito dalla furia, trovando là Nicanor ad aspettarlo.
– Non è andata bene con l’Ateniese? – gli chiese.
– Abbastanza bene – replicò Filippo, secco, – ma se regalo un altro pezzo di
Macedonia mi troverò ad essere il re di tre alberi e di una pozza stagnante. Dammi
qualche buona notizia, Nicanor, sollevami lo spirito!
– Ho raccolto quasi mille uomini dai resti dell’esercito, ma il morale non è
buono, Filippo, e ci serve una vittoria da qualche parte.
– L’oro continua ad affluire da Crousia?
– Un poco, ma credo che il governatore stia aspettando di vedere chi vincerà,
ed è possibile che sia già entrato in contatto con Cotys o con Pausania.
– Quindi non possiamo assoldare mercenari. Così sia. Ci vuole una vittoria,
vero? Tu hai parlato con gli ufficiali, quindi dimmi quale di loro ha il coraggio che
mi serve.
Nicanor si appoggiò all’indietro sul divano, fissando il soffitto per un momento.
– Antipatro è un brav’uomo. Ha tenuto bene insieme le sue truppe ed ha
combattuto lungo tutta la ritirata. Credo che sia un uomo rispettato. Gli altri? Non
c’è nessuno di speciale fra loro, Filippo.
– Allora manda Antipatro da me. Stanotte!
– Contro chi combatteremo?
– La sola cosa che non ci manca sono i nemici – rise Filippo, allargando le
mani. – Comunque affronteremo i Paioni. Che notizie ci sono di Parmenion?
– Ha vinto una battaglia per conto del Satrapo della Cappadocia e adesso si
trova a Susa, dove viene onorato dal grande re. In ogni caso gli ho mandato un
messaggio, Filippo, anche se non capisco perché dovrebbe venire: deve essere
ricco, ormai, quindi perché dovrebbe tornare in Grecia. Cosa gli possiamo offrire?
Filippo scrollò le spalle perché non sapeva cosa rispondere.
E quel pensiero lo deprimeva.

La tenue luce che precede l’alba stava avvolgendo le basse colline che
dominavano il fiume Axios quando Nicanor svegliò Filippo scuotendolo
leggermente. Il re si sollevò a sedere con un gemito, spingendo da parte la coperta
e stendendo le gambe; intorno a lui la maggior parte dei mille cavalieri stava anco-
ra dormendo, ma Filippo si alzò in piedi e si massaggiò le spalle possenti,
sollevando lo sguardo verso le sentinelle appostate sul costone.
– Qualche traccia di movimento? – chiese a Nicanor.
– No, sire.
Filippo sollevò la corazza di cuoio rinforzata in bronzo e se la infilò, lasciando
che Nicanor gli assestasse i guardaspalle e li affibbiasse sul posto; intanto un
giovane guerriero dalla barba nera emerse dal buio e si inchinò davanti al re.
– Il nemico si è accampato in una depressione a circa un chilometro e mezzo da
qui, diretto a nord. Dal mio conto risulta che sono circa il doppio di noi, il che
significa che la scorsa notte devono aver avuto dei rinforzi.
Filippo avrebbe voluto imprecare, invece sorrise.
– Hai agito bene, Antipatro, e non ti preoccupare dei numeri. Ricorda soltanto
che siamo Macedoni e che il re cavalca con voi.
– Sì, sire – rispose l’uomo, distogliendo lo sguardo.
Filippo non ebbe difficoltà a intuire quello che stava pensando, e cioè che
appena poche settimane prima un altro re gli aveva probabilmente detto la stessa
cosa... e che quella battaglia si era conclusa in un disastro e in un massacro.
– Io non sono Perdiccas – aggiunse in tono sommesso, e quando Antipatro lo
guardò con sorpresa gli batté una pacca sulla spalla con una risata, aggiungendo: –
Non possiamo certo prendere in considerazione l’idea di subire due sconfitte in un
arco di tempo tanto breve, vero?
– Desideri parlare agli uomini, sire? – chiese Antipatro, con un sorriso nervoso,
non sapendo come comportarsi con quell’uomo così strano.
– No. Riferisci loro che più tardi terrò un discorso per la vittoria e ci potremo
ubriacare tutti.
– Un discorso prima della battaglia potrebbe dare migliori risultati – osservò
Nicanor.
– Perdiccas era un buon parlatore, giusto? – ribatté Filippo, girandosi verso
l’amico. – Non ha forse riempito gli orecchi dei suoi uomini di parole di fuoco, la
notte prima della battaglia? – aggiunse, rivolto ad Antipatro.
– Lo ha fatto, sire – confermò Antipatro.
– Allora ripeti agli uomini esattamente ciò che ho detto. Adesso muoviamoci,
perché voglio arrivare sopra il loro campo all’alba. Tu prenderai metà degli
uomini, Antipatro, ed io comanderò gli altri. Li colpiremo da est e da ovest,
duramente e con forza... e ricorda che non voglio prigionieri.
Un’ora più tardi Filippo condusse i suoi cinquecento uomini su per un’erta
collina, ed essi guidarono a mano i cavalli fino ad arrivare ad un costone che
dominava il campo nemico. In basso si vedevano decine di tende e centinaia di
uomini erano raggomitolati sotto le coperte accanto ai fuochi morenti; intorno al
campo non c’erano sentinelle, e questo ebbe in qualche modo l’effetto di
aumentare l’ira di Filippo. Estratta la sciabola, indicò verso destra e subito i
Macedoni montarono a cavallo, avviandosi in una lunga fila attraverso il costone
per poi aspettare il segnale. Il sole era ancora nascosto dietro le lontane montagne
di Kerkine, ma il cielo si stava rischiarando; riparandosi gli occhi, Filippo vide che
Antipatro e i suoi cinquecento uomini erano già visibili ad oriente, una nube di
polvere che si levava insieme al rombo degli zoccoli dei cavalli. Subito i Paioni
uscirono dalle coperte afferrando spade, lance ed archi, ma ormai Antipatro era
loro addosso: per qualche tempo parve che i Paioni riuscissero a reggere, poi il
centro cedette ed essi fuggirono verso le colline su cui il re era in attesa.
– Fatevi sentire! – tuonò Filippo, sollevando la spada, e il grido di guerra
macedone si levò fragoroso, un rotolante muro di suono che echeggiò attraverso la
pianura.
Filippo spronò poi il suo castrato nero e si lanciò al galoppo giù per il pendio,
chiudendo in una morsa i Paioni che stavano fuggendo davanti ad Antipatro e che
andarono così a sbattere contro i suoi uomini. A quel punto i nemici caddero in
balia del panico e cercarono di fuggire in ogni direzione che potesse offrire un po’
di protezione, ma i Macedoni non diedero loro tregua e continuarono ad inseguirli
e ad abbatterli. Tirando le redini, Filippo notò intanto un gruppo di guerrieri
nemici, sessanta o settanta circa, che stavano cercando di formare un quadrato
dietro i loro scudi di vimini intrecciati. In preda alla sete di sangue, si lanciò al
galoppo in mezzo a loro, falciandone quanti più poteva con la sua sciabola, mentre
una lancia gli rimbalzava contro la corazza e una spada gli apriva una ferita poco
profonda sulla coscia. Vedendo che il re era in pericolo, Nicanor condusse allora
venti cavalieri in suo aiuto... e il quadrato nemico cedette.
Quello che seguì fu un massacro. I Paioni gettarono via lo scudo e la spada per
correre più in fretta, soltanto per essere braccati da gruppi di cavalieri decisi a
ottenere la vendetta e la morte di ogni nemico.
Entro il crepuscolo, Filippo era seduto nella tenda del capo nemico, con la
coscia strettamente fasciata; fuori quasi mille Paioni giacevano morti o feriti
mentre le perdite dei Macedoni ammontavano soltanto a sessantadue uomini... uno
dei quali era rimasto ucciso quando il suo cavallo aveva incespicato e gli era
rotolato addosso. Il campo era pieno di bottino, d’oro e d’argento, di monete e di
statue di metalli preziosi; al suo interno erano state trovate anche più di cinquanta
donne macedoni prigioniere, che erano state tanto felici di essere liberate da elargi-
re con gusto ai loro salvatori quei piaceri che i Paioni avevano invece dovuto
ottenere da loro con la forza.
Filippo ordinò che i tesori venissero ammucchiati su alcuni
carri e portati a Pella, poi mantenne la promessa fatta in precedenza e raccolse
intorno a sé gli uomini in un grande cerchio.
– Oggi – esordì con voce risonante e profonda, raggiungendo ogni orecchio
senza sforzo apparente, – avete goduto di una vittoria, i vostri nemici giacciono
morti a centinaia e il nord sarà presto libero dalle loro razzie. Questo è oggi, questo
è l’inizio. Non mi fraintendete... quella odierna non è una grande vittoria, e tuttavia
è stata storica perché sarà la prima di molte. Io vi prometto che verrà un giorno in
cui il grido di battaglia dei Macedoni scuoterà le fondamenta del mondo, sarà
sentito oltre gli oceani ed echeggerà sulle montagne! Non ci sarà un solo uomo
vivente che non lo abbia sentito e che non lo tema. Questa è la promessa che vi
faccio, guerrieri della Macedonia, questa è la promessa di Filippo.
Smise per un momento di parlare e lasciò vagare lo sguardo sugli uomini... che
non applaudirono e rimasero sconcertati dalla sua improvvisa silenziosa
immobilità... osservandoli con attenzione e notando che molti non avevano corazza
e che erano in pochi a possedere un elmo.
– Vi darò armi migliori – disse, – armature lucenti e spade affilate, schinieri,
elmi e lance, vi porterò oro e ricchezze e vi concederò terre su cui far crescere i
vostri figli. Per stanotte, però, potrò darvi soltanto del vino, quindi ora... beviamo!
Seguì un cortese applauso avviato da Nicanor mentre il vino veniva tirato fuori,
poi gli uomini cominciarono a disperdersi per sedersi in gruppi intorno ai numerosi
fuochi da campo, e Filippo andò a cercare Antipatro.
– È stato un discorso così brutto? – gli chiese.
– Per nulla, sire, ma questi uomini provengono soprattutto dalla Pelagonia e
dalle valli di Pindos. Adesso gli Illiri hanno il controllo delle loro terre natali ed
hanno perso moglie e figli. Se tu potessi parlare loro di una spedizione contro
Bardylis...
– Non posso farlo... e non intendo mentire loro, Antipatro, né adesso né mai.
Domani prenderai i tuoi cinquecento uomini e passerai al setaccio il nord. Annienta
qualsiasi Paione in cui ti imbatterai e scacciali dalla Macedonia.
– Perderemo altri uomini a causa delle diserzioni – gli fece notare Antipatro, in
tono sommesso. – Cercheranno di tornare a casa.
Il mattino successivo Filippo fu di nuovo il primo ad alzarsi e ordinò a Nicanor
di radunare ancora una volta gli uomini.
– La scorsa notte vi ho fatto delle promesse – cominciò. – Oggi ho
qualcos’altro da dire. Molti di voi andranno con Antipatro, per scacciare i Paioni
dalle nostre terre, e fra loro ci saranno alcuni che vorranno tornare alle loro case
per cercare la moglie e i figli. Io lo capisco, quindi tutto ciò che vi chiedo è questo:
scegliete in mezzo a voi un gruppo di venti uomini che si addentrerà nelle terre
occupate per avere notizie delle famiglie perdute. Quegli uomini riceveranno una
paga completa di venticinque dracme al mese per tutto il tempo della loro assenza,
e il loro salario sarà tenuto a Pella come garanzia che ritornino. Il resto di voi sarà a
casa fra tre mesi... anche questa è una promessa... però verrà il momento in cui mi
appellerò e voi e se siete uomini d’onore verrete a me. Vi sembra una proposta
onesta? – chiese infine, e indicando un guerriero massiccio e barbuto in prima fila
ripeté: – Tu! Ti sembra una proposta onesta?
– Sì, se è vera – rispose l’uomo.
– Non ho il tempo di dimostrare la sincerità delle mie parole, ma voi siete i
primi fra i guerrieri di Filippo... e non vi verrò mai meno – dichiarò il re, scrutando
il gruppo e soffermandosi su ogni volto. – In questi primi giorni ci saranno delle
decisioni che voi non capirete, ma sappiate che io vivo per la Macedonia... e che
tutto ciò che farò avrà lo scopo di rafforzare la sua causa, Vi chiedo di fidarvi di
me.
Senza aggiungere altro ruotò sui tacchi e si avviò verso il proprio cavallo; alle
sue spalle, il guerriero massiccio si alzò in piedi.
– Il re! – gridò.
– Il re! Il re! – ripeterono gli altri, alzandosi a loro volta. Filippo si inchinò e
attese che il ruggito corale si fosse spento prima di far echeggiare a sua volta la
propria voce.
– Macedonia! Macedonia!
Applaudendo, i guerrieri raccolsero quel grido mentre Nicanor si portava
accanto a Filippo.
– Un momento di orgoglio per te, sire – disse. – Hai conquistato il loro cuore.
Filippo non replicò, perché stava già pensando al pretendente Argaios e
all’esercito ateniese che lo spalleggiava.

Nei giorni che seguirono Filippo lavorò instancabilmente, raccogliendo uomini


dal sud e assoldando un contingente di arcieri cretesi per la somma esorbitante di
quaranta dracme al mese per ogni uomo, continuando al tempo stesso le sue
trattative con Aischines e aspettando con malcelata tensione notizie dalla Tracia e
dall’Illiria.
Intanto le casse del tesoro stavano cominciando ad esaurirsi, le scorte di oro
provenienti dalle miniere di Crousia nell’est si stavano prosciugando e restavano
ormai fondi sufficienti a mantenere l’esercito per un mese.
Poi giunse la notizia che il ribelle Argaios era sbarcato nel porto di Metone, a
due giorni di marcia da Aigai, insieme a tremila opliti ateniesi, a un gruppo di
ottocento mercenari e ad oltre cento ribelli macedoni.
Subito Filippo chiamò a sé Antipatro.
– Quali forze possiamo schierare contro di loro? – chiese.
– Abbiamo ancora cinquecento uomini nel nord, che agli ordini di Meleager
stanno tenendo a bada i Paioni, ed altri mille sono in attesa nell’est sotto il
comando di Nicanor per prevenire un eventuale attacco dalla Tracia. Potremmo
richiamarli, ma questo ci lascerebbe scoperti su quei fronti.
– Quanti uomini ci sono qui?
– Non più di settecento, ma metà di essi sono quelli che hanno combattuto con
te quella prima battaglia, e ti seguirebbero anche nei fuochi dell’Ade.
– Non basta, Antipatro... non contro gli opliti ateniesi. Manda qui Aischines...
sii cortese ma fallo venire qui subito.
Mentre aspettava, Filippo si lavò, indossò l’armatura completa da battaglia...
corazza, schinieri e gonnellino rinforzato in bronzo, spada al fianco... e si recò
nella stanza del trono. Aischines lo raggiunse entro un’ora e parve stupito nel
vedere il re in tenuta da guerra.
– Non mi ero aspettato un tradimento – dichiarò Filippo, in tono basso e
dolente. – Mi fidavo di te e mi fidavo di Atene, e adesso voi fate sbarcare un
esercito in uno dei miei porti. Ho alcuni messaggeri pronti a partire per Tebe, ed è
con rincrescimento che ti consiglio di lasciare Pella.
– Ci deve essere stato un errore, sire. Ti prego... fidati di me – replicò
Aischines, arrossendo in volto. – Ho mandato molti messaggi ai nostri capi e sono
certo che il contingente che si trova a Metone non avanzerà sulla Macedonia.
Quando le truppe sono partite c’è stata una certa confusione, ma non faranno certo
guerra ad un alleato... ed è questo che tu sei, sire. Un alleato.
Filippo lo fissò a lungo con espressione dura prima di rispondere.
– Sei certo di questo, Aischines, oppure sono soltanto tue speranze personali? –
chiese quindi.
– Oggi ho ricevuto dei dispacci da Atene, più un altro che deve essere inoltrato
a Mantias, il comandante degli opliti. Torneranno a casa, te lo prometto.
– Allora fa’ partire subito quei dispacci, signore – annuì Filippo, – e con una
certa rapidità, perché dopodomani io marcerò contro il traditore.
Quel giorno stesso, però, Antipatro radunò i settecento cavalieri disponibili, e
nonostante quello che aveva detto ad Aischines, Filippo partì durante la notte
viaggiando il più in fretta possibile verso sud per prendere posizione all’alba sui
pendii fra Metone ed Aigai, in una posizione che non era visibile dalla strada.
Due ore dopo l’alba il nemico apparve in lontananza, e Filippo scrutò le sue
forze riparandosi gli occhi con una mano: oltre cento cavalieri precedevano un
contingente di fanteria di mille e più opliti; i fanti però erano un agglomerato di
uomini che sfoggiavano in parte elmi piumati e in parte calotte di cuoio nello stile
della Tracia, mentre gli stemmi dipinti sugli scudi erano molteplici: il cavallo alato
di Olintus, il randello di Eracle di Tebe, le lance incrociate di Metone. Nessuno
però portava un elmo ateniese, e a quella vista Filippo esultò: come aveva pro-
messo Aischines, gli Ateniesi non erano partiti con Argaios.
Steso prono sul terreno, Filippo spostò lo sguardo a destra e a sinistra del
nemico che stava avanzando, notando che il contingente non aveva esploratori e
stava procedendo in linea retta con uno schieramento che si allungava lungo la
strada per quasi quattrocento metri.
Sgusciando via dalla sua posizione, il re raggiunse Antipatro.
– Manda i Cretesi su quella sporgenza rocciosa e ordina loro di cominciare a
scagliare frecce non appena il nemico sarà a tiro. Tu invece prendi quattrocento
uomini e spostati tenendoti dietro quella linea di colline, in modo da attaccare da
nord. Io aspetterò per darti il tempo necessario, poi avanzerò da sud. – Questa volta
non essere tanto impulsivo, mio signore – sorrise Antipatro. – Resta con i tuoi
uomini ed evita di lanciarti alla carica da solo fra le file nemiche.
La scarica iniziale di frecce dei Cretesi decimò i cavalieri che avanzavano per
primi, e le loro cavalcature si impennarono per il terrore quando quella pioggia di
morte scese su di loro dal cielo; poi l’odore del sangue aumentò il panico dei
cavalli e li rese quasi impossibili da controllare.
A quel punto Antipatro giunse al galoppo dal nord con i suoi quattrocento
uomini e le loro grida di battaglia echeggiarono fra le rocce. I Macedoni si aprirono
un varco a colpi di spada in mezzo alla massa confusa della cavalleria nemica,
abbattendo gli uomini di sella e scagliandosi quindi contro i fanti in preda alla
confusione non appena il contingente di Filippo giunse all’attacco dal sud.
Avendo perso oltre la metà dei suoi effettivi prima di poter formare un quadrato
difensivo, la fanteria mercenaria si affrettò a congiungere gli scudi per far fronte al
secondo attacco, ma Antipatro ordinò ai suoi uomini di cambiare direzione e si sca-
gliò ancora alla carica contro la cavalleria, che cedette e lasciò al galoppo il campo
di battaglia.
Vedendoli fuggire, Filippo ordinò ai suoi cavalieri di ritirarsi e lasciò gli arcieri
cretesi liberi di scagliare raffiche di frecce sul quadrato di scudi creato dai
mercenari, al cui centro di trovava Argaios, che aveva perso l’elmo ed era
riconoscibile dai capelli biondi che brillavano sotto il sole.
– Allora, Filippo! – gridò il pretendente, – te la senti di affrontarmi oppure non
hai il coraggio di combattere faccia a faccia?
Era naturalmente l’ultima disperata risorsa di un uomo ormai sconfitto, ma
Filippo sentì che tutti gli sguardi si accentravano su di lui.
– Vieni fuori – gridò di rimando, – e poi vedremo. Argaios si aprì un varco fra i
mercenari e avanzò a grandi passi verso Filippo, che smontò di sella ed estrasse la
spada, restando in attesa. Argaios era un uomo avvenente, alto e snello, con gli
occhi dello stesso azzurro del cielo di primavera... il suo aspetto era talmente simile
a quello di Nicanor che Filippo non poté trattenersi dallo spostare fugacemente lo
sguardo sull’amico in un paragone istintivo... e in quel momento Argaios attaccò.
Lo scudo di Filippo deviò il colpo soltanto in parte e la spada rimbalzò contro la
corazza, tracciando una leggera ferita lungo una guancia del re.
Questi reagì prontamente, calando la spada sul gonnellino rinforzato in bronzo
dell’avversario, poi Argaios si scagliò in avanti e i due scudi si scontrarono con
fragore. Per quanto di statura più bassa, Filippo era però più robusto e possente, e
mantenne la sua posizione, eseguendo un affondo verso il basso che trapassò la
gamba di Argaios appena sopra il ginocchio. Il pretendente lanciò un urlo di dolore
quando Filippo assestò una torsione alla lama, tranciando i muscoli e i tendini, poi
cercò di ritrarsi con un salto ma la gamba ferita cedette sotto il suo peso e lui cadde
all’indietro. Gettato via lo scudo, Filippo avanzò verso il ferito.
La spada di Argaios scattò verso l’alto, ma Filippo si spostò con agilità dalla
sua traiettoria e balzò in avanti, bloccando con un piede il polso destro
dell’avversario contro il terreno polveroso.
– Mi appello alla misericordia del re! – stridette Argaios.
– Non ho misericordia per i traditori – sibilò Filippo, piantandogli la spada nel
collo con forza tale da trapassare la carotide e la vertebra retrostante.
Quella sera si contarono oltre seicento caduti e più di cento mercenari
risultarono prigionieri. I quaranta Macedoni presenti fra loro vennero lapidati dalle
truppe dopo un breve processo presieduto da Filippo; dei rimanenti, sessantadue
erano mercenari che furono lasciati liberi di tornare a Metone e gli altri trentotto
volontari ateniesi che furono liberati senza chiedere un riscatto. Filippo li invitò
addirittura a cenare con lui nella sua tenda, tornando a spiegare ancora una volta la
propria politica di amicizia con Atene.
All’alba, Filippo era ancora sveglio, intento ad ascoltare da Antipatro un
rapporto sulle perdite subite dalle sue truppe.
– Quaranta morti, tre storpi e sette che si stanno riprendendo dalle ferite subite
– riferì Antipatro.
– Scopri il nome e la dimora delle famiglie dei caduti e manda a ciascuna di
esse cento dracme; gli storpi riceveranno una cifra doppia di questa e una pensione
di dieci dracme al mese.
– Gli uomini saranno rincuorati da queste notizie – dichiarò Antipatro,
sorpreso.
– Sì... ma non è per questo che lo faccio. Quei guerrieri sono morti per la
Macedonia, e la Macedonia non lo dimenticherà.
Dopo che l’ufficiale se ne fu andato, Filippo si distese sul proprio pagliericcio,
tirandosi addosso una coperta. I Paioni erano stati sconfitti e un pretendente
eliminato, ma i nemici principali dovevano ancora essere affrontati.
Dove sei, Parmenion?
IL CONFINE CON LA TRACIA, AUTUNNO, 359 A.C.

Parmenion assestò un leggero strattone alle redini nel vedere l’uomo seduto su
una roccia poco più avanti.
– Buon giorno a te – lo salutò, lanciando un’occhiata in direzione dei massi
sparsi tutt’intorno alla ricerca di altri uomini che potevano essere nascosti dietro di
essi.
– Sono solo – disse lo sconosciuto, con voce piacevole e perfino cordiale.
Parmenion continuò però a studiare il terreno circostante, e soltanto quando fu
certo che l’uomo era effettivamente solo spostò lo sguardo sul lontano fiume
Nestus e lo lasciò vagare in direzione dei distanti picchi azzurri dei Monti Cercine
e dei confini della Macedonia, smontando infine di sella e riportando lo sguardo
sull’uomo seduto sulla roccia. Lo sconosciuto non era alto ma aveva un corpo
robusto, i capelli erano grigi e la barba arricciata secondo lo stile persiano, mentre
gli occhi avevano il colore delle nubi tempestose; indosso portava un lungo chitone
di un azzurro sbiadito e un paio di sandali di cuoio che non apparivano molto
consunti, però non sembrava avere armi di nessun genere, neppure una piccola
daga.
– Il panorama è piacevole – commentò Parmenion, – ma questa è una terra
desolata. Come sei giunto qui?
– Io percorro sentieri diversi – rispose l’uomo. – Tu arriverai a Pella fra sette
giorni, mentre io potrei giungervi oggi pomeriggio.
– Sei un magus?
– Non nel modo in cui i Persiani usano questo termine, anche se un giorno
alcuni magi seguiranno i sentieri che io uso – replicò l’uomo con disinvoltura. –
Siediti qui per un po’ e pranza con me.
– Lasciamolo perdere e proseguiamo – suggerì Mothac. – Non mi piace questo
posto, è troppo aperto, e probabilmente lui è un bandito.
– Durante la mia vita sono stato molte cose, Tebano, ma per ora mai un
bandito. È vero però che stavo aspettando te, Parmenion: mi è parso saggio che
sedessimo un po’ insieme a discorrere del passato, del futuro e degli echi del
Grande Canto.
– Da come parli sembri greco – osservò Parmenion, spostandosi alla sinistra
dello sconosciuto e continuando a scrutare le rocce circostanti.
– Non.. proprio... greco – ammise l’uomo, – ma non è necessario aggiungere
ulteriori spiegazioni. Hai compiuto grandi imprese in Persia, me ne congratulo con
te. Il tuo attacco contro Spetzabares è stato brillante: per quanto numericamente in-
feriore lo hai costretto ad arrendersi perdendo appena centoundici uomini.
Notevole.
– Sei in vantaggio su di me, signore, perché io non so nulla sul tuo conto.
– Sono uno studioso, Parmenion, la mia vita è votata allo studio e alla ricerca
del sapere, mentre il mio desiderio è quello di arrivare a comprendere tutta la
creazione... cosa che fortunatamente è ancora molto lontana.
– Fortunatamente?
– Senza dubbio. Nessun uomo dovrebbe mai realizzare completamente i propri
sogni, altrimenti cosa gli resterebbe per cui vivere?
– Guarda! – esclamò in quel momento Mothac, indicando una nube di polvere
più in basso lungo il pendio montano.
– Dei cavalieri!
– Stanno venendo per portarvi da Cotys – spiegò lo sconosciuto a Parmenion. –
Questo oppure uccidervi, perché il re della Tracia non desidera vedere Parmenion
aiutare i Macedoni.
– Sai molte cose – osservò Parmenion, in tono sommesso.
– Devo dedurre che sai anche come evitare quei cavalieri?
– È ovvio – confermò l’uomo, alzandosi agilmente in piedi. – Seguitemi.
Parmenion lo osservò dirigersi a grandi passi verso una liscia parete di roccia
che tremolò al suo avvicinarsi. Un momento più tardi lo Spartano sbatté le palpebre
con espressione sconcertata: lo sconosciuto era svanito.
– È un demone oppure un semidio – sussurrò Mothac. – È meglio correre il
rischio di affrontare quei cavalieri... se non altro sono umani.
– Una spada può abbattere un uomo più in fretta di un incantesimo – ribatté
Parmenion. – Preferisco correre il rischio di dare retta al magus.
Prendendo con la destra le redini dello stallone, condusse quindi la bestia verso
la parete rocciosa e non appena vi si avvicinò la temperatura subì un calo
improvviso, la roccia parve farsi trasparente. Lo Spartano continuò a camminare,
passando attraverso la parete con un senso di disorientamento e di assenza di peso.
Mothac emerse dalla parete subito dietro di lui, madido di sudore.
– Che facciamo ora? – sussurrò, accostandosi all’amico.
Si trovavano in un’enorme caverna sotterranea dove massicce stalattiti
pendevano dal soffitto a cupola, tutt’intorno a loro echeggiava il gocciolare
costante dell’acqua e sul suolo della caverna si scorgevano molte lucenti polle
scure.
Lo sconosciuto apparve una cinquantina di passi più avanti rispetto a loro.
– Da questa parte – chiamò. – Siete soltanto a metà della strada verso casa.
– A metà della strada verso l’Ade, più probabilmente – borbottò Mothac,
estraendo la spada.
I due uomini condussero a mano i cavalli lungo la caverna e fino ad un’ampia
apertura naturale che dava accesso ad un lussureggiante prato verde sul quale era
stata costruita una piccola casa con il tetto di tegole rosse e le pareti lisce e
bianche.
Parmenion uscì sotto la luce del sole, poi si arrestò di colpo perché il territorio
circostante era collinoso e verdeggiante ma non si scorgevano da nessuna parte
catene montuose e non c’era traccia del grande Fiume Nestus.
Montati in sella, i due uomini raggiunsero la casa dove lo sconosciuto aveva già
approntato un’ampia tavola con carne fredda, formaggio e frutti; dopo aver versato
loro del vino, l’uomo sedette all’ombra di un albero fiorito.
– Non è avvelenato – osservò, notando il modo in cui i suoi ospiti stavano
scrutando il cibo.
– Tu non mangi? – chiese Parmenion.
– Non ho fame. Comunque rifletti su questo: un uomo che può far scomparire
le montagne non ha certo bisogno di avvelenare i suoi ospiti.
– Un’osservazione valida – convenne Parmenion, allungando una mano verso
una mela.
– Mangerò io per primo – disse Mothac, trattenendolo, poi prese il frutto e lo
morse.
– Quanta devozione – commentò lo sconosciuto. Lentamente, Mothac assaggiò
anche la carne e il formaggio, e alla fine ruttò.
– Il cibo migliore che abbia mai gustato – dichiarò. Parmenion mangiò con
parsimonia, poi si spostò per sedersi accanto allo sconosciuto.
– Perché ci stavi aspettando?
– Tu sei uno degli echi della Grande Canzone, Parmenion: ce ne sono stati
molti prima di te e molti altri ti seguiranno. Comunque io sono qui per offrirti il
mio aiuto. Per prima cosa, però, dimmi come mai accogli la magia con tanta
indifferenza. Qualcun altro ha già spostato le montagne per te?
– Ho visto i magi trasformare i serpenti in bastoni e far fluttuare un uomo
nell’aria, e a Susa c’è un mago che può indurre gli uomini a credere di essere
uccelli spingendoli a sbattere le braccia nel tentativo di volare. Forse le montagne
sono ancora là e tu ci impedisci soltanto di vederle, ma non m’importa. Cos’è
questa Grande Canzone di cui parli?
– È una guerra fra il sogno e l’incubo, una guerra eterna, e tu ne sei parte.
Omero ha cantato di questo conflitto, trasponendolo nella guerra di Troia, ed altre
nazioni la cantano in maniera diversa, ponendola in epoche diverse e parlando di
Gilgamesh e di Ekodas, di Paristur e di Sarondel. Sono tutti echi. Presto vedremo
la nascita di un’altra leggenda, e la Morte delle Nazioni sarà al suo centro.
– Non so nulla di tutto questo e la tua conversazione gronda di enigmi. Devo
ringraziarti per il cibo e per l’ospitalità, ma lascia che sia franco: chi sei tu,
veramente?
L’uomo ridacchiò e si appoggiò all’indietro contro il tronco dell’albero in fiore.
– Dritto al cuore del problema, vero? Sei sempre e comunque un generale.
Benissimo, non c’è nulla di male in questo modo di fare, mio spartano amico, dopo
tutto ti ha servito bene nel corso degli anni, giusto? Chi sono io? Come ti ho detto,
sono uno studioso e non sono mai stato un guerriero, anche se ne ho conosciuti
parecchi. Tu mi ricordi molto Leonida, il re guerriero. Era un uomo di enorme
coraggio ed aveva il dono di rendere grandi quanti lo circondavano.
– Il re guerriero è morto oltre un secolo fa – sottolineò Parmenion. – Mi stai
dicendo che lo hai conosciuto?
– Non ho detto di averlo conosciuto, Parmenion, ho detto soltanto che tu me lo
ricordi. È stato un peccato che sia morto alle Termopili perché avrebbe reso Sparta
veramente grande. Comunque, anche lui era un forte eco della Grande Canzone...
trecento contro duecentomila. Un coraggio meraviglioso!
– Quando ero a Tebe – osservò Parmenion, – ho conosciuto un uomo che ha
cercato di insegnarmi come prendere i pesci a mani nude, e parlare con te mi
ricorda quei giorni: sento le tue parole ma esse mi scivolano oltre e il loro
significato rimane oscuro. Come puoi aiutarmi?
– In questo momento non hai bisogno di me, Spartano – replicò l’uomo, mentre
il suo sorriso svaniva, poi si protese in avanti e afferrò il braccio di Parmenion,
aggiungendo: – Ma verrà il giorno in cui ne avrai. Ti sarà assegnato un incarico e il
mio nome affiorerà nella tua mente. Sarà allora che mi dovrai cercare e mi troverai
dove ci siamo incontrati oggi. Non lo dimenticare, Parmenion... molto dipende da
questo.
– Lo ricorderò – garantì Parmenion, alzandosi in piedi. – Ti ringrazio ancora
per la tua ospitalità. Se torniamo da dove siamo venuti potremo vedere di nuovo il
fiume e le montagne?
– No. Questa volta sbucherete sulle colline al di sopra di Pella – replicò l’uomo
con i capelli grigi, alzandosi e porgendo la mano.
Parmenion la strinse, avvertendone la forza nascosta.
– Non sei vecchio come sembri – commentò con un sorriso.
– In questo c’è una grande verità – ammise lo sconosciuto. – Cercami quando
avrai bisogno di me. A proposito, mentre stiamo parlando, il re della Tracia è in fin
di vita, avvelenato da uno degli amici di Filippo. È questa la sorte dei re avidi,
giusto?
– A volte – convenne Parmenion, balzando in sella al suo stallone. – Hai un
nome, studioso?
– Ne ho molti, ma tu puoi chiamarmi Aristotele.
– Ho sentito parlare di te... anche se mai come di un magus. Dicono che sei un
filosofo.
– Io sono ciò che sono. Continua il tuo cammino, Parmenion... la Canzone
attende.

La trincea era lunga oltre sessanta metri e cinquanta uomini erano intenti a
scavare ancora con picconi e pale attraverso gli strati di argilla e di roccia, con il
sole che batteva sulla loro schiena nuda mentre faticavano. Poco lontano altri
soldati erano impegnati a portare via il materiale di scavo, che gettavano oltre il
bordo della trincea.
Filippo piantò il piccone nel terreno davanti a sé, sentendo le spalle che
subivano una violenta scossa quando il metallo colpì ancora una volta la roccia.
Posato l’attrezzo, si lasciò quindi cadere in ginocchio per scavare nell’argilla,
infilando le dita intorno alla pietra ed estraendola dal terreno: era più grande di
quanto avesse inizialmente pensato, il suo peso era superiore a quello di una
persona di piccola taglia, e lui era ormai sul punto di chiedere aiuto quando si
accorse che parecchi uomini lo stavano guardando con un sorriso divertito sulle
labbra. Sorridendo a sua volta, passò le braccia lungo i bordi della roccia e la solle-
vò contro il proprio petto, poi si alzò in piedi con uno scatto possente e fece
rotolare il masso oltre il bordo della trincea. Quando ebbe finito, uscì dallo scavo e
camminò lungo il suo perimetro, fermandosi a parlare con i lavoratori per valutare i
loro progressi.
A ciascuna estremità la trincea svoltava ad angolo retto, là dove gli scavatori
avevano seguito le indicazioni date dalla corda fissata sul terreno. Allontanandosi
dagli scavi, Filippo si concesse di immaginare i nuovi alloggiamenti, un edificio a
due piani con un lungo refettorio e sette dormitori che avrebbero potuto ospitare
oltre cinquecento uomini. L’architetto era un Persiano che aveva studiato ad Atene,
e Filippo gli aveva ordinato di completare l’edificio per la primavera successiva.
Gli scavatori, tutti soldati della Pelagonia e del distretto di Lynkos nel
nordovest, terre attualmente occupate da Bardylis e dai suoi Illiri, lavoravano
abbastanza di buon grado, soprattutto quando il re faticava accanto a loro, ma
Filippo sapeva che ricordavano tutti la sua promessa che sarebbero potuti tornare a
casa entro tre mesi dalla vittoria contro i Paioni.
Questo era stato cinque settimane prima... e ancora non era stato stilato un
trattato con Bardylis. A guardare le cose da un lato positivo, però, Filippo doveva
ammettere che c’era qualcosa di promettente, perché gli Illiri non erano avanzati
ulteriormente nel territorio della Macedonia e Bardylis stava vagliando l’offerta da
lui fatta di sposare sua figlia. Come gesto di buona fede e di «continuata
fratellanza» Bardylis aveva però chiesto che il re macedone consegnasse all’Illiria
tutte le terre fra i Monti Bora e la catena di Pindos... sei distretti in tutto compresa
la Pelagonia, ricca di legname e di buoni pascoli per il bestiame.
– A quanto pare le spose brutte non vengono vendute a buon prezzo – aveva
commentato Filippo, rivolto a Nicanor.
Adesso il re si stava liberando della tensione con il puro e semplice lavoro
fisico: la trincea sarebbe stata ultimata l’indomani e a quel punto le fondamenta
sarebbero state complete e lui avrebbe potuto guardare con piacere gli
alloggiamenti che crescevano di giorno in giorno.
Non si sarebbe trattato di una semplice struttura di legno e mattoni di fango,
perché la facciata sarebbe stata di pietra intagliata, il tetto di tegole di argilla e le
stanze ariose e piene di luce.
– Ma tu stai parlando di un palazzo, sire – aveva obiettato l’architetto.
– Voglio anche tre pozzi e una fontana nel cortile centrale, senza contare una
sezione speciale per l’ufficiale comandante, con un androne che possa ospitare
venti... no, trenta uomini.
– Come desideri, sire... ma ti costerà parecchio.
– Se avessi voluto una cosa economica avrei assunto uno Spartano – aveva
replicato Filippo, battendo un colpetto sulla spalla dell’uomo.
Accostatosi ad un mucchio di sassi, il re si sedette e subito uno scavatore gli
portò un boccale d’acqua attinto da un fresco otre di pietra. Nel ringraziare l’uomo,
Filippo riconobbe in lui il massiccio guerriero barbuto che lo aveva acclamato per
primo dopo la vittoria contro i Paioni.
– Come ti chiami, amico? – domandò.
– Theoparlis, sire, ma i più mi chiamano Theo.
– Dovrebbe risultare un bell’edificio, Theo, adatto per le truppe del re.
– È vero, sire, e mi dispiace di non poter godere del piacere di viverci dentro,
ma fra due mesi tornerò da mia moglie in Pelagonia... non è così?
– È vero – confermò Filippo. – E prima che sia trascorso un altro anno io verrò
da te là e ti offrirò un posto in questi alloggiamenti e una casa a Pella per tua
moglie.
– Aspetterò con impazienza la tua visita – replicò Theo, inchinandosi e
tornando al lavoro.
Filippo lo osservò allontanarsi, poi spostò lo sguardo verso est, dove due
cavalieri stavano sopraggiungendo dal centro della città. Finendo il suo boccale
d’acqua, Filippo indugiò ad osservarli: il primo dei due aveva una corazza di
bronzo ed un elmo di ferro, ma la cosa che più interessò Filippo fu il cavallo, uno
stallone sauro alto circa sedici palmi. Tutti i nobili macedoni allevavano cavalli, e
Filippo non era secondo a nessuno nel suo amore per quegli animali. Lo stallone
aveva una bella testa e gli occhi distanziati... segno di un carattere affidabile; il
collo era lungo ma non troppo, la criniera tagliata come il piumaggio di un elmo.
Filippo si alzò e si diresse verso i due cavalieri deviando in maniera tale da poter
vedere la groppa e i fianchi dello stallone, notando le spalle lunghe e possenti che
dovevano dare all’animale un passo ampio e renderlo veloce ma comodo da
cavalcare; sapeva benissimo come le spalle diritte in un cavallo portassero ad un
passo ineguale e ad un notevole disagio per il cavaliere.
– Tu, laggiù! – esclamò una voce, e Filippo sollevò lo sguardo.
Il secondo cavaliere, un uomo basso e robusto che cavalcava un castrato grigio,
stava indicando verso di lui. – Stiamo cercando il re. Portaci da lui.
Filippo indugiò ad osservare il suo interlocutore, che era calvo anche se una
striscia di capelli rossi e argentei era ancora visibile intorno agli orecchi come una
corona di alloro.
– Chi lo vuole? – ribatté.
– Non sono affari tuoi, contadino! – scattò l’uomo.
– Calma, calma, Mothac – intervenne l’altro cavaliere, balzando al suolo. Era
alto e snello anche se le sue braccia erano muscolose e recavano le cicatrici di
molti combattimenti. Guardandolo negli occhi, Filippo vide che le iridi erano di un
azzurro molto chiaro, ma il contrasto con il volto abbronzato fino ad avere il colore
del cuoio li faceva apparire grigi come un cielo in tempesta. Il suo cuore diede un
balzo quando riconobbe Parmenion, ma si costrinse a soffocare il proprio impulso
di correre ad abbracciare lo Spartano e venne invece avanti con calma, mantenendo
il volto libero da qualsiasi emozione.
– Sei un mercenario? – domandò.
– Sì – rispose Parmenion. – E tu sei un costruttore?
– Mi hanno detto che devono diventare degli alloggiamenti – spiegò Filippo,
annuendo. – Forse un giorno alloggerai qui.
– Le fondamenta sono profonde – commentò il guerriero, avvicinandosi alla
trincea per osservare i lavoranti.
– Capita che ci siano dei terremoti – replicò Filippo, – ed è essenziale che le
fondamenta siano solide. Non importa quanto l’edificio possa essere bello... se le
basi non sono buone cadrà comunque.
– Lo stesso vale per gli eserciti – ribatté Parmenion, in tono sommesso. – Hai
combattuto contro i Paioni?
– Sì. È stata una buona vittoria.
– Come ha combattuto il re?
– Come un leone... come dieci leoni – dichiarò Filippo, con un ampio sorriso.
Il mercenario annuì e rimase in silenzio per un momento, poi si girò verso il re
e sorrise a sua volta.
– Sono lieto di sentirlo... non desidero servire un vigliacco.
– Sei certo che il re ti darà lavoro?
– Ti piace il mio cavallo, sire? – replicò il guerriero, scrollando le spalle.
– Sì, è un ottimo... come mi hai riconosciuto?
– Sei molto cambiato dal ragazzo che ho incontrato a Tebe e avrei potuto non
riconoscerti. Tuttavia, sei anche il solo uomo che non stia lavorando... e suppongo
che questa sia una prerogativa reale. Ho caldo e la mia gola è piena di polvere... e
sarebbe piacevole se potessimo trovare un posto all’ombra dove discutere del
perché mi hai chiesto di venire da te.
– Certamente – acconsentì Filippo, con un ampio sorriso. – Prima però lascia
che ti dica che sei la risposta alle mie preghiere. Non hai idea di quanto ci sia
bisogno di te qui.
– Credo di averne un’idea – lo contraddisse Parmenion. – Ricordo un ragazzo
che mi ha parlato di una terra circondata da nemici... Illiri, Paioni, Traci. Un
soldato ricorda cose del genere.
– Adesso la situazione è peggiorata. Non ho un esercito degno di questo nome e
posso fare affidamento quasi soltanto sul mio ingegno per tenere a bada i nemici.
Dèi, quanto sono contento di vederti.
– Potrei anche non restare – avvertì Parmenion.
– Perché? – chiese Filippo, sentendo un gelido timore sfiorargli il cuore.
– Non so ancora se sei un uomo che posso desiderare di servire.
– Parli con franchezza, ma non posso certo mettere in discussione la saggezza
che c’è dietro le tue parole. Vieni con me a palazzo. Là potrai lavarti, raderti e
rinfrescarti, poi parleremo.
– Hai combattuto davvero come dieci leoni? – domandò Parmenion,
mantenendo il volto inespressivo.
– È più esatto dire come venti – replicò Filippo, – ma io sono modesto per
natura.

