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lungo i sentieri della differenza


Antonio Bello

Fare luce, non scintille

edizioni la meridiana
p a g i n e a l t r e
Il testo è tratto da Ci vuole audacia. Parole ai giovani, edizioni la
meridiana, Molfetta (BA), 2009.

2016 © edizioni la meridiana


Via S. Fontana, 10/C - 70056 Molfetta (BA) - tel. 080/3971945
www.lameridiana.it
info@lameridiana.it
ISBN 978-88-6153-557-2
Prefazione

Una pacca sulle spalle, un ghigno, che suonava


di complicità e incoraggiamento, e il suo ‘sciamo’.
E di colpo a 20 anni o giù di lì ti trovavi travol-
to in una esperienza che della tua vita di ragazzo/a
cominciava a cercare i tratti di un capolavoro pos-
sibile.
Un vescovo giovane dentro nella sua capacità
di non dismettere i sogni diurni, quelli contro cui
sbatti la faccia quando sei un ragazzo/a perché ‘hai
poca esperienza’, ‘sai ancora poco della vita’, ‘hai
ancora tanto da imparare’. La litanie di adulti che
spesso alla vita sognata in grande hanno sbattuto
la porta in faccia e a te, che stai diventando gran-
de, riservano consigli accomodanti.
Lui no. Ti insegnava a sognare un sogno di vita
più grande. Ti dispiegava con il suo fare e il suo
dire, che era sempre un dare e condividere, visioni
che ti vedevano protagonista, capaci di lasciare in
tratti anche impervi del cammino tracce importanti.
Fa la differenza se a 20 anni o intorno a quella
età a camminare con te anche nella Chiesa sia un
pastore che con te erra, che cammina accettando

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Antonio Bello

con te il rischio dell’errare illuminato però dalla


Parola, o un pastore che con sospetto guarda alle
tue intemperanze.
Lascia il segno se in un’assemblea di Istituto
viene uno, che ti dicono sia un vescovo, e invece
di parlarti della grandezza di Dio ti parla di quan-
to tu sia necessario in questo tempo e in questo
spicchio di Storia citando non le Sacre scritture ma
Primo Levi: ‘Se non ora quando, se non qui dove,
se non noi, chi’. Di Dio ti parla, ma a quel punto
sei tu curioso di saperne di più.
Te lo ricordi per tutta la vita quel vescovo che
con te ha marciato per chiedere la smilitarizzazio-
ne della tua terra, o ha fatto avanti e indietro per
portare le scarpe, le coperte, i pasti agli albanesi
che all’alba di un mattino invasero la nostra fron-
tiera venendo dal mare, approdando nei nostri
porti e invadendo le nostre città.
Un vescovo follemente innamorato della Paro-
la di Dio, della sua Chiesa e della fragilità uma-
na che nasconde i segni veri dell’onnipotenza del
creatore. Questo si percepiva seguendolo nei suoi
ragionamenti, leggendo i suoi testi e condividendo
impegni piccoli o grandi con lui.
Al punto che avvertivi, nonostante la giovane
età, il senso di parole mandate giù a memoria al
catechismo quando ti insegnavamo che Dio è amo-

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Fare luce, non scintille

re, il Vangelo è vita, tutti abbiamo un posto e una


ragione a questo mondo.
Essere stati giovani nei 10 anni di Episcopato
di don Tonino Bello è stato un dono.
Aver capito che lo scopo della vita di ognuno è
non essere scintille ma luce, segna la rotta, indica
la via maestra. Ti sorregge anche quando le scintil-
le oscurano la luce.
Aver ascoltato dalla sua voce o aver letto più
volte quel suo ‘non siete inutili, siete irripetibili’
declinato alcune volte e in alcune trascrizioni in
‘non siate inutili, siate irripetibili’, ti serve come il
pane quando la vita si fa più complicata.
Questo libretto è un dono per quanti oggi han-
no un’età anagraficamente giovane e per tutti que-
gli adulti che vorrebbero recuperare il senso pro-
fondo di ogni giovinezza: lo slancio di utopie che
scaldano il cuore.

