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Domande del tipo «a che cosa rimanda il segno?», «che cosa è il segno?»
appaiono, nel linguaggio teorico odierno, post-heideggeriano e post-niccia-
no, come domande nichiliste, cioè come domande che in qualche modo già
si sanno senza risposta.
Il segno sembra impensabile senza l'esser di-segno: una trama di rimandi,
una tessitura, una testualità. È forse opportuno che il problema del rappor-
to fra il segno e il senso lasci il posto a una questione più radicale che ine-
risce come tale alla natura del discorso. Ne va non tanto di un fondamento
quanto della testualità del discorso, spesso conclamata ma anche denegata
nei suoi esiti ermeneutici. Il soggetto dell'ermeneutica, il soggetto cioè che
conferisce il senso, è spesso analizzato nelle sue impasses e nelle sue con-
traddizioni, ma forse mai messo in questione come figura del discorso co-
stituitasi nell'età moderna.
I contributi di questo volume raccolgono tentativi di pensiero, tra quelli che
oggi si concedono maggiori rischi, che riguardano la pensabilità di un senso
che non sia conferito, nel movimento della sua costituzione, da un soggetto
funzionante come attore del discorso. La questione di un senso (quindi an-
che classicamente di una verità?) all'opera nel discorso è riproposta, al di là
di certe chiusure della metafisica, come strategia che ricalibra il ruolo e l'i-
dea stessa di soggetto. Quest'ultimo, più che essere in grado di conferire il
significato al discorso, ne sarebbe piuttosto esercitato e suo destinatario.
Alla domanda se il nostro parlare sia vero si può sostituire come equiva-
lente l'interrogativo se il nostro parlare sia morale?
Giorgio Agamben, Giacomo Contri
Gianfranco Damasso, Jacques Derrida
Emmanuel Lévinas, Romano Madera
Jean-Luc Marion, Carlo Sini

DI-SEGNO
La giustizia nel discorso

a cura

di
Gianfranco Dalmasso

j! Jaca Book Il
titoli originali
Jacques Derrida, D'un ton apocaliptyque
adopté naguère en philosophie
© 1983, Editions Galilée, Paris

Emmanuel Lévinas , Notes sur le sens in


De Dieu qu i vient à l'idée
© 1982, Libr. Phil. J. Vrin, Paris

Jean-Luc Marion, L'idole et l 'ico n e


e La double idolatrie in Dieu sans Ntre
© 1982, Libr. A. Fayard, Paris

traduttori
Adriano Dell'Asta
Paola Ferrone

© 1984
Editoriale Jaca Book spa, Milano

copertina e grafìca
Ufficio grafi.co Jaca Book

ISBN 88-16-40143-5

per informazioni sulle opere pubblicate e in programma


ci si può rivolgere a Editoriale Jaca Book spa
via A. Saffi 19, 20123 Milano, telefono 4982341
INDICE

Introduzione VII
Giorgio Agamben, La cosa stessa l
Carlo Sini, C ol dovuto rimbalzo 13
Emmanuel Lévinas, Note sul senso 51
Gianfranco D almas so, Consulere veritatem. Soggetto del discor-
so e soggetto dell'etica in Agostino 71
Jacques Derrida , Di un tono apocalittico adottato di rec ente in
:filosofia 107
Romano Madera, Apocalissi del sacro 145
Jean-Luc Marion, L'essere, l' idolo , il con cetto 169
Giacomo Contri, Il dis-ordine di Pl ato ne . L'inconscio demiurgo
e l'inadequatio d ell ' ordin e 219
Giacomo Contri, Kant con Lutero . La giustizia e la legge 233
INTRODUZIONE

Domande del tipo «a che cosa rimanda il segno?», «che cosa è il


segno?» appaiono, nel linguaggio teorico odienio, che si pensa in un
post (-metafisica, -heideggeriano, -nicciano, -moderno etc.) come do­
mande nichiliste, cioè come domande che in qualche modo già si sanno
senza risposta.
È pensabile il segno senza l'esser di-segno, una trama di rimandi,
una tessitura, una testualità? I contributi di qu es to volume si muo­
vono, con metodi e con linguaggi non univoci, secondo una strategia
di pensiero per cui il problema d el l a tcstualità d el discorso si pone
come più radicale del probl em a dd llUO fondamento. Il concetto di
testo contiene strutture e modalità di costi tuzione spesso perse di vista
o denegate nonostante il peso nssunto nelln l'ecente produzione teorica
da termini come scrittura, disscmifta:{ionc del senso etc., che si dimo­
strano anche dall'interesse per l'intcrsczione del linguaggio l ett erari o
con il linguaggio scientifico e con il Hngu11gglo filosofico.
Secondo una concezione curiosamente comune sia al pen si ero bi­
blico e patristico, sia a buona patte delll:\ riflessione contem por anea sul
segno e sul linguaggio, il testo è una realtà cos titu i t a da un movimento
di produzione del senso che nessun atto intel'prctntivo può pretendere
di dominare e di contenere. Il soggetto clc:ll'ermencutica, il soggetto cioè
che conferisce senso, è spesso ann.I.Jzznto nelle sue impnsses e nelle sue
contraddizioni , ma forse mai messo in questione come figura del di­
scorso costituitasi nell'età modernn.
I contributi raccolti in qu esto volume riguardano la pensabilit à di
un senso che n on sia conferito, nel movi mento della sua costituzione ,

vii
Introduzione

da un soggetto funzionante. come attore del discorso. La questione di


un senso (quindi anche classicamente di una veri t à) all'opera nel di­
scorso è riproposta, al di là di certe chiusure della metafisica, come
strategia che ricalibra il ruolo e l'idea stessa di �oggetto. Quest'ultimo,
più che essere in grado di conferire il significato al discorso, ne sarebbe
piuttosto esercitato e suo destinatario.
Alla domanda se il nostro parlare sia vero si può sostituire come
equivalente la domanda se il nostro parlare sia morale? È in questione
cioè una considerazione del discorso come vincolo, legame, legge prima
e in un senso più costitutivo del problema del controllo cosciente' che
un soggetto potrebbe esercitarne. A titolo di esempio si pensi alla no­
zione levinassiana di «una responsabilità più antica dell'essere, delle
decisioni e degli atti», a «un soggetto che è in gioco prima di essere».
Detto altrimenti il linguaggio e quindi il segno non ricadono al di
fuori di una pienezza e di un dominio coscienti-che sarebbero inte­
riori-ma sono anzi ciò in cui il soggetto si costituisce. Le diatribe sul
rapporto fra segno e realtà, parola e cosa stessa, parola e scrittura,
possono essere ridefinite da una concezione del segno come ciò che è
destinato, nel senso di costituito a partire e in vista· di qualcuno. Que­
sto movimento inerisce in modo essenziale alla struttura del segno.
Il problema della destinazione sembra cosl all'opera nel linguaggio
(due contributi in questo volume riguardano, in modi diversi, la strut­
tura apocalittica del linguaggio) e forse è in grado di ridefinire il con­
cetto classico di intenzionalità attraverso una trasformazione radicale
del rapporto fra etica e :61osofìa. Il privilegio del segno come gioco di
spirale, da cui la parola e il sehso sono originariamente avvolti, sembra
sospeso ad una considerazione del soggetto pensante come un soggetto
che non può non prendere posizione in un gioco di moventi e di desti­
nazioni-che nessuna psico-logia è in grado di contenere-di cui è in­
tessuta la sua stessa attività.
In questa prospettiva il rapporto fra l'ordine <,lel linguaggio e l'or­
dine del mondo (degli enti) implica la questione di un legame, e al
tempo stesso di una separazione, quest'ultima costituitasi nell'età mo­
derna, rispetto a cui nozioni come quelle di inconscio e di nichilismo
vengono in primo piano. li materiale teorico presentato in questo VO·

lume tende a considerare queste nozioni non tanto in grado di delimi­


tare l'orizzonte del pensiero, ma piuttosto esse stesse come sintomi di
una modalità del suo funzionamento.
G.D.
Arcavacata, giugno 1984

viii
Giorgio Agamben *
LA COSA STESSA

A Jacques Derrida
c alla memoria di G iorgio Pasquali

L'espressione «la cosn stessa», to fi1'll�(ntrl atllo, compare all'inizio


della cosiddetta digressione fìlo_sofica ddtn settima lettera platonic a-un
testo la cui importanza per la stodu ddln Iìl<l:mfìa occidentale è ancora
lontana dall'essere compiut amen te misurutn. Dn qua nd o , dopo che Ben­
tley aveva gettato un s ospe tto di flllsi!1cn�ionc su tutta l'epistolografia
antica, prima M einers nel 1783, c poi Kurstcn e Ast le dichiararono
inautentiche, le lettere di Pl11t0nt�, che t�mno sempre state considerate
parte integrante d ell a sua opcru, vennero a poco a poco espunte dalla
storiogra:fia filosofica, proprio nd m<nnetltl) in cui questa era più fer­
vida e attiva. Qu ando, nel nostro aecolo, .ltl tendenza cominciò a inver­
tirsi e critici sempre più numerosi e nuwrcvoli ne rivend icaro no l'auten­
ticità (ormai, almeno per la lettera che qui c'int�rcssa, generalmen te rico­
nosciuta), i filosofi e gli studiosi che tornnwno n occupnrscne dovettero
scontare l'isolamento in cui le lettere si <:mno venute a trovare per più
di un secolo . Quel che nel fmttcmpo m·n nndato perduto era la viva
connessione fra il te s to c la tradizione Iilosofìca successiva, cosl che, ad
esempio, la settima lettera, col suo denso axcur.ws :filosofico, si presen­
tava ora come un arduo, is ol ato massiccio, allo cui pcnetra zione si frap­
ponevano ostacoli quasi insormontnhili. Ero anche vero, naturalmente,

*
Conferenza tenuta a Forll il 26-x-1984.

1
Giorgio Agamben

che il lungo isolamento l'aveva trasformata, come �il mare il corpo di


Alonso nella canzone di Adele, in qualcosa di ricco e di strano, col
quale era possibile confrontarsi con una freschezza che forse nessun
altro dei grandi testi platonici avrebbe consentito.
Lo scenario della lettera è noto: Platone, ormai vecchio-ha settan­
tadnque anni-ha rievocato per gli amici di Diane i suoi incontri con
Dionigi e l'avventuroso fallimento dei suoi tentativi politici siciliani.
Nel punto che qui c'interessa, egli sta raccontando ai Dionei il suo terzo
soggiorno in Sicilia, quando, giunto nuovamente a Siracusa attirato palle
insistenti pressioni del tiranno, decide per prima cosa di metter� alla
prova la sincerità delle asserzioni di Dionigi quanto al suo desiderio di
diventare filosofo. «C'è un modo non ignobile» egli scrive «di procu­
rarsi questa prova-un modo, anzi, che si adatta perfettamente ai tiran­
ni, soprattutto a quelli che sono gonfi di un sapere di seconda manq;
e subito, al mio arrivo, mi accorsi che questa era appunto la condizione
di Dionigi» (340 b 3-7). A uomini come questi-egli prosegue-si
deve mostrare subito che sia tutta la cosa (ati esti pan to pragma),
quante e quali fatiche esiga. Allora, se chi ascolta è veramente filosofo
e all'altezza della cosa, penserà di aver sentito parlare di una via mera­
vigliosa, che si deve percorrere senza indugi, e di non poter vivere diver­
samente. Coloro, invece, che non sono veramente filosofi, ma hanno sol­
tanto una verniciatura di :filosofia, proprio come chi abbia il corpo ab­
bronzato dal sole, vedendo quale impegno la cosa richiede, pensano che
sia troppo difficile, addirittura impossibile e si convincono di saperne
già abbastanza e di non aver bisogno di altro.
«Cosl-scrive Platone-io dissi a Dionigi dò che dissi, ma non gli
spiegai tutto né lui me lo chiese. Presumeva, infatti, di sapere già molte
cose, anzi proprio le più importanti, e di dominarle a sufficienza per
quello che aveva sentito dire da altri. Più tardi, a quel che sento, egli
compose anche uno scritto intorno a quanto aveva ascoltato da me,
presentandolo come opera sua e non come un dis cb�so udito da me. Di
questo non so nulla. Ma so che anche altri hanno scritto su queste
cose, ma coloro che l'hanno fatto non hanno nemmeno conoscenza di
se stessi. Questo, però, posso dire su tutti coloro che ne hanno scritto
e scriveranno in futuro: coloro che affermano di sapere dò di cui io mi
do pensiero (peri an ego spoudazo) , sia per averlo udito da me o da
altri, sia per averlo scoperto da soli: ebbene, non è possibile, secondo
me, che costoro abbiano compreso alcunché della cosa» (341 a 7-c 4).
È a questo punto che compare l'espressione to prag ma auto, la

2
La cosa stessa

cosa stessa-una formulazione che rimase cosl determinante per indicare


la causa del pensiero e il compito proprio della filosofia, che torneremo
a incontrarla più di duemila anni dopo, come una parola d'ordine pas­
sata di bocca in bocca, in Kant, in Hegel, in Husserl, in Heidegger:
«Su questa cosa non vi è �cun mio scritto né mai potrà esservi. Non è,
infatti, in alcun modo dicibile come le altre discipline ( matemata) , ma
dopo molto stare insieme intorno alla cosa stessa (peri t o pragma auto)
e dopo molta convivenza, improvvisamente, come luce schizzata da un
fuoco, nasce nell'anima e ormai nutre se stessa (auto heauto ede trefei)»
(341 c 4 d 2).
-

Questo passo è stato citato innumerevoli volte a sostegno delle in­


terpretazioni esoteriche di Platone e come documento irrefutabile del­
l'esistenza di dottrine non scritte: i dialoghi che la nostra cultura si è
tramandata per secoli come un'eredità venerabile non concernerebbero
ciò di cui Platone si occupava seriamente, che sarebbe stato riservato
a una tradizione unicamente orale! Qui non c'interessa tanto prendere
posi:donc su q u es to problema, certamente importante, quanto provare
u chiederci che Nin gudln «cosn stcssn»,. di cui Platone si dà pensiero

c che Dionigi prcsumc:vn n torto di nvcl: compreso. Che cos'è la cosa

del pensiero?
Una risposta a questa domanda può scntmÌl'c soltanto da una attenta
lettura del passo successivo, che Platone definisce come <mn racconto
e una divagazione (muthos cai planos)» (344 d 3) e, insieme, come «un
discorso vero, che è stato da me piì:t volte esposto in passato, ma che
mi pare si debba anche ora ripetere» (342 a 3-7). È perciò con l'inter­
petrazione di questo «mito stmvagantc» che il pensiero che voglia ve­
nire in chiaro della sua «cosa» d eve sempre di nuovo misurarsi. Pro­
viamoci dunque a leggerlo.
«Per ciascuno degli enti» scrive Platone «Vi sono tre, attraverso i
quali è necessario che si generi la scienza, quarta è la scienza stessa,
quinto si deve porre quello stesso che è conoscibile e che è veramente. Il
primo è il nome, secondo il discorso definitorio (logos) , terza è l'im­
magine (eidolon ) , quarta è la scienza. Se vuoi intendere quel che ora
dico, prendi un esempio, e pensa cosl intorno a ogni cosa. Vi è un che
detto cerchio (cuclos estin ti legomenon), il cui nome è appunto quello
che abbiamo appena proferito; secondo è il suo logos, composto di
nomi e di verbi: 'ciò che in ogni punto dista ugualmente dagli estremi
al centro': ecco il logos di ciò a cui è nome tondo, circolo o cerchio.
Terzo è ciò che si disegna e si cancella e si forma col tornio e si di-

3
Giorgio Agamben

strugge, ma di tutto qp@Sto nulla soffre il cerchio �tesso (autos ho cu­


clos, qui esempio dè1la cosa stessa), al quale tutte queste cose si rife­
riscono, perché è altro da esse. Quarta è la conoscenza e il nous e l'opi­
nione vera intorno a queste cose; e tutto ciò si deve pensare come una
unica cosa, in quanto ha sede non nelle voci (en fonais), né in figure
corporee (en somaton scbemasin), ma nelle anime (en psuchais); per cui
è chiaro che questo è altro dalla natura del cerchio stesso e dai tre di
cui si è parlato. Di questi il più vicino al quinto per affinità e somi­
glianza è il 'Vovç, gli altri, ne sono più lontani. Lo stesso vale p"r la
figura retta e per la curva e per il colore, il bene e il bello e il giusto
e ogni corpo fabbricato o nato naturalmente, per il fuoco e l'acqua e
per tutte le altre cose di questo tipo, per ogni essere vivente e per
l'ethos nell'anima e per tutte le creazioni (poiemata) e le passioni (pa­
tbemata). Se non si sono colti per ogni cosa i primi quattro, non si
potrà mai essere compiutamente partecipi della scienza del quinto. Inol­
tre i primi quattro manifestano non meno la qualità (to poion ti) che
l'essere di ciascuna cosa per via della debolezza del linguaggio (dia to
ton logon asthenes). Per questo motivo, nessuno che abbia senno oserà
affidare i suoi pensieri al linguaggio, tanto più se si tratta di un discorso
immobile, qual è quello scritto con le lettere»» (342 a 8 - 343 a 3).
Fermiamoci un istante per riprender fiato. Di fronte a questo straor­
dinario excursus, che costituisce l'ultima e più esplicita esposizione della
teoria delle idee, possiamo ·misurare il danno che il sospetto di falsità
che nel secolo scorso pesava sulle lettere platoniche ha causato alla sto­
riografia filosofica. Non è mia intenzione affrontare qui la scalata di
·
quest'impervio massiccio. :È, però, senz'altro possibile provarsi, per
ora, a insediare un primo campo sulle pendici, per saggiare le difficoltà
dell'ascensione e per situarlo rispetto ai rilievi circostanti.
Una prima considerazione che possiamo fare (e che è stata già fatta,
fra gli altri, da Pasquali) riguarda lo statuto di indicibilità che la settima
lettera, secondo la lettura esoterica di Platone, attribuirebbe alla cosa
stessa. Questo statuto va quanto meno temperato nel senso che dal con­
testo risulta con chiarezza che la cosa stessa non è qualcosa che trascenda
assolutamente il linguaggio e non abbia nulla a che fare con esso. Pla­
tone afferma nel modo più esplicito che «se non si sono colti i primi
quattro» (che comprendono, ricordiamolo, nome e logos) non si potrà
llllli conoscere compiutamente il quinto. In un altro passo importante
clclll\ lettera, egli scriverà che la conoscenza della cosa stessa si accende
Improvvisamente «sfregando gli uni sugli altri nomi, logoi, visioni e

4
La cosa stessa

sensazioni e mettendoli alla prova in confutazioni benevole e in discus­


sioni condotte senza invidia» (344 b 4-7).
Queste inequivoche affermazioni risultano, del resto, perfettamente
coerenti col rapporto strettissimo che i dialoghi platonici istituiscono
fra idee e linguaggio. Quando Socrate, nel Pedone, espone la genesi
della teoria delle idee, dice: «Mi parve di dover cercare rifugio nei logoi,
per trovare in essi la verità degli enti» (99 e 4-6); altrove, egli presenta
la misologia come il peggiore dei mali (ib. 89 d 2) e la sparizione del
linguaggio come la perdita stessa della filosofia (Soph. 260 a 6-7), men­
tre, nel Parmenide, le idee sono definite «ciò che massimamente si può
prendere col logos» (135 e 3). E Aristotele, nella sua ricostruzione sto­
rica del pensiero platonico all'inizio della Metafisica, non afferma forse
che la teoria delle idee era nata da una schepsis en tois logois, da una
ricerca nel linguaggio (987 b 33)?
·

La cosa stessa ha dunque nel linguaggio il suo luogo eminente, anche


se il linguaggio non è senz'altro adeguato ad 'essa, per via-dice Plato­
ne-di ciò che vi è di debole in esso. Si potrebbe dire, con un apparente
paradosso, che la cosa stessa è ciò che, pur trascendendo in qualche modo
il linguaggio, è, tuttavia, possibile solo nel linguaggio e in virtù del lin­
guaggio: la cosa del linguaggio, appunto. Quando Platone dice che ciò
di cui egli si dà pensiero non è in alcun modo dicibile come gli altri
mathemata, converrà dunque porre l'accento sulle ultime parole: essa
non è dicibile allo stesso modo delle altre discipline, ma non è, per
questo, semplicemente indicibile. Come Platone non si stanca di ripe�
tere (341 e 1-5), sono ragioni di ordine etico e non meramente logico,
quelle che sconsigliano di affidare alla parola scritta la cosa stessa. La
mistica platonica-se .una tale mistica esiste-è, come ogni mistica au­
tentica, profondamente implicata nei logoi.
Fatta questa considerazione preliminare, passiamo ad esaminare più
da vicino l'elenco contenuto nella digressione. L'identificazione dei primi
quattro membri non pone eccessive difficoltà: il nome, il discorso defi­
nitorio, l'immagine (che indica qui l'oggetto sensibile) e, infine, la cono­
scenza che si attua attraverso di essi. Onoma, il nome, è, nei termini
moderni, che sono, del resto, gli stessi della logica stoica, il significante;
il logos è il significato o la referenza virtuale; l'immagine è il denotato
o la referenza attuale.
Questi termini ci sono familiari, anche se non va dimenticato che è
solo con la sofistica e con Platone che ha inizio quella riflessione sul
linguaggio che porterà più tardi alle precise costruzioni logico-gramma-

5
Giorgio Agamben

ticali della Stoa e delle scoole ellenistiche. Come nel!tbro x delle Leggi
o nell'ultima parte defSofista , Platone espone qui una teoria della si­
gnificazione linguistica nei suoi rapporti con la conoscenza. La difficoltà
comincia, com'è naturale, col quinto, che introduce nella teoria del si­
gnificato, come noi la intendiamo, un elemento nuovo. Rileggiamo il
passo; «Per ciascuno degli enti vi sono tre, attraverso i quali è neces­
sario che si generi la scienza, quarta è la scienza stessa, quinto si deve
porre quello stesso che è conoscibile e che è veramente» . Come quinto
sembra qui doversi intendere lo stesso ente da cui il discorso esordi�ce
dicendo: «Per ciascuno degli enti vi sono tre . . . ». La cosa stessa sarebbe
allora semplicemente la cosa che è oggetto della conoscenza, con la con­
seguenza che risulterebbe avvalorata quell'interpetrazione del platonismo
(già operante in Aristotele), che vede nell'idea una sorta di inutile du­
plicato della cosa . Inoltre l'enumerazione risulta circolare, perché viene
elencato al quinto posto quello che è in verità il primo a essere nomi­
nato come presupposto stesso da cui scaturisce l'intero discorso.
Qui può, forse, venirci in soccorso quell'attenzione filologica ai det­
tagli, in cui, è stato detto, il buon Dio ama nascondersi. Il testo greco
che noi leggiamo nelle edizioni moderne (quella di Burnet che è un po'
l'esemplare di tutte le edizioni successive, ma anche quella, più recente,
di Souilhé) in questo punto recita: pempton d'auto tithenai dei ho dé
gnoston te cai aléthos estin on, auto di'o gnoston estin, <{quinto si deve
porre quello stesso che è conoscibile ed è veramente». Ma i due codici
principali su cui entrambi gli studiosi fondano le loro edizioni, e, cioè,
il Parisinus graecus 1807 e il Vaticanus graecus l, presentano una le­
zione diversa, che al posto di dei ho (si deve . . . che) ha di'o (per cui) .
Restituendo la lezione dei codici, o, meglio, scrivendo: di'o, la tradu­
zione diventa : <{quinto (è necessario) porre lo stesso per cui (ciascuno
degli enti) è conoscibile e vero» 1•
In margine a questa lezione, una mano del XII secolo aveva anno­
tato, come emendamento o, piuttosto, come variante�' quel dei ho a cui
si sono attenuti gli editori moderni . Ma ancora il codice che Marsilio
Ficino aveva davanti agli occhi per la sua traduzione latina delle opere
di Platone recava la lezione di'o; Ficino traduce infatti: quintum vero
oportet ipsum ponere quo quid est cognoscibile, id est quod agnosci
potcst, atque vere existit.

lll'n l modcmi, il solo Andreae, nel suo studio del 1923 sulle lettere platoniche
( fJ!J/Io/tJal/.f1 78, p. 34 sg.), ha restituito la lezione dei codici.

6
La cosa stessa

Che cosa cambia, che cosa ci porta di nuovo questa restituzione della
lezione originale dei codici? Essenzialmente questo: la cosa stessa non
è più semplicemente l'ente nella sua oscurità, come oggetto presupposto
al linguaggio e al processo conoscitivo, ma auto di'o gnoston estin,
ciò per cui esso è conoscibile, la sua stessa conoscibilità e verità. La
variante marginale seguita dagli editori moderni, anche se può fuorviare,
non è, però, erronea: la mano che l'ha annotata {e noi abbiamo ragione
di ritenere che non si trattasse di una mano inesperta) era verisimil­
mente preoccupata dal rischio che la conoscibilità stessa-l'idea-fosse
a sua volta presupposta e sostantivata come un'altra cosa, come un dupli­

cato della cosa dietro o al di là della cosa. La cosa stessa--di qui il ter­
mine auto come designazione tecnica dell'idea-non è, infatti, ·un'altra
cosa, ma la stessa cosa, non più, però, supposta al nome e al logos, come
un oscuro presupposto reale (un hupocheimenon), ma nel medio stesso
della sua conoscibilità, nella pura luce del suo rivelarsi e annunciarsi
alla conoscenza.
La «debolezza» del logos consiste allora proprio nel fatto che esso
non è in grado di portare ad espressione questa stessa conoscibilità e
questa medesimezza, che esso respinge, cioè, indietro come un presup­
posto (come una ipo-tesi nel senso etimologico del termine, ciò che è
posto sotto) la stessa conoscibilità dell'ente che è in esso in questione.
È questo il senso della distinzione fra on e poion, fra l'essere e la
sua qualificazione, su cui Platone insiste più volte nella lettera (342 e 3;
34 3 h 8-c l). Il linguaggio-il nostro linguaggio-è necessariamente pre­
supponente e oggettivante, nel senso che esso, nel suo avvenire, scom­
pone la cosa stessa, che in esso e solo in esso si annuncia, in un essere
su cui si dice e in un poion , una qualità e una determinazione che di
esso si dice. Esso sup-pone e nasconde ciò che porta alla luce nell'atto
stesso in cui lo porta alla luce. Il linguaggio è, cioè, sempre, secondo
la definizione raccolta da Aristotele (ma già enunciata in Soph. 262 e 6-7
e ancora implicita nella distinzione moderna tra senso e denotazione)
leghein ti cata tinos, dire qualcosa-su-qualcosa; è sempre, dunque, lin­
guaggio pre-sup-ponente e oggettivante. La presupposizione è la forma
stessa della signifìcazione linguistica: il dire cath'hupocheimenou, su un
soggetto.
Il monito che Platone affida all'idea è, allora, che la dicibilità stessa
resta non detta in ciò che si dice di ciò su cui si dice, che la conoscibi­
lità stessa va perduta in ciò che si conosce di ciò che è da conoscere.
Il problema specifico che è in questione nella lettera-ma che è ne-

7
Giorgio Agamben

cessariamente il problep1a di ogni discorso umano cqe voglia manifestare


il «quinto», che voglia, cioè, far tema di ciò che non può essere tema­
è allora: com'è possibile parlare senza supporre, senza ipo-tizzare e sog­
gettivare ciò di cui si parla? Com'è possibile, cioè, leghein cath'auto,
dire non su un presupposto, ma per se stesso? E, poiché il piano dei
nomi è, per i greci, quello che essenzialmente si dice cath'auto, può il
linguaggio render ragione (logon didonai) di ciò che nomina, può esso
dire ciò che il nome ha chiamato?
Che in questo problema fosse implicito qualcosa come una contrad­
dizione era già stato compreso dai più antichi commentatori. Possediamo
una chiosa di un tardo scoliasta platonico che dice più o meno questo:
«Come mai il maestro nel Fedro svaluta la scrittura e, tuttavia, dal mo­
mento che ha scritto,. ha, in qualche modo, ritenuto pregevole la sua
opera scritta? Anche in questo-risponde lo scoliasta-egli ha voluto
seguire la verità: come la divinità ha creato tanto le cose invisibili che
quelle che cadono sotto lo sguardo, cosl anch'egli ha lasciato alcune
cose non scritte e altre scritte». Questa domanda vale certamente anche
per la settima lettera. Qui Platone, scrivendo di ciò di cui si dà pen­
siero e che non è da scrivere, pare sfidare la debolezza del logos e smen­
tire, in qualche modo, se stesso. E non è certamente per uno scherzo
vano che, in un'altra lettera, egli giunge a rifiutare la paternità dei dia­
loghi che circolavano sotto il suo nome, per affermare che essi sono
opera di «un Socrate divenuto più bello e più giovane» ( Ep. n, .314 c
3-4). Qui la paradossia dell'opera scritta di Platone balza, per un attimo,
agli occhi: in una lettera--che i moderni hanno spesso ritenuta apocri­
fa-egli dichiara inautentici i suoi dialoghi, per attribuirli a un autore
impossibile, il loro stesso protagonista Socrate, da tanti anni ormai morto
e sepolto. Il personaggio di cui si parla nel testo prende qui il posto
dell'autore dei dialoghi in cui figura. E già i critici antichi, e proprio i
più acuti, come Demetrio e Dionigi, avevano osservato come lo stile
di Platone, che è limpido nei primi dialoghi, divenga più oscuro, gon­
fio (zofos) e paratattico (eperriptai allelois ta cola af'etero heteron,
i periodi si slanciano l'uno sull'altro, scrive Demetrio) quando affronta
i temi che gli stanno più a cuore.
Per una curiosa coincidenza, la debolezza del linguaggio che è chia­
mata in causa in questa lettera del padre della metafisica occidentale,
sembra profetizzare con due millenni di anticipo quella difficoltà impli­
cita nel carattere metafisica del nostro linguaggio che affatica in un osti­
nato rovello e quasi come un intimo inciampo la scrittura dell'ultimo

8
La cosa stessa

Heidegger. Ma la debolezza del logos non fonda, in Platone, alcuno sta­


tuto mistico dell'idea; al contrario, essa rende possibile quel venire, con
la patola, in aiuto alla parola (lago boethein), che, nel Fedro (278 c 6)
è posto a contrassegno dell'autentica esposizione filosofica. Il rischio è,
qui, che la non-tematizzabilità, che è in questione nella cosa stessa, venga
a sua volta tematizzata e presupposta, ancora nella forma di un leghein
ti cala tinos, come un dire su ciò di cui non si può dire. La cosa
stessa non è una semplice ipostasi del nome, un ineffabile che deve re­
stare non detto e solo così custodito, come nome, nel linguaggio degli
uomini. Una simile concezione-implicitamente confutata alla fine del
Teeteto-necessariamente ancora ipotizza e sup-pone la cosa stessa.
Questa-la cosa del linguaggio-non è un quid che possa essere cercato
come una ipotesi estrema al di là di tutte le ipotesi, un ultimo e asso­
luto soggetto oltre tutti i soggetti, atrocemente o beatamente sprofondato
nella sua oscurità. Una tale cosa senza rapporto col linguaggio, un tale
non-linguistico noi lo pensiamo, in verità, soltanto nel linguaggio, attra­
verso l'idea di un linguaggio senza rapporto con le cose. Essa è una
chimera nel senso spinoziano del termine, cioè un essere puramente ver­
bale. La cosa stessa non è una cosa-è la stessa dicibilità, la stessa aper­
tura che è in questione nel linguaggio, che è il linguaggio, e che nel lin­
guaggio costantemente supponiamo e dimentichiamo, forse perché essa
stessa è, nel suo intimo, oblio e abbandono di sé. Nelle parole del Pe­
done ,( 7 6 d 8 ) , essa è ciò che sempre divulghiamo parlando, ciò che non
facciamo che dire e comunicare e, tuttavia, sempre perdiamo di vista. La
struttura presupponente del linguaggio è la struttura stessa della tradi­
zione: noi presupponiamo e tradiamo (nel senso etimologico e nel senso
comune della parola) la cosa stessa nel linguaggio, perché il linguaggio
possa portare su qualcosa (cata tinos). L'andare a fondo della cosa
stessa è il fondamento sul quale soltanto qualcosa come una tradizione
può costituirsi.
Compito dell'esposizione filosofica è quello di venire con la parola
in aiuto alla parola, perché, nella parola, la parola stessa non resti suppo­
sta alla parola, ma venga, come parola, alla parola. In questo punto, il
potere presupponente del linguaggio tocca il suo limite e la sua fine: il
linguaggio dice i presupposti come presupposti e, in questo modo, rag­
giunge quel principio non-presupponibile e non-presupposto (arche anu­
potetos), che solo restando tale costituisce l'autentica comunità e la
comunicazione umana. Come Platone scrive in un passo decisivo di un
dialogo che presenta più di un punto di contatto col «mito stravagante»

9
Giorgio Agamben

della settima lettera: «Apprendi ciò che io dico dell'altra sezione del­
l'intellegibile, che il linguaggio stesso (autos ho logos) tocca con la po­
tenza del dialogare, prendendo le ipotesi non per principi (archai), ma
veramente per ipotesi, quali punti di appoggio e impulsi, affinché :fino al
non ipotetico andando verso il principio di tutte le cose, toccandolo, e,
di nuovo, tenendosi alle cose congiunte ad esso, ritorni verso la fine,
non occupandosi in alcun modo del sensibile, ma dalle idee, attraverso
le idee, verso le idee, finisca alle idee» (Rep. 5 1 1 b 3 c 2 ) .
-

Mi rendo conto di essere forse andato troppo in là rispetto all'Òbiet­


tivo che mi ero proposto e di essermi, in qualche modo, reso respon­
sabile di quella follia non divina, ma umana ( 344 d 1-2 ) contro la quale
il mito della settima lettera intendeva appunto mettere in guardia: quella
di consegnare senza precauzioni a un testo scritto i propri pensieri sulla
cosa stessa. Sarà, perciò, opportuno che mi arresti qui, per tornare, più
cautamente, al preliminare compito storiografico che mi ero proposto.
La digressione della settima lettera contiene, lo abbiamo visto, una
trattazione dell'idea nel suo rapporto col linguaggio, La determinazione
della cosa stessa vi è, infatti, condotta in stretta relazione con una teoria
della significazione linguistica, che costituisce, forse, la prima, anche se
estremamente contratta, esposizione organica della materia. Se questo è
vero, dovremmo paterne seguire le tracce nella riflessione greca sul lin­
guaggio immediatamente successiva. Il pensiero corre qui subito al testo
che ha determinato per secoli ogni riflessione sul linguaggio nel mondo
antico, e, cioè, al De interpretatione aristotelico . Qui Aristotele enuncia
.
il processo della significazione linguistica in un modo che sembra appa­
rentemente senza rapporto con la digressione platonica: «Ciò che è nella
voce (ta ben te fone)» egli scrive «è segno dei patemi nell'anima ( en
te psuche) e ciò che è scritto è segno di ciò che è nella voce. E come le
lettere non sono le stesse per tutti gli uomini, così neppure le voci; ciò
di cui esse sono innanzitutto segni, cioè i patemi n(!ll'anima, questi sono
gli stessi per tutti; e anche le cose (pragmata) , di cui i patemi sono le
similitudini, sono per tutti le stesse» ( 16 a 3-7).
Un esame più attento mostra, al contrario, una puntuale corrispon­
denza col testo dell'excursus. Proprio la tripartizione in cui Aristotele
articola il movimento della significazione (hen te fone, ben te psuche,
pragmata) ricalca infatti testualmente la distinzione platonica fra ciò
che è hen fonais (nome e logos ), ciò che è hen psucbais (conoscenza e
opinione) e ciò che è hen somaton schemasin (l'oggetto sensibile) (342

10
La cosa stessa

c 6). Tanto più notevole è la sparizione della cosa stessa. Con Aristotele
la cosa stessa viene, infatti, espunta dall'ermeneia, dal processo lingui­
stico della significazione; anche quando tornerà fugacemente a compa­
rirvi (come nella logica stoica), essa sarà ormai cosl straniata dall'origi­
naria intenzione platonica, da essere praticamente irriconoscibile.
La determinazione aristotelica dell' ermeneia è, dunque, svolta in con­
trappunto all'elenco platonico, eli cui costituisce una ripresa e, insieme,
una confutazione. La prova decisiva eli questo contrappunto polemico è
proprio la comparsa, nel testo aristotelico, dei grammata, delle lettere.
Già gli antichi commentatori si chiedevano a che cosa si dovesse l'appa­
rizione, a prima vista incongrua, eli questo quarto interprete accanto agli
altri tre ( voci, concetti, cose). Se si pensa che l'excursus platonico era
diretto :Proprio a provare l'impossibilità di scrivere della cosa stessa e,
in generale, l'inattendibilità, per il pensiero, di ogni discorso scritto, l'in­
timo contrappunto fra i due testi è ancora più evidente.
Espungendo la cosa stessa dalla teoria della significazione, Aristotele
assolve la scrittura dalla sua debolezza. In luogo della cosa stessa, suben­
tra, nelle Categorie, la prote ousia, la sostanza prima, che Aristotele defi­
nisce come ciò che non si dice su un soggetto (cath'hupocheimenou, su
un presupposto ) né è in un soggetto. Che cosa significa questa defini­
zione? La sostanza prima non si dice su un presupposto, non ha presup­
posti, perché è essa stessa il presupposto assoluto su cui si fonda ogni
discorso e ogni conoscenza. Essa sola-come nome-si dice cath'auto,
s u se stessa; essa sola-non essendo i n un soggetto-si mostra nell'evi­
denza. Ma, in se stessa, come individuum, essa è ineffabile ( individuum
ineffabile, secondo la formulazione dell'aristotelismo medievale) e non
entra nella significazione linguistica eli cui è fondamento, se non uscendo
dalla sua attualità deittica in una predicazione universale. Il ti che era
in questione nel nome è assunto nel discorso come il cata tinos, il
su-cui si dice. Essi-il che e il su-cui-sono, dunque, la stessa cosa, che
può essere colta come to ti èn einai, l'essere-il-ti-che-era. In questo
processo logico-temporale la cosa stessa platonica è tolta e conservata, o,
piuttosto, conservata solo come tolta: e-liminata.
Per questo, nel De interpretatione, fa la sua comparsa il gramma, la
lettera. Un esame attento mostra, infatti, che, nel circolo ermeneutico
del De interpretatione, la lettera, come interprete della voce, non ha essa
stessa bisogno di alcun altro interprete. Essa è l'ultimo ermeneuta, oltre
il quale non c'è altra ermeneia possibile: il suo limite. Per questo, ana­
lizzando il De interpretatione, i grammatici antichi dicevano che la let-

11
Giorgio Agamben

tera, che è segno della�vòce, è anche stoicheiou tes fi5nes, cioè suo ele­
'
mento. In quanto ete�ento di ciò di cui è segno, essa ha lo statuto privi­
legiato di index sui, dell'automostrazione: come la pri5te ousia, di cui
costituisce la cifra linguistica, essa mostra sé, ma si mostra solo in quanto
era nella voce, cioè già sempre come un passato.
Il gramma è, cioè, la forma stessa della presupposizione e nient'altro
che questo. Come tale, essa occupa un posto centrale in ogni mistica e,
come tale, essa ha una rilevanza decisiva anche nel pensiero del nostro
tempo, che è assai più ari,stotelico e assai più mistico di quanto geperal­
mente si creda. In questo senso--e solo in questo senso--Aristotele e
non Platone è il fondatore della mistica occidentale ed è per questa via
che il neoplatonismo poté arrivare a quella concordia fra Platone e Ari­
stotele che costituiva la base dell'insegnamento della scuola.
Su questo fondamento, in quanto il linguaggio porta, cioè, iscritta
in se stesso la struttura antologica della presupposizione, il pensiero può
farsi immediatamente scrittura, senza doversi misurare con la cosa stessa
e senza tradire il proprio presupposto. Il filosofo è, anzi, lo scrivano del
pensiero e, attraverso il pensiero, della cosa e dell'essere. Il tardo lessico
bizantino che va sotto il nome di Suda alla voce Aristotele annota:
Aristate/es tes fuseos grammateus en ton calamon apobrechOn eis noun,
«Aristotele era lo scrivano della natura, che intingeva la penna nel
pensiero».
Molti secoli dopo, Holderlin cita inaspettatamente questa frase di
Suda in un punto decisivo della sua Anmerkung ·alla traduzione del­
l'Edipo tiranno sofocleo, e, cioè, mentre sta cercando di spiegare il senso
e la natura della Darstellung, dell'esposizione tragica. La citazione con­
tiene, però, un emendamento, del quale la pur diligentissima :6lologia
hé:ilderliniana non è riuscita a dar ragione. Holderlin scrive: tes fuseos
grammateus en ton calamon apobrechon eunoun (invece di eis noun):
«era lo scrivano della natura, che intingeva la penna benevola». Qui non
vi è più intingersi della penna nel pensiero: la pétlÌla-questo semplice
strumento materiale della scrittura umana-è ·sola, armata unicamente
della sua benevolenza, di fronte al suo compito. Rendere alla cosa stessa
il suo luogo nel linguaggio e, insieme, restituire la scrittura alla sua diffi­
coltà, al suo compito poetico nella stesura-questo è il compito della
filosofia che viene.

12
Carlo Sini
COL DOVUTO RIMBALZO

La metafisica ritorna. Ed era prevedibile. Come il pendolo che non


smette di oscillare tra gli estremi (disse una volta Whitehead) e ora va
troppo in qua perché prima è andato troppo in là; sicché bisogna sempre
aspettarsene il ritorno e l'eccesso contrario. Questo però non significa
che la verità, come voleva Aristotele, stia nel mezzo: la metafisica che
ritorna non è mai la stessa, Niente è mai lo stesso, perché lo stesso non
è di questo mondo.
Il ritorno della metafisica ha le sue ragioni, che si alimentano delle
sragioni contrarie. Si è sentito dire che non è più possibile pensare (co­
me se il fatto di pensare dipendesse da una nostra decisione circa la sua
possibilità); si è anche detto che ogni fondazione speculativa, ogni pre­
tesa di dar ragione del mondo, ha fatto il suo tempo. Curioso atteggia­
mento che in sostanza prolunga il tempo della metafisica nel mentre lo
dichiara concluso. Infatti tale dichiarazione sottintende: il fondare e il
dar ragione sono assoluti, così come li ha pensati la metafisica (la onto­
teo-logia), oppure non sono. Cioè: la metafisica ha sempre ragione, e
domina il pensiero anche dalla tomba. Infine, nostalgici o allegrotti, de­
boli o performativi, siamo stati invitati a permanere nella celebrazione
dell'essere: o in forma di memore pietà (metafisica sentimentale dell'an­
timetafisica); o in forma di gioco di maschere e simulacri; non sono quel
che sembro. Ma-già Platone lo sapeva-come si può sembrare e non
essere? Il simulacro del re è pur sempre un'immagine monarchica.
E allora, dopo aver scherzato per un po', la metafisica ritorna sul
serio. È come in amore: si comincia per gioco e si finisce in municipio.

13
Carlo Sini

A questo punto la. questione è: fra tanti disçorsi, qual è il giusto


discorso? E come è possibile (se è possibile) un discorso giusto? Biso­
gna stare attenti alla risposta, perché se concluderemo che non è possi­
bile alcun discorso giusto, onestà, o almeno coerenza vorrebbe che si
stesse zitti, per quanto spiacevole ciò possa essere per noi.
Ma se ora, per affrontare la questione, domandiamo: che cosa devo
dire? subito ci troviamo in angosce e problemi irresolubili. E che ne so
ro che cosa devo dire e va detto: se lo sapessi non roe lo chiederei. Ma
se poi non me lo chiedes��' bel modo di fare filosofia e di pensare ,sareb­
be il roio. Perciò me lo devo chiedere e con molto puntiglio an ilitico:
cosa intendo con «che cosa» (e son già due «cosa»)? che signifìca «de­
vo»? chi e perché deve? e infine, fascinans et tremendum, che vuoi dire
«dire»? Cosl non si va avanti molto, salvo accontentarsi di incarnare la
patetica figura del filosofo di Molière, che prima di impegnarsi a dire una
qualsiasi cosa, vuoi stabilire con l'interlocutore in che lingua dovrà espri­
mersi: perché questa e non quell'altra e cosl di seguito. Vezzo che in
filosofia non è mai passato di moda: serietà scienti.fìca del metodo.
Ma prima di decidere e sapere che cosa devo dire, c'è un altro pro­
blema che esige attenzione e che nella prima domanda si trova arbitra­
riamente ignorato e saltato. Si potrebbe esprimerlo cosl: a chi risponde,
e a che cor-risponde, il discorso? Quanto al discorso noi ci figuriamo
sempre in atto di ,enunciazione o di domanda, come se fossimo Socrate
che tormenta il povero Teeteto. Dimentichiamo che anche Socrate, do­
mandando rispondeva-alle voci che diceva di sentire. C'è anzitutto nel
discorso un rispondere e un corrispondere. Semantica e sintattica non
sono originarie.
Più originaria è la pragmatica, in quanto essa non presupponga che
c'è già un mondo (da dire) e che ci sono dei «locutori» che comunicano
tra loro «per il tramite» del linguaggio. La pragmatica di Peirce, insom­
ma, non certo quella di Morris e dei «seroiologi». Ma la questione esige
un punto di vista più ampio di quello richiesto 'dàl semplice discorso.
Nella sua celebre massima pragmatica Peirce sosteneva che il signi­
ficato di un concetto consiste in ciò che si è pronti a fare; tale signifì­
cato, cioè, va visto e va definito in termini di risposta. Allargando tale
suggerimento si potrebbe dire: cosl come si risponde si è. E anche: ciò
che è si dà a vedere nella risposta e come risposta. L'evento originario
è la risposta, sicché ogni presenza è un rispondere e un corrispondere.
Ovvero: c'è una presenza perché c'è una risposta (un avvertire e un
prender nota che de-signa e as-segna). Ma che signifìca «c'è una presen-

14
Col dovuto rimbalzo

za»? Non si sta evidentemente dicendo che qualcosa è presente e allora


qualcos'altro, a sua volta già presente, risponde e corrisponde. Questo
modo di considerare la risposta non la pensa per nulla come evento
originario. È invece nella risposta, nel suo puro accadere, che qualcosa
si pone in presenza. Questo è il punto difficile da raggiungere col pen­
siero. E allora partiamo di qui.

l. Il cane di Leibniz e il bam bino affamato

Leibniz osserva nella Monadologia che se un cane è stato battuto


con un certo bastone, quando rivede quel bastone in mano all'uomo che
l'ha battuto abbaia e fugge. Da ciò Leibniz inferisce che i cani sono
dotati di memoria e sanno associare le immagini offerte loro dall'espe�
rienza, cioè non sono «macchine» o automi e posseggono una vita psi­
chica. A nostra volta potremmo avanzare un esempio non dissimile: un
bambino di un anno è seduto sul seggiolone mentre la mamma gli sta
preparando la pappa; il bambino avverte l'odore della pappa, ode i ru­
mori delle stoviglie, vede i movimenti ecc., e allora batte le mani con
notevole entusiasmo, manifestando capacità di memoria e di vita psi­
chica, e un sano appetito.
Il senso comune (erede della metafisica) spiega gli esempi così: da
una parte c'è il cane (o il bambino), dall'altra il mondo con le sue cose
e i suoi eventi. Questi funzionano come stimolo della corporeità perci­
piente di quelli, producendo immagini percettive dentro il cane (e il
bambino). Ma il cane ha già sperimentato percezioni simili e allora as"
soda le percezioni attuali con quelle passate (ciò che si chiama memo­
ria) ; così riconosce gli oggetti e le situazioni e reagisce di conseguenza
(abbaia e fugge, oppure, se è il bambino, batte le mani con entusiasmo).
Questa stessa spiegazione potrebbe esser tradotta in termini assai
più tecnici e scientificamente raffinati; potremmo introdurvi archi rifles­
si, sinapsi, messaggi chimici, aree cerebrali ecc., ma lo schema concet­
tuale di fondo non verrebbe per questo a mutare. Esso è anzi la cornice
entro la quale ogni analisi e sperimentazione scientifica di fatto procede.
Oxa, questo schema generale è del tutto immaginario e arbitrario. La
sola domanda su che cosa sia un'immagine, in che senso essa sia «in­
terna» piuttosto che «esterna», psichica piuttosto che fisica, basterebbe
a sollevare enigmi e assurdità irresolubili.
Lasciamo stare le immagini e partiamo invece da un rilievo più ge-

15
Carlo Sini

nerale . La spiegazione del senso comune ( e poi anche quella cosiddetta


scientifica ) descrive manifestamente la scena dal di fuori, con uno sguar­
do «esterno». Ciò vuoi dire : il senso comune proietta sulla scena la sua
abituale sistemazione categoriale, linguistico-concettuale, dell'esperienza .
Siamo <mai» che diciamo : il cane ha visto il bastone col quale l'ho bat­
tuto ieri e per questo scappa--quindi non è per niente cretino il mio
cane, ha buona memoria ed è un animale prudente. In tal modo assu­
miamo la posizione dell'osservatore privilegiato che, come il romanziere,
sa tutto ciò che accade nella testa dei suoi personaggi e intorno � loro ;
più esattamente, assumiàmo lo sguardo pan-oramico e «pubblic�» isti­
tuito dalla metafisica due millenni e mezzo fa e oggi ereditato dalla
ragione scientifica. In conseguenza di queste tacite assunzioni, noi ra­
gioniamo come se il cane o il bambino si trovassero ovviamente nella
realtà del mondo e in più avessero immagini psichiche interne. Ma que­
sto è in un certo senso vero solo per l'esperienza del mondo che faccia­
mo noi, avvezzi a tradurre tale esperienza in categorie linguistico-pub­
bliche. La nostra descrizione non si attiene affatto all'orlo di esperienza
in cui il bambino e il cane sperimentano ciò che sperimentano.
Per cominciare ad avvicinare e avvistare tale or lo c'è anzitutto una
cosa molto semplice da fare ( ma molto dif!icile da pensare davvero ) :
noi dobbiamo anzitutto ammettere che, negli esempi avanzati, non c'è
affatto il cane, cosl come non c'è il bambino : non ci sono letteralmente .
-Ma come non c'è ! Eccolo Il il cane : non lo vedi come scappa?
Certo che lo vedo, proprio come lo vedi tu, ma il mio vedere e il
mio dire « cane che scappa» ingloba già le funzioni oggettivanti del lin­
guaggio e del concetto. «Cane>>, «bambino», sono nostre sintesi, riassun­
ti, unità posticce e costruite. Ma per il cane non c'è «il cane» , né per
il bambino «il bambino » ; né vi è «il bastone» o «la pappa» . Se voglia­
mo cominciare a inserirei nell'orlo di esperienza cui l'esempio allude,
dobbiamo tener fermo alla pura relazione cane-bastone, dove già il lin­
guaggio ci tradisce, poiché dice appunto «cane» ·,�è - «bastone», né può
fare altrimenti. Non ci sono insomma queste unità ( il cane ecc. ) che
starebbero nello spazio supposto reale del mondo e che incontrerebbero,
in una successione di istanti di tempo a loro volta supposti reali, cose
ed eventi. Tutto ciò va cancellato.
-Non c'è il cane, non c'è il bastone, non c'è lo spazio, non c'è il
tempo, e neppure il mondo : ma allora cosa resta?
A prima vista sembra che non resti nulla; ma attenzione: noi non
abbiamo affatto cancellato, o chiesto di cancellare, ciò che è accaduto ( il

16
Col dovuto rimbalzo

cane che abbaia e fugge davanti al bastone, o il bambino che batte le


mani mentre la mamma prepara la pappa ) ; ciò che abbiamo cancellato è
solo la nostra descrizione di quel che è accaduto . Ma cerchiamo di en­
trare positivamente nell'esempio. Per far ciò dobbiamo in certo modo
capovolgere la comune descrizione : non è il cane che incontra il bastone,
ma, piuttosto, vi è un incontro ( di cui cane e bastone saranno i poli
risultanti ) . L'evento è una relazione componente che avrà, solo e molto
in seguito, il cane e il bastone come suoi risultati. Prendiamo idealmente
la prima volta che il cane è battuto dal padrone : egli noh sa nulla di
padroni e bastoni ( né di cani ) , ma, poveraccio, comincia a farsene un'i­
dea : sperimenta la sua condizione di cane al cui orizzonte d'esperienza
compaiono apparizioni di bastoni e di uomini ( quel certo bastone e quel
certo uomo.) . Cosl è per una quantità sterminata di altri eventi che gli
occorrono. È la somma di questi eventi che viene costituendo ciò che noi
chiamiamo «cane », e anzi quel cane . In ognuno di questi eventi sta in
primo piano una risposta : essa, come un cappio doppio, tiene ai suoi
poli i poli di una specifica relazione ( per es. quella determinata risposta
dell'abbaiare e fuggire di fronte al bastone ) . L'insieme potenziale e at­
tuale di tutte le risposte sono il nostro cane, cosl come egli è divenuto
nel corso dell'esperienza : quel certo cane che fugge di fronte ai bastoni
( anzi no, solo di fronte a quel bastone, il che mostra che il modo «cani­
no» di rispondere non è in relazione al concetto, al bastone in generale ) ,
quel certo cane con quel certo carattere, con quel certo modo di rispon­
dere e di entrare in relazione, un po' nevrotico e agitato perché si è ve­
nuto costituendo come cane ( come quel cane ) avendo a che fare con
quel padrone mezzo pazzo che lo batteva col bastone quando ancora
era piccolo. E bisogna aggiungere che anche il bastone dell'esempio re­
sta legato alle sue relazioni e alle sue circostanze. Certo al bastone non
sembra accadere alcunché di notevole per aver dato due legnate a un
povero cane indifeso; resta però il fatto che non c'è in assoluto il ba­
stone; questo bastone assoluto lo diciamo noi con i nostri occhi pubblici
e con le nostre categorie linguistico-concettuali; c'è invece solo il ba­
stone come quel bastone che è in relazione al cane, all'uomo che lo usa
in questo e quel modo, che prima ancora lo ha ricavato dal legno di una
pianta, ecc.
Il cane picchiato e il bastone che l'ha battuto restano inoltre legati
a un presente che non tramonta, almeno fino a che il cane è quel cane
che fugge di fronte a quel bastone; quando tale risposta venga meno,
non abbiamo più lo stesso cane, non è lo stesso cane che sta nella pre"

17
Carlo Sini

senza. In questo senso ( come si diceva ) noi non abbiamo mai nell'espe­
rienza uno spazio e un tempo oggettivi. Noi possi�mo dire : quell'evento
accadde tre giorni fa o tre mesi fa, in base ai nostri calcoli pubblici se­
gnati su calendari e verificati mediante scrittura pubblica; ma nella con­
creta esperienza ciò che ci capita è che eventi accaduti l'altro ieri o que­
sta mattina sono del tutto scomparsi senza lasciar traccia, mentre altri
fatti accaduti magari cinque anni fa o quando eravamo ancora bambini
restano indelebili con noi, stanno efficaci nella presenza, continuano a
determinare le nostre risposte e, non a caso, abitano i nostri sog9 i e le
nostre fantasie. Non è che l'inconscio, come credono gli psicoanalisti nel­
la loro rozzezza naturalistica, sia fuori del tempo ( del mondo ) : è che il
tempo del mondo non esiste, se non come astrazione dell'occhio e della
memoria pubblici-l'inconscio non ne è stato in-formato . Gli eventi delle
risposte attuali e potenziali che stanno nella presenza sono «noi», in
senso pieno e letterale, sono la nostra concreta esperienza : essi conti­
nuano ad accadere e non hanno mai cessato di orlare il mondo per noi
e di determinarlo come nostro.
Tutte queste osservazioni le possiamo ovviamente applicare anche
all'esempio del bambino, il quale non è sul seggiolone e si immagina la
pappa, il che lq mette di buon umore: questa è la nostra indebita descri­
zione «esterna ». Essa può andar bene per gli scopi immediati dei geni­
tori, ma non insegna molto sulla concreta esperienza del bambino e sul
suo diventare via via il nostro bambino. Il quale, per dirla in sintesi,
non è il soggetto della sua fame e della sua allegria, ma solo il luogo di
accadimento di risposte determinate, di un rispondere e corrispondere
come piangere, ridere, battere le mani e simili. Sicché dovremmo anche
dire che il bambino, come il cane, non pensano , se pensare è far uso di
segni pubblici con i loro oggetti pubblici ( a cominciare da quell'oggetto
e luogo che chiamiamo «io» ) : essi non possono formulare pensieri né
porsi come soggetto di quei pensieri. Ma questa è però una concezione
assai ristretta ( anche se convenzionalmente legittimà) di ciò che noi chia­
miamo pensiero ; ed è da tale ristrettezza che derivano le tradizionali
difficoltà : come la parola, questo segno convenzionale, può dire le cose,
cioè esprimere eventi del tutto eterogenei? Ma se noi guardiamo l'espe­
rienza sulla base dd concreto rispondere e corrispondere, in base a ciò
che «si è pronti a farè », allora anche il cane, che ha tra le sue risposte
la fuga di fronte al bastone, è in un processo di pensiero, sebbene non
linguistico e non concettuale; e lo stesso è da dirsi del bambino . Questo
modo di vedere, assai più concreto e legittimo, non presuppone che il

18
Col dovuto rimbalzo

pensiero sia un processo che sta dentro la testa ( chissà come, dove, e
che vuol dire che c'è un «dentro» della testa ) , ma si attiene all'orlo
.

dell'esperienza, la quale mostra che il pensiero si radica in risposte di


mondo ( cioè in sembianza di bastoni, pappe e cosl via ) , sicché non c'è
alcun bisogno di chiedersi «poi» come il pensiero possa «rispecchiare»
il mondo-problema che è solo la conseguenza delle nostre astrazioni
intellettualistiche. Nell'evento determinato di ogni relazione determinata
( sembianza di mondo ) sta il rispondere e il corrispondere : evento che è
già radicalmente pensiero ( pensiero alle radici ) . L'esser pronti a fare è
già un pensare, sebbene non un pensare mediante segni, concetti e og­
getti pubblici.
Nei termini della pragmatica come luogo originario di ogni evento di
esperienza non è che prima si pensa e poi si fa; questo è possibile solo
ai livelli astrattivi dell'intelletto. C'è, al contrario, un rispondere e un
corrispondere che sono già disposti e collocati nel corso del pensiero .
Già rispondere e corrispondere al bastone è un « essere nel pensiero »,
come diceva Peirce . Ciò non significa avere un pensiero come supposte
immagini interiori che si servono, per esplicitarsi, di segni convenzionali
linguistici ecc. : tutto ciò non è originario. Originario è quel cappio rela­
zionale che annoda quel determinato rispondere canino a quel determi­
nato battere del bastone . Tali relazioni non sono né del cane né del ba­
stone, né del bambino né della pappa. Sono relazioni di risposta che ,
come tali, sono intelligenti, cioè intelligibili, e perciò traducibili, poten­
zialmente, in concetti linguistico-pubblici. Non abbiamo tutti i torti a
dire : -Vedi, il bambino ha fame ; oppure : il cane ha paura del bastone,
anche se queste sono traduzioni astrattive nostre. La loro legittimità e
condizione sta nel fatto per cui, in concreto, pappa e bastone si rendono
intelligibili nell a loro determinata relazione col bambino e col cane ( e
cosl per ogni altra relazione ) , e non in quanto cose reali in sé che stareb­
bero in un mondo in sé per animali e bambini in sé : queste ultime sono
solo finzioni del nostro linguaggio pubblico-concettuale. Sono le relazioni
determinate a essere intelligenti in sé, e non in quanto vengono pensate
e dette dal di dentro di un animale che sarebbe dotato di ragione ( animal
rationale ) o di anima.
Nella sua concretezza sorgiva pensare è trovarsi incarnati, () entro il
cappio, di relazioni e risposte pragmatiche che danno vita a concreti e
definiti orizzonti di mondo. In essi il bambino è con la pappa ( come il
cane è col bastone ) in modo costitutivo : egli è letteralmente e in tutti
i sensi fatto di p appa, cosl come anche il pensare è fatto di pappe, di

19
Carlo Sini

bastoni e di infiniti altri eventi. :È di ll, dalle se�bianze di mondo, che


viene concretamente il pensare, e non dall'anima o' dal cervello. L'«inten­
zionalità» va rovesciata : essa non è una proprietà della coscienza, ma è
una proprietà dell'essere-nel-mondo. Sicché, dobbiamo ripetere, non è
che il bambino abbia degli oggetti reali esterni, un mondo esterno, e
in più delle immagini interne : questa partizione diverrà possibile via via
che egli avrà costituito un sé ( o si sarà costituito come «sé» ) in rela­
zione a un mondo comune pubblico con i suoi oggetti pubblici, e ciò
essenzialmente, come vedremo, tramite il linguaggio . Solo allora gli sarà
possibile ciò che Platon � chiamava il dialogo muto dell'anima �on se
stessa, cioè quel che noi intendiamo come pensiero in senso specifico e
ristretto ( dimensione di esperienza cui al cane non è dato pervenire,
sicché. per lui non sorgeranno mai oggetti come «il bastone» , «l'uomo»
o «il cane» ) . Tale dimensione specifica ha alla base il darsi stesso del
mondo in sembianza di risposta e come coappartenenza e corrispondenza
intelligente e intelligibile.
È in questa trama di corrispondenze e di risposte, in questa rete di
conseguenze pratiche ( come la chiamava Peirce ) , che si disegnano oriz­
zonti e sembianze di mondo, con le loro polarità a cappio : ciò che quel
determinato cane è pronto a fare e il polo, il cappio doppio, di questo
fare intenzionale : egli è pronto ad abbaiare e a fuggire alla vista di quel
bastone , e poi anche, come ogni cane , è pronto a uggiolare alla vista
del padrone, a ringhiare alla vista del gatto e a salivate al cospetto del
professar Pavlov . Questa rete di relazioni ( questa rete di segni, po­
tremmo anche dire ) disegna, nella sua interezza, il cane con il suo
mondo : «grafema» complessivo intramato di miriadi di grafemi minori,
insieme di risposte, di comportamenti come anche si dice , che corri­
spondono a un mondo, a un mondo-ambiente, secondo una celebre espres­
sione. :È cosl che il cane, o il bambino di un anno, è disponibile a
questo e a quello ( non però alla grammatica o all a poesia ) , come è al­
trettanto per loro disponibile un mondo di polatità oggettuali e inten­
zionali ( non però i concetti matematici o l'idea del bello in sé ) . Grafe­
ma di molti grafemi cui corrisponde un mondo che essi de-signano con
le loro risposte, il cane e il bambino ritagliano nella circostanzialità del
loro mondo una corporeità vivente. Non un mondo fisico esterno per il
quale il cane corre e nel quale il bambino batte le mani come unità bio­
logiche particolari : mondo fisico e corpi biologici sono un prodotto con­
cettuale e linguistico del quale parliamo « noi», dall'esterno : mondo che
per principio non può stare nella «loto» esperienza. Il cane sta nel-

20
Col dovuto rimbalzo

l'esperienza col suo mondo, e cosl il bambino, in una trama di grafemi,


di gesti di risposta, cioè di implicazioni reciproche.
Dobbiamo però saperne di più su ciò che qui chiamiamo grafema o
gesto . Il cammino di pensiero che cerca di corrispondere all'evento della
risposta come evento originario è ancora lungo.

2. Afferrare, guardare, ascoltare

Che cosa caratterizza tutti i grafemi in quanto grafemi? Almeno due


aspetti : è tipico di ogni grafema il prodursi rispondente e corrisponden­
te ; di ogni grafema è poi tipica la natura della distanza che gli inerisce.
Cominciamo dal primo aspetto .
Il luogo originario di ogni gesto, luogo del suo puro accadere che
rende possibili i gesti empirici in generale, ha la natura del prodursi,
il quale si specifica nel rispondere e nel corrispondere. Serviamoci di un
esempio riferito alla gestualità dell 'afferrare .
Supponiamo che un uomo stia precipitando in un pozzo . Ecco allora
che i bordi del pozzo si producono nella presenza, con immaginabile
vivacità, esibendo la loro natura di possibile appiglio : un mattone spor­
gente, uno spunzone di pietra, un ciuffo di arbusti e simili. Questi ap­
pigli, nel loro farsi innanzi, è come se dicessero : -Afferrati qui, siamo
la tua ancora di salvezza. In corrispondenza le mani dell'uomo si aprono
e si incurvano nella modalità dell'afferrare . Il mondo ( cioè il pozzo,
nell'esempio ) si presenta dunque in sembianza di afferrabile che con­
cretamente dice : -Ti do appiglio . Da questo esempio empirico noi ora
dobbiamo trarre il puro elemento del grafema originario.
Anzitutto : il gesto dell'afferrare, questo grafema costitutivo della
nostra corporeità percipiente e rispondente , non si esplica a partire da
una supposta interiorità «psicologica», da un volere che decide, che al­
lunga la mano e che si dirige a questo e a quello, come se le cose e la
mano fossero già a disposizione dell'agente. Questo modo di vedere di­
mentica e salta via la costituzione originaria del grafema corporeo; esso
ignora che un corpo non afferra se, anzitutto, non è il mondo che lo
afferra, cioè gli si produce innanzi come l'afferrabile . Il prodursi origi­
nario, prima che ogni afferramento empirico possa emergere, è come
l'esibirsi di un «pieno» che si crea il suo proprio «vuoto » : è la cosa
afferrabile che crea il vuoto della mano, imprimendovi la sua impronta
e matrice. Il pro-dursi di un mondo afferrabile colloca la mano che af-

21
Carlo Sini

ferra nell'orlo del suo prodursi, come suo prolungamento e compimento .


'
La rivelazione del mondo in veste di afferrabile, come segno ( endeissi,
diceva Creuzer ) della sua afferrabilità, è il momento sorgivo di tale ge­
stualità, di tale grafema.
Il momento sorgivo si specifica nelle due fasi del rispondere e del
corrispondere, nell'ordine che qui è detto poiché si corrisponde risptm­
dendo. Posta nel punto di massima tensione della rivelazion� della af­
ferrabilità, la mano si trova disposta a incurvarsi nel gesto dell'afferrare :
questa è la risposta che Ja manifesta appunto come mano. Vale � dire :
nell'atto di riconoscimento dell'afferrabile la mano emerge comè mano
che afferra. Tale grafema si iscrive nel grafema corporeo complessivo
come capacità di afferramenti e prensioni. La mano risponde all'appello
del mondo e il suo rispondere è cosl un corrispondere.
Corrispondere vuoi dire atteggiarsi della mano secondo la natura del­
l'afferrabile che è emerso. Non che la mano semplicemente si adatti,
per esempio, al bastone, come nel caso dell'uomo che batte il cane : la
mano e i suoi grafemi non ci sono già nel luogo originario dell'afferra­
bilità, ma si «producono», vengono dal mondo. <:;ome si è detto, è il
bastone, nella sua rivelazione originaria di «afferrabile», che pone, nella
tensione del suo orlo rivelativo, la mano : proiezione e compimento di
sé come afferrabile. La mano non c'è già, ma piuttosto era contenuta
implicitamente nella rivelazione del bastone. Corrispondendo al bastone
la mano ricostituisce idealmente quell'unità mano-bastone che già era
allusa dalla produzione del bastone come afferrabile. Tale alludere, tale
far cenno e indicare, silenziosamente diceva: sono il medesimo il bastone
e la mano, sono l'uno per l'àltra. Nell'esperienza pragmatica originaria
non c'è il bastone come oggetto neutro della natura che sta da una parte
e la mano come organismo che sta dall'altra; queste sono vedute con­
cettuali che presuppongono le esperienze originarie, cioè i grafemi. In
questi c'è una pro-posta o una pro-duzione che si manifesta appunto
nella scissione della risposta. La risposta sta in uli, bilico : proviene dal
bastone come sua propaggine, ma già se ne distingue in quanto lo rico­
nosce come afferrabile.
Si crea allora una distanza, essenziale e costitutiva, nella compre­
senza che dà luogo alla corrispondenza, al corrispondere. Si crea cioè
quell'unità parziale, quel corrispondere senza mai identificarsi, senza mai
raggiungersi e compenetrarsi totalmente, che è il carattere proprio di
ogni relazione e di ogni esperienza. Nella relazione comunicativa, per
esempio, ci si intende non intendendosi e restando due : -Ora ho in-

22
Col dovuto rimbalzo

teso quel che vuoi, quel che mi chiedi e quel che desideri da me, ma,
11uturalmente, a mio modo, restando io qui e tu lì, non diventando la
l. llll stessa richiesta e il tuo stesso desiderio. Perché io possa corrispon­
,Jct.·c al tuo bisogno e accomunarmi alla tua richiesta devo anche in
qu olche misura dissociarmene. Se tu vuoi davvero la corrispondenza
,ldln mia risposta, devi anche volere che essa non si identifichi con la
dum n ntln : solo cosi mi puoi « avere» ( non avendomi mai ) . Ora, il pro­
• l u t'lll ol'iginario non è mai già, né potrebbe essere, mano o bastone, ma
(l Il prodmsi della «loro» distanza: è da essa che emergono come mano
� hnHtonc. 'È quel tipo di distanza, che configura il bastone come affer­
l'llhllc c la mano come ciò che gli corrisponde, ciò da cui è necessario
))lll'llrc per avere mani e bastoni. Si ha cosi il prodursi di una corrispon­
dcn�n infinita, mai esauribile e sempre rinnovabile. Non si è mai finito
d l n(fc l.'l' O(C, il bastone non è mai afferrato adeguatamente una volta per
I I H I Cl .
Al t re d i N I'II I1��. c�serw:inll coHtitutive, s i manifestano in ogni gestua­
e
H t � , I n IIHJll l;ll'll (�;mn. Se coruddcl'inmo Ol'll H guardare, anziché l'afferrare,
J)Oi t'(l/ll lll ll tlh•tt d1t: llnd"' Il QLlllnhu·è è un RJ:n f:cm ll che afferra , ma sotto
Il lWnfi lu dol111 JIHlll�ll Il lum�o. SI pub H t1 1mlnrc senza ve dere , sicché è
Holo ndl11 m e 8 H II n fu<JCtl che si determino lo risposta. Vi è il prodursi
l.l clh1 h t m l no11ii 1Ì dd visibile, o vi è il prodursi del mondo in sembianza
di vlrdhllc. Ltl rbpostn ordina il visibile a partire dal suo orlo produ­
cen t e , dnl s u o «1mnto zero», cioè dalla sua prospettiva, e in tal modo
Il vmJnto è poRtO n distanza. Il corrispondere è la natura semidrcolare
!Hc.11ltm di qucrHo orJinare in primi, secondi, terzi piani, collocati nelle
lmo eo"tltu tivc distanze .
Tm to il contratio accade invece nel gesto dell'ascoltare. Qui non vi
� oku n punto zero a partire dal quale si ordinerebbe il mondo in sem­
blM1V.!\ tisonnnte. L'ascoltato non è posto a distanza dalla risposta, ma
o Jnvc<:c l'ascoltante che è posto a distanza. In questo grafema origi­
lllttlo nccndc un essere invasi da ogni lato. Nella visione un raggio pro­
*Pt!tt lco s t abili sce la messa a fuoco; qui è l'ascoltante che è nel fuoco
di tmw�n lenzc diverse. Pensiamo alla posizione inerte dell'infante nella
<!�1l111 : egli subisce le piccole e grandi aggressioni foniche del mondo ri­
HOM11 tc c circostante. Nell'ascolto è quel che si produce che ha una sua
dbtnnzn e provenienza e l'ascoltante non può render piccolo un rumore
gt·ondc o render grande un rumore piccolo ( sebbene impari più tardi,
co.mc si dice, a fissare l'attenzione, ma con limitazioni non oltrepassa­
bili ) . Nella dimensione originaria e sorgiva l'ascoltante emerge dislocato

23
Carlo Sini

e sballottato dalla rivelazione del suono e del rumore; egli è invaso e


cosl dis-posto vicino-a e lontano-da : molto vicino e rombante è il rumore
della mosca, molto lontana e fioca la voce della mamma nell'altra stanza;
ma che ciò accada appunto perché la mamma è nell'altra stanza non è il
grafema dell'ascoltare a esibirlo e potrà esser compreso solo in seguito,
per un 'associazione assai complessa di grafemi. Nel grafema dell'ascoltare
c'è solo un'invasione a differenti livelli e direzioni che stabilisce i primi
e i secondi piani del rispondere e del corrispondere .
In sintesi potrerrvno dire : nell'afferrare emergono i paraggi corporei,
ciò che letteralmente è alla mano e che è commisurabile col proprio cor­
po ; il resto sfuma in un di là inafferrabile e perciò in un null a di pre­
senza. Nel guardare si manifesta un infinito pan-oramico di natura semi­
Circolare e prospettica ; il gesto ordina i piani della visione a partire dal
punto zero della scaturigine del suO raggio. Nell'ascoltare si manifesta
infine un esser collocati a partire da un'invasione fonica proveniente dal
mondo; possiamo parlare perciò di circostanzialità del corpo in uno
spazio sonoro proveniente . Non c'è prima il corpo che occupa il suo
spazio e poi la percezione dell'ascolto ; nel grafema originario che rispon­
de e corrisponde è lo spazio sonoro che invade, che proviene e si pro­
duce, creando le circostanze della collocazione dell'ascoltante . Suoni e
rumori lo prendono e lo afferrano e così lo collocano : lontano-da, vici­
no-a, a media distanza e simili.
Ogni distanza dunque, come vediamo già da questi tre soli esempi,
produce ·'un'esperienza dell'adombrarsi del suo oggetto; è di contro a
ciò, che correlativamente si specifica l'unità del grafema corporeo . Come
avevamo già osservato, nell'afferrare del bastone tale afferramento non
si esaurisce mai. Ciò che viene afferrato viene, per così dire, estratto,
estrapolato, e ciò comporta che il resto del · bastone, non afferrato, si
nasconda e, come diceva Husserl, si adombri. Se prendo il bastone dal
basso non lo prendo dall'alto, se lo prendo saldamente non lo prendo
leggermente, se lo afferro con tutta la mano ' non lo afferro con due
dita, ecc . L'afferrare delimita sempre un'area dell'afferramento e con ciò
adombra le altre. Lo stesso accade con la visione . Come Husserl ha
mostrato in celebri analisi, l'oggetto della visione non può mai esser
guardato contemporaneamente da tutti i lati, e ciò per ragioni essenziali,
connesse alla modalità costitutiva stessa del vedere e poter vedere . In­
fatti ogni oggetto è visibile solo se posto e disposto nella prospettiva
del punto zero del raggio. E s 'intende poi che tutti i grafemi non sono
mai puri, ma combinati insieme in varie guise, sicché dal loro intreccio

24
Col dovuto rimbalzo

che delimita la corporeità rispondente e corrispondente emergono altre


e tipiche esperienze di adombramento .
Il prodursi della tensione che ha al suo orlo la risposta (la risposta
come mano che afferra, occhio che mette a fuoco, orecchio che si drizza)
pone l a risposta a distanza. La risposta è distanziata a partire dal mondo
(mondo in sembianza di afferrabile , di visibile ecc . ) . Ma anche la rispo­
sta è, a sua volta, distanziante : ecco l'elemento nuovo al quale dobbiamo
ora rivolgere l'attenzione . Nella risposta si determina un «rimbalzo» . La
risposta «rimbalza». Il mondo si produce nella mano come mondo affer­
rabile ma, rispondendo , la mano opera un rimbalzo che tiene il mondo
a distanza È così che si crea il luogo originario di ogni grafema, luogo
in cui la distanza costitutiva rimbalza tenendo a sua volta a distanza,
alla giusta distanza, i poli oggettuali emersi nella risposta. È da questo
luogo che trae origine la misura del corrispondere . Quel tanto di distanza
che consente di continuare a rispondere, secondo una giusta corrispon­
denza che non è mai identificazione o fusione totale : la risposta può
continuare a sussistere nella tensione che la istituisce e la tiene in bilico .
Posso n
lfcrr a re il bastone se non ne sono totalmente invaso . L'orrore e
il timore di essere invaso , in ogni senso pragmatico ( cioè anche dalla
tua voce , o dal tuo bisogno, persino dal tuo amore) , è costitutivo di ogni
grafema complessivo , di ogni corporeità originaria : terrore di essere in­
vasi nel l uogo del rimbalzo così che la fessura originaria del rispondere
venga colmata c non si possa più continuare a sussistere come risposta
che rimbalza i l mondo alla giusta distanza.
La risposta fi i produce , ma, nel contempo, si ri-produce , nella for ma
del rimbalzo che tiene a distanza. Il bastone è tenuto a distanza proprio
nel momento in cui c nel modo in cui viene afferrato . Noi, come si dice,
mettiamo le mani avanti . Così è per ognuna delle molteplici polarità
tattili e poi per ogni gmfcma , per ogni gestualità costitutiva, secondo
distanze volta a volta costitutive. È cosl che emerge una tr a m a di sensi
(rivelati dalle corrispettive risposte) , nonché il luogo complessivo dei
loro rimbalzi. È così che emergono, In tormlnl <lt�uhbllci» e sintetici, il
« mondo e il corpo '' · Le cose del owndo "l vengono ol:iglnnl'iamente
costituendo come schemi operativi, pragmatici, eH riHpo Htl\1 col relativo
rimbalzo . Questi schemi operativi (il cui luogo unitario è il CO!'po) incar­
nano svariate funzioni oggettivanti (la cui unità c:mnpl�:stilva è il mondo) .
Corpo e mondo stanno così uniti a distanza: alla giusta distanza.
Ma un ulteriore e decisivo passo va ora COiltt>iuto sul filo di un'os­
servazione essenziale : ognuno di questi gesti originari o grafemi non è

25
Carlo Sini

solo «grafico » (nel senso del di-segnare il mopdo , il corpo e la loro rela­
zione) , è anche « autografico» . Che accade quando il tatto si tocca, la
vista si vede, l 'udito si ode ecc . ? Si tratta di analisi già in parte svolte
dalla tradizione, da Teofrasto a Condillac, a Husserl, a Sartre.
Diciamo in generale che il tatto è ciò che tocca essendo toccato :
tocco il bastone e mi sento toccato da lui . Ma che accade se, con un
esempio ben noto, con una mano mi tocco l'altra ? Allora anche là dove
mi sento toccato, sento contemporaneamente che tocco . Un duplice de­
corso di eventi si intreccia e si compone : la mano che tocca�do si sente
toccata e la mano che , essendo toccata, sente che tocca. Questa pecu­
liarità squisitamente autografica del toccare è determinante per delimi­
tare e orlare il corpo vivente proprio, per definirlo e determinarlo : io
sono propriamente là (fin là) dove toccando mi sento toccare e mi sento
toccante là dove mi tocco . I paraggi corporei, distinti dalle circostanze
del mondo , si arrestano qui . Dal che deriva anche la misteriosa estra­
neità delle «interiora» che , salvo casi eccezionali, non tocco e non sento
toccare. Le circostanze del mondo stanno già piantate nel più « interno»
dei paraggi corporei intrecciandovi l'enigma della vita e della morte . In
virtù del fatto per cui io sono fin là dove toccando mi sento toccante,
non ho da temere che, se uno bussa alla porta, io ne avverta un dolore .
Ma la minaccia del dolore come manifestazione della estraneità del più
intimo, come sorgiva presenza del mondo che ha già da sempre invaso
i miei paraggi, incombe nello sfondo di ogni istante .
Il decorso autografico della vista presenta a sua volta peculiarità es­
senziali, costitutive dell'immagine del sé (si pensi alla cosiddetta fase
dello specchio in Lacan). Ma dobbiamo tralasciare tali analisi per con­
centrarci invece su ciò che qui è per noi più essenziale : come è auto­
fonico l'udito ? lo non mi ascolto ascoltare e non mi odo udire, cosl
come mi sento toccato e toccante . L 'udito non ha la pregnanza autogra­
fica del tatto, né l 'evanescenza immaginante della vista . Al suo interno
però si staglia, come sua particolare manifes.tàzione, il fenomeno della
voce che apre per noi un campo di osservazioni straordinarie .
· Il gesto vocale appartiene ai grafemi dell'udire, cioè alla provenienza
dal mondo che disloca e colloca il grafema corporeo in un suo dove, in
un suo essere circostanziato. Ma il gesto vocale sembra anche smentire
questa peculiarità generale dei grafemi acustici : esso ha infatti un 'inne­
gabile spontaneità che lo avvicina al gesto visivo . La voce sembra scatu­
rire a sua volta da un punto zero affine al punto zero della visione . Ma
poi c'è anche di più .

26
Col dovuto rimbalzo

La vista fa sorgere il visibile in virtù del suo spontaneo mettere a


fuoco , senza il quale il visibile non diverrebbe mai « visto » . Invasa dalla
ri velazione della luce, la vista mette in opera il suo rimbalzo, cioè la sua
Jltospettiva spontanea sul mondo circostante che essa ordina a partire da
Né. Emergono le distanze visive, che sono rimbalzi prospettici . Ma la voce
f11 altro e di più . Essa non si limita a ordinare l 'udibile che proviene :
u nica fra tutti i gesti possibili, essa pro-duce fenomeni che non esiste­
vano e li porta nel mondo . Non è che la vista, vedendo , possa far appa­
rire immagini : essa non può produrre alcun visibile nel mondo. La voce
invece produce fenomeni che stanno nel mondo per tutti . Il mondo era
prima silenzio di voce ; esso, come dice Merleau-Ponty, era muto . Ora
nel mondo �< si» parla . Il fenomeno della voce prende luogo e invade il
mondo. Certo anche il tatto produce fenomeni nuovi : scalfìsce la selce
c disegna figure nel fondo di una caverna; ma con ciò propriamente modi­
fica l 'esistente , non lo produce ex nova . Il gesto vocale, là dove era
nulla, fa apparir qualcosa : qualcosa di «inaudito» . Sicché il gesto vocale ,
per questa sua peculiarità, lo potremmo definire come l'essenziale testi­
monianza autofonica della propria sussistenza nel mondo . E se noi ricor­
diamo che esso è il primo gesto che, nella forma del grido e del pianto ,
il bambino emette all'atto della nascita, potremmo dire che la voce è
propriamente il gesto del venire-al-mondo : prima testimonianza del sé
«gettato » , cioè posto a distanza, es-pulso. Che il nulla della sua prove­
l ti enza, il suo risuonare da nulla, dal null a del silenzio e da un nulla di
p resenza , rispecchi il nulla dell'Oggetto , è ciò che qui dobbiamo accon­
tentarci di accennare in questa forma allusiva.
George Herbert Mead, e poi Jacques Derrida, hanno affidato alla
voce una funzione determinante per la nascita dell 'autocoscienza e del
l inguaggio . Il gesto vocale, essi hanno detto, ha la proprietà di rendere
olfetto me stesso cosi come io rendo affetto l'altro . Io mi sento parlare
cosl come l'altro mi sente . Ciò che dico all'altro lo dico anche a me. È
nella voce il principio dell'anima e del dialogare muto con se stessi . Io
Mono il parlato a partire da me , dalla mia intimità più propria, poiché
ln voce incarna la massima presenza, cioè la letterale presenza a se stessi
che è condizione ( come già sapeva Kant) di ogni altra presenza. L'impor­
tunza di queste osservazioni si commenta da sé. Ma noi dobbiamo proce­
tbe oltre , poiché molto altro c'è da dire e il tema del linguaggio e del
diocorso , verso il quale tendiamo, resta ancora celato , non pensato e non
nt tinto .
Anzitutto dobbiamo osservare che sinora noi abbiamo esaminato solo

27
Carlo Sini

il caso delle «ri�poste di mondo » ; ma che accade se la risposta risponde


e corrisponde a un polo oggettuale che in verità è un altro soggetto ,
un altro luogo di grafemi originari? È proprio il gesto vocale a sugge­
rire e anzi imporre questa svolta . La voce, che rompe il silenzio del
mondo, opera uno sdoppiamento : io mi sento rispecchiato da essa. Con
la voce mi divengo interiore, ma in tal modo , ho anche l'altro : l'altro
me stesso e l'altro come me stesso (io mi sento parlare come mi sente
l' « altro») .
Questa situazione ' è però ancor più generale e concerne a suo modo
tutti i grafemi . Non è solo il bastone che è afferrabile, è anche afferra­
bile la mano (o il dito, per il bambino in cull a ) , la mano dell'« altro »
che a sua volta afferra. Non è solo l'albero che è visibile, ma lo è anche
l'occhio dell 'altro che mi guarda. Infine (questione per noi decisiva) non
si ascolta solo il mio gridare a vuoto e nel vuoto che mi circonda, ma vi
è anche il mio parlare al quale la voce dell'altro risponde e corrisponde .
Stiamo cioè avvistando le risposte <<intersoggettive » e che in esse il lin­
guaggio debba occupare una posizione preminente pare ovvio : non ha
forse il linguaggio un'essenziale funzione comunicativa tra soggetti?
Ma possiamo noi procedere cosl? possiamo far entrare in gioco il
carattere intersoggettivo del gesto vocale in base alla semplice constata­
zione empirica dei soggetti che comunicano e che si parlano? Non è per
questa via che noi ci manterremmo fedeli alla pragmatica del linguaggio
che è ora necessario delineare . Non possiamo presupporre l'intersogget­
tività e la comunicazione, ma dobbiamo veder sorgere tali nozioni come
effetti originari della gestualità vocale e non vocale, come specifiche ri­
sposte e rimbalzi. Dobbiamo veder sorgere entro la nostra pragmatica
l 'altro come altro me stesso .
Anzitutto però bisogna notare che già nel dire «me stesso» noi dob­
biamo procedere con molta cautela. Ogni grafema, ogni gesto, si mani­
festa in termini di risposta. La risposta è TI?· pro-dursi nel bilico della
distanza. Rispondere, cioè, è già un esser pòsti lontani ( ai margini del­
l'oggetto che il gesto fa emergere nella sua funzione oggettivante) , anche
se il rispondere proviene originariamente proprio da là rispetto a cui
si è posti lontani (l'afferrare è un orlo dell'afferrabilità del mondo ecc.) .
Ma col rispondere accade anche il rimbalzo : la risposta pone a distanza
il mondo in una sembianza determinata dalla natura stessa del gesto (il
mondo in sembianza di bastone ecc.) . È proprio questo rimbalzo che
determina nel contempo la sfera della corporeità propria; secondo le
gestualità esemplari sin qui esaminate : i paraggi corporei, l'infinità pro-

28
Col dovuto rimbalzo

spettico-panoramica, la circostanzialità dello spazio sonoro proveniente .