Parmenion uscì dal bagno e si accostò alla finestra, lasciando che l’acqua gli
evaporasse dalla pelle, raffreddandola, poi si girò verso Mothac passandosi le mani
fra i capelli che cominciavano a diradarsi.
– Che ne pensi di lui? – chiese.
– Non mi piace vedere un re vestito soltanto di un perizoma che scava la terra
come un contadino – dichiarò il Tebano, scrollando il capo.
– Sei stato troppo a lungo fra i Persiani, amico mio.
– Resteremo qui?
Parmenion non rispose. Quello attraverso l’Asia Minore e la Tracia, oltre fiumi
e montagne, era stato un lungo viaggio, e sebbene avessero risparmiato una
settimana di cammino grazie all’incontro con Aristotele si sentiva stanco e
avvertiva sotto la spalla destra il dolore di una vecchia ferita da lancia. Dopo es-
sersi asciugato con un panno, si distese su un divano e lasciò che Mothac gli
massaggiasse la schiena con un po’ d’olio.
La Macedonia. Era più verde di quanto avesse immaginato, più fertile e
lussureggiante, ma nonostante questo aveva avvertito una leggera delusione perché
si era aspettato di sentire di essere tornato a casa, mentre quella era soltanto una
terra come le altre, con alte montagne e fertili pianure.
Vestitosi con una semplice tunica e un paio di sandali scese nel cortile per
osservare il sole che tramontava, sentendosi stanco nel profondo delle ossa.
Epaminonda era morto, ucciso a Mantinea proprio come Tamis gli aveva predetto.
A quel pensiero un brivido gli corse lungo la schiena.
Mothac gli portò una brocca di vino e per qualche tempo i due sedettero
insieme in piacevole silenzio; quando infine il sole tramontò Mothac accese una
lanterna e preparò per entrambi un frugale pasto a base di pane e di formaggio.
– Lui ti piace, vero? – domandò infine il Tebano.
– Sì, mi ricorda Pelopida – ammise Parmenion.
– E probabilmente farà la sua stessa fine – commentò Mothac.
– Per gli dèi, sei di umore acido – scattò Parmenion. – Cos’hai che non va?
– Io? Nulla, ma vorrei sapere perché abbiamo lasciato Susa per venire qui. Là
conducevamo una vita da principi, eravamo ricchi... cos’ha per noi questa terra di
frontiera? I Macedoni non conteranno mai molto e che guadagni possiamo sperare
di fare qui? Tu sei conosciuto come il più grande generale del mondo civilizzato,
ma non è abbastanza, giusto? Non puoi resistere ad una sfida impossibile da
vincere.
– Probabilmente hai ragione, Mothac. Comunque ti avevo chiesto se volevi
restare in Persia. Non ti ho certo messo una briglia al collo.
– Credi che l’amicizia non abbia catene? – grugnì il Tebano. – Ebbene, ne ha,
tanto che mi ha costretto a seguire te... e il tuo orgoglio... in questa landa desolata
abitata da barbari solo in parte greci.
– Mi fai vergognare, Mothac – affermò Parmenion, protendendosi a stringere il
braccio dell’amico, – e mi dispiace che quest’impresa non incontri la tua
approvazione. Non capisco tutti i motivi che mi hanno indotto a venire qui, anche
se in parte si è trattato del richiamo del sangue, perché i miei antenati sono vissuti
in questa terra, hanno combattuto e sono morti per essa. Dovevo vederla.
Comunque c’è della verità in quanto hai detto. So come mi definiscono, ma hanno
ragione? Ho sempre guidato eserciti bene addestrati e in genere numericamente su-
periori agli avversari mentre qui come tu stesso hai osservato, c’è una situazione
che è una vera sfida. Gli Illiri sono disciplinati e ben comandati, i Traci numerosi e
feroci, gli Olinti abbastanza ricchi da poter assoldare i migliori mercenari. Quale
gloria ci sarebbe nel capitanare uno qualsiasi di quegli eserciti? E quanta nel
portare la Macedonia alla vittoria? Non posso resistere a questa tentazione, amico
mio – concluse con un sorriso.
– Lo sapevo – commentò Mothac, in tono stanco. – L’ho sempre saputo.
– Che saremmo venuti in Macedonia?
– No. Non è facile da esprimere a parole – replicò il Tebano. Per qualche
momento rimase in silenzio, scrutando l’amico con i suoi occhi verdi, e infine
sorrise nel protendersi a stringergli una spalla. – Io penso che nel profondo del tuo
intimo tu sia ancora il ragazzo mezzosangue di Sparta che sta lottando per
dimostrare quanto vale. Se avrai successo qui... il che è improbabile... andrai poi a
caccia di un’altra sfida impossibile altrove... e lo stolto Mothac ti seguirà. Ed ora ti
auguro la buona notte – concluse il Tebano, alzandosi e ritirandosi nelle sue stanze.
Per qualche tempo Parmenion rimase seduto da solo immerso in tristi pensieri,
poi si addentrò nei giardini al di là del cortile e salì i gradini che portavano sull’alto
muro, appoggiandosi al parapetto per guardare a sud in direzione della Tessaglia.
Sapeva che Mothac aveva ragione. Il ragazzo Savra sopravviveva nascosto
nell’uomo Parmenion... triste e solo, ancora alla ricerca di una casa, dell’amore,
della felicità. Lui aveva sperato di trovare tutto questo in Persia, fra le ricchezze e
la fama, ma la fama non era la risposta giusta e la fortuna era servita soltanto a
ricordargli tutte le gioie che non poteva comprare.
Al di là della città regnava l’oscurità totale, ma da qualche parte nel sud
Pelopida era morto combattendo con i Tessali contro il tiranno di Pherae. Il nemico
era avanzato su tutti i fronti e Pelopida aveva sferrato una carica contro il suo
centro, aprendosi un varco verso il tiranno a colpi di spada. La sua carica aveva
mutato il corso della battaglia ma il Tebano era morto nel portarla a termine e dopo
aver vinto i Tessali avevano tagliato la criniera e la coda ai loro cavalli in onore del
generale caduto.
Parmenion rabbrividì, perché aveva sempre creduto che Pelopida fosse
invulnerabile.
– Però nessun uomo lo è – sussurrò. – Possano gli dèi benedire il tuo spirito,
Pelopida, e possa tu conoscere la gioia nella Sala degli Eroi.
– Credi che la conoscerà? – chiese Filippo, salendo i gradini e sedendosi di
fronte a Parmenion.
– Sarebbe giusto – sospirò questi. – Avresti dovuto vederlo a Leuctra... si è
aperto un varco fra i nemici come un dio della guerra, fino ad abbattere il re
guerriero di Sparta.
– E intanto tu hai caricato il centro nemico, costringendo alla fuga arcieri e
lanciatori di giavellotto – annuì Filippo. – È stata una tua vittoria, Parmenion,
antesignana di molte altre nella Cappadocia, in Frigia, in Egitto e in Mesopotamia.
Non hai mai perso. Come mai?
– Forse combatto come venti leoni, sire.
– Era una domanda seria, stratega.
– I tuoi alloggiamenti forniscono la risposta. Le fondamenta devono essere
solide e diritte, le mura devono posare su un terreno compatto. Un esercito ha
bisogno di molte cose, ma soprattutto ha bisogno della sicurezza, della convinzione
che vincerà. L’addestramento fornisce tale convinzione, che costituisce le basi,
mentre i buoni ufficiali sono le fondamenta.
– E le mura? – domandò il re.
– La fanteria, sire. Nessun esercito può sperare di sconfiggere una buona
fanteria.
– Potresti crearmi un esercito entro un anno?
– Potrei... ma che ne faresti?
– Siamo entrambi in una posizione difficile – dichiarò Filippo. – Tu sei un
mercenario, il che significa che in qualsiasi momento potresti passare agli ordini di
Bardylis o di Cotys, e che io non ti posso esporre i miei piani. D’altro canto,
intuisco che non mi servirai a meno che io non lo faccia. Come risolvere il
problema?
– Dimmi quello che hai fatto finora, sire, senza tralasciare nulla. E questo
include anche l’assassinio del tuo fratellastro.
– Perché no? – acconsentì Filippo.
Per quasi un’ora espose quindi i propri sforzi per evitare il disastro, il modo in
cui aveva blandito Atene, la sua offerta a Bardylis e le garanzie date a Cotys della
Tracia. Alla fine tacque e scrutò il volto di Parmenion alla luce della luna: lo Spar-
tano era inespressivo e il suo sguardo era fisso su di lui.
– Questo è tutto? – chiese infine Parmenion.
Filippo prese in considerazione la possibilità di mentire, ma poi scosse il capo
d’impulso.
– No, non è tutto. Può darsi che Cotys sia già morto – replicò, e vide Parmenion
rilassarsi.
– In effetti è morto, sire – rispose lo Spartano, – ma resta sempre il pretendente
Pausania.
– Presto morirà anche lui – dichiarò Filippo, con voce che era poco più di un
sussurro. – Questo è tutto quello che ti posso dire.
– Quanti uomini ti serviranno entro l’anno?
– Duemila cavalieri e diecimila fanti.
– Troppi – dichiarò Parmenion. – Sarebbero addestrati in maniera inadeguata.
Accontentati di seimila fanti... dovrebbero essere sufficienti a permetterti di
affrontare Bardylis. In che condizioni è il tesoro reale?
– Quasi vuoto – ammise Filippo.
– Allora la tua prima mossa dovrà essere quella di rimuovere il governatore di
Crousia e di restaurare le tue fortune... poi potrai acquistare armi e armature. In
Frigia fabbricano ottime corazze di cuoio cotto, bordate di spessa stoffa... non sono
efficaci quanto il bronzo ma più leggere, ed anche l’elmo frigio è tenuto in alta
considerazione.
– Mi stai dando consigli validi, stratega, ma non hai ancora detto se ti unirai a
me.
– Resterò per un anno, sire, e addestrerò il tuo esercito. Poi... vedremo.
Filippo si alzò in piedi e lasciò vagare lo sguardo sulla città rischiarata dalle
lanterne.
– In genere è al re che vengono presentate le petizioni, ma tu hai invertito le
nostre posizioni. Cosa ho detto che ti ha indotto a decidere di rimanere?
– Non si è trattato di qualcosa che hai detto, sire, ma di quello che hai fatto.
– Ma non vuoi spiegarmi di cosa si tratta.
– Esatto, sire. Ora veniamo alle mie condizioni. Domani vorrei incontrare i tuoi
ufficiali e amici che attualmente si trovano a Pella. La mia posizione sarà quella di
Primo Generale e non dovrò rispondere del mio operato che a te, e inoltre non
accetterò nessuna discussione in merito ai metodi di addestramento che adotterò
con gli uomini, nobili o contadini che siano e tu mi dovrai dare assoluto supporto
in tutto quello che concerne l’addestramento. Acconsenti?
– Acconsento. Ma cosa farai innanzitutto? – domandò Filippo.
– Cercherò di formare un contingente di élite, i Compagni di Fanteria del re, la
Guardia Reale... cinquecento uomini, i migliori che hai.
– Come la Banda Sacra di Tebe?
– Migliori – replicò Parmenion, – perché saranno Macedoni.

Una volta ultimato lo scavo delle fondamenta, i soldati-operai cedettero il posto


ai tagliapietre, ai carpentieri e ai costruttori;non avendo più nulla da fare, gli
uomini si raccolsero in piccoli gruppi, giocando a dadi e parlando di tornare a casa,
mentre fra le loro file si spargevano voci di ogni tipo... che il re si stava preparando
ad invadere l’Illiria per riconquistare la loro terra natale, che i Tebani stavano
marciando su Pella, che i Traci stavano ammassando un esercito.
Theo prestava però ben poca attenzione a queste notizie perché era più
interessato agli eventi che si verificavano nelle vicinanze della capitale, per cui
ascoltò con avido interesse il pettegolezzo relativo allo Spartano dagli occhi chiari
che si poteva ora vedere in compagnia del re e dei suoi ufficiali; appena il giorno
precedente, inoltre, quegli stessi ufficiali erano stati scorti sulle colline mentre
correvano con il corpo madido di sudore e le gambe tremanti per lo sforzo, una
cosa che era stata fonte di notevole divertimento per i soldati, in quanto era
risaputo che ai cavalieri non piaceva molto correre. Lo Spartano si era unito agli
altri, precedendoli con lunghe falcate agili che lo avevano ben presto portato in
netto vantaggio, come un cervo inseguito da una muta di cani.
Nonostante il divertimento derivante dalla cosa, essa indusse però Theo a
riflettere. Perché gli ufficiali avevano corso in quel modo? A cosa serviva un
esercizio del genere?
Quando giunse la richiesta di cento volontari che si presentassero allo Spartano
nel nuovo campo di addestramento, Theo fu quindi uno dei primi a farsi avanti.
Un’ora dopo l’alba lasciò il proprio letto e si unì all’irregolare fila di uomini
che si stava dirigendo verso il campo dove lo Spartano sedeva in attesa, vestito con
una tunica di lana e privo di armi. Intorno a lui erano però ammucchiati scudi di le-
gno e parecchi corti randelli.
Quando gli uomini si furono radunati, lo Spartano segnalò loro di sedersi e
lasciò scorrere lentamente lo sguardo sul gruppo.
– Qual è l’obiettivo primario di una battaglia? – domandò d’un tratto,
sollevando una mano con il dito puntato in direzione dell’uomo che si trovava alla
sinistra di Theo.
– Vincere – rispose questi.
– Sbagliato – dichiarò lo Spartano.
Il suo dito si spostò ancora e Theo poté avvertire la tensione negli uomini che lo
attorniavano mentre questi speravano di non essere chiamati a rispondere. Infine la
mano venne riabbassata senza che venisse scelto nessun altro.
– Qualcuno ha una risposta? – domandò lo Spartano.
– Non perdere? – azzardò Theo, schiarendosi la gola.
– Bene – approvò lo straniero, scrutando i presenti con i suoi occhi chiari. –
Pensateci per un momento. In una battaglia, la vittoria è uno spirito volubile che
fluttua nell’aria e non sa mai dove posarsi. Una carica di cavalleria schianta il
nemico, costringendo il re avversario a ritirarsi. Ha perso? Non ancora. Se i suoi
fianchi riescono a chiudersi intorno alla cavalleria, privandola della sua mobilità,
quel re può ancora tirare a sé la Vittoria. Ma se ci riesce, questo significa che ha
vinto? No, non se la cavalleria è ben coordinata e continua ad avanzare verso di lui,
uccidendo le sue guardie. Perché Bardylis ha distrutto il vostro esercito?
Il dito si sollevò ancora una volta, indicando un uomo in fondo al gruppo.
– Gli dèi lo hanno favorito – rispose questi, provocando un coro di
approvazioni.
– Può darsi – replicò lo Spartano, – ma nella mia esperienza gli dèi favoriscono
sempre chi è forte e astuto. Avete perso perché il vostro re... un uomo coraggioso e
dinamico... ha giocato il tutto per tutto con una sola carica. Quando essa ha fallito
lo scopo, lui ha fallito. Voi tutti avete fallito.
– Gli Spartani avrebbero fatto di meglio? – gridò l’uomo alle spalle di Theo.
– Forse no – scattò Parmenion, – ma voi farete di meglio. Il re mi ha chiesto di
trovargli un gruppo di combattenti speciali, che saranno i Compagni del Re e
combatteranno a piedi.
– Noi siamo cavalieri – protestò lo stesso uomo. Guardandosi alle spalle, Theo
lo riconobbe: era un guerriero di nome Achillas.
– È vero – ammise lo Spartano, – e come tali guadagnate venticinque dracme,
mentre gli uomini che io selezionerò otterranno una paga doppia: ciascuno riceverà
cinquanta dracme al mese. Quanti sono interessati rimangano qui, gli altri possono
tornare ai loro doveri.
Nessuno si mosse, perché cinquanta dracme costituivano una fortuna e quegli
uomini erano tutti piccoli agricoltori che avevano bisogno di soldi per comprare
cavalli, tori o capre, oppure sementi. Quella non era una somma che potesse essere
rifiutata alla leggera.
– Vi avverto che su ogni gruppo di cento è possibile che io scelga soltanto
cinque o al massimo dieci uomini – aggiunse lo Spartano alzandosi in piedi, –
perché il re vuole i migliori. Ora alzatevi.
Mentre gli uomini obbedivano, Parmenion aprì una piccola scatola che aveva
accanto e ne estrasse una spilla di ferro grande quanto l’unghia di un uomo.
– Su ciascuna di queste spille è rappresentato il randello di Eracle. Ogni uomo
che riuscirà a guadagnarsene cinque si sarà conquistato un posto nella Compagnia
del Re, e con ognuna di esse gli sarà attribuito anche un premio di dieci dracme. La
prima sarà vinta da un uomo capace di correre bene. Dieci giri del campo...
preparatevi.
Gli uomini cominciarono a togliersi la corazza.
– Fermi – ordinò Parmenion. – Quando andate alla carica contro il nemico non
vi togliete di certo l’armatura. Correte così come siete, Andate!
Il gruppo partì con un passo eccessivamente veloce che cominciò a subire
rallentamenti entro il primo giro. Theo si pose al centro dei gruppo di testa
sentendo la corazza che gli irritava il dietro del collo, e cinque giri più tardi quel
gruppo riuscì a portarsi di mezzo giro più avanti rispetto al resto del branco,
cominciando a doppiare i più lenti entro il settimo circuito. Theo arrivò quinto e si
accasciò al suolo, guardando Achillas farsi avanti per ricevere la spilla.
Lo Spartano attese che tutti fossero arrivati in fondo prima di riprendere a
parlare.
– Raccogliete lo scudo e la spada – ordinò quindi. Le spade erano di legno ma
avevano la stessa lunghezza e lo stesso peso delle corte lame usate di solito dagli
opliti. – Ora vedremo come combattete – aggiunse. – Scegliete un avversario e for-
mate due file. Lotterete soltanto fino a quando uno dei due avversari infliggerà
all’altro un colpo che con una spada vera potrebbe uccidere o comunque menomare
seriamente; il perdente andrà poi a sedersi a destra e il vincitore a sinistra.
Il confronto durò oltre un’ora e alla fine gli uomini si trovarono ad applaudire i
finalisti mentre questi si confrontavano girando uno intorno all’altro, bloccando
con lo scudo gli affondi e rispondendo colpo su colpo. Theo aveva vinto le prime
due eliminatorie ma era stato sconfitto al terzo giro, mentre Achillas era arrivato
fino al quarto ed era stato poi vinto da Damoras, che stava ora combattendo con
Petar, un uomo che come Theo proveniva dalla parte settentrionale della Pelagonia.
Damoras era più forte, ma Petar, per quanto più basso di statura, era più veloce e
ben presto la sua spada si abbatté sul cranio dell’avversario, facendolo barcollare.
– Colpo letale! – gridò Parmenion.
Lasciati cadere lo scudo e la spada, Petar sferrò un pugno all’aria in segno di
gioia, ricevendo la spilla da Parmenion e sollevandola per farla vedere agli amici.
– Adesso, signori, ci divertiremo un poco – annunciò quindi Parmenion. –
Formate delle coppie con il primo uomo con cui avete lottato.
I guerrieri si divisero in coppie e nel frattempo Parmenion prelevò due spille
dalla cassetta. – Adesso correrete cinque volte intorno al campo portando il vostro
compagno sulla schiena. Potete scegliere quando trasportare o essere trasportati, e i
primi due che arriveranno qui riceveranno ciascuno una spilla.
Theo si trovò abbinato con un uomo snello originario di Lyncos, e dal momento
che c’erano poche probabilità che questi lo potesse trasportare correndo, si offrì di
essere lui a portarlo. L’uomo gli balzò sulle spalle.
– Siete pronti? – chiese lo Spartano. – Via!
Le cinquanta coppie cominciarono a correre. Con le sue gambe possenti, Theo
si trovò subito in testa ma entro mezzo giro cominciò a perdere le forze e dovette
stringere i denti per proseguire, mentre parecchie altre coppie lo superavano. Al
secondo giro fu costretto a fermarsi per farsi dare il cambio e il suo snello
compagno cercò in ogni modo di reggere il ritmo degli altri, ma sotto il peso
notevole di Theo alla fine incespicò e cadde. Intanto Theo aveva però ripreso fiato
e si era reso conto che il problema consisteva nel correre sorreggendo al tempo
stesso le gambe del compagno. Spingendo davanti a sé l’uomo con cui era
abbinato, se lo caricò sulle spalle e non appena questi ebbe agganciato le gambe
dietro la sua schiena Theo riprese la corsa all’inseguimento degli altri. Dal
momento che cambiare ancora ruolo era fuori discussione, questa volta il grosso
Macedone non tentò uno scatto e conservò invece il più possibile le forze per il
giro finale, portandosi intanto a poco a poco alle spalle di quelli che erano in testa.
All’ultimo giro era ormai terzo, poi la coppia al secondo posto incespicò e cadde, e
lui si ritrovò secondo dietro Achillas e il suo compagno.
Quando Theo gli arrivò alle spalle, Achillas stava cominciando a stancarsi.
L’uomo che lui trasportava si guardò alle spalle e nel veder sopraggiungere Theo
gli gridò di tentare un ultimo sforzo. Achillas non aveva però altre energie e lasciò
cadere a terra il compagno, correndo alle sue spalle per un rapido cambio di
posto.... proprio ciò di cui aveva bisogno Theo, che con un ultimo scatto disperato
raggiunse il traguardo con due passi di vantaggio.
Parmenion si fece avanti con le spille da dare ai vincitori, ma il giovane
guerriero in coppia con Theo rifiutò la propria.
– Non l’ho guadagnata – disse.
– Come ti chiami, ragazzo? – domandò lo Spartano.
– Galean.
– Che ne devo fare della spilla, Galean?
– Dalle entrambe al mio compagno: ha fatto lui tutto il lavoro.
– E tu cosa ne dici? – chiese Parmenion, indicando Theo.
– Eravamo una squadra – dichiarò questi, passando un braccio intorno alle
spalle di Galean, poi prese la spilla dalle mani di Parmenion e la mise in quella del
compagno. – Abbiamo vinto come squadra e divideremo il premio.
– Bene – commentò lo Spartano, – un bel modo di finire una mattinata di
lavoro. Adesso andate a mangiare e tornate fra due ore per vincere le ultime spille.

Mentre Parmenion sedeva solo sul campo di addestramento, intento a


consumare un semplice pasto a base di fichi e di altra frutta, accompagnato da un
po’ d’acqua, il re sopraggiunse a cavallo con due dei suoi ufficiali.
– Come vanno le cose, stratega? – chiese.
– Ci sono alcune promesse – replicò Parmenion, alzandosi e inchinandosi, – ma
vedremo con il tempo. – Venendo avanti, passò una mano sul petto del cavallo del
re e aggiunse: – Un bell’animale... forte di polmoni e robusto di zampe.
– Il padre era uno stallone della Tracia e la madre una giumenta macedone –
spiegò Filippo, accarezzando il collo dello stallone. – Però è ancora giovane e deve
imparare. Vuoi vendermi il tuo stallone? Sarebbe uno splendido animale da ripro-
duzione.
– Non intendo venderlo... ma sei libero di metterlo con le tue giumente – rise
Parmenion. – Credo proprio che gradirà l’esperienza.
– Dimmi, tutti i cavalieri persiani montano animali del genere? – domandò
Filippo, annuendo.
– No, sire. Lo stallone è stato un dono speciale proveniente dalla mandria del
grande re: soltanto le Guardie Reali hanno cavalcature di quella qualità.
– E da quanti uomini è composta la Guardia Reale?
– Mille, sire.
Filippo assunse un’espressione pensosa, poi all’improvviso sorrise.
– È ora di andare a caccia – disse. – Ti lascio al tuo pranzo.
Accostò quindi i talloni ai fianchi dello stallone e si allontanò al trotto verso la
lontana foresta seguito dai suoi due ufficiali.
Una volta solo, Parmenion finì di mangiare e indugiò a riflettere sul lavoro di
quella mattina: i Macedoni erano resistenti e forti, ma lui avvertiva ancora i loro
sospetti... un anno per addestrare seimila uomini, per costruire un esercito di
fanteria da uno di cavalieri.
Un giorno per volta, Savra, si ammonì.
Sollevando lo sguardo, vide poi che gli uomini cominciavano a tornare e
stavano formando un grande semicerchio intorno a lui, in attesa di ordini.
– Voglio che scegliate fra voi tre generali – disse loro.
– A che scopo? – domandò Achillas.
– A che scopo serve un generale? – sorrise Parmenion. – Guiderete i vostri
uomini in battaglia... qui, su questo campo di addestramento. Ora scegliete!
Sedutosi in disparte, rimase a guardare mentre la discussione aveva inizio,
ascoltando attentamente i nomi che venivano proposti e studiando le reazioni degli
interessati. Come aveva intuito, Achillas fu il primo ad essere scelto, ma da quel
momento in poi le discussioni si fecero più accalorate... e Parmenion non
intervenne in nessun modo, neppure quando gli animi iniziarono a scaldarsi.
– Basta! – gridò ad un certo punto Theo, alzandosi in piedi, e subito scese il
silenzio. – Se continuiamo così resteremo qui per tre giorni. Lo stratega ha chiesto
tre uomini. Tutti quelli in favore di Achillas alzino la mano.
Due terzi degli uomini votarono il loro assenso a quella scelta.
– Allora Achillas è uno dei tre – disse Theo. – Adesso, molti di voi stavano
gridando per sostenere Petar. Quanti sono a suo favore?
Questa volta i voti furono più bilanciati, tanto che Theo dovette contare le mani
prima di annunciare che Petar sarebbe stato il secondo generale.
– Chi vuole nominare il terzo? – chiese quindi.
– Lo farò io – intervenne Parmenion. – Nomino te... e non ci saranno votazioni
in merito. Adesso i tre generali facciano un passo avanti – ordinò. – Ciascuno di
voi sceglierà a turno un guerriero per il proprio esercito, uno alla volta in modo che
nessuno possa dire che uno di voi è rimasto avvantaggiato. Sceglierete in tutto
venticinque uomini. Achillas, puoi cominciare tu.
Tornato a sedere nel suo angolo, Parmenion osservò lo svolgimento della
scelta. All’inizio della selezione gli uomini chiamati si alzavano con le mani
sollevate in un gesto di entusiasmo e uscivano dalle file per portarsi accanto al loro
generale mentre gli altri applaudivano, ma a mano a mano che la selezione
continuò il silenzio scese sugli uomini in attesa: nessuno voleva essere scartato e la
tensione andò aumentando. Quando anche l’ultimo uomo andò a raggiungere il suo
generale, Parmenion si alzò in piedi e si rivolse ai generali.
– Laggiù, vicino agli alberi, troverete scudi ed armi. Andate a prepararvi –
ordinò, e mentre gli altri si allontanavano si rivolse ai ventidue uomini ancora
seduti.
– Al mondo non esiste una sensazione peggiore di questa – disse loro. –
Quando ero giovane, a Sparta, molti giochi cominciavano in questo modo ed io ero
sempre quello che veniva scelto per ultimo o che non veniva scelto affatto. Possia-
mo dirci che non è giusto, possiamo pensare che chi sceglie stia sbagliando –
proseguì, scrutando con attenzione ciascun volto, – ma alla fine dobbiamo
accettare il fatto che siamo stati giudicati dai nostri compagni. Alcuni di voi sono
stati esclusi perché considerati piccoli o deboli, altri perché non sono popolari
presso i tre generali... non ha importanza. Adesso sarò io il vostro generale per
questa... prova: competeremo con gli altri e vedremo se si sono sbagliati.
Seguitemi.
Condusse quindi il gruppo sconsolato verso il punto dove erano in attesa gli
altri.
– Signori, questa sarà la vostra prima battaglia come unità di fanteria. Le regole
sono semplici: ogni contingente ha un generale, e lo scopo del nemico è quello di
uccidere o di catturare quel generale... il ché avverrà non appena un guerriero
riuscirà a toccare un generale nemico. Avete capito? Bene. Achillas, porta i tuoi
guerrieri all’estremità meridionale del campo, Theo a quella occidentale, Petar ad
est; io avrò il comando del gruppo schierato a settentrione. Quando darò il segnale
venite avanti... contro uno qualsiasi degli altri gruppi. Un’ultima cosa: in questa
gara è possibile vincere due spille... la prima andrà al generale a capo dell’esercito
vittorioso e la seconda verrà elargita dal generale stesso a quello che lui ritiene
essere il migliore dei suoi uomini. Generali, alle vostre posizioni!
I gruppi si allontanarono muniti di scudo e di bastone, e Parmenion si rivolse
verso il contingente che attendeva con pazienza alle sue spalle.
– Guardate le armi – disse.
Per terra c’erano scudi e bastoni, ma anche aste lunghe tre metri che erano state
lasciate in un mucchio disordinato.
Intanto Theo chiamò a sé i propri uomini lungo il confine occidentale del
campo.
– Il gruppo più pericoloso è quello guidato da Achillas – disse loro. – È più
vicino a Petar che a noi, quindi noi marceremo attraverso il campo contro di loro
ma aspetteremo che si scontrino e attaccheremo poi il vincitore.
– E lo Spartano? – chiese Galean.
– Hai visto gli uomini che ha con sé – rispose Theo. – Lo terremo d’occhio, ma
credo che anche lui aspetterà ad entrare nella mischia.
Come Theo aveva sospettato, il gruppo di Achillas fu il primo a muoversi e
puntò direttamente verso gli uomini di Petar: con un grande urlo il primo gruppo si
lanciò in avanti calando i bastoni sullo scudo e sulla testa dei «nemici». Uno degli
uomini di Petar riuscì a farsi largo fra gli avversari e corse verso Achillas, ma
questi si ritrasse con un balzo da un colpo e calò poi il proprio bastone sul mento
dell’assalitore, stordendolo; al tempo stesso Petar cadde sotto una serie di colpi, ma
in quel momento il gruppo di Theo caricò a sua volta prendendo Achillas alle
spalle. Il guerriero cercò di trovare rifugio fra le proprie file ma Theo gli balzò
addosso e lo trascinò al suolo.
– Lo Spartano! – urlò poi Galean, e Theo si rialzò immediatamente in piedi.
– Indietro – ordinò ai suoi uomini.
Ritirandosi dalla mischia, il suo gruppo congiunse gli scudi e osservò
l’avvicinarsi dello Spartano, il cui schieramento più ridotto aveva assunto a sua
volta una formazione serrata.
– Dobbiamo caricare? – domandò Galean.
– Aspetta! – rispose Theo.
Intanto gli sconfitti si erano seduti in disparte per assistere allo scontro finale.
All’improvviso, il contingente dello Spartano scattò in avanti e si servì dei lunghi
pali di cui era munito per far cadere a terra gli avversari, demolendo la prima linea
dello schieramento di Theo.
– Indietro! – tuonò questi, e i suoi uomini corsero verso l’estremità meridionale
del campo, girandosi poi di nuovo per fronteggiare la formazione avversaria. In
fretta, Theo espose un piano a Galean e agli altri, poi rimasero in attesa con gli
scudi uniti. Le truppe dello Spartano caricarono ancora, e quando la prima fila
cadde continuarono la loro avanzata fino ad arrivare più vicini a Theo, che si era
posto alla retroguardia del proprio contingente.
All’interno del quadrato avversario, Galean si alzò da sotto lo scudo e toccò
Parmenion sulla spalla con il proprio bastone.
– Colpo letale! – gridò poi.
Dai guerrieri che stavano assistendo si levò un grande applauso mentre
Parmenion prendeva il braccio di Galean e lo alzava in segno di saluto al vincitore
per poi ricondurre tutti gli uomini all’estremità settentrionale del campo.
– Questo pomeriggio – disse loro, – avete visto quasi tutti i principali problemi
di fronte ai quali si può trovare la fanteria. Petar, tu hai sperimentato quello che
succede quando una carica giunge inaspettata e con il suo impeto porta il nemico
attraverso il centro dello schieramento avversario. Achillas, tu sei stato vittima di
un doppio assalto, essendo stato attaccato sul fianco mentre eri impegnato contro
Petar. Theo, pur essendo il vincitore, hai visto cosa succede quando il nemico è
armato meglio, disponendo delle lance che garantiscono un maggiore raggio di
azione e di penetrazione della spada. Il tuo stratagemma è stato notevole e non
voglio sminuirlo, anzi ritengo di aver imparato qualcosa da esso. Tuttavia in una
vera battaglia pur uccidendo il generale nemico le tue truppe sarebbero state fatte a
pezzi e tu saresti morto con loro.
Consegnò quindi le spille e notò con piacere che Theo stava consegnando la
seconda a Galean.
– Stanotte tutti coloro che hanno vinto delle spille riceveranno il loro premio.
Ora signori potete tornare ai vostri doveri... tutti tranne i tre generali.
Mentre gli altri si allontanavano, Theo, Achillas e Petar sedettero per terra
insieme a Parmenion.
– Domani mi recherò ad Aigai, nel sud, per cominciare ad addestrare gli uomini
di laggiù – disse allora lo Spartano. – Resterò assente per una settimana, e durante
quel tempo voi porterete qui gli uomini ogni giorno, li farete correre e combattere
finte battaglie, e consegnerete le spille. Uno di voi avrà il comando e gli altri due
saranno i suoi sottufficiali, e per questo vi verrà pagata una dracma di più al
giorno.
– Chi di noi avrà il comando? – chiese Achillas.
– Chi sceglieresti?
– Me stesso.
– E se non si trattasse di te, chi altro?
– Theo.
– Per chi voteresti, a parte te stesso? – domandò quindi Parmenion, rivolto a
Petar.
– Per Theo – rispose il guerriero.
– Prima che tu me lo chieda – intervenne Theo, prevenendo Parmenion, – lascia
che ti dica che non posso fare una scelta. Achillas è un vecchio amico e un
guerriero che rispetto, mentre Petar è un brav’uomo ma non lo conosco bene, e dal
momento che ho l’impressione che ricadrà su di me il dover dare il voto decisivo in
questa selezione, voglio protestare contro l’ingiustizia della cosa. Tu sei lo stratega
e per te noi siamo tutti sconosciuti che hai avuto modo di vedere... e di giudicare.
Quindi smettila con i tuoi giochi, Parmenion... e sii tu a scegliere.
– Hai una mente notevole – approvò Parmenion, – ma non ti lamentare
dell’ingiustizia della vita, che non è mai giusta... nel migliore dei casi è imparziale.
Io ritengo che tutti e tre abbiate le qualità necessarie per comandare, ma in questo
momento non presumo di poter giudicare chi di voi abbia il potenziale maggiore.
Siete tutti ottimi combattenti e uomini coraggiosi, ciascuno si è conquistato il
rispetto dei suoi compagni, quindi vi chiedo di decidere adesso, fra voi, chi dovrà
dirigere l’addestramento dei compagni.
I tre si guardarono a vicenda, poi fu Achillas a parlare per primo.
– Dovrebbe essere Theo – disse, e Petar annuì in segno di assenso.
– Così sia – concluse Parmenion. – Vi ringrazio tutti. Ora, Theo, facciamo
insieme due passi e discutiamo di strategia.

– È un insulto – tempestò Attalus. – Venti uomini! Come può un re viaggiare in


territorio ostile con appena venti uomini di scorta?
Un mormorio di assenso si levò dagli ufficiali raccolti intorno al trono di
Filippo.
– Tu cosa ne dici, Parmenion? – domandò il re.
– Bardylis è il vincitore, ha distrutto l’esercito macedone, e adesso vuole che il
mondo ti veda andare da lui come supplice e non come re.
– E qual è il tuo consiglio?
– Fa’ come dice – replicò Parmenion.
– Che altro ci si poteva aspettare da uno Spartano? – sibilò Attalus.
Per tutta risposta Parmenion scosse il capo con una risata sommessa mentre
Filippo segnalava all’ufficiale di tacere.
– Spiegaci il tuo ragionamento – disse quindi a Parmenion.
– Ciò che il mondo vede adesso non ha importanza. In effetti, si potrebbe
sostenere che sia meglio per la Macedonia sembrare... vulnerabile perché ciò che ci
serve è il tempo: l’anno prossimo avremo un esercito pari a quello di Bardylis e
l’anno successivo le nostre truppe saranno l’invidia della Grecia.
– Tuttavia c’è una questione di orgoglio, di onore – intervenne Nicanor.
– Questo è il gioco dei re, ragazzo – gli rispose Parmenion. – Oggi Filippo deve
soffrire a causa della sconfitta di suo fratello, ma presto saranno gli altri a provare
vergogna.
– Tu che ne pensi, Antipatro? – domandò Filippo. – Hai parlato molto poco.
– Perché c’è poco da dire, sire. Sono d’accordo con Attalus nel senso che la
situazione non mi piace, ma è indiscutibile che tu debba partire... altrimenti non ci
sarà matrimonio e senza matrimonio dovremo di certo fronteggiare un’invasione.
Filippo si appoggiò all’indietro contro la spalliera del divano e lasciò vagare lo
sguardo sui quattro uomini, tanto diversi fra loro e tuttavia ciascuno dotato di
capacità uniche. Il gelido Attalus, che sapeva uccidere senza rimorsi a patto che
questo servisse ad alimentare la sua ambizione; Nicanor, gloriosamente coraggioso
e cocciutamente fedele, un uomo che avrebbe cavalcato nel cuore di una tromba
d’aria se Filippo glielo avesse ordinato; Antipatro, freddo ed efficiente, un
guerriero rispettato dall’esercito.
E poi Parmenion, che in poche settimane aveva ridato vita al morale macedone,
radunando un nucleo di guerrieri e pervadendoli di orgoglio e di cameratismo.
I quattro differivano anche nell’aspetto: Attalus era magro e duro di lineamenti,
con la pelle tesa sugli zigomi e i denti troppo sporgenti che gli davano l’aspetto di
un teschio affrettatamente coperto di carne; Nicanor, quasi femmineo di
lineamenti, con le ossa minute e lo sguardo onesto; Antipatro, con la barba nera lu-
cida quanto la pelliccia di un giaguaro e gli occhi scuri e acuti che notavano più di
quanto la sua espressione desse a vedere; Parmenion, alto e snello, apparentemente
più giovane dei suoi quarantadue anni, con gli occhi chiari così pieni di
consapevolezza.
Su di voi costruirò la Macedonia, pensò Filippo.
– Prenderemo soltanto quattro cavalieri e andremo in Illiria a prelevare la mia
sposa.
– Questo è peggio di una follia, sire – protestò Attalus. – Potremmo imbatterci
in fuorilegge, ladroni, scontenti che hanno perduto la loro casa...
– Non saremo soli per tutto il tragitto – lo rassicurò Filippo, – ma soltanto per
gli ultimi chilometri al di là del confine macedone, dove un’altra scorta ci verrà
incontro.
– Ma perché soltanto quattro uomini, sire? – volle sapere Nicanor.
– Perché io ne ho scelti quattro – replicò il re, con un freddo sorriso. – Nessuno,
neppure Bardylis, può dire a Filippo quanti uomini lo accompagneranno.
Dopo la riunione, Filippo scese a passeggiare con Parmenion nei giardini del
palazzo.
– Come procede l’addestramento, stratega?
– Meglio di quanto sperassi. In attesa che le nuove armature arrivino dalla
Frigia ci stiamo limitando a cose semplici... corsa, combattimenti singoli e qualche
elementare esercizio come unità. Ciò che però mi rincuora, sire, è la qualità degli
uomini e la loro disponibilità ad accettare nuove idee. Ho già trovato parecchi
sottufficiali che hanno un potenziale notevole.
Filippo annuì e i due raggiunsero in silenzio una zona tranquilla dei giardini,
sedendo all’ombra dell’alto muro.
– So che per te sarebbe più facile se potessi radunare tutti gli uomini in un solo
posto, Parmenion, ma sai che non posso farlo. Se si venisse a sapere che sto
approntando un esercito Bardylis mi invaderebbe immediatamente – affermò
Filippo.
– Soltanto se pensasse di essere lui il tuo bersaglio – sottolineò Parmenion. –
Quando lo vedrai, spiegagli che hai intenzione di attaccare i Paioni perché ti sei
stancato delle loro continue razzie nel nord.
– Tu non conosci Bardylis, è il lupo più astuto di tutta la Grecia. Ormai deve
avere circa ottant’anni eppure perfino la dea della morte sembra non avere il
coraggio di reclamarlo.
– Quanto è forte la sua presa sull’Illiria?
– Lo è abbastanza – rispose Filippo. – Ci sono tre tribù principali, ma i Dardani
di Bardylis sono di gran lunga i più forti e il suo esercito è ben addestrato e
disciplinato. La cosa più importante, però, è che i suoi uomini sono abituati a
vincere e non cederanno.
– Vedremo – dichiarò Parmenion.
– Sto per andare a Crousia, nell’est – disse ancora Filippo, alzandosi in piedi. –
Le scorte di oro hanno ricominciato ad arrivare, ma sono scarse. In mia assenza
l’esercito sarà affidato a te e tutti i rapporti affluiranno nelle tue mani.
– Per quanto tempo pensi di assentarti?
– Non più di due settimane. Poi mi dirigerò verso l’Illiria... e il mio
matrimonio.

