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IL LEONE DI MACEDONIA
Romanzo
1990 by David A. Gemmell
Ringrazio il mio curatore Liza Reeves, il revisore di bozze Jean Maund ed i lettori
campione Val Gemmell, Edith Graham, Tom Taylor ed il «giovane Jim della Penguin», che
mi ha costretto a riscrivere tutto da cima a fondo. Speciali ringraziamenti a Stella Graham,
che ha frugato fra decine di massicci volumi alla ricerca di ispirazione ed a Paul Henderson,
che ha vagliato il manoscritto per controllarne l’accuratezza storica.
PREFAZIONE DELL’AUTORE
Il mondo degli antichi Greci era fatto di tumulti e di guerre, di intrighi e di tradimenti.
Non esisteva una nazione greca e la terra divisa era governata da decine di città stato che
lottavano continuamente per ottenere il predominio.
Per secoli le grandi città di Atene e di Sparta lottarono sulla terra e sul mare per
accaparrarsi il diritto di diventare le dominatrici della Grecia, e nel corso di quelle guerre
Tebe, Corinto, Orcomeno, Platea... tutte queste città cambiarono fazione più volte e la
Vittoria volò da uno schieramento all’altro, sempre una sgualdrina che proseguiva per la sua
strada con dolci promesse che non era intenzionata a mantenere.
Le guerre greche erano finanziate dalla Persia, timorosa che una Grecia unificata potesse
cercare di dominare il mondo. Nel tempo i Persiani divennero sempre più ricchi, il loro
impero fiorì nell’Asia e nell’Egitto, il loro potere si fece sentire in ogni città del mondo
civilizzato, e tuttavia essi continuarono a seguire con occhio attento gli eventi della Grecia,
perché due volte avevano invaso il suo territorio e due volte avevano riportato spaventose
sconfitte.
Gli Ateniesi e i loro alleati avevano schiacciato infatti l’esercito di Dario sul campo di
Maratona, e in reazione a questo il figlio di Dario, Serse, aveva raccolto un enorme esercito
che ammontava a più di un quarto di milione di uomini per sottomettere la Grecia una volta
per tutte.
Un piccolo contingente spartano aveva bloccato loro il cammino al passo delle
Termopili, trattenendoli per giorni, e anche se alla fine i Persiani erano riusciti a passare e a
saccheggiare Atene, devastando le terre circostanti, erano poi stati sconfitti in maniera
definitiva in due battaglie. Sulla terraferma cinquemila Spartani guidati dal generale
Pausania avevano inflitto un’umiliante sconfitta alle orde persiane, mentre sul mare l’ammi-
raglio ateniese Temistocle aveva distrutto la loro flotta a Salamina.
Da allora la Persia non aveva più tentato di invadere la Grecia, cercando invece di
governarla con gli intrighi.
Gli eventi descritti in Lion of Macedon (cioè la presa della Cadmea, le battaglie alle
Termopili, a Leuctra e ad Heraclea Lincestis) hanno tutti fondamenti storici e i personaggi
principali (Parmenion, Senofonte, Epaminonda e Filippo il Macedone) hanno tutti calpestato
quelle antiche montagne e pianure, seguendo le rispettive strade fatte di onore, di lealtà e di
dovere.
La vicenda di Lion of Macedon è però stata creata da me, perché la storia ufficiale ha
praticamente dimenticato Parmenion, tanto che nessuno è in grado di stabilire se sia stato il
re dei Pelagoni, un avventuriero macedone o un mercenario della Tessaglia.
Quale che sia la verità, io spero però che la sua ombra sorriderà nella Sala degli Eroi
quando questa storia arriverà fino a lui.
David A. Gemmell
Hastings 1990
LIBRO PRIMO
Gli ateniesi sono un popolo meraviglioso. Eleggono dieci nuovi generali ogni
anno. In tutta la mia vita io ne ho conosciuto soltanto uno… Parmenion.
Filippo II di Macedonia
PRIMAVERA, 389 A.C.
Parmenion sedette su una roccia per attendere l’alba, con il ventre contratto
dalla fame ma la mascella troppo dolorante per masticare il pane stantio che aveva
conservato dalla colazione del giorno precedente. Il sole sorse lentamente sulle
rosse colline della catena di Parnon e le acque del fiume Eurota scintillarono vive
sotto i suoi raggi, il cui calore toccò anche il corpo di Parmenion, strappandogli un
brivido involontario. L’addestramento spartano insegnava ad un uomo a ignorare il
dolore, a chiudere la mente al freddo o al caldo, cose che lui era riuscito ad
assimilare in grande misura... ma adesso il ritrovato calore del sole servì soltanto a
ricordargli quanto avesse avuto freddo durante quella lunga notte trascorsa
nascosto sul santuario collinare al di sopra della città.
La statua di Zeus, il padre celeste... una figura maestosa e barbuta alta quasi
quattro metri... contemplava le terre ad ovest della città, dando l’impressione di
scrutare il monte Ilias. Rabbrividendo ancora una volta, Parmenion staccò con
esitazione un morso di pane nero, soffocando un gemito quando una fitta di dolore
gli attraversò la mascella... il pugno di Gryllus era stato violento e lui, trattenuto
com’era, non aveva potuto lasciarsi andare all’indietro per attutirne l’impatto.
Infilandosi un dito in bocca, scoprì che un dente si era allentato e riprese a
mangiare con maggiore cautela, staccando il pane a piccoli pezzi e masticandolo
con il lato destro della bocca. Quando ebbe finito quella misera colazione, si alzò
in piedi: il fianco sinistro gli doleva, quindi sollevò il chitone per esaminare la zona
e scoprì un livido purpureo e una chiazza di sangue sopra il fianco.
Accennò a stiracchiarsi, poi si immobilizzò nel sentire qualcuno che si
muoveva su per il Sentiero Scosceso e si affrettò a ripararsi dietro il marmoreo
Santuario delle Muse, accoccolandosi per aspettare chi stava arrivando con il cuore
che gli pulsava con violenza mentre raccoglieva una scheggia di marmo affilata
come la lama di un’ascia: se lo avessero aggredito ancora qualcuno sarebbe morto.
Nel suo campo visivo entrò la figura avvolta in una tunica azzurra di un
ragazzo snello con i ricci capelli scuri e le folte sopracciglia, e nel riconoscere in
lui Hermias, il suo unico amico, Parmenion si sentì sopraffare dal sollievo.
Lasciata cadere la pietra si issò stancamente in piedi e non appena lo vide Hermias
gli corse incontro, afferrandolo per le spalle.
– Oh, Savra, amico mio, quanto ancora dovrai soffrire?
– La giornata di oggi vedrà la fine dei miei problemi... forse – replicò
Parmenion, costringendosi a sorridere.
– Soltanto se perderai, Savra... e devi perdere, perché altrimenti potrebbero
ucciderti. Temo che lo faranno! – esclamò Hermias, fissando i chiari occhi azzurri
del suo amico senza però scorgere in essi traccia di compromesso. – Non hai
intenzione di perdere, vero? – concluse, con tristezza.
– Forse... se Leonida sarà più abile e se i giudici lo favoriranno – replicò
Parmenion, scrollando le spalle.
– È ovvio che lo favoriranno. Gryllus dice che Agisaleus verrà ad assistere...
pensi che i giudici permetteranno che il nipote del re venga umiliato?
– Dal momento che le cose stanno così, perché sei preoccupato? – domandò
Parmenion, posando una mano sulla spalla dell’amico. – Perderò, e sarà finita...
però non intendo giocare per perdere.
Hermias si sedette ai piedi della statua di Zeus e tirò fuori due mele dalla sacca
che portava alla cintura, porgendone una a Parmenion che l’addentò con cautela.
– Perché sei tanto cocciuto? – gli chiese. – Si tratta del tuo sangue macedone?
– E perché non del mio sangue spartano, Hermias? Nessuno di questi due
popoli è noto per la sua propensione a cedere terreno.
– Non intendevo offenderti, Savra, e tu lo sai.
– No, tu non lo faresti mai – convenne il giovane più alto, prendendo la mano
dell’amico. Però rifletti su questo... mi chiami Savra, lucertola, e pensi a me come
ad un barbaro mezzosangue.
Hermias si ritrasse con espressione ferita.
– Sei mio amico – protestò.
– Non si tratta di questo, Hermias, e la tua non è una risposta accettabile. Non
puoi fare a meno di essere quello che sei... uno Spartano purosangue che discende
da una linea di eroi che risale a molto tempo prima delle Termopili. Tuo padre
stesso ha marciato cori Lisandro e non ha mai conosciuto la sconfitta.
Probabilmente hai degli amici fra gli iloti e le altre classi di schiavi, ma continui a
vederli comunque come schiavi.
– Anche tu hai avuto un padre spartano che è tornato in patria sul suo scudo,
con tutte le ferite sul petto – insistette Hermias. – Anche tu sei uno Spartano.
– Ma ho una madre macedone – gli ricordò Parmenion, mentre si toglieva la
tunica, sussultando nel protendere le braccia sopra la testa: il suo corpo magro era
segnato da lividi e tagli, il ginocchio destro si era gonfiato e anche il volto
angoloso appariva ammaccato, con l’occhio destro quasi chiuso. – Questi sono i
segni che porto a causa del mio sangue. Quando mi hanno prelevato dalla casa di
mia madre avevo appena sette anni e da quel giorno ad oggi non ho mai visto
sorgere il sole su un corpo che non fosse segnato da qualche ferita.
– Anch’io ho riportato dei lividi – gli ricordò Hermias. – Tutti i ragazzi spartani
devono soffrire... altrimenti non ci sarebbero uomini spartani e noi non saremmo
più il popolo preminente. Però ho capito cosa intendi dire, Sav... Parmenion. Pare
che Leonida ti odi... e senza dubbio è un nemico potente... ma potresti andare da lui
e chiedergli di servirlo, così queste cose cesserebbero.
– Mai! Riderebbe di me e mi getterebbe in strada.
– Potrebbe farlo, ma anche così le persecuzioni finirebbero.
– Tu lo faresti se fossi al mio posto?
– No.
– E allora perché dovrei farlo io? – sibilò Parmenion, fissando sul volto
dell’amico lo sguardo dei suoi occhi chiari.
– Sei duro con me, Parmenion – sospirò Hermias, – però hai ragione. Ti amo
come un fratello e tuttavia non ti vedo come uno Spartano. Lo faccio dentro la mia
testa, ma nel mio cuore...
– E allora perché dovrebbero accettarmi gli altri, che non sono miei amici?
– Dacci tempo... danne a tutti noi. Comunque sappi questo: qualsiasi cosa tu
scelga di fare io ti sarò accanto – promise Hermias, in tono sommesso.
– È una cosa di cui non ho mai dubitato. Ora chiamami Savra... venendo da te
ha un suono piacevole.
– Sarò al tuo fianco durante la competizione e pregherò Atena dei Viandanti per
la tua vittoria – promise Hermias, sorridendo. – Ora dimmi, vuoi che resti qui con
te?
– No... ma grazie lo stesso. Mi fermerò per un po’ con Padre Zeus, rifletterò e
pregherò. Ci vedremo alla casa di Senofonte tre ore prima di mezzogiorno per la
competizione. Hermias annuì e si allontanò; Parmenion lo osservò andare via, poi
riportò la propria attenzione sulla città.
Sparta, la patria di eroi, il luogo di nascita dei migliori guerrieri che avessero
mai calpestato la verde terra. Da qui, meno di un secolo prima, il leggendario re
guerriero era partito per il Passo delle Termopili con trecento guerrieri e settecento
iloti, fronteggiando con quel piccolo contingente un esercito di Persiani che
contava oltre un quarto di milione di uomini.
E tuttavia gli Spartani avevano resistito, respingendo il nemico, fino a quando il
re persiano Serse aveva mandato in campo i suoi Immortali: diecimila fra i migliori
guerrieri che la Persia era in grado di trovare nel suo grande impero, perfettamente
addestrati. E gli Spartani li avevano umiliati... Parmenion sentì il cuore che gli si
gonfiava di orgoglio nell’immaginare quegli uomini dall’espressione cupa con i
loro elmi di bronzo che coprivano tutta la faccia, i loro mantelli rossi come il
sangue e le spade lucenti. La potenza della Persia... la nazione più potente del
mondo... si era infranta sulle spade di trecento Spartani. Parmenion si girò verso
sudest dove, ora nascosto alla vista, si levava il monumento al re che era morto alle
Termopili. Traditi da un Greco, gli Spartani erano stati circondati e massacrati.
Quando il tradimento era stato scoperto, il re era stato incitato dagli alleati a
fuggire, e le sue parole di risposta si erano incise nel cuore di tutti gli Spartani:
«Uno Spartano lascia il campo impugnando lo scudo... o disteso su di esso. Non ci
sarà ritirata.» A Parmenion sembrava ironico che il suo più grande eroe e il suo
peggiore nemico dovessero avere in comune la stessa discendenza e lo stesso
nome... Leonida... e a volte si chiedeva se il re della leggenda fosse stato crudele
quanto il ragazzo che ne portava il nome, sperando che non fosse stato così.
Arrampicatosi sul punto più alto dell’acropoli, abbassò lo sguardo sull’abitato
che sorgeva in cerchio intorno alla collina: in esso abitavano meno di trentamila
persone, e tuttavia Sparta era temuta dall’Arcadia all’Asia Minore, da Atene
all’Illiria. Nessun esercito spartano era mai stato sconfitto in una battaglia da un
nemico ad esso pari numericamente e i fanti spartani... gli opliti... valevano
ciascuno quanto tre Ateniesi, cinque Tebani, dieci Corinti e venti Persiani... cifre
che venivano inculcate nella mente dei bambini spartani e che essi ricordavano con
orgoglio.
I Macedoni non erano neppure ritenuti degni di essere inseriti in quella
classifica: barbari e indisciplinati al punto che non erano quasi considerati Greci,
essi erano divisi in tribù collinari dalla scarsa cultura, tranne quella che rubavano a
chi era migliore di loro.
– Io sono uno Spartano – mormorò Parmenion. – Non sono un Macedone.
La statua di Zeus continuava a fissare il lontano Monte Ilias; mentre la
guardava Parmenion ebbe l’impressione che le sue parole suonassero vacue e il
ricordo della conversazione avuta pochi minuti prima con Hermias gli strappò un
sospiro.
– Sei duro con me, Parmenion – aveva sospirato Hermias, – però hai ragione.
Ti amo come un fratello e tuttavia non ti vedo come uno Spartano. Lo faccio dentro
la mia testa, ma nel mio cuore...
– E allora perché dovrebbero accettarmi gli altri, che non sono miei amici?
Da bambino, Parmenion aveva avuto ben pochi problemi con i suoi coetanei ma
dall’età di sette anni, quando tutti i bambini venivano prelevati dalla casa dei
genitori e trasferiti negli alloggiamenti per essere addestrati come guerrieri, lui
aveva cominciato a soffrire il tormento derivante dal proprio sangue impuro. Era
stato là che Leonida... che portava il nome del glorioso re del passato... aveva
iniziato a deriderlo, pretendendo che si inchinasse davanti a lui come si addiceva
all’appartenente a una razza di schiavi. Per tutta risposta Parmenion gli si era
scagliato contro cercando di colpire con i pugni il volto del bambino più grande,
ma Leonida gli aveva inflitto una dolorosa battuta... quella volta e molte altre in
seguito. La cosa peggiore era che Leonida apparteneva ad una nobile famiglia
spartana, per cui molti altri ragazzi degli alloggiamenti cercavano di ottenere i suoi
favori, il che aveva fatto di Parmenion un fuoricasta scacciato e odiato da tutti
tranne che da Hermias... perfino Leonida non si poteva rivoltare contro di lui,
perché era figlio di Parnas, un amico del re.
Per otto anni Parmenion aveva sopportato i colpi e gli insulti, convinto che un
giorno avrebbe visto gli altri considerarlo finalmente un fratello spartano, e la
giornata di oggi avrebbe dovuto segnare quel suo tanto atteso trionfo. Nei Giochi
del Generale aveva avuto infatti un successo che era andato oltre tutti i suoi sogni,
arrivando addirittura alla finale... ma fra tutti i giovani di Sparta gli era toccato
avere come diretto avversario proprio Leonida.
Come Hermias aveva cercato di dirgli, quella vittoria gli avrebbe portato
soltanto altra sofferenza, e tuttavia lui non poteva... non voleva... prendere in
considerazione la possibilità di giocare per perdere. Ogni anno i Giochi del
Generale erano il punto culminante del calendario degli apprendisti guerrieri dei
molti alloggiamenti di Sparta, perché il vincitore avrebbe indossato la corona di
lauro e stretto il Bastone della Vittoria, sarebbe stato lo stratega... il maestro!
Il Gioco prevedeva la contrapposizione di due eserciti e i contendenti agivano
da generali, impartendo ordini e scegliendo le formazioni. I soldati erano figure
intagliate nel legno per cui non c’era spargimento di sangue e non c’erano morti; le
perdite venivano decise da due giudici che per farlo si servivano di dadi numerati.
Raccolto un bastone, Parmenion tracciò un rettangolo nella polvere,
immaginando la falange spartana, oltre mille guerrieri con gli scudi congiunti e le
lance tenute pronte: quello era il contingente principale del gioco, nel quale la
cavalleria veniva per seconda. Alla sua destra abbozzò quindi il disegno di un
secondo blocco, quello degli Sciriti, vassalli di Sparta che combattevano accanto ai
loro signori. Uomini resistenti, duri e spietati, gli Sciriti non avevano però mai il
permesso di prendere posto in prima fila in una battaglia perché non erano
Spartani... e di conseguenza erano quasi subumani.
Questo era dunque il suo esercito... tremila uomini formati dalla fanteria e dalla
cavalleria spartana e dalle riserve degli Sciriti. Leonida avrebbe avuto il comando
di un contingente identico al suo.
Chiudendo gli occhi, ricordò la finale dell’anno precedente, che aveva avuto
luogo negli Alloggiamenti Menelao: la battaglia era durata due ore e molto prima
della sua conclusione Parmenion si era annoiato e si era allontanato verso il
mercato. Si era infatti trattato di uno scontro di attrito, in cui entrambe le falangi
erano impegnate direttamente una contro l’altra, mentre i giudici continuavano a
lanciare i dadi e a rimuovere contendenti dalla lotta, fino a quando infine l’esercito
Bianco aveva avuto la meglio sul Rosso.
Osservando la cosa, Parmenion era giunto alla conclusione che si trattava di
una fatica inutile: a cosa serviva una vittoria del genere se alla conclusione il
vincitore si ritrovava con meno di cento uomini a sua disposizione? Nella vita reale
un condottiero del genere sarebbe stato facilmente sopraffatto da un secondo
contingente nemico.
Una battaglia non doveva essere combattuta in quel modo.
Lo scontro di oggi sarebbe però stato diverso: che lui avesse vinto o perso, tutti
lo avrebbero ricordato. Lentamente, Parmenion cominciò ad abbozzare le
formazioni, a riflettere e a pianificare, ma nel frattempo la sua mente prese a
vagare e lui si trovò a ripensare alla Grande Corsa di tre settimane prima. Aveva
previsto tutto, si era addestrato e aveva sognato di portare sulla fronte la corona di
alloro del vincitore.
La Grande Corsa si snodava per trenta chilometri sotto il massacrante sole
estivo, sulle pendici collinari e i pendii coperti di cespugli dei Monti Parnon: con le
gambe dolenti e i polmoni brucianti, tutti i giovani uomini di Sparta si
confrontavano in un’unica grande gara che costituiva la prova estrema della loro
forza e del loro coraggio giovanili.
Parmenion aveva distanziato tutti: Leonida, Nestus, Hermias, Learcus e i
migliori degli altri alloggiamenti. Tutti avevano mangiato la sua polvere e lottato
alle sue spalle per raggiungerlo e Leonida aveva retto meglio degli altri,
tallonandolo con cupa determinazione, ma a diciotto chilometri dalla meta era stato
spezzato dallo scatto finale di Parmenion.
A quel punto Parmenion si era diretto verso casa, conservando le ultime energie
per lo scatto fino all’agorà, dove il re attendeva con la corona di lauro della
vittoria.
Quando ormai la città si profilava in lontananza, bianca e accogliente, lui aveva
però incontrato un vecchio che tirava a mano il suo carretto lungo il Cammino dei
Soldati, ai piedi del bosco di olivi, e aveva visto con sgomento la ruota destra del
carro staccarsi e il veicolo inclinarsi rovesciando nella polvere ogni suo contenuto.
Rallentando il passo, aveva notato che il vecchio stava lottando per allentare un
cappio infilato nel moncone all’estremità del braccio destro... era un mutilato. Stac-
cando a fatica gli occhi dalla scena, Parmenion aveva continuato a correre.
– Aiutami, ragazzo! – aveva però chiamato il vecchio, e Parmenion aveva
ridotto l’andatura, voltandosi.
Leonida era molto indietro rispetto a lui e fuori dalla sua visuale... per un
momento aveva cercato di valutare quanto tempo aveva, poi aveva sceso di corsa il
pendio con un’imprecazione, i ingnocchiandosi accanto alla ruota: anche se era
crepata, aveva cercato lo stesso di rimetterla al suo posto, infilandola a forza
nell’assale, ma essa aveva retto per un momento soltanto, poi si era infranta in
parecchi pezzi. Il vecchio si era allora accasciato per terra accanto al carro, e
nell’incontrare il suo sguardo Parmenion vi aveva letto dolore, sconfitta e abbatti-
mento. La tunica dell’uomo era logora, con i colori da tempo lavati via dalle
piogge invernali e scoloriti dal sole, i suoi sandali erano sottili come pergamena.
– Dove stai andando? – gli aveva chiesto.
– Mio figlio vive in un insediamento ad un’ora da qui – aveva replicato il
vecchio, indicando verso sud, e nel guardare la pelle rugosa del suo raccio
Parmenion aveva notato che era segnata dalle cicatrici molte vecchie ferite
di spada.
– Sei uno Spartano? – aveva domandato.
– Uno Scirita.
Alzatosi in piedi, Parmenion aveva fissato il carretto, su cui erano ammucchiati
vasi e anfore, parecchie vecchie coperte e una corazza e un elmo di uno stile che
lui aveva visto dipinto soltanto su vasi e murali.
Ti aiuterò ad arrivare a casa – aveva detto infine.
– C’è stato un tempo, ragazzo, in cui non avrei avuto bisogno di aiuto.
– Lo so. Andiamo, io sosterrò l’assale se tu puoi tirare e dirigere il carretto.
Sentendo un rumore di piedi in corsa, Parmenion aveva sollevato lo sguardo nel
momento in cui Leonida lo oltrepassava correndo lungo la cresta della collina;
senza distogliere gli occhi e ricacciando indietro la propria delusione, aveva
afferrato l’assale e raddrizzato il carretto, poi il vecchio aveva preso il suo posto fra
le stanghe e insieme i due si erano avviati lentamente verso sud.
Era ormai il crepuscolo quando finalmente Parmenion aveva attraversato le
porte, trovando ad aspettarlo parecchi giovani degli alloggiamenti.
– Cosa ti è successo, mezzosangue? Ti sei perso? – lo avevano deriso.
– È più probabile che si sia disteso per riposare – aveva sogghignato un altro. –
Questi sanguemisti non hanno resistenza.
– Ultimo! Ultimo! Ultimo! – avevano cantilenato, mentre lui continuava la
corsa fino alla piazza del mercato, dove il suo istruttore degli alloggiamenti,
Lepidus, stava aspettando di contare i suoi ragazzi per riportarli à casa.
– Cosa ti è successo, nel nome dell’Ade? – gli aveva chiesto il soldato. – Gli
Alloggiamenti Licurgo avrebbero dovuto A conseguire la vittoria, invece siamo
arrivati sesti, grazie a te.
Parmenion non aveva detto nulla... cosa c’era infatti da dire?
Questo però apparteneva al passato, e il passato era morto. Sentendo i morsi
della fame, scese fino alla piazza del mercato e proseguì lungo la Strada del
Commiato fino agli alloggiamenti. Nella sala mensa, si mise in coda con gli altri
ragazzi degli Alloggiamenti Licurgo per ricevere la ciotola di zuppa e il pezzo di
pane nero, poi si sedette in disparte, solo, senza che nessuno gli rivolgesse la
parola. Leonida si trovava dalla parte opposta della sala, seduto con Gryllus e con
una dozzina di altri, e tutti finsero di non notarlo. Parmenion mangiò il suo pasto,
godendo della sensazione di avere lo stomaco pieno, poi se ne andò e si diresse alla
piccola casa di sua madre.
La trovò nel cortile, seduta sotto il sole, e lei sollevò lo sguardo con un sorriso.
Era spaventosamente pallida, con gli occhi infossati, e quando le sfiorò una spalla,
baciandola con dolcezza, le sue labbra toccarono le ossa sotto la pelle tesa e secca.
– Stai mangiando? – le chiese.
– Non ho appetito – sussurrò lei, – ma il sole mi fa bene, mi fa sentire viva.
Parmenion le andò a prendere un bicchiere d’acqua e sedette accanto a lei sulla
panca di pietra.
– La finale avrà luogo oggi? – volle sapere sua madre.
– Sì.
Lei annuì, e una ciocca di capelli scuri le cadde sulla fronte.
– Sei calda – osservò Parmenion, allontanando la ciocca con una carezza. –
Dovresti tornare dentro.
– Più tardi. Perché hai il viso ammaccato?
– Sono caduto durante una corsa. Sono stato goffo. Come ti senti?
– Stanca, figlio mio, molto stanca. Il re verrà alla casa di Senofonte per vederti
vincere?
– Ha detto che lo farà... ma potrei non vincere.
– È vero, è stato il mio orgoglio di madre a parlare. Però farai del tuo meglio, e
questo è sufficiente. Sei ancora popolare presso gli altri ragazzi?
– Sì.
– Tuo padre ne sarebbe stato contento, perché anche lui era popolare. Però non
è mai arrivato alla finale dei Giochi del Generale. Sarebbe stato così orgoglioso di
te.
– C’è qualcosa che posso fare per te? Posso portarti qualcosa da mangiare? –
domandò Parmenion, prendendole una mano e tenendola stretta, quasi cercasse con
la forza di volontà di infondere la propria energia nei fragili arti di lei.
– Non ho bisogno di nulla. Sai, negli ultimi giorni mi sono trovata a ripensare
alle foreste e alle pianure della Macedonia. Continuo a sognare un cavallo bianco
sul fianco di una collina: io sono seduta su un prato e il cavallo viene verso di me.
Desidero così tanto cavalcarlo, sentire il vento sulla faccia e fra i capelli. È un
cavallo alto, con un bel collo, ma mi sveglio sempre prima che mi raggiunga.
– Questi sono buoni presagi – osservò Parmenion. – Lascia che ti aiuti a
rientrare poi andrò a chiamare Rhea, che cucinerà per te. Devi mangiare, madre,
altrimenti non recupererai mai le forze.
– No, no, voglio restare seduta qui per un po’ per sonnecchiare al sole. Vieni da
me dopo il Gioco e raccontami tutto.
Per qualche tempo Parmenion le rimase accanto, ma sua madre appoggiò la
testa su un logoro cuscino e si addormentò. Entrato in casa, lui si lavò allora il
corpo dalla polvere e si pettinò i capelli neri, infilandosi quindi un chitone pulito e
il suo secondo paio di sandali. Il chitone non era ricamato ed era troppo piccolo per
lui, arrivandogli a stento a metà coscia, e vestito così si sentiva un ilota... uno
schiavo. Raggiunta la casa vicina, bussò quindi con le nocche contro l’intelaiatura
della porta e una donna di bassa statura con i capelli rossi venne fuori e gli sorrise
nel vederlo.
– Andrò io da lei – disse, prima ancora che lui aprisse bocca.
– Non credo che mangi a sufficienza – osservò Parmenion. – Diventa ogni
giorno più magra.
– Era prevedibile – osservò Rhea, con voce triste.
– No! – scattò Parmenion. – Adesso che è arrivata l’estate lei migliorerà. Lo so.
Senza attendere risposta spiccò quindi la corsa, oltrepassando gli alloggiamenti
e raggiungendo la Strada del Commiato per dirigersi verso la casa di Senofonte.
Nel giorno del Gioco, Senofonte si svegliò presto: il sole stava appena
superando i picchi orientali e i suoi lunghi e sottili raggi di luce attraversavano le
imposte incurvate della camera da letto. Rotolando su un fianco, Senofonte
gemette: gli faceva sempre piacere cenare con il re, ma come la vita spesso di-
mostrava tutti i piaceri andavano pagati e adesso lui aveva la testa che pulsava
dolorosamente e lo stomaco sottosopra. Tratto un profondo respiro si sollevò a
sedere, respingendo le sottili coltri e abbassando lo sguardo sul proprio torso: i
muscoli del ventre sviluppati e tesi smentivano i suoi quarantasette anni e la pelle
del corpo e del volto era abbronzata per i frequenti esercizi che lui effettuava nudo
sotto il sole del primo mattino.
Il generale si alzò e si stiracchiò davanti allo specchio di bronzo. La sua vista
non era più quella di un tempo e fu costretto ad avvicinarsi per osservare il proprio
riflesso, notando con disgusto la pelle che si accasciava un poco sotto gli occhi e le
strisce argentee che cominciavano ad apparire fra l’oro dei suoi capelli. Detestava
il processo dell’invecchiamento e temeva il giorno in cui gli amanti sarebbero
venuti a lui per dovere o per denaro e non per desiderio.
Il giovane della notte precedente era rimasto affascinato da lui, ma più di ogni
altra cosa aveva desiderato di essere visto con Senofonte, l’eroe della Marcia fino
al Mare, il ribelle ateniese che era riconosciuto come uno dei più grandi generali
della sua epoca. Sulla scia di questo pensiero ritemprante Senofonte ridacchiò e si
allontanò dallo specchio, spalancando le imposte per sentire il sole sulla pelle
prima di tornare a sedersi sul letto.
La Marcia fino al Mare, l’anno della gloria. Era stata opera del Fato, la volontà
di Atena oppure pura e semplice fortuna? E come poteva un uomo riuscire mai a
scoprirlo? Fuori il sole splendeva e la giornata era priva di nubi proprio come quel
giorno a Cunaxa quando tutti i suoi sogni e le sue convinzioni erano stati messi alla
prova, il giorno in cui Ciro aveva combattuto per il proprio diritto di nascita. Il suo
sguardo si fece appannato mentre gli eventi di quel giorno riaffioravano nei bui
corridoi della sua memoria...
Ciro, avvenente come Apollo e coraggioso quanto Eracle, aveva guidato le sue
truppe in Persia per combattere per la corona che gli spettava di diritto, e Senofonte
si era sentito certo che non potessero perdere, perché gli dèi favorivano sempre i
coraggiosi e favorivano doppiamente i giusti. Inoltre il nemico, per quanto
numericamente superiore, non aveva capacità strategiche né il valore necessario
per sconfiggere i mercenari greci che erano fedeli a Ciro. Di conseguenza la
conclusione della battaglia era prevedibile a priori.
Le due forze si erano incontrate vicino al villaggio di Cunaxa. All’epoca
Senofonte era stato un ufficiale di grado minore agli ordini di Proxenus, e ancora
adesso ricordava l’improvviso timore che lo aveva assalito quando aveva visto per
la prima volta il nemico che si allargava in un vasto schieramento di battaglia.
Dopo aver ordinato ai suoi uomini di assumere una formazione serrata aveva atteso
gli ordini. I Persiani avevano levato un grande ruggito, battendo le aste delle lance
contro gli scudi, ma i Greci erano rimasti silenziosi mentre Ciro faceva galoppare il
suo cavallo lungo la prima linea, gridando:
– Per gli dèi e per la gloria!
Per quanto numericamente inferiore, la falange greca si era lanciata alla carica
contro le orde persiane, che avevano ceduto ed erano fuggite. Simile ad un dio sul
suo stallone bianco, Ciro si era lanciato in un feroce assalto contro il centro dello
schieramento nemico, costringendo il fratello traditore... il re Artaserse... a fuggire
dal campo. Quella era stata la gloria della vittoria, l’adempimento del destino!
Senofonte rabbrividì e si avvicinò alla finestra, fissando le sommità dei tetti
senza però vederle... quello che stava vedendo era la luce del sole sulla punta delle
lance e ciò che sentiva erano le urla dei morenti e la cacofonia del cozzare delle
spade sugli scudi a Cunaxa quando i Greci, schierati su quattro file, avevano messo
in fuga i barbari.
La vittoria era loro, la giustizia aveva prevalso come tutti gli uomini di buon
cuore sapevano che sarebbe successo. E poi?
Senofonte sospirò. Poi un comune soldato persiano... probabilmente un
contadino, visto che non poteva permettersi né armatura né spada... aveva scagliato
un sasso che aveva raggiunto Ciro alla tempia, gettandolo di sella. Il nemico, già
lanciato nella fuga, lo aveva visto cadere ed era tornato a raggrupparsi, caricando e
abbattendosi sul coraggioso Ciro mente questi lottava per rialzarsi. Il giovane era
stato trapassato una ventina di volte, poi la sua testa e la mano destra erano state
tagliate.
La vittoria, da sempre moglie incostante, era fuggita via dai Greci.
Quel giorno gli dèi erano morti nel cuore di Senofonte, anche se il suo intelletto
lottava per conservare una tenue parvenza di fede. Senza gli dèi il mondo non era
nulla, un luogo di tormento e di disillusione privo di ordine e di ragione, e tuttavia
dopo Cunaxa lui aveva conosciuto di rado la serenità mentale.
Il generale trasse un profondo respiro e lottò per reprimere quegli amari ricordi
mentre qualcuno bussava con discrezione alla sua porta.
– Avanti – disse, e il suo servitore anziano Tinus entrò con un boccale di vino
abbondantemente annacquato. Accettandolo, Senofonte lo ringraziò con un sorriso.
Altri due servitori andarono a prendere acqua di sorgente per il bagno, poi lo
asciugarono e gli portarono la sua armatura che era stata lucidata al punto che il
bronzo splendeva come oro e l’elmo di ferro aveva il bagliore dell’argento più
puro. Un servitore aiutò Senofonte a indossare la tunica di lino bianco mentre
l’altro gli sollevò la corazza sulla testa e strinse le cinghie lungo i fianchi; un
gonnellino di cuoio rinforzato con il bronzo venne quindi passato intorno alla vita
del generale e legato sul fianco, gli schinieri di bronzo vennero fissati ai polpacci.
Senofonte segnalò allora ai servitori di andare via e prese la cintura con la spada: il
cuoio era segnato e il fodero di bronzo aveva molte ammaccature, ma la spada
dentro di esso era di ferro e affilata. Estraendola, lui apprezzò lo squisito equilibrio
della corta lama e dell’impugnatura di cuoio, poi tornò a riporre l’arma nel fodero
con un sospiro prima di affibbiarsi la cintura in vita. Infine sollevò l’elmo e passò
una mano sulla bianca cresta di crine di cavallo.
Con l’elmo sotto il braccio si girò verso la porta, Tinus l’aprì e lui uscì nel
cortile, dove tre serve si inchinarono al suo passaggio. Senofonte rispose con un
sorriso e sollevò il volto verso la luce del sole: era una bella giornata.
Tre iloti stavano preparando il recinto di sabbia secondo le istruzioni dei
giudici, modellando colline, valli e corsi d’acqua, e Senofonte si fermò per
esaminare il loro lavoro.
– Rendete quella collina più alta e ripida – suggerì ad uno degli uomini, – e
allargate la vallata perché è là che si svolgerà la battaglia e ci dovrà essere spazio
per girare le linee.
Continuò quindi a camminare oltrepassando le porte aperte del cortile e
raggiungendo il pendio della collina e il Tempio di Atena dagli Occhi. Non era un
grande tempio, appena tre pilastri che sostenevano un basso tetto, ma dentro c’era
un altare sacro. Senofonte entrò nell’edificio, togliendosi la spada e appoggiandola
accanto all’ingresso, poi si inginocchiò sotto l’altare su cui si levava la statua
d’argento di una donna alta e snella, che indossava un elmo dorico spinto indietro
sul capo e brandiva una spada affilata.
– Sia lode a te, Atena, Dea della Saggezza e della Guerra – disse. – Un soldato
ti saluta.
Chiuse quindi gli occhi in preghiera, ripetendo le parole familiari che aveva
usato per la prima volta cinque anni prima, quando aveva lasciato le terre dei
Persiani.
– Io sono un soldato, Atena, non permettere che questa sia la fine delle mie
glorie. Ho conseguito così poco, permettimi di vivere abbastanza a lungo da
portare la tua statua nel cuore delle terre dei barbari.
Lanciò quindi un’occhiata alla statua, sperando in una risposta ma sapendo che
alla sua preghiera sarebbe seguito soltanto il silenzio. Alzatosi, uscì
indietreggiando dal tempietto e in quel momento notò un movimento sull’acropoli:
due ragazzi si stavano abbracciando, e socchiudendo gli occhi lui riconobbe in uno
di essi Hermias. L’altro doveva essere il mezzosangue, quello che tutti chiamavano
Savra, un ragazzo strano che aveva l’abitudine di correre spesso sui tetti e lungo la
sommità dei muri. Senofonte lo aveva visto da vicino soltanto in due occasioni, e
aveva notato che con il suo naso ricurvo e aquilino Savra non era avvenente come
Leonida né decisamente bello come Hermias, e tuttavia in lui c’era qualcosa che
colpiva. I suoi occhi azzurri avevano un’espressione penetrante, al tempo stesso
guardinga e di sfida, e lui aveva un portamento orgoglioso che contrastava con la
sua povertà. La prima volta lo aveva incontrato mentre correva lungo la Strada del
Commiato inseguito da altri quattro ragazzi; nella seconda occasione Savra era
invece seduto con Hermias vicino al Tempio di Afrodite e d’un tratto aveva sorriso
in risposta a qualche commento dell’amico, un gesto che aveva trasformato il suo
volto, facendo scomparire l’espressione cupa. Il cambiamento aveva talmente
colpito Senofonte che si era fermato a fissare il ragazzo, e a quel punto Savra aveva
sollevato lo sguardo, accorgendosi di essere osservato. Subito la sua espressione
era mutata, come una maschera che scivolasse al suo posto, e l’Ateniese aveva
avvertito un gelo improvviso quando quegli occhi chiari si erano messi a fuoco su
di lui.
I suoi pensieri si rivolsero quindi al brillante Leonida: quello sì che era un vero
Spartano, alto e splendidamente proporzionato, con il portamento orgoglioso e i
capelli simili a fili d’oro. Senofonte era convinto che in Leonida ci fosse una
grandezza che era dono degli dèi: non capitava spesso che l’Ateniese aspettasse
con impazienza la conclusione dei Giochi del Generale, ma quel giorno stava
apprezzando l’imminente scontro di volontà.
Il generale si avvicinò al campo di addestramento noto come il Pianoro: quello
era il luogo dove di solito al crepuscolo i ragazzi più giovani ingaggiavano finte
battaglie usando bastoni invece che spade, ma ogni sei giorni l’esercito spartano vi
svolgeva le proprie manovre. Quello era però un giorno speciale, come Senofonte
ben sapeva nell’attraversare il basso ponte a sud del Pianoro, perché oggi avrebbe
avuto luogo la parata dell’Età Virile. Anche se gli era costata l’esilio da Atene, la
sua ammirazione per il sistema militare spartano perdurava intatta, perché gli
Spartani avevano evoluto l’esercito perfetto usando principi così semplici che
Senofonte era meravigliato che nessun’altra città stato li avesse ancora copiati. Gli
uomini venivano schierati a seconda dei loro anni a partire dall’Età Virile,
vent’anni, il che voleva dire che bambini che erano cresciuti insieme, avevano
imparato insieme e avevano forgiato una stretta amicizia nell’infanzia si sarebbero
poi trovati fianco a fianco nella falange e con il passare degli anni sarebbero
rimasti insieme, combattendo gli uni accanto agli altri fino allo scadere dei
vent’anni dal raggiungimento dell’Età Virile, momento a partire dal quale sarebbe
stato loro permesso di ritirarsi dal servizio.
Era questo che rendeva invincibile l’esercito spartano: la formazione a falange
aveva molteplici strati, con la prima linea formata da uomini di trent’anni e quindi
con dieci anni di esperienza dall’Età Virile... individui duri e stagionati e tuttavia
ancora giovani e forti, uomini abituati ad una disciplina di fatto che avevano
combattuto e vinto molte battaglie. Dietro di loro c’erano i guerrieri che avevano
passato l’Età Virile da vent’anni, orgogliosi, segnati dalle battaglie e possenti. Alle
loro spalle erano schierate le nuove reclute, perché potessero vedere con i loro
occhi come combattevano i guerrieri spartani, e dietro ancora venivano in ordine di
età crescente le linee di quanti avevano già passato l’Età Virile. C’era quindi da
meravigliarsi che l’esercito spartano non fosse mai stato sconfitto sul campo da un
nemico di pari numero?
– Perché ti rifiuti di capire? – si chiese Senofonte, pensando alla sua città
natale, Atene. – Volevi essere suprema e avresti dovuto esserlo, ma no... ti sei
rifiutata di imparare dai tuoi nemici.
Atene e Sparta avevano combattuto una lunga e costosa guerra per tutto il
Peloponneso, e quando l’esercito di Sparta aveva assediato Atene, vent’anni prima,
Senofonte aveva passato il periodo peggiore della sua vita: la Città di Atena,
benedetta dagli dèi, si era dovuta arrendere, e Senofonte non avrebbe mai di-
menticato la vergogna di quel giorno.
E tuttavia, da quel soldato e studioso dell’arte della guerra che era, come
avrebbe potuto odiare gli Spartani che avevano portato tale arte a vette prima mai
sognate?
– Come sempre, sei equipaggiato per la battaglia – commentò Agisaleus.
Senofonte sbatté le palpebre, sorpreso, perché la sua mente era stata molto
lontana, poi sorrise in maniera quasi contrita all’indirizzo del re spartano, che
sedeva su una stretta panca di pietra all’ombra di un cipresso.
– Chiedo scusa, mio signore – replicò, inchinandosi. – Mi ero perso nei miei
pensieri.
Agisaleus scosse il capo, alzandosi in piedi, e soltanto allora il piede sinistro
distorto e piegato risultò evidente. Avvenente, con la barba scura e intensi occhi
azzurri, Agisaleus era il primo re spartano della storia che fosse macchiato da una
deformità fisica, cosa che gli sarebbe costata la corona se il generale Lisandro non
avesse perorato il suo caso davanti agli dèi e agli uomini.
– Tu pensi troppo, Ateniese – dichiarò il re, prendendo Senofonte per un
braccio. – Di cosa si trattava questa mattina? Di Atene? Della Persia? Della
mancanza di campagne militari? Oppure desideri tornare nella tua tenuta di
Olimpia e negare a tutti noi il piacere della tua compagnia?
– Pensavo ad Atene – ammise Senofonte, e Agisaleus annuì, scrutando il suo
volto con occhi astuti.
– Essere definito un traditore e bandito dalla propria patria non è una cosa da
poco, ma le prospettive cambiano, amico mio. Se tu avessi detenuto una posizione
di maggiore rilievo ad Atene forse la guerra non sarebbe stata tanto terribile o non
ci sarebbe addirittura stata una guerra, e in quel caso tu saresti stato un eroe. Per
quanto mi concerne, sono felice che tu non abbia comandato un esercito contro di
noi, perché le nostre perdite sarebbero state molto più elevate.
– Ma non avreste perso? – domandò Senofonte.
– Forse qualche scontro secondario – ammise Agisaleus, con una risatina, –
perché una battaglia non è fatta soltanto dall’abilità dei generali ma anche dalla
qualità dei guerrieri.
I due uomini raggiunsero la cresta di una bassa collina e sedettero sulla prima
fila di sedili di pietra che sovrastavano il Pianoro.
La linea dell’Età Virile, formata da duecentoquaranta uomini, stava venendo
incorporata nella formazione otto, e Senofonte osservò con interesse le nuove
reclute che si esercitavano... insieme a tremila soldati regolari... a caricare, a
ruotare, ad avanzare e ad aggirare sul fianco.
L’entusiasmo di quei giovani sudati aumentò in maniera notevole quando
s’accorsero che il re si trovava sulla collina sopra di loro, ma Agisaleus non li stava
guardando e tornò invece a rivolgersi a Senofonte.
– Siamo stati troppo insulari – dichiarò, togliendosi l’elmo con il pennacchio
rosso e posandolo sul sedile accanto a sé.
– Insulari? – ripeté Senofonte. – Questa non è la più grande forza di Sparta?
– Forza e debolezza, amico mio, sono spesso vicine quanto marito e moglie.
Siamo forti perché siamo orgogliosi, siamo deboli perché il nostro orgoglio non ci
ha mai permesso di crescere – spiegò Agisaleus, allargando il braccio per indicare
la terra circostante. – Dove siamo? Nel profondo sud, lontano dalle strade
commerciali, una piccola città stato. Il nostro orgoglio non ci permette di contrarre
matrimoni misti anche se questo non è contrario a nessuna legge, e il numero dei
veri Spartani resta quindi sempre molto basso. Su quel campo ci sono tremila
uomini, un terzo del nostro esercito... ed è per questo che possiamo vincere le
battaglie ma non costruire un impero. Tu avverti il dolore di Atene? Essa
sopravviverà e prospererà molto tempo dopo che noi Spartani saremo polvere,
perché ha il mare ed è il centro, il cuore della Grecia. Noi potremo anche
sconfiggerla in un migliaio di battaglie, e tuttavia perderemo la guerra. – Agisaleus
scosse il capo e rabbrividì. – La Bestia di Ghiaccio è passata sulla mia anima – si
scusò. – Perdonami se sono stato cupo.
Senofonte riportò lo sguardo sugli uomini che stavano combattendo sul
Pianoro, riflettendo che le dolenti parole del re avevano racchiuso una grande
verità: nonostante tutta la sua potenza militare, Sparta era una piccola città stato
con una popolazione diminuita dalle terribili guerre che avevano infuriato per tutto
il Peloponneso. Lanciando un’occhiata in tralice all’amico, si affrettò a cambiare
argomento.
– Offrirai tu il premio ai Giochi del Generale?
Agisaleus sorrise e ogni traccia di malinconia lo abbandonò.
– Oggi ho un dono speciale per il vincitore... una delle sette spade del Re
Leonida.
– Un dono principesco, mio signore – sussurrò Senofonte, sgranando gli occhi.
– Mio nipote appartiene alla discendenza del re guerriero e porta lo stesso nome
– replicò Agisaleus, scrollando le spalle, – quindi è giusto che abbia quell’arma.
Era mia intenzione dargliela per il suo compleanno, fra tre settimane, ma così ser-
virà a solennizzare l’occasione e a dare al ragazzo un bel ricordo del giorno in cui
ha vinto i Giochi. Li ho vinti anch’io, trent’anni fa.
– Sarà uno splendido gesto, mio signore, ma... e se non vincesse?
– Sii serio, Senofonte. È contrapposto ad un mezzosangue macedone, un ragaz-
zo che è a un passo dall’essere un ilota, quindi come può non vincere? Leonida è
uno Spartano di sangue reale e in ogni caso, dal momento che tu sei il capo
giudice, sono certo di poter contare su un risultato giusto.
– Giusto? – ribatté Senofonte, distogliendo il volto per nascondere la propria
ira. – Cerchiamo almeno di essere onesti!
– Oh, non essere seccato con me – replicò Agisaleus, gettando un braccio
intorno alle sue spalle. – È soltanto un gioco per bambini, quindi che male c’è?
– Davvero, che male c’è? – ripeté Senofonte.
Seduta accanto al fuoco morente, Tamis stava guardando le ombre sempre più
tenui che danzavano sulle rozze pareti bianche della sua piccola stanza; la notte era
silenziosa, tranne che per il secco frusciare delle foglie smosse dal vento notturno
che sussurrava fra gli alberi.
La vecchia attese, ascoltando.
Non mi sbagliavo, disse a se stessa, in tono di sfida.
Un ramo sbatté contro la sua finestra con l’intensificarsi del vento, il fuoco si
levò in un’ultima intensa fiammata prima di affievolirsi, e dopo aver aggiunto altri
rami secchi per alimentarlo la vecchia si avvolse uno scialle intorno alle spalle.
Le palpebre le si abbassarono sotto il peso della stanchezza, e tuttavia continuò
a sedere accanto al fuoco, respirando appena e con il cuore che batteva in maniera
irregolare.
Con il passare delle ore notturne sentì poi il rumore di un cavallo al passo, il
lento e ritmico battere degli zoccoli contro il terreno cotto dal sole; con un sospiro
si issò in piedi, prese il bastone e si portò sulla soglia aperta, dove si soffermò a
fissare gli alberi resi spettrali dalle ombre.
Adesso il rumore era più vicino, e tuttavia non si scorgeva nessun cavallo.
Chiudendo gli occhi fisici, Tamis aprì quelli dello spirito e vide l’alto stallone
bianco attraversare la radura per fermarsi davanti a lei: era una bestia enorme, alta
quasi diciotto palmi, con gli occhi del colore dell’opale.
Con un sospiro, Tamis accantonò lo scialle e prese invece un mantello di lana
grigia, fermandoselo sulle spalle con una spilla di turchesi; lasciata la porta aperta
si addentrò nella notte in direzione della città, seguita dallo spettrale cavallo
bianco.
I suoi pensieri erano cupi mentre attraversava lentamente la piazza del mercato
semideserta, con il bastone che batteva a intervalli contro le lastre di pietra della
pavimentazione. La madre di Parmenion era stata una buona donna, gentile e affet-
tuosa.
E tu l’hai uccisa, sussurrò una voce nella sua mente.
– No, non l’ho fatto – ribatté ad alta voce.
L’hai lasciata morire. Non è la stessa cosa?
– Molte persone muoiono. Sono forse responsabile di tutte?
La volevi morta. Volevi che il bambino soffrisse da solo.
– Per renderlo forte. Lui è la speranza del mondo, e colui che è destinato a
sfidare il Dio Oscuro, e deve essere un uomo di potere.
La voce tacque, ma Tamis comprese che non era convinta.
Stai diventando vecchia, si rimproverò. Non esiste nessuna voce, sei tu che
parli con te stessa, e simili discussioni sono inutili.
– Io parlo con la voce della ragione – dichiarò all’aria notturna, – lei parla con
la voce del cuore.
E dentro di te non c’è posto per una voce del genere?
– Lasciami in pace! Faccio quello che deve essere fatto!
Un gruppo di uomini sedeva poco lontano sotto la luce della luna, intento a
giocare a dadi. Parecchi di essi sollevarono lo sguardo al passaggio della vecchia e
uno di essi si tracciò senza parere sul petto il segno del Cerchio per tenere a bada il
male. Tamis sorrise della cosa, poi l’accantonò dalla propria mente.
Arrivata alla casa di Parmenion chiuse gli occhi e lasciò che il suo spirito
entrasse, librandosi nella stanza dove Artema giaceva avvolta nei lini funebri. Ciò
che lei cercava però non era lì, quindi la maga tornò nel proprio corpo e riprese
stancamente a camminare lungo le strade rischiarate dalla luna, seguita dallo
stallone, fino a trovarsi davanti alle porte della casa di Senofonte. Di nuovo il suo
spirito si librò, attraversando la casa e salendo le scale fino alla piccola stanza in
cui Parmenion giaceva perso nei suoi sogni.
Vicino al letto aleggiava una pallida figura bianca ed eterea, simile a nebbia
modellata in una scultura, priva di lineamenti e lucente. Tamis sentì le
sopraffacenti emozioni che permeavano la stanza... amore e perdita, e un dolore
devastante. I sogni che stava facendo strapparono un gemito a Parmenion e la fi-
gura indistinta tremolò. Adesso Tamis poté avvertire confusione e sofferenza,
mentre un pallido braccio si protendeva verso il ragazzo senza però riuscire a
toccarlo.
– È il momento – sussurrò la vecchia.
– No. – La singola parola rimase sospesa nell’aria, non un rifiuto ma una
supplica.
– Anche se fosse sveglio non ti potrebbe vedere. Vieni via, ti guiderò io.
– Dove?
– Ad un luogo dove potrai riposare.
– Mio figlio – mormorò la figura, tornando a girarsi verso il letto.
– Sarà un grande uomo, salverà il mondo dall’oscurità.
– Mio figlio – ripeté lo spettro, come se non avesse sentito.
– Non appartieni più a questo mondo – affermò Tamis. – Digli addio in fretta,
perché presto giungerà l’alba.
– Sembra così sperduto – sussurrò lo spettro. – Devo restare per confortarlo. –
La nebbia acquistò maggiore consistenza, assumendo i lineamenti di Artema, che
si girò verso Tamis. – Io ti conosco. Sei la veggente.
– Infatti.
– Perché vuoi portarmi via da mio figlio?
– Non appartieni più a questo mondo – ripeté Tamis. – Tu... sei morta.
– Morta? Oh, sì, ricordo.
Tamis si fece forza per resistere al dolore nato dalla consapevolezza che ora
emanava dallo spettro.
– Non potrò più stringerlo a me! Non posso sopportarlo – gemette Artema, e
Tamis dovette volgere le spalle all’angoscia che c’era nei suoi occhi.
– Seguimi – ordinò, e tornò al proprio corpo. Per un po’ attese in silenzio oltre
le porte, e alla fine la figura spettrale apparve nel cortile.
– Hai detto che diventerà un grande uomo – disse Artema, – ma sarà felice?
– Sì – mentì Tamis.
– Allora devo essere contenta. Mi ricongiungerò a suo padre?
– Non posso dirlo, perché non mi è possibile andare dove tu stai per recarti,
però pregherò perché sia come tu desideri. Monta sul cavallo, perché lui soltanto
conosce i Sentieri dei Morti, e ti condurrà al sicuro.
La figura di nebbia fluì sulla groppa dello stallone.
– Ti occuperai di mio figlio? – chiese Artema. – Sarai sua amica?
– Mi occuperò di lui – promise Tamis, – e provvederò perché abbia tutto ciò
che gli servirà per realizzare il suo destino. Ora va’ !
Lo stallone sollevò il capo e cominciò ad avviarsi verso la collina della
sepoltura; Tamis lo seguì con lo sguardo fino a quando scomparve alla vista, poi si
lasciò cadere seduta su una panca di marmo.
Ma sarà felice?
Quella domanda la stava tormentando ed ebbe l’effetto di mutare il suo umore
dal dolore all’ira.
– I forti non hanno bisogno della felicità. Lui avrà gloria e fama, e il suo nome
sarà sussurrato con timore dagli uomini di tutte le nazioni. Intere generazioni
conosceranno la felicità grazie a lui... di certo questo è sufficiente – mormorò, poi
sollevò lo sguardo verso la finestra della stanza di Parmenion e aggiunse: – In ogni
caso ti dovrà bastare, stratega, perché è tutto quello che ti posso dare.
Parmenion si svegliò nel cuore della notte con la mente annebbiata e incerta e si
sedette sul letto non sapendo bene dove si trovasse. La luce della luna penetrava a
fiotti dalla finestra aperta, e nel sollevare lo sguardo verso l’astro notturno lui rivi-
de il volto materno freddo e immoto nella morte; la realtà lo colpì allora con
maggiore violenza di qualsiasi pugno mai ricevuto da Gryllus e dagli altri,
raggiungendolo dritto al cuore. Alzatosi dal letto si accostò alla finestra, che si
affacciava sul cortile, e nel fissare il quadrato vuoto della recinzione vide che il
campo di battaglia era stato smantellato e che la scena del suo trionfo era tornata ad
essere soltanto una distesa di acciottolato. Ripensò alla vittoria conseguita, ma essa
era nulla in confronto all’enormità della sua perdita, soltanto un gioco per bam-
bini... come aveva potuto attribuirle tanta importanza? Lanciò quindi un’occhiata al
letto, chiedendosi che cosa lo avesse svegliato, e di colpo ricordò.
Aveva sognato un cavallo bianco che galoppava su una distesa di colline verdi.
Di nuovo sollevò lo sguardo verso la luna e le stelle, che apparivano così
distanti, irraggiungibili e intoccabili.
Come sua madre...
Il senso di separazione era intollerabile. Sedutosi su una sedia dall’alto
schienale lasciò che la brezza notturna gli rinfrescasse il volto: che importanza
aveva adesso se gli altri lo disprezzavano? L’unica persona che lo amava se ne era
andata.
Che cosa farai, Parmenion? Dove andrai? si chiese.
Rimase seduto accanto alla finestra fino all’alba, osservando il sole sorgere ad
est oltre i picchi dei monti Parnon.
Poi la porta alle sue spalle si aprì: nel girarsi lui vide l’uomo chiamato
Clearcus, il suo giudice nei giochi, e si alzò con un inchino.
– Non c’è bisogno che mi accordi il tuo rispetto – avvertì l’uomo. – Qui io sono
poco più di un servitore. Il padrone di casa ti invita a fare colazione con lui.
Parmenion annuì e l’uomo accennò ad andarsene, ma all’ultimo momento si
girò con un’espressione più dolce sul volto.
– Probabilmente non significa nulla per te, ragazzo, ma mi dispiace per tua
madre. La mia è morta quando avevo undici anni, e non è una perdita che si possa
dimenticare.
– Ti ringrazio – rispose Parmenion. Le lacrime gli salirono agli occhi ma lui si
costrinse a controllarsi mentre seguiva Clearcus nel cortile dove Senofonte sedeva
in attesa.
– Confido che tu abbia dormito bene, giovane stratega – salutò il generale,
alzandosi in piedi con un sorriso.
– Sì, signore, grazie.
– Siediti e mangia qualcosa. Ci sono pane e miele... ne ho scoperto i benefici
durante la mia campagna in Persia e ti garantisco che permettono di dare bene
inizio alla giornata.
Parmenion tagliò parecchie fette di pane fresco e le cosparse di miele.
– Ho mandato un messaggio agli alloggiamenti – lo informò intanto Senofonte.
– Oggi non sei obbligato ad essere presente al raduno, quindi ho pensato che
avremmo potuto fare una cavalcata verso il Monte Ilias.
– Io non sono un buon cavaliere, signore – ammise Parmenion. – Non mi posso
permettere un cavallo.
– Allora come fai a sapere se sei un buon cavaliere o meno? Goditi il tuo
pasto... poi vedremo quanto sei bravo a cavalcare.
Finita la colazione, attraversarono la casa fino alle lunghe stalle sul retro, che
contenevano sei stalli e cinque cavalli.
– Scegli tu – disse Senofonte. – Esaminali e decidi quale montare.
Parmenion entrò in ciascuno stallo, fingendo di esaminare i cavalli. Senza
sapere cosa doveva guardare, si limitò ad accarezzare ogni animale, passando la
mano sull’ampia groppa di ognuno. Fra gli altri c’era un grigio dal bel collo
arcuato e dalla groppa robusta, ma il modo pieno di pregiudizio con cui guardò
Parmenion pareva promettere soltanto dolore, quindi alla fine il giovane scelse una
giumenta saura alta quindici palmi.
– Spiegami il perché della tua scelta – volle sapere Senofonte, mentre passava
la briglia intorno alla testa della giumenta e la conduceva nel cortile.
– Quando l’ho accarezzata ha strofinato il muso contro la mia mano, mentre gli
altri sono rimasti indifferenti... tutti tranne il grigio, che credo volesse staccarmi le
dita con un morso.
– Lo avrebbe fatto – ammise Senofonte, – comunque hai scelto ottimamente,
perché quella giumenta ha una buona indole, è pronta ad obbedire e nulla la
spaventa. – Nel parlare sistemò uno shabraque di pelle di capra sulla groppa
dell’animale. – Non scivolerà, ma ricorda di stringere con le cosce e non con i
polpacci – avvertì, sistemando invece sulla groppa del grigio uno splendido
shabraque di pelle di leopardo. – In Persia molti usano sedili di cuoio indurito che
sono fissati con cinghie alla groppa dell’animale, ma cose del genere vanno bene
per i barbari, Parmenion. Un gentiluomo usa soltanto una coperta o una pelle
animale.
L’aria era fresca, perché il sole del primo mattino non aveva ancora l’intensità
spossante che avrebbe acquisito entro poche ore; i due guidarono a mano i cavalli
oltre il Pianoro e uscirono sulle ondulate colline a settentrione della città; a quel
punto Senofonte congiunse le mani a coppa per aiutare Parmenion a montare in
sella, poi afferrò la criniera del grigio e gli balzò in groppa con un volteggio
disinvolto, sicuro ed aggraziato al punto che Parmenion si trovò ad invidiare il suo
stile.
– Cominceremo conducendo i cavalli al passo per dare loro il tempo di abituarsi
al peso – avvertì Senofonte, protendendosi in avanti per accarezzare il collo della
sua cavalcatura.
– Ti importa dei cavalli – osservò Parmenion. – Li tratti come amici.
– Sono amici – precisò Senofonte. – Ci sono in giro troppi stolti che sono
convinti di poter sottomettere un cavallo con la frusta e indurlo ad obbedire.
Possono sottometterlo, quanto a questo non ci sono dubbi, ma un cavallo senza
spirito è una bestia inutile. Rispondi a questo, stratega... in battaglia preferiresti
fare affidamento su un uomo che ti ama oppure su uno che hai percosso e
tormentato?
– La risposta è ovvia, signore: preferirei avere accanto un amico.
– Esatto. Perché dovrebbe essere diverso con un cavallo o un cane?
Insieme cavalcarono lungo le colline fino ad arrivare ad una pianura uniforme
coperta di erba secca.
– Lasciamo loro un po’ di libertà! – disse allora Senofonte, battendo una pacca
sulla groppa del grigio.
L’animale spiccò la corsa e la giumenta lo seguì subito; sulla sua groppa,
Parmenion serrò le ginocchia e si protese in avanti, lasciandosi prendere
dall’esaltazione della corsa mentre il battito degli zoccoli gli echeggiava negli
orecchi. Si sentiva vivo, veramente e meravigliosamente vivo.
Dopo parecchi minuti Senofonte fece deviare il cavallo a destra e si diresse
verso un boschetto di cipressi che cresceva ad est. Una volta là obbligò il castrato
grigio a rallentare al passo e Parmenion gli si affiancò al trotto.
– Te la sei cavata bene – approvò l’Ateniese, balzando a terra e sorridendo al
ragazzo.
– È una bella bestia, molto bella – replicò il giovane, smontando a sua volta.
– Allora accarezzala e diglielo.
– Mi può capire?
– Certamente no, ma può sentire il tuo tono di voce e comprendere dal tuo
tocco che sei contento di lei.
– Ha un nome? – domandò Parmenion, mentre passava le dita fra la criniera
scura.
– Si chiama Bella, è originaria della Tracia ed ha il cuore di un leone.
Impastoiati i cavalli, sedettero sotto i cipressi e d’un tratto Parmenion si sentì a
disagio: perché era lì? Che interesse poteva avere per lui quel leggendario
Ateniese? Non desiderava lasciarsi sedurre da Senofonte, e neppure voleva essere
messo nella posizione di dover rifiutare un corteggiatore così potente.
– Cosa stai pensando? – domandò senza preavviso il generale.
– Stavo pensando ai cavalli – mentì Parmenion.
– Non avere paura di me, ragazzo – disse Senofonte, annuendo. – Io ti sono
amico... e niente di più.
– Sei capace di leggere i miei pensieri?
– No, ma sono un generale ed è facile capire cosa stai pensando perché sei
giovane e ingenuo. Nel tuo confronto con Leonida hai lottato per impedire che
l’esaltazione del trionfo ti apparisse sul volto e quello è stato un errore, perché hai
trasformato i tuoi lineamenti in una maschera ma i tuoi occhi hanno continuato a
brillare della più pura malizia. Se desideri nascondere i tuoi sentimenti, devi prima
ingannare te stesso e quando guardi un nemico che odi devi fingere nella tua mente
che sia invece un amico. In questo modo il tuo volto si addolcirà e tu sorriderai in
maniera più naturale. Non tentare di essere inespressivo, perché serve soltanto a
rivelare al tuo nemico che stai nascondendo qualcosa. Inoltre, quando puoi, cerca
di usare anche un pizzico di onestà, che è il migliore di tutti i travestimenti.
Comunque queste sono riflessioni per un altro giorno... adesso ti stavi chiedendo
perché Senofonte si sta interessando a te. La risposta non è complicata: ti ho
osservato affrontare Leonida e sono rimasto colpito dall’ampiezza della tua
visione. La guerra è un’arte, non una scienza, ed è una cosa che tu comprendi in
maniera istintiva. Hai studiato Leonida ed hai scoperto le sue debolezze, poi hai
deciso di rischiare... e la cosa ti è riuscita meravigliosamente. Inoltre ti sei servito
bene della tua cavalleria, e questa è una dote rara in uno Spartano.
– Però non ho entusiasmato il pubblico – commentò Parmenion.
– Anche in questo c’è una lezione da apprendere, stratega: hai vinto, ma hai
permesso che la massima porzione di gloria andasse agli Sciriti. Se mai le razze
schiave cominciassero a pensare di essere pari agli Spartani ci sarebbe un’altra
rivolta e allora città stato come Atene e Tebe combinerebbero ancora le loro forze
per invadere le terre spartane. È una questione di equilibrio... ed è questo che i
guerrieri presenti fra la folla hanno capito.
– Allora ho sbagliato? – volle sapere Parmenion.
– In un gioco? No. Nella vita reale sì.
– Allora perché mi hai dato la vittoria? – insistette il giovane.
– Hai vinto la battaglia – rispose Senofonte. – In un gioco il fatto che avresti
poi perso la guerra non ha nessuna importanza.
Il generale si alzò e tornò alla sua cavalcatura, seguito da Parmenion.
– Mi farai da maestro? – chiese il giovane, prima di poter trattenere le proprie
parole.
– Forse – rispose Senofonte. – Ora andiamo.
Il corpo, avvolto in teli di lino bianco, venne sollevato dal letto e deposto su
una lunghezza di robusta tela tesa fra due pali. Parmenion osservò mentre le donne
portavano sua madre fuori della Casa della Morte e verso la collina della sepoltura.
C’erano quattro portatrici vestite di bianco e la florida Rhea che le seguiva come
Madre del Pianto. Alle sue spalle procedeva Parmenion, affiancato dal generale
ateniese Senofonte.
Il terreno di sepoltura era oltre il Teatro di Marmo, ad est della città, e la
piccola processione si snodò attraverso la piazza del mercato ribollente di vita e
oltre il Monumento a Pausania e a Leonida.
All’imboccatura della grotta una vecchia sedeva in attesa, con i capelli bianchi
che si agitavano al soffio della brezza leggera.
– Chi chiede di camminare con i morti? – domandò.
– La mia amica Artema – rispose Rhea, facendosi avanti.
– Chi porta il prezzo per attraversare il fiume?
– Io, Parmenion – dichiarò il ragazzo, lasciando cadere una tetra dracma
d’argento nella mano protesa della vecchia, che piegò il capo da un lato, fissando
su di lui gli occhi pallidi. Per un momento la donna rimase immobile come la
morte, poi il suo sguardo si spostò verso il punto in cui Senofonte era fermo in
silenzio.
– Colui che È e Colui che Sarà – sussurrò quindi la vecchia. – Invitami a casa
tua, generale.
Quella deviazione dal rituale sconvolse Senofonte, che trasse un profondo
respiro.
– Come desideri, vecchia madre – rispose.
– Portate il morto al suo riposo – scandì quindi là vecchia. Rhea ordinò alle
portatrici di avanzare e l’oscurità della grotta le inghiottì, mentre i due uomini si
fermavano all’ingresso.
– Non ho potuto permettermi le prefiche – osservò Parmenion. – Gli dèi la
terranno in minore considerazione per questo?
– Un punto interessante da discutere – replicò Senofonte. – Gli dèi si lasciano
fuorviare dalle lacrime e dai lamenti fasulli? Ne dubito. Uomini per bene sono
morti senza essere pianti né notati, mentre altri dalla consumata malvagità hanno
avuto migliaia di dolenti al loro funerale. È piacevole pensare che gli dèi siano
dotati di maggiore discernimento degli uomini.
– Tu ci credi?
– Io credo che ci sono poteri che governano la nostra vita, e che noi attribuiamo
ad essi molti nomi.
– Pensi che lei tornerà a vivere?
– Mi piacerebbe supporlo. Vieni, passeggiamo per un po’, oggi non fa troppo
caldo.
Insieme tornarono con passo tranquillo verso il Monumento a Pausania e a
Leonida. Si trattava di un enorme cubo di marmo sovrastato dalla statua di un
oplita spartano, e nella base era incisa la storia della grande battaglia di Platea, in
cui i Persiani invasori erano stati schiacciati dal potere della falange spartana.
Liberatosi del suo mantello bianco, Senofonte si sedette all’ombra, e quando
un’anziana vedova si avvicinò offrendo dei melograni le lasciò cadere nel palmo
della mano una moneta, comprandone tre e gettandone uno a Parmenion.
– Qual è la lezione che ci insegna Platea? – gli chiese, prendendo una daga
dalla cintura e tagliando in quattro il suo frutto.
– La lezione? – ripeté Parmenion, poi scrollò le spalle e aggiunse: – Hanno
avanzato contro il centro persiano, che ha ceduto e si è dato alla fuga. Cosa
dovremmo imparare?
– Perché i Persiani sono fuggiti?
Parmenion sedette accanto al generale, sbucciando il suo frutto e mangiandone
la pofpa per poi sputare i semi sul terreno.
– Non lo so... erano spaventati?
– È ovvio che erano spaventati. Rifletti! – scattò Senofonte. Parmenion arrossì
in volto, sentendosi imbarazzato.
– Non so abbastanza della battaglia – ammise, – e non ti posso rispondere.
Senofonte parve rilassarsi e finì di mangiare il suo melograno, appoggiandosi
poi contro il fresco schienale di marmo.
– Esamina le prove, Parmenion.
– Non so cosa vuoi!
– Se riuscirai a rispondere alla mia domanda allora farò quello che tu vuoi... ti
istruirò. In caso contrario non ci sarebbe senso a farlo. Rifletti sulla cosa e vieni da
me questa sera – replicò Senofonte, alzandosi e allontanandosi.
Parmenion rimase seduto a lungo, riflettendo sulla domanda, ma la risposta
continuò a sfuggirgli. Sceso al mercato, strisciò dietro una bancarella e rubò due
pasticci: anche se venne scorto dal proprietario riuscì comunque a sgattaiolare in
un vicolo e si allontanò lungo la Strada del Commiato prima che il vecchio potesse
prenderlo. I giovani Spartani venivano incoraggiati a integrare i loro magri pasti
con il furto e se colti sul fatto venivano puniti severamente... non per aver rubato
ma per essersi lasciati sorprendere.
Sulla Strada del Commiato il giovane scorse due uomini anziani che sedevano
uno accanto all’altro vicino al palazzo di Agisaleus, e si accostò loro inchinandosi.
Dopo un po’ uno dei due sollevò lo sguardo, mostrando di accorgersi della sua pre-
senza.
– Allora? – chiese.
– Signore – disse Parmenion, – sai quale sia la lezione insegnata dalla battaglia
di Platea?
– Lezione? – replicò l’uomo. – Quale lezione? La sola lezione è stata impartita
ai Persiani e al mondo: non si affronta un esercito spartano aspettandosi di vincere.
Che stupida domanda da porre!
– Ti ringrazio, signore – rispose Parmenion, inchinandosi e allontanandosi.
Che sorta di indovinello gli aveva sottoposto Senofonte? Possibile che la
risposta fosse tanto ovvia? E se era così, perché l’Ateniese gli aveva rivolto la
domanda? Parmenion raggiunse di corsa l’acropoli, dove mangiò i suoi pasticci
fissando le montagne del Taigeto.
«Esamina le prove» aveva detto Senofonte. Quali prove? Cinquemila Spartani
avevano affrontato il grande esercito di Serse sul campo di Platea, i Persiani erano
stati annientati e la guerra vinta. Il generale degli Spartani era stato Pausania.
Quale lezione?
Alzatosi in piedi, Parmenion scese la collina in direzione del monumento, dove
lesse la descrizione della battaglia incisa nel marmo, senza però che essa gli
dicesse qualcosa che lui già non sapeva. Quali erano allora le prove?
Cominciò ad irritarsi: l’Ateniese non voleva addestrarlo ed aveva trovato una
scusa, sottoponendogli un problema che non aveva risposta in modo da poterlo poi
respingere. Nonostante la sua irritazione Parmenion accantonò però quel pensiero
perché Senofonte non aveva bisogno di scuse... un semplice «no» sarebbe stato
sufficiente.
Il monumento a Pausania e a Leonida...
Esso incombeva su di lui, con il suo segreto nascosto nella pietra. Parmenion
sollevò lo sguardo sulla statua dell’oplita: la lunga lancia del guerriero era spezzata
e tuttavia lui appariva lo stesso possente.
