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Che inizio.

1. Le analisi iniziano quando iniziano. E questa non è una tautologia. Le analisi iniziano quando
iniziano significa che possono anche non iniziare. Che inizino è un fatto tecnico, dunque un atto
analitico. Le analisi iniziano quando si concludono i preliminari e la conclusione dei preliminari è il
primo atto dell’analista. All’inizio è l’atto quindi, ma non secondo il celebre “Am Anfang war die
Tat”. L’atto analitico non è un’azione e perciò non ha nulla a che fare con l’iperumana impresa
faustiana. L’inizio è un atto solo intercalando una “h” tra la prima “t” e la prima “a”, solo cioè
scrivendo: “Am Anfang war die That”. Così suggerisce il filosofo William James1 nei suoi saggi
radicali su un’esperienza che lo è altrettanto, su un’esperienza che è l’inizio, che è l’inizio in quanto
atto.

Le analisi iniziano con la fine dei colloqui preliminari e i colloqui preliminari si concludono quando
inizia quello che Colette Soler chiama “il lavoro del perché”, lavoro nel quale «la causa,
naturalmente ancora velata, è già operante»2. Il perché concerne la causa come oggetto latente,
velato ma attivo. Il suo lavoro trae profitto dell’evidenza del “che”: che qualcosa si ripete, che quel
qualcosa ci riguarda, che quel qualcosa è causa. Le analisi iniziano con la sottomissione
all’inconscio-cosa, dunque con la sottomissione all’inconscio-causa. In questo senso l’analisi e la
filosofia cominciano nello stesso punto: quello in cui la doxa si incrina in virtù dell’apparizione
dell’oggetto strano, l’oggetto abnorme che perturba l’economia del piacere e screzia la topica
dell’immaginario. Platone chiamava questi oggetti: ta parakalunta3. Lacan precisa in Sovversione
del soggetto che la loro lista è impensabile.

Le analisi iniziano quando iniziano. Questo però si può dire anche della filosofia? La filosofia inizia
quando inizia solo se si intende la proposizione speculativa come un atto e non come un dire. La
proposizione speculativa è un atto, un atto di creazione, e la filosofia, come ebbe a rimarcare Gilles
Deleuze, o è creazione di concetti o non è. Solo dopo sarà stata la loro applicazione alla Cosa
mediata dalle categorie e ben regolata dagli schemi.

2. L’inizio è un problema comune alla psicoanalisi e alla filosofia perché per entrambe l’inizio fa
questione. Talvolta l’inizio finisce anzi per essere La questione. Ma l’inizio diviene la questione
perché è esso stesso radicalmente in questione: l’inizio è indecidibile –e perciò problematico-
perché è dell’ordine dell’evento e non della decisione; l’inizio è indicibile –e dunque ancora
problematico- perché è un atto e non un detto. L’inizio deciso, fissato, prestabilito è invero
nient’altro che un’esigenza, una passione, quella di giustificazione nevrotica 4; l’inizio detto e così
scongiurato è invece un vero e proprio miraggio, quello del vero, che per effetto retroattivo crea a
posteriori il suo a priori. Ma tra ciò che sta dietro e causa, e ciò che sta davanti e che si mira, la
differenza è abissale, di natura. Ciò di cui si parla non è infatti mai ciò da cui si parla.

1
WILLIAM JAMES, Essays in Radical Empirism, Longman Green & Co, New York, 1912; trad. it. D. Cantone, L.
Taddio, Saggi sull’empirismo radicale, Mimesis, Milano 2009, p. 135.
2
COLETTE SOLER, Concludere i preliminari, in AA. VV., Come iniziano le analisi, Torino, SISEP, 1995, p. 77.
3
PLATONE, Filebo 46 C. e Repubblica VII, 523 b.
4
Per un’analisi acuta e rigorosa della “vita nevrotica” rimando al volume di ALEX PAGLIARDINI, Il sintomo di
Lacan. Dieci incontri con il reale, Galaad Edizioni, Roma 2016, pp. 318-342.
L’inconscio parla ed è «qualcosa che si dice senza che il soggetto vi si rappresenti o vi si dica – e
senza che egli sappia ciò che dice (…) ma che ci possa essere un dire che si dica senza che si sappia
chi lo dice, è una cosa cui il pensiero si sottrae»5. Quello che il nevrotico non sa è che l’inizio in
quanto tale è impossibile a dirsi e perciò, entro certi limiti, che sono esattamente quelli del campo
scopico, esso è nondimeno necessario a supporsi. L’inconscio non è nient’altro che la supposizione
che vi sia dell’altro qui, anche se non si vede. Se dunque «il discorso sull’inconscio è un discorso
condannato giacché si sostiene unicamente dal posto senza speranza di ogni metalinguaggio»6,
rimane il fatto che «i furbi sono meno furbi dell’inconscio»7 scrive Lacan. L’inconscio, come
l’inizio, non è speculare ed è per questo che, mi si perdoni il gioco di parole, sull’inconscio e
sull’inizio non si può speculare. In altri termini, non li si può dire senza cavarsi l’occhio e slogarsi
la lingua perché l’inconscio, come l’inizio, è reale, un allunaggio direbbe Lacan. «L’inconscio (…)
non è che un termine metaforico per designare quel sapere che non si sostiene altrimenti se non
presentandosi come impossibile, per confermarsi a partire da lì come reale»8. Se l’inizio è
problematico lo è allora come l’inconscio per Deleuze, ossia come l’Evento. Che l’inconscio è
l’Evento come il Problematico significa che esso è enigmatico in sé, senza bisogno di rinviare a
qualcosa o a qualcuno. «L’evento non parla più di quanto se ne parli o di quanto se ne dica –scrive
Deleuze-. E nondimeno appartiene strettamente al linguaggio, lo frequenta al punto da non esistere
al di fuori delle proposizioni che lo esprimono. Ma non si confonde con esse, l’espresso non si
confonde con l’espressione»9. L’inconscio è il Problematico nella misura in cui è astuto, perciò
«non è dal discorso dell’inconscio che si può ricavare la teoria che ne rende conto»10. Se l’inconscio
è la chiave, «sarà tale –precisa Lacan- solo per chiudere la porta che dovesse spalancarsi su quel
buco che è la sua camera da letto»11. L’inconscio pulsatile è un’attività che ha il suo fine in sé e non
in altro, è energheia e non praxis, atto e non azione. In quanto tale, in quanto cioè attività,
l’inconscio non è altro che la generazione di una serie indefinita di figure o formazioni che sono
tutta la sua consistenza ma nelle quali, come tale, non è mai. «Nessuna pretesa di conoscenza
sarebbe adeguata qui –insiste Lacan- dato che non sappiamo neppure se l’inconscio ha un essere
proprio e dato che è per il fatto di non poter dire c’est ça che è stato chiamato con il nome ça»12.
L’inconscio, come l’inizio, non è un questo né un quello: non è un contenuto di coscienza, non è un
what. L’inconscio, come l’inizio, è un puro “che”, un “gigantesco That” direbbe James, che
indietreggia alla stregua di un predatore la cui suzione, scrive Lacan, «svuoti in qualche modo le
rappresentazioni della loro implicazione di conoscenza»13.