Prendendo con sé duecento guerrieri, Filippo si diresse a nordest verso le


montagne di Cercine a nord di Crousia. Non aveva mai visto le miniere né
incontrato il loro governatore, Elphyon, ma i rapporti sul suo conto non erano
promettenti, in quanto risultava che avesse avuto stretti contatti con Cotys, il
defunto re della Tracia, e che fosse secondo cugino del pretendente, Pausania.
Filippo era peraltro pronto a perdonargli quelle connessioni compromettenti se
soltanto fosse riuscito a indurre Elphyon a passare dalla sua parte.
Il gruppo attraversò il fiume Axios e la grande pianura di Ematia, passando per
villaggi e città, per boschi e foreste dove la selvaggina abbondava, tanto che i
cavalieri poterono scorgere tracce di orsi e di leoni, di cinghiali e di daini; si diceva
anche che nel nord ci fossero pantere con il pelo nero, ma nessuno ne aveva più
viste da cento anni.
Appena prima del crepuscolo del terzo giorno, Filippo e il suo contingente
raggiunsero la sommità di un’alta collina proprio mentre il sole tramontava dietro i
picchi orientali del Monte Bermion; sopra di loro il cielo era appesantito da lacere
nubi grigie e al di là di esse era tinto di porpora e di carminio dal tramonto. Tirando
le redini, Filippo si arrestò per lasciar vagare lo sguardo sull’ondulata piana erbosa,
sulle foreste e sulle montagne, riparandosi gli occhi dal sole al tramonto.
– Perché ci siamo fermati, sire? – domandò Nicanor, ma Filippo lo ignorò e
spostò il proprio sguardo acuto verso est, oltre gli orgogliosi picchi del monte
Messapion, fissandolo sulle possenti montagne di Cercine, giganti di pietra con la
barba di neve e il mantello di alberi.
Intorno al re gli uomini rimasero in attesa e dopo un po’ Filippo scese di sella e
si avvicinò alla cresta della collina: il vento freddo della notte gli agitava il
mantello e gli sussurrava lungo le braccia nude, ma la bellezza del territorio che si
allargava sotto di lui lo aveva ammaliato e reso consapevole soltanto dell’in-
cantesimo del tramonto.
Avvicinandosi, Nicanor gli posò una mano sulla spalla.
– Ti senti bene, Filippo? – domandò in tono sommesso.
– Guardati intorno, amico mio – rispose il re. – Molto tempo dopo che noi
saremo diventati polvere questa terra sarà ancora qui... le montagne e le foreste, le
pianure e le colline.
– Sono tutte tue, Tutto ciò che vedi ti appartiene.
– No. Pensarlo è una follia. Io sono un amministratore, nulla di più... ma mi
basta, Nicanor. Questa è una terra orgogliosa, lo sento, mi penetra nelle ossa. Non
la vedrò conquistata... non nell’arco della mia vita.
Tornato a grandi passi verso il cavallo si aggrappò alla criniera e balzò in
groppa con un volteggio.
– Continuiamo! – ordinò.
Sei giorni di viaggio ad un passo tranquillo li portarono alle pendici della
catena del Monte Messapion, dove si accamparono in una depressione circondata
da alberi.
– Parlami ancora del governatore Elphyon – ordinò ad Attalus. – Voglio essere
preparato per domani.
– È grasso, molto grasso – cominciò Attalus, allargando il proprio mantello e
stendendosi accanto al fuoco. – Veste sempre di blu, ha tre mogli ma trascorre la
maggior parte del tempo con i suoi giovani schiavi. È stato governatore per undici
anni ed ha un palazzo che può rivaleggiare con quelli di Pella... anche con il tuo.
Inoltre ama collezionare opere d’arte, soprattutto persiane.
– Le mie scorte d’oro si stanno prosciugando e tuttavia lui colleziona opere
d’arte e si costruisce un palazzo – grugnì Filippo. – Comincio a pensare di sapere
che tipo d’uomo sia. Cosa puoi dirmi delle miniere? Come sono gestite?
– Come posso saperlo, sire? Non ne ho mai vista una.
– Domani la vedrai – garantì Filippo.
– Che affascinante prospettiva – borbottò Attalus.
– Non sei interessato a vedere da dove arriva il nostro oro? – rise Filippo,
battendogli una pacca sulla spalla.
– No – ammise Attalus, – mi basta sapere che arriva.
– E tu, Nicanor? Desideri vedere le miniere?
– Se tu lo comandi, sire, ma cosa c’è da vedere? Uomini che scavano la terra
come talpe, oscurità e fetore... e a mano a mano che scendono in profondità, il
costante pericolo di una frana. Voglio essere sepolto dopo morto, non prima.
– Allora vi darò il permesso di cercare i luoghi di piacere di Crousia – replicò
Filippo, scuotendo il capo. – Mi accompagnerà Antipatro.
– Un onore davvero singolare per lui – commentò Attalus, sarcastico.
– È sempre un onore camminare con il re – replicò Antipatro, mascherando la
propria ira anche se i suoi occhi scuri rimasero fissi su Attalus.
– Io non ti piaccio, vero? – chiese questi, sollevandosi a sedere e ricambiando
lo sguardo.
– Non è che tu mi piaccia o non mi piaccia, Attalus... in effetti penso raramente
a te.
– Attento a come mi parli! – scattò il guerriero. – Sono un cattivo nemico.
– Tacete tutti e due! – intervenne Filippo. – Pensate forse che non abbiamo già
abbastanza guai? Quando la Macedonia sarà libera allora vi permetterò... forse... di
dichiarare la vostra inimicizia. Forse. Però sappiate che se uno di voi avvierà uno
scontro farò giustiziare il vincitore: se non potete essere amici per amor mio, allora
almeno sopportatevi a vicenda. Mi avete capito?
– Non desidero nessuna inimicizia, sire – dichiarò Attalus.
– Neppure io – aggiunse Antipatro.
Filippo si adagiò sulle coperte con la testa posata sullo shabraque di pelle di
leone ripiegato e fissò lo sguardo sulle stelle lucenti... così distanti, così lontane dai
problemi del mondo. Poi chiuse gli occhi e scivolò nel sonno.
Stava camminando sul pendio erboso di una collina sotto la luce argentea della
luna quando vide una donna seduta sotto i larghi rami di una quercia.
Guardandosi intorno, si accorse con sorpresa che la donna era sola e quando le si
avvicinò, inchinandosi, lei sollevò lo sguardo e spinse indietro lo scuro cappuccio
del proprio mantello. Il suo volto era pallido e bellissimo, gli occhi scuri e tuttavia
luminosi.
– Benvenuto, grande re – sussurrò, mentre Filippo le sedeva accanto.
– Non sono grande, donna, ma sono un re.
– Sarai grande... questa è la promessa di Aida: gli dèi lo hanno decretato. C’è
però qualcosa di cui tu hai bisogno, Filippo, un talismano che devi acquisire.
– Dove posso trovarlo?
– Sarà esso a trovare te. Guarda! – rispose la donna, indicando i piedi della
collina, dove un ruscello scintillava sotto la luce della luna. Sulla sua riva sedeva
un’altra donna. – Va’ da lei... e conosci le gioie dell’universo.
Filippo era sul punto di porre una domanda quando la sconosciuta scomparve.
Alzatosi, scese fino al ruscello: la donna seduta sulla sua riva era poco più che
una ragazza, con il corpo snello e i seni piccoli e sodi. I suoi capelli erano rossi
come la luce del fuoco, gli occhi verdi come gioielli. Quando le si inginocchiò
accanto, lei si protese ad accarezzargli la barba, poi la sua mano gli scivolò sul
petto e gli accarezzò il ventre. Filippo si accorse allora di essere nudo, come lo
era anche lei, e si sentì assalire dalla passione: tirando a sé la donna sull’erba le
baciò il volto e il collo, accarezzandola e sentendo il proprio cuore che batteva
all’impazzata.
– Amami! – sussurrò la donna. – Amami!
Lui la possedette, e il piacere fu così squisito che l’orgasmo fu immediato.
Incredibilmente, però, la sua passione parve essere inesauribile e la sentì tremare
e gemere sotto di sé. Quando cercò di rotolare via, la donna non volle lasciarlo
andare, accarezzandolo con dita gentili e sfiorandolo con labbra morbide. Alla
fine, lui gemette e si adagiò sulla schiena, restando disteso con le braccia ancora
strette intorno alla sconosciuta.
– Chi sei? – le chiese. – Devo saperlo. Devo averti.
– Mi vedrai ancora, Filippo, e con te genererò un bambino che sarà il figlio di
un re.
– Dove posso trovarti?
– Il momento non è ancora giunto. Ci incontreremo fra due anni sull’Isola dei
Misteri. Là ci sposeremo e là tuo figlio sarà concepito.
– Il tuo nome, dimmi il tuo nome!
– Dimmi il tuo nome! – gridò.
– Cosa c’è, sire? – chiese Nicanor, accostandosi al punto dove giaceva il re.
Filippo aprì gli occhi e vide le stelle brillare nel cielo notturno.
– È stato un sogno – rispose. – Un dono degli dèi.

Incapace di riprendere sonno, Filippo trascorse il resto della notte ripensando


alla visione avuta. La donna aveva detto che fra due anni sarebbe stata sull’Isola
dei Misteri.
Samotracia.
Filippo non vi era mai stato, non aveva mai desiderato di andarci... ma adesso
sapeva che soltanto la morte gli avrebbe impedito di essere presente a
quell’appuntamento.
Poco dopo l’alba svegliò gli altri e il gruppo scese nella valle delle miniere.
Crousia non era un grande insediamento, contava meno di mille abitanti e il
palazzo di Elphyon dominava l’abitato con i suoi bianchi pilastri e le statue
eleganti, con il tetto a punta che sfoggiava bellissimi bassorilievi rappresentanti la
dea Atena nell’atto di emergere dalla testa del padre, Zeus.
I duecento cavalieri si arrestarono davanti all’edificio e Filippo smontò di sella
mentre un anziano servitore usciva dalla costruzione e si fermava a fissare a bocca
aperta l’esercito raccolto davanti ad essa.
– Tu! – gridò Filippo. – Prendi il mio cavallo.
– Sei... atteso? – chiese in tono spaventato l’uomo, avanzando con passo incerto
per obbedire.
– Spero proprio di no – replicò Filippo, gettandogli le redini e oltrepassando a
grandi passi le enormi porte doppie al di là dei pilastri. Attalus, Nicanor e
Antipatro lo seguirono nell’edificio e si arrestarono insieme a lui nel grande atrio,
dove il pavimento era coperto da tappeti persiani, le pareti erano decorate da statue
e il soffitto era formato da un enorme mosaico che rappresentava il principe troiano
Paride insieme alle dee Afrodite, Hera e Atena.
Filippo si sentì quasi umiliato da quell’ambiente così sfarzoso, e notò con un
vago senso di disagio che aveva sporcato i tappeti con gli stivali infangati e che le
sue mani erano sporche.
– Elphyon! – tuonò, facendo echeggiare quel nome nella sala di marmo.
Alcuni servi fuggirono da soglie nascoste con il panico negli occhi ed uno di
essi, un ragazzo snello con i capelli dorati, andò a sbattere contro Antipatro e cadde
in ginocchio.
– Non mi uccidere! – implorò, mentre il soldato lo aiutava a risollevarsi.
– Nessuno ti ucciderà – lo rassicurò Antipatro. – Chiama il tuo padrone e
avvertilo che il re è qui.
– Sì, signore – rispose il ragazzo, cominciando ad avviarsi verso le scale, poi si
girò e aggiunse: – Chiedo scusa, signore, ma... quale re?
– Il re della Macedonia – precisò Antipatro.
Un uomo più maturo venne allora avanti e si inchinò a Filippo.
– Sire, forse gradiresti aspettare nell’androne. Ti farò portare dei rinfreschi.
– Finalmente un servo che non perde la testa – commentò Filippo, poi il gruppo
seguì l’uomo in una lunga stanza sulla destra.
In essa c’erano alcuni divani coperti di seta e le pareti erano decorate con
dipinti rappresentanti scene di caccia: cavalieri che inseguivano un cervo bianco,
Eracle che uccideva il leone di Nemea, arcieri che scagliavano frecce contro un
grande orso.
– Per gli dèi – mormorò Filippo, – al confronto Pella sembra una baracca per il
bestiame. Sarei invidioso, se non fosse per il fatto che tutto questo è stato costruito
con il mio oro.
Il servitore portò loro del vino proveniente dal vigneto di Elphyon... rosso,
dolce e rafforzato con dello spirito, poi Filippo si adagiò su un divano, sollevando
gli stivali sporchi sulla seta e chiazzando di fango il tessuto.
Notando il suo umore cupo, i tre ufficiali non dissero una sola parola mentre
aspettavano, e finalmente Elphyon fece la sua comparsa. Attalus aveva detto che si
trattava di un uomo grasso, ma le sue parole erano state nettamente inferiori alla
realtà... grandi pieghe di carne pendevano sotto il mento del governatore, il suo
ventre enorme premeva contro la tunica azzurra di stile persiano che lui aveva
indosso, mentre i capelli scuri erano tagliati corti e gli sovrastavano la testa come
un piccolo cappello che gli calzasse male. Elphyon cercò di inchinarsi, ma
l’enormità del ventre glielo impedì.
– Benvenuto, sire – disse. – Se soltanto avessi saputo della tua visita, avrei fatto
preparare un sontuoso benvenuto.
La sua voce era profonda e attraente, e Filippo notò che lo stesso si poteva dire
per i suoi grandi occhi castani.
– Sono venuto per vedere le miniere – spiegò.
– Ma perché, sire? C’è poco da vedere per un uomo di alto lignaggio... grandi
buchi nel terreno e qualche galleria puzzolente. Sarei invece lieto di mostrarti le
fonderie.
Il tono della voce di Filippo si abbassò e un bagliore pericoloso gli apparve
nello sguardo.
– Tu mi mostrerai quello che desidero vedere – scandì lentamente. – Lo farai,
Elphyon, perché sei un mio servitore. Adesso accompagnami alle miniere –
concluse, alzandosi in piedi.
– Sì, sire, certamente. Devo soltanto vestirmi... non ci vorrà molto.
– Attalus!
– Sì, sire?
– Se questo grosso idiota disobbedisce ad un altro ordine, prendi il coltello e
aprigli il ventre dalla gola all’inguine.
– Sì, sire – rispose Attalus, fissando con un sogghigno il mortificato Elphyon.
– Ed ora credo che sia ora di andare alle miniere – concluse il re.
– Immediatamente... sire – balbettò Elphyon.
Gridò quindi che gli portassero la sua carrozza ed entro pochi minuti il carro si
venne a fermare davanti al palazzo: tirato da quattro castrati neri, somigliava ad un
carro da guerra gigante, con la sola differenza che aveva un ampio sedile dotato di
cuscini. Elphyon prese posto su di esso e un servitore sedette accanto a lui,
agitando le redini per far avviare i cavalli.
Nonostante il loro dichiarato disinteresse per le attività minerarie, Attalus e
Nicanor decisero all’ultimo momento di seguire il re, non volendo perdersi nulla
della sua visita alle miniere.
Cavalcarono per quasi un’ora fino a giungere in una piccola valle dove la terra
era costellata di buchi che sembravano praticati con un enorme piccone, e molto
più in basso poterono vedere degli schiavi che scavavano la terra, mentre altri
uscivano con passo strascicato dalle gallerie praticate nel fianco di una collina.
Lentamente, i cavalieri scesero verso gli scavi.
Lo sguardo di Nicanor passò in rassegna con attenzione i gruppi di lavoro: nelle
miniere faticavano tanto uomini quanto donne, con il corpo scheletrico coperto di
piaghe, mentre tutt’intorno c’erano guardie armate di corte fruste; sulla destra una
donna che trasportava un cesto inciampò e cadde al suolo, picchiando la testa
contro un masso: senza lanciare un grido, si issò stancamente in piedi e continuò a
camminare incespicando.
Più avanti, Filippo raggiunse l’imboccatura della galleria più vicina e smontò di
sella.
– Come tu hai ordinato, sire, eccoci a destinazione – disse Elphyon, scendendo
faticosamente dal carro. – Questa è la miniera.
– Accompagnami dentro.
– Dentro?
– Sei sordo?
Elphyon si avviò lentamente verso l’oscurità della galleria, arrestandosi per
permettere alla propria vista di abituarsi alla penombra, perché anche se c’erano
delle lanterne appese alle pareti il tunnel era pieno di polvere soffocante. Il
servitore che aveva accompagnato il governatore, lo stesso che aveva scortato il re
nell’androne, versò dell’acqua su un fazzoletto di lino e lo porse al suo padrone,
che se lo premette sulla faccia e si addentrò ulteriormente nella miniera. Lì il
terreno scendeva verso il basso e l’aria era densa e stantia, mentre da un punto più
avanti nella collina giungeva il rumore di attrezzi di metallo che picchiavano
contro la roccia.
Una pioggia di polvere cadde rumorosamente sulla corazza di Attalus e il
guerriero lanciò un’occhiata nervosa alle travi che puntellavano il tetto: una di esse
aveva una fenditura attraverso cui filtrava il terriccio.
Nonostante questo, il gruppo continuò ad avanzare, arrivando al cadavere di
una giovane donna, con gli occhi e la bocca pieni di polvere, che era stato spinto su
un lato del tunnel; in quel punto il tetto era più basso, tanto che i cinque dovettero
chinare la testa, e più avanti era possibile vedere che la volta si faceva ancora più
bassa.
– Non so cosa vuoi vedere, sire – piagnucolò Elphyon, fermandosi.
– Continua a camminare! – ordinò Filippo, e mentre il governatore si lasciava
cadere sulle ginocchia e sulle mani per proseguire strisciando, si volse verso gli
altri aggiungendo: – Voi aspettate qui.
Poi si gettò carponi e seguì il governatore.
– Non credi che potremmo tornare indietro appena di un poco, là dove il tetto è
più alto? – suggerì Nicanor, rivolto ad Attalus. – Pensi che a Filippo seccherebbe?
Attalus aveva il volto impolverato solcato dal sudore, ma sebbene si sentisse
raggelato e pieno di timore non si mosse e si girò verso Antipatro.
– Tu che ne pensi? – chiese.
– Io... er... non credo che il re troverebbe da obiettare – rispose l’ufficiale.
I tre uomini indietreggiarono lentamente verso il punto dove il tunnel si
allargava e si fermarono dove potevano vedere il sole brillare in lontananza; mentre
aspettavano, Nicanor scoprì di non riuscire a distogliere gli occhi dal corpo della
donna morta.
– Perché non l’hanno sepolta? – chiese.
– Hai visto gli schiavi – replicò Antipatro. – Hanno a stento la forza di stare in
piedi. Questo posto sembra la valle dei dannati – aggiunse poi, in un sussurro.
Dall’ingresso del tunnel giunse un rumore di passi e i tre uomini si trassero da
parte mentre una fila di schiavi muniti di cesti vuoti passava loro davanti con
andatura strascicata, dirigendosi verso le cupe profondità della miniera.
– Io torno alla luce del sole – dichiarò Nicanor. – Non riesco a sopportare
questo posto.
– Il re ci ha detto di aspettarlo – gli ricordò Attalus. – La miniera non mi piace
più di quanto piaccia a te, ma cerchiamo di essere pazienti.
– Credo che impazzirò se non esco di qui – ribatté Nicanor, con voce che si era
fatta più alta di una tonalità.
– Uno di noi dovrebbe andare ad avvertire gli uomini che è tutto a posto –
suggerì Antipatro, passandogli un braccio intorno alle spalle. – Siamo quaggiù da
molto tempo e qualcuno di loro potrebbe cominciare a preoccuparsi. Aspettaci
fuori, Nicanor.
Mentre il giovane tornava di corsa verso la luce del sole, Attalus si girò di
scatto verso Antipatro.
– Chi sei tu per annullare un ordine del re? – sibilò.
– Era prossimo a crollare e se non gli avessi permesso di andarsene sarebbe
probabilmente fuggito lo stesso.
– E allora? Sarebbe fuggito. A te che importa?
– Capisco – annuì Antipatro, comprendendo, – e in quel caso avrebbe potuto
perdere il favore del re. Dèi, Attalus, non hai amici? Non c’è nessuno di cui
t’importi?
– Soltanto un debole ha bisogno di amici, Antipatro, ed io non sono un debole.
L’altro non replicò e i due ufficiali attesero in silenzio per quello che parve loro
un secolo, poi la grassa figura di Elphyon apparve finalmente nel tunnel con la
tunica azzurra striata di sporcizia; dietro di lui veniva il re che appariva furente e
che uscì a grandi passi dalla galleria, inspirando profonde boccate d’aria prima di
tornare a voltarsi verso il governatore, che indietreggiò di un passo nel vedere la
furia presente nei suoi occhi.
– Che cosa ho fatto, sire? Dimmelo, ti prego. Ti sono fedele, lo giuro.
In un primo tempo Filippo non riuscì quasi a rispondere per l’ira.
– Qualcuno mi dia da bere – ordinò, e subito Nicanor si precipitò verso di lui
con una borraccia. Filippo si sciacquò la bocca, poi sputò per terra. – Questa è la
mia miniera d’oro – disse infine. – Mia... della Macedonia. Dimmi una cosa, grasso
idiota, cosa serve per estrarre l’oro dal terreno?
– Attrezzi, sire. Picconi, attrezzi di scavo, cesti.
– E chi usa questi attrezzi?
– Come hai visto, si tratta di schiavi, di criminali e di assassini: questi uomini
vengono condannati e mandati qui, e così anche le donne.
– Non capisci, vero? – ruggì Filippo, con voce tanto alta che intorno a loro tutti
cessarono di lavorare e le guardie munite di frusta smisero di sorvegliare gli
schiavi, che si lasciarono cadere stancamente al suolo, abbandonando gli attrezzi.
Lo sguardo di tutti era fisso sullo sfortunato Elphyon.
– Io capisco soltanto che ho fatto del mio meglio – piagnucolò questi. – L’oro
non è abbondante come un tempo, ma non è colpa mia. Le vene scendono sempre
più in profondità e non possiamo seguirle.
Filippo si girò verso una guardia.
– Tu! – esclamò. – Porta fuori tutti da quella miniera, radunali qui alla luce del
sole! Elphyon – continuò poi, in tono più sommesso, mentre l’uomo si affrettava
ad obbedire, – potrei perdonarti la tua avidità e il tuo amore per la ricchezza, potrei
perfino perdonarti i furti che hai commesso a mio danno, ma quello che non posso
perdonare è la tua stupidità. Per scavare servono degli attrezzi, certo, ma quale
genere di imbecille permette ai suoi attrezzi di ridursi in queste condizioni? Denu-
triti, al limite della morte, coperti di piaghe, costretti a vivere senza speranza, come
possono questi poveretti lavorare bene? Per scavare ci vogliono forza e braccia
possenti, ci vuole una schiena robusta, e per essere in forze un uomo ha bisogno di
cibo sano e abbondante e di vino per rinfrancare lo spirito. Attalus!
– Sì, sire?
– Tu assumerai la conduzione di queste miniere, e a questo scopo ti lascerò
cento soldati. Voglio che gli schiavi vengano fatti riposare per due settimane,
durante le quali te ne manderò altri. Nel frattempo trova un buon sovrintendente e
dividi il carico di lavoro in modo che nessuno debba lavorare per più di dodici ore.
Filippo fissò negli occhi il suo ufficiale e improvvisamente sorrise, perché
dall’espressione di Attalus traspariva chiaramente che quell’incarico non era di suo
gradimento.
– Inoltre, – aggiunse, – potrai tenere per te un centesimo di tutto l’oro che verrà
estratto.
– Ti ringrazio, sire – rispose Attalus, inchinandosi profondamente con un
bagliore nello sguardo. – Ma che ne devo fare di Elphyon?
– Chi è il primo giudice della Macedonia? – domandò Filippo.
– Il re, sire.
– Infatti. Per la sua avidità, condanno Elphyon a cinque anni di lavoro nelle sue
miniere. Provvedi che lavori come si deve.
– Ti imploro, sire... – cominciò il governatore, gettandosi in ginocchio.
– Allontanatelo dalla mia vista! – ruggì Filippo, e subito tre soldati trascinarono
via l’uomo che piangeva e gemeva.
– Che ne farai delle sue mogli? – chiese Nicanor.
– Comprerò loro una casa a Crousia e le fornirò di una rendita, mentre tutti i
tesori dovranno essere portati a Pella. Dov’è il servitore di quell’uomo?
– Sono qui, sire. Il mio nome è Paralus.
Filippo guardò negli occhi il suo interlocutore, un uomo di media statura, con i
capelli corti e ricciuti, il naso aquilino e la carnagione scura.
– Sei Persiano?
– Frigio, sire.
– Per quanto tempo hai servito Elphyon?
– Da quando mi ha comprato undici anni fa, all’età di dodici anni.
– In che veste lo hai servito?
– All’inizio ero il suo efebo... uno dei suoi efebi, poi mi ha fatto addestrare
perché tenessi in ordine i conti.
– Dove nasconde il suo oro?
– C’è un magazzino sotto il palazzo.
– Attalus, fammi recapitare il contenuto di quel magazzino.., meno una
centesima parte. Dunque, Paralus, adesso hai un nuovo padrone. Lo servirai bene?
– Sire – rispose l’uomo, spostando lo sguardo da Attalus al re, – Elphyon mi
aveva promesso la libertà per il mio venticinquesimo anno, dicendo che allora mi
avrebbe pagato per il mio lavoro. La sua promessa vale ancora, oppure dovrò resta-
re schiavo sotto un altro padrone?
– Ti farò una promessa migliore: fra tre mesi sarai un uomo libero e da questo
momento verrai pagato in base alla valutazione che Attalus farà del tuo lavoro. Te
lo chiedo di nuovo: ci servirai bene?
– Lo farò, sire… e con onestà.
– Bada che sia così.
ILLIRIA, AUTUNNO, 359 A.C.

Bardylis sedeva del tutto immobile mentre il coltello affilato come un rasoio gli
radeva i capelli intorno alla treccia alla sommità del capo; la pelle del suo cranio
era molle e rugosa, ma la mano del servo era salda e la lama stava accarezzando il
cuoio capelluto.
– Un solo graffio e ti farò tagliare le mani – avvertì improvvisamente Bardylis.
Il servo s’immobilizzò per un momento, poi spalmò altro olio sul volto e sulla
testa del re per ammorbidire i peli e fece scivolare il coltello fin sopra l’orecchio
destro.
– Alza la testa, sire – disse quindi, spostandosi davanti al re che sollevò il capo
e offrì la gola al rasoio. Il coltello continuò la sua opera e infine il servo si ritrasse.
– Hai lavorato bene, Boli – approvò Bardylis, passandosi le mani sulla testa e
sul collo. – Dimmi, però, la mia minaccia non ti ha scosso?
– Non saprei, signore – replicò l’uomo, scrollando le spalle.
– Allora ti dirò io perché non ti ha scosso – replicò Bardylis, sorridendo. – Non
ti sei agitato perché hai deciso che se mi avessi fatto anche un solo graffio mi
avresti tagliato la gola e saresti fuggito.
A quelle parole Boli sgranò gli occhi e Bardylis, comprendendo di aver colpito
nel segno, si alzò in piedi con una risatina.
– Non lasciare che la cosa ti preoccupi – aggiunse.
– Se lo sapevi, signore, allora perché mi hai minacciato?
– Un po’ di pericolo aggiunge sapore alla vita e... per Zeus... quando si arriva
ad ottantatre anni si ha bisogno di un sacco di sapore. Mandami Grigery.
Mentre aspettava, Bardylis si accostò ad uno specchio di bronzo e indugiò a
fissare la propria immagine riflessa, detestando la pelle floscia della faccia, gli arti
smagriti e i sottili baffi bianchi. C’erano delle volte in cui desiderava di non essere
stato in passato così attento nell’individuare i traditori.
Forse, pensò distrattamente, avrei dovuto lasciare che Bichilys mi uccidesse.
Suo figlio era stato uno splendido guerriero, alto e orgoglioso, ma si era
stancato di aspettare quando aveva raggiunto i cinquant’anni e suo padre aveva
continuato a sedere sul trono dei Dardani. La ribellione aveva avuto vita breve
perché il suo esercito era stato schiacciato e Bardylis era poi rimasto a guardare
mentre suo figlio veniva lentamente strangolato.
Il re distolse lo sguardo dallo specchio all’ingresso dell’uomo che aveva ucciso
suo figlio: Grigery era alto, largo di spalle e stretto di fianchi; anche se portava la
testa rasata e i capelli raccolti sulla sommità del capo secondo lo stile dei Dardani,
non si era fatto crescere né la barba né i baffi e il suo volto rasato era chiaro di
pelle e avvenente come quello dei Greci del meridione.
– Buon giorno, sire – salutò, inchinandosi, – confido che tu stia bene.
– Sì, ma la definizione di stare bene assume un diverso significato per i vecchi.
Il Macedone è arrivato?
– Sì, sire, però ha portato con sé soltanto quattro uomini.
– Quattro? Possibile che non ci fossero venti Macedoni che avessero il coraggio
di entrare nell’Illiria?
– Suppongo di no – ridacchiò Grigery.
– Chi sono questi quattro?
– Uno è un soldato semplice di nome Theoparlis, un altro è l’amante del re,
Nicanor, il terzo è un ufficiale di nome Antipatro... l’uomo che ha guidato la carica
contro i Paioni. L’ultimo è un mercenario, Parmenion.
– Lo conosco di nome – commentò Bardylis. – Gli avevo offerto un impiego.
– A quanto mi è dato di capire, ha servito presso il grande re della Persia ed era
anche amico del generale tebano Epaminonda.
– Non soltanto questo – replicò Bardylis. – Leuctra... la sconfitta spartana è
stata opera sua. Che altre notizie ci sono?
– Cose di poca importanza, sire. Neoptolemus ha acconsentito ad aumentare il
suo tributo, ma del resto te lo aspettavi.
– Ovviamente... adesso che il suo esercito è stato annientato gli resta ben poca
scelta.
– Ti offre anche una delle sue figlie in sposa, sire.
– Quell’uomo è uno stolto... per quanto vorrei che così non fosse, il mio
interesse per le donne è perito un decennio fa. Comunque, torniamo alle questioni
di maggiore importanza: voglio che Filippo sia trattato bene finché resterà qui... ma
anche che gli si faccia capire chi è il padrone, adesso.
– In che modo devo organizzare la cosa, signore?
– Sii cortese con lui ma senza che se ne accorga provoca i suoi accompagnatori:
sarebbe interessante che ne costringessi uno a sfidarti a duello, perché in quel caso
naturalmente io non potrei fare altro che permettere lo scontro e tu uccideresti l’uo-
mo in questione.
– Quale di loro, sire?
– Non Nicanor, perché voglio che il re sia umiliato e non fatto infuriare... la
furia porta alla stupidità. Scegli il soldato, Theoparlis, e inoltre accompagna
Parmenion nelle mie stanze stanotte... ma non permettere che Filippo ne venga a
conoscenza.
– Vuoi assoldarlo?
– Perché no? Costituirebbe un colpo secondario inferto alla Macedonia. Dimmi,
cosa ne pensi di Filippo?
– Sembra ansioso di soddisfarti, ma è un uomo difficile da giudicare. Ha un
grande fascino e se ne serve bene, però ha gli occhi freddi e mi guarderei da lui in
un combattimento. Per quanto concerne il suo carattere, però... non ho idea di come
sia.
– Suo fratello era un uomo cocciuto ma dinamico – osservò Bardylis. – Mi
interesserebbe sapere perché Perdiccas ha lasciato Filippo in vita... non doveva
ritenere che costituisse una minaccia, oppure era uno stolto... e ancora, perché
Filippo non ha ucciso il figlio di Perdiccas? Sono una famiglia che mi incuriosisce.
– Non ha avuto remore ad eliminare il fratellastro – sottolineò Grigery.
– Lo so – sospirò Bardylis, tornando al suo trono. – Ah, se fossi certo che
rappresenta una minaccia non se ne andrebbe di qui vivo, ma un marito per Audata
è un bottino che non speravo più di trovare. Invitalo a venire da me per un incontro
privato e portalo qui fra un’ora.
Dopo che Grigery se ne fu andato, Bardylis convocò presso di sé Audata. Sua
figlia era una donna alta, ossuta e con il naso prominente, ma pur sapendo che
molti la consideravano brutta, Bardylis riusciva a vedere in lei soltanto la bambina
che aveva amato fin dalla sua nascita. La donna entrò nella stanza e lo abbracciò.
– Lo hai visto? – chiese Bardylis, tenendo la mano della figlia fra le proprie.
– Sì. È avvenente, anche se temo che sia più basso di me.
– Voglio che tu sia felice – affermò Bardylis, – e ancora non so se questo
matrimonio sia una cosa saggia.
– Ho ventisette anni, padre, non ti preoccupare per me.
– Parli come se a ventisette anni fossi già vecchia. Hai ancora il tempo di
generare figli sani e di vederli crescere, ed io voglio che tu abbia questo, voglio che
tu possa conoscere la gioia che io ho avuto mentre tu stavi crescendo.
– Farò ciò che più ti dà piacere – replicò Audata, poi sedette accanto al padre e
continuarono a parlare finché Grigery tornò per annunciare Filippo.
Audata si affrettò allora ad andarsene, ma si arrestò fuori della stanza del trono
e rimase ad osservare la scena attraverso la porta socchiusa.
Bardylis si fece trovare da Filippo in piedi davanti al trono, e il Macedone
venne avanti, inginocchiandosi davanti a lui e baciandogli la mano.
– Un re non si dovrebbe inginocchiare davanti ad un altro re – osservò Bardylis.
– Ma un figlio dovrebbe onorare il suo nuovo padre – replicò Filippo,
alzandosi.
– Ben detto – approvò il re illirico, segnalando a Grigery di ritirarsi. – Ora vieni
a sedere accanto a me, perché abbiamo molte cose di cui discutere.

Parmenion aggiunse le foglie di silphium all’acqua bollente, girando l’infuso


con la lama della daga.
– Cos’è? – domandò il servitore illirico che gli aveva portato l’acqua.
– Sono erbe della Macedonia che danno una bevanda rinfrescante. Ti ringrazio.
Accostatosi ad un divano, Parmenion si sedette e attese che la bevanda si
raffreddasse. Mothac si era infuriato quando aveva saputo che sarebbe stato
lasciato indietro, poi aveva cominciato a preoccuparsi per lui come una vecchia
chioccia.
– Prenderai il silphium ogni sera prima di andare a dormire? – aveva chiesto. –
Te ne ricorderai?
– Certamente, non lo dimenticherò.
– Te ne sei scordato quella volta, in Egitto, quando io sono rimasto per tre
giorni a letto con la febbre.
– Avevo altre cose di cui preoccuparmi: a quell’epoca eravamo assediati.
Mothac aveva risposto con un grugnito poco convinto.
– Ne hai una scorta bastevole per cinque giorni... sei al massimo – gli aveva
ricordato.
– Starò attento, mamma, te lo prometto.
– Ma certo! Deridimi pure! Stiamo parlando della tua vita, Parmenion,
ricordalo.
Parmenion stese le gambe sul divano e si rilassò, sorseggiando la bevanda
ormai quasi fresca; come molti Greci del meridione, anche gli Illiri avevano
l’abitudine di bere da piatti poco profondi, perché soltanto a Tebe aveva attecchito
l’usanza persiana di utilizzare i boccali. Quando ebbe finito il silphium, si adagiò
all’indietro, sentendosi i muscoli stanchi per la lunga cavalcata. Il re aveva lasciato
i suoi duecento Compagni vicino al Monte Babouna, nel sud, promettendo loro di
essere di ritorno entro cinque giorni, poi aveva proseguito con la sua piccola scorta
fino ad incontrare l’uomo chiamato Grigery e cento cavalieri illiri. Il viaggio fino
al palazzo di Bardylis era stato permeato di tensione e Parmenion aveva cominciato
a sentirsi stanco ore prima di avvistare la costruzione lunga e ad un solo piano,
priva di statue decorative e di giardini... c’erano soltanto le stalle del re; le camere
preparate per loro erano però risultate confortevoli e ad ogni uomo era stato
assegnato un servitore privato.
Parmenion stava per scivolare nel sonno quando sentì bussare alla porta.
– Chi è? – chiese.
– Grigery, signore. Il re richiede la tua presenza.
Parmenion si sollevò a sedere, massaggiandosi gli occhi per liberarli dal sonno,
poi lanciò un’occhiata alla corazza e all’elmo che giacevano per terra accanto alla
spada e infine si alzò per raggiungere la porta, aprendola. Grigery s’inchinò e Par-
menion uscì dalla propria stanza, seguendo il guerriero lungo l’ampio corridoio che
portava all’appartamento reale e notando lungo il tragitto che la sua guida aveva un
equilibrio perfetto nel camminare e si muoveva come un atleta... o meglio come un
guerriero da sorvegliare.
Grigery lo introdusse in un’anticamera e lo annunciò a Bardylis che, con
sorpresa di Parmenion, era solo. Il re non si alzò dal divano all’ingresso dell’ospite
e rispose all’inchino di Parmenion con un cenno della mano.
– Benvenuto nella mia casa, Parmenion. È un onore ospitare nell’Illiria un
generale così famoso.
– Un onore che non regge il paragone con quello che viene fatto a me, altezza:
è cosa rara essere invitato ad un’udienza privata da un re della tua fama.
– Parli bene, Spartano, ma adesso accantoniamo i convenevoli – scattò il
vecchio. – Vieni a sedere accanto a me e dimmi cosa stai facendo in Macedonia.
– Un generale si sposta là dove può trovare un impiego – replicò Parmenion,
obbedendo all’invito. – Temo di aver sfruttato al massimo le possibilità d’impiego
offerte dall’Asia, e Filippo è stato tanto gentile da offrirmi un incarico temporaneo.
– Temporaneo?
– Devo addestrare qualche centinaio di guerrieri perché possano proteggere i
suoi confini con la Paionia, e gli devo anche fornire una guardia reale.
– E cosa mi dici dell’Illiria? – sorrise il re, mostrando i denti scoloriti. – Che ne
pensa dei nostri confini?
– Non gli piace la situazione attuale... ma del resto a te piacerebbe? – replicò
Parmenion, riflettendo in fretta. – Io gli ho detto però che c’è ben poco che lui
possa fare perché ci vorrebbero considerevoli risorse e un esercito di mercenari, e
anche in quel caso avrebbe probabilità di successo non molto buone.
– Sei estremamente franco – commentò il re, sorpreso.
– Non sto tradendo nessun segreto, maestà, senza contare che avverto che
sarebbe... poco appropriato mentirti.
– Vorresti venire alle mie dipendenze?
– Certamente, sire, ma ho dato la mia parola a Filippo e resterò con lui per un
anno per addestrare le sue guardie. Dopo di allora mi cercherò un nuovo posto.
Comunque non credo che tu abbia bisogno di me: di solito vengo assoldato da
uomini che sono stati sconfitti, perché pochi vincitori hanno bisogno di generali
mercenari.
– È vero – convenne Bardylis. – Dimmi, ti piace Filippo?
– Molto. È un uomo cortese e sotto certi aspetti addirittura gentile... e dove
sono stato io uomini del genere sono rari.
– È per questo che non ha ucciso il figlio di Perdiccas?
– Immagino di sì, maestà, ma è difficile sapere cosa c’è nella mente del re.
– Un’ultima domanda, Parmenion: se Filippo raccogliesse un esercito, tu
marceresti contro di me?
– Certamente, maestà. Sarei uno strano generale se non lo facessi.
– Sai che potrei farti uccidere – ridacchiò il re.
– Tutte le cose sono possibili – ammise Parmenion, scrutando attentamente il
vecchio sovrano, – ma non credo che lo farai.
– Perché?
– Perché sei annoiato, sire, e per quanto costituisca una minaccia di scarso
rilievo, Filippo ti interessa.
– Sei un osservatore acuto e credo che ti dovrò tenere d’occhio. Ora però va’
pure... e godi della tua permanenza in Illiria.

Per tre giorni la presenza di Filippo come ospite venne festeggiata con
banchetti, esibizioni atletiche, danze e la rappresentazione di una commedia
corinzia nel teatro alla periferia della città, e il re macedone parve godere di quegli
onori anche se per Parmenion le giornate divennero invece sempre più irritanti; il
guerriero Theoparlis intanto si stava mostrando sempre più teso e irritabile, e già
due volte Parmenion lo aveva visto parlare con il sogghignante Grigery.
Mentre la folla lasciava il teatro, Parmenion ne approfittò per accostarsi a Theo.
– Va tutto bene? – gli chiese.
– Sto bene – rispose il soldato, continuando a camminare. Parmenion accantonò
il problema quando Filippo gli si affiancò, passando il braccio sotto il suo.
– Una buona commedia, non trovi? – chiese.
– Non sono amante delle commedie, sire.
– Per sposare una donna come Audata un uomo deve per forza amare la
commedia – sussurrò Filippo, protendendosi verso il suo orecchio.
– Mi dicono che nell’amore c’è qualcosa di più della bellezza fisica – replicò
Parmenion, ridacchiando.
– Certo, ma l’aspetto deve per forza contare qualcosa. Ieri sono rimasto a
parlare con lei per due ore e per tutto quel tempo ho cercato un solo tratto fisico per
il quale poterle fare un complimento.
– E cos’hai trovato?
– Ho pensato di dirle che aveva dei gomiti molto graziosi. Parmenion scoppiò a
ridere, sentendo la tensione che l’abbandonava.
– E poi cosa è successo?
– Ci siamo amati.
– Cosa? Nel palazzo di suo padre? Prima del matrimonio? E come ci sei
riuscito... se non trovi in lei nulla di attraente? Improvvisamente, Filippo divenne
serio.
– Ho fatto un sogno, Parmenion, e mentre ero con Audata ho immaginato la
donna che ho visto in esso... la donna che incontrerò l’anno prossimo a Samotracia.
Mentre tornavano al palazzo, Filippo raccontò quindi a Parmenion del proprio
incontro mistico.
– E sei certo che fosse un presagio?
– Ci scommetterei la vita... e darei la mia vita per farlo avverare. Era
meravigliosa, la donna più bella che abbia mai visto. È un dono degli dèi,
Parmenion, lo so. Ha promesso di darmi un figlio, un bambino che nascerà per
diventare un grande uomo.
Erano ormai vicini al palazzo, quando Filippo trattenne Parmenion per un
braccio.
– Questo pomeriggio Bardylis mi vuole mostrare il suo esercito – disse. –
Dovrebbe essere illuminante.
– È vero – convenne Parmenion. – Allora cosa ti preoccupa?
– Theoparlis. Si è fatto cupo e credo che quell’uomo chiamato Grigery lo stia
provocando. Non si deve lasciar trascinare ad uno scontro: Antipatro ha fatto
qualche domanda sul conto di Grigery ed ha scoperto che è il campione del re e che
pare sia un demonio con la spada.
– Impedirò qualsiasi duello fra Macedoni e Illiri – promise Parmenion.
– Bene. Hai visto ancora Bardylis?
– No. Ritengo di averlo convinto che non abbiamo nessuna intenzione di fare
guerra all’Illiria.
– Non ne essere certo – lo avvertì Filippo. – Penso che quell’uomo sia un mago
che riesce a leggere nella mente.
Quel pomeriggio Filippo e i suoi compagni osservarono la cavalleria illirica
lanciarsi alla carica attraverso un ampio prato con le lance che brillavano sotto il
sole, poi la fanteria venne avanti formando la falange: ogni uomo era armato con
una lancia e una corta spada e portava uno scudo quadrato di legno rinforzato con
il bronzo; tutti sfoggiavano un elmo crestato, corazza e schinieri, anche se erano a
piedi nudi. Ad un ordine del suo generale, la falange cambiò con scioltezza
formazione snodandosi in una lunga linea profonda tre file, con le lance abbassate.
Filippo e i suoi Macedoni si trovavano all’estremità del campo, e ad un tratto il re
notò che gli Illiri che si trovavano accanto a loro si stavano tirando indietro.
– Non vi muovete, qualsiasi cosa succeda – sussurrò.
Con un ruggito tonante, la fanteria si lanciò alla carica. Filippo osservò i
lancieri che si avvicinavano sempre più in fretta e per un momento si chiese se
quella fosse la fine della sua vita: sembrava che nulla potesse fermare quella massa
in corsa e che entro pochi secondi una punta gli avrebbe trapassato il petto privo di
protezione, ma nonostante questo rimase immobile con le mani sui fianchi,
fronteggiando i soldati che venivano alla carica.
All’ultimo possibile secondo la falange si arrestò e Filippo abbassò lo sguardo
su una punta di lancia che si trovava ad appena un dito dal suo petto. Lentamente,
sollevò una mano e passò il pollice sul metallo, poi fissò il lanciere negli occhi.
– C’è della ruggine su questa punta – osservò in tono sommesso. – Dovresti
averne più cura.
Infine volse le spalle alla falange.
Durante la carica nessuno dei suoi compagni aveva mosso un solo muscolo,
cosa che pervase Filippo di orgoglio; Bardylis lo chiamò a sé con un cenno e lui
andò a raggiungere il vecchio re su un ampio sedile alla testa di un tavolo carico di
cibo.
Parmenion stava per sedersi a sua volta al tavolo quando si accorse che Theo e
Grigery erano fermi a circa venti passi di distanza e che ancora una volta il
guerriero illirico stava avanzando qualche commento beffardo: perfino da quella
distanza Parmenion poté vedere Theo arrossire in volto e abbassare la mano verso
l’elsa della spada.
– Theo! – ruggì, e il soldato s’immobilizzò mentre Parmenion si affrettava a
raggiungerlo, chiedendo: – Cosa succede qui?
– Questo cane mi ha sfidato – dichiarò Grigery.
– Lo proibisco – replicò Parmenion.
– Non spetta a te proibire qualcosa in Illiria – ritorse Grigery, con un bagliore
negli occhi scuri.
Parmenion trasse un profondo respiro.
– Theoparlis ti ha colpito? – chiese in tono quieto.
– No.
– Capisco... allora non si è trattato di una cosa come questa – affermò
Parmenion, assestando al volto di Grigery un manrovescio che lo gettò a terra.
Dagli ufficiali che si stavano preparando a cenare si levò un grande ruggito, ma
Parmenion ignorò il guerriero che si stava rialzando in piedi e si diresse verso
Bardylis, inchinandosi profondamente.
– Maestà, chiedo scusa per questa scena sconveniente, ma quel tuo uomo,
Grigery mi ha sfidato a battermi con lui e chiedo il tuo permesso di accettare.
– Non era con te che volevo battermi – gridò Grigery.
– Allora non desideri sfidare l’uomo che ti ha colpito? – chiese Parmenion.
– Sì... voglio dire... – esitò Grigery, spostando lo sguardo sul suo re.
– Tutti hanno visto l’inizio di questa lite – dichiarò Bardylis, – ed ora ne
vedremo la fine. Vi concedo il permesso di battervi.
– Grazie, signore – disse Parmenion. – Come ospite, potrei chiedere un favore?
Dal momento che ho interrotto un ottimo pasto mi sembra soltanto giusto ripagare
tutti con uno spettacolo non soltanto di abilità ma anche di coraggio. Avresti quindi
qualche obiezione se ci battessimo come fanno i nobili della Mesopotamia davanti
al loro re?
Per un momento Bardylis lo fissò interdetto: non aveva idea di come si
battessero i guerrieri della Mesopotamia, ma al tempo stesso non voleva darlo a
vedere.
– Come preferisci – rispose quindi.
– Preparate un braciere con carboni ardenti profondi quanto il braccio di un
uomo – ordinò Parmenion.
Bardylis incaricò due servi di andare a prendere il braciere e Parmenion si
ritrasse ad una certa distanza dal tavolo, dove venne raggiunto da Filippo e dagli
altri.
– Cosa succede, in nome dell’Ade? – chiese Filippo.
– Non avevo scelta, sire. Ti avevo promesso che non ci sarebbero stati scontri
fra Macedoni e Illiri... e qualsiasi cosa succederà qui sarà vista come un confronto
fra uno Spartano e un guerriero di Bardylis – spiegò Parmenion, poi si girò verso
Theo e aggiunse: – Sul tavolo c’è del miele. Prendilo e trova anche del vino rosso e
delle bende, che inzupperai di vino.
– Che modo di combattere è questo? – chiese Antipatro.
– Una cosa nuova – gli confidò Parmenion.
– Hai mentito a Bardylis? – sussurrò il re.
– Sì. Non ti devi preoccupare, sire: non sa leggere nella mente.
Servendosi di sbarre di spesso legno, quattro servitori portarono un braciere
ardente nel campo. Liberatosi di corazza, elmo, tunica e schinieri, Parmenion
estrasse la spada e si andò a mettere accanto al braciere; sconcertato, Grigery si
spogliò a sua volta e prese posizione di fronte a lui mentre il re e i suoi ufficiali
formavano un cerchio tutt’intorno in attesa che lo scontro avesse inizio.
– Hai bisogno del fuoco per scaldarti, vecchio? – chiese Grigery.
– Fa’ come me – replicò Parmenion, poi si girò e piantò in profondità la propria
spada nel braciere, lasciandovela dentro e indietreggiando con le braccia incrociate
sul petto. Di nuovo, Grigery lo imitò e conficcò la propria lama accanto alla sua.
– E adesso? – chiese.
– Adesso aspettiamo – rispose lo Spartano, fissandolo negli occhi.
I minuti trascorsero lentamente e lo sguardo di tutti gli spettatori prese a
spostarsi di continuo dai due contendenti nudi alle lame che stavano diventando
sempre più incandescenti.
Il rivestimento di cuoio dell’elsa della spada di Grigery si piegò e si spezzò, poi
prese a bruciare con una voluta di fumo nero e si staccò lentamente; la spada di
Parmenion aveva invece un’impugnatura di metallo intorno a cui era avvolto un
sottile filo d’oro che tratteneva un pezzo di pelle di serpente: la pelle prese fuoco e
il filo si staccò.
– Quando sei pronto – disse allora Parmenion, – prendi la spada e cominciamo.
Grigery si umettò le labbra e rimase a fissare le spade roventi.
– Tu per primo – sibilò.
– Forse dovremmo farlo insieme. Sei pronto?
Grigery protese la mano ma il calore vicino all’elsa era intollerabile e le sue
dita si ritrassero di scatto. Guardando la folla circostante, il guerriero notò come
tutti fossero affascinati dal confronto, poi il suo sguardo si posò sul re, i cui
lineamenti erano freddi: comprendendo cosa ci si aspettava da lui, Grigery riportò
lo sguardo sulla lama incandescente.
– Quanto più aspetti, tanto più diventerà rovente – commentò Parmenion, in
tono pacato.
– Miserabile figlio di buona donna! – urlò Grigery, serrando la mano intorno
all’elsa della spada e strappandola dal braciere.
L’agonia lo colpì non appena la carne prese a sfrigolare e la pelle si staccò,
incollandosi al metallo dell’elsa, e con un urlo spaventoso lui scagliò lontano da sé
l’arma. Protendendo la mano sinistra, Parmenion estrasse la spada dalle fiamme e
si avviò verso l’avversario.
Il volto dello Spartano era privo di espressione ma il suo respiro era rapido e
poco profondo, i denti erano serrati e le labbra ritratte da essi. Sollevando l’arma,
Parmenion passò la lama rovente di traverso sul petto di Grigery: lo sfrigolio dei
peli e della carne che bruciavano arrivò all’orecchio di tutti gli spettatori e Grigery
balzò all’indietro, cadendo nell’erba.
Parmenion si girò quindi verso Filippo, inchinandosi, poi sollevò la lama
rovente e salutò Bardylis, abbassando infine il braccio di scatto e mandando la
spada a piantarsi nel terreno ai propri piedi. In fretta, lo Spartano passò fra la folla
e si diresse verso il punto dove Theo era in attesa con il miele, che spalmò sulla
carne ustionata.
– Le bende – disse Parmenion, con voce rauca, e subito Theo le sollevò dal
piatto di vino, strizzandone via l’eccesso di liquido per poi avvolgerle con cautela
intorno alla mano del generale.
– Come hai fatto? – domandò, mentre lavorava.
– Non posso parlare... in... questo momento – annaspò Parmenion, chiudendo
gli occhi mentre le bende fredde assorbivano il calore dalla mano. Si sentiva debole
e nauseato, con le gambe che tremavano, ma fece appello a tutte le sue forze e si
girò verso Theo. – Prendi il miele e il resto delle bende e va’ da Grigery. Subito! –
ordinò.
Mentre Theo si allontanava, Parmenion sentì un rumore di passi che si
avvicinavano e nel sollevare lo sguardo vide che si trattava di Bardylis e di Filippo,
seguiti da una decina di ufficiali.
– Sei un uomo interessante, Parmenion – commentò il vecchio re, – ed io avrei
dovuto sapere che non era il caso di permettere una prova di resistenza contro uno
Spartano. Come sta la tua mano?
– Guarirà, maestà.
– Ma non ne eri certo, giusto? È stato per questo che hai usato la sinistra.
– Esatto.
– Sei abbastanza in forze da cenare con noi?
– Certamente, sire. Ti ringrazio.
Il dolore era indescrivibile, ma Parmenion si costrinse a resistere per tutto il
pasto e perfino a mangiare qualcosa, accontentandosi della consapevolezza che
Grigery non si vedeva più da nessuna parte.
IL TEMPIO, AUTUNNO, 359 A.C.