Si potrebbe dire : nel rimbalzo ci si viene distinguendo dal mondo, come
punto zero generico del rispondere e del corrispondere . Il neonato è
manipolato, afferrato, sballottato, invaso da ogni parte ; egli ne fa espe­
rienza come orlo rispondente e corrispondente di questo manipolare ,
afferrare ecc. Ma nel contempo, rispondendo, egli tiene a sua volta a
distanza, per quanto può e come può : arresta, spinge , scosta, afferra ecc .
Il punto zero è in realtà un'isola frastagliata che si viene via via conso­
lidando e delimitando (e che ha comunque al suo interno la provenienza
del mondo come dolore «viscerale » ecc . , secondo un'osservazione già
richiamata ) .
Come s i vede, risposta e rimbalzo accadono insieme . I l rimbalzo
opera «esplosivamente» in due direzioni : una si dirige al mondo (che
tiene a distanza), l'altra si ripercuote sul punto zero della risposta (sul
�uo orlo e bilico) , determinando in tal modo ciò che noi chiamiamo il
« Hé » . Non c'è in fatti, a livello di pragmatica originaria, un «colui» che
l'l11pondc . No n c 'è il bombino che ha fame (come si diceva prima : questa
(: Nolo In n oH I l'Il intc:tprt•lo:r.ionc) ; ciò che accade è, per così dire, una
fmnc: infnntil<:! . :8 il l'imbnlzo che cos tituisce via via il sé di questa fame ,
l 'cspl'imersi come fame distinta dal mondo (in sembianza «famelica» ) ,
rome esser bambino che « è » fame, quella determinata fame che ora ac­
rndc. Il rimbalzo, nelle ricorrenti trame delle sue funzioni oggettivanti,
vi ene via via definendo un possibile polo oggetto (le cose come effetti
ddlc: risposte pragmatiche) e, correlativamente, un possibile polo sog-
1-\' l lto . Il sé è un effetto del rimbalzo quanto il mondo : non solo il rim­
llll lm tiene a distanza il mondo , ma tiene anche a battesimo il sé. Mondo
t� llé �i differenziano originariamente nel rimbalzo e per il rimbalzo.
Ma il rimbalzo del gesto vocale è, come si è visto , il rimbalzo auto-
1-l •�nfico per eccellenza . Io non mi vedo vedere ma mi ascolto parlare . Io
H'li offetto con la voce come affetto l'altro . Ma come propriamente ac­
cndc ciò? Ecco un punto essenziale che è rimasto finora impensato . Ma
lH'imo di concentrarci sulla voce, vediamo rapidamente cosa accade an­
che negli altri nostri abituali esempi.
Abbiamo detto che la risposta, in quanto orlo, è parte del mondo che
11i manifesta . Solo a partire da un orizzonte di afferrabili emerge il gra­
fcm a <�mano che afferra» (e come potrebbero esserci mani e gesti del­
l 'offcrrare se tutti gli eventi dell'universo fossero liquidi o gasasi? ) . Ma
d.ò che è afferrabile è talora anche ciò che a sua volta afferra, con tipici
nJorobramenti (il bastone si adombra diversamente dalla mano dell'altro

29
Carlo Sini

che io afferro e che mi afferra) . In questo caso la risposta dell'afferrare


sta alla periferia dell'essere afferrato, come suo punto di orlo e di ten­
sione . Si forma cosl un'interconnessione originaria che è certo essenziale
nei rapporti dei bambini con i genitori, nei rapporti sessuali , ecc . Il bam­
bino che , come esempliEcavamo prima, viene afferrato, manipolato ecc .,
è collocato, per questi grafemi, in una sorta di corporeità interumana,
quasi egli fosse ( e in certo modo letteralmente è) un'appendice del corpo
dei genitori . È solo perché inserito in questi ristretti paraggi corporei
che il bambino può sopravvivere e, come si dice, crescere . Qu\!ste rela­
zioni non cos tituiscono peraltro un'intersoggettività (anche s � nessuna
intersoggettività è possibile senza questa relazione di base ). Anche gli
animali stanno tra loro nella connessione dei paraggi corporei e cosl
l 'uomo con certi animali .
Lo stesso è da dire per le risposte degli sguardi : vi è un'intercon­
nessione originaria, una sorta di intesa , che collega la trama degli sguar­
di. Il rimbalzo dell'esser guardati (che poi significa anche custoditi) è
certamente importante per delimitare la frastagliata zona che qui abbia­
mo chiamato punto zero e che viene emergendo come il sé . Tuttavia
non si può nemmeno qui parlare di una connessione o di un'intesa inter­
soggettiva, una relazione con l'altro « come me » . Il mio cane mi guarda
palesemente negli occhi per indovinare e controllare le mie intenzioni,
cosl come è consapevole che i gesti vocali che gli vengono indirizzati
intendono qualcosa , anche quando lui non li capisce .
Dopo queste schematiche osservazioni preliminari, veniamo final­
mente al gesto vocale. Come accade qui il rimbalzo della voce, il sen­
tirsi parlare? Nel rimbalzo della voce io sono da un lato il risultato
come origine del gesto, dall 'altro ne sono insieme l 'oggetto. Nel rim­
balzo della voce infatti il cosiddetto soggetto del gesto è in realtà un
risultato . Il bambino piccolissimo strill a , ma lui non ne sa nulla ; non
può vivere tale esperienza nella modalità dell' «io strillo», poiché non
c'è per lui nessun io . C 'è solo una sorgente cll ' voce , un «si strill a » , c'è
un grido come insorgenza spontanea, un evento senza nessun sapere
(dell 'evento) . Questo gesto vocale determina però il rimbalzo per il quale
la sorgente che lo ha emesso anche lo ode, lo sente. C'è un avvertire il
grido e un sentirsi gridare. È questa particolare risposta al rimbalzo che
determina il sé come risultato , sebbene questo risultato sia il medesimo
dell'origine del gesto . Là dove si manifesta il risultato, proprio in quello
s tesso luogo c'è l'origine , là dove il gesto è avvertito è anche sorto . Ma
allora il sé come risultato e origine è nel contempo anche l'oggetto della

30
Col dovuto rimbalzo

voce . La voce mira a me, intende me ; la sua funzione oggettivante sono


proprio io, o il sé, com'è meglio dire . Il primo oggetto del grido non si
volge all'esterno, per riclùamare per esempio l'attenzione o per chiedere
aiuto : non vi è infatti alcun esterno, poiché neppure vi è un interno. Per
questo possiamo dire che il sé è il parlato della sua stessa voce, o dalla
sua stessa voce . La voce dice di me, dice a me e dice me. È questa voce
che mi chiama nella presenza, pur non incarnando essa, al suo insorgere,
alcuna simile intenzione .
Bisogna dunque risalire a questo strato della gestualità vocale pura,
se vogliamo veder sorgere pragmaticamente ciò che chiamiamo soggetto
e poi intersoggettività . Questa è la via che non è stata seguita da Husserl
nella quinta delle Meditazioni cartesiane, cosl come non è stata affa tto
avvertita come necessaria in Essere e tempo di Heidegger, dove la di­
stinzione tra l 'esserci e l'ente difforme dall'esserci è posta, o per dir
meglio pre-supposta, in maniera aproblematica. Non è dunque l'ego nella
sua egoità che deve essere assunto a tema , per ritrovare poi al suo inter­
no gli altri ego cosl come il prestigiatore estrae dal cilindro il coniglio
che prima non c'era ; né l'intersoggettività va assunta come un con-esserci
già ovviamente dato il cui senso d'essere è distinto da quello dell'ente
difforme dall 'esserci per decreto del fato o perché all 'essete cosl piace
misteriosamente di donarsi . Ciò che va tematizzato è il gesto vocale nel
suo puro evento, nel suo semplice accadere : è questo gesto che deter­
mina l'io e gli altri io, il sé e l'intersoggettiva connessione dei sé. Il tema
è dunque : la con-costituzione io-altri io .
Come ogni gesto, il gesto vocale ha un rimbalzo che potremmo defi­
nire, per intenderei, « subiettivante» . Alla sua origine, tuttavia, esso pone
due polarità correlative che non hanno motivo di chiamarsi né soggetto
né oggetto . Il problema è di vedere come le pone . Per la sua già descritta
natura autografica (che comporta l'identificazione della sua circostanzia­
lità acustica con la fonte stessa del gesto) potremmo dire che il gesto
vocale promana e proviene (proviene dall'oltre del mondo e promana
dal punto zero della gestualità stessa) . Esso è un gesto duplice che si
nuto-obiettiva . La voce si espone nel mondo e si riflette su di sé come
uno specchio ideale, consentendo al gesto medesimo di vedersi, di per­
venire a una auto-audizione di sé . Il gesto vocale è essenzialmente specu­
lnre. Per questa sua peculiarità, il gesto vocale chiama, evoca nella pre­
f.lenza, nomina, sebbene all'inizio in modo ancora implicito . Il gesto vo­
cale chiama nella presenza ancor prima del linguaggio : non c'è alcuna
intersoggettività linguistica costituita e tuttavia il gesto vocale esercita

31
Carlo Sini

già una funzione auto-oggettivante. È cosl che ,si apre per l'emittente la
possibilità di venir reso oggetto del suo stesso gesto, cioè di riconoscersi
e di sapersi appunto come emittente.
Ma che accade nel momento in cui il gesto vocale trova risposta in un
altro gesto vocale? Che accade quando l'emittente non è più soltanto
una «vox clamans in deserto», ma il deserto risponde ?
Prima di tutto prendiamo in considerazione quella che potremmo
definire la risposta generica al gesto vocale. Tale gesto è in tensione
verso una risposta ( intende una risposta), l'ha di mira come risP,osta diffe­
rente dal gesto vocale . Per esempio: il bambino piange e viene preso in
braccio. Piangere allora «vuoi dire» venir presi in braccio . La risposta
si ripercuote sull'emittente che d'ora in avanti «sa» di esser colui che
piangendo viene preso in braccio, e ne profitterà ben presto . Non sol­
tanto cioè il bambino si sente parlato, o gridato, dalla sua stess::t voce,
ma per di più questo esser gridati-gridanti trova risposta nel venir presi
in braccio. Il gesto vocale non nomina e determina più soltanto me ( l'e­
mittente dapprima inconsapevole) , ma nomina ed evoca anche la risposta
corrispondente, che cosl determina a sua volta la tensione (l'intenzione)
dell'emittente (per esser presi in braccio bisogna gridare) . È qui l'origine
del significare della parola, origine che precede la langue come sistema
convenzionale di segni.
·
Che accade però nel momento in cui il gesto vocale suscita una ri­
sposta specifica (cioè un altro gesto vocale) ? Ciò che accade è che con
questo gesto si intende, si vuol dire, il medesimo.
In genere è peculiare di ogni gesto o grafema ( compreso il gesto
vocale teso verso una risposta generica ) il non intendere il medesimo.
Se il bambino alza le braccia per esser preso in braccio, ciò che questo
gesto intende non è che noi, per tutta risposta , alziamo a nostra volta
le braccia. Cosl pure se piange non intende che la risposta sia un altro
pianto. Tuttavia si danno qui alcuni casi particolari che sembrano dap­
,
prima marginali, rispetto al nostro problem'ìi , e che invece ci condur­
ranno proprio nel cuore di esso.
Chiediamoci ad esempio: che accade quando lo sguardo vuole incon­
trare lo sguardo? Ecco un gesto che, contrariamente a quanto si è detto,
vuole proprio il medesimo. Lo sguardo che mira a esser guardato vuole
qui la stessa cosa (il medesimo di sé nella risposta) che vuole il gesto
linguistico che miri a una risposta linguistica. Anche il tatto presenta
esempi analoghi : nel porgere la mano intendo che si risponda il mede­
simo, cioè con una stretta di mano, e spesso nell'accarezzare si accarezza

32
Col dovuto rimbalzo

per essere accarezzati . Più del tatto, però, è proprio lo sguardo che si
intreccia al gesto vocale che mira al medesimo : il guardarsi negli occhi
è un comportamento che accompagna in modo preminente il conversare .
C'è però un elemento essenziale che distingue il guardare e il parlare e
che è determinante per chiarire la natura del grafema vocale.
Nella reciprocità dello sguardo che chiede il medesimo (ti guardo
perché voglio esser guardato da te) ciò che non accade è che tale gesto
possa mai sollevarsi a un'oggettività sua propria . Nella reciprocità dello
8guardo i guardanti sono chiusi in una loro esclusività e privatezza; è
un fatto che li concerne e che resta tra loro, che non è né noto né
pubblico . Certo che questo fatto può essere scoperto o, come si dice,
smascherato : all'amante geloso non sfuggono eventi del genere : -Vi
stavate guardando ! Un terzo indiscreto può scoprire il fatto che due si
guardano, può aggettivarlo e tenderlo pubblico. Ma questa possibilità
non fa che ribadire e confermare che il gesto del guardarsi, questa inten­
zione di identità nelle risposte, è un fatto privato , un atto a due, una
corrispondenza biunivoca. L'intenzione è originariamente «coperta» e
perciò può essere «scoperta» . Nel guardarsi reciproco c'è un'intenzione
di intimità.
Che accade invece nel gesto vocale diretto a una risposta specifica ?
L'evento che si produce non è privato. Gli innamorati in pubblico si
guardano lungamente, ma parlano poco tra loro, oppure bisbigliano ; se
si telefonano si nascondono dietro le porte . Essi infatti sono ben consa­
pevoli che questa, che dovrebbe essere una comunicazione privata, per
la natura stessa del gesto vocale non lo è: essa è e diventa inevitabil­
mente pubblica, aperta di principio a tutti. Il gesto vocale è essenzial­
mente oggettivo , universale , anonimo. È ancora per questo che noi spe­
rimentiamo talora una caratteristica difficoltà: -Non mi vengono le
parole. La parola infatti ha una sua imponenza, genera timore e imba­
razzo : una volta detta è detta . C'è molta più intensità nello sguardo, c'è
un'indeterminatezza carica di significato, e tuttavia non compromettente
sino in fondo . Il gesto vocale ha meno intimità e intensità, perché si può
dire con uno sguardo dò che la voce non potrà mai esprimete; ma put
con questa minore intensità, la voce ha una sua ingombrante oggettività .
Ciò che viene detto acquista un rilievo che prima non aveva (e del resto,
come si era notato , il gesto vocale fa apparite }'«inaudito» , crea ex nova,
dando consistenza a ciò che prima non era magari neppure avvertito) .
C'è un personaggio di Stendhal che guarda la donna di cui è inn amorato
mentre si allontana con un amico ; essi sono semplicemente amici, ma

33
Carlo Sini

egli, da buon geloso, ha intuito la possibilità � che vi sia altro nei loro
rapporti, forse lo ha colto nei loro taciti sguardi ancora inconsapevoli,
e allora dice a se stesso : -Se ora uno dei due pronuncia la parola «amo­
re» io sono perduto. La parola rende pubblicamente consapevoli i due
di ciò che essi magari sentono oscuramente, ma ancora non sanno : essa
dà un nome, una fisionomia e un'essenza a eventi indeterminati e confusi .
La parola, una volta pronunciata, acquista una valenza pubblica, rim­
balza autografìcamente sui soggetti che l'hanno pronunciata e li rende
autoconsapevoli : trasforma due amici in amanti. Per sua essenp il gesto
vocale è un grafema che si solleva al di sopra degli emittenti e rimbalza
in essi , ma non solo in essi : il gesto crea fenomeni «per tutti» , per un
«sé» universale . In tale grafema accade cosl una dislocazione infinita­
mente possibile di poli autoriflessivi. Questo è finalmente il principio
stesso dell 'intersoggettività, che ora sta dispiegato davanti a noi, come
conseguenza e prodotto della natura stessa del gesto vocale.
Tale principio va ora approfondito e chiarito con alcune osservazioni
che a loro volta si rifanno alle peculiarità del grafema vocale.
La prima osservazione concerne la «contemporaneità della voce». Da
un certo punto di vista è il tatto il gesto che possiede la massima con­
temporaneità. Che fanno due persone che si amano e che si incontrano
dopo una separazione? Si gettano l'uno nelle braccia dell'altro . Esse si
conducono così nella massima contemporanea presenza, entro i limiti
dei paraggi corporei e dei connessi adombramenti ( se ti stringo alla vita
non ti stringo alle spalle ecc.). La presenza reciproca è condotta alla
minima possibile distanza. Tuttavia, una reciprocità soltanto tattile ha
i limiti delle sue stesse virtù : essa è, per dir così, troppo vicina. Dopo
essersi tumultuosamente abbracciate, vediamo le due persone separarsi,
allontanarsi, guardarsi negli occhi; infine, calmatesi un po' e ripreso il
dominio di sé, cominceranno a conversare. Per la pienezza di reciprocità
complessiva si esigono altre distanze, con le quali il tatto muore : esso
non tollera che nemmeno un passo ci divida { ina la vista invece lo ri­
chiede, e anche la vista ha una sua peculiare contemporaneità, con una
potenza di istantaneità anche maggiore. Sicché si arriva sovente a solu­
zioni di compromesso : ci teniamo per mano e ci guardiamo . Ma la con­
temporaneità della vista è poi continuamente minacciata dai suoi adom­
bramenti, cioè da continue interferenze dell'intenzionalità del raggio vi­
sivo e dal suo stesso irrequieto stancarsi. Contrariamente al tatto, essa
è troppo lontana : non si è mai a fuoco nel punto giusto e il fuoco sfugge
sempre .

34
Col dovuto rimbalzo

Sia il tatto sia la vista promanano, come sappiamo , dal punto zero
della mia spontaneità corporea. Che accade invece con la voce che, in
certo senso, premana «da fuori» ? Proprio la voce incarna la massima
circostanzialità, cioè contemporaneità, possibile. Anche la voce ha ovvia­
mente i suoi limiti, i suoi adombramenti : se siamo a cinquanta passi non
riesco a udirti. Però la voce crea una contemporaneità allargata, ogget­
tiva, relativamente indipendente dal mio punto zero . La voce che risuona
ci oggettiva tutti insieme, in una contemporaneità che nessun altro gesto
potrebbe mai raggiungere. Ci si tocca e ci si guarda a due per volta; in­
vece il gesto vocale arriva a tutti, è «per tutti» , è oggetto di tutti. Biso­
gna anzi dire, in modo originario e come abbiamo ormai compreso, che
è col gesto vocale, e solo con esso, che il «tutti» emerge, si manifesta e
�i pone nella presenza.
Ma il gesto vocale (seconda osservazione) possiede anche un altro
li po di contemporaneità: la parola si intrama e si intreccia con tutti gli
n l t t'l flCSti in modi peculiari. La voce infatti non «disturba» gli altri ge­
rH I . Ancht ques ti si associano tra loro : guardiamo e insieme tocchiamo ;
l ltll qurWI IIN�od nzionc nasce per lo più da u n bisogno di reciproco con­
t rullo dd HCH ti , non da una contemporaneità libera e sciolta, come ac­
l'Hlie '}tlnl ldo mi n nno do la cravatta e intanto parlo con un amico di questo
� tl l q u d ! o . 11 fìlo della parola continua n tesser e le sue trame : l'uomo
)Hltln Hcmprc , hn el etto I-Ieicleggcr ; nell'uomo di continuo «si parla», sia
che veu11 811\ cht: dormn. C 'è u n n V()Cc che non tace e non desiste dal
11\ ll l �e•tlt:ohu•e Il t'Il l'IO IlO l'O l! mn t�llcm�ioso . È in questo senso che l'uomo
�diOiQtU ntl l lnQlii1Hf4lt), Il f(rnfcma vocale tiene in presenza : esso è
JU'O�rllltnOOttl J1 (!t'il fCl dell'« esscre». La voce «è» (dice ciò che è, che è
JH'tlHtlllte) , Hlcché l'«è» <1: più originario dell '«io sono» . Questo fatto è
fla1nlmentc chiarito in modo risolutivo . È l'«io sono» che deriva dall'«è» ,
(!lltnè rimbalzo e risposta al gesto vocale che dice ciò che è presente per
1\\tt i . È in questo fatto che la metafisica (e quindi anche la scienza) ha
I l HUO fo11damento di verità, sebbene essa non sappia pensarne la natura
u ln genesi , e quindi anche il limite . La metafisica deriva da un rimbalzo ,
ltlll non sa stare nei limiti della giusta risposta, della dovuta distanza,
doè non sa corrispondere al proprio rimbalzo.
Ln questione dell'essere e della sua «verità» regge da sempre le sorti
ddln civiltà occidentale; ma tale questione si radica nella specificità della
voce , nella sua capacità di dire ciò che è «per tutti» e di tenere il detto
udln contemporaneità della presenza per tutti . La verità è cosl a dispo­
t�lzlone di tutti coloro che parlano in nome dell'«è», di ciò che «è in

35
Carlo Sini

comune» : essa compete agli uomini «logici»� La voce pone tutti allo
stesso livello , e anzi pone i «tutti» accomunati dalla voce «logica» :
pone il «noi» di un rispondere intersoggettivo che ognuno, rimbalzando
in sé l'universalità del gesto, può incarnare (ciò che è detto a te e a me
è detto idealmente a tutti, tutti possono farsene carico e disporvisi).
Ognuno è parlato dalla voce, è il detto della voce, e ha un essere per­
ché ha l'essere della voce che lo parla.
Terza osservazione : la massima genericità del gesto vocale. Se è vero
che per lo più non si guarda per esser guardati e non si tocq per esser
toccati (salvo casi particolari come quelli già esaminati), nel caso del
gesto vocale tale osservazione vale come regola pressoché sovrana. Anche
nel caso della risposta specifica, il gesto vocale intende sempre altro dal
gesto vocale . La parola non mira ad altre parole, non se ne appaga né
si realizza in esse. Il singolare fascino dei personaggi di Beckett sta
proprio nel loro contravvenire questa regola generale : essi parlano al
solo scopo di far rumore, conversano senza altra finalità o esito ulte­
riore . Ciò non accade a caso : i personaggi di Beckett sono uomini che
hanno perduto ogni intenzionalità o senso pubblico ; essi vivono sull'ul­
tima spiaggia del nichilismo occidentale, cioè non dimorano più nel­
l'essere e nel logos. Essi hanno letteralmente perduto l'essere, la verità
universale per tutti, e perciò , coerentemente, non hanno più la parola,
la parola veritativa e sensata che dice per tutti; hanno bensl la voce
(come gli animali, o certi animali, secondo Aristotele) , con la quale, es­
sendo <mmani», dicono ; ma non dicono nulla.
Il gesto vocale intende sempre altro perché gli è costitutiva una
caratteristica povertà e genericità di oggetti. Il tatto ha i suoi definiti
oggetti (non generici e non scambiabili) , il gusto anche e cosl via. Non
posso assaporare un cibo solo guardandolo , · toccandolo o facendone una
descrizione . Il gesto vocale invece, anche se richiede un altro gesto vo­
cale come risposta, non ha in questo il suo oggetto . Esso infatti non ha
oggetti specifici e solo cosi li ha genericamerlt� tutti. La funzione ogget­
tivante del gesto vocale ha una massima povertà, ma anche, per contrap­
peso, la massima estensione e autonomia . È libero e disponibile per tutti
gli oggetti, in quanto li assume «per tutti».
Da ciò deriva la capacità, tipica del gesto vocale, di indicare e di
evocare (nominare) l'assente. Si è sempre pensato che questa sia ap­
punto la peculiarità e la ragion d'essere del linguaggio , ma lo si è pen­
sato in modo superficiale e anche erroneo . Siccome io non posso portare
un cavallo in carne e ossa in questa stanza e indicarlo «ostensivamente»

36
Col dovuto rimbalzo

con la mano , allo ra uso, d'accordo con voi, un suono vocale conven­
zionale. Ecco a cosa serve il linguaggio, perché è nato e perché i suoi
segni sono convenzionali . Ancora oggi c'è chi ripete questa banalità. La
parola è significativa perché sta al posto della cosa che non c'è : intesa
pratica come un qualsiasi accorgimento gestuale o mimica facciale dei
giocatori di briscola . Solo che, già per potersi «accordare», noi dovrem­
mo avere il linguaggio . Ma il fatto fondamentale è che la cosa della pa­
rola è assente anche quando, per ipotesi, la cosa stessa sia presente. La
presenza qui di un cavallo non renderebbe meno assente l'oggetto della
parola <<cavallo» . E inoltre noi non potremmo avere alcuna «cosa» nella
presenza, alcun «cavallo», se già prima non si fosse per noi aperto lo
spazio della parola e della nominazione, il suo gesto peculiare . Le cose
si manifestano nelle parole e non prima di esse, cosl che noi possiamo
stabilire dei segni che vi rimandino .
Per cogliere l '«assenza» che appartiene al gesto vocale (gesto massi­
mamente generico e massimamente oggettivante) , bisogna anzitutto ri­
cordare che la voce (come ogni fenomeno acustico) chiama «da fuori» o
da «altrove», rispetto al dove in cui essa risuona. È quell'altrove che
costituisce il mio dove autografico, nel suo «sé» e nel suo «essere». È
per questo motivo che l' «anima» è caratteristicamente assente, non sta
in alcun luogo , non è identificabile in alcuna parte del corpo né in un
altro dove : il bisturi non la potrà mai trovare, né nella testa, né nel
cuore, né nel fegato . Essa infatti è invisibile, impalpabile, ecc., sebbene
sia udibile (per es. come «voce della coscienza» e simili). L'anima è in­
fatti il di fuori autoriflesso, autografico, è la voce che risuona panacu­
sticamente come «è», rimbalzata sull'emittente e cosl «interiorizzata»,
resa « soggetto » .
A questa caratteristica assenza dell'anima . corrisponde l'assenza del­
l'oggetto della voce : il di fuori che risuona da altrove è infatti un «per
tutti», né mio né tuo né suo (anzi , « miO» e «tuO » ne derivano, come
poli dell'esplosione panacustica della risposta rimbalzante) . Per questo
Husserl poteva scoprire, nel più intimo me stesso, nella più riposta
egoità, la presenza dell'«altro generalizzato» (come diceva Mead), ovvero
del «noi». Nella più profonda interiorità io sono come tutti (contraria­
mente a ciò che crede Heidegger, e prima ancora Kierkegaard o Pascal ) ;
più esattamente : sono u n « tutti». Questa era del resto l a grande sco­
perta di Socrate, che sta all'origine della filosofia e del pensiero <<logi­
co», razionale : che c'è, risuona, nel più intimo, una voce che parla e
dice il vero e il bene «in sé», cioè universale; vale a dire : «per tutti».

37
Carlo Sini

Nell'accarezzare, nel gustare , nel vedere il rimbalzo di queste risposte


costituisce un dove che, per dir cosl, è solo nii o e che io non posso
condividere con nessuno. Ma l '«io» di cui parlo, e che parla, siete anche
voi, siamo tutti : tutti siamo quella soggettività logica o spirituale . Tutti
siamo l'«umanità » , gli <<Uomini» (intendendo anche le donne, seppure
con qualche fatica) . Questa <<Umanità» per tutti è un assente che sta
nella presenza : non si tocca e non si vede, ma è alla radice di ogni toc­
care e vedere che sia autoconsapevole, che «sa di sé» . Se io rivolgo uno
sguardo a una persona,, nessuno può rispondere e corrisponderr al suo
posto, ma se rivolgo la parola a qualcuno, tutti di principio ;possono
rispondere, tutti sono idealmente coimplicati come « corrispondenti» , e
in questo senso appunto tutti ci corrispondiamo, siamo uguali.
La grandiosità e la verità del progetto della civiltà occidentale pog­
gia sulla consistente gestualità della voce; vi si fonda in modo legittimo
e, conseguentemente, eflicace, come tutti possiamo vedere. La razionalità
scientifica non inventa l'astrazione e l'astrazione non è affatto una «vio­
lenza», come oggi, semplicisticamente e pateticamente, spesso si crede.
L'astrazione è insita nell a natura della voce, con conseguenze di incal­
colabile portata che il logos occidentale, istituendo la società razionale ,
universale e pubblica, ha compreso e sfruttato meglio di altre civiltà. E
tuttavia anche la violenza accade. Essa non è iscritta nel grafema vocale
in sé, ma nella pretesa assolutizzante ed esclusivistica che esso sia l'unico
senso dell 'esperienza : non avrai altra verità fuori di me.
L'assente che la voce nomina è pubblico, cioè , come diceva Husserl
delle essenze, intemporale. È rispetto a questa intemporalità che la tem­
poralità concreta (la distanza costitutiva) degli altri grafemi corporei è
stata dichiarata trascurabile, non propriamente <mmana», piuttosto «be­
stiale» e simili, secondo un 'etica che ancora ci governa e che non è
affatto sormontata quando ci si appella polemicamente alle «ragioni del
corpo» (come se gli iloti fossero più innocenti e più belli degli spartiati) .
Sull'intemporalità è fondato anche il progetto ·,;scientifico che è anzi la
più radicale affermazione del carattere pubblico della verità e della realtà .
Ma questo non è che il risuonare rimbalzante, da un capo all'altro della
terra, dell'originaria parola di Parmenide : vero è l'«è» ; e di Eraclito :
vero è il logos a tutti comune e pubblico. La verità e la realtà sono
«ragionevoli» , cioè a disposizione di tutti gli uomini di buona volontà
«logica» .
Per questo i grafemi vocali chiedono sempre che la risposta, sebbene
vocale, intenda «altro», cioè evochi l'assente per definizione, ciò che

38
Col dovuto rimbalzo

vale per tutti . La parola proviene dall'assenza ed è l 'evocazione del­


l'assenza perché essa è da altrove che chiama . Cosl essa «nomina» : non
perché il cavallo concreto non c'è, non è nella presenza, ma perché non
c'è mai quello che la parola evoca, anche quando il c avallo c'è. La pa­
rola ha l'assente dentro di sé per sua costituzione e natura, o non sarebbe
parola. Il suo assente non è diverso qùando la cosa empirica sta n da­
vanti o quando sta altrove ; e anzi la cosa empirica può stare ll davanti
solo perché la parola ha nominato l'assenza, il per tutti . Per questo essa
ne parla, operando uno scarto rispetto a ogni altro grafema che le con­
sente di dire ogni oggetto per tutti : per esempio proprio questo tuo
vedere, toccare e gustare, ma sollevato a un sapere per tutti . La voce
parla per tutti, anche quando parla di me, poiché parla di me in una
universalità che fa tutt'uno col noi . Nella voce non si tratta di « me » ,
s e per esempio «me» vuoi dire l'<mnico» , come diceva Stirner : ecco
il punto .
Dichiarare «falso» questo gesto è una ricorrente ostinazione, il cui
contraddittorio esito è quello di chiudersi in un autismo singolare . Auti­
smo che deve dichiarare che le parole «unico», oppure « mondo» (come
dice Wittgenstein ) , o ancora «Ereignis>> (come dice Heidegger) non son
neppure parole, non appartengono alla langue, o sono «parole singolari»
(secondo l'espres sione, quanto meno «onesta» , di Vincenzo Vitiello) :
cioè non si sa che cosa sono e comunque non si può «dirlo» (avendolo
detto) .
Ma il gesto vocale non è «falso» . Anzi è proprio e per essenza «ve­
to» , perché non c'è altra verità pubblica dalla sua . Solo che la verità
pubblica non è il tutto di ciò di cui facciamo esperienza.
Il tatto, la vista, il gusto ecc . rispondono in presenza di questo e
di quello . Ma la voce risponde in presenza di che? La risposta che corri­
sponde alla sua intenzione è in un altrove dalla voce (mentre la risposta
che corrisponde al tatto non è in un altrove dal tatto) . Ciò a cui mira la
risposta vocale è il sé intemporale di ogni possibile grafema corporeo .
Ma questo non è altro che il concetto, il logos concettuale . La natura
dell'essenza della voce è il concetto.

3. Ciò che tutti sanno

Ricapitoliamo . La contemporaneità della voce è il gesto dell'essere


come presenza. La voce ha una funzione oggettivante universale per cui

39
Carlo Sini

essa vale per tutti, si dirige a un tutti generalizzato


'
. Il gesto vocale è
povero di oggetto, il che gli consente una libertà e una disponibilità che
nessun gesto ha. Povertà della parola che è anche la sua ricchezza essen­
ziale . Il gesto vocale è sommamente ostensivo, poiché può nominare
l'assente, il per tutti, cioè il punto di vista panoramico e pubblico che
è l'«in qualsiasi luogo» (o tempo) e quindi «in nessun luogo» . Questo
nominare non sta al posto del semplice ostendere corporeo : la rosa può
ben stare a un centimetro dal mio naso, ma la voce che nomina la rosa,
e proprio questa rosa, parla di un assente, non di una presenza corporea.
L'assente originario è poi l'Oggetto che, come ogni oggetto di. ogni ri­
sposta, anch'esso si adombra . L 'adombrarsi dell'oggetto della voce (cioè
dell'Oggetto) consiste in ciò : che l'oggetto è sempre altrove, non sta in
alcun grafema corporeo. Il gesto vocale nomina questa assenza renden­
dola presente «in parola», cioè disponibile per ognuno . Ed è proprio
così che il gesto vocale, ponendo l'oggetto per tutti, pone l'altro sog­
getto . Questi due poli esplodono insieme e nella loro essenza si corri­
spondono : l'altro soggetto è il medesimo dell'oggetto per tutti, lo stesso
della voce, vale a dire è egli stesso l'intersoggettività in cui ognuno è
oggettivato come altro dell'altro ( come «sé») . Per questo ognuno, nella
voce, nel logos, risponde come l'altro generalizzato .
Questo cammino però non ha fatto altro che circoscrivere, !asciandola
emergere dall 'interno dei grafemi linguistici e non linguistici, la funzione
concettuale stessa. Cammino pragmatico che ora ci consente di vedere ,
non che cosa il concetto è o ciò di cui è concetto (sintattica o semantica,
si era detto, non sono originarie) , ma che cosa il concetto «fa» . Ora
possiamo dirlo in breve : il concetto fa o significa una funzione opera­
tiva pubblica, cioè riproducibile e verificabile da tutti. Il concetto infatti
assume il punto di vista del «per tutti» e mira a un polo oggettuale pub­
blico come invariante (intemporale) delle sue molteplici apparizioni . Il
concetto cioè rivela la sua natura significativa in termini di risposta pub­
blica, in quanto mira a un valere e a un viger€: per tutti e per ciascuno .
Questa è propriamente l'universalità del concetto . Il concetto è così un
segno di ciò che si è pronti a fare in comune, segno delle risposte poten­
ziali di quel sé generalizzato che ognuno «è» .
Il concetto mira dunque all'oggetto ideale ; ma che è poi, dal punto
di vista della pragmatica, un oggetto ideale ? In termini pragmatici l 'og­
getto ideale non è che lo « schema» della risposta (nulla di misterioso
che stia nell'iperuranio o nella coscienza) . Schema di risposta valido per
tutti, cioè fondato sul rimbalzo che costituisce l 'intersoggettività dello

40
Col dovuto rimbalzo

schema stesso. Il linguaggio dunque si appropria di tutti gli schemi (di


risposta) proprio in quanto li nomina e li evoca. Il linguaggio non tocca
nulla, non vede nulla, non afferra nulla, non odora nulla, è povero di
oggetti (anzi, non ce li ha)-per questo Kant sentl il bisogno di dimo­
strare che dire di avere cento talleri in tasca non equivale ad averli vera­
mente. La parola non ci dà la cosa in carne e ossa; essa fa tutt'altro, e
non è cosa da meno: essa rende disponibile per tutti lo schema che è
presente in ogni risposta, in ogni gesto. Cioè traduce in verità pubblica
quella stessa verità che è implicita in ogni grafema.
Ognuno di noi, all'inizio della vita, ha afferrato e succhiato con forza,
dal seno materno e dal biberon (in caso contrario sarebbe morto): gesto
che accade indipendentemente da ogni funzione oggettivante del lin­
guaggio . Ma il linguaggio può appr6priarsi di questo gesto vitale, può
analizzarlo e distinguerlo in fasi, può rendere esplicito e visibile «per
tutti» ciò che esso contiene implicitamente; e può anche intervenire,
in una o in un 'altra fase, e riprodurla in oggetti pubblici di uso pub­
blico (il biberon), può modificarla e orientarla. È quel che già comincia
a fare la voce suadente della mamma che parla al suo bambino, sebbe­
ne questi non possa ancora propriamente intenderla, incoraggiandolo e
trattenendolo, orientando e modificando via via il suo comportamento:
-Coraggio, eccolo, ma con calma, ora fermati, prendi fiato, ricomincia,
adagio . E già la « vox publica» (ma non solo questa) risuona per lui e
..

lo chiama e lo accoglie come quel «sé» che è destinato a diventare.


Il linguaggio ri-costruisce il mondo, cioè lo disegna e lo designa :
lo riscrive dal punto di vista dell'oggettività, non dal mio , non dal tuo ,
anzi da quel punto di vista che rende te tuo e me mio . È il linguaggio
che porta in luce e tiene nella presenza, nell'essere-per, la funzione og­
gettivante in sé, cioè il rimbalzo in sé. È il rimbalzo , si era detto, che,
tenendo il mondo a distanza, crea la funzione oggettivante. Ma il lin­
guaggio fa poi di questo rimbalzo la questione cardine: crea l'oggetto
e, nella duplice esplosione che caratterizza ogni rimbalzo, crea il sog­
getto, quel soggetto universale che ognuno è in quanto parlato dalla
voce del linguaggio. La voce, come fenomeno più «esterno» che ci sia,
pro-venendo colloca in ognuno il sé, a partire da un punto di vista pano­
ramico e panacustico che la voce stessa nomina ed enuncia (incarna). In
tal modo ci istituiamo nella intersoggettività, cioè nel soggetto univer­
sale col suo oggetto ideale pubblico che sempre parla in noi, come silen­
ziosa interiorizzazione della «vox publica» .
Questa voce impone agli schemi oggettivanti, che essa estrae ed

41
Carlo Sini

enuncia, la sua stessa legge, ovvero la strutturl!l della successione . Ciò


del resto è vero di ogni segno , anche della scrittura e del disegno, poiché
noi possiamo bensl contemplarli con una sola occhiata, ma, pragmatica­
mente, il gesto che li produsse agl in successione . Nessuna azione intel­
ligente può operare, infatti, se non in successione ; ovvero : senza un dire
quanto meno implicito . È cosl che il linguaggio frantuma il mondo, lo
analizza e lo mette in successione. Il bambino che succhia dal biberon
non ha successione, né ritmo , se non in quanto nel suo gesto è impli­
cito lo schema del linguaggio, quello schema che la voce della, mamma
rende esplicito, invitandolo a prender tempo e dandogli il tempo . Tutto
questo è la voce che lo fa.
Cosl gli schemi oggettivanti aperti dal linguaggio rendono disponi­
bile un sapere : saper dove e saper come, per esprimerci nel modo più
semplice . È l'insieme di questi saperi che costituisce il mondo oggettivo,
cui è cosl affezionato (e non a torto ) il senso comune ; il quale si inal­
bera quando il filosofo gli dice che il «mondo», l'oggetto-mondo , non
c'è, è di principio un'assenza e un nulla di presenza. Ma il filosofo non
vuoi dire affatto che il nostro saper dove e saper .come non troverà nulla .
È anzi molto probabile che la bocca saprà ritrovare il seno e il latte che
nutre, seguendo Io schema dei paraggi corporei. E in fondo è poi questo
che (non a torto) interessa al senso comune. II nostro sapere comune e
pubblico, il nostro saper dove e saper come (il nostro saper rispondere)
è ben reale, anche se nbn ha la realtà «in sé» che la superstizione meta­
fisica del senso comune si immagina, e anche se tale sapere non è dav­
vero tutto il reale.
Ma che sapere è il saper dove e il saper come, cioè il sapere dello
schema linguistico universalmente oggettivante? Qual è la natura gene­
rale di questo sapere? La sua natura generale è il «controllo» : saper
controllare e, più originariamente, sapersi controllare (nelle proprie ri­
sposte-per es . : controllo degli sfinteri). La natura del sapere è in so­
stanza un trattenere e un differire (ordinare) la r'isposta : è questo sapere
che «fa differenza» (proprio nel senso di Derrida) e lascia traccia (iscrive
il mondo ) .
M a fa differenza tra che? Sul filo pragmatico del nostro cammino
possiamo rispondere : il sapere fa differenza tra una risposta irresistibile
e una risposta resistibile. Qui si radica l'antichissima distinzione tra na­
tura inanimata e natura animata, che certo , cosl espressa, non è ancora
pensata , ma solo enunciata ingenuamente. Di fronte al bastone del nostro
esempio il cane può fuggire come può aggredire ; ma l'albero non può

42
Col dovuto rimbalzo

decidere se si piegherà o se si schianterà. La sua risposta è irresistibile,


la risposta del cane è resistibile (e perciò anche educabile) : essa diffe­
risce, trattiene, controlla la situazione . Ciò non significa che nel cane
(e nell'uomo) non vi siano molte e anzi moltissime risposte irresistibili,
come quelle dell'albero o del bastone medesimo . Non c'è da una parte
il con-esserci spirituale e dall'altra l'ente difforme dall'esserci, come
·

crede Heidegger .
Ma il punto per noi più significativo è il seguente : quando nella ri­
sposta, che rimbalzando tiene a distanza il mondo e cosl lo controlla, si
incunea la voce, il linguaggio , allora il linguaggio esercita il suo con­
trollo, il suo trattenere e differire nella voce, cioè il suo tenere massi­
mamente presente l'assente, il nulla, evocandolo . Il linguaggio evoca
l 'effetto pubblico del rimbalzo della voce ed è proprio in questo modo
che il linguaggio esplica il massimo controllo dell'esperienza (degli eventi
grafematici complessivi e specifici) . Non soltanto , infatti, il linguaggio
tiene a distanza cosl come può fare il tatto , l'udito o lo sguardo, diffe­
rendo un poco e per un poco : fa molto di più, poiché differisce per
principio e per sempre. Il linguaggio, evocando l'oggetto, l'assente per
definizione che come tale è nel nulla (è nulla) , trascende l'esperienza e
ogni esperienza . Il rimbalzo del linguaggio va al di là, proietta al di là,
in un «oltre» generalizzato.
Il controllo esercitato dal linguaggio, in quanto esso evoca l'espe­
rienza intersoggettiva e pubblica dell'oggetto, si esercita anzitutto sui
«Sé». Nella sua genesi e origine il sapersi controllare è soprattutto un
sapersi comportare . Ciò nel senso preciso della parola : sapersi portare­
con , cioè tenersi insieme nell'intersoggettività, accoglierla rispondendo
n essa, essere in presenza come intersoggettività incarnata. Il linguaggio

esplica di continuo questo controllo tenendo massimamente presente


quell'assente-nulla che è il sé generalizzato (ciò che psicologicamente
viene anche avvertito come la voce della coscienza o la parola del Dio) .
L'esercizio di questo controllo e il suo portare-con i «tutti» in luce,
come effetto dello sguardo pubblico del soggetto universale, non è nien­
t'altro da dò che, da sempre, noi chiamiamo civiltà. È in questo rim­
balzo che trascende che si dà quella resistibile risposta che caratterizza
l 'nssociazione umana. Il linguaggio evoca per tutti gli schemi e le leggi
di comportamento valide per tutti (per le quali, appunto , i tutti ci sono ) .
Ciò a cominciare dalla regola stessa del linguaggio come comunicazione
lntersoggettiva, la quale si fonda sui rimbalzi delle risposte interioriz­
l'.ntc. È cosl che il linguaggio diviene letteralmente «vox publica», ac-

43
Carlo Sini

cordo sui significati dei gesti linguistici, modellapdovi conformemente la


società in generale . È allora che il linguaggio diviene un sistema conven­
zionale di segni che assume come suo principio «formale», non l'accordo
con l'oggetto naturale, ma la conformità della risposta intersoggettiva. Il
linguaggio lascia ora cadere nell'insignifìcanza ogni suo altro intreccio
grafematico e oblia la sua gestualità originaria, la sua voce «carnale» e
«mondiale» ( fatta di mondo , o di sembianze di mondo) . Propriamente
il linguaggio non è né naturale né convenzionale : esso dapprima «no­
mina» ( come aveva compreso Creuzer ), poi « dice» trascendend.,o .
Il linguaggio, dunque, dice ciò che vale per tutti, dando viÌ:a a quel
sapersi com-portare che è il primo sapere «per tutti» e senza il quale
.
nessun altro sapere sarebbe possibile. Sapere primordiale per il quale
anche la mano, l 'occhio, l'orecchio vengono via via a sapere ciò che
fanno ( la mano, l'occhio ecc., sanno dapprima solo i loro schemi pragma­
tici di risposta, cioè li pongono in atto senza propriamente saperne nul­
la ; è il linguaggio, con la sua funzione concettuale, che dice loro ciò
che fanno, e solo allora la mano sa; prima essa fa, non sa).
Abbiamo così visto la natura del sapere primordiale . Ma ora dob­
biamo chiederci : qual è però l'oggetto di questo sapere primordiale ,
oggetto che di principio è assente, è nel nulla , è nulla, ed è irraggiun­
gibile per tutti, pur essendo esso essenzialmente il per tutti di tutti,
ovvero ciò che tutti sanno e non possono non sapete , e in base al quale
è dato loro ogni altro sapere? Qual è l'oggetto o punto di vista panora­
mico sì che solo sapendolo noi tutti siamo ciò che siamo ? Cos'è insom­
ma che tutti sappiamo?
È molto semplice : ciò che tutti sappiamo in comune, quel sapere che
appunto ci accomuna rendendoci «tutti», è che si deve morire . Questo è
ciò che tutti gli uomini sanno, sotto ogni latitudine, in ogni civiltà e
cultura, per qualsiasi condizione sociale e personale .
È perché si annuncia la morte nell'orizzonte della comprensione,
negli schemi resistibili delle risposte oggettivanti, che allora compare
l 'uomo, l'essere, come ha detto bene Heidegger , che «può » morire . Emer­
ge cioè l'uomo come oggetto ideale pubblico , dotato di questo sapere
intersoggettivo, panoramico , che è la visione e la comprensione della
morte . Sicché, bisogna dire, il sapere della morte è l'altra faccia del
sapere dell'intersoggettività. Non c'è intersoggettività, non . c'è <<Uomo»,
se non sul fondamento del comune sapere che dice : « si deve morire» .
Questo sapere della morte è come l'ombra della luce di ogni sguardo
panoramico .

44
Col dovuto rimbalzo

Propriamente allora la morte è l'oggetto del concetto, della << Vox


publica» (Hegel ne aveva ben visto qualcosa) . Sicché il gesto linguistico,
che abbiamo visto , intrari:tato con tutti gli altri gesti, emergere con gli
altri in unità con il grafema corporeo complessivo, non è ancora gesto
concettuale, non , ha ancora assunto il senso della concettualità, sino a
che esso non è in grado di evocare la morte e di saperla. Del tutto cor­
rispondentemente, non vi è intersoggettività senza questo sapere, poiché
si è uomo e si partecipa dell'intersoggettività pubblica solo perché si sa
di morire. Si esige qui un'interiorizzazione del rimbalzo pubblico per la
quale ogni partecipe ( ogni parte, ogni sé) ha per di più , o proprio per
ciò, «valore» . Il linguaggio infatti dice, nella sua funzione concettuale ,
ciò che vale per tutti (come più volte si è sottolineato) . E ciò che vale
per tutti è appunto che si deve morire . Questo valere e vigere fa sì che
i rimbalzati (cioè «noi tutti») abbiamo un di più ( un valore) .
Come possiamo indicare questo «di più» che trascende ogni grafema
corporeo? Se stiamo alla tradizione , il suo nome è presto trovato ; esso
si dice : anima. L'uomo ha in più l'anima . Ma se stiamo più aderenti al
nostro cammino , dobbiamo piuttosto dire che il più di valore è l'avere
un nome. :È la partecipazione al sapere intersoggettivo ( della morte ) ciò
che il nome evoca, quando l'un l'altro ci chiamiamo . :È per questo «va­
lete» che si distingue il «corpo» (che non è l'anima o il nome, ma il
«portatore» di entrambi ) ; e soprattutto è per esso che si distingue il
cadavere dal «morto » . L'animale non mostra stupore di fronte al cada­
vere. L'uomo è uomo in quanto il cadavere non è per lui insignificante
(privo di significato) ; esso anzi è il significato, il significato originario .
Vedere il morto (e nessuno può vedere il morto se non « Sa») fu
così l'apertura alla partecipazione , alla com-presenza della voce univer­
sale della comunità linguistico-intersoggettiva. Com-portarsi, come con­
trollo originario , fu allora, letteralmente e sotto ogni rispetto, portare
con sé il morto (il «di là» ) , e rispettarne il cadavere. Le più antiche
tracce, i più antichi segni e scritture dell'uomo , quelle pietre che cir­
condano il cranio e le ossa, il tumulo che le ricopre, sono appunto tracce
di morte, cioè scritture di civiltà : i primi segni della voce universale .
Il cadavere è in tutti i sensi lo scritto, lo scritto che non può parlare e
non ha voce : lettera morta. Le tombe sono le prime scritture concet­
tuali.
Ognuno di noi può morire perché appartiene a tutti, è parte del
rapporto ideale-pubblico , cioè del rapporto di tutti i rapporti che è nel
contempo e allo stesso titolo il rapporto linguistico . Solo così ognuno

45
Carlo Sini

di noi può morire, e quindi anche ri-vivere (comunque�


le varie civiltà
l'abbiano inteso) come traccia e memoria, certamente nel segno-del
sepolcro anzitutto-e nel nome. È identificandosi col nome e nel nome
che l'uomo può nominare le cose e averne così il sapere. Ma identificarsi
col nome è possibile solo sapendo la morte, sapendo la differenza tra il
cadavere e il nome, il corpo e il morto. La differenza è concentrata nel
nome dell'estinto, che ha lasciato il resto, cioè i « resti».
Così il morto è allora colui che ritorna, e anzi colui che resta, al di
là dei suoi resti . Egli protegge e perseguita, consola e tormenta: colui
che, essendo nominato, sta nel luogo al di là dell'esperienza, nel luogo
ideale del concetto, appunto . Potremmo allora dire che il concetto è il
nome espresso della morte (del poter morire) . E naturalmente va ag­
giunto che è in forza di tutto ciò che l'uomo, correlativamente, può na­
scere : non c'è nascita senza vox publica, che governa tutte le nascite
«naturali», rituali e cerimoniali, le nascite iniziatiche e le nascite sociali .
Ogni nascita è accompagnata da una nuova nominazione . Anche gli aman­
ti hanno i loro nomignoli, segni dell 'amore che nasce e ti-nasce, mentre
l'accoppiamento senza nome, mercenario o orgill.stico, conduce l'uomo,
come Vico sapeva, ai margini della gran selva. Ogni nascita è in tutti
i sensi un nuovo dar nome , senza il quale appunto non si nasce e non
si «è» .
E d'altra parte morte e nascita ( e ri-nascita ) sono il sapere pubblico
per eccellenza. Come diceva bene Gentile, si muore agli altri. La morte
(ma anche la nascita) è il fatto pubblico per eccellenza, il fatto origina­
rio che nessun altro fatto eguaglia. La morte, peraltro, è l'inesprimibile
per definizione, cioè riveste tutti i caratteri di quel nulla e di quell'as­
senza che il concetto, nella sua funzione oggettivante, evoca. La morte,
insomma, c'è in quanto nominata, evocata . Ma per principio, come di­
ceva Epicuro, nessuno può incontrarla nella sua esperienza, averne espe­
rienza; proprio così come nessuno può vedere, toccare, gustare il con­
cetto. Questo non significa affatto che la morte: rion esista e che gli enti
siano eterni . Questa conclusione non può non apparire assurda : essa
confonde l'assunzione dell'ente (del mondo in sembianza di questo e di
quello) nella inteniporalità della vox publica con la sua genesi grafema­
tico-corporea, senza la quale il gesto vocale non avrebbe propriamente
nulla da dire, né potrebbe, nel suo nominare, nominare l'essere ; quel­
l'essere che è eterno solo in quanto è intemporale, cioè strappato dalla
voce da ogni sembianza di mondo.
Altrettanto va rifiutata quella posizione che dice (heideggerianamen-

46
Col dovuto rimbalzo

te) : la morte è il fatto più proprio ; essa è mia e solo mia, e in tal modo
è un'esperienza autentica che si contrappone all'inautentico « si dice»
della voce e della chiacchiera quotidiana. Ci sono qui intuizioni e nota­
zioni fenomenologiche profonde, ma alla base non vi è la comprensione
che io posso trovare il sapere della morte come costitutivo del mio più
proprio solo perché io sono anzitutto costituito dal sapere pubblico che
è fondamentalmente sapere di morte, rimbalzo intersoggettivo del nome,
provenienza dell' « altro» generalizzato . Né si deve accettare la mortuaria
e melodrammatica concezione secondo la quale la morte è ciò che dà sen­
so ( autentico) all'esperienza: essa dà senso, certamente, all'esperienza in­
tersoggettiva (poiché addirittura la costituisce) , ma l'esperienza inter­
soggettiva non è tutta l'esperienza né tutto il senso dell'esperienza , e
neppure l'esperienza che dapprima ci costituisce nel rimbalzo di sé. Nel
toccare del tatto, nel guardare dell'occhio, nel gustare della bocca, pro­
prio in questo toccare e vedere de-finiti e perfetti ( mancanti di nulla) , la
risposta e il rimbalzo non alludono alla morte, non hanno il senso della
morte e non sono (nella morte) . Proprio in queste esperienze, innume­
revolmente rinnovantesi, noi siamo nel più proprio e nel più autentico .
È qui che sempre ci accade !'«incanto» dell'esperienza che non ha biso­
gno di «sapere» , che ignora i «misteri», e che perciò sfugge la morte,
poiché non la conosce e, appunto, la ignora. Più tardi, quando il sapere
avrà imposto le sue interpretazioni , quell'esperienza continuerà a fron­
teggiarla e a tener desto il senso della vita, rendendo l 'uomo , non solo
capace di morire, ma anche e in senso nuovo, capace di vivere . La morte
è il più proprio dei sé pubblici; ma da un punto di vista non pubblico
la morte è appunto ciò che Epicuro aveva detto: l'inesperibile, l'inespri­
mibile , ciò che non c'è e che mai mi appartiene .
È il linguaggio nella sua funzione concettuale , quindi, che dice la
morte e anzi, senza esagerazione, che dà la morte . È cosl che il lin­
guaggio rende l'uomo l'essere che dà e che riceve la morte; e quindi
anche l'essere che perciò la differisce e la controlla con la parola : con
la legge della parola la quale dice, come tutti sappiamo, «non uccidere» .
Dire questo è dire la legge . Dire la legge è dire questo .
Cosl come il sapere della morte è il sapere pubblico per eccellenza,
è il sapere che fa nascere l'intersoggettività (non c'è intersoggettività
senza riconoscimento del mortuum) , altrettanto dobbiamo dire : non c 'è
legge, non c 'è consorzio o comunità umana, non ci sono regole, nemmeno
quelle linguistiche , se non a partire da questa voce che tiene a bada la
morte, anzitutto tra uomo e uomo . È per questo che l'uomo si sente,

47
Carlo Sini

come già diceva Esiodo, al di sopra degli uccelli e delle fiere, cioè della
«natura» . La morte data all'uomo è la negazione stessa della partecipa­
zione al sé generalizzato, alla vox et salus publica.
Questa legge è e resta il sovrano fondamento . Nessun in-fondato è
possibile o è pensabile qui, nessuno s-fondamento o simulacro di fonda­
mento, secondo le formule oggi di moda, ma prive di pènsiero e inca­
paci di pensare . Questa legge è la ragione (ratio essendi), la ragion d'es­
sere in senso letterale e compiuto, ragione cui non può capitare alcuna
«crisi» o «declino», che nessuno può indebolire o rafforzare. ,Già dire
è dire la legge, sicché nessun dire è un dire, se si propone di 'negare la
legge, ovvero è un dire che letteralmente non sa quel che si dice. Que­
sto non significa affatto che gli uomini, sapendo ciò, non uccidano o non
uccideranno . La legge anzi dice proprio il contrario : che l'uomo è l'es­
sere capace di morte e di dare la morte, capace di innocenza e quindi
anche non innocente, l'essere, come dicevano i greci, più terribile.
L'uomo del logos, l'uomo che più di ogni altro ha saputo assumere
il punto di vista panoramico del sé generalizzato, della ragione univer­
sale a tutti comune (come diceva Kant ), si trova più di ogni altro esposto
all 'ambivalenza della legge : proprio nel tenere più di ogni altro a bada
la morte, controllando il suo comportarsi, il suo essere-con l' « altro» che
ha interiorizzato dalla vox publica, proprio quest'uomo investe del suo
sapere di morte l'intera esperienza . Egli si pone cioè in un cammino che
sempre più riduce l'intera esperienza all'astrazione del concetto, al nulla
della morte . Il concetto, per così dire, sfida la natura nel suo immagi­
nario sogno di morte. Esso differisce la morte nell'intersoggettività pub­
blica, esorcizzandola nel nome, nella fama, nel ricordo ; poi sfida la
stessa natura ( o ciò che esso chiama «natura»), relegandola nel senza
legge e nell'insignificante (nell'accidentalità del corpo e delle risposte
irresistibili, nel «senza senso » ) . Proprio così, di fatto, il concetto diffe­
risce per quanto può la morte , esercitandone il controllo pubblico e isti­
tuendo il sapere come « s alute pubblica» (estreÒza dispiegata del sapere
tecnologico contemporaneo in cui si compendia l'antico sapere metafisica
dell'anima) . E naturalmente il sapere come controllo della morte ha la
sua faccia complementare e corrispondente nel sapere come controllo
delle nascite, abolizione, per quanto è possibile , delle risposte irresisti­
bili, loro programmazione e previsione; e inoltre sapere come pre-scienza
del sesso del nascituro, e poi del suo carattere e dei suoi tratti somatici,
sino alla programmazione del sé generalizzato in serie, con corpi-stru­
menti idonei.

48
Col dovuto rimbalzo

Il controllo analitico del concetto è esercitato in modo che la comu­


nità pubblica possa intervenire là dove ·è necessario correggere le risposte
irresistibili e renderle resistibili, cioè conformi al progetto u·niversale;
questo ha in sé la sua consistenza e il suo scopo, cioè, propriamente , il
nulla di cui è infatti costituito . Intervenire per tenere lontano che cos a ?
Già l o dice i l linguaggio comune : tener lontano l'evento (fatale o lieto) .
Preso nell'ambivalenza della legge, l'uomo del logos, che, come ogni
altro uomo, sa di dover morire, sembra che non sappia più morire; sic�
ché ne va del suo vivere. Ha preso cosl sul serio la morte che trascura
di vivere ; oppure (che è lo stesso) vive freneticamente perché ha paura
di morite. Analogamente : ha preso cosl sul serio il discorso, la parola ,
che n e dimentica l'evento , quell'evento che è originariamente intramato
con l'incanto delle risposte di mondo, con gli eventi in sembianza di
mondo, come sua provenienza e rimbalzo . Il concetto gli ha preso la
mano .
Il concetto dice il luogo per tutti, l'idealità degli schemi e dei com­
portamenti in cui tutti «siamo » . Il luogo per tutti è il luogo in cui si
può morire, cioè il luogo dove si può aver nome, essere riconosciuti e
conosciuti, evocati e nominati, cioè trascesi. Questo luogo per tutti è
il re gno della morte (e della nascita) , l'aldilà, che è lo stesso che dire
(come Hegel aveva compreso) il regno dello spirito : rimbalzo trascen­
dente nel nulla di una risposta di null a .
· Correlativamente a questo suo gesto sovrano, il concetto relega nel
privato, nel non pubblico, nell'insignificante, nel colpevolmente irresisti­
bile, ogni risposta «corporea» (come esso la definisce a partire dall a sua
«assenza » , incolore, inodore, insapore : paradossalmente perfino la morte,
per quanto ha di irresistibile e di «cadaverico» , diventa ai suoi occhi una
verg ogna ) . Il linguaggio pubblico si divincola dal grafema corporeo, cioè
dalle risposte-di-mondo, per ridursi (o per sollevarsi, a seconda dei punti
di vista) a «puro etere», come direbbe appunto Hegel . Io qui e ora che
parlo, le gg o, afferro gli occhiali, deglutisco, mi guardo intorno, sono
l'accidentale e insignificante incarnazione della vox publica che traccia
scritture e tiene discorsi pubblici legalmente istituzionalizzati. Quest'io
«privato» , col suo corpo che è affar suo , passa; resta, per un po' , il
nome, resta lo scritto, nell'archivio della memoria pubblica, dove giace
come il cadavere , in attesa del fiore del ricordo--non eterno e non pub­
blico-e della polvere .

La più antica tradizione ha conosciuto il discorso nella forma del

49
Carlo Sini

discorso efficace (come diceva Foucault) . Tale djscorso evocava l'assente


come la voce del Dio che parla agli uomini e, pro-venendo, li dispone
nella giusta distanza. L'uomo è cosl pronto a rispondere perché chia­
mato nel nome degli Dei, ed è disposto in una collocazione che deter­
mina le sue circostanze di morte e di vita . È da tale collocazione che egli
prende le misure del discorso che evoca e ri-evoca la voce del Dio , e
cosl apre e chiude una comunità esclusiva di rimbalzati in quanto parlati
dalla voce del Dio.
La tradizione più recente ha conosciuto il discorso nella fo�ma della
verità pubblica e panoramica . Il discorso si indirizza a ciò che! vale per
tutti e rimbalza in un sapere che trascende ogni distanza e ogni risposta
determinate, per volgersi alla distanza incolmabile e sovrana del concetto .
In un caso e nell'altro la voce sempre chiama nella presenza la costi­
tutiva distanza di ogni grafema, di ogni risposta . Essa ravvisa il lontano
che pro-viene e lo fa essere per tutti, tenendo l'uomo , cosl rimbalzato,
al cospetto del nulla . Nel bilico che la costituisce la voce chiede che le
si corrisponda col dovuto rimbalzo .
Ciò però non accade se il concetto si impadronisce di ogni evento
(e del suo stesso evento) in una pretesa di verità che non accetta di
scontare la non-verità costitutiva del suo gesto ( e di ogni gesto ) . Ciò
neppure accade se la parola rinuncia, sdegnosa del nulla che attende ogni
rimbalzo . Il dovuto rimbalzo né uccide il discorso, né uccide l 'evento
(l'evento del mondo ih. parola che nomina e chiama) riducendo ogni
gesto all 'unico significato del concetto (della verità e del sapere ) . Il detto
ravvisa e conduce nel nulla. Giustizia vuol che si dica, perché si ravvisi
l'ingiustizia del dire. L'ingiustizia del dire ha in sé un'eco dell'incanto
del mondo , incanto ravvisato per tutti nel detto . È cosl che la voce fa
eco e con sé porta il mondo , donde il gesto pto-viene .
Il sapersi com-portare della voce è la giustizia del discorso . Esso
ravvisa nell 'eco i confini del mondo, la sua nascita e morte dal nulla che
chiama: in sembianza di risposta, ogni volta 'perfetta.

50
Emmanuel Lévinas *
NOTE SUL SENSO

l . Il tema dominante

Il pensiero non ha senso che per la conoscenza del mondo, per la


presenza del mondo e per la presenza al mondo ; ma questa presenza non
deve forse apparire negli orizzonti del passato e dell'avvenire, anch'essi
dimensioni della rap-presentazione ( re-présentation) in cui la presenza si
recupera ? O il senso, in un pensiero sensato, non è forse più antico della
presenza o della presenza rap-presentabile, più e meglio di esse-un
certo senso, una significazione già determinata sotto la quale la nozione
stessa del senso , prima di definirsi attraverso la struttura formale del rife­
rimento a un mondo svelato, a un sistema, a una finalità, viene in mente?
Il senso per eccellenza non è forse la saggezza che sarebbe in grado di
giustificare l'essere stesso, o almeno di occuparsi di questa giustificazione
e di questa giustizia, la cui ricerca agita ancora il discorso , divenuto quo­
tidiano, degli uomini e delle donne sedicenti preoccupati del «senso della
vita» ? L'essere è la sua propria ragione d'essere, alfa e omega della intel­
ligibilità, filosofia prima ed escatologica? L' « accadere» dell'essere che ac­
cade non si svolge forse al contrario , chiedendo una giustificazione, po­
nendo una domanda che precede ogni domanda? Il per-l'altro --che, come
umanità, arriva a lacerare la «buona coscienza» del conatus, della perse­
veranza animale dell'ente nell'essere, preoccupata unicamente del suo

*
Tratto da De Dieu qui vient à l'idée, Libr. Phil . J. Vrin, P aris , di prossima
pubblicazione presso la Editoriale Jaca Book, Milano .

51
Emmanuel Lévinas

spazio e del suo tempo vitale-il per-l'altro,


.
la devozione all' altro, il
.
dis-interessamento, non rompe forse l'inerenza all'essere dell'essere de-
dito a se stesso, non attesta già la domanda della saggezza per eccellenza?
Questi problemi costituiscono il tema dominante delle note qui riunite .
Si parte da alcune posizioni della fenomenologia husserliana, in quan­
to in essa confluisce una delle tradizioni caratteristiche della :filosofia per
cui il sapere degli esseri, quello della loro presenza, è il <<luogo naturale»
del sensato ed equivale alla spiritualità o allo psichismo stesso del pen­
siero.
Ma la filosofia husserliana è irrecusabile soprattutto perché sembra
apportare un'idea indipendente da questa gnoseologia. Secondo Husserl
infatti, per ritrovare la razionalità di dò che è pensato è necessario ricer­
care il modo in cui il pensato-e l'essere in particolare-appare nel pen­
siero . Questa ricorrenza del pensato al pensiero pensante costituirebbe
-da pensato a pensiero--una concretezza nuova, radicale, rispetto a
quella del pensat o--e in particolare dell'essere-nella sua esibizione e
nella fondazione antologica delle sue quiddità o delle sue essenze, le une
attraverso le altre. Questo ricondurre radicale ogni pensato alla sua signi­
ficanza nel pensiero pensante--e, di conseguenza , la riduzione di ogni
pensato alla concretezza ultima-non sarebbe aggirabile dal :filosofo : essa
libererebbe il pensiero dalla sua appartenenza all'insieme degli esseri e
delle cose e lo svincolerebbe dal ruolo che, già sottomesso alle influenze,
esso gioca come anima umana tra gli esseri e le cose e le forze del mondo.
Riduzione a un pensiero assoluto . Nel suo groviglio di pensieri at­
tuali, o potenziali-sempre intesi in Husserl in ogni caso come s aperi­
il pensiero assoluto--o la �oscienza assoluta---è , secondo l'espressione del
filosofo, donazione o prestazione di senso . La Riduzione sarebbe un modo
di raggiungere questo pensiero nel suo psichismo puro, non-dissimulato
(unverhiillt) , in quanto puro elemento in cui si dispiega, nel suo proprio
modo, e in cui si vuole, nelle sue intenzioni prime, una semantica ori­
ginaria .
In essa si lascerebbe comprendere il senso del sensato, fino al senso
di quell'elemento puro in cui questa semantica si dispiega, in cui essa si
mette, in qualche modo, in scena, svolgendosi, in questa messa in scena
che il filosofo percepisce come intreccio concreto, secondo le articolazioni
che già si dimenticano o si deformano o si confondono nella retorica og­
gettivista .
Ma la significanza, in questa concretezza ultima-che, certo, al :filo­
sofo si mostra, cioè è saputa-si esaurisce nel manifestarsi, nell'offrirsi

52
Note sul senso

al sapere ? Anche se tutto finisce per sapersi, non pensiamo che il sapere
sia il senso e il fine di tutto.

2. Il pensiero dell'adeguamento

Per Husserl-e per tutta la rispettabile tradizione filosofica che egli


compie o di cui esplicita i presupposti-la «prestazione di senso » si pro­
duce in un pensiero inteso come pensiero di . , come pensiero di
.. questo
o di quello ; questo o quello presenti ai pensieri (cogitationes) in quanto
pensato (cogitatum ), al punto da non poter determinare o riconoscere,
nella riflessione, alcuno di essi senza nominare questo o quello di cui essi
sono i pensieri . Il pensiero «prestatore di senso» è costruito come tema­
tizzazione-esplicita o implicita-di questo o di quello , precisamente co­
me sapere. Il soflio stesso dello spirito nel pensiero sarebbe sapere . Ciò
si esprime dicendo che la coscienza prestatrice di senso è intenzionale ,
articolata come noésis di un noéma dove il noéma è concreto nell'inten­
zione della noesis . At traverso il questo o il quello, incancellabili nella de­
scrizione della prestazione di senso, una nozione quale la presenza di
qualche cosa prende forma fin dalla nascita del senso . Presenza di qual­
che cosa: Seinssinn, senso d'essere , secondo Husserl, che diverrà in Hei­
degger-attraverso tutti i suoni armonici della storia della filosofia­
essere dell'ente.
Questa «prestazione di senso» , costruita come s apere, è in Husserl
intesa come ��voler-arrivare-cosl-o-altrimenti-a-questo-o-a-quello», e la ri­
flessione su questo pensiero come quella che deve mostrare dove il pen­
siero vuole arrivare e come vuole arrivarci 1 • L'intenzionalità è cosl un'in­
tenzione dell 'anima, una spontaneità, un volere, e il senso dato è esso
stesso, in qualche modo , un voluto : il modo in cui gli enti o il loro es­
sere si manifestano al pensiero del sapere corrisponde al modo in cui la
coscienza ��vuole» questa manifestazione per via della volontà o dell'in­
tenzione che anima questo sapere. L'intenzione conoscitiva è cosl atto
libero. L'anima è «colpita», ma senza passività, essa si riprende assu­
mendo il dato secondo la sua intenzione . Essa si risveglia. Husserl par­
lerà di una teleologia della coscienza trascendentale . In tal modo il pen­
siero che pensa l'essere da cui esso si distingue, è un processo interiore,

... die Intentionalitat wird befragt, worauf sie eigentlich hinauswill. Formale
und transzendentale Logik, Max Niemeyer, Balle, 1929, p. 9.

53
Emmanuel Lévinas

un restare-in-se-stesso: l'immanenza . Vi è qui, corrispondenza profonda


tra essere e pensiero. Nulla deborda l'intenzione : il voluto non si prende
gioco del sapere e non lo sorprende. Null a entra nel pensiero «senza
dichiararsi», «di contrabbando» . Tutto si tiene nell'apertura dell'anima :
la presenza è la franchigia stessa. La distanza intenzionale-tra l'essere
e il pensiero--è anche un'estrema accessibilità dell'essere. Lo stupore,
sproporzione fra cogitatio e cogitatum in cui la verità si cerca, si rias­
sorbe nella verità ritrovata.
La presenza, la produzione dell'essere, la manifestazione è .P,ata, è un
modo di essere dato (Gegebenheit). Husserl la descrive come riempi­
mento di un vuoto, come soddisfazione. Lui che insiste sul ruolo dell'in­
carnazione umana nella percezione del dato, sul «corpo proprio» (Leib)
della coscienza-poiché è necessario girare intorno alle cose per coglier­
le, e girare la testa e adattare l'occhio e tendere l'orecchio--ci autorizzerà
certamente ad insistere sul ruolo primordiale della mano : l'essere è in
donazione e la donazione è da intendere nell'accezione letterale di questo
termine. Essa si compie nella mano che prende. È allora nella presa di
possesso che la presenza è «in proprio» (eigentlich ) , presenza «in carne
ed ossa» e non soltanto «in immagine» : la presenza si produce «main­
tenant». È nella presa in mano che «la cosa stessa» corrisponde a ciò che
Pfntenzione del pensiero «voleva» e prendeva di mira. La mano verifica
l'occhio, è in essa che si effettua-irriducibile alla sensazione tattile­
l'afferrare e l'assumere. Il mettere mano non è un semplice sentire, è un
«sottomettere alla prova» . Prima di farsi, come voleva Heidegger, ma­
neggio e uso di utensile, è un'appropriazione . Più presenza, si sarebbe
tentati di dire, della presenza nella tematizzazione . È appunto per questo
modo di prestarsi alla presa, di lasciarsi appropriare-modo in cui la
presenza si fa dato (Gegebenheit)--che la presenza è presenza di un con­
tenuto in qualità sensibili, disponendosi, certo, sotto identità generiche
e, in ogni caso, sotto l'identità formale del qualche cosa (etwas iiber­
haupt) , di un qualche cosa che un indice è fu grado di identificare e di
designare come punto nella presenza di questa raccolta : quiddità e iden­
tità di una cosa, di un solido, di un termine, di un ente. Certamente
inseparabile da un mondo al quale la designazione e la presa di possesso
lo strappano, ma che ogni relazione al mondo presuppone . Anzi osiamo
chiederci se la distinzione dell'essere e dell'ente non sia una anfibologia
essenziale della presenza, della Gegebenheit che prende forma nella ma­
nifestazione . Mano e dita! L'incarnazione della coscienza non sarebbe un
incresdoso incidente accaduto al pensiero precipitato dall 'alto dell'Empi-

54
Note sul senso

reo in un corpo, ma la circostanza essenziale della verità .


All a verità stessa, e prima della sua utilizzazione e abuso in un mon­
do tecnologico, appartiene una primordiale riuscita tecnica, quella del­
l'indice che designa il qualche cosa e della mano che se ne impossessa.
La percezione è un'espropriazione e il concetto, il Begri/J, un com-pren­
dere . L'adeguamento del pensiero e dell'essere ad ogni livello della realtà
implica concretamente l'intera infra-struttura della verità sensibile, fon­
damento inevitabile di ogni verità ideale . Il riferimento del categoriale
c del generale a quanto è dato immediatamente (schlicht gegeben) , è
una delle intuizioni fondamentali delle Ricerche logiche di Husserl che,
fin dall'inizio , indica la tesi poi sostenuta in Logica formale e logica
trascendentale secondo cui l'antologia formale rimanda a un'antologia
materiale e, quindi, alla percezione sensibile-e la tesi dell'insieme della
sua opera, che rimanda ogni nozione, nel rispetto delle differenze del
suo livello , alla restituzione delle condizioni elementari della sua genesi
trascendentale. È necessario che l'idea di verità come presa sulle cose
abbia , in qualche modo, un senso non-metaforico . Nelle cose che sor­
reggono e prefigurano ogni sovrastruttura, essere significa essere dato
e d essere ritrovabile, essere qualche cosa e, con ciò, un ente .
In ciascuno dei temi che, sempre, intorno al «qualche cosa» si pala­
rizzano , questo « qualche cosa>> , nel suo vuoto logico di etwas uberhaupt,
non manca, concretamente, di riferirsi alla cosa, a ciò che la mano af­
ferra e tiene-contenuto e quiddità--e che il dito indica-questo o quel­
lo . Posizione e positività che si confermano nelle tesi-atti posizionali­
del pensiero concettuale.
La presenza--e l'essere pensato a partire dal sapere-è dunque l'aper­
tura e il dato (Gegebenheit) . Nulla viene a smentire l'intenzione del pen­
siero e a darle scacco a partire da una clandestinità qualunque, da una
imboscata tramata e tenuta nelle tenebre o nel mistero di un passato o
di un avvenire refrattario alla presenza . Il passato non è che un presente
che fu . Esso rimane a misura della presenza del presente , dell'evidenza
che forse non è altro che la perseveranza enfatica . Esso si ri-presenta .
Che un passato possa avere un significato senza essere la modificazione
di un presente in cui esso sarebbe cominciato, che un passato possa
significare an-archicamente-indicherebbe, senza dubbio , la rottura del­
l'immanenza. L'immanenza connota questo confluire del diverso del tem­
po nella presenza della rappresentazione. Questo modo, per il diverso ,
di non sottrarsi alla sincronia e, cosl-per la diversità del diverso fatta
di differenze qualitative e spaziali-l'attitudine ad entrare nell'unità di

55
Emmanuel Lévinas

un genere o di una forma, sono le condizioni logiche della sincronizza­


zione o i suoi risultati. Nel presente-nel presente compiuto, nel presente
dell'idealità-tutto si lascia pensare insieme. L'a stessa alterazione tem­
porale, esaminata all'interno del sensibile, che riempie il tempo, che dura
in esso o per esso, viene interpretata a partire dalla metafora del flusso
( composto da gocce che si distinguono, ma per eccellenza, «come due
gocce d 'acqua» che si assomigliano) . L'alterità temporale si pensa, al­
lora, come inseparabile dalla differenza qualitativa dei contenuti o degli
intervalli spaziali distinti, ma uguali, discernibili, che scorrono in un
movimento uniforme . Omogeneità che predispone alla sintesi. U passato
è presentabile, ritenuto o ricordato, o ricostruito in un racconto storico ;
l'avvenire-proteso, anticipato, presupposto per ipo-tesi.
La temporalizzazione del tempo--pensata come scorrimento o flusso
temporale-sarebbe quindi ancora intenzionale . Essa è definita partendo
dall' �<oggetto temporale» sintetizzabile nella rappresentazione di conte­
nuti qualitativi che « mutano» e durano nel tempo. Bisognerebbe peraltro
chiedersi in quale misura la differenza propriamente dia-cronica non sia
misconosciuta nella difEerenza che appare come indissociabile dai conte­
nuti e che fa pensare il tempo come se fosse composto di enti, di istan­
ti-atomi di presenza o enti, designabili come t � rmini che passano ; dif­
ferenziazioni dello Stesso che però si prestano alla sintesi, cioè alla sin­
cronia che giustificherebbe o susciterebbe lo p sichismo come rap-presen­
tazione : memoria e anticipazione . Priorità della presenza e della rap-pre­
sentazione in cui la diacronia passa per una privazione della sincronia : la
possibilità futura del tempo è concepita in Husserl come pro-tensione ,
cioè come anti-cipazione, come se la temporalizzazione del futuro fosse
un modo di giungere alla presenza; la ritenzione dell'impressionale-im­
possibile come presente puntuale perché, già per Husserl, quasi--estati­
camente degradato a passato immediato--costituisce il presente vivente.
In questo psichismo cognitivo della presenza, il soggetto o l'io sareb­
be precisamente l'agente o il luogo comune della rappresentazione, la
possibilità della ricomposizione del disperso . çosl Brentano ha potuto
sostenere che lo psichismo è rappresentazione o basato sulla rappresen­
tazione in tutte le sue forme teoretiche, affettive, assiologiche e attive ;
e Husserl h a affermato fin o alla fin e l'esistenza di un sostrato logico del­
l'atto oggettivante in ogni intenzionalità, anche non teoretica. Lo spirito
sarebbe presenza e rapporto all'essere . Nulla di quanto lo concerne sa­
rebbe estraneo alla verità, all 'apparizione dell 'essere.
Nella verità il pensiero esce cosl da se stesso verso l 'essere, senza

56
Note sul senso

cessare tuttavia di restare presso di sé e uguale a se stesso, senza per­


dere la propria misura, senza oltrepassarla. Si appaga (satisfait) nell'es­
sere che, di primo acchito, esso distingue da se stesso ; si appaga nell'ade­
guamento . Adeguamento che non significa una folle congruenza geome­
trica tra due ordini incomparabili, bensl convenienza, compimento, sod­
disfazione (satis-faction) . Il sapere in cui il pensiero si manifesta, è un
pensiero che pensa «a sazietà» , sempre all a propria stregua. Il linguag­
gio, certo, rimanda a una relazione tra pensatori al di là del contenuto
rappresentato , uguale a se stesso e, dunque, immanente . Ma il raziona­
lismo del sapere interpreta questa alterità come il ritrovarsi degli inter­
locutori nello Stesso di cui essi sarebbero l'infausta dispersione . Nel lin­
guaggio i soggetti diversi entrano ognuno nel pensiero dell'altro e si
ritrovano nella ragione. La ragione sarebbe la vera via interiore. Le
domande e le risposte di uno «scambio di idee» avvengono del resto
anche in una sola coscienza. Il rapporto tra pensanti non avrebbe signi­
:licato per se stesso e ha valore solo come trasmissione di segni grazie a
cui una molteplicità si riunisce intorno a un pensiero , lo stesso; la mol­
teplicità di coscienze in gioco sarà stata solo il venir meno di un'unità
preliminare o finale . La prossimità dell'una all'altra non assume forse il
senso di una coincidenza mancata? Il linguaggio sarebbe allora subor­
dinato al pensiero , anche se questo, nel suo processo immanente, dovesse
ricorrere ai segni verbali per comprendere-per inglobare--e per combi­
nare le idee e per conservare ciò che ha appreso .
La correlazione rigorosa tra ciò che si manifesta e gli aspetti della
coscienza, ha permesso a Husserl di affermare sia che la coscienza è pre­
statrice di senso, sia che l'essere domina le modalità con cui la coscienza
si accosta ad esso : l'essere domina il fenomeno . Questa conclusione
riceverà un'interpretazione idealista : l'essere è immanente al pensiero e
il pensiero, nel sapere, non va oltre se stesso. Il trascendente o l'asso­
luto, nella sua pretesa caratteristica di non essere intaccato da alcuna
relazione, non può avere nel sapere, sia esso sapere sensibile, concettuale,
o anche puramente simbolico, alcun senso trascendente senza perderlo
subito : la sua stessa presenza al sapere significa perdita di trascendenza
e di assolutezza . La presenza esclude, in fin dei conti, ogni trascendenza.
La coscienza come intenzionalità è precisamente il fatto che il senso di
sensato ritorna ad apparire, che il persistere stesso dell'ente nel suo
essere è manifestazione e che, cosi, l'essere in quanto appare è inglo­
bato , uguagliato e, in qualche modo, sostenuto dal pensiero. Non è a
causa di un'intensità o di una stabilità resa ineguagliabile o ineguale

57
Emmanuel Lévinas

per l'affermazione all 'opera nell'identificazione, noetica-né a causa di


modalità assiologiche che l 'essere posto assumerebbe-che la trascen­
denza o l'assolutezza sarebbe in grado di conservare un senso a cui la
sua presenza stessa nella manifestazione non potrebbe infliggere smen­
tita. Ci sarebbe nell'energia della manifestazione--cioè nell'identificazione
noetica richiesta all'apparire-tutta l'intensità o tutta la stabilità che
richiede la persistenza nell'essere di cui la manifestazione non sarebbe
che l'enfasi. La nozione di intenzionalità, intesa correttamente , significa,
nello stesso tempo, sia, che l'essere domina le modalità di accesso all'es­
sere, sia che l'essere è secondo l'intenzione della coscienza: significa una
es teriorità nell 'immanenza e l 'immanenza di ogni esteriorità .
Ma l'intenzionalità esaurisce le modalità secondo cui il pensiero è
significante ?

