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Gaetano Rametta

Il problema dell’esposizione
speculativa nel pensiero di Hegel

Nuova edizione
Zeugma

Collana diretta da:


Massimo Adinolfi e Massimo Donà

Comitato scientifico:
Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare,
Ernesto Forcellino, Luca Illetterati,
Enrica Lisciani-Petrini, Carmelo Meazza,
Gaetano Rametta, Valerio Rocco Lozano, Rocco Ronchi,
Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.
Zeugma | Lineamenti di Filosofia italiana
12 - Classici
Gaetano Rametta

Il problema dell’esposizione
speculativa nel pensiero di
Hegel

Nuova edizione
Pubblicazioni del Centro di ricerca di Metafisica e Filosofia
delle Arti dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano
DIAPOREIN

Prima edizione: Il concetto del tempo. Eternità e «Darstellung»


speculativa nel pensiero di Hegel, Franco Angeli, Milano 1989.

Nuova edizione
© 2020, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma.
Proprietà letteraria riservata di
Inschibboleth società cooperativa sociale,
via G. Macchi, 94 - 00133 - Roma

www.inschibbolethedizioni.com
e-mail: info@inschibbolethedizioni.com

Zeugma
ISSN: 2421-1729
n. 12 - novembre 2020
ISBN – Edizione cartacea: 978-88-5529-087-6
ISBN – Ebook: 978-88-5529-088-3

Copertina e Grafica:
Ufficio grafico Inschibboleth
Immagine di copertina:
La cavalleria rossa,
Kasimir Malevič, 1928.
9

Sigle e abbreviazioni

Sigle e abbreviazioni
Si fornisce qui di seguito l’elenco delle sigle impiegate nella ci-
tazione delle opere di Hegel e delle relative traduzioni.
Diff.  = Differenz des Fichteschen und Schellingschen Sys-
tems der Philosophie, in G.W.F. Hegel, Jenaer Kriti-
sche Schriften, neu hrsg. v. H. Brockard und H. Buch-
ner, Bd. 1, Meiner, Hamburg 1979, pp. 1-116; tr. it.,
Differenza fra il sistema filosofico di Fichte e quello di
Schelling, in Id., Primi scritti critici, a cura di R. Bo-
dei, Mursia, Milano 1971, pp. 3-120.
J.S.I  = G.W.F. Hegel, Gesammelte Werke, Bd. 6, Jenaer Sys-
tementwürfe I, hrsg. v. K. Düsing und H. Kimmerle,
Meiner, Hamburg 1975.
J.S.II  = G.W.F. Hegel, Gesammelte Werke, Bd. 7, Jenaer
Systementwürfe II, hrsg. v. R.-P. Horstmann und
J.H. Trede, Meiner, Hamburg 1971; tr. it. (parzia-
le), Logica e metafisica di Jena (1804-05), a cura di
F. Chiereghin, Verifiche, Trento 1982.
J.S.III  = G.W.F. Hegel, Gesammelte Werke, Bd. 8, Jenaer Sys-
tementwürfe III, unter Mitarb. v. J.H. Trede, hrsg. v.
R.-P. Horstmann, Meiner, Hamburg 1976.
10

C.  = G.W.F. Hegel, Filosofia dello spirito jenese, a cura di


G. Cantillo, Laterza, Roma-Bari 1984.
Phän.  = Phänomenologie des Geistes, hrsg. v. J. Hoffmeister,
Meiner, Hamburg 19526; tr. it. di E. De Negri, Fe-
nomenologia dello spirito, 2 voll., La Nuova Italia,
Firenze 1976.
V.   = Vorrede, in Phän., pp. 9-59; tr. it. cit., pp. 1-61.
W.d.L. = Wissenschaft der Logik, I-II, hrsg. v. G. Lasson, Mei-
ner, Hamburg 19752; tr. it. di A. Moni, riv. da C. Ce-
sa, Scienza della logica, 2 voll., Laterza, Roma-Bari
19814.
Enz.  = Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften,
I-III, in G.W.F. Hegel, Werke, hrsg. v. E. Molden-
hauer und K.M. Michel, Suhrkamp, Frankfurt a.M.
1970, Bdd. 8-10; tr. it. di B. Croce, Enciclopedia delle
scienze filosofiche, intr. di C. Cesa, Laterza, Roma-
Bari 19805.
Enc.  = Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio,
vol. I, La scienza della logica (comprensiva delle ag-
giunte), a cura di V. Verra, Utet, Torino 1981; la sigla
Anm. sta per “nota”, quella Z. per “aggiunta”.
Per ragioni di uniformità stilistica e terminologica, le traduzioni
citate sono state talvolta leggermente modificate.
11

Premessa alla nuova edizione

Il libro che presentiamo al lettore costituisce la nuova edizione


del volume, uscito nell’ormai lontano 1989, intitolato Il concet-
to del tempo. Eternità e «Darstellung» speculativa nel pensiero
di Hegel (Franco Angeli, Milano 1989). Dopo tanti anni, è sta-
to per me un piacere inaspettato ricevere la proposta, da parte
della casa editrice Inschibboleth e del suo direttore, l’amico
dott. Giuseppe Pintus, di ripubblicarlo apportando le eventuali
modifiche che ritenessi necessarie. Ho quindi pensato, prima
di tutto, di riformulare il titolo, centrandolo su quello che è il
concetto-chiave attorno al quale ruotano tutte le indagini del
testo. Il libro ha così cambiato nome, mantenendo riconosci-
bile la relazione di sostanziale identità con la sua prima edi-
zione, e diventando Il problema dell’esposizione speculativa
nel pensiero di Hegel. Nel ripensare al titolo, ho dunque mo-
dificato anche la resa del termine hegeliano Darstellung, che
nella prima edizione avevo scelto di rendere col neologismo
«rap/presentazione». Ritengo ancora valide le motivazioni teo­
retiche che mi avevano spinto a questa scelta, meno il fatto di
esprimerle attraverso espedienti di tipo terminologico e tipo-
grafico. Spero anche che la scelta del termine «esposizione»
contribuisca a rendere più leggibile un libro che resta indub-
biamente complesso. Ciò mi ha spinto a procedere a modifi-
12

cazioni di tipo stilistico e all’esplicitazione di alcuni passaggi


argomentativi, con l’intento di rendere più chiaro e meno in-
ficiato da tecnicismi l’impianto interpretativo della prima edi-
zione, che resta intatto. Le modifiche di cui sopra mi hanno
portato a espungere l’Introduzione e la Prefazione, che il com-
pianto Remo Bodei aveva accettato generosamente di scrivere
per presentare questa mia prima monografia. Si è rinunciato
invece ad azzardare qualsiasi tipo di aggiornamento agli appa-
rati e alle note, aggiungendo soltanto un indice dei nomi alla
fine del volume.
A me non resta che lasciare il volume a questa sua seconda
navigazione, in un anno difficile per molti motivi, ma che re-
sta pur sempre contrassegnato, nell’ottica della nostra ricerca,
dal rappresentare il 250° anniversario della nascita del grande
pensatore di Stoccarda.
Gaetano Rametta
13

Capitolo I

L’esposizione speculativa

1. Pensiero e linguaggio nei primi frammenti jenesi di


filosofia dello spirito (1803-04)
In questi due primi paragrafi, le relazioni fra pensiero e lin-
guaggio verranno indagate alla luce degli scritti jenesi di filoso-
fia dello spirito, e in particolare dei testi redatti da Hegel negli
anni 1803-04 e 1805-06. Pensiero e linguaggio appaiono sin
da ora come momenti fondamentali nell’organizzazione del-
le attività teoretiche della coscienza e dello spirito. Tuttavia,
anche se l’analisi mostrerà le dislocazioni cui la filosofia dello
spirito è sottoposta nell’impostazione dei rapporti fra pensiero
e linguaggio, le relazioni che in tal modo s’intendono mettere
in luce sono altre, e riguardano la connessione sussistente fra
l’assetto di quei rapporti nella filosofia dello spirito, e la teo-
rizzazione del sapere filosofico come Darstellung speculativa.
L’indagine di quei testi assume così una valenza in pari tempo
introduttiva e costitutiva rispetto all’ermeneutica del concet-
to di esposizione filosofica, per come si formula nella Vorrede
alla Fenomenologia dello spirito, e la cui teorizzazione si rivela
in stretta connessione con gli slittamenti che investono, fra il
1803-04 e il 1805-06, la concezione dei rapporti fra pensiero
e linguaggio in sede di filosofia dello spirito.
14

Già nei frammenti del 1803-04, la meta cui è orientata la strut-


tura teoretica della coscienza è costituita dal concetto intel-
lettuale1.
In esso viene a compiersi quel toglimento del singolo conte-
nuto sensibile, in cui dapprima è immersa la coscienza, e che
ne designa l’avvenuto assorbimento nella soggettività. Nell’am-
bito di questo processo, la funzione che spetta al linguaggio
è quella di predisporre (come nome) e di attuare (come lin-
guaggio in senso stretto) la trasformazione della sensazione in
concetto universale. Da un lato, il nome attua una prima ne-
gazione della sensazione perché la trasforma in idealità lingui-
stica, riprodotta e per così dire ricreata a partire dalla vocalità
della coscienza. Dall’altro, però, l’approfondimento delle po-
tenzialità astrattive, per come si realizza nel concetto, si trova
situato propriamente sul terreno del linguaggio. Ora, poiché il
chiarimento del ruolo esercitato dal linguaggio esige di deter-
minarne la posizione in rapporto ad altre funzioni teoretiche,
quali segno, memoria e intelletto, risulta necessario esamina-
re, sia pure schematicamente, lo sviluppo mediante il quale
la sensazione s’incorpora nello spirito, il telos cui mira nel suo
divenire-coscienza.
In effetti, già l’animale, che è il primo fra gli esseri naturali a
possedere la capacità di sentire, scinde se stesso dal contenu-
to della singola sensazione, costituendosi così in universale ri-

1.  Per lo sviluppo complessivo del pensiero di Hegel a Jena, cfr. H. Kimmer-
le, Das Problem der Abgeschlossenheit des Denkens. Hegels «System der Phi-
losophie» in den Jahren 1800-1804, Bouvier, Bonn 1970, 19822; G. Gérard,
Critique et Dialectique. L’itinéraire de Hegel à Iéna (1801-1805), Presses de
l’Université Saint-Louis, Bruxelles 1982; H.S. Harris, Hegel’s Development,
vol. II, Night Thoughts (Jena 1801-1806), Clarendon Press, Oxford 1983.
Sullo sviluppo raggiunto dalla filosofia dello spirito, in riferimento alla sezio-
ne che ci riguarda, cfr. le note seguenti. Sul concetto della coscienza teore-
tica nei frammenti ora in questione, cfr. J.S.I, pp. 280-281 (C., pp. 18-19).
15

spetto a quest’ultima, che resta singolare. Più precisamente,


l’animale è universale in quanto è la sede di un avvicendamen-
to ininterrotto di sensazioni che si svolge nel tempo: l’anima-
le è il tempo dell’idealizzazione dei contenuti presenti nello
scorrere successivo e continuo delle sensazioni2. Tuttavia, tale
idealizzazione resta incompiuta, perché il contenuto di volta
in volta determinato, immerso nel fluido della vita interiore, si
temporalizza senza permanere se stesso, ma diventando altro;
esso cioè non contiene in se stesso la sua negazione, ma scom-
pare totalmente nel lasciar posto al successivo3. La situazione
si può chiarire dicendo che ci troviamo di fronte a un processo
di «cattiva infinità». Il fatto che la sensazione non comprenda
il suo altro all’interno di sé comporta infatti l’avvicendamento
ininterrottamente lineare delle singole sensazioni, senza ri-
torno in sé e perciò senza costituzione di identità. L’animale
scorre ciecamente di contenuto in contenuto, di singolarità in
singolarità, ma non ripiega nel circolo del Sé il movimento, che
allora rimane una semplice successione4. Esso è universale,
perché è il tempo nel quale scorrono, una dopo l’altra, le sin-
gole sensazioni; ma l’universale non perviene alla dimensione
del per-sé, e si mostra soltanto «nella forma della necessità»5.
Perché tale universale divenga per-sé, occorre che l’avvicen-
damento lineare delle singole sensazioni si ripieghi in sé, cioè

2.  «L’animale sente; l’essere-stimolato è a lui una singolarità; esso si differen-


zia immediatamente da questo singolo; questo singolo diventa immediata-
mente un universale ideale» (J.S.I, pp. 206-207); «l’animale è il tempo in cui
le sue stesse sensazioni trascorrono come singole» (J.S.I, p. 261).
3.  «La sensazione dileguava nell’essere dell’esser-altro della sua singolarità,
diventa un’altra sensazione» (J.S.I, p. 263).
4.  Questo ci sembra voglia dire Hegel, quando a proposito dell’animale af-
ferma che «non diviene signore del tempo» (J.S.I, p. 242, osservazione a
margine).
5.  J.S.I, p. 261.
16

che la sensazione comprenda in sé ciò che le è opposto, non


scompaia in un altro, ma piuttosto «in lei stessa»6. In altri ter-
mini, è la sensazione medesima che deve diventare universale,
e proprio a questo mira il suo «divenire coscienza»7.
Ora, in relazione a questo telos emerge tutta la crucialità del
linguaggio per la configurazione della coscienza, in quanto ap-
punto Hegel gli assegna il compito di predisporre e attuare la
trasformazione in «opposto in sé» del singolo contenuto senti-
to. Ma la funzione che il linguaggio si trova a svolgere in rap-
porto alla produzione del concetto universale dell’intelletto è
anche ciò che lo rende irriducibile a una sua comprensione in
termini di segno. E la questione è tanto più delicata, in quanto
nell’impostazione delle relazioni fra segno e linguaggio non è
in gioco soltanto la definizione di una delle scansioni fonda-
mentali che articolano il divenire-coscienza della sensazione,
ma uno dei plessi nevralgici di questa sezione di filosofia dello
spirito in tutte le sue diverse stesure.
Le differenze, anche profonde, che separano su questo punto
la trattazione svolta in J.S.I da quelle condotte in seguito da
Hegel, sono basate sulla concezione del segno espressa in que-
sti abbozzi, e sulla conseguente dislocazione subita in rapporto
al segno dal nome e più complessivamente dal linguaggio8. An-

6.  Ciò è quanto intende Hegel con la locuzione fondamentale per cui la sen-
sazione deve diventare un «opposto in sé» (sulla quale cfr. la nota seguente).
7.  «L’idealità del sentire o il suo divenire coscienza mira immediatamente a
far sì che nella coscienza la sensazione diventi un opposto in sé che abbia il
suo essere-altro in esso stesso, e perciò il sentito e il senziente [diventino] in
esso stesso un che di universale» (J.S.I, p. 283; C., pp. 20-21).
8.  Tali slittamenti, ci sembra, sono fin qui sfuggiti alla letteratura critica
sull’argomento, che tende piuttosto ad appiattire gli uni sugli altri i testi del
1803-04 e del 1805-06. Così, rispetto alle relazioni fra segno e linguaggio,
non soltanto si manca di registrare la peculiarità che contraddistingue quei
primi frammenti in rapporto alle successive stesure (e già agli scritti del
17

che la produzione segnica, infatti, viene in questo testo assimi-


lata a un processo di «cattiva infinità», tipico delle filosofie che
non sanno tradurre in effettuale presenza il dovere della realiz-
zazione. Come nel rapporto di dovere l’oggetto viene assimila-
to alla coscienza solo parzialmente, perché risorge di continuo
sotto forma di nuovo ostacolo, così nella relazione di segno il
significato, introdotto dal soggetto quale funzione dell’ogget-
to, permane a questo totalmente estraneo, lo lascia inalterato
nella sua realtà e non vi si imprime quindi compiutamente.
Per questa mancata impressione del significato nell’oggetto,
alla cosa resta, immutata, la sua natura, e la coscienza si trova
«impotente a togliere compiutamente l’opposizione del sog-
getto e dell’oggetto»9. Da un lato, la produzione semiotica in-
duce una lacerazione nel tessuto compatto dell’esperienza, in
quanto, grazie alla sua potenza astrattiva, la coscienza isola un
oggetto, lo separa dal contesto in cui è inserito nel corso delle
sue apparizioni reali, e lo dispone così a soddisfare la funzione
di supporto per la trasmissione di significati10. Dall’altro, però,
tale processo si svolge solo «idealmente, così che esso [l’ogget-
to; N.d.A.] in realtà sussiste ancora nella sua connessione»11.

1805-06) della filosofia dello spirito (di cui analizzeremo solo le versioni più
significative per la nostra ricerca, e cioè, oltre ai testi di Jena, l’Enciclopedia
del 1830); ma soprattutto, non si possono individuare le scansioni proble-
matiche e i mutamenti interni che volta a volta mutano la configurazione di
quella che nell’Enciclopedia si consoliderà come la sezione teoretica della
Psicologia (concernente cioè lo spirito come «intelligenza»).
9.  J.S.I, p. 286 (C., p. 23). Così, l’oggetto «resta ciò che è, ha ancora il suo
essere per sé ed il suo essere-altro è posto soltanto come un dover-essere-
altro» (ibidem).
10.  «Un oggetto intuito, come un che di strappato alla sua connessione, viene
posto come riferito ad un altro» (ibidem).
11.  J.S.I, p. 286 (C., pp. 23-24). Benché non siano riferite specificamente
a questo testo, cfr. al riguardo le osservazioni di K. Löwith, Hegel und die
Sprache, in Id., Vorträge und Abhandlungen. Zur Kritik der christlichen
Überlieferung, Kohlhammer, Stuttgart 1966, p. 107, e J. Derrida, Le puits et
18

Ciò comporta che esso sia «contingente rispetto a ciò di cui


è segno»12: il rapporto tra segno e significato risulta arbitrario
non solo in quanto non scaturisce dal rispecchiamento di rela-
zioni ontologiche, ma perché le modalità con le quali si attua
l’invenzione di cui è prodotto non consentono l’unificazione fra
il significato spirituale e l’oggetto segnico materiale. E questa
arbitrarietà include a sua volta la dipendenza del significato
dal soggetto: «il significato del segno è solo in relazione con il
soggetto: dipende dal suo arbitrio e solo per mezzo del sog-
getto è comprensibile ciò che questi intende con il segno»13.
Tuttavia, quest’ultima proposizione contiene già, perlomeno
implicitamente, la necessità del linguaggio per la struttura del-
la coscienza. In effetti, se a proposito del segno Hegel impiega
la notazione di stumme Bezeichnung14, egli con ciò non solo
mette in rilievo la silenziosità che accompagna tutte le fasi
dell’invenzione semiotica, ma sottolinea in pari tempo il suo
carattere «ideale», e la funzione di presupposto che nei suoi
confronti inevitabilmente svolge il linguaggio. Già nel doversi
rivolgere al soggetto per chiedergli la spiegazione di cosa in-
tenda impiegando un determinato segno è contenuto il fatto
che il significato debba venire linguisticamente enunciato: se
infatti la coscienza, a questo punto, indicasse silenziosamente
un altro segno, ci troveremmo implicati in una catena poten-
zialmente infinita di rimandi, che in ultima analisi non consen-

la pyramide. Introduction à la sémiologie de Hegel, in Hegel et la pensée mo-


derne. Séminaire sur Hegel dirigé par Jean Hyppolite au Collège de France
(1967-1968), sous la dir. de J. D’Hondt, Puf, Paris 1970, pp. 27-83, in part.
p. 41 (poi in Id., Marges de la philosophie, Minuit, Paris 1972, pp. 79-127).
12.  J.S.I, p. 287 (C., p. 24).
13.  Ibidem. Sull’arbitrarietà del segno, cfr. le considerazioni di S. Costan-
tino, Hegel. La dialettica come linguaggio. Il problema dell’individuo nella
Fenomenologia dello spirito, Mursia, Milano 1980, pp. 20 ss.
14.  Ibidem.
19

tirebbe nemmeno la determinazione come segno di un oggetto


qualsiasi. Il rapporto semiotico, per potersi instaurare, mostra
così di presupporre già l’esistenza di un linguaggio15. E facendo
leva sulla mancata risoluzione della soggettività nell’oggetto,
dovuta al mutismo in cui l’attività semiotica si trova avvolta, la
transizione dal segno al linguaggio non soltanto attua lo sca-
valcamento della silenziosità di cui la relazione segnica restava
prigioniera, ma la evidenzia come la sua mancanza in fondo
decisiva. Inoltre, collocando il baricentro dell’esposizione en-
tro il rapporto fra soggetto e oggetto, accentua ulteriormente
l’eccedenza del linguaggio e della sua cellula fondamentale –
il nome – nei confronti del puro e semplice segno.
Abbiamo visto come nella stumme Bezeichnung la coscienza
costituisse uno dei lati di un’opposizione inconciliata, poiché
non venendo il significato compiutamente espresso dal segno,
quest’ultimo restava immutato nella sua natura di cosa. Ora,
il primo passo che essa compie per risolvere questa contrad-
dizione consiste nel trasferire su di un materiale evanescente
la sua attività espressiva di significati: solo un substrato ogget-
tivo la cui apparizione coincida col suo immediato dissolversi
consente infatti di «superare» ciò che nell’invenzione semiotica
ancora resisteva a essere padroneggiato da parte del soggetto16.
Tale è il requisito soddisfatto dal suono, che esiste solo nell’at-
timo in cui scompare ed è un «nicht mehr seiendes, indem es

15.  Su questo punto, cfr. Th. Bodammer, Hegels Deutung der Sprache. In-
terpretationen zu Hegels Äusserungen über die Sprache, Meiner, Hamburg
1969, p. 41: «C’è bisogno di un accordo precedente su ciò che il segno deve
in generale significare… la produzione di segni presuppone già sempre ac-
cordo e con ciò comunicazione teoretica, linguaggio».
16.  «Il segno come un che di reale (deve) altrettanto immediatamente dile-
guare» (J.S.I, p. 287; C., p. 24). Cfr. inoltre, su questo, J. Derrida: «Il contenu-
to dell’intuizione sensibile (il significante) deve cancellarsi, svanire di fronte
al significato, all’idealità significata» (Le puits et la pyramide, cit., p. 54).
20

ist»17. Il linguaggio, adottandolo come il «medium» materiale


per la trasmissione dei significati, consente alla coscienza di
soddisfare la prima esigenza cui si trovava posta di fronte in
rapporto al superamento dell’opposizione che rimaneva, nel
segno, irrisolta: la Sprache è presente solo nel suo svanire, non
si fissa, ma dilegua immediatamente nell’attimo stesso in cui
è avvertita18. Così, poiché il suono ricalca la medesima strut-
tura formale del tempo, il linguaggio che vi si esprime e vi
si pronuncia assume il tempo come dimensione specifica del
suo prodursi. Ciò comporta il fatto che la coscienza si tempo-
ralizza nel momento stesso in cui si esprime linguisticamen-
te. Poiché il linguaggio è definito come «il concetto esistente
della coscienza»19 e la coscienza può esistere secondo il suo
concetto solo in quanto coscienza linguistica, il tempo emer-
ge come struttura necessaria e irriducibilmente privilegiata,
nei confronti dello spazio, per la costituzione delle esperien-
ze della coscienza20.
Il complesso di tali determinazioni non può non avere riper-
cussioni sulla concezione del linguaggio così adombrata. L’ac-

17.  J.S.I, p. 283 (C., p. 21).


18.  J.S.I, p. 288 (C., p. 25).
19.  Ibidem. In tal senso, assolutamente calzanti per la posizione di Hegel
risultano le parole di Th. Litt, quando a proposito del linguaggio scrive che
«l’individuo si trova certo di avere di fronte a lui qualcosa che gli è destina-
to, che gli appartiene in proprio», benché non sia «ciò che in lui si trova di
migliore» (Hegel. Versuch einer kritischen Erneuerung, Quelle & Meyer,
Heidelberg 1953; tr. fr., Hegel. Essai d’un renouvellement critique, Denoël,
Paris 1973, p. 92).
20.  Sul rapporto tempo-linguaggio in Hegel, cfr. A. Kojève, Introduction à
la lecture de Hegel, Gallimard, Paris 1947; tr. it. (parziale), Lezioni sull’eter-
nità, il tempo e il concetto, in J. Hyppolite et al., Interpretazioni hegeliane,
a cura di R. Salvadori, La Nuova Italia, Firenze 1980, pp. 169-281, a p. 203:
«Il tempo esiste solo nella misura in cui c’è Storia, cioè esistenza umana, os-
sia esistenza discorsiva».
21

centuazione della sonorità del linguaggio pone in risalto il mo-


mento della comunicazione orale concreta, la parola parlata
che «ha l’esistenza universalmente comunicante»21. La portata
di questa osservazione non può certo ridursi alla semplice con-
statazione dell’acusticità del linguaggio; piuttosto, quest’ultima
viene considerata in funzione della comprensione reciproca
fra i parlanti, come la sua condizione imprescindibile22. Tale
posizione apre la strada a una comprensione del linguaggio
come complesso delle sue pratiche, come pronuncia effettiva
delle parole da parte di soggetti parlanti che dialogano reci-
procamente nei contesti e nelle svariate circostanze della loro
esistenza concreta23.

21.  J.S.I, p. 288 (C., p. 25: «immediatamente cessa di essere proprio men-
tre è»).
22.  Al riguardo, è da sottolineare come già in questi frammenti il momento
intersoggettivo, nella forma concretamente determinata del popolo, emerga
come fattore condizionante per l’esistenza del linguaggio: «Il linguaggio è
solo in quanto linguaggio di un popolo» (J.S.I, p. 318; C., p. 55). Ciò consen-
te, assieme ai lati già evidenziati della sonorità e temporalità del linguaggio,
di pervenire alla seguente, pregnante definizione: «Il linguaggio è universale,
un che di riconosciuto in sé, di riecheggiarne allo stesso modo nella coscien-
za di tutti; ogni coscienza parlante diviene in esso immediatamente un’altra
coscienza» (ibidem). Sul tema del riconoscimento nella concezione hege-
liana del linguaggio a Jena, sempre suggestive risultano le riflessioni svolte
da J. Habermas, Arbeit und Interaktion. Bemerkungen zu Hegels Jenenser
«Philosophie des Geistes», in Id., Technik und Wissenschaft als «Ideologie»,
Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1968, pp. 9-47; tr. it. di M.G. Meriggi, Lavoro e
interazione. Osservazioni sulla filosofia dello spirito jenese di Hegel, in J. Ha-
bermas, Lavoro e interazione, Feltrinelli, Milano 1975, pp. 22-47.
23.  È a J. Simon che risale l’interpretazione secondo cui, nell’Enciclopedia,
Hegel perverrebbe a intendere il linguaggio come «die zusammenhängende
Gesamtheit des faktischen Sprechens» (Das Problem der Sprache bei Hegel,
Kohlhammer, Stuttgart 1966, p. 169: «la totalità interconnessa del parlare
fattuale», con particolare riferimento al § 459). Ciò comporta che «Hegel,
quando parla del linguaggio, pensa sempre a una determinata situazione
linguistica» (Id., Die Kategorien im «gewöhnlichen» und im «spekulativen»
Satz. Bemerkungen zu Hegels Wissenschaftsbegriff, in «Wiener-Jahrbuch
22

Tuttavia, poiché la linea principale dell’esposizione è fornita


dalle configurazioni di volta in volta assunte dal rapporto fra
soggetto e oggetto, il testo non approfondisce questi spun-
ti nella direzione sopraindicata, e focalizza invece l’attenzio-
ne sul nome in quanto cellula fondamentale del linguaggio. A
questo proposito, in sede ermeneutica è stato affermato che «il
privilegio irriducibile del nome è la chiave di volta della filoso-
fia del linguaggio hegeliana»24. Ora, tali formulazioni possono
rivelarsi fuorvianti se estese alla totalità della concezione del
linguaggio in Hegel, e appaiono riduttive anche semplicemen-
te in rapporto alla trattazione che al linguaggio viene riserva-
ta nell’ambito della filosofia dello spirito. Tuttavia, esse hanno
il merito di richiamare l’attenzione sulla profonda necessità
sistematica cui la produzione dei nomi viene a rispondere. Il
nome consente di recuperare alla presa della spiritualità co-
scienziale la cosalità resistente, nel rapporto di segno, al pro-
cesso di significazione innescato dal soggetto, salvaguardando
in pari tempo quest’ultimo dalla ricaduta nell’irrealtà dell’im-
maginazione25. Come esteriorità in se stessa interiore o «idea-
le», esso si dispone senza residuo alla ricezione dei significati
spirituali, garantendone simultaneamente quello statuto di og-
gettiva esternità, cui essi invano aspiravano nel segno.
In base a queste coordinate, il testo intende il nome non solo
come il prodotto coscienziale in cui il rapporto di segno per-
viene al suo compimento, ma in pari tempo – secondo l’acce-

für Philosophie», III, 1970, pp. 9-37: p. 29). Anche D.J. Cook, Language in
the Philosophy of Hegel, Mouton, The Hague-Paris 1973, osserva che «l’im-
portanza di valutare il linguaggio nel suo proprio contesto storico e sociale
è rafforzata dalla preferenza di Hegel per la parola parlata» (p. 180). Ma in
realtà, proprio tale «preferenza» si troverà messa in dubbio, o perlomeno for-
temente problematizzata, sin dagli scritti jenesi del 1805-06.
24.  J. Derrida, Le puits et la pyramide, cit., pp. 65-66.
25.  Sull’immaginazione. cfr. J.S.I, pp. 284-285 (C., pp. 21-22).
23

zione più «classica» dell’Aufheben dialettico – come ciò che


porta quel rapporto al suo dissolvimento, alla sua risoluzione.
Mentre «il segno era precedentemente in quanto segno un
nome che era per sé ancora qualcosa d’altro che un nome, cioè
una cosa»26, nel nome l’oggetto è ridotto alla sola funzione di
supporto espressivo del senso, senza nessuna ulteriore consi-
stenza. L’evanescenza della parola sonora, in cui il substrato
cosale che permaneva nell’oggetto segnico viene immediata-
mente cancellato, è la condizione che consente l’instaurarsi
di un predominio «assoluto» da parte dei significati, impres-
si compiutamente nel materiale atmosferico del nome come
suo istantaneo dileguarsi. Ciò che solamente permane, dopo la
scomparsa del suono, è il significato, mentre viceversa la vola-
tilizzazione del nome realizza l’assoggettamento della materia
alla signoria dello spirito27.
Così, all’evanescenza del nome Hegel coniuga l’emancipazio-
ne del significato dalla dipendenza che lo vincolava, nel segno,
alla coscienza. L’assegnazione del senso all’oggetto veniva de-
cisa, nella stumme Bezeichnung, dall’arbitrio del soggetto. Ma

26.  J.S.I, p. 288 (C., p. 25).


27.  Sulla connessione fra evanescenza del suono, permanenza del signifi-
cato e comprensione linguistica, cfr. J. Simon, Das Problem der Sprache bei
Hegel, cit., pp. 44 e 125; e K. Löwith, op. cit., p. 107: «Il suono come tale si
estingue, quando viene compreso come suono linguistico». A tale proposi-
to, F. Schmidt, Hegels Philosophie der Sprache, in «Deutsche Zeitschrift für
Philosophie», IX, 1961, pp. 1479-1486, parla di «essenziale “doppia natu-
ra” sensibilmente insensibile» del linguaggio, e mette in relazione con que-
sto lato l’impossibilità per esso di assurgere, nel sistema di Hegel, «al rango
dell’assoluta autocoscienza» (p. 1486). Viceversa, D.J. Cook, pone in rilievo
l’omogeneità di tale «doppia natura» della parola parlata con la nozione he-
geliana dello spirito: «l’attività del linguaggio parlato serve come paradigma
per la trascendentesi attività dello spirito» (op. cit., p. 126). Ma la preferen-
za accordata al momento «orale» del linguaggio non consente di cogliere,
in sede ermeneutica, la funzione costruttiva in senso epistemico che il lin-
guaggio viene ad assumere in Hegel.
24

ciò accadeva perché il significato non riusciva a imprimersi nel


materiale, e richiedeva perciò l’ausilio dell’esplicazione sog-
gettiva per venire alla luce. Nel momento in cui l’elemento
fisico naturale prescelto dalla coscienza sia il suono, invece, il
significato marchia senza residuo di sé il lato oggettivo, per-
ché quest’ultimo si dissolve in se stesso. Per emergere, quindi,
non ha più bisogno del soggetto, bensì è presente immediata-
mente nella parola. Nel nome, il significato perviene alla sua
propria autonomia28.
Ma è rispetto all’oggetto intuitivo designato che il testo deter-
mina la funzione del nome in rapporto al telos del divenire-­
coscienza della sensazione. Abbiamo già anticipato che essa
consiste nel predisporre la trasformazione della singola sen-
sazione in universale, nel preparare insomma la transizione al
concetto dell’intelletto. Ora, anche da questo lato si misura
l’eccedenza che separa il nome dal segno. Quest’ultimo, infat-
ti, si mostrava inadatto a svolgere tale funzione, perché «l’og-
getto designato aveva il suo segno fuori di sé; non era posto
come un che di tolto»29. Nel rapporto semiotico, non soltan-
to l’attività soggettiva della significazione lasciava inalterato il
suo supporto materiale, ma dall’operazione non veniva inve-
stita nemmeno la cosa indicata; anch’essa continuava a sus-
sistere, sia in sé che in relazione al contesto della situazione
circostante. Al contrario, il nome annulla l’autonomia dell’em-

28.  Nel segno «il significato deve essere per sé; opposto a ciò, che significa
[l’oggetto usato come segno; N.d.A.], ed a ciò, per il quale esso ha il signifi-
cato [e cioè il soggetto; N.d.A.]»; «il nome invece è in sé, durevole, senza la
cosa e il soggetto» (J.S.I, risp. p. 287 e p. 288; C., p. 24 e p. 25). Sull’unità di
significato e significante raggiunta nel nome, cfr. J. Hyppolite, La première
philosophie de l’esprit de Hegel, in Id., Figures de la pensée philosophique,
2 voll., Puf, Paris 1971, vol. I, pp. 309-331, a p. 323, dov’è ben rilevato come
su questa base il nome venga, da un lato, distinto efficacemente dal segno
semplice, e dall’altro cessi di venire inteso come arbitrario.
29.  J.S.I, p. 288 (C., p. 25).
25

piricamente concreto, ne cancella la molteplicità qualitativa,


e trasformandolo finalmente in proprietà dello spirito lo in-
nalza a «opposto in sé», per cui Hegel può affermare che «nel
nome si realizza il porre-idealmente l’intuizione empirica»30.
Ciò che in quest’ultima appariva alla stregua di un contenuto
meramente sentito, nel nome diventa un esistente che dilegua
in se stesso; l’oggetto non proietta più l’altro al di fuori di sé,
bensì, comprendendo la negatività al proprio interno, diventa
l’opposto di se stesso.
Ma nonostante l’affermazione di Hegel sopra riportata, sa-
rebbe errato considerare compiuto nel nome il processo del
divenire-­coscienza della sensazione. In effetti, è solo nel con-
cetto intellettuale che la trasformazione della sensazione in
«opposto in sé», già iniziata col semplice nome, si realizza esau-
stivamente. Da un lato, recando la sensazione a linguaggio, il
nome la trasforma in un «opposto in sé»; dall’altro, però, pro-
prio in quanto è la negazione di un singolo contenuto senti-
to, esso è vincolato all’espressione di un significato altrettanto
particolare, singolarizzato. Anche il nome deve quindi attuare
in se stesso la trasformazione nell’opposto, togliere la deter-
minatezza che ancora gli impedisce di recare all’espressione
un contenuto universale, completando in tal modo realmen-
te il divenire-coscienza della sensazione. Hegel ha in mente
una relazione come quella di diverse specie al loro genere.
Da questo punto di vista, il significato particolare del singo-
lo nome implica che esso debba riferirsi anche ad altri nomi,
esprimenti significati correlati al suo, ma in pari tempo anche
diversi e opposti. In questo movimento di auto-riferimento ad
altro e di auto-negazione, il nome «supera» la sua determina-
tezza, si trasforma in «opposto in sé» e diventa concetto uni-
versale dell’intelletto. In quest’ultimo è finalmente raggiunto

30.  J.S.I, p. 290 (C., p. 27).


26

il telos cui il divenire-coscienza della sensazione incessante-


mente tendeva. Per illustrare il processo così compiuto, He-
gel impiega un esempio tratto da quella che, con suggestione
wittgensteiniana, potremmo chiamare una «grammatica» dei
colori31. Nel nome di un singolo colore (ad es., «blu»), il con-
tenuto percettivo è certamente trasformato in un «opposto in
sé»: e tuttavia – dice Hegel – «esso è pur sempre questa deter-
minatezza», «il nome stesso è ancora una idealità singola»32; vi-
ceversa, solo nel concetto universale di «colore» «il blu sentito
cessa immediatamente d’essere questo blu» e diventa «l’oppo-
sto di se stesso, i restanti colori a lui opposti… che esso diven-
ga immediatamente colore, questo eleva la sensazione oltre se
stessa; essa è passata a coscienza»33.
Ora, una delle caratteristiche originali del testo jenese del
1803-04, rispetto alle stesure successive, sta nella funzione
svolta dal linguaggio nel processo di trasformazione del nome
in concetto. Il superamento della singolarità del nome, infat-
ti, non viene presentato solo come un movimento logicamen-
te necessitato dalla determinatezza del suo significato, bensì è
concretamente specificato in rapporto al linguaggio compreso
come linguaggio. È vero, la definizione che in un primo tem-
po viene fornita del linguaggio è piuttosto insoddisfacente, in
quanto esso vi appare solo come «una molteplicità di nomi»34.
Tuttavia, il punto da sottolineare è che questa determinazio-
ne viene intesa da Hegel come puramente astratta, come una

31.  «Grammar of colour concepts»: espressione impiegata, sia pure in un


contesto diverso, da D. Lamb, Language and perception in Hegel and Witt-
genstein, Avebury, Aldershot 1979, p. 64.
32.  J.S.I, risp. p. 289 e p. 290 (C., p. 26 e p. 27).
33.  J.S.I, p. 262; ma cfr. anche p. 293 (C., p. 29). In sede ermeneutica, cfr.
M. Clark, Logic and System. A Study of the Transition from “Vorstellung”
to Thought in the Philosophy of Hegel, Nijhoff, The Hague 1971, p. 65.
34.  J.S.I, p. 289 (C., p. 26).
27

prima approssimazione verso la comprensione concreta del


linguaggio. Considerato come tale, il singolo nome dovrebbe
esistere in modo autonomo, separato da ogni altro nome. E
tuttavia, esso si trova già da sempre compreso nel linguaggio,
in quella che Hegel chiama Einheit des Elementes35. Proprio
la sua strutturazione unitaria, quindi, conduce a interpreta-
re il linguaggio non più nel senso di una mera «molteplicità
di nomi», ma in quello ben più concreto della loro reciproca
messa in relazione: «il linguaggio è la relazione dei nomi, o di
nuovo l’idealità della loro stessa molteplicità»36. Il momento
della dispersività del linguaggio, indicato nella nozione dell’ir-
relata molteplicità dei nomi, viene ripreso in se stesso e il lin-
guaggio non appare più come una semplice raccolta di parole,
che potrebbero esistere anche indipendentemente le une dal-
le altre. Questo modo di considerarlo si rivela un’astrazione,
che prescinde dal rapporto in cui i nomi si trovano già da sem-
pre gli uni con gli altri. Così, l’asserzione hegeliana secondo
la quale «il nome esiste come linguaggio»37 non indica soltan-
to il fatto che esso «esiste» solo in quanto viene sonoramen-
te pronunciato e acusticamente avvertito, ma che nei discorsi
dei parlanti esso compare sempre come un elemento posto in
relazione con altri38.

35.  Ibidem.
36.  Ibidem.
37.  J.S.I, p. 288 (C., p. 25).
38.  «In quanto il linguaggio si articola nella molteplicità dei nomi, ma vice-
versa i nomi hanno la loro esistenza… nel linguaggio, tra nome e linguaggio
sussiste un rapporto di mediazione reciproca. Il nome per Hegel non è…
semplicemente un elemento originario, dal quale il linguaggio si costruisca
unilateralmente e additivamente; esso piuttosto presuppone già sempre il
linguaggio» (Th. Bodammer, op. cit., p. 64). Su questo punto, cfr. anche
A. Canilli, Il linguaggio nella filosofia del primo Hegel, «Studi italiani di lin-
guistica teorica e applicata», n. 1-2, 1973, pp. 125-189.
28

Ora, la determinazione del linguaggio come relazione dei nomi


non consente soltanto di pervenire a una sua comprensione
concreta. Essa coinvolge anche il processo di genesi dell’intel-
letto, e la funzione che al suo interno viene svolta dal linguag-
gio. Se infatti è solo nel linguaggio che i nomi si trovano relati
gli uni agli altri, sembra che solo nel linguaggio delle concrete
interazioni comunicative essi possano superare il loro carattere
di determinatezza ed elevarsi al rango di concetto universale
dell’intelletto. D’altro canto, se è vero che il concetto intellet-
tuale si trova già contenuto nel linguaggio, è anche vero che
qui esso vi si presenta in maniera relativamente indifferenzia-
ta, confuso con gli altri nomi dotati di generalità inferiore. Per
questo, in rapporto alla formazione del concetto intellettuale,
il testo fa intervenire una nuova funzione spirituale, e cioè la
memoria. Quest’ultima opera quella connessione selettiva di
parole che si rende necessaria per separare i concetti presenti
a livello linguistico dai semplici nomi e per raggiungere quella
che potremmo chiamare un’astrazione determinata39.
Si tratta quindi di valutare più precisamente il rapporto tra
memoria e linguaggio. Ora, proprio alla soglia del passaggio
verso il concetto intellettuale, alle due «potenze» viene ascritta
un’omo­logia funzionale estremamente significativa: come il lin-
guaggio comprende in sé la capacità di raccogliersi dall’irrelata
molteplicità dei nomi, così anche la memoria viene designata
nel testo come «unità negativa», capacità cioè di concentra-
zione e riunificazione del molteplice40. Tale omologia, inol-
tre, appare strutturalmente connessa al concetto di coscienza
presente nel testo. Poiché la coscienza viene intesa da Hegel

39.  In virtù della memoria il singolo nome (il «blu» dell’esempio hegeliano)
«viene posto come questo essere-in-relazione, in sé un universale, secondo la
determinatezza del suo contenuto un altro da ciò che è: esso è colore, e con-
cetto dell’intelletto, concetto determinato» (J.S.I, p. 290; C., p. 26).
40. Cfr. J.S.I, pp. 289-290 (C., p. 26).
29

come il «medio» per la risoluzione e l’unificazione dialettica


delle opposizioni, anche la contrapposizione fra memoria e
linguaggio può essere ascritta a una modalità di comprensione
finita, che considerando l’una situata sul versante della sogget-
tività, disloca l’altro su quello opposto dell’oggettività. Vicever-
sa, essendo la coscienza il «medio» dell’unificazione dialettica
di momenti contrapposti, memoria e linguaggio si trovano in
essa compenetrati entro un’unità articolata, e tale compene-
trazione si riflette nell’omologia funzionale delle determina-
zioni loro assegnate41.
Così, tale impostazione dei rapporti fra memoria e linguaggio
impedisce di limitare la funzione di quest’ultimo a quella di
mera predisposizione per la formazione del concetto intellet-
tuale e d’interpretarlo come il semplice «oggetto» di un eser-
cizio rammemorante il cui esito, seppure in esso prefigurato,
farebbe capo comunque a un soggetto diverso. Lo svolgimento
successivo del pensiero di Hegel imboccherà effettivamente
questa direzione, e la memoria diventerà funzione esclusiva
dell’io, dispositivo finalizzato al consolidamento e alla fissazio-
ne da parte sua dei rapporti linguistici. Al contrario, nel testo
in questione è il linguaggio ad assumere la funzione di soggetto

41.  «Per il punto di vista della coscienza che bada solo all’opposizione del-
la coscienza, appaiono ancora questi due (lati) della coscienza, ai due lati
dell’opposizione; la memoria appare dal lato di ciò che è cosciente; il lin-
guaggio dall’altro lato» (J.S.I, pp. 277-278; C., p. 16). Sulla coscienza come
«medio», oltre a loc. cit. e s., cfr. J.S.I, pp. 290-294 (C., pp. 27-30). Par-
ticolarmente illuminante, in proposito, J. Taminiaux, Le langage selon les
écrits d’Iena, in «Tijdschrift voor Filosofie», XXXI, n. 2, 1969, pp. 363-377,
a p. 373: «Bisogna dire nello stesso tempo che il colore è appartenente alla
natura come determinazione particolare, e che è solamente nel rapporto al
suo essere-soppresso, il nome, e il linguaggio non è né dal lato del sogget-
to come facoltà, né dal lato dell’oggetto come determinazione cosale, ma è
l’unità e il medio dei due, il movimento nel quale questa opposizione è sop-
pressa, ciascuno dei suoi momenti passando nell’altro».
30

del processo di intellettualizzazione: è «il linguaggio, che eleva


sé all’intelletto», che «diventa l’intelletto»42, e precisamente in
quanto «si riprende dalla molteplicità assoluta»43. L’intelletto,
quindi, sorge in questo testo mediante il movimento di auto-
riflessione del linguaggio, che non si limita a predisporre la tra-
sformazione della sensazione in concetto, ma la attua anche.
A sua volta, la collocazione in questo ruolo del linguaggio com-
porta una dislocazione del concetto di memoria nei suoi con-
fronti, anche rispetto alle successive filosofie dello spirito. Per
essere funzione della coscienza, cioè, la memoria deve de-
terminarsi altrettanto come funzione del linguaggio. Se l’in-
telletto sorge mediante l’auto-riflessione del linguaggio, e la
memoria costituisce un momento essenziale di questo mo-
vimento, essa deve appartenere al linguaggio come soggetto
effettivo del processo di astrazione, e solo in tal modo può de-
terminare la sua funzionalità per la coscienza. Ciò è risponden-
te e in qualche misura necessitato dalla nozione di coscienza
come medio unificatore di lati altrimenti opposti. Inoltre, per-
mette d’intendere le relazioni fra memoria e linguaggio nel
senso della circolarità dialettica, l’unica in grado di soddisfare
i requisiti posti da quel concetto di coscienza a un intendimen-
to filosofico adeguato. E dunque, come alla memoria è ascritta
la funzione di stabilizzare il rapporto fra parole e significati,
così viceversa essa verrebbe a scaturire dal linguaggio, come
effetto delle sue pratiche e del suo esercizio.
Purtroppo, il testo non approfondisce questo plesso di pro-
blemi, e non consente di chiarire come il linguaggio possa se-
dimentarsi in memoria. L’approfondimento di tale questione
avrebbe richiesto di focalizzare l’attenzione sull’aspetto disci-
plinare del linguaggio, sul suo coagularsi in norme e divieti che

42.  J.S.I, risp. p. 294 e p. 289 (C., p. 31 e p. 26).


43.  J.S.I, p. 289 (C., p. 26).
31

producono memoria esercitando i soggetti ad attitudini men-


tali e comportamentali ripetitive e standardizzate.
Tale aspetto, per quanto compaia in Hegel già nella filoso-
fia dello spirito del 1805-06, è stato posto al centro della di-
scussione in termini esaurienti solo dalla filosofia del linguag-
gio del secolo scorso44. E del resto, quando la tematizzazione
del momento coercitivo legato alla memoria e connesso con il
linguaggio sarà intrapresa da Hegel, essa avverrà nei modi di
un’inversione in pari tempo specifica e sintomatica. La memo-
ria, cioè, verrà interpretata come funzione di disciplinamen-
to linguistico; ma poiché al linguaggio verrà tolto lo statuto di
soggetto del processo di intellettualizzazione, essa si situerà
totalmente dal lato dell’io, e il disciplinamento non sarà inteso
come un portato del linguaggio, ma verrà imposto a quest’ul-
timo dall’io.
L’intento di queste osservazioni, comunque, non è quello di
criticare la concezione hegeliana del linguaggio; si tratta piut-
tosto di porre le basi per individuare le scansioni e gli slitta-
menti che fra il 1803-04 e il 1805-06 interverranno a trasfor-
mare profondamente l’assetto di questa sezione della filosofia
dello spirito. Mutando l’equilibrio interno fra linguaggio, me-
moria e intelletto, già nel 1805-06 esse condurranno a una
definizione dei rapporti fra pensiero e linguaggio struttural-
mente connessa e condizionante rispetto alla concezione del-
la Darstellung speculativa, per come essa verrà a teorizzarsi

44.  Intendiamo riferirci, in particolare, alla nozione di addestramento lingui-


stico in Wittgenstein (su cui cfr., a titolo puramente esemplificativo, Philo­
sophical Investigations, Basil Blackwell, Oxford 1953; tr. it., Ricerche filo-
sofiche, a cura di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1974, § 5, p. 11). Alcuni
spunti in rapporto a Hegel presenta D. Lamb, op. cit., pp. 38-42. Altrettan-
to importante sarebbe il raffronto con le osservazioni di Nietzsche sul rap-
porto tra disciplinamento linguistico, formazione della memoria ed eserci-
zio della crudeltà.
32

nella Vorrede alla Fenomenologia dello spirito. Ma appunto


per questo, ci sembra fondamentale insistere, all’altezza del-
la filosofia dello spirito jenese del 1803-04, sulla linguisticità
dell’intelletto nel senso specifico della sua pronuncia concre-
ta. Il divenire-coscienza della sensazione non si esaurisce nel
semplice nome; tuttavia, poiché si attua nel linguaggio e come
linguaggio, poiché soltanto l’auto-riflessione dei singoli nomi
nella loro idealità costituita dalla Sprache conduce la coscien-
za al concetto universale, è solo mediante questa generaliz-
zazione nel linguaggio, e non oltre il linguaggio, che essa è in
grado di sciogliere i legami con l’esistenza sensitiva, in cui lo
spirito è ancora «animale». L’intelletto perciò designa l’auto-
riflessione del linguaggio, che non si attua mediante il suo su-
peramento, ma come selezione di concetti che, trovandosi co-
munque nel linguaggio, permangono nomi. Anch’essi dunque
«esistono come linguaggio».
In sede ermeneutica, è stato affermato che «a questo livel-
lo la coscienza supera il linguaggio o, almeno, il linguaggio
in quanto è un’espressione esteriore»45. Ma se ciò è valido
già in rapporto alla stesura del 1805-06, manca di cogliere
la peculiarità forse più dirompente, dal punto di vista con-
cettuale, del testo del 1803-04: per esso, infatti, il linguaggio
non è soltanto «la relazione dei nomi», ma «esprime appun-
to questa relazione»46, cosicché «il concetto, come tutto, ca-
de anch’esso nel linguaggio ed è un concetto assolutamente
comunicabile»47. Solo l’atto dell’esplicita enunciazione del con-
cetto mostra come effettualmente raggiunto il livello dell’intel-
letto; quest’ultimo, quindi, non recide affatto il radicamento
della coscienza nell’«esistenza universalmente comunicante»

45.  G. Planty-Bonjour, Introduction, in G.W.F. Hegel, La Première philo-


sophie de l’esprit (Iéna, 1803-1804), Puf, Paris 1969, p. 30.
46.  J.S.I, p. 289 (C., p. 26).
47.  J.S.I, p. 294 (C., p. 31).
33

del linguaggio, ma designa l’esser-­divenuta concetto della pa-


rola «esteriormente» risonante.

2. Pensiero e linguaggio nella filosofia dello spirito jenese


del 1805-06
Le relazioni fra linguaggio e intelletto risultano invece impo-
state in maniera profondamente diversa nel testo di filosofia
dello spirito del 1805-06. Questo mutamento nella concezio-
ne hegeliana produce uno slittamento complessivo, che coin-
volge sia l’interpretazione del linguaggio, sia le connessioni
intra-­sistemiche che lo mettevano in rapporto col segno e la
memoria. Per quanto riguarda il primo punto, questo scritto
ci presenta una nozione di segno che pone decisamente in se-
condo piano le riserve formulate nei suoi confronti da Hegel
nel 1803-04. Adesso, al segno non spetta più la determinazio-
ne del «dover essere» che gli veniva assegnata in precedenza;
piuttosto, in esso l’io perviene a realizzare un’appropriazione
radicale dei contenuti intuitivi, perché questi ultimi non conta-
no più come presenze sussistenti, cose reali, ma solo in quanto
fungono da supporti per il significato spirituale48. E tuttavia,
benché in esso il segno non venga più interpretato alla stre-
gua di un «dover essere», tale testo riprende, sia pure in for-
ma contratta, le critiche che alla stumme Bezeichnung Hegel
muoveva in J.S.I, e che anche qui vengono impiegate in fun-
zione della transizione al linguaggio: nel segno, infatti, «l’io è
oggetto esso stesso come interno della cosa, questa interiori-
tà della cosa è ancora separata dal suo essere»49. Secondo la
terminologia precedente, abbiamo il mancato superamento

48.  Cfr. J.S.III, pp. 188-189 (C., pp. 72-73).


49.  J.S.III, p. 189 (C., p. 73).
34

del soggetto nell’oggetto, con la conseguente necessità, per lo


spirito, di produrre il linguaggio: «l’interiorità dev’essere ro-
vesciata, essere esteriormente: ritorno all’essere. Questo è il
linguaggio»50. La transizione al linguaggio si svolge così secon-
do modalità analoghe a quanto accadeva in J.S.I, anche se ciò
avviene a prezzo di una concezione teoreticamente ambigua
del segno. Da un lato, poiché il segno non è più assimilato a
un rapporto di «dover essere», sembra che in esso il toglimen-
to dell’oggetto sia compiutamente realizzato; dall’altro, però,
Hegel mantiene le riserve che aveva espresso nei suoi confronti
negli abbozzi del 1803-04. In virtù di questa ambiguità, la tran-
sizione al linguaggio non presenta quei problemi di connes-
sione intra-sistemica, che vedremo invece porsi nella versione
enciclopedica della psicologia. Benché ciò situi questo scritto
in una posizione intermedia fra i testi del 1803-04 e l’Enciclo-
pedia, esso si trova in realtà sbilanciato dal lato della seconda,
in quanto dei primi conserva le critiche al segno, ma le subor-
dina a un’interpretazione che si esprimerà appunto senza oscil-
lazioni nella sezione teoretica della matura psicologia, per cui
essendo nell’invenzione semiotica realizzata compiutamente
l’appropriazione dell’oggetto concreto da parte dello spirito,
essa potrà venir definita come «qualcosa di grande»51.
Tuttavia, il mutamento più significativo, non soltanto per i cam-
biamenti che provoca negli equilibri interni alla filosofia dello
spirito, ma per le conseguenze che produce in rapporto alla
formazione/costituzione dell’assetto epistemico complessivo
del pensiero hegeliano, riguarda la concezione del linguaggio
e le modalità impresse all’articolazione e all’approfondimento
del concetto di memoria. Negli abbozzi del 1805-06, cioè, il
linguaggio non si articola più nei momenti polarmente opposti

50.  Ibidem.
51.  Enz., III, § 457, Z., p. 269.
35

della molteplicità dei nomi e della loro messa in relazione, e in


tal modo cessa di funzionare da soggetto del processo di forma-
zione dell’intelletto. Ciò comporta che la funzione di operare e
stabilizzare le connessioni fra i nomi spetta ora esclusivamente
all’attività di memorizzazione condotta sul linguaggio dall’io. Il
testo definisce infatti il sorgere della memoria come la rifles-
sione dello spirito in sé dal suo denominare52, rapporta la sua
genesi al momento in cui l’io non crea più, ma osserva e rende
oggetto di fronte a sé i nomi come prodotti fissati. La pronun-
cia si arresta e le parole vengono conservate silenziosamente
all’interno della coscienza. Il processo della memorizzazione
si svolge così nell’interiorità silenziosa dell’io, rappresenta il
lavoro di coercizione e disciplinamento cui egli stesso si piega
per consolidare il linguaggio, per stringere e sostenere le re-
lazioni dei nomi e fra nomi e significati53. Solo una volta por-
tato a termine questo lavoro, solo una volta che la pluralità dei
nomi sia stata trasformata in un sistema di rapporti consolida-
ti e saldi come un destino54, soltanto allora l’io sarà pervenuto
all’universalità dell’intelletto.
Ma appunto, il fatto che il linguaggio non funga più da soggetto
dell’auto-riflessione in intelletto, il fatto che il soggetto esclu-
sivo del processo che conduce alla formazione di quest’ultimo
sia l’io, fa sì che tutto il movimento resti incluso nella silenzio-
sità che avvolge l’attività della memorizzazione, e che l’intellet-
to stesso permanga entro la sfera di questa interiorità che non
parla. In J.S.I, l’intelletto si manteneva sonoramente lingui-
stico, perché al linguaggio spettava il ruolo di promuovere la

52.  «Lo spirito va in sé da questo essere del nome, ovvero il suo denominare
gli è oggetto come un regno, come una pluralità di nomi» (J.S.III, p. 191; C.,
p. 76). Sull’attività della memoria, cfr. J.S.III, pp. 191-196 (C., pp. 76-81).
53.  «La memoria è perciò il primo lavoro dello spirito ridestato come spiri-
to» (J.S.III, p. 193; C., p. 78).
54. Cfr. infra, nota 59.
36

relazione dei nomi e il divenire stesso del concetto; in J.S.III,


al contrario, la perdita di quella funzione da parte del linguag-
gio e la sua assunzione da parte dell’io comporta l’impossibi-
lità, per lo spirito, di tornare dal processo di memorizzazione
alla pronuncia concreta del concetto. A partire da questo testo,
dunque, la filosofia dello spirito comincia a orientarsi verso un
pensiero inteso come attività silenziosa.
Certo, un’impostazione simile della filosofia dello spirito pare
condurre a una subordinazione del linguaggio da parte del
pensiero, a una riduzione del significato che assume per lo spi-
rito il momento dell’interazione comunicativa concreta, della
pronuncia di una parola risonante esteriormente e intersogget-
tivamente avvertibile. Ma non sono osservazioni di questo tipo
che possono condurre alla valutazione adeguata del significato
che il nuovo assetto della filosofia dello spirito riveste per la co-
struzione del dispositivo teorico hegeliano. Invece, è proprio
da questo lato che tali modificazioni, lungi dal comportare una
riduzione o una «perdita», manifestano la loro piena funziona-
lità, il «progresso» che esse rappresentano in rapporto all’as-
sunzione da parte del pensiero di uno statuto epistemico. Solo
svincolando il pensiero dal momento della sua concreta pro-
nuncia, solo riservandolo entro il perimetro silenzioso dell’inte-
riorità spirituale diventa possibile intendere la questione della
Darstellung nella sua crucialità filosofica, anzi solo in tal modo
se ne rende possibile, in Hegel, la stessa teorizzazione55. Tanto

55.  Ricordiamo come Hegel rimproveri Hamann per aver affidato al linguag-
gio la risoluzione delle antinomie della ragione. Cfr. in proposito G.W.F. He-
gel, Hamanns Schriften, in Id., Samtliche Werke, Bd. 11, Berliner Schriften,
hrsg. v. J. Hoffmeister, Meiner, Hamburg 1956, pp. 221-294. Per un confron-
to fra le concezioni di Hegel e quelle di Hamann, rimandiamo allo studio
di S. Dunning, The Tongues of Men. Hegel and Hamann on Religious Lan-
guage and History, Scholars Press, Missoula 1979; un resoconto sintetico
ma esauriente delle critiche del primo al secondo si trova in Th. Bodammer,
op. cit., pp. 183-185.
37

più che le modalità concrete secondo cui si svolge il proces-


so di memorizzazione non mostrano soltanto che lo spirito in
esse procede restando in silenzio, né che in questo silenzio si
trova avvolto anche l’intelletto; poiché l’attività della memoria
si esercita sul linguaggio, e produce l’interiorizzazione e il raf-
forzamento dei rapporti linguistici, esse mostrano anche come
lo «spazio» silenzioso dell’interiorità soggettiva sia interamente
attraversato dal linguaggio, solcato dalle parole56; come quin-
di la silenziosità dell’intelletto non conduca alla cancellazione
del linguaggio, ma equivalga piuttosto all’instaurazione di un
silenzio che si mantiene linguisticamente articolato57.
Del resto, la teoria dell’esposizione speculativa sviluppata nella
Vorrede alla Fenomenologia è coerente con l’assetto delle re-
lazioni fra pensiero e linguaggio presente in J.S.III anche da
un altro punto di vista. Infatti, con la memorizzazione del lin-
guaggio, l’io è costretto ad abbandonare la libertà di cui gode-
va nel momento della «denominazione»58, dell’invenzione dei
nomi. L’io può disciplinare il linguaggio e istituirlo in ordine
permanente solo disciplinando se stesso. Così facendo, da un
lato, si sottomette a un ordine che gli s’impone come necessa-

56.  «L’io… non solo deve in generale intuire i nomi, ma deve intuirli nel suo
spazio in quanto ordine stabile…» (J.S.III, p. 192; C., p. 77).
57.  Scrive in proposito J. Derbolav: «Il linguaggio dunque, per via del suo
“superamento” nella memoria, si può liberare della sua figura corporea, e
come movimento del pensiero esistere per sé… Ma certo, tale movimento
resta ancora linguisticamente vincolato: il pensiero ha bisogno della parola,
per determinarsi e conferirsi… durata» (Hegel und die Sprache. Ein Beitrag
zur Standortbestimmung der Sprachphilosophie im Systemdenken des Deut-
schen Idealismus, in Sprache – Schlüssel zur Welt. Festschrift für Leo Weis-
berger, hrsg. v. H. Gipper, Schwann, Düsseldorf 1959, pp. 55-86: p. 63). La
parola cui fa riferimento Derbolav, però, non sarà più quella oralmente pro-
nunciata, bensì quella fissata nelle forme della scrittura filosofica.
58.  Il linguaggio compare in questo testo come «Nahmengebende[n] Kraft»
(J.S.III, p. 189; C., p. 73).
38

rio; dall’altro, però, tale ordine resta arbitrario e contingente,


proprio in quanto esso è stato liberamente instaurato da lui.
In tal modo, l’io – dice Hegel – «si trasforma nella necessità –
ma la necessità vuota, proprio come quando diciamo: destino
[e] non sappiamo quale sia la sua legge, il suo contenuto, che
cosa esso voglia»59. Ciò significa che il rafforzamento dei le-
gami linguistici, l’interiorizzazione e la messa in rapporto dei
nomi, il movimento con cui l’io si eleva all’intelletto si attuano
in pari tempo come il processo della sua reificazione interiore:
«Io sono ordine, porre in relazione, agire; ma l’ordine è arbi-
trario – l’io si è perciò trasformato nella cosa [Ding]»60.
Ora, ciò per Hegel significa che l’io, attraverso la memorizza-
zione del linguaggio e la reificazione da essa introdotta a livel-
lo spirituale, diviene a sua volta, dialetticamente, interno alla
«cosa». Ma rendendosi immanente all’oggetto, facendosi es-
so stesso oggetto, l’io non si limita semplicemente a togliere
la differenza che prima lo separava da questo. Il movimento
che conduce il soggetto a farsi «cosa», che culmina con l’inte-
riorizzazione del soggetto nella «cosa», non livella la differen-
za, non ne provoca l’appiattimento; piuttosto, esso disloca il
luogo in cui la differenza giunge a effettuazione. E cioè, se la
differenza si collocava prima fra l’io e l’oggetto, essa diventa
ora interna a quest’ultimo, producendo un mutamento com-
plessivo nei modi di attuazione e nello statuto logico-­semantico
della nozione di oggettività. Non soltanto, infatti, per la pre-
senza in essa dell’io, la «cosa» ospita entro di sé quella ne-
cessità cui l’io medesimo si era piegato; ma soprattutto, l’im-
manenza del Sé dell’io nella «cosa» trasforma quest’ultima in
auto-­movimento e soggettività, la istituisce come processualità
diveniente: «Cosa, intelletto, necessità – cosa in quanto univer-

59.  J.S.III, p. 192, osservazione a margine (C., p. 77).


60.  J.S.III, p. 196 (C., p. 81).
39

salità semplice, necessità in quanto auto-movimento. La cosa


ha in essa la necessità, giacché ha in essa il Sé dell’io. Distin-
zione nella cosa è distinzione nel Sé – cioè relazione negativa
in se stessa»61. Nella terminologia già in voga in questo testo,
e che nella Vorrede alla Fenomenologia troverà largo impie-
go, ciò equivale a dire che il disciplinamento linguistico atti-
vato dall’io toglie all’oggetto l’inerzia e l’immobilità, in cui se
fosse mero Ding resterebbe compreso, e ne promuove la co-
stituzione in Sache, sostanza che in pari tempo si attua come
processualità diveniente62.
Proprio le modalità rigorosamente linguistiche cui la realizza-
zione dei processi in questione (reificazione dell’io e simultanea
soggettivazione dell’oggetto) è vincolata ne fanno emergere la
connessione funzionale in rapporto alla teoria dell’esposizione
filosofica. Da un lato, infatti, la cosa diventa «relazione nega-
tiva in se stessa» e «necessità in quanto auto-movimento» so-
lo perché ospita al suo interno il Sé dell’io; dall’altro, però, la
reificazione dell’io coincide con la memorizzazione dei nomi

