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GIOVANNI
FLORIS

LA FABBRICA
degli IGNORANTI
LADISFATTADELLASCUOLAITALIANA
Rizzoli
Proprietà letteraria riservata © 2008 RCS Libri S.p.A, Milano

ISBN 978-88-17-02486-0

Prima edizione: settembre 2008

Realizzazione editoriale: Studio Editoriale Littera, Rescaldina (MI)

LAFABBRICA
degli IGNORANTI

A Beatrice, perché pensavo che l’Università


non sarebbe stata un granché.
A Valerio e Fabio, perché hanno ancora
tutta la Scuola da godersi.
A noi quattro, finalmente.

Le idee sono la cosa più reale che esista al mondo.


Albert Einstein

«Sacchi... 3W» Il professore di Italiano a Bruno Sacchi,


da I ragazzi della III C
Introduzione

La professoressa di Greco entrò in classe il primo giorno di scuola e ci disse:


«Iniziamo subito la lezione, perché il tem-po è l’unica cosa che nessuno potrà mai
restituirvi».
Il professore di Filosofa un giorno terminò la lezione di-cendo: «Domani vi
spiegherò Feuerbach. Feuerbach sostiene che non è stato Dio a creare l’uomo, ma
l’uomo a creare Dio».
La prof di Lettere, al ginnasio, mi chiamò a sorpresa alla cattedra e mi interrogò.
Alla fine, mandandomi a posto, si complimentò: «Bravo, perché non eri tanto
preparato, ma ti sei buttato, e il coraggio alle volte fa buona parte del la-voro».
Alle medie io e un compagno di classe ci prendemmo a botte per una cosa da
poco; ci divise la bidella. Ero morti-ficato, la professoressa di Matematica (in genere
piuttosto fredda e distaccata) mi prese da parte e mi tranquillizzò: «Giovanni, non ti
preoccupare. Tu ti preoccupi sempre troppo».
Che valore hanno questi ricordi? Che importanza hanno avuto nella mia vita questi
episodi, queste parole, questi in-segnamenti, questi concetti? Il valore, per me, è
inestimabi-le. Non esiste calcolo, non esiste rapporto numerico, non esiste stipendio
o compenso che potrebbe pareggiare quan-to mi è stato dato queste e tante altre
volte.
Non esiste un valore della scuola. O meglio, «è uguale ad infinito» direbbe una
prof.
Chi forma un uomo, o una donna, forma l’intera società.
La scuola, inoltre, non è solo studio. I miei compagni di classe sono tuttora miei
amici e mia moglie l’ho conosciuta all’università. La scuola è esperienza: amicizia,
amore, dolo-re, gioia, successo e fallimento. La scuola funzionerà sem-pre, anche se
non funziona, perché non è fatta solo da quel-lo che possiamo soppesare, ma anche
da tutto quello per cui non esiste unità di misura.
E fatta, cioè, dalle singole persone.

La fabbrica degli ignoranti, però, è la scuola italiana. Non è la scuola che


ognuno di noi ricorda di aver frequentato, quella in cui abbiamo studiato, quella
grazie alla quale ab-biamo conosciuto il mondo e noi stessi. La fabbrica degli
ignoranti è la scuola italiana presa nel suo complesso, valuta-ta per quello che costa
e per quello che produce, analizzata per il modo in cui gestisce le risorse umane che
da essa di-pendono e che in essa si formano.
La scuola italiana la conosceremo nelle pagine che segui-ranno, in questa
introduzione invece dobbiamo intenderci su che cosa intendiamo per «ignoranti».
La definizione di «ignorante» che vi propongo è questa: è ignorante chi non sa
farsi capire dagli altri e non riesce a comprenderli. Prima di approvarla pensateci
bene, perché non si attaglia solo a chi non studia, ma anche a molti che hanno
studiato tanto. Persino a chi ha studiato tantissimo, o troppo.
Una persona intelligente resterà quindi sempre e co-munque intelligente, anche se
non andrà oltre la quinta elementare, e un ignorante resterà tale anche se si laurea. Il
punto è: a che livello vogliamo che la persona intelligente esprima le sue potenzialità?
Se desideriamo che tutte le persone in gamba del Paese possano concorrere a
diventare classe dirigente, o possano anche solo e semplicemente vivere meglio,
bisogna dare lo-ro le armi per poterlo fare, e queste armi si chiamano: cultu-ra e
sapere.
Asini
1
Di Napoleone e altre storie

Ognuno ha la sua Waterloo

«Perché ho la faccia incazzata?» esordisce il giovane manager guardando torvo il


suo pubblico, camminando su e giù per il palco della convention aziendale. «Ho la
faccia incazzata perché respiro... sfìdùscia (sfiducia, sic)... respiro aria di aspettativa,
respiro quelle facce da senso critico come quan-do uno vede le partite di pallone...
non ce la fa... tutti sono professori... perché? Perché la gente legge i giornali, guarda
il titolo... si rimbalza, si crea dei grandi film che sono tutte cazzate! Oggi non parlo di
Alessandro...» continua restrin-gendo sempre di più il diametro del suo percorso sul
palco, praticamente girando ormai su se stesso «oggi parlo di Na-poleone.
Napoleone a Waterloo, una pianura in Belgio, fece il suo capolavoro: tutti lo davano
per fatto, per cotto, per la supremazia degli avversari, c’aveva cinque grandissime
na-zioni contro, delle forze in campo. Però strateggìa (strategia, sic), chiarezza delle
idee, determinazione, forza... Napoleo-ne fece il suo capolavoro a Waterloo. Allora,
le facce scetti-che, le facce de... non servono a un cazzo.»
Ora, raggiunto quello che si rivelerà essere il cuore del suo discorso, fa una pausa,
poi riprende, avviandosi verso il climax finale.
«Questa è una delle aziende più belle che esiste al mondo. E allora, forte di questa
convinzione, noi dobbiamo dimo-strare che questo è un fatto. Piangersi addosso
non serve asso-lutamente a gnente (niente, sic). E come nel momento duro dagli
spalti la gente ti dice: "Ehhh la squadra non gira, non corrono", bene: correte di più,
stringete i denti, prova di ca-rattere. E allora dagli spalti vi applaudiranno perché voi
an-drete e segnerete. Come fece Napoletone (Napoleone, sic) a Waterloo.»
Il video di questo giovane e sfortunato manager che, con la calata romana, la voce
un po’ arrochita, il piglio decisio-nista, la cravatta col nodone e l’orologio di
(straordinario) valore al polso, racconta Al suoi dipendenti (basiti) che Na-poleone a
Waterloo ha vinto, è immediatamente diventato il tormentone del web. Il giovane
direttore generale della grande azienda (a quanto pare molto bravo nel suo lavoro)
paga pegno per tutti, e si trova a saldare con la cultura il conto che il Paese aveva
lasciato aperto da tempo.
Era il 18 giugno del 1815, e nei campi vicini a Waterloo (effettivamente in Belgio)
si confrontarono le truppe napo-leoniche con gli eserciti della settima coalizione,
formata da Regno Unito, Austria, Russia, Prussia, Paesi Bassi, Svezia, Regno di
Sardegna e alcuni Stati tedeschi. La battaglia, una delle più cruente del XIX secolo,
durò complessivamente otto ore e costò la vita a oltre 48 mila soldati: fu l’ultima
combattuta da Napoleone e ne segnò definitivamente la sconfitta. Napoleone
insomma a Waterloo non ha vinto, ha perso. Anzi, per dirla in termini da convention,
l’Imperato-re in Belgio ha preso una suonata da paura. Teribbile.
Sono però convinto che il manager in realtà sapesse come andò a finire a
Waterloo. Lo sanno tutti in verità, essendo «Waterloo» la sconfitta per antonomasia,
ormai un luogo comune, un modo di dire, un sinonimo di «batosta». È proba-bile
che il giovane direttore generale, nell’inconscio, sapesse cosa passò l’Imperatore in
Belgio, ma che non ci facesse caso, non gli importasse, lo ritenesse un particolare
ininfluente e trascurabile Al fini del suo discorso.
Un dettaglio inutile che può passare (ed effettivamente è passato) di mente.
Alessandro Magno (diventato più confi-denzialmente «Alessandro» nel discorso),
Napoleone, la guerra, il calcio, il bar, gli allenatori... avrà creduto nel profondo di sé:
«Che differenza fa?». Il concetto è la riscossa dopo la sconfitta, avrà pensato, poi
un nome vale l’altro. Come una stona vale l’altra. Mica siamo a scuola in fondo,
mica siamo professori!

Onorevole?

Il manager che è inciampato su Napoletone è solo l’ultimo a finire nel tritacarne


dell’esame random di cultura generale: negli ultimi tempi la gente normale si è fatta
cattivella e, forse stimolata dal confronto tra la propria busta paga e quella delle
persone «eccellenti», si è domandata: ma davve-ro questi qui sono meglio di me?
Quando fai televisione, e per di più ti occupi di attualità, prima o poi qualcuno te
lo domanda: «Ma perché non ti butti in politica?». Non è tanto la domanda che deve
far ri-flettere (con quel «ti butti» che lascia perfettamente inten-dere dove andresti ad
atterrare), quanto le ragioni per cui l’i-potesi di un passaggio in politica viene
considerata allettan-te: «Lo sai quanto prende un parlamentare? 13.500 euro al mese 1
per premere un tasto al momento di votare! E se poi finisci all’Europarlamento, là la
pacchia è completa. Per la stessa cifra lavori due giorni a settimana, e hai i biglietti
ae-rei gratis!». 2
Diamo poco valore alla politica, e riteniamo valere poco chi (col nostro voto)
mandiamo a fare politica; in realtà, però, se loro non sono un granché, vuol dire che
non siamo un granché nemmeno noi.
Soffermiamoci su di loro, i bersagli sicuramente più faci-li: i politici. La pentola fu
scoperchiata da Sabrina Nobile, inviata del programma Le Iene, che ebbe l’idea di
porre do-mande di cultura generale Al parlamentari che entravano e uscivano da
Montecitorio. Nel mirino del programma fini-rono i cosiddetti peones, gli onorevoli
meno conosciuti, quelli che nell’immaginario collettivo servono solo a preme-re i
tasti al momento del voto. 3
La figuraccia fu immensa, il crollo di immagine del Pa-lazzo fu verticale.
Quando l’inviata domandò chi fosse Nelson Mandela, (il leader sudafricano della
lotta anti-apartheid), qualcuno ammise di non averne la più pallida idea, qualcuno
cercò di scantonare la domanda sostenendo che ci fossero «diverse opinioni sulla
sua figura», un altro ne parlò come «il presi-dente sudamericano, brasiliano... anzi,
scusi, intendevo su-dafricano, perdoni il capsus (lapsus, «V)».
La prigione statunitense di Guantanamo, a Cuba, carcere per sospetti terroristi, da
più parti accusata di violare le nor-me internazionali sulla detenzione e perciò
conosciuta in tutto il mondo, per alcuni si trovava «in Iraq», per altri in
«Affanighstan (Afghanistan, sic)». Un onorevole intervistato definiva l’«effetto
serra» come un fenomeno di «raffredda-mento del pianeta». Una nota parlamentare
non sapeva cosa fosse la Consob, l’autorità per il controllo sulla Borsa e la fi-nanza.
Un altro onorevole spostava in Libano la regione afri-cana del Darfur mentre per un
suo collega, esperto del tema, il Darfur era un modo di dire, sinonimo di «fare in
fretta», «sbrigarsi» magari a tavola, quando è ora di mangiare.
La scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colom-bo (nel 1492, come
insegnano alle elementari) venne datata da un onorevole nel 1892, da un altro nel
1640; la Rivolu-zione francese (1789) invece fu anticipata al 1500. Papa Ratzinger
(Benedetto XVI) diventava per una deputata Giovanni Paolo VI, nonostante la
collega cercasse di correg-gerla: «Bonifacio, si chiama Bonifacio!».
Naturalmente il colpo alla già provata «casta» dei politici fu terribile. Gli editoriali
delle più importanti testate gior-nalistiche condannarono l’ignoranza del Palazzo,
derisero i rappresentanti del popolo, ma nessuno si domandò: cosa sarebbe
successo se tutti i parlamentari avessero dato le ri-sposte esatte? Chi ci saremmo
trovati davanti?

Il livello della politica

Il 24 gennaio 2008 il voto di sfiducia al governo Prodi fu preceduto dalle liti tra
senatori («Frocio, checca squallida, mafioso!») che si sputavano in faccia, e fu
seguito dai brin-disi di senatori che con una mano stappavano bottiglie e con l’altra
si infilavano la mortadella in bocca. Scattò subito l’allarme per il basso livello a cui
erano state trascinate le no-stre istituzioni (il presidente del Senato sbottò:
«Insomma, non siamo in un’osteria!»). L’allarme in realtà sarebbe dovu-to essere
duplice: la scena a cui si era abbandonata la più al-ta delle due Camere avrebbe
dovuto farci riflettere sul basso livello cui era arrivato il Paese che aveva eletto simili
rappre-sentanti.
Qual è il livello della nostra classe politica? Per saperlo bisogna innanzitutto
intendersi su cosa significa «livello». Un gruppo di economisti 4 ha studiato a fondo
la nostra classe politica ed è arrivato a definire una serie di «indicato-ri di qualità»:
primo fra tutti il livello d’istruzione, quindi il grado di assenteismo e infine la «abilità
intrinseca di genera-re reddito nel mercato del lavoro», una sorta di risposta alla
domanda: «Ma se non facessi politica, cosa faresti?». Per quanto riguarda il livello di
istruzione, gli studiosi ci riferi-scono che Camera e Senato, col tempo, hanno
ospitato onorevoli sempre meno titolati. I deputati della cosiddetta Prima Repubblica
entravano in Parlamento con un’età me-dia di 44,7 anni, nella Seconda di 48,1. Nella
I legislatura (1948-1953) il 91,4 per cento dei parlamentari era laurea-to, nella XV
(2006-2008) solo il 64,6 per cento. Nello stes-so periodo, negli Stati Uniti, la
percentuale dei parlamenta-ri laureati cresceva dall’88 per cento al 94 per cento.
Nella Prima Repubblica era maggiore anche la statura professionale dei
parlamentari. Prima del 1993 deputati e senatori, nei loro mestieri da «civili», erano
tutti (dalla De all’Msi, dal Psi al Pei) operatori superiori alla media nelle ri-spettive
professioni. Oggi i deputati stanno mediamente al di sotto.
«Quante volte» scriveva Gian Antonio Stella sul «Corrie-re della Sera» riportando
i dati di questo studio, «ci siamo sentiti dire: "Faccio politica per passione, perché
economi-camente guadagnavo di più prima"? Falso. Dati alla mano, quelli che nella
Prima Repubblica ci perdevano a fare il de-putato, anziché il medico, il notaio o
l’avvocato, erano il 24 per cento dei democristiani, il 21 per cento dei socialisti, il 19
per cento dei repubblicani... Oggi sono solo il 15 per cento degli azzurri, l’I 1 per
cento degli ulivisti, l’8 per cento dei neo-democristiani, il 6 per cento dei
nazional-alleati. Gli altri, a partire dai rifondaroli per finire Al leghisti, ci guadagnano e
basta.» 5
Il 29 aprile 2008 si è aperta quella che «Il Sole 24 Ore» ha definito la legislatura
«dei cinquantenni, degli avvocati e dei rieletti». 6 Sono ultracinquantenni 4 deputati su
10 (4,5 i senatori); un deputato su 100 ha un’età compresa tra i 25 e i 30 anni. Le
donne sono 2 su 10 alla Camera e al Senato, 4 su 10 le matricole, 6 su 10 i rieletti. Il
14 per cento dei de-putati è avvocato, così come la stessa percentuale dei sena-tori,
mentre gli altri professionisti (ingegneri, architetti...) sono il 13 per cento alla Camera
e il 16 per cento al Senato. Undici onorevoli su 100 sono imprenditori (12 per cento
al Senato); il 13 per cento dei deputati e il 7 per cento dei se-natori sono
«professionisti della politica». Per quel che ci ri-guarda è bene sapere che la quota di
insegnanti e docenti è appena del 4 per cento alla Camera e del 12 per cento al
Se-nato. Tra il 4 e il 5 per cento la rappresentanza di operai e impiegati.

La politica che ci meritiamo

In fondo strano sarebbe stato se tutti i parlamentari, persino l’ultimo peone, avessero
mostrato in televisione un livello di istruzione superiore a quello del Paese che li ha
eletti. Ci sa-remmo trovati davanti a una casta (quella sì) di marziani: politici
teletrasportati a Roma da un mondo parallelo, da una dimensione misteriosa in cui
tutti leggono i giornali e si interessano di economia e di diplomazia. Ci saremmo
tro-vati davanti a dei rappresentanti del popolo che del popolo non rispecchiano il
carattere, a delle élite di intellettuali no-minati da un Paese che da intellettuali non è
abitato. I poli-tici intervistati da Le Iene hanno dato le uniche risposte che potevano
dare.
Affrontiamo la realtà: il Parlamento è come il Paese. Pre-senta delle eccellenze e
delle vergogne, ed è difficile separare le une dalle altre ricorrendo Al titoli di studio.
Se ci lamen-tiamo del Parlamento, vuol dire che ci lamentiamo del Pae-se. Se non ci
piace il primo, dovrebbe non piacerci neanche il secondo.
In fondo, sapete chi erano i politici che sbarellavano su Nelson Mandela? A
rimanere vittima del capsus era stato un onorevole che di professione è primario
ospedaliero; a trac-cheggiare con le «diverse opinioni» su Mandela, cercando una
via di fuga, era stata una giurista d’impresa, direttrice legale di alcune multinazionali;
mentre era stato un com-mercialista a preoccuparsi del raffreddamento legato
all’ef-fetto serra. Il Darfur era un fast food per un onorevole che ha insegnato
diciassette anni in un istituto tecnico del Notd. Una gravidanza dura «dieci
settimane» per un ex pri-mario ospedaliero specializzato in pediatria e neonatologia;
mentre era stato un sociologo a definire Pyongyang (capita-le della Corea del Nord)
«il dittatore coreano che sta facen-do esperimenti sulla bomba atomica». Come dire:
sono onorevoli, d’accordo, ma perché non dovremmo conside-rarli anche esponenti
della società civile?
In realtà due deputati su tre (della legislatura sotto accu-sa) erano in possesso di
laurea. I dottori erano 426, quelli che avevano mollato poco prima di laurearsi
ammontavano a 204. I deputati in possesso soltanto di licenzia media ap-pena 11.
2
La società civile

L’inglish

Quando fui nominato corrispondente per la Rai da New York, non parlavo bene
l’inglese. Lo parlavo e lo capivo, ma non ero come quei trendissimi professionisti
bilingue. Lo avevo studiato alle medie e al liceo, avevo viaggiato molto come inviato
del Giornale Radio, ma avendo frequentato il liceo classico trovavo più naturale
recitare con i giusti ac-centi l’Ecloga I delle Bucoliche di Virgilio (Tityre, tu patulae
recubans sub tegmine fagi...) che affrontare senza patema d’a-nimo la lettura del
«Washington Post».
Quando il direttore Ruffini mi comunicò che mi sarei dovuto trasferire un mese a
New York per sostituire il colle-ga che andava in ferie (i fatti dell’11 settembre mi
tennero poi in America per un intero anno), andammo a festeggiare in pizzeria con
degli amici. Mia moglie mi prendeva in giro, immaginando George Bush che
irrompeva in diretta duran-te un mio collegamento col Tg e iniziava a parlare
velocissi-mo, contando sulla mia capacità di tradurlo. Nei nostri in-cubi io iniziavo a
zoppicare nella traduzione, prendevo a in-ventare, Bush mi guardava basito e io
facevo finta che scom-parisse l’audio, continuando a muovere la bocca tipo pesce.
Infine scoppiavo in lacrime. In realtà (come sempre succe-de) , dopo pochi mesi a
New York, acquistai sicurezza, sco-prii che la lingua non la conoscevo poi così male
e colmai velocemente il gap che mi separava dai colleghi stranieri.
Qualche tempo dopo il mio trasferimento nella sede di corrispondenza, rividi le
mie paure materializzarsi nell’espe-rienza di due giornalisti appena arrivati a New
York. Li tro-vai in una stanza, piazzati davanti alla Tv che ascoltavano terrorizzati la
Cnn e aspettavano il collegamento con l’Ita-lia. Nel giro di qualche minuto si
sarebbero dovuti collegare con una radio privata per raccontare cosa stava
succedendo in America. Il problema è che stava accadendo qualcosa di veramente
strano.
Ricorderete il caso di Richard Reid, il terrorista fermato mentre cercava di far
saltare in aereo l’esplosivo che aveva nascosto nel tacco della scarpa. Anche se
l’emittente ameri-cana aveva raccontato chiaramente come erano andati i fatti, i due
giornalisti non si fidavano della loro capacità di com-prendere l’americano. I minuti
passavano, il collegamento telefonico si faceva sempre più imminente e loro
discuteva-no: «Ma sei sicuro? L’esplosivo nelle scarpe?» diceva uno. «Sì, ha detto
così... nel tacco della scarpa...» rispondeva l’altro «o almeno mi sembra...» «Come
mi sembra? Tra un po’ ci dan-no la linea...» «Aspetta, aspetta, fammi sentire... Vedi?
Lo ha detto di nuovo: nelle scarpe!» «Ma come è possibile? Una bomba nelle
scarpe? Trova qualcuno che ci traduca, presto!» «Aspetta, metti i sottotitoli per non
udenti, così leggiamo...» «E come si mettono? Cavolo!» sbottava guardandosi
intor-no. «Ma a New York non si trova qualcuno che sa l’ingle-se???!!» Intervenne
un nostro collega bilingue e confermò la loro tesi, portando me e una giornalista
italo-americana co-me garanti (conosciuti da entrambi, assicuravamo che la
tra-duzione non fosse un tranello goliardico per farli fallire miseramente in diretta e
ridere poi alle loro spalle). L’esplosivo era effettivamente nel tacco della scarpa: in
uno dei momen-ti più tragici della storia contemporanea la realtà si era tra-sformata in
paradosso, la cronaca (per quanto in lingua stra-niera) aveva superato la nostra
immaginazione. La diretta poteva cominciare, alla faccia dell’inglese.
La difficoltà dei due colleghi, la mia paura iniziale sono i dilemmi e le angosce che
tormentano tutti gli italiani: l’in-glese non lo parliamo (bene). Siamo in grado di
impararlo velocemente come tutti gli altri, ma non lo studiamo bene, e soprattutto
viviamo in un Paese talmente chiuso in se stes-so che ci mancano le occasioni per
entrare in contatto con la lingua che parla il resto del mondo. Chi vive e lavora in
Ita-lia può tranquillamente convincersi che l’inglese non serva. È possibile svolgere
lavori di grande responsabilità, avere in-carichi molto importanti, senza che ci venga
richiesto di parlare le lingue.
Un affermato professionista della nuova generazione, brillante e preparato, uno dei
più autorevoli esperti del no-stro Paese nel suo campo, mi ha confessato un episodio
di-vertente ed estremamente significativo. A un convegno cui era stato invitato
esposero le loro relazioni diversi esperti italiani, poi si aggiunsero alcuni professori
stranieri che les-sero le loro tesi in inglese. La seconda parte del convegno prevedeva
una tavola rotonda in cui alcuni relatori (sei, per essere precisi: quattro italiani, un
olandese e un danese) si sarebbero confrontati sui problemi aperti della loro
discipli-na. Il moderatore, prima di dare il via al dibattito, precisò che la tavola
rotonda si sarebbe svolta in inglese, come for-ma di cortesia verso gli ospiti stranieri.
Il mio interlocutore racconta di aver cominciato a sudare freddo. Questo, gli
or-ganizzatori del convegno, non glielo avevano detto! Lui era certo in grado di
preparare e leggere una relazione in ingle-se, ma non si sentiva nelle condizioni di
confrontarsi «a braccio» con i colleghi. Il dibattito intanto proseguiva, alcu-ni relatori
citavano il suo intervento cercandolo con lo sguardo, come a dire «poi il professore
ci spiegherà...», lui faceva cenno con il capo che sì, quando sarebbe stato il suo
momento avrebbe offerto tutte le delucidazioni e avrebbe risposto a tutte le
osservazioni che il panel stava muovendo. Entro breve il moderatore avrebbe fatto il
suo nome e gli avrebbe dato la parola. Come uscirne? «Maledetto il giorno che ho
accettato quell’invito!» pensava. «Perché gli organiz-zatori di questi convegni
vogliono sempre atteggiarsi ad in-ternazionali? Gli spagnoli, i greci, i portoghesi...
con loro stai tranquillo, perché l’inglese lo conoscono quanto noi, e invece a rovinare
tutto sono sempre questi insopportabili nordeuropei.» Alla fine capì che si sarebbe
salvato solo con la fuga. Prima che arrivasse il suo turno fece finta di ricevere una
telefonata, mandò un bigliettino al moderatore scusan-dosi, spiegò che la sua
presenza era richiesta immediata-mente a casa, lasciò intendere che il problema fosse
gravissi-mo e scappò via. «All’inglese», per l’appunto, cioè senza sa-lutare nessuno.
Il moderatore successivamente spiegò le sue ragioni, tutti compresero, e lui salvò
l’onore.
Sia chiaro, il problema non è solo italiano. I frequentato-ri di consessi
internazionali lo chiamano globish, alternativa appunto all’english, ed è quella lingua
internazionale che nasce come inglese ma che, in bocca a tante persone di Pae-si
diversi, si trasforma in una sorta di linguaggio nuovo, una lingua franca, semplice,
povera di vocaboli, aperta Al neolo-gismi e con una struttura grammaticale fluida. In
pratica, è l’inglese di chi lo sa parlare poco. È ormai talmente comune non conoscere
l’inglese (non solo per gli esponenti dei Paesi citati dal nostro professionista in fuga)
che la parlata che noi definiremmo «maccheronica» ha conquistato il mondo, e può
capitare di trovarsi in discussioni in globish tra giappo-nesi, spagnoli, italiani, coreani
e inglesi in cui gli unici a non capire sono questi ultimi, tagliati fuori dalla dilagante
versione ignorant della loro stessa lingua.
Resterà per sempre un cult la traduzione che i curatori del blog a lui intitolato
fecero di una dichiarazione di Antonio Di Pietro, allora ministro delle Infrastrutture:
«II Partito demo-cratico» recitava il comunicato in italiano «ha perso un’ottima
occasione per potersi qualificare come tale». La versione inglish recitava to be able
to qualify itself as democratic (qualificarsi = to qualify itself: traduzione letterale e
maccheronica dall’italiano, in inglese frase senza senso, come quelle che seguiranno.
La traduzione giusta sarebbe to prove itself worthy ofthe name) e continuava
traducendo: «per potersi definire davvero demo-cratico deve essere aperto e
pluralista, altrimenti semplice-mente non è, non esiste» con it doesn’t exist, nel più
fedele ri-spetto delle commedie vanziniane («Alboreto is nothing» re-citava
l’indimenticato cummenda Guido Nicheli nel primo Vacanze di Natale,
sottolineando la sua abilità di pilota che lo aveva portato da Milano, via della Spiga,
all’Hotel Cristallo di Cortina in 2 ore, 54 minuti e 27 secondi). Modi di dire
tipica-mente italiani venivano fatti traslocare brutalmente in un’altra lingua, con un
effetto da commedia all’italiana.
La traduzione dipietrista era infatti un crescendo, perché «la mia esclusione dalla
candidatura per la segreteria nazio-nale è semplicemente un furbo espediente per non
avere tra i piedi un concorrente vero e reale» diventava a convenient smokescreen so
as not to bave under their feet a true real competitor, fino ad arrivare al galattico a
competitor who wouldhave broken the eggs in the basket che intendeva tradurre la
frase «un candidato che avrebbe rotto le uova nel paniere».
Un passaggio da standing ovation (dove con ovation si intendono le uova,
naturalmente), che rimandava al Jerry Cala che, in Vacanze in America, cerca di
chiarire i propri gusti sessuali Al partecipanti alla festa gay a cui era stato
er-roneamente invitato. 1
Colto in flagrante ignoranza da un indispettito Ivan Scalfarotto («Meno male che
abbiamo un politico attento al futuro, uno che sta su YouTube e su Second Life, uno
inter-nazionale, uno che vive in Europa...»), il furbo Di Pietro mostrò una volta
ancora come una situazione sfavorevole possa essere giocata a proprio vantaggio.
Concesse un’inter-vista per commentare la gaffe anglo-italiana, appollaiato su un
trattore, al termine di un’intera giornata passata, disse, «a falciar via le cannucce
infestanti, le piccole canne che fi-niscono nei fossi e fregano la terra al contadino». 2
Il ministro rivendicò la sua popolarissima ignoranza, spiegando che quel poco di
inglese che sapeva era lo stretto necessario «per parlare, viaggiare ed ammiccare alle
ragaz-ze». «Come si ammicchi in inglese non è facile da intuire...» commentava il
giornalista che lo aveva intervistato.
Ma la competenza linguistica alla Totò e Peppino dell’in-dimenticato nojo volevan
savuàr! diventava manifesto politi-co quando l’ex pm sbottava: «Ma questi
scalfarotti non han-no altro a cui pensare? E gente supponente, arrogante, con-vinta
di sapere tutto, che parla in questo italiano fluido, per-fetto, con un intersecarsi di
belle frasi. Che dici: "Bravo!", ma poi ti fermi e pensi: "E mo’ che ha detto?"».
Di Pietro tutti i torti non li aveva, ma non c’è da ralle-grarsene.

Alea iacta alè

Il nostro vero problema non sono i peones politici ignoranti, che tanto alla fine fanno
quello che dicono i leader (in gene-re più preparati). Il cruccio dell’Italia è che, in
questo cam-po, i politici (come anche gli aspiranti magistrati) sono la perfetta
espressione del Paese. Se Le Iene si fossero piazzate davanti a un ristorante o davanti
a un ministero o all’uscita di un ufficio postale, avrebbero probabilmente ricevuto
da-gli intervistati le stesse esilaranti risposte. Di sicuro le avreb-bero ottenute
all’uscita di una scuola superiore.
«L’analfabetismo c’è ma non si vede» spiega Tullio De Mauro. «Un magistrato
[donna] di Firenze ci ha raccontato dei molti casi in cui i testimoni non sono in grado
di legge-re la formula di rito sul dir la verità e di quanti, leggendola, arrivati alla "mia
deposizione" restano smarriti (pensano a Gesù Cristo deposto dalla croce o, i più
colti, a qualche so-vrano) e lei deve aiutarli e anzi, ci ha detto, ha deciso di la-sciare
da parte la sacra formula e di suggerire qualcosa come Dirò la verità e so che potrò
essere punito se dico il falso.»‘‘
Uno studente del liceo classico, alla professoressa che gli domandò a quale gioco
in voga nell’antica Roma si riferisse Giulio Cesare quando, passando il Rubicone,
sentenziò alea iacta est (il dado è tratto) rispose «le freccette». Il dottor Raf-faele
Sollecito, laureato in Economia e Commercio e indaga-to per la morte di Meredith
Kercher, scriveva nel memoriale dal carcere a pochi giorni dalla discussione della tesi:
«Il ba-gno è sporco, ho chiesto che lo venghino a pulire». 5 Questi sono solo i primi
dei tanti esempi che Antonella Piperno e Karen Rubini utilizzano su «Panorama» per
la loro ap-profondita inchiesta sulle conoscenze degli studenti italiani. Ma ce ne sono
tanti altri: il verbo «allargare» diventa «allar-gare» nei temi di un istituto tecnico
commerciale romano, e Paola Mastrocola, professoressa e scrittrice, racconta di aver
ripristinato il dettato per i suoi alunni del liceo scientifico; «roba da seconda
elementare», chiosano Piperno e Rubini.
Giulio Ferroni racconta su «Panorama» di quello studen-te che «sentendo che
Beatrice nel Purgatorio si presenta a Dante vestita di bianco, rosso e verde sostenne
che essa "rap-presenta allegoricamente l’Italia del Risorgimento", fenome-no che [a
suo dire] avrebbe avuto luogo nel ‘500», 6 o di quel-la studentessa che, alla richiesta
di qualche dato sulla bibliografia manzoniana, disse che essa «non esisteva affatto»,
alle-gando, di fronte alla perplessità del professore, la pagina del manuale dove stava
scritto che la bibliografia su Manzoni era, appunto, «sterminata», ovvero distrutta da
un genoci-dio. Un altro alunno — continua Ferroni — sostenne con sicu-rezza che
nel Passero solitario di Leopardi viene trattato il problema del sesso, inteso come
problema «dell’uccello».
Ma la fabbrica dell’ignoranza non produce solo politici o studenti scarsamente
preparati. Il viaggio nelle professioni «alte» degli italiani sarà particolarmente
tormentato, quindi è meglio allacciare le cinture di sicurezza.

Il cane inascoltato

«In tutta questa vicenda, il diretto e principale interlocutore, il cane, non è stato
potuto ascoltare (sic).» Così nel 1999 un magistrato onorario chiudeva la
motivazione della sentenza con cui poneva fine alla lite tra il proprietario di un
dober-mann e il veterinario che gli aveva tagliato (malamente, so-steneva l’accusa) le
orecchie. Silverio Marchetti ha raccolto nel suo In nome del popolo italiano 1 un
brillante repertorio degli sfondoni dei giudici di pace. La giustizia civile, dimen-ticata
da tutti, lontana dall’interesse dei media, concentrati sulle sfortune della giustizia
penale, ha visto trasformare il giudice di pace in una sorta di magistratura minore,
sebbene in questo ruolo operino laureati in Giurisprudenza, avvoca-ti, professori.
Alle prese con procedure molto più complesse e farragi-nose di quelle previste
dalle leggi penali, gli operatori del set-tore mettono a segno perle di rara bellezza: nei
verbali dei giudici di pace raccolti da Marchetti «la possibilità dimostra-ta» diventava
la «possibilità paventata», mentre in una sen-tenza riguardante un incidente stradale il
giudice rilevava come «i carabinieri intervennero solo dopo il fatto» (ci manca-va che
intervenissero prima!). Nei corridoi di un tribunale campano il magistrato appese un
avviso in cui si avvertiva che «letto il provvedimento di rinvio della causa alla data
21.06.03 rilevato che tale rinvio veniva erroneamente dispo-sto... ecc ecc.. ritenuto
dover "anticipare" l’udienza ad una data più recente...» dando sostanzialmente un
appuntamen-to retroattivo. Roba da macchina del tempo.
Il magistrato è la figura che più di chiunque incarna l’i-dea del Sapere: è saggio, sa
discernere il Bene dal Male, sa punire o assolvere, se è il caso comprendere,
comunque sa giudicare con equilibrio. Il giudice, insomma, deve Sapere.
Concorso 2007 per entrare in magistratura: 380 posti da assegnare. Su 43 mila
domande presentate, alla prova scritta si presentano solo 4000 candidati. Ammessi a
quella orale: 342. Di questi diventano giudici in 322, gli altri 58 posti ri-mangono
vacanti. Gli aspiranti magistrati (tutti meno i 322 superstiti) si sono dimostrati troppo
ignoranti per ottenere il posto, e la commissione d’esame ha preferito lasciare
va-canti 58 posti piuttosto che affidare l’impiego a candidati impresentabili.
Qualche esempio: il fondamento del diritto nulla poena sine lege (nessuna pena
venga inflitta se non esiste una legge) diventava per un aspirante magistrato il più
piccante (e dif-ficilmente traducibile) nullum pene sine lege; mentre una giovane
giurista che faceva riferimento alla veperata quaestio lasciava interdetti gli
esaminatori, finché uno di loro intuì che la candidata era abituata a scrivere messaggi
sms con il telefonino, e quindi ad abbreviare il gruppo di lettere per di-gitando
semplicemente una x. La veperata quaestio era in realtà una vexata quaestio
(questione molto discussa), dal momento che la dottoressa (avendo a che fare con
una com-missione d’esame) aveva pensato bene che fosse il caso di abbandonare lo
slang telefonico. Bontà sua.
Le indiscrezioni trapelate da chi ha corretto i compiti parlano poi di punteggiature
assenti, punti, punti e virgola e due punti sparsi sui fogli come se a scrivere fossero
stati i fratelli Caponi («che siamo noi»).*
L’addove stava per laddove, frasi venivano interrotte a metà rigo o inserite di forza
entro il margine, di modo da non essere costretti a calcolare le sillabe per andare a
capo. La terza persona singolare dell’indicativo del verbo essere mancava spesso di
accento, quella di avere mancava dell’h, e a un e qual seguiva sempre e comunque
l’apostrofo. Riscuo-tere si imponeva a maggioranza nella versione con la q al po-sto
della c.
Il resto è (forse) leggenda: di la Corte dell’Aja che diventa-va la Corte dell’Ajax, o
dei temi di amministrativo, che inizia-vano con citazioni classiche «finché la barca
va» e «per fare un albero ci vuole un fiore», non ci sono testimonianze dirette.
Le origini di questa «strafalcionaggine» di massa, così come quelle delle onorevoli
figuracce, hanno ragioni profonde e non possono comportare semplicemente il
pubblico ludibrio. Non siamo davanti al mero decadimento della nostra classe
dirigente, ma all’espressione più ampia di uno scadimento ge-nerale dei nostri
standard educativi. E solo uno dei tanti se-gnali da cui possiamo scoprire di essere
diventati un Paese di ignoranti. E l’ignoranza ha un prezzo molto alto per un Paese
che si ostina a immaginarsi moderno, competitivo, vincente.

Avvocà...

Pietro Pedicini, avvocato, è stato presidente per quattro anni di commissioni per
l’esame all’albo degli avvocati a Napoli, un esame cui partecipano, va ricordato, solo
candidati già laureati in Giurisprudenza. Pedicini ha valutato gli esami scritti degli
studenti di Bologna e Roma. «Il livello di istru-zione generale» ci spiega 9 «è molto
scarso. Al miei tempi ve-nivano esaminate 120 persone a sessione, oggi 7 mila.
Giu-risprudenza spesso appare come la via più semplice per arri-vare ad una laurea e
ad un mestiere, ci si iscrivono tutti, e molti riescono a laurearsi pur non avendo
studiato bene; co-sì succede che almeno la metà dei candidati che si presenta-no al
nostro esame è da bocciare. La cosa più stupefacente sono gli errori di ortografia dei
compiti scritti: ho letto ela-borati di dottori in Giurisprudenza in cui "un altro" era
scritto con l’apostrofo o in cui le doppie venivano sbagliate. Non parliamo poi dello
specifico professionale: in un com-pito in cui si parlava di usucapione, era citato il
principio la-tino animus rem sibi habendi (l’intenzione di tenere il bene per sé),
trasformato dallo studente in animus demme sibb abrendi, probabile trascrizione ad
orecchio della soffiata di un amico. Mentre correggevo i compiti» continua Pedicini,
«mi accorgevo subito se a scrivere il compito era stata una donna o un uomo: in
genere le donne sono più precise e preparate, mentre i ragazzi sono un disastro. In
una sessione ne abbiamo bocciati il 50 per cento, ma sia chiaro: della metà che ha
superato l’esame si salvava in realtà appena il 10 per cento. Agli orali una
studentessa, figlia di un avvocato e nipote di un magistrato, ci spiegò che, per quanto
riguarda l’eredità, "il figlio naturale non riceve niente perché non è fi-glio a loro",
dove per "loro" si intendevano i genitori.»
I futuri avvocati non fecero una gran figura neanche quando a esaminarli fu
Giovanna De Minico, professoressa di Diritto pubblico all’Università Federico II di
Napoli. Nel 2006 De Minico ha fatto parte della commissione d’esame della Corte
d’appello di Napoli per l’accesso all’albo degli avvocati. La sua commissione ha
esaminato gli scritti degli studenti di Bologna, mentre nel capoluogo emiliano sono
stati corretti gli scritti degli studenti di Napoli: «Si fa così per evitare imbrogli»
spiega.
«Alla correzione degli scritti» ci racconta De Minico, «sono rimasta colpita dalla
poca conoscenza che i candidati hanno della lingua italiana. Gli aspiranti avvocati
avevano problemi a fare anche una corretta divisione in sillabe delle parole, e quindi
sbagliavano ad andare a capo. Molti li ab-biamo bocciati per questo motivo: chi
ignora la divisione in sillabe non può neanche scrivere una lettera all’ammini-stratore
di condominio. Conoscere l’italiano, o almeno le sue basi, è la prima cosa per poter
svolgere alcuni mestieri, e per chi voglia intraprendere la professione di avvocato
questo principio dovrebbe valere ancora di più. Tanto più che parliamo di laureati! I
futuri avvocati confondevano ha verbo con <«che verbo non e, la è verbo con la ^
congiunzio-ne. Un errore può capitare a tutti, anche per una banale di-strazione, ma
quando questo è ripetuto più volte vuol dire che si ignora la propria lingua. Per non
parlare della pun-teggiatura. Ricordo candidati che usavano periodi anche di mezza
pagina, senza spezzarli con un punto o una virgola: alla fine degli scritti ne
bocciammo circa la metà e per la stragrande maggioranza di questi il motivo furono
gli stra-falcioni grammaticali. I nostri laureati non conoscono l’ita-liano.»
«Agli orali» continua De Minico, «le cose non andarono molto meglio. Le
domande che facevamo non erano diffici-li, erano decisamente più facili di quelle che
vengono rivolte al candidato di un esame universitario. Ricordo uno stu-dente al
quale feci una domanda banale di diritto costitu-zionale: la differenza tra una crisi di
governo parlamentare ed una extraparlamentare. Feci quella domanda perché sui
giornali si parlava della crisi del governo Berlusconi. Ebbe-ne, non solo non
conosceva la risposta che qualsiasi laureato in Legge avrebbe dovuto conoscere, ma
ammise anche can-didamente di non sapere nulla di quanto stava accadendo al
governo in carica. Non leggeva i giornali, non guardava la televisione, non
chiacchierava di politica nemmeno con gli amici, a quanto pare.
«Il problema di questi avvocati, o aspiranti tali, è di co-me si sono preparati. Molti
di quelli che abbiamo esamina-to hanno fatto male le scuole di base, poi hanno fatto
male l’università.»
Come crediamo che svolgeranno la loro professione?

Il bello scrivere

E ora tocca Al giornalisti, tanto per non guardare solo in ca-sa d’altri. L’esame del
giornalista consiste in una prova scrit-ta, superata la quale si accede a quella orale.
Per sostenere l’esame bisogna prima aver svolto un praticantato di 18 me-si in una
redazione, oppure in una scuola di giornalismo. Massimo Signoretti ha fatto parte di
molte commissioni d’esame e ci spiega che «quando correggi gli scritti trovi un po’
di tutto. Da quello preparato, che magari scrive solo di politica estera perché
considera tutto il resto non adeguato al suo sapere, a quello che "si rifugia" nei titoli
di sport o di cronaca, pensando (a torto) che siano più accessibili. La la-cuna più
seria dei giovani colleghi? La storia, senza dubbio. Una volta a un praticante abbiamo
domandato i nomi dei presidenti della Repubblica sardi: lui ci ha pensato a lungo.
Non gli veniva neanche un nome. Poi gli si sono illuminati gli occhi, ci ha guardato e
ha sentenziato: "Berlinguer!"».
«Ad un altro» continua Signoretti «domandammo qual-cosa su Garibaldi. Lui
seppe rispondere solo che "vestiva la camicia rossa".»
Pierluigi Zanata è stato commissario d’esame nella ses-sione del 2005.
Correggendo la prova scritta ha raccolto al-cune «perle» regalate dagli aspiranti
professionisti e le ha pubblicate sul suo blog. 10 «Il giro d’affari della ‘ndrangheta»
spiegava un candidato «corrisponde Al 6/5 del prodotto in-terno lordo della
Calabria», mentre la Fiat, sottolineava un suo collega, «ha dimezzato di oltre 2/3 il
risultato operati-vo». «La parabola dei prezzi s’impenna» per un futuro gior-nalista
che commentava i dati sull’inflazione, mentre un al-tro candidato, impressionato dal
costo della vita, scriveva che «i prezzi salgono in picchiata».
Chi quell’anno aveva deciso di mettersi alla prova con il tema delle riforme
istituzionali produsse passaggi come «la revisione della Carta costituzionale prevede
l’approvazione della revisione dai due lati del Parlamento» (il famoso emici-clo
quadrato), menile qualcun altro aveva previsto una sorta di passerella dei disegni di
legge, dato che «l’itinerario vede due passaggi davanti a ciascuna Camera...», l’alta
finanza si sposava con la vita quotidiana quando a parlare erano «l’am-ministratore
delegato del condominio...» o il «commercialista del palazzo».
Un titolo prevedeva che i candidati discutessero della pri-vatizzazione delle acque,
tema piuttosto difficile se è vero che uscì fuori che «alla/wcr l’acqua minerale costa
otto centesi-mi» o che «le bottiglie costano otto centesimi se si riempiono da sé»
oppure che «... troviamo bottiglie d’acqua che vanno dai 23 centesimi per una boccia
da un litro» e che «il percor-so torrenziale dei prezzi legati alle minerali si versa nei
tavoli-ni all’aperto dei bar».
Altre chicche riguardavano la legislazione sui minori («si possono pubblicare le
foto dei minori se rapiti col consenso dei genitori»), l’efficienza dei servizi
d’emergenza («i mezzi dei vigili del fuoco sono prontamente accorsi e stanno
lavo-rando con ogni mezzo: l’edificio, sorto negli anni Sessanta, aveva manifestato
qualche crepa»). Qualcuno si era messo nei guai da solo inseguendo la bella scrittura,
lasciandosi andare a figure retoriche sportivo-genitoriali («a risolvere i problemi degli
azzurri e di Lippi ci penserà l’estro di Francesco Totti che, forse ispirato dalla
gestazione della moglie, sembra non smettere di partorire gol») o
avventuroso-urbanistico («a Cor-tina d’Ampezzo come in un film di Indiana Jones
tutto si sno-da fra città sepolte nella giungla, mercanti d’alto borgo...»). Anche la
teoria giornalistica creava qualche problema se è ve-ro che alla domanda: «Quali
sono gli elementi di un titolo e la loro funzione?», la risposta era stata: «Il titolo che
contiene la notizia più importante contenuta all’interno dell’articolo. L’occhiello
introduce al luogo e al contenuto della notizia. Il catenaccio contiene un’altra notizia
contenuta nell’articolo. Il sommario può esserci o no ed è quasi un cappello».
Duro il giudizio di un candidato sui rappresentanti della comunità scientifica: «Non
resta che ammirare la correttez-za reciproca tra gli studiosi. Un fatto non consueto in
un mondo dove si muovono tombaroli e serpenti e animato da una forte invidia
reciproca». Avesse saputo che il suo perio-dare sarebbe finito in un libro, avrebbe
scritto la stessa cosa dei suoi colleghi giornalisti.
Sapienti-ignoranti

Il fenomeno dei sapienti-ignoranti non è nuovo: «La pessima qualità degli


insegnanti e dell’insegnamento» spiega il profes-sor Tullio De Mauro «è una
questione antica, il sistema for-mativo italiano va rivisto, ma fino ad oggi la politica
non ha avuto né la forza né la voglia di farlo. Fino agli anni Cinquan-ta alle superiori
ci andava solo l’elite, poi la scuola (che già fa-ceva acqua da tutte le parti) è diventata
di massa, e purtroppo i risultati sono stati questi. Nel 1958 Evaristo Breccia scrisse
Somari in cattedra: l’autore analizzava i compiti dei giovani laureati che avevano
partecipato Al concorsi a cattedra. Bene, i compiti analizzati sembravano scritti da
semianalfabeti, ed erano in realtà quelli dei vincitori del concorso». 11
Persino l’esame di maturità in Italia è dato per approssi-mazione: nel giugno 2008 è
stato domandato Al candidati di commentare una poesia di Montale, Ripenso il tuo
sorriso. Il ministero ha chiesto agli studenti di individuare la «visione della realtà» del
poeta e quella del «ruolo salvifico e consolato-rio della figura femminile». Peccato
che la poesia fosse dedi-cata a un ballerino russo, caro amico di Montale, che
sicura-mente salvava e consolava, ma che donna non era. E sia chia-ro che per
scoprire che la poesia è dedicata a un uomo non serviva una gran cultura: bastava
leggerla. «Codesto è il mio ricordo; non saprei dire, o lontano / se dal tuo volto [...]»
Do-ve l’«o lontano» è un vocativo (evidentemente) maschile.
La stessa tornata di esami è costata l’incarico a vari esper-ti del ministero, dal
momento che le tracce 2008 sono state un vero disastro: un brano dei Promessi sposi
veniva datato erroneamente; nel materiale dei saggi brevi dedicati alla figu-ra dello
«straniero» veniva data e presentata come opera ro-mana una fotografia della statua
del Galata morente, in realtà copia di un originale greco, che quindi con la figura
dello straniero aveva poco a che fare. «A tutto ciò» scriveva Gior-gio De Rienzo sul
«Corriere», «va aggiunta una sciatteria ge-nerale: sintassi traballante, punteggiatura
capricciosa con virgole vaganti, uso a caso di corsivi o virgolette nei titoli dei libri da
cui sono tratti brani, indicazioni sporadiche di tra-duttori e indicazioni bibliografiche
ballerine.» 12
Sulla traccia di inglese gli esperti si erano comportati co-me il più sfacciato degli
alunni da esaminare: taglia e incolla dal web, senza neanche rileggere il testo.
Sfortunatamente per la pubblica istruzione, il sito da cui era tratto il testo su cui i
candidati avrebbero dovuto lavorare era curato da una giornalista yemenita che
l’inglese lo conosceva poco, e che quindi aveva commesso tantissimi errori, come il
mancato utilizzo del genitivo sassone o la coniugazione sbagliata dei verbi (per
esempio un «bave» al posto di un «has»).
Ognuno ha la sua Waterloo, dicevamo, ma la Waterloo del ministero
dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca è ben più rovinosa di quella di un
manager che si addentri nei meandri della storia.
La storia della maturità italiana è comunque ricca di strafalcioni. 13 Nell’esame 2007
gli esperti del ministero si sbagliarono su Dante, attribuendo al domenicano San
Tommaso l’elogio di San Domenico di Guzmàn, in realtà pronunciato dal vescovo
francescano Bonaventura di Bagnoregio in un canto successivo a quello indicato dal
titolo del tema. Nel 1987 la prova dell’Istituto d’arte attribuiva a Simone Martini
L’allegoria del buono e del cattivo governo, opera in realtà di Ambrogio Lorenzetti.
Nel 2005 gli aspi-ranti grafici pubblicitari vennero invitati a realizzare la re-clame di un
festival da tenersi a Urbino, secondo il ministe-ro provincia umbra, in realtà provincia
marchigiana.
È invece su internet che bisogna andare se si vuole racco-gliere il meglio degli
strafalcioni professorali. Gli studenti si dimostrano senza pietà, e gli errori dei prof
vengono riportati e resi indelebili sulla rete. Qualche anno la il gruppo di «Comix» ha
anche invitato gli alunni alla delazione, chiedendo agli studenti di inviare per mail le
migliori cadute degli inse-gnanti italiani al sito Sputtana il prof, che poi furono
raccolte in un libro. 14 Titolo inequivocabile, e azzeccatissimo: «Uno, due e tre,
ambedue dal preside!» (liceo Severi di Salerno), «Mi raccomando ragazzi, che sia un
testo lungo, non un testicolo!» (liceo scientifico di Belluno), oppure «Io non so...
Voi ragazzi ascoltate solo musica metallurgica» (liceo classico di Bologna).
Ma il problema non sono le gaffes, o la credibilità di in-ternet nel riportarle.
Quando «Panorama» 15 ha domandato a un campione di insegnanti di Scienze
«perché usare un tele-scopio con una lente di grande diametro permette di osser-vare
le stelle che hanno debole intensità luminosa?», solo il 35 per cento degli intervistati
ha fornito la risposta corretta, e cioè che «più grande è la lente più luce raccoglie».
Gli altri hanno detto che «la lente più grande ingrandisce di più» o che «le lenti più
grandi permettono di vedere una maggiore porzione di cielo» o che «colgono i colori
scuri delle stelle».

I Tg, chi li capisce?

Tempo fa si decise di far misurare la comprensibilità dei tele-giornali. Quanto


capiscono gli italiani delle notizie che ven-gono loro raccontate ogni sera dalla
televisione? Anzi, si do-mandò la società incaricata della ricerca, 16 quanto capisce di
un Tg chi è laureato? Quanto chi è diplomato? Quanto chi ha la licenza media o
elementare? Emerse che chi ha solo la licenzia media inferiore comprende facilmente
poco più del 20 per cento dei testi dei telegiornali.
I nostri concittadini senza alcun titolo di studio sono quasi 6 milioni (ma il dato è
relativo alla popolazione dai 6 anni in su); 17 13.686.021 sono quelli che hanno
conseguito la sola licenza di scuola elementare; poco oltre 16 milioni il numero di
quelli che si sono fermati alla licenza media o al vecchio avviamento professionale. Il
censimento 2001 ha contato che 800 mila italiani non sanno né leggere né scri-vere.
Oltre 1 italiano su 3 non ha mai letto un libro nel suo tempo libero. 18 Quasi 1 italiano
su 2 non legge neanche il giornale: solo il 58,3 per cento della popolazione Io sfoglia
almeno una volta alla settimana e, tra i lettori, solo il 40,2 per cento dichiara di
leggerlo abitualmente, almeno 5 volte alla settimana.
Nel 2005 ciascun cittadino ha destinato alla cultura quasi il 7 per cento di tutto
quello che ha speso, il 2 per cen-to in meno di quanto fatto l’anno precedente. La
media eu-ropea è del 9,5 per cento, mentre si aggira sull’I 1 in Svezia, Regno Unito,
Repubblica Ceca, Austria e Finlandia.
Gli italiani spendono sempre meno per la cultura: primum vivere, deinde
philosophari diceva Aristotele (prima si pensa a vivere, dopo a fare filosofia). In
tempi di crisi eco-nomica le spese per libri, cinema, teatro, musica sono le pri-me a
saltare: è così che un Paese comincia ad «avvitarsi» su se stesso.

Ignoranti in Tv

A questo punto c’è bisogno di spiegare il successo dell’igno-ranza in Tv? In una


ormai mitica puntata del reality La pupa e il secchione, una concorrente, vedendo la
più classica delle immagini di Dante Alighieri (quella di tre quarti, con il capo coperto
e l’alloro a cingergli le tempie), esclamò felice per averlo riconosciuto: «È un
guerriero indiano!». La trasmis-sione di Italia 1 si incentrava sulla convivenza forzata
di in-telligentissimi nerds e bellissime «sciacquette». In divertenti ma in realtà
drammatiche prime serate (in gran parte recita-te, ma non è questo il punto), le
concorrenti acconsentivano ad esporsi alla gogna mediatica rispondendo a domande
di cultura generale. Fu sostenuto nell’ordine che «la Gioconda è stata dipinta da
Giuseppe Verdi», che «il potere legislativo in Italia è detenuto dal Papa», che «la
capitale della Cina è Mongolia», che «il sole sorge due volte all’anno». I campi su cui
fu testata l’ignoranza delle concorrenti furono i più sva-riati. L’allora ministro
dell’Economia Tommaso Padoa Schioppa veniva definito un «tassista /tassiere/
tassinista / taxista/ emissore /ministro delle Tasse»; l’ex giocatore Pelé era
«Mandela/un mago dei tarocchi». Costrette (ma in realtà consenzienti e in parte
complici) a dare un nome Al volti che venivano inquadrati, le concorrenti sostennero
che Albert Einstein era «un pazzo/pittore/Frankenstein», Massimo D’Alema «un
attore italiano», Mahatma Gandhi «un soldato africano», Adolf Hitler «un attore»,
Saddam Hussein «un di-rettore che vive a Bari/Bali».
Quando il conduttore, Enrico Papi, domandò a una concorrente cosa avesse
scritto Karl Marx, la risposta fu il si-lenzio più assoluto, e quando provò a suggerire
«il ca... il ca...» la ragazza esplose ispirata: «Il Canzoniere!».
Non erano previste vie di mezzo: o eri pupa o eri secchione. Era evidente il peso di
una sceneggiatura che imponeva a pupe e secchioni il rispetto del ruolo, ma alle
ragazze dire castronerie veniva facilissimo e, soprattutto, erano loro a piacere al
pubblico. I secchioni erano visti (e in realtà lo erano) come dei mostri abbrutiti e resi
grotteschi dal loro ottuso e inutile sapere.
Cinquantanni fa gli italiani ammiravano la cultura di Gianluigi Marianini, campione
plurilaureato di Lascia o rad-doppiai, che rispondeva a domande sulla storia della
moda e del costume. Marianini era uno dei primi anticonformisti: capelli a spazzola,
un filo di barba curatissima, atteggiamen-to dandy, vestiti improbabili, estroso,
battutista e pazzerellone. All’epoca Mike Bongiorno lo trattava con rispetto. Oggi
Enrico Papi lo appenderebbe a un trapezio, con una tuta aderente viola, sopra una
piscina piena di acqua e fango. E tutti ne rideremmo.
Ci sarà un motivo se le generazioni passate invidiavano i sapienti concorrenti di
Lascia, o raddoppia? mentre i telespet-tatori di oggi si immedesimano in una ragazza
che definisce Giuseppe Garibaldi «quello delle mille lire». Assistere a una
concorrente che confonde il Dalai Lama con «Buddha/Dalamadò/Aladino», Camillo
Benso Conte di Cavour con «un musicista» e Gianni Agnelli «con l’attore che ha
fatto lo scia-mano nel film sui Doors» forse consola («C’è chi sta peggio di me...»)
oppure rincuora («Vedi che anche gli altri stanno come me?»). Di certo io stesso non
ho perso una puntata di quel programma, e tutti, in famiglia, lo seguivamo con
inte-resse. Ci divertiva, non ci indignava.
3
I veri ignoranti

Cosa è la cultura?