3. Al di là dell'intenzionalità

Il pensiero ha senso solo per la conoscenza del mondo? O l'eventuale


sovrappiù in signifìcanza del mondo stesso rispetto alla presenza non è
da ricercare in un passato immemoriale-cioè irriducibile a un presente
trascorso--n ella traccia di questo passato, che sarebbe nel mondo il suo
marchio di creatura? Non si dovrebbe ricondurre troppo presto questo
marchio all'essere effetto di una causa. Esso implica in ogni caso una
alterità che non potrebbe apparire né nelle correlazioni del sapere, né
nella sincronia della rap-presentazione . Alterità di cui la nostra ricerca
tenta precisamente di descrivere l'approccio al di là della rappresenta­
zione, sottolineando nell'essere e nella presenza che gli conferisce la rap­
-presentazione , al di là della sua contingenza antologica, la sua «messa
in questione morale», il suo appello alla giustificazione, cioè la sua ap­
partenenza all'intrigo dell 'alterità , innanzitutto etica.
Il pensiero non sarebbe altro che pensiero di ciò che lo eguaglia e
,
di ciò che si pone alla sua portata-sarebb e dunque essenzialmente
ateismo?
Il pensiero ha forse significato solo in quanto tematizzazione e, dun­
que, rap-presentazione e, dunque, unificazione della diversità e della
dispersione temporali ? Il pensiero è quindi da subito teso verso l 'ade­
guamento della verità, verso la comprensione del dato nella sua identità
ideale di «qualche cosa» ? Il pensiero sarebbe sensato solo davanti alla
presenza pura, presenza compiuta e che, da allora in poi, nell 'eterno
dell'idealità, non «trascorre più » ? Ogni alterità è allora solo qualitativa,

58
Note sul senso

diversità che si lascia raccogliere nei generi e nelle forme ed è suscetti­


bile di apparire in seno allo Stesso, come permette un tempo che si
sottomette alla sincronizzazione attraverso le rap-presentazioni del sa­
pere?
L 'umano suggerisce simili interrogazioni. L 'uomo si identifìca indi­
pendentemente da una qualunque qualità caratteristica che distinguereb­
be un io da un altro e nella quale egli si riconoscerebbe. In quanto
«puri io», i diversi io sono logicamente indiscernibili con precisione .
L 'alterità dell'indiscernibile non si riduce a una semplice differenza in
«contenuto» .
Quindi, da un io all'altro, dall'io ad altri, l'adunanza non è la sin­
tesi tra enti che costituiscono un mondo quale si mostra nella rap-pre­
sentazione o nella sincronizzazione che il sapere instaura .
L'alterità negli « indiscernibili» non rimanda a un genere comune , né
a un tempo sincronizzabile in rap-presentazione attraverso la memoria
o la storia. Adunanza del tutto diversa da quella della sintesi : prossi­
mità, faccia a faccia, e società.
Faccia a faccia: la nozione di volto viene qui ad imporsi . Non è un
dato qualitativo che si aggiunga empiricamente a una preliminare plura­
lità di io o di psichismi o di interiorità, di contenuti addizionabili e ad­
dizionati totalmente . Il volto che comanda qui l'adunanza instaura una
prossimità diversa da quella regolata dalla sintesi che unifìca dei dati
«in» un mondo, le parti «in» un tutto . Esso comanda un pensiero più
antico e più vigile del sapere o dell 'esperienza. Io posso , certo, avere
esperienza dell'altro uomo, ma precisamente senza discernere in lui la
sua differenza di indiscernibile . Mentre il pensiero risvegliato al volto o
dal volto è il pensiero comandato da una irriducibile differenza : pensiero
che non è un pensiero di . . . , ma un pensiero per ... , che non è una tema­
tizzazione che è una non-indifferenza per l'altro, che rompe l'equilibrio
dell'anima uguale e impassibile del conoscere . Risveglio che non deve
essere subito interpretato come intenzionalità , come una noesi che è a
misura-pienamente o a vuoto--del suo noema e simultanea ad esso .
L'alterità irriducibile dell'altro uomo, nel suo volto, è abbastanza forte
per <<resistete» alla sincronizzazione della correlazione noetico-noematica
e per rimandare all 'immemoriale e all 'infinito che non «stanno» in una
presenza, né nella rap-presentazione . Immemoriale e infinito che non si
fanno immanenza in cui l'alterità si consegnerebbe ancora alla rap-pre­
sentazione, anche quando questa si limita a una nostalgia dell'assenza o
a un simbolismo senza immagini. Io posso certo fare esperienza dell'altro

59
Emmanuel Lévinas

ed «osservare» il suo volto e l'espressione dei sqoi gesti come un insieme


di segni che mi informerebbero sugli stati d'animo dell'altro uomo, ana­
loghi a quelli che io provo. Conoscenza per «appresentazione» e per «in­
tropatia» (dureh Einfuhlung) , per attenersi alla terminologia di Husserl
fedele, nella sua filosofia dell'altro, all'idea che ogni senso comincia nel
sapere . Ma a questa concezione della relazione all'altro non rimprovere­
remo solo di ostinarsi a pensare la relazione ad altri come sapere indi­
retto--non paragonabile certo alla percezione in cui il conosciuto si offre
in «originale »-ma an,che di intenderla ancora come sapere: in tale sa­
pere, ottenuto a partire dall'analogia tra il comportamento di un corpo
estraneo oggettivamente dato e il mio proprio comportamento, non si
forma che un'idea generica dell'interiorità e dell'io. L'alterità indiscer­
nibile di altri è precisamente mancata. Alterità irriducibile a quella che
si raggiunge incidendo una differenza caratteristica o specifica sull'idea
di un genere comune; irriducibile ad una diversità sintetizzabile in un
tempo--supposto, sincronizzabile-in cui essa si disperde, irriducibile
alla omogeneità ultima necessaria ad ogni rappresentazione. L'altro avrà
così perduto la sua alterità radicale e indiscernibile per tornare all'ordine
del mondo .
Ciò che all'interno dell'appresentazione si considera come il segreto
dell'altro uomo, è precisamente l'inverso di una signifìcanza altra dal
sapere; il risvegliarsi all'altro uomo nella sua identità, indiscernibile
per il sapere, pensiero in cui significa la prossimità del prossimo, lo scam­
bio con altri, irriducibile alla esperienza, l'approssimarsi del primo ve­
nuto.
Questa prossimità dell'altro è signifìcanza del volto--signifìcanza da
precisare--che significa da subito al di là delle forme plastiche che lo
ricoprono con la loro presenza nella percezione. Prima di ogni espressione
particolare, e sotto ogni espressione particolare che-già atteggiamento
e contegno datosi-ricopre e protegge, nudità e spoliazione dell'espres­
sione come tale, cioè esposizione estrema, il senz à-difesa stesso . Esposi­
zione estrema-precedente ogni presa di mira umana--come a un colpo
«a bruciapelo ». Estradizioni di assalito e braccato--di braccato prima di
ogni battuta. Volto nella sua immediatezza del far fronte (/aire face)
a ... , nascita latente della « distanza più corta fra due punti» : immedia­
tezza dell'esposizione alla morte invisibile . Espressione che tenta e guida
la violenza del primo crimine : la sua rettitudine omicida è già singolar­
mente preparata nella sua mira all'esposizione o all'espressione del volto .
Il primo omicida ignora forse l'esito del colpo che sta per vibrare, ma

60
Note sul senso

la sua mira violenta gli fa trovare la linea secondo cui la morte colpisce
con precisione imparabile il volto del prossimo, tracciata come traietto­
ria del colpo assestato e della freccia che uccide . Violenza omicida il cui
significato concreto non si riduce alla negazione-già pura qualità del
giudizio--la cui intenzione si compie, senza dubbio prematuramente,
attraverso l'idea di annientamento, così come si riduce troppo rapida­
mente alla visibilità, alla fenomenalità-all'apparizione di una forma nel
contenuto di un insieme, sotto il sole e le ombre dell'orizzonte-la nu­
dità o l'esposizione senza difesa del volto, il suo abbandono · di vittima
lasciata sola e la rottura delle forme nella sua mortalità.
Ma questo di fronte del volto nella sua espressione-nella sua morta­
lità-mi convoca, mi interroga , mi e sige : come se la morte invisibile a
cui sta di fronte il volto altrui-pura alterità separata, in qualche modo ,
da ogni insieme-fosse affar mio. Come se, ignorata da altri , a cui già
nella nudità del suo volto essa inerisce, essa «mi guardasse» prima di
riguardarmi, prima di essere la morte che sconvolge me stesso . La morte
dell'altro uomo mi mette in causa e in questione come se di questa morte ,
invisibile all'altro che vi si espone, io diventassi, con la mia indifferenza,
il complice ; e come se, ancor prima di esserle votato io stesso, dovessi
rispondere di questa morte dell'altro e non abbandonare altri alla soli­
tudine . È proprio in questo richiamo della mia responsabilità attraverso
il volto che mi convoca, mi interroga, mi reclama, è in questa messa in
questione che altri è prossimo.
È a partire da questa prospettiva, tesa fino alla spoliazione, fino alla
nudità e al senza-difesa del volto, che abbiamo potuto una volta affer­
mare che il volto dell'altro uomo è, nello stesso tempo, la mia tenta­
zione di uccidere e il «tu non ucciderai» che già mi accusa o mi sospetta
e mi turba, ma insieme già mi interroga e mi reclama . È a partire dalla
mortalità dell 'altro uomo--piuttosto che a partire da una qualunque
natura o destino, comune immediatamente a <<noi altri mortali»--che la
mia non-indifferenza ad altri ha il significato irriducibile della socialità
e non è subordinata alla priorità del mio essere-per-la-morte che misu­
rerebbe ogni autenticità, come vorrebbe Sein und Zeit dove l'Eigent­
lichkeit-e nulla mi sarebbe più proprio, più eigen della morte-scopre
il significato dell'umano e della sua identità.
Questa maniera di reclamarmi, di chiamarmi in causa e di appellarsi
a me, questa responsabilità per la morte altrui, costituisce una signifi­
canza irriducibile a tal punto che proprio a partire da essa il senso della
morte dev 'essere inteso, al di là della dialettica astratta dell'essere e della

61
Emmanuel Lévinas

sua negazione con cui, a partire dalla violenza pprtata fino alla negazione
e all 'annientamento, si dice la morte. La morte significa nella concretezza
dell'impossibilità di abbandonare l'altro alla sua solitudine, nell'impedi­
mento di questo abbandono . Il suo senso comincia nell'inter-umano. La
morte significa originariamente nella prossimità stessa dell'altro uomo o
nella socialità .
È a partire da qui che la speculazione, nelle alternative che essa sol­
leva senza poterle risolvere , presenta il mistero della morte .
La responsabilità per l'altro uomo, l'impossibilità di lasciàrlo solo
davanti al mistero della morte è, concretamente-attraverso tutte le mo­
dalità del dare-la suscepzione del dono ultimo di morire per altri . La
responsabilità non è qui una fredda esigenza giuridica . È tutta la gra­
vità dell'amore del prossimo--dell'amore senza concupiscenza-cui si
appoggia il significato ultimo del termine adoperato e che presuppone
tutte le forme letterarie della sua sublimazione o della sua profanazione .

4. La questione

L'esposizione a bruciapelo del volto dell'altro uomo e la domanda


che mi reclama rompendo le forme plastiche dell'apparire, misurano �con­
cretamente la passività dell'abbandono all'invisibile della morte, ma an­
che, nello stesso stare-di fronte del volto, la violenza che si perpetua in
questa mortalità. L'invisibile della morte o il suo mistero : alternativa
mai risolta tra l'essere e il n.on essere ; ma ancora di più : alternativa tra
questa alternativa e un altro «termine», un terzo escluso e impensabile ,
dò per cui precisamente l'ignoto della morte si ignora diversamente dal­
l'ignoto dell'esperienza , sottraendosi all'ordine in cui si giocano sapere
e non sapere, sottraendosi all'antologia. Nascita latente della problema­
ticità stessa della questione a partire dalla dom�nda che proviene dal
'
volto d'altri , né semplice insufficienza di saper é,
né modalità qualsiasi
della certezza della tesi della fede. Problematicità che significa lo scoti­
mento della naturale, ingenua posizione antologica dell'identità dell'ente ,
l'inversione del conatus, della persistenza e della perseveranza senza pro­
blema dell 'ente nell'essere; scotimento e inversione per cui io trafiggo
l'identità dell'ente e posso ormai parlare del mio scotimento, del mio
conatus, della mia persistenza nell'essere, della mia messa in questione
come parlo della mia messa al mondo; ingresso nell'inquietudine-per-la­
morte-del-l'altro-uomo : risveglio nell'ente di una «prima persona» . Pro-

62
Note sul senso

blematicità alla sua origine a guisa di mio risveglio alla responsabilità


per altri, a guisa di un disinganno del mio proprio esistere .
Messa in questione, in effetti, nella domanda del volto che mi re­
dama; questione in cui non entro interrogandomi circa la portata teore­
tica di una proposizione in un enunciato, ma questione in cui entro obbli­
gato alla responsabilità per la mortalità dell'altro uomo e, concretamente,
come perdendo davanti alla morte altrui l 'innocenza del mio essere :
messa in questione davanti alla morte dell'altro come un rimorso o, al­
meno, come uno scrupolo di esistere. Il mio esistere nella sua quiete e
nella buona coscienza del suo conatus , non equivale forse a un lasciar
morire l 'altro uomo ? L'io come io che irrompe in un ente che sa «a
cosa attenersi» , nell'individuo di un genere-fosse anche il genere uma­
no--la sua calma partecipazione all'universalità dell'essere , significa co­
me la problematicità stessa della questione . Esso la significa attraverso
l'ambiguità dell'identico che si dice io all'apogeo della sua identità senza
condizioni e autonoma, ma in cui può riconoscersi anche «io odioso » .
L'io è l a crisi stessa dell'essere dell 'ente , non perché il senso di questo
verbo dovrebbe essere compreso nel suo contenuto semantico e impli­
cherebbe l'ontologia, ma perché io, io mi chiedo già se il mio essere è
giustificato . Cattiva coscienza che non si riferisce ancora a una legge .
Concretamente-cioè pensata a partire dalla sua indefinibile « messa in
scena» nel fenomeno (o nella rottura dei fenomeni }--;- questa cattiva co­
scienza, questa messa in questione mi giunge dal volto d 'altri che, nella
sua mortalità , mi strappa dal suolo solido dove, semplice individuo, io
mi poso e permango ingenuamente-naturalmente--nella mia posizione .
Questione che non attende risposta teorica a guisa di «informazione» .
Questione precedente quella che tende alla risposta e d a lì forse a nuove
domande ; precedente le famose domande che, dopo Wittgenstein, hanno
senso solo là dove le risposte sono possibili e come se la morte dell'altro
uomo non ponesse alcuna questione. Questione che richiama alla respon­
sabilità la quale non è un ripiego pratico che consolerebbe un sapere
che si arena nel suo adeguamento all 'essere; responsabilità che non è la
privazione del sapere, della comprensione, dell'intendere e del capire , ma
prossimità etica nella sua irriducibilità al sapere, nella sua socialità.

5. A-Dio

Lo Stesso votato all'Altro : pensiero etico, socialità che è prossimità

63
Emmanuel Lévinas

o fraternità, che non è sintesi . Responsabilità p,er altri , per il primo ve­
nuto nella nudità del suo volto . Responsabilità al di là di quanto io posso
aver commesso o meno nei riguardi d'altri e di tutto ciò che avrà potuto
o non avrà potuto essere mio operato, come se io fossi votato all'altro
prima di essere votato a me stesso. In un'autenticità che precisamente
non si misura con ciò che mi è proprio--con l'Eigentlichkeit--con ciò
che mi ha già toccato, ma con la gratuità pura verso l'alterità. Responsa­
bilità senza colpevolezza in cui sono tuttavia esposto a un'accusa che
l'alibi e la non-contemporaneità non potrebbero cancellare e come se essi
la stabilissero . Responsabilità prima della mia libertà, prima di' ogni co­
minciamento in me, prima di ogni presente. Prima, ma in quale passato ?
Per nulla nel tempo precedente quello attuale in cui io avrei contratto
qualche impegno . La mia responsabilità per il primo venuto rimande­
rebbe allora a un contatto, a una contemporaneità . Altri non sarebbe in
questo caso, dove rispondo di lui; il primo venuto, sarebbe una vecchia
conoscenza . La responsabilità per il prossimo è prima della mia libertà
in un passato immemoriale, non-rappresentabile e che non fu mai pre­
sente, più « antico» di ogni coscienza di . . . Sono impegnato nella respon­
sabilità per altri secondo lo schema singolare disegnato da una creatura
che risponde al fiat della Genesi, che ascolta la parola prima di essere
stata mondo e al mondo .
La diacronia radicale del tempo, che resiste alla sincronizzazione della
reminiscenza e dell'anticipazione, ai modi della rap-presentazione, è slan­
cio di un pensiero che non ingloba un contenuto , che è pensiero per . . . ,
che non si riduce alla tematizzazione,
. al sapere adeguato all'essere della
coscienza di. . .
Ma il vincolo di questo «profon d jadis» dell'immemoriale mi rag­
giunge come ordine e domanda, come comando, nel volto dell'altro uomo,
di un Dio che «ama lo straniero » , di un Dio invisibile, non tematizza­
bile che in quanto quel volto si esprime, e di cui la mia responsabilità
per altri testimonia senza riferirsi a una precederit�- percezione . Dio invi­
sibile che nessuna relazione potrebbe raggiungere perché egli non è il
termine di alcuna relazione , foss 'anche intenzionalità, perché precisa­
mente egli non è termine ma In6nito . Infinito al quale io sono votato
da un pensiero non-intenzionale la cui devozione nessuna preposizione
____: eanche la «a» alla quale noi ricorriamo-saprebbe
della nostra lingua____n
tradurre . A-Dio il cui tempo diacronico è la cifra unica, insieme devo­
zione e trascendenza . Non è certo che la nozione di «Cattivo infinito» di
Hegel non ammetta alcuna revisione .

64
Note sul senso

6. Il senso dell'umano

La prossimità dell'altro uomo, nella responsabilità per lui, significa


dunque altrimenti che quello che «l'appresentazione», come sapere, po­
trebbe mai trarne, ma anche altrimenti da quanto la rap-presentazione
interiore di ciascuno significa per ciascuno . Non è certo che il senso
definitivo e proprio dell'umano sia nella sua esibizione all'altro o a se
stesso, che consista in ciò che è manifestato o nella manifestazione, nella
verità svelata o nella noesi del sapere. Davvero l'uomo non ha un senso
al di là di ciò che precisamente può essere, al di là di come egli può
mostrarsi ? Questo senso non risiede forse proprio nel suo volto di primo
venuto, nella sua estraneità all'altro, nella misura in cui proprio a questa
estraneità si lega il suo appello a me o il suo imporsi alla mia respon­
sabilità? Questa imposizione a me, questo incombere dell'estraneo su di
me, non è forse il modo in cui «entra in scena», o in cui mi viene
all'idea, un dio che ama lo straniero mettendomi in questione per mezzo
della sua domanda e che il mio «eccomi» testimonia?
Il senso di questa estraneità diacronica dell'altro nella mia respon­
sabilità per lui o questa « differenza tra indiscernibili» senza genere co­
mune-io e l'altro-------coincide con una non-in-differenza in me per l'altro .
Non è forse questa la signi:ficanza stessa del volto, del parlare originario
che mi interpella e mi tiene in questione e mi risveglia o suscita la mia
risposta o la mia responsabilità? Prima di ogni sapere che io possa avere
su me stesso, prima di ogni presenza riflessiva di me a me stesso e al di
là della mia perseveranza nell 'essere e del riposo in me stesso--non è
qui il per-l' altro del grande disinganno dello psichismo in umanità,
l'a-Dio che rompe con la Jemeingkeit heideggeriana ?
Non si tratta con questi interrogativi e condizionali di riprendere la
grande tesi della psicanalisi, secondo cui l'analista vede nell'altro uomo
più esattamente di quanto l'altro uomo non veda nella sua coscienza
spontanea e riflessa . Propriamente, non si tratta né di vedere né di sa­
pere. Domandiamo solo se l'umanità dell'uomo si definisca esclusiva­
mente attraverso ciò che egli è o se, nel volto che mi domanda una signi­
ficanza diversa da quella antologica-e più antica-non stia prendendo
senso e risvegliando un pensiero altro dal sapere, il . quale è probabil­
mente la pulsazione stessa dell'Io della buona coscienza. Il senso del­
l'umano non si misura con la presenza, fosse anche la presenza a se
stesso . La signifìcazione della prossimità deborda i limiti antologici,
l'essenza umana e il mondo. Essa ha senso attraverso la trascendenza e

65
Emmanuel Lévinas

l 'a-Dio-in-me che è la messa in questione di me . Il volto ha senso nel


denudamento, in tutta la precarietà dell'interrogazione , in tutto il rischio
della mortalità .
Che l a Rivelazione sia amore per l'altro uomo, che l a trascendenza
dell'a-Dio , separata da una separazione in cui non si riscontra alcun ge­
nere comune ai separati, neanche qualche forma vuota che li raccolga
jnsieme, che il rapporto all 'Assoluto o all'Infìnho significhino etica­
mente, cioè nella prossimità dell'altro uomo, estraneo e perfino nudo,
denudato e indesiderabile, ma anche nel suo volto ineludibil� che mi
interroga, volto rivolto verso di me, che mi mette in questioq'e--t utto
ciò non dev'essere preso per una «nuova prova dell'esistenza di Dio » .
Problema questo che h a senso probabilmente solo all 'interno del mondo .
Tutto ciò descrive esclusivamente la circostanza in cui il senso stesso
del termine Dio viene all'idea e più imperios-amente di una presenza;
circostanza in cui questo termine non significa né essere, né perseveranza
nell'essere, né qualche oltre-mondo--nient'altro che un mondo ! -senza
che , in queste circostanze precisamente determinate , tali negazioni diven­
gano teologia negativa .

7. Il · diritto di essere

Volto, al di là della manifestazione e del disvelamento intuitivo , volto


come a-Dio, nascita latente del senso . L'enunciato apparentemente nega­
tivo dell'a-Dio o della significazione si determina o si concretizza come
responsabilità per il prossimo, per l'altro uomo , per l'estraneo, respon­
sabilità alla quale, nell'ordine rigorosamente antologico della cosa-di
qualche cosa, della qualità, del numero e della causalità-nulla obbliga .
Regime dell'altrimenti che essere . La compassione e l a simpatia alle quali
si vorrebbe ridurre, come a degli elementi dell'ordine naturale dell'essere,
la responsabilità per il prossimo, si trovano già so.ttç> il regime dell'a-Dio .
La signifìcazione, l'a-Dio, il per-l'altr o--concreti nella prossimità del
prossimo--non sono una privazione qualsiasi della visione, un'intenzio­
nalità vuota, un puro mirare ; essi sono la trascendenza che sola forse
rende possibile ogni intuizione, ogni intenzionalità ed ogni mirare .
Ciò che si continua a chiamare «identità dell'io» non è originaria­
mente una conferma dell'identità dell'ente nel suo «qualche cosa» , non
è un'esaltazione qualunque o un rilancio di questa identità del «qualche
cosa» fino al rango di un «qualcuno» ; è la «non-intercambiabilità», l 'uni-

66
Note sul senso

cità, l'ethos dell'insostituibile che, indiscernibile , non si individua né


grazie ad una qualche <<privazione» che gioca il ruolo di differenza speci­
fica . Ethos dell'insostituibile che risale a questa responsabilità: tale iden­
tità dell'io o del «Se stesso » significa il carattere d'inalienabile legame
all a responsabilità : l'identità riguarda la sua etica, e, così, la sua ele­
zione. Risveglio ad un psichismo veramente umano, ad una interroga­
zione che, dietro la responsabilità e come sua ultima motivazione, è una
questione sul diritto di essere. Non disvelato nel fragore della sua perse­
veranza nell'essere , sia essa precaria o garantita dalla mortalità e dalla
finitezza di questo essere ; ma intaccato nell'esitazione e il pudore-e
forse nella vergogna d'ingiustificato che nessuna qualità saprebbe nascon­
dere, né investire, né caratterizzare come personaggio individuabile nella
sua particolarità . Nudo in cerca di un'identificazione che non gli può
provenire se non da un'inalienabile responsabilità. Condizione o in-con­
dizione che bisogna distinguere dalle strutture che indicano la precarietà
antologica della presenza, mortalità e angoscia. È necessario restare at­
tenti ad un intrigo di senso diverso da quello antologico e in cui si mette
in questione il diritto stesso di essere . La «buona coscienza>>, che all'in­
terno dell a riflessione sull 'io pre-riflessivo arriva fino alla famosa coscien•
za di sé, è già il ritorno dell'io risvegliato nella responsabilità-dell 'io
come per-l'altro , dell'io di «cattiva coscienza»-alla sua «integrità» anto­
logica, alla sua perseveranza nell'essere , alla sua salute.

8. Soggezione e primogenitura

Tuttavia, propriamente parlando, già dicendo l'io pre-riflessivo , l'io


senza concetto, l'io preoccupato--davanti al volto d'altri--del suo diritto
d'essere, questo stesso io si è eretto a nozione dell'io, io della «cattiva co­
scienza» , esso si è protetto nella tematizzazione stessa del discorso che qui
si sta svolgendo, sotto la nozione dell'io . Si è protetto, ma anche obliato,
sotto la generalità del concetto; la prima persona assoggettata ad altri, in­
comparabile agli altri e che precisamente non è un individuo di un genere .
Ecco un Io e, all'interno dell'equità del concetto un puro individuo del
genere in perfetta simmetria e reciprocità con gli altri io . Esso è l'ugua­
le, ma non più il fratello di tutti gli altri. A tale riguardo è necessario
disdire il detto , ritornare sul suo discorso e destarsi di nuovo a Dio :
all'io pre-riflessivo, fratello d'altri , e, nella fraternità, da subito respon­
sabile di altri, non-indifferente alla mortalità dell'altro , accusato di tutto,

67
Emmanuel Lévinas

ma senza colpa di cui possa ricordarsi e prima di aver preso alcuna deci­
sione, né compiuto alcun atto libero e, di con�eguenza, prima di aver
commesso alcun fallo da cui potrebbe derivare questa responsabilità :
responsabilità di ostaggio fino alla sostituzione all'altro uomo . Nel libro
x delle sue Confessioni Sant'Agostino oppone alla veritas lucens la veritas
redarguens-la verità che accusa o che rimette in questione . Espressioni
considerevoli per la verità in tutto quanto risvegliano allo spirito o allo
psichismo umano . Io pre-riflessivo nella passività del sé: è solo attraverso
il sé, attraverso l'io-in questione che è possibile concepire questa passi­
vità, più passiva di ogni passività, più passiva di quella che nel mondo ,
resta la contro-parte di Ùna azione qualsiasi in cui anche sotto forma di
materialità, offre già una resistenza, la famosa resistenza passiva .
Responsabilità d'ostaggio fino alla sostituzione all'altro uomo , infi­
nita soggezione . A meno che questa responsabilità preliminare o anar­
chica-vale a dire senza origine in un presente-non sia la misura o il
modo o il regime di una libertà immemorabile , più antica dell'essere ,
delle decisioni e degli atti . Grazie a questa libertà, l'umanità in me, cioè
l 'umanità come io , nel suo a-Dio , significa-malgrado la sua contingenza
antologica di finitezza e l'enigma della sua mortalità-una primogeni­
tura e, nella responsabilità inalienabile, l 'unicità dell'eletto . È questa
l'unicità dell'io . Primogenitura 2 ed elezione, identità e priorità di una
identificazione o di un'eccellenza irriducibili a quelle che possono ca­
ratterizzare o costituire degli enti-all 'interno dell'assetto del mondo-­
e le persone nel ruolo gioqtto sull a scena sociale della storia come perso­
naggi , cioè nello specchio della riflessione o nella coscienza di sé. Devo
rispondere della morte degli altri prima di dover-essere. Non è questa
un'avventura che coglie una coscienza che, fin dall 'inizio e subito, sarebbe
sapere e rappresentazione conservando così la sua certezza nell'eroismo
dell'essere-per-la-morte in cui essa si afferma come lucidità e come pen­
siero che pensa fino alla fine; non-autoctonia nell'essere che non è una
avventura che coglie una coscienza che, fin nella sua finitezza, è ancora

2
Abramo, padre dei credenti, in Genesi ( 19, 23-32) interviene a favore di So­
doma pur ricordando di essere «polvere e cenere». Un apologo del Talmud ( sota)
ricorda che l' «acqua lustrale», che in Numeri 19 purifica le impurità dovute al
contatto o alla vicinanza dei morti, è un ' acqua alla quale sono mescolate, secondo
il rituale , le ceneri di una «vacca rossa» bruciata. Il rito di purific azione si riferisce
dunque alla perorazione di Abramo. L'umanità di Abramo è più forte della sua
propria morte. Abramo non sarebbe stato intimidito dalla propria mortalità che
lnvocn nella sua preghiera per intervenire contro la morte dell'altro uomo.

68
Note sul senso

-o già-buona coscienza senza dubbi riguardo al suo diritto all'essere


e, da quel momento, angosciata o eroica nella precarietà della sua :fini­
tezza. La cattiva coscienza è una «instabilità» diversa da quella di cui
minaccia la morte o la sofferenza, le quali passano per l'origine di ogni
pericolo .
Questione sul mio diritto all'essere che è già la mia responsabilità
per la morte d'altri, che interrompe la spontaneità, senza circospezione,
della mia ingenua perseveranza. Il diritto all'essere e la legittimità di
questo diritto non si riferiscono, in fìn dei conti, all'astrazione di regole
universali della legge, ma in ultima istanza-come questa legge stessa e
la giustizia-al per-l'altro della mia non-indifferenza alla morte alla
quale si espone la franchezza stessa del volto altrui 3• Che esso mi ri­
guardi o meno , «mi riguarda» . La questione del mio diritto all'essere è
inseparabile dal per-l'altro in me, essa è antica quanto questo per-l'altro .
Questione contro-natura, contro il naturale della natura . Una questione
di senso per eccellenza, al di qua o al di là di tutti i giochi di senso
che ci sorprendono nel riferimento delle parole, le une alle altre, nel
nostro passa-tempo di scrittura . Questione del senso dell'essere; non
l'antologia della comprensione di questo verbo straordinario, ma l 'etica
della giustizia dell 'essere . Questione pura che mi interroga e in cui, con­
tro la natura, il pensiero si risveglia alla sua responsabilità inalienabile,
alla sua identità d 'indiscernibile, a se stesso . La questione per eccellenza,
o la prima questione, non è «perché c'è l'essere piuttosto che nulla? » ,
m a «ho i o diritto all'essere? » .
Questione di senso che non si rivolge verso alcuna finalità naturale,
ma che si perpetua nei nostri strani discorsi umani sul senso della vita,
in cui la vita si risveglia all'umanità. Questione rimossa la maggior parte
del tempo e che risale al punto estremo di ciò che si chiama talvolta,
alla leggera, malattia 4•

3
Sul passaggio dal «per-l'altro» all'equità della giustizia si veda Altrimenti che
essere o al di là dell'essenza, tr . it . di M.T . Aiello e S. Petrosino, Jaca Book, Mi­
lano 1983, p. 201 .
In proposito, sotto forma di apologo biblico, ricorderò i libri che sembrano
costituire la «bibbia>> del mondo letterario contemporaneo : l'opera di Kafka. Al di
là dei labirinti e delle impasses del Potere, della Gerarchia e dell'Amministrazione
che fanno smarrire e separano gli uomini, ciò che si manifesta in quest'opera è il
problema della stessa identità umana messa in questione sotto l'accusa senza colpe­
volezz a, il problema del suo diritto all'essere e dell'innocenza dell'avvenire stesso
dell'avventura dell'essere.

69
Gianfranco Dalmasso
CONSULERE VERITATEM .
SOGGETTO DEL DISCORSO
E SOGGETTO DELL'ETICA
IN AGOSTINO

l
« Potrà ri s u tar e a sufficienza, nel corso stesso di
quest'opera, che non sarebbe possibile contraddire
o
con giustizia il carattere obbligante del n stro sforzo »
( De Doctrina christiana. Prologo )

Questo scritto propon e un'analisi del concetto di ordine nella stra­


tegia conoscitiva di Agostino.
Ordo nel lessico latino significa disposizione, chieramento (di trup­
s

pe, eli alberi, ecc. ) , ma anche regolamento, mis um . Il senso latino, ed in


particolare quello .agostiniano di ordine, si pone perciò come l'idea di
una razionalità non meramen te teoretica e sdentifìca, ma intrecciata di
principio con la prassi. Ordinare si con.fìgur a come gesto che implica
legge, legame , impensabili come esclusivamente contemplati e riflessi .
Questa legge implica l'·idea di un 'azion e, di un interven to attivo del sog­
getto « ordllnatore » .
È nel sen so sopra accennato che l idea di ordine s i collega oon l'idea
'

di disegno , che dà il titoloall'intero volume. Anche nel caso del disegn o


ci troviamo di fronte all 'idea di legame, di rapporto reciproco fra s egni ,
ed anche qui, di legame implicante un proge tto , un intervento dell 'attore
del « disegnare » . Designare in latino , ma anche bezeichnen in t-edesco,
in inglese design (in italiano de- signa re mantiene l'identità attroverso la
v ariante del de conclusivo ) 1 , significano tracciare dei segni collegandoli

Del resto designare è forma antica di disegnare ( Cfr. G. Battaglia, Grande di­
zionario della lingua italiana, UTET, Torino 1961, v. V I , pp. 649).

71
Gianfranco Dalmasso

in nn insieme « sensato », ma anche progettare, manifestare rm'inten­


zione : de"signare, cioè nominare, indicar.e quak;uno per qualcosa, per un
compito ad esempio. De-signare ha perciò un senso duplice : logico e
pratico ( incluso un senso giuridico-politico ) 2•
I concetti di ordine e di disegno implicano perciò, in forza del loro
stesso significato , una questiane su « chi » ordina e disegna. Ordine e
disegno sono cioè concetti impensabili se vengono disgiunti dal gesto
dell'ordine e del disegnare/de-signare. « Pensare » questo gesto implica
pensare una domanda sull'attore del gesto , su chi egli sia, sulla sua ori­
gine e sulle condizioni dell a sua esistenza.
Ordinare, di-segnate/de-signare parole, cose, uomini : ciò ' implica
un prendere posizione, un decidere che inerisce alla struttura stessa del­
l'atto. In questo scritto prenderemo in considerazione quel certo atto
che è il discorso (lasciando impregiudicata qui la questione se vi siano
degli atti che non siano « discorsivi » ).

l. Sospendere il privilegio del segno

All 'inizio del De magistro Agostino pone come evidente l'equazione


fra parlare e insegnare : « è manifesto che noi parlando vogliamo inse­
gnare » 3• Anche l'·interrogare è un insegnare : « Anche all ora credo che
noi non vogliamo altro che insegnare. Poiché ti domando se tu interro­
ghi per altra causa che q�ella di insegnare ciò che vuoi a quello che tu
interroghi » 4 •
Agostino inaugura così il suo De magistro mostrando una strategia
complessa e maliziosa per impostare un'analisi del discorso. Analisi del
discorso implica per Agostino il problema di chi parla) per che cosa o
per chi ·si parla ed anche l'a chi si parla : « che cosa vogHamo fare quan­
do parliamo ? ».

La prima ri&posta fornita dall'autore del testo è che, quando si par­


la, o si insegna o si apprende. Quando si parla si è ·:pèrciò nella posizione
di maestro o nella posizione di discepolo . Ma anche ·il dlscepolo è sem­
pre e comunque maestro : « Ti domando se tu interroghi per altra causa
che quella di insegnare ciò che vuoi a quello che tu interroghi ».

2 Cfr. ibid . , p. 246-247.


De magistro, a cura di M. Casotti, La Scuola, Brescia 1974, VII ed., p. 3.
4 Ibid. , pp. 3-4.

72
Consulere veritatem

Parlare, nella sua struttura, coincide dunque con l'insegnare . Par­


la re è in ogni caso indirizzarsi, un comunicare, m ettere in gioco qual­
nn

cosa che « eccede » chi parla. Il significato implicato dalla parola e dal
linguaggio è cosl originariamente connesso con la que s tion e della tra­
smissione della verità. Ogni domanda è essenzialm ente un tentativo di
accordo fra il docere e il dicere. Ciò implica che ci sia fin daLl'inizio un
accordo nel linguaggio : nessuno scambio è possibile se non attraverso
l'identificazione reciproca di due universi di linguaggio 5•

Ogni parola è perciò come tale un insegnare : es s'a non è un mero


gi oco di segni, nemmeno si limita ad informare, ess a mette in gioco
strutturalmente il. problema della verità e della sua trasmissibilità. Ad
Agostino Adeodato obietta che « non essendo presente nessuno che pos­
sa imparare », non si può credere che « allora noi vogliamo insegnar
qualcosa » 6• La risposta di Agostino , tenendo sempre fermo che parlare
sia insegnare, mette in questione il concetto di memoria come la cerniera
dell 'intero discorso.

Ma c'è, io credo, un certo modo di insegnare per via di richiami all a


memoria ( quoddam genus docendi per commemorationem ) che è di gran­
de importanza, come dimostrerà il fatto stesso in questa nostra conver­
sazione. Ma se tu credi che si impari qu ando si ricorda e che insegni chi
richiama alla memoria, non mi oppongo e fin da ora pongo due ragioni
di parlare : o per insegnare o per richiam::1re in mente o agli altri o a noi
s tessi qualche cos a : il che si fa anche quando si canta ; a te forse non
pare 7 ?

Nella memoria si inaugura una dialettica fra insegnare ed imparare ,


soprattutto si costituisce l'<� imparare » : imparare è per struttura un
« richiamare alla memoria » ( commemorari ) .

Ti pare dunque che l a parola non sia stata istituita s e non per inse­
gnare o richiamare alla memoria 8? -

L'andamento di questo testo cN Agostino sembra, almeno per certi


aspetti, riprodurre iJ movimento del testo platonico. Tuttavia un certo

Cfr. J. Lacan, Il seminario. Libro I. Gli scritti tecnici di Freud, ed. it. a cura

di G. Contri, Einaudi, Torino 1978, p. 3 0 9 . Cfr. l'intera discussione fra Lacan e

Bernaen sul significato della parola nel De magistro.


6 De magistro, cit., p. 4.
Ibid., pp. 4-5 .
8 lbid., p. 5 .

73
Gianfranco Dalmasso

percorso che se ne demarca è segnato , pre-determinato, un percorso che


si distanzia odginaTiamente dalla paroh, che sà inter:rogarla, ill1 modo
in-audito , sullo sfondo del silenzio. La parola « si dà » : ciò funziona co­
me l'ingranaggio che muove tutto questo testo di Agostino. La parola
si dà e questo darsi avviene in quella struttura che è la memoria. Rispet­
to a questo darsi della parola la preghiera, quella parola particolare che
è la preghiera, precede originariamente:

Credo che tu non sappia non esserci per altro comandato di ,pregare
nella nostra cameretta chiusa, col quale nome si intendono i fienetrali
dell'anima, se non perché Dio non vuole insegnamenti né richiami nme­
monici con le nostre parole per concedere a noi ciò che desideriamo 9 •

La tealtà insegnata dalle parole eli quel parlante che è Cristo nel
nuovo soggetto cristiano, cosl 1stituito ( « non ti muove dunque il fatto
che il sommo Maestro, insegnando a pregare ai di�cepoli, insegnò certe
determinate parole, col che non pare altro volesse fare che insegnare co­
me si debba parlar,e pregando ? » ), avverte chi debba pregare e di che si
debba pregare.

Non le parole, ma le cose stesse con le parole insegnò loro . . . Per le


quali fossero avvertiti chi e eli che si deve pregare, quando si preghi
( come s'è detto) nei penetrali della mente 10•

Il soggetto cristirano sèmbra dunque essere soggetto di preghiera, che


ha come sua struttura la memoria: ciò che fa sl che, nel linguaggio inte­
riore, si ricordmo le cose stesse di cui le parole sono segni 1 1 . Nel Sofista
l'anima discorre con se stessa senza riferimento all'esterno e questo pun­
to di riferimento, l'interiorità dell'anima, insieme a quell'altro punto
eli riferimento che è l'evidenza sensibile (la falsità dell 'affermazione
« Teeteto om vola » ) 12 pennette di individuare la realtà come ciò che

eccede originariamente il discorso ed è in grado df falsificarlo 1 3 •


Nel pensiero di Agostino l'ottica è differente. Pr�esso che per Ago­
stino la signifìcazione è concepita come un dominio ( « parlare è neces-

Ibii., p. 6.
1o Ibid., pp. 7-8 .
n Ibid . , p. 8.
12 Cfr. Sofista, 261 e-264 d.
13 G. Dalmasso, Il ritorno della tragedia. Essere e inconscio in Nietzsche e 111

Freud, Franco Angeli, Milano 1983, p. 25.

74
Consulere veritatem

sariamente insegnare » ) , la novità radicale che funziona nel suo testo

è la considerazione di una struttura dell'imparare che funziona nel par­


lare. Questa struttura dell'imparare è un certo rapporto fra l'imparare
e la realtà. L'imparare e il suo polo conelato che è il « maestro » esi­
stono nella memoria come precedenza originaria sulla parola.
La strutturn dell'imparare/maestro sospende il privilegio del segno,
cioè quel privilegio per cui il segno e quindi il linguaggio sembrano
essere in grado di avvolgere orig1nariamente e dunque di dominare ogni
rapporto con la realtà. Si vedrà più avanti che il parlar.e stesso, come
gesto, non è un segno e si sottrae al privilegio del segno. Il parlare si
annuncia già fin d'ora come hl luogo in cui la struttura della memoria è
fin dall 'inizio riconosciuta nella forma del maestro .
Le finissime e celebri analisi contenute nella prima metà del De ma­
gistro possono essere considerate come un percorso inteso a scalzare il

privilegio del s egno. Il problema sembra quello di smarcarsi dalla stessa


significazione che funziona come una sorta di struttura originaria. È
possibile uscire daJ segno dal momento che sia la parola sia il gesto sono
segni ? Il segno come st:ruttum di rimando sembra insormootabile nel
tentativo di aff errare le « cose stesse » 14 • Salvo--p arrebbe-il caso del
ges to con cui possiamo mosHare la cosa stessa subito dopo la domanda
con la quale essa d viene indicata attraverso dei segni 15•

Sorvoliamo qui sulla mirabile indagine agostiniana sul nome e sul­


l'aporia del nome come segno di segno. ( Il segno infatti è esso stesso uno
fra i « nomi » ). n rapporto, insondabile , fra segno e nome si articola
con un terzo termine, altro vertice di un irrappresentabile triangolo, che
è la parola 16• Ma anche il nome--osserva Agostirno--è una parola, e la
parola è segno del nome: che ra)?'PO'tto può intrattenere allora la parola
con il nome di cui è segno?

Vorrei tu rispondessi anche a questo. Essendo la parola segno del


nome, e il. nome segno del fiume, e il fiume segno di una cosa che si può
vedere; e fra questa cosa e il fiume, cioè il suo segno, e fra questo se­
gno e il nome che è segno di questo segno, già dicesti la differenza,
quale credi s.i:a la differenza fra il segno del nome che dicemmo ess er la
parola e lo stesso nome di cui ella è segno 17?

1
4 De magistro, cit., pp. 8-17.
5 e
1 Ma anche in questo caso il problema appare irri solvibile sembra molto dif­
ficile scalzare il privilegio del segno. Cfr. ibid. , pp. 16-17.
16 Parola è nel De magistro « tutto ciò che sia pronunciato con la voce ed abbia
un qualche significato ».
17 lbid. . o. 27.

75
Gianfranco Dalmasso

18•
Per un verso dunque Iii par-ola ha u n ampiezza maggiore del nome
'

La p arola è essa stessa segno del nome che è già segno di segno. Si trat­
ta di un intl'eccio inestricabile perché, d'altra parte, il nome è segno
della parola. Per altro verso il nome stesso è nominato e la situazione
teo rica che si sedimenta da queste complicate analisi « linguistiche » è
data da una struttura per cui il nome è un segno che significa anche se
stesso 19• C'è dunque per Agostino un intreccio originario fra il parlare
2
come tale e la nominazione 0• In questo abisso che si apre fra ·il nome
e il parlare ne va di chi parla e del che ne è del parlare: problema che
muove l'intera analisi agostiniana sul segno e che la org,anizza :demar­
candola sia da un progetto meramente « tecnico » di ,analisi del linguag­
gio sia da un'attitudine astrattamente speculativi!. Anzi il percorso del
testo, secondo quanto Agostino s te s so dichiara 1n un punto nodale del
dialogo , mira ad un ob ie ttivo decisivo quanto all'esistenza UllliUla co­
me tale.

Ma dove io mediti di giungere attraverso tanti ambagi è difficile a


dirsi in questo punto 2 1 •

Si tra tta comunque del probl ema di essere condotti (perduci) con la
considerazione non « rerum » ( quae signifìcantur ) ma « signorum » alla
vira beata e sempiterna 22 •
Nella seconda parte del dialogo la questione della significazione è
affrontata dal punto di vista del rapporto fra il signum e la res, fra il
segno e la realtà.

Desidero ormai che tu capisca bene dovetsi le cose significa te sti­


m are più dei segni. Qualunque cosa infatti è per un'altra, è necessario
valga meno di quella per cui essa è : se tu non hai nulla in contrario 23 •

Riguardo al problema del significare e alla possibilità di '<lggirare la


signifìcazione afferr·ando la cosa stessa, Adeodato muta parere a propo­
sito del camminare, o altri gesti simili, come « co�a· che possa esser mo­
strata senza segno » 24 •

18 Cfr. ibid pp. 27-28.


.,

19 « Vi sono dunque tali segni che fra le altre cose che significano signilicano an­

che se stessi » ( ibid. , p. 3 1 ) .


2o Cfr. ibid., pp. 3346.
21 I bi d. , pp. 56-57.
22 Ibid., p. 57.
23 Ibid., p. 68.
24 « Imperocché se a me che ho cessato di camminare come 's'è detto, o sto fa-

76
Consulere veritatem

Aggirare la signifìcazione . e afferrare la cosa stessa sarebbe possibile,


cosl sembra in un primo tempo, solo per iJ parlare o per l'insegnare
stesso 25 • Lo sviluppo dell'indagine tuttavia mostra che anche l'insegnare
s tesso ha bisogno di .segni e chi insegna-che-cosa-sia"insegnare lo fa at­
traverso segni.

Agostino : Ora rispondi a questo, se chi insegna che cosa sia insegna­
re lo fa adoperando segni o in altro modo.
Adeodato : Non vedo come potrebbe farlo in altro modo .
Agostino : È falso, dunque, ciò che poco prima hai de tto cioè potersi
quando si domandi che cosa ·sia lo stesso insegnare, insegnare tale cosa
senza segni, poiché vediamo che neppur questo si può fare senza l'uso
di segni, avendomi tu concesso che altro è adoperare segni, altro inse­
gnare. Se sono due cose diverse, e questo non si mostra se non per quel­
lo, vuoi dire che non si mostra certamente per sé, come ti era sembrato .
Dunque non abbiamo finora trovato nulla che possa essere mostrato per
se stesso, ecce tto la parola, la quale fra le altre cose significa anche se
stessa: ma essendo anche essa un segno, nulla ancora risulta che paia
potersi insegnaTe senza segni 26•

Vediamo cioè che per Agostino la struttura dell'insegnare, nel suo


rapporto alla struttura del parlwe, irr"Ltroduce ùno spiazzamooto origina­
rio del parlare stesso, del discorso . Mentre in Platone il parlare si con­
figura come il privilegio della filosofia ( fuorl dal « discor.so » la realtà
si distrugge), in Agostino il parlare è l'apertura originaria al privilegio
della memoria/ maestro. La strategia di Agostino consiste nello spiazzare
il filosofare come luogo di una pratica di discorso : Agostino non si chie­
de se il parlare sia vero, ma se il parlare sia morale.
Ritengo che questa torsione della nozione di « dis corso », all 'opera
nel testo agostinla111o , inauguri un diver.so approccio al segno e ne so­
spenda il privilegio .

Che se consideriamo le cose più diligentemente non troverai forse


nulla che s'impari per mezzo dei segni . Poiché , quando mi si dà nn se­
gno, che mi trovi ignaro di che cosa sia segno, esso non mi può inse-

cendo altra cosa, qualcuno domandasse che cosa sia camm in are, e io subito cammi­
nando mi sforzassi d'insegnarglielo o di mostrarglierlo senza segno, come potrei
evitare che egli creda che camminare sia quel tanto che io avrò camminato? Il che
se egli crederà, sarà ingannato perché non crederà che cammini chi camminasse più
o meno di quanto io abbia cammin ato » ( ibid., p. 77).
25 Cfr. ibid. , p. 77.
26 Ibid., p. 80.

77
Gianfranco Dalmasso

gnare nulla : se invece so già di che cosa sia segno, che cosa imparo per
mezzo suo ? . . . Perciò piuttosto, conosciuta la còsa, s 'impara il segno
che, dato il segno, s'impara la cosa 27•

Si fa così �trada Ì!l1 queste pagine del De magistro , iJ progetto di una


sottile modificazione del col!lcetto platonico di memoria.

Quando si proferiscono delle parole si ha perfettamente ragione di


dire che noi sappiamo o non sappiamo quello che .significhino; se lo
sappiamo, le parole, più che insegnarcelo, ce lo ricordano : se pon lo
sappiamo, non ce lo ricordano nemmeno, ma forse ci spingono;' a cer­
care 28 •

Agostino parla « esattamente » come Platone ? Questa eventualità


sembra da escludere 29 • Per lo meno per iJ fatto che in Platone la cono­
scenza è concepita come qualcosa che sta fra il perdere e il ri-trovare
e questo movimento nel · testo platonico è reso possibile dall'immorta­
lità dell'anima e dalla struttura della memoria . In Platone ricordare è
un riportarsi a qualcosa che già c'è e che funziona nell'anima . In Ago­
stino, invece, la conoscenza è piuttosto un gesto che sta fra il segno e la
realtà stessa e questo è reso possibile da una memoria che ha come suo
elemento fondamentale il credere.
In Agostino la realtà, la « cosa stessa », se, entro certi limiti, può
essere il dato sensibile ( quella saraballa, quel copricapo che ora vedo),
più radicalmente, e platonicamente, è l'oggetto in quanto oggetto del
discorso ( ad esempio i:l racconto biblico dei tre fanciulli , Anania, Azaria
e Misael, quello che feoero e quello che vissero ).

Mil Anania, Azaria e Misael mi sono ignoti come quelle saraballae,


né a conoscerli mi aiutarono o poteva:no aiutarmi questi nomi. Tutto ciò
che poi si legge in quella storia, così essere avvenuto in quel tempo co­
me è stato scritto, confesso di crederlo piuttosto che saperlo; né quelli
stessi a cui noi crediamo ignorarono questa diffçxenza 30•

27 Cfr. ìbid., p. 86.


28 Ibid., p. 90.
29 Per le differenze fra la teoria platonica e la teoria agostiniana della memoria,
vedi: Ch. Boyer, L'idée de la vérité dans la philosophie de Saint Augustin, Paris
194 1 , p. 188-89; Jean Guitton, Le temps e l'éternité chez Plotin et Saint Augustin ,
Paris 1 948, pp. 1 1 1-1 1 9 ; E. Gilson, Introduzione allo studio di Sant'Agostino, Ma­
rietti, Casale Monferrato 1 984, pp. 87-99 ; M.F. Sciacca, Introduzione al De trini­
tate, Città Nuova Editrice, Roma 1 973, pp. LXXXV-LXXXVI .

3D D e magistro, cit ., pp. 91-92.

78
Consulere veritatem

Vediamo qui come l 'idea di cosa ( res) implichi il credere. E il « cre­


dere », per la sua strutùura, eccede il « comprendere » ( intelligere) e iJ
« sapere » (scire) 31 •

Intorno poi a tutte le cose che comprendiamo , non consultiamo la


voce di chi parla che risuona fuori di noi, ma la verità che dentro di noi
p11esiede alla stessa mente (non loquentem qui per.sonat foris, sed intus
ipsi menti praesidentem con&ulimus veritatem) ammoniti forse dalle
parole a consultarla 32•

Si rendono a questo punto visibili gli eLementi fondamentali del


modo con cui Agostino ooncepisce e pratica la struttura del linguaggio .
La dichiarazione che segue secondo cui chi è consultato « è detto Cri­
sto ed abita nell'uomo interiore », « immu tabile Virtù di Dio e sempi ­
tema S apienza » , stabilisce l'asse teologico di una strategia che presume
circoscrivere l ' idea stessa di segno . Il problema dell a parola come pro­
blema di segno linguistico viene così ancorato originariamente a un pro­
blema di traduzione. Sfugge cioè all 'omogeneità e alla rarppreseDJtatività
di un solo e identico 11egistro, oome anche al confronto fra più registri
in quanto :rappresentabili e commisurabili compiutamente dal soggetto
come sogge tto di un sapere . « Non consultiamo (consulimus) la vooe di
chi parla che risuona fuori dd. noi, ma la verità che dentro di noi pr e­
siede alla stessa mente, ammonirti forse dalle parole a consultarla ( verbis
fortasse ut consulamus admoniti ) » .
La voce di chi parla è imprendibile in nna sua intat ta verginità. Il
fuori e iJ dentro si mescolano e si sostituiscono già dall'inizio dell'av­
venimento della parola. La verità che dentro di noi presiede alla stessa
mente precede e funziona prima della parola, anche se essa funziona
solo 1n riferimento ad un fuori, all'ammonimento delle parole, cioè al
gioco del segno. Questa ver.ità che funziona originariamente in e attra­
verso sia la coscienza sia la parola è oggetto di consultazione. Oggetto
non passivo : esso è all 'opera in quanto soggetto di insegnamento. « Que­
gli che è consultato, veramente insegna ». Questo maestro interiore è la

31 « Dice infatti il profeta: se non crederete non comprenderete, il che certo non

avrebbe detto se non avesse fatto nessuna differenza fra le due cose. Quello adunque
che comprendo, lo credo anche ; ma non tutto ciò che credo anche lo com prendo.
Tutto quello che comprendo lo so, ma non tutto quello che credo lo so » (ibid . ,
p. 92). Cfr. anche, s u questa te.matica, L . Al ici, I l linguaggio come segno e come
testimonianza. Una rilettura di Agostino, Studium, Roma 1 976, pp. 164 sgg.
32 De magistro, eit., p. 92.

79
Gianfranco Dalmasso

cerniera e iJ. movimento del gioco stesso del segno : esso non è una realtà.
l
tutta piena, che precede il segno, ma è piuttosto un lavoro di consulenza,
di traduzione, una pratica che precede ed eccede un'intenzione ed una
rappresentazione che la coscienza potrebbe dominare.

2. Parlare e consulere

Consultare . . . essere consultato. La radice dell'etimo latino s.el si­


gnifica salire , come anche ergersi, porsi. Consulere perciò in latino
significa un salire che implica un dentro e un fuori, un ritorno l'ispet­
to ad una interiorità (come concipere da capere ) 33• Da qui la moltepli­
cità di sensi poi ·assunta nella Hngua latina : deliberare, provvedere, in­
terrogarsi sul futuro, consolare.
In Agostino si consulta la verità stessa: « la verità stessa che presiede
alla stessa mente . . » . Non si consulta la voce, il discorso, ma la verità .
.

Consultare la verità-dò è chiarissimo ed indubitabiie nella tessitura


del testo agostiniano-non costituisce ·nn problema di visione, di con­
templazione. La verità, innanzi tutto, non è oggetto di una visione, ma
pone una questione che concerne un provvedimento. La verità intrat­
tiene daè un rapporta con le cose che è un gioco descrivibile con il
termine provvedere.
Le parole i!llfatti, nel Joro rappor.to originario con le cose, ammo­
niscono a consultare . la verità, a deliberare, decidere, provvedere sulla
verità; d'altra parte la verità può essere in questione, può essere
consultata, perché passa dalle ·parole : un passaggio, un attraversamento
( Agostino usa il ter1:llirrle di traduzione, trans-ductio ) che è legato alle
parole e ai far memoria, all 'ammonire 34•
Ma che significa consultare, deliberare, decidere, prendere posi­
zione, consolare la verità? Questo gesto è imprendibile. Questo gesto
implicherà , come vedremo, che l'uomo si costituisca in Tapporto all a Tri­
nità divina, che ·sia esso stesso una trinità. Nel par�grafo 38 dell'xi capi­
tolo del De magistro, in gran parte sopra citato, compaiono sei termini
che sembrano costituire il perimetro teorico dell'intero discorso che
abbiamo fin qui seguito : signum, res, consulere, veritas, credere, voluntas.

33 Cfr. G. Devoto, Avviamento all'etimologia italiana, Le Monnier, Firenze 1968,


pp . 98, 99.
34
La radice men, contenuta in ammonire, significa ricordare, far ricordare. Vedi
G. Devoto, op. cit., p. 273.

80
Consulere veritatem

Quale grafico può tenerli tutti insieme? Quale pensiero può abb.r:acciare
il loro movimento reciproco ? Consulere . veritatem » : è un problema ,
<�

abbiamo detto sopra, di presa di p osizione, problema di essere neces·


sariamente collocati, coinvolti nel gioco fra il signum e la res. Ciò
avviene nell'analisi del De magistro , sia per il caso delle saraballae
sia per il caso dei tre fanciulli . Questo essere coinvolti implica come
si è visto il credere, « lo si voglia » , o « non lo si voglia » come si
esprime Agostino, all a lettera . Il volere è infatti la sesta parola del
gioco .

. . . la sempiterna Sap1enza che ogni anima razionale consulta, ma a


ciascuno tanto si rivela quanto è p ermesso dalla buona o cattiva
volontà 35•
. . .

La volontà documenta che la mens 36 è ongmariamente in azione,


come discorso che non si dà in un'autotrasparenza, in un possesso co­
sciente di s é , ma esige una presa di posizione, una pratica, qualcosa
cioè che riguarda l'etica37• Il gesto del consulere allora, pur nella sua
imprendibilità ed enigmaticità, implica comunque che la visione (tantum
cuique panditur ) e la volontà ( voluntas) si pongano insieme come pro­
blemi. Colui che consulta non è dunque semplicemente uno che vede
e non è semplicemente uno che vuole.

La visione è legata per Agostino ad una questione di bene e di


male, ad una questione etica all 'opera nel discorso . Nel parlare, e
quindi nell'insegnare e nell'interrogare, chiunque « non impara dalle
parole che sono stat·e un semplice suono, ma dalle cose stesse e dai
sensi »3 8 • Tanto più se si tratta « non de his quae comm sentìmus, sed
de is quae aliquando sensimus » 39• L'inevitabile struttura dell a memoria
che così viene ribadita è cerniera di un prendere posizione ( consulere ) .

35 De m agistro , cit., p. 93 .
36
Il termine mens in Agostino, tradotto spesso con spzrzto indica l'attività co-­
sciente dell'uomo : nel linguaggio contemporaneo il tennine può essere tradot to con
« coscienza ».

37 Cfr. le prime tre pagine del n libro dell a De libero arbitrio, in cui è esplicita·
mente affennato che l'io è comunque « mor ale », in un modo costitutivo della sua
esistenza. « Visto che si può operare rettamente o peccare, si dà volontà libera . . . ».

L'io è ci oè i mmer so in una trama di rapporti i n cui originariamente deve prendere


posizione.
38 De magistro, cit., p. 95.

39 lbid ., p. 95.

81
Gianfranco Dalmasso

Discorso, 01oe per Ag�tino interrogazione e insegnamento, vivono in


una struttura e 1n l1!tl mov1mento che sono « presa di posizione » : chi
mi sente parlare non « impara dalle mie parole, ma le riconosce dalle
immagini che anch'egli ha portato con sé (non discit meis verbis, sed
recognoscit, ablatis secum et ipse imaginibus) »40• Ritorna un problema
di traduzione : il parlare implica strutturalmente · una memoria ed un
« maestro interiore » , implica un t:3,pporto fra l'originale e la traduzione.

Dunque in quella eterna verità, secondo la quale sono s tate <treate


tutte le cose ,temporali, vediamo, con lo ·sguardo · dello spirito, la forma
che è il modello del nostro essere, e di quanto facciamo in noi o nei
corpi, quando agiamo secondo la vera e retta ragione, e la conoscenza
vera che grazie ad essa noi concepiamo l'abbiamo come verbo presso
di noi, un verbo che generiamo dicen dolo al di deJJJt ro di no i e che
nascendo :non si separa da noi 41 •

L'originale non vive da solo perché ha bi sogno dell' « ammonimento


delle parole », la parola d'altra parte non insegna, non trasmette auto­
nomamente un s a,pere perché presuppone l'origunale. Per A gos tin o in
questa doppia immagine si costituisce H discorso.
La memoria e il maestro interiore che funzionano come cerniera
del discor·so, implicano anche il credere.

Pertanto noi portiamo nei pe:netrali della memoria quelle immagini


come docume:nti delle cose prima percepite ; le quali immagini con­
templando con l'animo, :in buona fede non mentiamo quandb si parla.
Ma questi s ono documenti solo per noi , poiché colui che ci ascolta,
se quelle cose sentì ed ebbe presenti , non le impara dalle mie parole,
ma le riconosce mediante le imm agini che a nch e gli ha portato con sé;
'

se poi non le ha mai percepite , chi non vede ch e gli , piuttosto che im­
'

parare, crede alle parole? 42 •

Il « di<Scorso » , come Agostino lo concepisce , è: tosl lontano dall 'es­


sere una forma di dominio del significato sia questo dominio formulato
,

come autotraspa:tenza assoluta, o come finitezza, o come dialettica. Il


« discorso » funziona come una struttura per cui non è possibile l'atto
di dominare e di oomunia�:te completamente un significato come capacità

40 Cfr. ibid.
41 De trinitate, tr. it. di G. Beschin, Città Nuova Editrice, Roma 1973, pp. 3 79-
381.
42 De magistro, cit., p. 95.

82
Consulere veritatem

della coscienza, della mens. Il discorso nel suo costituirsi 1mplica piut­
tosto il problema di chi parla e del p erch é si parla. Senza il « chi » e il
« perché » il parlare non si costituirebbe, perché parlare è già da sem­
pre prendere posizione. La necessità del credere dipende da questa inti­
ma struttura del discorso.

Perciò anche in quelle cose che si contemplano con la mente invano


ode le parole di chi le vede, chirunque non riesce a vederle: se non che
è utiJe credere certe cose finché si ignorano. Chiunque invece le può
vedere interiormente è discepolo della verità; esteriormente è giudice
di colui che parla, o piuttosto delle sue parole ; giacché il più delle volte
sa quelle cose che sono state dette, mentre colui che le ha dette non
le sa 43 •

In questo modo la concezione agostinbna del s-egno e del discorso


apre una diversa concezione del rapporto fra il sapere e la verità.
Prima di misurare, anche solo approssimativamente , il percorso per
cui questi due termini, sapere e verità, sono pensati come non coinci­
denti, bisognerà mdividuare il funzionamento essenziale del soggetto
del sapere come esso è predis.posto, direi quasi attrezzato, in quell'i."l­
granaggio mirabile che è il De trinitate .

3. La struttura tridimensionale dell'io

Nel De trinitate Agostino parla, insegna, su Dio . Parla su Dio, su


come egli 'sia e sui rapporti che intrattiene con gli uomini. Agostino
parla a partire e nella Rivelazione . Ciò pone formidabili problemi . Che
cosa è, in generale e nel testo del De trinitate in particolare, un soggetto
della Rivelazione , nei due sensi di destinatario, di uno che riceve una
rivelazione e di attore di un -discorso, di m'esperienza in quanto sarebbe
« rivelata » ? Questo problema ne rimanda un altro, ancor più formi­
dabile : che ra.pporto c'è fra il soggetto della Rivelazione e la costruzione
del testo 44?
Tale questione può essere espressa in altr-i termini con la domand11 :

43 Ibid. , p. 99.
44 Cfr . ].L . Schefer, L'invention du corps chrétien, Galilée, Paris 1974. L'autore
conduce una brillante analisi sulla struttura delia « retorica » agostiniana ed evi­
denzia gli stretti rapporti fra lo stile del testo del De trinitate e lo statuto teorico
del discorso agostiniano. Cfr. in particolare le pp. 41-57.

83
Gianfranco Dalmasso

« chi è il cristiano? ». Il soggetto di questo dlsçorso, il « cristiano »,


sembra per Agostino, irrappresentabile attraverso un grafico che lo voglia
descrivere, dominare per mezzo di un sapere 45 • Agostino apre il nono
libro del De trinitate mettendo a fuoco il suo percor.so teorico in rife­
rimento a questa apparente impossibilità.

Cerchiamo di comprendere ( intelligere) questo, implo rando aiuto


da Colui stesso che vogliamo comprendere 46 •

Si tratta perciò di chiedere a chi si cerca di comprendere la' com­


prensione : una figura teoreticamente eccentrica : ciò che è in questione
( Dio ) funziona come fondamento dell ' atto con cui esso stesso passe­
rebbe dalJ'ess e re in que sti one all'essere compreso. Prima ancora delle
difficoltà, relative alla nozione di divinità e alla nozione di fondamento,
sollevate da tale figura del discorso, si pone qui il problema del come
possa costituirsi il soggetto di una tale domanda. Va detto che questo
soggetto, in un certo senso esiste, dal momento che Agostino, il suo
testo, la -sua pratica di pensiero, esistono. Ma come può costituirsi il
s oggetto della domanda : « a chi ce rco di comprendere chiedo la com­
prensione » ? Qual è il suo punto sol'givo ? A partire da che cosa un
soggetto siffatto parla: dall a follia? da un sapere ?
Una rispos ta in pJJima approssimazione al problema può essere pro­
babilmente formulata nel modo seguente. Un soggetto siffatto--il « cri­
stiano »--non parla a par ti re da runa intellectio : egli la cerca, non la
possiede. Che cosa tuttavia lo abilita a cercarla? E a cercarla nella
forma del chiedere, della domanda ? Il cristiano si configura in ogni caso
come un soggetto « spiazzato » , de-centrato in sé medesimo . Si tratta
di un ·sog ge tto che non è cosciente nel senso di un sapersi e di un
« tenersi in pugno » .
Porre ·il « se stesso » , che è in questione nella coscienza dell'io,
l ' <� umano �> , in questo ·senso elementare, è il pu;nto di partenza per
Agostino ineludibile.

Non parli-amo ancora della suprema Trinità, non parliamo ancora


di Dio Padre, Figlio e Spirito S anto, bensì di questa immagine :iinade­
�Ul\1 111 m a pur sempre immagine ( impari imagine, attamen imagine), cioè
tldl'nomo 47 •
MI Or. lhld. , l l f' . 24-25 .
* LltJ Ulii/Wr•, cit p. 365.
,,

··� fhftl, �11 1 l'tll tl'l 'l t ll bìhlico c patristico di immagine e di uomo « a immagine

84
Consulere veritatem

Agostino parla di se st esso , dell' « uomo », dell esp erienz a in cui si


'

trova originariamente coinvolto, ma in quanto è anche ed essenzial­


mente « uno che parla ». Il punto di partenza ed ins ieme il movimento
generale del testo è « colui che parla », è Agostino stesso che parla.
Egli riesce a collocarsi, in modo « inaudito », come il sogg etto e insieme
l'oggetto del discorso.

Ecce ego qui hoc quaero. ( Pensa te a me, a me che cerco questo) 48 •

Qual è il punto sorgivo, che cosa rende possibile questo io? Cioè
Agostino che parla e che s 'intermga sul suo stesso parlare e su come
possa comprendere . Questo problem a non può avere risposta se non
introducendo una struttura che Agostino chiama amore. E di cui va
vista la novità.

Quando amo ci sono tre cose : io, ciò che amo e l 'amore stesso. lnf<J.tti
non amo l 'amore se non lo amo a m ante , perché non c'è amore dove
nulla è amato 49•

L'amore sii conii gura oome un movimento imprendibile: rest1tu1sce


l 'immagine in cui lo si vorrebbe affenare . L amore è originaria attività
'

e originario sdoppiamento . Si ama l'amore, non si ama una cosa e


d 'altra parte non si ama una cosa se non si ama l amore Il soggetto del
' .

testo ( soggetto nel duplice senso, attivo e pas si vo ) sembra occupare lo


stesso luogo del soggetto ( nell'identico duplice s enso ) dell'amore.

Ecoo dunque tre cose : colui che ama, ciò che è amato e l amore ' .

Ma che dire se non amo che me st e sso ? Non ci saranno solo due oose : ciò
che amo e l'amore ? Quando si ama se stessi, colui che ama e ciò che è
amato sono la stessa co sa ; come amare ed essere amato sono allo stesso
modo la medesima cosa quando qualcuno ama se stesso . Si esprime due
volte la medesima cosa, quando si dice : ama se ste sso ed è amato da sé 50•

L'amore si annuncia dunque come .un'attività ed una passività in­


sieme Come si radica la mens, l'io cosciente, in que sto gioco?
.

di Dio » vedi Lexicon ebraicum et aramaicum Veteris Testamenti, edidit F. Zorell,


Roma 1965, pp. 175 e 692 ; Coenen-Beyrenther-Bietenhard, Dizionario dei concetti
biblici del Nuovo Testamento, tr. it. EDE, Bologna 1976.
48 Ibid.
4� Ibid.
s� Ibid., pp. 365-367.

85
Gianfranco Dalmasso

Allora amare non è cosa diversa che essere amato, proprio come colui
che ama non è diverso da colui che è amato. Ma resta tuttavia che
l'amore e ciò che è amato anche allora sono due cose 51•

In questo congegno che Agostino sta costruendo, un congegno che


riguarda sia sé (egli che parla ) sia la costruzione del testo, m cui egli
è oggetto oltre che soggetto del suo discorso, in questo congegno l'io si
costituisce come amante.
Che l'io ami anche se stesso apr.e una problematica apparentemente
inafferrabile, a spirale, come la questione classica dell' auto-cosc!enza;
l'io cosciente che diventa esso stesso oggetto di coscienza si sposta inde­
finitamente.
La strategia di Agostino batte un'altra strada. Essa concepisce in
tevmini originariamente tridimensionali, « trinitari », il problema dell'io
e della ·sua attività. L'io, che è un , io amante , quando ama se stesso ,
ama l'amore. L'amore si pone dunque come un tertium ( l 'amore non è
né l'io amante né l 'io amato ) ; ma tale tertium non può esso stesso essere
oggettJivato, « cosifìcato ».

Infatti, quando qualCWJo ama se stesso, non c'è amore, se non ch e


l'amore stesso è amato 52 •

Infatti, l 'io si ama il:tnan te e in questo movimento ina:fferabile si


incunea l'amore stesso, che' è il movimento generale in cui l'io amante
e l'io amato sono compresi, movimento del resto che non può essere
esso stesso oggettivato, concepito come una sorta di « orizzon te asso­
luto » in grado di contenere sia l ' amante sia l'amato .
L'io perciò è infine :insituabi1e in quel movimento imprendibile che
è l 'amore agostiniano . « Amare l' amore » costituisce perciò una proble­
matica analoga a quella del « nome del nome », anch'essa insondabile
per un pensiero che vorrebbe speculare sul segno, mppresentarsi il se.:,
ono
ed il suo soggetto.

Come inf·atti la parola signllìc a qualcosa, cosl significa anche se


stessa, ma non significa se stessa, se non perché è fatta per significare
qualcosa. Allo stesso modo la carità si ama certamente, ma se non si
ama come amante qua1cosa, non si ama come carità. Che ama dunque
la carità, se non ciò che amiamo con la carità 53?

51 Ibid. , p. 357.
52 Ibid.

86
Consulere veritatem

Questo discorso è cioè mosso da una trinità. Il testo si costruisce


attorno al problema di un io che sia i mmag ine della Trinità. L'io, come
tale imprendih.hle, imp o ssedibile da un sapere , è comunque qualco s a
di dato e di fun zionante pr.ima e attraverso l'atto conoscitivo con. cui
lo si vorrebbe dom in are . Il rapporto fra tale atto c onosdtivo e il polo
inafferbil
ra e, da esso implicato, non è di ale t tico . La t em a tic a del « se­
gno » e dell ' « amare l ' amor.e », non è comprensibile all ' int ern o di un
movimento di tipo dialettico. Ciò che questo movimento, irrappresen­
tabile, implica, non è uno stato, pre ce dente , che possa e ssere re-cupe­
rata, ti-compreso dal movimento d.ialet tic o della coscienza. Tale s tato ,
ciò che funzi on a nell ' io e ciò che s i ama con l ' amore, è al c ontr arlo
eccentrico al movi ment o stesso della dialettica. Lungi dal poter e ssere
riavvolto , ti-compreso, è i nvece il punto di spiazzamento, il punto
inaffer-rabile che precede e rende possibile l'interrogarsi sul segno e
l'interrogarsi sull'amore, che rende p o ssibile anche, semplicement e, il
parlare e l 'amare. Tale inafferrabilità è enigma tica, ma d'altra parte vi
s iamo orig1nariamente compresi, coinvolti 54• Agos t ino prosegue a cir­
coscrivere l'insituabile piega dell'amore.

Ora amar.e se stesso ed amare il proprio amore sono due cose diver­
se. L 'amore inf11tti non si ama , se esso già non 11tna qualcosa, p erch é
dove non si ama nulla, non c'è amore 55 •

Si apre qui la que s tione del rapporto fra ciò che è amato ( che nel
caso dell'amare sé co incide con il chi ama ) e l'amore .

Queste due cose dicono r elazione mutua l 'una all 'altra, perché colui
che ama dice r el azione all ' amore e l'amore a colui che ama 56 •

Per Agostino l 'io si costituisce 1n tcle relazione mutua molto pm


che nell ' esser e sostanza intell ettiva o spirito 57• Quest a struttura di rela­
zione mutua si cos tirui sc e come attraversata e resa possibile da una
trinità . Agostino la coglie all ' opera, come è no to, anche nell a m ens
( nell'attività cosciente dell ' io ) e nella volontà. In qu est a prospettiva la

54
« Dove trovare dunque una trinità? Concentriamo il più possibile la nostra at­
tenzione e imploriamo la luce eterna di illuminare le nostre tenebre e vediamo in
noi, per quanto ci è concesso, l'immagine di Dio » ( i bi d. , p. 367 ) .
55 Ibid.
5!i Ibid.
57 Cfr. ibid.

87
Gianfranco Dalmasso

relaziooe fra il conosrer e e il conosc ere se stesso si intreccia con la rela­


zione fra l'amare e I'amwe se stesso .
Lo spirito ( mens ) non può amare se stesso, se anche non si conosce ;
come può infatti amare ciò che ignora 58 ?

Tale r eciprocit à funziona an che , i n un c er to senso, fra lo spirito e


la conoscenza. Spirito, cono scenz a e amore sembrano perciò tre cose
- quando sono perfette---n
--. ecessariamente « uguali »5 9 • Agostino può
proseguire cosl le sue analogie e costruire una nozione di io , mens,
spirito, che si conosce e che si ama, a ttorno a oul è possibile Porre il
problema dell'analogia con la Trinità 60•

L'uomo stesso, .in questa strat eg ia di discorso, risulta parlabile come

una trinità : per individuare anch e solo somm ari amente le linee dell a
concezione agos tiniana dell ' io , concezione secondo cui l'io non è in
almn modo ogget to .di un sapere che lo pos sa rappresentare e dominare
o di un pensiero dialettico, bisogna vedere più dappre sso il rapporto fra
il cono s cer e e l'amare come esso funziona nell'attività dell'io.

61 ?
Che ne è dello spirito che vuole conos cere se stesso

Lo spirito non si conosce come gli o cch i del corpo in •uno specchio .
È difficile per lo spirito conosc ers i e Agostino tenta in ques to modo di
aggirare la difficoltà :

Sarà forse nella ragione della verità eterna che lo spirito vede quanto
è bello conoscersi, ama ciò che vede e si sforza di re alizzarlo in sé, in
quanto sebb ene .non conosca se s tes so , conosce almeno quanto è bello
che ·si co nosc a ? Ma è certamente ben strano che esso non si conosca
ancora e conosca quanto sia bello che si conosca 62•

Del resto, anche se lo spirito non conosce se stesso, pure lo spirito


si conosce conoscente, e co sl in qu alch e modo si �nosce 63• Allo spirito

ss Ibid. , p. 3 69.
59 Cfr. ibid. , pp. 369·3 7 1 .
60 Cfr. ibid. , pp. 373 segg.
61 Ibid. , p. 40 1 .
62 Ibid. , cfr. nota 66.
63 « Ma dove conosce esso la sua conoscenza, se non si conosce? Sa di conoscere
altre cose, ma non conoscerebbe se stesso? Ma è in sé che conosce che cosa sia
conoscere. In che modo dunque si conoscerebbe come conoscente qualcosa, esso
che ignora se stesso? Infatti non è un altro spirito che conosce come conoscente, ma

88
Consulere veritatem

manca ciò che viene cercato, non se stesso che cerca, che è tutto pre­
sente 64• Manca quindi se st·esso in quanto è ciò che viene cercato-.
O manca una prurte di sé, il che significa che lo spirito sa che è un
tutto ciò di cui una parte mrunca.

E cosl cerca ciò che manca alla sua conoscenza come siamo soliti
fare ritornare nello spirito ciò che è caduto in dimenticanza, ma non
del tutto, perché si può riconoscere, quando ce se ne ricorda, che era
proprio quello che si cercava . :M:a come può venire lo spirito , nello spi­
rito, come se potesse non essere nello spirito ? Aggiungiamo a questo
che se, trovatosi parzialmente, non si cerca tutto intero, tu tt avia è tutto
intero a cercare se s tesso . Esso è dunque tutto intero presente a se stesso
e non c'è alnro che si debba cercare: manca infatti ciò ch·e viene cercato,
non esso che cerca. Quando dunque è tutto intero a cercar.e se stesso,
niente di .sé gli manca. O se non è tutto intero a cercarsi, ma è la parte
di esso, che si è trovata, che cerca la parte che non si è ancora trovata,
allora lo spirito non cerca se stesso , perché nessuna p ar te di esso è
5
oggetto della sua propria a.-i ce rca 6 •

L'io cioè non è in ricerca di se stesso . Non ha senso per Agostino


dire che l'io è in ricerca di se stesso perché l'io è coinvolto già dall'ini­
zio in nn rapp orto che lo pr.ecede e lo determina. « Lo spirito sa di
esistere e di vivere e di comprendere, anche se non sa chi egli sia »66 •

Lo « spirito », nel suo funzionamento , non si imbatte tanto in qualcosa


di assente, ma in qualcosa di diverso da sé. L'io non si cerca come
attività cosciente, perché la frontiera di tale ricerca è uno degli ele­
menti , degli ingredienti del gioco stesso dell'io come attività cosciente.
Tuttavia l'io cerca di conoscere sé, di conoscere cioè chi egli sia. Non
nella forma della ricerca, ma nella forma del precetto, del comando
( « utquid ergo ei praeceptum est , ut se ipsam mentem cognoscat ? » ) .
Il problema etico è cosl costruito da Agostino sulla questione della

se stesso. Conosce dunque se stesso. Quando poi cerca di conoscersi, esso si cono­
sce già nell'atto di cercare. Esso si conosce già, dunque. Perciò non può affa tto
ignorare se stesso, lo spirito che, anche quando si conosce, come non conoscente
se stesso, per questo stesso fatto si conosce. Se ignorerà che si ignora, non si cer­
cherà per conoscersi . Per questo il fatto stesso che esso si cerca è la prova che esso
è a se stesso più noto che sconosciuto. Infatti si conosce come cercante e non cono­
scente se stesso, quando cerca di conoscersi » ( ibid. , p. 403 ).
64
" Che diremo dunque? Che in parte si conosce, e in parte si ignora? Ma è as­
surdo affermare che non è tutto lo spirito a conoscere ciò che sa. Non dico : "cono­
sce tutto " , ma " ciò che sa è tutto lo spirito a s aperlo " » ( ibid. ).
65 Ibid. , p. 405.
65
Ibid. , la sottolineatura è mia.

89
Gianfranco Dalmasso

conoscenza di sé, in quanto riferiti al problema dell'ordine 61 • Questo


intreccio si o:rganiz<za, alla fine del decimo libro del De trinitate, in
relazione alla tematica dell ' immagine.

La forza dell 'amore è tale che quelle cose alle quali lo sptnto ha
pensato a lungo, compiacendosene, ed alle quali si è legato con il glu­
tine della soHecitudine, esso le trasporta con sé anche quando rientra
in sé, in qualche modo, per pensarsi. E poiché quelle cose che per
mezzo dei sensi della carne ha amato all'estlerno sono corpi, e si è
mescolato ad essi per una specie di lunga familiarità, né può portare i
co11pi con sé, nel suo intemo, in ciò che è come la regione dell� natura
spirituale, esso rigira in sé le loro immagini e trascina queste i�magini
fatte in se stesso di se stesso. Esso infatti dà ad esse nel formarle qual­
cosa -della sua propria �ostattl z a, però conserva la facoltà di giudicare
liberamente .tali immag ini; questa faooltà è propriamente lo spirito
( mens), cioè l'intelligenza razionale, che resta come principio di giu­
dizio 68•

Dire che il problema della conoscenza è legato , nella stessa struttlll r a,


al problema dell 'immagine porta a una conseguenza decisiva : per Ago­
stino la rappresentazione di che cosa sia la mens, l'io, diventa indisgiun­
gibile dal tema della svista, della cantonata : « errat aurtem mens cum
se istis imaginibus coniungit, ut etiam se esse aliquid huiusmodi existi­
met ».

P.uò lo spirito conoscere se ·stesso al di là dell'imm aginazione che


è « rappresentazione di ooa cosa assente »? Può lo spirito conoscere
se stesso « nella maniera in cui pensa di vivere, di ricordare, di com­
prendere, di volere se stesso » ? 6 9 • Per Agostino tale conoscenza è effet­
tiva ed il riconoscimento di tale affermazione è possibile in una costru­
zione teorica per cui il tema dell a memoria è connesso al tema della
morale. La trinità dell'uomo esteriore {corpo-visione-sguardo ) rimanda
alla trinità dell 'uomo interiore { forma-memoria-volontà ) e cosl , in rela­
zione all 'intero movimento del conoscere, l,, strut.tura trinitaria dell'io
si compendia nel rapporto fra la memoria e la �oÌ ontà. Questo stesso
rapporto non lo si può affrontare, per Agostino, in termini, per cosl
dire, speculati e diretti e cioè nella forma di domande come : che cosa
voglio ? voglio ciò che ricordo ? è vero ciò che ricordo ? è vero ciò che
voglio?

7
6 Cfr. ibid., pp. 405407.
68
Ibid. , p. 407.
69
Cfr. ibid., p. 4 17.

90
Consulere veritatem

Si vive dunque male e in maniera non conforme all a propri-a natura,


qu ando si vive secondo la trinità dell 'uomo esteriore. Perché è il desi­
derio di far uso delle cose sensibili e corpovee che genera anche quella
stessa trinità che, sebbene se le immagini all 'intemo, ruttavia si rap­
presenta delle cose esteriori. Nessuno infatti potrebbe far uso, anche
onestamente, di questi betù, se la memoria non conservasse le immagini
degli oggetti percepiti e ,se la parte più nobile della volontà non abita
in una regione più aLta e più interiore e, se quella .stessa parte della
volontà che è in contatto all'esterno con i corpi, o all'interno con le loro
immagini, non mette m rapporto rutto ciò che in essi si trova ad una
vita migliore e più vera e non si riposa in quel fine intuendo il quale
giudica come vadano compiute queste cose. Che altro facciamo noi se
non ciò che ci proibisce di fare l'apostolo, che dice: non vogliate
conformarvi a questo secolo 70?

« Una regione più alta e più interiore », « una vita migliore e pm


vera » : tali formule non stanno ad indicare né un'esteriorità, né un'inte­
riorità. ESJse ribalta.'lo e ,ridefiniscono una nozione eli soggetto come in
grado di conoscersi e di possedersi nella forma della presenza e del
dominio cosciente. Memoria, più che essere recupero di qualcosa di
assente nell'orizzonte della presenza, è piuttosto una modificazione etica
delle condizioni del soggetto conoscente: « se non si riposa in quel fine
intuendo il quale g1udka come vadano compiute queste cose » . La
volontà interviene a mobilitare la teoria platonica della !'eminiscenza.
Agostino si chiede « che ne è » della conoscenza, che ne è dd suo
« discorso ». In questo « che ne è » si può anche rintracciare un aspetto
radicale della teoria agostini,ana dell'illuminazione 71 , che non rimanda
solo all'immortalità e all a patria celeste di tipo platonico, ma ad un
movimento e ad una strutture in atto nell 'individuo cosciente 72• Infatti
nella « trinità dell'uomo interiore » la memoria viene a implicare a
sua volta una trinità :. la memoria vi funziona come forma (qualcosa
esiste, latent e, anche prima che lo si pensi), e come memoria propria­
mente detta ( qualcosa è presente al pensiero e lo si ha di mira, in acie
cogitantis). È quindi la volontà che interviene nell'atto conoscitivo come
cerniera, né generante né generata : vi funziona cioè come terzo termine
necessario al costituirsi del dispositivo agostiniano della conoscenza,
inscrivendolo a sua volta in una « trinità » ( forma-memoria-volontà ) . La
volontà come terza unisce i primi due , ed è solo questo movimento

70 Ibid., p. 443 .
71 Vedi E. Gilson, Introduzione allo studio di Sant'Agostino, Marietti, Casale
Monferrato 1984, pp. 99-120.
72 VPrl1 RPir1'1rf1'1f1nfii P r ?

91
Gianfranco Dalmasso

che fa dell':i!D:sieme un tutto compiuto 73 • Un a trinità è dunque vista


g
funzionare 1n qu anto struttur ante l'io come so getto di un discors o.

Ma lo spirito, quando pensandosi si vede per mezzo dell'intelligenza,


non genera certo in tal modo la conoscenza implicita,
come se prima
fosse uno sconosciuto a se stesso, mentre er a noto a se stesso, alla
stessa maniera che 'sono note le cose che sono contenute nella memoria,
sebbene non siano pensate ; diciamo infatti che un uomo conosce le
lettere anche quando non pensa alle lettere ma ad altre cose . Ques.te
due conoscenze, quella che genera e quella che è generata, son.,o un1te
da un terzo termine, la dilezione, che non è altro che la volontà ] a qu ale
appetisce e possiede qu alcosa per fruirne È dunque ancora per mezzo
.

di queste rtre parole, riteniamo che si deve dare un'idea della trinità
dello s.pkito : memoria, intelligenza, volontà 74•

Agostino mette in atto una concezione dell'io per cui ogni pro getto
di tipo « cartesiano » è battuto in breccia: non è contemplato, nella
strategia agostiniana del soggetto, uno slittamento che conduca a un :
« pénso dunque sono ». È piuttosto in un « mi ricordo (cioè mi com­
p rendo e mi amo ) dunque sono » che il soggetto . si impianta.
Questa struttura del ricordo significa che l'Jo, anche in termin i natu­
rali, è « imm agine di Dio », in quanto è « capace di Dio ».

Ecco dunque che lo spirito si ricorda di sé, si comprende si ama : ,

se contempliamo ciò, vec!Jamo una trinità che non è certo ancora Dio ,
ma già immagine di Dio. Non è dal di fuori che la memoria ha ricevuto
ciò che deve conservare, né dal di fuori che l'intelletto ha trovato ciò
che deve contemplare, come. fa l'occhio del cotpo ; né questi due ele­
menti la volontà li ha uniti all'esterno, come unisce la forma del corpo
alla fo11I11 a che la riproduce nello sguardo di chi vede , né, quando il
pensiero si è volto verso la memori a , vi ha trovato l'immagine di una
cosa vi,sta al dl fuori , tra&portata in qualche modo nel segreto della
a
memoria per informare lo s gu rdo di colui che ricorda, mentre la
volont à , come terzo elemento, unisce l'uno 75• all'al-t;t:o,
Tale funzionamento Agostino lo aveva illu strato nel libro dodice­
simo a proposito della trinità nelle realtà corporee e nel libro tredice-

73 De trinitate, 1 1 , 7; 1 1 e 12. Sul rapporto fra la memoria e l'imm agine . trini­


taria cfr. S. Biolo, La coscienza nel De trinitate di Agostino, Università Gregoriana,
Roma 1969, pp . 1 7 0 sgg; L. Alici, op. cit., pp. 95-99.
74 De trinitate, cit., pp. 577-578.
75 Ibid. , p. 583.

92
Consulere veritatem

simo a proposito della scienza in cui qualcosa di « avventizio » entra nel­


l'anima ( sia che si ·tratti di conoscenze storiche, sia che si tratti dell'ori­
gine nell'uomo stesso di qualcosa che non esisteva, dovuto all'insegna­
mento altrui o all a mflessione personale ).
In queste realtà che « habent ordinem suum in tempore >; è stato
-afferma Agostino-abbastanza facile discernervi la trinità della me­
moria, della visione e dell 'amore.

Infatti alcune di esse precedono la conoscenza che se ne acquisisce.


Sono infat·ti conoscibili anche prima che vengano conosciute e generino
in coloro che le apprendono la conoscenza che essi .acquisiscono 76 •

Incontrare queste realtà--questo incontro avviene :in determinati


punti dello spazio e del tempo-significa incontrare dei « loro segni
che, visti e ascoltati, fanno conoscere che queste cose esistettero e
sono passate » . Questi segni che si trovano in luoghi o in scritti o
« nelle anime di coloro che li conoscono già », conosciuti da questi,
sono per ciò stesso conos cibili da altri, « al sapere dei quali questi segni
preesistono e possono venire da essi conosciuti pe r l 'in segnamento di
coloro ai quali sono noti » 77• I l comprendersi e l'amarsi implicano qual­
cosa che non è nell 'io ( mens ) ; è all'opera una struttura che giudica l'io :
elemento, enigmatico, in base a cui l'io può interrogarsi su di sé e sul
suo discorso. Una volta che i s egni con cui l'io è originariamente in
rapporto sono stati conosciuti « si produce nell'anima stessa, quando
se ne evoca il ricordo, una seconda trinità, già più interiore » . Tale
trinità è fottn ata dalle imm agini impre s se nella memoria (al momento
in cui i segni furono appresi), dall 'informazione del pensiero quando
ad essi si volge lo sguardo di chi ricorda e dalla volontà che, terzo
elemento, unisce gli altri due 78 •
Nel caso che i segni incontrati costitillscano la fede ( « conoscenze
che hanno origine nell 'anima in cui non esistevano » ) , sebbene « sem­
brino avventizie » perché vengono introdotte nell 'anima con l'insegna­
mento, « non sono realtà situate al di fuori o che si svolgono all ' e sterno
( foris posita vel foris peracta) come le cose che sono oggetto di fede » ,
ma iniziano piuttosto a d esistere esclusivamente all 'interno dell'an:ima79•

76 Ibid.
77 Cfr. ibid., p. 585.
78 Cfr. ibid. , p. 583 .
« In quanto incomincia ad esistere nell'anima, che era già un'anima prima che

93
Gianfranco Dalmasso

« 80 • Que ste tor­


Interrogarsi » sull-a fede genera perciò un'altra , trinità
sioni dell 'io e della coscienza riescono a non costiuuirsi mai in una
sua
sorta di metalinguaggio , perché lo spiazzamento del discorso che egli
sta conducendo sull'io rispetto ·a se stesso è un discorso come azione
(come io che vuole e che ama). È il discorso come azione che esige una
trinità come soggetto dell'azione.
Questo io tr.initario, come è detto nel libro nono , questo io che
non sa niente di sé, che non sa chi egli sia come oggetto, nel punto sor­
givo di sé in qu anto si annoda al conoscere e all'amare, è un io che
cerca ( inquisit) e che desidera (appetit ). Questo io è il soggettd della
morale 8 1 • L'io che vuole si raccorda all 'amore e al conosciuto in una
struttura che non è dominabile sperularmente nella forma della rappre­
sentazione .

