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Lev Nikolaevic Tolstoj, La morte di Ivan Il'ic. Titolo originale: Smert' Ivana Il'ica. Prefazione di Matteo Collura.

Traduzione di Erica Klein. Copyright 1999/2001 RCS Libri S. P. A. Copyright 2002 RCS Editori S. P. A. Nel grande edificio del tribunale, durante una pausa dell'udienza sul caso Mel'vinskij, i giudici e il procuratore si erano riuniti nello studio di Ivan Egorovic Sebek e avevano preso a parlare del celebre affare Krasovskij. Fedor Vasil'evic si infervorava a sostenere l'incompetenza a procedere, Ivan Egorovic restava della propria idea, mentre Petr Ivanovic, che non era mai entrato nella discussione, continuava a restarne fuori e sfogliava il "Messaggero" appena arrivato. - Signori! - esclam ad un tratto, - morto Ivan Il'ic. - Davvero? - Leggete qui, - disse Fedor Vasil'evic, porgendo il giornale che profumava ancora di stampa... Scritto tra il 1884 e il 1886, La morte di Ivan Il'ic un piccolo capolavoro: per il messaggio drammatico che l'autore ci trasmette e per l'efficacia descrittiva di alcune scene. La trama tanto semplice quanto tragica. Ivan Il'ic un uomo perbene, consigliere di Corte d'appello a San Pietroburgo. La vita stata generosa con lui: riuscito a soddisfare ogni ambizione ed al vertice della sua carriera. Tutto sembra andare per il meglio, quando l'uomo si trova improvvisamente catapultato in un incubo: una banale caduta da una scala gli provoca infatti un dolore a un fianco dapprima quasi inavvertibile, ma via via sempre pi sordo e insistente, che n i medici pi illustri, n i farmaci da essi prescritti riescono a curare. Ivan Il'ic comincia a prendere coscienza di essere ormai condannato, ma costretto a tirare avanti penosamente, giorno dopo giorno, circondato dall'ipocrisia dei familiari, per i quali diventato un peso. L'unica persona di cui apprezza la compagnia il giovane servo Gerasim che lo soccorre con affetto sincero. Nelle lunghe ore trascorse all'ombra della morte Ivan Il'ic si rende conto che la sua vita stata un cumulo di menzogne, in famiglia come nella camera, ma alla fine gli si affaccia alla mente un pensiero consolante: proprio la morte sar presto una liberazione, per lui stesso e per gli altri, dalla sofferenza. Lev Nikolaevic Tolstoj nasce il 28 agosto 1828 a Jasnaja Poljana da una famiglia dell'antica nobilt terriera. Nel 1844 si iscrive

all'Universit di Kazan', dove studia lingue orientali, poi giurisprudenza. Nel 1847 interrompe gli studi per tornare nella tenuta di famiglia. Nel '51 si arruola, prima come volontario, poi come ufficiale di artiglieria per combattere sul fronte del Caucaso, quindi a Sebastopoli nella guerra di Crimea. E comincia a scrivere: sono di questo periodo Infanzia (1852), Adolescenza (1854), Giovinezza (1856), Racconti di Sebastopoli (1855-56) In seguito Tolstoj lascia l'esercito e compie un lungo viaggio in Europa. Preoccupato per le condizioni di vita dei contadini, si dedica all'istruzione dei loro figli e si impegna a promuovere l'abolizione della servit della gleba. Nel 1862 sposa Sof ja Bers, dalla quale avr tredici figli. Tra il 1863 e il 1869 nasce uno dei suoi capolavori: Guerra e pace. Quindi scrive Anna Karenina (187377), altro caposaldo della letteratura russa, Confessione (1882), La potenza delle tenebre (1886), La sonata a Kreutzer (1889), Resurrezione (1901) Le idee di Tolstoj, i principi cui si ispira, la sua condotta di vita (a un certo punto si dedica anche al lavoro manuale) diventano un esempio per tutto il popolo russo. Ma le sue teorie non piacciono alla Chiesa ortodossa, che nel 1901 lo scomunica. Tolstoj non si da per vinto, arriva a rinunciare ai diritti d'autore per aiutare i contadini a riscattare la terra. In dissidio con la moglie, il 28 ottobre 1910 lascia la sua casa. Si ferma in un monastero per qualche giorno, poi decide di rimettersi in viaggio per Rostov. Colpito da un forte attacco di febbre, costretto a fermarsi alla stazione di Astapovo, dove muore il 7 novembre, a 82 anni. L'IMPERDONABILE SCANDALO DEL MORIRE. di Matteo Collura. La morte, il morire, non esperienza che possiamo fare e di conseguenza trasmettere, perch nel momento in cui si muore irreversibilmente cessa il nostro stato di esseri umani. Ci si pu avvicinare alla morte, al morire, ma la soglia che segna il punto di non ritorno non attraversabile se non dopo la vita. Un mistero irrisolvibile e il pi terrificante tra quelli che ci dato subire. Dal momento in cui si viene al mondo, la propria fine l'unica certezza. Lontana, lontanissima da noi quanto si vuole, ma sempre l, al limite estremo della vita, di ogni vita, sempre e da sempre. Vivere, secondo tutte le religioni di tutte le civilt, un prepararsi a morire. Persino i senza religione, gli atei, ammesso che ve ne siano di perfettamente tali, a un certo punto della loro esistenza non possono non pensare alla morte come a un traguardo che, nel suo estremo apparire, da senso alla vita. Tanti scrittori, con esiti diversi, hanno preteso di raccontare la morte, il morire. Non c' romanzo, degno di chiamarsi tale, che non contenga il tema della morte, il suo subdolo o manifesto insinuarsi

nella vita di una comunit, di una coppia, di un individuo. E questo perch la morte non soltanto non pu essere tenuta fuori dalle vicende umane che abitano la letteratura, ma perch essa le rende credibili, da loro sapore, spessore emotivo e, a volte, epico. Tanti scrittori, ma uno solo, spinto dal genio tormentato, dalla straziante ispirazione che si fece delirio profetico, si accostato alla verit della morte, del morire: Lev Nikolaevic Tolstoj, in questo racconto che in una ottantina di pagine, con sconvolgente autenticit, mostra tutto ci che si muove - o non si muove - attorno a un malato terminale, tutto ci che precede e immediatamente segue la sua fine. E' cos che parlerebbe la vita se parlasse, scrisse di Guerra e pace Charles du Bos; frase, questa, che a Carlo Bo ne ispir un'altra, di eguale precisione ed efficacia, a proposito del racconto che ha per protagonista Ivan Il'ic: Se la morte parlasse questa sarebbe la sua voce E non ci pare di poter dire di pi e meglio, perch leggendo o rileggendo questo capolavoro di Tolstoj ci sembra proprio di udire quei lugubri passi, d'intravedere quell'abisso senza nome, divedere, insomma, lavorare la morte col suo implacabile, incoercibile metodo. Ma poi, quando essa allarga le braccia e si china sull'immensa, ghiacciata solitudine di un individuo che muore, ecco la luce, ecco la rivelazione estrema e rasserenante. ... "E il dolore? - si domand. - Dov' andato? Dove sei, dolore?" Si mise in ascolto. "Ah, eccolo. Non importa, rimani pure." E la morte, dov'? Cerc la sua solita paura della morte, ma non la trov. Dov'era? Quale morte? Non aveva alcuna paura, perch non c'era alcuna morte. Al suo posto, la luce. "Ah esclam d'un tratto a voce alta. - Che gioia!"... Nei momenti di dolore e smarrimento per la perdita di una persona cara intere generazioni hanno ripensato con conforto a questo brano conclusivo del racconto di Tolstoj. E qui si pu aggiungere che a questo straordinario scrittore va tutta la nostra gratitudine per quella luce di speranza, non sappiamo in che cosa - se la fede ci manca - ma comunque capace di comunicare la gioia di un balsamico, definitivo rasserenamento. Tre giorni prima che aspirasse per l'ultima volta l'aria, a met del respiro si fermasse, si distendesse e morisse, Ivan Il'ic aveva urlato la sua rabbia impotente, il suo inutile non voglio! E quelle sue grida erano rimbombate nella casa dalle inutili porte chiuse. Avevano spaventato la moglie, i figli, gli amici, i servitori. Perch Ivan Il'ic Golovin, quarantacinquenne riverito consigliere di Corte d'appello prostrato da un male incurabile, non aveva dato fondo alla decenza che gli competeva e che era suo dovere non smarrire? Perch la sua morte non arrivava silenziosa e perci misericordiosa per la famiglia che era costretta a star l, ad ascoltare, a testimoniare di quell'estrema, umiliante decadenza fisica? Perch, in conclusione, Ivan Il'ic non moriva in santa pace? Qui il senso del racconto di Tolstoj: si muore in perfetta e disperata solitudine in un mondo in cui il morire uno scandalo da tenere il pi possibile lontano, muto e invisibile, da coloro i quali rimangono. Si muore soli, ma quando la morte arriva - ecco il misericordioso lascito di Tolstoj e di quanti hanno usato la letteratura e la filosofia per aiutare concretamente i loro simili - non pu farci pi paura, perch la nostra solitudine gi parte di un mistero in cui la sensibilit corporea non pu avere alcun diritto d'asilo. La luce, quella luce che, lette le pagine di Tolstoj, non ci pu pi abbandonare; quella luce che in Guerra e pace illumina la fine della giovane esistenza del principe Andrej, quando, colpito in battaglia, stramazza sulla schiena: I suoi occhi erano aperti, ed egli aspettava di vedere come andasse a finire la lotta tra i francesi e l'artiglieria dei russi; ma non vedeva nulla. Sopra di lui non v'era che il cielo: l'alto cielo, infinitamente profondo, e nuvole grigie che vi scorrevano

in fuga. "Non cos, -pensava il principe Andrej. - Non era cos tacito e tranquillo, quando io accorrevo; non era cos, quando noi accorrevamo gridando e combattendo... In altro modo scivolavano queste alte nuvole lungo il cielo. Perch non ho io visto questo cielo prima d'ora? " Poco dopo passa vicino a lui Napoleone con due aiutanti. "Una bella morte!" esclama l'imperatore guardando il principe Andrej steso supino a iena... Una bella morte. Ma pu essere bella la morte, se non lo stata altrettanto la vita ? E questa domanda ne sollecita un 'altra: pi importante morire bene o vivere bene? Molti esseri umani, di diversa cultura e di diversa importanza sociale, hanno creduto di lasciare buon segno di s facendo una bella morte. Ma non cos semplice, e il prete che in un indimenticabile film di Rossellini ha il volto e il grasso corpo di Aldo Fabrizi, prima di cadere sotto i colpi del plotone di esecuzione dice - come il pagano Socrate - che l'importante non morire bene ma l'aver vissuto bene, dimostra che la morte, da sola, per quanto eroica, non pu riscattare una vita vissuta ingiustamente, nel segno dell'egoismo e della violenza nei confronti dei propr simili. Ma quella di ivan Il'ice anche qui sta la grandezza del racconto di Tolstoj - la storia di una vita la pi semplice, la pi comune, e per questo la pi terribile ivan Il'ic non cerca alcun riscatto, non ha bisogno di morire bene per lasciare un buon ricordo di s; come tutti gli uomini e tutte le donne venuti a trascorrere il loro involontario soggiorno sulla terra, semplicemente non vuol morire, o non vuole che ci avvenga all'et che si ritrova e in quel momento della sua esistenza. Questo spiega quel grido ripetuto per tre giorni. E' umano, Ivan Il'ic; umano come lo Cristo quando, inchiodato alla croce, invaso da umanissima paura, urla: Dio, perch mi hai abbandonato? Si legge con una commozione irrefrenabile quel brano in cui l'ammalato, nel cuore della notte, giace con le gambe poggiate sulle spalle del fedele e caritatevole servitore Gerasim (l'unico che concretamente lo aiuta nella sventura, l'unico capace, con il suo agire naturalmente compassionevole, di dargli qualche briciola di conforto): C'era sempre Gerasim seduto in fondo al letto che sonnecchiava tranquillo e paziente, mentre lui giaceva con le gambe smagrite e coperte dalle calze, appoggiate alle sue spalle; la solita lampada col paralume, il solito dolore incessante. "Vai pure, Gerasim", bisbigli. "No, rimango ancora." "No, vai." Gli tolse i piedi dalle spalle, si gir su un fianco e sent piet di se stesso. Aspett solo che Gerasim uscisse dalla stanza e si lasci andare al pianto, come un bambino. Piangeva per la sua impotenza, per la sua terribile solitudine, per la crudelt degli uomini e di Dio, per l'assenza di Dio. "Perch hai fatto tutto questo? Perch mi hai condotto fino a questo punto? Perch mi tormenti cos orribilmente? " Non aspettava nessuna risposta e piangeva perch non c'era e non ci poteva essere alcuna risposta... E la risposta viene, nel racconto: a illuminarlo, a renderlo meno disperante: Sent allora che qualcuno gli baciava la mano. Apr gli occhi e guard il figlio. Gli fece piet. Anche la moglie si avvicin. Egli la guard. Aveva la bocca aperta, le lacrime scendevano sul naso e sulle guance, lo guardava con occhi disperati. Gli fece piet... La piet, l'attenzione per gli altri, l'amore per gli altri, tutti gli altri. Alla fine, proprio al limitare del baratro, Ivan Il'ic si rende conto di avere vissuto una vita ignobile, in cui l'alienazione familiare era stata perfettamente coerente con la vita impostagli dalla societ. Il lavoro, in cui aveva trovato le massime soddisfazioni, ecco che gli appariva come una sorta di vuota compensazione, un anestetico che, ora, in quello stato, a nulla avrebbe potuto servirgli. Ivan Il'ic vive su di s tutto ci che la societ edonista e ipocrita del suo tempo che, in peggio, anche il nostro - apparecchia intorno a un ammalato

senza speranza. E, da questo punto di vista, il racconto di Tolstoj ci pu aiutare nell'affrontare alcuni temi del nostro tempo, quali la medicalizzazione della vita, l'accanimento terapeutico, la rimozione culturale della morte come fosse un evento indecente ed estraneo al mistero del vivere. Sul morire, sullo strazio dell'avvicinarsi alla morte di un ammalato, ha lasciato pagine di disperata documentazione un giovane svizzero, Fritz Angst, morto di tumore nel 1976, a trentadue anni. Questo sfortunato rampollo zurighese in un diario ha voluto lasciare lo strazio e l'incontenibile rancore per la sua fine prematura, dovuta a un male che lui aveva finito col considerare conseguenza della sua educazione altoborghese, del perbenismo della sua ricca e privilegiata famiglia. Fu tale il rifiuto di quel suo destino di morte precoce che Angst volle che, se pubblicato, l'autore del suo diario si chiamasse Fritz Zorn (Zorn: in tedesco collera) Sul morire questo forse il libro pi terribile, perch pi autenticamente, profondamente testimoniato. Pubblicata postuma in Germania, nel 1977, con il titolo Mars (Marte), la testimonianza di Zorn, al pari del racconto di Tolstoj, turba e commuove e sorprende la critica. Ma con una differenza: Zorn/Angst scrive un diario sull'evolversi della propria fatale malattia, l'autore di Anna Karenina inventa un personaggio e lo fa protagonista di un racconto in cui la visionariet (qui intesa come visione preconizzante) dell'autore approda a momenti di verit assoluta. Quella verit che toccher a lui stesso, allorch, carico di anni e febbricitante, andr incontro alla luce (questo glielo auguriamo e ce lo auguriamo) che egli aveva posto davanti agli occhi di Ivan Il'ic. Era gi tutto scritto nella Confessione: Io non avevo cinquant'anni, amavo, ero amato, avevo dei figli buoni, una vasta propriet, la gloria, la salute, il vigore fisico e morale; ero capace di falciare come un contadino; lavoravo dieci ore di seguito senza stanchezza. Bruscamente la mia vita si arrest. Potevo respirare, mangiare, bere, dormire. Ma ci non era vivere. Non avevo pi desideri. Sapevo che non c'era nulla da desiderare. Non potevo neppure bramare di conoscere la verit. La verit era che la vita era un'insania. Arrivato all'abisso, vedevo nitidamente che davanti a me non c'era null'altro che la morte... Mi pareva che la mia vita fosse una farsa stupida, che mi venisse recitata da un altro. Quarant'anni di lavoro, di pene, di progressi, per vedere che non c' nulla! Nulla. Di me non rimangono che un po di putredine e i vermi... Si pu vivere solo finch si ebbri della vita; ma appena dissipata l'esaltazione, si vede che tutto soltanto durmeria, stupida cimmeria.... E nel suo diario, anno 1879, dunque cinquantunenne, annotava: Ci son degli uomini dalle ali possenti che la volutt fa scendere in mezzo alla folla, dove le loro ali si spezzano: io, per esempio. In appresso, si battono le ali spezzate, ci si slancia vigorosamente, e si ricade di nuovo. Le ali saranno guarite, io voler molto in alto. Che Dio mi aiuti. Nella sua ardente Vita di Tolstoj, Komain Rolland in proposito annota: Queste parole sono scritte in mezzo alla pi terribile tempesta, quella di cui la Confessione il ricordo e l'eco. Tolstojfu pi di una volta ributtato al suolo, con le ali infrante. E sempre si ostin. Eccolo che si libra "nel cielo immenso e profondo", con le due grandi ali, una delle quali la ragione e l'altra la fede. Ma non vi trova la calma che cercava. Il cielo non fuori di noi. Il cielo in noi. Tolstoj vi soffia le sue procelle di passioni. In ci si distingue dagli apostoli che rinunciano: egli pone nella sua rinuncia lo stesso ardore che poneva nel vivere. Ed sempre la vita che egli stringe, con una violenza d'innamorato. Egli "pazzo per la vita". E' "ebbro di vita". Non pu vivere senza questa ebbrezza. Ebbro di felicit e d'infelicit, a un tempo. Ebbro di morte e d'immortalit.... Oggi tutto questo pu sembrare retorica, frutto di un'ipertrofia

dell'io, da una parte, e di una troppo ammirata lettura della sua vita, dall'altra, cos come qualche critico ha scritto, fatta sempre salva la grandezza dello scrittore; uno scrittore, va detto, qui e sempre, tra i meno letterati e per questo tra i pi grandi narratori che il mondo abbia avuto. Un enciclopedico conoscitore di uomini, Giuseppe Antonio Borgese ha definito Tolstoj; e questo spiega perch egli abbia potuto scrivere un romanzo come Guerra e pace e un racconto come La morte di Ivan Il'ic. MATTEO COLLURA. La morte di Ivan Il'ic. I. Nel grande edificio del tribunale, durante una pausa dell'udienza sul caso Mel'vinskij, i giudici e il procuratore si erano riuniti nello studio di Ivan Egorovic Sebek e avevano preso a parlare del celebre affare Krasovskij. Fdor Vasil'evic si infervorava a sostenere l'incompetenza a procedere, Ivan Egorovic restava della propria idea, mentre petr Ivanovic che non era mai entrato nella discussione continuava a restarne fuori e sfogliava il Messaggero appena arrivato. - Signori! - esclam ad un tratto, - morto Ivan Il'ic. - Davvero? - Leggete qui, - disse fedor Vasil'evic, porgendo il giornale che profumava ancora di stampa. Un avviso cerchiato di nero diceva: Praskov'ja Fdorovna Golovina annuncia con profondo cordoglio a parenti e amici la scomparsa dell'amato consorte, avvenuta il 4 febbraio 1882. Il funerale avr luogo venerd alle ore 1 pomeridiane Ivan Il'ic era collega dei signori l riuniti e tutti gli volevano bene. Era ammalato gi da diverse settimane; si diceva che avesse un male incurabile. Gli avevano conservato il posto col tacito accordo che, in caso di morte, sarebbe subentrato Alekseev, mentre il posto di Alekseev sarebbe passato a Vinnikov o a Stabel. Cos, alla notizia della morte di Ivan Il'ic il primo pensiero dei signori l riuniti si concentr sulle implicazioni che quella morte avrebbe avuto su eventuali trasferimenti o promozioni che riguardavano loro stessi o i loro conoscenti. Ora potr ottenere il posto di Stabel o di Vinnikov pens Fedor Vasil'evic. - Me l'hanno promesso da un pezzo e ci significa ottocento rubli in pi oltre all'identit di servizio. Potr ora chiedere il trasferimento da Kaluga di mio cognato, - pens Petr Ivanovic. - Mia moglie sar contenta e non potr pi dire che non faccio nulla per i suoi parenti. - Sapevo che non si sarebbe pi rimesso, - disse Petr Ivanovic ad alta voce. - Mi dispiace. - Ma cos'aveva di preciso? - I medici non sono riusciti a stabilirlo. O meglio, ognuno ha stabilito una cosa diversa. L'ultima volta che l'ho visto mi parso che potesse riprendersi. - Io invece, dopo le feste non sono pi stato da lui. Avevo sempre in mente di farlo, ma... - Quanto a patrimonio, come stava?