Si trattava di Leonida o di Pausania, o di un soldato qualsiasi? Leonida? Perché
il re ucciso alle Termopili figurava nel monumento eretto ai vincitori di Platea? Lui
era caduto alcuni mesi prima. I Greci avevano chiesto agli Spartani di essere la
punta di diamante della loro armata contro l’imminente invasione persiana, ma in
quel periodo gli Spartani stavano celebrando una festa religiosa e i sacerdoti
avevano rifiutato di permettere una mossa del genere. Il re spartano Leonida aveva
però ottenuto il permesso di prendere la propria guardia personale di trecento
uomini e di raggiungere il Passo delle Termopili, dove aveva bloccato l’avanzata
delle orde persiane. Lo schieramento spartano aveva retto anche dopo essere stato
tradito e circondato, e i Persiani avevano finito gli avversari con frecce e giavellotti
perché avevano troppa paura di avvicinarsi a loro.
Come il sole che emergesse dalle nubi, la risposta alla domanda di Senofonte
brillò nella mente di Parmenion. Qual era la lezione di Platea? Che anche nella
sconfitta c’è la vittoria: i Persiani, troppo spaventati perfino per affrontare quanto
rimaneva dei trecento delle Termopili, si erano alla fine trovati faccia a faccia con
cinquemila guerrieri Spartani, avevano visto il loro schieramento avanzare con le
lance puntate ed erano fuggiti. Per questo il monumento era dedicato ad entrambe
le battaglie, perché Platea era anche una vittoria di Re Leonida, una vittoria
ottenuta con il coraggio, la sfida e la morte di un eroe.
– Ti saluto, Leonida – sussurrò, sollevando lo sguardo sull’oplita di marmo.
Sdraiato sulla collina ad est della città, Parmenion stava osservando le ragazze
correre e giocare. Questo suo interesse nelle loro attività lo sorprendeva, perché
non era un passatempo che avrebbe preso in considerazione fino all’estate
precedente... ricordava ancora il giorno in cui un nuovo tipo di gioia era entrato
nella sua vita. Stava correndo su e giù per il fianco della collina quando una voce
dolce come la nascita del mattino gli aveva rivolto la parola.
– Cosa stai facendo?
Girandosi Parmenion aveva visto una ragazza di circa quattordici anni, vestita
con una semplice tunica bianca attraverso la quale lui poteva vedere non soltanto la
forma squisita dei suoi piccoli seni ma anche i capezzoli che premevano contro il
lino sottile; le sue gambe erano lisce e abbronzate, la vita stretta, i fianchi ben
arrotondati. Con un senso di colpa aveva sollevato lo sguardo, consapevole del
proprio crescente rossore, e si era trovato a fissare due ampi occhi grigi circondati
da un volto di incredibile bellezza.
– Stavo... correndo – aveva risposto.
– L’ho visto – aveva ribattuto lei, sollevando una mano per passare le dita fra i
capelli dorati tendenti al rosso; a Parmenion era parso che i raggi del sole fossero
rimasti intrappolati in quei riccioli, splendendovi come gioielli. – Ma vuoi dirmi
perché lo fai? – aveva continuato lei. – Corri su e giù per la collina, avanti e
indietro, ed è una cosa che non ha senso.
– Lepidus... il mio ufficiale degli alloggiamenti... dice che servirà a rinforzarmi
le gambe. Io sono veloce.
– Ed io sono Derae – aveva scherzato lei.
– Non mi chiamo Veloce.
– Lo so... stavo soltanto scherzando.
– Capisco. Ora... ora devo andare.
Parmenion si era girato ed era fuggito su per la collina: sorprendentemente, se
si teneva conto dei suoi sforzi precedenti, aveva raggiunto una velocità che non
avrebbe mai creduto possibile.
Per quasi un anno, dopo quell’incontro, si era recato sulle colline e sui campi al
di là del lago per osservare le ragazze che correvano. Lepidus gli aveva spiegato
che soltanto a Sparta alle donne era permesso di sviluppare il loro corpo e che nelle
altre città stato simili esercizi erano considerati indecenti, in quanto si sosteneva
che incitavano gli uomini a commettere gravi crimini. Mentre giaceva steso sul
ventre, in preda ad un disagio piacevolissimo e intento a seguire Derae con lo
sguardo, Parmenion rifletté che quell’opinione poteva benissimo essere fondata.
Vide le ragazze allinearsi per una breve corsa: Derae era all’esterno e vinse con
facilità correndo con grandi falcate, con i piedi che sembravano non sfiorare quasi
il terreno erboso.
In quell’anno aveva trovato soltanto due volte il coraggio di rivolgerle la parola
mentre lei si avvicinava al campo, ed in entrambe le occasioni Derae lo aveva
salutato con un allegro sorriso e un cenno della mano, correndo però via prima che
lui potesse avviare una conversazione. A Parmenion non importava, per lui era
sufficiente poterla guardare ogni settimana, e poi sapeva benissimo che conoscerla
meglio non gli sarebbe servito a nulla perché agli uomini di Sparta non era
permesso di s osarsi prima di raggiungere l’Età Virile, a vent’anni.
Ancora quattro anni. Un’eternità.
Dopo un’ora le ragazze finirono i loro esercizi e si prepararono a tornare a casa.
Parmenion rotolò sulla schiena e chiuse gli occhi per proteggerli dall’aspro
bagliore del sole, riposando con le mani incrociate sotto il collo e riflettendo su
molte cose. Pensò al suo confronto con Leonida e agli incessanti tormenti di cui era
fatto oggetto negli alloggiamenti, a Senofonte, ad Hermias e a Derae; cercò di non
pensare molto a sua madre perché la ferita era ancora troppo recente, e quando il
suo volto gli fluttuò davanti all’occhio della mente si sentì perdere il controllo.
Un’ombra cadde su di lui.
– Perché mi osservi? – chiese Derae.
Parmenion si sollevò di scatto a sedere e la trovò inginocchiata nell’erba
accanto a lui.
– Non ti ho sentita avvicinarti.
– Non hai risposto alla mia domanda, giovane Veloce.
– Mi piace guardarti – spiegò lui, con un sorriso. – Corri bene, ma penso che
agiti troppo le braccia.
– Allora mi osservi per poter criticare il mio stile nella corsa?
– No, non era questo che intendevo – replicò lui, traendo un profondo respiro
ed esalando poi lentamente il fiato. – Credo che tu lo sappia e che stia di nuovo
scherzando a mie spese.
– Soltanto un poco, Parmenion – annuì lei.
Con un senso di esaltazione, il giovane pensò che se lei conosceva il suo nome
questo poteva soltanto significare che aveva fatto domande sul suo conto e che era
interessata a lui.
– Come fai a sapere come mi chiamo?
– Ho assistito al tuo confronto con Leonida.
– Oh – mormorò lui, deluso. – Come hai potuto, visto che alle donne non è
permesso di presenziare?
– Mio padre è un intimo amico di Senofonte, e il generale ha permesso a noi tre
ragazze di assistere da una finestra del piano superiore. Abbiamo dovuto fare a
turno, per evitare che ci notassero. Hai usato una tattica interessante.
– Ho vinto – sottolineò Parmenion, sulla difensiva.
– Lo so, ti ho appena detto che ero presente.
– Scusami, ho pensato che mi stessi criticando... tutti gli altri lo hanno fatto.
– Non avevi neppure bisogno di usare gli Sciriti – ribatté lei, annuendo con
espressione solenne. – Se fossi avanzato su sedici file avresti potuto comunque
infrangere lo schieramento di Leonida, che era ridotto ad appena quattro file.
– Lo so anch’io – ammise lui, scrollando le spalle, – ma non posso cancellare
quella mossa.
– Hai ancora la spada?
– Certamente. Perché non dovrei?
– È molto preziosa e avresti potuto venderla.
– Mai! È una delle sette spade, e la custodirò per tutta la vita.
– È un vero peccato – commentò Derae, alzandosi in piedi con agilità, – perché
mi sarebbe piaciuto comprarla.
– A cosa ti servirebbe una spada? – domandò Parmenion, alzandosi a sua volta.
– L’avrei data a mio fratello.
– Sarebbe uno splendido dono. Ti secca che ti guardi mentre corri?
– Dovrebbe seccarmi? – controbatté lei, sorridendo.
– Sei promessa?
– Non ancora, anche se mio padre comincia a parlarne. È una proposta,
Parmenion?
Prima che lui potesse rispondere una mano lo afferrò per la spalla, tirandolo
all’indietro; immediatamente Parmenion ruotò su se stesso e il suo pugno
raggiunse la mascella di Leonida, che barcollò all’indietro. Per un momento il
giovane Spartano biondo si massaggiò il mento, poi tornò ad avanzare.
– Smettetela! – gridò Derae, ma i due la ignorarono, assolutamente concentrati
uno sull’altro.
Leonida scattò quindi in avanti con un finto gancio a cui seguì un diretto che
raggiunse in pieno la faccia di Parmenion; questi assecondò l’impeto del colpo e al
tempo stesso afferrò la tunica dell’avversario, sferrandogli una ginocchiata
all’inguine. Con un grugnito di dolore, Leonida si piegò in avanti e Parmenion gli
assestò un colpo alla faccia con la propria fronte, così forte che il suo avversario si
accasciò e cadde quasi al suolo. Parmenion lo spinse lontano da sé, poi notò una
pietra grossa e aguzza che sporgeva nell’erba e si affrettò ad estrarla l terreno e ad
avanzare contro lo stordito Leonida con l’intenso desiderio di fracassargli il cranio.
Derae scattò in avanti a bloccargli il passo e la sua mano aperta calò sulla
guancia di lui con un sonoro schiocco. Parmenion le chiuse una mano intorno alla
gola, sollevando la pietra... poi s’immobilizzò nel leggere il terrore nei suoi occhi.
Lasciata cadere la pietra, indietreggiò di qualche passo.
– Io... mi dispiace... lui... lui è mio nemico.
– È mio fratello – disse Derae, con espressione fredda quanto la pietra che lui
aveva lasciato cadere.
Intanto Leonida si era ripreso e si portò al fianco della ragazza.
– Avvicinati ancora a mia sorella... e ne dovrai rispondere a me con una lama in
mano.
Improvvisamente Parmenion scoppiò a ridere, anche se si trattò di un suono
privo di umorismo.
– Sarebbe un piacere – sibilò, – perché sappiamo entrambi quale lama avrei io
in pugno, quella che tu non possiederai mai... anche se la tua anima la desidera.
Però non temere, Leonida, perché non voglio nulla da te... o dalla tua famiglia.
– Pensi che abbia paura di te, contadino?
– Se non ne hai... dovresti averne. Affrontami pure quando e dove vorrai,
maiale arrogante, ma sappi questo... io ti distruggerò.
Con quelle parole Parmenion girò sui tacchi e si allontanò.
Senofonte condusse Parmenion in un’ampia stanza sul lato orientale della casa,
un ambiente fresco e luminoso.
– Allora? – domandò il generale, adagiandosi su un divano. – Hai una risposta
alla domanda su Platea?
– Le Termopili – annuì Parmenion, – hanno insinuato il pensiero della sconfitta
nel cuore dei Persiani.
– Ottimo! Ottimo! Sono molto soddisfatto di te. Ti ho detto che la guerra è
un’arte, ed è vero, ma l’arte consiste nel vincere la battaglia prima che le spade
vengano snudate. Se il tuo opponente è convinto di perdere... perderà. È questo che
è successo a Platea. I Persiani... che non erano stati in grado di affrontare appena
trecento Spartani... hanno ceduto al panico quando se ne sono trovati di fronte
cinquemila. Un generale deve lavorare sul cuore degli uomini... non soltanto dei
suoi ma anche dei nemici.
– Questo significa che mi istruirai? – domandò Parmenion.
– Infatti. Sai leggere?
– Poco, signore. Mia madre mi ha insegnato... ma non è un’abilità che venga
tenuta in molta considerazione negli alloggiamenti.
– Allora devi imparare. Posseggo libri che devono essere studiati, ci sono
strategie che devi memorizzare. Un generale non è diverso da un fabbro,
Parmenion: ha molti strumenti e deve conoscere il valore e lo scopo di ciascuno di
essi.
– C’è una domanda che ti devo porre, signore – affermò Parmenion, traendo un
profondo respiro. – Spero che non ti offenda.
– Non lo sapremo finché non l’avrai formulata – sorrise il generale.
– Non sono ricco e neppure benvoluto, ed è probabile che quando raggiungerà
l’Età Virile nessuna mensa degli Anziani mi voglia accettare. Quindi signore, per
quanto io desideri essere istruito da te, a cosa servirà tutto questo?
– C’è molto di vero in quello che dici, giovane stratega – replicò Senofonte,
annuendo con espressione grave. – Nel migliore dei casi potrai aspirare alla Prima
Schiera, nel peggio sarai un guerriero qualsiasi. Tu hai però il potenziale per
diventare grande, per essere un condottiero di uomini... lo so, e in merito non esiste
giudice migliore di me. Può darsi però che il tuo futuro non sia a Sparta... il che
sarà una perdita per la città. Tu cosa desideri?
– Soltanto di essere accettato, signore – rispose Parmenion, scrollando le spalle,
– di poter camminare a testa alta e di sentire gli uomini dire «ecco Parmenion, lo
Spartano».
– È tutto quello che desideri? Sii onesto, stratega. Parmenion deglutì a fatica,
poi sollevò lo sguardo fino a incontrare quello penetrante del generale.
– No, signore, non è tutto. Desidero ridurre i miei nemici in polvere, portare
loro la disperazione. Voglio essere un generale come te e condurre gli uomini in
battaglia. Ho fatto un sogno che vorrei si realizzasse – concluse, con un improvviso
sorriso.
– Può darsi che non ti riesca di ottenere tutto quello che desideri – commentò
Senofonte, – ma io ti insegnerò quello che so. Ti darò le conoscenze, ma sarai tu a
dover decidere come usarle.
Un servitore portò del cibo e vino allungato con acqua, e mentre mangiavano
Parmenion ascoltò Senofonte parlare della Marcia fino al Mare e dei pericoli che
avevano tormentato i Greci. Il generale delineò le proprie strategie e i propri
successi, ma parlò anche dei propri fallimenti e ne spiegò le ragioni. Le ore
trascorsero in fretta e Parmenion si sentì come un uomo che stesse morendo di sete
e avesse trovato il Pozzo dell’Acqua della Vita.
Poteva vedere tutto con estrema chiarezza... i Greci demoralizzati dopo la
battaglia di Cunaxa e tuttavia decisi a mantenere la loro formazione, il re persiano
Artaserse che prometteva loro di lasciarli arrivare sani e salvi fino al mare
attraversando il suo regno e poi assassinava a tradimento i generali, convinto che
senza condottieri gli opliti greci sarebbero caduti facile preda della sua cavalleria. I
Greci avevano però tenuto duro, eleggendo nuovi generali fra cui Senofonte stesso,
e durante i mesi che erano seguiti avevano marciato attraverso la Persia mettendo
in rotta gli eserciti mandati contro di loro e attraversando terre ignote. I pericoli che
avevano affrontato erano stati molteplici... innumerevoli nemici, il rischio di
morire di fame, le pianure coperte di ghiaccio e le vallate devastate dalle piene.
Però Senofonte li aveva tenuti uniti finché avevano raggiunto il mare e la salvezza.
– Sulla terra non esiste un guerriero che possa reggere il confronto con un
Greco – spiegò Senofonte. – Soltanto noi comprendiamo la natura della disciplina
e non esiste un re civilizzato Che non desideri assoldare mercenari greci come
spina dorsale del suo esercito. I più grandi fra i Greci, poi, sono gli Spartani... ne
comprendi il perché?
– Sì – rispose Parmenion. – I nostri nemici sanno nel loro cuore che noi siamo i
vincitori, e anche noi lo sappiamo.
– Sparta non sarà mai conquistata, Parmenion.
– A meno che non si trovi di fronte un nemico con una pari determinazione e
un numero di uomini maggiore.
– Ma questo non succederà. Abbiamo una terra divisa in città stato, ciascuna
timorosa dei suoi vicini. Se Atene e Tebe unissero di nuovo le forze contro Sparta
molte città stato avrebbero paura di una simile alleanza e si unirebbero a Sparta per
contrapporvisi. La nostra terra ha una lunga storia di simili dispute, di alleanze
fatte e infrante, di decine di diversi gruppi che si sono traditi a vicenda
ripetutamente. Nessuna città ha mai ottenuto una vittoria completa. Avremmo
dovuto conquistare il mondo, Parmenion, ma non lo faremo mai perché siamo trop-
po occupati a combatterci fra noi – concluse Senofonte, alzandosi. – Si sta facendo
tardi e devi tornare a casa tua. Vieni da me fra tre giorni. Ceneremo insieme e ti
mostrerò i libri del futuro.
– Istruisci anche Gryllus, signore? – domandò Parmenion, alzandosi.
– Sarò il tuo insegnante e tu potrai pormi domande relative alla strategia –
ribatté Senofonte, incupendosi in volto, – ma non ne porre in merito alla mia
famiglia!
– Chiedo scusa, signore, non volevo offenderti.
– Ed io non dovrei essere tanto irritabile. Gryllus è un ragazzo tormentato
perché non ha una sua città di appartenenza. Come te, desidera essere accettato e
ammirato, ma n ha cervello. Sua madre era una donna splendida, Parmenion, ma
dannatamente ottusa. Era come se gli dèi, avendole riversato addosso tanta
bellezza, avessero deciso che il cervello era un lusso di cui non aveva bisogno, e
mio figlio ha preso da lei. Ora però non ne parliamo più.
Parmenion si adattò in fretta alla vita negli Alloggiamenti Menelao, e nei tre
anni successivi pur non essendo mai popolare incontrò comunque pochi dei
problemi che avevano reso tormentosa la sua permanenza agli Alloggiamenti
Licurgo. Ogni anno lui ed Hermias rappresentavano i loro alloggiamenti nella
corsa a breve e a media distanza, ma negli altri campi rimanevano entrambi
soltanto allievi di livello medio, senza eccellere né risultare inferiori al livello
standard richiesto nel lancio del giavellotto o del disco, nell’uso della spada o nella
lotta. Parmenion amava esercitarsi con la spada corta perché era rapido e forte, ma
soltanto quando era furente la sua abilità diventava letale; comprendendo
comunque a livello, istintivo questa sua caratteristica, non si preoccupava quando
alcuni giovani riuscivano ad avere il sopravvento su di lui nell’addestramento in
quanto nel profondo del suo cuore sapeva che il risultato dello scontro sarebbe
stato diverso se si fosse trattato di un duello fino alla morte.
Come corridore, però, Parmenion era il migliore atleta di Sparta: due volte nel
corso delle competizioni fra gli alloggiamenti ebbe modo di sconfiggere Leonida
nella gara di sei chilometri, ma il terzo anno venne lui stesso battuto di stretta
misura e Leonida venne scelto per rappresentare Sparta nelle imminenti Olimpiadi.
Quella fu una dura delusione per Parmenion, che si era allenato strenuamente
durante il tempo trascorso nei nuovi alloggiamenti.
– Capisco la tua ira – osservò Senofonte, mentre i due sedevano una sera nel
suo cortile, – ma hai fatto del tuo meglio e nessun uomo può chiedere di più a se
stesso.
– Però ho commesso un errore tattico – replicò Parmenion, annuendo. – Ho
cercato di batterlo quando mancavano ancora duecento passi. Lui stava aspettando
la mia mossa ed ha tenuto duro, sconfiggendomi quando il traguardo era ad appena
tre passi.
– Tu lo hai battuto nei giochi di tre anni fa e lui ha sopportato bene la sua
vergogna. Concedigli questo momento di gloria – commentò il generale,
versandosi del vino e aggiungendovi dell’acqua per poi sorseggiare la bevanda.
A cinquant’anni, l’Ateniese era ancora un uomo piacente, anche se adesso i
suoi capelli erano completamente argentei e cominciavano a diradarsi sulla
sommità del capo. Parmenion viveva per le ore che trascorrevano insieme
discutendo di tattica e di strategia, di formazioni e di battaglie; il giovane aveva
imparato quando far ruotare una falange, quando combattere con uno schieramento
assottigliato e quando estenderlo, quando ritirarsi e quando optare per un’azione da
parte dei guerrieri che ancora tenevano insieme la linea. Senofonte amava parlare e
Parmenion era felice di ascoltarlo; a volte poi non concordava con lui in un’analisi
ed entrambi si lanciavano in una discussione che durava fino a notte inoltrata, fino
a quando cioè Parmenion aveva infine il buon senso di lasciarsi convincere da Se-
nofonte, cosa che permise al loro rapporto di crescere e di rafforzarsi. Gryllus era
da tempo stato mandato a vivere con alcuni amici ad Atene e capitava spesso che
Parmenion si fermasse presso il generale ateniese per parecchi giorni di fila,
prendendo il posto di Gryllus nei viaggi estivi che Senofonte faceva alla sua
seconda casa di Olimpia, vicino al mare.
Con il passare degli anni, poi, Senofonte aveva preso l’abitudine di discutere
anche di strategia moderna e di politica con il suo allievo, e Parmenion aveva finito
per individuare nell’Ateniese un crescente cinismo.
– Hai sentito notizie da Tebe? – gli chiese un giorno Senofonte.
– Sì – rispose Parmenion, – anche se in un primo momento non ci potevo
credere. Abbiamo commesso un grave errore e finiremo per rimpiangerlo.
– Tendo ad essere d’accordo con te – dichiarò Senofonte.
Tre mesi prima il re macedone Amyntas aveva richiesto l’aiuto degli Spartani
contro i guerrieri calcidiani che avevano invaso la Macedonia e saccheggiato la sua
capitale, Pella. Agisaleus aveva mandato in suo aiuto tre battaglioni di Spartani,
che avevano schiacciato i Calcidiani, ma durante il viaggio verso nord una
divisione spartana sotto il comando di un generale chiamato Phoebidas si era
impadronita della Cadmea... la fortezza al centro di Tebe. Dal momento che non
era stata dichiarata nessuna guerra contro Tebe e che i Tebani non avevano
collegamenti con i Calcidiani invasori, a molti Greci quella era parsa un’azione
subdola.
– Agisaleus dovrebbe restituire la città ai Tebani – commentò Parmenion.
– Non può farlo – rispose Senofonte, – perché l’orgoglio spartano non lo
consente, però temo quello che ne deriverà. Atene si è pronunciata a sfavore di
Sparta e penso che fra non molto dovremo sopportare un’altra guerra.
– Sei deluso, amico mio – notò il giovane. – Sparta non si è dimostrata una
buona guida per la Grecia.
– Zitto! – si affrettò a dire Senofonte, poi abbassò la voce e proseguì: – Non
dovresti parlare in questo modo in pubblico. I miei servi sono fedeli... ma a me e
non a te, e se uno di loro dovesse accusarti saresti processato per tradimento e non
sopravviveresti.
– Ho forse detto qualcosa di falso? – controbatté Parmenion, a bassa voce.
– E questo cosa c’entra? Se Sparta potesse governare con la metà dell’abilità
che dimostra in battaglia allora tutta la Grecia ne gioirebbe... ma non ne è capace.
Questa è la verità... e dirla ti costerà la vita.
– Altre persone la stanno dicendo – osservò Parmenion. – Agli alloggiamenti
non si parla di altro. Ci sono stati per Sparta alcuni bocconi amari da inghiottire, e
adesso gli Spartani si aggrappano al potere soltanto perché hanno il sostegno dei
Persiani. I discendenti del Re Guerriero che fanno da leccapiedi ai figli di Serse!
– La politica è fatta di espedienti – sussurrò Senofonte. – Rimandiamo però
questa conversazione ad un altro giorno.
Quando saremo a Olimpia potremo uscire a cavallo e parlare con i soli prati a
testimoni del nostro teorico tradimento. Come stai a finanze? – chiese quindi,
mentre entrambi si alzavano e si dirigevano verso le porte.
– Non bene. Ho venduto l’ultima porzione del terreno... mi permetterà di
pagare il conto della mensa fino a primavera.
– E poi?
– E poi lascerò Sparta. Del resto so che nessuna Casa dei Soldati mi
accetterebbe, quindi probabilmente mi unirò ad un reggimento mercenario e girerò
il mondo.
– Potresti vendere la Spada di Leonida – gli ricordò Senofonte.
– Forse lo farò – replicò Parmenion. – Ci vediamo fra due giorni.
I due si strinsero la mano e Parmenion si allontanò nella notte. Sebbene fosse
quasi mezzanotte non si sentiva stanco e camminò fino all’acropoli, sedendo vicino
alla statua di bronzo di Zeus per contemplare il cielo costellato di stelle che
sembravano diamanti. Adesso il vento era freddo, e il suo leggero chitone di lana
non gli offriva molta protezione dal suo soffio, ma lui chiuse la propria mente al
freddo e lasciò vagare lo sguardo sulle montagne.
Gli ultimi tre anni erano stati buoni: era cresciuto di statura e sebbene snello si
era fatto asciutto e possente. Il volto si era assottigliato, perdendo le caratteristiche
infantili e adesso i suoi infossati occhi azzurri avevano un’espressione
meditabonda. Lui sapeva però che il suo non era un volto cordiale, e neppure av-
venente, perché il naso era troppo prominente, le labbra troppo sottili, un insieme
che lo faceva apparire più vecchio dei suoi diciannove anni.
Alla fine il freddo divenne troppo intenso anche per lui, inducendolo ad alzarsi
per andarsene; in quel momento vide una figura avvolta in un mantello con
cappuccio che si allontanava dalla Casa di Bronzo e si dirigeva verso di lui.
– Buona notte – disse, e subito la luce della luna si riflesse sulla lama della daga
che era apparsa nella mano della figura.
– Chi è? – domandò una voce di donna.
– Sono Parmenion e non sono un pericolo per te, signora – rispose lui,
protendendo le mani perché si potesse vedere che erano vuote.
– Cosa ci fai qui? Mi stai spiando?
– Per nulla, stavo godendo della vista delle stelle. Perché dovrei spiarti?
Derae spinse indietro il cappuccio e la luce della luna tinse d’argento i suoi
capelli.
– È passato molto tempo dall’ultima volta che abbiamo parlato, giovane
Veloce.
– È vero – convenne lui. – Cosa ti porta alla Casa di Bronzo a mezzanotte?
– Sono affari miei – ribatté lei, sorridendo per attenuare l’asprezza delle parole.
– Forse anche a me piace guardare le stelle.
In quel momento un movimento al limitare del suo campo visivo attirò
l’attenzione di Parmenion, che nel girare la testa vide un giovane saettare via dietro
il Santuario delle Muse, ma evitò di fare commenti.
– Ti auguro la buona notte – disse infine Derae, e Parmenion rispose con un
inchino, seguendola con lo sguardo mentre si allontanava lungo il sentiero.
Quello a cui stava giocando era un gioco pericoloso, perché alle Spartane non
ancora sposate non era permesso di mescolarsi liberamente con i membri dell’altro
sesso e qualsiasi relazione del genere sarebbe potuta finire con l’esecuzione
capitale o con l’esilio, il che costituiva uno dei motivi per cui i giovani maschi
erano incoraggiati a trovarsi un amante fra i loro compagni. D’un tratto Parmenion
si rese conto di invidiare il giovane che era fuggito e che anche lui sarebbe stato
pronto a rischiare molto pur di avere la possibilità di passare del tempo solo con
Derae. Ricordava ancora il suo corpo snello, i piccoli seni sodi, la vita sottile...
Basta così! si rimproverò.
Tornato a casa, sedette nel piccolo cortile e mangiò una cena tardiva a base di
pesce secco e vino, cibo che gli era costato due oboli. Il pensiero delle finanze in
rapido calo lo depresse. La vendita dell’ultima porzione di terreno gli aveva
fruttato centosettanta dracme, ma ottanta erano servite per pagare la mensa e altre
trenta erano state accantonate per l’acquisto dell’armatura di cui avrebbe avuto
bisogno quando avesse raggiunto l’Età Virile, la primavera successiva. La cifra
rimanente avrebbe dovuto fornirgli di che nutrirsi e vestirsi, e lui scosse il capo
pensando che un mantello nuovo costava venti dracme e che un paio di sandali ne
richiedeva quasi dieci. Quello sarebbe stato un lungo e duro inverno.
Entrato in casa, chiuse le finestre e accese una piccola lanterna; alla sua luce
tirò fuori la Spada di Leonida dalla credenza e la estrasse dal fodero di bronzo: si
trattava di una lama di ferro non più lunga del braccio di un uomo, con l’elsa
decorata di filo d’oro e il pomo formato da un globo di argento purissimo.
Più volte Senofonte lo aveva incitato a venderla e c’erano a Sparta famiglie che
sarebbero state disposte a pagare anche mille dracme per quell’arma dalla storia
tanto illustre, ma ancora una volta Parmenion la ripose nel fodero, sapendo che
sarebbe morto di fame prima di separarsi dall’unico trofeo della sua vita.
Aveva infatti un sogno, e la spada ne era parte. Sarebbe andato in guerra come
mercenario, avrebbe raccolto una grande fortuna ed un esercito e sarebbe poi
tornato a Sparta, umiliando la città e vendicandosi di tutti i nemici della sua
giovinezza. Sapeva che si trattava di un sogno sciocco, ma esso gli dava la forza
per andare avanti anche se era consapevole che molto più probabilmente sarebbe
stato costretto ad arruolarsi come oplita in un contingente mercenario, passando i
suoi giorni a marciare attraverso le sterminate distese della Persia per obbedire ai
capricci di qualsiasi principe avesse avuto denaro sufficiente per assoldare il suo
gruppo. E quanto avrebbe guadagnato? Sette oboli al giorno... appena più di una
dracma. Questo significava che se fosse sopravvissuto per vent’anni in una
compagnia del genere avrebbe... avrebbe soltanto... potuto poi comperare una
porzione di una fattoria o di un terreno, e comunque non si sarebbe trattato di una
proprietà come quella che sua madre... e poi lui... erano stati costretti a vendere.
Infine accantonò dalla mente i pensieri relativi alla sua povertà. Se non altro per
le prossime otto settimane avrebbe potuto godere delle comodità della tenuta che
Senofonte possedeva ad Olimpia: letti morbidi, cibo buono, piacevoli cavalcate e
cacce, e con un po’ di fortuna la compagnia di una delle ragazze arcadi che
sorvegliavano le pecore sulle basse colline. Lo scorso anno ne aveva trovata una
florida e disponibile, che si era rivelata un’esperta insegnante per un inetto giovane
di città. Toltosi il chitone, si infilò nel letto ripensando al suo corpo, ma si accorse
di non ricordare più il viso... davanti agli occhi della sua mente la donna aveva il
volto d Derae.
* * *
Ad un giorno di viaggio dalla città il piccolo gruppo vide dei cavalieri che si
avvicinavano al galoppo e subito Senofonte impugnò la lancia, spronando il
cavallo per andare loro incontro; Parmenion lo seguì mentre Tinus, Clearcus e altri
tre servi rimasero con i carri.
– Credo che sia Leonida! – gridò Parmenion, affiancando il cavallo a quello di
Senofonte.
L’Ateniese tirò le redini e attese con un’espressione preoccupata che non sfuggì
a Parmenion: la cavalleria spartana era stata mandata sulle colline degli Sciriti
dopo che due villaggi erano stati attaccati dai razziatori... mercenari rinnegati che
erano stati congedati dalle autorità di Corinto. Si diceva che il gruppo contasse
oltre trenta uomini.
Riparandosi gli occhi con una mano, Parmenion poté scorgere Leonida che
cavalcava alla testa di un nutrito gruppo di guerrieri ed era seguito da suo padre,
Patroclian. Senofonte sollevò infine una mano in un gesto di saluto e Leonida fece
arrestare il cavallo, mentre Patroclian veniva ad affiancarsi al figlio.
– Questo è un brutto giorno, Senofonte – disse lo Spartano dalla barba rossa. –
Mia figlia Derae è stata presa.
– Presa? Come? – chiese Senofonte.
– Stava cavalcando da sola ad est rispetto alla nostra colonna. Deve essersi
fermata presso un corso d’acqua ed essere smontata di sella... ho un servo della
Tracia che sa decifrare le tracce e ha detto che il suo cavallo deve essere fuggito
quando l’hanno sorpresa. Adesso si stanno dirigendo a nord, verso le colline.
– Naturalmente ci uniremo a voi – si offrì Senofonte. Girato il cavallo,
Parmenion tornò al trotto verso il carro.
– Dammi l’arco – ordinò a Tinus.
L’uomo si protese verso il retro del carro e sollevò un arco di corno con una
faretra di pelle di capra che conteneva venti frecce. Appesosi la faretra alla spalla,
Parmenion scrutò la zona circostante. Patroclian aveva detto che quegli uomini si
erano diretti a nord, ma ormai dovevano aver scoperto che Derae faceva parte di un
gruppo molto più numeroso e avrebbe avuto poco senso che avessero mantenuto la
loro direzione iniziale. A nordest c’era invece una linea di colline fittamente
alberate nelle quali era visibile un alto passo che dava verso nord, quindi senza at-
tendere gli altri lui spronò la giumenta verso quei pendii alberati.
– Dove sta andando, in nome dell’Ade? – domandò Leonida.
– Non lo so e non m’importa – ribatté Patroclian. – Muoviamoci!
I guerrieri si avviarono di nuovo verso nord.
Intanto Parmenion si addentrò fra le alte colline, deviando con il cavallo verso
il passo. Il terreno era infido, fatto di ghiaia scivolosa, e lui fu costretto a far
rallentare la giumenta e a smontare di sella, conducendola a mano fra gli alberi.
Raggiunto un tratto di terreno più sicuro, legò l’animale ad un cespuglio e si
arrampicò su un alto cipresso, scrutando dai suoi rami le colline circostanti senza
però vedere traccia di movimento tranne la polvere del gruppo che stava
galoppando verso nord. Rimase sull’albero per qualche tempo, e stava ormai
cominciando a fronteggiare la possibilità di essersi sbagliato quando parecchi corvi
neri spiccarono in volo da una macchia di alberi ad un paio di centinaia di passi
sulla sua destra. Gli uccelli sembravano in preda al panico e questo indusse
Parmenion a concentrare la propria attenzione su quell’area, sforzandosi di vedere
in mezzo al sottobosco. Dopo un momento o due intravide il bagliore del sole sul
metallo e sentì un cavallo nitrire; subito si affrettò a scendere dall’albero e a
rimontare in sella per avviarsi al galoppo verso il passo.
Vi arrivò prima dei razziatori e tirò le redini al punto che la giumenta nitrì e
s’impennò. Rapido, Parmenion balzò a terra e impastoiò l’animale, poi si
arrampicò su un’alta sporgenza rocciosa che dominava il passo ed estrasse una
freccia dalla faretra, incoccandola nell’arco.
Adesso il cuore gli batteva selvaggiamente e c’era un intenso dolore che gli
pulsava dietro gli occhi. Ultimamente i dolori alla testa erano peggiorati, al punto
da svegliarlo nel cuore della notte e da lasciarlo scosso e in preda alla nausea, ma
quello non era il momento di preoccuparsi del dolore fisico.
La sua reazione alla notizia del rapimento di Derae lo aveva sorpreso. La
ragazza era stata spesso nei suoi pensieri anche se lui non si era mai concesso di
sperare di poterla ottenere, ma adesso che era stato indotto a pensare che gli fosse
stata tolta per sempre aveva sentito levarsi in lui un senso di panico unito alla
consapevolezza che Derae faceva parte dei suoi sogni.
Un sogno stolto! urlò la sua mente, mentre se ne stava accoccolato in attesa dei
razziatori. Leonida non avrebbe mai permesso un simile matrimonio. Matrimonio?
Immaginò Derae ferma accanto a lui vicino alla Pietra Sacra di Hera, con la mano
sulla sua mentre la sacerdotessa legava insieme le loro braccia con foglie di
alloro...
Asciugandosi le mani sudate sulla tunica si costrinse ad allontanare quei
pensieri dalla mente e a fissare la linea del limitare degli alberi, dove il primo degli
esploratori apparve pochi minuti più tardi. Si trattava di un uomo abbronzato dal
sole e con la barba scura, che portava un elmo frigio con la cresta di metallo e un
occhio rosso dipinto sulla fronte e che impugnava una lancia. Accanto a lui
cavalcava un guerriero dall’ampio elmo beota di ferro battuto che stringeva in
pugno un arco con la freccia già incoccata.
Accoccolato dietro le rocce Parmenion rimase in attesa, ascoltando il battere
ritmico e costante degli zoccoli sulla roccia. Quando infine si arrischiò a dare
un’occhiata vide che il gruppo principale di oltre trenta uomini si snodava ora alle
spalle degli esploratori e poté scorgere anche Derae, con le mani legate dietro la
schiena e con il collo stretto da una corda tenuta da un guerriero su un alto stallone
grigio. L’uomo portava un’armatura d’argento e un mantello bianco, e a Parmenion
parve un principe uscito da una leggenda.
Laris spinse lo stallone fuori dagli alberi e diede uno strattone alla corda. La
ragazza quasi incespicò e lui sorrise nel lanciarle un’occhiata. Che splendore! Per
ora non aveva ancora avuto l’occasione di udire le sue grida e di sentirla contorcere
sotto di lui, ma ci sarebbe stato tempo per questo quando si fossero scrollati di
dosso gli inseguitori. Spartani! I vili consiglieri di Corinto erano quasi morti di
paura quando lui aveva parlato di invadere le terre degli Spartani. Possibile che non
si rendessero conto che era possibile sconfiggerli? Se avessero unito le loro forze,
Atene, Tebe e Corinto avrebbero potuto annientare Sparta una volta per tutte e
invece no, le antiche paure facevano da freno. Ricordatevi delle Termopili,
dicevano, ricordatevi della sconfitta subita da Atene vent’anni fa. Ma a chi
importava di eventi vecchi di una vita intera? Nel migliore dei casi gli Spartani
avrebbero potuto schierare in campo quindicimila uomini e la sola Corinto poteva
fornire la metà di quegli effettivi, mentre Atene avrebbe potuto dare il resto. Tebe e
la Lega Beota avrebbero poi potuto raddoppiare il numero dei soldati.
Congedato! La vergogna della cosa bruciava ancora in Laris, ma adesso aveva
dimostrato loro che con quaranta uomini appena era possibile effettuare scorrerie
in profondità nel territorio di Sparta. Certo, avevano trovato ben poco oro e gli uo-
mini erano scontenti, ma lui aveva dimostrato la sua teoria: se quaranta uomini
potevano cavalcare nelle terre dei guerrieri spartani ed emergerne illesi quale
sarebbe stato il risultato se gli attaccanti fossero stati quarantamila?
Sollevando lo sguardo vide gli esploratori addentrarsi nel passo.
Improvvisamente una freccia saettò nell’aria e andò a colpire alla gola
Xanthias, che crollò di sella con un grido orribile. Immediatamente fu il caos,
mentre gli uomini si gettavano di sella e si riparavano dietro le rocce. Laris stesso
scivolò a terra e trascinò Derae accanto a sé.
Poi un giovane Spartano si alzò in piedi in piena vista dei suoi uomini.
– Lasciate andare la donna! – gridò, – e non ci saranno ulteriori uccisioni.
– Chi parla? – urlò Laris, di rimando.
– Un uomo armato d’arco – replicò il guerriero.
– E perché ci dovremmo fidare delle tue parole, uomo con l’arco?
– Guardate alle vostre spalle – consigliò l’arciere. – Vedete quella nube di
polvere? Siete intrappolati e se aspetterete qui morirete, così come morirete se
cercherete di avanzare. Elenca le tue alternative, se vuoi.
– Non vedo nessuno lassù con te – obiettò L ris, alzandosi in piedi e snudando
la spada.
– Davvero? Allora devo essere solo. Attaccami e scoprilo.
– Mostraci i tuoi uomini.
– Il tuo tempo si sta esaurendo, e così anche la mia pazienza. Se non hai
l’intelligenza necessaria per salvare i tuoi compagni forse un altro fra loro sarà
disposto a scegliere al tuo posto.
Le parole del guerriero ferirono Laris: i suoi uomini erano già tutt’altro che
contenti, e adesso quell’arciere solitario stava mettendo in discussione le sue
capacità di capo.
Uno dei suoi si alzò da dietro un masso.
– Per amore di Atena, Laris! Lascia andare la donna e portaci via di qui!
Il capo del gruppo si girò verso Derae e tagliò con il coltello la corda che le
tratteneva i polsi, sfilandole poi il cappio dal collo. Voltandosi, vide lo Spartano
che stava cavalcando verso di lui con l’arco appeso alla spalla e scrutò le rocce alle
sue spalle, senza però vedere nessuno. Si umettò le labbra, convinto che l’arciere
fosse solo e desideroso di piantargli il coltello nel corpo e di vedere la vita che lo
abbandonava.
– Ho detto agli altri di lasciarvi passare e potete fidarvi della mia parola –
sorrise il guerriero. – Al vostro posto però me ne andrei in fretta, perché non posso
garantire per le azioni di coloro che vi inseguono.
Gli uomini corsero ai cavalli e Laris represse a fatica il desiderio di colpire,
perché adesso poteva sentire il rumore dei cavalli degli Spartani che stavano
arrivando. Afferrata la criniera del suo stallone gli balzò in groppa e galoppò oltre
il passo: come si era aspettato, là non c’era nessuno... né arcieri, né opliti, né
frombolieri. Soltanto roccia e ghiaia. Avvertì su di sé gli occhi dei suoi uomini: era
stato ingannato da uno Spartano, un solo uomo lo aveva costretto a restituire la sua
preda.
Adesso cosa avrebbero detto a Corinto?
Parmenion si protese sulla sella, prendendo la mano di Derae e issandola in
groppa dietro di sé, poi spinse la giumenta al passo e si addentrò fra gli alberi.
Entro pochi minuti Patroclian venne al galoppo verso di loro, seguito da
Leonida e dagli altri. Parmenion sollevò una mano e lo Spartano dalla barba rossa
tirò le redini nel momento stesso in cui Derae scivolava a terra.
– Cosa è successo qui? – domandò Leonida, venendo avanti.
– Parmenion e gli altri hanno bloccato il passo – spiegò Derae. – Lui ha ucciso
uno degli esploratori, poi ha trattato promettendo ai razziatori di lasciarli passare se
mi avessero liberata.
– Dove sono questi altri uomini? – domandò Patroclian a Parmenion. – Mi
piacerebbe ringraziarli.
– Non ci sono altri – rispose Parmenion.
Spingendo in avanti la cavalcatura, passò poi in mezzo al gruppo e scese il
pendio ghiaioso fino a raggiungere il carro in attesa. Gettati l’arco e la faretra a
Tinus, prese dal sedile la fiasca dell’acqua e bevve a lungo.
– Hai agito bene, stratega – si complimentò Senofonte, avvicinandosi. –
Abbiamo trovato il punto in cui la pista piegava verso est ma se tu non avessi
bloccato il passo saremmo arrivati troppo tardi. Sono orgoglioso di te. – Gettò
quindi a Tinus una freccia sporca di sangue e aggiunse: – È stato un ottimo colpo
alla base della gola, che ha trapassato la carotide piantandosi nella colonna
vertebrale. Un ottimo colpo!
– Io stavo mirando al petto o al ventre, ma ho compensato eccessivamente
l’inclinazione del pendio.
Senofonte stava per ribattere quando si accorse che le mani di Parmenion
avevano cominciato a tremare, e nel guardare il volto del giovane notò che era
privo di espressione ma pallidissimo.
– Stai bene? – gli chiese.
– La testa mi pulsa e ho delle luci davanti agli occhi.
– Ci accamperemo qui – decise Senofonte.
Parmenion scese di sella e mosse parecchi passi barcollanti prima di crollare in
ginocchio e di vomitare; quando si rialzò inalò grandi boccate d’aria e Senofonte si
affrettò a porgergli la borraccia perché si sciacquasse la bocca.
– Ti senti meglio? – s’informò.
– Sto tremando come una foglia nella tempesta... stento a crederci. Lassù ero
così calmo, mentre ad so mi comporto come un bambino spaventato.
– Quello che hai svolto è stato il lavoro di un uomo, un uomo freddo di nervi...
anzi, con i nervi d’acciaio – garantì Senofonte. – Questa reazione non diminuisce
affatto il tuo operato.
– Mi sento come se avessi delle lance roventi nella testa. Non ho mai
conosciuto un dolore del genere – confessò Parmenion, sedendosi e appoggiandosi
con la schiena alla ruota del carro. – E la luce mi brucia gli occhi.
Tinus si affrettò a scendere a terra per reggere un ampio cappello di paglia sulla
testa del giovane in modo da ripararlo, ma il dolore aumentò d’intensità... e
Parmenion scivolò nell’oscurità.
Con il passare delle settimane Parmenion scoprì ancora una volta la profondità
della saggezza di Senofonte. Il suo desiderio e il suo amore per Derae non
diminuirono ma la sua mente si schiarì e lui cominciò ad avvertire un profondo
senso di vergogna per il modo in cui aveva condotto la loro relazione.
Se lo avesse voluto, Patroclian avrebbe potuto sottoporre la questione al
Consiglio, che avrebbe chiesto agli efori la morte di Parmenion. La legge era
talmente specifica al riguardo che non c’era neppure da parlare di una possibile
difesa: qualsiasi Spartano che violasse una vergine era soggetto alla morte per
mezzo del veleno o di una spada. La stessa Derae avrebbe potuto essere sacrificata
ad Ecate, la dea della morte.
Adesso Parmenion era in grado di riesaminare la propria passione alla fredda
luce della logica, ma a dire il vero non rimpiangeva ciò che aveva fatto: il suo
amore con Derae era stato il momento culminante di tutta la sua vita, lo aveva
liberato dalle miserie della sua infanzia ed aveva esorcizzato infelicità ed odio.
Adesso non desiderava più vendicarsi di Leonida, non sognava più di condurre un
esercito contro gli Spartani... tutto quello che voleva era vivere con Derae e
allevare i figli del loro amore.
Durante il giorno cavalcava con Senofonte nell’entroterra del Peloponneso, e
dopo il tramonto correva sui pendii collinari in modo da rinforzare il proprio corpo
e da sfinire la propria passione con l’esercizio fisico.
Di notte sedeva a discutere con il generale ateniese di tattica militare o di
strategie politiche; Senofonte appariva profondamente depresso dal fallimento di
Sparta di fornire una guida sicura alla Grecia e prediceva con aria cupa futuri
disastri.
– Agisaleus non sopporta i Tebani ed esprime pubblicamente il proprio
disprezzo, il che non è una cosa saggia. Io gli voglio bene, ma è cieco ai pericoli
perché non riesce a dimenticare che sono state le azioni di Tebe a costringerlo a
interrompere i suoi successi militari contro i Persiani per tornare in patria. Non è
capace di perdonare.
– E tuttavia – replicò Parmenion, – il suo ritorno dalla Persia gli ha portato
grande onore: ha schiacciato i Tebani ed ha restaurato il prestigio e il potere di
Sparta.
– Questa è l’opinione comune fra gli Spartani – convenne Senofonte, – ma la
realtà è che il solo vincitore è stato la Persia.
– Ma essa non ha avuto parte alcuna nella rivolta, vero?
– Stiamo parlando di politica, Parmenion – rise Senofonte. – Non pensare
soltanto a spade e a campagne militari. Agisaleus aveva invaso la Persia e stava
vincendo, quindi l’oro Persiano... di cui esiste una scorta illimitata... è stato fatto
affluire ad Atene e a Tebe. Con quell’oro le due città hanno armato i loro eserciti,
ed è stato per questo che Agisaleus è dovuto tornare in patria. C’era in solo modo
in cui poteva vincere... ha mandato un ambasciatore in Persia ed ha acconsentito a
diventare un vassallo di quella nazione. La Persia ha abbandonato Tebe e Atene al
loro destino ed ha sovrinteso alle trattative di pace.
– Una buona strategia – convenne Parmenion. – Non mi meraviglia che
l’impero domini da tanto tempo. Con un po’ d’oro ha arrestato un’invasione.
– Ha fatto di meglio: tutte le città greche dell’Asia sono state date ai Persiani.
– Non lo sapevo – commentò Parmenion.
– È una cosa che non viene insegnata ai giovani Spartani, perché ne
danneggerebbe il morale, ma essa costituisce un cancro nascosto in Agisaleus:
adesso lui sa che non potrà mai più marciare contro la Persia, perché in sua assenza
Tebe e Atene insorgerebbero contro Sparta.
– Ma non potrebbe incontrarsi con i loro capi e condurre poi in Persia una
spedizione congiunta?
– Potrebbe – annuì Senofonte, – ma non lo farà mai perché il suo odio lo ha
accecato. Non mi fraintendere, Parmenion: Agisaleus è un buon re e un uomo
eccellente, colto e saggio.
– Faccio fatica a capire – confessò Parmenion.
– Davvero? Amore e odio sono sentimenti molto simili. Pensa alla tua follia
con Derae... ti sei soffermato a considerare i rischi che essa implicava? No.
Agisaleus agisce nello stesso modo... basta menzionare Tebe perché il suo volto
cambi e la sua mano scivoli verso l’impugnatura della spada.
I servi portarono loro una cena a base di pesce e formaggio; per un po’ i due
mangiarono in silenzio, ma Senofonte non aveva appetito e ben presto spinse
indietro il piatto, allungando la mano verso un boccale di vino e aggiungendovi un
po’ d’acqua. Vuotato in fretta il boccale, se ne versò un altro.
– Forse Cleombrotus porterà un cambiamento – suggerì Parmenion.
Sparta aveva infatti due re, sulla base del principio che mentre uno guidava i
guerrieri in battaglia l’altro poteva restare a casa a curare gli interessi della città.
Agisaleus aveva finora diviso il trono con il cugino Agesopolis, che però era un
sempliciotto che appariva di rado in pubblico. Adesso la morte di Agesopolis,
avvenuta quattro mesi prima, aveva visto salire al potere Cleombrotus, un ottimo
guerriero e atleta.
– Dubito che riuscirà a far cambiare idea ad Agisaleus – replicò Senofonte. –
Cleombrotus è abbastanza forte, ma manca di intelletto, ed io temo per Sparta. Gli
dèi rendono orgogliosi coloro che intendono distruggere – citò.
– Di certo l’orgoglio è la grande forza di Sparta – osservò Parmenion,
guardando con preoccupazione Senofonte che aveva riempito ancora il boccale
senza preoccuparsi di annacquare il vino.
– È vero, ma sai quanti veri Spartani restano in tutta la città? Meno di duemila,
perché i costi delle mense sono saliti e gli Spartani più poveri non possono più
permettersi di mandare i loro figli agli alloggiamenti. Pensa a te stesso... tua madre
aveva una buona tenuta e tuttavia ha dovuto venderla per pagare il tuo
mantenimento. È un’assurdità. Fra dieci anni il numero dei guerrieri si sarà
dimezzato ancora... e allora come farà Sparta a continuare a primeggiare? E quanto
tempo passerà prima che si veda applicare davvero la strategia che tu hai usato nei
Giochi?
– Non permettere che questo ti rattristi, Senofonte. Non hai il potere di
cambiare nulla di quanto sta accadendo.
– È questo che mi rattrista – ammise il generale.
Per la prima volta Tamis sentì crescere i propri dubbi. Adesso gli eventi
stavano maturando in fretta e lei avvertiva il potere degli accoliti del Dio Oscuro
che la cercavano e studiavano un modo per attaccare e distruggere l’unica che
poteva annientare i loro piani.
Tamis non era però priva a sua volta di poteri e avvolse la sua anima in un
mantello di invisibilità, evitando gli occhi dello spirito di quanti le davano la caccia
e scivolando vicino ad essi come una brezza che sussurri fra i rami rischiarati dalla
luna.
Learcus era morto, ucciso da Parmenion. Tamis non aveva fatto nulla per
causare la sua morte e tuttavia sapeva che in parte la colpa gravava lo stesso sulle
sue spalle sempre più fragili.
Tutti gli uomini muoiono, continuava a ripetersi. Del resto, non era forse stato
Learcus a nascondersi in un vicolo buio pronto ad attaccare un ragazzo indifeso? Si
era attirato addosso la sua sorte con le proprie mani.
I dubbi continuavano però a tormentarla. Adesso le sue preghiere restavano
quasi sempre senza risposta e lei si sentiva sola contro i servitori del Caos, anche
perché non poteva più evocare Cassandra o qualsiasi altro spirito del passato... le
Vie non erano più aperte per lei.
È solo una prova, si diceva per rassicurarsi. La Fonte è ancora con me, lo so.
Di certo è meglio che poche persone muoiano piuttosto che siano in molti...
intere moltitudini... a soffrire.
Quante volte si era ripetuta quella frase, come un incantesimo contro le proprie
paure? Ora però si era spinta troppo oltre per esitare proprio adesso.
Quando Learcus era morto, i servitori del Dio oscuro avevano accentrato il loro
interesse su Sparta, intessendo i loro incantesimi intorno ai superstiti, Nestus e
Cleombrotus, in modo da sorvegliarli e da proteggerli. Per Tamis era quindi
diventato difficile manipolare in segreto le loro emozioni, incoraggiarli a essere
impetuosi e a mettere a repentaglio la loro vita.
Tuttavia gli Osservatori non potevano controllare tutto e Tamis aveva atteso
con pazienza, pronta a sfruttare qualsiasi momentaneo cedimento, e adesso era
giunto il suo momento. La ragazza Derae era stata denunciata pubblicamente e il
suo promesso, Nestus, era pervaso da un’ira piena di indignazione e dalla
tipicamente spartana bramosia di vendetta. Soltanto la morte dell’uomo che gli
aveva recato vergogna avrebbe potuto soddisfare il suo cuore di guerriero.
Tamis sapeva che gli Osservatori erano furenti, poteva avvertire la loro rabbia e
la loro frustrazione come fiamme nella notte; aprendo le imposte dell’unica finestra
della sua casa, lasciò vagare lo sguardo verso la distante acropoli.
Parmenion si trovava di fronte al primo di molti pericoli, e Tamis era
impossibilitata ad aiutarlo proprio come gli Osservatori non potevano proteggere
Nestus: adesso sarebbe giunto il momento delle spade, della forza e dell’abilità. Al
tempo stesso, gli Osservatori erano sempre più vicini, tanto che presto l’avrebbero
individuata e attaccata, mandando nella notte i demoni a lacerare la sua anima o di
giorno qualche sicario armato di una lama affilata per trapassare la sua fragile
carne.
Girandosi, fissò la squallida stanza che era stata la sua casa per tanti anni
solitari: non avrebbe sentito la sua mancanza, o quella di Sparta, e neppure quella
della Grecia, la dimora del suo spirito.
Aperta la porta, uscì nella luce del sole.
– Per il momento sei solo, Parmenion. Adesso soltanto la tua forza e il tuo
coraggio ti possono aiutare.
Appoggiandosi al bastone, con un lacero mantello grigio avvolto intorno alle
spalle, lasciò lentamente Sparta e non si girò neppure una volta a guardarsi
indietro, neppure per un solo istante permise al rimpianto di sfiorarle il cuore.
Nella sua dimora abbandonata la temperatura calò improvvisamente quando
un’ombra scura si formò sulla parete opposta alla finestra, crescendo e allargandosi
fino a formare la sagoma semitrasparente di una donna alta, incappucciata e velata
di nero.
Per parecchi minuti la donna si mosse per la stanza, frugando con gli occhi
dello spirito, poi scomparve...
... e riaprì gli occhi fisici in un palazzo oltre il mare.
– Ti troverò, Tamis – sussurrò, con voce sommessa e gelida. – E ti recherò la
disperazione.
Tre giorni prima della fine della sua permanenza ad Olimpia, Parmenion rimase
sorpreso di vedere Hermias attraversare a cavallo il lungo prato antistante la casa.
Di solito il suo amico si recava al mare con la famiglia durante la parte più calda
dell’estate, e la loro casa si trovava a parecchie centinaia di leghe da Olimpia.
Durante l’ultimo anno Parmenion si era incontrato di rado con Hermias, perché
il suo amico era diventato intimo del giovane Re Cleombrotus ed era possibile
vedere spesso i due insieme in città o che si recavano a cavalcare sulle montagne
del Taigeto.
Quando gli andò incontro, Parmenion vide che anche Hermias era cambiato
durante il tempo che avevano trascorso agli Alloggiamenti Menelao: a diciannove
anni, il giovane era di una bellezza incredibile e non mostrava ancora traccia di
barba. Un tempo un ottimo corridore, adesso non aveva più la propensione ad
esercitarsi con costanza e lo si vedeva di rado sul terreno di addestramento; di
recente, poi, si era lasciato crescere i capelli e ancora prima che balzasse da cavallo
Parmenion poté sentire l’odore dell’olio persiano profumato di cui essi erano
cosparsi.
– Ben incontrato, fratello – gli gridò, correndogli incontro per abbracciarlo.
Hermias però si ritrasse dal suo abbraccio.
– Ho cattive notizie, Savra. Credendo alle menzogne sul tuo conto, Nestus sta
venendo qui, ed è intenzionato ad ucciderti. Con un sospiro, Parmenion si volse a
fissare le lontane colline.
– Devi andare via – lo incitò Hermias. – Non farti trovare qui quando arriverà.
Dimmi la verità ed io cercherò di convincerlo.
– La verità? – rispose Parmenion. – Cosa vorresti che dicessi. Io amo Derae. La
voglio come moglie... ho bisogno di lei.
– Questo lo accetto – replicò Hermias, – ma lui è convinto che tu l’abbia
violata. Io so che tu non prenderesti mai in considerazione un atto così vile, ma
Nestus è accecato dall’ira. Rifugiati per un po’ sulle colline, mentre io gli parlo.
– Ci siamo amati, e siamo stati stupidi – affermò Parmenion, con voce
sommessa. – Nestus ha ogni diritto di essere furente.
– Allora... è vero? – chiese Hermias, a bocca aperta.
– Non l’ho violata! Noi ci amiamo, Hermias. Cerca di comprendere, amico
mio.
– Cosa c’è da comprendere? Ti sei comportato come... come il Macedone che
sei.
Parmenion si mosse in avanti, protendendo una mano verso il braccio
dell’amico, ma questi si ritrasse.
– Non mi toccare! – esclamò. – Nestus è mio amico, lo è stato da quando
eravamo bambini, ed ora porta su di sé una vergogna che non merita. Io so perché
lo hai fatto, Savra... per vendicarti di Leonida... e ti disprezzo per questo. Prendi un
cavallo e vattene. Va’ dove vuoi, ma non farti trovare qui quando Nestus arriverà.
Con quelle parole Hermias tornò a grandi passi verso il cavallo e balzò in sella.
– Ho rinunciato a molte cose per te, Parmenion, ma adesso rimpiango il giorno
che ti ho incontrato. Quello che hai fatto è stato malvagio e ne deriveranno molte
sofferenze. Io ti amavo... come un amico e un fratello, ma il tuo odio è stato ed è
troppo forte.
– Non è odio – protestò Parmenion, ma Hermias fece girare il cavallo e si
allontanò al galoppo. – Non è odio! – gli gridò ancora dietro Parmenion.
Sconvolto, rimase immobile dov’era mentre Hermias riattraversava il prato al
galoppo, poi sentì alle proprie spalle un rumore di passi ma non si voltò,
continuando ad osservare l’amico finché scomparve in lontananza.
– Quello era un consiglio sensato – commentò Senofonte, con voce triste. –
Prendi la giumenta baia e recati a Corinto. Ti darò denaro a sufficienza per il
viaggio e una lettera per un amico che vive là e che sarà lieto di ospitarti finché
non avrai deciso dove vuoi andare.
– Non posso farlo, perché significherebbe rinunciare a Derae.
– Lei è persa per te comunque.
– Non intendo accettarlo – ribatté Parmenion, girandosi di scatto. – Come posso
accettarlo?
– Sei disposto a morire per il tuo amore?
– Certamente. Cosa vorresti che dicessi?
– E sei anche disposto ad uccidere per esso un uomo innocente?
Parmenion trasse un profondo respiro, lottando alla ricerca della calma che
continuava ad eluderlo. Non conosceva bene Nestus, ma sapeva che non era mai
stato uno dei suoi nemici e che non lo aveva mai tormentato; adesso però Nestus,
come qualsiasi altro Spartano al suo posto, voleva esorcizzare la sua vergogna con
il sangue dell’uomo che lo aveva disonorato.
– Non posso fuggire, Senofonte – affermò infine, incontrando lo sguardo
dell’Ateniese. – La mia vita non sarebbe nulla senza Derae, adesso lo so.
– Quanto sei abile con la spada? – chiese il generale, nascondendo la propria
delusione.
– Me la cavo.
– E Nestus?
– Lui era... ed è.. il campione di spada degli Alloggiamenti Licurgo. È molto
forte.
– Puoi sconfiggerlo?
– Sono malvagio? – controbatté Parmenion, senza rispondere.
– No – replicò Senofonte. – Si tratta del principio dell’azione e della reazione,
ragazzo mio. Una volta in Persia ho conosciuto un uomo a cui era stato chiesto di
portare l’acqua in una zona arida. Quell’uomo aveva costruito una piccola diga che
aveva deviato il corso di un fiume, irrigando i campi e salvando una comunità.
Quelle persone gli erano state grate, perché lui aveva dato loro la vita, e c’erano
state feste e banchetti in suo onore. Lui si era fermato là per parecchi mesi, e una
volta partito era giunto dopo cinque giorni in una città deserta, dove c’erano dei
cadaveri e un corso d’acqua asciutto. Aveva salvato una comunità distruggendone
un’altra. Era malvagio? L’intenzione è tutto ciò che conta. Tu non ti sei prefisso di
portare la vergogna a Nestus o a Derae, ma adesso ne devi subire le conseguenze.
Uno di voi deve morire.
– Non voglio ucciderlo, lo giuro su tutti gli dèi dell’Olimpo – affermò
Parmenion, – ma se fuggirò non potrò mai reclamare Derae. Capisci?
– Puoi prendere a prestito la mia corazza e il mio elmo... supponendo che
Nestus indossi i suoi. Oh, Parmenion, cosa ti ha recato la tua follia?
– Mi ha portato Derae, e non posso rimpiangerlo... anche se ho perduto
Hermias, che è stato mio amico per tutta l’infanzia – replicò Parmenion,
costringendosi a sorridere.
– Vieni a mangiare qualcosa. Il corpo non combatte bene con lo stomaco vuoto,
te lo garantisco. Prendi un po’ di miele, che ti darà forza.
Era ormai tardo pomeriggio quando Nestus e i suoi compagni arrivarono alla
casa dove Parmenion era seduto in compagnia di Senofonte all’ombra del tetto
inclinato coperto di tegole. Alzandosi, l’Ateniese segnalò a Parmenion di restare
dov’era e andò incontro ai cavalieri.
Con Nestus c’erano sei uomini, ma Parmenion ne riconobbe soltanto due:
Leonida ed Hermias.
Benvenuti nella mia casa – salutò Senofonte.
– Cerchiamo l’uomo chiamato Parmenion – affermò Nestus, sollevando una
gamba oltre il collo del cavallo e balzando a terra. Era un giovane alto, largo di
spalle e con i fianchi stretti... non privo di attrattiva, anche se la sua bellezza era
guastata dal naso ad uncino.
– Gli efori hanno concesso il permesso per questo duello? – volle sapere
Senofonte, avvicinandosi.
– Lo hanno concesso – replicò Nestus, infilando una mano nella tunica ed
esibendo una pergamena che porse a Senofonte.
L’Ateniese la srotolò e la lesse in fretta.
– Il tuo onore può essere soddisfatto soltanto dal sangue? – domandò,
restituendo il documento.
– Sì. Sai quello che lui ha fatto, che alternativa ho?
– Come gentiluomo nessuna – ammise Senofonte, in tono sommesso. –
Tuttavia... e bada che non sto parlando in sua difesa e neppure con il suo
permesso... lui non sapeva che eri promesso a quella nobile donna.
– Non è una nobile donna, è una prostituta... resa tale dal mezzosangue che tu
ospiti.
– Allora sarà necessario lo spargimento di sangue – annuì Senofonte. –
Cerchiamo però di agire da gentiluomini. Avete cavalcato a lungo, quindi tu e i
tuoi amici avrete sete. La mia casa è la tua casa. Chiederò ai servi di portare dei
rinfreschi.
– Non sarà necessario, Ateniese – scattò Nestus. – Manda soltanto Parmenion
da me. Lo ucciderò e potremo andarcene.
– Anche se posso capire la tua ira – sussurrò Senofonte, avvicinandosi
maggiormente al giovane, – non si addice ad un gentiluomo di agire in maniera
tanto scortese.
Fissando i chiari occhi azzurri del suo interlocutore, Nestus vi scorse
un’espressione furente.
– Hai ragione, signore. È stata la mia ira a parlare... ed essa non dovrebbe
essere diretta contro di te. Ti ringrazio per la tua cortesia e sono certo che i miei
amici saranno lieti di accettare i rinfreschi. Per quanto mi riguarda, con il tuo
permesso attenderò in giardino il momento dello scontro.
– Ti manderò dell’acqua fresca... a meno che tu non preferisca del vino –
assentì Senofonte, inchinandosi.
– L’acqua sarà sufficiente – ribatté Nestus, allontanandosi a grandi passi verso i
giardini.
Gli altri smontarono e seguirono Senofonte in casa; nessuno di loro guardò
verso Parmenion, che sedeva in silenzio con gli occhi fissi su Nestus, che aveva
preso posto su una panca vicino al ruscello.
Dopo qualche minuto Parmenion sentì qualcuno che si avvicinava e sollevò lo
sguardo, aspettandosi di vedere Senofonte.
– Hai nutrito bene il tuo odio – osservò Leonida, – e la freccia che hai scagliato
ha trovato il suo bersaglio. Alzandosi in piedi, Parmenion fronteggiò il suo antico
nemico.
– Io non ti odio, Leonida, e non odio la tua famiglia. Amo Derae. Ciò che ho
fatto è stato sbagliato e mi vergogno delle mie azioni, ma io intendo sposarla.
Per un momento Leonida rimase in silenzio, il volto indecifrabile.
– Amo mia sorella, anche se è caparbia – disse infine. – Tu però sei mio
nemico, Parmenion, e tale rimarrai fino al giorno della tua morte... che io prego
possa essere oggi. Non puoi resistere contro Nestus.
– Perché questa storia deve continuare? – domandò Parmenion. – Come puoi
nutrire quest’odio nei miei confronti quando presto sposerò tua sorella?
Leonida arrossì in volto e Parmenion scorse nei suoi occhi non soltanto ira ma
anche angoscia.
– Non sarebbe giusto parlarne adesso, prima dello scontro. Se sopravviverai,
allora te lo dirò – ribatté il giovane nobile.
– Dimmelo, e che l’Ade si prenda la giustizia! Avanzando di un passo, Leonida
lo afferrò per la tunica.
– Presto Derae morirà... lo capisci? Mio padre l’ha dichiarata una vittima di
Cassandra e in questo momento è già a bordo di una nave diretta a Troia. Quando
arriveranno vicino alla riva la getteranno in mare. È questo che le hai portato,
mezzosangue! L’hai uccisa!
Quelle parole trapassarono Parmenion come coltelli e lui indietreggiò
barcollando di fronte all’ira che fiammeggiava negli occhi di Leonida. Una vittima
di Cassandra! Ogni anno una giovane donna nubile veniva mandata da Sparta come
sacrificio agli dèi, per essere annegata al largo delle coste di Troia: quella era la
penitenza per l’assassinio della sacerdotessa Cassandra, avvenuto dopo la guerra
troiana di centinaia di anni prima. Tutte le principali città della Grecia erano
obbligate a mandare una vittima.
Le ragazze venivano portate con una nave fino ad un miglio dalla costa
dell’Asia, poi venivano buttate in mare con le mani legate dietro la schiena. Per
Derae non c’era speranza, perché anche se fosse riuscita a liberarsi le mani e a
nuotare fino a riva gli abitanti dei villaggi costieri l’avrebbero inseguita e uccisa.
Anche questo faceva parte del rituale.
– Allora, cos’hai da dire? – sibilò Leonida.
Parmenion però non replicò e uscì invece fuori sotto la luce del sole, estraendo
la spada e soppesandola per calibrarne il peso. Non poteva rispondere al suo
nemico perché ogni sentimento lo aveva abbandonato e si sentiva stranamente
stordito e libero da ogni tormento. Gli avevano tolto l’unica luce che ci fosse mai
stata nella sua vita e lui non intendeva vivere ancora nell’oscurità... era meglio che
Nestus lo uccidesse.
Dopo un po’ Senofonte gli si avvicinò e convocò anche Nestus sul tratto di
terreno piatto antistante la sua casa.
– Ho mandato a chiamare il chirurgo, e credo che sia consigliabile attendere il
suo arrivo per dare inizio al duello.
– I dottori non possono aiutare i morti – osservò Nestus.
– Verissimo, ma è probabile che anche il vincitore riporti delle ferite ed io non
voglio vedere un secondo uomo morire dissanguato.
– Non desidero aspettare – ribatté Nestus. – Presto il sole tramonterà.
Cominciamo.
– Sono d’accordo – assentì Parmenìon.
– Molto bene – si arrese Senofonte, scoccandogli un’occhiata penetrante. –
Entrambi avete la spada ed è presente il numero di testimoni prescritto. Vi
suggerisco di salutarvi a vicenda e di cominciare.
– Non ci sarà nessun saluto per te, mezzosangue – ringhiò Nestus, estraendo la
spada e fissando Parmenion con occhi roventi.
– Come desideri – rispose questi, calmo. – Prima che combattiamo voglio però
che tu sappia che io amo Derae... proprio come l’ami tu.
– Amore? Che ne sai tu? Io la ricorderò con grande affetto... e ricorderò
soprattutto il momento in cui le ho detto il prezzo che avrebbe dovuto pagare per la
mia vergogna. Non appariva più così graziosa quando è caduta in ginocchio
implorando suo padre di non lasciarla morire.
– Hai chiesto tu la sua morte?
– L’ho pretesa... come ho preteso la tua.
– Bene – ribatté Parmenion, sentendo il calore della furia crescente ma
tenendola sotto controllo, – hai fatto quello che volevi con lei. Ora vediamo se sai
combattere bene quanto sai odiare.
Nestus eseguì un affondo improvviso ma la Spada di Leonida si sollevò di
scatto e ci fu un clangore di acciaio quando Parmenion parò il colpo. Nestus tentò
allora con un rovescio, ma Parmenion bloccò anche quello.
Gli osservatori si allargarono intorno ai contendenti, tranne Senofonte che era
tornato all’ombra del tetto e si era seduto proteso in avanti con il mento appoggiato
alle mani, seguendo con attenzione ogni mossa. L’Ateniese si accorse che Nestus
aveva il vantaggio della forza fisica ma che Parmenion era più rapido. Le loro
spade cozzarono ancora e per parecchi minuti i due girarono in cerchio, mettendo
alla prova le rispettive capacità, poi la lama di Parmenion saettò in avanti e tracciò
un solco poco profondo sulla spalla destra di Nestus; il sangue spruzzò a macchiare
la tunica azzurra del giovane e Senofonte si alzò in piedi, raggiungendo gli altri che
stavano incitando l’amico e gridando consigli. Nestus eseguì un affondo diretto alla
gola di Parmenion, ma questi si spostò di lato e raggiunse al fianco l’avversario: la
sua spada gli lacerò la pelle, rimbalzando contro le costole e Nestus si ritrasse con
un grugnito di dolore. Adesso il giovane nobile stava perdendo sangue da due ferite
e gli spettatori scivolarono nel silenzio. D’un tratto Parmenion eseguì una finta alla
testa ma subito abbassò la lama, calandola con violenza sul fianco sinistro
dell’avversario. Una costola si spezzò sotto l’impatto e Nestus lanciò un urlo di
dolore, parando soltanto in parte un secondo affondo che aprì maggiormente la
ferita. Adesso il sangue gli inzuppava la tunica azzurra e gli colava lungo le gambe.
– Basta! – gridò Senofonte. – Indietreggiate uno dall’altro!
Entrambi lo ignorarono. Riducendo le distanze, Parmenion bloccò un debole
affondo di Nestus e gli conficcò la lama nel ventre. Con un urlo terribile Nestus
lasciò cadere la spada e crollò in ginocchio.
Parmenion liberò l’arma con uno strattone e abbassò lo sguardo su di lui.
– Dimmi – sibilò, – era questo l’aspetto di Derae quando era lei in ginocchio a
implorare per la sua vita?
Nestus stava cercando di arginare il sangue che gli fiottava dal ventre; nel
sollevare lo sguardo, vide l’espressione degli occhi di Parmenion.
– Ba... sta – implorò.
– Sei venuto in cerca di morte, e l’hai trovata – ribatté Parmenion.
– No! – urlò Senofonte, quando la Spada di Leonida si sollevò... per ricadere
sulla gola dell’uomo inginocchiato, tranciando la giugulare e le ossa del collo.
Nestus si accasciò da un lato.
Parmenion girò allora le spalle al corpo e concentrò lo sguardo su Leonida.
– Raccogli la sua spada – lo incitò. – Avanti! Prendila... e muori come è morto
lui.
– Sei un selvaggio – disse Leonida, scorgendo la luce della follia negli occhi di
Parmenion, poi avanzò e si inginocchiò accanto a Nestus, girandolo supino e
chiudendogli gli occhi.
Intanto Senofonte venne avanti a sua volta e prese Parmenion per un braccio.
