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Il presente studio monografico affronta il problema della genesi e dello

sviluppo del concetto di “Stato chiuso dal punto di vista commerciale”


nella riflessione di Johann Gottlieb Fichte. Prendendo in esame la non
esigua bibliografia sul tema e le più recenti acquisizioni della Fichte-
Forschung, il saggio cerca di mostrare come sia possibile rintracciare,
nel percorso teorico fichtiano, una correlazione essenziale tra il
fondamento della dottrina della scienza come “sistema della libertà” e la
teoria dello Stato chiuso commercialmente così come viene sviluppata da
Fichte a partire dal 1800. La “chiusura commerciale” appare a Fichte,
nella specifica congiuntura storica in cui si trova a operare, la sola via
per reagire all’“anarchia commerciale” e, dunque, per rendere praticabile
la dottrina della scienza come inesausto sforzo di razionalizzazione
dell’esistente.
DIEGO FUSARO (Torino, 1983) insegna “Storia della filosofia” presso
l’Università San Raffaele di Milano. È studioso della filosofia della storia e
delle strutture della temporalità storica, con particolare attenzione per il
pensiero di Fichte, Hegel, Marx e per la “storia dei concetti” tedesca. Dirige
la collana filosofica “I Cento Talleri” dell’editrice Il Prato ed è il
curatore del progetto internet “La filosofia e i suoi
eroi” (www.filosofico.net). Tra i suoi studi più recenti: Minima mercatalia.
Filosofia e capitalismo (Bompiani, 2012), Idealismo e prassi. Fichte, Marx
e Gentile (Il melangolo, Genova 2013), Il futuro è nostro.
Filosofia dell’azione (Bompiani, Milano 2014).

In copertina:
Konstantin Juon, Nuovo pianeta, 1921.
Mosca, Galleria Tret'jakov.
Scansione, Ocr e conversione a cura di Natjus

Ladri di Biblioteche
opuscula /222
Copyright © 2014, il nuovo melangolo s.r.l.
Genova - Via di Porta Soprana, 3-1
www.ilmelangolo.com

ISBN 978-88-7018-941-4
Diego Fusaro

Fichte e l’anarchia del commercio

Genesi e sviluppo del concetto di “Stato commerciale chiuso”

il melangolo
Il conflitto degli interessi commerciali è
frequentemente l’autentico motivo delle guerre, per le
quali si tende sempre a cercare un ordine di motivi
differenti. In tal maniera, viene assoldata una metà del
pianeta contro i princìpi politici di una popolazione,
per quanto si dice, mentre la guerra è, in verità, indirizzata
contro il suo commercio e a detrimento degli stessi
reclutati.

J.G. FICHTE, Lo Stato commerciale chiuso

Le epoche umane come i rapporti umani sono gli


uomini che li foggiano, e nessuna forza all'infuori di essi.

J.G. FICHTE, Discorsi alla nazione tedesca


ELENCO DELLE ABBREVIAZIONI RELATIVE ALLE OPERE DI
J.G. FICHTE

GA = Gesamtausgabe der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, a


cura di R. Lauth e H. Jacob, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt
1962 ss.

M = Werke. Auswahl in sechs Bänden, a cura di F. Medicus, Meiner,


Leipzig 1908-1912 e 19623.

NS = Nachgelassene Schriften, a cura di H. Jacob, II, Schriften aus den


Jahren 1790-1800, Junker und Dünnhaupt, Berlin 1937.

SW = Sämmtliche Werke, a cura di I.H. Fichte, Veit, Berlin 1845-1846.


1

SULLA PRESUNTA KEHRE NEL PERCORSO FILOSOFICO-


POLITICO DI FICHTE

Guardati dall’assecondare, per interesse o per brama di


gloria presente, il gusto corrotto del tuo tempo: sforzati di
rappresentare l’ideale che sta davanti alla tua anima,
e dimentica tutto il resto.