Elvira Zaccagnino
edizioni la meridiana

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Fare luce, non scintille*

Ogni volta che mi trovo davanti ad un’assem-


blea come questa, io mi pongo sempre il proble-
ma: ma questi ragazzi di che cosa hanno bisogno?
Delle mie prediche?
Oppure hanno bisogno che io, insieme con
loro, mi metta a scrutare l’orizzonte per vedere
se spunta l’aurora?
Ah! Già qualcuno sta pensando: “È caduto
ormai irrimediabilmente nella retorica”.
No, no. Spero di non fare questo.
Vi dico soltanto che io, quanto più tempo
passa, più mi accorgo che le parole, sulle nostre
labbra, diventano sterili se non sono accompa-
gnate anche dalla visualizzazione.
L’audio non ha più senso, per noi, se non c’è
un video. Un video che dia credibilità ai nostri
gesti, alle nostre scelte, ai nostri silenzi, alle no-
stre sofferenze.
Non si capisce più niente.

* Incontro con i giovani del Liceo Scientifico di Altamura


(09/04/86).

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Antonio Bello

I preti adoperano una loro terminologia, i poli-


tici un’altra, i sindacalisti un’altra, i tecnici un’altra.
C’era un dibattito tra Nuccio Fava, che è un
commentatore politico che voi conoscete – l’ave-
te visto alla televisione tante volte – e, – questo sì
lo conoscete ancora di più – Nando Martellini, il
telecronista sportivo.
Nuccio Fava diceva: “Io non riesco a capire
perché mai la gente non riesca a comprendere
bene certi linguaggi che adoperiamo quando
parliamo di equilibri più avanzati. Eppure si
adoperano ogni giorno. Sulle prime pagine dei
giornali ci saranno perlomeno dieci righe dedi-
cate agli equilibri più avanzati. E la gente non
capisce. Io vorrei chiederlo all’uomo della stra-
da se sa cos’è un equilibrio più avanzato. Invece
voi, cronisti sportivi, parlate di cross, di drib-
bling, parlate di corner, di offside – eppure sono
vocaboli inglesi, stranieri perlomeno – e la gente
comprende”.
Nando Martellini ha detto: “Sì, va bene. La
differenza è questa. Che gli equilibri più avanza-
ti, se io vado a Montecitorio, non li posso ripren-
dere con la telecamera. Oppure se vado a Pa-
lazzo Madama non posso riprendere santuari di
pietra. I santuari si costruiscono nel cuore – ne
farei uno alla Madonna della Paura, alla Vergine

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Fare luce, non scintille

della Paura. Perché penso che pure Lei (come


me, come te, come tutti voi) ha avuto nel cuore
tanta paura. La paura del domani. Anche Lei si è
chiesta: che senso ha la vita?”.
La vita, la vostra vita, che senso ha?
Heidegger dice che è un precipitare giù. L’uo-
mo è un essere per la morte. Siamo destinati alla
morte. È un precipitare giù.
Ma per noi è un andare verso. C’è un senso.
C’è un disegno.
Non vi fate prendere da certe mode culturali,
quelle lì del catastrofismo, come oggi vengono
chiamate. Quelle della civiltà – credo che voi
queste cose le afferriate anche dalla stampa vo-
stra, di giovani – rizomatica.
Rizoma, sapete che cos’è?
Ho visto tante riproduzioni nell’aula di scien-
ze, tanti disegni bellissimi che avete fatto.
Rizoma è una specie di tubero contorto, una
specie di radice che sta sottoterra, dalle configu-
razioni impensate, che non ha né fusto né radi-
chette giù.
Che significa civiltà rizomatica?
Come dicono questi filosofi, noi oggi siamo
proprio come dei rizoma. Non abbiamo più ra-
dici nel passato e non abbiamo più uno stelo che
indichi una verticalità. Viviamo così. La vita, la

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Antonio Bello

trama è una tela con tanti buchi. C’è uno iato.