La vita si era fatta sempre più difficile per Derae a mano a mano che le
condizioni mentali di Tamis si deterioravano. Adesso la vecchia trascorreva le sue
giornate seduta nei giardini del tempio parlando fra sé, e a volte era impossibile
comunicare con lei perché il suo senso di disperazione era cresciuto. Di conse-
guenza, il peso dei doveri nel tempio gravava tutto sulle spalle di Derae e ogni
giorno arrivavano nuovi supplici... lunghe file di persone malate o storpie, ricche e
povere... che aspettavano il beneficio delle mani della guaritrice.
Il lavoro la sfiniva, soprattutto ora che il loro vecchio aiutante Naza era morto e
che non c’era nessuno a curarsi del giardino e a raccogliere i vegetali piantati a
primavera.
Di conseguenza capitava di rado che Derae trovasse il tempo... e le energie... di
osservare Parmenion.
Poi un giorno si accorse di essere malata e una febbre si abbatté rapida su di lei
lasciandole le gambe deboli e la mente offuscata. Nonostante tutti i suoi poteri non
riuscì a risanarsi e neppure a occuparsi dei malati che aspettavano fuori delle porte
chiuse, e Tamis non le fu di nessun aiuto perché quando lei la chiamò la vecchia
non parve averla sentita.
Per undici giorni Derae giacque malata e sfinita, fluttuando fra strani sogni e
confusi risvegli. Una volta nel tornare cosciente vide con gli occhi dello spirito un
uomo seduto accanto al suo letto, che l’aveva sollevata leggermente e la stava
obbligando a mangiare un po’ di brodo. Poi il sonno tornò a reclamarla.
Quando infine si svegliò nuovamente, avvertì la luce del sole che filtrava dalla
finestra aperta... non aveva idea di quanto tempo fosse passato, sapeva soltanto che
si sentiva stanca ma non era più malata. Poi la porta della sua stanza da letto si aprì
ed entrò un uomo alto con la barba grigia che indossava una tunica di un rosso
sbiadito; l’uomo le portò dell’acqua e l’aiutò a bere.
– Ti senti meglio, sacerdotessa? – chiese.
– Sì, grazie. Io conosco la tua voce, ma non ricordo...
– Mi chiamo Leucion. Molto tempo fa sono venuto qui e tu mi hai consigliato
di andare a Tiro. Ho seguito il tuo consiglio e là ho trovato l’amore e una buona
moglie, e insieme abbiamo allevato ottimi figli e due figlie.
Derae si adagiò all’indietro e scrutò l’uomo con gli occhi dello spirito,
ricordando l’espressione che c’era stata nei suoi occhi quando aveva cercato di
violentarla.
– Mi ricordo. Perché sei tornato?
– Mia moglie è morta, sacerdotessa, e il mio figlio maggiore siede ora a capo
della nostra tavola. Io però non ti ho mai dimenticata e volevo... volevo rivederti
per chiederti perdono. Quando sono arrivato qui eri malata e non avevi aiuti, quindi
sono rimasto.
– Per quanto tempo ho giaciuto a letto?
– Per dodici giorni – le disse Leucion. – All’inizio ho pensato che saresti morta,
ma poi sono riuscito a farti mangiare. Ho nutrito anche la vecchia, ma non credo
che sappia neppure che sono qui.
– Dodici giorni? Com’è che le mie lenzuola sono così pulite?
– Le ho cambiate ed ho lavato le altre. Quando starai di nuovo bene potrò
partire.
– Ti ringrazio per il tuo aiuto e sono felice che tu sia tornato – dichiarò Derae,
prendendogli la mano, – così come sono felice che la tua vita sia stata lieta. E se
desideri il perdono... te l’ho dato molto tempo fa, Leucion.
– Ci sono parecchie persone che ti stanno aspettando. Cosa devo dire loro?
– Riferisci che le vedrò domani – rispose Derae, spingendo indietro le coltri e
alzandosi in piedi. Aveva le gambe deboli ma sentiva che le forze stavano
tornando. Leucion le portò i vestiti e si offrì di aiutarla a indossarli. – Non importa,
Leucion, posso anche essere cieca, ma riesco a vestirmi da sola – rispose lei,
mettendosi un semplice abito bianco e uscendo in giardino, dove Tamis era seduta
accanto alla fontana.
– Per favore, non mi odiare! – piagnucolò la vecchia.
– Hai l’aria stanca, Tamis – replicò Derae, stringendola a sé e accarezzandole i
capelli. – Perché non riposi?
– È tutto sbagliato, tutto quanto. Non ho servito affatto la Luce, è tutta colpa
mia.
Derae la prese per un braccio e la condusse nella sua stanza, dove Tamis si
lasciò cadere sul letto e si addormentò all’istante.
– Lei ti sta ancora tormentando? – sussurrò Derae, sedendo accanto alla vecchia
sacerdotessa. – Vediamo.
Librandosi, si guardò intorno ma nelle vicinanze non c’era nessuno, non c’era
traccia e neppure sensazione della presenza della donna incappucciata, quindi
Derae si chiese quale potesse essere la fonte della disperazione di Tamis e decise di
scoprirlo adesso che la sacerdotessa era addormentata. Prima di allora non aveva
mai osato entrare nella sua mente senza permesso, ma ormai era inutile cercare di
ottenere informazioni. Presa la sua decisione, Derae fece fluire il proprio spirito in
quello della dormiente diventando una cosa sola con lei e subito vide scorrere gli
anni, avvertì le speranze, i sogni, le angosce di Tamis. Vide una bambina dal
talento unico diventare una donna di potere e influenza, la vide crescere, osservò...
e condivise... i suoi amori e i suoi lutti. Finalmente scorse la prima visione che Ta-
mis aveva avuto della nascita del Dio Oscuro e guardò con orrore mentre lei
orchestrava la morte della ragazza persiana che avrebbe dovuto generarlo.
Non possiamo usare le armi del nemico, le aveva detto Tamis, e tuttavia
cinquant’anni prima la sacerdotessa era entrata nella mente di quella Persiana
incinta e aveva assunto il controllo dei suoi arti, costringendola a camminare fino
alla sommità della torre e a balzare incontro alla morte. Derae si riscosse da quel
ricordo condiviso per proseguire il proprio viaggio con disagio crescente, e con il
passare degli anni il suo stato d’animo s’incupì perché si accorse che Tamis aveva
cominciato a manipolare gli eventi. Era stata lei a chiedere a Senofonte di
insegnare strategia al giovane Parmenion, e ancora lei aveva usato i propri poteri
per tenere Parmenion separato agli altri ragazzi degli alloggiamenti, instillando in
loro avversione per il giovane mezzosangue.
Ma ciò che più la ferì fu trovare la risposta a quello che per lei era sempre stato
un mistero.
Pur amando disperatamente Parmenion, infatti, non aveva mai capito perché
fossero stati tanto imprudenti nell’amarsi, tanto stupidi e sprovveduti.
Ora vide il perché...
Ora seppe cosa era successo...
Come la donna incappucciata faceva nei loro sogni, infatti, Tamis si era librata
sui due amanti, usando i suoi poteri per renderli ciechi al pericolo, per incitarli e
spingerli alla loro distruzione.
La cosa peggiore era che era stata Tamis a spingere con il proprio spirito i
razziatori verso di lei, Tamis a far fuggire il suo cavallo e a lasciarla senza via di
fuga, e ancora era stata lei a instillare in Nestus la sete di vendetta, a piantare in lui
il desiderio di vedere Derae morta.
Tamis aveva organizzato tutto quanto.
Parmenion era stato manipolato, diretto come un cavallo tramite redini
invisibili... spinto prima a Tebe, poi in Persia e quindi in Macedonia.
Ma l’ultima menzogna risultò essere la peggiore di tutte. Derae vide se stessa
lottare in mare per liberarsi dai legami dopo essere stata gettata dalla nave: il cuoio
che le bloccava i polsi era stato allentato dall’acqua e lei era riuscita a liberarsi le
mani e a nuotare per salvarsi la vita, sentendo il rumore dei frangenti che si faceva
sempre più vicino. Era giovane e forte ed aveva tenuto testa ai marosi fin quasi alla
spiaggia, poi una grande onda l’aveva afferrata e l’aveva mandata a sbattere con la
testa contro una roccia. Pochi secondi più tardi Naza era entrato nell’acqua e
l’aveva trascinata a riva.
– È viva! – aveva esclamato il vecchio.
– Portala al tempio – aveva ordinato Tamis.
Viva! Non era per nulla incatenata dai vincoli della morte! Menzogne,
menzogne, menzogne! Avrebbe potuto lasciare il tempio in qualsiasi momento e
andare da Parmenion, avrebbe potuto salvarlo da una vita di vuoto e di tormento.
Per favore, non mi odiare!
Derae volò nel proprio corpo e si alzò in piedi, abbassando lo sguardo sulla
vecchia addormentata e provando il desiderio di colpirla, di svegliarla e di urlarle
la verità.
Una serva della Luce? Una donna che professava di credere nel potere
dell’amore?
Derae indietreggiò barcollando di fronte alla forza del proprio odio, poi lasciò
la stanza di corsa, andando a sbattere contro Leucion nel corridoio al di là di essa.
Per poco non cadde, ma lui fu pronto a sostenerla.
– Cosa c’è che non va, signora?
– Tutto – sussurrò Derae.
Poi le lacrime cominciarono a scorrere.
PELLA, PRIMAVERA, 358 A.C.

Filippo osservò i mille Compagni di Fanteria formare un quadrato da


combattimento e lanciarsi alla carica attraverso il campo per poi arrestarsi ad un
ordine di Parmenion senza infrangere la formazione e ruotare sulla sinistra. Un
altro ordine e le cinque file della retroguardia si allargarono per ampliare lo schie-
ramento frontale.
La disciplina era buona, e il re ne fu compiaciuto. Vide quindi gli uomini
raccogliere le sarisse, lance lunghe tre volte un uomo alto che erano state studiate
personalmente dallo stesso Filippo: ogni lancia aveva una punta di ferro e una
picca alla sua base. Il guerriero della prima fila della falange teneva la sarissa nel
cavo del braccio mentre quello della fila successiva reggeva il peso dell’asta,
pronto a piantarla nello schieramento nemico. Si trattava di un’arma ingombrante,
ma Filippo era certo che avrebbe dato alla fanteria macedone un vantaggio tattico
nelle sue prime battaglie: la falange sarebbe avanzata verso il nemico che le
sarebbe andato incontro aspettandosi il consueto impatto di uomini corazzati... ma
con la sarissa Filippo sentiva di avere un vantaggio.
Parmenion non ne era altrettanto certo.
– Frontalmente sono armi formidabili, sire – aveva commentato, – ma il nemico
ci potrebbe prendere sui fianchi, rendendole inutili.
– È vero, stratega, ma per farlo un nemico dovrebbe mutare la tattica di tutto il
suo esercito... tattica in uso da oltre un secolo.
– Anche così, ci serve una strategia di ripiego – aveva insistito Parmenion.
E l’aveva anche fornita.
Adesso la cavalleria di Filippo non avrebbe più adottato la consueta carica
frontale contro il nemico, compito che sarebbe stato lasciato alla nuova fanteria
mentre la cavalleria avrebbe preso posizione su entrambi i fianchi della falange,
costringendo le truppe nemiche a ripiegare su loro stesse.
L’esercito andò crescendo di numero giorno dopo giorno per tutto l’autunno e
l’inverno, a mano a mano che contadini e giovani dei villaggi accorrevano a Pella
per sottoporsi al rigoroso addestramento necessario per ottenere la nuova armatura
frigia, con la corazza nera e l’elmo dalla cresta rossa. Entro la metà dell’inverno,
Parmenion aveva ormai selezionato gli uomini della Guardia, ciascuno dei quali
aveva un mantello nero della lana migliore e uno scudo bordato di bronzo al cui
centro spiccava la Stella della Macedonia. Quelle armi erano state acquistate con
l’oro delle miniere di Crousia, che sotto la sovrintendenza di Attalus erano tornate
a produrre scorte abbondanti di quel prezioso metallo... scorte che Filippo
spendeva non appena arrivavano a Pella, acquistando armature dalla Beozia e dalla
Frigia, cavalli dalla Tracia, marmi dal sud, mantelli da Tebe, e assoldando
costruttori da Atene e da Corinto.
Adesso gli alloggiamenti erano stati ultimati e le Guardie vivevano là,
mangiando il cibo migliore, bevendo il vino più pregiato e guadagnandosi quei
privilegi con straordinarie dimostrazioni di resistenza e di forza sotto l’occhio
d’aquila di Parmenion.
Theoparlis e Achillas erano rimasti con il re dopo il loro ritorno dall’Illiria:
avendo avuto modo di vedere le famiglie che si trovavano nella Pelagonia e di
fornire loro denaro sufficiente per tutto l’inverno, i due uomini comandavano ora
ciascuno una falange di fanteria forte di duemila uomini.
Achillas si era conquistato una buona dose di gloria in Paionia, dove Filippo
aveva sottoposto le sue nuove truppe al battesimo del sangue l’autunno precedente:
il re dei Paioni era stato ucciso, il suo esercito messo in fuga, e Filippo aveva dato
per ricompensa ad Achillas una spada dall’elsa d’oro.
Per un’altra ora Filippo osservò i soldati che si addestravano, poi montò sul suo
nuovo stallone nero e si diresse verso il palazzo di Pella, dove Nicanor gli venne
incontro.
– La regina è adesso insediata nella tenuta di Aigai – gli disse. – Simiche è stata
lieta di avere la sua compagnia.
– Come sta Audata?
– Ha sofferto di nausea durante il viaggio ma sta bene. I medici sono con lei
perché sono preoccupati per la sua età e per il fatto che ha i fianchi stretti, ma i
veggenti dicono che la gravidanza si concluderà bene e Diomacus ritiene che
Audata genererà una figlia.
– Voleva restare a Pella – sospirò Filippo, – ma io le ho detto che sarebbe stato
meglio che si spostasse al sud. Non è una donna cattiva, Nicci, ma non la voglio
qui. Questo palazzo è per una sposa speciale.
– Ancora quel sogno?
– Continua a venire, ogni volta più potente della precedenza. Adesso la posso
vedere con maggiore chiarezza di come vedo te.
– Ti sta stregando, Filippo – avvertì Nicanor, i cui occhi tradivano la sua
preoccupazione.
– In questo caso si tratta di un incantesimo per cui un uomo sarebbe pronto a
morire... o a uccidere. Mi dice che avremo un figlio... un uomo dalla grandezza
unica... ed io le credo. Devo quindi edificare un regno degno di lui, ma non posso
farlo finché continuo a pagare un tributo tanto alto a Bardylis.
– Cosa farai?
– L’ho già fatto – sorrise Filippo. – Ho cancellato il tributo.
– Parmenion lo sa?
– È lui il re qui? – s’infuriò Filippo.
– No, sire, non era questo che intendevo. Bardylis non avrà altra scelta che
quella di invaderci. Siamo pronti?
– Credo che lo siamo – rispose Filippo. – Il momento della Macedonia è giunto
ed io non mi recherò a Samotracia come vassallo di un altro uomo. Quando porterò
a casa la mia sposa, la porterò in una nazione vittoriosa... o questo oppure sarò
morto e non mi preoccuperò più dei figli e della gloria. Quello che ti sto dicendo
non dovrà essere ripetuto a nessuno – aggiunse, prendendo Nicanor per un braccio.
– Non dirò nulla – promise questi, e Filippo annuì.
– La Macedonia sarà libera – affermò.
Più tardi, dopo che Nicanor se ne fu andato, Filippo si avvicinò alla lunga
finestra che si apriva nella parete occidentale e sedette a guardare il sole che
tramontava dietro le lontane montagne.
Non aveva detto tutto a Nicanor, né lo avrebbe fatto.
La grande strategia aveva avuto inizio: prima Bardylis, poi la Tessaglia al sud,
quindi la Tracia ad est.
E poi...?
Fin da quel primo sogno, l’ambizione di Filippo era andata crescendo di giorno
in giorno e lui aveva cominciato a vedere gli eventi in modo diverso, su scala più
larga. Per secoli le grandi città avevano cercato di imporre la loro volontà agli altri
Greci, ma tutte avevano fallito: la potente Sparta, invincibile sulla terraferma,
Atene padrona dei mari, Tebe signora della Beozia. Nessuna era riuscita a
dominare a lungo e non ci sarebbe mai riuscita perché i sogni di ciascuna erano
piccoli, ridotti ai confini delle sue stesse mura.
Ma se fosse sorta una nazione forte, sicura e lungimirante, allora le città
sarebbero crollate e tutta la Grecia sarebbe stata libera di unirsi, di essere guidata in
battaglia da un solo re guerriero.
Allora il mondo avrebbe tremato.
Filippo rabbrividì.
Cosa sto pensando? si chiese. Perché quest’ambizione non si era mai
manifestata prima?
Perché adesso sei un re, rispose una piccola voce nella sua mente. Perché sei
un uomo dotato di potere e di introspezione, di saggezza e di coraggio.
Quando Parmenion infine arrivò per fargli il suo rapporto, il re aveva bevuto
parecchie caraffe di vino, ma anche se appariva di umore allegro, sagace e
conviviale, Parmenion avvertì la tensione che si celava dietro il suo buon umore. I
due uomini indugiarono a bere sdraiati sui divani fin quasi a mezzanotte, e fu allora
che Filippo pose la domanda che Parmenion stava aspettando.
– Allora dimmi, stratega, gli uomini sono pronti?
– Per cosa, sire? – replicò Parmenion, tergiversando.
– Per combattere per la libertà della Macedonia.
– Gli uomini sono sempre pronti a combattere per la libertà, ma se mi stai
chiedendo se possiamo sconfiggere gli Illiri, devo risponderti che non lo so. Fra sei
mesi avremo addestrato altri duemila uomini e allora la mia risposta sarà sì.
– Non abbiamo sei mesi – affermò Filippo, riempiendosi ancora la coppa.
– Come mai? – chiese Parmenion, senza scomporsi.
– Ho annullato il tributo. Abbiamo meno di sei settimane prima che l’esercito
degli Illiri oltrepassi le montagne.
– Posso conoscere il tuo ragionamento?
– Ho speso tutto il denaro in armi ed armature e non ne resta per Bardylis.
Possiamo sconfiggerlo?
– Dipende dalla tattica che sceglierà di adottare e dal terreno. Ci serve un
terreno piatto per la fanteria e spazio perché la cavalleria possa colpire tenendosi
sulle ali, ma del resto tutto dipende dallo spirito combattivo delle truppe, sire.
– Come vedi svilupparsi la battaglia?
– Gli Illiri cominceranno con sicurezza, aspettandosi un’altra vittoria facile –
replicò Parmenion, scrollando le spalle. – Questo sarà un vantaggio per noi, ma
quando li avremo respinti formeranno il quadrato da combattimento e a quel punto
sarà tutta questione di forza, di coraggio e di volontà. Qualcosa si creperà e
cederà... noi o loro. Basterà che un uomo cominci a correre e il panico si diffonderà
fra le linee, disintegrandole. Noi o loro.
– Non mi stai riempiendo di sicurezza – borbottò Filippo, finendo il proprio
vino.
– Io sono abbastanza sicuro, sire, ma le nostre forze saranno alla pari e non si
potrà avere la garanzia della vittoria.
– Come sta la tua mano? – domandò d’un tratto Filippo, cambiando argomento.
Parmenion la sollevò e aprì le dita, permettendo al re di vedere il palmo
sfregiato.
– È guarita abbastanza perché possa stringere la cinghia dello scudo, sire.
– Gli uomini parlano di quel giorno – annuì Filippo. – Sono orgogliosi di te,
Parmenion, e combatteranno per te. Non cederanno a meno che non sia tu a farlo:
tutti guarderanno a te... sarai l’anima combattente della Macedonia.
– No, sire. Ti ringrazio per il complimento, ma è al re che gli uomini
guarderanno.
Filippo sorrise, poi scoppiò a ridere. – Dammi questa vittoria, Parmenion. Ne
ho bisogno. La Macedonia ne ha bisogno.
– Farò del mio meglio, sire, ma molto tempo fa ho scoperto che è rischioso
scommettere tutto su una sola corsa.
– Però hai vinto – gli fece notare Filippo.
– Sì – ammise Parmenion, alzandosi, poi s’inchinò e lasciò il palazzo con la
mente in tumulto.
Perché il re aveva deciso di correre un simile rischio? Perché non ritardare
finché il risultato fosse stato più sicuro? Filippo era cambiato da quando la donna
del sogno era venuta da lui, e si era fatto a volte più ombroso e intenso.
Il mattino successivo Parmenion convocò i suoi principali sottufficiali e si recò
con loro sul campo di addestramento nelle vicinanze di Pella; nel gruppo c’erano
dodici uomini, ma i più prominenti erano Achillas e Theoparlis, due delle sue
prime reclute.
– Oggi cominceremo una nuova serie di esercizi di addestramento – disse loro,
– e gli uomini dovranno lavorare come non hanno mai fatto prima.
– C’è qualcosa che dovremmo sapere? – chiese Theo.
– Un esercito è come una spada – replicò Parmenion, – soltanto in battaglia si
può giudicare quanto vale. Adesso non fate altre domande e concentratevi sugli
uomini ai vostri ordini... trovate i deboli ed escludeteli. È meglio essere inferiori di
numero che portare un vigliacco in battaglia.
Lentamente lasciò scorrere lo sguardo sul gruppo, fissando ciascun uomo negli
occhi.
– Affilate le spade – mormorò in tono quieto.
LA PIANA DI LINCESTI, ESTATE 358 A.C.

I due eserciti erano schierati in formazione da battaglia su una piana polverosa


a due giorni di cavallo dalla Macedonia Settentrionale. Gli Illiri, forti di diecimila
fanti e di mille cavalieri, erano superiori di numero ai Macedoni quasi nella misura
di due contro uno.
Smontato di sella, Filippo si avvicinò alla Guardia di Fanteria, che lanciò un
grido di entusiasmo quando lui imbracciò lo scudo e si andò a porre al centro delle
sue file. Parmenion rimase invece in sella insieme ad Attalus e a Nicanor, con quat-
trocento cavalieri che attendevano pazientemente alle sue spalle; lo Spartano lanciò
un’occhiata oltre le tre falangi di fanteria, in direzione dei trecento cavalieri
macedoni schierati sul fianco sinistro agli ordini di Antipatro, che stava impartendo
ai suoi uomini alcune istruzioni dell’ultimo minuto.
– Per Ecate – sussurrò Attalus, scrutando lo schieramento degli Illiri, – quei
figli di buona donna sono tanti.
– Più tardi ce ne saranno di meno – garantì Parmenion, legando le cinghie
dell’elmo dalla cresta bianca nel lanciare un’altra occhiata allo schieramento
nemico distante meno di un chilometro.
Bardylis aveva disposto i suoi uomini nel quadrato da combattimento, con la
cavalleria alla destra, e Parmenion sapeva che in questo modo quel vecchio lupo si
era conquistato il primo vantaggio perché il quadrato sarebbe stato difficile da in-
frangere e nelle prime fasi della battaglia questo avrebbe potuto danneggiare il
morale dei Macedoni in maniera irreparabile.
– Avanti! – tuonò Filippo.
Le Guardie sollevarono le sarisse e marciarono verso il nemico, seguite
dappresso dalle falangi di Theo e di Achillas. Sollevando un braccio, Parmenion
spronò a sua volta lo stallone e la cavalleria si avviò dietro la fanteria, allargandosi
sulla sinistra degli uomini in marcia.
La polvere si levò in dense nubi ma subito il vento la disperse, lasciando una
chiara visuale: Parmenion vide le Guardie cominciare a correre e il suo cuore si
mise a battere più in fretta mentre studiava la loro formazione... era ancora
compatta e lui la incitò a restare tale con tutta la propria forza di volontà.
– Arrivano! – gridò Attalus.
Distogliendo lo sguardo dalla fanteria, Parmenion vide la cavalleria illirica
lanciarsi alla carica attraverso la pianura.
– Ricordate il cuneo! – urlò, sollevando la lancia e spronando lo stallone al
galoppo.
I Macedoni fluirono dietro di lui.
I cavalieri si fecero sempre più vicini, con le lance spianate. Parmenion sollevò
lo scudo, scelse il proprio avversario e arrischiò quindi un’occhiata a destra e a
sinistra: Attalus e Nicanor erano accanto a lui e appena più indietro, e la cavalleria
stava formando una gigantesca punta di lancia. Lo Spartano riportò quindi lo
sguardo davanti a sé in tempo per vedere un cavaliere dal mantello giallo su un
castrato sauro che stava per piombargli addosso; il suo sguardo si spostò sulla
lancia dell’uomo, che poggiava sul collo della cavalcatura, e non appena la punta si
sollevò lui spinse lo stallone sulla sinistra. La lancia dell’avversario fendette l’aria
vicino alla faccia di Parmenion e nello stesso tempo lui piantò la propria arma nella
gola del nemico, scagliandolo al suolo, poi bloccò il colpo di un’altra arma e piantò
la lancia nel ventre esposto di un secondo avversario. Nel cadere l’uomo spezzò
però la lancia di Parmenion, che estrasse la spada e prese ad aprirsi un varco nelle
profondità delle file nemiche.
Il cuneo macedone ebbe l’effetto di dividere le forze degli Illiri, che tentarono
invano di disimpegnarsi e di riformare lo schieramento, perché mentre ci
provavano Antipatro sopraggiunse dalla loro destra e li prese sul fianco. Stretti in
una morsa, gli Illiri furono costretti a lottare per sopravvivere.
Una spada si abbatté sull’elmo di Parmenion e una lancia rimbalzò contro la
sua corazza, aprendogli una lacerazione poco profonda nella coscia, poi la sua
spada si abbassò in risposta e uno spruzzo di sangue zampillò nell’aria.
Lentamente gli Illiri furono spinti indietro in una massa compatta al cui interno
i più non potevano combattere, impacciati com’erano dai compagni. Alcuni cavalli
caddero, calpestando i guerrieri urlanti, poi lo scontro di cavalleria si trasformò in
una rotta quando gli Illiri si aprirono a forza un varco verso sud e fuggirono dal
campo. Antipatro si lanciò al loro inseguimento ma Parmenion, Attalus e Nicanor
richiamarono i loro uomini e riassunsero la formazione alle spalle dello
schieramento di battaglia.
Nel frattempo Filippo non aveva avuto il tempo di seguire le fasi dello scontro
di cavalleria. Quando le Guardie erano arrivate a trenta passi dagli Illiri aveva
ordinato l’alt e la falange aveva rallentato fino a fermarsi, permettendo al
reggimento di Theo di congiungersi ad essa sulla sinistra mentre Achillas si teneva
indietro per prevenire un attacco sul fianco a destra.
Adesso i fanti erano abbastanza vicini da poter vedere in faccia i nemici e da
scorgere il muro di lance e di scudi che li aspettava.
– Vittoria! – tuonò Filippo.
La falange riprese ad avanzare, lunga trecento scudi e profonda dieci, e non
appena giunse vicino al quadrato illirico la linea frontale macedone piantò i talloni
nel terreno, arrestandosi ancora una volta con le sarisse tenute con leggerezza, la
punta che brillava sotto il sole. Gli uomini della seconda fila sollevarono allora
l’asta delle lunghe lance e ad un ordine di Filippo corsero in avanti, spingendo le
spaventose armi nella prima fila di combattenti illirici. Le punte di ferro delle
sarisse trapassarono scudi e corazze, scagliando al suolo parecchi guerrieri, poi le
lance furono ritratte e la manovra ripetuta a danno della seconda fila.
In quel primo scontro parve a Filippo che gli Illiri avrebbero ceduto e si
sarebbero dati alla fuga, tale fu il panico che minacciò di sopraffare il nemico, ma
poi un guerriero illirico dal ventre trapassato afferrò la sarissa che lo stava
uccidendo e si aggrappò ad essa. Altri notarono quel suo atto di sfida e ne segui-
rono l’esempio, serrando le aste di legno e rendendo le armi inutilizzabili.
– Abbandonate le lance! – gridò allora Filippo, e subito la prima linea del suo
schieramento lasciò cadere le lunghe sarisse per estrarre le corte spade da fanteria.
– Avanti! – incitò il re.
Ancora una volta i Macedoni presero ad avanzare, calpestando i corpi degli
Illiri uccisi, ma adesso l’andamento della battaglia era cambiato e la linea in
avanzata venne fermata dal muro degli scudi illirici mentre i Macedoni
cominciavano a cadere vittime delle lance più corte degli opliti nemici.
Achillas, che si era tenuto indietro, vide la carica perdere il suo impeto.
– Alzare le lance! – ordinò, e condusse i suoi uomini alla carica alla destra di
Filippo.
Ancora una volta gli Illiri indietreggiarono con le file lacerate dalle letali
sarisse, ma ben presto anche queste furono rese inutilizzabili e le tre falangi
macedoni si trovarono impegnate in un combattimento mortale mentre Parmenion
e la cavalleria osservavano la scena e aspettavano con crescente preoccupazione.
– Dobbiamo intervenire? – chiese Nicanor.
– Non ancora – replicò Parmenion.
– Ma ci stanno trattenendo... ed hanno migliaia di soldati in più rispetto a noi. Il
loro semplice peso numerico ci costringerà a indietreggiare se dovessero
controcaricare.
– Non ancora – ripeté Parmenion, fissando la massa di guerrieri che
combattevano e desiderando di poter essere nel folto della mischia mentre in cuor
suo pregava che Theo ricordasse le manovre eseguite tante volte nelle
esercitazioni.
La linea macedone davanti a Filippo venne lacerata da un’unità illirica e il re
scattò in avanti, trapassando l’inguine di un guerriero che crollò con un urlo
spaventoso mentre Filippo lo superava con un balzo e sbatteva lo scudo contro la
faccia di un altro avversario. Intorno a lui le Guardie serrarono lo schieramento, ma
adesso il re si trovava in prima fila e stava affrontando direttamente le lance e le
spade dei nemici.
Alla sinistra del re, Theo gridò infine l’ordine che Parmenion stava aspettando.
– In fila per sette! In fila per sette!
Gli uomini sulla sinistra indietreggiarono mentre quelli sulla destra serrarono
gli scudi e premettero in avanti, facendo deviare la falange fino a separarla dalle
Guardie: non appena fra i due reggimenti si aprì un varco gli Illiri scattarono in
avanti come un mare che si precipitasse attraverso una diga infranta.
– Adesso! – urlò Parmenion, e la cavalleria macedone spronò i cavalli al
galoppo, puntando verso l’apertura ed i disorganizzati Illiri.
I soldati nemici si resero conto del pericolo e cercarono di modificare lo
schieramento, ma ormai era troppo tardi e i guerrieri macedoni piombarono loro
addosso da entrambi i lati mentre la cavalleria sopraggiungeva alle loro spalle.
Gli Illiri erano uomini duri abituati alla guerra. Riformato come meglio
potevano il muro di scudi rimasero in attesa della carica, ma la cavalleria infranse
la loro formazione e arrivò fino al cuore del quadrato.
Adesso tutto era caos e confusione, il quadrato era infranto e lo schieramento
macedone era ancora intatto e compatto e si stava aprendo un varco verso Bardylis
e i suoi generali.
Il vecchio re non si mosse, circondato dalla sua guardia reale, ma adesso la
battaglia era ormai diventata un massacro e gli opliti illirici venivano abbattuti a
centinaia dai Macedoni in avanzata.
Bardylis tentò allora un’ultima mossa disperata, ordinando alle sue guardie di
attaccare la linea in cui si trovava Filippo, ma ormai i reggimenti di Theoparlis e di
Achillas si stavano congiungendo per prenderlo sui fianchi. Nonostante tutto,
quattro guerrieri riuscirono ad aprirsi un varco fino a Filippo: il re uccise il primo
con un affondo alla gola, poi le sue guardie piombarono sugli altri tre e li
abbatterono in un momento.
Bardylis rimase in attesa della morte con la spada in una mano e il pesante
scudo nell’altra, ma ad un ordine di Filippo i Macedoni si ritrassero.
– Vieni avanti, padre – ordinò il giovane re.
Con un sospiro, Bardylis ripose la spada nel fodero e oltrepassò l’ultima linea
superstite delle proprie guardie, andando a fermarsi davanti al genero.
– Suppongo che tu voglia che m’inginocchi – disse.
– Un re non si dovrebbe mai inginocchiare davanti ad un altro – replicò Filippo,
riponendo a sua volta la spada nel fodero. – Non sei stato tu ad insegnarmelo?
– Cosa vuoi da me?
– Voglio che mi sia restituito il mio regno: tutti gli Illiri e tutti coloro che hanno
sangue illirico nelle vene dovranno tornare nelle tue terre. Il tributo rimarrà...
soltanto che questa volta sarai tu a pagarmelo.
– Hai percorso molta strada in breve tempo, figlio mio, ed hai combattuto bene.
Che ne sarà di Audata? La ripudierai? Filippo scorse l’angoscia negli occhi di
Bardylis e gli si avvicinò, posandogli una mano sulla spalla.
– Audata mi è cara – garantì, – ed è incinta. Adesso ha una sua tenuta vicino al
mare e si trova laggiù, ma la manderò a trovarti non appena sarà nato il bambino.
Bardylis annuì e si volse verso Parmenion, che era sceso di sella e si era
avvicinato.
– Adesso potrei avere bisogno di te, Spartano – commentò, costringendosi a
sorridere.
Parmenion rispose soltanto con un profondo inchino mentre il vecchio si
allontanava con le sue guardie superstiti. In quel momento un vibrante applauso si
levò dalle file macedoni e Filippo venne sollevato sulle spalle delle guardie che lo
portarono via dal campo in trionfo.
Rimasto solo, Parmenion lasciò vagare lo sguardo sul luogo della battaglia.
C’erano dovunque corpi di uomini e di cavalli e in quel momento sembrava che i
caduti fossero troppi per poter essere contati anche se in seguito avrebbe appreso
che i Macedoni avevano perso settecento uomini, compresi Achillas e Petar; quel
giorno erano però morti anche seimila guerrieri nemici e il potere dell’Illiria era
stato infranto per sempre.
– Aiutami – gemette una voce che veniva da un punto vicino ai suoi piedi.
Nell’abbassare lo sguardo, Parmenion vide Grigery, con il volto trasformato in
una maschera di sangue da un colpo di spada che lo aveva raggiunto di traverso
sulla fronte, devastandogli entrambi gli occhi; da un’altra ferita all’inguine il
sangue stava scaturendo a fiotti insieme alla vita del guerriero.
Inginocchiatosi accanto al morente, Parmenion gli sorresse il capo.
– Abbiamo vinto? – chiese Grigery.
– Abbiamo vinto – rispose Parmenion.
– Chi sei? – sussurrò il guerriero, con voce sempre più flebile.
– Sono... Savra.
– Oh, dèi, ho così tanto sangue negli occhi. Puliscimeli, non riesco a vedere.
– Sdraiati e riposa, amico mio, non cercare di lottare perché non hai più motivo
di farlo.
Grigery rimase in silenzio per qualche tempo, tanto che Parmenion si convinse
che fosse morto, ma d’un tratto riprese a parlare.
– Credevo... che avremmo perso. Sai come chiamano... quello Spartano? La
Morte delle Nazioni. Ha distrutto la sua stessa città e dovunque vada... la morte lo
segue. Adesso non più però, vero, Savra?
Poi la testa gli ricadde all’indietro e l’ultimo respiro gli rantolò nella gola.
Sentendosi assalire dalla tristezza, lo Spartano si alzò in piedi e sollevò lo
sguardo verso il cielo, dove gli avvoltoi giravano già in cerchio in attesa del loro
banchetto.
IL TEMPIO, ESTATE, 357 A.C.

Seduta accanto al letto di Tamis, Derae stava aspettando ciò che era ormai
inevitabile, dato che la vecchia non mangiava più da oltre una settimana e non
aveva aperto bocca da giorni. Quando le prese una mano, si accorse che era calda e
secca, con la pelle che pendeva floscia sulle ossa da cui la carne sembrava
scomparsa, e nel sollevare lo sguardo sui suoi occhi provò molto dolore nel vedere
la loro espressione angosciata e sperduta.
Tentò quindi di usare i propri poteri sulla donna morente, ma sentì che Tamis
stava lottando con tutte le sue forze per opporvisi.
La mezzanotte era prossima quando infine la vecchia sacerdotessa morì, senza
un movimento o un suono che ne indicassero il trapasso: il momento prima il suo
spirito tremolava ancora debolmente e quello successivo era svanito. Per quanto
rattristata, Derae non pianse mentre copriva il volto della vecchia per poi far
ritorno nella propria stanza e andare a letto.
Leucion le aveva lasciato accanto al giaciglio una caraffa d’acqua e una ciotola
di frutta, ma lei non aveva né fame né sete e scivolò subito in un sonno profondo.
Fu destata dal suono di una musica e nell’aprire gli occhi si trovò davanti una
scena che non le era familiare: era accanto ad un grande lago scintillante che si
allargava in una depressione naturale in mezzo ad una catena di alte montagne
innevate; accanto a lei sedeva una donna dalla bellezza abbagliante, con le forme
eleganti avvolte in un lungo chitone d’oro.
– Tamis? – sussurrò.
– Com’ero un tempo – rispose la sacerdotessa, protendendosi con esitazione a
toccarle il braccio. – Cosa ti posso dire? – chiese quindi. – Come posso
domandarti perdono? Non avrei mai dovuto mentire né immischiarmi negli eventi.
L’orgoglio non è un dono della Fonte ed io ne sono caduta vittima. Adesso però
abbiamo poco tempo, Derae, ed io ho molte cose da dirti. Quelle antiche porte che
ti ho mostrato, quelle che attraversano continenti ed oceani... non devi usarle. Non
ti devi opporre direttamente al Dio Oscuro e ai suoi servitori, perché ti
corromperanno.
– Posso combatterli da sola – replicò Derae. – È per questo che mi hai
addestrata.
– Per favore, Derae, ascoltami! Vattene dal tempio, trova Parmenion, fa’ quel-
lo che vuoi ma non seguire il mio sentiero. A quel punto Derae scoppiò a ridere.
– Dov’erano i tuoi dubbi, Tamis, quando hai guidato i razziatori da me,
quando mi hanno legata dietro il cavallo del loro capo? Dov’erano quando ti sei
librata sopra di me, bloccando le mie paure e incitandomi a gettarmi fra le braccia
di Parmenion senza pensare alle conseguenze?
– No, ti prego! – esclamò Tamis, ritraendosi di fronte all’ira della Spartana. –
Ti ho chiesto perdono... per favore!
– Oh Tamis, amica mia – replicò Derae, in tono sommesso ma con lo sguardo
gelido, – io ti perdono. Tuttavia ho visto in che modo hai impedito l’ultima Nascita
Oscura... è stato davvero astuto da parte tua entrare nella mente della ragazza e
indurla a gettarsi dalla torre. Forse la prossima volta sceglierò anch’io questo
metodo. Dovrò pensarci sopra.
– Smettila! Ti imploro, Derae. Io mi sbagliavo, non portare avanti la mia follia.
– Devo impedire la Nascita Oscura – dichiarò Derae, chiudendo gli occhi. – Tu
mi hai preso la vita, Tamis... hai mentito, ingannato, manipolato per questo, e se il
Dio Oscuro avrà successo sarà stato tutto vano. Io non posso permetterlo: sono
una Spartana e non mi arrenderò in questa lotta. E adesso – proseguì, prendendo
la donna per un braccio, – dimmi tutto quello che sai sulla Nascita.
– Non posso.
– Me lo devi, Tamis! Per tutto quello che ho perduto. Adesso dimmelo,
altrimenti ti giuro che causerò la morte di Filippo di Macedonia e di tutti gli altri
servitori del Dio Oscuro.
– Tu sei la mia punizione – sussurrò Tamis, con gli occhi pieni di lacrime. – Sei
Tamis tornata alla vita.
– Dimmi quello che devo sapere – la incitò Derae.
– Mi prometti che non ucciderai?
– Ti prometto che non mi abbasserò mai a commettere un assassinio.
– Allora mi dovrò fidare di te, anche se la mia anima sarà dannata se tu mi
tradirai – sospirò Tamis. – Hai seguito gli eventi della Macedonia? È ovvio che lo
hai fatto: l’ascesa di Filippo, la nascita di una nazione che preannuncia l’avvento
del Dio Oscuro. Il suo corpo fisico sarà concepito sull’Isola di Samotracia durante
la Notte del Terzo Mistero, al culmine dell’estate. È stato tutto preordinato e la
madre sarà Olympia, la figlia di Neoptolemus, re dell’Epiro, mentre il padre sarà
Filippo di Macedonia. Filippo è già stato preparato, stregato, e tu avrai una sola
vera opportunità di riuscita: affinché il Dio Oscuro possa vivere, il concepimento
dovrà avvenire quando le stelle raggiungeranno un certo allineamento che dura
soltanto per un’ora in quell’unica notte. Se sei decisa ad andare avanti con
quest’impresa, allora dovrai recarti a Samotracia e impedire la cerimonia.
– Mancano soltanto dieci giorni al culmine dell’estate – osservò Derae. –
Come posso arrivare a Samotracia in tempo?
– Le Porte che ti ho mostrato danno accesso a sentieri fra i mondi, fra tempi
diversi. Ascoltami, Derae, perché questa è l’ultima volta che avrai modo di
vedermi e devi assimilare bene i miei insegnamenti.