E questo stesso desiderio che sp1nge verso la cosa da conos cere ,


diventa am ore della cosa conosciuta quando possiede ed abbraccia que­

sta prole in cui si oompiace, cioè la conos cenza , e la unisce al principio


generatore 82 •

L'io è du nque uno spazio, u n volume tridimensionale.

Ed ecco una certa immagine della trinità : lo spirito , la sua cono­


scenza, che è la sua prole ed il verbo generato da esso; in terzo luogo,
l'amore; e queste tre realtà fanno una sola cos::1. ed una sola sostanza 83 •

Della oonoscenza che lo spi.ri to ha di sé bisogna dire che questo


dispositivo teorico si distanzia dall 'atto con cui lo spirito conosce le cose.
Mentre per la conosoonza delle cose l'immagine conservata nella memo­
ria è .anteriore nel ·tempo alla vis ion e che ri sulta dal ricordo e all'unione

la fede incominciasse ad esistere in essa; sembra un qualçOsa di avventizio e sarà


annoverata tra le cose del passato, quando, sostituendosi ad essa la visione cesserà
di esistere » (ibid. , p. 585).
80 « La sua presenza nell'anima forma una trinità, perché è conservata, contem­
plata, amata; allora per mezro del vestigio che lascerà in sé nella memoria scom­
parendo, formerà un'altra trinità, come è già stato detto prima » ( ibid. ).
81 « Q uesto appetito e questa ricerta la si può già chiamare volontà, perché
chiunque cerca vuole trovare e, se si cerca qualcosa che appartiene all a conoscenza,
chiunque cerca vuole conoscersi » (ibid. , p. 3 89).
s2 Ibid.
83 Ibid.

94
Consulere veritatem

dell'una e dell'altra operata dall a volontà, per h conoscenza dello


spirito non è così .

Infatti lo spirito non è per se stesso un qualcosa di avventizio, come


se allo spirito che esisteva già si presentasse, venendo dal di fuori,
questo stesso spirito che non esisteva ancora, o come se non venisse
dal di fuori, ma nello stesso spirito che già esisteva nascesse lo stesso
spi,rito che non esisteva ancora, allo stesso modo che nello spirito, che
già esisteva, nasce la fede che non esisteva ancora : né, dopo essersi
conosduto, ricordandosi, si vede in qualche modo situato nella sua
memoria, come se non vi fosse stato prima di conoscersi ; non è cosl,
poiché non c'è dubbio che dall 'inizio della sua esistenza non ha mai
cessato di ricoroarsi, di comprendersi, di amarsi, come abbiamo già
mostrato 84•

Il problema del fondamento dell 'io non è perciò afferrabile da un


sapere rappresentativo, speculare o dialettiao che l 'io pur potrebbe
averne. Che l'io non possa « uscire da sé » e avere un sapere su di sé
signifìm che esso si costruisce attorno a un punto, enigmatico, che sfugge
e precede l'atto stesso del suo interrogarsi.

Per questo quando lo spirito con il pensiero si ripiega su di sé, si


produce una trim:tà, in cui si può già comprendere che cos 'è il verbo;
esso riceve la sua forma dall'atto stesso del pensiero , mentre la volontà
congiunge l'una all'altro. È là dunque che dobbiamo riconoscere di
preferenza l'immagine che cerchiamo 85 •

4. La qu estion e del sapere

« Dal fatto che i filosofi abbiano detto cose vere


non consegue che essi le abbiano sapute ».

(Soliloqui)

Il problema del rapporto f.ra il ·sapere e la vel'ità è in un certo senso


inaugurato dall'opera di Agostino.
Questo problema è pensato, messo in ciraolo da Agostino nel linguag­
gio filosofico come problema della trasmissione della verità. La struttura
stessa del testo agostiniano sembra organizzarsi attorno al luogo di questo

84 Ibid. , p. 589.
85 Ibid.

95
Gianfranco Dalmasso

problema, o, più rigorosamente , attorno al linguaggio che tale problema


può parlare.
Abbiamo proceduto r.iconoscendo un mo do di costituzione dell'io nel
De magistro e nel De trinitate. L'io si origin a e funziona per Agostino in
relazione ad una verità che è all'opera e che non può essere possedu ta
nella forma di una rappresentazione.
Se questa tematica viene applicata all 'edificio del sapere e viene colta
funzionare nell a costruzJione del t e s t o, nella tessi t u r a cioè, nella « testuali­
tà » del discorso agostinia;no, rivela delle con seguenze meto dologich� radi­
cali. Sia nelle Confessioni, sia nel De doctrin,t christiana Agostino toorizza
che la verità in nessun modo pu ò coincidere con ciò che si pensa. Ciò
che si pensa è in ogni caso opinione. Nel gesto del leggere e dell'interpre­
tare il testo, l'op1nione è la rappresentazione del senso del testo .

Può forse nuocermi che, potendosi dare di queste


p arole certamente
vere interpretazioni diverse, può forse nuocermi, rirpeto, che la mia
opinione diverg a dall'opinione di altri sull ' opini o ne dello scrittore 86 ?

Riguardo al testo sacro ( ma per A go s tino ciò v al e per ogni testo )


si danno dunque interpretazioni che sono opinioni : l'opinione di « me
che leggo » ; l'opinione di altri lettori ; l'opinione dello s crittore. L'esi­
stenza e il gioco delle opitnioni sono naturali e necessari riguardo al
tes to e .alle l eggi dell a su� costituzione. Ma l'esistenza e il gioco delle
opinioni/interpretazioni non coglie l'intima nat1.ll'a del testo e soprat­
tutto non ne esibisce la « verità ». La « verit à » del testo eccede il con­
tenuto di una singola opinione · ed ecce de anche la capacità di comm iosur are
fra lo:ro le diverse opinioni.

i
Ch unque di noi legge, si sforza certam ente di penetrare e compren­
dere l'intenzione dell'autore che l eg ge e quando lo crede veritiero, non
,

osa p ens a re che disse cosa da noi conosciuta o r�t�uta falsa. Mentre ,
dunque, ciascuno si sforza d'intendere le sacre scrifture secondo le inten­
zioni del loro scrittore, che male c'è se vi •scopre un'intenzione che tu,
luce di ·tutte 1e menti veritiere, mostri per vera sebbene non fu l'inten­
zione dell 'autore ? Eppure fu anch 'egli nel vero, pur avendo un'inten­
zione diversa da questa 8 7 •

86 Confessioni, tr. it. di C. Carena, Città Nuova Edi tri ce , Roma 1965, p. 428.
87 « Cosl quando uno dice : "la su a idea fu l a mia", e un altro: "no,
Ibid. , p. 429.
bensi la mia" ; io rispondo con spirito, credo , più religioso : "perché non piuttosto
ambedue, se ambedue sono vere? E se altri scorgesse nelle stesse parole una terza,

96
Consulere veritatem

La verità non si pone perciò per Agostino al livello della rappresen­


tazione speculare del testo o al livello dell 'intenzione. La verità riguarda
invece :un movimento che è nel testo e che avvolge il testo : lo scrittore e
il lettore noo dominano il gioco del testo come tale, ne sono piuttosto
compresi. L'apparecchio memoria/ maestro in Agostino non è perciò­
ne trovi-amo in questi passi una conferma-una rappres entazione, lina
presenza dominabile : essa riguarda un gioco ed un movimento al di là
della rappresentazione e al di là della presenza. La memoria in Agostino
implica una presenza e un movimento che vengono prima del soggett o
conoscente, riguardano un « luogo » ( situabile? insituabile ? ) che viene
prJma dell'io. Luogo che si può chiamare provvisoriamente testo.
Lo sviluppo di questa tematica implicherebbe un 'analisi del concetto
di testualità in Agostino e, più generalmente, l'all argamento del discorso
all 'esegesi agostiniana dei vari sensi delle Scritture. Mi limito, qui ,
appellandomi al t erzo libro del De Doctrina christiana e alla lettera a
Volusiano citata da Pepin 8 8, a ricordare che per Agostino il senso è con­
ferito dal testo e non dal lettore.
Lontano dall a presunzione di dominare il senso del testo , che ne
costituirebbe l'aspetto più superficiale (l' « opinione » , infatti, è ciò che
il lettore riesce a « pensare » del senso del testo ), al contrario il signifi­
cato di ciò che si legge e si interpreta l'iguarda una 'tes situra complessa
che è il movimento di una verità all'ope11a nelle parole del testo e nelle
leggi della sua composizione. Il soggetto che legge è piuttosto « eserci­
tato », nella sua pratica di lettura , dal senso del testo.
Il testo sacro, la Scrittura realizza questa dinamica in modo eminente.

una quarta, e ogni altra verità, perché non dovremmo credere che quegli le vide
tutte, se l'unico Dio se ne servi per adeguare gli scritti sacri a molte intelligenze,
che vi dovevano vedere sensi diversi e veri ?". Io, lo dichiaro intrepidamente dal
fondo del mio cuore, se giungessi al vertice dell'autorità e dovessi scrivere qualcosa,
vorrei senza dubbio scrivere in modo che nelle mie parole echeggiassero tutte le
verità che ognuno potesse cogliere in quella materia, anziché collocarvi con discreta
chiarezza un solo pensiero a esclusione di tutti gli altri, che pure non mi urtassero
con la loro falsità » ( ibid., pp. 445-447).
88 Il concetto di testo sembra fare perno, secondo le acute analisi di Pepin ( « Re­
cherches augustiniennes », 1958, l, pp. 243-286), sul concetto di allegoria. Per Ago­
stino l'allegoria è una struttura di discorso che pennette di distinguere i degni e
gli indegni. Tale distinzione si riferisce all'intreccio. fra il comprendere e la moda­
lità di rapportarsi alle parole del testo (cfr. ibid. , p. 247 ). Cfr. anche G. Ripanti,
Il problema della comprensione nell'ermeneutica agostiniana in « Revue cles Etudes
August:iniens », xx ( 1974), pp. 88-99.

97
Gianfranco Dalmasso

Il suo stile semplice coinvolge rutti gli uomini di modo che non
contenta di nutmli di una verità chiara, essa anchè li esercita attraverso
i suoi mist'<l!'i , se:nza che il contenuto dei suoi brani accessibilri sia diverso
da quello dei suoi insegnamenti nascosti 89 •

Il senso del testo e l'atto del conferire tale senso devono costituirsi
in dipendenza dal J:litmo e dal modo di costiruzione del testo. Che il me­
todo con cui Dio parla sia allegorico significa per Agostino che non solo
le parole del testo, ma le stesse vite dei lettori sono allegorie ; dal mo­
mento che il soggetto che legge e che presume conferire autonomarp.ente
il senso è esso stesso un" ingrediente, un elemento testuale : anch'esso
ne costituisce una parola 90•
Nel De ordine l'idea di tessitura di cui è fatto ogni discol'SO, ed anche
in modo essenziale e privilegiato il « discorso di Dio » , la Scritltura, è svi­
luppata e fatta coioci:dere con l'idea di una tessitura che riguarda al
tempo stesso il linguaggio e i fatti ( natumli e umani). Per Agostino noi
siamo inseriti originariamente 1n un tessuto, in una trama, composta sia
di parole, sia di fatti. Questa idea è centrale nel De ordine e g1usta­
mente Pepin la pone fra le idee fondamentali che stanno alla base dell 'in­
tero pensiero agostiniano 91•
Affermare che la realtà ha un ordine significa pensare che ogni ente
e ogni esperienza sono legati gli uni con gli altri in un ordito, in un dise­
gno per cui ogni ente è in un rapporto a ttiv o con gli aLtri enti. Il sapere
per Agostino fa tutt'uno co:11 il problelllil dell 'ordine. Senza un ordine la
t:ealt à, di cui facciamo esperienza, si distruggerebbe. Comunque essa si
presenta fatta, costruita in questo modo piuttosto che in un modo diverso
perché un determinato ordine, una certa trama di nessi, la organizza e la
tiene ,insieme così piuttosto che altrimenti . Questi nessi sono pensati
dalla filosofia e dall 'episteme come cause. Il sapere, che è scire per causas,
fa tutt'uno, dunque, in un certo senso con la verità, perché della verità
possiamo parlar·e come di un ordine che ci è dato e in cui siamo immensi 92•

9 J. Pepin, op. cit., p. 248.


8 Cfr. Lettera a Volusiano, citata in
90 Cfr. Contra mendacium, x.
91 Cfr. J. Pepin in Storia della filosofia, a cura di Chatelet, Rizzoli, Milano 1976,
v. n, pp. 53-54; vedi anche le osservazioni di Gilson in Introduzione allo studio di
Sant'Agostino, cit., pp . 220-245.
92
Vedi il racconto del rumore notturno del ruscello e delle discussioni filosofiche
fra Agostino, Licenzio e Trigezio che conseguono a tale fatto. La diversa intensità del
rumore del ruscello, e lo stesso dibattito che ne nasce, sono considerati elementi,
quasi tasselli di un disegno estremamente complesso in cui sono ospitate sia le vi-

98
Cons ulere ver it ate m

Secondo il pen s ier o di Agos tino è per un certo determinato percorso


che il sapere non coincide con la verità, p ercors o che è via in cui l'uomo
come soggetto del sapere si interroga su qualcosa che è al di là del
ricercare la verit à attraverso le cause . J.l percorso per cui il sapere non
coincide con la v.erità .riguarda una « trascenàenza », un « al di là » rispetto
al piano della conoscenza che è il piano del dal1Si delle parole e delle
cos e , il darsi dell 'ordine 93 •

Possiamo a que sto punto riconoscere nella strategia trinitaria del sa­
pere agostiniano il privilegio dato a quel concetto di ordine di cui ho
all'inizio accennato. La questione di un sapere oorne riconoscimento di
un ordine, si intreccia originariamente al problema dell 'etica. Il termine
ordinare presen ta infatti una duplicità prez io sa di senso , pres ente anche
nel l essico latino, dove significa « disporre » , as s egn ar e un posto, in un
senso che implica la decisione e il comando, oltre che una s]stemazione
di cose o persone secondo norm e .

In questa prospettiva Agos tino si può chiedere se l'ordine che è

cende cosmiche, sia le parole (De ordine, in Dialoghi, v. I, a cura di D. Gentili,


Città Nuova Editrice, Roma 1970, pp. 255-257 .
93
Il principio di causalità come è messo a tema nel De ordine-non sarà inutile
osservarlo-è radicalmente diverso dal principio di causalità come ad esempio è con­
cepito da Hume. Nell'assetto di sapere in cui pensa il filosofo inglese, il principio
di causalità è controllo del fenomeno in un ordine del discorso. Tale ordine del di­
scorso da un punto di vista metodologico precede in Hume, e nella filosofia mo­
derna in genere, il coinvolgimento del pensiero come realtà vivente e storica nel­
l'ordine/trama vivente della realtà. Nel pensiero moderno ordine del discorso si­
gnifica legge di un sapere rappresentato come assoluto, « universale l> e quindi
inclusivo, almeno da un punto di vista metodologico, della totalità della realtà.
È per una concezione si.ffatta del sapere che si può affermare che il principio di
causa non è dotato di un valore veritativo assoluto. In questo modo l'empirismo
moderno potrà anche negare che il principio di causa possa essere alla base delle
dimostrazioni dell'esistenza di Dio. Ma il concetto di causa, dai Padri della Chiesa
ad Agostino fino al XIII secolo, ha significato ( sia n eli' etimo di aitia, sia nell'etimo
latino di causa) movente, ragione, criterio, segmento e giunto di un ordine, del di­
scorso e della realtà insieme, che nessuna legge del discorso può dominare. Nel
De ordine ma anche in altre opere come i Soliloqui, il De musica, il De libero arbi­
trio, Dio si annuncia come colui che è implicato e che rende possibile l'ordine, si
annuncia come colui che « ordina », che traccia il disegno. Un Dio si.ffatto non può
essere ridotto ad oggetto di un sapere assoluto, oggetto di un ordine saputo, do­
minato dall 'umana ragione. Egli è piuttosto la dimora o l'interlocutore dell'umana
ragione che è pure riconoscimento di un ordine. Egli è colui da cui è parlato o
« creato » in termini antologici, l'uomo come il soggetto del riconoscere un ordine.

99
Gianfranco Dalmasso

nella realtà è un b ene o un male 94 o se l'ordine « sia valore che a ttuato


da noi in vita ci conduce a Dio , non attu ato non ' ci lascia ragg1ungere
Dio » 95• In ogni caso l'ordine non è concepib ile pet Ag ostino come una
legge statistica e assoluta, sradioobile da una pra s si e da una s trategia .
L'ordine è « ciò attraverso cui Dio fa tutte le cose » ( « id per quod Deus
facit omnia ») 96• Non è qui la sede per lasciar si avvolgere dalle difficoltà
e dai meandri attraverso cui il v esco vo di Ippona conduce il lettore a
prop os ito del r app orto fra la con oscen za dell'ordine e l'ignoranza. Basti
accennare all ' ottica in cui si muo ve l'analisi di Agostino, ottica cl;!e da
un lato mette a tema il p roblem a della pensabilità dell'ignoranza 97, cJPn'al­
t ro lato si smarca da tale problema e può ricomprenderlo nella problema­
dca dell'ordine poiché « chi vo rrà evitare l 'igno ranz a non si sforzi di fa rla
oggetto di pensiero, ma si dolg a che per c au s a sua non pensa ciò che
può pensare e si renda cosciente che essa gli è p resente non perché la
pensa di più , ma perché la pensa di meno }>9 8 •
La maestria, sovrana, con c ui Agostino int recciando uno stile da sofì­
s ta con un'abiLità avvocat esca , padroneggia i suoi argomenti, è resa pos­
sibile, come è stato notato 99, gr azie alla tes sit u ra retorica del suo discorso .
Cioè i modi di costituzione del suo disco rs o sono oggetto esplicito del­
l'attenzione di Ag os tin o ed è anche og g et to tematizzato del suo pensiero
filosofico . L'inizio dei Soliloqui è in questo sen s o p aradigmatico . In
queste pagine il problema « reto rico » della parola è posto da nn purnto
di vista metodologico e annodato all ' ispirazione ultima del pen siero
di Agostino e cioè alla ques tione del rapporto con Dio.
Il primo lib ro dei Soliloqui pone, forse in modo più e splici to che
altrove, la questione del rapporto del s ap ere con la parola e con lo
scritto. Agostino si sorprende cioè ad interrogarsi sui criteri di compo­
sizione del suo stesso scritto . Egli si chiede cioè, mentre dice, che cosa
sta dicendo.
Il problema oSi presenta come formidabile . La Ragione chiede, nel
dialogo , ad Agostino :

94 De ordine, tr. it. eli Gentili, Città Nuova Editrice, Roma 1 970, p. 265.
95 Ibid. , p. 277.
96 Ibid. , p. 289.
m Cfr. ibid. , p. 303.
98 L'ignoranza, quindi, hmgi dall'avvolgere e problematizzare l'ordine, ne è piut­
tosto un ingrediente.
99 Cfr. J. Pepin, op . cit., in Chatelet, op . cit., v. II, pp. 49-50.

100
Consulere veritatem

Ed ora supponi di aver trovato qualche cosa ; a chi lo a ffide r ai per


passare ad altro 100 ?

Certamente l'apparecchio della memoria ritorna, ed è implicato, ma


qui si mostJta come un potere, una sorta di « cerniera » del significato,
impotente a rendere conto dei criteri di costituzione di uno scritto.

R: È la memoria fo11se tanto ampia da conservare adeguatamente tutti


·

i risultati della ricerca?


A: È diffi cile, anzi impossibile.
R: Pertanto è opportuno s criv er e. Ma cosa fare, chè la tua salute
non ti consente la fatica dello s criv ere ? E queste tue riflessioni non si

possono dettare perché richiedono la p erfetta solitudine.


A: HaJ ragione. Non so proprio cosa fare •
101

Che rapporto intreccia il sapere, che implica in questo testo l'inte­


riorità dell'anima( « me stesso », (< queste tue riflessioni » ) , con la parola
?
e con lo scritto Il rapporto del sapere con la parola e con lo scritto
sembra �estricabile, ab1ssale.

R: Invoca salvezza e aiuto per raggiungere il tuo intento. Quindi


consegna allo scritto anche la tua invocazione in maniera da sentirti rinvi­
gorito da tale inizio 102 •

Si tratta cioè di costruire uno scr1tto che contenga la struttura del­


l'invocazione. E la sorta di dottrina generale sulla realtà che segue im­
mediatamente dopo nci Soliloqui, è esposta nella forma di un indirizzo
a Dio come a un termine di preghier a , a un che, a un uno che è oggetto
di preghiera.
Il triangolo memoria-invocazione-scritto, che Agostino monta coroa­
pevolmente in queste pagine, utilizza il concetto di memoria come mo­
mento di costituzione del senso saldandolo al problema dello scrivere
come problema di costituzione del discorso . Costruire un testo che con­
tenga un'invocazione significa costruire un testo a tre dimensioni : l) Ago­
stino che invoca ; 2) l'invocazione che è costituita da ciò ohe è scdtto;
3) l'invocazione che è costituita dalla forma dello scr1tto, dall a struttura
del testo .

100 Soliloqui, a cura di D. Gentili, Città Nuova Editrice, Roma 1970, p. 383.
1o1 Ibid., p. 383.
102 Ibid.

101
Gianfranco Dalmasso

O Dio, che abbiamo accolto per non soggiacere a morte totale . . . 103•
!
Di sfuggita Dom en ico Gentili, curatore dell 'edizione dei Solilo qui
nell ' Op era omnia, richiama la denuncia agostiniana del materialismo
epicureo e s toico 104• I l « materialismo » s embr a essere il « bor do » di
questo testo, il crinale del rapporto fr a la memoria e l o scrivere. Che cosa
è infatti scrivere, nell 'acc ez ione che qui Agostino esamina, se non assi­
cu r are, garantire il rapporto fra l'io e il sapere ? S crivere significa in
questo senso dominare, tenere in pu gno il sapere. Ope r azione paradossale ,
perché questo dominio rhulta ultimamente impossibile : esso inwlaca­
bilmen te f,allisce. L'imprèsa di un sapere, legato alla 1nteniorità ie all-a

memoria dell '[o, si infrooge nel suo funzionamento, nel muro di un'im­
p ossibilità , di un'esteriorità incon troll abile , invincibile dall 'io e dall 'av·
ventUTa , necessariamente Lnteriore, del sapere . Per materialismo di Ago­
stino intendo qui la dipen denz a dalle cose che non può essere ricol;ll­
presa e riassunta nella luce della coscienza ( cioè dell a ragttone e dell a
libertà ) . Il materialismo è la linea di confi ne fra l'io e le cose, in cui
l'io si infrange . Il materialismo nei limiti e nell 'accezione di ques to ac­
cenno di lettura , è il lato della mor te di qu es to rapporto fra l'io e il s aper e ,
è H lato della mor t e del rapporto fra chi sa e il sapere. E ss o è quindi la
memoria vista in se stessa: la memoria che ricade in se stess a .

O Dio che abbiamo accolto per non sog gi ac ere a morte totale . . .

La questione del « eh[ ricorda », del « chi agisce » nella memoria fa


tutt'uno per Agostino con il pr ob lem a dell ' accoglienza di Dio 1 05 • La strut­
tuta del testo di Agostino non 'ha due dimensioni ma tre : nel rapporto
fra la memoria e lo scrivere il terzo è il « chi rimemol'a » e il « chi scrive ».

La questione di un dominio cosciente da parte dell'io non pu ò fun­


zionare né dall a par te della memoria, intesa come sapere, né dall a parte
dell'impotenza del sapere di fronte all 'altro da sé, cioè di fronte al p ro­
blema della perdita, della materi a , della morte. La �ttuttura dell 'invoca·
zione in un testo a tte dimensioni inaugura un :tipo di sapere radical-

! 03 Ibìd. , p. 387.
104 Cfr. Epicuro, Ep . a Erod. , 65 ; per gli stoici cfr. in Diogene Laerzio, 7, 156.
105 Se si dicesse : chi ricorda, l'attore della memoria è spirito e non materia, direb­
be solo l'altra faccia di questo bordo che è la memoria. La struttura del testo di
Agostino non è afferrabile come un dibattito fra lo spirito ( libertà, trascendenza
sul visibile e sul mondo) e la materia ( condizionamento e trama cosmica, dipen­
denza dalla trama mondana).

102
Consul�:1·e vel'ltll h11U

mente diverso che il possesso : sia wmc: Np h·l l o j to��"'""OI't! M Iii l'l'lll!r-1 Il !I li O
correlato che è la materia da cui si è posse d u t i .
Nello spazio tridimensionale ch e è il testo del So!Jioq/11 � dull l!m\ 1 11
una scena teatrale, la scena di un'azione. I due persttlliiBHl dd c h'll l l l ll lll
sono Agostino e la sua ragione, parti teatr,ali di un unk:o mov l mt�n to d1e1
è quello del lo go ( « all 'imp rovviso mi dis&e qualcuno, non so :;c.: Jo N 1 l•!iHO
o qualouno fuori di me o dentro di me . . » ) 106
• .

Qual è il cmterio 1n base a cui si p uò giudicare del funzionamen to


del lago? Quale criterio si deve perseguire per realizzare l'avventura
agostiniana del sapere, cioè la << scienza di Dio e dell'.anima » ? La que­
stione sembra per un aspetto irrisolvibile poiché Agostino afferma di non
conoscere un criterio in base a cui produrre affermazioni fondate ( « ne scio
qua modo mihi demonstrari de beat ut dicam: Sat est ») 1 07 • Dio sfugge
a un criterio cB discorso su di lui :

Non vedo come ciò possa avvenire . Non ho mai avuto nel pensiero
un oggetto tanto simile a Dio da poter dire di voler pensare Dio come
penso quell'oggetto 108,

Come avere drunque un sapere di un discor.so su Dio ? In questa strut­


tura di pensiero si incunea la nozione di verità e il problema del suo
percor:so.

Molti parlano, con abbondanza di parole, di cose di cui non hanno


scienza allo stesso modo che anch'io ho manifestato il desiderio di avere
scienza delle cose di cui ho parlato nell a preghiera 109•

Non seguo qui lo snodarsi del discorso ,agostiniano sulla struttura


della conoscenza geometrica e sui suoi rapporti con la struttu,ra della
conoscenza di Dio come essa è dntracciabile, oltre che nei Soliloqui,
nel De quantitate animae, nel De musica e nel De libero arbitrio. Una
tmuazione anche solo inizialmente analitica esula dall ' obiettivo propo­
sto in questo scritto che è quello di individuare le linee di un « soggetto
del discorso » che si costituirebbe sulla base di una presa di posizione,
e quindi di un problema di « giustizia » nei confronti del segno e della
dicibilità del vero.

106 Soliloqui, cit., p. 383 .


107 Cfr . ibid. , p. 393.
108 lbid.
1 09 lbid. , p. 397.

103
Gianfranco Dalmasso

Ml li.mito a tracciare, a conclusione di ques�o paragrafo, alcune


questioni che riguatèlano strettamente il rapporto fra iJ classico proble­
ma della verità, insieme alle modalità soggettive di interrogarsi riguardo
ad esso, e la possibilità di « parlare » tale interrogativo. Nel secondo
libro dei Soliloqui Agostino ribadisce le affermazioni del De trinitate
110
secondo cui noi sappiamo di essere, di vivere e di pensare • Affrontare
il problema di un sapere su tali termini implica preventivamente la
consapevolezza dell'ril:npossibilità del tramonto della verità come oriz­
zonte del pensiero . La ste�sa opposizione fra verità e apparenza implica
infatti l'esistenza di un'attività pensante che possa rilanciare, magari
indefinitamente, il senso stesso di questa distinzione e che quindi sog­
111 •
giaccia in qualche modo all'orizzonte della verità In questo modo si
avvia il discorso per oui la verità e la falsità non sono in prima istanza
nelle cose, ma « nell'anima ». Le cose divenienti sono vere o false
in relazione alla differenza tra l'apparire e il loro essere e l'apparire im­
1 12 •
plica l' « anrima »
A questo punto il discorso sulla verità diventa decisamente aporetico
e ricalca l'argomento del discorso platonico del Sofista. Se le cose sono
vere in relazione alla differenza fra l'apparire e il loro essere, bisogna
dire che, se non appaiono ad un'anima, non sono neanche vere : il di­
scorso rimane così sospeso in una problematicità essen ziale. Il rapporto
impossibile a circoscriversi fra il vero e il falso, trova, platonicamente,
1 13
la mediazione del concetto di simile • La nozione di falso sembra col­
locarsi fra il simile e il dissimile ; ma ancora: può essere così afferrata?

. . . poniamo come ipotesi la risposta che la somiglianza e la dissimi­


gliooza insieme concorrono a far sì che qualche cosa ragionevolmente
sia denominato falso. Quale via di .scampo mi lasc-eresti ? Si insisterà
difatti ancora nel rinfacciarmi che io ritengo tutte le cose false, poiché
tutte le cose, come è stato detto di anzi, si rassomigLiano e si differen­
ziano per qualche aspetto . Mi rimarrebbe da dire che è falso ciò che è
altro da come appare. Ma temo d'imbattermi in itlùi quei mostri che
mi illudevo di av.ere or ora evitato 1 1 4 •

Queste aporie sembrano insolubili. Esse si scandiscono, seguendo


il giro di considerazioni agostiniane, in quattro momenti : in un primo

11o Cfr. ibid. , p. 433.


111 Cfr. ibid., p. 435.
112 Cfr. ibid., pp. 439-441.
1 13 Cfr. ibid., pp. 445-447.
114 ThU " .d 'i '!

104
Consulere veritatem

momento il vero appare ; in un secondo momento , la nozione di vero è


collegata, nella sua struttul'a , al problema del « chi conosce »; in .un
terzo momento sembra potersi affeDmare che il vero è semplicemente
« ciò che è » ed allora si può forse dire che non c'è più il falso; in
un quarto ed ultimo momento, per superare l'impasse di questa ultima
posizione, si introduce la tematica del simile/dissimile .
Tuttavia questo d:ibattito sul rapporto fra il soggetto conoscente e
la verità trova il suo asse portante ed anche la sua soluzione nel legame
fra il concetto di falso e il concetto di non essere 115 •

Penso che, dopo aver saggiato, per quanto abbiamo potuto, tuth 1
concetti, non ci sia rimasto altro che si possa, a rigor di logica, definire
il falso se non dò che si assimila ad essere ciò che non è o in genere
che ha parvenza di essere e non è. Nel primo dei due concetti sono
inclusi tanto l'inganno quanto la finzione 116 •

La questione del vero e del falso si complica attraverso l'introdu­


zione della :figura dell'inganno come essa è introdotta dal testo del
Sofista nella letteratura filosofica :

Ma Ol'a che noi abbiamo visto che c'è sia il discorso falso che l'opi­
nione falsa, ne consegue la possibilità che ci siano imitazioni delle cose
che sono e pure la possibilità che un'arte dell 'inganno risulti · dal modo
di agire di chi fa quelle imitazioni 1 1 7 •

La finzione come tale si distingue per Agostino dall'inganno . La


finzione è « prodotta dagli esseri che creano illusioni » . Questi ultimi
differiscono dagli esseri ingannevoli in quanto l'essere ingannevole tende
a trarre in inganno, ma non necessariamente chi crea illusioni vuol
trarre in inganno. Ingannevole o ingann atore « si dice invece secondo
logica colui che ha intenzione di trarre qualcuno in inganno » 118 •
Questa via di pensiero è una via privilegiata. Agostino , in questo
punto nodale dei Soliloqui, denuncia la « funzione veritativa » dell'in­
gannatore :

115 Cfr . Sofista, 259c-260e. Cfr. G. Dalmasso, Il ritorno della tragedia. Essere e
inconscio in Nietzsche e in Freud, cit., pp. 22-24.
116 Soliloqui, cit., p. 45.3 .
117 Sofista, 264 d .
118 Cfr. Soliloqui, cit., p . 45.3 .

105
Gianfranco Dalmasso

Ora soltanro forse cominci ad impartirmi nozioni



non false sul
119•
falso

All 'mterno del rapporto fra l'inganno e la parvenza irrompe infatti


il gesto del filosofo come di colui che è in grado di interrogarsi sul
senso di questa affermazione : « Ha parvenza di essere e non è » . La
risposta della rogione spii!Zza il discorso di Agostino ricollegando il
problema del soggetto del discorso al problema dell 'immagine.

Non ti sembra che la tUa immagine .rimandata dallo specchio v glia 9


quasi essere te stesso ma è falsa perché non è 120?

Si"<!mo alla questione dell'immagine, in quanto assedia sia la cono­


scenza sensibile, s1a, in a1tro senso, le finzioni sceniche. Per queste
ultime le stesse ·parvooze sono , in quanto sceniche, « vere ». Come l'at­
tore che fa Ettore sulla scena non sarebbe stato vero attore tragico se
non avesse voluto essere un falso Ettore, così nello specchio non sarebbe
121 •
una vera immagine dell'uomo se non fosse nn falso uomo L'analisi
perciò si attesta nella posizione del Sofista platonico : la via percorribile
dal filosofo è quella di dire il vero sul falso anche se resta una domanda
residua, inquietante, su oui Agostino innesta la sua propr1a concezione
di una verità attiva e ordinatrke :

Perché dunque abbiamo· tanto timore dell'apparenza e desideriamo


come grande bene la verità 122?

Il prosieguo del discors� dei Soliloqui, considerando nell'anima


il funzionamento della disciplina ( dell'attività filosofica e dialettica di­
remmo oggi ) 123 assicura il soggetto della sua esistenza. L'accenno alle
veritates incommutabiles sviluppato altrove 124, come ciò da cui l'intel­
letto è giudicato , più che aprire la str.ada ad un sapere assoluto intorno
alla verità, fornisce strumenti , essi sì « incontrovettibili », per aprire
un dibattito sul senso per cui la verità ·sia « un bene » per il soggetto
conoscente.

I IV Ibid. , p.455.
uu Ibitl.
Ul (}1·, /hid. , pp . 455-457.
111 1 /1/d. , p . '1 57 .
IU f/11!1,
ì�. Vt-tll DI! i{llfllllltatc animae, De libero arbitrio.

106
Jacques Derrida
DI UN TONO APOCALITT I CO
ADOTTATO DI RECENTE IN FI LOSOFIA

Parlerò dunque di un tono apocalittico in filosofia.

I Settanta ci hanno trasmesso una traduzione di gala . La si chiama


l'Apocalisse. In greco , l'apokalupsis tradurrebbe delle parole derivate
dal verbo ebraico gala. Mi riferisco qui, senza autorizzarmene, a delle
indicazioni di André Chouraqui sulle quali ritornerò . Ma devo antici­
parle :6n d'ora : le vicende o gli enigmi di traduzione di cui intendo
parlare e nei quali resterei impacciato per ragioni più serie che la mia
incompetenza, io li ritengo senza via d 'uscita. Questo sarà il mio tema,
più che un tema, un compito (Aufgabe des Uebersetzers , giusta citazione
di Benjamin) da cui non mi dispenserò . Jean Ricardou mi ha chiesto
l'altro giorno , stavamo parlando di traduzione, di dire qualcosa di più
su ciò che avevo abbozzato e sulla possibilità di una grazia al di là del
lavoro, grazia del lavoro ma senza di esso, un dono che c'è (es gibt) ,
ma che c'è soprattutto a non esigerlo alla fine dei conti nell'esserne
responsabili . Bisogna tradurre e non tradurre . Penso al double-bind di
YHWH, che si dà, col nome di sua scelta, col suo nome , si potrebbe dire
Babele, da tradurre e da non tradurre . E nessuno per sempre, da allora
non può più sottrarsi alla doppia postulazione. Ebbene, a Jean Ricardou
risponderò questo , e lo farò sotto forma di ringraziamento ellittico per
ciò che mi è qui dato, dato da pensare e semplicemente dato al di là
del pensabile, cioè-si direbbe in tedesco-al di là di ogni memoria e
di qualche ringraziamento dato dai nostri ospiti di Cerisy, da Philippe
Lacous-Labarthe e da Jean-Luc Nancy, da tutti voi con tanto lavoro e

107
J acques Derrida

tanta grazia, tanta grazia nel lavoro : alla prova della traduzione la grazia
sarebbe forse quando la scrittura dell'altro vi issolve, a momenti, dal
double bind infinito e inn anzitutto, tale è la condizione di dono, se ne
assolve, se ne libera, se ne alleggerisce o si dichiara innocente, essa, la
lingua di scrittura e quanto essa rappresenta, una traccia data che pro­
viene sempre dall'altro, anche se non c'è . Dichiararsi innocente del dono ,
del dono donato, del donare stesso, è la grazia che io vi riconosco ora
e che in ogni caso vi auguro. Essa è sempre improbabile, non se ne fa
mai la prova. Ma non bisogna credere che accada ? Forse era ,questo,
ieri, la credenza s tessa . �Altro modo di dire : per quanto mi ave'te dato
in questi dieci giorni io non vi ringrazio soltanto, io vi perdono . Ma
chi può darsi il diritto di perdonare? Diciamo che per voi io chiedo il
perdono, a voi stessi per voi stessi.
Apokalupto fu senza dubbio un termine appropriato per gala . Apo­
kaluptò, io scopro, io svelo, io rivelo la cosa che può essere una parte
del corpo, la testa o gli occhi, una parte segreta, il sesso o quanto ci sia
di nascosto , un segreto, la cosa da dissimulare, una cosa che non si
mostra né si dice, si indica forse ma non può o non deve essere esposta
di primo acchito all'evidenza . Apokekalummenoi logoi, sono discorsi in­
decenti . Ne va dunque del segreto e dei pudenda .
La lingua greca si mostra qui ospitale verso il gala ebraico . Come ram­
menta André Chouraqui nel suo breve Liminaire pour l'Apocalypse
giovannea di cui egli ha proposto di recente una nuova traduzione 1, la

Traduzione dal greco, beninteso, ma secondo coordinate che qui devo precisare,
nello stesso tempo perché. se ne parlerà nel corso della discussione e perché ne va
di ciò che si potrebbe definire l'appropriazione dell'apocalisse : è anche il tema di
questa relazione. Il tentativo molto singolare di Chouraqui consiste inso=a, per
l'Apocalisse di Giovanni come per il Nuovo Testamento in genere, nel ricostruire
un nuovo originale ebraico, sul testo greco di cui disponiamo, e a fare come se egli
traducesse questo testo originale fantasma di cui egli suppone che, linguisticamente
e culturalmente, ha dovuto già lasciarsi tradurre, se si p1,1.ò, dire in un senso larga­
mente metaforico, nella versione greca detta originale. «La traduzione che io pub­
blico, accresciuta con l'apporto delle versioni tradizionali, ha l'intenzione di ricer­
care sotto il testo greco il suo contesto storico e il suo substrato semitico. Un tale
procedimento è oggi possibile ... ». Esso passa, secondo Chouraqui, attraverso una
«retroversione aramaica o ebraica» del testo greco trattato come un «filtro». Le
traduzioni storiche del Nuovo Testamento in aramaico o in ebraico avranno dunque
giocato qui un ruolo indispensabile, ma soltanto intermedio. << • • • anche se il testo
si esprime in greco e, per quanto riguarda Gesù, si fonda su un aramaico o un

ebraico (mishnaico, rabbinico o qumranico ) di cui sono scomparse le tracce, il pen­


siero degli Evangelisti e degli Apostoli ha come ultimi termini di riferimento la

108
Di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia

parola gala ricorre più di cento volte nella Bibbia ebraica. E sembra
esprimere in effetti l'apokalupsis, lo scoprimento, lo svelamento , il velo
sollevato sulla cosa : inn anzitutto, se cosl si può dire, il sesso dell'uomo
o della donna, ma anche gli occhi o le orecchie. Chouraqui precisa che
«si scopre l'orecchio di qualcuno sollevando i capelli o il velo che lo
copre per sussurrarvi un segreto, una parola cosl nascosta come il sesso
di una persona» . YHWH può essere l'agente di questo scoprimento. Il
braccio o la gloria di YHWH possono anche scoprirsi allo sguardo o al­
l'orecchio dell'uomo. In nessun caso la parola apocalisse, conclude il
traduttore riferendosi qui tanto al greco che all'ebraico, ha dunque il
senso , che ha finito per assumere in francese e in altre lingue, di temi­
bile catastrofe. Cosi l'Apocalisse è essenzialmente una contemplazione
(hazòn) [ e infatti Chouraqui traduce ciò che noi abbiamo l'abitudine di
chiamare l'Apocalisse di Giovanni con Contemplazione di Yohanan ] o
una ispirazione (neboua) per la vista, per lo scoprimento di YHWH e, qui,
di Yeshoua «il Messia)> .

Sarebbe stato forse necessario, e d io vi h o pensato per un istante,


levare o rilevare tutti i sensi che si assiepano intorno a questo gala
ebraico, di fronte alle colonne o ai colossi della Grecia, di fronte alla
galattica sotto tutte le vie lattee, i milky ways la cui costellazione mi
aveva di recente affascinato . Curiosamente sarebbero stati riscontrati
significati come quelli di pietra, di rulli di pietra, di cilindro, di rotoli
di pergamene e di libri, di rotoli che si dispiegano o si chiudono, ma

parola di YHWH, cioè per essi tutta la Bibbia. È questa che si ritrova analizzando il
testo greco se si deve innanzitutto passare attraverso un filtro aramaico o quello
della traduzione dei Settanta. [ . . . ] A partire dal testo greco, conoscendo le tecniche
di traduzione dell'ebraico in greco, e le risonanze ebraiche dell a koiné, ho tentato
ad ogni parola, ad ogni versetto, di toccare il fondo semitico per poi ritornare al
greco che era necessario ritrovare, arricchito di una sostanza nuova, prima di pas­
sare al francese» . Questo è il progetto, egli si appoggia ad una doppia autorità,
richiamando a turno la «quasi-unanimità degli esegeti» o «la grande corrente ecu­
menlca», !'«ecumenismo delle originl». Per molteplici ragioni, non metterò in discus­
sione direttamente l'autorità di queste autorità. Ma trattandosi di lingua, di testo,
d i avvenimento e di destinazione, ecc ., le questionl che porrò in questa relazione
non avrebbero potuto dispiegarsi se il fondamento di tali autorità si dovesse tenere
o! riparo nell'indiscutibile. Conseguenza secondaria di questa precauzione : non è
come ad una traduzione autorizzata che io mi rifarò spesso a quella di André
Chouraqui.

109
Jacques Derrida

soprattutto, ed è quanto io ne ricordo per il momento, l'idea di messa


'
a nudo, di svelamento precisamente apocalittico , di scoprimento che la­
scia vedere ciò che fino a quel momento restava avvolto, ritirato, riser­
vato, per esempio il corpo quando si leva il vestito o il glande quando
nella circoncisione si leva il prepuzio. E ciò che sembra più degno di
nota in tutti gli esempi biblici che ho potuto ritrovare e che devo rinun­
ciare ad esporre qui, è che il gesto di denudare o di dare a vedere , il
movimento apocalittico è qui più grave, a volte più colpevole e più
pericoloso di ciò che ne segue e di ciò a cui può dar luogo, per ;esempio
l'accoppiamento . Cosi quando, nel Genesi (IX, 21), Noah si ubriaca e
si scopre nella sua tenda, Ham vede il sesso di suo padre e i suoi due
fratelli a cui lo dice vengono a rivestire Noah voltandosi in direzione
opposta per non vedere il suo sesso . Lì lo svelamento non è ancora il
momento più colpevole di un accoppiamento . Ma quando YHWH par­
lando a Mosè proclama un certo numero di divieti sessuali, sembra
proprio che la colpa consista essenzialmente nello svelamento che dà a
vedere . Cosi, nel Levitico (xx, 1 1 , 17) : «L'uomo che si corica con la
donna di suo padre l ha scoperto il sesso di suo padre . l I due sono
messi a morte [ . ] . l L'uomo che prende sua sorella, l figlia di suo
. .

padre o figlia di sua madre , l egli vede il suo sesso , l ella vede il suo
sesso : l è un incesto » . Ma la gravità terrificante e sacra di questo scopri­
mento apocalittico non è minore, beninteso, quando si tratta del braccio
di YHWH, della sua gloria o delle orecchie che si aprono alla sua rivela­
zione. E lo scoprimento non apre solamente alla visione o alla contem­
plazione, non dà solamente a vedere, ma anche a udire .
Rinuncio per il momento a interpretare tutti i riscontri fra il gala
e l'apocalittico , l'ebraico e il greco . Questi riscontri sono numerosi e

potenti, sostengono un grande concerto di traduzioni anche se non esclu­


dono dissonanze, scarti o tradimenti .
Preferendo !asciarli risuonare da soli, ho scelto di parlarvi piuttosto
di un tono apocalittico adottato di recente in :fik)sofia; Senza dubbio ho
voluto così mimare secondo la citazione ma anche trasformare in genere,
e poi parodiare, spostare, deformare il titolo ben conosciuto di un opu­
scolo forse meno ben conosciuto di Kant, Von einem neuerdings erho­
benen Vornehmen Ton in der Philosophie (1796). Traduzione consa­
crata : D'un Ton grand seigneur adopté naguère en philosophie (L. Guil­
lermit, Vrin, Paris 1975) . Che cosa succede a un titolo quando gli si fa
mbire questo trattamento? Quando esso comincia così ad assomigliare
alla categoria di un genere, in tal caso di un genere che arriva a beffare

110
Di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia

quelli che si danno un genere?


Facendo questa scelta ho desiderato venire incontro a coloro che, in
uno dei seminari di questa decade, hanno giustamente organizzato il
loro lavoro privilegiando il riferimento a tale censura kantiana nel tempo
della filosofia .
Ma mi sono anche lasciato sedurre da un'altra cosa . L'attenzione al
tono, che non è soltanto lo stile, mi sembra abbastanza rara . Si è stu­
diato poco il tono per se stesso, ammettendo che dò sia possibile e che
sia mai stato fatto . I segni distintivi di un tono sono difficili da isolare ,
se pure esistono in tutta purezza, cosa di cui dubito, soprattutto in un
discorso scritto . Come si definisce un tono, un cambiamento o una rot­
tura di tono ? Come riconoscere una differenza tonale all 'interno di uno
stesso corpus ? A quali tratti affidarsi per analizzarlo, a quale riferi­
mento che non sia né stilistico , né retorico , né evidentemente tematico
c semantico ? L'estrema difficoltà di tale questione, anzi di tale com­
pito , si accusa ancora quando si tratta di filosofia . Il sogno o l'ideale del
discorso filosofico , dell 'allocuzione filosofica e dello scritto che è ritenuto
rappresentarla, non è rendere la differenza tonale inudibile, e con essa
tutto un desiderio, un affetto o una scena che lavorano il concetto di
contrabbando ? La neutralità o almeno la serenità imperturbabile che
deve accompagnare il rapporto col vero e l 'universale , il discorso filoso­
fico deve garantirli anche attraverso ciò che si chiama la neutralità del
tono . Allo ra, ascoltare o scoprire il tono di un filosofo o piuttosto, questa
precisazione è importante, del sedicente o del preteso filosofo, sarà pos­
sibile?
E se ce lo si promettesse, non d si impegnerebbe a mettere in rilievo
tutti i tratti che in un corpus non sono ancora o non sono più filosofici,
tutti gli scarti sgradevoli in rapporto alla norma atonale dell'allocuzione
filosofica ?
Di fatto , se Kant ha avuto l'audacia, molto singolare nella storia,
di occuparsi sistematicamente di un certo tono in filosofia, è necessario
sfumare subito l'elogio che si vorrebbe farne . Innanzitutto , non è certo
che egli tenga o pervenga ad analizzare il fenomeno puro di una tonalità,
lo verificheremo . Poi egli analizza meno un tono in filosofia di quanto
non denunci una maniera di darsi delle arie ; ora è una maniera o un
manierismo che precisamente non gli sembra un gran buon tono in filo­
sofia, e che segna dunque già uno scarto rispetto alla norma del discorso
filosofico. Più gravemente, egli è interessato a un tono che annuncia
qualcosa come la morte della filosofia . Il termine è di Kant e compare

111
J acques Derrida

due volte in questo libretto di venti pagine; ogni volta questa morte
è associata all 'idea di una rivelazione soprannaturale, di una visione che
provoca un'esaltazione mistica o per lo meno un atteggiamento da visio­
nario . La prima volta si tratta di una « comunicazione soprannaturale»
o di una «illu minazione mistica» (iibernatii rliche Mitteilung, mystische
Erleuchtung) che promette un sostituto o un supplemento, un surrogato
di oggetto conoscibile, «cosa che è allora la morte di ogni filosofia»
(«der Tod alter P hilosophie» ) . E verso la fine, Kant mette in guardia
contro il pericolo di upa «visione esaltata» (schwarmerische Yision )
«che è l a morte di ogni filosofia» (ancora una volta «der Tod aller
Philosophie») .
Il discorso di Kant è dunque contrassegnato dal tono che egli si dà,
dagli effetti che cerca, dalla sua vivacità-polemica o satirica. · È una
critica sociale e le sue premesse hanno un carattere propriamente poli­
tico . Ma se egli deride un tono chè annuncia la morte di ogni filosofia,
non è il tono in se stesso a ritrovarsi schernito. D'altronde, che cos 'è
il tono stesso ? È qualcos'altro che una distinzione, una differenza to­
nale che rinvia ormai solo in modo figurato a un codice sociale, a dei
costumi di gruppo o di casta, a delle condotte di classe, attraverso un
gran numero di collegamenti che non hanno più nulla a che fare con
l'altezza della voce o del timbro? Benché, come suggerivo proprio ora,
la differenza tonale non risulti come essenzialmente filosofica, per Kant
non è il fatto che vi sia del tono , un contrassegno tonale, che annuncia
a lui solo la morte della filosofia . È un tono determinato, una certa in­
flessione socialmente codificata per dire tale o tal altra cosa determinat a .
L'altezza di tono che egli sotterra con i suoi sarcasmi resta un'altezza
metaforica . Queste persone parlano con tono elevato, questi altoparlanti
alzano la voce ma non lo si dice che per figura e per riferimento a dei
segni sociali . Kant non fa mai astrazione dal contenuto. Tuttavia, il
fatto · è lungi dall ' essere insignificante, la prima volta che un filosofo
prende la parola sul tono di altri sedicenti filòS ofi, allorché inaugura
questo tema e lo nomina nel suo stesso titolo, è per spaventarsi o indi­
gnarsi davanti alla morte della filosofia . Egli mette sotto accusa coloro
che, per il tono che assumono e l'aria che si danno al momento di dire
certe cose, mettono la filosofia in pericolo di morte e dicono alla filo­
tlofìn o ai filosofi l'imminenza della loro fine. L 'imminenza qui non im­
porto meno della fine. La fine è prossima, sembrano dire, il che non
C!Mclude che essa abbia già avuto luogo, un po' come nell'Apocalisse di
Glovonnl l 'imminenza della fine o del giudizio finale non esclude un

112
Di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia

certo «sei morto», «vigila! » la cui ingiunzione segue da vicino l'allu­


sione a una « seconda morte» che non aspetterà il vincitore.
Kant è sicuro che coloro che parlano con questo tono ne attendono
qualche beneficio, ed ecco quanto mi interesserà innanzitutto .
· Quale beneficio ? Quale premio di seduzione o di intimidazione ?
Quale vantaggio sociale o politico ? Vogliono fare paura? Vogliono
far piacere? A chi e come ? Vogliono terrorizzare? Far cantare ? Atti­
rare in nuove promesse di godimento ? :È contraddittorio? In vista di
quali interessi, a quali fini vogliono arrivare con quest e proclamazioni
accese sull a fine imminente o sulla fine già avvenuta? :È un po' di questo
che volevo parlarvi oggi, di un certo tono e di ciò che accade alla filo­
sofia come sua morte, del rapporto tra questo tono, questa morte e . il
beneficio apparentemente calcolato di questa mistagogia escatologica.
L'escatologico dice l'eskhaton, la fine, o piuttosto l'estremo, il limite ,
il termine, l'ultimo, ciò che viene in extremis a chiudere una storia, una
genealogia · o semplicemente una serie numerabile .
Dei mistagoghi, ecco l'espressione e il capo d'accus a di Kant . Prima
di arrivare al mio discorso, estrarrò alcuni tratti paradigmatici nella re­
quisitoria di Kant , paradigmatici e anti-paradigmatici perché sto forse,
ripetendo ciò che egli ha fatto, per arrivare a fare il contrario-o se
preferite altro .
I mistagoghi fanno una scena, ecco ciò che interessa Kant. Ma in
quale momento i mistagoghi entrano in scena e talvolta in trance? In
quale momento cominciano a fare i misteriosi?
Nell'istante in cui la filosofia, più esattamente il nome di filosofia, ha
perduto il suo primo significato, seine erste Bedeutung . E questo signi­
ficato primitivo , Kant non ne dubita un solo istante, è il «saper-vivere
razionale», letteralmente una saggezza della vita che si regola su un
sapere o una scienza (wissenschaftliche Weisheit) . Nell 'istante in cui il
nome di filosofia perde il suo significato o il suo riferimento originario,
di questo nome da allora vuoto o usurpato, questo pseudonimo o questo
criptonimo, che è inn anzitutto un omonimo, i mistagoghi si impadro­
niscono . E ciò continua a verificarsi in maniera regolare, ricorrente,
dopo che il senso è stato perduto : non è la prima volta. Kant certa­
mente si interessa prima di tutto ad alcuni esempi recenti di questa
impostura mistagogica e psicagogica, ma suppone in partenza che l'usur­
pazione sia ricorrente e obbedisca a una legge. C'è stata e ci sarà sempre
una mistificazione filosofica, una speculazione sulla fine e i fini della
filosofia. Ciò è dovuto a un avvenimento che Kant stesso non data e

113
Jacques Derrida

che egli sembra situare quasi all'origine, cioè qqello per cui il nome di
filosofia può circolare senza il suo riferimento originario , intendete senza
la sua Bedeutung e senza la garanzia del suo valore. Rimanendo ancora
nell'assiomatica kantiana, in qualche modo si può già inferirne che nulla
di male sarebbe accaduto, nessuna speculazione mistagogica sarebbe
stata credibile o efficiente ; niente e nessuno avrebbe stonato in filosofia
senza questo errare del nome lontano dalla cosa, se il rapporto del nome
di filosofia col suo senso originario fosse stato assicurato contro ogni
incidente .
È stato dunque necessario un certo allentamento in questo rapporto
del segno alla cosa per preparare lo spazio di uno sviamento di senso o
l'appiglio per una perversione . Riferimento troppo labile, dunque, là
dove dovrebbe essere più stretto, teso, rigoroso. Vi espongo qui un'asso­
ciazione che sembrerà forse verbale, ma essendo già nostra preoccupa­
zione la mancanza di rigore o di ténsione nella verbalizzazione, mi viene
in mente che tonos, il tono ha dapprima significato il legamento teso, 1 a
corda, la fune quando è tessuta o intrecciata, il cavo, la cinghia, in breve
la figura privilegiata di tutto ciò che è sottomesso a strettura. Tonion,
è il legamento in quanto benda e fasciatura chirurgica. La stessa tensione
attraversa insomma la differenza tonica (quella che sotto il termine
strettura forma nello stesso tempo il tema e lo strumento , la corda di
Glas) e la differenza tonale, lo scarto, i cambiamenti o il mutamento dei
toni ( il Wechsel der Tane holderliniano che costituisce uno dei motivi
più ossessionanti de La carte postale) . Da questo valore di tensione , o
di forza (per esempio in una macchina balistica) , si passa all'idea di
accento tonico, di ritmo , di modo (dorico , frigio, ecc.) . L'altezza del
tono è legata alla tensione; ha un legame col legame , con la tensione
più o meno stretta del legame . Non basta per determinare il senso del
termine tono quando si tratta della voce . Ancor meno quando, con un
gran numero di figure e di spostamenti tropici , il tono di un discorso
o di uno scritto si analizza in termini di conten{h� , di modi di dire , di
connotazioni, di messa in scena retorica e di posa assunta, in termini
semantici, pragmatici, scenografici, ecc . , in breve raramente o per nulla
nell'ascolto di un'altezza di voce o di una qualità di timbro . Chiudo que­
sta parentesi .
È dunque stato necessario che il legame che vincola il nome di filo­
sofia al suo significato si allentasse perché il titolo filosofico fosse rego­
larmente disponibile come un semplice ornamento, un decoro, un'accon­
ciatura o un vestito di gala (Ausschmuckung) , un significante usurpato e

114
Di un tono apocalittico adottato di t·ccen r:c in filosofia

usato come travestimento intellettuale da coloro che Knnt chiama nien­


temeno che pensatori, e pensatori sedicenti fuori del comune .
Questa gente si colloca fuori dal comune ma ha in comune questo :
dice se stessa in un rapporto immediato e intuitivo con aria di mistero .
E vuole attirare, sedurre, condurre verso il mistero e attraverso il mi­
stero . Mystagogein è proprio questo : condurre, iniziare al mistero ; è
la funzione del mistagogo o del prete iniziatore . Questa funzione agogica
di conduttore di uomini, di duce , di Fiihrer, di leader lo colloca al di
sopra della folla che egli manipola attraverso un piccolo numero di
adepti radunati in una setta dal linguaggio criptico, una banda, una cricca
o un piccolo partito con le sue pratiche ritualizzate. I mistagoghi preten­
dono di detenere come in privato il privilegio di un misterioso segreto
(Geheimnis è il termine che ricorre più spesso). La rivelazione o lo
svelamento del segreto si riserva ad essi, essi lo preservano gelosamente .
La gelosia è qui un tratto dominante . Essi non lo trasmettono mai ad
altri nel linguaggio comune, solamente per iniziazione o per ispirazione .
Il mistagogo è philosophus per initiationem o per inspirationem . Kant
prende in considerazione tutta una lista differenziale e una tipologia
storica di questi mistagoghi ; ma riconosce a tutti loro un tratto comune :
essi non mancano mai di considerarsi dei signori (sich fiir Vornehme
halten) , degli esseri di élite, soggetti distinti, superiori e a parte nella
società . Da cui una serie di opposizioni di valori che mi limito a segna­
lare molto velocemente : essi guardano dall'alto il lavoro , il concetto, la
scolarità, credono di aver accesso a ciò che è dato senza sforzo, per
grazia, attraverso l'intuizione o il genio , fuori dalla scuola. Sono parti­
giani dell'intuizione intellettuale, e si potrebbe riconoscere tutta la siste­
matica kantiana, cosa che non farò, in questo saggio . L'opposizione
gerarchizzata del dono al lavoro, dell'intuizione al concetto, del modo
geniale al modo scolastico (geniemi:issig/ schulmassig ) è omologa all'op­
posizione tra un'aristocrazia e una democrazia, eventualmente tra una
oligarchia demagogica e un'autentica democrazia razionale . Maestri e
schiavi : il gran signore accede con un salto e col sentimento a ciò che
gli è dato immediatamente, il popolo lavora, elabora, concepisce .
E là tocchiamo il problema più impegnativo del tono . Kant non
prende di mira i veri aristocratici, le persone veramente «Vornehme»,
la distinzione autentica, ma soltanto coloro che si mostrano o si consi­
derano degli esseri distinti, le grandi arie di questi pretenziosi che alzano
la voce, coloro che alzano il tono in filosofia. Kant non incrimina l'altezza
del tono gran-signore quando è giusta, naturale o legittima. Egli ha di

115
Jacques Derrida

mira l'altezza del tonQ di un nuovo ricco che si autorizza dandosi delle
arie e sfoggiando segni usurpati di appartenenza sociale . La satira prende
dunque di mira la mimica e non il tono stesso . Perché un tono può essere
mimato , finto , truccato. Arriverò a dire sintetizzato .
Ma che cosa suppone la finzione del tono? Fin dove può arrivare ?
Qui sto per forzare e accelerare un po' l'interpretazione al di là di un
commentario . Un tono può essere preso , e preso all'altro . Per cambiar
voce o mimare l 'intonazione dell 'altro, si deve poter confondere o in­
durre una confusione tra due voci, due voci dell'altro e, necessariamente ,
dell'altro in sé. Come distinguere le voci dell'altro in sé? Invece' di im­
pegnarmi direttamente in questo immenso problema, ritorno al testo
kantiano e ad una figura che sembra appartenere alla retorica corrente e
alle metafore cosiddette logorate. Si tratta della distinzione tra la voce
della ragione e la voce dell'oracolo (forse farò qui eco , senza essere certo
di rispondervi , all'interrogazione, all 'ingiunzione o alla domanda che
mi rivolgeva l'altro giorno Jean-Luc Nancy ) .
Kant è indulgente verso l e persone altolocate che s i danno alla filo­
sofia, anche se lo fanno male, moltiplicano gli errori contro la Scuola e
credono di accedere alle vette della metafisica . Esse hanno un certo me­
rito , hanno condisceso a mescolarsi agli altri e a filosofare «su un piano
di uguaglianza civile» (borghese, biirgerliche) . In compenso i filosofi di
professione sono imperdonabili quando giocano al gran signore e osten­
tano grandi arie . Il loro crimine è propriamente politico e riguarda una
sorta di polizia . Più avanti Kant parlerà della «polizia del reame delle
scienze» (die Polizei im Reich der Wissenschaften) . Essa dovrà vigilare
per reprimere-simbolicamente-non soltanto gli individui che si am­
mantano indebitamente del titolo di filosofo, si impadroniscono e si rive­
stono del tono gran-signore in filosofia, ma anche coloro che si intrup­
pano intorno ad essi ; perché questa boria con cui ci si installa sulle vette
della metafisica, questa arroganza ciarliera è contagiosa, dà luogo ad
aggregazioni , congregazioni e cappelle . Si potrebbe mettere in rapporto
questo sogno di una polizia del sapere con il progetto di tribunale uni­
versitario presentato in Il conflitto delle facoltà . Esso era destinato a fare
da arbitro nei confutti tra la facoltà provvisoriamente inferiore, la fa­
coltà di filosofia, e le facoltà cosiddette superiori perché rappresentano
il po tere di cui esse sono lo strumento uf!iciale (la teologia, il diritto e
la medicina) . Questo tribunale è anche un parlamento del sapere, e la
filosofia, che ha diritto di controllo su tutto ciò che riguarda la verità
delle proposizioni teoriche ( constatative) ma nessun potere di dare or-

116
Di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia

dini, vi occupa il banco della sinistra, e nei conflitti concernenti la


ragione pratica essa non ha autorità che per trattare questioni formali ;
le altre, che hanno maggior peso per l 'esistenza, dipendono dalle facoltà
superiori, in particolare dalla teologia . Nella requisitoria di cui ci occu­
piamo, non si perdona ai filosofi di professione quando assumono un tono
gran-signore poiché alzando così il tono essi si innalzano al di sopra dei
loro colleghi o confratelli (Zunftgenossen), li ledono nel loro diritto
inalienabile alla libertà e all'uguaglianza per quanto riguarda la semplice
ragione. E lo fanno precisamente, ecco dove volevo arrivare, perver­
tendo la voce della ragione, mescolando le due voci dell'altro in noi , la
voce della ragione e la voce dell'oracolo . Queste persone credono inutile
il lavoro in filosofia : basterebbe «prestare ascolto all 'oracolo dentro se
stessi» (nur das Orakel in sich selbst anhoren sono le prime parole
-

di Kant).
Poiché questa voce parla loro in privato, attraverso ciò che è pro­
priamente il loro sentimento idiomatico , il loro desiderio o il loro pia­
cere, essi le fanno dire ciò che vogliono . Alla voce della ragione , al
contrario , non si fa dire qualunque cosa. Sono le ultime parole del breve
scritto : la voce di un oracolo (die Stimme eines Orakels) si presta sempre
ad ogni sorta di interpretazioni (Auslegungen ). I preti mistagoghi sono
così degli interpreti ; l'elemento del loro potere agogica è la seduzione
ermeneutica o ermetica e pensiamo qui a quanto diceva Warburton del
potere politico dei preti-decifratori di geroglifìci e degli scribi nell 'antico
Egitto . Il tono gran-signore domina ed è dominato dalla voce oracolare
che copre la voce della ragione, o meglio vive a sue spese, la fa sviare
o delirare . Alzare il tono, in tal caso, è farlo saltare , è far delirare la
voce interiore che è la voce dell 'altro in noi . Delirio, ecco un termine
che appare una volta in latino, per citare il verso di un monaco del
Medioevo ( Quaerit delirus, quod non responde t H omerus) e un'altra
volta, nella traduzione francese che trovo qui un po' forzata ma inte­
ressante per un termine che mi interessa ancor più e che è Verstimmung.
Verstimmung der Kopfe zur Schwl:irmerei, Guillermit traduce ciò con
«delirio di teste che si esaltano» ed ha ragione . Il tono gran-signore si
autorizza con un salto mortale, è anche l'espressione di Kant, un salto
dei concetti nell'impensabile o nell'irrappresentabile , un'anticipazione
oscura del segreto misterioso venuto dall'al di là. Questo salto verso
l'imminenza di una visione senza concetto , questa impazienza volta verso
il segreto più nascosto libera una sovrabbondanza poetico-metaforica .
Essa ha in tal caso una buona affinità apocalittica ma Kant non adopera

117
J acques Derrida

mai questo termine pel ragioni che potremo intravvedere tra poco . Ver­
stimmen , che Guillermit traduce non senza ragione con delirare, è innan­
zitutto stonare, quando si parla di uno strumento a corde e, o ancora,
per esempio , di una voce . Ciò si dice normalmente di un piano . Meno
strettamente significa fuorviare, sconvolgere, confondere . Si delira quan­
do si è sconvolti nella mente . La Verstimmung può giungere a guastare
una Stimm ung : il pathos, o l'umore che diventa allora cattivo. La Ver­
stimmung di cui parliamo qui, è proprio un disordine sociale e uno
sconcerto, una stonatura .,delle corde e delle voci nella mente. I� tono
salta e si alza quando la voce dell'oracolo vi chiama da parte, vi parla
in un codice privato e vi sussurra dei segreti scoprendovi l'orecchio ,
confondendo, coprendo o sfruttando la voce della ragione che parla allo
stesso modo in ciascuno ed usa verso tutti lo stesso linguaggio . La voce
della ragione, dice Kant, die Stimme der Vernunft, parla a ciascuno senza
equivoco (deutlich) e dà accesso a una conoscenza scientiiìca. Ma è es­
senzialmente per dare ordini e per prescrivere . Perché se avessimo il
tempo di ricostruire tutta la necessità interna e peculiarmente kantiana
d,i questo discorso , bisognerebbe penetrare l'estrema finezza dell'obie­
zione fatta ai mistagoghi . Essi non confondono semplicemente la voce
dell'oracolo con quella della ragione. Non solo essi non distinguono tra
la ragion pura speculativa e la ragion pura pratica, ma credono di cono­
scere ciò che è solamente pensabile e di accedere con il solo sentimento
alle leggi universali della ' ragione pratica. C 'è dunque una voce della
ragione pratica, ed essa non descrive nulla, non dice nulla di descrivibile,
essa detta, prescrive, ordina. Kant la menziona anche in latino : dictamen
rationis. Benché dia luogo all'autonomia, la legge che essa detta è così
poco flessibile, così poco sottomessa a interpretazione libera come se
pervenisse dal totalmente altro in me. È una «voce di bronzo», dice
Kant . Risuona in ogni uomo perché ogni uomo ha in sé l'idea del do­
vere e vi risuona molto forte, vi bussa in maniera assai insistente ed
anche vi tuona poiché l'uomo trema (zittert) nell ;ùdire questa voce di
bronzo che, dall'alto della sua maestà, gli ordina di sacrificare le sue
pulsioni, di resistere alle seduzioni, di rinunciare ai suoi desideri. E la
voce non mi promette nulla in cambio, non mi assicura alcuna ricom­
pensa. Essa è sublime in questo, ordina, manda, domanda, comanda
senza alcun contraccambio, tuona in me fìno a farmi tremare, solleva
così le più grandi questioni e il più grande stupore (Erstaunen) . Ecco il
vero mistero , Kant lo chiama anche Gebeimnis, ma non è più il mistero
dei mistagoghi . È il mistero insieme domestico, intimo e trascendente,

118
Di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia

il Geheimnis della ragione pratica, la sublimità della legge e della voce


morali . I mistagoghi non riconoscono questo Geheimnis, lo confondono
con un mistero di visione e di contatto mentre la legge morale non si
dà mai a vedere o a toccare . In tal senso, il Geheimnis della legge mo­
rale è piuttosto simile all'essenza della voce che si ode ma non si tocca
né si vede, e sembra cosl sottrarsi ad ogni intuizione esterna . Ma nella
sua stessa trascendenza la voce morale è più vicina, e dunque più auto­
affettiva, più autonoma. La legge morale è dunque più uditiva, più udi­
bile dell'oracolo mistagogico ancora contaminato di sentimento, di illu­
minazione o di visione intuitiva, di contatto e di tatto mistico (ein mysti­
scher Takt, dice Kant ). Il tono gran-signore stona perché è estraneo
all'essenza della voce .

Perché ho voluto, a un certo punto della mia lettura di un tono


gran-signore, collocare questo brano nel dossier, se cosl posso dire, de
La carte postale ? O ancora disporlo in ciò che vi si chiama dossier, tra
la parola e la cosa, dopo aver caricato la parola dossier di tutti i dos,
la nota e la sillaba dei quali segnano gli Envois ad ogni pagina, nel
dorso di Socrate e sul dorso della cartolina postale 2, di tutte le parole
in do e della spalliera di poltrona, della parete tra Socrate e Platone
quando il secondo sembra scrivere sotto dettatura del primo? Non è
soltanto per la questione del tono , della mescolanza o del cambiamento
di toni (W echsel der Tan e) che in questo libro si formerebbero insieme
un tema e una pratica. Non è neanche a motivo della parola e della
cosa «apocalisse» che vi ricorrono regolarmente, con l'ossessione nume­
rologica e l'insistenza della cifra 7 che ritma anche l'Apocalisse di Gio­
vanni . Il firmatario degli Envois si burla a un tratto di ciò che egli
chiama la «mia apocalisse di cartolina», la nostra «piccola apocalisse da
biblioteca» . Non è neanche la satira della filosofia accademica. No, a
questo punto della mia lettura di «un tono gran-signore», ciò che ho
voluto aggiungere al dossier de La carte postale è la fatica che Platone
procura a Kant, la fatica da cani che Kant si procura con Platone, la
retorica instancabile per distinguere tra il buon Platone e il cattivo Pia-

Derrida si riferisce qui ad una cartolina, da lui trovata casualmente in un'edi­


cola inglese, riproducente una figura di un testo di astrologia del XIII secolo : Pla­
tone, in piedi, alle spalle di Socrate, che è seduto ed ha la penna in mano, gli
suggerisce che cosa scrivere. La cartolina è riprodotta sulla copertina di La carte
p o stale . De Socrate à Freud et au delà ( Flammarion, Paris 1980 ), la cui prima parte
si intitola appunto : Envois ( ndt).

119
J acques Derrida

tone, il vero e il falso,. ì suoi scritti autentici e i suoi scritti più o meno
attendibili o apocrifi .
Cioè le sue Lettere. Kant vuole nello stesso tempo accusare e scusare
Platone di questa catastrofe continua che ha pervertito la filosofia, il rap­
porto stretto tra il nome e la cosa «filosofia», per approdare a questa
Verstimmung che stona. Del delirio in filosofia, egli vuole accusarlo e
scusarlo, si direbbe nello stesso movimento di una doppia postulazione .
Double bind ancora della filiazione : Platone è il padre del delirio, di ogni
esaltazione in filosofia (der Vater aller Schwarmerei mit der Philofophie )
ma senza averne colpa (ohne seine Schuld) . È che bisogna divid�re Pla­
tone, bisogna distinguere tra l'Accademico e l'autore presunto delle Let­
tere, l'insegnante e il mittente . «Anche il Platone Accademico fu, senza
che ne abbia colpa (perché egli non faceva delle sue intuizioni intellet­
tuali che un uso regressivo, per spiegare la possibilità di una conoscenza
sintetica a priori, e non un uso progressivo per estendere questa cono­
scenza grazie a questa idea che si lascia leggere [ lesbare ] nell'intelletto
divino [ il Platone innocente è il padre di Kant , ed è anche la cartolina
postale 3 di un autoritratto di Kant , non è il padre del delirio ] ) , il padre
di ogni esaltazione in filosofia. Ma non sono affatto disposto a confon­
dere con questo Platone il Platone delle Lettere (Flato den Briefsteller)
che è stato da poco tradotto in tedesco » .
L'opuscolo di Kant, apparso nel Berliner Monatschrift, s i accaniva
contro un certo Schlosser che aveva appena tradotto delle Lettere di
Platone, in un 'opera intitolata Lettere di Platone sulla rivoluzione sira­
cusana, con una Introduzione e delle Osservazioni ( 1795). Kant sembra
denunciare direttamente Schlosser quando egli fa appello a Platone e a
certe sue dottrine dette esoteriche ; ma indirettamente, si sa che ha come
bersaglio Jacobi . E l'intollerabile, in questo Platone epistolografo, è l'eso­
terismo aristocratico-Kant cita quella Lettera che raccomanda di non
divulgare i segreti tra la massa-, una criptofilia unita ad un'interpreta­
zione mistica delle matematiche . La grande posta' in gioco tra Platone
e Kant è evidentemente l'interpretazione filosofica delle matematiche .

Platone, stupito delle figure geometriche, come Pitagora dei numeri, non
avrebbe fatto che presentire la problematica della sintesi a priori e troppo
presto si sarebbe rifugiato in una mistica della geometria come Pitagora
nella mistica dei numeri. E questa mistica matematizzante, questa ido-

P en so a quel busto di Kant «alla greca» ( Em anu el Bardon, 1798) riprodotto


su cartolina in un museo di Berlino.

120
Di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia

latria delle figure e delle cifre si accompagna sempre a fenomeni di setta,


di criptopolitica, perfino di teofania superstiziosa che Kant oppone alla
teologia razionale . Numerologia, illuminazione mistica, visione teofanica,
ecc., tutto ciò ben appartiene al mondo apocalittico e noto qui, di sfug­
gita, che nel vasto e sovrabbondante corpus del «genere» apocalittico,
dall'eredità persiana e zoroastriana fino alle tanto numerose apocalissi
giudee e cristiane , gli esperti includono spesso questo o quel testo di
Platone, in particolare il mito di Er nella Repubblica. Questo corpus
apocalittico non è stato raccolto, identificato e studiato come tale che
nel xrx secolo . Kant non menziona mai l'Apocalisse in questo testo, ma
vi fa una breve allusione, tra parentesi, ne La religione entro i limiti
della sola ragione, tre armi prima, ed è una delle circostanze contestuali
più indispensabili per l'intelligenza del saggio D'un Ton grand-seigneur . ..

In questa parentesi, l'Apocalisse è evocata per designare il castigo dei


colpevoli alla fine del mondo come termine della storia (nr parte, za se­
zione, Rappresentazione storica dello stabilimento progressivo della so­
vranità del principio buono sulla terra ; cfr . anche Il con flitto delle Fa­
coltà, terza parte ) .
Questa criptopolitica è anche una criptopoetica, una perversione
poetica della filosofia.
E ne va ancora del velo e della castrazione.
Otto anni fa, proprio qui, io avevo parlato di velo e di castrazione ,
di interpreti, di ermeneutica e di ermetica 4• Ho dimenticato il mio om­
brello è un enunciato insieme ermetico e totalmente aperto, cosl segreto
e superficiale come l'apocalisse da cartolina postale che esso annuncia e
da cui esso protegge . E altrove, in Glas e in Economimesis, avevo se­
gnalato l'intrico di un certo velo di Iside di cui Kant e Hegel si erano
più di una volta occupati. Mi esporrò ora a riprendere i fili di questo
intrico e il trattamento della castrazione a riguardo di Iside.
Del velo di Iside e della castrazione, Kant non dice nulla che li rap­
porti visibilmente l'uno all ' altra all'interno dello stesso argomento dimo­
strativo. Osservo soltanto una sorta di continuità tropica, ma lo sposta­
mento tropico, il metaforico e l'analogico, è esattamente il nostro pro­
blema.

L'autore si riferisce al convegno di Cerisy-La-Salle , nei cui Atti compare anche


la prima stesura di Di un tono apocalittico . . . La relazione, di otto anni fa, cui qui
si allude, è pubblicata con il titolo Éperons in Nietzsche aujourd'hui?, Éd.itions
10/18, Paris 1974, tradotto in italiano da S . Agosti (Sproni. Gli stili di Nietzsche,
Corbo e Fiore, Venezia 1975, con traduzioni anche in altre lingue ). (ndc)

121
J acques Derrida

I mistagoghi della modernità, secondo Kant , non ci dicono sempli­


cemente che essi vedono, toccano o sentono. Essi presentano, anticipano ,
si avvicinano , fiutano, sono gli uomini dell'imminenza e della traccia.
Per esempio dicono di presentire il sole e citano Platone. Dicono che
ogni filosofia degli uomini può mostrare o designare l'aurora, ma che
il sole si può solamente presentirlo. Kant ironizza su questo presenti­
mento del sole, moltiplica i sarcasmi. Questi nuovi platonici non ci dan­
no attraverso il sentimento o il presentimento ( Gefuhl, Ahnung) che un
sole da teatro (Theatersonne) , un lustro insomma. E poi quest� gente
abusa delle metafore, delle espressioni figurate (bildlichen Ausdtiicken)
per sensibilizzarci, per renderei presensibili a questo presentimento .
Eccone un esempio , Kant cita i suoi avversari : «Accostare così da
vicino la saggezza divina tanto da percepire il fremito della sua veste»
[ il suo fruscio ( Rauschen) piuttosto che il suo sfioramento come riporta
la traduzione ] .O ancora : «Poiché egli . non può sollevare il velo di
lside, può almeno renderlo così sottile ( so diinne ) da poter presentire
sotto di esso (unter ihm) la dea » . Sollevare il velo di Iside, è qui
aufheben (da er den Schleier der Isis nicht aufheben Kann) e si può an­
cora sognare tra il gala di questo Aufhebung e qu e sto svelamento apoca­
littico . Kant scocca il suo dardo : sottile fino a che punto , ci si domanda ,
'
ciò non ci è detto . Probabilmente non molto sottile , ancora abbastanza
spesso affinché non si possa fare ciò che si vuole del fantasma (Ge­
spenst) dietro al suo velQ o al suo drappo. Perché altrimenti, se il velo
fosse assolutamente sottile, perfino trasparente , sarebbe una visione, un
vedere (Sehen ) e, nota Kant osservando ben spietatamente, ciò deve es­
sere evitato ( vermieden ) . Non bisogna soprattutto vedere, ma soltanto
presentire sotto il velo . Allora i nostri mistagoghi giocano con il fanta­
sma e col velo , sostituiscono le evidenze e le prove con delle « analogie» ,
delle «verosimiglianze» (Analogieen , Wahrscheinlichkeiten ) ; sono loro
espressioni , Kant le cita e ci invita a testimoniare : vedete bene, non
sono dei veri filosofi , essi ricorrono a schemi po�tici . Tutto ciò è lette­
ratura. Noi conosciamo bene questa scena oggi e proprio a questa ripe­
tizione, fra altre cose, io volevo attirare la vostra attenzione. Non per
prendere posizione, me ne guarderei bene, tra la metafora e il concetto ,
la mistagogia letteraria e la vera filosofia, ma innanzitutto per ricono­
scere la vecchia solidarietà di queste antagoniste o protagoniste .
Considerate ora che la parola o l'immagine della castrazione , o più
rigorosamente dell' «evirazione» (Entmannung) , Kant le propone innan­
zitutto come un esempio di queste « analogie» o « verosimiglianze» di

122
Di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia

cui abusa, per fini di manipolazione, questa «nuova lingua mistico-pla­


tonica». Egli le estrae dapprima da una frase di quel tale Schlosser che
aveva appena tradotto e introdotto le Lettere di Platone. Di questo
nome di Schlosser, Nietzsche ne fece qualcosa come uno Schleiermacher,
il primo facitore di veli ermeneutici. Schlosser è il fabbro, l'uomo che
fabbrica o detiene le chiavi, quelle vere e quelle false, ma anche colui
che è preposto alla chiusura, colui che chiude e si riconosce nella chiu­
sura, esperto qual è a parlarne, a introdurvi o ad averne ragione. Questo
Schlosser aveva dunque parlato, figuratamente, della « evirazione della
ragione» (Entmannung der Vernunft) e aveva accusato di questa evira­
zione la «sublimazione metafisica» (metaphysische Sublimation). Analo­
gia inammissibile agli occhi di Kant , abusiva perché occupa il posto di
una prova situandosi nel luogo in cui la dimostrazione lascia un «vuoto»
(Mangel), ma scandalosa anche perché in realtà proprio coloro che si
adornano con questo nuovo tono in filosofia . evirano e cadaverizzano la
ragione . «A questo stesso scopo, egli dice, in assenza di prove rigorose
sono addotte come argomento delle ' analogie', delle 'verosimiglianze' { se
ne è discusso sopra ) quale 'il timore della castrazione [ la traduzione dice
castrazione per evirazione} della ragione resa a tal punto snervata dalla
sublimazione metafisica da far fatica a sostenere l'urto nella sua lotta
contro il vizio' » . E Kant rigira subito l'argomento , direi come un
guanto : «Mentre è precisamente, afferma, in questi principi a priori
che la ragione pratica trova un giusto sentimento che essa non ha mai
presentito altrimenti, ed è piuttosto dall 'empirico falsamente attribui­
tole (proprio questo fatto lo rende inadeguato a una legislazione univer­
sale) che essa è castrata e paralizzata (evirata e paralizzata, entmannt
und geHihmt ) » .
S e l a castrazione è una metafora o un simulacro--e dev'esserlo, sem­
bra, per concernere il fallo, non il pene o il clitoride-allora la posta in
gioco metaforica è chiara tra i due partiti avversi messi in campo da un
Kant che non si esime lui stesso dal prender partito. La posta in gioco
di questo Kampfplatz della metafisica, è la castrazione della ragione.
Quale dei due partiti faccia a faccia castra più certamente la ragione?
O più gravemente : quale dei due svirilizza, entmannt, questo discen­
dente del logos che è la ratio ? Ciascuno dei due, li abbiamo appena uditi
senza il minimo equivoco, accuserebbe l'altro di castrare il logos e di
estirparne il fallo . E in questo dibattito fallogocentrico da una parte e
dall'altra, dunque di parte in parte, si potrebbe mettere in scena Freud
come un terzo !adrone che procuri la chiave, vera o falsa, «la teoria

123
Jacques Derrida

sessuale», per sapere che, per questo stadio della ragione in cui non c'è
che una ragione maschio, un organo o un canone della ragione, ma­
schile o castrato, accade come per quello stadio dell'organizzazione ge­
nitale infantile dove vi è certo un maschile ma per nulla un femminile .
Forse parlerebbe di uno stadio fallico della ragione . «L'opposizione si
enuncia qui, dice Freud al termine de L'organizzazione genitale infantile :
organo genitale maschile o castrato» . Nessuna differenza sessuale come
opposizione, ma solo un maschile ! Si potrebbe seguire questa strana
logica (la ragione dopo :freud, direbbe Lacan) molto lontano ne) det­
taglio del testo, soprattutto nei momenti in cui il velo di Iside sCatena
ciò che Freud chiama Bemachtigungstrieb, la pulsione di dominio . Kant
accusa per esempio i metafisici mistagoghi di comportarsi come «uomini
forti» (Kraftmanner) che vantano da poco con entusiasmo una sag­
gezza che non costa loro null a poiché essi pretendono di aver afferrato
questa dea per il lembo della sua veste e di essersene cosl resi padroni
e signori; essi l'avrebbero «posseduta» ( bemachtigt) , ecc.
La castrazione o meno del logos in quanto ratio , ecco un elemento
centrale di questo dibattito intorno alla metafisica . È anche una lotta
intorno al poetico (tra poesia e filosofia) , alla mort� o all'avvenire della
filosofia . È la stessa posta in gioco . Kant non ha alcun dubbio, i nuovi
predicatori hanno bisogno di pervertire la filosofia in poesia per darsi
grandi arie, occupare per simulazione e mimica il posto dei grandi, usur­
pare còsl un potere di essenza simbolica.
Schlosser, il fabbro, si potrebbe dire anche l'uomo del castello signo­
rile, non abusa solamente di metafore poetiche . Egli accusa il suo secolo
di essere prosaico, ed osa scrivere a Platone, si rivolge a lui, lo invoca ,
lo apostrofa, lo chiama come testimone : «Armare Flato, Povero Platone,
se tu non fossi segnato dal sigillo dell'Antichità [ ... ] chi vorrebbe ancora
leggerti in questo secolo prosaico in cui la più alta saggezza consiste
nel non vedere che ciò che è ai nostri piedi e nel non ammettere che
quanto si può afferrare con le mani ? » . Alle prese_._ con Schlosser che fu­
stiga i nuovi figli della terra, Kant fa giocare Aristotele contro Platone :
«Ma purtroppo, questo ragionamento non è concludente ; esso prova
troppo. Perché Aristotele , filosofo manifestamente prosaico, ha anch'egli
il sigillo (siegel) dell'Antichità, e potrebbe perciò pretendere, anch'egli,
di esser letto ! -In fondo, è tutta la filosofia ad essere prosaica, e pro­
porre oggi di rimettersi a filosofare poeticamente (wiederum poetisch
zu philosophiren) equivarrebbe a proporre al bottegaio (Kaufman ) di
non scrivere più i suoi registri in prosa, ma in versi» .