61.  Ibidem.
62.  Nelle pagine di J.S.III qui prese in considerazione, il termine Sache
compare in due contesti estremamente significativi. Nel primo, una nota
a margine definisce la memoria come «ripetizione del medesimo», speci-
ficando le modalità del suo funzionamento nel soggetto come «ripetere
qualcosa già nota, dove non c’è più alcun interesse per la cosa [Sache]»
(J.S.III, p. 194; C., p. 79); nel secondo, e più indicativo, un’altra osserva-
zione a margine, insolitamente estesa, schizza il movimento che conduce
dalla memorizzazione del linguaggio all’intelletto: «L’io intuisce la categoria,
l’io conosce concettualmente [begreifft], ciò che esso comprende è la cosa
stessa [die Sache selbst]»; e a evitare interpretazioni soggettivistiche, Hegel
prosegue: «ma non perché esso comprende o è la forma della egoità, ben-
sì perché comprende la cosa [die Sache]…» (J.S.III, p. 195; C., p. 80). Sul
senso complessivo della Sache selbst, cfr. R. Bodei, Scomposizioni. Forme
dell’individuo moderno, Einaudi, Torino 1987, pp. 221 ss., e la letteratura
ivi citata. Per la funzione e l’impiego del termine/concetto nella Vorrede,
cfr. infra, nota 74.
40

e del linguaggio. E quindi, la «cosa» può ospitare il Sé dell’io


soltanto in quanto ne ospita in pari tempo, e silenziosamente,
le parole e il linguaggio, tramite l’interiorizzazione e il consoli-
damento dei quali lo stesso io si faceva oggetto. Così, la «cosa»
si trasforma in auto-movimento e negatività solo perché al suo
interno contiene il linguaggio, solo perché si discopre essa stes-
sa come linguaggio. Un linguaggio che, certamente, non è più
quello sonoramente vibrante della pronuncia concreta, che è
passato attraverso il filtro della memorizzazione con cui il sog-
getto lo aveva disciplinato e in pari tempo fatto ammutolire.
Ma è proprio questo linguaggio, consolidato e trattenuto entro
lo «spazio» silenzioso dell’interiorità spirituale, che consente
d’intendere nel suo statuto di necessità il fatto che in Hegel la
filosofia si teorizzi «come» Darstellung.
Da una parte, infatti, l’internità del linguaggio nella «cosa»
impone a un pensiero che voglia cogliere la Sache selbst di
articolare discorsivamente le sue conoscenze, di enunciare
esplicitamente e di strutturare in forma linguistica il contenu-
to del suo sapere. Dall’altra, la configurazione del linguaggio
nella forma dell’esposizione filosofica può presentarsi fin dal
principio con una valenza soggetto-oggettiva. L’articolazione
speculativo-linguistica del sapere non eleva a connessione si-
stematica categorie prive di statuto conoscitivo; al contrario, in
essa la capacità di strutturazione scientifica del pensiero può
emergere in tutta la sua potenza, perché la Darstellung è l’or-
ganizzazione in dispositivo epistemico del linguaggio, che la
filosofia dello spirito ha dimostrato immanente alla «cosa» sin
dal momento in cui questa ospitava al suo interno il Sé dell’io.
La conversione della soggettività nella «cosa», che si compie
con la memorizzazione dei nomi, conduce a determinare in
senso linguistico sia la costituzione della «Sache selbst», sia la
realizzazione del sapere; quest’ultimo trova nell’esposizione la
sua forma di attuazione in pari tempo necessaria e possibile, in
quanto l’esposizione viene intesa da Hegel come la configura-
41

zione logico-linguistica in cui il linguaggio della «cosa stessa»


si eleva a scientificità63.
Certo, l’esposizione speculativa della «cosa stessa» non può
equivalere semplicemente alla riproduzione e all’impiego dei
moduli più elementari del linguaggio ordinario. In effetti, l’in-
corporazione del Sé nell’oggettività, che si attua per il trami-
te della memorizzazione dei nomi, coincide simultaneamente
col raggiungimento, da parte dell’io, del concetto universale
dell’intelletto. Le categorie di «cosa» e di «necessità», come
abbiamo visto, si situano propriamente a questo livello. Ma
ciò comporta la determinazione, da parte del Verstand, di una
situazione profondamente contraddittoria: da un lato, infatti,
l’internità del Sé nella «cosa» rende immanente a quest’ul-
tima la differenza, costituisce il Ding in «relazione negativa
in se stessa» e «auto-movimento»; dall’altro, però, il proces-
so di questa trasformazione avviene sotto il segno dell’intel-
letto, nel senso che quest’ultimo ne rappresenta l’esito finale.
E l’intelletto, per Hegel, designa la funzione spirituale che
produce concetti determinati, che stabilisce e immobilizza le
differenze, che mira insomma a rendere permanenti rappor-
ti di distinzione e di separazione. Ciò permette di compren-
dere perché la formulazione di una teoria della Darstellung,
quale sarà presentata da Hegel nella Vorrede alla Fenomeno-

63.  Poiché «per Hegel il linguaggio» sarebbe «a tutti i livelli essenzialmente


“segno”» (K. Löwith, op. cit., p. 111), ma quest’ultimo presuppone e si «fon-
da» sulla reciproca estraneità fra spirito e cose, uomini e mondo, l’autore si
chiede come nel linguaggio umano possa presentarsi «il concetto della cosa
[Sache]» (ivi, pp. 112-113); in quanto la lingua è un complesso di segni, in-
fatti, lo iato fra soggetto e oggetto dovrebbe apparire insuperabile. Löwith
ritiene quindi che Hegel possa risolvere tale problema «solo in base a una
retrostante antropo-teologia cristiana» (ivi, p. 113). In realtà, come abbiamo
visto, la questione risulta mal posta, perché proprio con la memorizzazione
del linguaggio l’io si rende «interno» alla cosa, così come quest’ultima si mo-
stra linguisticamente articolata.
42

logia dello spirito, non potrà limitarsi ad asserire la necessità


dell’enun­ciazione linguistica della «cosa stessa» da parte del
sapere, ma dovrà fornire la specificazione concreta delle mo-
dalità con cui salvaguardare la Sache selbst nel suo carattere
di negatività e auto-movimento. La matrice intellettuale della
linguisticità della «cosa stessa» tende infatti a immobilizzare in
rapporti determinati di finitezza la sua dinamica processualità.
Da qui il duplice statuto, logico e linguistico, della Darstellung.
Dal punto di vista logico, quest’ultima «supera» (secondo l’ac-
cezione hegeliana dell’Aufheben) la propensione dell’intelletto
alla reificazione del movimento nel triplice senso che la con-
serva in forma di determinazione delle categorie, la annulla
in quanto ne dimostra l’immanente contraddittorietà, la eleva
in quanto dalla messa in relazione delle categorie fa scaturi-
re il movimento della risoluzione e conciliazione speculativa
delle contraddizioni. Dal punto di vista linguistico, quindi, la
Darstellung dovrà adottare un modulo enunciativo adeguato
all’esposizione del movimento logico su indicato, che sia in
grado di «superare» la tendenza all’immobilizzazione reifican-
te contenuta nella matrice intellettuale della linguisticità della
«cosa stessa». Poiché il pensiero hegeliano trova tale matrice
impressa nella struttura proposizionale del linguaggio, esso
dovrà individuare le modalità di un superamento «speculativo»
della proposizione, e cercare d’incorporarle nel movimento
complessivo dell’esposizione. Sono tali modalità che la Vorre-
de alla Fenomenologia presenta nella forma di una teoria della
proposizione speculativa, cui viene demandato il compito di
dimostrare il processo della risoluzione immanente della pro-
posizione, e di aprire la via a un concetto di Darstellung non
più vincolato alla contrazione delle relazioni intercategoriali
in singoli giudizi d’inerenza fra un soggetto e un predicato.
Certo, la non-coincidenza fra la linguisticità della «cosa stessa»
e la sua enunciazione speculativa, che nella Vorrede assume-
rà formulazione compiuta, ma che solo questi testi di filosofia
43

dello spirito consentono d’inquadrare nella sua strutturale ne-


cessità, proietta fin d’ora sulla Darstellung un’ombra di proble-
maticità radicale, con la quale Hegel tenterà di confrontarsi
sino alla Prefazione del 1831 alla Logica, e che non cesserà di
gravare sulle condizioni che governano l’assunzione, da parte
del pensiero dialettico, di uno statuto epistemico. Ma appunto,
da parte nostra doveva trattarsi, e si tratta tuttora, di articolare
quelle condizioni in tutta l’ampiezza della loro complessità, e
in primo luogo di esplicitare non solo la fecondità, ma la stessa
indispensabilità dell’interrogazione rivolta agli scritti jenesi di
filosofia dello spirito come introduzione all’ermeneutica del-
la Darstellung.
Da questo lato, il nuovo assetto che nel testo del 1805-06 vie-
ne a contraddistinguere le relazioni fra l’io e il linguaggio pre-
senta un ulteriore momento di omogeneità funzionale rispetto
alla teoria dell’esposizione sviluppata da Hegel nella Vorrede.
Come abbiamo accennato, la Darstellung deve corrispondere
al procedimento linguistico dell’Aufhebung di quell’irrigidi-
mento, che il linguaggio della «cosa stessa» tenderebbe a far
assumere a quest’ultima in virtù della sua struttura proposi-
zionale. La teoria della proposizione speculativa svolge ap-
punto la funzione di presentare nella loro generalità formale
le modalità necessarie secondo le quali si attua il movimento
della risoluzione immanente della proposizione. Tale teoria
deve consentire al dispositivo linguistico dell’esposizione di
svincolarsi dalla morsa dell’enunciazione «immediata», nella
forma di singoli giudizi d’inerenza, delle relazioni intercate-
goriali, e in questo senso di sprigionare le energie speculative
che il linguaggio della «cosa stessa» contiene al suo interno,
ma che vi si trovano in pari tempo mortificate per la struttura
proposizionale in esso impressa dalla sua matrice intellettuale.
Ora, lo scarto che in tal modo viene a prodursi fra il linguag-
gio della Sache selbst e la sua enunciazione speculativa pare
richiedere un apporto imprescindibile in senso costruttivo da
44

parte del soggetto filosofante; più precisamente, costruttivo in


rapporto all’istituzione del dispositivo epistemico, ovvero alle
modalità della sua realizzazione linguistica. Ma fino a quan-
do la filosofia dello spirito presenta il linguaggio in veste di
soggetto del movimento di formazione dell’intelletto, come
accadeva nei testi del 1803-04, diventa quanto mai problema-
tico attribuire ai parlanti la capacità di esercitarne, per così
dire, un governo riflesso e metodicamente orientato, in sede
filosofica, ad aggirarne le distorsioni in rapporto alla Darstel-
lung della «cosa stessa». Al contrario, il momento saldamen-
te acquisito dell’iniziativa dell’io, la riduzione del linguaggio
a oggetto del disciplinamento e della memorizzazione attivati
nei suoi confronti dallo spirito – in altri termini, la perdita da
parte del linguaggio dello statuto di soggettività – svincolano
l’io da un’obbedienza inconscia e potenzialmente totalizzante
nei suoi confronti. L’io è così posto in grado di operare, in ve-
ste di soggetto filosofante, la valorizzazione delle potenzialità
speculative del linguaggio, e di funzionalizzarle alla realizza-
zione dell’esposizione filosofica64.
E tuttavia, anche l’iniziativa autonoma che l’io assume verso
il linguaggio entra a far parte, come momento imprescindi-
bile ma comunque parziale, di una più ampia e più comples-
sa configurazione di pensiero. In effetti, abbiamo visto come
la memorizzazione dei nomi, conducendo il Sé dell’io nella
«cosa», trasformi quest’ultima in «relazione negativa in se stes-
sa» e «auto-movimento»; ma abbiamo visto, anche, come tale
auto-movimento, proprio in quanto ospitava al suo interno il
Sé dell’io, fosse costituito linguisticamente, si determinasse
come linguisticità. Ciò ripropone dunque con forza la questio-
ne concernente la soggettività del linguaggio, o in ogni caso

64.  Sulla connessione fra queste pagine di filosofia dello spirito e il proble-
ma della Darstellung speculativa, cfr. R. Bodei, Sistema ed epoca in Hegel, il
Mulino, Bologna 1975, pp. 251 ss.
45

il problema del linguaggio in rapporto all’esposizione specu-


lativa, «scientifica» della verità. Tale problema è opportuno
tenere presente sin da ora, non soltanto per la rilevanza spe-
cifica che ha assunto nelle interpretazioni hegeliane degli ul-
timi decenni, ma perché proprio la riflessione sullo statuto e il
significato della logica speculativa ha condotto Hegel a tema-
tizzarlo esplicitamente nel suo ultimo, decisivo testo di Prefa-
zione alla Logica.
Del resto, all’orizzonte degli scritti jenesi analizzati si profi-
la anche un’altra questione, che dovrebbe emergere con ur-
genza proprio in virtù dell’orientamento della filosofia dello
spirito verso un pensiero che si mantiene silenzioso, verso un
linguaggio che si è mostrato immanente alla «cosa stessa», ma
che per conseguire tale immanenza ha dovuto subire la memo-
rizzazione da parte del soggetto e in essa ammutolire. La muta
linguisticità della «cosa stessa» esige infatti d’essere esposta,
al problema della sua esposizione la Vorrede consacra alcuni
fra i suoi capoversi più significativi. Eppure, proprio a quella
modalità del linguaggio che ne articola le parole restando in
silenzio, e all’altezza della cui pratica soltanto la filosofia può
teorizzarsi in forma di Darstellung – alla scrittura, vogliamo
dire – Hegel non ha riconosciuto la dignità di problema per
il pensiero, né vi ha intravisto lo spazio di esercitazione per
un’interrogazione filosofica non certo aggiuntiva, quanto piut-
tosto inscritta in quelle stesse coordinate che orientano il pen-
siero dialettico alla sua realizzazione effettuale.
Ma per determinare con più precisione il luogo teoretico che
alle questioni emerse per ultime spetta in rapporto a Hegel, si
rende necessario, da parte nostra, affrontare anzitutto la teo­
ria della Darstellung speculativa, per come essa è formulata
nella Vorrede alla Fenomenologia dello spirito.
46

3. La proposizione speculativa: prospettive ermeneutiche


La linguisticità dell’Assoluto hegeliano è stata posta da tempo
al centro dell’attenzione critica, e fatta oggetto di studi analitici
proprio in rapporto alla teoria della proposizione speculativa.
Da un lato, è stato sottolineato come l’effettualità del vero si
realizzi in Hegel attraverso la sua esposizione nel linguaggio65;
dall’altro, le modalità entro le quali tale esposizione si snoda
sono state intese alla luce della dottrina della proposizione spe-
culativa66. Tuttavia, sia per quanto riguarda il livello linguistico
all’altezza del quale si dispone in Hegel l’assunzione, da parte
del pensiero, di uno statuto epistemico, sia per quanto riguar-
da la collocazione della teoria della proposizione speculativa in
rapporto alla problematica complessiva della Darstellung, sia
infine per quanto riguarda il tipo di linguisticità che nella pro-
posizione speculativa perviene a esporsi, sono emerse alcune
linee d’interpretazione alle quali spetta il merito indiscutibile
di avere sollevato problemi cruciali, di avere anzi individuato
nella questione della Darstellung uno dei nodi decisivi per la
comprensione del pensiero di Hegel, ma che presentano esiti

65.  Ci riferiamo anzitutto al saggio di W. Marx, Absolute Reflexion und Spra-


che, Klostermann, Frankfurt a.M. 1967, in part. p. 21; ma al riguardo, cfr.
anche L.B. Puntel, Darstellung, Methode und Struktur. Untersuchungen
zur Einheit der systematischen Philosophie G.W.F. Hegels, Bouvier, Bonn
1973, pp. 328-329; P. Kemper, Dialektik und Darstellung. Eine Untersu-
chung zur spekulativen Methode in Hegels «Wissenschaft der Logik», Fi-
scher, Frankfurt a.M. 1980, in part. pp. 23, 223-225; e da ultimo J. Werner,
Darstellung als Kritik. Hegels Frage nach dem Anfang der Wissenschaft,
Bouvier, Bonn 1986.
66.  «Hegel non ha lasciato nessun dubbio sul fatto che il modello della pro-
posizione speculativa descrive la forma di esposizione valida per la grande
Logica» (R. Bubner, Zur Struktur dialektischer Logik, in «Hegel-Jahrbuch»,
1974, pp. 137-143: p. 142). Ma su questa connessione, cfr. l’ampio studio
di G. Wohlfart, Der Spekulative Satz. Bemerkungen zum Begriff der Spe-
kulation bei Hegel, de Gruyter, Berlin-New York 1981; e ancora J. Werner,
op. cit., in part. pp. 178-187.
47

ermeneutici tali da suscitare più di qualche perplessità. Il rap-


porto fra l’Assoluto hegeliano e il linguaggio della Darstellung
in cui esso appunto perviene a esporsi, è stato ricondotto a un
modello di matrice neo-platonica67, oppure scoperto come la
declinazione specificamente speculativa di un rapporto di do-
minanza del pensiero sulla sua esposizione, dominanza che
culminerebbe infine in un’intuizione totalmente a-linguistica
dell’Assoluto stesso68. A loro volta, prospettive ermeneutiche
diversamente orientate hanno individuato nella proposizio-
ne speculativa la modalità propriamente hegeliana di com-
prensione del linguaggio, il momento in cui il linguaggio si
disvelerebbe come la matrice originaria del pensiero e in cui
perverrebbe, in forma compiutamente rischiarata, alla consa-
pevolezza speculativa di sé o, che è lo stesso, alla comprensio-
ne della sua propria natura speculativa. Così, la proposizione
speculativa ha assunto lo statuto di proposizione sonoramente
pronunciata, acusticamente avvertibile e avvertita – lo statuto,
insomma, di espressione ed esposizione di ciò che in ogni frase

67.  Cfr. W. Marx, op. cit., p. 31: «In questa comprensione del linguaggio,
come di uno splendore che rende trasparente, viene a espressione l’essenza
della metafisica tradizionale del Nous e della luce. Il Nous “che domina su
tutto”, pensato in base alla metafora della luce, produce una totale trasparen-
za, un’assoluta intelligibilità, per la quale non esiste alcuna sfera di essenziale
estraneità, enigmaticità, di mistero».
68.  Cfr. in proposito P. Kemper, op. cit., pp. 225-232 (sulla «dominanza
del pensiero nei confronti del linguaggio»), pp. 242 ss. (dove sulla base di
un brano tratto dalla Differenzschrift del 1801 sul concetto di intuizione
trascendentale [cfr. Diff., p. 40; tr. it. cit., pp. 41-42], l’autore coglie l’esi-
to della filosofia hegeliana nel «ritrarsi-in-sé del pensiero dall’effettualità
linguistica della sua esposta formazione proposizionale nella continuità di
un’auto-­eguaglianza di pensare e pensieri»). Sul tema in questione, cfr. an-
che K. Harlander, Absolute Subjektivität und kategoriale Anschauung. Eine
Untersuchung der Systemstruktur bei Hegel, Hain, Meisenheim a.Gl. 1968,
e il contributo, precedente, di J. Simon, Reine und sprachliche Anschauung
(Kant und Hegel), in Das Problem der Sprache, VIII. Deutscher Kongress
für Philosophie, hrsg. v. H.-G. Gadamer, Fink, München 1967, pp. 159-167.
48

del linguaggio, di ciò che in ogni fase dell’interazione discor-


siva giunge a compimento e si compie in veste di comunica-
zione concreta. Nella proposizione speculativa è stata quindi
contratta non soltanto la questione della Darstellung, bensì è
stata intravista la sua stessa attuazione e realizzazione69.

69.  L’interpretazione di cui si tratta risale anzitutto a B. Liebrucks, di cui


cfr. Sprache und Bewusstsein, Bd. 5, Die zweite Revolution der Denkungs-
art. Hegel: Phänomenologie des Geistes, Akademische Verlagsgesellschaft,
Frankfurt a.M. 1970, pp. 14-20 e 386-389. Nella proposizione speculativa,
«l’uomo si comprende come essenza linguistica» (ivi, pp. 18-19), in quanto
«la conoscenza» qui in questione «non è relativa al giudizio, bensì all’uomo
parlante» (ivi, p. 19): «È l’atto linguistico che significa il pensare umano» (ivi,
p. 18). Così, nella misura in cui nella proposizione speculativa «la differen-
za fra soggetto e predicato… viene dialetticamente superata», essa «con ciò
porta alla luce la verità della proposizione linguistica»: «Come nella propo-
sizione del linguaggio le singole parole col loro senso si smorzano, affinché
sia prodotto un unico senso, così la proposizione speculativa è già la propo-
sizione della proposizione» (ivi, p. 19). Ma è «soltanto nel pronunciare» che
«il soggetto dilegua nel cosiddetto predicato», «perciò nel parlare la proposi-
zione speculativa appare più chiaramente che nella scrittura… Il movimento
del pensiero viene quindi solo “pronunciato”» (ivi, p. 388). In tal modo, «in
Hegel il pensiero dialettico trapassa già in quello linguistico» (ibidem), in
lui trova conferma il fatto «che la filosofia non esiste come scrittura, ma nel
dialogo» (ivi, p. 389). Allo stesso modo J. Simon, che nel suo Das Problem
der Sprache bei Hegel, cit., tenta di mostrare come «il linguaggio, in quanto
“fondamento della finitezza”, nella sua struttura costituisca in pari tempo
l’esposizione dell’“assoluto” della filosofia hegeliana» (p. 11), estende la sua
prospettiva ermeneutica all’interpretazione della proposizione speculativa,
tramite la quale Hegel distruggerebbe «lo specchio della speculazione tradi-
zionale», ponendo «al suo posto l’uso linguistico effettuale» (Die Kategorien
im «gewöhnlichen» und im «spekulativen» Satz, cit., p. 25). Così, il «movi-
mento dialettico della proposizione» sarebbe in Hegel «“lo speculativo effet-
tuale”, perché corrisponde… alla proposizione in quanto elemento effettuale
della connessione, situazionalmente vincolata, del parlare effettuale» (ibi-
dem). Sempre in riferimento alla Vorrede, G. Wohlfart tenta di approfondi-
re le linee di questa interpretazione, in quanto a suo avviso «il soggetto del
sapere», nella proposizione speculativa, «è per così dire il soggetto che si ri-
volge a sé come predicato, e che risponde a se stesso. L’espe­rienza compiuta
attraverso un ribaltamento della coscienza del Sé che si separa da se stesso,
49

Merito essenziale di tutti questi approcci ermeneutici è stato


quello di aver dimostrato il carattere costitutivo e non mera-
mente aggiuntivo o di supporto che la questione della Darstel-
lung riveste nell’economia complessiva del pensiero hegeliano.
E tuttavia, gli esiti cui hanno dato luogo si rivelano solo in par-
te adeguati alla complessità dei problemi che quella questio-
ne pone sul tappeto, quando addirittura non contraddicano i
presupposti in base ai quali essa viene affrontata da Hegel, e
dai quali quindi deve partire anche la ricognizione ermeneu-
tica. Ad esempio, imputare a Hegel un esito intuizionistico
in rapporto alla conoscenza dell’Assoluto pare contraddire la
funzione strutturale e il carattere costitutivo che l’esposizio-

dell’io = io non è un vacuo riflesso, bensì l’esperienza dell’io che è noi e del
noi che è io, l’esperienza che l’io compie in quanto si enuncia, cioè in quanto
si comunica…» (Der Spekulative Satz, cit., p. 190). Da qui conseguirebbe
che «la proposizione speculativa non è una proposizione. Non è una proposi-
zione che in quanto rigidamente scritta si comprende, bensì una proposizio-
ne che in quanto pronunciata è avvertita…» (ivi, p. 233), in quanto appunto
in Hegel «il linguaggio è l’effettualità del concetto. Detto altrimenti: parlare
è l’effettualità della ragione» (Denken der Sprache. Sprache und Kunst bei
Vico, Hamann, Humboldt und Hegel, Alber, Freiburg i.Br. 1984, p. 215).
Perciò, da un lato, viene riconosciuto come nessuna singola proposizione
possa esaurire l’esposizione dell’Assoluto, ma tale eccedenza viene posta in
relazione con la natura dinamicamente aperta del linguaggio; dall’altro, poi-
ché nella proposizione speculativa si esprime comunque il «concetto spe-
culativo di ciò che già sempre accade – benché inconsapevolmente – nella
proposizione ordinaria», in essa «il metodo speculativo» dovrebbe perveni-
re ad adeguata esposizione «come metodo tanto progressivo quanto anche
regressivo» dell’identificazione reciproca fra le «parti proposizionali» (Der
Augenblick. Zeit und ästhetische Erfahrung bei Kant, Hegel, Nietzsche und
Heidegger mit einem Exkurs zu Proust, Alber, Freiburg i.Br.-München 1982,
p. 92). Ciò non solo conduce Wohlfart a interpretare in senso intuizionistico
la nozione hegeliana di idea assoluta (su cui cfr. il suo Die absolute Idee als
begreifendes Anschauen. Bemerkungen zu Hegels Begriff der spekulativen
Idee, in «Perspektiven der Philosophie», VII, 1981, pp. 317-338), ma deter-
mina conseguenze anche sul terreno dell’ermeneutica dei concetti di eter-
nità e tempo (cfr. infra, cap. III, nota 124, pp. 200-201).
50

ne riveste per il suo pensiero, e dal riconoscimento dei quali


le ricerche in questione pure prendono le mosse. Da qui il ri-
schio di confinare la Darstellung in una posizione di suppor-
to o, come abbiamo detto, meramente aggiuntiva in rapporto
al nucleo di questa filosofia, e di contraddire non soltanto i
presupposti della sua teorizzazione in Hegel, ma quelli stessi
del proprio impianto interpretativo70. E tuttavia, riconoscere il
nesso di implicazione dialettica fra l’effettualità dell’Assoluto
e l’enunciazione di tale effettualità nel linguaggio della Dar-
stellung non può nemmeno equivalere all’impiego, in chiave
di comprensione ermeneutica, di modelli classici del pensiero
metafisico, come quelli d’impronta platonica o neo-­platonica71.
Certo, anche questa osservazione non può assumere, al mo-
mento, che il carattere di semplice anticipazione; ma come
tale ci siamo ugualmente permessi di esprimerla, affidando al
corso concreto della ricerca l’onere di dimostrarla.
Con più chiarezza, invece, possiamo esplicitare i limiti che
a nostro avviso inficiano l’interpretazione della proposizione
speculativa come proposizione entro la quale si farebbe luce
l’essenza speculativa del linguaggio, e che perciò andrebbe ri-
condotta al terreno della concreta pratica linguistica, quello
della comunicazione orale e “vivente”. Da un lato, la proposi-
zione speculativa viene assunta nella sua «natura» di proposi-
zione specificamente filosofica; dall’altro, però, tale filosoficità
è ricondotta al fatto che in essa giungerebbe all’espressione

70.  Ci riferiamo in particolare alle già menzionate conclusioni cui perviene


una ricerca analiticamente articolata ed esauriente come quella di P. Kemper:
«La linguisticità non appare più a questo pensiero come l’effettualità dei pro-
pri pensieri, ma come accessorio esteriore, che nel fallimento dell’adeguata
trasposizione del contenuto di pensiero speculativo sul piano della Darstel-
lung teoretica, viene di nuovo superato [überholt] dal pensiero e in pari tem-
po introdotto nell’auto-sufficiente regno dei pensieri» (op. cit., pp. 242-243).
71. Cfr. supra, nota 67.
51

il carattere speculativo del linguaggio, e che quindi essa stes-


sa non sarebbe, propriamente, altro se non linguaggio72. Ora,
ciò conduce a una duplice conseguenza: la prima, di tipo più
strettamente ermeneutico-filologico, è che in quanto nella pro-
posizione speculativa s’intravede l’emersione del linguaggio
stesso nella sua speculativa originarietà, la realizzazione con-
creta della «Darstellung» dev’essere forzosamente intesa come
già attuata in siffatta proposizione; la seconda, di carattere più
propriamente teoretico, è che nella misura in cui la proposi-
zione speculativa viene ricondotta alla sua matrice generica-
mente linguistica, nella misura in cui la sua filosoficità viene
ricondotta al fatto che in essa si esprime la natura del linguag-
gio, il suo statuto differenziale nei confronti di quest’ultimo
va perduto, e quindi va perduta anche la sua specificità filoso-
fica. Quest’ultima, infatti, in Hegel si trova inscindibilmente
connessa all’assunzione, da parte del pensiero, di una configu-
razione epistemica. Ma ciò è proprio quanto orientava la filo-
sofia dello spirito all’oltrepassamento del linguaggio parlato,
così come condurrà la Vorrede a teorizzare il superamento di
ogni e qualsiasi proposizione determinata nella totalità com-
plessiva della Darstellung. Per porsi all’altezza della valenza
epistemica della proposizione speculativa, e per inquadrarla
adeguatamente entro la problematica complessiva della Dar-
stellung, diventa quindi necessario interpretarla come propo-
sizione espressa in forma di scrittura. Non soltanto questa ci
sembra l’unica ipotesi consistente in rapporto alla configura-
zione del plesso pensiero/linguaggio per come si esprime nel
testo jenese del 1805-06. Essa ci sembra anche l’unica pro-
spettiva in grado di chiarire il fatto che il pensiero, in Hegel,

72.  Come noto, sull’interpretazione come linguaggio della proposizione spe-


culativa si centra l’interpretazione hegeliana di H.-G. Gadamer, Hegels Dia-
lektik, Mohr, Tübingen 1970, 19802; tr. it., La dialettica di Hegel, a cura di
R. Dottori, Marietti, Torino 1973.
52

acquisisce il suo statuto epistemico solo in quanto assume la


forma dell’esposizione, così come può assumere tale forma solo
in quanto accetti e abbia la potenza di sedimentarsi e prodursi
in veste di scrittura.

4. Pensiero concettuale e pensiero rappresentativo: la di-


struzione della forma proposizionale
Nei capoversi della Vorrede riguardanti la teoria della propo-
sizione e dell’esposizione speculative73 si tratta, per Hegel, di
differenziare la «scientificità» della filosofia, basata sull’auto-
movimento della «cosa stessa»74 e sull’«immersione» in essa

73.  Si tratta, in senso stretto, dei capoversi 61-66, presupposto immediato


dei quali sono i tre precedenti, 58-60 (cfr. V., pp. 48-54; tr. it. cit., pp. 48-55).
74.  Sulla nozione di scientificità, cfr. V., p. 12: «Indem die wahre Gestalt
der Wahrheit in diese Wissenschaftlichkeit gesetzt wird…» (tr. it. cit., p. 5),
e l’affermazione che «das Vortreffliche der Philosophie unserer Zeit sei-
nen Wert selbst in die Wissenschaftlichkeit setzt» (V., pp. 57-58; tr. it. cit.,
p. 59); sul suo rapporto col concetto di auto-movimento, cfr. V., p. 57 (tr.
it. cit., p. 59): «lo pongo dunque nell’auto-movimento del concetto ciò me-
diante cui la scienza esiste»; per espressioni quali «um der Natur der Sache
willen», «die Sache selbst» (in rapporto al contenuto di una scienza), «die
kalt fortschreitende Notwendigkeit der Sache», cfr. V., p. 9 (le prime due) e
p. 13 (tr. it. cit., p. 1 e p. 6) – ma l’elenco potrebbe continuare. Più produt-
tivo risulta mettere in luce i contesti di senso in cui appare il termine/con-
cetto. Un paio di esempi sono sufficienti al nostro scopo: nel primo, Hegel
si volge contro l’abitudine di occuparsi principalmente dei «fini» e dei «ri-
sultati» di un’opera filosofica: «statt mit der Sache sich zu vergessen, ist sol-
ches Tun immer über sie hinaus: statt in ihr zu verweilen und sich in ihr zu
vergessen, greift solches Wissen immer nach einem Andern und bleibt viel-
mehr bei sich selbst, als dass es bei der Sache ist und sich ihr hingibt» (V.,
p. 11; tr. it. cit., pp. 3-4, corsivi miei); nel secondo, è in gioco la differenza
fra «inizio della cultura» e dispiegamento scientifico del sapere: «Dieser An-
fang der Bildung wird aber zunächst dem Ernste des erfüllten Lebens Platz
machen, der in die Erfahrung der Sache hineinführt; und wenn auch dies
53

dell’io pensante, dall’«atteggiamento raziocinante» e dalle sue


strategie di costruzione del sapere75. Esso presenta infatti due
lati che lo rendono «opposto» al «pensare concettivo» (begrei-
fendes Denken)76. Il primo riguarda la sua attitudine «negativa»
nei confronti del contenuto considerato; il secondo riguarda in-
vece le modalità in cui si esprime il suo «conoscere positivo»77.
Il primo lato consiste nella mancanza, di cui l’«atteggiamento

noch hinzukommt, dass der Ernst des Begriffs in ihre Tiefe steigt, so wird
eine solche Kenntnis und Beurteilung in der Konversation ihre schickliche
Stelle behalten» (V., p. 12; tr. it. cit., p. 4, corsivi miei). Come noto, la «cosa
stessa» riceve la sua determinazione fenomenologica nel capitolo sul «regno
animale dello spirito» (cfr. Phän., pp. 285-301; tr. it. cit., pp. 328-348). Ma
più decisivo ancora, per intendere il concetto nel contesto della Vorrede,
ci sembra il riferimento agli sviluppi della filosofia dello spirito jenese del
1805-06. In tal senso, l’impiego da parte nostra di termini come «auto-mo-
vimento» e «cosa stessa» è inteso non solo come immanenza ermeneutica al
testo della Vorrede, né solo come implicito rimando alla definizione feno-
menologica della Sache selbst, bensì è volto soprattutto a evidenziare il rap-
porto di stretta implicazione sussistente fra Vorrede e filosofia dello spirito
jenese del 1805-06. Per l’impiego della nozione di Sache selbst in quest’ul-
timo testo, cfr. supra, nota 62. Sulla Sache come «oggetto» della logica spe-
culativa, infine, cfr. infra, le conclusioni della nostra ricerca, in riferimento
alla Prefazione del 1831 alla Scienza della logica.
75.  Al Räsonnieren (V., capov. 58), o räsonnierendes Verhalten (V., capov.
59), contraddistinto dal fatto di essere «überhaupt nicht in der Sache, son-
dern immer darüber hinaus» (ibidem), e che quindi «in unwirklichen Ge-
danken hin und her räsonniert» (capov. 58), la filosofia richiede, «statt das
willkürlich bewegende Prinzip des Inhalts zu sein, diese Freiheit in ihn zu
versenken» (ibidem). Per il fatto di tenersi sempre al di fuori dei contenu-
ti, esso viene chiamato anche formales Denken, e distinto in tal modo da un
materielles Denken, definito a sua volta come «Gewohnheit, an Vorstellungen
fortzulaufen» (ibidem). L’opposizione di cui si tratta viene però relativizza-
ta nel corso del testo. Anzi, quest’ultimo perverrà a dimostrare la profonda
complicità che vincola questi due modi di pensare l’uno all’altro.
76.  Cfr. V., capov. 59, p. 48 (tr. it. cit., p. 49).
77.  L’analisi del primo lato occupa il seguito del capov. 59; quella del secon-
do il successivo capov. 60 (pp. 49-51; tr. it. cit., pp. 49-51).
54

raziocinante» fa prova, del concetto di negazione determina-


ta e immanente al contenuto in questione: esso infatti «lo sa
confutare e annientare», ma poiché ignora che il «negativo», in
quanto «appartiene al contenuto stesso», è «esso stesso il posi-
tivo», non riesce a procedere «oltre sé verso un nuovo conte-
nuto», e si riduce alla «riflessione nel vuoto io», alla «fatuità del
suo sapere»78. Ma l’aspetto che coinvolge direttamente la dot-
trina della proposizione speculativa è il secondo, concernente
le modalità «positive» con cui il Räsonnieren tenta di attuare
il suo sapere. Da questo secondo lato, in quanto cioè il Rä-
sonnieren si trovi a operare con dei contenuti di conoscenza e
tenti di pervenire alla loro determinazione, emerge la connes-
sione che lo lega al «pensare rappresentativo» (vorstellendes
Denken), cosicché la critica immanente del primo si svolgerà
d’ora in poi, simultaneamente, come movimento di Aufhebung
del vorstellendes Denken da parte del begreifendes Denken79.
Ora, come nella sua attitudine «negativa» il comportamento
raziocinante si manteneva all’esterno del contenuto, così an-
che nel suo procedere «positivo» il soggetto attivo nel Räson-
nieren, il «Sé» pensante, conserva un rapporto di esternità nei
confronti della «cosa», e invece d’immergersi nel contenuto
ad essa proprio, quel «Sé» la trasforma in supporto statico di
determinazioni che appaiono, nei suoi confronti, come acci-
dentali e contingenti. Il «Sé» diventa così, con le parole di He-
gel, «un soggetto rappresentato, a cui il contenuto si riferisce
come accidente e predicato. Questo soggetto costituisce la base
alla quale il contenuto viene legato e sulla quale il movimen-
to scorre su e giù»80. Al contrario, nel pensiero concettuale
il «Sé» perde il suo statuto rappresentativo, cessa di fungere

78.  Cfr. V., p. 49 (tr. it. cit., p. 50).


79.  Per la locuzione «Das vorstellende Denken», cfr. V., capov. 60, p. 50 (tr.
it. cit., p. 50).
80.  Cfr. V., capov. 60, p. 49 (tr. it. cit., p. 50).
55

da «base» immobile a cui rapportare, in un movimento che si


svolge al di fuori della «cosa», determinazioni prive di neces-
sità speculativa. E cessando di esistere come rappresentazio-
ne (Vorstellung), nel «pensare concettivo» il «Sé» si trasforma
finalmente nel concetto (Begriff), la «cosa» che s’intende e si
realizza in quanto «relazione negativa» e «auto-movimento».
In quanto concetto, allora, il «Sé» non è più il «soggetto quieto
che, immoto, sostiene gli accidenti», bensì «il Sé che, proprio
dell’oggetto, si presenta [sich darstellt; N.d.A.] come il diveni-
re di quest’ultimo»81.
Ciò comporta, però, una profonda inversione nella maniera
d’intendere, da parte del pensiero rappresentativo, la relazio-
ne da esso instaurata con i contenuti pensati. Infatti, la trasfor-
mazione del «Sé» staticamente rappresentato nel «concetto
auto­-moventesi che riprende in sé le proprie determinazioni»82
conduce al venir meno della connessione puramente acciden-
tale fra quel soggetto e i suoi predicati. Poiché tali determi-
nazioni risultano dall’auto-movimento del concetto come suoi
prodotti immanenti, quel «Sé» non vi possiede più degli at-
tributi contingenti ed esteriori, ma il contenuto a lui proprio,
che non può più essere «scavalcato». Così, quelle determina-
zioni non possono più venire intese alla stregua di semplici
«accidenti o predicati»; piuttosto, esse si scoprono come «la
sostanza, l’essenza e il concetto di ciò intorno a cui verte il
discorso»83.
Il «pensare rappresentativo» incorre in tal modo in quello che
Hegel chiama un «contraccolpo» (Gegenstoss), in quanto, abi-
tuato a pensare il «Sé» come la salda «base» su cui arbitraria-
mente far «scorrere su e giù» il movimento di attribuzione e

81.  Ibidem.
82.  Ibidem.
83.  V., p. 50 (tr. it. cit., p. 50).
56

avvicendamento dei predicati, trova ora che il «Sé», divenuto


«concetto auto-moventesi», «è passato a predicato e che, con
ciò, è superato; e poiché ciò che sembra sia il predicato è di-
venuto una massa intera e indipendente, il pensiero non può
più errare liberamente qua e là, bensì è trattenuto da questo
peso»84.
Ma il superamento del pensiero rappresentativo da parte del
pensiero concettuale non si concentra esclusivamente, per
quanto riguarda l’attività «positiva» del Räsonnieren, sul lato
per cui il «Sé», in questo sapere, viene presentato in veste di
«soggetto rappresentato». L’atteggiamento raziocinante, infat-
ti, opera anche sul versante opposto, ma complementare ri-
spetto al precedente; da questo secondo lato, esso «pone a fon-
damento» quel «soggetto» come «Sé oggettivo e fisso»85. Anche
da tale punto di vista, il Räsonnieren non coglie la «cosa» nel
suo carattere di «relazione negativa» e «auto-movimento», la
immobilizza in forma di oggettività rappresentata, e la pri-
va quindi della capacità di produrre autonomamente, in base
cioè alla sua propria processualità diveniente, le determina-
zioni che ne costituiscono il contenuto. Quest’ultimo, poiché
non scaturisce come risultato dall’auto-movimento del «Sé»
come concetto, può venir posto in rapporto con esso solo da
un movimento attivato dall’«io che sa», il quale a sua volta,
invece d’immergersi nella «cosa», se ne mantiene all’esterno,
ergendosi in «vincolo dei predicati» nonché in «soggetto che
li sostiene»86.
Tuttavia, anche da questo secondo lato l’«atteggiamento ra-
ziocinante» va incontro a quel «contraccolpo» speculativo che
già prima aveva frenato il vorstellendes Denken nel suo corso.

84.  Ibidem (tr. it. cit., p. 51).


85.  Ibidem.
86.  Ibidem.
57

Infatti, finché il soggetto è immobilizzato in quanto «Sé og-


gettivo e fisso», inteso come mera rappresentazione, all’atteg-
giamento raziocinante resta aperta la strada dell’attribuzione a
quel soggetto di determinazioni «liberamente» scelte, assunte
in veste di «predicati» che non risultano dall’auto-movimento
del soggetto, ma vengono stabiliti in base a motivi dall’«io che
sa». Tuttavia, per il Räsonnieren la situazione cambia profon-
damente se in quel primo soggetto s’intravede non più il «Sé
oggettivo e fisso» cui esso viene ridotto da questo atteggiamen-
to, bensì l’«auto-moventesi concetto». In tal caso, la dipenden-
za di «ciò che nella proposizione ha la forma di predicato» dai
ragionamenti dell’«io che sa» viene del tutto meno, in quanto
tale «predicato» risulta prodotto dall’auto-movimento di quel
primo soggetto (quello della eventuale «proposizione»), che
impone al «secondo» soggetto (l’«io che sa») il riconoscimen-
to delle determinazioni emerse dalla processualità della cosa
stessa (il «primo» soggetto). Così, mentre credeva di poter pas-
sare «liberamente» da un predicato all’altro, l’«io che sa» si tro-
va bloccato sulla nozione determinata in cui s’è trasferito quel
primo soggetto, ch’egli credeva d’essersi lasciato alle spalle87.
Ora, l’esposizione fin qui svolta del «superamento», da par-
te del «pensare concettivo», di Räsonnieren e vorstellendes
Denken, già nel semplice impiego di termini come «soggetto»
e «predicato» rivela che l’intreccio fra quei due modi di pen-
sare si basa sul presupposto che la forma proposizionale sia in
grado di esprimere adeguatamente la «natura»88 del contenuto
assoluto. La struttura proposizionale della lingua, dalla qua-
le provengono categorie come quelle di «soggetto» e «predi-
cato», e di cui essi si servono per enunciare il loro sapere in
forma di singoli giudizi, rafforza ed estende la loro reciproca

87. Cfr. ibidem.
88.  Per l’impiego assai sintomatico di questo termine in riferimento al conte-
nuto filosofico, cfr. V., capov. 58, p. 48 («seine eigene Natur»; tr. it. cit., p. 49).
58

complicità. La loro Aufhebung esige quindi da parte del «pen-


sare concettivo» di criticare e distruggere la forma espositi-
va di cui essi si servono per enunciare il loro sapere, e che si
trova predisposta nella struttura grammaticale del linguaggio.
Ma in tal modo, la questione di come pervenire all’esposizio-
ne adeguata del contenuto speculativo diventa costitutiva per
lo stesso begreifendes Denken: solo attraverso la sua compiu-
ta Darstellung quest’ultimo potrà realizzare il superamento
di «pensare rappresentativo» e Räsonnieren, che nella forma
proposizionale trovano il modulo favorevole alla riproduzione
e all’espansione di sé.
Ora, l’inadeguatezza di tale forma in rapporto all’enunciazio-
ne del contenuto assoluto dipende, per la Vorrede, dall’uni-
lateralità della determinazione che esprime. In proposizio-
ni come «Dio è l’essere» oppure «l’effettuale è l’universale»,
scelte come esempi da Hegel89, soggetto e predicato vengono
enunciati come termini distinti, separati e separabili; la propo-
sizione ne presenta solo la differenza o non-identità, tralascian-
do la determinazione, altrettanto essenziale, dell’identità90. Ma

89.  Cfr. V., capov. 62, p. 51 (tr. it. cit., p. 52).


90.  Sulla «natura del giudizio o proposizione in generale (natura che impli-
ca in sé la differenza di soggetto e predicato)», cfr. V., capov. 61, p. 51 (tr. it.
cit., p. 51). Tuttavia, mentre la Vorrede imputa al giudizio di esprimere solo
la differenza, quando la Logica tratta la questione, esso è per così dire mes-
so sotto accusa perché enuncerebbe solo l’identità. Hegel qui scrive infatti
che «la proposizione, nella forma di un giudizio, non è adatta a esprimere le
verità speculative… Il giudizio è una relazione identica fra soggetto e pre-
dicato… Ma se il contenuto è speculativo, anche il non-identico del sogget-
to e del predicato è un momento essenziale; questo però nel giudizio non
è espresso» (W.d.L., I, p. 76; tr. it. cit., p. 80). R. Heede, Die Dialektik des
spekulativen Satzes, in «Hegel-Jahrbuch», 1974, pp. 280-293, ha parlato al
riguardo di «ambivalenza di ciò che, nel giudizio inteso in senso speculativo,
costituisce il “dialettico” in senso stretto» (p. 287), e ha mostrato come tale
«ambivalenza» sia da porre in rapporto alla concezione che la Logica pre-
senta del giudizio. Altrettanto opportuno risulterebbe confrontare queste
59

proprio da qui deriva l’omogeneità di questa forma espositi-


va col «pensare rappresentativo»; in essa, infatti, poiché viene
espressa la differenza tra soggetto e predicato, quest’ultimo
vi appare come accidentale per il soggetto. Così, l’«io che sa»
trova modo di «tornare in se stesso» dal contenuto pensato, e
di fungere da «elemento operante nel muovere il predicato»91.
Viceversa, il «ritorno in se stesso» che la forma della proposi-
zione favorisce e promuove subisce un «contraccolpo» da par-
te della proposizione «filosofica» o «speculativa»92, in quanto
il soggetto di quest’ultima non è più il «soggetto rappresenta-
to» del vorstellendes Denken, bensì il «concetto auto-moven-
tesi», che producendo i suoi predicati si mantiene o «passa»
in pari tempo in essi. Poiché ora «il pensare trova il soggetto
immediatamente anche nel predicato»93, non può più «tor-
nare in se stesso» e «muovere il predicato», bensì piuttosto
in quest’ultimo «si trova ancora immerso nel contenuto»94. Il
«contenuto» della proposizione speculativa, il «concetto auto-
moventesi», viene così a «distruggere» la «forma» della pro-
posizione. Se, come abbiamo visto, la «natura» di quest’ultima
«implica in sé la differenza tra soggetto e predicato», il «con-
cetto auto-moventesi» ripristina l’identità col predicato che
nella «forma» proposizionale va perduta, e quella forma «viene
distrutta»95. E tuttavia, l’identità di soggetto e predicato così
risultante nella proposizione filosofica «non deve annientare

pagine della Vorrede con la trattazione del giudizio contenuta nella Logica
jenese del 1804-05 (cfr. J.S.II, pp. 80-93; tr. it. cit., pp. 78-91, e il commen-
to relativo di F. Chiereghin, pp. 357-371).
91.  Cfr. V., capov. 60, p. 50 (tr. it. cit., p. 51).
92.  Cfr. V., capov. 61, p. 51 (tr. it. cit., pp. 51-52).
93.  V., capov. 62, p. 51 (tr. it. cit., p. 52).
94.  «Statt dass es im Prädikate in sich gegangen die freie Stellung des Rä-
sonnierens erhielte, ist es in den Inhalt noch vertieft» (ibidem).
95.  Cfr. V., capov. 61, p. 51 (tr. it. cit., p. 51).
60

la loro differenza»96; piuttosto, fra identità e differenza, fra il


«contenuto» proposizionale e la sua «forma», deve scaturire un
rapporto di compenetrazione dialettica, che Hegel determi-
na, con l’impiego di una metafora, come «armonia»97, e che in
realtà prelude alla necessità, come vedremo subito, di fornire
l’esposizione esplicita di quell’elemento speculativo, che nel-
la proposizione è presente ancora in forma implicita e quindi
solo in veste di «esigenza» o «freno interiore»98.
Ma prima di evidenziare il passaggio dalla proposizione spe-
culativa all’esposizione del movimento in essa racchiuso, è op-
portuno soffermare l’attenzione sul risultato fin qui raggiunto
dall’argomentazione in rapporto al vorstellendes Denken. Da
un lato, solo la teoria della proposizione speculativa consente
di misurare nella loro rilevanza teoretica, e di comprendere
nella loro articolazione concettuale, gli altri luoghi della Vorre-
de nei quali Hegel prende in esame il tema della Vorstellung;
dall’altro, questi ultimi permettono di valutare in tutta la sua
portata dirompente nei confronti del «pensare rappresentati-
vo», e più globalmente di quello teologico-metafisico, il com-
pito di cui il begreifendes Denken si fa carico, dal momento
in cui intenda la sua realizzazione in termini di Darstellung99.
Il nostro punto di partenza può essere costituito dal già men-
zionato esempio di proposizione: «Dio è l’essere». Per Hegel,
infatti, l’impiego in veste di soggetto dei giudizi filosofici del
nome «Dio» non è frutto di una scelta arbitraria, né va quin-
di considerato casuale. Al contrario, con l’uso di quel termine

96.  Ibidem (tr. it. cit., p. 52).


97.  Ibidem.
98.  Cfr. le espressioni «ist die Forderung vorhanden» (V., capov. 62, p. 51;
tr. it. cit., p. 52), e «innerliche Hemmung» (V., capov. 65, p. 53; tr. it. cit., p.
54, corsivo mio).
99.  In particolare, coinvolgono il problema qui in questione i capoversi 23,
30-31, 40 (V., risp. pp. 22-23, 28-29, 34-35; tr. it. cit., pp. 17-18, 24-25, 40).
61

perviene a espressione un’esigenza profonda, che solamente


il pensiero speculativo è in grado di soddisfare, e cioè «il biso-
gno di rappresentarsi l’assoluto come soggetto»100. Ora, la teo-
ria della proposizione speculativa non ci consente soltanto di
determinare le modalità attraverso le quali il pensiero concet-
tuale procede all’assolvimento di quel compito, ma evidenzia
anche come tali modalità conducano al toglimento del prece-
dente modo di pensare, in quanto implicano lo svuotamento
di senso e l’esclusione dal piano della Darstellung del termine
cui esso faceva costante riferimento, e cioè «Dio».
Infatti, poiché il sapere filosofico è sapere dell’auto-­movimento
di quel «Sé» che il pensiero rappresentativo presenta come
«soggetto rappresentato», esso rifiuta l’assunzione di qualsi-
asi presupposto antecedente all’auto-svolgimento del concet-
to. Nel momento in cui tale «soggetto rappresentato» venga
espresso dal termine «Dio», come accadeva nella tradizione
del pensiero metafisico, ciò significa che la filosofia impone di
neutralizzare il contenuto rappresentativo in esso presupposto.
Ma una volta che quella parola ne venga privata, essa si trova
a esistere esclusivamente alla superficie del linguaggio dell’e-
sposizione filosofica, di cui entra a far parte, ma in cui non fi-
gura se non come «un suono privo di senso, un mero nome»101.
Tale soggetto, una volta neutralizzata la massa delle rappresen-
tazioni in esso incorporate prima della sua assunzione entro
il decorso dell’esposizione, e che costituendone il contenuto
lo riempivano di significato, appare nelle vesti di una «parola
vuota», e può tornare a ricevere contenuto e significato solo
da ciò che di esso enuncia il predicato102.

100.  Cfr. V., capov. 23, p. 22 (tr. it. cit., p. 17).


101.  Ibidem.
102.  «In una simile proposizione si comincia con la parola: Dio», ma «solo
il predicato dice ciò che Dio è, e ne è il riempimento e il significato; il vuo-
to inizio diventa sapere effettuale solo in questa fine» (ibidem). Da con-
62

Al contrario, nel pensiero rappresentativo il soggetto proposi-


zionale designa un complesso di rappresentazioni, include cioè
una serie di determinazioni presupposte che non sono dimo-
strate nel sapere, ma che quest’ultimo ritiene valide perché
comprese nelle opinioni correnti sull’argomento. Così esse,
invece di scaturire dall’auto-svolgimento del concetto, che in
quanto le «riprende in sé» ne annulla il significato di «predi-
cati» e conduce a dissoluzione, in tale movimento, la «forma»
proposizionale – tali determinazioni, dicevamo, vengono attri-
buite al soggetto della proposizione in base a motivi escogita-
ti dall’«io che sa», in quanto soggetto supposto sapere, che si
appoggia su quanto, dell’argomento, sarebbe già «noto»103. Ma
proprio in tal modo, il «bisogno» che nell’impiego del nome
di «Dio» giunge a espressione non viene soddisfatto: alla fun-
zione grammaticale del soggetto non corrisponde il suo signi-
ficato logico-­speculativo. Anzi, proprio il fatto che esso ven-
ga assunto a «punto fermo» di un movimento di attribuzione
di predicati, che non può trovare in esso la propria origine,
esclude la possibilità, da parte del soggetto grammaticale che

frontare, in proposito, Enz., I, in part. §§ 31, pp. 97-98, e § 85, pp. 181-182
(tr. it. cit., risp. pp. 43-44 e pp. 100-101; Enc., pp. 178-179 e 257-258), an-
che se da considerare, in realtà, sarebbe perlomeno il gruppo di paragrafi
28-32, con relativi osservazioni e Zusätze, i quali rendono quanto mai evi-
dente la connessione fra «pensare rappresentativo», esposizione proposi-
zionale e tradizione di pensiero teologico-metafisica (essi fanno parte della
sezione dell’Enciclopedia che tratta della «prima posizione del pensiero ri-
spetto all’oggettività», la quale porta il titolo Metaphysik – titolo non pre-
sente nell’edizione crociana da me utilizzata); e W.d.L., I, pp. 57 ss., in part.
p. 63: «Was somit über das Sein ausgesprochen oder enthalten sein soll in
den reicheren Formen des Vorstellens von Absolutem oder Gott, dies ist
im Anfange nur leeres Wort und nur Sein» (tr. it. cit., pp. 58 ss., in part. p.
65, corsivo mio).
103.  Cfr. V., capov. 31, pp. 28-29 (tr. it. cit., p. 25), ma anche i luoghi dell’En-
ciclopedia (in part. i §§ 30-31) e della Logica menzionati alla nota precedente.
63

si esprime nel nome «Dio», di manifestarsi e attuarsi propria-


mente come tale104.
Viceversa, il «pensare concettivo» può considerare la «forma»
proposizionale come «qualcosa di superfluo», perché quest’ul-
tima presuppone la significanza di ambedue i termini («sog-
getto» e «predicato») che in lei vengono posti in relazione,
e dei quali appunto esprime la differenza. Ma svuotando il
soggetto grammaticale di ogni ulteriore significanza, il begrei-
fendes Denken non soltanto rende «superfluo» l’impiego, da
parte dell’esposizione, della «forma» proposizionale; essa ren-
de «superfluo» anche l’impiego entro la Darstellung del nome
«Dio», di quel soggetto, cioè, cui non soltanto faceva ricorso
il «bisogno di rappresentarsi l’assoluto» in questo senso, ma
che qualificava la filosofia come sapere teologico-metafisico105.

104.  Cfr. V., capov. 23, p. 23: «Dato il modo in cui quel movimento è costitu-
ito, esso non può appartenere al soggetto; d’altronde, presupposto quel pun-
to, il movimento non può essere costituito diversamente: può essere soltanto
esteriore» (tr. it. cit., p. 18); e ancora V., capov. 66, p. 54: «Quand’anche di
quel soggetto vengano predicate delle verità speculative, il loro contenuto è
pur sempre privo di concetto immanente, perché è dato solo come concetto
statico» (tr. it. cit., p. 55). Nella Vorrede, quindi, così come in seguito, non si
tratta soltanto della «superficialità» dell’impiego a soggetto proposizionale
del nome «Dio» (su cui cfr. subito infra), ma della necessità della sua esclu-
sione dal linguaggio dell’esposizione filosofica, se quest’ultima vuol essere
davvero «esposizione speculativa».
105.  Cfr. Enz., I, § 85: «Weil der Gedanke… nur im Prädikate enthalten
ist, so ist die Form eines Satzes, wie jenes Subjekt, etwas völlig Überflüssi-
ges» (pp. 181-182; tr. it. cit., p. 101). Ma nell’Anmerkung del § 31, al quale
lo stesso Hegel rimanda, egli aveva già precisato che «nel pensiero logico…
non solo è superfluo fare di queste determinazioni predicati di proposizio-
ni il cui soggetto sia Dio o, più vagamente, l’assoluto, ma questo procedere
avrebbe anche lo svantaggio di far pensare a una misura diversa dalla natura
stessa del pensiero» (Enz., I, pp. 97-98; tr. it. cit., p. 44). La Vorrede espri-
me la medesima concezione quando asserisce che per la filosofia «la propo-
sizione, presa nella sua immediatezza, è una forma soltanto vuota», poiché
64

Il soggetto «Dio» viene congedato dall’esposizione speculati-


va col medesimo movimento con cui viene da essa congedata
la forma proposizionale. «Soggetto» del begreifendes Denken
diventano quindi le categorie, svincolate dalla forma del giu-
dizio, in cui fungevano da meri «predicati», così come dal sog-
getto «Dio», nel quale avrebbero dovuto trovare la loro «salda
base»106.
L’argomentazione condotta da Hegel nei confronti del vor-
stellendes Denken dimostra in tal modo come la connessione
sussistente fra le forme grammaticali del linguaggio (in parti-
colare, la «forma» proposizionale) e l’organizzazione in senso
teologico-metafisico del sapere filosofico non sia né acciden-
tale né casuale, bensì si collochi al livello della struttura logi-

in lei «non si dà contenuto alcuno comportantesi come quel soggetto che sta-
rebbe a fondamento e al quale il suo significato converrebbe come un predi-
cato» (V., capov. 66, p. 53; tr. it. cit., p. 55). I. Soll, nel suo Sätze gegen Sätze:
ein Aspekt der Hegelschen Dialektik, in «Hegel-Jahrbuch», 1974, pp. 39-45,
contesta la posizione di Hegel, in quanto «per mostrare che questi soggetti
grammaticali e le loro proposizioni sono superflui, Hegel dovrebbe non solo
dimostrare che queste parole sono molto vaghe, ma anche che sono del tutto
prive di senso. A tal fine, Hegel le determina come nomi propri e si decide
per la posizione che i nomi, in opposizione ai concetti universali, sono privi
di significato. Ma tali parole sembrano avere un certo contenuto descritti-
vo. Se nonostante ciò le si annovera fra i nomi, la semplice plausibilità della
tesi che i nomi siano privi di significato diventa meno convincente» (pp. 42-
43). Tuttavia, l’argomentazione hegeliana non ha di mira il funzionamento
empirico del linguaggio, ma va compresa in rapporto al begreifendes Den-
ken e al dispositivo dell’esposizione teoretica. Poiché il discorso filosofico
impone la neutralizzazione di qualsiasi contenuto che non sia pensiero e
concetto, parole come «Dio» e «assoluto» vengono dissociate dal contenu-
to rappresentativo in esse presupposto, e ricondotte così al livello di «suoni
senza senso» e «meri nomi».
106.  Cfr. V., capov. 66, p. 54: «L’esposizione, fedele alla comprensione [Ein-
sicht] della natura dello speculativo, deve mantenere la forma dialettica, e
non far posto a nulla che non venga concepito e non sia il concetto» (tr. it.
cit., p. 55).
65

ca di questo intero «modo di pensare»107. Ma non solo questo:


se davvero per il begreifendes Denken il soggetto di un giudi-
zio ha senso solo nella misura in cui glielo trasmette il predi-
cato, ciò significa che per esso un pensiero è «effettuale» solo
nella misura in cui pervenga a esplicitazione nel linguaggio,
e che quindi la stessa «Aufhebung» del «pensare rappresen-
tativo» e della tradizione teologico-metafisica potrà dirsi con-
cretamente attuata solo in quanto consegua la sua esposizione
linguistica.