Aprendo gli occhi, Derae vide la luce dell’alba che filtrava già nel cielo e le
stelle che svanivano dinnanzi ad essa. Alzatasi, si versò un bicchiere d’acqua e lo
sorseggiò lentamente.
Samotracia, l’Isola dei Misteri. Quel pensiero le strappò un brivido perché una
volta Tamis aveva definito quell’isola il regno del Dio Oscuro e l’idea di recarvisi
le recò una fitta di terrore che era quasi panico... ma poi si rese conto che anche
Parmenion sarebbe stato là. Per la prima volta da quasi un quarto di secolo si
sarebbero incontrati... ma che sarebbe successo? Lei non era più l’adolescente dai
capelli di fiamma che Parmenion ricordava, così come lui non era più il timido
aspirante guerriero di un tempo. Adesso qualcosa di più del tempo li separava, e
tuttavia sarebbe stato bello poterlo avvicinare di nuovo.
Derae aveva seguito con sentimenti contrastanti i suoi successi al fianco di
Filippo: il primo, lo scorso anno, aveva portato all’annientamento degli Illiri, e da
allora c’erano stati la marcia sulla Tessaglia per rendere sicuri i confini
meridionali, l’invasione della Paionia e l’assedio di Anfipoli.
Adesso i lupi delle principali città vedevano la Macedonia con occhi diversi:
dove un tempo scorgevano soltanto un agnello pronto per essere tosato o
macellato, scorgevano ora un leone giovane e possente, orgoglioso e arrogante.
L’orgoglio di Derae per i successi di Parmenion era però sfumato di tristezza,
perché quanto più la Macedonia fosse divenuta potente, tanto più letali sarebbero
state le conseguenze una volta che il Malvagio si fosse seduto sul suo trono.
Il timore tornò ad assalirla e si sentì come una bambina che avesse di fronte a
sé un incendio boschivo, un enorme muro di fiamme che minacciava di fagocitare
il mondo.
Cosa posso fare per fermarlo? si chiese. Abbassando lo sguardo, lo posò sul
boccale d’acqua che aveva in mano e d’un tratto sorrise, poi tornò nella stanza di
Tamis.
– Manterrò la parola che ti ho dato, Tamis, e non ricorrerò all’assassinio... ma
se mi attaccheranno i servitori del Dio Oscuro moriranno, perché non intendo
lasciarmi ostacolare.
Il lenzuolo copriva ancora il corpo, e quando lo trasse indietro Derae vide che
sul letto restava soltanto uno scheletro le cui ossa bianche non erano più tenute
insieme neppure da un filamento di pelle: lo spostamento del lenzuolo fece rotolare
il teschio dal cuscino e lo mandò a cadere al suolo, dove si infranse in una miriade
di schegge.
SAMOTRACIA, ESTATE, 357 A.C.

La traversata era stata tranquilla e la nave scivolò senza problemi a ridosso del
molo, con tre file di remi che rallentavano la sua corsa, poi i marinai lanciarono
alcune corde agli uomini in attesa a terra e la grande nave fu ancorata al suo posto.
Filippo scese la passerella seguito da Parmenion.
– Non riesco quasi a contenere la mia eccitazione – dichiarò il re, quando si
arrestarono sul terreno solido, fissando le colline alberate. – Credi che lei sia già
qui?
– Non lo so, sire – replicò Parmenion, – ma mi preoccupa la mancanza di
guardie al tuo seguito. Nei dintorni ci potrebbero essere sicari assoldati da uno
qualsiasi dei tuoi nemici.
Filippo scoppiò a ridere e gli assestò un pugno leggero contro la spalla.
– Ti preoccupi troppo. Noi siamo soltanto viandanti, girovaghi, mercenari.
Pochi conoscono il mio piano.
– Antipatro, Attalus, Nicanor, Theoparlis, Simiche... e gli dèi sanno quanti altri
– borbottò Parmenion. – Tutto quello che ci vuole è una parola detta al momento
sbagliato.
– Non succederà, amico mio – rise Filippo. – Questo incontro è stato
predisposto dagli dèi, e comunque ho con me il Leone di Macedonia a proteggermi
– aggiunse, ridendo ancora del disagio di Parmenion. – Sai, dovresti proprio
prendere in considerazione l’idea di trovarti una moglie... o un’amante. Sei
decisamente troppo serio.
In quel momento una donna alta che vestiva di scuro venne verso di loro e
s’inchinò.
– Benvenuto a Samotracia, nobile Filippo – disse.
– Splendido – sussurrò Parmenion. – Forse hanno addirittura in programma una
parata.
La donna gli scoccò un’occhiata perplessa, poi riportò lo sguardo su Filippo.
– Stanotte ci sarà un banchetto in tuo onore e domani una caccia sulle colline.
– Ti ringrazio, signora – replicò Filippo, prendendo la mano della donna e
baciandole il palmo. – È davvero un onore e un privilegio essere accolto da una
creatura di tale grazia e bellezza... ma come sapevate del mio arrivo?
La donna si limitò a sorridere senza rispondere, poi li precedette attraverso
l’affollata città portuale fino al punto dove attendevano altre due donne che
tenevano per le briglie due stalloni bianchi, e indicò un palazzo bianco che distava
poco più di un chilometro verso nord.
– Le vostre stanze sono state preparate, signori. Spero che i cavalli siano di
vostro gradimento.
– Ti ringrazio – rispose Filippo. Gli animali erano di bell’aspetto ma il torace
non era ampio, il che indicava poco spazio per i polmoni e per il cuore,
comportando una mancanza di resistenza e di forza.
I due uomini montarono in sella e si avviarono lentamente verso il palazzo
seguiti dalle donne che procedevano a piedi.
Nei campi sulla destra e sulla sinistra altri cavalli erano intenti a pascolare,
animali dalle zampe magre e con la schiena spesso incurvata verso l’alto, cosa che
doveva renderli molto scomodi da cavalcare.
– A che serve allevare animali inutili come quelli? – chiese Filippo a
Parmenion, riuscendo a stento a nascondere il proprio disgusto.
– Qui usano carri e cocchi, sire, ma non ci sono cavalieri – replicò Parmenion,
indicando verso il porto. – È evidente che non si preoccupano di selezionare
animali da sella.
Il re rispose soltanto con un grugnito, perché nulla offendeva un Macedone più
della scarsa abilità nel selezionare e allevare cavalli.
Il suo buon umore riaffiorò però nel palazzo, dove vennero loro incontro tre
splendide donne vestite di verde e di giallo.
– Non ci sono uomini qui? – domandò Filippo.
– Soltanto tu e il tuo compagno, sire – replicò una di esse.
I due furono quindi accompagnati in un sontuoso appartamento con divani
coperti di seta e tende ricamate in oro.
– Se hai bisogno di qualsiasi cosa, signore, basterà che tu la chieda – disse una
ragazza dai capelli corvini.
– Cosa intendi esattamente per «qualsiasi cosa»? – domandò Filippo,
sorridendo e prendendola per la vita.
Lei gli insinuò una mano sotto la tunica, accarezzandogli una coscia.
– Significa esattamente ciò che tu vuoi che significhi – replicò.
Accostatosi alla finestra, Parmenion trasse intanto indietro le tende e indugiò a
fissare i campi e i prati: era stanco e voleva soltanto fare un bagno. Sentendo la
ragazza ridacchiare alle sue spalle, soffocò una sommessa imprecazione.
– Cosa c’è che non va in te, stratega? – domandò poi Filippo.
Voltandosi, Parmenion vide che le ragazze se n’erano andate.
– Sono soltanto a disagio.
– Dovresti seguire il mio consiglio e godere della compagnia di queste donne...
fa bene all’anima.
– Forse lo seguirò – replicò Parmenion.
Riempiendo due coppe di vino da una caraffa posata sul tavolo, Filippo ne
porse una a Parmenion.
– Siedi con me per un po’, amico mio – disse, conducendo il generale verso un
divano. – Quando mi trovavo a Tebe mi hanno raccontato del tuo amore per una
sacerdotessa chiamata Thetis...
– Non desidero parlarne, sire.
– Non hai mai accennato a lei, e neppure a quell’altra donna che hai amato.
Come mai?
– A che serve parlare del passato? – replicò Parmenion, deglutendo a fatica e
distogliendo lo sguardo. – Cosa si ottiene?
– A volte serve a incidere una pustola, Parmenion. Il generale chiuse gli occhi,
lottando contro l’affluire dei ricordi.
– Io... ho amato due donne ed entrambe, in maniera diversa, sono morte per me.
La prima si chiamava Derae, ed era una Spartana. A causa del nostro... amore... è
stata sacrificata: l’hanno gettata in mare al largo delle coste dell’Asia. La seconda
era Thetis, ed è stata uccisa dagli assassini mandati contro di me da Agisaleus. Non
ce ne sono state altre e non succederà mai più che qualcuno che amo debba morire
per me. Ora, sire, se non ti dispiace preferirei...
– Mi dispiace – lo interruppe Filippo. – È un fatto della vita che la gente muoia.
La mia prima moglie, Phila, è morta un anno dopo il nostro matrimonio. Io
l’adoravo, e la notte in cui è morta volevo tagliarmi la gola per seguirla nell’Ade,
ma non l’ho fatto... e adesso sto per incontrare una donna di sogno.
– Mi fa piacere per te – replicò freddamente Parmenion, – ma tu ed io siamo
diversi.
– Non tanto diversi – obiettò Filippo. – Tu però porti l’armatura non soltanto
sul tuo corpo ma anche sul tuo spirito. Io sono più giovane di te, amico mio, ma in
questa situazione sono il padre di un figlio spaventato: hai bisogno di una moglie e
di avere dei figli, quindi non ti preoccupare dell’amore. Tuo padre, chiunque fosse,
ti ha dato un dono unico al mondo... tu sei la sua immortalità. A loro volta, i tuoi
figli faranno lo stesso per te. Ora però basta con le prediche: voglio fare un bagno e
poi manderò a chiamare quella ragazza dalle gambe slanciate. Quanto a te, ho il
sospetto che ti aggirerai per il palazzo esaminandone le difese naturali e cercando
assassini nascosti.
A quel punto Parmenion scoppiò in una risata piena di calore e di buon umore.
– Mi conosci troppo bene, giovane padre.
– Ti conosco abbastanza perché tu mi piaccia, e questa è una cosa rara – replicò
Filippo.
Lo Spartano vagò per i giardini del palazzo e si spinse al di là di essi, sulle
colline che dominavano la baia; mentre passeggiava, vide un ragazzo che
sorvegliava un gregge di pecore e che agitò una mano in un cenno di saluto;
rispondendo con un sorriso, Parmenion continuò a camminare seguendo un muro
di pietre che si snodava incurvato fino alla sommità di un’alta collina, poi si sentì
attratto da un bosco i cui alberi avevano i rami carichi di boccioli rosa e bianchi e
sedette all’ombra, assopendosi.
Al risveglio scorse una donna alta e snella che stava camminando verso di lui e
si alzò in piedi, riparandosi gli occhi con una mano per vederla in faccia. Per un
momento soltanto gli parve che i suoi capelli avessero cambiato colore, perché in
un primo tempo gli erano sembrati rossi come la fiamma e punteggiati di argento,
mentre adesso apparivano scuri. Dicendosi che doveva essere stato uno scherzo
della luce, si inchinò alla donna quando gli giunse vicino: a prima vista i suoi abiti
apparivano neri come la notte, ma quando lei si muoveva le pieghe ne riflettevano
la luce e si rivelavano del ricco blu tremolante delle profondità dell’oceano; il velo
che le copriva il volto indicava un lutto recente.
– Benvenuto, straniero – disse la donna, e la sua voce suonò stranamente
familiare ed eccitante.
– Questa è la tua terra, signora?
– No. Tutto quello che vedi qui appartiene alla nobile Aida. Anch’io sono una
straniera. Da dove vieni?
– Dalla Macedonia.
– E prima ancora?
– Da Sparta e da Tebe.
– Allora sei un soldato?
– È così evidente? – domandò lui, perché in quel momento indossava soltanto
un chitone azzurro chiaro e i sandali.
– I tuoi polpacci sono di un colore più chiaro delle tue cosce, il che induce a
pensare che di solito siano coperti dagli schinieri; allo stesso modo, la fronte non è
abbronzata quanto il resto della faccia.
– Sei molto osservatrice – replicò lui, cercando di mettere a fuoco il volto
nascosto dal velo, ma alla fine ci rinunciò. Per come riusciva a scorgerli, gli occhi
della donna sembravano opachi, come due opali. – Vuoi sedere qui con me per un
momento? – chiese d’un tratto, sorprendendo anche se stesso.
– Questo è un posto piacevole – replicò lei, in tono sommesso, – quindi credo
che mi fermerò per un po’. Cosa ti porta a Samotracia?
– Ho un amico... è venuto qui per incontrare la sua sposa. Tu da dove vieni?
– Vivo oltre il mare, in Asia, ma viaggio spesso. È passato molto tempo
dall’ultima volta che sono stata a Sparta. Quando vi hai vissuto?
– Per tutta la mia infanzia.
– Tua moglie è una Spartana?
– Non ho moglie.
– Non ti piacciono le donne?
– Certo che mi piacciono – si affrettò a rispondere lui. – Non ho neppure un
amante maschio. Un tempo ho avuto una moglie: si chiamava Thetis, ma adesso è
morta.
– La amavi molto? – domandò la donna.
– No – ammise lui, – ma era una brava donna... leale, affettuosa e coraggiosa.
Ma perché dobbiamo parlare di me? Sei in lutto? Oppure ti puoi togliere il velo?
– Sono in lutto. Qual è il tuo nome, soldato?
– Gli amici mi chiamano Savra – rispose Parmenion, non volendo dire a quella
sconosciuta il nome che veniva sussurrato nelle città di tutto il mondo.
– Sii felice, Savra – augurò la donna, alzandosi con grazia.
– Devi proprio andare? Mi... mi piace la nostra conversazione – protestò lui,
goffamente.
– Sì, devo andare.
Alzandosi a sua volta Parmenion si protese a prenderle una mano: per un
momento lei esitò, poi sfiorò le sue dita e Parmenion sentì il proprio cuore
accelerare il battito, mentre veniva assalito dal desiderio di protendersi a sollevare
quel velo. Invece si portò la mano di lei alle labbra per baciarla e la lasciò poi
andare con riluttanza.
La donna si allontanò senza una parola e Parmenion si accasciò di nuovo a
sedere sul terreno, stupefatto dalla propria reazione nei confronti di quella
sconosciuta: forse la conversazione con Filippo aveva toccato qualche corda
nascosta nel profondo del suo animo. Intanto la donna era scomparsa oltre il crinale
della collina e lui si affrettò a raggiungerne la sommità per intravederla un’ultima
volta.
La sconosciuta stava camminando verso la distante foresta e sotto i raggi del
sole i suoi capelli sembravano di nuovo di un colore fra il rosso e l’oro.

Un accenno di crampo al braccio sinistro svegliò Filippo un’ora dopo l’alba e


lui abbassò lo sguardo sulla bionda accolita la cui testa gli posava sul bicipite,
liberando con delicatezza il braccio in questione; alla sua destra qualcuno si mosse
e una seconda ragazza, bruna e graziosa, aprì gli occhi, sorridendogli.
– Hai dormito bene, mio signore? – chiese, accarezzandogli lentamente il
ventre.
– Meravigliosamente – rispose lui, afferrandole il polso con una mano. –
Adesso però vorrei la risposta ad alcune domande.
– Le domande non possono aspettare? – sussurrò la ragazza, girandosi per
guardarlo in faccia.
– Non possono aspettare – ribadì lui, con decisione. – Chi possiede questo
palazzo?
– La nobile Aida.
– Non conosco questo nome.
– È la Somma Sacerdotessa dei Misteri – spiegò la ragazza.
– Bene, mia cara, allora riferiscile che desidero vederla.
– Sì, signore.
La ragazza gettò indietro le coltri e si alzò, mentre dal letto Filippo indugiava
ancora ad ammirare la sua lunga schiena, la vita sottile, i fianchi arrotondati e i
glutei perfetti.
– Subito! – ordinò, con maggiore forza di quanto fosse stata sua intenzione. –
Va’ subito!
Accanto a lui la ragazza bionda si svegliò e sbadigliò.
– Fuori! – ruggì Filippo. – E dite a qualcuno di mandarmi una brocca di acqua
fresca.
Dopo che le ragazze furono uscite dalla stanza il re si alzò e chiuse gli occhi in
reazione al martellare che aveva nella testa, aprendo le tende dell’ampia finestra.
I raggi del sole parvero trapassargli il cervello e lui volse le spalle alla finestra
con un’imprecazione. Il vino della sera precedente era forte, ma quegli effetti
derivavano dai semi scuri che lui ricordava così chiaramente. Le ragazze li
tenevano in piccole scatole d’argento e glieli avevano offerti dopo che si erano
amati una prima volta. Quei semi seccavano la lingua ma infiammavano il corpo e
la mente, i colori sembravano diventare impossibilmente vividi mentre tatto, gusto
e udito risultavano intensificati. Filippo aveva sentito le proprie forze centuplicar-
si... insieme ai suoi appetiti.
Adesso però la testa gli pulsava ed era debole, una sensazione che non gli
piaceva per nulla.
Indossato un chitone pulito di colore verde scuro sedette su un divano in attesa
dell’acqua. La ragazza dai capelli scuri gli portò la brocca e aspettò che lui avesse
bevuto avidamente per poi offrirgli la scatoletta d’argento, aprendola per mostrare i
secchi semi marrone al suo interno.
– Ti ridaranno le forze – promise.
Filippo fu tentato ma allontanò la scatola con un cenno.
– Cosa mi dici della Somma Sacerdotessa? – chiese invece.
– Sarà qui a mezzogiorno, signore, e allora le riferirò la tua richiesta.
– Quanti altri ospiti ci sono in questo palazzo?
– Attualmente soltanto uno, la nobile Olympia.
– Olympia? Da dove viene?
– Dall’Epiro, signore. È la figlia del re.
– Allora voglio vederla.
La ragazza apparve sconvolta... e poi spaventata.
– No, signore, questo è proibito. Olympia si sta sottoponendo al Rito
dell’Unione e nessun uomo potrà vederla prima della notte prestabilita...
soprattutto il suo fidanzato. Gli dèi lo priverebbero della vista!
– Manda Parmenion da me.
– Non è nel palazzo, signore. Lo hanno visto correre fra le colline subito dopo
l’alba.
– Allora avvertilo quando sarà di ritorno – scattò Filippo. – Ora lasciami solo!
Dopo che la ragazza se ne fu andata, Filippo avvertì un momentaneo
rincrescimento per averla trattata così male, ma la sua irritazione era tale che la
sensazione lo abbandonò presto. Per un’ora passeggiò avanti e indietro per la
stanza, poi fece colazione a base di pere e di formaggio di capra e infine uscì sui
prati oltre il palazzo e il suo umore non venne certo migliorato dalla vista dei
cavalli che vi pascolavano, creature deboli dalle gambe sottili. Sedutosi su un
ampio cancello, lasciò scorrere lo sguardo sulle colline, dove alcune pecore
pascolavano sorvegliate da un ragazzino snello.
Cosa ti prende, Filippo? si chiese. Quelle donne erano meravigliose,
disponibili ed estremamente creative, e di solito dopo una notte d’amore ti svegli
sentendoti come un giovane Eracle. Sono stati quei dannati semi. Non li prenderò
mai più!
Poi vide Parmenion scendere di corsa il fianco di una collina e lo chiamò con
un grido. Lo Spartano rallentò il passo.
– Buon giorno, sire. Ti sei svegliato presto.
– Sono in piedi da ore – ribatté Filippo, mentre Parmenion si appoggiava allo
steccato per stirare i muscoli dei polpacci. – Sei sempre veloce, Leone. Credo che
potresti batterli tutti ancora adesso.
– Vorrei che fosse vero, sire, ma non voglio ingannare me stesso. Cosa c’è che
non va?
– È tanto evidente?
– Hai l’aspetto di una nube temporalesca.
– È l’attesa, Parmenion. Per due anni ho desiderato questo giorno e adesso non
posso tollerare di attendere oltre. Lei è qui, si chiama Olympia... e non mi è
permesso di vederla. Per gli dèi! Io sono Filippo! Prendo quello che voglio!
– Siamo arrivati da appena un giorno, sire, sii paziente – annuì Parmenion. –
Come hai detto, questo incontro è stato predisposto dagli dèi, quindi lascia che le
cose seguano il loro corso. Perché non corri per un po’? Ti sgombrerà la mente.
– Ti sfido ad una corsa fino a quella macchia di alberi – rispose Filippo,
scattando improvvisamente in avanti.
La brezza del mattino gli diede una sensazione piacevole sul volto e la gara lo
fece sentire vivo, eliminando il dolore alla testa. Poteva udire Parmenion alle
proprie spalle e accelerò il passo su per la collina: non gli importava nulla del fatto
che lo Spartano avesse già corso per oltre un’ora, il confronto era tutto. Superò con
un salto un masso e si lanciò verso gli alberi distanti trecento passi. Adesso il suo
respiro era più affannoso e avvertiva il bruciore ai polpacci, ma sentiva anche che
lo Spartano gli era sempre alle calcagna. Rallentò il passo, e non appena
Parmenion gli si affiancò protese un braccio e gli assestò uno spintone, facendogli
perdere l’equilibrio. Lo Spartano incespicò e rimase indietro, dando a Filippo il
margine che gli serviva per arrivare agli alberi e battere il palmo della mano contro
il primo tronco.
– È stata una tattica sleale! – gridò Parmenion.
– Vittoria – rispose stancamente Filippo, lasciandosi cadere al suolo e
sollevando il braccio, con la faccia arrossata e il respiro affannoso. Entro pochi
minuti si fu ripreso e i due uomini sedettero all’ombra contemplando i campi e le
montagne... ma lo sguardo di Filippo venne attratto con frequenza sempre
maggiore dal palazzo bianco.
– Avrò una casa come quella – disse; – una dimora in cui perfino gli dèi
sarebbero felici di vivere. Un giorno l’avrò, Parmenion.
– È tutto quello che vuoi, sire?
– No. Cosa vuole qualsiasi uomo? Eccitazione, potere. Penso spesso a
Bardylis... vecchio, avvizzito, quasi morto, poi guardo me stesso e vedo un corpo
giovane e forte, ma non mi lascio ingannare, Parmenion. Bardylis è soltanto un
riflesso di ciò che Filippo sarà un giorno. Voglio vivere la vita pienamente e non
voglio che la mia vecchiaia sia turbata neppure da un solo rimpianto.
– Stai chiedendo molto, Filippo – mormorò Parmenion. – Tutti gli uomini
hanno dei rimpianti... perfino i re. Filippo lo guardò e gli sorrise.
– Per due anni ti ho chiesto di chiamarmi Filippo quando siamo soli... e tuttavia
tu aspetti fino a questo momento per farlo. Come mai?
– Questi sono giorni strani – replicò lo Spartano, scrollando le spalle. – Ieri tu
mi hai parlato come un padre, poi ho incontrato una donna ed ho provato
un’eccitazione che non avvertivo più da un decennio. Oggi mi sento... diverso...
sono di nuovo un uomo.
– L’hai posseduta?
– A volte, Filippo, sei tanto prevedibile da abbagliarmi – rise Parmenion. – No,
non l’ho posseduta, ma se devo essere sincero lo desideravo e questa è una
sensazione che mi è stata sconosciuta per troppo tempo. A proposito, quante donne
hai avuto nelle tue stanze la scorsa notte? A giudicare dal rumore sembrava che ci
fosse un intero gruppo di danzatrici.
– Soltanto venti o trenta – rispose Filippo. – Allora, come si chiamava questa
donna?
– Non lo so.
– Dove vive?
– Non so neppure questo.
– Capisco. Non ti pare che potrebbe essere un po’ difficile portare avanti questa
relazione? Che aspetto aveva?
– Portava il velo.
– Quindi il generale Parmenion si è innamorato di una donna di cui non ha visto
il volto e di cui non conosce il nome. Non riesco a capire la natura della tua
eccitazione. Aveva piedi graziosi?
Parmenion scoppiò a ridere e si appoggiò all’indietro sull’erba, fissando il
cielo.
– Non ho visto i suoi piedi – rispose, poi riprese a ridere in maniera tanto
contagiosa che anche Filippo cominciò a ridacchiare, sentendo il proprio umore
cupo che si dissipava.
Dopo un po’ entrambi tornarono al palazzo, dove il re consumò una seconda
colazione; la ragazza bruna venne da lui poco dopo mezzogiorno.
– La nobile Aida è disposta a vederti, signore – avvertì.
Filippo la seguì per un lungo corridoio e fino ad una stanza dall’alto soffitto
dove numerose statue femminili erano disposte lungo le pareti. Una donna era in
attesa accanto alla finestra esposta a sud e all’ingresso di Filippo si girò verso di
lui: la donna portava una tunica scura munita di cappuccio, il suo volto era pallido
come l’avorio e Filippo deglutì a fatica nel riconoscere in lei la sconosciuta che
aveva visto nel suo primo sogno.
– Finalmente ci incontriamo – disse la donna.
– Dov’è la mia sposa? – domandò Filippo.
– La troverai ad attenderti. Domani, durante la terza Notte dei Misteri, sarà
condotta nelle tue stanze. C’è però una cosa che devi fare, re della Macedonia.
– Dimmela.
– Non andrai da lei fino alla terza ora dopo la mezzanotte: in quel’ora precisa
lei concepirà tuo figlio... non un minuto prima e non uno dopo. Giacerete insieme
alla terza ora. Se questo non sarà fatto, non ci sarà matrimonio.
– Pensi che abbia problemi in questo campo? – rise Filippo.
– Spero di no, Filippo – replicò con freddezza la donna, – perché molto dipende
da questo. Il bambino che nascerà sarà più grande di qualsiasi guerriero che lo ha
preceduto... ma soltanto se sarà stato concepito nella terza ora.
– Come ho detto, non vedo motivo di temere un fallimento.
– Allora te ne fornirò io due. Se fallirai, tutti i tuoi sogni di grandezza
diventeranno polvere perché gli dèi ti abbandoneranno. Inoltre, tu hai già un figlio,
Arrhidaeus, che è ritardato di mente e fragile di corpo. Tua moglie Phila è morta
nel darlo alla luce. A parte quest’unica occasione, Filippo, tu genererai soltanto
femmine. Quello che ti sto offrendo è la possibilità... la tua unica possibilità... di
generare un erede perfetto.
– Come sai di Arrhidaeus? – sussurrò Filippo.
– Conosco tutti i tuoi segreti, conosco i segreti di tutto il mondo. Sii pronto, re
della Macedonia, perché Olympia ti aspetterà.

Aida osservò il Macedone girarsi e lasciare a grandi passi la stanza; quando la


porta si fu richiusa alle sue spalle, andò a sedersi su una sedia dall’alto schienale in
preda ad un senso di disagio e di confusione.
Filippo era un uomo possente, dotato di un magnetismo personale affascinante,
e tuttavia c’era qualcosa che non andava. Aida sentì crescere la propria tensione
perché molto dipendeva da quell’unione, piani approntati con cura nel corso di
tanti anni.
Aida era stata soltanto una bambina quando sua madre le aveva parlato per la
prima volta del Sogno della Nascita Oscura e dei molti fallimenti che erano seguiti.
Soltanto una volta ogni cinquant’anni l’armonia dell’universo veniva meno e dava
origine ad un momento unico di confusione planetaria.
L’ultima volta che tale allineamento si era verificato, in Mesopotamia, Aida
aveva quattordici anni; sua madre aveva stregato il grande re ed aveva preparato
un’accolita di straordinaria bellezza. La notte di nozze si era svolta come previsto
ma poi la ragazza... con la mente stordita dalle droghe... era uscita sulla balconata
ed aveva trovato la morte sul lastricato di marmo del cortile sottostante. La madre
di Aida ne era rimasta desolata e per due mesi aveva rifiutato di parlare. Poi,
quando sembrava che stesse per riprendersi dal colpo subito, si era tagliata la gola
con un coltello di bronzo.
Adesso il momento era prossimo ancora una volta: nel caso di Olympia non ci
sarebbero state balconate o altri pericoli, e Filippo era un ariete che non avrebbe
avuto difficoltà ad adempiere al suo... compito... necessario.
Allora cosa poteva andare storto? Aida non lo sapeva, ma avvertiva il tocco
gelido del timore.
Chiudendo gli occhi si librò con lo spirito, salendo al di sopra del palazzo e
spostandosi sulle verdi colline... cercando senza sapere cosa.
Gli assassini mandati dalla città di Olyntus erano morti quando la loro barca era
stata distrutta da una tempesta improvvisa; uno di essi aveva raggiunto le rive di
Samotracia ma la sua testa era stata fracassata con una pesante roccia da due
accolite di Aida, quindi non c’era nessun pericolo da parte di eventuali sicari... lei
lo avrebbe saputo.
Nonostante questo, non riusciva ad accantonare le sue paure, perché aveva
fiducia nel proprio Talento e nel proprio intuito. Anche se non era capace di
percorrere i sentieri del Passato e del Futuro, era comunque dotata di grande potere
e sapeva leggere nel cuore e nella mente degli uomini, anticipando gli eventi. I
governanti della città di Olyntus temevano Filippo, quindi non era stato difficile
intuire le loro intenzioni, soprattutto adesso che l’ex-favorito del re, Nicanor, aveva
nella sua casa di Pella un’amante originaria di Olyntus.
La tempesta aveva richiesto un prezzo elevato... due accolite di Aida avevano
dovuto essere sacrificate, con il cuore strappato dal petto... ma valeva la pena di
pagare qualsiasi prezzo per avere la garanzia che il Signore del Fuoco potesse
nascere nella carne. Aida avrebbe sacrificato un’intera nazione pur di poter
ottenere un tale miracolo.
Tornando nel proprio corpo, riaprì gli occhi.
Dov’era il pericolo?
Rifletti, Aida! Usa la mente!
Aveva frugato tutta l’isola, i diciassette villaggi e i quattro porti, ma non aveva
trovato nulla. Pensò a Tamis, desiderando quasi che fosse viva in modo da avere
ancora qualcuno su cui focalizzare il proprio odio.
Vorrei averti potuta uccidere dozzine e dozzine di volte!
La vecchia sacerdotessa era stata per lei una spina nel fianco per decenni, ma
stranamente la sua morte aveva attenuato ben poco l’odio di Aida. Quanto potere
andato sprecato nelle mani di quella sgualdrina! si disse, ricordando con squisito
disgusto gli amanti di Tamis.
L’altra sacerdotessa l’aveva inizialmente preoccupata, ma anche lei era
imperfetta.
Quindi dov’era il pericolo?
Chiudendo gli occhi ancora una volta volò attraverso il mare e si librò sul
tempio: un uomo alto stava curando i giardini e non c’erano supplici in attesa sui
prati. In fretta, Aida si corazzò con alcuni incantesimi protettivi ed entrò nel
tempio... trovandolo vuoto.
Dove sei, mia colombella? pensò.
Tornata a Samotracia passò al setaccio l’isola ancora una volta... con cura e in
maniera completa, vagliando ogni collina ed ogni bosco.
Alla fine, stanca fin quasi allo sfinimento, tornò nel palazzo e si recò ai canili
sottostanti il muro esterno. I mastini neri cominciarono ad abbaiare quando lei
entrò, aprendo il cancello di legno e muovendosi in mezzo a loro, accoccolandosi e
lasciando che le si accalcassero addosso. Evocata un’immagine di Derae, la
proiettò quindi nella mente di ciascun cane, imprimendovela e tenendovela fino a
quando i latrati cessarono, poi sollevò un braccio e indicò il cancello aperto.
– Andate! – gridò. – Assaporate il suo sangue e fracassate le sue ossa! Andate!

Derae sedeva in una depressione sotto i rami fioriti di un albero, con la mente
tesa. Aveva avvertito la ricerca e localizzato lo spirito di Aida mentre si librava dal
palazzo: calmando il senso di panico che l’aveva assalita, si era appoggiata con la
schiena contro il tronco dell’albero, con le braccia incrociate e le mani posate sulle
spalle, poi aveva fuso la propria mente con quella della pianta, penetrando nella
corteccia attraverso la linfa grondante che uccideva la maggior parte degli insetti e
arrivando ai capillari attraverso i quali l’acqua veniva fatta risalire alle foglie e ai
fiori.
A quel punto Derae aveva cessato di esistere: adesso era l’albero, con le radici
profonde che cercavano umidità e nutrimento nella terra scura, con i rami che si
allargavano pervasi dal lento fluire della vita. Sentendo la luce del sole sulle foglie,
si era concentrata sui boccioli portatori di semi che avrebbero garantito la sua
esistenza per l’eternità. All’interno dell’albero regnava la pace... una pace intensa.
Alla fine ritrasse il proprio spirito e andò in cerca di Aida: la strega era tornata
nel suo palazzo, quindi Derae si alzò e scese lentamente sui prati adiacenti il bosco
dove quella notte le accolite avrebbero celebrato il Terzo Mistero, soffermandosi a
bere ad un ruscello.
Poi sentì in lontananza un abbaiare di cani pronti alla caccia.
Assestatasi il velo, si sedette su un masso e si dispose ad attendere, non
sapendo da quale direzione sarebbe arrivato... il rumore dei suoi passi era molto
sommesso e inconsciamente furtivo.
– C’incontriamo ancora signora – disse la sua voce, e lei si volse.
– Come stai, Savra?
– Bene... ancora meglio ora che ti ho vista di nuovo.
Con gli occhi dello spirito, Derae scrutò il suo volto: i lineamenti
dell’adolescenza erano svaniti da tempo per essere sostituiti da quelli angolosi e
quasi aspri di un uomo, e tuttavia lui era ancora il Parmenion che lei ricordava. Il
suo Parmenion!
– Hai un modo di parlare molto cortese... per un soldato.
– Di solito non è così, signora, ma tu porti alla luce il meglio che c’è in me.
Come ti chiami?
Lei si sentì improvvisamente lacerata interiormente dal desiderio di togliersi il
velo, di mostrargli il proprio volto e di dirgli quanto avesse sentito la sua mancanza
in tutti quegli anni solitari, ma alla fine gli volse le spalle.
– Niente nomi – disse infine.
– C’è qualcosa che non va? – chiese Parmenion, facendosi più vicino.
– Nulla – replicò lei, costringendosi a parlare con gaiezza. – È una splendida
giornata.
Un mastino dal lucido pelo nero uscì dal bosco e si diresse verso di loro:
improvvisamente l’animale ritrasse le labbra sulle lunghe zanne e dalla gola gli
scaturì un ringhio profondo che indusse Parmenion a portarsi davanti a Derae,
posando la mano sull’elsa della daga che aveva al fianco.
– Vattene! – ruggì.
Il mastino indietreggiò di parecchi passi... poi si scagliò contro Derae. La lama
dello Spartano brillò al sole nel momento in cui il cane spiccava il salto contro la
donna e Parmenion si lanciò in avanti per intercettarlo, passandogli un braccio
intorno al collo e piantandogli la daga nel fianco. Mentre si rialzava in piedi, altri
due mastini emersero correndo dal bosco e nel girarsi Parmenion vide che Derae
stava camminando verso il palazzo, con i cani che le si facevano sempre più vicini.
– No! – urlò, rendendosi improvvisamente conto che non avrebbe potuto
raggiungerla in tempo, e tuttavia le bestie si accasciarono al suolo nel momento
stesso in cui si preparavano a spiccare il balzo.
Derae non si volse per guardare quell’apparente miracolo e continuò invece a
camminare fino ad oltrepassare le porte del palazzo.
Parmenion si avvicinò ai mastini e verificò con sconcerto che erano immersi in
un sonno tranquillo, poi ripose la daga nel fodero e corse nel cortile dell’edificio.
Della donna non c’era traccia.

– Guarda questa roba – commentò Filippo, indicando il lungo mantello bianco e


l’elmo d’argento fatto in modo da coprire interamente il viso che erano stati posati
su uno dei divani. – Riesci a credere che ci si aspetta da me che indossi questa roba
durante la consumazione del mio matrimonio?
Parmenion sollevò l’elmo, un oggetto splendido in argento bordato d’oro, con
le protezioni per gli orecchi lavorate in modo da sembrare demoni armati di coltelli
seghettati; alla base del collo c’erano alcune piastre protettive non più ampie del
pollice di un uomo e al posto della cresta piumata due nere corna da ariete si
allargavano dalle tempie al collo.
– È stupefacente – dichiarò, – e molto antico. Una simile abilità di lavorazione
è una cosa rara.
– Rara? – tempestò Filippo. – Può darsi, ma è anche raro che ad un uomo venga
chiesto di unirsi ad una donna portando in testa un simile... un simile... cappello
nuziale!
– Hai detto tu stesso che questo matrimonio è stato preordinato – sorrise
Parmenion. – Possibile che non ti aspettassi qualche rituale? Perfino Bardylis ha
fatto protrarre la cerimonia nuziale per un intero giorno, con danze, discorsi e gare
di atletica fra le sue guardie.
– È vero – convenne Filippo, – ma in quel caso io ero al centro degli
avvenimenti mentre qui mi sembra di essere uno spettatore, un attore secondario.
A grandi passi, si avvicinò alla finestra e indugiò a fissare i boschi bui e i
fuochi che brillavano in lontananza.
– Ascoltali – disse, quando Parmenion lo raggiunse, alludendo al suono di
musica e di risa che la brezza portava fino a loro dal bosco. – Sai cosa stanno
facendo?
– No, sire.
– Neppure io... e questo mi irrita, Parmenion. Probabilmente stanno danzando
nude intorno a quei fuochi ed io sono seduto qui ad aspettare come un ariete
pregiato di essere condotto dalla mia sposa. Sono tanto brutto da avere bisogno di
quell’elmo perché mi nasconda la faccia?
– Penso che tu sia nervoso – dichiarò Parmenion. – Ti consiglio di astenerti dal
vino, visto che hai già bevuto quasi una caraffa.
– Il vino non ha nessun effetto sulle mie capacità – scattò Filippo. – Perché non
sgusciamo là fuori per dare un’occhiata? Che ne pensi?
– Penso che non sarebbe saggio.
– Per gli dèi, sei così noioso! – esclamò Filippo, accasciandosi su un divano e
versandosi l’ultimo boccale di vino. – Ora, da bravo, vuoi portarmi qualcosa da
bere?
Parmenion uscì nel corridoio deserto, seguendo le scale fino alle cucine. Era
prossima la mezzanotte e perfino lui cominciava a sentire una crescente eccitazione
per il matrimonio imminente.
I Misteri lo affascinavano, come anche la cultura di quell’isola vulcanica. Lo
stesso Senofonte era stato iniziato in quel luogo ma gli aveva parlato assai poco
delle cerimonie tranne che per dirgli che riguardavano l’arcana conoscenza degli
«Dèi Maggiori». Ripensandoci, Parmenion ricordò che uno di essi era Kadmillos...
l’immortale dalle corna di ariete, lo Spirito del Caos.
Lo Spartano entrò nelle cucine vuote, trovò una brocca di vino e tornò nelle
stanze del re, dove però Filippo aveva già ripreso allegramente a bere.
– Ne hai trovato dell’altro – osservò Parmenion, vedendo la caraffa d’oro
posata accanto al re.
– Lo ha portato una donna. Non si può certo trovare da eccepire sull’ospitalità
di questo posto, Parmenion... e questo è il vino migliore che abbia mai bevuto.
Prendine un po’.
– Non ho visto nessuna donna, sire. Da dove è venuta?
– Il palazzo è un labirinto – replicò Filippo, scrollando le spalle, – quindi chi
può sapere da dove sia venuta? Vieni a bere.
Parmenion si versò un boccale di vino dalla caraffa del re e lo assaggiò: era
forte, denso e quasi dolce. In quel momento sentirono i canti e lui posò il boccale,
accostandosi alla finestra: una processione rischiarata dalle torce stava uscendo dal
bosco.
– La tua sposa sta arrivando, sire – disse, e Filippo si protese all’esterno
accanto a lui, serrando le mani intorno al davanzale.
Alla testa della processione, vestita come un’antica principessa minoica, c’era
una ragazza dai capelli di fiamma e dalla grande bellezza... con i capelli legati da
nastri dorati, i seni nudi tinti di rosso, i fianchi avvolti in ondeggianti pieghe di
seta.
– Per gli dèi dell’Olimpo! – sussurrò Filippo. – Non è una vista che fa beare
l’anima?
Parmenion deglutì a fatica perché quella ragazza sembrava l’immagine di
Derae, con gli occhi ben distanziati e la bocca piena e sensuale. Ritraendosi dalla
finestra, distolse lo sguardo dalla scena mentre la processione si addentrava nel
palazzo e il rumore dei canti diveniva distante e soffocato. Filippo si versò un altro
boccale di vino e lo svuotò in un solo sorso.
– È quasi ora, sire – avvertì Parmenion. – Dovresti prepararti.
– Si – rispose Filippo, con voce quasi impastata. – Pre... prepararmi.
A fatica si liberò del chitone, poi avanzò barcollando verso il mantello bianco e
cadde su un divano.
– Dannazione! – borbottò. – Le gambe mi hanno tradito.
– Cosa succede, sire? – chiese Parmenion, accorrendo al suo fianco.
– Non... non lo so. Aiutami... ad alzarmi – replicò Filippo, e quando Parmenion
lo ebbe issato sul divano aggiunse: – Presto starò bene. Dammi un po’ d’acqua.
Lo Spartano sentì un rumore di passi nel corridoio all’esterno della stanza, udì
la porta della camera da letto che si apriva. Accostatosi alle tende che separavano
le due stanze le chiuse con una mossa decisa, poi portò l’acqua al re, notando che
Filippo aveva gli occhi vacui e gonfi.
– Sono arrivate, sire – sussurrò. – Ti devi riscuotere.
Filippo prese l’acqua, rovesciandosela in parte sul petto nudo, poi cercò di bere
ma la testa gli ricadde all’indietro e il boccale gli sfuggi di mano.
Parmenion imprecò sommessamente, incredulo: aveva visto Filippo bere in
molte occasioni e sapeva che la sua capacità di ingurgitare vino o birra era
leggendaria... non si era infatti mai ridotto in un simile stato, e che gli fosse
successo dopo appena due caraffe di vino era inconcepibile.
Un intenso profumo d’incenso filtrò attraverso le tende e lui sentì le accolite
lasciare la stanza; senza far rumore attraversò la camera e sbirciò dall’altra parte
aprendo una fessura fra le tende: la stanza da letto era rischiarata da lanterne giallo
fiamma e la figura nuda di Olympia giaceva sull’ampio letto. La donna si
contorceva sulle coltri e gemeva sommessamente.
Con un’altra imprecazione, Parmenion tornò dal re.
L’ora prestabilita era giunta.
E Filippo giaceva in preda ad uno stato di intontimento da ubriachezza.