Tra tutte le esperienze degli uomini c’è una di-
scrasia. Non c’è una tela, una trama, un filone
conduttore.
Non vi lasciate prendere da queste mode cul-
turali. Anche perché oggi sta venendo fuori tutto
un modo di pensare la vita, in termini diversi. La
vita è interpretata come etica del volto.
La vita ha un senso profondo.
Io vi dovrei incoraggiare a scoprire non tanto
gli scopi penultimi della vostra vita, quanto gli
scopi ultimi; quanto le proiezioni ultime, quelle
che stanno lì in fondo. Questi sono i temi ge-
neratori che voi dovete fabbricare anche nelle
vostre elaborazioni culturali, nei vostri dialoghi,
anche nel vostro rapporto educativo con i vostri
docenti, con i vostri insegnanti.
Oggi sono andato a vedere le aule vostre. L’au-
la dove ci sono le apparecchiature, il gabinetto di
lingue, e poi il gabinetto scientifico. Noi quando
mai, nel passato, abbiamo avuto tanta disponibi-
lità di mezzi? Eppure oggi c’è questa insoddisfa-
zione di fondo. C’è questa amarezza che a volte
si dipinge sul volto della gente, anche dei giova-
ni. C’è questa incertezza del futuro. C’è questa
paura nel cuore. C’è l’esperienza della finitudine
che voi fate ogni momento, che cioè le cose più

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Fare luce, non scintille

belle debbano finire. Che finisca quell’amicizia,


che finisca la vita di un vostro caro, che finisca la
gioia che state provando attualmente in famiglia
per un avvenimento, che finisca anche questo
fremito di cose che vi tengono impegnati.
C’è l’esperienza della finitudine. Che finisca
anche la vostra salute, che finisca la vostra gio-
vinezza.
Voi questi problemi ancora non ve li ponete.
Però c’è gente che già quando scavalca i 16-17 anni
comincia a dedurre qualche mese nella dichiara-
zione, non dei redditi, ma della sua cronologia.
C’è la paura che debba finire: fino a quando
durerà?
Come certe gioie che si vivono in casa.
Gli anziani sono forse più sensibili a questo:
a Natale tutti a casa, si fa il banchetto, si fa il
pranzo. Son tornati tutti i fratelli dall’Università,
l’altro fratello che sta facendo il servizio militare,
le cognate, gli amici, i nipoti. Tutti attorno alla
casa dei genitori.
Che bello il Natale! Imbrunisce subito, tra-
monta subito il sole.
Sul più bello la mamma dice: “È passato Nata-
le. Chissà se l’anno prossimo ci troviamo ancora”.
Quando mia madre faceva questi discorsi, io
dicevo: “Oh mamma! Insomma, sul più bello...

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Antonio Bello

aspetta almeno che si arrivi alla frutta!”. Ma poi


è così. Perché è venuto il giorno in cui effettiva-
mente abbiamo celebrato il Natale, in casa mia,
senza mia madre.
È l’esperienza della finitudine.
Allora tu ti chiedi: ha senso la vita?
Ragazzi, non solo vi dico di rispondere sì, ma
vorrei esortarvi di andarlo a cercare questo senso
della vostra vita. C’è il senso!
Non siete inutili, siete irripetibili.
Ognuno di voi è una parola del vocabolario
di Dio che non si ripete più.
E non abbiate la preoccupazione che non ci
sia la passerella per voi, che la storia non vi offra
un proscenio, che non vi dia la copertina di pri-
ma pagina, la copertina patinata, che non vi dia il
video come schermo delle vostre esibizioni: non
vi preoccupate di questo. Non è questo il senso.
Voi non avete il compito nella vita di fare
scintille, ma di fare luce. Questo è diverso.
Molti sono preoccupati di fare scintille nella
vita, fare faville, guizzare in modo che gli altri si
accorgano della loro presenza. Molti hanno in-
nato il tarlo del proscenio, il tarlo della passerel-
la, dello schermo gigante.
Nella vita non dobbiamo fare faville, non
dobbiamo fare scintille, dobbiamo fare luce.

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Fare luce, non scintille

E la luce si può fare anche nel silenzio.