5. Il concetto di esposizione speculativa


È Werner Marx ad aver dimostrato per primo, nel già menzio-
nato saggio Absolute Reflexion und Sprache, come per Hegel
l’effettualità dell’assoluto non verrebbe incorporata nel lin-
guaggio dell’esposizione, se l’argomento della Vorrede si ar-
restasse all’interpretazione speculativa della proposizione in
cui sfocia la critica del sapere raziocinante e del «pensare rap-
presentativo». La proposizione infatti può indicare la necessi-
tà del movimento che conduce alla sua distruzione, ma non è
in grado di esporlo.
Abbiamo già visto come nella proposizione filosofica la «for­
ma» del giudizio andasse distrutta perché il soggetto (l’«auto­
moventesi concetto») ripristinava l’identità col suo predicato.
Abbiamo anche visto come tale movimento costituisse, per il

107.  L’espressione è impiegata da Hegel nel capov. 40 della Vorrede, a pro-


posito di ciò che egli definisce «Der Dogmatismus der Denkungsart», il
quale «non è altro che l’opinione, secondo la quale il vero consiste in una
proposizione che è un risultato fisso, o che viene saputa immediatamente»
(V., p. 34; tr. it. cit., p. 3), e la cui connessione con la tradizione del pensie-
ro metafisico viene esplicitata in Enz., I, § 32 e relativo Zusatz (tr. it. cit.,
p. 44; Enc., pp. 179-180).
66

vorstellendes Denken, un «contraccolpo», in quanto il sogget-


to supposto sapere non poteva, nel predicato, «tornare in se
stesso», ma si trovava ad avere ancora a che fare con il sog-
getto della proposizione, «immerso nel contenuto»108. Tutta-
via, il punto essenziale, in rapporto alla proposizione, è che
quest’ultima, anche nella sua determinazione di proposizione
filosofica o speculativa, non è in grado di enunciare quel mo-
vimento. Questo resta, rispetto al pensiero rappresentativo,
un «freno interiore», che tale pensiero si vede posto di fron-
te come mera «esigenza», ma nella proposizione non giunge
ancora a esplicita enunciazione. In tal modo, la proposizio-
ne speculativa mostra di non «considerare» il pur «valido di-
ritto» posseduto, nei confronti del sapere filosofico, dal pen-
sare «non speculativo»109. Quest’ultimo, infatti, non può non
trovarsi sconcertato di fronte al fatto che nella proposizione
speculativa un unico e medesimo termine debba venire con-
siderato come «concetto» nei confronti del soggetto, quando
invece nella proposizione «ordinaria» viene inteso come suo
mero «predicato o accidente»110.
Ma in tale incertezza non è in gioco semplicemente il rappor-
to fra pensare speculativo e non speculativo; in gioco è il rap-
porto fra lo stesso «begreifendes Denken» e la sua effettuale
realizzazione nel linguaggio. In tal senso, il «diritto» del «pen-
sare rappresentativo» nei suoi confronti interferisce diretta-
mente con la raggiunta o mancata attuazione nel linguaggio
del concetto stesso. Non si tratta quindi soltanto di una pre-
tesa esteriore, ma tale da involgere lo stesso pensiero con-
cettuale, la capacità o meno, da parte sua, di attuarsi in veste
epistemica, di realizzare una filosofia che sia «scienza» e «sa-

108.  «In den Inhalt… vertieft» (V., capov. 62, p. 51; tr. it. cit., p. 52)
109.  Cfr. V., capov. 65, p. 52 (tr. it. cit., p. 54).
110.  Cfr. V., capoversi 63-64, p. 52 (tr. it. cit., p. 53).
67

pere assoluto». Perciò, Hegel asserisce la necessità di «esporre


quel ritornare in sé del concetto», in quanto «questo movi-
mento è… il movimento dialettico della proposizione stessa»,
e «solo esso è l’elemento effettualmente speculativo»111. Ma
proprio tale «elemento» non perviene ancora a «effettualità»
nella proposizione, all’«effettualmente speculativo» quest’ul-
tima non dona ancora effettualità, poiché il «movimento dia-
lettico» vi è contenuto solo implicitamente, come qualcosa di
ancora non esistente112. Così, se non vuol essere privato della
sua realizzazione, e cadere in un’insostenibile contraddizione
col suo medesimo concetto, per quel «movimento» diventa
necessario articolarsi linguisticamente, configurarsi nella for-
ma dell’esposizione.
Lo snodo argomentativo cui la Vorrede, a questo punto, ci
pone di fronte è certamente decisivo, in quanto determina
nel suo statuto di necessità il rapporto fra speculazione e Dar-
stellung, e di tale necessità ci consente d’intendere il sen-
so. Se quest’ultimo esclude che fra «pensare concettivo» ed
esposizione possa sussistere una relazione di esternità, in cui
la Darstellung costituisca un accessorio più o meno arbitra-
rio e svolga, di fronte allo speculativo, la funzione di sempli-
ce «accidente o predicato», non si tratta nemmeno del fatto
che lo speculativo «debba» istituirsi come esposizione, nel
senso che questa sarebbe per lui una costrizione o, peggio,
il segno di una tensione-verso che ripristini una sorta di dif-
ferimento all’infinito della sua realizzazione. Il rapporto fra
speculazione e Darstellung designa piuttosto il nesso della co-
implicazione logica e dell’inscindibile compresenza dei due
momenti: se il «movimento dialettico» è l’«elemento effet-
tualmente speculativo», allora «solo l’enunciazione del movi-

111.  V., capov. 65, p. 53 (tr. it. cit., p. 54).


112.  Cfr. ibidem: «nichtdaseiende Rückkehr».
68

mento medesimo è esposizione speculativa [spekulative Dar-


stellung]»113.
Nel concetto di «esposizione speculativa», in tal modo rigo-
rosamente determinato dal testo, Hegel intende compiuta la
riunificazione della «dialettica» con la «dimostrazione», e ripri-
stinato così «il concetto del dimostrare filosofico», in cui il «mo-
vimento dialettico» si afferma come «ritmo auto-producentesi
che si spinge oltre e ritorna in se stesso» e diventa «enunciata
interiorità»114. All’eventuale obiezione di chi imputasse a tale
«ritmo» di rinviare a un processo all’infinito, in quanto «anche
il movimento dialettico avrebbe a sue parti o elementi delle
proposizioni», cosicché potrebbe «sembrare che la segnalata
difficoltà non faccia che ritornare, e sia una difficoltà della cosa
stessa», egli risponde che ciò è quanto accade alla «dimostra-
zione usuale, in cui i fondamenti di cui si avvale abbisognano
a loro volta di fondazione, e così via all’infinito»115. Tale proce-
dimento dimostrativo, proprio del «conoscere matematico», e
che a torto è stato assunto come modello dell’esposizione fi-
losofica116, non riesce in realtà a esporre il dinamismo concet-

113.  Ibidem. [N.d.A. 2020: De Negri aveva scelto incomprensibilmente di


tradurre l’espressione spekulative Darstellung con «rappresentazione spe-
culativa», rischiando di provocare una gravissima confusione concettuale e
di rendere irriconoscibile al lettore italiano uno fra i concetti-chiave della
Vorrede. La nuova traduzione a cura di G. Garelli, La fenomenologia dello
spirito, Einaudi, Torino 2008, ripristina una lettura più corretta, scegliendo
l’espressione «presentazione speculativa» (p. 47)].
114.  Ibidem: «… diese Seite der ausgesprochenen Innerlichkeit…».
115.  V., capov. 66, p. 53 (tr. it. cit., p. 54).
116.  A titolo puramente esemplificativo, cfr. in proposito le critiche hege-
liane a Spinoza, in W.d.L., II, pp. 164 ss. (tr. it. cit., pp. 604 ss.), riprese poi
specificamente in rapporto alla dimostrazione geometrica, dove Hegel de-
plora che nonostante l’infelice generalizzazione «a tutte le possibili specie
di conoscenze» del metodo geometrico, compiuta da Wolff, questo «abu-
so» non sia valso a «spiantare la fede nell’attitudine ed essenzialità di que-
69

tuale intrinseco all’oggetto, perché lo esprime in «proposizioni


morte, fissate» – contrae cioè in singole proposizioni e nella
loro «forma» principi e risultati del suo «conoscere», quando
appunto proprio questa «forma» non è in grado di realizzare
l’esposizione del contenuto speculativo. Quella difficoltà «ap-
partiene quindi alla conoscenza esteriore», mentre da parte
sua il movimento dialettico, avendo a suo elemento il concet-
to puro, possiede un contenuto che «è già in tutto e per tutto
soggetto» e trasforma la proposizione, come abbiamo visto, in
una «forma soltanto vuota»117.
In tal modo, non soltanto il vorstellendes Denken trova rico-
nosciuto il suo giusto diritto, poiché non viene più rimandato
all’«intuizione interiore»118 di un movimento che la proposi-
zione racchiude, ma che da essa non viene enunciato; bensì lo
stesso begreifendes Denken, affrontando il problema della sua
Darstellung nel linguaggio, perviene a esporre, simultanea-
mente, le coordinate della sua soluzione. Più precisamente, se
per Hegel la compiuta realizzazione della verità non è fornita
dalla semplice interpretazione speculativa della proposizione,
ma dall’esposizione linguistica di quella stessa interpretazio-
ne, egli perviene anche a determinare quali requisiti una pro-
posizione debba soddisfare per dar luogo all’auto-­riflessione
in cui consiste la Darstellung. Per quest’ultima, cioè, si tratta
di rendere operative a livello di teoria e di scrittura le risul-
tanze emerse dalla critica del vorstellendes Denken esposta
nella Vorrede, e di espungere così dalla formulazione delle

sto metodo al fine di ottenere un rigore scientifico nella filosofia», cosicché


«l’esempio di Spinoza nell’esposizione della sua filosofia è stato riguardato
ancora per molto tempo come un modello» (W.d.L., II, pp. 474-475; tr. it.
cit., p. 926).
117.  V., capov. 66, p. 53 (tr. it. cit., p. 55). Sull’espressione «fixierte, tote
Sätze», cfr. V., capov. 45, p. 37 (tr. it. cit., p. 35).
118.  «Innre[s] Anschauen» (V., capov. 65, p. 53; tr. it. cit., p. 54).
70

sue proposizioni termini come «Dio» o «assoluto». La posi-


zione del soggetto, che nei giudizi della tradizione di pensiero
teologico-­metafisica veniva assunta dal nome di «Dio», viene
ora occupata anch’essa dalle categorie logiche. Poiché queste
ultime svolgono, nella proposizione filosofica, sia la funzione
di soggetto sia quella di predicato, esse svelano in pari tempo
che la proposizione è una «forma soltanto vuota», realizzando
in termini di esposizione nel linguaggio l’asserzione hegelia-
na, secondo cui il contenuto della filosofia «è già in tutto e per
tutto soggetto»119.
La portata teoretica dell’impiego di categorie non più soltan-
to in veste di predicati, ma anche di soggetti, consiste dunque
nel fatto che tale impiego dischiude nella sua necessità il mo-
vimento dialettico dell’esposizione a livello stesso di semplice
proposizione. L’introduzione in essa di termini-concetto im-
prime nella sua struttura la necessità del suo dissolvimento,
cosicché l’esigenza di esporre tale movimento nel linguaggio
viene essa stessa incorporata nel linguaggio.
Ciò permette di determinare che cosa intenda Hegel quando
definisce la proposizione «speculativa» come proposizione «fi-
losofica», di evidenziare, cioè, come lo spekulativer Satz desi-
gni un tipo di giudizi rigorosamente determinato, circoscriva
l’ambito della sua validità a quello dell’esposizione filosofica,
e non sia quindi possibile interpretare come «proposizione
speculativa» ogni proposizione del linguaggio120, né vi si possa

119.  Di qui la necessità che la Darstellung conservi la «forma dialettica»


e non introduca nulla «che non venga concepito e non sia il concetto» (cfr.
supra, nota 106). Sulla funzione di «soggetto proposizionale» svolta, nel-
la proposizione speculativa, dalle categorie, cfr. in part. R. Heede, op. cit.,
pp. 291 e 295.
120.  In questo senso si esprime invece anche J.P. Surber, Hegel’s Specula-
tive Sentence, in «Hegel-Studien», Bd. 10, 1975, pp. 211-230: «benché certi
“contenuti” possano essere di per sé dialetticamente più complessi di altri, ci
71

intravedere il puro e semplice emergere del linguaggio nella


sua «essenza» speculativa. Piuttosto, che la proposizione spe-
culativa non estenda il suo spettro semantico oltre il perimetro
che definisce in Hegel il «circolo di circoli» della teoria non
solo è quanto la Vorrede afferma esplicitamente, ma anche il
presupposto all’altezza del quale bisogna porsi per compren-
dere il suo decorso argomentativo.
Da un lato, perché il «soggetto» della proposizione possa istitu-
irsi in «identità» col suo «predicato» dev’essere afferrato come
«concetto auto-moventesi», così come soltanto in base a questo
«presupposto» quel predicato ne può enunciare – per quanto
inadeguatamente – l’essenza, e non limitarsi invece a espri-
merne una determinazione «accidentale». Ciò renderebbe im-
possibile, infatti, quella «ripresa in sé» del soggetto «nelle sue
determinazioni», in cui consiste il «movimento dialettico» di
risoluzione della «forma» proposizionale. Dall’altro, il termine
che funge da soggetto di un giudizio può venire inteso come
«vuoto» nome solo dal punto di vista del pensiero concettua-
le, solo una volta che il sapere filosofico abbia disposto la sua
realizzazione linguistica alla soglia della sua esposizione epi-
stemica. Il carattere teoretico dello spekulativer Satz induce
a escludere una relazione di tipo meramente accidentale fra

deve essere una fondamentale struttura dialettica implicata dalla forma ordi-
naria della loro espressione, in virtù della quale i “contenuti” possono esse-
re interpretati come relati dialetticamente l’uno all’altro a prescindere dalla
loro complessità interna. È questa struttura della forma soggetto-predicato
che Hegel cerca di articolare nella sua discussione sulla “proposizione spe-
culativa”» (p. 218). Pressoché opposta è la posizione di H. Röttges, Der Be-
griff der Methode in der Philosophie Hegels, Hain, Meisenheim a.Gl. 1976,
p. 70: «Ciò che distingue la proposizione speculativa dal giudizio ordinario
non è dunque soltanto la forma, bensì anche il contenuto filosofico» (ma da
consultare, in proposito, è tutto il cap. V: Die methodologische Bedeutung
der Darstellungs-problematik: Spekulativer Satz und absoluter Unterschied,
pp. 63-89).
72

i suoi termini, quale indubbiamente si esprime in proposizio-


ni pressoché innumerevoli del nostro linguaggio, che non per
questo cessano di avere senso. L’unico discorso in grado di
realizzare il concetto dialettico-speculativo del giudizio, che
intende quest’ultimo come scissione e ricomposizione di to-
talità, rimane quello che si scrive nella chiave dell’esposizione
filosofica, la quale, presentando a membri delle sue proposizio-
ni categorie logiche in qualità di concetti, ne esprime il «mo-
vimento» di auto-svolgimento e di risoluzione nell’opposto.

6. Io filosofico e lingua dell’esposizione: l’irruzione della


problematica temporale
La determinazione in senso rigorosamente teoretico della pro-
posizione speculativa permette a Hegel di definire i requisi-
ti formali cui deve attenersi la Darstellung filosofica. Il punto
decisivo sta nel fatto che egli contesta la possibilità di assume-
re a-criticamente la struttura proposizionale del linguaggio,
per contrarre «nella forma di un giudizio» le relazioni logico-
categoriali. La dottrina della proposizione speculativa mostra
come la sintassi del linguaggio sia ben lungi dal garantire, per
così dire, automaticamente o immediatamente la realizzazio-
ne della Darstellung, colloca la sua teorizzazione entro una
costellazione concettuale, in cui la verità, per salvaguardare la
sua «natura» speculativa e dialettica, non si può affidare inge-
nuamente alle articolazioni elementari del linguaggio. Così,
nella contraddizione fra la necessità per il «concetto» di enun-
ciarsi discorsivamente e le strutture grammaticali – e cioè in
Hegel: intellettuali121 – della lingua si produce lo scarto fra i

121.  Sul linguaggio «als Werk des Verstandes», cfr. W.d.L., I, p. 104 (tr. it.
cit., p. 113); e per la specificazione dell’opera» dell’intelletto in rapporto alla
73

margini del quale si distende la creatività in senso linguistico


dell’io filosofico.
Certo, impiegare questo termine può condurre a fraintendi-
menti di vario genere, come se ad esempio per Hegel si trat-
tasse dell’approntamento artificiale di terminologie o di mo-
delli per la risoluzione ad hoc dei problemi essenziali. E anche
ammettendo preliminarmente l’opportunità di quell’impiego,
sembrerebbe comunque altrettanto difficile ricomporlo senza
fratture col contraccolpo speculativo in cui il soggetto, proprio
quando credeva di poter tornare in sé, si trova invece immerso
nel contenuto. Ma se il soggetto «altro» – quello delle proposi-
zioni filosofiche – non sta fermo da un lato, mentre viceversa
all’«io che sa» rimarrebbe la prerogativa di «decidere» in base
a motivi i suoi predicati, ciò non comporta da parte di quest’ul-
timo l’assunzione di un atteggiamento meramente passivo nei
confronti della verità. Non soltanto perché nella «cosa» è im-
manente il «Sé» dell’io, perché – come abbiamo già visto a livel-
lo di filosofia dello spirito – proprio la trasformazione del «Sé»
nella «cosa» istituisce quest’ultima in «relazione negativa in se
stessa» e «auto-movimento»; ma più precisamente, in rappor-
to alla Darstellung, perché proprio l’assunzione su di sé della
«fatica del concetto» impone simultaneamente all’io di soste-
nere l’onere, ormai tutt’altro che supplementare, della «fati-
ca del linguaggio»122, gli impedisce cioè di «acquietarsi» nella
struttura elementare che il linguaggio pone a disposizione, at-
traverso la forma proposizionale, per l’articolazione dei signifi-
cati. Così, se il rifiuto d’immobilizzare il contenuto speculativo
entro un rapporto d’inerenza fra un soggetto e un predicato,
d’impiegare per la Darstellung delle relazioni logico-­categoriali

forma, e cioè alla grammatica della lingua, cfr. Enz., III, § 459 Anm., p. 271
(tr. it. cit., p. 449).
122.  Davvero «la “fatica del concetto” resta legata alla “fatica della parola”»
(J. Derbolav, op. cit., p. 64).
74

la proposizione nella «forma di un giudizio», costituisce in He-


gel il vero e proprio “calvario” della lingua, esso in pari tem-
po richiama ed esige l’apporto attivo, nel senso della creatività
linguistica ed epistemica, del soggetto filosofante.
Ora, se la forma proposizionale, nel senso logicamente definito
della relazione d’inerenza fra un soggetto e un predicato, non
è in grado di esprimere il contenuto speculativo nella sua «ef-
fettualità», in quanto cioè «movimento dialettico», verso qua-
le indirizzo si orienta la creatività linguistica dell’io filosofico?
Se l’auto-costituzione in soggettività della sostanza distrugge
la forma del giudizio, può egli mirare alla costruzione di un
linguaggio a-proposizionale? Nel momento in cui Hegel assu-
me il linguaggio come «il mezzo di designazione adeguato alla
ragione»123, la sua risposta consisterebbe forse nell’indicare
come inappropriata la domanda stessa, se è vero che «soprat-
tutto nelle materie filosofiche ci vuole una cultura per saper
fare le domande» e «ottenere una risposta diversa da quella
che la domanda non è valida»124.
In effetti, nella misura in cui impiega il linguaggio ordinario, il
pensatore non può sfuggire – almeno in via di principio – alle
regole della sintassi e dell’articolazione proposizionali. Vice-
versa, però, non può nemmeno limitarsi a forgiare una conca-
tenazione di proposizioni «in forma di giudizio», esprimenti
determinazioni reciprocamente opposte e disposte l’una «ac-
canto» all’altra. In tal modo non verrebbero enunciati proprio
l’auto-movimento dei concetti e il dinamismo della loro risolu-
zione nell’opposto, mentre l’«effettualità» dello speculativo si
teorizza in Hegel come esposizione del suo auto-movimento125.

123.  Cfr. W.d.L., II, p. 259 (tr. it. cit., p. 700).


124.  W.d.L., I, p. 143 (tr. it. cit., p. 157).
125.  Cfr. W.d.L., I, p. 76: «Ma così sorge un altro difetto, il difetto cioè che
queste proposizioni non sono fra loro collegate, e perciò presentano il con-
75

Ora, una via d’uscita dall’impasse cui la problematica della


Darstellung pare condurre quando si tratta della sua effettiva
realizzazione, ci viene offerta nell’indicazione, da noi già men-
zionata, con cui Hegel invita la trattazione filosofica ad attener-
si alla Darstellung del concetto. Che tale osservazione sembri
suggerire l’adozione di un accorgimento tecnico, e si presen-
ti quasi nella veste di una raccomandazione estrinseca126, non
deve infatti ingannare sulla sua reale portata epistemica. Con
essa, Hegel determina a livello teoretico le coordinate di rea­
lizzabilità dell’esposizione speculativa, in quanto, da un lato,
l’impiego a soggetto e predicato delle proposizioni «filosofi-
che» di termini categoriali incorpora nel linguaggio, entro la
stessa forma proposizionale, la necessità, per ogni singolo «giu-
dizio», di «togliersi» nel movimento complessivo dell’esposizio-
ne127; dall’altro, in quanto ogni singola proposizione evidenzia
in se stessa la necessità della sua Aufhebung dialettica, essa si
svela come «vuota forma», cessa di fungere da modello prefis-
sato dell’esposizione, e dall’articolazione logico-sintattica del-
la Darstellung lascia emergere l’auto-movimento del concetto
come origine e contemporaneo «oggetto» di quest’ultima.
Al contrario, nel momento in cui da soggetti proposizionali
fungessero termini come «Dio» o «assoluto», la necessità della

tenuto soltanto nell’antinomia, mentre d’altra parte il contenuto loro si ri-


ferisce a uno stesso, e le determinazioni, che si trovano espresse nelle due
proposizioni, debbono assolutamente essere unite, unione che si può allora
designare solo come una inquietudine d’incompatibili, o come un movimen-
to» (tr. it. cit., pp. 80-81).
126.  Tale impressione può essere favorita, in particolare, dalla lettura del-
la versione italiana, che per questo ho preferito non seguire (cfr. supra,
nota 106).
127.  «La proposizione speculativa si dimostra così come la forma auto-­
toglientesi di esposizione del pensiero concettuale, e che con ciò rende
possibile l’immanente auto-movimento del contenuto» (H. Röttges, op. cit.,
p. 80).
76

loro auto-costituzione in identità con il predicato rimarrebbe


un semplice presupposto, non verrebbe essa stessa incorpo-
rata, sia pure ancora come semplice esigenza, nel linguaggio.
Non nel senso che la Fenomenologia dello spirito non abbia di-
mostrato la concettualità e quindi la soggettività della sostanza,
ma nel senso che tale risultato costituirebbe un presupposto
per ogni singola proposizione. La pulsione all’auto-­movimento
non verrebbe incorporata nella struttura dei giudizi espres-
si, ma si troverebbe, appunto in quanto presupposto, sotto la
soglia del linguaggio, al di qua dell’esposizione. Non si tratta
quindi solo del fatto che proposizioni del tipo «Dio è – esse-
re; Dio è – nulla; Dio è – divenire», ecc., siano «qualcosa di
superfluo», in quanto il contenuto concettuale viene espresso
solo dal predicato; né del fatto che il loro impiego sia fuorviar-
ne perché introduce un sostrato rappresentativo presupposto;
e nemmeno della necessità che la Darstellung filosofica adotti
moduli espositivi adeguati alla «cosa» da esporre, come se la
«cosa» stesse da una parte e l’esposizione dall’altra. Ciò che è
in gioco è la nozione della «cosa» stessa, la capacità, da parte
dello speculativo, di attuarsi nell’«effettualità» del linguaggio.
Certo, anche l’impiego di termini categoriali in funzione di
soggetto e predicato, che dovrebbe incorporare in ogni singola
proposizione la necessità del suo dissolvimento, sembra in real­
tà rimandare a un presupposto teorico di altro tipo, che sup-
porterebbe l’attuazione dello svolgimento logico-­categoriale
senza poter essere posto come risultato del suo sviluppo. Per-
ché i giudizi in questione possano, per così dire, ostendere
nella loro struttura medesima la pulsione all’Aufhebung dia-
lettica, sembrerebbe cioè necessario presupporre una teoria
filosofica sul concetto di «concetto», rappresentata appunto nel
pensiero di Hegel dalla «concezione» dei Begriffe come auto-­
movimenti. E tuttavia, considerare la posizione hegeliana in
questione come una «teoria» sui concetti risulterebbe impro-
prio. L’auto-movimento dei concetti non emerge infatti in He-
77

gel come il portato di una speculazione che si eserciti «su» di


essi dopo averli assunti a oggetto di una riflessione estrinseca.
Piuttosto, quell’auto-movimento appare imposto al soggetto
dalla «natura» stessa delle determinazioni logiche, rappresen-
ta il nucleo della sua esperienza del pensiero. Non è quindi
che i concetti siano auto-movimenti perché la sostanza è sog-
getto, ma viceversa quest’ultima è intesa in termini di sogget-
tività perché è concetto, e i concetti sono auto-movimenti nei
quali è simultaneamente «attivo» il «Sé» del soggetto pensante.
La necessità della risoluzione del giudizio speculativo non ri-
manda quindi a nessuno dei due ipotetici presupposti prece-
denti, ma è incorporata nel linguaggio dell’esposizione. Que­
st’ultima, evidenziando la struttura proposizionale come «vuota
forma», abbandona il modello espositivo basato su giudizi d’ine­
renza, e si dispiega come articolazione logico-­linguistica che
comprende in sé sia il momento dell’asserzione definitoria, sia
quello dell’esposizione del suo dissolvimento nella sequenza
articolata dei periodi, in cui il «movimento dialettico» si dimo-
stra infine come l’«elemento effettualmente speculativo», e la
necessità del quale è incorporata in ogni singola proposizione
«filosofica».
Il linguaggio dell’esposizione diventa così il terreno su cui la
«ragione» continuamente si confronta con l’«intelletto» (che
imprime il proprio marchio sulla grammatica della lingua),
ne dissolve le rigidità in pari tempo «conservandole» come
«superate» nella «totalità» sistemica della Darstellung. Le po-
tenzialità di organizzazione logica, che il linguaggio contiene
nelle sue strutture grammaticali e sintattiche, vengono funzio-
nalizzate dalla Darstellung, con un’«astuzia» forse suprema128,
alla «manifestazione» dello «speculativo» come «elemento» ef-

128.  La metafora dell’«astuzia» (List) è impiegata nella Vorrede a proposito


del rapporto fra l’attività del sapere e l’auto-movimento del contenuto. Ma
cfr. infra, la nota seguente.
78

fettualmente produttivo in direzione epistemica. Inadeguata


all’esposizione dello speculativo è quindi la proposizione «nella
forma di un giudizio», non il linguaggio in quanto complesso
potenziale di strutturazione logica; al contrario, l’«immane po-
tenza del negativo», esercitata in Hegel dall’intelletto, una volta
assunta entro l’articolazione logico-linguistica del dispositivo
espositivo, si trova soggiogata e funzionalizzata, come sua sca-
turigine sempre ritornante e sempre «superata», al «ritmo»
espansivo della «Darstellung» e del suo «movimento dialetti-
co». Di quest’ultimo emergono quindi come suoi «membri»
non più singole proposizioni, ma i «concetti» stessi: e in tal
senso va intesa l’asserzione di Hegel, per cui il «contenuto»
dello svolgimento espositivo sarebbe «già in tutto e per tutto
soggetto».
Così, la Vorrede tenta di accordare l’immersione nel contenuto
dell’«io che sa» con un dispositivo epistemico, che prevedendo
un dosaggio accorto della lingua e l’impiego esclusivo di ciò
che pertiene al concetto, invita simultaneamente il soggetto
a farsi da parte per sprofondarlo in quella «cosa», la quale al
tempo stesso dovrebbe custodirlo129. E certo, su questo pun-
to vengono tratte le conseguenze dell’impostazione che la fi-
losofia dello spirito del 1805-06 aveva presentato dei rapporti
fra l’io e il linguaggio.
Come abbiamo visto, in essa l’io stabilizza il linguaggio eserci-
tando una funzione disciplinante nei suoi confronti, cosicché,

129.  «In quanto il sapere vede tornare il contenuto nella sua propria interio-
rità, la sua attività è… tanto immersa nel contenuto, poiché ne è il Sé imma-
nente, quanto in pari tempo tornata in sé, poiché è la pura auto-eguaglianza
nell’esser-altro; così la sua attività è l’astuzia, che pur sembrando sottrarsi
all’attività, osserva come la determinatezza e la sua vita concreta, proprio
mentre s’illude di perseguire la sua auto-conservazione ed il suo particola-
re interesse, sia l’inverso, un operare che dissolve se stesso e si trasforma in
momento dell’intero» (V., p. 46; tr. it. cit., pp. 45-46, corsivi miei).
79

da un lato, in quanto la disciplina subita dal linguaggio indi-


ca nell’io il soggetto dell’attività di consolidamento, la stabi-
lizzazione della lingua appare funzionalmente subordinata al
disciplinamento che l’io esercita su se stesso. Dall’altro, però,
se è vero che il disciplinamento del linguaggio è la via attra-
verso la quale l’io perviene a disciplinare se stesso, è anche
vero che tale «attività» si mostra tutt’altro che determinabile
univocamente: essa infatti si converte, per l’io, in una condi-
zione coer­citivamente imposta di passività, e di una passivi-
tà che tanto più difficilmente appare superabile, in quanto è
originata entro lo spirito dallo spirito stesso130. Ma proprio nel
momento in cui il processo della memorizzazione conduce alla
reificazione dell’io e alla sua trasformazione in «cosa», prende
le mosse un movimento opposto rispetto al precedente, che
nella «cosa» trova custodito il «Sé» dell’io, e che anzi nell’im-
manenza ad essa di quest’ultimo individua la sua costituzione
in «auto-­movimento» e «relazione negativa in se stessa».
Allo stesso modo, che la Sache della Vorrede sia dotata di «auto-­
movimento» non vuol dire che immergendosi in essa l’io smar-
risca il suo «Sé», ma piuttosto che il «Sé» dell’io diventa tutt’uno
col «Sé» della «cosa», così come, sempre secondo le linee pre-
figurate nella filosofia dello spirito, la compenetrazione di quei
“due” Sé implica un momento di passività da parte dell’«io
che sa», passività che nella Vorrede si esprime con la figura del
«contraccolpo» speculativo, tramite il quale il soggetto si trova
ancora a che fare, nel «predicato», con la Sache selbst.
Tuttavia, l’innesto a questa altezza problematica della teoria
della Darstellung perviene, nella Vorrede, a complicare no-
tevolmente il quadro cui si arrestava la filosofia dello spirito

130.  La memoria è «immediato togliere se stesso, un togliere che è rivolto


su di sé» (J.S.III, p. 193, osservazione a margine; tr. it. cit., p. 78); oppure,
allo stesso modo: «se il nome viene considerato come l’oggetto su cui l’io è
attivo, allora l’io toglie se stesso» (J.S.III, p. 194; tr. it. cit., p. 79).
80

del 1805-06. La passività da cui è investito il Sé dell’io quan-


do nella proposizione filosofica subisce il «contraccolpo» che
gl’impedisce di tornare, nel predicato, in se stesso, pare in-
fatti scontrarsi con la funzione creativa in senso linguistico
ed epistemico, che pure – come abbiamo visto – la «fatica del
concetto» inevitabilmente gli attribuisce, e che è presupposta
dall’invito stesso di Hegel di attenersi scrupolosamente alla
Darstellung del concetto. All’«abbandono» nella cosa non può
infatti semplicemente corrispondere, da parte del soggetto,
un apporto attivo nel senso della creatività sistemica ed espo-
sitiva; se lo «speculativo» è «effettuale» solo in quanto giunge
a manifestazione nel linguaggio, la passività cui il soggetto si
trova posto di fronte deve investire in pieno la sua funzione
costruttivamente epistemica, deve coinvolgere il rapporto che
lo vincola all’esposizione. In effetti, nella misura in cui l’espo-
sizione incorpora il movimento dialettico come elemento ef-
fettivamente speculativo, e il suo contenuto è «già in tutto e
per tutto soggetto», l’io supposto sapere pare trovarsi spiaz-
zato a vantaggio dell’autonomia del movimento categoriale,
mentre la pratica della scrittura, che istituisce l’esposizione,
viene a coincidere col gesto di una sottrazione radicale, ope-
rata dall’io su se stesso, e per il tramite della quale le categorie
emergono come i «soggetti» veri e propri dello svolgimento
logico-­linguistico.
Così, non bisogna attendere la Prefazione del 1831 alla se-
conda edizione del primo libro della Logica perché il proble-
ma della determinazione come soggettività dell’io pensante si
profili in Hegel nella sua decisiva complessità. Il nodo, che in
quel luogo emergerà con limpidezza forse mai raggiunta131, è
infatti quello stesso racchiuso nell’immanenza cui s’invita il
soggetto in rapporto al contenuto che egli pensa – e meglio

131.  Anche per questo, le conclusioni del nostro studio si svolgeranno in


forma di riflessione analitica sugli snodi per noi cruciali di quel testo.
81

sarebbe dire: che il contenuto pensato impone al soggetto nel


«contraccolpo» speculativo che liquida la proposizione.
Inoltre, in tutta la portata del suo significato va assunto il fatto
che in ambedue i testi le riflessioni hegeliane convergano, al
riguardo, sul «fuoco» del linguaggio. Certo quest’ultimo è in-
terrogato da prospettive differenti: mentre la Vorrede pone la
questione del linguaggio solo in rapporto alla determinazione
delle modalità di attuazione della Darstellung, nel testo del
1831 esso verrà chiamato in causa nella veste di ricettacolo e
veicolo «inconscio» delle categorie che la Logica espone nel
movimento dialettico dello svolgimento speculativo. Ma pro-
prio la diversità dei rispettivi punti di vista indica l’essenziale
co-appartenenza di queste due prefazioni alla medesima cor-
nice problematica, le contrassegna come espressioni paradig-
matiche di una medesima questione, che involge lo statuto
della soggettività dell’io pensante, e che a sua volta si defini-
sce in Hegel solo sdoppiandosi in quei due testi e all’interno
di ciascuno di essi.
Nella Vorrede, tale sdoppiamento ha luogo rispetto alla lingua
dell’esposizione, messa in atto dal soggetto del sapere per far
sì che soltanto l’auto-movimento della «cosa» pervenga in essa
a enunciazione, e in rapporto al «contraccolpo» speculativo col
quale ogni proposizione filosofica impone al soggetto pensan-
te di restare immerso nell’andamento del contenuto, che ap-
punto è «già in tutto e per tutto soggetto»; nella Prefazione del
1831, esso si produce in rapporto al linguaggio come reticolo
«inconscio» del nostro pensare e operare, e quindi in relazione
alle Denkbestimmungen in quanto nuclei dell’esperienza stes-
sa del Denken e orizzonte insuperabile «oltre» il quale «noi»
non ci possiamo porre. In ambedue i casi, il pensiero dialettico
pare potersi istituire in dispositivo epistemico solo legando in
complicità indissolubile attività e passività, soggettività dell’io
pensante e/o sua sottrazione di fronte all’«auto-movimento»
della «cosa» e alla sua esposizione.
82

Da un lato, la torsione tutta teoretica che la Vorrede fa subire


alla questione del linguaggio, nella misura in cui la inquadra
entro il contesto problematico segnato dall’esposizione, con-
sente di valutare la critica della forma proposizionale come il
risvolto negativo di quella pratica di scrittura, che tenterà nel-
la Logica di mantenersi all’altezza del «movimento dialettico».
Dall’altro, però, tale scrittura si trova posta di fronte al com-
pito di forzare costantemente la forma proposizionale senza
mai poterla né volerla completamente espungere da se stessa.
In proposito, abbiamo visto come per Hegel si tratti di rendere
funzionali all’esposizione della «cosa» le strutture intellettua-
li che presiedono all’organizzazione sintattica e grammaticale
del linguaggio, di funzionalizzare le distorsioni immobilizzanti,
da cui il «movimento dialettico» si trova di continuo arrestato
nel momento in cui si esprime nel linguaggio, all’attuazione
nel linguaggio stesso di quel «movimento» in quanto «elemen-
to effettualmente speculativo»132. Qui, per inciso, si situa la ri-
levanza filosofica della questione dello stile in Hegel133. Ma il

132.  Il problema della distorsione in rapporto al plesso Assoluto/linguag-


gio è uno dei temi di fondo con cui si confronta J. Simon, Das Problem der
Sprache bei Hegel, cit., che complicano il quadro della sua interpretazione
rispetto a quello schematizzato supra, pp. 47-52 e nota 69. Nella Vorrede,
esso si esprime nei capoversi 63-64, a proposito delle difficoltà che le tratta-
zioni filosofiche presentano per il pensare «non speculativo», e derivanti dal
fatto che «la proposizione filosofica, appunto perché proposizione, risveglia
l’opinione della comune relazione tra soggetto e predicato, e del comune
comportamento del sapere», i quali però «vengono distrutti dal contenuto
filosofico della proposizione», per cui «l’opinione si accorge che si intendeva
altro da quello ch’essa medesima intendesse», ed è costretta quindi «a ritor-
nare sulla proposizione e ad intenderla, ora, diversamente» (V., capov. 63,
p. 52; tr. it. cit., p. 53). Da qui, come abbiamo visto, la necessità, per il be-
greifendes Denken, di esporre nel linguaggio quel movimento, che nella
proposizione speculativa è ancora qualcosa di «non esistente».
133.  Su questo punto, due citazioni fra tutte: la prima è da R. Bodei, Sistema
ed epoca in Hegel, cit., p. 259: «il pensiero si manifesta attraverso il linguag-
83

punto che per noi si tratta di sottolineare è un altro, e cioè che


la riduzione della distorsione intellettuale a momento negativo
subito aufgehoben entro la totalità del processo di attuazione
espositiva dell’Assoluto pare necessariamente richiamare in
causa il «Sé» dell’io, che si sottrae all’esposizione per lasciar
emergere come suo «soggetto» l’auto-movimento categoria-
le, ma che simultaneamente deve esercitarsi come attività del
Denken per dinamizzare ciò che nel linguaggio e nella scrittu-
ra resterebbe altrimenti irrigidito e distorto134. Alla sottrazio-

gio, ma lo deve piegare e asservire, dimodoché ogni nuova filosofia, pur non
utilizzando una speciale terminologia, forza la grammatica, la “forma” di una
lingua, fino a farne sprigionare tutte le possibilità nascoste»; la seconda da
S. Tagliagambe, La mediazione linguistica. Il rapporto pensiero-linguaggio
da Leibniz a Hegel, Feltrinelli, Milano 1980, p. 292, dove si sottolinea «il
carattere dinamico dell’interazione tra lingua e pensiero, il lavoro immenso
che quest’ultimo compie sulla prima al fine di forzarne i limiti e le frontie-
re». Sul problema dello «stile» in/di Hegel, cfr. M. Züfle, Prosa der Welt. Die
Sprache Hegels, Johannes, Einsiedeln 1968 (in part., sulla Vorrede, il cap. IV:
Vorrede zur Phänomenologie des Geistes: Hegel als Prosaist, pp. 303-368).
134.  Il problema qui coinvolto riguarda il rapporto fra movimento dialetti-
co, esposizione linguistica e riflessione, anch’essa linguisticamente esposta,
esercitata dal pensiero sulla sua propria Darstellung. Il nodo affrontato, in
sede ermeneutica, concerne la possibilità o meno di risolvere la riflessione
in esposizione, e involge infine la possibilità stessa di potere adeguatamente
esporre l’Assoluto medesimo. Bubner è pervenuto in tal senso a determi-
nare le modalità di auto-costituzione del sapere dialettico nella forma del
sapere di ciò che si è detto (ciò soprattutto in base alla recensione hegeliana
degli scritti di Solger, dal titolo Solgers nachgelassene Schriften und Brief-
wechsel [1828], ora in G.W.F. Hegel, Berliner Schriften, cit., pp. 155-220):
«il modo in cui questo movimento si svolge è la risoluzione di contraddizio-
ni attraverso la riflessione su ciò che effettivamente si dice o si è detto e ciò
che si voleva dire. Le contraddizioni si pongono per il fatto che si apre una
discrepanza fra l’asserzione e l’intenzione» (R. Bubner, op. cit., p. 140). Egli
contesta però che un’esposizione esaustiva dell’Assoluto possa mai darsi: «la
continuità e la sequenza di determinazioni sorgenti l’una dall’altra risulta
dalla circostanza che ne va sempre della stessa cosa, senza che mai tutto sia
detto. Alla verità dell’assoluto appartiene di non poter mai essere comple-
tamente afferrata» (ivi, p. 139). La concordanza di questa interpretazione
84

ne del soggetto dal piano dell’esposizione corrisponde quindi


l’eccedenza incorporata, nei confronti di quest’ultima, dall’at-
tività del Denken, di cui il «Sé» dell’io parrebbe depositario,
ma che in pari tempo Hegel definisce come auto-movimento
della «cosa stessa».
Luogo della ri-attivazione costante dello «speculativo» enun-
ciato nell’esposizione, «attività» il cui «soggetto» appare sino
a questo punto indecidibile, e che coincide con l’abbandono
alla «cosa» del «Sé» dell’io, quell’eccedenza non interviene sul-
la Darstellung dall’esterno, ma scaturisce dalle modalità della

con le posizioni sostenute dall’ermeneutica risulta in tal modo evidente. Da


parte sua, P. Kemper considera fallito il tentativo hegeliano d’incorporare la
riflessione nel movimento dell’esposizione: «L’esposizione, la forma lingui-
sticamente manifestata della proposizione, non può produrre in base a se
stessa la necessità di essere esposizione speculativa… L’esposizione… viene
perciò trasformata in esposizione speculativa solo attraverso il pensiero spe-
culativo di questa esposizione» (op. cit., pp. 227-228). Egli perviene così alla
constatazione di quella che nel testo chiamiamo l’«eccedenza» dell’attività
del Denken rispetto al dispositivo della sua esposizione scritta, però com-
prende tale eccedenza in base all’«impossibilità di una esplicita esposizione
del movimento nella “proposizione speculativa” attraverso questa proposi-
zione» (ivi, p. 243). Ma non c’è alcuna necessità di esporre il «movimento
dialettico» incluso entro la proposizione filosofica mediante tale proposizione
medesima. Il pensiero che intende l’identità fra soggetto e predicato si reca
infatti anch’esso a effettualità nel linguaggio, solo che quest’ultimo si confi-
gura come totalità della «Darstellung», come totalità delle sue proposizio-
ni e dei suoi periodi. La «riflessione su ciò che effettivamente si è detto» si
espone anch’essa nella Darstellung. Quest’ultima comprende così non sol-
tanto la totalità dell’esposizione, bensì, con un movimento certamente pa-
radossale per il pensiero non-dialettico, l’auto-riflessione su di sé di questa
stessa esposizione, la quale perciò è totalità non soltanto in quanto sistema
delle determinazioni concettuali, ma perché comprende linguisticamente
ed espone in sé anche la totalità della riflessione possibile «su» tali determi-
nazioni; e precisamente nella misura in cui la espone nella forma della svol-
gentesi auto-riflessione di queste determinazioni stesse. Sull’incorporazione
della riflessione nell’esposizione cfr., da un diverso punto di vista, J. Werner,
op. cit., il § 12: Reflexion und Darstellung, pp. 195-207.
85

sua stessa attuazione linguistica, e in quanto è inscritta al suo


interno, rivela la sua funzionalità in rapporto all’instaurazione
della filosofia come «scienza». Tuttavia, se essa emerge come
risultato dall’impossibilità, per la Darstellung, di realizzare un
dispositivo auto-sufficiente, il problema è complicato dal fatto
che la Darstellung è totalità sistemica in quanto comprende in
sé il momento dell’esposizione del concetto, ma anche, inscin-
dibilmente connesso con questo, quello dell’auto-­riflessione
del concetto stesso, anch’essa esposta nel linguaggio della fi-
losofia. La Darstellung si svolge attraverso l’esercizio di una
costante auto-riflessione sulla sua propria conformazione lin-
guistica, riflessione quindi che è al contempo esposta e inclu-
sa nel circuito di quella Darstellung, che in un primo tempo
pareva eccedere.
L’interrogazione rivolta a tale eccedenza non fa, in questo mo-
do, che radicalizzarsi. Essa infatti non può più essere formulata
nei termini del rapporto reciproco fra esposizione e riflessione,
bensì, nell’eventualità che continui a sussistere, soltanto come
eccedenza dell’attività del «Denken» in rapporto alla totali-
tà della riflessione esercitata dalla «Darstellung» su se stessa,
ovvero alla totalità dell’auto-riflessione del concetto – di una
riflessione, cioè, comunque già linguisticamente esposta e in-
corporata nel dispositivo epistemico.
La concatenazione immanente ai nessi concettuali conduce
così in primo luogo a porre in questione le scansioni metodiche
attraverso le quali il concetto svolge la sua esposizione in forma
di auto-riflessione linguistica, per scoprire che la definizione
del metodo è inscindibile, in Hegel, dalle modalità di un pro-
cesso di sussunzione speculativa del tempo, che in quelle scan-
sioni e in quello svolgimento dovrebbe pervenire a realizzarsi.
L’«effettualità» del movimento dialettico, le articolazioni meto-
diche attraverso le quali può svilupparsi, nel circuito dell’espo-
sizione, in senso simultaneamente espansivo e intensivo, sono
inseparabili dalle modalità di un’Aufhebung (qui più che mai
86

da intendersi nel duplice e inscindibile significato della conser-


vazione e del toglimento) del tempo nell’eternità speculativa,
che proprio l’esposizione del «movimento dialettico», e cioè
la Darstellung speculativa, dovrebbe attuare e incorporare, in-
scrivere nel «ritmo auto-producentesi che si spinge oltre e ri-
torna in se stesso», con cui Hegel designa l’auto-svolgimento
del concetto nella forma della sua esposizione135.

135.  Cfr. V., capov. 65, p. 53 (tr. it. cit., p. 65); e soprattutto V., capov. 18,
p. 20: «Il vero è il divenire di se stesso, il circolo che presuppone e ha all’i-
nizio la propria fine come proprio fine, e che solo mediante l’attuazione e
la propria fine è effettuale» (tr. it. cit., p. 14). Che la pregnanza di tali passi
emerga compiutamente solo alla luce del problema costituito dall’Aufhebung
del tempo da parte del concetto, lo confermano i brani altrettanto noti dei
precedenti, che trattano la questione all’altezza del «sapere assoluto», sezio-
ne con la quale si conclude la Fenomenologia dello spirito, e di cui vogliamo
citare forse il più emblematico: «Il tempo è il concetto medesimo che è là
e si presenta alla coscienza come intuizione vuota; perciò lo spirito appare
necessariamente nel tempo, ed appare nel tempo fin tanto che non coglie il
suo concetto puro, vale a dire finché non elimina [tilgt] il tempo… Il tempo
appare quindi come destino e necessità dello spirito che non è perfetto [voll-
endet] in se medesimo…» (Phän., p. 558; tr. it. cit., II, p. 298). Una lettura
stimolante del brano in questione ha fornito P.-J. Labarrière, La sursomp-
tion du temps et le vrai sens de l’histoire conçue. Comment gérer cet héritage
hégélien?, in «Revue de Métaphysique et de Morale», LXXXIV, n. 1, 1979,
pp. 92-100, poi in G. Jarczyk - P.-J. Labarrière, Hegeliana, Puf, Paris 1986,
pp. 149-157. Per un’interpretazione in chiave non-metafisica della sezione
sul «sapere assoluto», e quindi anche del rapporto fra sistema filosofico e
tempo della storia, cfr. da ultimo R. Bodei, Scomposizioni, cit., pp. 201 ss. Sul
problema della circolarità, e dell’adeguatezza o meno di questa «figura» in
rapporto alla comprensione del pensiero hegeliano, cfr. D. Souche-­Dagues,
Le cercle hégélien, Puf, Paris 1986. Per la genesi della metafora circolare a
Jena, cfr. H. Kimmerle, op. cit., p. 73 (sulla sua prefigurazione negli abbozzi
sistematici del 1803-04, in cui per la prima volta s’incontrerebbe «il pensiero
di un circolo delle determinazioni logiche»), e il paragrafo Das Erkennen als
«in sich zurückgehender Kreis» (ivi, pp. 88-93), in cui l’autore commenta il
frammento hegeliano ora riportato, col titolo editoriale Zwei Anmerkungen
zum System, in J.S.II, pp. 343-347, la cui datazione, benché non determina-
bile con precisione, andrebbe compresa fra il 1803-04 e il 1804-05.
87

Così, l’impossibilità di cui quest’ultima si farebbe carico, nel


caso non potesse esaurire al proprio interno la totalità del-
la riflessione immanente ai propri procedimenti categoriali,
dovrebbe imprimersi anche sulla dialettica temporale, che
dispiegandosi nella scrittura della Logica, raggiungerebbe il
suo compimento – instaurando l’eternità del concetto – solo
nell’attimo del suo crollo. Tale problematica può rendersi com-
prensibile solo sullo sfondo di una trattazione speculativa del
tempo già autonomamente sviluppata, che nell’esposizione si
tratterebbe appunto di rendere compiutamente «effettuale».
La conseguenza di tale implicazione è che la Darstellung, ben-
ché in certo modo “presenti” i suoi contenuti, rinunzia sin dal
principio alla pretesa di ostenderli entro un presente che voglia
stabilirsi nell’immediatezza semplice di uno stato. In Hegel,
quindi, il problema diventa quello di riuscire ad arrestare la
«caduta» al di qua di sé del presente come dimensione trami-
te l’instaurazione di un’eternità che dinamicamente si realizzi
come totalità del tempo.
Ponendo la questione della Darstellung, e al contempo deter-
minando in termini di circolarità le coordinate della sua solu-
zione, il testo della Vorrede evidenzia il raccordo, ma meglio
sarebbe dire l’incorporazione, nello svolgimento espositivo,
delle scansioni che articolano la concezione dialettica della
temporalità – che definiscono il percorso della sua conserva-
zione/annullamento entro la nozione, centrata tutta sul suo
baricentro teoretico, dell’eternità speculativa. Tale nozione si
tratta ora, per noi, di affrontare.
89

Capitolo II

L’esposizione speculativa
come eternità realizzata

1. Temporalità e movimento dell’esposizione


La risoluzione speculativa della proposizione, attuata in ac-
cordo all’esigenza di attenersi alla Darstellung del concetto,
innesca nel linguaggio l’esposizione della verità. Poiché l’im-
piego in funzione di soggetto e predicato di termini catego-
riali incorpora nella struttura stessa del giudizio la necessità
del suo dissolvimento, quest’ultimo è praticato dalla scrittura
filosofica senza rimandare ad alcun presupposto, in quanto la
concezione delle categorie come auto-movimenti non viene
considerata da Hegel una teoria sui concetti, ma per così dire
imposta al soggetto pensante dalla natura stessa delle deter-
minazioni logiche1.

1.  Cfr. supra, pp. 54-57. Per ulteriori accertamenti testuali, cfr. V., p. 31 e
p. 47 (tr. it. cit., p. 27 e p. 47); W.d.L., I, pp. 14-15 (tr. it. cit., pp. 14-15).
N. Hartmann scrive su questo punto che il movimento categoriale per He-
gel è «assolutamente “reale” nel pensiero, non è una costruzione od un’in-
terpretazione, bensì un fatto» (Die Philosophie des deutschen Idealismus,
de Gruyter, Berlin-New York 19743; tr. it., La filosofia dell’Idealismo te-
desco, a cura di V. Verra, Mursia, Milano 1972, p. 386). Tale posizione è
complementare in Hegel alla funzione creativa in senso linguistico da lui
attribuita all’attività filosofica, così com’è emerso dalla trattazione del con-
90

Tuttavia, una volta conseguita la risoluzione del giudizio, l’im-


piego di categorie a soggetto e predicato non supporta la pretesa
di esaurire nel cerchio di un’immanenza meramente presentati-
va le determinazioni del contenuto assoluto. Che l’attribuzione
a Hegel di una simile pretesa avvenga nella forma dell’imputa-
zione al metodo dialettico di reintrodurre una forzosa ricom-
posizione della contraddizione e del molteplice sotto il princi-
pio dell’identità ripristinata, o piuttosto invece come attestato
che convaliderebbe la superiorità del suo idealismo rispetto al-
le filosofie dell’idealismo soggettivo o dell’esi­stenzialismo no-
vecentesco2, essa rischia comunque di semplificare la sua po-
sizione, che si tratta invece di articolare in tutta la complessità
che le appartiene. Ma per venire a capo di questa esigenza di-
venta necessario approfondire un aspetto metodologico fonda-
mentale, inscindibile dal piano espositivo alla cui soglia questo
pensiero pone la sua realizzazione, e concernente l’andamento
specifico del movimento logico.

cetto di esposizione speculativa. Se infatti le categorie si espongono come


auto-movimenti nel linguaggio perché è ciò che esse sono «in verità», vice-
versa questa loro «verità» è determinabile in tal senso solo in quanto emer-
ge dalla loro esposizione teoretica nel linguaggio. Il rapporto fra pensiero
e linguaggio non può essere inteso alla stregua di un dominio strumentale
esercitato dal primo sul secondo, quanto piuttosto come l’inestricabile com-
penetrazione dialettica di entrambi. Si tratta quindi di determinare la fun-
zionalità specifica che questa compenetrazione riveste nella costruzione del
dispositivo epistemico, e se essa non sveli una problematicità che rischia di
comprometterne la realizzazione proprio quando quest’ultima pare potersi
attuare senza residuo.
2.  Per la prima di queste due prospettive ermeneutiche, cfr. Th.W. Ador-
no, Negative Dialektik, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1966; tr. it. di C.A. Do-
nolo, Dialettica negativa, Einaudi, Torino 19802, pp. 142-144; e ancora Id.,
Drei Studien zu Hegel, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1963; tr. it., Tre studi su
Hegel, a cura di R. Bodei, il Mulino, Bologna 1971, pp. 39-43. Per la se-
conda, cfr. invece B. Lakebrink, Der dialektische Begriff von Grund und
Existenz, in Id., Studien zur Metaphysik Hegels, Rombach, Freiburg i.Br.
1969, pp. 15-20.
91

Intendiamo riferirci alla compenetrazione dialettica, che at-


traversa e scandisce il ritmo dell’esposizione speculativa, di
sviluppo in avanti verso la meta (orientamento teleologico del
movimento del concetto) e ritorno all’indietro verso il fonda-
mento (logos come processo di auto-fondazione). Ogni catego-
ria che nel decorso dell’esposizione appare successivamente,
cioè, andrebbe intesa propriamente come fondamento rispet-
to a quella che la Darstellung filosofica ha appena finito di
esporre, entrando così a far parte di una catena enunciativa
imperniata sull’inversione e la confluenza reciproca delle di-
rezioni temporali, e che diventa impossibile cogliere in termi-
ni cronologici3.

3.  «Bisogna riconoscere che è questa una considerazione essenziale… la


considerazione cioè che l’andare innanzi è un tornare addietro al fondamen-
to, all’originario ed al vero… L’essenziale per la scienza non è tanto che il
cominciamento sia un punto immediato, quanto che l’intera scienza è in se
stessa una circolazione, in cui il Primo diventa anche l’Ultimo, e l’Ultimo
anche il Primo» (W.d.L., I, pp. 55-56; tr. it. cit., pp. 56-57). E ancora, nel
capitolo sull’Idea assoluta: «ogni passo del progresso nel determinare ulte-
riormente, mentre si allontana dal cominciamento indeterminato, è anche
un riavvicinamento ad esso, e perciò quello che dapprima può sembrar di-
verso, il regressivo fondare il cominciamento, e il progressivo determinarlo
ulteriormente, cadon l’uno nell’altro e sono lo stesso. Il metodo… così si at-
torce in un cerchio… In virtù dell’accennata natura del metodo la scienza
si presenta come un circolo attorto in sé, nel cui cominciamento, il fonda-
mento semplice, la mediazione ritorce la fine. Con ciò questo circolo è un
circolo di circoli; poiché ogni singolo membro, essendo animato dal metodo,
è il ripiegamento in sé che, in quanto ritorna nel cominciamento, è insieme
il cominciamento di un nuovo membro» (W.d.L., II, pp. 503-504; tr. it. cit.,
pp. 954-955). Cfr. al riguardo U. Guzzoni, Werden zu sich. Eine Untersu-
chung zu Hegels “Wissenschaft der Logik”, Alber, Freiburg i.Br.-München
1965, 19823, che sulla base di questi brani ha orientato la sua interpretazione
della Logica, e che intendendo «con “carattere di movimento” la monodire-
zionalità del movimento, il suo univoco ordinamento di prima e dopo, l’ir-
reversibilità della sua successione», vi evidenzia uno «scorrimento in senso
contrario, che in un certo senso supera il “carattere di movimento” di que-
sto movimento» in quanto Zugleich di Gründen (avanzamento) e Begründen
92

Tali modalità di articolazione sono presentate da Hegel come


metodicamente cruciali, e per quanto egli non abbia mai con-
cepito il suo metodo nei termini di una grammatica speculati-
va universale ed estrinseca, ma lo abbia sempre determinato
sulla base dello sviluppo immanente ai singoli campi concet-
tuali4, pure in tal caso si tratta di un momento strutturale del
movimento dialettico, e che perciò riguarda i procedimenti ca-
tegoriali di tutte le sfere logiche.
Misurandoci ad esempio col cominciamento della Logica, c’im-
battiamo nell’appunto enigmatico secondo cui «la verità non è
né l’essere né il nulla, bensì che l’essere – non passa, – bensì è
passato, nel nulla, e il nulla nell’essere»5. Perché la sostituzione
del passato al presente? Perché un’osservazione simile appare
quasi subito, all’inizio della logica dell’essenza, quando leggia-
mo che il linguaggio nel verbo essere «ha conservato l’essen-
za (Wesen) nel tempo passato (gewesen)… perché l’essenza è

(ritorno), ciò che tuttavia non equivale a togliere il movimento dall’Assolu-


to: «Piuttosto il modo in cui l’assoluto auto-movimento è possibile è proprio
questo esser-superato» (pp. 104-105). Sui passi in questione ha posto l’atten-
zione, in rapporto all’atemporalità del procedimento speculativo, L. Lugari-
ni, Tempo e concetto nella comprensione hegeliana della storia, in Hegel fra
Logica ed Etica, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1982, pp. 7-38, che in partico-
lare rileva come «caratterizzato dal reciprocarsi di cominciamento e fine (il
fondamento) secondo il doppio rapporto della identità e della non-identità,
lo sviluppo speculativo per così dire scavalca l’ordine seriale; valica, specifi-
camente, la serialità della Zeitfolge, e perciò si dimostra atemporale» (p. 37).
Per un’interpretazione complessiva della Logica volta a «distruggerne» l’im-
pianto teorico in rapporto alla «struttura della temporalità», cfr. l’indagine
ricca di spunti, benché non sempre convincente nelle sue tesi di fondo, di
R. Ohashi, Zeitlichkeitsanalyse der Hegelschen Logik. Zur Idee einer Phä-
nomenologie des Ortes, Alber, Freiburg i.Br.-München 1984.
4.  Al riguardo, L.B. Puntel osserva che il pensiero di Hegel «eine radikale
Einheit von Sache, Methode und Darstellung impliziert» (op. cit., p. 32; ma
cfr. anche p. 211 e p. 250).
5.  W.d.L., I, p. 67 (tr. it. cit., p. 71).
93

l’essere passato, ma intemporalmente (zeitlos) passato»6? Anzi,


quest’ultimo testo non può non suscitare un’interrogazione ul-
teriore, concernente il senso da attribuire al termine zeitlos,
tanto più che questa parola, lungi dal limitare la portata del suo
significato al contesto specifico in cui fa ricorso, estende il suo
spettro di validità sino a includervi tutto l’ambito della logica e
del sistema stesso. Forse, la via più opportuna per avvicinarsi
a comprendere la processualità di un movimento, che pure si
mantiene atemporale e così esige d’essere inteso, consiste nel
verificare puntualmente l’impossibilità d’interpretare secon-
do parametri cronologici le scansioni attraverso cui la filosofia
istituisce le sue procedure epistemiche.
Consideriamo meglio le relazioni fra essere, nulla e divenire7.
Dal punto di vista cronologico, le due prime categorie com-
paiono indubbiamente prima della terza. Eppure, una volta
che abbia avuto luogo la loro risoluzione nel concetto di dive-
nire, secondo l’avvertimento hegeliano quest’ultimo dovrebbe
svelarsi come in realtà fondante rispetto ad esse. E poiché il
concetto di fondamento rimanda alla dimensione dell’antece-
denza nei confronti di ciò che è fondato (impiego del verbo al
passato), la categoria che nel decorso dell’esposizione emerge
dopo andrebbe in realtà concepita prima delle categorie che
pure sembravano anticiparla.
La sequenza espositiva si trova quindi a realizzare un ordine
lineare solo prima facie; le relazioni intercategoriali instau-
rano un sistema di rapporti che a una considerazione di tipo
cronologico appare senz’altro paradossale. Essere e nulla, in-
fatti, dovrebbero occupare il «luogo» del presente; ma poiché
rimandano a un futuro – il divenire – che non solo è già impli-
cito nel loro contenuto logico, ma ne costituisce anche la ne-

6.  W.d.L., II, p. 3 (tr. it. cit., p. 433).


7.  Cfr. W.d.L., I, pp. 66-67 (tr. it. cit., pp. 70-71).
94

gazione, vedono svanire immediatamente la loro consistenza di


semplici-presenze. D’altro lato, quel futuro si toglie a sua vol-
ta come tale dal momento in cui esprime il contenuto soltanto
implicito agli stadi precedenti, per portarlo a compiuta presen-
za. Il movimento dell’esposizione sembra così dipanarsi con la
continuità costante di un presente, la cui pienezza verrebbe
scalfita solo «idealmente» sia dal non-più che dal non-ancora.
Eppure, il presente che si ripristina dalla dissoluzione delle ca-
tegorie precedenti non è più lo stesso di prima. Non soltanto
perché il divenire, dal momento in cui perviene alla presenza
che lo sviluppo dell’esposizione pare garantirgli, non esiste già
più come il futuro che era, si toglie come futuro per ricadere in
passato. Esso è passato anche in un altro senso. Il divenire era
infatti già contenuto nelle categorie che parevano precederlo:
essere e nulla non facevano che portare a esplicitazione quanto
custodivano soltanto in sé. Il movimento si determina come svi-
luppo del fondamento, di ciò che faceva già da nucleo originario
di quelle prime categorie. E proprio in quanto fondamento il
divenire è passato rispetto a essere e nulla: era il loro gewesen,
ciò da cui provenivano e propriamente quindi la loro origine.
Così, sovrapponendo il modello cronologico alla lettura dei
processi speculativi, scorgiamo sin da ora come la dimensione
del presente sia ben lontana dal contenere entro di sé la com-
plessità del movimento dell’esposizione, e come tale model-
lo, in rapporto alle articolazioni del logos, fornisca un apporto
ermeneutico esclusivamente negativo. Dapprima sembra che
il passato costituisca la verità di presente e futuro, in quanto
emerge come negazione della negazione dal loro reciproco
superamento. La traduzione formale in termini temporali del
movimento categoriale risulterebbe: presente (essere e nulla) –
futuro (direzione dello sviluppo) – passato (divenire).
Ma se approfondiamo l’esame delle determinazioni temporali
predicabili di quest’ultimo, vediamo che il divenire si lascia in-
95

terpretare anche come presente e futuro. Esso cioè raccoglie


indissolubilmente in sé la totalità delle dimensioni tempora-
li. Costituendo la soglia attualmente raggiunta dal movimen-
to dell’esposizione, il divenire pare disporsi entro lo spazio
di una presenza che si dispiega senza residuo. Ma coniugan-
dosi al passato non solo in quanto negazione del futuro che
era e come nucleo originario di essere e nulla, bensì anche in
rapporto alla categoria che nel ritmo dell’esposizione emerge
come successiva (il Dasein), il divenire si ribalta nuovamente in
futuro, visto che per il rovesciamento delle direzioni cronologi-
che il fondamento da cui il divenire proviene è propriamente
l’esserci8. In quanto è incluso nel reticolo dell’esposizione, il
divenire annulla e assorbe in sé le singole dimensioni tempo-
rali, scardinando la concezione del tempo propria della rap-
presentazione (nel senso della Vorstellung) e ordinata in base
alla successione, cronologicamente lineare e irreversibile, di
passato-presente-futuro9. Poiché tali dimensioni cessano di de-
signare ambiti differenziati e sussistenti, il concetto mostra di
distruggere il tempo in quanto somma di dimensioni.
Ora possiamo forse intendere il senso di quella parola, zeitlos.
Sin dal cominciamento della sua esposizione, il movimento spe-
culativo elude ogni sua traducibilità nel linguaggio della crono-
logia: la trascrizione in termini di temporalità dei processi in-
tercategoriali conduce quella lingua alla sua auto-soppressione.
Ma certo tale risultato è solo l’inizio di una catena d’altre in-
terrogazioni, che rilanciano la concezione hegeliana in tutta la
problematicità dei suoi paradossi. «La verità non è né l’essere
né il nulla, bensì che l’essere – non passa – bensì è passato, nel

8.  Cfr. W.d.L., I, pp. 93-97 (tr. it. cit., pp. 99-105).
9.  Sul tempo della Vorstellung e il suo rapporto col movimento della Dar-
stellung, cfr. infra, cap. III, § 4.
96

nulla…»10: enigma di un’intemporalità che tuttavia si scrive al


tempo del passato, dislocando il corso dell’esposizione entro
l’alveo di un già-da-sempre-stato che sarà forse da interroga-
re non tanto o non solo come residua traccia di platonismo,
ma piuttosto nei termini di un’assenza che «già da sempre» ha
spiazzato il circuito di riproduzione della semplice-presenza.
L’asserzione hegeliana secondo cui quest’ultima continuereb-
be a sprofondare nel suo fondamento non va più certo intesa
al modo della tradizione metafisica, come ritorno a ciò che sta-
rebbe «sotto» i fenomeni, né al modo di uno zu-grunde-­gehen
che designerebbe l’inghiottimento nell’Abgrund mistico dei
contenuti finiti11. Essa segna piuttosto la messa in gioco del
passato come nozione cruciale, e forse privilegiata, per l’at-
tuazione del dispositivo espositivo e la realizzazione dell’eter-
nità del logos.
Da un lato, le modalità di svolgimento dell’esposizione con-
ducono al doppio annullamento del presente e del futuro in
direzione del passato; dall’altro, quest’ultimo si costituisce in
totalità degli ambiti temporali, si toglie come dimensione sin-
gola e ritorce in sé la divaricazione dei momenti. Sviluppan-
do un movimento atemporale, l’esposizione si distende in un
processo che si sottrae alla presa della cronologia nell’attimo
stesso in cui vi si espone. E proprio le modalità di questo suo
sottrarsi spingono la ricerca a interrogare la concezione spe-
culativa della temporalità.
Intanto: esiste una tale concezione? Attraverso quali scansio-
ni si articola? Sfocia anch’essa in una distruzione della tem-
poralità che continuamente la riproduce per annullarla? Quali

10.  Loc. cit., cfr. supra, nota 5.


11.  In tal senso, cfr. B. Lakebrink, Der dialektische Begriff, cit., in part.
pp. 44-45, 46, 48-49, 54-57; e R. Bodei, Sistema ed epoca in Hegel, cit.,
pp. 240-244 (in polemica con la tradizione interpretativa della scuola di
Della Volpe).
97

passaggi verrebbero a precipitare nell’intemporalità così in-


staurata? In che senso questa coinciderebbe con l’eternità? E
infine: l’annullamento delle dimensioni temporali in un’eterni-
tà che le preserva e le distrugge potrebbe in qualche modo in-
tersecare la temporalità rovesciata del movimento espositivo?
Lo svolgimento sincronico, e quindi tutto specifico, che solo
la Darstellung può istituire, realizzerebbe forse la concezione
di cui si sta trattando?
Tali domande ci conducono nuovamente a indagare gli scritti
jenesi di Hegel; ma non perché nell’opera più tarda le que-
stioni che riguardano la temporalità cessino di venir prese in
considerazione. Nella Filosofia della natura dell’Enciclopedia,
in particolare, si trovano indicazioni essenziali per la compren-
sione dell’eternità nella sua accezione speculativa, e per de-
finire in che senso ad essa spetti una funzione costitutiva in
rapporto alle modalità di movimento della logica e più global-
mente del sistema.
In questo testo, il tempo scaturisce dal superamento dello spa-
zio conseguente all’esplicitazione e al ri-pensamento di quella
negatività che nello spazio stesso era compresa solamente «in
sé»12. Mentre lo spazio, immobilizzando le differenze, non pre-
senta il fluire delle sue determinazioni l’una nell’altra13, il tem-
po oggettiva la negatività del concetto nel momento astratto

12.  «Lo spazio, come in sé concetto [als an sich Begriff], ha in generale in


esso le differenze di questo» (Enz., II, § 255, p. 44; tr. it. cit., p. 230). Per un
commento di questi paragrafi dell’Enciclopedia, e dell’interpretazione hei-
deggeriana di cui sono stati fatti oggetto, cfr. J. Derrida, Ousia et grammè.
Note sur une note de Sein und Zeit, in Aa. Vv., L’endurance de la pensée.
Pour saluer Jean Beaufret, Plon, Paris 1968, pp. 219-259, poi in J. Derrida,
Marges, cit., pp. 31-78.
13.  Le differenze si presentano nello spazio «immediatamente nella sua
indifferenza come le tre dimensioni meramente diverse e del tutto inde-
terminate» (Enz., II, § 255, p. 41; tr. it. cit., p. 230); e ancora: «Lo spazio è
l’immediata quantità esistente, in cui tutto permane e sussiste, persino il li-
98

della sua pura mobilità, senza consentire al movimento di sta-


bilizzare fasi separate e ben distinte. Perciò qui il tempo viene
designato come negatività esistente «per sé»14.
Ma l’Enciclopedia presenta alcuni luoghi che descrivono chia-
ramente anche la contrazione, nell’unità dell’ora eterno, delle
dimensioni che per la rappresentazione sussistono in separa-
tezza reciproca:
Solo il presente è, il prima e dopo non è; ma il presente con-
creto è il risultato del passato, ed è gravido del futuro. Il vero
presente perciò è l’eternità.15
Il movimento di costituzione dell’eternità attraverso la contra-
zione in totalità delle dimensioni del tempo è qui certo a mala
pena accennato, così come la determinazione dell’eternità in
quanto «vero presente» appare espressa in forma meramente
assertoria. Ma assumendo provvisoriamente come non proble-
matica la definizione di questa eternità come presente, pos-
siamo già intravedere come il raccoglimento del passato e del
futuro nell’unità articolata dell’ora porti a condensazione in
quest’ultimo un contenuto concreto. Ciò lo solleva dall’egua-
glianza amorfa e livellata con tutti gli altri ora, che lo dovreb-
bero precedere e seguire nell’indifferenza di una successione.
L’istante dell’eternità s’instaura attraverso una saturazione del
tempo, che non realizza soltanto il suo riempimento qualitati-
vo, ma lo costituisce in totalità delle dimensioni.
Che in ciò consista l’eternità permette forse di capire che cosa
intenda Hegel quando la determina come concetto del tempo:

mite ha il modo di un sussistere; questo è il difetto dello spazio» (Enz., II,


§ 257, Z., p. 48).
14.  Cfr. Enz., II, § 257, p. 48: la negatività appare «come indifferente ver-
so la giustapposizione immobile. Così posta per sé, essa è il tempo» (tr. it.
cit., p. 233).
15.  Enz., II, § 259, Z., p. 55 (richiamo a Leibniz).
99

L’intemporalità assoluta è distinta dalla durata; essa è l’eter-


nità, che è senza il tempo naturale. Ma il tempo stesso è eter-
no nel suo concetto; giacché esso, non un tempo qualsiasi, né
ora, bensì il tempo come tempo è il suo concetto, questo stes-
so però, come ogni concetto in generale, [è] l’eterno e perciò
anche presente assoluto. L’eternità non sarà, né era; bensì è.16
Si tratta di un brano assolutamente indispensabile per la cor-
retta comprensione della concezione del tempo in Hegel, per-
ché mostra come ogni ermeneutica che voglia misurarsi con
essa debba porre al centro dei suoi sforzi la nozione dell’eter-
nità («tempo come tempo»); e come tale nozione, esprimen-
do il tempo in quanto compreso «nel suo concetto», «senza il
tempo naturale», imponga di dislocare radicalmente il piano
della discussione da una cornice di filosofia della natura a quel-
lo della concettualità e dell’articolazione logico-sistemiche – a
quello insomma dell’esposizione teoretica.
E tuttavia, la concezione appena esposta dell’eternità presup-
porrebbe l’esplicitazione della dialettica concreta intercorren-
te fra passato, presente e futuro, la determinazione di quel
concetto come risultato del movimento immanente agli ambiti
temporali. Ma poiché nell’Enciclopedia la dimostrazione con-
creta di come il tempo si raccolga in totalità dalla frammenta-
zione nelle dimensioni astratte non viene presentata, l’eternità
si trova a dipendere in sostanza dalla nozione formale di con-
cetto in generale; in quanto è concetto, non può far altro che
designare l’articolazione in totalità di quelle singole dimensio-
ni. L’unica concretizzazione che l’Enciclopedia offre al riguar-
do consiste nella specificazione dell’ambito temporale cui tale
concettualità si riferisce, mentre al contrario in questa dovreb-
be sfociare la dialettica delle dimensioni finite17.