3. In filosofia il problema del cominciamento struttura l’eterna domanda che chiede da dove si
parla, ossia la domanda sul trascendentale. Al cominciamento della Scienza della logica, Hegel
pone la questione dell’inizio (“Con che si deve cominciare la scienza?”) e afferma che l’inizio ha da
essere considerato secondo due aspetti da tenere uniti: il cominciare come carattere “soggettivo”
dell’esercizio filosofico e la “cosa” come principio dal quale si comincia. E tuttavia è stato con
5
JAQUES LACAN, La mispresa del soggetto supposto sapere in Altri scritti, Einaudi, Torino 2013, p. 331.
6
Ivi, p. 326.
7
Ibidem.
8
J. LACAN, Radiofonia in Altri scritti, op. cit., p. 421.
9
GILLES DELEUZE, Logique du sens, Minuit, Paris 1969; trad.it. M. de Stefanis, Logica del senso, Feltrinelli, Milano
2014, p. 161.
10
J. LACAN, La mispresa del soggetto supposto sapere, op. cit., p. 326.
11
J. LACAN, Radiofonia, op. cit., p. 435.
12
J. LACAN, La mispresa del soggetto supposto sapere, op. cit., p. 329.
13
Ibidem.
Cartesio e soprattutto con Kant che la consapevolezza di dover fare questione dell’inizio dal punto
di vista “soggettivo” è emersa come una necessità. Tale necessità è divenuta la condizione stessa
per poter fare filosofia in maniera non dogmatica, ovvero critica. In altri termini, è solo facendosi
carico della posizione di domandanti e del modo stesso della domanda, che il dire del filosofo
acquisisce un senso e una giustificazione. Ma questo “farsi carico” non ha nulla a che vedere con la
“rettifica della posizione soggettiva” che l’analista deve assicurarsi si produca durante i colloqui
preliminari, ovvero non ha nulla a che fare con l’implicazione del soggetto nel sintomo e con il
“ritrovarcisi nell’inconscio”. Ciò è vero nonostante per Heidegger sia l’angoscia il viatico prediletto
dal carico della domanda: l’angoscia heideggeriana è infatti un’angoscia-senza-oggetto e dunque
non è l’angoscia produttrice, l’angoscia che produce l’oggetto causa. Perciò la domanda sul
cominciamento, domanda che interroga le condizioni del dire e che punta a giustificarlo, continua
ad avvolgersi su se stessa facendo il verso all’autoerotismo pulsionale. Ma solo das Trieb, autentica
«smorfia di reale»14, può baciare se stessa prendendosi gioco dell’autoriflessività che condanna il
dire a non poter mai cominciare, se cominciare significa dire la verità sull’inizio: l’inizio non è
vero, è reale. Reale nel senso della Wirklichkeit. Reale perché effettuale. Freud è abbastanza chiaro
a riguardo: “non liquet” è il sintagma con cui liquida il problema della realtà della scena primaria.
Non importa che sia davvero esistita: ciò che conta sono gli effetti che la sua esistenza, vera o
presunta, produce attualmente. Effetti che, soli, misurano tutta la sua realtà. Il transfert come messa
in atto della realtà sessuale dell’inconscio è lì a confermarlo: l’analisi, quando funziona, non è
nient’altro che la modificazione degli effetti attuali di un passato virtualmente presente. Tuttavia,
quando Lacan dice che il transfert è la messa in atto della realtà sessuale dell’inconscio intende l’hic
et nunc è vero, ma anche il fatto che l’hic et nunc si analizza solo attraverso l’asse significante, solo
cioè a partire dall’elaborazione della parola nel transfert. Pertanto –osserva Soler- «non bisogna
cercare direttamente la messa in atto del transfert perché non si può lavorare direttamente sul
godimento cortocircuitando il Soggetto Supposto Sapere»15. “Prendere il desiderio alla lettera”,
formula con cui Lacan descrive la posizione interpretativa dell’analista, significa prenderlo dal
punto di vista del deciframento, sul filo della metonimia e della metafora perché è solo associando il
significante che questo si dissocia dal godimento e il sintomo si trasforma. Il godimento è entre-dit
perché la Cosa-Causa, in quanto principio, è atemporale: solo lavorando diacronicamente sui
significanti si lavora su quella per effetto retroattivo e perciò indiretto. Freud mette dunque in
campo una concezione pragmatista della verità e della realtà, e lo fa proprio nel commento al caso
clinico dell’uomo dei lupi, quando cioè, come ha osservato Lacan nel Seminario I, si tratta di
distinguere tra il Reale e il reale dei fatti. Vero, e quindi reale, è per Freud ciò che produce effetti. In
una parola, whitehediana, anche per Freud essere, essere veri e reali, significa causare.