– Vieni via – gli sussurrò. – Vieni via.
– Qualcun altro vuole combattere con me? – gridò Parmenion. I suoi occhi
scrutarono il gruppo ma nessuno dei presenti se la sentì di incontrare il suo
sguardo.
– Vieni via – lo incitò ancora Senofonte. – Questo è un comportamento
sconveniente.
– Sconveniente? – ripeté Parmenion, strappandosi dalla sua stretta. –
Sconveniente? Hanno ucciso Derae e sono venuti ad uccidere me. Cosa c’è di
conveniente in tutto questo?
Senofonte si girò verso Leonida.
– Sul retro della casa c’è un piccolo carro... puoi usarlo per restituire Nestus
alla sua famiglia. Ora vi suggerisco di andarvene – disse, poi si rivolse ancora a
Parmenion e aggiunse: – Riponi la spada, non ci saranno altri combattimenti qui.
L’autorizzazione al duello è stata emessa e obbedita. Ulteriori spargimenti di
sangue non otterranno nulla.
– No – ritorse Parmenion. – Sono venuti per uccidermi, quindi che ci provino.
Lascia che ci provino.
– Se non metti via quella spada e torni in casa, la prossima persona contro cui
dovrai combattere sarò io. Sono stato chiaro?
Parmenion sbatté le palpebre e aprì la bocca per ribattere, ma non trovò parole
da pronunciare. Lasciata cadere la spada, rientrò in casa a grandi passi, superando
Clearcus e Tinus che erano fermi sulla soglia e si trassero di lato per lasciarlo
passare. Una volta nella sua stanza si sedette con la mente che vorticava. Derae se
n’era andata. In quel momento era ancora viva, da qualche parte sul mare, ma entro
pochi giorni sarebbe morta e lui non avrebbe mai conosciuto il momento in cui
questo sarebbe successo.
La porta si aprì ed entrò Clearcus, che portava una bacinella d’acqua e un
asciugamano.
– È meglio che ti pulisca da quel sangue – consigliò, – e che ti cambi la tunica.
Cosa vorresti per cena?
– Cena? – ripeté Parmenion, scuotendo il capo. – Ho appena ucciso un uomo.
Come puoi chiedermi cosa voglio per cena?
– Io ho ucciso molti uomini – replicò Clearcus. – Cosa c’entra questo con il
cibo. Lui era vivo e adesso non lo è più. Era uno stolto: avrebbe dovuto ascoltare il
consiglio di Senofonte e riposarsi prima di combattere, però non lo ha fatto. Al-
lora... cosa vuoi per cena?
Parmenion si alzò in piedi, sentendo la tensione che lo abbandonava nel
guardare in faccia il vecchio.
– Tu non mi odi, vero? Perché? So che non ti piacevo quando mi hai fatto da
giudice ai giochi. Perché adesso ti mostri mio amico?
– Un uomo può cambiare idea, ragazzo – rispose Clearcus, incontrando il suo
sguardo con un sorriso. – Ora, dal momento che sembri incapace di decidere cosa
mangiare, ti preparerò un po’ di pesce nel latte cagliato, un cibo che si addice ad
uno stomaco sottosopra. Adesso lavati e cambiati. Domani ti aspetta una lunga
cavalcata.
– Domani? Dove devo andare, domani?
– Corinto sarebbe un buon posto da dove cominciare una nuova vita, ma credo
che Senofonte ti voglia mandare a Tebe. Là ha un amico chiamato Epaminonda. Ti
piacerà.
– Capita che gli uomini nutrano dei sogni – commentò Senofonte, mentre lui e
Parmenion passeggiavano insieme nel giardino sotto l’intensa luce lunare, – e a
volte penso che gli dèi si facciano beffe di noi. lo volevo conquistare la Persia,
capitanare un esercito unito nel regno più ricco che il mondo abbia mai visto, e
invece conduco la vita di un gentiluomo a riposo. Tu volevi trovare amore e
felicità, e ti sono stati tolti. Però sei giovane, Parmenion, hai tempo davanti a te.
– Tempo? Senza Derae non c’è nulla per cui valga la pena di avere tempo –
rispose Parmenion. – Lo so nel profondo della mia anima. Lei era l’unica. Siamo
stati così vicini, durante quei cinque giorni.
– Probabilmente le mie parole ti sembreranno insensibili, amico mio, ma forse
la tua passione ti trae in inganno. Non sei ancora un uomo di mondo e può darsi
che la tua fosse soltanto un’infatuazione... e a Tebe ci sono molte donne che
possono rendere felice un uomo.
Parmenion lasciò vagare lo sguardo sul lago artificiale, osservando i raggi di
luna che si frammentavano e galleggiavano sulla sua superficie.
– Non amerò mai più – disse. – Non aprirò mai più il mio cuore per rischiare
così tanto dolore. Quando mia madre è morta mi sono sentito sperduto e solo, ma
nel profondo del mio intimo me lo aspettavo... e suppongo che dovevo essermi
preparato a quell’evento. Ma Derae? È come se una bestia dotata di artigli terribili
mi avesse lacerato il petto e strappato il cuore. Non provo nulla, non ho sogni né
speranze. Per un momento, oggi, ero disposto a lasciare che Nestus mi uccidesse,
ma poi mi ha detto di essere stato lui a pretendere la morte di Derae.
– Non è stata una mossa molto intelligente da parte sua, vero? – osservò in tono
asciutto Senofonte, ma Parmenion non sorrise.
– Quando ho ucciso Learcus, quella notte, ho provato un impeto di gioia, mi
sono gloriato della sua morte. Oggi però ho ucciso un uomo che non meritava di
morire, ho guardato la luce della vita svanire dai suoi occhi. La cosa peggiore è che
lui mi ha supplicato di non infliggere il colpo mortale.
– Sarebbe morto fra terribili agonie a causa della ferita allo stomaco –
sottolineò Senofonte. – Se mai, hai posto fine alle sue sofferenze.
– Ma non è questo il punto, vero? – chiese Parmenion, in tono quieto, girandosi
per fronteggiare l’Ateniese.
– No, non lo è. Lo hai distrutto, e non è stata una cosa bella a vedersi. Inoltre ti
sei fatto dei nemici, perché nessuno di coloro che hanno assistito al duello
dimenticherà il modo in cui lui è morto. A Tebe potrai però farti una nuova vita.
Epaminonda è un brav’uomo e troverà un posto per te.
– Derae ha fatto un sogno su di me, ma era fasullo – mormorò Parmenion,
lasciandosi cadere su una panca di marmo. – ha sognato di essere in un tempio e
che io andavo da lei vestito da generale. Nel sogno mi ha chiamato il Leone di
Macedonia.
– Ha un bel suono – commentò Senofonte, avvertendo improvvisamente il gelo
della sera, che gli strappò un brivido. – Torniamo in casa. Ho un dono per te.
Clearcus aveva sistemato il dono su un lungo tavolo, e Parmenion si accostò
innanzitutto alla corazza di bronzo, di fattura semplice e non modellata in modo da
imitare le forme del torace maschile come era nel caso delle armature più costose,
era però una corazza robusta che avrebbe resistito a qualsiasi colpo di spada e al
centro del petto c’era una testa di leone in ferro battuto.
– Forse Derae non si sbagliava troppo – sussurrò Senofonte, quando Parmenion
sollevò lo sguardo su di lui.
Il giovane allungò una mano ad accarezzare con le dita le fauci del leone.
Accanto alla corazza c’era poi un elmo rotondo, anch’esso di bronzo e bordato in
cuoio, e il tutto era completato da schinieri di bronzo e da un gonnellino di cuoio
rinforzato con lo stesso metallo e da una corta daga con la lama ricurva.
– Non so cosa dire – commentò, rivolto all’amico.
– Dovevano essere i doni per il raggiungimento dell’Età Virile, ma credo che
questo sia un momento migliore per darteli. C’è anche un’altra cosa, che spero si
rivelerà utile.
Senofonte sollevò una pergamena rilegata in cuoio e la passò a Parmenion, che
aprì le piccole fibbie e la srotolò.
– È una descrizione dettagliata del mio viaggio attraverso la Persia e della
marcia fino al mare. Non sostengo di essere un grande scrittore, ma nelle mie
annotazioni ci sono molte cose che un soldato può imparare, e più di un amico mi
ha chiesto una copia di quello scritto.
– Non potrò mai ripagare la tua gentilezza – affermò Parmenion, scuotendo il
capo.
– Gli amici non devono mai essere ripagati... è questo che li rende amici. Ora
preparati al tuo viaggio. Con un po’ di fortuna gli Spartani si dimenticheranno di te
con il passare del tempo.
– Non dimenticheranno, Senofonte. Ci penserò io a che non dimentichino.
– Sei un uomo solo, e questi sono pensieri stolti. Sparta è il maggiore potere
della Grecia e rimarrà tale per molto tempo dopo la nostra morte, quindi dimentica
la vendetta, Parmenion. Perfino la potenza della Persia non potrebbe abbattere
Sparta.
– Naturalmente hai ragione – convenne il giovane, abbracciando l’amico.
Quando però lasciò la tenuta al sorgere dell’alba, ripensò al sogno di Derae e
alla guarnigione spartana presente a Tebe... un contingente ostile, temuto e odiato,
che viveva nel centro di una città di trentamila Tebani.
Estratta la spada, fissò la sua lama lucente.
– Io ti voto alla distruzione di Sparta – sussurrò.
Sollevata l’arma, la puntò verso sudovest, e sebbene la città fosse molto al di
fuori del suo raggio visivo immaginò la spada librata su di essa con l’aspro
bagliore del sole che la rendeva infuocata.
– Io porto i semi del vostro odio! – gridò, scagliando al vento le proprie parole,
– e so dove piantarli.
Sì, pensò, Tebe è la giusta destinazione per il Leone di Macedonia.
TEBE, AUTUNNO, 382 A.C.
Epaminonda si appoggiò all’indietro sulla sedia con lo sguardo fisso sul volto
del giovane che aveva davanti.
– Come sta il generale? – chiese, tamburellando con le dita sulla scrivania
davanti a sé.
– Sta bene, signore. Ti invia i suoi saluti e una lettera.
– Perché ti ha mandato da me, Parmenion? Io sono soltanto un privato cittadino
in una città governata da... altri. Ti posso offrire ben poco.
– Lo capisco, signore – annuì il giovane. – Però Senofonte ha detto che sei un
soldato molto abile, e credo che sperasse che tu potessi trovarmi un posto
nell’esercito di Tebe.
Epaminonda ridacchiò, un suono privo di umorismo, poi si alzò e si avvicinò
alla finestra, spalancando le imposte.
– Guarda lassù – disse indicando la cittadélla sulla collina. – Quella è la
Cadmea, e la sua guarnigione è composta da Spartani come te. Lassù non ci sono
Tebani.
– Io non sono uno Spartano – replicò Parmenion. – A Sparta ero disprezzato per
il mio sangue per metà macedone. ma se fossi un Tebano starei già cercando un
modo per... persuadere gli Spartani ad andarsene.
– Ma davvero? – ribatté il Tebano con voce fredda, anche se un intenso rossore
si stava diffondendo sulle sue guance magre e butterate. – Ci sono pochi uomini
che tenterebbero un’azione del genere, e per quanto mi concerne ho già detto che
sono un privato cittadino con ben poco interesse per le arti marziali.
– Allora non ti disturberò oltre, signore – dichiarò Parmenion. Lasciata sulla
scrivania la lettera di Senofonte, s’inchinò e si avviò verso la porta.
– Aspetta! – chiamò Epaminonda, non desiderando che quello sgradito
visitatore potesse vedere gli altri suoi ospiti mentre se ne andavano. – Sei uno
straniero in questa città e potrai restare nella mia casa fino a quando non ti avremo
trovato un alloggio adeguato. Dirò ad un servo di prepararti una camera.
– Non sarà necessario. Non desidero rimanere in un luogo dove il benvenuto è
dato così a malincuore.
– Vedo che ami parlare chiaro, quindi sarò altrettanto franco. Non nutro molto
amore per gli Spartani, che siano o meno amici di Senofonte, ma tu sei uno
straniero in una città sconosciuta e trovare un buon alloggio richiede tempo. Ti
invito quindi a ripensarci... e mi scuso per il mio comportamento scortese –
concluse, con un sorriso forzato.
Alla vista di quel sorriso, Parmenion diede l’impressione di rilassarsi.
– Anch’io devo chiederti scusa. Sono fuori posto qui e mi sento imbarazzato.
– Allora ricominciamo daccapo, Parmenion. Vieni a sederti e bevi un po’ di
vino mentre leggo questa lettera.
Tornato al suo sedile, il Tebano srotolò la pergamena e lesse del duello con
Nestus e del bisogno di Parmenion di cercare fortuna in un’altra città.
– Perché hai duellato con quest’uomo... oppure si tratta di una questione
personale? – chiese infine.
– Era fidanzato con una ragazza, e anch’io ero innamorato di lei.
– Capisco. Che ne è stato della ragazza?
– L’hanno sacrificata come vittima di Cassandra.
– Che popolo barbaro siamo – commentò Epaminonda. – Mi stupisce la facilità
con cui critichiamo i popoli delle altre razze, definendoli barbari, quando noi ci
pieghiamo ancora a praticare sacrifici umani.
– Gli dèi li richiedono – osservò Parmenion.
– Non ci sono dèi – ribatté il Tebano. – È tutta un’enorme assurdità... ma ha i
suoi vantaggi.
– Come può avere dei vantaggi qualcosa che non esiste? – domandò il giovane.
– Ci sono due porte che conducono fuori da questa stanza, Parmenion – sorrise
il Tebano. – Se ti dicessi che una è protetta da un leone e che l’altra conduce al
paradiso, quale apriresti?
– Quella del paradiso.
– Esattamente. Il leone non esiste... ma aiuta a dare la certezza che tu apra la
porta che io voglio. È molto semplice. I soldati tendono a credere negli dèi e negli
oracoli, ma nella mia esperienza qualsiasi profezia può essere volta a proprio
vantaggio.
Sentendosi a disagio di fronte a quell’aperta e noncurante blasfemia, Parmenion
cambiò argomento.
– Senofonte mi ha detto che una volta hai combattuto al fianco dell’esercito
spartano – osservò.
– È successo tre anni fa, quando Tebe e Sparta erano alleate contro gli Arcadi.
Allora avevo venticinque anni ed ero molto più ingenuo. Agisaleus mi ha dato
dieci monete d’oro e mi ha detto che avevo combattuto bene... per un Tebano.
– Lo schieramento ha ceduto – disse Parmenion, – ma tu e Pelopida avete unito
gli scudi ed avete bloccato l’avanzata del nemico. Quando Pelopida è caduto,
colpito in sette punti, tu hai protetto il suo corpo finché gli Spartani sono venuti in
tuo aiuto.
– Sai molte cose sul mio conto – osservò Epaminonda, – mentre io so ben poco
di te. Senofonte era il tuo amante?
– No, soltanto un amico. È importante?
– Soltanto alla luce del fatto che devo fidarmi del suo giudizio – replicò
Epaminonda, allargando le mani. – Lui dice che sei dotato come stratega. Ha
ragione?
– Sì.
– Eccellente, niente falsa modestia. Non posso sopportare un uomo che
nasconde le proprie doti – commentò il Tebano, alzandosi in piedi. – Se non sei
troppo stanco per la lunga cavalcata potremmo fare un giro per la città in modo che
ti familiarizzi con la tua nuova casa.
Epaminonda condusse Parmenion fuori attraverso la porta principale che dava
sull’ampia strada che portava a sud verso le Porte di Elettra. Parmenion era entrato
da quelle porte appena un’ora prima, ma adesso si fermò ad osservare le figure in
rilievo intagliante nel portale di pietra: su di esso si vedeva un uomo dalla
muscolatura enorme nell’atto di attaccare una bestia con molte teste.
– È la lotta di Eracle contro l’Idra – spiegò il Tebano. – È stata intagliata da
Alcamene. A nordovest ci sono altre sue opere.
Insieme i due uomini si avviarono lungo le mura di Tebe e attraverso il
mercato, passando accanto a case di marmo bianco e ad altre più piccole fatte di
mattoni d’argilla cotti al sole e dipinti di bianco. C’erano persone dovunque, e
Parmenion rimase colpito dalla varietà dei colori del vestiario e dalle decorazioni
sulle pareti delle case; anche le strade erano pavimentate e decorate con mosaici, al
contrario di quelle di Sparta che erano fatte di terra battuta. D’un tratto Parmenion
si fermò a fissare una donna che sedeva su un muretto: la donna portava un vestito
rosso bordato in oro e pendenti d’argento le ornavano gli orecchi, mentre le labbra
erano di un rosso troppo intenso e i capelli erano di una tinta dorata che lui non
aveva mai visto.
Accorgendosi del suo interesse, la donna si alzò agilmente in piedi.
– Un dono per la dea? – chiese.
– Quale dono? – ribatté Parmenion.
La ragazza scoppiò a ridere ed Epaminonda si affrettò a intervenire.
– Lui è straniero a Tebe, anche se senza dubbio offrirà il suo dono un altro
giorno – rispose, poi prese Parmenion per un braccio e lo guidò lontano dalla
ragazza.
– Quale dono voleva?
– È una sacerdotessa del tempio di Afrodite e ti voleva nel suo letto. Ti sarebbe
costato quaranta oboli, uno al tempio e il resto alla sacerdotessa.
– Incredibile! – sussurrò Parmenion.
Continuarono la loro passeggiata, facendosi largo lentamente fra la gente che
affollava il mercato.
– Non ho mai visto tante cose che attendessero di essere vendute... così tanti
ninnoli e oggetti di poco valore – commentò Parmenion.
– Poco valore? – replicò Epaminonda. – Sono cose piacevoli da guardare e da
indossare, e in questo c’è di certo un valore. Tendo però a dimenticare che sei uno
Spartano e che voi vivete in case di una sola stanza con un’unica sedia fatta di
bastoni aguzzi e un letto con un materasso di spine.
– Non proprio – ribatté Parmenion, sorridendo. – Di tanto in tanto ci
concediamo il lusso di dormire nudi su un freddo pavimento di pietra!
– Uno Spartano con il senso dell’umorismo... non mi meraviglia che non fossi
popolare fra i tuoi compagni. Infine arrivarono alle due statue gemelle di Eracle e
di Atena, che sorgevano alla base meridionale della Cadmea e che erano alte oltre
sei metri e fatte di marmo bianco.
– La più grande opera di Alcamene – affermò Epaminonda. – Quando tu ed io
saremo polvere, dimenticati dalla storia, gli uomini si meraviglieranno ancora della
sua abilità.
– Sono così reali, come due giganti immobilizzati – affermò Parmenion,
abbassando la voce.
– Se Atena esistesse, credo che sarebbe compiaciuta di questa creazione. Si
dice che la modella sia stata una sacerdotessa di Afrodite, ma con un corpo del
genere non mi sorprende.
– Vorrei che non bestemmiassi così – gli disse Parmenion. – Hai mai preso in
considerazione l’ipotesi che potresti sbagliarti? Gli Spartani sono molto religiosi, e
non hanno mai perso una battaglia quando contrapposti ad un nemico numerica-
mente pari a loro.
– Tu mi piaci, Parmenion, quindi ti chiedo di riflettere su questo: Sparta è la
sola città che mantenga un esercito regolare, splendidamente addestrato e
superbamente disciplinato. Non potrebbe essere questo il motivo per cui vince le
battaglie?
– Forse si tratta di entrambe le cose.
– Una risposta degna di un ambasciatore – dichiarò il Tebano, con un ampio
sorriso.
Condusse quindi Parmenion in una piazza aperta dove sedili e tavoli erano stati
disposti sotto alcuni teli che riparavano dal sole; i due sedettero ad un tavolo vuoto
e un ragazzo si avvicinò, inchinandosi.
– Portaci dell’acqua e qualche dolce al miele – ordinò Epaminonda.
Mentre mangiavano, interrogò Parmenion sulla sua vita a Sparta e si fece
raccontare per intero la storia che aveva provocato la sua partenza, ascoltando in
silenzio mentre lo Spartano parlava della propria vita e del suo amore per Derae.
– Innamorarsi è come serrare una spada per la lama – affermò infine il Tebano.
– La tieni in mano ma ad un duro prezzo. Noi abbiamo smesso di mandare vittime
a Cassandra oltre trent’anni fa e Atene ha abbandonato quella disgustosa usanza da
dieci anni. Non ha senso.
– Placa gli dèi – replicò Parmenion, con un accenno di sorriso.
– Io non intendo adorare chi esige il sangue degli innocenti – ribatté il Tebano,
poi sollevò lo sguardo sulla cittadella dell’acropoli, cinta da un alto muro su cui
Parmenion poteva veder passare le sentinelle. – Allora, giovane stratega, per puro e
semplice amore della discussione, come riprenderesti la Cadmea... se fossi un
Tebano?
– Non mi preoccuperei di farlo. Invece prenderei la città.
– Conquisteresti Tebe per salvarla?
– Quanti cittadini vivono dentro o intorno a questa città? Venti, trentamila? –
domandò Parmenion.
– Di più, ma non conosco il loro numero esatto – replicò il Tebano,
protendendosi in avanti e abbassando la voce.
– E quanti Spartani ci sono nella guarnigione?
– Ottocento.
– C’è un pozzo lassù? – chiese ancora Parmenion, sollevando il proprio boccale
d’acqua e vuotandolo.
– No.
– Allora incoraggerei i cittadini a insorgere e ad assediare la Cadmea...
costringendo gli Spartani ad arrendersi per fame.
– E cosa succederebbe quando gli Spartani estraessero le spade e aprissero le
porte? Ci sarebbe il panico e la folla fuggirebbe.
– Sempre che potessero aprire le porte – convenne Parmenion. – Ma se esse
fossero bloccate dall’esterno? Allora i soldati non avrebbero modo di uscire tranne
che calandosi con delle corde, e non riesco proprio a ricordare una battaglia in cui
una falange sia avanzata lasciandosi cadere sul nemico dall’alto.
– Interessante – commentò Epaminonda, – anche se naturalmente si tratta
soltanto di strategia teorica. Però tu mi piaci e penso che diventeremo amici. Ora
muoviamoci, perché ci sono ancora molte cose da vedere.
E sognò di camminare sul buio fianco di una collina sotto un cielo carminio. In
quel luogo crescevano alberi bianchi, con il tronco fatto di teschi oscenamente
incastrati gli uni contro gli altri, mentre i rami erano formati da lance e spade
serrate da mani scheletriche e i frutti erano teste mozzate che grondavano sangue
sul terreno. Là dove il sangue toccava il suolo crescevano fiori scuri i cui boccioli
avevano la forma di volti umani. Un vento freddo gemeva sui fiori e a Parmenion
parve di udire mille sussurri lontani che sospiravano: ‘Risparmiami! Ri-
sparmiami!’
Un’ombra si mosse sul fianco della collina e lui si girò in tempo per vedere una
figura incappucciata apparire davanti ad un albero.
– Che cosa desideri, giovane guerriero? – chiese una voce di donna che
scaturiva dal cappuccio.
– Sangue e vendetta – rispose lui.
– Li avrai – gli promise la donna.
Mothac non poté indursi a parlare di Elea, ma per molto tempo ricordò come lo
Spartano non lo avesse pressato di domande, attendendo invece che la sua crisi di
pianto fosse passata per poi chiedere ai servi di portare del cibo e altro vino. Sedet-
tero insieme, bevendo in silenzio, finché Mothac finì per ubriacarsi: a quel punto lo
Spartano condusse il suo nuovo servitore in una camera da letto sul retro
dell’edificio e lo lasciò lì.
Mothac si svegliò all’alba. Vedendo che un chitone nuovo di lino verde era
pronto per lui su una sedia, si alzò, si lavò e si vestì, poi andò in cerca di
Parmenion. Un servitore gli spiegò che lo Spartano era andato al terreno di
addestramento, quindi Mothac vi si recò a sua volta e rimase seduto vicino alla
Tomba di Ettore osservando il suo nuovo padrone correre senza sforzo lungo la
pista, pensando che si muoveva davvero bene e che i suoi piedi non sembravano
quasi toccare il terreno.
Parmenion continuò a correre per oltre un’ora, fino a quando ebbe il corpo
madido di sudore e i muscoli dei polpacci che bruciavano per la fatica; al quel
punto rallentò l’andatura e si diresse verso la Tomba, salutando Mothac con un
cenno della mano e un ampio sorriso.
– Hai dormito bene? – chiese.
– Era un buon letto e non c’è nulla come il vino per dare ad un uomo sogni
piacevoli – annuì Mothac.
– Sono stati piacevoli? – domandò Parmenion, in tono sommesso.
– No. Sei un ottimo corridore, non ne ho mai visto uno migliore.
– Da qualche parte ci deve essere un uomo migliore – sorrise Parmenion. – C’è
sempre.
Cominciò quindi una serie di esercizi di stiramento, tirando con cautela i
muscoli dei polpacci appoggiandosi in avanti contro la pietra della Tomba.
– Intendi gareggiare ancora? – volle sapere Mothac.
– No.
– Allora perché ti eserciti?
– I muscoli erano tesi per via della gara, e se non li avessi riscaldati mi
sarebbero venuti i crampi, cosa che domani mi avrebbe impedito di correre. Mi ha
fatto piacere non vedere aggressori in giro, questa mattina – aggiunse, cambiando
argomento.
– Torneranno – avvertì Mothac. – Ci sono persone decise a vederti morto.
– Non credo che sarò mai un uomo facile da uccidere – ribatté Parmenion,
stendendosi sull’erba, – ma pensarlo potrebbe essere anche semplice arroganza da
parte mia.
– Non mi hai chiesto chi mi ha assoldato per ucciderti – osservò il Tebano.
– Me lo avresti detto?
– No.
– È stato per questo che non te l’ho chiesto.
– Inoltre – aggiunse Mothac, distogliendo lo sguardo, – hai avuto la cortesia di
non chiedere il perché del mio pianto, e te ne sono grato.
– Tutti noi portiamo dentro un dolore, amico mio. Una volta qualcuno mi ha
detto che tutti i mari non sono altro che le Lacrime del Tempo, versate per la
perdita delle persone amate. Può darsi che non sia vero, ma mi piace pensarlo.
Sono lieto che tu sia tornato.
– Non so con certezza perché l’ho fatto – ammise Mothac, con un sorriso
contrito. – Non ne avevo l’intenzione.
– Il motivo non ha importanza. Vieni, torniamo indietro e facciamo colazione.
Quando arrivarono all’ultimo angolo prima della loro meta, Parmenion protese
un braccio e fermò Mothac, poi si sporse e sbirciò verso la strada. Di nuovo
c’erano alcuni uomini armati davanti alla casa e a quella vista Parmenion serrò le
labbra in preda all’ira; poi però trasse un profondo respiro e si costrinse a
controllare la propria furia crescente.
– Va’ loro incontro – disse a Mothac, – e spiega che mi hai appena visto correre
sul terreno di addestramento e che non c’era in giro nessun altro. Dopo tutto non
sarà una menzogna.
Il Tebano annuì e andò di corsa incontro agli uomini in attesa; intanto
Parmenion si acquattò dietro un muretto e rimase nascosto mentre i tre gli
passavano accanto di corsa. Infine si rialzò e raggiunse Mothac.
– Andiamo a mangiare – gli disse.
Epaminonda aveva lasciato la casa la sera prima e non era ancora tornato, e dal
momento che i servi non sapevano o non volevano dire dove fosse andato,
Parmenion e Mothac si disposero a fare colazione senza attendere il padrone di
casa.
– Non dovrei stare con loro? – domandò Mothac, quando i servi portarono il
mangiare dalle cucine.
– Non ancora – replicò Parmenion. – Prima dobbiamo imparare a conoscerci.
Sei mai stato un servitore?
– No – ammise Mothac.
– E io non ho mai avuto un servo prima d’ora. Improvvisamente Mothac
ridacchiò e scosse il capo.
– Cosa c’è di tanto divertente? – volle sapere Parmenion.
– Una volta io avevo dei servi – spiegò il Tebano, scrollando le spalle, – e forse
potrei insegnarti come vanno trattati.
– In effetti mi servirebbe qualche insegnamento – convenne Parmenion, con un
ampio sorriso. – Io posseggo pochissima roba, quindi occuparti delle mie cose non
sarà una fatica per te. Quanto alla mia alimentazione è... spartana? Ho poche
necessità, ma ho bisogno di qualcuno di cui mi possa fidare e con cui poter parlare,
quindi cominciamo con il darti un titolo migliore... sarai il mio compagno. Che te
ne pare?
– Sono al tuo servizio da un giorno appena ed ho già ricevuto una promozione.
Vedo che con te le prospettive di carriera sono buone, ma puoi concedermi ancora
un giorno prima di entrare al tuo servizio? C’è qualcosa che devo finire.
– Certamente – assentì Parmenion, scrutandolo con attenzione. – È una...
faccenda in cui posso esserti d’aiuto?
– No, penserò io a sistemarla.
I due finirono la colazione, poi Mothac lasciò la casa e tornò nella piazza
principale, raggiungendo quindi la Via dei Morti, dove diede dodici dracme ad un
vecchio e gli spiegò come raggiungere la sua casa.
– Io sarò là al tramonto – disse all’addetto alle sepolture. – Bada che le prefiche
levino alti lamenti.
– Saranno le migliori – garantì l’uomo.
Tornato a casa, Mothac indossò di nuovo il suo vecchio chitone, che un tempo
era stato rosso ma adesso era sbiadito fino ad assumere la tinta appena rosata del
cielo dell’alba, poi attese un’ora che arrivassero le donne: erano tre, vestite del
colore grigio del lutto, e lasciandole a preparare Elea per la sepoltura lui si affibbiò
alla vita la spada e la daga e tornò a passo lento fino alla piazza.
Elea se n’era andata e adesso nulla avrebbe potuto riportarla in vita, anche se
lui si augurava che potesse trovare la felicità nell’aldilà, ricongiungendosi ai suoi
genitori. Però avrebbe sentito la sua mancanza... e non l’avrebbe mai dimenticata.
Sapeva che c’erano uomini che si risposavano più di una volta quando la moglie
moriva, ma non lui.
Mai più, decise mentre sedeva in attesa della notte. Quando viaggerò fino
all’aldilà ritroverò Elea e godrò dell’eternità insieme a lei.
Il sole tramontò in un glorioso splendore e le stelle illuminarono il cielo; le vie
cittadine furono rischiarate da torce inserite negli anelli fissati ai muri delle case e
da lanterne appese a delle corde, poi i servitori cominciarono a portare i tavoli nella
piazza, preparando tutto in attesa di quanti sarebbero usciti per cenare. Alzandosi
in piedi, Mothac indietreggiò nell’ombra e continuò ad attendere con pazienza. Le
ore trascorsero e la mezzanotte era ormai prossima quando lo Spartano chiamato
Cletus si avvicinò ad un tavolo e sedette per mangiare. Mothac sapeva il perché
dell’odio di Cletus nei confronti di Parmenion: il corridore Meleager non aveva
potuto saldare tutti i suoi debiti ed era stato rimandato a casa in disgrazia, e senza
l’aiuto di Meleager presto Cletus si sarebbe venuto a trovare a corto di denaro ed
avrebbe dovuto rinunciare ai piaceri della vita che si stava concedendo.
Ciò che ora Cletus voleva... desiderava sopra ogni altra cosa... era vendicarsi
del traditore spartano che lo aveva ingannato.
Mothac poteva capire il suo desiderio di vendetta.
Con infinita pazienza, attese che lo Spartano finisse di mangiare, poi lo seguì
nel lungo tragitto fino ai gradini che portavano alla Cadmea; quando lo Spartano
cominciò a salire il tortuoso sentiero, Mothac si guardò intorno e non appena vide
che in giro non c’era nessuno chiamò Cletus per nome, correndo avanti per
affiancarglisi.
– Hai buone notizie per me, uomo? – gli chiese lo Spartano.
– No – rispose Mothac, piantandogli nel collo la propria daga e conficcandola
profondamente al di sopra della clavicola. Cletus cadde all’indietro, annaspando
per estrarre la spada, ma Mothac gli sferrò un pugno al volto ed estrasse di scatto il
coltello dalla ferita, tranciando la vena iugulare. Sebbene il sangue fiottasse ora
dallo squarcio, Cletus tentò ancora di attaccare, agitando disperatamente la spada,
ma Mothac si ritrasse con un balzo e infine lo Spartano crollò al suolo in preda alle
convulsioni dell’agonia.
Mothac lasciò allora di corsa il sentiero e tornò a casa, togliendosi il chitone
insanguinato e lavandosi con cura; indossata di nuovo la tunica nuova comprata per
lui da Parmenion, raggiunse infine la casa di Epaminonda.
I sicari non avrebbero impiegato molto tempo a scoprire che chi li pagava era
morto.
Quando entrò in casa trovò Parmenion adagiato su uno dei divani dell’androne.
– Hai concluso i tuoi affari? – domandò questi, sollevando lo sguardo su di lui.
– Sì... signore.
– In maniera soddisfacente?
– Non parlerei di soddisfazione, signore. Era più che altro un lavoro necessario.
L’alba era sorta da tre ore e ancora Parmenion non aveva avuto modo di
dormire. Adesso era in attesa all’entrata della fucina del fabbro, con la mente che
era un vortice di pensieri che diventavano problemi e di problemi che diventavano
timori.
E se?
E se gli Spartani si fossero accorti che la carne era stata alterata? E se Pelopida
fosse stato sorpreso a mettere il sale nell’acqua? E se la notizia del complotto fosse
trapelata?
La testa gli pulsava e la luce del primo mattino gli feriva gli occhi; sentendosi
debole e in preda alla nausea si sedette sul lato della strada. Dal giorno in cui aveva
salvato Derae aveva sempre sofferto di periodici dolori di testa, ma durante gli
ultimi due anni le crisi si erano fatte più numerose e più intense, tanto che a volte
neppure il suo addestramento spartano era sufficiente a permettergli di sopportare
il dolore e lui aveva preso l’abitudine di bere del succo di papavero quando gli
attacchi diventavano intollerabili. Oggi però non si poteva concedere il sonno
portato dall’oppio e cercò quindi di ignorare le fitte.
Il fabbro, Norac, un uomo enorme con le spalle larghe e un collo da toro, scese
in strada qualche momento più tardi e Parmenion si alzò in piedi per salutarlo.
– Sei mattiniero – commentò Norac, – ma se pensi di poter ottenere un lavoro
veloce scordatelo, perché sono già pieno di ordinazioni.
– Mi servono venti chiodi di ferro per mezzogiorno, ciascuno lungo quanto il
braccio di un uomo – disse Parmenion.
– Non mi hai capito, mio giovane amico. Non posso accettare altro lavoro per
questa settimana.
– Ascoltami, Norac, si dice che tu sia un uomo di cui ci si può fidare – affermò
Parmenion, fissando il fabbro negli occhi castani e infossati. – Mi ha mandato
Pelopida. Hai capito? La parola d’ordine è Eracle.
– A quale scopo ti servono i chiodi? – domandò il fabbro, socchiudendo gli
occhi.
– Per inchiodare dall’esterno le porte della Cadmea. Avremo bisogno anche di
uomini che brandiscano i martelli.
– Per i seni di Hera, ragazzo! Non chiedi molto, vero? È meglio che tu venga
dentro.
La fucina era deserta e Norac si avvicinò alla forgia, aggiungendo esca alle
ceneri roventi e soffiando per dare vita alle fiamme.
– I chiodi non saranno un problema – disse, – ma come potremo piantarli senza
che gli Spartani ci piombino addosso?
– Rapidità e abilità. Una volta che la sbarra sarà al suo posto, sei uomini
correranno fino alle porte. – Parmenion si accostò alla parete opposta e prese
un’asta di lancia da un mucchio che aspettava di essere fornito di punta, mettendola
in verticale e praticando su di essa due tagli con la daga. – Queste sono l’altezza e
lo spessore della sbarra. Le porte sono di quercia, vecchie, stagionate e spesse
quanto la lunghezza della mano di un uomo. Potresti trapassarne una con sei colpi?
– Certo che potrei, ragazzo – dichiarò Norac, flettendo i suoi muscoli
prodigiosi, – ma alla maggior parte degli altri ne serviranno sette o otto.
– Si può raddoppiare la velocità piazzando ad ogni porta quattro uomini muniti
di martello – annuì Parmenion, – ma il tempismo è di vitale importanza. Il
momento di maggiore pericolo sarà quando la folla marcerà verso la Cadmea...
perché è allora che il comandante prenderà in considerazione la possibilità di
mandare fuori le sue truppe.
– Lascia fare a me – promise Norac, e Parmenion sorrise.
– Di solito le porte vengono chiuse al crepuscolo. Porta i chiodi a casa di
Calepios a mezzogiorno, non più tardi, e raduna undici uomini robusti.
Lasciato il fabbro, Parmenion tornò lentamente a casa di Calepios; il
consigliere stava facendo colazione e gli chiese di unirsi a lui, ma Parmenion
rifiutò.
– Hai avuto notizie di Pelopida? – chiese.
– Non ancora. Hai un aspetto spaventoso e il tuo volto ha perso ogni traccia di
colore. Ti senti male?
– Sto bene, sono soltanto stanco. Bisogna spargere per la città la notizia del tuo
discorso, in modo che il massimo numero possibile di persone ti venga ad
ascoltare.
– Lo hai già detto la scorsa notte. È tutto sotto controllo, amico mio.
– Sì, certo – convenne Parmenion, riempiendo d’acqua un boccale e
sorseggiandolo.
– Va’ dentro e dormi per un po’ – gli consigliò Calepios. – Ti sveglierò io al
ritorno di Pelopida.
– Più tardi. Quanti uomini sorveglieranno le porte cittadine? Nessuno deve
andarsene finché Tebe non sarà nostra.
– Ci saranno dieci uomini per ogni porta. Non temere, andrà tutto come hai
progettato.
– Di certo qualcuno verrà alla Cadmea munito di arco nella speranza di poter
scagliare qualche freccia contro gli Spartani, ma tutti i nostri uomini dovranno
essere disarmati. Non ci dovranno essere attacchi al di fuori dei nostri piani.
In quel momento Pelopida e Mothac entrarono nel cortile e Parmenion si alzò
in piedi.
– Allora? – chiese.
– Mothac ed io abbiamo consegnato la carne. Come pensavi, ci hanno lasciati
soli nel magazzino ed ho provveduto a mettere il sale nelle botti dell’acqua. Erano
dieci e siccome all’ultima botte siamo rimasti a corto di sale ho pensato di urinarci
dentro... ma invece abbiamo rovesciato l’acqua per terra.
– Bene! Ben fatto – approvò Parmenion, lasciandosi cadere di nuovo a sedere. –
Allora siamo pronti. Hai già preparato il tuo discorso? – domandò a Calepios.
– Sì – confermò il consigliere, – e lo pronuncerò nell’agorà prima del tramonto,
quando si sarà raccolta una grande folla. Ora vuoi concederti un po’ di riposo?
Parmenion ignorò però quella supplica e si rivolse a Pelopida.
– Cosa mi dici dei consiglieri?
– Gli dèi sono con noi, Parmenion. Mi hanno detto che ci sarà una festa a casa
del poeta Alexandros e che si raduneranno là verso mezzogiorno: berranno e
mangeranno... e manderanno a chiamare delle prostitute. Li prenderemo tutti...
tranne Cascus, il cugino di Calepios.
– No! – scattò Parmenion. – Devono morire tutti.
– Cascus non è più in città – spiegò Pelopida, spostando lo sguardo su Calepios.
– Per uno strano colpo di fortuna è partito due ore fa per la sua tenuta estiva nelle
vicinanze di Corinto.
Parmenion calò con violenza il pugno sul tavolo e fissò in volto Calepios.
– Lo hai avvertito e ci hai messi tutti in pericolo. Lo statista scrollò le spalle e
allargò le braccia.
– Non nego di avergli chiesto di lasciare la città, ma non ho tradito nessuno. Ho
raccontato a Cascus di aver sognato per tre notti di fila la sua morte; gli ho anche
detto di aver riferito il sogno ad una veggente e che lei ha consigliato un
pellegrinaggio al Tempio di Ecate, vicino Corinto. Tutti sanno quanto Cascus sia
religioso... è partito immediatamente.
– È stata una cosa stolta, Calepios – dichiarò Parmenion.
– Se riprenderemo la città Cascus correrà dagli Spartani e loro si serviranno di
lui come di un uomo di paglia per marciare contro di noi. Può darsi che tu ci abbia
condannati tutti.
– Non ho modo di difendermi da questo – ammise lo statista, scuotendo il capo,
– ma Cascus appartiene alla mia famiglia e mi è molto caro. Inoltre, a suo modo
ama Tebe quanto chiunque di noi. In ogni caso non c’è nulla che possa fare per
modificare le mie azioni... e se anche ci fosse mi rifiuterei di cambiarle.
Parmenion aveva l’impressione che la testa stesse per esplodergli. Bevve
dell’altra acqua ed entrò in casa, cercando di sfuggire alla luminosità del cortile.
Mothac gli andò dietro.
– Ho visto statue di marmo con un colorito più vivace del tuo – osservò, mentre
Parmenion si accasciava su un divano.
– Penso che ti ci voglia un po’ di vino.
– No – rifiutò Parmenion, sentendo lo stomaco che gli si contraeva. – Lasciami
solo per un po’, in modo che possa dormire.
Mothac lo scosse e Parmenion aprì gli occhi con un gemito... dovuto non
soltanto al dolore all’interno del cranio ma anche alla perdita di Derae e del suo
sogno.
– È mezzogiorno? – chiese, sollevandosi a sedere.
– Sì – confermò Mothac.
Alzatosi in piedi, Parmenion passò in cortile. Pelopida era ancora là e con lui
c’erano il fabbro Norac e undici uomini massicci, quattro dei quali avevano enormi
martelli dalla lunga impugnatura.
– Va abbastanza bene per te, stratega? – chiese Norac, sollevando un chiodo di
ferro lungo quanto una corta spada.
– Hai lavorato bene – approvò Parmenion, – ma ora mi piacerebbe vedere i tuoi
uomini all’opera con i martelli.
– Ho portato alcuni chiodi di riserva proprio per questo scopo – replicò il
fabbro.
Due uomini sollevarono una spessa trave di legno e la appoggiarono contro la
parete opposta mentre un terzo teneva al suo posto il chiodo. Piazzatosi di lato,
Norac segnalò ad uno degli uomini con il martello di mettersi dall’altro lato, poi
sollevò il proprio martello e vibrò un colpo violento, contro la testa del chiodo; nel
momento in cui il suo martello rimbalzava all’indietro per il contraccolpo il
secondo uomo colpì a sua volta e la persona che teneva il chiodo si affrettò a
mollare la presa e a tirarsi indietro. Tre colpi più tardi, il chiodo era piantato fino in
fondo.
– Esercitatevi, perché dovrete essere più veloci – disse Parmenion.
Chiamato a sé Pelopida, rientrò quindi nell’androne.
– La festa di cui mi hai parlato a casa di Alexandros... ci saranno delle guardie?
– Sì, perché quegli uomini non sono popolari.
– Quante?
– Forse cinque e forse venti. Non lo so.
– Fuori o dentro la casa?
– Fuori, perché si tratta di un’orgia privata – spiegò Pelopida, con un ampio
sogghigno.
– Ci incontreremo a casa di Alexandros e appronteremo un piano dopo aver
visto quante sono le guardie.
Quando Pelopida se ne fu andato, Calepios si recò nella propria stanza per
ripassare il discorso, lasciando Parmenion solo nell’androne; il giovane rimase per
qualche tempo immerso nei suoi pensieri, ma ad un tratto si accorse di non essere
solo. Girando il capo vide la veggente spartana, Tamis, ferma accanto al tavolo
appoggiata al suo bastone.
Tamis fissò il giovane Spartano gloriandosi del potere della sua anima,
avvertendo il suo dolore e ammirando il coraggio che lui dimostrava nel resistere
ad esso.
Per un momento, Parmenion rimase a guardarla in silenzio con espressione
incredula.
– Bene – disse infine la vecchia, – non mi offri di sedermi, giovane Spartano?
– Certamente – rispose lui, alzandosi per accompagnarla al tavolo, dove le servì
un bicchiere d’acqua. – Come puoi essere qui, signora?
– Io vado dove voglio. Sei deciso a guidare questa insurrezione?
– Sì.
– Dammi la tua mano.
Parmenion obbedì e lei gli coprì il palmo con il proprio.
– Ad ogni battito del suo cuore un uomo ha due scelte – sussurrò. – Tuttavia
ciascuna scelta crea un sentiero che deve essere seguito dovunque esso porti. Tu ti
trovi ad un bivio, Parmenion: davanti a te c’è una strada che porta alla luce del sole
e al riso e un’altra che porta al dolore e alla disperazione. La città di Tebe è nelle
tue mani come un piccolo giocattolo. Sulla strada del sole essa crescerà, ma
sull’altra sarà distrutta, ridotta in polvere e dimenticata. Queste sono le parole che
mi è stato ordinato di pronunciare.
– Quale strada devo scegliere, allora? – chiese lui. – Come posso saperlo?
– Non lo saprai se non molto tempo dopo averla percorsa.
– Allora che scopo ha dirmelo? – scattò lui, ritraendo la propria mano da quella
di lei.
– Tu sei un Prescelto, sei Parmenion, la Morte delle Nazioni. Manderai
centinaia di migliaia di anime incontro al fiume oscuro, urlanti e gementi nel
maledire la loro sorte. È giusto che tu debba conoscere le tue alternative.
– Allora dimmi come percorrere la strada che porta al sole.
– Lo farò, ma come con Cassandra prima di me, le mie parole non altereranno
la tua strada.
– Dimmelo.
– Lascia questa casa e sella la tua giumenta. Abbandona questa città e viaggia
attraverso l’Asia, fino a trovare il Tempio di Hera la Sapiente.
– Ah! Adesso capisco – dichiarò Parmenion. – Strega! Sei una Spartana e sei al
loro servizio, ma non ascolterò le tue menzogne. Libererò Tebe e se dovrà esserci
una città che cadrà in cenere, quella sarà Sparta.
– Certamente – sorrise la donna, mostrando i denti marci e le gengive arrossate.
– Chi parla è la Morte delle Nazioni, e le sue parole saranno ascoltate dagli dèi. Tu
però sbagli nel giudicarmi, Parmenion. Non m’importa nulla di Sparta e dei suoi
sogni e sono lieta del sentiero che hai scelto di percorrere. Tu sei importante per
me... e per il mondo.
– Perché dovrei essere importante per te? – domandò il giovane, ma la vecchia
si limitò a scuotere il capo.
– Tutto ti sarà rivelato a tempo debito. Oggi mi sei piaciuto: la tua mente è
acuta e agile. Presto diventerai un uomo di ferro, l’uomo del destino – dichiarò,
con una risata simile al frusciare del vento fra le foglie morte.
Parmenion non disse nulla, ma le sue dita scivolarono verso l’impugnatura
della daga.
– Quella non ti servirà – affermò la vecchia, in tono sommesso. – Non sono una
minaccia per te e non parlerò a nessuno dei tuoi piani.
Parmenion non replicò, perché non intendeva rischiare la vita di Epaminonda
fidandosi della parola di una strega spartana. La daga scivolò fuori del fodero...
– Parmenion! – chiamò Calepios dalla soglia. – Sono indeciso in merito alla
conclusione del mio discorso. Vuoi venire a sentirla?
Parmenion distolse la propria attenzione per un secondo appena e quando tornò
a guardare verso Tamis... lei era svanita. Barcollando si alzò in piedi e girò su se
stesso con la daga in pugno, ma della vecchia non si scorgeva più traccia.
– Dov’è andata? – chiese a Calepios.
– Chi?
– La vecchia che era qui un momento fa.
– Non ho visto nessuno. Stavi di certo sognando. Ora ascolta la conclusione...
Parmenion corse alla porta. Fuori il fabbro e i suoi uomini stavano martellando
sui chiodi e le porte del cortile erano chiuse.
Dal suo nascondiglio fra i massi a circa trenta passi dalle mura della cittadella
Norac attese che gli Spartani chiudessero le porte, asciugandosi sulla tunica le
mani sudate. Intorno a lui, gli altri aspettavano pieni di nervosismo.
– Supponi che aprano le porte prima che i chiodi siano passati dall’altra parte?
– chiese un uomo alla sua sinistra.
– Tieni questo pensiero in mente quando maneggerai il martello – consigliò il
fabbro, – e ricorda anche che in questo momento Epaminonda è nella cittadella e
sta subendo la tortura. E lui ha nella testa non soltanto il mio nome ma anche il tuo.
– Mi pare di vedere la folla – sussurrò un altro uomo, e Norac si arrischiò a
dare un’occhiata da sopra il masso che lo nascondeva.
– Sono loro – convenne. – Ora facciamo la nostra parte.
Il gruppo spiccò la corsa dal nascondiglio verso le porte. Una sentinella sui
bastioni li vide e lanciò un grido, ma prima che potesse scoccare una freccia gli
uomini furono al riparo della sporgenza della torre sovrastante le porte.
– Qui – ordinò Norac, accostando al battente di sinistra l’asta di lancia con il
segno fatto da Parmenion, poi fissò anche il secondo punto d’impatto e si rivolse
agli uomini con i martelli. – Adesso! – gridò, vibrando il primo colpo.
Il clangore del ferro contro il ferro destò un coro di grida da oltre le porte.
– Cosa succede, in nome dell’Ade? – tuonò qualcuno.
– C’è una folla che si sta radunando, signore – rispose un soldato dai bastioni.
– Formazione su cinque file! – gridò l’ufficiale. – Preparatevi ad attaccare e
aprite le porte.
Oltre le mura, Norac sentì un rumore di piedi in corsa mentre i soldati spartani
si affrettavano a formare il quadrato da combattimento.
Il martello del fabbro calò su un chiodo, trapassando la porta e la sbarra
dall’altro lato, poi Norac corse alla propria sinistra e spinse di lato gli altri uomini
con i martelli, il cui chiodo era ancora conficcato per metà. Indietreggiando di un
passo, colpì con tutte le sue forze e la testa del chiodo scomparve nello stagionato
legno di quercia.
– La sbarra non si muove, signore – gridò un soldato spartano dall’interno, e
Norac sorrise nel sentirli grugnire di fatica nel tentativo di sollevare la trave
inchiodata.
Più in basso, la folla stava avanzando verso la cittadella...
Calepios venne avanti di dieci passi e alzò un braccio per far arrestare la massa
di gente alle sue spalle. Sulle mura, un arciere spartano si protese in fuori e scagliò
una freccia che trapassò la spalla di un uomo. La folla indietreggiò.
La voce di Calepios si levò quindi tonante sopra il ruggire della gente infuriata.
– È così che gli amici trattano gli amici? Siamo forse armati? Abbiamo
minacciato violenza?
Il ferito venne portato in città e dalla Cadmea non giunsero altre frecce.
– Dov’è il vostro generale? – gridò Calepios. – Chiamatelo qui perché risponda
di questa atrocità.
Uno Spartano con l’elmo di ferro si affacciò ai bastioni.
– Io sono Arimanes – rispose. – Il soldato che ha tirato la freccia sarà punito per
questo, ma adesso vi chiedo di disperdervi, altrimenti sarò costretto a mandare i
miei uomini contro di voi.
– Non manderai fuori nessuno – gridò di rimando Calepios, – tranne i Tebani
che tenete rinchiusi nelle vostre celle.
– Chi sei tu per darmi ordini? – controbatté Arimanes.
– Sono la voce di Tebe! – replicò Calepios, e un applauso della folla accolse le
sue parole.
Intanto Mothac si era portato accanto a Parmenion.
– Le porte occidentali sono bloccate – lo informò con un sorriso. – Non hanno
modo di uscire.
In quel momento la folla si aprì e un gruppo di soldati tebani marciò fino in
vista delle mura: in mezzo a loro c’erano otto Spartani ammaccati e sanguinanti,
con le mani legate.
– Riprendetevi i vostri soldati – esclamò Calepios, venendo avanti, – perché se
restano qui fuori temo per la loro vita.
– Aprite le porte! – gridò il comandante Spartano e la folla scoppiò in una
fragorosa risata.
– Penso che dovresti calare delle corde – consigliò Calepios.
Oltre le mura, si sentiva ancora il rumore degli uomini che stavano lottando per
smuovere la sbarra e fra la folla furono in molti a farsi beffe degli invisibili
Spartani.
– Per gli dèi, furfanti, pagherete per questo! – tuonò Arimanes.
– Penso che gli dèi siano con noi – replicò Calepios. – A proposito, mi è dato di
capire che nella guarnigione sia scoppiata una malattia. Vi possiamo offrire i
servizi di un medico?
Arimanes replicò con un’imprecazione oscena e scomparve dalla vista. Qualche
minuto più tardi alcune corde furono calate dalle mura e i soldati spartani catturati
si arrampicarono fino ai bastioni. La folla rimase sotto le mura fino al crepuscolo,
poi i più tornarono alle loro case. Pelopida aveva però organizzato un nucleo di
ribelli che rimanessero per tutta la notte davanti alle porte e Calepios si fece
piantare là una tenda, dicendo alla folla che avrebbe atteso fino a quando gli
Spartani avessero accolto il suo invito ad andarsene.
Parmenion, Mothac e Pelopida si unirono a lui.
– Finora è andato tutto come hai detto tu, stratega – affermò Calepios, rivolto a
Parmenion, – ma adesso cosa si fa?
– Domani offrirai di mandare un conciliatore all’interno della Cadmea, ma ne
discuteremo stanotte... se tornerò.
– Non c’è bisogno che tu faccia questo – osservò Mothac. – Il rischio è troppo
grande.
– Gli Spartani non amano consegnare i loro prigionieri – spiegò Parmenion, – e
potrebbero decidere di uccidere Epaminonda... un rischio che non posso correre.
Nel frattempo, amici miei, portate altra legna e ordinate a Norac di sigillare le porte
per bene. Potrebbero segare quelle sbarre in meno di un’ora.
– Credi davvero di poter salvare Epaminonda? Come? – domandò Pelopida.
– A Sparta avevo un altro nome: mi chiamavano Savra, e stanotte vedremo se la
lucertola sa ancora scalare i muri.
Vestito di nero con una camicia a manica lunga e scuri calzoni di stile persiano,
con una corda arrotolata intorno ad una spalla, Parmenion attese che una nube
coprisse la luna prima di correre in silenzio a ridosso delle mura. Anneritosi la
faccia con la terra, si spostò lungo il muro verso est, fino a raggiungere un punto in
cui il terreno scendeva a strapiombo e il muro torreggiava su un precipizio di oltre
sessanta metri.
Il suo ragionamento consisteva nel fatto che in quel punto le mura non
potevano essere assalite da un contingente di assedianti e quindi era improbabile
che la sorveglianza fosse molto stretta. Protendendo le braccia, trovò le prime
fessure fra i blocchi di pietra grigia e vi agganciò le dita.
Sei ancora una lucertola? si chiese.
Le fessure fra i blocchi erano minuscole e poco profonde, ma Parmenion
continuò a salire trovando appigli per i piedi nudi e seguendo con le dita i contorni
dei blocchi fino ad incontrare gli angoli in cui la pietra antica si era logorata in
modo da formare rientranze o sporgenze.
Un centimetro dopo l’altro scalò la parete, con le dita sempre più stanche e i
piedi indolenziti. Soltanto una volta lanciò un’occhiata verso il basso: il terreno
sottostante tremolava alla luce della luna e mentre lo guardava lo stomaco gli si
contrasse. A Sparta non c’erano mai stati edifici tanto alti, e lui si rese conto con un
impeto di panico di aver paura dell’altezza. Spostato lo sguardo sulla parete di
pietra, trasse parecchi profondi respiri e guardò verso l’alto... il parapetto era
ancora una decina di metri più in su rispetto a lui.
Poi un piede gli scivolò.
Come spilli d’acciaio le sue dita si piantarono nella pietra e lui cercò di trovare
un appiglio per i piedi.
Calmati, gli ingiunse la mente, ma il cuore gli martellava in petto mentre
restava sospeso sopra quell’abisso spaventoso. Lasciando che il corpo gli si
rilassasse, premette lentamente il piede destro contro le pietre, cercando con cura
una crepa. Ormai le braccia cominciavano a dolergli, ma era di nuovo calmo e di lì
a poco riuscì a fare leva con i piedi, riprendendo ad avanzare con cautela fino a
venirsi a trovare appena sotto il parapetto.
Chiudendo gli occhi, ascoltò i suoni circostanti, il respiro di un soldato o il
passo leggero di una sentinella, ma non udì nulla. Agganciata la mano intorno al
parapetto si issò in fretta sui bastioni e si accoccolò nell’ombra. Venti passi alla sua
sinistra un soldato spartano era appoggiato alla parete e stava fissando la gente
accampata in basso, mentre sulla destra c’era una scala che portava giù nel cortile.
Furtivo, attraversò i bastioni e scivolò giù per la scala, tenendosi nell’ombra più
fitta.
La Cadmea era un alveare di edifici. Anche se adesso era una cittadella, in
origine era stata l’antica città di Cadmos, e l’attuale Tebe era cresciuta intorno alla
sua base. Molti fra gli edifici più antichi erano in rovina, e Parmenion rabbrividì
nel correre per i vicoli deserti, avvertendo lo spirito del passato che si librava nelle
case vuote e nelle finestre buie.
Un rumore di piedi in marcia lo indusse a nascondersi dentro una soglia: un
topo gli passò sopra un piede nudo e poté sentire altri roditori che si muovevano
poco lontano, ma si costrinse a rimanere immobile e attese che i sei soldati
avessero superato l’antico edificio.
– È debole quanto il piscio di un cane – borbottò uno dei soldati. – Dovremmo
segare quella trave e schiacciare i bastardi là fuori.
– Ma non è il suo modo di fare – commentò un altro. – Probabilmente sarà
nascosto sotto il letto.
Poi uno degli uomini gemette e s’inginocchiò accanto alla strada per vomitare,
e altri due lo aiutarono a rialzarsi in piedi.
– Va’ meglio, Andros?
– È la quarta volta, stanotte. Il mio stomaco non può più reggere per molto.
I soldati si allontanarono e Parmenion proseguì verso ovest, cercando la
residenza del governatore: secondo Pelopida, infatti, le antiche segrete erano sotto
quell’edificio e Arimanes aveva le sue stanze al secondo piano, mentre il primo
veniva usato come sala mensa per gli ufficiali.
All’ombra dell’edificio di fronte, Parmenion indugiò per qualche momento per
vedere se ci fossero delle sentinelle, ma non ce n’erano. In fretta, attraversò il tratto
di terreno aperto e s’infilò in una soglia, venendosi a trovare in un corridoio
rischiarato da torce. Un rumore di voci giungeva dalla sala mensa.
– La carne ben cotta è la cura ideale per un ventre in disordine – sentì dire ad
un uomo.
Non questa volta, pensò cupo. Di fronte alla sala mensa c’era un’altra porta con
una scala che conduceva verso il basso. La raggiunse di corsa e cominciò a
scendere verso le segrete: sulle scale non c’erano torce, ma in basso poteva vedere
il tremolare di una luce.
Avanzando con cautela, raggiunse il fondo della scala e si arrischiò a lanciare
un’occhiata nel corridoio in penombra al di là di essa: sulla destra c’era una fila di
celle mentre a sinistra due guardie sedevano ad un tavolo intente a giocare a dadi.
Parmenion imprecò, perché avrebbe potuto zittire una guardia ma non ne poteva
affrontare due, disarmato com’era.
Pensa! ingiunse a se stesso. Sii uno stratega!
Rimanendo in ascolto dei due uomini intenti a giocare, attese che uno dei due
usasse il nome del compagno, sentendosi al tempo stesso isolato e in pericolo,
intrappolato com’era su quella scala. Se qualcuno fosse arrivato dall’alto per lui
sarebbe stata la fine.
I due continuarono a giocare.
– Sei un porco fortunato, Mentar! – esclamò infine uno di essi.
Parmenion risalì la scala a spirale e si accoccolò nell’oscurità.
– Mentar? – chiamò quindi. – Vieni su!
L’uomo borbottò un’imprecazione, poi Parmenion sentì la sua sedia che
strisciava sul pavimento di pietra; raggiunte le scale, Mentar accennò a salire i
gradini di corsa a due per volta, ma Parmenion si sollevò alle sue spalle e lo colpì
al mento con un pugno, poi lo afferrò per i capelli e gli sbatté la testa contro il
muro, sentendolo accasciarsi fra le sue braccia.
Adagiato il soldato svenuto sui gradini, tornò quindi nel corridoio delle celle. Il
secondo uomo sedeva con le spalle alla scala e stava fischiettando fra sé nel
rotolare i dadi fra le dita. Arrivandogli alle spalle gli calò la mano sul collo e
l’uomo crollò in avanti, con la testa che rimbalzava contro il piano del tavolo.
Le porte delle celle erano di spesso legno di quercia e sprangate nella maniera
più semplice, con una sbarra di legno incastrata di traverso. Due sole porte erano
chiuse in quel modo, e nella prima c’era Polispercon: entrando nella cella, Parme-
nion lo trovò che dormiva con la faccia coperta di lividi e di sangue, e si accorse
che la cella puzzava di vomito e di escrementi. Il Tebano era di costituzione minuta
e Parmenion non ebbe difficoltà a sollevarlo e a trascinarlo nel corridoio.
– Basta – implorò l’uomo.
– Rincuorati, sono qui per salvarti – rispose Parmenion.
– Salvarmi? Abbiamo preso la Cadmea?
– Non ancora – replicò Parmenion, aprendo la seconda porta. Epaminonda era
sveglio ma in condizioni ancora peggiori di quelle di Polispercon... i suoi occhi
erano semplici fessure e il volto era talmente gonfio da essere quasi irriconoscibile.
Parmenion lo aiutò a raggiungere il corridoio, ma lì il Tebano si accasciò al
suolo, incapace di reggersi in piedi. Alla luce delle torce Parmenion si accorse che
aveva le gambe gonfie perché gli avevano percosso i polpacci con dei bastoni.
– Non siete in condizione di arrampicarvi – disse. – Dovrò nascondervi.
– Cercheranno dappertutto – borbottò Polispercon.
– Speriamo di no – scattò Parmenion.
Entro un’ora il giovane Spartano stava di nuovo correndo da solo lungo le
strade deserte. Salito sui bastioni, legò la corda ad un sedile di marmo e si accinse a
scavalcare il parapetto.
– Tu, laggiù! – gridò una sentinella. – Fermati!
Parmenion balzò oltre i bastioni e si fece scivolare lungo la fune con le mani
che bruciavano per l’attrito. Sopra di lui la sentinella stava colpendo la fune con la
sua spada e di lì a poco riuscì a tranciarla, facendone scivolare l’estremità nel
vuoto.
In basso, Parmenion si afferrò ad un appiglio, agganciando le dita in una crepa
proprio nel momento in cui la corda perdeva tensione. Con cautela, completò la
discesa e fece ritorno alla tenda di Calepios.
– Allora? – domandò l’oratore.
– Sono al sicuro – sussurrò Parmenion.
All’alba all’interno della cittadella Arimanes sedeva piegato in due con le mani
strette intorno al ventre. Ormai aveva perso il conto del numero di volte che aveva
vomitato durante la notte e nello stomaco non gli restava altro che bile gialla. Degli
oltre settecentoottanta uomini ai suoi ordini più di cinquecento erano in condizioni
tali da non potersi neppure muovere e gli altri andavano in giro camminando come
uomini feriti... grigi in faccia e con lo sguardo spento. Si rese conto che se i Tebani
avessero deciso di attaccare il suo contingente sarebbe stato sopraffatto in pochi
momenti.
Un aiutante bussò alla porta e Arimanes si alzò in piedi soffocando un gemito.
– Avanti – disse, e lo sforzo di parlare gli fece tremare lo stomaco.
Un giovane ufficiale pallido in volto quanto il suo superiore entrò nella stanza.
– Abbiamo cercato in tutta la Cadmea. I prigionieri devono essere fuggiti.
– È impossibile! – gridò Arimanes. – Epaminonda non poteva quasi
camminare, e tanto meno arrampicarsi. E poi hanno visto un solo uomo scendere le
mura.
– Non è rimasto più nessun posto dove cercare, signore – replicò l’ufficiale.
Arimanes si lasciò ricadere sul giaciglio, chiedendosi se gli dèi non lo avessero
maledetto. Era stata sua intenzione far giustiziare i prigionieri per dimostrare a
quella marmaglia che Sparta non si lasciava intimidire, ma adesso non aveva più
nessun prigioniero e comandava un contingente troppo debole per difendere le
mura.
– Signore – avvertì un secondo ufficiale, entrando nella stanza, – i Tebani
vogliono mandare un uomo per discutere della... situazione.
Arimanes tentò di pensare, ma riflettere in maniera logica era difficile quando
lo stomaco e il ventre erano in piena rivolta.
– Rispondi di sì – ordinò, poi raggiunse barcollando la latrina e si accoccolò
sulla conduttura scoperta.
Sentendosi un po’ meglio, tornò al giaciglio e si distese su un fianco con le
ginocchia raccolte. Non aveva voluto quell’incarico, perché detestava Tebe e la sua
depravazione, ma suo padre aveva insistito che era un onore comandare una
guarnigione spartana... dovunque fosse dislocata. Arimanes si passò una mano fra i
capelli biondi che cominciavano a diradarsi, pensando che avrebbe dato qualsiasi
cosa per un sorso di limpida acqua fresca. Che quei Tebani fossero tutti dannati ai
fuochi dell’Ade!
Alcuni minuti più tardi l’ufficiale fu di ritorno e introdusse nella stanza un
giovane alto con i capelli scuri e gli occhi azzurri; Arimanes riconobbe in lui il
corridore chiamato Leon il Macedone, che si riteneva fosse un mezzosangue
spartano.
– Siediti – sussurrò.
L’uomo venne avanti e gli porse una bottiglia di pietra.
– L’acqua è pulita – disse.
Arimanes accettò la bottiglia e bevve avidamente.
– Perché hanno scelto te? – chiese poi, restituendola.
– Sono per metà spartano di nascita, signore, come forse tu già sai – spiegò con
disinvoltura Parmenion, – però adesso vivo a Tebe. Forse hanno pensato di potersi
fidare di me.
– E possono fidarsi?
– Sembra un incarico facile, e non c’è bisogno di inganno. – replicò Parmenion,
scrollando le spalle.
– Quali sono i loro piani? Intendono attaccare?
– Non lo so, signore, ma hanno ucciso tutti i consiglieri favorevoli agli
Spartani.
– Cosa ti hanno ordinato di dire?
– Promettono un salvacondotto per te e per i tuoi uomini fino a limitare della
città. Là hanno preparato delle tende, con cibo fresco e un medico che possiede
l’antidoto al veleno che avete ingerito.
– Veleno? – sussurrò Arimanes. – Hai detto veleno?
– Sì. Si tratta di un complotto disgustoso... tipico dei Tebani – mentì
Parmenion. – È un veleno ad azione lenta ma uccide entro cinque giorni, e sospetto
sia per questo che finora non hanno attaccato.
– Pensi che ci si possa fidare di loro? Perché non dovrebbero ucciderci non
appena noi... noi... – Arimanes s’interruppe, non riuscendo a pronunciare la parola
arrendersi, e infine concluse: – Non appena saremo usciti di qui.
– Hanno sentito dire che Cleombrotus ha due reggimenti a nord di Corinto –
replicò Parmenion, avanzando leggermente e abbassando la voce. – Potrebbe
essere qui in tre giorni e ritengo che vi lasceranno andare piuttosto che rischiare
che lui marci sulla città.
Arimanes gemette e si piegò in avanti, con la testa che gli vorticava per il
dolore e la nausea che lo soffocava. Il messaggero raccolse una ciotola vuota e la
resse per lui mentre vomitava, poi Arimanes si asciugò la bocca con il dorso della
mano.
– Ci daranno l’antidoto?
– Credo che l’uomo chiamato Calepios sia degno di fiducia – garantì
Parmenion, – e in fin dei conti non ci sarà nulla di vergognoso nel lasciare la città.
Sparta era stata invitata a tenere una guarnigione qui, ma adesso la città ha
cambiato idea e spetta ai re e ai consiglieri trovare una soluzione: i soldati possono
soltanto obbedire agli ordini dei grandi, non creare la politica.
– È vero – convenne Arimanes.
– Cosa devo dire ai Tebani?
– Dì loro che acconsento. Ci vorrà del tempo per segare la sbarra delle porte,
ma poi farò marciare i miei uomini fuori della città.
– Purtroppo, signore, le porte sono fuori discussione. Nella loro eccitazione la
folla le ha bloccate con alcune travi, quindi Calepios suggerisce che vi caliate con
delle corde, venti per volta.
– Corde! – scattò Arimanes. – Vogliono che ce ne andiamo con delle corde?
– Questo dimostra quanto i Tebani vi temano – replicò Parmenion. – Sanno
infatti che anche nella vostra attuale condizione di debolezza un contingente
spartano li potrebbe schiacciare. Questa è una sorta di complimento.
– Che siano dannati ai fuochi dell’Ade! Comunque riferisci loro che accetto.
– Una scelta saggia, signore, e sono certo che non te ne pentirai.
Due ore più tardi l’ultimo degli Spartani aveva lasciato la Cadmea. Parmenion
attese che Norac e gli altri togliessero le travi e segassero la sbarra al di là delle
porte, poi i battenti si spalancarono e Pelopida corse nel cortile agitando i pugni
nell’aria.
– Sono sconfitti! – tuonò, e la folla applaudì, mentre il guerriero si girava verso
Parmenion e lo afferrava per le spalle. – Adesso dimmi dove hai nascosto i nostri
amici.
– Sono ancora nelle segrete.
– Ma hai detto di averli liberati.
– No, ho detto che erano al sicuro. Era inevitabile che gli Spartani perquisissero
la Cadmea, ma speravo che non avrebbero preso in considerazione un nascondiglio
tanto bizzarro, così mi sono limitato a spostarli in una cella all’estremità del corri-
doio. Prendi con te un dottore... perché Epaminonda è stato trattato in maniera
molto aspra.
Mentre Pelopida e una dozzina di uomini correvano verso la casa del
governatore. Mothac si avvicinò a Parmenion.
– Cosa succederà al comandante spartano? – chiese.
– Lo giustizieranno – rispose Parmenion, – poi marceranno su Tebe. Abbiamo
ancora molto da fare.
Quella notte, mentre il chiasso dei festeggiamenti pervadeva l’aria, Parmenion
aprì le porte della sua casa ed entrò barcollando nel cortile, crollando sulla soglia
dell’androne. Mothac lo trovò là nelle prime ore del mattino e si affrettò a portarlo
nella sua camera da letto.
Quella notte Parmenion si svegliò tre volte, e la terza vide incombere su di sé il
medico Horas, che gli praticò nel braccio un taglio con un piccolo coltello ricurvo.
Lo Spartano cercò di lottare per liberarsi, ma Mothac aiutò Horas a tenerlo fermo e
lui svenne ancora una volta.
I suoi sogni furono molti, ma uno continuò a perseguitarlo a più riprese. In esso
lui stava salendo una scala a chiocciola alla ricerca di Derae, e mentre lottava per
salire gli scalini alle sue spalle scomparivano, lasciando soltanto un abisso buio.
Con ostinazione continuò a salire verso una stanza nella quale sapeva che Derae
era in attesa, ma d’un tratto si arrestò perché l’abisso stava crescendo, e si rese
conto con orrore che lo stava attirando dentro di sé e che se avesse aperto la porta
della stanza, essa sarebbe stata a sua volta inghiottita. Non sapendo cosa fare per
salvare il suo amore, mosse un passo fuori della scala e cadde, precipitando
nell’oscurità sottostante.
Seduto accanto al letto, Mothac stava fissando il volto pallido del suo padrone
privo di conoscenza. Contrariamente ai consigli del medico, il Tebano aveva aperto
le imposte per poter vedere con maggiore chiarezza i lineamenti di Parmenion, che
appariva grigio in volto sotto l’abbronzatura, con gli occhi infossati e le guance
scavate; quando Mothac gli posò una mano sul petto, il battito del cuore risultò
incerto e debole.
Durante i primi due giorni che Parmenion aveva trascorso immerso in quella
specie di sonno, Mothac non si era preoccupato troppo e ogni giorno aveva aiutato
il medico Horas a praticargli un salasso, fidando nella spiegazione del dottore
secondo il quale la riconquista della Cadmea aveva prosciugato le energie del
giovane, che stava ora soltanto riposando.
Ma adesso che erano ormai nel quarto giorno, Mothac non credeva più a quella
spiegazione.
Il volto di Parmenion stava dimagrendo a vista d’occhio e non c’era nessun
segno di ritorno alla coscienza. Riempito un boccale di acqua fresca, il Tebano
sollevò la testa di Parmenion e gli accosto il recipiente alle labbra, ma l’acqua
gocciolò lungo i lati della bocca dell’uomo privo di conoscenza e Mothac rinunciò
al suo sforzo.