- La moglie doveva avere qualcosa, poca roba per. - Bisogner andarci. Il fatto che abitano tanto lontano. - Cio lontano da casa vostra. Per voi tutto lontano. - Ecco che non pu perdonarmi di abitare dall'altra parte del fiume, - disse Petr Ivanovic sorridendo a Sebek. Cominciarono a discorrere delle distanze in citt, quindi tornarono all'udienza. Oltre alle varie considerazioni su trasferimenti e possibili miglioramenti di carriera che da quella morte potevano derivare, il fatto stesso della morte di un uomo conosciuto e vicino suscitava in tutti coloro che ne venivano informati, come sempre, un sentimento di soddisfazione, giacch a morire era stato lui e non loro. E' morto lui, non io era il pensiero di ognuno. I conoscenti stretti, i cosiddetti amici di Ivan Il'ic pensavano anche, involontariamente, ai noiosissimi convenevoli che ora avrebbero dovuto affrontare: il funerale, la visita di condoglianze alla vedova. I pi intimi erano fedor VasiFevic e petr Ivanovic. Petr Ivanovic era stato compagno di studi di Ivan Il'ic all'Istituto di giurisprudenza e si sentiva obbligato nei suoi confronti. A casa, durante il pranzo, raccont alla moglie della sventura di Ivan Il'ic, parl anche dei suoi progetti circa un eventuale trasferimento del cognato nel loro circondario poi, rinunciando al riposino, indoss la marsina e si rec a casa di Ivan Il'ic. Davanti al portone c'erano una carrozza e due cocchieri. In anticamera, presso l'attaccapanni, era addossato alla parete il coperchio della bara rivestito di broccato con le nappe e il gallone tirato a lucido. Due dame in nero si stavano togliendo la pelliccia. Una la conosceva, era la sorella di Ivan Il'ic, l'altra era una sconosciuta. Un collega di Petr Ivanovic, Schwarz, stava scendendo dal piano superiore e, vedendolo entrare, dall'alto della scala, si ferm e gli ammicc come a dire: Ivan Il'ic ha fatto una fesseria; noi invece no Il viso di Schwarz con le fedine all'inglese e tutta la sua figura slanciata chiusa nel frac avevano, come sempre, un'eleganza solenne, e questa solennit, in perenne contrasto con il carattere frivolo di Schwarz, assumeva in quell'occasione un tono ancor pi piccante. Cos rifletteva Petr Ivanovic. Egli lasci passare le donne, quindi si avvi lentamente su per la scala. Schwarz rimase ad aspettarlo in cima. Petr Ivanovic intu il motivo: voleva evidentemente prendere accordi per il vint della sera. Le donne entrarono dalla vedova, mentre Schwarz, le forti labbra severamente serrate e lo sguardo gaio, indic a Petr Ivanovic, col movimento delle sopracciglia, la camera mortuaria sulla destra. Petr Ivanovic entr, come sempre avviene in questi casi, senza sapere bene che cosa dovesse fare. Di una cosa era sicuro, che il segno della croce, in simili frangenti, non era mai fuori luogo. Se poi dovesse anche inchinarsi mentre si segnava non gli era ben chiaro, scelse quindi una via di mezzo: entrando nella stanza si segn facendo anche una specie di inchino. Per quanto glielo permettevano i movimenti delle mani e della testa tent inoltre di dare un'occhiata alla stanza. Due giovani, di cui uno ginnasiale,

probabilmente nipoti del defunto, uscivano dalla stanza segnandosi. Una vecchietta stava in piedi immobile, mentre una dama dalle sopracciglia esageratamente alzate le sussurrava qualcosa. Un chierico in abito da cerimonia, fiero e risoluto leggeva qualcosa ad alta voce con tono che non ammetteva repliche; Gerasim, il servo dispensiere, pass davanti a Petr Ivanovic con andatura leggera e spargendo qualcosa sul pavimento. In quell'attimo Petr Ivanovic avvert un lieve odore di cadavere in decomposizione. Durante le sue ultime visite a Ivan Il'ic, Petr Ivanovic aveva notato quel servo nel suo studio; svolgeva mansioni di infermiere e Ivan Il'ic lo amava molto. Petr Ivanovic continuava a segnarsi e a inchinarsi debolmente in una direzione indefinita fra la bara, il chierico e le icone sistemate su un tavolo nell'angolo. Poi quando gli parve che questo movimento del segnarsi fosse durato abbastanza a lungo smise e cominci a osservare il morto. Esso giaceva con quella particolare pesantezza con cui sempre giacciono i morti, una pesantezza mortale appunto, con le membra irrigidite, sprofondate nel vano della bara, con la testa ripiegata per sempre sul cuscino, e mostrava, come sempre mostrano i morti, una fronte gialla e cerea, calva sulle tempie infossate e un naso prominente che quasi premeva sul labbro superiore. Era molto cambiato, ancora dimagrito da quando petr Ivanovic l'aveva visto l'ultima volta, ma, come sempre nei morti, il suo viso era pi bello e soprattutto pi espressivo di quando era vivo. Vi si leggeva che tutto quanto si doveva fare era stato fatto, e fatto bene. Si leggeva anche un rimprovero o un ammonimento ai vivi. A petr Ivanovic quell'ammonimento parve fuori luogo, o per lo meno tale da non riguardarlo. Si sent improvvisamente a disagio, si segn rapidamente un'ultima volta e, troppo rapidamente, almeno cos gli parve, non secondo le convenienze, si gir e usc. Schwarz lo aspettava in corridoio a gambe larghe, giocherellando col cilindro che teneva dietro la schiena. Bast un'occhiata alla figura slanciata, gaia, elegante di Schwarz, perch petr Ivanovic si sentisse rinfrancato. Si accorse che Schwarz era al di sopra di tutto questo e non si abbandonava a penose riflessioni. Tutto il suo aspetto diceva: l'incidente del funerale di Ivan Il'ic non pu in alcun modo costituire un pretesto per interrompere il regolare svolgersi dell'udienza, cio nulla potr impedirci stasera di far chioccare, dissuggellandolo, il mazzo di carte, mentre il domestico disporr sul tavolo quattro intatte candele; non c' insomma alcun fondamento per supporre che l'incidente possa impedirci di trascorrere piacevolmente anche la serata di oggi. Lo sussurr anche a petr Ivanovic mentre passava, proponendogli di trovarsi per la partita a casa di fedor Vasil'evic. Ma evidentemente non era destino che petr Ivanovic giocasse a vint quella sera. Praskov'ja Fedorovna, una donna piuttosto bassa e grassa che, nonostante gli sforzi per ottenere il contrario, continuava inesorabilmente ad allargarsi dalle spalle in gi, tutta in nero, con un velo in testa e le sopracciglia stranamente alzate come quelle della donna che stava in piedi di fronte alla bara, usc dalle sue stanze insieme ad altre dame, le condusse alla porta del morto dicendo: - Ora ci sar la funzione, entrate Schwarz si ferm, fece un inchino indefinito senza evidentemente

accettare, n declinare l'invito. Praskov'ja fedorovna riconoscendo Petr Ivanovic sospir, gli si avvicin, lo prese per mano e disse: - So che eravate un sincero amico di Ivan Il'ice lo guard aspettandosi una reazione adeguata a quelle parole. Petr Ivanovic sapeva che, se prima era opportuno segnarsi, ora occorreva stringere la mano, sospirare e dire: Credete! Cos fece e ottenne il risultato voluto: lui era commosso e lei era commossa. - Venite con me, prima che si cominci; ho bisogno di parlarvi, - disse la vedova. - Datemi il braccio. Petr Ivanovic le diede il braccio e insieme si avviarono verso le stanze interne passando davanti a Schwarz che ammicc malinconicamente a Petr Ivanovic: Addio vint! Temo che dovremo cercare un altro partner. Ma non preoccupatevi! Se riuscirete a liberarvi giocheremo in cinque, diceva il suo sguardo gaudente. Petr Ivanovic emise un sospiro ancora pi profondo e triste e Praskov'ja fedorovna gli strinse riconoscente la mano. Entrarono nel salotto tappezzato di cretonne rosa e illuminato da una lampada velata, si sedettero accanto a un tavolo: lei sul divano; lui su un basso puf dalle molle rotte, che mal si adattava al suo peso. Praskov'ja fedorovna voleva avvertirlo di sedersi altrove, ma pens che un tale avvertimento non sarebbe stato consono alla sua attuale posizione. Mentre si sedeva sul puf Petr Ivanovic si ricord del periodo in cui Ivan Il'ic aveva arredato quel salotto e di quando si era consultato con lui proprio riguardo a quel cretonne rosa a foglie verdi. Nel sedersi sul divano e passando accanto al tavolo (tutto il salotto era pieno di mobili e di ninnoli), la vedova rest impigliata con un pizzo dello scialle nero in un intaglio del tavolo: Petr Ivanovic fece per alzarsi e aiutarla a districarsi e il puf, sentendosi liberato, cominci ad agitarsi e a respingerlo. La vedova cerc di arrangiarsi da sola e Petr Ivanovic torn a sedersi reprimendo l'insubordinato puf. Ma il pizzo non voleva districarsi e Petr Ivanovic di nuovo si alz e di nuovo il puf prese a ribellarsi e perfino a schioccare. Quando tutto ci ebbe fine, lei prese un fazzoletto pulito di batista e cominci a piangere. Ma l'episodio del pizzo e la lotta col puf avevano sfiancato Petr Ivanovic che se ne stava ora cupo. L'imbarazzante situazione fu interrotta da Sokolov, il dispensiere di Ivan Il'ic che arriv con la notizia che il posto al cimitero designato da Praskov'ja Fedorovna costava duecento rubli. Lei smise di piangere e guardando Petr Ivanovic con aria da vittima gli disse in francese che provava una gran pena. Petr Ivanovic fece, in silenzio, un cenno con cui esprimeva la piena convinzione che non potesse essere altrimenti. - Fumate, prego, - disse lei con tono magnanimo e straziato al contempo; pass quindi a occuparsi con Sokolov della faccenda del posto. Mentre fumava, Petr Ivanovic la sent informarsi minuziosamente sui prezzi della terra e stabilire quale si dovesse prendere. Impart poi le disposizioni sui cantori. Sokolov usc. - Faccio tutto da me, - disse a Petr Ivanovic scostando gli album ch'erano sul tavolo; notando poi che la cenere della sigaretta minacciava proprio il tavolo, gli avvicin svelta il posacenere dicendo: - Trovo ipocrita far credere che, a causa del dolore, io non possa occuparmi di cose pratiche. Anzi se c' qualcosa che pu, non dico

consolarmi, ma... distrarmi, proprio l'aver cura di lui. - Di nuovo prese il fazzoletto come se si preparasse a piangere, ma d'improvviso, quasi facendo forza a se stessa si riscosse e si mise a parlare tranquillamente: - Ma io ho un problema da sottoporle. Petr Ivanovic s'inchin senza darla vinta alle molle del puf che gi erano entrate in agitazione. - Gli ultimi giorni ha sofferto orribilmente. - Davvero? - disse Petr Ivanovic. - Orribilmente! Non solo negli ultimi minuti, ma per ore non ha smesso di gridare. Ha gridato ininterrottamente tre giorni di fila. Era insopportabile. Non so neanche come sia riuscita a sopportare tutto ci, lo sentivo anche con tre porte chiuse. Cosa non ho sopportato! - Ed era lucido? - chiese Petr Ivanovic. - S, - mormor lei, - fino all'ultimo. Un quarto d'ora prima di morire ha preso commiato da noi tutti e ha chiesto di allontanare Volodja. Il pensiero delle sofferenze di un uomo che aveva conosciuto intimamente, dapprima ragazzo spensierato, compagno di scuola, poi adulto e compagno di gioco, a un tratto spavent Petr Ivanovic, malgrado la sgradevole coscienza dell'ipocrisia propria e della donna. Rivide quella fronte, il naso che quasi comprimeva il labbro ed ebbe paura per s. Tre giorni di orribili sofferenze e la morte. Tutto ci pu capitare anche a me, in qualunque momento, pens, e per un attimo fu preso dal terrore. Ma proprio allora, senza sapere come, gli venne in aiuto il solito pensiero che tutto ci era capitato a Ivan Il'ic e non a lui, che a lui non doveva e non poteva capitare nulla di simile; pens che tali riflessioni lo sprofondavano in uno stato d'animo cupo, cosa del tutto deprecabile, come risultava nettamente dal viso di Schwarz. Questo ragionamento lo convinse definitivamente. Con tutta calma e con interesse cominci a informarsi sui particolari della morte di Ivan Il'ic, come se si trattasse di un avvenimento inerente solo alla persona di Ivan Il'ic e, in nessun caso, alla propria. Dopo avere riferito nei dettagli le sofferenze fisiche patite da Ivan Il'ic (dettagli che Petr Ivanovic conobbe solo attraverso il riflesso ch'esse avevano avuto sui nervi di Praskov'ja fedorovna), la vedova trov opportuno passare al dunque. - Ah, Petr Ivanovic, che pena, che terribile pena... e di nuovo si mise a piangere. Petr Ivanovic sospir e aspett che si soffiasse il naso. Quando si fu soffiata il naso ella disse: - Credete... - e riprese a parlare esprimendo finalmente il motivo principale per cui l'aveva tratto in disparte: il punto era questo, come ottenere soldi dall'erario in caso di decesso del marito. In apparenza chiedeva a Petr Ivanovic consigli sulla pensione, ma egli si accorse ch'ella era gi al corrente di tutti i minimi particolari al riguardo, anche di quelli ch'egli ignorava. Conosceva tutto ci che si pu ottenere dall'erario in caso di morte; ma lei voleva sapere se non c'era, per caso, un modo di spillare ancora pi soldi. Petr Ivanovic si sforz d'inventare la maniera, ma, dopo averci pensato un po su e aver, per compiacenza, accusato di tirchieria il governo, disse che pi di cos, a quanto gli risultava, non era possibile ottenere. A quel punto lei sospir

e cominci evidentemente a escogitare la maniera per liberarsi dal suo ospite. Egli se ne avvide, spense la sigaretta, si alz, le strinse la mano e usc in anticamera. Nella sala da pranzo con il pendolo che Ivan Il'ic aveva acquistato con grande gioia da un rigattiere, Petr Ivanovic incontr il prete e alcuni conoscenti venuti per la funzione; vide anche una bella fanciulla che gi conosceva, la figlia di Ivan Il'ic. Era tutta vestita di nero. La vita, gi sottile, sembrava esserlo ancora di pi in quell'abito. Aveva un aspetto cupo, deciso, quasi irato. Salut Petr Ivanovic con l'aria di rimproverarlo di qualcosa. Alle sue spalle, con la medesima espressione offesa, stava un giovane, anch'esso noto a Petr Ivanovic. Era ricco, giudice istruttore e fidanzato della ragazza, a quanto si diceva. Petr Ivanovic lo salut mestamente, deciso a entrare nella camera mortuaria, quando sbuc dal sottoscala la figuretta di un ginnasiale incredibilmente somigliante a Ivan Il'ic. Era identico a Ivan Il'ic adolescente, come lo ricordava Petr Ivanovic all'Istituto di giurisprudenza. Aveva gli occhi rossi di pianto e tipici di certi adolescenti viziosi di tredici-quattordici anni. Vedendo Petr Ivanovic il ragazzo s'incup e fece una smorfia imbarazzata. Petr Ivanovic gli fece un cenno col capo ed entr nella camera mortuaria. Cominci la funzione - candele, lamenti, incenso, lacrime, singhiozzi. Petr Ivanovic se ne stava in piedi accigliato e si guardava le scarpe. Non diede nemmeno un'occhiata al morto, resistette fino in fondo alla tentazione dei pensieri oppressivi e usc fra i primi. Nell'ingresso non c'era nessuno. Gerasim, il servo dispensiere, salt fuori dalla camera del defunto, butt all'aria con le sue mani vigorose tutte le pellicce fino a trovare quella di Petr Ivanovic e gliela porse. - Allora, fratello Gerasim? - disse Petr Ivanovic, tanto per dire qualcosa, - ti dispiace? - E' la volont di Dio. Toccher a noi tutti, - rispose Gerasim mostrando i suoi denti bianchi e fitti da contadino e, pieno di energie, apr con decisione la porta, chiam il cocchiere, fece salire Petr Ivanovic in carrozza, salt all'indietro sulla rampa, gi pensando al resto da fare. Petr Ivanovic prov un piacere particolare nel respirare l'aria fresca dopo l'odore di incenso, di cadavere e di fenolo. - Dove ordinate di andare? - chiese il cocchiere. - Non tardi. Posso ancora andare da Fedor Vasil'evic. E ci and. Vi giunse proprio alla fine del primo rubber, pot quindi comodamente inserirsi come quinto. Il. La storia della vita di Ivan Il'ic era la pi semplice, la pi comune e la pi terribile. Era morto a quarantacinque anni, consigliere di Corte d'appello. Era figlio di un funzionario che aveva fatto a Pietroburgo, in diversi ministeri e dipartimenti, quella carriera che porta gli uomini a raggiungere una posizione tale per cui, bench sia chiaro che non siano veramente adatti ad alcuna mansione, tuttavia, in considerazione del lungo servizio e del grado, non possono essere licenziati. Viene loro dunque assegnato un posto fittizio creato apposta per loro, per il quale ricevono