124
Di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia

Ma la strategia è dai due lati ancora più intricata . I mistagoghi ana­


logisti e anagogisti giocano anch'essi la carta Aristotele . Ed è a questo
punto del gioco che ne va dei fini e della fine della filosofia. La veglia
sulla morte o la fine della filosofia, la veglia presso il corpo della filo­
sofia non è solo una storia antica perché risalirebbe a Kant; perché già
si diceva che se la filosofia era finita, ciò non era un effetto della limi­
tazione kantiana o dei confini posti all 'impero della metafisica ma «già
da duemila anni». Già da duemila anni è finita con la filosofia, diceva un
discepolo eli Schlosser, un conte vero quello , il conte Leopold Stolberg,
poiché «lo Stagirita ha realizzato tante conquiste per la scienza che non
ha lasciato ai suoi successori che ben poche cose degne di nota eli cui
possano mettersi alla ricerca» .
La replica eli Kant è quella eli un progressista deciso, egli crede al­
l'avvenire infìne aperto e svelato della filosofia. È anche la risposta di
un democratico egualitarista : voi volete mettere fine alla filosofia per
oscurantismo (durch obscuriren) e siete dei monarchici dissimulati, vo­
lete che tutti siano uguali tra loro ma ad eccezione di uno solo tutti gli
altri non sono nulla. Uno solo è ora Platone, ora Aristotele ma in
realtà è per questo monarchismo che voi fate giocare i filosofi ed erigete
voi stessi gridando la fine della filosofia con un tono gran-signore .
Naturalmente, proprio nell'atto in cui si batte in questo modo, Kant
dichiara di non amare la guerra . Come ne Il conflitto delle facoltà (dove
egli distingue d'altronde tra la guerra naturale e il conflitto regolato da
una legge), egli finisce col proporre all'avversario castratore una sorta
eli concordato, una trattativa, un trattato di pace o un contratto, in breve
la soluzione eli un conflitto che non è un'antinomia. Come avrete forse
intuito, questo contratto non ha maggiore importanza eli tutta la stra­
tegia combinatoria, del gioco e dello scambio delle parti. Che cosa può
legare in profondità i due partiti avversati e procurar loro un terreno
neutro di riconciliazione per parlare ancora insieme sul tono che con­
viene? In altre parole, che cosa essi escludono insieme come l'irrice­
vibile stesso ? Che cos'è l'irricevibile ?
Kant parla della modernità e dei mistagoghi del suo tempo, ma voi
avrete subito percepito di sfuggita, senza che ci sia neanche bisogno di
indicare esplicitamente, di nominare e di tirare tutti i fili, a quante
trasposizioni ci si potrebbe oggi lasciar andare da parte della nostra
cosiddetta modernità. Non che oggi chiunque possa riconoscersi eli tale
o tal altra parte, puramente e semplicemente . Ma io sono certo che si
potrebbe dimostrarlo, ogni discorso un po' organizzato si trova o pre-

125
Jacques D errida
.

tende di trovarsi oggi da entrambe le parti, alternativamente o simulta­


neamente, anche s� questa collocazione non va fuio in fondo, non fa il
giro o il perimetro del posto e del discorso tenuto . E questa inadegua­
tezza, sempre essa stessa limitata, indica senza dubbio la più pesante
difficoltà. Ognuno di noi è il mistagogo e l'Aufkliirer di un altro. Vi
lascio tentare qualcuna di queste trasposizioni, potremo ritornarvi nella
discussione.
Qual è dunque il contratto? Quale condizione Kant pone a coloro
che, come lui, dichiarano l 'interesse di dire la verità, di rivelare, senza
evirare il logos? Perché essi si ritrovano insieme su questo, è n; luogo
di consenso dove possono raggiungersi e convenire, la loro sinagoga.
Kant chiede loro innanzitutto di sbarazzarsi della dea velata davanti alla
quale hanno entrambi tendenza a inginocchiarsi. Chiede loro di non per­
sonificare più la legge morale né · la voce che la incarna. La legge che
parla . in noi, dice ai mistagoghi, non dovremmo più personificarla, so­
prattutto non sotto la forma « estetica», sensibile e bella di questa Iside
velata. Tale sarà la condizione per intendere la legge morale stessa,
quella incondizionata , e per intenderei. In altre parole, ed ecco un mo­
tivo decisivo per il pensiero della legge e dell'etica oggi, Kant invita a
porre la legge al di sopra e al di là, non della persona, ma della perso­
nificazione e del corpo, come della voce sensibile che parla in noi,
quella singolare che ci parla in privato, la voce che si potrebbe dire nel
suo linguaggio <<patologic:.p> in opposizione alla voce della ragione . La
legge al di sopra del corpo, di questo corpo che si trova ad essere qui
rappresentato da una dea velata . Anche se non ·volete accordare alcun
significato o « significato » al fatto che quanto si trova escluso dal con­
cordato sia proprio il corpo di una Iside velata, principio universale
cklla femminilità, omicida di Osiride di cui ella ritrova più tardi tutti
i pezzi ad eccezione del fallo ; anche se pensate inoltre che sia una
personifìcazione troppo analogica o metaforica, accordatemi almeno
questo : la tregua proposta tra i due difensori qkhiarati di un logos
non evirato presuppone qualche esclusione. Pres�ppone qualche irrice­
vibile . C'è un terzo escluso e dò mi basterà.
Mi basterà per quale fine? Prima di riproporre tale questione, leggo
la proposta di pace o di alleanza rivolta da Kant ai suoi avversari del
momento ma forse ai suoi complici di sempre :

«Ma a che pro tutto questo conflitto tra due partiti che condividono
in fondo la stessa buona intenzione ? È chiasso per nulla, un disaccordo

126
Di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia

fondato su un malinteso, che richiede meno riconciliazione che spiega­


zione reciproca per concludere un accordo, rendendo per il futuro la
concordia ancora più profonda .
«La dea velata davanti alla quale da una parte e dall'altra ci ingi­
nocchiamo , è la legge morale in noi nella sua maestà invulnerabile .
Certo noi percepiamo la sua voce e udiamo anche molto bene i suoi
comandi, ma ascoltandola dubitiamo se essa venga dall'uomo, o se pro­
venga dall'onnipotenza della sua propria ragione, o se essa emani da
qualche altro essere, la cui natura le è ignota, e che le parla con la
sua propria ragione. In fondo faremmo forse meglio a dispensarci da
questa ricerca, perché essa è semplicemente speculativa e ciò che ci
spetta (oggettivamente) di fare resta identico, che lo si fondi sull'uno
o sull 'altro principio ; l'unica differenza sta nel fatto che il procedimento
didattico di ricondurre secondo un metodo logico la legge morale in noi
a dei concetti distinti è il solo propriamente filosofico, mentre il proce­
dimento che consiste nel personificare questa legge e nel fare della ra­
gione che comanda moralmente una Iside velata (proprio quando non
le attribuiamo altre proprietà che quelle che le riconosce il primo me­
todo) è una modalità estetica di rappresentare (eine i:isthetische Vorstel­
lungsart) esattamente lo stesso oggetto ; modalità alla quale è ben lecito
affidarsi allorché si sia già iniziato a ricondurre i principi al loro stato
puro, per dare vita a questa idea grazie a una presentazione (Darstel­
lung) sensibile, benché solo analogica, non senza tuttavia correre sempre
qualche rischio di sfociare in una visione esaltata, che è la morte di ogni
filosofia» .

Fra i numerosi tratti che caratterizzano uno scritto di tipo apoca­


littico, isoliamo provvisoriamente la predizione e la predicazione escato­
logica, il fatto di dire, predire o predicare la fine, il limite estremo ,
] 'imminenza dell 'ultimo . Non si può dire allo ra che tutte le parti in causa
di un tale concordato siano i soggetti di discorsi escatologici? Senza dub­
bio, con altri elementi contestuali, questa situazione è più vecchia della
rivoluzione copernicana, i numerosi prototipi di discorsi apocalittici
basterebbero ad attestarlo, come tanti altri nell'intervallo . Ma se Kant
denuncia coloro che proclamano che la filosofia è finita da duemila anni,
egli stesso, segnando un limite, anzi la fine di un certo tipo di metafi­
sica, ha innescato un'altra ondata di discorsi escatologici in filosofia. Il
suo progressismo, la sua fiducia nell'avvenire di una certa filosofia, anzi
di un'altra metafisica, non contraddice questa proclamazione dei fini
e della fine .

127
Jacques Derrida

E ripartirò ora da questo fatto che da allora, tenuto conto di mol­


teplici e profonde differenze, e anche di mutamenti, l'Occidente è stato
dominato da un potente programma che era insieme un contratto non
trasgredibile tra discorsi della fine . I temi della fine della storia e della
morte della filosofia non ne rappresentano che le forme più compren­
sive, massicce e riassuntive. Ci sono certo delle differenze evidenti tra
l'escatologia hegeliana, questa escatologia marxista che si è voluto troppo
in fretta dimenticare in Francia in questi ultimi anni ( e fu forse un'al­
tra escatologia del marxismo, la sua escatologia e il suo rintocco fune , ­

bre), l'escatologia nicciana (fra l'ultimo uomo, l'uomo superior� e il


superuomo) e tante altre varietà più recenti. Ma queste differenze non
si misurano come scarti rispetto alla tonalità fondamentale di questa
Stimmung udibile attraverso tante variazioni tematiche? Tutte le con­
troversie non hanno preso la forma di un rilancio nell'eloquenza escato­
logica, poiché ogni nuovo venuto, più lucido dell'altro, più vigilante e
anche più prodigo veniva ad aggiungere del nuovo : ve lo dico in verità,
non è soltanto la fine di questo ma ancor prima di quello, la fine della
storia, la fine della lotta delle classi, la fine della filosofia, la morte di
Dio , la fine delle religioni, la fine del cristianesimo e della morale (que­
sto, fu l'ingenuità più grave) , la fine del soggetto, la fine dell'uomo, la
fine dell'Occidente, la fine di Edipo, la fine della terra, Apocalypse
now, vi dico, nel cataclisma, nel fuoco, nel sangue, nel sisma dei fonda­
menti, nel napalni che discende dal cielo dagli elicotteri, come le prosti­
tute, ed anche la fine della letteratura, la fine della pittura, l'arte come
cosa del passato , la fine della psicanalisi, la fine dell 'università, la fine
del fallocentrismo e del fallogocentrismo, che so ancora? E chiunque
venisse a sottilizzare, a dire il fine della fine, cioè la fine della fine, la
fine delle fini, che la fine è sempre già cominciata, che bisogna ancora
distinguere tra la chiusura e la fine, quel tale parteciperebbe, che lo
voglia o no , al concerto . Perché è anche la fine del metalinguaggio per
il soggetto del linguaggio escatologico . Sicché si può domandare se sia
un tono , l'escatologia, oppure la voce stessa.
La voce non è sempre quella dell'ultimo uomo? La voce o la lingua
stessa, il canto o l'accento nella lingua stessa? Patmos, il poema che reca
come titolo il nome dell'isola apocalittica, quella di Giovanni, Holderlin
ne conclude la seconda versione invocando il poema della lingua tedesca
(Dem folgt deutscher Gesang) . Di questo poema Heidegger cita spesso
i primi tre versi : «Nah ist l Und schwer zu fassen der Gott. l W o aber
Gefahr ist, wachst l das Rettende auch» («Vicino e difficile ad afferrarsi

128
Di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia

è il Dio . Ma dov'è il pericolo cresce anche ciò che salva» ) . E se Heideg­


ger pensa l'Uberwindung della metafisica o dell'onta-teologia come quella
dell'escatologia che ne è inseparabile, è in nome di un'altra escatologia .
A più riprese, egli dice del pensiero , qui distinto dalla filosofia, che
esso è essenzialmente escatologico . È la sua espressione .
La voce della lingua, domandavo , non è sempre quella dell'ultimo
uomo ? Rinunciando a leggere con voi Le dernier homme di Blanchot,
ricordo, avendo p arlato della voce e di Edipo, questo frammento del
Libro del Filosofo . Nietzsche, sotto il titolo Edipo, fa parlare con se
stesso, in un soliloquio assoluto , l'ultimo filosofo che è anche l'ultimo
uomo . Egli parla con la sua voce, si intrattiene e intrattiene quanto
gli resta di vita con il fantasma della sua voce, e si chiama, si chiama
Edipo: «L'ultimo filosofo, cosl mi chiamo, perché io sono l'ultimo uomo .
Nessun altro mi parla se non io solo e la mia voce mi giunge come
quella di un morente . Con te, voce amata, con te, ultimo soffio del ri­
cordo di ogni felicità umana, concedimi ancora questo scambio di una
sola ora ; grazie a te io do il cambio all a mia solitudine e penetro nel­
l'illusione di una molteplicità e di un amore, perché al mio cuore ripu­
gna di credere che l'amore sia morto , esso non sopporta il brivido della
più solitaria delle solitudini e mi obbliga a parlare come se fossi due
[ .] ».
..

«Come s e fossi due» : perché nel momento in cui egli si rivolge cosl
questo messaggio facendo come se potesse ancora rivolgerselo, questa
impossibile destinazione segna la morte dell'ultimo uomo , in lui e fuori
di lui. Egli lo sa al di là del come se : «E pertanto io ti odo ancora, voce
amata! Muore ancora qualcuno al di fuori di me , l'ultimo uomo, in
questo universo : l 'ultimo sospiro muore con me, questo lungo hélas,
hélas , sospirato su di me, l'ultimo dei miserabili, Edipo ! » .
Allora s e l'escatologia ci sorprende alla prima parola, alla prima
come all'ultima, sempre alla penultima , che dire ? che fare ? La risposta
� questa domanda è forse impossibile perché non si lascia mai aspettare.
Perché la questione è quella della risposta, e di un appello che pro­
mette e risponde prima della domanda.
C'è bisogno di chiarezza, diceva ieri Philippe Lacoue-Labarthe . Si .
Ma c 'è la luce e ci sono le luci , il giorno e anche la follia del giorno .
«La fine comincia» , si legge ne La folie du jour. Senza neanche richia­
marsi ad apocalissi di tipo zoroastriano, ce ne fu più di una, si sa che
ogni escatologia apocalittica si promette in nome della luce, del veg­
gente e della visione, e di una luce della luce, di una luce più luminosa

129
Jacques Derrida
·

di tutte le luci che essa rende possibili . L'apocali�e di Giovarmi, che


domina tutta l'apocalittica occidentale, si rischiara con la luce di El, di
Elohim : « La gloria di Elohim lo illumina [ . . ] / i re della terra gli
.

recano la loro gloria, / Le sue porte non sono mai chiuse il giorno : l
no, là non c'è mai notte. Essi vi recano la gloria . . . }> (xxr, 23-26) . «Non
vi sarà più notte, l essi non hanno bisogno della luce di una lampada, l
né della luce del sole : l Adonai Elohim li illumina e regnano nei secoli
dei secoli}> (XXI, 5) .
C'è la luce e ci sono le luci, le luci della ragione o del logos; che
non sono, malgrado tutto, altra cosa . E proprio in nome di una J Auf­
klarung Kant , per esempio, inizia a demistificare il tono gran-signore .
Al giorno d'oggi non possiamo aver ereditato da questi Lumi, non pos­
siamo e non dobbiamo , è una legge e un destino, tinunciare all 'Auf­
klarung, in altre parole a ciò che si impone come il desiderio enigmatico
della vigilanza, della veglia lucida, della delucidazione, della critica e
della verità, ma di una verità che nello stesso tempò conserva in sé un
desiderio apocalittico, questa volta come desiderio di chiarezza e di rive­
lazione, per demistificare o, se preferite, per decostruire lo stesso di­
scorso apocalittico e con esso tutto ciò che specula sulla visione, l'immi­
nenza della fine, la teofania, la parusia, il giudizio finale, ecc . Allo ra
ogni volta noi ci domandiamo con intransigenza: dove vogliono arrivare,
e a quali fini, coloro che dichiarano la fine di questo o di quello, del­
l'uomo o del soggetto, della . coscienza, della storia, dell'Occidente o
della letteratura, e secondo le ultime notizie del progresso stesso, la cui
idea n,on è mai stata sostenuta cosl male da destra e da sinistra? Quali
.effétti vogliono produrre quei gentili profeti o quegli eloquenti visio­
nari? In vista di quale beneficio immediato o differito ? Che cosa fanno,
che facciamo dicendo ciò? Per chi sedurre o assoggettare, itltimidire o
far gioire? Questi effetti e benefici possono essere ricondotti a una spe­
culazione individuale o collettiva, cosciente o inconscia. Possono ana­
lizzarsi in termini di dominio libidico o politico, cÒh 'tutti i collegamenti
differenziali e dunque tutti i paradossi economici che surdeterminano
l'idea di potere o di dominio e a volte le trascinano nell'abisso. L'ana­
lisi lucida di questi interessi o di . questi calcoli deve mobilitare un enor­
me numero e una grande diversità di dispositivi interpretativi oggi di­
sponibili. Lo deve e lo può perché la nostra epoca sarebbe piuttosto
superattrezzata a questo riguardo ; e una decostruzione, se non vi si
arresta, non procede mai tuttavia senza un lavoro parallelo sul sistema
che tenga unito in se stesso questo superarmamento, che articoli, come

130
Di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia

si suoi dire, la psicanalisi al marxismo o a qualche niccismo, alle risorse


della linguistica, della retorica o della pragmatica, alla teoria degli speech
acts, al pensiero heideggeriano sulla storia della metafisica, l'essenza della
scienza o della tecnica, ecc. Una tale demistificazione deve piegarsi alla
più fine diversità delle astuzie apocalittiche. L'interesse o il calcolo può
esserne ben dissimulato sotto il desiderio di luce, ben nascosto (euka"
lyptus, come si dice dell'albero il cui lembo del calice resta chiuso dopo
la fioritura), ben nascosto sotto. il desiderio confessato di rivelazione . E
una dissimulazione può nasconderne un'altra. Quella più grave, perché
�llora è senza fine, la più seducente riguarda ciò : · il soggetto del discorso
escatologico può avere interesse a rinunciare al suo interesse, può rinun"
dare a · tutto per mettervi ancora la sua morte sulle braccia e farvi . ere­
ditare anticipatamente il suo cadavere, cioè la sua anima, sperando di
raggiungere così i suoi :fini mediante la fine, a sedurvi sul campo, promet­
tendovi di conservare la vostra vigilanza in sua . assenza.
Io non sono certo che vi sia esattamente una scena fondamentale,
un grande paradigma su cui, con qualche scarto, si regolerebbero tutte
le strategie escatologiche. Sarebbe ancora un'interpretazione filosofica,
onto-escatoteleologica dire : · la strategia apocalittica è fondamentalmente
una, la sua diversità concerne solo processi, maschere, apparenze o simu­
lacri . Presa questa precauzione, cediamo per poco alla tentazione di una
finzione e immaginiamo questa scena fondamentale . Imniaginiamo che vi
sia un tono apocalittico, un'unità del tono apocalittico, e che il tono
apocalittico non sia l'effetto di uno sviamento generalizzato, di una
Verstimmung che moltiplica le voci e fa saltare i toni, chè apre ogni
parola alla relazione con l'altro in una politonalità non dominabile, con
innesti, intrusioni, parassitismi. La Verstimmun g generalizzata è la pos­
sibilità per l'altro tono, o il tono dell'altro, di venire a interrompere in
qualunque momento una tonalità familiare (cosa che io suppongo si
produca normalmente in analisi ma anche altrove quando ad un .tratto
un tono venuto da chissà dove taglia la parola, se così si pùò dire, a
colui che sembrava tranquillamente determinare ( bestìmmen) la voce e
assicurare così l'unità di destinazione, l'identità con sé di qualche desti­
natario o destinatore . La Verstimmung ; se sj denomina così ormai lo
sviamento, l'improvviso cambiamento dèl tono come si direbbe l'improv­
viso cambiamento di umore, è il disordine o il delirio della destinazione
(Bestimmung) ma anche la possibilità di ogni trasmissione . L'unità di
tono, se ci fosse, sarebbe certo la sicurezza della destinazione ma anche
la morte un'altra apocalisse. Immaginiamo dunque che vi sia un tono

131
Jacques Der rida

apocalittico e una scena fondamentale . .Allora chi jassume il . tono apoca­


littico viene a dirvi o a dirsi qualcosa, ma che cosa? Io dico «chi as­
sume», « chiunque assuma» per non dire «colui che» o «colei che» ,
«coloro che» o « quelle che . . . », e d esprimo bene il tono che s i deve poter
distinguere da ogni contenuto discorsivo articolato . Ciò che vuoi dire il
tono è necessariamente ciò che dice il discorso, e l'uno può sempre con­
traddire, negare, far derivare o sviare l'altro.
Chi assume il tono apocalittico viene a significarvi, se non a dirvi,
qualcosa. Che cosa? ma la verità, sicuramente, e indicarvi che ve la ri­
vela, il tono è rivelatore di qualche svelamento in corso . Svelam'ento o
verità, apofantica dell'imminenza della fine, di qualunque cosa che riguar­
di la fine del mondo. Non soltanto la verità come verità rivelata di un
segreto sulla fine o del segreto della fine. La verità stessa è la fine, la
destinazione, e che la verità si sveli è l'avvenimento della fine . La ve­
rità è la :fine e l'istanza del giudizio finale. La struttura della verità sa­
rebbe qui apocalittica. E per questo non ci potrebbe essere verità del­
l'apocalisse che non sia verità della verità .

.Allora a chi assume il tono apocalittico si chiederà : in vista di che


e per quali fini ? Per condurre dove, in questo istante o presto ? La fine
comincia, indica il tono apocalittico . Ma per quali fini lo indica? Esso
vuole naturalmente attirare, far venire, far arrivare a sé, sedurre per
condurre a sé, sia al luogò in cui si percepisce la prima vibrazione del
tono, che si chiami ciò come si vorrà, soggetto, persona, sesso, desiderio
(io penso piuttosto ad una vibrazione differenziale pura, senza sostegno,
insostenibile) . È la fine tra poco , è imminente, vuoi dire il tono . Io lo
vedo, lo so , te Io dico, ora anche tu lo sai, vieni . Stiamo tutti per morire,
per sparire, e questa sentenza di morte non può che giudicarci, stiamo
per morire , tu ed io, e anche gli altri, i go 'i m, i gentili e tutti gli altri,
tutti quelli che non condividono con noi questo segreto, ma essi non
lo sanno . È come se fossero già morti . Noi siamo"�� �li al mondo, io sono
il solo a poterti rivelare la verità o la meta, te la dico, te la do, vieni,
siamo per un istante, noi che non sappiamo ancora chi siamo, un istante
prima della fine i soli superstiti, i soli a vegliare , sarà tanto più forte .
Saremo una setta, formeremo una specie, un sesso o un genere, una razza
(Geschlecht) da noi soli, ci daremo un nome (questa, è un po' la scena
babelica di cui potremo riparlare, ma c'è anche una Babele nell'Apoca­
lisse di Giovanni che ci darebbe da pensare, non dal punto di vista della
confusione delle lingue o dei toni, ma da quello della prostituzione ,

132
Di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia

ammesso che vi sia una distinzione) . Babele la grande è la madre delle


meretrici : «Vieni . Ti mostrerò il giudizio della grande meretrice» (xvn,
l ). Loro, essi dormono, noi vegliamo .
Questo discorso o piuttosto questo tono che traduco in discorso ,
questo tono della veglia a l momento della fine, che è anche quello della
veglia funeraria, del Wake, cita o ripete sempre in un certo modo l 'Apo­
calisse di Giovanni o almeno la scena fondamentale che già programma
Io scritto giovanneo. Cosi, per esempio : « lo conosco le tue opere : l tu
hai fama di vivere, l ma sei morto . l Veglia ! [ esto vigilans, dice la tra­
duzione latina ] . l Consolida ciò che ti resta prima di morire . [ . . . ] l Se
tu non vegli, l io verrò come un ladro : l non saprai a quale ora verrò
da te» (m, 1-3 ) . Verrò : la venuta è sempre a venire . L'Adòn, definito
come l'aleph e il tav, l'alfa e l'omega, e colui che è stato, che è e che
viene, non che sarà ma che viene, ciò che è il presente di un a-venire .
Vengo vuoi dire : sto per venire, sono a-venire nell 'immineriza di un
« sto per venire » , «sono sul punto di venire », « sono sul punto di stare
per venire» . «Colui che viene» (o erchomenos) si traduce qui in latino
con venturus est .
È Gesù che dice «veglia» ma si dovrebbe, forse al di là o prima di
una narratologia, dispiegare una minuziosa analisi della voce narrativa
nell'Apocalisse . Mi servo dell'espressione «voce narrativa» per distin­
guerla, come fa Blanchot, dall a voce narratrice, quella del soggetto iden­
tificabile, del narratore o destinatore determinabile in un racconto . Inol­
tre credo che tutti i «vieni» che risuonano nei racconti o non-racconti
di Blanchot risuonano anche , consonano con un certo «vieni » (erchou,
veni) dell'Apocalisse giovannea. È Gesù che dice «Veglia . . . Verrò da te»,
ma è Giovanni che parla citando Gesù, o piuttosto che scrive, che sem­
bra trascrivere ciò che egli dice raccontando di citare Gesù nel momento
in cui gli detta di scrivere, cosa che fa al presente e che noi leggiamo,
nelle sette comunità, nelle sette chiese d'Asia. Gesù è citato come colui
che detta senza scrivere egli stesso e dice «scrivi, grapson». Ma ancor
prima che Giovanni scriva dicendo al presente che scrive, egli ode come
un'ingiunzione la grande voce di Gesù : «'Io, Yohanan [ . . ] io sono nel­
.

l'isola chiamata Patmos, l per la parola d'Elohim e la testimonianza di


Yéshoua' .l Io sono nel soffio (en pneumati, in spiritu) nel giorno del­
l'Adòn. l Odo dietro di me una grande voce, l come quella di uno
shophar. Essa dice : l 'Ciò che tu vedi, scrivilo su un libro, l invialo
alle sette comunità .. .'». Scrivi e invia, detta la voce venuta da dietro ,
alle spalle di Giovanni, come un shophar, grapson eis biblion kai pem-

133
Jacques Derrida

pson, scribe in libro: et mitte septem Ecclesiis . Vedo e odo , al presente


nella traduzione di Chouraqui, sono al passato in gr�co e in latino, cosa
che non semplifica le premesse di una analisi 5• Ora prima di questa scena
narrativa che cita un comando o letteralmente un'ispirazione presente,
c 'era un preambolo senza voce narrativa o in ogni caso narratrice, una
sorta di titolo o . di medaglia venuta chissà da dove e che lega lo scopri­
mentb apocalittico all'invio . Queste righe sono propriamente l'apoca­
lisse come invio dell'apocalisse, l'apocalisse che si invia : «Manifesta­
zione di Yéshoua il messia / Apokalupsis Jesou Khristou l Elohill;l lo
dà J per mostrare ai suoi servi j ciò che presto accadrà . / Lo fa sapere
inviandolo con un suo messaggio ( esemamen aposteilas dia tou angelou
autou, signifìcavit, mittens per Angelum suum) al suo servo Yohanan» .
Giovanni è dunque colui che già riceve una comunicazione per mezzo
ancora di un latore che è .un angelo, un puro messaggero . E Giovanni
trasmette un messaggio già trasmesso , è testimone di uha testimonianza
che sarà ancora quella di un'altra testimonianza, quella di Gesù ; tanti
invii, tante voci, e questo mette insieme molta gente. « Egli lo fa sapere
inviandolo attraverso il suo messaggero l al suo servo Yohanan . l Egli
riporta la testimonianza della parola di Elohim } e la testimonianza di
Y éshoua il messia, j tutto ciò che ha visto . I Gioia del lettore, d i colui
che ascolta j le parole dell'ispirazione / di coloro che conservano ciò
che è scritto : l si, il tempo è vicino, o garkairos engus, tempus enim
prope est» .

Se in modo molto insufficiente e appena preliminare io attiro la


vostra attenzione sull'invio narrativo , l'intreccio delle voci e degli invii

� La ·posta in gioco, ciò va da sé, può essere molto grave, soprattutto in un testo
escatologico o apocalittico . Chouraqui ha apertamente assunto · la sua responsabilità
di traduttore, non si può qui che lasdargliela: «La libertà . che più costantemente
ho preso nei . confronti del testo greco concerne i tempi del verbo. Già Joiion lo
aveva notato : 'L'attenzione prestata al sostrato aramaico è plii: ticolarmente utile per
evitare la ·. traduzione troppo meccanica dei tempi greci'. · Il verbo greco concepisce
il tempo soprattutto in funzione di un passato, di un presente e di un futuro ;
quello ebraico o aramaico, al contrario, invece di precisare il tempo di un'azione,
descrive il suo stato in due modi: il compiuto e l'incompiuto. Come ha ben visto
Pedersen, il verbo ebraico è, per essenza, intemporale, cioè onnitemporale. Ho ten­
tato, fra due conceziòni del tempo irriducibili l'una all'altra, di ricorrere più spesso
al presente che nell'uso del francese contemporaneo è un tempo molto flessibile,
molto ampio, molto evocatore, sia nel . suo uso normale, sia sotto forma di presente
�torico o di presente profetico». (Une nouvelle traduction du Nomieau Testament,
Prefazione a Un pacte neuf, p. 13).

134
Di uti tono apocalittico adottato di recente in filosofia

nella scrittura dettata o indirizzata, è che nell'ipotesi o nel programma


di una demistificazione difE.cile da trattarsi del tono apocalittico, nello
stile dei Lumi o di una Aufklarung deÌ xx secolo , e se si volessero
smascherare le astuzie , trappole, trovate, �eduzioni, · macchine da guerra
e di piacere, in breve tutti gli interessi del tono apocalittico oggi, biso­

gnerebbe senza dubbio essere molto attenti a questa demoltiplicazione


differenziale delle voci e dei toni che li discerna forse al di là di utia
pluralità distinta e calcolabile . Non si sa (perché non è t">iù dell'ordine
del sapere ) chi riguardi l'invio apocalittico, esso salta da un luogo di
emissione all'altro (e un luogo è sempre determinato a partire dalla
presunta emissione) , va da una destinazione, da un nome e da un tono
all'altro, rimanda sempre al nome e al tono dell'altro che è là ma come
se vi fosse stato prima e dovendo ancora venire; non essendo più o
ancora là nel presente del racconto . E non è certo che l'uomo sia il cen­
tro di queste linee telefoniche e il terminale di questo ordinatore senza
fine. Non si sa più molto bene chi presti la sua voce e il suo tono all'al­
tro nell'Apocalisse, non si sa più molto bene chi rivolga che cosa a chi,
ma per un ribaltamento catastrofico qui più necessario che mai, si può
anche pensare ciò : da quando non si sa più chi parla o chi scrive, il
testo diviene apocalittico. E se gli invii rimandano sempre ad altri invii
senza destinazione decidibile, rimanendo la destinazione a venire, allora
questa struttura tutta angelica, quella dell'Apocalisse giovannea, non · è
anche quella di ogni . scena di scrittura in generale? È una delle sugge­
stioni che volevo sottoporre alla vostra discussione : l'apocalittico non
sarebbe una condizione trascendentale di ogni discorso, perfino di cigni
esperienza, di ogni marca o di ogni traccia? E il genere degli scritti . CO"
siddetti «apocalittici» in senso stretto non sarebbe allora che un esem­
pio, una rivelazione esemplare di questa struttura trascendentale. In tal
caso , se l'apocalisse rivda, essa è innanzitutto rivelazione dell'apocalisse,
auto-presentazione della struttura apocalittica del linguaggio, della scrit­
tura, dell'esperienza della presenza , sia essa del testo o della marca in
generale : cioè dell'invio divisibile per il quale non c'è auto-presentazione
né destinazione assicurata.
Ma aspettiamo, là c'è una piega apocalittica ; Non soltanto una piega
come invio, una piega che induce un cambiamento di tono e un'imme­
diata duplicità tonale in ogni voce apocalittica. Non soltanto una piega
nel significante «apocalittico» che designa tanto il contenuto del racconto
o dell'enunciato , cioè .le catastrofi e i cataclismi da fine del mondo, i capo­
volgimenti, i colpi di tuono e i terremoti, il fuoco, il sangue, la montagna

135
Jacques Derrida

in fuoco e il mare in sangue, le piaghe, il fumo, l<\ zolfo, l'ustione, la


molteplicità delle lingue e dei re, la bestia, gli stregoni, Satana, la grande
meretrice d'Apocalisse, ecc., quanto l'annuncio stesso e non più l'enun­
ciato, il discorso rivelatore dell'a-venire o anche della fine del mondo
piuttosto che ciò che dice , la verità della rivelazione piuttosto che la
verità rivelata . Ma io penso a un'altra piega, nella quale anche noi sia­
mo, al giorno d'oggi : tutto ciò che ora può ispirare un desiderio de-mi­
stificatore riguardo a un tono . apocalittico, cioè un desiderio di luce, di
vigilanza lucida, di veglia illqminante o di verità, ebbene questo si trov� già
sul tragitto e direi in transfert d'apocalisse, è già una citazione o una teci�
tazione di Giovanni o di ciò che già programmava gli invii di Giovanni,
quando per esempio egli scrive, per un messaggero, sotto il dettato della
grande voce venuta da dietro le sue . spalle e che si tende come un sho­
phar, come un corno di ariete : «Al messaggero della comunità di Efeso,
scrivi : l Dice
' cosi, colui che afferra 'le sette stelle nella sua destra, l
colui che avanza in mezzo alle sette lampade d'oro . l Conosco le tue
opere, il tuo lavoro l la tua sopportazione : l tu non puoi sopportare i
malvagi . l Tu hai messo alla prova coloro che si dicono inviati e non
lo sono (tous legontas eautous apostolous kai ouk eisin, qui se dicunt
Apostolos esse, et non sunt ), li trovi mentitori . [ .. ] . l Ma ho questo
contro di te: l il tuo primo amore, tu l'hai lasciato . . . ' » (n, l , 4).
E gli invii si moltiplicano, poi i sette messaggeri vengono, fino al
settimo, presso il quale «<l tempo di Elohim si apre al cielo. l Appare
l'arca del suo patto nel suo tempio . / Sopravvengono lampi, voci, tuoni,
/ uh sisma, una forte grandinata. l Un gran segno (semeion mega) ap­
pare nel cielo : l una donna avvolta di sole, / la luna sotto i suoi piedi,
l e sulla sua testa una corona di dodici stelle» { n, 1 9-12, 1).
Dunque noi, Aufklarer dei tempi moderni, continuiamo a denunciare
gli apostoli impostori, i «se-dicenti inviati» che non sono inviati da
nessuno, · i mentitori · e gli infedeli, la gonfiezza e l'ampollosità di tutti
gli incaricati di missione storica a cui nessuno ha ·,·:ciuesto nulla e che
nessuno ha incaricato di nulla . Continueremo cosi nella migliore tradi­
zione apocalittica a denunciare le false apocalissi?
Chiarita la piega del discorso, non moltiplico gli esempi, la fine è
vicina ma l 'apocalisse .è di lÙnga durata. La domanda resta e ritorna :
quali possono essere i limiti di una demistificazione? Senza dubbio si
può pensare-io lo penso-:che bisogna spingere questa demistificazione
quanto più a fondo è possibile e il compito non è modesto . È intermi­
nabile perché nessuno può esaurire le sur-determinazioni e le in-deter-

136
Di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia

minazioni degli stratagemmi apocalittici. E soprattutto perché il motivo


o la motivazione etico-politica di questi stratagemmi non è mai riduci­
bile a qualcosa di semplice . Ricordo cosl che la loro retorica, per esem­
pio, non è solo destinata ad ingannare il popolo piuttosto che i potenti
per perseguire fini retrogradi, passatisti , conservatori, Niente è meno
èonservatore del genere apocalittico . Ed essendo un genere apocalittico
apocrifo, mascherato, cifrato, può offrire dei rigiri di · parole per ingan­
nare un'altra vigilanza, quella della . censura. Si sa che gli scritti apoca­
littici si sono moltiplicati nel momento in cui la censura di Stato era
molto forte nell 'Impero romano, e precisamente per ingannarla . Ora si
può estendere questa possibilità a tutte le censure, e non solo a quella
politica, e in politica a quella ufficiale . Anche se d si limitasse alla cen­
sura politica, e si fosse abbastanza attenti da sapere che essa non si
esercita solamente a partire dalle officine di Stato specializzate, ma dap­
pertutto, come un osservatore dai mille sguardi, in una maggioranza, in
un'opposizione , in una maggioranza virtuale, nei confronti di tutto ciò
che non si lascia inquadrare nella logica del discorso politico corrente
e delle opposizioni concettuali legittimate dal contratto tra gli avversari
legittimi, ebbene si penserebbe forse .che il discorso apocalittico . può
anche aggirare la censura grazie al suo genere e alle sue astuzie cripti­
che . Esso può anche, col suo stesso tono, il mescolamento delle voci,
dei generi e dei codici , sconvolgendo le destinazioni, smontare il con­
tratto o il concordato dominante . 'È una sfida · alla ricevibilità stabilita
dei messaggi e alla polizia della destinazione, in breve alla polizia postale
o al monopolio delle poste. Si potrebbe anche dire inversamente che
ogni discorso o ogni disordine tonale, tutto ciò che stona e diviene
irricevibile nella collocuzione generale, tutto ciò che non è più identifi­
cabile a partire dai codici stabiliti, dai due lati di un fronte, passerà
necessariamente per mistagogico, oscurantista e apocalittico . Lo si farà
passare per tale .

Se ora volessimo ricercare un altro limite della demistificazione, un


limite (forse) . più essenziale e che distinguerebbe (fòrse) una decostru­
zione da una semplice demistificazione progressista nello stile dei Lumi,
sarei tentato da un altro procedimento. Perché, io:fìne , demistificare la
manovra di una seduzione o di una agdgia è bene, è necessario, ma non
bisogna domandarsi prima in vista di cosa, a quale fine si seduce, si gioca
d'astuzia, si inganna, si manovra? Su questo altro procedimento, dico
una parola velocemente, per concludere , e rispondere cosl se possibile

137
J acques Derrida

a una domanda. A più riprese , mi è stato chiesto (e per questo mi per­


metterò una breve ostentazione galatica di alcuni miei scritti) perché (in
vista di cosa , per quali fini ecc .) io avevo o avevo preso un tono e pro­
posto dei temi apocalittici . È così che spesso sono stati qualificati, a
volte con sospetto , e soprattutto , ho notato, negli Stati Uniti , dove si
è sempre più sensibili ai fenomeni di profetismo, di messianismo , di
escatologia e di apocalisse-qui-ora. Per quanto io abbia moltiplicato le
distinzioni tra la chiusura e la fine , abbia avuto l'accortezza di parlare
dei discorsi sulla fine piuttosto che di annunciare la fine , abbia avuto
l'intenzione di analizzare un genere piuttosto che praticarlo e, anche
quando lo praticassi, di farlo con questa clausola di genere ironico con
cui ho cercato di mostrare che essa non apparteneva mai al genere stesso,
nondimeno, per le ragioni che ho esposto poc'anzi , ogni linguaggio sul­
l'apocalisse è anch 'esso apocalittico e non può scindersi dal suo oggetto .
Allora mi sono anche chiesto perché , per quali fini , in vista di che cosa
l'Apocalisse stessa, voglio dire gli scritti storici così denominati e innan­
zitutto quello che fu firmato da Giovanni di Patmos, si fosse a poco a
poco affermata, soprattutto da sei o sette anni, come un tema, una preoc­
cupazione , una seduzione , un riferimento esplicito e l'orizzonte per me
di un lavoro o di un compito, benché io conosca molto male questi testi
ricchi e segreti. Fu dapprima il caso di Glas, le cui colonne sono conti­
nuamente agitate da scotimenti e risa apocalittiche a proposito della
apocalisse e che a un certo punto ( p . 220) mescola brani di Genesi e di
Giovanni, quello del Vangelo, dell 'Apocalisse e di Genet . Vi si vede «il
Vangelo e l'Apocalisse violentemente sezionati , frammentati, ridistribuiti,
con dei bianchi, degli spostamenti di accenti, delle righe saltate o tra­
sposte, come se ci pervenissero attraverso una telescrivente guasta, un
tavolo d'ascolto in una centrale telefonica affollata . . . » . E una lunga se­
quenza che rimescola le citazioni si conclude così : «'Ed io Giovanni, ho
udito e visto tutto ciò ' . Come indica il suo nome, l 'apocalittico , per
dirla altrimenti lo svelamento capitale, mette in realtà a nudo la fame di
sé. Pompe funebri, si ricordi, nella stessa pagina: 'Giovanni mi era
sottratto [ . ] . Era nece ssario compensare Giovanni [
.. . . . ] la rivelazione
della mia amicizia per Giovanni [ . ] . Io avevo fame di Giovanni' .
. .

Questo s i chiama una compensazione colossale . Il fantasma assoluto


come assoluto aversi nella propria gloria più a lutto : inghiottirsi per
e ssere presso di sé, fare di sé un boccone, essere-divenire (in una pa­
rola tendere) il proprio morso» . Fu infine, l'ho detto poc'anzi, il caso
di La carte p ostale in cui le allusioni all'Apocalisse e alla sua aritmo-

138
Di un tono apocalittico adottato di recente in .filosofia

sofia si moltiplicano , in cui tutto specula sulle cifre e specialmente sul


sette, il «7 scritto » , gli angeli, «il mio angelo» , i messaggeri e gli agenti,
la predizione, l'annuncio della novella , !'« incendio» olocaustico e tutti i
fenomeni di Verstim mung, di cambiamento di tono, di mescolamento
dei generi , di destin erranza, se così posso dire, o di clandestinazion e ,
altrettanti segni d i filiazione apocalittica più o meno bastarda . M a non
è su questa serie di temi o di toni che volevo insistere per concludere .
Per mancanza di tempo, mi limiterò a una parola, se è una parola, e al
motivo �'Vieni» che occupa altri testi scritti nell'intervallo , in particolare
Pas , Survivre e En ce moment meme dans cet ouvrage me voici, tre testi
dedicati, se si può dire, a Blanchot e a Levinas . Non ho avuto subito
coscienza della risonanza citazionale di questo « Vieni» , o almeno che la
sua citazione (perché è il dramma della sua modalità di citazione che mi
interessava in partenza, la sua struttura ripetitiva e ciò che, fino in un
tono , deve potersi ripetere , dunque mimarsi , perfino «sintetizzarsi » ) fos­
se anche un riferimento all'Apocalisse di Giovanni. Non lo sapevo quan­
do ho scritto Pas , l 'ho saputo al momento degli altri due testi . E l 'ho
notato. «Vieni » , erchou, veni, que sto richiamo risuona nel cuore della
visione, nell '«io vedo» che segue il comando di Cristo (a partire da 4)
quando viene detto : do vedo nella destra d i colui che è as siso sul trono
l un volume scritto all 'interno e all 'esterno , l sigillato con sigilli , sette .
l Io vedo un messaggero , forte . l Egli grida a gran voce : l ' Chi ha
il potere di aprire il volume, l e scioglie me i sigilli? ' l Nessuno può, l
in cielo , sulla terra o sotto terra, l aprire il volume né guardarlo » . E
ogni volta che l 'Agnello apre uno dei sette sigilli, uno dei quattro vi­
venti dice «Vieni » , ed è la sequenza dei Cavalieri dell 'Apocalis se . (Negli
Envois de La carte postale , l'uno o l'altro dice spesso : crederanno che
noi siamo due, o che io sono solo, o che siamo tre , o che siamo quattro ,
e non è certo che si ingannino ; ma tutto accade come se l'ipotesi non
potesse spingersi al di là di quattro, è in ogni caso la finzione) . Più
oltre , voglio dire nell'Apocalisse di Giovanni , in 1 7 , uno dei sette mes­
saggeri ai sette domini dice : « Vieni , ti mostrerò il giudizio della grande
meretrice» . Si tratta di Babele . E in 2 1 , «Vieni ! ti mostrerò la sposa,
la donna dell 'agnello » . E soprattutto alla fine delle fini , «Vieni » si lan­
cia o si ripercuote in uno scambio di richiami e di risposte , che propria­
mente non è più uno scambio . Le voci , i luoghi , i percorsi di «Vieni»
attraversano la parete di un canto , un volume di echi citazionali e reci­
tativi, come se questo cominciasse a rispondere; e in questo attraversa­
mento o questo trasferimento le voci trovano la loro spazieggiatura, lo

139
J acques Derrida

spazio del loro movimento ma esse lo annullano ad un tratto, non gli


danno più il tempo . Vi è là una sorta di narratore generale : al momento
della firma si chiamerà il testimone (martyròn, testimonium). C'è il mes­
saggero angelico il cui messaggio egli riferisce, c'è Giovanni che riprende
la parola e afferma che ora egli si prostra davanti al messaggero che gli dice :
«Non sigillare le parole dell'ispirazione di questo volume : l sì, il tempo
è vicino» . Double bind di un ordine al quale Giovanni non poteva che
disobbedire per obbedirvi. Poi Gesù riprende la parola, naturalmente in
questo modo riferito in diretta che Platone definiva mimetico o apocrifo,
e il gioco delle virgolette nella traduzione pone tutti i problemi che po­
tete immaginare . Si sa ogni volta che è un tale che parla perché si pre­
senta; io, un tale; ma Io fa nel testo scritto dal testimone o dal narra­
tore generale che è sempre colui che tira le fila . Ecco, ed è la fine : «lo,
Gesù, ho inviato il mio messaggero l per attestarvi questo a riguardo
delle comunità . Io sono il discendente e la semenza di Davide , l la
stella splendente del mattino» . Chiudete le virgolette. Il testo del testi­
mone riprende : «Lo spirito e la sposa (numphè, sponsa, la promessa)
dicono l insieme : l 'Vieni' . l Che colui che ascolta dica 'Vieni'. l Che
l'assetato venga, l che chi vuole prenda l'acqua della vita, gratuitamen­
te . l Lo attesto io stesso ad ognuno che ascolta l le parole dell'ispira­
zione di questo volume : l se qualcuno vi aggiunge qualcosa, l Elohim
gli aggiungerà le piaghe descritte in questo volume. l Se qualcuno leva
delle parole l del volume di questa ispirazione, l Elohim gli leverà la sua
parte dell'albero di vita, l fuori dalla città del santuario descritto in
questo volume . l Il testimone di ciò dice : 'Sì, vengo presto'. l Amen.
l Vieni, Adòn Yéshoua . l Dilezione dell'Adòn Yéshoua verso tutti . . . » .
L'avvenimento di questo «Vieni» precede e chiama l'avvenimento .
Esso sarebbe ciò a partire da cui vi è un avvenimento, il venire, l'avve­
nire dell'avvenimento, che non si può pensare sotto la categoria data
di avvenimento. «Vieni» mi è sembrato richiamarsi al «luogo» (ma la
parola luogo diviene qui troppo enigmatica) dichi:mo al luogo, al tempo
e all'avvenimento di ciò che nell 'apocalittico in generale non si lasciava

più contenere semplicemente dalla filosofia, dalla metafisica, dall'onto­


escato-teologia e da tutte le letture che essa ha proposto dell'apocalit­
tico. Non posso ricostruire ciò che ho tentato, a questo riguardo in un
quadro di risonanze, risposte, citazioni rinviate , che rimandano a testi
di Blanchot, Levinas , Heidegger, o altri come si potrebbe rischiarvi oggi
con l'ultimo libro di Marguerite Duras, L'homme assis dans le couloir.
Ciò che avevo allora tentato di esporre a un'analisi che sarebbe, fra le

140
Di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia

altre , una spettrografia del tono e del cambiamento di tono, non poteva
per definizione adeguarsi alla disposizione o alla misura della dimostra­
zione filosofica , pedagogica o insegnante. Prima perché «Vieni», aprendo
la scena, non poteva diventare un oggetto, un tema, una rappresenta­
zione, o anche una citazione nel senso corrente , e sussumibile sotto una
categoria, fosse anche quella del venire o dell'avvenimento . Per la stessa
ragione , ciò si piega difficilmente alla retorica che esige la scena presente .
Io tento nientemeno di estrarne , a rischio di una deformazione essen­
ziale, la funzione dimostrativa in termini di discorso filosofico. Dirò
allora questo accelerando l'andamento del discorso. Venuto dall'altro
come già una risposta, e una citazione senza presente passato , «Vieni»
non sopporta alcuna citazione metalinguistica mentre è, esso stesso, un
racconto, già, un recitativo e un canto la cui singolarità resta nello stesso
tempo assoluta e assolutamente divisibile . Esso non si lascia esaminare
da una onto-teo-escatologia più che da una logica dell'avvenimento, per
quanto nuova essa sia e qualunque politica essa annunci. In questo tono
affermativo , «Vieni» non denota in sé né un desiderio , né un ordine,
né una preghiera , né una domanda . Più precisamente, le categorie gram­
maticali, linguistiche o semantiche a partire da cui lo si designerebbe
così sono attraversate dal «Vieni» . Quest'ultimo, non so che cosa sia,
non perché io ceda all 'oscurantismo ma perché la domanda «che cos'è »
appartiene a uno spazio (l'antologia, e a partire da essa i saperi gram­
maticali, linguistici, semantici, ecc.) aperto da un «vieni» venuto dal­
l'altro . Fra tutti i «vieni» , la differenza non è grammaticale, linguistica ,
semantica, pragmatica-e se posso dirlo : è un imperativo , è una moda­
lità iussiva, è un performativo di tale o tal altro tipo, ecc.-la differenza
è tonale . E non so se una differenza tonale si presti finalmente a tutte
queste questioni . Provate a dire «vieni»-che può dirsi in tutti i toni, e
vedrete, udrete, l'altro innanzitutto udrà-può darsi o no. È il gesto
della parola, questo gesto che non si lascia rilevare dall'analisi-lingui­
stica, semantica o retorica-di una parola.
Vieni al di là dell'essere, questo viene dal di là dell'essere e chiama
al di là dell'essere, inducendo forse al luogo in cui l'Ereig n is che non
-

si può più tradurre con avvenimento- e l'Enteignis dispiegano il movi­


mento di propriazione . Se «Vieni» non cerca di condurre, se è senza
dubbio an-agogico, si può sempre ricondurlo più in alto di esso, anago­
gicamente, verso la violenza conduttrice, verso la conduzione autoritaria .
Questo rischio è ineluttabile, minaccia il tono come il suo doppio . E an­
che nella confessione della seduzione : dicendo in un certo tono «ti sto

141
Jacques Derrida

seducendo » , io non sospendo , posso anzi accrescere il potere seduttore .


Heidegger non avrebbe forse approvato questa coniugazione o questa
declinazione apparentemente personali del venire . Ma esse non sono per­
sonali, soggettive , o egologiche . «Vieni» può non venire da una voce o
almeno da un tono che significa «io » , un tale o una tale nella mia «deter­
minazione» . «Vieni » non si rivolge a un'identità determinabile in anti­
cipo . È una deriva inderivabile dall'identità di una determinazione . «Vie­
ni» è solamente derivabile, assolutamente derivabile, ma solamente dal­
l'altro, da nulla che sia up'origine o una identità verifìcabile, decidibile,
presentabile , appropriabile, da nulla che non sia già derivabile e arriva­
bile senza riva.
Voi sarete forse tentati di chiamare ciò il disastro , la catastrofe , l'apo­
calisse . Ora in realtà si annuncia qui , promessa o minaccia, un'apocalisse
senza apocalisse, un'apocalisse senza visione, senza verità, senza rivela­
zione, degli invii ( perché il «vieni» è plurale in sé) , degli indirizzi senza
messaggio e senza destinazione , senza destinatore o destinatario decidi­
bile , senza giudizio fìnale , senza altra escatologia che il tono del «Vieni »
stesso, la sua stessa differenza , un'apocalisse al di là del bene e del male .
«Vieni>> non annuncia tale o tal altra apocalisse : già esso risuona con un
certo tono, è in se stesso l'apocalisse dell'apocalisse, Vieni è apocalittico .
La nostra apocalypse now : che non vi sia più posto per l'apocalisse
come riconduzione del male e del bene in un legein dell 'aletheia , né in
un Geschick dell 'invio , dello Schicken , in una co-destinazione che assicu­
rerebbe al «vieni» di poter dar luogo a un avvenimento nella certezza
di una destinazione . Ma che fa allora uno che vi dice : io ve lo dico , sono
venuto a dirvelo , non c'è, non c'è mai stata , non ci sarà apocalisse,
l'apocalisse delude? C'è l'apocalisse senza apocalisse . La parola senza, la
pronuncio qui nella sintassi cosl necessaria di Blanchot che dice spesso
X"senzcfX. Il senza contrassegna una catastrofe interna ed esterna dell' apo­
calisse, un capovolgimento di senso che non si confonde con la catastrofe
annunciata o descritta negli scritti apocalittici s�nza tuttavia esservi
estranea. Qui, la catastrofe sarebbe forse dell'apocalisse stessa, il suo
piegarsi e la sua fìne, una chiusura senza fìne, una fìne senza fìne.
Ma quale lettura, quale storia della lettura , quale filologia , quale
competenza ermeneutica autorizza a dire che questa catastrofe d ell 'apo ­
calisse non è quella che descrive , nel suo movimento e nel suo stesso
percorso, nel suo tracciato, questo o quello scritto apocalittico? per esem­
pio quello di Patmos che allora sarebbe votato ad uscire da se stesso in
questa erranza aleatoria?

142
Di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia

E se questo fuori dell'apocalisse fosse nell 'apocalisse? se fosse l 'apo­


calisse stessa, propriamente ciò che produce effrazione nel «Vieni » ? Che
cos 'è «dentro » e che cos'è « fuori » di un testo, qui eli questo testo , dentro
e fuori questi volumi eli cui non si sa se sono aperti o chiusi ?
Di questo volume scritto, ve ne ricordate, «dentro e fuori » , è detto
tutto alla fine : non sigillarlo, «Non sigillare le parole dell'ispirazione di
questo volume . . . » . Non sigillare , cioè non chiudere ma anche non segnare .
La fine si avvicina, ora non è più il momento eli dire la verità sul­
l 'apocalisse. Ma che fai, insisterete ancora, quali fini vuoi raggiungere,
quando vieni per dirci , qui ora, andiamo , vieni, l'apocalisse è finita, te
lo dico io, ecco che cosa succede .

143
Romano Madera
APOCALISSI DEL SACRO

Apocalisse si dice insieme di un rivelare e di uno stato ultimo che la


rivelazione racconta. Rivelazione alla fine dei tempi .
Là dove finisce la storia e comincia la storia del <<novissimo die>> , il
racconto dell'ultimo giorno . Il libro della rivelazione è posto alla fine
della rivelazione : è la rivelazione ultima, e in essa si conclude anche la
storia sacra, il racconto del libro sacro si chiude nel libro della rivela­
ziOne .
Apocalisse si deve dire dunque del sacro , l'apocalisse è apocalis se
del sacro.

Uno stato ultimo della rivelazione appare dapprima come un para­


dosso .
Rivelare svela ciò che si immaginava dietro il velo ma che era il velo
stesso . Rivelare stende di nuovo il velo eppure, propriamente, lo stende
per la prima volta, è l'apparire originario del velo . Dissolto l 'altro che
illusorio stava nello sguardo al posto del velo, il velo si rivela come velo .
Rivelare perciò , mentre svela, insieme copre, nasconde . Ma in senso
diverso dall 'illusione proiettata che oscurava il velo , era infatti cosl il
nascondimento a rimanere celato : nella rivelazione ciò che nasconde ap­
pare invece come ciò che nasconde e, con ciò , si rivela per essere quello
che è : ciò che nasconde, un velo che si mostra, che è-nel nuovo chia­
rore-ciò che nasconde.
Rivelare, raccontare lo stato ultimo, non è dunque l'incontro senza
più veli , poiché l'incontro senza più veli è incontrare la consistenza auten-

145
Romano Madera

tic a del velo : l 'illusione si rivela come illusione di un niente che è in


verità altro , il velo .
È già-era e sarà e tuttavia sempre non-ancora : tutto il testo
apocalittico respira in queste movenze . La rivelazione dello stato
ultimo rivela l 'è già nell 'apparire, nel mostrarsi, nel rivelarsi del non­
ancora . E il non-ancora si riferisce alla pienezza della presenza, alla rive­
l azione presente di ciò che è già, e non-ancora si presenta in pienezza .
Eppure è già pienamente ciò che non-ancora si presenta .
La fine dei tempi è già venuta con Cristo , si è quindi già rivelata
perché la rivelazione di D io è Gesù stesso . Ma la pienezza pres �nte di
una tale rivelazione è non-ancora apparsa, essa sta alla fine della fine dei
tempi. «Tale testimonianza infat ti può essere compresa soltanto se si
vede la storia alla luce della fine dei tempi che è venuta con Cristo»
(L'Apocalisse di Giovanni, commento di E. Lohse , Paideia, Brescia 1974,
trad . it . A . Comba, p. 20 1 ) .
L a storia del tempo è già finita, compiuta, conclusa in Gesù Cristo ,
ma in questo finire comincia il racconto aperto e non concluso della pie­
nezza della rivelazione che è-come-non-ancora-apparsa .
La fine della fine dei tempi non può essere un tempo, essa rivela
finalmente, in questo modo , che la rivelazione è rivelazione che il tempo
è finito, meglio , che la rivelazione rivela di non avvenire nel tempo . La
rivelazione ultima della rivelazione dice della rivelazione che essa non è
avvenuta nel tempo, anzi che essa è la fine del tempo, che essa non è
« del » tempo .
E poiché l a rivelazione è rivelazione di ciò che è , era e sarà, e d essa
sta alla fine , al di fuori del tempo, allora essa rivela che il tempo sta al
di fuori di ciò che è, era e sarà : che il tempo non è , non era e non sarà
ciò che pretende di essere .
Il tempo è illusione il cui contenuto è estraneo alla rivelazione di ciò
che è, era e sarà : la verità dell'illusione , la verità del tempo , non sta nel
tempo, anzi è estranea al tempo : la verità del tempo è il racconto che lo
rivela come estraneo al contenuto della rivelazione , la verità del tempo
sta nel tempo del racconto che lo rivela come illusione d'altro da ciò che
è nella verità : esso è contenuto nella menzogna e la menzogna è menzo­
gna solo nella verità che la rivela tale .
L'illusione menzognera degli abitatori del tempo del mondo , cono­
sciuta come tale, si rivela immagine d'altro da ciò di cui si dice imma­
gine : il suo contenuto è una pretesa , un niente, un impossibile perché
� impossibile qualcosa che non è. L'immagine dunque che è illusione del

146
Apocalissi del sacro

niente si rivela immagine di qualcosa d'altro dal niente di cui pretendeva


di essere immagine : con ciò l'immagine « niente» è qualcosa d'altro dal
suo contenuto e si riferisce a qualcosa d 'altro dal niente.
Essa è l'immagine estrema che illude di interpretare ed è solo come
interpretata da altro che essa pretende di interpretare dichiarando un
contenuto altro impossibile , il contenuto di ciò che non è.
Tutte le immagini possono essere dato o interpretazione (cfr . E . Seve­
rino ai capitoli 14 e 15 di Destino della Necessità, «<l linguaggio e l'in­
terpretazione» e « Il linguaggio » , Adelphi, Milano 1 9 80) ma l'interpre­
tazione illusoria può solo essere « interpretata» come illusione interpre­
tante un dato illusorio .
L 'illusione interpretante un dato illusorio è, nello sguardo che la
rivela illusione interpretante, illusoria nella sua interpretazione ma non
illusoria in quanto immagine che illude : essa è dunque immagine di
qualcosa che è altro . Altro dal niente del dato impossibile dell'illusione
c. altro dall 'interpretazione illusoria : l'interpretazione illusoria è imma­
gine necessaria, nella verità che la rivela, dell'altro . L'interpretazione illu­
soria si illude di interpretare un dato inesistente ma è immagine d'altro .
"È immagine dunque il tempo che si illude di essere la realtà del tempo ,
d'altro . Non del niente . Ma di ciò che è , era e sarà . La parola tempo è
l 'immagine del racconto della rivelazione di ciò che è, eta e sarà . È in
questo modo che si intende il racconto del libro della rivelazione, come
racconto che inizia alla fine dei tempi e guarda al non-ancora nel quale
si chiude la storia della fine dei tempi , la fine della fine dei tempi.
Il tempo della storia sacra si rivela il tempo della fine, il racconto
della storia della fine a cominciare dalla fine della storia. Il tempo della
esposizione del racconto , il tempo della narrazione : il tempo che dalla
fine si volge all'inizio e trascorre in un non-ancora che è già presente e
che non compare mai pienamente nel racconto . C'è infatti un non-ancora
che neppure il più alto e grande dei racconti può presentare : la presenza
della pienezza totale del racconto dentro il racconto . Essa è già nel rac­
conto ma non è ancora mai raccontata nel racconto . Il racconto è infatti
racconto di quella pienezza che è già e che dunque non può essere piena­
mente raccontata nel racconto che ancora la racconta. Infinito è infatti il
raccontare ciò che in ogni racconto è raccontato .

Il libro della rivelazione è il capitolo ultimo del libro sacro della


rivelazione . È rivelazione della rivelazione del sacro . Intenderlo è dunque
intendere ciò che rimane nascosto nel linguaggio sacro della rivelazione .

147
Romano Madera

Ora è proprio nel massimo tentativo di rivelare, di rivelare la sacra rive­


lazione stessa, che rivelazione su rivelazione, os c!uro su oscuro è accu­
mulato . Il libro della rivelazione per la sua eccellenza rivelativa è visione
e d enigma. L'ultima rivelazione si riserva un resto segreto e perciò inde­
finito, infinito . Un sapere che è segreto alla dizione rivelativa. Un non­
sapere del rivelare che è il sapere entro il quale il saputo come svelato
può darsi.
«E quando i sette tuoni ebbero parlato stavo per scrivere, ma udivo
una voce dal cielo che diceva : 'Metti sotto sigillo ciò che hanno çletto i
'
sette tuoni e non lo scrivere'» (Ap . 1 0 , 4 ) .
La più esplicita, la rivelazione finale, è dunque un ribadire che il
linguaggio avviene dicendosi entro il mistero che si dichiara indicibile in
ciò che il linguaggio dice . La rivelazione della rivelazione dice dunque
che la rivelazione stessa è avvolta, permeata, intessuta, consustanziata
dall'indicibile, che essa è visione e d enigma.
La più chiara redazione evangelica è qui immersa fino all a confu­
sione in un eccitato pandemonio immaginale.
Agostino già pensava che il regno dei mille anni , dopo la prima resur­
·
rezione e la prima fine dei tempi, si riferisse alla chiesa. Egli dunque
dava già per avvenuto quasi tutto ciò che nell'Apocalisse veniva profe­
tato . Dunque il libro della rivelazione è anzitutto intelligentia spiritualis
dell'avvenimento evangelico . Niente tuttavia è più osalto di questa intel­
ligentia, essa infatti deve essere presa in parola mentre scava e divina
incessantemente la parola.
Rivelare la rivelazione che amplifica indefinitamente la parola rive­
lata, e scorrer del tempo in uri racconto che sopraggiunge il racconto nel
tempo e lo scruta nell'immagine rimandata al fuori tempo della sua
intelligentia, secondo questa doppia prospettiva si situa l'apocalisse del
sacro : «E non vi sarà più nulla di maledetto» (Ap . 22, 3 ) .

I cieli e l a terra della novitas ri-creativa, l a sposa che è cosmo e città


santa, Gerusalemme celeste, che è umanità redenta e donna : questo sim­
bolo del completamento nuziale è intero, integro . È santo come ciò che
è integro nel senso del termine ebraico per santo . L'integrità, l'interezza
del simbolo escludono la separatezza, l'isolamento, la presenza della op­
posizione irrisolta dei due termini estranei : puro-impuro, sacro-profano,
benedetto-maledetto. L'altro lato , il creato, il mondo, è qui la sposa di­
vina, il femminile terrestre riconquistato e dichiarato movimento rive­
lativo finale dell'immagine divina : ultima rivelazione del volto divino e

148
Apocalissi del sacro

ultima trasmutazione del lato Eva, del lato terra e cosmo. Questo com­
piersi dell'immagine coincide col togliersi del maledetto e, con ciò, del
togliersi del separato . Un rapporto stretto, uno stesso gesto. Il separato
che è infatti il sex:us , e fa generazione e morte--come dal vaso di Pau­
dora, o dal ventre di Pandora che è vaso di generazione-il sex:us che è
il primo generatore e dunque il primo mortale della specie dei mortali.
Alla chiusura della separazione del mortale corrisponde l'apparire del
simbolo della congiunzione divina in maschio e femmina . Il mortale e
separato è rivelato figura del divino : falso nel suo stare separato da ciò
di cui è figura, vera figura di ciò che è divinamente congiunto. La rive­
lazione dell'escaton, della fine dei tempi, è infatti fine dei tempi abitati
dai mortali generati dal sesso separato , generati nella maledizione della
separazione, della morte, del tempo . Tempo, morte e sex:us si tengono
nella figura di ciò che è tagliato e gettato oltre l'iniziale immagine di Dio
come il sacro al di là dal tempo, dalla morte, dal sesso: al di là del
finito isolato particolare, al di là del male.
Rivelazione che è già saputa e non ancora, mai, apparsa: compiuta
essa è soltanto al di là del tempo dei mortali, stretti inevitabilmente nella
scelta del bene e del male, già sapendo tuttavia che è quella inevitabile
scelta l'opera della mancanza, del peccato : poiché nell'eterno tutto è già
redento.
L'inevitabilità, nel tempo, della scelta del bene e del male è rivelata
in eterno come l'opera illusoria, e realissima nella sua illu sione, di colui
che giudica senza potere e sapere giudicare. Cosl Paolo già oggi conosce
il destino escatologico e in esso vive, senza che ciò gli faccia perdere di
vista il non apparire ancora della parusia, della presenza dell'al di là del
tempo : il che impone, al di qua, di soggiacere all'opportunità etica a
vantaggio dei fratelli : l'etica diventa non più opera di salvezza ma peda­
gogia, insegnamento, guida alla meditazione della verità e della fede .
Romani 1 4 , 1 4 : «lo so e son persuaso nel Signore Gesù che nessuna
cosa è impura in se stessa ; però se uno stima che una cosa è impura, per
lui è impura» .
Niente di « commune», niente di profano, niente di soltanto ordi­
nario. Il luogo, il tempo, il gesto, la separazione stessa del sacro è qui
scardinata in una estensione che nell'eccedere, nel debordare dapper­
tutto non coglie più, per nessuna particolarità d'eccezione, il sacro re­
cinto : il punto ritagliato per il contatto con il divino . Il sapere e il sen­
tire :fiducioso di Paolo è stato confìdato a Pietro quale dono supremo di
quello Spirito che chiama a sé, che chiama vicino e che «vi insegnerà

149
Romano Madera

tutto» . La visione di Ioppe di Atti 1 0 , 9 - 1 6 è la rivelazione di una nuova


creazione già in atto, insegnata dal Paracleto in q�ei tempi ultimi entro
i quali gli Atti si svolgono--poiché gli Atti si svolgono «alla fine dei
tempi» , procedono quindi dall'apocalisse dei tempi escatologici : è Pietro
che in Atti 2, 15 sgg. specifica con chiarezza i tempi del racconto dopo
Pentecoste : << Questi uomini non sono ubriachi come voi sospettate, es­
sendo appena le nove del mattino . Accade invece quello che predisse il
profeta Gioele : negli ultimi giorni, dice il Signore, io effonderò il mio
spirito sopra ogni persona, i vostri figli e le vostre figlie profeter�nno, i
·
vostri giovani avranno vi�ioni e i vostri anziani faranno dei sogni>� .
Pietro ridà prova di un doppio livello : è certo l'ora terza del giorno
e non sono ubriachi questi che vi parlano nella vostra lingua , diversa
per ogni gente : ma è questa ora terza ad essere tempo al di là del tempo,
a scandirsi dentro i giorni escatologici : è questo , è il tempo escatologico
.
dell'effusione dello spirito su «Ogni carne» .
È in novissimis diebus dunque che avvengono gli Atti, e quindi la
visione di Ioppe che ne costituisce il cuore rivelatore (Atti 1 0 , 10-16) :
«Gli venne fame e voleva prendere cibo . Ma mentre glielo preparavano fu
rapito in estasi. Vide il cielo aperto e un oggetto che discendeva come
una tovaglia calata a terra per i quattro capi . In essa c'era ogni sorta di
quadrupedi e rettili della terra e uccelli del cielo . Allora risuonò una voce
che diceva : 'Alzati Pietro, uccidi e mangia ! ' . Ma Pietro rispose : 'No
davvero Signore , poiché io non ho mai mangiato nulla di profano e di
immondo ' . E la voce di nuovo a lui : 'Ciò che Dio ha purificato tu non
chiamarlo più profano' . Questo accadde per tre volte ; poi d'un tratto
quell'oggetto fu risollevato al cielo» .
Questo oggetto che cala dal cielo a terra mentre Pietro è «in estasi»
-è fuori dalla sua mente terrestre , mortale-è un vaso (vas) come to­
vaglia che con le sue quattro archais sta sopra la terra : è un nuovo
mondo, i suoi quattro capi i quattro principi, e come un nuovo mondo
porta in sé le creature : quadrupedi della terra, s_ç!rpenti del profondo ,
uccelli del cielo : le creature dell'alto, del basso e della superficie . Di
tutto ciò il Signore dice che è purificato, che non deve più essere detto
comune, profano . Va certo notata la presenza del serpente e l'ordine di
uccidere e mangiare. Qui il giardino è divenuto il mondo intero e la
proibizione è rovesciata, è proibito astenersi, isolarsi, separarsi. Viene
ordinata la più contagiante intimità : uccidere e mangiare. Introdurre
l'altro e comunicarsi di lui: comunicarsi del mondo. Lo Spirito effuso su
ogni carne ha dunque purificato ogni carne. Come nel Genesi «tutto è

150
Apocalissi del sacro

buono » , più che nel Genesi qui « tutto è buono» dopo che esso è stato
discriminato e rigettato-è buono il serpente, è buona la mano assassina
e sacrificale dell'uomo .
Il numero trinitario----:.c:ome nell'icona trinitaria di Rublev che ricorda
reinterpretandolo l'incontro dei tre con Abramo-è qui in relazione al
quarto, al mondo delle quattro archai , alla terra dei quadrupedi : è il tre
che santifica il quarto escluso : la terra e il proibito . La visione di loppe
dovrebbe chiamare all'esercizio ermeneutico tutta la tradizione della sa­
pienza numerologica e, più vicina a noi, l'intera opera di Jung (in parti­
colare «Aion » e «Psicologia e religione » rispettivamente al volume nono
parte seconda e al volume undicesimo delle Opere Complete curate nel­
l'edizione italiana da L. Aurigemma, Boringhieri , Torino) .
Non c'è, nella rivelazione finale, al di là dei tempi del tempo, alcun­
ché di maledetto : tutto è tre volte purificato . Tutto è santo . La coppia
di opposti sacro e profano si rivela movimento iniziatico della · cono­
scenza del santo . Tutto è integro . La separazione sacra-e profana-è
tolta nell'estensione al tutto della benedizione divina .
To skeuos di Atti 1 0 , 1 6 , il vas della Vulgata in cui il mondo è tre
volte dichiarato puro e non «commune » , ricompare in Ap . 2 1 , 3 come
«Ecce tabernaculum Dei cum hominibus et habitavit cum eis» , è l'he
skene tou Theou meta ton anthropon1 kai skenosei met'auton, la città
santa, la sposa Gerusalemme.
Ciò che era prima svanisce allo sguardo (Ap. 2 1 , 5), guarda, ecco :
idou-faccio nuova ogni cosa, il tutto , omnia, poiché (2 1 , 4) ta prata
apelthon : il passato , quel che veniva prima, se ne è andato . E in questo
paesaggio dove tutto è nuovo, guarda ! , si dichiara che pan katathema
ouk estai eti ( 2 2 , 3 ) non ci sarà più cosa alcuna maledetta, katathema :
posto in basso , dichiarato, asserito ( thema) come inferiore ( kata) .
Niente più che la legge di giustizia ponga nel basso proibito e con­
dannato, poiché themis è l'ordinamento posto a fondamento dell'universo
c Themis è la sua concordanza in figura di Dea, o viceversa che si voglia .

Un universo non più fondato su un ordinamento di giustizia che


scarta e scaglia in basso, che condanna alcunché : il mondo della sposa
Gerusalemme è, in questo senso, il mondo di un novissimo patto .
Tanta forza e chiarezza di motivi che si riprendono e convengono nel
superamento dell'antico patto di separazione fra mondo sacro e mondo
profano, fra il puro e l'impuro, il dio e il mondo, è tuttavia contrastata,
costantemente e fino alle ultime battute, da una opposta sequenza che
ribadisce il permanere del discrimine . Leggiamo per intero l'ultima con-

151
Romano Madera

elusiva attestazione dell'escaton duale, della conferma della maledizione


(22, 10-15) : «E mi dice : 'Non mettere sotto sig:i'llo le parole profetiche
di questo libro perché il tempo (ho kairos) è vicino . Il perverso (ho adi­
kon ) continui pure ad essere perverso, l'impuro continui ad essere im­
puro e il giusto continui a praticare la giustizia e il santo si santifichi
ancora . Ecco, io verrò (Idou erchemai : guarda, vengo) presto e porterò
con me il mio salario, per rendere a ciascuno secondo le sue opere. Io
sono l'Alfa e l 'Omega, il Primo e l'Ultimo (o eschatos) il principio e la
fine (e arche kai to telos) . Beati coloro che lavano le loro vesti: . avran­
no parte all'albero della 'vita e potranno entrare per le porte neTI;a città .
Fuori i cani, i fattucchieri, gli immorali, gli omicidi, gli idolatri e chiun­
que ama e pratica la menzogna' » .
Una stridente contraddizione . Il rinnovamento escatologico nel quale
non è più cosa maledetta e il giudizio escatologico che separa definitiva­
mente i buoni dai malvagi. Ancora più contradditoriamente sembra che,
contrariamente a Paolo, la giustificazione qui proceda dalle opere (Ap .
22 , 12) . È altresì vero che rendere a ciascuno secondo l e sue opere con­
corda con la citazione proprio di Romani 2, 6, del Dio qui reddet uni­
cuique secundum opera eius, « os apodosei hecastò cata ta erga autou» .
Ma in Paolo ai Romani, come si sa, questo detto dà l'avvio ad un
crescendo stravolgente e paradossale che terrnina in Rm 3 , 20 ; infatti, in
virtù delle opere della legge nessun uomo sarà giustificato , davanti a lui ,
perché per mezzo della legge si ha solo la conoscenza del peccato» . Non
vi è giusto, neppure uno , �ominciava la citazione del Salmo 13 in Roma­
ni 3, 1 1 e conclude l'argomento con quell'escludere la giustificazione per
le opere della legge : attraverso la legge si raggiunge solo il riconosci­
mento del peccato . Nel mondo escatologico rivelato qualcosa indica che
ii forte contrasto con il messaggio di Paolo va forse inteso più sottil­
mente . Nei due passi paralleli e conclusivi sul mondo nuovo e il giudizio
finale (Ap . 2 1 , 5-8 e Ap . 22, 12-15) sono ben elencate le opere della
maledizione. Le opere dei giusti non sono indicateJ:Ap . 2 1 , 6-8 : «A colui
che ha sete darò gratuitamente acqua della fonte della vita. Chi sarà vit­
torioso erediterà questi beni ( l'Ecco, io faccio nuove tutte le cose del
versetto precedente) ; io sarò il suo Dio ed egli sarà mio figlio . Ma per i
vili e gli increduli . . . » e Ap . 22, 1 4 dopo il «per rendere a ciascuno se­
condo le sue opere» e prima del «Fuori i cani» dice «Beati coloro che
lavano le loro vesti» cui la Vulgata aggiunge in alcune versioni «in san­
guine Agni» . In ogni caso i giusti sono «giustificati» , non operano qual­
cosa se non un ricevere, ricevere acqua di vita, ricevere perdono e puri-

152
Apocalissi del sacro

ficazione : operano dunque dentro un non operare, dentro un accadimento


che è presentato loro per il loro essere stati inscritti nel libro della vita
dell'Agnello (Ap . 2 1 , 28) . È dunque questo svelarsi del libro della vita
che ritrova inscritti in esso gli assetati di quell'acqua di vita, i bisognosi
del lavacro delle vesti la cui potenza, è detto subito di seguito, sta nel
legno della vita. Gesù con la samaritana e l'albero del Genesi e l'albero
della croce : ogni volta riconoscimento del peccato e gratuita salvezza :
grazia del riconoscimento, dopo l'obnubilazione, della verità di Dio; l'ac­
qua della vita eterna è quella della conoscenza vera di Dio, come atte­
stano le interne corrispondenze del vangelo di Giovanni . Già alla fonte
di Giacobbe è Apocalisse : già viene l'ora, ed è questa (Gv 4, 23 sgg.) in
cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità, né su questo
monte né a Gerusalemme : spiritus est Deus, pneuma ho Theos . Nella pa­
rola di Gesù a Sicher è già Apocalisse, già viene l'ora ed è questa : «e
non vidi tempio» nella Gerusalemme escatologica (Ap. 2 1 , 22) .
«E mi mostrò un fiume di acqua viva» (Ap . 22, 1 ) . Quel fiume le
cui acque significano l'avvento del Signore presente nel desiderio dello
spirito e della sposa. Apocalisse 22 , 1 7 dopo l'invocazione al Signore che
viene ha infatti l'invito all'assetato che venga e chi lo desidera prenda
in grazia l'acqua della vita. È l'ultima parola prima del suggello del libro.
Il fiume d'acqua di vita è già nell'incontro invocato. È Giovanni 7 , 37 :
« Chi ha sete venga a me e beva . Chi crede in me, come dice la Scrittura,
fiumi d'acqua di vita scorreranno dal suo ventre. Disse questo dello Spi­
rito che avrebbero ricevuto coloro che credono in lui . Infatti non era
ancora dato lo Spirito, poiché Gesù non era stato ancora glorificato» . La
realtà della glorificazione è il dono dello Spirito. Lo spirito e la sposa
sono la realtà escatologica che è invocazione di presenza efficace della
realtà glorificata di Gesù, sono la presenza del Signore. Ma glorificazione
in Giovanni è rivelazione del significato del segno che è la croce del ma­
ledetto . È il senso resurrezionale, ascensionale e di dono dello Spirito
già presente, già segnato nella croce .
Dalla croce, dall'albero della vita tratto dalla morte e dall'infamia,
sgorgano i fiumi d'acqua di vita che si danno al desiderio dell'assetato,
lavacro delle vesti dell'antico Adamo .
Anche l'Apocalisse dunque sembra riavvolgersi in una fuga a spec­
chio di paradosso in paradosso.
Fuori i cani dalla Gerusalemme celeste . Ma chi non è un cane ? Non
vi è giusto, neppure uno . O forse l'unico giusto non era uno che si sa­
rebbe detto un maledetto, un cane maledetto? Per questo la salvezza

153
Romano Madera

annUnciata resta povera : non più niente di maledetto perché ciò che è
'
maledetto è da sempre e per sempre maledetto, ma essendo maledetto
viene giustificato, salvato, esaltato, glorificato . Sono i cani, loro stessi
quindi, ad entrare per le porte della città santa : cani che sono stati
lavati, cani che sono stati dissetati!
Non vi è opera giusta poiché nessuno è giusto secondo le opere : se
neppure uno è giusto manca l'agente possibile delle opere giuste. Le
opere sono dei mortali soggetti alla legge : non vi è altro che il ricono­
scimento della vanità di un tale operare, dell'operare stesso riconosciuto
come errore. RiconoscinÌento del peccato, della mancanza radicafe, rico­
noscimento della morte che è il destino delle opere sottoposte al giudizio
della legge. La giustificazione e la salvezza non vengono dalle opere dei
mortali, giustificazione e salvezza vengono dalla grazia. E però non vi è
grazia se non vi è peccato : la struttura della salvezza cristiana è dram­
matica, tragica . La condanna eterna delle opere che operano la morte è
Io sfondo necessario della salvezza escatologica per la quale non vi è
morte alcuna . Ancora un paradosso . A meno di pensare che l'opera della
morte operata dai mortali è giudicata secondo quel che è, opera del
niente, vacuità, illusione . La morte deve essere consegnata alla morte
che è, ma la morte è niente, è niente che è niente.
Quando infatti iniziano le opere del mondo Dio cessa per sempre
dalle sue. Dio sta nel suo riposo fìn dalla fondazione del mondo, le sue
opere sono compiute fìn dalla fondazione del mondo (Ebrei 4, 3 ) .
« Si dice infatti in qualche luogo a proposito del settimo giorno : E
Dio si riposò nel settimo giorno da tutte le opere sue» (Eh. 4, 4 ) .

Ma «dopo tanto tempo» · «egli fissa di nuovo un giorno, oggi» (Eh .


4, 7) . :È dunque riservato ancora un riposo sabbatico (sabbatismos) per
il popolo di Dio . Chi è entrato infatti nel suo riposo, riposa anch'egli
dalle sue opere (apo ton ergon autou) , come Dio dalle proprie .
L'oggi di Dio è dunque l'ingresso in quella esichia senza opere che è
fìn dalla fondazione del mondo : l'opera settima, l'opera perfetta di Dio
è requie della non-opera : è la sua opera settima che appare nelle sei
opere della manifestazione del tempo. L'oggi di Dio è oltre la soglia del­
l 'apparire del tempo, è l'eternità immobile del suo tempo, la quiete ferma
del suo sabato.
Con ciò diventa manifesto che ciò che può essere scosso perché ap­
partiene a ciò che è stato fatto, creato, costruito, è destinato a passare ,
affinché rimanga ciò che non può essere scosso, la grazia, ciò che è in­
viato in dono e non si opera, invio del «regnum immobile» , della realtà

154
Apocalissi del sacro

incrollabile dell'eterno che si cela al mondo delle «opere», al mondo delle


creature (Eb . 12, 27: le cose che vengono scosse son destinate a pas­
sare, in quanto cose create, perché rimangono quelle che sono incrolla-
bili).
È da notare tuttavia che non si tratta qui della semplice opposizione
dell'immutabile e del mutevole : quando Dio scuoterà «ancora una volta
non solo la terra, ma anche il cielo» (Eb. 12, 26 ) e passerà, «in quanto
creato», tutto ciò che può essere scosso, allora noi « abbiamo la grazia»
( echomen charin ) nel «regno in crollabile» : basileian asaleuton. «Noi»,
una «non-creatura» che riposa in un sabato eterno, in una non-opera:
questo noi è «chi non rifiuta Colui che parla», Colui che rivela, che si
fa conoscere invisibilmente nel visibile (Eb . 12, 25 ). E certo questo il
senso manifestativo, gnoseologico e non antologico, della creazione : i
mondi vennero formati dalla parola di Dio, sì che da cose non visibili
ha preso origine quello che si vede (Eb . 1 1 , 3 : katèrtiothai tous aionas
remati Theou, eis to me ekfainomenon to blepomenon ghegonenai) .

«Colui che parla» parla senza essere visibile, si rivela senza svelarsi,
anzi attraverso , per il velo della parola-il mistico .
Una parola che approda all ' ascolto dichiarando l'elusione necessaria
della infinita dimensione dell'essere che la origina-il Dio che è e rimane
invisibile è e rimane indicibile nell ' essere la parola che si dice, che si
comunica.
Tuttavia questa indicibilità, il mistero di Dio che non può che dire
la prescrizione del silenzio, deve essere dichiarata, deve essere afferrata
come ciò che afferra e circoscrive necessariamente ogni parola possibile .
Deve essere chiamata intrascendibile una tale indicibilità perché è essa
stessa la condizione trascendentale entro la quale avvengono le parole . Il
cerchio entro il quale le linee del tempo, i segni del tempo, i segni del
divenire, vengono interpretati dall'errore, dalla separatezza che viene dal
dia-bolico--ma nel cerchio essi, proprio quelli, gli stessi segni, fanno
trasparire anamorfìcamente, oltre e dentro le sagome dell'interpreta­
zione illusoria ed errata, i disegni in cui a frammenti appaiono le intatte
figure, la scrittura sim-bolica dell'eterno .
Quale nome, quale senso quindi ha disegnato da sempre il cerchio
in se stesso se non il nome indicibile di Dio ? E qual è il nome indicibile
che deve essere detto come inoltrepassabile limite, dicendosi così radi­
calmente indicibile?
Esso è il nome dell'essere, l 'è come nome indicibile dell'essere che

155
Romano Madera

deve essere detto per attestarne l'indicibilità, l'è cile è detto come non
dicibile in ogni lettera di un qualsiasi dire e che dunque, infondabile, lo
fonda.
(Su questo punto si deve ricordare il terzo paragrafo del saggio di E.
Grassi, Vico, Marx and Heidegger, in «Vico and Marx, ed . by G . Taglia­
cozzo, Humanities , New Jersey 1983, che riporta le tesi di un testo ine­
dito di Heidegger da un corso del 1941 a Friburgo) .
È : il nome dell'Essere, il nome impossibile che dà nome a tutti i
nomi, il tetragramma, parola sctitta impronunciabile di cui tatta la
Scrittura è accenno e profumo : tutta la Scrittura tesa fra quel '« beth»
di Bereshit-di quell'in principio che inizia nel già cominciato della se­
conda lettera, del numero due dopo il primo che è il non-iniziante uno ,
l'alef non-numero-e quel terminante «Vieni» ( Ap . 22, 17) invocante,
nel mezzo del compiuto ieros gamos, ancora un non riposante sopra se
stesso, ancora un «presto» (Ap . 22, 20), un ancora non-apparso, non­
detto. Strada infinita circoscritta dalla parola, una parola che si alza e
ritorna su ciò che non si lascia esaurire perché in essa «si dice», « si
annuncia»-si dice e si annuncia ciò che da sempre è già compiuto e già
detto e già pronunciato quando «si dice»-q_uel Signore che è Parola
invocato nella rivelazione ultima come ancora «a venire» e che pure già
è conosciuto «prima della fondazione del mondo » ( l Pt . l , 20).