J.G. FICHTE, Sistema di etica

Già da un numero tutt’altro che esiguo di anni la Fichte-Forschung, se


non in modo unanime sicuramente nella maggior parte delle sue prestazioni,
si è congedata dall’idea, per lungo tempo egemonica, secondo la quale il
percorso fichtiano sarebbe contraddistinto, sul piano teoretico, dalla
decisiva frattura segnata dalla pubblicazione della Bestimmung des
Menschen del 18001. A partire da tale opera-soglia, come è noto, si era
soliti - secondo una linea interpretativa pioneristicamente propugnata dallo
stesso Schelling2 - identificare, nel percorso fichtiano, un nuovo inizio, vuoi
anche una radicale frattura, che avrebbe condotto il pensatore di Rammenau
a un diverso modo di intendere e di praticare la filosofia, ridefinendo
integralmente il codice della Wissenscha ftslehre (= WL).
In forza di tale svolta, da intendersi per certi versi come l’equivalente
funzionale della Kehre nel percorso teorico heideggeriano, si verificherebbe
un transito (ora salutato dagli interpreti come un geniale guadagno teorico,
ora stigmatizzato come un’inattesa ricaduta nella Schwärmerei) dal
cosiddetto idealismo soggettivo (la soggetto-oggettività soggettivamente
intesa, secondo la formula critica della Differenzschrift hegeliana3), con al
centro l’idea dell’agire umano come fondamento del reale, all’Assoluto
come fondamento dato di ogni scienza possibile. Un tale passaggio dall’Io a
Dio4 (con in mezzo - a mo’ di spartiacque - (Atheismusstreif), ossia dalla
prima filosofia (soggettivistica, critica e prassistica) alla seconda
(oggettivistica, speculativa e teologica), in cui l’essere cessa di essere
dedotto dal fare e si assume come fondamento realmente dato
l’automanifestarsi dell’essere assoluto (l’apparire di Dio come sapere
assoluto), è oggi stato, come si diceva, ampiamente ridimensionato dagli
interpreti: i quali, senza sottovalutare le novità e le acquisizioni teoriche,
spesso decisive, che vengono rapidamente succedendosi nel Denkweg
fichtiano, hanno preferito intenderle come momenti plurali di un percorso in
sé profondamente unitario6.
Una tale rilettura, del resto, non soltanto è suffragata dallo stesso Fichte,
il quale, come è noto, ha sempre insistito sull’intima unitarietà
dell’impianto della WL nonostante i continui ri modellamenti che la
caratterizzano (si veda, a questo proposito, tra le tante, la programmatica
affermazione dell' Anweisung zum seligen Leben7), ma trova un proprio
robusto punto di sostegno nella considerazione svolta da Ives Radrizzani e
supportata da un solido impianto argomentativo: se davvero Fichte
avesse cambiato sistema o anche solo effettuato una vera “rivoluzione di
paradigma” (nel senso attribuito da Kuhn a tale espressione), allora avrebbe
anche dovuto mutare il principio su cui tutto il sistema si regge, cosa che
invece non ha mai fatto8. D’altro canto, che Fichte ripubblichi nell’estate
del 1801 la Grundlage der gesamten Wissenschaftslehre del 1794-95 è la
prova tangibile del fatto che egli, nonostante tutti i ripensamenti del easo,
ancora si riconosca nelle strutture della IVI. codificate sei anni prima9.
La svolta transzendentalphilosophisch, condotta in direzione di un
idealismo trascendentale che invera Kant nell’atto stesso con cui lo affranca
dalle scorie del dogmatismo che ancora infettano il suo sistema, resta il
solido fondamento su cui le varie esposizioni della WL vengono
ridefinendosi: esso costituisce, per così dire, il coefficiente di unitarietà che
permette di leggere tutte le prismatiche Darstellungen della dottrina
della scienza come parti del System der Freiheit inteso come impianto in sé
unitario in tutte le articolazioni del suo sviluppo.
In particolare, è merito di Radrizzani10 aver mostrato come la
Bestimmung des Menschen, comunque la si voglia intendere, lungi dal
costituire una rottura nel Denkweg fichtiano, presenti non pochi elementi di
continuità con i testi e con le soluzioni del “primo Fichte”, non soltanto con
la dottrina della scienza nova methodo, di cui è - almeno in parte -
un’esposizione in forma di populäre Lehre, ma anche con la stessa
Grundlage der gesamten Wissenschaftslehre del 1794-95 e con la Erste
Einleitung del 1797. In particolare, il principale tratto comune - vero e
proprio orizzonte di senso dell’intera riflessione teoretica di Fichte -
andrebbe ravvisato nell’antidogmatismo e nella simmetrica insistenza sul
fare come fondamento dell’essere, con annessa defatalizzazione
dell’esistente ricondotto al versante soggettivo (la deduzione dell’essere dal
fare, del fatto dall'atto, del reale dalla prassi). Questo principio, lungi
dall’essere rinnegato dal “secondo Fichte", costituirebbe il fondamento
della sua riflessione e delle importanti innovazioni teoriche che essa viene
guadagnando dopo il 1800.
Ora, se è vero che la Fichte-Forschung ha, con buone ragioni,
disarticolato il precedente paradigma dicotomico incentrato sulla fallace
idea della Kehre teoretica, non si può non rilevare, per contrasto, come non
si sia ancora effettuata, con eguale radicalità, un’analoga operazione sul