uno stipendio tutt'altro che fittizio, dai sei ai diecimila rubli, col quale vivono fino alla pi tarda vecchiaia. Tale era il consigliere segreto Il'ja Efimovic Golovin, membro inutile di numerose inutili istituzioni. Aveva tre figli. Ivan Il'ic era il secondo. Il maggiore aveva fatto la stessa carriera del padre, per in un altro ministero, e si avvicinava ormai a quell'et di servizio in cui gli stipendi arrivavano da soli, per inerzia. Il terzo era un buono a nulla. Nei vari posti dov'era stato aveva sempre combinato qualche guaio; al momento era impiegato alle ferrovie. N il padre, n i fratelli, n tanto meno le loro mogli amavano incontrarlo e, se non c'era una necessit precisa, preferivano ignorarne perfino l'esistenza. La sorella era andata sposa al barone Gref, funzionario pietroburghese, come il suocero. Ivan Il'ic era le phnix de la famille, come dicevano. Non era n freddo e metodico come il maggiore, n disadattato come il minore. Era una via di mezzo, intelligente, vivace, piacevole, ammodo. Era stato educato all'Istituto di giurisprudenza insieme al fratello minore. Ma mentre costui, arrivato alla quinta classe era stato cacciato, Ivan Il'ic aveva terminato gli studi. All'Istituto era gi quello che sarebbe stato poi per tutta la vita: un uomo capace, allegro, bonario, socievole, ma anche determinato nell'eseguire ci che riteneva essere il suo dovere; e il suo dovere era tutto ci che le persone altolocate ritenevano tale. Non era mai stato un intrigante n da ragazzo, n poi da adulto, ma fin dall'et giovanile era stato attratto, come una mosca dalla luce, verso le persone del gran mondo, ne aveva fatto proprie le maniere, le opinioni e aveva stabilito con esse rapporti d'amicizia. Le passioni dell'infanzia e dell'adolescenza non avevano lasciato tracce profonde nella sua vita; si era abbandonato alla sensualit, alla vanit, e da ultimo, nelle classi superiori, alle idee liberali, ma sempre entro i giusti limiti che il suo istinto infallibile gli indicava. Durante il periodo dell'Istituto aveva compiuto azioni che dapprima gli erano parse delle grandi bassezze e gli avevano ispirato disgusto per se stesso; ma poi, vedendo che anche le persone altolocate le compivano e non le consideravano spregevoli, egli, senza per questo considerarle buone, fin col dimenticarle, eliminando ogni eventuale penoso ricordo. Uscito con la decima classe dall'Istituto e ottenuti dal padre i soldi per l'equipaggiamento, Ivan Il'ic si ordin l'uniforme da Scharmer, appese alla catena una medaglia con la scritta respice finem, si conged dal principe e dall'istitutore, cen coi compagni da Donon e, con una valigia nuova, biancheria, vestiti, plaid, accessori da barba e da toilette, ordinati tutti e acquistati nei migliori negozi, part per la provincia a occupare il posto trovatogli dal padre, di funzionario con incarichi speciali presso il governatore. In provincia Ivan Il'ic si cre una posizione altrettanto facile e piacevole di quella dell'Istituto. Lavorava, faceva carriera e intanto si divertiva simpaticamente e decorosamente; si recava di tanto in tanto in qualche distretto per incarico della direzione, si comportava correttamente sia coi superiori che con i subalterni, era scrupoloso, onesto, incorruttibile, cosa di cui andava

giustamente fiero, eseguiva i compiti affidatigli in relazione, soprattutto, ai processi contro i settari. Nelle faccende d'ufficio, nonostante la giovane et e l'inclinazione alla pi spensierata allegria, era incredibilmente riservato, formale e perfino severo; ma in societ era spesso scherzoso e arguto, sempre bonario, ammodo e bon enfant, come dicevano il governatore e sua moglie coi quali era entrato in confidenza. In provincia ebbe anche una relazione con una donna che si era buttata fra le braccia dell'elegante magistrato; poi ci fu una modista, poi le gozzoviglie con gli aiutanti di campo di passaggio e le gite, dopo cena, in una certa strada appartata; e poi il corteggiamento al governatore e perfino a sua moglie, ma tutto era fatto con stile, tanto che non lo si poteva definire con male parole, ma semplicemente catalogare con l'espressione francese: il faut que jeunesse se passe. Tutto avveniva con mani pulite, camicie linde, parole francesi, nell'alta societ, quindi con l'approvazione delle persone in vista. Cos pass cinque anni, poi venne il trasferimento. Apparvero nuove istituzioni giudiziarie, c'era bisogno di uomini nuovi. Ivan Il'ic divenne uno di questi uomini nuovi. Gli fu offerto un posto di giudice istruttore ed egli accett, bench il posto fosse in un'altra provincia e gli toccasse abbandonare le vecchie conoscenze e instaurarne di nuove. Gli amici lo accompagnarono, si fecero ritrarre in gruppo, gli regalarono un portasigarette d'argento ed egli part per la nuova destinazione. Come giudice istruttore Ivan Il'ic fu altrettanto camme il faut, ammodo, capace di separare i doveri d'ufficio dalla vita privata e di conquistarsi il rispetto di tutti, com'era stato nella precedente posizione di funzionario in missione speciale. Il nuovo incarico inoltre presentava per Ivan Il'ic un interesse e un'attrattiva di gran lunga maggiori. In quello precedente era stato piacevole camminare con andatura disinvolta, nell'uniforme di Scharmer, davanti a trepidi postulanti in attesa e a impiegati che lo invidiavano, infilarsi direttamente nello studio del governatore a prendere il t e fumare con lui una sigaretta; ma le persone alle sue dipendenze erano allora poche. Si trattava di capi di polizia distrettuali e di settari, quando lo inviavano in missione; ed egli amava trattare cortesemente, quasi cameratescamente questi suoi subalterni, amava far sentire che egli avrebbe potuto schiacciarli, e invece li trattava amichevolmente, con semplicit. Queste persone sotto di lui erano comunque poche. Ora invece, come giudice istruttore sentiva che tutti, senza eccezione, anche i pi superbi e altezzosi erano nelle sue mani e che gli bastava scrivere due paroline su carta intestata perch questi stessi superbi e altezzosi fossero condotti da lui in qualit di accusati o testimoni e costretti a rispondere, in piedi, alle sue domande, se egli non decideva addirittura di sbatterli dentro. Ivan Il'ic non abusava mai del suo potere, anzi, cercava di mitigarne i termini; ma la consapevolezza di questo potere e la possibilit di mitigarlo costituivano appunto l'interesse principale del nuovo incarico. Nell'esercizio di questo impiego e soprattutto durante le istruttorie, Ivan Il'ic ben presto impar ad allontanare

da s tutte le circostanze che non avevano attinenza col suo ufficio e a presentare ogni caso, anche il pi complicato, in forma tale che sulla carta risultassero solo i tratti esteriori, escludendo ogni convinzione personale e attenendosi rigorosamente all'aspetto formale. Questa maniera di procedere era allora nuova e Ivan Il'ic fu tra i primi ad applicare il codice del 1864. Trasferendosi nella nuova citt con l'incarico di giudice istruttore Ivan Il'ic fece nuove conoscenze, allacci nuove relazioni, riorganizz la propria vita in modo nuovo e assunse un tono un po diverso. Si tenne decorosamente a distanza dalle autorit della provincia e scelse come giro privilegiato quello dei magistrati e dei nobili facoltosi che vivevano in citt; assunse un tono di lieve malcontento verso il governo, di moderato liberalismo e di educata coscienza civica. Inoltre, senza rinunciare minimamente all'eleganza del proprio abbigliamento, smise di radersi il mento e lasci libera la barba di crescere come voleva. Anche nella nuova citt Ivan Il'ic organizz piacevolmente la propria vita: la societ che faceva la fronda contro il governatore era accogliente e distinta, lo stipendio pi alto di prima e il gioco del vint, al quale cominci a partecipare, aggiunse nuove piacevolezze alla sua vita. Ivan Il'ic era brillante, aveva intuito e fantasia, a carte vinceva sempre. Due anni dopo il suo arrivo nella nuova citt Ivan Il'ic incontr la sua futura moglie. Praskov'ja Fedorovna Michel era la ragazza pi attraente, pi intelligente, pi brillante del circolo frequentato da Ivan Il'ic. Fra i vari divertimenti e svaghi dopo il lavoro, Ivan Il'ic inser anche la relazione leggera, scherzosa con Praskov'ja Fedorovna. Quand'era funzionario in missione speciale Ivan Il'ic ballava spesso; divenuto giudice istruttore, smise quasi completamente. Ballava soltanto per dimostrare che, pur appartenendo ai nuovi tribunali e alla quinta classe dell'impiego statale, egli, in fatto di ballo, non era secondo a nessuno. Cos, di tanto in tanto, a fine serata, ballava con Praskov'ja Fedorovna e fu proprio durante questi balli che conquist il cuore di lei. S'innamor di lui. Ivan Il'ic non aveva un'intenzione chiara, ben definita di sposarsi, ma quando la fanciulla s'innamor di lui egli cominci a chiedersi: In effetti, perch non dovrei sposarmi? Praskov'ja Fedorovna era graziosa e di famiglia nobile; possedeva un piccolo patrimonio. Certo Ivan Il'ic avrebbe potuto aspirare a un partito pi brillante, ma anche questo non era male. Lui, Ivan Il'ic, aveva il suo stipendio, lei, almeno cos egli sperava, avrebbe portato altrettanto. Buona nascita, carina, attraente e molto per bene. Dire che Ivan Il'ic si sposava perch amava la fidanzata e trovava in lei piena consonanza con le sue idee sulla vita sarebbe stato altrettanto inesatto quanto dire che egli si sposava perch la gente della sua cerchia approvava questo partito. Ivan Il'ic si sposava per entrambe le ragioni: faceva cosa gradita a se stesso e, al contempo, faceva ci che la gente dell'alta societ riteneva giusto fare. E cos Ivan Il'ic si spos. La cerimonia delle nozze e i primi tempi della vita

matrimoniale, con le carezze coniugali, i mobili nuovi, le stoviglie nuove, la biancheria nuova, tutto, fino al momento della gravidanza della moglie, pass molto bene, tanto che Ivan Il'ic decise che non solo il matrimonio non disturbava l'andamento leggero, allegro, piacevole della vita, sempre decoroso e confortato dall'approvazione della societ che egli riteneva essere proprio della vita in generale, ma che anzi lo esaltava. Ma ecco che nei primi mesi di gravidanza della moglie avvenne qualcosa di nuovo, di inatteso e spiacevole, di pesante e di indecoroso che non era possibile prevedere e da cui non c'era scampo. La moglie, senza alcun motivo, almeno cos parve a Ivan Il'ic, per pura gatte de coeur, cominci a turbare la piacevolezza e il decoro della vita: divenne ingiustamente gelosa, si mise a esigere attenzioni particolari, a cercare continui pretesti per fargli scenate sgradevoli e volgari. Da principio Ivan Il'ic sper di liberarsi da questa spiacevole situazione ricorrendo al consueto modo di vivere leggero e decoroso che l'aveva sempre sostenuto, prov a ignorare il cattivo umore della moglie vivendo alla vecchia maniera: continu a invitare a casa sua gli amici per la partita a carte o a recarsi lui da loro, oppure al club. Ma la moglie lo rimprover con tale irruenza e male parole una prima volta, e poi regolarmente, quando le sue pretese non venivano soddisfatte, ch'egli si spavent. E le sue pretese irrinunciabili erano ch'egli rimanesse a casa ad annoiarsi, cos come si annoiava lei. Ivan Il'ic comprese allora che la vita coniugale, per lo meno quella con sua moglie, non contribuiva certo a esaltare i piaceri e il decoro della vita, ma che spesso, anzi, li rovinava e ch'era necessario proteggersi da queste aggressioni. Ivan Il'ic cerc il modo di farlo. E poich il suo lavoro era l'unica cosa che Praskov'ja Fedorovna rispettasse, attraverso il lavoro e gli impegni ch'esso comportava cerc di combattere la moglie e di crearsi un suo mondo indipendente. Con la nascita del bambino, i tentativi di allattamento e i vari insuccessi in proposito, con le malattie reali e immaginarie di madre e bambino, malattie cui era richiesta la partecipazione di Ivan Il'ic, il quale non ci capiva niente, il bisogno di coltivare quel mondo esterno alla famiglia divenne ancora pi pressante. Pi la moglie diventava esigente e irascibile, pi Ivan Il'ic trasferiva sul lavoro il centro della propria esistenza. Cominci ad amare di pi il suo lavoro e a essere pi ambizioso. Ivan Il'ic cap molto presto, non pi di un anno dopo il matrimonio, che la vita matrimoniale, pur presentando alcune comodit, era, nella sostanza, qualcosa di pesante e di difficile; se si voleva quindi compiere il proprio dovere e cio condurre un'esistenza decorosa e accettata dalla societ, occorreva stabilire con essa, come col lavoro, una linea di condotta ben precisa. Fu proprio quello che Ivan Il'ic fece. Egli richiese alla vita di famiglia soltanto quei vantaggi ch'essa poteva fornirgli, i pranzi, la conduzione della casa, il letto e, soprattutto, quel decoro esteriore ch'era apprezzato dall'opinione pubblica. Per il resto egli cercava allegria e piacevolezza; quando le trovava era grato, se al loro posto

incontrava resistenze e brontolii si ritirava immediatamente nel suo mondo privato, quello del lavoro, e trovava l le sue soddisfazioni. Ivan Il'ic era apprezzato come buon funzionario, abile nel disbrigo delle pratiche e, dopo tre anni, fu nominato procuratore aggiunto. I nuovi incarichi, la loro rilevanza, la possibilit di rinviare a giudizio e di mandare in galera chiunque, le pubbliche arringhe, il successo ch'egli otteneva in questo campo legarono ancora maggiormente Ivan Il'ic al suo lavoro. Vennero altri figli. La moglie divenne sempre pi brontolona e irritabile, ma l'impostazione che Ivan Il'ic aveva dato alla sua vita familiare lo rendeva quasi impermeabile ai rimbrotti di lei. Dopo sette anni di servizio nella stessa citt, Ivan Il'ic fu trasferito in un'altra provincia con l'incarico di procuratore. Dovettero traslocare. I soldi non bastavano e alla moglie non piacque la nuova sede. Lo stipendio era pi alto, ma la vita pi cara; morirono anche due bambini e ci rese la vita familiare ancora pi sgradevole per Ivan Il'ic. Praskov'ja Fedorovna addossava al marito tutte le colpe dei guai capitati alla famiglia nella nuova sede. Le discussioni fra marito e moglie, per lo pi riguardanti l'educazione dei figli, finivano immancabilmente per tornare su questioni che rammentavano passati litigi, e i litigi erano pronti a infiammarsi ogni momento. Restavano soltanto quei rari periodi di intimit amorosa che ancora capitavano ai due coniugi, ma che non duravano a lungo. Erano isolette a cui approdavano di tanto in tanto per poi ripiombare nel mare dell'ostilit repressa che si traduceva in alienazione reciproca. Questa alienazione avrebbe potuto amareggiare Ivan Il'ic se egli avesse ritenuto che cos non doveva essere, ma egli ormai considerava quella situazione non solo normale, ma addirittura funzionale all'obiettivo della sua condotta in famiglia. E l'obiettivo consisteva precisamente in questo: estraniarsi il pi possibile dai fastidi familiari e renderli inoffensivi e conformi al decoro esteriore. Vi riusc, trascorrendo sempre meno tempo in famiglia e garantendosi la presenza di estranei quando era costretto a starci. Ma la cosa principale per Ivan Il'ic restava il suo lavoro. L concentr ogni interesse della vita. E questo interesse lo inghiott completamente. La coscienza del proprio potere, la possibilit di rovinare chiunque volesse, la rispettabilit anche esteriore di cui godeva quando entrava in tribunale o incontrava i dipendenti, il suo successo con superiori e subalterni e soprattutto la padronanza ch'egli sentiva nel condurre i casi, tutto era per lui fonte di gioia e, insieme alle conversazioni con gli amici, ai pranzi, al vint, gli riempiva la vita. Insomma, l'esistenza di Ivan Il'ic continuava a scorrere cos come egli riteneva dovesse scorrere: in modo piacevole e decoroso. Passarono altri sette anni. La figlia maggiore aveva gi sedici anni, un altro bambino era morto, rimaneva un ragazzo in et da ginnasio, oggetto delle dispute familiari. Ivan Il'ic voleva iscriverlo all'Istituto di giurisprudenza, Praskov'ja fedorovna, per dispetto, lo iscrisse al ginnasio. La figlia studiava a casa e cresceva