Abbiamo definito «ignorante» chi non sa farsi capire dagli altri e non riesce a
comprenderli, definizione che si attaglia bene anche a molti che hanno studiato tanto.
Luciano Luigi Pellicani, al corso di Sociologia, ci spiegava che «un uovo deposto
dalla gallina è natura, cotto in padella è cultura», intendendo che cultura è tutto ciò
che viene trasfor-mato dall’uomo e che quindi dell’uomo porta il segno, il trat-to.
Ovviamente è questa la definizione giusta, e ovviamente è sbagliata la definizione di
uso corrente per cui è «cultura» tut-to ciò che è alto, tutto ciò che è per pochi, tutto
ciò che spes-so risulta incomprensibile Al più. In realtà è impossibile soste-nere che
Gargantua su Rai Tre sia cultura mentre I Cesaroni su Canale 5 no: tutto quello che
non esiste in natura ma viene trattato dall’uomo possiede un tratto culturale.
Questo libro non è un trattato di sociologia, e quindi ci limitiamo a dire che, per
come la intendiamo noi, una per-sona colta non è una persona che sa tutto, ma è una
persona che sa alcune cose e ha la capacità di godere di altre. Per esempio, un
medico ha una preparazione da medico, un in-gegnere padroneggia materie utili alla
sua professione, ma (se sono persone colte) quando vanno al cinema sanno go-dersi
un bel film, quando vanno allo stadio riescono a gu-starsi una bella partita. La
persona colta è chi sa ascoltare e capire qual è il problema, e riesce di volta in volta a
trovare le soluzioni adeguate. Più capisce più vuol dire che ha stru-menti per capire,
quindi più cultura (e più esperienza).
Una persona colta ha una mente aperta e critica, pronta ad ascoltare le soluzioni
che vengono da altrove e disponibile a correggere i propri errori. Una persona che sa
argomentare le proprie tesi e che ha gli strumenti per capire gli altri.
Possiamo poi dire che la cultura di un Paese si stabilisce misurando le capacità di
chi esce dalle scuole. Se scopriamo che i nostri laureandi non sanno argomentare una
tesi, op-pure che i nostri maturandi non sanno fare un riassunto, scopriamo che il
nostro livello culturale è insoddisfacente.

I più ignoranti di tutti

La consapevolezza di non sapere è cultura. Quest’ultima non è definita solo dalle


conoscenze specifiche, ma anche dalla capacità di riconoscere le abilità degli altri e di
affidare alle persone giuste la soluzione dei problemi che incontria-mo. Lo studio
delle discipline non offre solo le conoscenze del campo specifico, ma anche una
sorta di disciplina men-tale nel sapersi riconoscere come ignoranti. Paradossalmen-te
si studia per capire quante cose non si sanno.
«Davanti all’ignoranza siamo tutti uguali, perché l’igno-ranza è infinita» spiega il
filosofo Dario Antiseri, intervistato da Mercedes Vela Cossio. 1 «Davanti all’infinito
delle cose da sapere» continua Antiseri «uno è come mille: qualcuno può sapere
alcune cose, l’altro ne può sapere altre... siamo tutti insegnanti, e siamo tutti
ignoranti... La questione di fondo è che esistono conoscenze di situazioni particolari
di tempo e di luogo che sono disperse fra milioni e milioni di uomini.» Nessuno è in
grado di sapere tutto quello che c’è da sapere: né su un argomento né su tutti gli
argomenti. A chiunque sfuggirà sempre qualcosa, e quel qualcosa farà di lui un non
sapiente, quindi un ignorante. Nessuno può ritenersi dotto di fronte a un’altra
persona: quest’ultima saprà sempre qual-cosa che io non so. «Noi siamo fallibili, e
siamo tutti igno-ranti» conclude Antiseri. «L’ignoranza è un tratto costitutivo
dell’umanità, e colui che pensa di non essere ignorante crea solo danni a se stesso e
agli altri. 11 dogmatismo, la convin-zione di conoscere la verità assoluta, di essere
l’interprete le-gittimato di valori esclusivi, è la base del fondamentalismo, ed è persino
alla base di ogni sistema totalitario.» La consa-pevolezza della propria relativa
ignoranza è libertà, la con-vinzione di essere onniscienti è l’anticamera della dittatura.

Breve storia dell’ignoranza

Gli inglesi hanno due termini distinti per indicare chi non sa leggere e scrivere e chi
non sa usare i numeri: illiteracyh il primo, e noi lo traduciamo il più delle volte come
«analfa-betismo», ma in realtà sbagliamo. Milletteralismo è più che altro l’incapacità
di maneggiare gli strumenti della cono-scenza, della cultura, la fatica nel capire e nel
farsi capire. Per indicare chi non sa usare i numeri gli inglesi parlano di innumeracy,
che significa più o meno «non saper far di con-to». Noi italiani usiamo un solo
termine, analfabetismo, per entrambi i fenomeni, forse perché siamo più tolleranti, e
stare lì ad additare persino chi non sa fare le divisioni ci sembra eccessivo.
Cosa significa non saper leggere, scrivere e far di conto? «Per alcuni millenni»
spiega Tullio De Mauro, «leggere, scri-vere e far di conto furono un bene di cui si
avvantaggiava l’intera vita sociale: era importante che alcuni lo sapessero fa-re per
garantire proprietà, conoscenze, pratiche religiose, memorie di rilievo collettivo,
amministrazione della giusti-zia. Ma nelle società aristocratiche a base agricola,
purché ci fossero alcuni letterati, la maggioranza poteva fare tranquil-lamente a meno
di queste capacità. I saperi essenziali veniva-no trasmessi oralmente e perfino senza
parole. Anche i po-tenti potevano infischiarsene, purché disponessero di scribi
depositari di quelle arti. Carlo V poteva reggere un immenso impero, ma aveva
difficoltà perfino a fare la firma autografa. Le cose sono cambiate in tempi
relativamente recenti [...]. E sopravvenuta l’idea che tutti i maschi abbienti, poi tutti i
maschi in genere, infine perfino le donne, potessero avere parte nelle decisioni
politiche. La "democrazia dei moderni" e i movimenti socialisti hanno fatto apparire
indispensabile che tutti imparassero a leggere, scrivere e far di conto.» Al giorno
d’oggi per essere cittadini a pieno titolo della nostra società «leggere, scrivere e far di
conto servono sempre, ma per acquisire livelli ben più alti di conoscenza necessari
oggi all’inclusione, anzi a sopravvivere in autonomia». 2 Al sapere, ormai, è legato il
nostro futuro, l’uomo libero è principal-mente colui che ha la possibilità di decidere il
proprio desti-no, e che quindi ha l’opportunità di migliorarlo.
«È con la Rivoluzione francese» spiega lo storico Gio-vanni Orsina «che nasce
l’idea di una nuova società basata sull’individuo, dove ognuno sceglie per sé e dove
il proprio destino non è stabilito dal ceto in cui si nasce. Il proprio fu-turo non va
accettato con rassegnazione, ma può essere co-struito. L’individuo scopre di potersi
muovere, di poter de-cidere e determinare autonomamente il proprio destino.
Nell’Antico Regime il merito individuale è inutile, il futuro dell’individuo è
preordinato alla sua nascita. Vige il sistema delle caste: i figli dei nobili sono destinati
ad essere nobili, i figli degli artigiani, artigiani. Ognuno diventa quello che nasce: solo
il clero e l’esercito danno una certa possibilità di mobilità sociale, ma comunque non
per tutti.» 3

L’illetterato

L’«illetteralismo» è quindi l’incapacità di maneggiare gli strumenti della conoscenza,


della cultura, la fatica nel capire e nel farsi capire. Il professor Tullio De Mauro,
citando due diverse indagini comparative svolte nel 1999-2000 e nel 2004-2005 in
diversi Paesi, riassume così lo stato del nostro Paese: «Cinque italiani su cento tra i
14 e i 65 anni non san-no distinguere una lettera da un’altra, una cifra dall’altra.
Trentotto lo sanno fare, ma riescono solo a leggere con diffi-coltà una scritta e a
decifrare qualche cifra. Trentatré supe-rano questa condizione ma qui si fermano: un
testo scritto che riguardi fatti collettivi, di rilievo anche nella vita quoti-diana, è oltre la
portata delle loro capacità di lettura e scrit-tura, un grafico con qualche percentuale è
un’icona incom-prensibile. Secondo specialisti internazionali, soltanto il 20 per cento
della popolazione adulta italiana possiede gli stru-menti minimi indispensabili di
lettura, scrittura e calcolo necessari per orientarsi in una società contemporanea».’ 1
Qualche anno fa «L’espresso» pubblicò una ricerca del Centro europeo
dell’educazione sullo stato culturale del Paese. Il Cede 6 aveva sottoposto un
campione di italiani ad alcuni test finalizzati a misurare il livello di confidenza con la
parola e il suo significato. I risultati furono scioccanti, perché emerse che le
generazioni nuove più scolarizzate so-stituiscono sì le vecchie (riducendo l’area di
analfabetismo), ma «perdono sempre più la capacità di utilizzare l’alfabeto per capire
e comunicare: sta aumentando la gente che si esprime con un vocabolario povero e
capisce solo concetti elementari. Si estende sempre più quello che gli esperti
chiamano il rischio alfabetico». 7 Il Cede denunciava come l’illetteralismo
conquistasse terreno anche tra i ceti «che una volta si sarebbero definiti intellettuali,
ma che dimostrano di non riuscire a utilizzare le proprie competenze linguisti-che al di
fuori del loro ristretto campo specifico».

Una nuova classe di italiani

Il test funzionava più o meno così: 5 livelli di difficoltà, e chi superava il turno si
metteva alla prova con l’esame successi-vo. I peggiori («con competenza alfabetica
molto modesta, al limite dell’analfabetismo») si sono fermati al primo livel-lo, quello
in cui veniva chiesto Al candidati di «calcolare il totale da pagare in un conto della
tintoria». Al secondo tur-no si sono fermati quelli che, davanti alle previsioni del
tem-po, non sono riusciti a calcolare di quanto la temperatura di Napoli fosse
superiore a quella di Aosta. Al terzo turno sono caduti i candidati che, con le
istruzioni in mano, non hanno saputo dire in quali casi andava consultato il medico
prima di assumere una medicina. Al quarto e al quinto turno (quello delle persone
«colte») sono arrivati quelli in grado di «scegliere, consultando una guida, un albergo
pronto ad ospitare cinquanta persone in occasione di un convegno che durerà due
giorni».
La sorpresa? L’8 per cento delle persone catalogate al li-vello più basso («quello»
scriveva «L’espresso», «in cui si può essere in grado di tracciare la propria firma o
di riconoscere l’insegna di un negozio, ma non si è in grado di utilizzare il linguaggio
scritto per produrre o ricevere messaggi che ri-chiedono una pur modesta
organizzazione del discorso») 8 era laureato. Il 10 per cento diplomato. Ma c’era un
altro dato inquietante.
Tutti noi, terminati gli studi, pendiamo a mano a mano la capacità (per esempio) di
tradurre dal latino o di risolvere un’espressione. Manteniamo dentro di noi i concetti
fonda-mentali, ma dimentichiamo molto spesso l’applicazione pratica delle discipline.
Nelle ultime generazioni, invece, con il tempo che passa, «non si perdono più solo le
cono-scenze di discipline specifiche. Ora si perde la cultura di ba-se, quella
alfabetica».
La stessa inchiesta del Cede, riportata da «L’espresso», metteva tra l’altro in luce
come l’ignoranza, in Italia, non sia sinonimo di povertà, anzi. «Circa il 60 per cento
delle per-sone che si collocano nei primi due livelli, quelli più bassi, ha un reddito da
lavoro che supera i 42 milioni annui e un reddito familiare superiore Al 140 milioni.»
La ricerca bat-tezzava insomma la nascita (già Al tempi della lira) di una nuova classe
sociale: benestanti ma ignoranti. Pronti a spen-dere ma incapaci di capire,
«avvantaggiati dal punto di vista dei consumi ma svantaggiati da quello dei diritti civili
e po-litici». Ignoranti, ma non lo sanno. Ignoranti, ma non glielo si può dire.
Ignoranti, e chiunque se ne può approfittare. Sia di destra, sia di sinistra, sia di
centro; siano gli imprendi-tori, siano i sindacalisti, siano i laici, siano gli ecclesiastici,
siano i pubblicitari, siano gli avvocati, siano i giornalisti o siano i notai. Potrebbe
essere chiunque.
La cultura è la miglior difesa del cittadino. Quale che sia il pericolo cui è esposto.

I tanti e i pochi

II problema maggiore di non avere un’istruzione, scriveva Gilbert Keith Chesterton, 9


è che corri il rischio di prendere sul serio le persone che ce l’hanno.
Quando il fior fiore della classe dirigente (sia esso un manager da più di 800 mila
euro l’anno o un politico che ri-copre un incarico importante) mostra disinteresse per
il sa-pere, vuol dire che siamo davanti a quella che è solo la pun-ta dell’iceberg e che
non dobbiamo preoccuparci della vetta ghiacciata, ma della montagna che si
nasconde sottacqua.
In Italia, attualmente, la conoscenza della propria storia, dei propri pensieri, delle
proprie idee non è un valore tra i più riconosciuti; la preparazione (che non sia quella
specifi-ca per la soluzione di un determinato problema) non viene particolarmente
apprezzata, l’abilità viene generalmente preferita alla capacità. «Somari» scrive Giulio
terroni su «Panorama» «ci sono stati in tutti i tempi e in tutte le scuo-le: ma il somaro
classico tendeva quasi sempre a prendere atto della propria ignoranza [...]. L’asinità
contemporanea è invece lucidata, plastificata, arrogante, pretenziosa; ha per-duto
ogni rapporto con il solido fondo della materia; non ha complessi e per lo più non
riconosce se stessa, immersa in un brodo che le fa apparire tutto facile, tutto
indifferen-te, tutto alla sua portata.» 10
Certo, la cultura piace ancora, e molto. Si usa internet per trovare citazioni che
colpiscano l’immaginario colletti-vo, e magari si finisce per leggere in Parlamento un
brano di Martha Medeiros scambiandolo per un’opera di Pablo Neruda, perché
probabilmente il curatore del sito internet da cui si è pescato non aveva controllato
bene le fonti. D’al-tronde non abbiamo visto fare così gli stessi esperti del mi-nistero
alla maturità? Non abbiamo visto un governatore leggere al suo insediamento il
discorso già letto dal presi-dente di un’altra regione?
A essere sinceri non cambia molto, Al fini dell’utilizzo che viene fatto in una
convention o in un discorso parla-mentare, se il generale sconfitto fosse Caio o
Sempronio o se il poeta citato fosse in effetti Tizio o Caio, o se la poesia fosse
dedicata a un uomo o a una donna. L’approssimazione nell’utilizzo del materiale,
letterario o storico che sia, nasconde però un disinteresse per il sapere che emerge
sempre e sol-tanto nei contesti che sottostimano il valore della formazio-ne,
intendendo per formazione il processo che porta un in-dividuo, un gruppo, un Paese
o una società a migliorarsi.
All’Italia, insomma, non interessa migliorare.
Quando la preparazione, l’amore per il sapere e la colti-vazione dell’intelletto
diventano il gioco di un gruppetto ri-dotto e (spesso) stizzito, un’elite che il Paese
non ammira ma che anzi deride, il campanello d’allarme per una società è suonato. Se
il sapere, invece di essere destinato alla dillu-sione, diviene preda di risicate
minoranze addette alla sua venerazione, se si trasforma in qualcosa di sacrale, oggetto
di culto di pochi, tristi sacerdoti, si è in realtà trasformato in modernariato. 11 sapere,
quando viene tutelato, nascosto, protetto, idolatrato, perde ogni suo significato,
diventa un’arma che i pochi brandiscono contro i tanti, un’arma che comunque, alla
fine, si trasforma sempre in un boomerang per chi la maneggia.
4
Il prezzo dell’ignoranza
Una sola parola

Se dovessi usare una sola parola per indicare quello che ri-tengo di avere imparato a
scuola, direi che ho imparato a concentrarmi.
L’essenza stessa della concentrazione, la capacità di isola-re qualcosa dal contesto
e leggerlo, studiarlo, ricordarlo, credo si impari alle elementari. Per essere precisi,
sono con-vinto che all’asilo si impari a stare con gli altri, a seguire gli stimoli e a
mettere a frutto un metodo, rispettando le tegole che la convivenza impone. È invece
alle elementari che ci si incuriosisce, che ci si appassiona davanti alle cose che non si
conoscono, ed è lì che si impara a gustare il tempo passato sui libri. Se non ami lo
studio alle elementari, è probabile che l’opportunità di appassionarti a esso ti si
ripresenti solo all’università.
Alle medie credo di aver imparato a concentrarmi nono-stante. Alle medie si impara
a concentrarsi nonostante tutto il rumore che c’è intorno, nonostante i compagni che
ci di-straggono, nonostante gli interessi nuovi, le nuove esigenze e i nuovi ambienti
che confondono (e però arricchiscono) un adolescente. Alle medie scopri di essere
diverso da quello che sei, e riuscire a concentrarsi in un momento come quel-lo
diventa un merito da Guinness. Riferisco una considera-zione che ho fatto insieme ad
alcuni amici: se un ragazzo o una ragazza escono vivi dalle medie, il più è fatto.
Al liceo se sei fortunato impari a concentrarti su quello che più ami, su quello che
più ti interessa, ed è lì che comin-ci a mettere in relazione la concentrazione con un
obiettivo, dando vita e alimentando una passione. Al liceo scopri che i secchioni non
si godono la vita, ma che non se la godono neanche quelli che non studiano. Al liceo
ho capito che leg-gere è un piacere e che non serve (solo) a prendere un bel voto, ma
a vivere meglio, a comprendere l’esistente, a im-maginare quello che (ancora) non si
conosce.
All’università si impara a concentrarsi da soli, rinuncian-do alla rete di protezione
del gruppo, a quella struttura che fornisce sostegno e ospitalità a ognuno di noi ma
che ci ab-bandona di colpo una volta letti i quadri della maturità.
Dopo l’università qualcuno trova lavoro, e la capacità di concentrarsi viene messa a
dura prova: i più fortunati la uti-lizzano perché amano quello che fanno, i più rigorosi
per-ché si sentono comunque in dovere di farlo anche se non apprezzano il proprio
lavoro, i più sfortunati le dicono ad-dio, perché non trovano un motivo valido per
concentrarsi, e passano il tempo a cercare di distrarsi. Anzi, a essere preci-si, la
ricerca di una distrazione diventa l’unica ragione valida su cui concentrarsi, perché il
resto annoia.

Investimenti a lungo, a medio e a breve termine

«Il Paese famoso per i suoi straordinari prodotti alimentati» scrive l’economista
Giangiacomo Nardozzi «non è presente Al primi livelli delle multinazionali del settore,
dove invece stanno stabilmente gli svizzeri della Nestlé. Non sono im-prese italiane
quelle che portano per il mondo la pizza (Piz-za Hut), l’espresso e il cappuccino
(Starbucks). Nel "sistema moda", società svedesi, spagnole, svizzere vengono prima
di quelle italiane per capitalizzazione di Borsa. Siamo capaci di costruire i gioielli di
Maranello ma la nostra grande indu-stria automobilistica è andata in crisi.» 1
Sono gli stranieri a fare i soldi con l’Italia, e gli economi-sti ci spiegano che è forte
il legame tra gli indici dei livelli culturali e le capacità tecnologiche e produttive di una
col-lettività, sia essa un Paese o anche una qualche area regiona-le. Se non riusciamo
a trarre profitto da noi stessi, insom-ma, la colpa è anche di quanto siamo ignoranti.
«L’analfabetismo italiano» scrive Tullio De Mauro «ha radici profonde. Ancora
negli anni Cinquanta il Paese vive-va soprattutto di agricoltura e poteva permettersi di
avere il 59,2 per cento della popolazione senza titolo di studio e per metà totalmente
analfabeta (come oggi il 5 per cento). Fuga dai campi, bassi costi della manodopera,
ingegnosità [...] lo hanno fatto transitare nello spazio di una generazio-ne attraverso
una fase industriale fino alla fase postindu-striale. Nonostante gli avvertimenti di
alcuni, l’invito a in-vestire nelle conoscenze non è stato raccolto né dai partiti politici
né dalla mitica gente. Secondo alcuni economisti il ristagno produttivo italiano, che
dura dagli anni Novanta, è frutto dei bassi livelli di competenza. Ma nessuno li
ascol-ta; e nessuno ascolta neanche quelli che vedono la povertà nazionale di
conoscenze come un fatto negativo anzitutto per il funzionamento delle scuole e per
la vita sociale e de-mocratica.» 2
Investire nella scuola non vuole certo dire ottenere risul-tati immediati. Vuol dire
magari alleggerire il presente di chi nella scuola oggi lavora, ma soprattutto significa
pro-grammare il futuro delle prossime generazioni.

Le teste degli italiani

La crescita di un Paese passa attraverso le teste dei suoi citta-dini. Francesco


Giavazzi ha scritto sul «Corriere della Sera» che «dal dopoguerra alla fine degli anni
Ottanta la distanza fra il reddito dei laureati e quello di lavoratori poco istruiti è
rimasta relativamente stabile; ma negli ultimi vent’anni quella distanza è esplosa.
Innovazione tecnologica (internet, i computer, l’uso sempre più frequente di modelli
fisici e matematici nella finanza) e globalizzazione hanno concorso a far crescere il
"premio all’istruzione". La globalizzazione [...] premia l’istruzione perché le imprese,
per sopravvivere, devono dedicarsi a produzioni che richiedono lavoro con un
elevato livello di specializzazione. Chi ha smesso troppo presto di studiare, o chi ha
avuto la sfortuna di frequentare scuole cattive, è perduto». 3
E questo discorso non vale certo solo per noi. La Dichia-razione di Berlino4 recita
che «la ricchezza dell’Europa risie-de nella conoscenza e nelle competenze dei suoi
cittadini». In Francia la Commissione Attali5 è arrivata alle conclusioni che «i francesi
devono prima di tutto porre in essere una vera economia della conoscenza,
sviluppando il sapere di tutti, dall’informatica al lavoro di squadra, dal francese
all’inglese, dalle elementari agli studi superiori, dall’asilo alla ricerca».
Nel mondo globalizzato non vince chi si protegge o chi resiste al cambiamento, ma
chi studia e si migliora, al fine di comprendere e pilotare le trasformazioni. Questo
vale per i Paesi e le economie, ma anche (se non soprattutto) per i sin-goli cittadini, e
per migliorare le persone sinora non si è in-ventato nulla di meglio della scuola.
«Negli Usa» continua Giavazzi «l’ampliamento del differenziale fra lavoratori istruiti e
non istruiti dipende soprattutto dal fatto che, dagli anni Ottanta, il sistema educativo
americano non ha tenuto il passo con i progressi della tecnologia e ha lasciato
indietro un numero crescente di giovani.» Se non è la scuola a stare dietro al mondo
che cambia, il Paese segna il passo, e sem-pre più persone finiscono al margine. E la
scuola a prepara-re alle sfide della vita, ed è la scuola a dover migliorare in
continuazione: se resta indietro lei, restano indietro tutti.
La vera sfida della vita, in fondo, potrebbe essere vista co-me quella di risolvere
problemi. I problemi sono sempre di-versi, più complessi, più difficili, più rischiosi,
ma sono sem-pre e solo problemi: si possono risolvere, a patto che siamo in grado di
produrre soluzioni. Soluzioni da inventare, da pro-vare, eventualmente da scartare,
possibilmente da applicare.
Le soluzioni, però, possono essere prodotte solo con l’immaginazione, e
l’immaginazione per funzionare richie-de un carburante: le idee.
Albert Einstein sostenne che «le idee sono la cosa più reale che esista al mondo», e
in effetti è così, perché solo con le idee si possono risolvere i problemi. Ma allora,
come ci si rifornisce di idee?

Il carburante delle idee

Ci sono molti modi di comunicare. Si comunica con il lin-guaggio, ma anche con i


movimenti, con i gesti, con le posi-zioni del corpo, con la musica...
Prendiamo l’esempio del modo di vestire: è anch’esso si-curamente un modo di
comunicare. Io posso vestire in mo-do classico, giacca, cravatta, e cercare di dare di
me un’im-magine professionale e rassicurante, o presentarmi in jeans e camicia per
suggerire l’idea del casual e moderno. 6
In linea di massima possiamo dire che un mittente invia un messaggio a un
destinatario. Più il destinatario è colto, più ha studiato, più ha viaggiato, più
esperienze ha avuto, più chiacchierate si è fatto con persone diverse da lui e più sarà
in grado di tradurre ogni tipo di messaggio. Meno di queste esperienze avrà fatto,
meno comprenderà. Più studi, più capisci. Più vivi, più comprendi.
Si aumenta infatti la propria capacità di comprendere (e di farsi comprendere)
viaggiando, lavorando, parlando, en-trando in contatto con gli altri, amando,
odiando, vincen-do, perdendo, sbagliando, correggendosi. Anche (e soprat-tutto)
studiando.
Ci siamo più volte posti la domanda: a che serve studia-re? Poniamoci adesso la
domanda inversa: se una persona non studiasse... cosa sarebbe? «Noi» ci spiega
ancora Dario Antiseri «grazie alle idee che abbiamo in testa guardiamo il mondo,
leggiamo la realtà che ci circonda e comprendiamo persino noi stessi; più idee
abbiamo, più teorie conosciamo, più ipotesi siamo in grado di sviluppare e più
comprendia-mo noi stessi e l’esistente. Senza la conoscenza la nostra vita sarebbe
vuota.» 7
Studiare, conoscere, imparare serve quindi a vivere me-glio. «Karl Popper» 8
continua Antiseri «diceva che tutta la nostra vita è risolvere problemi: se noi non ne
siamo capaci, se non siamo in possesso di teorie e metodi per risolvere i problemi, la
nostra vita è non vita. È importante studiare e uscire dalla scuola con un patrimonio
di idee che ci permet-tano di leggere e capire il mondo, che ci consentano anche di
intervenire su noi stessi e su quel che ci circonda.»
La scuola ci offre quindi gli strumenti per risolvere i no-stri problemi, ovvero per
vivere meglio la vita. La scuola ci rifornisce di idee.
Prof1
Vita da prof

I professori

Chi sono gli insegnanti? È difficile darne una definizione, perché è difficile scegliere
quale aspetto metterne in eviden-za. Dal punto di vista statistico ne escono malissimo:
sono tantissimi, presi tutti insieme costano parecchio, mentre ognuno di loro
guadagna davvero poco. Nessuno di noi però è mai entrato in contatto con il
cosiddetto «corpo do-cente»; ognuno di noi è entrato in contatto con diversi,
sin-goli professori, individui che ci hanno reso in gran parte quello che siamo,
aiutandoci, danneggiandoci, insegnando-ci a pensare, a parlare, a comunicare. Hanno
contribuito a formare il carattere che abbiamo, hanno molte volte domi-nato i nostri
pensieri, acceso le nostre speranze, scatenato le nostre paure.
Se dovessi dire quali docenti sono stati importanti nella mia vita, ne dovrei
nominare diversi. Il maestro delle ele-mentari, il sabato, ci insegnava a suonare la
chitarra. La mattina, prima di iniziare la lezione, ci faceva fare ginnasti-ca in aula,
mettendoci in fila e facendoci salire in piedi sui banchi, per poi saltare giù. Era
severissimo, duro, ma molto intelligente: sapeva farci amare lo studio e la lettura, ma
ave-va modi piuttosto spicci. Quando durante un’interrogazio-ne mi misi a fare lo
spiritoso con un amico seduto al primo banco, mi diede uno scappellotto sulla nuca
e mi mandò fuori dall’aula; se qualcuno lo facesse oggi a mio figlio, pro-babilmente
penserei alla denuncia, quantomeno protesterei con la preside, ma non posso negare
che allora compresi che c’è il momento per scherzare e il momento per essere seri.
Alle medie la prof di Italiano era temutissima. Entrava in classe senza dire una
parola, si sedeva in cattedra ed estraeva i nomi degli interrogati da un sacchetto della
tombola. Quando si infuriava urlava «Che Dio vi strafulmini!», ma poi ingoiava la
risata che le saliva da dentro. Anche lei era brava, e alla fine ne ho un buon ricordo,
anche se all’epoca ci terrorizzava.
Quelli del liceo li ricordo tutti. Al ginnasio la prof di Let-tere era rigorosissima, non
concedeva nulla, e ci costringeva ad affrontare la realtà per quella che era: chi si
lasciava anda-re anche solo un attimo a non pensare veniva immediata-mente
richiamato alla concentrazione. La rispettavamo.
Con il professore di Filosofia siamo ancora molto amici, gli devo moltissimo: ci
ascoltava, scherzava con noi, ci face-va amare il pensiero e la storia del pensiero,
sosteneva gli sforzi che facevamo per essere diversi dagli altri. A centro-campo era
fortissimo, per noi era «il Guerriero».
Con quella di Italiano, al liceo, litigavamo e ci confron-tavamo, spesso a casa mi
divertivo a pensare come le avrei comunicato, il giorno dopo, che secondo me aveva
sbaglia-to tutto (cosa poi, naturalmente, non vera). La professoressa di Greco vestiva
il camice come quello dei bidelli, lo faceva per non sporcarsi col gesso. Ci fece
capire che tutti noi sia-mo la lingua che parliamo. Il prof di Ginnastica avrà avuto
poco più di vent’anni: era un amico, con lui giocavamo a pallone, parlavamo di
politica, di cose serie, mangiavamo la pizza insieme. Quella di Matematica era
stranissima, un ge-nio: si rifiutava di segnare un confine tra i numeri e le idee, delle
sue lezioni riuscivamo a comprendere poco, ma quel poco ci faceva intravedere la
filosofia dietro le espressioni. Poi ha lasciato la scuola e si è messa a gestire un
famoso bar del centro.
I professori però non segnano solo in positivo la nostra vi-ta. Io andavo bene, me
la cavavo più o meno in tutto, ma ho visto prof sbagliare completamente giudizio su
ragazzi che dopo si sono fatti largo alla grande nella vita. Alcuni compa-gni sono stati
bocciati perché non sono stati compresi, si so-no ritirati perché non sono stati
stimolati a dovere o perché sono stati lasciati affogare in problemi che allora
sembravano enormi, ma che oggi sappiamo essere risolvibili. I professori sono
persone che hanno fatto la nostra vita, che ci hanno for-mato. Come facciamo a
metterli tutti insieme e tirare una media del loro rendimento, del loro costo, del loro
status?
La professione del docente è unica. Il maestro, il profes-sore, hanno in mano le
sorti degli individui, e quindi quelle del mondo intero. Ma se anche valutare la
categoria nel suo insieme è un lavoro sporco, è pur vero che qualcuno deve decidersi
a farlo.

Le tasche del prof

Tre milioni e 500 mila italiani lavorano per la pubblica am-ministrazione, più o meno
un terzo di questi lavora nella scuola. I dipendenti della scuola hanno per lo Stato il
costo pro capite più basso in assoluto, pari a 34.438 euro l’anno, ma visto che il
comparto è quello più numeroso di tutti, un milione e 130 mila dipendenti, nel
complesso è quello per cui lo Stato spende di più: circa 39 miliardi di euro. Anche se
la media è fatta tra i trattamenti di tutto il personale scolastico (amministrativi, bidelli,
insegnanti...) si può dire che i prof italiani sono tanti, costano tanto e guadagnano
poco. È il classico paradosso italiano.
I docenti, alla fine dei conti, costano tanto ma sono in-soddisfatti, sono i
dipendenti a cui lo Stato dovrebbe tenere di più ma sono quelli, presi a uno a uno,
più facilmente so-stituibili. Qualsiasi cosa dovesse succedere, non rimarremo mai a
corto di professori.
Un insegnante di scuola dell’infanzia con meno di otto anni di anzianità guadagna
14,6 euro l’ora, poco più di una collaboratrice domestica, mentre 15 anni di
insegnamento garantiscono a un prof di secondaria superiore (il liceo) uno stipendio
lordo di 27.500 euro l’anno. La media Ocse (Or-ganizzazione per la cooperazione e
lo sviluppo economico) è superiore a 40 mila euro l’anno: lavorasse in Germania
guadagnerebbe 20 mila euro in più, in Finlandia 16 mila.
Un insegnante non la carriera: nasce e muore insegnan-te. Per diventare prof serve
la laurea (quattro anni), più un’eventuale specializzazione di due. Totale, sei anni di
stu-di, quanti quelli necessari a diventare medico, ma che apro-no le porte a uno
stipendio di 1268 euro al mese; dopo cin-que anni di insegnamento arriviamo a 1385.
Un insegnante della scuola media può arrivare a 20.068 euro lordi all’anno dopo due
anni di insegnamento, e dopo 27 anni di lavoro a 26.544 euro lordi all’anno. Dopo 35
anni (a fine carriera) si arriva al picco di 30 mila euro lordi. Un insegnante del liceo
dopo 35 anni può arrivare a 31.492 euro lordi annui (1400 in più del collega delle
medie).
In epoca di detassazione degli straordinari va ricordato che gli insegnanti non fanno
straordinari: oltre le 18 ore di cattedra, i prof devono fare 80 ore all’anno, divise fra
collegi dei docenti e ore funzionali all’insegnamento (scrutini, rice-vimento dei
genitori...), e possono fare 6 ore settimanali per sostituire i colleghi (sotto i 16 giorni
di assenza — nelle me-die e nelle superiori - non si chiama il supplente), ore che si
fanno sacrificando i buchi dell’orario. Queste ore in più so-no tassate con l’aliquota
ordinaria, mediamente il 27 per cento. In realtà il prof, poi, fa molto lavoro a casa,
lavoro che non viene mai computato: correzione dei compiti, pre-parazione delle
lezioni; è uno straordinario «morale», il cui adempimento viene lasciato alla coscienza
di ogni insegnan-te. Ma la coscienza, sulla busta paga, non pesa.

I prof a terra, gli alunni in piedi?

«Nella scuola c’è oggi un problema più importante dei sol-di: il rispetto, dentro e
fuori dall’aula» spiega Emma Bontempi, cinquant’anni, insegnante di Lettere in una
scuola media della provincia di Brescia, intervistata da Jenner Meletti di «la
Repubblica». 1 «Ogni volta che entro in classe fac-cio un confronto col passato,
quando sui banchi c’ero io. La professoressa entrava, noi ci alzavamo in piedi, e se
c’era un minimo di confusione l’insegnante batteva appena la mano sulla cattedra:
subito c’era il silenzio assoluto. Adesso io che non sono una novizia e ho
un’esperienza di quasi trenta an-ni, per ottenere il silenzio impiego fra i cinque e i
dieci mi-nuti. Immagini i docenti alle prime armi.»
Ma è negli incontri con i genitori che la Bontempi sco-pre quanto la professione
dell’insegnante sia poco rispettata anche fuori dall’aula: «Solo qualche genitore, che
ha una cultura e soprattutto una qualche sensibilità, ti dice che un lavoro importante
come quello dell’insegnante oggi è paga-to una miseria. Gli altri, invece, quasi ti
prendono in giro: voi professori fate tre mesi di vacanze, lavorate solo qualche ora e
poi siete liberi tutto il santo giorno...». I genitori sono il metro per misurare la poca
considerazione che dell’inse-gnante ha la società in cui viviamo: «L’altro giorno una
madre mi ha contestato il risultato di una verifica» continua la prof intervistata.
«"Conti bene" mi ha detto, "gli errori sono solo 59 e non 60 come ha scritto lei!"
Insomma, io non mi permetterei mai di andare dal medico e, invece di ascoltarlo,
insegnargli il mestiere. Con l’insegnante invece si può fare. Quando io ero l’alunna
c’era il problema opposto: per i ge-nitori il professore aveva sempre ragione, anche
quando non era il caso. Dal rispetto assoluto si è passati alla conside-razione zero.»
«Un tempo» commenta Francesco Salma se-gretario generale della Cisl scuola, «la
nostra società ci misu-rava quello che facevamo, per il nostro ruolo all’interno del-la
collettività, e l’insegnante aveva un ruolo speciale, di pre-stigio. I professori erano
quelli che formavano le nuove ge-nerazioni: la misura dell’uomo, nei nostri tempi, è la
sua re-tribuzione... e così gli insegnanti sono considerati zero.» 2
«La considerazione sociale è scarsa» spiega sempre a Jenner Meletti Giuseppe
Magurno, insegnante al liceo classico di Brescia, «soprattutto per il docente maschio.
Pensano che la tua sia stata una scelta di ripiego perché non sei riuscito a trovare una
professione più redditizia. Le insegnanti donne sono invece più tollerate, in fin dei
conti sono sempre don-ne... Ma io, quando mi metto dietro la cattedra, mi sento
bene, lo ho scelto questo lavoro.»
Quest’ultima dichiarazione ben evidenzia un rischio che corre l’insegnamento:
diventare la professione dei «romanti-ci», la professione di chi sceglie una strada
nonostante tutti gli spieghino che è un vicolo cieco. Quello dell’insegnante è un ruolo
troppo importante per il Paese, e non può ridursi a essere la scelta di vita di persone
che amano stare dietro alla cattedra. Deve tornare a essere un lavoro stimolante,
difficile ma se ben fatto conveniente, in qualche misura selettivo.
Non so se sia importante che gli studenti si alzino o no in piedi quando entra in aula
il professore. Difficile dare una risposta, anche se in teoria bisognerebbe sottolineare
come la questione sia irrilevante. Non è infatti facendo alza-re in piedi la classe al suo
ingresso che un insegnante si gua-dagna il rispetto degli alunni. Il problema non è
però così semplice, perché i tempi per i prof (e per la scuola) sono co-sì duri che il
ritorno al riconoscimento anche solo formale dell’autorità del docente potrebbe
essere di aiuto a’tutti, prof, presidi e ragazzi.
In una società matura non sono i ruoli a dare autorevo-lezza, sono le persone a
conquistarsela: sono passati i tempi in cui «il Notaio», «il Giornalista», «il
Professore» erano un’autorità in forza della professione che svolgevano. Ormai si è
capito che ognuno può essere o non essere apprezzato, dipende da come si
comporta; nel particolare, da come svol-ge la sua professione. È pur vero che, come
ci ha spiegato Francesco Scrima, in molti casi è semplicemente il reddito a
testimoniare della reputazione di una persona, e che molto spesso a fare
l’autorevolezza di una persona sono ormai la qualità di una giacca o la sfumatura di
un’abbronzatura.
L’insegnante vestito poveramente è un altro idealtipo. È così da sempre. Mia
madre ricordava sempre che il suo prof di Greco al liceo portava sotto la giacca uno
spaiato di ca-micia e dei polsini; dalle maniche della giacca si intravede-vano le
braccia nude. Era considerato però un genio, e veni-va rispettato da tutti. Oggi
verrebbe solo deriso.
In realtà molti prof hanno perso credito perché ne ha perso il sistema formativo
italiano. La nostra scuola produce diplomati che non trovano lavoro, oppure licenzia
giovani meno preparati dei loro coetanei stranieri; la nostra univer-sità non inserisce i
laureati nel circuito scientifico, ma li par-cheggia in attesa della cooptazione del
barone di turno. In-somma, scuola e università sembrano non rispondere più alle
esigenze dei cittadini, e il Professore paga per tutti.
2
A ognuno il suo
Arrivano i mostri

II destino del professore (di valore o no che sia) è quello di rimanere confuso nella
massa del «personale scolastico» e di lasciare che a rappresentare la propria
categoria siano, nell’immaginario collettivo, i «mostri» che di volta si impongo-no
all’attenzione dei media.
Quali sono i professori destinati a farsi notare? Quelli che la combinano grossa.
Scorriamo i titoli dei giornali: Mantova, rissa tra due maestre, i bambini fuggono in
lacrime, oppure: La prof è severa e ci stressa, ragazzi ammutinati: 4 classi lasciano
l’aula. Ancora: Il prof dei record: assente da scuola per 709 giorni, Il mitico prof
M., che si curava al mare: l’artrite cervicale la sua croce, la cura sulla spiaggia,
fino agli ormai episodi cult a luci rosse, finiti o meno su internet. Ol-tre Al professori
colpevoli fanno notizia i professori vittime, quelli del genere «Bari, botte al preside
anticellulari: lite con padre e nonno di un alunno. Un docente: gridavano "Vieni fuori
che ti uccidiamo"». L’immagine del professore rotola, rotola, rotola giù: e se rotola
giù lui, rotoliamo giù tutti noi. Siamo consapevoli del ruolo che svolgono veramente?
Siamo tutti consapevoli di quanto siano importanti nella for-mazione del cittadino
italiano?

Il personale scolastico

Ognuno di noi ricorda perfettamente i docenti che gli sono capitati in sorte: alcuni ci
hanno fatto del bene, altri del ma-le. Tutti hanno contribuito a fare di noi quello che
siamo. La categoria dell’eccellenza, peto, non è riconosciuta agli insegnanti, destinati
a essere definiti e (soprattutto) valutati come un unico, immenso agglomerato. Basti
pensare all’e-spressione «personale scolastico», quella con cui gli ammini-stratori, i
politici, i sindacalisti indicano le persone che lavo-rano nella scuola. Tutte le persone
che lavorano nella scuola. È «personale scolastico» il professore di Filosofia, la
profes-soressa di Italiano, gli insegnanti di Greco, di Matematica, di Economia, di
Storia dell’arte, ma è «personale scolastico» anche il segretario o la segretaria
amministrativa, il bidello o la bidella che tengono pulite e in ordine le aule, gli
scodellatori e le scodellatrici, le persone cioè che hanno il compito di riempire il
piatto dei bambini con il cibo, che (sia detto per inciso) arriva nelle mense già cotto.
Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo nel loro La Deriva 1 hanno fatto luce con
esaustiva chiarezza su questo e altri fenomeni emblematici del settore.
Il personale scolastico è dunque un’unica categoria che in-globa mondi, esperienze,
compiti e responsabilità totalmente differenti, una massa informe che mastica e ingoia
professio-nalità, curricula, responsabilità, funzioni e mansioni.
Le scuole italiane ingoiano tutto. Come nei film di av-ventura l’eroe che fugge nella
giungla si imbatte prima o poi nelle sabbie mobili, così nel mercato del lavoro italiano
il laureato deve stare attento a non finire al Provveditorato, macchina infernale che
farà di tutto per far dimenticare all’insegnante quanto nobile e delicato sia il compito
che aspetta un professore.

Tutti come uno, uno come tutti

Nella scuola non esiste alcun modo di misurare il merito degli insegnanti. Il sistema
italiano rifiuta ogni valutazione meritocratica del loro lavoro.
Il problema è stato trattato più volte, e naturalmente ri-guarda in generale il
personale dello Stato. Basti pensare che dal 2003 al 2005 uno statale su tre ha fatto
carriera. Ma se prendiamo (solo a titolo di esempio) l’ultimo rinnovo con-trattuale
della scuola, scopriamo che prevede un aumento di 140 euro lordi per gli insegnanti e
di 100 euro lordi per il personale amministrativo, tecnico, ausiliare: un aumento di
circa il 6 per cento per entrambe le categorie. L’accordo ri-guarda un milione e 200
mila lavoratori, e tutti questi (oltre un milione di persone: pensateci bene a quante
sono) avran-no uno scatto di stipendio di una decina di euro al mese a pioggia,
ovvero qualunque sia stato il loro rendimento. Hanno faticato, si sono dedicati anima
e cuore alla propria classe, sono andati a ripescare a casa gli studenti che non
volevano più studiare? Dieci euro. Hanno convinto un alunno debole a non mollare,
lo hanno spinto a credere in se stesso, gli hanno fatto scoprire il bello della letteratura
o della matematica? Dieci euro. Lo stesso aumento che perce-pirà il professore che
parla in dialetto, quello negligente, quello che fa sfogliare il manuale agli alunni mentre
si legge il giornale.
Il contratto non prevede alcun meccanismo di riconosci-mento del merito. Un
articolo (il 24) perso tra gli altri si li-mita a rilevare «l’assenza di un sistema di
valutazione nazio-nale» e, soprattutto, di risorse specifiche. Le parti (Aran e
sindacati) non si riescono a mettere d’accordo su come va-lutate il merito a livello
nazionale.
I professori sono valutabili (o misurabili) solo in blocco. Settecentomila persone
tutte uguali. Basti (ad esempio) pen-sate che in Italia non si può scegliere la classe da
far frequen-tare al proprio figlio. Bisogna (almeno in teoria) affidarsi a un sorteggio,
di modo che sia la sorte a decidere quali inse-gnanti debba avere uno studente.
«Altrimenti» spiegano i presidi «chiederebbero tutti di stare nella classe migliore.»
Ah sì? E che male ci sarebbe?

La prof migliore

Come sempre le leggi non riescono però a imbrigliare la realtà. Il merito trova
sempre un modo per farsi valere. In tutte le scuole si viene presto a sapere chi
funziona e chi no, e se anche i regolamenti impediscono di date soddisfazione a chi
fa meglio degli altri, il riconoscimento all’insegnante che si è distinto trova altre strade
per farsi largo. Gli alunni della IV A della scuola elementare Piaget di Roma hanno
scritto al ministro una lettera chiedendo di non mandare in pensione la maestra.
«”Egregio ministro della Pubblica istruzione, vorremmo informarla che la nostra
maestra di Italiano, Storia, Geografia, Immagine, Musica, l’anno prossimo deve
andare in pensione...”. Deve, per legge» scriveva Marina Cavallieri di «la
Repubblica», «ma loro vorrebbero che rimanesse almeno un altro anno, uno solo, lo
sanno che non si può, ma sono qui proprio per questo, per chiedere una proroga, un
picco-lissimo favore.» 2
«Sì, lo so che hanno scritto questa lettera, vorrebbero che rimanessi un altro anno
solo per finire il ciclo, che facessi con loro anche la quinta, se me ne andassi lo
sentirebbero come un tradimento. Le insegnanti di Matematica sono cambiate
continuamente, solo io sono un punto di riferi-mento» dichiarava alla giornalista la
maestra, Gisella Dona-ti, settant’anni appena compiuti, impegnata
nell’organizza-zione del recital di fine anno dal titolo Giulietta e Romeo, «ma fatto
ispirandosi a High School Music».
«Quando ho iniziato a lavorare» spiegava, «mio padre e mio marito non volevano,
preferivano che rimanessi a casa per la famiglia, ma poi ho insistito e cosi ho potuto
insegna-re. Ho iniziato con 7000 lire e loro mi dicevano: "Te ne dia-mo 14 se stai a
casa". Il fatto è che mi piace il rapporto con i bambini, faccio 5 ore e quando torno a
casa non sono stanca. Anche oggi che gli alunni sono più vivaci, più intolle-ranti alle
regole. Loro, i bambini, alla fine non sono molto cambiati.» 3 Naturalmente la maestra
Gisella non potrà te-stare, la legge parla chiaro, ma almeno lei una soddisfazione se
l’è tolta.
3
Carriere

Insegnanti e lauree

Oltre la metà degli insegnanti italiani non è laureata. Sono più di 324 mila i docenti di
ruolo che possiedono solamen-te il diploma su un totale di poco superiore a 707
mila: il 54,2 per cento, a essere precisi. A pesare sono soprattutto i settori della
scuola materna ed elementare, ma nei calcoli rientrano anche la scuola media e gli
istituti superiori con gli insegnanti tecnico-pratici. Prima di indignarvi, conside-rate
che la scuola elementare (per insegnare nella quale è obbligatorio aver fatto
l’università solo dal 1997) è considerata quella che in Italia funziona meglio, con tanti
saluti al valo-re legale della laurea. 1
Nella scuola media, comunque, i diplomati sono il 20 per cento, e si tratta
soprattutto degli insegnanti di Educazione tecnica, artistica e musicale, mentre nella
scuola elementare sono l’82,6 per cento. Nella scuola dell’infanzia il 92,2 per cento. I
supplenti annuali in genere non sono laureati (51,4 per cento), mentre lo sono quelli
che restano «fino al termine delle attività» (65,1 per cento), soprattutto perché la
maggior parte delle nomine si effettua nelle scuole secondarie. La vera sorpresa sono
però i direttori dei servizi generali e ammini-strativi (Dsga), le persone a capo degli
uffici di segreteria del-le scuole. Per accedere a quel ruolo occorre la laurea ma,
gra-zie al contratto nazionale che, in prima applicazione, ne ha previsto la deroga, i
laureati sono soltanto il 18,5 per cento.

Come si diventa insegnante

Difficilissimo dirlo. Le vie di accesso all’insegnamento sono un vero labirinto, un


ginepraio che assicura frustrazione e fati-ca a chiunque decida di intraprendere la
professione. Per anni non sono stati fatti concorsi, ma intanto molti hanno
comin-ciato a insegnare, a frequentare le famose Ssis (Scuole di spe-cializzazione, di
cui parleremo nelle prossime pagine), a rime-diare supplenze qua e là. Il panorama
adesso è intasato da un’infinità di precari, che reclamano giustamente il
riconosci-mento formale di un ruolo che hanno svolto per tanto tempo.
Fatto sta che il funzionamento delle famigerate gradua-torie è un mistero anche per
gli addetti Al lavori.
Tutto comincia negli anni Settanta. A quei tempi per in-segnare si doveva superare
un concorso nazionale organizza-to a livello provinciale: se erano disponibili (per
esempio) 200 posti e si presentavano (sempre per esempio) 10 mila persone, 200 di
queste ottenevano il posto di ruolo a tempo indeterminato, mentre 600 entravano nelle
graduatorie de-gli idonei senza cattedra, che venivano assorbiti a mano a mano che il
turnover creava delle opportunità. La graduato-ria valeva tre anni, passati i quali un
nuovo concorso im-metteva nel sistema altri docenti. Naturalmente, tra un concorso e
l’altro si formavano delle sottograduatorie, per esempio per le supplenze a termine
(come maternità, malat-tia...), occasioni di lavoro che non immettevano in ruolo ma
che permettevano di guadagnare qualcosa.
Si scoprì ben presto che tre anni non bastavano ad assor-bire tutti gli aventi diritto,
e che i nuovi vincitori di concor-so andavano a sovrapporsi Al vecchi che ancora
non avevano ottenuto una cattedra. Cominciarono a essere gestite più graduatorie, e
un complesso meccanismo burocratico ge-nerò il cosiddetto doppio canale:
attraverso il concorso ve-niva assegnato il 50 per cento dei posti disponibili, mentre
l’altro 50 per cento era competenza degli «insegnanti abili-tati con 360 giorni di
servizio», quelli cioè che avevano fatto un certo numero di supplenze. Coloro che,
sulla base di una graduatoria precedente, avevano iniziato a lavorare e ad ac-cumulate
giorni (e punti). Successivamente vennero create le Ssis, corsi di specializzazione
post laurea che permetteva-no di immettersi direttamente in uno dei due canali.

Lo scandalo Ssis

La Ssis, Scuola di specializzazione per l’insegnamento secon-dario, nelle intenzioni


del legislatore doveva essere un canale di formazione degli insegnanti alternativo alla
logica dei con-corsone Venne presentata come una super scuola per super prof, ma
si è tradotta in realtà in un super flop, un istituto che forma precari che vanno ad
aggiungersi Al precari forma-tisi altrove. Secondo l’Associazione nazionale presidi,
nell’an-no scolastico 2005-2006 meno di tre docenti su cento usciti da questi istituti
sono finiti effettivamente in cattedra. Se-condo il «Corriere della Sera», 2 «su 34.777
docenti immessi in ruolo solo 985 provenivano dalla Scuola di specializzazio-ne. Si
tratta di un esiguo 2,83 per cento di un pattuglione che dal 1999 a oggi conta ben 90
mila aspiranti disoccupati, che si aggiungono al carrozzone dei precari storici». Il
cursus di chi frequenta la Ssis è impegnativo e di tutto rispetto, salvo poi scoprire
che l’impegno profuso è inversamente propor-zionale alle possibilità di conquistare
una cattedra. Racconta il «Corriere della Sera» che per frequentare la Ssis in Italia
oc-corre sostenere un test di ammissione, che consiste nel supe-ramento delle prove
formulate in base alle classi di concorso per cui si vuole ottenere l’abilitazione. I test
della prova di in-gresso alle Ssis vertono sui programmi ministeriali dell’ulti-mo
concorso a cattedre, che risale al 1999. La durata della Scuola di specializzazione per
l’insegnamento è di due anni; i corsi prevedono un monte di 1200 ore, di cui 400 di
tiroci-nio presso un «insegnante accogliente» all’interno di una scuola. Nei due anni
di corso si devono sostenere 35 esami, e per frequentare la Ssis bisogna sborsare
5000 euro. Cinquemila euro buttati.
«Ad oggi» scrive la giornalista, «la guerra dei poveri della lavagna conta 80 mila
disoccupati provenienti dalla Ssis, di cui quasi 12 mila iscritti al biennio 2007-2009:
sono attual-mente sui banchi e stanno frequentando il IX ciclo. Ma proprio loro
rischiano di veder vanificati i loro sforzi perché potrebbero non essere inseriti nelle
graduatorie. Queste ul-time, infatti, sono state chiuse con l’ultima Finanziaria e
trasformate in graduatorie ad esaurimento. E proprio que-sto negherebbe l’accesso
agli studenti che ancora devono so-stenere l’esame di Stato finale.»
Cinquemila euro buttati? No. Meglio dire una truffa da 5000 euro.

Le sabbie mobili

Gli aventi diritto aumentavano, il doppio canale diventava ingestibile, fu varata la


cosiddetta «graduatoria permanen-te», unica per tutti gli abilitati, divisa in diverse
fasce a se-conda della provenienza del docente. Impossibile spiegare come fu
organizzata la graduatoria, perché è impossibile comprenderlo. La classificazione si
risolse in un’infinita guerra tra poveri, insegnanti o aspiranti tali, armati di carta
bollata, alla ricerca del punteggio che garantisse il passaggio dall’inferno al paradiso,
con tanto di ricorsi al Tar e giornate passate a protestate davanti al Provveditorato.
E scontato che, in questo caos, ognuno può ritrovarsi in diverse graduatorie,
magari cercando di aumentare il proprio punteggio in una a scapito del
posizionamento nell’altra, o difendendosi dall’avanzata del collega concorrente in
una, dimenticando l’insegnante clic ti supera nell’altra. Nel gine-praio delle
graduatorie, infatti, nessuno più corre per avan-zare, ma tutti corrono per non essere
superati: si colleziona-no punti con costosissimi corsi di aggiornamento solo per-ché
si viene a sapere che il tal dei tali si è iscritto; ci si mette in lista per una supplenza
dall’altra parte del Paese perché co-sì ha fatto il rivale che alla fine ha ottenuto il
posto.
Gli insegnanti corrono contromano su un tapis roulant, cercando disperatamente
di non essere buttati a terra.
Con una legge del 2006, dalle graduatorie permanenti siamo passati a quelle «a
esaurimento»: in elenco non entra più nessuno, e prima o poi dovranno essere tutti
inseriti a ruolo. Ma al peggio non c’è mai fine, e resta aperto un cana-le di accesso
alla professione: ogni istituto ha il diritto di creare delle proprie graduatorie per le
supplenze, riservan-dosi di chiamare, alla bisogna, laureati da mettere in catte-dra.
Nasce così una lista di attesa di insegnanti che non han-no nulla da attendere. Ma di
loto parleremo dopo.