Sentendo scricchiolare il cancello del giardino si avvicinò alla porta. Horas
entrò in casa, salì le scale che portavano alla camera da letto e aprì il suo rotolo di
coltelli. Mothac fissò con durezza il medico alto e magro: i chirurghi non gli piace-
vano, ma invidiava loro il sapere che possedevano e non avrebbe mai creduto di
poter essere capace di sfidare un uomo tanto abile e intelligente... ma oggi compre-
se che non ci sarebbero stati altri salassi. Con decisione, si avvicinò al medico.
– Metti via quel coltello – disse.
– Cosa significa? – chiese Horas. – Deve essere salassato, altrimenti morirà.
– Sta morendo comunque – replicò Mothac. – Lascialo in pace.
– Sciocchezze – ritorse Horas, sollevando una mano scheletrica e cercando di
spingere Mothac di lato, ma il servitore oppose resistenza e arrossì in volto.
– Avevo una moglie, dottore, e anche lei è stata sottoposta a salassi quotidiani...
finché è morta. Non permetterò che Parmenion la segua. Tu hai detto che stava
riposando per recuperare le forze, ma ti sbagliavi. Ora puoi andartene – dichiarò,
abbassando lo sguardo sulla mano del medico, che era ancora posata contro il suo
petto.
Horas si affrettò a ritrarla e a riporre il coltello, tornando ad arrotolare il tutto.
– Stai interferendo in questioni che non capisci – disse. – Andrò dai giudici e ti
farò rimuovere a forza da questa stanza.
Mothac lo afferrò per la tunica azzurra, tirandolo vicino a sé: ogni traccia di
colore era scomparsa dal suo volto e gli occhi verdi ardevano come il fuoco... tanto
che Horas sbiancò nell’incontrare il loro sguardo.
– Ciò che farai, dottore, sarà andartene di qui, e se intraprenderai qualsiasi
azione che possa provocare la morte di Parmenion io ti darò la caccia e ti strapperò
il cuore. Mi hai capito?
– Sei pazzo – sussurrò Horas.
– No, non lo sono. Sono soltanto un uomo che mantiene le sue promesse. Ed
ora vattene! – esclamò Mothac, assestando al dottore uno spintone verso la porta.
Dopo che l’uomo se ne fu andato, Mothac sedette sulla sedia accanto al letto,
senza avere la minima idea di cosa fare e sentendo il panico che minacciava di
insorgere dentro di lui.
Sorpreso dalla propria reazione, abbassò lo sguardo sul volto di Parmenion,
consapevole per la prima volta di quanto si fosse affezionato all’uomo che serviva.
La cosa gli parve strana, perché sotto molto aspetti Parmenion era una persona ri-
servata, tanto che i suoi sogni e i suoi pensieri restavano un mistero per lui;
raramente parlavano di questioni profonde, non scherzavano mai e non discutevano
mai di desideri segreti e personali. Appoggiandosi all’indietro, Mothac lasciò
vagare lo sguardo fuori della finestra e ricordò la prima notte in cui si era recato
alla casa di Epaminonda, la morte di Elea che era come un coltello rovente piantato
nel suo cuore. Parmenion era rimasto seduto accanto a lui in silenzio e gli aveva
fatto avvertire il suo cameratismo e il suo interessamento senza bisogno di parole.
I tre anni che aveva trascorso al suo servizio erano stati con suo stupore anni
sereni. Il pensiero di Elea rimaneva dentro di lui, ma le schegge pungenti di quel
dolore si erano smussate, permettendogli almeno di ricordare i momenti di gioia.
Lo scricchiolio del cancello lo distrasse dai suoi pensieri e lui si alzò in piedi,
estraendo la daga: se il dottore era tornato portando con sé gli ufficiali della
guardia avrebbe visto cosa voleva dire quando lui faceva una promessa!
La porta si aprì ed entrò Epaminonda. Il volto del Tebano era ancora gonfio, gli
occhi scuri e illividiti, e lui si avvicinò lentamente al letto, abbassando lo sguardo
sull’uomo addormentato.
– Non ci sono miglioramenti? – chiese.
– No – rispose Mothac, riponendo la daga. – Ho impedito al dottore di
salassarlo e lui ha minacciato di rivolgersi alla giustizia.
– Calepios mi ha detto che Parmenion soffriva di terribili dolori alla testa –
replicò Epaminonda, adagiando su una sedia il proprio corpo torturato.
– Gli succedeva qualche volta, soprattutto dopo le corse – confermò Mothac. –
Il dolore era intenso e a volte lui non riusciva più a vedere. Appena un mese fa mi
ha detto che gli attacchi si stavano facendo più frequenti.
– Ho ricevuto una lettera da un amico di Sparta, di nome Senofonte – annuì
Epaminonda. – Lui è stato il mentore di Parmenion per parecchi anni ed ha
assistito al primo attacco. All’epoca il medico ha supposto che ci potesse essere
una crescita maligna nel cranio di Parmenion. Spero che non muoia perché mi
piacerebbe ringraziarlo. Non avrei potuto sopportare ulteriori... maltrattamenti.
– Non morirà – dichiarò Mothac.
Per un po’ Epaminonda non disse nulla, poi sollevò lo sguardo sul servitore.
– Mi sbagliavo sul tuo conto, amico mio – ammise.
– Non ha importanza. Conosci qualcuno che potrebbe aiutarlo?
– C’è un guaritore, un erborista di nome Argonas – rispose Epaminonda,
alzandosi. – Lo scorso anno la Corporazione dei Medici ha cercato di farlo
espellere dalla città, dicendo che era un imbroglione, ma un mio amico giura che
Argonas gli ha salvato la vita e so di un uomo cieco dall’occhio destro che adesso
può vedere di nuovo. Lo manderò qui da te stanotte.
– Ho sentito parlare di lui – replicò Mothac. – Le sue parcelle sono enormi, è
grasso e ricco e tratta i suoi servi peggio che se fossero schiavi.
– Non ho detto che è una compagnia piacevole, ma cerchiamo di essere onesti,
Mothac. Parmenion sta morendo... non credo che potrebbe durare per un’altra
notte. Non ti preoccupare però con il pensiero della parcella, perché penserò io a
saldare il conto. Gli devo molto... tutta Tebe gli deve molto, più di quanto sia
possibile ripagare.
– Già – commentò Mothac, con una secca risata priva di umorismo. – Ho
notato con quale frequenza Calepios ed Pelopida sono venuti a vedere come stava.
– Calepios ha obbedito alle ultime istruzioni di Parmenion – spiegò
Epaminonda, – ed è andato ad Atene per chiedere aiuto contro la vendetta spartana.
Pelopida invece sta addestrando gli opliti nel tentativo di preparare un esercito nel
caso che Cleombrotus ci attacchi. Resta qui con Parmenion. Ti manderò Argonas.
Un’altra cosa, Mothac... mangia qualcosa e concediti un po’ di riposo. Non aiuterai
il tuo padrone ammalandoti a tua volta.
– Sono forte quanto un bue ma hai ragione, cercherò di dormire un poco.
Argonas arrivò alla piccola casa al crepuscolo. Mothac si era addormentato in
cortile e al risveglio trovò un’enorme figura vestita di rosso e avvolta in un
mantello giallo che incombeva su di lui.
– Allora, amico, dov’è il morente? – domandò Argonas, con una voce profonda
che sembrava echeggiare da dentro la vastità del suo petto.
– Nella camera da letto al piano di sopra – rispose Mothac, alzandosi. –
Seguimi.
– Innanzitutto ho bisogno di mangiare qualcosa – dichiarò il medico. – Portami
un po’ di pane e formaggio perché sto morendo di fame.
Si sedette quindi al tavolo del cortile e per un momento Mothac indugiò a
fissarlo, poi si girò e raggiunse a grandi passi la cucina. Per un po’ rimase poi
seduto a guardare mentre Argonas divorava una grossa pagnotta, un assortimento
di formaggi e di carne secca in quantità tale che una famiglia di cinque persone
avrebbe potuto nutrirsi con essa per una giornata intera. Il cibo scomparve senza
che lui sembrasse neppure masticarlo e alla fine il dottore ruttò e si appoggiò
all’indietro, liberandosi la barba lucida dalle briciole.
– E adesso un po’ di vino – disse.
Mothac gliene versò un boccale e lo spinse attraverso il tavolo; mentre Argonas
protendeva la mano grassoccia per chiuderla intorno al recipiente, Mothac notò che
ogni dito sfoggiava un anello d’oro in cui era incastonata una gemma.
Il dottore trangugiò il vino in un solo sorso e si alzò pesantemente in piedi.
– Adesso sono pronto – disse.
Fattosi guidare da Mothac nella camera da letto, indugiò ad osservare
Parmenion alla luce della lanterna mentre Mothac sostava sulla porta e seguiva la
scena con occhio attento... se non altro Argonas non aveva portato coltelli con sé, e
questo era un sollievo. Il medico si chinò quindi in avanti e protese la mano a
sfiorare la fronte di Parmenion: non appena le sue dita ne toccarono la pelle
ardente, lui si ritrasse con un grido.
– Cosa ti succede? – chiese Mothac.
Inizialmente Argonas non replicò e socchiuse gli occhi scuri nell’abbassare lo
sguardo sul morente.
– Se vivrà cambierà il mondo – sussurrò. – Vedo le rovine di un impero e il
crollo di intere nazioni. Sarebbe meglio lasciarlo al suo destino.
– Cosa stai dicendo? Parla chiaro, non riesco a sentirti! – esclamò Mothac,
venendo a fermarsi accanto al medico.
– Non ho detto nulla. Ora taci mentre lo esamino.
Per parecchi minuti Argonas rimase quindi in silenzio, spostando con delicatez-
za le mani sulla testa di Parmenion, poi lasciò la stanza e Mothac lo seguì nel
cortile.
– Ha un cancro – affermò il medico, – proprio al centro del cervello.
– Come puoi dirlo se è dentro il cranio?
– È questa la mia abilità – replicò Argonas, sedendo al tavolo e tornando a
riempire il boccale. – Ho viaggiato dentro la sua testa ed ho trovato quella crescita
maligna.
– Allora morirà? – domandò Mothac.
– Non è assolutamente certo... anche se appare probabile. Ho con me un’erba
che impedisce al cancro di crescere: è estratta dalla pianta del silphium e d’ora in
poi lui ne dovrà prendere un infuso ogni giorno della sua vita, perché il tumore non
scomparirà. Però c’è anche un altro problema... che io non posso risolvere.
– Quale? – incalzò Mothac, allorché Argonas scivolò nel silenzio.
– Quando si... viaggia... nella testa di un uomo, si vedono molte cose, si
provano le sue speranze, i suoi sogni e i suoi tormenti. Lui aveva un amore... una
donna chiamata Derae... ma lei gli è stata tolta. Parmenion si attribuisce la colpa di
quella perdita ed è vuoto dentro perché vive aggrappandosi soltanto ai pensieri di
vendetta. Questo genere di speranza può sostentare un uomo per qualche tempo,
ma la vendetta è figlia dell’oscurità e nell’oscurità non c’è sostentamento.
– Non puoi esprimerti in parole più semplici, medico? – chiese Mothac. –
Dimmi soltanto cosa posso fare.
– Non credo che tu possa fare nulla. Lui ha bisogno di Derae... e non può
averla. Tuttavia, nella remota ipotesi che questo possa rivelarsi utile e che io possa
quindi guadagnare la tariffa pagata da Epaminonda, preparerò l’infuso. Tu dovrai
guardare con attenzione, perché troppo silphium può uccidere e se ne userai troppo
poco il cancro si diffonderà ugualmente. Forse l’infuso lo aiuterà... ma senza Derae
non credo che possa sopravvivere.
– Se sei il mistico che affermi di essere – obiettò Mothac, – come mai non puoi
parlare con lui e riportarlo indietro?
– Ci ho provato – mormorò Argonas, scuotendo tristemente il capo, – ma è
scivolato in un mondo che si è creato da solo, un luogo di oscurità e di terrore nel
quale lotta contro demoni e creature orrende. Non ha potuto sentirmi... o non ha
voluto.
– Quelle creature di cui parli... potrebbero ucciderlo?
– Penso di sì. Vedi, amico mio, sono demoni che lui stesso ha creato: sta
combattendo contro il lato oscuro della sua anima.
* * *
Fermo fuori della recinzione del tempio, Mothac stava aspettando la donna,
sapendo che avrebbe dovuto attendere ancora per qualche tempo perché con lei
c’erano due fedeli. Nelle vicinanze c’era una fontana, e lui sedette ad osservare la
luce delle stelle che si rifletteva nella polla d’acqua sottostante.
Infine gli uomini se ne andarono e Mothac raggiunse l’ingresso del tempio,
svoltando a sinistra verso il corridoio dove le sacerdotesse affittavano le loro stanze
per poi bussare alla porta dell’ultima camera.
– Un momento – disse una voce stanca, poi la porta si aprì e la ragazza dai
capelli rossi esibì un sorriso luminoso chiaramente ripescato dai recessi della
memoria.
– Benvenuto – salutò. – Speravo proprio che un uomo vero venisse ad adorare
la dea.
– Non sono qui per adorarla – spiegò Mothac, oltrepassandola. – Sono venuto
per assoldarti.
– Ti contraddici – osservò lei, mentre il suo sorriso svaniva.
– Per nulla – replicò Mothac, sedendo sull’ampio letto e cercando di ignorare
l’odore delle lenzuola sporche. – Ho un amico che sta morendo...
– Non intendo dividere il letto con nessuno che sia malato – scattò la ragazza.
– Non è malato... e non dovrai dividere il suo letto – la rassicurò Mothac, poi le
spiegò in fretta la malattia di Parmenion e i timori esposti da Argonas.
– E cosa ti aspetti che faccia? – chiese la ragazza. – Non sono una guaritrice.
– Lui viene da te ogni settimana, a volte anche più spesso. Può darsi che ti sia
capitato di vederlo sul terreno di addestramento: si chiama Parmenion, ma corre
come Leon il Macedone.
– Lo conosco. Non parla mai... neppure per salutare. Entra, mi porge il denaro,
mi usa e se ne va. Cosa potrei fare per lui?
– Non lo so – ammise Mothac. – Pensavo che potesse avere dell’affetto per te.
A quel punto la ragazza scoppiò a ridere.
– Credo che dovresti dimenticarti di lui – dichiarò, sedendogli accanto sul letto
e posandogli una mano sulla coscia. –
I tuoi muscoli sono tesi e i tuoi occhi tradiscono lo sfinimento. Sei tu ad avere
bisogno di quello che io posso dare – aggiunse, facendo scivolare la mano più in
alto, ma Mothac le afferrò il polso.
– Non ho altre soluzioni, donna. Ti pagherò per questo servizio. Sei disposta a
farlo?
– Non hai ancora detto cosa vuoi che faccia.
Mothac la fissò negli occhi imbellettati e trasse un profondo respiro.
– Voglio che ti lavi quel colore dal viso e che ti faccia un bagno, poi andremo
alla casa del mio amico.
– Ti costerà venti dracme – ribatté lei, protendendo la mano.
Mothac infilò la mano nella propria sacca e contò dieci dracme.
– Le altre dopo che avrai ultimato il tuo compito – disse. Un’ora più tardi,
quando ormai la luna splendeva sulla città, Mothac e la sacerdotessa entrarono in
casa. Adesso la donna indossava un semplice chitone bianco lungo fino alla
caviglia e un clamis azzurro intorno alle spalle, il suo volto era pulito e agli occhi
di Mothac lei appariva quasi graziosa. La accompagnò nella camera da letto e le
prese la mano.
– Fa’ del tuo meglio, donna – sussurrò, – perché lui significa molto per me.
– Il mio nome è Thetis – disse lei. – Lo preferisco a donna.
– Come desideri, Thetis.
Mothac si chiuse la porta alle spalle e Thetis si accostò al letto, lasciando
scivolare a terra lo scialle e il chitone. Tirate indietro le coltri, si insinuò nel letto
accanto al morente, il cui corpo risultò freddo al tatto. Protendendosi, gli toccò il
collo là dove pulsava la vena e verificò che il suo cuore stava battendo ancora ma
con pulsazioni irregolari e deboli. Accoccolandosi vicino a lui, sollevò la gamba
destra passandogliela sulle cosce e gli accarezzò il petto con una mano, ma sebbene
sentisse il proprio calore che veniva prosciugato Parmenion non si mosse. Thetis
gli sfiorò la guancia con le labbra, poi lasciò scorrere la propria mano lungo il suo
corpo, accarezzandogli la pelle senza però ottenere reazione alcuna, neppure
quando lo baciò sulle labbra.
Non c’era praticamente altro che lei potesse fare, era stanca dopo una lunga
giornata e prese in considerazione l’idea di vestirsi e di reclamare le sue dieci
dracme. Poi però abbassò ancora una volta lo sguardo su quel volto pallido e tirato,
dal naso aquilino e dagli occhi infossati. Cosa aveva detto il servitore? Che
Parmenion aveva perso il suo amore e non riusciva a dimenticarlo?
Stolto, pensò. Soffriamo tutti di perduti amori, ma impariamo a dimenticare,
impariamo a ignorare il dolore.
Ma cos’altro poteva fare?
Adagiando la testa sul cuscino, accostò la bocca all’orecchio di lui.
– Ti amo – sussurrò.
Per un momento non ci fu reazione, ma poi Parmenion sospirò... un alito
sommesso e quasi inudibile. Thetis si tese e prese a sfregare il proprio corpo contro
quello di lui, accarezzandogli con la mano i lombi e l’interno delle cosce.
– Ti amo – ripeté, più forte. Parmenion gemette e lei sentì il suo desiderio
destarsi all’improvviso. – Vieni da me – disse ancora. – Vieni da... Derae.
Il suo corpo s’inarcò improvvisamente.
– Derae?
– Sono qui – mormorò Thetis.
Parmenion rotolò sul fianco, traendola fra le proprie braccia e baciandola con
una passione che Thetis non aveva più sperimentato da molto tempo e che riuscì
quasi a destare i suoi sensi sopiti. Le mani di lui vagarono sul suo corpo, cercando,
toccando, e nel guardarlo negli occhi Thetis vide che adesso erano aperti ma
sfocati, e colmi di lacrime.
– Mi sei mancata – disse lui, – come se ti avessero strappata dal mio cuore.
Thetis lo trasse a sé, incrociando le gambe sui suoi fianchi e guidandolo, ma
dopo essere scivolato dentro di lei Parmenion si fermò. Con gentilezza, chinò il
capo e la baciò, passandole sulle labbra la lingua umida e morbida come seta, poi
cominciò a muoversi in maniera lenta e ritmica e Thetis perse ogni cognizione del
passare del tempo, mentre nonostante tutto il desiderio tornava a lei come un amico
perduto da tempo. Adesso entrambi erano sudati e Thetis si accorse che Parmenion
stava arrivando al culmine, ma di colpo lui rallentò di nuovo e scivolò via da lei.
Thetis sentì le sue labbra sul seno, sul ventre, poi ancora più giù, mentre le mani di
lui le bloccavano le cosce. Inarcando la schiena, chiuse gli occhi e cominciò a
tremare e a gemere, allungando le mani per tenere la testa di lui contro di sé.
L’orgasmo giunse come una serie di spasimi intensi, quasi dolorosi, e quando si
lasciò ricadere sul letto Thetis sentì il calore del corpo di lui che le scivolava sopra
di nuovo. Le loro labbra s’incontrarono in un bacio passionale, poi Parmenion la
penetrò nuovamente e con sua incredulità Thetis si accorse del sopraggiungere un
secondo orgasmo mentre lo tirava a sé con le mani, sentendo la tensione dei suoi
muscoli mentre la sua passione andava crescendo. Gli spasimi furono ancora più
intensi di prima e Thetis gridò senza però udire il suono della propria voce, quindi
avvertì il flusso caldo dell’orgasmo di lui e lo sentì accasciarsi su di lei.
Per un momento rimase immobile sotto il suo peso inerte, poi lo spinse con
gentilezza sulla schiena e vide che adesso i suoi occhi erano nuovamente chiusi.
Per un momento appena si chiese se fosse morto, ma il suo respiro si era fatto
regolare e quando controllò il battito della vena del collo scoprì che era forte e
continuo.
Per alcuni minuti rimase stesa in silenzio accanto all’uomo addormentato, poi si
alzò dal letto senza fare rumore, si vestì e tornò nel cortile dove Mothac stava
sorseggiando un bicchiere di vino.
– Da bere? – chiese lui, senza sollevare lo sguardo.
– Sì – rispose, in tono sommesso, versandosi un boccale di vino e sedendo di
fronte al Tebano. – Credo che vivrà – aggiunse, costringendosi a sorridere.
– L’avevo intuito dal rumore – commentò lui.
– Credeva che fossi Derae – mormorò Thetis, – e vorrei esserlo.
– Ma non lo sei – affermò Mothac, in tono aspro, alzandosi e sparpagliando le
dieci dracme sul tavolo davanti a lei. Thetis raccolse il denaro e lo fissò in volto.
– Ho fatto quello che volevi. Perché adesso sei infuriato con me?
– Non lo so – mentì Mothac, costringendosi ad essere cortese. – Comunque ti
ringrazio. Ora però penso che dovresti andare.
Dopo averle aperto il cancello tornò al suo vino, vuotando in fretta il boccale e
versandosene un altro e poi un altro ancora. Ma il volto di Elea continuò a fluttuare
davanti ai suoi occhi.
IL TEMPIO, ASIA MINORE, 379 A.C.
La tensione all’interno della città andò aumentando giorno per giorno; nei
luoghi pubblici scoppiarono discussioni sulla saggezza di espellere gli Spartani e la
paura divenne una cosa quasi palpabile... ma le truppe nemiche rimasero a Megara,
a due giorni di marcia da Tebe, verso sudest. Le notizie che giungevano dai
territori circostanti erano cupe: nella piccola città di Tespi, a nordest di Tebe, un
gruppetto di ribelli aveva posto l’assedio all’acropoli, dove era insediata una
guarnigione spartana, ma il contingente era uscito dalla fortificazione e aveva
ucciso ventitré uomini, mettendo in fuga la folla. Nelle città di Tanagra e di
Agostena parecchi fomentatori di disordini erano stati arrestati, mentre a Platea due
uomini sospettati di ribellione erano stati giustiziati dopo che un traditore li aveva
denunciati.
Con una forza di quattrocento uomini, Pelopida marciò da Tebe per aiutare i
ribelli di Tanagra: i guerrieri uscirono dalle Porte Proitiane, ma furono di ritorno
otto giorni più tardi, dopo essere stati colti in un’imboscata tesa sulle montagne
dagli Spartani: quarantuno uomini erano morti e i feriti ammontavano a ventisei.
Quella fu un’amara sconfitta, e tuttavia Pelopida ne emerse con un notevole
credito, perché pur essendo stato circondato aveva raccolto intorno a sé i suoi
uomini e aveva caricato le file spartane, infrangendole e uccidendo da solo quattro
nemici. A quel punto i Tebani avevano cercato rifugio sulle montagne e gli
Spartani li avevano lasciati andare, perché il tramonto era prossimo e non volevano
perdere degli uomini negli stretti passi montani.
I mercenari ateniesi vennero poi mandati ad Eritrae, insieme a duecento opliti
tebani, al fine di aiutare i ribelli, ma non si ebbero più loro notizie e il timore fra il
popolo tebano andò crescendo. In quel periodo Epaminonda si rivelò un abile
oratore, ma i ribelli sentirono comunque la mancanza delle capacità oratorie di
Calepios, che era rimasto ad Atene.
Intanto l’inverno si avvicinò inesorabilmente, cominciarono le piogge e dal sud
giunse la notizia che Agisaleus era guarito dalla febbre che lo aveva assalito.
E l’esercito spartano avanzò verso nord.
Nel tornare a casa attraverso la città ammantata nel buio della notte, Parmenion
si sentiva teso ed eccitato e quando passò davanti al Tempio di Afrodite si ricordò
della sacerdotessa dai capelli rossi. Fermatosi accanto alla fontana di marmo lasciò
vagare lo sguardo sul tempio, avvertendo il desiderio che si destava dentro di lui, e
dopo aver controllato il contenuto della sacca del denaro entrò nel tempio e si
avviò lungo il corridoio. Nonostante l’ora tarda, sotto la porta della donna filtrava
la luce di una lanterna: Parmenion accostò l’orecchio al legno, ascoltando per
individuare eventuali rumori all’interno, e un momento più tardi bussò piano. Sentì
il letto scricchiolare quando la donna si alzò in piedi, poi il battente si aprì.
Parmenion protese il denaro, e rimase sorpreso nel vedere il sorriso spontaneo
di lei.
– Sono lieta che tu sia guarito – disse la sacerdotessa.
– Non desidero che parli! – scattò Parmenion, e subito il sorriso si raggelò sulle
labbra di lei, le guance le si tinsero di un cupo rossore.
– Prendi il tuo denaro e vattene! – esclamò, sbattendogli la porta in faccia.
Per un momento Parmenion rimase fermo dov’era, sconcertato, poi tornò sui
suoi passi e raggiunse il freddo conforto del proprio letto. L’incontro con la donna
l’aveva però turbato: la sacerdotessa sapeva che non doveva parlare, erano stati
insieme decine di volte... lui pagava, soddisfaceva il proprio desiderio e se ne
andava. Era una cosa molto semplice. Perché la donna aveva infranto le regole?
Quando si era fermato sulla porta il profumo di lei lo aveva avviluppato,
pervadendogli i sensi, e quando l’aveva rimproverata il volto della donna aveva
espresso shock, sorpresa e un dolore che non riusciva a capire. Avvertiva il
bisogno quasi fisico di andare a cercarla e di scusarsi... ma per che cosa? In che
modo l’aveva offesa?
Alla fine scivolò in un sonno agitato e sognò Derae.
Si svegliò tre ore più tardi e salì sul tetto piatto per guardare l’alba che
illuminava la città, poi spostò lo sguardo verso sudest, dove si levavano i picchi
torreggianti del Monte Citerone e delle catene che si snodavano alle sue spalle.
Questa è una terra splendida, pensò, e tuttavia lottiamo come bambini per il
suo possesso.
Seduto sotto la luce del sole, ripensò alle sue conversazioni con Senofonte.
– La Grecia non si potrà mai innalzare al massimo della gloria – aveva detto il
generale, – perché noi non siamo una nazione completa e non abbiamo una visione
nazionale. Abbiamo i migliori soldati e i migliori generali del mondo e siamo su-
premi sul mare, e tuttavia siamo come un branco di lupi, ci laceriamo a vicenda
mentre i nostri nemici gongolano.
– Ma i lupi trovano sempre un capo – aveva obiettato Parmenion.
– Sì – aveva assentito Senofonte, – e a questo punto cessa il paragone. La
Grecia è composta da decine di città stato, e perfino un grande uomo originario...
per esempio... di Atene, non potrebbe legarla in un tutto unico. Gli Spartani lo invi-
dierebbero e lo temerebbero, e così anche i Tebani, perché non vedrebbero in lui un
Greco ma un Ateniese. Questi odi sono troppo radicati e non potranno essere
sopraffatti... almeno non nell’arco della mia vita. E invece di una Grecia unita e
potente cosa vediamo? La Persia controlla il mondo e si serve di mercenari greci
per farlo... mentre qui noi viviamo in una terra dalle splendide montagne e dal
terreno povero. Dobbiamo importare tutto quello che ci serve dall’Egitto e
dall’Asia, pagando cifre notevoli ai Persiani per ogni transazione.
– E se un uomo solo guidasse una forza congiunta contro i Persiani? – aveva
chiesto Parmenion.
– Dovrebbe essere un colosso fra gli uomini, un semidio come Eracle.
Soprattutto, dovrebbe essere un uomo che non appartenga a nessuna città... un
Greco... e non esiste un uomo del genere, Parmenion. Avevo sperato che Sparta
potesse assumere il predominio, ma Agisaleus non riesce a dimenticare il suo odio
per Tebe e gli Ateniesi succhiano insieme al latte materno l’odio verso Sparta,
mentre Tebani e Corinti disprezzano gli Ateniesi. Dove potrà la Grecia trovare un
capo?
– Tu cosa faresti?
– Se fossi un dio, solleverei la nazione dal mare e la scuoterei fino a ridurre in
polvere tutte le città, poi raccoglierei i superstiti e direi loro di costruire un’unica,
grande città e di chiamarla Grecia.
– E allora – aveva ridacchiato Parmenion, – i superstiti ateniesi occuperebbero
la parte settentrionale della città e chiamerebbero Atene quel distretto, mentre gli
Spartani prenderebbero quello meridionale. A quel punto ciascuno deciderebbe che
il distretto dei vicino è più prezioso del proprio.
– Temo che tu abbia ragione, ragazzo mio, ma accantonando la mia
disperazione in questa situazione c’è anche un aspetto positivo.
– E quale sarebbe?
– Che ci sarà sempre necessità di buoni generali.
Adesso Parmenion sorrise al ricordo di quella conversazione e scese dal tetto.
Mothac gli portò un boccale di infuso di silphium e lui lo bevve in fretta: dalla
notte del miracolo di Derae non aveva più avuto dolori alla testa e il suo corpo si
sentiva nuovamente forte.
– Ho bisogno di correre – disse a Mothac.
Il terreno di addestramento era però ingombro di guerrieri che si esercitavano
con la spada e lo scudo, mèntre Pelopida ruggiva ordini e parecchi ufficiali
circolavano fra gli uomini, offrendo consigli o incoraggiamenti. In disparte,
Parmenion rimase a guardare per parecchi minuti, poi Pelopida si accorse di lui e
lo raggiunse di corsa.
– Si stanno formando bene – commentò il Tebano. – Uomini coraggiosi e
orgogliosi.
– Con il tempo qui riuscirai ad ottenere un ottimo contingente – replicò
Parmenion, scegliendo con cura le parole, – ma quanto lavoro in formazione
serrata hai intenzione di effettuare?
– Concludiamo sempre con una corsa in formazione, ma gli uomini
preferiscono il combattimento libero, che è più competitivo.
– È vero, amico mio, e tu hai ragione. Tuttavia sono certo che sei consapevole
del fatto che quando dovranno affrontare gli Spartani dovranno usare la formazione
serrata. Se si presenteranno sparpagliati in questo modo verranno fatti a pezzi.
– Saresti disposto ad aiutarmi ad addestrarli? – chiese Pelopida.
– Sarebbe un onore – acconsentì Parmenion, e il Tebano lo prese per un
braccio, accompagnandolo sul campo.
– Un attacco splendido! – approvò intanto, in direzione di un guerriero che
aveva bloccato il fendente dell’avversario e lo aveva gettato a terra con una
spallata. L’uomo sorrise e salutò con la lama di legno.
– Come si chiama? – domandò Parmenion, mentre proseguivano.
– Non lo so. Vuoi che lo scopra?
– No – replicò il giovane, in tono sommesso.
Pelopida chiamò intanto a raccolta i soldati, che formarono un enorme
semicerchio intorno a Parmenion.
– Questo è l’uomo che ha progettato la riconquista della Cadmea – ruggì il
guerriero, – lo stratega che si è arrampicato sulle mura ed ha salvato Epaminonda.
Gli uomini scoppiarono in una sonora ovazione e Parmenion arrossì, il cuore
prese a battergli con violenza e lui sentì insorgere una paura irrazionale: Pelopida
parlava con facilità ai soldati ed era evidente che era molto ammirato, ma lui non si
era mai rivolto ad un gruppo prima di allora e sentì i nervi che minacciavano di
cedergli.
– Lui vi addestrerà nelle manovre in formazione serrata – proseguì Pelopida, –
in modo che la prossima volta che incontreremo gli Spartani potremo schiacciarli
in mezzo a noi come un pugno di ferro! Desideri dire qualcosa agli uomini? – chie-
se quindi, rivolgendosi a Parmenion.
– Sì – rispose questi. Intorno c’erano parecchie centinaia di guerrieri seduti per
terra con lo sguardo fisso su di lui... poteva sentire quegli sguardi come un peso
sull’anima e le gambe gli si indebolirono al punto da essere quasi incapaci di soste-
nerlo. – Il combattimento in formazione serrata... – cominciò.
– Non riusciamo a sentire! – gridò qualcuno, dal fondo. Parmenion trasse un
profondo respiro.
– Il combattimento in formazione serrata – gridò, – si basa sulla fratellanza,
sulla comprensione e sull’interessamento reciproco. Significa inoltre anteporre il
bene di tutti a quello dei singoli.
– Ma di cosa sta parlando? – domandò un uomo nella prima fila, quando lui
s’interruppe per riprendere fiato.
Un’onda di risate sommesse si diffuse fra le file e Parmenion sentì l’ira
divampargli nel cuore.
– Alzatevi! – ruggì, con voce vibrante di autorità, e i soldati obbedirono
all’istante. – Ora formate un cerchio completo con me al centro – aggiunse,
raggiungendo a grandi passi il centro del terreno di addestramento, seguito dagli
altri.
– Chi è il migliore con la spada, qui? – domandò, una volta che i guerrieri si
furono disposti in un ampio cerchio di numerose file.
– Pelopida! – gridarono tutti.
– E il peggiore?
Quella domanda fu accolta con il silenzio, poi un giovane tanto magro da
apparire emaciato sollevò la mano.
– Io non sono molto abile... ancora – disse, – ma sto diventando più forte.
Quella confessione fu accolta da altre risate.
– Che entrambi vengano dentro il cerchio – ordinò Parmenion.
Pelopida si alzò in piedi e insieme al giovane venne a fermarsi accanto allo
Spartano.
– Posso dire qualcosa? – chiese a Parmenion, e quando questi annuì si rivolse ai
presenti, esordendo: – Alcuni di voi hanno riso quando il nostro amico... e
fratello... Callines ha ammesso la sua scarsa abilità con la spada. Gli ci è voluto
coraggio per confessarlo – proseguì, fissando i guerrieri con occhi roventi, – e un
uomo dotato di un tale coraggio può soltanto migliorare. E voi lo aiuterete... e vi
aiuterete a vicenda. La causa di Tebe è sacra per me, e ogni uomo che aiuta Tebe
mi è parimenti sacro. Non stiamo soltanto giocando alla guerra, siamo una banda
sacra, i cui membri sono legati uno all’altro nella vita e nella morte, quindi che non
ci siano altre derisioni. Mi dispiace, stratega – concluse il Tebano, indietreggiando.
– Ti prego, continua.
Parmenion lasciò invece che il silenzio si intensificasse. Le parole di Pelopida
lo avevano colto di sorpresa, ma i sentimenti da lui espressi erano validi.
– Oggi avete sentito qualcosa che dovreste imprimere a fuoco nel vostro cuore
– disse infine. – Infatti verrà un giorno, quando sarete vecchi, con i capelli grigi, e i
vostri nipoti giocheranno ai vostri piedi, in cui sentirete altri uomini dire con orgo-
glio: ‘Eccolo là. Era un membro della Banda Sacra.’ E sollevando lo sguardo
vedrete uomini più giovani fissarvi con meraviglia ed invidia. – Fece una pausa,
permettendo di nuovo che il silenzio si prolungasse, poi concluse: – Adesso mi
servono altri due combattenti, uomini rapidi e abili.
Quando tutti e quattro furono pronti, armati di spada e di scudo di bronzo,
Parmenion si avvicinò a Pelopida.
– La tua spada – disse.
Sconcertato, questi gli consegnò l’arma di legno, e Parmenion si girò verso il
giovane schierato accanto al generale tebano.
– Il tuo scudo – ordinò.
L’uomo consegnò lo scudo e Parmenion lasciò cadere le armi lungo il limitare
interno del cerchio di spettatori, ripetendo la manovra con l’altra coppia di uomini.
– Adesso – spiegò agli sconcertati guerrieri, – abbiamo un esempio di
formazione serrata: quattro uomini che dispongono soltanto di due spade e di due
scudi. Il portatore di scudo deve proteggere l’uomo con la spada, ma
personalmente non ha armi d’attacco, mentre l’uomo con la spada deve difendere
anche il portatore di scudo pur non avendo a sua volta uno scudo con cui ripararsi.
Ciascuno dei due deve quindi fare affidamento sull’altro. Ora combattete, signori,
se non vi dispiace.
Pelopida e lo snello Callines avanzarono insieme. Lo spadaccino della coppia
avversaria lanciò subito un attacco ma Pelopida bloccò con il suo scudo e Callines
eseguì un affondo, che venne intercettato dallo scudo dell’avversario. I guerrieri
girarono quindi in cerchio, senza però riuscire a trovare aperture. Dopo alcuni
minuti la coppia avversaria indietreggiò e i suoi componenti conferirono fra loro in
tono sommesso per poi tornare ad avanzare... all’improvviso l’uomo con la spada
si mosse verso destra, cercando di prendere Pelopida sul fianco. Ignorandolo,
questi si lanciò contro il suo compagno: i loro scudi cozzarono violentemente e non
appena l’avversario di Pelopida venne scagliato a terra Callines corse in avanti,
posandogli la spada di legno contro la gola. Nello stesso momento Pelopida ruotò
su se stesso quando l’uomo con la spada gli giunse alle spalle e deviò per un pelo il
colpo con il bordo dello scudo mentre Callines accorreva in suo aiuto. Pelopida
parò un altro affondo, poi picchiò lo scudo contro il braccio destro dell’avversario,
spingendolo indietro, e al tempo stesso Callines piantò la spada di legno contro
l’inguine dell’avversario, che cadde a terra con un gemito.
– Ciò che avete appena visto – affermò allora Parmenion, portandosi al centro
del cerchio e issando l’uomo in piedi, – è stato il vostro peggior combattente che
uccideva due avversari. In essenza, è questo il segreto della falange: uomini comu-
ni e ben addestrati possono risultare magnifici in battaglia, mentre grandi guerrieri
diventano invincibili. Voi sarete invincibili.
Per due ore Parmenion fece esercitare gli uomini, fino a quando Pelopida chiese
una sosta e pose fine all’addestramento, prendendo Parmenion per un braccio e
accompagnandolo all’ombra della Tomba di Ettore.
– Te la sei cavata bene, amico mio, davvero molto bene – commentò il Tebano.
– Ci hai dato un nome pieno di ispirazione e da oggi saremo la Banda Sacra.
– No – replicò Parmenion. – Il nome è stato una tua invenzione, perché lo hai
coniato tu quando hai preso le difese del giovane Callines. Comunque calza bene
ed è vantaggioso che i guerrieri si sentano legati. Sei un ottimo capo.
– Basta con i complimenti, mi mettono a disagio – protestò Pelopida. – Ora
dimmi perché mi hai chiesto il nome del primo combattente che hai visto.
– Non sono io quello che dovrebbe sapere il suo nome, ma tu – sorrise
Parmenion. – Un generale è come un artigiano, che conosce il nome e le virtù di
ogni suo attrezzo. Gli uomini guardano a te come al loro capo, ti ammirano per il
tuo coraggio e la tua forza... come generale non puoi diventare amico di ciascuno
di essi perché questo potrebbe portare ad un rilassamento della disciplina, ma
chiamali tutti per nome e loro combatteranno meglio per te... e per Tebe.
– Ma sconfiggeremo gli Spartani? – domandò Pelopida.
– Se c’è un uomo che può farlo... quello sei tu – garantì Parmenion.
Derae aprì gli occhi... ma l’oscurità era totale. Poteva avvertire un senso di
calore sul lato destro del volto e quando comprese che il sole era sorto pianse per la
sua perdita.
La cecità, il terrore degli esseri umani fin dall’alba dei tempi, perché rendeva
impotenti di fronte ai capricci della natura e alla crudeltà delle bestie selvagge.
L’ultima cosa che aveva visto era stata Tamis che incombeva su di lei reggendo
in mano una fiala di rame dal cui gorgogliante contenuto si levava del vapore, poi
c’era stato il tocco del fuoco sul suo occhio aperto e l’urlo di agonia che aveva
seguito il bacio dell’acido.
Sentì la porta che si apriva e avvertì l’assestamento del letto quando Tamis le
sedette accanto.
– Resta distesa – disse la vecchia, – e ascoltami. Mantieni il corpo immobile e
pensa ad un cielo azzurro e ad un lungo stelo d’oro. Puoi farlo?
– Sì – rispose debolmente Derae.
– Immagina lo stelo d’oro sullo sfondo del cielo e la sua punta che si gonfia e
cresce... piegandosi e torcendosi fino a diventare un cappio che si congiunge allo
stelo come la cruna di un enorme ago d’oro. Lo hai nella mente?
– Sì. Oro sullo fondo dell’azzurro – sussurrò Derae.
– Ora, sotto il cappio, come l’elsa di una spada persiana, altri due steli
scaturiscono dall’oro. Tieni in mente l’oro e l’azzurro e dimmi cosa avverti.
– Mi sembra che nella mia mente ci sia un soffio di aria calda.
– Bene. Ora librati!
Derae si sentì libera da ogni peso, come se pesanti catene di piombo si fossero
improvvisamente aperte, poi si librò... e aprì gli occhi. Il soffitto era molto vicino, e
lei ruotò il proprio spirito in modo da poter abbassare lo sguardo sul corpo che
giaceva sul pagliericcio e su Tamis che le sedeva accanto. La vecchia sollevò lo
sguardo.
– Ora puoi vedere – le disse, – ed hai scoperto uno dei segreti della Fonte: un
dono offerto ad Essa viene restituito centuplicato. Sei libera, Derae, libera di volare
e di imparare! Va’! Viaggia come l’aquila e vedi tutto ciò che desideri. Però non
guardare il futuro, bambina mia, perché non sei ancora pronta.
L’anima di Derae volò via dal tempio, gloriandosi nella luce del sole e volando
attraverso le nubi e sull’oceano. In basso sotto di sé vide la Grecia con le sue alte
montagne e le aride pianure: piccole trireme erano ancorate nel porto di Atene e
parecchie barche da pesca sobbalzavano sull’acqua intorno ad esse. Puntando verso
sudovest, Derae volò a Sparta, librandosi al di sopra della sua vecchia casa e
scorgendo sua madre e le sue sorelle nel cortile.
Vederle in questo modo però le diede dolore... sarebbe stato meglio vedere ciò
che era stato. La scena sotto di lei si fece indistinta, poi si ritrovò a guardare se
stessa che correva oltre le porte di casa e scendeva fino al prato dove si
esercitavano le ragazze, mentre sulla sommità di una vicina collina il giovane
Parmenion se ne stava steso nell’erba, cercando di riuscire a intravederla.
Anche quella scena le diede dolore, ma Derae non poté trattenersi dal seguirla
in tutto il suo evolversi, vedendo di nuovo il proprio salvataggio ad opera di
Parmenion e quel primo giorno di passione nella casa estiva di Senofonte. Non
sopportando di rivivere la propria morte, seguì invece le vicissitudini di Parmenion
e assistette con orrore al duello in cui lui annientò Nestus.
Lo seguì quindi nel suo viaggio fino a Tebe e fu testimone dei suoi brevi
incontro privi di passione con la prostituta Thetis, sentendosi pervadere dall’ira.
Il modo in cui lui progettò la presa della Cadmea destò però in lei un orgoglio
superiore all’ira, e subito dopo assistette stupita al crollo di Parmenion, lo vide
trasportare sul letto e rimase invisibile spettatrice della preoccupazione di Mothac,
della sua ira contro il medico e infine della sua disperata supplica alla prostituta,
Thetis. Questa volta, inoltre, seguì tutta la scena e sentì Parmenion sussurrare il suo
nome nel sonno.
Stava delirando e pensava a lei!
Piena di gioia, avrebbe voluto protendersi per toccarlo e dirgli che era viva e le
importava di lui, ma poi la fredda realtà l’aggredì come l’alito dell’inverno.
Non sono viva, ricordò, e non potrò mai averlo.
Incitò quindi il tempo a riprendere a scorrere... vide Parmenion correre sul
terreno di addestramento e gli fluttuò accanto fino a portare il proprio volto
inconsistente a pochi centimetri dal suo. Protendendosi, cercò di accarezzargli i
capelli scuri, ma le sue dita gli attraversarono la pelle e la testa, e i pensieri di lui le
si riversarono nella mente.
Mentre correva stava ricordando quei pochi giorni sulle montagne, prima che il
loro segreto venisse scoperto, quando si erano amati sui prati e si erano tenuti per
mano fra gli alberi.
Infine si ritrasse dal suo spirito, perché la sua amarezza l’aveva bruciata come
l’acido che le aveva distrutto gli occhi. La sua gioia evaporò e lei fece ritorno al
tempio e ad un mondo di oscurità.
– Cosa hai imparato? – domandò Tamis, mentre l’aiutava a vestirsi.
– Che l’amore è sofferenza – rispose lei, con voce spenta. – Cosa mi insegnerai
oggi?
– Ti insegnerò a vedere. Gli occhi dello spirito sono molto più potenti di quelli
fisici che hai perduto. Concentrati... adesso hai sciolto le catene della tua anima e
fluttui libera dentro il mantello del corpo, che puoi trarre di lato come un velo in
qualsiasi momento tu voglia. Provaci. Pensa all’oro e all’azzurro.
Derae si concentrò sullo stelo ricurvo e si sollevò.
– Non troppo lontano! – gridò Tamis, afferrando il corpo che si era accasciato e
adagiandolo sul pavimento. – Devi mantenere il controllo di te stessa. Torna
indietro!
Derae obbedì e rientrò nel corpo, alzandosi in piedi.
– Ci vorrà dell’allenamento – commentò Tamis, – comunque ora prova spostare
in avanti la tua testa spirituale mantenendo fermo il resto del corpo.
Derae tentò. Per un momento le parve che funzionasse, perché poteva vedere e
al tempo stesso avvertire il proprio corpo, ma poi fu assalita dalle vertigini e andò a
sbattere contro Tamis, che le impedì di cadere.
– Imparerai – promise la vecchia. – Comunque ogni passo è una vittoria. Ora
però dobbiamo lavorare, perché tu devi imparare, e dobbiamo anche identificare
tutte le tue debolezze.
– Perché?
– Adesso partecipi anche tu alla guerra eterna, Derae, ed hai un letale nemico.
Anche il Dio Oscuro ti esaminerà, cercando un modo per distruggerti.
– È un pensiero che spaventa – ammise Derae.
– Ed è giusto che ti spaventi, perché quando arriverà il momento cruciale del
conflitto io sarò già morta e tu sarai sola.
Parmenion indugiò sulla sommità del costone e abbassò lo sguardo sul campo
dell’esercito spartano, disposto in un lungo rettangolo sul fondo della valle nelle
vicinanze di Tespi. In fretta contò le tende: c’erano cinque file di cinquanta tende,
ciascuna delle quali ospitava dieci guerrieri... il che significava un totale di
duemilacinquecento combattenti, senza contare quelli alloggiati in città.
Accarezzò per un momento il collo del castrato nero, poi lo pungolò con i
talloni, incitandolo ad avanzare. Adesso sarebbe cominciato il pericolo, ma con sua
sorpresa Parmenion avvertì insieme alla paura un senso di eccitazione e si rese
conto che erano quelle le cose che davano gioia nella vita... la squisita sensazione
della paura e dell’esaltazione che si combinavano per affinare la mente e i sensi.
Era come se gli anni trascorsi a Tebe fossero stati privi di colore. Sollevando lo
sguardo, contemplò il cielo solcato da qualche nuvola e avvertì l’aria montana che
gli pervadeva i polmoni.
Questa era vita!
Laggiù Ecate, la dea della morte, era in attesa con la sua scura daga snudata,
pronta a prendere la sua vita non appena lui avesse commesso un errore.
Ridacchiando, strinse maggiormente la cinghia che tratteneva l’elmo di cuoio
sotto il mento e prese a canticchiare una vecchia canzone che sua madre gli aveva
insegnato. Nel sentire quel suono il castrato rizzò gli orecchi e scosse la testa: era
una bestia eccellente, tanto che Pelopida aveva detto che era riuscita a distanziare
gli inseguitori e che soltanto un colpo fortunato aveva permesso loro di
raggiungere il cavaliere con una freccia alla base del cranio, sbalzandolo al suolo.
Subito il castrato aveva smesso di correre e si era girato per sfiorare con il muso il
cadavere steso a terra.
L’armatura dell’uomo calzava abbastanza bene a Parmenion, tranne la corazza
che era leggermente larga, e tanto gli schinieri quanto il gonnellino rinforzato in
bronzo sembravano essere stati fatti su misura per lui. Il mantello era di ottima lana
tinta di rosso ed era trattenuto da una spilla d’oro che Parmenion aveva sostituito
con una di bronzo, perché una spilla tanto costosa poteva essere riconosciuta e
provocare domande imbarazzanti.
I documenti del messaggero erano stati portati a Tebe, dove Epaminonda aveva
aperto il messaggio e lo aveva letto. Esso aveva a che vedere con le provviste e con
la necessità di isolare Tebe, ma verso la fine si parlava anche di Atene e
dell’esigenza di rimanere vigili.
– Puoi duplicare lo stile con cui è scritto il messaggio? – aveva chiesto
Epaminonda, mostrando la pergamena ad uno scriba di mezz’età con i capelli
prematuramente bianchi.
– Non sarà difficile – aveva risposto l’uomo, sbirciando il dispaccio.
– Quante righe possiamo aggiungere sopra la firma del re? – aveva domandato
Parmenion.
– Non più di due.
Parmenion aveva preso il messaggio e lo aveva letto parecchie volte. Esso si
concludeva con le parole: Il traditore Calepios sta assoldando mercenari ad Atene.
Siate vigili! Poi c’era uno spazio bianco e infine la firma, Cleombrotus.
Dopo aver riflettuto, Parmenion aveva dettato una breve aggiunta al messaggio,
che lo scriba aveva inserito con cura, e quando aveva letto quelle parole
Epaminonda aveva esibito un cupo sorriso.
– ‘Siate vigili e avanzate sul Pireo, distruggendo ogni forza ostile.’ Se avrà
successo, Parmenion, il tuo inganno provocherà la guerra fra Atene e Sparta.
– Il che potrà tornare soltanto a vantaggio di Tebe – aveva sottolineato
Parmenion.
– Ci sono per te gravi pericoli in tutto questo – gli aveva ricordato il Tebano, in
tono quieto. – E se ti riconoscessero, o non credessero al messaggio? O se c’è una
parola d’ordine, o...
– Allora morirò – lo aveva interrotto Parmenion, secco. – Ma è una cosa che
deve essere fatta.
Adesso, mentre cavalcava verso le tende, Parmenion sentì aumentare la propria
paura. Tre soldati di guardia gli sbarrarono il passo: si trattava di uomini originari
delle montagne degli Sciriti e non di veri Spartani, quindi si limitarono a salutarlo
quando lui si avvicinò, portando il pugno serrato sulla corazza di cuoio. Parmenion
ricambiò il saluto e tirò le redini.
– Cerco il generale Sphodrias – disse.
– È in città, perché risiede nella casa dell’eforo Anaximenes. Oltrepassa le
porte principali e dirigiti verso il tempio di Zeus. Troverai una casa alta, con due
alberi sottili vicino alle porte.
– Ti ringrazio – rispose Parmenion, allontanandosi.
La città, un centro di mercanti specializzato nella fabbricazione di carri da
guerra e nell’addestramento dei cavalli, era meno grande di Tebe e ospitava
soltanto dodicimila abitanti. Oltrepassate le porte, Parmenion vide molti piccoli
spiazzi erbosi su cui pascolavano splendide mandrie, e proseguendo arrivò alla
casa con i due alberi gemelli; là smontò di sella e lasciò il castrato davanti
all’edificio dalle pareti bianche, mentre un servitore si affrettava a venire a
prendere le redini dell’animale e una ragazza vestita di bianco gli si inchinava e lo
pregava di seguirlo all’interno della casa.
Parmenion venne condotto in un ampio androne dove parecchi ufficiali spartani
erano seduti a bere, e là la serva si avvicinò ad un individuo massiccio con una
folta barba rossa; l’uomo si alzò e si piantò le mani sui fianchi, scrutando
Parmenion che s’inchinò profondamente e si avvicinò.
– Allora, chi sei? – chiese Sphodrias, secco.
– Andicles, signore, ed ho un dispaccio da parte del re.
– Non ti ho mai sentito nominare. Dov’è Cleophon?
– È caduto da cavallo e si è rotto la spalla, signore, ma nonostante questo è
deciso a cavalcare con il re questa notte e ad essere al suo fianco durante la
battaglia.
– Cavalcare? Battaglia? Di cosa stai parlando?
– Chiedo scusa, signore – replicò Parmenion, porgendo al generale il cilindro di
cuoio.
Sphodrias tirò fuori la pergamena al suo interno e la srotolò; mentre lui
leggeva, Parmenion lanciò un’occhiata agli altri ufficiali e quando infine il suo
sguardo si posò su un giovane che stava giocando a dadi ad un tavolo vicino alla
finestra lo stomaco gli si contrasse... quell’uomo era Leonida.
– Qui non si parla di numeri – borbottò Sphodrias. – Quanti sono i nemici?
Dove sono accampati? Non posso semplicemente marciare in territorio ateniese e
massacrare i primi uomini in armatura che incontro.
– Si dice che siano cinquemila – si affrettò a spiegare Parmenion.
– Tremila opliti e il resto cavalleria... e corre voce che siano stati pagati con oro
persiano.
– Ci si può sempre aspettare un tradimento dagli Ateniesi – commentò
Sphodrias, annuendo. – Tuttavia dovremo marciare per tutta la notte per coglierli di
sorpresa... e non dubito che abbiano mandato degli esploratori. Dovrai rimanere al
mio fianco mentre informerò i miei ufficiali, perché potrebbero avere delle
domande da rivolgerti.
– Con tutto il rispetto, signore – replicò Parmenion, lottando per mantenere
calma la voce, – il re mi ha ordinato di tornare immediatamente da lui per esporgli
i tuoi piani, in modo che possa unire le sue forze alle tue sulla Piana di Triasia.
– Molto bene. Ordinerò al mio scriba di stilare una risposta.
– Non sarà necessario, signore. Se marcerai per tutta la notte, consiglierò al re
di venirti incontro fra Eleusi ed Atene. Sphodrias annuì e riportò la propria
attenzione sul messaggio.
– Uno strano dispaccio. Comincia parlando di provviste e finisce con
l’invasione di Atene... ma del resto, chi sono io per discutere?
– Sì, signore – replicò Parmenion, salutando.
Il suo sguardo si spostò per un istante su Leonida, che aveva smesso di giocare
a dadi e lo stava fissando con espressione intenta, poi s’inchinò e lasciò la stanza,
camminando con calma fino al cortile. Una volta là, però, spiccò la corsa e aggirò
la casa, raggiungendo le stalle dove il castrato era stato spazzolato e pettinato e lo
shabraque di pelle di leone era stato sistemato con cura su una rastrelliera.
Parmenion lo drappeggiò in fretta sul dorso del cavallo, eliminando le pieghe con
le mani prima di afferrare la criniera dell’animale e di balzargli in groppa.
Nello stesso momento sentì alle proprie spalle un rumore di piedi in corsa e
subito spronò il castrato, oltrepassando al galoppo la figura in corsa di Leonida.
– Aspetta! – gridò il giovane.
Il castrato uscì a precipizio sulla via principale, poi Parmenion lo costrinse a
rallentare fino a raggiungere le porte principali, lasciandolo però libero di
galoppare rapido verso le montagne una volta che le ebbe superate.
Guardandosi alle spalle, notò che due cavalieri stavano lasciando a loro volta al
galoppo la città. Il suo castrato arrivò in cima ad una salita con il respiro affannoso
e Parmenion fu costretto a rallentare per farlo riposare, ma la tempo stesso imboccò
stretti sentieri e piste insidiose su cui pensava che gli inseguitori non si sarebbero
addentrati.
Però si sbagliava. Mentre si stava accampando in una grotta su un costone, sentì
un rumore di cavalli al passo sulla ghiaia all’esterno, e il fuoco che aveva appena
acceso gli impedì di nascondere la propria presenza.
– Venite dentro al calore del fuoco – chiamò, mantenendo un tono allegro e
tranquillo.
Un momento più tardi due uomini si addentrarono nella grotta, uno alto e
pesante, con la barba scura, l’altro snello ma muscoloso. Entrambi avevano spada e
corazza.
– Leonida desidera parlare con te – affermò l’uomo barbuto. – Come ti chiami,
amico?
– Andicles. E tu? – replicò Parmenion, alzandosi in piedi.
– Qual è la tua famiglia? – insistette l’uomo. – Dove vivi?
– In base a quale diritto mi interroghi, Scirita? – tempestò Parmenion. – Da
quando in qua gli schiavi infastidiscono così i loro padroni?
– Sono un uomo libero e un guerriero – dichiarò lo Scirita, arrossendo in volto,
– e anche se non sono uno Spartano non intendo accettare insulti.
– Allora non essere il primo ad offendere! – scattò Parmenion. – Io sono un
messaggero del re e non devo rispondere a nessun uomo. Chi è questo Leonida, che
si arroga il diritto di mandarvi a interrogarmi?
– Per tutti gli dèi! – esclamò in quel momento l’uomo snello, che si era
avvicinato maggiormente. – Leonida aveva ragione! Sei proprio tu, Parmenion!
Parmenion socchiuse gli occhi nel riconoscere l’uomo: era Asiron, uno dei
ragazzi che lo avevano tormentato negli Alloggiamenti Licurgo, dieci anni prima.
– È ovvio che qui ci deve essere qualche errore – affermò, sorridendo.
– No – ribatté Asiron. – Ci scommetterei la vita.
– È quello che hai fatto – esclamò Parmenion, estraendo la spada e sferrando un
rapido colpo di rovescio alla gola dello Spartano.
Asiron si gettò all’indietro davanti alla lama lucente, ma già il sangue gli stava
sprizzando dalla ferita al collo.
Intanto lo Scirita scattò sulla sinistra, estraendo a sua volta la spada con un
sorriso da lupo.
– Finora non ho mai ucciso uno Spartano – sibilò, – ma ho sempre desiderato di
farlo.
Attaccò quindi con rapidità accecante; Parmenion parò e si ritrasse avvertendo
un senso di bruciore all’avambraccio destro... abbassando lo sguardo vide che stava
perdendo sangue da una ferita poco profonda.
– Credo che ti prenderò una fetta per volta – affermò lo Scirita, – a meno che tu
non preferisca arrenderti e metterti alla mia mercé.
– Sei molto abile – osservò Parmenion, mentre prendevano a girarsi intorno.
Lo Scirita sorrise senza replicare, poi si lanciò ancora all’attacco con una finta
al ventre, deviando in ultimo la spada in alto verso la faccia di Parmenion: la lama
scivolò spaventosamente vicina alla sua gola e la punta della spada gli lacerò la
pelle della guancia.
– Una fetta per volta – ripeté lo Scirita.
Parmenion si spostò a sinistra, in modo da mettere il fuoco fra loro, poi fece
scivolare il piede in avanti verso le fiamme e scagliò alcuni rami accesi contro la
faccia dello Scirita: il suo avversario indietreggiò incespicando, con la barba unta
d’olio in fiamme, e Parmenion gli fu subito addosso, piantandogli la spada
nell’inguine. Urlando, il guerriero tentò di vibrare un fendente, ma Parmenion si
abbassò e liberò al tempo stesso la propria lama. Un vivido fiotto di sangue
arterioso scaturì dalla ferita, inondando la gamba dello Scirita, e Parmenion si
trasse indietro, aspettandosi di veder cadere l’avversario... ma questi gli si lanciò
contro. Parmenion riuscì a parare un rapido affondo ma il pugno dell’uomo lo
raggiunse al mento e lo fece cadere sul suolo della grotta, dove lui ebbe la
prontezza di rotolare di lato per evitare la lama dell’avversario, che andò a cadere
accanto alla sua testa scagliando nell’aria una pioggia di scintille. Lo Scirita
barcollò, con il sangue che si raccoglieva in una pozza ai suoi piedi.
– Per gli dèi – borbottò, con la voce impastata. – Credo che tu mi abbia ucciso,
ragazzo.
Poi crollò in ginocchio e lasciò cadere la spada.
Riposta l’arma nel fodero, Parmenion sorresse l’avversario quando questi si
accasciò da un lato e lo adagiò al suolo, sedendogli accanto e guardando il suo
volto che si faceva sempre più pallido.
– Non... sono mai... riuscito... ad uccidere... uno Spa... – mormorò l’uomo, poi
gli occhi gli si chiusero e l’ultimo respiro gli rantolò in gola.
Alzatosi in piedi, Parmenion si accostò ad Asiron. Il giovane aveva picchiato la
testa contro la parete della grotta quando era balzato indietro per difendersi dal
fendente e il taglio che aveva riportato alla gola non era profondo, come
dimostrava il fatto che il sangue si stava già coagulando. Togliendogli la cintura,
Parmenion gli legò le mani dietro la schiena e riaccese il fuoco, poi si tolse i
sandali per dare sollievo al piede destro ustionato dalle fiamme e li scagliò
dall’altra parte della grotta. Asiron impiegò più di un’ora a svegliarsi: allorché
tornò in sé cercò in un primo tempo di lottare contro i legami, poi rinunciò e fissò
lo sguardo su Parmenion.
– Cane traditore! – sibilò.
– Sì, sì – replicò Parmenion, in tono stanco. – Sentiamo prima tutti gli insulti...
così dopo potremo parlare.
– Io non ho nulla da dirti – affermò Asiron, poi il suo sguardo si spostò sul
corpo dello Scirita e lui sgranò gli occhi per la sorpresa. – Dèi, non avrei mai
creduto che potesse essere battuto in un duello con la spada!
– Tutti gli uomini possono essere battuti – osservò Parmenion. – Cosa ti ha
detto Leonida?
– Gli era parso di averti riconosciuto, ma non ne era certo, quindi ha mandato
me... e Damas... ad intercettarti.
– Non ne era certo... questo è un bene – annuì Parmenion. – Allora l’esercito
spartano sta già marciando contro il nemico. Mi chiedo se stiano intonando canti di
battaglia che parlano di gloria. Tu che ne pensi, Asiron?
– Penso che tu sia una vile creatura bastarda.
– È questo il modo di parlare ad un vecchio amico che ha deciso di non
ucciderti?
– Non otterrai ringraziamenti da me.
– Ricordi la notte precedente i Giochi del Generale, quando tu, Learcus e
Gryllus mi avete assalito? – chiese Parmenion, con una risata sommessa. – Ho
trascorso quella notte nascosto sull’acropoli, sognando il giorno in cui vi avrei
potuti ripagare di tutto. Ma del resto i bambini sono pieni di fantasie, giusto?
Mentre tu te ne stai seduto lì, io ho appena mandato un esercito di Sparta ad
invadere Atene, e il mio cuore sta ardendo di soddisfazione.
– Mi dai la nausea! Dov’è la tua fedeltà? E il tuo senso dell’onore?
– Onore? Fedeltà? Ecco, credo che siano stati spremuti fuori dal mio animo a
colpi di bastone da quei buoni gentiluomini spartani tuoi pari che insistevano nel
ritenere che fossi un Macedone... e che non avessi nulla di spartano. A chi dovrei
esprimere la mia fedeltà? – domandò, mentre la voce gli si induriva. – Al popolo
che ha ucciso la donna che amavo? Alla città che mi ha reso un fuoricasta? No,
Asiron, ti ho lasciato in vita per un motivo molto semplice: voglio che tu riferisca a
Leonida che sono stato io ad organizzare la riconquista della Cadmea... e a mettere
Sparta contro Atene. E c’è di più, mio caro, vecchio amico. Sarò ancora io a vedere
Sparta distrutta, i suoi edifici rasi al suolo e il suo potere annientato.
– Chi credi di essere? – domandò Asiron, con una secca risata priva di
umorismo.
– Ti dirò io chi sono – rispose Parmenion, con le parole di Tamis che gli
echeggiavano nella mente. – Sono Parmenion, la Morte delle Nazioni.
Poco dopo l’alba, Parmenion lasciò andare Asiron e si avviò verso Tebe. I tagli
al braccio e al volto stavano guarendo in fretta, ma il piede destro ustionato e
coperto di vesciche ebbe l’effetto di metterlo di cattivo umore mentre si dirigeva al
trotto verso le porte cittadine. Una freccia gli sibilò accanto, poi una seconda e lui
si affrettò a girare il cavallo e a portarsi fuori tiro mentre parecchi cavalieri gli
venivano incontro con la spada sguainata. Subito Parmenion si strappò dalla testa
l’elmo spartano e si fermò per aspettarli.
– Sono io! – gridò. – Parmenion!
I cavalieri, fra i quali riconobbe anche due membri della banda Sacra, lo
circondarono e presero a tempestarlo di domande, ma lui li zittì con un gesto e
proseguì alla volta della città per fare il suo rapporto ad Epaminonda.
Quattro giorni più tardi Parmenion venne svegliato a mezzanotte da alcune
grida che echeggiavano fuori della sua casa. Alzatosi dal letto con irritazione, si
gettò un mantello intorno al corpo nudo e si avviò giù per le scale, incontrandosi
con Mothac nel cortile.
– Chiunque sia, gli fracasserò il cranio – brontolò il Tebano, mentre l’ignoto
schiamazzatore cominciava a picchiare contro le porte. Non appena Mothac aprì i
battenti, Pelopida entrò di corsa seguito da Epaminonda. Il guerriero tebano, che
era manifestamente ubriaco, afferrò Parmenion per la vita e lo sollevò in aria,
facendolo ruotare su se stesso.
– Ce l’hai fatta! – gridò. – Dannazione, ce l’hai fatta!
– Mettimi giù, idiota! Mi stai rompendo le costole. Pelopida lo lasciò andare e
si girò verso Mothac.
– Non te ne stare lì a bocca aperta, uomo! Prendi del vino! Questo è un
festeggiamento.
– Devo rompergli la faccia? – chiese Mothac a Parmenion, senza muoversi di
un millimetro.
– Credo di no. È meglio che tu prenda il vino – rise lo Spartano, poi spostò lo
sguardo su Epaminonda, aggiungendo: – Cosa sta succedendo?
– Un’ora fa è arrivato un messaggero da parte di Calepios, che è ad Atene.
Sphodrias e il suo esercito sono apparsi a nord della città, all’alba di tre giorni fa.
Hanno devastato alcuni villaggi e sono avanzati verso il Pireo. A quel punto un
contingente ateniese è uscito per incontrarli accompagnato dall’ambasciatore di
Sparta, e Sphodrias è stato costretto a ritirarsi. Per tutti gli dèi, avrei voluto essere
là a vedere.
– Ma poi cosa è successo? – insistette Parmenion.
– Lascia che sia io a dirglielo! – intervenne Pelopida, con un sogghigno in
tralice sul volto pervaso da una gioia quasi infantile.
– Continua tu, nobile Pelopida – replicò Epaminonda, con un inchino.
– Gli Ateniesi non erano contenti, oh, no! Il loro consiglio si è riunito ed hanno
deciso di mandare... dolce Zeus, quanto mi piace questo... hanno deciso di mandare
cinquemila opliti e seicento cavalieri in difesa di Tebe. Cinquemila!
– Sono notizie meravigliose – commentò Epaminonda, accettando un boccale
di vino da Mothac mentre Pelopida entrava barcollando nell’androne e si stendeva
su un divano.
– Non è una conclusione ma è un buon inizio – replicò Parmenion, in tono
quieto. – Cosa è successo a Sphodrias?
– È stato richiamato a Sparta... con il suo esercito. La Beozia è libera... tranne
che per le guarnigioni.
– Così adesso Sparta e Atene sono in guerra – sussurrò Parmenion. –
Dovremmo essere al sicuro... almeno fino alla prossima primavera.
– Ed ora le altre città della Beozia cercheranno di liberarsi a loro volta delle
guarnigioni spartane – annuì Epaminonda. – Pelopida lascerà la città domani con la
Banda Sacra per andare in aiuto dei ribelli di Tanagra. Credo che possiamo vince-
re, Parmenion, lo credo davvero.
– Non tentare gli dèi – ammonì Mothac.
– Molto tempo fa mi è stato detto che sarei morto nella battaglia di Mantinea –
rise Epaminonda. – La cosa mi ha spaventato moltissimo, perché la veggente in
questione era la famosa Tamis, amata dagli dèi. Puoi quindi immaginare come mi
sentivo quando insieme a Pelopida mi sono trovato a combattere a Mantinea contro
gli Arcadi. Eravamo circondati e Pelopida è caduto sotto le ferite. Io ho mantenuto
la mia posizione, pronto a morire, ma non sono morto. E perché? Perché non
esistono dèi e tutte le profezie possono essere distorte in modo da significare ciò
che chi le sente vuole che significhino. Tentare gli dèi, Mothac? Io li sfido. Del
resto, anche ammesso che esistano, sono troppo interessati a cambiare la loro
forma e a placare i loro desideri con qualsiasi cosa si muova per preoccuparsi di
quello che un singolo mortale può pensare di loro. Ora penso che dovrei
raccogliere Pelopida e accompagnarlo a casa – concluse, poi di colpo afferrò
Parmenion per un braccio e il sorriso gli svanì dal volto mentre aggiungeva: –
Ancora una volta sei il nostro salvatore, mio spartano amico, e non posso dirti
quanto ti sono grato. Un giorno troverò il modo di ripagarti.
Pelopida si era addormentato sul divano, ma Epaminonda lo scosse fino a
svegliarlo e lo issò in piedi, guidandolo verso le porte. Immediatamente il Tebano
ubriaco intonò un canto di marcia e i due uomini si allontanarono nell’oscurità.
Parmenion liberò la spada dal cadavere e si allontanò dalla soglia. Una lama
calò verso la sua faccia ma lui parò con la spada e sferrò un sinistro al mento
dell’aggressore, mandandolo a sbattere contro il terzo sicario che era ancora sulle
scale. Entrambi gli uomini incespicarono e Parmenion balzò loro addosso a piedi in
avanti, raggiungendo con il piede destro il mento del primo uomo. I sue sicari
rotolarono fino al piano di sotto e Parmenion scavalcò la ringhiera della scala,
lasciandosi cadere nell’androne sottostante mentre i due uomini si rialzavano in
piedi.
– Adesso sei morto, mezzosangue – borbottò il primo.
I due si separarono, avanzando dai due lati, ma Parmenion sferrò un attacco
improvviso contro l’uomo sulla destra per poi ruotare su un tallone e calare la
spada sulla gola dell’avversario di sinistra che stava scattando in avanti.
L’assassino cadde al suolo con il sangue che fiottava sui tappeti persiani che copri-
vano il pavimento di pietra e l’ultimo sicario prese a muoversi con cautela, il volto
barbuto che brillava per il sudore.
– Non sono facile da uccidere – mormorò Parmenion, in tono sommesso.
L’uomo indietreggiò verso la porta, ma Mothac incombette alle sue spalle e gli
piantò una daga nei polmoni.
Il sicario si accasciò senza un suono.
Mothac oltrepassò la soglia barcollando e si andò a sedere nel cortile, con l’elsa
di bronzo di un coltello che gli sporgeva dalla spalla. Parmenion accese un paio di
lanterne ed esaminò la ferita.
– Tira fuori questo dannato arnese – grugnì Mothac.
– No, per il momento è meglio che resti dov’è. Impedirà un’eccessiva
fuoriuscita di sangue in attesa che arrivi il medico – replicò Parmenion,
versandogli un bicchiere di vino senza allungarlo con l’acqua. – Non ti muovere, io
tornerò presto con Argonas.
Protendendo una mano, Mothac lo trattenne per un braccio.
– Apprezzo il tuo desiderio di fare in fretta – disse, costringendosi a sorridere, –
ma forse sarebbe meglio se prima ti vestissi.
– Mi hai salvato la vita, Mothac – sorrise Parmenion, addolcendosi in volto, –
ed hai quasi perso la tua. Non lo dimenticherò.
– Non è stato niente, ma potresti almeno dire che faresti lo stesso per me.
Due ore più tardi, dopo che il coltello era stato rimosso e la ferita fasciata,
Mothac stava ormai dormendo e Parmenion stava tenendo compagnia ad Argonas,
osservando il grasso medico divorare un pezzo di prosciutto bagnato da quattro
boccali di vino e poi sei dolci al miele. Alla fine Argonas ruttò e si adagiò
all’indietro sul divano, che scricchiolò sotto il suo peso.
– Conduci davvero una vita interessante, mio giovane amico – commentò. –
Impersoni messaggeri spartani, combatti contro misteriosi sicari nel cuore della
notte. Mi chiedo se non ci siano pericoli a frequentarti.
– Mothac tornerà ad essere quello di prima? – chiese Parmenion, ignorando il
commento.
– La lama ha attraversato la parte carnosa della spalla, dove lui è molto
muscoloso. Non è una ferita rotonda, quindi guarirà più facilmente ed io vi ho
applicato midollo di fico, che dovrebbe aiutare il sangue a coagulare. Avrà un certo
disagio per parecchie settimane, ma i muscoli si salderanno ed entro l’estate
dovrebbe essersi rimesso.
– Ti sono assai grato, Argonas. Mothac significa molto per me.
– Già – convenne Argonas, accarezzandosi la barba, – i buoni servitori sono
difficili da trovare. Io stesso avevo un servitore della Tracia, un uomo meraviglioso
che anticipava ogni mia esigenza prima che mi rendessi conto che esistesse. Non
ho più trovato uno come lui.