L’inizio è allora un problema fintanto che è detto perché è l’atto la (sua) soluzione. L’inizio è un
“matter of fact” perché ciò che l’analista deve cogliere di sorpresa è qualcosa, scrive Lacan, «la cui
incidenza originaria è stata segnata come trauma»16. Detto altrimenti, che l’inizio è materiale
significa che non è dell’ordine del senso, che non è interpretabile. Come il fantasma fondamentale
l’inizio è un assioma, una costante il cui valore è indecifrabile: esso si situa nella mancanza di
significante nel campo dell’Altro, è quella stessa mancanza. Il fantasma fondamentale è la stoffa

14
J. LACAN, Televisione in Altri scritti, op. cit., p. 508.
15
C. SOLER, La direzione della cura: l’inizio e la fine dell’analisi, in La Psicoanalisi, n. 7, Astrolabio, Roma 1990, p.
77.
16
J. LACAN, La psicoanalisi nei suoi rapporti con la realtà, in Altri scritti, op. cit., p. 349.
della barra sul grande Altro e per questo non è interpretabile. Che è una costante significa che è il
residuo monotono e insistente di ogni interpretazione ma, proprio in quanto tale, funziona come
strumento dell’interpretazione analitica. Che sia un assioma, significa invece per Lacan, che è un
articolazione significante che si trova nel luogo del reale. Il fantasma è un reale del simbolico: come
un assioma esso fonda il sistema, ma ne rimane isolato. L’istante del fantasma non è infatti
temporale e perciò è nel luogo del reale, ossia dell’ordine di qualcosa che non si cambia ma che, al
limite, si costruisce. Per Lacan, osserva Miller, «il fantasma fondamentale è legato a una
significazione assoluta, a una significazione staccata, separata da tutto»17. Il fantasma fondamentale
è l’inizio assoluto: se ha una significazione di verità, questa va intesa alla stregua di una verità
logica.

4. Dire l’inizio è impossibile: impossibile perché l’Altro manca e mancando, cioè essendo vivo e
barrato, garantisce, non senza un certo imbarazzo18, l’impossibilità di dire tutto sull’inizio e sin
dall’inizio. Ma se questo è vero, che rapporto c’è, bisogna chiedersi, tra il tentativo, tutto moderno e
ogni volta destinato a fallire, di incorniciare l’inizio e il desiderio, tutto nevrotico, di colmare la
mancanza dell’Altro? Che rapporto c’è, se c’è, tra la passione filosofica del cominciamento e il
bisogno di “dire il vero sul vero” esaurendo così il reale? In filosofia la piattaforma dell’inizio è la
porta girevole del problema del fondamento; in linguistica del metalinguaggio; in matematica del
ruolo dello zero; in fisica dell’indeterminazione; nella religione e nella teologia è il problema di
Dio. Ma questi problemi restano tali, restano cioè delle impasses o sfociano in delle aporie, fintanto
che si cerca di dirli, fintanto cioè che li si considera come problemi di “conoscenza”. Eppure «non
c’è conoscenza che non consista di illusione o di mito»19 sentenzia Lacan e il mito non è nient’altro
che «il tentativo di dare forma epica a ciò che si produce per via della struttura»20. La rimozione
originaria (altro modo di indicare la funzione di assioma del fantasma fondamentale) è per questo
una nozione al tempo stesso impossibile e necessaria: necessaria perché ha a che fare con ciò che,
letteralmente, ci marchia e necessita; impossibile perché cerca di descrivere le prime tracce a partire
da ciò che viene dopo, prova a dire il reale entro il simbolico, il fuori scrittura scrivendolo, il
sorvolo assoluto21 da un punto di vista relativo o bidimensionale. Il rimosso originario è quindi al
tempo stesso impossibile a dirsi –nel senso dell’impotenza nevrotica- ma necessario a supporsi e a
formalizzarsi –come impossibile logico-, per essere indovinato e trovato come reale. «L’impossibile
è il reale»22 ha scritto Lacan. E il reale si dimostra, nel duplice senso soggettivo e oggettivo del “si”.

5. «Se la conoscenza non ha ancora ripreso conoscenza, è perché non è a causa dell’inconscio che
l’ha persa. E ci sono ben poche chances che sia lui a rianimarla»23. Psicoanalisi e filosofia si
incontrano in un punto preciso: la rottura della doxa e l’impossibilità della sua rianimazione. È per
questo che è possibile affermare che un’analisi, quando comincia, comincia nello stesso modo in cui
comincia la filosofia. Occorre però fare due precisazioni: anzitutto che la rottura della doxa non
avviene in un punto ma in un istante, rigorosamente extra-temporale ed extra-spaziale. Il che

17
JAQUES-ALAIN MILLER, Sintomo e fantasma in Logiche della vita amorosa, Astrolabio, Roma 1997, p. 101.
18
Lacan gioca sull’etimologia del termine “imbarazzo” e i suoi rapporti col barra che divide il soggetto nel Seminario
X. Si veda J. LACAN, Il Seminario. Libro X. L’angoscia (1962-1963), Einaudi, Torino 2007, p. 14.
19
J. LACAN, Radiofonia, op. cit., p. 429.
20
J. LACAN, Televisione, op. cit., p. 526.
21
Espressione utilizzata dal filosofo francese Raymond Ruyer.
22
J. LACAN, Radiofonia, op. cit., p. 428.
23
Ivi, p. 434.
significa che quel punto non è localizzabile né nel tempo né nello spazio. In secondo luogo che se
quest’istante è preciso, lo è esclusivamente nella misura in cui è traumatico. Precisione è qui
sinonimo di violenza.

Un’analisi, quando comincia, lo fa nello stesso modo della filosofia: con un trauma e con un atto.
La rottura della doxa è frattura del senso, dell’evidenza semantica della parola e di quella
fenomenologica della coscienza-conoscenza. «Che il soggetto non sia colui che sa quel che dice,
quando qualcosa viene bellamente detto dalla parola che gli manca, ma anche nella goffaggine di
una condotta che egli crede sua (…) ecco, in tutta evidenza, l’ordine dei fatti che Freud chiama
l’inconscio»24. La rottura della doxa è frattura del senso ad opera di un segno. Meglio: di un evento
che fa segno di sé secondo la corretta definizione di trauma. Ma quel segno non è né per qualcuno
né per qualcosa25: è un segno in sé, un significante in quanto tale. E il significante è causa per
Lacan. C’è causa, non fa che ripetere, solo dove c’è significante. L’inizio, in analisi e in filosofia, è
dunque sempre dell’ordine di un traumatizestai più che di un thaumazein; letteralmente: di un
essere ferito, colpito, marchiato in un violento infinito passivo. All’inizio è il trauma e non il
thauma perché non è dallo stupore e dalla meraviglia che si inizia, ma dalla perplessità e
dall’angoscia. Non quindi chiedendosi: “perché l’essere piuttosto che il nulla?” ma, al contrario,
domandandosi: “perché il non essere anziché l’essere?”, “perché manco, se sono”?