Come si vive da prof

La via d’accesso alla professione non prevede necessaria-mente la specializzazione


universitaria (fatto salvo il tragico-mico caso delle Ssis), e solo il 50 per cento dei
prof è diven-tato tale per concorso pubblico. In pratica si diventa inse-gnanti
inserendosi nelle liste di precari, facendo supplenze, e questo comporta che spesso
alcuni insegnanti rimangono precari sino al raggiungimento della pensione.
Nel 2007 i professori precari in graduatoria erano circa 300 mila, di cui 190 mila in
servizio. Otto su 10 sono don-ne, 6 su 10 sono nati al Sud. Il prof precario ha un’età
media di 39 anni: il supplente, insomma, non è più il giovane che fa dimenticare in
breve il titolare di cattedra malato. Ha la stessa età del titolare e, naturalmente (proprio
per questo motivo), è in genere di pessimo umore. Il supplente una volta era
agognato dagli alunni, adesso inizia a essere temu-to. Una volta era una ventata d’aria
fresca, adesso è un tipo cinico e arrabbiato.
Onore al merito quindi a Lia Pacchioni, 115 contratti d’assunzione e 114 lettere di
licenziamento, «alcune di que-ste ultime con la stessa data delle nomine: assunta la
matti-na, licenziata la sera», come racconta Michele Smargiassi su «la Repubblica». 3
Lia ha cinquantatré anni e ha iniziato a fa-re supplenze quando ne aveva diciannove:
«Cominciai nel ‘73, rimpiazzando maestre ammalate mentre facevo l’uni-versità. Al
sindacato dicono che potrei essere la prima preca-ria pensionata dopo un’intera
carriera da supplente». In ef-fetti, facendo i conti, Lia lavora da 34 anni ed è a un
passo dal momento magico: tra poco andrà in pensione e non ha mai provato la
soddisfazione di entrare «in ruolo». L’eroica Pacchioni spiega: «Si può insegnare
bene in queste condi-zioni. Figlia di insegnanti, amo la scuola, altrimenti non avrei
resistito. Bisogna adattarsi, e io mi sono adattata. An-zi, assuefatta! Certo, devi
mantenerti forte e giovane quan-do sei precaria: è spiacevole sentir dire dai ragazzi:
"Guarda quella, così vecchia e ancora supplente..."». 4
Un precario spera realisticamente di entrare in ruolo ver-so i 45-55 anni, di
sistemarsi, insomma, quando dovrebbe essere a fine carriera. È chiaro che la
conquista del posto fis-so diventa, per chi ha tanto penato, la fine di un percorso,
non il principio di un’avventura, con tutto quello che ne consegue dal punto di vista
della motivazione e della dedi-zione all’insegnamento.
I docenti precari con dieci mensilità (per loro la disoccu-pazione coincide con le
ferie) guadagnano in media 1150 euro, in un caso su dieci insegnano in una regione
diversa da quella in cui abitano, e devono farsi carico anche delle spese per gli
spostamenti.
La scalata del precario verso il posto fisso è difficile e fru-strante. In genere il
ministro dell’Istruzione di turno fissa un termine per l’azzeramento del precariato, e
qualche gior-no dopo il collega all’Economia dichiara che ad assumere tutte quelle
migliaia di docenti non ci pensa neanche. Al singolo precario allora non resta che
affidarsi al punteggio, cercando di collezionare supplenze, corsi di abilitazione, corsi
di aggiornamento. La graduatoria accende le speranze, ma perché poi queste vengano
soddisfatte serve anche la di-sponibilità di posti: si può avere diritto a una cattedra,
ma possono non esserci cattedre disponibili, e allora bisogna at-tendere che i posti si
liberino. Intanto, si macinano punti. Anche pagando costosi corsi di aggiornamento.
Ma di que-sto parleremo dopo.

La scorciatoia religiosa

Quella degli insegnanti di Religione è una questione ormai antichissima e veperata,


come direbbe la nostra amica aspi-rante avvocato.’’ La normativa che riguarda i prof
di Reli-gione è contestata da osservatori e giuristi per una serie di ragioni:
innanzitutto, come spiega Curzio Maltese su «la Repubblica», «l’ora di religione è un
insegnamento facoltativo e come tale non dovrebbe prevedere docenti di ruolo. Per
giunta, gli insegnanti di Religione sono scelti dai vesco-vi e non dallo Stato». 6 In
effetti la norma prevede che l’as-sunzione a tempo indeterminato venga disposta «dal
diri-gente regionale d’intesa con l’ordinario diocesano compe-tente per territorio». Il
vescovo può poi revocare l’idoneità all’insegnante, ma questo ormai risulta assunto
dallo Stato, che se lo deve tenere, destinandolo (naturalmente se abilita-to
all’insegnamento di un’altra materia) a un’altra cattedra.
Altro fatto strano da spiegare Al colleghi insegnanti: per l’accavallarsi di una serie
di normative favorevoli, gli inse-gnanti di Religione guadagnano già dal primo giorno
di la-voro il 10 per cento in più di un collega di un’altra materia. Nella scuola italiana il
merito non viene riconosciuto, ma la vocazione viene rispettata. E retribuita.
4
Il prof itinerante

Il valzer dei prof

Una maestra che ho conosciuto si fece portare da ogni bam-bino una foto tessera. La
appuntava al registro, accanto al nome dell’alunno corrispondente, in modo da
riconoscerlo alla bisogna, dal momento che, a dicembre, era appena arri-vata in
quella classe: non aveva ancora raccolto le foto di tutti i bambini che fu spostata
nell’aula accanto, in un’altra sezione dove ricominciò il lavoro di schedatura. Chissà
se la maestra in questione si è arresa o se sta ancora collezionan-do effigi di piccoli
sconosciuti che la accompagnino nella sua randomica docenza.
In Italia 4 docenti su 10 cambiano classe ogni anno: al-meno un terzo degli alunni
italiani non completa il corso con la stessa squadra di docenti. Pochissimi i fortunati
che riescono a instaurare un rapporto che duri l’intero ciclo con gli stessi insegnanti.
«Ci sono classi che cambiano due o tre professori anche nel corso dello stesso
anno perché le graduatorie d’istituto vengono aggiornate ad anno ampiamente
iniziato» si sfogava su «la Repubblica» Irma Caputo dell’Unione degli studenti.
«Per apprendere occorre instaurare una relazione con l’inse-gnante, ma se questi
cambiano di continuo, come si fa?» 1
Ogni anno, all’apertura delle scuole, 200 mila docenti cambiano cattedra o ruolo.
Prof e maestri che vengono trasfe-riti in altre classi, istituti, città, province, regione,
con conse-guenze immaginabili sulla continuità didattica e sulla forma-zione dei
ragazzi, costretti ad adattarsi continuamente a nuo-vi interlocutori e metodi di studio.
Un dato che può spaven-tare ma che è solo un aspetto di un fenomeno più
generaliz-zato: basti pensare che le 18 poltrone da direttore degli uffici scolastici
regionali (i manager che dovrebbero governare il si-stema e assicurare continuità
amministrativa) sono state oc-cupate, negli ultimi sette anni, da 48 diversi direttori
genera-li: girandole da spoils system, carne da macello per le guerre dei politici
nazionali.
In Italia funzionano 776 mila cattedre; i docenti assunti a tempo indeterminato sono
721 mila.2 I rimanenti posti non sono tutti occupati da supplenti annuali (impegnati
nella stes-sa classe sino al 30 giugno), ma anche dai cosiddetti «supplen-ti
temporanei», demandati a coprire dai 40 Al 60 mila «spez-zoni di cattedra», periodi
cioè inferiori alle 18 ore settimanali. Poche ore in quella classe, poche in quell’altra,
magari qualco-sa in un istituto, poi qualcosa in un altro. Nel settembre 2007 (per fare
un esempio) hanno cambiato scuola 73 mila inse-gnanti e circa 120 mila supplenti,
mentre 42 mila docenti so-no andati in pensione. 3 Se si fanno bene i conti, almeno 4
do-centi su 10 ogni anno cambiano scuola o classe: è il risultato di un’infinità di
meccanismi burocratici che mina la conti-nuità didattica, pilastro del buon
insegnamento. Una giran-dola infinita di prof, maestri, supplenti, che non
riconoscono gli alunni a cui insegnano, non conoscono la scuola in cui la-vorano,
non fanno in tempo a impostare l’insegnamento o il recupero dei ragazzi che non
lavorano bene. Si cambia classe perché si viene trasferiti, perché il titolare va in
pensione, per-che viene assegnata un’altra supplenza in base alle graduatorie di
istituto, ma anche perché arriva il distacco sindacale, quello all’università, perché si
viene comandati negli uffici ammini-strativi. Pensate che i dirigenti scolastici, almeno
in linea di massima, dovrebbero assegnare 18 ore di insegnamento a tut-ti i docenti;
se in un istituto, da un anno all’altro, si forma una nuova classe (o una classe
scompare), questo comporta un ter-remoto su tutti gli orari, che vanno spalmati tra il
personale in modo che sia rispettata la regola delle 18 ore: questo obbliga il più delle
volte i docenti a lasciare la classe che avevano gestito l’anno precedente. Regole e
procedure pensate al centro han-no l’effetto di un terremoto in periferia.
«Ci spostiamo di aula in aula come automi» racconta una maestra romana del
primo ciclo. «Viviamo l’insegna-mento come si può vivere una giornata allo sportello
delle poste: con i bambini bisognerebbe interagire a lungo, biso-gnerebbe avere a
disposizione il tempo per capirli, bisogne-rebbe imparare a conoscerli per individuare
le loro debolez-ze e proporre soluzioni. Come si fa in queste condizioni? Entro in
classe consapevole che dopo una settimana verrò trasferita. Loro neanche più mi
chiedono come mi chiamo, io cerco solo di non illuderli, di non far credere loro che
ri-marrò in quell’aula. Ci sono bambini che più di altri hanno bisogno della maestra, e
io non voglio deluderli.»
I maestri che si preoccupano di non danneggiare i bam-bini, l’ultimo paradosso
della scuola all’italiana.
«In cosa ci siamo trasformati?» si domanda Elena, mae-stra precaria di Napoli, che
insegna ad Arezzo. «Siamo di-ventati tappabuchi low cost, badanti di studenti. Quale
pro-getto didattico costruisci se non sai dove sarai tra due mesi?» 4
Morale della favola: «L’Italia spende 39 miliardi di euro all’anno per il personale
della scuola, ma non riesce ad assi-curare Al propri studenti un docente che li segua
per tutto il ciclo scolastico». 5

L’avamposto perduto

Vicino a Udine esiste una scuola in cui il turnover tra docen-ti precari ha battuto il
record mondiale assoluto. Da un an-no all’altro sono cambiati tutti gli insegnanti: il
100 per cento del corpo docente ha dovuto abbandonare a se stessi gli alunni di una
scuola media. A Paularo, piccolo paese del-la montagna friulana, tredici insegnanti su
tredici, infatti, sono precari.
«Abbiamo provato a sensibilizzare tutti» racconta il pre-side della piccola scuola.
Pasquale D’Avolio. «Nel 2006, 12 insegnanti su 13 erano supplenti annuali: abbiamo
prote-stato, perché era dal 2002 che ogni anno cambiavano tutti i docenti, eccetto
Educazione artistica e Tecnica. L’anno suc-cessivo le cose sono peggiorate, perché
questi ultimi sono andati in pensione.» Il 2007 è l’anno clou, perché scatta il diritto
alla pensione anche del preside, e con lui si accinge a lasciare la scuola anche la
segretaria.
Il nuovo anno avrebbe visto aprirsi le porte di un istituto completamente vuoto, in
cui i nuovi arrivati non avrebbero saputo trovare neanche un cancellino. «Alla fine»
spiega D’Avolio, «ho deciso di rimanere almeno io. Anche perché, se me ne fossi
andato, i genitori mi avrebbero linciato!» 6 Il preside ci scherza, ma mettiamoci nei
panni di un genitore di Paularo, un genitore che in tre anni ha visto il proprio fi-glio
studiare con tre diversi insegnanti di Matematica, di Italiano, di Storia, di Inglese... «È
un percorso scolastico ac-cettabile?» sbotta D’Avolio. «Ne dubito. E sia chiaro: non
è colpa degli insegnanti; bisognerebbe prevedere un minimo di continuità, almeno tre
anni, per assicurare la decenza.» E così il preside D’Avolio ha scritto nuovamente al
ministero chiedendo non professori di ruolo (che sarebbe troppa gra-zia!), ma
supplenti (almeno) triennali.
Quello del piccolo centro friulano è un caso emblemati-co, ma non è solo un
episodio limite. In molte zone di mon-tagna insegnanti di ruolo non ce ne sono, e la
discontinuità didattica in queste aree raggiunge percentuali elevatissime. Se si guarda
poi agli effetti che il turbinoso turnover ha avuto su-gli abitanti del paesino, si scopre
che Paularo rischia di diven-tare una sorta di avamposto nel futuro del Paese: su 2775
abi-tanti, la percentuale senza alcun titolo di studio è dell’11 per cento (quasi il
doppio di quella nazionale), i cittadini provvi-sti di sola licenza elementare sono il 34
per cento, così come quelli con la licenza di terza media. Gli abitanti di Paularo
provvisti di un titolo superiore sono il 19 per cento, e i lau-reati l’1,2 per cento; tra i
giovani di 18-34 anni i diplomati rappresentano il 32,84 per cento, la metà della media
italia-na; i tassi di abbandono nella prima superiore sono intorno al 40 per cento. Se
qualcuno pensava di organizzare un qualche test per scoprire quale influenza possa
avere il turnover degli insegnanti sull’apprendimento degli alunni, non si deve
sco-modare tanto, gli basta telefonare al preside D’Avolio.

Le due Italie dei precari

Il Mezzogiorno offre molti insegnanti, ma al Sud ne servono pochi. Al Nord


aumentano le possibilità, ma trasferirsi da una parte all’altra dell’Italia non conviene:
chi ci ha provato è tornato indietro, perché tra affitto, spostamenti e costo della vita i
conti non tornano. Il Settentrione, per un meridionale che voglia insegnare, è come un
muro di gomma: chi prova a inserirsi, viene rispedito indietro. «Grazie agli immigrati e
al-la ripresa delle nascite» scrive Salvo Intravaia su «la Repubbli-ca», «al Nord la
popolazione è più giovane di dieci anni fa. Al Sud è, invece, sempre più anziana. Nel
2008-2009 le scuole del Paese ospiteranno 10 mila alunni in più rispetto all’anno in
corso, ma la crescita della popolazione scolastica non sarà affatto distribuita in modo
uniforme. Gli istituti delle regio-ni settentrionali dovranno organizzarsi per trovare
posto a circa 42 mila bambini e ragazzi in più, al Centro saranno 11 mila i posti da
raggranellare, mentre al Sud le classi si svuote-ranno perdendo oltre 42 mila alunni. In
dieci anni, dal 1998-1999 al 2008-2009, il meridione d’Italia ha perso 278 mila alunni.
Nello stesso periodo, al Nord la popolazione scolastica è cresciuta di 338 mila unità.
[...] In appena tre an-ni, il Centro-Sud ha dovuto sacrificare sull’altare del
risana-mento dei conti pubblici ben 24 mila cattedre. Solo al Nord il consistente
incremento di alunni ha consentito una leggera espansione degli organici: più 3500
posti. Il tutto, proprio mentre l’ultimo aggiornamento delle graduatorie dei precari ha
visto ritornare al Sud migliaia di precari meridionali che in passato hanno tentato la
fortuna al Nord. Così, oggi, nelle regioni settentrionali le possibilità di essere assunti
si molti-plicano, mentre al Sud tutto si complica.» 7
Non esiste lavoro più itinerante di quello dell’insegnan-te. Si va a vendere il proprio
sapere così come nell’antichità gli artisti e i saltimbanchi si spostavano da centro in
centro.
Il professor Gianfranco Pignatelli, cinquantatré anni, in-segnante di Storia dell’arte
alle superiori, per ottenere la sta-bilizzazione si è dovuto trasferire da Napoli a
Cagliari. Do-po 28 anni di precariato qua e là, verrà finalmente sottopo-sto al periodo
di prova che gli permetterà di passare di ruo-lo. Un anno la durata della prova, dopo
tre anni è possibile chiedere il trasferimento. A parte l’assurdo di essere testato dopo
28 anni di insegnamento, Pignatelli è l’eroe della mo-bilità, essendosi spostato da
Napoli a Cagliari pur di avere una chance di stabilizzazione. «C’è chi fa avanti e
indietro da mattina a sera per trovare lavoro, io ho dovuto metterci il mare in mezzo»
racconta Pignatelli. «Non sarei mai arrivato al posto fisso rimanendo in graduatoria a
Napoli, e rischia-vo di andare in pensione da precario. Ho dovuto fare una scelta...
Adesso faccio un anno di "straordinariato", di prova insomma. Mi hanno assegnato
anche un tutor che deve giu-dicarmi. Sinceramente mi chiedo... insegno da 28 anni...
Come hanno permesso che lo facesse un dilettante?» 8
«Ho lasciato la famiglia» continua, «e sono andato per un anno in Sardegna con la
speranza di tornare un giorno con il trasferimento. Guadagno 1300 euro, faccio avanti
e indietro il weekend, devo pagarmi una casa in Sardegna, ed ovviamente non è
previsto nessun tipo di rimborso spese. Una vera follia, ma lo considero un
investimento della di-sperazione: non potevo rischiare di andare in pensione da
precario e ritrovarmi con una pensione sociale.»
Quella di Pignatelli è la storia di tanti. «Una vita così» spiega, «un percorso
professionale del genere non danneg-gia solo noi che lo facciamo, ma penalizza la
qualità dello studio, la sua continuità, compromette i progetti a lunga scadenza. Non
puoi portare avanti progetti di trenta giorni, un anno o sei mesi... Viene meno la
possibilità di verificare il lavoro che fai sui ragazzi. Noi non siamo solo precari del
lavoro, siamo precari della formazione, e questo ha un terri-bile riflesso sugli alunni.
Paradossalmente c’è una maggiore continuità nella scuola privata: anche lì gli
insegnanti sono precari, ma almeno occupano la stessa cattedra per anni: l’allievo lì
studia con continuità, quello che la scuola pub-blica non può più permettersi.»
Scriveva «la Repubblica» in un dossier pubblicato lo scorso anno che «su un terzo
delle cattedre italiane siede un professore che non sa quando e dove tornerà ad
insegnare». 9 L’altra faccia della medaglia: a studenti che non sanno chi è il proprio
prof corrispondono prof che non sanno qual è la loro cattedra, prof che vagano
nomadi alla ricerca di un po-sto fisso, che collezionano punteggi vivendo alla
giornata, aspettando ogni santo giorno la telefonata di un istituto che abbia bisogno di
loro.
A Ballarò scoprimmo quasi per caso il fenomeno dei prof alla stazione. Partivano
prima delle cinque di mattina dalla provincia di Caserta, arrivavano alla stazione di
Roma Ter-mini un paio di ore dopo e si mettevano al bar. Lì aspettava-no.
Aspettavano che li chiamasse un qualche istituto romano per una supplenza.
Bisognava insomma essere pronti a presentarsi, non si poteva correre il rischio di
perdere una sup-plenza dovendo partire dalla provincia. A Roma ci sono più scuole,
le probabilità di lavorare aumentano, quindi ogni mattina ci si lancia verso la
supplenza romana. Se la chiama-ta non arriva, si riprende il treno, e si torna a casa.
Successi-vamente alla trasmissione, «La Stampa» 10 scovò quello che venne chiamato
«l’esercito del bus»: erano precari che veni-vano dalle province di Napoli e Avellino,
e che definivano i prof di Caserta «più fortunati», perché almeno si muovevano in
treno. Loro prendono il pullman alle 4,30 del mattino e si fermano ad aspettare la
telefonata alla stazione Tiburtina. Se il cellulare non squilla, attendono fino al
pomeriggio confi-dando nel turno serale, poi risalgono sul pullman, commen-tando
con i colleghi i fatti della giornata.
A volte qualcuno fa tardi, magari per un collegio dei do-centi, ed è costretto à
rimanere a Roma: scatta una rete di solidarietà che permette Al precari nomadi di non
intaccare lo stipendio con una notte in albergo, e si finisce per dormi-re a casa di
parenti di amici, di amici di amici, di conoscen-ti di conoscenti.

La mille miglia della supplente

Come in tutte le vicende, al peggio non c’è mai fine: la gra-duatoria per le supplenze
del singolo istituto è in effetti con-siderato l’ultimo gradino della precarietà. Qui
troviamo pro-fessori che non potranno mai neanche sognare la stabilizza-zione.
Daniela Milletta,11 trentatré anni, insegna Lettere alle scuole medie e si definisce
«l’espressione più bassa del preca-riato scolastico»: «Sono nata» racconta «in
provincia di Cro-tone e, subito dopo la laurea, ho capito che dalle mie parti non avrei
mai avuto reale possibilità di fare punteggio. Al Sud ci sono poche scuole, quindi
avrei avuto poche opportunità di fare supplenze; non mi potevo permettere
l’iscrizione alla Ssis che costava troppo (mi avrebbe anche costretta a trasfe-rirmi a
Cosenza, e pagarmi un affitto); non potevo ottenere l’abilitazione perché i concorsi
erano bloccati da anni. Per questi motivi ho deciso di iscrivermi in una graduatoria
che mi avrebbe garantito più occasioni di lavoro, e scelsi la pro-vincia di Varese,
dove vive mia sorella, dalla quale mi sarei potuta far ospitare. Nel frattempo mi sono
sposata, e la pri-ma chiamata mi è arrivata quando ero incinta, bloccata a let-to da
una gravidanza a rischio. Mi hanno poi chiamato di nuovo per una supplenza di un
anno quando la bambina aveva quattro mesi e mezzo. Ho preso la bimba e mi sono
trasferita nella provincia di Varese, ma appena arrivata mi hanno detto che c’era stato
un equivoco, e mi hanno rispedi-ta a Crotone. Duecentocinquanta euro di aereo
buttati: ho chiesto il rimborso all’Istituto che mi aveva chiamato, e mi hanno risposto
che a quanto pareva non avevo intenzione "di far partire col piede giusto il mio
rapporto con la scuola".
«La terza chiamata è arrivata quando la bambina aveva compiuto ormai un anno:
una supplenza, sempre a Varese, di 16 giorni. Valore: 2 punti, quindi ho accettato. La
retri-buzione sarebbe stata di 700 euro, che avrei completamente bruciato tra
spostamenti e pasti. Come la volta precedente, ho portato con me la bambina, ed è
venuta con noi anche una nipote che mi avrebbe fatto da baby sitter. Ospite, sem-pre
mia sorella. Insomma: i miei primi 2 punti me li ha re-galati la mia famiglia,
completamente mobilitata per farmi fare un passetto avanti in graduatoria.
«La quarta chiamata è arrivata (sempre da Varese) per una supplenza di quasi due
mesi. Valore: 4 punti. Questa volta la-voravo su due scuole di due diversi paesi: per
andare da una all’altra bisognava prendere il pullman. Vivevo sempre da mia sorella e
la mia stupenda nipote era stata nuovamente assunta (gratis) per fare la baby sitter.
Aereo, bambina e nipote anche per la quinta chiamata nel Varesotto (20 giorni, 2
punti), cui seguì la proposta di una supplenza di un anno (12 punti!), in un paese,
però male collegato con casa di mia sorella. Non c’e-rano pullman, non potevo
comprare una macchina per un so-lo anno di lezione, né affittare casa nel paesino, da
sola, con una bimba. Mi sono arrangiata: sono andata, ho accettato l’in-carico, mi
sono messa in "astensione facoltativa" [la legge con-sente di prendere il punteggio e il
30 per cento dello stipen-dio] e me ne sono tornata a Crotone. Sesta chiamata da
Vare-se: 500 euro di aereo, valigie e visita alla ormai "santa sorella". Purtroppo questa
volta niente baby sitter, perché mia nipote (ormai cresciuta) aveva gli esami
all’università. Mia sorella ha quindi cambiato il turno di lavoro per stare con la bimba
mentre io andavo a scuola. Così ho raggiunto il minimo dei punti necessario a farmi
lavorare a Crotone, e nel 2007-2008 ho per la prima volta terminato un’intera stagione
con ragazzi che, naturalmente, non potrò seguire l’anno prossimo. Ma co-me potrei
lamentarmi dopo quello che ho passato? L’anno prossimo cosa farò? Non si sa.
Nella mia provincia chiudono 30-40 classi. Sinceramente penso che non avrò mai
l’abilita-zione, e sono consapevole di rischiare di passare tutta la vita a fare
supplenze. Ma che devo fare?»

C ’ è poco da aggiungere

L’estate scorsa cercavamo una colf che ci aiutasse nella casa al mare e che ci desse
una mano con i bambini. Io e mia moglie abbiamo telefonato a un’agenzia
specializzata che ci ha subito inviato per mail un certo numero di curricula. Tra quelli
di ragazze rumene, peruviane e ucraine spiccava il cv di una ragazza italiana di
venticinque anni, già maestra di asilo nido. Abbiamo segnalato l’errore, spiegando
alla re-sponsabile dell’agenzia che noi cercavamo una colf, non una baby sitter di
lusso. Non c’era nessun errore, la ragazza stava cercando un lavoro a servizio, e la
responsabile dell’agenzia ci tolse ogni dubbio portandoci a fare un semplice
ragiona-mento: «Avete fatto i conti di quanto le dareste per un me-se? E sapete
quanto guadagna una maestra?».
Quanto può andare lontano un Paese che equipara il la-voro della colf a quello della
maestra? Anzi, la domanda va riformulata: quanto può andare lontano un Paese in cui
il lavoro di una colf vale più del lavoro di chi ha il compito di formare, per primo, i
nostri bambini?

A ripitturare l’appartamento di un mio collega del Tg, qual-che mese fa, si è


presentata una squadra di albanesi e un ita-liano. Questo italiano era un professore di
Lettere del liceo, tuttora in attività.

A potare le piante del terrazzo di un mio amico l’altro gior-no si è presentato un


maestro di musica, diplomato in flau-to al conservatorio.
Studenti
1
L’altra faccia della scuola

Internet

Nei giorni immediatamente precedenti l’esame della matu-rità del giugno 2008, il sito
www.skuola.net ha ricevuto 600 mila contatti; www.studenti.it ha superato il milione.1
Con-siderando che i maturandi erano in tutto 470 mila, i soli due siti citati (e, dedicati
alla scuola, ne esistono un’infinità) ave-vano avuto tre contatti per ogni candidato.
Nel 2007 furono 100 milioni i contatti sui siti internet studenteschi che si
do-mandavano: che traccia esce al compito di italiano?
Internet è diventato un po’ la scatola nera della scuola italiana, una sorta di
resoconto live, continuamente aggior-nato, della coscienza dei nostri studenti, ma
anche del lato oscuro dei nostri centri di formazione. Quando a Ballarò abbiamo
deciso di lavorare sulla scuola in internet, 2 ci sia-mo imbattuti in una vera e propria
galleria delle assurdità, dedicata Al professori, agli alunni, Al bidelli. Per poter
cono-scere tutti gli esemplari basta entrare nel mondo virtuale, andare (ad esempio)
sul sito www.scuolazoo.com, intera-mente dedicato a ciò che accade dentro le aule,
oppure sull’ormai famigerato YouTube, e anche voi potrete dare una sbirciatina
all’universo-scuola e farvi un’idea di come lo ve-dono e lo vivono gli studenti di
oggi. Digitando la parola «scuola», vi appariranno 25.700 video.
Gli esemplari più visitati sono la professoressa di Monteroni, un paese in provincia
di Lecce, ripresa da uno studen-te mentre viene palpeggiata da alcuni ragazzi, con
dettagli sulla sua biancheria intima. Nel mondo reale la «sexy prof» è stata riammessa
a scuola dopo un periodo di sospensione. A febbraio scorso sulla rete è finito il
video di un professore di Educazione fisica di un istituto di Firenze, beccato men-tre
fumava in classe, non una canna (come inizialmente si era creduto) ma una sigaretta
da lui rollata. Anche lui, ama-tissimo dai suoi studenti, dopo un mese di sospensione
è tornato a insegnare.
Continuando la visita, vi imbatterete in un cult del vi-deo scolastico: il professore
dormiente, frequentissimo in-ciampo dei docenti stremati che vengono prontamente
ri-presi dai loro impietosi studenti. In una ripresa si vede l’in-segnante pesantemente
addormentato diventare lo zimbello della classe, con gli alunni che iniziano a ballargli
intorno inneggiando a Morfeo, dio del sonno. Un altro professore è stato filmato
appisolato durante gli esami di maturità.
Meglio il prof che dorme, comunque, rispetto a quello che si trasforma in Bruce
Lee quando si accorge di essere ri-preso («Che cazzo stai filmando? Va bene, filma
pure, l’im-portante è non finire su YouTube») e, presumibilmente per guadagnare il
consenso del pubblico, caccia uno studente ritardatario dalla classe tirandogli (senza
centrarlo) un cal-cio a gamba tesa ad altezza viso all’urlo di «Perché arrivi in ritardo a
disturbare la lezione?! Fuori!!!!». Titolo del filmato, ovviamente, Il prof di karaté,
visto su YouTube da 424.709 persone.
Non male per uno che sperava di non apparire su internet. Ma insieme a lui ce ne
sono altri. Un professore tira fuori da un armadio un ragazzo che si era nascosto e lo
prende a calci. Un altro dà uno schiaffo a uno studente che lo aveva ripetutamente
provocato, e dietro di lui sul muro dell’aula si intravede la scritta «Scuola di merda».
Altri filmati testi-moniano di un clima da stadio: cori da curva, con tanto di
scenografie, di fronte a insegnanti basiti. Studenti che en-trano a scuola, corrono per i
corridoi e arrivano fino in clas-se in motorino (sic), forse per evitare il ritardo.
Tra i docenti ci sono anche gli sportivi. C’è il professore che palleggia in classe
dando alla palla colpi di testa contro il muro, o quello che fa a gara di palleggi con un
suo stu-dente; professori che giocano a carte, che ballano e fanno il gesto
dell’ombrello. C’è veramente di tutto. Gli studenti, registi dei filmati, si trasformano
spesso in protagonisti.
In un video un ragazzo urla contro una professoressa perché ha preso una nota e
va via dalla classe, in un altro il ragazzo cerca di baciare l’insegnante. Uno studente,
chia-mato dal professore alla cattedra per l’interrogazione, scap-pa dalla finestra. C’è
chi si butta a terra, fingendosi morto davanti all’insegnante per evitare
l’interrogazione. C’è chi mangia in classe un piatto di spaghetti e chi, vestito da
ausi-liare del traffico, finge di multare il suo docente interrom-pendo la lezione.
Un altro video è girato interamente dentro un’aula e dura cinque minuti, un’eternità
nello zoo virtuale: mostra alunni che giocano a carte, fanno la lotta, disegnano sui
banchi mentre la professoressa sta appoggiata alla cattedra e assiste praticamente
senza fiatare, come se fosse tutto drammaticamente normale.
C’è perfino chi all’ultimo giorno di scuola manda a quel paese la sua insegnante,
che ricambia l’invito davanti a tutta la classe.
Il sesso, poi, per lo più simulato ma non solo, la fa da pa-drone. C’è lo studente
che alle spalle della sua insegnante, mentre lei spiega alla lavagna, mima l’atto
sessuale. Finte masturbazioni sotto i banchi di scuola durante la lezione. Falli finti che
escono dai pantaloni. Ragazze che fanno finta di accoppiarsi sui banchi con i loro
compagni. Spogliarelli più o meno espliciti. Una studentessa, incitata da un suo
compagno, si nasconde dietro la lavagna, si scopre il seno e inizia a toccarsi in modo
malizioso. Il suo volto è coperto ma facilmente riconoscibile.
In qualche filmato, poi, non si fa finta per niente. Ma quei video sono in mano Al
magistrati.
Tutto ciò avviene in aula, anche durante la lezione, sotto gli occhi di insegnanti che
o non vedono o fanno finta di non vedere, oppure vedono ma non reagiscono,
davanti a studenti che non hanno paura di nulla. Un supplente, in-tento a spiegare la
lezione alla lavagna, fa il grave errore di dare le spalle alla classe e uno studente ne
approfitta per ti-rargli giù i pantaloni, lasciandolo, appunto, in mutande.
C’è però anche chi non si rassegna e dà libero sfogo alla sua frustrazione,
diventando lo zimbello della rete con il ti-tolo Sclero prof di Napoli. Urla disperato
alla sua classe: «Nun ce la faccio cchiù... Nun venite cchiù... mannaggia uu diavolo!».
Ci sono filmati che si stenta perfino a credere siano veri. Titolo: Cappottone. Un
professore viene coperto da una giacca e colpito dai suoi studenti che, non contenti,
gli met-tono un casco in testa e giù con altri colpi: successo (e filma-to) in una scuola
di Roma.
Gli aspetti positivi della scuola sembrano non interessare a nessuno. Provate a
cercare una bella interrogazione, un applauso a un docente amato, un comportamento
virtuoso o semplicemente un bell’esempio di insegnamento: il nulla. Se digitate le
parole «interrogazione grandiosa», un termine più consono al linguaggio dei ragazzi, il
risultato vi stupirà. In questa sezione sono state messe interrogazioni imbaraz-zanti.
Un ragazzo si esprime in un inglese improbabile: il personaggio di Un americano a
Roma di Alberto Sordi al confronto parla come il principe Carlo. Una ragazza fa
ri-prendere dalle amiche la sua interrogazione di matematica, preoccupata più di
sorridere al telefonino che di rispondere alle domande.

Il mercato nella rete

Gli studenti usano internet anche per «migliorare» la loro istruzione o, meglio, per
migliorare i loro risultati a scuola. Navigando si leggono messaggi di questo tipo:

Versione Urgentissimaaaaa
La versione è di Officina latinitatis si chiama Inviso per la
troppa iustizia ed è di Nepote... inizia così... Quanto apud
athenienses eloquentia antistaret innocentiae... e finisce...
nihil omnimo in morte reliquerit...
Per favoreee è urgentissimaaaaa mi serve per le 6...
Grazie mille!!!!

La rete si presta, diciamo così, a un apprendimento rapido. Su un sito sono


elencati i 167 modi conosciuti dagli studen-ti per copiare senza essere scoperti, con
tutte le istruzioni per Fuso. Sistemi sperimentati e garantiti. Se, invece, si cerca una
tesina già fatta, niente di più facile: «Problemi con la tesi-na??? Un Cd che ne
contiene 313 a soli 9,90 euro». Per chi fa l’università non c’è che l’imbarazzo della
scelta: « Vendo tesi di laurea in Economia, recentissima, sui distretti industriali e le
recenti politiche pubbliche a loro favore. Ottima per chi non ha voglia di perder
mesi di ricerche e per chi lavorando non ha tem-po... completa dall’indice alla
bibliografia... euro 300».
Oppure: «Vendo tesine per università pronte, le eseguo e vele presento, poi a voi
decidere se va bene o volete delle modifiche al prezzo di 70/80/90 euro luna. Per
info chiedetemi l’elenco e ve lo farò avere... sono praticamente regalate e
risparmierete 4 mesi di tempo almeno... le tesi sono fatte benissimo e tutti colo-ro
che l’hanno acquistata sono rimasti molto soddisfatti... pro-vare per credere...».
Non poteva mancare eBay, il portale in-ternet di aste on line più frequentato al
mondo. Qui si trova di tutto, dalle tesine di laurea a quelle per la maturità, e an-che il
kit comprensivo di istruzioni dettagliate che vi spiega come copiare durante
qualunque tipo di esame.
Internet mette in comunicazione tra loro anche i futuri maturandi. Digitate
«maturità» e vedrete apparire tra i pri-mi messaggi lo slogan La maturità non fa più
paura, basta studiare. E ora di copiare!!! Per la prova del 2008 si offriva anche la
maglietta-bigliettino, una T-shirt con impresse for-mule e informazioni in sette
versioni diverse a seconda della prova da affrontare. Un gadget davvero economico
ed effi-cace che non può mancare nella cartella di un furbo è la Penna Magica (ora
ufficialmente vietata dal ministero), «la penna per copiare», un moderno ritrovato che
consente di scrivere appunti con scrittura trasparente, leggibili illumi-nando il foglio
dal retro. Costo: 15 euro.
Internet suggerisce poi gli stratagemmi per copiare alla maturità, del genere «usare il
vano bicchiere di un thermos per il caffè per recapitare bigliettini al più bravo della
classe, aspettando che torni indietro con le risposte giuste». «Det-tare la versione al
padre con il cellulare per farsela recapitare a scuola, tradotta, dentro un panino», fino
all’incredibile «come portare il cellulare nelle mutande e da lì tentare di connettersi ad
internet»! 3
L’offerta è altissima: la rete è piena di spie pronte a passa-re informazioni sui
professori membri delle diverse com-missioni in tutta Italia. Per la maturità 2008 sono
stati «stu-diati» dagli studenti 14 mila professori. Di loro si sa tutto: pregi e difetti,
cosa chiedono abitualmente, se sono di «ma-nica larga» o meno.
Chiudiamo con la storia cui abbiamo creduto tutti: quella dei titoli dei temi della
maturità noti in Australia 12 ore prima, «perché lì li hanno già dettati quando noi
ancora dobbiamo andare a letto»: il candidato con agganci interna-zionali che si
sveglia all’alba per comunicare a tutti il tema non esiste. I temi per gli italiani all’estero
sono diversi, quindi possiamo condannare a morte l’ennesima leggenda
metropolitana. Attenzione quindi anche Al siti fasulli: com-paiono da un giorno
all’altro assicurando di essere in pos-sesso delle tracce vere. Vengono oscurati dagli
stessi autori (che così accreditano l’idea di sito osteggiato dalle istituzio-ni) e poi
riappaiono, giusto in tempo per strappare qualche euro Al maturandi più disperati.

Le note sul registro

C’è un altro modo di conoscere la scuola italiana, ed è quel-lo di sbirciare nei registri
di classe. Lo spazio riservato alle note disciplinari è un mondo a parte, che ti porta in
una di-mensione dove la maleducazione fischia di sconfinare nel-l’arte, l’indisciplina
nella filosofia. Nel film di Daniele Luchetti La scuola, lo studente peggiore della
classe aveva un’u-nica abilità: sapeva imitare le mosche. Faceva la mosca così bene
che alla fine del film si scopriva che riusciva anche a volare. Davanti ad alcune note
che abbiamo pescato su in-ternet 4 verrebbe da chiedersi: ma questa è indisciplina o
avanguardia? Facciamo naturalmente la tara sulla rete, ma se anche la metà di esse
fossero vere...
Ad esempio troviamo traccia di manifestazioni che, se poste in essere all’inizio del
secolo scorso, sarebbero state definite surrealismo:

«Durante l’ora di matematica, l’alunno E. E della classe accan-to entra in


aula chiedendo se gli alunni hanno una padella e un ferro da stiro.
Sorprendentemente gli alunni M.C. e A. A. tira-no fuori dai loro zaini i due
oggetti richiesti consegnandoli a E. E che ringrazia e se ne va. Richiedo
provvedimenti.»

Le note testimoniano poi di episodi di pura allucinazione, personale o collettiva:

«L.D. sostiene insistentemente che il nonno conquistò Adua con un manipolo di


amici del bar Sole.» «L’alunno CD. spesso si denuda in classe.» «S.E. e G.D.
rispondono alla sollecitazione ad andare al po-sto facendo "il trenino"per la
classe.»
«L’alunno P.P. si mette in piedi sul banco, mi punta una riga
contro e urla "È un eretico! Catturiamolo!", istigando così la
classe al caos e alla violenza. Sono esterrefatto. »
«In classe si odono versi provenienti da scimmie della foresta
pluviale. Sembra di esserci trasferiti in Brasile!»
«M.S. afferma che sono Lady Oscar.»
«E.P. chiede euro 10per sospendere la sua attività di disturbo alla lezione. »
«La classe si ubriaca con il fragolino. »
«C.N. esibisce le sue ragguardevoli qualità canore durante il compito in classe
di inglese.»
«Durante l’odierna ora di biologia, l’alunna G.M. non vuole accettare il fatto
che prima o poi tutti muoiono, sostenendo di essere immortale. »
«L’alunno GB. entra in classe alle 8.50 sbattendo la porta ve-stito da
Superman. Mettendosi in una posa pomposa recita bestemmie contro Dio. La
classe lo acclama. »

Poi ci sono i professori che riescono a passare dalla parte del torto:

«La classe è distratta dal vestitino dell’alunna S.L.»

E studenti che (magari) ripassano storia della scienza:

«L.P. acceca la sottoscritta con ingegnosi giochi di luci e specchi. »

Gli amanti delle tradizioni:

«B.M. e M.A. durante la lezione di italiano giocano a tom-bola senza permesso.


Chiedo seri provvedimenti.»

E dell’azzardo:

«L’alunno D.R. tra una lezione e l'altra estorce denaro Al compagni con il gioco
delle tre carte, utilizzando la catte-dra come banco. Colto in flagrante, tenta di
far sparire la cattedra. »

Gli imprevedibili:
«M.P. durante la lezione di storia esce dalla finestra.» «L’alunno A.E. senza
alcun motivo, durante l’ora di lezione, si diverte a smontare la porta della
classe.»

Quelli che sanno alternare l’impegno al disimpegno:

«G.A. dopo aver espletato le sue funzioni di rappresentante in difesa del Tibet,
decide di prendere il sole in giardino fino al termine della terza ora. »

Gli autodistruttivi:

«C.I. si comporta male durante l’ora di ricreazione abbatten-do violentemente


la porta a testate.»

I non violenti:

«In segno di protesta verso la sottoscritta la classe segue la le-zione seduta sotto
il banco. »

Quelli che conoscono i propri diritti:

«L’alunno P.T. continua a non presentarsi in classe il merco-ledì dicendo che è


il suo giorno libero.»

I leader:

«La classe obbedisce alle richieste dell’alunno C. G. che urla "Chi è con me?" e
tutti rispondono "Io!" e cominciano a can-tare tra stanghe evidenti Sei nell’anima
di Gianna Nannini. »

I non catalogabili:

«P.O. telefona mentre è alla lavagna interrogata in matematica.» «L’alunno D.


C. sostiene di poter comprare me e la mia vita.»

Giustificato, alla fine, il crollo dell’insegnante:

«La classe è ingestibile. Offensiva, ricerca lo scontro, non disponibile in nulla.


Stanno allo stato dì patologia comporta-mentale con deriva di gruppo. Urge
assistenza psicologica e so-ciologica. I singoli elementi si rifiutano di dare il loro
nome nascondendosi nel branco. Questa è vigliaccheria oltre che im-maturità.
La classe è totalmente in balia di se stessa, non gesti-bile, offensiva e
indescrivibile come comportamento! Tranne una decina di studenti, siamo allo
stadio di zoo umano. »
Driiinnn!
2
Lo studio

Il Sole e la Terra

Sessantadue studenti italiani su 100 non sanno da cosa di-penda l’alternanza tra il
giorno e la notte: interrogati in ma-teria dagli esperti dell’Ocse, solo 6 studenti su 10
(1 su 4 nelle Isole) hanno risposto correttamente, ovvero che «la Terra ruota intorno
al suo asse». Gli altri hanno sostenuto che è il Sole a ruotare intorno al suo asse,
oppure che la not-te arriva perché l’asse della Terra è inclinato (e quindi è il Sole a
rotolare via), mentre qualcuno ha affermato che la notte arriva perché «la Terra ruota
intorno al Sole».
Povero Copernico, povero Galileo, quanta fatica sprecata.
Tra l’altro, se le risposte degli studenti fanno piangere, quelle dei professori non
mettono certo di buonumore. Le scienze sono un problema per tutti. «Panorama» 1 ha
preso il questionario Ocse Pisa (Programme for International Student Assessment)
del 2006, ha selezionato le domande più semplici rivolte agli studenti in materia
scientifica e le ha poste a un campione di 100 professori: 46 insegnanti di Scienze
delle scuole superiori e 54 delle scuole medie infe-riori. Sconcertanti i risultati, con
una percentuale piuttosto bassa di prof che sono riusciti ad azzeccare le risposte.
L’e-sempio più eclatante: alla domanda «perché la fermentazio-ne fa lievitare la
pasta» ha dato la risposta giusta solo il 36 per cento degli intervistati (la pasta lievita
perché produce un gas). Il 42 per cento ha sostenuto che funghi unicellulari si
riproducono al suo interno, mentre il 17 per cento ritiene che la lievitazione è causata
da un alcol che si produce den-tro l’impasto, e il 5 per cento è convinto che la pasta
si gon-fi perché la fermentazione trasforma l’acqua in vapore. 2

La nostra istruzione

L’Italia è poco istruita: sui banchi di scuola gli italiani di-ventano vecchi, e la metà
della popolazione adulta ha con-seguito soltanto la licenza di terza media. 3
In particolare, nel nostro Paese la licenza media inferiore è il titolo di studio più
elevato conseguito dal 48,2 per cen-to della popolazione in età compresa tra i 25 e i
64 anni, mentre la media Ue è del 30 per cento. Sardegna, Sicilia, Campania e Puglia
raggiungono le quote più elevate di po-polazione adulta con la sola licenza media:
intorno al 56-57 per cento.
Più di 1 studente su 10 in Italia abbandona gli studi al primo anno delle scuole
superiori, 140 mila maturandi hanno vent’anni e oltre, e di questi 55 mila hanno
ventun anni o più.
Nella classifica Ocse dei 30 Paesi più istruiti l’Italia si piazza al terz’ultimo posto,
seguita da Portogallo e Messico.
Tra la popolazione più giovane (25-34 anni) abbiamo meno laureati (16 per cento)
rispetto alla popolazione della fascia 55-64 anni nei Paesi Ocse (19 per cento).
E i dati degli anni passati confermano il trend. Nel 2005 solo il 37,5 per cento degli
italiani con un’età compresa tra i 25 e i 64 anni aveva almeno un titolo di scuola
secondaria superiore, un valore inferiore di circa 8 punti rispetto alla media dei Paesi
Ocse. Ancora più elevato il gap se si pensa alla quota di laureati, che in Italia
raggiungeva appena il 12 per cento, la metà della media dei Paesi Ocse. I tassi di
ab-bandono dell’università sono pari al 60 per cento, quasi il doppio rispetto alla
media dei principali Paesi industrializ-zati. L’incidenza dei laureati che conseguono un
titolo di specializzazione post laurea ci colloca quartultimi nella classifica Ocse.
Se parliamo di adolescenti il discorso non cambia: in troppi non frequentano la
scuola, e quelli che lo fanno mo-strano maggiori difficoltà nell’apprendere rispetto Al
loro coetanei europei: nel 2004 solo 76 ragazzi su 100 consegui-vano il diploma, un
valore tra i più bassi nel confronto con i Paesi avanzati.
Ma questi dati non dicono tutto.

Il drop out

Lo studente drop out (letteralmente, to drop out significa «andarsene», «ritirarsi») è


quello che si ritira, che abbandona la scuola, che lascia gli studi per i motivi più vari.
Nei film americani è il ragazzo all’ultimo banco, con la sigaretta ap-poggiata
all’orecchio, il giubbotto di pelle e i piedi sopra al banco mentre il professore spiega;
nella tradizione italiana è più semplicemente Lucignolo, o Pinocchio se vogliamo
dargli una speranza di redenzione. In Italia abbandonano 32 studenti su 100. In
Europa, in media, sono solo 15 su 100 gli studenti che lasciano la scuola, ed è quindi
necessa-rio, anche in questo caso, domandarsi perché la scuola ita-liana produca
così tanti fallimenti.
Su 1000 bambini che si iscrivono alla prima elementare, 4 36 abbandonano prima
degli otto anni, 93 si fermano alla scuola media, 77 si ritirano al biennio superiore. La
mattan-za è alle superiori, quando (in particolare nel primo bien-nio) vengono espulsi
dalla scuola 460 ragazzi: 666 arrivano al diploma (numero inquietante, probabilmente
testimonia che chi ce la fa ha fatto un patto col diavolo) e di questi 452 si iscrivono
all’università. Solo in 171, però, diventeranno dottori.
La soluzione che Luigi Berlinguer tentò di adottare per ri-solvere il problema
(innalzare l’età dell’obbligo scolastico) non è servita: tanti in più si sono iscritti alle
superiori, tanti più so-no stati gli abbandoni, e quindi, legge o non legge, il problema
resta lo stesso: la scuola italiana espelle troppi studenti.
Cosa non funziona? «Le cause sono diverse» spiegava il professor Benedetto
Vertecchi a Raffaello Masci di «La Stampa». «La principale è legata alla preselezione
sociale che avviene attraverso la scuola: il liceo è il primo gradino, i professionali
l’ultimo. Gli insegnanti stessi hanno aspettati-ve diverse a seconda che insegnino in
un tipo di scuola o in un altro. Al professionali si resta più facilmente indietro e, se si
è bocciati una volta, specie all’inizio, questo trascina-mento degli studi più facilmente
evolve in espulsione dal si-stema.» 5 E poi sul drop out giocano altri due fattori
impor-tanti: la famiglia di origine e il territorio in cui si vive. «Ad essere espulsi»
spiega ancora Vertecchi «sono soprattutto i ragazzi che vengono da famiglie con
basso livello di istru-zione e da realtà territoriali problematiche. Non solo perché
inquinate dall’illegalità, come la Campania, ma anche capa-ci, come nel Triveneto, di
proporre alternative di lavoro concorrenziali alla scuola.» Quella italiana è una scuola
ci-nica, che salva chi si può salvare e non perde tempo con chi ha poche possibilità
di farcela. Una scuola debole, che non riesce a rendersi apprezzabile da chi è
convinto di poterne fare a meno.

Il costo di Lucignolo

Quanto durava il fascino del ripetente? Mi sembra di ricor-dare poco, solo alcune
lezioni, e di solito si dissolveva alla prima interrogazione: lì il ripetente si guadagnava
il rispetto di tutti se mostrava di aver studiato e di voler recuperare, si giocava l’
allure del bocciato se balbettava davanti all’impla-cabile prof.
Duecentomila studenti nel corso delle elementari ab-bandonano la scuola o
vengono bocciati. È quasi il 33 per cento degli studenti iscritti al primo anno di
corso, cinque anni prima. Trentatremila ragazzi frequentano ancora la scuola quando
hanno già compiuto vent’anni; quasi 100 mila si trovano ancora tra i banchi a
vent’anni.
Oltre 250 mila studenti che frequentano le superiori, in pratica 1 su 10, sono in
ritardo di due o più anni; oltre 400 mila ragazzi sono in ritardo di «un solo» anno. Al
primo an-no delle superiori gli studenti in regola sono circa 7 su 10, e a mano a mano
che ci si approssima verso l’ultimo anno la percentuale scende fino ad arrivare al 68,5
per cento. Re-cord negativo degli istituti professionali, dove la percentua-le di
studenti in ritardo di due o più anni si aggira attorno al 20 per cento in tutte le classi.
Numerosi quelli che hanno incontrato i primi ostacoli già alla scuola elementare e
alle medie, dove 22 mila ragazzi-ni di 15, 16 e 17 anni non si sono ancora diplomati.
Due milioni di studenti, 7 su 10 dei ragazzi che frequen-tano le superiori, hanno
riportato una o più insufficienze al termine del primo quadrimestre. In media ogni
ragazzo è insufficiente in quattro materie. Negli istituti tecnici la me-dia sale e diventa
oltremodo drammatica, con otto insuffi-cienti su dieci.
Il 38,8 per cento dei quindicenni in Italia non raggiun-ge il livello di competenza
giudicato minimo in una società avanzata, contro il 21,3 per cento della media
dell’a-rea Ocse.
Considerando che uno studente delle superiori costa 7666 (ci fosse davvero lo
zampino del diavolo?) euro l’anno e sono 650 mila quelli in ritardo di uno, due o più
anni, si può calcolare che, solo per i ripetenti e in un solo triennio, la scuola italiana
brucia qualcosa come 8 miliardi di euro.
La spesa per studente in Italia è tra le maggiori dell’area Ocse, e il rapporto
insegnanti-studenti è molto più alto che altrove. Gli insegnanti sono circa 800 mila in
organico, oltre 100 mila i precari, e il rapporto insegnanti-studenti è il più sbilanciato
(9,3 professori ogni 100 allievi, per una media Ocse di 5,9): spendiamo di più,
otteniamo di meno, come dimostrano i test internazionali sull’apprendimento degli
alunni. La Commissione tecnica del ministero delle Finanze che monitora ogni anno la
spesa pubblica sottolinea come nella scuola italiana ci siano «difficoltà serie di
organizzazio-ne e gestione del servizio: dalla programmazione degli orga-nici e della
mobilità dei docenti alla gestione della rete scola-stica in rapporto con altri livelli di
governo, fino alla man-canza di livelli di valutazione delle scuole, dei docenti e dei
dirigenti scolastici». 6 La commissione arriva sostanzialmente a denunciare come il
sistema non sia in grado neanche di va-lutare le proprie esigenze, le proprie spese,
come si perda an-che solo la distinzione tra «organico di diritto e organico di fatto» e
come i «frequenti interventi legislativi» non permet-tano alcuna forma di
programmazione economica.
Il pesce, d’altronde, puzza sempre dalla testa. Non si contano più gli
spacchettamenti tra ministero dell’Univer-sità e della Pubblica istruzione, di governo
in governo riuni-ti per poi essere separati di nuovo. Quale che sia poi il mini-stro che
gestisce la scuola, si deve registrare nel bilancio co-me il 96 per cento 7 delle uscite
finanzi la spesa corrente, gran parte legata al personale: la spesa insegue i rinnovi
contrattatali, gli stanziamenti non coprono l’ammontate com-plessivo delle
retribuzioni e gli uffici finiscono per indebi-tarsi. Chi ci rimette? Per esempio gli
istituti, che non hanno risorse per ristrutturare aule e palestre o per comprare le
at-trezzature per il laboratorio. 8
La scuola, secondo la commissione, finisce poi per forni-re servizi «estranei alla
sua funzione istituzionale, svolgendo un’azione di supplenza rispetto ad altre
istituzioni pubbli-che (Asl ed Enti locali) e alle stesse famiglie». È la scuola, per
esempio, a farsi carico della tutela degli studenti diversa-mente abili, stipendiando gli
insegnanti di sostegno in mi-sura «singolarmente variabile per regione».
3
Tempi e modi dell’ignoranza

A ognuno la sua

Esistono le elementari? E le medie? Ma ragioneria esiste ancora? E come si sostiene


l’esame di maturità? Oggi co-me oggi solo gli addetti Al lavori sanno come è
organizza-ta la scuola. A mia memoria, quindi da una ventina d’an-ni a questa parte,
non c’è un ministro della Pubblica istruzione che non abbia varato una pur piccola
riforma della scuola. In un Paese che cerca (almeno a parole) l’in-tesa bipartisan su
tutto, la scuola è sempre stata vista in-vece come terreno per scelte (alternate) di
fazione. «Il ri-sultato» si legge nella rivista «il Mulino» «è sotto gli occhi di tutti:
mentre continua ad essere giudicata nel comples-so positivamente la scuola primaria,
medie e superiori soffrono l’assenza di una programmazione condivisa di lungo
periodo che sia rivolta all’individuo nel suo com-plesso, e che sappia però tenere
conto delle nuove esigen-ze che la società ha imposto e continua a imporre con
grande rapidità.» 1
Attraverso gli anni i governi che si sono succeduti hanno cambiato tutto e il
contrario di tutto. Ogni maggioranza, sulla base di una propria (vaga) idea di fondo,
ha modifica-to qualcosa. Così, per esempio, abbiamo visto comparire, scomparire e
ricomparire gli esami di riparazione.
Ma chiariamoci le idee: oggi la scuola italiana è organiz-zata in tre blocchi, scuola
dell’infanzia, ciclo primario e ci-clo secondario. Per intenderci: asilo, elementari più
medie, superiori.
La «scuola dell’infanzia» (ovvero l’asilo) si rivolge a tutti i bambini che abbiano
un’età compresa fra i tre e i cinque an-ni. I la durata triennale e non è obbligatoria.
Subito dopo si apre davanti al bambino il cosiddetto «primo ciclo», formato dalla
«scuola primaria», della du-rata di cinque anni, e da quella «secondaria di primo
gra-do», della durata di tre anni rispettivamente (elementari e medie).

Gli esami di riparazione

Fino al 1995 era facile. A giugno venivano esposti i quadri, e si sapeva chi era stato
promosso, chi era stato bocciato, chi «andava a settembre». Chi era sufficiente
aveva 6, chi era in-sufficiente aveva sotto il 6.
Animati da non si sa quale idea di fondo, nel 1995 si decise che chi era insufficiente
non aveva un 5, un 4, un 3, ma aveva un 6 rosso, che voleva dire che non era un vero
6, ma qualcosa di meno: quando perciò l’alunno a giugno si trovava in pagella (ma
non nei quadri) un 6 rosso (e non nero), veniva ammesso ugualmente alla classe
successiva, portando con sé (però) un debito. Durante l’estate poteva studiare o non
studiate, era un problema suo (e della fami-glia): dopo un mesetto dalla riapertura
della scuola, gli si facevano fare un tema, una traduzione, un esercizio, a se-conda
della materia in cui era insufficiente. Se dimostrava di aver colmato le lacune, era a
posto. Se non le aveva supe-rate (e trovatemi un docente che abbia mai conosciuto
un alunno che le avesse colmate), andava avanti lo stesso col suo debito, fino alla
maturità. Arrivato a un passo dall’esa-me, a seconda della quantità di debiti che aveva
accumula-to, avrebbe potuto anche non essere ammesso, ma nessuno in genere se la
sentiva di bloccare, proprio alla fine del per-corso, un ragazzo che non era mai stato
fermato prima. Tantomeno i commissari di esame. Quindi, promozione assicurata,
anche se con voto basso.
Al momento di andare in stampa con questo testo vige un nuovo (contestatissimo)
metodo di recupero dei debi-ti. Si è parlato di ritorno dell’esame di riparazione, ma
non si tratta di un vero e proprio ritorno al passato, in quanto non sono esami di
riparazione veri e propri ma delle cosiddette verifiche intermedie: entro il 31 agosto (e
comunque non oltre l’inizio dell’anno scolastico). Soste-nute queste verifiche, gli
studenti vengono valutati entro il 7 settembre dai consigli di classe, che decidono se
am-metterli o no all’anno successivo. Il ritorno «atipico» agli esami dopo le vacanze
è stato imposto dai numeri, dal momento che 42 studenti su 100 vengono ammessi
con debito alla classe successiva: 43,4 per matematica, 31,9 per lingua e letteratura
straniera, 18 per materie tecnico-professionali, 16,1 per materie scientifiche, 14,4 per
lin-gua e letteratura italiana, 14,2 per lingua e letteratura lati-na, 13,1 per materie
giuridiche ed economiche, 8,5 per fi-sica. Un esercito di «rimandati non rimandati»
che do-vranno essere preparati (durante l’estate) dalle stesse scuo-le che,
naturalmente, non hanno i fondi per pagare i prof e che quindi cercano in tutti i modi
di ridurre il numero degli alunni da «verificare»: tantissimi promossi, tantissi-mi
bocciati, pochissimi rimandati, e del problema riparle-remo la prossima estate.