– Cosa gli è successo? – domandò Parmenion, più per cortesia che per effettivo
interesse.
– È morto – rispose Argonas, in tono triste. – Soffriva di un cancro nel cervello,
come il tuo, ma era un uomo che non parlava mai dei suoi problemi e quando
infine è crollato era ormai troppo tardi per impedire che morisse. Non dimenticare
mai di prendere l’infuso di silphium, amico mio, perché una morte del genere è
dolorosa a vedersi e ancor più penosa a patirsi. Devo peraltro dire che il tuo
servitore ha trovato per te una cura davvero nuova... la userei io stesso se non
avessi già abbastanza problemi con i miei colleghi.
– Credevo che fosse stato il siplhium a guarirmi – osservò Parmenion.
– Infatti, ma era prima necessario riportarti alla coscienza perché potessi berlo.
Quel Mothac è un uomo premuroso e intelligente, e se mai dovesse decidere di
lasciare il tuo servizio mi farebbe immenso piacere assumerlo.
– Sì, sì, ma cosa ha fatto?
– Non lo ricordi?
– Per pietà, Argonas! Se lo ricordassi, pensi che lo chiederei a te? – scattò
Parmenion, con crescente irritazione.
– Ha portato nel tuo letto la tua prostituta preferita: una sacerdotessa di
Afrodite. Pare che la forza di vivere si rafforzi notevolmente in un uomo il cui
desiderio viene risvegliato.
– No – sussurrò Parmenion, – non è stato così. È stata Derae a venire da me.
Argonas si issò in piedi con un’espressione preoccupata negli occhi scuri.
– Mi dispiace, Parmenion, ho parlato a sproposito... attribuiscilo ad un eccesso
di vino e alla mancanza di sonno. Forse si è trattato di entrambe le donne... Derae
nello spirito e la sacerdotessa nella carne.
Parmenion quasi non lo sentì, perché stava ricordando la sacerdotessa ferma
sulla porta, il suo sorriso, il suo profumo, l’ira e il dolore nei suoi occhi, la porta
che si chiudeva con violenza.
– Hai riflettuto sul perché quei sicari abbiano cercato di ucciderti? – domandò
Argonas.
– Cosa? No, non riesco a immaginare una ragione. Forse erano soltanto ladri.
– Ladri senza tasche o sacchi? Non credo. Bene, ora devo andare. Tornerò
domani per controllare la ferita di Mothac e intascare la mia parcella.
– Sì. Ti ringrazio – rispose Parmenion, in tono distratto.
– E bada a dove cammini, amico mio. Chiunque ha assoldato quegli uomini ne
può sempre assoldare degli altri.
Due giorni più tardi, Parmenion ricevette la visita dell’ufficiale anziano della
milizia cittadina. Menidis aveva quasi settant’anni ed era stato un soldato per oltre
mezzo secolo; negli ultimi dieci anni aveva comandato la piccola milizia che
operava all’interno della città ed era responsabile del pattugliamento delle strade
con il buio e della difesa delle grandi porte di Tebe.
– Quegli uomini erano stranieri – esordì Menidis, scrutando Parmenion con i
suoi acuti occhi grigi da sotto le sopracciglia cespugliose. – Sono giunti in città
quattro giorni fa dalle Porte Proitiane, dicendo di essere arrivati di recente da
Corinto e di essere interessati a comprare carri da guerra tebani. Io sono convinto
che venissero da Sparta. – Il vecchio soldato fece una pausa e attese di vedere
l’effetto che le sue parole avevano avuto sul giovane che gli sedeva davanti, ma
Parmenion rimase impassibile. – Il ruolo che tu hai avuto nel liberarci dalla do-
minazione di Sparta è risaputo – proseguì, – e credo che quegli uomini siano stati
assoldati per ucciderti.
– Hanno fallito – replicò Parmenion, scrollando le spalle.
– Questa volta, ma supponiamo per un momento che siano stati pagati da un
ricco nobile. Uomini del genere sono facili da trovare, e purtroppo lo sei anche tu.
– Mi suggerisci di lasciare Tebe?
– Quello che fai riguarda soltanto te – ribatté il vecchio, con un sorriso. – Potrei
ordinare ad alcuni dei miei uomini di proteggerti dovunque vai e di vegliare sul tuo
sonno, e del resto il nobile Epaminonda ha richiesto che poniamo almeno delle
sentinelle davanti alle tue porte, ma ci saranno sempre momenti in cui ti troverai a
camminare in un viale affollato o ti fermerai al mercato per comprare qualcosa, e
un assassino deciso potrà sempre raggiungerti.
– È vero – ammise Parmenion, – ma non sono propenso a fuggire. Questa è la
mia casa e non voglio le tue guardie qui, anche se ti ringrazio per l’offerta. Se un
assassino deve uccidermi, così sia... ma non sarò una facile vittima.
– Se non fosse stato per il tuo servitore tebano – sottolineò Menidis, – saresti
stato la più facile delle vittime, perché un uomo che dorme può opporre ben poca
resistenza. Tuttavia la scelta è tua e tu hai già deciso – concluse il soldato, alzan-
dosi e allacciandosi l’elmo sotto il mento.
– Dimmi una cosa – chiese Parmenion. – Mi pare di avvertire che non t’importi
molto che quei sicari abbiano successo o meno... come mai?
– Sei molto astuto ed io sono convinto che si debba essere sempre onesti,
quindi ti risponderò. Il fatto che tu abbia deciso di tradire la tua città e di aiutare
Tebe mi dà motivo di esserti grato, ma sei pur sempre uno Spartano, ed io
disprezzo gli Spartani. Ti auguro una buona giornata.
Scuotendo il capo, Parmenion osservò il vecchio allontanarsi... in modo strano,
le parole di Menidis lo preoccupavano più dell’aggressione di quella notte. Con
passo lento e riflessivo, entrò nella stanza di Mothac, dove il servo stava
imprecando mentre tentava di infilare il braccio ferito nel chitone.
– Lascia che ti aiuti – offrì Parmenion, – anche se Argonas ha insistito che
dovresti rimanere a letto per una settimana.
– Due giorni mi sono sembrati una settimana – scattò Mothac.
– Te la senti di camminare?
– Ma certo! Sembro forse un invalido?
Scrutando in volto il Tebano, Parmenion lesse l’ira nei suoi occhi: le guance di
Mothac erano tanto arrossate da avere quasi lo stesso colore della sua barba e il suo
respiro era accelerato.
– Sei un uomo cocciuto, ma faremo come vuoi e usciremo a passeggiare.
Parmenion si armò di spada e di daga, e insieme i due raggiunsero a passo lento
i giardini sul lato orientale del pendio della Cadmea, dove c’erano alcune fontane
per rinfrescare la brezza e fiori che crescevano tutto l’anno. I due uomini sedettero
vicino ad un corso d’acqua poco profondo, sotto le foglie ingiallite di un salice, e
Parmenion riferì la sua conversazione con Menidis.
– Non si è certo ammorbidito con l’età, vero? – ridacchiò Mothac. – Due anni
fa ha arrestato due soldati spartani, fracassando loro il cranio e sostenendo che
stavano molestando una donna tebana di rango, il che è un’assurdità, perché le
donne tebane di rango non hanno il permesso di circolare nelle strade.
– In questo, se non altro, siete arretrati rispetto a Sparta – osservò Parmenion. –
Là le donne camminano liberamente quanto gli uomini, senza restrizioni.
– Vergognoso – osservò Mothac. – Allora come si fa a distinguerle dalle
prostitute?
– A Sparta non ci sono prostitute.
– Non ce ne sono? Incredibile! Non mi meraviglia che gli Spartani siano tanto
ansiosi di conquistare altre città.
– Visto che stiamo parlando di prostitute, Mothac, dimmi qualcosa della notte
che ne hai portata una nel mio letto.
– Come lo hai scoperto?
– Non ha importanza. Perché non me lo hai detto?
Mothac scrollò le spalle, poi sussultò per la fitta di dolore che questo provocò
alla ferita e tentò di massaggiarsela, ottenendo soltanto di peggiorare le cose.
– Eri convinto che fosse stato un miracolo. Volevo dirti la verità, ma... ma non
l’ho fatto. Non ci sono scusanti e mi dispiace, ma non sono riuscito a pensare ad
altro. Comunque a funzionato, giusto?
– Ha funzionato – convenne Parmenion.
– Sei irato?
– Soltanto un po’ triste. Era piacevole sentire che Derae fosse tornata per me...
sia pure soltanto in sogno. Forse ha ragione Epaminonda quando dice che gli dèi
non esistono, anche se spero che si sbagli: quando guardo il cielo, o il mare, o un
bel cavallo, mi piace credere negli dèi, mi piace sentire che c’è un ordine di
qualche tipo, un significato per l’esistenza.
– Capisco cosa vuoi dire... ed io ci credo – dichiarò Mothac, annuendo. – Ci
devo credere, perché dall’altra parte c’è qualcuno che mi aspetta, e se non avessi
questa convinzione mi taglierei la gola.
– È morta il giorno che sei venuto da me – disse Parmenion. – Si chiamava
Elea.
– Come lo sai?
– Quel primo giorno ti ho seguito ed ho visto la processione funebre. Dopo che
te ne sei andato... per uccidere Cletus, a quanto è risultato poi... mi sono avvicinato
alla tomba per porgere i miei omaggi.
– Era una donna meravigliosa – mormorò Mothac. – Non si lamentava mai... e
quando chiudo gli occhi vedo ancora il suo volto.
– Almeno tu hai avuto più di cinque giorni – sussurrò Parmenion, alzandosi. –
Torniamo indietro. Credo che tu sia più stanco di quanto sembri.
All’improvviso un uomo emerse dall’ombra alle loro spalle: la spada di
Parmenion fendette l’aria e l’uomo si ritrasse d’un balzo, con le mani alzate e la
bocca spalancata per lo spavento.
– Non ho armi! Non ne ho! – gridò. Alle sue spalle c’era un bambino di circa
sette anni che si teneva aggrappato al mantello del padre.
– Mi dispiace – si scusò Parmenion, – ma mi hai spaventato.
Riposta la spada nel fodero, indirizzò un sorriso al bambino, che però scoppiò
in pianto.
– Sei più preoccupato di quanto tu dia a vedere – osservò Mothac, mentre
cominciavano la lunga camminata fino a casa.
– Sì, perché mi spaventa sapere che un coltello, una spada o una freccia
potrebbero arrivare da qualsiasi direzione. Tuttavia, se lasciassi Tebe sarei per
sempre ciò che ero quando sono arrivato qui... un povero. Ho investito del denaro
in parecchie imprese commerciali, ma devo ancora restituire ad Epaminonda la
somma che ha pagato per la casa.
– Meglio povero e vivo – commentò Mothac, – che ricco e morto.
– Meglio ancora essere ricco e vivo.
– Potresti unirti alla Banda Sacra. Pelopida sarebbe felice di averti con sé e
anche il più incallito degli assassini avrebbe difficoltà ad avvicinarti.
– Questo è vero – convenne Parmenion, – ma non intendo servire agli ordini di
nessun uomo... tranne forse di Epaminonda, perché lui ed io pensiamo nello stesso
modo. Pelopida è troppo impulsivo e non conviene essere impulsivi quando ci si
trova di fronte gli Spartani.
– Pensi ancora che abbiamo la forza di affrontarli?
– Non è questione di pensarlo, Mothac, io lo so. Per ora però dobbiamo
mantenere una posizione di stallo e rifiutare uno scontro in campo aperto. Quel
momento arriverà, ma dobbiamo avere pazienza.
Dopo che gli uomini se ne furono andati, Tamis si avvicinò alla polla e si
spruzzò il volto di acqua fresca.
– Perché mi hai fermata? – domandò Derae, sedendole accanto.
– Hai toccato Leucion, quindi sai perché è venuto. Lo Spirito del Caos stava
operando per suo tramite.
– Ma avrei potuto ucciderlo.
– E chi avrebbe vinto, Derae? Chi avrebbe conseguito la vittoria? Al Dio
Oscuro non importa nulla di Leucion: lui sapeva che quell’uomo non poteva
distruggerti, ed era te che stava cercando di mettere alla prova. Noi non possiamo
usare le sue armi, perché ogni piccola vittoria conseguita in quel modo porta ad
una sconfitta futura. Io lo so, perché ho ucciso degli uomini. Leucion troverà amore
e felicità a Tiro, alleverà figli che diventeranno uomini buoni e orgogliosi, ma non
dimenticherà mai questo giorno.
– Né lo dimenticherò io – replicò Derae, con un sorriso.
Tamis poté avvertire la sua soddisfazione e per un fugace momento si fuse con
lei, toccando la sua anima come un sussurro che non poteva essere sentito: la
donna spartana stava ricordando con soddisfazione come gli uomini si erano
lanciati sul loro compagno, stava godendo del ricordo del potere.
Tamis si issò in piedi e tornò nella propria stanza. Era stanca e mancò di vedere
l’ombra scura che si stava formando sulla parete alle sue spalle. Sedutasi sul letto,
si versò un bicchiere d’acqua e in quel momento una mano dotata di artigli lunghi e
ricurvi emerse dalla parete dietro di lei; contemporaneamente, l’acqua fredda
venne a contatto con un dente marcio e Tamis si alzò in piedi con un grugnito di
dolore proprio mentre il sole sbucava da dietro una nuvola e i suoi raggi entravano
nella stanza dalla finestra, proiettando sul letto l’ombra degli artigli. Tamis si girò
di scatto nell’istante in cui essi saettavano verso il suo volto. Di scatto sollevò il
braccio e la luce che le scaturì dalle dita si trasformò in un lucente scudo dorato.
Gli artigli stridettero contro di esso e la parete perse consistenza, facendosi meno
solida del fumo quando una grossa testa si spinse fuori di essa. Lentamente la cosa
emerse nella stanza, protendendo verso la vecchia veggente le braccia enormi e le
mani munite di artigli.
– Vattene! – tuonò Tamis, indicando la creatura, ma la luce stava svanendo
dalle sue mani e comprese di aver usato una quantità eccessiva di potere per
risanare l’uomo ucciso.
La creatura si lanciò contro lo scudo, che si spezzò in due e scomparve, poi gli
artigli agganciarono i vestiti di Tamis e lei si sentì trascinare sul pavimento di
pietra verso il buco oscuro là dove prima c’era stata la parete.
La porta si aprì...
Una fiammeggiante lancia di luce colpì il demone in pieno petto. Fumo e
fiamme si levarono dalla bestia e un urlo terribile pervase l’aria, poi gli artigli si
liberarono dalle vesti di Tamis e la creatura si girò contro Derae.
Attendendo che il demone le fosse addosso, la Spartana protese entrambe le
braccia e scariche di lampi le scaturirono dalle dita. La creatura venne scagliata al
suolo e cercò di rialzarsi, ma una luce azzurra l’avvolse, incatenandole le braccia e
le gambe immani.
Derae avanzò fino a fermarsi accanto alla bestia, incombendo su di lei.
– Vattene! – sussurrò, e subito una folata di vento risucchiò il demone
attraverso la parete, che tremolò e tornò ad essere di pietra.
– Hai... agito... bene – approvò Tamis, aggrappandosi al lato del letto per issarsi
in piedi.
– Cos’era quella... cosa?
– Un Cacciatore Notturno. I nostri nemici hanno infranto l’incantesimo che
avevo posto sul tempio, ed ora mi dovrai aiutare a formarne un’altro.
– Sai chi sono i nostri nemici?
– Certamente. Il loro capo si chiama Aida.
– Non possiamo attaccarli?
– Tu non mi ascolti. Non possiamo usare le loro armi.
– Non sono convinta – obiettò Derae. – Come possiamo combatterli se sono
loro ad avere tutte le armi?
– Fidati di me, bambina. Non ho risposte che ti possano convincere. Fidati di
me.
Tamis si distese sul letto e chiuse gli occhi, incapace di guardare la giovane
sacerdotessa: quel giorno la Spartana aveva assaporato due volte le gioie del
potere...
E mentre sprofondava in un sonno spossato a Tamis parve quasi di sentire la
risata del Dio Oscuro.
Giunta alla fine della sua stagione al Tempio di Afrodite, Thetis percorse le
strette strade che portavano alla sua casa nella parte meridionale della città. Una
volta arrivata, lavò via il belletto e gettò in un angolo il lucido chitone e il sottile e
colorato clamis; infilatasi un abito di cotone bianco, si stese su un divano e rimase
a contemplare quegli abiti sporchi: l’indomani li avrebbe bruciati e non avrebbe
visitato mai più il Tempio di Afrodite. Al contrario di molte altre ragazze, lei aveva
investito saggiamente i suoi guadagni presso tre mercanti impegnati nel commercio
delle spezie e presso un altro di Tespi che allevava e addestrava cavalli da guerra.
Adesso la sua posizione finanziaria era sicura: quella casa le era costata
novecentoottanta dracme e aveva anche potuto assumere una serva, una ragazza di
quindici anni della Tessaglia che viveva in una piccola alcova sul retro della
cucina.
Da questo momento in poi la sua vita sarebbe stata priva di preoccupazioni,
senza mani sudate che la palpassero, senza i grugniti dei fedeli che le echeggiavano
nell’orecchio.
Senza Damon, si trovò a pensare, e chiuse gli occhi, appoggiandosi all’indietro
e stringendosi al corpo il cuscino ricamato.
Senza Damon...
Come aveva potuto una persona tanto giovane e atletica morire in quel modo,
crollando sul terreno di addestramento dopo una corsa? Il chirurgo aveva parlato di
una debolezza del cuore, e tuttavia lui era stato tanto forte, con il corpo privo di
grasso e i muscoli saldi e finemente cesellati quanto quelli di Eracle. No, Damon
non aveva nessuna debolezza di cuore, Thetis ne era certa. Era stato abbattuto dagli
dèi che erano gelosi della sua bellezza, e Thetis era stata privata del solo amore che
avrebbe mai conosciuto.
Per qualche tempo sonnecchiò sul divano, poi si alzò e passò in cucina, dove
mangiò pane e formaggio accompagnato da un po’ di acqua fresca. La serva, Cleo,
stava russando sommessamente sul suo letto, e Thetis si mosse per la cucina senza
fare rumore per non svegliarla.
Soddisfatta la fame, tornò al suo divano. I vestiti ammucchiati sul pavimento
attirarono ancora la sua attenzione e si rese conto di non poter aspettare l’indomani
per bruciarli. Estratto il piccolo coltello ricurvo che portava con sé per protezione
personale, ridusse lentamente gli indumenti in minuscoli pezzi fino a quando parve
che il pavimento intorno al divano fosse cosparso di petali di fiore.
Aveva trascorso sei anni di vita indossando quegli abiti... sei lunghi anni pieni
di uomini senza volto e senza nome: barbuti o glabri, grassi o magri, giovani o
vecchi, desideravano tutti lo stesso servizio.
Scosse il capo, cercando di cancellare i ricordi, e il volto di Parmenion affiorò
nella sua mente. Aveva pensato spesso a lui nei mesi trascorsi da quando lo aveva
riportato indietro dalla morte, e si rese conto che questo dipendeva dal contrasto fra
il silenzioso animale in calore che era solito visitarla e l’amante dolce e
appassionato che aveva conosciuto in quella singola notte, mentre lui sognava di...
qual era il suo nome? Derae?
Fisicamente così dissimile dal possente Damon, tuttavia Parmenion possedeva
le stesse qualità di tenerezza e di comprensione dei suoi bisogni. No, ricordò a se
stessa, non dei suoi bisogni: di quelli di Derae.
Tenendo il cuscino stretto a sé si addormentò di nuovo, svegliandosi all’alba.
Nella stanza oltre la cucina, Cleo aveva preparato un bagno caldo e Thetis entrò
nella vasca, restando immersa per qualche tempo prima di lavare anche i corti e
ricci capelli rossi. Allorché si alzò in piedi, Cleo le avvolse intorno un asciu-
gamano caldo per asciugarla, poi le cosparse il corpo di olio profumato e lo grattò
con un coltello d’osso dalla lama arrotondata.
Quando ebbe finito, Thetis indossò un chitone di lino azzurro lungo fino alla
caviglia ed uscì nel cortile, che per quanto lungo e stretto era esposto al sole del
primo mattino; oltre le porte poteva sentire la gente che si muoveva per le strade e
il lontano battere del maglio nella fucina di Norac il fabbro. Per circa un’ora rimase
seduta al sole, poi tornò dentro e raccolse un lavoro di ricamo che aveva
cominciato tre anni prima, una serie di quadrati e di cerchi intrecciati nelle tonalità
del marrone, del verde e del giallo. Ricamare serviva a calmarle la mente.
– C’è un uomo che ti cerca, padrona – avvertì Cleo.
– Un uomo? Non conosco nessun uomo – rispose lei, rendendosi conto mentre
lo diceva che era vero. Si era accoppiata con centinaia, forse migliaia di uomini, e
tuttavia non ne conosceva nessuno.
– Ha chiesto di parlare con te.
– Come si chiama?
La ragazza arrossì e corse nel cortile, tornando dopo un momento con la
risposta.
– Si chiama Parmenion, padrona.
Thetis trasse un profondo respiro, cercando di ricomporsi.
– Fallo entrare, e lasciaci soli – disse poi.
– Lasciarvi soli, padrona? – ripeté Cleo, sorpresa.
– Se avrò bisogno di te ti chiamerò – sorrise Tamis.
Tornò quindi al proprio ricamo mentre la ragazza accompagnava Parmenion da
lei, e sollevò lo sguardo sul visitatore con espressione severa.
– Per favore, siediti – invitò. – Cleo, porta un po’ d’acqua per il nostro ospite.
– Non sarà necessario – rispose lui, sedendosi sul divano opposto. Entrambi
rimasero in silenzio finché Cleo se ne fu andata, chiudendo la porta alle proprie
spalle.
– Non apprezzo gli ospiti che si presentano nella mia casa senza essere stati
invitati – affermò allora Thetis, – e sarei grata se ti sbrigassi a dire che cosa vuoi.
– Sono venuto per scusarmi – rispose Parmenion.
– Per cosa?
Improvvisamente lui esibì un sorriso contrito che rese il suo volto più infantile
e meno severo.
– Non ne sono certo, ma so che è necessario. Vedi, non sapevo che sei stata tu a
riportarmi indietro, quella notte.
– Sono stata pagata per questo – scattò Thetis, lottando per controllare un’ira di
cui non riusciva a capire la ragione.
– Lo so – rispose lui, in tono gentile, – ma sentivo... sento... di averti causato
dolore, ed è una cosa che non desidero.
– Vorresti che fossimo amici? – chiese lei.
– Mi piacerebbe... molto.
– La mia amicizia costava quaranta oboli – disse lei, alzandosi e gettando il
ricamo da un lato, – ma ora non più. Adesso ti prego di andartene. Potrai trovare
molte amiche al tempio, e il prezzo è sempre lo stesso.
– Non era questo che intendevo – replicò Parmenion, alzandosi, – comunque
sarà come vuoi tu. – Si avviò verso la porta ma sulla soglia si girò ancora verso di
lei, aggiungendo: – Io do molto valore all’amicizia, forse perché nella mia vita ho
avuto pochi amici. So che sei stata pagata per quello che hai fatto, ma anche così
mi hai salvato la vita e questo è un debito che porterò con me. Se mai dovessi avere
bisogno di me, io sarò a tua disposizione, senza fare domande. Che tu lo desideri o
no, sono tuo amico.
– Non ho bisogno di amici, Parmenion, ma se mai avrò bisogno di quaranta
oboli, mi ricorderò di te.
Dopo che lui se ne fu andato, Thetis si lasciò cadere sul divano e prese di nuovo
il ricamo.
– Ti tremano le mani, padrona – osservò Cleo, venendo a inginocchiarsi
accanto a lei.
– Non gli si dovrà permettere di entrare ancora qui. La prossima volta che verrà
lo fermerai alla porta. Hai capito?
– Alla porta. Sì, padrona.
Ma i giorni passarono e Parmenion non tornò... e per qualche strano motivo
questo ebbe l’effetto di aumentare l’ira di Thetis nei confronti del giovane
Spartano.
Con il trascorrere della primavera, Thetis scoprì che la sua nuova vita era
sempre più opprimente. Quando era una sacerdotessa, aveva infatti potuto
camminare per le strade di giorno e di notte, mentre nessuna donna tebana per bene
si sarebbe mai fatta vedere in giro sola se non al mercato, e la casa che era stata il
suo sogno divenne ben presto per lei una confortevole prigione. Cleo le portava
quotidianamente notizie, ma le sue conversazioni riguardavano prevalentemente i
vestiti più recenti oppure gli oli profumati o le collane, e la ragazza badò ben poco
alle informazioni sui movimenti delle truppe spartane quando esse entrarono nella
Beozia. Tutto quello che Thetis riuscì a dedurre fu che il re spartano Agisaleus era
riuscito a far passare le sue truppe attraverso i passi del Monte Citerone, nel sud, e
stava ora devastando la regione, mentre Epaminonda aveva fortificato un costone
all’esterno di Tebe con cinquemila opliti ateniesi e tremila soldati tebani.
In realtà non le importava se gli Spartani avrebbero vinto o perso, perché le
sembrava che indipendentemente dalla loro città d’origine i grugniti che le
echeggiavano negli orecchi fossero sempre gli stessi, ma la guerra stava
danneggiando i suoi investimenti, perché gli Spartani avevano confiscato l’ultima
spedizione di oppio quando i carri erano passati attraverso Platea. Per causa loro
Thetis aveva perso quasi seicento dracme e adesso stava facendo affidamento sulle
spezie asiatiche che dovevano arrivare attraverso la Macedonia per mantenere alti i
suoi profitti.
Le riflessioni sulle sue finanze finirono per indurla a ripensare al tempio, e
promise a se stessa che nulla l’avrebbe mai potuta indurre a tornare a quella vita.
Poi le affiorò nella mente il volto di Parmenion.
Dannazione a lui, pensò, perché non viene a farmi visita?
La peste scoppiò nel quartiere più povero della città, ma si diffuse in fretta.
Temendo che l’esercito potesse esserne contagiato, i consiglieri cittadini
ordinarono di chiudere e di sbarrare le porte e a nessuno venne permesso di uscire
o di entrare nella città. Una folla spaventata attaccò le guardie alle Porte di Elettra,
ma venne respinta dagli arcieri sulle mura comandati dal vecchio guerriero
Menidis.
Entro una settimana oltre un quinto dei trentamila abitanti di Tebe manifestò i
sintomi del gonfiore ghiandolare e delle chiazze rosse che apparivano sulla faccia e
sulle braccia, il conto dei morti aumentò e decine di carri furono trascinati ogni
notte per le vie cittadine per raccogliere i cadaveri che venivano lasciati davanti
alle porte delle case.
Mothac cadde vittima della malattia il nono giorno, e Parmenion lo aiutò a
raggiungere il letto prima di correre a casa di Argonas; il medico però non c’era...
il suo servo riferì a Parmenion che era impegnato a curare i malati nella parte
settentrionale della città. Lo Spartano lasciò quindi un messaggio e fece ritorno a
casa; anche se ormai il cibo scarseggiava, comprò al mercato un po’ di carne secca
e di pane stantio per il quadruplo del loro valore e preparò un brodo per Mothac.
Argonas arrivò al tramonto, con il volto segnato dalla stanchezza e gli occhi
cerchiati di scuro; dopo aver esaminato Mothac, trasse Parmenion in disparte.
– La febbre sarà intensa per due giorni, ed è importante togliere il calore dalla
pelle. Bagnalo ogni ora con acqua tiepida ma non lo asciugare, in modo da
permettere che sia il suo corpo a far evaporare l’acqua, cosa che servirà a
raffreddarlo. A quel punto soffrirà di un freddo intenso e dovrà essere avvolto in
coperte calde fino a quando la febbre tornerà a salire. Ripeti ogni volta la
procedura e assicurati che abbia acqua in abbondanza da bere... con l’aggiunta di
un po’ di sale, ma non troppo altrimenti vomiterà. Se dovesse cominciare il
gonfiore, aspetta che scoppi e spurghi e poi applica del miele.
– Non si può fare altro?
– No. Ho finito le mie erbe quattro giorni fa.
– Siediti e bevi un sorso di vino – lo invitò Parmenion, accostandosi alla caraffa
sullo scaffale della cucina.
– Non ho tempo – protestò Argonas, issandosi in piedi.
– Ascoltami – ribatté Parmenion, trattenendolo per le spalle, – se continui in
questo modo crollerai... e allora non otterrai più nulla. Siediti.
– La maggior parte dei medici è fuggita prima che bloccassero le porte – disse
Argonas, lasciandosi cadere di nuovo a sedere. – Hanno riconosciuto i sintomi in
anticipo, e adesso in città siamo pochi, troppo pochi.
– Perché non sei andato via con loro?
– Era quello che si aspettavano tutti – sorrise Argonas. – Il grasso Argonas che
vive per il denaro, guardate come scappa! Ebbene, apprezzo il denaro, Parmenion,
e amo condurre una vita di piaceri. Sono nato povero, un contadino in una terra
straniera, e molto tempo fa ho deciso che avrei assaporato tutte le cose buone e mi
sarei crogiolato nel lusso. Questo non mi rende però un medico meno coscienzioso.
Hai capito?
– Bevi il vino, amico mio, e crogiolati in un po’ di brodo a buon mercato.
– Non lo è più – commentò Argonas. – I prezzi stanno salendo molto in fretta.
– Quanto è grave l’epidemia? – domandò Parmenion, versando il brodo in una
ciotola e posandola davanti al dottore.
– Non quanto quella che ha colpito Atene. A Tebe ci sono probabilmente
ottomila persone che manifestano i sintomi della peste, ma stranamente molti di
loro si fermano prima di svilupparli del tutto. È letale nei vecchi e nei bambini, ma
gli individui giovani e forti sembrano capaci di resistere. Naturalmente molto
dipende dal gonfiore: se prende solo le ascelle c’è una possibilità di salvarsi, ma se
si estende all’inguine la morte arriva presto – spiegò Argonas, trangugiando il
brodo e alzandosi. – Devo andare. Passerò a controllare Mothac questa sera.
Parmenion lo accompagnò alla porta e lo seguì con lo sguardo mentre si
allontanava lungo la stretta via, scavalcando i cadaveri stesi in file accanto alle
porte.
Quando tornò da lui, Mothac stava sudando abbondantemente, ma aveva le
labbra screpolate e aride. Sollevata la testa del Tebano, Parmenion lo costrinse a
bere un poco, poi gli bagnò il corpo secondo le istruzioni di Argonas. Per due
giorni Mothac quasi non si mosse, e nel delirio invocò il nome di Elea e pianse. Il
terzo giorno un ampio gonfiore si manifestò sotto le ascelle e lui scivolò in uno
stato quasi di coma; per quando sfinito, Parmenion gli rimase accanto giorno e
notte. A poco a poco, il gonfiore sotto il braccio sinistro si fece purpureo e, come
aveva previsto Argonas, si spaccò emettendo del pus acquoso. Parmenion spalmò
del miele sulla ferita e coprì Mothac con coltri pulite.
La mattina successiva, mentre dormiva su una sedia accanto al letto del
Tebano, sentì picchiare alla porta. Sfregandosi gli occhi assonnati, scese
incespicando nel cortile e vide che si trattava della giovane serva, Cleo.
– Si tratta della mia padrona – esclamò la ragazza. – Sta morendo.
Parmenion condusse la ragazza da Mothac e le ordinò di stargli accanto,
spiegandole come accudire e bagnare il malato, poi si avvolse nel mantello, si munì
di spada e di daga e si diresse con cautela verso la casa di Thetis. Le strade erano
cosparse di cadaveri e la piazza del mercato era deserta.
Thetis giaceva sul letto in preda ad un sonno indotto dalla febbre. Tirando
indietro le coltri, Parmenion esaminò il suo corpo nudo e vide che c’erano gonfiori
tanto sotto le ascelle che all’inguine. Dopo averla avvolta in una coperta, la prese
fra le braccia e cominciò lentamente a tornare verso casa.
Lungo la strada s’imbatté in due uomini che guidavano un carro carico di
cadaveri.
– La prendiamo noi! – gli dissero, ma Parmenion scosse il capo e continuò a
camminare barcollando.
I muscoli gli bruciavano per la fatica quando infine arrivò nel cortile e
attraversò l’androne per adagiare il suo carico su un divano. Insieme, lui e Cleo
trasportarono il suo letto al piano di sotto e lo sistemarono accanto a quello di
Mothac.
– Nella stessa stanza sarà più facile accudirli entrambi – spiegò Parmenion alla
ragazza. – Adesso torna a casa, prendi tutto il cibo che avete e portalo qui.
Quando la serva se ne fu andata, Parmenion bagnò Thetis e applicò del miele
alla pustola aperta sotto il suo braccio destro, poi le controllò il battito, che era
erratico e debole, e le sedette accanto tenendole la mano.
– Damon? – sussurrò lei, con le labbra aride.
– No, sono Parmenion.
– Perché mi hai lasciata, Damon? Perché sei morto?
– Era il mio momento – rispose Parmenion, con voce gentile, stringendole la
mano nella sua. – Adesso riposa, ritrova le forze... e vivi.
– Perché? – chiese lei, e quella domanda trapassò Parmenion come una lama
seghettata.
– Perché te lo chiedo io – replicò. – Perché... voglio che tu sia felice. Voglio
sentirti ridere ancora.
Lei però era scivolata di nuovo nel sonno. Presto cominciò a rabbrividire e
Parmenion si affrettò ad avvolgere il suo fragile corpo nelle coperte,
massaggiandole le braccia e le spalle per riscaldarla.
– Ti amo, Damon – disse lei, con voce improvvisamente limpida.
Parmenion avrebbe voluto mentire, come Thetis aveva fatto una volta per lui,
ma non ne fu capace.
– Se mi ami allora vivi – disse invece. – Mi senti? Vivi!
Il tempo trascorreva in fretta per Derae. Ogni giorno imparava cose nuove, e
guariva i malati dei villaggi circostanti, che venivano condotti al tempio su barelle
improvvisate. Risanò la gamba spezzata di un contadino, cancellò un’ulcera
cancerosa dal collo di un bambino, ridiede la vista ad un’adolescente cieca che era
venuta fin lì con suo padre dalla città di Tiro. Per tutte le città della Grecia e
dell’Asia si diffuse a poco a poco la notizia che una nuova guaritrice era giunta al
tempio, e di giorno in giorno le code dei bisognosi di aiuto si fecero sempre più
lunghe.
Tamis era stata assente per parecchi mesi, ma una sera sul tardi fece ritorno e
trovò Derae seduta in giardino a godere della fresca aria notturna. Fuori dalle porte
c’erano già persone che dormivano nei campi in attesa di poter vedere la guaritrice.
– Bentornata a casa – salutò Derae.
– Quelle persone saranno per te una fonte senza fine di sfinimento – commentò
Tamis, indicando i campi. – Verranno da tutto l’impero, da Babilonia e dall’India,
dall’Egitto e dalla Cappadocia. Non potrai mai risanarli tutti.
– Una bambina cieca mi ha chiesto perché non posso guarire me stessa.
– E cosa le hai risposto?
– Le ho detto che non avevo bisogno di essere guarita... ed era vero, il che mi
ha sorpresa. Hai l’aria stanca, Tamis.
– Sono vecchia – scattò lei, – ed è normale che i vecchi siano stanchi... però c’è
qualcosa che devo fare prima di partire di nuovo. Hai visto Parmenion mentre ero
assente?
– Mi piace osservarlo – replicò Derae, arrossendo. – È sbagliato?
– Per nulla, ma per il momento non hai ancora visto nessun futuro. Comunque,
adesso è giunto il momento di percorrere i molti sentieri. prendi la mia mano.
Unendo le loro anime, le due donne volarono alla città di Tebe e alla casa di
Parmenion. L’edificio era avvolto nel buio e dalle strade circostanti si levava un
suono di pianto.
– Cosa succede? – chiese Derae.
– La peste si è abbattuta sulla città – rispose Tamis. – Ora guarda.
Il tempo s’immobilizzò, l’aria tremolò, poi Derae vide Parmenion uscire
barcollando nel cortile con il volto rosso e chiazzato, la gola gonfia; quando lui
crollò al suolo, cercò di andargli accanto, ma Tamis la trattenne.
– Non puoi interferire qui – le disse, – perché questo è il futuro e non si è
ancora verificato: così come non possiamo cambiare il passato, non possiamo
neppure operare nei giorni che devono ancora essere. Continua a guardare.
La scena si offuscò e tornò a formarsi, mostrando Parmenion che moriva nel
suo letto, che moriva per strada, che moriva a casa di Calepios o sul fianco di una
collina. Alla fine Tamis riportò entrambe al tempio, e quando rientrò nel proprio
corpo gemette nel trovare il collo irrigidito e dolente.
– Cosa possiamo fare? – domandò Derae.
– Al momento io non posso fare nulla, perché sono troppo stanca – rispose
Tamis. – Dimmi però, ti senti abbastanza forte da poter usare i tuoi poteri da questa
distanza?
– Sì.
– Bene. Prima però lascia che ti chieda una cosa: come reagiresti se Parmenion
prendesse moglie?
– Moglie? Io... non so. Pensarci mi fa male, ma del resto perché non dovrebbe,
visto che mi ritiene morta... e che in effetti lo sono? Perché me lo chiedi?
– Non è importante. Va’ da lui e salvalo, se puoi. Se non riuscirai a sconfiggere
il contagio, torna a chiamarmi. Intanto io riposerò e recupererò le forze.
Derae si adagiò all’indietro e liberò la propria anima.
Tebe apparve splendente sotto di lei e subito volò alla casa di Parmenion, ma
non lo trovò là. Mothac giaceva a letto malato, e una ragazza sedeva accanto al suo
letto asciugandogli il sudore dalla faccia con un panno bagnato. Librandosi in alto
sopra la casa, Derae scrutò le strade deserte, poi lo vide avanzare barcollando sotto
il peso della donna che stava trasportando.
Riconobbe la prostituta, Thetis, e rimase a guardare mentre Parmenion la
portava in casa e si prendeva cura di lei, ascoltò la donna parlare del suo amore nel
sonno indotto dalla febbre, poi fluttuò accanto a Parmenion e insinuò le mani nella
sua testa, lasciando che i pensieri di lui le fluissero nella mente: stava incitando la
donna a vivere. Rilassando la propria mente, Derae si fuse con Parmenion, fluendo
con il suo sangue attraverso le vene e le arterie.
La peste era dentro di lui, minuscola e debole, ma stava crescendo sotto i suoi
occhi. Concentrando la propria attenzione, lei diede la caccia a tutte le sacche di
corruzione, distruggendole ad una ad una finché, ormai soddisfatta, si ritrasse da
lui. La donna era gonfia sotto la mascella, sotto le ascelle e all’inguine... e stava
morendo.
Parmenion però era al sicuro. Derae salì nel cielo notturno... e si librò lassù,
confusa e incerta. Parmenion voleva che quella donna vivesse... era forse
innamorato di lei? No, i suoi pensieri non parlavano di amore ma di un debito non
pagato. E tuttavia, se l’avesse salvata Parmenion avrebbe potuto finire per amarla,
e così lo avrebbe perso una seconda volta.
Se non la salvo non sarà come se l’avessi uccisa io rifletté. Sta morendo
comunque, la colpa non è mia.
Voleva tornare al tempio... ma non poté farlo. Invece rientrò nella casa e si fuse
con Thetis.
Questa caccia risultò di una difficoltà immensamente maggiore, perché la peste
era dovunque, divampante e letale. Tre volte il cuore di Thetis ebbe un brivido e
per poco non cessò di battere, ma Derae ridiede vita alle ghiandole esauste e river-
sò energia nella donna per poi riprendere la battaglia contro la malattia. Per molto
tempo la peste ebbe la meglio su di lei, moltiplicandosi con rapidità maggiore di
quella con cui le riusciva di distruggerla, e allora Derae tornò al cuore, pulendo il
sangue quando vi passava attraverso e pervadendolo di potere. Infine si rese conto
che la zona di pericolo era all’inguine, dove i gonfiori erano esplosi e stavano
riversando pus pieno di veleno, e concentrò il proprio potere risanante su quei
tessuti. Le ore trascorsero veloci, e Derae era prossima allo sfinimento quando
infine emerse dal corpo di Thetis.
Cominciò quindi il viaggio per tornare al tempio, ma si sentiva la mente
stordita e si trovò a fluttuare sopra un palazzo sconosciuto all’interno del quale una
donna stava urlando. Cercò di concentrarsi.
– È nato! – gridò qualcuno, e un grande applauso si levò dall’esercito
all’esterno del palazzo.
Una nube nera calò improvvisa verso di lei, aprendosi come una bocca
colossale, e nel vedere zanne lunghe quanto un uomo e una lingua purpurea e
biforcuta Derae comprese di essere impotente a resistere.
Una lancia di luce trapassò la bocca proprio quando essa ormai incombeva
sotto di lei.
– Prendi la mia mano! – gridò Tamis.
Ma Derae aveva perso i sensi.
Si svegliò nella propria stanza all’interno del tempio e avvertì la presenza di
Tamis accanto a sé.
– Che cos’era? – domandò.
– Ti eri persa nel futuro, ed hai assistito alla Nascita Oscura.
– Sono stanca, Tamis, così... stanca.
– Allora dormi, bambina mia. Io ti potrò proteggere ancora per un po’.
Cleo tornò con provviste sufficienti per tre giorni di pasti frugali e queste
scorte, unite a quelle di Parmenion, risultarono sufficienti per una settimana.
I giorni si trascinarono lenti. Argonas non si fece più vedere e Parmenion
apprese da uno degli uomini che raccoglievano i cadaveri che il grasso medico
aveva subito la stessa sorte di migliaia di altri... il suo corpo era stato consumato
dalla peste. Mothac cominciò a migliorare, le chiazze rosse scomparvero e il
gonfiore si attenuò, ma lui rimase debole e bisognoso di dormire spesso. Mentre
Cleo lavorava instancabilmente, bagnando la sua padrona, cambiando le lenzuola
sporche, cucinando e pulendo, Parmenion batté la città alla ricerca di cibo, ma per-
fino i cani e i cavalli erano stati macellati da tempo.
Poi, come una tempesta che avesse esaurito la sua violenza, la peste cominciò a
perdere irruenza. I corpi da raccogliere risultarono sempre meno e finalmente le
porte vennero aperte per permettere l’ingresso di un convoglio di carri di viveri
nella città devastata. Lottando, Parmenion riuscì ad aprirsi un varco fra la folla
affamata che circondava i carri ed emerse dalla mischia con un quarto di carne e un
sacco di cereali secchi.
A casa, Cleo cucinò un po’ di carne e imboccò Thetis, che era adesso più
lucida, poi Parmenion e Mothac portarono il letto di lei al piano di sopra per darle
maggiore intimità, mentre Cleo continuò a dormire su un divano nell’androne.
Entro la fine dell’estate, la città ritrovò un aspetto quasi normale. Oltre
quattromila persone erano morte a causa della peste, ma come sottolineò Calepios
si trattava di una minima parte di quelle che sarebbero morte o sarebbero state
ridotte in schiavitù se gli Spartani avessero messo al sacco la città; temendo la
peste, essi avevano invece lasciato la Beozia senza combattere, e adesso le truppe
alleate avevano trincerato i passi del Monte Citerone per impedire loro di
attraversarli ancora. Da Tegira giunse anche la notizia che Pelopida e la Banda
Sacra avevano messo in rotta una divisione spartana numericamente superiore a
loro nella misura di due contro uno e avevano ucciso Phoebidas, lo Spartano
responsabile dell’occupazione della Cadmea quattro anni prima. I soldati sconfitti
non erano truppe spartane regolari bensì mercenari della città di Orcomeno, ma
anche così a Tebe venne indetto un giorno di festa e il rumore delle risa e dei canti
arrivò fino alla stanza dove giaceva Thetis. La donna era ancora molto debole, con
il battito cardiaco affaticato e irregolare, ma quelle risa lontane le risollevarono lo
spirito.
Parmenion entrò portando un vassoio con cibo ed acqua, posò il tutto per terra e
sedette accanto a lei.
– Oggi hai un colorito migliore – osservò. – Mothac è riuscito a trovare qualche
dolce al miele fresco... un mio vecchio amico giurava che sono eccellenti per ridare
le forze.
Gli occhi verdi di lei lo scrutarono in volto, ma Thetis non disse nulla e protese
invece la mano a prendere la sua, con il viso rigato da lacrime improvvise.
– Cosa c’è che non va? – le chiese Parmenion.
– Nulla.
– Allora perché stai piangendo?
– Perché hai fatto questo per me? – ribatté lei. – Perché non mi hai lasciata
morire?
– A volte non ci sono risposte – replicò Parmenion, portandosi la mano di lei
alle labbra e baciandole il palmo. – Tu non sei Derae ed io non sono Damon, ma le
nostre vite si sono incrociate e adesso le linee del destino di ciascuno si sono in-
trecciate. Non ho più molta fede in remote divinità ma credo nel fato e penso che
fossimo destinati ad essere insieme.
– Io non ti amo – mormorò lei, con voce che era poco più di un sussurro.
– Né io amo te, ma mi stai a cuore e sei stata costantemente nella mia mente da
quando ho scoperto la verità su quella notte in cui mi hai riportato indietro. Resta
con me: non ti posso promettere di renderti felice, ma ci proverò.
– Non ti sposerò, Parmenion, ma resterò... e se saremo felici rimarremo
insieme. Sappi però che un giorno potresti svegliarti e scoprire che me ne sono
andata. Se dovesse succedere, prometti che non cercherai di trovarmi.
– Lo prometto – rispose lui. – Ora mangia e ritrova le forze.
L’uomo sostò davanti alle porte della casa di Parmenion sotto la luce della luna.
Controllando che non ci fosse in vista nessuno, insinuò con cautela il coltello nella
fenditura al centro delle porte e sollevò la sbarra che si trovava dall’altra parte. Il
cancello si aprì e la sbarra scivolò di lato verso terra, ma prima che potesse cadere
rumorosamente sulle pietre l’uomo conficcò il proprio coltello nel legno,
bloccandolo fino a quando poté scivolare dentro e adagiare con cautela la sbarra
nel cortile. Riposto il coltello nel fodero, si avviò verso le porte chiuse dell’an-
drone.
Un oggetto freddo gli toccò il collo e una mano gli serrò la spalla.
– Se fosso in te, resterei del tutto immobile – gli disse una voce, nell’orecchio.
– Ho un messaggio per Parmenion – sussurrò l’uomo.
– Il coltello contro la tua gola è molto affilato. Metti le mani dietro la schiena.
L’uomo obbedì e non oppose resistenza mentre gli venivano legati i polsi, poi
si lasciò condurre nell’androne buio e osservò l’uomo dalla barba rossa che l’aveva
catturato accendere tre lanterne.
– Tu sei Mothac?
– Già. Siediti – ribatté il Tebano, spingendo l’uomo su un divano. – Parmenion!
– chiamò quindi, e un momento più tardi un uomo alto e snello, con il volto sottile
e penetranti occhi azzurri entrò nella stanza armato di una spada lucente.
– Clearcus! – esclamò Parmenion, gettando via la spada con un ampio sorriso.
– Proprio io – grugnì il servitore di Senofonte.
– Slegalo – ordinò Parmenion.
Mothac passò il coltello attraverso i lacci che trattenevano i polsi dell’uomo e
Clearcus se li massaggiò per qualche momento; adesso i suoi capelli erano più
bianchi e radi di come il giovane Spartano li ricordasse, le linee del suo volto si
erano fatte più profonde, come tagli di coltello nel cuoio.
– È uno strano momento per una visita – osservò il giovane.
– Il mio signore mi ha chiesto di essere sicuro che non mi notassero – spiegò
Clearcus, infilando una mano nella camicia di lana e tirando fuori una pergamena
che porse a Parmenion.
Questi posò il messaggio da un lato e si sedette di fronte all’uomo più anziano.
– Come sta il generale? – chiese.
– È un uomo triste – replicò Clearcus, scrollando le spalle. – Adesso scrive di
molte cose... equitazione, tattica, la situazione della Grecia. Ogni giorno trascorre
molte ore con i suoi scribi e non riesco a ricordare l’ultima volta che è andato a ca-
valcare o a cacciare. Sta diventando grasso – concluse Clearcus, sputando quasi
quell’ultima parola, come se gli offendesse la bocca pronunciarla.
Parmenion allungò la mano verso la pergamena e soltanto allora si accorse che
Mothac era ancora in piedi, con il coltello in pugno.
– È tutto a posto, amico mio. Questo è Clearcus, un compagno del generale
Senofonte, ed è degno di fiducia.
– È uno Spartano – borbottò Mothac.
– Attento, ragazzo, se non vuoi che ti fracassi il cranio – scattò Clearcus.
– Una volta, forse, nonno – ribatté Mothac, e Clearcus si alzò in piedi di scatto.
– Smettetela entrambi! – ordinò Parmenion. – Qui siamo tutti amici... o
dovremmo esserlo. Da quanto tempo ti trovi a Tebe?
– Sono arrivato questa sera – rispose Clearcus, scoccando un’occhiata omicida
in direzione di Mothac. – Ho fatto visita ad alcuni amici a Corinto, poi ho
comprato un cavallo e sono venuto qui passando da Megara e da Platea.
– Mi fa piacere vederti. Vuoi qualcosa da mangiare e da bere?
– Me ne andrò non appena mi avrai dato una risposta per il mio signore –
replicò lo Spartano, scuotendo il capo.
Mothac augurò allora la buona notte e se ne andò nella sua stanza, lasciandoli
soli; aperta la pergamena, Parmenion sedette vicino ad una lanterna.
Ti saluto, amico, lesse. Gli anni si susseguono, le stagioni accelerano il passo,
il mondo e i suoi affanni vanno alla deriva sempre più lontano da me, e tuttavia
vedo le cose con maggiore chiarezza di quando ero giovane, e con crescente
tristezza.
A Sparta c’era un giovane che ne ha ucciso un altro in un duello a causa di una
donna. Il padre del ragazzo morto piange ancora il figlio ed ha assoldato dei
sicari perché cerchino chi lo ha ucciso, che non risiede più a Sparta. Mi è stato
detto che quattro sicari sono stati già eliminati dal ragazzo, che adesso è un uomo.
Ma ne potrebbero arrivare altri.
Spero che tu stia bene e che la tua vita sia più felice di quella del ragazzo
spartano che ora vive lontano da casa. Penso spesso a quel ragazzo, al suo
coraggio e alla sua solitudine.
Che gli dèi possano alla peggio sorriderti e nel migliore dei casi ignorarti.
Non c’era firma.
Parmenion sollevò lo sguardo sul volto segnato dagli elementi del servitore.
– Hai rischiato molto per portarmi questo, Clearcus. Ti ringrazio.
– Non ringraziare me – rispose il vecchio. – L’ho fatto per il generale. Mi
piacevi, ragazzo, ma questo era molto tempo fa, prima che diventassi un traditore.
Adesso spero che quei sicari ti trovino... prima che tu possa organizzare qualcun
altro di quei tuoi giochi letali.
– Nessuno di voi lo capirà mai, vero? – replicò Parmenion, con voce gelida. –
Voi Spartani vi considerate semidèi, prendete un bambino, lo tormentate per tutta
la vita dicendogli che non è uno Spartano e poi lo accusate di tradimento quando vi
prende alla lettera. Bene, eccoti un pensiero su cui riflettere, Clearcus, tu e tutta la
tua immonda razza: dopo che ho ingannato Sphodrias, sono stato raggiunto da un
guerriero scirita. Aveva combattuto per voi per anni, era stato allevato per com-
battere per voi... e tuttavia quando abbiamo estratto la spada uno contro l’altro mi
ha detto che aveva sempre desiderato uccidere uno Spartano. Siete odiati non
soltanto da Tebe e da Atene, ma dalla stessa gente che combatte al vostro fianco.
Clearcus aprì la bocca per ribattere ma Parmenion sollevò la mano di scatto.
– Non dire nulla, servo! – sibilò. – Hai consegnato il tuo messaggio. Ora
vattene!
Per un momento il vecchio lo fissò con occhi roventi, poi indietreggiò e
scomparve nel buio.
Un momento dopo Mothac entrò nell’androne stringendo ancora in pugno il
coltello.
– Non lasciare che questo ti preoccupi – disse in tono gentile.
– Come mi consiglieresti di fare per evitarlo? – domandò Parmenion, con
un’amara risata. – Dopo che quei sicari mi hanno assalito, Menidis mi ha detto che
non gli importava assolutamente che io vivessi o morissi. Questo è ciò che i Tebani
pensano di me, Mothac... che sono un traditore spartano... ed essere chiamato così
mi ferisce nel profondo.
– Credo che ci dovremmo ubriacare – suggerì Mothac.
– Non è esattamente la risposta che stavo cercando – osservò Parmenion.
– È la migliore che ho.
– Allora dovrà bastare. Prendi la brocca.
TEBE, ESTATE, 371 A.C.
* * *
Parmenion ordinò la fine dell’addestramento al combattimento e i guerrieri
della Banda Sacra riposero la spada. Vestiti in armatura completa, stavano sudando
tutti abbondantemente, e alcuni si lasciarono cadere sul duro terreno d’argilla del
campo di addestramento mentre altri andarono a ripararsi all’ombra della Tomba di
Ettore.
– Non siate così pronti a rilassarvi, signori – avvertì Parmenion. – Dieci circuiti
di corsa dovrebbero essere sufficienti per stendere quei muscoli stanchi.
Dalle file si levò un gemito, ma gli uomini cominciarono a correre. Parmenion
stava per unirsi a loro quando notò un ragazzo seduto sotto gli alberi e intento ad
osservare con attenzione le fasi dell’addestramento. Il giovane aveva circa tredici
anni, con capelli scuri e ricci e un volto che con il tempo sarebbe diventato
eccessivamente bello. Ciò che toccò una corda nascosta nell’animo di Parmenion
fu però la sua espressione: il volto era immobile, le sue emozioni mascherate, e
Parmenion ricordò la propria infanzia di molto tempo prima, le prove e le
sofferenze che aveva sopportato a Sparta.
– Stai studiando l’arte della guerra? – chiese, avvicinandosi al ragazzo.
Questi si alzò e si inchinò; non era alto, ma era di corporatura forte.
– È bene studiare le usanze degli stranieri – disse in tono sommesso, fissando
Parmenion con i suoi occhi scuri.
– In cosa consiste il bene?
– Un giorno potremmo essere nemici, e in questo caso saprò come combattete.
Se saremo invece amici o alleati saprò se si può fare affidamento su di voi.
– Capisco – commentò Parmenion. – Sei un ragazzo saggio. Sei forse un
principe?
– Infatti, un principe della Macedonia. Mi chiamo Filippo.
– Io sono Parmenion.
– Lo so, ti ho visto correre. Perché competi sotto un nome macedone?
– Mia madre era macedone – spiegò Parmenion, sedendosi e invitando il
ragazzo a fare altrettanto, – ed il mio è un tributo a lei. Sei ospite nella nostra città?
– Non c’è bisogno che tu sia evasivo, Parmenion – rise il ragazzo. – Io sono un
ostaggio a garanzia del buon comportamento della Macedonia, ma qui la vita è
piacevole e Pammenes si prende buona cura di me. Penso che sia meglio che essere
di nuovo in Macedonia, dove sarei probabilmente ucciso da qualche ansioso
parente.
– Parole aspre, giovane principe.
– Aspre ma vere. Io sono uno di molti fratelli e fratellastri che hanno tutti
qualche diritto al trono, e non rientra nelle nostre usanze lasciare in vita i rivali.
Suppongo che tu riesca a vedere la logica della cosa.
– Sembri accettare la tua situazione con estrema calma, giovane principe.
– Che altro posso fare?
– Non ho risposta a questa domanda – sorrise Parmenion. – Non sono un
principe.
– No – convenne Filippo, – ed io non desidero esserlo, come non vorrei mai
essere re, certamente non della Macedonia.
– Cos’ha che non va la Macedonia? – volle sapere Parmenion. – Ho sentito dire
che è una terra splendida, piena di pianure ondulate, di foreste, di montagne e di
puri ruscelli.
– È vero, Parmenion, ma è anche una terra circondata da potenti nemici. A
occidente ci sono gli Illiri del Re Bardylis, guerrieri duri e forti. A nord ci sono i
Paioni, guerrieri che non amano nulla più dello scendere al sud per razziare. Ad est
ci sono i Traci, buoni cavalieri che formano un’eccellente cavalleria, e a sud ab-
biamo i Tessali e i Tebani. Chi vorrebbe mai essere re di un territorio del genere?
Parmenion non rispose. Gli occhi del ragazzo erano dolenti, il suo umore cupo,
e non c’era nulla che uno Spartano gli potesse dire. Con ogni probabilità il ragazzo
aveva ragione... una volta tornato in Macedonia la sua vita avrebbe avuto scarso
valore. Quel pensiero ebbe l’effetto di deprimerlo.
Fra loro si sviluppò un silenzio carico di disagio e lo Spartano si alzò per
andarsene e raggiungere la Sacra Banda che stava ancora correndo lungo la pista.
Prima però si girò ancora una volta verso il giovane principe.
– Molto tempo fa ho imparato a non cedere mai alla disperazione. La fortuna
può essere incostante, ma ama l’uomo che tenta e poi tenta ancora. Credo che tu
abbia una mente forte, Filippo, sei un pensatore e un pianificatore. La maggior
parte degli uomini si limita a reagire alle circostanze, ma i pensatori le creano: se ci
sono dei parenti che ti vogliono morto, inducili ad amarti, mostra che non
costituisci una minaccia e che puoi essere utile. Soprattutto però, ragazzo, devi
diventare un uomo difficile da uccidere.
– Come posso farlo?
– Restando vivo, pensando a tutti i modi in cui i tuoi nemici potranno aggredirti
e preparandoti a bloccarli. La disperazione è sorella della sconfitta, Filippo, quindi
non lasciare mai che ti tocchi.
Il ragazzo annuì, poi indicò i corridori che si stavano arrestando con passo
barcollante dopo il decimo giro e Parmenion andò loro incontro.
– Credo che sia tutto, signori – disse. – Siate qui domattina, un’ora dopo l’alba.
– Abbi cuore, Parmenion – gemette un ragazzo. – Con questo sono tre giorni di
fila.
– Io non ho cuore – ribatté Parmenion, – sono un uomo di pietra. Un’ora dopo
l’alba, per favore.
Voltandosi verso gli alberi, vide che il ragazzo se ne era andato e sospirò.
– Possano gli dèi favorirti, Filippo di Macedonia – sussurrò.
Per tre settimane parve possibile che la conferenza di pace a Sparta potesse
porre fine ad ogni pensiero di guerra. Gli accordi commerciali furono discussi e
firmati, le dispute di frontiera affrontate e infine risolte; per tutto il tempo
Epaminonda venne trattato come un ospite onorato e per ben due volte cenò con
Agisaleus.
Nella quarta settimana Pelopida tornò a Tebe e raccontò a Parmenion storie
della cortesia che permeava la conferenza.
– Credo che Agisaleus si sia rassegnato a perdere il proprio potere su di noi –
commentò. – C’era anche un rappresentante del grande re, un Persiano con i capelli
biondi e la barba arricciata. Avresti dovuto vedere i vestiti che indossava: Zeus mi
è testimone che aveva più gioielli cuciti addosso di quante siano le stelle del cieli!
Scintillava letteralmente ogni volta che entrava nella stanza.
– Ha parlato? – volle sapere Parmenion.
– Ha aperto la conferenza, portando a tutti noi i saluti e la benedizione del
grande re, affermando che il re era contento che i suoi figli si fossero riconciliati.
– A proposito di re, cosa mi dici di Cleombrotus?
– Non era presente – rispose Pelopida. – Dicono che sia malato. Comunque, se
vuoi il mio parere, Sparta è una città sgomentante: non so come possiate sopportare
la puzza... tutti i rifiuti scorrono nelle strade e le mosche sono più fitte del fumo.
Un brutto posto... per brutta gente.
– Malato? – ripeté Parmenion. – Di cosa?
– Non lo hanno detto, ma non può essere stata una cosa troppo seria, perché
non sembravano preoccupati per la sua assenza. Sai, quando mi hai detto che le
donne spartane avevano il permesso di circolare per le strade in realtà non ti avevo
creduto, ma avevi ragione. Erano dappertutto, e alcune si spogliavano quasi
completamente per correre seminude sui prati. Non so proprio come una così brutta
razza di uomini possa generare simili bellezze. C’era una donna che aveva i fianchi
come...
– Conosco le donne di Sparta – lo interruppe pazientemente Parmenion, –
perché ho vissuto là. Mi preoccupa maggiormente Cleombrotus: è forte come un
toro e non avrebbe mai rinunciato spontaneamente a partecipare alla conferenza.
Che prova hai che fosse effettivamente a Sparta?
– E dove avrebbe dovuto essere?
– Cosa mi dici dell’esercito? Quanti soldati hai visto?
– Agisaleus ha ordinato all’esercito di andare a sud per delle manovre, dicendo
che la conferenza sarebbe andata avanti in un’atmosfera più amichevole senza il
costante fragore degli scudi spartani, che qualcuno avrebbe potuto interpretare
come un modo subdolo di persuasione.
– Dunque tanto il re guerriero quanto l’esercito non erano visibili – commentò
Parmenion. – Questo non ti suggerisce nulla, Pelopida?
Il guerriero tebano si alzò dal divano e si avvicinò alla finestra, contemplando
per un momento il sole che splendeva nel cielo limpido prima di tornare a girarsi
con un sorriso sulle labbra.
– Credi che stiano progettando qualche tradimento? Ne dubito. Se avessero
voluto invaderci avrebbero potuto farlo senza tanti prolungati dibattiti e senza
l’interminabile fila di trattati da firmare.
– Sono d’accordo – convenne Parmenion, – ma in tutto questo c’è un sapore di
fondo che non mi piace. Quanti uomini possiamo riunire in... diciamo in due
giorni?
– Ipoteticamente? Tremila da Tebe e forse un migliaio dalla federazione.
– Non bastano, nel caso che l’esercito di Cleombrotus marci a nord invece che
a sud. Quando è prevista la fine della conferenza?
– Fra dieci... no, nove giorni da oggi. Si concluderà con la firma di un accordo
completo fra l’Alleanza Ateniese, Sparta e la Beozia, poi ci saranno due giorni di
festeggiamenti.
– E quanti uomini potremmo schierare in nove giorni?
– Dèi, Parmenion, sei ossessionato da Sparta? Non possiamo prendere in
considerazione l’idea di riunire l’esercito in questo momento. Se lo facessimo, e si
venisse a sapere alla conferenza, che impressione farebbe? Verremmo accusati di
comportamento aggressivo e il trattato andrebbe in fumo. Perché dobbiamo cercare
tradimenti dietro ogni svolta? Forse gli Spartani si sono rassegnati al riemergere di
Tebe.
– Quanti uomini? – insistette Parmenion. – Ipoteticamente.
Pelopida si versò un boccale di vino annacquato e tornò sul divano.
– Forse settemila... se riuscissimo ad ottenere la cavalleria dalla Tessaglia... ma
se devo essere onesto, attualmente Giasone di Pherae costituisce una causa di
timore grande quanto gli Spartani, forse ancora più grande, perché la sua cavalleria
ammonta già a ventimila uomini e lui ha almeno dodicimila opliti. Credo che
dovremmo guardare verso il nord con trepidazione e che gli Spartani siano ormai
fuori dal gioco.
Senza ribattere, Parmenion rimase in silenzio fissando un punto in alto sulla
parete e accarezzandosi il mento con la destra; dopo qualche tempo, riportò infine
lo sguardo su Pelopida.
– Qui ci sono due punti da considerare, amico mio. Se hai ragione, allora non
abbiamo nulla da temere, ma se le mie paure dovessero trovare conferma allora
tutto ciò per cui abbiamo lottato ci verrà tolto. Supponiamo quindi per un momento
che io abbia ragione e che l’esercito spartano sia più vicino a noi di quanto
pensiamo... dove può essere? In che modo ha intenzione di entrare nella Beozia?
Abbiamo ancora un contingente che sorveglia i passi del Monte Citerone, che
avvisterebbe gli Spartani e darebbe l’allarme; d’alto canto, è improbabile che
cerchino di attraversare il Golfo di Corinto in quanto adesso noi abbiamo dodici
trireme a Creusis. Da dove possono venire allora, Pelopida? Tu conosci il territorio
– concluse, accostandosi ad una cassapanca addossata alla parete opposta e tirando
fuori una mappa della Grecia centrale incisa su una pelle di mucca. Sedutosi
accanto a Pelopida, gli lasciò cadere in grembo la mappa.
– Voglio stare al tuo gioco, Parmenion, anche se penso che questa volta ti
sbagli – dichiarò il Tebano, finendo il vino. – Lasciami riflettere... noi teniamo i
passi meridionali e tutti gli accessi dal Peloponneso, quindi potremmo bloccare
l’esercito spartano per mesi. D’altro canto, come hai detto tu stesso, non possono
attraversare il golfo senza impegnare una battaglia per mare... a meno che non
attraversino molto più a nord, per esempio ad Agion – disse, puntando un dito sulla
mappa. – Allora potrebbero dirigere verso Orcomeno e il lago Copais, potrebbero
attingere altri alleati dalla città e colpire a sudovest attraverso Coronea e Tespi per
arrivare poi a Tebe... e venendo dal nord impedirebbero a qualsiasi aiuto dalla
Tessaglia di arrivare fino a noi.
– Esattamente quello che intendevo – commentò Parmenion. – La maggior
parte delle nostre truppe è a sud per proteggere i passi, ma chi abbiamo al nord?
– Chaireas con mille opliti, per lo più di Megara e di Tanagra, buoni
combattenti e uomini solidi. Hanno la loro base a Tespi.
– Allora manda dei messaggeri a Chaireas e ordinagli di salire al nord per
bloccare i passi a Coronea. Se mi sono sbagliato potremo dire che Chaireas stava
soltanto facendo eseguire delle manovre alle sue truppe.
– A volte non mi piace la tua compagnia – dichiarò Pelopida. – Mio padre era
solito raccontare storie a proposito di demoni oscuri che rubavano l’anima ai
bambini, e dopo io restavo a letto incapace di dormire anche se sapevo che quel ba-
stardo mi voleva soltanto spaventare... non mi è mai stato simpatico. Adesso però
tu mi hai reso nervoso. Faro come suggerisci – sospirò, – ma quando risulterà che
ti sei sbagliato mi dovrai dare il tuo nuovo castrato nero. Che te ne pare?
– D’accordo – ridacchiò Parmenion. – Se invece risulterà che ho avuto ragione,
tu mi darai il tuo scudo nuovo?
– Ma l’ho fatto fare a Corinto e mi è costato il doppio di quello che qualsiasi
uomo ragionevole pagherebbe per un cavallo.
– Vedi – sottolineò Parmenion, – stai già cominciando a prendere in
considerazione la possibilità che io abbia ragione.
– Quello che farò – grugnì Pelopida, – sarà cavalcare il tuo castrato avanti e
indietro sotto le tue porte ogni mattina. Allora vedrai il costo della tua ossessione
per Sparta.
Una settimana dopo giunsero notizie inquietanti, ma non dal nord e da
Chaireas, che stava marciando verso Coronea per fortificare un costone. Calepios
tornò da Sparta e si recò subito a casa di Pelopida, e dopo che il generale tebano
ebbe ascoltato quello che lui aveva da riferire entrambi andarono a cercare Par-
menion, trovandolo sulla pista da corsa, intento a percorrere chilometri con un
ritmo tranquillo. Pelopida gli rivolse un cenno, segnalandogli di raggiungerli.
Parmenion lo assecondò, mascherando la propria irritazione, perché non gli
piaceva che la sua corsa quotidiana fosse disturbata o interrotta. S’inchinò
comunque con cortesia a Calepios e dopo che l’oratore ebbe restituito l’inchino
tutti e tre sedettero sulla nuova panca di marmo accanto alla Tomba di Ettore.
– C’è stata un’insolita svolta negli eventi – affermò allora Calepios. – Ci
stavamo preparando a firmare il trattato di pace quando Epaminonda ha notato che
la parola Beozia era stata trasformata in Tebe. Ne ha chiesto il perché e Agisaleus
gli ha risposto che attualmente era Tebe... e non la Lega Beota... a costituire
l’effettivo potere a nord del Peloponneso. Epaminonda gli ha ricordato che lui era
un rappresentante della Lega e non della sola Tebe, ma lo Spartano è rimasto
inflessibile: Epaminonda doveva firmare per Tebe... o non firmare affatto. Tutti gli
altri hanno già firmato, Parmenion, mentre Epaminonda ha chiesto altri tre giorni
per riflettere sulla cosa e riferirne alla Lega. È per questo che sono qui. Cosa sta
progettando Agisaleus? Perché ha fatto una cosa del genere?
– Per separarci da Atene. Se tutte le città firmeranno... tranne Tebe... allora
saremo dei fuoricasta e Sparta potrà marciare contro di noi senza temere un attacco
da parte di Atene.
– Gli Ateniesi non lo permetterebbero mai – dichiarò Calepios. – Sono stati con
noi dall’inizio.
– Non proprio – gli ricordò Parmenion. – Ci è voluta un’invasione spartana per
spronarli, e adesso devono cominciare a vedere la Lega Beota come una possibile
minaccia. Gli Ateniesi hanno desiderato a lungo il titolo di capi della Grecia, e se
resteranno in disparte a guardare mentre Tebe e Sparta si fanno a pezzi a vicenda...
chi potrà poi prosperare se non loro? Potranno infatti raccogliere i pezzi.
– Allora dovremmo firmare – osservò Pelopida. – Che differenza può fare?
Parmenion scoppiò a ridere e scosse il capo.
– Puoi anche essere un grande guerriero, Pelopida, ma evita di immischiarti
nella politica. Se Epaminonda firmasse, quell’atto sarebbe per tutti i democratici
della Beozia un messaggio da cui dedurrebbero che Tebe si è dichiarata la città
dominante sulle altre, e questo distruggerebbe la Lega. È una manovra ingegnosa, e
Agisaleus si è rivelato astuto come sempre.
– Allora cosa bisogna fare? – domandò Pelopida. – Epaminonda deve firmare
oppure no?
– Non può – dichiarò Parmenion. – Se lo facesse questo significherebbe una
lenta ma sicura morte per la Lega. Invece dobbiamo raccogliere un esercito, perché
ora Agisaleus ci attaccherà sicuramente.
– Non possiamo semplicemente raccogliere un esercito – intervenne Calepios.
– siamo una democrazia. Innanzitutto dovremo convocare i sette generali beoti in
carica, come previsto dalla costituzione, e uno di quei generali è Epaminonda.
– Una regola escogitata da idioti – scattò Parmenion. – Tu cosa farai, Pelopida?
Sei uno dei sette.
– Ordinerò alla Banda Sacra di radunarsi e di raccogliere tutti gli opliti che
potrò trovare a Tebe e nelle aree circostanti. Tutto quello che possiamo fare adesso
è avvertire le altre città e richiedere delle truppe. Non possiamo dare ordini.
– La democrazia è davvero una bestia meravigliosa – commentò Parmenion.
Era quasi l’alba quando Parmenion si avviò per tornare a casa, lungo le strade e
i viali deserti, oltrepassando statue e fontane rischiarate dalla luna con passo cauto,
evitando i vicoli stretti e tenendo sempre la mano sull’elsa della spada.
Nell’attraversare una piazza, notò poi una figura scura e incappucciata seduta
vicino ad una fontana e si guardò ansiosamente intorno, senza però vedere nessun
altro o scorgere angoli in cui si potessero annidare degli assassini. Tranquillizzato,
riprese a camminare.
– Non hai neppure un saluto per una vecchia amica? – chiese la voce secca di
Tamis, quando lui accennò a passare oltre.
Parmenion si fermò, girandosi, e la donna sollevò il capo con un sorriso.
– Sei un essere umano o uno spirito? – chiese Parmenion, sentendo il gelo della
brezza notturna sulla pelle.
– Io sono Tamis – replicò lei.
– Cosa vuoi da me, donna? Perché mi perseguiti?
– Non voglio nulla, Parmenion. Io sono un’osservatrice. Sei appagato?
– Perché non dovrei esserlo? E non mi elargire altre false profezie. Tebe è
ancora in piedi... nonostante le tue parole.
– Non ho detto che sarebbe caduta in un giorno – puntualizzò Tamis, in tono
stanco, – e le mie profezie non sono mai false... a volte vorrei che lo fossero.
Guardati, sei giovane e nel fiore degli anni, senti l’immortalità che ti scorre nelle
vene... se guardi me vedi un cadavere ambulante il cui giusto posto sarebbe una
tomba, vedi una pelle rugosa e denti marci. Pensi che sia questo ciò che sono?
Credi che sia questa Tamis? Guarda meglio, Parmenion – ingiunse, alzandosi e
spingendo indietro il cappuccio.
Per un momento, la sua figura fu avvolta da una luce lunare tanto intensa che
Parmenion non riuscì a sopportarla, quindi il chiarore si attenuò e lui vide davanti a
sé una giovane donna dalla bellezza incredibile, con i capelli d’oro, le labbra piene,
gli occhi di un azzurro intenso, pieni di calore e di cordialità. Poi l’immagine sbiadì
e lui vide la pelle farsi secca e afflosciarsi, le spalle incurvarsi e i fianchi allargarsi.
