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Domande del tipo «a che cosa rimanda il segno?», «che cosa è il segno?»
appaiono, nel linguaggio teorico odierno, post-heideggeriano e post-niccia-
no, come domande nichiliste, cioè come domande che in qualche modo già
si sanno senza risposta.
Il segno sembra impensabile senza l'esser di-segno: una trama di rimandi,
una tessitura, una testualità. È forse opportuno che il problema del rappor-
to fra il segno e il senso lasci il posto a una questione più radicale che ine-
risce come tale alla natura del discorso. Ne va non tanto di un fondamento
quanto della testualità del discorso, spesso conclamata ma anche denegata
nei suoi esiti ermeneutici. Il soggetto dell'ermeneutica, il soggetto cioè che
conferisce il senso, è spesso analizzato nelle sue impasses e nelle sue con-
traddizioni, ma forse mai messo in questione come figura del discorso co-
stituitasi nell'età moderna.
I contributi di questo volume raccolgono tentativi di pensiero, tra quelli che
oggi si concedono maggiori rischi, che riguardano la pensabilità di un senso
che non sia conferito, nel movimento della sua costituzione, da un soggetto
funzionante come attore del discorso. La questione di un senso (quindi an-
che classicamente di una verità?) all'opera nel discorso è riproposta, al di là
di certe chiusure della metafisica, come strategia che ricalibra il ruolo e l'i-
dea stessa di soggetto. Quest'ultimo, più che essere in grado di conferire il
significato al discorso, ne sarebbe piuttosto esercitato e suo destinatario.
Alla domanda se il nostro parlare sia vero si può sostituire come equiva-
lente l'interrogativo se il nostro parlare sia morale?
Giorgio Agamben, Giacomo Contri
Gianfranco Damasso, Jacques Derrida
Emmanuel Lévinas, Romano Madera
Jean-Luc Marion, Carlo Sini
DI-SEGNO
La giustizia nel discorso
a cura
di
Gianfranco Dalmasso
j! Jaca Book Il
titoli originali
Jacques Derrida, D'un ton apocaliptyque
adopté naguère en philosophie
© 1983, Editions Galilée, Paris
traduttori
Adriano Dell'Asta
Paola Ferrone
© 1984
Editoriale Jaca Book spa, Milano
copertina e grafìca
Ufficio grafi.co Jaca Book
ISBN 88-16-40143-5
Introduzione VII
Giorgio Agamben, La cosa stessa l
Carlo Sini, C ol dovuto rimbalzo 13
Emmanuel Lévinas, Note sul senso 51
Gianfranco D almas so, Consulere veritatem. Soggetto del discor-
so e soggetto dell'etica in Agostino 71
Jacques Derrida , Di un tono apocalittico adottato di rec ente in
:filosofia 107
Romano Madera, Apocalissi del sacro 145
Jean-Luc Marion, L'essere, l' idolo , il con cetto 169
Giacomo Contri, Il dis-ordine di Pl ato ne . L'inconscio demiurgo
e l'inadequatio d ell ' ordin e 219
Giacomo Contri, Kant con Lutero . La giustizia e la legge 233
INTRODUZIONE
vii
Introduzione
viii
Giorgio Agamben *
LA COSA STESSA
A Jacques Derrida
c alla memoria di G iorgio Pasquali
*
Conferenza tenuta a Forll il 26-x-1984.
1
Giorgio Agamben
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La cosa stessa
del pensiero?
Una risposta a questa domanda può scntmÌl'c soltanto da una attenta
lettura del passo successivo, che Platone definisce come <mn racconto
e una divagazione (muthos cai planos)» (344 d 3) e, insieme, come «un
discorso vero, che è stato da me piì:t volte esposto in passato, ma che
mi pare si debba anche ora ripetere» (342 a 3-7). È perciò con l'inter
petrazione di questo «mito stmvagantc» che il pensiero che voglia ve
nire in chiaro della sua «cosa» d eve sempre di nuovo misurarsi. Pro
viamoci dunque a leggerlo.
«Per ciascuno degli enti» scrive Platone «Vi sono tre, attraverso i
quali è necessario che si generi la scienza, quarta è la scienza stessa,
quinto si deve porre quello stesso che è conoscibile e che è veramente. Il
primo è il nome, secondo il discorso definitorio (logos) , terza è l'im
magine (eidolon ) , quarta è la scienza. Se vuoi intendere quel che ora
dico, prendi un esempio, e pensa cosl intorno a ogni cosa. Vi è un che
detto cerchio (cuclos estin ti legomenon), il cui nome è appunto quello
che abbiamo appena proferito; secondo è il suo logos, composto di
nomi e di verbi: 'ciò che in ogni punto dista ugualmente dagli estremi
al centro': ecco il logos di ciò a cui è nome tondo, circolo o cerchio.
Terzo è ciò che si disegna e si cancella e si forma col tornio e si di-
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Giorgio Agamben
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La cosa stessa
5
Giorgio Agamben
ticali della Stoa e delle scoole ellenistiche. Come nel!tbro x delle Leggi
o nell'ultima parte defSofista , Platone espone qui una teoria della si
gnificazione linguistica nei suoi rapporti con la conoscenza. La difficoltà
comincia, com'è naturale, col quinto, che introduce nella teoria del si
gnificato, come noi la intendiamo, un elemento nuovo. Rileggiamo il
passo; «Per ciascuno degli enti vi sono tre, attraverso i quali è neces
sario che si generi la scienza, quarta è la scienza stessa, quinto si deve
porre quello stesso che è conoscibile e che è veramente» . Come quinto
sembra qui doversi intendere lo stesso ente da cui il discorso esordi�ce
dicendo: «Per ciascuno degli enti vi sono tre . . . ». La cosa stessa sarebbe
allora semplicemente la cosa che è oggetto della conoscenza, con la con
seguenza che risulterebbe avvalorata quell'interpetrazione del platonismo
(già operante in Aristotele), che vede nell'idea una sorta di inutile du
plicato della cosa . Inoltre l'enumerazione risulta circolare, perché viene
elencato al quinto posto quello che è in verità il primo a essere nomi
nato come presupposto stesso da cui scaturisce l'intero discorso.
Qui può, forse, venirci in soccorso quell'attenzione filologica ai det
tagli, in cui, è stato detto, il buon Dio ama nascondersi. Il testo greco
che noi leggiamo nelle edizioni moderne (quella di Burnet che è un po'
l'esemplare di tutte le edizioni successive, ma anche quella, più recente,
di Souilhé) in questo punto recita: pempton d'auto tithenai dei ho dé
gnoston te cai aléthos estin on, auto di'o gnoston estin, <{quinto si deve
porre quello stesso che è conoscibile ed è veramente». Ma i due codici
principali su cui entrambi gli studiosi fondano le loro edizioni, e, cioè,
il Parisinus graecus 1807 e il Vaticanus graecus l, presentano una le
zione diversa, che al posto di dei ho (si deve . . . che) ha di'o (per cui) .
Restituendo la lezione dei codici, o, meglio, scrivendo: di'o, la tradu
zione diventa : <{quinto (è necessario) porre lo stesso per cui (ciascuno
degli enti) è conoscibile e vero» 1•
In margine a questa lezione, una mano del XII secolo aveva anno
tato, come emendamento o, piuttosto, come variante�' quel dei ho a cui
si sono attenuti gli editori moderni . Ma ancora il codice che Marsilio
Ficino aveva davanti agli occhi per la sua traduzione latina delle opere
di Platone recava la lezione di'o; Ficino traduce infatti: quintum vero
oportet ipsum ponere quo quid est cognoscibile, id est quod agnosci
potcst, atque vere existit.
lll'n l modcmi, il solo Andreae, nel suo studio del 1923 sulle lettere platoniche
( fJ!J/Io/tJal/.f1 78, p. 34 sg.), ha restituito la lezione dei codici.
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La cosa stessa
Che cosa cambia, che cosa ci porta di nuovo questa restituzione della
lezione originale dei codici? Essenzialmente questo: la cosa stessa non
è più semplicemente l'ente nella sua oscurità, come oggetto presupposto
al linguaggio e al processo conoscitivo, ma auto di'o gnoston estin,
ciò per cui esso è conoscibile, la sua stessa conoscibilità e verità. La
variante marginale seguita dagli editori moderni, anche se può fuorviare,
non è, però, erronea: la mano che l'ha annotata {e noi abbiamo ragione
di ritenere che non si trattasse di una mano inesperta) era verisimil
mente preoccupata dal rischio che la conoscibilità stessa-l'idea-fosse
a sua volta presupposta e sostantivata come un'altra cosa, come un dupli
cato della cosa dietro o al di là della cosa. La cosa stessa--di qui il ter
mine auto come designazione tecnica dell'idea-non è, infatti, ·un'altra
cosa, ma la stessa cosa, non più, però, supposta al nome e al logos, come
un oscuro presupposto reale (un hupocheimenon), ma nel medio stesso
della sua conoscibilità, nella pura luce del suo rivelarsi e annunciarsi
alla conoscenza.
La «debolezza» del logos consiste allora proprio nel fatto che esso
non è in grado di portare ad espressione questa stessa conoscibilità e
questa medesimezza, che esso respinge, cioè, indietro come un presup
posto (come una ipo-tesi nel senso etimologico del termine, ciò che è
posto sotto) la stessa conoscibilità dell'ente che è in esso in questione.
È questo il senso della distinzione fra on e poion, fra l'essere e la
sua qualificazione, su cui Platone insiste più volte nella lettera (342 e 3;
34 3 h 8-c l). Il linguaggio-il nostro linguaggio-è necessariamente pre
supponente e oggettivante, nel senso che esso, nel suo avvenire, scom
pone la cosa stessa, che in esso e solo in esso si annuncia, in un essere
su cui si dice e in un poion , una qualità e una determinazione che di
esso si dice. Esso sup-pone e nasconde ciò che porta alla luce nell'atto
stesso in cui lo porta alla luce. Il linguaggio è, cioè, sempre, secondo
la definizione raccolta da Aristotele (ma già enunciata in Soph. 262 e 6-7
e ancora implicita nella distinzione moderna tra senso e denotazione)
leghein ti cata tinos, dire qualcosa-su-qualcosa; è sempre, dunque, lin
guaggio pre-sup-ponente e oggettivante. La presupposizione è la forma
stessa della signifìcazione linguistica: il dire cath'hupocheimenou, su un
soggetto.
Il monito che Platone affida all'idea è, allora, che la dicibilità stessa
resta non detta in ciò che si dice di ciò su cui si dice, che la conoscibi
lità stessa va perduta in ciò che si conosce di ciò che è da conoscere.
Il problema specifico che è in questione nella lettera-ma che è ne-
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Giorgio Agamben
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La cosa stessa
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Giorgio Agamben
della settima lettera: «Apprendi ciò che io dico dell'altra sezione del
l'intellegibile, che il linguaggio stesso (autos ho logos) tocca con la po
tenza del dialogare, prendendo le ipotesi non per principi (archai), ma
veramente per ipotesi, quali punti di appoggio e impulsi, affinché :fino al
non ipotetico andando verso il principio di tutte le cose, toccandolo, e,
di nuovo, tenendosi alle cose congiunte ad esso, ritorni verso la fine,
non occupandosi in alcun modo del sensibile, ma dalle idee, attraverso
le idee, verso le idee, finisca alle idee» (Rep. 5 1 1 b 3 c 2 ) .
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La cosa stessa
c 6). Tanto più notevole è la sparizione della cosa stessa. Con Aristotele
la cosa stessa viene, infatti, espunta dall'ermeneia, dal processo lingui
stico della significazione; anche quando tornerà fugacemente a compa
rirvi (come nella logica stoica), essa sarà ormai cosl straniata dall'origi
naria intenzione platonica, da essere praticamente irriconoscibile.
La determinazione aristotelica dell' ermeneia è, dunque, svolta in con
trappunto all'elenco platonico, eli cui costituisce una ripresa e, insieme,
una confutazione. La prova decisiva eli questo contrappunto polemico è
proprio la comparsa, nel testo aristotelico, dei grammata, delle lettere.
Già gli antichi commentatori si chiedevano a che cosa si dovesse l'appa
rizione, a prima vista incongrua, eli questo quarto interprete accanto agli
altri tre ( voci, concetti, cose). Se si pensa che l'excursus platonico era
diretto :Proprio a provare l'impossibilità di scrivere della cosa stessa e,
in generale, l'inattendibilità, per il pensiero, di ogni discorso scritto, l'in
timo contrappunto fra i due testi è ancora più evidente.
Espungendo la cosa stessa dalla teoria della significazione, Aristotele
assolve la scrittura dalla sua debolezza. In luogo della cosa stessa, suben
tra, nelle Categorie, la prote ousia, la sostanza prima, che Aristotele defi
nisce come ciò che non si dice su un soggetto (cath'hupocheimenou, su
un presupposto ) né è in un soggetto. Che cosa significa questa defini
zione? La sostanza prima non si dice su un presupposto, non ha presup
posti, perché è essa stessa il presupposto assoluto su cui si fonda ogni
discorso e ogni conoscenza. Essa sola-come nome-si dice cath'auto,
s u se stessa; essa sola-non essendo i n un soggetto-si mostra nell'evi
denza. Ma, in se stessa, come individuum, essa è ineffabile ( individuum
ineffabile, secondo la formulazione dell'aristotelismo medievale) e non
entra nella significazione linguistica eli cui è fondamento, se non uscendo
dalla sua attualità deittica in una predicazione universale. Il ti che era
in questione nel nome è assunto nel discorso come il cata tinos, il
su-cui si dice. Essi-il che e il su-cui-sono, dunque, la stessa cosa, che
può essere colta come to ti èn einai, l'essere-il-ti-che-era. In questo
processo logico-temporale la cosa stessa platonica è tolta e conservata, o,
piuttosto, conservata solo come tolta: e-liminata.
Per questo, nel De interpretatione, fa la sua comparsa il gramma, la
lettera. Un esame attento mostra, infatti, che, nel circolo ermeneutico
del De interpretatione, la lettera, come interprete della voce, non ha essa
stessa bisogno di alcun altro interprete. Essa è l'ultimo ermeneuta, oltre
il quale non c'è altra ermeneia possibile: il suo limite. Per questo, ana
lizzando il De interpretatione, i grammatici antichi dicevano che la let-
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Giorgio Agamben
tera, che è segno della�vòce, è anche stoicheiou tes fi5nes, cioè suo ele
'
mento. In quanto ete�ento di ciò di cui è segno, essa ha lo statuto privi
legiato di index sui, dell'automostrazione: come la pri5te ousia, di cui
costituisce la cifra linguistica, essa mostra sé, ma si mostra solo in quanto
era nella voce, cioè già sempre come un passato.
Il gramma è, cioè, la forma stessa della presupposizione e nient'altro
che questo. Come tale, essa occupa un posto centrale in ogni mistica e,
come tale, essa ha una rilevanza decisiva anche nel pensiero del nostro
tempo, che è assai più ari,stotelico e assai più mistico di quanto geperal
mente si creda. In questo senso--e solo in questo senso--Aristotele e
non Platone è il fondatore della mistica occidentale ed è per questa via
che il neoplatonismo poté arrivare a quella concordia fra Platone e Ari
stotele che costituiva la base dell'insegnamento della scuola.
Su questo fondamento, in quanto il linguaggio porta, cioè, iscritta
in se stesso la struttura antologica della presupposizione, il pensiero può
farsi immediatamente scrittura, senza doversi misurare con la cosa stessa
e senza tradire il proprio presupposto. Il filosofo è, anzi, lo scrivano del
pensiero e, attraverso il pensiero, della cosa e dell'essere. Il tardo lessico
bizantino che va sotto il nome di Suda alla voce Aristotele annota:
Aristate/es tes fuseos grammateus en ton calamon apobrechOn eis noun,
«Aristotele era lo scrivano della natura, che intingeva la penna nel
pensiero».
Molti secoli dopo, Holderlin cita inaspettatamente questa frase di
Suda in un punto decisivo della sua Anmerkung ·alla traduzione del
l'Edipo tiranno sofocleo, e, cioè, mentre sta cercando di spiegare il senso
e la natura della Darstellung, dell'esposizione tragica. La citazione con
tiene, però, un emendamento, del quale la pur diligentissima :6lologia
hé:ilderliniana non è riuscita a dar ragione. Holderlin scrive: tes fuseos
grammateus en ton calamon apobrechon eunoun (invece di eis noun):
«era lo scrivano della natura, che intingeva la penna benevola». Qui non
vi è più intingersi della penna nel pensiero: la pétlÌla-questo semplice
strumento materiale della scrittura umana-è ·sola, armata unicamente
della sua benevolenza, di fronte al suo compito. Rendere alla cosa stessa
il suo luogo nel linguaggio e, insieme, restituire la scrittura alla sua diffi
coltà, al suo compito poetico nella stesura-questo è il compito della
filosofia che viene.
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COL DOVUTO RIMBALZO
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senza. In questo senso ( come si diceva ) noi non abbiamo mai nell'espe
rienza uno spazio e un tempo oggettivi. Noi possi�mo dire : quell'evento
accadde tre giorni fa o tre mesi fa, in base ai nostri calcoli pubblici se
gnati su calendari e verificati mediante scrittura pubblica; ma nella con
creta esperienza ciò che ci capita è che eventi accaduti l'altro ieri o que
sta mattina sono del tutto scomparsi senza lasciar traccia, mentre altri
fatti accaduti magari cinque anni fa o quando eravamo ancora bambini
restano indelebili con noi, stanno efficaci nella presenza, continuano a
determinare le nostre risposte e, non a caso, abitano i nostri sog9 i e le
nostre fantasie. Non è che l'inconscio, come credono gli psicoanalisti nel
la loro rozzezza naturalistica, sia fuori del tempo ( del mondo ) : è che il
tempo del mondo non esiste, se non come astrazione dell'occhio e della
memoria pubblici-l'inconscio non ne è stato in-formato . Gli eventi delle
risposte attuali e potenziali che stanno nella presenza sono «noi», in
senso pieno e letterale, sono la nostra concreta esperienza : essi conti
nuano ad accadere e non hanno mai cessato di orlare il mondo per noi
e di determinarlo come nostro.
Tutte queste osservazioni le possiamo ovviamente applicare anche
all'esempio del bambino, il quale non è sul seggiolone e si immagina la
pappa, il che lq mette di buon umore: questa è la nostra indebita descri
zione «esterna ». Essa può andar bene per gli scopi immediati dei geni
tori, ma non insegna molto sulla concreta esperienza del bambino e sul
suo diventare via via il nostro bambino. Il quale, per dirla in sintesi,
non è il soggetto della sua fame e della sua allegria, ma solo il luogo di
accadimento di risposte determinate, di un rispondere e corrispondere
come piangere, ridere, battere le mani e simili. Sicché dovremmo anche
dire che il bambino, come il cane, non pensano , se pensare è far uso di
segni pubblici con i loro oggetti pubblici ( a cominciare da quell'oggetto
e luogo che chiamiamo «io» ) : essi non possono formulare pensieri né
porsi come soggetto di quei pensieri. Ma questa è però una concezione
assai ristretta ( anche se convenzionalmente legittimà) di ciò che noi chia
miamo pensiero ; ed è da tale ristrettezza che derivano le tradizionali
difficoltà : come la parola, questo segno convenzionale, può dire le cose,
cioè esprimere eventi del tutto eterogenei? Ma se noi guardiamo l'espe
rienza sulla base dd concreto rispondere e corrispondere, in base a ciò
che «si è pronti a farè », allora anche il cane, che ha tra le sue risposte
la fuga di fronte al bastone, è in un processo di pensiero, sebbene non
linguistico e non concettuale; e lo stesso è da dirsi del bambino . Questo
modo di vedere, assai più concreto e legittimo, non presuppone che il
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pensiero sia un processo che sta dentro la testa ( chissà come, dove, e
che vuol dire che c'è un «dentro» della testa ) , ma si attiene all'orlo
.
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teso quel che vuoi, quel che mi chiedi e quel che desideri da me, ma,
11uturalmente, a mio modo, restando io qui e tu lì, non diventando la
l. llll stessa richiesta e il tuo stesso desiderio. Perché io possa corrispon
,Jct.·c al tuo bisogno e accomunarmi alla tua richiesta devo anche in
qu olche misura dissociarmene. Se tu vuoi davvero la corrispondenza
,ldln mia risposta, devi anche volere che essa non si identifichi con la
dum n ntln : solo cosi mi puoi « avere» ( non avendomi mai ) . Ora, il pro
• l u t'lll ol'iginario non è mai già, né potrebbe essere, mano o bastone, ma
(l Il prodmsi della «loro» distanza: è da essa che emergono come mano
� hnHtonc. 'È quel tipo di distanza, che configura il bastone come affer
l'llhllc c la mano come ciò che gli corrisponde, ciò da cui è necessario
))lll'llrc per avere mani e bastoni. Si ha cosi il prodursi di una corrispon
dcn�n infinita, mai esauribile e sempre rinnovabile. Non si è mai finito
d l n(fc l.'l' O(C, il bastone non è mai afferrato adeguatamente una volta per
I I H I Cl .
Al t re d i N I'II I1��. c�serw:inll coHtitutive, s i manifestano in ogni gestua
e
H t � , I n IIHJll l;ll'll (�;mn. Se coruddcl'inmo Ol'll H guardare, anziché l'afferrare,
J)Oi t'(l/ll lll ll tlh•tt d1t: llnd"' Il QLlllnhu·è è un RJ:n f:cm ll che afferra , ma sotto
Il lWnfi lu dol111 JIHlll�ll Il lum�o. SI pub H t1 1mlnrc senza ve dere , sicché è
Holo ndl11 m e 8 H II n fu<JCtl che si determino lo risposta. Vi è il prodursi
l.l clh1 h t m l no11ii 1Ì dd visibile, o vi è il prodursi del mondo in sembianza
di vlrdhllc. Ltl rbpostn ordina il visibile a partire dal suo orlo produ
cen t e , dnl s u o «1mnto zero», cioè dalla sua prospettiva, e in tal modo
Il vmJnto è poRtO n distanza. Il corrispondere è la natura semidrcolare
!Hc.11ltm di qucrHo orJinare in primi, secondi, terzi piani, collocati nelle
lmo eo"tltu tivc distanze .
Tm to il contratio accade invece nel gesto dell'ascoltare. Qui non vi
� oku n punto zero a partire dal quale si ordinerebbe il mondo in sem
blM1V.!\ tisonnnte. L'ascoltato non è posto a distanza dalla risposta, ma
o Jnvc<:c l'ascoltante che è posto a distanza. In questo grafema origi
lllttlo nccndc un essere invasi da ogni lato. Nella visione un raggio pro
*Pt!tt lco s t abili sce la messa a fuoco; qui è l'ascoltante che è nel fuoco
di tmw�n lenzc diverse. Pensiamo alla posizione inerte dell'infante nella
<!�1l111 : egli subisce le piccole e grandi aggressioni foniche del mondo ri
HOM11 tc c circostante. Nell'ascolto è quel che si produce che ha una sua
dbtnnzn e provenienza e l'ascoltante non può render piccolo un rumore
gt·ondc o render grande un rumore piccolo ( sebbene impari più tardi,
co.mc si dice, a fissare l'attenzione, ma con limitazioni non oltrepassa
bili ) . Nella dimensione originaria e sorgiva l'ascoltante emerge dislocato
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solo «grafico » (nel senso del di-segnare il mopdo , il corpo e la loro rela
zione) , è anche « autografico» . Che accade quando il tatto si tocca, la
vista si vede, l 'udito si ode ecc . ? Si tratta di analisi già in parte svolte
dalla tradizione, da Teofrasto a Condillac, a Husserl, a Sartre.
Diciamo in generale che il tatto è ciò che tocca essendo toccato :
tocco il bastone e mi sento toccato da lui . Ma che accade se, con un
esempio ben noto, con una mano mi tocco l'altra ? Allora anche là dove
mi sento toccato, sento contemporaneamente che tocco . Un duplice de
corso di eventi si intreccia e si compone : la mano che tocca�do si sente
toccata e la mano che , essendo toccata, sente che tocca. Questa pecu
liarità squisitamente autografica del toccare è determinante per delimi
tare e orlare il corpo vivente proprio, per definirlo e determinarlo : io
sono propriamente là (fin là) dove toccando mi sento toccare e mi sento
toccante là dove mi tocco . I paraggi corporei, distinti dalle circostanze
del mondo , si arrestano qui . Dal che deriva anche la misteriosa estra
neità delle «interiora» che , salvo casi eccezionali, non tocco e non sento
toccare. Le circostanze del mondo stanno già piantate nel più « interno»
dei paraggi corporei intrecciandovi l'enigma della vita e della morte . In
virtù del fatto per cui io sono fin là dove toccando mi sento toccante,
non ho da temere che, se uno bussa alla porta, io ne avverta un dolore .
Ma la minaccia del dolore come manifestazione della estraneità del più
intimo, come sorgiva presenza del mondo che ha già da sempre invaso
i miei paraggi, incombe nello sfondo di ogni istante .