La maturità

Prendiamo l’esame di maturità; detto per inciso, ora la de-nominazione ufficiale è


«esame di Stato» ma tutti continua-no a chiamarlo «maturità». Qualcuno di voi
genitori ha ca-pito come si sostiene? Quali materie «si portano»? Chi giu-dica chi? E
come si viene valutati alla fine? In sessantesimi? In centesimi? A spanna?
Iniziamo dalla commissione d’esame: fino al 1951 era formata esclusivamente da
membri esterni, poi il ministro Gonnella introdusse la figura dei membri interni, prima
due e poi uno. Così ha sostenuto l’esame la generazione di quelli che adesso sono
genitori di studenti: un membro in-terno, e per il resto commissione esterna. Il
membro inter-no aveva solitamente un destino infelice: se era buono, i col-leghi lo
prendevano per fesso, pensavano che in qualsiasi ca-so avrebbe difeso gli alunni e
non gli davano molta retta. Se era cattivo, veniva messo alla gogna perché non
aiutava. Se era giusto, riceveva qualche complimento e otteneva po-chissimi risultati,
perché poco adatto alla trattativa politica (dammi un voto in meno a questo, ma mi fai
passare que-st’altro). Il membro interno, naturalmente, si intendeva co-munque di una
materia sola, quindi «faceva il vago» duran-te gran patte delle interrogazioni.
I commissari esterni, a loro volta, se erano intelligenti fa-cevano buone
interrogazioni, se non lo erano sfogavano le repressioni di una vita sull’alunno
sconosciuto o sui colleghi che lo avevano preparato («Ma come!, non avete fatto
que-sto, il vostro prof non vi ha spiegato quello?»).
Parecchi commissari nominati rinunciavano per l’esi-guità del compenso e
venivano sostituiti da giovani senza esperienza, a volte preparati, spesso no. Per
potersi mante-nere molti professori si facevano mandare nel paese di origi-ne, dove
venivano ospitati a parenti che, terminate («finalmente!») le ore di esame, li
accompagnavano a visitare la zo-na. Alla fine tutto il potere finiva nelle mani del
presidente di commissione.
Nel 1997 il ministro Berlinguer stabilì che i commissari (da quattro a otto) fossero
per metà interni e per metà esterni, e che esterno fosse anche il presidente. I membri
interni erano un gruppetto e si potevano sostenere a vicenda, inter-venire e controllare
su più materie.
Trovare i commissari non è mai stato facile, dato che i prof non vengono certo
invogliati dai compensi: per un me-se circa di lavoro vengono destinati 1249 euro per
i presi-denti, 911 per i commissari esterni, 399 per quelli interni: in più ci sono i
compensi correlati alla distanza del luogo di residenza rispetto alla sede d’esame.
Sono previsti 171 euro per il personale «nominato nel comune di servizio o di
resi-denza o fuori del proprio comune di servizio o di residenza in una sede d’esame
raggiungibile in non più di 30 minuti con i mezzi di linea extraurbani più veloci»; 568
euro per il «personale nominato fuori del proprio comune di servizio o di residenza in
una sede d’esame raggiungibile in un tempo compreso tra 31 e 60 minuti con i mezzi
di linea extraurba-ni più veloci»; 908 euro per il «personale nominato fuori del
proprio comune di servizio o di residenza in una sede d’esa-me raggiungibile in un
tempo compreso tra 61 e 100 minu-ti con i mezzi di linea extraurbani più veloci»;
2270 euro per il «personale nominato fuori del proprio comune di ser-vizio o di
residenza in una sede d’esame raggiungibile in un tempo superiore a 100 minuti con i
mezzi di linea extraur-bani più veloci».
Facevano prima ad attaccare un tassametro sulla schiena dei professori.
Il compenso per ciascuna materia e ciascun candidato che spetta al personale
impegnato negli esami preliminari dei candidati esterni (i privatisti) è di 15 euro,
mentre è fissato in 840 euro il compenso massimo attribuibile al singo-lo componente
del consiglio di classe o di specifica commis-sione impegnato negli esami preliminari.
Forse per risparmiare sul costo pur misero delle diarie, la Moratti ha optato per la
commissione tutta interna, con un unico presidente esterno per tutta la scuola.
In questo modo i professori seri hanno continuato a la-vorare bene, mentre hanno
avuto via libera gli scansafatiche (che esistono in tutte le professioni, ma che in
genere nelle altre professioni trovano vita dura): per fare bella figura ven-gono
presentati programmi fantastici, che includono argo-menti mai toccati, che «tanto poi
non ve li chiedo»; vengo-no pilotate le tesine, sulle quali si concordano domande e
risposte.
«Io faccio da sempre lezioni private» ci spiega un prof che preferisce mantenere
l’anonimato, «e ho visto cambiare il "mercato" davanti Al miei occhi: prima i ragazzi
venivano per colmare le lacune del programma, per timore che i com-missari esterni
chiedessero parti che il loro insegnante non aveva fatto, o aveva fitto in fretta. Dopo
cominciarono a ve-nire per fare solo gli argomenti indicati dal loro professore: no,
questo ha detto che non me lo chiede, invece devo ap-profondire quest’altro che mi
ha indicato. Io lo chiamo l’e-same à la carte, su ordinazione!»
Un presidente unico per tante commissioni, natural-mente, che può fare? Controlla
solo che sia tutto in regola dal punto di vista burocratico, ma certo non può verificare
il metodo di esame di ogni commissione. Inutile soffer-marsi su quale diluvio di
promozioni si sia scatenato (in particolate) nelle scuole private, e inutile soffermarsi
su quanto sia sceso il livello di preparazione dei maturati ita-liani.
Il ministro Fioroni ha attuato ulteriori modifiche: com-missioni composte da un
massimo di sei professori, per la metà interni all’istituto. Il presidente sarà esterno e
vigilerà al massimo sulle prove di due classi. Il ministro, al momen-to di andare in
stampa, è cambiato ancora. Come piacerà l’esame al ministro di oggi?

Quando diventiamo ignoranti

In quale momento viene compromesso il futuro degli italia-ni? Quando diventiamo


ignoranti? Difficile rispondere con precisione, ma in qualche modo possiamo
orientarci.
Alle elementari i nostri bambini se la cavano, i problemi arrivano dopo, alle medie e
alle superiori. I bambini italiani in effetti hanno la stessa capacità di lettura dei loro
coetanei europei. Un’indagine europea 2 mette i nostri alunni di quarta elementare al
sesto posto su 40 nazioni testate per capacità di lettura e comprensione. Un ottimo
risultato, de-stinato a essere dissipato nel giro di appena due anni: è alle medie infatti
che nascono i problemi, è lì che si creano le la-cune che si approfondiranno in
seguito al liceo. Più volte il livello di preparazione degli insegnanti delle medie è finito
nel mirino dei ministri dell’Istruzione che si sono succeduti, così come sembra non
funzionare il passaggio dal sistema di apprendimento basato sulle tre maestre a quello
fondato sui tanti professori che si alternano. 3
Anche la forbice tra Sud e Nord del Paese si apre dopo le elementari, perché i
maggiori livelli di apprendimento da parte dei giovani settentrionali sono sempre
presenti, ma aumentano col passaggio alle medie e alle superiori.
Per fare un esempio, nell’ultima rilevazione utile (giu-gno 2007), meno di 2 studenti
su 10 hanno superato gli esami di scuola media con «ottimo», e oltre un terzo ha
preso appena la sufficienza. Chi sta peggio, naturalmente, è chi non può contare
sull’aiuto in famiglia: chi ha genito-ri non diplomati difficilmente va oltre il
«sufficiente», e ad avere genitori diplomati in Italia sono in pochi, dal mo-mento che
solo il 42 per cento degli adulti ha finito le su-periori e che solo il 6 per cento tra i nati
nel 1968 (i geni-tori degli studenti di oggi) è laureato. «Nel resto d’Europa siamo su
una media del 30 per cento» scrive «Panorama». 4 E se dalle medie ci spostiamo alle
superiori il quadro resta fosco. «Alle superiori il 30 per cento dei quindicenni ita-liani
non è in grado di interpretare una formula matemati-ca, un terzo non sa leggere un
grafico. 11 65 per cento degli studenti del Sud non conosce (bene) l’italiano, il 50,4
per cento non sa cosa sia la matematica.» 5 E se il rapporto Iea (International
Association for the Evolution of Educatio-nal Achievement) di qualche anno fa ci
dice che i giovani italiani hanno competenze matematiche più o meno simi-li a quelle
dei giovani statunitensi, è pur vero che la media è fatta dai risultati raggiunti in
Trentino (dove regna l’ec-cellenza, e la competenza degli studenti raggiunge quella
dei coetanei di Singapore, i più capaci al mondo) e da quelli ottenuti al Sud, dove le
scuole congedano studenti in grado di competere al più con Marocco, Filippine e
Sudafrica, i Paesi che hanno fatto registrare le peggiori performance.
Agli scrutini di febbraio 2008 (ma sarebbero potuti esse-re gli scrutini di un
qualsiasi anno precedente o successivo), due milioni di studenti delle superiori hanno
totalizzato 8 milioni di debiti formativi. «Detta in maniera più rozza ma più
comprensibile» spiegava Raffaello Masci su «La Stam-pa», «se l’anno scolastico si
chiudesse ora, 7 studenti su 10 verrebbero rimandati in quattro materie.» 7
Le bestie nere sono la matematica e le lingue straniere, ma siamo drammaticamente
scarsi anche in italiano: come dire, ci manca la capacità di leggere il mondo, la
capacità di raccontarlo e la capacità di controllarlo.

Una parentesi sulle elementari

Il periodo dei saggi di fine anno, quello che i bambini iscritti generalmente ad asilo ed
elementari mettono in scena nelle prime settimane di giugno, è forse quello in cui la
scuola ita-liana mette in mostra tutto quello che potrebbe essere. Gli insegnanti
inventano, realizzano, i bambini si appassionano, partecipano a un progetto che poi
portano in scena, i genito-ri scoprono quello che i propri figli hanno imparato nel
cor-so dell’anno. Ho assistito a una splendida recita in una scuo-la elementare dove
gli alunni alternavano performance da teatro d’avanguardia a balletti da villaggio
vacanze: gli inse-gnanti erano riusciti a prendere il meglio di entrambi i mo-delli
(soprattutto, non si erano fatti spaventare dal secondo). Eppure, sebbene i risultati
testimonino come quella scuola elementare continui a essere la migliore tra le scuole
italiane, anche qui negli ultimi anni si manifestano segni di declino.
Qualche esempio: per ottenere fondi destinati all’acqui-sto di matite, gessi, carta,
bisogna presentare dei «progetti». Non tutti i progetti ottengono l’approvazione,
perché soldi ce ne sono pochi e se ne possono sostenere solo alcuni. Sic-come però
il progetto è poco più di un modulo con il quale richiedere quello che è
quotidianamente necessario per in-segnare, se un maestro vede bocciare il proprio
progetto cer-ca di appoggiarsi a quello di un collega, in modo da non re-stare senza
materiale di assoluta necessità. Finisce quindi che ci si spartisce il poco materiale che
c’è, e alle famiglie tocca il più delle volte colmare le lacune dell’istituto. I geni-tori
rappresentanti di classe in genere fanno una colletta a inizio anno, creano una cassa
comune e con quella acquista-no carta, penne, gessetti. Ho visto un gruppo di
genitori sfi-duciare il rappresentante perché «in classe mancano sempre i fogli»,
come se fosse stata realmente sua la responsabilità di rifornire l’istituzione.
Un’approfondita inchiesta di «la Repubblica» ha mostra-to come nella scuola
italiana il rapporto tra insegnanti di so-stegno e studenti diversamente abili sia
squilibrato, e lo sia in maniera sospetta: «A fronte del 2 per cento di studenti portatori
di handicap» scriveva Eugenio Occorsio, «ci sono 84 mila insegnanti di sostegno, il
10 per cento dei docenti complessivi, con delle anomalie (nel Lazio il rapporto è del
3,3 per cento degli studenti e del 13 per cento degli inse-gnanti) sulle quali occorre
indagare». 8 Eppure (a ennesima dimostrazione di quanto illogica sia la distribuzione
del personale nella pubblica amministrazione) in molte scuole ele-mentari è evidente la
carenza di insegnanti di sostegno con preparazione specifica, soprattutto per bambini
autistici e ipovedenti. I pochi laboratori di informatica sono affidati essenzialmente
alle competenze degli alunni e dei loro geni-tori, dal momento che c’è una grande
difficoltà ad avete tec-nici che sappiano aggiustare i terminali quando si guastano.
Mancano arredi: armadi, stipetti. Non ci sono insegnanti sufficienti per il tempo
pieno, e soprattutto al Sud e nelle Isole gli alunni prevalentemente escono all’una,
mettendo nei guai i genitori (generalmente le madri), costretti a uscire prima dal
lavoro.

I disorientati

Un ragazzino che abbia appena passato l’esame di scuola media si trova davanti a
715 indirizzi possibili di studio: una gamma infinita, «un immane spettro di possibilità
che» scriveva Maurizio Crosetti su «la Repubblica» «va dalla tra-duzione di Seneca
alla guarnizione di una torta Saint Honorè, spaziando da Heidegger alla filettatura di
una vite». 9
Al termine del primo ciclo, i licei si contendono gli iscritti. Ogni anno circa 660 mila
studenti devono scegliere la strada dei propri studi, e ogni anno le famiglie italiane
ca-dono in preda al panico più profondo. I rappresentanti del-le superiori girano per
le scuole medie cercando di convin-cere le famiglie a scegliere il proprio istituto. La
corsa a ven-dersi spinge gli istituti a proporre i corsi più strani, più allet-tanti, più
originali, più brillanti e più inutili: «la Repubbli-ca» 10 ha inventariato i corsi e ha
scoperto l’esistenza di corsi di archeologia, di hitball (una specie di palla a muro),
brid-ge, vela, ascolto di musica jazz, lingua aggiuntiva, corsi di recitazione, di arte
drammatica, e scambi culturali all’este-ro, viaggio e soggiorno (anche di sei mesi)
compreso.
Una volta, finite le medie, la scelta era facile: o si optava per la strada «classica» o
per quella «tecnica». «Non dico fos-se l’ideale» spiega il linguista Tullio De Mauro,
«però oggi abbiamo intere generazioni allo sbando. La mancanza di orientamento è la
vergogna scolastica nazionale. Il vero pro-blema sono gli adulti, i quali dovrebbero
aiutare i bimbetti tredicenni a scegliere: secondo le ultime indagini il 19,8 per cento dei
grandi non possiede i requisiti minimi per orien-tarsi nelle decisioni, ed addirittura il
41 per cento fatica a decifrare uno scritto, anzi una scritta.» 11
Le conseguenze sono paradossali: alcuni licei scoppiano di iscritti e organizzano i
test di ammissione come Harvard. Al-tri vengono dimenticati e abbandonati Al
confini della civiltà.
Ma proviamo a ricapitolare. A quattordici anni, superato l’esame di Stato che
conclude il primo ciclo, si accede al se-condo: qui troviamo i licei (classico,
scientifico, artistico), gli istituti tecnici (ragioneria, geometra, perito industriale, perito
agrario...) e gli istituti professionali (grafico, pubbli-citario, audiovisivo...). Licei,
istituti tecnici e professionali durano cinque anni. Negli istituti professionali il corso di
studi è formato da un triennio più un biennio: al terzo anno il superamento di un
esame attribuisce una qualifica, con due anni in più si ottiene il diploma con valore
legale.
In realtà, terminata la scuola che non si deve scegliere, non si capisce più nulla;
infinite opzioni vuol dire nessuna opzione, e si finisce per scegliere in base a
ragionamenti ele-mentari: si fa fare al bambino la scuola che hanno frequen-tato i
genitori, se va male in matematica lo si manda al clas-sico (come se lì la matematica
non esistesse), oppure lo si manda alla scuola dove vanno i compagni di classe o a
quel-la vicino a casa, oppure nell’istituto che si è fatto una pub-blicità migliore degli
altri.
Le scelte attuate senza logica il più delle volte sono scelte sbagliate, e a pagare sono
(naturalmente) i giovani studenti. Un tredicenne su tre in Italia viene bocciato al primo
anno, oppure si ritira; il secondo tredicenne su tre finisce l’anno con il famoso
«debito formativo» (come abbiamo visto, una sorta di promozione con riserva), solo
il terzo dei tre chiude l’anno serenamente e viene promosso senza problemi.
Il «ritardo» nel primo ciclo risulta legato soprattutto al passaggio dalla scuola
primaria alla secondaria di primo gra-do: 2,7 per cento di ripetenti al primo anno. Nel
ciclo di studi superiori i giovani restano indietro specialmente nei primi due anni: 8,5
per cento di ripetenti al primo anno di corso e 7,2 per cento al secondo. E se nei licei
90 ragazzi su 100 arrivano all’ultimo anno senza averne mai ripetuto uno, nei tecnici e
professionali gli studenti senza ritardi so-no rispettivamente 63 e 57.
4
Scuola e politica
Generazioni

Mi raccontava il responsabile newyorkese di un’importante agenzia di selezione del


personale che i neolaureati di ultima generazione sono più determinati, più preparati e
più sicuri di quanto non fossimo noi ragazzi degli anni Ottanta. Il mio amico
sosteneva di essersi confrontato con due generazioni di neolaureati: i nati negli anni
Settanta erano insicuri, chie-devano alle aziende di assicurargli un percorso di
carriera, volevano certezze, volevano conoscere passo passo ogni mi-nima variazione
dell’organigramma dal momento del loro ingresso a quello del loro pensionamento.
Oggi le aziende non offrono più prospettive di carriera a medio-lungo termi-ne,
perché chi si presenta al colloquio vuole soddisfazione immediata, non intende
mettersi in fila aspettando che arri-vi il proprio turno di decidere, di guadagnare, di
inventare. Alcune (grandissime) aziende sono arrivate persino a offrire al proprio
personale la manicure o la sala massaggi pur di convincere i candidati ad accettare le
loro proposte.
Cosa è cambiato in una decina di anni? Cosa ha trasfor-mato il modo di essere dei
giovani professionisti che hanno appena terminato gli studi? In realtà il tratto delle
genera-zioni si conosce solo dopo. Gli studenti degli anni Settanta si conoscono
quando ormai gli anni Settanta sono passati, quelli degli anni Ottanta quando sono
passati gli anni Ot-tanta, e così via. In pochi, credo, riuscirebbero a individuare un
tratto comune Al giovani che frequentano la scuola di oggi. In futuro sarà facile farlo,
ma oggi è difficile vedere quello che abbiamo davanti agli occhi.
Mi sono diplomato a Roma in un liceo classico di antica tradizione: il lasso. Il
Tasso è da sempre considerato una scuo-la «di sinistra», cosa che non significa
assolutamente che tutti gli studenti che lo frequentano diano alla sinistra il loro primo
voto. L’essere un liceo «di sinistra» significa più che altro avere una lunga tradizione
in tal senso, o forse significa esclusiva-mente che nella spartizione destra-sinistra
degli anni Sessanta-Settanta la scuola di via Sicilia finì per essere colorata di rosso.
Stesso discorso, naturalmente, vale per i licei «di destra».
Io frequentai il Tasso negli anni Ottanta, e la politica la vi-vevamo in tutt’altro
modo. Ricordo che il confronto politico tra Destra e Sinistra era mimato da alcuni nei
modi e con le categorie che avevano mutuato dai fratelli maggiori, ma dai più era
vissuto in maniera nuova, consapevole, più leggera e in qualche misura più fresca.
Anche quando assumeva i con-torni della goliardia o (a essere più benevoli)
dell’anarchismo: ricordo liste che si presentavano alle elezioni per il consiglio di
istituto con il motto «La pietra che rotola non raccoglie mai sugo» o «Ognuno con la
farina sua ci fa gli gnocchi che gli pare» (sia detto per inciso: queste liste stravinsero
le elezio-ni). L’approccio alla cosa politica per noi era caratterizzato dal rifiuto,
radicale ma leggero, delle regole condivise al di fuori della scuola. All’interno
dell’istituto erano ammesse tutte le posizioni, che si confrontavano in maniera
profonda ma spensierata, aperta e sfacciata (fatte salve le inevitabili, ottuse,
eccezioni, che venivano però immancabilmente — e automa-ticamente —
emarginate). Il mancato confronto tra categorie politiche e realtà effettiva, l’assoluto
disinteresse per la verifica logica delle proprie posizioni permetteva a ognuno di
estre-mizzare le proprie idee, condurle a conclusioni paradossali, farsene portatore
sano nel confronto con i portatori sani del-l’opposta fazione. Ma il portatore, lo
sottolineo perché è que-sto secondo me il dato importante, era un portatore sano.
La stessa approssimazione nell’affrontare il rapporto tra l’elaborazione teorica e la
pratica politica aveva portato la ge-nerazione precedente alla nostra a vivere la politica
in manie-ra ben diversa, e più tragica. La disillusione di chi viveva negli anni Ottanta,
il pragmatismo che si respirava in un Paese che si sforzava di uscire da uno dei
periodi più bui della sua storia diveniva motore per una nuova, potente, carica morale:
più realistica ma non per questo meno profonda e valida di quel-la dei tempi andati.
In qualche misura, anzi, più lucida e di-sincantata di quella, e quindi utile, a tutti noi,
ancora oggi.
Io non ricordo episodi di criminalità politica nel periodo del mio liceo. Un mio
compagno di classe sarebbe diventato un esponente di quella criminalità feroce e
allucinata passata sotto il nome di «nuove Brigate Rosse», questo ragazzo però,
anche all’epoca nostra, non esprimeva un sentimento in qualche mi-sura diffuso. Era
un isolato. Negli anni Settanta però, non era stato così. I professori erano sempre gli
stessi, ma gli alunni era-no diversi: gli insegnanti sì che hanno visto l’Italia cambiare.
Hanno visto le teste degli studenti trasformarsi, il pensiero di un Paese svilupparsi,
evolversi, involversi, uscire dal pantano in cui era finito.

La Sinistra

«Il 16 marzo del 1978» ci racconta una professoressa del Tas-so 1 «stavo facendo
lezione di italiano in una classe liceale, for-se una seconda. I ragazzi erano tranquilli,
concentrati, sem-bravano anche interessati. A metà mattinata si spalancò
im-provvisamene la porta della classe, con fragore. Apparve un gruppo di studenti
allegri, chiassosi, vocianti. Uno si staccò dagli altri e annunciò con voce alta e ridente:
"Hanno rapito Moro e ammazzato cinque uomini della scorta!". Nella classe ci fu un
attimo di sorpresa, di silenzio. Poi scrosciò una risata collettiva, accompagnata da un
applauso. Tutti si erano risve-gliati e partecipavano all’ilarità dei nuovi arrivati. Solo
qual-cuno età rimasto silenzioso, interdetto, e mi guardava inter-rogativo. Ebbi
bisogno di qualche attimo per capire, mi sem-brava una situazione irreale. I
messaggeri stavano aggiungen-do particolari, pochi, visto che ancora ne erano stati
dati po-chi, ma succosi. Le domande si succedevano e si intrecciavano. L’allegria
aumentava. Ripresi fiato e, stravolta, cominciai a gridare. La voce» continua a
raccontare la prof «mi si gon-fiava di rabbia, le parole si affollavano una sull’altra.
Non le ricordo più. So che tentavo di riportarli indietro, verso la ra-gione, soprattutto
verso la pietà. Cercavo di spostare la loro mente dall’immagine dell’uomo politico
per portarla verso l’immagine dei morti, vittime, oggi diremmo "collaterali", di una
follia lucida e terribile che tutto travolgeva. Ci volle tem-po. Di solito avevo polso
con i ragazzi, ma anche affetto, li ri-spettavo e loro mi rispettavano. Questa volta si
età aperta una falla troppo grossa; aveva travolto tutto, ragione, senti-menti, pietà.
Improvvisamente non li riconoscevo più. Co-me quando, nei film di fantascienza,
inaspettatamente, sotto le sembianze di un parente, di un amico si rivela un alieno.
Anche loro sembravano vittime di qualcosa che li aveva inca-psulati e modificati, che
aveva fatto scomparire il senso del li-mite. A poco a poco le risate diminuirono,
alcuni si lanciava-no occhiate dense di sottintesi ironici nei miei riguardi, qual-cuno
cominciava a vergognarsi. Solo alla fine arrivai a parlare anche di un modo diverso di
far politica, della necessità di di-stinguere fra una protesta giusta e una in cui ogni
umanità veniva oscurata; della necessità di essere sempre presenti con il senso
critico, con un giudizio personale, di fronte a fatti, insegnamenti, input esterni. Certo
non si tornò a far lezione. Passarono giorni per ristabilire un rapporto normale sia sul
piano umano che su quello didattico.»
Ma la follia in quegli anni non aveva colore politico.

La Destra

La nostra prof ricorda bene anche cosa succedeva dall’altra parte, e rammenta un
episodio che può sembrare nulla se si pensa a quello che successe in quegli anni, ma
che può basta-re per comprendere quanto fosse incomprensibile il clima de-gli anni
Settanta: «Il liceo» spiega oggi la professoressa «era frequentato prevalentemente da
studenti di sinistra. Si sa co-me vanno queste cose: gli alunni si chiamano fra loro, gli
amici e i fratelli vanno dove altri si trovano bene; a poco a po-co la scuola si connota
con un colore politico. Altri istituti dei dintorni, eravamo al centro della città, si
definivano "di de-stra". Nei primi anni Settanta, quindi, eravamo giornalmente in
mezzo a scontri non solo di carattere ideologico, ma anche fisico. Spesso venivano
sotto la nostra scuola gruppi di destra, il più delle volte armati di catene e altre armi
improprie, ad aspettare l’ora dell’uscita degli studenti, e i più facinorosi del-l’una e
dell’altra fazione si affrontavano rumorosamente.
«Ricordo che una volta, dopo che si fu svolto uno dei soli-ti scontri, gli aggressori,
neofascisti, non contenti di aver messo in fuga i loro avversari, si fermarono davanti
alla scuo-la ad aspettare noi professori, che uscivamo più tardi per una delle tante
riunioni improvvisate cui il preside ci chiamava per trovare soluzioni alla difficile
situazione. Il preside ci con-sigliò di aspettare ad uscire, sperando che si stancassero,
e fe-ce chiudere il portone. Noi, dentro, dalle alte finestre dell’an-tico palazzo
ottocentesco, riuscivamo malamente a vedete la strada. Attivarono le due, le due e un
quarto. L’uscita sem-inava libera, ma il preside consigliava ancora prudenza. Io però
ad un certo momento decisi di rischiare, perché dovevo recuperare i bambini dalla
casa dei nonni. Così spinsi le pe-santi ante del vecchio portone. La strada non era
vuota, dagli alti davanzali delle finestre non avevo potuto vedere che pro-prio sui
gradini dell’ingresso stazionava ancora un gruppetto di quelli che si facevano
chiamare fascisti, ragazzi molto gio-vani, che silenziosamente guardavano qualcosa in
terra in mezzo a loro. Mi ci trovai proprio sopra, scendendo i gradini: un ragazzetto
del nostro istituto, forse un ginnasiale, giaceva in terra, tutto avvolto nello scotch,
quello alto, marrone, da pacchi, dalla testa Al piedi, come una mummia. Restavano
fuori solo naso e bocca e occhi, ma malamente, non del tut-to. Mi spaventai. Gridai:
"Ma siete matti? Potrebbe morire! E un bambino!" e con decisione cominciai a
staccate lo scotch, cominciando dalla testa. "Aiutatemi!" Nessuno rispose. I ra-gazzi
avevano formato un cerchio intorno a me e al ragazzino riverso, e mi guardavano in
un silenzio inquietante. Io conti-nuai con affanno a "scartare" il ragazzetto, china su di
lui, trovando difficoltà nei momenti in cui lo scotch si età so-vrapposto girando
intorno al corpo, o infilandosi nella stoffa degli abiti. Nessuno fiatava e nessuno mi
aiutava ("Professore, ieri ha rischiato brutto" mi disse il giorno dopo una mia alunna,
facendomi capire che, al di là di quel cerchio, più lontano nella via, c’erano altri
ragazzi, alunni della scuola, se-minascosti e spaventati, divisi fra il desiderio di
allontanarsi per paura degli scontri e il turbamento di lasciarmi sola).
«In un tempo che mi sembrò eterno arrivai a liberare del tutto il ragazzino che,
appena recuperò l’uso dei piedi, scappò via spaventatissimo senza dire una parola.
Io mi raddrizzai, ri-presi la borsa che avevo appoggiato in terra e guardai il cerchio
ancora chiuso. Non sapevo che dire. Il cerchio si aprì un po’, il tanto per farmi
passare. Me ne andai senza voltarmi indietro.»

Studio e politica

Ho iscritto i miei figli alla scuola pubblica, e così farò in futu-ro, perché voglio che si
confrontino con la realtà per quella che è, e perché sono sicuro che cresceranno
scoprendo la bel-lezza delle differenze. Molte persone che conosco hanno scelto
invece per i loro figli la scuola privata, e non ci trovo assoluta-mente nulla di male. I
miei bambini incontreranno persone che cercheranno di convincerli di idee che io non
amo, e stes-sa sorte seguiranno i figli di chi la pensa diversamente da me. Una cosa
mi chiedo: è possibile ridurre quello che si fa a scuo-la a una categoria politica? E
possibile date un colore al sapere?
Ovviamente penso che la risposta sia negativa. Le cate-gorie della politica sono
troppo strette per ingabbiare quello che la scuola è e rappresenta. Affidare i propri
figli a un isti-tuto che si ritenga di destra piuttosto che di sinistra vorreb-be dire aver
smarrito il senso dello studio. I programmi, le linee guida di un percorso scolastico
non possono che na-scere da scelte discrezionali, è ovvio, e ogni scelta, alla fine, è
influenzata anche dall’orientamento politico di chi la fa. Ma l’idea che lo studio serva
a imprimere un’inclinazione politica o una formazione politica allo studente è una
con-vinzione datata, che poteva reggere quando (Al tempi di cui abbiamo appena
parlato) si pensava che tutto fosse politica.
La politica (e questo non è necessariamente un bene) oc-cupa ormai uno spazio
forse addirittura esiguo nelle nostre vite, così come in quelle degli studiosi, e
probabilmente, og-gi, anche in quelle dei professori. Di sicuro non trova molto
spazio in quelle degli studenti. È il momento allora di ricor-darci a che cosa serve,
davvero, lo studio.
5
Gli studi

Lo studio inutile

Quando fu il momento di iscrivermi all’università ero dav-vero tormentato. Sognavo


di laurearmi in filosofia, pensavo di dover accedere a una più pragmatica
Giurisprudenza, op-tai per il compromesso Scienze politiche. In quegli anni quella
facoltà non garantiva, nell’università pubblica, rigore e serietà: mi iscrissi alla Luiss,
l’università della Confindustria, sinonimo per me e la mia famiglia di impiego sicuro
una volta laureato. Consegnarsi a un’università privata vole-va dire per me e i miei
amici arrendersi, predisporsi allo stu-dio serio, accantonare le velleità che arrivammo
a definire «da poeta», dimenticare letteratura e filosofia e cominciare un percorso che
ci avrebbe trasformato in aridi manager an-ni Ottanta. Naturalmente, come succede
ogni volta che si è convinti di qualcosa, ci accorgemmo in breve che non era così.
Ogni libro che aprivamo parlava di pensiero e di stona del pensiero, incontravamo
Popper, Wirtgenstein, Kuhn e Feyerabend a ogni pagina che voltavamo. Ci stavamo
real-mente innamorando del corso di studi che avevamo intra-preso, quando accadde
che il rettore decise la chiusura della nostra facoltà. Noi saremmo stati gli ultimi
laureati in Scienze politiche: eravamo appena iscritti e già eravamo sta-ti bollati come
ultimi Mohicani.
Il consiglio d’amministrazione si era domandato: «A che serve Scienze politiche?»
e non aveva trovato risposta. Per noi una condanna a morte: cosa avremmo fatto con
in ma-no una laurea definita inutile dalla stessa università che l’a-veva rilasciata? Il
mondo si capovolse ancora una volta, e mentre i nostri amici che si erano iscritti alle
università pub-bliche studiavano e preparavano gli esami, noi yuppies del-l’università
privata occupammo gli istituti.
Occupammo la Luiss. Facemmo manifestazioni, soste-nuti e sospinti da professori
illuminati. Entravamo nelle au-le di Economia fischiando e battendo le mani, mentre
futu-ri manager che aspettavano solo di finire gli esami e discute-re la tesi ci
guardavano e commentavano: «Giusto a Scienze politiche potevano finire...».
Non eravamo ribelli perché politicizzati: ci ribellavamo all’idea di essere inutili. È
vero, avevamo scelto di studiare la Politica, non la Legge o l’Economia, e quindi
sembravamo inadeguati a quell’ambiente e a quegli anni, ma non poteva-mo accettare
che un’università decretasse inutili le nostre scelte, la nostra cultura. Dopo qualche
mese il rettore fu sfi-duciato, l’università tornò sulle sue decisioni, e Scienze
po-litiche continuò a vivere. Adesso molti miei colleghi di que-gli anni occupano
posti importanti in aziende, nella pubbli-ca amministrazione, nel mondo della
comunicazione.
Non esistono studi inutili.

Studiare conviene?

A guardare gli stipendi, non conviene. Nel suo complesso il salario di chi ha passato
gli anni sui libri non è granché superiore a quello di chi, negli stessi anni, se ne andava
a pas-seggio o a giocare a pallone invece di studiare. Gli stipendi in Italia sono
appiattiti verso il basso, poco attenti al merito, alle capacità o alla produttività del
singolo lavoratore.
In Rai di tanto in tanto vengono distribuiti dei questio-nari per gli amministrativi,
questionari che servono a scova-re i cosiddetti «cripto laureati», i laureati impiegati in
com-piti inferiori alle loro potenzialità. Ho scoperto che in Rai abbiamo antropologi a
montare servizi audio, etnomusicologi ad archiviare documenti, economisti addetti al
mon-taggio dei servizi audio, grecisti che compilano le schede orario dei giornalisti.
Ogni volta che arriva questo foglio da riempire, i cripto laureati sono costretti a
ricordarsi cosa avevano studiato, qual era la loro passione, in che cosa «era-no
bravi». Poi consegnano il foglio, e possono dimenticate di nuovo tutto.
Ma torniamo Al salari. «Le retribuzioni di professioni non qualificate, di conduttori
di impianti, di operai specializzati, di professioni qualificate nelle attività commerciali
e degli impiegati» scriveva Fabio Pozzo su «La Stampa» 1 «si aggirano tutte tra i 21 e
i 23 mila euro (lordi). Si va dai 21.170 euro di un lavoratore non qualificato Al 22.750
di un impiegato, an-che laureato. La differenza, si vede bene, è minima: in me-dia, di
1600 euro l’anno. Vale a dire, soltanto 120 euro al mese. Ergo: vale ancora la pena
proseguire negli studi? Spen-dervi tre o quattro anni, nell’ipotesi più favorevole,
ritardan-do l’ingresso nel mondo del lavoro (che non si trova, ma questo è un altro
discorso)? Pagare rette sempre più alte agli atenei, per colmare i loro buchi di
bilancio? E poi, non riu-scire a monetizzare (al di là del valore della cultura) queste
spese, questi sacrifici?»
Il mercato del lavoro italiano non premia il merito, e questo è un fatto, ma ciò
nonostante lo studio resta l’unica possibilità di farcela. Effettivamente le statistiche ci
dicono che su 100 neoassunti nel mondo dell’industria i laureati sono solo 6, 2 ma le
statistiche (come sempre) ingannano. In realtà si tratta di una media: nelle imprese
farmaceutiche so-no il 70 per cento, il 36 per cento in quelle chimiche, il 27 per cento
nelle telecomunicazioni, il 13 per cento nelle in-dustrie meccaniche. Ad abbassare la
media sono le imprese edili: 1,6 laureati ogni 100 assunti, percentuale fisiologica per il
settore.
Le imprese hanno (e avranno sempre di più) bisogno di laureati, questo è sicuro. I
più ricercati sono i laureati in Eco-nomia, gli ingegneri, i laureati in materie scientifiche
in ge-nere e i tecnici di livello intermedio. Nel 2006 sono stati as-sunti 39.370 dottori
in Economia, 32 mila ingegneri e solo 3820 professionisti dell’insegnamento e della
formazione. In realtà, a sentire i responsabili delle risorse umane delle gran-di aziende,
la laurea è data per scontata se si cerca l’assunzio-ne. Chi non è laureato il lavoro di
livello non lo troverà mai. Ormai il massimo dei voti è quasi una precondizione per
chi spera di diventare manager, e i cacciatori di teste approfondi-scono aspetti più
personali del candidato, come il suo corag-gio, la capacità di relazione, la
conoscenza delle lingue. Ma non è neanche (solo) una questione di lavoro.
«Le discipline» spiega Antiseri «sono un insieme di teo-rie che cercano di risolvere
famiglie più o meno connesse di problemi: abbiamo problemi di fisica, di biologia, di
mate-matica... e così via. Ogni disciplina mette a disposizione un patrimonio di idee
che cerca di risolvere famiglie di proble-mi.» In pratica, cerchiamo di organizzare in
macrocategorie la vita che, come dicevamo, è fatta di nodi da sciogliere, di enigmi da
capire, di problemi da risolvere. Più discipline studi, più possibilità hai di risolvere
problemi: «La soluzio-ne dei problemi» conclude Antiseri «comporta l’utilizzo di
pezzi teorici di diverse discipline. È questa l’importanza di avere quella che si chiama
"una cultura generale": non possiamo uscire dalla scuola solo con il bagaglio di
un’unica di-sciplina... Bisogna avere a disposizione più strumenti, essere ricchi di
sapere, in modo da aumentare le possibilità di vive-re bene».’
È bene quindi sgombrare il campo dal luogo comune che considera alcune materie
più importanti di altre o che, peggio ancora, ne condanna alcune come inutili.

La matematica, la filosofia e le arti

Date delle premesse, cosa succede? Un matematico si occu-pa più o meno di capire
cosa discende da ipotesi prefissate. Inutile stare a sottolineate l’importanza pratica
che ha lo studio delle forme teoriche come i numeri. Pensiamo solo all’importanza
che hanno le applicazioni della matematica nella scienza, nella tecnologia,
nell’economia, ma anche l’importanza che ha la matematica come fondamento e
svi-luppo del pensiero razionale, il pensiero, cioè, che è alla ba-se del nostro vivere
(almeno fino a che non ne troveremo uno migliore!).
Prendiamo la filosofia, che indaga i quesiti che da sem-pre tormentano l’uomo
come l’esistenza di Dio (metafisi-ca), la differenza tra Bene e Male (etica) e la
riflessione sulla scienza (epistemologia).
I problemi dello spazio e del tempo, dell’origine dell’u-niverso, del determinismo o
dell’indeterminismo, del reali-smo, sono solo alcune delle questioni filosofiche di
maggior rilievo che lo studioso di fisica prima o poi incontrerà. Così come il
ricercatore in ambito biologico non potrà non im-battersi nel problema dell’origine
della vita e in tutti gli in-terrogativi filosofici ed epistemologici connessi alla teoria
evolutiva.
«I problemi filosofici» spiega Antiseri «sono i valori più urgenti, perché la Terra è
piena di sangue versato non in no-me di teorie scientifiche, ma in nome della religione
e la fi-losofia. Un controllo critico di queste idee è la cosa più im-portante che un
uomo possa avere.» 4
Albert Einstein, come abbiamo già ricordato, diceva che le idee sono la cosa più
reale che esista al mondo. Prendia-mo l’arte: l’umanità ha capito se stessa (prima che
venisse la scienza) tramite la storia dell’arte. Perché andiamo al mu-seo? «Per
vedere» spiega Dario Antiseri «in quel quadro o in quella scultura cosa è la
disperazione, la sofferenza, la gioia o il dolore. La Pietà parla della disperazione di
una madre davanti alla morte del figlio, scopriamo cosa è la paura nei dipinti del
Caravaggio...»
Nelle immagini dei quadri o nelle pagine di un romanzo incontriamo modelli
idealtipici. Quando, per esempio, Alessandro Manzoni descrive don Abbondio
delinea un tipo di uomo: l’arte ci dà un’informazione, ci rende edotti su un tipo di
persona che possiamo incontrare. Quando di una persona si dice che è un «don
Giovanni», si offre su di lei un’informazione né più né meno di quando un medico o
un neurologo descrivono i tratti di uno stato della mente: parliamo di tipologie, in
entrambi i casi. L’arte, come la scienza, ci arricchisce di sapere, di chiavi di lettura
della realtà. «Ecco perché» conclude Antiseri «teatro, pittura, scultura, la grande
letteratura, così come la satira, sono alta-mente formative. Attraverso di loro l’uomo
ha espresso se stesso, ha ordinato le sue idee. Queste cose ci fanno capire veramente
chi siamo noi, ci danno idee e ideali... e in più sono storia della nostra civiltà.»
Anche la contrapposizione tra materie umanistiche e materie pratiche, tra istituti
classici e tecnici è sbagliata.
L’idea che dagli istituti tecnici si debba uscire avendo «imparato un mestiere» è
errata: non bisognerebbe termina-re la scuola avendo imparato un mestiere, ma
avendo impa-rato a cambiare mestiere. Viviamo in un mondo in cui i la-vori cambiano
e si trasformano velocemente, muoiono e nascono alla velocità della luce. Anche gli
studenti dei co-siddetti istituti «tecnici» dovrebbero assorbire teorie, non solo
competenze, per essere in grado di cambiare idea, abi-tudini, comportamenti.
L’uomo più pratico, d’altronde, è sempre quello in grado di sognare più degli altri, di
imma-ginare soluzioni nuove, sperimentare ipotesi originali.
Il nostro professore di Filosofia diceva: «Non c’è niente di più pratico di una
buona teoria» e aggiungeva, cedendo al gusto del paradosso: «insegnare Al giovani
un mestiere vuol dire ingannarli».

Il latino fa chic?

Secondo l’associazione Treellle le lingue classiche sono or-mai percepite


esclusivamente «come un fattore di distinzio-ne sociale». 5 Tra i ragazzi che studiano
latino o greco, secon-do Treellle, l’80 per cento ha il padre laureato (contro il 20 per
cento di chi è agli istituti tecnici o professionali), il 71 per cento proviene da una
famiglia di alto livello culturale (29 per cento nel caso degli istituti tecnici o
professionali), il 78 per cento ha una biblioteca in casa (contro il 30 per cento degli
altri). Ma il fatto che i figli dell’Italia colta studi-no il latino non vuol dite che lo
conoscano.
«Su un milione di studenti italiani delle superiori che si avvicinano alla lingua dei
romani» conferma lo studio, «400 mila si rifiutano perentoriamente di impararla.»
In genere, nel resto dell’Occidente, lo studio delle lingue classiche alle superiori è
facoltativo. Le studiano 1 america-no su 100, 3 francesi su 100, 2 inglesi su 100. In
Germania ci tengono, e quindi lo studiano 8 ragazzi su 100. Grecia e Italia la pensano
diversamente: il 100 per 100 degli studenti ellenici si dedica allo studio della lingua dei
padri, mentre in Italia è solo il 41 per cento degli studenti delle superiori ad affrontare
i testi di Cicerone, Virgilio, Tacito. «Il caratte-re di obbligatorietà» spiegava a
Raffello Masci il responsabi-le della ricerca Attilio Iliva «fa del latino una delle materie
meno amate e quella che presenta un primato nei debiti for-mativi. Chi lo studia per
scelta, infatti, come gli americani o gli inglesi, lo studia bene e lo sa. Quel 40 per
cento di stu-denti di latino che convive con un debito formativo in que-sta materia
per tutta la durata degli studi sta ad indicare che qui da noi esiste una "opzionalità
clandestina" di questa ma-teria, obbligatoria solo formalmente, ma di fatto snobbata e
rifiutata.» 6
Ma allora perché si studia il latino?

Le lingue morte

Naturalmente presentare il latino e il greco come delle «lin-gue morte» non aiuta. La
sensazione che dà questa espres-sione alla maggior parte della gente, anche di una
certa cul-tura, è quella che «morte» implichi un giudizio negativo, una condanna
definitiva, una collocazione fra ciò che non serve più.
L’espressione «lingua morta», invece, ha un significato preciso: lingua «viva» è
quella che viene parlata da gruppi, popoli, nazioni, e che quindi ancora si può
modificare con l’uso, che può arricchirsi spontaneamente di termini nuovi quando
nuove invenzioni o nuove situazioni lo rendano ne-cessario. Lingua «morta» è quella
che non viene più parlata da un popolo o anche da un ristretto numero di persone, se
non in situazioni artificiose, e quindi non può più né modi-ficarsi né arricchirsi
spontaneamente.
Il latino e il greco antico non si parlano più: l’italiano e il greco moderno sono
ormai lingue diverse. Non importa che il latino venga usato in certi convegni dove la
quantità di lin-gue in uso fra i partecipanti crea difficoltà o dove alcuni gruppi
rifiutano per ragioni ideologiche la prevalenza del-l’inglese. Esistono trasmissioni
radiofoniche, riviste e siti in-ternet in latino. Sono usi non spontanei, ristretti a gruppi
di intellettuali molto dotti, che per l’occasione arrivano a co-struire termini nuovi
necessari per dialogare oggi con una lingua, appunto, «morta». Così nascono penosi
e faticosi neologismi che non appartengono ad alcuna comunità e che sono la prova
del tempo passato da quando questa lingua è «morta». In internet è consultabile un
divertente estratto dal Lexicon Recentis Latinitatis 7 (qualche esempio: drink, potio
alcoholica; agente bancario, curator nunmularius...).
In realtà, latino e greco si studiano, ad esempio, per par-lare meglio. I giovani che
hanno studiato le lingue classiche possiedono, rispetto Al giovani che non lo hanno
fatto, una maggiore ricchezza di termini, una facilità di eloquio e una prontezza di
comprensione di linguaggi (anche specialistici) che rendono meno ostico ogni tipo di
studio universitario. I termini della medicina, della matematica, della legge sono quasi
tutti provenienti dal greco e dal latino: davanti a un vocabolo sconosciuto, diventa
un’abitudine mentale quella di risalire all’origine etimologica, cercando di ricostruire
su-bito il significato della parola.
A condannare il latino e il greco sono anche alcuni luo-ghi comuni, del genere: «Si
deve studiare il latino perché in-segna a ragionare». È così che sono diventati
importanti nella nostra scuola gli esercizi di grammatica e le regole del-la sintassi,
perché fungerebbero da «palestra di difficoltà». In realtà la stessa funzione
potrebbero assolverla (forse an-che meglio) i cruciverba o i rebus, anche perché gli
studenti odiano questo studio arido, fine a se stesso o finalizzato a esercitazioni.
Altro mito da sfatate, caro a molti professori di latino e greco di vecchia
formazione, è che le culture latina e greca abbiano importanza fondamentale in tutto il
mondo: il no-stro sguardo è rispetto alla cultura europea come se fosse l’unica
esistente; abbiamo difficoltà a relativizzare in questo campo. Nessuno nega che i
nostri grandi autori possano es-sere amati anche in America o in Cina, una volta che
siano stati tradotti e diffusi in quei Paesi, ma per la cultura cinese, giapponese o
indiana ci sono altri autori di corrispondente grandezza che noi non conosciamo, ma
che sono importan-ti come Omero o Virgilio da noi.
Siamo arrivati al punto: le culture latina e greca sono mediterranee, costituiscono le
nostre radici, hanno prodot-to opere potenti, queste sì veramente «vive», vive ancora
og-gi nelle nostre opere e nei nostri autori, e per questo noi fac-ciamo bene a
studiarle.
La conoscenza della lingua ci permette la lettura dei testi dei grandi autori nella
versione originale, e questo è il vero fine dello studio di declinazioni, verbi e
costruzioni. Al gio-vani bisognerebbe continuamente dimostrare che gramma-tica e
sintassi non sono fini, ma strumenti, per conoscere non solo i testi, ma anche la
mentalità dei popoli che sono alle nostre origini.
Un esempio? La fondamentale differenza fra l’indicativo e il congiuntivo in latino
risale alla potente chiarezza del di-scorso di scrittori che volevano che l’interlocutore
(o il let-tore) capisse subito se una dichiarazione era veritiera, sicura (e allora usavano
l’indicativo), o se l’autore stesso nutriva dubbi su quanto altri gli avevano raccontato
(e in questo ca-so usava il congiuntivo). Le complicate costruzioni del pe-riodo
ipotetico diventano comprensibili e vengono sentite come necessarie quando si
capisce che chi parla non vuole che ci siano incertezze su quello che pensa: deve
essere subi-to evidente se quella ipotesi è sentita come possibile o no; il destinatario
del messaggio, diremmo oggi, deve essere mes-so in condizione di capire il senso
profondo del discorso.
Lo studio delle figure retoriche non deve essere finalizza-to a una caccia al tesoro
su testi di cui si dimentica il conte-nuto pur di evidenziare omoteleuti o anafore:
bisogna sem-pre ricordare che anticamente non si leggeva in silenzio, col pensiero,
ma ad alta voce (esistevano addirittura gli schiavi «lettori»), e quindi le figure di
suono si gustavano molto più di ora; la conoscenza delle figure retoriche deve essere
un ul-teriore strumento per godere lo stile di un testo, semplice, scorrevole e chiaro,
se deve raccontare una guerra (Cesare), complesso e ricco di connotazioni,
potentemente ellittico, se deve raccontare trame, delitti, lotte per il potere (Tacito),
sintatticamente elaborato e sapientemente «retorico», ap-punto, se deve convincete,
commuovere, infuocare chi ascolta (Cicerone).
Studiando il latino, insomma, si impara a comprendere l’effetto che fanno le nostre
parole, si impara ad ascoltarsi, e quindi a gestire meglio quello che diciamo, li a
capire (par-ticolare non poco importante) quello che gli altri ci dicono.

Perché si studia l’italiano?

«Il problema più grave» testimonia un insegnante di un liceo classico romano 8 «è il


fatto che non si arrivi quasi mai a far studiare la letteratura moderna: nella farragine dei
program-mi, nella ristrettezza degli orari, a malapena molti insegnanti arrivano a far
leggere in terza liceo Pirandello, qualche volta uno sguardo veloce a Ungaretti,
Montale, Quasimodo, tutti studiati in modo singolo, senza arrivare ad immergerli in
un quadro culturale completo, storico, filosofico, artistico. Ren-diamoci conto,
inoltre, che ormai è passato un secolo da questi "moderni". Al giovani vengono così
a mancare i testi della cultura contemporanea, quelli che potrebbero meglio
comprendere se ricevessero gli strumenti per decodificarli, strumenti di cui hanno
bisogno quando vanno a una mo-stra, quando vanno al cinema, quando guardano la
televisio-ne e devono essere messi in grado di giudicare fiction, talk-show e
programmi culturali.»
Ecco perché le ore di letteratura sanno un po’ di «anti-co». E spesso di inutile: la
letteratura passa sempre più per essere una materia d’«abbellimento per anime belle»,
che non assicura il pane. I genitori si spaventano quando una fi-glia, ma soprattutto
un figlio, dice che vorrebbe iscriversi a Lettere all’università. Cosa farà poi? Il
professore? Con gli stipendi che hanno?
In realtà il mercato offrirebbe buone occasioni di lavoro anche al laureato in
Lettere, o al giovane che al liceo si di-stingue in italiano: lo scrivere infatti non va
inteso solo co-me produzione di alto livello artistico, ma come professione tout court
. I giornali hanno bisogno di giornalisti che sap-piano scrivere; le case editrici
cercano autori di novelle e ro-manzi, il mercato della fiction è in enorme espansione, e
le reti televisive comprano serial in Paesi stranieri, ma cercano anche di produrne di
propri, più adatti a spettatori italiani, affidandone le sceneggiature a giovani scrittori.
A questo anche dovrebbe preparare la scuola.
Il rischio è invece che la scuola sia la prima nemica della letteratura italiana,
riproponendo vecchi schemi di insegna-mento. Perfettamente inutile ormai la formula
del tema in classe, come elaborazione retorica di un argomento; si sono affiancate, se
non sostituite, a esso le forme dell’analisi del te-sto, della relazione, del saggio breve,
che hanno invece uno stretto rapporto con il mondo di oggi. Potrà capitare a
chiun-que di dover stendere una relazione, qualsiasi lavoro faccia. La scuola deve
preparare anche a questo. Ma il cambiamento deve essere reale: è velleitario e solo
«di facciata» chiedere al-l’esame di maturità di stendere un testo sotto forma di
sce-neggiatura o di articolo di giornale. Quanti professori sa-prebbero scrivere, e
quindi insegnare a scrivere, un articolo di giornale? Apparentemente facilissimo, è
uno dei testi più dif-ficili da produrre, cui le scuole di giornalismo preparano in due
anni di corso. Peggio che mai una sceneggiatura, che ne-cessita di conoscenze
specifiche in campo teatrale e cinema-tografico. Lo studio dell’italiano non dovrebbe
quindi essere più «l’arricchimento per le anime belle», ma diventare con-creto,
avviare a una possibile partecipazione a campi moder-nissimi del lavoro. Mentre la
scuola arranca dietro al bello scrivere delle epoche passate, proliferano le scuole di
scrittura di ogni tipo e livello. Nate inizialmente in Italia per spingere chi avesse
problemi personali a sfogarsi scrivendo, alcune di esse stanno a poco a poco
assumendo metodi e fini professio-nali, come è stato invece fin dall’inizio in America.
La scuola ne dovrà mutuare programmi e finalità, e anche lo studio dell’italiano
perderà quella connotazione solo idealistica che tanto spaventa i genitori pratici, che
vorrebbero vedere i figli assunti e stipendiati il giorno dopo aver terminato gli studi.