L’Altro di Lacan è per certi versi il rovescio del Dio cartesiano26. Per certi versi perché la questione
è assai complessa, soprattutto in virtù dei rapporti che intrattiene con quella del cogito e del
soggetto della scienza. Il cogito di Lacan è quello di Eulero: la formula “o io non penso o io non
sono” propone l’ergo capovolto di un nuovo cogito e dunque può darsi che l’Altro di Lacan sia
davvero il rovescio del Dio cartesiano. Di sicuro e con una battuta, l’Altro barrato di Lacan non
garantisce il Dio veridico e garante di Cartesio perché l’Altro barrato, che vive e che gode, sussurra
piuttosto alle nevrotiche orecchie la parola “impossibile”: impossibile dire ossessivamente e una
volta per tutte il tutto di ogni singola volta; impossibile dire, istericamente, infinite volte lo stesso
uno che manca una volta sola e ancora. Impossibile persino quel “conosci te stesso” sussurrato dal
demone ingannatore, perché per coloro a cui il motto delfico serve “come una muleta”, scrive
Lacan, «l’inconscio non apporta né rinforzo né delusione, ma solo il fatto che il seauton sarà
necessariamente tagliato in due nel caso in cui ci si preoccupi ancora di qualcosa di simile dopo
aver messo alla prova il proprio “inconscio” in una psicoanalisi»27. L’Altro barrato è allora un

24
Ivi, p. 402.
25
«Il segno presuppone il qualcuno al quale fa segno di qualcosa. è il qualcuno la cui ombra occultava l’accesso alla
linguistica. Questo qualcuno potete chiamarlo come volete: sarà sempre una sciocchezza» (ivi, p. 400).
26
Scrive in proposito Lacan: «Non è forse fuori dubbio ora che rapportando al soggetto del cogito ciò che l’inconscio ci
scopre, e avendo definito la distinzione tra altro immaginario, detto familiarmente piccolo altro, e il luogo di operazione
del linguaggio, posto come il grande Altro, indico in maniera sufficiente che nessun soggetto può essere supposto da un
altro soggetto –se questo termine deve giustamente essere preso nel verso di Descartes? Che costui abbia bisogno di
Dio, o piuttosto della verità che gli accredita, affinché il soggetto trovi alloggio sotto quello stesso manto che avvolge
ingannevoli ombre umane, e che Hegel, riprendendolo, affermi l’impossibilità della coesistenza delle coscienze in
quanto si tratta del soggetto promesso al sapere, tutto ciò non è forse sufficiente per puntualizzare la difficoltà di cui per
l’appunto la nostra impasse, quella del soggetto dell’inconscio, offre la soluzione, a chi sa concepirla?» (J. LACAN,
Proposta sullo psicoanalista della scuola, in Altri scritti, op. cit., p. 245).
27
J. LACAN, Radiofonia, op. cit., p. 429.
commissario antitrust: garante dell’effettiva concorrenza (c’è dell’impossibile) e nemico
dell’immaginario monopolio (“non riesco a”/ “non posso non”)28.

“Niente per niente”, afferma Lacan nel Seminario V, è la legge dello scambio. Ma “niente per
niente” è anche la legge dello scambio analitico. La seconda regola fondamentale dell’analisi, la
regola dell’astinenza, formula esattamente che l’oggetto in gioco in un’analisi è l’oggetto niente.
«Nell’analisi –rileva Miller- l’analizzante mangia il niente. Vi è un’anoressia implicata nella
struttura transferale stessa. Per questo Lacan poteva dire che il transfert è la messa in atto della
realtà sessuale dell’inconscio (…) l’analisi è precisamente il non rapporto sessuale messo in
scena»29. In analisi è l’offerta che regola la domanda, ma l’offerta è offerta di (un) niente per cui
l’analista esige persino di essere pagato. «La direzione della cura –scrive Soler- è l’arte di far
prevalere l’offerta analitica, l’arte di rendere un soggetto sensibile»30. Ma a cosa? Di che offerta si
tratta? “L’analista offre tutto il potere della risposta” scrive ancora Soler- ma l’analista risponde con
i suoi atti.

6. Le analisi iniziano con un presentimento che sortisce gli effetti di una certezza. Il presentimento è
che vi sia qualcos’altro, ma non in un altrove trascendente, che vi sia un’incognita qui, nel proprio
sapere. La certezza è che quel non sapere abbia un significato di inconscio, cioè “non so leggere
questo da solo”. «Supponiamo –scrive Miller- che vi siano dei sintomi la cui causa è, propriamente
parlando, un enunciato che sussiste nel soggetto senza poter essere formulato. Questo modo strano
di esistenza soggettiva di enunciati indicibili è quanto Freud ha elaborato sotto il nome di
rimozione. L’enunciato indicibile, causa del sintomo, è da allora assimilabile a un enunciato scritto
nel soggetto e che questi non saprebbe leggere come occorre»31. Il significante del transfert, quello
con cui iniziano le analisi, è infatti il significante rispetto al quale ci si domanda: che cosa vuol
dire? «Occorre che il soggetto incontri qualcosa al cui proposito si domanda cosa vuol dire perché
l’analisi cominci- continua Miller-. Può essere qualsiasi cosa, ma occorre naturalmente che ne vada
di voi nella soluzione della questione “ma cosa vuol dire?”»32. Se il transfert è un significante non
deve stupire: nella Proposta del 9 Ottobre, Lacan lo scrive come un algoritmo e lo fa a partire
dall’algoritmo saussuriano S/s. Il significante del transfert è un significante proprio perché ci si
domanda “che cosa vuol dire?” e proprio perché per questa domanda non c’è una risposta ma una x.
«Quando vi domandate “che cosa vuol dire” prende valore e statuto di significante ed è il
significante del transfert nella misura in cui andate a cercare la risposta da un analista (…) Avete
trovato un significante di cui non sapete che cosa vuol dire e andate a cercare un altro significante
perché si articoli al primo»33. L’analista non è altro che un significante, un significante qualunque, e
il significante del transfert è ciò che spinge il soggetto a domandare “che cosa vuol dire?” a un
analista come a un altro significante. In altri termini, scrive ancora Miller, «c’è un significato di
significato, nel senso in cui si dice “questo vuol dire qualcosa”. Si è dunque certi che vi è un

28
Queste sono le formule con cui generalmente trova espressione il “non va” del sintomo. La prima ha a che fare con la
castrazione, la seconda con la ripetizione. Scrive Soler: «da una parte quindi l’impotenza della castrazione, dall’altra la
forzatura –Zwang- la pulsione» (C. SOLER, Concludere i preliminari, op. cit., pp. 73-74).
29
J. A. MILLER, L’inizio delle analisi, op. cit., p. 273.
30
C. SOLER, La direzione della cura: l’inizio e la fine dell’analisi, op. cit., p. 72.
31
J. A. MILLER, L’inizio delle analisi, op. cit., pp. 261-262.
32
Ivi, p. 270.
33
Ibidem.
significante lì e, nello stesso tempo, non si può formulare il significato che ha (…) vi è una sorta di
vuoto enigmatico a quel posto»34.