Il decorso autografico della vista presenta a sua volta peculiarità es
senziali, costitutive dell'immagine del sé (si pensi alla cosiddetta fase
dello specchio in Lacan). Ma dobbiamo tralasciare tali analisi per con
centrarci invece su ciò che qui è per noi più essenziale : come è auto
fonico l'udito ? lo non mi ascolto ascoltare e non mi odo udire, cosl
come mi sento toccato e toccante . L 'udito non ha la pregnanza autogra
fica del tatto, né l 'evanescenza immaginante della vista . Al suo interno
però si staglia, come sua particolare manifes.tàzione, il fenomeno della
voce che apre per noi un campo di osservazioni straordinarie .
· Il gesto vocale appartiene ai grafemi dell'udire, cioè alla provenienza
dal mondo che disloca e colloca il grafema corporeo in un suo dove, in
un suo essere circostanziato. Ma il gesto vocale sembra anche smentire
questa peculiarità generale dei grafemi acustici : esso ha infatti un 'inne
gabile spontaneità che lo avvicina al gesto visivo . La voce sembra scatu
rire a sua volta da un punto zero affine al punto zero della visione . Ma
poi c'è anche di più .
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già una funzione auto-oggettivante. È cosl che ,si apre per l'emittente la
possibilità di venir reso oggetto del suo stesso gesto, cioè di riconoscersi
e di sapersi appunto come emittente.
Ma che accade nel momento in cui il gesto vocale trova risposta in un
altro gesto vocale? Che accade quando l'emittente non è più soltanto
una «vox clamans in deserto», ma il deserto risponde ?
Prima di tutto prendiamo in considerazione quella che potremmo
definire la risposta generica al gesto vocale. Tale gesto è in tensione
verso una risposta ( intende una risposta), l'ha di mira come risP,osta diffe
rente dal gesto vocale . Per esempio: il bambino piange e viene preso in
braccio. Piangere allora «vuoi dire» venir presi in braccio . La risposta
si ripercuote sull'emittente che d'ora in avanti «sa» di esser colui che
piangendo viene preso in braccio, e ne profitterà ben presto . Non sol
tanto cioè il bambino si sente parlato, o gridato, dalla sua stess::t voce,
ma per di più questo esser gridati-gridanti trova risposta nel venir presi
in braccio. Il gesto vocale non nomina e determina più soltanto me ( l'e
mittente dapprima inconsapevole) , ma nomina ed evoca anche la risposta
corrispondente, che cosl determina a sua volta la tensione (l'intenzione)
dell'emittente (per esser presi in braccio bisogna gridare) . È qui l'origine
del significare della parola, origine che precede la langue come sistema
convenzionale di segni.
·
Che accade però nel momento in cui il gesto vocale suscita una ri
sposta specifica (cioè un altro gesto vocale) ? Ciò che accade è che con
questo gesto si intende, si vuol dire, il medesimo.
In genere è peculiare di ogni gesto o grafema ( compreso il gesto
vocale teso verso una risposta generica ) il non intendere il medesimo.
Se il bambino alza le braccia per esser preso in braccio, ciò che questo
gesto intende non è che noi, per tutta risposta , alziamo a nostra volta
le braccia. Cosl pure se piange non intende che la risposta sia un altro
pianto. Tuttavia si danno qui alcuni casi particolari che sembrano dap
,
prima marginali, rispetto al nostro problem'ìi , e che invece ci condur
ranno proprio nel cuore di esso.
Chiediamoci ad esempio: che accade quando lo sguardo vuole incon
trare lo sguardo? Ecco un gesto che, contrariamente a quanto si è detto,
vuole proprio il medesimo. Lo sguardo che mira a esser guardato vuole
qui la stessa cosa (il medesimo di sé nella risposta) che vuole il gesto
linguistico che miri a una risposta linguistica. Anche il tatto presenta
esempi analoghi : nel porgere la mano intendo che si risponda il mede
simo, cioè con una stretta di mano, e spesso nell'accarezzare si accarezza
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Col dovuto rimbalzo
per essere accarezzati . Più del tatto, però, è proprio lo sguardo che si
intreccia al gesto vocale che mira al medesimo : il guardarsi negli occhi
è un comportamento che accompagna in modo preminente il conversare .
C'è però un elemento essenziale che distingue il guardare e il parlare e
che è determinante per chiarire la natura del grafema vocale.
Nella reciprocità dello sguardo che chiede il medesimo (ti guardo
perché voglio esser guardato da te) ciò che non accade è che tale gesto
possa mai sollevarsi a un'oggettività sua propria . Nella reciprocità dello
8guardo i guardanti sono chiusi in una loro esclusività e privatezza; è
un fatto che li concerne e che resta tra loro, che non è né noto né
pubblico . Certo che questo fatto può essere scoperto o, come si dice,
smascherato : all'amante geloso non sfuggono eventi del genere : -Vi
stavate guardando ! Un terzo indiscreto può scoprire il fatto che due si
guardano, può aggettivarlo e tenderlo pubblico. Ma questa possibilità
non fa che ribadire e confermare che il gesto del guardarsi, questa inten
zione di identità nelle risposte, è un fatto privato , un atto a due, una
corrispondenza biunivoca. L'intenzione è originariamente «coperta» e
perciò può essere «scoperta» . Nel guardarsi reciproco c'è un'intenzione
di intimità.
Che accade invece nel gesto vocale diretto a una risposta specifica ?
L'evento che si produce non è privato. Gli innamorati in pubblico si
guardano lungamente, ma parlano poco tra loro, oppure bisbigliano ; se
si telefonano si nascondono dietro le porte . Essi infatti sono ben consa
pevoli che questa, che dovrebbe essere una comunicazione privata, per
la natura stessa del gesto vocale non lo è: essa è e diventa inevitabil
mente pubblica, aperta di principio a tutti. Il gesto vocale è essenzial
mente oggettivo , universale , anonimo. È ancora per questo che noi spe
rimentiamo talora una caratteristica difficoltà: -Non mi vengono le
parole. La parola infatti ha una sua imponenza, genera timore e imba
razzo : una volta detta è detta . C'è molta più intensità nello sguardo, c'è
un'indeterminatezza carica di significato, e tuttavia non compromettente
sino in fondo . Il gesto vocale ha meno intimità e intensità, perché si può
dire con uno sguardo dò che la voce non potrà mai esprimete; ma put
con questa minore intensità, la voce ha una sua ingombrante oggettività .
Ciò che viene detto acquista un rilievo che prima non aveva (e del resto,
come si era notato , il gesto vocale fa apparite }'«inaudito» , crea ex nova,
dando consistenza a ciò che prima non era magari neppure avvertito) .
C'è un personaggio di Stendhal che guarda la donna di cui è inn amorato
mentre si allontana con un amico ; essi sono semplicemente amici, ma
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Carlo Sini
egli, da buon geloso, ha intuito la possibilità � che vi sia altro nei loro
rapporti, forse lo ha colto nei loro taciti sguardi ancora inconsapevoli,
e allora dice a se stesso : -Se ora uno dei due pronuncia la parola «amo
re» io sono perduto. La parola rende pubblicamente consapevoli i due
di ciò che essi magari sentono oscuramente, ma ancora non sanno : essa
dà un nome, una fisionomia e un'essenza a eventi indeterminati e confusi .
La parola, una volta pronunciata, acquista una valenza pubblica, rim
balza autografìcamente sui soggetti che l'hanno pronunciata e li rende
autoconsapevoli : trasforma due amici in amanti. Per sua essenp il gesto
vocale è un grafema che si solleva al di sopra degli emittenti e rimbalza
in essi , ma non solo in essi : il gesto crea fenomeni «per tutti» , per un
«sé» universale . In tale grafema accade cosl una dislocazione infinita
mente possibile di poli autoriflessivi. Questo è finalmente il principio
stesso dell 'intersoggettività, che ora sta dispiegato davanti a noi, come
conseguenza e prodotto della natura stessa del gesto vocale.
Tale principio va ora approfondito e chiarito con alcune osservazioni
che a loro volta si rifanno alle peculiarità del grafema vocale.
La prima osservazione concerne la «contemporaneità della voce». Da
un certo punto di vista è il tatto il gesto che possiede la massima con
temporaneità. Che fanno due persone che si amano e che si incontrano
dopo una separazione? Si gettano l'uno nelle braccia dell'altro . Esse si
conducono così nella massima contemporanea presenza, entro i limiti
dei paraggi corporei e dei connessi adombramenti ( se ti stringo alla vita
non ti stringo alle spalle ecc.). La presenza reciproca è condotta alla
minima possibile distanza. Tuttavia, una reciprocità soltanto tattile ha
i limiti delle sue stesse virtù : essa è, per dir così, troppo vicina. Dopo
essersi tumultuosamente abbracciate, vediamo le due persone separarsi,
allontanarsi, guardarsi negli occhi; infine, calmatesi un po' e ripreso il
dominio di sé, cominceranno a conversare. Per la pienezza di reciprocità
complessiva si esigono altre distanze, con le quali il tatto muore : esso
non tollera che nemmeno un passo ci divida { ina la vista invece lo ri
chiede, e anche la vista ha una sua peculiare contemporaneità, con una
potenza di istantaneità anche maggiore. Sicché si arriva sovente a solu
zioni di compromesso : ci teniamo per mano e ci guardiamo . Ma la con
temporaneità della vista è poi continuamente minacciata dai suoi adom
bramenti, cioè da continue interferenze dell'intenzionalità del raggio vi
sivo e dal suo stesso irrequieto stancarsi. Contrariamente al tatto, essa
è troppo lontana : non si è mai a fuoco nel punto giusto e il fuoco sfugge
sempre .
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Col dovuto rimbalzo
Sia il tatto sia la vista promanano, come sappiamo , dal punto zero
della mia spontaneità corporea. Che accade invece con la voce che, in
certo senso, premana «da fuori» ? Proprio la voce incarna la massima
circostanzialità, cioè contemporaneità, possibile. Anche la voce ha ovvia
mente i suoi limiti, i suoi adombramenti : se siamo a cinquanta passi non
riesco a udirti. Però la voce crea una contemporaneità allargata, ogget
tiva, relativamente indipendente dal mio punto zero . La voce che risuona
ci oggettiva tutti insieme, in una contemporaneità che nessun altro gesto
potrebbe mai raggiungere. Ci si tocca e ci si guarda a due per volta; in
vece il gesto vocale arriva a tutti, è «per tutti» , è oggetto di tutti. Biso
gna anzi dire, in modo originario e come abbiamo ormai compreso, che
è col gesto vocale, e solo con esso, che il «tutti» emerge, si manifesta e
�i pone nella presenza.
Ma il gesto vocale (seconda osservazione) possiede anche un altro
li po di contemporaneità: la parola si intrama e si intreccia con tutti gli
n l t t'l flCSti in modi peculiari. La voce infatti non «disturba» gli altri ge
rH I . Ancht ques ti si associano tra loro : guardiamo e insieme tocchiamo ;
l ltll qurWI IIN�od nzionc nasce per lo più da u n bisogno di reciproco con
t rullo dd HCH ti , non da una contemporaneità libera e sciolta, come ac
l'Hlie '}tlnl ldo mi n nno do la cravatta e intanto parlo con un amico di questo
� tl l q u d ! o . 11 fìlo della parola continua n tesser e le sue trame : l'uomo
)Hltln Hcmprc , hn el etto I-Ieicleggcr ; nell'uomo di continuo «si parla», sia
che veu11 811\ cht: dormn. C 'è u n n V()Cc che non tace e non desiste dal
11\ ll l �e•tlt:ohu•e Il t'Il l'IO IlO l'O l! mn t�llcm�ioso . È in questo senso che l'uomo
�diOiQtU ntl l lnQlii1Hf4lt), Il f(rnfcma vocale tiene in presenza : esso è
JU'O�rllltnOOttl J1 (!t'il fCl dell'« esscre». La voce «è» (dice ciò che è, che è
JH'tlHtlllte) , Hlcché l'«è» <1: più originario dell '«io sono» . Questo fatto è
fla1nlmentc chiarito in modo risolutivo . È l'«io sono» che deriva dall'«è» ,
(!lltnè rimbalzo e risposta al gesto vocale che dice ciò che è presente per
1\\tt i . È in questo fatto che la metafisica (e quindi anche la scienza) ha
I l HUO fo11damento di verità, sebbene essa non sappia pensarne la natura
u ln genesi , e quindi anche il limite . La metafisica deriva da un rimbalzo ,
ltlll non sa stare nei limiti della giusta risposta, della dovuta distanza,
doè non sa corrispondere al proprio rimbalzo.
Ln questione dell'essere e della sua «verità» regge da sempre le sorti
ddln civiltà occidentale; ma tale questione si radica nella specificità della
voce , nella sua capacità di dire ciò che è «per tutti» e di tenere il detto
udln contemporaneità della presenza per tutti . La verità è cosl a dispo
t�lzlone di tutti coloro che parlano in nome dell'«è», di ciò che «è in
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Carlo Sini
comune» : essa compete agli uomini «logici»� La voce pone tutti allo
stesso livello , e anzi pone i «tutti» accomunati dalla voce «logica» :
pone il «noi» di un rispondere intersoggettivo che ognuno, rimbalzando
in sé l'universalità del gesto, può incarnare (ciò che è detto a te e a me
è detto idealmente a tutti, tutti possono farsene carico e disporvisi).
Ognuno è parlato dalla voce, è il detto della voce, e ha un essere per
ché ha l'essere della voce che lo parla.
Terza osservazione : la massima genericità del gesto vocale. Se è vero
che per lo più non si guarda per esser guardati e non si tocq per esser
toccati (salvo casi particolari come quelli già esaminati), nel caso del
gesto vocale tale osservazione vale come regola pressoché sovrana. Anche
nel caso della risposta specifica, il gesto vocale intende sempre altro dal
gesto vocale . La parola non mira ad altre parole, non se ne appaga né
si realizza in esse. Il singolare fascino dei personaggi di Beckett sta
proprio nel loro contravvenire questa regola generale : essi parlano al
solo scopo di far rumore, conversano senza altra finalità o esito ulte
riore . Ciò non accade a caso : i personaggi di Beckett sono uomini che
hanno perduto ogni intenzionalità o senso pubblico ; essi vivono sull'ul
tima spiaggia del nichilismo occidentale, cioè non dimorano più nel
l'essere e nel logos. Essi hanno letteralmente perduto l'essere, la verità
universale per tutti, e perciò , coerentemente, non hanno più la parola,
la parola veritativa e sensata che dice per tutti; hanno bensl la voce
(come gli animali, o certi animali, secondo Aristotele) , con la quale, es
sendo <mmani», dicono ; ma non dicono nulla.
Il gesto vocale intende sempre altro perché gli è costitutiva una
caratteristica povertà e genericità di oggetti. Il tatto ha i suoi definiti
oggetti (non generici e non scambiabili) , il gusto anche e cosl via. Non
posso assaporare un cibo solo guardandolo , · toccandolo o facendone una
descrizione . Il gesto vocale invece, anche se richiede un altro gesto vo
cale come risposta, non ha in questo il suo oggetto . Esso infatti non ha
oggetti specifici e solo cosi li ha genericamerlt� tutti. La funzione ogget
tivante del gesto vocale ha una massima povertà, ma anche, per contrap
peso, la massima estensione e autonomia . È libero e disponibile per tutti
gli oggetti, in quanto li assume «per tutti».
Da ciò deriva la capacità, tipica del gesto vocale, di indicare e di
evocare (nominare) l'assente. Si è sempre pensato che questa sia ap
punto la peculiarità e la ragion d'essere del linguaggio , ma lo si è pen
sato in modo superficiale e anche erroneo . Siccome io non posso portare
un cavallo in carne e ossa in questa stanza e indicarlo «ostensivamente»
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Col dovuto rimbalzo
con la mano , allo ra uso, d'accordo con voi, un suono vocale conven
zionale. Ecco a cosa serve il linguaggio, perché è nato e perché i suoi
segni sono convenzionali . Ancora oggi c'è chi ripete questa banalità. La
parola è significativa perché sta al posto della cosa che non c'è : intesa
pratica come un qualsiasi accorgimento gestuale o mimica facciale dei
giocatori di briscola . Solo che, già per potersi «accordare», noi dovrem
mo avere il linguaggio . Ma il fatto fondamentale è che la cosa della pa
rola è assente anche quando, per ipotesi, la cosa stessa sia presente. La
presenza qui di un cavallo non renderebbe meno assente l'oggetto della
parola <<cavallo» . E inoltre noi non potremmo avere alcuna «cosa» nella
presenza, alcun «cavallo», se già prima non si fosse per noi aperto lo
spazio della parola e della nominazione, il suo gesto peculiare . Le cose
si manifestano nelle parole e non prima di esse, cosl che noi possiamo
stabilire dei segni che vi rimandino .
Per cogliere l '«assenza» che appartiene al gesto vocale (gesto massi
mamente generico e massimamente oggettivante) , bisogna anzitutto ri
cordare che la voce (come ogni fenomeno acustico) chiama «da fuori» o
da «altrove», rispetto al dove in cui essa risuona. È quell'altrove che
costituisce il mio dove autografico, nel suo «sé» e nel suo «essere». È
per questo motivo che l' «anima» è caratteristicamente assente, non sta
in alcun luogo , non è identificabile in alcuna parte del corpo né in un
altro dove : il bisturi non la potrà mai trovare, né nella testa, né nel
cuore, né nel fegato . Essa infatti è invisibile, impalpabile, ecc., sebbene
sia udibile (per es. come «voce della coscienza» e simili). L'anima è in
fatti il di fuori autoriflesso, autografico, è la voce che risuona panacu
sticamente come «è», rimbalzata sull'emittente e cosl «interiorizzata»,
resa « soggetto » .
A questa caratteristica assenza dell'anima . corrisponde l'assenza del
l'oggetto della voce : il di fuori che risuona da altrove è infatti un «per
tutti», né mio né tuo né suo (anzi , « miO» e «tuO » ne derivano, come
poli dell'esplosione panacustica della risposta rimbalzante) . Per questo
Husserl poteva scoprire, nel più intimo me stesso, nella più riposta
egoità, la presenza dell'«altro generalizzato» (come diceva Mead), ovvero
del «noi». Nella più profonda interiorità io sono come tutti (contraria
mente a ciò che crede Heidegger, e prima ancora Kierkegaard o Pascal ) ;
più esattamente : sono u n « tutti». Questa era del resto l a grande sco
perta di Socrate, che sta all'origine della filosofia e del pensiero <<logi
co», razionale : che c'è, risuona, nel più intimo, una voce che parla e
dice il vero e il bene «in sé», cioè universale; vale a dire : «per tutti».
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crede Heidegger .
Ma il punto per noi più significativo è il seguente : quando nella ri
sposta, che rimbalzando tiene a distanza il mondo e cosl lo controlla, si
incunea la voce, il linguaggio , allora il linguaggio esercita il suo con
trollo, il suo trattenere e differire nella voce, cioè il suo tenere massi
mamente presente l'assente, il nulla, evocandolo . Il linguaggio evoca
l 'effetto pubblico del rimbalzo della voce ed è proprio in questo modo
che il linguaggio esplica il massimo controllo dell'esperienza (degli eventi
grafematici complessivi e specifici) . Non soltanto , infatti, il linguaggio
tiene a distanza cosl come può fare il tatto , l'udito o lo sguardo, diffe
rendo un poco e per un poco : fa molto di più, poiché differisce per
principio e per sempre. Il linguaggio, evocando l'oggetto, l'assente per
definizione che come tale è nel nulla (è nulla) , trascende l'esperienza e
ogni esperienza . Il rimbalzo del linguaggio va al di là, proietta al di là,
in un «oltre» generalizzato.
Il controllo esercitato dal linguaggio, in quanto esso evoca l'espe
rienza intersoggettiva e pubblica dell'oggetto, si esercita anzitutto sui
«Sé». Nella sua genesi e origine il sapersi controllare è soprattutto un
sapersi comportare . Ciò nel senso preciso della parola : sapersi portare
con , cioè tenersi insieme nell'intersoggettività, accoglierla rispondendo
n essa, essere in presenza come intersoggettività incarnata. Il linguaggio
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te) : la morte è il fatto più proprio ; essa è mia e solo mia, e in tal modo
è un'esperienza autentica che si contrappone all'inautentico « si dice»
della voce e della chiacchiera quotidiana. Ci sono qui intuizioni e nota
zioni fenomenologiche profonde, ma alla base non vi è la comprensione
che io posso trovare il sapere della morte come costitutivo del mio più
proprio solo perché io sono anzitutto costituito dal sapere pubblico che
è fondamentalmente sapere di morte, rimbalzo intersoggettivo del nome,
provenienza dell' « altro» generalizzato . Né si deve accettare la mortuaria
e melodrammatica concezione secondo la quale la morte è ciò che dà sen
so ( autentico) all'esperienza: essa dà senso, certamente, all'esperienza in
tersoggettiva (poiché addirittura la costituisce) , ma l'esperienza inter
soggettiva non è tutta l'esperienza né tutto il senso dell'esperienza , e
neppure l'esperienza che dapprima ci costituisce nel rimbalzo di sé. Nel
toccare del tatto, nel guardare dell'occhio, nel gustare della bocca, pro
prio in questo toccare e vedere de-finiti e perfetti ( mancanti di nulla) , la
risposta e il rimbalzo non alludono alla morte, non hanno il senso della
morte e non sono (nella morte) . Proprio in queste esperienze, innume
revolmente rinnovantesi, noi siamo nel più proprio e nel più autentico .
È qui che sempre ci accade !'«incanto» dell'esperienza che non ha biso
gno di «sapere» , che ignora i «misteri», e che perciò sfugge la morte,
poiché non la conosce e, appunto, la ignora. Più tardi, quando il sapere
avrà imposto le sue interpretazioni , quell'esperienza continuerà a fron
teggiarla e a tener desto il senso della vita, rendendo l 'uomo , non solo
capace di morire, ma anche e in senso nuovo, capace di vivere . La morte
è il più proprio dei sé pubblici; ma da un punto di vista non pubblico
la morte è appunto ciò che Epicuro aveva detto: l'inesperibile, l'inespri
mibile , ciò che non c'è e che mai mi appartiene .
È il linguaggio nella sua funzione concettuale , quindi, che dice la
morte e anzi, senza esagerazione, che dà la morte . È cosl che il lin
guaggio rende l'uomo l'essere che dà e che riceve la morte; e quindi
anche l'essere che perciò la differisce e la controlla con la parola : con
la legge della parola la quale dice, come tutti sappiamo, «non uccidere» .
Dire questo è dire la legge . Dire la legge è dire questo .
Cosl come il sapere della morte è il sapere pubblico per eccellenza,
è il sapere che fa nascere l'intersoggettività (non c'è intersoggettività
senza riconoscimento del mortuum) , altrettanto dobbiamo dire : non c 'è
legge, non c 'è consorzio o comunità umana, non ci sono regole, nemmeno
quelle linguistiche , se non a partire da questa voce che tiene a bada la
morte, anzitutto tra uomo e uomo . È per questo che l'uomo si sente,
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come già diceva Esiodo, al di sopra degli uccelli e delle fiere, cioè della
«natura» . La morte data all'uomo è la negazione stessa della partecipa
zione al sé generalizzato, alla vox et salus publica.
Questa legge è e resta il sovrano fondamento . Nessun in-fondato è
possibile o è pensabile qui, nessuno s-fondamento o simulacro di fonda
mento, secondo le formule oggi di moda, ma prive di pènsiero e inca
paci di pensare . Questa legge è la ragione (ratio essendi), la ragion d'es
sere in senso letterale e compiuto, ragione cui non può capitare alcuna
«crisi» o «declino», che nessuno può indebolire o rafforzare. ,Già dire
è dire la legge, sicché nessun dire è un dire, se si propone di 'negare la
legge, ovvero è un dire che letteralmente non sa quel che si dice. Que
sto non significa affatto che gli uomini, sapendo ciò, non uccidano o non
uccideranno . La legge anzi dice proprio il contrario : che l'uomo è l'es
sere capace di morte e di dare la morte, capace di innocenza e quindi
anche non innocente, l'essere, come dicevano i greci, più terribile.
L'uomo del logos, l'uomo che più di ogni altro ha saputo assumere
il punto di vista panoramico del sé generalizzato, della ragione univer
sale a tutti comune (come diceva Kant ), si trova più di ogni altro esposto
all 'ambivalenza della legge : proprio nel tenere più di ogni altro a bada
la morte, controllando il suo comportarsi, il suo essere-con l' « altro» che
ha interiorizzato dalla vox publica, proprio quest'uomo investe del suo
sapere di morte l'intera esperienza . Egli si pone cioè in un cammino che
sempre più riduce l'intera esperienza all'astrazione del concetto, al nulla
della morte . Il concetto, per così dire, sfida la natura nel suo immagi
nario sogno di morte. Esso differisce la morte nell'intersoggettività pub
blica, esorcizzandola nel nome, nella fama, nel ricordo ; poi sfida la
stessa natura ( o ciò che esso chiama «natura»), relegandola nel senza
legge e nell'insignificante (nell'accidentalità del corpo e delle risposte
irresistibili, nel «senza senso » ) . Proprio così, di fatto, il concetto diffe
risce per quanto può la morte , esercitandone il controllo pubblico e isti
tuendo il sapere come « s alute pubblica» (estreÒza dispiegata del sapere
tecnologico contemporaneo in cui si compendia l'antico sapere metafisica
dell'anima) . E naturalmente il sapere come controllo della morte ha la
sua faccia complementare e corrispondente nel sapere come controllo
delle nascite, abolizione, per quanto è possibile , delle risposte irresisti
bili, loro programmazione e previsione; e inoltre sapere come pre-scienza
del sesso del nascituro, e poi del suo carattere e dei suoi tratti somatici,
sino alla programmazione del sé generalizzato in serie, con corpi-stru
menti idonei.