bene e anche il figlio se la cavava negli studi. III. Cos era trascorsa la vita di Ivan Il'ic in diciassette anni di matrimonio. Era gi un procuratore anziano, aveva rifiutato alcuni trasferimenti in attesa di una carica pi ambita, quando all'improvviso si verific un fatto spiacevole che distrusse la quiete della sua esistenza. Ivan Il'ic aspettava un posto di presidente in una citt universitaria, ma Hoppe riusc a passargli davanti e a ottenerlo. Ivan Il'ic si irrit, si mise a rimproverarglielo e a litigare con lui e con i superiori pi prossimi; questi divennero scostanti e al successivo concorso lo ignorarono di nuovo. Era il 1880. Fu l'anno pi difficile della vita di Ivan Il'ic. Da un lato non bastava lo stipendio, dall'altro sembrava che tutti lo avessero dimenticato e che quella che a lui sembrava la peggiore e pi crudele delle ingiustizie, ad altri paresse la cosa pi normale del mondo. Neppure il padre ritenne suo dovere aiutarlo. Sentiva che tutti lo avevano abbandonato, considerando il suo impiego da tremilacinquecento rubli una sistemazione assolutamente normale e perfino fortunata. Soltanto lui sapeva che non era affatto normale, lui, con la coscienza delle ingiustizie subite, delle eterne lamentele della moglie, dei debiti che aveva contratto conducendo un'esistenza al di sopra dei propri mezzi. L'estate di quell'anno, per alleggerire il bilancio familiare prese un congedo e and a stare con la moglie in campagna, dal fratello di Praskov'ja Fedorovna. In campagna, senza il lavoro, Ivan Il'ic prov, per la prima volta, non solo noia, ma un'angoscia insopportabile e decise che cos non si poteva vivere e che doveva prendere una decisione drastica. Dopo una notte insonne, trascorsa a camminare sulla terrazza, decise di partire per Pietroburgo a perorare la propria causa e di trasferirsi in un altro ministero. Avrebbe cos castigato quelli l, che non avevano saputo apprezzarlo. Il giorno seguente, nonostante i tentativi della moglie e del cognato per dissuaderlo, part alla volta di Pietroburgo con un unico scopo: ottenere un posto con lo stipendio di cinquemila rubli. Non aveva preferenze per alcun tipo di ministero o di impiego. Gli serviva solo un posto da cinquemila rubli, non importava che fosse nell'amministrazione, in banca, alle ferrovie, negli uffici dell'imperatrice Maria o alla dogana, l'importante era che fosse da cinquemila rubli e, immancabilmente, in un ministero diverso da quello dove non avevano saputo apprezzarlo. Il viaggio di Ivan Il'ic fu coronato da uno straordinario, inaspettato successo. A Kursk, nel suo scompartimento di prima classe sal F. S. Il'in, un conoscente il quale gli rifer di un telegramma che il governatore di Kursk aveva appena ricevuto, dove si parlava di un imminente trasferimento al ministero; al posto di Ivan Semenovic sarebbe subentrato Petr Ivanovic. Il rimpasto annunciato, oltre all'importanza che rivestiva per tutta la Russia, aveva anche un significato

particolare per Ivan Il'ic. Portando infatti alla ribalta un personaggio nuovo, Petr Ivanovic, e con ogni evidenza anche un suo amico, Zachar Ivanovic, tornava a grande vantaggio di Ivan Il'ic, che era stato a sua volta compagno di studi e amico di Zachar Ivanovic. La notizia fu confermata a Mosca. E giunto a Pietroburgo, Ivan Il'ic trov Zachar Ivanovic, dal quale ottenne la promessa di un buon posto nello stesso ministero di Giustizia. Una settimana pi tardi mand alla moglie un telegramma: Zachar al posto di Miller prossimo rapporto ricevo nomina Grazie a questo avvicendamento di cariche, Ivan Il'ic ottenne inaspettatamente, nel suo stesso ministero, una nomina che lo poneva due gradi al di sopra dei suoi colleghi: cinquemila rubli di stipendio, pi un premio di trasferimento di tremilacinquecento rubli. Tutta la rabbia accumulata contro i nemici e contro l'amministrazione fu dimenticata e Ivan Il'ic fu completamente felice. Torn in campagna allegro, raggiante come non lo era da tempo. Anche Praskov'ja Fedorovna lo fu e fra di loro si stabil una tregua. Ivan Il'ic raccont degli onori ricevuti a Pietroburgo, di come tutti i suoi ex nemici fossero stati rovesciati e strisciassero ora davanti a lui, della loro attuale invidia per la sua posizione, ma soprattutto raccont di quanto lo amassero a Pietroburgo. Praskov'ja Fedorovna ascolt tutto, mostrando di credere a ogni cosa, senza mai contraddirlo; si limit a fare progetti per la nuova sistemazione nella citt dove si sarebbero trasferiti. Ivan Il'ic not con gioia che quei progetti erano i suoi, che coincidevano in pieno e che di nuovo la sua esistenza calpestata acquistava quel carattere autentico, di allegra piacevolezza e di decoro che le era proprio. Ivan Il'ic era tornato solo per poco. Il 10 settembre doveva prendere servizio e inoltre aveva bisogno di tempo per sistemarsi nella nuova sede, traslocare dalla provincia, comprare e ordinare molte cosette, insomma per organizzarsi come, in cuor suo, aveva programmato di fare e che coincideva quasi a pennello con quello che aveva in animo di fare Praskov'ja Fedorovna. Ora che le cose si erano messe per il meglio, che marito e moglie avevano comunanza d'intenti e che, oltre tutto, vivevano poco insieme, si ritrovarono amici l'uno dell'altra, come non accadeva dai primi tempi del loro matrimonio. Ivan Il'ic avrebbe voluto trasferire subito tutta la famiglia, ma le insistenze della cognata e del cognato, divenuti improvvisamente amabili e affettuosi con lui e con la sua famiglia, lo convinsero a partire da solo. Ivan Il'ic part e la lieta disposizione di spirito prodotta dal doppio successo della promozione e dell'accordo con la moglie non lo abbandon. Trov un'appartamento delizioso, proprio come l'avevano sognato marito e moglie. Sale da ricevimento ampie, alte, all'antica, uno studio comodo, spazioso, camera per la moglie e per la figlia, uno studio per il figlio, tutto sembrava essere stato pensato per loro. Si occup di persona dell'appartamento, scelse la tappezzeria, acquist il mobilio, soprattutto mobili antichi che davano un tono particolarmente

comme ilfaut, scelse le stoffe, e tutto quanto cresceva a poco a poco, avvicinandosi all'ideale che Ivan Il'ic si era prefisso. Quando arriv a met dei lavori vide che i risultati superavano le aspettative. E gi intuiva quel tono appunto comme ilfaut, elegante, raffinato che avrebbe assunto la casa, una volta terminati i lavori. Si addormentava col pensiero della sala e del suo futuro aspetto. Guardando il salotto in allestimento, vedeva gi il camino, il paravento, l'etagere, le seggioline sparpagliate, i piatti e i bronzi alle pareti, tutto come sarebbe apparso quando ogni cosa fosse stata a posto. Pensava con gioia alla sorpresa di Pasa e Lizan'ka che avevano, anche loro, il gusto di quelle cose, e di certo non si aspettavano tanto. Riusc anche a trovare, a poco prezzo, certi oggetti antichi che davano all'insieme un particolare tono di nobilt. Nelle lettere a casa, le sue descrizioni erano di proposito peggiori della realt, in modo da impressionarli maggiormente, quando fosse venuto il momento. Era talmente preso da questa casa che perfino il nuovo incarico da lui tanto amato lo occupava di meno. Durante le udienze gli capitava di distrarsi pensando al tipo di tende da scegliere, diritte o raccolte ai lati. L'entusiasmo era tale che spesso si metteva da solo a spostare mobili o ad attaccare tende. Una volta si arrampic su una scaletta per mostrare al tappezziere come voleva un certo drappeggio; mise il piede in fallo e cadde, ma da uomo forte e agile qual era, riusc a mantenersi in piedi, battendo solo il fianco contro la maniglia della finestra. Per un po la botta gli fece male, poi pass. Per tutto quel periodo Ivan Il'ic si sent particolarmente in forma e allegro. Scriveva: Mi sento alleggerito di quindici anni. Pensava di terminare per settembre, ma i lavori si protrassero fino a met ottobre. In compenso il risultato fu meraviglioso, non solo a suo giudizio, ma anche a detta di tutti coloro che venivano in visita. In realt c'era tutto quello che si trova di solito nelle case della gente non proprio ricca, ma che vuole sembrare ricca e che perci finisce solo con l'assomigliare ad altra gente con la stessa ambizione: damaschi, ebani, fiori, tappeti, bronzi, tutte cose scure e brillanti, quelle appunto che scelgono le persone di un certo ceto e che le rendono simili a tutte le altre del medesimo ceto. Anche da lui era tutto cos comune che non si riusciva a notare nulla, ma a lui sembrava tutto molto originale. Quando and a prendere i suoi alla stazione li port nella casa nuova finita e tutta illuminata, dove un domestico in cravatta bianca li ricevette nell'ingresso pieno di fiori. Entrarono in soggiorno, nello studio, sollevando esclamazioni di gioia. Egli ne fu felice, li guid dappertutto beandosi delle loro lodi ed era raggiante di piacere. Quella sera, durante il t, quando Praskov'ja Fedorovna gli chiese, fra le altre cose, come fosse caduto, egli scoppi a ridere e mimo la scena della caduta, mostrando com'era volato gi dalla scala, spaventando il tappezziere. - Non per niente sono un ginnasta. Un altro si sarebbe ammazzato, io me la sono cavata con una botta. Quando la tocco mi fa male, ma sta gi passando, un semplice livido. E cominciarono a vivere nel nuovo appartamento al quale, come sempre, quando si furono ben sistemati, risult

mancare una sola stanza, e con il nuovo stipendio, al quale, come sempre, mancava solo qualcosina, un cinquecento rubli, per essere a posto, ma tutto andava bene. Soprattutto, nei primi tempi, quando la casa non era ancora finita e andava completata, quando c'era sempre qualcosa da comprare, da ordinare, da spostare o da sistemare. Anche se non mancavano gli screzi fra marito e moglie, erano entrambi talmente soddisfatti e pieni di cose da sbrigare che tutto si aggiustava senza grandi litigi. Quando non ci fu pi niente da fare e gi cominciavano ad annoiarsi e a sentire la mancanza di qualcosa, comparvero nuove amicizie, nuove abitudini e la vita ridivenne piena. Ivan Il'ic, passata la mattina in tribunale, tornava per pranzo ed era, nei primi tempi, di buon umore, anche se soffriva un po proprio a causa del nuovo alloggio (ogni macchia sulla tovaglia, sulla tappezzeria, il cordone strappato di una tenda, lo irritavano; aveva riposto tanta fatica nell'allestimento di quella casa che ogni minimo guasto lo faceva star male) In linea di massima tuttavia, la vita di Ivan Il'ic scorreva come, secondo il suo criterio, doveva scorrere la vita: leggermente, piacevolmente, decorosamente. Si alzava alle nove, beveva il caff, leggeva il giornale, poi indossava l'uniforme e andava in tribunale. L trovava bell'e pronto il suo giogo e vi si sottometteva di buon grado: postulanti, certificati per la cancelleria, il lavoro vero e proprio di cancelleria, le udienze. Da tutto ci occorreva saper escludere la parte cruda, vitale che sempre s'infilava a intralciare il corso regolare dei processi, e cio bisognava evitare ogni relazione che non fosse d'ufficio e anche il solo possibile instaurarsi di relazioni che non fossero d'ufficio. Se per esempio veniva uno che voleva sapere qualcosa, Ivan Il'ic, come persona, non poteva aver niente da spartire con quell'individuo, ma se costui si rivolgeva a lui in quanto funzionario, stabilendo un rapporto che poteva essere espresso su carta intestata, allora, nell'ambito di tale rapporto, Ivan Il'ic faceva il possibile per accontentarlo e lo faceva conservando la parvenza di un rapporto umano amichevole, cio di cortesia. Non appena terminava il rapporto d'ufficio terminava ogni altro tipo di rapporto. Ivan Il'ic aveva elaborato una grande abilit nel separare le questioni d'ufficio dalle altre, tanto che, a volte, si permetteva di mischiare rapporti umani e rapporti di ufficio, da vero virtuoso qual era. Se lo permetteva anche perch sentiva sempre in s la forza di poter separare, all'occorrenza, l'ufficiale dal personale. Tutto ci gli riusciva non solo facile, piacevole e decoroso, ma anche a regola d'arte. Negli intervalli fumava, beveva t, conversava di politica, di argomenti generali, di carte e soprattutto di nomine. Tornava a casa stanco, ma col sentimento del virtuoso che ha eseguito con la massima precisione la sua parte di primo violino nell'orchestra. A casa trovava che moglie e figli erano fuori o avevano ospiti, che il figlio ginnasiale preparava le lezioni con un istitutore e studiava con diligenza le materie del ginnasio. Tutto procedeva bene. Dopo pranzo, se non c'erano ospiti, Ivan Jl'ic si metteva a leggere un libro di cui si parlava molto; la sera, invece, sbrigava faccende di lavoro, leggeva incartamenti,

consultava codici, confrontava deposizioni, applicava leggi. La cosa non gli procurava n noia, n piacere. Si annoiava solo se c'era la possibilit di giocare a vint; ma se non c'era il vint preferiva lavorare, piuttosto che starsene da solo o in compagnia della moglie. I piaceri di Ivan Il'ic erano i pranzetti a cui invitava signori e dame che godevano di una buona posizione in societ e i momenti che passava con loro, assolutamente simili a tutti gli altri momenti di svago della gente del suo tipo, cos come il suo salotto era assolutamente simile a tutti gli altri salotti. Una volta organizz a casa sua perfino una festa danzante. Ivan Il'ic era allegro e tutto and a meraviglia, solo che litig furiosamente con la moglie per via delle torte e degli altri dolci: Praskov'ja Fedorovna voleva fare alla sua maniera, Ivan Il'ic insistette per comperare tutto da un pasticciere caro. Ordin una quantit di torte e la lite scoppi perch le torte rimasero e il conto del pasticciere fu di quarantacinque rubli. Fu un litigio sgradevole, pesante, Praskov'ja Fedorovna gli diede del cretino e del deficiente. Egli si mise le mani nei capelli mentre gli balen nella mente un pensiero di divorzio. Ma la festa in s riusc perfettamente. Vi partecip la migliore societ, Ivan Il'ic ball con la principessa Trufonova, sorella della nota fondatrice della societ Allevia il mio dolore Le gioie del lavoro erano gioie di amor proprio, quelle di societ lusingavano la sua vanit, ma le vere gioie di Ivan Il'ic erano legate al gioco del vint. Egli riconosceva che dopo qualunque triste episodio della sua vita, la gioia che, come una candela, brillava sopra ogni altra, era quella di sedere al tavolo del vint in quattro buoni giocatori, partner poco chiassosi (in cinque era troppo difficile, anche se si fingeva di divertirsi ugualmente molto), di giocare con intelligenza e seriet, quando le carte erano favorevoli, e andare poi a cena e a bersi un bicchiere di vino. Dopo il vint, specie se c'era stata una piccola vincita (quand'era grossa no, era antipatico), Ivan Il'ic andava a dormire in uno stato d'animo particolarmente buono. Cos vivevano. Il loro giro di conoscenze era socialmente dei migliori; andavano a trovarli persone importanti e giovani. Riguardo al genere di relazioni da coltivare, marito, moglie e figlia avevano lo stesso, identico punto di vista, e di comune, tacito accordo respingevano i vari amici e parenti straccioni che tentavano di invadere, pieni di tenerezze, il loro salotto con i piatti giapponesi alle pareti. Ben presto per questi amici straccioni si ritirarono e i Golovin rimasero attorniati solo dalla migliore societ. I giovanotti facevano la corte a Lizan'ka e, fra questi, Petriscev, giudice istruttore, figlio di Dmitrij Ivanovic Petriscev e unico erede della sua sostanza. A questo proposito Ivan Il'ic e Praskov'ja Fedorovna si erano gi consultati sull'opportunit di organizzare per loro una gita in troika o un qualche altro divertimento. Cos vivevano e tutto procedeva per il meglio, senza alcun cambiamento. IV.

Tutti godevano di buona salute. Non si poteva certo chiamare malattia quello strano sapore che Ivan Il'ic sentiva di tanto in tanto in bocca, o quel fastidio alla parte sinistra del ventre. Ma accadde che quel fastidio cominci ad aumentare e a trasformarsi non proprio in dolore, ma in una sensazione di costante pesantezza al fianco e in cattivo umore. Questo malumore diventando sempre pi forte, fin col guastare la piacevole atmosfera di vita leggera e decorosa che si era instaurata in casa Golovin. Marito e moglie cominciarono a litigare sempre pi spesso e ben presto scomparve ogni leggerezza e piacevolezza, mantenendosi a stento il decoro. Le scenate si fecero sempre pi frequenti, come una volta. E come una volta rimasero quelle rare isolette su cui marito e moglie potevano incontrarsi senza esplodere. Praskov'ja Fedorovna diceva ormai, non senza fondamento, che il marito aveva un brutto carattere. E come sempre ingigantendo le cose, ripeteva che lui aveva sempre avuto un carattere orribile e che ci era voluta tutta la sua bont per sopportarlo vent'anni. Certamente era vero che i litigi ora scoppiavano per colpa di Ivan Il'ic. Trovava pretesti per fare scenate sempre prima di pranzo e spesso appena iniziava la minestra. Ora il piatto era sbrecciato, ora non andava bene il cibo, ora il figlio appoggiava i gomiti sul tavolo o la pettinatura della figlia non andava bene. E di tutto quanto era colpevole Praskov'ja Fedorovna. All'inizio lei prov a replicare rispondendogli a tono, ma egli si infuri talmente, un paio di volte durante il pranzo, che lei comprese trattarsi di uno stato morboso legato all'assunzione del cibo; da allora si calm, smise di replicare e fece solo in modo che i pasti si concludessero il pi rapidamente possibile. Consider un grande merito la propria rassegnazione. Cominci anzi a compatirsi dopo aver deciso che il marito aveva un carattere orribile e le aveva rovinato la vita. E quanto pi si compiangeva tanto pi odiava il marito. Cominci a desiderare che morisse, ma non poteva neanche abbandonarsi a questo desiderio perch, in tal caso, sarebbe venuto a mancare lo stipendio. E cos l'irritazione verso di lui cresceva ulteriormente. Si riteneva terribilmente infelice perch nemmeno la sua morte avrebbe potuto salvarla; si irritava, nascondeva l'irritazione e questo rancore represso stimolava quello di lui. Dopo una scenata durante la quale Ivan Il'ic era stato particolarmente ingiusto e dopo aver ammesso, al momento della spiegazione, che la sua irritazione era dovuta essenzialmente alla malattia, la moglie concluse che doveva assolutamente farsi curare e insistette perch consultasse un noto medico. Egli ci and. Tutto fu come si aspettava; tutto come sempre avviene. L'attesa in anticamera, il tono d'importanza dottorale ch'egli conosceva bene, perch era lo stesso che usava in tribunale, i colpetti delle dita, l'auscultazione, le domande che richiedevano risposte predeterminate e inutili e quell'aria solenne che diceva: voi non dovete far nulla, affidatevi a noi, facciamo tutto noi, noi sappiamo bene, infallibilmente, quello che si deve fare, chiunque voi siate, tutti gli uomini vanno presi alla stessa maniera. Esattamente come in tribunale.