16.  Enz., II, § 258, Z., p. 50; cfr. infra, cap. III, nota 95.
17.  Cfr. Enz., II, § 259, con relative osservazione e aggiunta, pp. 51-52 (tr.
it. cit., pp. 235-257). L. Lugarini scrive al riguardo: «Ma qui la loro dialettica
100

Da qui l’indispensabilità, per l’indagine, di studiare gli scritti


jenesi di filosofia della natura, in cui l’ermeneutica speculativa
della temporalità emerge in tutta la ricchezza delle sue artico-
lazioni. Il concetto di tempo è qui sviluppato nella dialettica
delle sue dimensioni, esposto nel movimento di dissoluzione
e compenetrazione in ciò che Hegel definisce l’ora dell’eter-
nità. E vogliamo sottolineare la simultanea elaborazione delle
nozioni speculative di tempo e filosofia dello spirito, che sin
dalla Fenomenologia consentirà a Hegel di esporre in manie-
ra compiuta le relazioni fra concetto e tempo18, per innestar-
le all’altezza di una filosofia che si teorizza come esposizione.
Solo alla luce di questa connessione si possono valorizzare in
tutto il loro spessore quei testi jenesi di filosofia della natura,
che adesso ci accingiamo a commentare.

rimane sottaciuta: in luogo di soffermarsi sull’interno movimento della tota-


lità temporale esposto nei testi del 1804-05 e 1805-06, Hegel lo dà quasi per
scontato e passa a trarne implicazioni di carattere generale» (op. cit., pp. 16-
17). In effetti, il § 259 presenta le dimensioni del tempo come «date», senza
sviluppare la trama dialettica delle loro reciproche relazioni. Nell’aggiunta,
queste ultime vengono determinate attraverso il concetto di divenire (non
si dimentichi che nel § 258 Hegel definisce il tempo «das angeschaute Wer-
den»), inteso da un lato come passaggio dall’essere (presente) al non-essere
(di quello stesso presente, il quale così sprofonda nel passato), dall’altro nel
senso opposto, come passaggio dal non-essere (futuro) all’essere (presen-
te). Il presente si pone così come unità negativa, che si esclude da sé e si
continua nell’ora successivo. Dall’ora così inteso, Hegel distingue quindi il
«verace presente», «risultato del passato e gravido del futuro», in cui con-
siste l’eternità. In maniera analoga, la trattazione del tempo risulta svolta
nei due manoscritti, risalenti al semestre invernale 1821-22, presentati e
pubblicati da W. Bonsiepen, Hegels Raum-Zeit-Lehre. Dargestellt anhand
zweier Vorlesungs-Nachschriften, in «Hegel-Studien», 1985, pp. 9-78, in
part. pp. 52-54 e 70-73.
18.  Cfr. supra, cap. I, pp. 85-86 e nota 135.
101

2. La dialettica concreta delle dimensioni temporali


Gli scritti ai quali facciamo riferimento risalgono agli anni
1804-05 e 1805-06. Benché la dialettica delle dimensioni tem-
porali vi segua sostanzialmente il medesimo svolgimento, essi
si differenziano rispetto alla collocazione sistematica di tempo
e spazio. L’ordine di successione esposto nell’Enciclopedia, e
che compare sin dai testi del 1805-06, risulta infatti invertito
in quelli del 1804-05.
L’antecedenza del tempo rispetto allo spazio consente a que-
sti ultimi di sviscerare in tutta la complessità dei suoi rap-
porti la circolarità dialettica che presiede al trapassare re-
ciproco dell’uno nell’altro, in quanto così come precede lo
spazio, il tempo anche ne risulta come realizzazione della ne-
gatività compressa in quello. L’indagine del movimento che
attraversa e scuote dall’interno gli ambiti temporali acquisi-
sce in tal modo una complicazione e una ricchezza, che ver-
ranno parzialmente meno già sin dai testi immediatamente
successivi19.
Tuttavia, sarà proprio su questi ultimi che la nostra ricerca fo-
calizzerà l’attenzione, e ciò per un motivo essenziale. Il con-
fronto fra le due diverse stesure testimonia infatti di un fon-
damentale slittamento nella concezione di Hegel, poiché nelle
pagine del 1804-05 il termine/concetto dell’eternità non è pre-
sente20, mentre viceversa, nel testo successivo, emerge come
il culmine della dialettica del tempo. Nel 1804-05, la trama di
relazioni dialettiche, che scandisce il superamento recipro-
co degli ambiti temporali, precipita nuovamente nell’ora del-

19. Cfr. J.S.II, pp. 193-205.


20.  Ciò avviene, nonostante Hegel fosse già pervenuto a definire in senso
speculativo la nozione dell’eternità, come risulta dalla Differenzschrift del
1801. Cfr. più oltre, nota 57.
102

la presenzialità21; ma questo ora, per quanto indubbiamente


imprima una battuta d’arresto alla dinamica temporale – per
quanto in esso il tempo si raccolga nella totalità delle sue di-
mensioni –, non viene determinato come eternità. Esso segna
invece il trapasso della temporalità nello spazio, perché la pau-
sa in cui si spegne l’avvicendamento delle dimensioni compor-
ta una distensione, un’immobilizzazione del tempo, dalla quale
appunto sorge lo spazio22. Il tempo riemergente da quest’ul-
timo vi resterà comunque indissolubilmente connesso, e darà
luogo a una categoria che appartiene eminentemente alla fi-
losofia naturale – quella di durata23.
Al contrario, il quadro della filosofia della natura si spezza se il
decorso in direzione della categoria di durata si trova, per così
dire, interrotto, ecceduto per un attimo dal raccoglimento del
tempo non più nell’ora/totalità che lo riconverte in spazio – ma
se in quell’ora s’intravede l’emergere di un’istanza, che oltre-
passa radicalmente la cornice entro cui la Naturphilosophie si
sviluppa, poiché realizza l’ora dell’eternità.

21.  Cfr. J.S.II, p. 197: «il tempo reale è passato solo di contro a presente
e futuro; ma questo terzo è la riflessione del tempo in sé, ovvero esso è di
fatto presente».
22.  Cfr. J.S.II, p. 197: «questo tempo reale è l’inquietudine del concetto
assoluto paralizzata, il tempo che nella sua totalità si è trasformato nell’asso-
lutamente altro, è trapassato dalla determinatezza dell’infinito… nell’oppo-
sto, la determinatezza dell’auto-eguaglianza, e così, in quanto l’indifferenza
eguale a se stessa, i cui momenti sono contrapposti nella forma di questa,
esso è spazio».
23.  Cfr. J.S.II, pp. 207-208; ma più chiaramente in proposito J.S.III, pp. 14-
15. D. Wandschneider, Raum, Zeit, Relativität. Grundbestimmungen der
Physik in der Perspektive der Hegelschen Naturphilosophie, Klostermann,
Frankfurt a.M. 1982, precisa al riguardo: «Questa relazione di spazio e tem-
po trova espressione autonoma nel concetto della durata… si può parlare
sensatamente di cambiamento solo nella misura in cui lo stato precedente
resti nondimeno in qualche forma conservato nel suo superamento, coesista
col nuovo stato, duri…» (p. 87).
103

Particolarmente indicativo dello sviluppo assunto in tale dire-


zione dal pensiero hegeliano è il foglio che conclude il mano-
scritto del 1805-06. Nel momento in cui si tratta di compren-
dere entro la concettualità filosofica il movimento degli stadi
trascorsi, Hegel parla di un «altro dal tempo – non un altro
tempo, bensì l’eternità, il pensiero del tempo»24.
Una determinazione in tal senso dell’eternità è testimoniata,
come abbiamo visto, fin nella Filosofia della natura dell’Enci-
clopedia, ma già il testo del 1805-06 impone di comprendere
come fra piano del pensiero e piano dell’eternità vi sia ben al-
tro che mera sovrapposizione o accostamento. Ambedue si tro-
vano coinvolti in un movimento di auto-costituzione reciproca,
le cui modalità di compenetrazione e svolgimento si lasciano
concretizzare solo attraverso il ritmo che scandisce l’esposi-
zione logica e sistemica. Che l’eternità sia pensiero o più pre-
cisamente concetto – che quest’ultimo produca se stesso solo
in quanto giunge a esposizione nel linguaggio della filosofia,
nella pratica della sua scrittura – tutto ciò mette in luce l’in-
staurarsi di una coincidentia, che esige di essere pensata nel
suo statuto di necessità.
L’esplorazione di tali rapporti richiede anzitutto di considera-
re la definizione concettuale del presente: poiché in quest’ul-
timo precipita il movimento di risoluzione dello spazio, esso
precede, dal punto di vista della derivazione sistematica, sia
il passato che il futuro, e dà così inizio alla dialettica delle di-
mensioni temporali.
Come farà poi nell’Enciclopedia25, Hegel individua per lo spa-
zio la necessità di diventare tempo nel concetto di punto, che

24.  J.S.III, p. 287 (C., p. 174). Sull’importanza di questo passo ha attirato


l’attenzione P.-J. Labarrière, La sursomption du temps, cit., p. 93.
25.  «Così lo spazio superato è dapprima il punto e, per sé sviluppato, il tem-
po» (Enz., II, § 459 Anm., p. 52; tr. it. cit., p. 235).
104

nella sua concezione dello spazio riveste uno statuto particola-


re e in qualche modo privilegiato26, non solo in quanto il pun-
to si pone simultaneamente all’inizio e alla fine del movimento
dialettico dello spazio, ma più profondamente in quanto di tale
movimento costituisce l’origine negativa, la molla che sempre
di nuovo lo innesca e che in pari tempo evidenzia di non po-
ter essere trattenuta al suo interno, conducendo così lo spazio
a togliersi nel tempo. In quanto si riferisce allo spazio, il pun-
to vi è in certo modo compreso; ma poiché in lui si concentra
tutta la negatività propria del concetto, esso anche lo eccede
radicalmente: lo spazio neutralizza il movimento del Begriff,
mostrando quindi di non poter contenere in sé il punto che lo
incorpora. Il punto viene così a designare una nozione parados-
sale, che simultaneamente è dentro e fuori l’orizzonte entro il
quale dovrebbe situarsi27.
Il tempo scaturisce da tale oscillazione insopprimibile, in cui
l’immota distensione dello spazio giunge alla negazione di sé,
per contrarsi in entità atomica, indivisibile e repulsiva: infat-
ti, il punto può realizzare la negatività che reca in sé solo nella
misura in cui la esponga in un movimento di attiva esclusione
dell’altro, che al tempo stesso lo affermi in indivisa eguaglian-
za con se stesso28. E il presente si definisce in Hegel proprio
nei termini di tale auto-eguaglianza: «Quest’uno è, esso è im-
mediato; giacché la sua auto-eguaglianza è proprio l’immedia-

26.  Cfr. al riguardo W. Bonsiepen, op. cit., p. 18.


27.  «Del punto va detto, che esso è sia nello spazio, sia non lo è. Esso vi è,
è la dimensione non come negativo, bensì determinata come negativo del-
lo spazio. In pari tempo, in quanto esso è il semplice negativo di quello in
generale, ovvero è il concetto e il negativo come essenziale, il punto non è
in esso» (J.S.III, p. 7).
28.  «L’uno dello spazio, in quanto uno, appartiene propriamente al tempo:
per lo spazio esso è solo il suo aldilà. Al tempo, invece, esso è immanente:
giacché uno è questo auto-rapportarsi-a-se-stesso, essere-uguale-a-se-stesso,
l’assolutamente escludente, cioè: negante altro» (J.S.III, p. 11).
105

tezza; esso è il presente. Questo ora esclude assolutamente da


sé ogni altro, esso è assolutamente semplice»29.
Tuttavia, che la temporalità s’innesti a partire dal presente non
significa ancora che a tale dimensione spetti uno statuto privi-
legiato rispetto alle altre. A tale riguardo si potrebbe parlare di
primati ontologici, che le dimensioni temporali dovrebbero re-
ciprocamente disputarsi30. Ma anche un discorso di questo tipo
non andrebbe basato su un ordine di precedenza attinente al
piano della derivazione sistemica – piano che nel suo assetto
monodirezionale vedremo messo in crisi proprio dallo svolgersi
concreto della dialettica del tempo, la quale per giunta involgerà
nel suo andamento distruttivo la definizione stessa del presente.
«L’ora è; questa è la determinatezza immediata del tempo, ov-
vero la sua prima dimensione»31. Tale equazione fra i momenti
dell’essere e del presente, posta in particolare rilievo grazie a un
accorgimento grafico, sembra collocare il pensiero hegeliano
entro lo spazio di ciò che è stato nominato metafisica della sem-
plice-presenza. Eppure, nella nozione di punto è già implicito
che questa dimensione, in cui il punto esiste come ora attuale,
debba venire inesorabilmente scavalcata. Poiché l’ora s’istitui-
sce in auto-eguaglianza sulla base della repulsività che esercita
contro ciò che gli è altro, il suo rapporto a se stesso è simulta-
neamente un respingersi da sé e un porsi come non-essente32.
Già come dimensione, quindi, il presente è ben lungi dal pos-
sedere quella consistenza, che in certi passi Hegel parrebbe

29.  J.S.III, p. 11.


30.  Cfr. più avanti, l’interpretazione di Heidegger.
31.  J.S.III, p. 12.
32.  «Questo ora esclude assolutamente da sé ogni altro. È assolutamente
semplice. Ma questa semplicità, e il suo essere, è altrettanto l’immediata-
mente negativo della sua immediatezza, il suo togliere di se stesso: il limite
che cessa di essere limite, ed è un altro» (J.S.III, pp. 11-12).
106

attribuirgli. Il fatto che l’immediatezza che lo dovrebbe con-


traddistinguere non si realizzi che in forma di relazione con
sé, introduce uno sdoppiamento che incrina quella pienezza
in cui pure dovrebbe consistere il suo statuto ontologico. La
questione è tanto più decisiva, in quanto il presente – benché
in tutt’altra accezione – riemergerà alla conclusione della dia-
lettica temporale come suo compimento nell’eternità. Andrà
quindi ben registrata questa frattura, da cui è attraversato l’ora
dell’immediata presenza e che segna, per il suo tramite, l’onto-
logia come la scrittura – che «forando» la dimensione del pre-
sente, ne dilapida per così dire in movimento dialettico tutto
il patrimonio d’evidenza.
Il contenuto concettuale del presente cronologico appare tale
da spiazzare costantemente il presente da sé, da indurre uno
sfasamento destinato a investire tutta la sfera del tempo. A
partire da quella prima perdita di pienezza, gli ambiti tempo-
rali dovrebbero articolare un movimento di ricostituzione e ri-
compattamento, la cui realizzazione verrebbe a porsi entro una
nozione dell’eternità che la configura ancora una volta come
presenza, non più transeunte ma paradossalmente atemporale:
processo di ripristinazione vera e propria, che sarebbe allora
senz’altro ontologico – visto che l’ora è, visto che come ora si
ridetermina la totalità delle dimensioni del tempo. Il raffor-
zamento del dispositivo ontologico costituirebbe lo sbocco di
questa ermeneutica speculativa del tempo, la quale forse così
giustificherebbe anche quelle interpretazioni che intendono il
pensiero hegeliano nei modi di un’ultra-metafisica33.
Ma se la riflessività della dimensione-presente convoglia que­
st’ultima in un circuito di risoluzione che perpetuamente la fa

33.  Al riguardo valga per tutte l’opera di I. Iljin, Die Philosophie Hegels als
kontemplative Gotteslehre, Francke, Bern 1946.
107

mancare a se stessa per proiettarla in una sorta di fuga senza


fine – infinità che sarebbe tanto più «cattiva», in quanto pro-
prio sul piano della temporalità sfuggirebbe a ogni possibi-
lità di prodursi in termini di realizzazione –, il contenuto di
quella stessa riflessività spiazza e disloca tale dimensione an-
cor più senza rimedio. Perché se l’ora s’instaura come auto-­
eguaglianza soltanto in forma di reattività di contro a ciò che è
altro, la sua eguaglianza con sé non soltanto deve includere, ma
non può che consistere nella diseguaglianza con sé. L’ora non
sussiste se non nel movimento della repulsività, esiste come
repulsività: ma ciò vuol dire, in effetti, che non sussiste, che
sfugge alla fissazione/immobilizzazione ontologica – oltrepas-
samento dell’essere, attivato da quella semplice-presenza con
cui era stato dapprima omologato.
Ma più che di oltrepassamento, sarebbe rispondente al vorti-
ce di questa dialettica parlare di fessurazione, che scavando il
presente dall’interno, lo introduce nella spirale del suo mor-
tale superamento. Il presente si trova così radicalmente de-­
costituito, l’assenza si svela nucleo inesistente dell’ora imme-
diato. Sin da queste pagine, Hegel compromette la possibilità
dell’ontologia, o perlomeno di un’ontologia che pretenda ba-
sarsi sulla semplice-presenza, e che proprio così mostrerebbe
d’istituirsi su di un vuoto, di determinarsi come cava proprio
nell’attimo in cui cercasse di stabilire nell’ora il suo punto di
massima precipitazione, per lì potersi finalmente presentare
con la compatta densità della sostanza. E certo anche la dia-
lettica, invece di convertirsi in assorbimento del negati­vo/po-
tenziamento del positivo, sembra dar luogo – nell’ora – a un
procedimento interminabile d’erosione: lo Jetzt nel quale la
negatività si riflette su di sé per escludersi da se stessa espone
la dialettica al rischio di non potersi più identificare, nemme-
no in quanto soggettività – di non poter poggiare o sostanziar-
si d’altro se non del vuoto di cui testimonia l’ora immediato.
108

In Hegel, il moto centripeto di scivolamento da sé che trascina


il presente alla sua rovina si orienta verso e sfocia nel futuro34.
La determinazione in tal senso di questa dimensione va intesa
nel suo carattere di necessità. Non si tratta infatti dell’artifi-
ciosa ritrascrizione in chiave concettuale della visione in fondo
ordinaria del tempo, secondo la quale dopo il presente «c’è»
appunto il futuro; ma non si tratta nemmeno di un contrasto
con la concezione «empirica» del tempo da intendersi in ma-
niera puramente oppositiva. Piuttosto, si tratta di svelare ciò
che al nucleo delle scissioni e delle separazioni consolidate del
senso comune emerge per l’indagine pensante come loro veri-
tà, di evidenziare come lo stadio raggiunto dallo sviluppo dei
momenti temporali determini come «futuro» la «seconda» di-
mensione, e faccia quindi di quest’ultimo lo sbocco dell’auto-­
dissoluzione cui va incontro l’ora puntuale e immediato.
Hegel ne parla come di qualcosa di meramente rappresenta-
to (ein Vorgestelltes): il futuro è inteso come una dimensione
proiettata sull’effettualità oggettiva dall’immaginazione uma-
na, alla quale quindi non spetta alcuna connotazione di real-
tà35. Per esso non è previsto statuto ontologico, o meglio tale
statuto vi è declinato al modo privativo del non-ancora risul-
tante, come negazione, da quell’essere che si dovrebbe invece
dispiegare al tempo del presente.
Il futuro è così chiamato a svolgere una duplice funzione, si-
multaneamente sacrificata e sacrificale. Compresso fra la pie-
nezza ontologica dell’ora e la precipitazione della dialettica
temporale nel passato, il presente si proietta verso di esso per

34.  «Se noi tratteniamo il non-essere del suo essere contro di essa [la prima
dimensione, cioè l’ora; N.d.A.], che è posta come essente, cosicché questo
non-essere la tolga, noi poniamo il futuro; si tratta di un altro, che è il nega-
re di questo ora: la seconda dimensione» (J.S.III, p. 12).
35.  «Ma questo essere che gli è attribuito cade al di fuori di essa, è un rap-
presentato» (J.S.III, p. 12).
109

estinguervisi; ma proprio a partire da qui la temporalità si ri-


compatta, mediante il suo raccoglimento nel passato, nella più
compiuta presenzialità dell’ora eterno. Lo schiacciamento di
cui è gravato non esclude perciò dal futuro l’onere di «sostene-
re» il passaggio forse determinante di questa intera dialettica:
il divenire cioè del passato, col riaccorpamento in esso della
totalità delle dimensioni36.
Sin dal momento in cui s’affaccia all’immaginazione, il futuro
possiede la tendenza a uscire dalla sfera della rappresentazione
e della non-esistenza, cui verrebbe destinato dalla sua immobi-
lizzazione in dimensione astratta. Il futuro è immaginato come
qualcosa, e in ciò Hegel intravede la tensione che lo spinge a
riconvertirsi nell’ora della presenza reale37.
Ancora una volta, per la comprensione speculativa non si tratta
di ricalcare le modalità rappresentative d’interpretazione del
tempo, del fatto cioè che sia considerato addirittura ovvio che
quanto l’immaginazione proietta nel futuro diventa prima o poi
presente, magari attuandosi in vesti diverse da come la rap-
presentazione umana si aspettava. Piuttosto, già qui è all’opera
un movimento di sviluppo dei concetti, che svolge sul piano
espositivo ciò che si trova allo stadio implicitamente compre-
so entro la categoria di volta in volta in questione, e che nel
corso della riflessione mostra di costituire il suo nucleo essen-
ziale. Quella tendenza a essere risulta per l’indagine hegeliana

36.  L’interpretazione hegeliana del futuro può apparire, nella nostra lettura,
eccessivamente ristretta. Tuttavia, non dobbiamo dimenticare che la nostra
analisi, qui come nel seguito della ricerca, è concentrata sui testi di filosofia
della natura, e mira a determinare il senso dell’eccedenza, rispetto al «tempo
naturale», dell’eternità speculativa. Il significato del futuro emergerebbe, da
un’ottica di filosofia della storia e di storia della filosofia, con una rilevanza
senz’altro più accentuata.
37.  «Il futuro sarà, noi ce lo rappresentiamo come qualcosa, gli trasferiamo
l’essere del presente, non lo rappresentiamo come qualcosa di meramente
negativo» (J.S.III, p. 12).
110

come ciò in cui consiste l’essenza del futuro38: riassorbimento


della categoria di possibilità in quella, che non tanto la esclude
quanto piuttosto la comprende, dell’effettualità, attraverso un
percorso che nella Logica perverrà a esplicitazione teorica39,
e che per la dialettica temporale si esprime in questa colloca-
zione intermedia che «incastra» il futuro fra due presenti. Il
futuro abbandona la dimensione del non-ancora, che defini-
va il suo statuto in termini di assenza, e scopre entro di sé il
presente da cui non solo proviene, ma che da esso riemerge
come portato di un movimento di realizzazione, che forzando
il passaggio da un’effettualità soltanto immaginata a una real­
tà davvero in atto, vuol riacquisire quell’essere di cui come fu-
turo inevitabilmente mancava: e la dimensione dell’essere è
appunto quella del presente40.
Presente-futuro-presente: questa è la sequenza che la dialet-
tica del tempo ha sin qui percorso. Il passaggio ulteriore è si-
tuato proprio a quest’altezza, e consiste nella determinazione

38.  «Proprio come il positivo, l’ora è questo, di togliere immediatamente


il suo essere, altrettanto il negativo è questo, di negare immediatamente il
suo non-essere e di essere; esso stesso è ora» (J.S.III, p. 12).
39.  Cfr. W.d.L., II, p. 175 (sulla possibilità formale): «L’accidentale è dun-
que necessario, perché il reale è determinato come possibile… come anche
perché questa sua possibilità, la relazione del fondamento, è assolutamen-
te tolta e posta come essere. Il necessario è, e questo che è, è appunto il
necessario… Così la realtà, nel suo distinto, la possibilità, è identica con se
stessa» (tr. it. cit., pp. 615-616); cfr. inoltre W.d.L., II, pp. 178-179 (sulla
possibilità reale): «quello che è realmente possibile non può più essere al-
trimenti: poste queste condizioni e circostanze, non ne può seguir altro. La
possibilità reale e la necessità differiscono dunque solo apparentemente.
Quest’ultima è un’identità la quale, non che divenire, è già presupposta e
sta a fondamento» (tr. it. cit., p. 619).
40.  «Il futuro è perciò immediatamente nel presente; giacché esso è il mo-
mento del negativo in esso stesso. L’ora è altrettanto essere, che dilegua,
come il non-essere è immediatamente rovesciato nel suo proprio opposto,
nell’essere» (J.S.III, p. 12).
111

come passato di quel «secondo» presente41. La derivazione si-


stemica non consente, in effetti, d’intendere quest’ultimo negli
stessi termini che definivano il contenuto concettuale del pri-
mo: l’ora risultante dalla riconversione in presenza del futuro
non può conservare le determinazioni che gli spettavano all’i-
nizio della dialettica temporale, quando sorgeva come primo
momento dall’auto-annullamento dello spazio. Il «secondo»
ora, che traduce in essere il futuro soltanto rappresentato, to-
glie simultaneamente la negazione dell’ora «immediato», che
il futuro aveva privato del suo statuto ontologico. Perciò, l’ora
così divenuto non può equivalere alla ricostituzione dell’ora
semplicemente presente di cui si trattava all’inizio: esso reca
in sé un carattere di mediazione che il primo non aveva. O
perlomeno, non negli stessi termini.
Il presente «immediato» s’è rivelato infatti tutt’altro che pri-
vo di mediazione. Se costituisce il punto di precipitazione di
un processo (quello di superamento dello spazio) che in esso
sembra pervenire al riassorbimento di tutte le contraddizioni
in un’immediatezza semplice, quest’ultima s’instaura solo in
quanto relazione di fronte ad altro e rapporto negativo con se
stessa. Nell’ora del presente, è proprio la potenza incompri-
mibile della mediazione che introduce lo sdoppiamento e la
frattura attraverso cui quell’immediatezza solo apparente ben
presto precipita. Non è quindi in base a una semplice contrap-
posizione tra immediatezza e mediazione che la differenza tra
«primo» e «secondo» ora si può risolvere.
Essa concerne, piuttosto, la specificità della mediazione in que-
stione. Quest’ultima infatti si produce tutta entro la sfera del

41.  «Questo non-essere, togliendosi immediatamente, è sì esso stesso es-


sente e ora, ma il suo concetto è un altro rispetto a quello dell’ora propria-
mente immediato; esso è l’ora che ha tolto l’ora che negava [negierende]
l’immediato. In quanto opposta alle altre dimensioni, questa è il passato»
(J.S.III, p. 12).
112

tempo, esprime una sorta di raccoglimento della temporali-


tà in se stessa, che non rimanda più a un livello precedente
esterno all’ambito temporale (come accadeva invece per l’ora
«immediato», che risultava da un movimento la cui molla era
costituita dalle contraddizioni dello spazio e dalla loro conden-
sazione nel punto). Solo così la determinazione che indubbia-
mente spetta a questo «secondo» ora, di costituire la negazione
di una negazione, e di contenere perciò una ricchezza e una
complessità concettuali che il «primo» ora non possedeva, si
distingue dall’applicazione standardizzata ai contenuti più di-
versi di una regola metodologica indifferente ad essi, e acqui-
sisce la sua specificazione immanente in riferimento al singolo
ambito concettuale.
Ma proprio in quanto rappresenta la concentrazione e l’ap-
profondimento interni della temporalità, il «secondo» ora si
determina «immediatamente» come passato. Esso infatti, da
un lato, incorpora la negazione del futuro, e in questo senso
trasforma in passato il futuro stesso; ma dall’altro, in quanto
è ora, esso è anche inevitabilmente negativo nei confronti di
se stesso, toglie se stesso. Tuttavia, la sua sparizione non può
procedere in direzione del futuro, perché appunto il futuro
è appena stato superato; il «secondo» ora scompare nel pas-
sato proprio perché è divenuto presente «dopo» il futuro, e
avendo esaurita «immediatamente» la sua istantanea esistenza
di ora che è, non potendo più proiettarsi verso una rinnova-
ta effettualità, deve necessariamente ricadere in ciò che non
è più.
Certo, la maniera più semplice per esporre il pensiero di He-
gel riguardo la genesi del passato consisterebbe nel prescinde-
re dal destino cui va soggetto il secondo ora, e nel focalizzare
l’attenzione esclusivamente sul futuro. Infatti, nel momento
in cui quest’ultimo ridiventa presente, esso costituisce neces-
sariamente un passato rispetto al futuro che era – non è più
futuro, era futuro, e si converte così inevitabilmente in passa-
113

to. La via seguita dal testo, però, è quella più complicata, ma


senz’altro anche più concettualmente concreta, che fa perno
sul secondo ora e sul suo divenire-passato. Dal presente la
dialettica temporale prende inizio, e in base alla ricaduta in
presente del futuro comprende il passato nella sua necessità
speculativa, scoprendo in esso il raccoglimento del tempo nel-
la totalità delle sue dimensioni.
Così, l’interpretazione hegeliana pare svolgersi sul terreno on-
tologico dell’ora che è, sembra orientare sul presente tutti i
passaggi che ne scandiscono l’andamento dialettico. E tuttavia,
simultaneamente, proprio l’orientamento di questo pensiero
sul presente accentua la precarietà di tale dimensione, la svela
nella sua parzialità di momento separato e astratto, continua-
mente ripreso e scavalcato dal movimento temporale. Insta-
bilità e precipitazione in assenza del presente, che manca «da
sempre» all’immediatezza che pure dovrebbe stabilizzarne il
tasso di consistenza, il livello d’essere; instabilità che questa
dialettica mostra per giunta divisa e raddoppiata, scissa come
la dimensione di cui significa la sparizione e la sottrazione dal
piano dell’essere. All’inizio era il «primo» ora a volatilizzarsi
nel futuro; e adesso il «secondo» ora, in cui pure il futuro ve-
niva a ricadere, non assurge all’altezza di una negazione della
negazione se non in quanto si declini al passato, «sia» passato –
formulazione paradossale, che si distrugge nell’attimo stesso in
cui si scrive, un po’ come il presente in quel «sia» fa capolino
per subito dopo dileguare.
In quanto è assunto nella sua immediatezza come «primo»,
ogni ora presente è destinato a scomparire verso un futuro,
il quale a sua volta ridiventando presente dà luogo a un altro
attimo e ora, e così via. L’interpretazione hegeliana scorge il
ripiegamento in totalità di questa successione senza fine nel
passato, in quanto arresta lo sguardo sul «secondo» ora, che è
già stato futuro, che non potrà più ridiventarlo, e che perciò
sprofonda nell’ineffettualità di ciò che non è più. La necessità
114

del passato è quindi dimostrata sulle ceneri del presente, del


«primo» così come e soprattutto del «secondo».
Il passato emerge in tal modo con una specificità che rende
per la prima volta inadeguato l’impiego, nei suoi confronti,
della categoria di «dimensione». Il passato infatti, in quanto
conclude la dialettica degli ambiti temporali, non può venire
inteso come semplicemente «uno» fra questi: in esso culmina
lo sviluppo concettuale della temporalità, in esso si concentra-
no complessità e ricchezza del movimento di risoluzione del-
le dimensioni. È quanto fa presente Hegel, quando esprime
la radicale eccedenza del passato rispetto agli altri momenti
del tempo, quando ne evidenzia la specificità paradossale di
dimensione che simultaneamente oltrepassa ogni sua delimi-
tazione in questo senso:
il passato è il tempo compiuto, in parte come passato cioè
come dimensione, esso è il puro risultato, oppure la verità
del tempo; – in parte però esso è il tempo come totalità.42
Ciò vuol dire che la compiuta riflessione del tempo in se stesso
si attua nel passato, che in quest’ultimo s’instaura il raccogli-
mento in totalità delle sue dimensioni, cosicché presente, fu-
turo e passato stesso non designano più ambiti reciprocamente
separati, bensì i momenti interrelati e transeunti attraverso i
quali il tempo si afferma come unità dialetticamente articola-
ta. L’ovvietà della concezione rappresentativa si rovescia così
nel suo opposto, svelandosi anzi inaccettabile dal punto di vi-
sta speculativo: per quest’ultimo il tempo, nel passato, non si
disperde più nella fuga successiva degli istanti, cessa di fram-
mentarsi nella sconnessa triplicità delle dimensioni.
Dal punto di vista sistematico, la determinazione come pas-
sato dell’ora ripristinato dal superamento del futuro svolge
una funzione complessa. In tal modo, Hegel non soltanto può

42.  J.S.III, p. 13.


115

dimostrare come il passato venga a scaturire in quanto pro-


dotto immanente dallo sviluppo dialettico, ma anche come si
attui la concrezione del tempo nella totalità dei suoi momen-
ti. Viceversa, la costituzione della totalità temporale in eter-
nità, così come la realizzazione di quest’ultima in un presente
simultaneamente dinamico e intramontabile, benché imper-
niate ambedue sul movimento interno della Vergangenheit,
rappresentano delle scansioni ulteriori, che si riveleranno ben
più problematiche di quanto la derivazione sistemica non lasci
intendere a prima vista.
Da un lato, la conclusione della dialettica del tempo nella di-
mensione del passato, che perciò è definita in Hegel come la
sua «verità», sembra culminare in uno spiazzamento radicale
dell’ontologia. Come abbiamo visto, la presenza che è non so-
stiene il ritmo del movimento concettuale che la distrugge; o
meglio, essa in se stessa non designa altro se non questo sfug-
gire all’immediatezza che dovrebbe fissarla una volta per tutte.
Cedimento ontologico dell’ora, sia esso «primo» o «secondo»,
ma tanto più importante se si tratta di quest’ultimo, se lo svol-
gimento del tempo collassa nel passato assieme a tutte le sue
dimensioni, se la totalità stessa del tempo si declina al modo
di un’antecedenza, ormai non più cronologica, che la situa per-
petuamente «al di qua dell’essere».
Il linguaggio dell’ontologia mostra ancora una volta di non
essere adeguato alla descrizione di questa dialettica, proprio
in quanto quest’ultima oscilla fra una concezione del presen-
te che lo equipara all’essere, e uno svolgimento immanente
che sancisce di continuo l’impossibilità, per l’ora, di protrar-
si oltre su questo piano. Concepire il passato come «la verità
del tempo» significa inclinare la fase terminale di quel movi-
mento verso un’attuazione già stata «da sempre» e perciò «già
sempre» im-possibile, sottrarre il tempo a ogni suo intendi-
mento in termini di realizzazione, a ogni sua subordinazione
nei confronti dell’ora presente. Per questo, parlare di primati
116

«ontologici» fra le dimensioni del tempo risulta fuorviante. La


dialettica delle dimensioni si conclude infatti al di qua dell’on-
tologia, al di qua del presente.
Dall’altro lato, però, il passato eccede in Hegel il suo statu-
to di dimensione, esso è anche inscindibilmente «totalità del
tempo». E per lui non era certo pensabile una totalità che si
definisse in base alla sua irrealizzazione; un concetto, questo,
contraddittorio in modo incompatibile con la sua dialettica,
che pure sulla contraddizione fa leva per sviluppare il suo mo-
vimento. Tanto più che, trattenuta nel passato come dimen-
sione, la totalità si rivelerebbe altrettanto parziale e «finita»
quanto i momenti che in essa dovrebbero superare la loro li-
mitatezza di astrazioni. L’irrealizzazione, di cui il pensiero così
dovrebbe custodire l’esperienza, si convertirebbe addirittu-
ra nell’irrealizzabilità più radicale, visto che non sarebbe più
pensabile nemmeno come potenzialità che un giorno, forse,
potrebbe anche attuarsi, ma solo nei termini di una ritrazione
e di uno «scadimento», che inficerebbero la totalità proprio
nell’atto del suo dispiegarsi.
Perciò, con un movimento che si tratterà di seguire più da vi-
cino, Hegel fa leva sull’eccedenza del passato rispetto alla sua
determinatezza di dimensione43 per ripristinare la scena del
presente.
Il ricompattamento in totalità del tempo coincide allora con
la realizzazione dell’eternità speculativa, intesa come il racco-
glimento delle dimensioni temporali in un presente simulta-
neamente mobile e intramontabile, perché non più soggetto al
toglimento che coinvolgeva l’ora immediato. Proprio il concet-
to di totalità indicherebbe un ripiegamento, un attorcimento
del tempo in grado per così dire di recuperarlo dalla frammen-
tarietà delle dimensioni, dalla fuga senza fine del presente ver-

43.  Cfr. loc. cit. supra, nota precedente.


117

so il futuro, dalla ricaduta senza fine del futuro nel «secondo»


ora di un presente, che sorge anch’esso solo provvisoriamente,
per costituirsi in «negazione della negazione» e «compimen-
to» del tempo solo perché si toglie, scompare dalla superficie
dell’essere, sprofonda in quel già-stato che lo declina al tempo
del passato. Passato che anch’esso si annulla come dimensio-
ne44, visto che in lui viene a culminare il movimento del tem-
po, producendo un raccoglimento e una concentrazione, che
equivalgono in Hegel alla realizzazione dell’eternità. Il tempo
si riaccorpa in un presente che non soggiace più a superamen-
to alcuno perché non è la «prima» dimensione, bensì risulta
dal toglimento di tutte le dimensioni, e non può quindi venire
oltrepassato.

3. Il concetto speculativo dell’eternità


In questa eternità come presenza, l’ontologia sembra infine ri-
pristinarsi al di là delle crisi che ne incrinavano l’attuazione in
pressoché tutti i passaggi della dialettica del tempo. Certo, la
possibilità e il senso di una tale ripristinazione andranno ulte-
riormente pensati, da parte nostra, in rapporto alla provenien-
za dell’eternità dal passato; ma se anche questo movimento
dovesse presentare difficoltà forse insormontabili per la dia-
lettica, importante adesso è aver raggiunto il luogo all’altezza
del quale deve situarsi ogni prospettiva ermeneutica che non
voglia semplificare forzosamente la posizione hegeliana, per
intravedere come sia proprio questa instaurazione dell’eternità
come presenza a spezzare il quadro della filosofia della natura,
e a imporre una comprensione di questo pensiero che dislochi

44. Cfr. J.S.III, p. 13: «Il passato è esso stesso solo dimensione, negare in lui
immediatamente tolto, ovvero esso è ora».
118

radicalmente il problema del tempo rispetto alla cornice siste-


matica in cui pure viene racchiuso. La ripristinazione del pre-
sente al culmine della dialettica comporta indubbiamente più
di una questione. Ma è tutt’altro che indifferente se s’intende
il presente come «dimensione», o se invece nell’eternità Hegel
non concepisca un «presente» di tutt’altra natura.
La questione va posta, in quanto in Sein und Zeit Heidegger
ha inteso la concezione hegeliana come la trasposizione filo-
sofica più radicale della comprensione ordinaria del tempo45.
Prendendo spunto da formulazioni come la seguente: «il tem-
po è la negazione della negazione, la negazione che si rapporta
a sé»46, egli riduce l’interpretazione hegeliana a questa deter-
minazione, nella quale «la successione degli ora è formalizzata
all’estremo e livellata in modo insuperabile»47. Hegel farebbe
propria la concezione ordinaria, secondo cui il tempo è una
sequenza indefinita di istanti «livellati»; ogni istante cioè ver-
rebbe eguagliato a ogni altro, perché ciascuno è inteso come
la negazione della negazione incorporata nell’ora preceden-
te – il quale a sua volta aveva negato l’ora a lui precedente, e
così via.
Heidegger interpreta in questo senso anche il passo degli Zu-
sätze all’Enciclopedia, dove si afferma che «solo il presente è,
il prima e dopo non è»48. Egli cioè assolutizza il presente in
questione, in un’accezione da Hegel espressamente indicata

45.  Cfr. M. Heidegger, Sein und Zeit, Niemeyer, Tübingen 1927; tr. it. di
P. Chiodi, Essere e tempo, Longanesi, Milano 19763, pp. 511-518: «il con-
cetto di tempo proposto da Hegel costituisce la più radicale… elaborazio-
ne concettuale della comprensione ordinaria del tempo» (p. 511); e ancora:
«Hegel… porta la sperimentazione e l’interpretazione ordinaria del tempo
alla formulazione più radicale» (p. 514).
46.  Enz., II, § 257, Z., p. 48.
47.  M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 515.
48.  Loc. cit. supra, nota 15.
119

come finita49, e secondo la quale ordinariamente si contrappo-


ne il presente, che viene assunto come esistente, al passato e al
futuro, che non esistono più o non esistono ancora. Heidegger
perciò imputa a Hegel di privilegiare il presente come dimen-
sione, riconducendo anche da questo lato il pensiero dialettico
alla visione ordinaria, che lo impronterebbe indelebilmente di
sé50. Hegel diventa il capitolo più emblematico di una meta-
fisica, che per ridurre l’essere all’ente deve privilegiare «onti-
camente» il tempo del presente51. In base alle premesse così
poste, Heidegger può asserire che il tempo resta, in Hegel,
«del tutto coperto quanto alla sua origine»52.
Se le obiezioni di Heidegger cogliessero effettivamente la po-
sizione hegeliana nelle sue articolazioni fondamentali, il ten-
tativo di rileggere questo pensiero come solcato da lacerazioni
e fratture, la nozione ermeneutica di esposizione che abbiamo
tentato di formulare a proposito del concetto della Darstellung
speculativa, infine la problematicità che intacca la dialettica del
tempo in pressoché ogni suo passaggio, e che incrina radical-

49.  «Il presente finito è l’ora fissato come essente, distinto dal negativo, dagli
astratti momenti del passato e del futuro, come l’unità concreta, perciò come
l’affermativo; però quell’essere è esso stesso astratto, dileguante in nulla…»
(Enz., II, § 259 Anm., p. 52; tr. it. cit., p. 235).
50.  «Il primato conferito all’“ora” livellato spiega perché anche la determi-
nazione hegeliana del tempo non si discosti dalla linea della comprensio-
ne volgare del tempo e quindi anche dal concetto tradizionale del tempo»
(M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 536, nota 30). Su questa nota hei-
deggeriana cfr. il saggio di J. Derrida, Ousia et grammè, cit.
51.  In questo senso Heidegger intende il confronto, da lui instaurato, fra
Aristotele e Hegel: «Il riferimento a una connessione diretta fra il concetto
del tempo in Hegel e l’analisi aristotelica del tempo non intende imputare
a Hegel una “dipendenza”, ma semplicemente richiamare l’attenzione sulla
portata ontologica fondamentale di questa filiazione rispetto alla logica he-
geliana» (M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 537, nota 30).
52.  Cfr. ivi, p. 514 e p. 517.
120

mente il privilegio che in questa dialettica dovrebbe spettare


alla dimensione del presente – tale tentativo, dicevamo, scatu-
rirebbe da un fraintendimento essenziale, che già per questo
lo voterebbe al fallimento. Ma quelle obiezioni, a una lettura
più attenta anche del solo testo dell’Enciclopedia, mostrano
di dipendere da una semplificazione eccessiva della concezio-
ne speculativa.
In effetti, non pare sostenibile affermare che Hegel trascuri di
considerare il tempo nella sua «originarietà». La struttura origi-
naria della temporalità è costituita per lui dalla nozione dell’e-
ternità come totalità delle dimensioni del tempo. L’eternità
le toglie dall’astrazione della separatezza reciproca, e s’iden-
tifica così col «tempo come tempo», o tempo compreso nella
sua verità. Non trattando dell’accezione speculativa dell’eter-
nità, Heidegger trascura proprio la nozione in cui culmina la
comprensione hegeliana della temporalità. Benché dunque
l’intendimento heideggeriano dell’originarietà del tempo de-
termini una concezione profondamente diversa da quella che
si afferma nel concetto hegeliano dell’eternità, ciò non signi-
fica che Hegel debba seguire l’interpretazione ordinaria del
tempo come successione di ora «livellati»53.

53.  Cfr. su questo punto le opere di J. van der Meulen, Heidegger und
Hegel oder Widerstreit und Widerspruch, Hain, Meisenheim a.Gl. 1953,
e Hegel. Die gebrochene Mitte, Meiner, Hamburg 1958. In quest’ultimo li-
bro, a p. 89, egli parla dell’eternità come della «radice del tempo» la quale
a sua volta, licenziandosi come tempo, dona a quest’ultimo la sua origine.
In questo senso, interpreta l’idea assoluta come ursprüngliche Zeitlichkeit,
che estraniandosi da sé dà luogo al tempo naturale. Così, già nel libro del
’53 veniva dimostrato come «quest’ultimo non possa venire scambiato con il
tempo concepito. Il tempo nella maniera in cui si mostra come spazio-tempo
al primo livello della natura è trattato nella filosofia della natura… Concetto
del tempo significa al contrario il tempo originario, così come esso si radi-
ca nel concetto in quanto logos. Questo tempo è ora l’Idea in quanto veri-
tà dell’essere stesso» (J. van der Meulen, Heidegger und Hegel, cit., p. 89).
Certo in tal modo sfugge come sia la dialettica che il tempo svolge a livello
121

Proprio perché il presente che si afferma nell’eternità emer-


ge come risultato immanente dallo svolgimento dialettico del
concetto di tempo, l’ora che conclude il movimento di risolu-
zione delle dimensioni non può essere inteso alla stregua di
una di queste, né venir più contrapposto da un lato al passato e
dall’altro al futuro. Hegel lo concepisce infatti come quell’atti-
mo infinito, che contraendo in sé passato e futuro li riconverte
in presenzialità superando il concetto stesso di «dimensione».
Ciò comporta che anche il presente, inteso come «dimensio-
ne», venga alla fine annullato.
Ma è proprio la sua lettura della categoria di «negazione della
negazione» che impedisce a Heidegger di valutare in tutta la
sua complessità la trattazione hegeliana del tempo, e in parti-
colare la funzione sistemica che in essa viene ad assumere la
concezione dell’eternità. Di quella nozione metodologica egli
sembra fornire una versione unilaterale e a-dialettica, e quin-
di non rispondente al suo contenuto speculativo. Heidegger

stesso di filosofia della natura che mostra la necessità del suo raccoglimen-
to nel concetto, e così anche l’eternità può equivalere al «tempo originario»
solo in quanto simultaneamente distrugga ogni forma di tempo. Tuttavia,
tale interpretazione consente a van der Meulen di evidenziare il fraintendi-
mento cui soggiace la critica hegeliana di Heidegger: «L’ora-qui viene per
così dire fissato solo nel luogo, cosicché il tempo-luogo [Ortszeit], che nella
sua attuazione è il movimento, è omologo al tempo-ora volgare nel senso di
Heidegger» (ivi, p. 121), mentre del tutto errato sarebbe imputare a Hegel
di orientare la sua interpretazione in base al tempo «livellato» perché egli,
al pari di Heidegger, lo «deriva» da una temporalità originaria che per lui
è l’Idea (ibidem). Sull’interpretazione heideggeriana della concezione del
tempo in Hegel, cfr. anche i più recenti contributi di J.-L. Vieillard-Baron,
Le temps. Platon. Hegel. Heidegger, Vrin, Paris 1978; J.P. Surber, Heidegger’s
Critique of Hegel’s Notion of Time, in «Philosophy and Phenomenological
Research», XXXIX, 1978-1979, pp. 358-377; V. Vitiello, Heidegger, Hegel e
il problema del tempo, in Id., Dialettica ed ermeneutica: Hegel e Heidegger,
Guida, Napoli 1979, pp. 15-43; D. Souche-Dagues, Une exégèse heidegge-
rienne: le temps chez Hegel d’après le § 82 de «Sein und Zeit», in «Revue de
Métaphysique et de Morale», LXXXIV, n. 1, 1979, pp. 101-120.
122

interpreta la «negazione della negazione» come l’astrazione


categoriale che consentirebbe a Hegel di raffigurare il suc-
cessivo e incessante trascorrere degli ora, senza considerare
che la valenza dialettica di quel concetto è realizzata entro
l’ambito temporale dal ripiegamento, nella struttura unitaria
dell’istante «eterno», della sequenza indifferente degli ora di
volta in volta presenti. Perciò, quando Hegel designa il tempo
come «negazione della negazione» non intende rilevare solo
il processo di toglimento del singolo istante, ma sottolineare,
in accordo col contenuto speculativo di quella determinazio-
ne, la contrazione in positività realizzata e qualitativamente
caratterizzata di ciò che per la visione «ordinaria» costituisce
soltanto un’ininterrotta fuga in avanti.
L’interrogazione ermeneutica deve porsi all’altezza di questa
saturazione qualitativa e irriducibilmente concreta, in cui la
dialettica del tempo giunge al suo culmine e il significato del
presente non è più quello di una semplice dimensione. L’eva-
nescente successione degli ora è risospinta circolarmente in
sé, così come ricomposta è la frammentazione del concetto nei
momenti astratti di passato, presente e futuro.
Anche in questa sua conclusione, quindi, la dialettica del tem-
po non può essere compresa entro una metafisica basata sul
primato della semplice-presenza. Come abbiamo visto, il pre-
sente dell’eternità è tutt’altro che «semplice», poiché in esso
giunge a condensazione tutto il complesso di stratificazioni e
di rapporti attraverso cui si svolgeva il movimento del tempo.
L’ora dell’eternità s’istituisce in quanto comprende in sé l’ar-
ticolazione sistemica che lo produce, la sua «immediatezza» è
data soltanto nella forma della mediazione di sé e del suo op-
posto, il processo da cui scaturisce.
Del resto, che l’eternità s’instauri solo in quanto Jetzt cate-
gorialmente strutturato è implicito nella nozione stessa di to-
talità, che non solo Hegel gli attribuisce, ma in cui il tempo
123

medesimo dovrebbe raccogliersi per cristallizzarsi in una pre-


senzialità non più sfuggente, eppure dinamica.
D’altro canto, se la dialettica del tempo si snoda attraverso
questi momenti, la determinazione dell’eternità come presen-
te, indubitabilmente asserita da Hegel, assume una valenza
piuttosto problematica. Come può scaturire un’eternità decli-
nata al presente quando l’intero decorso dialettico precipita
in una dimensione che è passata? Certo, come nel concetto
di dimensione è implicito che anche il passato debba toglier-
si, se inteso come tale (benché non più per dare corso all’av-
vicendamento dei momenti del tempo, quanto piuttosto per
condensarne la totalità negli ora che istituiscono la cristalliz-
zazione diveniente dell’eterno); così quello di totalità com-
porta, viceversa, che quest’ultima non possa essere intesa alla
stregua di una semplice dimensione: e abbiamo visto come
ciò accadesse proprio in rapporto al passato. Ma il fatto che
quest’ultimo sia simultaneamente totalità, che alla fine tale
determinazione prenda il sopravvento e annulli tutte le di-
mensioni, non dimostra ancora come tale annullamento possa
ripristinare il presente, come un passato che simultaneamen-
te è totalità del tempo possa «togliersi» nell’ora dell’eternità.
Esso infatti sembra potersi negare come dimensione solo per
riaffermarsi in veste di totalità temporale, non ulteriormen-
te suscettibile di «superarsi» in un ora che, in quanto «unità»
delle dimensioni, dovrebbe essere qualificato come «eterno».
Sull’«unità» dei momenti del tempo il passato non cesserebbe
di far gravare il suo peso, appunto in quanto totalità del tem-
po simultaneamente declinata nell’astrattezza di una dimen-
sione, e di una dimensione che in quanto totalità temporale
risulterebbe «da sempre» sottratta all’effettualità del «verace
presente» dell’eterno.
Tali questioni ci occuperanno nel seguito della ricerca, ma
comunque vadano decise, la loro stessa complessità dovrebbe
aver chiarito perché interpretare la dialettica hegeliana della
124

temporalità sotto il segno del primato della semplice-presenza


non renda giustizia, né porti a comprendere questa concezione
speculativa. Del resto, una posizione del genere può sostenersi
solo disconoscendo che, fra le dimensioni, non è comunque il
presente a detenere il «primato», bensì il passato: che quindi
proprio quella dialettica che culmina nel toglimento delle di-
mensioni attua il passaggio nell’eternità solo in quanto si co-
niuga primariamente al passato, al di qua del presente e di un
ora che vengono continuamente scavalcati e infranti.
D’altro lato, proprio questa circostanza non rende agevole se-
guire il testo hegeliano quando si tratta di determinare la totali-
tà delle dimensioni che si concentra nel passato come eternità,
né tantomeno comprendere come il superamento dei momen-
ti temporali conduca a una loro integrazione che ripristina la
scena del presente. Abbiamo visto come il primato del pas-
sato rispetto a presente e futuro coincida con il toglimento
del passato stesso in quanto dimensione. L’auto-annullamento
di quest’ultimo54 dovrebbe comprendere le tre dimensioni in
un’unità articolata, che Hegel ridetermina come ora:
e per l’indivisibilità dell’ora tutti e tre sono un unico e me-
desimo ora… L’ora è soltanto l’unità di queste dimensioni.55
Il testo perviene in tal modo al concetto di eternità come ri-
sultato della dialettica concreta della temporalità, a differenza
che nell’Enciclopedia, dove non venendo chiarita quest’ulti-
ma, anche il concetto dell’eternità non risultava rigorosamen-
te fondato. E certamente, che il movimento delle dimensioni

54.  «Ma per la sua immediatezza, tanto di essere negativo nei confronti
dell’ora negativo [negierend], quanto di trasformare il futuro nel passato,
oppure in relazione a se stesso, di togliersi in quanto negativo [negierend],
è esso stesso ora» (J.S.III, pp. 12-13). Sul significato dell’«immediatezza»
nel reciproco scavalcamento delle dimensioni, cfr. infra, cap. III, pp. 192
e 195-198.
55.  J.S.III, p. 13.
125

conduca infine al superamento del tempo nell’Ewigkeit spe-


culativa spiazza di necessità ogni considerazione che si muova
nell’ambito di una concezione «dimensionale», indica il frain-
tendimento cui il pensiero hegeliano deve andare soggetto
quando l’eternità, nell’accezione dialettica che le è propria,
non venga tematizzata e posta al centro dell’indagine. Nel mo-
mento in cui vengano assolutizzati primati ontologici o catego-
riali fra i momenti del tempo, ci si espone al rischio di ridurre
questa ermeneutica speculativa a una prospettiva meramente
«finita». I rapporti di priorità che indubbiamente vigono entro
le dimensioni assumono una valenza solo relativa dal punto di
vista dell’eternità realizzata:
Il presente non è né più né meno che il futuro e passato. Ciò
che è assolutamente presente o eterno, è il tempo stesso, come
l’unità di presente, futuro e passato.56
L’ambivalenza del pensiero dialettico sta tutta qui. Da un lato,
le dimensioni entrano a far parte di un processo che culmina
nel passato e nel toglimento di tutti i momenti entro una tota-
lità che pare costituirsi al di qua dell’ora e dell’essere. Dall’al-
tro, questa totalità dovrebbe riconvertirsi in una presenza tan-
to più compatta e consistente, in quanto non più soggetta a
toglimento.
Ed è senz’altro necessario, dal punto di vista concettuale, che
la presenza risultante dal ripiegamento delle dimensioni del
tempo entro una totalità strutturata non sia più sottoposta al
superamento che trascinava continuamente alla sua rovina
l’ora «immediato» del «primo» presente. L’ora in cui si realiz-
za una tale totalità non ripercorre il movimento di toglimen-
to delle dimensioni da cui scaturisce, poiché le imbriglia e le
contiene tutte in sé. Esso attraversa ogni dimensione, per-
ché è il prodotto e l’attuazione della loro compenetrazione

56.  Ibidem.
126

reciproca: attraversamento che dunque, mentre si produce al


modo di una rinnovata espansione, coincide simultaneamente
con la concentrazione massima del tempo, con la distruzione
della sua suddivisione e distensione nella triplicità di quelle
scisse dimensioni.
Ciò che risulta meno dimostrabile è il rovesciamento in pre-
sente e in ora della totalità, che pure in Hegel si «realizza» al
tempo del passato. Intendere quest’ultimo come risultante
dall’essere-trascorso di quel «secondo» ora, nel quale abbia-
mo visto il futuro riconvertirsi in esistenza e presenzialità, per
basare quindi sull’«indivisibilità» dello Jetzt medesimo verso
cui la Vergangenheit si toglie la determinazione della totalità
temporale come eterna presenza, non risulta facilmente ac-
cordabile con ciò che risulta dallo svolgimento concettuale
del tempo stesso. Non è soltanto quel «secondo» ora, infatti,
che sprofonda immediatamente nella sfera del già-stato, rica-
dendo al di qua del livello dell’effettualità e della presenza: a
sua volta, il passato così divenuto, se da un lato si toglie, come
dimensione, nello Jetzt dell’eterno attuale di volta in volta,
dall’altro però non cessa di rappresentare la verità cui tutti gli
ora della presenza, e la totalità medesima del tempo, vengo-
no a soggiacere. Ciò rende problematico parlare in termini in-
tratemporali di un «superamento» del passato, in quanto esso
condurrebbe al superamento dell’intera sfera del tempo, e di
conseguenza dell’eternità stessa, che instaura la contrazione
in «unità» dei suoi momenti57.