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NOTE SUL SENSO
l . Il tema dominante
*
Tratto da De Dieu qui vient à l'idée, Libr. Phil . J. Vrin, P aris , di prossima
pubblicazione presso la Editoriale Jaca Book, Milano .
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Note sul senso
al sapere ? Anche se tutto finisce per sapersi, non pensiamo che il sapere
sia il senso e il fine di tutto.
2. Il pensiero dell'adeguamento
... die Intentionalitat wird befragt, worauf sie eigentlich hinauswill. Formale
und transzendentale Logik, Max Niemeyer, Balle, 1929, p. 9.
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Note sul senso
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Note sul senso
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3. Al di là dell'intenzionalità
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Note sul senso
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Note sul senso
la sua mira violenta gli fa trovare la linea secondo cui la morte colpisce
con precisione imparabile il volto del prossimo, tracciata come traietto
ria del colpo assestato e della freccia che uccide . Violenza omicida il cui
significato concreto non si riduce alla negazione-già pura qualità del
giudizio--la cui intenzione si compie, senza dubbio prematuramente,
attraverso l'idea di annientamento, così come si riduce troppo rapida
mente alla visibilità, alla fenomenalità-all'apparizione di una forma nel
contenuto di un insieme, sotto il sole e le ombre dell'orizzonte-la nu
dità o l'esposizione senza difesa del volto, il suo abbandono · di vittima
lasciata sola e la rottura delle forme nella sua mortalità.
Ma questo di fronte del volto nella sua espressione-nella sua morta
lità-mi convoca, mi interroga , mi e sige : come se la morte invisibile a
cui sta di fronte il volto altrui-pura alterità separata, in qualche modo ,
da ogni insieme-fosse affar mio. Come se, ignorata da altri , a cui già
nella nudità del suo volto essa inerisce, essa «mi guardasse» prima di
riguardarmi, prima di essere la morte che sconvolge me stesso . La morte
dell'altro uomo mi mette in causa e in questione come se di questa morte ,
invisibile all'altro che vi si espone, io diventassi, con la mia indifferenza,
il complice ; e come se, ancor prima di esserle votato io stesso, dovessi
rispondere di questa morte dell'altro e non abbandonare altri alla soli
tudine . È proprio in questo richiamo della mia responsabilità attraverso
il volto che mi convoca, mi interroga, mi reclama, è in questa messa in
questione che altri è prossimo.
È a partire da questa prospettiva, tesa fino alla spoliazione, fino alla
nudità e al senza-difesa del volto, che abbiamo potuto una volta affer
mare che il volto dell'altro uomo è, nello stesso tempo, la mia tenta
zione di uccidere e il «tu non ucciderai» che già mi accusa o mi sospetta
e mi turba, ma insieme già mi interroga e mi reclama . È a partire dalla
mortalità dell 'altro uomo--piuttosto che a partire da una qualunque
natura o destino, comune immediatamente a <<noi altri mortali»--che la
mia non-indifferenza ad altri ha il significato irriducibile della socialità
e non è subordinata alla priorità del mio essere-per-la-morte che misu
rerebbe ogni autenticità, come vorrebbe Sein und Zeit dove l'Eigent
lichkeit-e nulla mi sarebbe più proprio, più eigen della morte-scopre
il significato dell'umano e della sua identità.
Questa maniera di reclamarmi, di chiamarmi in causa e di appellarsi
a me, questa responsabilità per la morte altrui, costituisce una signifi
canza irriducibile a tal punto che proprio a partire da essa il senso della
morte dev 'essere inteso, al di là della dialettica astratta dell'essere e della
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Emmanuel Lévinas
sua negazione con cui, a partire dalla violenza pprtata fino alla negazione
e all 'annientamento, si dice la morte. La morte significa nella concretezza
dell'impossibilità di abbandonare l'altro alla sua solitudine, nell'impedi
mento di questo abbandono . Il suo senso comincia nell'inter-umano. La
morte significa originariamente nella prossimità stessa dell'altro uomo o
nella socialità .
È a partire da qui che la speculazione, nelle alternative che essa sol
leva senza poterle risolvere , presenta il mistero della morte .
La responsabilità per l'altro uomo, l'impossibilità di lasciàrlo solo
davanti al mistero della morte è, concretamente-attraverso tutte le mo
dalità del dare-la suscepzione del dono ultimo di morire per altri . La
responsabilità non è qui una fredda esigenza giuridica . È tutta la gra
vità dell'amore del prossimo--dell'amore senza concupiscenza-cui si
appoggia il significato ultimo del termine adoperato e che presuppone
tutte le forme letterarie della sua sublimazione o della sua profanazione .
4. La questione
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Note sul senso
5. A-Dio
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Emmanuel Lévinas
o fraternità, che non è sintesi . Responsabilità p,er altri , per il primo ve
nuto nella nudità del suo volto . Responsabilità al di là di quanto io posso
aver commesso o meno nei riguardi d'altri e di tutto ciò che avrà potuto
o non avrà potuto essere mio operato, come se io fossi votato all'altro
prima di essere votato a me stesso. In un'autenticità che precisamente
non si misura con ciò che mi è proprio--con l'Eigentlichkeit--con ciò
che mi ha già toccato, ma con la gratuità pura verso l'alterità. Responsa
bilità senza colpevolezza in cui sono tuttavia esposto a un'accusa che
l'alibi e la non-contemporaneità non potrebbero cancellare e come se essi
la stabilissero . Responsabilità prima della mia libertà, prima di' ogni co
minciamento in me, prima di ogni presente. Prima, ma in quale passato ?
Per nulla nel tempo precedente quello attuale in cui io avrei contratto
qualche impegno . La mia responsabilità per il primo venuto rimande
rebbe allora a un contatto, a una contemporaneità . Altri non sarebbe in
questo caso, dove rispondo di lui; il primo venuto, sarebbe una vecchia
conoscenza . La responsabilità per il prossimo è prima della mia libertà
in un passato immemoriale, non-rappresentabile e che non fu mai pre
sente, più « antico» di ogni coscienza di . . . Sono impegnato nella respon
sabilità per altri secondo lo schema singolare disegnato da una creatura
che risponde al fiat della Genesi, che ascolta la parola prima di essere
stata mondo e al mondo .
La diacronia radicale del tempo, che resiste alla sincronizzazione della
reminiscenza e dell'anticipazione, ai modi della rap-presentazione, è slan
cio di un pensiero che non ingloba un contenuto , che è pensiero per . . . ,
che non si riduce alla tematizzazione,
. al sapere adeguato all'essere della
coscienza di. . .
Ma il vincolo di questo «profon d jadis» dell'immemoriale mi rag
giunge come ordine e domanda, come comando, nel volto dell'altro uomo,
di un Dio che «ama lo straniero » , di un Dio invisibile, non tematizza
bile che in quanto quel volto si esprime, e di cui la mia responsabilità
per altri testimonia senza riferirsi a una precederit�- percezione . Dio invi
sibile che nessuna relazione potrebbe raggiungere perché egli non è il
termine di alcuna relazione , foss 'anche intenzionalità, perché precisa
mente egli non è termine ma In6nito . Infinito al quale io sono votato
da un pensiero non-intenzionale la cui devozione nessuna preposizione
____: eanche la «a» alla quale noi ricorriamo-saprebbe
della nostra lingua____n
tradurre . A-Dio il cui tempo diacronico è la cifra unica, insieme devo
zione e trascendenza . Non è certo che la nozione di «Cattivo infinito» di
Hegel non ammetta alcuna revisione .
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Note sul senso
6. Il senso dell'umano
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Emmanuel Lévinas
7. Il · diritto di essere
66
Note sul senso
8. Soggezione e primogenitura
67
Emmanuel Lévinas
ma senza colpa di cui possa ricordarsi e prima di aver preso alcuna deci
sione, né compiuto alcun atto libero e, di con�eguenza, prima di aver
commesso alcun fallo da cui potrebbe derivare questa responsabilità :
responsabilità di ostaggio fino alla sostituzione all'altro uomo . Nel libro
x delle sue Confessioni Sant'Agostino oppone alla veritas lucens la veritas
redarguens-la verità che accusa o che rimette in questione . Espressioni
considerevoli per la verità in tutto quanto risvegliano allo spirito o allo
psichismo umano . Io pre-riflessivo nella passività del sé: è solo attraverso
il sé, attraverso l'io-in questione che è possibile concepire questa passi
vità, più passiva di ogni passività, più passiva di quella che nel mondo ,
resta la contro-parte di Ùna azione qualsiasi in cui anche sotto forma di
materialità, offre già una resistenza, la famosa resistenza passiva .
Responsabilità d'ostaggio fino alla sostituzione all'altro uomo , infi
nita soggezione . A meno che questa responsabilità preliminare o anar
chica-vale a dire senza origine in un presente-non sia la misura o il
modo o il regime di una libertà immemorabile , più antica dell'essere ,
delle decisioni e degli atti . Grazie a questa libertà, l'umanità in me, cioè
l 'umanità come io , nel suo a-Dio , significa-malgrado la sua contingenza
antologica di finitezza e l'enigma della sua mortalità-una primogeni
tura e, nella responsabilità inalienabile, l 'unicità dell'eletto . È questa
l'unicità dell'io . Primogenitura 2 ed elezione, identità e priorità di una
identificazione o di un'eccellenza irriducibili a quelle che possono ca
ratterizzare o costituire degli enti-all 'interno dell'assetto del mondo-
e le persone nel ruolo gioqtto sull a scena sociale della storia come perso
naggi , cioè nello specchio della riflessione o nella coscienza di sé. Devo
rispondere della morte degli altri prima di dover-essere. Non è questa
un'avventura che coglie una coscienza che, fin dall 'inizio e subito, sarebbe
sapere e rappresentazione conservando così la sua certezza nell'eroismo
dell'essere-per-la-morte in cui essa si afferma come lucidità e come pen
siero che pensa fino alla fine; non-autoctonia nell'essere che non è una
avventura che coglie una coscienza che, fin nella sua finitezza, è ancora
2
Abramo, padre dei credenti, in Genesi ( 19, 23-32) interviene a favore di So
doma pur ricordando di essere «polvere e cenere». Un apologo del Talmud ( sota)
ricorda che l' «acqua lustrale», che in Numeri 19 purifica le impurità dovute al
contatto o alla vicinanza dei morti, è un ' acqua alla quale sono mescolate, secondo
il rituale , le ceneri di una «vacca rossa» bruciata. Il rito di purific azione si riferisce
dunque alla perorazione di Abramo. L'umanità di Abramo è più forte della sua
propria morte. Abramo non sarebbe stato intimidito dalla propria mortalità che
lnvocn nella sua preghiera per intervenire contro la morte dell'altro uomo.
68
Note sul senso
3
Sul passaggio dal «per-l'altro» all'equità della giustizia si veda Altrimenti che
essere o al di là dell'essenza, tr . it . di M.T . Aiello e S. Petrosino, Jaca Book, Mi
lano 1983, p. 201 .
In proposito, sotto forma di apologo biblico, ricorderò i libri che sembrano
costituire la «bibbia>> del mondo letterario contemporaneo : l'opera di Kafka. Al di
là dei labirinti e delle impasses del Potere, della Gerarchia e dell'Amministrazione
che fanno smarrire e separano gli uomini, ciò che si manifesta in quest'opera è il
problema della stessa identità umana messa in questione sotto l'accusa senza colpe
volezz a, il problema del suo diritto all'essere e dell'innocenza dell'avvenire stesso
dell'avventura dell'essere.
69
Gianfranco Dalmasso
CONSULERE VERITATEM .
SOGGETTO DEL DISCORSO
E SOGGETTO DELL'ETICA
IN AGOSTINO
l
« Potrà ri s u tar e a sufficienza, nel corso stesso di
quest'opera, che non sarebbe possibile contraddire
o
con giustizia il carattere obbligante del n stro sforzo »
( De Doctrina christiana. Prologo )
Del resto designare è forma antica di disegnare ( Cfr. G. Battaglia, Grande di
zionario della lingua italiana, UTET, Torino 1961, v. V I , pp. 649).
71
Gianfranco Dalmasso
72
Consulere veritatem
cosa che « eccede » chi parla. Il significato implicato dalla parola e dal
linguaggio è cosl originariamente connesso con la que s tion e della tra
smissione della verità. Ogni domanda è essenzialm ente un tentativo di
accordo fra il docere e il dicere. Ciò implica che ci sia fin daLl'inizio un
accordo nel linguaggio : nessuno scambio è possibile se non attraverso
l'identificazione reciproca di due universi di linguaggio 5•
Ti pare dunque che l a parola non sia stata istituita s e non per inse
gnare o richiamare alla memoria 8? -
Cfr. J. Lacan, Il seminario. Libro I. Gli scritti tecnici di Freud, ed. it. a cura
73
Gianfranco Dalmasso
Credo che tu non sappia non esserci per altro comandato di ,pregare
nella nostra cameretta chiusa, col quale nome si intendono i fienetrali
dell'anima, se non perché Dio non vuole insegnamenti né richiami nme
monici con le nostre parole per concedere a noi ciò che desideriamo 9 •
La tealtà insegnata dalle parole eli quel parlante che è Cristo nel
nuovo soggetto cristiano, cosl 1stituito ( « non ti muove dunque il fatto
che il sommo Maestro, insegnando a pregare ai di�cepoli, insegnò certe
determinate parole, col che non pare altro volesse fare che insegnare co
me si debba parlar,e pregando ? » ), avverte chi debba pregare e di che si
debba pregare.
Ibii., p. 6.
1o Ibid., pp. 7-8 .
n Ibid . , p. 8.
12 Cfr. Sofista, 261 e-264 d.
13 G. Dalmasso, Il ritorno della tragedia. Essere e inconscio in Nietzsche e 111
74
Consulere veritatem
1
4 De magistro, cit., pp. 8-17.
5 e
1 Ma anche in questo caso il problema appare irri solvibile sembra molto dif
ficile scalzare il privilegio del segno. Cfr. ibid. , pp. 16-17.
16 Parola è nel De magistro « tutto ciò che sia pronunciato con la voce ed abbia
un qualche significato ».
17 lbid. . o. 27.
75
Gianfranco Dalmasso
18•
Per un verso dunque Iii par-ola ha u n ampiezza maggiore del nome
'
La p arola è essa stessa segno del nome che è già segno di segno. Si trat
ta di un intl'eccio inestricabile perché, d'altra parte, il nome è segno
della parola. Per altro verso il nome stesso è nominato e la situazione
teo rica che si sedimenta da queste complicate analisi « linguistiche » è
data da una struttura per cui il nome è un segno che significa anche se
stesso 19• C'è dunque per Agostino un intreccio originario fra il parlare
2
come tale e la nominazione 0• In questo abisso che si apre fra ·il nome
e il parlare ne va di chi parla e del che ne è del parlare: problema che
muove l'intera analisi agostiniana sul segno e che la org,anizza :demar
candola sia da un progetto meramente « tecnico » di ,analisi del linguag
gio sia da un'attitudine astrattamente speculativi!. Anzi il percorso del
testo, secondo quanto Agostino s te s so dichiara 1n un punto nodale del
dialogo , mira ad un ob ie ttivo decisivo quanto all'esistenza UllliUla co
me tale.
Si tra tta comunque del probl ema di essere condotti (perduci) con la
considerazione non « rerum » ( quae signifìcantur ) ma « signorum » alla
vira beata e sempiterna 22 •
Nella seconda parte del dialogo la questione della significazione è
affrontata dal punto di vista del rapporto fra il signum e la res, fra il
segno e la realtà.
19 « Vi sono dunque tali segni che fra le altre cose che significano signilicano an
76
Consulere veritatem
Agostino : Ora rispondi a questo, se chi insegna che cosa sia insegna
re lo fa adoperando segni o in altro modo.
Adeodato : Non vedo come potrebbe farlo in altro modo .
Agostino : È falso, dunque, ciò che poco prima hai de tto cioè potersi
quando si domandi che cosa ·sia lo stesso insegnare, insegnare tale cosa
senza segni, poiché vediamo che neppur questo si può fare senza l'uso
di segni, avendomi tu concesso che altro è adoperare segni, altro inse
gnare. Se sono due cose diverse, e questo non si mostra se non per quel
lo, vuoi dire che non si mostra certamente per sé, come ti era sembrato .
Dunque non abbiamo finora trovato nulla che possa essere mostrato per
se stesso, ecce tto la parola, la quale fra le altre cose significa anche se
stessa: ma essendo anche essa un segno, nulla ancora risulta che paia
potersi insegnaTe senza segni 26•
cendo altra cosa, qualcuno domandasse che cosa sia camm in are, e io subito cammi
nando mi sforzassi d'insegnarglielo o di mostrarglierlo senza segno, come potrei
evitare che egli creda che camminare sia quel tanto che io avrò camminato? Il che
se egli crederà, sarà ingannato perché non crederà che cammini chi camminasse più
o meno di quanto io abbia cammin ato » ( ibid., p. 77).
25 Cfr. ibid. , p. 77.
26 Ibid., p. 80.
77
Gianfranco Dalmasso
gnare nulla : se invece so già di che cosa sia segno, che cosa imparo per
mezzo suo ? . . . Perciò piuttosto, conosciuta la còsa, s 'impara il segno
che, dato il segno, s'impara la cosa 27•
78
Consulere veritatem
31 « Dice infatti il profeta: se non crederete non comprenderete, il che certo non
avrebbe detto se non avesse fatto nessuna differenza fra le due cose. Quello adunque
che comprendo, lo credo anche ; ma non tutto ciò che credo anche lo com prendo.
Tutto quello che comprendo lo so, ma non tutto quello che credo lo so » (ibid . ,
p. 92). Cfr. anche, s u questa te.matica, L . Al ici, I l linguaggio come segno e come
testimonianza. Una rilettura di Agostino, Studium, Roma 1 976, pp. 164 sgg.
32 De magistro, eit., p. 92.
79
Gianfranco Dalmasso
cerniera e iJ. movimento del gioco stesso del segno : esso non è una realtà.
l
tutta piena, che precede il segno, ma è piuttosto un lavoro di consulenza,
di traduzione, una pratica che precede ed eccede un'intenzione ed una
rappresentazione che la coscienza potrebbe dominare.
2. Parlare e consulere
80
Consulere veritatem
Quale grafico può tenerli tutti insieme? Quale pensiero può abb.r:acciare
il loro movimento reciproco ? Consulere . veritatem » : è un problema ,
<�
35 De m agistro , cit., p. 93 .
36
Il termine mens in Agostino, tradotto spesso con spzrzto indica l'attività co-
sciente dell'uomo : nel linguaggio contemporaneo il tennine può essere tradot to con
« coscienza ».
37 Cfr. le prime tre pagine del n libro dell a De libero arbitrio, in cui è esplicita·
mente affennato che l'io è comunque « mor ale », in un modo costitutivo della sua
esistenza. « Visto che si può operare rettamente o peccare, si dà volontà libera . . . ».
39 lbid ., p. 95.
81
Gianfranco Dalmasso
se poi non le ha mai percepite , chi non vede ch e gli , piuttosto che im
'
40 Cfr. ibid.
41 De trinitate, tr. it. di G. Beschin, Città Nuova Editrice, Roma 1973, pp. 3 79-
381.
42 De magistro, cit., p. 95.
82
Consulere veritatem
della coscienza, della mens. Il discorso nel suo costituirsi 1mplica piut
tosto il problema di chi parla e del p erch é si parla. Senza il « chi » e il
« perché » il parlare non si costituirebbe, perché parlare è già da sem
pre prendere posizione. La necessità del credere dipende da questa inti
ma struttura del discorso.
43 Ibid. , p. 99.
44 Cfr . ].L . Schefer, L'invention du corps chrétien, Galilée, Paris 1974. L'autore
conduce una brillante analisi sulla struttura delia « retorica » agostiniana ed evi
denzia gli stretti rapporti fra lo stile del testo del De trinitate e lo statuto teorico
del discorso agostiniano. Cfr. in particolare le pp. 41-57.
83
Gianfranco Dalmasso
··� fhftl, �11 1 l'tll tl'l 'l t ll bìhlico c patristico di immagine e di uomo « a immagine
84
Consulere veritatem
Ecce ego qui hoc quaero. ( Pensa te a me, a me che cerco questo) 48 •
Qual è il punto sorgivo, che cosa rende possibile questo io? Cioè
Agostino che parla e che s 'intermga sul suo stesso parlare e su come
possa comprendere . Questo problem a non può avere risposta se non
introducendo una struttura che Agostino chiama amore. E di cui va
vista la novità.
Quando amo ci sono tre cose : io, ciò che amo e l 'amore stesso. lnf<J.tti
non amo l 'amore se non lo amo a m ante , perché non c'è amore dove
nulla è amato 49•
Ecoo dunque tre cose : colui che ama, ciò che è amato e l amore ' .
Ma che dire se non amo che me st e sso ? Non ci saranno solo due oose : ciò
che amo e l'amore ? Quando si ama se stessi, colui che ama e ciò che è
amato sono la stessa co sa ; come amare ed essere amato sono allo stesso
modo la medesima cosa quando qualcuno ama se stesso . Si esprime due
volte la medesima cosa, quando si dice : ama se ste sso ed è amato da sé 50•
85
Gianfranco Dalmasso
Allora amare non è cosa diversa che essere amato, proprio come colui
che ama non è diverso da colui che è amato. Ma resta tuttavia che
l'amore e ciò che è amato anche allora sono due cose 51•
51 Ibid. , p. 357.
52 Ibid.
86
Consulere veritatem
Ora amar.e se stesso ed amare il proprio amore sono due cose diver
se. L 'amore inf11tti non si ama , se esso già non 11tna qualcosa, p erch é
dove non si ama nulla, non c'è amore 55 •
Si apre qui la que s tione del rapporto fra ciò che è amato ( che nel
caso dell'amare sé co incide con il chi ama ) e l'amore .
Queste due cose dicono r elazione mutua l 'una all 'altra, perché colui
che ama dice r el azione all ' amore e l'amore a colui che ama 56 •
54
« Dove trovare dunque una trinità? Concentriamo il più possibile la nostra at
tenzione e imploriamo la luce eterna di illuminare le nostre tenebre e vediamo in
noi, per quanto ci è concesso, l'immagine di Dio » ( i bi d. , p. 367 ) .
55 Ibid.
5!i Ibid.
57 Cfr. ibid.
87
Gianfranco Dalmasso
una trinità : per individuare anch e solo somm ari amente le linee dell a
concezione agos tiniana dell ' io , concezione secondo cui l'io non è in
almn modo ogget to .di un sapere che lo pos sa rappresentare e dominare
o di un pensiero dialettico, bisogna vedere più dappre sso il rapporto fra
il cono s cer e e l'amare come esso funziona nell'attività dell'io.
61 ?
Che ne è dello spirito che vuole conos cere se stesso
Lo spirito non si conosce come gli o cch i del corpo in •uno specchio .
È difficile per lo spirito conosc ers i e Agostino tenta in ques to modo di
aggirare la difficoltà :
Sarà forse nella ragione della verità eterna che lo spirito vede quanto
è bello conoscersi, ama ciò che vede e si sforza di re alizzarlo in sé, in
quanto sebb ene .non conosca se s tes so , conosce almeno quanto è bello
che ·si co nosc a ? Ma è certamente ben strano che esso non si conosca
ancora e conosca quanto sia bello che si conosca 62•
ss Ibid. , p. 3 69.
59 Cfr. ibid. , pp. 369·3 7 1 .
60 Cfr. ibid. , pp. 373 segg.
61 Ibid. , p. 40 1 .
62 Ibid. , cfr. nota 66.
63 « Ma dove conosce esso la sua conoscenza, se non si conosce? Sa di conoscere
altre cose, ma non conoscerebbe se stesso? Ma è in sé che conosce che cosa sia
conoscere. In che modo dunque si conoscerebbe come conoscente qualcosa, esso
che ignora se stesso? Infatti non è un altro spirito che conosce come conoscente, ma
88
Consulere veritatem
manca ciò che viene cercato, non se stesso che cerca, che è tutto pre
sente 64• Manca quindi se st·esso in quanto è ciò che viene cercato-.
O manca una prurte di sé, il che significa che lo spirito sa che è un
tutto ciò di cui una parte mrunca.
E cosl cerca ciò che manca alla sua conoscenza come siamo soliti
fare ritornare nello spirito ciò che è caduto in dimenticanza, ma non
del tutto, perché si può riconoscere, quando ce se ne ricorda, che era
proprio quello che si cercava . :M:a come può venire lo spirito , nello spi
rito, come se potesse non essere nello spirito ? Aggiungiamo a questo
che se, trovatosi parzialmente, non si cerca tutto intero, tu tt avia è tutto
intero a cercare se s tesso . Esso è dunque tutto intero presente a se stesso
e non c'è alnro che si debba cercare: manca infatti ciò ch·e viene cercato,
non esso che cerca. Quando dunque è tutto intero a cercar.e se stesso,
niente di .sé gli manca. O se non è tutto intero a cercarsi, ma è la parte
di esso, che si è trovata, che cerca la parte che non si è ancora trovata,
allora lo spirito non cerca se stesso , perché nessuna p ar te di esso è
5
oggetto della sua propria a.-i ce rca 6 •
se stesso. Conosce dunque se stesso. Quando poi cerca di conoscersi, esso si cono
sce già nell'atto di cercare. Esso si conosce già, dunque. Perciò non può affa tto
ignorare se stesso, lo spirito che, anche quando si conosce, come non conoscente
se stesso, per questo stesso fatto si conosce. Se ignorerà che si ignora, non si cer
cherà per conoscersi . Per questo il fatto stesso che esso si cerca è la prova che esso
è a se stesso più noto che sconosciuto. Infatti si conosce come cercante e non cono
scente se stesso, quando cerca di conoscersi » ( ibid. , p. 403 ).