Non vi preoccupate se voi nella tastiera non
appartenete a quel settore dei tasti che vengono
continuamente colpiti dalle dita veloci del pia-
nista e, magari, siete relegati in quelle note che
sembrano stonate per chi non è intenditore, le
note gravi o le note alte. Capita che nel concerto
ci sia bisogno anche di quella nota.
C’è un senso anche nell’oscurità.
Anche la sofferenza ha un senso. Anche la tri-
bolazione. Anche la solitudine. Anche l’abbando-
no. Queste cose le sperimento nella mia vita prima
che nella confidenza degli altri. Anche nella ban-
carotta – purché non sia fraudolenta –, anche nel
fallimento, cioè, c’è un senso profondo nella vita.
C’è stato un senso profondo anche nella cro-
ce di Gesù Cristo!
E qual è questo senso profondo?
La convivialità.
Convivialità è il senso della vita.
Significa mettersi in comunione con gli altri.
Credeteci in queste cose. Anche se c’è un’espe-
rienza di segno contrario, sulla quale è innervata
la vostra giovanissima esistenza.
Io vi vorrei raccontare una parabola. Non so
se voi l’avete letta su qualche pagina dell’antolo-
gia oppure avete letto il libro, Il muro, di Sartre.

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Antonio Bello

C’era una volta un signore, il quale faceva per


mestiere il commesso viaggiatore. Andava in giro
tutti i giorni, da una città all’altra. Era stato mol-
to sfortunato nella vita, tant’è che non aveva una
donna da amare, non aveva una famiglia, non
aveva dei figli, niente! Proprio spiantato. Aveva il
portafoglio grosso, ma il cuore vuoto. Non c’era-
no affetti in lui. Faceva molti soldi. La sera, appe-
na arrivava in una città, la prima cosa che faceva
andava in un albergo e lì riposava. Poi, il giorno
dopo, riprendeva il cammino. Una sera capita in
una grande città, va in un albergo e chiede una
stanza per dormire. L’albergatore gli chiede i do-
cumenti. Poi stacca dalla parete la chiave n. 23 e
gliela dà. Frattanto arriva una coppia di sposi. Sì
che dovevano essere sposi! Perché, a parte il fatto
che erano giovanissimi, si vedeva: si abbracciava-
no, si baciavano; lei in blue jeans, lui in tuta. Si
vedeva. Hanno chiesto pure loro una stanza per
dormire. E mentre l’albergatore trascriveva i dati
dalla carta di identità, ha staccato dalla parete la
chiave della stanza n. 24 e l’ha data a questa cop-
pia. Al commesso viaggiatore la chiave n. 23, agli
altri la chiave n. 24. E sono andati a dormire, ma...
per modo di dire! L’anziano signore non riusci-
va a prendere sonno. Si girava e rigirava da una
parte all’altra del letto. Non riusciva a dormire.

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Fare luce, non scintille

Prima di tutto perché, forse, faceva un po’ caldo.


Soprattutto perché pensava alla sua vita dispera-
ta, alla sua vita che non aveva senso. Infine non
riusciva a chiudere occhio perché dall’altra parte
della stanza, aldilà della parete – da cui il titolo Il
muro – sentiva un parlare, un lamentarsi, un muo-
vere qualcosa, che lui interpretava come se dall’al-
tra parte ci fosse una liturgia d’Amore (non era
difficile, per la sua accesa fantasia, immaginarlo).
Comunque, dopo tanti tormenti, riesce a chiudere
occhio sul fare dell’alba. Ma per poco tempo. Si è
svegliato di soprassalto, ha guardato l’orologio, ed
ha visto che era passato pochissimo tempo, men-
tre a lui era sembrata una nottata intera di sonno.
Si è svegliato. Ha sentito un via vai nel corridoio
dell’albergo. Si è spaventato e si è alzato. Ha aper-
to la porta, ha tirato fuori il capo, ha chiamato il
primo cameriere che passava veloce: quello non
gli ha dato manco retta. È passato un altro e ha
detto: “Senti, cosa è successo?”. E quello, un po’
infastidito: “Come non lo sai? Tu solo non lo sai?”.
“Che c’è? Che c’è stato?”
“È morto un uomo, qui in albergo, stanotte.”
“Oddio! Dove?”
“È morto un uomo, qui nella stanza accanto,
la stanza n. 24.”
“La stanza n. 24? E che è successo?”