còte della filosofia politica e sociale di Fichte: la quale, salvo eccezioni pur
degne di nota11, persiste tenacemente nell’interpretare la riflessione socio-
politica del pensatore di Rammenau alla luce di quella presunta rottura
epistemologica che, essenzialmente concomitante rispetto a quella teoretica,
si consumerebbe anch’essa a partire dal 1800. In una simile prospettiva,
Der geschlossene Handelstaat svolgerebbe, sul piano socio-politico, una
funzione del tutto analoga a quella svolta dalla Bestimmung des Menschen
sul versante teoretico, configurandosi come lo spartiacque decisivo,
il momento della Kehre, del trapasso a una nuova visione che, rispetto a
quella precedente, andrebbe intesa nei termini di una mera frattura senza
punti di continuità12.
Le conseguenze della mancata disarticolazione del paradigma della
Kehre sul versante socio-politico sono ampiamente note e, per questa
ragione, sarà qui sufficiente farvi cenno, compendiandole, in forma
volutamente icastica, in quello che, ad oggi, continua a essere il principale
pregiudizio a cui è inerzialmente legata l’ermeneutica propria della Fichte-
Forschung: il “giovane Fichte”, giacobino e rivoluzionario, nemico dello
Stato e dei tiranni, cosmopolita e difensore dei guadagni della Rivoluzione
francese, strenuamente in cerca dell’emancipazione del genere umano
kantianamente inteso “da un punto di vista cosmopolitico”, passerebbe
disinvoltamente, a partire dalla stesura di Der geschlossene Handelstaat, a
una visione reazionaria e statalistica, anti-illuministica e saldamente
conservatrice, poi destinata a trovare conferma nelle successive Reden an
die deutsche Nation, del 1808, in cui la letteratura secondaria si è
variamente sbizzarrita a scorgere in statu nascendi le radici delle peggiori
sciagure del Novecento.
Fintantoché era ancora in vigore il paradigma della Kehre teoretica e
della sua idea cardinale del transito fichtiano dalla prospettiva astratta
illuministica a quella romantica e nazionalistica13, era pressoché scontato
intendere le due svolte - teoretica e politica - in stretta relazione tra loro:
quasi come se il transito dalla filosofia dell’Io a quella di Dio comportasse
necessariamente, eo ipso, l’abbandono del pensiero politico della libertà e
dell’emancipazione e l’adesione a una concezione autoritaria e
reazionaria, orbitante attorno al fuoco prospettico dello Stato etico e
commercialmente chiuso. Tuttavia, dopo che, come si è visto, la tesi
della rottura teoretica ha smarrito la sua tenuta, a sopravviverle è
unicamente la visione dominante della rivoluzione di paradigma in ambito
socio-politico e nella concezione della Staatsform.
In forza di tale tesi, che - lo ripetiamo - ancora non ha smarrito, né ha
visto significativamente ridimensionata, la propria egemonia, diventa
possibile disgiungere troppo disinvoltamente il cosiddetto “primo Fichte”
dal “secondo” e, per questa via, intendere la sua riflessione politica a partire
da Der erschlossene Handelstaat come un episodio della reazione
o, secondo una linea non di rado egemonica, come un primo passo sia verso
il nazionalsocialismo precorso dalle Reden (così, tra i tanti, Arnold
Gehlen14), sia verso lo stalinismo preconizzato in Der geschlossene
Handelstaat (si veda, tra i molti, Nico Wallner15), o magari anche - non
stupirebbe che così venisse interpretata la Staatslehre del 1813 come una
diabolica sintesi tra i due regimi totalitari. La “rischiosa categoria del
precorrimento”16, come la definiva Foucault, ostenta in questi casi una
chiara vocazione ideologica: essa si rivela l’arma ideologica tramite cui
demonizzare preventivamente il codice filosofico-politico fichtiano
attribuendogli la responsabilità per le tragedie storiche posteriori.
È, appunto, in grazia di una tale dicotomia semplificatoria e, insieme,
generatrice di fraintendimenti ermeneutici che la letteratura critica, ieri
come oggi (e non alludiamo qui che alla migliore), si avvolge in paradossi
di ogni genere, presentando il filosofo di Rammenau in maniera
contraddittoria e - secondo l'acuto suggerimento di Manfred Buhr -
screditandolo, a seconda del punto di vista dell’interprete, come
“democratico e reazionario, giacobino e uomo delle tenebre, cosmopolita e
sciovinista prussiano-tedesco, idealista soggettivo, irrazionalista, mistico, e
poi al contrario idealista oggettivo, razionalista, panteista, ateo”17. Non vi è
accusa che non sia stata rivolta alla filosofia politica fichtiana.
Fichte non compare, è vero, tra gli autori chiamati da Popper a sedere al
banco degli imputati in The Open Society and Its Enemies: e, tuttavia, sul
fatto che il pensatore di Rammenau, a partire dal 1800, sia un nemico
dell'open society non vi è alcun dubbio. Che il pensiero liberale lo consideri
tale, a ogni latitudine e a ogni gradazione, è provato, oltretutto, dal fatto che
Isaiah Berlin annoveri il pensatore di Rammenau tra i “nemici della libertà
umana”18 (enemies of human liberty): dove la libertà, naturalmente, è
sempre e solo quella liberale, che pensa l’individuo astratto e
anticomunitario, protetto dalle intrusioni statali e libero di abitare lo spazio