64
" Che diremo dunque? Che in parte si conosce, e in parte si ignora? Ma è as
surdo affermare che non è tutto lo spirito a conoscere ciò che sa. Non dico : "cono
sce tutto " , ma " ciò che sa è tutto lo spirito a s aperlo " » ( ibid. ).
65 Ibid. , p. 405.
65
Ibid. , la sottolineatura è mia.
89
Gianfranco Dalmasso
La forza dell 'amore è tale che quelle cose alle quali lo sptnto ha
pensato a lungo, compiacendosene, ed alle quali si è legato con il glu
tine della soHecitudine, esso le trasporta con sé anche quando rientra
in sé, in qualche modo, per pensarsi. E poiché quelle cose che per
mezzo dei sensi della carne ha amato all'estlerno sono corpi, e si è
mescolato ad essi per una specie di lunga familiarità, né può portare i
co11pi con sé, nel suo intemo, in ciò che è come la regione dell� natura
spirituale, esso rigira in sé le loro immagini e trascina queste i�magini
fatte in se stesso di se stesso. Esso infatti dà ad esse nel formarle qual
cosa -della sua propria �ostattl z a, però conserva la facoltà di giudicare
liberamente .tali immag ini; questa faooltà è propriamente lo spirito
( mens), cioè l'intelligenza razionale, che resta come principio di giu
dizio 68•
7
6 Cfr. ibid., pp. 405407.
68
Ibid. , p. 407.
69
Cfr. ibid., p. 4 17.
90
Consulere veritatem
70 Ibid., p. 443 .
71 Vedi E. Gilson, Introduzione allo studio di Sant'Agostino, Marietti, Casale
Monferrato 1984, pp. 99-120.
72 VPrl1 RPir1'1rf1'1f1nfii P r ?
91
Gianfranco Dalmasso
di queste rtre parole, riteniamo che si deve dare un'idea della trinità
dello s.pkito : memoria, intelligenza, volontà 74•
Agostino mette in atto una concezione dell'io per cui ogni pro getto
di tipo « cartesiano » è battuto in breccia: non è contemplato, nella
strategia agostiniana del soggetto, uno slittamento che conduca a un :
« pénso dunque sono ». È piuttosto in un « mi ricordo (cioè mi com
p rendo e mi amo ) dunque sono » che il soggetto . si impianta.
Questa struttura del ricordo significa che l'Jo, anche in termin i natu
rali, è « imm agine di Dio », in quanto è « capace di Dio ».
se contempliamo ciò, vec!Jamo una trinità che non è certo ancora Dio ,
ma già immagine di Dio. Non è dal di fuori che la memoria ha ricevuto
ciò che deve conservare, né dal di fuori che l'intelletto ha trovato ciò
che deve contemplare, come. fa l'occhio del cotpo ; né questi due ele
menti la volontà li ha uniti all'esterno, come unisce la forma del corpo
alla fo11I11 a che la riproduce nello sguardo di chi vede , né, quando il
pensiero si è volto verso la memori a , vi ha trovato l'immagine di una
cosa vi,sta al dl fuori , tra&portata in qualche modo nel segreto della
a
memoria per informare lo s gu rdo di colui che ricorda, mentre la
volont à , come terzo elemento, unisce l'uno 75• all'al-t;t:o,
Tale funzionamento Agostino lo aveva illu strato nel libro dodice
simo a proposito della trinità nelle realtà corporee e nel libro tredice-
92
Consulere veritatem
76 Ibid.
77 Cfr. ibid., p. 585.
78 Cfr. ibid. , p. 583 .
« In quanto incomincia ad esistere nell'anima, che era già un'anima prima che
93
Gianfranco Dalmasso
94
Consulere veritatem
(Soliloqui)
84 Ibid. , p. 589.
85 Ibid.
95
Gianfranco Dalmasso
i
Ch unque di noi legge, si sforza certam ente di penetrare e compren
dere l'intenzione dell'autore che l eg ge e quando lo crede veritiero, non
,
osa p ens a re che disse cosa da noi conosciuta o r�t�uta falsa. Mentre ,
dunque, ciascuno si sforza d'intendere le sacre scrifture secondo le inten
zioni del loro scrittore, che male c'è se vi •scopre un'intenzione che tu,
luce di ·tutte 1e menti veritiere, mostri per vera sebbene non fu l'inten
zione dell 'autore ? Eppure fu anch 'egli nel vero, pur avendo un'inten
zione diversa da questa 8 7 •
86 Confessioni, tr. it. di C. Carena, Città Nuova Edi tri ce , Roma 1965, p. 428.
87 « Cosl quando uno dice : "la su a idea fu l a mia", e un altro: "no,
Ibid. , p. 429.
bensi la mia" ; io rispondo con spirito, credo , più religioso : "perché non piuttosto
ambedue, se ambedue sono vere? E se altri scorgesse nelle stesse parole una terza,
96
Consulere veritatem
una quarta, e ogni altra verità, perché non dovremmo credere che quegli le vide
tutte, se l'unico Dio se ne servi per adeguare gli scritti sacri a molte intelligenze,
che vi dovevano vedere sensi diversi e veri ?". Io, lo dichiaro intrepidamente dal
fondo del mio cuore, se giungessi al vertice dell'autorità e dovessi scrivere qualcosa,
vorrei senza dubbio scrivere in modo che nelle mie parole echeggiassero tutte le
verità che ognuno potesse cogliere in quella materia, anziché collocarvi con discreta
chiarezza un solo pensiero a esclusione di tutti gli altri, che pure non mi urtassero
con la loro falsità » ( ibid., pp. 445-447).
88 Il concetto di testo sembra fare perno, secondo le acute analisi di Pepin ( « Re
cherches augustiniennes », 1958, l, pp. 243-286), sul concetto di allegoria. Per Ago
stino l'allegoria è una struttura di discorso che pennette di distinguere i degni e
gli indegni. Tale distinzione si riferisce all'intreccio. fra il comprendere e la moda
lità di rapportarsi alle parole del testo (cfr. ibid. , p. 247 ). Cfr. anche G. Ripanti,
Il problema della comprensione nell'ermeneutica agostiniana in « Revue cles Etudes
August:iniens », xx ( 1974), pp. 88-99.
97
Gianfranco Dalmasso
Il suo stile semplice coinvolge rutti gli uomini di modo che non
contenta di nutmli di una verità chiara, essa anchè li esercita attraverso
i suoi mist'<l!'i , se:nza che il contenuto dei suoi brani accessibilri sia diverso
da quello dei suoi insegnamenti nascosti 89 •
Il senso del testo e l'atto del conferire tale senso devono costituirsi
in dipendenza dal J:litmo e dal modo di costiruzione del testo. Che il me
todo con cui Dio parla sia allegorico significa per Agostino che non solo
le parole del testo, ma le stesse vite dei lettori sono allegorie ; dal mo
mento che il soggetto che legge e che presume conferire autonomarp.ente
il senso è esso stesso un" ingrediente, un elemento testuale : anch'esso
ne costituisce una parola 90•
Nel De ordine l'idea di tessitura di cui è fatto ogni discol'SO, ed anche
in modo essenziale e privilegiato il « discorso di Dio » , la Scritltura, è svi
luppata e fatta coioci:dere con l'idea di una tessitura che riguarda al
tempo stesso il linguaggio e i fatti ( natumli e umani). Per Agostino noi
siamo inseriti originariamente 1n un tessuto, in una trama, composta sia
di parole, sia di fatti. Questa idea è centrale nel De ordine e g1usta
mente Pepin la pone fra le idee fondamentali che stanno alla base dell 'in
tero pensiero agostiniano 91•
Affermare che la realtà ha un ordine significa pensare che ogni ente
e ogni esperienza sono legati gli uni con gli altri in un ordito, in un dise
gno per cui ogni ente è in un rapporto a ttiv o con gli aLtri enti. Il sapere
per Agostino fa tutt'uno co:11 il problelllil dell 'ordine. Senza un ordine la
t:ealt à, di cui facciamo esperienza, si distruggerebbe. Comunque essa si
presenta fatta, costruita in questo modo piuttosto che in un modo diverso
perché un determinato ordine, una certa trama di nessi, la organizza e la
tiene ,insieme così piuttosto che altrimenti . Questi nessi sono pensati
dalla filosofia e dall 'episteme come cause. Il sapere, che è scire per causas,
fa tutt'uno, dunque, in un certo senso con la verità, perché della verità
possiamo parlar·e come di un ordine che ci è dato e in cui siamo immensi 92•
98
Cons ulere ver it ate m
Possiamo a que sto punto riconoscere nella strategia trinitaria del sa
pere agostiniano il privilegio dato a quel concetto di ordine di cui ho
all'inizio accennato. La questione di un sapere oorne riconoscimento di
un ordine, si intreccia originariamente al problema dell 'etica. Il termine
ordinare presen ta infatti una duplicità prez io sa di senso , pres ente anche
nel l essico latino, dove significa « disporre » , as s egn ar e un posto, in un
senso che implica la decisione e il comando, oltre che una s]stemazione
di cose o persone secondo norm e .
99
Gianfranco Dalmasso
94 De ordine, tr. it. eli Gentili, Città Nuova Editrice, Roma 1 970, p. 265.
95 Ibid. , p. 277.
96 Ibid. , p. 289.
m Cfr. ibid. , p. 303.
98 L'ignoranza, quindi, hmgi dall'avvolgere e problematizzare l'ordine, ne è piut
tosto un ingrediente.
99 Cfr. J. Pepin, op . cit., in Chatelet, op . cit., v. II, pp. 49-50.
100
Consulere veritatem
100 Soliloqui, a cura di D. Gentili, Città Nuova Editrice, Roma 1970, p. 383.
1o1 Ibid., p. 383.
102 Ibid.
101
Gianfranco Dalmasso
O Dio, che abbiamo accolto per non soggiacere a morte totale . . . 103•
!
Di sfuggita Dom en ico Gentili, curatore dell 'edizione dei Solilo qui
nell ' Op era omnia, richiama la denuncia agostiniana del materialismo
epicureo e s toico 104• I l « materialismo » s embr a essere il « bor do » di
questo testo, il crinale del rapporto fr a la memoria e l o scrivere. Che cosa
è infatti scrivere, nell 'acc ez ione che qui Agostino esamina, se non assi
cu r are, garantire il rapporto fra l'io e il sapere ? S crivere significa in
questo senso dominare, tenere in pu gno il sapere. Ope r azione paradossale ,
perché questo dominio rhulta ultimamente impossibile : esso inwlaca
bilmen te f,allisce. L'imprèsa di un sapere, legato alla 1nteniorità ie all-a
memoria dell '[o, si infrooge nel suo funzionamento, nel muro di un'im
p ossibilità , di un'esteriorità incon troll abile , invincibile dall 'io e dall 'av·
ventUTa , necessariamente Lnteriore, del sapere . Per materialismo di Ago
stino intendo qui la dipen denz a dalle cose che non può essere ricol;ll
presa e riassunta nella luce della coscienza ( cioè dell a ragttone e dell a
libertà ) . Il materialismo è la linea di confi ne fra l'io e le cose, in cui
l'io si infrange . Il materialismo nei limiti e nell 'accezione di ques to ac
cenno di lettura , è il lato della mor te di qu es to rapporto fra l'io e il s aper e ,
è H lato della mor t e del rapporto fra chi sa e il sapere. E ss o è quindi la
memoria vista in se stessa: la memoria che ricade in se stess a .
O Dio che abbiamo accolto per non sog gi ac ere a morte totale . . .
! 03 Ibìd. , p. 387.
104 Cfr. Epicuro, Ep . a Erod. , 65 ; per gli stoici cfr. in Diogene Laerzio, 7, 156.
105 Se si dicesse : chi ricorda, l'attore della memoria è spirito e non materia, direb
be solo l'altra faccia di questo bordo che è la memoria. La struttura del testo di
Agostino non è afferrabile come un dibattito fra lo spirito ( libertà, trascendenza
sul visibile e sul mondo) e la materia ( condizionamento e trama cosmica, dipen
denza dalla trama mondana).
102
Consul�:1·e vel'ltll h11U
mente diverso che il possesso : sia wmc: Np h·l l o j to��"'""OI't! M Iii l'l'lll!r-1 Il !I li O
correlato che è la materia da cui si è posse d u t i .
Nello spazio tridimensionale ch e è il testo del So!Jioq/11 � dull l!m\ 1 11
una scena teatrale, la scena di un'azione. I due persttlliiBHl dd c h'll l l l ll lll
sono Agostino e la sua ragione, parti teatr,ali di un unk:o mov l mt�n to d1e1
è quello del lo go ( « all 'imp rovviso mi dis&e qualcuno, non so :;c.: Jo N 1 l•!iHO
o qualouno fuori di me o dentro di me . . » ) 106
• .
Non vedo come ciò possa avvenire . Non ho mai avuto nel pensiero
un oggetto tanto simile a Dio da poter dire di voler pensare Dio come
penso quell'oggetto 108,
103
Gianfranco Dalmasso
104
Consulere veritatem
Penso che, dopo aver saggiato, per quanto abbiamo potuto, tuth 1
concetti, non ci sia rimasto altro che si possa, a rigor di logica, definire
il falso se non dò che si assimila ad essere ciò che non è o in genere
che ha parvenza di essere e non è. Nel primo dei due concetti sono
inclusi tanto l'inganno quanto la finzione 116 •
Ma Ol'a che noi abbiamo visto che c'è sia il discorso falso che l'opi
nione falsa, ne consegue la possibilità che ci siano imitazioni delle cose
che sono e pure la possibilità che un'arte dell 'inganno risulti · dal modo
di agire di chi fa quelle imitazioni 1 1 7 •
115 Cfr . Sofista, 259c-260e. Cfr. G. Dalmasso, Il ritorno della tragedia. Essere e
inconscio in Nietzsche e in Freud, cit., pp. 22-24.
116 Soliloqui, cit., p. 45.3 .
117 Sofista, 264 d .
118 Cfr. Soliloqui, cit., p . 45.3 .
105
Gianfranco Dalmasso
I IV Ibid. , p.455.
uu Ibitl.
Ul (}1·, /hid. , pp . 455-457.
111 1 /1/d. , p . '1 57 .
IU f/11!1,
ì�. Vt-tll DI! i{llfllllltatc animae, De libero arbitrio.
106
Jacques Derrida
DI UN TONO APOCALITT I CO
ADOTTATO DI RECENTE IN FI LOSOFIA
107
J acques Derrida
tanta grazia, tanta grazia nel lavoro : alla prova della traduzione la grazia
sarebbe forse quando la scrittura dell'altro vi issolve, a momenti, dal
double bind infinito e inn anzitutto, tale è la condizione di dono, se ne
assolve, se ne libera, se ne alleggerisce o si dichiara innocente, essa, la
lingua di scrittura e quanto essa rappresenta, una traccia data che pro
viene sempre dall'altro, anche se non c'è . Dichiararsi innocente del dono ,
del dono donato, del donare stesso, è la grazia che io vi riconosco ora
e che in ogni caso vi auguro. Essa è sempre improbabile, non se ne fa
mai la prova. Ma non bisogna credere che accada ? Forse era ,questo,
ieri, la credenza s tessa . �Altro modo di dire : per quanto mi ave'te dato
in questi dieci giorni io non vi ringrazio soltanto, io vi perdono . Ma
chi può darsi il diritto di perdonare? Diciamo che per voi io chiedo il
perdono, a voi stessi per voi stessi.
Apokalupto fu senza dubbio un termine appropriato per gala . Apo
kaluptò, io scopro, io svelo, io rivelo la cosa che può essere una parte
del corpo, la testa o gli occhi, una parte segreta, il sesso o quanto ci sia
di nascosto , un segreto, la cosa da dissimulare, una cosa che non si
mostra né si dice, si indica forse ma non può o non deve essere esposta
di primo acchito all'evidenza . Apokekalummenoi logoi, sono discorsi in
decenti . Ne va dunque del segreto e dei pudenda .
La lingua greca si mostra qui ospitale verso il gala ebraico . Come ram
menta André Chouraqui nel suo breve Liminaire pour l'Apocalypse
giovannea di cui egli ha proposto di recente una nuova traduzione 1, la
Traduzione dal greco, beninteso, ma secondo coordinate che qui devo precisare,
nello stesso tempo perché. se ne parlerà nel corso della discussione e perché ne va
di ciò che si potrebbe definire l'appropriazione dell'apocalisse : è anche il tema di
questa relazione. Il tentativo molto singolare di Chouraqui consiste inso=a, per
l'Apocalisse di Giovanni come per il Nuovo Testamento in genere, nel ricostruire
un nuovo originale ebraico, sul testo greco di cui disponiamo, e a fare come se egli
traducesse questo testo originale fantasma di cui egli suppone che, linguisticamente
e culturalmente, ha dovuto già lasciarsi tradurre, se si p1,1.ò, dire in un senso larga
mente metaforico, nella versione greca detta originale. «La traduzione che io pub
blico, accresciuta con l'apporto delle versioni tradizionali, ha l'intenzione di ricer
care sotto il testo greco il suo contesto storico e il suo substrato semitico. Un tale
procedimento è oggi possibile ... ». Esso passa, secondo Chouraqui, attraverso una
«retroversione aramaica o ebraica» del testo greco trattato come un «filtro». Le
traduzioni storiche del Nuovo Testamento in aramaico o in ebraico avranno dunque
giocato qui un ruolo indispensabile, ma soltanto intermedio. << • • • anche se il testo
si esprime in greco e, per quanto riguarda Gesù, si fonda su un aramaico o un
108
Di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia
parola gala ricorre più di cento volte nella Bibbia ebraica. E sembra
esprimere in effetti l'apokalupsis, lo scoprimento, lo svelamento , il velo
sollevato sulla cosa : inn anzitutto, se cosl si può dire, il sesso dell'uomo
o della donna, ma anche gli occhi o le orecchie. Chouraqui precisa che
«si scopre l'orecchio di qualcuno sollevando i capelli o il velo che lo
copre per sussurrarvi un segreto, una parola cosl nascosta come il sesso
di una persona» . YHWH può essere l'agente di questo scoprimento. Il
braccio o la gloria di YHWH possono anche scoprirsi allo sguardo o al
l'orecchio dell'uomo. In nessun caso la parola apocalisse, conclude il
traduttore riferendosi qui tanto al greco che all'ebraico, ha dunque il
senso , che ha finito per assumere in francese e in altre lingue, di temi
bile catastrofe. Cosi l'Apocalisse è essenzialmente una contemplazione
(hazòn) [ e infatti Chouraqui traduce ciò che noi abbiamo l'abitudine di
chiamare l'Apocalisse di Giovanni con Contemplazione di Yohanan ] o
una ispirazione (neboua) per la vista, per lo scoprimento di YHWH e, qui,
di Yeshoua «il Messia)> .
parola di YHWH, cioè per essi tutta la Bibbia. È questa che si ritrova analizzando il
testo greco se si deve innanzitutto passare attraverso un filtro aramaico o quello
della traduzione dei Settanta. [ . . . ] A partire dal testo greco, conoscendo le tecniche
di traduzione dell'ebraico in greco, e le risonanze ebraiche dell a koiné, ho tentato
ad ogni parola, ad ogni versetto, di toccare il fondo semitico per poi ritornare al
greco che era necessario ritrovare, arricchito di una sostanza nuova, prima di pas
sare al francese» . Questo è il progetto, egli si appoggia ad una doppia autorità,
richiamando a turno la «quasi-unanimità degli esegeti» o «la grande corrente ecu
menlca», !'«ecumenismo delle originl». Per molteplici ragioni, non metterò in discus
sione direttamente l'autorità di queste autorità. Ma trattandosi di lingua, di testo,
d i avvenimento e di destinazione, ecc ., le questionl che porrò in questa relazione
non avrebbero potuto dispiegarsi se il fondamento di tali autorità si dovesse tenere
o! riparo nell'indiscutibile. Conseguenza secondaria di questa precauzione : non è
come ad una traduzione autorizzata che io mi rifarò spesso a quella di André
Chouraqui.
109
Jacques Derrida
padre o figlia di sua madre , l egli vede il suo sesso , l ella vede il suo
sesso : l è un incesto » . Ma la gravità terrificante e sacra di questo scopri
mento apocalittico non è minore, beninteso, quando si tratta del braccio
di YHWH, della sua gloria o delle orecchie che si aprono alla sua rivela
zione. E lo scoprimento non apre solamente alla visione o alla contem
plazione, non dà solamente a vedere, ma anche a udire .
Rinuncio per il momento a interpretare tutti i riscontri fra il gala
e l'apocalittico , l'ebraico e il greco . Questi riscontri sono numerosi e
110
Di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia
111
J acques Derrida
due volte in questo libretto di venti pagine; ogni volta questa morte
è associata all 'idea di una rivelazione soprannaturale, di una visione che
provoca un'esaltazione mistica o per lo meno un atteggiamento da visio
nario . La prima volta si tratta di una « comunicazione soprannaturale»
o di una «illu minazione mistica» (iibernatii rliche Mitteilung, mystische
Erleuchtung) che promette un sostituto o un supplemento, un surrogato
di oggetto conoscibile, «cosa che è allora la morte di ogni filosofia»
(«der Tod alter P hilosophie» ) . E verso la fine, Kant mette in guardia
contro il pericolo di upa «visione esaltata» (schwarmerische Yision )
«che è l a morte di ogni filosofia» (ancora una volta «der Tod aller
Philosophie») .
Il discorso di Kant è dunque contrassegnato dal tono che egli si dà,
dagli effetti che cerca, dalla sua vivacità-polemica o satirica. · È una
critica sociale e le sue premesse hanno un carattere propriamente poli
tico . Ma se egli deride un tono chè annuncia la morte di ogni filosofia,
non è il tono in se stesso a ritrovarsi schernito. D'altronde, che cos 'è
il tono stesso ? È qualcos'altro che una distinzione, una differenza to
nale che rinvia ormai solo in modo figurato a un codice sociale, a dei
costumi di gruppo o di casta, a delle condotte di classe, attraverso un
gran numero di collegamenti che non hanno più nulla a che fare con
l'altezza della voce o del timbro? Benché, come suggerivo proprio ora,
la differenza tonale non risulti come essenzialmente filosofica, per Kant
non è il fatto che vi sia del tono , un contrassegno tonale, che annuncia
a lui solo la morte della filosofia . È un tono determinato, una certa in
flessione socialmente codificata per dire tale o tal altra cosa determinat a .
L'altezza di tono che egli sotterra con i suoi sarcasmi resta un'altezza
metaforica . Queste persone parlano con tono elevato, questi altoparlanti
alzano la voce ma non lo si dice che per figura e per riferimento a dei
segni sociali . Kant non fa mai astrazione dal contenuto. Tuttavia, il
fatto · è lungi dall ' essere insignificante, la prima volta che un filosofo
prende la parola sul tono di altri sedicenti filòS ofi, allorché inaugura
questo tema e lo nomina nel suo stesso titolo, è per spaventarsi o indi
gnarsi davanti alla morte della filosofia . Egli mette sotto accusa coloro
che, per il tono che assumono e l'aria che si danno al momento di dire
certe cose, mettono la filosofia in pericolo di morte e dicono alla filo
tlofìn o ai filosofi l'imminenza della loro fine. L 'imminenza qui non im
porto meno della fine. La fine è prossima, sembrano dire, il che non
C!Mclude che essa abbia già avuto luogo, un po' come nell'Apocalisse di
Glovonnl l 'imminenza della fine o del giudizio finale non esclude un
112
Di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia
113
Jacques Derrida
che egli sembra situare quasi all'origine, cioè qqello per cui il nome di
filosofia può circolare senza il suo riferimento originario , intendete senza
la sua Bedeutung e senza la garanzia del suo valore. Rimanendo ancora
nell'assiomatica kantiana, in qualche modo si può già inferirne che nulla
di male sarebbe accaduto, nessuna speculazione mistagogica sarebbe
stata credibile o efficiente ; niente e nessuno avrebbe stonato in filosofia
senza questo errare del nome lontano dalla cosa, se il rapporto del nome
di filosofia col suo senso originario fosse stato assicurato contro ogni
incidente .