– Sei una maga! – sussurrò, con la bocca arida. Con una risata secca e
crepitante, Tamis si rimise a sedere.
– È ovvio che sono una maga – replicò, con voce venata di dolore, – ma un
tempo ciò che hai visto era reale e non esiste al mondo una vecchia che non lo
capirebbe. Un giorno, Parmenion, forse anche tu sarai vecchio, con la pelle secca e
chiazzata, con i denti allentati nelle gengive, ma interiormente sarai quello di
sempre... soltanto che ti troverai intrappolato in un guscio che sta decadendo.
– Non ho tempo per queste cose. Che vuoi da me?
– Il tuo odio è ancora forte? – domandò lei. – Desideri ancora la morte di
Sparta?
– Desidero vedere Tebe libera dall’influenza spartana, tutto qui.
– Hai detto ad Asiron di essere la Morte delle Nazioni.
– Come fai a saperlo? – ritorse lui, poi scoppiò in una risata improvvisa e
aggiunse: – Che domanda stupida da rivolgere ad una maga... o ad una spia di
Sparta. Sì, gliel’ho detto, ma è successo alcuni anni fa e forse a quell’epoca le tue
profezie mi preoccupavano ancora, ma adesso non più. Perché hai detto ad
Epaminonda che sarebbe morto a Mantinea? È stata un’altra falsità?
– Sì, ma è una questione fra quel grande uomo e me. Ami Thetis?
– Non so perché mi sto prendendo la briga di parlare con te – dichiarò
Parmenion. – Sono stanco ed ho bisogno di dormire.
E volse le spalle alla vecchia, avviandosi per attraversare la piazza.
– L’ami? – ripeté lei, in tono sommesso.
Parmenion si fermò, con la domanda che gli echeggiava nella mente, poi si
volse lentamente.
– Sì, l’amo, anche se non come amavo... e ancora amo... Derae. Hai un motivo
valido per domandarlo, oppure stai soltanto giocando un altro dei tuoi giochi?
– Una volta ti ho chiesto di lasciare la città e di cercare un nuovo destino nel
tempio di Hera, a Troia, ma non mi hai ascoltata, così come non mi ascolterai ora.
E tuttavia, devo dirtelo: non andare a casa. Lascia Tebe stanotte.
– Sai che non lo farò.
– Lo so – ammise la vecchia, e nella sua voce lui avvertì una tristezza così
intensa che lo ferì con violenza maggiore di un colpo di spada.
Aprì la bocca per parlare, cercando qualche parola gentile di commiato, ma
Tamis si allontanò in fretta, tirandosi il cappuccio sulla faccia.
Il chiarore che precede l’alba stava già rischiarando il cielo quando Parmenion
arrivò alle porte della sua casa. Sbadigliando, sollevò il pugno per bussare, sapendo
che Mothac si sarebbe svegliato immediatamente e avrebbe alzato la sbarra, ma poi
si accorse che il cancello era socchiuso e questo destò in lui una profonda
irritazione. Fin da quella notte in cui Clearcus era entrato con tanta facilità,
Parmenion aveva insistito perché di notte la porta venisse chiusa non soltanto con
la sbarra ma anche con una catena, e non era da Mothac dimenticare un ordine del
genere. Parmenion posò la mano sul cancello, poi esitò, dicendosi che doveva
essere ancora sconvolto dall’incontro con Tamis: probabilmente Mothac aveva
semplicemente bevuto troppo e si era addormentato aspettandolo.
Il suo senso di disagio però non si dissolse, e mormorando un’imprecazione lui
si spostò verso destra fino a trovarsi sotto la parte più bassa del muro, agganciando
le mani sulla sua sommità e issandosi in silenzio verso l’alto, badando ad evitare
con abilità i vasi che aveva disposto lungo la recinzione perché qualsiasi intruso
ignaro della loro presenza potesse rovesciarli e dare l’allarme. In silenzio, ne
spostò due di lato per fare posto al proprio corpo sul muro, poi scrutò il cortile
sottostante e vide due uomini armati in attesa, uno a ciascuna estremità delle porte.
Calatosi nuovamente nel vicolo, estrasse la spada: il cuore gli martellava nel petto
ed aveva la bocca arida, ma trasse parecchi rapidi respiri per calmarsi e avanzò di
soppiatto verso le porte. Sapeva di avere un vantaggio, e cioè che gli assassini si
aspettavano di cogliere la loro vittima di sorpresa. Calò con violenza la spalla
sinistra contro il cancello, che si spalancò, sbattendo al suolo il primo sicario
mentre Parmenion balzava sulla destra e calava la spada sul collo del secondo
uomo. Il primo intanto si rialzò con aria stordita, cercando di afferrare il coltello
perché la spada gli era sfuggita di mano nell’urto, ma la lama di Parmenion gli
trapassò il petto prima che potesse estrarlo.
L’assassino si accasciò contro Parmenion, che estrasse di scatto l’arma e lo
respinse da sé. L’uomo crollò con un gemito nel cortile a faccia in avanti: una
gamba ebbe una contrazione e gli sfinteri gli si rilassarono, pervadendo l’aria di
fetore mentre Parmenion correva verso le porte dell’androne e le spalancava di
scatto.
– Benvenuto – disse un alto Spartano. – Posa la spada... altrimenti la donna
morirà.
La mano sinistra dell’uomo era posata contro la gola di Thetis, ma la destra
stringeva una corta daga, la cui punta premeva contro il fianco della donna.
Thetis si era svegliata nel cuore della notte sentendo il rumore di una zuffa nel
cortile sottostante. Afferrata una daga era corsa al piano di sotto, trovando quattro
uomini in piedi accanto al corpo di Mothac. Senza riflettere, si era scagliata contro
di loro e quando uno di essi aveva cercato di afferrarla si era contorta e gli aveva
piantato in profondità la daga nell’inguine. Un pugno l’aveva raggiunta alla
guancia, gettandola a terra, poi gli intrusi le erano stati addosso, bloccandole le
braccia e strappandole l’arma di mano. L’uomo da lei colpito giaceva immobile
con il sangue che si allargava nel cortile; uno dei tre superstiti l’aveva poi
trascinata nell’androne mentre gli altri spostavano i corpi in cucina.
– Sgualdrina! – aveva esclamato l’uomo che la teneva ferma. – Lo hai ucciso!
E le aveva sferrato un manrovescio che l’aveva fatta crollare al suolo,
avanzando poi verso di lei con una daga.
– Lasciala stare! – aveva ingiunto però il capo del gruppo, un uomo alto che
indossava un chitone verde scuro e stivali per andare a cavallo.
– Ma ha ucciso Cinon! – aveva protestato l’altro.
– Sorvegliate le porte e quando arriverà... uccidetelo! Poi potrai fare quello che
vuoi con la donna.
E così la lunga notte aveva avuto inizio. Durante l’attesa, Thetis aveva deciso di
gridare un avvertimento non appena avesse sentito arrivare Parmenion, ma il primo
suono era stato quello del cancello che si spalancava con violenza, seguito a ruota
dalle urla dei morenti.
Adesso Parmenion era fermo sulla soglia, con i vestiti sporchi di sangue e una
furia terribile nello sguardo.
– Posa la spada... altrimenti la donna morirà.
Thetis notò l’indecisione di Parmenion, vide la sua mano accennare lentamente
a lasciar cadere la spada.
– Non farlo! – gridò. – Ci ucciderà comunque entrambi!
– Taci, sgualdrina! – ordinò lo Spartano.
La spada di Parmenion cadde al suolo.
– Adesso spingila qui con un piede – ordinò il sicario, e Parmenion obbedì di
nuovo. A quel punto lo Spartano gettò Thetis contro la parete e avanzò verso di lui.
– Il tuo momento è venuto, traditore! – sibilò. Parmenion indietreggiò
nell’androne, girando in cerchio intorno all’avversario munito di coltello.
– Chi vi ha mandati? – chiese, con voce calma.
– Io servo il re, e la causa della giustizia – replicò l’uomo, poi scattò
improvvisamente in avanti, tentando di trapassare il ventre di Parmenion.
Questi si spostò di lato e sferrò un pugno che rimbalzò contro il mento
dell’avversario; per tutta risposta il coltello scattò verso la sua faccia, lacerandogli
la spalla.
Nell’urto Thetis aveva picchiato la testa contro il muro e adesso un sottile
rivolo di sangue fluiva da una lacerazione alla tempia; pur avendo la vista
annebbiata, lei strisciò però in avanti sul pavimento e raccolse la spada di
Parmenion, alzandosi lentamente in piedi nonostante la nausea violenta che l’aveva
assalita. Vide Parmenion lottare con l’assassino, che le stava volgendo le spalle e
corse in avanti, piantando la spada nel corpo dello Spartano, che tentò di girarsi ma
fu trattenuto per il polso da Parmenion.
Thetis ricadde all’indietro contro un divano, con la stanza che le ruotava
follemente intorno. Vide i due uomini lottare ancora, il sicario con la spada che gli
sporgeva dalla schiena, poi Parmenion esercitò tutto il proprio peso contro
l’avversario e lo scagliò verso il muro. L’elsa della spada colpì la pietra e piantò la
lama più in profondità nel corpo dell’uomo, le cui labbra si coprirono di sangue
gorgogliante. Parmenion scattò di lato quando il sicario tentò un ultimo, disperato
affondo con la daga, poi gli occhi dell’uomo si chiusero e lui crollò al suolo.
Subito Parmenion corse da Thetis, adagiandola sul divano.
– Stai bene? – le chiese, prendendole il volto fra le mani.
– Sì – rispose lei, debolmente. – Mothac... in cucina. Parmenion si alzò in piedi,
strappando la spada dal corpo dello Spartano, e con la lama insanguinata in mano
attraversò la casa e passò in cucina, dove due corpi giacevano sul pavimento.
Scavalcato il primo, Parmenion si inginocchiò accanto a Mothac, posandogli le dita
contro la gola. Il battito c’era ancora. Strappata la camicia insanguinata del
Tebano, Parmenion mise a nudo due ferite, una in alto sul petto e l’altra sopra il
fianco sinistro. Il flusso di sangue dalla lacerazione al petto stava cessando, ma
l’altra ferita continuava a sanguinare abbondantemente. Ricordando ciò che aveva
visto fare ai chirurghi sul campo di battaglia, Parmenion posò la mano ai lati del
taglio, unendo la pelle e stringendo con forza. Per qualche minuto restò immobile
così, con il sangue che gli scorreva fra le dita, ma poi l’emorragia cominciò
finalmente a rallentare e Mothac gemette.
– Resta disteso – ordinò Parmenion, allentando con delicatezza la presa. Il
sangue scorreva ancora, ma in maniera infinitesimale.
Tornato nell’androne, vide che Thetis si era addormentata e la lasciò riposare,
correndo a casa di Dronicus, il medico che aveva sostituito Argonas. Il dottore, un
Ateniese calvo e glabro, tanto basso da sembrare deforme, aveva un carattere no-
toriamente brusco ma la sua abilità era indiscutibile e, come Argonas prima di lui,
detestava ricorrere ai salassi.
Insieme, i due uomini issarono Mothac sul suo letto, poi Dronicus tappò le
ferite usando lana intrisa di linfa di foglie di fico e le coprì con tamponi di lana
bagnati di vino rosso, tenendo il tutto al suo posto con bende di lino.
Tornato nell’androne, Parmenion si inginocchiò accanto a Thetis e le prese la
mano, baciandole le dita.
Lei si svegliò e gli sorrise.
– Perché è tanto buio? – chiese. – Non puoi accendere una lanterna?
Ormai la luce del sole stava entrando a fiotti dalla finestra, e Parmenion si sentì
raggelare fino nel profondo dell’anima. In fretta, le passò una mano davanti alla
faccia, ma lei non sbatté neppure le palpebre.
– Dronicus! – chiamò, deglutendo a fatica. – Vieni qui, presto!
– Cosa succede? – domandò Thetis. – Accendi una lanterna.
– Fra un momento, amore mio. Fra un momento.
– Mothac sta bene?
– Sì. Dronicus!
Quando il dottore si avvicinò al divano, Parmenion non disse nulla ma passò
ancora la mano davanti al volto di Thetis. Il dottore si protese allora a toccare la
ferita sulla tempia di lei, esercitando una leggera pressione che strappò un gemito
alla donna.
– Sei tu, Parmenion? – chiese, con voce ora impastata.
– Sono qui – sussurrò lui, prendendole la mano.
– Credevo che saremmo morti e che la nostra felicità sarebbe finita. Poi ho
pensato che era il prezzo da pagare per gli anni che avevamo avuto... gli dèi non
amano che si sia felici troppo a lungo. So che può sembrare strano, ma mi sono
resa conto di non avere rimpianti. Tu mi hai riportata alla vita, mi hai fatta
sorridere e ridere. Adesso però... abbiamo... vinto di nuovo e ci saranno altri anni.
Parmenion?
– Sì?
– Ti amo. Ti dispiace che lo dica?
– Non mi dispiace – sussurrò lui, poi lanciò un’occhiata a Dronicus, ma la sua
espressione era indecifrabile. – Cos’ha che non va? – sillabò allora, senza emettere
suoni.
Il medico si alzò e gli segnalò a cenni di restare con la donna, poi uscì in cortile
e si sedette al sole.
– Mi ami? – chiese Thetis, con voce improvvisamente limpida.
Parmenion sentì la gola che gli si contraeva improvvisamente e le lacrime che
gli bruciavano gli occhi.
– Sì – disse.
– Non... riesco... a sentirti. Parmenion? Par...
Il respiro le si spense in gola con un sussurro.
– Thetis! – gridò lui, ma la donna non si mosse e i suoi occhi continuarono a
fissarlo.
Rientrato silenziosamente in casa, Dronicus le abbassò le palpebre, poi prese
Parmenion per un braccio e condusse lo sconvolto Spartano fuori sotto il sole.
– Perché? Era soltanto una piccola ferita.
– Il suo cranio era fratturato alla tempia. Mi dispiace, Parmenion... non so che
altro dire. Però tenta di trarre conforto dal fatto che non ha sofferto: non sapeva di
essere sul punto di morire. Inoltre cerca di ricordare ciò che ha detto sulla vostra
vita insieme. Poche persone conoscono una simile felicità.
Parmenion lo ignorò e si sedette al tavolo del cortile, con lo sguardo fisso sui
fiori che crescevano lungo il muro, senza muoversi neppure quando Menidis e una
squadra di soldati tebani arrivarono per portare via i corpi degli assassini. Poi
l’anziano ufficiale si venne a sedere davanti a lui.
– Puoi dirmi cosa è successo? – chiese.
Parmenion lo fece, con calma e meccanicamente, e non si accorse neppure
quando Menidis si alzò e se ne andò. Al tramonto, Pelopida lo trovò ancora là e gli
sedette accanto.
– Mi dispiace per la tua perdita – disse. – Davvero. Però adesso ti devi scuotere,
Parmenion, perché ho bisogno di te. Tebe ha bisogno di te. Cleombrotus è nel nord
con dodicimila uomini. Chaireas e i suoi sono stati massacrati e la via verso Tebe è
aperta.
Era quasi mezzogiorno quando gli Spartani e i loro alleati marciarono verso il
centro della pianura assumendo la formazione da battaglia e sfidando i Beoti a
venire ad affrontarli.
Guardando verso destra, Epaminonda osservò il suo esercito che si preparava a
marciare: all’estrema destra c’erano i guerrieri di Tespi agli ordini di Ictinus, che
formavano una falange alle spalle di Parmenion e di quattrocento cavalieri; al
centro era schierata la Banda Sacra, con i lanciatori di giavellotto e gli arcieri alle
spalle, mentre Epaminonda si trovava nella quinta fila del contingente tebano, forte
di quattromila uomini bene armati con corazza ed elmo, gonnellino di cuoio
bordato in metallo e schinieri di bronzo. Ogni uomo portava un largo scudo di
legno rivestito di cuoio e bordato dello stesso metallo. Estratta la corta spada,
Epaminonda si assestò lo scudo sul braccio e lanciò l’ordine con voce possente.
– Avanti! Per Tebe e per la gloria!
L’esercito cominciò a muoversi.
Il generale tebano cercò di deglutire ma aveva la bocca arida e sentiva il cuore
che gli batteva come un tamburo e in maniera irregolare, mentre la sua tensione era
tale che le gambe gli tremavano nel tentativo di regolare il passo con quello degli
uomini ai suoi fianchi. Da quel momento non c’era più possibilità di tornare
indietro.
Le discussioni erano durate fino a tarda notte e non erano certo state
semplificate da uno strano incidente. Quando Epaminonda aveva fatto per sedersi
nella tenda e rivolgersi agli altri sette generali, la sedia si era rotta sotto si lui,
facendolo cadere a terra. All’inizio la cosa era stata accolta soltanto con qualche
risata nervosa, ma poi Ictinus aveva detto ciò che anche gli altri pensavano.
– È un brutto presagio, Epaminonda, molto brutto – aveva affermato, e gli altri
avevano assunto un’espressione nervosa.
– Sì, è un presagio – aveva ribattuto Epaminonda, rialzandosi. – Ci viene
ordinato di non sedere in ozio ma di combattere da uomini.
Poi aveva esposto il piano di battaglia.
– Non è possibile che tu abbia riflettuto a fondo sulla questione – aveva subito
dichiarato Ictinus. – Gli Spartani sono letali. Se dobbiamo attaccarli, allora
colpiamoli sulla sinistra, dove ci sono i mercenari di Orcomeno. Sbaragliamo i loro
alleati e isoliamo Cleombrotus.
– E cosa pensi che farà Cleombrotus mentre noi marciamo verso la sua ala
sinistra? – aveva chiesto Epaminonda. – Te lo dico io cosa farà... girerà il suo
reggimento e ci schiaccerà. No, propongo di colpire direttamente la testa del
serpente.
La discussione si era protratta fin quasi all’alba: Bachylides di Megara e
Pelopida avevano sostenuto Epaminonda dal principio, ma era stato soltanto
quando avevano convinto anche Ganeus di Platea che avevano ottenuto la
maggioranza.
Adesso, mentre marciava giù per il lungo pendio alla volta della pianura,
Epaminonda non poté fare a meno di preoccuparsi per quella decisione. Per molti
anni aveva complottato e programmato, rischiando la propria vita per liberare la
città che amava, ma se si stava sbagliando adesso la sua città sarebbe stata
distrutta... le statue infrante, le case rase al suolo... e la polvere della storia avrebbe
ricoperto la Cadmea deserta. Sentì la mano madida di sudore quando accentuò la
stretta intorno alla spada, e poté avvertire rivoletti gelidi che gli scorrevano lungo
la schiena.
Quattrocento metri più avanti gli Spartani attendevano in silenzio, con le loro
forze allargate in un’ampia mezzaluna; sulla destra era possibile vedere con
chiarezza il re guerriero di Sparta, Cleombrotus, che spiccava con la sua corazza
decorata in oro in mezzo alla sua guardia del corpo.
Lentamente la distanza fra i due eserciti si ridusse, e quando rimasero soltanto
duecento passi Epaminonda ordinò ai suoi uomini di fermarsi. Aveva di fronte la
destra spartana, mentre al centro gli arcieri e i frombolieri nemici stavano
preparando le loro armi. Lanciando un’occhiata nervosa alla sinistra del nemico,
vide seicento cavalieri spartani che stavano galoppando verso la prima linea per
prendere posizione al centro, davanti agli arcieri.
Adesso tutto dipendeva da Parmenion. Epaminonda sollevò la spada in alto
nell’aria.
Guidata da Parmenion, la cavalleria tebana spronò i cavalli al galoppo,
puntando dritta verso la sinistra del nemico: la polvere vorticò intorno ai cavalieri e
il tuono degli zoccoli pervase l’aria... ma alle spalle della cavalleria i Tespiani,
guidati da Ictinus, si voltarono e fuggirono dal campo.
– Dannazione a te, vigliacco! – urlò Epaminonda.
– Faremo senza di loro, generale – disse un uomo, al suo fianco.
– Infatti – convenne Epaminonda, distogliendo lo sguardo dagli uomini in fuga
per spostarlo su Parmenion, che stava galoppando alla testa della cavalleria tebana.
La mente di Parmenion era stranamente calma mentre lui precedeva i
quattrocento cavalieri. La polvere si sollevò in nubi soffocanti ma lui si venne a
trovare davanti ad essa perché il suo cavallo nero si stava dirigendo ad una velocità
spaventosa verso il nemico. In lui non c’erano pensieri di vittoria o di sconfitta:
durante la notte aveva sognato Thetis e Derae, e nei suoi sogni tormentati aveva
visto Leonida, sopportando la sua risata beffarda. Adesso tutto quello che
desiderava era di venirsi a trovare faccia a faccia con gli Spartani, tagliare e
devastare e uccidere.
Quando già la sinistra del nemico stava unendo gli scudi per prepararsi a fare
fronte alla carica, Parmenion tirò la redine sinistra e fece girare lo stallone; alle sue
spalle la cavalleria tebana cambiò a sua volta direzione e deviò verso i cavalieri
spartani che aspettavano al centro dello schieramento. Abbassata la punta della sua
lancia, Parmenion scelse il proprio bersaglio, un ufficiale dal lungo mantello rosso
in sella ad un cavallo grigio.
La cavalleria spartana si rese conto troppo tardi di essere destinata a subire
l’impatto della prima carica. Gli ufficiali urlarono degli ordini nel tentativo di
caricare a loro volta ma ormai i Tebani erano loro addosso... lanciando selvagge
urla di battaglia e gettando di sella gli avversari con le lance. Quella di Parmenion
rimbalzò contro la corazza dell’ufficiale e si piantò nella mascella dell’uomo per
poi fuoriuscire dal cranio. Lo Spartano fu sollevato dalla groppa del cavallo e il
peso del suo corpo morto spezzò l’asta della lancia. Gettata l’altra metà
inutilizzabile, Parmenion estrasse la Spada di Leonida.
Adesso tutt’intorno regnava il caos e la cavalleria spartana era stata costretta a
indietreggiare fra le linee degli arcieri e dei frombolieri... gli uomini privi di
armatura cominciarono a cadere sotto gli zoccoli dei cavalli in preda al panico e il
centro dello schieramento spartano piombò nella confusione totale.
Un cavaliere calò la sciabola verso la testa di Parmenion, ma questi si ritrasse e
rispose piantando la spada nel collo dell’avversario.
Ora un’enorme nuvola di polvere avvolgeva le prime linee dello schieramento e
l’aria si era fatta densa e soffocante.
Alla retroguardia della destra spartana, Leonida vide la cavalleria tebana
deviare per attaccare il centro. In un primo momento non se ne preoccupò troppo,
perché arcieri e lanciatori di giavellotto non avevano molta importanza e come
sempre la battaglia sarebbe stata vinta dalla falange spartana... ma poi qualcosa si
agitò nella sua memoria, un gelido pensiero sussurrante che non gli riusciva di
afferrare del tutto. Stranamente, gli parve di aver già combattuto quella battaglia,
con la cavalleria nemica che attaccava il centro. Spostò lo sguardo in quella
direzione, fissando la vorticante nube di polvere...
E ricordò.
In quello stesso momento il re guerriero Cleombrotus vide le forme che si
muovevano in mezzo alla polvere e si rese conto che i Tebani stavano avanzando
verso di lui. Questo lo rese esultante: si era aspettato che i Beoti fortificassero il
costone e lo sfidassero ad attaccarli, e il fatto che avessero invece la temerarietà di
marciare contro di lui era un dono che non aveva previsto di ricevere.
– Le quattro file posteriori avanzino sul fianco destro! – tuonò.
I guerrieri, Leonida fra loro, si spostarono con prontezza sulla destra,
assottigliando lo schieramento spartano ad appena dodici file e preparandosi ad
accerchiare il nemico che stava avanzando.
Poi in un momento di gelido terrore Leonida vide di nuovo il recinto di sabbia
nella casa di Senofonte e le file ammassate del nemico che si abbattevano sullo
schieramento assottigliato.
– No, sire! – urlò, ma la sua voce si perse nella confusione quando il grido di
guerra tebano si levò come un rombo di tuono protratto.
All’interno della nube di polvere Pelopida e la Banda Sacra avanzarono di
corsa per mettersi davanti al resto dello schieramento tebano e prendere posto alla
testa della carica.
– Morte! Morte! Morte! – ruggì l’esercito, e cominciò a correre.
Disposti in riga per ottanta su cinquanta file di profondità, i Tebani si
abbatterono sullo schieramento frontale degli Spartani come un’ascia su un pezzo
di legno: le prime due file indietreggiarono e cedettero sotto le spade nemiche e la
falange venne lacerata dall’impatto della carica.
Alla testa della Banda Sacra, Pelopida piombò con violenza sugli Spartani,
affiancato da Callines. Una spada scattò verso la testa di Pelopida, ma Callines la
bloccò con lo scudo e piantò la propria lama in profondità nell’inguine
dell’avversario, poi la falange tebana riprese la sua avanzata, sia pure più
lentamente. Senza badare all’assortimento di piccole ferite che gli rigavano di
sangue le braccia e le gambe, Pelopida continuò a colpire e a uccidere con frenesia
crescente.
Alle sue spalle Epaminonda... che si trovava al centro della falange e non era
ancora stato coinvolto nel combattimento... sbirciò fra la polvere nel tentativo di
localizzare il re spartano Cleombrotus, che insieme alla sua guardia del corpo stava
combattendo un po’ più a destra rispetto al fronte principale dell’avanzata nemica.
– Pelopida! – gridò il generale tebano. – Alla tua destra! Alla tua destra!
Per quanto perso nella propria sete di sangue, Pelopida lo sentì e si guardò
intorno: non appena vide Cleombrotus, cominciò a lottare per aprirsi un varco
verso di lui; Callines gli si tenne accanto e proteggendosi a vicenda i due
continuarono a combattere in coppia mentre alle loro spalle la Banda Sacra
modificava la sua linea di avanzata e si dirigeva a sua volta verso il re spartano.
Sulla destra, Leonida si portò a fatica sul davanti delle due linee spartane a cui
era stato ordinato di allargarsi per accerchiare i Tebani, e nel vedere il nemico che
puntava verso il re ordinò loro di serrare le file.
– Il re! Il re! – tuonò, e gli Spartani scattarono in avanti, tentando
disperatamente di raggiungere il monarca assediato. – Indietro, sire! Indietreggia! –
gridò ancora Leonida.
Cleombrotus si rese conto del pericolo, ma non riuscì a indursi a ritirarsi
davanti ai Tebani.
– State saldi – ordinò alla sua guardia del corpo. – Si infrangeranno contro di
noi come il mare sulla pietra. Intanto Parmenion e la cavalleria erano penetrati in
profondità nel centro nemico, mettendo in fuga davanti a loro gli arcieri dotati
soltanto di armatura leggera e la cavalleria nemica. Girandosi verso sinistra,
Parmenion vide la linea di battaglia tebana che stava rallentando nel cercare di
girarsi per schiacciare Cleombrotus, poi spostò lo sguardo verso la destra spartana,
dove Leonida aveva raccolto a sé due file e stava cercando di aprirsi un varco per
salvare il re.
– Tebani, a me! – gridò quindi.
A portata d’udito c’erano soltanto cinquanta cavalieri... ma essi accorsero
subito al galoppo.
– Seguitemi! – ordinò Parmenion, piantando i talloni nei fianchi dello stallone e
caricando la linea spartana.
La sua mossa sorprese gli avversari, che cercarono di girarsi per difendersi, con
il solo risultato di indebolire il loro fronte e di permettere a Pelopida e alla Banda
Sacra di aprirsi un varco.
Cleombrotus imprecò, poi calò con violenza la spada, piantandola nella bocca
di un nemico e trapassandogli il cranio. Un altro Tebano, e poi un altro ancora,
caddero sotto i colpi del re guerriero.
Poi un urlo si levò accanto a lui e Cleombrotus si voltò di scatto, appena in
tempo per vedere il suo amante e compagno, Hermias, cadere al suolo con la gola
squarciata. Un guerriero dalla barba scura con un letale sogghigno dipinto sul volto
balzò verso il re, che parò un primo affondo e poi un secondo. Pelopida sbatté però
poi il proprio scudo contro quello dell’avversario, costringendolo a indietreggiare e
lasciandosi poi cadere in ginocchio per piantare la spada nell’inguine del nemico.
Cleombrotus cercò ancora di combattere, ma il sangue e la vita lo stavano
abbandonando... e con essi anche le forze. Il braccio che reggeva lo scudo gli si
abbassò e il colpo successivo del Tebano gli frantumò la mascella.
Quando il re cadde, il centro spartano cedette. Leonida e i suoi uomini
riuscirono infine a portarsi in prima linea e a raccogliere il corpo del re,
impegnando poi una difensiva azione di retroguardia nei ritirarsi verso
l’accampamento.
La furia della battaglia cominciò allora ad affievolirsi. Gruppi isolati di
Spartani vennero circondati e distrutti, ma Leonida riuscì a raccogliere quanto
restava dell’esercito in una forte posizione difensiva su un costone vicino, mentre
gli alleati di Sparta fuggirono senza più combattere non appena videro cadere
Cleombrotus.
I Tebani si raccolsero intorno a Pelopida e ad Epaminonda, issandoli sulle
spalle e portandoli in giro per il campo di battaglia fra ovazioni assordanti che
giunsero echeggianti fino alle linee degli Spartani.
Appiedato dalla morte del suo cavallo, Parmenion prese a camminare
lentamente fra i corpi contorti dei morti: oltre mille Spartani erano caduti sul
campo contro un numero di perdite tebane che ammontava ad appena duecento
uomini, ma per il momento quelle cifre non significavano nulla per lui, si sentiva
stordito e privo di emozioni. Aveva visto Cleombrotus cadere per mano di
Pelopida, ma la cosa peggiore era stato vedere il Tebano uccidere Hermias qualche
istante prima. Parmenion si inginocchiò accanto al corpo e abbassò lo sguardo sul
volto dell’uomo, vedendo il viso del ragazzo che gli era stato amico.
Gli tornò in mente il ricordo di quella notte in cui si erano seduti ai piedi della
statua di Atena dei Viandanti, la notte in cui lui aveva appreso che non ci sarebbe
stata nessuna celebrazione per la sua vittoria nei Giochi.
– Pagheranno tutti! – aveva promesso, ed Hermias gli aveva posato una mano
sul braccio.
– Non odiare anche me, Savra.
– Odiarti, amico mio? – aveva risposto. – Come potrei mai odiarti? Sei stato
un fratello per me e non lo dimenticherò mai. Mai! Siamo stati fratelli e lo saremo
per tutti i giorni della nostra vita. Te lo prometto.
Chiuse gli occhi del morto e si alzò in piedi. Adesso i chirurghi si stavano
muovendo per il campo di battaglia, rimuovendone i feriti tebani, anche se
Parmenion sapeva che la maggior parte di quegli uomini sarebbe morta, in quanto i
medici abili come Argonas e Dronicus erano rari. Si guardò intorno. Sulla sinistra
giaceva Callines, l’uomo che aveva ammesso di non essere molto abile con la
spada, e più oltre c’era il corpo di Norac il fabbro; in seguito avrebbe saputo di altri
che erano morti quel giorno, come Calepios l’oratore e Melon lo statista. Abbassò
poi lo sguardo sulle proprie mani, coperte di sangue che cominciava a seccarsi e ad
assumere una tinta marrone sporco.
E i corvi stavano già girando in cerchio sulla pianura.
Ricordò i Giochi del Generale, i soldati intagliati nel legno e disposti nel
recinto di sabbia: là non c’era stato sangue né il fetore dei visceri squarciati... era
stato soltanto un gioco di bambini condotto senza dolore sotto il sole di un’altra
epoca.
– Pagheranno tutti – aveva promesso ad Hermias. Ed avevano pagato... ma a
che prezzo? Hermias era morto, e così Derae, ed ora anche Thetis.
Sparta era finita, la sua invincibilità era svanita. Adesso altre città da lei
dominate sarebbero insorte e la sua potenza sarebbe svanita fino a diventare un
ricordo. Non sarebbe stata una cosa immediata, lo sapeva, e ci sarebbero state altre
vittorie per gli Spartani... ma non avrebbero mai più dominato la Grecia.
– Io sono la Morte delle Nazioni – sussurrò.
– O il loro salvatore – suggerì Epaminonda.
– Non ti ho sentito arrivare – osservò Parmenion, girandosi. – Hai vinto, amico
mio, hai conseguito una famosa vittoria e spero che Tebe si dimostri più abile di
Sparta nel governare.
– Noi non cerchiamo di dominare nessuno – protestò Epaminonda.
– Vi sarà imposto, generale – replicò Parmenion, massaggiandosi gli occhi
stanchi. – Per poter essere sicuri, dovrete portare la battaglia sul terreno degli
Spartani e umiliarli. A quel punto gli Ateniesi e i loro alleati avranno paura di voi e
vi marceranno contro. Dominare o morire, queste sono le tue alternative.
– Non essere così cupo, Parmenion. Questa è una nuova epoca in cui non siamo
costretti a ripetere le follie del passato. Gli Spartani manderanno un ambasciatore
per chiedere il permesso di rimuovere i loro morti e sarai tu a riceverlo.
Parmenion scosse il capo.
– Ascoltami – insistette Epaminonda, in tono sommesso, – hai portato con te il
tuo odio per troppi anni, e con questa vittoria puoi seppellirlo per sempre, puoi
essere libero. Fallo per me.
– Come vuoi – acconsentì lo Spartano, sentendosi la mente vuota e prosciugata
di ogni emozione.
Per tutta la sua vita di adulto aveva sognato questo momento, ma adesso che era
giunto si sentiva morto dentro. Thetis gli aveva chiesto cosa avrebbe fatto quando
la sua vittoria fosse stata completa, ma così come non aveva avuto una risposta al-
lora non riusciva a trovarne una adesso. Lasciò scorrere lo sguardo sui corpi
silenziosi che lo attorniavano e si chiese dove fosse la gioia della vittoria, in cosa
consistesse la soddisfazione.
Tre ore più tardi, quando era ormai imminente il crepuscolo, un cavaliere
spartano entrò al trotto nel campo dei Tebani e venne condotto nella tenda dove era
in attesa Parmenion.
– Sapevo che era un tuo piano – dichiarò Leonida. – Cosa si prova ad avere
sconfitto l’esercito della propria terra?
– Sei venuto per riconoscere la sconfitta e per chiedere il permesso di
rimuovere i vostri morti – replicò freddamente Parmenion. – Il permesso vi viene
concesso.
– Non desideri gongolare? – chiese Leonida. – Sono qui, Parmenion, deridimi
quanto vuoi, dimmi come avevi promesso questo e quanto ti fa sentire bene.
– Non posso, e se anche potessi non lo farei. Per poco non ci avete bloccati.
Con una profondità di appena dodici file avete quasi rovesciato le sorti della
battaglia. Se Cleombrotus avesse indietreggiato ed avesse unito le sue forze alle tue
avreste potuto reggere. Non c’è mai stato un esercito tanto coraggioso o di-
sciplinato come quello di Sparta, ed io saluto i vostri morti e il ricordo di tutto ciò
che è stato grande nella storia di Sparta. – Versò quindi due boccali di vino,
porgendone uno allo sconcertato Spartano, e continuò: – Molto tempo fa, tua
sorella voleva comprarti un dono. Allora non l’ho voluto vendere, ma adesso è
giunto il momento di restituirlo.
Slacciandosi la cintura con la spada, porse l’arma leggendaria a Leonida, che
rimase a fissarla con incredulità per poi sedersi di colpo sul pagliericcio presente
nella tenda e tracannare il vino in un solo sorso.
– Cos’è che facciamo gli uni agli altri? – chiese. – Hai vinto onestamente i
Giochi, l’ho detto allora e lo ripeto adesso. Non ho mai chiesto a quei ragazzi di
tormentarti... non sapevo neppure quello che stava succedendo... e vorrei che tu
avessi sposato Derae. Sono però gli eventi a spingerci, Parmenion, le nostre anime
non sono che foglie nella tempesta e soltanto gli dèi sanno dove finiremo a
riposare. Siamo nemici, tu ed io... il Fato lo ha decretato... però sei un uomo
coraggioso e combatti come uno Spartano. Saluto la tua vittoria – concluse, alzan-
dosi e restituendo il boccale vuoto. – Adesso cosa farai?
– Lascerò Tebe e viaggerò. Vedrò il mondo, Leonida.
– Come soldato?
– È tutto quello che ho... tutto ciò che conosco.
– Addio, allora, Parmenion. Se ci incontreremo ancora, farò del mio meglio per
ucciderti.
– Lo so. Possano gli dèi camminare con te, Leonida.
– E con te... stratega.
Tamis era confusa mentre con gli occhi dello spirito osservava Parmenion
restituire la spada leggendaria. Non era così che sarebbero dovute andare le cose,
l’odio fra i due uomini avrebbe dovuto essere rafforzato dagli eventi... tutti i futuri
lo indicavano. Per un momento appena la sua confusione minacciò di diventare
panico, ma poi lei accantonò tutti i dubbi. Che importanza aveva? Adesso tre dei
Prescelti erano morti e ne rimaneva soltanto uno.
E per occuparsi di lui c’era tempo... ad un ostaggio quattordicenne che viveva a
Tebe potevano succedere incidenti di ogni genere.
Di certo quel ragazzo si sarebbe rivelato una minaccia inferiore a Cleombrotus,
il possente re guerriero degli Spartani: dopo tutto, non proveniva neppure da una
città civile, essendo nato e cresciuto fra le foreste e le colline della Macedonia.
Probabilmente sarebbe stato assassinato come suo padre, perché era quello il
destino di quanti erano troppo vicini al trono nelle nazioni retrograde, in quanto il
re eliminava di solito tutti i possibili rivali.
No, decise, non c’era proprio nulla da temere da Filippo di Macedonia.
LIBRO TERZO
TEBE, AUTUNNO, 371 A.C.
Peila era una città che stava crescendo. Il padre di Filippo, Amyntas, aveva
contratto forti debiti per portare architetti dal sud, progettando viali e templi e
allargando il palazzo; i ricchi nobili della regione erano stati inoltre incoraggiati a
trasferirsi nella capitale, costruendosi delle dimore sulle colline e portando con loro
servitori che avevano bisogno di abitazioni meno costose. Quell’afflusso di nuovi
cittadini aveva trascinato sulla sua scia artigiani e mercanti, e la città era subito
fiorita.
Fermo accanto alla finestra della sua camera da letto nel palazzo reale, Filippo
stava osservando lo spiazzo del mercato oltre le alte mura dei giardini: da dove si
trovava poteva sentire i venditori che gridavano i prezzi e invitavano i clienti agli
acquisti, e desiderava poter lasciare quel minaccioso palazzo per mescolarsi con la
folla.
Questo però non era possibile, perché Ptolemaos aveva detto molto chiaramente
di non desiderare che i suoi giovani nipoti si avventurassero lontano dalla sua vista,
sostenendo di essere preoccupato per la loro sicurezza. La cosa aveva sorpreso
Filippo, in quanto lo zio non sembrava altrettanto preoccupato per la sicurezza del
proprio figlio, Archelaos, che aveva il permesso di cavalcare, di cacciare e di
andare in cerca di prostitute ogni volta che ne aveva voglia. Filippo non aveva
nessuna simpatia per Archelaos, e nonostante i consigli di Parmenion non riusciva
ad indursi a cercare di conquistare la simpatia di quel giovane zotico.
Archelaos era una versione più giovane di suo padre, con lo stesso naso
aquilino, la stessa bocca crudele e lo stesso mento sporgente, e trovando già
difficile essere cortese con lo zio responsabile dell’assassinio di suo padre Filippo
non riusciva a umiliarsi anche davanti all’erede al trono.
Recatosi a trovare il fratello ancora costretto a letto, gli espose quelle
riflessioni.
– Sarebbe inutile cercare di conquistarlo – sussurrò Perdiccas, indebolito dallo
sforzo di parlare. – Archelaos è un porco, per cui interpreterebbe qualsiasi apertura
da parte tua come un segno di debolezza e farebbe del suo meglio per sfruttarla. Io
lo odio... sai cosa mi ha detto la primavera scorsa? Che anche se Ptolemaos mi
lascerà in vita il primo ordine che lui impartirà appena salito al trono sarà di farmi
uccidere.
– Potremmo fuggire dalla regione – suggerì Filippo. – Tu hai quasi diciassette
anni e potresti diventare un mercenario, mentre io potrei essere il tuo servitore.
Una volta raccolto un esercito, poi, potremmo tornare qui.
– Continua pure a sognare, fratellino. Non riesco a liberarmi da questa febbre e
mi sento debole come un puledro di due anni.
Cominciò quindi a tossire e Filippo si affrettò a portargli una coppa d’acqua che
Perdiccas bevve sollevandosi su un gomito. Al contrario del fratello scuro di
capelli e quasi olivastro di carnagione, Perdiccas aveva i capelli biondi e prima
della sua malattia era stato di una bellezza incredibile. Adesso però il suo volto era
teso e scarno, la pelle aveva un colorito malsano, gli occhi erano opachi e bordati
di rosso, le labbra avevano la tonalità azzurrina dei malati di tisi. Filippo si
costrinse a distogliere lo sguardo... Perdiccas stava morendo.
Dopo essere rimasto per qualche tempo con il fratello, il ragazzo tornò nelle
proprie stanze, dove scoprì che gli era stato portato del cibo su un vassoio
d’argento. Lui però non aveva fame, perché quella mattina si era sentito male e
aveva vomitato per un’ora fino a quando dallo stomaco gli era uscita soltanto bile.
Dopo aver bevuto un po’ d’acqua si adagiò su un divano e si addormentò; più tardi
lo destò un abbaiare di cani proveniente dal giardino e ricordò che la cagna da
caccia, Beria, aveva di recente dato alla luce una cucciolata. Sollevatosi a sedere,
avvolse la carne fredda della sua cena in un tovagliolo e la portò in giardino, dove
rimase per qualche tempo a giocare con i cuccioli dando loro da mangiare pezzetti
di carne mentre essi gli si arrampicavano addosso, lo leccavano e lo mordevano per
gioco. Quel passatempo migliorò il suo umore e qualche tempo più tardi fece
ritorno nelle sue stanze, dove un servitore venne a prelevare il vassoio. L’uomo era
un vecchio gentile di nome Hermon, con la barba bianca e acuti occhi azzurri
sovrastati da sopracciglia cespugliose.
– Ti senti meglio, giovane signore? – chiese.
– Sì, grazie.
– Questo è un bene, signore. Vuoi qualche dolce al miele? Sono stati fatti di
fresco.
– No, Hermon, adesso credo che dormirò. Buona notte.
I sogni di Filippo furono agitati e per due volte si svegliò sentendo i cani
abbaiare alla luna e il sibilare del vento che scuoteva le imposte. Alla fine gli
ululati cominciarono ad irritarlo e si gettò un mantello sulle spalle, scendendo in
giardino. La sua stanza era la peggiore del palazzo, vicina ai canili e rivolta a nord,
cosicché non prendeva sole ed era esposta ai peggiori venti invernali. I giardini
erano freddi, i fiori privi di colore ed eterei sotto la luce della luna; Filippo trovò
Beria seduta sotto il muro che ululava in maniera tale da spezzare il cuore: intorno
a lei erano sparsi i corpi dei suoi sei cuccioli, inerti e privi di vita...
inginocchiandosi accanto ad essi, Filippo vide che il terreno era macchiato dal loro
vomito. Afferrata Beria per il collare, il ragazzo la trascinò lontano dai piccoli
corpi e le si inginocchiò accanto, stringendo al petto la grande testa nera del-
l’animale e accarezzandogli gli orecchi. La cagna uggiolò pietosamente e cercò di
tornare dai suoi piccoli.
– Se ne sono andati, tesoro mio – le disse Filippo. – Vieni con me... staremo
insieme, tu ed io.
La cagna lo seguì su per le scale ma subito si avvicinò alla finestra e ricominciò
ad ululare; prendendola per il collare, Filippo la fece stendere sul proprio letto e le
si sdraiò accanto cingendola con le braccia e tenendola stretta finché si addormentò
con la testa contro il suo petto.
Mentre giaceva inquieto nel buio, ricordò poi i pezzi di carne che aveva dato ai
cuccioli.
E ripensò al gentile, vecchio Hermon dagli occhi azzurro chiaro...
* * *
Filippo rimase sveglio per tutta la notte, in preda ad un’ira superiore al timore:
il veleno non era un metodo nuovo di assassinio, ma perché non usare quello di
sempre, la lama di un sicario che dava una morte rapida e sicura? La risposta non
fu difficile da trovare: Ptolemaos non era popolare presso l’esercito perché era
stato sconfitto tanto da Bardylis nell’ovest quanto da Cotys, il re della Tracia,
nell’est. Il suo unico successo era stato contro i deboli Paioni del nord.
Filippo sapeva che come tutti i re anche Ptolemaos governava solo grazie al
consenso di cui godeva. I ricchi nobili macedoni desideravano un uomo che
potesse accrescere le loro fortune, un re che portasse loro la gloria, perché cos’altro
c’era nella vita per un popolo di guerrieri? Adesso quei nobili non erano più
disposti a tollerare l’apparentemente interminabile... e manifesta... catena di
assassinii di possibili rivali, e Ptolemaos stava cercando di procedere con cautela.
Improvvisamente Filippo pensò a Perdiccas... ma certo! Lo stavano
avvelenando a sua volta, in maniera lenta ma inesorabile.
Cosa poteva fare? Di chi si poteva fidare? Rispondere alla seconda domanda
era più facile che rispondere alla prima: non si doveva fidare di nessuno. Alzatosi
dal letto attraversò in silenzio la stanza per non svegliare il cane, e una volta nel
corridoio attraversò il palazzo silenzioso fino alle strette scale delle cucine, dove
mangiò carne e frutta a sazietà. Riempito un piccolo sacco di provviste, tornò
quindi di sopra e raggiunse con cautela la camera del fratello. Perdiccas stava
dormendo e lui lo svegliò posandogli con gentilezza una mano sulla spalla.
– Cosa c’è? – chiese Perdiccas.
– Ti ho portato un po’ di cibo.
– Non ho fame, fratello. Lasciami dormire.
– Ascoltami! – sibilò Filippo. – Ti stanno avvelenando! Perdiccas lo fissò con
espressione incredula, e allora Filippo gli parlò della morte dei cuccioli.
– Possono essere morti per qualsiasi motivo – obiettò Perdiccas, stancamente. –
Succede spesso.
– Forse hai ragione – sussurrò Filippo, – ma in questo caso non ci rimetterai
nulla a stare al mio gioco. In caso contrario la tua vita sarà salva.
Aiutò quindi Perdiccas a sedersi e attese che il fratello avesse mangiato
lentamente un po’ di carne e di formaggio.
– Dammi un sorso d’acqua – chiese quindi Perdiccas, e Filippo riempì una
tazza dalla brocca posata su un tavolo vicino... poi si fermò e si accostò alla
finestra, svuotando all’esterno tanto la tazza quanto la brocca.
– Non possiamo fidarci di nulla che non prendiamo da soli – affermò.
Lasciata ancora una volta la stanza, andò a riempire la brocca nella botte che si
trovava in cucina.
– Nessuno deve sapere dei nostri sospetti – avvertì al suo ritorno. – Devono
credere che stiamo continuando a mangiare il cibo che ci danno.
Perdiccas annuì, poi si lasciò ricadere all’indietro sul letto e si addormentò.
Per quattro giorni Filippo continuò con quelle visite notturne al fratello, e
lentamente il volto di Perdiccas ritrovò un po’ di colorito. La mattina del quinto
giorno Hermon si presentò nella camera di Filippo con un vassoio di formaggio e
fichi ed una caraffa di acqua fresca.
– Hai dormito bene, mio signore? – domandò, con un sorriso gentile.
– Non bene, amico mio – replicò Filippo, in tono volutamente basso e stanco. –
Pare che non riesca a smettere di vomitare e non mi sento molto in forze. Potrei
vedere un dottore?
– Non è necessario, mio signore – replicò Hermon. – Questi... piccoli malesseri
intestinali sono frequenti in autunno. Ti riprenderai presto.
– Ti ringrazio, sei molto gentile. Vuoi tenermi compagnia a colazione? C’è
troppa roba per me.
– Vorrei poterlo fare, mio signore – rispose Hermon, allargando le mani, – ma
non ho ancora ultimato i miei compiti. Godi il tuo pasto. Ti consiglio di costringerti
a mangiare... soltanto così potrai recuperare le forze.
Quando l’uomo se ne fu andato, Filippo si gettò sulle spalle un ampio mantello
azzurro, e dopo aver nascosto la brocca sotto di esso raggiunse in fretta l’ala dei
servi e la camera di Hermon. Sapendo che il vecchio doveva essere con Perdiccas,
entrò nel suo alloggio: vicino alla finestra c’era una brocca d’acqua fresca, e il
giovane si affacciò all’esterno, verificando che in giardino non ci fosse nessuno
prima di svuotare la brocca di Hermon e di riempirla di nuovo dalla propria.
La mattina successiva fu un altro servitore a portargli la colazione.
– Dov’è il mio amico Hermon? – domandò Filippo.
– Non sta bene, signore – spiegò l’uomo, inchinandosi.
– Mi dispiace. Ti prego di riferirgli che spero che si riprenda presto.
Quel pomeriggio Perdiccas si alzò dal letto: aveva ancora le gambe deboli, ma
cominciava a ritrovare le forze.
– Cosa dobbiamo fare? – domandò al fratello minore.
– Questa storia non può continuare – replicò Filippo, in tono sommesso. –
Presto si renderanno conto che non stai più ingerendo il veleno e allora temo che
ricorreranno ad un coltello o ad una spada.
– Avevi accennato alla possibilità di fuggire – suggerì Perdiccas. – Ora penso
di essere abbastanza forte da seguirti, e potremmo dirigerci verso Anfipoli.
– Sarebbe meglio Tebe – controbatté Filippo, – perché là ho degli amici. Però
non possiamo aspettare troppo a lungo... al massimo altri tre giorni, e fino ad allora
dovrai restare a letto e dire a chiunque te lo chieda che ti senti sempre più debole.
Inoltre ci serviranno denaro e cavalli.
– Non ho denaro – disse Perdiccas.
– Penserò al da farsi – promise Filippo.
Filippo arrestò di colpo il cavallo non appena vide il leone correre fra le rocce:
la gioia della caccia lo aveva pervaso e l’intossicante ebbrezza del pericolo si
rivelò come sempre più forte del vino mente lui balzava a terra con leggerezza,
stringendo in pugno la corta lancia da caccia la cui punta di ferro era affilata come
un rasoio.
Gli anni trascorsi dall’assassino di Ptolemaos erano stati clementi con Filippo,
che adesso non era più un ragazzo snello ma un giovane possente e largo di spalle,
con il volto adorno di una curata barba nera lucida quanto la pelliccia di una
pantera. A ventitré anni, Filippo di Macedonia era in pieno rigoglio fisico.
Quando Perdiccas era salito al trono, Filippo aveva conosciuto la pace per la
prima volta da anni. Lasciata la capitale si era trasferito nelle tenute reali al di là
dell’antica capitale Aigai, e là si era concesso tutti i piaceri propri dei nobili
macedoni... bere, cacciare e compagnia femminile. Fra tutte quelle cose, però, era
soprattutto la caccia ad infiammargli il sangue: orsi, lupi, daini, buoi selvatici,
cinghiali e leopardi... la Macedonia era ricca di selvaggina.
I leoni cominciavano però a scarseggiare. Adesso però un maschio irsuto era
sceso dalle montagne per attaccare i branchi di pecore, le capre e il bestiame. Per
cinque giorni i cacciatori ne avevano seguito la pista, perdendola per poi ritrovarla
ancora e spostandosi sempre più verso sud... sembrava che la bestia li stesse
guidando verso il Monte Olimpo, la dimora degli dèi.
– Sii con me, padre Zeus! – sussurrò Filippo, lanciando un’occhiata alla lontana
montagna, poi avanzò lentamente fra le rocce. Sapeva che avrebbe dovuto
aspettare i compagni, ma come al solito era ansioso di abbattere la preda, di essere
il primo a colpire.
Il sole di mezzogiorno gli batteva sulla testa mentre lui avanzava con estrema
lentezza, consapevole che i leoni non avrebbero dovuto essere in circolazione con
quel caldo, preferendo di solito dormire in una zona d’ombra... senza contare che
quello che stavano inseguendo aveva ucciso da poco tempo una grossa pecora,
ingozzandosi di carne piena di grasso. Soppesò la lancia: la punta sarebbe dovuta
penetrare dietro la spalla del leone, piantandosi in profondità nei polmoni e nel
cuore... una cosa pericolosa dato che un solo colpo di zampa della belva poteva
fracassare il costato di un uomo e sventrarlo con gli artigli.
Guardandosi alle spalle, Filippo vide che Attalus e gli altri erano ancora ad una
certa distanza... il sicario dagli occhi chiari si sarebbe infuriato se Filippo fosse
riuscito ad abbattere la preda senza di lui, e quel pensiero strappò una risata al
giovane principe. Attalus era già furente, perché Perdiccas era andato all’ovest con
l’esercito per affrontare Bardylis e non lo aveva portato con sé: nonostante l’aiuto
che il sicario aveva dato loro undici anni prima, infatti, Perdiccas non si era mai
fidato di lui né gli aveva mai permesso di assurgere ad una posizione preminente...
Attalus era ancora soltanto il capitano delle guardie.
Da un punto più avanti, oltre i massi, giunse un ringhio sommesso, profondo e
rombante: il timore sfiorò Filippo con dita di fuoco e lui si crogiolò in esso come se
si fosse trattato delle carezze di una splendida donna.
– Vieni da me – sussurrò.
Il leone saettò fuori dalle rocce, caricando. Era enorme, a Filippo parve più
grosso di un pony, e non c’era tempo per spostarsi di lato e infliggere il colpo che
lo avrebbe ucciso.
Lasciatosi cadere su un ginocchio, Filippo puntellò contro il terreno l’asta della
lancia, con la punta diretta verso la gola del leone. Sapeva che questo non lo
avrebbe fermato, perché l’asta si sarebbe spezzata sotto l’impatto e le zanne della
belva gli avrebbero devastato la faccia: in un istante, comprese che era giunto il
giorno della sua morte, ma rimase comunque calmo e determinato a non morire da
solo. Quel mostro avrebbe percorso accanto a lui la strada dell’Ade.
Alle sue spalle echeggiò un battito di zoccoli, ma i suoi amici non sarebbero
arrivati in tempo per salvarlo.
– Vieni! – ruggì rivolto al leone. – Vieni a morire con me!
Improvvisamente la bestia si contorse come se stesse soffrendo e la sua carica
perse velocità: la testa enorme si sollevò con un ruggito spaventoso che lacerò
l’aria... e il mostro si arrestò a pochi centimetri dalla punta della lancia.
Filippo poté avvertire l’alito rancido della bestia e si trovò a fissare le zanne
lunghe e ricurve come daghe persiane, poi sollevò lo sguardo sugli occhi dorati
della fiera...
Il tempo cessò di scorrere, il momento si protrasse in eterno.
Lentamente Filippo si alzò in piedi e protese la lancia fino a sfiorare con la sua
punta la criniera del leone. La bestia sbatté le
palpebre ma non si mosse e Filippo avvertì, più che vedere, Nicanor che alle sue
spalle stava estraendo una freccia dalla faretra.
– Non scagliare un solo dardo – ordinò, in tono sommesso. Il leone venne
avanti, fino a strusciare la pelliccia contro la gamba del giovane principe, poi si
girò e si allontanò fra le rocce.
– Non ho mai visto una cosa del genere – sussurrò Attalus, sopraggiungendo di
corsa.
– Neppure io – rispose Filippo.
– Lo dobbiamo inseguire?
– Non credo, amico mio, e del resto ho perso la voglia di cacciare – replicò il
giovane, scoccando un’occhiata al punto in cui poco prima si trovava il leone.
– È stato un presagio di qualche tipo? Era davvero un leone? – chiese Attalus.
– Se era un dio, aveva un alito spaventoso – tentò di scherzare Filippo,
lanciando occhiate nervose in direzione dei lontani picchi del Monte Olimpo.
I cacciatori si avviarono con calma alla volta della casa estiva di Filippo, ad una
trentina di chilometri da Aigai, ed erano quasi arrivati quando un messaggero con il
cavallo coperto di schiuma e quasi sfinito giunse al galoppo dal nord e si affiancò a
Filippo.
– Il re è morto – disse, – e l’esercito è distrutto.
– Perdiccas morto? Non ci credo! – esclamò Attalus, ma il cavaliere lo ignorò e
tenne lo sguardo fisso su Filippo.
– Il re è avanzato contro gli Illiri, ma il nostro centro ha ceduto, Perdiccas ha
tentato di controcaricare ma il nemico si aspettava quella mossa e la cavalleria è
stata fatta a pezzi, la testa del re tagliata e messa su una lancia. Abbiamo perso
oltre quattromila uomini.
Filippo non era mai stato molto attaccato al fratello, ma fra loro non c’era
neppure animosità perché il giovane ammirava il re per la sua abilità come statista
e guerriero.
Che fare adesso? si chiese.
Il figlio del re aveva appena due anni e l’esercito... ciò che ne restava... non
avrebbe mai acconsentito che un neonato venisse incoronato re, quale che fosse il
pericolo che minacciava la nazione. Allontanatosi dai suoi uomini smontò di sella e
sedette su un masso, con lo sguardo fisso sul mare: non aveva mai desiderato
essere re, nella sua vita non aveva voluto altro che poter cacciare, bere e concedersi
qualche donna. Perdiccas lo capiva benissimo, ed era stato per questo che non
aveva mai preso in considerazione la possibilità di farlo assassinare.
Da parte sua, Filippo evitava per lo più di ingerirsi degli affari di stato. Aveva
avvertito Perdiccas del pericolo di attaccare gli Illiri, ma battaglie del genere erano
una cosa comune e di rado avevano un esito decisivo: di solito il perdente accon-
sentiva a pagare grosse somme di tributo al vincitore e la vita continuava come
prima. Il fatto però che il re fosse caduto sul campo insieme a quattromila
Macedoni costituiva una tragedia di dimensioni spaventose, una tragedia che
avrebbe gettato nel caos l’equilibrio sempre quanto meno delicato della Grecia set-
tentrionale.
Perdiccas si era rivelato un buon re, popolare e forte, ma aveva avuto
l’ossessione di schiacciare Bardylis e nulla di ciò che Filippo gli aveva detto era
stato sufficiente a distoglierlo da quell’intento .
– Manda a chiamare Parmenion – lo aveva incitato Filippo.
– Non ho bisogno di nessun mezzosangue spartano – aveva replicato Perdiccas.
– Vuoi che venga con te?
Per un momento, Filippo aveva pensato che il fratello gli avrebbe risposto di sì,
perché il suo volto avvenente si era addolcito per un momento... ma poi
l’espressione dura gli era riaffiorata negli occhi.
– No, fratello. Resta ad Aigai e divertiti – aveva detto. Mentre Filippo si girava
per andarsene, Perdiccas aveva però allungato una mano per trattenerlo per una
spalla.
– Non ho mai dimenticato ciò che hai fatto per me – aveva mormorato.
– Lo so, non c’è bisogno che tu lo ripeta.
– Ci sono alcuni che mi hanno incitato ad ucciderti, Filippo, persone che
credono... ah, che importa? Non ho ucciso neppure Archelaos e non si è mai
rivelato una minaccia.
– Non mi temere, fratello – aveva ribattuto Filippo, – perché non desidero
essere re. Guardati però da Bardylis, perché se dovessi perdere ti potrebbe imporre
un tributo che ti riuscirà difficile pagare.
– Io non perderò – aveva sorriso Perdiccas. Riscuotendosi dai ricordi, Filippo
chiamò a sé il cavaliere.
– Dove sono gli Illiri, adesso? – chiese.
– Non sono avanzati, sire. Hanno depredato i morti e adesso sono accampati a
quattro giorni di cavallo da Pella.
– Non mi chiamare sire, perché non sono il re – scattò Filippo, allontanando
l’uomo con un cenno.
Riprese quindi a riflettere, con i pensieri che gli turbinavano nella mente come
una tempesta. L’equilibrio dei poteri era tutto! A occidente gli Illiri, a nord i
Paioni, ad est i Traci e a sud Tebe. Finché ognuna di quelle nazioni aveva un
esercito forte non esistevano pericoli di invasione, ma adesso, con le truppe della
Macedonia decimate, la nazione era esposta alla conquista da parte di chiunque ne
avesse avuto il coraggio. Filippo pensò quindi ai suoi nemici. Prima di tutti c’era
Bardylis, l’astuto re degli Illiri, ottantenne o forse anche più vecchio ma con una
mente astuta quanto quella di un lupo; dopo di lui veniva Cotys, il re della Tracia,
che aveva da poco raggiunto i sessant’anni ed era un monarca avido e spietato il
cui sguardo si sarebbe ora rivolto alle miniere d’oro macedoni che si trovavano a
meno di un giorno di cavallo dal confine della Tracia, verso est. C’erano poi i
Paioni, gruppi tribali del nord che vivevano soltanto per combattere e saccheggiare,
e infine non bisognava dimenticare i Tebani affamati di potere e i pomposi
Ateniesi... e soltanto gli dèi sapevano quanti altri!
– Un timore per volta – si ammonì, poi si chiese cosa sarebbe successo se lui
non avesse tentato di prendere la corona e un nome gli balzò subito alla mente:
Archelaos, il suo fratellastro.
L’odio presente fra loro era più forte del ferro e più freddo di una bufera
invernale. Archelaos avrebbe lottato per prendere il trono... e la sua prima mossa
sarebbe stata quella di vedere morto ogni rivale.
Filippo chiamò infine a sé Attalus.
– Partirò alla volta di Pella – gli disse. – È probabile che Archelaos non abbia
ancora appreso la notizia, e quando lo saprà verrà anche lui alla capitale,
provenendo però da Cercine. Prendi venti uomini... e bada che non sopravviva al
viaggio.
– Un compito che senza dubbio mi piacerà – replicò Attalus, con un cupo
sorriso.
LA CITTÀ DI SUSA, PERSIA, AUTUNNO, 359 A.C.
La tenue luce che precede l’alba stava avvolgendo le basse colline che
dominavano il fiume Axios quando Nicanor svegliò Filippo scuotendolo
leggermente. Il re si sollevò a sedere con un gemito, spingendo da parte la coperta
e stendendo le gambe; intorno a lui la maggior parte dei mille cavalieri stava anco-
ra dormendo, ma Filippo si alzò in piedi e si massaggiò le spalle possenti,
sollevando lo sguardo verso le sentinelle appostate sul costone.
– Qualche traccia di movimento? – chiese a Nicanor.
– No, sire.
Filippo sollevò la corazza di cuoio rinforzata in bronzo e se la infilò, lasciando
che Nicanor gli assestasse i guardaspalle e li affibbiasse sul posto; intanto un
giovane guerriero dalla barba nera emerse dal buio e si inchinò davanti al re.
– Il nemico si è accampato in una depressione a circa un chilometro e mezzo da
qui, diretto a nord. Dal mio conto risulta che sono circa il doppio di noi, il che
significa che la scorsa notte devono aver avuto dei rinforzi.
Filippo avrebbe voluto imprecare, invece sorrise.
– Hai agito bene, Antipatro, e non ti preoccupare dei numeri. Ricorda soltanto
che siamo Macedoni e che il re cavalca con voi.
– Sì, sire – rispose l’uomo, distogliendo lo sguardo.
Filippo non ebbe difficoltà a intuire quello che stava pensando, e cioè che
appena poche settimane prima un altro re gli aveva probabilmente detto la stessa
cosa... e che quella battaglia si era conclusa in un disastro e in un massacro.
– Io non sono Perdiccas – aggiunse in tono sommesso, e quando Antipatro lo
guardò con sorpresa gli batté una pacca sulla spalla con una risata, aggiungendo: –
Non possiamo certo prendere in considerazione l’idea di subire due sconfitte in un
arco di tempo tanto breve, vero?
– Desideri parlare agli uomini, sire? – chiese Antipatro, con un sorriso nervoso,
non sapendo come comportarsi con quell’uomo così strano.
– No. Riferisci loro che più tardi terrò un discorso per la vittoria e ci potremo
ubriacare tutti.
– Un discorso prima della battaglia potrebbe dare migliori risultati – osservò
Nicanor.
– Perdiccas era un buon parlatore, giusto? – ribatté Filippo, girandosi verso
l’amico. – Non ha forse riempito gli orecchi dei suoi uomini di parole di fuoco, la
notte prima della battaglia? – aggiunse, rivolto ad Antipatro.
– Lo ha fatto, sire – confermò Antipatro.
– Allora ripeti agli uomini esattamente ciò che ho detto. Adesso muoviamoci,
perché voglio arrivare sopra il loro campo all’alba. Tu prenderai metà degli
uomini, Antipatro, ed io comanderò gli altri. Li colpiremo da est e da ovest,
duramente e con forza... e ricorda che non voglio prigionieri.
Un’ora più tardi Filippo condusse i suoi cinquecento uomini su per un’erta
collina, ed essi guidarono a mano i cavalli fino ad arrivare ad un costone che
dominava il campo nemico. In basso si vedevano decine di tende e centinaia di
uomini erano raggomitolati sotto le coperte accanto ai fuochi morenti; intorno al
campo non c’erano sentinelle, e questo ebbe in qualche modo l’effetto di
aumentare l’ira di Filippo. Estratta la sciabola, indicò verso destra e subito i
Macedoni montarono a cavallo, avviandosi in una lunga fila attraverso il costone
per poi aspettare il segnale. Il sole era ancora nascosto dietro le lontane montagne
di Kerkine, ma il cielo si stava rischiarando; riparandosi gli occhi, Filippo vide che
Antipatro e i suoi cinquecento uomini erano già visibili ad oriente, una nube di
polvere che si levava insieme al rombo degli zoccoli dei cavalli. Subito i Paioni
uscirono dalle coperte afferrando spade, lance ed archi, ma ormai Antipatro era
loro addosso: per qualche tempo parve che i Paioni riuscissero a reggere, poi il
centro cedette ed essi fuggirono verso le colline su cui il re era in attesa.
– Fatevi sentire! – tuonò Filippo, sollevando la spada, e il grido di guerra
macedone si levò fragoroso, un rotolante muro di suono che echeggiò attraverso la
pianura.
Filippo spronò poi il suo castrato nero e si lanciò al galoppo giù per il pendio,
chiudendo in una morsa i Paioni che stavano fuggendo davanti ad Antipatro e che
andarono così a sbattere contro i suoi uomini. A quel punto i nemici caddero in
balia del panico e cercarono di fuggire in ogni direzione che potesse offrire un po’
di protezione, ma i Macedoni non diedero loro tregua e continuarono ad inseguirli
e ad abbatterli. Tirando le redini, Filippo notò intanto un gruppo di guerrieri
nemici, sessanta o settanta circa, che stavano cercando di formare un quadrato
dietro i loro scudi di vimini intrecciati. In preda alla sete di sangue, si lanciò al
galoppo in mezzo a loro, falciandone quanti più poteva con la sua sciabola, mentre
una lancia gli rimbalzava contro la corazza e una spada gli apriva una ferita poco
profonda sulla coscia. Vedendo che il re era in pericolo, Nicanor condusse allora
venti cavalieri in suo aiuto... e il quadrato nemico cedette.
Quello che seguì fu un massacro. I Paioni gettarono via lo scudo e la spada per
correre più in fretta, soltanto per essere braccati da gruppi di cavalieri decisi a
ottenere la vendetta e la morte di ogni nemico.
Entro il crepuscolo, Filippo era seduto nella tenda del capo nemico, con la
coscia strettamente fasciata; fuori quasi mille Paioni giacevano morti o feriti
mentre le perdite dei Macedoni ammontavano soltanto a sessantadue uomini... uno
dei quali era rimasto ucciso quando il suo cavallo aveva incespicato e gli era
rotolato addosso. Il campo era pieno di bottino, d’oro e d’argento, di monete e di
statue di metalli preziosi; al suo interno erano state trovate anche più di cinquanta
donne macedoni prigioniere, che erano state tanto felici di essere liberate da elargi-
re con gusto ai loro salvatori quei piaceri che i Paioni avevano invece dovuto
ottenere da loro con la forza.
Filippo ordinò che i tesori venissero ammucchiati su alcuni
carri e portati a Pella, poi mantenne la promessa fatta in precedenza e raccolse
intorno a sé gli uomini in un grande cerchio.
– Oggi – esordì con voce risonante e profonda, raggiungendo ogni orecchio
senza sforzo apparente, – avete goduto di una vittoria, i vostri nemici giacciono
morti a centinaia e il nord sarà presto libero dalle loro razzie. Questo è oggi, questo
è l’inizio. Non mi fraintendete... quella odierna non è una grande vittoria, e tuttavia
è stata storica perché sarà la prima di molte. Io vi prometto che verrà un giorno in
cui il grido di battaglia dei Macedoni scuoterà le fondamenta del mondo, sarà
sentito oltre gli oceani ed echeggerà sulle montagne! Non ci sarà un solo uomo
vivente che non lo abbia sentito e che non lo tema. Questa è la promessa che vi
faccio, guerrieri della Macedonia, questa è la promessa di Filippo.
Smise per un momento di parlare e lasciò vagare lo sguardo sugli uomini... che
non applaudirono e rimasero sconcertati dalla sua improvvisa silenziosa
immobilità... osservandoli con attenzione e notando che molti non avevano corazza
e che erano in pochi a possedere un elmo.
– Vi darò armi migliori – disse, – armature lucenti e spade affilate, schinieri,
elmi e lance, vi porterò oro e ricchezze e vi concederò terre su cui far crescere i
vostri figli. Per stanotte, però, potrò darvi soltanto del vino, quindi ora... beviamo!
Seguì un cortese applauso avviato da Nicanor mentre il vino veniva tirato fuori,
poi gli uomini cominciarono a disperdersi per sedersi in gruppi intorno ai numerosi
fuochi da campo, e Filippo andò a cercare Antipatro.
– È stato un discorso così brutto? – gli chiese.
– Per nulla, sire, ma questi uomini provengono soprattutto dalla Pelagonia e
dalle valli di Pindos. Adesso gli Illiri hanno il controllo delle loro terre natali ed
hanno perso moglie e figli. Se tu potessi parlare loro di una spedizione contro
Bardylis...
– Non posso farlo... e non intendo mentire loro, Antipatro, né adesso né mai.
Domani prenderai i tuoi cinquecento uomini e passerai al setaccio il nord. Annienta
qualsiasi Paione in cui ti imbatterai e scacciali dalla Macedonia.
– Perderemo altri uomini a causa delle diserzioni – gli fece notare Antipatro, in
tono sommesso. – Cercheranno di tornare a casa.
Il mattino successivo Filippo fu di nuovo il primo ad alzarsi e ordinò a Nicanor
di radunare ancora una volta gli uomini.
– La scorsa notte vi ho fatto delle promesse – cominciò. – Oggi ho
qualcos’altro da dire. Molti di voi andranno con Antipatro, per scacciare i Paioni
dalle nostre terre, e fra loro ci saranno alcuni che vorranno tornare alle loro case
per cercare la moglie e i figli. Io lo capisco, quindi tutto ciò che vi chiedo è questo:
scegliete in mezzo a voi un gruppo di venti uomini che si addentrerà nelle terre
occupate per avere notizie delle famiglie perdute. Quegli uomini riceveranno una
paga completa di venticinque dracme al mese per tutto il tempo della loro assenza,
e il loro salario sarà tenuto a Pella come garanzia che ritornino. Il resto di voi sarà a
casa fra tre mesi... anche questa è una promessa... però verrà il momento in cui mi
appellerò e voi e se siete uomini d’onore verrete a me. Vi sembra una proposta
onesta? – chiese infine, e indicando un guerriero massiccio e barbuto in prima fila
ripeté: – Tu! Ti sembra una proposta onesta?
– Sì, se è vera – rispose l’uomo.
– Non ho il tempo di dimostrare la sincerità delle mie parole, ma voi siete i
primi fra i guerrieri di Filippo... e non vi verrò mai meno – dichiarò il re, scrutando
il gruppo e soffermandosi su ogni volto. – In questi primi giorni ci saranno delle
decisioni che voi non capirete, ma sappiate che io vivo per la Macedonia... e che
tutto ciò che farò avrà lo scopo di rafforzare la sua causa, Vi chiedo di fidarvi di
me.
Senza aggiungere altro ruotò sui tacchi e si avviò verso il proprio cavallo; alle
sue spalle, il guerriero massiccio si alzò in piedi.
– Il re! – gridò.
– Il re! Il re! – ripeterono gli altri, alzandosi a loro volta. Filippo si inchinò e
attese che il ruggito corale si fosse spento prima di far echeggiare a sua volta la
propria voce.
– Macedonia! Macedonia!