Lettere dal carcere

Sul mio sito un giorno è arrivata la mail di una professoressa che era stata nominata
presidente di commissione in un carcere. Mi sembra che sia interessante leggerla in
conclusione di un capitolo in cui ci si è domandati a cosa serva studiare.
«Ormai» scrive la professoressa Valeria Floris, che inse-gna allo scientifico di
Foligno 9 «sono nel mondo della scuo-la da 18 anni, ma è il primo anno che faccio gli
ex esami di maturità come presidente di commissione e per di più den-tro a un
carcere (il carcere di massima sicurezza di Spoleto). Mi ha colpito come la scuola sia
ben radicata dentro una
struttura del genere (molti detenuti studiano recuperando situazioni personali e
familiari socialmente sfavorevoli). Mi ha colpito anche la voglia di riscatto che si
percepisce in persone che magari non useranno mai un diploma (alcuni, o molti,
devono scontare l’ergastolo). Mi ha stupito poi il fatto che anche l’università entri in
carcere. La tristezza è ve-dere bambini che vanno a far visita a un padre dietro le
sbarre (che racconteranno questi bambini Al loro compa-gni?). La rabbia è sapere
che per i miei alunni, che vivono in famiglia e hanno tutto, lo studio è un dovere e non
un pia-cere, è un percorso di vita dal quale cercare di sfuggire entro cinque anni. A
quelli del carcere che non sono Santarelli, ma maliosi della più spietata specie, forse
lo studio servirà per un futuro indulto, ma io non so se troverei la forza di stu-diare,
perché noi liberi pensiamo sempre che lo studio ci serva per il raggiungimento di un
posto di lavoro e non, pri-ma di tutto, per noi stessi. Pensate al paradosso: la scuola
li-bera (quella fuori) e la libertà di volere una scuola (dentro).» Ci pensiamo? Ci è più
capitato di pensarci?
Genitori
1
I conti in tasca

La caccia al bidello

I bidelli? «Non riesco ad impastarli e ad alitarci sopra.» Giu-seppe Gambale, l’ex


assessore all’Educazione, Trasparenza e Legalità del comune di Napoli 1 cita la
Creazione e le Sacre Scritture per rispondere alla nostra domanda. Una doman-da
semplice, per la quale in teoria non bisognerebbe scomo-dare i testi sacri. La
domanda era: come è riuscito il comune di Napoli con i suoi oltre 13 mila dipendenti
a non trovare sei bidelli per tre asili, tra i quali un nido inaugurato e nuovo di zecca,
rimasto però chiuso per cinque mesi? Come si è ar-rivati a dover assumere ex novo
del personale quando dipen-dono dallo Stato 167 mila bidelli (considerate che i
carabi-nieri in Italia sono 118 mila)? Eppure, a Napoli, la ricerca di sei bidelli è durata
da settembre a febbraio, fino a che il co-mune della Iervolino si è arreso e ha
emanato un bando ur-gente per assumerne di nuovi, spendendo 62 mila euro.
La vicenda è quella dell’asilo nido di Chiaia, un asilo nuovo nuovo, rimasto chiuso
fino a febbraio proprio perché manca-vano due bidelli. Una municipalità di Napoli
conta in genere decine di migliaia di abitanti: nel quartiere Chiaia risultava aperto solo
un micronido con sedici posti, cosi a settembre 2007, dopo mesi di lavoro, viene
inaugurato un nido in via Giordano Bruno. Costo, fino a quel momento, 120 mila
euro.
L’asilo è bello, accogliente, nuovo fiammante, come di-mostrano anche le foto
che il comune di Napoli pubblica sul suo sito. È intitolato a don Peppino Diana, un
prete uc-ciso dalla camorra a soli trentasei anni. Ci sono lettini, com-puter,
armadietti, ampi spazi. All’inaugurazione sono pre-senti tutti i politici che ci devono
essere: il ministro, il sin-daco, gli assessori. È presente anche il padre del religioso
uc-ciso dalla camorra. Applausi, sorrisi, taglio del nastro e grande soddisfazione.
A metà settembre è già pronta la lista dei bambini am-messi, una trentina, che dal
1° ottobre potranno andare al ni-do. L’asilo però rimane chiuso per settimane, anzi
mesi: man-cano i bidelli, due bidelli, il minimo per poter aprire i cancel-li. Mancano
perché sono malati: i primi due assegnati all’asi-lo presentano il certificato medico e
quindi vanno sostituiti. Si scopre a questo punto che non mancano i bidelli solo per
l’asilo di Chiaia ma anche per altre due scuole dell’infanzia del napoletano. Come si
fa a trovare sei bidelli in un comune che ha circa 13 mila dipendenti? Si cercano
quelli che sono in organico, per metterli a fare il loro lavoro. L’assessorato inizia una
ricognizione e chiede alle altre municipalità se, per caso, «avanzasse loro qualche
bidello da mandare alle scuole sprovviste». La risposta è «niente da fare», fanno già
fatica a mandare avanti i loro istituti e non si sognano certo di pre-stare i bidelli agli
altri. L’assessorato si mette allora a cercare gli «imboscati», categoria alla quale
appartengono quelli che erano entrati al comune come bidelli ma che nel frattempo
sono riusciti a farsi impiegare in altro ruolo, come segretari (per esempio) a
disposizione dei gruppi al consiglio comuna-le. Se ne individuano quattro, ma anche
loro presentano cer-tificati medici. Alcuni documentano limitazioni funzionali che
non permettono loro neanche di stare in piedi. A questo punto si fa un altro tentativo:
si cercano quelli che sarebbero idonei a fare i bidelli, ma che al momento sono
impiegati co-me giardinieri o come uscieri. Dalla ricognizione risultano circa 30 nomi,
persone idonee secondo il comune a svolgere il compito di bidelli. Ma indovinate un
po’? Una volta chia-mati, presentano tutti un certificato medico. Un’epidemia. Per
alcuni sono spuntate anche delle limitazioni fisiche mai dichiarate prima. A nulla sono
servite le visite fiscali chieste e sollecitate alla Asl dall’assessore.
Si va avanti così per cinque mesi, anche perché, spiega Giuseppe Gambale
«dovevo provarle tutte prima di rivol-germi all’esterno e assumere nuovo personale
con i soldi del comune, altrimenti la Corte dei Conti avrebbe potuto fare obiezioni
sul mio operato».
Intanto dalla lista degli iscritti, nel famoso asilo di Chiaia, 22 bambini si sono
ritirati o hanno rinunciato. A febbraio il presidente del municipio, Fabio Chiosi,
aveva anche restituito le chiavi del nido al comune.
Alla fine si è proceduto a una gara pubblica urgente, in modo da reperire
(pagando) i bidelli necessari. Una soluzio-ne, così è scritto nel bando, di carattere
«sperimentale». 11 co-sto per coprire i rimanenti quattro mesi e terminare l’anno
scolastico è stato di 62 mila euro, che diviso per sei bidelli si-gnifica più o meno 10
mila euro a bidello, 2500 euro al mese per ognuno.
Per l’anno in corso la soluzione è sperimentale, e costosa. Ma l’anno prossimo,
chi farà il bidello all’asilo di Chiaia?

La sete di sapere, e i rubinetti chiusi

Se investi più degli altri, pretenderai di ottenere di più? Pro-babilmente sì, ma non in
Italia. Noi spendiamo più della media Ocse sia per ogni studente della scuola
dell’obbligo, sia per ogni studente della scuola secondaria. Spendiamo di più ma
otteniamo di meno. Abbiamo il più alto rapporto numerico tra docenti e studenti: in
Italia ogni 100 alunni abbiamo 9,4 insegnanti delle secondarie, 9,2 delle elemen-tari,
mentre la media Ocse è 7,4 e 6,1; 8,5 e 6,8 nella media dei Paesi europei. Certo, ad
alzare la media italiana sono l’ampia assistenza agli studenti diversamente abili e le
scuo-le dei piccoli centri, ma il divario con gli altri Paesi è tal-mente elevato che la
popolazione italiana dovrebbe essere più preparata delle altre, non meno.
Ogni anno si spendono 4 miliardi di euro per tenete pu-lite le scuole. In Italia ci
sono 167 mila collaboratori scola-stici (quelli che una volta venivano chiamati
bidelli). C’è un collaboratore ogni due classi virgola due, un esercito di bi-delli che
dovrebbe garantire (in linea teorica) la lucentezza di aule, bagni e corridoi.
Spendiamo troppo per la scuola, 2 ma investiamo sempre meno nell’istruzione:
l’incidenza della spesa per l’istruzione sulla spesa pubblica totale si è ridotta nel 2006
all’8,8 per cento, mentre nel 1990 era pari al 10,3 per cento. Il dossier 2008 di
«Tuttoscuola» 5 ci spiega che «fatto pari a 100 l’am-montare delle risorse pubbliche
con il quale il Paese fa fron-te alle proprie esigenze, dalla sanità alla previdenza,
dall’or-dine pubblico alla difesa, è come dire che la quota destinata alla formazione e
al sapere è stata ridotta in questo arco di tempo del 15 per cento. Insomma è stata
considerata, in termini relativi, del 15 per cento meno importante a benefi-cio di altre
priorità. Le quote relative alla protezione sociale e alla sanità si sono incrementate
notevolmente, ma per esempio quella destinata alle spese per la difesa è rimasta
in-variata, a differenza dell’istruzione».
Se questo è il trend a livello centrale, bisogna dire che, da quando la legge
Bassanini ha ampliato il decentramento amministrativo, gli enti locali hanno investito
sempre meno nell’istruzione. Nel 1996, prima della riforma Bassanini, le
amministrazioni locali spendevano l’11,1 per cento delle proprie risorse
nell’istruzione, mentre nel 2005 erano arri-vate a impegnarne il 7,8 per cento: come a
dire, se devono scegliere gli enti locali, le priorità sono altre (vedere natural-mente
alla voce «sanità»).
Insomma, invece di affrontare il problema della qualità della spesa, nei momenti di
crisi ci limitiamo a chiudere il rubinetto, magari dirottando risorse dalla scuola alla
sanità, altro gioiello dell’«azienda Italia».
È come se noi, avendo a disposizione un’automobile vecchia, disastrata, che
consuma troppo, invece di cambiar-la ci limitassimo a ridurre continuamente la
benzina che le mettiamo nel serbatoio. Risultato: la macchina si ferma. Null’altro.
In realtà, mentre un’automobile si può fermare, la scuola non lo può lare. La
macchina scuola deve continuare neces-sariamente a marciare, e quindi sapete chi li
mette i soldi per il carburante?

La spesa delle famiglie

Ogni anno le famiglie versano 500 milioni di euro alle scuo-le, a titolo di
«contributo». Sono soldi non dovuti, non pre-visti da alcuna disposizione, una sorta
di elemosina che va a colmare le lacune degli istituti. Parliamo di spese di laboratorio,
assicurazione degli alunni, acquisto delle pagelle (!). Naturalmente versano questi
contributi anche le famiglie esentate dalle tasse scolastiche. Senza questi 500 milioni
di euro il sistema collasserebbe.
Nelle scuole italiane spesso sono le famiglie a portare la carta per scrivere, le penne,
persino la carta igienica. Sempre più spesso i genitori rappresentanti di classe sono
anche am-ministratori di una cassa comune finalizzata all’acquisto del materiale
scolastico mancante. Ma questo è niente. La politi-ca si confronta continuamente
con il problema del carolibri. I libri di testo, che nel migliore dei mondi possibili
sarebbero forniti alle famiglie (almeno alle più bisognose) dallo Stato, costano in
Italia veramente troppo. Le associazioni dei consu-matori denunciano che i prezzi
salgono del 10 per cento all’anno, l’Antitrust è arrivata a concordare con le case
editrici delle misure per il contenimento dei prezzi, il governo ha re-centemente varato
dei provvedimenti tampone. Ma in realtà la spesa di ogni famiglia, in questo campo,
è tutta legata alla fortuna: osservando gli elenchi dei testi richiesti, ci si accorge che
tra una classe e l’altra si possono determinare differenze anche di 400 euro. Il
quotidiano «la Repubblica» ha condotto un’indagine sull’argomento, e ha scoperto
che «basta cam-biare città, indirizzo scolastico o addirittura sezione nell’am-bito
della stessa scuola per ritrovarsi a spendere il doppio».
Nella classifica delle città Torino sembra essere la meno cara, Palermo la più
costosa. «Senza tetti di spesa» si legge nell’indagine, «il costo totale della dotazione
libraria può ar-rivare a cifre vertiginose, basta aggiungere alla lista dizionari e atlanti.
Ma il budget varia anche in relazione al numero dei libri da acquistare e al loro
prezzo. Secondo la nostra indagi-ne, basata su un campione di oltre 260 classi, la
spesa media per la prima classe della scuola secondaria di secondo grado si aggira
attorno Al 322 euro. Scorrendo le liste dei libri si scoprono mille curiosità ma,
soprattutto, si impara che con un po’ di attenzione è possibile fare risparmiare
diverse deci-ne di euro alle famiglie. Perché, se i prezzi dei testi scolastici sono uguali
in tutto il territorio nazionale, quello che può appesantire il conto è il numero di libri
richiesti dai singoli insegnanti.» Alcuni esempi: «La I C del liceo classico Vitto-rio
Emanuele II di Palermo è, con buona probabilità, la classe più "cara" d’Italia: una
lunghissima lista di 23 volumi che farà sborsare Al malcapitati genitori 694,10 euro.
Per una so-la materia, il Latino, i ragazzi dovranno acquistare 5 libri e un dizionario
per l’equivalente di 175,50 euro. Quanto ba-sta agli studenti di un’altra classe
palermitana, la I Q dell’Ipsia Salvemini, che con 5 centesimi in meno (175,45 euro)
acquisteranno tutti i libri richiesti». Ma anche il costo dei singoli volumi peserà nei
bilanci familiari. «A fronte di una spesa media di 35 euro, al liceo classico D’Azeglio
di Torino, per acquistare la grammatica di Greco occorrerà pagare 43,70 euro. La
lista più pesante sarà invece quella che ritire-ranno mamme e papà dei ragazzi iscritti
in I M al liceo clas-sico Umberto I di Napoli. Dizionari esclusi, l’elenco conta 25 libri
per un totale di 507,75 euro. In totale vengono ri-chiesti alle famiglie 4 testi di Latino,
4 di Circeo e 6 di Ingle-se. Sommando il costo medio di 4 dizionari (Inglese, Latino,
Greco e Italiano che dovranno acquistare coloro che ne sono sprovvisti) si può
oltrepassare gli 800 euro. Anche allo scien-tifico le differenze tra classi di istituti
diversi sono abnormi. In I H all’Avogadro di Roma si spendono 264,95 euro,
mentre in I B al Benedetto Croce di Palermo occorrerà sbor-sare 554,23 euro.
Stralciando il costo di 3 dizionari (188,65 euro) resta fra le due classi una differenza
di circa 100 euro.»
Dall’anno scolastico 2008-2009 è stato introdotto un tetto per la spesa in libri di
testo. Si va da un massimo di 370 euro per gli studenti del terzo anno del liceo
classico Al 120-140 euro per la quinta classe degli istituti professionali; ma il conto
non torna.
Mettiamoci nei panni dei capofamiglia delle famiglie più povere: su quali basi
secondo voi decideranno il destino dei propri figli? Mentre i giovani benestanti
avranno la possibilità di scegliere il percorso di studio che più si attaglia al proprio
talento, quali calcoli si troveranno a fare i più bisognosi quan-do dovranno scegliere
tra il tecnico, il classico e lo scientifico?
Orari e salti mortali

Se fosse per la scuola italiana, le madri starebbero tutte a ca-sa a crescere i figli. Le
lezioni nelle scuole medie finiscono tra l’una e le due, e così alle superiori. Alcuni
istituti offrono un doposcuola, ma nulla di più. I ragazzi escono e arrivano a casa
all’ora di pranzo, dove trovano qualcuno solo se mamma ha lasciato il lavoro, o se
ha abbastanza risorse per pagare una colf, o se è così fortunata da avere un buon
rap-porto con sua madre o con la suocera. In genere, poi, il ra-gazzo tornato da
scuola si butta sul divano e ingurgita (in-sieme a budini e merendine) ore e ore di
televisione, o di in-ternet, in attesa che arrivi l’ora di cena (a meno che, naturalmente,
la famiglia non abbia le risorse sufficienti a iscriverlo a nuoto, calcio, inglese, teatro,
canto, danza afro, ukulele).
I padri che decidano di non rifugiarsi nel ruolo che con-segna loro la tradizione
italiana in genere attraversano la città in motorino a ore improbabili per andare a
prendere i figli a scuola, li scaraventano in un posto sicuro e riattraver-sano la città in
giacca e cravatta per tornare al posto di lavo-ro. Riconosci i padri più moderni alle
feste di bambini, quel-le infrasettimanali delle quattro di pomeriggio. Buttati da una
patte, si fanno segare il collo da strizzatissime cravatte, e intanto ingurgitano pizzette
o noccioline senza dire una pa-rola, sguardo allucinato, la testa alla riunione lasciata
mezz’ora prima e l’occhio incollato al figlio che insegue un animatore vestito da
pagliaccio.
Personalmente mi sono fatto molta pena i giovedì del nuoto, mentre con una
mano infilavo l’accappatoio a un bambino di quattro anni e con l’altra rispondevo
alle mail che mi arrivavano sul palmare.
Una scuola disegnata per la famiglia attuale dovrebbe ga-rantire un orario più
lungo, almeno fino al momento del ri-torno dei genitori dal lavoro, non per offrire un
«babysitte-raggio» di Stato, ma più che altro per sfruttare meglio il tempo che i
ragazzi sprecano a casa.
Un progetto difficile, certo, ma bisogna tornare sempre alla domanda
fondamentale: a che serve la scuola? Se serve per formare gli italiani, allora non basta
metterli sul banco per cinque ore la mattina. La scuola del secolo scorso era tutta
incentrata sul lavoro in aula, alla lavagna; la società contemporanea richiede diversi
percorsi formativi. «Oggi» scrive Francesco Alberoni sul «Corriere della Sera»,
«avrem-mo bisogno di college diurni in cui i ragazzi fanno letture, scrittura, sport,
teatro, cinema, imparano attività artigianali che nessuno più insegna loro. Una scuola
che richiede edifici scolastici nuovi o completamente riadattati e un corpo insegnante
serio, autorevole e preparato. [...] La famiglia da sola non ce la fa più e la vecchia
scuola perde credito ogni giorno, ha quasi smesso di educate [...]. Occorre uno
sforzo immenso per sorreggere i genitori.» 5
E invece sono i genitori a fare un immenso sforzo per sorreggere la scuola italiana.

I conti di Alessandro

Alessandro Spalvieri è impiegato, come sua moglie. Hanno quattro figli: la più grande
ha quindici anni e fa la seconda superiore, il secondo ne ha quattordici e fa la terza
media, il terzo dodici e fa la prima media, mentre il più piccolo, cin-que anni, va
all’asilo. Tutti iscritti alla scuola pubblica. «... e mi costano tantissimo!» Spiega
Alessandro: «Cominciamo dal più piccolo, quello che mi costa meno: la retta
mensile dell’asilo è di 41 euro, cui vanno aggiunti il corso di inglese, il materiale
(come i colori, le penne, i fogli) e qualche picco-la gita. Il tutto fa 20 euro extra, per
un totale di 60 euro al mese. Quelli alle medie mi costano solo di libri 300-400 eu-ro
ognuno, e a questi vanno aggiunti 200 euro di materiali vari (disegni, quaderni, gite Al
musei...). A fine anno, poi, arriva la gita, cui non puoi dire di no perché in classe la
fan-no tutti. Quella costa altri 200 euro per ognuno di loro, ed ecco che i figli che
studiano alle medie mi costano 700 euro l’anno l’uno. La grande al liceo vale un
capitale: 400-500 euro di libri (solo il dizionario di latino ne costa 130). Alle superiori
si paga anche l’iscrizione a scuola, 100 euro, cui vanno aggiunti i soliti 200 euro di
materiale e qualche pic-cola gita. Arriviamo a quota 800.
«Facendo un calcolo a spanna, spendo circa 2500 euro all’anno per mandarli a
scuola. È tanto, ma se questo è il prezzo del loro futuro... lo devo fare».
«La spesa che meno digerisco?» continua Alessandro. «Quella per i libri, senza
dubbio. Riuscissero almeno a pas-sarseli l’un l’altro... Invece ognuno ha i suoi, e
anche se il ti-tolo è lo stesso l’edizione cambia ogni 24 mesi. Ho provato a prenderli
anche di seconda mano ma quasi sempre sono già troppo vecchi. Ho letto una
statistica che dice che mandare a scuola un ragazzo, cioè formarlo per tredici anni,
costa allo Stato 200 mila euro... Ma che ci fanno? Come li spendono questi soldi?
Per quella che è stata la mia esperienza la mi-gliore scuola è l’asilo, e anche alle
elementari si ha un po’ più di cura e attenzione per i piccoli; poi a mano a mano che
cre-scono è un po’ come la vita, li cominciamo ad abituare ad ambienti più disagiati,
ad arrangiarsi... Magari così impara-no subito cosa significa diventare grandi... (ride
!). A cosa si rinuncia?... Per scherzare parlo sempre della mia Mercedes, e tutti mi
dicono: "Ma che Mercedes? Tu hai una Golf, pure sgangherata!". Io rispondo che la
mia Mercedes sono i miei figli. Giro con uno scassone, ma investo su di loro.»
2
Le nostre (le loro) paure

Lo stress dei ragazzi

Molti psicologi si interrogano su quale sia il livello di ten-sione raggiunto dagli


studenti sotto pressione. Cosa succede nella testa degli alunni quando è il momento
dell’interroga-zione, dello studio o, peggio, dell’esame finale? E ancora: cosa
possono fare i genitori e la scuola davanti a uno stu-dente che perde colpi, che non
riesce a inserirsi, che inizia ad avere addirittura paura della scuola? Il pediatra Italo
Farnetani, per esempio, ha indagato sul comportamento di set-te milioni di ragazzi in
primavera, l’epoca in cui i nodi dello studio vengono più o meno al pettine. 1 Circa un
milione e 200 mila giovani presentano in questo periodo gli stessi sin-tomi: mal di
testa, insonnia, poca voglia di mangiare. Sono sotto stress, hanno paura della verifica
o di essere rimandati e di doversi quindi rovinare l’estate. Hanno il terrore di fal-lire:
«Una bocciatura» spiega il pediatra 2 «nel periodo cru-ciale della vita, quando si
strutturano i rapporti relazionali con la società mette lo studente in condizioni di
inferiorità rispetto Al coetanei.» Farnetani arriva quindi a bocciare l’i-dea stessa degli
esami a settembre: «Sono un errore, perché creano tensione emotiva, stress e
disagio. Inoltre l’estate non è il momento giusto per studiare: le alte temperature
indeboliscono l’organismo e si rischia il calo dell’autostima a studiate mentre i
coetanei si divertono in spiaggia».
Quante attenzioni, eh? Ma prima di farvi un’opinione con queste teorie vi
chiediamo di aspettare e di arrivare a leggere nelle Appendici il paragrafo sugli
studenti cinesi. Così, tanto per fare un confronto con i tenori di stress a cui un
ragazzo dall’altra parte del mondo può essere sottoposto.
Noi in Italia crolliamo sotto il peso della tensione con una certa facilità.

La paura dei figli

Il fenomeno del doping non è nuovo. Ricordo che alla mia maturità (parliamo quindi
del 1986) un commissario, do-po aver letto il curriculum deludente dell’esaminato
che aveva davanti, mosso a compassione gli rivolse la classica «domanda a
piacere». Quello lo guardò con occhi spiritati e cominciò a urlare: «Bastardi! Proprio
quello che non so mi chiedete?!».
Un altro collega esaminando, sempre nell’86, si presentò carico come una pila alle
8 di mattina. Rideva, parlava a vo-ce alta, rispondeva come un razzo a tutte le
domande che gli venivano poste. Si sedette in pizzo alla sedia aspettando il suo turno
all’orale, turno che però, per sua sfortuna, arrivò a pomeriggio inoltrato. L’effetto
del doping era svanito, era subentrato il down, e poco mancò che si addormentasse
tra le braccia del commissario esterno, farfugliando qualcosa su D’Annunzio. Un
mio compagno di classe più naif aveva esagerato col ginseng, e passò la mattinata
chiuso nel bagno dei professori squassato dai dolori di pancia.
Il Forum prevenzione di Bolzano ha misurato il fenomeno del doping dei
maturandi, e ha calcolato che il 20 per cento degli esaminati in Alto Adige si è
presentato all’ultima maturità assumendo farmaci e droghe di vario ti-po, convinti
che la bomba li avrebbe aiutati a essere pro-mossi. Il fenomeno è gravissimo, tanto
più che gli studenti si passerebbero le medicine sulla base di convinzioni assur-de,
come quella secondo cui prendere la medicina contro l’Alzheimer aiuterebbe a
ricordare tutto ciò che non si rie-sce a tenere a mente. Ma i metodi utilizzati
sarebbero mol-ti: dal tradizionale caffettone (ottenuto mettendo nella moka al posto
dell’acqua il caffè fatto alla prima tornata), alle medicine (farmaci come il Ritalin
contro i deficit di attenzione, o il Modafinil contro la sonnolenza diurna), al-le droghe
(cocaina per aggredire, spinelli per tranquilliz-zarsi), le ricette? Non servono, dal
momento che su inter-net si sarebbe sviluppato un mercato parallelo dei farmaci più
richiesti, come antidepressivi, eccitanti, stimolanti, an-tifatica. Il fenomeno è
diffusissimo, tanto che l’Accademia inglese delle scienze mediche è arrivata a
proporre (provo-catoriamente ma non troppo) l’esame antidoping per gli studenti.
Naturalmente tutte queste droghe oltre a essere dannose sono pure inutili. Il
farmacologo Silvio Garattini ha spiega-to a «la Repubblica» che «non esistono
scorciatoie allo stu-dio, molti studenti ricorrono agli ansiolitici, per esempio, per
ridurre l’ansia, ma gli ansiolitici possono ridurre la capa-cità di concentrazione. I
sonniferi vanno usati con attenzio-ne, perché code di sedazione possono durare il
giorno del-l’esame. Non esiste alcuna prova poi che gli aminoacidi contenuti in
bevande stimolanti possano migliorate le pre-stazioni cerebrali. Il trucco per superare
gli esami è avere di-sciplina. Prepararsi per tempo, cercare di dormire bene, in modo
regolare. E arrivare tranquilli perché si è studiato, non perché si è preso un
tranquillante». 3

I genitori elicottero, e altri

Qual è l’insegnante degno di tuo figlio? Nessuno, in genere.


Gli esperti inglesi hanno creato una categoria sociale, quella dei «genitori
elicottero», quelli che sovrastano la vita dei figli, volteggiano loro sopra,
sovrintendendo a ogni loro scelta e osservando ogni loro azione. Un genitore
elicottero volteggia anche sopra il maestro di scuola, lo giudica, lo contesta, ne mette
in luce continuamente l’incapacità di in-dividuare e sviluppare il talento del figlio. Il
genitore elicot-tero, davanti a un ostacolo incontrato dal figlio, non aiuta il bambino a
superarlo, denuncia piuttosto l’esistenza dell’o-stacolo e cerca di rimuoverlo in tutti i
modi. Il bambino aspetta, mentre babbo e mamma fanno atterrare l’elicottero vicino
al luogo del delitto e risolvono la questione.
Questa non è altro, spiega Ammaniti, che «un’intrusione dei genitori nella vita dei
figli, che per certi versi rimangono a lungo dipendenti dai propri genitori, incapaci di
prendere le proprie decisioni e affrontare la vita con le proprie gambe»/’
Il genitore che si intromette nella vita del figlio può assu-mere diversi aspetti: può
essere l’agente del figlio, compor-tandosi, racconta Cinzia Sasso su «la
Repubblica», «come il procuratore di un campione di calcio: prende gli accordi,
definisce i contratti, smussa gli angoli delle difficoltà». 5 Può essere un genitore
cavaliere, «che si materializza appena sor-ge un problema. Arriva, lo risolve,
sparisce di nuovo dietro le quinte». Può essere un falco, «temuto da professori e
dato-ri di lavoro, è disposto a fare di tutto pur di garantire al fi-glio una posizione di
rilievo». Il banchiere risolve i problemi finanziari, il bodyguard sostituisce il figlio in
tutte le situa-zioni imbarazzanti: ti vergogni di fare qualcosa? Arriva papà.
Ricordo un padre che affittò una moto per il figlio che doveva andare a una festa
fuori Roma, visto che la sua era dal meccanico e che non sarebbe stato dignitoso,
per un sedi-cenne, essere accompagnato dai genitori.
Ricordo la lesta per il settimo compleanno di una bam-bina organizzata nelle sale
dell’Hilton di Roma. Agli angoli della sala camerieri vestiti da Cenerentola,
Biancaneve, To-polino, Shrek servivano hamburger e hot dog Al piccoli in-vitati,
mentre colleghi in livrea servivano il salmone Al geni-tori. Una stanza dell’hotel era
stata affittata come magazzi-no, per tenere i regali ricevuti e quelli di ospitalità: ogni
bambino intervenuto alla lesta se ne sarebbe andato via con una pista Polistil o con
un set Barbie.
Quando è stato domandato a tate e badanti straniere di dare un giudizio sui nostri
bambini6 rumene, moldave o fi-lippine hanno bocciato in toto il nostro modello
educativo. Il 50,9 per cento delle intervistate ha definito maleducati i nostri bambini:
questi ultimi risultano Al loro occhi viziati, capricciosi, disobbedienti. I genitori,
secondo donne che ormai vivono stabilmente nelle nostre famiglie e che quindi
hanno maturato un giudizio piuttosto circostanziato, «do-vrebbero essere più
severi».

La dittatura del figlio

Chi di voi è genitore? Per quelli di voi che lo sono, è il mo-mento di mettersi una
mano sulla coscienza e rispondere con sincerità: quanti amici «storici» avete perso
da quando sono nati i bambini? Magari li avete persi perché loro non hanno avuto
figli o solo perché le mille attività dei vostri piccoli vi hanno succhiato tutto il tempo
che avete a dispo-sizione, impedendovi di continuare a vedere gli amici di sempre. E
adesso la domanda più dura: quante frequenta-zioni dovete alla socialità dei vostri
figli? Babbi e mamme una volta brillanti, socievoli, pieni di interessi e iniziative, si
adattano a frequentare persone con cui in comune hanno magari solo gli orari del
nuoto, o decidono di frequentare persone che non hanno mai sopportato, ma che il
fato ha voluto concepissero un figlio nel loro stesso periodo.
Naturalmente parliamo per paradossi, dato che spesso proprio alle conoscenze
dei figli i genitori devono alcune delle loro migliori amicizie. È un fatto, però,
testimoniato da diverse ricerche, 7 che sempre più le scelte dei figli diven-tano quelle
dei padri, sempre più le esigenze dei figli traina-no le opzioni dei genitori.
Concita De Gregorio su «la Repubblica» arriva a parlare di «dittatura del figlio»:
«La dittatura del figlio ha soppian-tato una qualsiasi anche blanda forma di intimità
coniugale e di vita sociale: dormono nel letto dei genitori, dettano la dieta e i tempi di
vita, le amicizie. La maggior parte di fre-quentazioni fra adulti è conseguenza delle
amicizie dei figli: compagni di scuola o di sport. Magari i genitori si sarebbero scelti
comunque, forse no». 8 Ed è il demografo Roberto Volpi a spiegare come «il figlio
unico di genitori quaranten-ni è il destinatario di tutte le aspettative: o lui o nessun
al-tro. Non c’è più nessuna capacità di accettare l’idea di ri-schio. Dalla gravidanza
in poi la nascita di un figlio è una questione affidata agli specialisti. Ecografie,
diagnosi prena-tali sofisticate che scongiurano la possibilità di anomalie e difetti.
Parti pilotati e anestetizzati. Infanzie concepite co-me slalom tra timori da
scongiurare: vaccini, profilassi, tu-tori. Per tutto si chiede il parere della scienza: dai
giochi si-curi Al lettini anatomici». 9 La eccessiva protezione del figlio è ormai
diventata la norma, e di ciò ha preso atto anche l’in-dustria della sicurezza per bimbi:
«Nelle catene di negozi per bambini» scrive ancora Concita De Gregorio, «interi
re-parti sono dedicati alla sicurezza: angoli di gomma per tavo-li e reggisportelli,
cancelletti per scale e cuscini antisoffoca-mento. La notizia di premi Nobel cresciuti
orfani e fra gli stenti del vagabondaggio non inficia le vendite. I prodotti per
sterilizzate gli alimenti sono il top di gamma. Le nonne dicevano che mangiate un po’
di terra faceva bene agli anti-corpi: roba dell’altro mondo nell’era Napisan. Roberto
Vol-pi fa notare come alla sovrabbondanza di stimoli "culturali" dei piccoli cresciuti
come baby-manager non consegua un miglior rendimento scolastico dei medesimi: i
nostri risulta-ti nei test europei sono tra i peggiori. Crede che l’ansia da prestazione
inculcata dai padri corrisponda più ad un’esi-genza di gratificazione (o di
compensazione delle frustrazio-ni) degli adulti che non ad una risorsa dei piccoli, che
fini-scono per somigliare a robottini identici e sostanzialmente incapaci di affrontare
le vere difficoltà».
Bambini iperprotetti, genitori scioccati dalle proprie re-sponsabilità, una scuola
inefficiente che preferisce soprasse-dere piuttosto che affrontare i propri obblighi. E
questo il contesto in cui crescono i nostri figli? E così che in Italia amministriamo il
nostro capitale umano?

Le consulenze

Ho sempre pensato che quando nasce il primo figlio paten-ti e amici finiscano per
suddividersi in tre categorie di «con-sulenti». La prima è quella dei lottatori, e
riguarda quelli che ti insegnano a tenere lontani i parenti: espongono dettaglia-te
tattiche opposte, ma in realtà simili, a seconda che si ri-volgano al neobabbo o alla
neomamma. Sono utili, ma scontano i difetti di tutti i monotematici, e alla lunga
sem-brano ossessionati.
La seconda categoria è quella dei buonsensisti, che sono le persone più importanti
per un neogenitore: ti danno in-dicazioni, appunto, di buon senso. Sono quelli che ti
sugge-riscono, di volta in volta, come risolvere i problemi pratici, quando avere o
non avere paura, quelli che alla fine, insom-ma, ti aiutano veramente a uscire vivo dal
tifone bambino. La terza categoria è quella dei pedagoghi, ed è la più temibi-le.
Hanno sempre in mano un libro scritto da un qualche psicologo stranièro dal nome
impronunciabile, e per le teo-rie di quest’ultimo sono disposti a combattere, magari
scon-trandosi con i (tanti) sostenitori delle idee del pedagogo an-tagonista.
I pedagoghi vivono e si riproducono su internet o alle riunioni dei genitori,
teorizzano ritualità estremamente complesse e rigorose, ti spingono per esempio a
sviluppare la manualità di tuo figlio facendogli toccare solo il legno o solo il ferro,
quasi mai la plastica. Ti spiegano che i bambini devono giocare solo con giocattoli a
forma di U o di B, si spendono fino allo spasimo per far prendere loro (o non
prendere) un preciso prodotto omeopatico, e provano a convincerti che tuo figlio, se
la vuole fare, deve poter fare la pipì in salotto.
Le teorie sui ruoli familiari sono innumerevoli, e tutte terrorizzano i genitori. Ti
spiegano fino all’ultimo particola-re cosa si deve o non si deve fare, promettono
disastri se non le seguirai.
Un pediatra dell’Università di Verona ha persino dichia-rato che «una ricerca
norvegese condotta su 7343 ragazzi ha dimostrato una relazione tra rendimento
scolastico e prima colazione: chi non la fa corre un rischio tre volte maggiore di
scarsi risultati nei test di verifica degli studi». Guarda ca-so, si è poi scoperto che la
dichiarazione era stata diffusa dalla Kellogg’s, la multinazionale che inscatola i cereali
per il primo mattino. 10 Ultimamente hanno avuto una grande fortuna le idee del
filosofo Bernhard Bueb, il quale (dopo aver diretto per trent’anni un prestigioso
collegio tedesco) si è convinto che i bambini non possono crescere se i genitori non
riscoprono l’autorità e la severità. C’è da chiedersi se avrebbe sviluppato teorie
libertarie nel caso fosse stato diret-tore di un collegio (che so?) giamaicano.
«La libertà» scrive comunque Bueb «non è solo indipen-denza, né arbitrio:
genitori e insegnanti devono ricercare un equilibrio fra intransigenza e amore, giustizia
e bontà, con-trollo e fiducia. La vera autorità non incute paura, ma anzi genera
sicurezza: è la mancanza di punti fermi, piuttosto, a rendere gli adolescenti di oggi
disorientati e insicuri. Solo cosi i nostri figli sapranno conoscere se stessi e il
mondo, vi-vere con pienezza le loro esistenze ed essere felici.» 11 Bueb in sostanza
contesta i metodi libertari che hanno caratterizzato la pedagogia post sessantottina.
Quest’ultima ha comunque dei fans sfegatati ancora in attività, fans che si
raccolgono spesso in gruppi estremistici che spingono le mamme a rifiutare ogni
aiuto che la moder-nità possa offrire loro. Ricordo che mia moglie, durante la prima
gravidanza, fu quasi sequestrata da una lega che le vo-leva imporre un parto che
anche le puerpere dell’Alto Me-dioevo avrebbero considerato doloroso. Non
parliamo dell’allattamento: esistono sette che strizzerebbero una madre con il torchio
pur di non farle acquistare una scatola di latte in polvere.
Tra le tante teorie che ho sbocconcellato aspettando di diventare padre, ho subito
amato quella dell’Università di Uppsala, i cui ricercatori hanno spiegato come nella
crescita di un bambino sia essenziale il ruolo del padre: avranno suc-cesso nella vita,
spiegano gli svedesi, solo i figli di padri pre-senti, attenti e determinati a dire la
propria nell’educazione dei figli. Cito questo studio con spirito fazioso, perché sono
un padre, non per altro, ed è evidente che potrebbero essere trovate ricerche
altrettanto autorevoli che insistono sul ruolo del nonno, della zia, della famiglia unita
o della famiglia al-largata (inutile sprecare anche una sola riga sull’importanza del
ruolo della madre). Ognuno di noi, all’interno di ogni famiglia, è condannato ad avere
un ruolo decisivo nella for-mazione dei più giovani e, al di là degli scherzi, molti
autore-voli studiosi hanno provato a far luce su quel mistero che è l’educazione dei
figli. «A proposito dei comportamenti dei genitori» scrive Massimo Ammaniti,
«sono abbastanza note le ricerche americane fatte da Steinberg sui genitori
autore-voli oppure quelli poco presenti nella vita dei figli, che li tra-scurano.
Sicuramente si trattava di ricerche psicologiche de-gli anni Ottanta, quando erano
riconoscibili gli stili dei ge-nitori e i figli in ogni famiglia erano ancora abbastanza
nu-merosi. Da allora molte cose sono cambiate. Perlopiù in ogni famiglia vi è un solo
figlio o al massimo due e i genitori investono tutte le loro aspettative su quell’unico
figlio. Lo proteggono in modo spesso eccessivo, cercano di anticipare o perlomeno
di assecondare i suoi desideri, lo seguono fa-cendogli fare danza, musica e judo, lo
aiutano a socializzare invitando i suoi amichetti a casa e organizzando piccole
fe-sticciole. È quasi inevitabile che il bambino diventi il capita-le sociale della famiglia
e dopo averci investito così tante ri-sorse i genitori devono difendere il figlio dagli
insegnanti che non lo apprezzano quanto meriterebbe.» 12
3
Il capitale

La via verso il successo

II mondo non è mai prevedibile. Quando parliamo di siste-ma bloccato, che


favorisce chi proviene da una famiglia col-ta e benestante e ostacola chi non ha avuto
questa fortuna, non vogliamo dite che il destino di ognuno di noi sia scritto già nella
dichiarazione dei redditi dei genitori. La vita può essere sempre trasformata,
cambiata, migliorata. Se il Paese deve obiettivamente rimettere in moto il cosiddetto
ascen-sore sociale, questo non significa che ognuno di noi non possa intanto
inventarsi un modo per arrivare al piano di sopra. Alcuni sociologi insistono anzi sul
fatto che le moti-vazioni ad «arrivare», ad avere successo, sono più forti in chi parte
da condizioni relativamente svantaggiate, e che questi ultimi hanno quindi un
paradossale vantaggio rispetto Al cosiddetti «figli di papà». Eccovi alcune storie
(scelte a caso, e molte altre ne avremmo potute trovare) di gente che ce l’ha fatta,
tanto per tirarci un po’ su di morale.
Mario Renato Capecchi, premio Nobel per la medicina nel 2007, nacque a Verona
nel 1937. Rimase presto orfano di padre, e quando aveva solo cinque anni la madre,
un’ar-tista di origine americana, fu arrestata dai fascisti e depor-tata a Dachau come
prigioniera politica. Mario fu sfollato e finì in una casa di contadini che, non essendo
più in grado di mantenerlo, dopo un anno lo abbandonarono alla stra-da. «Mi
cacciarono via» racconta a Vittorio Zucconi, 1 «e non andai da nessuna parte.
Ricordo che vagando per le strade fra Bolzano e Verona incontrai una banda di
bambi-ni come me, senza adulti, che vagavano cercando di man-giare quello clic
potevano.» Con lavoretti? Domanda il cor-rispondente di «la Repubblica». «No,
rubando» risponde il premio Nobel. «Rubavamo nelle cascine, nelle città che
at-traversavamo camminando verso sud. Ci davano la caccia, noi ci nascondevamo
nei barili vuoti, nelle stalle, spostan-doci in continuazione. Cominciai a stare
malissimo e non ricordo neppure bene come, mi ritrovai in una corsia di ospedale a
Reggio Umilia, nel 1945.» Chi l’aveva ricoverato? «Qualcuno, un ignoto, un
samaritano italiano. Ero stato colpito dal tifi) e sarei morto se i medici di
quell’ospedale non mi avessero curato.» Fu lì che Lucia, sua madre, la trovò? «Sì.
Era sopravvissuta a Dachau e quando gli ameri-cani avevano liberato il campo era
tornata in Italia, comin-ciando a cercarmi. Un giorno me la trovai davanti al letto
d’ospedale, avevo da poco compiuto otto anni.» E lei decise di emigrare.
«Immediatamente. Ci imbarcammo su una na-ve di profughi e sbarcammo a New
York, dove ci aspettava suo fratello Henry, mio zio, che eravamo riusciti ad
avverti-re. Appena fummo esaminati e spidocchiati a Ellis lsland, l’isola degli
emigrati, lo zio ci mise su un treno diretto a sud e poche ore dopo eravamo a
Princeton, dove lui inse-gnava alla facoltà di Fisica. C’era ancora Einstein, a
quell’e-poca, e ricordo di averlo visto. Ma allora che sapevo di Ein-stein?» Da
allora, andò a scuola negli Stati Uniti. «Il giorno dopo, si rende conto, il giorno
dopo essere uscito da Ellis lsland con mia madre ero già in una classe elementare,
dove non capivo niente. Non sapevo neppure leggere bene, ero solo un bimbo di
strada.» Come campavate? «Prima con l’aiuto dello zio Henry, poi con i guadagni
di mia madre, che aveva trovato lavoro come interprete negli ospedali del New
Jersey e di New York.»
Un piccolo vagabondo (oggi diremmo uno zingaro) salva-to dallo studio offre al
mondo quello che il mondo voleva ne-gargli, regalando le sue idee e le sue scoperte
a tutti noi. Ca-pecchi ha sviluppato una tecnologia di gene targeting (lette-ralmente,
«bersagliamento di un gene», una tecnica che per-mette di rendere inoperativi alcuni
specifici geni), utile allo studio di vari aspetti della biologia dei mammiferi, inclusi gli
studi sul cancro, sull’embriogenesi, sull’immunologia, sulla neurobiologia e in pratica
su tutte le malattie umane.
Sono tante le persone che hanno saputo trasformare una condizione svantaggiata
di partenza in una occasione di suc-cesso. Dario Po, premio Nobel della letteratura,
è figlio di un ferroviere e di una contadina. Il senatore Umberto Vero-nesi, già
ministro, uno dei pionieri della lotta contro i tumo-ri in Italia, primo italiano
presidente dell’Unione interna-zionale di oncologia e fondatore della Scuola europea
di on-cologia (Eso), è figlio di un contadino. «Noi veniamo dal mondo agricolo»
raccontava a Luciano Onder. 2 «Mio padre era un fittavolo nella pianura lombarda,
stavamo fuori Mila-no, anche se non lontanissimi. La vedevamo come la grande meta
di chi vive nei sobborghi. Quindi la nostra grande spe-ranza era di diventate
"cittadini": si andava a scuola facendo 4-5 chilometri a piedi tutte le mattine, anche in
pieno inver-no, con i nostri calzoni corti, con quella cultura naturalistica del mondo
agricolo. La conquista è stata lenta ma ci ha mol-to gratificato come tutte le grandi
forme di emancipazione.»
In un’intervista concessa ad Andrea Vianello,3 il grande giornalista Enzo Biagi
raccontò: «Una volta a scuola chiede-vano: "Che mestiere fa tuo padre?" per
metterlo nei registri.
Mio padre era operaio, ma io alla maestra risposi: "Impiega-to"; lo avevo
promosso! Poi lo raccontai a mia madre, alla quale dicevo le cose che facevo. La
mattina dopo ho visto mia madre che si infilava il suo cappottino, le ho detto: "Dove
vai?". Mi ha risposto: "Vengo a scuola con te". E ve-nuta in classe, ha detto alla
professoressa: "Enzo è qui per scusarsi, con lei e con i suoi compagni. Suo padre
non è un impiegato, suo padre è un operaio". Questa cosa qui» sotto-lineava Biagi
«io l’ho ricordata per tutta la vita».
Figlio di operaio è stato anche un ministro dell’Univer-sità, Fabio Mussi, e
l’economista Renato Brunetta, ministro della Funzione pubblica al momento in cui
questo libro va in stampa, raccontava ad Aldo Cazzullo del «Corriere della Sera»:
«Sono orgoglioso di essere figlio di gente povera. Fi-glio della Venezia popolare. Ha
presente Thomas Mann e Visconti? La Venezia letteraria, crepuscolare? Ecco, tutto il
contrario. Da bambino andavo a vedere i siori che mangia-vano il gelato a San
Marco. Soldi per i gelati io non ne ave-vo. Andavo a pescare i granchietti e le
anguelle, quei pescio-lini trasparenti, da fare fritti. E andavo a lavorare con mio
padre, venditore ambulante di gondoete, gondole di plastica nera. Vetri di Murano.
Souvenir. Avevamo una bancarella in lista di Spagna, accanto alla stazione. E li, sui
marciapiedi di Cannaregio, ho imparato tutto. Il lavoro, il sacrificio. Vive-vamo in
nove in novanta metri quadri, con i miei due fratel-li, mia zia vedova e i suoi tre figli.
E comunque in casa mia non c’era un libro. Cominciai a studiare il greco la notte, di
nascosto. Cosi ho dato l’esame per passare al Foscarini. Il fi-glio dell’ambulante, il
piccolino, al liceo dei siori. Alla ma-turità fui il primo della classe». 4
Il padre di Franco Marini, ex presidente del Senato, era un operaio della Snia che
aveva messo al mondo sette figli: Franco si laureò in Giurisprudenza e cominciò
quasi subito a lavorare nel sindacato.
Per spostarci nel campo degli imprenditori, basti l’esem-pio di Leonardo Del
Vecchio, secondo la rivista «Forbes» il secondo uomo più ricco d’Italia, con un
patrimonio netto di 10 miliardi di dollari. Del Vecchio trascorse i suoi primi anni,
orfano, nel collegio dei Martinitt. Divenne poi ap-prendista in una fabbrica di stampi
per ricambi automobili-stici e montatine per occhiali, in qualità di incisore. Nel 2006
gli è stata conferita la laurea ad honorem in Ingegneria dei materiali dal Politecnico di
Milano.
Al netto però dei grandi esempi, dobbiamo riconoscere che in Italia non è facile
migliorare la propria condizione. Un signore anziano, intervistato in Tv, faceva un
ragiona-mento molto amaro, ma purtroppo molto giusto. «Una vol-ta» raccontava,
«mio padre si vergognava a parlare davanti a me, perché parlava peggio di me. Io
studiavo, lui non lo aveva potuto fare, temeva di sbagliare, e di perdere la faccia
davanti al figlio. Adesso, quando sento parlare mio figlio, mi vergogno per lui,
perché è lui a non saper parlare. 1 miei genitori avevano fatto tanti sacrifici per farmi
fare un passo avanti, mio figlio, il loro nipote, fischia di riportarci tutti al-la casella di
partenza.»
I sociologi lo chiamano «ascensore sociale», ed è quello che, in una società che
funziona, prendi quando migliori il tuo status sociale, culturale, economico. Nella
società delle caste, durante il feudalesimo, nell’ancien regime, si moriva sempre e
comunque nelle condizioni socioeconomiche in cui si era nati. Nelle società
moderne, dovrebbe poter essere l’individuo a decidete del proprio destino. L’Italia,
invece, è un Paese immobile. Non è più il titolo nobiliare a essere tra-smesso col
sangue e a fare la differenza, ma oggi sono le pro-fessioni e le ricchezze a essere
trasmesse con il Dna.
Nella Penisola essere figlio di un ricco è meglio di una assicurazione sulla vita,
essere figlio di un povero è quasi una condanna. Le statistiche 5 ci dicono che, in
media, un figlio di libero professionista su 4 rimane nella posizione del padre, mentre
solo 3 figli di operai su 100 riescono a diven-tare imprenditori, dirigenti o liberi
professionisti.

La scuola ingiusta

Il nostro Paese è bloccato fin da quando i piccoli italiani si siedono sui banchi di
scuola: nel nostro Paese i giovani che provengono dalle fasce più basse smettono di
studiate pri-ma, e se la preparazione è scarsa, minore è la possibilità di migliorare il
proprio status sociale. Il nostro sistema scola-stico non riesce a porre riparo alle
disuguaglianze sociali, e il grado di istruzione e il reddito delle famiglie di provenienza
rimangono determinanti nel definire le sorti di uno studen-te: solo i genitori istruiti
riescono a guidare i propri figli ver-so gli studi e le professioni migliori. Se sei ricco,
ce la fai, spesso anche se non meriti; se sei povero, non ce la fai, spes-so anche se
meriti. La scuola italiana oggi non è selettiva, è cinica: premia i figli dei ricchi che
(magari) non hanno vo-glia di studiare e penalizza i figli dei poveri che (magari) so-no
bravi, ma sono soli, senza aiuto, senza sostegno.
La scuola italiana, da questo punto di vista, è inutile: lo studente che si iscrive ha
pochissime speranze di cambiare il destino che gli toccherebbe se a scuola non
entrasse. Il gra-do di istruzione e il reddito della famiglia di provenienza so-no
determinanti nel definire il futuro dello studente: buona famiglia, buon futuro.
Famiglia umile, futuro umile.
Uno studio pubblicato dalla Banca d’Italia testimonia co-me rendano meno gli
studenti nati da famiglie povere o quasi povere. 6 Da questo punto di vista è marcata
anche la differen-za di preparazione e rendimento tra gli studenti nati al Nord e quelli
nati nel Meridione, inutile stare a dire a vantaggio di chi. «E ampiamente
riconosciuto» si legge nello studio «che le differenti condizioni sociali e culturali, già
a partire dall’età prescolare, influiscono in maniera decisiva sulle abilità cogni-tive,
sulla capacità di esprimere se stessi, di percepire i colori, di comprendere spazi e
forme, di rappresentare fenomeni di natura quantitativa.» I più poveri pagano il dazio
specialmen-te nei primi anni di scuola. In matematica, per esempio, «il punteggio
ottenuto da uno studente con lo status sociale più elevato supera del 25 per cento
circa quello ottenuto da uno studente con lo status sociale più basso». 7
Le differenze si attenuano quando arriva il momento di scegliere a quale scuola
media superiore iscriversi. Lì i più bravi (siano del Nord o del Sud) si iscrivono Al
licei, gli altri (il 70 per cento degli studenti italiani) vanno all’istituto tec-nico.
Naturalmente le differenze uscite dalla porrà rientrano dalla finestra, perché sono
soprattutto gli studenti di fami-glie benestanti o agiate a iscriversi Al licei. «In base Al
dati Pi-sa 2003» recita lo studio, «la probabilità di uno studente ap-partenente alla
classe sociale più elevata di essere iscritto a un liceo è sette volte più alta di quella di
uno studente con le più sfavorevoli condizioni familiari. Tali evidenze sono
ri-correnti in tutte le aree geografiche.»
La scuola italiana non migliora la società, lo studio nel nostro Paese non offre al
cittadino l’opportunità di modifi-care la propria condizione e le proprie prospettive.
La denuncia dell’immobilità sociale non è denuncia di una scuola di classe, quanto
piuttosto quella di una scuola che non aiuta gli studenti a passare da una classe
all’altra, esigen-za legittima, motore dello sviluppo di un Paese, che dovrebbe essere
assecondata dalle istituzioni. Dalla scuola ci si deve aspettare la promozione delle
capacità del singolo, quali che siano le sue origini sociali. Non solo per ragioni
etiche, ma anche perché conviene al Paese non disperdere i talenti dei propri
cittadini, talenti che possono nascere in qualsiasi quar-tiere, in qualsiasi famiglia, in
qualsiasi contesto.

Ricchi e poveri all’università


In Italia i poveri pagano gli studi Al ricchi. Iscriversi all’università costa
relativamente poco: le statistiche ci dicono che ogni studente paga in media il 15 per
cento dei suoi studi, e che quindi il conto totale viene saldato dalla fiscalità gene-rale.
8
Viene saldato da tutti, insomma, da chi si laurea e da chi non si laurea. Se andiamo
a vedere chi si laurea e chi non ce la fa, scopriamo che a laurearsi sono soprattutto i
figli dei ricchi o, per essere più precisi, gli appartenenti alle classi medio-alte. Se
prendiamo 10 ragazzi nati negli anni Settan-ta da genitori con la terza media,
scopriamo che 3 di loro si fermano alla licenza media come babbo e mamma, 6
arriva-no al diploma superiore, uno solo arriva alla laurea. Se an-diamo a controllare
le chance che gli iscritti all’università hanno di laurearsi, scopriamo che gli studenti
con genitori di bassa condizione sociale hanno appena il 3 per cento di possibilità di
farcela. Ricapitolando, si iscrivono tutti, ricchi e poveri, pagano tutti, ricchi e poveri,
ma a laurearsi sono soprattutto i figli dei ricchi. La conclusione è elementare: i poveri
pagano gli studi Al ricchi.
Aggiungiamo ancora che, in genere, i rampolli della me-dia e alta borghesia
possono scegliere di frequentare l’uni-versità migliore sul territorio nazionale, mentre
agli altri non resta che arrangiarsi con l’università più vicina a casa. Figli di farmacisti,
notai, professori universitari? Vanno a studiare a Milano. Figli di operai? Studiano al
paese, se-guendo i corsi di professori figli di professori.
Lo status sociale della propria famiglia di origine insegue i giovani italiani per tutta
la loro vita lavorativa. Basti pensa-re che, secondo i dati di AlmaLaurea, a cinque
anni dal conseguimento del titolo un laureato figlio di operai guadagna 1238 euro al
mese, mentre un suo collega, con la stessa identica laurea ma che provenga da una
famiglia più agiata, guadagna 1437 euro. Duecento euro in più ogni trenta giorni, una
vera e propria tassa sulla classe di provenienza. Lo scotto dell’ambizione: vuoi fare
meglio dei tuoi genitori? In Italia devi pagate pegno.
Queste differenze valgono quali che siano gli studi che si è deciso di
intraprendere. «Tra gli ingegneri» scrive Federico Pace di «la Repubblica», «la
differenza è di poco inferiore Al 200 euro (1574 euro contro i 1759 euro), tra i
giuristi e i laureati del gruppo politico sociale siamo sempre sopra Al 100 euro al
mese. Per chi esce da Economia e Statistica di-ventano anche più acute: 1276 euro
Al figli di operai e 1519 euro Al figli di chi sta più in alto nella gerarchia sociale.» 4
Nella maggior parte dei casi il destino si eredita, non si costruisce. Se
confrontiamo i titoli di studio di padre e fi-glio, scopriamo che «buona parte dei
padri architetti (il 44 per cento) ha un figlio laureato in Architettura, 4 giuristi su 10
hanno un figlio laureato in Giurisprudenza e lo stesso accade agli ingegneri, Al
farmacisti e Al medici, con evidenti ricadute sui percorsi occupazionali. Tanto che il
16 per cen-to dei figli di dirigenti arriva, dopo solo cinque anni dal ti-tolo di laurea, a
ricoprire la carica di funzionario o dirigen-te, mentre a più del 40 per cento dei figli di
impiegati succe-de di ripercorrere il sentiero professionale del padre». 10
4
Le scelte

Libertà e ignoranza

Ogni fatto può essere raccontato in milioni di modi diversi: la verità di cui ognuno di
noi è portatore trova conferma o smentita nel confronto tra opinioni differenti. Anche
(so-prattutto) la verità scientifica (quella insomma che viene in-segnata nelle scuole)
si ottiene attraverso il confronto: tra teorie e fatti, tra teorie magari opposte che
spiegano gli stes-si fatti. La comunità scientifica vaglia, confronta, sopprime o
rilancia iporesi che spiegano o raccontano quello che è av-venuto in passato, quello
che avviene nel presente, quello che avverrà in futuro. Si elimina quello che non
funziona (che non spiega) e si prova quello che potrebbe funzionare (quello che
potrebbe spiegare qualcosa che non si capisce). Tutti devono essere pronti ad
ammettere i propri errori, tut-ti devono essere pronti a inventarsi qualcosa per
risolvere un problema al momento irrisolvibile.
Tutti sono fallibili, tutti possono avere ragione, ma que-sto non significa che si
possa dire qualsiasi cosa, e che qual-siasi cosa sia degna di essere insegnata.
Sembrerebbe non pensarla così il filosofo Giacomo Samek Lodovici:
«L’esistenza di scuole non statali garantisce un principio morale fondamentale e
irrinunciabile, che non è certo di parte: la libertà dei genitori di scegliere per i figli una
scuola conforme alle proprie convinzioni. Infatti, la scuola dovrebbe proseguire il
diritto naturale dei genitori di educare i figli, ed essere un complemento educativo
della fa-miglia, mai un sostituto. Lo Stato deve cioè garantire la pos-sibilità che i
genitori di sinistra possano mandare i figli in scuole di sinistra, quelli liberali in scuole
liberali, quelli cat-tolici in scuole di ispirazione cattolica, ecc. Insomma, la po-sta in
gioco non è la tutela degli interessi dei cattolici, bensì la salvaguardia della libertà
delle famiglie di educare i figli secondo i propri valori e principi, quali che siano,
purché non siano principi criminali. Poiché la trasmissione cultura-le dovrebbe essere
trasmissione della verità» conclude Gia-como Samek Lodovici, «la scuola dovrebbe
trasmettere principalmente (non esclusivamente) la verità. Cioè quelle tesi e quei
valori che essa e i genitori che l’hanno scelta con-siderano veri». 1
Secondo Dario Antiseri: «La società aperta — vai la pe-na ripeterlo - è chiusa solo
Al violenti e agli intolleranti. Ed ecco, allora, che se israeliti, cattolici, valdesi,
testimoni di Geova, musulmani volessero aprire loro scuole, mante-nete la loro
specifica identità culturale, approfondire la lo-ro cultura, tramandare Al loro figli quel
patrimonio culturale di prospettiva sulla vita e di valori che essi ritengono la cosa più
importante, forse l’unica necessaria, con quali argomenti si vorranno vietare tali
scuole ad "orientamento confessionale", una volta che siano stati accettati i punti
fondamentali di riferimento della nostra Costituzione? Non esistono argomenti per
vietare di istituire scuole "neutre" - statali e non statali - e, accanto a queste, scuole
"protestanti" e scuole "cattoliche", come accade in Ger-mania. In Olanda sono state
istituite di recente scuole "indiaste"; e c’erano già scuole "musulmane". Forse che la
Germania e l’Olanda - e il Belgio e l’Inghilterra, ecc. - so-no Paesi meno democratici
dell’Italia? E poi: solo le scuole statali sarebbero scuole in cui si insegna la tolleranza
e la democrazia? Forse che le scuole cattoliche o il liceo israeli-tico di Roma sono
stati covi di indottrinamento antidemocratico?». 2
Il supermercato del sapere, la libertà assoluta di scelta nel campo dell’istruzione: è
giusto essere liberi di scegliere i propri studi o gli studi dei propri figli? Senza dubbio
sì. Ma è giusto scegliere quale verità studiare? E giusto che siano i genitori a ritagliare
in base alle proprie esigenze e Al propri gusti la cultura che i Figli dovranno
indossare? Qui le cose si ranno un po’ più complesse.
Secondo Stefano Rodotà «la scuola dovrebbe essere il luogo in cui i cittadini si
riconoscono reciprocamente. Se coltiviamo invece identità separate, ci troveremo
con scuo-le cattoliche, comuniste, islamiche, aree e chi più ne ha più ne metta. Il
risultato è quello che chiamo balcanizzazione della società». 3 Gian Antonio Stella sul
«Corriere della Se-ra» 4 gioca sul paradosso delle «scuole su misura» e ipotizza un
mondo in cui ognuno possa scegliere i testi su cui for-mare i propri figli, arrivando a
immaginare scuole prèt-à-porter, in cui «un papà e una mamma sono di sinistra?
Hanno diritto a una scuola di sinistra. Sono di destra? Scuola di destra. Certo, c’è
un problemino: "quale" sini-stra? Quella bertinottiana o pecoraroscania, veltroniana o
pannelliana, dilibertiana o turigliattiana? Mica facile, tro-vare la scuola giusta. E
"quale" destra? Berlusconiana o finiana, buttiglionesca o mussoliniana, rotondiana o
santanchesca? Quanta dose di simpatie trotzkiste può essere tolle-rabile per un bravo
genitore post diessino? Quanti fez e ga-gliardetti e busti del Capoccione possono
essere accettati sopra l’armadio in classe da un bravo genitore liberale? E può essere
davvero democratica una scuola non perfetta-mente aderente alle specifiche "verità"
di Franco Giordano e Marco Ferrando, Salvatore Cannavo e Livio Maitan,
Ftancesco Caruso e Luca Casarini? Immaginiamo già il pri-mo incontro
genitori-insegnanti: "Scusi, professore, ma lei non è in linea con la mia verità"».
Incredibile la rassegna dei libri di testo «faziosi» a cui po-trebbe attingere un
genitore in cerca della verità da insegnare al figlio: Stella racconta come, in L’età
contemporanea di Ortoleva-Rivelli, si possa leggere che la figura di Stalin «appari-va
rassicurante nella sua immensa autorità e nella sua salda permanenza al potete. Il
timore da essa ispirato poteva quasi essere sentito positivamente, come il rispetto
dovuto ad un’autorità dura ma giusta». Negli Elementi di storia di Ca-mera-Fabietti,
la differenza tra i lager nazisti e i gulag sovieti-ci viene spiegata così: i primi furono la
conseguenza «logica e necessaria» di un regime fondato «sulla sopraffazione e
l’eli-minazione delle "razze inferiori"», mentre l’«ignominia» dei secondi non va
imputata al comunismo che «esprimeva l’esi-genza di uguaglianza come premessa di
libertà» ma al «tenta-tivo utopico» di tradurre immediatamente «questo sacrosan-to
ideale» in atto o peggio ancora alla «conversione di Stalin al tradizionale
imperialismo».
Ma ce n’è anche per la Destra. I nuovi sentieri della storia di Federica Bellesini
presenta così la differenza tra Destra e Sinistra storica: «Gli uomini della Destra
erano aristocratici e grandi proprietari terrieri. Essi facevano politica al solo scopo di
servire lo Stato e non per elevarsi socialmente o ar-ricchirsi»; a Sinistra invece
«erano professionisti, imprenditori e avvocati disposti a fate carriera in qualunque
modo, talvolta sacrificando perfino il bene della nazione Al propri interessi». Stella
arriva a citare (più come monito che come altro) il caso della professoressa del
Lucrezio Caro, liceo ro-mano, «che Al suoi liceali, con il Manifesto di Marx e il
Con-cordato, ha fatto adottare Le conversazioni segrete di Adolf Hitler, con
commossa prefazione del neonazista Franco Freda: "Dinanzi alle parole e Al detti
memorabili dei Capi e dei Maestri i semplici devoti devono stare in raccoglimento e
osservare il silenzio"».