57.  La tensione concettuale di cui qui si tratta è testimoniata anche da taluni


slittamenti terminologici, che riguardano l’impiego delle determinazioni di
«totalità» e di «unità» in relazione al passato e all’eternità. Nella Differenz-
schrift, dove mostra di possedere già una ben chiara nozione dell’eternità,
Hegel si serve di quest’ultima per specificare il significato dell’«intuizione
trascendentale» in rapporto alla critica del «progresso infinito», in cui a suo
avviso restava prigioniera la filosofia di Fichte. Il punto è sinteticamente que-
sto: non può darsi Aufhebung del finito e attuazione del «vero» infinito senza
127

Certo, la dialetticità che il passato incorpora si mostra decisi-


va per la comprensione delle modalità di sviluppo del movi-

in pari tempo procedere all’Aufhebung del tempo inteso come successione


lineare d’istanti. Hegel si chiede «cosa significherebbe pensare senza intu-
izione», e si risponde: «In absoluten Endlichkeiten sich endlos zerstreuen»
(Diff., p. 31; tr. it. cit., p. 32). Ora, poiché in ciò consiste l’opera dell’intel-
letto; poiché d’altro canto la radice del Verstand sta nella medesima Ver-
nunft, ecco che il Verstand si protende alla conciliazione delle opposizioni,
alla ripristinazione dell’identità, all’unificazione nel/con l’infinito. Proprio in
quanto assolutizza il finito, però, esso assolutizza (cioè reifica, fissa, oppone)
lo stesso infinito, innescando il meccanismo perverso di un «progresso in-
finito», che nel tentativo di togliersi riproduce costantemente se stesso. Da
tale impostazione filosofica scaturiscono il tempo e l’incapacità di superarlo
nel concetto. Hegel definisce il «progresso infinito» come «una mistura di
empirico e di razionale; l’empirico è l’intuizione del tempo, il razionale è il
togliere ogni tempo, l’infinitizzazione di esso» (Diff., p. 32; tr. it. cit., p. 33,
corsivo mio). Il «progresso infinito» non riesce quindi a infinitizzare com-
piutamente il tempo (si potrebbe dire: a infinitizzare propriamente l’infinito
stesso), «poiché il tempo deve sussistere in esso come finito, come momenti
limitati» (ibidem). Viceversa, l’instaurazione dell’infinito va di pari passo con
l’annullamento dell’interminabile «progresso», col «superamento» del tempo
come «finito» e la realizzazione dell’eternità: quest’ultima è beides zugleich,
identità di limitato e illimitato, intuizione della compenetrazione simulta-
nea di attimo presente e della sua esteriorità. L’intelletto è costretto a sem-
plicemente «postulare» l’intuizione della compenetrazione degli opposti, a
sintetizzarli contraddittoriamente, quindi ancora in maniera negativamente
antinomica; ma già nell’atto di quella «postulazione», deve presupporre il
tempo come anch’esso costituito dalla compenetrazione di finito e (impro-
priamente detto) infinito. Ciò consente di svelare il contenuto dell’antinomia
nella sua «verità», di ripiegare in presenzialità intuitiva l’infinito altrimen-
ti reificato e ipostatizzato in «al di là» dall’intelletto: «In quanto l’antinomia
postula l’intuizione determinata del tempo, il tempo deve essere i due mo-
menti insieme, il momento limitato del presente e l’illimitatezza del suo es-
ser-posto-fuori-di-sé, e quindi deve essere eternità» (ibidem, corsivo mio).
Sulla base delle analisi fin qui compiute, possiamo intendere la direzione
verso cui Hegel si era già mosso in queste pagine: il «sussistere» del tempo
«come momenti limitati» mostra che egli intende il tempo «come finito» in
quanto viene scomposto in dimensioni astratte, «limitate» l’una dall’altra e
reciprocamente esterne; l’iterazione dell’avverbio zugleich sottolinea come,
di contro alla concezione «empirica» del tempo come «progresso» e avvicen-
128

mento speculativo e ad esse funzionale: l’auto-negazione del


passato come «dimensione» costituisce la molla che conduce
alla costante ripristinazione dell’ora dell’eternità (in termini
logici: alla progressiva esposizione delle categorie), così come
quest’ultimo si trova sempre di nuovo inghiottito nel passato
(in termini logici, si tratta dello svelamento del carattere di
fondamento delle categorie emerse successivamente nel de-
corso dell’esposizione). Ma in quella dialetticità è contenu-
ta anche tutta la carica di problematicità, che investendo la
dialettica del tempo e il suo raccoglimento nell’istantaneità
dello Jetzt eterno, si ripercuote sulle modalità di costituzione
del dispositivo epistemico. Concentrando in sé la totalità del
tempo, infatti, il passato trascende in Hegel il limite della sua
definizione meramente cronologico-temporale, venendo a isti-
tuire una nozione di antecedenza che irriducibilmente ecce-

damento lineare di ora omogenei, il tempo stesso si riveli eterno in quanto


nei suoi istanti è già accaduto, e sempre di nuovo accade, il ripiegamento/to-
glimento delle dimensioni nell’identità reciproca. Ora, la categoria di totalità
è impiegata da Hegel per designare appunto il compimento dell’Aufhebung
di cui si tratta: «Se il tempo deve essere totalità, in quanto infinito, il tempo
stesso è tolto… Il vero togliere il tempo è un presente senza tempo o eter-
nità, nel quale scompare lo sforzo e il persistere dell’assoluta opposizione»
(Diff., p. 56; tr. it. cit., p. 56). Al contrario, nel testo del 1805-06, il termine
di «totalità» designa il precipitare delle dimensioni temporali nel passato,
mentre all’eternità spetta la determinazione dell’«unità» di presente, futuro
e passato. È evidente, tuttavia, che la difficoltà celata nell’auto-superamento
del passato verso lo Jetzt dell’eternità non si lascia risolvere in questo modo.
Esso pure, infatti, per istituirsi come «unità» delle dimensioni, non può che
essere concepito come loro «totalità»; ciò che appunto riproduce il proble-
ma di partenza. In ultima analisi, la questione riguarda la capacità, da parte
dell’Ewigkeit speculativa, di sottrarsi una volta per tutte al «tempo naturale»
e allo sprofondamento cui quest’ultimo soggiace, raccogliendosi nella totali-
tà del passato e auto-superandosi per immobilizzarsi nuovamente in spazio.
La domanda verte quindi sulla spazializzazione dell’eterno; ma per poterla
porre in tutta la sua ampiezza, la ricerca dovrà percorrere un ulteriore trat-
to di cammino (cfr. infra, cap. III, §§ 5 e 6).
129

de la rappresentazione dimensionale del tempo. Ciò significa


che in esso il tempo nella sua totalità viene trascinato in una
zona già-da-sempre sottratta all’ambito della realizzazione e
dell’effettualità, già-da-sempre «scaduta» al di qua dell’esse-
re e del presente. Poiché il passato mostra così di essere «in-
temporalmente» passato, esso riflette tale continuo sfuggire
del tempo al di qua del compimento conseguito sulle scansio-
ni metodologiche fondamentali che governano l’esposizione
logico-sistemica58.
L’eternità in cui sfocia la dialettica del tempo è quindi tutt’altro
che compatta, tutt’altro che «semplicemente presente». In lei
s’istituisce una presenza che sfugge continuamente a se stessa
proprio in quanto è complessa e risulta da un processo di pro-
gressiva distruzione delle dimensioni che termina il suo svi-
luppo nel passato. L’articolazione incorporata nell’ora eterno è
segnata dal passato in cui il movimento di risoluzione delle di-

58.  La nostra ricerca si muove, su questo punto, entro l’orizzonte problema-


tico determinato da R. Bodei, nel saggio Die “Metaphysik der Zeit” in He-
gels Geschichte der Philosophie, in Hegels Logik der Philosophie. Religion
und Philosophie in der Theorie des absoluten Geistes, hrsg. v. D. Henrich u.
R.-P. Horstmann, Klett-Cotta, Stuttgart 1984, pp. 79-98. Bodei mostra come
la filosofia, in Hegel, «supera il tempo in quanto modo dell’esteriorità e lo
trasforma in methodos, nel decorso della verità, nella Darstellung del suo
divenire e del suo auto-costituirsi» (ivi, p. 91), come «i tempi dello sviluppo
del pensiero sono trasformati in stadi dello sviluppo stesso della filosofia che
viene per ultima», cosicché «il tempo cronologico costituito dalle serie di fi-
losofie diventa un circolo interno, il tempo graduato dell’attraversamento si-
stemico» (ivi, p. 87). Egli valuta invece diversamente il ruolo del passato, in
quanto quest’ultimo cesserebbe «di costituire una minaccia non appena vie-
ne incorporato nel sistema in una forma depotenziata, come stadi concettuali
interni al sistema stesso, come tempo sistemico, svolgimento interno, e non
in quanto esteriorità del tempo cronologico e di opinioni indifferenti e con-
trastanti» (ivi, p. 84). Quest’ultima osservazione mostra che probabilmente
l’interpretazione del passato assume scansioni differenti in rapporto alla spe-
cificità degli orientamenti analitici, a seconda cioè che si assuma come sfon-
do dell’indagine il «tempo naturale» oppure quello della storia della filosofia.
130

mensioni viene a culminare, e che lo decentra continuamente


da se stesso. Perciò Hegel non può fare a meno di registrare,
forse suo malgrado, lo sfasamento che interviene a incrinare
la coincidenza fra la dialettica delle dimensioni e del loro su-
peramento (processo che sfocia nel passato), e la contrazione
nell’ora dell’eternità di quel medesimo movimento (ripristi-
nazione del presente, anche se non più come dimensione).
Da tale sfasatura che compromette la possibilità di risolvere
ogni contraddizione entro la categoria dell’eternità – dal fat-
to che persino l’ora dell’Ewigkeit speculativa viene a mancare
a se stesso, trascinato per così dire in un vortice che lo risuc-
chia nel passato, e sempre di nuovo lo disloca dal piano della
presenza che pure in esso dovrebbe compiutamente realizzar-
si – da tutto ciò risorge il movimento, riemerge il flusso di una
temporalità, che benché non abbia più nulla a che fare con la
cronologia della rappresentazione o della visione «ordinaria»,
pure ripristina la processualità di uno svolgersi diveniente en-
tro il concetto stesso dell’eternità.
Per generare se stessa, quest’ultima deve continuamente ri-
produrre la dialettica delle dimensioni, da cui proviene. La
realizzazione del tempo nell’eternità origina sempre di nuo-
vo il movimento che la produce, così come quest’ultimo per-
viene in essa a un arresto, che ricostituisce simultaneamen-
te il momento del suo inizio. Ecco perché in Hegel l’eternità
non si contrappone al tempo, bensì designa appunto il «tem-
po come tempo»: scavalcamento che è anche conservazione,
distruzione/superamento che si produce in forma di realizza-
zione e compimento59. Mai come in questo caso la nozione di

59.  Cfr. su questo punto l’opera di H. Marcuse, Hegels Ontologie und die
Grundlegung einer Theorie der Geschichtlichkeit, Klostermann, Frank-
furt a.M. 1932; tr. it. di E. Arnaud, L’ontologia di Hegel e la fondazione
di una teoria della storicità, pres. di M. Dal Pra, La Nuova Italia, Firenze
1969, pp. 183-184: «L’intemporalità del movimento dell’idea non ha quin-
131

Aufhebung rivela la complessità concettuale contenuta entro


la duplicità dei significati che ne contrassegna la determina-
zione speculativa; mai come in questo caso, però, i due mo-
menti dell’Aufhebung si espongono alla frattura della loro non-­
coincidenza: essi sono intrecciati e reciprocamente implicati,
eppure ugualmente sfasati, non-identici e non-conciliati. Ciò
pone la realizzazione come eternità del tempo sempre simul-
taneamente al di sotto della soglia oltre la quale soltanto si po-
trebbe presentare come tale, l’attuazione resta sempre anche
al di qua della sua effettuazione dispiegata, e mai del tutto in
grado di assorbire l’incidenza del passato, nel quale anche il
presente dell’eternità resta impigliato, situandosi così all’ini-
zio di un movimento che nuovamente procede, attraverso il
futuro, verso il passato stesso.

3.1. Excursus sull’interpretazione di Koyré e di Kojève


L’interpretazione della dialettica temporale qui sostenuta non
si accorda, evidentemente, con quella che hanno fornito stu-
diosi come Koyré e Kojève. In effetti, benché rappresenti in un
certo senso un classico, la loro lettura non sembra corrispon-
dere alla determinazione speculativa dei concetti di eternità
e tempo, poiché non consente di coglierne la dislocazione in
rapporto alla concezione della logica. Prima di approfondire il
punto in questione, può risultare quindi opportuno, da parte

di affatto il carattere di un’extra- o sovra-temporalità. Ciò risulta perfetta-


mente chiaro dall’esposizione del tempo nella filosofia della natura, in cui
Hegel distingue appunto la specifica temporalità dell’idea dalla temporalità
della natura. Hegel determina qui la “temporalità” dell’idea come “eterni-
tà”… l’eternità è certamente “senza il tempo naturale”… e in questo senso
“assoluta intemporalità”; questo però non è un annullamento del tempo,
bensì la suprema realizzazione del tempo». La «suprema realizzazione del
tempo» equivale in Hegel alla distruzione del tempo naturale negli attimi
concettuali dell’eternità.
132

nostra, prendere posizione anche rispetto a questa interpreta-


zione, la quale s’impernia non più – come in Heidegger – sul
primato che fra le dimensioni spetterebbe a quella del pre-
sente, bensì sulla posizione privilegiata che verrebbe invece
ad assumere il futuro.
Nel suo saggio del 1934 Hegel a Jena, Koyré scrive:
Il tempo non ci giunge “dal passato”, ma dal futuro. La du-
rata non si protrae dal passato al presente. Il tempo si costi-
tuisce estendendosi – o, meglio, esteriorizzandosi – a partire
dall’“ora”, ma non, ancora una volta, protraendosi, durando.
È, al contrario, dal futuro che giunge a sé nell’ora. La “di-
mensione” prevalente del tempo è il futuro, che, in qualche
modo, è anteriore al passato. Quest’insistenza sul futuro e il
primato ad esso conferito sul passato, costituiscono, a nostro
avviso, la maggiore originalità di Hegel.60
La posizione di Koyré viene ripresa da Kojève, secondo il qua-
le l’articolo sopra citato del primo
mostra bene che il Tempo preso in considerazione da Hegel
è quello che, per noi, è il Tempo storico (e non biologico o
cosmico). Questo Tempo, infatti, è caratterizzato dal primato
dell’avvenire… Nel Tempo di cui parla Hegel… il movimento
ha origine nell’Avvenire e va verso il Presente passando per
il Passato: Avvenire → Passato → Presente (→ Avvenire).61
Da un lato, il limite di queste posizioni emerge nel fatto che
la trasposizione sul terreno della realtà storico-effettuale del-
la dialettica temporale impedisce di afferrare la compenetra-
zione fra concetto speculativo dell’eternità, processo del suo
divenire e modalità di svolgimento dei procedimenti logico-

60.  Cfr. A. Koyré, Hegel à Iena (1934), ora in Id., Études d’histoire de la
pensée philosophique, Gallimard, Paris 19712, pp. 147-189; tr. it., Hegel a
Jena, in J. Hyppolite et al., Interpretazioni hegeliane, cit., pp. 133-167, in
part. p. 157.
61.  Cfr. A. Kojève, Lezioni sull’eternità, il tempo e il concetto, cit., p. 204.
133

categoriali – più semplicemente, essa non permette di giu-


stificare e comprendere l’asserzione hegeliana, ripetuta più
volte, secondo la quale l’eternità sarebbe il concetto del tempo.
Dall’altro, quella trasposizione può aver luogo solo presuppo-
nendo il primato del futuro rispetto al passato nella concezione
di Hegel, mentre finché si permane all’interno di una consi-
derazione dimensionale e perciò finita delle relazioni intra-­
temporali, il momento «privilegiato» non è affatto il futuro
bensì il passato62, in quanto è il passato a costituirne la verità.
Tale primato va senz’altro inteso dialetticamente: infatti, esso
coincide col toglimento del passato stesso come dimensione,
da cui dovrebbe scaturire l’ora dell’eternità. A tale proposito,
Koyré scrive:
L’istante del presente – ogni istante del presente –, l’ora pro-
teso verso il futuro e inglobante il passato, è già istante d’e-
ternità. Ogni nunc è un nunc aeternitatis, poiché l’eternità è
il tempo stesso… la natura dialettica dell’istante garantisce
il contatto e la compenetrazione fra il Tempo e l’Eternità.63
La determinazione dell’eternità come istante è stata ripresa
da altri importanti interpreti hegeliani64. Tuttavia, l’esposizio-

62.  Cfr. in proposito O.D. Brauer, Dialektik der Zeit. Untersuchungen zu


Hegels Metaphysik der Weltgeschichte, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad
Cannstatt 1982, p. 138: «Ciò che nella concezione hegeliana del tempo è
veramente rivoluzionario sta nel ruolo che viene ascritto al passato… Il pas-
sato è la “verità” del tempo e simultaneamente la negazione del tempo in
quanto tale… il risultato della dialettica del tempo, e in pari tempo il togli-
mento temporale del tempo». Sulla critica dell’interpretazione di A. Kojève,
cfr. infra, nota 66.
63.  A. Koyré, Hegel a Jena, cit., p. 166.
64.  H. Niel, nell’opera De la médiation dans la philosophie de Hegel, Aubier,
Paris 1945, riprende a questo proposito l’interpretazione di Koyré, quando
afferma: «L’eternità alla quale Hegel aspira è immanente al tempo, è l’eter-
nità dell’istante. Hegel intende realizzare qui in basso la riconciliazione con
l’assoluto che il credente riporta nell’aldilà e che concepisce sotto forma di
134

ne di Koyré non permette di cogliere la problematicità che


grava su questo ritorno del presente. Se infatti non è il futuro,

visione beatifica» (p. 224, nota). Egli sottolinea quindi la valenza propria-
mente speculativa che la concezione dell’istante assume in Hegel: «L’istan-
te è la rivelazione di quella presenza assoluta degli esseri che contiene allo
stesso tempo il passato e il futuro. Mediante la contemplazione filosofica, lo
spirito si apre all’immanenza dell’eternità nel tempo e del tempo nell’eter-
nità» (ivi, p. 249). Niel conclude però tale brano con un’osservazione che ci
lascia perplessi: «Bisogna nondimeno riconoscere che essendo data la pre-
minenza accordata all’idea, lo spirito non è temporalità, ma potenza stessa
del tempo; ciò dona al tempo hegeliano un carattere essenzialmente lineare»
(ibidem). In effetti, la preminenza dell’idea non comporta semplicemente la
distruzione del tempo, ma l’idea stessa, e l’esposizione logico-sistematica in
generale, è proprio quel «tempo come tempo» che alcuni interpreti (cfr. su-
pra, nota 53) hanno inteso come «temporalità originaria». Inoltre, il tempo è
considerato alla stregua di una progressione lineare d’istanti dalla concezione
«finita», mentre proprio «la preminenza dell’idea», che sorge del resto dalla
dialettica delle dimensioni del tempo, ripiega nella concretezza dell’attimo
quanto sarebbe altrimenti una semplice successione di ora. Pur collocando-
si entro un contesto fenomenologico, taluni fraintendimenti può suscitare
anche la trattazione di B. Liebrucks nel già citato vol. V di Sprache und Be-
wusstsein. A proposito del movimento che conduce la «certezza sensibile»
a opinare il singolo ora, ma a enunciare invece un «Universale», Liebrucks
così si esprime: «Se questo ora è universale in senso ultra-­temporale, allo-
ra non devono essere vere per lui le determinazioni che valgono all’interno
del mondo della temporalità. Non è dunque più possibile dire che l’ora non
sarebbe nello stesso attimo in pari tempo notte e non-notte. Giacché l’ora è
sempre… ora, esso non è mai limitato a un attimo. Se dunque è universale,
fa parte delle condizioni dell’universalità che esso possa essere tanto notte
come non-notte, perché l’universale è extra-temporale… L’ora universale
non è in questo attimo. In questo attimo c’è piuttosto questo ora determina-
to. L’ora universale non è in nessun tempo» (op. cit., pp. 20-21). Al contra-
rio, se in Hegel non si può parlare di «extra-temporalità» per l’ora «eterno»,
tantomeno ciò diventa possibile per l’ora «universale», che in una delle due
Nachschriften pubblicate da Bonsiepen viene definito come «Allgemeine[s]
in der Zeit» (W. Bonsiepen, op. cit., p. 53), e la cui stessa determinazio-
ne concettuale risulta incompatibile con una sua qualificazione in senso
«ultra-­temporale». Cfr., in questo senso, la sua riconduzione da parte di He-
gel alla nozione di durata (ivi, p. 53 e p. 72; Enz., II, § 258, Z., p. 50). Per
135

ma il passato che costituisce la «verità» del tempo, perde ogni


scontatezza la riaffermazione, nell’eternità, di un presente sia
pure non più connotato in senso dimensionale e cronologico.
Tale riaffermazione dovrebbe ripristinare il rapporto ontolo-
gico, che la dialettica delle dimensioni faceva continuamente
mancare a se stesso.
Altrettanto discutibile appare la formalizzazione dell’eternità
che, secondo il testo in questione, sembra contrassegnare la
concezione dialettica. Per Hegel, cioè, sarebbe eterno «ogni»
attimo, indipendentemente dal contenuto che in esso si viene
a realizzare. Sulla scorta di tale equazione, Koyré procede a
identificare eternità ed «eterno movimento dello spirito», ciò
che alla fine permette di «spiegare… il fallimento del tenta-
tivo hegeliano. Se, infatti, il tempo è dialettico e si costruisce
a partire dal futuro, esso – checché ne dica Hegel – è eterna-
mente incompiuto»65.
La radice di tali considerazioni va individuata, ci sembra, nel-
la trasposizione all’ambito della realtà storica di procedimenti
dialettici che rivestono invece valenza teoretica, logico-catego-
riale. Essi possono venire adeguatamente interpretati solo se
intesi dal punto di vista della logica filosofica. Ma per questo è
necessario riconoscere che tra le dimensioni temporali la verità
e il «primato» spettano a quella del passato; che la dialettica di
tali dimensioni non segue una progressione del tipo Avvenire-
Passato-Presente, come sostiene Kojève, ma di tipo Presente-
Avvenire-Passato66; che infine tale considerazione «dimensio-

l’interpretazione offertane da Wandschneider, cfr. infine cap. III, nota 116


della presente ricerca.
65.  A. Koyré, Hegel a Jena, cit., p. 166.
66.  Così anche O.D. Brauer, op. cit., in polemica esplicita con Kojève: «L’or-
dine che Kojève fornisce nella sua interpretazione: futuro, passato, presente,
in Hegel non si trova. L’errore di questa interpretazione dipende dalla prio-
136

nale» del tempo designa comunque, per Hegel, una modalità


della comprensione «finita». Poiché fra le dimensioni non av-
viene un superamento di tipo lineare ma circolare, la dialettica
di presente, futuro e passato ripiega i suoi momenti nell’unici-
tà e presenzialità dell’istante eterno. Tuttavia, solo l’esercizio
del pensiero e la sua realizzazione sul piano della Darstellung
speculativa sono in grado d’incorporare, entro il movimento
dialettico dell’esposizione filosofica, l’auto-­cancellazione delle
dimensioni e la loro reciproca compenetrazione nell’istante,
concettualmente determinato, dell’eternità67.
Se dunque Hegel asserisce la compiutezza del tempo solo
in rapporto alla filosofia, perché soltanto le modalità di at-
tuazione dello svolgimento concettuale possono esprimere
l’auto-­costituzione dell’eternità nell’attimo riempito del pre-

rità ascritta al futuro»; al contrario, «presente, futuro e passato, questo è per


Hegel l’ordine logico dei momenti del tempo» (p. 138, nota).
67.  Forse solo in tal modo si può sfuggire a un altro dei possibili frain-
tendimenti cui può andare soggetta la determinazione dell’eternità come
ora. L’istantaneità di quest’ultimo, infatti, non può andare intesa in senso
meramente puntuale, poiché ciò significherebbe ricadere al di sotto della
concezione dialettica, ripristinare l’interpretazione «finita» del tempo come
ininterrotta successione d’istanti «livellati». D’altro lato, solo il dispositivo
logico della Darstellung filosofica, con la reciproca confluenza e «distruzio-
ne» delle direzioni temporali che la contraddistingue, è in grado di realizza-
re lo Jetzt come «attimo immenso» – indefinitamente espanso e scaturente
dal «futuro», così come già-da-sempre-stato e custodito nel «passato» – «das
Ewige und darum auch absolute Gegenwart». Di altro avviso risulta invece
O.D. Brauer, op. cit., p. 159: «Il concetto hegeliano di tempo pensa… un
tempo riempito, in cui l’eterno stesso perviene a effettualità, la storia del
mondo come attuazione della libertà. Solo di questo tempo cosmico-storico
si può dire, che in esso “il presente concreto… è risultato del passato, e…
gravido del futuro”». In tal modo, il «primato» del passato viene interpre-
tato alla luce della sua funzione produttiva in rapporto alla filosofia della
storia: «Il passato è l’essere-opera del mondo presente, oppure, in altri ter-
mini, il presente, in quanto “opera” del lavoro cosmico-storico, è l’“esserci”
del passato» (ibidem).
137

sente – se per lui è soltanto l’ora concettuale a essere eterno,


ciò renderebbe impossibile impiegare contro di lui l’obiezione
dell’«incompiutezza» del tempo. Al contrario, poiché l’eter-
nità verrebbe a svolgere una funzione teoretico-­categoriale,
l’istanza di verità e assolutezza espressamente rivendicate co-
me proprie dal sapere filosofico non soltanto si concilierebbe,
ma renderebbe per la prima volta davvero pensabile l’apertura
al nuovo e l’incompiutezza come tratti distintivi di ciò che in
epoca moderna viene inteso come «storia»68.

68.  Per un primo orientamento sulla questione, cfr. B. Lakebrink, Hegels


Metaphysik der Zeit, in Id., Studien zur Metaphysik Hegels, cit., pp. 135-
148, in part. pp. 145-148; R.K. Maurer, Hegel und das Ende der Geschichte.
Interpretationen zur «Phänomenologie des Geistes», Kohlhammer, Stuttgart
1965 (poi Alber, Freiburg i.Br.-München 19802), il quale, in particolare, a
proposito dell’interpretazione di Kojève, sostiene: «Poiché per Kojève il tem-
po è e resta il concetto, egli intende il superamento del tempo come un supe-
ramento temporale: come il tempo finale in cui la storia, col soddisfacimento
definitivo di tutti gli uomini, si sarebbe arrestata» (p. 80); O.D. Brauer, op.
cit., p. 192; F. Chiereghin, Hegels Konzeption der Wahrheit als Ganzes, in
Hegels Logik der Philosophie, cit., pp. 213-223, in part. p. 215 e p. 221);
e infine il recente D. Souche-Dagues, Le cercle hégélien, cit., cap. IV: Le
temps, pp. 151-172. Al contrario, N. Rotenstreich, Legislation and Exposi-
tion. Critical Analysis of Differences Between the Philosophy of Kant and
Hegel, Bouvier, Bonn 1984, ritiene che in quanto la «storia è uno dei domini
della speculazione… i fattori della storia sono fattori della fine della storia»
(p. 75). Della rilevanza che la questione della «fine della storia» aveva assunto
in Germania all’inizio degli anni ’30 del secolo scorso, reca testimonianza il
testo di U. Kayser, Das Problem der Zeit in der Geschichtsphilosophie He-
gels, Diss., Berlin 1930, che si conclude con una Nachbemerkung orientata
in prospettiva cristologica, intitolata appunto Das Ende der Geschichte. Da
consultare al riguardo anche le dissertazioni, risalenti ai primi anni ’50, di
N. Altwicker, Der Begriff der Zeit im philosophischen System Hegels, Frank-
furt a.M. 1951, e di H. Kobligk, Denken und Zeit. Beiträge zu einer Inter-
pretation des Hegelschen Zeitbegriffes, Kiel 1952. Sulla determinazione in
senso begriffsgeschichtlich del concetto di storia, imprescindibili risultano
gli studi di R. Koselleck, Vergangene Zukunft. Zur Semantik geschichtlicher
Zeiten, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1979; tr. it. di A. Marietti Solmi, Futuro
passato. Per una semantica dei tempi storici, Marietti, Genova 1986.
138

D’altro canto, non bisogna dimenticare che categorie come


«presenzialità», «compiutezza» e «realizzazione» restano estre-
mamente problematiche fin dentro il perimetro della filosofia,
anche quando questa si affermi, come in Hegel, nell’assolutez-
za del sapere speculativo. Infatti, come la dialettica temporale
istituisce un’eternità che sfugge a se stessa verso l’ineffettualità
del passato, così anche il movimento concettuale non può mai
pervenire alla presentazione senza residui e senza opacità di se
stesso. Un paradosso, forse non dominabile dalla dialettica, si
celerebbe allora entro la duplice, per una volta davvero sim-
metrica determinazione hegeliana, secondo la quale l’eternità
è concetto così come unicamente il concetto e l’idea esprimo-
no l’autoriflessiva eternità del vero – paradosso che si tratta
intanto di determinare nei suoi effetti specificamente produt-
tivi rispetto alle modalità dell’articolazione logico-sistemica.

4. L’eternità come ora concettuale: «Ewigkeit» speculativa


e ritmo dell’esposizione
L’esposizione filosofica si è già dimostrata eccedente rispetto
a ogni tentativo di sua traduzione nel linguaggio della crono-
logia. Se «l’andare innanzi è un tornare addietro al fondamen-
to, all’originario ed al vero», se «ogni passo del progresso nel
determinare ulteriormente, mentre si allontana dal comincia-
mento indeterminato, è anche un riavvicinamento ad esso… e
perciò quello che da prima può sembrare diverso, il regressivo
fondare il cominciamento, e il progressivo determinarlo ulte-
riormente, cadono l’un nell’altro e sono lo stesso»69, la verità
che in essa giunge a effettuazione può a buon diritto essere
chiamata intemporale.

69.  Loc. cit. supra, nota 3.


139

Ma in questo modo, l’intemporalità cessa di designare il con-


cetto come attributo generico e privo di determinatezza teo-
retica. L’intemporalità o l’eternità di cui Hegel parla in rife-
rimento alla verità non significano più l’appellativo fin troppo
consueto con cui la superbia dei pensatori ammanterebbe di
sé le loro dottrine. Esse assurgono invece a indicazione me-
todologica fondamentale e pregnante, in quanto nel loro con-
tenuto speculativo sono racchiuse le modalità di organizza-
zione e di svolgimento attraverso le quali si viene a istituire
l’esposizione filosofica. Il concetto è eterno, perché soltanto il
ritmo che scandisce l’attuazione dei procedimenti categoria-
li può incorporare in sé la dialettica della cancellazione delle
dimensioni, del divenire e realizzarsi dell’eternità. In quanto
è il prodotto di un movimento speculativo, ogni concetto con-
trae nel suo contenuto il decorso categoriale rispetto a cui era
futuro, e del quale forma in pari tempo il passato. Ogni con-
cetto costituisce uno Jetzt concettualmente determinato (pre-
sente) che si protende verso ciò che da lui scaturisce (futuro)
per mostrare che l’ora in cui tale futuro precipita in categoria
logica non è identico al primo «immediato» da cui l’esposizio-
ne iniziava, ma svela invece quanto già da sempre ne stava a
fondamento (passato).
Così, Hegel può determinare il modello generale dello svol-
gimento dialettico come simultaneamente percorso-verso e
ritorno all’origine: la categoria che nel corso dell’esposizione
viene dopo dev’essere concepita prima, come l’autentica pro-
venienza di quella che nella Darstellung l’anticipava. E ciò è
simultaneamente necessario e possibile dal momento in cui
la categoria, che nel corso dell’esposizione appare successiva-
mente, si dimostra immanente, allo stadio implicito, nel con-
cetto rispetto al quale funge da fondamento – se ri-pensando
il contenuto di questo concetto è inevitabile concepire anche
quell’altra categoria. Tale «fatica del concetto», che sviluppa il
suo movimento come ri-pensamento ed esplicitazione di quan-
140

to era già contenuto entro la nozione di volta in volta com-


presa, spiega il frequente impiego da parte di Hegel dei modi
del passato per indicare la transizione a ciò che invece, nella
scansione dell’esposizione linguistica, emerge solo in seguito70.

70.  G.R.G. Mure, nel suo libro A Study of Hegel’s Logic, Clarendon Press,
Oxford 1950, pone giustamente in relazione l’impiego del tempo «passato»
all’intemporalità del movimento concettuale. A proposito della transizione
reciproca fra l’essere e il nulla, all’inizio della Logica, egli scrive che «la so-
stituzione del tempo presente col perfetto vuole significare che l’oscillazione
reciproca non è temporale» (ivi, p. 35). Tuttavia, poiché egli non tematizza
il concetto hegeliano d’«intemporalità» o eternità, non riesce a chiarire la
motivazione filosofica di tale privilegiamento del passato, rischiando perciò
di ridurre quell’uso ad accorgimento puramente linguistico. Così, quan-
do si tratta di chiarire il senso dell’eternità attribuita da Hegel al concetto,
Mure la intende come se fosse in gioco l’intrascendibilità della Logica nel-
la successione degli ora, senza cogliere nell’eternità la determinazione del-
le modalità di articolazione della Darstellung speculativa: «Si può dubitare
se Hegel credesse o no la sua Logica eterna, ma non si può dubitare che il
nucleo di hegelismo che abbiamo cercato di costruire non giustifica questo
punto di vista» (ivi, p. 328). Al contrario, la logica va concepita come scien-
za dell’apertura al nuovo e consapevole della sua propria storicità, proprio
per le modalità di destituzione del tempo che la sua eternità realizza. Sul-
la funzione peculiare del passato in Hegel, cfr. anche H. Marcuse, L’onto-
logia di Hegel, cit., p. 135: «Nella categoria dell’essere posto l’essere-stato
(Gewesenheit) in quanto essenza (Wesen) della realtà trova ancora una volta
la sua compiuta espressione. Il reale raggiunge la sua realtà in base al suo
essere-stato, è reale sempre soltanto in virtù di ciò che è stato e derivan-
do da ciò che è stato, mediante il superamento del suo presupposto. Qui
ha il suo fondamento l’enigmatica affermazione fatta da Hegel nella Filo-
sofia della natura: “La verità del tempo è che non il futuro, bensì il passa-
to è la meta”». La posizione di Marcuse, che nel passo in questione mostra
di essere in qualche modo antesignana rispetto a quella di Brauer, intende
la funzione del passato alla luce della determinazione del reale come sto-
ricità. Tuttavia, il significato del passato non si esaurisce su questo piano,
bensì coinvolge, come stiamo cercando di mostrare, il movimento linguisti-
co e concettuale dell’esposizione, il quale è sempre anche uno svolgimento
«all’indietro», e quindi non solo espansione, ma intensificazione attuata come
raggiungimento del fondamento. Come abbiamo visto, quest’ultimo è da un
lato ciò da cui il movimento che lo precede in realtà proviene, e perciò ne
141

E. Bloch ha intravisto l’impronta del platonismo in questo avan-


zamento dialettico, che si svolge piuttosto come ritrovamento
di quanto intemporalmente è già stato, e al riguardo parla del-
la «profondità di un’anamnesi platonica del divenuto», cui non
soltanto Hegel non avrebbe saputo sottrarsi, ma che nel suo
«circolo di circoli» risulterebbe «persino più rafforzata… quan-
do egli descrive come tale il procedere dialettico, con un’ulti-
ma spirale di serpe»71. In realtà, l’identità di sviluppo espansivo
e ritorno verso l’origine attua un movimento di pensiero radi-
calmente incompatibile con la nozione platonica dell’anamne-
si, perché trasforma un metodo tradizionalmente imputato al
reperimento di contenuti ontologici in determinazione delle
modalità di svolgimento dell’esposizione linguistica: il ritorno
all’indietro che in ogni avanzamento fa scorgere l’approssima-
zione del fondamento tematizza l’antinomia fondamentale che
la linguisticità del filosofare speculativo comporta, e consente

costituisce il passato; dall’altro, però, poiché nel corso dell’esposizione esso


appare solo successivamente, poiché quindi s’istituisce in fondamento solo
attraverso lo svolgimento logico-linguistico che lo pone come tale, esso è un
passato che funge in pari tempo da meta, verso cui il dispositivo della Dar-
stellung è orientato e che già da sempre ha raggiunto, così come la concre-
zione del fondamento nello Jetzt dell’eternità realizzata attualizza il passato
come Gewesenheit autentica.
71.  Cfr. E. Bloch, Subjekt-Objekt. Erläuterungen zu Hegel, in Id., Gesamt-
ausgabe, Bd. 8, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1962; tr. it. di R. Bodei, Soggetto-
Oggetto. Commento a Hegel, il Mulino, Bologna 1975, risp. p. 500 e p. 503.
In termini critici nei confronti dell’interpretazione blochiana si esprime
J.-L. Vieillard-Baron, Hegel, philosophe de la réminiscence?, in «Interna-
tional Studies in Philosophy», VIII, 1976, pp. 145-166, in part. pp. 160-161,
anche se da un punto di vista parzialmente diverso dal nostro. Per un’ampia
panoramica sulla questione, cfr. anche V. Verra, Storia e memoria in Hegel, in
F. Tessitore (a cura di), Incidenza di Hegel, Morano, Napoli 1970, pp. 339-
364. Sull’interpretazione hegeliana di Platone, anche in rapporto a quanto
segue infra nel testo, cfr. G. Duso, L’interpretazione hegeliana della con-
traddizione nel “Parmenide”, “Sofista” e “Filebo”, in «Il Pensiero», XII, n. 2,
1967, pp. 206-220, e Id., Hegel interprete di Platone, Cedam, Padova 1969.
142

a Hegel di funzionalizzare la contraddizione alla costruzione


del sistema: da impedimento che potrebbe bloccarne ogni ul-
teriore sviluppo, essa diventa la categoria mediante la quale la
filosofia prende coscienza delle modalità costitutive della sua
propria esposizione.
Il movimento concettuale è dunque, ad esempio, essere (pre-
sente): questa categoria si nega in un futuro che compare
all’orizzonte dell’esposizione come sbocco e risoluzione delle
contraddizioni presenti. La concretizzazione ulteriore, però, il
«nuovo» concetto (ancora dunque attimo e ora) non è più l’ora
«immediato» del cominciamento, così come è la negazione di
quell’indeterminato e non «enunciato» futuro: esso è il passa-
to di quel concetto, poiché ne costituisce lo strato profondo,
l’autentica provenienza. Di qui l’effetto illusionistico dell’e-
sposizione, di qui la determinazione hegeliana delle modalità
che ne scandiscono il ritmo di realizzazione linguistica; di qui,
infine, la costituzione dialettica dell’eternità che essa incarna.
La Darstellung si dipana intemporalmente, resta in tal senso
eterna, ma è di volta in volta un’eternità nuova.
La necessità nella produzione di questo nuovo è già implici-
ta nell’uso linguistico: ciò che infatti è presente era futuro, e
nel tramonto della dimensione che prima lo designava si de-
termina come passato non relativamente ad altro, ma per così
dire in se stesso. Esso risulta superato dall’istante di volta in
volta attuale, che per esso rappresentava ancora un futuro e il
quale a sua volta, costituendo il passato di ciò che l’anticipa-
va, cela in sé il germe dell’auto-trascendimento negli ulteriori
Jetzt dell’eternità. Per comprendere la Darstellung speculati-
va bisogna dunque «pensare» la dialetticità del passato: esso
designa il momento che nell’esposizione è successivo, ma poi-
ché questo è appunto un passato, ciò che semplicemente era,
esso è simultaneamente un tolto, che rimanda verso il nuovo
ora del presente attuale, il quale a sua volta contrae nel suo
143

contenuto la medesima dialettica di presente-futuro-passato,


costituendosi a eternità semovente.
Così, l’eternità dell’esposizione comporta la distruzione delle
dimensioni temporali, ed è la totalità degli ora concettuali che
risultano da questo svolgimento72. L’eternità integra il movi-
mento di risoluzione delle dimensioni col simultaneo precipi-
tare di tale processo nella presenzialità dell’istante. La Dar-
stellung si dipana intemporalmente nel senso che incorpora
la dissoluzione delle dimensioni; ma in pari tempo espone la
contrazione della loro dialettica nel concetto singolo, di volta in
volta determinato, e che istituisce l’ora dell’eternità. La tempo-
ralità della Darstellung sfocia nella cancellazione di se stessa73,

72.  In questo senso, rischia di rivelarsi riduttiva la tesi di van der Meulen,
che così riassume i risultati delle sue ricerche rispetto a tempo, eternità e lo-
gica: «In Hegel… la pura sintesi o la negazione della negazione rappresenta
a ogni stadio del logos il concetto del tempo, il tempo originario come l’ori-
gine del tempo che appare, il quale tempo originario, seguendo Heidegger,
abbiamo chiamato temporalità. A dire il vero, abbiamo visto che esso è pro-
priamente, in tutti gli stadi inferiori, soltanto il tempo superato, non ancora
la temporalità stessa… Solo nella negatività più profonda, che si raccoglie in
sé, dell’idea assoluta noi vedemmo costituirsi, nell’unificazione di negazione
e negazione della negazione, il vero concetto come la vera radice del tempo»
(J. van der Meulen, Hegel, cit., p. 233). Al contrario, ciò che van der Meu-
len chiama temporalità originaria, «la temporalità come la radice del tempo
in generale» (ivi, p. 213) non deve attendere, per costituirsi, di pervenire
al livello «ultimo» dell’idea assoluta, bensì è già presente nell’attimo stesso
del cominciamento logico-espositivo, per procedere di riempimento in ri-
empimento sino allo Jetzt della conclusione, la quale però, dialetticamente,
ripristina e costituisce anche l’inizio vero e proprio.
73.  Cfr. quanto sulla verità hegeliana scrive Adorno: «Ma come tale, trapas-
sante, tanto poco meramente “posta” quanto poco meramente “svelata”, essa
è incompatibile con ciò di cui fa questione l’ontologia. La verità hegeliana
non è più nel tempo, come era la nominalistica, né al di sopra del tempo alla
maniera ontologica: il tempo diventa per Hegel un momento della stessa ve-
rità. La verità come processo è un “trascorrere di tutti i momenti”, in contra-
sto con “la proposizione priva di contraddizione”; e come tale ha un nucleo
144

e implica l’impossibilità, per un linguaggio imperniato sugli


ordinari rapporti di tempo, di descrivere correttamente i pro-
cedimenti espositivo-categoriali della filosofia come scienza.
L’innervazione reciproca dell’eternità e della logica riflette
sull’antinomicità costitutiva dello svolgimento dialettico la pa-
radossalità dell’Ewigkeit speculativa, così come il ritmo a-dia-
cronico dell’esposizione realizza l’auto-destituzione del tempo
nell’eternità del concetto. Perché il compimento del tempo
scaturisce all’apice della sua distruzione: «tempo come tem-
po», che si disattiva in quanto tale, ma proprio in questo suo
annullamento dovrebbe trovare la forma che, custodendolo,
lo preserva. Se la connessione fra eternità, movimento con-
cettuale e sua esposizione nel linguaggio emerge ormai come
plesso nevralgico nel pensiero di Hegel, è alla luce di questa
complessa integrazione che la nostra indagine deve infine ten-
tare d’interrogarne l’insopprimibile problematicità.

temporale» (Th.W. Adorno, Tre studi su Hegel, cit., pp. 72-73). Senz’altro
qui viene colta con precisione la distanza che separa la dialettica hegeliana
dall’ontologia. E tuttavia, il tentativo di Hegel appare ancora più radicale, se
assieme alla permanenza del tempo in quanto «nucleo» della verità si sotto-
linea il fatto che quest’ultima s’instaura come movimento della sua destitu-
zione, e che proprio in quanto espone un tale movimento essa, da un lato,
«compie» il tempo nell’attimo stesso in cui lo distrugge, dall’altro preserva e
rafforza l’irriducibile eccedenza che la distanzia dall’ontologia.
145

Capitolo III

La scrittura e l’apertura dell’esposizione

1. La chiusura del sistema come modo della sua apertura


Abbiamo visto che la concezione della temporalità non per-
mette a Hegel di chiudere in circolo la sua dialettica. Il fatto
che l’eternità venga risucchiata verso il passato, che il presente
infinito articoli paradossalmente, nell’istantaneità del suo pro-
dursi, il raccoglimento delle dimensioni entro un’identità dif-
ferenziata, per ricadere però immediatamente al di qua di sé e
della soglia che esprime, scardina la compattezza del logos, che
del resto Hegel in prima persona concepiva come frammenta-
to nell’articolazione delle sue differenze. Ma appunto: la dia-
lettica del tempo giunge a interrompere questa articolazione
del diverso, fa girare a vuoto il corso della sistematizzazione,
incrina la verità e la presenza – proprio in quanto quest’ulti-
ma è irriducibile a quella, «immediata», del semplicemente-­
presente, proprio in quanto in essa si dovrebbe realizzare, per-
venendo al suo compimento, l’eternità speculativa.
Ma non è solo per questo che il pensiero hegeliano non si la-
scia ricondurre entro l’alveo di una pura e semplice concezio-
ne ontologica. In effetti, è tutto il discorso su eternità e tempo
che muta in Hegel il suo statuto semantico, che si dispone in
uno spazio logico radicalmente differenziato rispetto a quel-
146

lo caratterizzante un approccio di tipo «metafisico»1. L’attua-


zione dell’eternità speculativa viene infatti a disporsi entro le
scansioni attraverso le quali si svolge e si articola la Darstel-
lung filosofica. E proprio in quanto l’eternità si trova inscritta
entro il circuito dell’esposizione, essa cessa di designare uno
stato sussistente, cessa d’indicare l’immutabilità e l’immobili-
tà di un’articolazione fra «essenze»2. Non si potrà quindi cer-
to imputare a Hegel l’ipostatizzazione ontologico-metafisica di
categorie del nostro linguaggio e del nostro pensiero, né so-
prattutto di confinare ancora una volta le riflessioni sul tempo
entro il perimetro dell’entificazione e della semplice-presenza.
È stato anzi più volte messo in rilievo come il pensiero hege-
liano, le modalità di auto-costituzione del suo logos, siano per
certi versi omogenei a un’attitudine filosofica che oggi chiame-
remmo «analitica», in quanto si svolgono attraverso una vera e
propria analisi critica del linguaggio comune, delle sue impli-
cite assunzioni e del suo patrimonio categoriale3.

1.  È all’interno di questo orizzonte concettuale che va intesa l’asserzione


hegeliana, secondo cui «il concetto dell’eternità non deve essere compreso
negativamente, come l’astrazione dal tempo, in questo modo, che l’eterni-
tà possa esistere fuori dal tempo; e neppure nel senso, come se l’eternità
venisse dopo il tempo: così dell’eternità si farebbe un futuro, cioè un mo-
mento del tempo» (Enz., II, § 258 Anm., p. 50; tr. it. cit., p. 235). Benché
condotti secondo un’ottica talora non coincidente con la nostra, sui rappor-
ti fra Hegel, idealismo e tradizione onto-teologica fondamentali restano gli
studi di W. Beierwaltes, Platonismus und Idealismus, Klostermann, Frank-
furt a.M. 1972; tr. it. di E. Marmiroli, Platonismo e idealismo, il Mulino,
Bologna 1987; e Differenz, Negation, Identität. Die reflexive Bewegung der
Hegelschen Dialektik, in Id., Identität und Differenz, Klostermann, Frank-
furt a.M. 1980, pp. 241-268.
2.  Cfr. al riguardo supra, cap. II, nota 73.
3.  Ad aprire questa prospettiva ermeneutica è stato J.N. Findlay, Hegel. A
Re-examination, Allen & Unwin-The Macmillan Company, London-New
York 1958; tr. it., Hegel oggi. Un riesame del sistema hegeliano in rapporto
alle idee e al linguaggio del nostro tempo, a cura di L. Calabi, Isedi, Milano
1972, in part. pp. 57, 61, 73-76, 155-156, 247, 381-390, il quale però è por-
147

Ma proprio per la raffinatezza epistemica del suo impianto teo­


rico, il pensiero hegeliano evidenzia la crisi cui va soggetta la
costruzione del modello dialettico-speculativo – non perché
rimandi o soggiaccia a condizionamenti impliciti e non espli-
cati, comunque ad esso esterni (siano essi interpretati da un
punto di vista economico-sociale, storico-epocale o linguisti-
co), bensì proprio nel gesto teoretico della sua istituzione filo-
sofica, della sua realizzazione scritturale. La ricaduta al di qua
di sé della dialettica del tempo, il ricompattarsi delle dimensio-
ni entro l’articolata unità dell’ora eterno e speculativo, il quale
però si trova perpetuamente a essere declinato al passato, per
innescare il vortice di un movimento auto-riproducentesi del
pensiero – tutto ciò è racchiuso nella determinazione dell’an-
damento logico come processo di avanzamento e complessifi-
cazione, che in pari tempo designa il ritorno, il vero e proprio
regresso all’indietro verso il fondamento e l’origine, da cui il
movimento proviene. Origine che simultaneamente si trova
smembrata nel molteplice categoriale, situata in ogni luogo del
«tutto» sistematico, ma raggiungibile in fondo solo attraverso
quella che è stata chiamata la «spirale di serpe» del sistema4.
E tuttavia, abbiamo visto come questa metafora si possa rivela-
re per taluni aspetti fuorviante. Perché la dialettica del tempo
mostra come il pensiero in Hegel spezzi il ciclo inarrestabi-
le del ripercorrimento del medesimo percorso, interrompa il
circuito della ripetizione e della riproduzione senza fine di sé.

tato ad accentuare l’accordo fra pensiero speculativo e linguaggio ordinario;


in termini più problematici e maggiormente aderenti al pensiero di Hegel
si esprime, al riguardo, D.J. Cook, op. cit., in part. pp. 134-140 e 168-172.
4.  Si tratta della metafora blochiana da noi discussa supra, p. 141. Ancora
una volta, forse nessuno meglio di Adorno ha descritto l’opposta, contrad-
dittoria esigenza cui si trova posto di fronte il pensiero speculativo: «Niente
si lascia comprendere isolatamente, tutto è solo nell’intero; con la penosa
difficoltà che l’intero ha di nuovo la sua vita unicamente in quella dei suoi
singoli momenti» (Th.W. Adorno, Tre studi su Hegel, cit., p. 137).
148

Da un lato, tale interruzione è il luogo da cui prende origine,


entro il quale ogni volta sprofonda, per di là nuovamente sca-
turire, ogni singola fase del processo dialettico. Il cosiddetto
metodo, ammesso che sia lecito parlarne prescindendo dalla
specificità dei contenuti concreti di volta in volta giunti a svol-
gimento, è aperto, letteralmente sfondato, in ogni attimo del
movimento che ne scandisce ed espone l’auto-costituzione di-
veniente. Dire se ciò avvenga grazie o malgrado Hegel, in fon-
do, significa porre la questione in termini fuorvianti rispetto
alle movenze concettuali incorporate, e certo da questo ver-
sante necessitate, nei plessi problematici di cui si sta trattando.
La dialettica speculativa della temporalità mostra comunque
che l’apertura del metodo dialettico va di pari passo col suo
interrompersi e fessurarsi, con l’irrealizzazione che riemerge,
in forma di passato, al nucleo del presente dell’infinità realiz-
zata. Passato, ancora una volta, non determinato storicamen-
te, ma nel senso, così di frequente sottolineato da Hegel, di
un’anteriorità logico-teoretica, da non disporsi sul piano della
rappresentazione cronologica, ma perciò tanto più incommen-
surabile al presente dell’infinita compiutezza.
Qui forse il pensiero speculativo si scontra col suo limite più
profondo – «limite» nel senso proprio di traccia che circoscrive
un confine, l’oltrepassamento del quale rimanda in pari tem-
po, ineludibilmente, al di qua della soglia in esso incorpora-
ta. Perché se la dialettica, come abbiamo visto, presuppone il
superamento di un passato al tempo stesso atemporale e in-
superabile, se in questo passato ripetutamente precipita, al di
qua della realizzazione e dell’essere, il logos hegeliano – allora
quest’ultimo si attua solo in quanto è di continuo irrealizzato,
si ricompatta nel presente dell’eternità solo nella misura in cui
tale presente si dislochi al di qua di sé, sotto la soglia oltre la
quale sarebbe possibile propriamente parlarne. La dinamica
del processo viene così a trovarsi irrimediabilmente sfasata ri-
spetto alla quiete in cui il risultato dovrebbe alla fine condur-
149

la – presente in cui la totalità si realizza soltanto al prezzo di


precipitare nuovamente nel passato.
D’altro lato, l’apertura del metodo si lascia intravedere anche
sul piano della costruzione sistemica complessiva. Quest’ulti-
ma, ben lungi dall’esigere il ripercorrimento indefinitamente
ripetuto di se stessa5, mostra cioè, come incorporazione del du-
plice e in pari tempo unico movimento di avanzamento verso
la meta e di retrocessione verso il fondamento – mostra, dice-
vamo, di essere aperta e “cava” nel suo stesso centro. Sono le
modalità di articolazione dialettica del «sistema» che ne impon-
gono l’apertura al «novum». Quella che in Bloch viene regi-
strata come «spirale di serpe», quella che in Kojève si enuncia
come infinita ripetizione e fine della storia, tutto ciò annun-
cia in realtà uno sfondamento che è di già accaduto, e che si
«compie» nell’attimo medesimo della realizzazione dispiegata.
Quanto si tratta di sottolineare, in altri termini, è che l’apertu-
ra del sistema in Hegel è funzione del suo assetto di chiusura6.

5.  L’interpretazione della «Scienza» hegeliana come «ciclo che si ripete eter-
namente», in quanto «il contenuto del Libro è pienamente rivelato solo alla
fine del Libro. Ma, dato che il contenuto è il Libro medesimo, la risposta fi-
nale alla domanda riguardante il contenuto non può essere altro che l’insie-
me del Libro. Perciò, giunti alla fine, occorre rileggere (o ripensare) il Libro;
e questo ciclo si ripete eternamente», risale a A. Kojève, Lezioni sull’eternità,
il tempo e il concetto, cit., p. 231 (e nota relativa).
6.  Anche se con diverse articolazioni analitiche, è questa la prospettiva er-
meneutica che si è fatta strada fra la critica più avvertita, in particolare ri-
guardo alla nozione hegeliana di «spirito assoluto». Per una panoramica
complessiva, cfr. i contributi raccolti nel già menzionato volume Hegels Lo-
gik der Philosophie, e specificamente, assieme ai già citati saggi di R. Bodei
e di F. Chiereghin, P.-J. Labarrière, L’esprit absolu n’est pas l’absolu de l’es-
prit. De l’ontologique au logique, ivi, pp. 35-41 (rist. in G. Jarczyk - P.-J. La-
barrière, Hegeliana, cit., pp. 294-302). A una comprensione del concetto di
spirito assoluto che ne faccia intendere la funzione di apertura in rapporto
al dispositivo di pensiero hegeliano è volto lo studio di Th.F. Geraets, He-
gel. Lo spirito assoluto come apertura del sistema, Bibliopolis, Napoli 1985,
150

Poiché il sistema è un circolo di circoli – perciò esso, in pari


misura, è ripetizione che non può ripetersi mai più, e la blo-
chiana «spirale di serpe» si trova inghiottita dal vuoto attor-
no a cui le sue spire si avvolgono. La realizzazione del sistema
designa in pari tempo la sua sottrazione e il suo mancare a se
stesso, e attraverso questa sottrazione (ripiegamento intempo-
rale nel passato) è lasciato-accadere il nuovo.

2. «Darstellung» e «Vorstellung»
Così, l’eternità speculativa, il «tempo come tempo», esprime il
suo radicamento nella storia. In quanto è tempo chiuso, strut-
turato cioè sulla base dell’articolazione concettuale, sussunto
entro il movimento della logica dialettica, essa è anche tem-
po che riesplode al nucleo del metodo. Meglio ancora sareb-
be forse dire tempo di un’implosione, che fa gravare al di qua
del suo proprio baricentro tutto il movimento dei concetti, per
innestarne il «torpido» dipanarsi sul terreno accidentato della
storia7. E questa riemergenza della storia si configura in He-

in part. pp. 65-72 e 92-94 (lo stesso autore aveva curato il volume L’es-
prit absolu. Actes du Colloque International sur le sens de l’Esprit Absolu
chez Hegel tenu à l’Université d’Ottawa du 6 au 8 nov. 1981, Éditions de
l’Université d’Ottawa, Ottawa 1984). Un contributo importante in propo-
sito recano inoltre G. Jarczyk, Système et liberté dans la logique de Hegel,
Aubier-­Montaigne, Paris 1980, e la Conclusion del volume di D. Souche-­
Dagues, Le cercle hégélien, cit., pp. 173-179. Sul versante opposto si collo-
ca invece l’opera, comunque indispensabile in rapporto al periodo jenese di
Hegel, di H. Kimmerle, Das Problem der Abgeschlossenheit des Denkens,
già da noi menzionata in precedenza.
7.  Cfr. Phän., p. 563 (tr. it. cit., II, p. 304); qui la storia è intesa come «farsi
dello spirito… che si attua nel sapere e media se stesso» attraverso un «tor-
pido movimento», il cui ritmo rallentato è dovuto al fatto che «il Sé ha da
penetrare e da digerire tutta questa ricchezza della sua sostanza».
151

gel come asse portante del dispositivo epistemico, è assunta


cioè nella sua funzione produttiva in rapporto allo svolgimento
e alla concretizzazione progressiva dell’esposizione speculati-
va. Ecco perché il rapporto fra concetto e storia, fra l’eternità
che dispiega e raccoglie l’articolazione espansiva del logos, e
il tempo verso cui si trova trascinata dalla sua precipitazione
nel passato si dispongono in questa filosofia nei termini della
sua relazione col linguaggio8.
Nel primo capitolo, abbiamo esaminato la posizione del lin-
guaggio negli abbozzi jenesi di filosofia dello spirito, la teo-
rizzazione della Darstellung come luogo di realizzazione del
sapere, la dottrina della proposizione speculativa come mo-
dalità di attuazione metodica e pratico-linguistica della Dar-
stellung stessa. Abbiamo cercato di mostrare come, in questo
complesso di punti di vista e di analisi, la riflessione hegeliana
sul linguaggio raccolga le determinazioni filosoficamente cru-
ciali per l’instaurazione del dispositivo epistemico. Adesso, si
tratta di evidenziare come la definizione in termini speculativi
dell’eternità, l’impossibilità per essa di trattenersi entro la sfera
del presente eterno e mai ontologicamente compatto, l’essere-
trascinata indietro, al di qua della realizzazione e dell’essere,
nella totalità intemporale del passato – come tali momenti, in
quanto inscritti e incorporati nel movimento dell’esposizione,
conducano quest’ultima di nuovo e necessariamente a porre
la questione del linguaggio, a interrogare se stessa dal pun-
to di vista del linguaggio. Perché nel problema così enuncia-
to non si esprime semplicemente uno dei tanti ambiti in cui
l’«onnilaterale» pensiero di Hegel viene a declinarsi, ma può
rintracciarsi forse l’esito ultimo in cui precipitano la dialettica

8.  Come abbiamo visto, sono stati soprattutto B. Liebrucks, J. Simon e


G. Wohlfart che hanno tentato d’interpretare il pensiero hegeliano alla luce
del suo rapporto col linguaggio, e addirittura come una sorta di «filosofia
del linguaggio».
152

del tempo e la sua implosione. Si tratta certo di un esito che


era già inscritto nella necessità, per il logos, di estrinsecarsi
nel linguaggio dell’esposizione speculativa, di realizzarsi come
esposizione; e tuttavia, solo alla luce della conclusione, sempre
differita e sempre mancata, della dialettica del tempo, lo si può
cogliere nel suo spessore filosofico e problematico.
Porre l’interrogazione sul linguaggio a quest’altezza vuol dire
porre in gioco quella concernente la storicità del logos9, stori-
cità già da sempre comunque incorporata nel decorso dell’e-
sposizione, e che si tratta per Hegel di funzionalizzare al piano
operativo della realizzazione scritturale e della dimostrazione
teoretica. Così, la sussunzione impossibile del tempo nell’eter­
nità si traduce nella necessità, per il logos, di assorbire nel di-
spositivo che lo enuncia quel linguaggio «altro» e meramente
rappresentativo, che costituisce il «medium» espressivo attra-
verso cui solamente può attuarsi la Darstellung instaurata dal
primo. È dal momento in cui l’eternità non sia teoreticamente
concepibile senza che il tempo riemerga al suo interno, con
modalità che ne impediscono la coincidenza delle dimensioni
entro lo Jetzt della totalità compiuta, dal momento in cui tale
sfasante non-coincidenza si riveli irriducibile alla sua funzio-
nalizzazione dialettica – è da questo istante che per il pen-
siero sorge l’enigma della storia, del tempo non più inteso
nella formalità delle sue astratte dimensioni, ma saturo dei
contenuti concreti (e non nel senso del concetto hegeliano)
stratificati nel corso del divenire materiale della storia. E per
la Darstellung, questa temporalità materiale si raccoglie «in-
nanzitutto» nel linguaggio, nella trama inconscia di rappre-

9.  La connessione tra storicità dell’assoluto hegeliano e suo radicamento


nel linguaggio è stata vista chiaramente già da H. Niel, op. cit., p. 99, nota.
Cfr. più di recente J. Reiter, Die geschichtliche Gegenwart der Sprache, in
«Hegel-Jahrbuch», 1970, pp. 142-151: «La libertà verso e nel linguaggio si
radica nella storicità della verità stessa» (p. 146).
153

sentazioni e comprensioni implicite, di cui già per Hegel esso


è intessuto «prima» del suo innalzamento ad autoconsapevo-
lezza categoriale10.
Ora, se la scommessa hegeliana consisteva, per quanto riguar-
da il livello «formale» dell’eternità speculativa, nell’introdur-
re al suo interno il tempo stesso, nel concepirla addirittura
tramite l’equazione – che sarebbe risultata impossibile – del
«tempo come tempo», il rapporto fra esposizione e linguaggio
sembrerebbe potersi impostare secondo coordinate analoghe
a quelle che già articolavano le relazioni fra eternità e tempo,
e che, sia pure in termini estremamente problematici, erano
riuscite a fornirne una concettualizzazione pregnante. Infat-
ti, il linguaggio della «vita» o, più correttamente, della rap-
presentazione è il medesimo linguaggio parlato dal concetto,
quest’ultimo non vuole né può attuare il dispositivo della sua
Darstellung se non in quanto esso esponga, nella verità loro
propria, i contenuti racchiusi in quel linguaggio puramente
rappresentativo11.
E tuttavia, la dialettica che s’innesca fra i due momenti assu-
me movenze particolari e specifiche, che non consentono di
assimilarla a quella, con cui per molti versi è indissolubilmen-
te intrecciata, concernente eternità e tempo. Anche deter-
minazioni come quelle di posto e presupposto o di identità e

10.  «Le forme del pensiero sono anzitutto esposte e consegnate nel linguag-
gio umano… In tutto ciò che diventa per lui [uomo; N.d.A.] un interno, in
generale una rappresentazione, in tutto ciò che l’uomo fa suo, si è insinua-
to il linguaggio; e quello di cui l’uomo fa linguaggio e ch’egli estrinseca nel
linguaggio, contiene, in una forma più inviluppata e meno pura, oppure
all’incontro elaborata, una categoria» (W.d.L., I, pp. 9-10, tr. it. cit., p. 10).
11.  Cfr. su questo punto ancora M. Clark, op. cit., p. 75, e soprattutto
L.B. Puntel, op. cit., p. 55: «Hegel pone alla filosofia l’imprescindibile esi-
genza di elevare all’esplicitazione della critica e dell’osservazione filosofica
le categorie implicite nel nostro parlare e pensare».
154

differenza, tratte dalla logica della riflessione e già impiegate,


in sede ermeneutica, per affrontare il problema dei rapporti
fra pensiero e linguaggio in Hegel, non si rivelano in propo-
sito del tutto adeguate12. In effetti, se quella dialettica fosse
riconducibile a un puro e semplice rapporto riflessivo, Hegel
potrebbe fondare – nel senso della Logica13 – i suoi procedi-
menti espositivi attraverso la funzionalizzazione dell’antinomia
in questione agli esiti produttivi, sul piano della scrittura, che
essa sarebbe in grado, e addirittura necessitata a indurre. L’e-
sposizione scaturirebbe dall’energia accumulata nel rapporto
di tensione sussistente fra svolgimento del concetto e lingua
della rappresentazione, come attuazione di un movimento già
realizzato nel momento in cui lo si progettasse, ed entro il
quale verrebbe nuovamente a conciliarsi la contraddizione fra
l’auto-movimento del concetto e la “fatica del linguaggio”14,
recata in sé da quella imposta dal primo, e che spingeva il
pensatore-­Hegel a costruire metodicamente l’apparato epi-
stemico dell’esposizione.
Ora, se forse già per le categorie della riflessione la ricom-
posizione in senso speculativo della loro dialettica andrebbe
revocata in dubbio15, che la relazione di identità e differenza
non possa includere, qualunque sia il suo reale esito logico, il
rapporto fra quei due momenti si mostra nel fatto che parlare
del concetto nel senso di una “rappresentazione come rappre-
sentazione”, come di una identità della rappresentazione con
la sua differenza, risulterebbe molto problematico.