Applaudendo, i guerrieri raccolsero quel grido mentre Nicanor si portava
accanto a Filippo.
– Un momento di orgoglio per te, sire – disse. – Hai conquistato il loro cuore.
Filippo non replicò, perché stava già pensando al pretendente Argaios e
all’esercito ateniese che lo spalleggiava.
Parmenion assestò un leggero strattone alle redini nel vedere l’uomo seduto su
una roccia poco più avanti.
– Buon giorno a te – lo salutò, lanciando un’occhiata in direzione dei massi
sparsi tutt’intorno alla ricerca di altri uomini che potevano essere nascosti dietro di
essi.
– Sono solo – disse lo sconosciuto, con voce piacevole e perfino cordiale.
Parmenion continuò però a studiare il terreno circostante, e soltanto quando fu
certo che l’uomo era effettivamente solo spostò lo sguardo sul lontano fiume
Nestus e lo lasciò vagare in direzione dei distanti picchi azzurri dei Monti Cercine
e dei confini della Macedonia, smontando infine di sella e riportando lo sguardo
sull’uomo seduto sulla roccia. Lo sconosciuto non era alto ma aveva un corpo
robusto, i capelli erano grigi e la barba arricciata secondo lo stile persiano, mentre
gli occhi avevano il colore delle nubi tempestose; indosso portava un lungo chitone
di un azzurro sbiadito e un paio di sandali di cuoio che non apparivano molto
consunti, però non sembrava avere armi di nessun genere, neppure una piccola
daga.
– Il panorama è piacevole – commentò Parmenion, – ma questa è una terra
desolata. Come sei giunto qui?
– Io percorro sentieri diversi – rispose l’uomo. – Tu arriverai a Pella fra sette
giorni, mentre io potrei giungervi oggi pomeriggio.
– Sei un magus?
– Non nel modo in cui i Persiani usano questo termine, anche se un giorno
alcuni magi seguiranno i sentieri che io uso – replicò l’uomo con disinvoltura. –
Siediti qui per un po’ e pranza con me.
– Lasciamolo perdere e proseguiamo – suggerì Mothac. – Non mi piace questo
posto, è troppo aperto, e probabilmente lui è un bandito.
– Durante la mia vita sono stato molte cose, Tebano, ma per ora mai un
bandito. È vero però che stavo aspettando te, Parmenion: mi è parso saggio che
sedessimo un po’ insieme a discorrere del passato, del futuro e degli echi del
Grande Canto.
– Da come parli sembri greco – osservò Parmenion, spostandosi alla sinistra
dello sconosciuto e continuando a scrutare le rocce circostanti.
– Non.. proprio... greco – ammise l’uomo, – ma non è necessario aggiungere
ulteriori spiegazioni. Hai compiuto grandi imprese in Persia, me ne congratulo con
te. Il tuo attacco contro Spetzabares è stato brillante: per quanto numericamente in-
feriore lo hai costretto ad arrendersi perdendo appena centoundici uomini.
Notevole.
– Sei in vantaggio su di me, signore, perché io non so nulla sul tuo conto.
– Sono uno studioso, Parmenion, la mia vita è votata allo studio e alla ricerca
del sapere, mentre il mio desiderio è quello di arrivare a comprendere tutta la
creazione... cosa che fortunatamente è ancora molto lontana.
– Fortunatamente?
– Senza dubbio. Nessun uomo dovrebbe mai realizzare completamente i propri
sogni, altrimenti cosa gli resterebbe per cui vivere?
– Guarda! – esclamò in quel momento Mothac, indicando una nube di polvere
più in basso lungo il pendio montano.
– Dei cavalieri!
– Stanno venendo per portarvi da Cotys – spiegò lo sconosciuto a Parmenion. –
Questo oppure uccidervi, perché il re della Tracia non desidera vedere Parmenion
aiutare i Macedoni.
– Sai molte cose – osservò Parmenion, in tono sommesso.
– Devo dedurre che sai anche come evitare quei cavalieri?
– È ovvio – confermò l’uomo, alzandosi agilmente in piedi. – Seguitemi.
Parmenion lo osservò dirigersi a grandi passi verso una liscia parete di roccia
che tremolò al suo avvicinarsi. Un momento più tardi lo Spartano sbatté le palpebre
con espressione sconcertata: lo sconosciuto era svanito.
– È un demone oppure un semidio – sussurrò Mothac. – È meglio correre il
rischio di affrontare quei cavalieri... se non altro sono umani.
– Una spada può abbattere un uomo più in fretta di un incantesimo – ribatté
Parmenion. – Preferisco correre il rischio di dare retta al magus.
Prendendo con la destra le redini dello stallone, condusse quindi la bestia verso
la parete rocciosa e non appena vi si avvicinò la temperatura subì un calo
improvviso, la roccia parve farsi trasparente. Lo Spartano continuò a camminare,
passando attraverso la parete con un senso di disorientamento e di assenza di peso.
Mothac emerse dalla parete subito dietro di lui, madido di sudore.
– Che facciamo ora? – sussurrò, accostandosi all’amico.
Si trovavano in un’enorme caverna sotterranea dove massicce stalattiti
pendevano dal soffitto a cupola, tutt’intorno a loro echeggiava il gocciolare
costante dell’acqua e sul suolo della caverna si scorgevano molte lucenti polle
scure.
Lo sconosciuto apparve una cinquantina di passi più avanti rispetto a loro.
– Da questa parte – chiamò. – Siete soltanto a metà della strada verso casa.
– A metà della strada verso l’Ade, più probabilmente – borbottò Mothac,
estraendo la spada.
I due uomini condussero a mano i cavalli lungo la caverna e fino ad un’ampia
apertura naturale che dava accesso ad un lussureggiante prato verde sul quale era
stata costruita una piccola casa con il tetto di tegole rosse e le pareti lisce e
bianche.
Parmenion uscì sotto la luce del sole, poi si arrestò di colpo perché il territorio
circostante era collinoso e verdeggiante ma non si scorgevano da nessuna parte
catene montuose e non c’era traccia del grande Fiume Nestus.
Montati in sella, i due uomini raggiunsero la casa dove lo sconosciuto aveva già
approntato un’ampia tavola con carne fredda, formaggio e frutti; dopo aver versato
loro del vino, l’uomo sedette all’ombra di un albero fiorito.
– Non è avvelenato – osservò, notando il modo in cui i suoi ospiti stavano
scrutando il cibo.
– Tu non mangi? – chiese Parmenion.
– Non ho fame. Comunque rifletti su questo: un uomo che può far scomparire
le montagne non ha certo bisogno di avvelenare i suoi ospiti.
– Un’osservazione valida – convenne Parmenion, allungando una mano verso
una mela.
– Mangerò io per primo – disse Mothac, trattenendolo, poi prese il frutto e lo
morse.
– Quanta devozione – commentò lo sconosciuto. Lentamente, Mothac assaggiò
anche la carne e il formaggio, e alla fine ruttò.
– Il cibo migliore che abbia mai gustato – dichiarò. Parmenion mangiò con
parsimonia, poi si spostò per sedersi accanto allo sconosciuto.
– Perché ci stavi aspettando?
– Tu sei uno degli echi della Grande Canzone, Parmenion: ce ne sono stati
molti prima di te e molti altri ti seguiranno. Comunque io sono qui per offrirti il
mio aiuto. Per prima cosa, però, dimmi come mai accogli la magia con tanta
indifferenza. Qualcun altro ha già spostato le montagne per te?
– Ho visto i magi trasformare i serpenti in bastoni e far fluttuare un uomo
nell’aria, e a Susa c’è un mago che può indurre gli uomini a credere di essere
uccelli spingendoli a sbattere le braccia nel tentativo di volare. Forse le montagne
sono ancora là e tu ci impedisci soltanto di vederle, ma non m’importa. Cos’è
questa Grande Canzone di cui parli?
– È una guerra fra il sogno e l’incubo, una guerra eterna, e tu ne sei parte.
Omero ha cantato di questo conflitto, trasponendolo nella guerra di Troia, ed altre
nazioni la cantano in maniera diversa, ponendola in epoche diverse e parlando di
Gilgamesh e di Ekodas, di Paristur e di Sarondel. Sono tutti echi. Presto vedremo
la nascita di un’altra leggenda, e la Morte delle Nazioni sarà al suo centro.
– Non so nulla di tutto questo e la tua conversazione gronda di enigmi. Devo
ringraziarti per il cibo e per l’ospitalità, ma lascia che sia franco: chi sei tu,
veramente?
L’uomo ridacchiò e si appoggiò all’indietro contro il tronco dell’albero in fiore.
– Dritto al cuore del problema, vero? Sei sempre e comunque un generale.
Benissimo, non c’è nulla di male in questo modo di fare, mio spartano amico, dopo
tutto ti ha servito bene nel corso degli anni, giusto? Chi sono io? Come ti ho detto,
sono uno studioso e non sono mai stato un guerriero, anche se ne ho conosciuti
parecchi. Tu mi ricordi molto Leonida, il re guerriero. Era un uomo di enorme
coraggio ed aveva il dono di rendere grandi quanti lo circondavano.
– Il re guerriero è morto oltre un secolo fa – sottolineò Parmenion. – Mi stai
dicendo che lo hai conosciuto?
– Non ho detto di averlo conosciuto, Parmenion, ho detto soltanto che tu me lo
ricordi. È stato un peccato che sia morto alle Termopili perché avrebbe reso Sparta
veramente grande. Comunque, anche lui era un forte eco della Grande Canzone...
trecento contro duecentomila. Un coraggio meraviglioso!
– Quando ero a Tebe – osservò Parmenion, – ho conosciuto un uomo che ha
cercato di insegnarmi come prendere i pesci a mani nude, e parlare con te mi
ricorda quei giorni: sento le tue parole ma esse mi scivolano oltre e il loro
significato rimane oscuro. Come puoi aiutarmi?
– In questo momento non hai bisogno di me, Spartano – replicò l’uomo, mentre
il suo sorriso svaniva, poi si protese in avanti e afferrò il braccio di Parmenion,
aggiungendo: – Ma verrà il giorno in cui ne avrai. Ti sarà assegnato un incarico e il
mio nome affiorerà nella tua mente. Sarà allora che mi dovrai cercare e mi troverai
dove ci siamo incontrati oggi. Non lo dimenticare, Parmenion... molto dipende da
questo.
– Lo ricorderò – garantì Parmenion, alzandosi in piedi. – Ti ringrazio ancora
per la tua ospitalità. Se torniamo da dove siamo venuti potremo vedere di nuovo il
fiume e le montagne?
– No. Questa volta sbucherete sulle colline al di sopra di Pella – replicò l’uomo
con i capelli grigi, alzandosi e porgendo la mano.
Parmenion la strinse, avvertendone la forza nascosta.
– Non sei vecchio come sembri – commentò con un sorriso.
– In questo c’è una grande verità – ammise lo sconosciuto. – Cercami quando
avrai bisogno di me. A proposito, mentre stiamo parlando, il re della Tracia è in fin
di vita, avvelenato da uno degli amici di Filippo. È questa la sorte dei re avidi,
giusto?
– A volte – convenne Parmenion, balzando in sella al suo stallone. – Hai un
nome, studioso?
– Ne ho molti, ma tu puoi chiamarmi Aristotele.
– Ho sentito parlare di te... anche se mai come di un magus. Dicono che sei un
filosofo.
– Io sono ciò che sono. Continua il tuo cammino, Parmenion... la Canzone
attende.
La trincea era lunga oltre sessanta metri e cinquanta uomini erano intenti a
scavare ancora con picconi e pale attraverso gli strati di argilla e di roccia, con il
sole che batteva sulla loro schiena nuda mentre faticavano. Poco lontano altri
soldati erano impegnati a portare via il materiale di scavo, che gettavano oltre il
bordo della trincea.
Filippo piantò il piccone nel terreno davanti a sé, sentendo le spalle che
subivano una violenta scossa quando il metallo colpì ancora una volta la roccia.
Posato l’attrezzo, si lasciò quindi cadere in ginocchio per scavare nell’argilla,
infilando le dita intorno alla pietra ed estraendola dal terreno: era più grande di
quanto avesse inizialmente pensato, il suo peso era superiore a quello di una
persona di piccola taglia, e lui era ormai sul punto di chiedere aiuto quando si
accorse che parecchi uomini lo stavano guardando con un sorriso divertito sulle
labbra. Sorridendo a sua volta, passò le braccia lungo i bordi della roccia e la solle-
vò contro il proprio petto, poi si alzò in piedi con uno scatto possente e fece
rotolare il masso oltre il bordo della trincea. Quando ebbe finito, uscì dallo scavo e
camminò lungo il suo perimetro, fermandosi a parlare con i lavoratori per valutare i
loro progressi.
A ciascuna estremità la trincea svoltava ad angolo retto, là dove gli scavatori
avevano seguito le indicazioni date dalla corda fissata sul terreno. Allontanandosi
dagli scavi, Filippo si concesse di immaginare i nuovi alloggiamenti, un edificio a
due piani con un lungo refettorio e sette dormitori che avrebbero potuto ospitare
oltre cinquecento uomini. L’architetto era un Persiano che aveva studiato ad Atene,
e Filippo gli aveva ordinato di completare l’edificio per la primavera successiva.
Gli scavatori, tutti soldati della Pelagonia e del distretto di Lynkos nel
nordovest, terre attualmente occupate da Bardylis e dai suoi Illiri, lavoravano
abbastanza di buon grado, soprattutto quando il re faticava accanto a loro, ma
Filippo sapeva che ricordavano tutti la sua promessa che sarebbero potuti tornare a
casa entro tre mesi dalla vittoria contro i Paioni.
Questo era stato cinque settimane prima... e ancora non era stato stilato un
trattato con Bardylis. A guardare le cose da un lato positivo, però, Filippo doveva
ammettere che c’era qualcosa di promettente, perché gli Illiri non erano avanzati
ulteriormente nel territorio della Macedonia e Bardylis stava vagliando l’offerta da
lui fatta di sposare sua figlia. Come gesto di buona fede e di «continuata
fratellanza» Bardylis aveva però chiesto che il re macedone consegnasse all’Illiria
tutte le terre fra i Monti Bora e la catena di Pindos... sei distretti in tutto compresa
la Pelagonia, ricca di legname e di buoni pascoli per il bestiame.
– A quanto pare le spose brutte non vengono vendute a buon prezzo – aveva
commentato Filippo, rivolto a Nicanor.
Adesso il re si stava liberando della tensione con il puro e semplice lavoro
fisico: la trincea sarebbe stata ultimata l’indomani e a quel punto le fondamenta
sarebbero state complete e lui avrebbe potuto guardare con piacere gli
alloggiamenti che crescevano di giorno in giorno.
Non si sarebbe trattato di una semplice struttura di legno e mattoni di fango,
perché la facciata sarebbe stata di pietra intagliata, il tetto di tegole di argilla e le
stanze ariose e piene di luce.
– Ma tu stai parlando di un palazzo, sire – aveva obiettato l’architetto.
– Voglio anche tre pozzi e una fontana nel cortile centrale, senza contare una
sezione speciale per l’ufficiale comandante, con un androne che possa ospitare
venti... no, trenta uomini.
– Come desideri, sire... ma ti costerà parecchio.
– Se avessi voluto una cosa economica avrei assunto uno Spartano – aveva
replicato Filippo, battendo un colpetto sulla spalla dell’uomo.
Accostatosi ad un mucchio di sassi, il re si sedette e subito uno scavatore gli
portò un boccale d’acqua attinto da un fresco otre di pietra. Nel ringraziare l’uomo,
Filippo riconobbe in lui il massiccio guerriero barbuto che lo aveva acclamato per
primo dopo la vittoria contro i Paioni.
– Come ti chiami, amico? – domandò.
– Theoparlis, sire, ma i più mi chiamano Theo.
– Dovrebbe risultare un bell’edificio, Theo, adatto per le truppe del re.
– È vero, sire, e mi dispiace di non poter godere del piacere di viverci dentro,
ma fra due mesi tornerò da mia moglie in Pelagonia... non è così?
– È vero – confermò Filippo. – E prima che sia trascorso un altro anno io verrò
da te là e ti offrirò un posto in questi alloggiamenti e una casa a Pella per tua
moglie.
– Aspetterò con impazienza la tua visita – replicò Theo, inchinandosi e
tornando al lavoro.
Filippo lo osservò allontanarsi, poi spostò lo sguardo verso est, dove due
cavalieri stavano sopraggiungendo dal centro della città. Finendo il suo boccale
d’acqua, Filippo indugiò ad osservarli: il primo dei due aveva una corazza di
bronzo ed un elmo di ferro, ma la cosa che più interessò Filippo fu il cavallo, uno
stallone sauro alto circa sedici palmi. Tutti i nobili macedoni allevavano cavalli, e
Filippo non era secondo a nessuno nel suo amore per quegli animali. Lo stallone
aveva una bella testa e gli occhi distanziati... segno di un carattere affidabile; il
collo era lungo ma non troppo, la criniera tagliata come il piumaggio di un elmo.
Filippo si alzò e si diresse verso i due cavalieri deviando in maniera tale da poter
vedere la groppa e i fianchi dello stallone, notando le spalle lunghe e possenti che
dovevano dare all’animale un passo ampio e renderlo veloce ma comodo da
cavalcare; sapeva benissimo come le spalle diritte in un cavallo portassero ad un
passo ineguale e ad un notevole disagio per il cavaliere.
– Tu, laggiù! – esclamò una voce, e Filippo sollevò lo sguardo.
Il secondo cavaliere, un uomo basso e robusto che cavalcava un castrato grigio,
stava indicando verso di lui. – Stiamo cercando il re. Portaci da lui.
Filippo indugiò ad osservare il suo interlocutore, che era calvo anche se una
striscia di capelli rossi e argentei era ancora visibile intorno agli orecchi come una
corona di alloro.
– Chi lo vuole? – ribatté.
– Non sono affari tuoi, contadino! – scattò l’uomo.
– Calma, calma, Mothac – intervenne l’altro cavaliere, balzando al suolo. Era
alto e snello anche se le sue braccia erano muscolose e recavano le cicatrici di
molti combattimenti. Guardandolo negli occhi, Filippo vide che le iridi erano di un
azzurro molto chiaro, ma il contrasto con il volto abbronzato fino ad avere il colore
del cuoio li faceva apparire grigi come un cielo in tempesta. Il suo cuore diede un
balzo quando riconobbe Parmenion, ma si costrinse a soffocare il proprio impulso
di correre ad abbracciare lo Spartano e venne invece avanti con calma, mantenendo
il volto libero da qualsiasi emozione.
– Sei un mercenario? – domandò.
– Sì – rispose Parmenion. – E tu sei un costruttore?
– Mi hanno detto che devono diventare degli alloggiamenti – spiegò Filippo,
annuendo. – Forse un giorno alloggerai qui.
– Le fondamenta sono profonde – commentò il guerriero, avvicinandosi alla
trincea per osservare i lavoranti.
– Capita che ci siano dei terremoti – replicò Filippo, – ed è essenziale che le
fondamenta siano solide. Non importa quanto l’edificio possa essere bello... se le
basi non sono buone cadrà comunque.
– Lo stesso vale per gli eserciti – ribatté Parmenion, in tono sommesso. – Hai
combattuto contro i Paioni?
– Sì. È stata una buona vittoria.
– Come ha combattuto il re?
– Come un leone... come dieci leoni – dichiarò Filippo, con un ampio sorriso.
Il mercenario annuì e rimase in silenzio per un momento, poi si girò verso il re
e sorrise a sua volta.
– Sono lieto di sentirlo... non desidero servire un vigliacco.
– Sei certo che il re ti darà lavoro?
– Ti piace il mio cavallo, sire? – replicò il guerriero, scrollando le spalle.
– Sì, è un ottimo... come mi hai riconosciuto?
– Sei molto cambiato dal ragazzo che ho incontrato a Tebe e avrei potuto non
riconoscerti. Tuttavia, sei anche il solo uomo che non stia lavorando... e suppongo
che questa sia una prerogativa reale. Ho caldo e la mia gola è piena di polvere... e
sarebbe piacevole se potessimo trovare un posto all’ombra dove discutere del
perché mi hai chiesto di venire da te.
– Certamente – acconsentì Filippo, con un ampio sorriso. – Prima però lascia
che ti dica che sei la risposta alle mie preghiere. Non hai idea di quanto ci sia
bisogno di te qui.
– Credo di averne un’idea – lo contraddisse Parmenion. – Ricordo un ragazzo
che mi ha parlato di una terra circondata da nemici... Illiri, Paioni, Traci. Un
soldato ricorda cose del genere.
– Adesso la situazione è peggiorata. Non ho un esercito degno di questo nome e
posso fare affidamento quasi soltanto sul mio ingegno per tenere a bada i nemici.
Dèi, quanto sono contento di vederti.
– Potrei anche non restare – avvertì Parmenion.
– Perché? – chiese Filippo, sentendo un gelido timore sfiorargli il cuore.
– Non so ancora se sei un uomo che posso desiderare di servire.
– Parli con franchezza, ma non posso certo mettere in discussione la saggezza
che c’è dietro le tue parole. Vieni con me a palazzo. Là potrai lavarti, raderti e
rinfrescarti, poi parleremo.
– Hai combattuto davvero come dieci leoni? – domandò Parmenion,
mantenendo il volto inespressivo.
– È più esatto dire come venti – replicò Filippo, – ma io sono modesto per
natura.
Parmenion uscì dal bagno e si accostò alla finestra, lasciando che l’acqua gli
evaporasse dalla pelle, raffreddandola, poi si girò verso Mothac passandosi le mani
fra i capelli che cominciavano a diradarsi.
– Che ne pensi di lui? – chiese.
– Non mi piace vedere un re vestito soltanto di un perizoma che scava la terra
come un contadino – dichiarò il Tebano, scrollando il capo.
– Sei stato troppo a lungo fra i Persiani, amico mio.
– Resteremo qui?
Parmenion non rispose. Quello attraverso l’Asia Minore e la Tracia, oltre fiumi
e montagne, era stato un lungo viaggio, e sebbene avessero risparmiato una
settimana di cammino grazie all’incontro con Aristotele si sentiva stanco e
avvertiva sotto la spalla destra il dolore di una vecchia ferita da lancia. Dopo es-
sersi asciugato con un panno, si distese su un divano e lasciò che Mothac gli
massaggiasse la schiena con un po’ d’olio.
La Macedonia. Era più verde di quanto avesse immaginato, più fertile e
lussureggiante, ma nonostante questo aveva avvertito una leggera delusione perché
si era aspettato di sentire di essere tornato a casa, mentre quella era soltanto una
terra come le altre, con alte montagne e fertili pianure.
Vestitosi con una semplice tunica e un paio di sandali scese nel cortile per
osservare il sole che tramontava, sentendosi stanco nel profondo delle ossa.
Epaminonda era morto, ucciso a Mantinea proprio come Tamis gli aveva predetto.
A quel pensiero un brivido gli corse lungo la schiena.
Mothac gli portò una brocca di vino e per qualche tempo i due sedettero
insieme in piacevole silenzio; quando infine il sole tramontò Mothac accese una
lanterna e preparò per entrambi un frugale pasto a base di pane e di formaggio.
– Lui ti piace, vero? – domandò infine il Tebano.
– Sì, mi ricorda Pelopida – ammise Parmenion.
– E probabilmente farà la sua stessa fine – commentò Mothac.
– Per gli dèi, sei di umore acido – scattò Parmenion. – Cos’hai che non va?
– Io? Nulla, ma vorrei sapere perché abbiamo lasciato Susa per venire qui. Là
conducevamo una vita da principi, eravamo ricchi... cos’ha per noi questa terra di
frontiera? I Macedoni non conteranno mai molto e che guadagni possiamo sperare
di fare qui? Tu sei conosciuto come il più grande generale del mondo civilizzato,
ma non è abbastanza, giusto? Non puoi resistere ad una sfida impossibile da
vincere.
– Probabilmente hai ragione, Mothac. Comunque ti avevo chiesto se volevi
restare in Persia. Non ti ho certo messo una briglia al collo.
– Credi che l’amicizia non abbia catene? – grugnì il Tebano. – Ebbene, ne ha,
tanto che mi ha costretto a seguire te... e il tuo orgoglio... in questa landa desolata
abitata da barbari solo in parte greci.
– Mi fai vergognare, Mothac – affermò Parmenion, protendendosi a stringere il
braccio dell’amico, – e mi dispiace che quest’impresa non incontri la tua
approvazione. Non capisco tutti i motivi che mi hanno indotto a venire qui, anche
se in parte si è trattato del richiamo del sangue, perché i miei antenati sono vissuti
in questa terra, hanno combattuto e sono morti per essa. Dovevo vederla.
Comunque c’è della verità in quanto hai detto. So come mi definiscono, ma hanno
ragione? Ho sempre guidato eserciti bene addestrati e in genere numericamente su-
periori agli avversari mentre qui come tu stesso hai osservato, c’è una situazione
che è una vera sfida. Gli Illiri sono disciplinati e ben comandati, i Traci numerosi e
feroci, gli Olinti abbastanza ricchi da poter assoldare i migliori mercenari. Quale
gloria ci sarebbe nel capitanare uno qualsiasi di quegli eserciti? E quanta nel
portare la Macedonia alla vittoria? Non posso resistere a questa tentazione, amico
mio – concluse con un sorriso.
– Lo sapevo – commentò Mothac, in tono stanco. – L’ho sempre saputo.
– Che saremmo venuti in Macedonia?
– No. Non è facile da esprimere a parole – replicò il Tebano. Per qualche
momento rimase in silenzio, scrutando l’amico con i suoi occhi verdi, e infine
sorrise nel protendersi a stringergli una spalla. – Io penso che nel profondo del tuo
intimo tu sia ancora il ragazzo mezzosangue di Sparta che sta lottando per
dimostrare quanto vale. Se avrai successo qui... il che è improbabile... andrai poi a
caccia di un’altra sfida impossibile altrove... e lo stolto Mothac ti seguirà. Ed ora ti
auguro la buona notte – concluse il Tebano, alzandosi e ritirandosi nelle sue stanze.
Per qualche tempo Parmenion rimase seduto da solo immerso in tristi pensieri,
poi si addentrò nei giardini al di là del cortile e salì i gradini che portavano sull’alto
muro, appoggiandosi al parapetto per guardare a sud in direzione della Tessaglia.
Sapeva che Mothac aveva ragione. Il ragazzo Savra sopravviveva nascosto
nell’uomo Parmenion... triste e solo, ancora alla ricerca di una casa, dell’amore,
della felicità. Lui aveva sperato di trovare tutto questo in Persia, fra le ricchezze e
la fama, ma la fama non era la risposta giusta e la fortuna era servita soltanto a
ricordargli tutte le gioie che non poteva comprare.
Al di là della città regnava l’oscurità totale, ma da qualche parte nel sud
Pelopida era morto combattendo con i Tessali contro il tiranno di Pherae. Il nemico
era avanzato su tutti i fronti e Pelopida aveva sferrato una carica contro il suo
centro, aprendosi un varco verso il tiranno a colpi di spada. La sua carica aveva
mutato il corso della battaglia ma il Tebano era morto nel portarla a termine e dopo
aver vinto i Tessali avevano tagliato la criniera e la coda ai loro cavalli in onore del
generale caduto.
Parmenion rabbrividì, perché aveva sempre creduto che Pelopida fosse
invulnerabile.
– Però nessun uomo lo è – sussurrò. – Possano gli dèi benedire il tuo spirito,
Pelopida, e possa tu conoscere la gioia nella Sala degli Eroi.
– Credi che la conoscerà? – chiese Filippo, salendo i gradini e sedendosi di
fronte a Parmenion.
– Sarebbe giusto – sospirò questi. – Avresti dovuto vederlo a Leuctra... si è
aperto un varco fra i nemici come un dio della guerra, fino ad abbattere il re
guerriero di Sparta.
– E intanto tu hai caricato il centro nemico, costringendo alla fuga arcieri e
lanciatori di giavellotto – annuì Filippo. – È stata una tua vittoria, Parmenion,
antesignana di molte altre nella Cappadocia, in Frigia, in Egitto e in Mesopotamia.
Non hai mai perso. Come mai?
– Forse combatto come venti leoni, sire.
– Era una domanda seria, stratega.
– I tuoi alloggiamenti forniscono la risposta. Le fondamenta devono essere
solide e diritte, le mura devono posare su un terreno compatto. Un esercito ha
bisogno di molte cose, ma soprattutto ha bisogno della sicurezza, della convinzione
che vincerà. L’addestramento fornisce tale convinzione, che costituisce le basi,
mentre i buoni ufficiali sono le fondamenta.
– E le mura? – domandò il re.
– La fanteria, sire. Nessun esercito può sperare di sconfiggere una buona
fanteria.
– Potresti crearmi un esercito entro un anno?
– Potrei... ma che ne faresti?
– Siamo entrambi in una posizione difficile – dichiarò Filippo. – Tu sei un
mercenario, il che significa che in qualsiasi momento potresti passare agli ordini di
Bardylis o di Cotys, e che io non ti posso esporre i miei piani. D’altro canto,
intuisco che non mi servirai a meno che io non lo faccia. Come risolvere il
problema?
– Dimmi quello che hai fatto finora, sire, senza tralasciare nulla. E questo
include anche l’assassinio del tuo fratellastro.
– Perché no? – acconsentì Filippo.
Per quasi un’ora espose quindi i propri sforzi per evitare il disastro, il modo in
cui aveva blandito Atene, la sua offerta a Bardylis e le garanzie date a Cotys della
Tracia. Alla fine tacque e scrutò il volto di Parmenion alla luce della luna: lo Spar-
tano era inespressivo e il suo sguardo era fisso su di lui.
– Questo è tutto? – chiese infine Parmenion.
Filippo prese in considerazione la possibilità di mentire, ma poi scosse il capo
d’impulso.
– No, non è tutto. Può darsi che Cotys sia già morto – replicò, e vide Parmenion
rilassarsi.
– In effetti è morto, sire – rispose lo Spartano, – ma resta sempre il pretendente
Pausania.
– Presto morirà anche lui – dichiarò Filippo, con voce che era poco più di un
sussurro. – Questo è tutto quello che ti posso dire.
– Quanti uomini ti serviranno entro l’anno?
– Duemila cavalieri e diecimila fanti.
– Troppi – dichiarò Parmenion. – Sarebbero addestrati in maniera inadeguata.
Accontentati di seimila fanti... dovrebbero essere sufficienti a permetterti di
affrontare Bardylis. In che condizioni è il tesoro reale?
– Quasi vuoto – ammise Filippo.
– Allora la tua prima mossa dovrà essere quella di rimuovere il governatore di
Crousia e di restaurare le tue fortune... poi potrai acquistare armi e armature. In
Frigia fabbricano ottime corazze di cuoio cotto, bordate di spessa stoffa... non sono
efficaci quanto il bronzo ma più leggere, ed anche l’elmo frigio è tenuto in alta
considerazione.
– Mi stai dando consigli validi, stratega, ma non hai ancora detto se ti unirai a
me.
– Resterò per un anno, sire, e addestrerò il tuo esercito. Poi... vedremo.
Filippo si alzò in piedi e lasciò vagare lo sguardo sulla città rischiarata dalle
lanterne.
– In genere è al re che vengono presentate le petizioni, ma tu hai invertito le
nostre posizioni. Cosa ho detto che ti ha indotto a decidere di rimanere?
– Non si è trattato di qualcosa che hai detto, sire, ma di quello che hai fatto.
– Ma non vuoi spiegarmi di cosa si tratta.
– Esatto, sire. Ora veniamo alle mie condizioni. Domani vorrei incontrare i tuoi
ufficiali e amici che attualmente si trovano a Pella. La mia posizione sarà quella di
Primo Generale e non dovrò rispondere del mio operato che a te, e inoltre non
accetterò nessuna discussione in merito ai metodi di addestramento che adotterò
con gli uomini, nobili o contadini che siano e tu mi dovrai dare assoluto supporto
in tutto quello che concerne l’addestramento. Acconsenti?
– Acconsento. Ma cosa farai innanzitutto? – domandò Filippo.
– Cercherò di formare un contingente di élite, i Compagni di Fanteria del re, la
Guardia Reale... cinquecento uomini, i migliori che hai.
– Come la Banda Sacra di Tebe?
– Migliori – replicò Parmenion, – perché saranno Macedoni.
Bardylis sedeva del tutto immobile mentre il coltello affilato come un rasoio gli
radeva i capelli intorno alla treccia alla sommità del capo; la pelle del suo cranio
era molle e rugosa, ma la mano del servo era salda e la lama stava accarezzando il
cuoio capelluto.
– Un solo graffio e ti farò tagliare le mani – avvertì improvvisamente Bardylis.
Il servo s’immobilizzò per un momento, poi spalmò altro olio sul volto e sulla
testa del re per ammorbidire i peli e fece scivolare il coltello fin sopra l’orecchio
destro.
– Alza la testa, sire – disse quindi, spostandosi davanti al re che sollevò il capo
e offrì la gola al rasoio. Il coltello continuò la sua opera e infine il servo si ritrasse.
– Hai lavorato bene, Boli – approvò Bardylis, passandosi le mani sulla testa e
sul collo. – Dimmi, però, la mia minaccia non ti ha scosso?
– Non saprei, signore – replicò l’uomo, scrollando le spalle.
– Allora ti dirò io perché non ti ha scosso – replicò Bardylis, sorridendo. – Non
ti sei agitato perché hai deciso che se mi avessi fatto anche un solo graffio mi
avresti tagliato la gola e saresti fuggito.
A quelle parole Boli sgranò gli occhi e Bardylis, comprendendo di aver colpito
nel segno, si alzò in piedi con una risatina.
– Non lasciare che la cosa ti preoccupi – aggiunse.
– Se lo sapevi, signore, allora perché mi hai minacciato?
– Un po’ di pericolo aggiunge sapore alla vita e... per Zeus... quando si arriva
ad ottantatre anni si ha bisogno di un sacco di sapore. Mandami Grigery.
Mentre aspettava, Bardylis si accostò ad uno specchio di bronzo e indugiò a
fissare la propria immagine riflessa, detestando la pelle floscia della faccia, gli arti
smagriti e i sottili baffi bianchi. C’erano delle volte in cui desiderava di non essere
stato in passato così attento nell’individuare i traditori.
Forse, pensò distrattamente, avrei dovuto lasciare che Bichilys mi uccidesse.
Suo figlio era stato uno splendido guerriero, alto e orgoglioso, ma si era
stancato di aspettare quando aveva raggiunto i cinquant’anni e suo padre aveva
continuato a sedere sul trono dei Dardani. La ribellione aveva avuto vita breve
perché il suo esercito era stato schiacciato e Bardylis era poi rimasto a guardare
mentre suo figlio veniva lentamente strangolato.
Il re distolse lo sguardo dallo specchio all’ingresso dell’uomo che aveva ucciso
suo figlio: Grigery era alto, largo di spalle e stretto di fianchi; anche se portava la
testa rasata e i capelli raccolti sulla sommità del capo secondo lo stile dei Dardani,
non si era fatto crescere né la barba né i baffi e il suo volto rasato era chiaro di
pelle e avvenente come quello dei Greci del meridione.
– Buon giorno, sire – salutò, inchinandosi, – confido che tu stia bene.
– Sì, ma la definizione di stare bene assume un diverso significato per i vecchi.
Il Macedone è arrivato?
– Sì, sire, però ha portato con sé soltanto quattro uomini.
– Quattro? Possibile che non ci fossero venti Macedoni che avessero il coraggio
di entrare nell’Illiria?
– Suppongo di no – ridacchiò Grigery.
– Chi sono questi quattro?
– Uno è un soldato semplice di nome Theoparlis, un altro è l’amante del re,
Nicanor, il terzo è un ufficiale di nome Antipatro... l’uomo che ha guidato la carica
contro i Paioni. L’ultimo è un mercenario, Parmenion.
– Lo conosco di nome – commentò Bardylis. – Gli avevo offerto un impiego.
– A quanto mi è dato di capire, ha servito presso il grande re della Persia ed era
anche amico del generale tebano Epaminonda.
– Non soltanto questo – replicò Bardylis. – Leuctra... la sconfitta spartana è
stata opera sua. Che altre notizie ci sono?
– Cose di poca importanza, sire. Neoptolemus ha acconsentito ad aumentare il
suo tributo, ma del resto te lo aspettavi.
– Ovviamente... adesso che il suo esercito è stato annientato gli resta ben poca
scelta.
– Ti offre anche una delle sue figlie in sposa, sire.
– Quell’uomo è uno stolto... per quanto vorrei che così non fosse, il mio
interesse per le donne è perito un decennio fa. Comunque, torniamo alle questioni
di maggiore importanza: voglio che Filippo sia trattato bene finché resterà qui... ma
anche che gli si faccia capire chi è il padrone, adesso.
– In che modo devo organizzare la cosa, signore?
– Sii cortese con lui ma senza che se ne accorga provoca i suoi accompagnatori:
sarebbe interessante che ne costringessi uno a sfidarti a duello, perché in quel caso
naturalmente io non potrei fare altro che permettere lo scontro e tu uccideresti l’uo-
mo in questione.
– Quale di loro, sire?
– Non Nicanor, perché voglio che il re sia umiliato e non fatto infuriare... la
furia porta alla stupidità. Scegli il soldato, Theoparlis, e inoltre accompagna
Parmenion nelle mie stanze stanotte... ma non permettere che Filippo ne venga a
conoscenza.
– Vuoi assoldarlo?
– Perché no? Costituirebbe un colpo secondario inferto alla Macedonia. Dimmi,
cosa ne pensi di Filippo?
– Sembra ansioso di soddisfarti, ma è un uomo difficile da giudicare. Ha un
grande fascino e se ne serve bene, però ha gli occhi freddi e mi guarderei da lui in
un combattimento. Per quanto concerne il suo carattere, però... non ho idea di come
sia.
– Suo fratello era un uomo cocciuto ma dinamico – osservò Bardylis. – Mi
interesserebbe sapere perché Perdiccas ha lasciato Filippo in vita... non doveva
ritenere che costituisse una minaccia, oppure era uno stolto... e ancora, perché
Filippo non ha ucciso il figlio di Perdiccas? Sono una famiglia che mi incuriosisce.
– Non ha avuto remore ad eliminare il fratellastro – sottolineò Grigery.
– Lo so – sospirò Bardylis, tornando al suo trono. – Ah, se fossi certo che
rappresenta una minaccia non se ne andrebbe di qui vivo, ma un marito per Audata
è un bottino che non speravo più di trovare. Invitalo a venire da me per un incontro
privato e portalo qui fra un’ora.
Dopo che Grigery se ne fu andato, Bardylis convocò presso di sé Audata. Sua
figlia era una donna alta, ossuta e con il naso prominente, ma pur sapendo che
molti la consideravano brutta, Bardylis riusciva a vedere in lei soltanto la bambina
che aveva amato fin dalla sua nascita. La donna entrò nella stanza e lo abbracciò.
– Lo hai visto? – chiese Bardylis, tenendo la mano della figlia fra le proprie.
– Sì. È avvenente, anche se temo che sia più basso di me.
– Voglio che tu sia felice – affermò Bardylis, – e ancora non so se questo
matrimonio sia una cosa saggia.
– Ho ventisette anni, padre, non ti preoccupare per me.
– Parli come se a ventisette anni fossi già vecchia. Hai ancora il tempo di
generare figli sani e di vederli crescere, ed io voglio che tu abbia questo, voglio che
tu possa conoscere la gioia che io ho avuto mentre tu stavi crescendo.
– Farò ciò che più ti dà piacere – replicò Audata, poi sedette accanto al padre e
continuarono a parlare finché Grigery tornò per annunciare Filippo.
Audata si affrettò allora ad andarsene, ma si arrestò fuori della stanza del trono
e rimase ad osservare la scena attraverso la porta socchiusa.
Bardylis si fece trovare da Filippo in piedi davanti al trono, e il Macedone
venne avanti, inginocchiandosi davanti a lui e baciandogli la mano.
– Un re non si dovrebbe inginocchiare davanti ad un altro re – osservò Bardylis.
– Ma un figlio dovrebbe onorare il suo nuovo padre – replicò Filippo,
alzandosi.
– Ben detto – approvò il re illirico, segnalando a Grigery di ritirarsi. – Ora vieni
a sedere accanto a me, perché abbiamo molte cose di cui discutere.
Per tre giorni la presenza di Filippo come ospite venne festeggiata con
banchetti, esibizioni atletiche, danze e la rappresentazione di una commedia
corinzia nel teatro alla periferia della città, e il re macedone parve godere di quegli
onori anche se per Parmenion le giornate divennero invece sempre più irritanti; il
guerriero Theoparlis intanto si stava mostrando sempre più teso e irritabile, e già
due volte Parmenion lo aveva visto parlare con il sogghignante Grigery.
Mentre la folla lasciava il teatro, Parmenion ne approfittò per accostarsi a Theo.
– Va tutto bene? – gli chiese.
– Sto bene – rispose il soldato, continuando a camminare. Parmenion accantonò
il problema quando Filippo gli si affiancò, passando il braccio sotto il suo.
– Una buona commedia, non trovi? – chiese.
– Non sono amante delle commedie, sire.
– Per sposare una donna come Audata un uomo deve per forza amare la
commedia – sussurrò Filippo, protendendosi verso il suo orecchio.
– Mi dicono che nell’amore c’è qualcosa di più della bellezza fisica – replicò
Parmenion, ridacchiando.
– Certo, ma l’aspetto deve per forza contare qualcosa. Ieri sono rimasto a
parlare con lei per due ore e per tutto quel tempo ho cercato un solo tratto fisico per
il quale poterle fare un complimento.
– E cos’hai trovato?
– Ho pensato di dirle che aveva dei gomiti molto graziosi. Parmenion scoppiò a
ridere, sentendo la tensione che l’abbandonava.
– E poi cosa è successo?
– Ci siamo amati.
– Cosa? Nel palazzo di suo padre? Prima del matrimonio? E come ci sei
riuscito... se non trovi in lei nulla di attraente? Improvvisamente, Filippo divenne
serio.
– Ho fatto un sogno, Parmenion, e mentre ero con Audata ho immaginato la
donna che ho visto in esso... la donna che incontrerò l’anno prossimo a Samotracia.
Mentre tornavano al palazzo, Filippo raccontò quindi a Parmenion del proprio
incontro mistico.
– E sei certo che fosse un presagio?
– Ci scommetterei la vita... e darei la mia vita per farlo avverare. Era
meravigliosa, la donna più bella che abbia mai visto. È un dono degli dèi,
Parmenion, lo so. Ha promesso di darmi un figlio, un bambino che nascerà per
diventare un grande uomo.
Erano ormai vicini al palazzo, quando Filippo trattenne Parmenion per un
braccio.
– Questo pomeriggio Bardylis mi vuole mostrare il suo esercito – disse. –
Dovrebbe essere illuminante.
– È vero – convenne Parmenion. – Allora cosa ti preoccupa?
– Theoparlis. Si è fatto cupo e credo che quell’uomo chiamato Grigery lo stia
provocando. Non si deve lasciar trascinare ad uno scontro: Antipatro ha fatto
qualche domanda sul conto di Grigery ed ha scoperto che è il campione del re e che
pare sia un demonio con la spada.
– Impedirò qualsiasi duello fra Macedoni e Illiri – promise Parmenion.
– Bene. Hai visto ancora Bardylis?
– No. Ritengo di averlo convinto che non abbiamo nessuna intenzione di fare
guerra all’Illiria.
– Non ne essere certo – lo avvertì Filippo. – Penso che quell’uomo sia un mago
che riesce a leggere nella mente.
Quel pomeriggio Filippo e i suoi compagni osservarono la cavalleria illirica
lanciarsi alla carica attraverso un ampio prato con le lance che brillavano sotto il
sole, poi la fanteria venne avanti formando la falange: ogni uomo era armato con
una lancia e una corta spada e portava uno scudo quadrato di legno rinforzato con
il bronzo; tutti sfoggiavano un elmo crestato, corazza e schinieri, anche se erano a
piedi nudi. Ad un ordine del suo generale, la falange cambiò con scioltezza
formazione snodandosi in una lunga linea profonda tre file, con le lance abbassate.
Filippo e i suoi Macedoni si trovavano all’estremità del campo, e ad un tratto il re
notò che gli Illiri che si trovavano accanto a loro si stavano tirando indietro.
– Non vi muovete, qualsiasi cosa succeda – sussurrò.
Con un ruggito tonante, la fanteria si lanciò alla carica. Filippo osservò i
lancieri che si avvicinavano sempre più in fretta e per un momento si chiese se
quella fosse la fine della sua vita: sembrava che nulla potesse fermare quella massa
in corsa e che entro pochi secondi una punta gli avrebbe trapassato il petto privo di
protezione, ma nonostante questo rimase immobile con le mani sui fianchi,
fronteggiando i soldati che venivano alla carica.
All’ultimo possibile secondo la falange si arrestò e Filippo abbassò lo sguardo
su una punta di lancia che si trovava ad appena un dito dal suo petto. Lentamente,
sollevò una mano e passò il pollice sul metallo, poi fissò il lanciere negli occhi.
– C’è della ruggine su questa punta – osservò in tono sommesso. – Dovresti
averne più cura.
Infine volse le spalle alla falange.
Durante la carica nessuno dei suoi compagni aveva mosso un solo muscolo,
cosa che pervase Filippo di orgoglio; Bardylis lo chiamò a sé con un cenno e lui
andò a raggiungere il vecchio re su un ampio sedile alla testa di un tavolo carico di
cibo.
Parmenion stava per sedersi a sua volta al tavolo quando si accorse che Theo e
Grigery erano fermi a circa venti passi di distanza e che ancora una volta il
guerriero illirico stava avanzando qualche commento beffardo: perfino da quella
distanza Parmenion poté vedere Theo arrossire in volto e abbassare la mano verso
l’elsa della spada.
– Theo! – ruggì, e il soldato s’immobilizzò mentre Parmenion si affrettava a
raggiungerlo, chiedendo: – Cosa succede qui?
– Questo cane mi ha sfidato – dichiarò Grigery.
– Lo proibisco – replicò Parmenion.
– Non spetta a te proibire qualcosa in Illiria – ritorse Grigery, con un bagliore
negli occhi scuri.
Parmenion trasse un profondo respiro.
– Theoparlis ti ha colpito? – chiese in tono quieto.
– No.
– Capisco... allora non si è trattato di una cosa come questa – affermò
Parmenion, assestando al volto di Grigery un manrovescio che lo gettò a terra.
Dagli ufficiali che si stavano preparando a cenare si levò un grande ruggito, ma
Parmenion ignorò il guerriero che si stava rialzando in piedi e si diresse verso
Bardylis, inchinandosi profondamente.
– Maestà, chiedo scusa per questa scena sconveniente, ma quel tuo uomo,
Grigery mi ha sfidato a battermi con lui e chiedo il tuo permesso di accettare.
– Non era con te che volevo battermi – gridò Grigery.
– Allora non desideri sfidare l’uomo che ti ha colpito? – chiese Parmenion.
– Sì... voglio dire... – esitò Grigery, spostando lo sguardo sul suo re.
– Tutti hanno visto l’inizio di questa lite – dichiarò Bardylis, – ed ora ne
vedremo la fine. Vi concedo il permesso di battervi.
– Grazie, signore – disse Parmenion. – Come ospite, potrei chiedere un favore?
Dal momento che ho interrotto un ottimo pasto mi sembra soltanto giusto ripagare
tutti con uno spettacolo non soltanto di abilità ma anche di coraggio. Avresti quindi
qualche obiezione se ci battessimo come fanno i nobili della Mesopotamia davanti
al loro re?
Per un momento Bardylis lo fissò interdetto: non aveva idea di come si
battessero i guerrieri della Mesopotamia, ma al tempo stesso non voleva darlo a
vedere.
– Come preferisci – rispose quindi.
– Preparate un braciere con carboni ardenti profondi quanto il braccio di un
uomo – ordinò Parmenion.
Bardylis incaricò due servi di andare a prendere il braciere e Parmenion si
ritrasse ad una certa distanza dal tavolo, dove venne raggiunto da Filippo e dagli
altri.
– Cosa succede, in nome dell’Ade? – chiese Filippo.
– Non avevo scelta, sire. Ti avevo promesso che non ci sarebbero stati scontri
fra Macedoni e Illiri... e qualsiasi cosa succederà qui sarà vista come un confronto
fra uno Spartano e un guerriero di Bardylis – spiegò Parmenion, poi si girò verso
Theo e aggiunse: – Sul tavolo c’è del miele. Prendilo e trova anche del vino rosso e
delle bende, che inzupperai di vino.
– Che modo di combattere è questo? – chiese Antipatro.
– Una cosa nuova – gli confidò Parmenion.
– Hai mentito a Bardylis? – sussurrò il re.
– Sì. Non ti devi preoccupare, sire: non sa leggere nella mente.
Servendosi di sbarre di spesso legno, quattro servitori portarono un braciere
ardente nel campo. Liberatosi di corazza, elmo, tunica e schinieri, Parmenion
estrasse la spada e si andò a mettere accanto al braciere; sconcertato, Grigery si
spogliò a sua volta e prese posizione di fronte a lui mentre il re e i suoi ufficiali
formavano un cerchio tutt’intorno in attesa che lo scontro avesse inizio.
– Hai bisogno del fuoco per scaldarti, vecchio? – chiese Grigery.
– Fa’ come me – replicò Parmenion, poi si girò e piantò in profondità la propria
spada nel braciere, lasciandovela dentro e indietreggiando con le braccia incrociate
sul petto. Di nuovo, Grigery lo imitò e conficcò la propria lama accanto alla sua.
– E adesso? – chiese.
– Adesso aspettiamo – rispose lo Spartano, fissandolo negli occhi.
I minuti trascorsero lentamente e lo sguardo di tutti gli spettatori prese a
spostarsi di continuo dai due contendenti nudi alle lame che stavano diventando
sempre più incandescenti.
Il rivestimento di cuoio dell’elsa della spada di Grigery si piegò e si spezzò, poi
prese a bruciare con una voluta di fumo nero e si staccò lentamente; la spada di
Parmenion aveva invece un’impugnatura di metallo intorno a cui era avvolto un
sottile filo d’oro che tratteneva un pezzo di pelle di serpente: la pelle prese fuoco e
il filo si staccò.
– Quando sei pronto – disse allora Parmenion, – prendi la spada e cominciamo.
Grigery si umettò le labbra e rimase a fissare le spade roventi.
– Tu per primo – sibilò.
– Forse dovremmo farlo insieme. Sei pronto?
Grigery protese la mano ma il calore vicino all’elsa era intollerabile e le sue
dita si ritrassero di scatto. Guardando la folla circostante, il guerriero notò come
tutti fossero affascinati dal confronto, poi il suo sguardo si posò sul re, i cui
lineamenti erano freddi: comprendendo cosa ci si aspettava da lui, Grigery riportò
lo sguardo sulla lama incandescente.
– Quanto più aspetti, tanto più diventerà rovente – commentò Parmenion, in
tono pacato.
– Miserabile figlio di buona donna! – urlò Grigery, serrando la mano intorno
all’elsa della spada e strappandola dal braciere.
L’agonia lo colpì non appena la carne prese a sfrigolare e la pelle si staccò,
incollandosi al metallo dell’elsa, e con un urlo spaventoso lui scagliò lontano da sé
l’arma. Protendendo la mano sinistra, Parmenion estrasse la spada dalle fiamme e
si avviò verso l’avversario.
Il volto dello Spartano era privo di espressione ma il suo respiro era rapido e
poco profondo, i denti erano serrati e le labbra ritratte da essi. Sollevando l’arma,
Parmenion passò la lama rovente di traverso sul petto di Grigery: lo sfrigolio dei
peli e della carne che bruciavano arrivò all’orecchio di tutti gli spettatori e Grigery
balzò all’indietro, cadendo nell’erba.
Parmenion si girò quindi verso Filippo, inchinandosi, poi sollevò la lama
rovente e salutò Bardylis, abbassando infine il braccio di scatto e mandando la
spada a piantarsi nel terreno ai propri piedi. In fretta, lo Spartano passò fra la folla
e si diresse verso il punto dove Theo era in attesa con il miele, che spalmò sulla
carne ustionata.
– Le bende – disse Parmenion, con voce rauca, e subito Theo le sollevò dal
piatto di vino, strizzandone via l’eccesso di liquido per poi avvolgerle con cautela
intorno alla mano del generale.
– Come hai fatto? – domandò, mentre lavorava.
– Non posso parlare... in... questo momento – annaspò Parmenion, chiudendo
gli occhi mentre le bende fredde assorbivano il calore dalla mano. Si sentiva debole
e nauseato, con le gambe che tremavano, ma fece appello a tutte le sue forze e si
girò verso Theo. – Prendi il miele e il resto delle bende e va’ da Grigery. Subito! –
ordinò.
Mentre Theo si allontanava, Parmenion sentì un rumore di passi che si
avvicinavano e nel sollevare lo sguardo vide che si trattava di Bardylis e di Filippo,
seguiti da una decina di ufficiali.
– Sei un uomo interessante, Parmenion – commentò il vecchio re, – ed io avrei
dovuto sapere che non era il caso di permettere una prova di resistenza contro uno
Spartano. Come sta la tua mano?
– Guarirà, maestà.
– Ma non ne eri certo, giusto? È stato per questo che hai usato la sinistra.
– Esatto.
– Sei abbastanza in forze da cenare con noi?
– Certamente, sire. Ti ringrazio.
Il dolore era indescrivibile, ma Parmenion si costrinse a resistere per tutto il
pasto e perfino a mangiare qualcosa, accontentandosi della consapevolezza che
Grigery non si vedeva più da nessuna parte.
IL TEMPIO, AUTUNNO, 359 A.C.
La vita si era fatta sempre più difficile per Derae a mano a mano che le
condizioni mentali di Tamis si deterioravano. Adesso la vecchia trascorreva le sue
giornate seduta nei giardini del tempio parlando fra sé, e a volte era impossibile
comunicare con lei perché il suo senso di disperazione era cresciuto. Di conse-
guenza, il peso dei doveri nel tempio gravava tutto sulle spalle di Derae e ogni
giorno arrivavano nuovi supplici... lunghe file di persone malate o storpie, ricche e
povere... che aspettavano il beneficio delle mani della guaritrice.
Il lavoro la sfiniva, soprattutto ora che il loro vecchio aiutante Naza era morto e
che non c’era nessuno a curarsi del giardino e a raccogliere i vegetali piantati a
primavera.
Di conseguenza capitava di rado che Derae trovasse il tempo... e le energie... di
osservare Parmenion.
Poi un giorno si accorse di essere malata e una febbre si abbatté rapida su di lei
lasciandole le gambe deboli e la mente offuscata. Nonostante tutti i suoi poteri non
riuscì a risanarsi e neppure a occuparsi dei malati che aspettavano fuori delle porte
chiuse, e Tamis non le fu di nessun aiuto perché quando lei la chiamò la vecchia
non parve averla sentita.
Per undici giorni Derae giacque malata e sfinita, fluttuando fra strani sogni e
confusi risvegli. Una volta nel tornare cosciente vide con gli occhi dello spirito un
uomo seduto accanto al suo letto, che l’aveva sollevata leggermente e la stava
obbligando a mangiare un po’ di brodo. Poi il sonno tornò a reclamarla.
Quando infine si svegliò nuovamente, avvertì la luce del sole che filtrava dalla
finestra aperta... non aveva idea di quanto tempo fosse passato, sapeva soltanto che
si sentiva stanca ma non era più malata. Poi la porta della sua stanza da letto si aprì
ed entrò un uomo alto con la barba grigia che indossava una tunica di un rosso
sbiadito; l’uomo le portò dell’acqua e l’aiutò a bere.
– Ti senti meglio, sacerdotessa? – chiese.
– Sì, grazie. Io conosco la tua voce, ma non ricordo...
– Mi chiamo Leucion. Molto tempo fa sono venuto qui e tu mi hai consigliato
di andare a Tiro. Ho seguito il tuo consiglio e là ho trovato l’amore e una buona
moglie, e insieme abbiamo allevato ottimi figli e due figlie.
Derae si adagiò all’indietro e scrutò l’uomo con gli occhi dello spirito,
ricordando l’espressione che c’era stata nei suoi occhi quando aveva cercato di
violentarla.
– Mi ricordo. Perché sei tornato?
– Mia moglie è morta, sacerdotessa, e il mio figlio maggiore siede ora a capo
della nostra tavola. Io però non ti ho mai dimenticata e volevo... volevo rivederti
per chiederti perdono. Quando sono arrivato qui eri malata e non avevi aiuti, quindi
sono rimasto.
– Per quanto tempo ho giaciuto a letto?
– Per dodici giorni – le disse Leucion. – All’inizio ho pensato che saresti morta,
ma poi sono riuscito a farti mangiare. Ho nutrito anche la vecchia, ma non credo
che sappia neppure che sono qui.
– Dodici giorni? Com’è che le mie lenzuola sono così pulite?
– Le ho cambiate ed ho lavato le altre. Quando starai di nuovo bene potrò
partire.
– Ti ringrazio per il tuo aiuto e sono felice che tu sia tornato – dichiarò Derae,
prendendogli la mano, – così come sono felice che la tua vita sia stata lieta. E se
desideri il perdono... te l’ho dato molto tempo fa, Leucion.
– Ci sono parecchie persone che ti stanno aspettando. Cosa devo dire loro?
– Riferisci che le vedrò domani – rispose Derae, spingendo indietro le coltri e
alzandosi in piedi. Aveva le gambe deboli ma sentiva che le forze stavano
tornando. Leucion le portò i vestiti e si offrì di aiutarla a indossarli. – Non importa,
Leucion, posso anche essere cieca, ma riesco a vestirmi da sola – rispose lei,
mettendosi un semplice abito bianco e uscendo in giardino, dove Tamis era seduta
accanto alla fontana.
– Per favore, non mi odiare! – piagnucolò la vecchia.
– Hai l’aria stanca, Tamis – replicò Derae, stringendola a sé e accarezzandole i
capelli. – Perché non riposi?
– È tutto sbagliato, tutto quanto. Non ho servito affatto la Luce, è tutta colpa
mia.
Derae la prese per un braccio e la condusse nella sua stanza, dove Tamis si
lasciò cadere sul letto e si addormentò all’istante.
– Lei ti sta ancora tormentando? – sussurrò Derae, sedendo accanto alla vecchia
sacerdotessa. – Vediamo.
Librandosi, si guardò intorno ma nelle vicinanze non c’era nessuno, non c’era
traccia e neppure sensazione della presenza della donna incappucciata, quindi
Derae si chiese quale potesse essere la fonte della disperazione di Tamis e decise di
scoprirlo adesso che la sacerdotessa era addormentata. Prima di allora non aveva
mai osato entrare nella sua mente senza permesso, ma ormai era inutile cercare di
ottenere informazioni. Presa la sua decisione, Derae fece fluire il proprio spirito in
quello della dormiente diventando una cosa sola con lei e subito vide scorrere gli
anni, avvertì le speranze, i sogni, le angosce di Tamis. Vide una bambina dal
talento unico diventare una donna di potere e influenza, la vide crescere, osservò...
e condivise... i suoi amori e i suoi lutti. Finalmente scorse la prima visione che Ta-
mis aveva avuto della nascita del Dio Oscuro e guardò con orrore mentre lei
orchestrava la morte della ragazza persiana che avrebbe dovuto generarlo.
Non possiamo usare le armi del nemico, le aveva detto Tamis, e tuttavia
cinquant’anni prima la sacerdotessa era entrata nella mente di quella Persiana
incinta e aveva assunto il controllo dei suoi arti, costringendola a camminare fino
alla sommità della torre e a balzare incontro alla morte. Derae si riscosse da quel
ricordo condiviso per proseguire il proprio viaggio con disagio crescente, e con il
passare degli anni il suo stato d’animo s’incupì perché si accorse che Tamis aveva
cominciato a manipolare gli eventi. Era stata lei a chiedere a Senofonte di
insegnare strategia al giovane Parmenion, e ancora lei aveva usato i propri poteri
per tenere Parmenion separato agli altri ragazzi degli alloggiamenti, instillando in
loro avversione per il giovane mezzosangue.
Ma ciò che più la ferì fu trovare la risposta a quello che per lei era sempre stato
un mistero.
Pur amando disperatamente Parmenion, infatti, non aveva mai capito perché
fossero stati tanto imprudenti nell’amarsi, tanto stupidi e sprovveduti.
Ora vide il perché...
Ora seppe cosa era successo...
Come la donna incappucciata faceva nei loro sogni, infatti, Tamis si era librata
sui due amanti, usando i suoi poteri per renderli ciechi al pericolo, per incitarli e
spingerli alla loro distruzione.
La cosa peggiore era che era stata Tamis a spingere con il proprio spirito i
razziatori verso di lei, Tamis a far fuggire il suo cavallo e a lasciarla senza via di
fuga, e ancora era stata lei a instillare in Nestus la sete di vendetta, a piantare in lui
il desiderio di vedere Derae morta.
Tamis aveva organizzato tutto quanto.
Parmenion era stato manipolato, diretto come un cavallo tramite redini
invisibili... spinto prima a Tebe, poi in Persia e quindi in Macedonia.
Ma l’ultima menzogna risultò essere la peggiore di tutte. Derae vide se stessa
lottare in mare per liberarsi dai legami dopo essere stata gettata dalla nave: il cuoio
che le bloccava i polsi era stato allentato dall’acqua e lei era riuscita a liberarsi le
mani e a nuotare per salvarsi la vita, sentendo il rumore dei frangenti che si faceva
sempre più vicino. Era giovane e forte ed aveva tenuto testa ai marosi fin quasi alla
spiaggia, poi una grande onda l’aveva afferrata e l’aveva mandata a sbattere con la
testa contro una roccia. Pochi secondi più tardi Naza era entrato nell’acqua e
l’aveva trascinata a riva.
– È viva! – aveva esclamato il vecchio.
– Portala al tempio – aveva ordinato Tamis.
Viva! Non era per nulla incatenata dai vincoli della morte! Menzogne,
menzogne, menzogne! Avrebbe potuto lasciare il tempio in qualsiasi momento e
andare da Parmenion, avrebbe potuto salvarlo da una vita di vuoto e di tormento.
Per favore, non mi odiare!
Derae volò nel proprio corpo e si alzò in piedi, abbassando lo sguardo sulla
vecchia addormentata e provando il desiderio di colpirla, di svegliarla e di urlarle
la verità.
Una serva della Luce? Una donna che professava di credere nel potere
dell’amore?
Derae indietreggiò barcollando di fronte alla forza del proprio odio, poi lasciò
la stanza di corsa, andando a sbattere contro Leucion nel corridoio al di là di essa.
Per poco non cadde, ma lui fu pronto a sostenerla.
– Cosa c’è che non va, signora?
– Tutto – sussurrò Derae.
Poi le lacrime cominciarono a scorrere.
PELLA, PRIMAVERA, 358 A.C.
Seduta accanto al letto di Tamis, Derae stava aspettando ciò che era ormai
inevitabile, dato che la vecchia non mangiava più da oltre una settimana e non
aveva aperto bocca da giorni. Quando le prese una mano, si accorse che era calda e
secca, con la pelle che pendeva floscia sulle ossa da cui la carne sembrava
scomparsa, e nel sollevare lo sguardo sui suoi occhi provò molto dolore nel vedere
la loro espressione angosciata e sperduta.
Tentò quindi di usare i propri poteri sulla donna morente, ma sentì che Tamis
stava lottando con tutte le sue forze per opporvisi.
La mezzanotte era prossima quando infine la vecchia sacerdotessa morì, senza
un movimento o un suono che ne indicassero il trapasso: il momento prima il suo
spirito tremolava ancora debolmente e quello successivo era svanito. Per quanto
rattristata, Derae non pianse mentre copriva il volto della vecchia per poi far
ritorno nella propria stanza e andare a letto.
Leucion le aveva lasciato accanto al giaciglio una caraffa d’acqua e una ciotola
di frutta, ma lei non aveva né fame né sete e scivolò subito in un sonno profondo.
Fu destata dal suono di una musica e nell’aprire gli occhi si trovò davanti una
scena che non le era familiare: era accanto ad un grande lago scintillante che si
allargava in una depressione naturale in mezzo ad una catena di alte montagne
innevate; accanto a lei sedeva una donna dalla bellezza abbagliante, con le forme
eleganti avvolte in un lungo chitone d’oro.
– Tamis? – sussurrò.
– Com’ero un tempo – rispose la sacerdotessa, protendendosi con esitazione a
toccarle il braccio. – Cosa ti posso dire? – chiese quindi. – Come posso
domandarti perdono? Non avrei mai dovuto mentire né immischiarmi negli eventi.
L’orgoglio non è un dono della Fonte ed io ne sono caduta vittima. Adesso però
abbiamo poco tempo, Derae, ed io ho molte cose da dirti. Quelle antiche porte che
ti ho mostrato, quelle che attraversano continenti ed oceani... non devi usarle. Non
ti devi opporre direttamente al Dio Oscuro e ai suoi servitori, perché ti
corromperanno.
– Posso combatterli da sola – replicò Derae. – È per questo che mi hai
addestrata.
– Per favore, Derae, ascoltami! Vattene dal tempio, trova Parmenion, fa’ quel-
lo che vuoi ma non seguire il mio sentiero. A quel punto Derae scoppiò a ridere.
– Dov’erano i tuoi dubbi, Tamis, quando hai guidato i razziatori da me,
quando mi hanno legata dietro il cavallo del loro capo? Dov’erano quando ti sei
librata sopra di me, bloccando le mie paure e incitandomi a gettarmi fra le braccia
di Parmenion senza pensare alle conseguenze?
– No, ti prego! – esclamò Tamis, ritraendosi di fronte all’ira della Spartana. –
Ti ho chiesto perdono... per favore!
– Oh Tamis, amica mia – replicò Derae, in tono sommesso ma con lo sguardo
gelido, – io ti perdono. Tuttavia ho visto in che modo hai impedito l’ultima Nascita
Oscura... è stato davvero astuto da parte tua entrare nella mente della ragazza e
indurla a gettarsi dalla torre. Forse la prossima volta sceglierò anch’io questo
metodo. Dovrò pensarci sopra.
– Smettila! Ti imploro, Derae. Io mi sbagliavo, non portare avanti la mia follia.
– Devo impedire la Nascita Oscura – dichiarò Derae, chiudendo gli occhi. – Tu
mi hai preso la vita, Tamis... hai mentito, ingannato, manipolato per questo, e se il
Dio Oscuro avrà successo sarà stato tutto vano. Io non posso permetterlo: sono
una Spartana e non mi arrenderò in questa lotta. E adesso – proseguì, prendendo
la donna per un braccio, – dimmi tutto quello che sai sulla Nascita.
– Non posso.
– Me lo devi, Tamis! Per tutto quello che ho perduto. Adesso dimmelo,
altrimenti ti giuro che causerò la morte di Filippo di Macedonia e di tutti gli altri
servitori del Dio Oscuro.
– Tu sei la mia punizione – sussurrò Tamis, con gli occhi pieni di lacrime. – Sei
Tamis tornata alla vita.
– Dimmi quello che devo sapere – la incitò Derae.
– Mi prometti che non ucciderai?
– Ti prometto che non mi abbasserò mai a commettere un assassinio.
– Allora mi dovrò fidare di te, anche se la mia anima sarà dannata se tu mi
tradirai – sospirò Tamis. – Hai seguito gli eventi della Macedonia? È ovvio che lo
hai fatto: l’ascesa di Filippo, la nascita di una nazione che preannuncia l’avvento
del Dio Oscuro. Il suo corpo fisico sarà concepito sull’Isola di Samotracia durante
la Notte del Terzo Mistero, al culmine dell’estate. È stato tutto preordinato e la
madre sarà Olympia, la figlia di Neoptolemus, re dell’Epiro, mentre il padre sarà
Filippo di Macedonia. Filippo è già stato preparato, stregato, e tu avrai una sola
vera opportunità di riuscita: affinché il Dio Oscuro possa vivere, il concepimento
dovrà avvenire quando le stelle raggiungeranno un certo allineamento che dura
soltanto per un’ora in quell’unica notte. Se sei decisa ad andare avanti con
quest’impresa, allora dovrai recarti a Samotracia e impedire la cerimonia.
– Mancano soltanto dieci giorni al culmine dell’estate – osservò Derae. –
Come posso arrivare a Samotracia in tempo?
– Le Porte che ti ho mostrato danno accesso a sentieri fra i mondi, fra tempi
diversi. Ascoltami, Derae, perché questa è l’ultima volta che avrai modo di
vedermi e devi assimilare bene i miei insegnamenti.
Aprendo gli occhi, Derae vide la luce dell’alba che filtrava già nel cielo e le
stelle che svanivano dinnanzi ad essa. Alzatasi, si versò un bicchiere d’acqua e lo
sorseggiò lentamente.
Samotracia, l’Isola dei Misteri. Quel pensiero le strappò un brivido perché una
volta Tamis aveva definito quell’isola il regno del Dio Oscuro e l’idea di recarvisi
le recò una fitta di terrore che era quasi panico... ma poi si rese conto che anche
Parmenion sarebbe stato là. Per la prima volta da quasi un quarto di secolo si
sarebbero incontrati... ma che sarebbe successo? Lei non era più l’adolescente dai
capelli di fiamma che Parmenion ricordava, così come lui non era più il timido
aspirante guerriero di un tempo. Adesso qualcosa di più del tempo li separava, e
tuttavia sarebbe stato bello poterlo avvicinare di nuovo.
Derae aveva seguito con sentimenti contrastanti i suoi successi al fianco di
Filippo: il primo, lo scorso anno, aveva portato all’annientamento degli Illiri, e da
allora c’erano stati la marcia sulla Tessaglia per rendere sicuri i confini
meridionali, l’invasione della Paionia e l’assedio di Anfipoli.
Adesso i lupi delle principali città vedevano la Macedonia con occhi diversi:
dove un tempo scorgevano soltanto un agnello pronto per essere tosato o
macellato, scorgevano ora un leone giovane e possente, orgoglioso e arrogante.
L’orgoglio di Derae per i successi di Parmenion era però sfumato di tristezza,
perché quanto più la Macedonia fosse divenuta potente, tanto più letali sarebbero
state le conseguenze una volta che il Malvagio si fosse seduto sul suo trono.
Il timore tornò ad assalirla e si sentì come una bambina che avesse di fronte a
sé un incendio boschivo, un enorme muro di fiamme che minacciava di fagocitare
il mondo.
Cosa posso fare per fermarlo? si chiese. Abbassando lo sguardo, lo posò sul
boccale d’acqua che aveva in mano e d’un tratto sorrise, poi tornò nella stanza di
Tamis.
– Manterrò la parola che ti ho dato, Tamis, e non ricorrerò all’assassinio... ma
se mi attaccheranno i servitori del Dio Oscuro moriranno, perché non intendo
lasciarmi ostacolare.
Il lenzuolo copriva ancora il corpo, e quando lo trasse indietro Derae vide che
sul letto restava soltanto uno scheletro le cui ossa bianche non erano più tenute
insieme neppure da un filamento di pelle: lo spostamento del lenzuolo fece rotolare
il teschio dal cuscino e lo mandò a cadere al suolo, dove si infranse in una miriade
di schegge.
SAMOTRACIA, ESTATE, 357 A.C.
La traversata era stata tranquilla e la nave scivolò senza problemi a ridosso del
molo, con tre file di remi che rallentavano la sua corsa, poi i marinai lanciarono
alcune corde agli uomini in attesa a terra e la grande nave fu ancorata al suo posto.
Filippo scese la passerella seguito da Parmenion.
– Non riesco quasi a contenere la mia eccitazione – dichiarò il re, quando si
arrestarono sul terreno solido, fissando le colline alberate. – Credi che lei sia già
qui?
– Non lo so, sire – replicò Parmenion, – ma mi preoccupa la mancanza di
guardie al tuo seguito. Nei dintorni ci potrebbero essere sicari assoldati da uno
qualsiasi dei tuoi nemici.
Filippo scoppiò a ridere e gli assestò un pugno leggero contro la spalla.
– Ti preoccupi troppo. Noi siamo soltanto viandanti, girovaghi, mercenari.
Pochi conoscono il mio piano.
– Antipatro, Attalus, Nicanor, Theoparlis, Simiche... e gli dèi sanno quanti altri
– borbottò Parmenion. – Tutto quello che ci vuole è una parola detta al momento
sbagliato.
– Non succederà, amico mio – rise Filippo. – Questo incontro è stato
predisposto dagli dèi, e comunque ho con me il Leone di Macedonia a proteggermi
– aggiunse, ridendo ancora del disagio di Parmenion. – Sai, dovresti proprio
prendere in considerazione l’idea di trovarti una moglie... o un’amante. Sei
decisamente troppo serio.
In quel momento una donna alta che vestiva di scuro venne verso di loro e
s’inchinò.
– Benvenuto a Samotracia, nobile Filippo – disse.
– Splendido – sussurrò Parmenion. – Forse hanno addirittura in programma una
parata.
La donna gli scoccò un’occhiata perplessa, poi riportò lo sguardo su Filippo.
– Stanotte ci sarà un banchetto in tuo onore e domani una caccia sulle colline.