A spingere un individuo sofferente a entrare in analisi, scrive Paola Francesconi, è «la decisione di
far entrare nel dire quanto si era finora celato nell’impossibile a dire»35. La sofferenza è tuttavia una
condizione necessaria ma non sufficiente: occorre infatti che si metta in forma significante
“l’informe dell’impossibile a dire” perché «il soggetto della sofferenza non è il soggetto in
questione nell’esperienza analitica»36. L’entrata in analisi è «una soglia che il soggetto deve vivere
come rottura in rapporto al discorso comune»37 precisa Soler. Pertanto, nei colloqui preliminari si
tratta di «azzerare le significazioni possibili per guidare piuttosto il soggetto verso l’isolamento di
una causa che resiste al sapere»38. Astenendosi dalla risposta l’analista scava nella certezza del
sapere «un’incertezza che fa apparire in una nuova luce l’impossibile a dire della sofferenza»39. In
questo senso il silenzio dell’analista ha la funzione di presentificare «lo scarto esistente tra tutto ciò
che si dice e ciò che si dovrebbe dire al fine di giungere al reale»40. Il silenzio manifesta insomma
l’incommensurabilità, afferma il non rapporto, à savoir: che c’è del sesso. Quello che il soggetto
non sa dire, non sa dirlo nemmeno l’Altro perché la sua natura non è del significante ma della
causa. Tale causa sfugge al sapere dell’Altro perché è dell’ordine della verità che, nelle condizioni
iniziali, «è inaccessibile all’Altro, dal momento che riguarda la particolarità, l’essere particolare del
soggetto»41. In altri termini, c’è un significante che manca e l’analista deve farsene depositario.
L’analista deve cioè divenire il luogo di una supposizione di sapere sulla causa, sulla verità, sul
sapere in prospettiva, quindi, non attuale. Il transfert come soggetto supposto sapere è infatti una
relazione temporale in cui il soggetto oscilla tra un’attesa e una retrospettiva. Il soggetto non è mai
presente: il suo destino nel significante è di costituirsi prima o dopo perché la parola è la prima
cosa che, retroattivamente, ci fa sapere che lì c’era un soggetto. «Con il soggetto supposto sapere
(…) si fonda l’analisi non sulla ripetizione libidica ma sul rapporto del soggetto con la parola»42 e
questo rapporto è informato dalla temporalità retroattiva del significante tale per cui l’emittente
riceve il proprio messaggio in forma invertita e l’analista, se risponde, genera una nuova domanda.
In altri termini, il tempo della domanda di significazione è quello in cui il soggetto si determina
nella anticipazione, ogni volta attualizzata, del punto di retroazione finale, quello che Lacan chiama
punto di capitone o significante padrone. Ma se il discorso analitico, osserva Soler, “esclude chi non
è nel transfert”, nondimeno il transfert come soggetto supposto sapere non è l’ultima parola, così
come la logica del futuro anteriore non è l’ultima logica, non è la logica del reale. “All’inizio è il
transfert” significa che «l’analisi non comincia senza il transfert ma nemmeno soltanto con il
transfert»43. Il sapere supposto è un sapere non tutto: il soggetto non sa ma neanche l’Altro sa, e
perciò da altro soggetto di sapere decade a ricettacolo della causa, ossia di ciò che sottraendosi
causa desiderio e manifestandosi provoca angoscia.

34
Ivi, p. 271.
35
PAOLA FRANCESCONI, La sofferenza e l’inconscio nell’entrata in analisi, in Come iniziano le analisi, op. cit., p.
158.
36
Ibidem.
37
C. SOLER, La direzione della cura, op. cit., p. 80. Corsivo nostro.
38
P. FRANCESCONI, La sofferenza e l’inconscio nell’entrata in analisi, op. cit., p. 159.
39
Ibidem.
40
C. SOLER, La direzione della cura, op. cit., p. 73.
41
P. FRANCESCONI, La sofferenza e l’inconscio nell’entrata in analisi, op. cit., p. 159.
42
J. A. MILLER, L’inizio delle analisi, op. cit., p. 268.
43
C. SOLER, Concludere i preliminari, op. cit., p. 71.
7. L’analisi, quando comincia, comincia con l’angoscia, ossia col perturbamento, brusco e
improvviso, del campo scopico dell’Io. Campo che è un ansiolitico secondo il Lacan del Seminario
X. Per questo l’analisi non è per le canaglie. Non tutti varcano quella che Soler chiama “la seconda
porta”, la porta propriamente analitica. Affinché ci sia entrata in analisi occorre qualche “bisogna”
afferma: bisogna che vi sia una soglia, bisogna che vi sia uno sforzo e bisogna che vi sia un
ostacolo. Il transfert va subito attaccato, messo al lavoro perché altrimenti, osserva Soler, il rischio è
che a «un’agevolezza d’entrata corrisponda una difficoltà in uscita»44. L’analista deve in sostanza
essere capace di non fare nulla e, all’occorrenza, di rifiutare. “L’analisi non è per tutti” è un
enunciato che fissa il quadro etico dell’analisi allo stesso modo in cui i colloqui preliminari fissano
il quadro delle associazioni libere. Per questo, commenta Soler, «i colloqui preliminari hanno
interesse solo se, nel loro maneggiamento, nella finalità, nel tipo di parola che mobilizzano, sono
eterogenei alla associazione libera»45, ossia a quel rapporto del soggetto col proprio dire in cui è
necessario poter dire «senza prendere ciò che si dice a proprio carico»46. Questo però è possibile a
condizione che gli enunciati siano versati sul conto dell’inconscio, a condizione cioè di non
riconoscervisi e, al contempo, ritrovarcisi comunque. La seconda porta non è quindi quella
dell’isterizzazione del discorso. L’emergenza della questione del soggetto non garantisce l’entrata
perché la manovra analitica deve esigere che la Cosa sia messa in gioco effettivamente, anche nel
suo versante di Causa. Da ciò segue che la rettifica della posizione soggettiva è condizione
necessaria ma non sufficiente all’inizio di un’analisi. «Far emergere l’enigma del soggetto e
sottometterlo, il soggetto, alla questione del più di godere sono due cose diverse»47, precisa Soler,
ed è solo questa seconda sottomissione che trasforma colui che si lamenta in analizzante motivando,
in seguito, tutte le altre sottomissioni (quella alla regola fondamentale, al denaro, all’orario, al
ritmo).