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Antonio Bello

“C’era un uomo che non si è sentito bene, evi-


dentemente. Si è lamentato, ha pianto, ha gridato,
ha chiamato aiuto, ha mosso qualcosa, ha mosso
un comodino, ha mosso una sedia. Nessuno lo
ha sentito. Ed è morto, così, solo come un cane.”
“Oddio, ma io ho sentito! Ma nella stanza n.
24 non c’era una coppia di giovani sposi?”
“Sì, quelli hanno ricevuto la chiave n. 24, ma
del piano di sopra!”
Conclusione, amarissima, di Sartre: quando
uno vuole interpretare l’altro si sbaglia sempre
di un piano.
Questo non è vero.
Vorrei tanto vaccinarvi contro questo perico-
lo della incomunicabilità. Non è vero che non
si possa comunicare. Non è vero. Ve lo dico io,
che non vengo dai salotti. Vengo da un’esperien-
za amarissima, non soltanto sul piano personale,
della mia vita, ma anche da quella che colgo ogni
momento.
Si può comunicare. Non è vero che ci si sba-
glia di un piano.
Ecco, allora, la convivialità. Che significa met-
tersi a uno stesso tavolo e mangiare insieme.
Oggi ci stiamo battendo tanto per la giustizia:
che tutti quanti abbiano un pezzo di pane, che
tutti abbiano la casa. È verissimo!

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Fare luce, non scintille

Chissà quante volte queste cifre della fame,


della miseria le avete sentite pure voi. Sul tavo-
lo della vita – sapete come stanno disposte oggi
le cose? – ci stanno 100 piatti. E fate conto che
l’umanità sia fatta da 100 persone. Allora, succe-
de che 30 persone si prendono 88 di questi piat-
ti, quasi 3 piatti a testa. Le altre 70 persone, sulla
Terra, oggi, devono accontentarsi dei rimanenti
12 piatti.
Così sono distribuite le ricchezze.
Come vogliamo trovare la pace predicandola,
senza impegnarci anche nella giustizia?
Convivialità significa, allora, che ognuno deve
avere il suo piatto. Ma non basta.
Perché ognuno il suo piatto se lo può pren-
dere, e uno va a mangiare in terrazza, l’altro va a
mangiare in cantina, l’altro si chiude in un bun-
ker, l’altro va in sacrestia, l’altro va in giardino.
Non è questa la convivialità. Questa è quiete
lunare, buona per i romantici. Ma non è giusti-
zia. Non è pace.
La pace è convivialità. È stare insieme. È non
chiudere occhio perché gli altri dormano.
Pace è conflittualità, anche.
Convivialità, non significa eliminazione del-
le conflittualità. Perché la conflittualità fa parte
della nostra vita e guai se non ci fosse. Soltanto

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Antonio Bello

che tutte le pietre di inciampo devono diventare


le pietre di guado.
Come quando si va in campeggio e voi vi ac-
campate vicino a un ruscello e dovete passare
dall’altra parte. Come sono preziose quelle pie-
tre, che sembrano di inciampo per chi vuole an-
dare con la barca e invece sono pietre di guado
per chi vuol passare da una parte all’altra.
La convivialità è stare insieme.
Accettare la differenza: la differenza religio-
sa, la differenza politica, la differenza culturale.
Guai a voi se oggi non vi mettete sull’incrocio
delle culture, per dove passano le culture. Guai
a voi se vi arroccate. E pretendete che soltanto la
vostra visione delle cose sia l’unica, la giusta, la
vera. Allora diventate arroganti, diventate pre-
potenti, diventate intransigenti.
Ci sono intransigenze fortissime, repellenti
oggi, e non soltanto su certi settori. Ci sono in-
transigenze che sono repellenti su tutti i piani,
perché basta essere un uomo per poter essere un
santo e poter essere un debole.
Vi vorrei incoraggiare veramente a compiere
questo sforzo, ad incontrare l’altro: guardarsi in
faccia, scoprire l’altro, portare l’altro alla luce.
Che cos’è la convivialità, l’ho spiegato. Ma
come tradurla in pratica? Ci facciamo aiutare da