– Ti ringrazio, signora – replicò Filippo, prendendo la mano della donna e
baciandole il palmo. – È davvero un onore e un privilegio essere accolto da una
creatura di tale grazia e bellezza... ma come sapevate del mio arrivo?
La donna si limitò a sorridere senza rispondere, poi li precedette attraverso
l’affollata città portuale fino al punto dove attendevano altre due donne che
tenevano per le briglie due stalloni bianchi, e indicò un palazzo bianco che distava
poco più di un chilometro verso nord.
– Le vostre stanze sono state preparate, signori. Spero che i cavalli siano di
vostro gradimento.
– Ti ringrazio – rispose Filippo. Gli animali erano di bell’aspetto ma il torace
non era ampio, il che indicava poco spazio per i polmoni e per il cuore,
comportando una mancanza di resistenza e di forza.
I due uomini montarono in sella e si avviarono lentamente verso il palazzo
seguiti dalle donne che procedevano a piedi.
Nei campi sulla destra e sulla sinistra altri cavalli erano intenti a pascolare,
animali dalle zampe magre e con la schiena spesso incurvata verso l’alto, cosa che
doveva renderli molto scomodi da cavalcare.
– A che serve allevare animali inutili come quelli? – chiese Filippo a
Parmenion, riuscendo a stento a nascondere il proprio disgusto.
– Qui usano carri e cocchi, sire, ma non ci sono cavalieri – replicò Parmenion,
indicando verso il porto. – È evidente che non si preoccupano di selezionare
animali da sella.
Il re rispose soltanto con un grugnito, perché nulla offendeva un Macedone più
della scarsa abilità nel selezionare e allevare cavalli.
Il suo buon umore riaffiorò però nel palazzo, dove vennero loro incontro tre
splendide donne vestite di verde e di giallo.
– Non ci sono uomini qui? – domandò Filippo.
– Soltanto tu e il tuo compagno, sire – replicò una di esse.
I due furono quindi accompagnati in un sontuoso appartamento con divani
coperti di seta e tende ricamate in oro.
– Se hai bisogno di qualsiasi cosa, signore, basterà che tu la chieda – disse una
ragazza dai capelli corvini.
– Cosa intendi esattamente per «qualsiasi cosa»? – domandò Filippo,
sorridendo e prendendola per la vita.
Lei gli insinuò una mano sotto la tunica, accarezzandogli una coscia.
– Significa esattamente ciò che tu vuoi che significhi – replicò.
Accostatosi alla finestra, Parmenion trasse intanto indietro le tende e indugiò a
fissare i campi e i prati: era stanco e voleva soltanto fare un bagno. Sentendo la
ragazza ridacchiare alle sue spalle, soffocò una sommessa imprecazione.
– Cosa c’è che non va in te, stratega? – domandò poi Filippo.
Voltandosi, Parmenion vide che le ragazze se n’erano andate.
– Sono soltanto a disagio.
– Dovresti seguire il mio consiglio e godere della compagnia di queste donne...
fa bene all’anima.
– Forse lo seguirò – replicò Parmenion.
Riempiendo due coppe di vino da una caraffa posata sul tavolo, Filippo ne
porse una a Parmenion.
– Siedi con me per un po’, amico mio – disse, conducendo il generale verso un
divano. – Quando mi trovavo a Tebe mi hanno raccontato del tuo amore per una
sacerdotessa chiamata Thetis...
– Non desidero parlarne, sire.
– Non hai mai accennato a lei, e neppure a quell’altra donna che hai amato.
Come mai?
– A che serve parlare del passato? – replicò Parmenion, deglutendo a fatica e
distogliendo lo sguardo. – Cosa si ottiene?
– A volte serve a incidere una pustola, Parmenion. Il generale chiuse gli occhi,
lottando contro l’affluire dei ricordi.
– Io... ho amato due donne ed entrambe, in maniera diversa, sono morte per me.
La prima si chiamava Derae, ed era una Spartana. A causa del nostro... amore... è
stata sacrificata: l’hanno gettata in mare al largo delle coste dell’Asia. La seconda
era Thetis, ed è stata uccisa dagli assassini mandati contro di me da Agisaleus. Non
ce ne sono state altre e non succederà mai più che qualcuno che amo debba morire
per me. Ora, sire, se non ti dispiace preferirei...
– Mi dispiace – lo interruppe Filippo. – È un fatto della vita che la gente muoia.
La mia prima moglie, Phila, è morta un anno dopo il nostro matrimonio. Io
l’adoravo, e la notte in cui è morta volevo tagliarmi la gola per seguirla nell’Ade,
ma non l’ho fatto... e adesso sto per incontrare una donna di sogno.
– Mi fa piacere per te – replicò freddamente Parmenion, – ma tu ed io siamo
diversi.
– Non tanto diversi – obiettò Filippo. – Tu però porti l’armatura non soltanto
sul tuo corpo ma anche sul tuo spirito. Io sono più giovane di te, amico mio, ma in
questa situazione sono il padre di un figlio spaventato: hai bisogno di una moglie e
di avere dei figli, quindi non ti preoccupare dell’amore. Tuo padre, chiunque fosse,
ti ha dato un dono unico al mondo... tu sei la sua immortalità. A loro volta, i tuoi
figli faranno lo stesso per te. Ora però basta con le prediche: voglio fare un bagno e
poi manderò a chiamare quella ragazza dalle gambe slanciate. Quanto a te, ho il
sospetto che ti aggirerai per il palazzo esaminandone le difese naturali e cercando
assassini nascosti.
A quel punto Parmenion scoppiò in una risata piena di calore e di buon umore.
– Mi conosci troppo bene, giovane padre.
– Ti conosco abbastanza perché tu mi piaccia, e questa è una cosa rara – replicò
Filippo.
Lo Spartano vagò per i giardini del palazzo e si spinse al di là di essi, sulle
colline che dominavano la baia; mentre passeggiava, vide un ragazzo che
sorvegliava un gregge di pecore e che agitò una mano in un cenno di saluto;
rispondendo con un sorriso, Parmenion continuò a camminare seguendo un muro
di pietre che si snodava incurvato fino alla sommità di un’alta collina, poi si sentì
attratto da un bosco i cui alberi avevano i rami carichi di boccioli rosa e bianchi e
sedette all’ombra, assopendosi.
Al risveglio scorse una donna alta e snella che stava camminando verso di lui e
si alzò in piedi, riparandosi gli occhi con una mano per vederla in faccia. Per un
momento soltanto gli parve che i suoi capelli avessero cambiato colore, perché in
un primo tempo gli erano sembrati rossi come la fiamma e punteggiati di argento,
mentre adesso apparivano scuri. Dicendosi che doveva essere stato uno scherzo
della luce, si inchinò alla donna quando gli giunse vicino: a prima vista i suoi abiti
apparivano neri come la notte, ma quando lei si muoveva le pieghe ne riflettevano
la luce e si rivelavano del ricco blu tremolante delle profondità dell’oceano; il velo
che le copriva il volto indicava un lutto recente.
– Benvenuto, straniero – disse la donna, e la sua voce suonò stranamente
familiare ed eccitante.
– Questa è la tua terra, signora?
– No. Tutto quello che vedi qui appartiene alla nobile Aida. Anch’io sono una
straniera. Da dove vieni?
– Dalla Macedonia.
– E prima ancora?
– Da Sparta e da Tebe.
– Allora sei un soldato?
– È così evidente? – domandò lui, perché in quel momento indossava soltanto
un chitone azzurro chiaro e i sandali.
– I tuoi polpacci sono di un colore più chiaro delle tue cosce, il che induce a
pensare che di solito siano coperti dagli schinieri; allo stesso modo, la fronte non è
abbronzata quanto il resto della faccia.
– Sei molto osservatrice – replicò lui, cercando di mettere a fuoco il volto
nascosto dal velo, ma alla fine ci rinunciò. Per come riusciva a scorgerli, gli occhi
della donna sembravano opachi, come due opali. – Vuoi sedere qui con me per un
momento? – chiese d’un tratto, sorprendendo anche se stesso.
– Questo è un posto piacevole – replicò lei, in tono sommesso, – quindi credo
che mi fermerò per un po’. Cosa ti porta a Samotracia?
– Ho un amico... è venuto qui per incontrare la sua sposa. Tu da dove vieni?
– Vivo oltre il mare, in Asia, ma viaggio spesso. È passato molto tempo
dall’ultima volta che sono stata a Sparta. Quando vi hai vissuto?
– Per tutta la mia infanzia.
– Tua moglie è una Spartana?
– Non ho moglie.
– Non ti piacciono le donne?
– Certo che mi piacciono – si affrettò a rispondere lui. – Non ho neppure un
amante maschio. Un tempo ho avuto una moglie: si chiamava Thetis, ma adesso è
morta.
– La amavi molto? – domandò la donna.
– No – ammise lui, – ma era una brava donna... leale, affettuosa e coraggiosa.
Ma perché dobbiamo parlare di me? Sei in lutto? Oppure ti puoi togliere il velo?
– Sono in lutto. Qual è il tuo nome, soldato?
– Gli amici mi chiamano Savra – rispose Parmenion, non volendo dire a quella
sconosciuta il nome che veniva sussurrato nelle città di tutto il mondo.
– Sii felice, Savra – augurò la donna, alzandosi con grazia.
– Devi proprio andare? Mi... mi piace la nostra conversazione – protestò lui,
goffamente.
– Sì, devo andare.
Alzandosi a sua volta Parmenion si protese a prenderle una mano: per un
momento lei esitò, poi sfiorò le sue dita e Parmenion sentì il proprio cuore
accelerare il battito, mentre veniva assalito dal desiderio di protendersi a sollevare
quel velo. Invece si portò la mano di lei alle labbra per baciarla e la lasciò poi
andare con riluttanza.
La donna si allontanò senza una parola e Parmenion si accasciò di nuovo a
sedere sul terreno, stupefatto dalla propria reazione nei confronti di quella
sconosciuta: forse la conversazione con Filippo aveva toccato qualche corda
nascosta nel profondo del suo animo. Intanto la donna era scomparsa oltre il crinale
della collina e lui si affrettò a raggiungerne la sommità per intravederla un’ultima
volta.
La sconosciuta stava camminando verso la distante foresta e sotto i raggi del
sole i suoi capelli sembravano di nuovo di un colore fra il rosso e l’oro.
Derae sedeva in una depressione sotto i rami fioriti di un albero, con la mente
tesa. Aveva avvertito la ricerca e localizzato lo spirito di Aida mentre si librava dal
palazzo: calmando il senso di panico che l’aveva assalita, si era appoggiata con la
schiena contro il tronco dell’albero, con le braccia incrociate e le mani posate sulle
spalle, poi aveva fuso la propria mente con quella della pianta, penetrando nella
corteccia attraverso la linfa grondante che uccideva la maggior parte degli insetti e
arrivando ai capillari attraverso i quali l’acqua veniva fatta risalire alle foglie e ai
fiori.
A quel punto Derae aveva cessato di esistere: adesso era l’albero, con le radici
profonde che cercavano umidità e nutrimento nella terra scura, con i rami che si
allargavano pervasi dal lento fluire della vita. Sentendo la luce del sole sulle foglie,
si era concentrata sui boccioli portatori di semi che avrebbero garantito la sua
esistenza per l’eternità. All’interno dell’albero regnava la pace... una pace intensa.
Alla fine ritrasse il proprio spirito e andò in cerca di Aida: la strega era tornata
nel suo palazzo, quindi Derae si alzò e scese lentamente sui prati adiacenti il bosco
dove quella notte le accolite avrebbero celebrato il Terzo Mistero, soffermandosi a
bere ad un ruscello.
Poi sentì in lontananza un abbaiare di cani pronti alla caccia.
Assestatasi il velo, si sedette su un masso e si dispose ad attendere, non
sapendo da quale direzione sarebbe arrivato... il rumore dei suoi passi era molto
sommesso e inconsciamente furtivo.
– C’incontriamo ancora signora – disse la sua voce, e lei si volse.
– Come stai, Savra?
– Bene... ancora meglio ora che ti ho vista di nuovo.
Con gli occhi dello spirito, Derae scrutò il suo volto: i lineamenti
dell’adolescenza erano svaniti da tempo per essere sostituiti da quelli angolosi e
quasi aspri di un uomo, e tuttavia lui era ancora il Parmenion che lei ricordava. Il
suo Parmenion!
– Hai un modo di parlare molto cortese... per un soldato.
– Di solito non è così, signora, ma tu porti alla luce il meglio che c’è in me.
Come ti chiami?
Lei si sentì improvvisamente lacerata interiormente dal desiderio di togliersi il
velo, di mostrargli il proprio volto e di dirgli quanto avesse sentito la sua mancanza
in tutti quegli anni solitari, ma alla fine gli volse le spalle.
– Niente nomi – disse infine.
– C’è qualcosa che non va? – chiese Parmenion, facendosi più vicino.
– Nulla – replicò lei, costringendosi a parlare con gaiezza. – È una splendida
giornata.
Un mastino dal lucido pelo nero uscì dal bosco e si diresse verso di loro:
improvvisamente l’animale ritrasse le labbra sulle lunghe zanne e dalla gola gli
scaturì un ringhio profondo che indusse Parmenion a portarsi davanti a Derae,
posando la mano sull’elsa della daga che aveva al fianco.
– Vattene! – ruggì.
Il mastino indietreggiò di parecchi passi... poi si scagliò contro Derae. La lama
dello Spartano brillò al sole nel momento in cui il cane spiccava il salto contro la
donna e Parmenion si lanciò in avanti per intercettarlo, passandogli un braccio
intorno al collo e piantandogli la daga nel fianco. Mentre si rialzava in piedi, altri
due mastini emersero correndo dal bosco e nel girarsi Parmenion vide che Derae
stava camminando verso il palazzo, con i cani che le si facevano sempre più vicini.
– No! – urlò, rendendosi improvvisamente conto che non avrebbe potuto
raggiungerla in tempo, e tuttavia le bestie si accasciarono al suolo nel momento
stesso in cui si preparavano a spiccare il balzo.
Derae non si volse per guardare quell’apparente miracolo e continuò invece a
camminare fino ad oltrepassare le porte del palazzo.
Parmenion si avvicinò ai mastini e verificò con sconcerto che erano immersi in
un sonno tranquillo, poi ripose la daga nel fodero e corse nel cortile dell’edificio.
Della donna non c’era traccia.
Derae sgusciò fuori del palazzo non appena la processione illuminata dalle
torce l’ebbe oltrepassata. In fretta si diresse verso le colline e l’antico cerchio di
pietra che giaceva seminascosto dai meli del frutteto, sentendosi così esaltata da
faticare a tenere a freno l’entusiasmante sensazione di vittoria.
– L’ho fatto, Tamis – sussurrò. – L’ho fermato. Non ci sarà un Dio Oscuro.
Mentre correva giù per la collina verso le sagome scure degli alberi, i suoi
occhi spirituali colsero un accenno di movimento nell’ombra e lei si lasciò cadere
in ginocchio, aspettando e scrutando le piante.
Là! Nel sottobosco alla sua destra.
Il suo spirito si librò nel cielo, soffermandosi al di sopra degli alberi, in mezzo
ai quali era in attesa una giovane donna vestita di nero e armata di coltello. Derae
volò quindi verso sinistra, ma anche là c’era un’altra donna armata.
Rientrata nel proprio corpo, tornò sui suoi passi fino alla sommità della
collina... poi spiccò la corsa deviando verso sinistra. Era a pochi minuti di strada
dal cerchio di pietre, e una volta che lo avesse raggiunto nessun assassino avrebbe
potuto seguirla.
Alle proprie spalle sentì le inseguitrici che correvano rumorosamente in mezzo
al sottobosco, chiamando altre compagne che lei non aveva visto.
E improvvisamente percepì la presenza di Aida.
L’oscurità piombò su di lei come un mantello che le fosse stato gettato sulla
testa, accecandola. In preda al panico si lasciò cadere sulle mani e sulle ginocchia e
strisciò in avanti. Alcune foglie le sfiorarono il volto e lei fece scorrere le mani sui
rami del cespuglio, folto e alto: insinuatasi al suo centro tirò i rami intorno a sé,
ammucchiando sulla propria tunica manciate di terriccio e di foglie.
Poi il suo spirito tornò a librarsi.
La sua cecità rimase, ma adesso era molto più concentrata: il fuoco le scaturì
dalle dita e l’Incantesimo della Cecità si dissolse.
Una mano coperta di scaglie scattò verso la sua faccia, affondando gli artigli
nel suo corpo spirituale, ma nonostante il dolore lancinante Derae sollevò una
mano ad afferrare il polso da rettile e le fiamme divamparono su tutta la lunghezza
del braccio, fino ad avviluppare il demone.
In un istante, Derae rivestì il proprio corpo di corazza e di schinieri d’argento,
con un elmo spartano sulla testa e una spada di luce accecante stretta in pugno.
– Dove sei, Aida? – gridò. – Affrontami, se osi!
– Oso, bambina – giunse il sussurro della voce di Aida, e nel voltarsi di scatto
Derae vide la donna ammantata di nero che si librava poco lontano. – Sei stata
stolta a venire qui fisicamente – sorrise Aida. – In questo stesso momento coltelli
affilati si stanno avvicinando al tuo nascondiglio. Vola dal tuo corpo, Derae!
– Ti ho sconfitta – gridò Derae, – ed ora non ha importanza che io muoia o
meno.
– E come mi avresti sconfitta, bambina? Io sono ancora qui.
– Non ci sarà nessuna Nascita Oscura – rispose Derae, abbassando lo sguardo
sulle accolite che stavano frugando nel sottobosco, avvicinandosi sempre più al suo
corpo nascosto. Non voleva morire e dovette lottare per controllare la paura.
La risata di Aida la trapassò come una gelida lama di coltello.
– E tu credi che una bambina... anche una bambina dotata di talento... possa
bloccare i poteri di Kadmillos? – ribatté la donna, poi sollevò le braccia e neri
serpenti scaturirono dalle sue dita, saettando con un sibilo attraverso l’aria notturna
per riversarsi su Derae in una massa che si contorceva, con i denti che brillavano
alla luce della luna.
Ignorando il dolore, Derae chiuse gli occhi e i serpenti cambiarono colore,
passando dal nero al rosso per poi mutare anche forma e diventare minuscoli cerchi
che caddero da lei come petali di rosa, fluttuando verso il suolo.
– Non mi puoi fare del male – mormorò, – mentre io...
Un’abbagliante sfera di luce avvolse Aida, intrappolandola al suo centro, poi
Derae fuggì verso il proprio corpo nel momento in cui un’accolita ne scopriva il
nascondiglio.
La lama del coltello scese verso il basso, ma Derae afferrò il polso della donna
e si sollevò in ginocchio, sferrando un pugno contro il volto dell’assalitrice che
ricadde all’indietro. Poi spiccò la corsa verso il cerchio di pietre.
Alle sue spalle le inseguitrici urlarono il loro odio, ma Derae continuò a
correre. Un coltello scagliato da qualcuno le sibilò accanto alla testa mentre
superava d’un balzo una colonna crollata, poi si girò nel centro del cerchio di pietre
e sollevò le braccia. Il mondo tremolò intorno a lei, e nell’istante in cui la Porta si
chiudeva sentì la voce di Aida sussurrarle nella mente.
– Avremo un’altra occasione, colombella mia.
* * *
Olympia giaceva sul letto coperto di seta con il corpo che fluttuava in un mare
di piacere, la pelle che le formicolava e la mente che esplodeva di colori. Si umettò
le labbra, passandosi le mani sul seno e sul ventre, consapevole di un desiderio
quasi doloroso.
– Filippo! – chiamò.
La stanza stava vorticando, le droghe da lei assunte stavano arrivando al vertice
del loro potere. Aveva danzato intorno al fuoco e sentito il tocco e le carezze di una
dozzina di accolite, le cui labbra erano morbide e rese dolci dal vino. I segreti del
Terzo Mistero erano giunti a lei con la musica della notte, insieme alla brezza che
soffiava dal distante sacro picco di Korifi Fengari. Avrebbe dato alla luce un dio-
re, un uomo dalle doti incredibili, e il suo nome sarebbe echeggiato nella storia, le
sue imprese sarebbero rimaste senza pari finché le stelle avessero brillato nel cielo.
– Filippo!
Nonostante l’effetto delle droghe, poteva sentire il passare del tempo...
avvertiva che la mistica ora era quasi trascorsa, e si sollevò su un fianco.
Le tende si aprirono.
Lui era là, nudo tranne che per il mantello e l’elmo dalle corna di ariete di
Kadmillos; a grandi passi si avvicinò al letto e quando lei gli tese le braccia
indugiò per un momento a fissare il suo corpo nudo prima di possederla
brutalmente. Olympia gridò e gli cinse le spalle con le braccia, sentendo l’elmo
freddo contro la propria faccia.
Le sue dita si spostarono fino a sfiorare il metallo, ad accarezzare le corna nere,
poi lui sollevò il capo e Olympia si trovò a fissare gli occhi all’interno dell’elmo...
e un momento più tardi, quando le droghe ebbero il sopravvento su di lei, scivolò
nell’oscurità con un ultimo, strano pensiero.
Alla luce delle lanterne gli occhi verdi di Filippo sembravano... cosa
impossibile... essere diventati azzurri.
IL TEMPIO, ESTATE, 357 A.C.
Phaedra chiuse gli occhi, cercando di localizzare la fonte del pericolo. Intorno a
lei tutti i rumori erano rassicuranti... il battito di zoccoli lento, costante e quasi
ritmico dei cavalli della guardia reale, il rotolare delle ruote bordate d’ottone del
carro sulla ghiaia, le voci dei soldati che ridevano e chiacchieravano oltre le pesanti
tende della carrozza.
E tuttavia da qualche parte dentro di lei Phaedra poteva sentire le urla dei
morenti, mentre scene di sangue e di violenza le attraversavano la mente senza
però che potesse capire di cosa si trattava. Aprendo gli occhi azzurro chiaro guardò
verso il lato opposto della carrozza dove Olympia giaceva addormentata sui cuscini
di seta pieni di piume d’oca. Desiderava protendersi verso di lei, abbracciarla, e
dovette reprimere un improvviso impeto d’ira: Olympia era bellissima, ma adesso
quella bellezza era rovinata dal suo matrimonio con quel barbaro di Pella, de-
formata dal bambino che le gonfiava il ventre fino a fargli raggiungere dimensioni
doppie del normale. A fatica, distolse lo sguardo dal volto addormentato.
– Non ti amo più – sussurrò, sperando che pronunciare quella menzogna la
rendesse vera... ma fu una vana speranza.
Siamo di nuovo soltanto sorelle, e niente di più, pensò.
Adesso il loro amore era morto come i boccioli dell’estate e la veggente sospirò
nel ricordare il loro primo incontro, tre anni prima... due ragazze quattordicenni nel
palazzo del re. Phaedra, timida e tuttavia benedetta... o maledetta?... dal dono della
preveggenza e Olympia allegra e di compagnia, con il corpo già snello e ben
modellato, la pelle che brillava di salute e il volto più bello di quanto si potesse
immaginare.
Phaedra si sentiva a proprio agio con la principessa perché non era mai riuscita
a vedere la sua vita o a leggere i segreti nascosti nei bui corridoi della sua mente:
Olympia la faceva sentire normale, e questo era un dono di valore inestimabile.
Nessuno capiva la solitudine di un veggente... ogni contatto portava una
visione. Un uomo gentile e avvenente si chinava a baciarle la mano ma lei vedeva
il desiderio fisico, il dominatore, il possessore; una donna le sorrideva e le batteva
un colpetto sul braccio, ma lei avvertiva il suo odio per la propria giovinezza...
ogni ragnatela dell’anima umana appariva messa a nudo davanti ai suoi occhi che
vedevano ogni cosa. Phaedra rabbrividì.
Con Olympia era così diverso. Niente visioni, niente sgradevolezze, soltanto
amore, dapprima come sorelle, e poi...
Il carro ebbe un sussulto quando le grandi ruote passarono su una pietra, e
Phaedra trasse indietro le tende per guardare fuori: sulla sinistra c’era il lago
Prespa e al di là di esso si levavano i monti Pindos, che separavano la Macedonia
dall’Illiria.
Olympia sbadigliò e si stiracchiò, poi si passò le mani fra i capelli rosso fiamma
e sorrise.
– Dove siamo?
– Presto raggiungeremo la pianura – rispose Phaedra, – e là incontreremo la
scorta mandata dal re.
– Ho caldo e sete – si lamentò Olympia, – e questo dannato carro mi sta
facendo venire la nausea.
Phaedra si alzò in piedi e aprì il telo sulla sommità del carro, chiamando il
conducente che tirò le redini, permettendo ad Olympia di scendere a terra, sotto il
sole. Subito il capitano delle guardie dell’Epiro smontò di sella e si avvicinò con
una borraccia, riempiendo d’acqua una coppa d’argento.
– Grazie, Herkon, sei molto gentile – sorrise Olympia.
Phaedra vide il giovane capitano arrossire e non ebbe bisogno di toccarlo per
conoscere i suoi pensieri; mentre si accostava ad Olympia la visione l’assali con
rinnovata violenza... cavalieri che scendevano al galoppo dalle colline, il carro
rovesciato, Herkon morto con la gola squarciata...
Lanciò un urlo e svenne.
Al risveglio trovò un uomo chino su di lei che le stava bagnando il volto con un
panno intriso d’acqua.
– Stanno arrivando – sussurrò.
– Chi sta arrivando? – domandò Herkon. – Di cosa parli?
In quel momento l’aria fu pervasa improvvisamente da un battito di zoccoli e
per un istante Phaedra pensò che la visione fosse tornata... ma poi Herkon scattò in
piedi ed estrasse con un sibilo dal fodero la sua sciabola da cavalleggero.
Intanto centinaia di cavalieri si stavano riversando giù dai pendii montani con i
mantelli dai colori intensi che si agitavano dietro di loro come bandiere arcobaleno.
– Illiri! – gridò Herkon, correndo verso il proprio cavallo.
I cinquanta soldati dell’Epiro ebbero appena il tempo di estrarre la spada prima
che gli attaccanti fossero loro addosso. Intanto Olympia raggiunse di corsa Phaedra
e la trascinò sotto il carro mentre tutt’intorno si levavano nubi di polvere, poi si
coprì la bocca con un fazzoletto di lino e le due donne rimasero strette una all’altra,
ascoltando il clangore delle armi e le urla dei morenti; d’un tratto un cavallo
s’impennò vicino al carro e il suo cavaliere crollò al suolo a testa in avanti,
andando a sbattere con la faccia contro la ruota.
Era Herkon, con la gola squarciata e gli occhi vacui fissi su Olympia, che
distolse lo sguardo.
La battaglia parve infuriare per ore, ma alla fine la polvere cominciò a posarsi e
fu possibile vedere delle sagome che si muovevano fra i soldati dell’Epiro feriti,
uccidendoli con daghe affilate. Olympia estrasse un sottile coltello da un fodero
che portava fissato in alto sulla coscia e attese, mentre Phaedra chiudeva gli occhi,
incapace di reggere oltre al terrore.
– Guardate cos’abbiamo qui! – esclamò un guerriero, accoccolandosi per
sbirciare sotto il carro, poi si lasciò cadere in ginocchio e strisciò verso le donne,
protendendo una mano.
Olympia gli piantò il coltello in un occhio e l’uomo crollò al suolo senza un
grido, piegando la testa in modo tale che il coltello rimase saldamente conficcato
nell’orbita; mentre cercava invano di liberare l’arma, un gruppo di guerrieri afferrò
il carro e lo rovesciò. La principessa si alzò in piedi a testa alta, con un’espressione
furente negli occhi verdi.
– Morirete per questo – promise ai razziatori.
– Nessuno morirà – ribatté un guerriero avvenente con i capelli biondi e una
barba divisa in due trecce, – ma Filippo di Macedonia pagherà un buon prezzo per
riaverti. Se sarai gentile con me, principessa, la tua breve permanenza presso di noi
sarà piacevole.
Olympia lasciò vagare lo sguardo sul gruppo con evidente disprezzo, poi lanciò
un’occhiata in direzione delle colline orientali, sul cui crinale era apparso un
gruppo di cavalieri al centro del quale c’era un guerriero su un grande cavallo
grigio. L’uomo portava un’armatura di bronzo lucente e un elmo dal pennacchio
bianco.
– Penso che scoprirai che Filippo di Macedonia ha già fissato il prezzo... e che
sarai tu a pagarlo – ribatté lentamente.
– Arcetas! Guarda! – gridò un uomo, indicando i cavalieri fermi sul crinale.
Arcetas imprecò e scrutò la fila di cavalieri macedoni, contandone non più di
settanta.
– A cavallo! – tuonò. – Sono troppo pochi per fermarci. Abbattiamoli!
Gli Illiri montarono in sella e galopparono verso i Macedoni in attesa.
– Guarda, Phaedra – sussurrò Olympia, sedendosi accanto alla terrorizzata
veggente. – Guarda come combatte mio marito!
Aprendo gli occhi, Phaedra vide la luce del sole riflettersi sulla corazza di
bronzo dell’uomo sul gigantesco cavallo grigio.
Questi estrasse la spada, tenendola alta, poi i Macedoni si lanciarono alla carica
e il cavaliere sul cavallo grigio si mise alla testa di un cuneo che trapassò le file
illiriche, dividendole e distruggendone l’impeto. Olympia vide Arcetas cercare di
raggiungere l’uomo sul cavallo grigio, e attraverso il vorticare della polvere riuscì
a fatica a seguire lo scontro che ebbe inizio quando le loro spade s’incrociarono:
nella sua mente non c’erano dubbi sul risultato né timori per la sicurezza dell’uomo
sul cavallo grigio. Lei attese quindi soltanto l’inevitabile e saltò di gioia quando
una spada lucente calò sul collo di Arcetas, staccandogli la testa con uno zampillo
di sangue.
– Questo è il prezzo, figlio d’un cane! – gridò.
Gli Illiri cedettero al panico e fuggirono, mentre i Macedoni riformavano lo
schieramento per lanciarsi all’inseguimento, tutti tranne il cavaliere sul cavallo
grigio e tre ufficiali, che si avvicinarono alle donne.
– Filippo! – esclamò Olympia, correndo incontro al cavaliere.
– No, mia signora – rispose l’uomo, togliendosi l’elmo. – Sono io, Parmenion.
Non molto lontano Parmenion giaceva sveglio, fissando quelle stesse stelle e
ricordando la stessa notte. Il senso della vergogna era ancora intenso nel suo
animo, e quasi doloroso: nella sua vita c’erano state molte azioni che gli avevano
dato dolore e altre che avevano provocato cicatrici sul suo corpo e nel suo spirito,
ma la vergogna era una cosa nuova per lui.
Quella notte era stata come questa, con le stelle simili a gemme sulla seta, l’aria
limpida e fresca. Filippo si era ubriacato mentre aspettava la sposa ed era crollato
su un divano proprio mentre le accolite portavano la donna a lui promessa nella ca-
mera da letto.
Guardando attraverso una fessura della tenda, Parmenion aveva visto Olympia
che attendeva, nuda, con il corpo lucente...
Aveva cercato di dirsi che era vitale che il matrimonio avesse luogo in quella
notte, aveva richiamato alla mente ciò che Filippo gli aveva detto.
Se non la posseggo entro l’Ora Sacra il matrimonio sarà annullato. Riesci a
crederci, Parmenion?
Ma non era stato per questo che lo Spartano aveva indossato l’antico elmo.
Aveva posato lo sguardo sul quella donna nuda... e l’aveva desiderata, come non
aveva più desiderato nessuna da quando l’amore gli era stato rubato un quarto di
secolo prima. L’aveva posseduta e non appena lei si era addormentata era tornato
da Filippo, ancora privo di conoscenza, mettendogli l’elmo e il mantello e
trasportandolo sul letto.
Hai tradito il re che avevi giurato di servire. Come potrai redimerti?
La notte si fece gelida e alla fine Parmenion si alzò, avvolgendosi strettamente
il mantello di lana scura intorno alle spalle e avviandosi verso le sentinelle.
– Sono sveglio, signore – disse il primo uomo.
– Non ne dubito – rispose il generale, senza riconoscerlo a causa del buio. – Sei
un soldato della Macedonia.
Per qualche tempo girovagò nel bosco e lungo le rive dell’Halicamon, le cui
acque nere come quelle dello Stige brillavano sotto la luce della luna, poi sedette
su un masso, e si trovò a pensare a Derae.
Cinque giorni di amore... amore intenso e appassionato... e dopo gliel’avevano
tolta, portandola sulle rive dell’Asia e gettandola in mare con le mani legate dietro
la schiena, un sacrificio agli dèi perché proteggessero Sparta.
E quanto Sparta aveva avuto bisogno di protezione! Parmenion ricordò la
battaglia di Leuctra, nella quale il suo genio strategico aveva provocato la caduta
dell’esercito spartano e la fine dei sogni di quella città.
– Tu sei Parmenion, la Morte delle Nazioni – gli aveva detto la vecchia
veggente, ed aveva avuto ragione.
L’anno precedente lui aveva condotto i Macedoni contro gli Illiri di Bardylis,
devastando il suo esercito. Il vecchio re era morto sette mesi più tardi, lasciando la
propria terra in rovina. Sollevando lo sguardo verso le stelle, immaginò il volto di
Derae, con i capelli del colore della fiamma e gli occhi grigi.
– Cosa sono senza di te? – sussurrò.
– Stai parlando con te stesso, generale? – chiese una voce che proveniva da
poco lontano, poi un soldato emerse dall’ombra lungo la riva del fiume.
– Succede, quando un uomo diventa vecchio – rispose Parmenion.
In quel momento la luna sbucò da dietro le nubi e Parmenion riconobbe
Cleiton, un giovane della Macedonia orientale che si era unito all’esercito
l’autunno precedente.
– È una notte tranquilla, signore – commentò il soldato. – Stavi pregando?
– In un certo senso. Stavo pensando ad una ragazza che conoscevo un tempo.
– Era bella? – domandò il giovane, posando la lancia contro una roccia e
sedendo di fronte al generale.
– Molto bella... ma è morta. Sei sposato?
– Si, signore. A Crousia ho una moglie e due figli. Si trasferiranno a Pella non
appena mi potrò permettere di affittare una casa.
– Potrebbe passare qualche tempo.
– Oh, io non credo, signore. Presto ci sarà un’altra guerra, e con le paghe che si
ricevono quando si combatte dovrei rivedere Lacia entro sei mesi.
– Allora vuoi la guerra? – chiese Parmenion.
– Certamente, signore, questo è il nostro momento. Gli Illiri sono stati distrutti
e cosi anche i Paioni, quindi presto toccherà alla Tracia, ad est, oppure ai Pherai del
sud. O magari si tratterà di Olyntus. Filippo è un re guerriero e si occuperà delle
necessità del suo esercito.
– Suppongo di sì – convenne Parmenion, alzandosi in piedi, – e spero che tu
possa affittare quella casa.
– Grazie, signore. Buona notte.
– Buona notte, Cleiton.
Parmenion tornò alle proprie coperte ma il suo sonno fu tormentato dai sogni.
In essi Derae stava correndo su un verde pendio collinare con gli occhi dilatati per
il timore; lui tentò di raggiungerla e di spiegarle che andava tutto bene, ma non
appena le si avvicinò Derae urlò e fuggi via. Parmenion non riuscì a raggiungerla e
si fermò accanto ad un ruscello, abbassando lo sguardo verso la propria immagine
riflessa: due occhi chiari lo fissarono da dietro la bronzea maschera del Caos e lui
si affrettò a sfilarsi l’elmo, per poi chiamare ancora.
– Fermati, Derae! Sono io, Parmenion!
Lei però non lo sentì e scomparve alla vista.
Parmenion si svegliò di scatto e si sollevò a sedere, con la schiena che gli
faceva male e un lento e doloroso pulsare che gli martellava nella testa.
– Stolto – disse a se stesso, – hai dimenticato il silphium.
Sul fuoco c’era dell’acqua già messa a scaldare e nell’immergere una tazza
nella pentola lui per poco non si scottò le dita; aggiunte le erbe al liquido, mescolò
il tutto con la daga e attese che si fosse raffreddato per trangugiarlo. Il dolore svanì
immediatamente.
– Hai un aspetto spaventoso, amico mio – commentò Bernios, avvicinandosi. –
Ti capita mai di dormire?
– Quando ne ho bisogno.
– Ebbene, ne hai bisogno adesso. Non sei più giovane e il tuo corpo necessita
riposo.
– Ho quarantatre anni – scattò Parmenion, – e non sono certo vecchio. Se
voglio, posso ancora correre per trenta chilometri.
– Non ho detto che sei decrepito, ho soltanto rilevato che non sei più giovane.
Questa mattina hai una lingua molto tagliente... un altro sintomo di vecchiaia.
– Mi duole la schiena... e non mi dire che è a causa degli anni perché ho una
punta di lancia persiana conficcata in una scapola. Del resto cosa mi dici di te?
Perché non hai dormito?
– Durante la notte è morto un altro uomo, e sono rimasto a vegliarlo – spiegò
Bernios. – Nessuno dovrebbe morire solo. Lo avevano ferito al ventre e non c’è
dolore peggiore di questo, ma lui non si è mai lamentato... tranne che alla fine.
– Chi era?
– Non l’ho chiesto... e non mi tenere una predica al riguardo. So quanta
importanza attribuisci a dettagli del genere, ma non posso ricordare tutte le facce.
– Cosa gli hai dato?
– Il dono dei papaveri – rispose Bernios. – Una dose letale.
– È contrario alla legge... vorrei che non mi dicessi queste cose.
– Allora non me le chiedere! – reagì il chirurgo, poi si penti immediatamente
del proprio scatto. – Mi dispiace, Parmenion, sono stanco anch’io. Comunque tu
cominci a preoccuparmi, perché ormai sei teso da giorni. C’è qualcosa che ti turba?
– Nulla d’importante.
– Sciocchezze. Sei troppo intelligente per preoccuparti delle stupidaggini. Ne
vuoi parlare?
– No.
– È una cosa di cui ti vergogni?
– Sì – ammise lo Spartano.
– Allora tienila per te. Si dice spesso che una confessione avvia il processo di
risanamento ma non ci devi credere, Parmenion: la confessione è la madre di tutti i
dolori. Quanti sanno della tua... vergogna?
– Nessuno... tranne me.
– Allora non è successo.
– Sarebbe piacevole che la cosa fosse così semplice – commentò Parmenion.
– Perché complicarla? Ti aspetti troppo da te stesso, amico mio, e credo proprio
di doverti dare una cattiva notizia: non sei perfetto. Ora va’ a riposare.
Nella carrozza, Phaedra era sveglia, con il cuore che le martellava in gola. Non
appena Parmenion l’aveva sollevata, era stata riscossa dal sonno dalla forza del suo
spirito: esso era troppo potente per poter essere decifrato e lei si era sentita
trascinare via da un mare di immagini di un’intensità incredibile. Al di sopra di
tutto c’era però un’immagine che dominava ogni altra cosa, ed era questo che ora
le faceva martellare il cuore in quel modo e che le aveva lasciato la bocca secca e
le mani tremanti.
Per tutta la vita Phaedra aveva saputo che esisteva un modo solo per perdere la
maledizione del dono di vedere... era stata sua madre a rivelarglielo.
– Quando ti concederai ad un uomo, i poteri che sono in te avvizziranno e
moriranno come una rosa al sopraggiungere dell’inverno – aveva detto.
Quel pensiero le era riuscito cosi disgustoso che lei aveva preferito conservare
il suo talento piuttosto che eliminarlo in quel modo, e a dire il vero l’idea
continuava a disgustarla... ma quale ricompensa le si prospettava adesso! Evocò
dalla memoria la visione avuta e tornò a contemplare le glorie del futuro.
Come poteva non correre quel rischio?
Sollevatasi a sedere, si avvolse uno scialle intorno alle spalle e indugiò a fissare
le stelle che splendevano fuori della finestra del carro; all’esterno poteva sentire
Parmenion e Olympia che parlavano accanto al fuoco... la voce di lui era sommessa
e gentile, e tuttavia le sue parole erano sicure e scaturivano da una grande forza
interiore.
Potrei imparare ad amarlo, si rassicurò Phaedra. Potrei impormelo. Ma lei
stessa non ci credeva.
– Non importa – sussurrò. – Non ho bisogno di amarlo.
Attese che Parmenion se ne fosse andato, e finse di dormire quando Olympia
salì a sua volta sul carro. Le ore passarono lente e infine Phaedra chiamò a raccolta
il proprio coraggio, sgusciando fuori dalla carrozza e attraversando con passo fur-
tivo il campo alla ricerca del punto in cui si trovava Parmenion, che si era
preparato il letto lontano dai soldati, in una depressione riparata. Quando abbassò
lo sguardo sulla sua figura addormentata la ragazza sentì il coraggio che quasi le
veniva meno, ma si fece forza e si sfilò il vestito, sdraiandosi accanto a lui e
insinuandosi con cautela sotto la singola coperta. Per qualche tempo rimase
immobile, incapace di trovare il coraggio di svegliarlo, ma poi la visione tornò ad
assalirla... più potente di prima... e le sue dita sfiorarono con gentilezza il petto di
lui. Parmenion era ancora impossibile da decifrare, scene che si susseguivano
senza ordine continuavano a riversarsi su di lei a ondate che le soffocavano i sensi.
La sua mano scese più in basso, accarezzandogli il ventre, e lui gemette piano
senza però svegliarsi. Le dita di lei scesero ancora più in basso e per un momento
appena Phaedra si ritrasse dal contatto con la virilità di lui, ma poi si costrinse a
continuare e sentì il suo desiderio crescere sotto il proprio tocco. Infine Parmenion
si svegliò e si girò verso di lei... il suo braccio destro la cinse e la sua mano le toccò
la spalla, scivolando verso il suo seno.
Ora ti tengo! pensò Phaedra. Sei mio! E nostro figlio sarà il re-dio che
dominerà il mondo!
E di nuovo vide l’immagine di un re guerriero che guidava le sue truppe per
tutto il mondo.
Il primogenito di Parmenion.
Suo figlio!
IL TEMPIO, ASIA MINORE, INVERNO, 356 A.C.
Distesa sul letto, Derae allentò le catene che trattenevano la sua anima e fluttuò
libera fuori del tempio, librandosi nell’azzurro cielo invernale. In lontananza le
nubi si stavano ammassando per creare una tempesta, ma vicino al mare la giornata
era splendida, i gabbiani si tuffavano nelle onde intorno alla sua forma invisibile e
per un momento lei indugiò a gloriarsi della loro libertà.
Rapida, volò sul mare e attraversò la massa di terra a tre punte della Calcidia
per proseguire verso Pella... cercando come sempre l’amante che il fato le aveva
negato. Lo trovò nella sala del trono... e desiderò di aver scelto un altro giorno per
compiere quel viaggio, perché accanto a lui c’era Olympia.
La tristezza si abbatté su Derae come un colpo fisico. La madre del Dio
Oscuro!
La madre del figlio di Parmenion!
L’odio la sfiorò e la sua visione si fece incerta.
– Aiutami, Signore di Ogni Armonia! – pregò.
Vide Olympia avanzare per accettare l’abbraccio di Filippo, vide la
momentanea contrazione di gelosia sul volto di Parmenion.
Perché ti abbiamo fatto questo, amore mio? pensò, ricordando gli anni vissuti
con Tamis a combattere per impedire il concepimento del Dio Oscuro. Secondo
l’anziana veggente, Parmenion era la Spada della Fonte, il solo uomo capace di
impedire a Kadmillos di nascere nella carne. Quanto erano state presuntuose... e
stupide. Tamis aveva segretamente manipolato la vita di Parmenion, creando in lui
un guerriero senza pari in tutto il mondo civile: un combattente, un uccisore, uno
stratega senza paragone... e tutto perché lui fosse un giorno pronto a distruggere i
piani del Dio Oscuro. E invece avevano ottenuto l’opposto.
L’ira di Derae crebbe e per un momento lei non desiderò altro che usare il
proprio potere per obliterare il bambino che si stava formando nel ventre della
nuova regina. Spaventata dal proprio impulso, si affrettò a tornare al tempio.
E una volta là l’ira che c’era in lei si mutò in tristezza, perché nel fluttuare
sopra il proprio corpo vide il volto segnato dalle preoccupazioni e i capelli striati
d’argento. Un tempo lei era stata bella quanto Olympia, un tempo Parmenion
l’aveva amata... ma ora non più.
No, pensò. Se mi vedesse adesso distoglierebbe lo sguardo da me, attratto dalla
pelle liscia e dalle gioie terrene che possono derivare da donne giovani come
Olympia.
Rientrata nel proprio corpo, dormi ancora per un paio d’ore, finché Leucion
venne a svegliarla.
– Ti ho preparato il bagno – le disse, – e ti ho comprato tre nuovi abiti al
mercato.
– Non ho bisogno di abiti, e non ho denaro per comprarli.
– I vestiti che hai sono logori, Derae, e cominci ad avere l’aspetto di una
mendicante. In ogni caso, ho da parte del denaro.
Per un momento soltanto Derae prese in considerazione l’idea di rimproverarlo,
ma l’accantonò subito perché Leucion era un guerriero che aveva scelto di venire a
vivere nel tempio per servirla, senza chiedere nulla in cambio.
– Perché sei rimasto? – gli chiese invece, scrutando con gli occhi dello spirito il
suo volto aquilino, cosi severo e forte.
– Perché ti amo – rispose lui. – Lo sai bene, visto che te l’ho detto fin troppo
spesso.
– È la mia vanità che mi spinge a continuare a domandarlo – ammise Derae, –
ma d’altro canto mi sento colpevole, perché fra noi non ci potrà mai essere più di
quanto già abbiamo. Saremo fratello e sorella, ora e sempre.
– È più di quanto io meriti.
Derae gli posò un dito sulla guancia, facendolo scorrere lungo la linea della
mascella.
– Tu meriti molto di più e non devi permettere che i tuoi pensieri tornino al
nostro primo incontro... non eri tu ad agire, allora. Nel mondo ci sono forze che ci
usano, abusano di noi e poi ci scartano. Eri stato posseduto, Leucion.
– Lo so – replicò il guerriero. – Anch’io ho studiato i Misteri. Tuttavia il Dio
Oscuro si è limitato a intensificare qualcosa che già era in me: per poco non ti ho
violentata, Derae, e ti avrei uccisa. Non sapevo che nella mia anima ci fosse una si-
mile oscurità.
– Zitto! C’è Oscurità in ogni anima, ma c’è anche Luce, e per te alla fine la
Luce è risultata più forte. Sii orgoglioso, perché mi hai salvato la vita, e continua
ad essere il mio solo amico.
Leucion sospirò e infine sorrise.
– Mi basta – mentì.
Dopo aver acceso il fuoco il guerriero lasciò la stanza e Derae sedette davanti
alle fiamme, scrutandole con gli occhi dello spirito mentre i suoi pensieri vagavano
lontano.
– Ho bisogno di aiuto – sussurrò. – Dove sei, Tamis?
Il fuoco acquistò nuova vita e le fiamme si levarono alte, vorticando su loro
stesse fino a formare un volto femminile. Subito Derae sollevò le mani e una luce
sommessa le scaturì dalle dita, circondandola con uno scudo di luminosità.
– Non hai bisogno di protezione contro di me – affermò il volto nel fuoco, – e
non puoi più invocare Tamis. Io sono Cassandra.
Mentre parlava il volto acquistò una maggiore solidità, incorniciato da capelli
che erano tremolanti lingue di fuoco, e con cautela Derae lasciò svanire il proprio
incantesimo di protezione.
– Sei la sacerdotessa troiana?
– Lo sono stata in un giorno lontano – rispose Cassandra. – Avevo avvertito
Tamis della sua follia, ma non mi ha voluto dare ascolto. Quando Parmenion ha
generato il Dio Oscuro, Tamis è stata assalita dalla disperazione e adesso la sua
anima è lontana da noi, infranta come un cristallo, frammentata come la luna
sull’acqua.
– Puoi aiutarla?
– No. Anche se tutti gli altri l’hanno perdonata, lei non riesce a perdonarsi.
Forse con il tempo tornerà alla Luce, anche se io ne dubito. Comunque cosa mi dici
d te, giovane Spartana? In che modo posso aiutarti?
– Puoi dirmi come combattere il male che sta per giungere?
– Il mio dono nella vita... se di dono si può parlare... è stato quello di dire la
verità senza mai essere creduta. È stato duro, Derae, ma ho obbedito alla Fonte in
tutte le cose. Tamis è stata corrotta dall’orgoglio, si è convinta di essere lei soltanto
lo strumento che avrebbe abbattuto Kadmillos, ma l’orgoglio non è un dono della
Fonte. Nell’insegnarti i Misteri, Tamis ha instillato in te il suo stesso orgoglio. Il
mio consiglio è di non fare nulla, di continuare a risanare, a lavorare per assistere
quanti soffrono e di amare molto.
– Non posso farlo – ammise Derae. – Sono responsabile quanto Tamis
dell’accaduto e devo almeno cercare di fare ammenda.
– Lo so – convenne tristemente Cassandra. – Allora usa la tua mente. Hai visto
Aida e la sua malvagità... quindi non credi che anche lei ti abbia vista? Se è
disposta a distruggere un bambino persiano, non credi che cercherà con intensità
ancora maggiore di distruggere te?
– Lei ed io ci siamo incontrate due volte, e non ha il potere di sopraffarmi.
– Ecco che parla l’orgoglio – commentò il volto nel fuoco. – Aida ha però molti
servitori, e se vuole può chiamare a sé spiriti e demoni. E loro hanno il potere,
Derae, credimi!
Il timore tornò ad affiorare e Derae sentì la brezza soffiare fredda dalla finestra
alle sue spalle.
– Cosa posso fare? – sussurrò.
– Tutto ciò che un essere umano può fare. Lottare e pregare, pregare e lottare.
Se combatterai, però, sarà Aida a vincere perché per combattere con successo
dovrai uccidere e nel dare la morte c’è la gioia dell’Oscurità, che tocca, corrompe e
muta.
– Allora le dovrei permettere di uccidermi?
– Non sto dicendo questo. La battaglia fra la Luce e l’Oscurità non è priva di
complessità. Segui l’istinto, Derae, ma ti consiglio di usare anche la mente. Pensa a
ciò che Aida deve fare per realizzare il suo sogno... c’è un solo grande nemico che
deve uccidere.
– Parmenion?
– Adesso è la voce dell’amore che parla – replicò Cassandra. – Non Parmenion.
Chi è il nemico più grande, Derae?
– Non lo so. Quanti uomini e donne ci sono nel mondo? Come posso vederli
tutti, seguire tutti i futuri?
– Pensa ad una fortezza, con mura alte e impenetrabili. Dove vorrebbe
maggiormente essere il nemico?
– Dentro – rispose Derae.
– Si – confermò Cassandra. – Ora usa la tua mente.
– Il bambino! – sussurrò Derae.
– Il bambino dorato – convenne Cassandra. – Due anime in un solo corpo,
l’Oscurità e la Luce. Finché lo spirito del bambino vivrà Kadmillos non potrà mai
vincere davvero. Esiste un uccello che non si costruisce il nido e depone il proprio
uovo nel nido di un altro insieme alle sue: quando nasce, il pulcino è più grande
degli altri e li spinge ad uno ad uno fuori del nido perché muoiano sbattendo contro
il terreno sottostante, fermandosi soltanto quando è lui l’unico superstite.
– E Kadmillos vorrebbe spingere fuori l’anima del bambino? Dove andrà?
Come posso proteggerla?
– Non puoi, mia cara, perché non hai nessun collegamento con essa. Quando la
nascita sarà vicina lo spirito del bambino verrà scagliato nel Mondo Sotterraneo,
nelle Caverne dell’Ade, nel Vuoto. Là esso brucerà come una piccola fiamma in-
tensa... per qualche tempo.
– E poi?
– La sua luminosità attirerà le creature dell’Oscurità, che la distruggeranno.
– Ci deve essere un modo per impedirlo! – protestò Derae, alzandosi in piedi. –
Non posso credere che tutto debba finire così!
Accostandosi alla finestra, lasciò che la brezza fredda le soffiasse sul volto e
lottò per calmarsi.
– Hai detto che non ho nessun legame con il bambino – disse infine, tornando a
girarsi verso il fuoco. – Chi ne ha uno?
– Chi altri, mia cara, se non suo padre?
– E come può fare Parmenion per raggiungere il Mondo Sotterraneo?
– Deve morire, Derae – rispose semplicemente Cassandra.
IL TEMPIO, PRIMAVERA, 356 A.C.
Salirono sempre più in alto, fra le rocce ora sferzate da un vento freddo. Adesso
la luce era più vicina... una fiamma di un bianco assoluto alta quanto un uomo che
ardeva su un masso nero; intorno ad essa gli uccelli scheletrici stavano volando in
cerchio e lanciavano grida acute che echeggiavano per tutta la montagna.
Un’ombra scura prese consistenza accanto alla fiamma, crescendo e
allargandosi.
– Aida! – sussurrò Tamis, correndo in avanti.
La Donna Oscura sollevò le mani e il buio le fluì dalle dita per scivolare sulla
fiamma che tremolò e rimpicciolì fino a ridursi alle dimensioni della fiammella di
una lanterna.
– No! – urlò Tamis.
Aida si volse di scatto e lance nere saettarono dalle sue mani. Uno scudo dorato
apparve sul braccio sinistro di Tamis e le lance rimbalzarono contro di esso mentre
Aristotele si apriva la tunica e stringeva la mano intorno ad una piccola pietra
dorata che gli pendeva dal collo appesa ad una catenella d’argento. La fiamma sul
masso si levò nell’aria e lottò per liberarsi dalla fanghiglia nera che minacciava di
soffocarla.
– Prendila, Parmenion – gridò il magus.
Lo Spartano corse verso la fiamma che fluttuò incontro alla sua mano protesa e
gli si posò sul palmo. Non ci fu nessuna sensazione di calore, e tuttavia un tepore
interiore toccò il cuore di Parmenion mentre la fiamma cresceva e si ripiegava su
se stessa, diventando un globo di sommessa luce bianca.
Tamis e Aida si scagliarono intanto una contro l’altra e un fulmine saettò dalle
mani di Tamis, trapassando le vesti della Donna Oscura che cadde all’indietro... e
svanì. Tamis si girò allora verso Parmenion e sollevò le mani tremanti sopra il
globo.
– È il bambino non ancora nato – disse, – il figlio della tua carne. Ora capisco.
Kadmillos deve ucciderlo oppure condividere il corpo in eterno. – Le sue dita
sfiorarono il globo e la luce si diffuse su di esse. – Oh, Parmenion! È cosi bello!
– Cosa possiamo fare? – domandò lo Spartano, lanciando un’occhiata giù per il
pendio dove i demoni si stavano radunando... alcuni camminando e altri strisciando
sulle pietre, con strida che si libravano sulle ali del vento freddo.
– Credo che il Monte Thanatos sia vicino – suggerì Aristotele, venendo avanti.
– Se non mi sbaglio là c’è un accesso ai Campi Elisi, alla Sala degli Eroi... però
potrebbero impedirci di entrare.
– Perché? – chiese Parmenion.
– Non siamo morti – spiegò Aristotele, costringendosi a sorridere. – Non
ancora, almeno.
– Guardate! – gridò Tamis, indicando verso i piedi della montagna, dove
guerrieri dall’armatura scura montati su cavalli scheletrici stavano cavalcando
verso di loro.
– La Porta, allora – decise Parmenion, e tenendo sulla mano la sfera che ardeva
di un bagliore intenso riprese a correre su per il pendio, seguito dai due maghi.
L’ISOLA DI SAMOTRACIA
– Interferisce ancora! – sibilò Aida, aprendo gli occhi fisici e alzandosi dal
trono d’ebano.
– Cosa succede, signora? – sussurrò la giovane accolita Poris, e la donna vestita
di nero abbassò lo sguardo sulla ragazza inginocchiata.
– Ci sono tre avversari che stanno lottando contro di noi per cercare di tenere in
vita il bambino. Tamis, che sia dannata, e l’uomo chiamato Parmenion; poi c’è
anche un altro uomo che non conosco. Aspetta accanto a me!
La Donna Oscura chiuse gli occhi ancora una volta e il suo corpo si accasciò
sul trono; la snella accolita le prese allora la mano e se la portò alle labbra.
Per qualche tempo la ragazza sedette in silenzio, accarezzando le dita di Aida,
poi la Donna Oscura sospirò.
– Quell’uomo è un magus. Il suo corpo lo attende nel tempio della guaritrice e
anche la donna chiamata Derae giace là, mentre la sua anima è a Pella, concentrata
a tenere in vita il corpo di Parmenion. Bene, mia cara, questa volta hanno
assottigliato troppo le loro forze, davvero troppo, ed è tempo che muoiano.
– Manderai i Cacciatori Notturni, signora?
– Tre dovrebbero essere sufficienti, visto che c’è soltanto un vecchio a difesa
dei corpi. Vieni con me, mia cara.
Poris seguì la sua signora in uno dei freddi corridoi di pietra e lungo le
sottostanti gallerie rischiarate dalle torce, poi Aida aprì una porta a forma di foglia
ed entrò in una piccola stanza priva di arredi con l’eccezione di una lastra di pietra
sollevata da terra posta al suo centro.
– Sai cosa c’è scritto qui? – chiese, lasciando scorrere le dita sulle lettere incise
nella pietra.
– No, mia signora.
– È una scritta nella lingua degli Accadi, incisa prima dell’alba della nostra
storia, e forma un incantesimo. Dimmi – aggiunse poi, posando una mano sulla
spalla della ragazza, – mi ami?
– Più della mia vita – garantì l’accolita.
– Bene – rispose Aida, abbracciandola strettamente, – e anch’io ti amo,
bambina, sei più di una figlia per me... ma Kadmillos deve essere servito e il suo
benessere è la sola cosa che mi sta a cuore.
La daga sottile penetrò nella schiena di Poris, salendo fino al cuore attraverso le
costole, e la ragazza s’irrigidì, accasciandosi fra le braccia di Aida.
La donna adagiò il cadavere sulla lastra e cominciò a pronunciare le parole del
potere. Una voluta di fumo si levò dalle parole intagliate nella pietra e coprì la
ragazza morta, poi un fetore di putrescenza pervase la stanza. Ad un cenno di Aida,
il fumo si ritrasse quindi nella pietra, sulla quale c’era adesso soltanto un velo di
cenere grigiastra.
Ora sulle pareti buie danzavano ombre grottesche, forme contorte che un tempo
erano state uomini, e Aida si avvicinò ad una di esse, posando la mano sulla fronte
distorta.
– Il tempio è privo di protezione – disse alle creature. – Trovate il corpo della
donna chiamata Derae e divorate la sua carne... e ogni altra cosa.
Le ombre svanirono.
Tornata accanto alla pietra, Aida immerse le dita nella cenere.
– Sentirò la tua mancanza, Poris – mormorò.
Raggiunta la cresta della montagna, i tre corsero giù per i pendii coperti di
ghiaia. Tamis scivolò e cominciò a rotolare verso un precipizio, ma Aristotele si
lanciò sul suo percorso e l’afferrò per la tunica bianca, trascinandola al sicuro.
I fuggiaschi ripresero quindi la fuga con le grida degli inseguitori che si
facevano sempre più vicine; dall’alto giunse un rumore di ali e nel sollevare lo
sguardo Parmenion vide sagome enormi che si libravano su di loro... creature dalla
pelle coperta di scaglie e dalla forma soltanto vagamente umana. Esse però non
attaccarono e lo Spartano se ne disinteressò, continuando a correre.
– A sinistra! – gridò Aristotele, indicando un passo fra gli erti picchi neri.
Dietro di loro i cavalieri spettrali si stavano avvicinando in fretta e Parmenion
si arrischiò a lanciare un’occhiata da sopra la spalla per poi riportare lo sguardo sul
passo davanti a loro.
Non ce l’avrebbero fatta. Borbottando un’imprecazione si arrestò e si girò di
scatto, preparandosi ad affrontare il nemico con la spada in pugno: i cavalieri erano
più di venti, con la faccia nascosta dall’elmo alato, e le loro spade di fiamma
brillavano come torce.
– Continua, li tratterrò io – disse Tamis, venendo ad affiancarsi a lui.
– Non ti posso lasciare ad affrontarli da sola.
– Va’! L’anima del bambino è tutto.
Parmenion esitò per un momento soltanto, poi continuò a correre. Dietro di lui i
cavalieri giunsero a ridosso della sacerdotessa e le mani di Tamis si sollevarono di
scatto lanciando attraverso il Vuoto scariche di fiamma che gettarono quattro
demoni di sella. Gli altri continuarono la carica, allargandosi per oltrepassare la
donna, e una seconda raffica di lampi si abbatté sulla prima fila di assalitori,
mentre i cavalli da tempo morti crollavano al suolo con le ossa che si spezzavano
crepitando.
Due cavalieri piombarono poi sulla sacerdotessa, che riuscì ad uccidere il primo
con una lancia di luce; il secondo però le trapassò il petto con la spada che le uscì
dalla schiena e appiccò il fuoco ai suoi abiti. Tamis barcollò, ma non cadde...
incenerito quel cavaliere, si girò parzialmente e vide che Parmenion e Aristotele
avevano quasi raggiunto il passo.
Ignorando la donna morente i cavalieri proseguirono al galoppo per inseguire i
due uomini appiedati e Tamis si lasciò scivolare al suolo con la mente che
vorticava. Di nuovo vide la sua prima morte, ricordò il dolore e l’amarezza. La sua
anima era fuggita nell’angolo più remoto del Vuoto, sperduta e sola, ed era stato là
che i servitori di Kadmillos l’avevano trovata, legandola con catene di fuoco e
mandando i Corvi della Morte a lacerare la carne del suo spirito. In preda alla
disperazione, lei non era riuscita a trovare la forza per combatterli. Afferrata l’elsa
della spada di fuoco, se la strappò dal corpo e la gettò lontano.
Hai commesso tanti errori, Tamis, si rimproverò, ma forse adesso, alla fine, sei
riuscita a fare ammenda.
Molto più avanti, vide il bagliore dell’anima del bambino raggiungere le Porte
dei Campi Elisi e i cavalieri dell’Ade arrestarsi ad una certa distanza, incapaci di
superare il passo antistante le porte senza avere prima ricevuto ulteriori ordini.
Adesso l’impresa è affidata a te, Parmenion, figlio mio, pensò. E nonostante i
miei errori ti ho addestrato bene.
Infine soddisfatta, Tamis si arrese alla sua seconda, definitiva morte.
Le porte erano intagliate nella lucente roccia nera, alte quanto tre uomini e
larghe quanto dieci; al di là di esse si allargavano campi verdi, alberi in fiore, alte
montagne incappucciate di neve e un cielo azzurro come lo è soltanto nei sogni, e
Parmenion desiderò di potersi addentrare in quel luogo per lasciarsi alle spalle
l’orrore grigio e desolato del Vuoto.
Alle porte c’erano però due guardie.
– Non potete passare – disse la prima.
Parmenion si avvicinò all’uomo. La sua armatura era arcaica, con la corazza
dorata, lo scudo di bronzo grande ed ovale, l’elmo dal pennacchio rosso che
copriva tutta la faccia, lasciando vedere soltanto gli occhi azzurri.
– Questa è l’anima di un bambino in pericolo – spiegò, sollevando la fiamma. –
Il Signore del Caos vuole camminare nel mondo della carne rubando la vita, il
corpo di questo bambino.
– Il mondo della carne non è nulla per noi – dichiarò la seconda guardia.
– Oltre le porte non c’è nessuno a cui ci possiamo appellare? – intervenne
Aristotele.
– Qui non è possibile alterare la legge – rispose il primo uomo. – La Parola è
assoluta: soltanto le anime degli eroi morti possono passare e noi le riconosciamo
da una stella luminosa che splende loro sulla fronte.
Sentendo un movimento alle proprie spalle, Parmenion si girò e vide che i
cavalieri stavano cominciando ad avanzare, mentre alle loro spalle un esercito di
demoni aveva occupato l’imboccatura del passo.
– Almeno accettate l’anima del bambino – implorò Aristotele.
– Non possiamo. Appartiene ai vivi.. come voi.
Accostatosi ad un masso, Parmenion indusse con la volontà la fiamma a fluire
dalla sua mano ed essa scivolò sulla roccia, lasciandogli un intenso senso di
perdita. Estratta la spada, ignorò quindi le guardie e andò a mettersi al centro del
passo.
– Aspetta! – esclamò una di esse. – Come sei venuto in possesso di quell’arma?
– È stata mia nella vita – rispose Parmenion.
– Ti ho chiesto come ne sei venuto in possesso.
– L’ho vinta ai Giochi del Generale. Un tempo è stata usata dal più grande eroe
della mia città... il re guerriero Leonida, che è morto oltre un secolo fa per
difendere il passo delle Termopili contro gli invasori persiani.
– Un secolo? È passato tanto tempo? Sei uno Spartano, allora?
– Sì.
– In questo caso non combatterai da solo – dichiarò l’uomo, lasciando le porte e
prendendo posizione alla sinistra di Parmenion.
– Torna indietro – suggerì questi, senza distogliere lo sguardo dalle orde che
avevano davanti. – È già assurdo che un solo uomo muoia in questo modo, e una
spada in più non farà differenza.
– Ce ne sono più di due, fratello – rise la sentinella. – Boleus è andato a
chiamare gli altri.
Mentre ancora stava proferendo quelle parole, alle loro spalle echeggiò un
suono di piedi in marcia e trecento guerrieri in armatura vennero a schierarsi su tre
linee lungo il passo.
– Perché fate questo per me? – domandò Parmenion.
– Perché porti la mia spada – rispose il leggendario re guerriero, – e perché sei
uno Spartano. Adesso tirati indietro, insieme al tuo amico e all’anima del bambino.
Quei demoni non passeranno finché noi avremo vita.
Alle loro spalle la porta scomparve, lasciando soltanto una parete nera e
impenetrabile.
Leucion aveva l’impressione che quella notte fosse più bella di qualsiasi altra
che riusciva a ricordare. Il cielo era limpido e nerissimo, le stelle lontane
scintillavano come punte di lancia, la luna era un’immensa moneta di argento
lucente. Una volta, quando serviva come mercenario in Egitto, aveva ricevuto in
pagamento una moneta come quella coniata a Susa e stampata con il gufo di Atena
perché la maggior parte dei mercenari erano Ateniesi. Il fascino per quella moneta
era però durato una sola notte, poi lui l’aveva data ad una prostituta della Numidia.
Adesso, nel fissare la luna dai bastioni del tempio, desiderò di averla
conservata. Con un sospiro volse le spalle alle mura e scese i gradini fino ai
giardini rischiarati dalla luce lunare: intorno a lui le rose non avevano colore, erano
tutte avvolte in tonalità di grigio sotto la luna, ma la loro fragranza restava im-
mutata.
Raggiunta la Casa della Guarigione, sali le scale che portavano alla stanza di
Derae e sedette fra i due letti: su uno giaceva il mago Aristotele, con le braccia
incrociate sul petto e la mano destra stretta intorno alla pietra che portava al collo,
sull’altro c’era Derae, ancora vestita con la tunica verde che Leucion aveva
comprato al mercato. Protendendosi, le accarezzò una guancia.
Lei non si mosse, e nel guardarla Leucion ricordò con calore il proprio ritorno
al tempio, quando aveva trovato Derae in preda alla febbre. L’aveva lavata, curata
e nutrita, ed era stato felice, perché per quel periodo lei era stata sua, come una
bambina.
Adesso il suo volto era pallido e lei respirava appena. Si trovava in quello stato
da due giorni, ma Leucion non era preoccupato, perché Derae aveva detto che ne
sarebbero passati cinque, poi lei sarebbe tornata e tutto sarebbe stato come un
tempo: il risanamento dei malati, le lente passeggiate nei giardini, le tranquille
conversazioni sotto la luce della luna.
Il mago gemette sommessamente e la sua mano scivolò via dalla collana.
Chinandosi in avanti, Leucion sbirciò la pietra dorata e striata di venature nere, che
sembrava brillare leggermente. Riportando il proprio sguardo su Derae, fu colpito
ancora una volta dalla sua bellezza, che lo aggredì come un incantesimo doloroso e
tuttavia gradito. Stiracchiando la schiena, si alzò in piedi e il fodero della sua spada
stridette contro la sedia, infrangendo il silenzio. Adesso si sentiva a disagio a
portare la spada perché gli anni vissuti al tempio avevano smussato il suo spirito
guerriero, ma il mago aveva detto che era necessario che i due corpi venissero
custoditi costantemente.
Leucion gli aveva chiesto da cosa dovevano essere protetti.
– Dall’imprevedibile – aveva risposto Aristotele, scrollando le spalle.
Leucion si girò verso la porta... e s’immobilizzò.
La porta non c’era più e anche il muro era scomparso, per essere sostituito da
un corridoio lungo e stretto fatto di pietra pallida e lucente. L’anziano guerriero
estrasse la spada e la daga, sforzando la vista nel tentativo di sbirciare nella
penombra: due ombre si staccarono dalle pareti del corridoio e Leucion in-
dietreggiò quando le loro enormi sagome deformi avanzarono verso di lui. La testa
e le spalle erano coperte di scaglie, le braccia e il torso avevano il colore grigio di
un cadavere in decomposizione e i piedi dotati di artigli stridevano sulla pietra
mentre essi si avvicinavano. Con un’ondata di nauseante terrore, Leucion si
accorse che la bocca degli esseri era bordata di zanne aguzze.
Indietreggiò ancora, e con le gambe andò ad urtare il letto su cui giaceva Derae.
Il primo demone gli si scagliò contro. Leucion balzò in avanti per incontrare la
sua carica e piantò la spada nel ventre della creatura, spingendola verso l’alto in
direzione del cuore. Gli artigli gli lacerarono la spalla, fendendo la carne e i
muscoli e spezzando l’osso della clavicola, e mentre il demone cadeva la seconda
creatura si gettò sul guerriero ferito, chiudendo gli artigli intorno al fianco destro e
fracassando l’osso sottostante. Leucion conficcò la daga nel collo della bestia,
appena sotto l’orecchio e un fiotto di viscida sostanza grigia scaturì dalla ferita,
inondandogli la mano e bruciandogli la pelle. In preda a convulsioni mortali, il
demone scagliò l’assalitore lontano da sé e Leucion fini al suolo, lasciando cadere
tanto la spada quanto la daga.
Il sangue gli fluiva dalla ferita alla spalla e il dolore causato dal fianco destro
era quasi intollerabile, ma Leucion lottò lo stesso per rialzarsi.
Raccolta la spada, si issò in piedi reggendo il peso del proprio corpo sulla
gamba sinistra. I due demoni erano svaniti, ma il corridoio c’era ancora.
– L’ho salvata – sussurrò. – L’ho salvata.
Cinque artigli lunghi quanto spade gli si piantarono nella schiena, uscendogli
dal petto prima di chiudersi su loro stessi per trascinarlo all’indietro.
Il sangue gli salì gorgogliando dai polmoni trapassati e la testa gli si accasciò in
avanti.
Il demone lo gettò allora sul letto e il braccio inerte di Leucion andò a cadere
sulla pietra dorata posata sul petto di Aristotele. Dalla pietra si levò una fiammata
di luce e nuova forza si riversò nel guerriero morente, che girò la spada e la
conficcò nel ventre del demone alle sue spalle.
Gli artigli gli devastarono il corpo ancora una volta, staccando di netto la testa.
Disinteressandosi del cadavere esanime, il demone barcollò, poi i suoi occhi
color opale scorsero la sagoma inerte di Derae. Con la saliva che gli gocciolava
dalle zanne, il demone prese ad avanzare.
Aristotele aprì gli occhi nel momento stesso in cui il demone raggiungeva
Derae.
– No! – urlò, e una lancia di luce trapassò il petto della creatura, scagliandola
contro la parete opposta con la pelle ustionata e le fiamme che scaturivano dalla
ferita. In pochi momenti esse avvolsero tutta la bestia e un fumo nero si diffuse
nella stanza.
Il magus si alzò dal letto con una spada dorata stretta in pugno e avanzò in
fretta, accostando la lama alla bestia in fiamme, che scomparve all’istante.
Nello stesso momento il corridoio svanì e la parete tornò a materializzarsi al
suo posto.
– Hai combattuto coraggiosamente – sussurrò il magus, abbassando lo sguardo
sul corpo smembrato di Leucion, – perché dovevano essere più di uno.
La spada fluì nella sua mano e divenne una sfera di fuoco che lui depose sul
petto del guerriero: subito il corpo venne risanato di tutte le sue ferite e tornò
integro, la testa ricongiunta al collo.
– È meglio che Derae ti veda così – aggiunse Aristotele, protendendosi a
chiudere gli occhi del morto, poi cercò nella sacca che aveva alla cintura e ne
estrasse un obolo d’argento che mise nella bocca di Leucion. – Per il traghettatore
– mormorò, – e possa il tuo viaggio finire nella luce.
Tornato accanto al letto, prese la mano di Derae e la chiamò a casa.
PELLA, PRIMAVERA, 356 A.C.
Fine.