8. L’analisi inizia con una sublime certezza, sublime in senso kantiano ma certa in modo
antikantiano: l’angoscia non mente ma da un punto di vista logico la certezza che fornisce al
soggetto è anticipata, dunque non garantita. Che la certezza sia anticipata significa che è cieca,
sprovvista di un concetto che la trasformi in conoscenza. L’angoscia è infatti un segnale, il segnale
del reale del godimento ed è proprio questa connessione dell’angoscia con il reale del godimento,
quello rispetto a cui simbolico e immaginario possono solo girare attorno, che Lacan accentua come
certezza dell’angoscia da opporre alla costitutiva insicurezza del significante. L’angoscia è un
indice, il significante è un sembiante. L’inizio di un’analisi è allora necessitato, causato da un urto
come da un’evidenza: l’evidenza è quella dell’implicazione in un non sapere che pure ci riguarda;
l’urto è quello con la causa che indicizza il senza ragione del godimento. Nei colloqui preliminari, il
soggetto che vuole fare un’analisi deve cadere sotto i colpi del perché, proprio mentre non sa ancora
rispondervi e anche se all’inizio, osserva ancora Soler, è solo «perché viene e perché viene a
quell’ora»48. Il dire perché concerne già la causa, ossia la parte di verità che non ha alcun
corrispondente nel sapere. “Am Anfang war die That” significa allora che all’inizio è il Che, il
Quod, il senza ragione, lo Zeitlos, “il puro che c’è” che fa segno di sé e al quale si cerca, come si
può, di rispondere. Il sapere e il significato giungeranno solo dopo, après-coup, per decretare che in

44
Ivi, p. 72.
45
Ivi, p. 77.
46
J. A. MILLER, L’inizio delle analisi, op. cit., p. 262.
47
C. SOLER, Concludere i preliminari, op. cit., p. 76.
48
Ibidem.
quel non-luogo e in quel non-tempo che Soler chiama “sesamo”, qualcosa si è rotto. Il sapere è
postumo perché è sempre datato, nel senso che è sempre datazione, contabilità, calcolo e perciò è
solo «dal godimento che la verità trova da resistergli»49. Il sintomo non è altro che «una verità che
si fa valere nel discredito della ragione (…), quella soddisfazione a cui non pone rimedio il piacere
poiché essa si esilia nel deserto del godimento»50. Ma allo stesso tempo «la verità si nega più di
quanto dovrebbe, esigendo dall’atto delle arie di sesso che esso non può avere: è il fallimento – ogni
volta la stessa musica»51 scrive Lacan. La verità si situa «supponendo ciò che del reale è in funzione
nel sapere, il quale vi si aggiunge (al reale)»52 e tuttavia, a dire il vero, «è solo a motivo del falso a
essere che ci si preoccupa della verità come tale. Il sapere che non è falso se ne infischia»53. Per
questo motivo l’innocente non si spaventa davanti a ciò che c’è scritto sulla porta di ogni analista:
“destituzione soggettiva”. Detto altrimenti, sapere e verità sono incompatibili solo nel senso che si
compatiscono: «che soffrano insieme, e l’uno per l’altra, è la verità»54 ironizza Lacan alla radio.
Incompatibili perché si compatiscono significa che non lo sono in quanto non complementari. Che
non facciano un tutto, che qualcosa non faccia tutto non è d’altronde il problema, «poiché non c’è
tutto, niente è tutto. Il tutto è l’indice della conoscenza»55. Nondimeno, dal momento che la verità
“ammette tutto”, questa “rugiada del discorso” la chiama Lacan, il sapere si trova costretto a contare
soltanto su se stesso per fare il peso esatto. «Il sapere fa dote!»56. Ma l’analisi, nella sua durata, ha a
che fare con una certa mispresa, con una perdita più che una dote. L’analista non offre niente e la
direzione della cura non è altro che l’arte di far prevalere quest’offerta paradossale. Già Freud,
osserva Lacan, aveva sostenuto chiaramente che «è da un luogo che differisce da qualsiasi presa del
soggetto che viene consegnato un sapere»57: questo sapere si consegna solo alla mispresa del
soggetto. “Vergreifen” è l’espressione che Freud usa per descrivere l’azione degli atti detti
sintomatici, gli atti mancati. «Superando il Begriff –ossia la presa- promuove un niente che si
afferma e si impone per il fatto che la sua stessa negazione lo indica alla conferma che non
mancherà di produrre il suo effetto nella sequenza»58. L’inconscio è infatti «la materializzazione
intransitiva dal significante al significato»59.

Ma se il sapere si concede solo alla mispresa del soggetto, qual è, si domanda Lacan, il soggetto che
lo sa prima? Il soggetto che sa e che sa prima non c’è, perché il prima, in quanto tale, non c’è. Il
prima è materialmente il dopo e per questo ciò che Freud fa valere per l’analizzante deve essere così
riformulato: wo Es ist, wird Ich gewesen sein. Lì dove l’inconscio è (“Wo Es ist”), in atto, felice,
l’Io sarà stato (“wird Ich gewesen sein”), imprevedibilmente ma necessariamente. Questo impone in
modo stringente la logica della Nachträglichkeit, logica del reale eccedente il “semplice” futuro
anteriore e rispetto a cui l’après-coup non è nient’altro che un operatore, seppur privilegiato. Il
soggetto non prende valore che nachträglich proprio perché, si direbbe, c’è dell’inconscio: proprio
perché l’inconscio è, l’Io viene all’essere in una singolare forma di riflessività emergente che