Il noto dottore teneva verso di lui lo stesso contegno che Ivan Il'ic teneva in tribunale verso gli imputati. Il dottore diceva che c'erano determinati sintomi che segnalavano la presenza di una certa affezione interna, la quale per, se non era confermata da questo e quest'altro esame, non era attendibile e poteva lasciar presupporre la presenza di qualcos'altro del genere di... Per Ivan Il'ic una sola cosa era importante, sapere se la sua situazione era grave oppure no. Ma il dottore ignorava quella richiesta inopportuna. Dal suo punto di vista era una domanda oziosa che non meritava considerazione; si trattava solo di soppesare alcune ipotesi: rene mobile, catarro cronico o affezione dell'intestino cieco. Non era in gioco la vita di Ivan Il'ic, ma la disputa fra rene mobile e intestino cieco. E il dottore risolse brillantemente, sotto gli occhi di Ivan Il'ic, questa disputa a vantaggio dell'intestino cieco, con la riserva che l'esame delle urine avrebbe potuto fornire dati nuovi, alla cui luce il quadro complessivo avrebbe potuto essere rivisto. Era esattamente quello che Ivan Il'ic aveva fatto brillantemente migliaia di volte con i suoi imputati. Altrettanto brillantemente il dottore trasse le sue conclusioni mentre fissava, al di sopra degli occhiali, il suo imputato, con sguardo trionfante e perfino allegro. Dalle parole del dottore, Ivan Il'ic si cre la convinzione di essere molto ammalato. E cap che la cosa non importava un gran che al dottore e, in fondo, nemmeno agli altri. Ma lui stava male. La scoperta lo fer dolorosamente, suscitandogli un sentimento di pena verso se stesso e di rabbia verso il dottore, indifferente a una questione tanto importante. Tuttavia non fece commenti, si alz, depose i soldi sul tavolo e sospirando disse soltanto: - Probabilmente noi malati rivolgiamo spesso domande fuori luogo. Ma questa malattia grave o no?... Il dottore gli gett uno sguardo severo da un occhio solo, attraverso gli occhiali, come a dire: imputato, se non rimanete nei limiti delle domande che vi vengono poste sar costretto a farvi allontanare dall'aula. - Vi ho gi detto ci che ritengo utile e necessario, rispose il dottore. - Il resto sar rivelato dalle analisi. E con ci si inchin. Ivan Il'ic usc lentamente, sal abbattuto sulla slitta e si avvi verso casa. Per tutta la strada rimugin le parole del dottore, cercando di tradurre in linguaggio semplice quei termini confusi, scientifici e tortuosi, di leggervi una risposta alla domanda: stava male, molto male, o non era cos tanto grave? Gli pareva che il senso di tutto il discorso del dottore si riassumesse in questo, che egli stava molto male. Per la strada ogni cosa gli parve triste. I vetturini erano tristi, le case erano tristi, i passanti, le botteghe erano tristi. Gli pareva che il dolore sordo, ottuso che non lo lasciava un attimo avesse assunto, alla luce degli oscuri discorsi del dottore, un nuovo, inquietante significato. Ivan Il'ic prestava ascolto a quel dolore con un sentimento diverso e penoso. Tornato a casa, raccont tutto alla moglie. Lei cominci ad ascoltare, ma a met discorso entr la figlia con un cappellino in testa, pronta a uscire con la madre. Si sedette con loro e ascolt con sforzo quel racconto

noioso. Non resistette a lungo e nemmeno la moglie riusc ad ascoltare tutta la storia. - Beh, sono proprio contenta, - tagli corto lei - ora devi badare a prendere le medicine. Dammi la ricetta, mander Gerasim in farmacia. - E and a vestirsi. Finch la moglie era presente Ivan Il'ic non tir neanche il fiato, ma appena lei usc sospir pesantemente. - Ma s, - disse. - Dopo tutto, forse, non cos grave... - Cominci a prendere le medicine, a seguire le prescrizioni del dottore, le quali, per altro, furono sostituite dopo il risultato delle urine da altre prescrizioni. A questo punto per risult ch'era successo qualcosa di strano durante le analisi, o dopo, nella lettura dei risultati. Non era colpa del dottore, ma sembrava che non fosse stato fatto quello che il dottore aveva richiesto, oppure che questi si fosse dimenticato di richiederlo o gli avesse mentito o nascosto qualcosa. Ivan Il'ic continu ugualmente a seguire le prescrizioni e nei primi tempi trov una certa consolazione in questa sua diligenza. La sua occupazione principale dopo la visita dal dottore, oltre all'osservanza scrupolosa delle prescrizioni riguardanti la dieta e le medicine, divenne l'attenzione verso il proprio male e, in generale, verso le funzioni del proprio organismo. L'argomento di maggior interesse divenne per Ivan Il'ic quello relativo alle malattie e alla salute. Quando in sua presenza si parlava di ammalati, di morti, di persone guarite, soprattutto se la malattia in questione assomigliava alla sua, egli cercava di nascondere la propria agitazione, ma ascoltava attento, faceva domande e cercava di applicare alla sua situazione i dati di cui veniva in possesso. Il dolore non diminuiva, ma Ivan Il'ic si costringeva a pensare di stare meglio. E riusciva a ingannarsi, finch niente veniva a turbarlo. Ma appena si verificava un'incomprensione con la moglie, un insuccesso sul lavoro o le carte al vint risultavano sfavorevoli, egli avvertiva immediatamente tutta la forza della malattia. Un tempo sopportava questi rovesci in attesa di tempi migliori, sicuro di rimontare al pi presto, ora ogni insuccesso lo fiaccava, lo gettava nella disperazione. Diceva a se stesso ch'era gi sulla via della guarigione, che la medicina cominciava a fare effetto, ma poi era sopraggiunta quella nuova calamit che aveva vanificato tutto. Si irritava contro la sorte o contro coloro che gli avevano causato dispiacere annientandolo. Sentiva che quel sentimento di stizza lo uccideva, ma non poteva farci niente. Avrebbe dovuto capire che quella sua irritazione contro le circostanze e le persone aggravava la malattia e che sarebbe stato pi ragionevole ignorare gli avvenimenti spiacevoli; faceva invece l'esatto contrario. Sosteneva di aver bisogno di pace, mentre seguiva puntualmente tutto ci che poteva guastare questa pace, irritandosi al minimo inconveniente. Peggiorava inoltre la propria situazione leggendo libri di medicina e consultando vari medici. Il peggioramento era costante, ma egli riusciva a ingannarsi confrontando solo un giorno con l'altro; la differenza era minima. Ma quando consultava qualche medico gli sembrava di stare peggio, anzi di peggiorare molto rapidamente. E nonostante ci continuava a consultarli.

Durante quel mese era stato da un'altra celebrit, la quale aveva ripetuto quasi le stesse cose della prima, pur avendo impostato il problema diversamente. Questa nuova visita serv solo ad accentuare il dubbio e i timori di Ivan Il'ic. Un amico di un suo amico, un ottimo medico, diede della malattia un'interpretazione ancora diversa e, bench assicurasse la guarigione, tuttavia, con le sue domande e congetture non fece che confondere ulteriormente Ivan Il'ic, rinfocol tutti i suoi dubbi. Un omeopata diede una versione ancora diversa e prescrisse una medicina che Ivan Il'ic prese segretamente per tutta una settimana. Ma allo scadere della settimana, non riscontrando alcun beneficio perse la fiducia sia in questa che nelle precedenti medicine e cadde in uno stato di depressione ancora pi cupo. Una volta una loro conoscente raccont di una guarigione avvenuta grazie alle icone. Ivan Il'ic si rese conto di essere oltremodo interessato a quel fatto e di credervi. La cosa lo spavent. Possibile che abbia perso il cervello fino a questo punto? - si disse. - Che sciocchezze! Sono tutte assurdit, non bisogna arrendersi allo sconforto, ma scegliersi un medico e affidarsi rigorosamente alle sue cure. Cos avrebbe fatto e basta! Non penser ad altro e fino all'estate seguir scrupolosamente tutto ci che egli mi dir. Poi vedremo. Ora chiudo con tutte le perplessit! Era facile da dire, ma impossibile da realizzare. Il dolore al fianco lo estenuava, era aumentato, divenuto costante; in bocca sentiva un sapore sempre pi strano e gli sembrava che il suo alito fosse sempre sgradevole, l'appetito e le forze andavano calando. Era impossibile ingannarsi: qualcosa di tremendo, di nuovo, di sostanziale era entrato nella sua vita, qualcosa che non si era mai verificato prima. Soltanto lui lo sapeva, tutti gli altri non capivano o non volevano capire e credevano che le cose stessero come prima. Questo fatto pi d'ogni altro affliggeva Ivan Il'ic. I familiari, soprattutto la moglie e la figlia, erano nel pieno della loro attivit mondana, egli lo vedeva, e non capivano niente, si rammaricavano solo del fatto ch'egli fosse cos poco allegro e tollerante, come se la colpa fosse sua. Bench le due donne cercassero di nasconderlo, egli si accorgeva d'essere loro d'impaccio, ma la moglie aveva elaborato una sua strategia di comportamento nei confronti della malattia del marito e vi si atteneva, indipendentemente da ci ch'egli facesse o dicesse. L'atteggiamento era questo: - Lo sapete bene, - raccontava ai conoscenti, - che Ivan Il'ic non riesce a eseguire rigorosamente le prescrizioni del medico; come fanno tutte le persone normali. Un giorno prende le gocce, mangia quello che gli stato ordinato, si corica presto, ma domani cambia tutto; se non ci sto attenta, dimentica le medicine, si riempie di storione (che gli proibito), sta alzato fino all'una a giocare a vint. - Ma quando mai? - obiettava Ivan Il'ic stizzito. - E' successo una volta sola, da petr Ivanovic. - E ieri con Sebek? - Non sarei comunque riuscito a dormire per il dolore... - Sar stato per quel che vuoi, ma cos non guarirai mai e continuerai a tormentarci. L'atteggiamento evidente che Praskov'ja Fedorovna

teneva nei confronti della malattia del marito e che manifestava agli altri e a lui stesso era il seguente: l'unico colpevole della faccenda era Ivan Il'ic e quella stessa malattia altro non era che un nuovo dispetto ch'egli faceva alla moglie. Egli sentiva che lei si esprimeva in quel modo quasi senza volerlo, ma questa constatazione non lo faceva star meglio. In tribunale not o gli parve di notare lo stesso strano atteggiamento nei suoi confronti; ora gli sembrava che lo guardassero come uno che presto lascer libero un posto, ora, improvvisamente, gli amici lo canzonavano per la sua apprensione, come se quella cosa spaventosa, orribile e inaudita che si sviluppava dentro di lui e lo succhiava senza tregua, trascinandolo chiss dove, fosse una simpatica occasione di scherzo. Particolarmente irritante era Schwarz col suo tono frivolo, vivace, raffinato, che ricordava a Ivan Il'ic quello che lui stesso era dieci anni prima. Venivano gli amici per la partita, si sedevano al tavolo. Si mescolavano e distribuivano le carte, si mettevano i quadri in fila, sette in tutto. Il partner dichiarava un senza atout e lui aumentava di due quadri. Che altro si poteva desiderare? Allegria! Perfetto, era lo slam. E di colpo Ivan Il'ic avvertiva quel dolore divorante, quel solito gusto in bocca e gli sembrava una follia rallegrarsi per uno slam, data la sua condizione. Guardava allora il suo partner, Michail Michajlovic, che batteva sul tavolo la sua mano sanguigna e con cortese condiscendenza si tratteneva dall'afferrare le prese, spingendole verso Ivan Il'ic, per lasciargli il piacere di raccoglierle senza affaticarsi e senza dover allungare il braccio. Ma cosa crede, che non ho pi la forza di allungare il braccio? pensava Ivan Il'ic e si dimenticava dell'atout, ne giocava uno pi del necessario e lasciava cadere lo slam per tre prese; e la cosa pi terribile era vedere Michail Michajlovic soffrire per questo, mentre a lui non importava niente. E terribile era anche pensare al motivo per cui non gli importava niente. Tutti vedevano che stava male e gli ripetevano: - Possiamo smettere, se siete stanco. Andate a riposare. - A riposare? No, non era affatto stanco, voleva arrivare fino in fondo al rubber. Tutti erano cupi e silenziosi. Ivan Il'ic intuiva ch'era lui a diffondere quella tetraggine, ma non poteva dissiparla. Cenavano, ognuno tornava a casa propria ed egli restava solo con la coscienza che la sua vita era avvelenata, che avvelenava quella degli altri e che questo veleno non diminuiva, ma impregnava sempre di pi tutto il suo essere. Con questa consapevolezza, cui si univano il dolore fisico e la paura, doveva coricarsi, senza per altro riuscire a dormire per gran parte della notte. E poi, al mattino, bisognava alzarsi, vestirsi, andare in tribunale, parlare, scrivere, e se non ci andava era anche peggio, a casa, tutte quelle ore, di cui ognuna era un tormento. E doveva vivere cos, sull'orlo della rovina, da solo, senza l'aiuto di un'altra persona che lo capisse e lo compatisse. V. Cos pass un mese e poi anche un altro. Per Capodanno

venne in citt il cognato e si ferm da loro. Arriv mentre Ivan Il'ic era in tribunale e Praskov'ja Fdorovna fuori per acquisti. Rientrando nel suo studio, Ivan Il'ic lo trov l, un tipo florido e sanguigno che stava disfando le valigie. Sentendo i passi di Ivan Il'ic alz la testa e lo guard un attimo in silenzio. Quello sguardo rivel a Ivan Il'ic ogni cosa. Il cognato apr la bocca per esprimere il suo stupore, ma si trattenne. Quel movimento conferm tutto. - Beh, sono cambiato? - S... effettivamente si nota un certo cambiamento. Ma per quanto Ivan Il'ic tentasse in seguito di ricondurre il cognato su quell'argomento del suo aspetto esteriore, questi si trincer dietro il silenzio, e quando Praskov'ja Fedorovna torn, si ritir da lei. Ivan Il'ic chiuse la porta a chiave e cominci a guardarsi allo specchio, prima davanti, poi di fianco. Prese il ritratto in cui era con la moglie e lo confront con l'immagine che gli rimandava ora lo specchio. Il cambiamento era enorme. Poi denud le braccia fino ai gomiti, riabbass le maniche, si lasci cadere sull'ottomana e divenne pi cupo della notte. Non devo, non devo, si disse, balz in piedi, si avvicin al tavolo, apr i suoi incartamenti e cominci a leggere, senza riuscirvi. Apr la porta, and in sala. La porta che dava sulla sala da pranzo era chiusa. Si avvicin in punta di piedi e stette in ascolto. - Ma no, esageri, - diceva Praskov'ja fedorovna. - Come, esagero? Non lo vedi che un uomo morto? Guardagli gli occhi. Sono spenti. Ma cos'ha? - Nessuno lo sa. Nikolaev (uno dei medici) ha detto una cosa. Lescetichij (la celebrit) ha detto il contrario... Ivan Il'ic si allontan, and in camera sua e si mise a pensare: Il rene, il rene mobile Gli torn in mente tutto quello che avevano detto i medici di quel rene che si era staccato e andava in giro. Con uno sforzo dell'immaginazione tent di acciuffare quel rene e di rimetterlo a posto; gli pareva che ci volesse cos poco. Andr di nuovo da Petr Ivanovic (era l'amico di uno dei medici) Suon, ordin di attaccare il cavallo e si prepar a uscire. - Dove vai, Jean? - domand la moglie con un tono triste e insolitamente dolce. Questo tono inconsueto lo urt ed egli la guard accigliato. - Devo passare da Petr Ivanovic. And dall'amico che aveva un amico medico e insieme si recarono da quest'altro medico. Lo trovarono e parlarono a lungo. Esaminando attentamente dal punto di vista anatomico e fisiologico tutti i particolari di quello che, secondo il dottore, accadeva dentro di lui, comprese ogni cosa. C'era una cosetta, proprio una piccola cosa, nel suo intestino cieco. Ma si poteva benissimo guarire. Bisognava solo rafforzare le funzioni vitali di un certo organo, ridurre l'attivit di un altro organo e quel piccolo corpo estraneo si sarebbe riassorbito facendolo guarire. Arriv a pranzo appena un po in ritardo. Mangi, convers allegramente e tergivers a lungo prima di ritirarsi a lavorare. Alla fine si decise e si chiuse nel suo studio. Lesse pratiche, lavor, ma la consapevolezza di