12.  Cfr. invece in questo senso M. Clark, op. cit., pp. 85 ss.
13.  Sulla nozione dialettica di fondamento, cfr. supra, p. 96 e nota 11.
14.  Su questa espressione, cfr. supra, cap. I, nota 122.
15.  Per una prima approssimazione, cfr. le osservazioni che su identità e
differenza svolge, in riferimento a Hegel, J. Derrida, Positions, Minuit, Pa-
ris 1972; tr. it., Posizioni, a cura di G. Sertoli, Bertani, Verona 1975, in part.
pp. 75 78-79, 107-108.
155

Già l’espressione hegeliana che equiparava il «tempo come


tempo» all’eternità speculativa mostrava di contenere un’equa­
zione possibile solo in apparenza: l’eguaglianza del «tempo
come tempo» risultava infatti come portato di una sfasatura
non ulteriormente appianabile o sussumibile entro l’articola-
zione dialettico-riflessiva dell’identità e della differenza. E su
questo meno, come su di un’eccedenza scaturita per difetto,
veniva a infrangersi la potenza del movimento ricompositivo
messo in atto dal concetto.
Nonostante ciò, per Hegel restava possibile impiegare una for-
mulazione quale «tempo come tempo» per designare l’eter-
nità speculativa. E abbiamo anche visto come ciò equivalesse
per lui all’istituzione di un dispositivo epistemico in grado di
padroneggiare antinomie irresolubili dal punto di vista della
metafisica classica16. La dislocazione del discorso su eternità
e tempo al livello metodologico e «grammaticale» delle moda-
lità di esposizione sistematica ne orientava lo spettro semanti-
co in senso funzionale all’instaurazione del «sapere assoluto».
Da un lato, quel discorso veniva a coincidere con una ristrut-
turazione categoriale volta alla determinazione delle modalità
fondamentali di articolazione dell’impianto teorico; sottratto
alla giurisdizione dell’ontologia, esso investiva e produceva la
ridefinizione logica delle procedure interne all’esposizione fi-
losofica. Dall’altro, però, ciò riproduceva, all’interno della nuo-
va cornice, modelli e contenuti concettuali mutuati dalla storia
dell’ontologia, sia pure operandone una complessiva trasfor-
mazione di senso e statuto logico. In tal modo, l’espressione
«tempo come tempo» incorporava, come risultato del movi-
mento intrinseco alle dimensioni temporali, il telos cui quella
dialettica incessantemente tendeva, riproducendo però soltan-

16.  Cfr. supra, cap. II, pp. 141-144; ma soprattutto, più in generale, F. Chie-
reghin, Hegel e la metafisica classica, Cedam, Padova 1966.
156

to la contraddittorietà non-dialettica in cui la sua stessa realiz-


zazione precipitava. «Tempo come tempo» stava comunque a
indicare un raggiungimento prima facie possibile, e anzi già da
sempre ripetuto e attuato: quello del presente atemporale e
della sua dialettica pienezza, ambedue contratti nella concreta
immanenza degli istanti eterni e perciò anche indefinitamente
espansi, tanto più compiuti rispetto a quelli della precedente
ontologia in quanto dialetticamente risultanti da un movimen-
to di sviluppo delle differenze.
Viceversa, parlare del concetto in termini di “rappresentazio-
ne come rappresentazione” non significherebbe altro se non il
semplice raddoppiamento della rappresentazione stessa, rad-
doppiamento che però è già implicito nella parola che la de-
signa. Vorstellung indica infatti in Hegel, che non solo in tal
caso vuol pensare in accordo con la verità del linguaggio17, un
porre-di-fronte i singoli contenuti entro l’interiorità dello spi-
rito, stabilizzandoli nella loro separatezza reciproca18. Nel caso

17.  A titolo esemplificativo, oltre al brano sull’essere e l’essenza cui abbia-


mo già fatto riferimento, senza però esplicitarne il carattere, che formal-
mente assume in Hegel, di osservazione linguistica («La lingua tedesca ha
conservato l’essenza [Wesen] nel tempo passato [gewesen] del verbo essere
[Sein]; perché l’essenza è l’essere che è passato, ma intemporalmente pas-
sato»; W.d.L., II, p. 3; tr. it. cit., p. 433), vogliamo menzionare il celebre
passo sul verbo Aufheben, il quale «ha nella lingua il doppio senso, per cui
vale tanto conservare, ritenere quanto nello stesso tempo far cessare, met-
ter fine… dovrebbe a questo proposito cagionare sorpresa che una lingua
sia venuta a servirsi di una sola e medesima parola per due determinazioni
opposte. Il pensiero speculativo si rallegra, quando trova in una lingua pa-
role che hanno in se stesse un significato speculativo» (W.d.L., I, p. 94; tr.
it. cit., pp. 100-101). Su questa tutt’altro che occasionale attitudine del pen-
siero hegeliano, cfr. I. Fetscher, Hegels Lehre vom Menschen, Frommann-­
Holzboog, Stuttgart-­Bad Cannstatt 1970, p. 257, e D.J. Cook, op. cit., p. 137.
Estremamente adeguata risulta in proposito la nozione di «illustrazione»,
così come è stata definita da G.R.G. Mure, op. cit., p. 29.
18.  «La peculiarità della rappresentazione… va in generale riposta nel fatto
che in essa tale contenuto si trova altrettanto isolato… tali determinazioni,
157

della religione, inoltre, il concetto toglie alla rappresentazione


il rivestimento fantastico e immaginario con cui essa ricopre
i suoi astratti momenti, corrispondenti ognuno a una funzio-
ne metodica ben determinata nell’articolazione del contenu-
to speculativo, presentandone in pari tempo il rovesciamento
nell’opposto19. Così, il concetto dovrebbe emergere dalla di-
struzione della rappresentazione come suo nucleo veritativo
immanente, svuotare dall’interno le sue movenze figurate e
solo empiricamente concrete, per esporre l’intelaiatura logico-­
categoriale cui andrebbero ricondotte come al loro nocciolo
razionale20.
Per questo diventa impossibile determinare il rapporto fra rap-
presentazione e concetto nei termini del semplice raddoppia-
mento della prima. Vorstellung esprime già la duplicazione di
un contenuto, anzi è essa stessa a produrla e immobilizzarla.

in sé spirituali, si trovano altrettanto isolate nell’ampio terreno dell’univer-


salità interna, astratta del rappresentare in generale. In questo isolamento,
esse sono semplici; diritto, dovere, Dio. Ora, la rappresentazione o si arresta
al fatto che il diritto è diritto, Dio è Dio, oppure, a un livello più colto, essa
aggiunge determinazioni, ad es. che Dio è creatore del mondo, onnisciente,
onnipotente, ecc.; qui vengono parimenti allineate parecchie determinazioni
semplici e isolate, le quali, nonostante il legame che viene loro assegnato nel
soggetto, restano l’una fuori dell’altra. La rappresentazione coincide qui con
l’intelletto…» (Enz., I, § 20 Anm., p. 73; tr. it. cit., pp. 34-35).
19.  Cfr. in proposito il capitolo sulla «religione disvelata» in Phän., pp. 521-
548 (tr. it. cit., pp. 253-285), in part. pp. 532-536 (tr. it. cit., pp. 265-271), e
quello ad esso corrispondente in Enz., III, §§ 564-571, pp. 372-378 (tr. it. cit.,
pp. 545-550). Per un commento critico quanto mai puntuale dei paragrafi in
questione, cfr. M. Theunissen, Hegels Lehre vom absoluten Geist als theolo-
gisch-politischer Traktat, de Gruyter, Berlin 1970, pp. 216-297, e A. Peper-
zak, Selbsterkenntnis des Absoluten. Grundlinien der Hegelschen Philosophie
des Geistes, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1987, pp. 95 ss.
20.  Cfr. su questo punto ancora Enz., I, § 20 Anm., pp. 73-74: «si può dire,
in generale, che la filosofia non faccia altro che trasformare le rappresen-
tazioni in pensieri – ma certo, inoltre, il semplice pensiero nel concetto»
(tr. it. cit., p. 35).
158

Così non basta ripeterne il nome per intravederne lo sprofon-


damento nel concetto, perché raddoppiare significa appun-
to rappresentare, e in questa ripetizione la rappresentazione
non si troverebbe anche tolta, ma solo conservata e potenzia-
ta. Per «superare» l’indefinita ripetizione della Vorstellung, il
suo incessante porsi-davanti-a-se-stessa, è necessario spezzar-
ne il ciclo di riproduzione, che differirebbe all’infinito la sua
Aufhebung nel concetto.
Ma se fra concetto e rappresentazione viene meno quell’equi-
valenza, che già la formula del «tempo come tempo» vedeva
crollare in se stessa e solo in tal modo incarnare, nel suo zu-
grunde-­gehen, la realizzazione dell’eternità speculativa, tan-
to più problematica dovrà apparire l’esigenza del concetto,
che nel linguaggio della sua Darstellung solamente può tro-
vare il piano della sua attuazione. Infatti, proprio la lingua
è in Hegel il prodotto più alto cui la capacità rappresentati-
va dello spirito perviene21; d’altro canto, poiché la lingua del
concetto è la medesima di quella della rappresentazione, lo
spazio della Sprache sembra sin da ora risultare intrascendi-
bile, cosicché il superamento da parte del Begriff della Vor-
stellung non potrà disporsi che nell’orizzonte circoscritto da
quest’ultima.
Ora, benché in Hegel le modalità di produzione dell’Aufhe-
bung non corrispondano mai a un processo di semplice oltre-
passamento o di «scavalcamento» del momento aufgehoben,
tuttavia, in questo caso possiamo intravedere con particola-
re acutezza la problematicità del superamento di cui si trat-
ta, dato che la Vorstellung non è soggetta, come il tempo, ad
annullarsi tramite raddoppiamento, ma dal raddoppiamen-
to trae la forma della sua attuazione. Così, per noi è giunto il
momento d’interrogare il testo in cui con maggior compiutez-

21. Cfr. infra, il paragrafo che segue.


159

za Hegel ha tentato di esporre il processo di Aufhebung della


rappresentazione da parte del pensiero: e cioè, la Psicologia
enciclopedica del 1830.

3. Pensiero e rappresentazione nell’Enciclopedia


Il cammino che nell’Enciclopedia conduce dalla rappresen-
tazione al pensiero è tanto più complesso, in quanto la Vor-
stellung vi si articola a sua volta in tre momenti, ciascuno dei
quali presenta una specifica unità sistematica22. Lo spirito teo­
retico, o, come dice Hegel in queste pagine, l’«intelligenza»,
perviene alla capacità di formare rappresentazioni «in quan-
to interiorizza l’intuizione per la prima volta», e in tal modo
«pone il contenuto del sentimento nella sua propria interiorità,
nel suo proprio spazio e nel suo proprio tempo. Così esso è
immagine»23. Una volta custodita la molteplicità delle imma-

22.  Sulla Psicologia hegeliana cfr., per una panoramica generale, H. Drüe,
Psychologie aus dem Begriff. Hegels Persönlichkeitstheorie, de Gruyter, Ber-
lin 1976, e il Beiheft 19 di «Hegel-Studien», hrsg. v. D. Henrich, Bonn 1979.
Da consultare, per la valorizzazione della psicologia hegeliana nel contesto
dei tentativi, allora in corso, di definire per le «scienze dello spirito» un pa-
radigma di scientificità svincolato da quello delle scienze naturali, J. Dürck,
Die Psychologie Hegels, Diss., Bern 1927. In diretto rapporto con le proble-
matiche qui in questione sono invece gli studi di E. Roth, Das Zeichen. Eine
Untersuchung zu Hegels Philosophie des “subjektiven theoretischen Geistes”,
Diss., Basel 1972, e di H. Güssbacher, Hegels Psychologie der Intelligenz,
Königshausen & Neumann, Würzburg 1988. Attenti in particolare agli aspet-
ti antropologici dello «spirito soggettivo» hegeliano sono I. Fetscher, Hegels
Lehre vom Menschen, cit., e G. Gamm, Der Wahnsinn in der Vernunft. His-
torische und erkenntniskritische Studien zur Dimension des Anders-Seins in
der Philosophie Hegels, Bouvier, Bonn 1981. Sempre fondamentale, infine,
J. Hyppolite, Logique et existence. Essai sur la logique de Hegel, Puf, Paris
1952, in part. la prima parte: Langage et logique, pp. 3-66.
23.  Enz., III, § 452, p. 258 (tr. it. cit., p. 441).
160

gini nel «pozzo notturno» dell’interiorità spirituale24, l’intelli-


genza può attingere i suoi contenuti direttamente da questa
riserva, senza dover ricorrere all’intuizione effettiva dell’og-
getto: «L’intelligenza è così la forza di estrinsecare ciò che
possiede, senza aver più bisogno dell’intuizione esterna per
l’esistenza in lei del suo possesso»25. Ora, Hegel chiama Vor-
stellung esattamente il prodotto di questa capacità: «Questa
sintesi dell’immagine interna con l’esserci interiorizzato è la
rappresentazione propriamente detta, in quanto l’interno ha
ora anche in lui la determinazione di poter essere posto di
fronte all’intelligenza, di possedervi un esserci»26.
Con la formazione della Vorstellung «propriamente detta» cul-
mina il «primo» momento della rappresentazione, quello in
cui essa è ancora ricordo interiorizzante (Erinnerung). Con-
dotto a termine il processo dell’assorbimento spirituale dei
contenuti intuitivi, l’intelligenza può sviluppare la sua attività
su basi esclusivamente interiori, diventando immaginazione
(Einbildungskraft), «il sorgere delle immagini dall’interiorità
propria dell’io»27.
Ma è in rapporto alla Vorstellung «propriamente detta» che il
movimento di ricostruzione speculativa delle attività dell’in-
telligenza s’imbatte per la prima volta nella caratteristica de-
terminante questa intera sfera dello spirito, data da un lato dal
carattere sintetico, nel senso della giustapposizione, dei pro-
dotti rappresentativi, e dall’altro dall’indirizzo teleologico che
orienta l’impianto epistemico alla volta del concetto: «poiché
il rappresentare inizia dall’intuizione e dal suo trovato mate-
riale, questa attività è ancora affetta da tale differenza, e le sue

24.  Cfr. Enz., III, § 453 Anm., p. 260 (tr. it. cit., p. 442).
25.  Enz., III, § 454, p. 261 (tr. it. cit., p. 443).
26.  Ibidem.
27.  Enz., III, § 455, p. 262 (ibidem).
161

concrete produzioni in questa sono ancora sintesi, che solo nel


pensare giungono alla concreta immanenza del concetto»28.
Con ciò ritroviamo la determinazione della Vorstellung nel
suo produrre giustapposizioni raddoppianti, nella sua quali-
tà d’istituire sintesi a-dialettiche fra contenuti che non danno
luogo ad alcuna nuova e articolata unità. La rappresentazione
è gravata da una differenza che non è più semplice diversità,
ma tantomeno è quella da cui scaturisce il movimento della ri-
composizione speculativa. Le sue creazioni non costituiscono
Einheiten, termine del resto anch’esso inadeguato a designa-
re l’identità del concetto, ma come suona il testo Synthesen;
la differenza di cui è gravata non è lo Unterschied che innesca
l’opposizione dialettica, ma Differenz, i lati della quale non
sono certo più molteplicemente dispersi (Verschiedenheit),
ma nemmeno già articolati nella nuova unità della «concreta
immanenza» reciproca.
E poiché quest’ultima è prodotta solo dal concetto, poiché solo
il Begriff si svolge in forma di processualità auto-diveniente,
anche la temporalità della Vorstellung dovrà risultare profon-
damente diversa rispetto a quella che il concetto imprime nel
pensare. Abbiamo visto come la Vorstellung disponga i con-
tenuti prima semplicemente intuiti nel tempo proprio dell’in-
telligenza, dell’interiorità spirituale. Ma nel suo caso non può
trattarsi che di un tempo altro rispetto a quello scaturente dal
movimento della concettualità. Il tempo della rappresenta-
zione è tempo della dispersione e della molteplicità, tempo
che procede per giustapposizioni successive e arbitrarie. In
uno Zusatz, Hegel menziona «den subjektiven Charakter, wel-
chen dieselbe [die Zeit; N.d.A.] in der Vorstellung erhält»29. Di

28.  Enz., III, § 451, p. 257 (tr. it. cit., p. 441).


29.  Enz., III, § 452, Z., p. 259 («il carattere soggettivo, che il tempo riceve
nella rappresentazione»).
162

questa «astratta» soggettività della Vorstellung egli mette ripe-


tutamente in rilievo il significato positivo, ciò che in essa co-
stituisce un avanzamento nel processo d’interiorizzazione dei
contenuti e di approssimazione all’attività del Denken. Tutta-
via, l’incompiutezza di fondo che permane ai suoi prodotti in
quanto sono mere «sintesi» pone costantemente in luce una
carenza, che solo nel pensiero e nella sua specifica temporali-
tà può pervenire ad annullarsi.
Ciò vale quindi anche per l’immaginazione, che se da un lato
risulta da un approfondimento del processo di interiorizzazio-
ne dei contenuti da parte dello spirito, dall’altro può sfociare
nel «gioco di un rappresentare privo di pensiero, in cui la de-
terminazione dell’intelligenza è ancora universalità formale
in generale, mentre il contenuto è quello delle immagini»30.
Nel momento in cui l’attività dell’intelligenza pare trovare,
con l’Einbildungskraft, la possibilità di attuarsi in piena liber-
tà – nel momento in cui il suo potere sui contenuti pare poter-
si spingere sino all’arbitrio, lo spirito si scopre gravato da un
materiale che, per quanto interiorizzato, non è stato prodotto
da lui stesso, e che imprime ai contenuti di cui pure l’intelli-
genza dispone il marchio dell’esteriorità e della passività: «Alla
rappresentazione resta ancora attaccato l’essere, il trovarsi-­
determinata dell’intelligenza»31; «Spesso sono soltanto lo spa-
zio e il tempo a disporre in fila le immagini»32.
Ed è proprio il fatto che il suo agire sia condizionato dall’in-
superabile immediatezza dei materiali a spingere lo spirito
nuovamente all’esterno di sé. Certo non più verso l’oggetti-
vità pre-data dei contenuti intuitivi, ma verso un’esteriorità
prodotta dall’intelligenza: movimento di estroflessione, attra-

30.  Enz., III, § 455 Anm., p. 263 (tr. it. cit., p. 444).
31.  Ibidem.
32.  Enz., III, § 455, Z., p. 265.
163

verso cui Hegel tenta di proiettare all’esterno dello spirito il


materiale molteplice dell’empiria interiorizzata, di scuotere
così dall’intelligenza la passività sulla quale soltanto poteva
operare finché rimaneva immaginazione, trasformando l’es-
sere interiorizzato ma immediato in essere esteriorizzato ma
prodotto.
È alla fantasia che Hegel imputa questa funzione. In quanto
segue all’immaginazione riproduttiva e associativa, certo, ad
essa «manca ancora il momento dell’essente»33, è ancora sol-
tanto «immaginazione simbolica, allegorica o poetante»34. E
tuttavia «in essa l’intelligenza non è più soltanto forma uni-
versale, bensì la sua interiorità è soggettività concreta, in sé
determinata»35, «libero legare e sussumere di questa [delle im-
magini; N.d.A.] riserva sotto il contenuto che le è proprio»36.
Per l’intelligenza si tratta quindi di dare a questa «unità del
contenuto interno e del materiale»37 il momento ancora man-
cante dell’esistenza esterna, «di determinare come essente ciò
che in lei si è compiuto sino all’auto-intuizione concreta, cioè
di rendere se stessa essere e cosa»38. L’intelligenza è divenuta
fantasia produttrice di segni. Ma cos’è il segno?
La risposta hegeliana, al riguardo, non è stata sempre la stes-
sa. Come abbiamo visto, negli abbozzi jenesi di filosofia dello
spirito risalenti agli anni 1803-04, Hegel assimila la produzio-
ne dei segni al processo di cattiva infinità che contraddistin-
gue le filosofie incapaci di tradurre in effettivo compimento
il dovere della realizzazione. Egli parla in proposito di una

33.  Enz., III, § 457, p. 267 (tr. it. cit., p. 446).


34.  Enz., III, § 456, p. 266 (ibidem).
35.  Enz., III, p. 265 (tr. it. cit., p. 445).
36.  Enz., III, p. 266 (tr. it. cit., p. 446).
37.  Enz., III, § 457, p. 267 (ibidem).
38.  Enz., III, p. 268 (ibidem).
164

coscienza «impotente a togliere completamente l’opposizio-


ne del soggetto e dell’oggetto»39, e a questa relazione ricon-
duce anche l’invenzione dei segni: infatti, come nel rapporto
di dovere l’oggetto viene incorporato alla coscienza solo in
parte, perché risorge di continuo sotto forma di nuovo osta-
colo, così nel segno il significato, che si dovrebbe imprime-
re sull’oggetto dell’intuizione per ricondurlo all’idealità dello
spirito, lo lascia in realtà sussistere inalterato nell’esteriorità
dello spazio e del tempo: l’oggetto «resta ciò che è, ha ancora
il suo essere per sé e il suo essere-altro è posto soltanto come
un dover-essere-altro»40.
Ma la concezione hegeliana del segno si presenta in termini
sensibilmente diversi già negli abbozzi del 1805-06. Qui in-
fatti il segno, con terminologia che si conserverà immutata fin
nell’ultima stesura dell’Enciclopedia, sancisce l’instabilità di
ogni «sintesi» che si sia venuta a instaurare fra l’io e l’oggetto.
Già in questo testo, «sintesi» vuol dire giustapposizione estrin-
seca, dove i membri che entrano in rapporto non cambiano in
nulla la loro «natura», che permane immutata e indifferente
alla loro messa in relazione; mentre lo spirito si presenta do-
tato di tale potenza, che ogni oggetto posto a contatto dell’io
ne viene immediatamente asservito41. Proprio perché le cose,
in quanto esistono come realtà empiricamente presenti, non
contano più nulla – proprio perché sono ridotte a fungere da
semplice supporto del significato spirituale, il segno testimonia
della signoria dello spirito sull’oggettività della natura42. Spa-
risce quindi la sua definizione in termini di dover-essere, an-
che se non scompaiono le osservazioni relative al fatto che la

39.  Cfr. J.S.I, p. 286 (C., p. 23), e supra, cap. I, pp. 16-19.
40.  Ibidem. Cfr. supra, cap. I, nota 9.
41.  Cfr. J.S.III, pp. 185-186 (C., pp. 69-70).
42.  Cfr. J.S.III, p. 188 (C., pp. 72-73).
165

struttura degli oggetti viene, dall’invenzione segnica, lasciata


intatta: «L’io è qui oggetto esso stesso come interno della cosa,
questa interiorità della cosa è ancora separata dal suo essere»43.
Ma queste riserve, nei confronti del segno, mal si conciliano
con la prospettiva ormai assunta dalla filosofia dello spirito,
che nello Zeichen mira a intravedere l’appropriazione senza
remore della natura da parte del soggetto.
Così, l’Enciclopedia può far leva sull’assoluta estraneità dei con-
tenuti intuitivi rispetto al significato da essi rappresentato, per
evidenziare come proprio in ciò si esprima la mirabile potenza
dell’intelligenza: «Il segno va definito come qualcosa di gran-
de. Quando l’intelligenza ha contrassegnato qualcosa, essa ha
finito di occuparsi del contenuto dell’intuizione, e al materiale
sensibile ha dato come anima un significato ad esso estraneo»44;
«l’intelligenza… impiega l’intuizione come sua»45, in quanto
quest’ultima non vale più «come qualcosa di positivo in se stes-
sa, bensì come rappresentante di qualcosa d’altro»46. Nel segno,
quindi, l’intelligenza perviene nuovamente all’essere, «l’imma-
gine prodotta dalla fantasia» non è più «intuibile solo soggetti-
vamente», bensì raggiunge l’«intuibilità vera e propria»47.
Hegel sottolinea come la fantasia costituisca un punto di svol-
ta nell’articolazione della Vorstellung. I suoi prodotti non sono
più solo «sintesi» di lati opposti; al contrario, «la fantasia è il
punto medio, in cui l’universale e l’essere, il proprio e l’essere-­
trovato, l’interno e l’esterno sono perfettamente fusi in uno»48.

43.  J.S.III, p. 189 (C., p. 73); sulla concezione del segno in J.S.III, cfr. an-
che supra, cap. I, pp. 33-34.
44.  Enz., III, § 457, Z., p. 269.
45.  Enz., III, § 458 Anm., p. 270 (tr. it. cit., p. 448).
46.  Enz., III, § 458, p. 270 (tr. it. cit., p. 447).
47.  Enz., III. § 457 Anm., p. 268 (ibidem).
48.  Ibidem (tr. it. cit., pp. 446-447).
166

Ma allora, in che senso può il segno ancora far parte del-


la Vorstellung? La rappresentazione era infatti caratterizzata
proprio in base al fatto che i suoi prodotti erano giustapposi-
zioni estrinseche, la rappresentazione «propriamente detta»
si evidenziava come il portato di un’attività paradossalmente
tutta interiore, eppure anche solo ed esclusivamente sinteti-
ca. Tanto più problematica dovrà apparire la determinazio-
ne della creazione fantastica come compiutamente unitaria,
in quanto nello Zeichen l’intelligenza giunge alla proiezione
nell’oggettività dei contenuti spirituali, e l’opposizione fra mo-
mento ideale e momento materiale sembra pervenire al suo
culmine.
In realtà, le questioni poste dalla trattazione enciclopedica del-
la fantasia e del segno incidono direttamente sul complessivo
assetto sistematico di questo capitolo di filosofia dello spirito,
e alla luce di esso vanno inquadrate. Non dimentichiamo in-
fatti che il telos dell’«intelligenza» è costituito dall’Aufhebung
della rappresentazione nel Denken, che solo nel pensiero le
differenze giungono ad articolarsi secondo la «concreta imma-
nenza del concetto»49. Che cosa manca quindi all’unità com-
piuta dello Zeichen, perché già in esso non possa pervenire ad
acquietarsi il movimento dell’intelligenza?
Si tratta ancora della materialità dell’oggetto. Ma essa è già
negata in quanto funge da segno; l’intelligenza non deve lot-
tare contro un’oggettività che le resista ancora esternamente,
quanto piuttosto disporre di un materiale che nella stessa fisi-
cità del suo prodursi evidenzi il valore negativo ormai assun-
to, per lo spirito, dai contenuti dell’intuizione empirica. La
filosofia della natura lo aveva già trovato nel suono (Klang),
che essa designa come «il passare della spazialità materiale in
temporalità materiale», come «forma interiore» che esiste «nel

49. Cfr. supra, nota 28.


167

materiale in quanto sua idealità» e «negazione»50. Per l’intelli-


genza però non si tratta più di «trovare» semplicemente, ma di
produrre il suono a partire dalla sua propria interiorità, con-
servando alle sue creazioni l’oggettività esterna del segno, ma
potenziando ulteriormente la sua attività in rapporto all’intui­
zione. Lo spirito non recepisce più passivamente il materiale
offerto da quest’ultima, ma lo produce esso stesso come mez-
zo per la sua estrinsecazione; e come mezzo per giunta imme-
diatamente negativo, insussistente, «un esserci nel tempo – un
dileguare dell’esserci nel momento in cui è»51. Il suono perciò
si articola per diventare «la riempita estrinsecazione dell’inte-
riorità che si manifesta» (Ton)52, e mentre garantisce ai signifi-
cati l’assunzione di uno statuto di esternità, si sottopone senza
residui alla loro comunicazione. Così sorge il linguaggio, in
cui l’intuizione che immediatamente dilegua viene a suggella-
re l’assoggettamento della materia alla signoria dei significati.
L’Enciclopedia non presenta la transizione al segno linguisti-
co nella forma della cesura dialettica, ma come ulteriore ap-
profondimento dell’attività semiotica da parte dello spirito.
La parola cioè non eccede l’ambito del segno, non si dispone
nei suoi confronti in posizione contraddittoria; ne costituisce,
piuttosto, una declinazione intensificata, «la figura più vera
dell’intuizione che è un segno»53.
Anche in tal caso, come già per il segno, si registra un notevo-
le mutamento di prospettiva rispetto agli abbozzi di filosofia
dello spirito del 1803-04 – mutamento, la cui ragione imme-
diata è da intravedere nel ruolo diverso di volta in volta svolto

50.  Cfr. Enz., II, § 300, p. 171 (tr. it. cit., p. 284; «nel materiale» traduce
l’espressione tedesca «am Materiellen»).
51.  Enz., III, § 459, p. 271 (tr. it. cit., p. 449).
52.  Ibidem.
53.  Ibidem.
168

dallo Zeichen, ma che più globalmente e più profondamente


chiama in causa l’assetto dell’intera costruzione. Per quanto
riguarda i testi del 1803-04, come abbiamo visto, il nome esi-
stente «come linguaggio» assurgeva a momento risolutivo di
contraddizioni, che permanevano nel segno ancora inconcilia-
te, poiché quest’ultimo «era ancora per sé qualcosa d’altro che
un nome, cioè una cosa»54. Nell’Enciclopedia, al contrario, il
nome non può presentarsi in questa forma, perché già il se-
gno risulta qui un prodotto compiutamente unitario. Intende-
re quest’ultimo come giustapposizione «sintetica» di «interno
e esterno» oppure, addirittura, come irresolubile opposizione
fra i due lati e «dover-essere», costringerebbe Hegel a modifi-
care, più in generale, il concetto di fantasia in quanto attività
che concilia per prima, entro la Vorstellung, l’intelligenza e il
materiale delle sue creazioni. Lo Zeichen costituisce l’esterio-
rizzazione delle formazioni fantastiche: solo la permanenza
della contraddizione al loro interno avrebbe potuto motivarne
la tematizzazione nel segno.
Ora, l’insieme di questi slittamenti sembra spingere la filoso-
fia dello spirito a ridimensionare il ruolo del linguaggio entro
la compagine dell’«intelligenza», mentre è proprio attraver-
so il consolidamento dei rapporti linguistici e l’interiorizza-
zione dei nomi che si realizza l’Aufhebung della Vorstellung
nel Denken. La rappresentazione si «supera» nel pensiero in
quanto il pensiero assorbe le parole nell’interiorità dello spi-
rito. Nonostante il nome venga quindi considerato come una
forma intensificata di segno, nonostante non svolga più una
funzione ricompositiva, e quindi anche risolutiva, di contrad-
dizioni che rimarrebbero nel segno ancora inconciliate – no-
nostante insomma resti inglobato entro la sfera del semplice
Zeichen, proprio sul nome fa perno la transizione hegeliana

54.  Cfr. supra, cap. I, nota 26, ma più in generale, in riferimento agli scritti
di cui si tratta, cfr. pp. 22-30.
169

dalla rappresentazione al concetto. Ed è a questo riguardo che


le questioni concernenti la posizione del linguaggio rispetto
al segno s’incrociano con quelle attinenti la tenuta dell’asset-
to complessivo di questa sezione della Psicologia. Ora, poiché
l’orientamento dell’«intelligenza» è volto a conseguire la so-
glia del pensiero, a superare nella «concreta immanenza del
concetto» le giustapposizioni cui deve limitarsi a pervenire
la Vorstellung, ecco che in primo piano emergono non solo i
rapporti fra segno e nome, ma anche quelli che connettono
quest’ultimo all’attività del Denken.
Solo tenendo conto di questa trama di relazioni e di complica-
zioni è possibile valutare in tutta la sua portata l’impresa che
Hegel, nella scarna prosa di queste pagine dell’Enciclopedia,
si accinge a compiere: quella della derivazione logico-sistemica
del Denken tramite Aufhebung della rappresentazione e del
suo linguaggio. O meglio: della rappresentazione in quanto lin-
guaggio. Perché il linguaggio «dona alle sensazioni, intui­zioni,
rappresentazioni un secondo esserci, più alto rispetto al loro
immediato, in generale un’esistenza che vale nel regno della
rappresentazione»55; e a proposito del nome, egli ribadisce che
«il nome così è la cosa, per come essa è presente ed ha validità
nel regno della rappresentazione»56.
Tuttavia, la derivazione sistemica del linguaggio non sembra in
grado di supportare l’assunzione da parte sua di funzioni così
decisive per l’intelligenza. Se il nome è soltanto una modalità
intensificata di segno, l’asserzione secondo la quale i contenuti
della Vorstellung troverebbero in esso, e non in qualsiasi altro
Zeichen, un’esistenza adeguata al loro statuto rappresentativo,
non risulta giustificata dall’esposizione. E non si tratta certo di
problemi meramente stilistici, a meno che con tale denomi-

55.  Enz., III, § 459, p. 271 (tr. it. cit., p. 449).


56.  Enz., III, § 462, p. 278 (tr. it. cit., p. 455).
170

nazione non s’intenda l’emergere sintomatico, sul piano del-


la scrittura, di tensioni problematiche che si dispongono, più
propriamente, all’altezza delle connessioni logico-sistemiche,
della globale concezione filosofica.
In effetti, dall’inclusione del segno linguistico nel segno tout
court risulta condizionato tutto il processo di Aufhebung della
rappresentazione, così come la fondazione dell’appartenenza
reciproca necessaria di pensiero e linguaggio. Se è vero in-
fatti che l’esserci di quest’ultimo «ist unseren Gedanken ab-
solut notwendig»57, alle parole dovrebbe spettare uno statuto
irriducibile alla nozione di segno, anche entro l’ottica parzia-
le con cui l’Enciclopedia dichiara di voler trattare il linguag-
gio nell’ambito in questione58. Il fatto che ciò non avvenga è
senz’altro legato alla «riuscita» della transizione al Denken –
anzi, solo in tal modo Hegel può giustificare l’ulteriorità del
pensiero nei confronti del linguaggio e quindi dell’intera sfera
della Vorstellung. Tuttavia tale strategia condiziona lo svolgi-
mento dell’esposizione, imprimendo al decorso argomentativo
un andamento fortemente oscillatorio, che in taluni ma decisi-
vi passaggi pare comprometterne il valore probante.
Si ripresenterebbe allora quella medesima non-coincidenza di
processo e risultato che impediva già alla dialettica del tempo
di ricomporsi in totalità nell’ora dell’eternità speculativa59. Il
movimento di sviluppo attraverso cui l’«intelligenza» dovreb-
be pervenire al Denken come attività differenziata otterrebbe
di giungere al suo telos solo sacrificando la trasparenza logica
dei suoi passaggi, scindendo l’esito in cui pure dovrebbe sfo-

57.  Enz., III, § 462, Z., p. 280.


58.  Cioè «solo secondo la peculiare determinatezza di prodotto dell’intel-
ligenza per manifestare le sue rappresentazioni in un elemento esteriore»
(Enz., III, § 459 Anm., p. 271, tr. it. cit., p. 449).
59. Cfr. supra, cap. II, pp. 129-131.
171

ciare dalla processualità del dispositivo epistemico, che vice-


versa sarebbe il solo a poterlo sottrarre, una volta per tutte,
alla minaccia della contingenza rappresentativa. In altri ter-
mini, l’esposizione filosofica mostrerebbe di non poter salvare
dalla presa della Vorstellung il movimento della differenzia-
zione che incessantemente approssima l’attività del Denken e
coincide con la Darstellung stessa; ma d’altro lato, il tributo
di contingenza versato da quest’ultima alla rappresentazio-
ne costituirebbe l’unica modalità di salvaguardia del Denken
come attività differenziata. La frattura che separa il risultato
dal procedimento che lo viene a produrre si rivelerebbe come
ciò attraverso cui la trascendenza del pensiero si custodisce e
si «riserva», ma in pari tempo come ciò che la minaccia di un
riassorbimento senza resto nell’immanenza contingente della
rappresentazione.
Come «passaggio all’attività del pensiero» viene indicata in He-
gel la memoria60. Essa costituisce la terza e ultima fase della
Vorstellung, e si ripartisce a sua volta in tre momenti. Come
«behaltende[s] Gedächtnis» rende universale e permanente
il legame tra nome, o segno in genere, e significato61; svolta
questa funzione, associa reciprocamente nomi diversi in base
al loro significato, ripercorrendo serie di eventi spirituali (sen-
sazioni, rappresentazioni, pensieri) senza che questi debbano
nuovamente essere esperiti in quanto tali, e diventa così «me-
moria riproduttiva»62; infine, quando l’«intelligenza» non tema-
tizza più nemmeno il significato dei nomi, ed esso scompare dal
suo orizzonte intenzionale, l’attività della memorizzazione per-
viene alla sua terza e ultima fase, «che viene detta meccanica»63.

60. Cfr. Enz., III, § 464, p. 282 (tr. it. cit., p. 459).


61.  Cfr. Enz., III, § 461, p. 278 (tr. it. cit., p. 455).
62.  Enz., III, §. 462, p. 278 (ibidem).
63.  Enz., III, §. 463, p. 283 (tr. it. cit., p. 458).
172

È negli scritti jenesi del 1805-06 che la memoria inizia a svol-


gere quell’attività di «passaggio dal rappresentare al pensare»,
come pure viene detto nell’Enciclopedia64, che nei frammenti
di filosofia dello spirito del 1803-04 veniva perlomeno ancora a
condividere con il linguaggio. In quei testi, essa designa già la
riflessione dello spirito in sé dal suo denominare65, il momen-
to in cui la pronuncia delle parole si arresta, e i nomi vengono
trattenuti, silenziosamente, nell’interiorità della coscienza. L’io
perviene così ad abbandonare l’arbitrio di cui godeva nell’in-
venzione linguistica, e si volge a consolidare le relazioni fra i
nomi, e fra nomi e significati. Il linguaggio dimette la funzione
di soggetto dell’auto-riflessione in intelletto, che abbiamo visto
essergli propria nei frammenti del 1803-04, e tale attività viene
svolta in esclusiva dall’io, che disciplinando la sua invenzione
disciplina allo stesso modo se stesso. Ma poiché la memoria
diventa prerogativa dell’io, ed è d’altra parte l’unica molla che
inneschi il processo di transizione al pensiero, quest’ultimo re-
sta compreso entro la sfera di un’interiorità che non parla, e
per lo spirito tornare alla pronuncia concreta dei nomi diventa
impossibile. L’intelletto, che negli abbozzi del 1803-04 veniva
riassorbito, «come tutto», nel linguaggio66, rimane attraversato
senza residuo dalle parole, ma queste ultime esistono solamen-
te in quanto interiorizzate dall’io e in esso custodite. Il concet-
to perde la dimensione «universalmente comunicante» della
sua concreta pronuncia67, riconvertendosi a contenuto interno.
Tuttavia, la diversa impostazione dei rapporti fra memoria,
pensiero e linguaggio permette a Hegel di differenziare in

64.  Cfr. Enz., III, § 459 Anm., p. 277 (tr. it. cit., p. 455).
65. Cfr. supra, cap. I, nota 52, ma più in generale, sulle concezioni jenesi di
Hegel e i loro slittamenti al riguardo, cfr. pp. 28-31.
66. Cfr. J.S.I, p. 294 (C., p. 31).
67. Cfr. J.S.I, p. 288 (C., p. 25).
173

maniera più rigorosa concetto e nome, intelletto e linguag-


gio, così come di articolare ulteriormente la nozione del Ge-
dächtnis medesimo. Inoltre, abbiamo già notato come pro-
prio una scansione del tipo presentato nel testo del 1805-06
consentisse di pervenire alla definizione di una teoria della
Darstellung.
Non è privo di un ben preciso significato teoretico, quindi, se
l’Enciclopedia scandisce le tappe dell’Aufhebung della rap-
presentazione nel pensiero secondo modalità già fissate nel
manoscritto jenese del 1805-06. Il plesso che stringe assieme
filosofia dello spirito ed esposizione speculativa, e attorno al
quale il pensiero di Hegel giungeva, negli anni di Jena, a sta-
bilizzarsi entro un proprio dispositivo epistemico, attesta la
chiusura in circolo del suo filosofare anche dal punto di vista
della ricostruzione cronologica. Ma così come i circoli della
teoria mostravano di non potersi ricongiungere col punto che
dava loro inizio – così come la sfasatura che ne provocava la
non-coincidenza non si lasciava ricomporre nemmeno dalle
cerchie che atemporalmente dovevano seguirla, anche questa
«chiusura» della psicologia speculativa, che segna il precipita-
to ultimo delle stesure e rielaborazioni successive con le quali
Hegel ha tentato di venire a capo di questo capitolo di filoso-
fia dello spirito, mostra di descrivere un circolo attraversato da
tensioni e aporie non circoscrivibili né dominabili dall’esposi-
zione dialettica, e di poter giungere, quindi, solo problemati-
camente alla sua forma68.
Nell’Enciclopedia, il processo di Aufhebung della rappresen-
tazione nel Denken coinvolge l’appartenenza reciproca di pen-
siero e linguaggio, la determinazione del senso in cui quest’ul-

68.  Per sottolineare la novità e l’originalità del tentativo hegeliano di co-


struzione di una psicologia «speculativa», non sempre gli interpreti tendono
a rilevare le difficoltà che intervengono a questo proposito.
174

timo viene «superato» e simultaneamente «conservato», se è


vero che «è nei nomi che noi pensiamo»69. È il nome, infat-
ti, a essere la cosa, «in quanto essa è presente nel regno del-
la rappresentazione»70. Da un lato si tratta, per la Psicologia,
di fondare sistematicamente la co-appartenenza di Denken e
Sprache; dall’altro, di articolare concettualmente l’Aufhebung
della seconda da parte del primo. In ambedue i casi, il dispo-
sitivo sistemico impone di differenziare il nome dal segno, il
segno linguistico dal segno tout court.
Ma proprio a questo riguardo, l’inclusione del nome nel segno
comporta difficoltà insormontabili nel procedimento della dif-
ferenziazione logica che dovrebbe condurre a isolare il primo
dal secondo, a giustificarne così sistematicamente la connes-
sione esclusiva con il pensiero e lo statuto tutto particolare che
esso riveste nell’ambito stesso della Vorstellung. In rapporto
a tali difficoltà, è sintomatica l’asserzione di Hegel, secondo
la quale la memoria «ha in generale a che fare solamente con
segni»71. Persino nel testo del 1805-06, la memoria non «ave-
va a che fare» semplicemente con segni, ma più propriamente
con segni linguistici, tant’è vero che alcuni interpreti parlano
a suo riguardo di «verbal memory»72. Tale determinazione in
effetti è corretta, ma solo per le filosofie dello spirito jenesi.
Nell’Enciclopedia, parallelamente ai mutamenti che involgono
la concezione del segno e portano quest’ultimo a incorporare
funzioni dapprima riservate al solo nome, anche il Gedächt-
nis amplia l’arco della sua attività, e «il significato proprio, che
la memoria ha nello spirito»73, non si determina più in con-

69.  Cfr. Enz., III, § 462 Anm., p. 278 (tr. it. cit., p. 456).
70.  Loc. cit. supra, nota 56.
71.  Enz., III, § 458 Anm., p. 271 (tr. it. cit., p. 448).
72.  Così G.R.G. Mure, op. cit., p. 9 (ma da vedere al riguardo è l’intero primo
capitolo, Language and Hegel’s Logic, pp. 1-27).
73.  Cfr. Enz., III, § 463 Anm., p. 281 (tr. it. cit., p. 458).
175

nessione specifica col linguaggio, ma più globalmente con la


sfera dei segni.
Le ambiguità terminologiche e sistematiche di cui tale gene-
ralizzazione è all’origine gravano intanto sulla transizione dal-
la fantasia alla memoria. Hegel riconduce la genesi – in senso
logico-sistemico – di quest’ultima alla necessità di consolida-
re il rapporto fra nome e significato, che costituisce dapprima
«una produzione singola e passeggera»74; secondo un movi-
mento già delineato negli scritti jenesi, l’«intelligenza» proce-
de al consolidamento della loro relazione, trasformandone la
connessione da momentanea e contingente in una «universa-
le, cioè permanente»75. Ma poiché la memoria «ha a che fare
in generale con segni», l’attività di disciplinamento così in-
dotta pare volgersi indiscriminatamente a nomi come a segni.
In tal modo, quando si tratta di presentare il passaggio al Ge-
dächtnis, Hegel può menzionare esclusivamente i nomi76, per
poi tornare a parlare indifferentemente di Name o di Zeichen
come oggetti di attività del behaltendes Gedächtnis77.

74.  Enz., III, § 460, p. 277 (tr. it. cit., p. 455).


75.  Enz., III, § 461, p. 278 (ibidem).
76.  Cfr. Enz., III, § 460, p. 277: «Il nome, come collegamento dell’intuizio-
ne prodotta dall’intelligenza e del suo significato, è dapprima una singola
produzione passeggera, e il collegamento della rappresentazione in quanto
interna con l’intuizione in quanto esterna è esso stesso esteriore. L’interio-
rizzazione di questa esteriorità è la memoria» (tr. it. cit., p. 455; abbiamo
preferito esplicitare il senso filosofico della parola Erinnerung, che Croce
traduce giustamente con «ricordo»).
77.  Cfr. Enz., III, § 461, pp. 277-278: «Facendo suo quel collegamento che
è il segno, essa eleva… il singolo collegamento a collegamento universale,
cioè permanente, in cui nome e significato per lei sono oggettivamente lega-
ti, e trasforma l’intuizione che il nome è dapprima in una rappresentazione,
cosicché il contenuto, il significato e il segno, identificati, sono una rappre-
sentazione, e il rappresentare è concreto nella sua interiorità, il contenuto
è come il suo esserci; la memoria che conserva il nome» (tr. it. cit., p. 455).
176

È vero, però, che la questione non si può risolvere così facil-


mente. Resta indiscutibile, infatti, che il processo della memo-
rizzazione si concentra progressivamente sul segno linguistico.
Così, al termine del paragrafo che lo riguarda, lo stesso behal-
tendes Gedächtnis viene determinato esclusivamente in rap-
porto al nome78; così, l’aggiunta ad esso relativa si riferisce spe-
cificamente al linguaggio79; così, infine, gli ulteriori momenti
della memoria riproduttiva e meccanica «hanno a che fare» so-
lamente con nomi80. La necessità di selezionare il nome come
materiale privilegiato dell’attività di memorizzazione non ri-
sulta poi indicata a sufficienza nella determinazione della pa-
rola come «la figura più vera dell’intuizione che è un segno»81?
E se il linguaggio viene considerato, nell’Enciclopedia, «solo
secondo la determinatezza peculiare di prodotto dell’intelli-
genza per manifestare le sue rappresentazioni in un elemen-
to esteriore»82 – e cioè, in altri termini, come complesso di se-
gni – non verrebbe a cadere anche l’ambiguità terminologica
che abbiamo imputato a Hegel, consistente nell’impiego in-
differenziato di «nome» e di «segno»?
Questi dubbi ci spingono a radicalizzare l’interrogazione er-
meneutica, e a chiedere se pur restando entro i limiti che la
Psicologia si assegna nella considerazione del linguaggio, la fi-

78. Cfr. supra, la nota che precede.


79.  In essa, il senso di questo primo momento della memoria si evidenzia
nel fatto che «noi tratteniamo il significato dei nomi, in presenza dei segni
linguistici diventiamo capaci di ricordarci delle rappresentazioni con essi
oggettivamente collegate» (Enz., III, § 461, Z., p. 278).
80.  Cfr. Enz., III, § 462 (memoria riproduttiva), § 463 (memoria meccanica),
§ 464 (passaggio all’attività del pensiero), pp. 278-283 (tr. it. cit., pp. 455-459).
81.  Loc. cit. supra, nota 53.
82.  Loc. cit. supra, nota 58. In realtà, nemmeno l’Enciclopedia si limita a
considerare il linguaggio in questi termini. Cfr. l’interpretazione di J. Simon
menzionata supra, cap. I, nota 23.
177

losofia dello spirito non avrebbe dovuto determinare il nome


secondo modalità differenti, e più adeguate alla funzione che
esso viene a svolgere nell’economia dell’«intelligenza».
Ora, noi sappiamo che lo stesso Hegel aveva dato, nei fram-
menti del 1803-04, una risposta in senso affermativo a tale
domanda, e che ciò veniva a dipendere dall’eccedenza del-
la parola come «segno» rispetto all’ambito degli altri segni. È
soltanto per essi che «il significato deve essere per sé», deve
permanere nell’opposizione rispetto all’oggetto significante e
al soggetto, «per il quale esso ha il significato»; «il nome è in-
vece in sé, durevole, senza la cosa e il soggetto»83. E questa
autonomia derivava al nome dal fatto che in esso il significato
s’imprime senza resto e giungono così a dissolversi le contrad-
dizioni ancora inconciliate nel segno. Di qui il carattere tutto
particolare del nome come «segno»: in esso è infatti il segno
stesso a essere «superato» – conservato soltanto in quanto in
pari tempo tolto. Viceversa, l’inclusione del nome nel segno,
che approfondendo l’indirizzo testimoniato già nei testi del
1805-06, viene sancita definitivamente dall’Enciclopedia, da
un lato è all’origine della determinazione del Gedächtnis come
attività che «ha in generale a che fare solamente con segni»84,
dall’altro provoca le ambiguità terminologiche e le difficoltà
sistematiche sopra menzionate.
Il processo di Aufhebung della rappresentazione nel Denken
procede quindi nella direzione del suo telos solo forzando l’ol-
trepassamento del segno verso il nome, perché è appunto «nei
nomi che noi pensiamo»85, non in semplici segni. Ma la Psico-
logia hegeliana si trova, giunta a questo punto, a dover soddi-
sfare due esigenze reciprocamente incompatibili. Da un lato,

83.  Loc. cit. supra, cap. I, nota 28.


84.  Loc. cit. supra, nota 71.
85.  Loc. cit. supra, nota 69.
178

cioè, è costretta a imperniare sul nome la transizione al pen-


siero, in quanto solo la materia fonica si presta a essere inte-
riorizzata completamente dallo spirito; dall’altro, però, il nome
va ricondotto alla sfera dei segni, considerato come mero Zei-
chen per poter riservare al Denken il toglimento delle antino-
mie presenti ai livelli «anteriori».
In tal modo, il «superamento» della rappresentazione sareb-
be compiuto, e il pensiero costituito in attività differenziata
rispetto a tutto l’ambito della Vorstellung. Ma poiché la se-
paratezza del pensiero nei confronti della rappresentazione
viene a dipendere da una differenziazione solo relativa del
nome dal segno, essa si scontra col processo di costituzione
del pensiero come attività distinta dalla Vorstellung: la riuscita
del movimento logico-espositivo esigerebbe infatti proprio la
differenziazione concettuale del nome dal segno, perché solo
essa permette la fondazione sistemica dell’appartenenza reci-
proca di pensiero e linguaggio.
La necessità della transizione al Denken viene intravista da He-
gel nella sinteticità che continua a gravare sulla relazione fra
nomi e significati, e che contraddistingue in particolare l’atti-
vità della memoria riproduttiva: «Nella misura in cui la con-
nessione dei nomi si trova nel significato, il suo collegamento
con l’essere come nome è ancora una sintesi»86. Ma il carattere
«sintetico» dei prodotti dell’intelligenza non veniva già tolto,
entro l’ambito della rappresentazione, dalla fantasia? Non si
trovava già il segno a essere «qualcosa di grande», in quanto
lo spirito vi cancellava i contenuti empirici dell’intuizione, la
quale veniva dall’intelligenza «usata come sua»? E se addirit-
tura il segno emergeva dal superamento della giustapposizio-
ne che contraddistingueva la rappresentazione «propriamente
detta», com’è possibile che essa compaia entro la sua «figura

86.  Enz., III, § 463, p. 281 (tr. it. cit., p. 457).


179

più vera»? In che modo può la memoria distinguere nome e


significato, per poi eventualmente ricongiungerli in un pro-
dotto che rischierebbe davvero, però, di non essere altro che
una giustapposizione «sintetica»? Lo sdoppiamento di nome
e significato designa un’operazione compiuta dalla memoria
al solo scopo di ricomporre una differenza da essa artificiosa-
mente provocata?
In effetti, la transizione al pensiero è attuata quando quella
sinteticità viene tolta, riassorbita nell’interiorità dell’intelli-
genza attraverso la memorizzazione meccanica. Qui lo spiri-
to non intenziona più il significato dei termini, ma focalizza e
trattiene indefinite serie di nomi solo in quanto nomi87. L’in-
telligenza raggiunge la massima esteriorità possibile nella sua
stessa interiorità, e dalla massima tensione dell’opposizione
scaturisce la conciliazione fra i due lati: in quanto è soltanto
connessione seriale di nomi, ecco che non può più darsi alcun
tipo di sintesi, mentre d’altra parte i significati non hanno altro
luogo in cui esistere se non quello, totalmente solcato da se-
rie di termini, dell’«intelligenza». Proprio «in quanto memoria
meccanica», lo spirito risulta «in uno quella esteriore obbietti-
vità stessa e il significato», si pone come «l’esistenza di questa
identità», trapassando così «nell’attività del pensiero, che non
ha più alcun significato – dalla cui obbiettività, cioè, il momen-
to soggettivo non è più diverso, così come questa interiorità è
in lei stessa essente»88.
Dal punto prospettico finalmente raggiunto del telos cui l’in-
telligenza è pervenuta, in cui il processo di Aufhebung della
rappresentazione precipita nel suo risultato e l’intelligenza si

87.  L’intelligenza «si pone come l’essere, lo spazio universale dei nomi come
tali, cioè di parole senza senso. L’io, che è questo essere astratto, in quanto
soggettività è in pari tempo la potenza dei diversi nomi, il legame vuoto, che
rafforza in sé serie di quelli e le mantiene in ordine saldo» (ibidem).
88.  Enz., III, § 464, p. 282 (tr. it. cit., pp. 458-459).
180

realizza infine come attività pensante – da qui soltanto diven-


ta possibile cogliere la portata che le contraddizioni, le ambi-
guità, gli slittamenti che abbiamo visto rendere tale decorso
così accidentato rivestono in relazione al complessivo assetto
sistemico. Perché di quest’ultimo esse non costituiscono solo
gli effetti, ma anche l’insieme dei presupposti che ne gover-
nano l’attuazione nel momento medesimo in cui ne scoprono
la fragilità interna.
E anzitutto, alla luce della definizione del Denken come com-
penetrazione e identità di nome e significato, emerge con evi-
denza la funzionalità specifica, e da questo lato senz’altro ef-
ficace, dell’assimilazione del nome al segno. Se già il nome
come prodotto di attività linguistiche risultasse in grado di ri-
solvere e «conciliare» le antinomie contenute nelle creazioni
«sintetiche» dell’intelligenza, tale funzione non potrebbe es-
sere dislocata verso un livello qualitativamente differenziato
dal linguaggio e quindi più globalmente dalla Vorstellung. Il
pensiero si troverebbe irriducibilmente immerso nella rappre-
sentazione e nei suoi contenuti, chiuso dentro il suo tempo e
le sue forme operative.
Per scongiurare un esito del genere, Hegel si trova costretto
a valorizzare in rapporto al nome le riserve critiche formulate
a Jena riguardo al segno. L’imputazione di non costituire altro
se non una «sintesi» viene così a gravare sul segno linguistico,
quando pareva vi si fosse sottratto perfino il semplice Zeichen:
«L’essente, in quanto nome, ha bisogno – per essere la cosa, la
vera obbiettività – di un altro, del significato dell’intelligenza
rappresentativa»89. L’esteriorità che permane fra i lati messi
in rapporto conferma il carattere rappresentativo del linguag-
gio, è omogeneo con la sua inclusione nell’ambito della Vor-
stellung e la rafforza.

89.  Ibidem.
181

La possibilità della scomposizione operata dalla memoria è in-


terna alla costituzione «originariamente» sintetica del nome,
anche se la sua compenetrazione col significato svela la sua
instabilità solo di fronte alla potenza del Gedächtnis. Il nome,
così come del resto il segno in generale e i prodotti della fan-
tasia, sono soltanto la prima unificazione raggiunta dall’intelli-
genza coi suoi materiali: unificazione quindi ancora immediata,
che solo in seguito al suo dissolvimento da parte della memoria
perviene alla compiuta mediazione fra i due lati. E in quanto
«esiste» nella forma di una tale mediazione, l’intelligenza si
realizza come attività pensante, ripristina un’immediatezza e
un’unificazione risultanti dal processo della scomposizione e
ricomposizione dialettiche.
L’immediatezza del pensiero si trova così a essere intrinseca-
mente mediata, è per così dire una seconda immediatezza: ma
proprio perciò, un’immediatezza irriducibile a quella prima
della fantasia, del segno e del linguaggio. Non a caso questi
ultimi rientrano per Hegel nella sfera della rappresentazione,
nonostante in essi «l’universale e l’essere, il proprio e l’essere-
trovato, l’interno e l’esterno siano perfettamente fusi in uno»90.
L’unità che essi incorporano è ancora soggetta alla sinteticità
che pure superano per la prima volta, suscettibile quindi di su-
bire la scomposizione cui va incontro a opera della memoria.
Da parte sua, l’attività di quest’ultima svela in cosa consista il
«significato» di cui la riveste la filosofia dello spirito: l’interio-
rizzazione dei legami linguistici, culminante con la massima
estraneità reciproca fra nomi e significati e con la loro com-
penetrazione nel pensiero, deve infatti prima porre «per sé»
la sinteticità «in sé» presente nel prodotto semiotico, e quindi
anche nel nome ad esso assimilato: solo in tal modo l’esterio-
rità può risultare infine compiutamente mediata nel Denken.

90.  Loc. cit. supra, nota 48.


182

Quest’ultimo viene così a designare un’attività fortemente dif-


ferenziata rispetto all’ambito della Vorstellung, sottratto alla
sfera delle giustapposizioni e delle sintesi nella quale anche
il linguaggio era compreso. Ma per salvaguardare il pensiero
dalla ricaduta nella rappresentazione, la Psicologia deve rinun-
ciare alla comprensione sistemica della sua implicazione con
il linguaggio, perché ciò sarebbe stato possibile solo isolando
quest’ultimo dal complesso dei segni. E differenziare il segno
linguistico dagli altri segni avrebbe comportato lo scavalca-
mento della sua determinazione come collegamento esteriore
della rappresentazione con l’intuizione91: ciò che sarebbe stato
valido per il segno, in altri termini, non avrebbe più avuto in-
cidenza per il linguaggio e i nomi. In tal modo, però, sarebbe
venuta meno la funzione differenziale incorporata nella defi-
nizione del Denken come identità finalmente posta di «obbiet-
tività esteriore e significato»: ciò avrebbe infatti già designato
le parole e la lingua, e ripiegato il pensiero entro il perimetro
della rappresentazione.
Così il telos si distanzia dal processo che pure dovrebbe pro-
durlo, e la frattura che si apre fra i due non risulta mediabi-
le in senso dialettico. L’isolamento del linguaggio dai segni è
l’unica modalità di «fondazione» adeguata della reciproca ap-
partenenza di parola e pensiero; la sua assimilazione ai segni
l’unica modalità per differenziare il pensiero dalla Vorstellung.
Dallo scontro di tali opposte tendenze, ambedue necessarie
e ambedue esclusive, si origina il processo dell’Aufhebung,
in pari tempo riuscita e mancata, della rappresentazione nel
Denken.

91.  Cfr. supra, nota 76, dov’è riportato il brano cui stiamo facendo riferi-
mento.
183

4. Tempo della «Vorstellung» e tempo della «Darstellung»


La condensazione del tempo negli ora dell’eternità speculati-
va, che la dialettica delle dimensioni temporali produce come
suo portato ultimo, ricade tuttavia nell’astrattezza di una tota-
lità che si realizza nella dimensione del passato. Di qui l’apo­ria
del passato che ci sembra contrassegnare la soluzione hege-
liana: se il passato è inteso come totalità, allora non può più
superarsi, e l’eternità si disloca al di qua del presente conce-
pito come il «terzo» ora che dovrebbe riunire e conservare al
proprio interno presente, futuro e passato; se invece il passa-
to è inteso come dimensione, allora può certamente superarsi
verso un nuovo presente (il «terzo» ora di cui abbiamo appena
detto), ma questo nuovo presente non potrà più essere totalità
(perché quest’ultima è costituita dal passato), e potrà affermar-
si solo come dimensione (ricaduta dell’eternità speculativa sul
piano del tempo naturale e della cronologia).
In altri termini, il passato riesce a togliersi dalla finitezza che
gli preclude l’accesso al piano della totalità soltanto a prez-
zo di non-coincidere col presente dell’eternità, che pure per
suo tramite dovrebbe scaturire. Ma declinandosi al passato,
la totalità non soltanto si vede sottratta e privata del momen-
to della presenzialità, ma costretta ad assumere lo statuto, pa-
radossale e per essa senz’altro inaccettabile, di totalità che
s’istituisce come tale solo in quanto resta, simultaneamente,
astratta – chiusa entro la finitezza di una dimensione singo-
la, e per giunta di quella che ne designa la ricaduta al di qua
dell’effettualità e del compimento. A sua volta, la coniugazio-
ne al passato della totalità temporale ripristina l’indipendenza
e la relativa permanenza, al di fuori l’una dall’altra, delle al-
tre due dimensioni del tempo, presente e futuro. L’insupera-
bilità della finitezza del tempo verrebbe così a coincidere con
l’insuperabilità della rappresentazione da parte del pensiero
e del concetto.
184

In effetti, come nei testi jenesi da noi analizzati nel secondo


capitolo, passato e futuro acquisivano la loro relativa perma-
nenza e sussistenza grazie alla rappresentazione del soggetto92,
così la medesima affermazione si trova ripetuta nell’Enciclo-
pedia. Il tempo della natura è quello dell’«ora fissato come
essente»93, nella natura il tempo «non perviene alla differenza
sussistente di quelle dimensioni»94. Radicalmente differenzia-
ta dall’ininterrotta successione degli ora finiti del tempo natu-
rale, abbiamo quindi visto prodursi la concrezione del tempo
nell’eternità dell’ora in cui le dimensioni si contraggono a isti-
tuire la totalità del presente intemporale – «absolute Zeitlo-
sigkeit… die Ewigkeit, die ohne die natürliche Zeit ist»95. E
tuttavia, eternità e tempo naturale si dispongono entrambi sul
piano della presenzialità, incarnandone certo declinazioni ir-
riducibili l’una all’altra, ma in cui comunque passato e futuro
non acquisiscono alcuna autonoma sussistenza. Così, è solo
nella Vorstellung del soggetto che quelle due dimensioni ri-
escono a differenziarsi in maniera stabile dal presente: «esse
sono necessarie soltanto nella rappresentazione soggettiva, nel
ricordo, e nel timore o nella speranza»96.
La rappresentazione estende di conseguenza anche al tempo
le cadenze specifiche del suo modo d’intendere e di manife-
stare i concetti. Essa perviene a cogliere determinazioni spiri-
tuali e a circoscriverne l’ambito relativo, giungendo da questo
lato a sottrarre al flusso temporale dell’esperienza interiore i

92.  Così come l’essere del futuro era un essere solamente rappresentato,
siamo «noi» a trattenere il passato «fuori dalle altre dimensioni» (J.S.III,
p. 12).
93.  Enz., II, § 259 Anm., p. 52 (tr. it. cit., p. 235).
94.  Ibidem.
95.  Loc. cit. supra, cap. II, nota 16: «intemporalità assoluta… l’eternità, che
è senza il tempo naturale».
96.  Loc. cit. supra, nota 93.
185

contenuti di volta in volta in questione. Benché infatti quelle


determinazioni «appaiano temporalmente l’una dopo l’altra, il
loro contenuto tuttavia non viene rappresentato come affetto
dal tempo, in esso passeggero e mutevole»97. Alla successione
degli stati psicologici e all’inevitabile flusso della vita interiore,
la Vorstellung contrappone l’inalterabilità dei contenuti da essa
afferrati; a sua volta, però, tale inalterabilità viene raggiunta a
prezzo del loro reciproco isolamento: «tali determinazioni…
restano per così dire isolate nel vasto territorio dell’universalità
interna, astratta del rappresentare in generale»98. Perciò He-
gel asserisce al riguardo l’omogeneità dei procedimenti della
Vorstellung con quelli dell’intelletto (Verstand), distinguendoli
solo per il fatto che quest’ultimo «sotto le determinazioni iso-
late della rappresentazione pone relazioni di necessità, men-
tre la rappresentazione le lascia l’una accanto all’altra nel suo
spazio indeterminato, collegate solo dal mero anche»99. Ora,
per quanto concerne il tempo, è la rappresentazione che man-
tiene isolate le singole dimensioni l’una dall’altra, che fornisce
la sussistenza a passato e futuro; è quindi la rappresentazione
del tempo che si tratta di «superare» nel suo concetto.
Così, la dialettica temporale e il suo culminare nell’eternità
speculativa intersecano il problema dei rapporti fra rappre-
sentazione e concetto, del superamento della rappresentazione
nel concetto. Ciò risulta, del resto, pienamente conforme alla
concezione di Hegel, se è vero che «si può dire, in generale,
che la filosofia non faccia altro che trasformare le rappresen-
tazioni in pensieri – ma certo, inoltre, il semplice pensiero nel
concetto»100. La rilevanza specifica delle relazioni fra eternità

97.  Enz., I, § 20 Anm., p. 73 (tr. it. cit., p. 34).


98.  Ibidem.
99.  Ibidem (tr. it. cit., pp. 34-35).
100.  Loc. cit. supra, nota 20.
186

e tempo, da un lato, e rappresentazione e pensiero, dall’altro,


è racchiusa nel fatto che non oltrepassare la soglia della rap-
presentazione del tempo significherebbe non oltrepassare, non
«superare» in nessun senso il tempo stesso; che non «supera-
re» il tempo nell’eternità speculativa, non istituire il tempo in
totalità significherebbe schiacciare il pensiero sulla rappresen-
tazione del tempo – e cioè: sul tempo della rappresentazione e
sulla rappresentazione tout court101.
Tale movimento ci si è presentato in duplice forma: più preci-
samente, come l’annullamento del tempo naturale nell’eterni-
tà speculativa esponeva costantemente quest’ultima al rischio
della ricaduta nel primo, così un esito analogo abbiamo visto
emergere dal processo di Aufhebung della rappresentazione
nel Denken, scandito all’interno della Psicologia. Qui, la de-
rivazione sistemica svolta come Darstellung speculativa delle
attività dell’«intelligenza» si disponeva da un lato, mentre di
contro e di fronte ad essa, eccedente in senso non dialettico,
permaneva fissato «accanto» all’auto-superamento della Vor-
stellung il Denken medesimo. Il processo sfociava all’interno
della rappresentazione; ma soltanto questo ripiegamento con-
sentiva di sottrarre il pensiero alla sua presa.
Certo, qui emerge un nuovo rovesciamento, un movimento
innescato dalla dialettica ma che contro quest’ultima in pari
tempo si volge, infrangendola. L’interruzione del procedimen-
to epistemico di esposizione prima della soglia di ciò che ne
dovrebbe costituire il risultato, infatti, come sua conseguenza
produce l’irrigidimento del pensiero oltre il perimetro della
Vorstellung, il suo stabilizzarsi accanto al complesso delle atti-
vità rappresentative. Il pensiero finisce quindi con l’assumere,

101.  Cfr. su questo punto M. Theunissen, op. cit., pp. 295 ss., commento
al § 571 dell’Enciclopedia (che conclude la sezione sulla geoffenbarte Reli-
gion), il quale approfondisce i rapporti fra concetto e rappresentazione, da
un lato, ed eternità e tempo, dall’altro.
187

suo malgrado, uno statuto rappresentativo – per differenziar-


si dalla rappresentazione sembra non poter essere altro che
rappresentazione, così come il tentativo di eccederla istituisce
il dispositivo che ve lo include. Il pensiero perviene insomma
a se stesso soltanto in quanto a sua volta vor-gestellt, posto di
fronte e dinanzi alla rappresentazione che pure dovrebbe ave-
re «superato», e che invece in tal modo lo ricomprende in sé
come una rappresentazione sui generis. E ciò accade proprio
in virtù della Darstellung filosofica, che ne dovrebbe deter-
minare il concetto – che lo dovrebbe «porre» come concetto.
Eppure, come ha mostrato l’analisi della Vorrede, Hegel è giun-
to a definire una nozione del pensiero svincolata dalla rappre-
sentazione. Ma il contesto che consentiva di pervenire a tale
determinazione102 è estremamente sintomatico in relazione alle
difficoltà incontrate in proposito dalla Psicologia. Quest’ulti-
ma, infatti, pare trovarsi di fronte a un compito contradditto-
rio con l’essenza stessa del pensiero: il pensiero andrebbe cioè
definito come concetto psicologico; ma secondo la concezione
hegeliana, risulta impossibile determinare il pensiero al di là e
al di fuori del movimento della sua concretizzazione e del suo
svolgimento. Un’impresa del genere non potrebbe giungere
che a enunciazioni puramente formali, a definizioni intellet-
tualistiche e astratte, perché dovrebbe scindere l’attività del
pensiero dai suoi contenuti, la forma del Denken dalle specifi-
cazioni categoriali nelle quali esso di volta in volta precipita e
si realizza. Allora, che il pensiero nella Psicologia non pervenga
compiutamente a svincolarsi dallo statuto di rappresentazione
non dice ancora nulla sulle modalità della sua concreta ed «ef-
fettuale» attuazione, sulla cadenza non-rappresentativa che ne
contraddistingue l’esercizio, sul senso in cui la Vorstellung vi si
trovi compresa, ma solo in quanto aufgehoben.