È stato dunque necessario un certo allentamento in questo rapporto
del segno alla cosa per preparare lo spazio di uno sviamento di senso o
l'appiglio per una perversione . Riferimento troppo labile, dunque, là
dove dovrebbe essere più stretto, teso, rigoroso. Vi espongo qui un'asso
ciazione che sembrerà forse verbale, ma essendo già nostra preoccupa
zione la mancanza di rigore o di ténsione nella verbalizzazione, mi viene
in mente che tonos, il tono ha dapprima significato il legamento teso, 1 a
corda, la fune quando è tessuta o intrecciata, il cavo, la cinghia, in breve
la figura privilegiata di tutto ciò che è sottomesso a strettura. Tonion,
è il legamento in quanto benda e fasciatura chirurgica. La stessa tensione
attraversa insomma la differenza tonica (quella che sotto il termine
strettura forma nello stesso tempo il tema e lo strumento , la corda di
Glas) e la differenza tonale, lo scarto, i cambiamenti o il mutamento dei
toni ( il Wechsel der Tane holderliniano che costituisce uno dei motivi
più ossessionanti de La carte postale) . Da questo valore di tensione , o
di forza (per esempio in una macchina balistica) , si passa all'idea di
accento tonico, di ritmo , di modo (dorico , frigio, ecc.) . L'altezza del
tono è legata alla tensione; ha un legame col legame , con la tensione
più o meno stretta del legame . Non basta per determinare il senso del
termine tono quando si tratta della voce . Ancor meno quando, con un
gran numero di figure e di spostamenti tropici , il tono di un discorso
o di uno scritto si analizza in termini di conten{h� , di modi di dire , di
connotazioni, di messa in scena retorica e di posa assunta, in termini
semantici, pragmatici, scenografici, ecc . , in breve raramente o per nulla
nell'ascolto di un'altezza di voce o di una qualità di timbro . Chiudo que
sta parentesi .
È dunque stato necessario che il legame che vincola il nome di filo
sofia al suo significato si allentasse perché il titolo filosofico fosse rego
larmente disponibile come un semplice ornamento, un decoro, un'accon
ciatura o un vestito di gala (Ausschmuckung) , un significante usurpato e
114
Di un tono apocalittico adottato di t·ccen r:c in filosofia
115
Jacques Derrida
mira l'altezza del tonQ di un nuovo ricco che si autorizza dandosi delle
arie e sfoggiando segni usurpati di appartenenza sociale . La satira prende
dunque di mira la mimica e non il tono stesso . Perché un tono può essere
mimato , finto , truccato. Arriverò a dire sintetizzato .
Ma che cosa suppone la finzione del tono? Fin dove può arrivare ?
Qui sto per forzare e accelerare un po' l'interpretazione al di là di un
commentario . Un tono può essere preso , e preso all'altro . Per cambiar
voce o mimare l 'intonazione dell 'altro, si deve poter confondere o in
durre una confusione tra due voci, due voci dell'altro e, necessariamente ,
dell'altro in sé. Come distinguere le voci dell'altro in sé? Invece' di im
pegnarmi direttamente in questo immenso problema, ritorno al testo
kantiano e ad una figura che sembra appartenere alla retorica corrente e
alle metafore cosiddette logorate. Si tratta della distinzione tra la voce
della ragione e la voce dell'oracolo (forse farò qui eco , senza essere certo
di rispondervi , all'interrogazione, all 'ingiunzione o alla domanda che
mi rivolgeva l'altro giorno Jean-Luc Nancy ) .
Kant è indulgente verso l e persone altolocate che s i danno alla filo
sofia, anche se lo fanno male, moltiplicano gli errori contro la Scuola e
credono di accedere alle vette della metafisica . Esse hanno un certo me
rito , hanno condisceso a mescolarsi agli altri e a filosofare «su un piano
di uguaglianza civile» (borghese, biirgerliche) . In compenso i filosofi di
professione sono imperdonabili quando giocano al gran signore e osten
tano grandi arie . Il loro crimine è propriamente politico e riguarda una
sorta di polizia . Più avanti Kant parlerà della «polizia del reame delle
scienze» (die Polizei im Reich der Wissenschaften) . Essa dovrà vigilare
per reprimere-simbolicamente-non soltanto gli individui che si am
mantano indebitamente del titolo di filosofo, si impadroniscono e si rive
stono del tono gran-signore in filosofia, ma anche coloro che si intrup
pano intorno ad essi ; perché questa boria con cui ci si installa sulle vette
della metafisica, questa arroganza ciarliera è contagiosa, dà luogo ad
aggregazioni , congregazioni e cappelle . Si potrebbe mettere in rapporto
questo sogno di una polizia del sapere con il progetto di tribunale uni
versitario presentato in Il conflitto delle facoltà . Esso era destinato a fare
da arbitro nei confutti tra la facoltà provvisoriamente inferiore, la fa
coltà di filosofia, e le facoltà cosiddette superiori perché rappresentano
il po tere di cui esse sono lo strumento uf!iciale (la teologia, il diritto e
la medicina) . Questo tribunale è anche un parlamento del sapere, e la
filosofia, che ha diritto di controllo su tutto ciò che riguarda la verità
delle proposizioni teoriche ( constatative) ma nessun potere di dare or-
116
Di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia
di Kant).
Poiché questa voce parla loro in privato, attraverso ciò che è pro
priamente il loro sentimento idiomatico , il loro desiderio o il loro pia
cere, essi le fanno dire ciò che vogliono . Alla voce della ragione , al
contrario , non si fa dire qualunque cosa. Sono le ultime parole del breve
scritto : la voce di un oracolo (die Stimme eines Orakels) si presta sempre
ad ogni sorta di interpretazioni (Auslegungen ). I preti mistagoghi sono
così degli interpreti ; l'elemento del loro potere agogica è la seduzione
ermeneutica o ermetica e pensiamo qui a quanto diceva Warburton del
potere politico dei preti-decifratori di geroglifìci e degli scribi nell 'antico
Egitto . Il tono gran-signore domina ed è dominato dalla voce oracolare
che copre la voce della ragione, o meglio vive a sue spese, la fa sviare
o delirare . Alzare il tono, in tal caso, è farlo saltare , è far delirare la
voce interiore che è la voce dell 'altro in noi . Delirio, ecco un termine
che appare una volta in latino, per citare il verso di un monaco del
Medioevo ( Quaerit delirus, quod non responde t H omerus) e un'altra
volta, nella traduzione francese che trovo qui un po' forzata ma inte
ressante per un termine che mi interessa ancor più e che è Verstimmung.
Verstimmung der Kopfe zur Schwl:irmerei, Guillermit traduce ciò con
«delirio di teste che si esaltano» ed ha ragione . Il tono gran-signore si
autorizza con un salto mortale, è anche l'espressione di Kant, un salto
dei concetti nell'impensabile o nell'irrappresentabile , un'anticipazione
oscura del segreto misterioso venuto dall'al di là. Questo salto verso
l'imminenza di una visione senza concetto , questa impazienza volta verso
il segreto più nascosto libera una sovrabbondanza poetico-metaforica .
Essa ha in tal caso una buona affinità apocalittica ma Kant non adopera
117
J acques Derrida
mai questo termine pel ragioni che potremo intravvedere tra poco . Ver
stimmen , che Guillermit traduce non senza ragione con delirare, è innan
zitutto stonare, quando si parla di uno strumento a corde e, o ancora,
per esempio , di una voce . Ciò si dice normalmente di un piano . Meno
strettamente significa fuorviare, sconvolgere, confondere . Si delira quan
do si è sconvolti nella mente . La Verstimmung può giungere a guastare
una Stimm ung : il pathos, o l'umore che diventa allora cattivo. La Ver
stimmung di cui parliamo qui, è proprio un disordine sociale e uno
sconcerto, una stonatura .,delle corde e delle voci nella mente. I� tono
salta e si alza quando la voce dell'oracolo vi chiama da parte, vi parla
in un codice privato e vi sussurra dei segreti scoprendovi l'orecchio ,
confondendo, coprendo o sfruttando la voce della ragione che parla allo
stesso modo in ciascuno ed usa verso tutti lo stesso linguaggio . La voce
della ragione, dice Kant, die Stimme der Vernunft, parla a ciascuno senza
equivoco (deutlich) e dà accesso a una conoscenza scientiiìca. Ma è es
senzialmente per dare ordini e per prescrivere . Perché se avessimo il
tempo di ricostruire tutta la necessità interna e peculiarmente kantiana
d,i questo discorso , bisognerebbe penetrare l'estrema finezza dell'obie
zione fatta ai mistagoghi . Essi non confondono semplicemente la voce
dell'oracolo con quella della ragione. Non solo essi non distinguono tra
la ragion pura speculativa e la ragion pura pratica, ma credono di cono
scere ciò che è solamente pensabile e di accedere con il solo sentimento
alle leggi universali della ' ragione pratica. C 'è dunque una voce della
ragione pratica, ed essa non descrive nulla, non dice nulla di descrivibile,
essa detta, prescrive, ordina. Kant la menziona anche in latino : dictamen
rationis. Benché dia luogo all'autonomia, la legge che essa detta è così
poco flessibile, così poco sottomessa a interpretazione libera come se
pervenisse dal totalmente altro in me. È una «voce di bronzo», dice
Kant . Risuona in ogni uomo perché ogni uomo ha in sé l'idea del do
vere e vi risuona molto forte, vi bussa in maniera assai insistente ed
anche vi tuona poiché l'uomo trema (zittert) nell ;ùdire questa voce di
bronzo che, dall'alto della sua maestà, gli ordina di sacrificare le sue
pulsioni, di resistere alle seduzioni, di rinunciare ai suoi desideri. E la
voce non mi promette nulla in cambio, non mi assicura alcuna ricom
pensa. Essa è sublime in questo, ordina, manda, domanda, comanda
senza alcun contraccambio, tuona in me fìno a farmi tremare, solleva
così le più grandi questioni e il più grande stupore (Erstaunen) . Ecco il
vero mistero , Kant lo chiama anche Gebeimnis, ma non è più il mistero
dei mistagoghi . È il mistero insieme domestico, intimo e trascendente,
118
Di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia
119
J acques Derrida
tone, il vero e il falso,. ì suoi scritti autentici e i suoi scritti più o meno
attendibili o apocrifi .
Cioè le sue Lettere. Kant vuole nello stesso tempo accusare e scusare
Platone di questa catastrofe continua che ha pervertito la filosofia, il rap
porto stretto tra il nome e la cosa «filosofia», per approdare a questa
Verstimmung che stona. Del delirio in filosofia, egli vuole accusarlo e
scusarlo, si direbbe nello stesso movimento di una doppia postulazione .
Double bind ancora della filiazione : Platone è il padre del delirio, di ogni
esaltazione in filosofia (der Vater aller Schwarmerei mit der Philofophie )
ma senza averne colpa (ohne seine Schuld) . È che bisogna divid�re Pla
tone, bisogna distinguere tra l'Accademico e l'autore presunto delle Let
tere, l'insegnante e il mittente . «Anche il Platone Accademico fu, senza
che ne abbia colpa (perché egli non faceva delle sue intuizioni intellet
tuali che un uso regressivo, per spiegare la possibilità di una conoscenza
sintetica a priori, e non un uso progressivo per estendere questa cono
scenza grazie a questa idea che si lascia leggere [ lesbare ] nell'intelletto
divino [ il Platone innocente è il padre di Kant , ed è anche la cartolina
postale 3 di un autoritratto di Kant , non è il padre del delirio ] ) , il padre
di ogni esaltazione in filosofia. Ma non sono affatto disposto a confon
dere con questo Platone il Platone delle Lettere (Flato den Briefsteller)
che è stato da poco tradotto in tedesco » .
L'opuscolo di Kant, apparso nel Berliner Monatschrift, s i accaniva
contro un certo Schlosser che aveva appena tradotto delle Lettere di
Platone, in un 'opera intitolata Lettere di Platone sulla rivoluzione sira
cusana, con una Introduzione e delle Osservazioni ( 1795). Kant sembra
denunciare direttamente Schlosser quando egli fa appello a Platone e a
certe sue dottrine dette esoteriche ; ma indirettamente, si sa che ha come
bersaglio Jacobi . E l'intollerabile, in questo Platone epistolografo, è l'eso
terismo aristocratico-Kant cita quella Lettera che raccomanda di non
divulgare i segreti tra la massa-, una criptofilia unita ad un'interpreta
zione mistica delle matematiche . La grande posta' in gioco tra Platone
e Kant è evidentemente l'interpretazione filosofica delle matematiche .
Platone, stupito delle figure geometriche, come Pitagora dei numeri, non
avrebbe fatto che presentire la problematica della sintesi a priori e troppo
presto si sarebbe rifugiato in una mistica della geometria come Pitagora
nella mistica dei numeri. E questa mistica matematizzante, questa ido-
120
Di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia
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J acques Derrida
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Di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia
123
Jacques Derrida
sessuale», per sapere che, per questo stadio della ragione in cui non c'è
che una ragione maschio, un organo o un canone della ragione, ma
schile o castrato, accade come per quello stadio dell'organizzazione ge
nitale infantile dove vi è certo un maschile ma per nulla un femminile .
Forse parlerebbe di uno stadio fallico della ragione . «L'opposizione si
enuncia qui, dice Freud al termine de L'organizzazione genitale infantile :
organo genitale maschile o castrato» . Nessuna differenza sessuale come
opposizione, ma solo un maschile ! Si potrebbe seguire questa strana
logica (la ragione dopo :freud, direbbe Lacan) molto lontano ne) det
taglio del testo, soprattutto nei momenti in cui il velo di Iside sCatena
ciò che Freud chiama Bemachtigungstrieb, la pulsione di dominio . Kant
accusa per esempio i metafisici mistagoghi di comportarsi come «uomini
forti» (Kraftmanner) che vantano da poco con entusiasmo una sag
gezza che non costa loro null a poiché essi pretendono di aver afferrato
questa dea per il lembo della sua veste e di essersene cosl resi padroni
e signori; essi l'avrebbero «posseduta» ( bemachtigt) , ecc.
La castrazione o meno del logos in quanto ratio , ecco un elemento
centrale di questo dibattito intorno alla metafisica . È anche una lotta
intorno al poetico (tra poesia e filosofia) , alla mort� o all'avvenire della
filosofia . È la stessa posta in gioco . Kant non ha alcun dubbio, i nuovi
predicatori hanno bisogno di pervertire la filosofia in poesia per darsi
grandi arie, occupare per simulazione e mimica il posto dei grandi, usur
pare còsl un potere di essenza simbolica.
Schlosser, il fabbro, si potrebbe dire anche l'uomo del castello signo
rile, non abusa solamente di metafore poetiche . Egli accusa il suo secolo
di essere prosaico, ed osa scrivere a Platone, si rivolge a lui, lo invoca ,
lo apostrofa, lo chiama come testimone : «Armare Flato, Povero Platone,
se tu non fossi segnato dal sigillo dell'Antichità [ ... ] chi vorrebbe ancora
leggerti in questo secolo prosaico in cui la più alta saggezza consiste
nel non vedere che ciò che è ai nostri piedi e nel non ammettere che
quanto si può afferrare con le mani ? » . Alle prese_._ con Schlosser che fu
stiga i nuovi figli della terra, Kant fa giocare Aristotele contro Platone :
«Ma purtroppo, questo ragionamento non è concludente ; esso prova
troppo. Perché Aristotele , filosofo manifestamente prosaico, ha anch'egli
il sigillo (siegel) dell'Antichità, e potrebbe perciò pretendere, anch'egli,
di esser letto ! -In fondo, è tutta la filosofia ad essere prosaica, e pro
porre oggi di rimettersi a filosofare poeticamente (wiederum poetisch
zu philosophiren) equivarrebbe a proporre al bottegaio (Kaufman ) di
non scrivere più i suoi registri in prosa, ma in versi» .
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.
«Ma a che pro tutto questo conflitto tra due partiti che condividono
in fondo la stessa buona intenzione ? È chiasso per nulla, un disaccordo
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Jacques Derrida
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«Come s e fossi due» : perché nel momento in cui egli si rivolge cosl
questo messaggio facendo come se potesse ancora rivolgerselo, questa
impossibile destinazione segna la morte dell'ultimo uomo , in lui e fuori
di lui. Egli lo sa al di là del come se : «E pertanto io ti odo ancora, voce
amata! Muore ancora qualcuno al di fuori di me , l'ultimo uomo, in
questo universo : l 'ultimo sospiro muore con me, questo lungo hélas,
hélas , sospirato su di me, l'ultimo dei miserabili, Edipo ! » .
Allora s e l'escatologia ci sorprende alla prima parola, alla prima
come all'ultima, sempre alla penultima , che dire ? che fare ? La risposta
� questa domanda è forse impossibile perché non si lascia mai aspettare.
Perché la questione è quella della risposta, e di un appello che pro
mette e risponde prima della domanda.
C'è bisogno di chiarezza, diceva ieri Philippe Lacoue-Labarthe . Si .
Ma c 'è la luce e ci sono le luci , il giorno e anche la follia del giorno .
«La fine comincia» , si legge ne La folie du jour. Senza neanche richia
marsi ad apocalissi di tipo zoroastriano, ce ne fu più di una, si sa che
ogni escatologia apocalittica si promette in nome della luce, del veg
gente e della visione, e di una luce della luce, di una luce più luminosa
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Jacques Derrida
·
recano la loro gloria, / Le sue porte non sono mai chiuse il giorno : l
no, là non c'è mai notte. Essi vi recano la gloria . . . }> (xxr, 23-26) . «Non
vi sarà più notte, l essi non hanno bisogno della luce di una lampada, l
né della luce del sole : l Adonai Elohim li illumina e regnano nei secoli
dei secoli}> (XXI, 5) .
C'è la luce e ci sono le luci, le luci della ragione o del logos; che
non sono, malgrado tutto, altra cosa . E proprio in nome di una J Auf
klarung Kant , per esempio, inizia a demistificare il tono gran-signore .
Al giorno d'oggi non possiamo aver ereditato da questi Lumi, non pos
siamo e non dobbiamo , è una legge e un destino, tinunciare all 'Auf
klarung, in altre parole a ciò che si impone come il desiderio enigmatico
della vigilanza, della veglia lucida, della delucidazione, della critica e
della verità, ma di una verità che nello stesso tempò conserva in sé un
desiderio apocalittico, questa volta come desiderio di chiarezza e di rive
lazione, per demistificare o, se preferite, per decostruire lo stesso di
scorso apocalittico e con esso tutto ciò che specula sulla visione, l'immi
nenza della fine, la teofania, la parusia, il giudizio finale, ecc . Allo ra
ogni volta noi ci domandiamo con intransigenza: dove vogliono arrivare,
e a quali fini, coloro che dichiarano la fine di questo o di quello, del
l'uomo o del soggetto, della . coscienza, della storia, dell'Occidente o
della letteratura, e secondo le ultime notizie del progresso stesso, la cui
idea n,on è mai stata sostenuta cosl male da destra e da sinistra? Quali
.effétti vogliono produrre quei gentili profeti o quegli eloquenti visio
nari? In vista di quale beneficio immediato o differito ? Che cosa fanno,
che facciamo dicendo ciò? Per chi sedurre o assoggettare, itltimidire o
far gioire? Questi effetti e benefici possono essere ricondotti a una spe
culazione individuale o collettiva, cosciente o inconscia. Possono ana
lizzarsi in termini di dominio libidico o politico, cÒh 'tutti i collegamenti
differenziali e dunque tutti i paradossi economici che surdeterminano
l'idea di potere o di dominio e a volte le trascinano nell'abisso. L'ana
lisi lucida di questi interessi o di . questi calcoli deve mobilitare un enor
me numero e una grande diversità di dispositivi interpretativi oggi di
sponibili. Lo deve e lo può perché la nostra epoca sarebbe piuttosto
superattrezzata a questo riguardo ; e una decostruzione, se non vi si
arresta, non procede mai tuttavia senza un lavoro parallelo sul sistema
che tenga unito in se stesso questo superarmamento, che articoli, come
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� La ·posta in gioco, ciò va da sé, può essere molto grave, soprattutto in un testo
escatologico o apocalittico . Chouraqui ha apertamente assunto · la sua responsabilità
di traduttore, non si può qui che lasdargliela: «La libertà . che più costantemente
ho preso nei . confronti del testo greco concerne i tempi del verbo. Già Joiion lo
aveva notato : 'L'attenzione prestata al sostrato aramaico è plii: ticolarmente utile per
evitare la ·. traduzione troppo meccanica dei tempi greci'. · Il verbo greco concepisce
il tempo soprattutto in funzione di un passato, di un presente e di un futuro ;
quello ebraico o aramaico, al contrario, invece di precisare il tempo di un'azione,
descrive il suo stato in due modi: il compiuto e l'incompiuto. Come ha ben visto
Pedersen, il verbo ebraico è, per essenza, intemporale, cioè onnitemporale. Ho ten
tato, fra due conceziòni del tempo irriducibili l'una all'altra, di ricorrere più spesso
al presente che nell'uso del francese contemporaneo è un tempo molto flessibile,
molto ampio, molto evocatore, sia nel . suo uso normale, sia sotto forma di presente
�torico o di presente profetico». (Une nouvelle traduction du Nomieau Testament,
Prefazione a Un pacte neuf, p. 13).
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altre , una spettrografia del tono e del cambiamento di tono, non poteva
per definizione adeguarsi alla disposizione o alla misura della dimostra
zione filosofica , pedagogica o insegnante. Prima perché «Vieni», aprendo
la scena, non poteva diventare un oggetto, un tema, una rappresenta
zione, o anche una citazione nel senso corrente , e sussumibile sotto una
categoria, fosse anche quella del venire o dell'avvenimento . Per la stessa
ragione , ciò si piega difficilmente alla retorica che esige la scena presente .
Io tento nientemeno di estrarne , a rischio di una deformazione essen
ziale, la funzione dimostrativa in termini di discorso filosofico. Dirò
allora questo accelerando l'andamento del discorso. Venuto dall'altro
come già una risposta, e una citazione senza presente passato , «Vieni»
non sopporta alcuna citazione metalinguistica mentre è, esso stesso, un
racconto, già, un recitativo e un canto la cui singolarità resta nello stesso
tempo assoluta e assolutamente divisibile . Esso non si lascia esaminare
da una onto-teo-escatologia più che da una logica dell'avvenimento, per
quanto nuova essa sia e qualunque politica essa annunci. In questo tono
affermativo , «Vieni» non denota in sé né un desiderio , né un ordine,
né una preghiera , né una domanda . Più precisamente, le categorie gram
maticali, linguistiche o semantiche a partire da cui lo si designerebbe
così sono attraversate dal «Vieni» . Quest'ultimo, non so che cosa sia,
non perché io ceda all 'oscurantismo ma perché la domanda «che cos'è »
appartiene a uno spazio (l'antologia, e a partire da essa i saperi gram
maticali, linguistici, semantici, ecc.) aperto da un «vieni» venuto dal
l'altro . Fra tutti i «vieni» , la differenza non è grammaticale, linguistica ,
semantica, pragmatica-e se posso dirlo : è un imperativo , è una moda
lità iussiva, è un performativo di tale o tal altro tipo, ecc.-la differenza
è tonale . E non so se una differenza tonale si presti finalmente a tutte
queste questioni . Provate a dire «vieni»-che può dirsi in tutti i toni, e
vedrete, udrete, l'altro innanzitutto udrà-può darsi o no. È il gesto
della parola, questo gesto che non si lascia rilevare dall'analisi-lingui
stica, semantica o retorica-di una parola.
Vieni al di là dell'essere, questo viene dal di là dell'essere e chiama
al di là dell'essere, inducendo forse al luogo in cui l'Ereig n is che non
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Apocalissi del sacro
ultima trasmutazione del lato Eva, del lato terra e cosmo. Questo com
piersi dell'immagine coincide col togliersi del maledetto e, con ciò, del
togliersi del separato . Un rapporto stretto, uno stesso gesto. Il separato
che è infatti il sex:us , e fa generazione e morte--come dal vaso di Pau
dora, o dal ventre di Pandora che è vaso di generazione-il sex:us che è
il primo generatore e dunque il primo mortale della specie dei mortali.
Alla chiusura della separazione del mortale corrisponde l'apparire del
simbolo della congiunzione divina in maschio e femmina . Il mortale e
separato è rivelato figura del divino : falso nel suo stare separato da ciò
di cui è figura, vera figura di ciò che è divinamente congiunto. La rive
lazione dell'escaton, della fine dei tempi, è infatti fine dei tempi abitati
dai mortali generati dal sesso separato , generati nella maledizione della
separazione, della morte, del tempo . Tempo, morte e sex:us si tengono
nella figura di ciò che è tagliato e gettato oltre l'iniziale immagine di Dio
come il sacro al di là dal tempo, dalla morte, dal sesso: al di là del
finito isolato particolare, al di là del male.
Rivelazione che è già saputa e non ancora, mai, apparsa: compiuta
essa è soltanto al di là del tempo dei mortali, stretti inevitabilmente nella
scelta del bene e del male, già sapendo tuttavia che è quella inevitabile
scelta l'opera della mancanza, del peccato : poiché nell'eterno tutto è già
redento.
L'inevitabilità, nel tempo, della scelta del bene e del male è rivelata
in eterno come l'opera illusoria, e realissima nella sua illu sione, di colui
che giudica senza potere e sapere giudicare. Cosl Paolo già oggi conosce
il destino escatologico e in esso vive, senza che ciò gli faccia perdere di
vista il non apparire ancora della parusia, della presenza dell'al di là del
tempo : il che impone, al di qua, di soggiacere all'opportunità etica a
vantaggio dei fratelli : l'etica diventa non più opera di salvezza ma peda
gogia, insegnamento, guida alla meditazione della verità e della fede .
Romani 1 4 , 1 4 : «lo so e son persuaso nel Signore Gesù che nessuna
cosa è impura in se stessa ; però se uno stima che una cosa è impura, per
lui è impura» .