aver rimosso una questione intima importante, di cui alla fine avrebbe dovuto occuparsi, non lo lasciava. Quando termin il lavoro si ricord che quella certa questione intima erano i suoi pensieri sull'intestino cieco. Egli tuttavia non cedette e torn in sala per il t. C'erano ospiti, si suonava il piano, si cantava; c'era anche un giudice istruttore, lo sposo ambito della figlia. Ivan Il'ic trascorse la serata pi allegramente degli altri, a detta di Praskov'ja Fedorovna, ma nemmeno per un attimo dimentic i suoi gravi pensieri sull'intestino cieco. Alle undici salut tutti e si ritir. Da quando si era ammalato dormiva da solo in una piccola stanza adiacente lo studio. L si rinchiuse, si spogli e prese un romanzo di Zola senza riuscire a leggerlo. Cominci a pensare. Nella sua immaginazione avvenne il tanto desiderato risanamento dell'intestino cieco. Tutto veniva riassorbito, espulso, si ristabiliva la normale funzionalit. S, proprio cos, - si disse. - Occorre solo aiutare la natura. Si ricord della medicina, si alz, la prese, si sdrai sulla schiena prestando ascolto all'azione benefica della medicina che annientava il male. Occorre solo prenderla regolarmente ed evitare le influenze dannose; mi sento gi un po meglio, molto meglio. Prese a tastarsi il fianco, non gli faceva male. Ecco, non lo sento, sto davvero molto meglio. Spense la luce e si gir sul fianco... L'intestino cieco sta guarendo, si riassorbe. D'improvviso avvert il vecchio, noto, sordo, cupo dolore, testardo, silenzioso e grave. In bocca, il cattivo sapore di sempre. Ebbe un tuffo al cuore, la testa gli si annebbi. Dio mio, Dio mio! - mormor. - Eccolo, eccolo, non cesser mai. E d'improvviso le cose gli apparvero in una luce tutta diversa. L'intestino cieco! Il rene - si disse - non questione di intestino cieco, n di rene, ma di vita e... di morte. S, c'era la vita e se ne sta andando, se ne va e io non posso trattenerla. E' cos. Perch ingannarsi? Non forse evidente a tutti tranne che a me che sto morendo e che questione solo di settimane e di giorni, forse di ore? C'era la luce e ora c' il buio. Prima ero qua e ora l! L, dove? Fu invaso dal freddo, il respiro gli si ferm. Sentiva solo i battiti del suo cuore. Io non ci sar, ma allora cosa ci sar? Non ci sar nulla. Dove sar, quando non ci sar pi? Possibile che sia la morte? No, non voglio. Balz in piedi, volle accendere la candela, frug in giro con le mani tremanti, fece cadere sul pavimento candela e candelabro, poi ricadde indietro sul cuscino. Perch? Non importa, - si disse, fissando il buio con gli occhi spalancati. - E' la morte. S, la morte. E nessuno di loro lo sa, n vuole saperlo, non hanno compassione. Loro si divertono. (In lontananza, dietro la porta, sentiva rumore di voci, ritornelli.) A loro non importa niente, ma anch'essi moriranno. Che stupidi! A me tocca prima, a loro, dopo, ma anche a loro toccher, e se la spassano. Bestie! La rabbia lo soffocava. Si sent infelice, con addosso un peso insopportabile. Non pu essere che tutti siamo sempre condannati a questo orrore. Si alz. C' qualcosa che non torna; devo calmarmi, ripensare a tutto, dall'inizio. E cominci a riflettere. S, la malattia cominciata cos. Ho picchiato il fianco, ma non successo niente, nulla cambiato, mi faceva un

po male, poi di pi, poi i dottori, la malinconia, l'angoscia, di nuovo i dottori e l'abisso sempre pi vicino. Le forze cedevano. Sempre pi vicino. Ed eccomi ora stremato, con gli occhi spenti. E' la morte e io sto qui a pensare all'intestino. Penso a come aggiustare l'intestino, invece la morte. Possibile che sia la morte? Di nuovo lo assal il terrore, cominci ad ansimare, si chin in avanti, cerc i fiammiferi, urt col gomito il comodino. Si fece male, si infuri col comodino, lo urt rabbiosamente rovesciandolo. Disperato e ansimante si lasci cadere sulla schiena, aspettando subito la morte. Gli ospiti se ne stavano andando e Praskov'ja fedorovna li accompagnava alla porta. Sent il tonfo ed entr. - Cosa c'? - Niente. L'ho rovesciato per sbaglio. Lei usc, torn con una candela. Egli giaceva col respiro rapido e pesante, come di una persona che abbia fatto una versta di corsa. La guardava con gli occhi fissi. - Cosa c', Jean? - Nien...te... L'ho rove...sciato. - Cosa dovrei dirle? Non capirebbe, pens. Infatti lei non cap. Rialz il comodino, gli accese la candela e se ne and in fretta ad accompagnare gli ospiti. Quando torn egli giaceva ancora supino guardando in alto. - Che cos'hai? Ti senti peggio? -S. Lei scosse la testa e si sedette. - Sai, Jean, mi domando se non sia il caso di far venire Lescetichij qui, a casa, a visitarti. Intendeva dire far venire a domicilio una celebrit e non badare a spese. Egli sorrise astioso e disse di no. Lei rimase seduta ancora un po, poi gli si avvicin e lo baci sulla fronte. La odi con tutte le sue forze mentre lo baciava, e fece uno sforzo per non respingerla. - Buona notte. Speriamo che tu riesca a dormire. -S. VI. Ivan Il'ic vedeva che stava morendo ed era in stato di disperazione continua. In fondo all'anima lo sapeva bene, ma non solo non era abituato a quest'idea, non la capiva proprio. L'esempio di sillogismo che aveva studiato nella logica di Kizeveter - Caio un uomo, gli uomini sono mortali, quindi anche Caio mortale - gli era sempre parso giusto, ma solo in relazione a Caio, non a se stesso. Un conto era Caio, l'uomo in generale, e allora quel sillogismo era perfettamente giusto; un conto era lui, che non era Caio, che non era un uomo in generale, ma un essere particolarissimo, completamente diverso da tutti gli altri; lui era il piccolo Vanja, con mamma, pap, Mitja e Volodja, con i giocattoli, il cocchiere, la governante, con Katja, con tutte le gioie, le amarezze, gli entusiasmi dell'infanzia, dell'adolescenza, della giovinezza. Forse che Caio conosceva quell'odore di cuoio del pallone a strisce che il piccolo Vanja amava tanto? O aveva baciato la mano della mammina e sentito frusciare

le pieghe del suo vestito? Aveva forse protestato per i pasticcini? O era stato innamorato o aveva presieduto le udienze? Certamente Caio era mortale ed era giusto che morisse, ma non lui, il piccolo Vanja, divenuto Ivan Il'ic, con tutti i suoi sentimenti e pensieri; questo era tutto un altro caso. E non era possibile che toccasse a lui morire. Era troppo orribile. Questi erano i suoi sentimenti. Se dovessi morire anch'io come Caio, lo saprei, una voce interna me lo direbbe, ma non ho mai sentito in me niente di simile; sia io che tutti i miei amici abbiamo sempre saputo che per noi era diverso, non come per Caio. Ed ora, ecco! - si diceva. - Non pu essere, ma cos. Cos' questa cosa? Come si spiega? E non riuscendo a darsi una spiegazione di questo fatto, tentava di scacciarlo come falso, ingiusto, malato e di contrapporvi altri pensieri giusti, sani. Ma questo pensiero non era soltanto un pensiero, era una specie di realt che arrivava e si fermava davanti a lui. Ed egli chiamava a raccolta tutti gli altri pensieri, nella speranza che lo proteggessero da quell'unico. Tentava di tornare indietro, ai vecchi pensieri che gli avevano sempre tenuto nascosto il pensiero della morte. Ma, fatto strano, tutto ci che in passato gli aveva coperto, nascosto, cancellato la coscienza della morte, ora non produceva pi alcun effetto. Nell'ultimo periodo Ivan Il'ic trascorreva gran parte del tempo nei tentativi di ristabilire la vecchia catena di sentimenti che nascondeva la morte. Si diceva: Ora mi dedico al lavoro, ho sempre vissuto per esso E cos si recava in tribunale respingendo da s ogni dubbio; conversava con i colleghi; si sedeva distrattamente alla vecchia maniera, gettando sulla folla uno sguardo pensieroso e appoggiandosi, con le braccia smagrite, ai braccioli della poltrona di quercia; come di consueto si chinava verso il collega e gli passava le pratiche sussurrandogli qualcosa, poi, all'improvviso, rialzando gli occhi e raddrizzandosi, pronunciava la nota formula che apriva la causa. Ma di colpo, a met, la malattia, col suo dolore al fianco, che non prestava alcuna attenzione all'andamento del processo, si rifaceva viva con la sua opera succhiante. Ivan Il'ic si metteva in ascolto, respingeva anche solo il pensiero di lei, ma lei continuava imperterrita, arrivava e gli si metteva davanti a guardarlo ed egli si irrigidiva, il fuoco si spegneva nei suoi occhi e ricominciava a chiedersi: Possibile che sia solo lei, la verit? I colleghi e i dipendenti notavano con stupore e tristezza quel brillante e sottile magistrato che s'ingarbugliava e commetteva errori. Ivan Il'ic si riscuoteva, cercava di riprendersi e, in qualche modo, portava a termine l'udienza. Tornava a casa con l'amara consapevolezza che il lavoro in tribunale non poteva pi, come in passato, proteggerlo da ci ch'egli teneva nascosto a se stesso e con la coscienza che il tribunale non l'aiutava a liberarsi da lei. E la cosa peggiore era che lei lo attirava a s, non per costringerlo a fare qualcosa, ma solo perch la guardasse diritto negli occhi e si tormentasse indicibilmente, senza poter far nulla. Per trovare scampo a questa situazione, Ivan Il'ic

cercava conforto altrove; cercava altri schermi e questi schermi si facevano avanti e per breve tempo sembravano salvarlo; ma poi, di colpo, crollavano o piuttosto diventavano trasparenti come se lei passasse attraverso tutto e nulla potesse offuscarla. Negli ultimi tempi gli capitava di entrare in salotto, in quel salotto ch'egli aveva arredato e dov'era caduto, per il quale aveva dato la vita, come pensava a volte con velenosa ironia (la malattia era cominciata da quella botta), gli capitava dunque di entrare e di vedere che il tavolo laccato era graffiato. Ne cercava la causa e scopriva che era stato il fregio in bronzo di un album di famiglia incurvatosi sul bordo. Prendeva l'album che gli era caro, che aveva composto con tanto amore e s'indispettiva per la negligenza della figlia e dei suoi amici, trovava sempre qualcosa di strappato o le foto in disordine. Rimetteva tutto a posto con cura e ripiegava in dentro il fregio di bronzo. Poi gli veniva l'idea di trasferire tutto quell'fablissement con gli album da un'altra parte, dove c'erano i fiori. Chiamava un servitore; arrivavano la figlia e la moglie che non erano d'accordo, protestavano, lui discuteva, si arrabbiava; ma tutto andava comunque bene, perch lui si dimenticava di lei, non la vedeva. Ma ecco che appena si metteva a spostare da solo i mobili, la moglie lo fermava: Lascia stare, lo faranno i servi, vuoi farti male un'altra volta? E di colpo, al di l dello schermo, balenava lei, egli la vedeva. Balenava, ma egli continuava a sperare che sarebbe sparita, involontariamente per prestava ascolto al fianco; lei era sempre l, sempre a rodere ed egli non poteva dimenticarla, lo guardava spavalda da dietro i fiori. Perch tutto questo? Il fatto incredibile che qui, su questa tenda, come in battaglia, ho perso la vita. E' mai possibile? Che cosa orribile e stupida! Non pu essere! Non pu essere, ma lo . E se ne andava nel suo studio a sdraiarsi. Di nuovo restava solo con lei. Faccia a faccia con lei, senza poter far nulla. Tranne guardarla e rabbrividire. VII. Non si poteva dire come fosse avvenuto al terzo mese della malattia di Ivan Il'ic, giacch la cosa si produsse a poco a poco, impercettibilmente, ma si verific ci che la moglie, la figlia, il figlio, la servit, i conoscenti, i medici e soprattutto lui sapevano. Scopr che l'unico interesse che la sua persona rappresentava per gli altri si riduceva alla scadenza, vicina o lontana, nella quale avrebbe sgomberato il posto, liberato i vivi dall'impaccio della sua presenza e liberato se stesso dalla propria sofferenza. Dormiva sempre meno; gli davano dell'oppio, cominciarono a somministrargli la morfina. Ma tutto ci non gli dava sollievo. L'ottusa angoscia che provava in quegli stati di semincoscienza lo sollev all'inizio, come qualcosa di nuovo, ma divent, in seguito, altrettanto dolorosa del vivo dolore, se non di pi. Gli preparavano cibi speciali, secondo le prescrizioni dei medici; ma quei cibi diventavano per lui sempre pi insipidi e disgustosi.

Anche per le sue evacuazioni erano stati adottati sistemi speciali che erano un tormento ogni volta. Un tormento per la sporcizia, per l'indecenza, per il fetore e perch era necessaria la presenza di un'altra persona. Ma proprio in questa sgradevole faccenda Ivan Il'ic trov motivo di conforto. Veniva sempre a pulire tutto un muzik addetto alla dispensa, Gerasim. Questi era un giovane contadino fresco, lindo, ben nutrito dalle minestre cittadine. Sempre allegro e chiaro. Da principio la vista di quest'uomo lindo, vestito alla russa, che svolgeva un compito tanto ingrato, turbava Ivan Il'ic. Una volta, alzandosi dal catino e incapace di tirarsi su i pantaloni, si abbandon su una morbida poltrona; not allora con orrore le sue cosce nude, fiacche, i muscoli crudamente disegnati. Entr Gerasim con passo leggero e deciso. Dai suoi stivali emanava un gradevole odore di catrame e tutta la sua persona spargeva intorno la freschezza dell'aria invernale. Indossava un grembiule pulito di canapa, una camicia di cotone pulita con le maniche rimboccate sulle braccia nude, forti, giovani e, senza guardare Ivan Il'ic, cercando di trattenere, per non offendere il malato, la gioia di vivere che gli brillava in volto, si avvicin al catino. - Gerasim, - disse debolmente Ivan Il'ic. Gerasim trasal, timoroso evidentemente di aver commesso qualcosa di sbagliato, e con movimento rapido gir verso il malato il suo giovane volto fresco, buono, semplice, con una barbetta che cominciava appena a spuntare. - Cosa comandate? - Penso che per te non sia piacevole tutto questo. Scusami. Ma non posso da solo. - Ma che dite! - I suoi occhi brillarono e il sorriso scopr i suoi giovani denti bianchi. - Perch non dovrei farlo? Siete malato. Con le sue abili, forti braccia fece quello che doveva fare e usc con passo leggero. Dopo cinque minuti ricomparve con la stessa lieve andatura. Ivan Il'ic era sempre seduto sulla sua poltrona. - Gerasim, - disse, mentre quello posava il catino lavato, - per favore, aiutami, vieni qua. Gerasim si avvicin. - Sollevami. Non ce la faccio da solo e ho mandato via Dmitrij. Gerasim si avvicin; con le braccia forti e con la stessa leggerezza che metteva nel camminare, lo abbracci, lo sollev con abilit e delicatezza, lo sostenne, mentre con l'altra mano tirava su i pantaloni. Voleva rimetterlo a sedere, ma Ivan Il'ic chiese di essere condotto al divano. Gerasim senza sforzo, e senza stringerlo, ma quasi portandolo in braccio lo sistem sul divano. - Grazie. Come sei bravo, come fai bene... ogni cosa. Gerasim sorrise di nuovo e si prepar a uscire. Ma Ivan Il'ic si sentiva cos bene con lui che non voleva lasciarlo andare. - Senti, accostami per favore quella sedia. No, quell'altra, mettimela sotto i piedi. Sto meglio, quando ho i piedi in alto. Gerasim port la sedia, la pos senza far rumore, con delicatezza, sul pavimento, e vi appoggi i piedi del padrone. A Ivan Il'ic parve subito di star meglio, mentre

Gerasim gli sollevava le gambe. - Sto meglio, quando ho i piedi in alto, - ripet Ivan Il'ic, - mettici anche quel cuscino. Gerasim obbed. Gli sollev di nuovo i piedi per mettere il cuscino. Di nuovo Ivan Il'ic si sent meglio nel momento in cui Gerasim gli teneva i piedi in alto. Quando li riappoggi ebbe l'impressione di star peggio. - Gerasim, - riprese, - hai da fare, ora? - Per nulla, signore, - rispose Gerasim che aveva imparato dai domestici di citt a parlare coi padroni. - Cosa ti rimane da fare? - Cosa mi rimane? Ho fatto tutto, devo solo tagliare la legna per domani. - Allora tienimi un po in alto i piedi, puoi? " - Ma certo che posso. - Gerasim gli sollev i piedi e Ivan Il'ic ebbe l'impressione di non sentire alcun male, in quella posizione. - E la legna? - Non preoccupatevi. Far in tempo. Ivan Il'ic disse a Gerasim di sedersi, mentre gli teneva i piedi, e cominci a parlare con lui. Cosa strana, gli sembrava davvero di star meglio, mentre Gerasim lo reggeva cos. Da quel giorno Ivan Il'ic prese l'abitudine di chiamare ogni tanto Gerasim perch gli facesse appoggiare i piedi sulle sue spalle e intanto gli piaceva parlare con lui. Gerasim faceva tutto con leggerezza, semplicit, con gioia e con una bont che commuoveva Ivan Il'ic. La salute, la forza, il vigore di chiunque altro offendevano Ivan Il'ic; soltanto la forza e il vigore di Gerasim non lo urtavano, al contrario, lo calmavano. Il tormento maggiore di Ivan Il'ic era la menzogna, quella menzogna da tutti accettata, secondo la quale egli era soltanto ammalato e non moribondo ed era sufficiente ch'egli se ne stesse tranquillo e si curasse, perch tutto tornasse come prima. Mentre egli sapeva benissimo che qualunque cosa facessero, non ne sarebbe venuto fuori nulla, tranne sofferenze ancora maggiori e morte. Questa menzogna lo tormentava, come pure l'ostinazione con cui gli altri non volevano ammettere ci che sapevano, ci ch'egli sapeva. Volevano continuare a mentire sulla sua orribile condizione e volevano costringerlo a partecipare a questa menzogna. Una menzogna ai suoi danni, alla vigilia della sua morte, una menzogna finalizzata a ridurre l'atto terribile e solenne della sua morte al livello delle loro visite, delle loro tende, degli storioni per il pranzo. Questo era ci che affliggeva Ivan Il'ic. E di frequente gli era capitato, mentre loro arrivavano a recitare la loro parte, di essere stato sul punto di gridare: smettetela di mentire, voi sapete bene, come lo so io, che sto morendo, smettetela dunque. Ma non aveva mai trovato il coraggio di farlo. L'atto terribile, spaventoso della sua morte, egli lo vedeva, era ridotto, dalle persone che aveva intorno, a livello di spiacevole incidente, di indecenza perfino, come se si trattasse di una persona che entrando in un salotto emani cattivo odore. Era diventato un corpo estraneo proprio a quel decoro ch'egli aveva perseguito tutta la vita; vedeva che nessuno aveva piet di lui, perch nessuno voleva capire la sua situazione. Solo Gera-