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Fare luce, non scintille

un’espressione che molti, oggi, adoperano: pen-


sare globalmente e agire localmente.
Dobbiamo pensare globalmente, anche se
dobbiamo sottoporci alla fatica di agire local-
mente, qui nel piccolo mondo antico nel quale la
Provvidenza, un destino ci ha piantati.
C’è una parabola che vi voglio raccontare. È
di un filosofo contemporaneo che è anche un
grande teologo, Martin Buber.
C’era una volta un giovane, in America, che
viveva in una cittadina non molto grande, Ca-
lamazoo. Lui viveva alla periferia di questa cit-
tà. Ed era povero, povero in canna. Non aveva
niente. Viveva quasi in un barrios. Aveva una
capanna. L’uscio, quando si apriva, cigolava
sempre. Nella capanna non c’era nulla. C’era un
focolare spento, una sedia traballante, un tavo-
lino sgangherato, un lettuccio che faceva pena.
Non è riuscito, questo ragazzo, a fare fortuna in
nessun modo. A tal punto disperato, che decide
di farla proprio finita con l’esistenza. Però, di
notte, ha un sogno. Sogna una città il cui nome
lui non aveva mai sentito pronunciare: Praga. In
questa città vede – sempre in sogno – un fiume,
e sul fiume un ponte. Sotto ai piloni del pon-
te, sul greto, vede un disegno. Sente una voce:
scava lì sotto e troverai un tesoro. Allora questo

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Antonio Bello

ragazzo si sveglia. È già l’alba. Esce. Trova un


amico suo, uno dei pochi che erano rimasti, e
chiede: “Senti, tu hai mai sentito parlare di Pra-
ga?”. “Eh sì, come no! Praga è una città, una
capitale che si trova in Europa, lontano, in Ce-
coslovacchia.” “Ah sì?”
Prende tutte le informazioni necessarie.
Con qualche espediente riesce a imbarcarsi.
Dopo tanto tempo, sbarca. Cammina e cammi-
na, con mille espedienti riesce ad arrivare in
Cecoslovacchia. A Praga arriva di sera. Effet-
tivamente c’è un fiume, come l’aveva sognato.
C’è un ponte, identico a come l’aveva sogna-
to lui. C’erano i piloni. E guarda dall’alto del
ponte: lì sul greto, disegnato con la calce, c’è
un quadrato, proprio come aveva sognato lui.
C’era pure quella voce, come aveva udito in so-
gno: “Scava lì sotto e troverai un tesoro”. Con
altri espedienti si procura un badile, una zap-
pa, una vanga. Quando tutti vanno a dormire,
di notte, lui va. L’acqua fluisce lì attorno al pi-
lone e lui scava e scava, scava e scava. Nien-
te. Nasconde tutto perché l’alba irrompe. La
notte successiva lo stesso servizio. Tre, quattro
notti. Niente. La settima notte lui ha deciso ve-
ramente di piantare tutto e andarsene. Questa
è l’ultima. Scava e scava, scava e scava. Niente,

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Fare luce, non scintille

niente, niente. Spuntano lontane le luci dell’al-


ba quando, mentre sta per deporre la vanga,
sente una voce dall’alto del ponte. Un giovane
come lui: “Ehi tu, che fai lì?”. Quello si vede
scoperto e gli fa: “Vieni qua”. Quello scende e
gli dice: “Ho sognato una città, Praga, e sono
venuto. Ho trovato tutto come avevo sognato.
Avevo sentito nel sogno ‘Scava là e troverai un
tesoro’, e questa ormai è la settima notte e non
ho trovato niente”. “Davvero? Ma guarda un
po’ che coincidenza, a volte – fa quello lì –.
Anch’io ho avuto un sogno stanotte, un sogno
quasi uguale.
Stavo dormendo e ho sognato una città mol-
to lontana, deve essere una città d’America. Il
nome non me lo ricordo. Aspetta! Calamazoo.
Proprio alla periferia della città ho visto, no so
bene, una capanna. Sono andato, ho fatto per
entrare, l’uscio scricchiolava, cigolava. Dentro,
non c’era niente: un focolare spento, un tavoli-
no traballante, una sedia tutta malmessa e poi
un lettuccio. E ho sentito una voce che diceva,
indicando il letto: ‘Scava lì sotto e troverai un
tesoro’. Ma io non sono mica così stupido da an-
dare fin lì.”
“Ah, non sei così stupido?” Il giovane, allora,
ha lasciato tutto. Cammina e cammina, attraver-