Pubblica o privata

I miei figli frequentano la scuola pubblica, e così faranno, credo, anche in futuro.
Mia moglie e io abbiamo deciso di iscriverli alla scuola pubblica perché crescano e si
confronti-no col mondo com’è, non come a noi piacerebbe che fosse.
Nella scuola pubblica troveranno il bene e il male che incontriamo tutti noi,
troveranno il buono e il cattivo, si confronteranno con coetanei che la penseranno in
modo oppo-sto a loro, avranno a che fare con famiglie completamente diverse dalla
loro, studieranno con professori che si fanno portatori di idee differenti l’uno
dall’altro. Considero la scuola pubblica una scelta di apertura, la scuola privata
co-me una scelta difensiva, di chiusura.
La scuola privata mi sembra un po’ come la provetta in laboratorio: delimiti un
ambiente protetto, ti assicuri che tutti la pensino allo stesso modo sui valori che
ritieni più importanti e poi ci inietti dentro tuo figlio, senza considera-re che prima o
poi da quella scuola dovrà uscire, e si troverà a confrontarsi con una babele di idee,
valori, visioni di vita.
Come dicevo, però, io stesso ho frequentato un’univer-sità privata, e quando
entrai alla Luiss i miei amici mi disse-ro che sbagliavo, proprio perché, dal loro
punto di vista, mi stavo infilando nella provetta di cui sopra.
Resto convinto però che una cosa sia formarsi in un’ele-mentare, una media, un
liceo pubblici e un’altra non farlo, e penso che l’università sia un discorso a parte,
che infatti af-fronteremo in seguito. La realtà però è che nessuno in un campo come
questo ha la verità in tasca.
Sul rapporto tra scuola pubblica e scuola privata si sono esercitati in molti. Dario
Antiseri pensa che «Senza la com-petizione la scuola italiana non si salva. Al cittadini
lo Stato dovrebbe consegnare un bonus da spendere presso una scuola piuttosto
che un’altra, pubblica o privata che sia. In questo modo le scuole entrerebbero in
competizione, reagi-rebbero alla decadenza, organizzerebbero una proposta
for-mativa valida temendo che gli allievi abbandonino l’istitu-to. Bisogna fare come
si fa con il fornaio: se quello da cui vado non mi soddisfa, lo cambio. La
competizione» insiste Antiseri «aiuterebbe tutte le scuole a diventare migliori, per-ché
risulterebbe evidente che ci sono scuole migliori e peg-giori, con professori migliori
e peggiori, con biblioteche fornite e con biblioteche meno fornite. Il bonus scuola»
continua «è una carta di liberazione per le famiglie meno abbienti; oggi chi manda il
figlio ad una scuola privata è uno che paga due volte, paga le tasse per un servizio di
cui non usufruisce e paga anche per la retta della scuola priva-ta... la famiglia povera
magari vorrebbe mandarlo anche alla privata e non può». 5 Allo Stato, nel sistema
immaginato da Antiseri, resterebbe il potere di controllare gli istituti, ga-rantire il
livello e la qualità dell’educazione, «perché ovvia-mente bisogna controllare dove
vanno a finire i soldi pub-blici: lo Stato però deve avere il controllo, non il
monopolio della gestione... la gestione la deve fare chi la sa fare. Sia esso un
pubblico o un privato».
Di diversa posizione è Tullio De Mauro: «Non possiamo non parlare di scuola
pubblica se non parliamo prima del-l’enorme sforzo che la scuola ha fatto in questi
anni: negli anni Cinquanta il 59,2 per cento della popolazione era pri-vo di licenza
elementare: la scuola pubblica ha preso i figli di queste persone e li ha, letteralmente,
portati in classe. Poi li ha fatti studiare, portando l’obbligo dai cinque agli otto anni
di scuola. La scuola privata non ha in realtà alcuna rile-vanza. Se guardiamo al
panorama complessivo della scuola italiana la realtà privata è una piccolissima realtà:
briciole, diciamo pure. In Italia solo nella scuola nell’infanzia si può tenete conto
dell’apporto dato dalla scuola privata. In que-sto settore ci sono stati investimenti
solo dall’Umbria in su, e specie al Sud è stato estremamente importante il lavoro
svolto da benemerite suore che hanno fatto moltissimo per le famiglie italiane. Il resto
della scuola privata, come dice-vo, è una realtà piccolissima. Della sua qualità, poi, è
im-possibile parlare: non se ne sa niente. Chi ci entra in quelle scuole per controllare?
«Delle superiori private non sappiamo niente, se non che costano un sacco di
soldi a chi le frequenta e anche allo Stato, che si è messo a finanziarle. Le superiori
pubbliche sono monitorate, dal ‘71 in poi si sono succedute indagini
sull’apprendimento: sappiamo che non vanno, la qualità è pessima, non funziona,
non va... questo è un dato di fatto... ma questo è un buon motivo per intervenire, per
migliorar-le, non per altro! All’estero le scuole superiori sono state riformate quattro
o cinque volte... da noi se n’è parlato tan-to ma nessuna riforma è stata mai
veramente compiuta, portata avanti fino in fondo. Non è cambiato mai niente dal
1923... ci sono solo chiacchiere... dalla politica, dai mini-stri, dai giornali ma mai una
riforma portata avanti... tutte abortite prima di metterle in campo, capisce? Abbiamo
una catapecchia di inizio secolo e parliamo di pubblico e priva-to? Di bonus per le
famiglie? Di scuole religiose e soldi da dare? Di competizione? Nel pubblico c’è tutto
da fare e il privato è inesistente... che discorsi sono? Di cosa ci mettia-mo a
discutere?». 6
In effetti è sempre sembrato strano anche a me che uno Stato con i bilanci messi
come quelli italiani e con le scuole ridotte come le nostre trovasse dei fondi da
destinare Al pri-vati che decidono di aprire un istituto.
Ognuno (se rispetta determinati parametri) può fondare una scuola, ognuno può
iscriversi all’istituto che vuole, ma (dato lo stato delle risorse pubbliche), secondo
me lo do-vrebbe fare con i soldi propri.
Baroni
1
La laurea al chilo

Il mercato dei crediti

Quando durante una cena un collega citò il fenomeno dei «laureati precoci»,
pensammo tutti si trattasse di giovani fe-nomeni che erano riusciti a terminare gli
studi in tempi da record. In realtà i precoci non sono dei fenomeni, sono quel-li che,
grazie alle convenzioni stipulate dagli enti in cui tavo-lano o dagli ordini professionali
di cui fanno parte, si sono potuti iscrivere direttamente al secondo o al terzo anno
del corso di laurea. Con questo metodo ci si laurea in fretta, dal momento che allo
studente vengono riconosciuti i crediti formativi per attività extrauniversitarie come il
lavoro e i corsi di formazione.
Così li descrive la relazione annuale 2007 sullo stato del-le università curata dal
Centro di valutazione del sistema universitario: «Dall’analisi della distribuzione per
anno ac-cademico di prima immatricolazione dei laureati nei corsi triennali del nuovo
ordinamento dell’anno solare 2006 emerge un certo numero di soggetti che
conseguono il tito-lo prima dei tempi previsti. Questi laureati — che si possono
denominare ironicamente "precoci" — sono nel 2006 oltre 7500. Concentrati
soprattutto nelle lauree triennali». Lau-reare l’esperienza: era questo lo slogan
utilizzato al momento dell’entrata in vigore della riforma della Moratti. Nel 2006 l’ex
ministro Fabio Mussi ha messo un tetto di 60 crediti su 180 nel caso delle lauree
triennali, meno rispetto a prima, ma sempre un anno su tre di fatto abbonato. In
questi anni, anche dopo il limite imposto da Mussi, di convenzioni le università ne
hanno firmate parecchie. Nel gioco delle con-venzioni, d’altronde, ci guadagnano
tutti: i dipendenti — che con la laurea faranno più carriera — e le università che
grazie alle convenzioni aumentano i clienti.
Le diverse università hanno convenzioni con enti pub-blici come ministeri, polizia,
guardia di finanza, carabinieri, istituti penitenziari, regioni, Inps, ma anche ordini
profes-sionali, sindacati, associazioni di categoria, fino Al dipen-denti della
presidenza del Consiglio dei ministri. In ballo, oltre Al riconoscimenti dei crediti sulla
base dell’esperienza formativa, anche sconti, rateizzazioni, varie ed eventuali.
Sempre nella relazione del 2007 del Centro di valutazione del sistema universitario,
riferita Al laureati del 2006, si legge: «con riferimento poi alla distribuzione per ateneo
del rappor-to percentuale tra laureati "precoci" e laureati totali si rileva una ulteriore
(onte di variabilità. Oltre alle università telema-tiche, che in due casi raggiungono il
100 per cento, occorre segnalare che tre atenei statali hanno una percentuale di
lau-reati "precoci" superiore al 40 per cento. Infine occorre nota-re che, degli oltre
7500 laureati "precoci", più del 46 per cen-to risultano essere concentrati in due soli
atenei statali».
La scandalo dei crediti

In alcune università per l’anno accademico 2006-2007 si raggiungeva anche il 100


per cento del totale dei laureati grazie all’abbreviazione. Tre atenei, tutti privati, hanno
il primato: la Libera Università di Bolzano, la Kore di Enna e l’ateneo telematico 1
Leonardo da Vinci. Altre sfiorano l’en plein: un’altra telematica, la Telma, con il 90
per cento di laureati prima della durata normale, un’altra privata, la San Pio V, con
l’85,7 per cento e per finire, l’università pubbli-ca della Tuscia con l’83 per cento di
precoci. All’Università Bocconi, tanto per intenderci, questa percentuale nel
2006-2007 età appena dello 0,2 per cento. Una bella diffe-renza.
Ma per avere un’idea di quali dimensioni abbia la co-siddetta caccia Al crediti
basta andare sul sito www.forzearmate.org. Nel gennaio del 2006 (e quindi prima del
tetto di Mussi) è stata pubblicata la lettera di un sottuffi-ciale dell’aeronautica militare:
il militare si lamentava del fatto che i colleghi dell’esercito avevano ottenuto una
convenzione con un’università pubblica migliore della loro.

[...] sono venuto a conoscenza che un mio vecchio amico, sot-tufficiale dell’Esercito, stava per
laurearsi in quanto la sua F.A. [forza armata] aveva stipulato tempo addietro una
con-venzione con l’Università degli Studi della T.U.S.C.I.A. di Viterbo con la quale gli veniva
riconosciuto l’iter formativo della propria carriera lavorativa, comparandolo con un certo
numero dì crediti formativi universitari, alfine del consegui-mento della laurea di I livello in
«Scienze Organizzative e Gestionali».
[...] Infatti, considerando che al mio collega dell’E.I. [eserci-to italiano] gli hanno riconosciuto
150 Cfu [Crediti forma-tivi universitari] (ne occorrono 180 per conseguire la laurea) e che ha
dovuto sostenere ulteriori tre esami, ho scoperto, leg-gendo il telegramma che riguarda il
personale A. M. [aeronautica militare] che, per il sottufficiale dell’Arma Azzurra
[aeronautica militare] (con la medesima università e il me-desimo corso di laurea) è stata
stipulata una diversa conven-zione. Praticamente verranno riconosciuti soltanto 80 credi-ti,
più eventuali altri 30...
[...] non sarebbe stato più giusto riconoscere almeno quanto dato Al colleghi dell’esercito
italiano (150 Cfu)? Firmato Adolfo 1

Della serie: a lui la laurea la tirano dietro e a me no?


Consideriamo che «il pezzo di carta», la laurea, non ser-ve solo al prestigio
personale. Avendo un valore legale, ti dà la possibilità di fare carriera, accedendo a
concorsi dai qua-li prima si era esclusi perché diplomati. E gli altri? Quelli che si
sono laureati senza tutti questi sconti e che, fessi, hanno sgobbato sui libri per fare
tutti gli esami? Nessuna differenza, il valore del titolo è sempre lo stesso: sia che tu
abbia studiato in internet, sia che tu abbia studiato alla Bocconi.
Questa lettera è stata pubblicata sul sito del quotidiano telematico
www.altromolisc.it. È firmata da un maresciallo della guardia di finanza, che così
termina il suo sfogo:

[...] io ho studiato con moltissimi sacrifici, sperando che la laurea mi desse qualche
opportunità in più rispetto a tanti altri che preferivano non studiare; con le lauree «facili» o
«regalate» (come le ha definite il ministro Mussi) sono stati annullati ex lege i miei sacrifici ed
eliminato un vantaggio che io e altri colleghi ci siamo sudati nelle aule universitarie vere [...].
Perché io dovrei accettare di competere nei concorsi interni con persone alle quali è stato
abbonato il 90per cen-to del percorso di studi e che, magari, essendo raccomandatissimi, si
approprieranno di quei pochi posti (4 all’anno) di-sponibili per i laureati che ambiscono alla
carriera da uffi-ciale?
Ma quando finiranno questi soprusi nei confronti di chi si impegna seriamente e lealmente per
migliorare se stesso e l’or-ganizzazione a cui appartiene? Distinti saluti. Claudio M.
Maresciallo della Gdf

La trattativa

Abbiamo provato a capire come funziona oggi il sistema del riconoscimento dei
crediti. Il collega Giulio Valesini è andato su un sito di un ateneo telematico 3 e ha
chiesto una valutazio-ne dei suoi potenziali crediti in base alla sua supposta
esperien-za lavorativa. Abbiamo scelto il profilo di un addetto alle ven-dite nel
settore alimentare, in pratica un commesso, che aspi-rava a laurearsi in Scienze
dell’educazione e della formazione (non c’era molta scelta in verità... o questa o
Giurisprudenza).
Mandiamo poche righe con lo striminzito curriculum del nostro aspirante dottore
(«Ho svolto due corsi professio-nali regionali nel 2004: il primo di computer e il
secondo di lingua inglese, entrambi della durata di tre mesi. Grazie per l’attenzione.
Cordiali saluti»), ed ecco che (forse abbagliati dal brillante cv che abbiamo
prodotto) i responsabili dell’u-niversità spediscono subito via mail uno schema di
piano di studi e un pre-riconoscimento di ben 30 crediti (18 per l’e-sperienza
lavorativa e 12 per i corsi regionali). Qualche an-no di lavoro alle spalle e due corsi di
formazione regionali in informatica e inglese fatti nel passato (un impiegato
dell’u-niversità ci aveva detto che quelli valgono molto!): metà an-no universitario già
alle spalle grazie a una telefonata, niente male. Ma noi abbiamo fretta di ottenere «il
pezzo di carta» e siamo interessati alle scorciatoie. Insieme a questa pre-valu-tazione
ci arriva anche una proposta.
L’offerta è questa: basta partecipare a un corso di forma-zione intensivo post
diploma di appena sei mesi e si possono ottenere ben 60 crediti (un anno di
università), 60 crediti che si aggiungerebbero Al 30 a cui abbiamo diritto per
l’esperien-za. Questo corso permette di recuperare l’anno accademico in corso che
in pratica è agli sgoccioli. È come nelle scuole su-periori: si può recuperare l’anno
perso. In un’unica sessione di esami straordinaria a novembre si possono dare tutti
gli ot-to esami dell’anno accademico. Non è neanche difficile, ci di-cono, perché si
tratta di esami tutto sommato brevi.
Ricapitolando: 60 crediti del corso di formazione più i 30 dell’esperienza e a
novembre, in un colpo solo, siamo già a metà del secondo anno, a metà strada verso
la laurea. I vantaggi non finiscono qui: se facciamo il corso di forma-zione,
otteniamo lo sconto del 50 per cento sulla retta e in più abbiamo diritto a un altro
sconto di 500 euro per l’iscri-zione all’anno successivo.
Non rispondiamo all’email, loro probabilmente hanno paura di perdere il cliente, e
dopo qualche giorno ci manda-no un’altra proposta. Un programma che ci permette
di iscriverci in prova, gratuitamente, all’anno accademico 2008-2009 e direttamente al
terzo anno. Non sappiamo neanche come, ma siamo arrivati già all’ultimo anno, a un
passo dalla laurea. Così scrivono dall’università:

Egr. signore
Le invio la nuova prevalutazione redatta dalla commissione. Come può vedere, la commissione
Le riconosce altri 12 Cfu per i corsi di formazione che mi ha specificato. Sicuro di un gradito
riscontro, porgo cordiali saluti.

Replichiamo, facendo finta di non capire:

Veramente ho capito poco... sono pur sempre un commesso!! Quindi sarei già diciamo a metà
laurea... giusto? Lei mi par-la già del secondo anno?

Secca la replica dell’ateneo:

Il programma di cui Le parlavo Le dà la possibilità di imma-tricolarsi all’anno accademico


successivo, 2008-2009. Nel Suo caso si parla del terzo anno.

Abbiamo smesso di scrivere. Che dite, si arrenderanno o ci porteranno la laurea


direttamente a casa?
2
L’università dei pochi

Faje pena

Un mio amico andò a reclamare una spettanza dal titolare della cattedra presso cui
aveva vinto una borsa di studio. Il dipartimento aveva organizzato un corso post
laurea e, in base alla legge e Al regolamenti interni dell’amministrazio-ne, il mio amico
riteneva di avere il diritto di insegnare in quel corso. Bussò alla porta del capo, entrò
nel suo ufficio, gli ricordò che a suo modo di vedere aveva diritto di inse-gnare al
corso. Ne usci con le ossa rotte.
Raccontò che il prof lo aveva guardato quasi con com-miserazione e gli aveva
detto che non bisognava date per scontato niente visto che in realtà niente gli
spettava. Io ascoltavo e mi innervosivo, seccato per l’arroganza del ba-rone, lui
prospettava ricorsi legali, quando un nostro co-mune amico, più raffinato
conoscitore delle regole del po-tere all’italiana, chiosò: «Così non vai da nessuna
parre... je devi fa’ pena» (in romanesco, «gli devi fare pena»). «Co-me hai detto?»
domandò il mio amico, e lui ribadì: «Faje pena».
Naturalmente aveva ragione lui. Il mio amico tornò qualche giorno dopo
nell’ufficio del capo, gli parlò della sua si-tuazione familiare, mise il proprio futuro
nelle sue mani e gli riconobbe il massimo di rispetto che gli poteva riconoscere.
Baciata la pantofola del potete, ottenne in quattro e quattr’otto le ore di
insegnamento che gli spettavano.
In Italia (e anche, se non soprattutto, nell’università ita-liana) per ottenere qualcosa
non bisogna meritarsela; se deve fa’ pena a qualcuno.
I sistemi chiusi sono quelli che, isolati ermeticamente dalla realtà circostante,
finiscono per vivere una vita pro-pria, basata su regole, valori, principi non condivisi
da altri che non siano quelli che del sistema fanno parte. In un’organizzazione chiusa
abbiamo capi che altrove sarebbero gre-gari, abbiamo criteri di valutazione delle
performance che in nessun altro ambiente verrebbero riconosciuti come tali,
abbiamo numeri uno che in altri contesti non verrebbero classificati.
Abbiamo baroni che altrove sarebbero scudieri.
Chiaramente chi riesce a blindarsi dentro a un sistema ermetico ha il potere di fare
le regole, di disegnarle, tratteg-giarle e adattarle Al propri interessi. Decide chi entra
nel si-stema, decide chi ne esce, decide chi sale e chi scende al suo interno. Decide
cosa deve fare chi vuole far parte del clan, decide persino cosa deve pensare chi
voglia aver accesso alla bolla di cristallo di cui lui è padrone.
Così è l’università italiana: un sistema chiuso per defini-zione.
Naturalmente le pratiche e gli imbrogli che sono stati più volte denunciati non
devono spingere alla conclusione che tutti, in questo mondo, siano dediti ad attività
disone-ste o poco professionali; ci sono tante persone per bene che credono nel
loro lavoro e lo fanno onestamente, e molte di loro hanno accettato di raccontarci
episodi, abitudini e fatti che abbiamo utilizzato per la nostra inchiesta.

Come ci si fa strada

Quando si parla di docenti universitari bisogna fare il ragio-namento opposto a


quello fatto per gli insegnanti di scuola: se questi ultimi sono tantissimi e tutti
sostituibili, all’univer-sità i professori sono pochi e, a quanto pare, insostituibili.
A essere precisi i professori sono pochi in assoluto, troppi rispetto al contesto in
cui lavorano. Secondo il libro verde sulla spesa pubblica del ministero
dell’Economia, nelle uni-versità italiane c’è «una composizione del corpo docente
ina-deguata, con troppi professori ordinari e associati rispetto al numero dei
ricercatori». La presenza negli atenei italiani di un numero eccessivo di professori
ordinari (18.000) e asso-ciati (18.000) rispetto al numero insufficiente di ricercatori
(21.000) — secondo il Tesoro — rende la docenza universita-ria «più simile ad un
cilindro che non ad una piramide» ed è dovuta al fatto che «per anni le università
hanno preferito spendere risorse per garantire la progressione di carriera dei docenti
piuttosto che assumere nuovi ricercatori».
Da questo dipende «l’invecchiamento del corpo docen-te». Nel 1998 l’età media
degli ordinari era di 58,5 anni, nel 2007 era di 59,2. Il 42 per cento dei nostri prof
universitari ha più di cinquant’anni, mentre in Spagna e in Germania questa
percentuale scende a circa il 27 per cento. La percentuale di docenti ultrasessantenni
raggiunge in Italia il 22,5 per cento, il 13,3 in Francia, l’8 per cento nel Regno Unito.
Ovviamente sono quasi tutti uomini.
La percentuale di docenti d’età inferiore a trentacinque anni è del 4,6 per cento in
Italia, contro il 16 per cento nel Regno Unito e l’I 1,6 per cento in Francia. Gli
ordinari so-no 19.275 e sono piuttosto avanti con gli anni: quelli con meno di 34 anni
di età sono appena 10, e sono 171 quelli tra i 35 e i 39. In 16.358 oscillano tra i 50 e i
65 anni. Gli associati sono 19 mila, 23 mila i ricercatori universitari.
Il paradosso è che il vero cuore dell’università sono gli 87.985 contrattisti, pagati
poche migliaia di euro per tenete un numero sempre maggiore di corsi.
Al riparo da valutazioni di autorità indipendenti, protet-ti da un sistema che non
mette mai alla prova le loro effetti-ve capacità di insegnamento o di ricerca, i
professori univer-sitari italiani hanno due soli nemici: il tempo che passa e la legge. I
professori universitari hanno ingaggiato col legisla-tore una battaglia secolare: i
Parlamenti che si sono succe-duti dal dopoguerra a oggi hanno sempre cercato di
pensio-nati! prima, loro hanno messo in campo ogni forza per ri-manere incollati alla
cattedra. Al momento l’età di pensio-namento è fissata a settant’anni, ma la norma
viene applica-ta solo a chi è stato assunto successivamente all’entrata in vigore della
riforma Moratti. E in fondo, domandiamoci, se non costretto dalle pressioni del
management dell’univer-sità, o dagli alti standard di ricerca imposti dalla comunità
scientifica internazionale, perché un barone italiano do-vrebbe lasciare il posto che
occupa?

Razza barona

È un po’ di tempo che l’oncologo Massimo Federico dell’U-niversità di Modena si


vede scomparire la terra da sotto i piedi. Perde ogni incarico: addio alla presidenza
della Com-missione contratti e contenzioso, addio alla direzione della scuola di
oncologia. La convenzione con l’Istituto superiore di sanità, che aveva promesso
148 mila euro all’università per le ricerche da lui coordinate, è bloccata. «E persino
nel giornalino dell’università si evita accuratamente di parlare della pur prolifica
attività di Federico e dei suoi collaborato-ri.» 1 La storia di ordinaria baronia è
raccontata da Davide Caducei su «la Repubblica» e inizia come tutte le brutte storie
universitarie: con un concorso per professore ordinario in Odontoiatria, vinto da un
professore associato in Der-matologia. «E come se un calciatore avesse vinto la
coppa Davis» sbotta Massimo Federico. Come può un dermatolo-go assicurarsi una
cattedra di Odontoiatria? Può, se è il fi-glio del rettore. L’idoneo dello scandalo ha
trentasei anni, e l’ex preside della facoltà di Medicina, Maurizio Ponz de Leon,
spiega: «Non si è mai verificato, almeno negli ultimi trent’anni di storia della nostra
facoltà, che un ricercatore riuscisse a diventare ordinario in soli sei anni e quattro
mesi dalla nomina a ricercatore. Certo, potrebbe avvenire per meriti eccezionali. Ma,
come visto dall’esame del curriculum, questi meriti non esistono». Spiega Carlucci
che «il docente insegna da sei anni, ha un’esperienza all’estero di soli due mesi e i
suoi punti di impact factor (il riscontro del-l’attività di ricerca nelle pubblicazioni
scientifiche) riguar-dano solo la dermatologia: non il Med50, il settore, cioè, per il
quale ha vinto il concorso. Altra stranezza: il concorso non ha visto la partecipazione
di nessuno degli associati e dei ricercatori della nostra facoltà. [...] In Italia esistono
26 professori associati di quel settore ma nessuno ha fatto do-manda».
I concorsi per diventare professore o ricercatore universitario sono in genere
predeterminati secondo logiche non meritocratiche, la selezione dei giovani che un
giorno (lon-tano) arriveranno a occupare la cattedra è frutto di una ge-stione
combinata proprio da quelli che dovrebbero essere sostituiti dai più giovani. Chi è al
trono sceglie e ammette al soglio il principe. In genere Al concorsi partecipano tanti
candidati quanti sono i posti in palio, perché la selezione è in realtà una procedura di
cooptazione. La carriera di un giovane universitario è spesso proporzionata alla sua
abilità di trovarsi un padrino, di accodarsi a una cordata che gli ga-rantisca (in tempi
lunghi) una cattedra e un ruolo, nel ri-spetto dei principi del clan. Il numero dei
promossi Al con-corsi coincide in genere col numero dei candidati, in base a quello
che il giuslavorista Umberto Romagnoli definì un si-stema di «cooptazione,
rigidamente centralizzato di stile staliniano». 2
È sempre Caducei su «la Repubblica» 3 a citare il caso di quel rettore indagato
perché il presidente della società che si è aggiudicata i lavori per la realizzazione della
città universitaria (8,8 milioni di euro) è anche titolare della cattedra di Estimo
all’università, oltre che presidente della commissione che ha promosso a ricercatrice
in Estimo la figlia del rettore.
Un professore universitario dovrebbe insegnare, fare ri-cerca e gestire il potere
necessario a portare a termine l’inca-rico avuto dall’università per cui lavora. Il
problema è che in Italia i docenti, da tempo, hanno la possibilità di limitarsi a gestite.
Ogni cattedra da noi è un ambito di potere, la rete tra le cattedre della stessa materia
diventa una rete di potete, un sistema in cui a pochi basta accordarsi per determinare
il successo e l’insuccesso di tutti gli altri, di tutti gli outsiders. Chi mette le mani su
una cattedra non la molla più, e può permettersi di costruire il suo sistema di potere: i
privilegi e il prestigio legati all’insegnamento permettono di coltivare interessi, e così
essere professore universitario può diventare un modo per ottenere commesse,
consulenze, contratti, contatti e lavori utili agli studi privati. Senza passaggi di
de-naro, ma solo attraverso lo scambio di favori e gentilezze, si consolida un sistema
di potete che taglia fuori chi potere non ha (e, così restando le cose, non avrà mai).

Gli idonei

I baroni sono incredibili. Non contenti di fare e disfare a loro piacimento gli
organigrammi di oggi, sono riusciti a escogitare un metodo per prenotare gli
organigrammi di domani. I concorsi non licenziano solo i vincitori di catte-dra, ma
stabiliscono anche quelli che sono «idonei» ad avere una cattedra. Gli idonei sono
coloro che non vinco-no il concorso, ma che, superando un determinato pun-teggio,
conquistano il diritto a ottenere anche loro una cattedra, appena si libererà un posto.
In pratica, bandendo un concorso per un posto, finisci per assegnarne almeno due.
Comodo no? Paghi uno, porti via due (o tre, o quat-tro, o cinque...).
Tra il 1999 e il 2007, 29.700 concorsi banditi hanno individuato oltre 44 mila
«idonei». Secondo il rapporto del Comitato nazionale per la valutazione del sistema
universi-tario, «la pluralità di "idonei" per ciascun posto a concorso ha determinato
un numero molto ampio di soggetti che potevano essere utilizzati per un
inquadramento nei moli dei professori. Nei fatti, ciò che era originariamente previ-sto
per ridurre gli oneri per nuove selezioni — potendo qualsiasi università attingete
liberamente alle liste dei già riconosciuti idonei - ha determinato la chiamata degli
ido-nei generalmente nell’ateneo di appartenenza» 4 Traduzio-ne: si pensava di creare
la categoria degli idonei per fare meno concorsi, ma il sistema è stato utilizzato in
modo da creare un bacino infinito da cui ogni università attinge alla bisogna.
L’idoneità è usata spesso anche per dare un contentino al candidato preparato che
rischia di rompere le uova nel pa-niere del barone: il concorso nasce per un
prescelto, ma si iscrive anche un candidato particolarmente coriaceo che ri-fiuta di
ritirarsi e lasciar vincere chi di dovere. Per evitare ri-corsi, intoppi, imprevisti e
magari anche uno scandalo, si offre l’idoneità al candidato testardo, sperando che
quello incassi e non si faccia più vedere.
Cosa che in genere (naturalmente) accade.

Università come funghi

L’università è prestigio, e il prestigio chiama il potere. L’in-treccio tra facoltà,


politica e consenso è sempre più ampio e vistoso. Proliferano le università, che
arrivano ad avere sede nei più piccoli centri abitati, università che chiamano in
cattedra (naturalmente) i politici locali. Questi ultimi aiuta-no i rettoti a ottenere
convenzioni, agevolazioni e finanzia-menti, e così il sistema soddisfa e alimenta se
stesso, con tanti saluti alle sue finalità istituzionali: la formazione e la ricerca. Gli
esempi sono molti: «Con Luigi Berlinguer pri-ma e con Letizia Moratti poi» scriveva
Davide Carlucci su «la Repubblica», «s’è compiuta la più grande mutazione
ge-netica della storia dell’università italiana: i corsi di studio sono diventati 3264, le
facoltà 545 e hanno sede nei posti più incredibili. A Locri, a Bressanone, a Ozieri, a
Bracciano: i comuni che ospitano almeno un corso sono passati da 196 a 251 in
sette anni. Il record è della Lombardia: le sedi sono 39, tra cui due paesini della Val
Camonica. Esiste anche una "università diffusa" dell’Iglesiente». 5
La proliferazione delle università produce infatti la pro-liferazione dei corsi in
facoltà. Nascono cattedre assurde, che hanno come fine essenziale quello di fare
insegnare al docente una materia assurda. «L’offerta formativa in questi anni» scrive
sempre Carlucci 6 «è esplosa in una pioggia di denominazioni che vanno dalla scienza
della produzione e della trasformazione del latte dell’Università di Milano, sede di
Crema, alle Scienze per la pace di Pisa, dalle Scienze del fiore e del verde di Pavia,
alle Scienze e tecnologie del fitness di Camerino. Fino alle Scienze e tecniche equine
di Parma, alle quali si contrappongono le Scienze dell’allevamento, igiene e
benessere del cane e del gatto dell’Università di Bari.» Sempre a Parma troviamo il
corso cult : Scienza e tecnologia del packaging.

Figli di un Dio maggiore

Cosa ha a che fare l’economia agraria con la medicina? Nien-te, almeno


apparentemente. Ma nel 2002, all’Università di Firenze, fu messo a concorso un
posto per ricercatore in Agraria nella facoltà di Medicina. Stranezze del sistema
universitario. Quel concorso attirò l’attenzione non solo per lo strano accostamento
delle materie, ma anche perché fu vinto da un giovane ricercatore che era il figlio del
rettore dell’uni-versità. Il rettore in questione è anche docente di Agraria: il giovane
ricercatore che ha seguito (è davvero il caso di dirlo) le orme del padre, non è il
primo e non sarà l’unico. D’altro canto non esiste una legge che vieta Al figli dei
rettori di parte-cipare Al concorsi banditi dagli atenei guidati dal genitore, e un figlio
d’arte può naturalmente essere un ottimo docente.
Sono le dimensioni del fenomeno a spaventare.
A fare una verifica ci si mette un attimo. Sul sito del mini-stero dell’Università è
possibile controllare i nomi e le posi-zioni dei docenti in organico negli atenei.
Clicchi il cognome del tuo prof e vedi quanti altri con lo stesso cognome escono. Se
si vuole passare del tempo sul sito che svela l’organico delle nostre università, ci si
accorge che i cognomi spesso si ripeto-no, tanto che a volte raggiungono anche la
doppia cifra (e non si tratta solo dei soliti Bianchi e Rossi, di cui è piena l’Ita-lia...).
La ricerca si può fare anche per singole università e (in questo caso) i cognomi
spesso si ripetono a coppie, ma anche quattro, cinque, sei volte. Docenti e
ricercatori con lo stesso cognome. Un caso? Forse, ma molto spesso si tratta
proprio di parenti. Provate (www.miur.it) e vi divertirete.
Anche se in realtà c’è poco da ridere. Molti di questi co-gnomi illustri
appartengono a rettori o a ex rettori: tanto per fare un esempio, c’è un prorettore a
Roma (che è anche preside di facoltà) i cui due figli insegnano nella stessa fa-coltà,
mentre la moglie, docente ordinario, risulta in organico alla stessa università, stessa
facoltà e anche stesso dipar-timento del matite II prorettore in questione ha superato
anche il suo rettore, che nella sua università si è limitato a far entrare i canonici due
figli.
Se ci concentriamo solo sulle famiglie di rettori in carica e di ex rettori, troviamo
tantissimi casi di parentela: da Sie-na a Cagliati, da Roma a Firenze, da Modena a
Salerno, da Cosenza a Benevento. 7
Prendete gli ultimi due presidenti della Crui (Conferen-za dei rettori delle università
italiane), entrambi con un fi-glio a testa docente nell’ateneo dove lavora papà. E fare
l’e-lenco dei presidi di facoltà che hanno inserito i figli al lavo-ro sarebbe lungo. Per
questo non serve fare nomi: il feno-meno è generalizzato, e trovare di volta in volta il
capro espiatorio preferito servirebbe forse a far vendere un paio di copie in più (be’,
forse più di un paio...) a questo libro, ma non risolverebbe il problema.
L’Italia deve decidersi ad aprire il sistema dell’università alla concorrenza e agli
outsiders, non deve mettere alla go-gna un paio di famiglie di baroni (cosa che ha in
genere l’ef-fetto di esorcizzare il problema e di ringalluzzire i diretti concorrenti degli
sfortunati). Riformare un sistema è cosa diversa dal denunciare un paio di persone
che di quel siste-ma vivono: sarebbe bene spazzare via i baroni, ma sarebbe bene
spazzarli via tutti insieme e una volta per tutte, non eliminarne qualcuno e sostituirlo
con qualcun altro.
In Italia sembra che la consanguineità sia diventata una conditio sine qua non per
affrontare la carriera universitaria. L’Alto commissario anticorruzione all’inizio
dell’anno fece un’indagine sulle modalità di reclutamento del perdonale docente a
tempo determinato all’Accademia delle Belli Arti di Lecce. Risultò che circa il 30 per
cento dei vincitori dei concorsi tra il 2000 e il 2006 erano parenti di un membro delle
commissioni.
Il prefetto di Torino Paolo Padoin ha aperto il sito www.rinnovareleistituzioni.it.
Dentro ci sono tante storie di come funzionano, o meglio non funzionano, le cose nel
no-stro Paese. Un intero capitolo è dedicato all’università, dai troppi casi di
parentela alla mala gestione degli atenei, dal punto di vista economico e
amministrativo.
Padoin ci spiega: «Nonostante sull’università ci siano state molte inchieste della
magistratura e dei giornali, so-prattutto a livello locale, e tante denunce, spesso non
si è ar-rivati a risultati concreti, perché le maglie della legislazione sono troppo larghe,
e quindi dimostrare l’abuso d’ufficio è difficile, come nei casi di alcuni concorsi per
ricercatori de-gli ultimi anni. Quello che emerge rispetto alla situazione delle nostre
università è che, all’interno di tante materie scientifiche, ci sono esponenti più potenti
che riescono ad influenzare la carriera dei loro discepoli, parenti o non pa-renti. Poi
ci sono anche altri problemi: la mala gestione eco-nomica e amministrativa, la
moltiplicazione delle cattedre e la cosiddetta gemmazione degli atenei, che sta
portando ad aprire sedi universitarie dove non servono e con magari po-chissimi
iscritti. Sono tutti fenomeni legati tra di loro». 8
Per non lasciarli soli

Perché non sembri che ce la prendiamo solo con il mondo universitario, è bene
fare un breve giro di orizzonte, alzare lo sguardo per ricordarci in quale Paese
viviamo.9
L’Italia vive di sistemi chiusi: gli ordini professionali so-no l’esemplificazione
palese del modo in cui vengono inter-pretate le regole del libero mercato, ma è
generale la tenden-za a chiudere in un recinto i propri interessi e alzare barriere a loro
difesa: una volta trovata la posizione sul mercato, si cerca immediatamente di
trasformare il profitto in rendita, erigendo ostacoli per la concorrenza o
accordandosi con gli altri attori del settore in modo da tener fuori quelli che si
potrebbero proporre come nuovi operatori. «I candii» ha ricordato il presidente
dell’Antitrust, Antonio Catricalà 10 «non sono peccati veniali; sono gravi misfatti
contro la so-cietà perché corrompono la libera competizione delle forze economiche
sul mercato: negli Stati Uniti sono considerati fatti criminosi, puniti con la prigione.»
Certo, è difficili fare discorsi del genere in un Paese abi-tuato a proteggere lavori e
professioni con albi e ordini pro-fessionali: in Italia anche i lavori sono immobili, o
almeno così li vede la politica. Basti pensare che fra i primi disegni di legge
depositati appena insediate le Camere, ce n’è uno mirato al riconoscimento della
qualifica di pizzaiolo, con tanto di apposito albo. L’8 maggio 2008 un deputato del
Popolo della Libertà ha presentato il disegno in cui è previ-sta l’istituzione dell’albo
professionale pizzaioli italiani, nonché l’istituzione della patente europea pizzaioli
(pep) senza la quale non si può accedere all’albo. Lo stesso onore-vole ha
presentalo un disegno di legge per l’istituzione del-l’albo professionale nazionale di
maestro di ballo. Nel dise-gno son specificati anche gli orientamenti tecnici per gli
aspiranti ballerini: a) modem dance; b) ballo da sala e liscio unificato; c) stile
internazionale standard; d) stile interna-zionale latino; e) danze jazz; f) balli folk; g)
tango argenti-no; h) ballo sociale. Il 9 maggio 2008 un senatore dell’Italia dei Valori
ha presentato un disegno di legge per «individua-re il profilo professionale del
conducente di autovetture adi-bite al servizio di trasporto degli organi istituzionali».
Per diventare autista di auto blu, è previsto anche un esame con il quale ottenere
l’attestato di qualifica. L’esame prevede: «Una prova scritta, una prova orale di
teoria e una esercita-zione pratica, da patte di un’apposita commissione nomina-ta
dall’amministrazione di appartenenza, composta da tre membri, di cui uno nominato
dal direttore del personale, uno dal capo di gabinetto e uno dal sindacato di categoria
che rappresenta l’autista di rappresentanza».
Il 7 maggio un senatore di centrodestra ha presentato un disegno di legge per
l’istituzione dell’albo nazionale dei cuochi professionisti perché, si legge nel
documento, «la cu-cina italiana tradizionale, genuina ed equilibrata, necessita per il
suo sviluppo di professionalità e di competenza». Al maestri di fitness ha pensato un
eletto della Lega Nord, chiedendo di istituire l’iscrizione a un apposito elenco
regionale, mentre un suo collega, sempre della Lega, ha pro-posto l’istituzione
dell’albo nazionale degli agenti di polizia privata presso il ministero dell’Interno. Una
deputata Udc ha proposto (sarebbe bello poter scrivere «infine», ma non saremmo
onesti) l’istituzione della figura professionale del-l’animatore di corsia ospedaliera.
3
Il pezzo di carta

Come funziona l’università

Come abbiamo fatto con la scuola, è bene chiarire come funziona l’università,
perché dopo la riforma del 2002 an-che in questo campo non è facile costruite una
mappa.
Le lauree oggi sono due, non più una sola: 1 dopo tre an-ni si può ottenere la laurea
di primo livello, mentre con ul-teriori due anni si può arrivare a quella specialistica. Al
ter-mine del triennio o al termine dei cinque anni si può acce-dere facoltativamente al
master universitario, rispettiva-mente di primo o secondo livello.
Per ottenere una laurea di qualsiasi tipo è obbligatorio Io studio di almeno una
lingua straniera europea ed è necessa-rio raggiungere 180 Cfu, una nuova «unità di
misura» che serve a dare un peso alle «fatiche» degli studenti. A ogni cre-dito
corrispondono infatti tot ore (presunte) di studio, e ogni esame avrà un numero di
crediti corrispondente al-l’impegno (sempre presunto) necessario per superarlo:
fre-quenza alle lezioni, presenza a seminari ed esercitazioni, stu-dio individuale a
casa. Alle lauree specialistiche (quelle che una volta erano le uniche lauree) si accede
dopo la laurea (triennale), scegliendo tra le molte specializzazioni previste (oltre il
doppio rispetto Al corsi di laurea), destinate alla pre-parazione a specifiche
professioni.
Le lauree sanitarie rappresentano un caso a parte. Far-macia, Odontoiatria,
Veterinaria, Medicina sono lauree a ciclo unico (di cinque o sei anni), mentre le altre
lauree sa-nitarie sono di tre anni. Per Medicina rimangono le diver-se specializzazioni
(Pediatria, Cardiologia, Ortopedia...) post laurea.
I titoli dei corsi vengono scelti discrezionalmente dall’a-teneo, ma le nuove lauree,
comunque si chiameranno, ap-parterranno a delle classi di lauree predefinite, e sarà
questa appartenenza a stabilire il loro valore legale. Per esempio, ci si può laureare
tanto in Economia quanto in Economia e Commercio, dipende dall’università in cui
ci si iscrive, ma entrambi i corsi appartengono alla classe di laurea in «Scien-ze
economiche».

Le lauree servono?

In realtà sono molto pochi gli studenti che si fermano dopo i primi tre anni di
studio. Una ricerca di AlmaLaurea del 2006 (a cinque anni dall’entrata in vigore della
riforma co-siddetta del «3+2») riferisce che ben 83 laureati su 100 del primo livello
intendono proseguire gli studi fino al raggiungimento della laurea specialistica.
Persino il 43 per cento dei laureati del quinquennio intende continuare a studiare con
il master o con altri percorsi di ricerca. In fondo non c’è un motivo per terminare gli
studi: il mercato del lavoro non aspetta a braccia aperte i laureati del quinquennio,
figuria-moci quelli del triennio. I contenuti dei corsi non sono cambiati, si insegnano
le stesse cose che si insegnavano pri-ma, e quindi, a conti fatti, non ha avuto senso
spacchettare i diplomi. È stata insomma una riforma apparente, priva di contenuti
sostanziali.
Secondo l’economista Luigi Zingales questo è il proble-ma più profondo
dell’università italiana: il rapporto tra for-ma e sostanza. «Il nostro è un sistema
perverso» scrive Zin-gales, «dove lo Stato distorce sia la domanda che l’offerta per
l’istruzione universitaria, causando una forte riduzione della qualità. Lo Stato crea la
domanda, riconoscendo valo-re legale ad un pezzo di carta conseguito secondo
regole pu-ramente formali, indipendentemente dal contenuto di sa-pete. [...]. Privi di
alcun feedback dal mercato, i professori continuano ad insegnare quello che
vogliono (o sanno) sen-za alcuna attenzione a quello di cui gli studenti avrebbero
bisogno.» 2
Il problema è quindi quello di un sistema che giustifica se stesso: si pensa, si
ripensa, si disegna e si ridisegna in base a quelle che sono le sue necessità, ma non si
confronta con il mondo esterno dimenticando quella che dovrebbe essere la sua
funzione.

A cosa serve l’università?

Se serve a farti dire che ti sei laureato, è un conto. Se deve in-vece servire a te e al
tuo Paese, il conto è un altro. Il nostro si-stema non forma la classe dirigente. Non
prevede un percor-so utile a dare nozioni e strumenti agli italiani potenzialmen-te in
grado di guidare il Paese. Nel resto del mondo indu-strializzato (e non solo in quello)
esistono ormai da tempo reti di istituzioni e sistemi educativi che forniscono capitale
umano di qualità alla stanza dei bottoni. In Francia, per esempio, non esiste
naturalmente un’unica via, ma il sistema si organizza intorno all’Ena (École nationale
d’administration), che fornisce ogni anno al Paese 500 studenti pronti a prendersi
responsabilità di ogni livello e tipo. L’Ena ha perso molto del suo antico fascino e
della sua tradizionale autore-volezza, ma resta pur sempre il percorso attraverso cui
sono passati 72 dei 200 presidenti delle grandi imprese francesi. Marco Alfieri ha
ricostruito su «Il Sole 24 Ore» la situazione in Gran Bretagna, 3 dove gran parte della
classe dirigente pro-viene da un piccolo gruppo di scuole private riconosciute (Eton,
Harrow, Sr. Paul, Westminster, Winchester). Nella pubblica amministrazione inglese
il 60 per cento dei quadri più elevati sono occupati da laureati di Oxford o
Cambrid-ge, mentre il 60 per cento degli amministratori delegati delle prime 200
imprese si è laureato a Oxbridge. In Germania la classe dirigente si forma dal basso,
proviene insomma da tante scuole differenti, ma passa in genere per un program-ma
di dottorato (il Ph.D. successivo alla laurea): la Germa-nia licenzia circa 22 mila
dottorati all’anno in materie come ingegneria, informatica, chimica, biologia
molecolare.
In Italia il ministero riconosce (e in parte finanzia) sei scuole di eccellenza
autonome, la Normale di Pisa, la Sant’Anna di Pisa, la scuola di studi avanzati di
Trieste, lo Iuss di Pavia, l’Istituto di scienze umane di Firenze e flint di Luc-ca.
Sappiamo però che non sono questi istituti (o meglio non questi più di altri) a
formare la classe dirigente italiana.
È difficile ricostruire un percorso unico delle élite italia-ne, ma forse è difficile
ricostruire un percorso tout court. Una volta i canali di formazione esistevano, si
imparava la politica formandosi negli apparati dei partiti, o si governavano le aziende
dopo essersi formati nelle aziende stesse o nei centri studi di alcune associazioni, o
istituzioni. Pensiamo Al labo-ratori che furono l’Ini, l’Eni, la Confindustria, il
sindacato o la Banca d’Italia. Adesso questi canali in patte sono scomparsi o hanno
ridimensionato il proprio ruolo, e chi aspira a di-ventare classe dirigente non ha le
possibilità di crescere che ha avuto chi della classe dirigente ha fatto parte in
passato.
Le nuove leve non sanno dove formarsi, spesso decidono di farlo all’estero, e una
volta che si è scoperto come funziona-no le cose altrove, difficilmente si torna
indietro.
«Il prodotto "laurea"» scrive ancora Zingales «si è tal-mente svalutato da metterne
in dubbio la sua stessa utilità. L’Istat ci informa che a tre anni dalla laurea solo il 62
per cento dei giovani ha un’occupazione. E paragoni interna-zionali rivelano che il
reddito dei 30-34enni italiani in pos-sesso del titolo universitario supera quello dei
diplomati so-lo del 26 per cento, contro il 100 del Portogallo e l’80 di Regno Unito e
Stati Uniti.» 4
La classifica delle università

Le università in Italia sono 93, 58 sono quelle che hanno goduto nel 2006 di
finanziamenti statali. Come sono que-ste università?
Fra le classifiche annuali più note che si fanno sulle mi-gliori università del mondo
c’è quella curata da QS Network e pubblicata dal «Times Higher Exiucation
Supplement» («Thes»), una delle più autorevoli riviste dedicate al mondo
accademico. La classifica del «Thes» è il multato di quattro indicatori:
- La qualità della ricerca, calcolata in base alla valutazione di un gruppo di studiosi internazionali e dal
numero di citazioni su riviste specializzate.
- La capacità di impiego, quella cioè di far fare strada Al propri allievi.
- Il tasso di internazionalizzazione, ovvero la percentuale del personale accademico e degli studenti
provenienti da altri Paesi, una sorta di capacità di attrazione.
- La qualità dell’insegnamento.

Gli ultimi dati 2007 ci dicono che fra le prime 100 università al mondo le italiane
non ci sono. Se decidiamo di cerca-re ancora e allargare la nostra ricerca alle prime
400, sco-priamo che sono 9 (!) le nostre università classificate. Tro-viamo Bologna
al 173° posto, La Sapienza di Roma al 183° e l’Università di Siena al 394°. Per
trovare un ateneo del Sud, dobbiamo scorrere l’elenco fino al 457° posto, dove
ri-posa la Federico II di Napoli.
Frustrante la ricerca nella classifica delle migliori univer-sità divise per
insegnamento: primi 50 atenei medici? Nien-te. Primi 50 atenei tecnologici? Niente.
Primi 50 atenei di scienze sociali? Niente. Primi 50 atenei di scienze naturali? Eccoci!
La Sapienza si piazza al 40° posto. Primi 50 atenei di lettere e materie umanistiche?
Altra soddisfazione, con Bologna al 47° posto.
Anche se limitiamo la nostra ricerca alla classifica delle università europee, i dati
non sono molto confortanti. Tra i primi 100 troviamo il 71° posto di Bologna e il 76°
de La Sa-pienza. Poi più niente, sino al 137° posto di Padova, al 143° di Pisa e al
147° di Firenze. Cinque classificate su 93, un ma-gro bottino.
I nostri primati sono altri: nella classifica delle università più antiche del mondo
troviamo 7 università italiane fra le prime 20. Bologna, in particolare, è al secondo
posto, fondata nel 1088, otto anni prima di Oxford.
Le nostre classifiche sono invece meno desolanti quando parliamo di singoli
individui. Il Consiglio europeo della ri-cerca (Ere) finanzia la ricerca di frontiera, cioè
eseguita da singoli gruppi, destinando i finanziamenti alle proposte di qualità
provenienti dai singoli ricercatori.
L’Italia è il primo Paese per numero di proposte presen-tate, il secondo Paese per
numero di proposte accettate, ma il quinto Paese (dopo Germania, Inghilterra,
Francia e Olanda) se si considera il luogo dove i ricercatori hanno de-ciso di
spendere i fondi ottenuti. Prendi i soldi e scappa, in-somma. All’estero,
naturalmente, dove si lavora meglio.

«Dottori» da ricoverare

Quanti sono i laureati in Italia? I dottori in Italia sono l’8,8 per cento della
popolazione (la media Ocse è del 15 per cento), ma molti di loro restano ignoranti
anche dopo la laurea. «Dirimere un’ambiguità lessicale» scrive Michele Smargiassi
su «la Repubblica» «è un problema per un lau-reato su cinque. A dir la verità»
aggiunge, «anche solo com-prendere la frase che avete appena letto è un problema
per un laureato su cinque.» 5 È sempre l’Ocse 6 a fare gli esami Al laureati italiani e a
scoprire che 21 laureati su 100 non rie-scono ad andare oltre il livello elementare di
decifrazione di una pagina scritta. «Gli studiosi» spiega Smargiassi 7 «prefe-riscono
chiamarlo "illetteratismo": non si tratta infatti di incapacità brutale di compitare
l’abicì, di decifrare una sin-gola parola; ma della forte difficoltà a comunicare
efficace-mente e comprensibilmente con gli altri attraverso la scrit-tura.» 8 Tanti
(troppi) laureati riescono cioè a comprendere le istruzioni di un elettrodomestico, le
indicazioni stampate sulla confezione di un medicinale, ma non di più: riescono a
scrivere messaggi semplici, ma non un testo minimamente complesso, come per
esempio una lettera di proteste all’am-ministratore del condominio. Si tratta sempre
di una mino-ranza, certo, e può confortare che invece un laureato su due in Italia
raggiunga il livello massimo di conoscenza della propria lingua, ma è una minoranza
comunque allarmante, se si considera che, per esempio, negli Stati Uniti i laureati
così malmessi sono appena il 14 per cento.
Stiamo parlando di persone che dopo aver concluso l’in-tero circuito di studi non
sanno parlare, non hanno confidenza con le parole. Non sanno scrivere (se non a
livello ele-mentare) e non capiscono quello che leggono: queste) anche (forse
soprattutto) perché hanno poca confidenza con i testi scritti in genere. In Italia il 7
per cento dei laureati non leg-ge mai, e la percentuale si basa sul numero di quelli che
hanno avuto il coraggio di ammetterlo davanti all’intervi-statore, e non registra quindi
quelli che non leggono ma non avrebbero mai il coraggio di dirlo. Un laureate su tre
possiede meno di cento libri, praticamente tiene in casa so-lo i libri di testo del
proprio corso di laurea oppure i roman-zi che gli hanno fatto leggere al liceo. Un
dottore su cinque non ha in casa un’enciclopedia, quasi nessuno (il 73 per cento) va
in biblioteca e, quando ci va, lo fa solo per consul-tare un testo, ma non esce con un
libro preso in prestito.
Quali sono le ragioni che tengono lontani gli italiani dai testi scritti? «Manca il
tempo» e «sono troppo stanco» sono le spiegazioni che danno i dottori, e in effetti è
difficile dare loro torto. Meno facile stare dalla loro parte quando sosten-gono che
«leggere oggi non serve» o che il libro è «un me-dium lento» oppure che ormai si
preferiscono «altre forme di comunicazione sociale».
Il testo scritto è diventato ormai l’incubo di ogni lau-reando. «La trasmissione del
sapere universitario è regredita dalla scrittura all’oralità» spiega Franco Frabboni,
preside della facoltà di Scienze della formazione a Bologna. 9 «Pro-fessori sempre più
incerti fanno lezione con diapositive, se-guendo una traccia fissa. Al laureandi si
lascia esporre la tesi con presentazioni Powerpoint. I "test oggettivi" d’ingresso
sono crocette su questionari. La competenza linguistica non è considerata un
prerequisito indispensabile: devi guada-gnarti cinque crediti per la lingua straniera, e
cinque per l’informatica, ma non c’è alcun obbligo per quanto riguarda la buona
pratica dell’italiano.» Si è persa l’abitudine a legge-re, e si ha ritegno anche a far
riferimento alla parola scritta:
«Quando un professore assegna più di 150-180 pagine» conclude Frabboni
«davanti al mio ufficio c’è la fila di stu-denti che protestano».