Il maledetto non è più perché fin dall'inizio l'omega che è l'alfa ha


visto escatologicamente che già dal Genesi tutto era buono : ma il mor­
tale ha voluto pensare che il male fosse maledetto, che il comune fosse
impuro. Fuori dall'illusione del peccato, fuori dalla separazione da Dio ,
lungo la scala di Giacobbe che dagli Inferi del Sepolcro raggiunge .il cielo
dell'ascensione, tutto, nello Spirito che è cosi dato in grazia su grazia al
mondo, è dichiarato puro : cosl a Ioppe lo Spirito ha comandato a Pietro ,
cosl può intendersi il paradosso apocalittico dell'e�caton entro il quale
tutto è santo e moltissimo resta condannato . Poiché tutto è santo solo se
tutto in quanto opera e credenza dei mortali resta condannato.
La vita è vita solo se la morte è e rimane morte . Non tuttavia la
prima morte , che quella appunto è il luogo della salvezza in cui il male
è dichiarato esso stesso santo ; la seconda morte è per sempre condan­
nata : il credere che la prima morte sia morte come uguale al niente ,
che il male sia male come separazione da Dio, come difetto di esistenza,
di essere . La morte brucia eternamente nel fuoco dello spirito di verità
che è la vita eterna, la conoscenza di Dio . Un fuoco che arde la credenza

156
Apocalissi del sacro

in un contenuto illusorio, la fede nelle tenebre.


Nella luce divina--che non è né quella delle tenebre né quella del
giorno dei mortali-si rivela ciò che da sempre è e che gli occhi dei
mortali hanno creduto e voluto credere di non vedere : che l'agnello
sgozzato, il simbolo vivo dell'immane mattatoio del mondo e della storia
dei mo rt ali , è la figura del Signore che viene. Che la cecità e i fantasmi
della «morte seconda», dello spirito di morte , hanno creduto di vedere
morte come nientità e ni enti:ficazion e già nel vivente come passato o
come futuro , dove stava invece l'epifania del primo e dell'ultimo sem­
pre uguale a se stesso, e rivelato secondo le immagini del cielo e della
terra come sua camera nuziale : della sua relazione come un iversale auto­
rivelarsi dell'eterno secondo la sua immagine individuale .
Nella tradizion e, in particolare in O rigene e nella sua dottrina imma­
ginale della apocatastasi, peraltro condivi sa da molti, troviamo un modo
di riformulare il tema della conservazione e insieme l'essere superato da
sempre del male e degli inferi . La permanenza del giudizio e insieme il
rivelare a salvezza che il giudizio g iu dica le opere dei mortali e che
esse non hanno altro che consistenza illu s oria : l'abisso nel quale il m or­
tale sprofonda nel suo allontanamento dalla verità non può raggiungere
tuttavia nessuna distanza dalla verità, esso è l' abisso stesso della verità,
un tratto che si rivela dell'au toe sporsi della verità.
Lungo le linee della croce del cerchio cosmico diviso per le tre cir­
conferenze del cielo, della terra e degli inferi si muovono le anime in ab­
bassamento, pu ri:fic azione , risalita. L'inferno, il m ale , è insieme presente
e intanto dichiarato altro da quello che vorrebbe apparire essere : esso è
un momento necessario della rivelazione all'anima della verità . Oltre il
tempo, l'eterno .
E l'eterno se è ol tre il tempo non può che stare nel tempo : il tempo
stesso deve già essere l'eterno : nella apocatastasi la terra è presa nel
movimento rivelativo dell'eterno, essa stessa dimora nel rivelarsi del­
l'eterno.
La terra e il cielo e gli inferi si rivelano altro dalla terra e dal cielo
e dagli inferi che noi crediamo di vedere: essi sono nuovi, sono la scena
cosmica del movimento rivelativo che salva dall'abisso della lontananza
estrema dalla verità dichiarandolo sua estrema prossimità, se stesso.
Il movimento dell'apocatastasi si svolge sugli assi della croce insctitta
nel cerchio cosm ico. La grande x pl at onica è let ta qui come significato
cosmico storico della biografica croce di Cristo . Abbassamento, puri:fica­
zione, risalita : sono i momenti che per la croce che è innalzamento dello

157
Romano Madera

svuotato a morte traseinano il cosmo alla purifìca�ione che dichiara «tut­


to è santo» .
È il movimento trinitario stesso esposto nella croce del Dio rivelato
abbassato e innalzato in essa all a resurrezione . È il movimento che dal
cielo del Padre si getta nell'abisso infero del sepolcro della manifesta­
zione del Figlio per trascinare a sé, dalla radice, da Adamo, l'intero
cosmo .
È la terra riconquistata dal risorto e nella sua carne glorificata por­
tata alle nozze con il cielo--insieme alla carnale matrice femmini,le .
È l'asceso che ha cosl preparato la più compiuta manifestazione divina
nella discesa al mondo dello Spirito. Lo Spirito di Dio abita la terra :
l'escaton è cominciato : il dominio del tempo e delle generazioni, il do­
minio del mortale è chiuso . E poiché è finito esso è conservato : nel­
l'eterno ogni cosa è perfetta-ha la vita, dice la lingua della Scrittura .
E perfetta è dunque anche la mortale illusione del mortale : il suo
peccato ha creduto l'impossibile, la separazione da Dio. Dio nel peccato,
proprio nel peccato, lo ha invece trovato e salvato .
Come dice, tagliente, E. Kasemann : «Misurata con criteri umani,
la salvezza si cela dunque per principio nel male » . Nella più grande sepa­
razione, l 'estrema vicinanza. La riflessione teologica sul nesso fra croce
e trinità può oggi affermare che nessuna distanza da Dio può essere
confrontata con l'allontanamento del Figlio dal Padre nel suo svuota­
mento chenotico : « Ciò che tradizionalmente veniva chiamato 'espiazione
vicaria' deve essere compreso trasformato ed esaltato come 'avvenimento
trinitario' . . . L'uomo è stato creato per essere integrato nel Cristo e quin­
di nella vita della Santa Trinità. Qualunque sia l'allontanamento del­
l'uomo peccatore nei riguardi di Dio , esso è sempre meno profondo del
distanziarsi del Figlio rispetto al Padre nel suo svuotamento chenotico
(Fil . 2, 7) e della miseria dell" abbandono' (Mt. 27, 46). Questo è
l'aspetto proprio dell'economia della redenzione nella distinzione delle
persone della Santa Trinità che d 'altro canto sono perfettamente unite
nell'identità d'una stessa natura e d 'un amore infinito» (Commissione
teologica internazionale. Alcune questioni riguardanti la Cristologia . Ci­
viltà Cattolica 3 129, 1-1 1-1980).
Dunque l'ampiezza degli assi della croce descrive un cerchio, poiché
ciò che è più distante da Dio è la stessa rivelazione di Dio, è Dio stesso .
Il segno di contraddizione che è segno di maledizione e peccato si rivela
segno di benedizione e grazia che avvolge l'infinito campo, i cieli e la
terra, di ciò che esiste .

158
Apocalissi del sacro

!azione escatologica che non vi è più alcuna cosa maledetta.

Che la struttura del sacro si trasformi fino a dissolversi nel testo che
la rivela finalmente, nel testo apocalittico, è comprovato proprio dal­
l'inclusione dei termini esclusi dalla :figura della divinità. La :figura che
ne risulta è quella del Santo come :figura di ciò che è integro, di ciò che
è intero--e perciò dà la vita , cioè conferisce, svela la perfezione :
rivela che le cose sono attraversate, l'una dentro l'altra, dall'intero
stesso che le avvolge perché le involge in se stesso .
L 'integro, l'intero, non può avere fuori di sé l'imperfetto, il :finito : si
rivela finalmente-alia fine del libro sacro, alla fine del sacro--la fine del
sacro, il suo sparire nella comunione interna all'integro, all'intero .
Il :finito e l'imperfetto ricevono la loro perfezione : ma non come
qualcosa ad essi estranea, invece come loro « ancora non vista» ma già
esistente da sempre «presenza» non ancora presente. Il tratto deli a linea
non cessa di essere tratto, anzi è per la prima volta interamente, e diver­
samente da come era apparso, tratto di linea curva, circonferente se stes­
sa, tratto di un cerchio . « <o sono il Primo e l'Ultimo e il Vivente . Io
ero morto, ed ecco (idou) sono vivente in eterno e ho le chiavi della
morte e dell'Ade».
Il primo e l 'ultimo nella loro identità puntuale sono la :figura del cer­
chio . Ma un cerchio che rivela il primo nell'escaton , in un tragitto , in
un percorso, in un esodo che apocalitticamente è un reditus. Tragitto e
cerchio che si svolgono e si rivolgono entro l'individualità universale che
è la coniunctio dell'Io e dell'Essere : del Dio persona individuale corpo­
rea, :figura integra dell'intera realtà, in lui insistente e lui in-sistente in
ogni tratto della realtà intera . La biogra:6a di un uomo come trascenden­
tale immaginale dell'intero cosmo del reale . In essa è rivelata la ricom­
prensione di ciò che si era voluto vedere estraneo al divino : « io ero
morto . . . e ho le chiavi della morte e dell 'Ade». Chiavi nuziali nella rap­
presentazione iconica della scena in Rublev, ma anche nella recitazione
liturgica . Morte e l'Ade sono congiunti all'eterno vivente, in una tale
congiunzione il vivente si dimostra integro poiché ad esso non sfugge la
sua negazione, che in ciò si trova negata, impossibilitata ad affermare il
non-vivente altrimenti che come errore, falsità redenta nel vivente che
nel suo rivelarsi la mostra come falsità . Ecco , vedi morte ed Ade inscrit­
ti nel cerchio integro del primo che è lo stesso dell'ultimo, del vivente
eternamente che è lo stesso del mortale e del perduto . L'imperfetto
tratto del cerchio rimane tratto ma tratto del cerchio : ciò che si rivela

159
Romano Madera

errore, falsità, è che il tratto fosse tratto segmenfale di altre e separate


configurazioni : immaginazioni del tratto sul cerchio rimasto non visto ed
a cui il tratto si immaginava legato : nel cerchio esse rivelano d'essere
figure in cui si esprimeva il tratto stesso, inconsapevoli segni di cui il
cerchio soltanto tende il filo di ciò che possono rivelare.

L'immagine del vivente, di «Io sono», appare nella storia del Cristo :
qui la storia del Cristo appare nell'immagine del vivente . Ero morto . Il
corpo e la sua morte sono ridetti nella figura, come sua figura, 1di «<o
sono» . Il corpo mortale, lo spazio e il tempo del mondo, sono qUi rive­
lati proprio la individuazione di ciò che, dunque, necessariamente, rimane
indicibile : e che quindi è detto, è pronunciato in un nome : perché il suo
nome indicibile sia glorificato infinitamente nella finitudine molteplice
dell'infinita teoria dei nomi che lo con-tengono stando inscritti nel suo .
Il segno di contraddizione, il segno di Giona è qui rivelato segno del­
l'integrità del vivente .
«Dicono alcuni che il corpo è sema (segno, tomba) dell'anima, quasi
che ella vi sia sepolta durante la vita presente; e ancora, per il fatto che
con esso l'anima sémainei (significa ), anche per questo è stato detto ge­
neralmente sema (Platone, Cratilo 400 c) .
Ma nel testo apocalittico il corpo mortale non segnala una tomba,
una prigione orfìca, pitagorea, neoplatonica o gnostica. Al contrario . Il
corpo mortale è la gloria, l'apparire e il rivelarsi necessario del vivente :
l'intridimento sensistico dello spirito è totale : carne d'animale immolato
(esfagmenon) , carne da sacrificio ma carne che deve essere mangiata. Il
leone di Giuda (Ap . 5, 5), il germoglio di Davide, del re guerriero , ap­
pare come agnello immolato (5, 6 ), il vivente come corpo mortale, ani­
male destinato a morte, immolato e dato in pasto .

Insieme alla morte, al corpo mortale, alla figura dello spazio e del
tempo, della sensibilità e di tutto ciò che nelle radièi culturali del greco,
dell'ellenista e del mediterraneo-ma non dell'israelita-aveva segnalato
di non essere, la mancanza, l'errore, il tempo contro l'eterno--viene qui
presentato, in figura dell'eterno che è il vivente e l'integro, il simbolo nu­
ziale, la sposa, terra e città, il femminile . La destinazione rivelantesi del­
l'eterno, la sua più compiuta figura, è la congiunzione che riconosce, che
cinge d'amplesso sensibile, la sposa, la terra, la città di Gerusalemme .
Gerusalemme è il destino. È il destino del rivelarsi dell'eterno. È la terra
sposata al cielo nella novità che è del Primo, del ritorno dell'originario

160
Apocalissi del sacro

a se stes so . Ritorno e vera rivelazione poiché è Gerusalemme, la città


perduta, la città prostituita all'idolatria, la matrigna assassina dei profeti
e dei figli migliori , la città pianta da Gesù, l'abominio della desolazione,
la città il cui tempio è rovina.
Gerusalemme è la prostituta moglie del profeta, è un'asina ricca di
voglie che si è coricata con tutti , è la destinata alla gogna e alla nudità
insultata . Gerusalemme che la fede di mortali ha visto cosl, è un'altra e
pur sempre la stessa Gerusalemme, di cui si dice qui la gloria della sposa
del cantico , la città imm acolata, la divina sposa del Dio, il suo mondo
come sua dimora perfetta con gli uomini .
La verità di Gomer, la sposa prostituta · di Osea profeta, è rivelata
escatologicamente nella sposa celeste Gerusalemme, sposa destinata già
nel Cantico : è il simbolo supremo della rivelazione di Dio agli uomini.
È l'umanità stessa, è la divina umanità dell'umana divinità che sa, nella
testimonianza dell'ero morto dell'eterno vivente, l'abisso d'Ade entro il
quale pensava di essere perduta e nel quale è stata ritrovata e redenta
-redenta da un abisso che si mostra qui autoespòsizione drammatica,
e per via di negazione della negazione, della verità stes sa. Un divino
femminile che riannoda la separazione esposta nel Genesi nella trama
d'un disegno, quasi un tragico intrigo, d'amore . L'Apocalisse torna infatti
sul Genesi non solo nel nome del Primo e dell'Origine (e arche) ma nella
figura della donna del cielo (Ap . 12, l ) destinata alla metamorfosi in
Gerusalemme.

Insieme alla morte il femminile . Nelle immagini dell 'antico testa­


mento organicamente legato alla morte perché segno dell'umanità, dun­
que dei mortali, ma ancor più per il greco la cui mortalità viene dal
generare e il generare dalla donna originaria nel mito di Pandora . Come
dalla morte si dimostra il Signore che viene come colui che è «morte
della morte», cosl dal femminile, dalla generazione umana, viene il pec­
cato e viene la salvezza. La morte indica la vita che si afferma oltre ogni
negazione, il femminile attesta la deificazione escatologica della natura e
della natura umana in primo luogo.
Cosl s 'intende anche il nesso intrecciato insolubilmente fra l'Ade e
il nuovo nato nella figura del Risorto , e il ventre mortale e generatore
di Maria che porta l'avvento di Dio nel cosmo, che genera per se stessa
l'incorruttibilità della stessa matrice di Dio-intendo dire l'assunzione al
cielo del corpo di Maria. In questo intrico forestato di simboli non è pos­
sibile evitare il riscontro voluto fra il libro del Primo che è l'Ultimo,

161
Romano Madera

dell'Origine che è Fine, con il libro del Genesi : ed è questo riscontro a


mettere in campo in primo piano il femminile e ' il suo «seme» , la sua
discendenza, che si chiude, quindi si rivela, nell 'apocalisse: fuori e oltre
i confini del tempo come suggerisce l'etimo di escaton . Il cosiddetto pro­
tovangelo del Genesi (Geo. 3 , 15) annuncia quell'inimicizia fra il seme
del serpente e il seme della donna che si concluderà nella finale lotta
escatologica . Nell'escaton il seme è diventato portatore del frutto del
mondo e sul mondo intero vette la contesa, trascinata però a proclamare
la novità di tutte le cose. ,
Già del centro di quel contendere ho detto nelle pagine prec�denti .
Facciamo dunque attenzione al senso: per il Genesi 2, 16 la morte è il
frutto della conoscenza del bene e del male, frutto di uh albero, di un
legno. La comprensione traduttiva e comparativa fra il primo e l'ultimo,
fra il Genesi e il Libro della Rivelazione, ci è data nell'albero, nel legno
della croce. Il frutto della croce che era visto come il frutto della male-
' : :

dizione è adesso il segno della benedizione . Corrispondentemente negli


Atti, che si «aprono» con il discorso di Pietro indicante i tempi escato­
logici come i tempi che seguono lo spirito disceso in terra, anche i rettili
della terra, nella visione di Ioppe, sono dichiarati puri. Nella terra pro­
messa, nella città escatologica che riappare in luogo della inconsapevo­
lezza edenica, non vi sarà più cosa maledetta .
La conoscenza del bene e del male come lati disgiunti e contrapposti
è il mortale stesso, e non :pio: al mondo deificato, alla natura, alla città,
all'umanità, al popolo di Dio è rivelato che il male è vinto, che morte è
data alla morte: la necessità della conoscenza del male, che è conoscere
la morte, viene rivelata come· necessità del riconoscimento che la morte
non è se non il luogo più lontano e ultimo raggiunto dal vivente per riaf­
fermarsi oltre il tentativo della sua negazione. Il male è tolto perché tu
non chiamerai immondo ciò che Dio ha purificato-Dio ha infatti puri­
ficato tutto e si rivela, finalmente, tutto in tutti .
Il riconoscimento del male è il riconoscimentq_ della vanità dei suoi
tentativi-le lotte di Satana per vincere. È il riconoscimento della vanità
-e in ciò appunto consiste l'unico male finalmente riconosciuto come
tale--del suo tentativo di affermarsi come male, come «altro» radicale
da Dio, come negazione e separazione da Dio. Dio è tutto in tutti, tutto
è purificato. Il tentativo del male di ergersi a principio, di dichiarare male
il «male» è fallito. Il bene e il male, la vita e la morte sono l'integrità
vera del nostro cosiddetto bene, della nostra cosiddetta vita.
Il libro della rivelazione escatologica è la revoca, meglio il vero rico-

162
Apocalissi del sacro

noscimento e quindi la negazione e il superamento, di quella conoscenza


del bene e del male del Genesi che è conoscenza della morte . È negazione
di ciò che si vuole negazione e non può raggiungersi poiché è raggiunto,
nel suo autonegarsi, dall'affermazione . «Morte sarò la tua morte» dice la
tradizione del viaggio in Ade di Dio .
Questo è il centro di ciò che era promesso circa l'inimicizia dei due
semi, del seme del serpente e del seme della donna . Il seme della donna
è infatti maturato nell'albero della croce che è rivelazione autentica e
negazione dell'albero della conoscenza del bene e del male. Ed è lei, la
donna stessa, l'Eva celeste dal nome di Maria, a partorire il seme che è
&egna della rivelazione escatologica. Alla conoscenza--<:onoscenza intima,
conoscenza carnale-dell'albero del bene e del male , si oppone qui la
conoscenza di Dio che ha conosciuto la donna rivelando il :figlio . Poiché
il libro della rivelazione rivela escatologicamente l'origine, il primo, esso
deve rivelare l'avvento , l'incarnazione del Verbo . È questa la lettura esca­
tologica del Genesi : l'avvento carnale di Dio è l'originario, è il grande
segno . L 'originario è originariamente rivelarsi e poiché il rivelarsi è esca­
tologico , è oltre i confini del tempo, è oltre il conoscere temporale del
mortale-l'originario è il Fine, il Primo è l'Ultimo .

Il disegno si compie nel libro :finale ripresentando il segno iniziale,


iniziale e tuttavia segno del compimento : la nascita, che pone termine
ai tempi, di un dio bambino, del figlio umano di Dio . È il termine cui
si era rivolta tutta l'attesa di Israele ; il senso del pellegrinaggio di Israele
verso la terra, verso il paese di Dio : la terra di Israele è la terra com­
presa entro il disegno di Dio, è la terra destinata in Dio al cammino di
Israele .
Nascita messianica e apparizione delle nozze escatologiche della terra
con il cielo nel combattimento della donna del cielo--altro simbolo nu­
ziale--<:ontro il Satana perché, nella sconfessione della tentazione illu sio­
nistica dell'avversario, si riveli che nessun male pende dall 'albero della
vita : che ciò che è compiuto e perfetto non conosce il mortale frutto del
bene e del male se non per riconoscervi il vuoto inganno , l'errore pro­
spettico suggerito dal Satana. Errore felice perché accade dentro la sua
erranza, lungo il suo peregrinare, il dramma di rivelazione della trama
nella creazione-nella autoesposizione espressiva della faccia di Dio cela­
ta e scoperta nel suo nuovo mondo .
Il grande segno è la rivelazione di Dio nella faccia di Figlio d'uomo ,
il suo messia (Le . 2, 12).

163
Romano Madera

Il tema del dramma è dunque esposto nel contrasto che opporrà il


seme nato dalla donna e il seme del serpente, dbpo la conoscenza del
bene e del male che non fa diventare potenti come Dio ma anzi mortali .
Il dramma che si tende tra il seme di lei e il seme di lui è esposto in
Genesi 3 , 1 5 : Inimicitias ponam inter te et mulierem, et semen tuum
et semen illius (kai ana meson tou spermatos sou kai ana meson tou
spermatos autes ). Qui semen, come peraltro in Ovidio e in Cicerone,
sta per stirpe, progenie, rampollo, discendente, :figlio . E il figlio, il seme,
è il grande segno come ciò che è partorito dalla madre e cresce da lei
(Ap . 12, 1-5 ) . ;
l
Nel cielo apparve poi un segno grandioso, la donna vestita di sole con
la luna ai suoi piedi e il capo coronato di stelle . Due segni si oppongono :
l altro semeion (Ap . 1 2 , 3 ) è quello del drago, il serpente originario ( 1 2 ,
'

9) vuole divorare il seme della . donna che è l a novità del grande


segno : Et peperit fìlium masculum,. qui recturus erat omnes gentes · in
virga (en rhabdo) ferrea ( 12 , 5 ) .
La rivelazione :finale riprende il tema del contrasto fra i due semi
come contrasto fra due segni . Il semeion è, già in Luca (2, 1 2 ) , il bam­
bino, il seme cresciuto, il germoglio , il virgulto , il· frutto dello sperma
divino che ha fecondato la madre Maria, e in lei la terra cosl fatta nuova
-in escaton cosl rivelata.
Et peperit fìlium (Le. 2, 7) : Questo per voi il segno : troverete un
bambino (Le. 2 , 1 2 ) . È infatti il segno di contraddizione : è la contrad­
dizione dell 'altro segno, d�l segno del serpente originario : è la contrad­
dizione dell'avversario, del Satana accusatore, la contraddizione del con­
tradditore, negazione di negazione : è colui che è dato come «segno di
contraddizione» (Le. 2 , 35), sempre riferendosi al bambino .
Ancora circolarmente infatti il verbo di Dio che è verità--e dunque
contraddizione della contraddizione , negazione della negazione trascri­
vendo il mitologizzare in :filosofia-è seme : semen est verbum dei : ho
sporos estin ho logos tou Theou (Le. 8, 1 1 ) . :rv.t:a , sempre ritornando,
come il semè per la terra cosl il bambino apre la �lva matrice : to pai­
dion Iesoun di Luca 2 , 27 è « adaperiens vulvam» è colui che apre la
«madre» dianoigon metran .
Questo natale che è seme crescente, germoglio e virgulto messianico
che si sviluppa nella madre e dalla madre, è il segno di Dio agli uomini :
natale come segno , nella presentazione di Simeone accecato veggente
profetico , di un'altra dimensione, dato come (Le . 2 , 3 2 ) luce per illu­
minare fos eis apokalupsin . Alla lettera questa luce di rivelazione è com-

164
Apocalissi del sacro

piuta escatologicamente nel libro dell'apocalisse come finale ermeneutica,


avvenimento decisivo, dell'avvento , del Signore che viene che è messia
della terra partorito dal cielo e dall a terra, nel cielo e nella terra .
Una luce sorgente e crescente è allora questo segno come seme ente­
lechiale che contiene in sé l'intera rivelazione e che si compie nella rive­
lazione, nell'apocalisse ultima. Ora il semeion è anche fenomeno celeste,
presagio celeste, costellazione (oltre ad essere , come sema, sepoltura,
tomba: il seme che muore nella terra ! ) : stella . Il segno che i Magi ve­
nuti dall'Oriente (apo anatolon , Mt. 2 , l) vogliono adorare : vidimus
enim stellam eius in oriente (Mt. 2, 2 ) autou ton astera en te anatolè,
e in Matteo 2, 9 «la stella che avevano visto nel suo sorgere» , un segno
che cresce (en tè anatolè) nel cielo .
Luce che sorge, che cresce, è il segno celeste, è il segno del bambino .
Cosi i settanta avevano già interpretato i grandi testi messianici, l'Oriens
come Messia. Cosi abbiamo anatole, oriens, che sorge, che cresce in
Geremia 23 , 5 e in Zaccaria. Mi scriveva su questo un amico : « Il greco . . .
coglie la funzione messianica della crescita mediante l'immagine del sole
che sorge, astro orientale del mattino . . . nel Benedictus (Le. l , 76) la
visita messianica di Dio è definita anatolè ex hupsous, 'un sole che sorge' .
Ciò che il testo greco intende come luce e segno luminoso, sole che sor­
ge e cresce, è il termine �emal; sostantivo che vuol dire germe, germoglio ,
germinazione e che viene dalla stessa radice di �amai; (germinare, crescere
o far crescere, produrre, fecondare nel senso dell'acqua che fa germinare
la terra) » .
I l seme che cresce è un segno che conclude nell'apocalisse all a scon­
fitta dell'altro segno , del seme del serpente.
Il grande segno del figlio d'uomo che è dio assume e assorbe e supera
e toglie, contraddicendolo, il segno del serpente originario.
Giovanni 3, 14-15 ricordando il gesto profetico di Mosè, in Numeri
2 1 8 sgg . , già annuncia che il segno del maledetto è segno di salute ,
,

di benedizione , di terapia, di servizio dell'anima .


«Et sicut Moyses exaltavit (hupsosen) serpentem in deserto, ita exal­
tari oportet Filium hominis, ut omnis, qui credit in ipsum, non pereat, sed
habeat vitam aeternam». Nel segno del serpente non perisca come era
accaduto alla conoscenza del bene e del male, perché il cosiddetto male
-il maledetto crocifisso , il segno del serpente-è il segno, il germoglio,
la luce della salvezza che viene .
Il segno di contraddizione vince perché rivela la contraddizione-e in
ciò appunto la contraddice--d e l segno del serpente originario : esso si

165
Romano Madera

voleva perdizione ma è stato assunto a salvezza.


D'altra parte questo movimento di significato jè fortemente confer­
mato proprio in Apocalisse 1 2 , l sgg ., dove si riprende il tema del
Genesi sull'inimicizia fra il seme del serpente e il seme della donna.
Poiché il segno del serpente è raddoppiato . La donna non è insidiata al
calcagno dal serpente , dal drago che pure la insidia, ha invece la luna
ai suoi piedi. La personifìcazione della luna è infatti spesso, nella mito­
logia e nella storia comparata delle religioni, quella del serpente, dove si
intenda sottolineare il «concetto della luna come fonte delle realtà vi­
venti e fondamento della fecondità e della rigenerazione periodica>i (M.
Eliade, Trattato di storia delle religioni ( 1 948) , trad . it . V. Vacca , Bo­
ringhieri, Torino 1 9 76 : al paragrafo 52 La luna, la donna e il serpente).
«Lo stesso simbolismo centrale di fecondità e di rigenerazione, soggette
alla luna e distribuite dalla luna stessa o da forme consubstanziali (Magna
Mater, Terra Mater) spiega la presenza del serpente nell 'iconografia o nei
riti delle grandi Dee della fecondità universale» (ivi) . La donna del cielo
appare disporre della forza lunare poco prima di dare alla luce il figlio .
La stretta connessione tra la terra e la donna è espressa in Ap . 12, 1 6
« e l a terra venne i n aiuto alla donna» .
S i delinea cosl il punto terminale che chiude l a grande configurazione
del mito ebraico : nella donna del cielo lunare, e dea della terra, è con­
dotta a salvezza l'intera natura, la sua ciclicità fecondatrice, ciò che sem­
brava all 'inizio perduto . La terra perduta, la donna perduta , l'umanità
perduta, la natura perduta è ritrovata e indicata come senso dell'intero
pellegrinaggio : la terra è infatti · il fine che dall'inizio è promesso . La
donna del cielo indica questo completarsi dell'immagine divina, il suo
rivelarsi pienezza e ricomprensione della natura . I cieli nuovi e la terra
nuova nella novità della loro congiunzione di alleanza perfetta sono il
termine del racconto . Quella dea fenicia arcaica riconosciuta in Eva da
Gressman-e condannata come tutte le divinità femminili della fecon­
dità dal mito ebraico-dea del mondo sotterraneo personificata dal ser­
,
pente, qui è salita al cielo lungo la scala ascetica ·,:e drammatica della
narrazione, portando con sé ricchezza di fertilità terrestre e ciclo trasfor­
mativo di nascita, copula e morte proprio della vita naturale e proprio
degli uomini della natura .
Il segno di Dio è seme che si configura nell'intero : in cieli e terra
nuovi Dio ascende al mondo, cammina verso la terra promessa : la terra
promessa, la creazione escatologicamente rivelata è il senso del cammino
di Dio . Nel cammino della rivelazione di Dio si rivela finalmente la na-

166
Apocalissi del sacro

tura divina del tutto .


Lo Spirito è infatti Dio (Gv . 4, 2 3 sgg.) .
Ma lo Spirito viene dopo la glorificazione di Gesù (Gv . 7, 39), dopo
la croce e la gloria del segno innalzato del serpente . La verità di
Dio è pentecostale-e pentecoste è il tempo della rivelazione ulti­
ma (Atti, 2). La discesa e l'abitazione incarnata dello spirito nel mon­
do è la rivelazione compiuta, solo nello spirito è compiuta la rivelazione
della vita stessa del maestro . Lo spirito e non la presenza oggettuale
esterna del maestro insegnerà, dice Giovanni, tutta la verità. Morte,
resurrezione e ascensione del maestro--l a sua assenza--<::onducono lo spi­
rito nel mondo--l a verità piena, integra . Lo spirito di Dio, lungo la scala
di Giacobbe della rivelazione che è la vicenda del maestro della croce ,
(Gv . 1 6 , 7 ) : la sua assenza come presenza separata, distinta, ancora
si rivela conquistato da un ulteriore senso del sacrificio del maestro
astratta . Il maestro sacrifica sé alla verità della integrità dello spirito di
Dio, più grande ancora di quanto la sua voce direttamente possa inse­
gnarci. Il maestro si allontana per rendere possibile la presenza concreta
dello spirito di Dio : lo spirito che vive, adesso, dopo la sua storia, il
tempo escatologico della pienezza di tutto in tutto come dio in dio :
cieli e terra nuovi.
Dentro l'immagine rivelata, dentro e oltre la persona viva del mae­
stro, la parola indica la circolarità immensa e intera dell'aleggiare dello
spirito di Dio nel tutto . Per questa rivelazione :finale , per questa apo­
calisse escatologica si è dunque sacrificato e deve essere sacrificato il
maestro della croce ?
Non vi sarà più cosa maledetta poiché non chiamerai profano ciò che
Dio ha purificato : Dio è tutto in tutti, oltre il sacro e il profano è la sua
santità, la sua integrità, la sua totalità.
Ciò che alla :fine è rivelato è che originariamente Dio vide, e Dio
vede , che tutto era ed è buono, molto buono .
L'Apocalisse suggerisce una lettura del Genesi e della storia della
rivelazione come dramma del riconoscimento e della testimonianza che
lo Spirito di Dio , che è verità, dà a se stesso .

167
Jean-Luc Marion *
L'ESSERE, L'IDOLO, IL CONCETTO

Va da sé che all'idolo ci si può accostare solo nell'antagonismo che


lo unisce immancabilmente all 'icona . I due concetti appartengono sen­
z'altro a due momenti epocali distinti e, per molti versi , concorrenti : lo
eidolon presuppone lo splendore greco del visibile, la cui policromia dà
adito alla polisemia del divino , l'eikon, invece , rinnovato dall'ebraico
attraverso il Nuovo Testamento e teorizzato dal pensiero patristico e
bizantino, si concentra-al pari della luminosità del visibile-sull'unica
figura di quello che Holderlin chiamò appunto Der Einzige, l'unico, solo
dopo averlo paragonato e, in ultima analisi, integrato con Dioniso ed
Eracle. Ma tale conflitto si dispiega in una dimensione molto più essen­
ziale di quella che potrebbe essere identificata da un'eventuale polemica
tra l' «atte pagana» e l' «atte cristiana»; meglio, questa formulazione stessa
nasconde (e banalizzandola la dissimula) una posta molto più essenziale .
La successione storica di due modelli di « arte», infatti, permette di pa­
lesare un conflitto fenomenologico , un conflitto tra due fenomenologie .
L'idolo non indica, più di quanto lo faccia l'icona, un ente particolare e
neppure una classe di enti . Icona ed idolo indicano un modo d'essere
degli enti , o per lo meno di certi enti . A ben vedere , in questo caso,
non ci si potrebbe accontentare di una determinazione che si limitasse
ad opporre il « vero Dio» (icona) ai «falsi dei», generalizzando la pole­
mica dei profeti vetero-testamentari ; gli iconoclasti cristiani dell'viii
secolo, infatti, definivano idoli quelle che erano s tate concepite e vene-

�<
Tratto da Dieu sans l'etre, Libr. Arthème Fayard, Paris, di prossima pubbli­
cazione presso la Editoriale Jaca Book, Milano.

169
Jean-Luc Marion

rate come icone del vero Dio, e gli ebrei dell'Antica Alleanza respinge­
vano come idolo qualsiasi rappresentazione , anche del Dio dell'Alleanza
(il «Vitello d'oro» di cui tanto si parla forse non personificava altro che
il Dio dell'Alleanza, e lo stesso Tempio di Gerusalemme fìnl per vedersi
abbandonato dalla Shekinah divina solo nella misura in cui cominciò a
cadere nell'idolatria) . Fortunatamente, ogni sforzo per prendere sul serio
il destino (Geschick) ed il supporto iniziale della Grecia implica che una
interpretazione meglio disposta revochi l'accusa di pura e semplice ido­
latria, e cerchi-poco importa qui se vanamente o con successo--di ,rico­
noscere la dignità autenti2amente divina di ciò che nei monumetÙi di
quest'epoca si offre alla venerazione (Hegel, Schelling, Holderlin) . In
breve, l'icona e l'idolo non si decidono come degli enti di fronte ad altri
enti, poiché gli stessi enti (statue, nomi, ecc.) possono passare dall'uno
all'altro rango . L'icona e l'idolo determinano due modi d'essete degli
enti, e non due classi di enti.
La loro interferenza diventa quindi tanto più problematica, e tanto
più urgente diventa l'esigenza di prestarle attenzione . Ma, si obietterà
a questo punto, anche se certi enti possono passare dall'idolo all'icona,
o dall'icona all'idolo, mutando semplicemente di statuto di fronte ad una
venerazione, non tutti gli enti possono fare la stessa cosa : a ben vedere,
in effetti, non di ogni ente si può dire che sia in grado di mettere in
moto , di suscitare o, addirittura, di esigere una venerazione. O meglio ,
anche se il numero di quelli ,che esigono la venerazione varia, come varia
anche il modo di questa venerazione, tutti ammettono comunque delle
caratteristiche comuni e minimali : i signa del divino. Signa : il termine
latino è in questo caso estremamente ricco : possono pretendere agli sta­
tuti contraddittori di idoli o/e di icona solo quelle opere che l'arte ha
foggiato in modo tale da non limitare la loro visibilità a se stesse (come
in quelle che sono cosi esattamente definite «arti dilettevoli») e che, in
quanto tali e restando cosi assolutamente immanenti a se stesse , fanno
indissolubilmente segno verso un altro termine, ancora indeterminato .
Precisiamo : questo rinvio non fa segno verso un'istanza che non avrebbe
nulla a che fare con quella che è costituita dall'opera d'arte in se stessa
e che verrebbe a surdeterminarla dall'esterno con un «valore simbolico»
non meglio determinato; al contrario, questo rinvio costituisce la dignità
più essenziale dell'opera ; l'opera si rivela come tale solo facendo segno,
perché è solo facendo segno che vale come signum . Bisognerebbe quindi
interrogare i signa sul loro modo di fare segno, venendo con ciò a sup­
porre che l'idolo e l'icona si distinguono solo in quanto fanno segno in

170
L'essere, l'idolo, il concetto

maniera diversa, cioè si servono della loro visibilità ciascuno a modo suo ;
ma la diversità di questi modi di far segno e di farsi signa è senz'altro
in grado di discriminare completamente l'idolo dall'icona. Signa, ma ap­
punto in quanto concernono il divino : ora, senza neppur lontanamente
pretendere di accostarsi a quella che è la difficoltà più fondamentale
(l'ente che accede alla visibilità solo come signum potrebbe forse far
segno verso un referente diverso dal divino stesso e che non fosse ap­
punto e soltanto il divino stesso? ) , bisogna per lo meno osservare che
in questo caso il divino entra in gioco solo con il supporto della visibi­
lità ; ma la visibilità, relativamente al divino, si dice in diversi modi; o
meglio, le variazioni del modo di visibilità indicano delle variazioni del
modo di apprensione del divino stesso; un certo modo di visibilità non
può convenire ad ogni figura del divino, ma ha con una determinata fi­
gura del divino un rapporto rigoroso e sicuramente costitutivo : il modo
di vedere decide dò che si può vedere, o meglio, per Io meno negativa­
mente, decide dò che del divino non si potrebbe comunque percepire .
Abbozzando una fenomenologia comparata dell'idolo e dell 'icona, si trat­
ta dunque di precisare non una qualche questione di estetica o di storia
dell'arte, ma i due modi di apprensione del divino nella visibilità. Di
apprensione, ma senz'altro anche di ricezione .

l . Primo visibile

L'idolo non merita mai e neppur lontanamente di essere denunciato


come illusorio, poiché l'idolo, per definizione, si vede : eidolon è ciò che
si vede ( eido , video ) . Anzi, esso non consiste se non nel fatto che può
vedersi e che lo si può soltanto vedere. E vederlo cosi visibilmente che
il fatto stesso di vederlo basta a conoscerlo : eidolon è ciò che si cono­
sce per il fatto stesso che lo si è visto ( aida ) . L'idolo si presenta allo
sguardo dell'uomo per accaparrarsene in tal modo la rappresentazione e ,
quindi, la conoscenza. L'idolo s i erge solo l à dove non s i può fare a meno
di vederlo : la statua monumentale di Atena, che sfolgorava dall'Acro­
poli, poteva essere avvertita nel suo splendore persino dagli sguardi dei
marinai del Pireo, e se l'oscurità di un naos ombreggiava la statua crise­
lefantina, dò faceva sl che a forza di immaginarsela il fedele finisse per
subirne ancor più profondamente il fascino, quando, avvicinandosi, po­
teva finalmente innalzare verso di lei il suo sguardo . L'idolo affascina e
cattura lo sguardo appunto perché in esso non si tmva nulla che non

171
Jean-Luc Marion

debba esporsi allo sguardo, che non debba attirarlo, colmarlo, tratte­
nerlo. L'ambito in cui esso regna incontrastato--l'ambito dello sguardo
e quindi del guardabile-basta anche all'accoglienza : l 'idolo cattura Io
sguardo solo in quanto il guardabile lo comprende. L 'idolo dipende dallo
sguardo che soddisfa , perché se lo sguardo non desiderasse trovarvi sod­
disfazione , l 'idolo non avrebbe ai suoi occhi alcuna dignità. La critica più
diffusa dell'idolo si chiede con stupore come si possa adorare alla stregua
di una divinità proprio ciò che le mani di colui che prega hanno appena
forgiato , scolpito, decorato, in una parola, fabbricato . «Liberato dagli
idoli » , Claudel non vuol · più vedere nell'idolo se non l 'aberrazione «del
l
selvaggio che si costruisce una piroga e da un asse superflua fabbrica
Apollo» 1• Questa critica, però , non coglie l'essenziale : perché la cosa
fabbricata diventa idolo, e di un dio per di più, solo a partire dal mo­
mento in cui lo sguardo ha deciso di guardarla e ne fa il punto privi­
legiato di messa a fuoco del proprio riguardo ; il fatto poi che la cosa
fabbricata esaurisca in sé lo sguardo presuppone che essa si esaurisca nel
guardabile . Il momento decisivo dell'istituzione di un idolo , dunque,
non è quello della sua fabbricazione, ma quello in cui viene eretto a
guardabile ed investito del compito di colmare uno sguardo . La qualità
di idolo dipende dallo sguardo . L 'idolo abbaglia con la sua visibilità solo
nella misura in cui lo sguardo lo guarda con riguardo. Attira lo sguardo
solo nella misura in cui lo sguardo l 'ha completamente attirato nel guar­
dabile, ve lo ha esposto ed esaurito . Solo lo sguardo fa l'idolo, come
ultima funzione del guardabile .
Dal momento che solo lo sguardo qualifica l 'idolo , come intendere la
molteplicità degli idoli, le loro mutevoli validità, le loro figure contin­
genti , le loro disparate dignità ? Lo sguardo fa l'idolo e non l'idolo lo
sguardo : il che significa che l'idolo colma con la propria visibilità l 'in­
tenzione dello sguardo, che vuole appunto soltanto questo, vedere . Lo
sguardo precede l 'idolo , per il semplice fatto che la mira precede e su­
scita ciò a cui mira . L'intenzione prima mira al d,ivino , e lo sguardo si
tende in previsione di vedere il divino, di vederlO prendendolo dunque
nel campo del guardabile . Più la mira si dispiega con potenza, più a lun­
go si fissa e più ricco, possente e sontuoso apparirà l'idolo sul quale essa
fermerà il proprio sguardo. Fermare lo sguardo , non lo si potrebbe dire
meglio : fermare uno sguardo , farlo (ri )posare in/su un idolo , quando

P. Claudel, Cinq grandes odes, III, Magnificat, in Oeuvre Poétique, «Pléiade»,


Paris 1967 , p. 25 1 .

172
L'essere , l 'idolo, il concetto

non può più passare oltre 2• In questa fermata, lo sguardo cessa di supe­
rarsi e di trapassarsi, cessa quindi di trapassare le cose visibili, per fer­
marsi allo splendore di una di loro . Lo sguardo che non si trapassa più,
non passa più attraverso le cose, non le vede più in trasparenza; ad un
certo punto , non ne prova più la trasparenza-le trova insufficiente­
mente cariche di luce e di gloria-ed una finalmente e da ultima gli si
presenta con quel tanto di visibilità, splendore e luminosità che la rende
capace, per prima, di attirarlo , catturarlo , colmarlo . Questo primo visi­
bile offrirà ad ogni sguardo il proprio idolo , l 'idolo alla sua portata .
L'idolo, o il punto di caduta dello sguardo . Ma cosa indica dunque
l 'idolo ?

2. Specchio invisibile

Prima di presentare la sua visibilità specifica ed il suo senso intrin­


seco, se ne deve interpretare l'apparizione stessa . Quando l 'idolo appare ,
lo sguardo si è appena fermato : l'idolo concretizza questa fermata . Prima
dell'idolo, lo sguardo trapassava in trasparenza il visibile . Ad essere ri­
gorosi, lo sguardo non vedeva il visibile, poiché continuava a trapassarlo ,
a trapassarlo con uno sguardo penetrante . Ad ogni spettacolo visibile ,
lo sguardo non trovava nulla che potesse fermarlo ; gli occhi di fuoco
dello sguardo bruciavano il visibile , cosi che, ad essere esatti , ogni volta,
lo sguardo non vedeva altro che fuoco . Ma a questo punto interviene
l'idolo . Cosa succede? Per la prima (e l'ultima) volta, lo sguardo non
brucia più la tappa dello spettacolo , ma fa tappa nello spettacolo ; si
lascia prendere 3 in esso e, invece di transitare oltre, resta a guardare
ciò che diventa per lui uno spettacolo da ri-spettare . Lo sguardo si lascia
colmare : invece di oltrepassare il visibile, di non vederlo e di renderlo

Questo fermarsi dello sgua rdo , che lo «prende» in un vissuto intenzionale viene
esemplarmente descritto da Husserl, p e r e sempio in Ideen . .. ,r, § 101, Husserliana,

m, p. 254 ( tr . it.Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomeno­
logica, Einaudi, Torino 1965, pp . 230-23 1 ) .
l
Il te s to francese, in questo capitolo, ha spesso la contrapposizione tra fixer e
figer uno sguardo ( let teralmente, :fissare o fermare ed irrigidire ) ; per mantenere in
qualche modo il gioco di consonanza tra i due verbi ( diversi solo per una conso­
nante ), li renderemo coniugando prendere e rapprendere, autorizzati in questo anche
dal senso di « bl occare, intrappolare, prendere in trappola>> che il contesto dà a fixer
e dall'accostamento ( fatto dall'autore stesso sulla scor ta di un verso di Baudelaire)
tra lo sgu ard o fig é ed il sangue figé, cioè coagulato o, appunto, rappreso (ndt).

173
Jean-Luc Marion

invisibile, si scopre oltrepassato, contenuto, trattenuto dal visibile . Il


visibile gli diventa finalmente visibile perché, setl?pre per essere esatti,
gli riempie gli occhi . L'idolo, primo visibile, riempie per primo gli occhi
ad uno sguardo sino ad allora insaziabile. L'idolo offre, o meglio impone
allo sguardo il suo primo visibile, quale che esso sia, cosa, donna, idea
o dio . Ma in questo senso, se nell'idolo lo sguardo vede il suo primo
visibile, più che uno spettacolo non meglio identificato, ciò significa che
vi scopre anche il proprio limite ed il proprio luogo . Come un ostacolo
rinvia un'onda ed indica all'emittente la sua localizzazione rispetto a
questo ostacolo stesso, l'idolo rinvia lo sguardo a se stesso, indicandogli
quanti enti ha trapassato prima di lui e, dunque, indicandogli ariche a
che livello si situi ciò che, per la sua mira, funge da primo visibile per
eccellenza. L'idolo svolge cosl il ruolo di uno specchio, non quello di un
ritratto : specchio che rinvia allo sguardo la sua imm agine o, più esat­
tamente, l 'immagine della sua mira, e della portata di questa mira . L'ido­
lo, come funzione dello sguardo, gli riflette la sua portata. Ma l'idolo
non manifesta di primo acchito il proprio ruolo ed il proprio statuto di
specchio . L'idolo, infatti, appunto perché ferma su di sé la portata ed
il fuoco dello sguardo, risplende immediatamente di uno splendore che
t: per definizione (per lo meno) uguale a ciò che questo sguardo può
vedere ; dato che l 'idolo colma lo sguardo, lo satura di visibilità, e quindi
lo abbaglia; la funzione di specchio si oscura proprio in forza della fun­
zione di spettacolo. L'idolo maschera lo specchio perché colma lo sguar­
do . Lo specchio lascia che la propria funzione sia offuscata dallo splen­
dore del guardabile finalmente visibile. In quanto offre allo sguardo il
suo primo visibile, l'idolo resta a sua volta specchio invisibile. Il fatto
che lo specchio resti invisibile, dato che il visibile abbaglia lo sguardo ,
fa sl che l'idolatra non inganni mai, e non si trovi mai ingannato : sem­
plicemente, egli resta rapito .
L'idolo, come specchio invisibile, prende lo sguardo, bloccandolo
come al suo punto d'arrivo e misurandone inoltre la portata. Ma l'idolo
non potrebbe prendere in nessun oggetto guardabile,:lò sguardo, se que­
sti, innanzitutto, non si rapprendesse per conto suo . Il divino, come il
sole evocato da V aléry (che fa involontariamente eco ad Aristotele), am­
mette di lasciarsi prendere in mille e un idolo, nel quale il suo splendore
si riflette visibilmente : «Sl, grande mar di deliri dotato, l Pelle di tigre
e mantello bucato l Da mille e mille idoletti solari» 4 •

P. Valéry, Le cimetière marin, in Oeuvres, I, «Pléiade», Paris 1960, p. 15 1 .

174
L'essere, l'idolo, il concetto

Ma perché un idolo appaia, e attiri , prendendola, l'attenzione di uno


sguardo, è necessario che il riflesso di uno specchio stabile lo accolga ;
è necessario che, invece dello sguardo fluttuante delle onde instabili che
«ritesse il mar sempre ricominciato» 5, si offra come specchio uno sguar­
do con la stessa mortale immobilità di un sangue rappreso : «rapprende
il sangue che ha annegato il sole » , come dice Baudelaire 6 • Perché l'idolo
possa prenderlo, lo sguardo deve innanzitutto rapprendersi . Cosl lo spec­
chio invisibile che gli è offerto dal primo visibile non indica soltanto
allo sguardo fino a dove si estenda la sua mira più estrema, ma anche ciò
che la sua mira non saprebbe mirare . Quando lo sguardo si rapprende,
la sua mira si deposita (nel senso in cui si dice che un vino maturo depo­
sita), e quindi il non-mirato scompare . Se lo sguardo idolatrico non guar­
da criticamente al proprio idolo , ciò dipende dal fatto che non ha più i
mezzi per farlo : la sua mira culmina su una posizione che è immedia­
tamente occupata dall'idolo, e nella quale si esaurisce ogni mira. Ma ciò
che rende idolatrico uno sguardo non può, per lo meno di primo acchito,
dipendere da una scelta etica: rivela piuttosto una fatica essenziale. Lo
sguardo si deposita solo in quanto si riposa, dalla fatica di mantenere
l 'alzo di una mira senza tregua, riposo, né fine : « . . addormentarmi del
.

sonno della terra» . L'idolo offre allo sguardo, con il primo visibile e
lo specchio invisibile, la sua terra, la prima terra ove riposarsi . Con
l'idolo, lo sguardo finisce per sotterrarsi . In questo senso , di fronte ad
una rivelazione , l 'idolo verrebbe squalificato non perché offrirebbe allo
sguardo uno spettacolo illegittimo, ma irinanzitutto perché gli propone
ove (ri)posare . Con l 'idolo, lo specchio invisibile non ammette più alcun
al di là, dato che lo sguardo non può aumentare l'alzo della mira . Lo
specchio invisibile contrassegna così , negativamente , la carenza della mi­
ra, cioè, propriamente , il non-mirabile 7• Il visibile inizia là dove finisce
la mira . Lo specchio invisibile si dissimula nel primo visibile, che con­
trassegna in tal modo il non-mirabile . L'idolo non ammette alcun invi­
sibile, in primo luogo perché, nello splendore della propria luce, dissi­
mula la propria funzione di specchio invisibile, e d in secondo luogo

IbiJ. , p. 147, cui si accosterà Aristotele, La premonizione nel sonno, II, 464 b
8-10.
6 C. Baudelaire, Harmonie Ju soir, in Oeuvres Complètes, «Pléiade», Paris 196 1 ,
p. 45.
Cosl rendiamo il francese invisable : si perde il gioco di corrispondenza con
visiblee invisible, ma resta per lo meno quello più diretto con visée, non-visé,
visable, mira, non-mirato, mirabile (ndt).

175
Jean-Luc Marion

perché al di là dell'idolo si apre-o meglio si richiude-più


t
ancora che
l'invisibile, il non-mirabile . Un invisibile, infatti, presupporrebbe innan-
zitutto che una mira ancora oscura si estenda sino ad esso per aprirlo .
Ciò detto, possiamo definire la serietà ed i limiti dell'idolo: in esso, il
divino viene effettivamente nella visibilità che gli sguardi umani cercano
di prendere in trappola; ma questa venuta si commisura a ciò che la por­
tata di certi sguardi umani può sopportare, alla visibilità che ogni mira
sa esigere per dirsi colmata; in breve, la venuta del divino è presa in
un idolo solo se lo sguardo dell'uomo si rapprende ed apre, cosi, il \uogo
di un tempio . L'idolo si commisura al templum che, di volta in volta, lo
sguardo dell'uomo delimita nel cielo commisurandolo a sé: «deus is,
cujus templum est omne id quod conspicis, questo dio, il cui tempio è
tutto ciò che vedi » 8• Questo dio , il cui spazio di manifestazione si com­
misura a ciò che uno sguardo può sopportare : cioè , appunto, un idolo .

3. Ritorno di splendore

L'idolo, quindi, consegna il divino commisurandolo alla misura di


uno sguardo umano. Specchio invisibile, contrassegno del non-mirabile,
esso deve essere inteso secondo la sua funzione e valutato in base alla
portata di questa funzione . Solo all ora diventa legittimo chiedersi che
cosa rappresenti e a che cosa assomigli la figura materiale che l 'arte uma­
na dà all'idolo . Risposta : non rappresenta null a , ma presenta una certa
magra del divino ; assomiglia a ciò che lo sguardo umano ha provato del
divino . L'idolo , che come tale è un kouros arcaico, non pretende eviden­
temente di riprodurre un certo dio, poiché ne offre l'unico originale mate­
rialmente visibile. Molto di più , sull a pietra del suo materiale viene conse­
gnato ciò che del dio è stato visto da uno sguardo, quello dell'artista
come uomo religioso ripieno di dio ; il primo visibile ha saputo abba­
gliarne lo sguardo, ed allora l'operaio cerca di prodl).rre sul proprio mate­
riale appunto questo : egli vuole prendere sulla pietra, per essere esatti
vuole solidificare , un ultimo visibile degno del punto sul quale si è rap­
preso il suo sguardo . La pietra, il legno, l'oro, o quello che preferite,
tenta di occupare con una figura presa il luogo che è stato contrassegnato

Cicerone, De Republica, VI, 15. Questo testo è tanto più significativo appunto
perché in questo caso il templum non ha limiti e si estende all 'universo; esso resta
comunque definito in quanto determinato dal conspectus umano.

176
L'essere, l'idolo, il concetto

dallo sguardo rappreso . E il turbamento che, spaventando e rapendo in­


sieme, ha rappreso lo sguardo dovrebbe investire la pietra proprio come
ha investito lo sguardo dell'artista religioso. Cosl lo spettatore, a patto
che il suo atteggiamento diventi religioso, potrà ritrovare sull'idolo ma­
terialmente preso lo splendore del primo visibile la cui magnificenza rap­
prende lo sguardo . Parlare di un atteggiamento che diventa religioso
significa dire che allo splendore preso dall'idolo materiale corrisponde
esattamente la portata dello sguardo che, con questo splendore, riceverà
la prima magnificenza veramente capace di fermarlo , colmarlo, rappren­
derlo . L'idolo, nel proprio materiale, consegna e conserva lo splendore
sul quale si è rappreso uno sguardo, nell 'attesa che altri sguardi ricono­
scano lo splendore di un primo visibile che sappia rapprenderli nella loro
ultima portata . L 'idolo funge da nesso materialmente preso tra diversi
splendori prodotti dallo stesso primo visibile ; esso diventa la storia con­
creta del dio e la memoria che ne conservan� meno--gli uomini . Per
ciò stesso, nessuno, nemmeno un moderno del tempo dell'indigenza, può
credere di essere al riparo dagli idoli , per poco o tanto che sia idolatra :
per essere catturato dall'idolo gli basta riconoscere, preso sul volto di una
�tatua, lo splendore magnifico del primo visibile, di quel primo visibile
sul quale, un giorno, lo sguardo rapprese la propria portata. Robert Wal­
ser ha affidato questa minaccia e descritto questa invasione del divino
con una precisione quasi clinica, in un poema in prosa indimenticabile 9 •
Dato che l'idolo lascia venire il divino solo commisurandolo all'uomo,
l'uomo stesso può consegnare l'esperienza idolatrica all ' arte e può cosl
mantenerla accessibile, se non proprio a tutti e per sempre, per lo meno

9
R. Walser, Das Gotzenbild, in Prosa, Suhrkamp, Frankfurt 1968, pp. 129-130;
in queste pagine sono descritti esistenzialmente i momenti della nostra analisi con­
cettuale. Il visitatore di un museo di etnologia in un primo tempo osserva delle
statue con un interesse che è tanto evidente quanto estrinseco ; a ciò si oppone
improvvisamente un idolo nel quale il suo sguardo si rapprende, per leggervi
l'impressione divina che l'artista idolatra vi aveva lasciato : « . . . egli rimase H impa­
lato, improvvisamente, senza sapere come, di fronte ad una figura primitiva in legno
che, per spaventevole e grossolana che fosse, gli fece un'impressione tale che si
senti soccombere anima e corpo alla magia dell'idolo ed alla sua rozzezza». Questa
emozione non ha null a di «estetico», ma spinge e poi costringe fisicamente all'ado­
razione, non certo dell'immagine ma dell'Eindruck che essa esercita e che si esercita
appunto come questa visibilità : « ... improvvisamente si impadronl di lui un desi­
derio mostruoso, spaventevole di gettarsi a terra, di inginocchiarsi e di prosternarsi
per poter venerare con il proprio corpo la spaven tosa imm a gine che era stata strap­
pata ai deserti africani».

177
Jean-Luc Marion

ai fedeli del dio e finché gli dei non saranno fuggiti( L'arte non produce
l'idolo più di quanto l'idolo produca lo sguardo . Lo sguardo, rappren­
dendosi, contrassegna il luogo in cui il primo visibile risplende della pro­
pria magnificenza; l 'arte, allora, non fa altro che tentare di consegnare
materialmente , in seconda battuta e per mezzo di quello che abitual­
mente viene chiamato idolo, lo splendore del dio. Il fatto che solo a
questo splendore si possa attribuire il nome di idolo risulta inoppugna­
bile se si considera che, per riconoscere questo splendore sul volto mate­
riale, è necessario uno sg1,1ardo corrispondente, ed è quindi nece�sario
anche uno sguardo la cui mira si depositi e si rapprenda con questo
primo visibile ; in breve, il fatto che gli idoli non coincidano con le loro
pure e semplici statue è provato dalla facilità con la quale disertiamo
l'idolatria durante certe visite a templi o musei , quando il nostro sguardo
se ne va in giro come uno scioperato, tanto è assente in queste visite
quella mira la cui attesa potrebbe !asciarvisi colmare e quindi rappren­
dere, e tanto i segni di pietra ed i tratti di colore attendono , con sguardi
muti, di essere raggiunti da sguardi vivi che si lascino nuovamente abba­
gliare dallo splendore che essi hanno conservato . Spesso non abbiamo , o
non abbiamo più , i mezzi per una così stupenda idolatria.

4. Idolo concettuale

Se noi occidentali , datati (e dotati) dalla fine della metafisica, siamo


privi dei mezzi estetici per cogliere l'idolo , abbiamo però altri mezzi, ed
altri ancora si stanno sviluppando. Il concetto , ad esempio . Il concetto
consegna in un segno ciò che lo spirito ha compreso ( concipere, capere)
con lui : ma questa comprensione non si commisura tanto all'ampiezza
del divino quanto alla portata di una capacitas che prende il divino in
un concetto , quale che esso sia, solo nel momento in cui una concezione
del divino la colma e, quindi , l'appaga , la ferma, la i:apprende. Quando
un pensiero filosofico enuncia un concetto di quello che esso chiama in
quel caso «Dio » , questo concetto funziona esattamente come un idolo :
si dà a vedere ma in questo modo si dissimula ancor più profondamente
dello specchio in cui il pensiero , invisibilmente, riceve la localizzazione
della propria avanzata , così che il non-mirabile viene a trovarsi, con una
mira sospesa dal concetto preso, squalificato ed abbandonato ; il pensiero
si rapprende , ed appare il concetto idolatrico di «Dio » , concetto nel quale
questo pensiero , più che Dio giudica se stesso . Gli idoli concettuali della

178
L'essere, l'idolo, il concetto

metafisica culminano nella causa sui (come fa notare Heidegger 10) solo
nella misura in cui tutte le figure dell'onto-teo-logia si sono messe a con­
segnare in un concetto l'ultima magra della loro avanzata verso il divino
(Platone, Aristotele ), dopo il Dio cristiano : in questo senso, l'idolo con­
cettuale del «moralischer Gott» , del «dio morale» di cui parla Heideg­
ger 1 1 , limita l'orizzonte della comprensione kantiana di Dio--« ( ... ) la
supposizione di un autore morale del mondo» 12-al pari di quello della
«morte di Dio», dato che, come confessa lo stesso Nietzsche, «lm
Grunde ist ja nur der moralisch e Gott iiberwunden, in fondo solo il Dio
morale è infatti superato» 13 • In entrambi i casi, in quello del teismo
come in quello del sedicente «ateismo» , la misura del concetto non viene
da Dio ma dalla mira dello sguardo . Anche in questo caso , così, vale
sino in fondo il giudizio di Feuerbach : «è l'uomo stesso ad essere H
modello originale del suo idolo» 14• Sotto questa luce si potrà forse in­
tuire perché sia coessenziale all'idolo il fatto che lui stesso si prepari il
proprio crepuscolo. Questo crepuscolo potremmo averlo già vissuto due
volte : in un primo tempo, esteticamente, quando gli oracoli si erano
ormai zittiti , nella stagione in cui lo splendore dei Lumi offuscò quello
dei signa forgiati dalla mano ; e poi, oggi, sotto il sole nero del nichi­
lismo, quando sembriamo ormai liberati, o semplicemente privati ed
esclusi dall'eredità «dei libri e delle Idee, degli Idoli e dei loro sacer­
doti» 15•

5. L'icona dell'invisibile

L'icona non è l'esito di una visione ma dò che la provoca. L'icona


non si vede ma appare o, più primitivamente, pare, ha l'aspetto di . . . ,

10 M. Heidegger, Identité et Dif}érence, in Questions I, Paris 1968, p. 306 (tr.


it. «Identità e differenza», in Teoresi, 1966-1967 , p. 234 ).
11
M . Heidegger, Nietzsche, Pfullingen 1961, Bd. l , 25 1 , p. 321 .
12 I. Kant, Kritik der praktischen Vernunft, Ak. A. v, p. 145 (tr. it. Critica della
ragion pratica, Laterza, Bari 1974, p. 175 ).
13 F. Nietzsche, Werke (ed. Colli-Montinari), Bd. VII I/ l , 5 [7 1 ] , p. 2 17 ( tr. it.
Opere, VIII/l, Frammenti postumi 1 885-1 887, Adelph i , Milano 1975, p. 202) =

Wille zur Macht, § 45.


14
L. Feuerbach, Das We.:en des Christentums, in G.W. , Berlin 1 968, Bd. V, p.
1 1 , « . . . dass das Origina! ihres GOtzenbildes der Mensch ist» ( tr. it. L'essenza del
cristianesimo, Feltrinelli, Milano 1960 ).
15 P. Oaudel, op. cit. , p. 251 .

179
Jean-Luc Marion

nel senso per cui, in Omero, Priamo è pieno di stupore di fronte ad


Achille , «ossos e en oios te; theoisi gar anta eokei» 16 : Achille non è
uno degli dei, ma pare un dio, ha le sembianze di un dio. In lui, per
così dire, s ale alla visibilità qualcosa che è proprio degli dei, appunto
senza che per questo un dio venga ad essere preso nel visibile. Mentre
l'idolo dipende dallo sguardo che lo mira, l'icona convoca la visione
lasciando che il visibile (in questo caso Achille) si saturi a poco a poco
di invisibile. L'invisibile sembra, appare in una sembianza ( eiko / eoika) 17
che però non lo riduce mai all'acqua morta del visibile. Lungi daLdire
che il visibile avanza alla conquista dell'invisibile, come se si trattasse di
una preda non-ancora-vista che lo sguardo stanerebbe con un atto
violento di conquista, si dovrebbe dire piuttosto che è l'invisibile stesso
a procedere sin nel visibile, appunto perché è il visibile a procedere dal­
l'invisibile . O ancora, non è il visibile a stagliare ciò che è suo da ciò che
è dell 'invisibile, così da ritagliarsi quest'ultimo a propria misura e da
ridurlo quindi a sé, ma è l'invisibile a far sì che il visibile si stagli, così
da dedurlo da sé e da farne il luogo della propria comparsa. In questo
senso , la formula che san Paolo applica al Cristo, «eikon tou theou tou
aoratou, icona del Dio invisibile» (Col. l, 15) , deve servirei da norma ;
con una generalizzazione , deve addirittura essere estesa ad ogni icona,
come del resto si spinge a fare esplicitamente Giovanni Damasceno :
<�pasa eikon ekphantorike tou kruphiou kai d�ktikè» 18 • Ciò che in questo
caso è detto del Cristo e di' Dio deve intendersi di ogni icona (a meno
che non sia viceversa, come vedremo)-icona non del visibile, ma ap-

16 Omero, Iliade, XXIV, 630 : «ta�to era grande e bello : sembrava un nume a
vederlo» ( tr. it. Einaudi, Torino 1 963, p. 877 ).
17 Cfr. Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue grècque, Paris 1968,
p . 354, che sottolinea come eiko indichi innanzitutto la parenza ( se ci si consente
di usare questa espressione) che va incontro allo spettatore a partire dalla cosa
stessa in autentica ad-parenza ( donde la possibile connotazione di convenienza della
cosa così apparentata in apparenza).
1 8 Giovanni Damasceno, «Ogni icona manifesta il segreto e lo indica» : Contra
imaginum calumniatores orationes tres, III, 17, in Die Schriften des Johannes von
Damaskos, 3, Berlin 1975, p. 126. È certo che questa formula deve essere intesa,
più che come una eco a quella del Timeo, eikon tou noetou theos aisthetos ( 92 c 7),
che per altro non è del tutto certa (i migliori manoscritti, infatti, riportano poietou ) ,
come una risposta a Colossesi l , 15 che è esplicitamente glossato in un altro punto :
e tou aoratou eikon kai aute aoratos ( ibid. , m, 65, in op. cit. , p. 170). Questo
raddoppiamento indica , in maniera maldestra, certo, il riflusso dell'invisibile sul
visibile che, grazie a questo investimento, diventa esso stesso iconico ( cfr. infra,
§ 7, Specchio visibile dell'invisibile).

180
L'essere, l'idolo, il concetto

punto dell'invisibile . Il che implica, dunque, che, anche se presentato


dall'icona, l'invisibile resta sempre invisibile; non invisibile perché non
colto dalla mira (non-mirabile), ma perché si tratta di rendere visibile
questo invisibile come tale : il non-guardabile-in-volto 19 • Che l'invisibile
resti invisibile, o che diventi visibile, è la stessa cosa, cioè è cosa del­
l 'idolo, il cui ufficio consiste appunto nel dividere l'invisibile in una
parte che si riduce al visibile, e in una parte che si offùsca come non­
mirabile. L'icona , invece, cerca di rendere visibile l'invisibile come tale,
cerca quindi di far sì che il visibile continui a rinviare ad altro da sé,
senza però che questo altro possa mai riprodurvisi . Così, ad essere esatti,
l'icona non mostra nulla, neppure nel modo dell'Einbildung produttrice .
Essa è una continua rimostranza presentata allo sguardo , cioè una sua
continua correzione perché esso rimonti di visibile in visibile sino al
fondo dell'infinito e sino a trovarvi qualcosa di nuovo . L'icona chiama
lo sguardo a superarsi e a non rapprendersi mai in un visibile, poiché
in questo caso il visibile non si presenta se non in vista dell'invisibile.
Lo sguardo non può mai riposarsi né posar(si), se guarda un 'icona, ma
deve, in un certo senso, rimbalzare sul visibile, per rimontarvi il corso
infinito dell'invisibile . In questo senso, l'icona rende visibile solo susci­
tando uno sguardo infinito .

6. Il volto guarda-in-volto

Ma che signifìca rendere visibile l'invisibile come tale ? Si dovrà forse


dire che in questo caso la funzione di concetto è svolta da un puro gioco
di parole, o si dovrà forse concludere banalmente che non c'è un con­
cetto di icona? Certo, l'invisibile non potrebbe come tale rendersi visi­
bile, per lo meno se l'invisibile e, per eccellenza, il divino degli dei o
di Dio, è inteso in termini (meta:6sici) di ousia : in questo caso, o l'ousia
diventa visibile (sensibile , intelligibile, ciò che nella nostra questione non
fa differenza) , oppure non lo diventa, e, allora, l'idolo sa scegliere per-

19 Envisageable, envisager; guardabile-in-volto, guardare-in-volto, secondo il signi­


ficato etimologico ormai desueto, perché, a parte il problema di rendere il gioco di
parole dato da u n visage (volto) che envisage, più a fondo, v'è nell'icona un gioco
di volti che apre lo spazio ( prima ancora che per un concepire, considerare, pen­
sare o progettare, come si potrebbe tradurre normalmente envisager) per uno scam­
bio benevolo e amoroso di sguardi a partire da un volto che ci guarda prima an­
cora che noi siamo e ci dà vita «chiamandoci alla sua profondità» (ndt).

181
Jean-Luc Marion

ché è appunto lui a produrre questa dicotomia. Resta però il fatto che
l'ousia, per lo meno dal punto di vista della teologia, non esaurisce il
campo di ciò che può entrare in gioco in questo caso ; e, d'altra parte, la
definizione conciliare che conferma definitivamente lo statuto teologico
dell'icona, fonda l'icona sull'hupostasis : «Chi venera l'icona, venera in
essa l'ipostasi di colui che vi è inscritto» 20• L 'onore reso all'icona riguar­
da l'ipostasi di colui cui appartiene il volto che in essa è disegnato .
L 'hupostasis, che i Padri latini traducono con persona, non implica al­
cuna presenza sostanziale, che sarebbe circoscritta nell'icona come nel
suo hupokeimenon {e questo al contrario della presenza sostanziale del
Cristo nell'eucaristia) ; la persona non attesta la sua presenza se non at­
traverso ciò che la caratterizza più propriamente, la mira di un'intenzione
(stokhasma) che è messa in opera da uno sguardo . L'icona dispone la
materia del legno e della pittura in modo da farvi apparire l'intenzione
di uno sguardo, trapassante, che da essa sorge . Ma, potrebbe obiettare
un ascoltatore superficiale, definendo l'icona attraverso la mira di un'in­
tenzione, e quindi attraverso uno sguardo , non si finisce per ritrovare
proprio gli stessi termini della definizione dell'idolo ? L'osservazione è
assolutamente giusta, ma solo se si prescinde dal fatto che in questo
caso c'è un perfetto rovesciamento : lo sguardo , qui, non appartiene più
ad un uomo che sappia mirare sino al primo visibile, e ancor meno ad
un artista ; un simile sguardo appartiene, qui, all ' icona stessa, nella quale

l'invisibile diventa visibile 'oolo intenzionalmente e, quindi, attraverso la


propria mira. Se l'uomo , con il proprio sguardo, rende possibile l'idolo,
nella contemplazione riverente dell'icona, al contrario , è lo sguardo del­
l'invisibile, in persona, a mirare l'uomo . L'icona ci guarda: ci concerne,
in quanto lascia che l'intenzione dell'invisibile venga visibilmente. E an­
cora, se è tipico dello sguardo dell'uomo guardare-in-volto la faccia cieca
del primo visibile, o del suo deposito materiale, nell'icona, chi la vede,
vede in essa un volto la cui intenzione invisibile lo guarda-in-volto .

20 Secondo Concilio di Nicea, 787 (Dem:. , n. 302 ). Il fatto che l'icona possa
rispondere all 'accusa di idolatria, apparentemente ineludibile, solo attraverso una
teologia della presenza ipostatica (radicalmente distinta dall a presenza sostanziale
dell'eucaristia), e quindi attraverso la sua reinterpretazione cristologica è stato ma­
gistralmente dimostrato da C. von Schonborn, L'icone du Christ. Fondements
théologique élaborés entre le I"' et le n• Conciles de Nicée (325-787) , Fribourg/
Suisse 1976. Cfr . anche M.-]. Baudinet, «La relation imnique à Byzance au IX"
siècle d'après Nicéphore le Patriarche : un destin de l'aristotélisme», in Les Etudes
Philosophiques, 1978/1 , pp. 85-106.

182
L'essere, l'idolo , il concetto

L'icona si apre su un volto , nel quale la vista dell'uomo non guarda-in­


volto nulla, ma risale all'infinito dal visibile all'invisibile attraverso la
grazia del visibile stesso : invece dello specchio invisibile, che rinviava
lo sguardo umano solo a se stesso , e censurava il non-mirabile, l'icona si
apre in un volto che guarda i nostri sguardi per chiamarli alla sua pro­
fondità. Si deve persino arrivare a dire che solo l'icona ci mostra un
volto ( o , in altre parole, che ogni volto si dà come icona) . Perché un
volto appare solo nella misura in cui l 'opacità perfetta e liscia di uno
specchio non lo chiude; e che un volto si chiuda non implica altro che
la sua chiusura in uno specchio radioso : appunto, null a imprigiona un
volto in una maschera più di quanto lo faccia un sorriso radioso . Solo
l 'icona offre un volto aperto, poiché in se stessa apre il visibile sull'invi­
sibile, offrendo il proprio spettacolo come qualco sa che deve essere tra­
sgredito, come qualco sa che non è da vedere ma da venerare . Il rinvio
dal visibile percepito alla persona invisibile chiama ad attraversare lo
specchio (invisibile) , e ad entrare per cosl dire negli occhi dell'icona-se
gli occhi hanno questa strana partkolarità di trasformare il visibile e
l'invisibile l 'uno nell'altro . Allo specchio invisibile nel quale lo sguardo
si rapprende, segue l'apertura di un volto nel quale lo sguardo umano
si riversa, chiamato com'è a vedere l'invisibile. Guardato-in-volto dal­
l'icona, lo sguardo umano , !ungi dal prendere il divino in un figmentum
rappreso quanto quello stesso sguardo , può continuamente vedere in
quell'icona la marea dell'invisibile, la stanca in immense spiagge visibili.
Nell'idolo lo sguardo dell 'uomo si rapprende nel suo specchio, nell'icona,
invece , lo sguardo dell'uomo si perde nello sguardo invisibile che visi­
bilmente lo guarda-in-volto.

7. Specchio visibile dell'invisibile

La possibilità di rendere visibile l'invisibile come tale diventa ora


concepibile : nell 'idolo , il riflesso dello specchio distingue il visibile da
dò che è al di là della mira, l'invisibile in quanto non-mirabile ; nell'ico­
na, il visibile si approfondisce infinitamente per accompagnare, se cosl
si può dire, ogni punto dell'invisibile con un punto di luce ; ora, visibile
ed invisibile coesistono all'infinito solo nella misura in cui l'invisibile
non si oppone al visibile, in quanto consiste solo in un'intenzione .
L'invisibile dell'icona consiste nell'intenzione del volto . Più il volto
diventa visibile e più diventa visibile l'intenzione invisibile con cui

183
Jean-Luc Marion

ci guarda-in-volto il suo sguardo . Meglio, la visibilità del volto fa


crescere l 'invisibilità che guarda-in-volto. Solo la' sua profondità, quella
di un volto che si apre per guardare-in-volto, consente all'icona di unire
il visibile con l 'invisibile, e questa profondità si unisce a sua volta con
l 'intenzione . Ma l'intenzione, in questo caso , proviene dall'infìnito ; essa
implica quindi che l'icona si lasci attraversare da una profondità infi­
nita. Mentre l 'idolo si determina sempre come un riflesso, che lo fa
venire da un punto preso, a partire da un originale dal quale, fonda­
mentalmente, esso si diparte ( l 'idolo come un dipartito : Gespen!it 21, in­
fatti, ben si attaglia a certi usi del termine eidi5lon ) , l 'icona è ;aefìnita
da un'origine senza originale : un'origine essa stessa infìnita, che si ri­
versa o si dona per tutta l'infinita profondità dell'icona. È appunto per
questo che la profondità dell'icona la sottrae a qualsiasi estetica: solo
l'idolo può e deve essere appreso, perché solo l'idolo viene dallo sguardo
umano e presuppone quindi un' aisthesis che gli impone la propria mi­
sura . L'icona, invece, si misura solo a partire dalla profondità infinita
del volto ; in questo senso, l'intenzione che guarda-in-volto dipende solo
da se stessa, all'aisthesis si sostituisce un'apocalisse : l'invisibile non si
sospende nel visibile, lungo lo spazio di una intenzione , se non per la
pura grazia di un avvento; i cieli non possono che squarciarsi, se si vuole
che ne discenda il volto (Is. 6 3 , 19). L'icona non si riconosce altra mi­
sura se non la propria ed infinita dismisura ; mentre l'idolo commisura
il divino alla capacità dello sguardo di quellò che poi lo modellerà , l'ico­
na dispensa nel visibile solo un volto il cui invisibile tanto più si lascia
guardare-in-volto quanto più la sua rivelazione offre un abisso che gli
occhi umani non potranno mai sondare sino in fondo . Del resto, è pro­
prio in questo senso che l'icona viene a noi da un altro mondo : non si
tratta certo, qui , di riconoscere una validità empirica all'icona «non-fatta­
da-mani-d'uomo» , ma di rendersi chiaramente conto che l'akeiropoiesis
dipende in un certo qual modo necessariamente dall'infinita profondità
che rinvia l'icona alla propria origine, o meglio .,..che caratterizza l'icona
appunto come rinvio infinito all'origine. Ciò che caratterizza l'idolo ma­
teriale è proprio il fatto che l 'artista possa consegnare in esso lo splen­
dore soggiogante di un primo visibile ; al contrario , ciò che caratterizza
l'icona dipinta su legno non viene dalla mano di un uomo, ma dalla
profondità infinita che la attraversa, meglio : che la orienta secondo l'in­
tenzione di uno sguardo . Ciò che in essa è essenziale�l'intenzione che

21 Spettro, fantasma (ndt).

184
L'essere, l'idolo , il concetto

guarda-in-volto--l e viene da un altro mondo, o meglio le viene come


quel mondo altro la cui invisibile estraneità satura di senso la visibilità
del volto . Di rimando , vedere o meglio contemplare l'icona non consiste
se non nel percorrere la profondità che affiora nella visibilità del volto ,
per rispondere all'apocalisse nella quale l'invisibile si rende visibile, con
un'ermeneutica che saprà leggere nel visibile l'intenzione dell'invisibile .
Contemplare l'icona equivale a vedere il visibile nello stesso modo in cui
lo guarda-in-volto l 'invisibile che vi si dispensa, equivale , propriamente,
a scambiare il no stro sguardo con lo sguardo che iconicamente ci guarda­
in-volto . Allo stesso modo, l'icona, nella sua realizzazione, capovolge, con
una sorprendente precisione fenomenologica, i momenti essenziali del­
l'idolo . Come mostra un passo stupefacente di san Paolo : «E noi tutti, a
viso aperto e scoperto (anakekalummen8 pros8p8 ) , riflettendo come in
uno specchio (katoptrizomenoi) la gloria del Signore , veniamo trasfor­
mati nella e secondo la sua icona (eikona), passando di gloria in gloria,
secondo lo Spirito del Signore» ( 2 Cor . 3, 18). Anche il solo tentativo
di abbozzare un commento sembra quasi inutile (ed impossibile) . Pro­
viamo a considerare, sia pur sommariamente, il capovolgimento : il nostro
sguardo , con la sua mira non designa in questo caso lo spettacolo di un
primo visibile poiché, viceversa, nella visione , non si scopre alcun visi­
bile se non il nostro viso stesso che, rinunciando a qualsiasi compren­
sione (aisthesis) subisce una decifrazione apocalittica ; e per ciò stesso
viene messo visibilmente allo scoperto. Perché? Ma appunto perché , al
contrario dell 'idolo che si offre come specchio invisibile in quanto abba­
gliato ed abbagliante per e della nostra mira , in questo caso, il nostro
sguardo diventa lo specchio di ciò che guarda solo nella misura in cui
si trova ad esserne più radicalmente guardato : diventiamo specchio visi­
bile di uno sguardo invisibile che ci sovverte commisurandoci alla pro­
pria gloria . L 'invisibile ci chiama «a faccia a faccia, da persona a per­
sona» (l Cor . 1 3 , 1 2 ) , attraverso la visibilità dipinta della sua incarna­
zione e la visibilità fattuale della nostra carne : non più l'idolo visibile
come specchio invisibile del nostro sguardo, ma il nostro viso come
specchio visibile dell'invisibile. Così, al contrario dell'idolo, che deli­
mitava la magra della nostra mira , l'icona sposta i limiti della nostra
visibilità commisurandola a quella che le è propria, cioè alla sua gloria.
Essa ci trasforma nella sua gloria, facendola risplendere sul nostro viso
che le fa da specchio ; ma uno specchio bruciato da questa stessa gloria,
che si trasfigura di invisibile e che , a forza di essere saturato al di là di
se stesso da questa gloria, ne diventa, esattamente anche se imperfetta-

185
Jean-Luc Marion

mente, l'icona : visibilità dell 'invisibile come tale 22 •

8. L'icona come concetto

L'icona, che è caratterizzata soltanto dal percorso della profondità


infinita, non appartiene dunque all'ambito artistico , al pari dell'idolo
che, almeno in questo caso, essa conferma. Il pittore offre uno dei sup­
porti possibili all'apertura di un volto, il supporto sensibile, cqsì come
lo scultore , che consegha nella pietra lo splendore del dio, pr�ì:no visi­
bile, fa entrare in gioco la memoria di un supporto sensibile . Ma, come
l'idolo può esercitare la propria misura del divino attraverso un concetto,
dato appunto che lo sguardo può riflettere invisibilmente la propria mira
e congedarvi il non-mirabile, così, anche l'icona può procedere concet­

tualmente, per lo meno a patto che il concetto rinunci a comprendere


l'incomprensibile, per tentare di concepirlo, e quindi di recepirlo secondo
la dismisura che gli è propria. Il problema è se simili concetti si possano
concepire . Può fungere da supporto-intelligibile-all 'icona solo un con­
cetto che accetti di lasciarsi commisurare all a dismisura dell'invisibile
che entra nella visibilità attraverso la profondità infinita, un concetto
quindi che di per sé dica o prometta di dire questa profondità infinita
nella quale il visibile e l'invisibile diventano familiari. Quando Cartesio
stabilisce che l'idea Dei dovrebbe dirsi idea infiniti, e che questa « ut sit
vera nullo modo debet comprehendi) quoniam ipsa incomprehensibilitas
in ratione formali infiniti continetur» 23, ci indica un cammino , un cam­
mino che per lo meno ci e vicino : l'icona costringe il concetto a rice­
vere il percorso della profondità i.nfinita ; evidentemente questo percorso
vale solo come infinito, e quindi è indeterminabile attraverso un con­
cetto ; e tuttavia non si tratta di determinare attraverso un concetto una
essenza , ma una intenzione, quella dell'invisibile che si avanza nel visi­
bile, e vi si inscrive proprio imponendo il rinviò' da questo visibile al-

22 Cfr. la formula di Giovanni Damasceno citata alla n. 1 8 .


23 Cartesio, Quìntae Responsìones, in Oeuvres, ed. A .-T., vu, p. 368, 2-4; Cler­
selier traduce: «Pour avoir une idée vraie de l'infini, il ne doit en aucune façon
�tre compris, d'autant que l'incompréhensibilité m�me est contenue dans la raison
formelle de l'infini>) ( Oeuvres Philosophìques, ed. F. Alquié, t. 2, Paris 1957, p.
8 1 1 : «per avere un'idea vera dell'infinito, esso non deve in nessun modo essere
compreso, tanto più che l'incomprensibilità stessa è contenuta nella ragion formale
dell'infinitO>) ) .

186
L'essere, l'idolo, il concetto

l'invisibile. Ermeneutica dell'icona voleva dire : il visibile diventa la


visibilità dell'invisibile solo se ne riceve l'intenzione , in breve se rinvia,
quanto all'intenzione, all 'invisibile ; riassumendo, l 'invisibile guarda-in­
volto (come invisibile) solo passando al visibile (come volto) , mentre n
visibile dà qualcosa da vedere (come visibile) solo passando all'invisibile
(come intenzione) . Visibile ed invisibile crescono insieme e come tali : la
loro distinzione assoluta implica il commercio radicale dei loro trasferi­
menti . Nell'icona ritroviamo cosl in azione il concetto di distanza : quello
per cui l'unione cresce di pari passo con la distinzione, e viceversa. Senza
riprendere qui il rapporto che lega intrinsecamente l'icona alla distanza,
ci limiteremo ad indicare alcune delle prospettive aperte da questo rap­
porto . (a) Vale come icona il concetto o l'insieme di concetti che raf­
forza contemporaneamente sia la distinzione sia l'unione del visibile e
dell'invisibile, e tanto più quindi fa crescere l'una quanto più sottolinea
J 'altra . Qualsiasi pretesa ad un sapere assoluto è dunque idolatrica. (b)
L'icona ha uno statuto teologico , il rinvio dal volto visibile all'intenzione
che guarda-in-volto , rinvio che culmina in quello del Cristo al Padre : la
formula eikon tou theou tou aoratou, infatti, riguarda innanzitutto il
Cristo . Resterebbe da precisare in che misura questa attribuzione abbia
un valore normativa e sia ben lontana invece dal costituire una delle
tante applicazioni dell'icona. (c) Come l'idolatria, che misura il divino
in base alle capacità di uno sguardo che si rapprende, può ottenere una
qualche prova effettiva del divino solo a patto di ridurlo ad uno di
quelli che Réné Char chiamava i «cosiddetti dei» 24, cosl anche l'icona,
che richiede all'infinito-in senso stretto-la contemplazione nella di­
stanza, non può far altro che sovvertire nella maniera più assoluta tutti
gli idoli dello sguardo rappreso , non può cioè far altro che aprire gli
occhi di questo sguardo (cosl come con un bisturi si apre un corpo ) ,
aprirgli gli occhi s u u n volto . L'idolo pone il proprio centro di gravità in
uno sguardo umano ; in questo senso , per quanto possa essere abbagliato
dallo splendore del divino , questo sguardo resta sempre depositario
dell'idolo , il suo unico e solo signore : e l'idolo va sempre, per lo meno
in potenza, verso il proprio crepuscolo, dato che ciò che raccoglie, per­
sino nell'istante della sua aurora, è sempre uno splendore estraneo .
L'icona , invece, che toglie l'equilibrio all a vista degli umani per farla
immergere nella profondità infinita, indica una sporgenza di Dio cosl
profonda che anche nei tempi di maggior povertà non v'è indifferenza

24 R. Char, «Contre une maison sèche», in Le Nu perdu, NRF, Paris 1978, p. 125.

187
Jean-Luc Marion

che possa distruggerla. Per farsi vedere, infatti, l 'icona non ha bisogno
.
.
che di se stessa.
Appunto per questo ella può esigere, pazientemente, che si riceva il
suo abbandono .