Derae sgusciò fuori del palazzo non appena la processione illuminata dalle
torce l’ebbe oltrepassata. In fretta si diresse verso le colline e l’antico cerchio di
pietra che giaceva seminascosto dai meli del frutteto, sentendosi così esaltata da
faticare a tenere a freno l’entusiasmante sensazione di vittoria.
– L’ho fatto, Tamis – sussurrò. – L’ho fermato. Non ci sarà un Dio Oscuro.
Mentre correva giù per la collina verso le sagome scure degli alberi, i suoi
occhi spirituali colsero un accenno di movimento nell’ombra e lei si lasciò cadere
in ginocchio, aspettando e scrutando le piante.
Là! Nel sottobosco alla sua destra.
Il suo spirito si librò nel cielo, soffermandosi al di sopra degli alberi, in mezzo
ai quali era in attesa una giovane donna vestita di nero e armata di coltello. Derae
volò quindi verso sinistra, ma anche là c’era un’altra donna armata.
Rientrata nel proprio corpo, tornò sui suoi passi fino alla sommità della
collina... poi spiccò la corsa deviando verso sinistra. Era a pochi minuti di strada
dal cerchio di pietre, e una volta che lo avesse raggiunto nessun assassino avrebbe
potuto seguirla.
Alle proprie spalle sentì le inseguitrici che correvano rumorosamente in mezzo
al sottobosco, chiamando altre compagne che lei non aveva visto.
E improvvisamente percepì la presenza di Aida.
L’oscurità piombò su di lei come un mantello che le fosse stato gettato sulla
testa, accecandola. In preda al panico si lasciò cadere sulle mani e sulle ginocchia e
strisciò in avanti. Alcune foglie le sfiorarono il volto e lei fece scorrere le mani sui
rami del cespuglio, folto e alto: insinuatasi al suo centro tirò i rami intorno a sé,
ammucchiando sulla propria tunica manciate di terriccio e di foglie.
Poi il suo spirito tornò a librarsi.
La sua cecità rimase, ma adesso era molto più concentrata: il fuoco le scaturì
dalle dita e l’Incantesimo della Cecità si dissolse.
Una mano coperta di scaglie scattò verso la sua faccia, affondando gli artigli
nel suo corpo spirituale, ma nonostante il dolore lancinante Derae sollevò una
mano ad afferrare il polso da rettile e le fiamme divamparono su tutta la lunghezza
del braccio, fino ad avviluppare il demone.
In un istante, Derae rivestì il proprio corpo di corazza e di schinieri d’argento,
con un elmo spartano sulla testa e una spada di luce accecante stretta in pugno.
– Dove sei, Aida? – gridò. – Affrontami, se osi!
– Oso, bambina – giunse il sussurro della voce di Aida, e nel voltarsi di scatto
Derae vide la donna ammantata di nero che si librava poco lontano. – Sei stata
stolta a venire qui fisicamente – sorrise Aida. – In questo stesso momento coltelli
affilati si stanno avvicinando al tuo nascondiglio. Vola dal tuo corpo, Derae!
– Ti ho sconfitta – gridò Derae, – ed ora non ha importanza che io muoia o
meno.
– E come mi avresti sconfitta, bambina? Io sono ancora qui.
– Non ci sarà nessuna Nascita Oscura – rispose Derae, abbassando lo sguardo
sulle accolite che stavano frugando nel sottobosco, avvicinandosi sempre più al suo
corpo nascosto. Non voleva morire e dovette lottare per controllare la paura.
La risata di Aida la trapassò come una gelida lama di coltello.
– E tu credi che una bambina... anche una bambina dotata di talento... possa
bloccare i poteri di Kadmillos? – ribatté la donna, poi sollevò le braccia e neri
serpenti scaturirono dalle sue dita, saettando con un sibilo attraverso l’aria notturna
per riversarsi su Derae in una massa che si contorceva, con i denti che brillavano
alla luce della luna.
Ignorando il dolore, Derae chiuse gli occhi e i serpenti cambiarono colore,
passando dal nero al rosso per poi mutare anche forma e diventare minuscoli cerchi
che caddero da lei come petali di rosa, fluttuando verso il suolo.
– Non mi puoi fare del male – mormorò, – mentre io...
Un’abbagliante sfera di luce avvolse Aida, intrappolandola al suo centro, poi
Derae fuggì verso il proprio corpo nel momento in cui un’accolita ne scopriva il
nascondiglio.
La lama del coltello scese verso il basso, ma Derae afferrò il polso della donna
e si sollevò in ginocchio, sferrando un pugno contro il volto dell’assalitrice che
ricadde all’indietro. Poi spiccò la corsa verso il cerchio di pietre.
Alle sue spalle le inseguitrici urlarono il loro odio, ma Derae continuò a
correre. Un coltello scagliato da qualcuno le sibilò accanto alla testa mentre
superava d’un balzo una colonna crollata, poi si girò nel centro del cerchio di pietre
e sollevò le braccia. Il mondo tremolò intorno a lei, e nell’istante in cui la Porta si
chiudeva sentì la voce di Aida sussurrarle nella mente.
– Avremo un’altra occasione, colombella mia.
* * *

Olympia giaceva sul letto coperto di seta con il corpo che fluttuava in un mare
di piacere, la pelle che le formicolava e la mente che esplodeva di colori. Si umettò
le labbra, passandosi le mani sul seno e sul ventre, consapevole di un desiderio
quasi doloroso.
– Filippo! – chiamò.
La stanza stava vorticando, le droghe da lei assunte stavano arrivando al vertice
del loro potere. Aveva danzato intorno al fuoco e sentito il tocco e le carezze di una
dozzina di accolite, le cui labbra erano morbide e rese dolci dal vino. I segreti del
Terzo Mistero erano giunti a lei con la musica della notte, insieme alla brezza che
soffiava dal distante sacro picco di Korifi Fengari. Avrebbe dato alla luce un dio-
re, un uomo dalle doti incredibili, e il suo nome sarebbe echeggiato nella storia, le
sue imprese sarebbero rimaste senza pari finché le stelle avessero brillato nel cielo.
– Filippo!
Nonostante l’effetto delle droghe, poteva sentire il passare del tempo...
avvertiva che la mistica ora era quasi trascorsa, e si sollevò su un fianco.
Le tende si aprirono.
Lui era là, nudo tranne che per il mantello e l’elmo dalle corna di ariete di
Kadmillos; a grandi passi si avvicinò al letto e quando lei gli tese le braccia
indugiò per un momento a fissare il suo corpo nudo prima di possederla
brutalmente. Olympia gridò e gli cinse le spalle con le braccia, sentendo l’elmo
freddo contro la propria faccia.
Le sue dita si spostarono fino a sfiorare il metallo, ad accarezzare le corna nere,
poi lui sollevò il capo e Olympia si trovò a fissare gli occhi all’interno dell’elmo...
e un momento più tardi, quando le droghe ebbero il sopravvento su di lei, scivolò
nell’oscurità con un ultimo, strano pensiero.
Alla luce delle lanterne gli occhi verdi di Filippo sembravano... cosa
impossibile... essere diventati azzurri.
IL TEMPIO, ESTATE, 357 A.C.

Derae si svegliò poco prima di mezzogiorno e si alzò subito dal letto,


accostandosi alla finestra con il cuore leggero. Aveva visto Parmenion e aveva
distrutto i piani di Aida. Adesso avrebbe lasciato il tempio e si sarebbe recata in
Macedonia per aspettare là il ritorno di Parmenion.
Ora sapeva che lui l’amava ancora e se non altro avrebbero avuto molti anni da
trascorrere insieme: si sentiva di nuovo giovane e piena di gioia.
Era stato così facile drogare il vino di Filippo... tutti quegli anni di timore erano
stati inutili.
Il sole batteva caldo sul suo volto... ma una folata d’aria gelida alle sue spalle la
indusse a voltarsi di scatto, in tempo per vedere un’ombra crescere sulla parete
adiacente la porta e allargarsi come un demone alato. Derae si preparò per un attac-
co ma esso non venne e l’ombra vorticò invece fino ad assumere la forma di un
mantello intorno all’immagine spirituale di Aida.
– Cosa vuoi qui? – chiese Derae.
– Volevo ringraziarti. Senza il tuo aiuto e quello della miserabile che ti ha
preceduta i miei sogni non avrebbero potuto essere adempiuti – rispose la donna
incappucciata, con una gelida risata. – Tu puoi percorrere i sentieri del passato e
del futuro. Percorrili adesso... e piangi, colombella mia.
Un istante più tardi scomparve.
Derae si sedette sul letto e chiuse gli occhi, volando ancora una volta al palazzo
di Samotracia e camminando a ritroso lungo le ore appena trascorse. Di nuovo vide
se stessa portare il vino a Filippo e versargli da bere, osservandolo mentre svuotava
il boccale, poi vide la propria fuga e la lotta con Aida.
Con un senso di timore fece quindi ritorno al palazzo, dove assistette ai vani
tentativi da parte di Parmenion di riscuotere il re, e dalle labbra le sfuggì un grido
quando infine lo Spartano si tolse i vestiti e indossò l’elmo e il mantello dello
Spirito del Caos.
– Oh, dèi – sussurrò, mentre Parmenion abbracciava la ragazza nuda.
Poi volò lontano dalla scena e riapri gli occhi nel tempio.
Senza il tuo aiuto... i miei sogni non avrebbero potuto essere adempiuti.
Adesso poteva vedere tutto, l’arroganza e la stupidità.
Tamis aveva avuto la visione della Nascita Oscura e poi del volto di
Parmenion. Credendo che lui fosse una spada umana da usare contro le forze
dell’oscurità, Tamis era allora entrata nella sua vita... modellando il suo futuro e
costringendolo a percorrere un sentiero di oscurità e di odio fino a creare il guerrie-
ro perfetto, il perfetto uccisore di uomini.
Il padre umano perfetto per il Dio Oscuro.
L’ira divampò nel suo animo al pensiero di tutti gli anni di dedizione e di
risanamento, gli anni di speranza e di sogni... e tutto per niente.
Adesso non ci sarebbe stata una vita con Parmenion, non ci sarebbe stato il
viaggio verso la Macedonia e l’amore.
Lasciò vagare lo sguardo fuori della finestra, sulle colline ondulate e le
montagne avvolte nelle nubi, scorgendo ancora una volta le visioni di spargimento
di sangue e di orrore che l’avevano tormentata per decenni. Eserciti che
marciavano sui campi di battaglia, vedove e orfani, città devastate, imperi abbat-
tuti. A volte il Dio Oscuro era stato un Greco, a volte un Persiano... un capo dei
Parti o un giovane principe di una tribù del lontano nord. Una volta era stato
perfino un uomo dalla pelle nera, che aveva guidato le sue truppe fuori delle
giungle lussureggianti e fino alla parte meridionale dell’Egitto, ma ora questi
innumerevoli futuri non esistevano più nella stessa forma. Derae lasciò che gli
Oceani del Tempo la sollevassero e la portassero verso i lontani giorni a venire, e
vide un giovane dai capelli dorati e dal volto splendido, con una lucente armatura
d’oro.
In ogni futuro gli eserciti della Macedonia stavano marciando, con le lunghe
lance macchiate di sangue.
Derae studiò quella figura dorata attraverso centinaia di possibili... addirittura
probabili futuri, ma ogni volta era la stessa cosa: trionfante, il Dio Oscuro
diventava immortale, una creatura di sangue e di fuoco che si liberava della sua
carne mortale e rivelava appieno la malvagità del Dio Oscuro assiso sui troni di
tutto il mondo. Nonostante la sua disperazione, Derae continuò a cercare e alla fine
trovò un bagliore di speranza simile alla scintilla morente di un fuoco invernale.
Il bambino era stato concepito allo scoccare dell’ultimo momento dell’Ora
Empia, e questo gli dava almeno una scintilla di umanità. Il Dio Oscuro sarebbe
stato potente dentro di lui, ma in quel momento Derae decise di trascorrere la sua
vita alimentando quella scintilla e cercando di nutrire lo spirito umano racchiuso
nel demone che sarebbe nato.
– Alla fine avevi ragione, Tamis – ammise tristemente. – Non li possiamo
combattere con le loro stesse armi, perché cosi non otterremo mai la vittoria.
Come la vecchia sacerdotessa prima di lei, pregò per ottenere una guida.
E come Tamis prima di lei vide un uomo al fianco del Dio Oscuro... un uomo
forte e buono.
Parmenion... il Leone di Macedonia.
LAGO PRESPA, MEZZ’INVERNO, 356 A.C.

Phaedra chiuse gli occhi, cercando di localizzare la fonte del pericolo. Intorno a
lei tutti i rumori erano rassicuranti... il battito di zoccoli lento, costante e quasi
ritmico dei cavalli della guardia reale, il rotolare delle ruote bordate d’ottone del
carro sulla ghiaia, le voci dei soldati che ridevano e chiacchieravano oltre le pesanti
tende della carrozza.
E tuttavia da qualche parte dentro di lei Phaedra poteva sentire le urla dei
morenti, mentre scene di sangue e di violenza le attraversavano la mente senza
però che potesse capire di cosa si trattava. Aprendo gli occhi azzurro chiaro guardò
verso il lato opposto della carrozza dove Olympia giaceva addormentata sui cuscini
di seta pieni di piume d’oca. Desiderava protendersi verso di lei, abbracciarla, e
dovette reprimere un improvviso impeto d’ira: Olympia era bellissima, ma adesso
quella bellezza era rovinata dal suo matrimonio con quel barbaro di Pella, de-
formata dal bambino che le gonfiava il ventre fino a fargli raggiungere dimensioni
doppie del normale. A fatica, distolse lo sguardo dal volto addormentato.
– Non ti amo più – sussurrò, sperando che pronunciare quella menzogna la
rendesse vera... ma fu una vana speranza.
Siamo di nuovo soltanto sorelle, e niente di più, pensò.
Adesso il loro amore era morto come i boccioli dell’estate e la veggente sospirò
nel ricordare il loro primo incontro, tre anni prima... due ragazze quattordicenni nel
palazzo del re. Phaedra, timida e tuttavia benedetta... o maledetta?... dal dono della
preveggenza e Olympia allegra e di compagnia, con il corpo già snello e ben
modellato, la pelle che brillava di salute e il volto più bello di quanto si potesse
immaginare.
Phaedra si sentiva a proprio agio con la principessa perché non era mai riuscita
a vedere la sua vita o a leggere i segreti nascosti nei bui corridoi della sua mente:
Olympia la faceva sentire normale, e questo era un dono di valore inestimabile.
Nessuno capiva la solitudine di un veggente... ogni contatto portava una
visione. Un uomo gentile e avvenente si chinava a baciarle la mano ma lei vedeva
il desiderio fisico, il dominatore, il possessore; una donna le sorrideva e le batteva
un colpetto sul braccio, ma lei avvertiva il suo odio per la propria giovinezza...
ogni ragnatela dell’anima umana appariva messa a nudo davanti ai suoi occhi che
vedevano ogni cosa. Phaedra rabbrividì.
Con Olympia era così diverso. Niente visioni, niente sgradevolezze, soltanto
amore, dapprima come sorelle, e poi...
Il carro ebbe un sussulto quando le grandi ruote passarono su una pietra, e
Phaedra trasse indietro le tende per guardare fuori: sulla sinistra c’era il lago
Prespa e al di là di esso si levavano i monti Pindos, che separavano la Macedonia
dall’Illiria.
Olympia sbadigliò e si stiracchiò, poi si passò le mani fra i capelli rosso fiamma
e sorrise.
– Dove siamo?
– Presto raggiungeremo la pianura – rispose Phaedra, – e là incontreremo la
scorta mandata dal re.
– Ho caldo e sete – si lamentò Olympia, – e questo dannato carro mi sta
facendo venire la nausea.
Phaedra si alzò in piedi e aprì il telo sulla sommità del carro, chiamando il
conducente che tirò le redini, permettendo ad Olympia di scendere a terra, sotto il
sole. Subito il capitano delle guardie dell’Epiro smontò di sella e si avvicinò con
una borraccia, riempiendo d’acqua una coppa d’argento.
– Grazie, Herkon, sei molto gentile – sorrise Olympia.
Phaedra vide il giovane capitano arrossire e non ebbe bisogno di toccarlo per
conoscere i suoi pensieri; mentre si accostava ad Olympia la visione l’assali con
rinnovata violenza... cavalieri che scendevano al galoppo dalle colline, il carro
rovesciato, Herkon morto con la gola squarciata...
Lanciò un urlo e svenne.
Al risveglio trovò un uomo chino su di lei che le stava bagnando il volto con un
panno intriso d’acqua.
– Stanno arrivando – sussurrò.
– Chi sta arrivando? – domandò Herkon. – Di cosa parli?
In quel momento l’aria fu pervasa improvvisamente da un battito di zoccoli e
per un istante Phaedra pensò che la visione fosse tornata... ma poi Herkon scattò in
piedi ed estrasse con un sibilo dal fodero la sua sciabola da cavalleggero.
Intanto centinaia di cavalieri si stavano riversando giù dai pendii montani con i
mantelli dai colori intensi che si agitavano dietro di loro come bandiere arcobaleno.
– Illiri! – gridò Herkon, correndo verso il proprio cavallo.
I cinquanta soldati dell’Epiro ebbero appena il tempo di estrarre la spada prima
che gli attaccanti fossero loro addosso. Intanto Olympia raggiunse di corsa Phaedra
e la trascinò sotto il carro mentre tutt’intorno si levavano nubi di polvere, poi si
coprì la bocca con un fazzoletto di lino e le due donne rimasero strette una all’altra,
ascoltando il clangore delle armi e le urla dei morenti; d’un tratto un cavallo
s’impennò vicino al carro e il suo cavaliere crollò al suolo a testa in avanti,
andando a sbattere con la faccia contro la ruota.
Era Herkon, con la gola squarciata e gli occhi vacui fissi su Olympia, che
distolse lo sguardo.
La battaglia parve infuriare per ore, ma alla fine la polvere cominciò a posarsi e
fu possibile vedere delle sagome che si muovevano fra i soldati dell’Epiro feriti,
uccidendoli con daghe affilate. Olympia estrasse un sottile coltello da un fodero
che portava fissato in alto sulla coscia e attese, mentre Phaedra chiudeva gli occhi,
incapace di reggere oltre al terrore.
– Guardate cos’abbiamo qui! – esclamò un guerriero, accoccolandosi per
sbirciare sotto il carro, poi si lasciò cadere in ginocchio e strisciò verso le donne,
protendendo una mano.
Olympia gli piantò il coltello in un occhio e l’uomo crollò al suolo senza un
grido, piegando la testa in modo tale che il coltello rimase saldamente conficcato
nell’orbita; mentre cercava invano di liberare l’arma, un gruppo di guerrieri afferrò
il carro e lo rovesciò. La principessa si alzò in piedi a testa alta, con un’espressione
furente negli occhi verdi.
– Morirete per questo – promise ai razziatori.
– Nessuno morirà – ribatté un guerriero avvenente con i capelli biondi e una
barba divisa in due trecce, – ma Filippo di Macedonia pagherà un buon prezzo per
riaverti. Se sarai gentile con me, principessa, la tua breve permanenza presso di noi
sarà piacevole.
Olympia lasciò vagare lo sguardo sul gruppo con evidente disprezzo, poi lanciò
un’occhiata in direzione delle colline orientali, sul cui crinale era apparso un
gruppo di cavalieri al centro del quale c’era un guerriero su un grande cavallo
grigio. L’uomo portava un’armatura di bronzo lucente e un elmo dal pennacchio
bianco.
– Penso che scoprirai che Filippo di Macedonia ha già fissato il prezzo... e che
sarai tu a pagarlo – ribatté lentamente.
– Arcetas! Guarda! – gridò un uomo, indicando i cavalieri fermi sul crinale.
Arcetas imprecò e scrutò la fila di cavalieri macedoni, contandone non più di
settanta.
– A cavallo! – tuonò. – Sono troppo pochi per fermarci. Abbattiamoli!
Gli Illiri montarono in sella e galopparono verso i Macedoni in attesa.
– Guarda, Phaedra – sussurrò Olympia, sedendosi accanto alla terrorizzata
veggente. – Guarda come combatte mio marito!
Aprendo gli occhi, Phaedra vide la luce del sole riflettersi sulla corazza di
bronzo dell’uomo sul gigantesco cavallo grigio.
Questi estrasse la spada, tenendola alta, poi i Macedoni si lanciarono alla carica
e il cavaliere sul cavallo grigio si mise alla testa di un cuneo che trapassò le file
illiriche, dividendole e distruggendone l’impeto. Olympia vide Arcetas cercare di
raggiungere l’uomo sul cavallo grigio, e attraverso il vorticare della polvere riuscì
a fatica a seguire lo scontro che ebbe inizio quando le loro spade s’incrociarono:
nella sua mente non c’erano dubbi sul risultato né timori per la sicurezza dell’uomo
sul cavallo grigio. Lei attese quindi soltanto l’inevitabile e saltò di gioia quando
una spada lucente calò sul collo di Arcetas, staccandogli la testa con uno zampillo
di sangue.
– Questo è il prezzo, figlio d’un cane! – gridò.
Gli Illiri cedettero al panico e fuggirono, mentre i Macedoni riformavano lo
schieramento per lanciarsi all’inseguimento, tutti tranne il cavaliere sul cavallo
grigio e tre ufficiali, che si avvicinarono alle donne.
– Filippo! – esclamò Olympia, correndo incontro al cavaliere.
– No, mia signora – rispose l’uomo, togliendosi l’elmo. – Sono io, Parmenion.

Si accamparono in una macchia di alberi vicino al fiume Halicamon e subito


Parmenion andò a visitare i feriti, che erano stati sistemati lontano dal gruppo
principale per evitare che le loro urla mentre venivano curati potessero turbare le
donne. I Macedoni avevano perso diciassette uomini e riportato sette feriti, mentre
gli Illiri avevano subito una disfatta che era costata loro oltre ottanta morti.
Parmenion s’inginocchiò accanto ad un giovane soldato che aveva perso tre dita
della mano destra: sotto il velo del sudore, il volto del ragazzo era grigio per lo
shock e il dolore.
– Adesso sono inutile – sussurrò il soldato. – Cosa farò?
– Gli dèi ti hanno dato due mani, Peris... e dovrai imparare ad usare la sinistra.
Non è una cosa tanto grave, perché non sei un fante e non devi quindi preoccuparti
di dover formare uno schieramento. Sei un cavaliere... e sei abile, e inoltre hai
troppo coraggio per lasciare che una ferita cosi da poco abbia la meglio su di te.
– Non sono bravo con la sinistra, generale.
– Ci lavoreremo insieme, tu ed io.
Parmenion passò quindi al secondo uomo, ma si accorse che era morto
dissanguato e gli copri il volto con il mantello, proseguendo oltre.
Il chirurgo Bernios gli venne incontro quando ebbe finito il giro.
– Ci è andata bene – commentò il medico, asciugandosi il sudore dalla testa
calva con uno straccio sporco di sangue.
– Se fossimo arrivati un’ora prima non ci sarebbe stata nessuna battaglia –
replicò Parmenion, – e questo sarebbe stato ancora meglio.
– È vero, generale, ma le cose sarebbero potute andare molto peggio –
sottolineò Bernios, allargando le mani. – Saremmo potuti arrivare con un’ora di
ritardo... e allora il re si sarebbe visto rubare la sua sposa. Credo che la cosa
avrebbe leggermente irritato Filippo.
Parmenion sorrise e assestò una pacca sulla spalla del chirurgo, tornando al
campo principale, dove le donne erano state sistemate fra gli alberi per concedere
loro intimità, mentre i cinquantuno soldati superstiti sedevano intorno ai fuochi da
campo. Parmenion chiamò a sé Nicanor e gli segnalò di seguirlo.
– Hai mandato fuori gli esploratori? – chiese.
– Sì, signore. Sei uomini stanno pattugliando le colline e altri tre sono piazzati a
nord, ad est e ad ovest dei boschi.
– Ottimo. Oggi hai combattuto bene e il re sarà orgoglioso di te.
– Il re ha da tempo cessato di interessarsi a me – rispose Nicanor, con un timido
sorriso, – ma la cosa non mi disturba, Parmenion, quindi non ti preoccupare per
me. Per qualche tempo sono stato il suo favorito, mentre adesso ci sono altri al mio
posto... sto diventando vecchio, capisci, adesso ho ventisette anni. Comunque
Olympia è molto bella, non credi? – concluse, scrollando le spalle.
– Sì – convenne Parmenion, in tono cosi brusco che Nicanor sollevò di scatto lo
sguardo, ma il generale si era già voltato per allontanarsi. – Provvedi alle sue
necessità – aggiunse da sopra la spalla, dirigendosi verso le sue coperte.
Il giovane ufficiale prese una fiasca di vino e la portò al fuoco da campo della
regina: Olympia sedeva su alcuni cuscini prelevati dal carro e la ragazza che
Nicanor suppose essere la sua ancella stava attizzando la fiamma del fuoco.
– Ho un po’ di vino per voi, signore – disse, inchinandosi profondamente.
– Chi sei? – domandò Olympia, rivolgendogli un abbagliante sorriso.
– Nicanor. Sono il primo capitano di Parmenion.
– Unisciti a noi, Nicanor – ordinò la regina; poi, mentre lui riempiva le coppe e
piegava il mantello per sedervisi sopra, gli chiese: – Perché Parmenion non è qui?
– Lui è... stanco, mia signora. La scorsa notte non ha dormito molto perché era
preoccupato di arrivare qui in tempo. Temeva... ecco, temeva che gli Illiri
potessero assalirti, ed aveva ragione. Ha quasi sempre ragione, il che è piuttosto
seccante.
– E tuttavia ti piace?
– Oh, sì, mia signora. È un ottimo generale... il migliore del mondo... ed ha
creato per Filippo un esercito capace di incutere il terrore nel cuore di tutti i nostri
nemici.
– Ma non è un Macedone – sottolineò Olympia.
– Lo è per metà – spiegò Nicanor, – ma è stato allevato a Sparta.
– Allora forse gli possiamo perdonare le cattive maniere dimostrate nel non
occuparsi di noi, dal momento che gli Spartani non sono famosi per la cortesia.
– Non credo che intendesse essere scortese – affermò Nicanor, – tutt’altro, dal
momento che mi ha ordinato di provvedere alle tue esigenze. Ritengo abbia
pensato che tu preferissi riposare e riprenderti da quanto è successo piuttosto che
subire la sua compagnia.
Olympia sorrise e si protese a toccargli un braccio.
– Sei un buon amico per il tuo generale, ed anche un ottimo avvocato, quindi lo
perdonerò immediatamente. Adesso, Nicanor, mi piacerebbe poter riposare.
Il giovane si alzò e s’inchinò ancora una volta prima di prendere il proprio
mantello e di allontanarsi fra gli alberi.
– Sei svergognata – dichiarò Phaedra. – Hai praticamente abbagliato quel
poveretto.
Olympia lasciò svanire il sorriso dal proprio volto.
– Questa è una terra straniera e avrò bisogno di amici – spiegò in tono
sommesso. – Perché Parmenion non è venuto?
– Forse era davvero stanco, come ha detto quell’ufficiale.
– No, e non ha voluto incontrare il mio sguardo quando ci siamo incontrati. Ma
del resto che importanza ha? Siamo al sicuro e il futuro è luminoso.
– Ami Filippo? – domandò d’un tratto Phaedra.
– Amarlo? È mio marito, il padre del bambino che porto in me... cosa c’entra
l’amore? Del resto l’ho incontrato soltanto una volta... la notte del nostro
matrimonio a Samotracia, sette mesi fa.
– Com’è stato sull’Isola dei Misteri... quando lui ti ha amata?
Olympia si appoggiò all’indietro, sorridendo al ricordo.
– La prima volta è stata magica, strana... ma il mattino dopo è andato tutto
come al solito: l’uomo che grugnisce e sospira e poi si addormenta. – Olympia
sbadigliò. – Portami le coperte, Phaedra, e altri cuscini, Adesso voglio dormire.
– Dovresti dormire nella carrozza, dove staresti più al caldo.
– Voglio vedere le stelle – rispose Olympia, – e soprattutto la Cacciatrice.
Una volta sdraiata, tornò pigramente con i ricordi a Samotracia e alla Notte dei
Misteri. Le donne... decine di donne... avevano danzato nel boschetto, bevendo,
ridendo e masticando le sacre erbe che davano le visioni e sogni dai vividi colori.
Poi la processione rischiarata dalle torce si era snodata nel palazzo e lei ricordava
di essere stata condotta nella camera di Filippo.
Aveva aspettato, con la mente che vorticava e i colori che la circondavano
pervasi di una nitidezza soprannaturale... tende rosse, sete gialle, coppe d’oro.
E lui era venuto da lei... con il volto nascosto dall’Elmo del Caos, come il
rituale richiedeva. Aveva sentito il metallo freddo contro la guancia, il corpo di lui
che la copriva come un mantello scaldato intorno al fuoco.
Avvolta nelle coperte, la nuova regina della Macedonia si addormentò sotto le
stelle.

Non molto lontano Parmenion giaceva sveglio, fissando quelle stesse stelle e
ricordando la stessa notte. Il senso della vergogna era ancora intenso nel suo
animo, e quasi doloroso: nella sua vita c’erano state molte azioni che gli avevano
dato dolore e altre che avevano provocato cicatrici sul suo corpo e nel suo spirito,
ma la vergogna era una cosa nuova per lui.
Quella notte era stata come questa, con le stelle simili a gemme sulla seta, l’aria
limpida e fresca. Filippo si era ubriacato mentre aspettava la sposa ed era crollato
su un divano proprio mentre le accolite portavano la donna a lui promessa nella ca-
mera da letto.
Guardando attraverso una fessura della tenda, Parmenion aveva visto Olympia
che attendeva, nuda, con il corpo lucente...
Aveva cercato di dirsi che era vitale che il matrimonio avesse luogo in quella
notte, aveva richiamato alla mente ciò che Filippo gli aveva detto.
Se non la posseggo entro l’Ora Sacra il matrimonio sarà annullato. Riesci a
crederci, Parmenion?
Ma non era stato per questo che lo Spartano aveva indossato l’antico elmo.
Aveva posato lo sguardo sul quella donna nuda... e l’aveva desiderata, come non
aveva più desiderato nessuna da quando l’amore gli era stato rubato un quarto di
secolo prima. L’aveva posseduta e non appena lei si era addormentata era tornato
da Filippo, ancora privo di conoscenza, mettendogli l’elmo e il mantello e
trasportandolo sul letto.
Hai tradito il re che avevi giurato di servire. Come potrai redimerti?
La notte si fece gelida e alla fine Parmenion si alzò, avvolgendosi strettamente
il mantello di lana scura intorno alle spalle e avviandosi verso le sentinelle.
– Sono sveglio, signore – disse il primo uomo.
– Non ne dubito – rispose il generale, senza riconoscerlo a causa del buio. – Sei
un soldato della Macedonia.
Per qualche tempo girovagò nel bosco e lungo le rive dell’Halicamon, le cui
acque nere come quelle dello Stige brillavano sotto la luce della luna, poi sedette
su un masso, e si trovò a pensare a Derae.
Cinque giorni di amore... amore intenso e appassionato... e dopo gliel’avevano
tolta, portandola sulle rive dell’Asia e gettandola in mare con le mani legate dietro
la schiena, un sacrificio agli dèi perché proteggessero Sparta.
E quanto Sparta aveva avuto bisogno di protezione! Parmenion ricordò la
battaglia di Leuctra, nella quale il suo genio strategico aveva provocato la caduta
dell’esercito spartano e la fine dei sogni di quella città.
– Tu sei Parmenion, la Morte delle Nazioni – gli aveva detto la vecchia
veggente, ed aveva avuto ragione.
L’anno precedente lui aveva condotto i Macedoni contro gli Illiri di Bardylis,
devastando il suo esercito. Il vecchio re era morto sette mesi più tardi, lasciando la
propria terra in rovina. Sollevando lo sguardo verso le stelle, immaginò il volto di
Derae, con i capelli del colore della fiamma e gli occhi grigi.
– Cosa sono senza di te? – sussurrò.
– Stai parlando con te stesso, generale? – chiese una voce che proveniva da
poco lontano, poi un soldato emerse dall’ombra lungo la riva del fiume.
– Succede, quando un uomo diventa vecchio – rispose Parmenion.
In quel momento la luna sbucò da dietro le nubi e Parmenion riconobbe
Cleiton, un giovane della Macedonia orientale che si era unito all’esercito
l’autunno precedente.
– È una notte tranquilla, signore – commentò il soldato. – Stavi pregando?
– In un certo senso. Stavo pensando ad una ragazza che conoscevo un tempo.
– Era bella? – domandò il giovane, posando la lancia contro una roccia e
sedendo di fronte al generale.
– Molto bella... ma è morta. Sei sposato?
– Si, signore. A Crousia ho una moglie e due figli. Si trasferiranno a Pella non
appena mi potrò permettere di affittare una casa.
– Potrebbe passare qualche tempo.
– Oh, io non credo, signore. Presto ci sarà un’altra guerra, e con le paghe che si
ricevono quando si combatte dovrei rivedere Lacia entro sei mesi.
– Allora vuoi la guerra? – chiese Parmenion.
– Certamente, signore, questo è il nostro momento. Gli Illiri sono stati distrutti
e cosi anche i Paioni, quindi presto toccherà alla Tracia, ad est, oppure ai Pherai del
sud. O magari si tratterà di Olyntus. Filippo è un re guerriero e si occuperà delle
necessità del suo esercito.
– Suppongo di sì – convenne Parmenion, alzandosi in piedi, – e spero che tu
possa affittare quella casa.
– Grazie, signore. Buona notte.
– Buona notte, Cleiton.
Parmenion tornò alle proprie coperte ma il suo sonno fu tormentato dai sogni.
In essi Derae stava correndo su un verde pendio collinare con gli occhi dilatati per
il timore; lui tentò di raggiungerla e di spiegarle che andava tutto bene, ma non
appena le si avvicinò Derae urlò e fuggi via. Parmenion non riuscì a raggiungerla e
si fermò accanto ad un ruscello, abbassando lo sguardo verso la propria immagine
riflessa: due occhi chiari lo fissarono da dietro la bronzea maschera del Caos e lui
si affrettò a sfilarsi l’elmo, per poi chiamare ancora.
– Fermati, Derae! Sono io, Parmenion!
Lei però non lo sentì e scomparve alla vista.
Parmenion si svegliò di scatto e si sollevò a sedere, con la schiena che gli
faceva male e un lento e doloroso pulsare che gli martellava nella testa.
– Stolto – disse a se stesso, – hai dimenticato il silphium.
Sul fuoco c’era dell’acqua già messa a scaldare e nell’immergere una tazza
nella pentola lui per poco non si scottò le dita; aggiunte le erbe al liquido, mescolò
il tutto con la daga e attese che si fosse raffreddato per trangugiarlo. Il dolore svanì
immediatamente.
– Hai un aspetto spaventoso, amico mio – commentò Bernios, avvicinandosi. –
Ti capita mai di dormire?
– Quando ne ho bisogno.
– Ebbene, ne hai bisogno adesso. Non sei più giovane e il tuo corpo necessita
riposo.
– Ho quarantatre anni – scattò Parmenion, – e non sono certo vecchio. Se
voglio, posso ancora correre per trenta chilometri.
– Non ho detto che sei decrepito, ho soltanto rilevato che non sei più giovane.
Questa mattina hai una lingua molto tagliente... un altro sintomo di vecchiaia.
– Mi duole la schiena... e non mi dire che è a causa degli anni perché ho una
punta di lancia persiana conficcata in una scapola. Del resto cosa mi dici di te?
Perché non hai dormito?
– Durante la notte è morto un altro uomo, e sono rimasto a vegliarlo – spiegò
Bernios. – Nessuno dovrebbe morire solo. Lo avevano ferito al ventre e non c’è
dolore peggiore di questo, ma lui non si è mai lamentato... tranne che alla fine.
– Chi era?
– Non l’ho chiesto... e non mi tenere una predica al riguardo. So quanta
importanza attribuisci a dettagli del genere, ma non posso ricordare tutte le facce.
– Cosa gli hai dato?
– Il dono dei papaveri – rispose Bernios. – Una dose letale.
– È contrario alla legge... vorrei che non mi dicessi queste cose.
– Allora non me le chiedere! – reagì il chirurgo, poi si penti immediatamente
del proprio scatto. – Mi dispiace, Parmenion, sono stanco anch’io. Comunque tu
cominci a preoccuparmi, perché ormai sei teso da giorni. C’è qualcosa che ti turba?
– Nulla d’importante.
– Sciocchezze. Sei troppo intelligente per preoccuparti delle stupidaggini. Ne
vuoi parlare?
– No.
– È una cosa di cui ti vergogni?
– Sì – ammise lo Spartano.
– Allora tienila per te. Si dice spesso che una confessione avvia il processo di
risanamento ma non ci devi credere, Parmenion: la confessione è la madre di tutti i
dolori. Quanti sanno della tua... vergogna?
– Nessuno... tranne me.
– Allora non è successo.
– Sarebbe piacevole che la cosa fosse così semplice – commentò Parmenion.
– Perché complicarla? Ti aspetti troppo da te stesso, amico mio, e credo proprio
di doverti dare una cattiva notizia: non sei perfetto. Ora va’ a riposare.

– Passeggia con me – ordinò Olympia a Parmenion quando si accamparono la


seconda notte in una depressione nella Piana di Ematia.
Lo Spartano seguì la regina verso il piccolo fuoco da campo acceso da Phaedra.
Accorgendosi del suo disagio, Olympia lo prese per un braccio, godendo
dell’improvvisa tensione dei suoi muscoli.
Allora non sei impervio alla mia bellezza, pensò.
– Perché mi hai evitata, generale? – chiese con voce dolce.
– Non è questione di evitarti, altezza. Il mio dovere è quello di condurti sana e
salva a Pella da tuo marito, e questa priorità occupa la mia mente al punto che temo
di non essere una buona compagnia.
Olympia sedette sui cuscini con un scialle di lana ricamato in oro sulle spalle.
– Parlami di Filippo – disse. – Ci sono tante cose che non so sul suo conto. È
gentile con i servi? Picchia le sue mogli?
– Da dove devo cominciare, signora? – replicò Parmenion, prendendo posto
accanto al fuoco. – Lui è il re e si comporta come tale. No, non picchia le sue
mogli... o i suoi servi... ma non è neppure molle e debole. C’è soltanto un’altra
moglie, Audata, la figlia del re Bardylis, però adesso abita nella Pelagonia... per
sua scelta.
– A quanto mi è dato di capire ha avuto un figlio da Filippo – osservò Olympia,
spostando inconsapevolmente una mano verso il proprio ventre gonfio.
– Una figlia... una splendida bambina.
– Strano, con una madre cosi brutta – scattò Olympia, prima di potersi
trattenere.
– Ci sono molti tipi di bellezza, mia signora, e non tutti svaniscono in fretta
come quella della carne – ribatté Parmenion, con voce fredda.
– Chiedo scusa – si affrettò a rispondere la regina, – ma è difficile non essere
gelosa e poi voglio che noi siamo amici. Saremo amici? – domandò d’un tratto,
fissando Parmenion con i suoi occhi verdi.
– Per tutti i giorni della nostra vita – promise lui, con semplicità.
Dopo che se ne fu andato, Phaedra venne a sedersi accanto alla regina.
– Non dovresti essere cosi provocante, Olympia, non in mezzo a questi
Macedoni.
– Non stavo cercando di essere provocante... anche se lui è un uomo attraente, a
parte il naso aquilino. Filippo è un re guerriero e prenderà molte mogli, quindi ho
bisogno di garantirmi che mio figlio resti l’unico vero erede al trono e non è mai
troppo presto per cominciare a trovare alleati. Parmenion ha distrutto il potere degli
Spartani elevando Tebe alla grandezza, e lo scorso anno ha schiacciato gli Illiri,
mentre prima ancora aveva combattuto per il grande re dei Persiani. Non è mai
stato sconfitto in battaglia ed è un buon amico da avere dalla propria parte, non
credi?
– Hai imparato molte cose – sussurrò Phaedra.
– Oh, ne so molte di più. Il re ha tre consiglieri di cui si fida più che di tutti gli
altri. Il primo è Parmenion, maestro di strategia, poi c’è Attalus, freddo e letale, il
sicario del re. Per ultimo Antipatro, il secondo generale, un guerriero duro e
coraggioso.
– Cosa sai delle donne?
– Filippo ha una scarsa opinione delle donne... tranne che di Simiche, la vedova
di suo fratello, con cui è solito confidarsi. Mi conquisterò anche la sua amicizia.
– I tuoi piani sembrano ben predisposti – commentò Phaedra.
– Sono stati approntati a Samotracia dalla nobile Aida, che conosce tutte le
cose, passate e future. Sono stata scelta... e non la deluderò.
– L’amavi? – chiese Phaedra.
– Sei gelosa, sorella del mio cuore?
– Si, gelosa di tutti coloro che ti toccano... o che ti guardano.
– Dovresti trovarti un uomo. Se vuoi, ci penserò io per te.
– Non riesco a immaginare nulla di peggio – replicò la veggente, stringendosi
contro di lei.
In quel momento dal fuoco da campo dei soldati giunse un suono di musica,
sommesso e dolente, poi una voce si levò in un canto che non era un inno di
battaglia ma una canzone d’amore di estrema delicatezza, accompagnata dai toni
acuti e dolci di un flauto da pastore. Alzatasi in piedi, Olympia si avviò fra gli
alberi verso i soldati che sedevano in un grande cerchio intorno al suonatore di
flauto e al cantore, e rabbrividì nel posare lo sguardo sulla scena: uomini di guerra,
in corazza e schinieri, con la spada al fianco, stavano ascoltando la storia di due
amanti. Chi cantava era Nicanor; quando vide avvicinarsi le due donne scivolò nel
silenzio e i soldati si alzarono in piedi allorché la nuova regina si addentrò in
mezzo a loro.
– Per favore, non smettere Nicanor – disse Olympia. – È splendido.
Il giovane s’inchinò con un sorriso, poi il flauto riprese la sua melodia e la voce
di Nicanor tornò ad echeggiare mentre Olympia prendeva posto nel cerchio con
Phaedra accanto a sé. Nicanor cantò per oltre un’ora e anche se nessuno applaudì
quando infine smise nell’aria si avvertiva un immenso calore, tanto che Olympia
ebbe l’impressione di essere nuovamente bambina, tranquilla e sicura in mezzo a
quei duri soldati; al suo fianco, Phaedra si era addormentata e la sua testa le
gravava pesante contro la spalla.
Poi Parmenion venne ad accoccolarsi accanto a lei.
– Penserò io a riportarla indietro – disse in tono sommesso, per non svegliare la
dormiente.
– Ti ringrazio – rispose Olympia.
Phaedra mormorò qualcosa nel sonno ma non si svegliò quando Parmenion la
prese fra le braccia, avviandosi in direzione della carrozza mentre i soldati
spegnevano i fuochi e si ritiravano alla spicciolata fra le coperte; una volta al carro,
Nicanor aprì lo sportello e Parmenion adagiò la veggente sui cuscini che c’erano
all’interno, coprendola con due mantelli di lana.
– Il tuo canto è stato splendido, Nicanor – si complimentò Olympia. – Ne
conserverò con piacere il ricordo.
– Gli uomini amano sentir cantare perché ricorda loro la casa e la famiglia –
replicò Nicanor, arrossendo. – Non so dirti quanto abbia importanza per me che tu
abbia gradito la mia canzone.
Poi s’inchinò e si allontanò, ma quando Parmenion fece per seguirlo Olympia
lo richiamò.
– Vuoi sedere qui con me per un po’, generale? – chiese.
– Come desideri – rispose lui.
Il fuoco acceso accanto al carro si era spento e lui provvide ad aggiungere legna
e a ravvivare la fiamma, perché i freddi venti invernali stavano soffiando ormai
sulle pianure e sulle montagne c’era già la neve.
– Cosa temi? – chiese poi, con voce sommessa.
– Perché dovrei temere qualcosa? – replicò lei, sedendogli accanto.
– Tu sei giovane, signora, ed io no: anche se la nascondi bene, la tua paura è
evidente.
– Temo per mio figlio – ammise lei, con voce tanto bassa che Parmenion poté
udirla a stento. – Sarà un grande re... se vivrà. Deve vivere.
– Io sono un soldato, Olympia, e non posso prometterti nulla per quanto
riguarda la sua sicurezza. Per quel che può valere, però, ti prometto che lo
proteggerò come meglio potrò.
– Perché?
Era una domanda tanto semplice, e tuttavia ebbe l’effetto di lacerare la mente di
Parmenion come una frusta di fuoco; non potendo dare una risposta diretta, si volse
verso il fuoco e vi aggiunse distrattamente qualche ramo.
– Io servo Filippo, e lui è suo figlio – disse infine.
– Allora sono soddisfatta. In Epiro si dice che presto la Macedonia muoverà
contro le città della Calcidia e che Filippo cerca di dominare la Grecia.
– Io non discuto dei progetti del re, signora, e non sono sempre al corrente dei
suoi pensieri. Per quanto ne so, Filippo sta cercando di rendere sicura la
Macedonia, perché per troppo tempo essa è stata controllata da altri e costretta ad
affidare la propria sicurezza ai capricci dei politici di Atene, di Tebe o di Sparta.
– E tuttavia Filippo ha conquistato Anfipoli... una città indipendente.
– Nessuno è indipendente. Quella era una fortificazione ateniese che garantiva
ad Atene una testa di ponte nella Macedonia – replicò Parmenion, a disagio di
fronte a domande cosi dirette.
– E allora cosa mi dici della Lega Calcidica e di Olyntus? Non costituiscono
una minaccia? Olyntus ha stretti legami con Atene... come anche le città di Pidna e
di Metone.
– Vedo che sei una pensatrice e che sei saggia per la tua età... ma non lo sei
abbastanza da tenere a freno la lingua in questioni che è meglio non discutere tanto
apertamente. Non ti fidare troppo di me, Olympia, perché sono un uomo del re.
– È per questo che mi fido di te – ribatté la donna. – Io sono la moglie di
Filippo e la vita di mio figlio dipende dalla sua sopravvivenza: se il re dovesse
morire, infatti, l’usanza macedone non prevede forse che il nuovo re uccida gli
eredi del suo predecessore?
– È stato così in passato, signora, ma di certo saprai che Filippo non ha ucciso il
figlio del fratello. Quello che ti sto dicendo, però, è che non ti devi fidare di
nessuno... né di me, né di Nicanor, né di altri. Rivolgi le tue domande a Filippo.
– Benissimo, Parmenion, accetto il rimprovero. Mi perdoni? – chiese Olympia,
con un sorriso incantevole.
– Questa è l’arma che devi usare – commentò lui, lottando per non lasciarsi
avviluppare dalla magia di quel sorriso.
– Quanto sei saggio. Non avrò dunque segreti con te, Parmenion?
– Quanti ne vorrai avere, signora. Sei molto bella ma anche intelligente e credo
che continuerai ad affascinare il re. Tuttavia non commettere errori nel valutarlo,
perché anche lui è un uomo astuto e dotato di discernimento.
– È un avvertimento, generale?
– È il consiglio di un amico.
– Hai molti amici?
– Due. Uno è Mothac, l’altro è Bernios. L’amicizia non è un dono che io
conceda alla leggera – replicò lui, fissandola negli occhi.
– Allora sono onorata – dichiarò Olympia, protendendosi a sfiorargli un
braccio. – Ma Filippo non è tuo amico?
– I re non hanno amici, signora: hanno soltanto fedeli servitori e aspri nemici,
categorie che a volte possono essere intercambiabili. Ciò che contraddistingue il
valore di un re è l’abilità con cui riesce a distinguere gli uni dagli altri.
– Sei un ottimo insegnante – commentò la regina. – Posso rivolgerti un’ultima
domanda?
– A patto che non si tratti di questioni strategiche – concesse lui, sorridendo.
Per un momento Olympia lo fissò senza parlare, perché quel sorriso aveva
cambiato la sua espressione, rendendola quasi infantile.
– No, non si tratta di strategia... almeno non in maniera diretta. Stavo pensando
a te, Parmenion, e mi chiedevo quali ambizioni possa avere un uomo della tua
reputazione.
– Già, quali? – replicò lui, alzandosi, poi la salutò con un inchino e tornò verso
il fuoco da campo dei soldati, controllando le sentinelle prima di concedersi il lusso
di dormire.