102.  Quello relativo, appunto, alla definizione del concetto di esposizione


speculativa (cfr. supra, il cap. I).
188

Ben più intricata dunque è la questione che involge il Denken


quando si esercita come tale, quando non si «definisce» attività,
ma direttamente si sperimenta e si attua. È da qui che la no-
stra ricerca deve nuovamente partire, perché le interrogazioni
suscitate dalle discrepanze emerse nella Psicologia investono
il pensiero dal versante del suo svolgimento «in atto» e della
sua precipitazione nelle singole determinazioni concettuali,
a loro volta comprese nel «movimento dialettico», effettiva-
mente esposto, della risoluzione e ricomposizione speculative.

5. Spazializzazione dell’eternità e problema della scrittura


Abbiamo visto come l’esposizione speculativa incorpori le mo-
dalità di destituzione del tempo attraverso cui si scandisce la
dialettica delle dimensioni e del loro superamento. Ma l’espo-
sizione è esposizione scritta, realizzata tra le pagine di un libro.
Non si tratta più, per il pensiero, d’impiegare la parola che si
comunica oralmente nell’interazione fra parlanti, ma della pa-
rola immobilizzata nello spazio della scrittura. Parrebbe quindi
necessario, per questo pensiero, approfondire la portata filo-
sofica della spazializzazione del linguaggio, visto che è sullo
spazio della pagina che la Darstellung si sviluppa e si attua.
Ma nell’Enciclopedia la scrittura non sembra assurgere alla
dignità di problema. Anzi, essa vi si presenta in posizione net-
tamente subordinata rispetto al linguaggio fonico, poiché im-
mobilizza nello spazio la parola pronunciata oralmente, e come
tale «dileguante» nel tempo103. La scrittura torna cioè a quella
dimensione di solidificata esteriorità, della quale la transizione
al linguaggio come produzione di segni evanescenti costituiva

103.  Parola che, come ricordiamo, Hegel definiva «un esserci nel tempo, un
dileguare dell’esserci mentre è» (Enz., III, § 459, p. 271; tr. it. cit., p. 449).
189

appunto il superamento. Hegel le attribuisce quindi il signifi-


cato di «attività esteriormente pratica»104, di ausilio che viene
impiegato in funzione di «sostituto» della comunicazione orale
e vivente: «Accanto al linguaggio fonico, in quanto originario,
può essere menzionata anche la scrittura…»105.
Eppure, nonostante tale subordinazione, il decorso del testo si
muove nella direzione di una progressiva accentuazione della
sua rilevanza per il pensiero. Le osservazioni hegeliane paiono
all’inizio limitarsi a svolgere una comparazione, dall’andamen-
to quasi descrittivo, fra scrittura alfabetica e scrittura gerogli-
fica. Il criterio di valutazione della rispettiva significanza resta
costituito dal loro rapporto nei confronti del linguaggio par-
lato, e da questo lato risulta per Hegel la «superiorità» della
scrittura alfabetica rispetto a quella geroglifica. Infatti, mentre
i segni elementari di cui si compone la prima – le lettere – rap-
presentano i suoni dalla cui articolata connessione sorgono le
parole, le quali quindi sono formate da «segni di segni» – giac-
ché i suoni «sono già essi stessi segni»106 – la seconda intende
significare le componenti costitutive delle singole rappresen-
tazioni107. Gli svantaggi di tale impostazione sono diversi, e
vanno dalla difficoltà di pronunciare correttamente i singoli
termini all’incompatibilità con uno sviluppo spirituale accele-
rato, dall’esclusività che caratterizza la diffusione della cultu-
ra all’ambiguità e alla confusione che sorgono dalle molteplici
possibilità di scomporre una medesima rappresentazione. Ma
la carenza più grave, dal punto di vista filosofico, è un’altra, e
consiste nell’incapacità, da parte della scrittura geroglifica, di
soddisfare quello che Hegel chiama il «bisogno fondamentale

104.  Enz., III, § 459 Anm., p. 273 (tr. it. cit., p. 450).
105.  Enz., III, pp. 272-273 (ibidem).
106.  Enz., III, p. 273 (tr. it. cit., p. 451).
107.  Enz., III, p. 275 (tr. it. cit., p. 453).
190

del linguaggio in genere», e cioè il nome108. Quest’ultimo can-


cella, nella sua semplicità, il contenuto empirico dell’immagi-
ne, guadagnando inoltre in precisione e determinatezza: così è
nei nomi che le cose acquistano cittadinanza «nel regno della
rappresentazione»109.
A quest’altezza, le osservazioni hegeliane sulla scrittura subi-
scono una torsione che le disloca, dal piano empirico-descrit-
tivo della comparazione fra due apparati segnici, a quello più
propriamente teoretico della co-implicazione di pensiero e
scrittura alfabetica. Non si tratta più di valutare la rispettiva
incidenza storica dei due tipi di scrittura, ma di precisare in
che senso la semplificazione cui perviene il tipo alfabetico nei
nomi si trovi in un rapporto di omologia strutturale con le mo-
dalità operative dell’«intelligenza» rappresentativa e pensante:
Non solo l’intelligenza rappresentativa indugia nella sempli-
cità delle rappresentazioni e le raccoglie di nuovo insieme dai
momenti più astratti, nei quali sono state analizzate; ma an-
che il pensiero riassume il contenuto concreto dall’analisi, in
cui esso è diventato un collegamento di molte determinazioni,
nella forma di un pensiero semplice. Per entrambi, c’è bisogno
di avere anche tali segni semplici riguardo al significato, che,
essendo composti di più lettere o sillabe e anche divisi in esse,
pure non rappresentano un’unione di più rappresentazioni.110
Certo, anche in questo caso, il termine di paragone è costituito
dal linguaggio dei suoni: la prerogativa della scrittura alfabe-
tica è appunto quella di conservare «il vantaggio della lingua
fonica; vale a dire, in questa come in quella, le rappresenta-
zioni hanno nomi, propriamente detti…»111. Tuttavia, il punto

108.  Ibidem.
109.  Loc. cit. supra, nota 56.
110.  Enz., III, § 359 Anm., pp. 275-276 (tr. it. cit., p. 453).
111.  Enz., III, p. 275 (tr. it. cit., p. 452).
191

importante è che fra nomi e pensieri si stringa un vincolo non


più solamente convenzionale, e che le proprietà per così dire
formali della convenzione prodotta corrispondano secondo
modalità strutturali, e che eccedono quelle della convenzio-
ne, alle operazioni che scandiscono in Hegel il funzionamen-
to dell’intelligenza.
Basta questo per dire che il pensiero, in quanto «ha bisogno»
di nomi, «ha bisogno» anche della scrittura? L’interrogazione
non è mai posta, da Hegel, in questi termini. Ma se la scrittura
non viene messa in questione come tale, ciò non toglie che la
sua definizione in quanto «attività esteriormente pratica» non
sia in grado di rendere giustizia alla funzione e al «significato»
che essa riveste per la costruzione del dispositivo hegeliano e
la precipitazione «effettuale» dell’attività del Denken112.
Anche da questo lato, il rapporto di condizionalità esterna fra
scrittura alfabetica e pratica del pensiero si converte nell’as-
sunzione interna, da parte di quest’ultimo, del presupposto
che ne consente l’esercizio e il dispiegamento. La scrittura
alfabetica non si limita, infatti, a fornire alla filosofia il mate-
riale semiotico indispensabile alla sua Darstellung. Il punto è
che l’esposizione non sarebbe in grado di realizzarsi né tan-
tomeno di teorizzarsi se non sulla base dell’ostensione, pro-
grammaticamente perseguita, del fondamento su cui poggia e
che in pari tempo distende nell’attuazione del dispositivo epi-
stemico. La scomposizione alfabetica della lingua ri-­presenta
continuamente, nel processo espositivo, il presupposto storico-­
contingente da cui soltanto esso poteva scaturire. La tempo-
ralità esteriore che contrassegna il giungere-­a-se-stesso del

112.  In proposito, abbiamo già notato come le interpretazioni «orali» del-


la proposizione speculativa, e delle problematiche legate più in generale
al tema dell’esposizione filosofica (pensiamo in particolare a Liebrucks e a
Wohlfart), non siano in grado di portare tali questioni a chiarificazione er-
meneutica e concettuale.
192

pensiero ancora immerso nell’empiria, quest’ultimo se la ritro-


va incorporata nell’attimo del compimento, visto che anch’es-
so esige la scrittura, o meglio: come scrittura s’istituisce e «av­
viene»113.
Certo i passaggi di cui si tratta non sono facili a riconoscer-
si: dalla parola risonante nel tempo e in esso immediatamen-
te dileguante, attraverso la sua conservazione nell’interiorità
di un’«intelligenza» che più non parla, al congelamento della
sua vitalità nello spazio esteriorizzato della scrittura, il «supe-
ramento» dell’intera sfera vocale è doppiato da un altro, forse
più sconcertante toglimento: quello che fa nuovamente irri-
gidire il tempo nello spazio. Così come quest’ultimo veniva
a togliersi, per la Naturphilosophie, nel tempo, «altrettanto
il tempo, giacché i suoi momenti opposti, tenuti assieme in
uno, si tolgono immediatamente, è l’immediato precipitare
nell’indifferenza, nell’esteriorità indifferenziata, ovvero nel-
lo spazio»114. Dal «superamento» reciproco dello spazio nel
tempo, e del tempo nello spazio, sorgono i concetti di durata,
luogo e movimento115.
Ma non è sul piano della filosofia della natura che questo du-
plice movimento esaurisce la sua portata. Al contrario, esso in-
veste questioni che eccedono irriducibilmente l’ambito della
Naturphilosophie, e che riguardano l’assetto logico-sistemico

113.  Sul nesso scrittura-storicità come carattere strutturale della dialetti-


ca di Hegel, cfr. J. Derrida, Le puits et la pyramide, cit., p. 78. In rapporto
agli scritti giovanili, cfr. R. Theis, L’écriture et son autre. Du rapport entre la
philosophie et la théologie dans les écrits de jeunesse de Hegel, in «Freibur-
ger Zeitschrift für Philosophie und Theologie», Bd. 28, 1981, pp. 177-205.
114.  Enz., II, par. 260, p. 55 (tr. it. cit., p. 238).
115.  Sui concetti di luogo e movimento, cfr. Enz., II, §§ 260 e 261, con rela-
tivi Zusätze, pp. 55-60 (tr. it. cit., pp. 238-240); sulla nozione di durata, oltre
a supra, cap. II, p. 102 e nota 23, cfr. ancora Enz., II, § 264 e aggiunta rela-
tiva, pp. 64-66 (tr. it. cit., pp. 243-244).
193

complessivo del pensiero hegeliano116. Come il raccoglimento


del tempo nella totalità istantanea delle dimensioni infrangeva

116.  Del limite filosofico cui necessariamente deve restare vincolata una
ricerca sul tempo in Hegel che non voglia oltrepassare l’ambito della Na-
turphilosophie si mostra consapevole D. Wandschneider. Nel paragrafo Die
Zeitmodi und der Vorrang der Gegenwart (op. cit., pp. 100-104), egli inten-
de il primato del presente non nel senso del semplice Jetzt, ma in quanto
Makrojetzt, o ora universale (cfr. in proposito W. Bonsiepen, op. cit., p. 53 e
p. 72; Enz., II, § 258, Z., p. 50; e inoltre, sull’interpretazione di B. Liebrucks,
cfr. supra, cap. II, nota 59), in relazione al quale scrive: «In virtù del suo
carattere integrativo, il macro-ora collega micro-stati passati e futuri in un
presente, nell’orizzonte del quale solamente degli accadimenti possono in
generale apparire come passati o futuri… Ciò che è presente esiste, dura, e
dura in quanto esso è in sé molteplicità di ciò che è passato e futuro, il qua-
le è racchiuso nell’unità di un macro-stato e mantenuto in latente presenza.
Il presente è con ciò privilegiato», anche se appunto solamente «in questo
senso, cioè come macro-ora» (D. Wandschneider, op. cit., pp. 103-104). Egli
distingue quindi «due» presenti: il presente come semplice dimensione o
«modo»; il presente come orizzonte comprensivo e unitario delle dimen-
sioni. Solo quest’ultimo renderebbe possibile una «definierte Feststellbar-
keit» del tempo, la quale a sua volta istituirebbe lo «sfondo» indispensabile
per un concetto di tempo scientificamente definito» (ivi, p. 111). E tutta-
via, qui il tempo appare simultaneamente compreso in senso spaziale… in-
teso come molteplicità quasi spaziale», cosicché «diventano visibili anche i
limiti del concetto di tempo definito» (ibidem). In quanto è «ein Sichauf-
hebendes», l’ora «appunto come tale non è più jetzt-stellbar, e l’interpreta-
zione dell’evento indica così verso un concetto di tempo, che lascia dietro
di sé l’esigenza della definitezza, e in questo senso può solamente ancora
essere pensato. Lo sviluppo del concetto di tempo definito conduce così in-
fine a un concetto di tempo, che solleva la questione del rapporto fra tem-
po e concetto, una prospettiva, che diventa essenziale proprio nell’orizzonte
del pensiero hegeliano» (ibidem). Ma su questo punto l’interpretazione di
Wandschneider diverge da quella qui sostenuta. Egli, infatti, sulla scorta di
alcune asserzioni hegeliane contenute nell’Enciclopedia, ritiene il compito
«di rendere il tempo davvero pensabile secondo il suo concetto» circoscrit-
to dalla nozione di divenire (ivi, p. 105); al contrario, secondo noi l’attuazio-
ne di questa «pensabilità» in Hegel è quanto conduce a concepire la «Zeit
als Zeit» come eternità, come cristallizzazione e arresto, anche, di quel di-
venire che se fosse incessante sancirebbe la definitiva finitezza del tempo.
Ma porre la nozione di eternità al centro dell’ermeneutica della trattazione
194

la cornice della filosofia della natura, e nell’eternità speculativa


veniva a indicare le modalità di auto-costituzione dell’esposi-
zione filosofica, così lo «sprofondamento» del tempo nell’este-
riorità indifferenziata e irrigidita dello spazio minaccia anche
l’ora dell’eternità e del dispiegamento concettuale.
Certo, la connessione di cui si tratta non va intesa in manie-
ra meccanica. I momenti del tempo «tenuti assieme in uno»
e che perciò «si tolgono immediatamente» indicano un tem-

hegeliana del tempo significa oltrepassare l’intero orizzonte della Naturphi-


losophie. Ciò conduce a problematizzare anche l’analisi che degli Zeitmodi
fornisce Wandschneider, a chiederci se sia possibile, sulla base della conce-
zione speculativa del tempo, ipotizzare un primato del presente, in qualsiasi
forma quest’ultimo venga inteso, o se ciò non sia fin da principio vanificato
dal fatto che non soltanto, fra le dimensioni, il passato costituisce la verità
del tempo, ma che nel passato tutta questa sfera precipita come totalità: in
tal caso, l’eccedenza della comprensione speculativa del tempo rispetto alla
definizione di quest’ultimo fornita dalla scienza, anche relativistica, risul-
terebbe ulteriormente rafforzata. Il problema dei rapporti fra verità, eter-
nità e tempo è affrontato nel saggio di D. Wandschneider - V. Hösle, Die
Entäusserung der Idee zur Natur und ihre zeitliche Entfaltung als Geist bei
Hegel, in «Hegel-Studien», Bd. 18, 1983, pp. 173-199. Sulla Logica hegelia-
na, gli autori scrivono: «Questa logica è un’opera dello spirito, e ciò significa
appunto: un esporre [Auseinanderlegen; N.d.A.] successivo di ciò che in sé
è al di fuori del tempo, ma che ha bisogno del tempo per realizzare le sue
determinazioni… Soltanto in sé l’idea logica è divina, sovratemporale. La
sua realizzazione appartiene necessariamente al tempo» (ivi, p. 198). Così,
la concezione hegeliana viene affiancata a quella platonica del tempo come
immagine in movimento dell’eternità (cfr. ivi, p. 197, nota 37, dov’è ripor-
tato il passo del Timeo, 37d 5). Ma poiché il pensiero in Hegel attua il suo
svolgimento come unificazione dialetticamente producentesi di in sé e per
sé, ciò a nostro avviso comporta che l’eternità, nella sua nozione speculati-
va, non può comunque trovarsi, nemmeno «in sé», oltre la sua realizzazione
nell’esposizione filosofica, ma che piuttosto «esiste» soltanto entro le scansio-
ni in cui il dispositivo della Darstellung si articola, incorporata e «già da sem-
pre» intrecciata al movimento che l’istituisce e la realizza. Per un ulteriore
approfondimento dei problemi in questione, cfr. infine D. Wandschneider,
Die Absolutheit des Logischen und das Sein der Natur, in «Zeitschrift für
philosophische Forschung», III, 1985, pp. 331-351.
195

po non ancora pervenuto al suo concetto, e sembrano quindi


svincolare l’eternità, «che è senza il tempo naturale»117, dal-
la necessità di ricadere nello spazio. Tale necessità resta per
il momento riservata al tempo della rappresentazione e della
cronologia, che per un movimento interno al suo contenuto
logico si trova «costretto» a collassare nell’immoto Ausserei-
nander dello spazio.
Ancora una volta, uno sguardo ai testi jenesi può consentire
di articolare ulteriormente il senso di tale passaggio. Ciò non
soltanto perché in essi le modalità della transizione vengono
scandite più puntualmente, ma perché vi entra in gioco diret-
tamente la dimensione del passato. Abbiamo visto come in
quest’ultimo il tempo si raccogliesse nella totalità delle sue di-
mensioni, come di conseguenza la finitezza dell’astrazione e la
permanenza al di qua della soglia del reale si ri-­producessero
proprio nell’attimo della realizzazione conseguita. Ora, la de-
clinazione al passato della totalità non comporta soltanto l’in-
definito differimento della sua attuazione dispiegata, non in-
dica solo il mancare a se stesso, da parte del tempo, proprio
nell’ora in cui dovrebbe pervenire al suo concetto, ma sta a si-
gnificare l’eclissarsi, al di qua di sé, di tutta la sfera della Zeit.
Che il passato sia la totalità del tempo vuol dire infatti che la
totalità del tempo è – da sempre – trascorsa e «passata», sot-
tratta a se stessa e ricondotta quindi alla sua intemporale pro-
venienza, al fondamento dal cui superamento scaturiva – e
cioè allo spazio:
Il tempo tramonta nel passato come nella sua stessa totalità,
ovvero questa dimensione ne è l’enunciato toglimento. Che
ciò sia la sua verità, sta nell’immediatezza dell’auto-­toglimento
dei momenti, cioè del loro non-sussistere. Ma il tempo è solo
questo differenziare; in quanto le sue differenze non sono, esso
non esiste; e in questa immediatezza dell’auto-­toglimento es-

117.  Enz., II, § 258, Z., p. 50.


196

se non sono. Il tempo è la pura mediazione, che però sprofon-


da nell’immediatezza. Come lo spazio il tempo, così quest’ul-
timo ha come suo risultato lo spazio.118
Nell’ora dell’eternità, le dimensioni sopprimono la loro deter-
minatezza, si compenetrano l’una nell’altra e cessano di esistere
come separate; ma con l’annullamento delle dimensioni giunge
ad annullarsi il tempo stesso, che consisteva appunto nell’inin-
terrotto avvicendamento dei suoi momenti. Allo scavalcamento
reciproco delle dimensioni fa quindi seguito la configurazione
nella forma del concetto del movimento della differenza, al di-
venire dileguante dei momenti temporali il raccoglimento non
più transeunte nella complessità dell’attimo eterno.
E infatti, l’eternità esprime il toglimento mediato della finitezza
temporale; in essa, le dimensioni vengono soppresse in quanto
astrattamente separate l’una dall’altra, ma nell’istantanea con-
cretezza che designa la totalità dell’ora eterno, irriducibilmente
contratto eppure articolato, restano anche conservate. È in vir-
tù di tale movimento che l’eternità da un lato annulla la «natu-
ralità» del tempo, e dall’altro scavalca l’orizzonte della Natur-
philosophie, eccedendolo in direzione dell’auto-­svolgimento
del concetto. Viceversa, alla risoluzione speculativa del tempo,
così impostata, Hegel contrappone il suo dissolvimento pura-
mente «immediato» e rappresentativo-­naturale. Ed è di que-
sto che si tratta nel testo jenese sopra citato. L’avvicendamento
reciproco delle dimensioni non giunge a contrarsi nell’intra-
montabile «adesso» della totalità temporale, ma procede in-
definitamente al toglimento dei singoli momenti, senza che
la successione puramente lineare delle dimensioni si ripieghi
nello Jetzt della loro compenetrazione articolata. A livello rap-
presentativo-naturale, una dimensione viene rilevata dall’altra,
all’ora del presente segue l’ora successivo e altrettanto evane-

118.  J.S.III, p. 14.


197

scente, e così via: moto rettilineo e interminabile, che sfocia


nell’incessante ripetizione di un toglimento e di una ripristina-
zione egualmente a-dialettici.
In tal senso, le dimensioni si tolgono vicendevolmente l’una
con l’altra, si ripresentano e tornano a scomparire, senza mai
poter chiudere la linearità del processo nel circolo della to-
talità, in cui l’eternità sarebbe realizzata e quel movimento
finalmente sublimato in forma. Lasciando semplicemente il
loro «posto» ad altro, esse soggiacciono a un ininterrotto di-
leguarsi, che non si acquieta in alcun risultato, e in cui esse si
trovano «immediatamente» sostituite dal momento seguente,
senza venirne simultaneamente conservate. Così, al loro togli-
mento «immediato» e unilaterale corrisponde il toglimento,
altrettanto unilaterale e «immediato», del tempo medesimo,
che di esse consiste, e che solo nella forma della loro artico-
lazione si produce.
L’annullamento del tempo non infrange quindi, in tal caso, il
quadro della filosofia della natura; il tempo non si raccoglie
nello Jetzt dell’eternità, non si media con sé in quanto proces-
so di toglimento/conservazione dei singoli momenti. Al con-
trario, resta imbrigliato nella sua naturalità e finitezza, attua
un superamento di sé che non conduce a spezzare il decorso
della Naturphilosophie, bensì resta inevitabilmente incluso e
funzionale a quest’ultimo. È da questo lato, allora, che il tem-
po ri-diventa spazio, e che lo spazio si ripresenta come suo ri-
sultato, così come da lui risultava il tempo.
«Due» toglimenti paiono quindi aver luogo: quello del tempo
nell’eternità, e quello del tempo nello spazio. Il primo con-
duce al di fuori della Naturphilosophie, si disloca all’altezza
dell’articolazione logico-sistemica, dello svolgimento esposi-
tivo e concettuale; il secondo ripiega il tempo nella filosofia
della natura, lo riconduce allo spazio e consente quindi la pro-
secuzione della Naturphilosophie, che nell’unità conseguita di
198

spazio e tempo trova il terreno su cui far procedere il suo ul-


teriore sviluppo.
L’eternità sembra così sottrarsi all’immobilizzazione nello spa-
zio, cui va soggetto il tempo rappresentativo-naturale. E ciò
è del resto profondamente coerente con l’impostazione hege-
liana del problema. Ricondurre l’eternità allo spazio, infatti,
significherebbe comprometterne l’eccedenza nei confronti di
tutta la sfera della natura, precipitarla nuovamente dal piano
del concetto a quello del divenire naturale, meramente acci-
dentale e incapace di mantenere le distinzioni teoretiche119.
In questo senso, nell’Enciclopedia Hegel non si limita ad af-
fermare che l’eternità è «senza il tempo naturale», ma con
formulazione forse ancor più pregnante dal punto di vista con-
cettuale, precisa che essa è anche «diversa dalla durata»120. E
la durata, come abbiamo visto, è il primo concetto risultante
dall’unità di tempo e spazio, dal movimento del superamen-
to e della confluenza reciproca l’uno nell’altro. Che l’eternità
sia senza durata significa allora che nell’eternità si concentra
una «unità» istantanea, nella quale il moto incessante dell’av-
vicendamento e del toglimento «immediato» delle dimensioni
si arresta, senza ricadere nell’immobilità propria dell’indiffe-
renziato Aussereinander dello spazio.
In quanto è «senza il tempo naturale» e «diversa dalla dura-
ta», l’eternità costituisce il «tempo come tempo»; esprimen-
done l’intensificazione massima, ne istituisce il toglimento e
simultaneamente il compimento, il «superamento» nel qua-
le il tempo si trova realizzato e giunto al suo «concetto». Se a

119.  Sull’«impotenza della natura» consistente nel «mantenere le determi-


nazioni del concetto solo astrattamente, ed abbandonare l’esecuzione del
particolare alla determinabilità esterna», cfr. Enz., II, § 250, p. 34 (tr. it. cit.,
p. 224), e più globalmente sul concetto di natura i §§ 247-251, pp. 24-37 (tr.
it. cit., pp. 221-226).
120.  Cfr. Enz., II, § 258, Z., p. 50.
199

Jena il tempo è definito «pura mediazione, che però sprofon-


da nell’immediatezza»121, l’eternità s’instaura come mediazio-
ne che sfugge al destino di quella caduta, perché comprende
l’immediatezza già in sé come suo momento: quello dell’istan-
tanea concentrazione delle disperse dimensioni nella totalità
dell’ora eterno. Quest’ultimo dovrebbe dunque sottrarsi alla
precipitazione nello spazio anche da questo lato, in quanto
cioè è mediazione che il tempo attua con se stesso nell’attimo
della coagulazione entro lo Jetzt del compimento, in quanto è
il portato di un movimento che media l’immediatezza dei suoi
momenti nel circolo mediante cui s’instaura la totalità.
Essendo «tempo come tempo», del resto, la quiete di cui l’e-
ternità si fa portatrice è tutt’altro che incompatibile con la no-
zione di movimento; al contrario, la sua processualità designa
le modalità atemporali di un divenire che sfugge, secondo le
scansioni analizzate in precedenza122, alla successione tempo-
rale, ma che non cessa per questo d’istituire un effettivo pro-
cesso di sviluppo.
Così, nulla pare opporsi allo spazio quanto l’eternità hegelia-
na – mediazione d’immediatezza e mediazione tanto quanto lo
spazio è immediatezza bruta e astratta; intensificazione e con-
centrazione nella concretezza dell’ora di momenti che lo spazio
mantiene giustapposti l’uno fuori dell’altro, in indifferenza insu-
perabile; quiete e arresto, la cui compiutezza però non significa
affatto immobilità, bensì le specifiche modalità di svolgimen-
to dell’esposizione filosofica: sottratta al flusso cronologico del
tempo finito e «naturale», ma non per questo (anzi, per Hegel,
è esattamente il contrario) sviluppo meno effettivamente dive-
niente; istanza insomma nemmeno opposta, quanto piuttosto ir-
riducibilmente «altra» rispetto all’inerte esteriorità dello spazio.

121. Cfr. supra, nota 118.


122. Cfr. supra, cap. II, in part. §§ 3 e 4.
200

E certo, se la scrittura mortifica la vibratilità del linguaggio, di-


stendendo il suono sul piano immobile dello spazio pagina, se
in essa il «tremolare» della parola nel tempo viene congelato
su di un frammento d’estensione e indifferente Aussereinan-
der, essa non sembra in grado di catturare l’eternità, né tan-
tomeno di convogliarla entro le scansioni di un’esposizione e
di un libro. Come il tempo si toglie «immediatamente» nello
spazio, ma in senso speculativo nell’Ewigkeit atemporale del
concetto, così la parola può esaurire la sua momentanea esi-
stenza fra le pagine di un libro, precipitare fra gli inerti carat-
teri di una scrittura, ma anche, in un senso più omogeneo al
dettato hegeliano, restare custodita nell’interiorità dell’intelli-
genza pensante, permeata del significato di cui già all’esterno
faceva mostra, e che la riserva ora, tutta interiorizzata, nella
silenziosità dello spirito:
La parola, in quanto risonante, svanisce nel tempo; questo così
si dimostra in quella come negatività astratta, cioè solo di-
struttiva. La verace, concreta negatività del segno linguistico,
invece, è l’intelligenza, perché tramite questa la parola viene
mutata da un che di esterno in un che d’interno, e in questa
forma trasformata viene conservata. Così le parole diventano
un esserci animato dal pensiero.123
Sfuggendo allo spazio, l’eternità pare quindi doversi necessa-
riamente sottrarre anche alla pratica della scrittura filosofica,
chiudersi nell’attività di un pensare che, per quanto linguisti-
camente strutturato, si riserva nell’interiorità silenziosa dello
spirito124.

123.  Enz., III, § 462, Z., pp. 279-280.


124.  Al contrario, secondo G. Wohlfart, Über Zeit und Ewigkeit in der Phi-
losophie Hegels, in «Wiener Jahrbuch für Philosophie», XIII, 1980, pp. 141-
165, l’eternità si attua in Hegel attraverso il movimento incorporato nella
proposizione speculativa: «Il superamento del tempo, comunemente rap-
presentato come linea, viene pensato solo nella proposizione filosofica, in cui
201

Tuttavia, proprio il testo jenese sopra citato125 mostra come


i rapporti fra eternità e spazio vadano concepiti in maniera
ben più articolata e complessa, e fa emergere, nuovamente, il
ruolo cruciale che per l’istituzione del tempo in eternità vie-
ne a essere svolto dal passato. Se infatti la totalità del tempo
si declina in questa dimensione, o l’ora dell’eternità (il «terzo»
ora) rischia di non potersi mai instaurare, oppure il passato ri-
sorge di continuo a vanificare il «passaggio» dal tempo «natu-
rale» al «tempo come tempo», insinuando irrevocabilmente,

il movimento del concetto non procede come di solito mono-linearmente


dal soggetto al predicato, bensì è un movimento tanto progressivo quanto
anche regressivo, in cui il soggetto dal predicato speculativo viene per così
dire rigettato su se stesso come da uno specchio» (p. 154). Tuttavia, come più
tardi nel suo libro, anche qui Wohlfart intende per «soggetto» l’io filosofico,
e non il contenuto della Sache selbst. Egli da un lato dice, giustamente, che
«il senso filosofico della proposizione speculativa è il movimento della rap-
presentazione religiosa dell’attimo divino» (ivi, p. 155); dall’altro, però, «il
concetto» sarebbe «null’altro che io, ovvero la pura autocoscienza» (ibidem).
Tale riduzione del concetto all’io è necessaria dal momento in cui s’inten-
da la proposizione speculativa come proposizione oralmente pronunciata.
Ciò per un verso comporta la contrazione della problematica concernen-
te l’attuazione della Darstellung filosofica entro le coordinate fissate dalla
proposizione speculativa: «Il tempo vero, concepito è… il metodo specu-
lativo, che nella proposizione speculativa si espone come il metodo, tanto
progressivo quanto anche regressivo, della traduzione delle parti proposi-
zionali» (ivi, p. 157); mentre abbiamo visto come la semplice proposizione
speculativa non sia in grado di esporre e di enunciare il movimento in essa
ancora solamente pensato. In Wohlfart, tale posizione ermeneutica condu-
ce coerentemente a una comprensione in senso intuizionistico del «con-
traccolpo» speculativo. Dall’altro, della proposizione speculativa si perde la
specificità tutta filosofica, ed essa (secondo la linea interpretativa inaugurata
da B. Liebrucks) viene ricondotta al livello di semplice linguaggio: «Nella
riflessione filosofica si tratta del ripensamento e della ricostruzione concet-
tuale di questo movimento, che dapprima si svolge inconsapevolmente, e
che ogni proposizione del linguaggio possiede in sé in quanto è avvertita, e
cioè assunta con ragione» (ivi, p. 158).
125. Cfr. supra, pp. 195-196.
202

nell’istante dell’eternità, il movimento della ricaduta al di qua


del «verace presente», che si dovrebbe realizzare nel concetto.
Ma non occorre ripetere qui la dimostrazione di come la fi-
nitezza delle dimensioni riemerga al centro dell’eternità, che
pure si istituisce. Il momento che dobbiamo sottolineare, in
questo contesto, è dato dal fatto che se il raccoglimento della
temporalità nel suo concetto resta gravato da un residuo insu-
perabile di finitezza. Se l’eternità, in quanto «concetto del tem-
po», risprofonda a sua volta in un passato, il quale è sì totalità,
ma declinata pur sempre al modo di una dimensione singola
e finita; se tale dimensione inghiotte la totalità del tempo nel
passato e come passato, come qualcosa di «atemporalmente»
trascorso e scivolato al di qua della soglia della realtà e del pre-
sente – allora anche l’eternità si trova investita dal movimento
di precipitazione e di congelamento, che trascina tutta la sfera
del tempo nell’esteriore immobilità dello spazio.
L’eternità, in questo caso, verrebbe a svolgere una funzione
non tanto ambigua, quanto profondamente sdoppiata, e in un
senso che pare scontrarsi con le modalità della ricomposizione
dialettica. Da un lato, non è possibile negare, come abbiamo
visto, che in essa Hegel giunga a pensare un’istanza eccedente,
e per così dire trasgressiva, rispetto all’orizzonte tracciato nel-
la Naturphilosophie. Dall’altro, tuttavia, proprio per pensare
un’eternità «senza il tempo naturale» e «diversa dalla durata»,
egli si trova costretto a innescare un movimento che ripristi-
na la finitezza delle dimensioni e del tempo medesimo, o più
precisamente: che instaura la totalità del tempo e l’eternità
solo simultaneamente declinandole nei termini di una dimen-
sione singola – quella del passato, che sancisce la scomparsa
del tempo dalla superficie della realizzazione e della presen-
za, e lo riconduce allo spazio. Tale sdoppiamento impone di
pensare la compresenza, all’interno del medesimo plesso pro-
blematico, di due concezioni contraddittorie in maniera forse
irrecuperabile a ogni «conciliazione» speculativa, ma che per
203

la loro stessa incompatibilità esigono di essere concepite come


egualmente necessarie.
Ripercorriamo schematicamente i passaggi che articolano que-
sto movimento dialettico, scandendolo secondo modalità che
tanto più ci costringono a pensarlo, quanto più si avvicinano
al limite dell’im-pensabilità più radicale. Da una parte, abbia-
mo seguito le peripezie del tempo rappresentativo-naturale,
il ciclico avvicendamento delle dimensioni che si sostituivano
«immediatamente» l’una all’altra e toglievano quindi, altret-
tanto immediatamente, il tempo stesso. L’immediatezza di tale
toglimento era poi quanto riconduceva il tempo allo spazio.
Dall’altra, abbiamo visto come l’eternità venisse designata da
Hegel come «pensiero del tempo» e «unità» delle dimensioni;
come vi s’istituisse un presente irriducibile a quello dell’ora
«naturale» e finito (il «terzo» ora); come infine l’eternità, espri-
mendo il tempo compreso nel suo concetto – il concetto del
tempo – si sottraesse alle vicende della Naturphilosophie, ne
eccedesse i limiti e ne infrangesse i confini, per dislocarsi all’al-
tezza delle modalità logico-sistemiche che scandiscono il ritmo
di costituzione dell’esposizione filosofica.
Ma proprio da questo versante, quando il «tempo naturale»,
la «durata» e insomma l’intero ambito della Naturphilosophie
parevano lasciati alle spalle, abbiamo visto emergere un punto
d’intersezione e in pari tempo di sfasatura, fra la prospettiva
rappresentativo-naturale e quella speculativo-concettuale. Nel
corto-circuito così prodotto dal loro impatto, l’eternità emer-
geva come ancora gravata dal tempo della rappresentazione
e della natura; la totalità delle dimensioni, che in essa doveva
realizzarsi e si realizzava come presente atemporale, risultava
in pari tempo contratta e vincolata a una singola dimensione;
l’articolata presenzialità dell’ora eterno veniva infine altrettan-
to atemporalmente risucchiata al tempo di un passato, che la
riconduceva al di qua di sé, sotto la soglia della realizzazione
e dell’essere. Abbiamo visto così come l’eternità sfuggisse alla
204

precipitazione nello spazio cui restava soggetto il tempo, ma


come anche, simultaneamente, proprio nell’attimo in cui vi si
sottraeva, fosse coinvolta nel movimento che congelava la «me-
diazione pura» del tempo entro la rigida e morta immobilità
dello spazio, venisse trascinata entro la medesima, immediata
esteriorità, in cui già il «tempo naturale» risultava pietrificarsi.
Se in qualche modo è possibile circoscrivere il luogo entro il
quale pensare in Hegel il problema della scrittura, è per noi
indubbio che esso si situi all’altezza della complessa rete di
rapporti che stringe in unico vincolo eternità, tempo e spazio.
Certo, Hegel non ha mai pensato questo luogo in quanto tale,
e nella misura in cui esso è sfuggito alla riflessione problema-
tizzante del «concetto», alla presa di quest’ultimo doveva in
certo modo necessariamente sfuggire anche il problema della
scrittura. O meglio: la scrittura non poteva istituirsi in proble-
ma perché questo pensiero veniva a essere inscritto proprio
all’interno delle coordinate che orientano sulla scrittura l’inter-
rogazione ermeneutica. Volgere la ricerca in questa direzione,
significa allora elevare alla dignità di problema per il pensiero
ciò che in Hegel non emerge mai come tale, ma verso il quale
le linee portanti della sua riflessione convergono, indicandolo
come snodo essenziale per chi voglia afferrare le modalità che
conducono questa filosofia alla sua configurazione epistemica.
Di quest’ultima, la scrittura costituisce un momento impre-
scindibile, in quanto vi giungono a condensazione da un lato
la linguisticità del pensiero, e dall’altro la spazializzazione cui
anche l’eternità va soggetta. È proprio la ricaduta dell’eternità
nell’esteriore immobilità dello spazio, la distensione dell’ora
della totalità temporale entro l’immoto Aussereinander, che
consente di approfondire da un nuovo e più radicale punto di
vista il significato assunto dalla scrittura entro le maglie di que-
sto pensiero. Infatti, se già le osservazioni che su quest’ultima
venivano condotte nell’Enciclopedia tendevano a superare il
rapporto di mera convenzionalità istituito in un primo tempo
205

fra la scrittura alfabetica e le modalità operative dell’intelli-


genza «rappresentativa e pensante», la spazializzazione dell’e-
ternità esclude sin da principio la possibilità d’interpretare in
termini di pura strumentalità il nesso che vincola la verità alla
scrittura della sua esposizione.
Certo, non è solo in quanto pratica di scrittura che la filosofia
s’istituisce in apparato epistemico. Ma il legame che stringe
pensiero e scrittura non va inteso neppure come una connes-
sione, che dal punto di vista filosofico resterebbe comunque
estrinseca e strumentale, fra contenuti di pensiero e mezzo
di cui quest’ultimo si serve per la loro espressione. Piuttosto,
come la scrittura alfabetica incorporava la dimensione della
storia nell’atto stesso con cui la verità si strutturava in espo-
sizione, pervenendo in tal modo a «realizzare» se stessa, così
ora, dal lato della spazializzazione dell’eterno, essa è la cifra
di una finitezza che nell’eternità non si lascia assorbire senza
residuo, e deposita infine le sue tracce nei caratteri mediante
cui si articola lo spazio della Darstellung.
Che l’eternità s’incorpori, si produca e si attui solo entro le cor-
nici dell’esposizione, che essa possa aver luogo esclusivamen-
te su di uno spazio solcato dai segni della scrittura, designa in
effetti il portato di un movimento specifico, dato dal riemer-
gere, all’interno dell’eternità stessa, della finitezza del tempo,
che promuovendone il raggiungimento pure ne differisce la
coagulazione entro l’«unità» dell’ora eterno. Perché l’eternità
precipita nello spazio appunto in quanto in essa il tempo non
può esistere puramente «come tempo», perché per affermarsi
«senza tempo naturale» e in maniera «diversa dalla durata» in
lei giungono continuamente a riprodursi sia l’uno che l’altra. E
ambedue, tempo e spazio, si ripristinano nel momento in cui
vengono superati, nell’ora insomma della totalità delle dimen-
sioni, proprio perché tale totalità, in cui l’eternità consiste, si è
trovata già coniugata al tempo del passato, entro una dimen-
sione singola e finita, ma soprattutto di una dimensione che,
206

per definizione «trascorsa» e ricaduta sotto la soglia dell’effet-


tualità e del presente, sembra rendere impossibile la «ripre-
sa» del tempo nell’eternità del «terzo» ora. L’ora dell’eternità
si ridistende in spazio perché si coniuga alla dimensione del
passato. La spazializzazione dell’eternità emerge come portato
specifico dalla sua finitezza, così come quest’ultima scaturisce
dal movimento per cui la totalità delle dimensioni s’instaura
solo restringendosi nella Vergangenheit.
Sul passato non cessano quindi di accumularsi significati, re-
lativi non solo allo spazio in cui l’eternità si distende, ma an-
che e soprattutto alla scrittura mediante cui esso si articola. Di
quest’ultima, il passato designa la paradossale anteriorità nei
confronti del pensiero – paradossale perché quello che sembra-
va un semplice strumento dell’«intelligenza» mostra al contrario
di costituire l’imprescindibile presupposto del pensiero e della
sua esposizione. Questi trovano il loro radicamento nell’inven-
zione semiotica che ha condotto a scomporre alfabeticamente
i suoni della lingua, vengono riannodati – nel passato – al con-
dizionamento storico sempre di nuovo assunto, incorporato,
ri-presentato mano a mano che la Darstellung procede al di-
spiegamento del suo proprio dispositivo epistemico.
Il passato indica così lo sprofondamento nella scrittura dell’e-
ternità medesima – un’eternità che si scopre irrealizzata nel
movimento stesso con cui non cessa di realizzarsi, che per rea­
lizzarsi è di necessità votata a ir-realizzarsi, a mancare a se
stessa e a riattivare nuovamente il ciclo della saturazione del-
lo spazio e del vuoto, che nel suo stesso centro si dischiudo-
no. Da tali aperture, la scrittura scaturisce sempre di nuovo
come articolazione e pratica di finitezza, come l’esposizione
di un’eternità che costantemente manca a se stessa perché
costantemente inghiottita dal passato e ri-distesa sull’immoto
Aussereinander dello spazio. Al «circolo di circoli» descritto dal
sistema, i conti tornano, per così dire, solo nella misura in cui
ne avanza un resto, che sfasa di continuo la coincidenza di que-
207

sto pensiero con se stesso, e che proprio così, per l’eccedenza


che dall’interno scuote e vanifica la dialettica, la mette in moto.
Ma come parlare di movimento restando presi dentro le maglie
della scrittura? Come affrontare e intendere, a questo nuovo
livello di complicazione, la finitezza che si espone nel proces-
so di spazializzazione dell’eternità? E infine: come definire,
nel suo statuto specificamente dialettico, il rapporto sussisten-
te fra l’attività del Denken e la scrittura? L’esposizione, in cui
quest’ultimo perviene a compimento, lo immobilizza simulta-
neamente nell’esteriorità di uno spazio, che è quello stesso in
cui l’eternità precipitava giungendo in pari tempo a realizzarsi.
In altri termini, il pensiero si spazializza nell’esposizione scrit-
turale così come in essa si spazializzava l’eternità. Spazializza-
zione dell’eternità e spazializzazione del Denken costituiscono
le fasi, simultanee, di un movimento di pensiero che attraverso
queste tenta di ripristinarsi nell’identità con sé: basti ricorda-
re la definizione jenese dell’eternità come Gedanke der Zeit.
L’eternità e il pensiero trovano entrambi attuazione nell’espo-
sizione filosofica, ambedue precipitano nello spazio circoscritto
dalla Darstellung; in quanto linguisticamente articolati, ambe-
due istituiscono il processo della loro realizzazione sul piano
della scrittura. Ma allora: come concepire quest’ultima in ter-
mini di processualità diveniente? Come esporre, sulle pagine
di un libro, il movimento come movimento? Tanto più che, nel
momento in cui Hegel precisa la necessità della continua rie-
laborazione della Darstellung126, risulta impossibile ipotizzare
un movimento di produzione della scrittura ininterrottamente
fluente, tale da coincidere istantaneamente con l’intentio si-
gnificatrice di chi scrive, sino quasi a rendersene indistingui-
bile. La distinzione fra lato del produrre e lato del prodotto è
resa vana proprio dalla specificità della produzione scritturale,

126. Cfr. W.d.L., I, pp. 21-22 (tr. it. cit., p. 22).


208

dal fatto che in essa l’attività s’interrompe e si arresta nel mo-


mento stesso in cui si svolge. Non soltanto gli spazi che scan-
discono la sequenza dei termini, separandoli gli uni dagli altri
ed evidenziandoli sul vuoto di uno sfondo esteso, impongono
la frammentazione e l’interruzione come modalità dello scri-
vere, che se da un lato procede costantemente alla ripresa e
ripetizione di sé, dall’altro è di nuovo costretto a sospendersi
e ad arrestarsi. Il punto è che il divenire della scrittura si dà
come immediatamente interrotto e pietrificato: il non-esser-
più-in-grado di scaturire è la soglia contro la quale il moto della
scrittura continuamente s’infrange, mentre questo non-poter-
più riprendersi dal riflusso delle parole nell’immobilità dello
spazio è ciò che forse impedisce d’intendere la scrittura alla
stregua di attività pura e semplice – ciò che nel suo esercizio
indicherebbe piuttosto la pratica, senz’altro paradossale, di una
passività inestirpabile, che nel tramite di una strutturazione da
essa stessa resa possibile, se ne scoprirebbe all’origine come
già da sempre inarticolata e inarticolabile127.

6. «Denken» e «Darstellung»: l’apertura dell’esposizione


Ma se nella scrittura l’esperienza della produzione del senso
fa irruzione assieme alla contemporanea perdita del Sé, se in
essa l’esercitazione della morte e dell’espropriazione del sog-
getto si attua in veste del loro costante differimento, quella

127.  Il pensatore contemporaneo che più ha approfondito, dal versante filo-


sofico, le problematiche legate alla scrittura, è Jacques Derrida, sul quale ora
cfr. J. Habermas, Il sopravanzamento della filosofia temporalizzata dell’ori­
ginario: la critica di Derrida al fonocentrismo, cap. VII del suo Der philo-
sophische Diskurs der Moderne. Zwölf Vorlesungen, Suhrkamp, Frankfurt
a.M. 1985; tr. it. di Em. e El. Agazzi, Il discorso filosofico della modernità.
Dodici lezioni, Laterza, Roma-Bari 1987, pp. 164-188.
209

d’istituirsi come pratica di finitezza non risulta per essa una


determinazione superabile. E in un’accezione che assume in
Hegel rilievo specifico, se è vero che per lui lo sprofondamen-
to dell’eternità e del Denken nell’esteriorità della scrittura non
può ricevere l’ultima parola. Non tanto perché la scrittura,
così come il segno in generale, svela la sua peculiare valenza
semiotica solo in quanto riserva un significato in essa riposto
dall’«intelligenza» spirituale, perché insomma quella valenza
s’innesca solo in rapporto alla comprensione instaurata, nei
suoi confronti, dal soggetto che quelle parole dice o scrive,
legge o ascolta. Bisogna andare oltre la riconduzione di que-
sto rapporto all’unificazione dialettica di soggetto e oggetto,
per intendere la posta in gioco a tale livello nella sua rilevan-
za specificamente teoretica. Ciò richiede la messa in luce del-
la funzione epistemica che lo sprofondamento dell’eternità e
del Denken nello spazio espositivo della scrittura riveste nella
strategia di costituzione del dispositivo scientifico hegeliano –
funzione che s’intreccia con l’impossibilità, per questo pensie-
ro, di acquietarsi nella sua «Darstellung».
Non si tratta più solamente della relazione fra segno e signi-
ficato, parola e scrittura; la questione verte piuttosto sul ples-
so nevralgico che stringe assieme spazializzazione di eternità
e tempo, pensiero e linguaggio, da un lato, e riconversione in
tempo di ciò che nella scrittura della Darstellung si trova spa-
zializzato e irrigidito, dall’altro. Le interrogazioni su finito e
infinito, soggetto e oggetto, attività e passività, processo e ri-
sultato, si possono dunque forse contrarre nel quesito: come
ri-temporalizzare la «Darstellung»? In che senso può e deve
essere possibile la temporalizzazione di questo spazio concet-
tuale e linguistico?
È all’attività del Denken che spetta di temporalizzare nuova-
mente la sua realizzazione nell’esposizione, di riattivare e in
certo modo rivitalizzare la sua morta spoglia scritturale. Se
nella Darstellung deponeva le forme del suo compimento, il
210

Denken non cessa però di ripristinarsi come processo dive-


niente, decorso di produzione e svolgimento delle sue proprie
determinazioni, che dal momento in cui si trovi già consoli-
dato nella figura dell’esposizione, non può instaurarsi se non
al modo della riconversione in tempo di quest’ultima. Ma per
scongiurare la cattiva infinità di un’oscillazione interminabile
fra risoluzione dello spazio dell’esposizione in tempo e rica-
duta inevitabile del tempo nello spazio, la temporalizzazione
della Darstellung da parte del pensiero deve istituirsi secondo
modalità non-naturali – il tempo che riemerge non dev’essere
quello naturale, vincolato alla successione delle sue dimensio-
ni finite e alle operazioni astrattive della Vorstellung, bensì il
«tempo come tempo» dell’eternità speculativa, immobilizzato
nella finitudine spaziale dell’esposizione, e re-innescato infine
dall’attualità del pensiero pensante se stesso, nella Darstellung
peraltro già compiutamente realizzato.
Così, da un lato, l’attività del Denken che si esercita sulla Dar-
stellung porta alla ripristinazione dell’eternità; ma, dall’altro,
nell’esposizione l’eternità è già presente e già in atto. Anzi,
propriamente, solo l’esposizione fa irrompere l’eternità nel
tempo della storia. In tal modo, il pensiero hegeliano assume
un andamento del tutto conforme alla «cosa», e in pari tem-
po quasi insostenibile. Perché l’eternità non intende affatto
sganciarsi dalla finitudine della scrittura; al contrario, essa de-
signa la strutturazione in dispositivo epistemico della scrittura
medesima, le articolazioni che consentono a quest’ultima di
dispiegarsi come totalità espositiva. E tuttavia, disponendosi
entro lo spazio circoscritto dalla Darstellung, l’eternità deve
suo malgrado accettare di realizzarsi solo in quanto torni con-
tinuamente a venir meno a se stessa.
Questa sorta di «scacco perpetuo» cui l’eternità va soggetta è
poi doppiato dall’altro, che vincola l’attività del Denken a riper-
correre la sua figura irrigidita nell’esposizione scritturale. Così,
dentro il processo della ri-temporalizzazione, il mortuum della
211

scrittura sembra emergere come il vero e proprio «assoluto»,


l’irredimibile cui si avvolge il Denken perché proprio in esso
si decide della sua potenza, perché proprio in esso si articola il
dispositivo epistemico della categorizzazione e strutturazione,
in pari tempo conoscitiva e ontologica, del reale. Il «Denken»
è anch’esso inevitabilmente spazializzato, così come l’eternità
da lui continuamente posta in atto: l’eternità si realizza nella
misura in cui si espone e, per esporsi, si scrive; l’attività del
«Denken» è anch’essa compiuta soltanto in quanto è linguisti-
camente esposta e, per esporsi, si spazializza. L’eternità si ri-
distende in spazio; il Denken si pietrifica in scrittura; ambedue
cadono e s’intersecano entro il perimetro della Darstellung.
Per quanto solcati da aporie e paradossi, si tratta comunque di
rapporti funzionalmente efficaci per l’attuazione di ciò che in
Hegel viene a chiamarsi «sistema scientifico» della filosofia128.
Nell’intervallo aperto fra pensiero ed esposizione, fra la spa-
zializzazione dell’eternità e la sua costante riattivazione, non
va scorto soltanto ciò che continuamente risorge a inceppare il
movimento della dialettica. In quell’intervallo, infatti, quest’ul-
tima dispiega l’esser-divenuto della sua attuazione, assieme alla
ripetizione attualizzante che nuovamente la risolve in divenire
in atto. E in questa stretta implicazione, l’interrogazione su fi-
nito e infinito, risultato e processo, tenta di pervenire in Hegel
al suo concettuale acquietamento.
Ma in cosa consiste, precisamente, questa «tenuta» reciproca
di Denken e Darstellung? In che senso da/in questa implicazio-
ne scaturisce la realizzazione della verità, da Hegel tutt’altro
che arbitrariamente asserita? Verrebbe in tal modo il Denken
a «superare» lo statuto rappresentativo che nell’Enciclopedia
pareva ancora imprigionarlo? Potrebbe forse la sua attuazio-

128.  Sul «sistema scientifico» come «vera figura nella quale la verità esiste»,
cfr. V., p. 12 (tr. it. cit., p. 4), e supra, cap. I, nota 74.
212

ne come sistema superare la figura che esso stesso si assegna-


va entro il sistema?
Sarebbe fuorviante voler assegnare a queste domande una ri-
sposta univoca. Più essenziale è forse comprendere in base a
quale costellazione concettuale esse sorgano, e in che senso
esse stesse contribuiscano a determinarla. E allora: da un lato,
la realizzazione del «Denken» come «Darstellung» attua il su-
peramento della «Vorstellung», quel superamento che il seg-
mento sistematico della Psicologia non era riuscito a operare.
A sua volta, tale proposizione include più significati. Innanzitut-
to, nell’esposizione il «Denken» supera se stesso come «Vorstel-
lung», oltrepassa la figura che esso stesso si dava nel tentativo
di derivarsi come momento interno alla totalità della Darstel-
lung. In secondo luogo: superando se stesso come Vorstellung,
il Denken supera simultaneamente il tempo di quest’ultima; ma
superamento della Vorstellung, di sé «come» Vorstellung, e del
tempo della Vorstellung si opera solo nella misura in cui del
Denken si dia Darstellung: è nella forma dell’esposizione che il
pensiero si realizza in quanto tale, è nell’esposizione che quel
triplice superamento è incorporato e attuato.
Così, nella «Darstellung» è inscritto il compimento dell’eterni-
tà, il toglimento del «tempo naturale» e l’attuazione, col dissol-
vimento del modello cronologico rappresentativo, del «tempo
come tempo», «senza il tempo naturale». Per questo il Den-
ken è vincolato al ripercorrimento della sua Darstellung: solo
in quest’ultima esso trova inscritte delle modalità di sviluppo
che «superano» il tempo naturale e della rappresentazione;
solo il ripercorrimento della «Darstellung» consente al tempo
del pensiero di svincolarsi dal tempo della rappresentazione –
nel duplice senso del tempo in cui essa è immersa («come ri-
cordo e come speranza o timore»)129, e più propriamente in

129.  Loc. cit. supra, nota 96.


213

quello della sua comprensione del tempo come sommatoria


di dimensioni finite. La ri-temporalizzazione della Darstellung
coincide con la riattivazione dell’eternità in essa congelata; e
viceversa, solo nella forma di tale riattivazione il Denken può
esplicarsi come attività temporalizzatrice secondo modalità
non-naturali – modalità che comportano anzi il «superamen-
to» del tempo naturale nell’eternità realizzata dell’esposizione.
In tal senso, la Darstellung include le scansioni metodiche se-
condo le quali il pensiero attua la sua temporalizzazione. Ri-
percorrendo l’esposizione, il Denken la temporalizza secondo
modalità non-naturali – secondo il «tempo come tempo» cri-
stallizzato in essa, e sempre di nuovo convertito in divenire-
in-atto nel pensiero che, scorrendola, nuovamente la pensa.
Dal lato opposto a quello della realizzazione, tuttavia, il vin-
colo che trattiene l’attività del pensiero nel ripercorrimento
della sua esposizione è il legame che ancora lo stringe alla sua
finitudine, che condiziona perpetuamente la sua attuazione
come potenza formatrice in senso epistemico alla spazializ-
zazione, su cui esso si dispiega e a cui in pari tempo soggia-
ce – cui già una volta è soggiaciuto e cui va sempre di nuovo
soggetto nell’atto stesso in cui ripristina e ri-attiva l’eternità ivi
congelata. La spazializzazione, che emergeva come risultato
dal passato come totalità del tempo, appare qui nella veste di
una passività forse altrettanto inestirpabile, che grava al nu-
cleo dell’attività del Denken, e che la Darstellung ha artico-
lato in forma di scrittura. Se quindi l’eternità è incorporata
nell’esposizione perché quest’ultima al suo interno «toglie» il
tempo naturale, se quindi in essa l’eternità è davvero «senza
il tempo naturale» – ciò è anche quanto vincola il Denken alla
Darstellung e alla spazializzazione articolata della sua scrittura,
proprio per poter riattivare e costantemente ripristinare, se-
condo modalità non-naturali di temporalizzazione, la Ewigkeit
speculativa. Quest’ultima è perennemente in atto nell’attività
214

del Denken solo nella misura in cui quest’ultimo ne ripercor-


ra la figura irrigidita entro lo spazio logico e linguistico della
scrittura filosofica.
Così, nuovamente, possiamo comprendere nella loro impor-
tanza fondamentale gli slittamenti che a Jena caratterizzava-
no i diversi abbozzi della filosofia dello spirito, e in particolare
la necessità, per il pensiero, di svincolarsi dalla pronuncia del
linguaggio, di oltrepassare il momento espressivo in senso «psi-
cologico» della lingua, di sorgere dalle ceneri della parola tem-
poralmente risonante, concretamente esistente nell’esteriorità
evanescente di un suono, di una voce. Solo il silenzio del lin-
guaggio consente di stringere il vincolo che lega in unica e in-
dissolubile complicità pensiero e scrittura. Ciò permette di
scorgere con chiarezza la necessità, per una realizzazione in
senso epistemico del Denken, di «superare» a livello di filoso-
fia dello spirito il momento sonoro del linguaggio, senza per-
ciò dover ricadere in una concezione per cui l’assoluto sarebbe
ineffabile o indicibile, secondo la quale «das Unaussprechliche
sei gerade das Vortrefflichste»130. Solo questo silenzio può strin-
gere assieme pensiero e scrittura, conservando in pari tempo
l’articolazione linguistica che consente al primo di dispiegarsi
nella potenza di un dispositivo epistemico, in virtù del quale
«la filosofia si avvicini alla forma della scienza – alla meta rag-
giunta la quale sia in grado di deporre il nome di amore del
sapere per essere vero sapere»131.

130.  Enz., III, § 462, Z., p. 280.


131.  V., p. 12 (tr. it. cit., p. 4). Non ponendo il problema della scrittura,
Y. Gauthier, L’arc et le cercle. L’essence du langage chez Hegel et Hölderlin,
Desclée de Brouwer, Bruxelles-Paris-Montreal 1969, intende il fatto che «lo
Spirito Assoluto non parla, ma si contempla nella certezza assoluta di se stes-
so» (p. 26) nel senso di una mancanza totale di linguaggio («l’autocoscienza
assoluta o il sapere assoluto resta muto, non ha linguaggio», ivi, p. 178), pur
avvedendosi dell’obiezione per cui «la Logica è questo linguaggio» (ibidem).
215

Eppure, in Hegel, anche il silenzio si trova a essere sdoppia-


to, duplicato: da una parte, il silenzio tutto interiore in cui si
svolge il Denken come attività spirituale; dall’altra, la scrittura
dell’esposizione, che articola nell’esteriorità dello spazio la lin-
guisticità in cui il pensiero già da sempre si muove. Nell’inter-
vallo fra questi «due» silenzi, l’uno tutto interiore, l’altro tutto
esteriore, la scientificità della filosofia dovrebbe scaturire come
sintesi e riunificazione dialettica dei primi due: «terzo» silen-
zio, quello della congiunzione sempre riprodotta di Denken e
Darstellung, pensiero e esposizione.
Così la scienza, pur rimanendo silenziosa, nella misura in cui
si espone si comunica, sebbene in una forma che, restando
scritta, richiede l’esercizio di un pensiero in grado di «vivi-
ficarla», di riconvertirla e riconvertirsi in processualità dive-
niente. E in quanto tale pensiero è custodito nell’interiorità
dell’«intelligenza», il suo rapporto con la scrittura può assume-
re la figura dell’opposizione fra l’esoterico e l’essoterico, il ma-
nifesto e il nascosto: «Das Esoterische ist das Spekulative, das
geschrieben und gedruckt ist und doch ein Verborgenes bleibt

Lo statuto del linguaggio nei confronti dello spirito assoluto è interrogato


da M. Damnjanovic, Kann die Sprache im System Hegels die Position des
Absoluten einnehmen?, in «Hegel-Jahrbuch», 1971, pp. 197-203, e poi da
S. Deguchi, Der absolule Geist als Sprache, in Hegels Logik der Philosophie,
cit., pp. 242-261, il quale afferma in particolare che «der absolute Begriff…
sich im spekulativen Satz als Objektivität zeigt, d. h. als Idee west oder an-
wesend ist» (p. 258), mentre viceversa abbiamo visto che proprio nella pro-
posizione speculativa, e più in generale nella forma del giudizio, il concetto
e il suo movimento restano non enunciati, contratti come sono nel sempli-
ce e del tutto inadeguato rapporto di predicazione instaurato dalla copula.
Oltre ai riferimenti bibliografici menzionati supra, cap. I, cfr. in proposito
quanto scriveva già J. van der Meulen, Heidegger und Hegel, cit., p. 46: «il
vero e proprio contenuto logico del giudizio è la relazione dei tre momenti
concettuali: l’individuale, il particolare e l’universale, una relazione, l’unità
della quale la copula esprime in maniera inespressa».
216

für die, die nicht das Interesse haben, sich anzustrengen. Ein
Geheimnis ist es nicht, und doch verborgen»132.
Uno dei risultati essenziali della costituzione in scienza della fi-
losofia consiste nella mediazione risolutrice cui anche quest’ul-
tima opposizione, infine, va incontro. Ma certo, essa mostra
anche come la mediazione del pensiero con la sua esposizio-
ne corra sempre il pericolo di mancare a se stessa e di fallire,
e non soltanto perché non ci sarebbe, dal lato dei soggetti, un
interesse verso la «fatica del concetto». Piuttosto, il venir meno
della realizzazione a se stessa è inscritto, come sua costituti-
va possibilità, entro le condizioni che a livello di struttura te-
oretica ne sanciscono, in pari tempo, l’effettuale attuazione.
Così, se l’innalzamento della filosofia a «sistema scientifico»
del sapere è vincolato al superamento del linguaggio dei suo-
ni, se è la scrittura dell’esposizione che istituisce il pensiero in
processo attraverso cui si dispiega la verità stessa, essa è an-
che ciò che trattiene il Denken nella forma, così esposta, della
sua finitudine. Il silenzio della Darstellung configura l’«altro»
silenzio, quello del pensiero, sulla superficie spazializzata in
cui non solo esso si attua come capacità costruttiva in senso
epistemico, ma sulla quale pure lascia impresse le tracce del-
la sua finitezza. E il «terzo» silenzio, attraverso cui la filosofia
dovrebbe snodarsi come «scienza» e riunificazione speculati-
va di pensiero e esposizione, si svela come prodotto di un’o-
scillazione il cui luogo è disposto nel vuoto della sfasatura e
della costitutivamente possibile non-coincidenza fra quei due.
In questo senso, l’apertura del sistema in Hegel si conferma
una volta di più come funzione del suo assetto di chiusura.