9. Funzione dell'idolo

Bisognerebbe partire, evidentemente, da un dialogo con Ni,::t zsche,


u
e con il pazzo della Frohliche Wissenschaft, e quindi, innanzit tto , da
un concetto più essenziale di idolo . Questo concetto più essenziale del­
l'idolo, a ben vedere, deve esplicarsi in maniera tale da poter accogliere
a pieno titolo la rappresentazione intellettuale del divino, e da offrire
cosl il quadro per un'interpretazione, o meglio per una reinterpretazione,
della «morte di Dio » . Bisogna dunque, almeno come abbozzo, tracciare
1 contorni di una figura dell'idolo--raffigurare la figura, schematizzare lo
schema : questo raddoppiamento , che ci viene suggerito in maniera del
tutto naturale e quasi inevitabile, tradisce già in partenza il fatto che è
l'idolo stesso a rendere necessaria l 'ambivalenza dei suoi campi d'appli­
cazione, sensibile ed intelligibile, o meglio «estetico » e concettuale .
Raffigurare la figura idolatrica implica forse che si ripaghi l'idolo
con la caricatura che così spesso gli si è riffiproverato di imporre al
divino? Ma, appunto, il -fatto è che l'idolo non ha nulla di caricaturale ,
di ingannevole o di illusorio . L'idolo mostra solo ciò che vede ; il fatto
che eidolon sia direttamente ritagliato da eido e gli resti legato non ci
ricorda soltanto una questione etimologica neutra o insignificante, ma
riflette molto esattamente un paradosso basilare . L'idolo mostra ciò che
vede . Esso mostra, senza inganni né illusioni, ciò che effettivamente
occupa il campo del visibile ma, indissolubilmente , lo investe solo a
partire dalla visione stessa. L'idolo fornisce alla visione l'immagine di ciò
che vede. L 'idolo (si) produce nell 'effettività (coi:ùe) ciò che la visione
intenzionalmente mira. Esso rapprende in una figura ciò che la visione,
con uno sguardo , mira : cosl, lo specchio chiude l 'orizzonte, per offrire
alla vista l'unico progetto che questa miri, e cioè il volto della sua stessa
mira : lo sguardo che si guarda guardare, col rischio di non vedere nien­
t 'altro se non questo volto, senza percepirvi lo sguardo che guarda . Salvo
che, nel caso nell'idolo, non v'è nessuno specchio che preceda lo sguardo
e ne chiuda, quasi accidentalmente, lo spazio visivo ; per riflettersi, e
solo su di sé, la visione idolatrica non ha bisogno di far entrare in

188
L'essere, l 'idolo, il concetto

campo nessun'altra istanza se non s e stessa : nella ventura della sua


mira, in un momento che nessuno può prevedere, la mira non mira più
al di là, ma rimbalza su uno specchio---<:he diversamente non sarebbe
mai apparso-verso di sé; questo specchio invisibile si chiama idolo .
Invisibile, non nel senso che non lo si possa vedere, ché, anzi, è la sola
cosa che si possa vedere; invisibile perché maschera la fine della mira ;
a partire da lui, la mira non progredisce più, ma, non mirando più, torna
su di sé, si riflette e, con questo riflesso, abbandona , come insostenibile
a viversi, non visibile perché non mirato né visibile, l'invisibile . Lo
specchio invisibile, dunque, non produce il ritorno riflesso della mira su
di sé; ne è piuttosto il prodotto : per cosl dire non offre se non la traccia
della sporgenza , l'impronta del coronamento della mira e poi dello slancio
che essa prende ritornando su di sé . Questo piano ligneo che è l'idolo
funge quasi da piano di battuta e di ricaduta della visione che, dopo es­
sersi spinta sino a quel punto, ritorna verso di sé. Come il deposito in­
dica che la maturazione di un vino è ormai compiuta e che non sarà più
possibile alcuna innovazione, cosl l'idolo non costituisce se non un de­
posito della mira dell'invisibile e del divino , cioè quello che resta una
volta che la mira sia stata fermata dalla sua riflessione . Nell'idolo, come
statua o pittura, la mira si deposita. L'inversione della mira determina il
punto di invisibilità, e la riflessione fa nascere lo specchio . Specchio in­
visibile : non tanto la causa non-vista della torsione della visione, quanto
piuttosto questa stessa torsione della visione che prende, in un limite ,
l'invisibile . L'idolo, cosl, si rapprende nella fissità di una figura solo a
partire dall'istanza di una torsione . La figura dipende dalla torsione su
e dinanzi all'invisibile, e non viceversa . L'idolo sembra quindi una rifles­

sione sull'individuo : una mira verso il mirabile che, ad un certo mo­


mento della mira, si flette su di lei, si riflette su di sé per dare la quali­
fica di invisibile a quello che la mira non riesce più a mirare. L'invisi­
bile è definito dalla riflessione la cui defezione abbandona il visibile
come non-mirabile, e quindi non visibile, in breve invisibile.
Così , l'idolo tanto più maschera l'invisibile quanto più si avvolge di
visibilità. Più manca, per difetto, l'invisibile, e più si lascia cogliere
come visibile . Non si può negare che i segni del divino siano impressi in
quelle statue di kouroi che , persino in una sala del museo nazionale di
Atene, continuano ad invaderei con il loro splendore possente e sobrio.
Nessuno è abilitato a negare che il divino abbia segnato i luoghi sacri,
i templi, le statue degli dei . E soprattutto non v'è nessuno che ne abbia
il potere. In realtà, il fatto è che l 'idolo sottolinea, come una magra

189
Jean-Luc Mation

sottolinea una piena, una certa sporgenza della mira del divino , che
giunge sino a determinare una certa riflessione � defezione. La testimo­
nianza degli idoli può certo aver perso ai nostri occhi la propria perti­
nenza : ciò non porta comunque a squalifìcarla in quanto tale, cioè in
quanto divina, la fa soltanto divenire insignificante . Infatti, se gli idoli
forgiati dai Greci non ci fanno più vedere il divino, la colpa (se di colpa
si deve parlare) non è né del divino né dei Greci. Tutto dipende sem­
plicemente dal fatto che tra di noi non ci sono più quei Greci che sareb­
bero i soli ai quali queste figure di pietra potrebbero indicare co1,1 il loro
specchio invisibile una riflessione sull'invisibile, la cui magra.' visibile
corrisponde esattamente a quell'esperienza particolare del divino cui solo
i Greci seppero giungere . Gli idoli dei Greci tradiscono , silenziosamente
ed incomprensibilmente, un'esperienza del divino che è assolutamente
effettiva ma che si realizzò solo per loro . Ciò che rende muto l'oracolo di
Delfì non è il fatto che si sia finalmente riusciti a scoprire un qualche
inganno (Fontenelle), ma la scomparsa dei Greci . L'idolo sta sempre ad
indicare un'esperienza del divino vera ed autentica, ma, per ciò stes so,
ne enuncia anche il limite : come esperienza del divino, a partire dunque
da chi lo mira, in vista del riflesso in cui questa mira maschera e sma­
schera la sua defezione nei confronti dell'invisibile attraverso la figura
idolatrica, l'idolo deve sempre essere letto a partire da chi fa sl che la
propria esperienza del divino prenda figura appunto nell'idolo. Nel­
l'idolo, il divino ha senz'.!lltro una presenza, e si offre senz'altro ad una
esperienza, ma solo a partire da una mira e dai suoi limiti; per dirla in
breve, nell'idolo il divino si raffigura solo indirettamente, riflesso in base
all'esperienza in cui è preso dall'istanza umana-il divino effettivamente
provato , però , si raffigura solo commisurandosi all'istanza umana che ac­
cetta di subirne , per quanto può , la prova. Nell'idolo, dunque, si tradi­
sce e si verifica la funzione divina del Dasein . Il che significa che l'idolo
non raggiunge mai il divino come tale, e che, per ciò stesso, non inganna
mai, non illude, e neppure manca il divino. Come funzione divina del
Dasein , l'idolo è l'indizio di un'esperienza sempre effettiva del Dasein .
Solo per uno sproposito si può mettere in dubbio il fatto che l'idolo
rifletta il divino, e che in un certo senso possa ancora spingerei ad evo­
care l'esperienza di cui resta depositario . Ma questa validità e questa
innocenza, l 'idolo la paga appunto con il proprio limite; esperienza del
divino commisurata ad uno stato del Dasein . In breve, ciò che rende
l'idolo problematico non dipende da una sua manchevolezza ( ad esempio
dal fatto che sia soltanto un' «illusione»), ma al contrario dalle sue con-

190
L'essere, l'idolo, il concetto

dizioni di validità : la sua immanenza radicale a chi lo prova, e giusta­


mente, come insuperabile. Ad ogni epoca corrisponde una figura del
divino che, ogni volta appunto, è preso in un idolo . Non è un caso,
allora, che Bossuet utilizzi il termine epoca in una storia universale che ,
da cima a fondo, medita sulla successione degli idoli 25 • Solo la serietà
dell'idolo , come visualizzazione del divino limitata e quindi reale, reale
perché limitata , fa sì che si possa concepire quella fraternità tra Eracle ,
Dioniso ed il Cristo che è riconosciuta da Holderlin 26• E l'idolo, infatti,
attesta il divino , dal punto di vista della mira che produce il divino
come proprio riflesso . Ogni volta, dunque, l 'idolo attesta il divino, ma,

ogni volta appunto , si tratta del divino pensato dal Dasein a partire dalla
propria mira, limitata ad una portata variabile. L'idolo , dunque, culmina
sempre in un '« autoidolatria» , per dirla con Baudelaire n. L'idolo : più
che un'immagine falsa e menzognera del divino , una funzione reale, limi­
tata e variabile all'infinito del Dasein considerato nella sua mira del di­
vino . L 'idolo : l 'immagine che il Dasein si fa del divino è dunque qual­
cosa che tanto meno è Dio quanto più realmente è figura del divino .
Farsi un'immagine del divino ? Di solito in italiano si preferisce l'espres-

25
].-B . Bossuet : «È ciò che si chiama EP OCA, con un termine greco che significa
fermarsi, perché vi ci si ferma per considerare come da un luogo di riposo tutto
ciò che è avvenuto prima o dopo, ed evitare in questo modo gli anacronismi, cioè
quella sorta di errori che fanno confondere i tempi» (Discours sur l'Histoire univer­
selle, Avant-propo s ) . Punto importante: l'epoca si ferma ( epekho ), sospende per
cosi dire il corso del tempo, come l'idolo ferma lo sguardo che non può andare oltre
il punto cui è arrivato e nel quale la sua capacità viene colmata . La storia, come
successione degli idoli che fanno epoca? L a storia, quindi, può espletare le proprie
funzioni solo nella misura in cui degli idoli continuano a restare possibili e sono
in grado di farvi epoca. Si potrà dire allora che l'icona verrebbe ad istituire la sola
fine possibile della storia, la sua trasgressione escatologica ( percorso della distanza,
ancora una volta)?
26
F. Holderlin, Der Einzige, 1 , vv. 48-5 3 , «Herakles Bruder», 2, vv. 51-53 : «lch
weiss es aber, eigene Schuld ists! Denn zu sehr, l O Christus! hiing ich an dir,
wiewohl Herakles Bruder l Und kiihn bekenn' ich, du bist Bruder auch des Eviem�,
e 3, vv. 50-55 (G.S.A., 21 1 , pp. 154, 158 e 162 ), ( tr. it. Le liriche, Adelphi, Milano
1977, t. II, pp. 239, 247 e 255 : «Ma io lo so, mia è la colpa. Perché troppo l ti
sono seguace, o Cristo, benché fratello d'Eracle, l e lo riconosco, temerario : l sei
fratello di Dionis o » ) . Cfr. L'idole et la distance, Grasset, Paris 1977, §§ 10 e 1 1
( tr. it. L'idolo e la distanza, Jaca Book, Milano 1979 , pp. 1 07-126).
27 C. Baudelaire, Fusées, XVII, in Oeuvres compl�tes, «Pléiade», Paris 1966, p.
1 256 ( tr. it. Razzi, in Poesie e prose, Mondadori, Milano 1 9 7 3 , p. 992). Cfr. P .
Valéry, Monsieur Teste : «Confesso di aver fatto un idolo del mi o spirito», in
Oeuvres, «Pléiade», Paris 1960, t. n, p. 37.

191
Jean-Luc Marion

sione : «farsi un'idea di . . . » ; vorrà forse dire che



l'idolo perfetto, per
eccellenza, è l'idea?

1 0. L'ambivalenza dell'idolo concettuale

Il concetto, infatti, quando sa il divino nella sua espropriazione,


quando cioè designa «Dio», lo definisce. Lo definisce, e quindi lo misura
secondo le dimensioni della sua espropriazione . In questo senso�, il con­
cetto ripete a modo suo i caratteri essenziali dell'idolo «esteticÒ» 28: in
quanto apprende il divino a partire dal Dasein , lo misura come una fun­
zione di quest'ultimo ; i limiti dell'esperienza divina del Dasein provo­
cano una riflessione che lo distoglie dal mirare , oltre, l'invisibile, e lo
costringono a rapprendere il divino in un concetto, specchio invisi�ile .
Nominatamente, la «morte di Dio» presuppone una determinazione di
Dio che lo espliciti in un concetto preciso ; essa implica qubdi, in lin
primo tempo, una comprensione del divino, limitata e per ciò stesso in­
telligibile . In questo senso, dunque, a ciò che vien,e designato come Dio
si devono aggiungere delle virgolette-«Dio»--che indicano più che un
sospetto una delimitazione : la « morte di Dio» presuppone inn anzitutto
un concetto equivalente a ciò che essa intende con il nome «Dio » . È
appunto sullo sfondo di questo concetto che la critica porta avanti la
propria polemica : se «Dio» comprende nel suo concetto l'alienazione
(Feuerbach, Stirner, Marx) , o una figura sottile della volontà di potenza

28
La transizione da un idolo «estetico» ad un idolo concettuale non ha nulla di
sorprendente, poiché in entrambi i casi si tratta sempre di apprensione. A ciò si può
collegare la famosa sentenza di Gregorio di Nissa: «( . . . ) Ogni concetto (noema? ) ,
in quanto si produce attraverso un'apprensione dell'immaginazione in una conce­
zione che circoscrive ed in una mira che pretende di raggiungere la natura divina,
modella soltanto un idolo di Dio (eidi5lon theou), senza,,, mai riuscire a proclamare
Dio stesso» (Vita Moysis, II , § 165, PG, 44, 377b). Su questo punto Nietzsche so­
stiene la legittimità di una estensione dell'idolo al concetto. Non solo lo definisce
esplicitamente come ideafe-«Gotzen ( mein Wort fiir 'Ideale') umwerfen» : Ecce
Homo, Prologo, § 2 [ tr. it. Opere, vr/3 , Adelphi, Milano 1975, p. 266 : «Rove­
!"ciare idoli (parola che uso per dire 'ideali')» ]-ma consacra il Crepuscolo degli
idoli agli «idoli eterni» solo nella misura in cui può in tal modo far intendere che
egli pensa qui a dei «grandi errori», e cioè a dei concetti (causa, effetto, libertà,
ecc . ), quelli della metafisica ( Crepuscolo degli idoli, Prefazione). Questi idoli con­
cettuali sopravvivono ampiamente agli idoli religiosi ed alla «morte di Dim> . Ed è
appunto dà questo che dipende la loro estrema pericolosità.

192
L'essere, l'idolo, il concetto

(Nietzsche) , dovrà sopportare le conseguenze di questo concetto sino


alla scomparsa assoluta . IÌ che presuppone, evidentemente, l'equivalenza
tra Dio e un concetto in generale . Solo questa equivalenza, infatti, fa sì
che «Dim> diventi operativo come concetto . Il che significa che un atei­
smo (concettuale, ovviamente, e non ogni ateismo-anche se il legame
tra l'ateismo concettuale e l'ateismo sociologico può essere un nesso di
consequenzialità) vale solo per quello che vale il concetto che lo con­
tiene ; e siccome questo concetto di «Dim> raggiunge la precisione che
lo renderà operativo solo restando limitato, si deve dire che un ateismo
concettuale può garantire il proprio rigore, la propria dimostratività e
la propria pertinenza solo grazie alla propria regionalità; non suo mal­
grado, ma appunto grazie ad essa : la regionalità indica che al termine
Dio, per definizione indefinito, il concetto sostituisce una certa defini­
zione precisa, «Dio», alla quale, attraverso la definizione determinante,
l'intelletto applicherà la propria logica. In questo senso, gli ateismi con­
cettuali presuppongono che Dio sia sostituito da questo o quel concetto
regionale, detto appunto «Dio » ; essi non riguardano dunque se non i
concetti che di volta in volta sono come i padri putativi di quel «Dio»
che dicono . I «cosiddetti dei» di Réné Char sostituiscono a Dio gli «dei»,
i soli che, concettualmente, noi si possa enunciare . Questo «Dio», che
per essere detto non ha bisogno che di un concetto, non ha però nulla
dell'illusione : espone chiaramente ciò che il Dasein, in un dato mo­
mento di una certa epoca, prova del divino e approva come definizione
del proprio «Dio». Va soltanto osservato che una simile prova del di­
vino non si fonda tanto in Dio quanto nell'uomo : e, come dice esatta­
mente Feuerbach, «l'uomo è l'originale del proprio idolo» 29; l'uomo
resta il luogo originale del proprio concetto idolatrico del divino, poiché
il concetto sottolinea la sporgenza estrema, e poi il ritorno riflesso, di
un pensiero che rinuncia ad arrischiarsi al di là di se stesso, nella mira
dell'invisibile .
Diventa ora possibile chiedersi quale concetto-rigoroso poiché re­
gionale-offra alla «morte di Dio» il suo supporto idolatrico. Nietzsche
stesso risponde esplicitamente e preliminarmente a questa domanda :
«Assieme alla morale viene resa impossibile anche questa posizione
affermativa panteistica rispetto a tutte le cose? In fondo (im Grunde)
solo il Dio morale è infatti superato . Ha un senso pensare un Dio 'al

29 L. Feuerbach, Das Wesen des Christentums, in G.W. , Berlin 1 968, v, p. 1 1


( tr. it. L'essenza del crirtianesimo, Feltrinelli, Milano 1960).

193
Jean-Luc Marion

di là del bene e del male' ? » 30 • Può morire, e può addirittura scoprirsi


come già morto , solo il «Dio morale» ; solo lui , jinfatti , con la sua qua­
lifica di «Dio morale » , è di competenza della logica del valore : non può
comprendersi e non opera se non nel sistema dei valori della morale
come contronatura; in questo senso, è direttamente coinvolto proprio
in quanto, con il nichilismo, «i valori più alti perdono valore» . Il nichi­
lismo non avrebbe alcun potere su «Dio» se questo, come «Dio morale» ,
non s i esaurisse nell'ambito morale, preso,. a sua volta, come ultima
figura del «platonismo» . Riconoscere, in base alla lettera stessa del testo
nietzscheano, che solo il' «Dio morale» scompare, non significa at enuare t
la radicalità del suo discorso, ma, al contrario, metterne in luce la con­
dizione di possibilità . Questa condizione di possibilità presuppone, evi­
dentemente, l 'equivalenza tra Dio e un idolo (concetto regionale) , che
in questo caso è il «Dio morale» . Donde una duplice domanda : (a) che
portata riconoscere a questo idolo ?. (b) che origine attribuirgli?
Quanto alla portata, per il momento, possiamo fissarla in riferimento
a ciò che essa non esclude : la «morte di Dio» come «Dio morale» non
infida, o meglio apre e provoca , la venuta di « nuovi dei», la cui fun­
zione affermativa sostiene questo mondo, che diventa l'unico . In questo
senso, anche all 'interno del discorso nietzscheano , la «morte di Dio»
può spingersi e vale sino al punto in cui mira l'idolo che la rende pen­
sabile, dato che al di là di questa Gotzendammerung sorge un'altra au­
rora del divino . Solo più avanti potremo esaminare lo statuto di questa
nuova levata del divino. Quanto all'origine di questo idolo, invece, essa
è di facile identificazione. Feuerbach , costruendo l'insieme della filosofia
della religione come un'idolatria , non per cogliervi un fallimento, ma
appunto per consacrarvi un'appropriazione finalmente legittima, osse� va
che l'idolatria esercita tutto il suo rigore pensando «Dio » come morale :
«<n tutte le religioni, e in particolare in quella cristiana, il primo degli
attributi di Dio è quello di perfezione morale. Ma Dio concepito quale
essere moralmente perfetto null'altro è che l'idea ·,� moralità realizzata,
che la legge morale personifica ( . . . ). Il Dio morale pone all'uomo l'esi­
genza di essere quale egli stesso è» 31 • Ma, anche in questo caso , come
spesso succede del resto, Feuerbach non fa che da ripetitore di Kant
che pensa esplicitamente Dio come « un autore morale del mondo» 32 •

30 F. Nietzsche, Werke (ed. Colli-Montinari), vm/ 1 , 5 ( 7 1 ) , p. 217 ( tr. cit. vm/ 1 ,


p. 202) = Wille zur Macht, § 55.
31 L. Feuerbach, op. cit., pp. 93-95 ( tr. cit. p . 75 ) .
32 I. Kant, « . . . moralischer W elturhebm>. Cfr. Kritik der Urteilskra/t, § 87 ,

194
L'essere, l'idolo , il concetto

Mostrare che questa equivalenza ha il ruolo di un idolo , nel senso stretto


che si è definito, non comporta, in un certo senso per lo meno, alcuna
difficoltà : l'apprensione di «Dio » come autore morale del mondo pre­
suppone un'esperienza effettiva di Dio (chi si arrischierebbe a dubitare

«Folglich mussen wir eine moralische Weltursache ( einen Welturheber) annehmen,


um uns gemiis.� dem moralischen Gesetze einen Endzweck vorzusetzen ( . . . ) niimlich
es sei so ein Gott. ( . . . ) d.i. um sich wenigstens nicbt von der Moglicbkeit des ihm
( se. l'uomo ones to) moraliscb vorgescbriebenen Endzwecks einen Begriff zu machen,
das Dasein eines moralischen Welturbebers, d.i. Gottes annehmem> ( tr. it. Critica
del Giudizio, Laterza, Bari 1974, pp . 330 e 333 : «Dobbiamo dunque ammettere
una causa morale del mondo (un autore del mondo ), per proporci uno scopo finale,
conformemente alla legge morale ( . . . ) cioè che vi è un Dio. ( . . . ) Dovrà ammettere
( . . . ) per farsi almeno un concetto della possibilità dello scopo finale che gli è
moralmente prescritto, l'esistenza di un autore morale del mondo, cioè di Dio» ) ; la
traduzione di A. Philonenko rafforza, per altro giustamente, la funzione idolatrica di
questo «concetto» : « . .. se faire au moins une idée de la possibilité du but fina! qui
lui est moralement prescrit, admettre l'existence d'un auteur mora! du monde, c'est­
à-dire de Dieu » ( tr. ft., Vrin, Paris 1968, p. 259 ). Nello stesso senso si può leggere
il § 88: « ( ...) ein moralisches W esen als Welturbeber, mithin ein Gott angenommen
werden miisse ( ... ) ein moralisches Wesen als Urgrund der Scbopfung anzunehmen»
(tr. cit. p. 33 6 : « ammettere un essere ( ... ) morale, come autore del mondo, e
quindi un Dio ( . . . ) ammettere anche un essere morale come fondamento originario
della creazione» ) e il § 91 : «Nun fuhrt iene Teleologie keineswegs auf einen be­
stimmten Begriff von Gott, der bingegen allein in dem von einem moralischen
Welturbeber angetroffen wird>> ( tr . cit. p. 354 : «Ora quella teleologia non con­
duce appunto ad un concetto determinato di Dio, che invece si trova soltanto in
quello d'un creatore morale>> ) . Si veda ancora, tra l'altro : Kritik der Praktiscb en
Vernunft, Ak. A., p . 145 ( tr. it. Critica della ragion pratica, Laterza, Bari 1974,
p. 175), Religion innerhalb der Grenzen der blossen Vernunft, III, § 4 (tr.
l it. La
religione entro i limiti della sola ragione, Laterza, Bari 1980, pp . 107-110), ecc . Resta
ancora da intertogarsi sul motivo che fa si che Kant possa credere di essere in tal
modo sfuggito ad un pericolo da lui per altro espressamente menzionato, l'idolatria
(Idolatrie, Critica del Giudizio, § 89 ), e cosi definito: « quell'illusione superstiziosa
per cui .si crede di poter riuscire graditi all 'essere supremo per via di altri mezzi ,
anziché con l'intenzione morale» (tr. cit . p. 341 ); è infatti inevitabile chiedersi in
che senso ciò che l'atteggiamento pratico non può non presupporre-e cioè che
«Dio» Ei dica secondo la moralità, e quindi attraverso un concetto di moralità­
non debba finire ancora e sempre ad equivalere ad un idolo . Si potrebbe allora
ritorcere contro Kant persino il suo stesso ammonimento : «per quanto quel con­
cetto, dal punto di vista teoretico, sia concepito puro e indipendente da immagini
sensibili, dal punto di vista pratico è rappresentato sempre come un idolo, vale
a dire, relativamente alla natura della sua volontà, antropomorficamente» ( ibid., p .
341, nota ) . E se Di o non fosse disposto a d accettare l'imperativo categorico ? La
risposta di Kant è nota : bisognerebbe escludere Dio, come il Cristo, ridotto al mero
ruolo di esempio della legge morale.

195
Jean-Luc Marion

dell 'autenticità religiosa della filosofia pratica di Kant ? ) , ma sullo sfondo


di una determinazione finita di «Dio » (dal solo p-lrnto di vista pratico ) ,
a partire non dalla natura-se pure v e n ' è una-ma appunto dall'espe­
rienza che ne fa il Dasein umano ; caratteristica, quest'ultima, che Kant
introduce esplicitamente : «Questa idea di un signore morale del mondo
è un compito per la nostra ragione pratica . A noi non importa tanto di
sapere cosa sia Dio in se stesso ( nella sua natura) , ma cosa sia piuttosto
per noi in quanto esseri morali» 33 ; dunque, è proprio e soltanto per noi,
senza pregiudizio per la natura che gli è propria , che «Dio » può �ssere
detto « come essenza morale » , «ente morale». Più ancora di Kant, è
Fichte a formulare brutalmente la riduzione idolatrica del «Dio mora­
le» : «Questo ordine morale vivo ed effettivo è Dio stesso ; non abbiamo
bisogno di nessun altro Dio , e non ne possiamo neppure concepire un
altro» 34• In questo senso, o Nietzsche non mira a nulla di preciso , e il
suo discorso regredisce dal rigore concettuale sino a perdersi in un pathos
che si dirà «poetico » , per evitargli degli epiteti più ambigui, oppure de­
nuncia come un idolo crepuscolare l'identificazione kantiana (e per ciò
stesso «platonica») di Dio con il « Dio morale» . Questa identificazione
merita due critiche : una è quella esercitata da tutto il discorso di Nietz­
sche, ed è che questa idea equivale ad un idolo : Gotzendammerung . E,
in questo senso , se, come dice Schelling , «Dio è qualcosa di molto più
reale che non un semplice ordine morale del mondo» 35, è inevitabile che
l'idolo crepuscolare, con la: propria scomparsa, liberi lo spazio per un
avvento del divino diverso da quello della figura morale . In questo caso
l'ateismo concettuale, proprio in quanto la sua disposizione idolatrica gli
dà una validità strettamente regionale , svolge piuttosto la funzione di
una liberazione del divino . Il vero problema, a proposito di Nietzsche ,
non riguarda il suo preteso (e volgare) ateismo ; consiste piuttosto nel
chiedersi se la liberazione del divino da lui tentata acceda ad una libe­
razione autentica, o si perda per strada . Ma è proprio a questo punto
che si fa strada un'altra critica , infinitamente più l'}�ldicale ; essa, infatti,

33 I. Kant, Religion innerhalb der Grenzen der Blossen Vernunft, m, p. 139 ( tr .


ci t. p. 1 54 ) .
34 ].G. Fichte, Ueber den Grund unsers Glaubens an eine gottliche Weltregierung,
in Fichtes Werke, ed. F. Medicus, III, p . 130.
35 F.W.}. Schelling, Untersuchungen iJber die menschliche Freiheit . . . , Schroter , r/9,
p. 356 ( « Gott ist etwas Realeres als eine b!oss moralische Weltordnung» ), tr . fr. di
].F. Courtine e E. Martineau, in Oeuvres Métaphisiques, Gallimard, Paris 1980,
p. 142.

196
L'essere, l 'idolo , il concetto

non si limita più a chiedere se l'ateismo concettuale, in quanto è rigo­


roso solo restando regionale, non debba essere necessariamente ricono­
sciuto idolatrico e quindi ricus ato ; essa si chiede se l'idolatria non infici
nella stessa misura, e anche di più addirittura, il discorso concettuale che
pretenda di accedere positivamente a Dio : in ultima analisi, infatti, Kant
e Nietzsche ammettono allo stesso modo l 'equivalenza di Dio con H
« Dio morale » , e in questo senso la stessa idolatria che infida il pensa­
tore dell'imperativo categorico si estende anche al pensatore della «morte
di Dio » . Donde il sospetto che l'idolatria, ancor prima di caratterizzare
l'ateismo concettuale, infici i tentativi apologetici che pretendano di pro­
vare, come si diceva, l'esistenza di Dio . Ogni prova , infatti, per dimo­
strativa che possa sembrare, non può culminare che in un concetto ; e,
a questo punto, non può fare altro che oltrepassarsi, per cosl dire , ed
identificare questo concetto con Dio stesso ; identificazione fatta, ad esem­
pio , da san Tommaso, con quell ' «id quod omnes nominant» che è ripe­
tuto alla fine di ciascuna delle sue vie 36; nello stesso senso , Aristotele,
nella Metafisica, concludeva la sua dimostrazione con « touto gar o theos,
questo è, dunque , Dio» 37 ; nello stesso senso, per eccellenza, Leibniz, nel­
l 'istante in cui accedeva al principio di ragione, si chiedeva : «Conside­
rate ora se ciò che abbiamo scoperto non debba essere chiamato Dio » 38•

La prova utilizza positivamente un'idolatria che l'ateismo concettuale


utilizza negativamente : in entrambi i casi, l'equivalenza con un concetto
trasforma Dio in «Dio » , in uno di quei «cosiddetti dei » che sono infini­
tamente ripetibili ; in entrambi i casi , il discorso umano decide di Dio .
L'opposizione delle decisioni, probante l'una e critica l'altra, non le di­
stingue più di quanto le identifichi il loro comune presupposto : quello
secondo cui il Dasein umano può , concettualmente, raggiungere Dio , e
può quindi costruire concettualmente qualcosa che si farà carico di chia­
mare «Dio » , per ammetterlo o dimetterlo. L'idolo è una chiave univer­
sale, sia per la negazione sia per la prova .

36 Tommaso d'Aquino, Summa theologica, I a, q. 2, a. 3 .


37 Metafisica, xn, 7, 1072 b, 29-30.
Aristotele,
38
G.W. Leibniz, Textes inédits, ed. G. Gr u a , PUF, P aris 1948, l, p. 287 . Non si
discosta sostanzialmente da questo punto eli vista la ripresa husserliana di <<Dio»
come « il soggetto fornito eli una conoscenza perfetta e quindi di una percezione il
più possibile adeguata» ; in questo caso, infatti, si tratta della pura e semplice «idea
eli Dio», forgiata a p artire dalle esigenze del nostro spirito in qualità di «un neces­
sario concetto-limite nelle meditazioni gnoseologiche, ossia un indice indispensabile
per la costruzione eli certi concetti-limite, dei quali nemmeno l'ateo che filosofa
potrebbe fare a meno» (Ideen ... , I, §§ 43 e 79; tr. it. Idee . , Einaudi, Torino 1965,
..

nn g7 "' 1 7 '; nnro 1 )

197
Jean-Luc Marion

11. La metafisica e l'idolo

La prima idolatria può stabilirsi rigorosamente a partire dalla meta­


fisica, nella misura in cui la sua essenza dipende dalla differenza onte­
logica, ma «non pensata in quanto tale», come dice Heidegger . Il risul­
tato che abbiamo appena conseguito apre, con la sua radicalità stessa,
una questione delicata, in quanto universale. Siamo passati dall'idolatria
all'ateismo concettuale ed in questo modo abbiamo messo in luce il pre­
supposto idolatrico di ogni discorso concettuale su Dio , anche di .quelli
positivi . Ma, a forza di dimostrare troppo non si dimostra più niente :
estendendo il sospetto di idolatria ad ogni tentativo di affrontare con­
cettualmente il divino, non si rischia di squalifì.care questo sospetto
stesso? L'individuazione dell'idolatria può mantener ferme le proprie
pretese solo a patto di autolimitarsi, cioè solo a patto di delimitare
precisamente il proprio campo di applicazione. II presupporre che que­
sto campo possa essere definito senza contraddizioni implica una caratte­
ristica universale del pensiero metafisica in quanto tale, o anche una
caratteristica del pensiero che lo faccia apparire come universalmente
metafisica . È appunto questa caratteristica che Heidegger enucleò come
differenza antologica . Accetteremo dunque, senza discuterla e in questo
caso anche senza farne un'esposizione, l'anteriorità radicale della diffe­
renza antologica come ciò attraverso cui e come ciò in cui il Geschick
dell'/come Essere dispiega ,gli enti , in un ritiro che comunque conserva
e dispone una prossimità ritirata . Ammetteremo anche che la differenza
antologica entra in gioco nel pensiero metafisica soltanto sotto la figura
obliosa di un pensiero dell'Essere (pensiero chiamato a e attraverso
l'Essere) che, ogni volta, continua a mantenere non pensata come tale
la differenza antologica: «11 pensare della metafisica rimane inalveato
nella differenza non pensata in quanto tale» 39 ; l'Essere, così, non si
trova mai ad essere pensato in quanto tale, ma si trova sempre
e soltanto come l'impensato dell'ente e come la sua condizione

39 M. Heidegger, Identitat und Differem:, Pfullingen 1957 , p. 63 ( tr. it. Iden­


tità e differenza, in Teoresi, 1966-1967, p. 233 ) . Cfr . ibid., p. 62 ( tr. cit. p. 233 ) :
«lnsofern die Metaphysik das Seiende als solches im Ganzen denkt, stellt sie das
Seiende aus dem Hinklick auf das D ifferente der Differenz vor, ohne auf die Dif­
ferenz als Differenz zu achten = In quanto la metafisica pensa l'ente come tale
nella totalità, concepisce l'ente nella prospettiva del Differente della differenza,
senza por mente alla differenza in quanto differenztJ>> ; e a ncora , Ueber den
«Humanismus», Wegmarken, G.A ., p. 322 { tr . it. Lettera sull'umanismo, SEI, To­
rino 1975, p. 85).

198
L'essere, l 'idolo , il concetto

di possibilità . In questo senso , il pensiero dell'Essere si oscura an­


che nella questione del ti to on? , questione in cui l'an he on indica
più l'entità dell'ente (Seiendheit, ousia, essentia) che non l 'Essere in
quanto tale . In questo senso, ancora, l 'entità finisce per trasformare
anche la questione sull 'Essere in una questione concernente l' en s supre­
mum , intesa e posta essa stessa a partire dall 'esigenza, decisiva per l'ente,

del fondamento. In questo senso, entrambe le questioni riconducono la


domanda sull'Essere alla certezza del fondamento : «La concezione onte­
teologica delia metafisica deriva dall'esserci (Walten presenza dina­
=

mica) della differenza, che tiene distinti e rapportati e l'essere come


fondamento e l'ente come fondato-fondante (causante )» 40• n divino, così,
non appare se non nella differenza antologica impensata in quanto tale,
e quindi anche nella figura del fondo fondatore, postulato per mettere

al sicuro l'ente, fondo che deve mettersi al sicuro , e quindi fondare .


L 'onto-teo-logia attiva, per conto suo , una funzione , e quindi un luogo,
per ogni intervento del divino che voglia costituirsi come metafìsico : il
polo teo-logico della metafisica determina, sin dalla messa in opera del
cominciamento greco, un sito per quello che più tardi sarà chiamato
«Dio » . In questo senso, allora, Dio può entrare nella questione .filosofica
solo «se questa stessa da se stessa, secondo la natura del proprio essere,
esige e determina il fatto ed il modo con cui Iddio entri nel suo ambi­
to» 41 • L'avvento di qualcosa come «Dio» in .filosofia , dunque, più che
dipendere da Dio stesso, dipende dalla metafisica, in quanto figura de­
stinale del pensiero dell'Essere . «Dio » si determina a partire ed a van­
taggio di ciò che la metafisica può potere, ammettere e sostenere. Que­
st 'istanza anteriore--che determina l'esperienza del divino a partire da
una condizione che si presuppone ineludibile-pone in evidenza un pri­
mo carattere dell 'idolatria. Tale carattere però non basta ancora ad inter­
pretare il discorso teologico dell'onto-teo-logia come un'idolatria. Infatti,
si deve anche determinare la portata, limitata ma positiva, del concetto
che l'idolatria considera equivalente a «Dio». A questo scopo ammette­
remo con Heidegger, ma anche come storici delia .filosofia, che questo
concetto trovi una formulazione compiuta, nella modernità (Cartesio,
Spinoza, Leibniz, ma anche Hegel) , con la causa sui : « L'essete dell'ente
nel senso del fondamento viene raffigurato in modo radicale solo se con-

40 M. Heidegger, Identitat und Differenz, cit., p. 63 : « ... Sein als Grund und
Seiendes als gegriindet-begriindendes ... »
( tr . cit. p. 233 ).
41 Ibid. , p . 47 ( tr. cit. p . 224).

199
Jean-Luc Marion

cepito come causa sui. Con tale termine viene espresso il concetto meta-

fisico di Dio ( . . . ). Questa causa (Ur-sache) è data come causa sui . Così
suona nella filosofia il nome adeguato per Iddio» 42• Pensando «Dio»
come causa sui, la metafisica si dà un concetto di « Dio» che ne sotto­
linea contemporaneamente sia l'esperienza indiscutibile sia la limita­
zione anch 'essa incontestabile : a forza di pensare «Dio» come un'effi­
cienza cosl assolutamente ed universalmente fondatrice che può essere
concepita solo a partire dall'essenza della fondazione, e quindi in ultima
analisi solo come il ripiegamento della fondazione su se stessa, lai meta­
fisica si costruisce certo Un'apprensione della trascendenza di Dio, ma
soltanto sotto la figura dell'efficienza, della causa e del fondamento. Una
simile apprensione può rivendicare una qualche legittimità solo a patto
di riconoscere nello stesso tempo il proprio limite. Ed è 11ppunto questo
limite che Heidegger delinea con assoluta precisione : <�Dinnanzi ad un
tale Dio l'uomo non può né pregare, né tanto meno offrire sacrifici.
Dinnanzi alla causa sui l'uomo non può porsi in ginocchio riverente, · né
tanto meno far cantare e vibràre il suo cuore (suonare e danzare musi­ =

zieren und tanzen) . Conseguentemente il pensare a�teo , che deve rinun­


ziare al dio della filosofia, cioè . alla causa sui, è forse più vicino al dio
divino (dem gottlichen Gott) . Questa espressione vuoi significare sol­
.

tanto che un tale pensare è più libero (più disponibile) per Lui di quanto
la Onto-teo-logica non sia disposta ad ammettere» 43 • La causa sui sa of­
frirei soltanto un idolo & «Dio » , un idolo ·cosl limitato che non può

42
Ibid., p. 51 (tr: cit. p. 226), poi p. 64 (tr. cit. p. 234). Con Ursache bisogna
intendere ad un tempo la causa e è�Ò che meta.fisicamente la garantisce, cioè la cosa
primordiale, Ur-Sacbe. Cfr. Wegmarken, G.A., 9, p. 350, tr. fr. in QuestirJns m,

p . 131; e Vie Frage nach der Technik, in Vortriige und Aufsiitze, Pfullingen 1954,
p. 2 6 (tr. it. La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976,
p. 20 ) : «Dio, nella luce della causalità, può decadere al livello di una causa efficiens.
Allora, anche nell'ambito dell a teologia, egli diviene il Dio dei filosofi, ossia di coloro
che definiscono il disvelato e il nascosto sulla base della .._..causalità del fare, senza
mai prendere in considerazione l'origine essenziale di qu�� ta causalità». In questo
senso, il pensatore accetta tranquillamente di esporsi all'accusa di «ateismo», dato
che già in partenza ci si può chiedere «se la presunta fede ontica in Dio non sia
in fondo assenza-di-Dio ( im Grunde · Gottlosigkeit). E se il meta.fisico autentico non
sia allora più religioso (religiOser) del normale credente, del fedele di una 'Chiesa'
o anche dei 'teologi' di ogni confessione» (Metaphysische Anfangsgriinde der Logik
im Ausgang von Leibniz, G.A. 26, p. 2 1 1 ).
43 M. Heidegger, Identitiit und Differenz, cit., pp. 64·65 (tr. cit. p. 234). Davide,
invece, davanti all 'Arca, danza, nudo. E, salmista per eccellenza, canta. In senso
contrario, si veda anche l'esperienza riferita da R. Walser ( dr. supra, 1, 3, n. 9).

200
L'essere, l'idolo, il concètto

né pretendere ad un culto e ad un'adorazione, tié tanto meno sostenerli,


senza tradire nello stesso tempo la propria insufficienza. La causa sui
dice cosi poco del «Dio divino » che assimilarla a quest'ultimo , anche
nell'intenzione apologetica di fornire una pretesa prova, equivale a pro­
nunciare una volgarità e persino una bestemmia : «Un Dio; che debba
innanzitutto lasciar dimostrare la propria esistenza, è in ultima analisi
un Dio ben poco divino, e l'esito della dimostrazione è, in massimo
grado, una bestemmia» 44• La bestemmia, in questo caso, non è altro che
il diritto di un'idolatria che aveva nell'ateismo concettuale il proprio
rovescio . In entrambi i casi , Dio cede il passo a «Dio » , cioè ad un con­
cetto che è limitato--alla causa come fondamento--e che, solo a questo
prezzo, diventa operativo in seno all a metafisica . L'idolatria cerca di dire
in bene ciò che il blasfemo dice in male ; il blasfemo maledice ciò chè
l'idolatria crede di dire bene; sia l'uno che l'altra non si r�ndono conto
di dire lo stesso nome; . bene o. male qui poco importa, dato che tutto
sta nel decidere se un nome proprio può appropriarsi di Dio trasforman­
dolo in un «Dio » ; la bestemmia inconscia dell'idolatria, dunque, può
essere denunciata autenticamente solo se nello stesso tempo si smaschera

44 M. Heidegger, Nietzsche, I, Pfullingen 1961, p. 366. Cfr . Nietzsches Wort «Gott


ist tot», in Holzwege, 1950, pp. 239-240 = G.A. 5 , p. 260 (tr . it. La sentenza di
Nietzsche: «Dio è morto», in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1973 , pp.
238-239 ): «L'ultimo colpo contro Dio e contro il mondo sovrasensibile consiste
nel misconoscere Dio, l'ente dell'ente, assumendolo come supremo valore (zum
hochsten Wert berab gewiirdigt wird). Il colpo più duro contro Dio non consiste
nel ritenerlo inconoscibile, nel provare la indimostrabilità della sua esistenza, ma
nell'innalzarlo a supremo valore. Questo colpo non viene infetto da coloro che
stanno a vedere e non credono 1n Dio, ma dai credenti e dai loro teologi che par­
lano del più essente degli enti senza mai . impegnarsi a pensare l'essere stesso e
senza quindi rendersi conto che quel parlare e questo pensare, considerati in base
all a fede, sono la pura e semplice bestemmia di Dio, una volta mescolati alla teolo.
gia della fede (die Gottesléisterung schlechthin )». Nello stesso senso, sLveda anche
Ueber den «HumanismUSI>, cit., p. 349 ( tr . cit. p. 117): «Proçlamare 'Dio' come
'il valore più alto', significa degradare (Herabsetzung) la sua essenza. Pensare in
termini di valori è, in questo caso e in ogni altro, la maggiore bestemmia che si
possa pensare contro l'Essere». Resta un solo problema che qui anticipiamo : la
bestemmia contro «Dio» coincide qui, e . in diversi modi convergenti, con la be­
stemmi a contro l'Essere. Ma non si potrà forse sospettare che proprio questa coin­
cidenza tra le due bestemmie finisca col determimirne di per . sé una terza, altret­
tanto grave per lo meno, benché appunto si debba dire che anche la sua sola intuì"
.
zione diventa possibile · esclusivamente a patto di non pensare a · partire ed in vista
dell'Essere.

201
Jean-Luc Marion

l'idolatria incoerente della bestemmia. È solo sulla! base di un concetto


che «Dio» sarà, equivalentemente, negato o provato , e sarà quindi con-
siderato alla stregua di un idolo concettuale, omogeneo al terreno con­
cettuale in generale .
Cosa abbiamo ottenuto con ciò ? Non abbiamo semplicemente ritro­
vato il nostro punto di partenza, e cioè il sospetto di idolatria applicato
al concetto ? Certo, l'abbiamo ritrovato, ma con una determinazione che
lo qualifica in maniera decisiva : l'idolo concettuale ha un sito, la meta­
fisica, una funzione , la teo-logia nell 'onta-teo-logia, e una de:f:inWone ,
causa sui . L 'idolatria concettuale non resta un sospetto universal.thente
vago, ma si inscrive nella strategia complessiva del pensiero considerato
nella sua figura metafisica. Ciò che fa entrare in campo l 'idolatria con­
cettuale e le assegna una funzione precisa è niente meno che il destino
dell'Essere, o meglio l'Essere come destino . Attraverso la lettura di
Heidegger, arriviamo cosl a rovesciare parola per parola la formula im­
prudente ed affrettata di Sartre che parla dell'«Ens causa sui, che le reli­
gioni chiamano Dio» 45 • Ora, solo la metafisica vuole e può dare all'Ens
causa sui il nome di Dio, perché solo la metafisica comincia col pensare
e col dare un nome alla causa sui. « Le religioni», invece , o, per conti­
nuare ad essere precisi, la religione cristiana non pensa Dio a partire
dalla causa sui, perché essa non lo pensa a partire dalla causa, né all'in­
terno dello spazio teorico definito dalla metafisica, né tanto meno a
partire dal concetto, ma appunto e soltanto a partire da Dio , preso in

45 J.-P. Sartre, L'f:tre et le Néant; Paris 1943, p. 708 (tr. it. L'essere e il nulla,
il Saggiatore, Milano 1965, p. 738). Tutta l'opera (e quindi, ovviamente, anche
l'ateismo sostanzialmente volgare di Sartre) si regge sull ' assimilazione di Dio alla
causa sui, senza la benché minima dis tinzione prudenziale (heideggeriana o pasca­
liana) tra gli «dei» possibili . Il fascino esercitato dall a «dignità di 'causa sui'» ( p .
714 [ tr. cit. p. 744 ] , con una eco certo involontaria al dibattito tr a Cartesio e
Arnauld sulla causae dignitas, Oeuvres , ed. A.-T., VII, p . 242, 5 [tr. it. Opere,
. ...

Laterza, Bari 1 967 , 1, pp. 4 1 0-41 1 ] ) investe non solo il � oncetto di «Dio», ma
persino la cristologia elementare che deve qui fabbricarsi la retorica : «Il desiderio
è mancanza di essere, l'abbiamo visto. In quanto tale, appoggia direttamente sull'es­
sere di cui è mancanza. Questo essere è l'in-sé-per-sé, la coscienza diventata so­
stanza, la sos tanza diventata causa di sé, l'Uomo-Dio» (Sartre, op. cit., p. 664 [ tr.
cit. p. 69 1 ] ) ; « ... L'Ens causa sui, che le religioni chiamano Dio. Cosl la passione
dell'uomo è l'inverso di quella di Cristo, perché l'uomo si perde in quanto uomo
perché Dio nasca» ( ibid . , p. 708 [ tr. ci t. p. 738] ). Ma donde viene l'evidenza inge­
nua ed aggressiva che il più alto nome del divino risieda nella causa sui, se non da
un antropomorfismo seini-concettuale e interamente non-criticato?

202
L'essere, l'idolo, il concetto

considerazione proprio in quanto è lui stesso ad inaugurare la cono­


scenza in cui si consegna-si rivela. Bossuet, nonostante la banalità deli­
beratamente non elaborata del discorso, dice parole d'oro quando afferma
che «il nostro Dio ( . ) è infinitamente superiore alla causa prima e a
..

quel primo immobile che i filosofi hanno conosciuto senza giungere però
ad adorarlo» 46 • Per guadagnare un pensiero non idolatrico di Dio , il
solo che sia capace di liberare �<Dio» dalle virgolette emancipando la sua
apprensione dalle condizioni poste dall'onto-teo-logia, bisognerebbe dun­
que arrivare a pensare Dio al di fuori della metafisica, per lo meno nella
misura in cui quest'ultima, con la bestemmia (la prova), conduce imman­
cabilmente al crepuscolo degli idoli (ateismo concettuale) . Anche in que­
sto caso, ma questa volta in nome di qualcosa come Dio e non più di
qualcosa come l'Essere, il passo indietro che porta fuori dalla metafisica
si presenta come un compito urgente, anche se non scandaloso . Ma qual
è lo scopo di questo passo indietro ? Il superamento dell'idolatria ci
chiama forse a regredire dalla metafisica nel senso in cui Sein und Zeit
cerca di compiere un passo indietro verso l'Essere come tale, attraverso
la meditazione della sua temporalità essenziale? Regredire dalla meta­
fisica : anche supponendo che il pensiero consacrato all'Essere in quanto
Essere possa riuscirvi, è forse già sufficiente per liberare Dio dall 'ido­
latria-visto che l'idolatria culmina nella causa sui--o non si dovrà rico·
noscere piuttosto che l'idolatria della causa sui rinvia, solo come indizio ,
ad un'altra idolatria , più discreta, più pressante e quindi tanto più
minacciosa ?

1 2 . Lo schermo dell'Essere

In che senso si può dire, a questo punto, che abbiamo fatto qualche
passo in avanti? Non abbiamo semplicemente ripreso la meditazione
heideggeriana della figura che il divino assume nell'onto.teo-logia della
metafisica, per arrivare poi, non senza una certa violenza, a conside­
rarla identica alla nostra problematica dell'idolo? Questa identificazione ,
probabilmente forzata, non sarà forse u n nuovo caso d i quella mania ,
deplorevole e tuttavia persistente , di riprendere loro malgrado in un
discorso teologico i momenti principali del discorso heideggeriano, in un
gioco in cui entrambe le parti perdono infinitamente di più di quanto

4é J.-B. Bossuet, op. cit. , II, l.

203
Jean-Luc Marion

guadagnino ? Appunto , ciò che dobbiamo fare ora è sottolineare come


.

la problematica dell 'idolatria , lungi dal cadere qui in desuetudine , trova


il terreno per un dibattito veramente radicale proprio quando si imbatte
nel tentativo di un pensiero dell'Essere in quanto Essere .
Prima di abbozzare questo paradosso, però , e per poterlo delineare
più precisamente, dobbiamo tornare a considerare ancora una volta
Nietzsche . La « morte di Dio » , come morte del «Dio morale» , constata
il crepuscolo di un idolo ; ma, appunto perché si tratta di un idolo , il
crollo porta con sé, più essenzialmente ancora che non una distruzione,
la liberazione di un nuovo spazio , libero per un 'eventuale apprensione ,
non idolatrica, di Dio . Ed è proprio per questo che Nietzsche annuncia
dei <<nuovi dei » come una possibilità autentica resa ipotizzabile dalla
loro ardente attesa. Ma questi nuovi dei non potranno mai rendersi visi­
bili se la loro apprensione non si sottomette alla volontà di potenza,
che determina l'orizzonte di ogni ente, come entità dell'ente : « h ochste
Macht-das Genugt!» 47 ; gli dei , liberati dall'idolatria morale, restano
però soggetti ad altre istanze , ad un'altra unica istanza di cui essi sono
funzione, la volontà di potenza ; essi, infatti, non sono altro che dei suoi
puri e semplici stati o figure . I nuovi dei dipendono dall'« istinto reli­
gioso, cioè l'istinto plasmatore di dei (gottbildende) » 4ll . Così, ad un'ap­
prensione idolatrica succede un'altra apprensione idolatrica : la manife­
stazione del divino non fa che p assare da una condizione (morale ) ad
un 'altra ( Wille zur Mach t ) , senza che il divino possa mai liberarsi in
quanto tale . Così come si è potuto azzardare che Nietzsche costituisse
l'ultimo momento della metafisica , proprio in quanto la portava a com­
pimento , allo stesso modo ora si deve proporre l 'ipotesi secondo la quale
Nietzsche rende cruciale il crepuscolo degli idoli solo in quanto lui stesso
compie un nuovo (l'ultimo ? ) passo in avanti nel processo idolatrico . Non
passa un solo istante senza che la volontà di potenza forgi degli « dei » :
agli occhi dei moderni nulla è più banale di un « dio » ; n e siamo ininter­
rottamente accerchiati, sino a provarne un disguStO' ossessivo : ogni istan�
te non solo ce li propina, ma addirittura li esige e li produce . Infatti, ad
un dominio universale della volontà di potenza che dà il sigillo dell 'eter­
no al divenire , deve corrispondere , secondo il rigore dell'onto-teo-logia,
lo splendore trionfante di una figura unificata del divino, e quindi del

47 · «La somma potenza-questo basta ! » . F. Nietzsche, Werke (ed. Colli-Montinari),


vm/2 , 10 ( 90), p. 173 (tr. cit., vm/2, p. 153).
4ll F. Nietzsche, Werke, ed. cit., vm/ 3, 17 [ 4 ] , 5, p . 323 (tr. cit. vm/3, p. 3 1 5 )
= Wille z u r Macht, § 1038.

204
L'essere, l'idolo , il concetto

massimo divenuto effettivo di uno stato e di una figura della volontà di


potenza . Il barbaro dilagare degli «idoli» (perché in effetti non si pos­
sono che definire «idoli») terribili e futili, che il nos tro tempo nichilista
continua a consumare ogni giorno di più, pone in evidenza l'esaspera­
zione dell'idolatria e non, certo, la sopravvivenza di un qualche desi­
derio naturale di vedere Dio , che sarebbe comunque sviato . Non basta,
infatti, oltre-passare un idolo per sottrarsi all'idolatria. Questa redupli­
cazione dell'idolatria, cui neppure Nietzsche può sfuggire , con Heidegger
può essere sospettata in maniera ancor più ampia e quindi più pericolosa
di quanto possa esserlo con l'attesa nietzscheana . La « morte di Dio » si
?.pre per Nietzsche nel nichilismo, ed è appunto attraverso la passione
del nichilismo che la volontà di potenza accede ad una produzione figu­
rativa di nuovi dei . L'essenza della tecnica, che culmina nell'Imposizione
(Gestell) , compie il nichilismo , ma in maniera tale che il nichilismo si
apre allora alla possibilità di una salvezza ; in effetti , portando sino al suo
limite insuperabile l 'interpretazione dell'Essere dell 'ente come presente
e presenzialità (Anwesenheit) , consacrando quindi il privilgio dell 'ente
sulla sua entità , e dimenticando quindi che, nella differenza antologica,
ciò che continua sempre a dimenticarsi è appunto l'Essere, l'Im-posizione
porta al culmine la differenza antologica , manifestandola tanto più chia­
ramente in quanto non la pensa come t ale . Là dove più grande si fa il
pericolo, più grande diventa anche la salvezza . L'Im-posizione pone la
differenza antologica come problema, per il fatto stesso che la produce e

la misconosce con una forza imponente ed identica. In questo senso,


così come e dato che il nichilismo continua a mirare l'avvento di <<nuovi
dei » , e in una certa misura lo provoca, allo stesso modo « con la fine
della filosofia non è già lo stesso pensiero che anche giunge alla sua fine ;
esso passa invece a un altro cominciamento» 49 • L'altro cominciamento
cerca di pensare la differenza antologica come tale , e di pensare quindi
l 'essere come Essere . Contrariamente a quanto succede nel caso della
differenza antologica , Heidegger assegna a questo «altro cominciamento »
una funzione ed una posta precise, senza gravarlo di un qualche carat­
tere problematico , a venire o fantastico . Il <<nuovo cominciamento» , che
si assoggetta a pensare l'Essere come tale, e compie quindi un passo
indietro rispetto alla filosofia, si realizza con Sein und Zeit o per lo meno
con la sua mira. Il « nuovo cominciamento » , proprio come i <<nuovi dei » ,

49 M. Heidegger, Veberwindung der Metaphysik, § 12, in Vortriige und Aufsiit:;; e ,


cit., p. 75 ( tr . it. Oltrepassamento della metafisica, in Saggi e discorsi, cit., p . 54).

205
Jean-Luc Marion

non appartiene a nessun futuro , poiché solo lui può aprire un futuro
senza avvenire che non sia retto di primo acchito dalla pretesa reiterata
del presente . In breve , esso si realizza davanti a noi e, speriamolo, con
noi . In questo senso, il « nuovo cominciamento », che rompe con la dif­
ferenza antologica non pensata e quindi con la causa sui dell'onta-teo­
logia, inizia a concepire il «dio divino» o per lo meno non si chiude a
questa possibilità, o meglio la apre . Concludendo : il «nuovo comincia­
mento » , fattosi carico dell'Essere come Essere , tenta di accostare il dio
in quanto dio . Donde quell'affermazione decisiva che dobbiamo ora com­
prendere con tutte le sue armoniche : «Solo a partire dalla v�rità del­
l'Essere è possibile pensare l'essenza del sacro . Solo a partire dall 'es­
senza del sacro va pensata l'essenza della divinità . ,Solo alla luce dell'es­
senza della divinità si può pensare e dire che cosa debba nominare la
parola 'Dio ' . ( . . . ) L'Essere . Solo in questa vicinanza si decide se e come
Dio e gli dei si rifiutano e resta la notte, se e come il giorno del sacro
albeggia, se e come in tale albeggiare del sacro possano cominciare di
nuovo ad apparire (neu beginnen) Dio e gli dei . Il sacro, però , che è
solo lo spazio essenziale della divinità, la quale a sua volta garantisce
solo la dimensione per gli dei e per Dio, giunge ad apparire solo se
dapprima e in una lunga preparazione l'Essere stesso si è aperto ed è
stato esperito nella sua verità» 50• Ciascuno di questi testi obbedisce ad

50
M. Heidegger , Ueber den «Humanismus», cit., pp. 351 e 338-339 ( tr. cit . pp.
1 19 e 105). La polemica suscitata da questi testi, o meglio dal commento che conti­
nuiamo a farne, ci spinge a citarne altri paralleli ( senza pretendere per altro, tanto
la tesi è costante, all'esaustività) . Si possono dunque vedere : ( a ) Wozu Dichter?, in
Holzwege, 1950, pp. 249 e 250 � G.A. 5, pp. 270 e 272 (tr. it. Perché i poeti? ,
in Sentieri interro tti , cit ., pp. 248 e 250) : «La svolta dell'epoca non avviene perché
irrompe un nuovo Dio o perché il vecchio esce fuori dal suo nascondimento. In qual
luogo potrebbero insediarsi se (prima, zuvor) gli uomini non avessero preparato loro
un soggiorno? Come potrebbe sussistere un soggiorno adatto a Dio se prima non si
diffondesse lo splendore della divinità ( ein Glanz von Gottheit ) su tutto ciò che è?
( ... ) L'Etere, nel quale soltanto gli Dei sono Dei, è la loro di�inità ( ist ihre Gottheit ).
L'elemento di questo etere, in cui la divinità stessa è . presente ( w est) è il Sacro.
L'elemento dell'Etere per il ritorno degli Dei, il Sacro ( das Hei!ige ), è la traccia
degli dei fuggiti» ; ( b ) Die Kehre, in Die Technik und die Kehre, Pfullingen 1 962,
p . 46, tr. fr. in Questions rv, Paris 1976, p . 154 : «Vive il dio o è morto? Non pos­
sono deciderlo né la religiosità degli uomini né, ancor meno, le aspirazioni teologiche
della filosofia e delle scienze della natura. Se Dio è Dio avviene a partire dall a co­

stellazione dell'Essere e all'interno di questa (oh Gott Gott ist, ereignet sich aus
der Konstellation des Seins und innerhalb ihrer)»; (c) Nietzsche, II, cit ., pp. 394 e
396, tr. fr., modificata, Paris 1971, t. 2, pp. 3 1 6 e 317: «<l rimaner-mancante del

206
L'essere, l'idolo , il concetto

una sovrapposizione, rigorosamente predeterminata , di condizioni che si


implicano e si embricano reciprocamente . L'Essere determina così, con
l'apertura del suo ritiro, degli enti ; la sporgenza degli enti, che l'Essere
( das Heile) mantiene intatti, incorona a sua volta quelli che tra loro
sono i più protetti con la gloria del sacro (das Heilige) ; ma, ancora una
volta, è solo lo splendore del sacro che può garantire l 'apertura di qual­
cosa come un ente divino (das Gottliche) ; ed
è sempre e soltanto la virtù
del divino che può noleggiare e sostenere il peso di enti così insigni che
sui loro visi si è costretti a riconoscere il volto degli dei (die Gotter) ;
da ultimo, solo la tribù degli dei può preparare e garantire un soggiorno
sufficientemente divino perché qualcuno come il Dio del cristianesimo o
un altro (l 'unico vero problema in questo caso è la pretesa all 'unicità)
abbia la possibilità di rendersi manifesto . Tutte queste condizioni em­
bricate si riuniscono per altro nel gioco di ciò che altrove (nella strana
conferenza su La Cosa) Heidegger chiama Quadratura o Quadrato (Ge­
viert), le cui quattro istanze, la Terra e il Cielo, i mortali e il divino ,

non-occultamento dell'Essete come tale accelera la scomparsa di tutto ciò che è sa­
lutare nell'ente (alles Heilsamen im Seienden ). Questa scomparsa comprende con
sé e richiude l'aperto del sacro (das Offene des Heiligen ). La chiusura del sacro
oscura ogni bagliore della divinità ( das G ottheitlichen ) . Questo oscuramento con­
ferma e nasconde nello stesso tempo il fatto che Dio/il dio manca (des Fehl
Gottes )». Donde consegue che : «più disorientante ed inquietante ( unheimlicher)
della mancanza del dio/di Dio, in quanto più essenziale e più antico, è il destino
dell'Essere ( unheimlicher als der Fehl Gottes ist . . . das Seinsgeschick )»; ( d ) Sémi­
naire de Zurich , traduzione di F. Fédier e D. Saatdjian , in Poésie n. 13, Paris 1980,
p. 6 1 (cfr. anche la tr. di J. Greisch, in Heidegger et la question de Dieu , Paris
1980, p. 334 ) : «lo resto perplesso quant'altri mai di fronte a qualsiasi tentativo di
utilizzare l'essere per determinare teologicamente in che cosa Dio sia Dio . Dall'es­
sere, in questo caso, non ci si può attendere null a . Credo che l'essere non potrà
mai e poi mai essere pensato alla radice e come essenza di Dio, ma credo tuttavia
che l'esperienza di Dio e del suo esser-manifesto, proprio in quanto può incontrare
l 'uomo, balena appunto nella dimensione dell'essere, il che non significa assoluta­
mente che l'essere possa avere il senso di un possibile predicato per Dio» ; ( e ) Sémi­
naire du Thor 1 968, in Questions rv, p . 258 : «Das Sein ist Gott [l'essere è Dio ] ,
inteso ora speculativamente, significa : das Sein 'istet' Gott [l'essere 'esserizza' Dio]
cioè das Sein lasst Gott Gott sein [ l'essere fa essere Dio Dio] . 'Ist' è transitivo e
attivo. Erst das entfaltete Sein selbst ermoglicht das Gott-sein : solo essere svilup­
pato sino in fondo ( nel senso in cui lo è nella Logica) rende possibile (di rimando)
essere-Dio » . È ovvio che quest'ultimo testo deve essere utilizzato con maggiore
prudenza che non i precedenti, in considerazione del suo statuto di commento e
del suo modo di trasmissione; in questo contesto resta comunque significativo. Per
la discussione sull a portata di questi testi, si veda anche la nota a!Ulessa (infra § 5).

207
Jean-Luc Marion

si rinforzano come con un arco di spinta, cioè si confermano e si respin­


gono, in una immobile e palpitante tensione n �lla quale ciascuno non
deve ad altro il suo avvento se non alla lotta degli altri, e nella quale
le loro lotte reciproche non devono ad altro l'armonioso equilibrio della
loro mischia-contesa se non all'Essere che le richiede, le fa scattare e
le mantiene . Gli dei non hanno che da farvi la loro parte, in una Quadra­
tura; così come sarebbe difficile dire che Dio sia in grado di ricoprire il
ruolo degli dei , ancor meno lo si potrebbe ipotizzare una volta che fosse
sottratto alla Quadratura ; né sottratto, né ovviamente iniziatore o pa­
·
drone 5 1 • Al pensiero che si ponga a pensare l'Essere in quanto, Essere,
al di fuori della metafisica, nel faccia a faccia deciso con la differenza
antologica meditata come tale , la domanda sull'«esistenza di Dio » sem­
brerà inevitabilmente fuori posto , affrettata ed imprecisa. Imprecisa :
perché cosa significa esistere, e poi questo termine conviene a qualcosa co­
me «Dio» ? Affrettata : perché prima di arrivare a «Dio» , anche soltanto
come un 'ipotesi , bisogna passare attraverso l'abbagliante ma sconvol­
gente molteplicità degli dei, e poi attraverso la semplicità miracolosa del
divino e del s acro , ed è solo alla fìne di questo percorso che si può ap­
prodare alla questione stessa dell'Essere . La « meraviglia di tutte le mera­
viglie» non sta nell'esistenza di «Dio» più di quanto stia nell'esistenza
di ogni altro ente , e non consiste neppure in ciò che dice (metafisica­
mente) il termine «esistenza», ma nel fatto più semplice e quindi più
difficile da pensare che l'ente è 52 • L'essenziale, nel problema dell'« esi-

51 Si vedano innamitutto due testi fondamentali : Der Ursprung des Kunstwerkes,


in Holzwege , particolarmente le pp. 29 ss. = G.A., 5, pp. 25 ss. (tr. it. L'origine
dell'opera d'arte , in Sentieri interrotti, cit ., pp . 31 ss) e la conferenza Das Ding,
in Vortrage und Aufsiitze, cit ., p. 51 ( tr. it. La cosa, in Saggi e discorsi, cit ., p. 1 18 } :
«Quando diciamo cielo, pensiamo già anche insieme gli altri Tre a partire dalla
semplicità dei Quattro ( aus der Ein/alt der Vier }. I divini sono i messaggeri della
divinità, che ci fanno segno ( die winkenden Boten der Gottheit} . Nel nascosto
dispiegarsi di questa il Dio appare venendo nella sua essenza, che lo sottrae a ogni
confronto con ciò che è presente. Quando nominiamo i 'divini, pensiamo già anche
insieme gli altri Tre a partire dalla semplicità dei QuattrO>> . Per semplificare, o
piuttosto per caricare le tinte sino alla caricatura, si potrebbe addirittura azzardare
che, in questo contesto, poiché «il facente-avvenire-traspropriante gioco di specchi
della semplicità di terra e cielo , divini ( Gottlichen} e mortali» è ciò che noi chia­
miamo il mondo ( ibid. , p. · 52 [ tr. cit. p. 119] ), e quindi poiché il mondo fa i
quattro della Quadratura, e dunque «fa» gli dei, piuttosto che avere un «Dio »
che crea il mondo avremmo un mondo cui spetta di «fare» gli dei.
52 Cfr. M. Heidegger, Poscritto a Was ist Metaphysik ? , in Wegmarken, G.A. 9,
p. 307 ( tr. it. Che cos'è la metafisica?, La Nuova Italia, Firenze 1 97 1 , p. 49).

208
L'essere, l'idolo , il concetto

stenza di Dio » , dipende meno da «Dio» che dall'esistenza stessa , e


quindi dall'Essere . Questo problema sembra essere poi, alla fine, fuori
posto, cioè ad un tempo inopportuno e dislocato dal sito che gli è pro­
prio : la verità su «Dio» non potrà mai venire se non da ciò donde pro­
viene la verità stessa, e cioè dall'Essere , dalla sua costellazione e dalla
sua apertura . Il problema di Dio deve ammettere un preliminare, sia
pure sotto la forma di un problema preliminare. Al cominciamento e in
principio non avviene né Dio, né un dio e neppure il logos, ma l'avvento
stesso, l'Essere , con un'anteriorità che è tanto meno condivisa in quanto
divide tutto il resto; in base ed a partire da questo avvento, infatti, non
restano letteralmente se non degli enti, e nient'altro se non degli enti
e il niente. La questione stessa del primato antico di «Dio» non può
essere posta se non all'interno di questo avvento . Ma, appunto , nell'or­
dine del pensiero v'è forse qualcos a di più decisivo dell'ordine delle
questioni che lo provocano ?
Possiamo dunque affermare che anche in questo caso , per la seconda
volta, e di là dall'idolatria propria della metafisica , è all 'opera un'altra
idolatria, propria al pensiero dell'Essere in quanto tale . Questa afferma­
zione , per brutale che possa sembrare, discende però direttamente dal­
l' anteriorità, indiscu tibile ed essenziale , della questione on tologica rispet­
to alla questione ontica di «Dio » . Quest'anteriorità è sufficiente a stabi­
lire l'idolatria. Le apporteremo, però, due conferme che permetteranno
di collegare due dei momenti dell'idolo a due convincimenti di Heideg­
ger . ( a) L'idolo determina il «dio» a partire dalla mira, e dunque da uno
sguardo anteriore . Ma nei testi esaminati più sopra, la dipendenza di
«Dio » nei confronti degli dei e poi della divinità, del sacro e infine
dell'Essete non sembra risalire sino ad uno sguardo anticamente iden­
tificabile; in questo senso, Heidegger non soddisferebbe una delle condi­
zioni dell'idolo. Di fatto, è opportuno non dimenticare, leggendo questi
testi posteriori alla « svolta» , l'acquisizione (sostanzialmente definitiva )
dei testi anteriori sull'analitica del Dasein e sull'essenza fondamentale
della fenomenologia. Dire Essere/ Sein non sarebbe semplicemente pos­
sibile se l'uomo non potesse accedere alla propria dignità di Dasein ; in
questo caso, Dasein indica ciò che è proprio dell'ente umano e che con­
siste nel fatto che in questo ente ne va non solo del suo essere (come
sostiene ripetutamente Sein und Zeit , nel l 9 2 7 ) , ma, più essenzialmente ,
come Heidegger dirà nel 1 928 , dell'Essere e della sua comprensione : « <l
Dasein è un ente tale che è essenzialmente proprio del suo modo d'es­
sere (Seinsart) il fatto di comprendere qualcosa come Essere (dergleicben

209
Jean-Luc Marion

wie Sein zu verstehen) » 53. L 'anteriorità ulteriormente isolata del Sein


'

si conquista qui concretamente attraverso il Dasein e la sua anteriorità ;


fenomenologicamente l'anteriorità dell'Essere può dispiegarsi e giustifi­
carsi solo attraverso l 'anteriorità dell'analitica del Dasein . Bisogna dun­
que ammettere un'anteriorità fenomenologica assoluta del Dasein , come
comprensione dell'Essere , rispetto ad ogni ente e ad ogni ricerca ontica
regionale . Heidegger caratterizzava questa situazione privilegiata del
Dasein parlando della sua « neutralità caratteristica» 54 • Rapportato ad
una legge religiosa, o all'esistenza antica di «Dio » , il privilegio feno­
menologico del Dasein ' si espone all'«apparenza di un ateismo •estrema­
mente individualista e radicale, Schein eines extrem individualistischen,
radikalen Atheismus» . Ma non vi sono dubbi che si tratti soltanto di
un'apparenza, se si pensa a d un 'opzione esistenziale : è certo che Hei­
degger, per quanto lo concerne, non rientra affatto nel novero di quelli
che più tardi definirà «fannulloni pubblici» 55 • Resta il fatto che , presa
nella sua definizione fenomenologica, e quindi come Kategorienforschung,
«la ricerca filosofica è e resta un ateismo» 56 ; ateismo , in questo caso , più
che una negazione indica una sospensione ; ma una sospensione simile
-fenomenologicamente inevitabile-implica-teologicamente-un 'istan­
za anteriore a «Dio » , e quindi ciò a partire da cui l'idolatria potrebbe
sorgere. Non vi sono dubbi che « attraverso l 'interpretazione antologica
dell 'Esserci (Dasein) come essere-nel-mondo non è deciso nulla né di
positivo , né di negativo �u un possibile essere per Dio » 57 • Ma la possi-

53 M . Heidegger, Metaphysische Anfangsgrunde der Logik, cit . , p . 20. Questo


testo radicalizza opportunamente ciò che le formulazioni di Sein und Zeit (§ 4) pote­
vano forse lasciare ancora troppo sottinteso.
54 Ibid. , p. 1 7 1 ; cfr . i §§ 10 e 1 1 . Queste analisi precoci concordano con il
«neutrale tantum» che qualifica tardivamente l'Ereignis in Zur Sache des Denkens,
1969, p. 47, tr. fr. in Questions IV, p. 7 8 .
5 Cfr. La sentenza di Nietzsche: «Dio è morto», in Sen tieri interrotti, cit ., p .
5

245 ( ndt) .
56 Rispettivamente Metaphysische Anfangsgrunde der Logik, cit., § 10, p. 177 e
Prolegomena zur Geschichte des ZeitbegrifJs, G .A. 20, pp. 109-1 1 0 . L'ateismo pu­
ramente fenomenologico di Husserl ( Ideen . . . , I, § 58) può servire, anche se soltanto
in una certa misura, da punto di riferimento . Sulla permanenza del metodo feno­
menologico nel progetto di una analitica del Dasein, si veda la messa a punto di
J.-F. Courtine, «La cause de la phénoménologie», in Exercices de la patience, 3 /4,
Paris 1982.
57 M. Heidegger, Vom Wesen des Grundes, in Wegmarken , G.A. 9, p. 159 ( tr .
it. Dell'essenza del fondamento , Bocca, Milano 1952, p . 5 8 , n . 56). In effetti il
testo prosegue e trasforma la riduzione della trascendenza divina nella sua costi-

210
L'essere, l'idolo , il concetto

bilità stessa di questa indecisione implica una sospensione; questa so­


spensione implica, a sua volta, da un punto di vista anteriore in quanto
esteriore, una mira che sospende ogni posizione antica ; il Dasein mette
in pratica appunto questa mira, e nessun termine potrebbe comparire se
non fosse mirato e visto da essa. Il Dasein precede la questione di «Dio »
nello stesso senso in cui l'Essere determina in partenza , in base agli dei ,
al divino e al sacro, «Dio » , la sua vita e la sua morte . «Dio», mirato
come ogni altro ente dal Dasein , nel modo della messa tra parentesi,
subisce la prima condizione di possibilità di un'idolatria.
(b) L'idolo viene costituito dallo slancio di una mira anteriore ad
ogni spettacolo possibile, ma anche da un primo visibile, nel quale, po­
sandosi, raggiunge senza vederlo il proprio specchio invisibile, magra
del proprio alzo . È possibile ritrovare nel testo heideggeriano una tesi
che confonda il primo visibile con lo specchio invisibile ? Il pensiero che
pensa l'Essere come tale non può e non deve apprendere nulla se non
degli enti , che offrono il cammino o meglio il campo di una meditazione
dell'Essere . Ogni accesso a qualcosa come «Dio» dovrà, per il fatto
stesso della mira dell'Essere come tale , determinarlo in partenza come
un ente . La precomprensione di «Dio» come ente va da sé, sino ad
esaurire in partenza «Dio» come questione. Heidegger ripete spesso che
il credente, per la sua stessa certezza di fede, può senz'altro concepire la
questione filosofica dell'Essere, ma non può mai impegnarvisi, trattenuto
com 'è dalla sua certezza. L'osservazione può, per lo meno, capovolgersi :
forte della precomprensione di ogni «Dio» possibile come ente e della
sua determinazione attraverso l'istanza anteriore dell 'Essere , Heidegger
può senz 'altro concepire e formulare la questione di Dio ( senza virgo­
lette ), ma non può mai impegnarvisi seriamente . Appunto perché già in
partenza e definitivamente «Dio » , quale che possa essere la sua figura
futura, sarà : « Gli Dei fanno segno semplicemente e soltanto perché
sono» , «Dio è un ente che per la sua stessa essenza non può non es-

tuzione a partire dal Dasein : « . . . ma proprio in virtù della messa in chiaro della
trascendenza viene finalmente raggiunto un sufficiente concetto dell'Esserci sul cui
fondamento diviene p ossi bil e porre il problema ( nunmehr gefragt werden kann )
del come stiano antologicamente le cose a proposito del rapportarsi a Dio da parte
dell'Esserci» . Il prob lema del Dasein, cioè il problem a che il Dasein pone a se
stesso a pro p os i to dell'Essere, determina in partenz a la possibilità di qualsiasi pro­
b le m a di Dio : prima della «svolta» c'è già un preliminare che gioca davanti e su
Dio ; il fatto che qui si tratti del Dasein e non del Sein è cosa che, nella questione
di cui ci stiamo occupando, non modifica nulla .

211
Jean-Luc Marion

sere» , «l'ente ( . . . ) che non può non essere . 'Teologicamente' pensato ,


questo ente si chiama ' Dio ' » , « e sotto l" Essere' stanno anche tutti gli dei,
nella misura in cui sono e quale che sia il loro modo d'essere» 58• In
breve, «Dio» diventa originariamente visibile come ente solo perché in
questo modo colma-per lo meno in un sens o--e rinvia riflessivamente
( specchio invisibile) a se stesso una mira che si indirizza innanzitutto e
decisamente all'Essere . In altre parole, la proposizione «Dio è un ente»
appare essa stessa come idolo , poiché non fa altro che determinare una
torsione della mira che, in partenza, decide che ogni «Dio» ppssibile,
presente o assente, in uh modo o nell'altro, ha da essere . Ciò eh� è rigo­
rosamente formulato in questa sequenza: «<l dio /'Dio' stesso , infatti , se
è, è un ente , sta come un ente nell'Essere , nell 'essenza di colui che
avviene a partire dal divenir-mondo del mondo , auch der Gott ist, wenn
er ist, ein Seienden> 59• Ma va proprio da sé che Dio abbia da essere , e
che abbia quindi da essere in quanto ente (supremo , plurale , o come si
vorrà ) per donarsi come Dio ? Da cosa dipende il fatto che l'Essere si
trovi ad essere considerato, in maniera indiscussa, come il tempio aperto
(o chiuso ) già in partenza ad ogni teofania passata o futura? E non si
potrà forse arrivare a sospettare il contrario, e cioè che il tempio del­
l'Essere , per definizione e assioma del pensiero dell'Essere come tale,
non sarebbe assolutamente in grado di soccorrere , richiedere, ammettere
o promettere checchessia a proposito di quel Dio di cui non si dovrebbe
neppure nominare il nom,e? E anche se questo sospetto non si dovesse
rivelare fondato, si è per lo meno pienamente autorizzati a sollevarlo , e
ci si deve stupire che esso non stupisca più né i credenti né i lettori di
Heidegger . È certo che se «Dio » è, è un ente ; ma Dio ha veramente d a
essere?
Per non rischiare di sfuggire a questa domanda e dato che ci sembra
incontestabile che i testi di Heidegger la sfuggono , diremo che in questo
senso rigoroso si deve parlare di un'idolatria seconda . Il fatto che essa
concerna il «dio più divino» 60 non infìrma ma conferma questa idolatria :

58 Rispettivamente Holderlim Hymnen <<Germanien» und «Der Rhein», G.A. 3 9 ,


p. 32; Grundprobleme der Phanomenologie , G.A. 24, p. 1 1 0 ; Nietzsche, II, p. 415 ;
Vom Wesen und Begriff der Physis, in Wegmarken, G.A. 9, p. 240, tr. fr . in
Questions II, Paris 1968, p. 180. Ovviamente non consideriamo i diversi testi che
riportano l'interpretazione metafisica di «Dio» come ente supremo.
59 M. Heidegger, Die Technik und die Kehre, p. 45, tr. fr. in Questions IV, p. 152.
60 Cfr., tra l'altro, Nietzsche, I, p. 324 e Identitiit und Differenz, p. 65 (tr. cit.
F · 2 34 ).

212
L'essere, l'idolo , il concetto

quale «Dio » , infatti, può arrivare ad ammettere in questo modo che una
mira decida della sua più o meno grande divinità, se non il «Dio » che
è l'esito di uno sguardo pio e blasfemo nello stesso tempo ? In base a
che cosa si potrà introdurre un'equivalenza tra Dio e l 'Essere, nella
quale egli avrebbe ancora il ruolo di un ente, ed essere sicuri che essa
sarà più legittima di quella tra Dio e il «Dio» causa sui della metafisica?
O ancora , la ricerca di un «dio più divino» , più che un superamento
dell'onta-teo-logia , non impone anche un superamento della differenza
antologica, non impone insomma di non tentare più di pensare Dio in
vista di un ente, dato che si sarà rinunciato in partenza a pensarlo a
p artire dall'Essere ? Pensare Dio senza alcuna condizione , compresa
quella dell'Essere, e dunque pensare Dio senza pretendere di inscri­
verlo o di descriverlo come un ente .
Ma cosa può permettere e promettere il tentativo di un pensiero di
Dio senza e al di fuori della differenza antologica? Non si potrà certo
minimizzare il pericolo che questa esigenza critica renda di fatto imme­
diatamente impossibile il pensiero nel suo complesso . Pensare al di fuori
della differenza antologica , infatti, condanna al rischio di non poter più
pensare . Ma appunto , quando si tratta di Dio , il non poter più pensare
non sta ad indicare né qualcosa di assurdo né qualcosa di sconveniente,
dal momento che Dio stesso , per essere pensato, deve essere pensato
come «id quo majus cogitari ne q uit» , cioè come ciò che oltrepassa, scon­
certa e rende folle ogni pensiero , anche quello non rappresentativo . Per
definizione e decisione , Dio , se deve essere pensato, non può incontrare
alcuno spazio teorico che si adatti alla sua misura , dato che ai nostri occhi
la sua misura si esplica come una dismisura . La stessa differenza onta­
logica, ed anche l'Essere quindi, diventano troppo corti ( anche se sono
universali, meglio : in quanto ci danno un universo, in quanto con essi
il mondo �< mondeggia ») per pretendere di offrire la dimensione , ed ancor
meno il « soggiorno divino» , nel quale Dio potrebbe diventare pensabile .
Ciò che la Rivelazione biblica sembra, a modo suo , confermare , o per
lo meno suggerire , quando menziona con lo stesso nome ciò che si può
( ma non si deve) intendere come Sum qui sum, e quindi Dio come Es­
sere , e dò che si deve, contemporaneamente, intendere come una nega­
zione di ogni identità: «lo sono colui che voglio essere » . L'Essere non
dice nulla di Dio che Dio non possa immediatamente rifiutare . L'Essere,
anche e soprattutto in Esodo 3, 1 4 , non dice nulla di Dio ; o non ne dice
nulla di determinante . Bisogna dunque riconoscere che l'impossibilità, o
per lo meno l'estrema difficoltà di pensare al di fuori della differenza

213
Jean-Luc Marion

antologica potrebbe in qualche modo convenire direttamente all 'impos­


sibilità-indiscutibile e definitiva, questa--di 'pensare Dio come tale .
La differenza antologica, quasi indispensabile ad ogni pensiero, si offre
così come una propedeutica negativa al pensiero impensabile di Dio .
Ultimo idolo , il più pericoloso, ma anche il più educativo e, a modo suo ,
il più proficuo , dato che si offre come un ostacolo che , abbattuto e cal­
pestato, diventa come l'ultimo ponte -scabellu m pedibus tuis - senza
entrare nell'impensabile, l'indispensabile impensabile . In questo caso ,
infatti, l 'impensabile non ha alcuna accezione provvisoria o n.egativa :
indispensabile , l 'impensabile offre il solo volto criticato di col�i che si
tratta di pensare . A proposito di Dio, noi ammettiamo chiaramente che
non possiamo pensarlo se non sotto la figura dell'impensabile, ma di un
impensabile che oltrepassa nella stessa misura sia ciò che non possiamo
pensare sia ciò che possiamo pensare ; ciò che non posso pensare, infatti,
dipende ancora dal mio pensiero, e mi resta quindi pensabile . L'impen­
sabile, invece, preso come tale , dipende da Dio stesso, e lo caratterizza
come l'aura del suo avvento, la gloria della sua insistenza, lo splendore
del suo ritiro . L'impensabile determina Dio con il marchio della sua
definitiva indeterminazione per un pensiero creato e finito . L'impensa­
bile maschera lo scarto , la faglia eternamente aperta, tra Dio e l'idolo ,
meglio : tra Dio e la pretesa di ogni idolatria possibile. L 'impensabile ci
obbliga a sostituire le virgolette idolatriche di « Dio» con il Dio che
nessun plagio conoscitivo, può plagiare ; e, per dirlo , cancelliamo DtQ con
una croce, di sant'Andrea per il momento, che mostra i loro limiti alle
tentazioni, consce o inconsce, di bestemmiare l'impensabile con un idolo .
La croce non sta ad indicare èhe DtQ dovrebbe scomparire come concetto ,
o che non dovrebbe più entrare in campo se non come ipotesi in attesa
di conferma, ma che l'impensabile entra nel campo del nostro pensiero
solo rendendovisi impensabile, per eccesso, cioè criticandolo : cancel­
lare DtQ, di fatto , indica e ricorda che DtQ cancella il nostro pensiero
perché lo satura 61 ; o meglio, non entra nel nosttò' pensiero se non im­
ponendogli di autocriticarsi. Ci è possibile tracciare un segno di cancel­
latura sul nome scritto di DP<i solo perché Lui, per primo, traccia questo
segno sul nostro pensiero, ponendosi come il suo impensabile. Cancel­
liamo il nome di Df;Q solo per rendere chiaro, a noi stessi innanzitutto ,

61 Non si è potuto mantenere nella traduzione il gioco di parole del testo fran­
cese tra raturer (cancellare) e !aturer (saturare) (ndt).