sociale ridotto a puro piano delle transazioni mercantili. Si tratta, in effetti,
del concetto di libertà contro cui combatte strenuamente Fichte (e alla cui
luce è possibile leggere, come vedremo, Lo Stato commerciale chiuso): non
certo per negare tout court la libertà, bensì per promuoverla in una diversa
accezione, che sia forma e contenuto, che sia, appunto, una libertà non
liberale, in ciò risvegliando i suoi contemporanei - ma poi, a maggior
ragione, noi che siamo vittime dell’incubo dell'end of history19 - dal sonno
dogmatico dell’automatica identificazione, tutto fuorché ideologicamente
neutra, tra la libertà e la sua declinazione liberale.
La Wirkungsgeschichte del pensiero politico del “secondo Fichte” è
costellata da fraintendimenti ed equivoci, dovuti al modo stesso con cui si è
impostato il problema, assumendo surrettiziamente come fondamento
indiscusso (l'hegeliano noto che non è conosciuto20) una visione essa stessa
erronea, quella secondo cui si darebbe una Kehre nell’elaborazione politica
e sociale di Fichte. Non è questa la sede per prendere in esame tutta la ricca
gamma di interpretazioni che si inscrivono in questa serie di equivoci,
poggianti su una tale indebita assunzione. Basti qui rammentare che già
Max Wundt, nel suo lavoro monografico del 1927, si domandava se Fichte
fosse un democratico e, anziché cercare la risposta nella sua filosofia o nelle
sue relazioni con l’epoca, la lasciava irrisolta perché convinto che un simile
problema, dai testi, e in particolare dal mutamento prospettico subentrato
con la data-soglia del 1800, non potesse di fatto essere risolto21.
Senza le esitazioni tra cui oscilla Wundt, Emil Lask, nel suo Fichtes
Idealismus und die Geschichte (1902), interpreta il pensatore di Rammenau
direttamente come un irrazionalista puro ( Fichte come “romantico e
mistico”22, per riprendere la nota formula da Galvano Della Volpe
impiegata in riferimento a Hegel), preparando de facto la strada alle future
letture naziste. Può essere ancora interessante rammentare come Wilhelm
Windelband interpreti Fichte come un teorico della monarchia assoluta, a
partire dallo Stato commerciale chiuso, e come Friedrich Meinecke lo
etichetti come un pangermanista legato all’idea di Stato autoritario23.
Ancora Lukäcs, in Die Zerstörung der Vernunft (1954), legge come
razionalista rivoluzionario il “primo Fichte” e come irrazionalista
distruttore della ragione il “secondo”24.
Un caso apparentemente antitetico, ma in verità segretamente
complementare, è quello del già menzionato Manfred Buhr. Questi, nel suo
Revolution und Philosophie. Die französische Revolution und die
ursprüngliche Philosophie Fichtes (1965), aspira a prendere posizione
contro le letture mistificanti di Fichte, ma finisce in parte, egli stesso, per
presentare un’interpretazione che risulta non meno fuorviante: infatti, Buhr,
per sua esplicita ammissione25, sostiene la necessità di interpretare Fichte in
chiave marxista, come “uno dei pensatori più progressivi che il mondo
borghese abbia prodotto”26. È del tutto convincente l’operazione
ermeneutica che Buhr compie nel tentativo di mostrare il nesso ineludibile
tra la Rivoluzione francese, la WL e le opere politiche del primo Fichte
(ancorché risulti francamente eccessivo intendere il Natur recht jenese del
1796-97 come un’opera toto genere giacobina): e, tuttavia, Buhr
finisce, anche al di là delle sue intenzioni, per introiettare il paradigma della
Kehre, come emerge nitidamente dal fatto che egli, per fare salva la visione
rivoluzionaria di Fichte, già tutta tesa verso il marxismo (secondo la
Nachwirkung della WL sul marxismo che si trova anche in Roger
Garaudy27), scelga consapevolmente di evitare un'attenta analisi delle opere
politico-sociali successive al 1800.
Le prestazioni interpretative più recenti - salvo, come già si diceva,
alcuni casi degni di nota (sui quali torneremo) - si inscrivono esse stesse in
questa linea ermeneutica, condividendo in modo spesso irriflesso il
presupposto della svolta di paradigma. Un tale modello ermeneutico, d’altro
canto, si presta a essere conservato non solo perché, come spesso accade, si
è cristallizzato in una sorta di presupposto inerziale, come se si trattasse di
un dato di fatto indiscutibile, ma poi anche per il fatto che, a ben vedere,
meglio si sposa con il principio di quella "pigrizia storiografica” che, nelle
sue soluzioni ermeneutiche, è fatalmente attratta dal principio della
semplicità e del risparmio di energie interpretative28. Nel caso della
cosiddetta Kehre, la storiografia può addirittura risolvere il problema
liquidandolo preventivamente: come se, appunto, si trattasse di una
semplice incocrenza di Fichte, vuoi anche di una contraddizione realmente
esistente nel suo percorso teorico, attraversato da una sorta di faglia sismica
situata nel 1800. Per questa via, il senso profondamente unitario della
filosofia politica fichtiana viene smarrito e, con esso, è in pari tempo
compromessa la comprensione della vocazione eminentemente politica
degli stessi princìpi della WL.