Gli ignoranti laureati e i dotti ignoranti

In Italia «il pezzo di carta» è utilizzato ancora come una cla-va. Silvio Berlusconi,
dottore in Legge, accusò i suoi avver-sari di non essere per lo più «neppure
laureati», e si ramma-ricò di non avere a che lare con competitori del suo livello
culturale: «Possono fare i pittori» aggiungeva, ma qualcuno ricorderà anche una
puntata di Ballarò in cui il ministro della Giustizia Castelli (ingegnere) rispondeva a
Eugenio Scalfari che non rinunciava a citate il latino: «Guardi che la capisco, ho fatto
il classico!», come a dire: ogni altra prova è inutile, carta canta.
In realtà l’università non sempre ci rende migliori, e non è conquistando una laurea
che si diventa sapienti, o meno ignoranti. Anche in questo caso ci soccorrono molti
esempi: basti pensare che Andrea Camilleri è stato iscritto alla fa-coltà di Lettere ma
non ha mai conseguito la laurea, anche se ha ricevuto diverse lauree honoris causa. Il
grande scritto-re, a dir la verità, non ha mai neanche sostenuto l’esame di maturità,
perché a metà maggio del 1943 stavano per sbar-care gli Alleati in Sicilia, e il preside
del liceo classico di Agrigento, frequentato da Camilleri, decise che sarebbe val-so il
solo scrutinio per essere licenziati col diploma. Anche uno dei maggiori animatori del
nostro dibattito culturale e politico, Giuliano Ferrara, non si è mai laureato; Enzo
Biagi, anche lui non laureato, ha segnato il tratto del giornali-smo italiano prima di
ricevere quattro riconoscimenti hono-ris causa da altrettante università italiane.
Ma, più in generale, molte personalità che hanno rico-perto con successo alti
incarichi, anche istituzionali, non hanno concluso gli studi universitari:10 l’ex
presidente della Camera Fausto Bertinotti è perito industriale, l’ex ministro dei Beni
culturali Rutelli ha la maturità classica, così come il suo predecessore Walter
Veltroni è diplomato cineoperatore.
Massimo D’Alema non ha mai discusso la tesi preparata in Filosofia, mentre
Stefania Prestigiacomo è diplomata in lingue, Umberto Bossi ha il diploma di liceo
scientifico e una «specializzazione in elettronica applicata alla medici-na», Maurizio
Gasparri si è fermato alla maturità classica, Altero Matteoli al diploma in ragioneria.
Significativo il curriculum di Daniel Pennac, romanziere di lama mondiale, padre di
Malaussène e della tribù di Belleville, tre milioni di copie vendute. Pennac ha scritto
un li-bro, Diario di scuola, 11 e ha snocciolato i voti della sua pa-gella alle medie: 4 e
5 in matematica, 2 in inglese, 3 e 6 in scienze. Certo, sarebbe interessante sapere
quanto prendeva in francese, perché è con quello che è diventato ricco.
Laurea non è neppure sinonimo di competenza: si può essere i massimi esperti in
una materia e aver conseguito la laurea in un’altra. Carlo Azeglio Ciampi, l’uomo che
grazie alle sue competenze in materia finanziaria ha più volte tira-to fuori il nostro
Paese dal baratro, si è laureato prima in Lettere e poi in Giurisprudenza. Pierluigi
Bersani, l’uomo che nel centro-sinistra ha l’ultima parola nelle questioni economiche,
si è laureato in Filosofia con una tesi sul pen-siero di San Gregorio Magno. Il
sindaco di Roma, per anni esperto di An per le questioni economiche e sociali,
Gianni Alemanno, è laureato in Ingegneria. Questi esempi valgono anche per zittire
quelli che parlano di titoli di studio «utili» (in genere le materie attinenti all’economia)
contrapponen-doli a quelli «inutili» (in genere le materie umanistiche). I talenti in
realtà scelgono sempre la propria strada.
Sembra invece ormai chiaro perché molti e autorevoli osservatori sostengono sia
ormai il caso di abolire anche so-lo il valore legale della laurea.

La circolazione dei cervelli

Il fatto che in Italia si parli ancora di fuga dei cervelli ci dà l’idea di quella che è la
nostra situazione. Il fenomeno dei giovani laureati che lasciano il proprio Paese per
andare a proseguire gli studi all’estero è il problema dei Paesi in via di sviluppo:
lamentano la fuga dei cervelli i Paesi poveri di op-portunità, i Paesi a cui le nazioni
più ricche e moderne strappano le risorse migliori offrendo maggiori prospettive e
sostanziose remunerazioni. La fuga dei cervelli è il proble-ma con cui si confrontano,
per esempio, diverse nazioni africane, o alcuni Paesi dell’Estremo Oriente: Paesi che
per-dono, con le loro forze migliori, l’opportunità di crescere e inserirsi nel circuito
internazionale di quelli «che contano».
Il mondo sviluppato non si confronta con la fuga dei cervelli, ma con la
circolazione dei cervelli. Qualcuno se ne va, qualcuno arriva, la comunità
internazionale vive dello scambio di idee e della mescolanza tra culture e capacità:
basti pensare che il 30 per cento degli amministratori dele-gati in possesso di Ph.D.
delle nuove imprese high-tech nel-la Silicon Valley sono nati in India o in Cina,
oppure basti sapete che l’80 per cento dei circa 850 mila indiani e il 54 per cento di
circa un milione di cinesi residenti negli Stati Uniti sono in possesso di laurea o
dottorato.
L’Italia da questo scambio di cervelli è tagliata fuori. Noi esportiamo 30 mila
studiosi l’anno e ne importiamo appena 3000. Se nel dopoguerra emigravamo per
lavorare, ora emi-griamo per studiate, e così scopriamo che dal dicembre 2001 al
maggio 2006 i laureati iscritti all’Aire (Associazione italia-na residenti all’estero) sono
passati da 39.013 a 59.756, con un aumento di oltre 4600 unità l’anno, mentre tra il
1996 e il 2002 i laureati che ogni anno si trasferivano all’estero era-no 3300. 12
Se ne vanno in tanti, ma pochi arrivano da noi per stu-diare e fare ricerca. L’Italia
è ultima nell’area industrializzata per percentuale di studenti stranieri iscritti a
programmi di dottorato: lo 0,1 per cento contro il 40 per cento della Sviz-zera, il 32
per cento del Belgio, il 28 per cento del Regno Unito, il 27 per cento degli Stati Uniti.
In questa graduato-ria l’Italia è preceduta, per esempio, da Messico, Repubblica
Slovacca, Turchia e Corea. Solo lo 0,3 per cento dei laureati residenti in Italia sono
stranieri, mentre per quanto riguar-da la percentuale di stranieri con titoli post laurea
impegna-ti in attività lavorative, il nostro Paese non compare neppu-re nelle
statistiche, dal momento che i valori sono «non si-gnificativi e trascurabili». Al
contrario, una percentuale compresa tra il 3 e il 5 per cento dei neolaureati lascia
l’Ita-lia, dato tanto più significativo se si pensa che il tasso di emigrazione è più
elevato tra i laureati delle migliori univer-sità e tra le aree più rilevanti per la ricerca e
per la crescita economica: informatica, ingegneria, scienze della vita, eco-nomia,
management.
Non c’è da meravigliarsi, naturalmente. In Europa sia-mo il Paese che investe
meno per università e ricerca, e se guardiamo oltre l’Unione ci accorgiamo che
siamo stati su-perati anche da India e Corea. Ma il problema non è solo un problema
di investimenti: l’università italiana non respi-ra, le manca l’aria.
Se guardiamo alla percentuale di studenti stranieri pre-senti da noi, si tratta di
appena il 2 per cento: 1/5 di quanti non ce ne siano in Francia, 1/6 della Germania,
1/8 della Gran Bretagna. Noi non attiriamo nessuno: il progetto Marco Polo, che era
stato varato per far arrivare in Italia 10 mila studenti cinesi, è servito ad attirarne
appena 1000. 13
L’Italia, che già offre un sistema universitario poco at-traente, è soffocata da
regole e regolette che dirottano altro-ve allievi e ricercatori. Dopo aver presentato
mille fotoco-pie, plichi e moduli, uno studente straniero può impiegare anche quattro
mesi per ottenere un visto di ingresso trime-strale e quindi un permesso di soggiorno
che scade di anno in anno (a patto che si siano sostenuti due esami, altrimenti scatta
l’espulsione).
Vision and value (una società di consulenza che opera per conto della
Commissione europea) ha realizzato una ri-cerca sul rema, e i 1000 studenti stranieri
del Politecnico di Torino hanno tutti confessato di aver scelto l’Italia per i più
disparati motivi personali, tutti prescindenti dalla qualità degli studi. Uno studente
extracomunitario, prima ancora di sottoporsi all’esame di italiano per l’ammissione,
deve presentare persino garanzie bancarie che coprano sin da su-bito l’intero
ammontare delle spese che presumibilmente dovranno essere sostenute durante il
soggiorno, compreso il biglietto aereo di ritorno. Tutti questi problemi si incontra-no
se si vuole studiare. Esistono delle procedute di immi-grazione celere, ma riguardano
due categorie ben precise: le modelle e il clero. Sugli studiosi, noi, siamo più pignoli.

Storia di Keti

La storia di Ketevan (Keti) Bochorishvili, georgiana di ven-tisette anni, è


emblematica. Keti parla quattro lingue, è lau-reata in Relazioni internazionali, ha
frequentato un master negli Stati Uniti e ha lavorato presso il Consiglio americano
per la formazione internazionale e il ministero della Scienza e della Formazione della
Georgia. Ha anche lavorato presso l’ambasciata della Georgia negli Stati Uniti, in
Canada e in Messico e ha partecipato a programmi promossi all’Univer-sità di
Georgetown, all’Incocca Institute e alla Charles Uni-versity. Insomma, Keti è una
che ha girato il mondo, una che ha studiato, una che ci sa fare. Se questo non
bastasse, diciamo anche che è una ragazza sveglia, tanto da aver vinto il premio
Eurasia World of Difference «per le sue ecceziona-li abilità diplomatiche,
l’ingegnosità e la flessibilità».
Terminata l’esperienza americana, Kerevan decide di av-vicinarsi a casa e
continuare la sua formazione in Europa. Sceglie un master di management alla
Bocconi e si propone di presentare la documentazione per entrare in Italia. Così
comincia la sua avventura: «La prima volta che ho presenta-to la domanda» ci
racconta, «mi hanno accettata, ma poi non ho fatto in tempo ad ottenere il visto. Lì
per lì ho pen-sato che fosse colpa mia, così l’anno successivo ho presentato una
nuova domanda e sono stata accettata. Per non sba-gliare di nuovo, ho deciso di
preparare tutte le carte necessa-rie per il visto con quattro mesi di anticipo. Non avrei
mai immaginato a cosa sarei andata incontro. Andavo avanti e indietro dal consolato
italiano in Georgia, ogni volta man-cava qualcosa richiesto dal nostro Paese: timbri,
traduzioni, diplomi, c’era sempre un motivo per cui farmi tornare. Mi sembrava che
in realtà nessuno sapesse di preciso quali do-cumenti dovessi presentare. Dopo tre
mesi che andavo avanti e indietro con le carré, il 29 maggio mi hanno detto che i
termini per presentare una certa documentazione era-no scaduti nove giorni prima.
Non so se l’hanno fatto per-ché non volevano più vedermi o perché anche loro
l’aveva-no scoperto davvero in quel momento, ma a quel punto ho fatto come mi
hanno suggerito degli amici, e ho usato alcu-ni contatti personali per arrivare
all’ambasciata italiana. In questo modo sono riuscita ad avere una chance. Il 1 5
giu-gno (un giovedì) mi hanno dato come ultima data il 18 giu-gno (una domenica);
a questo punto avevo un solo giorno a disposizione per: scrivere una lettera al
ministro dell’Educa-zione georgiano e ottenere una "verifica" dei miei diplomi;
ottenere dall’università l’autentica della mia laurea (l’uni-versità georgiana non ha un
archivio elettronico, l’avrebbe-ro dovuta cercare materialmente nell’archivio);
ottenere dal ministero una lettera indirizzata agli uffici italiani compe-tenti, rivolgermi
ad un notaio per autenticare la lettera del ministero, portare la lettera al ministero di
Giustizia, conse-gnarne copia al ministero degli Affari esteri. Alla fine, avrei dovuto
consegnare il dossier al consolato italiano della Georgia.
«Mi sono attrezzata, ho fatto i salti mortali, speso il quin-tuplo di quello che
dovevo spendere e il lunedì alle 11 mi so-no presentata al consolato italiano con
tutto il materiale ne-cessario. Mi hanno accettata con riserva, essendo passato il
termine stabilito, solo quando, calendario alla mano, ho di-mostrato loro che non
avrei potuto consegnare il dossier di domenica. Hanno preso il malloppo e mi hanno
salutata scrollando la testa, e mi hanno lasciato capire che tutto l’in-cartamento non
avrebbe fatto molta strada. Alla fine invece ho ottenuto il visto per motivi di studio,
ma ho subito sco-perto che dovevo ottenere un permesso di soggiorno entro otto
giorni dal mio arrivo in Italia. Ho impiegato tre mesi pei farlo, settembre è il periodo
peggiore dell’anno: la fila era sempre troppo lunga e non riuscivo mai ad arrivare allo
sportello. Fra l’altro dovevo frequentare le lezioni, trovare un appartamento,
organizzare la mia nuova vita in Italia. Alla fi-ne sono andata in commissariato alle
due di notte per pren-dere posto nella fila, ho fatto sette ore in piedi per strada e al-le
nove del mattino sono riuscita ad entrare: ci ho messo altre cinque ore per le
pratiche. Sono uscita con il mio permesso alle due del pomeriggio (dopo 12 ore!).
«Il permesso durava un anno, e anche questa volta mi so-no mossa in anticipo,
prima che scadesse: anche se scadeva solo a settembre a luglio ho spedito tutto.
Come è andata a finire? Sto ancora aspettando risposta! Non ho il permesso, ma
solo una carta che dice che il permesso è in via di rinno-vo. Il problema è che con
questo foglio provvisorio non pos-so uscire dal Paese: dovrei partecipare a delle
conferenze all’estero, ma non posso lasciate l’Italia. Fra due settimane co-munque
torno in Georgia, e poi cambierò progetti. Andrò altrove in Europa, da voi non si
riesce a stare. E troppo stres-sante. Mi dispiace davvero, la gente è carina, ma il
vostro modo di fare mi sta penalizzando dal punto di vista profes-sionale. Questo
Paese è un incubo. Non vi sto a raccontare cosa ho passato per trovare casa, per
aprire un conto in ban-ca... Me ne andrò in Francia, o in Germania. Lì è molto
di-verso, il permesso te lo danno in cinque giorni...». 14
La rivincita
1
Tre idee e un post

Le riforme che tutti vogliono

Ci sono due modi di ragionare sulla scuola: uno è pensare all’immediato, l’altro è
pensare al medio-lungo periodo. Se-condo Tullio De Mauro «pensare alla scuola è
un investi-mento a lungo termine: spendi oggi e, se spendi bene, avrai frutti tra dieci,
venti anni. La scuola non può incidere im-mediatamente sul retroterra culturale degli
allievi. Allievi che partono da ambienti segnati da arretratezza culturale partono
svantaggiati». 1 Per cambiare un Paese, quindi, la scuola ci mette tanto tempo; anche
un Paese, per cambiare la scuola, non può che metterci tanto tempo. Investire oggi
vuol dire scommettere sulle potenzialità di chi potrà dare il suo apporto in futuro.
Nell’immediato, quindi, si può far «salire di livello» la nostra scuola, nel medio
lungo-termine si può darle una nuova identità, una nuova missione. Nel lungo termine
è possibile pensare a politiche di totale rinnovamento del per-sonale docente, più
giovane, scelto e selezionato in maniera più razionale, motivato da nuove e
soddisfacenti politiche salariali. La ristrutturazione immediata del sistema può portare
a una gestione amministrativa più razionale, a una mag-giore qualità della spesa, a una
riqualificazione delle profes-sioni interne.
Nel corso della campagna elettorale 2008 Confindustria ha raccolto i punti in
comune dei programmi di Pd e Pdl ri-guardanti la riforma scolastica. «Il primo
elemento in co-mune» raccontava «Il Sole 24 Ore» 2 «è l’autonomia. Il Pd annuncia
scuole più libere, con flessibilità negli orari e nella gestione dell’organico, mentre il
Pdl punterà a rafforzare l’autonomia secondo il principio di sussidiarietà.» In
comu-ne poi l’attenzione al merito, a una «maggiore libertà di scelta per le famiglie, il
rilancio dell’istruzione tecnica e del-la cultura scientifica».
In effetti la scuola è ormai diventata come tutte le emer-genze del Paese: sanno
tutti cosa va fatto, si cerca solo di tro-vare chi è in grado di attuarlo.
L’autonomia degli istituti viene ormai indicata dalla maggioranza degli osservatori
come uno dei passaggi-chiave nel percorso che dovrebbe portare a un innalzamento
del li-vello della nostra scuola. Istituti che possano assumere do-centi, premiare gli
insegnanti migliori, ingaggiare tecnici di laboratorio.
Lo svecchiamento del personale (anche quello, ormai, in attesa di essere
stabilizzato) è un altro punto-chiave delle riforme tratteggiate dagli esperti, anche se
poi i disegni di chi vuole una scuola nuova nel futuro si scontrano con i di-ritti di chi
la scuola la sta portando avanti nel presente, i tanti professori precari di cui abbiamo
parlato. In molti in-sistono sulla necessità di accelerare sul fronte dell’insegna-mento
dell’inglese e delle materie scientifiche, mentre gli osservatori si dividono
sull’opportunità di promuovere l’e-mulazione e la competizione tra scuole (pubbliche
o priva-te che siano) per innescare un processo virtuoso di concor-renza.

In attesa della rivincita della scuola pubblica

I problemi della scuola italiana, oggi, sembrano essere es-senzialmente due: il caos
organizzativo e la carenza di fondi. Del primo è figlio per esempio l’eccessivo
numero di dipen-denti, del secondo la cattiva qualità dell’attività all’interno degli
istituti. Lo svilimento della professione dell’insegnan-te sembra essere una
conseguenza dei due fattori incrociati.
La scuola serve a migliorare il presente e il futuro di chi ci entra, quale che sia
stato il suo passato. Serve a renderci più colti, e quindi più creativi quando si tratta
di inventare la nostra vita, più comprensivi quando si tratta di decodifi-care quella
degli altri, più reattivi quando si tratta di risolve-re un problema. Serve in sostanza a
dare un’opportunità in più a chi la frequenta.
Così com’è organizzata, la scuola frustra quello che è il motore dello sviluppo di
una collettività, la legittima aspira-zione a migliorare la propria condizione
economico-sociale.
Una scuola debole (come un Paese debole) si rifugia nelle idee forti, e
probabilmente la fortuna di molti istituti privati, che (legittimamente) rivendicano
identità nette e si struttura-no attorno a sistemi di valori ben delineati, è legata anche a
questo fenomeno. La scuola pubblica, che dovrebbe insegnare la varietà del sapere,
la fallibilità della scienza e che non do-vrebbe mettere bocca nelle convinzioni
personali dei singoli studenti, sembra non credere più nella propria missione e per
questo segna il passo davanti all’aggressività di molti, efficien-ti, istituti privati.
Bisogna paradossalmente essere molto convinti, sicuri e determinati per rinunciare
alle idee forti: tanto convinti, forti e determinati da non temere neanche il legittimo
sviluppo degli istituti privati, istituti di cui una scuola pubblica ben rodata non
subirebbe di certo la con-correnza. Sono convinto che, se la scuola pubblica
funzio-nasse davvero, in pochi si rivolgerebbero alle scuole private.
Ma intanto che si aspettano gli interventi di medio, lun-go o lunghissimo periodo,
che si fa? Che si fa, domani, che c’è lezione? Domani siamo tutti nelle nostre mani: le
mani di chi nella scuola lavora, di chi la scuola la frequenta, di chi alla scuola affida i
propri figli.
L’eccellenza si ottiene facendo ogni volta un po’ meglio della volta precedente:
non c’è altra strada, e non importa da dove si parte. 3 La scuola italiana può non
essere (e non lo è) d’eccellenza, ma l’eccellenza può insegnarla. Miglioran-dosi, ogni
giorno, poco a poco. Ognuno di noi.

Siamo tutti Ct
La scuola italiana è stata pensata più volte, in tanti modi e da tante persone. Sono
state tante le riforme ideate, attuate, cancellate e ridisegnate, e non è obiettivo di
questo libro proporne una nuova. Obiettivo di questo libro è solo quello di proporre
una riflessione sullo stato del Paese e ricordare, semplicemente, a cosa serve la
scuola. È però ora che anche chi scrive libri sulla scuola (e non solo sulla scuola) si
prenda le proprie responsabilità. Rischio l’osso del collo, e da profa-no butto là tre
proposte, che potranno piacere, potranno non piacere, ma che secondo me
aiuterebbero nel concreto professori, studenti e genitori. Tre idee pratiche.
Se fossi il Cr della Nazionale ripartirei da Buffon, De Rossi, Aquilani, Amauri,
Chiellini e Pirlo. Se avessi la possi-bilità di intervenire sull’istruzione pubblica farei
tre cose: re-stituirei Al genitori la possibilità di scegliere la sezione in cui iscrivere i
figli; reinserirei il vero voto di condotta; metterei a disposizione dei professori una
«carta oro» da utilizzate solo per spese volte ad acculturarsi come visitare musei,
andare al cinema e acquistare libri.
Tutto qua.
Proposta 1
Scegliere la sezione

Le lezioni private

Il complesso e contestatissimo ritorno agli esami di ripara-zione (o meglio alla


verifica sui crediti a settembre) ha fatto rifiorire un mercato che era andato in letargo
nel 1995, an-no in cui i debiti formativi avevano salvato quelli che teme-vano di
essere rimandati. Sono tornate le ripetizioni private: lezioni a casa di professori in
vacanza, in pensione, a casa di studenti universitari. Un giro d’affari (quasi
totalmente in nero) di 100-150 milioni di euro l’anno.
Un’inchiesta del «Corriere della Sera»‘ ha rivelato il listi-no prezzi delle ripetizioni
private: si va dai 15 Al 45 euro l’o-ra, ma si può arrivare anche Al 60 euro per una
lezione di un professore particolarmente rispettato. Il Greco e la materia più
gettonata.
È Al docenti di Greco e a quelli di Latino che vanno ver-sati anche 60 euro l’ora:
le loro lezioni vengono prenotate da un anno all’altro, e non si trovano in giro molti
annunci che li riguardino, dato che i genitori si passano i numeri dei più bravi come
uno scommettitore passerebbe al migliore amico la soffiata sul cavallo vincente.
Vanno forte anche i prof di Matematica (materia indigesta a 5 studenti su 10) che
chiedono 44 euro l’ora, mentre si scende ad appena 10 euro per ripetizioni Al ragazzi
delle medie.
Se consideriamo che lo Stato destina 50 euro lordi l’ora al professore che sia
disponibile a rispiegare durante l’estate il suo programma Al ragazzi, capiamo perché
il mercato del-le lezioni a casa sia particolarmente fiorente.
Dicevamo che gran parte di questo giro d’affari è in ne-ro. Secondo l’Eures 4
prof su 5 non hanno mai emesso una fattura. Insomma, sembra proprio che i
cittadini italiani (come privati cittadini) siano disposti a pagate bene la pro-fessionalità
degli insegnanti, mentre, nei panni dello Stato, gli stessi cittadini valutino ben poco il
loro lavoro. Il prof, poco considerato se seduto alla cattedra di un’aula, diventa un
docente di prim’ordine se indossa la veste di libero pro-fessionista, alla scrivania del
suo studio.
Sia chiaro, non è con intento moralistico che sottolineo questo paradosso,
tutt’altro: la valutazione che sembra più equa delle lezioni dei nostri insegnanti è
senza dubbio quel-la che offre il mercato delle lezioni private, non quella che emerge
dai contratti nazionali del comparto. Quando sce-gliamo e valutiamo i professori
secondo una logica di mer-cato, le cose vanno effettivamente meglio, per loro e per
noi, rispetto a quando lo Stato (che sia chiaro, siamo sem-pre noi) li sceglie e li
valuta secondo una logica diversa. Qual è questa logica? Qual è la logica perversa
che frustra l’impegno e il sapere di un professionista schiacciandolo e
immiserendolo con stipendi da fame?
La professionalità di un (buon) professore sembra essere svalutata di circa 2/3 se
si prende a parametro quello che il mercato è disposto a offrire per entrare a casa
sua e sentirlo parlare in un ambiente diverso dalla scuola. Chiaramente, e questo è il
punto, il professore che paghi tanto è quello che puoi scegliere e valutare.
Il sapere oggi come oggi ha un alto valore di mercato e lo ha perché c’è molta
ignoranza in giro. L’insegnante però ha un basso valore di mercato, perché di
insegnanti ce ne sono troppi, e perché è impossibile differenziarli uno dall’altro. In
Italia ab-biamo due problemi: non rimarremo mai privi di docenti e non sapremo mai
distinguere quali di loro valga la pena pagare.
Una qualsiasi riforma della scuola passa attraverso il ri-conoscimento del valore
del singolo insegnante.

Il valore del prof

Il valore dell’insegnante non può che essere misurato sui ri-sultati degli studenti,
ma attenzione: valutate i prof sulla ba-se dei voti che prendono gli alunni (voti che
danno gli stessi prof) sarebbe come chiedere all’oste se il vino è buono.
Le ipotesi che si possono lare per misurare la bravura dei professori sono tante, e
sono state elencate da molti osserva-tori. Se valutati da una commissione esterna (o
da una com-missione mista), i risultati ottenuti dalla classe all’esame di maturità o a
un esame appositamente previsto possono esse-re un metodo di valutazione del
rendimento del prof; un al-tro metodo (piuttosto costoso) potrebbe essere quello di
af-fidare a società specializzate la valutazione del corpo inse-gnante scuola per
scuola.
Probabilmente, però, almeno in linea di principio, il procedimento più diretto per
conoscere il valore di un pro-fessore è valutare l’effetto che il suo insegnamento
esercita sugli studenti e sulle loro famiglie: se lo cercano, è un pro-fessore bravo; se
da lui scappano, è un professore scarso.
Da quel che ricordo, è sempre stato così: quando si arri-vava in una scuola, si
sapeva subito quali fossero i professori buoni e quali quelli da evitare. E durante
l’anno poi che si scopre quale professore è preparato, quale no, quale è intelligente,
quale è ottuso, quale è serio, quale è sciocco, quale è brillante, quale è frustrato.
Eppure in Italia non si può scegliere la classe da far fre-quentare al proprio figlio.
Bisogna (almeno in teoria) affi-darsi a un sorteggio, di modo che sia il destino a
decidere quali insegnanti debbano occuparsi di uno studente. Naturalmente, prima di
arrendersi al sorteggio, molti genitori ri-solvono all’italiana, cercando «in qualche
modo» di ottenere l’iscrizione nella sezione migliore. Morale della favola: le classi
rischiano oggi di essere formate in due modi e cioè quelle peggiori a caso
(raccolgono i sorteggiati, quelli che non avevano armi da giocare o santi da invocare
per entrare nelle sezioni più gettonate), quelle migliori sulla base di fa-vori fatti a
questo o a quello.
Il fenomeno in realtà è più che naturale: sappiamo tutti che alcuni professori sono
bravi e che altri non lo sono, che alcuni docenti si impegneranno per far crescere i
nostri bambini e che altri non lo faranno. Sappiamo bene che al-cuni professori
saranno utili Al nostri figli, e che altri li dan-neggeranno. In realtà l’unica cosa che
non va è che si debba venire a sapere quali sono i professori migliori grazie a una
soffiata estorta a mezza bocca dal preside amico, e la cosa strana è che i professori
della sezione indicata da tutti come la migliore guadagnino come i colleghi della
sezione che tutti suggeriranno di evitare a ogni costo.
Perché non dovremmo avere voglia di sceglierli? Un buon genitore punta al
meglio, è ovvio, ma il meglio (nella scuola italiana) non si può riconoscere.

Scegliere la sezione

Il metodo che propongo per misurare il valore dei professo-ri è quello di lasciare
libere le famiglie di scegliere la sezione in cui iscrivere il figlio. In un breve lasso di
tempo verrebbe-ro palesati i valori dei prof che ci lavorano, i presidi potrebbero
premiare quelli bravi e richiamare quelli scadenti, e potrebbero mettersi al lavoro
perché, l’anno successivo, sia-no almeno due le sezioni che tutti richiedono.
Chiaramen-te, una volta preso atto che tutti chiedono di studiate mate-matica col
prof Rossi, bisognerebbe domandarsi perché: se è perché è bravo, Rossi andrebbe
premiato, con un aumento ad personam. E se il preside non lo premia?, magari
perché non lo ama o perché non ne riesce proprio ad apprezzare le capacità?
Bisognerebbe permettere a Rossi di andarsene, di accetta-re l’offerta di un altro
istituto, e bisognerebbe quindi che i presidi fossero in grado di procedere a una vera
e propria campagna acquisti di docenti, liberi di scegliere i professioni-sti migliori
dalle liste, e liberi di allontanare i docenti peggio-ri. A quelle che oggi sono
considerate scuole di serie B (quelle in zone difficili o disagiate) bisognerebbe dare
l’opportunità di costruire una nuova classe docente e, ricorrendo a oppor-tune
politiche mirate, di valorizzare giovani insegnanti.
Il preside verrebbe naturalmente ritenuto responsabile della politica del personale
dell’istituto che dirige. Perché sia chiaro: non si può decidere di valutare i professori
senza mettere in moto un processo analogo del lavoro dei presidi.
Dalle classi Al gruppi di lavoro

L’introduzione della libertà di indicare la sezione preferita comporterebbe una


serie di conseguenze che proviamo a elencare, una sorta di «effetto domino»
meritocratico che andrebbe in qualche modo, nel tempo, gestito e pilotato.
Potendo indicare la sezione preferita, molti genitori con ogni probabilità
indicheranno la medesima sezione, e quin-di non si potranno accontentare tutte le
richieste. Come scegliere chi far entrare?
Si porrebbe ricorrere Al preesami di valutazione degli alunni, valutazione finalizzata
alla formazione di gruppi di studio efficienti. L’esame di ammissione non verrebbe
fatto quindi per mettete tutti i migliori nella sezione migliore, ma per poter conoscere
da subito quelle che sono le esigen-ze e le caratteristiche dei futuri studenti.
In quest’ottica la valutazione degli studenti dovrebbe ser-vire a creare dei gruppi
che lavorino bene, in cui ognuno possa essere d’aiuto all’altro, in cui ognuno possa
trarre profitto dal lavoro proprio e da quello dei compagni. Dei grup-pi misti, per
carattere e preparazione, per personalità e talen-to, soddisfacendo naturalmente le
richieste di più studenti possibile.
Non sarebbe utile (e sarebbe ingiusto) che si creassero se-zioni-ghetto con i
ragazzi supposti più deboli (quelli che poi, in genere, nella vita reale dimostrano di
essere i più for-ti) e delle sezioni di élite composte da secchioni terribili (quelli che
molto spesso poi naufragano sul posto di lavo-ro). Il sistema scolastico che
funziona sviluppa il meglio di ognuno, non scarta nessuno, fa lavorare tutti e ottiene
da tutti il meglio. Si studia in gruppo perché si vive in gruppo, si lavora in gruppo, e
in gruppo (in genere) si riesce o si fal-lisce. Nella scuola il gruppo che funziona è
quello variegato, composto da diverse personalità e tipologie di studente: lo studente
che parte con un handicap formativo magari mi-gliora se affiancato a quello più
bravo, quest’ultimo (maga-ri) rende e matura solo se integrato in un gruppo più
am-pio, dove siano altri a colmare sue lacune di altro tipo. Le classi esistono per
questo, altrimenti basterebbero i precet-tori privati.
Neanche la Nazionale di calcio è fatta dagli undici mi-gliori giocatori italiani. Un
qualsiasi gruppo di lavoro che venisse composto scegliendo i più grandi esperti del
settore naufragherebbe dopo poco. Ognuno di noi è sapiente in qualche cosa,
ignorante in altro, ognuno di noi ha dei difet-ti e delle capacità. Tutti abbiamo un
talento, e dovrebbe es-sere la scuola ad aiutarci a capire qual è.
Alexander Stille su «la Repubblica» racconta che negli Sta-ti Uniti, dove invece
una spietata selezione degli aspiranti stu-denti è in genere finalizzata all’inserimento
degli studenti ri-tenuti migliori nella scuola ritenuta migliore, «la follia comin-cia
subito dopo il lieto evento. C’è gente che mette i figli in li-sta d’attesa per l’asilo
appena nati [...] la selezione avviene at-traverso una cosiddetta intervista, il bimbo di
tre anni viene fatto giocare una mezz’ora sotto gli occhi del personale dell’a-silo. Il
clima generale porta il genitore a pensare che se il figlio non frequenterà il nido
giusto, l’asilo giusto e poi le elemen-tari giuste non riuscirà mai a entrare ad Harvard
o a Yale, in una delle università che sono garanzia di un futuro brillan-te». 2 Un
sistema come quello americano che riesce a mettere in competizione i bambini che
vogliono entrare in un asilo nido è molto rischioso, socialmente dispendioso, e
basterà leggere le Appendici di questo libro per scoprire perché.
Proposta 2
Reinserire il voto in condotta

Il senso del gruppo

Sono tante le qualità di una persona che si apprezzano sul la-voro: la preparazione,
la serietà, la responsabilità, la capacità di inventare, la capacità di fare squadra, la
capacità di essere sempre positivi e orientati al risultato. Tutte qualità che po-tremmo
riassumere in una sola: la professionalità. La profes-sionalità di una persona non è
(ovviamente) quella certifica-ta dal tesserino dell’ordine; la professionalità di una
persona viene conquistata sul campo, sul luogo di lavoro, giorno do-po giorno,
mese dopo mese, anno dopo anno.
C’è un elemento che, pur concorrendo in materia deter-minante a qualificare una
persona come «professionale», viene da sempre sottostimato: la «fedeltà», al
gruppo e all’a-zienda.
Negli anni Ottanta e Novanta si è diffusa l’idea che un lavoratore professionista
potesse cambiate datore di lavoro senza pagare mai pegno, passando magari da
un’impresa al-l’acerrima concorrente senza alcun problema. Il curriculum
s’arricchisce d’esperienza, si diceva, ed è giusto lavorare per chi ti paga meglio. Col
tempo si è capito che (sia giusto o sia sbagliato) il fatto di cambiare continuamente
lavoro pesa su un curriculum: si dà l’idea di chi non si affeziona a un pro-getto, di
chi non lega con la propria squadra, si dà l’idea di una persona su cui è meglio non
fare troppo affidamento. Finora si pensava che questo fosse più che altro un
pericolo che correvano i grandi campioni dello sport (cui non si per-donava il
tradimento della maglia) o gli showmen che cam-biavano rete televisiva (in genere
condannati a pagare un periodo iniziale di diffidenza da parte del pubblico). Oggi si
inizia a guardare con la stessa diffidenza anche chi, sul più semplice dei posti di
lavoro, non riesce ad affezionarsi al team di cui fa parte. Probabilmente è un effetto
dell’aumen-tata, e sempre più qualificata, domanda di lavoro: se tutti sono sostituibili
e tutti sono bravi, perché non prendere chi difenderà fino alla fine il progetto per cui
lavora?

Il senso di appartenenza

La fedeltà al gruppo io l’ho imparata a scuola. L’ho impara-ta anche facendo


sport, certo, l’ho impalata grazie alla mia famiglia, ma l’ho imparata anche a scuola.
Gli amici di scuola non si tradiscono, le regole si rispettano, le idee val-gono più
della convenienza, e tutto ciò di irrituale che capi-ta di fare con qualcuno del gruppo
va nascosto a chi del gruppo non fa parte. Sia chiaro, non difendo il clima che si
crea tra un gruppo di amici alle medie o al liceo, lo descrivo, e (aggiungo) penso sia
inevitabile che si crei. Da quello che è inevitabile, sono poi convinto, non resta che
prendere il positivo.
Nell’Introduzione ho ricordato diversi momenti che non dimenticherò mai legati al
mio rapporto con i professo-ri, ma ce ne sono almeno altrettanti legati al mio
rapporto con i compagni di classe. Rapporto, sia detto per inciso, che dura con
alcuni ancora oggi, e che con altri che non fre-quento potrebbe riprendere anche
adesso, se li incontrassi dopo anni.
Che valore ha avuto per me la gira a Parigi? E quella di Jesolo? Che valore dare
alla notte infinita che ci ha portato alla mattina in cui sono stati esposti i quadri della
matu-rità? E alla festa nella notte in cui Reagan fece bombardare la Libia? Le partite
al campone e la metro fino a Ostia, che valore hanno? Le botte prese allo stadio? La
finale con il Liverpool? Il concerto di David Bowie, le vacanze a Tropea, quelle
all’isola d’Elba, che valore hanno? Anche queste esperienze hanno un valore infinito,
e stavolta non per me-rito dei professori; anzi, molti di questi ricordi nascono da
trasgressioni Al divieti da loro posti o alle regole da loro in-carnate.
Ognuno di noi, li abbia amati o no, ha condiviso gran parte dei momenti
importanti della propria vita con la scuola, o meglio con i compagni di scuola. I
rapporti che si formano a scuola sono eterni, perché in quegli anni tutto sembra
eterno, fondamentale, inevitabile.
Eppure le prove che si superano a scuola, viste col sen-no di poi, non hanno nulla
di particolare. Un amore anda-to male, una regola infranta, un giuramento rispettato: i
legami che si formano tra i banchi e nei corridoi, le emo-zioni che si vivono, le paure
che si combattono, analizzati freddamente ad anni di distanza sono poca cosa, e visti
con un po’ di cinismo sono uguali per tutti. Vissuto all’e-poca di scuola, invece,
ogni avvenimento è unico, impor-tante, epico, fondamentale e ricco di implicazioni e
signi-ficati che dureranno per tutta la vita che verrà. Sono con-vinto che il valore
vero di questi episodi sia effettivamente quello che si dà loro nel momento in cui
vengono vissuti. Ma non è giusto che lo studente si confronti solo con il proprio
metro di giudizio.

La condotta degli alunni

Che valore può avere, davanti a sentimenti e significati del-la portata che abbiamo
descritto, una regola? Una stupida regola come il rispetto di un orario, di un codice
di compor-tamento, di una persona che ritiene di potetti zittire quan-do vuole lei?,
magari per parlarti di un autore morto mille anni fa, o per spiegarti come calcolare il
diametro di un insi-gnificante cerchio tracciato col gesso alla lavagna?
È giusto copiare o far copiare? È sbagliato fare uno scherzo a un compagno di
classe? È corretto prendere in gi-ro il professore?
Al di là degli episodi, delle avventure, delle paure, delle goliardie, dei tradimenti e
delle prove di fedeltà che tutti noi abbiamo sperimentato a scuola, posso dire
tranquilla-mente che a me il compagno di classe che non aiuta gli altri (specie
nell’emergenza) non è mai piaciuto, così come mi convince poco lo studente che
accetta l’autorità dell’inse-gnante a prescindere, come direbbe Totò.
Se è veto peto che uno studente che non fa copiare è uno studente che (almeno a
mio modo di vedere) mostra più di-fetti che qualità, è pur vero che a copiare i
compiti degli al-tri non si va lontano, e se è vero che lo studente che accetta in
maniera acritica ogni parola del prof rischia di perdere un’occasione per riflettere e
approfondire, è pur vero che se l’insegnante insegna è perché lui ha qualcosa da
insegnarti, e tu molto da imparare.
Aggiungiamo a questo che se è vero che le regole all’in-terno del gruppo si
rispettano, è veto pure che chiunque de-ve saper rispettare gli altri, tanto più dentro
una scuola, e che il compagno di classe detestabile è sempre stato quello che si
approfitta di chi, in un dato momento, sembra essere più debole.
Sebbene infatti io trovi positivo che nella vita scolastica abbia un così alto valore il
senso del gruppo, la solidarietà tra pari può facilmente (se malintesa) tracimare
nell’omertà e nel cosiddetto «familismo amorale». 1 Se lasciato degenerare il senso di
appartenenza può trasformarsi addirittura in bullismo, financo in senso del branco. A
segnare il confine tra il positivo e il negativo (con tutte le infinite sfumature intermedie
che l’esperienza ci insegna) è, a mio modo di vedere, il senso del limite, la regola, la
disciplina. Appunto, la condotta.
In Italia non esiste voto di condotta. Anzi, a dire il vero (formalmente) esiste, ma
non ha più alcun effetto sui risulta-ti di fine anno. Il 7 non comporta più che si
debbano soste-nere gli esami in tutte le materie, il 6 non implica più la bocciatura
secca. La valutazione della condotta è attualmente una som di indicatore
dell’attitudine verso i compagni e i professori, non fa media e non ha effetto, ed è
stata pensata più che altro come un contributo da fornire alle famiglie.
In queste pagine spiegherò perché, a mio modo di vede-re, vada reintrodotto il
vero voto in condotta, quello che implica una sanzione per lo studente che superi il
suddetto limite.

La condotta dei prof (e dei genitori)

Mario Pirani in un articolo apparso su «la Repubblica» 2 rac-conta che nella scuola
media di Porto Ercole tre studenti, davanti a una decina di spettatori, «hanno
afferrato un ragazzino di dodici anni, il primo della classe, colpevole di aver opposto
un rifiuto a chi voleva copiargli il compito, gli hanno infilato la testa nel water, lo
hanno sputacchiato e, infine, tirato la catena. Nessuno dei compagni è intervenu-to.
[...] Anche più grave la risposta del preside che ha consi-derato l’episodio una
semplice "bravata" e non un atto di teppismo, poiché "non preceduta da minacce e
insulti".
Quindi era bastata una lievissima punizione: tre giorni di sospensione».
Quello di Porto Ercole è solo un episodio, e purtroppo non il peggiore, del
fenomeno noto alle cronache come «bullismo». È un fatto importante, però, proprio
perché de-nuncia il quadro desolante in cui i tre bulli si sono mossi: «I genitori»
racconta Pirani «negano la responsabilità dei figli, giungendo a sostenere che la
vittima "già in precedenza e di sua spontanea volontà aveva introdotto la testa nel
water". Chiacchiere tra ragazzi avrebbero portato poi, sostiene il preside, i tre alunni
"puniti" a emulare il gesto, non renden-dosi conto della gravità dell’atto che
avrebbero preso come un gioco».
Cos’è il bullismo? In molti siamo stati vittime o carnefici a scuola. Spesso siamo
stati sia vittime che carnefici, in tem-pi e luoghi diversi. Qualche volta ci hanno messi
in mezzo, altre volte siamo stati noi a mettere in mezzo qualcuno. Al-cune volte gli
scherzi che abbiamo fatto sono stati simpatici, altre volte hanno superato le nostre
intenzioni, e spesso ci siamo resi conto in ritardo dei loro effetti. Alcune volte gli
scherzi che abbiamo subito ci hanno fatto male, altre volte ci siamo passati sopra,
alcune volte (sarebbe sbagliato negar-lo) ci hanno dato la spinta a cambiate noi stessi
e gli altri. Tutti abbiamo vissuto comunque (subendolo o sfruttando-lo) quel clima a
tratti soffocante e a tratti esaltante che si viene a creare Al tempi della scuola. Quelli
di noi più fortu-nati e più attrezzati sono riusciti sempre a rispettare gli altri, quelli di
noi più deboli o più sfortunati hanno smarrito il senso della responsabilità. E
qualcuno (oltre a loro stessi) ne ha fatto le spese.
Il bullismo di cui si parla sui giornali è solo quello estre-mo, quello tragico dei
pestaggi di gruppo, dei capelli incen-diati, delle vessazioni a disabili o a giovani
ritenuti «diversi»; come spesso accade, però, non è solo la punta dell’iceberg a
doverci preoccupare, quanto piuttosto quel gigantesco blocco di ghiaccio culturale
che gli sta alla base. «Per chi nella scuola vive» ci spiega una ricerca di
Cittadinanzattiva 3 «le violenze maggiormente diffuse sono psicologiche, e per-ciò
assai più striscianti, meschine e invisibili di quelle fisi-che. Ben 1771 ragazzi (su oltre
5000) raccontano di quanto siano frequenti le dicerie e gli insulti per mettere un
compa-gno in cattiva luce, gli scherzi per renderlo ridicolo, i tenta-tivi di escluderlo.»
Intervistato da Fabio Curri del «Corriere della Sera», Marco Maggi, formatore e
membro della commissione na-zionale del ministero dell’Istruzione che combatte il
feno-meno, spiega che «dai dati emerge che il ruolo di vittima o di carnefice sia
sempre più spesso assunto da ragazzi stranie-ri, ovvero quelli maggiormente esposti
al senso di emargina-zione che spesso genera questi comportamenti». 4 Ma a sof-frire
è il diverso in genere; si paga qualsiasi cosa che renda diversi dal gruppo: se si è
troppo alti, troppo magri, troppo bassi o troppo grassi. Troppo timidi o troppo
brillanti. Se si studia troppo o troppo poco. Nei corridoi viene premiata
l’omologazione.
E non solo: uno studente su due afferma di aver assistito a episodi di violenza; 4
studenti su 10 ammettono di esserne stati vittime. Secondo la ricerca citata 5 «un
terzo degli inter-vistati dice di non intervenire mai di fronte a un’aggressione nei
confronti di chi è percepito come "diverso" (il 5 per cen-to la addirittura il tifo per il
prepotente) e il 39 per cento af-ferma di non aver mai visto nessuno difendere un suo
com-pagno. Stessa linea non interventista per gli atti vandalici, di fronte Al quali la
percentuale di chi non muove un dito sale a quota 71. Non solo, per il 45 per cento
degli studenti lascia-re i rubinetti aperti nei bagni è considerato un comporta-mento
"solo moderatamente scorretto". E proprio la perce-zione della violenza l’aspetto su
cui i ragazzi vacillano: insul-tare un compagno è giudicata l’azione meno violenta in
as-soluto (un 23 per cento la ritiene addirittura un comporta-mento "non violento"),
mentre è solo il 26 per cento chi considera il furto in classe una cosa "molto
violenta"».
Dalla stessa ricerca emergono le responsabilità di inse-gnanti e genitori. Secondo
gli alunni i docenti hanno il di-fetto di «date il cattivo esempio (48 per cento), avere
pre-giudizi (45), ricorrere alle punizioni collettive e non sanzio-nare il singolo
responsabile (37)». 6 Il prof ideale per gli stu-denti italiani invece dovrebbe essere
forte (11 per cento), farsi rispettare (23 per cento) e dovrebbe rispettare le regole a
sua volta (11 per cento).
Quando i ragazzi tornano a casa dopo aver subito atti di bullismo, non riescono a
raccontarlo Al genitori. Lo fa solo una vittima su 10, che il più delle volte viene
invitata a «la-sciai state» (risponde così il 31 per cento dei genitori coin-volti),
mentre il 28 per cento esorta il giovane «a difendersi» e il 20 per cento non trova
nulla da dire. Scrive Mario Pirani su «la Repubblica»: «[Questa è la] questione
centrale con cui ci si scontra: la soggezione di fronte alla caduta degli elementari
principi dell’etica pubblica e privata. Troppe fa-miglie, vilmente complici, e troppi
insegnanti, impauriti e resi scettici dalle tante frustrazioni, hanno rinunciato a
tra-smettere e imporre valori come il rispetto dei genitori, del-l’altro, del diverso,
dell’inabile o del debole, delle bambine e delle ragazze, dell’insegnante e della scuola,
anche come edificio comune, infine dello studio. Lo smottamento ha portato a
piegare le regole in maniera tale da renderle istitu-zionalmente corrive al loro
svuotamento di senso (vedi il 6 rosso, il trascinamento dei debiti, l’abolizione del
vecchio e temuto 7 in condotta). Di conseguenza si è persa la conce-zione stessa di
limite, il confine oltre il quale l’ignoranza non può essere premiata e il
comportamento offensivo as-solto in partenza». 7

La condotta dei figli

È così come scrive Pirani? Il fenomeno del bullismo è solo la palese evidenza di
un fenomeno più ampio, la scomparsa dei confini e delle responsabilità di tutto il
mondo che gira intorno allo studente? 11 bullismo nasce dalla perdita di sen-so del
concetto stesso di formazione? Forse nasce da qualco-sa di più semplice e allo
stesso tempo più complesso: la per-dita del potere e della amorevolezza da parte dei
due forma-tori per eccellenza, ovvero genitori e maestri. Secondo il vi-cepresidente
dell’Associazione nazionale presidi, Mario Ru-sconi, «c’è una sorta di perdonismo e
minimalismo da parte dei genitori per ciò che fanno i loro figli: i genitori di oggi
hanno molto meno potere formativo di una volta. Bisogna però capire che la
condotta che si impara a scuola è utile fuori, nella vita. E se non si agisce per tempo
finiremo come a Columbine». 8
Su «La Stampa» del 4 marzo 2007 appariva tra le lettere al direttore una missiva di
insegnanti che poi sarebbe stata ripresa da Mario Pirani nella sua rubrica Linea di
confine 9 La lettera recitava: «Noi insegnanti siamo stufi di rischiare la salute e la
nostra incolumità di fronte ad alunni maledu-cati che sanno benissimo di non aver
nulla da perdere a mo-strarsi violenti, aggressivi, prepotenti... Siamo stufi di aver
paura di ricorsi e ritorsioni più o meno legali se soltanto osiamo dare delle
insufficienze... Siamo stufi di subite pres-sioni da parte di presidi che pretendono il
maggior numero possibile di promossi... Siamo stufi delle minacce di genito-ri... Di
intimidazioni e di violenze, di trovare le ruote buca-te, le carrozzerie rigate
ogniqualvolta pretendiamo di cor-reggere un errore madornale o di criticare un
comporta-mento diseducato... Siamo stufi di governi che promettono di fidare
autorevolezza Al docenti e poi li abbandonano a lo-ro stessi o li sanzionano se un
qualsiasi adolescente tira fuori il suo telefonino, filma una bravata qualsiasi e la
diffonde via internet... Che tipo di armi abbiamo contro il bullismo? Ricorrere alla
famosa nota sul registro? Ci ridono sopra, co-perti da genitori che magari si
prendono pure il disturbo di venirti a minacciare... Ridateci il voto di condotta, il
vec-chio voto di condotta. Quello che al di sotto dell’8 compor-tava un recupero di
tutte le materie, quello che influiva, ec-come, sulla valutazione del profitto. Ridateci la
possibilità di educare i giovani».

L’obbedienza no, la disciplina sì

Ho ascoltato in un convegno 10 il banchiere Pietro Modiano esprimere un concetto,


a mio modo di vedere, molto giusto: sul lavoro un buon manager non cerca
l’obbedienza di chi lavora con lui, ne apprezza però la disciplina.
In una scuola gli interessi, i ruoli, le idee di studenti e professori sono spesso, per
loro natura, confliggenti. Invoca-re l’obbedienza degli alunni vuole dite soffocarne le
poten-zialità: pretendere però la disciplina vuol dire porre le basi per un corretto
sviluppo delle loro personalità. L’obbedienza è il rispetto di qualcosa che non
necessariamente si condivi-de, la mera esecuzione di un ordine, magari messa in atto
per necessità o per debolezza o per opportunismo; la disciplina è la condivisione di
un metodo, la partecipazione a un proget-to, il rispetto dei compagni, l’adesione a
una regola di cui si intuisce (magari solo in un secondo tempo) la validità.
Il termine «disciplina» può assumere diversi significati." Può essere inteso come
materia di insegnamento o come il rispetto di una serie di regole del collettivo cui si
appartiene, oppure può significare il dominio di sé, la padronanza dei propri istinti.
Può ancora essere l’organizzazione metodica e rigorosa di un’attività, può essere il
parametro a cui rapportare la propria condotta morale, può essere il complesso
del-le norme (e la loro osservanza) grazie alle quali si assicura il raggiungimento di un
obiettivo. La disciplina può anche es-sere uno sport, con il suo carico di regole,
obblighi e fatiche.
Si tratta sempre e comunque di principi, regole, norme a cui ci si deve conformare
se si vuole ottenere un risultato: possono costare fatica, ma devono essere rispettate.
Le disci-pline positive, poi, naturalmente, sono quelle che permet-tono lo sviluppo
delle diversità e che lasciano aperte le porte all’innovazione, ma qui il discorso ci
porterebbe troppo lontano. Basti ora sottolineare come difficilmente, senza una
disciplina, un risultato possa essere raggiunto.
Dietro ogni disciplina c’è uno scotto da pagare. Dietro ciascun obiettivo centrato
c’è uno sforzo, dietro un successo c’è la fatica, il rigore cui ci si sottopone. Questo
sforzo, que-sto rigore, va misurato, in modo da capire se bisogna aumen-tare o
ridurre l’impegno, dare un premio o correre Al ripari.
La misura della disciplina è la condotta, e qualcuno della condotta deve essere
responsabile.
Proposta 3
La Carta Atena

L’aggiornamento

Quando abbiamo parlato della carriera (inesistente) degli insegnanti, abbiamo


lasciato in sospeso il discorso sui corsi di aggiornamento. I corsi di aggiornamento
servono a rega-lare qualche punto in più Al professori precari che cercano la
stabilizzazione, ma sono in realtà un altro scandalo tutto italiano. Funzionano così:
«Ti mandano a casa qualche li-bro» spiega a «la Repubblica» la professoressa Lia
Pacchio-ni, 1 «e con un esame porti a casa il tuo punticino da aggiun-gere alla
raccolta». Seicento euro circa a punto, insomma, per acquistare libri «che nessuno
legge mai» confessa Rober-to D’Alessandro, 2 altro prof precario storico, che
aggiunge: «Lo sanno tutti che i libri si comprano, è il pizzo da pagare: ma non per
vincere la gara, solo per non farsi sorpassare!». E chiaro, infatti, che i punti così li
possono fare tutti e che quindi il gruppone dei precari si muove sempre tutto in
blocco: avanzano tutti, le distanze restano immutate, ogni sforzo è vano. Eppure,
senza quello sforzo, si finisce per es-sere superati dagli altri. Un meccanismo
infernale, che mor-tifica il merito, che sfinisce i meno adatti Al calcoli
matema-tico-burocratici, e che evidenzia infine come non possa es-sere il fine
dell’aggiornamento fare qualche passo avanti in una chilometrica lista di nomi.
Aggiornarsi vuol dire stare dietro Al giorni, Al cambiamenti, al mutare delle teorie e
dei tempi. Significa anche semplicemente andare al cinema, a teatro. Vuol dire
viaggiare, partecipare a convegni, compra-re libri, frequentare mostre, eventi
culturali. Ma è possibile farlo guadagnando in media 1500 euro al mese?
Semplicemente, non è possibile.
Riformare la scuola vuol dire spendere denaro, questa è la realtà. Vuol dire di
certo razionalizzare la spesa, riorganiz-zare il sistema, ma vuol anche dire investire
sulle persone. Gli insegnanti formano i cittadini italiani, attraverso le loro teste
pensano gli kaliani di domani. Dobbiamo coltivare i professori, dobbiamo fare in
modo che riescano a tenere la mente aggiornata. E se guadagnano poco, dobbiamo
offrire loro gratis la cultura, perché è quella cultura che potranno restituire Al nostri
figli.
Se avessi il potere di farlo, istituirei una carta oro per gli insegnanti. La chiamerei la
«Carta Atena». Farei in modo che possano ottenere gratis quello che regaleranno Al
miei figli. Perché se Al professori non dai niente, loro non po-tranno dare niente agli
alunni.
Post Scriptum
Sulle università

E come Post Scriptum che mi permetto di ricordare quello che molti, autorevoli
osservatori hanno suggerito di fare con l’università: abolire il valore legale della
laurea. Nessuna laurea, secondo questa teoria, dovrebbe avere un valore san-cito da
una norma, ma tutte le lauree dovrebbero conquistarsi un valore all’interno della
comunità scientifica o sul mercato del lavoro. Se anche l’abolizione del valore legale
può sembrare una misura radicale, bisognerebbe in ogni ca-so combattete il
paradosso per cui la laurea ha sempre lo stesso valore formale, quale che sia
l’università che la ha concessa.
È difficile ipotizzare una riforma complessiva del siste-ma, ma è certo che il
rinnovamento non può che passare at-traverso un processo di selezione
meritocratica dei docenti e degli studenti, poggiato quest’ultimo su un sistema
diffuso di borse di studio che permetta anche Al più poveri di met-tere a frutto il
proprio talento.
Sia la prova dei fatti a stabilire quale laurea ha un valore e quale non lo ha. Sia il
merito dei docenti a fare la buona laurea, e siano gli atenei i responsabili degli
insegnanti e de-gli insegnamenti che offrono agli studenti. In questo modo le
università correrebbero ad accaparrarsi i docenti migliori, e tanti baroni che oggi
soffocano la ricerca si ritroverebbero magari al telefono a offrire crediti e
rateizzazioni in cambio di una iscrizione. Magari a un giornalista camuffato.