Niente di « commune», niente di profano, niente di soltanto ordi
nario. Il luogo, il tempo, il gesto, la separazione stessa del sacro è qui
scardinata in una estensione che nell'eccedere, nel debordare dapper
tutto non coglie più, per nessuna particolarità d'eccezione, il sacro re
cinto : il punto ritagliato per il contatto con il divino . Il sapere e il sen
tire :fiducioso di Paolo è stato confìdato a Pietro quale dono supremo di
quello Spirito che chiama a sé, che chiama vicino e che «vi insegnerà
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Apocalissi del sacro
buono » , più che nel Genesi qui « tutto è buono» dopo che esso è stato
discriminato e rigettato-è buono il serpente, è buona la mano assassina
e sacrificale dell'uomo .
Il numero trinitario----:.c:ome nell'icona trinitaria di Rublev che ricorda
reinterpretandolo l'incontro dei tre con Abramo-è qui in relazione al
quarto, al mondo delle quattro archai , alla terra dei quadrupedi : è il tre
che santifica il quarto escluso : la terra e il proibito . La visione di loppe
dovrebbe chiamare all'esercizio ermeneutico tutta la tradizione della sa
pienza numerologica e, più vicina a noi, l'intera opera di Jung (in parti
colare «Aion » e «Psicologia e religione » rispettivamente al volume nono
parte seconda e al volume undicesimo delle Opere Complete curate nel
l'edizione italiana da L. Aurigemma, Boringhieri , Torino) .
Non c'è, nella rivelazione finale, al di là dei tempi del tempo, alcun
ché di maledetto : tutto è tre volte purificato . Tutto è santo . La coppia
di opposti sacro e profano si rivela movimento iniziatico della · cono
scenza del santo . Tutto è integro . La separazione sacra-e profana-è
tolta nell'estensione al tutto della benedizione divina .
To skeuos di Atti 1 0 , 1 6 , il vas della Vulgata in cui il mondo è tre
volte dichiarato puro e non «commune » , ricompare in Ap . 2 1 , 3 come
«Ecce tabernaculum Dei cum hominibus et habitavit cum eis» , è l'he
skene tou Theou meta ton anthropon1 kai skenosei met'auton, la città
santa, la sposa Gerusalemme.
Ciò che era prima svanisce allo sguardo (Ap. 2 1 , 5), guarda, ecco :
idou-faccio nuova ogni cosa, il tutto , omnia, poiché (2 1 , 4) ta prata
apelthon : il passato , quel che veniva prima, se ne è andato . E in questo
paesaggio dove tutto è nuovo, guarda ! , si dichiara che pan katathema
ouk estai eti ( 2 2 , 3 ) non ci sarà più cosa alcuna maledetta, katathema :
posto in basso , dichiarato, asserito ( thema) come inferiore ( kata) .
Niente più che la legge di giustizia ponga nel basso proibito e con
dannato, poiché themis è l'ordinamento posto a fondamento dell'universo
c Themis è la sua concordanza in figura di Dea, o viceversa che si voglia .
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annUnciata resta povera : non più niente di maledetto perché ciò che è
'
maledetto è da sempre e per sempre maledetto, ma essendo maledetto
viene giustificato, salvato, esaltato, glorificato . Sono i cani, loro stessi
quindi, ad entrare per le porte della città santa : cani che sono stati
lavati, cani che sono stati dissetati!
Non vi è opera giusta poiché nessuno è giusto secondo le opere : se
neppure uno è giusto manca l'agente possibile delle opere giuste. Le
opere sono dei mortali soggetti alla legge : non vi è altro che il ricono
scimento della vanità di un tale operare, dell'operare stesso riconosciuto
come errore. RiconoscinÌento del peccato, della mancanza radicafe, rico
noscimento della morte che è il destino delle opere sottoposte al giudizio
della legge. La giustificazione e la salvezza non vengono dalle opere dei
mortali, giustificazione e salvezza vengono dalla grazia. E però non vi è
grazia se non vi è peccato : la struttura della salvezza cristiana è dram
matica, tragica . La condanna eterna delle opere che operano la morte è
Io sfondo necessario della salvezza escatologica per la quale non vi è
morte alcuna . Ancora un paradosso . A meno di pensare che l'opera della
morte operata dai mortali è giudicata secondo quel che è, opera del
niente, vacuità, illusione . La morte deve essere consegnata alla morte
che è, ma la morte è niente, è niente che è niente.
Quando infatti iniziano le opere del mondo Dio cessa per sempre
dalle sue. Dio sta nel suo riposo fìn dalla fondazione del mondo, le sue
opere sono compiute fìn dalla fondazione del mondo (Ebrei 4, 3 ) .
« Si dice infatti in qualche luogo a proposito del settimo giorno : E
Dio si riposò nel settimo giorno da tutte le opere sue» (Eh. 4, 4 ) .
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Apocalissi del sacro
«Colui che parla» parla senza essere visibile, si rivela senza svelarsi,
anzi attraverso , per il velo della parola-il mistico .
Una parola che approda all ' ascolto dichiarando l'elusione necessaria
della infinita dimensione dell'essere che la origina-il Dio che è e rimane
invisibile è e rimane indicibile nell ' essere la parola che si dice, che si
comunica.
Tuttavia questa indicibilità, il mistero di Dio che non può che dire
la prescrizione del silenzio, deve essere dichiarata, deve essere afferrata
come ciò che afferra e circoscrive necessariamente ogni parola possibile .
Deve essere chiamata intrascendibile una tale indicibilità perché è essa
stessa la condizione trascendentale entro la quale avvengono le parole . Il
cerchio entro il quale le linee del tempo, i segni del tempo, i segni del
divenire, vengono interpretati dall'errore, dalla separatezza che viene dal
dia-bolico--ma nel cerchio essi, proprio quelli, gli stessi segni, fanno
trasparire anamorfìcamente, oltre e dentro le sagome dell'interpreta
zione illusoria ed errata, i disegni in cui a frammenti appaiono le intatte
figure, la scrittura sim-bolica dell'eterno .
Quale nome, quale senso quindi ha disegnato da sempre il cerchio
in se stesso se non il nome indicibile di Dio ? E qual è il nome indicibile
che deve essere detto come inoltrepassabile limite, dicendosi così radi
calmente indicibile?
Esso è il nome dell'essere, l 'è come nome indicibile dell'essere che
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Romano Madera
deve essere detto per attestarne l'indicibilità, l'è cile è detto come non
dicibile in ogni lettera di un qualsiasi dire e che dunque, infondabile, lo
fonda.
(Su questo punto si deve ricordare il terzo paragrafo del saggio di E.
Grassi, Vico, Marx and Heidegger, in «Vico and Marx, ed . by G . Taglia
cozzo, Humanities , New Jersey 1983, che riporta le tesi di un testo ine
dito di Heidegger da un corso del 1941 a Friburgo) .
È : il nome dell'Essere, il nome impossibile che dà nome a tutti i
nomi, il tetragramma, parola sctitta impronunciabile di cui tatta la
Scrittura è accenno e profumo : tutta la Scrittura tesa fra quel '« beth»
di Bereshit-di quell'in principio che inizia nel già cominciato della se
conda lettera, del numero due dopo il primo che è il non-iniziante uno ,
l'alef non-numero-e quel terminante «Vieni» ( Ap . 22, 17) invocante,
nel mezzo del compiuto ieros gamos, ancora un non riposante sopra se
stesso, ancora un «presto» (Ap . 22, 20), un ancora non-apparso, non
detto. Strada infinita circoscritta dalla parola, una parola che si alza e
ritorna su ciò che non si lascia esaurire perché in essa «si dice», « si
annuncia»-si dice e si annuncia ciò che da sempre è già compiuto e già
detto e già pronunciato quando «si dice»-q_uel Signore che è Parola
invocato nella rivelazione ultima come ancora «a venire» e che pure già
è conosciuto «prima della fondazione del mondo » ( l Pt . l , 20).
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Apocalissi del sacro
Che la struttura del sacro si trasformi fino a dissolversi nel testo che
la rivela finalmente, nel testo apocalittico, è comprovato proprio dal
l'inclusione dei termini esclusi dalla :figura della divinità. La :figura che
ne risulta è quella del Santo come :figura di ciò che è integro, di ciò che
è intero--e perciò dà la vita , cioè conferisce, svela la perfezione :
rivela che le cose sono attraversate, l'una dentro l'altra, dall'intero
stesso che le avvolge perché le involge in se stesso .
L 'integro, l'intero, non può avere fuori di sé l'imperfetto, il :finito : si
rivela finalmente-alia fine del libro sacro, alla fine del sacro--la fine del
sacro, il suo sparire nella comunione interna all'integro, all'intero .
Il :finito e l'imperfetto ricevono la loro perfezione : ma non come
qualcosa ad essi estranea, invece come loro « ancora non vista» ma già
esistente da sempre «presenza» non ancora presente. Il tratto deli a linea
non cessa di essere tratto, anzi è per la prima volta interamente, e diver
samente da come era apparso, tratto di linea curva, circonferente se stes
sa, tratto di un cerchio . « <o sono il Primo e l'Ultimo e il Vivente . Io
ero morto, ed ecco (idou) sono vivente in eterno e ho le chiavi della
morte e dell'Ade».
Il primo e l 'ultimo nella loro identità puntuale sono la :figura del cer
chio . Ma un cerchio che rivela il primo nell'escaton , in un tragitto , in
un percorso, in un esodo che apocalitticamente è un reditus. Tragitto e
cerchio che si svolgono e si rivolgono entro l'individualità universale che
è la coniunctio dell'Io e dell'Essere : del Dio persona individuale corpo
rea, :figura integra dell'intera realtà, in lui insistente e lui in-sistente in
ogni tratto della realtà intera . La biogra:6a di un uomo come trascenden
tale immaginale dell'intero cosmo del reale . In essa è rivelata la ricom
prensione di ciò che si era voluto vedere estraneo al divino : « io ero
morto . . . e ho le chiavi della morte e dell 'Ade». Chiavi nuziali nella rap
presentazione iconica della scena in Rublev, ma anche nella recitazione
liturgica . Morte e l'Ade sono congiunti all'eterno vivente, in una tale
congiunzione il vivente si dimostra integro poiché ad esso non sfugge la
sua negazione, che in ciò si trova negata, impossibilitata ad affermare il
non-vivente altrimenti che come errore, falsità redenta nel vivente che
nel suo rivelarsi la mostra come falsità . Ecco , vedi morte ed Ade inscrit
ti nel cerchio integro del primo che è lo stesso dell'ultimo, del vivente
eternamente che è lo stesso del mortale e del perduto . L'imperfetto
tratto del cerchio rimane tratto ma tratto del cerchio : ciò che si rivela
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Romano Madera
L'immagine del vivente, di «Io sono», appare nella storia del Cristo :
qui la storia del Cristo appare nell'immagine del vivente . Ero morto . Il
corpo e la sua morte sono ridetti nella figura, come sua figura, 1di «<o
sono» . Il corpo mortale, lo spazio e il tempo del mondo, sono qUi rive
lati proprio la individuazione di ciò che, dunque, necessariamente, rimane
indicibile : e che quindi è detto, è pronunciato in un nome : perché il suo
nome indicibile sia glorificato infinitamente nella finitudine molteplice
dell'infinita teoria dei nomi che lo con-tengono stando inscritti nel suo .
Il segno di contraddizione, il segno di Giona è qui rivelato segno del
l'integrità del vivente .
«Dicono alcuni che il corpo è sema (segno, tomba) dell'anima, quasi
che ella vi sia sepolta durante la vita presente; e ancora, per il fatto che
con esso l'anima sémainei (significa ), anche per questo è stato detto ge
neralmente sema (Platone, Cratilo 400 c) .
Ma nel testo apocalittico il corpo mortale non segnala una tomba,
una prigione orfìca, pitagorea, neoplatonica o gnostica. Al contrario . Il
corpo mortale è la gloria, l'apparire e il rivelarsi necessario del vivente :
l'intridimento sensistico dello spirito è totale : carne d'animale immolato
(esfagmenon) , carne da sacrificio ma carne che deve essere mangiata. Il
leone di Giuda (Ap . 5, 5), il germoglio di Davide, del re guerriero , ap
pare come agnello immolato (5, 6 ), il vivente come corpo mortale, ani
male destinato a morte, immolato e dato in pasto .
Insieme alla morte, al corpo mortale, alla figura dello spazio e del
tempo, della sensibilità e di tutto ciò che nelle radièi culturali del greco,
dell'ellenista e del mediterraneo-ma non dell'israelita-aveva segnalato
di non essere, la mancanza, l'errore, il tempo contro l'eterno--viene qui
presentato, in figura dell'eterno che è il vivente e l'integro, il simbolo nu
ziale, la sposa, terra e città, il femminile . La destinazione rivelantesi del
l'eterno, la sua più compiuta figura, è la congiunzione che riconosce, che
cinge d'amplesso sensibile, la sposa, la terra, la città di Gerusalemme .
Gerusalemme è il destino. È il destino del rivelarsi dell'eterno. È la terra
sposata al cielo nella novità che è del Primo, del ritorno dell'originario
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Jean-Luc Marion *
L'ESSERE, L'IDOLO, IL CONCETTO
�<
Tratto da Dieu sans l'etre, Libr. Arthème Fayard, Paris, di prossima pubbli
cazione presso la Editoriale Jaca Book, Milano.
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Jean-Luc Marion
rate come icone del vero Dio, e gli ebrei dell'Antica Alleanza respinge
vano come idolo qualsiasi rappresentazione , anche del Dio dell'Alleanza
(il «Vitello d'oro» di cui tanto si parla forse non personificava altro che
il Dio dell'Alleanza, e lo stesso Tempio di Gerusalemme fìnl per vedersi
abbandonato dalla Shekinah divina solo nella misura in cui cominciò a
cadere nell'idolatria) . Fortunatamente, ogni sforzo per prendere sul serio
il destino (Geschick) ed il supporto iniziale della Grecia implica che una
interpretazione meglio disposta revochi l'accusa di pura e semplice ido
latria, e cerchi-poco importa qui se vanamente o con successo--di ,rico
noscere la dignità autenti2amente divina di ciò che nei monumetÙi di
quest'epoca si offre alla venerazione (Hegel, Schelling, Holderlin) . In
breve, l'icona e l'idolo non si decidono come degli enti di fronte ad altri
enti, poiché gli stessi enti (statue, nomi, ecc.) possono passare dall'uno
all'altro rango . L'icona e l'idolo determinano due modi d'essete degli
enti, e non due classi di enti.
La loro interferenza diventa quindi tanto più problematica, e tanto
più urgente diventa l'esigenza di prestarle attenzione . Ma, si obietterà
a questo punto, anche se certi enti possono passare dall'idolo all'icona,
o dall'icona all'idolo, mutando semplicemente di statuto di fronte ad una
venerazione, non tutti gli enti possono fare la stessa cosa : a ben vedere,
in effetti, non di ogni ente si può dire che sia in grado di mettere in
moto , di suscitare o, addirittura, di esigere una venerazione. O meglio ,
anche se il numero di quelli ,che esigono la venerazione varia, come varia
anche il modo di questa venerazione, tutti ammettono comunque delle
caratteristiche comuni e minimali : i signa del divino. Signa : il termine
latino è in questo caso estremamente ricco : possono pretendere agli sta
tuti contraddittori di idoli o/e di icona solo quelle opere che l'arte ha
foggiato in modo tale da non limitare la loro visibilità a se stesse (come
in quelle che sono cosi esattamente definite «arti dilettevoli») e che, in
quanto tali e restando cosi assolutamente immanenti a se stesse , fanno
indissolubilmente segno verso un altro termine, ancora indeterminato .
Precisiamo : questo rinvio non fa segno verso un'istanza che non avrebbe
nulla a che fare con quella che è costituita dall'opera d'arte in se stessa
e che verrebbe a surdeterminarla dall'esterno con un «valore simbolico»
non meglio determinato; al contrario, questo rinvio costituisce la dignità
più essenziale dell'opera ; l'opera si rivela come tale solo facendo segno,
perché è solo facendo segno che vale come signum . Bisognerebbe quindi
interrogare i signa sul loro modo di fare segno, venendo con ciò a sup
porre che l'idolo e l'icona si distinguono solo in quanto fanno segno in
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L'essere, l'idolo, il concetto
maniera diversa, cioè si servono della loro visibilità ciascuno a modo suo ;
ma la diversità di questi modi di far segno e di farsi signa è senz'altro
in grado di discriminare completamente l'idolo dall'icona. Signa, ma ap
punto in quanto concernono il divino : ora, senza neppur lontanamente
pretendere di accostarsi a quella che è la difficoltà più fondamentale
(l'ente che accede alla visibilità solo come signum potrebbe forse far
segno verso un referente diverso dal divino stesso e che non fosse ap
punto e soltanto il divino stesso? ) , bisogna per lo meno osservare che
in questo caso il divino entra in gioco solo con il supporto della visibi
lità ; ma la visibilità, relativamente al divino, si dice in diversi modi; o
meglio, le variazioni del modo di visibilità indicano delle variazioni del
modo di apprensione del divino stesso; un certo modo di visibilità non
può convenire ad ogni figura del divino, ma ha con una determinata fi
gura del divino un rapporto rigoroso e sicuramente costitutivo : il modo
di vedere decide dò che si può vedere, o meglio, per Io meno negativa
mente, decide dò che del divino non si potrebbe comunque percepire .
Abbozzando una fenomenologia comparata dell'idolo e dell 'icona, si trat
ta dunque di precisare non una qualche questione di estetica o di storia
dell'arte, ma i due modi di apprensione del divino nella visibilità. Di
apprensione, ma senz'altro anche di ricezione .
l . Primo visibile
171
Jean-Luc Marion
debba esporsi allo sguardo, che non debba attirarlo, colmarlo, tratte
nerlo. L'ambito in cui esso regna incontrastato--l'ambito dello sguardo
e quindi del guardabile-basta anche all'accoglienza : l 'idolo cattura Io
sguardo solo in quanto il guardabile lo comprende. L 'idolo dipende dallo
sguardo che soddisfa , perché se lo sguardo non desiderasse trovarvi sod
disfazione , l 'idolo non avrebbe ai suoi occhi alcuna dignità. La critica più
diffusa dell'idolo si chiede con stupore come si possa adorare alla stregua
di una divinità proprio ciò che le mani di colui che prega hanno appena
forgiato , scolpito, decorato, in una parola, fabbricato . «Liberato dagli
idoli » , Claudel non vuol · più vedere nell'idolo se non l 'aberrazione «del
l
selvaggio che si costruisce una piroga e da un asse superflua fabbrica
Apollo» 1• Questa critica, però , non coglie l'essenziale : perché la cosa
fabbricata diventa idolo, e di un dio per di più, solo a partire dal mo
mento in cui lo sguardo ha deciso di guardarla e ne fa il punto privi
legiato di messa a fuoco del proprio riguardo ; il fatto poi che la cosa
fabbricata esaurisca in sé lo sguardo presuppone che essa si esaurisca nel
guardabile . Il momento decisivo dell'istituzione di un idolo , dunque,
non è quello della sua fabbricazione, ma quello in cui viene eretto a
guardabile ed investito del compito di colmare uno sguardo . La qualità
di idolo dipende dallo sguardo . L 'idolo abbaglia con la sua visibilità solo
nella misura in cui lo sguardo lo guarda con riguardo. Attira lo sguardo
solo nella misura in cui lo sguardo l 'ha completamente attirato nel guar
dabile, ve lo ha esposto ed esaurito . Solo lo sguardo fa l'idolo, come
ultima funzione del guardabile .
Dal momento che solo lo sguardo qualifica l 'idolo , come intendere la
molteplicità degli idoli, le loro mutevoli validità, le loro figure contin
genti , le loro disparate dignità ? Lo sguardo fa l'idolo e non l'idolo lo
sguardo : il che significa che l'idolo colma con la propria visibilità l 'in
tenzione dello sguardo, che vuole appunto soltanto questo, vedere . Lo
sguardo precede l 'idolo , per il semplice fatto che la mira precede e su
scita ciò a cui mira . L'intenzione prima mira al d,ivino , e lo sguardo si
tende in previsione di vedere il divino, di vederlO prendendolo dunque
nel campo del guardabile . Più la mira si dispiega con potenza, più a lun
go si fissa e più ricco, possente e sontuoso apparirà l'idolo sul quale essa
fermerà il proprio sguardo. Fermare lo sguardo , non lo si potrebbe dire
meglio : fermare uno sguardo , farlo (ri )posare in/su un idolo , quando
172
L'essere , l 'idolo, il concetto
non può più passare oltre 2• In questa fermata, lo sguardo cessa di supe
rarsi e di trapassarsi, cessa quindi di trapassare le cose visibili, per fer
marsi allo splendore di una di loro . Lo sguardo che non si trapassa più,
non passa più attraverso le cose, non le vede più in trasparenza; ad un
certo punto , non ne prova più la trasparenza-le trova insufficiente
mente cariche di luce e di gloria-ed una finalmente e da ultima gli si
presenta con quel tanto di visibilità, splendore e luminosità che la rende
capace, per prima, di attirarlo , catturarlo , colmarlo . Questo primo visi
bile offrirà ad ogni sguardo il proprio idolo , l 'idolo alla sua portata .
L'idolo, o il punto di caduta dello sguardo . Ma cosa indica dunque
l 'idolo ?
2. Specchio invisibile
Questo fermarsi dello sgua rdo , che lo «prende» in un vissuto intenzionale viene
esemplarmente descritto da Husserl, p e r e sempio in Ideen . .. ,r, § 101, Husserliana,
m, p. 254 ( tr . it.Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomeno
logica, Einaudi, Torino 1965, pp . 230-23 1 ) .
l
Il te s to francese, in questo capitolo, ha spesso la contrapposizione tra fixer e
figer uno sguardo ( let teralmente, :fissare o fermare ed irrigidire ) ; per mantenere in
qualche modo il gioco di consonanza tra i due verbi ( diversi solo per una conso
nante ), li renderemo coniugando prendere e rapprendere, autorizzati in questo anche
dal senso di « bl occare, intrappolare, prendere in trappola>> che il contesto dà a fixer
e dall'accostamento ( fatto dall'autore stesso sulla scor ta di un verso di Baudelaire)
tra lo sgu ard o fig é ed il sangue figé, cioè coagulato o, appunto, rappreso (ndt).
173
Jean-Luc Marion
174
L'essere, l'idolo, il concetto
sonno della terra» . L'idolo offre allo sguardo, con il primo visibile e
lo specchio invisibile, la sua terra, la prima terra ove riposarsi . Con
l'idolo, lo sguardo finisce per sotterrarsi . In questo senso , di fronte ad
una rivelazione , l 'idolo verrebbe squalificato non perché offrirebbe allo
sguardo uno spettacolo illegittimo, ma irinanzitutto perché gli propone
ove (ri)posare . Con l 'idolo, lo specchio invisibile non ammette più alcun
al di là, dato che lo sguardo non può aumentare l'alzo della mira . Lo
specchio invisibile contrassegna così , negativamente , la carenza della mi
ra, cioè, propriamente , il non-mirabile 7• Il visibile inizia là dove finisce
la mira . Lo specchio invisibile si dissimula nel primo visibile, che con
trassegna in tal modo il non-mirabile . L'idolo non ammette alcun invi
sibile, in primo luogo perché, nello splendore della propria luce, dissi
mula la propria funzione di specchio invisibile, e d in secondo luogo
IbiJ. , p. 147, cui si accosterà Aristotele, La premonizione nel sonno, II, 464 b
8-10.
6 C. Baudelaire, Harmonie Ju soir, in Oeuvres Complètes, «Pléiade», Paris 196 1 ,
p. 45.
Cosl rendiamo il francese invisable : si perde il gioco di corrispondenza con
visiblee invisible, ma resta per lo meno quello più diretto con visée, non-visé,
visable, mira, non-mirato, mirabile (ndt).
175
Jean-Luc Marion
3. Ritorno di splendore
Cicerone, De Republica, VI, 15. Questo testo è tanto più significativo appunto
perché in questo caso il templum non ha limiti e si estende all 'universo; esso resta
comunque definito in quanto determinato dal conspectus umano.
176
L'essere, l'idolo, il concetto
9
R. Walser, Das Gotzenbild, in Prosa, Suhrkamp, Frankfurt 1968, pp. 129-130;
in queste pagine sono descritti esistenzialmente i momenti della nostra analisi con
cettuale. Il visitatore di un museo di etnologia in un primo tempo osserva delle
statue con un interesse che è tanto evidente quanto estrinseco ; a ciò si oppone
improvvisamente un idolo nel quale il suo sguardo si rapprende, per leggervi
l'impressione divina che l'artista idolatra vi aveva lasciato : « . . . egli rimase H impa
lato, improvvisamente, senza sapere come, di fronte ad una figura primitiva in legno
che, per spaventevole e grossolana che fosse, gli fece un'impressione tale che si
senti soccombere anima e corpo alla magia dell'idolo ed alla sua rozzezza». Questa
emozione non ha null a di «estetico», ma spinge e poi costringe fisicamente all'ado
razione, non certo dell'immagine ma dell'Eindruck che essa esercita e che si esercita
appunto come questa visibilità : « ... improvvisamente si impadronl di lui un desi
derio mostruoso, spaventevole di gettarsi a terra, di inginocchiarsi e di prosternarsi
per poter venerare con il proprio corpo la spaven tosa imm a gine che era stata strap
pata ai deserti africani».