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Antonio Bello

sa tutta l’Europa arrivando in Portogallo. Con


gli stessi espedienti si è imbarcato ed è arrivato
in America. Cammina e cammina, è arrivato a
Calamazoo. È entrato nella sua capanna, l’uscio
sempre che cigolava, la sedia pure traballava, il
tavolino altrettanto. Ha visto il focolare spento.
Si è procurato un badile, ha sollevato il lettuccio,
scava e scava – non ha fatto in tempo manco a
dire per la terza volta scava – che ha trovato un
tesoro. E visse felice e contento.
Vi ho detto che è un raccontino per i bam-
bini.
Sapete che significa? Pensare globalmente e
agire localmente! Significa che è inutile arram-
picarci facendo i dialoghi sui massimi sistemi.
Significa che noi dobbiamo rendere la vita diver-
sa, qui, nel nostro piccolo mondo, nella nostra
terra, qui da queste parti. E dobbiamo essere
audaci, propositivi. Anche quando ci battiamo
per queste idealità così grosse, qual è l’idealità
della pace.
Quante paure ci sono!
Io a volte mi sgomento nel vedere le preoccu-
pazioni della gente.
Stiamo vivendo un periodo così difficile, così
intenso, greve di preoccupazioni. E intanto la
gente se ne ride.

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Fare luce, non scintille

Abbiamo i missili puntati di fronte e noi non


siamo capaci di levare voci profetiche, audaci.
Che scaturiscono dal Vangelo. Non scaturiscono
dalle nostre visioni, né politiche né ideologiche.
Isaia ci dice: “Verranno tempi in cui forgeran-
no le loro spade in vomeri, le loro lance in falci.
E non si eserciteranno più nell’arte della guerra”
(Is 2;4). Mentre noi tolleriamo che si esproprino
tanti ettari di terreno perché ci si eserciti nell’ar-
te della guerra! Questo è l’anti-Isaia!: che gli ara-
tri vengano smessi, si trasformino in lance, e che
le falci vengano tolte di mezzo e si trasformino
in spade.
Ci vuole audacia.
La Vita che state vivendo vivetela in modo se-
rio, in modo denso. Perché non tornerà più.
E non abbiate paura di entusiasmarvi per cer-
te cose.
Molti di voi hanno paura. Hanno paura che
un giorno la Storia, il loro futuro possa ridac-
chiare sul loro presente. Molti hanno paura di
esporsi. Per non correre il rischio di subire il
contraccolpo di questa disunione tra i sogni di
oggi e la realtà di domani, preferiscono non so-
gnare.
E questo significa dare le dimissioni dalla
Vita.

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Antonio Bello

Aver paura di entusiasmarsi oggi, alla vostra


età, significa suicidio.
Un giorno vi scalderete alla brace divampata
nella vostra giovinezza.
Non abbiate paura di entusiasmarvi.
C’è tantissima gente che mangia il pane ba-
gnato col sudore della fronte dei sognatori.
Ci sono tanti sognatori.
Meno male che c’è questa dimensione del
sogno, oggi, nella vita, sporgenze utopiche a cui
attaccarci. Meno male che ci sono dei pazzi da
slegare, da mettere in circolazione perché vada-
no a parlare di queste grandi utopie che si vanno
raffreddando.
Quello che è pericoloso, è che a volte si raffred-
dano nel cuore dei giovani.
Io vi voglio augurare che non abbiate a per-
dere la dimensione della quotidianità.
Scavate sotto il vostro lettuccio e troverete il
tesoro.
Agire localmente e pensare globalmente.
Concludendo, vi vorrei leggere una poesia
splendida (Dippold l’ottico, NdR) di Edgar Lee
Masters tratta dall’Antologia di Spoon River. Ed
è un incoraggiamento perché anche voi abbiate
ad amare la vita così.
È il dialogo tra un ottico e un suo paziente.