1. Cfr., ad esempio, G. ZÖLLER, Neuere Resultate der Fichte-


Forschung, in “Philosophischer Literaturanzeiger”, n. 49 (1996), pp. 389-
394.
2. Dopo l’esposizione del 1801 e quella del 1804 della
Wissenschaftslehre, Schelling, nella sua Esposizione dei veri rapporti della
filosofia della natura con la dottrina migliorata di Fichte, sosteneva che
Fichte aveva mutato la propria filosofia assumendo i principi dello stesso
Schelling, senza nemmeno curarsi di renderli conciliabili con il sistema
della dottrina della scienza di un tempo. Si veda R. LAUTH, Kann
Schellings Philosophie von 1804 als System bestehen? Fichtes Kritik, in
"Kant-Studien”, n. 85 (1994), pp. 48-77.
3. Cfr. G.W.F. HEGEL, Differenz des Fichteschen und
Schellingschen Systems der Philosophie, 1801 ; tr. it. a cura di R. Bodei,
Differenza tra il sistema filosofico fichtiano e schellinghiano, in id.. Primi
scritti critici, Mursia, Milano 1971. Sull’interpretazione hegeliana di Fichte
nella Differenzschrift, cfr. soprattutto H. GIRNDT, Die Differenz des
Fichteschen und Hegelschen System der Philosophie in der Hegelschen
"Differenzschrift ", Bouvier, Bonn 1967.
4. È a partire dalla Neue Darstellung der Wissenschaftslehre
1801/02 che il pensiero trascendentale di Fichte muta sul piano concettuale,
poiché dall’Io si passa al “sapere dell’Assoluto” (Wissen des Absoluten). Si
veda, ad esempio, J. STOLZENBERG, Zum Theorem der Selbstvernichtung
des absoluten Wissens in Fichtes Wissenschaftslehre von 1801, in "Fichte-
Studien”, n. 17 (2000), pp. 127-140.
5. Con le parole dì Twesten a Brandis del 30 marzo 1811, in seguito a
una visita fatta a Fichte: “parlavamo del rapporto tra la sua vecchia dottrina
della scienza e quella nuova. Esso è il seguente. Nella vecchia dottrina della
scienza egli parte dall’Io puro che viene presupposto e dal quale viene
dedotto tutto il resto. Adesso invece va ancora più in alto e deduce a sua
volta questo stesso Io puro come forma necessaria della manifestazione di
Dio” (J.G. Fichte im Gespräch. Berichte der Zeitgenossen, a cura di E.
Fuchs in collaborazione con R. Lauth e W. Schieche, 6 voll., Stuttgart/Bad
Cannstatt 1978-1992,1, pp. 311-312).
6. Si veda, tra i molti studi orientati in questo senso, P.L.
OESTERREICH E H. TRAUB, Der ganze Fichte: die populäre,
wissenschaftliche und metaphilosophische Erschliessung der Welt,
Kohlhammer, Stuttgart 2006.
7. “Queste lezioni, insieme con quelle di recente apparse sui Tratti
fondamentali dell'epoca presente e su L'essenza del dotto, rappresentano
una dottrina compiuta in forma popolare e sono, tutte insieme, l’esito della
riflessione che da sei o sette anni sto sviluppando senza tregua, con maggior
cura e in età più matura, circa la prospettiva filosofica che io adottai tredici
anni or sono, e che se, come auspico, ha operato più di un mutamento in
me, ciò non di meno da quel tempo non ha subito alcuna modificazione in
alcuna delle sue parti”: J.G. FICHTE, Werke. Auswahl in sechs Bänden (=
M), a cura di F. Medicus (Meiner, Leipzig 1908-1912 e 19623), V, p. 105.
Cfr. L. PAREYSON, Fichte: il sistema libertà, Mursia, Milano 1976
(seconda edizione rivista: prima edizione 1950), pp. 157 ss.
8. I. RADRIZZANI, Vers la fondation de l'intersubjectivité chez
Fichte. Des Principes à la Nova Methodo, Vrin, Paris 1993, p. 43.
9. Cfr. G. RAMETTA, Fichte, Carocci, Roma 2013, p. 77.
10. Cfr. I. RADRIZZANI, The Place of the Vocation of Man in
Fichte’s Work, in D. BREAZEALE e T. ROCKMORE (a cura di), New
Essays on Fichte's Later Jena Wissenschaftslehre, Northwestern University
Press, Evanston 2002, pp. 317-344.
11. Delle quali la più significativa resta, a nostro giudizio,
l’eccellente .studio di A. MASULLO, Fichte: l'intersoggettività e
l’originario. Guida, Napoli 1986. Si vedano, inoltre, i contributi raccolti nel
recente volume curato da J.-C. GODDARD e J. RIVERA DE ROSALES,
Fichte et la politique (Polimetrica, Monza 2008), il quale assume come tesi
di fondo l’unitarietà del percorso filosofico-politico di Fichte.
12. Come suggerisce Tom Rockmore, “la filosofia politica
fichtiana assume forme differenti: la difesa della Rivoluzione francese, la
difesa del popolo tedesco quando il paese è occupato dai Francesi, l’analisi
dell’economia politica e della teoria del diritto naturale” (T. ROCKMORE,
Fichte et la philosophie politique aujourd'hui, in J.-C. GODDARD e J.
RIVERA DE ROSALES, Fichte et la politique, cit., p. 473).
13. Cfr„ ad esempio, A. RAVÀ, Studi su Spinoza e Fichte, Giuffrè,
Milano 1958, pp. 254-255: “Fichte sta, quasi Giano bifronte, al confine tra i
due secoli. Nello svolgimento del suo pensiero vanno distinte due fasi
principali: per la prima egli è uomo del secolo decimottavo, è, pur su basi
kantiane, prettamente razionalista, manca di ogni senso storico, concepisce
il diritto come nettamente separato dalla morale e lo stato come puro
organismo giuridico e di sicurezza; nella seconda fase egli appartiene già
interamente al secolo decimonono, la sua filosofia ha un elemento
irrazionalistico ed è quasi la base speculativa del romanticismo, la storia
assume nel sistema un posto sempre più dominante e lo stato viene
concepito come la suprema organizzazione delle forze economiche e morali
della nazione”.
14. Cfr. A. GEHLEN, Deutschtum und Christentum hei Fichte, Junker
und Dünnhaupt, Berlin 1935, p. 12.
15. Cfr. N. WALLNER, Fichte als politischer Denker, Niemeyer,
Halle 1926, p. 125. Cfr. anche F.W. KAUFMAN, Fichte and National
Socialism, in “American Political Science Review”, n. 36 (1942), pp. 460-
470.
16. M. FOUCAULT, L'Archeologie du savoir, 1969; tr. it. a cura di G.
Bogliolo, L'Archeologia del sapere. Una metodologia per la storia della
cultura, Rizzoli, Milano 20095, pp. 170-171.
17. M. BUHR, Revolution und Philosophie. Die französische
Revolution und die ursprüngliche Philosophie Fichtes, Deutscher Verlag
der Wissenschaften, Berlin 1965, p. 29.
18. Cfr. I. BERLIN, Freedom and its Betrayal. Six Enemies of
Human Liberty, 2002; tr. it. a cura di G. Ferrara degli Liberti, La libertà e i
suoi traditori, Adelphi. Milano 2005. Si tratta del testo, pubblicato
postumo, di alcune conferenze radiofoniche tenute nel 1952.
19. Cfr. F. FUKUYAMA, The End of History and the Last Man, 1992;
tr. it. a cura di D. Ceni, La fine della storia e l'ultimo uomo, Rizzoli, Milano
1992.
20. “Das Bekannte überhaupt ist darum, weil es bekannt ist,
nicht erkannt”: G.W.F. HEGEL, Phänomenologie des Geistes, 1807; tr. it. a
cura di V Cicero, Fenomenologia dello Spirito, Bompiani, Milano 2000, p.
85.
21. M. WUNDT, JG. Fichte, Stuttgart 1927, ristampato presso
Frommann, Stuttgart 1976.
22. Si veda G. DELLA VOLPE, Hegel romantico e mistico (1793-
1800), Le Monnier, Firenze 1929.
23. Cfr. F. MEINECKE, Welthuergertum und Nationalismus,
München 1915, terza edizione, pp. 96-125.
24. G. LUKÀCS, Die Zerstörung der Vernunft, 1954; tr. it. a cura di
E. Arnaud, La distruzione della ragione, Mimesis, Milano 2011,2 voll., I,
pp. 11-12.
25. Cfr. M. BUHR, Revolution und Philosophie. Die französische
Revolution und die ursprüngliche Philosophie Ficht es, cit., p. 11.
26. Ivi, p. 41.
27. Si veda soprattutto R. GARAUDY, La mèthode antithètique de
Fichte, in Id., Dieu est mort, PUF, Paris 1962.
28. Sul tema della “storiografia pigra” e dell’ideologia che la anima,
ci permettiamo di rinviare al nostro Mìnima mercatalia. Filosofia e
capitalismo, Bompiani, Milano 2012 (saggio introduttivo di A.
Tagliapietra), pp. 45 ss.
2