177
Jean-Luc Marion
ai fedeli del dio e finché gli dei non saranno fuggiti( L'arte non produce
l'idolo più di quanto l'idolo produca lo sguardo . Lo sguardo, rappren
dendosi, contrassegna il luogo in cui il primo visibile risplende della pro
pria magnificenza; l 'arte, allora, non fa altro che tentare di consegnare
materialmente , in seconda battuta e per mezzo di quello che abitual
mente viene chiamato idolo, lo splendore del dio. Il fatto che solo a
questo splendore si possa attribuire il nome di idolo risulta inoppugna
bile se si considera che, per riconoscere questo splendore sul volto mate
riale, è necessario uno sg1,1ardo corrispondente, ed è quindi nece�sario
anche uno sguardo la cui mira si depositi e si rapprenda con questo
primo visibile ; in breve, il fatto che gli idoli non coincidano con le loro
pure e semplici statue è provato dalla facilità con la quale disertiamo
l'idolatria durante certe visite a templi o musei , quando il nostro sguardo
se ne va in giro come uno scioperato, tanto è assente in queste visite
quella mira la cui attesa potrebbe !asciarvisi colmare e quindi rappren
dere, e tanto i segni di pietra ed i tratti di colore attendono , con sguardi
muti, di essere raggiunti da sguardi vivi che si lascino nuovamente abba
gliare dallo splendore che essi hanno conservato . Spesso non abbiamo , o
non abbiamo più , i mezzi per una così stupenda idolatria.
4. Idolo concettuale
178
L'essere, l'idolo, il concetto
metafisica culminano nella causa sui (come fa notare Heidegger 10) solo
nella misura in cui tutte le figure dell'onto-teo-logia si sono messe a con
segnare in un concetto l'ultima magra della loro avanzata verso il divino
(Platone, Aristotele ), dopo il Dio cristiano : in questo senso, l'idolo con
cettuale del «moralischer Gott» , del «dio morale» di cui parla Heideg
ger 1 1 , limita l'orizzonte della comprensione kantiana di Dio--« ( ... ) la
supposizione di un autore morale del mondo» 12-al pari di quello della
«morte di Dio», dato che, come confessa lo stesso Nietzsche, «lm
Grunde ist ja nur der moralisch e Gott iiberwunden, in fondo solo il Dio
morale è infatti superato» 13 • In entrambi i casi, in quello del teismo
come in quello del sedicente «ateismo» , la misura del concetto non viene
da Dio ma dalla mira dello sguardo . Anche in questo caso , così, vale
sino in fondo il giudizio di Feuerbach : «è l'uomo stesso ad essere H
modello originale del suo idolo» 14• Sotto questa luce si potrà forse in
tuire perché sia coessenziale all'idolo il fatto che lui stesso si prepari il
proprio crepuscolo. Questo crepuscolo potremmo averlo già vissuto due
volte : in un primo tempo, esteticamente, quando gli oracoli si erano
ormai zittiti , nella stagione in cui lo splendore dei Lumi offuscò quello
dei signa forgiati dalla mano ; e poi, oggi, sotto il sole nero del nichi
lismo, quando sembriamo ormai liberati, o semplicemente privati ed
esclusi dall'eredità «dei libri e delle Idee, degli Idoli e dei loro sacer
doti» 15•
5. L'icona dell'invisibile
179
Jean-Luc Marion
16 Omero, Iliade, XXIV, 630 : «ta�to era grande e bello : sembrava un nume a
vederlo» ( tr. it. Einaudi, Torino 1 963, p. 877 ).
17 Cfr. Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue grècque, Paris 1968,
p . 354, che sottolinea come eiko indichi innanzitutto la parenza ( se ci si consente
di usare questa espressione) che va incontro allo spettatore a partire dalla cosa
stessa in autentica ad-parenza ( donde la possibile connotazione di convenienza della
cosa così apparentata in apparenza).
1 8 Giovanni Damasceno, «Ogni icona manifesta il segreto e lo indica» : Contra
imaginum calumniatores orationes tres, III, 17, in Die Schriften des Johannes von
Damaskos, 3, Berlin 1975, p. 126. È certo che questa formula deve essere intesa,
più che come una eco a quella del Timeo, eikon tou noetou theos aisthetos ( 92 c 7),
che per altro non è del tutto certa (i migliori manoscritti, infatti, riportano poietou ) ,
come una risposta a Colossesi l , 15 che è esplicitamente glossato in un altro punto :
e tou aoratou eikon kai aute aoratos ( ibid. , m, 65, in op. cit. , p. 170). Questo
raddoppiamento indica , in maniera maldestra, certo, il riflusso dell'invisibile sul
visibile che, grazie a questo investimento, diventa esso stesso iconico ( cfr. infra,
§ 7, Specchio visibile dell'invisibile).
180
L'essere, l'idolo, il concetto
6. Il volto guarda-in-volto
181
Jean-Luc Marion
ché è appunto lui a produrre questa dicotomia. Resta però il fatto che
l'ousia, per lo meno dal punto di vista della teologia, non esaurisce il
campo di ciò che può entrare in gioco in questo caso ; e, d'altra parte, la
definizione conciliare che conferma definitivamente lo statuto teologico
dell'icona, fonda l'icona sull'hupostasis : «Chi venera l'icona, venera in
essa l'ipostasi di colui che vi è inscritto» 20• L 'onore reso all'icona riguar
da l'ipostasi di colui cui appartiene il volto che in essa è disegnato .
L 'hupostasis, che i Padri latini traducono con persona, non implica al
cuna presenza sostanziale, che sarebbe circoscritta nell'icona come nel
suo hupokeimenon {e questo al contrario della presenza sostanziale del
Cristo nell'eucaristia) ; la persona non attesta la sua presenza se non at
traverso ciò che la caratterizza più propriamente, la mira di un'intenzione
(stokhasma) che è messa in opera da uno sguardo . L'icona dispone la
materia del legno e della pittura in modo da farvi apparire l'intenzione
di uno sguardo, trapassante, che da essa sorge . Ma, potrebbe obiettare
un ascoltatore superficiale, definendo l'icona attraverso la mira di un'in
tenzione, e quindi attraverso uno sguardo , non si finisce per ritrovare
proprio gli stessi termini della definizione dell'idolo ? L'osservazione è
assolutamente giusta, ma solo se si prescinde dal fatto che in questo
caso c'è un perfetto rovesciamento : lo sguardo , qui, non appartiene più
ad un uomo che sappia mirare sino al primo visibile, e ancor meno ad
un artista ; un simile sguardo appartiene, qui, all ' icona stessa, nella quale
20 Secondo Concilio di Nicea, 787 (Dem:. , n. 302 ). Il fatto che l'icona possa
rispondere all 'accusa di idolatria, apparentemente ineludibile, solo attraverso una
teologia della presenza ipostatica (radicalmente distinta dall a presenza sostanziale
dell'eucaristia), e quindi attraverso la sua reinterpretazione cristologica è stato ma
gistralmente dimostrato da C. von Schonborn, L'icone du Christ. Fondements
théologique élaborés entre le I"' et le n• Conciles de Nicée (325-787) , Fribourg/
Suisse 1976. Cfr . anche M.-]. Baudinet, «La relation imnique à Byzance au IX"
siècle d'après Nicéphore le Patriarche : un destin de l'aristotélisme», in Les Etudes
Philosophiques, 1978/1 , pp. 85-106.
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24 R. Char, «Contre une maison sèche», in Le Nu perdu, NRF, Paris 1978, p. 125.
187
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che possa distruggerla. Per farsi vedere, infatti, l 'icona non ha bisogno
.
.
che di se stessa.
Appunto per questo ella può esigere, pazientemente, che si riceva il
suo abbandono .
9. Funzione dell'idolo
188
L'essere, l 'idolo, il concetto
189
Jean-Luc Mation
sottolinea una piena, una certa sporgenza della mira del divino , che
giunge sino a determinare una certa riflessione � defezione. La testimo
nianza degli idoli può certo aver perso ai nostri occhi la propria perti
nenza : ciò non porta comunque a squalifìcarla in quanto tale, cioè in
quanto divina, la fa soltanto divenire insignificante . Infatti, se gli idoli
forgiati dai Greci non ci fanno più vedere il divino, la colpa (se di colpa
si deve parlare) non è né del divino né dei Greci. Tutto dipende sem
plicemente dal fatto che tra di noi non ci sono più quei Greci che sareb
bero i soli ai quali queste figure di pietra potrebbero indicare co1,1 il loro
specchio invisibile una riflessione sull'invisibile, la cui magra.' visibile
corrisponde esattamente a quell'esperienza particolare del divino cui solo
i Greci seppero giungere . Gli idoli dei Greci tradiscono , silenziosamente
ed incomprensibilmente, un'esperienza del divino che è assolutamente
effettiva ma che si realizzò solo per loro . Ciò che rende muto l'oracolo di
Delfì non è il fatto che si sia finalmente riusciti a scoprire un qualche
inganno (Fontenelle), ma la scomparsa dei Greci . L'idolo sta sempre ad
indicare un'esperienza del divino vera ed autentica, ma, per ciò stes so,
ne enuncia anche il limite : come esperienza del divino, a partire dunque
da chi lo mira, in vista del riflesso in cui questa mira maschera e sma
schera la sua defezione nei confronti dell'invisibile attraverso la figura
idolatrica, l'idolo deve sempre essere letto a partire da chi fa sl che la
propria esperienza del divino prenda figura appunto nell'idolo. Nel
l'idolo, il divino ha senz'.!lltro una presenza, e si offre senz'altro ad una
esperienza, ma solo a partire da una mira e dai suoi limiti; per dirla in
breve, nell'idolo il divino si raffigura solo indirettamente, riflesso in base
all'esperienza in cui è preso dall'istanza umana-il divino effettivamente
provato , però , si raffigura solo commisurandosi all'istanza umana che ac
cetta di subirne , per quanto può , la prova. Nell'idolo, dunque, si tradi
sce e si verifica la funzione divina del Dasein . Il che significa che l'idolo
non raggiunge mai il divino come tale, e che, per ciò stesso, non inganna
mai, non illude, e neppure manca il divino. Come funzione divina del
Dasein , l'idolo è l'indizio di un'esperienza sempre effettiva del Dasein .
Solo per uno sproposito si può mettere in dubbio il fatto che l'idolo
rifletta il divino, e che in un certo senso possa ancora spingerei ad evo
care l'esperienza di cui resta depositario . Ma questa validità e questa
innocenza, l 'idolo la paga appunto con il proprio limite; esperienza del
divino commisurata ad uno stato del Dasein . In breve, ciò che rende
l'idolo problematico non dipende da una sua manchevolezza ( ad esempio
dal fatto che sia soltanto un' «illusione»), ma al contrario dalle sue con-
190
L'essere, l'idolo, il concetto
ogni volta appunto , si tratta del divino pensato dal Dasein a partire dalla
propria mira, limitata ad una portata variabile. L'idolo , dunque, culmina
sempre in un '« autoidolatria» , per dirla con Baudelaire n. L'idolo : più
che un'immagine falsa e menzognera del divino , una funzione reale, limi
tata e variabile all'infinito del Dasein considerato nella sua mira del di
vino . L 'idolo : l 'immagine che il Dasein si fa del divino è dunque qual
cosa che tanto meno è Dio quanto più realmente è figura del divino .
Farsi un'immagine del divino ? Di solito in italiano si preferisce l'espres-
25
].-B . Bossuet : «È ciò che si chiama EP OCA, con un termine greco che significa
fermarsi, perché vi ci si ferma per considerare come da un luogo di riposo tutto
ciò che è avvenuto prima o dopo, ed evitare in questo modo gli anacronismi, cioè
quella sorta di errori che fanno confondere i tempi» (Discours sur l'Histoire univer
selle, Avant-propo s ) . Punto importante: l'epoca si ferma ( epekho ), sospende per
cosi dire il corso del tempo, come l'idolo ferma lo sguardo che non può andare oltre
il punto cui è arrivato e nel quale la sua capacità viene colmata . La storia, come
successione degli idoli che fanno epoca? L a storia, quindi, può espletare le proprie
funzioni solo nella misura in cui degli idoli continuano a restare possibili e sono
in grado di farvi epoca. Si potrà dire allora che l'icona verrebbe ad istituire la sola
fine possibile della storia, la sua trasgressione escatologica ( percorso della distanza,
ancora una volta)?
26
F. Holderlin, Der Einzige, 1 , vv. 48-5 3 , «Herakles Bruder», 2, vv. 51-53 : «lch
weiss es aber, eigene Schuld ists! Denn zu sehr, l O Christus! hiing ich an dir,
wiewohl Herakles Bruder l Und kiihn bekenn' ich, du bist Bruder auch des Eviem�,
e 3, vv. 50-55 (G.S.A., 21 1 , pp. 154, 158 e 162 ), ( tr. it. Le liriche, Adelphi, Milano
1977, t. II, pp. 239, 247 e 255 : «Ma io lo so, mia è la colpa. Perché troppo l ti
sono seguace, o Cristo, benché fratello d'Eracle, l e lo riconosco, temerario : l sei
fratello di Dionis o » ) . Cfr. L'idole et la distance, Grasset, Paris 1977, §§ 10 e 1 1
( tr. it. L'idolo e la distanza, Jaca Book, Milano 1979 , pp. 1 07-126).
27 C. Baudelaire, Fusées, XVII, in Oeuvres compl�tes, «Pléiade», Paris 1966, p.
1 256 ( tr. it. Razzi, in Poesie e prose, Mondadori, Milano 1 9 7 3 , p. 992). Cfr. P .
Valéry, Monsieur Teste : «Confesso di aver fatto un idolo del mi o spirito», in
Oeuvres, «Pléiade», Paris 1960, t. n, p. 37.
191
Jean-Luc Marion
28
La transizione da un idolo «estetico» ad un idolo concettuale non ha nulla di
sorprendente, poiché in entrambi i casi si tratta sempre di apprensione. A ciò si può
collegare la famosa sentenza di Gregorio di Nissa: «( . . . ) Ogni concetto (noema? ) ,
in quanto si produce attraverso un'apprensione dell'immaginazione in una conce
zione che circoscrive ed in una mira che pretende di raggiungere la natura divina,
modella soltanto un idolo di Dio (eidi5lon theou), senza,,, mai riuscire a proclamare
Dio stesso» (Vita Moysis, II , § 165, PG, 44, 377b). Su questo punto Nietzsche so
stiene la legittimità di una estensione dell'idolo al concetto. Non solo lo definisce
esplicitamente come ideafe-«Gotzen ( mein Wort fiir 'Ideale') umwerfen» : Ecce
Homo, Prologo, § 2 [ tr. it. Opere, vr/3 , Adelphi, Milano 1975, p. 266 : «Rove
!"ciare idoli (parola che uso per dire 'ideali')» ]-ma consacra il Crepuscolo degli
idoli agli «idoli eterni» solo nella misura in cui può in tal modo far intendere che
egli pensa qui a dei «grandi errori», e cioè a dei concetti (causa, effetto, libertà,
ecc . ), quelli della metafisica ( Crepuscolo degli idoli, Prefazione). Questi idoli con
cettuali sopravvivono ampiamente agli idoli religiosi ed alla «morte di Dim> . Ed è
appunto dà questo che dipende la loro estrema pericolosità.
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40 M. Heidegger, Identitat und Differenz, cit., p. 63 : « ... Sein als Grund und
Seiendes als gegriindet-begriindendes ... »
( tr . cit. p. 233 ).
41 Ibid. , p . 47 ( tr. cit. p . 224).
199
Jean-Luc Marion
cepito come causa sui. Con tale termine viene espresso il concetto meta-
•
fisico di Dio ( . . . ). Questa causa (Ur-sache) è data come causa sui . Così
suona nella filosofia il nome adeguato per Iddio» 42• Pensando «Dio»
come causa sui, la metafisica si dà un concetto di « Dio» che ne sotto
linea contemporaneamente sia l'esperienza indiscutibile sia la limita
zione anch 'essa incontestabile : a forza di pensare «Dio» come un'effi
cienza cosl assolutamente ed universalmente fondatrice che può essere
concepita solo a partire dall'essenza della fondazione, e quindi in ultima
analisi solo come il ripiegamento della fondazione su se stessa, lai meta
fisica si costruisce certo Un'apprensione della trascendenza di Dio, ma
soltanto sotto la figura dell'efficienza, della causa e del fondamento. Una
simile apprensione può rivendicare una qualche legittimità solo a patto
di riconoscere nello stesso tempo il proprio limite. Ed è 11ppunto questo
limite che Heidegger delinea con assoluta precisione : <�Dinnanzi ad un
tale Dio l'uomo non può né pregare, né tanto meno offrire sacrifici.
Dinnanzi alla causa sui l'uomo non può porsi in ginocchio riverente, · né
tanto meno far cantare e vibràre il suo cuore (suonare e danzare musi =
tanto che un tale pensare è più libero (più disponibile) per Lui di quanto
la Onto-teo-logica non sia disposta ad ammettere» 43 • La causa sui sa of
frirei soltanto un idolo & «Dio » , un idolo ·cosl limitato che non può
42
Ibid., p. 51 (tr: cit. p. 226), poi p. 64 (tr. cit. p. 234). Con Ursache bisogna
intendere ad un tempo la causa e è�Ò che meta.fisicamente la garantisce, cioè la cosa
primordiale, Ur-Sacbe. Cfr. Wegmarken, G.A., 9, p. 350, tr. fr. in QuestirJns m,
p . 131; e Vie Frage nach der Technik, in Vortriige und Aufsiitze, Pfullingen 1954,
p. 2 6 (tr. it. La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976,
p. 20 ) : «Dio, nella luce della causalità, può decadere al livello di una causa efficiens.
Allora, anche nell'ambito dell a teologia, egli diviene il Dio dei filosofi, ossia di coloro
che definiscono il disvelato e il nascosto sulla base della .._..causalità del fare, senza
mai prendere in considerazione l'origine essenziale di qu�� ta causalità». In questo
senso, il pensatore accetta tranquillamente di esporsi all'accusa di «ateismo», dato
che già in partenza ci si può chiedere «se la presunta fede ontica in Dio non sia
in fondo assenza-di-Dio ( im Grunde · Gottlosigkeit). E se il meta.fisico autentico non
sia allora più religioso (religiOser) del normale credente, del fedele di una 'Chiesa'
o anche dei 'teologi' di ogni confessione» (Metaphysische Anfangsgriinde der Logik
im Ausgang von Leibniz, G.A. 26, p. 2 1 1 ).
43 M. Heidegger, Identitiit und Differenz, cit., pp. 64·65 (tr. cit. p. 234). Davide,
invece, davanti all 'Arca, danza, nudo. E, salmista per eccellenza, canta. In senso
contrario, si veda anche l'esperienza riferita da R. Walser ( dr. supra, 1, 3, n. 9).
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201
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45 J.-P. Sartre, L'f:tre et le Néant; Paris 1943, p. 708 (tr. it. L'essere e il nulla,
il Saggiatore, Milano 1965, p. 738). Tutta l'opera (e quindi, ovviamente, anche
l'ateismo sostanzialmente volgare di Sartre) si regge sull ' assimilazione di Dio alla
causa sui, senza la benché minima dis tinzione prudenziale (heideggeriana o pasca
liana) tra gli «dei» possibili . Il fascino esercitato dall a «dignità di 'causa sui'» ( p .
714 [ tr. cit. p. 744 ] , con una eco certo involontaria al dibattito tr a Cartesio e
Arnauld sulla causae dignitas, Oeuvres , ed. A.-T., VII, p . 242, 5 [tr. it. Opere,
. ...
Laterza, Bari 1 967 , 1, pp. 4 1 0-41 1 ] ) investe non solo il � oncetto di «Dio», ma
persino la cristologia elementare che deve qui fabbricarsi la retorica : «Il desiderio
è mancanza di essere, l'abbiamo visto. In quanto tale, appoggia direttamente sull'es
sere di cui è mancanza. Questo essere è l'in-sé-per-sé, la coscienza diventata so
stanza, la sos tanza diventata causa di sé, l'Uomo-Dio» (Sartre, op. cit., p. 664 [ tr.
cit. p. 69 1 ] ) ; « ... L'Ens causa sui, che le religioni chiamano Dio. Cosl la passione
dell'uomo è l'inverso di quella di Cristo, perché l'uomo si perde in quanto uomo
perché Dio nasca» ( ibid . , p. 708 [ tr. ci t. p. 738] ). Ma donde viene l'evidenza inge
nua ed aggressiva che il più alto nome del divino risieda nella causa sui, se non da
un antropomorfismo seini-concettuale e interamente non-criticato?
202
L'essere, l'idolo, il concetto
quel primo immobile che i filosofi hanno conosciuto senza giungere però
ad adorarlo» 46 • Per guadagnare un pensiero non idolatrico di Dio , il
solo che sia capace di liberare �<Dio» dalle virgolette emancipando la sua
apprensione dalle condizioni poste dall'onto-teo-logia, bisognerebbe dun
que arrivare a pensare Dio al di fuori della metafisica, per lo meno nella
misura in cui quest'ultima, con la bestemmia (la prova), conduce imman
cabilmente al crepuscolo degli idoli (ateismo concettuale) . Anche in que
sto caso, ma questa volta in nome di qualcosa come Dio e non più di
qualcosa come l'Essere, il passo indietro che porta fuori dalla metafisica
si presenta come un compito urgente, anche se non scandaloso . Ma qual
è lo scopo di questo passo indietro ? Il superamento dell'idolatria ci
chiama forse a regredire dalla metafisica nel senso in cui Sein und Zeit
cerca di compiere un passo indietro verso l'Essere come tale, attraverso
la meditazione della sua temporalità essenziale? Regredire dalla meta
fisica : anche supponendo che il pensiero consacrato all'Essere in quanto
Essere possa riuscirvi, è forse già sufficiente per liberare Dio dall 'ido
latria-visto che l'idolatria culmina nella causa sui--o non si dovrà rico·
noscere piuttosto che l'idolatria della causa sui rinvia, solo come indizio ,
ad un'altra idolatria , più discreta, più pressante e quindi tanto più
minacciosa ?
1 2 . Lo schermo dell'Essere
In che senso si può dire, a questo punto, che abbiamo fatto qualche
passo in avanti? Non abbiamo semplicemente ripreso la meditazione
heideggeriana della figura che il divino assume nell'onto.teo-logia della
metafisica, per arrivare poi, non senza una certa violenza, a conside
rarla identica alla nostra problematica dell'idolo? Questa identificazione ,
probabilmente forzata, non sarà forse u n nuovo caso d i quella mania ,
deplorevole e tuttavia persistente , di riprendere loro malgrado in un
discorso teologico i momenti principali del discorso heideggeriano, in un
gioco in cui entrambe le parti perdono infinitamente di più di quanto
203
Jean-Luc Marion
204
L'essere, l'idolo , il concetto
205
Jean-Luc Marion
non appartiene a nessun futuro , poiché solo lui può aprire un futuro
senza avvenire che non sia retto di primo acchito dalla pretesa reiterata
del presente . In breve , esso si realizza davanti a noi e, speriamolo, con
noi . In questo senso, il « nuovo cominciamento », che rompe con la dif
ferenza antologica non pensata e quindi con la causa sui dell'onta-teo
logia, inizia a concepire il «dio divino» o per lo meno non si chiude a
questa possibilità, o meglio la apre . Concludendo : il «nuovo comincia
mento » , fattosi carico dell'Essere come Essere , tenta di accostare il dio
in quanto dio . Donde quell'affermazione decisiva che dobbiamo ora com
prendere con tutte le sue armoniche : «Solo a partire dalla v�rità del
l'Essere è possibile pensare l'essenza del sacro . Solo a partire dall 'es
senza del sacro va pensata l'essenza della divinità . ,Solo alla luce dell'es
senza della divinità si può pensare e dire che cosa debba nominare la
parola 'Dio ' . ( . . . ) L'Essere . Solo in questa vicinanza si decide se e come
Dio e gli dei si rifiutano e resta la notte, se e come il giorno del sacro
albeggia, se e come in tale albeggiare del sacro possano cominciare di
nuovo ad apparire (neu beginnen) Dio e gli dei . Il sacro, però , che è
solo lo spazio essenziale della divinità, la quale a sua volta garantisce
solo la dimensione per gli dei e per Dio, giunge ad apparire solo se
dapprima e in una lunga preparazione l'Essere stesso si è aperto ed è
stato esperito nella sua verità» 50• Ciascuno di questi testi obbedisce ad
50
M. Heidegger , Ueber den «Humanismus», cit., pp. 351 e 338-339 ( tr. cit . pp.
1 19 e 105). La polemica suscitata da questi testi, o meglio dal commento che conti
nuiamo a farne, ci spinge a citarne altri paralleli ( senza pretendere per altro, tanto
la tesi è costante, all'esaustività) . Si possono dunque vedere : ( a ) Wozu Dichter?, in
Holzwege, 1950, pp. 249 e 250 � G.A. 5, pp. 270 e 272 (tr. it. Perché i poeti? ,
in Sentieri interro tti , cit ., pp. 248 e 250) : «La svolta dell'epoca non avviene perché
irrompe un nuovo Dio o perché il vecchio esce fuori dal suo nascondimento. In qual
luogo potrebbero insediarsi se (prima, zuvor) gli uomini non avessero preparato loro
un soggiorno? Come potrebbe sussistere un soggiorno adatto a Dio se prima non si
diffondesse lo splendore della divinità ( ein Glanz von Gottheit ) su tutto ciò che è?