sim la capiva e aveva piet di lui. Per questo Ivan Il'ic si trovava bene solo con Gerasim. Gli faceva bene che Gerasim passasse notti intere a tenergli i piedi, rinunciando a dormire. Diceva: Non preoccupatevi, Ivan Il'ic, avr tempo per dormire! Oppure improvvisamente dandogli del tu, aggiungeva: Se tu non fossi malato sarebbe diverso, ma cos, perch non dovrei servirti? Solo Gerasim non mentiva, era sicuramente l'unico a capire tutto, n si preoccupava di nasconderlo. Si limitava a compatire il padrone che andava spegnendosi. Anzi, una volta disse addirittura, mentre Ivan Il'ic insisteva perch andasse a riposare: - Tutti moriremo. Perch non dovrei farlo? - Intendendo con ci che la sua assistenza non gli pesava proprio, perch la offriva a un uomo che stava morendo, nella speranza che per lui, un giorno, qualcuno avrebbe fatto la stessa cosa. Oltre a questa menzogna o alle conseguenze di essa, la cosa pi tormentosa per Ivan Il'ic era il fatto che nessuno avesse piet di lui; in certi minuti, dopo lunghe sofferenze, avrebbe tanto voluto che qualcuno lo compatisse come un bambino ammalato, bench si vergognasse ad ammetterlo. Avrebbe voluto essere accarezzato, baciato, avrebbe voluto che piangessero per lui, come si accarezzano e si confortano i bambini. Invece sapeva di essere un funzionario importante, con la barba bianca e che tutto ci non era possibile; ma avrebbe tanto voluto. E siccome i suoi rapporti con Gerasim avevano qualcosa di simile a ci che egli desiderava, la sua compagnia gli era di grande conforto. Ivan Il'ic voleva piangere, essere accarezzato e compatito ed ecco arrivare il suo collega, il giudice Sebek, il quale invece di compiangerlo e di accarezzarlo, faceva una faccia molto seria, severa e pensierosa e, per inerzia, attaccava a parlare del significato di una certa sentenza di cassazione e di come lui la intendesse. Era questa menzogna che aveva intorno e dentro di s che pi di tutto avvelenava gli ultimi giorni della vita di Ivan Il'ic. VIII. Era mattina. Lo era solo perch Gerasim se n'era andato ed era arrivato Petr, il servitore che aveva spento le candele, scostato una tenda e si era messo piano piano a rassettare la stanza. Mattina o sera, venerd o domenica, tutto era uguale, sempre la stessa cosa: il dolore fitto, straziante che non si placava un attimo e la consapevolezza che la vita se ne stava inesorabilmente andando, ma che non era ancora passata; l'odiata, terribile morte che sempre incombeva ed era l'unica realt; la menzogna di sempre. Cos'erano mai i giorni, le settimane, le ore del giorno? - Desiderate il t? Ha bisogno di ordine, ha bisogno che al mattino i signori bevano il t, pens, ma disse soltanto: -No. - Non desiderate trasferirvi sul divano? Ha bisogno di riordinare la stanza e io gli d fastidio, io sono la sporcizia e il disordine, pens, ma disse soltanto: - No, lasciami qui.

Il servitore si diede ancora un po da fare per la stanza. Ivan Il'ic tese la mano. petr si avvicin premuroso. - Cosa ordinate? - L'orologio. Petr prese l'orologio ch'era sottomano e glielo diede. - Le otto e mezza. Di l non si sono ancora alzati? - No, signore. Vasilij Ivanovic (il figlio) andato al ginnasio, Praskov'ja Fedorovna ha ordinato di svegliarla se voi lo desiderate. Volete che lo faccia? - No, non importa. - Ma perch non provare il t? si disse. - S, portami il t. Petr si avvi verso l'uscita. Ivan Il'ic si sent male all'idea di restare solo. Come posso trattenerlo? Ah, con la medicina. - Petr, dammi la medicina. - Perch non prenderla, forse pu farmi ancora bene. Prese il cucchiaio, bevve. No, non mi fa niente. Sono tutte storie, un inganno, - concluse, appena avvert in bocca il noto sapore dolciastro e senza rimedio. - No, non ci credo pi. Ma il dolore, perch questo dolore? Tacesse almeno un minuto! Si mise a gemere. Petr torn. - No, vai pure. Portami il t. Petr usc. Ivan Il'ic rimasto solo riprese a lamentarsi, non tanto per il dolore, quanto per l'angoscia. Sempre la stessa cosa e ancora la stessa cosa, queste interminabili giornate e nottate. Almeno arrivasse presto. Che cosa? La morte, il buio. No, no. Tutto meglio della morte! Quando Petr entr col t sul vassoio, Ivan Il'ic lo guard a lungo smarrito senza capire chi fosse e cosa volesse. Petr rimase confuso da quello sguardo e solo la sua confusione fece tornare in s Ivan Il'ic. - Ah, s, - esclam, - il t... bene, appoggialo. Aiutami per a lavarmi e a mettere una camicia pulita. Ivan Il'ic cominci a lavarsi. Prima le mani, riposandosi ogni tanto, poi il viso e i denti; cominci a pettinarsi e a guardarsi allo specchio. Si spavent di se stesso e soprattutto dei capelli appiccicati alla fronte pallida. Mentre si cambiava la camicia pens che si sarebbe spaventato anche di pi alla vista del proprio corpo, evit quindi di specchiarsi. Tutto ci ebbe fine. Indoss la vestaglia, si copr le spalle e sedette in poltrona per il t. Per un minuto si sent rinfrescato, ma appena cominci a sorseggiare il t, tornarono il solito sapore disgustoso e il dolore di sempre. Fin di bere a fatica, quindi si sdrai allungando le gambe. Lasci andare Petr. Sempre tutto uguale. Ora balenava una goccia di speranza, ora infieriva il mare della disperazione e poi il dolore, ancora il dolore, lo sgomento, sempre la stessa storia. A star solo provava un'angoscia terribile, voleva chiamare qualcuno, ma sapeva in anticipo che con gli altri si sarebbe sentito anche peggio. Mi dessero almeno dell'altra morfina, poter dimenticare. Lo dir al dottore che inventi qualcos'altro. Cos non possibile, non possibile. Cos passavano un'ora, due. Ma ecco il campanello in anticamera. Forse il dottore? Certo, proprio il dottore, fresco, vigoroso, pingue, allegro, con un'espressione che diceva: vi siete spaventato di qualcosa, ma noi ora sistemeremo tutto. Sapeva benissimo che quell'espressione non si addiceva alla situazione, ma ormai l'aveva adottata e non poteva pi togliersela, come un frac che si indossa la mattina e che si porta in giro tutto il giorno per visite.

Il dottore si fregava le mani con energia decisa e rassicurante. - Sono tutto gelato. C' un freddo fuori... Fatemi riscaldare, - diceva, lasciando intendere che bastava aspettare un po, il tempo di scaldarsi e poi avrebbe sistemato ogni cosa. - E allora? Ivan Il'ic sentiva che il dottore avrebbe voluto domandare: Come va la vita?, ma anche lui capiva che non si poteva parlare cos e si limit a dire: Come avete passato la notte? Ivan Il'ic guard il dottore formulandogli tacitamente il rimprovero: Possibile che non ti vergogni mai di mentire? Ma il dottore non volle cogliere quella domanda. E Ivan Il'ic rispose: - Malissimo, come al solito. Il dolore non vuole passare. Ci vorrebbe almeno qualcosa. - Voi malati siete tutti cos. Beh, ora mi pare di essermi scaldato, perfino la scrupolosa Praskov'ja Fedorovna non troverebbe nulla da ridire sulla mia temperatura. Ora posso darvi il buongiorno. - E gli strinse la mano. Abbandonato quindi ogni tono scherzoso, il dottore assunse un'aria seria e cominci a visitare il malato, a tastargli il polso, a misurare la febbre, per passare poi alle percussioni, alle auscultazioni. Ivan Il'ic sapeva esattamente che erano tutte sciocchezze e inganni, ma quando il dottore, inginocchiato, gli si chin sopra, appoggiando l'orecchio ora sopra, ora sotto, e con espressione grave comp le pi svariate acrobazie, Ivan Il'ic gli si arrese completamente, come si arrendeva, un tempo, alle arringhe degli avvocati, pur sapendo bene che mentivano e anche perch mentivano. Il dottore era ancora in ginocchio sul divano a picchiettare qualcosa, quando alla porta si ud frusciare l'abito di seta di Praskov'ja Fedorovna che rimproverava petr per non averla avvisata dell'arrivo del dottore. Entr, baci il marito cominci subito a spiegare che lei era alzata da tempo e che solo per un malinteso non si trovava l, quand'era arrivato il dottore. Ivan Il'ic la guard, la squadr tutta da cima a fondo e, dentro di s, prese a rimproverarla per la sua bianchezza e rotondit, per la pulizia delle mani e del collo, per la lucentezza dei capelli e il brillare degli occhi pieni di vita. Sent di odiarla con tutte le sue forze. Il solo contatto con lei lo faceva soffrire per il troppo odio. Lei trattava il marito e la sua malattia alla solita maniera. Come il medico aveva adottato nei confronti dei malati un certo comportamento che non poteva mutare, cos anche lei ne aveva elaborato uno nei confronti del marito e ormai non poteva pi modificarlo: poich egli non faceva tutto quello ch'era richiesto, la colpa era sua e lei lo rimproverava amorevolmente. - Il fatto che non vuole ascoltare. Non prende le medicine puntualmente. E soprattutto si corica in una posizione che, di sicuro, lo danneggia, con i piedi in alto. Raccont di come costringesse Gerasim a tenergli le gambe sollevate. Il dottore ebbe un sorriso benevolo - e sprezzante: Che fare, questi malati inventano a volte tali sciocchezze... ma perdonabile

Quando la visita ebbe fine, il dottore guard l'orologio e Praskov'ja Fedorovna annunci a Ivan Il'ic che, comunque egli la pensasse, lei aveva convocato a consulto un celebre medico, il quale, insieme a Michail Danilovic (il medico presente), l'avrebbe visitato e giudicato. - E tu non opporre resistenza, per favore, lo faccio per me, - disse ironicamente, lasciando intendere ch'ella faceva tutto per lui e che quindi egli non aveva il diritto di rifiutarle niente. Egli tacque e fece una smorfia. Sentiva che la menzogna che lo circondava si era talmente aggrovigliata da rendere impossibile qualunque punto di chiarezza. Tutto ci ch'ella faceva per lui, lo faceva solo per s e quando diceva che lo faceva per s, il che era sicuramente vero, credeva di esprimere un concetto cos strabiliante da indurre lui a credere che fosse tutto il contrario. Effettivamente alle undici e mezza arriv il celebre medico. Ricominciarono le auscultazioni e i discorsi gravi, in sua presenza e nella stanza accanto, sul rene e sull'intestino cieco; poi ci furono di nuovo le domande e le risposte, tutto con la massima seriet, come se al posto dell'unico, reale problema che ormai assillava Ivan Il'ic, quello della vita e della morte, potesse esisterne un altro. Come se avessero qualche importanza il rene o l'intestino cieco che non facevano il loro dovere e sui quali, da un momento all'altro, si sarebbero avventati Michail Danilovic e la celebrit, per costringerli a funzionare. Il celebre dottore si conged con un'aria seria, ma non disperata. E alla timida domanda che Ivan Il'ic gli rivolse con gli occhi scintillanti di timore e di speranza riguardo alla possibilit o meno di guarigione, egli rispose che non poteva garantire niente, ma che la possibilit c'era. Lo sguardo di speranza col quale Ivan Il'ic accompagn il dottore era tanto pietoso che Praskov'ja fedorovna scoppi perfino in lacrime, quando usc dallo studio per pagare l'onorario al celebre medico. Il benessere provocato dalle rassicurazioni del medico dur poco. Di nuovo la solita stanza, i soliti quadri, le tende, la tappezzeria, le boccette e di nuovo il suo infelice corpo dolorante. Ivan Il'ic cominci a gemere, gli fecero un'iniezione e si assop. Quando si dest era l'imbrunire; gli servirono la cena. Prese a fatica il brodo e di nuovo tutto come prima, di nuovo la notte incombente. Dopo cena, alle sette, entr in camera Praskov'ja fedorovna vestita da sera, coi grossi seni fasciati e tracce di cipria sul viso. Gi al mattino gli aveva accennato di questa uscita a teatro. C'era in tourne Sarah Bernhardt ed essi avevano prenotato un palco; era stato proprio Ivan Il'ic a insistere, a suo tempo, perch lo prendessero. Ma ora se n'era dimenticato e quell'abbigliamento elegante lo offendeva. Nascose tuttavia il proprio disappunto quando gli venne in mente ch'era partita da lui la proposta del palco, considerando il teatro un divertimento estetico-educativo. Praskov'ja fedorovna entr contenta di s, ma sentendosi un po in colpa. Si sedette un momento, chiese come stava, non tanto per saperlo, egli se ne accorse subito (del resto non c'era niente da sapere), ma cos, tanto per fare e incominci a dire quello che si sentiva in dovere di dire: che per nulla al mondo sarebbe andata, ma il palco era stato preso, ci andavano Hlene, la figlia e Petriscev (il giudice

istruttore, fidanzato della figlia) e non si poteva lasciarli andare da soli. Ma lei avrebbe preferito di gran lunga rimanere con lui. Gli raccomandava solo di fare, anche in sua assenza, tutto ci che il medico aveva prescritto. C'era poi fedor Petrovic (il fidanzato) che voleva entrare. Era possibile? E anche Liza. - Falli entrare. Entr la figlia agghindata, col giovane corpo seminudo; il corpo che a lui procurava tanta sofferenza. Lei invece lo metteva in mostra. Forte, sana, visibilmente innamorata e infastidita dalla malattia, dalla sofferenza, dalla morte che ostacolavano la sua felicit. Entr anche fedor Petrovic in frac, coi capelli arricciati a la Caponi, col lungo collo venoso stretto nel colletto bianco, con un enorme sparato bianco e le forti cosce strette nei pantaloni neri e aderenti, con un solo guanto bianco infilato su una mano e col cloak. Dietro di lui scivol dentro, inosservato, anche il ginnasiale, con la sua uniforme nuova, poveretto, con i guanti e certe orribili occhiaie di cui Ivan Il'ic conosceva il significato. Questo figlio gli aveva sempre fatto pena. Ed era terribile quel suo sguardo spaventato e compassionevole. Ivan Il'ic aveva l'impressione che soltanto lui, oltre a Gerasim, lo capisse e lo compatisse. Tutti si sedettero e di nuovo s'informarono di come stava. Segu un silenzio. Liza chiese alla madre dove fosse il binocolo. Ne nacque un battibecco fra le due donne sulla sua sparizione. Una scena sgradevole. fedor Petrovic domand a Ivan Il'ic se avesse gi visto Sarah Bernhardt. Ivan Il'ic dapprima non cap la domanda, poi rispose: - No. E voi? - S, nell'Adrienne Lecouvreur Praskov'ja Fedorovna disse che in quella parte era particolarmente brava. La figlia non si trov d'accordo. Ne nacque una discussione sull'eleganza o meno, sul realismo o meno della sua interpretazione, la solita discussione uguale a tante altre. A met discussione fedor Petrovic diede un'occhiata a Ivan Il'ic e ammutol. Anche gli altri guardarono e ammutolirono. Ivan Il'ic fissava qualcosa davanti a s, con gli occhi luccicanti, evidentemente indignato. Bisognava rimediare, ma non era possibile. Bisognava in qualche modo rompere il silenzio. Nessuno aveva il coraggio di farlo e tutti temevano che crollasse di colpo la decorosa menzogna, portando alla luce ci che tutti sapevano. Liza decise di intervenire. Ruppe il silenzio tentando di nascondere quello che tutti provavano, ma le riusc male. - Dopo tutto, se dobbiamo andare, ora, - disse, guardando l'orologio che le aveva regalato il padre e sorrise in modo appena percettibile ma significativo al giovanotto, sottintendendo qualcosa che solo loro sapevano, poi si alz lasciando frusciare il vestito. Tutti si alzarono, salutarono e uscirono. Ivan Il'ic si sent subito meglio: la menzogna era scomparsa, se n'era andata con loro, ma il dolore era rimasto. Sempre lo stesso dolore, la stessa paura. Non c'erano pi alti e bassi. Era sempre peggio. Di nuovo i minuti, uno dietro l'altro e le ore, di nuovo

le stesse cose, senza tregua e, sempre pi terribile, la fine inevitabile. - S, mandami Gerasim, - rispose alla domanda di petr. IX. A tarda notte torn la moglie. Entr in punta di piedi, ma egli la sent: apr gli occhi e subito li richiuse. Lei voleva mandare via Gerasim e rimanere al suo posto. Allora Ivan Il'ic apr gli occhi e disse: - No, vai via. - Soffri molto? - Sempre uguale. - Prendi dell'oppio. Egli acconsent e bevve. La moglie usc. Fino alle tre rest immerso in un tormentoso dormiveglia. Gli sembrava che volessero ficcarlo a forza in un sacco nero, stretto e profondo e che cercassero di spingerlo sempre pi gi senza riuscirvi. Anche questa operazione orribile gli causava grandi sofferenze. Aveva paura e nello stesso tempo voleva sprofondare, resisteva e collaborava. All'improvviso riusc a staccarsi, precipit e si svegli. C'era sempre Gerasim seduto in fondo al letto che sonnecchiava tranquillo e paziente, mentre lui giaceva con le gambe smagrite e coperte dalle calze, appoggiate alle sue spalle; la solita lampada col paralume, il solito dolore incessante. - Vai pure, Gerasim, - bisbigli. - No, rimango ancora. - No, vai. Gli tolse i piedi dalle spalle, si gir su un fianco e sent piet di se stesso. Aspett solo che Gerasim uscisse dalla stanza e si lasci andare al pianto, come un bambino. Piangeva per la sua impotenza, per la sua terribile solitudine, per la crudelt degli uomini e di Dio, per l'assenza di Dio. Perch hai fatto tutto questo? Perch mi hai condotto fino a questo punto? Perch mi tormenti cos orribilmente? Non aspettava nessuna risposta e piangeva perch non c'era e non ci poteva essere alcuna risposta. Il dolore torn a infierire, ma egli non si mosse, non chiam nessuno. Diceva a se stesso: Su, colpisci, ancora! Ma perch? Che cosa ti ho fatto? Poi si calm, smise di piangere e perfino di respirare, si concentr, come prestando ascolto a una voce fatta non di suoni, ma che veniva dall'anima, al corso di pensieri che si formavano in lui. Di che cosa hai bisogno? si ripeteva. Di che cosa? Di non soffrire. Di vivere, rispondeva a se stesso. E di nuovo si abbandon all'ascolto con tale tensione che neppure il dolore lo distolse. Vivere? Come vivere? chiedeva la voce dell'anima. S, vivere come vivevo prima: bene, piacevolmente. Perch, prima vivevi bene e piacevolmente? chiedeva la voce. Egli cominci a passare in rassegna i minuti migliori della sua piacevole vita. Ma stranamente quei minuti ora non gli apparivano pi tali. Nessuno, tranne i primi ricordi dell'infanzia. Proprio l, nell'infanzia,