LA FICHTE-FORSCHUNG E L’UNITÀ DELLA FILOSOFIA


POLITICA FICHTIANA

Per un mondo oggettivo, che non sia prodotto della


libertà, non rimane spazio alcuno.

J.G. FICHTE, Etica 1812

Contro la linea interpretativa dominante che abbiamo poc’anzi


tratteggiato, sia pure solo a grandi linee e nelle sue strutture di fondo,
prende le mosse il nostro lavoro. Il suo obiettivo consiste, innanzitutto, nel
tentativo orientato a mostrare come la stessa profonda unità teoretica che
accompagna la riflessione fichtiana, e su cui con diritto ha soffermato
l’attenzione la più recente Fichte-Forschung, debba essere
individuata anche in sede socio-politica. L’idea di un Fichte pensatore
unitario è, dunque, da noi pienamente assimilata e, insieme, ampliata, fino a
ricondurre entro i confini di questo paradigma anche il suo itinerario socio-
politico1.
Lo stesso Fichte, del resto, nel già menzionato passaggio dell
'Anweisung, allude esplicitamente all’unità del proprio percorso non
soltanto in riferimento all’elaborazione teoretica, includendovi, invece,
anche la tematica socio-politica: la quale, del resto, con buona pace dei
teorici della Kehre, è indisgiungibilmente connessa con i princìpi della WL.
Se è unitaria quest’ultima (senza che ciò comporti, ça va sans dire,
l’annullamento o il ridimensionamento delle svolte e delle
acquisizioni), non può che rivelarsi tale anche la sua declinazione socio-
politica, condotta - citando lo stesso Fichte - nach Principien
der Wissenschaftslehre2. Del resto, lo stesso concetto di
“filosofia applicata” (angewandte Philosophie), così caro a Fichte,
rivela chiaramente come le discipline come la storia e la politica, oltre a
essere a pieno titolo parti del System der Freiheit, siano il luogo in cui si
ricongiungono il pensiero filosofico e resistenza pratica degli uomini, in un
fecondo ristabilimento di quel legame tra filosofia e vita apertamente
tematizzato dalla WL3.
Il problema che si pone per una lettura che aspiri a mostrare l’unità
politica della riflessione di Fichte è facilmente identificabile: come rendere
ragione di tale unità al cospetto dell’evidente transito del pensatore di
Rammenau dall'originaria difesa appassionata della Rivoluzione francese e
del cosmopolitismo dell’estinzione dello Stato alla teoria dello Stato
commercialmente chiuso e della nazione tedesca? È lecito - e, se sì, in
che maniera e su quali basi - individuare un’unità profonda sottesa a tale
lampante discontinuità? Come ricondurre a un comune orizzonte espressivo
due opere tanto diverse per temi e soluzioni come la Bestimmunge des
Gelehrten jenese del 1794, in cui è centrale il tema dell’estinzione dello
Stato, e Der geschlossene Handelstaat del 1800, al cui centro troviamo
codificata l’idea dello Stato etico e commercialmente chiuso rispetto
all’estero?
Sono questi i grandi temi che tenteremo di affrontare nel presente
lavoro. Anticipando apoditticamente fin da ora quanto nel seguito del nostro
studio dovremo argomentare in forma estesa, Lo Stato commerciale chiuso
segna indubbiamente - e sarebbe impossibile sostenere il contrario - un
mutamento di prospettiva sui temi della politica e della società: e, tuttavia,
tale metamorfosi prospettica non deve essere intesa come una Kehre, come
una brusca svolta che segna l’abbandono del precedente punto di vista. Al
contrario, come proveremo a mostrare, si tratta di una svolta che, per tenere
ferme le acquisizioni politiche e sociali guadagnate in precedenza, deve
rideclinarle su nuove basi, in coerenza con il mutato contesto sociale e
politico e, in particolare, con il concreto mondo storico scaturito
dalla Rivoluzione francese4.
Per questa via, la svolta non è negata, ma è assunta come prova
dell’unità del pensiero fichtiano: senza di essa, i princìpi politici e sociali
fondati in precedenza da Fichte si sarebbero rivelati incapaci di rispondere
alle sfide del presente, lo Stand der vollendeten Sündhaftigkeit, l’“epoca
della compiuta peccaminosità”5 (così nei Grundzüge des gegenwärtigen
Zeitalters del 1805) contraddistinta dall’“anarchia del
commercio”6 (secondo la stringente formula dello Stato commerciale
chiuso).
Compendiando il senso della nostra linea interpretativa in una formula
volutamente schematica, potremmo sostenere che Fichte ravvisa nella
svolta il solo modo per fare salva l’unità del suo pensiero: tale svolta
riformula in modo alternativo, portandoli - avrebbe detto Gramsci -
“all’altezza dei tempi” i princìpi guadagnati in precedenza; i quali, se
venissero mantenuti in forma immutata, risulterebbero ipso facto inservibili
in un presente che si è venuto radicalmente trasformando rispetto al
tempo in cui Fichte li aveva pensati. La tematizzazione dello
Stato commercialmente chiuso e portatore di istanze etiche non è
in contraddizione con la dottrina jenese dell’estinzione della Staatsform, ma
ne è - per paradossale che ciò a tutta prima possa apparire - una coerente
declinazione7. Secondo quanto evidenziato da Kuno Fischer, nel suo
monumentale lavoro Fichtes Leben, Werke und Lehre, “Fichte fa parte di
quei pensatori i cui sistemi non sono già completi quando iniziano la loro
carriera letteraria e che, con il progredire di quest’ultima, non cambiano il
loro compito, bensì lo penetrano più profondamente”8.
Per rendere conto della nostra tesi, che abbiamo qui enunciato in forma
consapevolmente apodittica, e che sarà compito del presente lavoro
corroborare argomentativamente, ci soffermeremo principalmente sulle
pagine dello Stato commerciale chiuso, lo scritto più difficilmente
collocabile di Fichte. Nella misura in cui in esso è custodito il senso della
cosiddetta svolta, comprenderne la portata, il senso e - questo il punto - la
profonda continuità con le opere precedenti permetterà di decifrare l’unità
espressiva del sistema politico-sociale di Fichte, in coerenza con la stessa
unità teoretica legata al progetto proteiforme e, insieme, unitario della WL.
Da un diverso angolo prospettico, Lo Stato commerciale chiuso costituisce
la “scena originaria” della cosiddetta Kehre ed è, dunque, da li che occorre
muovere per interrogare il senso dell’unità della riflessione politica di
Fichte, nel tentativo di suffragarla.
Nel nostro lavoro, benché l’oggetto d’analisi privilegiato sia
rappresentato dall’opera del 1800 (la quale, sia detto per inciso, permette
anche di destrutturare il pregiudizio circa l’incompetenza di Fichte in
materia di economia politica9), non potremo, ovviamente, esimerci dal
richiamarci agli scritti anteriori, per mostrare contrastivamente le
differenze: ma non potremo neppure dispensarci dal compiere incursioni
negli scritti successivi o contemporanei, per seguire, sia pure a tratti e
per cenni (e, dunque, senza alcuna pretesa di esaustività), il Denkweg di
Fichte, il suo snodarsi in forme sempre nuove, dovute al contesto sociale e
storico in continua evoluzione, e, insieme, nel suo mantenersi fedele ai
princìpi filosofici sui quali si era venuto costituendo, fin dalla fase jenese, il
System der Freiheit.
In particolare, lo scopo del presente lavoro non consiste nell’analizzare