( ... ) L'Etere, nel quale soltanto gli Dei sono Dei, è la loro di�inità ( ist ihre Gottheit ).
L'elemento di questo etere, in cui la divinità stessa è . presente ( w est) è il Sacro.
L'elemento dell'Etere per il ritorno degli Dei, il Sacro ( das Hei!ige ), è la traccia
degli dei fuggiti» ; ( b ) Die Kehre, in Die Technik und die Kehre, Pfullingen 1 962,
p . 46, tr. fr. in Questions rv, Paris 1976, p . 154 : «Vive il dio o è morto? Non pos
sono deciderlo né la religiosità degli uomini né, ancor meno, le aspirazioni teologiche
della filosofia e delle scienze della natura. Se Dio è Dio avviene a partire dall a co
stellazione dell'Essere e all'interno di questa (oh Gott Gott ist, ereignet sich aus
der Konstellation des Seins und innerhalb ihrer)»; (c) Nietzsche, II, cit ., pp. 394 e
396, tr. fr., modificata, Paris 1971, t. 2, pp. 3 1 6 e 317: «<l rimaner-mancante del
206
L'essere, l'idolo , il concetto
non-occultamento dell'Essete come tale accelera la scomparsa di tutto ciò che è sa
lutare nell'ente (alles Heilsamen im Seienden ). Questa scomparsa comprende con
sé e richiude l'aperto del sacro (das Offene des Heiligen ). La chiusura del sacro
oscura ogni bagliore della divinità ( das G ottheitlichen ) . Questo oscuramento con
ferma e nasconde nello stesso tempo il fatto che Dio/il dio manca (des Fehl
Gottes )». Donde consegue che : «più disorientante ed inquietante ( unheimlicher)
della mancanza del dio/di Dio, in quanto più essenziale e più antico, è il destino
dell'Essere ( unheimlicher als der Fehl Gottes ist . . . das Seinsgeschick )»; ( d ) Sémi
naire de Zurich , traduzione di F. Fédier e D. Saatdjian , in Poésie n. 13, Paris 1980,
p. 6 1 (cfr. anche la tr. di J. Greisch, in Heidegger et la question de Dieu , Paris
1980, p. 334 ) : «lo resto perplesso quant'altri mai di fronte a qualsiasi tentativo di
utilizzare l'essere per determinare teologicamente in che cosa Dio sia Dio . Dall'es
sere, in questo caso, non ci si può attendere null a . Credo che l'essere non potrà
mai e poi mai essere pensato alla radice e come essenza di Dio, ma credo tuttavia
che l'esperienza di Dio e del suo esser-manifesto, proprio in quanto può incontrare
l 'uomo, balena appunto nella dimensione dell'essere, il che non significa assoluta
mente che l'essere possa avere il senso di un possibile predicato per Dio» ; ( e ) Sémi
naire du Thor 1 968, in Questions rv, p . 258 : «Das Sein ist Gott [l'essere è Dio ] ,
inteso ora speculativamente, significa : das Sein 'istet' Gott [l'essere 'esserizza' Dio]
cioè das Sein lasst Gott Gott sein [ l'essere fa essere Dio Dio] . 'Ist' è transitivo e
attivo. Erst das entfaltete Sein selbst ermoglicht das Gott-sein : solo essere svilup
pato sino in fondo ( nel senso in cui lo è nella Logica) rende possibile (di rimando)
essere-Dio » . È ovvio che quest'ultimo testo deve essere utilizzato con maggiore
prudenza che non i precedenti, in considerazione del suo statuto di commento e
del suo modo di trasmissione; in questo contesto resta comunque significativo. Per
la discussione sull a portata di questi testi, si veda anche la nota a!Ulessa (infra § 5).
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208
L'essere, l'idolo , il concetto
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245 ( ndt) .
56 Rispettivamente Metaphysische Anfangsgrunde der Logik, cit., § 10, p. 177 e
Prolegomena zur Geschichte des ZeitbegrifJs, G .A. 20, pp. 109-1 1 0 . L'ateismo pu
ramente fenomenologico di Husserl ( Ideen . . . , I, § 58) può servire, anche se soltanto
in una certa misura, da punto di riferimento . Sulla permanenza del metodo feno
menologico nel progetto di una analitica del Dasein, si veda la messa a punto di
J.-F. Courtine, «La cause de la phénoménologie», in Exercices de la patience, 3 /4,
Paris 1982.
57 M. Heidegger, Vom Wesen des Grundes, in Wegmarken , G.A. 9, p. 159 ( tr .
it. Dell'essenza del fondamento , Bocca, Milano 1952, p . 5 8 , n . 56). In effetti il
testo prosegue e trasforma la riduzione della trascendenza divina nella sua costi-
210
L'essere, l'idolo , il concetto
tuzione a partire dal Dasein : « . . . ma proprio in virtù della messa in chiaro della
trascendenza viene finalmente raggiunto un sufficiente concetto dell'Esserci sul cui
fondamento diviene p ossi bil e porre il problema ( nunmehr gefragt werden kann )
del come stiano antologicamente le cose a proposito del rapportarsi a Dio da parte
dell'Esserci» . Il prob lema del Dasein, cioè il problem a che il Dasein pone a se
stesso a pro p os i to dell'Essere, determina in partenz a la possibilità di qualsiasi pro
b le m a di Dio : prima della «svolta» c'è già un preliminare che gioca davanti e su
Dio ; il fatto che qui si tratti del Dasein e non del Sein è cosa che, nella questione
di cui ci stiamo occupando, non modifica nulla .
211
Jean-Luc Marion
212
L'essere, l'idolo , il concetto
quale «Dio » , infatti, può arrivare ad ammettere in questo modo che una
mira decida della sua più o meno grande divinità, se non il «Dio » che
è l'esito di uno sguardo pio e blasfemo nello stesso tempo ? In base a
che cosa si potrà introdurre un'equivalenza tra Dio e l 'Essere, nella
quale egli avrebbe ancora il ruolo di un ente, ed essere sicuri che essa
sarà più legittima di quella tra Dio e il «Dio» causa sui della metafisica?
O ancora , la ricerca di un «dio più divino» , più che un superamento
dell'onta-teo-logia , non impone anche un superamento della differenza
antologica, non impone insomma di non tentare più di pensare Dio in
vista di un ente, dato che si sarà rinunciato in partenza a pensarlo a
p artire dall'Essere ? Pensare Dio senza alcuna condizione , compresa
quella dell'Essere, e dunque pensare Dio senza pretendere di inscri
verlo o di descriverlo come un ente .
Ma cosa può permettere e promettere il tentativo di un pensiero di
Dio senza e al di fuori della differenza antologica? Non si potrà certo
minimizzare il pericolo che questa esigenza critica renda di fatto imme
diatamente impossibile il pensiero nel suo complesso . Pensare al di fuori
della differenza antologica , infatti, condanna al rischio di non poter più
pensare . Ma appunto , quando si tratta di Dio , il non poter più pensare
non sta ad indicare né qualcosa di assurdo né qualcosa di sconveniente,
dal momento che Dio stesso , per essere pensato, deve essere pensato
come «id quo majus cogitari ne q uit» , cioè come ciò che oltrepassa, scon
certa e rende folle ogni pensiero , anche quello non rappresentativo . Per
definizione e decisione , Dio , se deve essere pensato, non può incontrare
alcuno spazio teorico che si adatti alla sua misura , dato che ai nostri occhi
la sua misura si esplica come una dismisura . La stessa differenza onta
logica, ed anche l'Essere quindi, diventano troppo corti ( anche se sono
universali, meglio : in quanto ci danno un universo, in quanto con essi
il mondo �< mondeggia ») per pretendere di offrire la dimensione , ed ancor
meno il « soggiorno divino» , nel quale Dio potrebbe diventare pensabile .
Ciò che la Rivelazione biblica sembra, a modo suo , confermare , o per
lo meno suggerire , quando menziona con lo stesso nome ciò che si può
( ma non si deve) intendere come Sum qui sum, e quindi Dio come Es
sere , e dò che si deve, contemporaneamente, intendere come una nega
zione di ogni identità: «lo sono colui che voglio essere » . L'Essere non
dice nulla di Dio che Dio non possa immediatamente rifiutare . L'Essere,
anche e soprattutto in Esodo 3, 1 4 , non dice nulla di Dio ; o non ne dice
nulla di determinante . Bisogna dunque riconoscere che l'impossibilità, o
per lo meno l'estrema difficoltà di pensare al di fuori della differenza
213
Jean-Luc Marion
61 Non si è potuto mantenere nella traduzione il gioco di parole del testo fran
cese tra raturer (cancellare) e !aturer (saturare) (ndt).
214
L'essere, l 'idolo, il concetto
215
Jean-Luc Marion
giorno divino »-anche a supporre che una simlle pretesa possa essere
soddisfatta-ma deve puramente e semplicemente accettarlo. Deve accet
tarlo o, più modestamente, non deve sottrarglisi. In questo senso, nep
pure l'inevitabile incapacità umana di corrispondere al destino gratuita
mente imposto dall'amore può bastare a squali:ficarne l'iniziativa o la
realizzazione . Per rispondere all'amore, infatti, è necessario e sufficiente
che lo si voglia , dato che per rifiutare o accettare basta la volontà ;
l'uomo , così, non può imporre alcuna condizione , neppure una condi
zione negativa , all'iniziativa di Di:Q . In questo senso, non vi è pi!i alcuna
'
mira che intervenga a ' decidere idolatricamente della possibilit à e del
l'impossibilità di un accesso a e di «Dio » .
b. V'è di più : pensare D tQ come agape c i impedisce, ugualmente e
definitivamente, di prendere la mira in un primo visibile o di rappren
derla su uno specchio invisibile � Perché ? Perché, al contrario del con
cetto che, per la definizione stessa di concezione, riunisce ciò che com
prende e che, per questo fatto stesso , culmina quasi inevitabilmente in
un idolo, l'amore (anche e soprattutto se giunge a far pensare e , in so
vrappiù, a dar da pensare) non pretende di comprendere, dato che non
ha la benché minima intenzione di prendere ; esso postula la propria
donazione, donazione nella quale il donatore coincide rigorosamente con
questo dono che è fatto senza limiti, senza riserve , senza secondi fini .
L 'amore , così , non si dona se non abbandonandosi, trasgredendo conti
nuamente i limiti del prpprio dono , sino a trapiantarsi fuori di sé. La
conseguenza è che questo trasferimento dell'amore fuori di se stesso ,
trasferimento senza fini né limiti, impedisce immediatamente che ci si
lasci prendere in una risposta, in uha rappresentazione, in un idolo . È
tipica dell 'essenza dell'amore-diff usivu m sui-la capacità di sommer
gere, così come un'ondata sommerge i muraglioni di una diga foranea,
ogni limitazione, rappresentativa o esistenziale , del proprio flusso : l'amo
re esclude l 'idolo o, meglio, lo include sovvertendolo . Può anche essere
definito come il movimento di una donazione ch.e, per avanzare senza
condizioni , si impone un'autocritica permanente e senza riserve. L'amore,
infatti , non si riserva nulla per sé, né se stesso, né la propria rappre
sentazione . La trascendenza dell'amore significa innanzitutto che esso
si autotrascende in un movimento critico nel quale nulla-neppure il
Niente/Null a-può contenere l 'eccesso di una donazione assoluta-asso
luta : liberata da tutto ciò che non si esplica in questo abbandono stesso .
L'idolatria seconda, così, può essere superata solo lasciando che Dio
sia pensato a partire dalla sua pura e semplice esigenza. Una simile
216
L'essere, l'idolo, il concetto
217
Giacomo Contri *
IL DIS-ORDINE DI PLATONE
L'inconscio demiurgo e l'inadequatio dell 'ordine
Altri due errori vanno subito tolti per spianare il terreno : il pri
mo diffusissimo benché spesso allo stato implicito, è quello che tratta
*
Questo testo riproduce parte di un contributo già apparso in : AA.VV., Il gioco
impari, Franco Angeli, a cura di A. Voltolin e M. Cirlà, Milano 198.3, pp. 105-117.
219
Giacomo Contri
220
Il dis-ordine di Platone
Prima di venire agli altri tratti del demiurgo che consentano il sud
detto accostament o--e per ora nulla più di questo--s ottolineo il tratto
ora emerso, anzi due : la parola « demiurgo » , nel passo riferito, viene
a ricoprire una definizione del tutto conveniente a quella dell'incon
scio, e rispondente a questi due enunciati : l . c'è legame, attuale, e
non più da passato mitico ; 2. c'è agente del legame, ma anche qui non
più quello del passato mitico, o sia pure di un presente altrettanto rni
tico del porre in essere il legame , bensl agente della possibilità della dis
soluzione ( «se io non voglio» ) . Anche in questo punto mi colloco su
un versante di uno dei dibattiti psicoanalitici più acuti (benché impli
citi , come sempre d'altronde, da quando in qua nella psicoanalisi si di
scute davvero ? ) , assodato a uno degli errori suaccennati, quello del
pensare, e praticare , l'inconscio, come da curare, da ridurre, come il
vero patologico, e in fondo come nemico . Ma al contrario , si può pen
sare e praticare l 'inconscio , mi si consenta l'espressione, come grazioso ,
per il meglio o per il peggio, come ingraziabile e da ingraziarsi, se si
vuole che l'operazione psicoanalitica riesca, e come condizione non fun
gibile della riuscita . C'è manicheismo , invece, anche tra psicoanalisti , il
che è curioso, dato che il manicheismo verso l'inconscio è proprio
del paziente (e nemmeno di tutti, peraltro ) . Possiamo riconoscere qui
un altro tratto del demiurgo platoniço, quello favorevole (non dico : ot
timistico) in quanto agente bene-fico , benché, anche in Platone e non
solo per l'inconscio freudiano , solo eventualmente, cioè a condizione ,
si può dire, del suo rispetto-una parola, questa, il cui accento etico
non è meno platonico che freudiano ; e una parola che potrebbe anche
essere tradotta con fairness.
Una condizione, questa, che si reduplica in un'altra : l'agente del
221
Giacomo Contri
legame, inconscio o demiurgo , può non essere, lu�, fair: solo che quello
che in Freud è scoperta-salvo che qui la espongo in ordine inverso
al comune senso freudiano , andando cioè da un inconscio che può
essere fair a un inconscio unfair in certe condizioni-, in Platone è
difficoltà se non aporia : egli ammette infatti che il demiurgo operi non
solo per « modelli eterni» , nel qual caso l'opera è «bella» , ma anche
per «modelli generati», nel qual caso l'opera è «non bella» . Insomma
dev'esserci stato qualcosa di unfair, non c'è stato rispetto delle condi
zioni . Chi, o che cosa, è �tato irrispettoso ? Il demiurgo stesso? , c�oè sua
unfairness riflessiva o costituzionale ? (nel caso dell'inconscio, èi la co
mune e banale concezione di questo come anarchico, irrazionale , e tutto
sommato malfattore) . Iniquità individuali da parte degli uomini? , ma
allora perché la ritorsione demiurgica dovrebbe anche toccare, non solo
gli innocenti, ma anche i legami sociali degli uomini? O pecca originale ? ,
di cui allora la funzione demiurgica sarebbe l 'interprete-ed è come
interprete, e giusto, dell'ordine dell'essere che Platone propone il de
miurgo, dunque non interprete equivoco , ma nell'equivoco, in caso di
pecca da interpretare .
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Il dis-ordine di Platone
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Giacomo Centri
Nel Timeo. Platone ammette , già s'è detto, che il demiurgo possa
operare con modelli generati (Tim. 28 h ) , e vi rit01;na dopo poche righe
(Tim. 29 a) ma con tono più drammatico : «Se è bello questo mondo,
e l'artefice buono , è chiaro che guardò al modello eterno : se no, -ciò
che neppure è lecito dire [ sott . mia ] -a quello nato » . Si sa che gli
interpreti hanno discusso, e invano cioè senza darle soluzione, questa
contraddizione . Ma non è forse il caso di chiedersi perché, certo consa
pevole della contraddizione, Platone l'abbia tuttavia ammessa?
Ancora nel Timeo (Tim. 49 segg . ) , un'altra ammissione, quella di
una terza specie : oltre a quella del modello eterno, non generato, e
224
Il dis-ordine di Platone
225
Giacomo Contri
condannare se stessi e le cose quasi che non ci sia nulla di sano in nulla
[ . . . ] e credere che, proprio come gli uomini ammalati di catarro, così
siano anche le cose, le quali da flusso e da catarro siano prese tutte
quante» [ sott . mie ] . Ancora una volta, non vedo come uno psicoana
lista non sarebbe colpito dalla bravura con cui Platone formula le pos
sibilità di cui ha orrore : con questa differenza, che questo orrore impe
disce a lui, come a molti moralisti, pazienti, e anche alcuni psicoanalisti,
di vedere che l'inconscio--mettiamolo, nel contesto suddetto, in bocca
a Platone con una retrodatazione di ventitré secoli-non è che tutto è
malato (everything goes, everything is ill) , ma c'è malattia solo a certe
condizioni unfair, ingiuste .
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Inadequatio dell'ordine
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Giacomo Contri
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Il dis-ordine di Platone
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Giacomo Contri
felix culpa (felix lapsus, meglio) , per mezzo dell'inconscio, la cui opera
è di fare, regolarmente, normalmente , eccezione .
Fa eccezione-su ciò non v 'è chi obietti-, ma in regimi diversi,
non lo si ripeterà mai abbastanza : entro il regime demiurgico del con
fezionare il possibile, la sua eccezione, lo sbocco, l 'interpretaZione, è il
patologico, che appartiene ancora all'ordine del possibile, ovvero l 'in
conscio in sé non ha niente di rivoluzionario, non c'è da vantarsene .
Ma se l'inconscio si può ingraziarselo, e non vedo come vi sarebbe
psicoanalisi se non lo si potesse , è allora forse concepibile, non solo la
dissoluzione di un legame, ma la costituzione di un altro, pur s mpre �
un ordine (e gli psicoanalisti hanno sempre e giustamente insistito che
la psicoanalisi non è anarchica) . A condizione di interpretarlo, l'incon
scio, cioè spostando, « staccando» , « convertendo» , «rivolgendo», « giran
do»-insomma tutta la batteria platonica-la sua interpretazione, quella
del demiurgo, cioè, e non quella dell'anima .
Ho scritto « si può» ingraziarselo--e non «possibilità»-poiché una
cultura dell'inadaequatio , !ungi dal chinare il capo all'inabilità (quella
che incontriamo per esempio nell'impotenza del patologico) , sarebbe
semmai il correlato di una capacità, insolita se non inedita .
È appena il caso di notare la critica di ogni archetipismo implicita a
tutte queste pagine .
E per finire , un cenno a una sproporzione quasi ridicola : quella tra
i mezzi degli psicoanalisti e la vocazione della psicoanalisi, cioè l'inade
guatezza di quelli e l'inadaequatio ( ecco perché ho sempre usato il ter
mine latino) del loro campo, che è quello della psicoanalisi e che non è
minore del campo platonico , e in ultimo interesse è quello del politico .
232
Giacomo Contri *
KANT CON LUTERO
La giustizia e la legge
*
Raccolgo qui idee e appunti dei tempi recenti, con un po' di ordine grazie a
233
Giacomo Contri
234
Kant con Lutero
Prima citazione . Kant, che già aveva definito il suo disegno del
mondo--non già il solo monde cartesiano--una topica ( Critica della
ragion pura, verso il termine dell'Analitica trascendentale), cioè come
un disegno--non ancora . topologia--delle difficoltà-di più, delle im
possibilità-dell'esperienza, riprende (più avanti : c P , Il canone della
ragion pura) , e in modo esplicito, questo tema del disegno dell'espe
rienza : dopo avere asserito (titolo della Sezione seconda) che il «sommo
bene» è << fondamento della determinazione del fine ultimo della ragion
pura», prosegue :
«La ragione, nel suo uso speculativo, ci ha fatto attraversare il cam
po dell'esperienza, e siccome non le è possibile trovare in esso una ra
gione piena, ci ha spinto verso le idee speculative ; ma queste, da parte
loro , hanno finito per ricondurci all'esperienza, compiendo in tal modo
il disegno della ragione, con un giro certamente utile ma contrastante
con le nostre aspettative. Ci resta però ancora un tentativo da compiere,
cioè vedere se una ragion pura possa aver luogo anche nell'uso pratico
[ . . ] Ogni interesse della mia ragione (tanto lo speculativo che il pra
. .
235
Giacomo Contri
costumato» ( qui, nel margine della mia copia, glossavo : Non ci crede
troppo nemmeno lui) ] . E prosegue : «Abbiamo mostrato precedente
mente quale valore abbia la vita per ciò che essa contiene quando sia
condotta conformemente a11o scopo che la natura ripone in noi, e che
consiste in ciò che si fa (non in ciò che si gode semplicemente) , e in cui
non siamo che mezzi per uno scopo finale indeterminato . Non resta dun
que altro che il valore che diamo noi stessi alla nostra vita mediante ciò
che facciamo, non solo , ma che facciamo in vista d'un fine cosl indipen
dentemente dalla natura, che anche l'esistenza della natura non può es
sere un fine che sotto questa condizione» [ sott . mie ] .
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Kant con Lu tero
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Giacomo Contri
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Kant con Lutero
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Ma allora la doxa è lo scomparto-valvola di sicurezza della tolleranza?
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Giacomo Centri
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Kant con Lutero
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Giacomo Contri
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Kant con Lutero
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Giacomo Contri
13 Dal titolo del Convegno svoltosi a Firenze : Livelli di realtà, Atti pubblicati da
244
Kant con Lutero
abbia per essenza, quanto che lo abbia perduto per via , per via non
dell'inconscio, ma di cattivi rapporti, rapporti spazio-temporali ) .
Abbreviando : quel malato via inconscio cu i l o psicoanalista attende ,
è un malato ? Non è un malato--e il malato, oltretutto cioè oltre al
resto, guarisce quando cessa di pensarsi malato-- , è un imputato . L'in
conscio è concepibile come un caso unico di giustizia retributiva, e rego
lare, paga il sabato . Cioè come un sistema d'imputazione agente d'ufficio,
da cui sono imputate certe azioni-siano pure prese nell'antica tasso
nomia delle opere imputabili : cogitatio , verbum , opus, omissio-del
soggetto ma prima ancora di chi l 'ha simbolicamente generato , in quanto
queste azioni consistono nei soli illeciti, deroghe, equivoci, cedimenti,
ritardi , malintesi, truffe, sgarri , che l 'inconscio imputante non perdona :
illeciti o menzogne nei confronti della verità, non una verità comunque
intesa, ma la verità intorno ai propri desideri , alle proprie passioni , alla
propria implicazione come passione nelle passioni da cui hanno mosso
l e opere che hanno presieduto alla propria generazione, come pure nelle
passioni da cui muovono le proprie opere . Una giustizia retributiva tanto
reale che le parole stesse sono trattate come res, non come flatus, e in
cui il flatus stesso non è vanifìcato ma trattato come oggetto . Una giu
f>tizia puntuale e anche puntigliosa, da sportello bancario , delle male
-fatte-ma perché non delle cose fatte bene?-, che non segue un codice
(cosl come non c 'è un vocabolario nella costruzione e nella decifrazione
dei sogni) ma un criterio di verità . Una funzione e un ufficio tanto in
credibili da meritare che vi si applichino le parole sgorgate da Cantor
in altro contesto : lo vedo ma non ci credo . L'inconscio fa giustizia sulla
verità dicendo la verità (come è chiaro , senza presupposizione di un 'idea
di giustizia né di un diritto naturale) .
Poiché queste righe non sono un trattato sull'inconscio, posso solo
aggiungere che difficilmente questa opera di giustizia in rapporto alla
verità sarebbe concepibile altrimenti che come intervento in una più
ampia ingiustizia : quella che sarebbe operata da ogni soggetto che,
ponendosi al posto dell 'inesistente Legislatore platonico dei nomi (Cra
tilo ), volesse imporre adaequatio tra i nomi e le cose, tra ( assumo per
brevità termini noti) il simbolico e il reale. L'inconscio è pensabile, non
come responsabile di questa inadaequatio, ma come fattore di verità e
istanza d'ordine nel non-ordine-prima che disordine-di questa ina
daequatio, e di giustizia nell'ingiustizia-dis-ordinante il non-ordine
della menzogna su questa inadaequatio (Platone, che cito in Il dis-ordine
di Platone, non mente, per bocca di Socrate , allorché e proprio perché
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Giacomo Contri
t4
Riferisco a questo proposito del Colloquio promosso da Il Lavoro Psicoanali
tico il 2-3 marzo 1985 a Milano sul tema : Giustizia e determinismo. Il documento
introduttivo ad esso, stilato dal sottoscritto, è anche debitore di un fecondo dialogo
al riguardo con Adriano Voltolin, cui è dovuta anche la proposta di questa idea
di u n eccesso di giustizia dell'inconscio.
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Kant con Lutero
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Kant con Lutero
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finito di stampare dalla tipografia G. B ianchi
di R. & A. Dogheria
Sesto San Giovanni