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Fare luce, non scintille

Che cosa vedete adesso? Nubi di rosso, giallo, por-


pora.
Un momento! E adesso?
Mio padre e mia madre e le mie sorelle.
Bene! E adesso?
Cavalieri in armi, belle donne, visi gentili.
Provate questa lente.
Un campo di grano, una città.
Benissimo! E adesso?
Una donna giovane ed angeli chini su di lei.
Una lente più forte! E adesso?
Molte donne dagli occhi vivi e labbra schiuse.
Provate questa.
Oh! Soltanto un bicchiere sul tavolo.
Capisco. Provate questa lente.
Soltanto uno spazio vuoto. Non vedo nulla in par-
ticolare.
Bene! E adesso?
Pini, un lago, un cielo d’estate.
Ecco, questa va bene. E adesso?
Un libro.
Leggetemi qualche pagina.
No, no non posso. Gli occhi mi sfuggono aldilà
della pagina.
Provate questa lente.
Abissi d’aria.
Ottimo. E adesso?

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Antonio Bello

Luce, soltanto luce, che trasforma tutto il mondo


sottostante in giocattolo.
Benissimo! Faremo gli occhiali così.

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Mons. Antonio Bello

Mons. Antonio Bello è stato vescovo di Molfetta


e Presidente Nazionale di Pax Christi. Si è speso nel
suo impegno pastorale per la pace, la nonviolenza,
la solidarietà, l’accoglienza dell’altro. Sognatore e
utopista, ha coinvolto nel suo impegno soprattut-
to i giovani e quanti si definivano credenti ma non
praticanti o atei in cerca di risposte, grazie alla sua
capacità di parlare senza negare il dubbio che nasce
spontaneo in ognuno e che è segno del bisogno di
condividere, prima ancora di credere. Una Chiesa
che abita la frontiera e sceglie la prossimità, il farsi
prossimo sempre.
Don Tonino era nato ad Alessano, piccolo cen-
tro della Puglia salentina, il 18 marzo del 1935.
Morì a Molfetta il 20 aprile del 1993 stroncato da
una malattia incurabile. È sepolto al Alessano e
nella sua casa natale ha sede la Fondazione a lui
intitolata (www.dontoninovescovo.it).
Il 30 aprile 2010 nella cattedrale di Molfetta si
è svolta la Prima sessione pubblica del Processo
di Canonizzazione. Il 30 novembre 2013 si è con-
clusa invece la fase diocesana del processo di Ca-
nonizzazione.

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Don Tonino nel catalogo delle edizioni la meridiana

A tutte le donne. Rosario meditato


Ad Abramo e alla sua discendenza. Lettere ai patriarchi
Al pozzo di Sichar. Appunti sulle alterità
Affliggere i consolati. Lo scandalo dell’Eucaristia
Convivialità delle differenze. Omelie crismali
Coraggio! Lettera agli ammalati
Da mezzogiorno alle tre. Riflessioni sulla Via Crucis
Dissipare l’ombra di Caino. Appunti sulla nonviolenza
Dalla testa ai piedi. La Quaresima tra cenere e acqua
Don Tonino, Il volto del Sud
Fate Presto, bambini
Icona della Trinità. Lettera sulla famiglia
In confidenza di Padre. Confessioni di un vescovo
Insieme alla sequela di Cristo sul passo degli ultimi. Progetto pastorale
La bisaccia del cercatore. Scarti minimi per il futuro
La carezza di Dio. Lettera a Giuseppe
Milagro. Piccolo prodigio di luce
Mistica arte. Lettere sulla politica
Nelle vene della storia. Lettera a Gesù
Oltre il futuro. Perché sia Natale
Parole d’amore. Poesie e preghiere
Pietre di scarto. Pagine sulla marginalità
Profeta... abbastanza. Lettere sulla guerra che ritorna
Quella notte a Efeso. Lettera a Maria
Senza misura. Riflessioni sulla carità
Sotto la Croce del Sud. Diario di un viaggio
Sud a caro prezzo. Il cambiamento come sfida
Sui sentieri di Isaia. Scritti sulla pace
Ti voglio bene. I giorni della Pasqua
L’uno per l’altro. Alla ricerca del volto

Sul sito www.lameridiana.it è possibile leggere articoli di e su don


Tonino, documenti, tesi, interviste; conoscere iniziative e incontri
e accedere a documenti audio.
la meridiana,
a partire
dai vissuti,
dalle inquietudini,
dalle marginalità
un itinerario
di ricerca e
di incontro
possibile per tutti:
dall’identità alla relazione
dal potere
alla nonviolenza radicale.

Finito di stampare nel mese di marzo 2016


presso StampaSud SpA
Mottola (TA)

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