Nella carrozza, Phaedra era sveglia, con il cuore che le martellava in gola. Non
appena Parmenion l’aveva sollevata, era stata riscossa dal sonno dalla forza del suo
spirito: esso era troppo potente per poter essere decifrato e lei si era sentita
trascinare via da un mare di immagini di un’intensità incredibile. Al di sopra di
tutto c’era però un’immagine che dominava ogni altra cosa, ed era questo che ora
le faceva martellare il cuore in quel modo e che le aveva lasciato la bocca secca e
le mani tremanti.
Per tutta la vita Phaedra aveva saputo che esisteva un modo solo per perdere la
maledizione del dono di vedere... era stata sua madre a rivelarglielo.
– Quando ti concederai ad un uomo, i poteri che sono in te avvizziranno e
moriranno come una rosa al sopraggiungere dell’inverno – aveva detto.
Quel pensiero le era riuscito cosi disgustoso che lei aveva preferito conservare
il suo talento piuttosto che eliminarlo in quel modo, e a dire il vero l’idea
continuava a disgustarla... ma quale ricompensa le si prospettava adesso! Evocò
dalla memoria la visione avuta e tornò a contemplare le glorie del futuro.
Come poteva non correre quel rischio?
Sollevatasi a sedere, si avvolse uno scialle intorno alle spalle e indugiò a fissare
le stelle che splendevano fuori della finestra del carro; all’esterno poteva sentire
Parmenion e Olympia che parlavano accanto al fuoco... la voce di lui era sommessa
e gentile, e tuttavia le sue parole erano sicure e scaturivano da una grande forza
interiore.
Potrei imparare ad amarlo, si rassicurò Phaedra. Potrei impormelo. Ma lei
stessa non ci credeva.
– Non importa – sussurrò. – Non ho bisogno di amarlo.
Attese che Parmenion se ne fosse andato, e finse di dormire quando Olympia
salì a sua volta sul carro. Le ore passarono lente e infine Phaedra chiamò a raccolta
il proprio coraggio, sgusciando fuori dalla carrozza e attraversando con passo fur-
tivo il campo alla ricerca del punto in cui si trovava Parmenion, che si era
preparato il letto lontano dai soldati, in una depressione riparata. Quando abbassò
lo sguardo sulla sua figura addormentata la ragazza sentì il coraggio che quasi le
veniva meno, ma si fece forza e si sfilò il vestito, sdraiandosi accanto a lui e
insinuandosi con cautela sotto la singola coperta. Per qualche tempo rimase
immobile, incapace di trovare il coraggio di svegliarlo, ma poi la visione tornò ad
assalirla... più potente di prima... e le sue dita sfiorarono con gentilezza il petto di
lui. Parmenion era ancora impossibile da decifrare, scene che si susseguivano
senza ordine continuavano a riversarsi su di lei a ondate che le soffocavano i sensi.
La sua mano scese più in basso, accarezzandogli il ventre, e lui gemette piano
senza però svegliarsi. Le dita di lei scesero ancora più in basso e per un momento
appena Phaedra si ritrasse dal contatto con la virilità di lui, ma poi si costrinse a
continuare e sentì il suo desiderio crescere sotto il proprio tocco. Infine Parmenion
si svegliò e si girò verso di lei... il suo braccio destro la cinse e la sua mano le toccò
la spalla, scivolando verso il suo seno.
Ora ti tengo! pensò Phaedra. Sei mio! E nostro figlio sarà il re-dio che
dominerà il mondo!
E di nuovo vide l’immagine di un re guerriero che guidava le sue truppe per
tutto il mondo.
Il primogenito di Parmenion.
Suo figlio!
IL TEMPIO, ASIA MINORE, INVERNO, 356 A.C.

Distesa sul letto, Derae allentò le catene che trattenevano la sua anima e fluttuò
libera fuori del tempio, librandosi nell’azzurro cielo invernale. In lontananza le
nubi si stavano ammassando per creare una tempesta, ma vicino al mare la giornata
era splendida, i gabbiani si tuffavano nelle onde intorno alla sua forma invisibile e
per un momento lei indugiò a gloriarsi della loro libertà.
Rapida, volò sul mare e attraversò la massa di terra a tre punte della Calcidia
per proseguire verso Pella... cercando come sempre l’amante che il fato le aveva
negato. Lo trovò nella sala del trono... e desiderò di aver scelto un altro giorno per
compiere quel viaggio, perché accanto a lui c’era Olympia.
La tristezza si abbatté su Derae come un colpo fisico. La madre del Dio
Oscuro!
La madre del figlio di Parmenion!
L’odio la sfiorò e la sua visione si fece incerta.
– Aiutami, Signore di Ogni Armonia! – pregò.
Vide Olympia avanzare per accettare l’abbraccio di Filippo, vide la
momentanea contrazione di gelosia sul volto di Parmenion.
Perché ti abbiamo fatto questo, amore mio? pensò, ricordando gli anni vissuti
con Tamis a combattere per impedire il concepimento del Dio Oscuro. Secondo
l’anziana veggente, Parmenion era la Spada della Fonte, il solo uomo capace di
impedire a Kadmillos di nascere nella carne. Quanto erano state presuntuose... e
stupide. Tamis aveva segretamente manipolato la vita di Parmenion, creando in lui
un guerriero senza pari in tutto il mondo civile: un combattente, un uccisore, uno
stratega senza paragone... e tutto perché lui fosse un giorno pronto a distruggere i
piani del Dio Oscuro. E invece avevano ottenuto l’opposto.
L’ira di Derae crebbe e per un momento lei non desiderò altro che usare il
proprio potere per obliterare il bambino che si stava formando nel ventre della
nuova regina. Spaventata dal proprio impulso, si affrettò a tornare al tempio.
E una volta là l’ira che c’era in lei si mutò in tristezza, perché nel fluttuare
sopra il proprio corpo vide il volto segnato dalle preoccupazioni e i capelli striati
d’argento. Un tempo lei era stata bella quanto Olympia, un tempo Parmenion
l’aveva amata... ma ora non più.
No, pensò. Se mi vedesse adesso distoglierebbe lo sguardo da me, attratto dalla
pelle liscia e dalle gioie terrene che possono derivare da donne giovani come
Olympia.
Rientrata nel proprio corpo, dormi ancora per un paio d’ore, finché Leucion
venne a svegliarla.
– Ti ho preparato il bagno – le disse, – e ti ho comprato tre nuovi abiti al
mercato.
– Non ho bisogno di abiti, e non ho denaro per comprarli.
– I vestiti che hai sono logori, Derae, e cominci ad avere l’aspetto di una
mendicante. In ogni caso, ho da parte del denaro.
Per un momento soltanto Derae prese in considerazione l’idea di rimproverarlo,
ma l’accantonò subito perché Leucion era un guerriero che aveva scelto di venire a
vivere nel tempio per servirla, senza chiedere nulla in cambio.
– Perché sei rimasto? – gli chiese invece, scrutando con gli occhi dello spirito il
suo volto aquilino, cosi severo e forte.
– Perché ti amo – rispose lui. – Lo sai bene, visto che te l’ho detto fin troppo
spesso.
– È la mia vanità che mi spinge a continuare a domandarlo – ammise Derae, –
ma d’altro canto mi sento colpevole, perché fra noi non ci potrà mai essere più di
quanto già abbiamo. Saremo fratello e sorella, ora e sempre.
– È più di quanto io meriti.
Derae gli posò un dito sulla guancia, facendolo scorrere lungo la linea della
mascella.
– Tu meriti molto di più e non devi permettere che i tuoi pensieri tornino al
nostro primo incontro... non eri tu ad agire, allora. Nel mondo ci sono forze che ci
usano, abusano di noi e poi ci scartano. Eri stato posseduto, Leucion.
– Lo so – replicò il guerriero. – Anch’io ho studiato i Misteri. Tuttavia il Dio
Oscuro si è limitato a intensificare qualcosa che già era in me: per poco non ti ho
violentata, Derae, e ti avrei uccisa. Non sapevo che nella mia anima ci fosse una si-
mile oscurità.
– Zitto! C’è Oscurità in ogni anima, ma c’è anche Luce, e per te alla fine la
Luce è risultata più forte. Sii orgoglioso, perché mi hai salvato la vita, e continua
ad essere il mio solo amico.
Leucion sospirò e infine sorrise.
– Mi basta – mentì.
Dopo aver acceso il fuoco il guerriero lasciò la stanza e Derae sedette davanti
alle fiamme, scrutandole con gli occhi dello spirito mentre i suoi pensieri vagavano
lontano.
– Ho bisogno di aiuto – sussurrò. – Dove sei, Tamis?
Il fuoco acquistò nuova vita e le fiamme si levarono alte, vorticando su loro
stesse fino a formare un volto femminile. Subito Derae sollevò le mani e una luce
sommessa le scaturì dalle dita, circondandola con uno scudo di luminosità.
– Non hai bisogno di protezione contro di me – affermò il volto nel fuoco, – e
non puoi più invocare Tamis. Io sono Cassandra.
Mentre parlava il volto acquistò una maggiore solidità, incorniciato da capelli
che erano tremolanti lingue di fuoco, e con cautela Derae lasciò svanire il proprio
incantesimo di protezione.
– Sei la sacerdotessa troiana?
– Lo sono stata in un giorno lontano – rispose Cassandra. – Avevo avvertito
Tamis della sua follia, ma non mi ha voluto dare ascolto. Quando Parmenion ha
generato il Dio Oscuro, Tamis è stata assalita dalla disperazione e adesso la sua
anima è lontana da noi, infranta come un cristallo, frammentata come la luna
sull’acqua.
– Puoi aiutarla?
– No. Anche se tutti gli altri l’hanno perdonata, lei non riesce a perdonarsi.
Forse con il tempo tornerà alla Luce, anche se io ne dubito. Comunque cosa mi dici
d te, giovane Spartana? In che modo posso aiutarti?
– Puoi dirmi come combattere il male che sta per giungere?
– Il mio dono nella vita... se di dono si può parlare... è stato quello di dire la
verità senza mai essere creduta. È stato duro, Derae, ma ho obbedito alla Fonte in
tutte le cose. Tamis è stata corrotta dall’orgoglio, si è convinta di essere lei soltanto
lo strumento che avrebbe abbattuto Kadmillos, ma l’orgoglio non è un dono della
Fonte. Nell’insegnarti i Misteri, Tamis ha instillato in te il suo stesso orgoglio. Il
mio consiglio è di non fare nulla, di continuare a risanare, a lavorare per assistere
quanti soffrono e di amare molto.
– Non posso farlo – ammise Derae. – Sono responsabile quanto Tamis
dell’accaduto e devo almeno cercare di fare ammenda.
– Lo so – convenne tristemente Cassandra. – Allora usa la tua mente. Hai visto
Aida e la sua malvagità... quindi non credi che anche lei ti abbia vista? Se è
disposta a distruggere un bambino persiano, non credi che cercherà con intensità
ancora maggiore di distruggere te?
– Lei ed io ci siamo incontrate due volte, e non ha il potere di sopraffarmi.
– Ecco che parla l’orgoglio – commentò il volto nel fuoco. – Aida ha però molti
servitori, e se vuole può chiamare a sé spiriti e demoni. E loro hanno il potere,
Derae, credimi!
Il timore tornò ad affiorare e Derae sentì la brezza soffiare fredda dalla finestra
alle sue spalle.
– Cosa posso fare? – sussurrò.
– Tutto ciò che un essere umano può fare. Lottare e pregare, pregare e lottare.
Se combatterai, però, sarà Aida a vincere perché per combattere con successo
dovrai uccidere e nel dare la morte c’è la gioia dell’Oscurità, che tocca, corrompe e
muta.
– Allora le dovrei permettere di uccidermi?
– Non sto dicendo questo. La battaglia fra la Luce e l’Oscurità non è priva di
complessità. Segui l’istinto, Derae, ma ti consiglio di usare anche la mente. Pensa a
ciò che Aida deve fare per realizzare il suo sogno... c’è un solo grande nemico che
deve uccidere.
– Parmenion?
– Adesso è la voce dell’amore che parla – replicò Cassandra. – Non Parmenion.
Chi è il nemico più grande, Derae?
– Non lo so. Quanti uomini e donne ci sono nel mondo? Come posso vederli
tutti, seguire tutti i futuri?
– Pensa ad una fortezza, con mura alte e impenetrabili. Dove vorrebbe
maggiormente essere il nemico?
– Dentro – rispose Derae.
– Si – confermò Cassandra. – Ora usa la tua mente.
– Il bambino! – sussurrò Derae.
– Il bambino dorato – convenne Cassandra. – Due anime in un solo corpo,
l’Oscurità e la Luce. Finché lo spirito del bambino vivrà Kadmillos non potrà mai
vincere davvero. Esiste un uccello che non si costruisce il nido e depone il proprio
uovo nel nido di un altro insieme alle sue: quando nasce, il pulcino è più grande
degli altri e li spinge ad uno ad uno fuori del nido perché muoiano sbattendo contro
il terreno sottostante, fermandosi soltanto quando è lui l’unico superstite.
– E Kadmillos vorrebbe spingere fuori l’anima del bambino? Dove andrà?
Come posso proteggerla?
– Non puoi, mia cara, perché non hai nessun collegamento con essa. Quando la
nascita sarà vicina lo spirito del bambino verrà scagliato nel Mondo Sotterraneo,
nelle Caverne dell’Ade, nel Vuoto. Là esso brucerà come una piccola fiamma in-
tensa... per qualche tempo.
– E poi?
– La sua luminosità attirerà le creature dell’Oscurità, che la distruggeranno.
– Ci deve essere un modo per impedirlo! – protestò Derae, alzandosi in piedi. –
Non posso credere che tutto debba finire così!
Accostandosi alla finestra, lasciò che la brezza fredda le soffiasse sul volto e
lottò per calmarsi.
– Hai detto che non ho nessun legame con il bambino – disse infine, tornando a
girarsi verso il fuoco. – Chi ne ha uno?
– Chi altri, mia cara, se non suo padre?
– E come può fare Parmenion per raggiungere il Mondo Sotterraneo?
– Deve morire, Derae – rispose semplicemente Cassandra.
IL TEMPIO, PRIMAVERA, 356 A.C.

Per settimane le parole di Cassandra tornarono a tormentare e a perseguitare


Derae, ma per quanto ci provasse lei non riuscì più ad evocare la donna nel fuoco.
– Forse era un demone – suggerì Leucion, quando infine Derae si decise a
confidarsi con lui.
– Vorrei che lo fosse stata – replicò lei, – perché in quel caso avrei potuto
dimenticare le sue parole. No, Leucion, non era un demone, perché ne avrei
avvertito la malvagità. Cosa devo fare?
– Non sei depositaria di tutti i problemi del mondo, Derae – dichiarò Leucion,
scrollando le spalle. – Lascia che siano altri a portare avanti la lotta. So assai poco
degli dèi, perché per fortuna non si occupano molto di me e da parte mia io li evito
completamente, ma di certo sono loro che devono preoccuparsi dell’avvento di
questo... Spirito del Caos?
– Tu non conosci tutta la storia... né io posso dirtela – replicò Derae, – ma
Tamis ed io siamo in parte responsabili dell’avvento di questa calamità. Cassandra
mi ha dato un consiglio simile al tuo, ma capisci perché non posso seguirlo? Io vi-
vo per risanare, servo i poteri dell’Armonia, quindi come potrei vivere il resto della
mia esistenza con la consapevolezza di aver portato un simile orrore nel mondo?
– Alcuni errori non possono essere corretti – affermò Leucion, scuotendo il
capo, – ma anche se fosse possibile, signora, perché dovresti addossarti il biasimo?
Non ti eri prefissa di favorire gli scopi dell’Oscurità.
– No – convenne lei, – ma sono stata allevata a Sparta, Leucion, e nessuno
Spartano prenderebbe mai in considerazione la possibilità di abbandonare un
combattimento prima di avere vinto... o di giacere morto sul suo scudo. Quel
bambino deve avere una possibilità di vivere. Cassandra ha detto che se la sua
anima sarà ancora viva quando lui nascerà, allora Kadmillos sarà costretto a
dividere con essa il corpo e questo ci darebbe la possibilità di lavorare sul bambino
e di tenere a bada lo Spirito del Caos.
– Ma per ottenere tale scopo l’uomo che ami dovrà morire – sottolineò
Leucion.
Derae chiuse gli occhi senza replicare.
– Non ti invidio – aggiunse il guerriero, – ma mi sembra che in tutto questo ci
sia una contraddizione. Cassandra ti ha detto che non si deve uccidere, altrimenti si
opera al servizio dell’Oscurità, e tuttavia per ottenere una vittoria anche solo tem-
poranea dovrai uccidere Parmenion. Non ha senso.
Voltandogli le spalle, Derae si accostò alla finestra e rimase a fissare in silenzio
le colline e il mare lontano; dopo un po’ Leucion la lasciò sola e scese nel giardino
dove adesso le rose stavano crescendo allo stato selvatico, con i boccioli che si
incrociavano in una profusione di colori e che cominciavano ad invadere i sentieri.
Continuando a camminare, Leucion raggiunse i bastioni del muro orientale e
sedette sul parapetto, osservando i campi sottostanti. All’improvviso sbatté le
palpebre, sconcertato.
Un uomo era apparso al centro del prato e stava camminando verso le porte.
Spingendo lo sguardo oltre lo sconosciuto, Leucion esaminò il terreno alla ricerca
di avvallamenti e di depressioni, perché come poteva non aver notato quell’uomo
quando aveva inizialmente guardato verso est? Lo sconosciuto indossava una
tunica di un giallo acceso, quasi dorata, i suoi capelli erano corti e grigi, la barba
arricciata secondo lo stile persiano, e nel continuare a guardarlo Leucion si disse
che non poteva essere sbucato dal nulla, a meno che... improvvisamente sentì la
bocca che gli si inaridiva.
A meno che si trattasse di un dio... o di un demone.
Imprecando per aver lasciato la daga nella propria stanza, corse ai gradini e si
precipitò alla porta orientale che si apriva sui campi, oltrepassandone la soglia e
attendendo là lo sconosciuto.
– Possa la benedizione dell’Olimpo scendere sulla tua casa – salutò questi, in
tono allegro.
– Non puoi entrare – dichiarò Leucion. – Vattene.
Il sudore gli colava negli occhi e lui sbatté le palpebre per allontanarlo: l’uomo
non sembrava essere armato, ma questo gli era di poco conforto perché se si
trattava di un demone non avrebbe avuto bisogno di una spada per eliminare un
avversario umano.
– Sono venuto a cercare la guaritrice – affermò l’uomo. – È qui?
– Qui ci sono soltanto io. Adesso vattene... oppure opera le tue stregonerie e
che tu sia dannato.
– Ah – commentò l’uomo, sorridendo. – Vedo che hai notato il mio arrivo. Non
costituisco una minaccia per la donna che vive qui, anzi si potrebbe dire che sono
un amico, un alleato.
– Sei duro d’orecchio, amico – ribatté Leucion, oscurandosi in viso. – Se non te
ne vai, sarò costretto a combattere con te.
– Come posso convincerti? – chiese lo straniero, indietreggiando di un passo. –
Un momento, ci sono!
Portandosi la mano al petto chiuse gli occhi e un istante più tardi Leucion sentì
un peso nella propria destra: abbassando lo sguardo, si accorse di tenere ora in
pugno una spada lucente.
– Ecco fatto – commentò l’uomo. – Adesso ti senti maggiormente a tuo agio?
– Chi sei?
– Mi chiamo Aristotele. Rifletti su questo, amico: se avessi voluto farti del male
avrei potuto materializzare quella spada non nella tua mano ma nel tuo cuore,
giusto? E poi c’è un altro punto da considerare, e cioè che l’ultima volta che
qualcuno è venuto qui con l’intento di fare del male alla guaritrice lei non ha certo
avuto bisogno di aiuto... non è cosi, Leucion? Ricordi quanto tu e i tuoi amici avete
tentato di violentarla e di ucciderla?
– Io... ho cercato di fare ammenda per quel giorno – mormorò Leucion,
lasciando cadere la spada e indietreggiando con passo incerto.
– Ed hai agito bene – commentò l’uomo, oltrepassando le porte. – Adesso
accompagnami da lei. Ah, vedo che non ce n’è bisogno.
Girandosi, Leucion vide Derae ferma sul sentiero: avvolta nel nuovo abito di un
verde lucente, con i capelli che brillavano rossi e argentei sotto il sole, gli parve
che lei fosse incredibilmente bella.
– Cosa vuoi qui? – domandò Derae allo sconosciuto.
– Desidero parlare di questi momenti di pericolo, mia cara.
– Tu non vieni dalla Fonte – osservò lei, in tono freddo.
– Ma neppure dal Caos. Appartengo soltanto a me stesso.
– Non è possibile.
– Tutte le cose sono possibili, comunque diciamo che dimoro al confine fra i
due territori, senza servire nessuna delle due forze. Tu ed io abbiamo però uno
scopo comune, Derae, e non desidero vedere Kadmillos assumere una veste di
carne.
– Perché sei venuto da me?
– Basta con i giochi, guaritrice! – ridacchiò Aristotele. – Una vecchia amica mi
ha chiesto di venire a trovarti e di aiutarti come potevo.... il suo nome è, o meglio
era, Cassandra. Adesso vogliamo entrare? Ho caldo e sete, e il mio è stato un lungo
viaggio.
Derae rimase in silenzio per un momento, poi chiuse gli occhi e il suo spirito si
librò per immergersi nell’anima dello sconosciuto. Per quanto fosse stata rapida,
però, l’uomo lo fu più di lei e chiuse vaste aree di memoria, impedendole di
raggiungerle e lasciandole intravedere soltanto qualche frammento della sua vita.
Ritraendosi dal suo spirito, Derae si rivolse a Leucion.
– Aristotele sarà nostro ospite per qualche tempo, amico mio, e ti sarei grata se
lo trattassi con cortesia.
– Come desideri, signora – replicò Leucion, inchinandosi. – Gli preparerò una
stanza.
Dopo che Leucion si fu allontanato, Derae si andò a fermare accanto alla spada
creata da Aristotele.
– Un piccolo ma astuto esempio di potere – commentò lui.
– Non tanto piccolo – replicò Derae, – ed ora vediamo questa spada per ciò che
è veramente.
Inginocchiatasi, tenne la mano sulla lama che tremolò e si trasformò in un
lungo serpente nero con la testa sovrastata da un cappuccio.
– Se lui avesse cercato di colpirti, il serpente si sarebbe rivoltato e lo avrebbe
ucciso.
– Però non lo ha fatto – protestò Aristotele, con imbarazzo.
– Capisci questo, e capiscilo bene: se lui fosse morto, avrei scagliato la tua
anima urlante nell’Ade.
– Ho afferrato il punto – garantì lui.
– Bada che sia cosi.
PELLA, MACEDONIA

– Costruirò un impero per lui – disse Filippo, mentre giacevano entrambi


sull’ampio letto, posando una mano sul ventre gonfio della moglie. – Avrà tutto ciò
che gli servirà.
– Sei stato magnifico, quella prima notte – commentò lei.
– È un vero peccato che non ricordi nulla... però ricordo la mattina successiva.
Sei stata come un fuoco nel mio sangue per due anni... fin da quel primo sogno... e
soltanto gli dèi sanno quanto ho sentito la tua mancanza durante questi ultimi sette
mesi. Perché hai dovuto trascorrere tanto tempo nell’Epiro?
– Ho avuto dei problemi con la gravidanza e viaggiare avrebbe potuto
comportare la perdita di tuo figlio.
– Allora sei stata saggia ad aspettare. Tutto ciò che ho costruito è per te... e per
lui.
– Sarà il tuo erede? – chiese lei, in un sussurro.
– Il mio solo erede, te lo prometto.
– E che mi dici dei figli delle tue future mogli?
– Nessuno prenderà il suo posto.
– Allora sono soddisfatta, Filippo, davvero soddisfatta. Intendi attaccare gli
Olynti?
– Parmenion mi aveva detto che sei un’appassionata di strategia, ma non gli
avevo creduto – ridacchiò Filippo. – Perché ti preoccupi di questioni del genere?
– Mio padre era un re e un discendente di re – replicò lei, mentre i suoi occhi
verdi s’indurivano. – Credi che avrei dovuto imparare a tessere e a coltivare i fiori?
No, Filippo, non è questa la vita adatta per Olympia. Adesso parlami degli Olynti.
– No – rifiutò lui, alzandosi dal letto.
– Perché? Mi ritieni stupida? Ti voglio aiutare, voglio essere parte dei tuoi
piani.
– Tu sei parte dei miei piani – ribatté Filippo, girandosi a fronteggiarla. – Sei la
madre di mio figlio... non ti puoi accontentare di questo? Ho molti consiglieri ma
sono pochi coloro con cui condivido i miei pensieri più personali. Riesci a capirlo?
Nessuno può tradire i miei piani se non li conosce completamente.
– Pensi che ti tradirei? – scattò lei.
– Non ho ancora conosciuto una donna che sapesse tenere a freno la lingua –
ruggì Filippo, – e tu stai dimostrando di non essere un’eccezione alla regola!
Poi si gettò un mantello sulle spalle e lasciò a grandi passi la stanza.
Era prossima la mezzanotte e il corridoio era deserto, illuminato soltanto da due
delle sette lanterne disposte sulla sua lunghezza. Il re arrivò in fondo ad esso e aprì
le porte con violenza, facendo scattare sull’attenti le due guardie al di là di esse;
ignorandole, uscì nei giardini rischiarati dalla luna, e dopo essersi scambiate
un’occhiata le guardie lo seguirono.
– Lasciatemi solo! – tuonò lui.
– Non possiamo, sire. Il nobile Attalus...
– Chi è il re qui? – inveì Filippo, fissando i soldati con occhi roventi.
Le due guardie si contorsero a disagio davanti alla sua ira, che subito si dissipò:
sapeva quale fosse il loro problema. Se il re si fosse allontanato solo nella notte e
fosse stato assassinato essi avrebbero pagato con la vita, ma d’altro canto non gli
volevano disobbedire e si trovavano quindi in una situazione impossibile da
risolvere.
– Mi dispiace, ragazzi... è stato soltanto uno scoppio d’ira – disse con un
sospiro. – Le donne! Portano a galla l’aspetto peggiore anche nel migliore degli
uomini – commentò poi, strappando un sorriso alle due guardie. – D’accordo,
allora seguitemi fino alla casa di Parmenion.
Il re seminudo e le due guardie avvolte nel mantello nero attraversarono i
giardini verso l’ala occidentale del palazzo: la luce di alcune lanterne filtrava
dall’alloggio di Parmenion e Filippo non si prese neppure la briga di bussare alla
stretta porta laterale, limitandosi ad aprirla e ad entrare.
Parmenion era seduto ad un tavolo con il suo servitore e amico, il Tebano
Mothac, ed entrambi erano intenti ad esaminare delle mappe. Lo Spartano sollevò
lo sguardo ma non mostrò nessuna sorpresa alla vista del re.
– Cosa state studiando? – domandò Filippo, attraversando la stanza a grandi
passi per esaminare le mappe.
– Il corso superiore del fiume Axios, a nord dei Monti Bora – spiegò
Parmenion. – Avevo ordinato queste mappe lo scorso anno, e sono arrivate oggi.
– Prevedi problemi in quella zona? – volle sapere Filippo.
– C’è un nuovo condottiero degli Miri chiamato Grabus che sta cercando di
organizzare una lega con i Paioni, cosa che potrebbe rivelarsi perniciosa.
Filippo sedette su un divano e si girò verso Mothac.
– Portami del vino, Tebano – ordinò.
– Perché? – ribatté Mothac, con un bagliore nello sguardo. – Hai perso l’uso
delle braccia?
– Cosa? – urlò Filippo, arrossendo in volto, mentre la sua ira di poco prima
tornava ad affiorare con forza raddoppiata.
– Non sono un Macedone... e non sono il tuo servitore – dichiarò Mothac, e
Filippo si alzò in piedi di scatto.
– Basta così! – esclamò Parmenion, interponendosi fra i due. – Che sciocchezze
sono queste? Mothac, lasciaci soli.
Il Tebano accennò a parlare, poi girò sui tacchi e uscì dalla stanza.
– Mi dispiace, sire – disse quindi lo Spartano al re. – Stasera Mothac non è se
stesso... non riesco a credere che si sia potuto comportare in questo modo.
– Lo vedrò morto – ringhiò Filippo.
– Calmati, sire, e lascia che ti versi un po’ di vino. Siediti e rilassati.
– Non cercare di placarmi, Parmenion – borbottò Filippo, ma al tempo stesso si
lasciò cadere sul divano e accettò la coppa d’argento. – Oggi ne ho avuto
abbastanza della gente.
– Qualche problema fra te e la regina? – domandò Parmenion, cercando di
cambiare argomento.
– È dentro la mia mente. Quando guardo il cielo il suo volto è là, non riesco a
mangiare e non posso dormire. Mi ha stregato, e adesso vuole anche conoscere i
miei piani. Non intendo tollerarlo.
– È molto giovane, Filippo – affermò Parmenion, mantenendo un’espressione
neutra, – ma è la figlia di un re, è stata addestrata bene ed ha una mente acuta.
– Non è la sua mente ad interessarmi. Sono circondato di uomini dalla mente
acuta, e una donna dovrebbe avere soltanto un bel corpo e un carattere mite. Sai
che ha alzato la voce con me ed ha osato controbattere? Riesci a crederci?
– A Sparta le donne sono incoraggiate a dire quello che pensano, e in tutte le
questioni... tranne la guerra... sono considerate pari agli uomini.
– Pensi che dovrei spiegarmi con lei? Mai! Questa non è Sparta, questo è il
regno di un uomo, governato da un uomo per altri uomini.
– Il regno è tuo – confermò Parmenion, in tono sommesso, – e sarà governato
come tu dici.
– E non lo dimenticare mai!
– Perché dovrei dimenticarlo?
– Punirai il tuo servitore?
– No, sire... perché non è un servitore. Ti chiedo però scusa per lui: Mothac è
un uomo solo, con i suoi dolori e scatti d’ira improvvisi, e non ha mai accettato con
grazia di essere trattato con disprezzo.
– Prendi le sue parti? Contro di me?
– Non prenderò mai le parti di nessuno contro di te, Filippo, ma ti prego di
ascoltarmi: sei venuto qui pieno d’ira, e a causa dell’ira lo hai trattato come uno
schiavo. Mothac ha reagito... certo, lo ha fatto in maniera indegna di lui, ma è stata
comunque una reazione. Mothac è leale, fidato e il migliore degli amici.
– Non c’è bisogno che parli in mia difesa – intervenne Mothac, dalla soglia, poi
si avvicinò a Filippo e s’inginocchiò. – Ti chiedo perdono... signore, sono stato
scortese e mi dispiace di avere recato una simile vergogna sulla casa del mio
amico.
Filippo abbassò lo sguardo sull’uomo inginocchiato in preda ad un’ira ancora
rovente, ma si costrinse a ridere.
– Forse è stato meglio cosi – commentò, alzandosi e facendo rialzare anche
Mothac. – A volte, amico mio, una corona può rendere un uomo troppo arrogante e
troppo pronto a reagire in nome dell’orgoglio, e stanotte ho imparato una buona
lezione. Ora... lascia che sia io a versare a te una coppa di vino, poi augurerò ad
entrambi la buona notte.
Riempiendo di vino una coppa, Filippo la passò allo stupefatto Tebano, quindi
s’inchinò e lasciò la casa, mentre Parmenion lo guardava allontanarsi sotto la luce
della luna, fiancheggiato dalle sue guardie.

– È un grande uomo, ma non mi piace – commentò Mothac.


Parmenion chiuse la porta e fissò l’amico negli occhi.
– La maggior parte dei re ti avrebbe fatto uccidere, Mothac, o nel migliore dei
casi ti avrebbe condannato alla fustigazione o all’esilio.
– Oh, è astuto, su questo non ci sono dubbi – rispose il Tebano. – Ti apprezza e
apprezza le tue doti... ed ha la forza di sopraffare i suoi più bassi istinti. Ma che
cos’è, Parmenion? Che cosa vuole? La Macedonia è forte, nessuno ne può dubita-
re, e tuttavia l’esercito continua a crescere e gli ufficiali di reclutamento passano di
villaggio in villaggio. – Interrompendosi, Mothac bevve un sorso di vino, poi
trangugiò quanto restava in un solo sorso e si lasciò ricadere sul divano, indicando
le mappe sparse sul tavolo. – Mi hai chiesto di coordinare le informazioni dalle
terre che circondano la Macedonia e adesso abbiamo un costante flusso di notizie
da parte di mercanti, di soldati, di viandanti, di attori girovaghi, di costruttori e di
poeti. Sai cosa sta succedendo nella Macedonia Settentrionale?
– Certamente – rispose Parmenion. – Filippo sta facendo costruire una serie di
città fortificate come misura precauzionale contro una futura invasione degli Illiri.
– È vero, ma sta anche espellendo a forza qualsiasi persona di sangue illirico
dalle terre che gli Illiri hanno occupato per secoli. Vasti tratti di foreste e di pascoli
vengono sottratti ai loro proprietari, e alcuni degli uomini espulsi sono stati in
passato soldati della Macedonia.
– Per secoli gli Illiri sono stati nemici diretti dei Macedoni – replicò Parmenion,
scrollando le spalle. – Filippo sta cercando di porre fine a quella minaccia... una
volta per tutte.
– Oh, sì! – sbuffò Mothac. – Lo capisco, non sono un completo idiota... ma chi
acquisisce queste terre? Il re, oppure Attalus. Il mese scorso tre mercanti della
Pelagonia sono stati privati delle loro ricchezze, della loro terra e della loro casa. Si
sono appellati al re, ma prima che il loro appello potesse essere ascoltato sono stati
misteriosamente assassinati... insieme alle loro famiglie.
– Basta cosi, Mothac!
– Basta senza dubbio – replicò il Tebano. – Te lo chiedo di nuovo... cosa vuole
il re?
– Non ti posso rispondere, e credo che non potrebbe farlo neppure lo stesso
Filippo, però pensa a questo, amico mio: un esercito deve essere nutrito, i soldati
devono essere pagati, e dal momento che il tesoro di Filippo non è particolarmente
abbondante lui deve dare ai soldati vittorie e saccheggi. In tutto questo però c’è un
senso. Una nazione è forte soltanto finché continua a crescere, poi comincia la
decadenza. Perché la cosa ti disturba? Hai visto Sparta e Atene combattere per la
supremazia, hai visto Tebe lottare per dominare la Grecia. Che differenza c’è,
adesso?
– Nessuna – convenne Mothac, – tranne che io sono più vecchio e, spero, più
saggio. Questa è una terra di grandi ricchezze, e se venisse coltivata con cura
potrebbe nutrire tutta la Grecia, ma adesso i contadini vengono attirati a Pella dal
miraggio delle paghe date ai combattenti e l’allevamento dei cavalli da guerra ha la
precedenza su quello del bestiame e delle pecore. Tutto ciò che vedo davanti a noi
sono guerra e morte, non perché il regno è in pericolo, ma soltanto per soddisfare
la sete di conquista di un re barbaro. Non c’è bisogno che tu mi dica cosa desidera
Filippo: tenterà di conquistare la Grecia e vedrò Tebe assediata ancora una volta.
Ci renderà tutti schiavi.
Il Tebano posò la coppa di vino e si issò stancamente in piedi.
– Non è oscuro come tu credi – protestò Parmenion.
– Cerca di non vederlo come un riflesso di te stesso, Parmenion – sorrise
Mothac. – Tu sei un brav’uomo, ma sei la sua spada. Buona notte, amico mio.
Domani parleremo di cose più piacevoli.

Nubi plumbee incombevano come una cortina di fumo su Pella e il tuono


rombava rabbioso in lontananza nel cielo mentre Olympia si avviava con cautela
verso il sedile sotto la quercia all’angolo del giardino meridionale, muovendosi
lentamente con una mano a sostenere il ventre e soffermandosi spesso per stendere
la schiena.
I suoi giorni con Filippo erano tormentosi, un alternarsi fra il conforto derivante
dal contatto fisico e dalla comprensione e l’agonia delle liti tempestose, quando lui
si arrossava in volto e lei lo fissava con gli occhi verdi che fiammeggiavano per
l’ira.
Se fossi ancora snella lo conquisterei, si disse, e tornerò ad essere snella.
Era seccante che la sua andatura aggraziata fosse diventata un passo
ondeggiante da papera e che lei non potesse più abbracciare il marito, stringersi a
lui, eccitarlo. Il potere risiedeva infatti in questa capacità di destare i sensi e senza
di esso Olympia si sentiva sperduta e insicura.
Il lungo sedile sotto la quercia era coperto di cuscini e lei si stese su si esso,
trovando sollievo dal costante dolore alla base della schiena. Sembrava ormai che
fossero mesi che ogni mattina il vomito l’assaliva, mentre la notte lo stomaco le si
contraeva e le lasciava in bocca il sapore della bile.
Questi ultimi giorni erano però stati i peggiori: i suoi sogni erano turbati e in
essi poteva sentire il bambino piangere, come da una grande distanza, e quando si
svegliava all’alba aveva sempre la convinzione che lui fosse morto nel suo ventre.
Aveva cercato di trovare conforto nella compagnia di Phaedra, ma la sua amica
era spesso lontana dal palazzo e sembrava trascorrere ore... giorni interi... con
Parmenion, una cosa che lasciava perplessa Olympia, in quando lei sapeva con
quanta intensità la sua amica detestasse il tocco di un uomo.
La pioggia cominciò a cadere, prima con gentilezza poi con forza sempre
maggiore, tamburellando sul lastricato dei sentieri e piegando i boccioli del
giardino, ma sotto la quercia Olympia si sentiva al sicuro, perché i rami che la
sovrastavano erano spessi e quasi impenetrabili.
Dirigendosi di corsa verso la sua casa lungo il sentiero lastricato, Parmenion la
vide e cambiò direzione, chinando il capo per passare sotto i rami più bassi e
accostandosi a lei con un inchino.
– Questo non è un posto sicuro, mia signora, perché la pianta potrebbe attirare
un fulmine. Permettimi di coprirti con il mio mantello e di accompagnarti nelle tue
stanze.
– Non ancora, generale, siedi qui con me per un po’ – sorrise lei.
Scuotendo il capo, lui si sedette con una risata sommessa, stendendo le lunghe
gambe e asciugandosi le gocce di pioggia dalle braccia e dalle spalle.
– Le donne sono creature strane – commentò. – Tu hai camere splendide, calde
e asciutte, e tuttavia te ne stai seduta qui esposta al freddo e all’umidità.
– In quest’angolo c’è una sorta di pace, non trovi? – ribatté lei. – Tutt’intorno a
noi c’è la tempesta, ma siamo all’asciutto e al sicuro.
Il tuono echeggiò ancora, più vicino, e un lampo biforcuto solcò il cielo.
– È soltanto l’apparenza della sicurezza – replicò Parmenion, – il che non è lo
stesso che essere al sicuro. Hai l’aria triste – aggiunse all’improvviso,
protendendosi d’istinto a prendere la mani di lei.
Olympia gli sorrise, lottando per trattenere le lacrime con uno sforzo di volontà.
– Non sono realmente triste – menti. – È solo... è solo che sono una straniera in
terra straniera, non ho amici, il mio corpo è diventato brutto e deforme, e non
riesco a trovare le parole giuste per compiacere Filippo. Ma ci riuscirò, quando
nostro figlio sarà nato.
– Il bambino ti preoccupa – annuì Parmenion. – Filippo mi ha detto che hai
sognato la sua morte, ma ieri ho parlato con Bernios e lui afferma che sei forte e
che il bambino sta crescendo come si deve. Bernios è un brav’uomo e un ottimo
medico, e non mi mentirebbe mai.
Adesso il tuono era sopra di loro e il vento stava urlando fra i rami della
quercia, scuotendoli con violenza. Parmenion aiutò la regina ad alzarsi e le coprì la
testa e le spalle con il mantello, poi tornarono insieme al palazzo.
Dopo averla accompagnata nelle sue stanze, Parmenion accennò ad andarsene
ma Olympia lanciò un grido e cominciò ad accasciarsi al suolo: subito lo Spartano
la raggiunse con un balzo, afferrandola fra le braccia e trasportandola su un divano.
– È scomparso! – gridò lei, afferrandolo per la tunica. – Mio figlio! Se n’è
andato!
– Calmati, signora – consigliò Parmenion, accarezzandole i capelli.
– Oh, dolce madre Hera – gemette lei. – È morto! In fretta, lo Spartano
raggiunse le stanze esterne e mandò le tre serve della regina a confortarla,
ordinando al tempo stesso ad un messaggero di andare a chiamare Bernios.
Il medico arrivò entro un’ora e diede alla regina una pozione che la facesse
dormire per poi andare a fare rapporto a Filippo, che sedeva nella sala del trono
con Parmenion al fianco.
– Non c’è nessun motivo di preoccupazione – garantì il medico. – Il bambino è
forte e si sente il battito del suo cuore. Non so perché la regina abbia pensato che
fosse morto, ma è giovane e forse è portata a nutrire sciocche paure.
– Non mi ha mai dato l’impressione di essere una persona che si spaventi
facilmente – obiettò Parmenion. – Quando i razziatori l’hanno assalita ne ha ucciso
uno ed ha affrontato gli altri a testa alta.
– Io sono d’accordo con il medico – replicò Filippo. – Olympia è come un
cavallo vivace... rapido e possente ma nervoso. Fra quanto partorirà?
– Non più di cinque giorni, sire, forse anche prima – rispose il medico.
– Quando avrà il bambino al seno starà meglio – commentò il re, poi congedò il
chirurgo e si rivolse a Parmenion.
Lo Spartano si stava aggrappando con forza all’alto schienale del seggio reale,
il suo volto era pallidissimo e il sangue gli sgorgava dal naso e dagli orecchi.
– Parmenion! – urlò Filippo, alzandosi e protendendosi verso il suo generale.
Lo Spartano cercò di rispondere, ma tutto ciò che gli scaturì dalle labbra fu un
gemito inarticolato, poi crollò in avanti fra le braccia del re e si sentì fagocitare da
un mare di dolore che gli avviluppò la testa.
Stava precipitando...
... e sotto di lui la Fossa si apriva invitante.