tout court la cosiddetta svolta politica e sociale di Fichte, ma, più
modestamente, nell’esaminare come essa si rifletta e si determini nelle
pagine dello Stato commerciale chiuso. Il nostro studio, pertanto, assumerà
anzitutto la forma di un confronto serrato con l’opera del 1800 e, al tempo
stesso, si spingerà senza tregua al di là dei confini di quel testo,
perché affronterà un nucleo di problemi che, in esso sviluppati o abbozzati,
tornano in opere contemporanee e successive o, in non rari casi, sono
anticipati in testi precedenti. In tal maniera, si proverà a corroborare la tesi
dell’unità della filosofia politica di Fichte, in cui, come nel caso della sua
filosofia teoretica, le svolte e i ripensamenti non contraddicono, e anzi
confermano, l’impianto strutturalmente unitario della sua riflessione.
L’analisi della genesi e dello sviluppo del concetto di Stato commerciale
chiuso costituirà, nel presente lavoro, la base per indagare sull’unità teorica
del Denkweg fichtiano.
È nostra convinzione - e la sua dimostrazione costituisce il nerbo del
presente lavoro - che la comprensione dello Stato commerciale chiuso o, più
precisamente, del suo enigma, permetta di comprendere il senso e i
fondamenti della cosiddetta Kehre, in particolare la sua valenza di svolta
che, secondo quanto già accennato, rende possibile il mantenimento
dell’unità del sistema fichtiano in riferimento al mutato contesto sociale e
politico10. Riteniamo che sia degna della massima attenzione l’allusione
alla concretezza storica, alla congiuntura e, con essa, all’intreccio
tra quadro storico e dimensione simbolica che accompagna ogni
elaborazione teorica, compresa naturalmente quella fichtiana.
Infatti, la tesi che verremo sviluppando, e che già possiamo anticipare in
forma embrionale, si regge sull’idea - troppo spesso obliata negli studi
filosofici e, segnatamente, in quelli su Fichte - in accordo con la quale non è
possibile decifrare il pensiero di un autore, le sue svolte e ripensamenti
prescindendo dal contesto storico, sociale e politico. Afferrare il senso di
tali svolte è, pressoché sempre, impossibile senza prestare la
debita attenzione ai mutamenti sociali e politici che ritmano la concretezza
storica. Variando una felice formula di Gramsci11, la filosofia - ogni
filosofia - non si sviluppa da altra filosofia, quasi fosse attivo un
insondabile principio di partenogenesi delle idee le une dalle altre, ma è una
continua soluzione di problemi sollevati dal reale sviluppo storico.
Alla luce di queste considerazioni preliminari, la Staatslehre del 1813,
le Reden, o, ancora, Der Patriotismus und sein Gegentheil (1807)
compongono una galassia di testi che, in certa misura, si inscrivono nella
svolta avviata dallo Stato commerciale chiuso in coerenza con la mutata
prospettiva storica. Ciò non significa, naturalmente, che i contenuti di quei
testi siano già tutti racchiusi, in concreto, nell’opera del 1800; vuol
semplicemente dire che, senza la comprensione della svolta dello Stato
commerciale chiuso, non si potrebbe decifrare l’orizzonte di senso in cui
essi vengono a incastonarsi. Lo stesso richiamo, sia pure solo tangenziale,
che a quei testi faremo nelle pagine che seguono sarà unicamente
finalizzato a una più profonda comprensione della prospettiva inaugurata
dall’opera del 1800 e, dunque, a una più chiara visione del concetto di Stato
commercialmente chiuso.
La molteplicità dei testi e dei plessi teorici esplorati non dovrà, pertanto,
trarre in inganno. Il fuoco della nostra analisi convergerà stabilmente,
infatti, su un problema unitario e facilmente circoscrivibile. In parte
l’abbiamo già adombrato, potremmo compendiarne il senso complessivo
nella maniera seguente: il transito dal “primo” al “secondo Fichte” in
ambito politico, lungi dal potersi intendere come una svolta contraddittoria,
è una ridefinizione coerente della propria visione emancipativa, fondata
secondo i princìpi della WL; una ridefinizione -lampante nella transizione
dalla Missione del dotto del 1794 allo Stato commerciale chiuso del 1800 -
dovuta al mutato contesto sociale e politico e all’irruzione sulla scena di
una nuova potenza, l’Handelsanarchie, che nel volgere di pochi anni
Fichte identificherà con la vera scaturigine del presente compiutamente
peccaminoso12. L’applicazione dei princìpi della WL, e più precisamente del
suo codice politico, non può declinarsi, nel nuovo orizzonte storico (per le
ragioni che esamineremo a tempo debito), se non nella forma tenuta a
battesimo dallo Stato commerciale chiuso.
In questo consiste l’enigma dello Stato commerciale chiuso, opera con
cui Fichte muta prospettiva per fare salvi i princìpi precedentemente
elaborati e, dunque, per paradossale che possa apparire, per non dover
abbandonare la declinazione socio-politica del System der Freiheit. Più
precisamente, per poter fare salvi i guadagni precedentemente acquisiti in
sede politica e, insieme, per rimanere coerente con il nucleo della WL,
Fichte è chiamato a operare una svolta, codificando lo Stato
commercialmente chiuso. Si tratta, a tutti gli effetti, di un mutamento il cui
fine è la conservazione del proprio System der Freiheit e, di più, come
vedremo, di un cambiamento che è teoricamente esigito dalla stessa
impostazione filosofico-politica del “primo Fichte”. Prova ne è, del resto,
che, con il passaggio al “secondo Fichte”, l’obiettivo resta invariato, come
vedremo, e invariata rimane pure l’espressività politica di fondo che anima
la riflessione fichtiana, identificabile con l’ideale orientativo
dell’emancipazione del genere umano pensato come un soggetto singolare-
collettivo, ossia come un unico Io - con la grammatica della WL - che si dà
concretamente nella molteplicità caleidoscopica degli “io empirici”13. La
Missione del dotto del 1794 e lo Stato commerciale chiuso del 1800, il
Fondamento del diritto naturale del 1796-97 e i Discorsi alla nazione
tedesca del 1808 orbitano ugualmente intorno a questo fuoco prospettico,
al di là di ogni presunta rottura epistemologica: solo propongono diverse
strategie concrete per raggiungerlo, in armonia con il contesto storico,
sociale e politico che va senza posa riconfigurandosi.
A un’attenta analisi, come vedremo, a rimanere invariati, nonostante le
discontinuità più apparenti che reali, non sono solo il telos e l’espressività
politica di fondo del progetto fichtiano: tale resta anche il percorso stesso
tratteggiato da Fichte per portare a compimento il suo orientamento ideale.
In che senso? Come vedremo, Lo Stato commerciale chiuso non si
pone come una rottura, bensì come una coerente esplicitazione delle tesi
cosmopolitiche al centro della Missione del dotto jenese (in parte già
precorse nelle due Revolutionsschriften), che così potremmo compendiare e
con le quali, nel seguito del nostro lavoro, ci misureremo da vicino: finché
l’umanità non sarà autonomamente etica, e dunque in grado di fare a meno
dello Stato, quest’ultimo continuerà a svolgere la sua imprescindibile
funzione di educatore del genere umano. Se, poi, come accade nel presente