c'era qualcosa di davvero piacevole con cui avrebbe potuto vivere, se solo fosse tornato indietro. Ma dell'uomo che aveva provato quei sentimenti piacevoli non c'era pi traccia, sembravano i ricordi di un'altra persona. Non appena cominciava a svilupparsi quel processo che aveva avuto come risultato l'Ivan Il'ic di oggi, tutte le cose che gli erano sembrate in passato delle gioie si scioglievano e diventavano qualcosa di insignificante e perfino di ripugnante. E pi si allontanava dall'infanzia per avvicinarsi al presente, pi quelle gioie si facevano vacue e dubbiose. A partire dall'Istituto di giurisprudenza. L c'era ancora dell'allegria, c'erano amicizie e speranze. Ma gi nelle classi superiori quei momenti buoni diventavano pi rari. Poi, durante il primo impiego, quello presso il governatore, di nuovo aveva avuto qualche momento buono: erano i ricordi legati all'amore per una donna. Poi tutto si confondeva e i buoni momenti erano sempre meno. Pi ci si allontanava e pi diventavano rari. Il matrimonio... come per caso, e la delusione, il profumo della bocca della moglie, la sensualit, l'inganno! E quel lavoro morto, le preoccupazioni finanziarie, un anno, due, dieci, venti, sempre uguale. E pi si andava avanti, pi tutto era morto. Come se fosse disceso lentamente da una montagna, immaginandosi di salirla. Cos era stato. Nell'opinione generale saliva, mentre la vita, di pari passo, se ne andava via da lui... E ora era finita, doveva morire! Ma come mai? Perch? Non era possibile. Non poteva essere che la vita fosse cos assurda, ripugnante. E se invece era davvero cos disgustosa e insensata, perch morire e con tali sofferenze? C'era qualcosa che non andava. Forse non ho vissuto come dovevo, gli venne in mente all'improvviso. Ma se ho sempre fatto tutto secondo le regole? disse a se stesso e scacci via immediatamente, come qualcosa di assolutamente impossibile, quell'unica soluzione dell'enigma della vita e della morte. Cosa vuoi adesso? Vivere? Come vivere? Vivere come si vive in tribunale, quando l'usciere annuncia: "Entra la corte!" Entra la corte, entra la corte, - ripet a se stesso. - Eccola qua, la corte! Ma io non sono colpevole! - grid con rabbia. - Perch allora? Smise di piangere e col viso rivolto verso la parete cominci a riflettere su quell'unica cosa: perch, a cosa serviva tutto quell'orrore? Ma per quanto pensasse non trovava risposta. E quando gli tornava in mente, cosa che accadeva spesso, il sospetto che tutto succedeva perch non aveva vissuto come doveva, subito rammentava l'irreprensibilit, la correttezza della sua vita e scacciava quello strano pensiero. X. Passarono altre due settimane. Ivan Il'ic ormai non si alzava pi dal divano. Non voleva stare a letto e cos stava sempre sdraiato sul divano. Il viso quasi sempre girato

verso il muro, pativa, in solitudine, le solite sofferenze senza tregua e si arrovellava intorno al solito pensiero senza uscita. Cos' questa cosa? Possibile che sia la morte? E la voce interna rispondeva: s, lei. Perch queste sofferenze? E la voce rispondeva: cos, senza perch. Non c' niente al di l di questo. Fin dall'inizio della malattia, da quando era stato per la prima volta dal dottore, la vita di Ivan Il'ic si era scissa in due opposti stati d'animo che si alternavano: da una parte la disperazione, l'attesa della morte terribile e incomprensibile, dall'altra la speranza e l'osservazione meticolosa dell'attivit del suo corpo. Aveva davanti agli occhi ora il rene e l'intestino che per un periodo si erano rifiutati di svolgere le loro funzioni, ora la morte, terribile e incomprensibile, da cui era impossibile salvarsi. Questi due stati d'animo si davano il cambio fin dall'inizio; ma quanto pi s'inoltrava nella malattia, tanto pi vaghe e incerte si facevano le fantasie sul rene e tanto pi reale la coscienza della morte incombente. Gli bastava ricordare com'era tre mesi prima e com'era ora, come fosse stata graduale la sua discesa dalla montagna, perch ogni possibile speranza crollasse. Negli ultimi tempi di quella solitudine in cui si trovava, quando stava col viso rivolto verso la spalliera del divano, una solitudine in mezzo alla citt affollata, fra numerosi conoscenti e familiari, una solitudine che non avrebbe potuto essere pi completa in nessun altro luogo, n in fondo al mare, n sotto terra, negli ultimi tempi dunque di quella terribile solitudine, Ivan Il'ic viveva soltanto di fantasie sul passato. Uno dopo l'altro gli si presentavano quadri della sua vita trascorsa. Cominciava sempre dal passato pi prossimo per approdare a quello pi lontano, all'infanzia e l si fermava. Se gli venivano in mente le prugne cotte avute per pranzo quel giorno, si ricordava di altre prugne, francesi e grinzose, della sua infanzia, del loro sapore particolare, della saliva che si formava in bocca, quando si arrivava al nocciolo, e insieme a questo sapore tornava tutta una serie di ricordi di allora: la balia, il fratello, i giochi. Non devo... fa troppo male, diceva Ivan Il'ic a se stesso e tornava di nuovo al presente, al bottone sulla spalliera del divano, alle grinze del marocchino. Il marocchino caro e poco resistente; aveva avuto anche un litigio con la moglie, per colpa sua. Ma c'era stato anche un altro marocchino e un altro litigio, quando, da bambini, avevano strappato la cartella del padre ed erano stati puniti. La mamma per aveva portato loro dei pasticcini. E di nuovo si fermava all'infanzia, di nuovo quei ricordi lo facevano soffrire ed egli cercava di scacciarli, di pensare ad altro. Ma proprio allora, insieme all'ondata di ricordi, se ne faceva strada un'altra nel suo animo, quella legata all'aggravarsi e al crescere della sua malattia. E anche qui, pi si andava indietro, pi c'era vita. E pi c'era vita, pi c'era del buono in essa. I due percorsi si fondevano in uno. Col peggiorare delle sofferenze, tutta la vita era andata peggiorando, pensava. L'unico punto luminoso era l, indietro, all'inizio della vita, poi tutto era diventato sempre pi nero, sempre pi veloce. Con velocit inversamente proporzionale al quadrato delle distanze

dalla morte, pens Ivan Il'ic. E l'immagine della pietra che rotolava verso il basso con velocit accelerata gli entr nell'anima. La vita, una serie di sofferenze in progressivo aumento, volava sempre pi veloce verso la fine, verso la sofferenza pi terribile. Io precipito..., sussultava, si agitava, voleva opporre resistenza, ma ormai sapeva ch'era impossibile resistere, e di nuovo, con gli occhi stanchi di guardare, ma incapaci di non guardare ci che avevano davanti, fissava lo schienale del divano e aspettava quell'ultima terribile caduta, il colpo, la distruzione. Resistere non si pu, - diceva a se stesso. - Se soltanto potessi capire il perch di tutto questo! Ma impossibile. Lo sarebbe se non avessi vissuto come si doveva. Ma non si pu certo affermare una cosa simile, - diceva a se stesso, rammentando la propria vita corretta, decorosa, ligia alle regole. Non si pu ammettere una cosa del genere, - e sorrideva a fior di labbra, come se qualcuno potesse vedere quel sorriso e restarne ingannato. - Non c' spiegazione! La sofferenza, la morte... Perch? XI. Trascorsero due settimane. E in quel periodo avvenne un fatto auspicato da Ivan Il'ic e da sua moglie: Petriscev fece formale richiesta di matrimonio. Accadde una sera. Il giorno seguente Praskov'ja Fedorovna si rec dal marito, riflettendo sul modo migliore di comunicargli la notizia, ma proprio in quella notte le sue condizioni erano ulteriormente peggiorate. Praskov'ja Fdorovna lo trov come al solito sul divano, ma in una posizione nuova. Giaceva supino, gemeva e guardava davanti a s con gli occhi fissi. Praskov'ja Fedorovna cominci a parlare di medicine. Egli spost lo sguardo su di lei che non pot terminare il discorso, tanto era l'odio che quello sguardo esprimeva, proprio nei suoi confronti. - Per carit di Dio, lasciami morire in pace, - disse. Lei stava per uscire, ma in quel momento entr la figlia. Si avvicin per salutarlo. Egli la guard come aveva guardato la moglie e alle sue domande circa la salute rispose bruscamente che presto avrebbe liberato tutti dalla sua presenza. Le due donne tacquero, rimasero sedute ancora un po, poi uscirono. - Ma che colpa abbiamo noi? - chiese Liza alla madre. - Come se fossimo state noi! Mi fa pena, pap, ma perch ci deve tormentare cos? Il medico arriv alla solita ora. Ivan Il'ic gli rispondeva a monosillabi, senza togliergli di dosso il suo sguardo incattivito e, sul finire della visita, disse: - Lo sapete anche voi che non c' niente da fare, lasciate perdere. - Possiamo alleviare le sofferenze, - disse il dottore. - Nemmeno questo potete, lasciate perdere. Il dottore usc, pass in salotto e rifer a Praskov'ja Fedorovna che egli stava molto male e che l'unico rimedio era somministrargli dell'oppio, per alleviare le sofferenze che dovevano essere tremende. Il dottore parlava di sofferenze fisiche, e aveva ragione; ma peggiori di quelle fisiche erano le sofferenze

morali, anzi erano queste il suo maggiore tormento. E le sue sofferenze morali derivavano dal fatto che quella notte, osservando il viso bonario e assonnato di Gerasim gli era balenato all'improvviso il pensiero che effettivamente la sua vita, tutta la sua vita cosciente, non era stata vissuta nel modo giusto. Gli venne in mente ci che fino ad allora gli era parsa una totale assurdit, quella di aver vissuto la vita in modo sbagliato. Vide che questa poteva essere la verit. Gli venne in mente che i suoi timidissimi tentativi di ribellione contro ci che la gente dell'alta societ considerava buono, tentativi appena abbozzati, ch'egli si era sempre affrettato a reprimere, potevano essere quelli autentici, e tutto il resto, errore. Il suo lavoro, il suo modo di vivere, la sua famiglia, i suoi interessi mondani e professionali, tutto poteva essere stato un errore. Cerc di difendere tutto ci davanti a se stesso, ma improvvisamente sent l'assoluta debolezza di quello che difendeva. Non c'era niente da difendere. Ma se proprio cos, - si disse, - se me ne vado dalla vita, con la coscienza di aver sciupato tutto ci che mi era stato dato, senza poter rimediare, allora che sar di me? Si sdrai supino e cominci a ripercorrere la sua vita in maniera del tutto nuova. Quando al mattino rivide il domestico, la moglie, la figlia, il dottore, si accorse che ogni loro movimento, ogni loro parola confermavano la terribile verit che aveva scoperto durante la notte. In loro vedeva se stesso, tutto ci di cui aveva vissuto, e vide con chiarezza che era sbagliato, un enorme, terribile inganno che nascondeva la vita e la morte. Questa consapevolezza aumentava, decuplicava le sofferenze fisiche. Gli sembrava che lo soffocassero e lo schiacciassero. E per questo li odiava. Gli diedero una forte dose di oppio, perse conoscenza; ma all'ora di pranzo tutto ricominci. Cacciava via tutti, si rigirava senza tregua. La moglie si avvicin e disse: -Jean, caro, fallo per me (per me?) Non ti pu nuocere, pu solo farti del bene. Cosa vuoi che sia, non niente. Anche i sani, spesso... Egli spalanc gli occhi. - Cosa? Fare la comunione? Perch? Non occorre! Del resto... Lei si mise a piangere. - Allora, caro? Chiamo il nostro prete, tanto buono. - Ma certo, benissimo, - disse lui. Quando il prete arriv per confessarlo egli si addolc, prov quasi sollievo dai suoi dubbi e, di riflesso, dalle sue sofferenze. Per un attimo torn a sperare, a pensare all'intestino cieco e alla possibilit di guarire. Si comunic con le lacrime agli occhi. Quando lo stesero sul letto, dopo la comunione, per un attimo si sent meglio e gli apparve nuovamente una speranza di vita. Cominci a pensare all'operazione che gli avevano proposto. Vivere, voglio vivere, ripeteva a se stesso. La moglie venne a congratularsi; disse le solite cose e aggiunse: - Vero che ora ti senti meglio? Senza guardarla egli mormor di s.

Il suo vestito, la sua figura, l'espressione del suo viso, il suono della sua voce, tutto quanto gli diceva una cosa sola: E' sbagliato. Tutto ci di cui hai vissuto e vivi menzogna, inganno, che ti nasconde la vita e la morte Insieme a questo pensiero si lev il suo odio e insieme all'odio tornarono le sofferenze fisiche e con esse la consapevolezza della morte vicina, inevitabile. Qualcosa di nuovo si produsse in lui: senso di lacerazione, fitte, soffocamento. L'espressione del suo viso, quando mormor s, era tremenda. E nel dirlo egli la guard, questa volta diritto negli occhi, poi si volt bruscamente e con un'energia inattesa, data la sua debolezza, grid: - Andate, andate via, lasciatemi! XII. Da quel momento cominci il grido ininterrotto che dur tre giorni ed era cos terribile che non si poteva ascoltarlo senza spaventarsi, neanche dietro due porte chiuse. Nel momento in cui aveva risposto alla moglie, aveva capito di essere perduto, che non c'era ritorno, che la fine era arrivata, la fine ultima, e che il dubbio insoluto sarebbe rimasto tale. - O! Ooo! O! - gridava con varie intonazioni. Aveva cominciato gridando: Non voglio! - e aveva continuato a gridare la lettera o In quei tre giorni per lui senza tempo, si dimen in quel sacco nero, dove l'aveva ficcato una forza invisibile e invincibile. Si dibatteva, come si dibatte nelle mani del carnefice il condannato a morte, quando sa di non potersi salvare; e di minuto in minuto sentiva che, malgrado tutti i suoi sforzi per resistere, si avvicinava irrimediabilmente a ci che pi lo riempiva di orrore. Sentiva che il suo tormento era nell'essere risucchiato dentro quel buco nero e, ancor pi, nel non riuscire a entrarvi. Gli impediva di entrare l'idea che la sua vita era stata buona. Era proprio questa giustificazione della sua vita a tenerlo legato, a non permettergli di proseguire, a farlo soffrire pi di qualunque altra cosa. D'improvviso una forza sconosciuta lo colp al petto, al fianco, gli blocc con impeto il respiro ed egli sprofond nel buco. L, in fondo al buco s'illumin qualcosa. Gli successe qualcosa di simile a ci che capita a chi viaggia nel vagone di un treno, crede di andare avanti e invece va indietro, poi, d'improvviso, riconosce la giusta direzione. S, stato tutto uno sbaglio, - disse a se stesso, - ma non importa. Si pu, si deve rimediare. Ma qual la cosa giusta? si domand e di colpo tacque. Era la fine del terzo giorno, un'ora prima della morte. Proprio in quel momento il ginnasiale si era infilato silenziosamente nella camera del padre e si era avvicinato al suo letto. Il moribondo continuava a gridare disperatamente e ad agitare le mani. Una mano capit sulla testa del ginnasiale. Egli la afferr, la strinse alle labbra e scoppi a piangere. Nel frattempo Ivan Il'ic era sprofondato, aveva visto la luce e scoperto che la sua vita non era stata come doveva essere, ma che si poteva ancora rimediare. Si era

chiesto che cosa fosse la cosa giusta ed era rimasto in ascolto. Sent allora che qualcuno gli baciava la mano. Apr gli occhi e guard il figlio. Gli fece piet. Anche la moglie si avvicin. Egli la guard. Aveva la bocca aperta, le lacrime scendevano sul naso e sulle guance, lo guardava con occhi disperati. Gli fece piet. S, li sto tormentando, - pens. - Soffrono, ma staranno meglio quando sar morto. Avrebbe voluto dirlo, ma non ebbe la forza. Del resto perch dirlo, occorreva farlo, pens. Con un cenno indic alla moglie il figlio e mormor: - Portalo via... mi fa pena e anche tu... - Voleva aggiungere anche perdona, ma disse abbandona e, senza pi forze per correggersi, manifest rassegnazione con un gesto della mano, sapendo che chi doveva capire, avrebbe capito. Di colpo gli fu chiaro che ci che lo tormentava senza lasciarlo libero si era improvvisamente staccato, da due parti, da dieci, da tutte. Provava piet per loro, voleva fare in modo che non soffrissero. Doveva liberarli e liberare se stesso da quelle sofferenze. Com' bello, com' semplice, - pens. - E il dolore? - si domand. Dov' andato? Dove sei, dolore? Si mise in ascolto. Ah, eccolo. Non importa, rimani pure. E la morte, dov'? Cerc la sua solita paura della morte, ma non la trov. Dov'era? Quale morte? Non aveva alcuna paura, perch non c'era alcuna morte. Al suo posto, la luce. - Ah! - esclam d'un tratto a voce alta. - Che gioia! Avvenne tutto in un attimo e il significato di quell'attimo non cambi pi. Per i familiari la sua agonia dur ancora due ore. Qualcosa gorgogliava nel suo petto; il corpo sfinito sussultava. Poi il gorgoglio e il rantolo si fecero pi rari. - E' finita! - pronunci qualcuno sopra di lui. Egli ud quelle parole e le ripet nel proprio animo. Finita la morte, - disse a se stesso. - Non c' pi. Trasse un respiro, si ferm a met, si distese e mor.

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