Lo spirito di Derae si librò sul letto di Parmenion, avvertendo accanto a sé


l’invisibile presenza di Aristotele.
– Questo è il momento di maggiore pericolo – sussurrò la voce di lui, nella sua
anima.
Derae non rispose. Mothac e Bernios sedevano accanto al capezzale dello
Spartano, entrambi silenziosi e immobili, e Parmenion respirava a stento. La
veggente fluì con lo spirito nell’uomo malato, evitando i suoi ricordi e
concentrandosi sulla sua scintilla vitale, avvertendo il panico che dilagava in quel
nucleo a mano a mano che il cancro protendeva nel cervello i suoi filamenti oscuri.
Era stato facile bloccare l’effetto del silphium, ma perfino la stessa Derae era
stupefatta per la rapidità con cui il tumore era dilagato. Sapeva che la maggior
parte delle crescite di quel genere erano oscene imitazioni della vita ma si creavano
una loro scorta di sangue, nutrendosi da essa e garantendo così la propria esistenza
finché il corpo ospite era disposto a tollerarle, ma non cosi quel cancro, che si
moltiplicava con rapidità sconcertante, allargandosi lontano dal proprio nucleo.
Incapace di nutrirsi, i suoi filamenti più lunghi marcivano e corrompevano i tessuti
di grasso del cervello... e a quel punto un nuovo filamento si estendeva a seguire il
percorso di quello precedente.
Parmenion era ormai prossimo alla morte, con la cancrena che si diffondeva nel
suo flusso sanguigno e portava la corruzione in tutto il corpo. Nuovi tumori
stavano fiorendo dovunque.
Derae diede loro la caccia, distruggendoli dovunque riuscì a trovarli.
– Non posso farcela da sola! – esclamò, in preda ad un panico improvviso.
– Non sei sola – replicò Aristotele, con voce calma. – Penserò io a contenere il
tumore nel cervello.
Calmandosi, Derae si spostò verso il cuore: se si voleva che Parmenion
sopravvivesse a quella prova, il suo cuore doveva essere forte. Lui era stato un
corridore per tutta la vita, e come Derae si aspettava, i suoi muscoli cardiaci erano
robusti, ma nonostante questo le arterie e le vene principali cominciavano a
mostrare segni di logoramento, strati di grasso di un giallo opaco aderivano alle
loro pareti e riducevano il flusso del sangue, rendendo debole e irregolare il battito
del cuore scarsamente alimentato. Derae cominciò da lì il proprio lavoro,
rinforzando le valvole cardiache e staccando gli strati di grasso giallo che
ostruivano le vene, frantumandoli e lasciando che il sangue li trascinasse verso
l’intestino. Vedendo che i polmoni erano in forma perfetta, non indugiò in essi e si
spostò verso la vescica, dove le scorie tolte dal sangue si erano raggrumate
formando dei sassi aguzzi e irregolari, che lei ridusse in polvere.
Continuando a spostarsi, distrusse le cellule cancerogene annidate nei reni,
nello stomaco e nel ventre, e infine tornò al nucleo centrale dove era in attesa
Aristotele.
Adesso la crescita presente nel cervello era stabile ma copriva ancora una vasta
zona cerebrale e si annidava su di essa come un immenso ragno.
– Ora che lo abbiamo portato in punto di morte dobbiamo tenerlo sospeso così
mentre io lo cerco nel Vuoto – disse Aristotele. – Puoi farcela?
– Non lo so – ammise Derae. – Sento il suo corpo tremare sull’orlo dell’abisso,
ed un solo errore o un cedimento da stanchezza da parte mia potrebbero costargli la
vita. Non lo so, Aristotele.
– Entrambe le nostre vite saranno nelle tue mani, donna, perché lui sarà il mio
collegamento con il mondo dei vivi. Se dovesse morire nel Vuoto, anch’io resterò
intrappolato laggiù. Sii forte, Derae. Sii spartana!
Poi Derae si ritrovò sola.
Il battito del cuore di Parmenion era sempre debole e incerto, e lei poteva
sentire il tumore premere contro il suo potere, con i filamenti che vibravano e
cercavano di crescere.

Non c’era stata nessuna sensazione di movimento, né traccia di stordimento. Un


momento non c’era nulla e quello successivo Parmenion si trovò a camminare in
una landa priva di colore sotto un cielo del tutto grigio e senza vita. Si fermò, con
la mente stordita e confusa.
Fin dove riusciva a spingersi lo sguardo non c’erano tracce di vita o di
vegetazione, soltanto alberi morti da tempo con i rami nudi e scheletrici, massi
irregolari e colline che si ergevano in lontananza davanti a cupe montagne. Tutto
era ombra.
La paura lo sfiorò e lui abbassò la mano verso la spada che aveva al fianco.
Spada?
Lentamente la estrasse dal fodero e si trovò a contemplare di nuovo il ricordo
più prezioso della sua giovinezza, la lama lucente e il pomo d’oro a forma di testa
di leone. La Spada di Leonida!
Ma da dove era venuta? Come ne era entrato in possesso? E dove si trovava, in
nome dell’Ade?
Quella parola gli echeggiò nella mente. L’Ade!
Deglutì a fatica, ricordando il dolore lancinante e l’improvvisa oscurità.
– No – sussurrò. – Non posso essere morto!
– Per fortuna non lo sei – commentò una voce. Girandosi di scatto Parmenion
protese la spada e Aristotele si ritrasse con un balzo.
– Per favore, amico mio, sta’ attento. Un uomo ha una sola anima.
– Che posto è questo? – chiese Parmenion.
– La terra al di là del fiume Stige, la prima caverna dell’Ade – rispose
Aristotele.
– Allora devo essere morto, però non ho la moneta da dare al traghettatore.
Come farò a passare?
Aristotele lo prese per un braccio e lo guidò verso un gruppo di massi, dove
sedettero sotto il cielo spento.
– Ascoltami, Spartano, perché c’è poco tempo. Non sei morto... un’amica ti sta
tenendo in vita in questo momento... ma c’è qualcosa che devi fare qui.
In fretta, spiegò quindi a Parmenion come l’anima del bambino si fosse perduta
nel Vuoto e quali fossero i pericoli presenti in esso.
Lo Spartano ascoltò in silenzio, lasciando scorrere lo sguardo sul panorama
contorto che si stendeva in eterno in ogni direzione: in lontananza era possibile
scorgere delle forme più scure che si spostavano sul suolo grigio.
– Come può un uomo trovare una singola anima in questo posto? – chiese
infine.
– Quell’anima splende come una luce, Parmenion, e deve essere vicina perché
tu sei legato ad essa.
– Cosa vuoi dire? – domandò lo Spartano, con la paura che gli affiorava nello
sguardo.
– Hai capito benissimo quello che intendevo: tu sei il padre del bambino.
– Quanti lo sanno?
– Soltanto io... e un’altra persona, la guaritrice che ti sta tenendo in vita nel
mondo della carne. Il tuo segreto è al sicuro.
– Nessun segreto è mai al sicuro – sussurrò Parmenion, – ma non è questo il
momento di discuterne. Come possiamo trovare questa luce?
– Non lo so – ammise Aristotele, – cosi come non so come faremo a
proteggerla quando l’avremo trovata. Forse non ci sarà possibile.
Parmenion si alzò in piedi e scrutò con attenzione tutt’intorno a sé.
– Da che parte è lo Stige? – chiese quindi.
– Verso est – rispose Aristotele.
– E come faccio a stabilire da che parte è l’est? Non ci sono stelle, tranne una, e
nessun punto di riferimento che possa riconoscere.
– Perché vuoi cercare il Fiume dei Morti?
– Dobbiamo cominciare da qualche parte, Aristotele, non possiamo
semplicemente girovagare per questa pianura desolata.
– Per quel che ricordo lo Stige si trova dietro due picchi irregolari, più alti delle
montagne circostanti... – spiegò Aristotele, alzandosi a sua volta, poi si girò di
scatto verso Parmenion, esclamando: – Aspetta? Cos’hai detto a proposito delle
stelle?
– Che ce n’è soltanto una che brilla laggiù – spiegò lo Spartano, indicando un
minuscolo punto luminoso che splendeva alto nel cielo cupo.
– Non ci sono stelle nel Vuoto. È là! Quella è la fiamma dell’anima del
bambino!
– Come possiamo raggiungere una stella?
– Non è una stella! Guarda meglio. Quella è un’alta montagna e la luce si è
posata su di essa. Vieni, presto, perché attirerà il male su di sé e dobbiamo
raggiungerla per primi.
I due uomini cominciarono a correre, sollevando una nube di polvere grigia che
si librò su di loro prima di tornare a posarsi al suo posto, senza essere smossa dal
minimo alito di brezza.
– Guarda! – urlò Aristotele, mentre correvano attraverso la pianura.
Lontano sulla sinistra stavano emergendo alcune ombre, creature vaste e
deformi che avanzavano verso la luce.
– Le attira con il potere del dolore. Devono soffocarla, distruggerla.
Mentre continuavano a correre non avvertirono quasi il passare del tempo, ma
la montagna si erse su di loro minacciosa e cupa quando arrivarono alle sue
pendici: ai piedi del pendio si allargava una foresta di alberi morti, con i rami
bianchi quanto vecchie ossa, e Parmenion deviò verso sinistra cercando un sen-
tiero.
– Non da quella parte! – gridò Aristotele.
Parmenion cercò di girarsi ma un lungo ramo gli si avvolse intorno alla gola e
ramoscelli affilati come artigli trapassarono la sostanza del suo spirito. La sua
spada si abbatté sul tronco e lui si scagliò a terra, dove però le bianche radici
emersero dal terreno e gli afferrarono le braccia come lunghe dita scheletriche.
Aristotele scattò in avanti protendendo le braccia e dalle sue mani scaturì un
getto di luce rovente che avvolse Parmenion: le radici furono ridotte
istantaneamente in polvere e lo Spartano si rialzò barcollando.
– È stato un incidente sfortunato – commentò Aristotele, – perché una simile
esibizione di potere attirerà più in fretta i nostri nemici.
Con la spada in pugno, Parmenion seguì il magus su per il pendio, verso la
luce. Mentre si avvicinavano ad alcuni massi sparsi, forme scure si staccarono dalle
rocce e solcarono il cielo... scuri uccelli privi di penne e di pelle, scheletri neri che
scendevano in picchiata verso di loro.
Da oltre i massi si levò un gemito e Parmenion rallentò la corsa, cercandone il
punto di provenienza.
– Non c’è tempo – avvertì Aristotele.
Ignorandolo, Parmenion deviò verso destra.
Al centro dei massi giaceva una giovane donna le cui braccia erano fissate alla
roccia con catene di fuoco. Parecchi uccelli scheletrici stavano beccando la sua
carne, strappandone strisce sanguinanti e creando ferite che si risanavano
all’istante. Parmenion si lanciò verso gli uccelli, gridando e agitando le mani, ed
essi si sollevarono in volto con un crepitare d’ali: la spada dello Spartano ne
ridusse uno in pezzi, poi gli altri riuscirono a volare via. Inginocchiandosi,
Parmenion toccò con gentilezza il volto della donna e le sollevò il capo.
– Io ti conosco, vero? – disse, quando lei riuscì a mettere a fuoco il suo viso.
– Sì – rispose debolmente la donna, con voce sognante. – Ti ho mostrato il mio
aspetto della gioventù quando ti trovavi a Tebe. Sei un sogno, Parmenion?
– No, signora.
Protendendo la spada, Parmenion l’accostò alle catene di fuoco che caddero al
suolo, poi ripose l’arma e aiutò Tamis ad alzarsi.
– Ti ho detto che non abbiamo tempo per queste cose – gridò Aristotele,
raggiungendoli. – I demoni si stanno radunando.
– Il bambino è nato? – chiese Tamis.
– Non ancora – rispose Parmenion. – Vieni con noi.
Prendendola per un braccio la guidò su per il pendio, mentre molto più in basso
le ombre cominciavano a raccogliersi e a fondersi come un nero fiume che
scorresse verso la montagna.

Salirono sempre più in alto, fra le rocce ora sferzate da un vento freddo. Adesso
la luce era più vicina... una fiamma di un bianco assoluto alta quanto un uomo che
ardeva su un masso nero; intorno ad essa gli uccelli scheletrici stavano volando in
cerchio e lanciavano grida acute che echeggiavano per tutta la montagna.
Un’ombra scura prese consistenza accanto alla fiamma, crescendo e
allargandosi.
– Aida! – sussurrò Tamis, correndo in avanti.
La Donna Oscura sollevò le mani e il buio le fluì dalle dita per scivolare sulla
fiamma che tremolò e rimpicciolì fino a ridursi alle dimensioni della fiammella di
una lanterna.
– No! – urlò Tamis.
Aida si volse di scatto e lance nere saettarono dalle sue mani. Uno scudo dorato
apparve sul braccio sinistro di Tamis e le lance rimbalzarono contro di esso mentre
Aristotele si apriva la tunica e stringeva la mano intorno ad una piccola pietra
dorata che gli pendeva dal collo appesa ad una catenella d’argento. La fiamma sul
masso si levò nell’aria e lottò per liberarsi dalla fanghiglia nera che minacciava di
soffocarla.
– Prendila, Parmenion – gridò il magus.
Lo Spartano corse verso la fiamma che fluttuò incontro alla sua mano protesa e
gli si posò sul palmo. Non ci fu nessuna sensazione di calore, e tuttavia un tepore
interiore toccò il cuore di Parmenion mentre la fiamma cresceva e si ripiegava su
se stessa, diventando un globo di sommessa luce bianca.
Tamis e Aida si scagliarono intanto una contro l’altra e un fulmine saettò dalle
mani di Tamis, trapassando le vesti della Donna Oscura che cadde all’indietro... e
svanì. Tamis si girò allora verso Parmenion e sollevò le mani tremanti sopra il
globo.
– È il bambino non ancora nato – disse, – il figlio della tua carne. Ora capisco.
Kadmillos deve ucciderlo oppure condividere il corpo in eterno. – Le sue dita
sfiorarono il globo e la luce si diffuse su di esse. – Oh, Parmenion! È cosi bello!
– Cosa possiamo fare? – domandò lo Spartano, lanciando un’occhiata giù per il
pendio dove i demoni si stavano radunando... alcuni camminando e altri strisciando
sulle pietre, con strida che si libravano sulle ali del vento freddo.
– Credo che il Monte Thanatos sia vicino – suggerì Aristotele, venendo avanti.
– Se non mi sbaglio là c’è un accesso ai Campi Elisi, alla Sala degli Eroi... però
potrebbero impedirci di entrare.
– Perché? – chiese Parmenion.
– Non siamo morti – spiegò Aristotele, costringendosi a sorridere. – Non
ancora, almeno.
– Guardate! – gridò Tamis, indicando verso i piedi della montagna, dove
guerrieri dall’armatura scura montati su cavalli scheletrici stavano cavalcando
verso di loro.
– La Porta, allora – decise Parmenion, e tenendo sulla mano la sfera che ardeva
di un bagliore intenso riprese a correre su per il pendio, seguito dai due maghi.
L’ISOLA DI SAMOTRACIA

– Interferisce ancora! – sibilò Aida, aprendo gli occhi fisici e alzandosi dal
trono d’ebano.
– Cosa succede, signora? – sussurrò la giovane accolita Poris, e la donna vestita
di nero abbassò lo sguardo sulla ragazza inginocchiata.
– Ci sono tre avversari che stanno lottando contro di noi per cercare di tenere in
vita il bambino. Tamis, che sia dannata, e l’uomo chiamato Parmenion; poi c’è
anche un altro uomo che non conosco. Aspetta accanto a me!
La Donna Oscura chiuse gli occhi ancora una volta e il suo corpo si accasciò
sul trono; la snella accolita le prese allora la mano e se la portò alle labbra.
Per qualche tempo la ragazza sedette in silenzio, accarezzando le dita di Aida,
poi la Donna Oscura sospirò.
– Quell’uomo è un magus. Il suo corpo lo attende nel tempio della guaritrice e
anche la donna chiamata Derae giace là, mentre la sua anima è a Pella, concentrata
a tenere in vita il corpo di Parmenion. Bene, mia cara, questa volta hanno
assottigliato troppo le loro forze, davvero troppo, ed è tempo che muoiano.
– Manderai i Cacciatori Notturni, signora?
– Tre dovrebbero essere sufficienti, visto che c’è soltanto un vecchio a difesa
dei corpi. Vieni con me, mia cara.
Poris seguì la sua signora in uno dei freddi corridoi di pietra e lungo le
sottostanti gallerie rischiarate dalle torce, poi Aida aprì una porta a forma di foglia
ed entrò in una piccola stanza priva di arredi con l’eccezione di una lastra di pietra
sollevata da terra posta al suo centro.
– Sai cosa c’è scritto qui? – chiese, lasciando scorrere le dita sulle lettere incise
nella pietra.
– No, mia signora.
– È una scritta nella lingua degli Accadi, incisa prima dell’alba della nostra
storia, e forma un incantesimo. Dimmi – aggiunse poi, posando una mano sulla
spalla della ragazza, – mi ami?
– Più della mia vita – garantì l’accolita.
– Bene – rispose Aida, abbracciandola strettamente, – e anch’io ti amo,
bambina, sei più di una figlia per me... ma Kadmillos deve essere servito e il suo
benessere è la sola cosa che mi sta a cuore.
La daga sottile penetrò nella schiena di Poris, salendo fino al cuore attraverso le
costole, e la ragazza s’irrigidì, accasciandosi fra le braccia di Aida.
La donna adagiò il cadavere sulla lastra e cominciò a pronunciare le parole del
potere. Una voluta di fumo si levò dalle parole intagliate nella pietra e coprì la
ragazza morta, poi un fetore di putrescenza pervase la stanza. Ad un cenno di Aida,
il fumo si ritrasse quindi nella pietra, sulla quale c’era adesso soltanto un velo di
cenere grigiastra.
Ora sulle pareti buie danzavano ombre grottesche, forme contorte che un tempo
erano state uomini, e Aida si avvicinò ad una di esse, posando la mano sulla fronte
distorta.
– Il tempio è privo di protezione – disse alle creature. – Trovate il corpo della
donna chiamata Derae e divorate la sua carne... e ogni altra cosa.
Le ombre svanirono.
Tornata accanto alla pietra, Aida immerse le dita nella cenere.
– Sentirò la tua mancanza, Poris – mormorò.

Raggiunta la cresta della montagna, i tre corsero giù per i pendii coperti di
ghiaia. Tamis scivolò e cominciò a rotolare verso un precipizio, ma Aristotele si
lanciò sul suo percorso e l’afferrò per la tunica bianca, trascinandola al sicuro.
I fuggiaschi ripresero quindi la fuga con le grida degli inseguitori che si
facevano sempre più vicine; dall’alto giunse un rumore di ali e nel sollevare lo
sguardo Parmenion vide sagome enormi che si libravano su di loro... creature dalla
pelle coperta di scaglie e dalla forma soltanto vagamente umana. Esse però non
attaccarono e lo Spartano se ne disinteressò, continuando a correre.
– A sinistra! – gridò Aristotele, indicando un passo fra gli erti picchi neri.
Dietro di loro i cavalieri spettrali si stavano avvicinando in fretta e Parmenion
si arrischiò a lanciare un’occhiata da sopra la spalla per poi riportare lo sguardo sul
passo davanti a loro.
Non ce l’avrebbero fatta. Borbottando un’imprecazione si arrestò e si girò di
scatto, preparandosi ad affrontare il nemico con la spada in pugno: i cavalieri erano
più di venti, con la faccia nascosta dall’elmo alato, e le loro spade di fiamma
brillavano come torce.
– Continua, li tratterrò io – disse Tamis, venendo ad affiancarsi a lui.
– Non ti posso lasciare ad affrontarli da sola.
– Va’! L’anima del bambino è tutto.
Parmenion esitò per un momento soltanto, poi continuò a correre. Dietro di lui i
cavalieri giunsero a ridosso della sacerdotessa e le mani di Tamis si sollevarono di
scatto lanciando attraverso il Vuoto scariche di fiamma che gettarono quattro
demoni di sella. Gli altri continuarono la carica, allargandosi per oltrepassare la
donna, e una seconda raffica di lampi si abbatté sulla prima fila di assalitori,
mentre i cavalli da tempo morti crollavano al suolo con le ossa che si spezzavano
crepitando.
Due cavalieri piombarono poi sulla sacerdotessa, che riuscì ad uccidere il primo
con una lancia di luce; il secondo però le trapassò il petto con la spada che le uscì
dalla schiena e appiccò il fuoco ai suoi abiti. Tamis barcollò, ma non cadde...
incenerito quel cavaliere, si girò parzialmente e vide che Parmenion e Aristotele
avevano quasi raggiunto il passo.
Ignorando la donna morente i cavalieri proseguirono al galoppo per inseguire i
due uomini appiedati e Tamis si lasciò scivolare al suolo con la mente che
vorticava. Di nuovo vide la sua prima morte, ricordò il dolore e l’amarezza. La sua
anima era fuggita nell’angolo più remoto del Vuoto, sperduta e sola, ed era stato là
che i servitori di Kadmillos l’avevano trovata, legandola con catene di fuoco e
mandando i Corvi della Morte a lacerare la carne del suo spirito. In preda alla
disperazione, lei non era riuscita a trovare la forza per combatterli. Afferrata l’elsa
della spada di fuoco, se la strappò dal corpo e la gettò lontano.
Hai commesso tanti errori, Tamis, si rimproverò, ma forse adesso, alla fine, sei
riuscita a fare ammenda.
Molto più avanti, vide il bagliore dell’anima del bambino raggiungere le Porte
dei Campi Elisi e i cavalieri dell’Ade arrestarsi ad una certa distanza, incapaci di
superare il passo antistante le porte senza avere prima ricevuto ulteriori ordini.
Adesso l’impresa è affidata a te, Parmenion, figlio mio, pensò. E nonostante i
miei errori ti ho addestrato bene.
Infine soddisfatta, Tamis si arrese alla sua seconda, definitiva morte.

Le porte erano intagliate nella lucente roccia nera, alte quanto tre uomini e
larghe quanto dieci; al di là di esse si allargavano campi verdi, alberi in fiore, alte
montagne incappucciate di neve e un cielo azzurro come lo è soltanto nei sogni, e
Parmenion desiderò di potersi addentrare in quel luogo per lasciarsi alle spalle
l’orrore grigio e desolato del Vuoto.
Alle porte c’erano però due guardie.
– Non potete passare – disse la prima.
Parmenion si avvicinò all’uomo. La sua armatura era arcaica, con la corazza
dorata, lo scudo di bronzo grande ed ovale, l’elmo dal pennacchio rosso che
copriva tutta la faccia, lasciando vedere soltanto gli occhi azzurri.
– Questa è l’anima di un bambino in pericolo – spiegò, sollevando la fiamma. –
Il Signore del Caos vuole camminare nel mondo della carne rubando la vita, il
corpo di questo bambino.
– Il mondo della carne non è nulla per noi – dichiarò la seconda guardia.
– Oltre le porte non c’è nessuno a cui ci possiamo appellare? – intervenne
Aristotele.
– Qui non è possibile alterare la legge – rispose il primo uomo. – La Parola è
assoluta: soltanto le anime degli eroi morti possono passare e noi le riconosciamo
da una stella luminosa che splende loro sulla fronte.
Sentendo un movimento alle proprie spalle, Parmenion si girò e vide che i
cavalieri stavano cominciando ad avanzare, mentre alle loro spalle un esercito di
demoni aveva occupato l’imboccatura del passo.
– Almeno accettate l’anima del bambino – implorò Aristotele.
– Non possiamo. Appartiene ai vivi.. come voi.
Accostatosi ad un masso, Parmenion indusse con la volontà la fiamma a fluire
dalla sua mano ed essa scivolò sulla roccia, lasciandogli un intenso senso di
perdita. Estratta la spada, ignorò quindi le guardie e andò a mettersi al centro del
passo.
– Aspetta! – esclamò una di esse. – Come sei venuto in possesso di quell’arma?
– È stata mia nella vita – rispose Parmenion.
– Ti ho chiesto come ne sei venuto in possesso.
– L’ho vinta ai Giochi del Generale. Un tempo è stata usata dal più grande eroe
della mia città... il re guerriero Leonida, che è morto oltre un secolo fa per
difendere il passo delle Termopili contro gli invasori persiani.
– Un secolo? È passato tanto tempo? Sei uno Spartano, allora?
– Sì.
– In questo caso non combatterai da solo – dichiarò l’uomo, lasciando le porte e
prendendo posizione alla sinistra di Parmenion.
– Torna indietro – suggerì questi, senza distogliere lo sguardo dalle orde che
avevano davanti. – È già assurdo che un solo uomo muoia in questo modo, e una
spada in più non farà differenza.
– Ce ne sono più di due, fratello – rise la sentinella. – Boleus è andato a
chiamare gli altri.
Mentre ancora stava proferendo quelle parole, alle loro spalle echeggiò un
suono di piedi in marcia e trecento guerrieri in armatura vennero a schierarsi su tre
linee lungo il passo.
– Perché fate questo per me? – domandò Parmenion.
– Perché porti la mia spada – rispose il leggendario re guerriero, – e perché sei
uno Spartano. Adesso tirati indietro, insieme al tuo amico e all’anima del bambino.
Quei demoni non passeranno finché noi avremo vita.
Alle loro spalle la porta scomparve, lasciando soltanto una parete nera e
impenetrabile.

– Pare che tu abbia amici potenti – commentò Aristotele, prendendo Parmenion


per un braccio e guidandolo verso il punto in cui il globo posava sulle rocce.
– Lui è... – cominciò lo Spartano, ancora stordito.
– So chi è... Leonida, il re guerriero, e gli uomini che lo accompagnano sono gli
eroi morti alle Termopili. Quegli eroi adesso stanno rischiando di perdere l’eternità
per te, Parmenion... un pensiero sgomentante, ma del resto gli Spartani sono sem-
pre stati un popolo strano.
– Non posso permetterlo – sussurrò Parmenion. – Sono già morti una volta per
la loro città e per la Grecia, e non sanno chi sono. Io ho umiliato Sparta, ne ho
distrutto la grandezza! Li devo salvare!
– Sanno tutto quello che devono sapere! – sibilò Aristotele, trattenendolo per un
braccio. – Il bambino è ciò che conta!
Parmenion si liberò con uno strattone dalla sua stretta, ma poi vide il lucente
globo tremolante: l’anima di un bambino. Del suo bambino! Lanciando un’occhia-
ta verso sinistra scorse lo schieramento di battaglia spartano, con gli scudi uniti e le
lance puntate, e al di là di esso la vastità dell’esercito di demoni.
D’un tratto il re guerriero posò lo scudo e la spada e tornò a grandi passi verso
di lui.
– Stanno aspettando qualcosa – disse, – ma questo ci darà il tempo di parlare.
Come ti chiami, fratello?
– Savra – si affrettò a interloquire Aristotele.
– Quello era il mio nome da bambino – replicò però Parmenion, scuotendo il
capo. – Adesso sono Parmenion.
Il re guerriero rimase in silenzio per un momento, poi si portò le mani all’elmo
e se lo sfilò. Il suo volto era regolare, anche se non avvenente, con i capelli biondi
e lunghi e gli occhi azzurri come un cielo estivo.
– Ho sentito parlare di te: hai mandato molti fratelli spartani qui nei Campi
Elisi.
– Sì. Avrei voluto che ci fosse stato il tempo di dirti la verità, ma ti sei schierato
al mio fianco cosi in fretta che non ho potuto. Hai modo di riaprire le porte e di
ritirarti?
– No, e se anche ci fosse non lo farei. Saperlo non avrebbe cambiato nulla
Parmenion, e ancora non cambia nulla, Resisteremo insieme.
– Non capisco – sussurrò Parmenion.
– Perché tu provieni da un’era diversa, fratello. Alle Termopili noi abbiamo
guidato un contingente greco unito contro l’invasore: allora abbiamo resistito
saldamente e siamo morti... non con gioia ma siamo morti per nostra scelta, fratello
accanto al fratello. Il fatto che tu sia uno Spartano è sufficiente per noi, perché il
nostro sangue scorre nelle tue vene.
– Tu mi accetti? – chiese Parmenion, mentre tutte le torture subite nell’infanzia
tornavano ad affiorare... il rifiuto, le percosse, le continue umiliazioni.
Il re guerriero sorrise e gli posò le mani sulle spalle.
– Vieni a schierarti al mio fianco, fratello, e i demoni vedranno come
combattono gli Spartani.
In quel momento l’amarezza di Parmenion si dissolse come se una brezza
fresca avesse spazzato via sussurrando tutte le ragnatele nascoste nei recessi della
sua mente.
Era stato accettato! Dal più grande Spartano che fosse mai vissuto!
Estratta la spada seguì il re all’interno dello schieramento di battaglia.
IL TEMPIO

Leucion aveva l’impressione che quella notte fosse più bella di qualsiasi altra
che riusciva a ricordare. Il cielo era limpido e nerissimo, le stelle lontane
scintillavano come punte di lancia, la luna era un’immensa moneta di argento
lucente. Una volta, quando serviva come mercenario in Egitto, aveva ricevuto in
pagamento una moneta come quella coniata a Susa e stampata con il gufo di Atena
perché la maggior parte dei mercenari erano Ateniesi. Il fascino per quella moneta
era però durato una sola notte, poi lui l’aveva data ad una prostituta della Numidia.
Adesso, nel fissare la luna dai bastioni del tempio, desiderò di averla
conservata. Con un sospiro volse le spalle alle mura e scese i gradini fino ai
giardini rischiarati dalla luce lunare: intorno a lui le rose non avevano colore, erano
tutte avvolte in tonalità di grigio sotto la luna, ma la loro fragranza restava im-
mutata.
Raggiunta la Casa della Guarigione, sali le scale che portavano alla stanza di
Derae e sedette fra i due letti: su uno giaceva il mago Aristotele, con le braccia
incrociate sul petto e la mano destra stretta intorno alla pietra che portava al collo,
sull’altro c’era Derae, ancora vestita con la tunica verde che Leucion aveva
comprato al mercato. Protendendosi, le accarezzò una guancia.
Lei non si mosse, e nel guardarla Leucion ricordò con calore il proprio ritorno
al tempio, quando aveva trovato Derae in preda alla febbre. L’aveva lavata, curata
e nutrita, ed era stato felice, perché per quel periodo lei era stata sua, come una
bambina.
Adesso il suo volto era pallido e lei respirava appena. Si trovava in quello stato
da due giorni, ma Leucion non era preoccupato, perché Derae aveva detto che ne
sarebbero passati cinque, poi lei sarebbe tornata e tutto sarebbe stato come un
tempo: il risanamento dei malati, le lente passeggiate nei giardini, le tranquille
conversazioni sotto la luce della luna.
Il mago gemette sommessamente e la sua mano scivolò via dalla collana.
Chinandosi in avanti, Leucion sbirciò la pietra dorata e striata di venature nere, che
sembrava brillare leggermente. Riportando il proprio sguardo su Derae, fu colpito
ancora una volta dalla sua bellezza, che lo aggredì come un incantesimo doloroso e
tuttavia gradito. Stiracchiando la schiena, si alzò in piedi e il fodero della sua spada
stridette contro la sedia, infrangendo il silenzio. Adesso si sentiva a disagio a
portare la spada perché gli anni vissuti al tempio avevano smussato il suo spirito
guerriero, ma il mago aveva detto che era necessario che i due corpi venissero
custoditi costantemente.
Leucion gli aveva chiesto da cosa dovevano essere protetti.
– Dall’imprevedibile – aveva risposto Aristotele, scrollando le spalle.
Leucion si girò verso la porta... e s’immobilizzò.
La porta non c’era più e anche il muro era scomparso, per essere sostituito da
un corridoio lungo e stretto fatto di pietra pallida e lucente. L’anziano guerriero
estrasse la spada e la daga, sforzando la vista nel tentativo di sbirciare nella
penombra: due ombre si staccarono dalle pareti del corridoio e Leucion in-
dietreggiò quando le loro enormi sagome deformi avanzarono verso di lui. La testa
e le spalle erano coperte di scaglie, le braccia e il torso avevano il colore grigio di
un cadavere in decomposizione e i piedi dotati di artigli stridevano sulla pietra
mentre essi si avvicinavano. Con un’ondata di nauseante terrore, Leucion si
accorse che la bocca degli esseri era bordata di zanne aguzze.
Indietreggiò ancora, e con le gambe andò ad urtare il letto su cui giaceva Derae.
Il primo demone gli si scagliò contro. Leucion balzò in avanti per incontrare la
sua carica e piantò la spada nel ventre della creatura, spingendola verso l’alto in
direzione del cuore. Gli artigli gli lacerarono la spalla, fendendo la carne e i
muscoli e spezzando l’osso della clavicola, e mentre il demone cadeva la seconda
creatura si gettò sul guerriero ferito, chiudendo gli artigli intorno al fianco destro e
fracassando l’osso sottostante. Leucion conficcò la daga nel collo della bestia,
appena sotto l’orecchio e un fiotto di viscida sostanza grigia scaturì dalla ferita,
inondandogli la mano e bruciandogli la pelle. In preda a convulsioni mortali, il
demone scagliò l’assalitore lontano da sé e Leucion fini al suolo, lasciando cadere
tanto la spada quanto la daga.
Il sangue gli fluiva dalla ferita alla spalla e il dolore causato dal fianco destro
era quasi intollerabile, ma Leucion lottò lo stesso per rialzarsi.
Raccolta la spada, si issò in piedi reggendo il peso del proprio corpo sulla
gamba sinistra. I due demoni erano svaniti, ma il corridoio c’era ancora.
– L’ho salvata – sussurrò. – L’ho salvata.
Cinque artigli lunghi quanto spade gli si piantarono nella schiena, uscendogli
dal petto prima di chiudersi su loro stessi per trascinarlo all’indietro.
Il sangue gli salì gorgogliando dai polmoni trapassati e la testa gli si accasciò in
avanti.
Il demone lo gettò allora sul letto e il braccio inerte di Leucion andò a cadere
sulla pietra dorata posata sul petto di Aristotele. Dalla pietra si levò una fiammata
di luce e nuova forza si riversò nel guerriero morente, che girò la spada e la
conficcò nel ventre del demone alle sue spalle.
Gli artigli gli devastarono il corpo ancora una volta, staccando di netto la testa.
Disinteressandosi del cadavere esanime, il demone barcollò, poi i suoi occhi
color opale scorsero la sagoma inerte di Derae. Con la saliva che gli gocciolava
dalle zanne, il demone prese ad avanzare.

L’orda di demoni riempiva l’imboccatura del passo e attendeva immobile, con


lo sguardo fisso sui trecento guerrieri dal mantello carminio che le sbarravano il
cammino.
– Cosa credi che stiano aspettando? – chiese Parmenion al re guerriero.
– Aspettano Lui – sussurrò il re, puntando la spada verso una scura nube
tempestosa che si scorgeva in lontananza.
– Non vedo nessuno.
Il re non rispose e la nube si fece più vicina, sovrastando il terreno e
nascondendo alla vista il cielo grigio come l’ardesia. Quando si fu accostata a
sufficienza, Parmenion si accorse che non si trattava affatto di una nube ma
soltanto di un’oscurità più profonda di quanto lui avrebbe mai potuto immaginare.
Le bestie si ritrassero davanti ad essa e corsero a nascondersi dietro i massi o nelle
caverne che si aprivano poco lontano.
L’Oscurità rallentò nel raggiungere il passo, poi una brezza soffiò verso i
soldati in attesa, portando con sé il tocco del terrore: tutti i timori noti all’uomo
avevano origine da quel vento che racchiudeva i primitivi terrori dell’oscurità. La
linea oscillò e Parmenion sentì che le mani cominciavano a tremargli, lasciando
cadere al suolo la spada.
– State saldi, Spartani! – gridò il re. La sua voce suonò sottile e fragile, piena di
timore, ma era pur sempre la voce di un re di Sparta e gli scudi dei guerrieri
tornarono a congiungersi creando un muro di bronzo.
Parmenion s’inginocchiò, recuperando la spada. Aveva la bocca arida e sapeva
con spaventosa certezza che nulla avrebbe potuto resistere al potere dell’oscurità.
– Tutto è perduto! – esclamò Aristotele, facendosi largo nello schieramento e
tirando Parmenion per un braccio. – Nulla può resistere contro di Lui nel suo
regno. Vieni via! Ti posso riportare nel tuo corpo!
– Va’, allora – ribatté Parmenion, liberandosi dalla sua stretta.
– Stolto! – sibilò Aristotele, poi strinse la mano intorno alla pietra che portava
al petto e svanì.
L’Oscurità scivolò verso di loro, mentre dal suo interno scaturiva un sono
simile al battito di un tamburo, impossibilmente, forte, come il rombo controllato
di un tuono.
– Cos’è quel rumore? – chiese Parmenion, con voce tremante.
– Il battito del cuore del Caos – spiegò il re guerriero. E gli Spartani
continuarono a restare saldi.
Intanto l’esercito demoniaco si era nuovamente raccolto e stava scivolando in
avanti a riempire il passo, con l’Oscurità che si librava dietro di esso.
Il calore della vita toccò la schiena di Parmenion, e nel girarsi lui vide che il
globo di luce sul masso si stava gonfiando e stava crescendo fino a riversare la
propria luce sulle rocce, sollevandosi e rischiarando il passo come la luce del sole.
Le orde esitarono e si ripararono gli occhi da quel chiarore, mentre Parmenion
sentiva il peso del terrore che gli svaniva dal cuore. Il battito del cuore del Caos
echeggiò più forte e l’Oscurità avanzò ancora.
La Luce e l’Oscurità, la speranza e il terrore, s’incontrarono al centro del passo,
fondendosi, contorcendosi, levandosi in alto nel cielo e vorticando in una grande
sfera striata che emetteva lampi dal proprio centro.
L’esercito dell’Ade rimase immobile, con l’attenzione concentrata sulla
colossale battaglia che stava infuriando nel cielo. In un primo tempo l’oscurità
parve soffocare la luce, ma il bagliore dell’anima tornò ad intensificarsi, lacerando
l’avversario e splendendo in strali dorati che illuminarono il passo con scoppi
improvvisi di luce.
La battaglia si spostò sempre più in alto, finché si poté vedere soltanto una
tenue scintilla che infine svanì, lasciando soltanto il monotono cielo grigio
dell’Ade.
Il re guerriero ripose la spada nel fodero e si girò verso Parmenion.
– Chi è quel bambino? – domandò, con voce sommessa e reverenziale.
– Il figlio del re della Macedonia – rispose Parmenion.
– Vorrei che fosse spartano e che avessi potuto conoscerlo.
– Cosa sta succedendo? – chiese Parmenion, notando che l’esercito demoniaco
stava cominciando a disperdersi e che le creature del Vuoto si stavano allontanando
con aria cupa dal passo per cercare la loro eterna dimora nell’ombra.
– Il bambino è nato – spiegò il re guerriero.
– E il Dio Oscuro è stato sconfitto?
– Temo di no. Sono avvinghiati l’uno all’altro e continueranno a lottare. Però
quel bambino è possente e potrebbe anche vincere.
– Allora ho fallito – sussurrò Parmenion.
– Non c’è stato nessun fallimento. Lui sarà un figlio della Luce e dell’Oscurità,
ed avrà bisogno di amici che lo guidino, lo aiutino e gli diano forza. Ed avrà
accanto te, Parmenion.
Le Porte dei Campi Elisi si riaprirono tremolando e lasciarono filtrare la
gloriosa luce del sole.
– La vita ti chiama, fratello, torna ad essa – disse ancora il re spartano,
prendendo la mano di Parmenion.
– Io... non so come ringraziarti. Mi hai dato più di quanto credessi possibile.
– Al mio posto tu non avresti fatto di meno, Parmenion – sorrise il re. – Ora
va’, e proteggi il bambino. È nato per essere grande.

Aristotele aprì gli occhi nel momento stesso in cui il demone raggiungeva
Derae.
– No! – urlò, e una lancia di luce trapassò il petto della creatura, scagliandola
contro la parete opposta con la pelle ustionata e le fiamme che scaturivano dalla
ferita. In pochi momenti esse avvolsero tutta la bestia e un fumo nero si diffuse
nella stanza.
Il magus si alzò dal letto con una spada dorata stretta in pugno e avanzò in
fretta, accostando la lama alla bestia in fiamme, che scomparve all’istante.
Nello stesso momento il corridoio svanì e la parete tornò a materializzarsi al
suo posto.
– Hai combattuto coraggiosamente – sussurrò il magus, abbassando lo sguardo
sul corpo smembrato di Leucion, – perché dovevano essere più di uno.
La spada fluì nella sua mano e divenne una sfera di fuoco che lui depose sul
petto del guerriero: subito il corpo venne risanato di tutte le sue ferite e tornò
integro, la testa ricongiunta al collo.
– È meglio che Derae ti veda così – aggiunse Aristotele, protendendosi a
chiudere gli occhi del morto, poi cercò nella sacca che aveva alla cintura e ne
estrasse un obolo d’argento che mise nella bocca di Leucion. – Per il traghettatore
– mormorò, – e possa il tuo viaggio finire nella luce.
Tornato accanto al letto, prese la mano di Derae e la chiamò a casa.
PELLA, PRIMAVERA, 356 A.C.

Mothac era seduto accanto al letto quando accadde il miracolo. Il colore


riapparve sul volto di Parmenion e il suo aspetto tornò florido... ma non solo
questo: i capelli s’infoltirono e si scurirono, le linee intorno agli occhi, al naso e al
mento sbiadirono e scomparvero.
Adesso Parmenion appariva più giovane, poco più che ventenne, e Mothac
stentò a credere a quello che stava vedendo. Un momento prima il suo padrone ed
amico stava morendo e adesso appariva più forte di quanto fosse stato da decenni.
Sollevando il polso di Parmenion ne controllò le pulsazioni, che risultarono
forti e ritmiche.
In quel momento dai soldati raccolti intorno al palazzo si levò una possente
ovazione che salì sempre più di tono. Parmenion si riscosse e si svegliò.
– Per tutti gli dèi, non ci posso credere! – esclamò Mothac. Sollevandosi a
sedere, Parmenion abbracciò l’amico e sentì contro il proprio volto le sue lacrime.
– Sono tornato e sto bene. Qual è il motivo di queste ovazioni?
– È nato il figlio del re – rispose Mothac.
Parmenion trasse indietro le coltri e si accostò alla finestra: fuori migliaia di
soldati circondavano il palazzo e gridavano ritmicamente il nome dell’erede al
trono.
– Alessandro! Alessandro! Alessandro!

Fine.

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