Appendici

1
Giro del mondo un po’ consolatorio
Gli esami cinesi

Per finire, un breve giro d’orizzonte veloce sulle fabbriche dell’ignoranza altrui: un
po’ per consolarci con gli insuccessi degli altri, un po’ per imparare dai loro
successi. Partiremo dall’Estremo Oriente, ma prima vi consigliamo di tornare alla
pagina 157 e rileggervi il paragrafo Lo stress dei ragazzi.
Fatto? Bene, ora chiudete gli occhi, dite addio a tante precauzioni, a tanti dubbi e
a tante attenzioni e spostiamoci in Cina. Lì, andare a scuola può trasformarsi in un
vero in-cubo. Soprattutto sostenere gli esami può diventare una prova di selezione di
una durezza per noi inimmaginabile. Lì, quando ti siedi sui banchi, senti sul collo il
fiato di oltre un miliardo di persone.
Il Gaokao è l’esame statale di ammissione all’università. Ogni anno oltre 10 milioni
di diplomati si giocano, nel giro di tre giorni, 5 milioni e 990 mila immatricolazioni
univer-sitarie. Il meccanismo è semplice: più alto è il punteggio raggiunto all’esame,
migliore è l’università a cui si ha acces-so. Il clima che si respira in quei giorni nella
terra del comu-nismo liberista è letteralmente irrespirabile.
Racconta il corrispondente Ansa da Pechino: «Il Gaokao è la chiave d’accesso
che apre molte pone in un mondo del lavoro sempre più esigente e competitivo, e la
preparazione dell’esame fa pensare a una versione moderna dei temuti esa-mi
imperiali della Cina dinastica. Per proteggete il segreto del testo d’esame minacciato
dalla diffusione di internet (in Cina ci sono oltre 200 milioni di utenti) e dalla
crescente scaltrezza delle giovani generazioni, le autorità hanno dispo-sto quest’anno
per la prima volta speciali misure di sicurezza: vere e proprie squadre di vigilantes
per scongiurare ogni "comportamento improprio". Come se non bastasse,
que-st’anno [2008] l’esame cade nel giorno del Duanwujic (Fe-stival delle Barche)
che il calendario lunare cinese fissa per l’8 giugno. Quest’anno vige il "divieto di
festeggiamenti": le barche a forma di drago usate per le tradizionali gare del Fe-stival
resteranno immobili nei corsi d’acqua vicino alle scuo-le per non disturbare gli
esaminandi.
«Con la stessa premura, le autorità invitano le famiglie al-la cautela verso i nuovi
"business da esame". C’è chi affitta per esempio stanze a prezzi esorbitanti agli
esaminandi che risiedono nelle periferie. Speciali numeri di "pronto soccorso
studenti" saranno attivati per accompagnare i ritardatari. Ma ancora più stressati dei
ragazzi sono i genitori, Al quali il sito del ministero dell’Istruzione offre indicazioni e
suggerimen-ti, da che cosa mangiare a come comportarsi con i figli. In molti hanno
chiesto addirittura qualche giorno di ferie per assistere nello studio i "piccoli
imperatori" (così sono chiamati in Cina i figli unici). Il quotidiano "Xinjingbao" loda i
"bimbi prodigio", 29 bambini dai tredici Al quindici anni che sosterranno l’esame a
Pechino. Si tratta di una classe spe-ciale che raccoglie in tenera età le menti migliori,
in grado di completare in soli quattro anni gli studi che i bambini nor-mali finiscono
in otto. A quale prezzo? Le statistiche dimo-strano che il carico di studio degli
adolescenti è troppo pesante. Oltre il 50 per cento dei bambini della capitale è
co-stretto a imparare a suonare uno strumento musicale in te-nera età, il 90 per cento
frequenta almeno un corso facoltati-vo, spesso più di tre. Il tutto in vista del
Gaokao. Lo sviluppo senza pari della Cina rincorre se stesso. E se fino a qualche
tempo fa una laurea all’estero era un’altrettanto valida alter-nativa per un giovane
rampante cinese, oggi è spesso la stra-da più semplice per rimediare a una brutta
performance al-l’esame statale». 1 Una vera e propria mattanza di aspirazioni, teste,
talenti. Una selezione ottusa e all’ingrosso dettata da un feroce sistema teoricamente
votato all’eccellenza, in pra-tica ridotto a un metodo di sfoltimento indifferenziato
degli aspiranti dottori.
Paura la notte prima dell’esame? Pensate Al cinesi, e fate-vi colaggio!

Le ispezioni inglesi

Se vi ha colpito il ritratto dei «genitori elicottero» e se pen-sate che in Italia i


genitori tendano a seguite con eccessiva attenzione lo studio dei figli, sappiate che la
riforma del si-stema scolastico tratteggiata in Gran Bretagna prevede che i genitori
possano sollecitare un’ispezione ministeriale nelle classi dei propri figli qualora
ritengano che gli insegnanti non siano all’altezza del proprio compito. Nonostante il
sindacato degli insegnanti contrasti duramente questa ipo-tesi di riforma,
sottolineando come in questo modo «la scuola vivrà nel terrore dei genitori degli
alunni», prossima-mente gli istituti verranno ispezionati periodicamente: ogni sei anni
le scuole migliori, ogni anno le scuole peggiori, e nei periodi intermedi potranno
essere i genitori a chiedete l’intervento del ministero.
Un ultimo particolare: a quanto paté, i genitori potranno fare le denunce rimanendo
anonimi, in modo che i loro figli non debbano assaggiare la vendetta degli insegnanti.
Genitori delatori e prof vendicativi: un bel clima, sir, non c’è che dire.

Le piazze francesi

Chi lavora alle riforme in Francia non se la deve vedere (come noi italiani) con una
classe politica spesso confusa e poco de-terminata, ma deve fare i conti con studenti
estremamente motivati, pronti a scendere in piazza ogniqualvolta che si par-li di
interventi sulla scuola. Ogni intervento legislativo varato o anche solo ipotizzato dai
governi che si sono succeduti alla guida del Paese è stato contrastato da
manifestazioni podero-se, che spesso hanno avuto l’ultima parola sulle questioni
al-l’ondine del giorno. Quello che vi proponiamo è un breve ca-lendario della piazza
francese, a partire dagli anni Settanta.
Nell’aprile del 1973, 2 100 mila liceali e universitari mani-festarono contro il
progetto di legge Debré sul servizio mili-tare, al grido: «No Al licei-caserme». La
legge — entrata poi in vigore — prevedeva la soppressione del rinvio automatico
del-la leva. Nel maggio del 1975 il governo propose di sopprime-re l’esame di quinta
elementare e instaurare la scuola media unica. Scesero in piazza in 80 mila (per la
scuola elementare! Oggi sembra impossibile...) con lo slogan: «Liceali, universi-tari,
lavoratori: la stessa lotta». La legge alla fine entrò in vi-gore, ma ci vollero due anni
per approvarla. Tra il marzo e l’a-prile del 1976, 50 mila studenti scesero in piazza
contro la riforma universitaria al grido di: «No alla facoltà del padro-nato». Gli
insegnanti scioperarono per due mesi, ma alla fine la riforma passò e si spezzò in due
il percorso universitario (la licerne — diploma di terzo anno — e la maìtrise,
diploma di quarto anno). Nel novembre 1986 in 500 mila manifestarono contro il
progetto di legge Devaquet per l’aumento del-l’autonomia delle scuole. Lo slogan
era: «No alla selezione». Dieci giorni dopo la prima manifestazione, la morte dello
studente Malik Oussekine - colpito per errore dalla polizia -portò alle dimissioni del
ministro dell’Educazione e al ritiro del progetto da patte dell’allora primo ministro,
Jacques Chirac. Nel novembre 1990 Lionel Jospin, ministro dell’E-ducazione,
concesse 45 miliardi di franchi supplementari per i licei, dopo che le piazze francesi
si erano unite al grido di: «Jospin, sei fregato, i licei sono nelle strade». Siamo al
marzo 1994, quando nel mirino degli studenti finì il Cip (Contrat-to di inserimento
professionale) che permetteva di assumere un giovane in apprendistato all’80 per
cento del minimo sa-lariale. Alla fine il premier Edouard Balladur - contro il qua-le
venne coniato lo slogan: «Cip, il padronato l’ha voluto, Balladur l’ha fatto» —
abbandonò il progetto. Nel febbraio 1995 i giovani manifestano contro la riforma
della filiera tec-nologica avanzata da Ftancois Fillon, riforma che sarà ritira-ta.
Nell’ottobre 1998, 500 mila studenti scendono in piazza contro le cattive condizioni
dei licei. Lo slogan, «Non siamo delle mucche Allegre», si rivolge a Claude Allegre,
che alla fi-ne presenta un «piano d’emergenza» di milioni di franchi a favore dei licei.
Nel maggio 2003 viene ritirato il progetto di legge di Lue Ferry sull’autonomia delle
università: aveva sca-tenato uno sciopero degli insegnanti e migliaia di studenti erano
intervenuti a disturbare gli esami in alcuni istituti. L’ultima riforma ritirata è del
febbraio 2005: era sempre di Fillon e riguardava la maturità, prevedeva la sostituzione
di alcuni esami di fine anno con delle prove annuali. 100 mila studenti avevano
manifestato al grido: «Fillon, get back». Il 3 aprile del 2008 tocca infine a Sarkozy
resistere alla protesta contro il taglio di 8800 insegnanti: manifestano non solo i
docenti, ma anche gli studenti del liceo, in una sorta di soli-darietà intrascolastica.

I drop out americani

Il fenomeno dell’abbandono scolastico negli Stati Uniti ha le dimensioni di una


piaga sociale e riguarda ormai uno stu-dente su tre. In genere i drop out non hanno la
fortuna di Bill Gates (il fondatore della Microsoft, ultramiliardario, che pure
abbandonò le superiori): di regola chi lascia la scuola non trova un impiego, finisce a
fare lavoretti per campare e, come testimonia una terribile statistica diffusa qualche
anno fa negli Stati Uniti, muore anche prima di chi ha studiato. Perché vivono
peggio, in genere, ma anche per-ché spesso finiscono in brutti giri.
Il legame tra abbandono degli studi e criminalità si è co-sì consolidato che Paolo
Mastrolilli racconta su «La Stam-pa» che «il giudice del Connecticut Thomas West
aveva im-postato la soluzione al contrario: ordinava la frequenza sco-lastica come
condizione per lasciare in libertà i giovani cri-minali, e spediva in prigione chi non
rispondeva presente all’appello, prima ancora che potesse andare in giro a
com-binare qualche guaio. Per esempio quando aveva beccato il diciassettenne
Antonio Alvarez a rubare in un negozio di Danbury, lo aveva condannato a due anni
di libertà vigilata, in cambio dell’impegno a frequentare le aule dell’high school
locale. Appena i professori avevano avvertito il giudi-ce che Alvarez ci marciava,
West lo aveva spedito in carcere per diciotto mesi». 3
Nei 100 distretti scolastici più grandi degli Stati Uniti4 il 31 per cento degli iscritti
non arriva al diploma, e in alcune città il fenomeno riguarda un giovane su due.
Lasciano la scuola 2500 ragazzi ogni giorno, oltre 900 mila l’anno. Co-me dicevamo
in precedenza, chi lascia la scuola vive in me-dia nove anni in meno di chi la
frequenta, oltre a veder cre-scere esponenzialmente le chance di diventare povero.
Sette detenuti su dieci sono drop out; gli Usa sono solo al decimo posto nella
classifica mondiale dei Paesi con più di-plomati, e le statistiche non registrano chi
lascia gli studi alle medie o chi abbandona la scuola perché finisce in prigione.
In America si arriva con difficoltà anche alla laurea: solo il 50 per cento di chi si
diploma continua gli studi, e di que-sti solo uno su quattro diventa «dottore».
Secondo Franklin Schargel, uno dei massimi esperti ame-ricani della questione,
«vi sono quattro motivi che contribui-scono alla dispersione: gli errori dei ragazzi
che si lasciano tentare dalla droga e dal crimine; le famiglie e i loro proble-mi, quali
quelli dei genitori che a loro volta non hanno ter-minato la scuola e preferiscono
avviare i propri figli a un la-voro; la cultura della violenza che prevale nelle comunità;
i modelli arretrati della scuola che risalgono a 200 anni fa».
Duecento anni? Non male! Roba da far sentire l’Italia una nazione all’avanguardia.

Il paradiso finlandese

Il 70 per cento del territorio finlandese è coperto da foreste? Ogni classe sceglie
una porzione di territorio in cui studiare scienze, ecologia, biologia animale,
climatologia. Un terzo del Paese vive nel Circolo polare artico? Nei mesi in cui il
so-le scompare, gli studenti al Polo studiano il cielo, l’aurora boreale, l’astronomia.
Gli spazi tra un centro abitato e l’altro sono infiniti? Gli alunni che vivono lontano
dall’istituto vengono portati a lezione (e quindi riaccompagnati a casa) da un taxi
pagato dall’istituto. Quella finlandese è considerata la migliore scuola d’Europa:
«Panorama» ci racconta come lo è diventata. 6 «In un territorio poco più grande
dell’Italia la scuola dell’obbligo si rivolge a 590 mila ragazzi dai 7 Al 16 anni. Dai 17
Al 19 ci sono i licei e le scuole professionali per 280 mila studenti. Ogni anno 40 mila
giovani affrontano la maturità ma per entrare all’università ci sono appena 18 mi-la
posti disponibili. Quindi: numero chiuso. I professori non universitari sono 43 mila e
hanno uno stipendio medio di 2500 euro, i presidi di 4500 euro. Lo Stato spende per
la scuola 1’ 11 per cento del Pil. L’istruzione parte da un presup-posto: aiutate i
giovani a trovare la loro strada, dar loro con-cretezza, aperta visione della realtà.
Allora si può scegliere, già nella scuola preuniversitaria, indirizzi di informatica,
ecologia, chimica applicata all’industria, educazione civica, riciclaggio dei rifiuti, ma
anche nuoto, alpinismo, hockey, danza, atte applicata.» 7
Il paradiso finlandese nasce nel 1995, anno in cui il siste-ma venne completamente
riformato. Presentando la riforma il ministro dell’Educazione pubblica disse che
sognava una scuola adatta a «stimolare creatività e riflessione, divertire e non
mortificare». L’ha avuta, a quanto pare. E noi?
2
Gli strafalcioni degli altri
Avvocati americani

Recentemente il «Massachusetts Bar Association Lawyers Journal» ha riportato


19 domande realmente (così almeno dicono...) poste da avvocati (A) a testimoni (T)
durante lo svolgimento di processi. 1
1) «Dunque dottore, non è forse vero che quando una persona muore mentre
dorme, non se ne rende conto fino al mattino?»
2) «Era presente quando le scattarono questa sua fotografia?»
3) «Il figlio più giovane, quello di vent’anni, quanti an-ni ha?»
4) «Fu lei o suo fratello a morire in guerra?»
5) «Vi ha ucciso?»
6) «Quanto erano distanti i veicoli al momento della colli-sione?»
7) «Lei era lì finché non se n’è andato, giusto?»
8) «Quante volte si è suicidato?»
9) A: «Così, la data di concepimento [del bambino] fu l’8 di Agosto?»
T: «Sì.»
A: «E che cosa stava facendo in quel momento?»
10) A: «Lei ha tre figli, giusto?»
T: «Sì.»
A: «Quanti sono maschi?»
T: «Nessuno.»
A: «Qualcuno di loro è femmina?»
11) A: «Lei afferma che le scale andavano giù fino al piano terra.»
T: «Sì.»
A: «E queste scale tornavano anche su?»
12) A: «Signor Slatery, lei ha avuto una luna di miele parti-colare, vero?»
T: «Sono andato in Europa.»
A: «E ci ha portato la sua nuova moglie?»
13) A: «Da cosa è stato interrotto il suo primo matrimonio?»
T: «Dalla morte.»
A: «E dalla morte di chi è stato interrotto?»
14) A: «Può descrivere l’individuo?»
T: «Era di media altezza e aveva la barba.»
A: «Si trattava di un maschio o di una femmina?»
15) A: «Dottore, quante autopsie ha eseguito su persone morte?»
T: «Tutte le mie autopsie sono eseguite su persone morte!»
16) A: «Tutte le tue risposte devono essere orali, okay? Che scuola frequenti?»
T: «Orali.»
17) A: «Si ricorda l’ora in cui ha esaminato il corpo?»
T: «L’autopsia è iniziata attorno alle 20,30.»
A: «E il signor Dennington era morto?»
T: «No, era sdraiato sul tavolo desideroso di sapere per-ché gli stavo facendo
un’autopsia!»
18) A: «Può fornirci un campione di urina?»
T: «Lo posso fare sin da quando ero piccolo!»
1 9) A: «Dottore, prima di eseguire l’autopsia, ha controlla-to la presenza del
battito cardiaco?»
T: «No.»
A: «Allora ha controllato la pressione del sangue?»
T: «No.»
A: «Ha controllato se respirasse?»
T: «No.»
A: «Allora è possibile che il paziente fosse vivo quando ha cominciato
l’autopsia?» T: «No.»
A: «Come può esserne così sicuro, dottore?»
T: «Perché il suo cervello era in un contenitore sulla
mia scrivania.»
A: «Ma è tuttavia possibile che il paziente possa essere stato ancora vivo?»
T: «SI, è possibile che fosse vivo e che stesse facendo l’av-vocato da qualche
parte!»

Giornalisti spagnoli

Alcune citazioni estratte da Estupidario. Antologia del dispa-rate radiofonico


(Stupidario. Antologia degli strafalcioni ra-diofonici). 2
Tre giornalisti spagnoli hanno raccolto le gaffes dei loro colleghi alla radio.
«Con el incensarlo en la mano, el Papa comienza a incinerar a la multitud. »
Con il turibolo in mano, il Papa comincia a incenerire la moltitudine.
«Acompanaba al solista un numeroso cuarteto.» Accompagnava il solista un
numeroso quartetto.
«Son las dos de la tarde, es la una en BUbao. » Sono le due del pomeriggio,
Funa a Bilbao [in Spagna solo nelle isole Canarie c’e il Fuso orario diverso e perciò
la frase Famosa con cui aprono ogni giorno i giornali radio e Tg è: sono le due, Funa
alle Canarie].
« Tres muertos gravesy dos leves. » Tre morti gravi e due lievi.
«El cadàverpresentaba heridas, alparecer mortales. »
Il cadavere presentava Ferite gravi, all’apparenza mortali.
«Las prdcticas de los bomberos de Fuenterrabia se celebran todos los sàbados
una vez al rnes. »
Le esercitazioni dei vigili del Fuoco di Fuenterrabia si Fanno tutti i sabati una volta
al mese.
«La conducción tuvo lugar a las 7de la tarde desde eldomicilio del afligido
cadàver. »
Il funerale ha avuto luogo alle sette di sera dal domicilio del-l’inconsolabile
defunto.
«Paseando entre elganado saludamos al se fior alcalde. » Passeggiando fra il
bestiame salutiamo il signor sindaco.
«En las proximidades del monte Ibardin se han comprobado varìaspisadas de
lobo. En opinion de los expertosy dado el sen-tiamo de la orientación de las
huellas, se supone que el citado lo-bo era extranjero. »
In prossimità del monte Ibardin si sono trovare varie tracce di lupo. È opinione
degli esperti che dall’orientamento del-le impronte si tratti di un lupo straniero.
«Con gran dolor para los amantes de la naturaleza, por ordendel
Ayuntamiento, los letìadores procedieron a cortar un drbol centenario de mas de
1000 anos.»
Con gran dolore per gli amanti della natura, per ordine del comune i taglialegna
hanno abbattuto un albero centenario di più di mille anni.
«Es de noche, y sin embargo llueve.» È notte, e nonostante questo piove.
«Ayer, dia de Todos los Santos, se encontraba rnuy animado el cementerio. »
Ieri, giorno dei morti, il cimitero era molto movimentato. Sudditi di Sua maestà
Un sito internet inglese’ ha deciso di sottoporre un cam-pione rappresentativo di
cittadini inglesi adulti a un test di cultura generale preparato per bambini tra i 7 e gli
11 anni. Le domande, secondo il curatore del sito, erano sem-plici, facilmente
affrontabili da un bambino, e quindi era presumibile che la maggioranza degli adidti
potesse cen-trare il 100 per cento di risposte esatte. In lealtà solo il 5 per cento del
campione ha dato 10 risposte esatte: i risul-tati sono tali da suggerire agli editori
britannici la messa in cantiere immediata di una Fabbrica degli ignoranti
d’Ol-tremanica.
Secondo il 12 per cento degli intervistati, Shakespeare non si chiamava William,
ma Waltet. Tra le domande — ol-tre al nome di battesimo di Shakespeate -
figuravano quesi-ti come: «Qual è la capitale della Svezia?» (matita rossa per il 58
per cento dei partecipanti); «Qual è il fiume più lungo della Gran Bretagna?» (48 per
cento di errori); «Qual è il pianeta più vicino al Sole?» (63 per cento); «Le date della
Seconda guerra mondiale» (25 per cento) e «Quale monarca sedeva sul trono nel
1900?» (39 per cento).
Il primo pianeta del sistema solare secondo i sudditi del Regno Unito sarebbe la
Terra (e non Mercurio), il monarca d’inizio secolo sarebbe Enrico Vili (il celebre re
dello sci-sma vissuto nel XVI secolo). Ma, sottolineava il redattore Ansa che
riportava la notizia in rete, niente è peggio di aver chiamato Shakespeare Walter:
sarebbe come se un italiano chiudesse la Divina Commedia e sospirasse: «Però,
questo Davide Alighieri...!».
3
Lettere famose
E per chiudere, due lettere famose scritte (benissimo...) da quattro glandi italiani.1
La prima la scrivono Totò e Peppino...

In Totò Peppino e... la malafemmena(1956, regia di Camillo Mastrocinque), Totò


(zio Antonio) e Peppino (zio Peppino) sono possidenti terrieri, i fratelli Caponi. Loro
nipote Gian-ni (interpretato da Teddy Reno) studia per diventare medi-co, ma si
innamora di una ballerina di rivista e decide di seguirla a Milano. I fratelli Caponi
partono per la capitale del Nord decisi a sbarazzarsi della presunta «malafemmina» e
riportare Gianni sulla retta via. Appena arrivati a Milano, scrivono alla giovane questa
lettera, dando vita a una scena che resterà per sempre nella storia del cinema italiano.

T: Giovanotto... carta, calamaio e penna, su... scriviamo! Hai scritto?


P: (si siede asciugandosi il sudore) Che ho scritto!? Un momento.
T: Oooooh (spazientito, inizia la dettatura)... signorina... signo-rina...
P: (girandosi a guardare) Dove sta?
T: Chi?
P: La signorina!
T: Ma quale signorina!?
P: E che ne so! (girandosi verso la porta) Avanti!
T: Animale! Signorina è l’intestazione autonoma della lettera (ri-prende)... Ooooh!
Signorina...
(Peppino Cambia foglio)
T: Non era buona quella «signorina» lì...? Signorina, veniamo
«noi» con questa mia addirvi.
P: A dirvi.
T: Addirvi. Una parola.
P: A dirvi una parola.
T: Che...
P: Che!
T: Che...
P: Uno... quanti?
T: Che?
P: Uno... quanti?
T: Che?
P: Uno che?
T: Che.
P: Uno.
T: Uno che?? Che! Scusate se sono poche, ma settecentomila lire ci fanno, specie
che quest’anno, una parola, c’è stato una grande moria delle vacche, come voi ben
sapete! Punto! Due punti. Ma sì, fai vedere che abbondiamo. Abbondandis in
abbondandum. Questa moneta servono che voi vi consolate. Scrivi presto!
P: Conninsolate.
T: Che voi vi consolate.
P: Ah! Avevo capito con insalata.
T: E non mi far perdere il filo..., che ce l’ho tutto qui.
P: Avevo capito con l’insalata.
T: Dai dispiacere che avreta... che avretta... e già, è al femminile, che avreta
perché... (guarda Peppino interrogativamente) perché?
P: Non so.
T: Che è che non so?
P: Perché che cosa? (interrompendo la scrittura)
T: Perché che?? Ooooh!! Dai dispiaceri che avrete... Perché è ag-gettivo
qualificativo, no!
P: Ah! Perché qua. (indicando la lettera)
T: Perché dovete lasciare nostro nipote, che gli zii medesimi che
siamo noi, medesimo di persona.
P: ... (Peppino si asciuga il sudore)
T: Ma che stai facendo una fatica che ti asciughi il sudore?... di persona vi
mandiamo questo (alzando un pacchetto con le ma-ni), perché il giovanotto è
studente che studia, che si deve prendere una Laura...
P: Laura...
T: Laura.
T: Che deve tenere la testa al solito posto, cioè...
P: Cioè...
T: Sul collo. Punto, punto e virgola..., un punto e un punto e vir-gola.
P: Troppa roba...
T: Lascia fare! Che dice che siamo provinciali, che siamo tirati. Salutandovi
indistintamente... indistintamente... sbrigati!!! I fratelli Caponi, che siamo noi... apri
una parente e dici che sia-mo noi, i fratelli Caponi.
P: Caponi.
T: Hai aperto la parente? Chiudila.
P: Ecco fatto.
T: Vuoi aggiungere qualcos’altro?
P: Io, insomma, senza nulla a pretendere, non c’è bisogno...
T: In data odierna?
P: Eh, ma poi?
T: Ma no, va bene, si capisce.
P: Sì, sì, si capisce.

In Non ci resta che piangere (1984, regia di Massimo Troisi e Roberto Benigni),
Mario (Traisi, un bidello) e Saverio (Be-nigni, un maestro elementare) si imbattono in
una sfasatura temporale e precipitano nel 1492. Una serie di avventure li porterà a
confrontarsi con Savonarola, con Leonardo da Vinci, poi, una volta prese le misure
con il nuovo ambiente, decideranno di fermare Cristoforo Colombo e impedirgli di
scoprire l’America. Partiranno per Palos, ma arriveranno troppo tardi. Nella lettera
che segue cercano di intercedere a favore del loro ospite Vitellozzo, finito nel mirino
del terri-bile Savonarola.
B: (seduto) Prendi un foglio... Mi dai un foglio della macelleria?
T: (inpiedi) Ma è bianco, puoi scrivere qua, no?
B: Dietro a un foglio con i conti della macelleria, ma vuoi rispar-miare? Dammi una
penna. Guarda (si alza e stacca una penna da un’oca appesa al soffitto)... qui c’è
la cartoleria a portata di mano... Ecco qua... (si risiede)... le penne (indicando
l’oca).
T: (seduto) Mi raccomando, Saverio!!! Non facciamoci riconoscere.
B: Stai tranquillo.
T: Con educazione...
B: Caro...
T: Cerchiamo di fare una cosa.
B: Allora dettala te la lettera, eh...? Vai!
T: Avanti! Caro Savonarola...
B: Aspetta! Prima la data, no? Frittole...
T: Frittole.
B: Quanto sarà?
T: Quasi millecinquecento.
B: Frittole quasi millecinquecento.
T: ‘O ssaje tu quant’ n’avimmo?
B: Perché tu scrivi una lettera «Roma, quasi duemila?».
T: Non lo mettere... estate quasi millecinque, dai! Isso ‘o sape.
B: Be’, aspetta mi informo io. Allora: caro...
T: Aspetta...
B: Caro no, non è un nostro amico. T: Aspetta, non scrivere subito... B: San...
San... Sant... T: Santissimo Savonarola. B: Santissimo!!!
T: Come sei bello... per esempio... cum si vulessm ricere...
B: Santissimo Savonarola.
T: Savonarola!!!
B: Santissimo...
T: Savonarola!
B: Quanto ci piaci!
T: Quanto ci piaci. B: A noi due.
T: Accussì, già vere che simm’ seguaci.
B: L’esclamativo ce l’avrà?
T: Mettilo!
B: Vabbe’!!!
T: Metti scusa le volgarirà.
B: Scusa le volgarità... ma come... a Savonarola?
T: Per quello ogni cosa è peccato... se vede il punto esclamativo può dire: eche è
sto’ coso qua?? Un uomo con il puntino...
metti scusa le volgarità...
B: ... volgarità... allora mettiamo una freccia.
T: No, no, scusa le volgarità eventuali.
B: Eventuali, perché?
T: Eventuali, pecche sennò... ‘a vuo’ scrivere come dico io Save-rio?? Altrimenti
quello dice: perché, volevano essere volgari e non ci sono riusciti?
B: (acconsentendo suo malgrado) Eventuali. Punto... eh come va?... no, non va!!
T: Santissimo, noi... non...
B: Santissimo Savonarola, lascia vivere Vitellozzo.
T: Lascia... potresti lasciar vivere Vitellozzo?
B: Vitellozzo!
T: Se puoi, eh?
B: Savonarola!
T: Savonarola. Mo’ adesso bisogna spiegare per bene perché lui fa così.
B: Anche a dirgli... lui è proprio uno che... eeh, che c’è?
T: Appunto! E che è?
B: E che è??? Diamoci...
T: Non solo a lui...
B: Diamoci, come dire, tutti insieme, una calmata, eh! Oh!
T: Eh! Tra parentesi.
B: Eh! Oh!
T: Poi scrivi nel caso scusa la parenresi... e che è, e che è? Qua pa-re... che ogni
cosa, uno non si può muovere... che e questo e quello e pure per te... Ooooh!!!!
B: Questo e quello, oooh!!!
T: Due personcine per bene, noi siamo personcine per bene...
B. Che non facciamo male a nessuno...
T: Che non farebbero male nemmeno a una mosca.
B: Figuriamoci...
T: Figuriamoci ad un santo come te.
B: Figuriamoci ad un santone come te.
T: A un santone come te.
B: Anzi, varrai più di una mosca, no?
T: No, pare che lo metti in competizione...
B: Vabbe’...
T: Anzi dice tutto.
B: Anzi, ciao!
T: No, no, no, qua ci vuole un saluto per bene... cioè da peccatori umili. Noi ti
salutiamo.
B: Ti salutiamo con...
T: Con... non sappiamo neanche noi.
B:Noi...
T: Aspetta. Scrivi... ti salutiamo con la nostra faccia sotto i tuoi
piedi... proprio il massimo del peccatore.
B: Con la nostra faccia sotto i tuoi piedi.
T: ... sotto i tuoi piedi senza neanche chiederti di stare fermo. Puoi muoverti.
B: Cioè che vuol dire...
T: Che con la faccia sotto i piedi può camminare su due umili, ca-pito?
B: Bellissima immagine.
T: Esatto.
B: E puoi muoverti quanto ti pare e piace e noi zitti sotto.
T: Va bene.
B: E noi zitti sotto. Punto.
T: Scusa il paragone tra il frate e la mosca, non volevamo mini-mamente
offendere. I peccatori di prima.
B: Dobbiamo salutare.
T: Con la faccia dove sappiamo.
B: Ormai gli si è detto.
T: I due peccatori con la faccia dove sappiamo.
B: Sempre zitti.
T: Sempre zitti.
B: Sotto!
4
Tabelle
Note

ASINI

Capitolo 1
1. La cifra comprende: 5486,58 euro d’indennità + 4003,11 euro mensili di diaria (ridotta di 200 euro al
giorno in ca-so di assenza con votazione elettronica) + 4190 euro di rimborso forfetario per spese per i
rapporti con gli elettori, erogato tramite il gruppo parlamentare di appartenenza. Totale: 13.679 euro.
2. AL momento gli eurodeputati ricevono lo stesso stipendio dei parlamentari nazionali, ma dalla
prossima legislatura nel 2009 il sistema cambierà, anche se con molte deroghe, e riceveranno uno
stipendio unico equivalente al 38,5 per cento del salario di un giudice della Corte di giustizia eu-ropea,
pari a circa 7400 euro al mese. A questo si aggiun-gono i rimborsi per i viaggi, la diaria pari a 287 euro
per coprire i costi di albergo e alloggio, una indennità generale di 4052 euro per i costi dell’ufficio nel
Paese di provenien-za e infine il rimborso per gli assistenti, che può arrivare fi-no a 16.914 euro al mese.
3. ... e che invece dovrebbero garantire al partito che li ha fat-ti eleggere il collegamento col territorio e i
problemi reali dei cittadini.
4. La ricerca // mercato del lavoro dei politici è stata redatta da un gruppo di economisti: Antonio Merlo
(University of Pennsylvania), Vincenzo Galasso (Università Bocconi), Massimiliano Landi (Singapore
Management University) e Andrea Mattozzi (California Institute of Technology) ed è stata presentata a
Gaeta il 24 maggio 2008 a un con-vegno promosso dalla Fondazione Rodolfo Debenedetti.
5. Gian Antonio Stella, Un posto in Parlamento aumenta il reddito del 78 per cento, «Corriere della
Sera», 22 maggio 2008.
6. // Parlamento dei cinquantenni (a cura di Antonello Cherchi, Luciano Fassari, Francesca Malaguti,
Serena Riselli, Alessandra Tibollo), «Il Sole 24 Ore», 21 aprile 2008.

Capitolo 2

1. l’assaggio cult, non citabile.


2. Alessandro Fiocino, Di Pietro e l’inglese maccheronico: mi serve per le donne, «Corriere della Sera»,
9 agosto 2007.
3. In Potò, Peppino e... la malafemmina i fratelli Caponi (Foto e Peppino, ovviamente), arrivati a Milano,
pensano di dover parlare in un’altra lingua, e si rivolgono così a un vigile in piazza Duomo. Nojo volevan
savuàr... ovvero: «Noi volevamo sapere...».
4. Tullio De Mauro, Se un mattino di primavera un governan-te..., Conversa/ione alla scuola Mauri per
librai, Venezia, gennaio 2006.
5. Antonella Piperno, Karen Rubini, Tra gli ultimi della classe, «Panorama», 10 gennaio 2008.
6. Giulio Ferroni, Asini: e se fosse troppo tardi per salvare la scuola?, «Panorama», 20 settembre 2Ò07.
7. Silverio Marchetti, In nome del popolo italiano (l’autore ha stampato il volumetto a proprie spese).
8. Totò e Peppino, i fratelli Caponi del film Votò, Peppino e... la malafemmina, scrivevano un’esilarante e
sgrammaticata lettera, entrata di diritto nella storia del cinema, che si con-cludeva con la firma: «I fratelli
Caponi, che siamo noi».
9. Le interviste sulla preparazione dei candidati agli esami professionali sono state raccolte da Giulio
Valesini tra il 12 e il 20 giugno 2008.
10. www.pierluigizanata.blog.lastampa.it/
11. Intervista raccolta da Mercedes Vela Cossio il 24 aprile 2008.
12. Giorgio De Rienzo, Errori e virgole vaganti. Il ministero ci ricasca, «Corriere della Sera», 19 giugno
2008.
13. Si veda il sito www.ilsole24ore.com, 18 giugno 2008, per tutti gli strafalcioni degli esami di maturità.
14. Sputtana il prof. Gli strafalcioni dei professori, Mondadori, Milano 2006.
15. Giulio Ferroni, Asini: e se fosse troppo tardi per salvare la scuola?, art. cit.
16. Ricerca svolta nel novembre 2003 sull’edizione serale di Tg1, Tg3 e Tg5. Leggibilità Culpease rilevata
con Failogos cknsor (www.eulogos.net).
17. Dati Unta (Unione nazionale per la lotta contro l’analfa-betismo).
18. Dati Istat diffusi il 7 maggio 2008: 100 statistiche per il Paese. Indicatori per conoscere e valutare.

Capitolo 3

1. Intervista raccolta da Mercedes Vela Cossio il 7 giugno 2008.


2. Tullio De Mauro, Analfabeti d’Italia, «Internazionale», n. 734, 6 marzo 2008.
3. Intervista raccolta da Mercedes Vela Cossio il 10 agosto 2007.
4. Tullio De Mauro, Analfabeti d’Italia, art. cit.
5. Romeo Bassoli, Bel Paese di ignoranti. Ricerca del Cede: Com-petenza alfabetica in Italia,
«L’espresso», 1° febbraio 2001.
6. Oggi Invalsi (Istituto nazionale per la valutazione del siste-ma educativo di istruzione e di formazione).
7. Competenza alfabetica in Italia, art. cit.
8. Ibidem.
9. Gilbert Keith Chesterton (Londra, 1874 - Beaconsfield, 1936), scrittore e giornalista inglese.
10. Giulio Ferroni, Asini: e se fosse troppo tardi per salvare la scuola?, art. cit.

PROF

Capitolo 1

1. Jenner Meletti, In cattedra, «la Repubblica», 12 giugno 2008.


2. Intervista raccolta da Mercedes Vela Cossio il 5 giugno 2008.

Capitolo 2

1. Gian Antonio Stella, Sergio Rizzo, La Deriva, Rizzoli, Mi-lano 2008.

Capitolo 4

1. Giangiacomo Nardozzi, La creatività rimodella le imprese, «Corriere della Sera», 25 settembre 2004.
2. Tullio De Mauro, Analfabeti d’Italia, art. cit.
3. Francesco Giavazzi, La promozione del merito, «Corriere della Sera», 12 maggio 2008.
4. Approvata dal Consiglio europeo in occasione del 50" an-niversario del Trattato di Roma.
5. Dal nome del presidente della Commissione per la libera-lizzazione e la crescita della società francese.
6. Più approfonditamente in Giovanni Floris, Pergentina Pedaccini, Filippo Nanni, batti chiarì, CDG edizioni,
Roma 2006.
7. Intervista raccolta da Mercedes Vela Cossio il 7 giugno 2008.
8. Karl Popper, nato a Vienna nel 1902 e morto a Londra nel 1994, è considerato uno dei più influenti
filosofi della scienza del Novecento. Popper è anche ritenuto un filosofo politico di statura considerevole,
difensore della democrazia e del liberalismo e avversario di ogni forma di totalitarismo. Alla base del suo
metodo, il rifiuto e la critica dell’induzio-ne, la proposta della falsificabilità come criterio di demarca-zione tra
scienza e metafisica, la difesa della «società aperta».
2. Episodio raccontato da Marina Cavallieri in Caro mini-stro, non mandi in pensione la nostra maestra,
«la Repubbli-ca», 27 maggio 2008.
3. Ibidem.

Capitolo 3

1. L’attivazione dei corsi di laurea specialistica in Scienza del-la formazione primaria per gli insegnanti di
scuola mater-na ed elementare è prevista dalla legge 341 del 1990 che ha definitivamente cancellato la
validità dei diplomi di scuola secondaria, fino a quel momento sufficienti per in-segnare. Successivamente
un decreto interministeriale del 10 marzo 1997, ha disciplinato i tempi e i modi del pas-saggio dal vecchio al
nuovo ordinamento.
2. Ambra Craighero, Poveri della lavagna, «Corriere della Se-ra», 22 aprile 2008.
3. Michele Smargiassi, Scuola, il popolo dei precari a vita, «la Repubblica», 2 aprile 2007.
4. Ibidem.
5. Si veda la p. 31 di questo volume.
6. Curzio Maltese, Religione, il dogma in aula, un’ora che vale un miliardo, «la Repubblica», 24 ottobre
2007.

Capitolo 4
1. Salvo Intravaia, Scuola, il valzer dei prof. Quattro su 10 cambiano ogni anno, «la Repubblica», 14
gennaio 2008.
2. Stima ministero, dati 2007-2008.
3. Salvo Intravaia, Scuola, il valzer dei prof art. cit.
4. Michele Smargiassi, Scuola, il popolo dei precaria vita, art. cit.
5. Dossier «Tuttoscuola» 2007.
6. La vicenda è nota grazie a una serie di atti parlamentari, ma è stata anche pubblicata da «Tuttoscuola»,
con allegata una lettera del preside D’Avolio al direttore.
7. Salvo Intravaia, Scuola, il Mezzogiorno si spopola e al Nord classi sempre più piene, «la
Repubblica», 19 febbraio 2008.

STUDENTI

Capitolo 1

1. Le sette ansie capitali, «La Stampa», 18 giugno 2008.


2. Ricerca effettuata da Giulio Valesini.
3. l e sette ansie capitali, art. cit.
4. www.notadisciplinare.it

Capitolo 2

1. Antonella Piperno, Karen Rubini, Tra gli ultimi della classe, art. cir.
2. Esempio già citato anche da Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo in La Deriva, op. cit.
3. I dati sono dell’lstat e si riferiscono al 2007.
4. Ricerca di Daniele Gecchi, Università di Milano, riportata da Raffello Masci su «La Stampa» del 29
novembre 2006 nell’articolo L’abbandono costa 2,5 miliardi l’anno.
5. Ibidem.
6. Rapporto sulla revisione della spesa della Commissione tecnica per la finanza pubblica.
7. In realtà, il libro bianco sulla scuola di Fioroni e Padoa Schioppa di settembre 2007 dice che la spesa
corrente co-stituisce il 93,5 per cento del totale del bilancio e che solo il 14,2 per cento non è destinato alla
remunerazione del personale.
8. Sempre nel libro bianco, a p. 39, si legge che «lo squilibrio della spesa a sfavore della spesa in conto
capitale (cioè gli investimenti, come costruire o mettere a posto le scuole) è
8. Intervista raccolta da Mercedes Vela Cossio.
9. Salvo Intravaia, Scuola, il valzer dei prof, art. cit.
10. Rosaria Talarico, E il prof a giornata aspetta in stazione, «La Stampa», 22 marzo 2007.
11. Intervista raccolta da Mercedes Vela Cossio il 15 giugno 2008.
coerente con la percezione diffusa di problemi nella qualità e nell’agibilità del patrimonio materiale delle
scuole. Per quanto riguarda le modeste spese per servizi complementa-ri, esse indicano una limitata
propensione ad accompagna-re o facilitate il servizio di istruzione con attività che com-portino il
prolungamento dell’orario o il trasporto. In Ita-lia, gli enti locali concentrano oltre l’85 per cento della spe-sa
in conto capitale per l’istruzione e, malgrado una ten-denza generale in crescita dal 1996 ad oggi, la spesa
per stu-dente mostra segnali di una contrazione, specialmente nel Sud del Paese, con un’accentuazione del
divario».

Capitolo 3

1. Ripartire dalla scuola, «il Mulino», febbraio 2008.


2. Dati Iea (International Association for the Evolution of Educational Achievement).
3. Antonella Piperno, Karen Rubini, Tra gli ultimi della clas-se, art. cit.
4. Ibidem.
5. Ocse, Programme for International Student Assessment.
6. Le due Italie della scienza, «L’espresso», 1 ° febbraio 2001.
7. Raffaello Masci, La Caporetto della scuola, «La Stampa», 11 marzo 2008.
8. Eugenio Occorsio, Scuola, troppi insegnanti e gli studenti costano caro, «la Repubblica», 2 gennaio
2008.
9. Maurizio Crosetti, Scuola, i bocciati della prima B, «la Re-pubblica», 30 gennaio 2008.
10. Ibidem.
11. Ibidem.

Capitolo 4

1. Che intende rimanere anonima.

Capitolo 5

1. Fabio Pozzo, Ma studiare conviene?, «La Stampa», 9 mag-gio 2008, su dati Unioncamere.
2. Rapporto Excelsior 2006.
3. Intervista raccolta da Mercedes Vela Cossio il 7 giugno 2008.
4. Ibidem.
5. Raffaello Masci, E se bocciassimo il vecchio latino?, «La Stampa», 30 maggio 2008.
6. Ibidem.
7. Pubblicato dalla libreria Vaticana di Roma nel 1997.
8. L’intervistato vuole restare anonimo.
9. Lettera a www.giovannifloris.it del 27 giugno 2008.

GENITORI

Capitolo 1

1. Intervistato da Giulio Valesini il 4 giugno 2008.


2. Così come testimoniano i numeri scelti dal dossier 2008 elaborato da «Tuttoscuola» e la pubblicazione
2008 sulla dispersione scolastica del ministero della Pubblica istruzio-ne. Su questo dossier si è tenuto,
organizzare da «Tutto-scuola», un confronto alla Camera dei deputati il 1° aprile 2008.
3. Ibidem.
4. Salvo Intravaia, Libri, a Palermo la classe più cara d’Italia, «la Repubblica», 29 agosto 2007.
5. Francesco Alberoni, 1genitori senza tempo, i loro figli senza (vere) scuole, «Corriere della Sera», 4
febbraio 2008.

Capitolo 2

1. In Annachiara Sacali, E tutti i giorni qualcuno soffre di mal di prof «Corriere della Sera», 14 maggio
2008.
2. Ibidem.
3. In Carlo Brambilla, Maturità: e allarme per gli studenti «dopati», «la Repubblica», 27 giugno 2008.
4. Massimo Ammaniti, // capitale della famiglia, «la Repub-blica», 4 gennaio 2008.
5. Cinzia Sasso, I genitori elicottero, «la Repubblica», 4 gen-naio 2008.
6. Inchiesta Iref pubblicata su «la Repubblica», 11 febbraio 2008, in un articolo di Sara Strippoli intitolato
Bocciati dalle badanti.
7. Focalizzate sulla figura del cosiddetto «bambino perfetto».
8. Concita De Gregorio, Il bambino perfetto, «la Repubbli-ca», 11 gennaio 2008.
9. Intervista raccolta da Concita De Gregorio, e riportata in // bambino perfetto, att. cit.
10. Le sette ansie capitali, art. cit.
11. Bernhard Bueb, Elogio della disciplina, Rizzoli, Milano 2007.
12. Massimo Ammaniti, Il capitale della famiglia, art. cit.

Capitolo 3

1. Vittorio Zucconi, Ero un ragazza di strada e mia madre mi ha salvato, «la Repubblica», 9 ottobre
2007.
2. Intervista rilasciata a «Mondo Salute», gennaio 2008, di Luciano Onder.
3. Intervista trasmessa a Ballarò il 7 novembre 2007.
4. Aldo Cazzullo, Io ministro ma vendevo gondolette, «Corrie-re della Sera», 1 5 giugno 2008.
5. Si vedano gli studi di Antonio Schizzerotto, anche in Gio-vanni Floris, Mal di merito, Rizzoli, Milano
2007.
6. Condotto da Pasqualino Montanaro, che mette a con-fronto le principali indagini internazionali sulla
scuola, da quella delI’Ocse (Pisa) alla Timss e Invalsi.
7. Si veda a riguardo Rosaria Amato, Scuola, gli studenti più poveri rendono meno, soprattutto al Sud,
«la Repubblica», 10 giugno 2008.
8. Si vedano Francesco Delzio, Generazione Tuareg, Rubbet-tino, Catanzaro 2006 e Giovanni Floris Mal
di merito, op. cit.
9. Federico Pace, L’Italia immobile dei laureati, «la Repubbli-ca», 28 febbraio 2008.
10. Ibidem.

Capitolo 4

1. Giacomo Samek Lodovici, Soltanto una scuola libera sarà anche pertinente, «Avvenire», 24 febbraio
2008.
2. Intervista raccolta da Mercedes Vela Cossio il 7 giugno 2008.
3. Stefano Rodotà, I soldi sono pochi e servono tutti alle pub-bliche..., «Corriere della Sera», 30 aprile
1996.
4. Gian Antonio Stella, Elogi a Stalin, Dostoevskij bandito, la pazza idea delle scuole su misura,
«Corriere della Sera», 28 febbraio 2008.
5. Intervista raccolta da Mercedes Vela Cossio il 7 giugno 2008.
6. Intervista raccolta da Mercedes Vela Gossio il 24 aprile 2008.

BARONI

Capitolo 1

1. Le università telematiche furono volute dai ministri Mo-ratti e Stanca nel precedente governo Berlusconi.
In pratica, permettono agli studenti di fare tutto attraverso Internet (scaricare le dispense, seguire le lezioni).
Sono 11 quel-le autorizzate, tutte dalla Moratti, a rilasciare titoli di stu-dio. Dicevamo della riforma Mussi
che ha messo un tetto di 60 al riconoscimento libero dei crediti, che sono pur sempre un terzo di laurea già
in tasca ancora prima di ini-ziare a studiare.
2. Quindi oggi non sarebbe possibile vedersi riconoscere in partenza i 100 e passa crediti dell’esercito
italiano che avrebbe voluto anche il sottoufficiale dell’aeronautica che ha scritto la lettera.
3. Non citiamo il nome perché riportiamo stralci del carteg-gio e perché le stesse offerte le avrebbe potute
fare, con ogni probabilità, qualsiasi altro ateneo del genere.

Capitolo 2

1. Davide Carlucci, Il crepuscolo dei baroni, «la Repubblica», 23 gennaio 2008.


2. Dichiarazione rilasciata a Enrico Marro e pubblicata sul «Corriere della Sera» del 16 giugno 2005.
3. Davide Carlucci, Il crepuscolo dei baroni, art. cit.
4. Vili Rapporto sullo stato del sistema (2007), Comitato nazionale per la valutazione del sistema
universitario, mi-nistero dell’Università e della Ricerca.
5. Davide Carlucci, Università, tra equini e fitness ecco l’Italia delle lauree pazze, «la Repubblica», 28
febbraio 2008.
6. Ibidem, ma si veda anche Come ti erudisco il pupo di Salva-tore Casillo, Sabato Aliberti e Vincenzo
Moretti, Ediesse, Roma 2007.
7. Un’approfondita inchiesta sull’argomento è apparsa in più puntate sul quotidiano «il Riformista» nel luglio
2008.
8. Intervista raccolta da Giulio Valesini il 5 giugno 2008.
9. Per approfondimenti: Giovanni Floris, Monopoli, Rizzoli, Milano 2005; Giovanni Floris, Mal di merito, op.
cit.
10. Nel corso della relazione annuale 2008. Capitolo 3
1. Come fonte della ricostruzione è stato utilizzato il lavoro di Marta Ferrucci consultabile su
www.studend.it: Rifor-ma universitaria, una guida in pillole.
2. Luigi Zingales, Università a prestito, «L'Espresso», 21 set-tembre 2007.
3. I percorsi italiani ed esteri sono stati ricostruiti da «Il Sole 24 Ore»: Marco Alfieri, Dove studia la classe
dirigente, l’ec-cellenza in sei scuole, 30 gennaio 2008.
4. Luigi Zingales, Università a prestito, art. cit.
5. Michele Smargiassi, Nell’Italia dei laureati che non sanno scrivere, «la Repubblica», 6 febbraio 2008.
6. Ocse, Rapporto 2006.
7. Michele Smargiassi, Nell’Italia dei laureati che non sanno scrivere, art. cit.
8. Si vedano i dati citati nel paragrafo Una nuova classe di ita-liani alla pagina 48 di questo volume.
9. Michele Smargiassi, Nell’Italia dei laureati che non sanno scrivere, art. cit.
10. Dati raccolti da Mattia Feltri in È bipartisan l’esercito dei senza lauree, «La Stampa», 28 gennaio
2006.
11. Daniel Pennac, Diario di scuola, Feltrinelli, Milano 2008.
12. Elaborazione dati Istat, dossier immigrazione 2006.
13. Emilio Marrese, Università: qui davvero non passa lo stra-niero, il «Venerdì di Repubblica», 18
gennaio 2008.
14. Intervista raccolta da Mercedes Vela Cossio il 18 aprile 2008.

LA RIVINCITA
Capitolo 1

1. Tullio De Mauro, Se un mattino di primavera un governan-te..., op. cit.


2. Istruzione, decalogo di Confindustria, «Il Sole 24 Ore», 27 marzo 2008.
3. Si veda, per esempio, Francesco Alberoni, Se vuoi ottenere l’eccellenza non fare sconti a te stesso,
«Corriere della Sera», 8 marzo 2007.

Proposta 1

1. Annachiara Sacchi, Scuola, tutti a ripetizione, «Corriere della Sera», 11 marzo 2008.
2. Alexander Stille, Bambini in carriera, «la Repubblica», 6 luglio 2008.

Proposta 2

1. Per approfondimenti si veda: Giovanni Floris, Mal di merito, op. cit.


2. Mario Pirani, Quei bulli a scuola: dolcetto o scherzetto?, «la Repubblica», 4 febbraio 2008.
3. Cittadinanzattiva, indagine sul bullismo 2007.
4. Fabio Cutri, Bullismo, il compagno di banco, «Corriere del-la Sera», 12 giugno 2008.
5. Cittadinanzattiva, indagine cit.
6. Ibidem.
7. Mario Pirani, Quei bulli a scuola: dolcetto o scherzetto?, art. cit.
8. Intervista di Paola Ancora, Bene il rigore, ma la scuola non e una caserma, «Il Messaggero», 23
dicembre 2007.
9. Mario Pirani, Liberate la scuola dai genitori protettivi, «la Repubblica», 12 marzo 2007.
10. Patria, lavoro carriera: ha ancora senso impegnarsi per un paese che si ama?, Luiss, 30 maggio
2008.
11. Si consulti Wikipedia alla voce «disciplina».

Proposta 3

1. Michele Smargiassi, Scuola, il popolo dei precari a vita, art. cit.


2. Ibidem.

APPENDICI

Capitolo 1

1. Cina: università, lo stress del «grande esame», Ansa, 6 giugno


2. Ricostruzione Ansa del 20 marzo 2006, Francia: quando
3. Paolo Mastrolilli, La grande fuga dai licei, «La Stampa», 29 novembre 2006.
4. Dati contenuti in Ibidem.
5. Intervista ti portata in Ibidem.
6. Fabrizio Carbone, E la foresta diventa un’aula a cielo aperto, «Panorama», 10 gennaio 2008.
7. ibidem.

Capitolo 2

1. Pubblicati da www.math.unipd.it/-favero/varie/awoca-tiit.html
2. Ramon Gabilondo, Luis Del Val, Gorka Zumeta, Estupidario. Antologia del disparate
radiofonico (disparate si può tradurre come assurdità, strafalcioni...), edizione El Pai’s-Aguilar 1999.
3. www.thinkalink.co.uk. Sito del blogger inglese Andy Salmon.

Capitolo 3
1. Le sceneggiature delle due lettere sono consultabili in www.tuttobenigni.it, a cura di Claudia Verardi.
La sceneg-giatura della lettera tratta da Non ci resta che piangere h sta-ta «italianizzata».
Ringraziamenti

Per quanto riguarda i contenuti, il primo grazie va a Merce-des Vela Cossio e a


Giulio Valesini, due ottimi colleghi, bril-lanti e affidabili, che mi hanno aiutato a
completare e arric-chire il quadro con interviste, documentazioni, idee.
Grazie a Michela Gallio, che ha la capacità unica di sapere guidare e seguire, nel
contempo.
Grazie, naturalmente, a tutta Ballarò.
Per quanto riguarda il resto, grazie a mia madre e a mio padre, che mi hanno
insegnato cosa vuol dire la scuola: sia quando c’è da stare in classe, sia quando c’è
da uscirne, con o senza il permesso.
Grazie Al miei amici, che se non ci fosse stata la scuola non sarebbero stati tali.
Grazie a La Pappardella e agli appuntamenti a piazza Fiume.
Grazie a tutti i miei insegnanti e a tutti i miei compagni di classe.
Grazie a Bea, che (spesso) ha ragione. Grazie a Valerio e Fabio.
Grazie a Daniela, Marco e i bambini. Per la legge delinquenti, per l’A.S. Broda
combattenti. E su questo non si discute.
Indice
Introduzione
ASINI
1. Di Napoleone e altre storie
2. La società civile 3.1 veri ignoranti
4. Il prezzo dell’ignoranza
prof
1. Vita da prof
2. A ognuno il suo
3. Carriere
4. Il prof itinerante
studenti
1. L’altra faccia della scuola
2. Lo studio
3. Tempi e modi dell’ignoranza
4. Scuola e politica 124
5. Gli studi 131
genitori
1. I conti in tasca 147
2. Le nostre (le loro) paure 157
3. Il capitale 167
4. Le scelte 176
baroni
1. La laurea al chilo 187
2. L’università dei pochi 194
3. Il pezzo di carta 207
la rivincita
1. Tre idee e un post 225
Proposta 1. Scegliere la sezione 229
Proposta 2. Reinserire il voto in condotta 236
Proposta 3. La Carta Atena 247
Post Scriptum 249
appendici
1. Giro del mondo un po’ consolatorio 253
2. Gli strafalcioni degli altri 261
3. Lettere famose 267
4. Tabelle 273
Note
Ringraziamenti
289 303
Finito di stampare
nel mese di agosto 2008presso il
Nuovo Istituto Italiano d’Arti Grafiche – Bergamo

Printed in Italy

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