49
J. LACAN, La psicoanalisi nei suoi rapporti con la realtà, op. cit., p. 354.
50
Ibidem.
51
J. LACAN, Televisione, op. cit., p. 534.
52
J. LACAN, Radiofonia, op. cit., p. 439.
53
Ibidem.
54
Ivi, p. 437.
55
Ibidem.
56
Ibidem.
57
J. LACAN, La mispresa del soggetto supposto sapere, op. cit., p. 332
58
Ivi, pp. 332-333.
59
J. LACAN, Radiofonia, op. cit., p. 413.
occorre però distinguere dallo Sein-zum-Tode heideggeriano di cui Lacan si serve per pensare la
temporalità retroattiva del significante. È semmai al tempo logico come definizione del soggetto,
“stoffa del suo godimento” (Soler), che occorre piuttosto far riferimento se si vuole trascendere la
nevrotica trascendenza implicata dalla morte come punto di capitone al tempo stesso supremo e
immaginario. Il tempo logico è infatti il tempo necessario a concludere, e dunque ad agire,
nonostante l’incompletezza dell’Altro e proprio in ragione della sua incompletezza. Non c’è
anticipazione possibile che sia dell’ordine del sapere e del progetto: posto che il sapere manca sia al
soggetto che all’Altro, per concludere serve piuttosto un calcolo deduttivo, un “analizzante logico”
(Soler). Il tempo logico è infatti un calcolo su a che permette di concludere su una causa
impossibile a dirsi a partire da un’intuizione che è cieca: il “per” dell’essere-per-la-morte non si
articola come un sapere perché la morte non è un oggetto-mira. La morte non la si può mirare, nel
duplice senso di “guardare a” e “prendere di mira”. La morte non si può “intenzionare” perché non
è un correlato noematico. La morte non è “a tiro” perché la morte non è (un) possibile: la morte è
reale e lo è nel senso in cui la castrazione è reale. È il soggetto-supposto-sapere, autentico Sein-
zum-Tode, che non lo è. Il sapere supposto, scrive Lacan, «non è reale»60: del sapere suppostogli lo
psicoanalista non sa nulla ma non per questo deve accontentarsi di questo sapere che non sa nulla.
Quello che importa, rimarca Lacan, «è ciò che egli è “tenuto a sapere”, quello che importa è la
struttura perché è solo nella struttura della mispresa del soggetto supposto sapere, che lo
psicoanalista deve trovare la certezza del suo atto e la falla beante che costituisce la sua legge»61. In
altri termini è solo in rapporto alla struttura, ossia nella sua «posizione di soggetto in quanto iscritta
nel reale»62, che lo psicoanalista è colui che compie atti analitici ed è solo in rapporto alla struttura e
alle sue scansioni che si può concludere che l’analisi è iniziata. L’inizio, come la fine, sono
momenti logici. Inizio e fine sono punti di raccordo, punti esemplari della struttura in cui, scrive
Lacan, «devono funzionare gli organi di garanzia dell’analista»63 perché l’analisi è una partita a
scacchi in cui lo scacco, in certo senso, non è mai matto.

9. L’analisi e la filosofia cominciano in un punto preciso: la rottura della doxa. Doxa che, nei
termini di Lacan, possiamo tradurre con “conoscenza”. Se la conoscenza è un mito è perché
«l’inconscio è. Né più né meno»64. Ma essere significa causare, ossia produrre degli effetti. Dunque
l’inconscio è ed è causa, causa anzitutto della rottura della doxa-conoscenza. La vera epoché è
strutturale più che fenomenologica. Meglio: l’epoché è precisamente il passaggio dalla
fenomenologia alla struttura. Perciò alla doxa Lacan non contrappone l’episteme, ambizione indotta
nel padrone greco dall’isterico diviso, e dunque forse non così sublime 65. Alla doxa e all’episteme
Lacan contrappone il troumatisme, il buco nel sapere e nel discorso, la mancanza dell’Altro della
verità. L’Altro non c’è, l’Altro manca, l’Altro è bucato. Questo significa rottura della doxa. “Non
c’è transfert del transfert” e per questo l’analista deve farsi causa, sin dall’inizio, della sua
elaborazione. L’analista deve farsi causa della divisione del soggetto, decompletarlo a poco a poco e
60
J. LACAN, Proposta sullo psicoanalista della scuola in Altri Scritti, op. cit., p. 246.
61
J. LACAN, La mispresa del soggetto supposto sapere, op. cit., p. 334.
62
Ibidem.
63
J. LACAN, Proposta sullo psicoanalista della scuola, op. cit., p. 244.
64
J. LACAN, Radiofonia, op. cit., p. 429.
65
«L’isterico è il soggetto diviso, in altri termini, l’inconscio in esercizio, che mette il padrone con le spalle al muro
sfidandolo a produrre un sapere» (ivi, p. 433). L’episteme per Lacan è l’effetto dell’intimazione di un Socrate («isterico,
confesso, avendo egli detto di non avere altra conoscenza che in materia di desiderio, patente nei suoi sintomi
patognomomici», ibidem) bisognoso della “dimostrazione di qualcosa che valesse la tecné del servo e giustificasse i
suoi poteri di padrone” (ibidem).
fin dall’inizio. Solo così l’analizzante arriva a realizzare come alienazione il proprio io penso, vale a
dire a scoprire il fantasma come motore della realtà psichica, quella del soggetto diviso. «Egli non
può farlo –precisa Lacan- se non rendendo all’analista la funzione dell’(a), che egli non potrebbe
essere senza immediatamente svanire»66. L’analista offre se stesso come supporto a quel disessere e
permette così al soggetto di sussistere nella realtà alienata, ossia di pensarsi come diviso. Questo
significa passare dalla fenomenologia alla struttura. Quando questo passaggio si compie, e non è
certo di un passaggio all’atto che si tratta, l’analisi inizia.