132.  Cfr. G.W.F. Hegel, Leçons sur Platon. Texte inédit 1825-1826, éd., tr.
et notes par J.-L. Vieillard-Baron, Aubier, Paris 1976, p. 100: «L’esoterico è
lo speculativo, che è scritto e stampato e tuttavia resta nascosto per coloro
che non hanno interesse ad applicarsi. Non è un mistero, eppure è nascosto».
217

Perché certo, ripercorrere indefinitamente la Darstellung vuol


dire in pari tempo indefinitamente ri-pensare la sua precipi-
tazione nel passato, significa porsi continuamente di fronte e
interiorizzare il suo già-esser-divenuta – l’essere trascorsa e
declinata al modo del passato che già gravava sull’eternità. Ri-
pensare indefinitamente la «Darstellung» equivale allora alla
costante riassunzione, da parte del pensiero, dell’impossibilità
di continuare a pensarla, alla ripetizione dell’incessante sot-
trarsi alla presa della «Darstellung» di ciò che pure in essa do-
vrebbe senza residuo presentarsi. Per questo, al pensiero non
è concesso di acquietarsi, infine, né nella Darstellung né nel
suo «infinito» ripercorrimento – perché come l’esposizione nel
suo complesso, così ogni singola Aufhebung in essa incorporata
reca in sé la cifra di un’eccedenza che, nell’esposizione rima-
sta impensata, pure attraverso questa pone al pensiero l’im-
prescindibile esigenza di pensarla – pensarla come il novum
che dall’interno irrompe nella dialettica.
Ma dove cercare, in Hegel, la consapevolezza di tale radicale
apertura del pensiero, espressa non tanto in forma di enuncia-
zioni singole, quanto piuttosto come definizione teorica dell’in-
tero assetto epistemico? E di un’apertura, per giunta, che al
pensiero è resa possibile proprio e solamente dalla configura-
zione «chiusa» della sua «Darstellung»?
219

Osservazioni conclusive

La trattazione della nozione hegeliana di eternità, e la messa


in luce della sua implicazione con la problematica dell’espo-
sizione, ha mostrato come le dispute sulla validità universale
ed «eterna» nel senso ordinario che Hegel avrebbe attribuito o
meno alla sua Logica cessino di avere senso. Quest’ultima cioè
non è «eterna» perché la forma in cui espone la verità costitui-
sca l’ultima e definitiva attuazione della filosofia, perché quin-
di essa pretenda di avere arrestato la filosofia «per sempre»,
cioè per tutto il trascorrere degli ora storici ad essa seguen-
ti. Al contrario, essa è «eterna» perché nei suoi procedimenti
espositivi e categoriali incorpora il toglimento delle dimensioni
temporali, e la loro concentrazione nell’istantaneità del con-
cetto di volta in volta determinato. Tale istantaneità, parados-
salmente diveniente, costituisce l’eternità in quanto raccoglie
in sé simultaneamente presente, futuro e passato.
Da un lato, il dispositivo epistemico hegeliano pare viziato
in tal modo da un’evidente tautologicità: dire che la Logica è
eterna perché espone l’auto-costituzione del tempo in eternità,
infatti, pare implicare la circolarità di un concetto di eternità
definito in maniera tale da corrispondere alle modalità dello
svolgimento logico-dialettico, così come, viceversa, esso riceve
la sua funzionalità solo in base al fatto che i procedimenti della
220

Darstellung assumono un andamento che li fa coincidere con


la precostituita nozione dell’eternità speculativa.
Dall’altro, però, tale apparente tautologicità della connessio-
ne fra eternità e Logica consente di concepire il radicamento
della filosofia nella storia senza cadere perciò nelle braccia del
relativismo, e rinunziare all’«assolutezza», in senso teoretica-
mente definito, della verità. Il fatto che l’eternità svolga una
funzione per così dire “grammaticale” o metodica in senso
speculativo, di designazione intrasistemica delle modalità di
sviluppo epistemico, rafforza l’autonomia del sistema stesso e
delle procedure in esso immanenti di derivazione logica, sen-
za per questo precludere, ma imponendo anzi a livello stesso
di struttura concettuale, l’apertura della filosofia sulla storia.
Infatti, se la realizzazione del pensiero comporta necessaria-
mente, in Hegel, il suo pervenire a esposizione, noi abbiamo
visto come quest’ultima non possa istituire un dispositivo auto-
sufficiente, non possa esaurire al suo interno la «scientificità»
della filosofia. Al contrario, le modalità stesse che ne scandi-
scono l’attuazione recano in sé inscritta l’esigenza di conti-
nuamente riattivare la processualità del pensiero, esprimono
quindi non solo il precipitato teoretico entro cui esso si esplici-
ta come potenza epistemica, ma in pari tempo anche l’irriduci-
bile eccedenza che lo viene a determinare nei confronti della
sua medesima Darstellung – sanciscono l’impossibilità di «con-
tenerlo» entro le maglie dell’esposizione, che pure lo enuncia.
E ciò da un duplice punto di vista: innanzitutto in rappor-
to alla forma proposizionale, che la Darstellung funzionalizza
all’espo­sizione del «movimento dialettico» nella misura in cui
ne «supera» la contrazione «in forma di un giudizio», ma che
per attuare tale funzionalizzazione richiede l’intervento del
«Sé» pensante, l’esercizio del Denken quale attività di dina-
mizzazione e messa in movimento di ciò che nel linguaggio e
nella scrittura viene a trovarsi inevitabilmente irrigidito e di-
221

storto, espresso in determinazioni di volta in volta unilaterali


e «astratte»; in secondo luogo, rispetto alla dialettica della di-
struzione/conservazione del tempo entro l’eternità speculativa,
che l’esposizione incorpora al suo interno come «già» realizza-
ta, ma che si trova in essa altrettanto immobilizzata e irrigidita,
spazializzata entro le forme immote della scrittura. Al pensiero
spetta qui il compito, imprescindibile, di re-­innescare il movi-
mento della temporalizzazione e del suo dinamico toglimen-
to, di ripristinare nel suo «divenire» il processo di Aufhebung
delle dimensioni, che benché venga esposto nelle articolazio-
ni logico-discorsive della Darstellung, simultaneamente viene
bloccato nei caratteri statici di una scrittura, che s’imprime
sulla superficie esterna di uno spazio bianco.
In tal senso, abbiamo evidenziato come la Vorrede lasci, per
così dire, in sospeso la determinazione come soggettività del
pensiero, o meglio la orienti verso due direzioni incompatibil-
mente opposte, e solo difficilmente mediabili dalla dialettica.
Da un lato, il pensiero pare trovare nell’«io che sa» l’impre-
scindibile «soggetto» dell’attività del pensiero. Anzi, su questo
punto la Vorrede approfondisce le relazioni fra «Sé» dell’io e
«trasformazione» della «cosa» in «auto-movimento» e «rela-
zione negativa» secondo le linee tracciate per la prima volta
nel manoscritto jenese di filosofia dello spirito del 1805-06.
La Sache selbst si presenta infatti come processualità auto-­
diveniente in quanto ad essa è immanente il «Sé» dell’io, il
suo dinamismo coincide con l’esercizio da parte del soggetto
del begreifendes Denken: solo per l’immersione dell’«io che
sa» nella «cosa» il «contenuto» speculativo mostra di essere
«in tutto e per tutto soggetto», e la «sostanza» si scopre simul-
taneamente come soggettività.
D’altro lato, però, proprio l’affermazione come movimento
di auto-determinazione dei propri «predicati» del «contenu-
to» speculativo, che la «forma» proposizionale impiegata dal
«pensare rappresentativo» recava a «soggetto» dei suoi giudizi
222

come «soggetto rappresentato» e «Sé oggettivo e fisso», inne-


sca un processo di risoluzione di quella «forma», che in pari
tempo si dirige contro l’«io che sa», e che quest’ultimo subi-
sce come un vero e proprio «contraccolpo» speculativo. In un
tale «contraccolpo», all’«io che sa» viene impedito di ritorna-
re, nel passaggio dal soggetto proposizionale al predicato, in
se stesso, di ergersi quindi a elemento di selezione e di scelta
dei predicati categoriali; al contrario, l’«io che sa» viene qui
costretto a restare immerso nel «Sé» della «cosa», ad abban-
donarsi all’«auto-movimento» della Sache selbst.
La Vorrede esprime in tal modo l’Aufhebung del pensiero rap-
presentativo da parte del pensiero concettuale, coniugando
tale superamento alla critica distruttiva della forma proposi-
zionale, e alla determinazione delle modalità linguistiche ade-
guate all’enunciazione del «movimento dialettico». Il «contrac-
colpo» viene quindi subito, propriamente, dal vorstellendes
Denken, ma ciò non risolve il problema dello statuto o meno
della soggettività del «Sé» che su se stesso assume la «fatica
del concetto», esercitandosi così come pensiero concettuale.
Tale questione riveste un’importanza tutta particolare, poiché
riguarda la determinazione stessa del concetto come soggettivi-
tà, il significato da attribuire a quella che certo Hegel tenta di
concepire come un’identità fra «Sé» dell’io e «Sé» della cosa,
fra movimento (soggettivo) del «pensare» e auto-movimento
dei Begriffe come «essenzialità spirituali»1, ma che appunto in
quanto identità mostra di essere solcata da una differenza che
mina «da sempre» l’immediatezza del suo rapporto con se stes-
sa, tradendovi forse, nonostante ogni conciliazione speculativa,
l’impossibilità di procedere al suo superamento.
La centralità della questione emerge anche da un altro punto
di vista, più vicino all’andamento che il nostro studio ha tentato

1.  «Geistige Wesenheiten» (loc. cit. supra, cap. II, nota 1).
223

di seguire in rapporto a Hegel. Si tratta del fatto che nella stes-


sa misura in cui viene evidenziata la necessità, per il pensiero
concettuale, di pervenire a esposizione, nel momento in cui
l’effettualità del movimento dialettico viene teorizzata come
sua realizzazione nel linguaggio dell’esposizione filosofica, il
begreifendes Denken si mostra eccedente rispetto a tale sua
configurazione espositiva, e cioè rispetto al suo stesso assetto
epistemico; e tuttavia, tale sua eccedenza si trova «già» inscrit-
ta nell’esposizione in cui esso è giunto a realizzarsi, si mostra
essa stessa funzionale alla costituzione in «scientificità» della
filosofia, appunto perché vincolata all’organizzazione concet-
tuale effettiva e concreta della Darstellung.
Quest’ultima emerge quindi come il momento della mediazio-
ne nei rapporti fra pensiero e linguaggio, in quanto è il nodo
attorno a cui il pensiero cerca di funzionalizzare la storicità
dei suoi contenuti all’assolutezza della loro configurazione epi-
stemica. Da un lato, le modalità con cui l’esposizione compie
il superamento del tempo nell’eternità pongono la questione
della storicità dei contenuti di pensiero, e in quanto tale supe-
ramento avviene sul piano logico-linguistico della Darstellung,
portano a individuare nel linguaggio il luogo della determina-
tezza storica di quei contenuti; dall’altro, dalla sottrazione che
nel «passato» intemporale dell’eternità trascina la Darstellung
«al di qua» di se stessa, scaturisce sempre di nuovo il pensiero
nella sua attualità, che ripercorrendo il circuito dell’esposi-
zione, compie e ripete l’esperienza di non poterlo percorre-
re mai più.
Affrontando per l’ultima volta le questioni concernenti lo sta-
tuto di soggettività e/o meno del «Sé» pensante in rappor-
to all’autonomia del movimento categoriale, tematizzando le
relazioni fra Denken e Sprache, innestando infine sui plessi
problematici così definiti la determinazione del concetto spe-
culativo di «scienza della logica» e del suo «significato per lo
spirito», la Prefazione del 1831 alla seconda edizione della Lo-
224

gica2 non rappresenta soltanto, dal punto di vista cronologico,


l’esito terminale della parabola di pensiero hegeliana, quan-
to piuttosto il testo in cui le questioni che ne hanno tracciato
il percorso raggiungono la formulazione teoreticamente più
limpida e radicale. Ciò impone alla nostra ricerca di svolgere
le sue conclusioni in rapporto ai luoghi di questo testo in cui
vengono affrontati i problemi sopra menzionati, e senza l’ana­
lisi dei quali essa resterebbe necessariamente incompleta. In
tal modo, inoltre, potremo valorizzare un altro dei tratti distin-
tivi di questa Prefazione, il fatto cioè che in essa l’intreccio fra
pensiero e linguaggio non è soltanto assunto a «oggetto» della
riflessione filosofica, ma interviene, per così dire, dall’interno
a scandirne i passaggi argomentativi.
Tale caratteristica emerge con particolare chiarezza proprio in
rapporto alla prima delle questioni da noi indicate, quella con-
cernente la soggettività del Denken. Qui il linguaggio è impie-
gato da Hegel per evidenziare la maniera corretta d’intendere
le relazioni fra soggettività pensante e determinazioni di pen-
siero, assunto in veste di «testimone» a favore della tesi che si
tratta di dimostrare, ed entra così con la funzione di elemento
strutturante nella strategia della costruzione argomentativa. In
tal modo, esso vede per così dire raddoppiata la rilevanza che
il testo gli assegna fin dall’inizio, in quanto Hegel identifica nel
linguaggio ciò in cui «le forme del pensiero sono innanzitutto
esposte e consegnate». E poiché il linguaggio «si è insinuato
in tutto ciò che l’uomo fa suo», così come a sua volta «ciò che
l’uomo trasforma in linguaggio e in lui esprime contiene… una
categoria», risulta che alla pervasività del linguaggio corrispon-
da la pervasività di concetti e relazioni logiche, cosicché «l’ele-
mento logico» (das Logische) si rivela «come la natura vera e
propria» dell’uomo; oppure, se si vuole «contrapporre la natu-
ra, in quanto elemento fisico, allo spirituale», l’elemento logico

2.  Di cui, come noto, uscì solamente il primo libro, sulla dottrina dell’essere.
225

andrà definito addirittura come Übernatürliches, intendendo


con ciò che esso «si insinua» – con e attraverso il linguaggio –
«in ogni comportamento naturale dell’uomo, nel suo sentire,
intuire, appetire, in ogni suo impulso e bisogno», e che solo
tale elemento trasforma tutto questo «in qualcosa di umano»3.
Ma proprio in quanto il «logico» s’infiltra in tutti i campi dell’a-
gire e del rappresentare umani, le categorie con cui l’uomo
opera «nella vita» costituiscono un apparato teorico il cui fun-
zionamento resta inavvertito e non riflesso. L’intelaiatura di
pensiero contenuta nel linguaggio forma una «logica natura-
le», il cui «impiego» avviene in maniera «inconscia», alla stre-
gua di un «operare istintivo» che agendo nell’uomo secondo
modalità inconsapevoli, gli assicura soltanto un’«effettualità
singolarizzata ed incerta»4. Un «più elevato compito logico»
consiste allora nel portare «alla coscienza dello spirito» que-
ste categorie, «che sono efficaci solo istintivamente come im-
pulsi», e nell’«elevare» in tal modo lo spirito «alla libertà e alla
verità in esse»5. Tuttavia, per attuare tale «elevazione» dello
spirito è necessario mutare il punto di vista che corrisponde
all’«impiego» delle categorie «nella vita». Qui «si tratta» infatti
del loro «uso», per cui «dall’onore di venire considerate per sé»
le categorie «vengono abbassate a servire…». Ora, il proble-
ma che emerge è se sia lecito assumere in sede di «riflessione
scientifica» una concezione omogenea all’«uso» delle catego-
rie «nella vita», cioè una concezione che ad esse «assegni nel-
lo spirito» una funzione meramente strumentale, il significato
di «servire come mezzi» al padroneggiamento della realtà da
parte dell’uomo6.

3.  Cfr. W.d.L., I, p. 10 (tr. it. cit., p. 10).


4.  Cfr. W.d.L., I, p. 16 (tr. it. cit., p. 17).
5.  Ibidem.
6.  Cfr. W.d.L., I, pp. 13-14 (tr. it. cit., pp. 13-14).
226

Per Hegel tale punto di vista è insostenibile, ma per compren-


dere la strategia argomentativa su cui fa leva per confutarlo,
è necessario tenere presente il ruolo che al suo interno viene
svolto dal linguaggio. Intendere le categorie come dei «mez-
zi», prosegue Hegel, vuol dire trasformarle «in qualcosa di
subordinato alle altre determinazioni spirituali», giacché «dei
nostri impulsi, sensazioni, interessi non diciamo certo che ci
servono, ma questi valgono come potenze e forze indipenden-
ti», in cui ci sentiamo «impacciati» e da cui «riteniamo di es-
sere dominati», piuttosto di essere quelli che ne «detengono
il possesso»7. L’argomentazione filosofica deve tener conto e
sviluppare questa indicazione del linguaggio, perché in essa
è contenuta implicitamente tutta la contraddittorietà di una
concezione strumentale delle categorie in quanto «forme di
pensiero». Tali determinazioni, infatti, «si stendono attraver-
so tutte le nostre rappresentazioni», e se queste ultime, come
testimonia il linguaggio, «siano esse meramente teoretiche o
contengano un materiale che appartiene alla sensazione» e
«all’impulso», ci tengono in loro possesso e non viceversa, tan-
to più questo rapporto di padroneggiamento e di «dominio»
varrà per la Denkformen, che «si stendono attraverso» di esse
e che solamente le trasformano «in qualcosa di umano»8.
Ora, il punto che ci sembra fondamentale sottolineare è che
il risultato conseguito sino a questo punto dalla «riflessione
scientifica» forma il presupposto in base al quale Hegel pro-
cede alla considerazione dell’attività del Denken non più sem-
plicemente come «agire istintuale» e operare «inconscio», non
più soltanto perché il complesso delle sue determinazioni co-
stituisce quella «natura logica, che anima lo spirito»9 e che
è «deposta innanzitutto» nel linguaggio – ma nel suo stesso

7.  Cfr. W.d.L., I, p. 14 (tr. it. cit., p. 14).


8.  Ibidem (e cfr. supra, nota 3).
9.  W.d.L., I, p. 16 (tr. it. cit., p. 16).
227

carattere di esperienza per il soggetto pensante. È in quanto


esercita metodicamente e riflessivamente il suo pensiero che il
«Sé» dell’io perviene all’esperienza dell’invalicabilità, dell’inol-
trepassabilità delle «Denkformen», alla sperimentazione del
fatto che l’attività che in lui si svolge non è l’attività del «Sé»
come «soggetto», ma delle «Denkformen», che nel «pensare»
del «soggetto» sviluppano se stesse e il loro auto-movimento.
In questo senso, la «libertà» che il «Sé» esperisce in forma di
pensiero coincide col predominio in lui delle Denkformen. Se
infatti in «sensazioni» e «impulsi» l’uomo si percepisce come
limitato e «impacciato», ciò avviene perché la sua «natura lo-
gica», il suo «elemento» propriamente «spirituale» lo elegge
in sede di sviluppo ed espansione dell’universale, perché la
natura «che in lui agisce e lo spinge» è costituita da questo
universale medesimo10. Così «noi», che «in una sensazione,
scopo, interesse ci sentiamo limitati, prigionieri», possiamo
ritrovare la nostra «libertà» mediante la consapevole assunzio-
ne di quell’universale, che «nella vita» agisce in noi solo «istin-
tivamente», solo in quanto «natura» efficace ma «inconscia»:
viceversa, quando «il contenuto di ciò che dà l’impulso viene
separato dall’unità immediata col soggetto», ed è «condotto ad
oggettività di fronte ad esso» – allora «comincia la libertà dello
spirito». Tale «libertà» coincide quindi con la pratica metodica
di determinazione e svolgimento delle «forme di pensiero»11.
Ma in quanto queste ultime sono assunte nel loro carattere di
universali, in quanto «il luogo» verso cui «noi» ci «ritiriamo»
per districarci da quei singoli «scopi» e «interessi» che c’im-
pacciano e c’imbrigliano è «questo luogo della certezza di se

10. Cfr. W.d.L., I, p. 14 e p. 16 (tr. it. cit., p. 14 e p. 16).


11.  Cfr. W.d.L., I, p. 16 (tr. it. cit., pp. 16-17). Sulla Logica di Hegel e l’idea
di libertà, cfr. G. Jarczyk, Système et liberté, cit., e il precedente volume di
B. Lakebrink, Die Europäische Idee der Freiheit, Bd. I, Hegels Logik und die
Tradition der Selbstbestimmung, Alber, Freiburg i.Br. 1968.
228

stessi, dell’astrazione pura, del pensare», «noi» sperimentiamo


l’impossibilità, l’assurdità e in pari tempo la gratuità del voler-
ci elevare «al di sopra» di esse, del volerle considerare come
qualcosa che «ci serve» e che noi «possediamo». Per far ciò,
infatti, dovremmo essere più universali dell’universale stesso,
che in loro si esprime e si realizza; e appunto questo è impos-
sibile: «che cosa resta a noi di fronte ad esse? come potremmo
noi, io in quanto più universale pormi al di sopra di esse, che
sono appunto l’universale come tale?»12.
Il tentativo in questione, del resto, non si scontra soltanto con-
tro un’assurdità logica, ma si rivela anche, come abbiamo detto,
del tutto gratuito: se nelle categorie «noi» ci vediamo conferma-
ti nella «certezza di se stessi» appunto perché in esse troviamo
realizzata senza impacci la nostra «natura» di soggetti spirituali
e universali, sarebbe privo di scopo aspirare a porsi «al di so-
pra» di esse per conquistare una libertà, che appunto in esse
e solamente in esse raggiungiamo. Così, proprio nel fatto che
«non noi, bensì piuttosto esse ci possiedono», dobbiamo scor-

12.  W.d.L., I, p. 14 (tr. it. cit., p. 14). In riferimento all’argomentazione


hegeliana e alla critica in essa condotta contro l’opinione secondo cui noi
«avremmo» pensieri, Th. Litt scrive: «Se noi consideriamo il rapporto del-
la forma logica e del soggetto sotto questa prospettiva, non avremo alcuna
difficoltà a correggere le formulazioni criticate affermando, contro di esse,
che non siamo noi a “possedere” le forme (come degli strumenti che sareb-
bero al nostro servizio), ma che sono le forme che ci “possiedono”» (op. cit.,
pp. 324-325). A suo avviso, però, Hegel attaccherebbe «le costruzioni del
linguaggio comune, che esprimono effettivamente in maniera precisa le
concezioni che bisogna correggere» (ivi, p. 324). Questo giudizio appare
unilaterale se considerato rispetto al ruolo che il linguaggio ordinario svolge
nel contesto: è proprio esso infatti a segnalare come vadano correttamente
intese le relazioni fra il pensiero e «noi». Ciò che il linguaggio non può fare
è fornire il criterio per la lettura e la valutazione dei contenuti che presen-
ta, visto che in relazione al medesimo oggetto offre riscontri contraddittori
e molteplici, fra i quali solo il «concetto» è in grado di determinare quelli
omogenei alla verità filosofica, e quelli che invece recano e rafforzano pre-
giudizi contrari alla «natura della cosa».
229

gere, invece dell’impedimento e dell’insuperabile ostacolo alla


realizzazione della nostra «libertà», ciò che massimamente la
potenzia e la attua.
L’argomentazione contro la tesi strumentale, tuttavia, non si
conclude a questo punto. Essa invece accoglie un’altra indica-
zione del linguaggio, concernente stavolta il nesso fra Denk-
formen e oggettività. Tale approfondimento della «riflessione
scientifica» conduce al rafforzamento della non strumentalità
e/o non dominabilità delle categorie da parte del soggetto che
le pensa, raccorda l’autonomia del loro movimento di svilup-
po all’esperienza in fieri nel soggetto dell’atto del «pensare»,
e in quanto infine coinvolge il rapporto fra pensiero e cose,
concetto e oggetto, conduce alla ridefinizione complessiva in
senso speculativo del significato e dello statuto della «scienza
della logica».
In effetti, fra i poli dell’opposizione sopra delineata, il linguag-
gio pare testimoniare l’esistenza di una relazione di compe-
netrazione e identità, in quanto attribuisce ai concetti (i quali
a loro volta, come precisa Hegel con una indicazione fonda-
mentale, sono «soltanto per il pensare») la funzione di espri-
mere ciò che costituisce l’oggetto nella sua «natura» o verità:
«quando noi vogliamo parlare delle cose [Dingen], la natura
od essenza loro la chiamiamo il loro concetto, e questo è solo
per il pensare [nur für das Denken]»13. In base a tale identità,
per come viene espressa dal linguaggio, considerare i concetti
come degli strumenti o dei mezzi significherebbe considerare
un mezzo la «natura» stessa delle cose, la loro «essenza». Ma
anche questa opinione non trova riscontro a livello linguisti-
co: «Ora, dei concetti delle cose non diremo certamente che
li dominiamo, o che le determinazioni di pensiero, di cui essi
sono il complesso, ci servano».

13.  W.d.L., I, p. 14 (tr. it. cit., p. 14).


230

«Noi», sembra voler dire Hegel, riconosciamo alla «natura»


degli oggetti un’autonomia e un’indipendenza nei nostri con-
fronti; ma appunto questo atteggiamento di apparente inerzia
e di passività viene a sfociare, come il linguaggio stesso irri-
flessivamente enuncia, nell’abbandono della posizione inge-
nuamente pre-categoriale nei confronti dell’oggettività, svela
come invece in ogni tentativo di rappresentazione oggettiva
della realtà emerga, quale struttura ordinante del mondo, il
complesso delle determinazioni di pensiero. Così, la valen-
za soggetto-oggettiva delle categorie, illustrata dal linguaggio,
mostra anche dal lato del rapporto del «pensare» con le «cose»
quanto sia insostenibile una concezione strumentale delle cate-
gorie, la pretesa di considerare queste ultime come «in nostro
possesso». Poiché le determinazioni di pensiero costituiscono
l’«essenza» delle «cose», conoscere queste ultime nella loro
«natura» non può equivalere ad altro se non all’immersione, da
parte del soggetto, nel movimento delle Denkbestimmungen,
alla neutralizzazione e all’esclusione di tutto ciò che appartie-
ne alla «nostra» contingente particolarità, di tutto ciò con cui
l’«arbitrio» dell’individuo sarebbe portato a scompaginare e a
turbare la rigorosa immanenza nell’auto-svolgimento della Sa-
che selbst, l’abbandono al contenuto delle determinazioni di
pensiero: «al contrario – dice Hegel – il nostro pensiero deve
limitarsi secondo esse [muss sich unser Denken nach ihnen be-
schränken], e il nostro arbitrio o libertà non deve [soll] volerle
dirigere a suo piacimento [nach sich]»14.
È da segnalare come il contrasto fra i punti di vista in questio-
ne non venga configurato, dal testo, in accordo alle consuete

14.  Ibidem (tr. it. cit., p. 15). Sul punto qui in questione, cfr. il commento
di H.-G. Gadamer, che però piega in senso ermeneutico il rapporto fra con-
cetto e linguaggio: «Anche il concetto [come le parole; N.d.A.] non è uno
strumento del nostro pensare, bensì è il nostro pensare che deve seguirlo e
che trova nella logica naturale del nostro linguaggio la sua prefigurazione»
(op. cit., p. 119).
231

modalità dell’Aufhebung dialettica, non conduca cioè al «su-


peramento» delle due opposte posizioni in una «sintesi» che le
«conservi» entrambe e così integri, potenziandolo, il contenuto
di razionalità interno a ciascuna. L’argomentazione culmina in-
vece nell’esclusione di una tesi a vantaggio della tesi opposta,
nell’inversione dei ruoli attribuiti dalla concezione che si trat-
ta di confutare al soggetto da un lato, e alle determinazioni di
pensiero dall’altro. L’opposizione è un’opposizione esclusiva,
che non si tratta di «conciliare», ma di decidere, rovesciando
i rapporti di dominanza fra il «Sé» dell’io e l’«universale come
tale», le categorie logiche (è con l’avverbio im Gegenteil che,
non a caso, inizia il periodo sopra riportato).
Altrettanto indicativo è l’impiego alternato, per l’unica voce
italiana «dovere», dei due verbi modali müssen e sollen: in
rapporto all’attitudine conoscitiva del soggetto, del «Sé» pen-
sante, appare cioè come un’esigenza, un «dovere» nel senso
della prescrizione che, se rispettata, conduce l’io all’assunzio-
ne di una condotta adeguata, il «comando» che impone all’in-
dividuo di escludere il suo arbitrio dall’auto-movimento della
Sache selbst, di non voler «dominare» le Denkbestimmungen,
ma viceversa di lasciarsi condurre e «dominare» da parte di
queste ultime, di abbandonarsi al processo del loro autonomo,
immanente svolgimento. Tuttavia, dal momento in cui tale esi-
genza venga soddisfatta – e lo è ogni volta, per Hegel, che il
soggetto propriamente pensa, sperimentando e attivando in
sé la Tätigkeit des Gedankens15 –, non si tratta più, nel rap-
porto fra «Sé» pensante e determinazioni scaturenti dal «suo»
pensare, di una relazione che dipenda dal soddisfacimento di
determinati requisiti o prescrizioni: nel momento in cui pen-
sa, il soggetto è «oggettivamente» costretto (muss), al di là di
ogni possibilità di scelta o di ogni configurazione altrimenti
strutturata del rapporto, a «limitarsi» secondo l’andamento

15.  Loc. cit. supra, cap. III, nota 88.


232

dei procedimenti categoriali, secondo il ritmo di sviluppo del-


l’«universale» dialettico.
Non è affatto contraddittoria, in Hegel, questa prevalenza di
un «universale» che pure scaturisce dall’attività del Denken
soggettivo; e non soltanto perché quest’ultimo – con conse-
guenze che fra non molto andremo ad approfondire – «produ-
ca» Denkbestimmungen solo nel senso in cui ri-pensa o, come
dice Hegel, fornisce la «ricostruzione»16 di contenuti concet-
tuali che il linguaggio presenta allo stato «inconscio» e disper-
so, che quindi sono «già» stati storicamente prodotti, e che si
tratta, pensando, di ri-percorrere secondo nessi logicamente
strutturati, di ri-costruire nella trama di relazioni dialettiche
che costituiscono il movimento della loro genesi speculativa,
né naturale né temporale, ma appunto logica. Il punto da sot-
tolineare, per il momento, è un altro, e cioè che lo scaturire
stesso dell’atto della produzione di quelle categorie nel sog-
getto, l’attivazione del «pensare» in quanto attività spirituale,
sono ciò che impedisce al «Sé» di porsi «al di sopra» di quello
che pure, in simultaneità paradossale, Hegel definisce «il suo
più proprio atto»: «in quanto il pensare soggettivo è il nostro
atto più proprio, più interiore… noi non possiamo esserne fuo-
ri, non possiamo stare al di sopra di esso»17.
Il pensare è un’attività inoltrepassabile proprio perché è la no-
stra attività «più propria» (eigenste) e «più interiore» (inner-
lichste); rivela di non lasciarsi ricondurre ad alcun centro che,
collocato altrove rispetto ad essa, dovrebbe però situarsi all’in-
terno dell’io, proprio perché essa stessa istituisce un’internità
senza residuo. Tuttavia, poiché in tal modo il «Sé» dell’io pen-
sante viene risolto nel suo atto, l’attività che più di ogni altra lo
custodisce pare scoprirsi, simultaneamente, come quella in cui

16. «Rekonstruktion»: cfr. W.d.L., I, p. 19 (tr. it. cit., p. 19).


17.  W.d.L., I, pp. 14-15 (tr. it. cit., p. 15).
233

il soggetto viene massimamente consegnato a ciò che, in quan-


to sarebbe «il più interiore», appare anche come il più esterno,
lontano e altro: l’«universale» delle Denkbestimmungen. Così,
mentre nel pensare si sperimenta come attività, anzi come «l’at-
tività più propria, più interiore», l’io sperimenta se stesso come
inoltrepassabile passività: il consegnarci a un atto che è al di
fuori del nostro «potere», al di fuori del nostro «possesso», sa-
rebbe in pari tempo quello che più propriamente ci appartiene.
È in base a tale movimento che quest’atto (Tun) emerge come
ciò che non è ulteriormente «fondabile», né riconducibile a
una logica della derivazione e dell’auto-produzione, come pur
sempre resta e si definisce quella dialettica. Proprio in quanto
Tun, scaturigine del suo movimento e di sé come attività, pro-
prio in quanto origine di ogni comprensione e di ogni «traspa-
renza» (Durchsichtigkeit), il Denken pare delimitare, nel suo
carattere di processualità diveniente, una zona opaca dell’espe-
rienza, l’in-trasparenza non ulteriormente rischiarabile del suo
sorgere, del suo cominciamento sempre originario e sempre, in
pari tempo, ritornante, che proprio nel gesto aurorale del suo
istituirsi sembra sfuggire a ogni categorizzazione logica. Nem-
meno le procedure circolari di un logos auto-fondativo come
quello hegeliano riescono ad assorbire, nella loro circolarità,
l’emergere incomprimibile dell’atto, a catturare quel fare (Tun)
nella pulsione che gli dà origine, per così dire, fotografandolo
nell’attimo, nell’ora infinitesimale da cui sorge.
In Hegel, l’eccedenza dell’atto del pensare nei confronti di ogni
sua possibile fondazione, sia pure circolarmente dialettica, ha
assunto anche la figura, empiricamente depotenziata ma egual-
mente significativa, della decisione, da parte del singolo, di ini-
ziare a «filosofare»18. Certo questa espressione va determinata

18.  Affrontando il problema qui in questione in rapporto al «cominciamento


[Anfang] che la filosofia deve fare», nel § 17 dell’Enciclopedia Hegel tenta
234

nel suo senso: in effetti, la decisione di pensare non assume in


Hegel valenze «decisionistiche», né semplicemente si presen-
ta nelle vesti di una non-razionalizzabile origine della ragione
(e, in ogni caso, della ragione soggettiva, poiché la Wirklichkeit
è già strutturalmente organizzata secondo Vernunft). Al con-
trario, tale decisione ha la sua radice nel fatto che il soggetto,

di prevenire il fraintendimento racchiuso nell’opinione che la filosofia debba


«iniziare, come le altre scienze, con una presupposizione soggettiva», facen-
do leva sulla circolarità che governa i procedimenti del sapere speculativo.
Da un lato, ciò che egli chiama «der freie Akt des Denkens» ha la preroga-
tiva «di porsi nella posizione in cui essere per se stesso e in cui darsi e pro-
dursi il suo proprio oggetto»; dall’altro, tale «atto» supera l’immediatezza del
suo sorgere giungendo a «trasformarsi, entro la scienza, in risultato, e pre-
cisamente nel suo risultato ultimo, in cui essa raggiunge nuovamente il suo
inizio e ritorna in sé. In questo modo la filosofia si mostra come un circolo
ritornante in sé [als ein in sich zurückgehender Kreis], che non possiede al-
cun cominciamento nel senso delle altre scienze». La circolarità del sapere
filosofico dovrebbe quindi smorzare l’eccedenza di quell’atto, comprende-
re la «libertà» del suo sorgere nel senso peculiare e autentico della specula-
zione, in quanto cioè quell’atto si scoprirebbe epistemicamente necessitato,
prodotto come risultato dal suo medesimo movimento. Sempre nel testo di
questo paragrafo, poi, Hegel distingue il cominciamento della «scienza» dal
cominciamento del pensare nel soggetto. In rapporto al cominciamento in
questo «secondo» senso, egli non può che registrare l’inderivabilità epistemi-
ca di quel «libero atto del pensare», che tanto più si mostra dislocato rispetto
all’esposizione filosofica, quanto più quest’ultima, procedendo circolarmente,
rafforza le procedure intra-sistemiche di derivazione logica. D’altro canto,
Hegel può in tal modo relativizzare l’aporia del cominciamento, collocandola
sul versante della particolarità soggettiva, e salvaguardando così la circolarità
e l’immanenza della scienza «come tale»: «il cominciamento ha una relazione
solo col soggetto, come quello che si vuol decidere a filosofare [als welches
sich entschliessen will zu philosophieren], e non invece con la scienza come
tale». In tale decisione, benché essa non sia da intendere in senso puramente
«decisionista» (cfr. infra, nel testo), non ci sembra infondato leggere l’effetto,
per così dire depotenziato a livello empirico, di quella medesima eccedenza
che contraddistingue il Denken nella Prefazione del 1831, e che proprio at-
traverso la relativizzazione operata nei suoi confronti da Hegel evidenzia le
difficoltà cui va incontro il tentativo di funzionalizzarla e riassorbirla entro i
circuiti della logica dialettica.
235

pensando, realizza la sua «libertà», che nel «pensare» trova «il


luogo della certezza di se stesso» e, da un punto di vista più
comprensivo, si può raccordare al tasso di razionalità e di com-
plessità oggettive presenti nella struttura dell’«epoca»19, si pone
all’altezza della «storia del mondo» sino al limite del presen-
te, in quanto punto più avanzato dell’intero fronte di sviluppo.
E tuttavia, tali motivazioni scontano la loro insufficienza con
l’esternità che mantengono rispetto all’esperienza che in qual-
che modo dovrebbero giustificare, poiché presuppongono che
vi sia prima una decisione, alla quale quindi conseguirebbe l’at-
to ad essa conforme. Viceversa, questa decisione appare indis-
sociabile dall’atto nel quale si realizza, con esso coincide e in
esso si risolve. Quest’ultimo perciò conserva, in quanto movi-
mento sempre risorgente di un «pensare» che sin dallo scritto
sulla Differenza Hegel ha concepito in chiave a-soggettiva20,
tutta la sua eccedenza rispetto a ogni sua possibile circoscri-
zione logica, a ogni sua compiuta perimetrazione in termini di
esposizione speculativa. L’esperienza del «pensare», nel suo ca-
rattere di attività diveniente, sempre di nuovo iniziale, mostra
di non potersi esaurire nella sistematizzazione cui pure, nella
Darstellung, dà luogo.
D’altro canto, queste ultime riflessioni non devono farci dimen-
ticare la complessità e la portata delle soluzioni che il pensie-
ro dialettico, in Hegel, effettivamente raggiunge, a vantaggio
esclusivo delle prospettive problematiche in esso ancora aper-
te. Nel caso specifico, non devono farci dimenticare come sia la
Darstellung speculativa che reca inscritta in sé, nelle modalità
della sua attuazione, la necessità, per il pensiero, di scaturire
nuovamente – come quindi sia dal «ritmo» stesso dell’espo-
sizione che l’attività del Denken si ripristina come eccedente

19.  Sulla nozione di «epoca», cfr. R. Bodei, Scomposizioni, cit., pp. 190 ss.
20.  Cfr. Diff., pp. 94-96 (tr. it. cit., pp. 93-95).
236

rispetto alla configurazione sistematica, che pure dovrebbe rac-


chiuderla. In tal senso, il «circolo di circoli» che nell’esposizio-
ne instaura l’eternità s’istituisce, per così dire, come il doppio di
se stesso, in quanto ciò che esso configura in termini di chiusu-
ra è anche ciò che si riproduce in termini di apertura. Da tale
apertura, l’attività del Denken si ripristina secondo modalità
funzionali all’attuazione come «scientificità» della filosofia, ma
che d’altro canto sanciscono la simultaneità, rispetto a questo
compimento, del suo zu-grunde-gehen, come un’«identità di
identità e di non-identità», che sopravanza il dispositivo dialet-
tico nel mentre lo realizza, aprendolo così al novum.
Ecco perché, di pari passo con la sua eccedenza nei confron-
ti dell’esposizione, il «pensare» deve scontare in Hegel la sua
contemporanea inclusione in essa; come anzi in questa, che
noi chiamiamo inclusione, esso pervenga a realizzare il suo
potenziale epistemico, si rechi a effettualità come potenza di
ordinamento conoscitivo e ontologico. E sulla base della costi-
tuzione intrinsecamente epistemica del Denken, questa Prefa-
zione giunge a ridefinire, in senso antiformalistico e dialettico-
speculativo, il concetto stesso di «scienza della logica». Hegel
cioè intende l’atto del pensare come indissociabile dai conte-
nuti in esso di volta in volta scaturenti; e in quanto appunto
sono i contenuti del pensare, le sue specificazioni o risultati,
vengono da lui chiamati «determinazioni di pensiero» (Denk-
bestimmungen). L’atto del pensare è così in pari tempo agire
determinato, indissolubile compenetrazione di contenuto e
forma, attività di produzione e suoi prodotti. Di conseguenza,
poiché le Denkbestimmungen, la cui totalità forma il concetto,
sono «oggetto, prodotto e contenuto del pensare e la cosa [Sa-
che] in sé e per sé essente, il logos, la ragione di ciò che è, la
verità di ciò che porta il nome delle cose [Dinge]»21, ecco che

21.  W.d.L., I, p. 19 (tr. it. cit., p. 19).


237

nel «pensare» il «Sé» s’immerge, simultaneamente, nel conte-


nuto stesso della verità, in ciò che Hegel nomina «das wahr-
haft Bleibende und Substantielle»22.
Ora, in quanto la Scienza della logica costituisce la Darstellung
di questo stesso «sostanziale» nel suo carattere di «soggettivi-
tà» e di «auto-movimento», è evidente che tale «scienza» non
potrà più essere considerata come un sapere meramente «for-
male», riguardante le operazioni di un pensiero sprovvisto di
«contenuto» e di oggettività; al contrario, in essa il contenuto
sarà concepito ed enunciato nella sua massima verità, cosicché
«oggetto» della «considerazione logica» diventano non tanto
le «cose» nella loro empiricità contingente (Dinge), «sondern
die Sache, der Begriff der Dinge» – ciò che ne costituisce la
«natura» e l’«essenza»23. In tal modo, Hegel perviene alla ri-
definizione epistemica, di contro alla tradizione da un lato for-
male e dall’altro trascendentale, del concetto di «scienza della
logica». Ma altrettanto significativo è che tale ri-definizione
faccia perno sulla determinazione del «pensare» come fare
(Tun), come del fare «più interiore» e «più proprio» del sog-
getto. All’inoltrepassabilità dell’«atto» del pensare, alla pas-
sività corrispondente al movimento del «Denken», si coniuga
l’immersione e l’abbandonarsi, da parte dell’io, al «veramen-
te permanente e sostanziale», al contenuto inteso e realizza-
to nella sua verità, perché tale contenuto, che è il «Begriff», è
«soltanto per il pensare», «ist nur Gegenstand, Produkt und
Inhalt des Denkens»24.
Così, con un gesto emerso più volte come specifico di questo
pensiero, l’eccedenza che contraddistingue il Denken rispetto
alla sua configurazione in Darstellung si trova in pari tempo

22.  Cfr. W.d.L., I, p. 15 (tr. it. cit., pp. 15-16).


23.  Cfr. W.d.L., I, p. 18 (tr. it. cit., p. 18).
24.  Si riprendono qui alcuni passaggi di cui supra, alle note 13, 21 e 22.
238

riassorbita entro l’esposizione. Poiché l’esperienza del pensa-


re è strutturata in senso intrinsecamente epistemico, poiché
fra il Denken come attività e le Denkbestimmungen come suoi
prodotti esiste un rapporto di compenetrazione inestricabile,
ciò fa sì che il pensare, nell’attimo del suo cominciamento,
sia in pari tempo Essere, inizio di sé in quanto movimento di
produzione delle Denkbestimmungen, e simultaneamente pri-
ma e più immediata di queste. Tale omogeneità fra Denken e
Darstellung conduce all’attuazione, alla realizzazione del po-
tenziale conoscitivo racchiuso in quell’attività, ormai non più
soltanto interiore, ma concretamente effettuale nella forma,
nel dispositivo circolare dell’esposizione speculativa.
Ma a quest’ultima non spetta solamente di condurre a realtà
effettiva ciò che appunto è l’«effettuale» medesimo, il «movi-
mento dialettico» delle categorie. Piuttosto, nella misura in cui
lo esponga appunto come «movimento», essa tenta di custodire
al suo interno l’esperienza del Denken nel suo carattere pro-
cessualmente dinamico, di coniugare questa fedeltà al «pen-
sare» come attività diveniente con la valenza epistemica che
gli è propria: di qui, la costruzione di un dispositivo filosofico
in pari tempo chiuso e dinamico, appunto il «circolo di circo-
li» ripercorrente se stesso dell’esposizione sistemica. Dal lato
del soggetto, ciò significa che l’attivazione del Denken, se da
una parte lo conduce all’immersione nella Sache selbst, viene a
coincidere dall’altra col compiersi di un atto «altro» solo in ap-
parenza, ma in realtà simultaneo e coincidente col primo: quel-
lo in cui l’io si abbandona all’articolazione logico-­linguistica
del libro entro il quale si enuncia, nonostante e attraverso le
riserve hegeliane25, l’esposizione in forma di «movimento dia-
lettico» dell’«elemento effettualmente speculativo».

25. Cfr. supra, cap. III, nota 126, le già menzionate considerazioni finali del
testo in questione.
239

Le antinomie, le soluzioni, la complessità di relazioni che i di-


versi attori di questa trama di pensiero (eternità e tempo, rap-
presentazione ed esposizione, ripetizione e apertura al nuovo)
intrecciano fra loro ci hanno accompagnato per tutto il corso
della ricerca. Ma alla luce di questa Prefazione, che sintoma-
ticamente si chiude con alcune osservazioni riservate al tema
della Darstellung, esse paiono subire una dislocazione che va
ulteriormente a complicarle, in quanto coinvolge l’asse attorno
al quale mostravano di ruotare: tale asse sembra cioè adesso,
prepotentemente, assumere figura di linguaggio. E per noi,
la questione del modo in cui l’inclusione delle categorie nel
linguaggio, asserita da Hegel, possa accordarsi col processo
autoriflessivo della loro articolazione entro i procedimenti di
una «scienza della logica», si è già mostrata imprescindibile.
Essa esigerebbe l’apertura di un ulteriore fronte di ricerca,
che tematizzasse analiticamente da tale punto di vista il siste-
ma hegeliano. Ma per le conclusioni del nostro lavoro, appare
sufficiente evidenziare le coordinate teoriche all’altezza delle
quali dovrebbe collocarsi, in base alle risultanze fin qui emer-
se, un’interrogazione di quel tipo filosoficamente produttiva.
In effetti, in rapporto al linguaggio l’impresa hegeliana sem-
bra accentuare i suoi tratti aporetici: da un lato, quest’ultimo
dovrebbe essere «oggetto» della «ricostruzione» logica sopra
ricordata; dall’altro, nel momento in cui anche la Darstellung
sia linguaggio, non sembra possibile immaginare come in tale
frammento di linguaggio possa essere contenuta la totalità dei
contenuti logici contenuti nella molteplicità delle lingue del
mondo26.

26.  «Non si può dire che la logica naturale, insita nella grammatica di ogni
lingua, si esaurisca nella funzione di essere una figura preliminare della logica
filosofica. Piuttosto proprio nella diversità della costituzione umana del lin-
guaggio è inciso un margine altamente differenziato di anticipazioni logiche,
che si articolano nei più diversi schemi dell’accesso linguistico nel mondo.
240

I termini della questione si possono esprimere, in misura for-


se più approfondita, nella maniera seguente: l’esposizione at-
tua la ricostruzione dei contenuti logici del linguaggio perché
li articola in totalità; e in quanto esposizione speculativa, noi
abbiamo visto che la filosofia riesce in Hegel a «superare» la
rappresentazione «togliendo» il tempo che in essa si espri-
me. Tuttavia, nel momento in cui la filosofia s’interroghi dal
punto di vista dei suoi contenuti di pensiero, essa si trova a
scontare una non compiuta coincidenza della questione del
linguaggio e/o della Vorstellung, rispetto alla questione posta
dall’Aufhebung del tempo nell’eternità. Certo, tale Aufhebung
viene conseguita attraverso l’auto-organizzazione epistemi-
ca delle forme di pensiero che compaiono nel linguaggio, e
poiché quest’ultimo viene così condotto nel pensiero alla co-
scienza di se stesso, è attraverso questa operazione che il «si-
stema» manifesta in Hegel tutta l’efficacia della sua potenza;
però, in quanto questo movimento coincide con un processo
di presa di coscienza che il pensiero innesca nei confronti del
linguaggio per il tramite del linguaggio, esso permane all’in-
terno della sfera che in lui dovrebbe «superarsi»: è l’attuazio-
ne di un’Aufhebung che ancora una volta rischia di ricadere al
di qua della soglia che pure in essa il pensiero attinge, quella
appunto della realizzazione della filosofia come esposizione
scientifica.
Da un lato, la questione del linguaggio pare così scandirsi, in
Hegel, secondo modalità omogenee a quelle che investivano
il plesso eternità/tempo: come l’Aufhebung del tempo nell’e-
ternità si dimostrava sempre di nuovo compiuta e impossi-
bile, così, nella Darstellung, il dispositivo linguistico che il
pensiero pone in atto ricade, nel momento stesso in cui «su-

L’«istinto logico» non può esaurire perciò quello che già è prefigurato nella
diversità delle lingue, tanto da potersi elevare, come logica, al suo concetto»
(H.-G. Gadamer, op. cit., pp. 117-118).
241

pera» la Vorstellung, nel momento stesso in cui espone l’auto-­


organizzazione concettuale dei contenuti logici del linguaggio,
all’interno di questo medesimo linguaggio e del suo orizzonte
rappresentativo. Dall’altro, però, essa si rivela inclusiva rispet-
to alla dialettica di eternità e tempo. A livello concettuale, la
questione del linguaggio viene innescata, come abbiamo vi-
sto, dalle fratture che intervengono a differire e sfasare l’auto-­
superamento del tempo nell’eternità. La sua funzione inclu-
siva deriva dal fatto che l’Aufhebung del tempo nell’eternità
si compie a livello logico-linguistico, e che sia il Denken sia la
Darstellung rimandano all’orizzonte, per essi costitutivo, del
linguaggio.
Ora, qui non si tratta semplicemente del fatto che in quanto
la filosofia non è se non «il proprio tempo appreso nel pen-
siero», in tale rapporto d’inclusione essa addirittura si affer-
merebbe nella sua accezione hegeliana. Infatti, l’inclusione
del pensiero e della sua attuazione in forma di Darstellung
nel linguaggio non è semplicemente omogenea all’inclusione
della filosofia nel proprio «tempo». Piuttosto, nel linguaggio
il «pensare» è messo in gioco nel suo stesso carattere di atti-
vità: ed è da questo lato che le asserzioni hegeliane, secondo
le quali è con le parole – con la lingua e nella lingua, appun-
to – che «noi» pensiamo, emergono nel loro statuto specifica-
mente filosofico, al di là di ogni loro possibile intendimento in
chiave psicologistico-­antropologica, di ogni loro possibile ridu-
zione all’orizzonte delle cosiddette «scienze umane». Porre la
questione del linguaggio significa insomma porre la questio-
ne dell’autonomia teoretica del pensare, nella misura in cui
quest’ultimo, volgendo l’interrogazione su se stesso, scorge nel
linguaggio ciò che «già da sempre» ne articola l’attività – nella
misura in cui, cioè, il linguaggio viene assunto a sua volta nella
sua radicale immanenza allo svolgersi del Denken.
Così, certamente, non poter portare a compiuta trasparenza il
linguaggio vorrebbe dire, allo stesso tempo, non poter condur-
242

re a compiuta trasparenza il pensare medesimo. E in effetti,


se i contenuti del pensiero «sono esposti e consegnati innan-
zitutto nel linguaggio», poiché si producono e si determinano,
nella loro costitutiva storicità, nel linguaggio e come linguag-
gio – se d’altro canto in quest’ultimo «agiscono istintivamen-
te», come «logica naturale» e «inconscia», alla «scienza della
logica» sembra che sia possibile non tanto operare il loro ri-
schiaramento, la loro presa-di-coscienza, bensì piuttosto, pro-
prio in quanto essa attua una tale presa-di-coscienza, soltanto
riprodurre, a livello più alto, l’istintualità e l’inconsapevolez-
za di cui l’esperienza stessa del «pensare» si mostra intessuta.
La «scienza della logica» costituirebbe allora la riproduzione
differita dell’intrasparenza che contrassegna il «logico» nella
vita, nell’uso del linguaggio, la riflessione di questa intraspa-
renza su se stessa – il raddoppiamento, epistemicamente con-
figurato, dell’opacità originaria. Il rischiaramento prodotto
dalla dialettica apparirebbe quindi come un rischiaramento
dalle modalità accecanti poiché avviene nell’orizzonte del lin-
guaggio, poiché si trova già sempre compreso entro la densità
materiale, rappresentativa di contenuti logici che il linguaggio
«istintivamente» presenta27.
In tal modo, per i contenuti in cui si articola il «pensare» sem-
bra poter designare il «ritorno», da parte dell’io, nel «luogo del-
la certezza di se stesso», solo nella misura in cui designi il luogo
della certezza che di se stesso ha il linguaggio, di una certezza,

27.  Cfr. in proposito come Habermas stilizzi e faccia proprie le critiche por-
tate a una modernità basata sul «principio dell’autocoscienza e della sog-
gettività». Principio entro il quale lo stesso Hegel rimarrebbe compreso: «Il
soggetto, dal momento che nel conoscere come nell’agire, verso l’esterno
come verso l’interno, deve sempre riferirsi ad oggetti, si rende al contem-
po impenetrabile e dipendente anche in quegli atti che dovrebbero garan-
tire la conoscenza di sé e l’autonomia. Questo limite inserito nella struttura
dell’autorelazione resta inconscio nel processo del divenir cosciente» (J. Ha-
bermas, Il discorso filosofico della modernità, cit., p. 57).
243

quindi, che appartenendo al linguaggio resta operante «istinti-


vamente», luogo di un’autocoscienza ancora opaca. E tuttavia,
l’aporia qui in questione riceve il suo statuto propriamente fi-
losofico, la sua pregnanza in rapporto al pensiero hegeliano,
proprio perché, nell’opacità che il linguaggio custodisce al nu-
cleo dell’attività del Denken, è lo statuto irriducibilmente ecce-
dente di quest’ultimo rispetto a ogni sua razionalizzazione, sia
pure dialettica, rispetto a ogni sua con-figurazione in episteme
ed esposizione, che una volta di più emerge e si fa «luce». È
per l’intrascendibilità che contrassegna il Denken in rappor-
to al «Sé» dell’io pensante che esso non appare ulteriormente
suscettibile di «fondazione» da parte di quest’ultimo; è per la
costitutiva eccedenza che lo contraddistingue in rapporto alla
sua stessa esposizione che esso non appare in grado di com-
prendersi, esaustivamente, neppure nel dispositivo circola-
re che quella pone in atto, né tantomeno di riassorbire, nelle
procedure auto-riflessive della dialettica speculativa, il «co-
minciamento» da cui sempre di nuovo scaturisce e con cui, in
pari tempo, segna l’inizio della sua Darstellung. Qui sta l’ori-
gine della «storicità» del «Denken», qui sta l’origine, teoreti-
camente intesa, della sua apertura e del suo radicamento nel
linguaggio. L’opacità da cui resta avvolto quest’ultimo è la de-
clinazione di un’opacità ancor più radicale, quella da cui resta
avvolto il pensiero nell’insuperabile storicità che ne qualifica
lo scaturire, sempre di nuovo risorgente, dall’orizzonte circo-
scritto dell’esposizione.
In questo libro, abbiamo tentato di comprendere come l’Aufhe-
bung del tempo nell’eternità, benché debba scontare la sua
inclusione entro un orizzonte rappresentativo pre-istituito dal
linguaggio, possa pervenire alla sua forma problematica nel­
l’Ewigkeit intrasistemica della filosofia. Come essa, nel suo si-
multaneo pervenire a compimento e «sprofondare», sancisce
l’apertura del sistema hegeliano sulla contingente temporalità
della storia, così essa testimonia anche come tale apertura non
244

coincida e non possa coincidere con l’impotenza di un pensare


che si arresti alla constatazione di una storicità disarticolata e
senza concetto. Al contrario, nella «esposizione speculativa» il
begreifendes Denken si manifesta come potenza efficace in rap-
porto alla «ricostruzione» dell’ordinamento logico-­ontologico
del mondo, anche se a prezzo di contraddizioni che sembrano
eccedere le possibilità della Versöhnung dialettica, segnando
l’apertura verso il futuro del dispositivo epistemico così in-
staurato. Forse, proprio questa apertura reca per noi la testi-
monianza, ricca d’insegnamenti, di un pensiero che non cessa
d’isti­tuire forme ed esposizioni, che non rinunzia a individuare,
nella «croce» della storia, la «rosa» di una verità che dall’interno
la eccede, così come sopravanza l’interminabile catena d’inter-
rogazioni e d’interpretazioni cui dà origine – disposto e votato
a scontare questo più d’intemporalità col crollo cui va incontro,
ma mediante il quale soltanto viene lasciato tempo al futuro.
245

Indice dei nomi

Adorno, Th.W.:  90 n., 143 n., Canilli, A.:  27 n.


144 n., 147 n. Cantillo, G.:  10.
Agazzi, El.:  208 n. Cesa, C.:  10.
Agazzi, Em.:  208 n. Chiereghin, F.:  9, 59 n., 137 n.,
Altwicker, N.:  137 n. 149 n., 155 n.
Aristotele:  119 n. Chiodi, P.:  118 n.
Arnaud, E.:  130 n. Clark, M.:  26 n., 153 n., 154 n.
Cook, D.J.:  22 n., 23 n., 147 n.,
Beierwaltes, W.:  146 n. 156 n.
Bloch, E.:  141 e n., 149. Costantino, S.:  18 n.
Bodammer, Th.: 19 n., 27 n., Croce, B.:  10, 175 n.
36 n.
Bodei, R.:  9, 12, 39 n., 44 n., Dal Pra, M.:  130 n.
82 n., 86 n., 90 n., 96 n., 129 n., Damnjanovic, M.:  215 n.
141 n., 149 n., 235 n. De Negri, E.:  10, 68 n.
Bonsiepen, W.:  100 n., 104 n., Deguchi, S.:  215 n.
134 n., 193 n. Della Volpe, G.:  96 n.
Brockard, H.:  9. Derbolav, J.:  37 n., 73 n.
Brauer, O.D.:  133 n., 135-137 n., Derrida, J.:  17 n., 19 n., 22 n.,
140 n. 97  n., 119 n., 154 n., 192 n.,
Bubner, R.:  46 n., 83 n. 208 n.
Buchner, H.:  9. D’Hondt, J.:  18 n.
Donolo, C.A.:  90 n.
Calabi, L.:  146 n. Dottori, R.:  51 n.
246

Drüe, H.:  159 n. Jarczyk, G.:  86 n., 149 n., 150 n.,
Dunning, S.:  36 n. 227 n.
Dürck, J.:  159 n.
Düsing, K.:  9. Kayser, U.:  137 n.
Duso, G.:  141 n. Kemper, P.:  46 n., 47 n., 50 n.,
84 n.
Fetscher, I.:  156 n., 159 n. Kimmerle, H.:  9, 14 n., 86 n.,
Fichte, J.G.:  126 n. 150 n.
Findlay, J.N.:  146 n. Kobligk, H.:  137 n.
Kojève, A.:  20 n., 131, 132 e n.,
Gadamer, H.-G.:  47 n., 51 n., 133 n., 135 e n., 137 n., 149
230 n., 240 n. e n.
Garelli, G.:  68 n. Koselleck, R.:  137 n.
Gauthier, Y.:  214 n. Koyré, A.:  131, 132 e n., 133 e n.,
Geraets, T.F.:  149 n. 134, 135 e n.
Gérard, G.:  14 n.
Gipper, H.:  37 n. Labarrière, P.-J.:  86 n., 103 n.,
Güssbacher, H.:  159 n. 149 n.
Guzzoni, U.:  91 n. Lakebrink, B.:  90 n., 96 n., 137 n.,
227 n.
Habermas, J.:  21 n., 208 n., 242 n. Lamb, D.:  26 n., 31 n.
Hamann, J.G.:  36 n. Lasson, G.:  10.
Harlander, K.:  47 n. Leibniz, G.W.:  98 n.
Harris, H.S.:  14 n. Liebrucks, B.: 48 n., 134 n.,
Hartmann, N.:  89 n. 151 n., 191 n., 193 n., 201 n.
Heede, R.:  58 n., 70 n. Litt, Th.:  20 n., 228 n.
Heidegger, M.:  105 n., 118-121 Löwith, K.:  17 n., 23 n., 41 n.
e n., 132, 143 n. Lugarini, L.:  92 n., 99 n.
Henrich, D.:  129 n., 159 n.
Hoffmeister, J.:  10, 36 n. Marcuse, H.:  130 n., 140 n.
Horstmann, R.-P.:  9, 129 n. Marietti Solmi, A.:  137 n.
Hösle, V.:  194 n. Marmiroli, E.:  146 n.
Hyppolite, J.:  20 n., 24 n., 132 n. Marx, W.:  46 n., 47 n., 65.
159 n. Maurer, R.K.:  137 n.
Meriggi, M.G.:  21.
Iljin, I.:  106 n. Michel, K.M.:  10.
Moldenhauer, E.:  10.
247

Moni, A.:  10. Trede, J.H.:  9.


Mure, G.R.G.:  140 n., 156 n., Trinchero, M.:  31 n.
174 n.
van der Meulen, J.:  120 n., 121 n.,
Niel, H.:  133 n., 134 n., 152 n. 143 n., 215 n.
Nietzsche, F.:  31 n. Verra, V.:  10, 89 n., 141 n.
Vieillard-Baron, J.-L.: 121 n.,
Ohashi, R.:  92 n. 141 n., 216 n.
Vitiello, V.:  121 n.
Peperzak, A.:  157 n.
Pintus, G.:  11. Wandschneider, D.:  102 n., 135
Planty-Bonjour, G.:  32 n. n., 193 n., 194 n.
Platone:  141 n. Werner, J.:  46 n., 84 n.
Puntel, L.B.:  46 n., 92 n., 153 n. Wittgenstein, L.:  31 n.
Wohlfart, G.:  46 n., 48 n., 49 n.,
Reiter, J.:  152 n. 151 n., 191 n., 200 n., 201 n.
Rotenstreich, N.:  137 n. Wolff, C.:  68 n.
Roth, E.:  159 n.
Röttges, H.:  71 n., 75 n. Züfle, M.:  83 n.

Salvadori, R.:  20 n.
Schmidt, F.:  23 n.
Sertoli, G.:  154 n.
Simon, J.:  21 n., 23 n., 47 n.,
48 n., 82 n., 151 n., 176 n.
Solger, K.:  83 n.
Soll, I.:  64 n.
Souche-Dagues, D.:  86 n., 121 n.,
137 n., 150 n.
Spinoza, B.:  68 n.
Surber, J.P.:  70 n., 121 n.

Tagliagambe, S.:  83 n.
Taminiaux, J.:  29 n.
Tessitore, F.:  141 n.
Theis, R.:  192 n.
Theunissen, M.:  157 n., 186 n.
Indice

Sigle e abbreviazioni p. 9

Premessa alla nuova edizione p. 11

Capitolo I
L’esposizione speculativa
1.  Pensiero e linguaggio nei primi frammenti jenesi
di filosofia dello spirito (1803-04) p. 13
2.  Pensiero e linguaggio nella filosofia dello spirito
jenese del 1805-06 p. 33
3.  La proposizione speculativa: prospettive
ermeneutiche p. 46
4.  Pensiero concettuale e pensiero rappresentativo:
la distruzione della forma proposizionale p. 52
5.  Il concetto di esposizione speculativa p. 65
6.  Io filosofico e lingua dell’esposizione: l’irruzione
della problematica temporale p. 72

Capitolo II
L’esposizione speculativa come eternità realizzata
1.  Temporalità e movimento dell’esposizione p. 89
2.  La dialettica concreta delle dimensioni temporali p. 101
3.  Il concetto speculativo dell’eternità p. 117
3.1. Excursus sull’interpretazione di Koyré
e di Kojève p. 131
4.  L’eternità come ora concettuale: «Ewigkeit»
speculativa e ritmo dell’esposizione p. 138

Capitolo III
La scrittura e l’apertura dell’esposizione
1.  La chiusura del sistema come modo della sua
apertura p. 145
2.  «Darstellung» e «Vorstellung» p. 150
3.  Pensiero e rappresentazione nell’Enciclopedia p. 159
4.  Tempo della «Vorstellung» e tempo della
«Darstellung» p. 183
5.  Spazializzazione dell’eternità e problema
della scrittura p. 188
6.  «Denken» e «Darstellung»: l’apertura
dell’esposizione p. 208

Osservazioni conclusive p. 219

Indice dei nomi p. 245


Zeugma
Lineamenti di Filosofia italiana | Classici

Diretta da:
Massimo ADINOLFI e Massimo DONÀ

1. Pasquale Galluppi, Memoria sul sistema di Fichte.


2. Carlo Invernizzi, Lucentizie. L’enigma del tempo.
3. Massimo Adinolfi - Massimo Donà (a cura di), Trovarsi
accanto. Per gli ottant’anni di Vincenzo Vitiello.
4. Luca Basile (a cura di), Croce e la revisione del marxismo.
Antologia di testi critici.
5. Nicola Magliulo, Segni del presente. Prospettive di filo-
sofia italiana contemporanea.
6. Vincenzo Vitiello, Hegel in Italia. Itinerari. I - Dalla sto-
ria alla logica. II - Tra Logica e Fenomenologia.
7. Massimo Donà, Un pensiero sublime. Saggi su Giovanni
Gentile.
8. Mario Capanna - Massimo Donà - Luigi Vero Tarca (a
cura di), Cháris. Omaggio degli allievi a Emanuele Severino.
9. Vincenzo Vitiello, L’Ora e l’attimo. Confronti vichiani.
10. Antonio Rosmini, Dell’amicizia. Alcuni inediti giovanili.
11. Massimo Donà, Apologia dell’immediato. Percorsi evo-
liani.
12. Gaetano Rametta, Il problema dell’esposizione specula-
tiva nel pensiero di Hegel.
Zeugma | Lineamenti Le relazioni tra pensiero e linguaggio, eternità e
di filosofia italiana tempo, rappresentazione e concetto sono le que-
12 - Classici stioni teoretiche di fondo affrontate da Hegel. Il
presente volume cerca di interpretarle alla luce di
una problematica centrale: quella dell’esposizione
speculativa. Le tappe di sviluppo del pensiero hege-
liano vengono ricostruite attraverso la minuziosa
analisi dei testi, dagli scritti di Jena alla Vorrede della
Fenomenologia, dalla Psicologia del 1830 alla secon-
da Prefazione della Logica. Alla radice del sistema
vengono evidenziate tensioni e aporie, che se da un
lato si mostrano funzionali all’instaurazione del
dispositivo dialettico, dall’altro sembrano compro-
Collana diretta da: metterne la coerenza, aprendolo in direzione del
Massimo Adinolfi e pensiero contemporaneo.
Massimo Donà

Comitato scientifico:
Andrea Bellantone,
Donatella Di Cesare,
Ernesto Forcellino,
Luca Illetterati,
Enrica Lisciani Petrini,
Carmelo Meazza,
Gaetano Rametta,
Valerio Rocco,
Rocco Ronchi,
Marco Sgarbi,
Davide Tarizzo, Gaetano Rametta insegna Storia della filosofia al
Vincenzo Vitiello. Dipartimento FISPPA dell’Università di Padova. È
autore di un’ampia bibliografia su Fichte, Hegel,
Bradley e la ricezione dell’Idealismo Tedesco nel
pensiero contemporaneo. Di recente ha pubblicato
la monografia Deleuze interprete di Hume (Milano
2020).
ISBN ebook
9788855290883

€ 11,00

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