214
L'essere, l 'idolo, il concetto

che il suo impensabile satura il nostro pensiero, dal principio e per


sempre.
Pensare Dt:Q, dunque, al di fuori della differenza antologica, al di
fuori della questione dell'Essere, anche, e ovviamente col rischio dell'im­
p ensabile, indispensabile, ma insuperabile . Quali saranno a questo punto
il nome, il concetto ed il segno ancora praticabili? Uno solo, non vi
sono dubbi : l 'amore (o comunque lo si voglia definire) quale è proposto
da san Giovanni : «Dio [ è ] agape» ( l Gv . 4, 8 ) . Perché l 'amore? Perché
questo termine, che Heidegger, come tutta la metafisica d'altra parte,
anche se in maniera diversa, continua a mantenere in uno stato derivato
e secondario, resta ancora, paradossalmente, abbastanza impensato da
poter, un giorno per lo meno, liberare il pensiero di Dt:Q dall'idolatria
seconda. Questo compito, immenso e, in un certo senso, mai intrapreso
sino ad oggi, richiede che si elabori concettualmente l 'amore (e quindi,
di rimando, che si elabori il concetto attraverso l'amore ) , sino al punto
di poterne dispiegare completamente la potenza speculativa. Non ci è
dato qui di incominciare ad indicarne i tratti, non ne potremmo dare
neppure un abbozzo . Basti sottolineare due tratti decisivi dell'amore e
le loro promesse speculative .
a. L'amore non trae nocumento dall'impensabile, e neppure dal­
l'assenza di condizioni , ne viene anzi rafforzato . Il proprio dell'amore,
infatti, consiste nel fatto che esso si dona; ora, per essere donato, il
dono n�:m ha bisogno né di un interlocutore che lo riceva, né di un sog­
giorno che lo accolga, né di una condizione che lo garantisca o lo con­
fermi . Il che significa innanzitutto che, in quanto amore, Dt:Q può tra­
sgredire immediatamente le condizioni idolatriche ; l'idolatria, infatti
-soprattutto la seconda-si esplica attraverso le condizioni di possibi­
lità (l'Essere , se « Dio» è un ente, il << soggiorno divino» se «Dim> dipende
dal divino, ecc . ) , che forniscono a «Dio» un luogo degno di lui e che
in questo senso , quando le condizioni di tale dignità non possono essere
concertate, lo confinano nella derelizione e lo condannano dunque al­
l 'emarginazione . Invece , se Dio non è perché non ha da essere, ma ama ,
allora, per definizione, non v'è più alcuna condizione che ne possa limi­
tare l'iniziativa, l'ampiezza e l 'estasi. L'amore ama senza condizioni,
per il semplice fatto che ama, e inoltre ama senza limiti o restrizioni .
Non v'è rifiuto che scoraggi o limiti chi, per donarsi, non attende che gli
si prepari una sia pur minima accoglienza e non esige il benché minimo
riguardo . Il che significa , poi , che, in quanto interlocutore dell'amore ,
l'uomo non deve pretendete come p rima cosa di preparargli un « sog-

215
Jean-Luc Marion

giorno divino »-anche a supporre che una simlle pretesa possa essere
soddisfatta-ma deve puramente e semplicemente accettarlo. Deve accet­
tarlo o, più modestamente, non deve sottrarglisi. In questo senso, nep­
pure l'inevitabile incapacità umana di corrispondere al destino gratuita­
mente imposto dall'amore può bastare a squali:ficarne l'iniziativa o la
realizzazione . Per rispondere all'amore, infatti, è necessario e sufficiente
che lo si voglia , dato che per rifiutare o accettare basta la volontà ;
l'uomo , così, non può imporre alcuna condizione , neppure una condi­
zione negativa , all'iniziativa di Di:Q . In questo senso, non vi è pi!i alcuna
'
mira che intervenga a ' decidere idolatricamente della possibilit à e del­
l'impossibilità di un accesso a e di «Dio » .
b. V'è di più : pensare D tQ come agape c i impedisce, ugualmente e
definitivamente, di prendere la mira in un primo visibile o di rappren­
derla su uno specchio invisibile � Perché ? Perché, al contrario del con­
cetto che, per la definizione stessa di concezione, riunisce ciò che com­
prende e che, per questo fatto stesso , culmina quasi inevitabilmente in
un idolo, l'amore (anche e soprattutto se giunge a far pensare e , in so­
vrappiù, a dar da pensare) non pretende di comprendere, dato che non
ha la benché minima intenzione di prendere ; esso postula la propria
donazione, donazione nella quale il donatore coincide rigorosamente con
questo dono che è fatto senza limiti, senza riserve , senza secondi fini .
L 'amore , così , non si dona se non abbandonandosi, trasgredendo conti­
nuamente i limiti del prpprio dono , sino a trapiantarsi fuori di sé. La
conseguenza è che questo trasferimento dell'amore fuori di se stesso ,
trasferimento senza fini né limiti, impedisce immediatamente che ci si
lasci prendere in una risposta, in uha rappresentazione, in un idolo . È
tipica dell 'essenza dell'amore-diff usivu m sui-la capacità di sommer­
gere, così come un'ondata sommerge i muraglioni di una diga foranea,
ogni limitazione, rappresentativa o esistenziale , del proprio flusso : l'amo­
re esclude l 'idolo o, meglio, lo include sovvertendolo . Può anche essere
definito come il movimento di una donazione ch.e, per avanzare senza
condizioni , si impone un'autocritica permanente e senza riserve. L'amore,
infatti , non si riserva nulla per sé, né se stesso, né la propria rappre­
sentazione . La trascendenza dell'amore significa innanzitutto che esso
si autotrascende in un movimento critico nel quale nulla-neppure il
Niente/Null a-può contenere l 'eccesso di una donazione assoluta-asso­
luta : liberata da tutto ciò che non si esplica in questo abbandono stesso .
L'idolatria seconda, così, può essere superata solo lasciando che Dio
sia pensato a partire dalla sua pura e semplice esigenza. Una simile

216
L'essere, l'idolo, il concetto

esigenza eccede i limiti di un concetto-ivi compreso quello della meta­


fisica nella sua onto-teo-logia-ma anche i limiti di qualsiasi condizione
-ivi compresa quella dell'essere concepito nella differenza antologica.
Dio non può darsi da pensare senza idolatria se non a partire esclusiva­
mente da se stesso, darsi da pensare come amore e quindi come dono ;
darsi da pensare come un pensiero del dono . O meglio, come un dono
per il pensiero, come un dono che si dà da pensare. Ma un dono, che si
dona sempre, non può essere pensato se non da un pensiero che si dona
al dono da pensare . Solo un pensiero che si dona può consacrarsi 62 ad
un dono per il pensiero. Ma cosa significa, per il pensiero , donarsi se
non amore ?

62 Anche qui va perso il gioco tra don (d o no ) , se donner (donarsi) e s'adonner


(consacrarsi) ( ndt ).

217
Giacomo Contri *
IL DIS-ORDINE DI PLATONE
L'inconscio demiurgo e l'inadequatio dell 'ordine

Nell'indagine di cui ora esporrò i risultati, ero sostenuto dall'idea


---<Iuesta non platonica-sorta in me dalla lettura del Timeo, su ciò che
fa Platone costruendo la «favola verosimile» , come egli stesso la chiama,
del demiurgo : l'idea di un rischio , rischio fecondo, cui Platone, per il
fatto ·Stesso di operare questa costruzione, si espone.
Pur non digiuno di Platone, non è senza qualche timidezza che mi
sono immerso in questa ricerca.
Per iniziare , osserverò subito che Platone sa che cosa è mito , e sa
fare uso non mitico del mito . Non diversamente Freud, allorché sostan­
tifica o almeno sostantivizza sl l'inconscio, ma senza farne uso mitico :
«esso» è in quanto tiene e in quanto opera, cioè con operazioni defi­
nite; come pure se Freud sostantivizza «l'» es e «la» o «le» pulsioni
(e rincara la dose eguagliandole agli « dei») , è per darne, soprattutto
delle seconde, il concetto come di organizzazioni articolate della con­
dotta, o della prassi. Al riguardo si commette spesso un errore bifronte :
d'un lato , di mitizzare inconscio, es, pulsioni, dall'altro, con debole
Entmythologisierung, si butta via tutto scaricandolo nella psicologizza­
zione , riduzione alle relazioni interpersonali ecc.

Altri due errori vanno subito tolti per spianare il terreno : il pri­
mo diffusissimo benché spesso allo stato implicito, è quello che tratta

*
Questo testo riproduce parte di un contributo già apparso in : AA.VV., Il gioco
impari, Franco Angeli, a cura di A. Voltolin e M. Cirlà, Milano 198.3, pp. 105-117.

219
Giacomo Contri

l'inconscio come il da curare, il patologico , cosa che poi è il comunis-


'
simo , e anch 'esso bifronte, errore a proposito della normalità : d'un lato,
che non c'è normalità concepibile , il che poi vuol dire che everything
goes nello psichico ; dall'altro, quello che vorrebbe sl una normalità
nell 'ideale, ma quella che sarebbe demiurgicamente realizzabile se . . . non
ci fosse l 'inconscio nel reale. Il comico è che sono anche psicoanalisti a
pensarlo , allorché dovrebbero sapere che di regolare , ordinario , insom­
ma di normale , c'è proprio e anzitutto l'inconscio .
L'altro errore è quello che vorrebbe l'inconscio come o�agente,
onnicausante , e la sua « conoscenza» come quella che spiegherebbe
tutto, dell 'arte, del sociale, del politico, del linguaggio e della nostra
conoscenza, oltre, naturalmente, alla psicologia umana , alla sua pato­
logia, ai fatti del sesso . Un demiurgo sl, in fondo-dimenticando , già
s 'è detto , che così sarebbe solo un mito miticamente usato--- , ma non
ouello che in queste pagine si è ritenuto di aver esperito .

L'inconscio è demiurgo, il demiurgo non è inconscio

Procederò per passi, cenni, una compilazione quanto possibile or­


dinata di materiali, entrando però subito nel vivo platonico . Che pro­
duco con due citazioni distinte di un medesimo passaggio del Timeo
( Tim . , 41 a-b ) , lo stesso ,,che ho prescelto come esergo del mio contri­
buto .
Prima citazione : «Or dunque, dopo che tutti gli dei [ . . . ] furono
nati, il creatore di quest'universo [ il demiurgo ] parlò ad essi in questo
modo» . Il dio platonico, parla a chi ? Certo, nel mito il fine è che gli
uomini intendano , ma proprio perché intendano , il dio non parla imme­
diatamente agli uomini, ma agli dei, quelli cui è affidata la mediazione
generativa degli uomini nei loro corpi con la loro anima (già qui si ac­
cenna il nocciolo della discussione : l'accostameritò' del motivo dell'in­
conscio ai motivi-anche come moventi-platonici, va fatto nel senso
del demiurgo o dell 'anima? Anticipo recisamente la conclusione di que­
sta ricerca : a quello del demiurgo, non a quello dell 'anima, o meglio
delle quattro anime platoniche : un accostamento , quest'ultimo, già
vigente, anche in qualche studioso di Platone, e ovviamente alle anime
più «basse » ) . L' «a chi ci si rivolge» è anche problema non solo dot­
trinale ma pratico e tecnico di ogni psicoanalisi, e la divergenza tra scuo­
le è su questo punto irriducibil e : se, per esempio, l'interpretazione par-

220
Il dis-ordine di Platone

lata , cioè affinché l'effetto di intendimento e di risoluzione tcmpcn t kn


coincidano, vada, o no, da io a io .

Seconda citazione, il dire del dio : «0 dei figli di dei, io sono il


vostro artefice e padre [ non è certo il caso di vedervi «il Padre>> , m n
semm ai d i chiedersi perché Platone s i avvalga d i questa metafora ] , e le
cose generate per mezzo mio non sono dissolubili se io non voglio .
Tutto che è legato è dissolubile, ma il voler dissolvere quello che è
ben congiunto e che sta bene è da malvagio [ . . . ] la mia volontà è per
voi legame anche maggiore e più forte di quelli, da cui foste legati
nascendo [ . . . ] » .

Prima di venire agli altri tratti del demiurgo che consentano il sud­
detto accostament o--e per ora nulla più di questo--s ottolineo il tratto
ora emerso, anzi due : la parola « demiurgo » , nel passo riferito, viene
a ricoprire una definizione del tutto conveniente a quella dell'incon­
scio, e rispondente a questi due enunciati : l . c'è legame, attuale, e

non più da passato mitico ; 2. c'è agente del legame, ma anche qui non
più quello del passato mitico, o sia pure di un presente altrettanto rni­
tico del porre in essere il legame , bensl agente della possibilità della dis­
soluzione ( «se io non voglio» ) . Anche in questo punto mi colloco su
un versante di uno dei dibattiti psicoanalitici più acuti (benché impli­
citi , come sempre d'altronde, da quando in qua nella psicoanalisi si di­
scute davvero ? ) , assodato a uno degli errori suaccennati, quello del
pensare, e praticare , l'inconscio, come da curare, da ridurre, come il
vero patologico, e in fondo come nemico . Ma al contrario , si può pen­
sare e praticare l 'inconscio , mi si consenta l'espressione, come grazioso ,
per il meglio o per il peggio, come ingraziabile e da ingraziarsi, se si
vuole che l'operazione psicoanalitica riesca, e come condizione non fun­
gibile della riuscita . C'è manicheismo , invece, anche tra psicoanalisti , il
che è curioso, dato che il manicheismo verso l'inconscio è proprio
del paziente (e nemmeno di tutti, peraltro ) . Possiamo riconoscere qui
un altro tratto del demiurgo platoniço, quello favorevole (non dico : ot­
timistico) in quanto agente bene-fico , benché, anche in Platone e non
solo per l'inconscio freudiano , solo eventualmente, cioè a condizione ,
si può dire, del suo rispetto-una parola, questa, il cui accento etico
non è meno platonico che freudiano ; e una parola che potrebbe anche
essere tradotta con fairness.
Una condizione, questa, che si reduplica in un'altra : l'agente del

221
Giacomo Contri

legame, inconscio o demiurgo , può non essere, lu�, fair: solo che quello
che in Freud è scoperta-salvo che qui la espongo in ordine inverso
al comune senso freudiano , andando cioè da un inconscio che può
essere fair a un inconscio unfair in certe condizioni-, in Platone è
difficoltà se non aporia : egli ammette infatti che il demiurgo operi non
solo per « modelli eterni» , nel qual caso l'opera è «bella» , ma anche
per «modelli generati», nel qual caso l'opera è «non bella» . Insomma
dev'esserci stato qualcosa di unfair, non c'è stato rispetto delle condi­
zioni . Chi, o che cosa, è �tato irrispettoso ? Il demiurgo stesso? , c�oè sua
unfairness riflessiva o costituzionale ? (nel caso dell'inconscio, èi la co­
mune e banale concezione di questo come anarchico, irrazionale , e tutto
sommato malfattore) . Iniquità individuali da parte degli uomini? , ma
allora perché la ritorsione demiurgica dovrebbe anche toccare, non solo
gli innocenti, ma anche i legami sociali degli uomini? O pecca originale ? ,
di cui allora la funzione demiurgica sarebbe l 'interprete-ed è come
interprete, e giusto, dell'ordine dell'essere che Platone propone il de­
miurgo, dunque non interprete equivoco , ma nell'equivoco, in caso di
pecca da interpretare .

Ho privilegiato il succitato passo platonico come quello che pri­


ma di altri, benché non senza altri che vedremo, può consentirci un pa­
ragone tra demiurgo e inconscio . In esso Platone riconosce che c'è le­
game , nel mondo umano, dipendente dal regime (per Platone il mondo
delle realtà « ideali», che nella riflessione platonica più matura sarà un
ordine classificatorio ) in cui il mondo umano è organizzato . Il demiurgo
non tanto è questo legame--nel qual caso ne sarebbe soltanto nome
metaforico--qu anto il garante della sua tenuta, e anche la condizione
( da rispettare , il che comporta il suo riconoscimento) di un moto non im­
manente alla sua tenuta, il moto della sua dissoluzione , ovvero un di­
venire altro da quello previsto all'interno di quel regime. Statica, d 'un
lato , e possibilità di movimentazione , dall 'altro, ad opera del medesimo
agente, che nella psicoanalisi si ritrova come l'inconscio sia come ragione
dell'immutabilità patologica, sia come condizione dell'operare dissolvente
e mutante : la cura stessa non è trattamento dell'anomalia rispetto a un
regime ideale, ma mutamento di regime, quello in cui l'inconscio non
rappresenti più la necessità del p atologico così come a un tempo la ne­
cessità del suo misconoscimento (l'irrispettosità suddetta) .
Ciò non toglie che per Platone il demiurgo esista in un solo regi­
me, quello il cui reale è un ideale costruttivo, e da ricostruirsi per ri-

222
Il dis-ordine di Platone

torno al suo bene e al suo bello (e qui è facile denunciare il platonismo


stanco di una p sicoanalisi concepita come ricostruttiva, riconducente,
riconciliativa, bene-rifacente più che benefacente, insomma quella che è
stata chiamata la sua medicalizzazione) : e il confronto del suo demiurgo
con il nostro inconscio si traduce in ritorsione critica a Platone, e più
ancora che al suo pensiero dell'ordine o del regime, pratico-politico non
meno che logico e conoscitivo, al suo pensiero dell 'unicità di regime in
cui il demiurgo funzionerebbe e in cui sussisterebbe. Unicità in cui si
arresta la critica platonica dell'essere-uno parmenideo, con la sua con­
troproposta della molteplicità dell'essere, arresto nella pur sempre uni­
cità di regime che è forse la fonte delle aporie platoniche .
Aporie dichiarate e che come tali gli valgono il riconoscimento di
quella che modernamente si chiama onestà intellettuale. Vedremo que­
ste aporie, cosl come quelle lacune nell'articolazione platonica delle sue
diverse «linee», il cui esame mi sembra pertinentemente sollevato dal­
l 'accostamento dell'inconscio freudiano al demiurgo platonico .

Prima, è ancora il caso di far cenno ad altri tratti comuni . Essi


sono : la necessità stessa di riconoscere una sussistenza intermedia, di­
ciamo , modernamente, tra ordine del discorso e individuo in quanto
associato ; i suoi attributi : di increato, ed è importante notare che la
costruzione freudiana del concetto di inconscio non comporta anzi non
ammette che lo si pensi come creato o causato ; di lavoratore, non di
creatore, malgrado l'oscill azione lessicale in Platone allorché il demiurgo
si propone come « creatore» degli dei, corrispondente all'idea di pul­
sione come distinta dall 'inconscio e posta in essere nel, se non dall 'in­
conscio ; di lavoratore per mezzo di tecniche, cosl bene chiarite da Freud
per quanto riguarda l'inconscio, non cosl da Platone che si arresta alla
metafora della modellazione , pur ammettendo, come nel passo citato, il
demiurgo come legatura, cioè qualcosa di più e di diverso--trattan­
dosi di articolazione-dal lavoro di plasmazione del vasaio; di lavo­
ratore non creativo, oltre che non creatore, ma a un tempo , pur costi­
tuendo l'insistenza del legame, non compulsivo : l'inconscio, non di­
versamente dal demiurgo, non è la patologia del discorso, la sua pato­
genla risponde a condizioni non rispettate, a qualche unfairness dicevo ,
e a più di u n livello .
Il solo tratto , invece, in cui non si dà comunanza tra inconscio e

demiurgo, si ha laddove il demiurgo sarebbe mediatore di modelli


ideali, trasmettitore di un ordine anteriore, funzione di un solo regi-

223
Giacomo Centri

me : inconscio e demiurgo sono sl, l'uno e l'altro, interpreti-anche


nel senso politico del dare uno sbocco--dell'or-dine già dato, ma l'in­
conscio, quando lo si interpreti, diviene demiurgo sovvertito, e solo a
condizione della sua interpretazione-<he nell'operazione psicoanalitica
non vuoi dire conoscenza ma messa in moto, far funzionare come agen­
te, e in ciò ancora simile al demiurgo, -sovvertente , sovvertente il re­
gime in cui prima viveva, e in cui non esercitava alcuna sovversione
neppure quand 'era patogeno ( si può dire : il patologico è reazionario ,
sempre e comunque, non sovverte il regime di cui è sintomo, anzi lo
incanaglisce, del che il nostro secolo ha dato fin troppe prove) . ,'

Vengo ora alle aporie onestamente proposte da Platone, che ritro­


verò in quello che con un'estensione che non mi pare indebita chiamerò
le tre «linee», nella Repubblica, nel Timeo, nel Cratilo . È noto che si
parla di «teoria della linea» platonica, assumendo quest'ultima parola
dal testo platonico stesso (Resp . VI, 509 d segg . ) , per il segmento
quadripartito dell'«operazione complessa» ( Glaucone ) dei quattro pro­
cessi che si svolgono nell'anima dall'ordine ideale all'ordine sensibile ,
l'intellezione, il pensiero dianoetico, la credenza, l'immaginazione. Chia­
mo «linee» anche quelle del Timeo (demiurgo) e del Cratilo ( teoria
della nominazione) , poiché anche in questi abbiamo in fondo dei seg­
menti suddivisi , con 'un'elaborazione che è avanzata nel caso dell'opera­
zione demiurgica, invece abortiva benché di lettura affascinante nel caso
dell'operazione della nominazione .
Senza sempre distinguere tra aporia come contraddizione e apo­
ria come difficoltà, passerò in rassegna quelle emergenti in ciascuna delle
suddette linee, e quelle emergenti nell'incontro--mancato, in Platone­
tra le diverse linee.

Nel Timeo. Platone ammette , già s'è detto, che il demiurgo possa
operare con modelli generati (Tim. 28 h ) , e vi rit01;na dopo poche righe
(Tim. 29 a) ma con tono più drammatico : «Se è bello questo mondo,
e l'artefice buono , è chiaro che guardò al modello eterno : se no, -ciò
che neppure è lecito dire [ sott . mia ] -a quello nato » . Si sa che gli
interpreti hanno discusso, e invano cioè senza darle soluzione, questa
contraddizione . Ma non è forse il caso di chiedersi perché, certo consa­
pevole della contraddizione, Platone l'abbia tuttavia ammessa?
Ancora nel Timeo (Tim. 49 segg . ) , un'altra ammissione, quella di
una terza specie : oltre a quella del modello eterno, non generato, e

224
Il dis-ordine di Platone

quella dell'immagine del modello, generata, opera demiurgica, una spe­


cie «difficile e oscura», non definita altrimenti che con una congerie
di metafore : « ricettacolo di tutto ciò che si genera» , «nutrice», «ma­
dre», <�ciò in cui è generato » , « sede di tutte le cose che hanno nasci­
mento», «natura che riceve tutti i corpi», «materia formativa di tut­
to» . Un'ammissione fatta ancora (Tim. 52 b) drammaticamente con un
certo orrore : «la si può percepire senza il senso per mezzo di un ragio­
namento bastardo, ed è appena credibile, guardando alia quale noi so­
gnamo» [ sott . mie ]--e mi piace proseguire la citazione, il passo se­
guente essendo quasi incredibile (pur non scommettendo sulla sua tradu­
zione certo assai difficile) : «Ma tutte queste cose [ . . . ] anche nella na­
tura vigile e veramente esistente, noi per questo sognare non possiamo
distinguerle appena svegliati e dire la verità : che cioè l'immagine, per­
ché neppure quello stesso, per cui fu generata, le appartiene, ed essa si
muove sempre come fantasma di un altro, per questo conviene che si
generi in altra cosa, attaccandosi in qualche modo all'esistenza, oppure
che non sia proprio niente»-cu i segue la rassicurazione : « invece a
quello che esiste realmente la ragione esattamente vera soccorre, dimo­
strando che finché una cosa è una cosa, e un'altra è un'altra, nessuna
delle due può esistere nell'altra in modo da essere insieme una cosa
sola e due».
In questo passo Platone ha in qualche modo risposto all'aporia,
non perché la risolve, ma perché la presenta, non solo nell'argomenta­
zione ma nelle espressioni accese di cui si serve, come qualcosa di più,
di più disturbante di un'aporia , cioè appunto come un disturbo.

Nelle righe appena precedenti quelle riportate (Tim. 52 a ) , Platone


ha asserito che tra la prima e seconda specie le cose funzionano , perché
la seconda specie è «del medesimo nome» della prima «e simile ad
essa » . È il tema dell'omonimia di idee e cose, il che ci porta al Cratilo .
Nel Cratilo , a Ermogene ( Crat. 3 9 0 a) che chiede a Socrate : <� se tu
mi mostrassi qual è che tu chiami la naturale giustezza del nome», So­
crate risponde : <do non so dirti nulla di ciò, [ . . . ] nulla so» . Un com­
mentatore commenta qui che si tratterebbe della consueta ironia socra­
tica, di ignoranza simulata. Ma, se do un po' di fiducia alla mia lettura
del Cratilo, nonché al parere abbastanza autorevole di linguisti sull'in­
dagine linguistica in Platone e nel Cratilo in specie, quello del Cratilo
è un caso di aporeticità non locale, come in precedenza, ma globale , di
ricerca linguistica platonica sempre fallita, e allorché qui Socrate rispon-

225
Giacomo Contri

de non so, risponde davvero di non sapere, e radicalmente, di non


sapere il «metodo» . E più ancora faccio fede al filiale del Cratilo, la cui
ultima frase è piuttosto ironia di Cratilo verso Socrate, cui, chiudendo,
quello butta Il: «Sta bene, o Socrate, ma anche tu vedi di capire questa
dottrina, ormai» . Quale dottrina? Quella cui Socrate stesso ha appena
tentato di rispondere poche battute precedenti ( 440 b-e) : «Ora, se que­
ste cose stiano cosl o al modo che dicono Eraclito e gli Eraclitei e altri
molti, io temo sia difficile giudicare : e credo sia anche da uomo poco
assennato dedicare e dare in cura se medesimi e la propria anima a{ nomi
[ guarda caso, è proprio ciò che accade in un'analisi ] ; e , fidando in essi
e in coloro che li posero, ostinarsi a credere di saper qualche cosa, e

condannare se stessi e le cose quasi che non ci sia nulla di sano in nulla
[ . . . ] e credere che, proprio come gli uomini ammalati di catarro, così
siano anche le cose, le quali da flusso e da catarro siano prese tutte
quante» [ sott . mie ] . Ancora una volta, non vedo come uno psicoana­
lista non sarebbe colpito dalla bravura con cui Platone formula le pos­
sibilità di cui ha orrore : con questa differenza, che questo orrore impe­
disce a lui, come a molti moralisti, pazienti, e anche alcuni psicoanalisti,
di vedere che l'inconscio--mettiamolo, nel contesto suddetto, in bocca
a Platone con una retrodatazione di ventitré secoli-non è che tutto è
malato (everything goes, everything is ill) , ma c'è malattia solo a certe
condizioni unfair, ingiuste .

Prima, un cenno all'ultima «linea», quella propriamente detta, del


capitolo vn della Repubblica, quella dal basso all'alto, della conoscenza
dalla più bassa alla più alta, di cui è difficile dire ( « alto» e <�bassO >} a
parte, essendo luoghi naturali come tali rifiutati da Platone) se Platone
la potesse concepire davvero come parallela a quella demiurgica, che va
dall'alto al basso. Nel mito della caverna, si parte dalla conoscenza
immaginaria, alla lettera, di immagini, che sono soltanto ombre, ma
tuttavia univoche, o meglio, ed è problema : che P,otrebbero dirsi uni­
voche se Platone accettasse-si lasciasse andare, potremmo dire in­
terpretando il suo sentimento--di mescolare i processi della cono­
scenza con quelli della nominazione e dei suoi difetti, il che egli non
vuole, sostituendo al problema dell'uni-vocità l'immaginario (questa vol­
ta il suo) dell'uni-formità : dagli oggetti veri proiettati dalla luce alla
parete di fondo con le ombre proiettate, c'è comunicazione, sia pure in
perdita, e non v'è questione di decifrazione (com'è invece per l'incon­
scio, che produce equivoci-i sintomi stessi-che non hanno null a

226
Il dis-ordine di Platone

di umbratile , o di meno reale, e nemmeno, verrebbe da dire-'-una


volta decifrati--di equivoco ; uno schema, quello dell'inconscio, che
non è neppure in perdita , dato che la cifra decifrabile è piuttosto un
guadagno, la perdita è altrove ) .
S e a u n estremo della linea c'è l a conoscenza immaginaria, all'al­
tro--quello cui si perviene per « conversione» , allorché l'occhio è
«rivolto dalla parte giusta», per essersi dovuto « staccare dal mondo
della generazione» e «girare intorno» (Resp. 5 1 8 c-d)--c'è la con­
templazione , l 'intuizione, la conoscenza vera, degli oggetti veri, ideali,
reali . Ma qui v'è difficoltà, benché non detta, o meglio detta a metà :
Platone ammette che in un primo tempo si avrà fotofobia al reale, ma
assicura che ci sarà adattamento a esso in un secondo tempo . Ma è nella
scontata certezza di questo secondo tempo che la metafora solare non
è più tenuta a reggere il gioco , e che Platone sarebbe tenuto, per reg­
gerlo, a reggere la metafora esplicitandola come metafora. Perché l'in­
telletto non sarebbe invece fotofobo al bene, agli oggetti intelligibili ,
al vero? Cioè che cosa assicura il secondo tempo? Perché la vera sco­
perta--cioè la «conversione », parola non molto buona, lo «sposta­
mento» e il «girare», piuttosto-- , certo non più intuitiva né con­
templativa, non potrebbe invece coincidere con la scoperta della fotofo­
bia stessa? È questa precisamente la scoperta, «conversione» , psicoa­
nalitica, cioè che l'oggetto è perduto, ed è scoperta perché cambia tutto,
c 'è spostamento, dal non sapere al sapere sulla perdita dell'oggetto
primo, vero, reale . Dal che risuÌta : d'un lato, la rinuncia, niente affatto
all'oggetto, ma all a ricerca ·del primo ; dall'altro, niente affatto la rinun­
cia al vero e al reale, ma il loro spostamento, cosi come per il bene,
altrove , altrove dall 'oggetto. Ed è persino facile, qui, introdurre il pen­
siero della pulsione scopica : l'occhio accecato, lo sguardo separato dalla
visione , è l'oggetto, non ideale né meta, della pulsione , cioè causa di
quel movimento organizzato che è detto scopico, e l'occhio con la sua
visione è lasciato più in pace e senza colpa con gli oggetti della sua
percezione per fare un po' quel che gli pare, dato che la visione non è
più un problema di conoscenza e non è più colpevolizzata per essere
conoscenza-mito di raggiungimento--in difetto .
Non è mia, ma la sottoscrivo, l'idea dell'inconscio come fotofobia
l'>trutturale, ovvero : non c'è conoscenza e ci si occupa d'altro.

Vediamo le difficoltà nell'articolazione--che è mancanza di artico­


lazione-platonica delle tre linee.

227
Giacomo Contri

Anzitutto, la linea della conoscenza e quella della pratica demiurgica


di organizzazione della realtà, non sono articolate; se non in quel cenno
in cui Platone dice, nella Repubblica, che l'anima e l 'organo della vista
sarebbero forniti di un'insita facoltà di soddisfare alle condizioni della
conoscenza intellettuale, a condizione della «conversione» detta. A par�
te la critica fatta poco sopra, chiediamoci se si può considerare implicito
al pensiero platonico che il demiurgo sia da pensarsi come garante del
processo intellettivo (cosl come, in altra sede, Pedone, Menòne, della
conoscenza come reminiscenza) . Sembra difficile poterlo affermare, an�
che in rapporto alle notevoli oscillazioni platoniche a proposito (dell'a­
nima (immortale ma generata, immortale non generata, incarnata in se­
guito alla caduta) .
Ma soprattutto importa l'assenza militata di ogni articolazione tra la
linea della nominazione, nel Cratilo , e le altre due linee : non mi com­
prometto con queste cose, abbiamo visto Platone dire . Il che però vuoi
anche dire, e qui il succitato commentatore ha ragione : la questione è
sospesa fino a nuovo ordine, ed è cosl che termina il dialogo.
Sospensione su che punto ? Certo, Platone non ha letto Saussure e
non poteva saper molto del Circolo di Praga, né che tanti secoli dopo
Freud avrebbe discusso e fatto discutere di Platone . Ma vuole arresta­
re-anche con consapevolezza dei propri limiti-la discussione a un
livello che è anche ma non soltanto quello dell'arbitrarietà, o della moti­
vazione, del segno linguistico, Eraclito, o Democrito e Protagora, ma
che è quello che chiamereidell'umanità del segno. Lo colpisce che i no­
mi facciano tante storie per conto loro---è più «giusto » , scrive (Crat.
392 b segg.), che il figlioletto dell'eroe si chiami Astuanax o Ska­
mandrios? , nomi che fa derivare rispettivamente dall'atto nominati­
vo del padre Ettore e della madre Andromaca, al che il mio commen­
tatore fa osservare che Platone sapeva benissimo che in Omero è esatta­
mente il rovescio, e che ciò conferma l'ironicità dell'analisi--cioè che
la loro legalità trascende comunque il controllo (pe.r: esempio il rapporto
di uso) degli umani. «Socrate : E legislatore [ di nomi ] ti sembra sia
ogni uomo, o quello che ha l'arte ? Ermogene : Quello che ha l'arte.
Socrate : Non di ogni uomo, dunque, o Ermogene, è mettere nomi,
bensl di colui ch 'è artefice di nomi. E costui, come pare, è il legislatore ;
che, in verità, degli artefici, è il più raro a trovarsi fra gli uomini»
( Crat. 388 e, 3 8 9 a). E il «legislatore», al pari degli dei, forgia nomi
caratterizzati da «giustezza».
Chi sia questo «legislatore» Platone non dice, e non compromette

228
Il dis-ordine di Platone

il demiurgo con esso. Ed è anche da notare che se Platone invoca un le­


gislatore dei nomi, d'un lato vi è motivato dall'intuizione di una legalità
linguistica, dall'altro apre un'altra aporia nel proprio procedere, poiché
si apre il confronto con l'altro legislatore, quello delle leggi della città,
cui il primo non è sovrapponibile.
La meditazione platonica sui nomi, non solo non è articolata con
quella del mito demiurgico, ma non si vuole articolata neppure con la
linea della conoscenza, perché la verità deve essere perseguita fuori dal
linguaggio, nell'intuizione delle essenze, e solo successivamente potrebbe
crearsi un <<linguaggio ideale» utopico .
Non so se si possa dire che Platone rifiuta di fare della linguistica,
forse sl, e me lo chiedo perché Platone non sembra interessato a una
disciplina autonoma, ma è piuttosto sorpreso e sospensivamente inte­
ressato alla presenza di un mistero nella lingua. Comunque sia, con il
suo procedere Platone tratta i nomi, o diciamo meglio la lingua, come
doppiamente autonoma: la riconosce autonoma rispetto al potere di
controllo su di essa da parte degli umani, ma anche, trattandola sepa­
ratamente dalle altre due linee , la pone come autonoma rispetto ad esse,
che ne risultano allora intersecate e compromesse, ed è lo stesso Pla­
tone che lo sospetta (vedasi il già citato «condannare se stessi e le cose
quasi che non ci sia nulla di sano in nulla» ).
Risulta che l'aporia platonica è, più ancora che quella del Cratilo ,
quella riguardante la relazione, meglio l'interferenza, della nominazione
con le altre due linee, su cui Platone resta muto, a eccezione di quel­
l'accento di scandalo .

Inadequatio dell'ordine

Arrivato a questo punto, quasi non vorrei neppure concludere,


avendomi soprattutto interessato il lavoro di allineamento dei materiali
che precede, che mi auguro chiaro e non tanto scorretto, e quegli alcuni
spunti di riflessione proposti qui e là in rapporto all'inconscio freudiano .
Volendo darmi a qualche definizione, direi per esempio che l'in­
conscio è il demiurgo sovvertito che risulta dopo che il demiurgo plato­
nico è stato attraversato dalla nominazione, e, per sottrarmi a un ecces­
so di astrattezza, ne darò un esempio che riguarda in ogni momento la
psicoanalisi : l 'inconscio è il fatto che un ordine ideale-più seccamen­
te : padronale--co me per esempio lo sviluppo, l'adulto, la maturità

229
Giacomo Contri

sessuale, sono contraddetti da qualcosa che si mette di traverso--sen­


za che ciò contrasti col fatto che tale ordine ideàle combaci con fatti
realissimi, come appunto lo sviluppo, la maturazione sessuale, o, un po'
meno realissimo, l'adulto : ma è il fatto che qualcosa si metta di tra­
verso, a rivelare in questi reali degli ideali, platonici benché un po' de­
gradati. È il caso di parlare di idealismo della vita quotidiana identico
alla sua patologia .
Più generalmente, sarebbe da considerare quella che è stata chia­
mata « tassonomia dell'esperienza», esperienza umana, individuale, so­
ciale, come ordine ideale ton cui qualcosa interferisce con conseghenze
.l
solitamente disastrose.
Noto ancora, per chiarezza, che non ho detto che l'inconscio è, e
poi interferisce, ma che qualcosa interferisce, ed è inconscio (come si
dice : è giorno) .
Se Platone volesse dire soltanto teoria della conoscenza, non sareb­
be neppure il caso di tornarci sopra. Ma Platone vuole-penso che
questo verbo convenga-adaequatio : non tanto quella detta rei et
intellectus, ma di ogni parte dell'ordine del discorso--dico bene di­
scorso, Platone è il più grande dei sofìsti-con ogni sua altra parte :
adaequatio di essere e divenire, di origine, generante e generato, in an­
data e ritorno, adaequatio di antologia, genesi, psicologia, epistemolo­
gia, e infine, e soprattutto, politica. Ed è perché egli sonda l'adaequatio
possibile tra tutti i livelli dell'ordine-sondaggio in cui non manca
di informare su discontinul.'tà, lacune, difficoltà-, e non tra ordine e
pensiero dell'ordine, e perché asserisce che, quanto al sapere, non c'è
tanto da imparare a sapere quanto da imparare che si sa, che egli ha
preparato un campo propizio al vedervi sorgere l'inconscio .
Vederlo sorgere da quello stesso demiurgo platonico che risponde
all'esigenza platonica di un operatore , distinto sia dall'anima che da un
Creatore, ma a condizione di articolarlo con altre istanze platoniche che
ne restavano separate . Insomma, l'inconscio è il so.lp d.emiurgo esistente

sulla piazza--compresa quella platonica.


Se non ci facciamo toccare dall'idea banale e, si perdoni, un po'
balorda, dell'inconscio come para-romantica irrazionalità vitale, diventa
più facile cogliere l'idea dell'inconscio come interprete della razionalità
zoppa dell'ordine di cui non diremo più che lo precede, ma cui nasce
contemporaneo (come peraltro vuole Platone, strutturalmente, per il
suo demiurgo), un ordine che è allora corretto considerare anteriore in
un solo senso : che in esso, non nel demiurgo, è il difetto . È notevole

230
Il dis-ordine di Platone

come già nell'antichità la possibilità di un difetto o una colpa originaria ,


nell' «idea» o divinità, sia stata prevista e combattuta da certi gnostici,
che hanno compiuto la mossa anticipatoria del concepire il demiurgo co­
me maligno, come organizzatore del mondo in culpa, in fallo nel suo atto
originario, lui , appunto, al posto del dio supremo da cui è salvificamen­
te-per la salvezza del dio--distinto . E già prima ho criticata quella
blanda concezione para-gnostica circolante qua e là nella psicoanalisi,
che vuole l'inconscio come demiurgo maligno, essenzialmente patogenù,
e che non lo è, o più modestamente lo è un po' meno, se un tantino
curato, domato, tenuto a bada se non fatto dormire come il can ecc .­
una contraddizione buffa, poiché sappiamo che l'inconscio è la sola cosa
che non dorme mai.
Dato un riferimento culturale, diamone un altro : va anche criti­
cata quella concezione para-neoplatonica che vede nell'inconscio una
sorta di divinità o sussistenza intermedia tra il divino e il mondo, poiché
ci basta pensarlo come istanza d 'ordine irì un disordine istituzionale .

Si è criticata la concezione platonica del demiurgo come l'incon­


scio del mondo possibile : in tal modo se ne è contrastato non solo l'ot­
timismo, per cu.i quello sarebbe il migliore dei mondi possibili-com­
preso l'ottimismo platonico circa le malattie dell'anima, pazzia e igno­
ranza, e circa l'irresponsabilità della malvagità, come causate da cattiva
disposizione del corpo e da cattiva educazione da parte di famiglia e
società-, ma anche e soprattutto il pessimismo, in fondo pervasivo e
irriducibile (i modelli generati, la terza specie , i nomi-peste) . Come
pure il pessimismo psicoanalitico sulla malignità dell'inconscio, che in
ultima analisi avrebbe per conseguenza di fare dello psicoanalista, non
l'interprete dell'inconscio, ma il suo poliziotto.
Trattando l'inconscio come l'interprete di una inadaequatio tra com­
ponenti o «linee >> dell'ordine umano--e già ho osservato che quella
che ultimamente interessa Platone è la linea politica, come s'è poi detto
nel nostro secolo-tratto anche la psicoanalisi come discorso e pratica
di una inadaequatio, regolare, normale, strutturante . L'accento venendo
allora a spostarsi dalle possibilità del mondo generabile, alle impossi­
bilità della generazione.
Meglio ancora, ai vantaggi di certe impossibilità visto come le pos­
sibilità ci hanno ridotto in un brutto stato (anche con la S maiuscola ) .
I n breve , allora l a psicoanalisi sarebbe la dottrina di una culpa
originaria, o, che è lo stesso, attuale, e la sua pratica una pratica della

231
Giacomo Contri

felix culpa (felix lapsus, meglio) , per mezzo dell'inconscio, la cui opera
è di fare, regolarmente, normalmente , eccezione .
Fa eccezione-su ciò non v 'è chi obietti-, ma in regimi diversi,
non lo si ripeterà mai abbastanza : entro il regime demiurgico del con­
fezionare il possibile, la sua eccezione, lo sbocco, l 'interpretaZione, è il
patologico, che appartiene ancora all'ordine del possibile, ovvero l 'in­
conscio in sé non ha niente di rivoluzionario, non c'è da vantarsene .
Ma se l'inconscio si può ingraziarselo, e non vedo come vi sarebbe
psicoanalisi se non lo si potesse , è allora forse concepibile, non solo la
dissoluzione di un legame, ma la costituzione di un altro, pur s mpre �
un ordine (e gli psicoanalisti hanno sempre e giustamente insistito che
la psicoanalisi non è anarchica) . A condizione di interpretarlo, l'incon­
scio, cioè spostando, « staccando» , « convertendo» , «rivolgendo», « giran­
do»-insomma tutta la batteria platonica-la sua interpretazione, quella
del demiurgo, cioè, e non quella dell'anima .
Ho scritto « si può» ingraziarselo--e non «possibilità»-poiché una
cultura dell'inadaequatio , !ungi dal chinare il capo all'inabilità (quella
che incontriamo per esempio nell'impotenza del patologico) , sarebbe
semmai il correlato di una capacità, insolita se non inedita .
È appena il caso di notare la critica di ogni archetipismo implicita a
tutte queste pagine .
E per finire , un cenno a una sproporzione quasi ridicola : quella tra
i mezzi degli psicoanalisti e la vocazione della psicoanalisi, cioè l'inade­
guatezza di quelli e l'inadaequatio ( ecco perché ho sempre usato il ter­
mine latino) del loro campo, che è quello della psicoanalisi e che non è
minore del campo platonico , e in ultimo interesse è quello del politico .

232
Giacomo Contri *
KANT CON LUTERO
La giustizia e la legge

Leggendo Hobbes, Spinoza, Grotius, Bodin, Pufendorf, . . . fino a e


ivi compreso Kant, incontriamo , al di qua di ogni differenza, una pro­
fonda convinzione comune coincidente con ciò che chiamerei il senso
comune di una scoperta : che ciò di cui scrivevano, cui attendevano e
contribuivano con la forza di una vocazione-il piano del mondo, il di­
segno emergente de lle c� se in cui vivevano--e ra un altro piano e dise­
gno, altro da prima, altro non solo da ciò che già si era pensato , ma
altro anche da ciò che già era stato .
Di passaggio, si può osservare come da taluno si colga e critichi il
cosiddetto «pensiero moderno» secondo uno schema soggettivistico nel
momento stesso in cui si pretende di criticare il soggettivismo : si vor­
rebbe infatti che «moderno» sia quel certo pensiero , non il mondo che
esso ha pensato .
Si tratta anche di più di un senso di scoperta : si tratta della persua­
sione di una scoperta precisamente e consapevolmente individuata come
tale : per Hobbes (si veda la dedica al De Corpore ), la filosofia politica
è una scienza, e se la scienza fisica, egli dice, è una scienza nuova, la
sua scienza, aggiunge, la scienza politica, lo è a titolo anche maggiore ;
un secolo dopo, per Kant la propria «filosofia» è a tal punto scienza
nuova che egli la paragona a una «rivoluzione copernicana» . È appena il
caso di ricordare che , cronologicamente tra Hobbes e Kant , Vico scrive

*
Raccolgo qui idee e appunti dei tempi recenti, con un po' di ordine grazie a

qualche lacuna e rapide cuciture.

233
Giacomo Contri

le sue tre Scienza nuova, con un titolo felice che Kant


' e Hobbes avreb-
bero volentieri apposto alla propria opera.
Un secolo ancora dopo Kant, nel mondo comparirà un'altra scienza
nuova del mondo , quella di Freud : riprenderò più avanti la ragione di
questo che non è solo accostamento, per non accennare ora sommaria­
mente che questo : che il Leviatano 1 di Hobbes non è anzitutto una
teoria dello stato, della società civile , dei loro rapporti, delle passioni in
relazione a tutto ciò, ma è soprattutto una scoperta : il Leviatano è come
scoperta, cosl come l'inconscio ( dirò subito che non solo non lo sovrap­
pongo in alcun modo al Leviatano, ma che li distinguo ciascuno come
altro rispetto all'altro ; e dico l 'inconscio, non la teoria dell'inconscio) è
una scoperta, è come scoperta : e sia Hobbes che Freud trattano le loro
scoperte come esseri-di-scoperta, cioè di cui non si tratta di dimostrare
l'esistenza--è lo stesso argomento di Kant per quanto riguarda la vo­
lontà morale-, ma di studiarne le proprietà e gli effetti (e anche le
condizioni del loro porsi in essere) .
Ed è tanto più interessante notarlo, in quanto ciò porta a pensare
-attraverso questi davvero iperschematici cenni-<:he in un'epoca di
generale negazione della realtà degli universali, proprio il nominalista
Hobbes abbia scoperto nel Leviatano un universale reale, il -ro xrxBoÀou
dei cives (più tardi, Freud non si comprometterà col pronunciarsi tra
nominalismo e realismo, come invece faranno certi psicoanalisti e filo­
sofi che assimileranno la psicoanalisi a uno sciatto nominalismo : come
ben si vede allorché !'«essenza» dell'inconscio viene riassunta nella me­
taforicità-equivocità-individualità di ogni formazione dello stesso-dico
bene dello « stesso» , ovvero almeno l'inconscio non è né una metafora
né un equivoco : l 'inconscio unifica, uni-voca l'equivocità della metafo­
ra-, con tutte le conseguenze che derivano da questa mis«interpreta­
zione » dell'inconscio-come se l'ermeneutica potesse avere su di esso una
presa prima di essersi essa stessa riformata iuxta l'inconscio stesso-- , e
in particolare quella conseguenza che consiste nell'iridudere Freud nella
categoria dei « maestri del sospetto» aldilà della corretta considerazione
per cui ogni pastore d'anime cosl come ogni maestro antico è anche un
maestro del sospetto per la sola ragione che la sa un po' più lunga delle
�ue anime) .

Ho sviluppato questo confronto tra Leviatano e inconscio in : Behemot e Levia­


tano, settembre-ottobre 1983 (nella traduzione francese : Du Bhehe-mot au Lévia­
than ), in : AA .VV ., Psicanalisi e stato, Editiemme, 1985 .

234
Kant con Lutero

Un universale, il Leviatano hobbesiano, ma-e sta qui l'innovazione


e:lo spostamento che fa del nuovo mondo della scienza nuova un mondo
altro dall'altro--un universale nuovo, appartenente non all'ordine del­
l'essere, ma all'ordine 600escamente emergente-di cui poi Kant, poi
Kelsen-del dover-essere, del sollen di un soggetto giuridico non meno
emergente---<:ome si dice «ceti emergenti»�el soggetto della scienza .

Vorrei ora procedere prendendo solo qualche esempio, meno ancora


di una porzione, di quello che sarebbe un disegno di più ampio respiro 2,
sotto forma di qualche citazione kantiana e di qualche cenno di com­
mento a esse, per quanto riguarda il titolo di questo volume, Di-segno,
e le relazioni tra segno e disegno.

Prima citazione . Kant, che già aveva definito il suo disegno del
mondo--non già il solo monde cartesiano--una topica ( Critica della
ragion pura, verso il termine dell'Analitica trascendentale), cioè come
un disegno--non ancora . topologia--delle difficoltà-di più, delle im­
possibilità-dell'esperienza, riprende (più avanti : c P , Il canone della
ragion pura) , e in modo esplicito, questo tema del disegno dell'espe­
rienza : dopo avere asserito (titolo della Sezione seconda) che il «sommo
bene» è << fondamento della determinazione del fine ultimo della ragion
pura», prosegue :
«La ragione, nel suo uso speculativo, ci ha fatto attraversare il cam­
po dell'esperienza, e siccome non le è possibile trovare in esso una ra­
gione piena, ci ha spinto verso le idee speculative ; ma queste, da parte
loro , hanno finito per ricondurci all'esperienza, compiendo in tal modo
il disegno della ragione, con un giro certamente utile ma contrastante
con le nostre aspettative. Ci resta però ancora un tentativo da compiere,
cioè vedere se una ragion pura possa aver luogo anche nell'uso pratico
[ . . ] Ogni interesse della mia ragione (tanto lo speculativo che il pra­
. .

tico) si concentra nelle tre domande che seguono :


l . Che cosa posso sapere?
2. Che cosa debbo fare?
3 . Che cosa mi è lecito sperare ? » [ le sottolineature sono mie, in
particolare di «testa ancora un tentativo » , di cui va notata la dramma­
ticità, in tutti i sensi della parola: Kant è un autore drammatico, non

2 Mi riferisco alla mia conferenza presso Il Lavoro Psicoanalitico (9 novembre


1984) dal titolo : Tre topiche: di Hobbes, di Kant, di Freud.

235
Giacomo Contri

puramente speculativo, dunque-ed è egli stesso che lo dice, lo vuole e


lo desidera-pratico , e-lo aggiungo come la mia unica critica a Kant,
sviluppata in altra sede-non solo appassionato ma Leidenschaftlich,
passionale , proprio là dove Kant dice, vuole, crede di desiderare che
esista almeno una pratica che non abbia la struttura ( = la topica) della
passione ] .

Seconda citazione (nota al § 83 della Critica del giudizio ) :


«Quale valore abbia l a vita per noi è facile vederlo quando s i assume
come misura ciò che si gode ( il fìne naturale dell'insieme di ttJtte le
nostre inclinazioni, la felicità) . Esso è al disotto di niente ; perché chi vor­
rebbe ricominciar da capo la sua vita sotto le stesse condizioni, o anche
secondo un nuovo piano disegnato da lui stesso (conforme però al corso
della natura), che non avesse altro scopo che il godimento ? » [ sott . mia.
Nella pagina precedente Kant scrive : «Non si può contrastare al dominio
dei mali che, suscitando una quantità di inclinazioni insaziabili, spandono
su di noi il raffìnamento del gusto fino alla sua idealizzazione, ed anche
il lusso nelle scienze , in quanto alimento della vanità . [ . . . ] Le belle arti
e le scienze [ . J se non fanno l'uomo moralmente migliore, lo rendono
. .

costumato» ( qui, nel margine della mia copia, glossavo : Non ci crede
troppo nemmeno lui) ] . E prosegue : «Abbiamo mostrato precedente­
mente quale valore abbia la vita per ciò che essa contiene quando sia
condotta conformemente a11o scopo che la natura ripone in noi, e che
consiste in ciò che si fa (non in ciò che si gode semplicemente) , e in cui
non siamo che mezzi per uno scopo finale indeterminato . Non resta dun­
que altro che il valore che diamo noi stessi alla nostra vita mediante ciò
che facciamo, non solo , ma che facciamo in vista d'un fine cosl indipen­
dentemente dalla natura, che anche l'esistenza della natura non può es­
sere un fine che sotto questa condizione» [ sott . mie ] .

Le due prime citazioni riguardano lo schema (parola che è anch 'essa


un lemma privilegiato dalla riflessione kantiana) del disegno . La terza
riguarda il segno dell 'esserci (Dasein) non solo di un progresso verso il
meglio di questo disegno , ma di una capacità o facoltà (Vermogen) della
specie umana a essere causa del progresso stesso come tendenza (T en­
denz) dell 'umanità nel suo disegno appunto (im Ganzen) . In questa terza,
ritroviamo non solo il Kant eminentemente e determinatamente pratico ,
ma anche un tratto che, per la mia conoscenza degli studi kantiani , mi
risulta inatteso .

236
Kant con Lu tero

Il segno di tale facoltà va trovato, scrive Kant, in un'esperienza


(Erfahrung) , un evento (Begebenheit) , che sia l'indice ( hinweisen , hin­
deuten ) di tale disposizione e facoltà, e tale segno è un segno storico
(Geschichtszeichen, e Kant aggiunge tra parentesi : signum rememorati­
vum, demonstrativum, prognostikon ) . Eccolo, e sorprendentemente ( Il
conflitto delle facoltà, Seconda sezione, vr) :
«Questo evento non consiste in fatti o misfatti importanti compiuti
da uomini, che tra uomini ciò che era grande sia fatto piccolo, ciò che
era piccolo grande , che come per magia antichi e brill an ti edifici politici
�patiscano e altri sorgano al loro posto come dalle viscere della terra .
No : null a di tutto ciò . Si tratta in modo puro e semplice del mod� di
pensare degli spettatori che nel gioco di grandi mutamenti (Umwand­
lungen) si tradisce pubblicamente e [ . . . ] manifesta una partecipazione
certo partigiana ma non per questo meno universale e disinteressata ai
giocatori dell'una parte contro quelli dell'altra, cosl da dimostrare {per
via dell'universalità) un carattere dell'umanità in generale , come pure
(per via del disinteresse) un suo carattere morale [ . . . ] . Che la rivolu­
zione (Revolution) di un popolo spiritualmente avanzato (geistreichen ) ,
come quella che a i giorni nostri abbiamo visto farsi avanti, possa riu­
scire o fallire [ . . . ] , pure, questa rivoluzione, dico, trova negli animi di
tutti gli spettatori (che non sono come tali implicati nel gioco ) una par­
tecipazione secondo desiderio ( dem Wunsche nach) che [ . . . ] non può
avere per causa se non una disposizione morale del genere umano . [ Kant ,
dopo aver subito dopo asserito che la causa morale-universalità e di­
sinteresse--che interviene qui è quella del diritto , e che l'entusiasmo del
pubblico spettatore non si riferisce all'interesse ma a ' ciò che è ideale e
puramente morale , il concetto del diritto', conclude sull' ] . .. esaltazione
con cui simpatizzava il pubblico spettatore dall'esterno, senza la pur
minima intenzione di collaborazione » .

Arrivato a questo punto della mia esposlZlone , trarrò immediata­


mente--compiendo un salto espositivo-dimostrativo imperdonabile , che
Dio e Pubblico mi perdonino , nonché il lettore-intellettuale nei suoi di­
sturbati rapporti con il primo e il secondo-, due delle conclusioni cui
ritengo di aver esposto-dimostrato altrove che Kant ci conduce intorno
al segno e al disegno moderno :
prima conclusione : la giuridicità del disegno ;
seconda conclusione : la volgarità del segno .
Qualche osservazione sulla seconda . Kant impone un'importante

237
Giacomo Contri

umiliazione narcisistica, (espressione che prendo da Freud) alla trivialità


dei segni dei potenti (fatti e misfatti, il grande fa t to piccolo, i brill anti
edifici politici) che vengono cosl a connotarsi come trivi deserti dal vol­
go : e qui non c'è che da auspicare che una bella mente sappia scrivere
un trattato degno di Erasmo sull'elogio dell'indiffe renza come virtù poli­
tica (che nessuno sciocco mi rimproveri ora chissà che « qualunquismo » :
s i tratta di una virtù necessaria a ripensare la politica-si pensi solo a
quanto nel nostro secolo è stato fatto per evangelizzare politicamente le
masse a im-pegnarsi nel monte politico dei pegni ). ,
Umiliazione duplice : �i potenti del kratos non meno che ai p �tenti,
e prepotenti , del logos-scrivevo in altra sede che il buco tra l 'impo­
tenza, anche dei potenti, e la prepotenza, non solo dei potenti, non è
mai stato colmato--due potenze , queste , cosl correlate con l 'impotenza
nell'eros 3• Infatti : vuoi forse dire Kant che nel disegno giuridico mo­
derno delle cose , nello Stand der Dinge moderno, la trivialità del segno
pubblico sostituisce il primato della doxa alla pretesa nobiltà del pri­
mato dell episte m e 4 nel potere laico del discorso? È troppo facile, e
'

troppo manifestamente falso ( e d'altronde, quanti signori dell'episteme


non abbiamo visto diventare dei cialtroni non appena entrati in politica,
e quanti giùspositivisti non si sono visti diventare dei giusnaturalisti
banali ad uso demagogico per la carriera pubblica ? ) .

Colui che h a introdotto nel discorso filosofico la distinzione tra l'epi­


steme, il sapere che tiene, che tiene in forza del suo tenere la verità , e
la doxa , l'opinione non senza verità, è Platone . Ma l'equivocità plato­
nica è grande, forse radicale, e grande il sospetto che il Sofìsta Massimo
sia proprio lui, Platone . Il mito noetico della caverna è troppo funzio­
nale all'opera in cui è non casualmente iscritto, la Repubblica ; il mito
noetico è in ultima istanza un mito politico, ovvero : che la conoscenza
adeguata sia possibile è uno dei postulati necessari alla dimostrazione che
il mondo-quello politico-giuridico, la polis-ti�ne, che c'è garanzia
della tenuta o della certezza del mondo . Benché lo stesso Platone, nello
stesso mito , nella formulazione del mito noetico dubiti, anzi faccia più
che dubitare : infatti, è nella costruzione di questo mito che Platone

3 Informo di un saggio bipartito di H. Kelsen, generalmente sconosciuto, com­


parso in due tempi su Imago , rivista fondata da Freud: Die platoniscbe Liebe :
I. Eros, Imago, 1933 , XIX, l, 34-98 ; n. Kratos, Imago, 193 3 , XIX, 3, 225-255 .
4 Segnalo un libro notevole al riguardo : Y. Lafrance, La théorie platonicienne
de la doxa, Bellarmin-Les Belles Lettres, 1981.

238
Kant con Lutero

scopre (è una scoperta autentica ) quella che chiamo la fotofobia imma­


nente alla conoscenza : gli occhi abbagliati dalla luce non vedono. Ma
il Platone revisionista della sua stessa scoperta vuole che vi sia abba­
gliamento solo in un primo tempo, ma che in un secondo tempo-sche­
ma ascetico-l'occhio si adatti e veda.
Kant, nel suo programma di un mondo-lo stato civile--che tenga,
che sia garantito, seguirà la strategia platonica perché perseguirà lo stes­
so fine : la sua dottrina della conoscenza è una mossa cosmica , laddove
il solo cosmo umano possibile è l'ordine giuridico del mondo . Ma , por­
tando a perfezione la scoperta e il sospetto platonico, deciderà di arre­
starsi alla fotofobia : realizzare il noumeno come soltanto negativo è
funzionale al realizzare tout court, realizzare il mondo della pratica che
non è se non il mondo del dover-essere, sollen, della sola norma possi­
bile per render possibile l'esperienza , quella civile.
Non si tratta dunque, nell'uno come nell 'altro , di una conservazione
della coppia episteme/doxa in cui resta salva la possibilità del rovescia­
mento eventuale del primato dell'una sull'altra , ma di una questione di
ordine che la coppia suddetta non illumina, rimane anzi in attesa di es­
serne illuminata, rimaneggiata , sovvertita. Un rimaneggiamento, una sov­
versione, che devono avere di mira il fatto che il lato doxa della coppia
risulta collocata appunto in coppia dalla necessità interna a questa di
assegnare un'almeno sommaria organizzazione sistematica ai resti, non
dell'episteme , ma dell'ordine che questa serve . Si comprende allora me­
glio come sia un atto di involontario humour kantiano (ma è davvero
involontario? ) , quello di rappresentare i resti 5 della doxa , o la doxa
dei resti proprio come nel vecchio buon teatro in cui , poche storie avan­
guardistiche, la scena resta scena e la platea platea, senza trans-gressioni
tra le due, o, se si preferisce, come allo stadio per vedere la partita , dove
il Pubblico non gioca, ma si appassiona con il «vero entusiasmo» kan­
tiano senza contraddire anzi affermando e vivendo l'universalità e il di­
sinteresse , compiendo così un atto , un (non-) atto , un atto-di-non, un atto
di astensione , non un peccato di omissione ma un'att-itudine pura­
mente morale. E, poiché oggi il mondo non mi sembra troppo mutato ,
almeno in questo, dal Monde cartesiano rivisitato da Kant-in ciò non
si ha ancora il minimo segno kantiano di post-moderno-- , non resta che
rimanere ancora nel trascendentale, che vuoi dire , non che è escluso un
aldilà-uno Jenseits peraltro appena accennato da Freud-, ma che non

5
Ma allora la doxa è lo scomparto-valvola di sicurezza della tolleranza?

239
Giacomo Centri

c'è trasgressione (è appunto il limite kantiano) 6•

Pervenuto a questo punto, vorrei ora compiere un nuovo e altret­


tanto sommario passo.
Negli studi kantiani, non poche sono le ricerche sulle ascendenze, sui
debiti, sugli accenti protestanti di Kant . Non si dovrebbe trattare però
soltanto di debiti, peraltro così importanti quando si tratta dell'am­
biente e della coltivazione vissuti nella storia personale, pietistici nel
caso di Kant .
Ma in relazione al pensiero protestante e particolarmente lu � rano ,
non si tratta soltanto, per applicare a Kant termini tolti dagli studi kan­
tiani stessi , di genesi e storia, ma di struttura del pensiero kantiano .
Se è ver o-come mi portano a pensare non solo le mie non profes­
sionistiche letture kantiane, benché da passionale (piacerebbe a Kant ? )
amatore, m a anche letture kantiane altrimenti autorevoli-, che il dise­
gno kantiano è in ultima analisi giuridico, che lo stesso soggetto morale
kantiano è in ultima analisi quello giuridico del nuovo mondo detto
moderno, è allora vero che il soggetto della ragion pratica--o soggetto
pratico, ma la specificazione è pleonastica, non ce n'è un altro per Kant ,
essendo questo soggetto quello dell'esperienza resa possibile proprio dal
limite dedotto dalla preclusione dell'accesso al campo della rivelazione
dell'oggetto intelligibile (platonicamente reale e vero ) , un soggetto tanto
coestensivo al campo dell:esperienza che lo stesso soggetto cartesiano
della scienza ne e vi risulta relativizzato-, è identico al soggetto del
campo di ciò che , nel suo discorso teologico, Lutero chiamava, secondo
tradizione, le opere , per negarne il valore in ordine alla giustificazione .
Per converso, di quali opere, cioè di quale legge-in quanto è una
legge ciò che definisce natura e destino dell'opera-parla Lutero , perché
esse possano venir ripromulgate-il discorso promulga , non descrive­
come degne di es sere giudicate indegne-non è un bisticcio di parole ma
l'esplicitazione di due momenti logici distinti--di Jare giusto il soggetto
facente ?

Abbrevio passando per un florilegio da Ville y 7 :

6 L'aldilà freudiano si intitolava Aldilà del principio di piacere ( 1920 ); ritengo


degno di nota il fatto che il primo progetto lacaniano si intitolasse Aldilà del
«Principio di realtà» ( 1 936).
7 M. Villey, La formation de la pensée juridique moderne, Les Editions Mont-
I Capitolo, Lutero e il diritto.
chrétien, 1 975. Citazioni tolte dalla Parte m,

240
Kant con Lutero

«Lutero [ . . . ] uno dei testimoni della mutazione dalla :filosofia clas­


sica del diritto naturale all a :filosofia moderna, una delle principali forze
che hanno effettivamente concorso a questo risultato».
«Ecco il posto assegnato al diritto nella teologia di Lutero : non ne­
gazione assoluta, ma svalutazione del diritto, ridotto a essere strumento
della sola vita temporale» .
«Lutero cessa di concepire il diritto come qualcosa da cercare e sco­
prire, l'id quod iustum est » .
<(L'identificazione moderna del diritto all'insieme delle leggi già fatte,
imposte dall'esterno, è già tutta in Lutero » .
<(Lutero è una delle guide· che hanno condotto i l mondo moderno al
positivismo giuridico» .
<(Deprezzamento del diritto», <(disprezzo del diritto» .
<(Negazione del valore religioso del diritto» .
È ancora Villey che, ricordando il Lutero scopritore della Innerlich­
keit , de-psicologizza d'emblée sia Lutero sia tale nozione sottraendola
alla bastarda concezione psicologistica dell'interiorità, allorché aggiunge
che Lutero è anche lo scopritore della <(competenza normativa della li­
bera soggettività» [ sott. mia] .
Potremmo allora isolare tutto un campo-salvo che sia tutto il cam­
po--denotato dalla parola e nozione di «opere» in Lutero, solo che sap­
piamo scorgere la possibilità di un incontro perfetto--non sempre per­
fezione , bene e giustizia coincidono--t ra la competenza normativa della
libera (ecco Kant) soggettività, e la normatività positiva, esterna, data ,
del diritto statuito : una possibilità di incontro perfetto che ho creduto
di vedere realizzata nella scoperta di Hobbes , il Leviatano : salvo persi­
stere a leggervi la coppia violenta e potenzialmente sempre conflittuale
di comando dall'alto e sudditanza dal basso, anziché, nelle parole stesse
di Hobbes, il discoursus, discourse , la conversatio-parola di origine
teologica : in coelis-in terris (aggiungo io) nel mondo fatto nuovo
della condizione umana nella comunità civile moderna 8 •

Non ho l'imprudenza di dare per definitivamente assodato che siano


queste le <(opere» del riesame luterano del sola fide paolina, le opere di
quello che chiamo soggetto giuridico, del soggetto della <(legge» degli

Sono particolarmente debitore, per Hobbes e Kant, di: S. Goyard-Fabre, Le droit


et la loi dans la philosophie de Thomas Hobbes, Klincksieck, 1 975, e: Kant et le
problème du droit, Vrin, 1 975.

241
Giacomo Contri

ordinamenti giuridici , moderni, del soggetto-Leviatano


'
(piuttosto che
soggetto-del-Leviatano, espressione che conserva ancora intatta l'idea di
una soggezione sotto a un Leviatano che starebbe sopra, cioè auto-nomo
rispetto al suo stesso soggetto ) ; Ma, nella discussione che sarebbe da
avviare a partire da questa prudenza, sarebbe anzitutto da stare in guar­
dia nei riguardi di un errore da equivoco che è già comunemente com­
messo ben più di quanto si pensi anche al di fuori di ogni dibattito
teologico : l'errore consistente in quell'equivoco che chiamerei la mosaiz­
zazione della «legge» moderna. La competenza normativa della ., libera
soggettività leviatanica, del civis soggettivato, non può confonckrsi in
nessun modo con il soggetto della legge mosaica cui si riferisce il sola
fide di Paolo , ma implica un soggetto che il sola fide non contemplava,
almeno immediatamente, neppure .

Il problema di questa distinzione mi pare non risolto , anzi non posto ,


in quell'opera importante della teologia cristiana non cattolica, nove­
centesca, che è L'Epistola ai Romani di Karl Barth 9 : che riunisce , sotto
la stessa stessa rubrica o categoria di ciò che sta dall 'altra parte rispetto
alla «giustizia per opera di Dio » , «la legge, la religione, l'esperienza
mistica dell 'uomo, la storia, ogni esserci e essere-così del mondo, ogni
dato oggettivo [ . . . ] qualsiasi giustizia umana». Anche se queste mie
pagine non sono certo un presuntuoso mieto-saggio teologico, penso di
poter asserire almeno questo : che anche teologicamente non può essere
i rrilevante, né secondario, il distinguere tra «legge mosaica» nel signi­
fìcato paolina, e legge leviatanica propria all 'agire della competenza nor­
mativa del soggetto moderno . Il terreno teologico è propizio come quello
su cui è più facile veder prendere rilievo, per confronto se non è con­
trasto, il soggetto della legge moderna appunto come un soggetto nuovo
e distinto sia rispetto al soggetto del sola fide che al soggetto che si
vuole giustificabile attraverso le opere dell'antica legge .
Sono consapevole da anni che questo è un ·.p'ù nto particolarmente
duro , e su cui la resistenza intellettuale è quasi invincibile : cioè la cre­
denza che il Leviatano sia il discorso della dominazione, che si cerca di
comprendere con i migliori sforzi intellettuali (per esempio, rivalutando
la proposta di De la Boétie, di comprendere la dominazione come « di­
scorso della servitù volontaria») . Lo stesso Karl Barth nella sua solu-

K. Barth, L'Epistola ai Romani, 1919, edita in Italia da Felttinelli, 1962, 1974,


1978, a cura di Giovanni Miegge.

242
Kant con Lutero

zione 10 non riesce a riconoscere l'emergenza di questo peculiare e incon­


fondibile altro soggetto delle opere, in-confondibile in una unica monda­
nità dell 'essere-così-del-mondo, o, in altri termini ancora, valendomi di
nuovo dei termini teologici : cbe è venuto a esistenza non solo un ordine
del mondo giuridico, ma un soggetto-che-vive-di-diritto allo stesso modo
e livello con cui Paolo pone l'esistenza di un soggetto-cbe-vive-di-fede ,
che c'è e x iure così come c ' è e x fide.
Mi sembra dunque rilevante il potersi riconoscere nella de-qualifica­
zione luterana delle opere, l'individuazione di una nuova specie antro­
pologica, cioè uno spostamento e un'innovazione dei termini in presenza,
e non la sola radicalizzazione e esplicitazione di alternative teologiche (e
logiche) già in n uce. Spingendo la ·ricerca in questa direzione, credo si
perverrebbe a ritrovare nella contrapposizione luterana in ordine alla
giustificazione, non la contrapposizione tra interiorità della fede giustifi­
cante e esteriorità delle opere squalificate, ma il conflitto ben più intimo
tra due interiorità di egual competenza , l'una ex fide e l'altra ex iure (un
conflitto che comporta, ancbe solo nella sua descrizione , diverse conse­
guenze , tra le quali una terminologica : che né per l'una né per l'altra
risulta adeguata la coppia interiorità/ esteriorità, né quella soggettività/
oggettività, né quella privatezza/pubblicità ) .
M a come è possibile questo autentico miracolo mondano ? , questo
impossibile ? Grazie alla rinuncia (riprenderò concludendo questa parola
tanto freudiana) all'impossibile pretesa di collocare l'etica nel reale , nel
sein-l 'etica, ricordiamolo, ha da essere universale per essere-, per col­
locarlo nel dover-essere , sollen . Il dover-essere è l'essere dell'unico poter
essere universale , l'essere di un impossibile . È ancora, si noti , l'obbe­
dienza, la condizione dell'assoluzione della soluzione kantiana : ma non
l 'obbedienza a un altro , reale o simbolico , bensì l'obbedienza alla sola
altra alterità possibile, e che è altra alterità perché e solo perché è
possibile : una legge di pura forma. Una pura forma cbe non esige
assolutamente nulla-cioè in essa tutto ciò che è possibile realmente
può diventare possibile formalmente-se non una cosa : una rinuncia,
una deposizione 11, una destituzione soggettiva 12, consistente nell'iscri-

10 Mi riferisco alla coppia: La grande possibilità negativa/La grande possibilità


positiva, ivi, 456-483.
11
Parola-<:oncetto che prendo da Kant, Sul detto comune: questo può esser giusto
in teoria ma non vale per la pratica, nota 55 (da diverso ma, ritengo, assimilabile,
contesto ).
12
Espressione-<:oncetto che prendo da Lacan, tardivamente, passim .

243
Giacomo Contri

vere ogni opera, impresa, azione, nell'unico catp.logo universale del


poter-essere debitore del dover essere formale .
Forse, apparirà ora un po' più motivato il mio titolo : Kant con Lu­
tero . Le opere giuridiche de-qualificate in ordine alla salvezza perché
de-prezzate in relazione al prezzo che dev'essere pagato per la giustifi­
cazione ( tutto il linguaggio cristiano è al riguardo strettamente econo­
mico ) , ma perciò stesso salvate in ordine all 'autonomia mondana, po­
tranno essere ti-qualificate moralmente a condizione che il prezzo ne­
cessario sia pagato altrimenti . La norma morale kantiana, perfettatpente
realizzata nell'uomo che vive ex iure, assolve a questo compito con una
soluzione secolarmente perfetta o meglio , quasi perfetta) .
Infatti, è noto che una delle soluzioni possibili--è la parola-chiave
di Kant-al problema del pagamento di un prezzo, e l 'unica soluzione
possibile allorché si tratta di prezzo impagabile-dò su cui insiste radi­
calmente Lutero , e così Barth--è l'assoluzione radicale, ma in una forma
particolare : anziché-ed è la soluzione cristiana-il pagamento grazioso
e reale del debito ad opera di un pagatore atto a farlo , cioè conservando
anzi rinforzando il riconoscimento del debito, invece , l 'annullamento ,
anzi-è una distinzione ben nota ai giuristi-non l 'annullamento ma la
dichiarazione di nullità del debito ( «la nullità-scrive Kelsen-è il mas­
dmo grado dell 'annull abilità » ) .

Ma perché--e concluderò rispondento a questa domanda-uno psi­


coanàlista si scalda tanto su questi argomenti ? , esponendosi così ai rischi
dell 'incompetenza arrogante insiti in escursioni tanto impegnative ? Argo­
menti che sembrerebbero essere di altra competenza, dato che egli si
occupa di competenza normativa laddove, tutt'al più, nella sua azione
di curatore per mezzo delle opere delle parole , dovrebbe occuparsi di
qualche aspetto della competenza linguistica ? E per di più , perché lo
fa non solo attraverso excursus giuridici ma anche teologali di cui non
è chiara la pertinenza ?
La risposta sta nel fatto che lo psicoanalista ·p arte da una partico­
lare realtà, quella cui è stato dato il nome abbastanza inadeguato di « in­
conscio » (è inadeguato dare a una realtà positiva, agens, quale esso è, un
nome costruito in modo puramente negativo , privativa [ in- ] , per di più
rispetto alla coscienza che , qualsiasi cosa essa sia, non ha, per usare il
titolo di un Convegno di qualche anno fa, in comune con l'inconscio
uno stesso divello di realtà» 13-salvo pensare che non tanto non lo

13 Dal titolo del Convegno svoltosi a Firenze : Livelli di realtà, Atti pubblicati da

244
Kant con Lutero

abbia per essenza, quanto che lo abbia perduto per via , per via non
dell'inconscio, ma di cattivi rapporti, rapporti spazio-temporali ) .
Abbreviando : quel malato via inconscio cu i l o psicoanalista attende ,
è un malato ? Non è un malato--e il malato, oltretutto cioè oltre al
resto, guarisce quando cessa di pensarsi malato-- , è un imputato . L'in­
conscio è concepibile come un caso unico di giustizia retributiva, e rego­
lare, paga il sabato . Cioè come un sistema d'imputazione agente d'ufficio,
da cui sono imputate certe azioni-siano pure prese nell'antica tasso­
nomia delle opere imputabili : cogitatio , verbum , opus, omissio-del
soggetto ma prima ancora di chi l 'ha simbolicamente generato , in quanto
queste azioni consistono nei soli illeciti, deroghe, equivoci, cedimenti,
ritardi , malintesi, truffe, sgarri , che l 'inconscio imputante non perdona :
illeciti o menzogne nei confronti della verità, non una verità comunque
intesa, ma la verità intorno ai propri desideri , alle proprie passioni , alla
propria implicazione come passione nelle passioni da cui hanno mosso
l e opere che hanno presieduto alla propria generazione, come pure nelle
passioni da cui muovono le proprie opere . Una giustizia retributiva tanto
reale che le parole stesse sono trattate come res, non come flatus, e in
cui il flatus stesso non è vanifìcato ma trattato come oggetto . Una giu­
f>tizia puntuale e anche puntigliosa, da sportello bancario , delle male­
-fatte-ma perché non delle cose fatte bene?-, che non segue un codice
(cosl come non c 'è un vocabolario nella costruzione e nella decifrazione
dei sogni) ma un criterio di verità . Una funzione e un ufficio tanto in­
credibili da meritare che vi si applichino le parole sgorgate da Cantor
in altro contesto : lo vedo ma non ci credo . L'inconscio fa giustizia sulla
verità dicendo la verità (come è chiaro , senza presupposizione di un 'idea
di giustizia né di un diritto naturale) .
Poiché queste righe non sono un trattato sull'inconscio, posso solo
aggiungere che difficilmente questa opera di giustizia in rapporto alla
verità sarebbe concepibile altrimenti che come intervento in una più
ampia ingiustizia : quella che sarebbe operata da ogni soggetto che,
ponendosi al posto dell 'inesistente Legislatore platonico dei nomi (Cra­
tilo ), volesse imporre adaequatio tra i nomi e le cose, tra ( assumo per
brevità termini noti) il simbolico e il reale. L'inconscio è pensabile, non
come responsabile di questa inadaequatio, ma come fattore di verità e
istanza d'ordine nel non-ordine-prima che disordine-di questa ina­
daequatio, e di giustizia nell'ingiustizia-dis-ordinante il non-ordine­
della menzogna su questa inadaequatio (Platone, che cito in Il dis-ordine
di Platone, non mente, per bocca di Socrate , allorché e proprio perché

245
Giacomo Contri

ammette, con orrore, il turbamento che gli procura il rapporto strano e


per lui indecifrabile tra i nomi, le cose e se medesimo , la propria anima) .
L'inconscio inter-loquisce con la questione della giustizia dei sog­
getti, le cui opere per la psicoanalisi non hanno giustificazione naturale
ma solo--notevole scivolamento della stessa parola nei tempi moderni­
giustificazione razionale nel senso di motivazione secondo un disegno
sui iuris o suae rationis della condotta.

Cosl operando interferisce introducendo sanzioni di giustizia e> effetti


di verità . Sanzioni e effetti che quando assumono certe confìgu'razioni
tipiche, poi divenute categorie dette «cliniche», costituiscono quelle che
sono chiamate , con debole psichismo, malattie p sichiche da psico-tera­
peuta (lo «psico»anali sta è altra cosa) , ma che assumono anche altre
configurazioni, meno individuabili--o piuttosto meno individuate, poi­
ché individuabili sono-che compongono gran parte di tutto ciò cui è
riservata l'inoffensiva paroletta di normalità, in cui non si coglie più
ciò che essa sostituisce senza dire, cioè giustificazione .
Effetti e sanzioni che non possiamo ancora considerare come giustizia
e verità, perché sono eccessi 14 di giustizia e verità, e che, per quanto
mi è dato di comprendere, risultano dal solo ordine di necessità cui l'in­
conscio deve obbedire : l'inconscio lavora rigorosamente secondo eco­
nomia, in altri termini non perdona, non può ammettere il caso del
perdono giudiziale . Sarà s'empre occhio per dente e dente per occhio .
Occhio e dente che possono , se questa non è addirittura la regola, essere
prelevati, fatti pagare, da alt.ri che passa di lì, in famiglia, nell 'amore,
altrove ancora .
Ingiustizia , eccesso di giustizia, nuova ingiustizia per riparare al tut­
to, spesso in nome della giustizia , fino alla querulanza più sfrenata , che
può assumere i toni più patetici come quelli più osceni . Ne risulta una
produzione di ingiustizia, delitti reali e sociali, che non sono da meno,
nella loro realtà e nella loro portata , di tutti quelli nominati nei sistemi
morali più degni o più efferati.
Ma è raro che i sistemi morali sappiano anche solo nominare tali

t4
Riferisco a questo proposito del Colloquio promosso da Il Lavoro Psicoanali­
tico il 2-3 marzo 1985 a Milano sul tema : Giustizia e determinismo. Il documento
introduttivo ad esso, stilato dal sottoscritto, è anche debitore di un fecondo dialogo
al riguardo con Adriano Voltolin, cui è dovuta anche la proposta di questa idea
di u n eccesso di giustizia dell'inconscio.

246
Kant con Lutero

delitti, mentre è addirittura escluso che i sistemi giuridici lo possano


-scriverei « lo vogliano» se cadessi nella tentazione di supporre loro
il soggetto di un sapere , e un volere , assoluto.
Ho già parlato del presupposto assolutorio del diritto statuito 1 5 ,
come pure, qui sopra, della nullific azione del prezzo della giustificazione
che la pura forma kantiana della morale garantisce (non sarà in queste
pagine che potrò parlare, tornando su una discussione già fatta da tempo
nella filosofia giuridica, dell 'incontro del dover-essere kantiano e del
dover-essere kelseniano) . Il nesso di imputazione del nostro diritto
statuito potrebbe essere ridescritto addirittura a partire dal nesso di
imputazione dell'inconscio : ma in quanto quello non deve essere questo,
e questo non deve comparire in quello . Mi sentirei di avventurarmi fino
a porre questa distinzione come più che una distinzione, come un'arti­
colazione negativ a : quello è quello in quanto non deve essere questo
(non essendo vera la reciproca) , quello è quello in quanto è l'assoluzione
di questo, quello è quello in quanto l'assoluzione dal delitto imputato
dall'inconscio è la condizione per lo statuirsi di quello , quello è quello
in quanto la questione della giustificazione sia risolta dall'origine, non
ope legis (non c'è «legge» nel diritto ) ma gratia-reintroduco motiva­
tamente un termine teologico--iuris .
La condizione posta da questa separazione da articolazione negativa
deve essere (ma non è il dover-essere giuridico, ne è la condizione) as­
soluta . Per fissare le idee , affidiamoci a un esempio preso da una delle
tante pratiche sociali createsi nel nostro secolo, quello dello psicoana­
lista che opera come consulente presso un tribunale, cui corrisponde una
notevole massa di letteratura psico-criminologica . È noto che la sua fun­
zione si riduce spesso, in ultima analisi , a chiedere ai giudici di «tener
conto» di quei certi famosi «motivi inconsci della condotta», a fini di
mitigazione della pena , se non altro ( questo particolarissimo esercizio
professionale dello psicoanalista è già da tempo motivo di facezie anche
fumettistiche) . In breve, si chiede di « tener conto» come si direbbe « è
stato malato da piccolo . . . ».

Ma il suddetto tipo di psicoanalista, s e solo si rende conto della


posizione in cui è stato messo, può soltanto testimoniare del più irridu­
cibile imbarazzo . Infatti, salvo che si collochi dal punto di vista di una
Dama di San Vincenzo, malintendendo peraltro anche il punto di vista
di questa, se davvero tenesse conto di ciò di cui appunto l 'inconscio tiene

15 In: G. Contri, La tolleranza del dolore, 2" ed., Milano, p. 139.

247
Giacomo Contri

conto, gli resta soltanto questa impraticabile �ternativa ( trascurando il


caso che egli deduca che nel delitto in questione non si è contravvenuto
alla giustizia dell 'inconscio ) :
- tra il dedurre che il Tribunale non può entrare nel merito , che
esso è incompetente, che, secondo la formula antica, non lique t : ma
allora egli si colloca contro la certezza del diritto (e non ha tutti i torti,
sono appunto i casi in cui gli apparati di stato usano del terrorismo di
stato e della tortura o della deportazione) ,
- e il dedurre che i l Tribunale deve entrare nel merito ; che esso
è competente : ma allora che lo deve fare prescrivendo, non la minima,
ma tendenzialmente la massima delle pene, anche in caso di delitti pre­
terintenzionali , e persino di attraversamento con semaforo rosso o di
epiteto a un vigile urbano ; e per di più, coinvolgendo nel giudizio e nella
condanna, per concorso o favoreggiamento, numerosi altri, i familiari
almeno, se sono ancora in vita. Questa seconda alternativa è il Terrore ,
in memoria di quello giacobino . Ma anche in questo caso, è ancora la
certezza del diritto a essere contestata (si comprende bene , in questa
seconda alternativa, come le giurisprudenze degli stati di diritto abbiano
rifiutato la presa in considerazione sistematica dell 'inconscio come fat­
tore giurisprudenziale) .
Per non dire delle finzioni, non giuridiche ma psichiche, cui si presta
lo psicoanalista, allorché accetta di classificare i casi di cosiddetto «rap­
tus»-il folle che deCima famiglia e folla-nella rubrica dell 'atto sinto­
matico, allo scopo di iscriverlo nella categoria dell 'incapacità di intendere
e volere : allorché si tratta di atti la cui premeditazione e preparazione
data da settimane se non da mesi (ma certo l'inconscio vi gioca, vale
dunque una delle due alternative sopra descritte) .
La conclusione da trarre non è né l'una né l 'altra delle due descritte .
Al contrario, la conferma che certezza del diritto e competenza del Tribu­
nale sono tanto più salde in quanto esse si costituiscono per rigetto della
certezza e della competenza della giustizia dell'inconscio, e del «tener
conto» di questo .
Semplicemente, non è men certo che ha ragione Bufiuel in «Il fan­
tasma della libertà» , allorché costruisce, in uno degli episodi del film , la
sequenza : serie di omicidi compiuti dall'assassino della Tour Montpar­
nasse - intervento della polizia e arresto dell 'omicida - processo per di­
rettissima al medesimo e sua condanna a morte - e sua immediata libe­
razione e divizzazione non appena celebrato il rito giuridico del pro­
cesso, ovvero : al diritto basta la celebrazione del rito giuridico, non è

248
Kant con Lutero

necessaria la condanna reale del delinquente. Altrettanto bufiucliuna


avevo creduto di individuare 16 l'italiana « legge sui pentiti» . Cioè ln mo­
rale universale implicita al diritto : ogni tua opera è irrisoria, essa non
è neppure esistita se non per quel tanto che bastava alla celebrazione
della liturgia giuridica, non hai mai fatto nulla, le tue opere non hanno
nessun valore, le opere giuridiche-e tali sono anche i delitti più scon­
volgenti per il solo fatto di esser parte della specifica norma giuridica
che li nomina-non hanno valore perché non esistono , non sono nep­
pure annullate : sono nulle. La sola fides giuridica basta alla giustifica­
zione.
È ciò che chiamo l 'etica luterana 17 del diritto . Ma anche un prote­
stante non ha motivo di esserne soddisfatto.

16 Rimando al mio : Da Antigone a Bufiuel, in : La creatura e il pleroma, AA.VV.,


Lerici, 1983, libro collettivo sul «7 aprile».
17 Nel 1 977 concludevo un saggio su questi temi ( in : La tolleranza del dolore,
cit., 2' ed ., 90) : «Una definizione di sapore luterano : il diritto come fogna della
pulsione»·.

249
finito di stampare dalla tipografia G. B ianchi
di R. & A. Dogheria
Sesto San Giovanni

Editoriale J aca Book spa


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