Il passaggio dalla fenomenologia alla struttura esige tuttavia che siano tre le porte in cui si articola
l’entrata in analisi. Tre porte che corrispondono alle tre verità logiche del tempo. La prima porta è
quella fisica, la porta dell’istante del bussare, dell’affacciarsi e guardare, porta che la sofferenza,
quando è agita, muta, perversa o autistica sovente non riesce a oltrepassare. Poi c’è la porta della
parola, porta cronologica del senso e del lamento, porta del racconto e della domanda di
significazione. Questa è la porta su cui staziona il soggetto che soffre nella verità, porta d’ingresso
del sintomo in entrata, ossia del sintomo in perdita reale di godimento. Sulla soglia di questa porta
ci si rivolge all’analista come a un significante, all’analista come Soggetto Supposto Sapere:
l’analista è l’oggetto di una mira, è l’oggetto mira in quanto oggetto del desiderio di sapere e così
guarire. Lo statuto della causa è infatti a questa altezza quello di un enunciato. L’analista è supposto
sapere e dirigere, e “colui cui suppongo un sapere, lo amo” ha detto Lacan in Ancora. La seconda
porta è dunque la porta dell’amore, dell’amore di transfert che, come tutti gli amori, inganna ed è
ingannato. L’amore inganna «perché si presenta come il velo dell’angoscia e di ciò che l’angoscia
produce, ossia l’oggetto causa del desiderio»67. Se questo è vero, la seconda porta è anche la porta
del seminario VIII, la porta illuminata dallo splendore dell’oggetto agalmatico del desiderio, del
fallo come Desiderio della Madre e del desiderio come desiderio dell’Altro, di quel desiderio che è
la sua stessa interpretazione. Porta eminentemente fenomenologica, la seconda porta è la porta
ermeneutica e scopica, porta simbolica e immaginaria, in cui il perché è una domanda e l’impotenza
la conferma schiacciante della realtà perduta. Porta dell’inganno del segno, al contempo
omeostatica e ansiogena in quanto porta della rassicurazione e della sospensione, la porta socratica
della conoscenza, del tempo transferale di comprendere è perciò ancora una porta da oltrepassare.
La psicoanalisi non è infatti un’ascesi della conoscenza, né un’effusione comunicativa. La
psicoanalisi non è un’ermeneutica e il suo versante non è quello del senso. La psicoanalisi è un
procedimento: il suo versante è quello dell’atto, «atto in cui l’oggetto è attivo e il soggetto
sovvertito»68 e perciò non è triste. «All’opposto della tristezza –afferma Lacan in Televisione- c’è il
gaio sapere, che è invece una virtù (…) non già comprendere, affondare nel senso, ma rasentarlo
quanto è possibile senza che esso faccia da vischio per questa virtù»69.

La terza porta è quella della felicità, della felicità che è dappertutto. «Il soggetto è felice. È proprio
questa la sua definizione, in quanto egli deve ogni cosa solo al buon incontro, in altri termini alla
fortuna, e ogni incontro gli è buono per quanto riguarda ciò che lo mantiene, vale a dire affinché si
ripeta»70. Ma la terza porta è quella della felicità nella misura in cui è quella dell’angoscia, porta
girevole dell’istante in cui si entra après-coup, dopo un colpo e con tutta la violenza della

66
J. LACAN, La psicoanalisi nei suoi rapporti con la realtà, op. cit., p. 355.
67
J. A. MILLER, Introduzione al Seminario X di Jaques Lacan, Quodlibet, Macerata, 2015, p. 63.
68
J. LACAN, La mispresa del soggetto supposto sapere, op. cit., p. 328.
69
J. LACAN, Televisione, op. cit., p. 521.
70
Ibidem.
precisione con cui un residuo organicistico fa obiezione alla dialettica. La terza porta è quella dello
“specchio in frantumi”, dello specchio éclaté, porta in cui l’immaginario viene perturbato ad opera
di oggetti strani. La retroazione edipica per un istante viene meno lasciando spazio alla costituzione
circolare dell’oggetto, al calcolo sull’eteromorfismo di a piccolo, causa assente e strutturale, vettore
di godimento che dirige la cura. Dalla fenomenologia alla struttura significa anche dalla mitologia
alla topologia. La terza porta è dunque la porta della causa, porta logica della struttura perché porta
ontologica della ripetizione e di un soggetto che vi si mantiene. La terza porta è la porta reale, porta
erogena del godimento e della sua condensazione in un sintomo che fa ovunque la felicità
dell’inconscio. Porta al di là del benessere e al di là del piacere, la terza porta è la porta “asociale”71
del discorso analitico. L’analisi, scrive Miller, inizia «oltre il supposto benessere del paziente, oltre
quel momento in cui comincia a sentirsi bene nella propria pelle»72. L’analisi inizia sulla terza
porta, porta sulla cui soglia il senso si rovescia in non senso e la “frottola sessuale” stenta a
barcamenarsi. In quanto porta del godimento e non del sapere, la terza porta è la porta del
Seminario X, porta in cui il desiderio non è desiderio di qualcosa, ma è desiderio causato dalla Cosa
sotto i cui colpi il soggetto cade e l’analista compie l’atto di concludere i preliminari. Qui il perché
è una risposta e la causa è l’atto di cui l’analista si fa sembiante. La terza porta è in altri termini la
porta non speculare, una porta-bordo, una porta orifizio sulla cui soglia l’Io stenta a reperire i suoi
stadi. È qui che «la struttura del faccia a faccia viene rimpiazzata, cedendo il posto alla struttura
dello sconfinamento, dell’ectopia»73. Il setting è lì a dimostrarlo perché la psicoanalisi è il frutto di
un’evoluzione molto particolare della pratica di un Freud che si allontanava sempre più dalla
medicina e dalla fenomenologia. Non è quindi un caso che essa si fondi su una serie di abbandoni
che riguardano la percezione: abbandono dell’esame medico, abbandono dell’ipnosi e della
suggestione, abbandono della localizzazione organica (sinonimo di evidenza percettiva), abbandono
delle pressioni sulla fronte e poi, colpo di genio, abbandono del vis-à-vis: Freud si sottrae alla vista
dell’analizzato per iniziare orientandosi a partire dalla struttura: soltanto essa costituisce «di diritto
la traccia del difetto di un calcolo a venire»74.

Alessandra Campo

71
«Questo aspetto asociale corrisponde in realtà, e questo è lo sforzo straordinario, la battuta di Lacan, a un legame
sociale di altro tipo» (J.A. MILLER, Sintomo e fantasma, op. cit. p. 64).
72
Ibidem.
73
J. A. MILLER, Introduzione al Seminario X, op. cit., p. 93.
74
J. LACAN, Radiofonia, op. cit., p. 405.

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