compiutamente peccaminoso dell’anarchia commerciale, il genere umano è
massimamente distante dalla propria autonomia etica, ne segue more
geometrico che lo Stato dovrà intervenire in modo massimamente robusto,
secondo la forma che, sia pure diversamente declinata, troviamo al centro
dello Stato commerciale chiuso o dei Discorsi alla nazione tedesca
o, ancora, della Dottrina dello Stato del 181314.
Da una diversa prospettiva, in un’epoca in cui l'ethos comunitario viene
dissolto dalla spinta centrifuga dell’individualismo anomico e possessivo
scaturito dalla prosa reificante dell’Handelsanarchie, spetta allo Stato
intervenire per porre la Gemeinschaft al riparo dalla sua dissoluzione, ossia
per garantire il processo di moralizzazione ed emancipazione del
genere umano15. Capovolgendo i noti versi di Hölderlin (wo aber Gefahr
ist, wächst das Rettende auch16), dove aumenta il pericolo, lì deve essere
potenziato anche lo strumento in grado di salvare. Tale è, appunto, per
Fichte la potenza etica dello Stato come remedium infirmitatis, il cui fine
resta stabilmente quello di educare l’umanità in senso etico, affinché essa,
in prospettiva, possa condurre la sua esistenza facendo a meno della
forma statale.
Da un diverso angolo prospettico, per contraddittorio che possa
apparire, l’impianto al centro dello Stato commerciale chiuso si configura,
secondo quanto già accennato, come una coerente declinazione dei princìpi
politici della Missione del dotto jenese, rendendo possibile leggere il
cosiddetto “secondo Fichte” come una conseguente e niente affatto
contraddittoria applicazione del primo in un contesto storico e sociale
mutato. Prova ne è, oltretutto, che il fine dello Stato individuato nel 1794 -
la sua Vernichtung, al cospetto di un’umanità finalmente in grado di essere
etica in forma autonoma e non più sulla base della pressione coercitiva
dell’apparato normativo - permane stabilmente, fino alla fine del percorso
teorico fichtiano.
Alla luce di quanto siamo venuti finora sostenendo, nel presente lavoro
l’unità socio-politica del pensiero di Fichte, posta in stretta connessione con
la stessa WL, costituirà la base di quella che, nella nostra lettura,
rappresenta la cifra complessiva della filosofia politica fichtiana:
proponiamo di qualificarla, in forma volutamente ossimorica, come un
comunitarismo cosmopolitico17. La compiuta peccaminosità dell’epoca
dell’anarchia commerciale generante la disaggregazione della comunità ad
opera delle algide leggi economiche del do ut des induce Fichte ad
articolare un sistema della scienza filosofica della verità in grado di
rifondare, su nuove basi, la razionalità di un nuovo vivere comunitario.
Quest’ultimo è chiamato a rendere possibile l’instaurazione di un legame
gemeinschaftlich destinato a diventare sempre più consapevole (sul piano
dell’autocoscienza dell’umanità) e sempre più esteso (fino a coincidere
con l’umanità tutta), dando luogo a una comunità universale18.
A costituire il comune sfondo concettuale di opere tanto eterogenee
come la Missione del dotto jenese e lo Stato commerciale chiuso, il
giovanile Beitrag zur Berichtigung der Urtheile des Publikums über die
französische Revolution e i Discorsi alla nazione tedesca, il Naturrecht di
Jena e la Staatslehre del 1813, è, allora, una visione che è comunitaria
(muovendo dalla codificazione dell’etica sociale come Sittlichkeit radicata
nella dimensione della Gemeinschaft19) e, insieme,
cosmopolitica (delineando un modello razionale di universalizzazione
graduale e progressiva, mediata dalla prassi, dei comportamenti umani
conformi al genere umano in quanto tale). L’ontologia della prassi con cui,
come cercheremo di mostrare sia pure solo per cenni (vi abbiamo più
ampiamente insistito in altra sede20), si identifica complessivamente il
progetto teorico della WL (con la sua deduzione dell’essere dal fare, in una
vera e propria rideclinazione dell’ontologia come attologia21) diventa la
condizione di possibilità del comunitarismo cosmopolitico tematizzato
in sede socio-politica.
Quest’ultimo, lungi dall’essere garantito dal ritmo della storia e da sue
presunte leggi oggettive, secondo le ingenue e sempre in voga visioni
fatalistiche coerenti con il Dogmatismus avversato da Fichte, deve essere
concepito come l’esito della libera prassi umana, secondo quell’intreccio a
geometrie variabili tra la possibilità ontologica e la necessità morale che,
come vedremo, diventa la cifra della filosofia della storia e della politica
fichtiana. L’ontologia della prassi costituisce il cuore del progetto fichtiano
della conformazione del non-Io all’Io, nel quadro di un pensiero
comunitario che muove dalla scissione dell’epoca e assume la filosofia
come fondamento veritativo di una superiore sintesi sociale che, per attuarsi
kantianamente “da un punto di vista cosmopolitico”, necessita della prassi
sociale umana e della potenza etica statale22.
Alla luce di quanto siamo venuti sostenendo, possiamo ora, per sommi
capi, tracciare la mappa del nostro lavoro e delle sue articolazioni. In primo
luogo, tenteremo di mostrare come la WL, lungi dal nascere come Atena
dalla testa di Zeus, sorga in simbiosi con il concreto mondo storico di cui
Fichte è abitatore, in particolare come assimilazione della Rivoluzione
francese nella forma di un’ontologia della prassi e della libertà per cui il
fare è a fondamento dell’essere. In secondo luogo, affronteremo la teoria
dell’estinzione dello Stato, elaborata soprattutto nelle lezioni jenesi sulla
Missione del dotto (e anticipata nel Beitrag), evidenziandone i punti di
tangenza con rimpianto della WL (in particolare, adombrando in quale senso
e su quali basi la si possa concepire come una coerente declinazione socio-
politica dell’ontologia della prassi del System der Freiheit).
In seguito, prenderemo in esame l’enigma dello Stato commerciale
chiuso. Evidenzieremo come l’opera del 1800 debba essere letta in
continuità, e non in rottura, con la precedente tesi dell’estinzione della
Staatsform, configurandosi essa stessa come un coerente sviluppo socio-
politico dei princìpi della WL. Cercheremo di argomentare puntualmente
quanto abbiamo fin qui enunciato in forma apodittica circa l’idea di una
svolta il cui fine è riconfermare (e non certo congedare) le acquisizioni
precedenti della filosofia politica fichtiana.
Muoveremo, poi, a un’attenta disamina del testo dello Stato
commerciale chiuso, nella forma di un commentario volto a far emergere i
nuclei portanti dell’opera del 1800. In questo modo, la nostra tesi verrà
corroborata tramite un confronto diretto con il testo, condotto tenendo in
considerazione soprattutto l’articolato lavoro monografico di Andreas
Verzar, Das autonome Subjekt und der Vernunftstaat. Eine
systematischhistorische Untersuchung zu Fichtes "Geschlossenem
Handelsstaat'’ von 180023( 1979).
Da ultimo, nella conclusione si proverà non solo a tirare le fila dello
studio e dell’enigma dello Stato commerciale chiuso, ma anche, in maniera
convergente, a mostrare l’importanza, per il nostro presente, della
prospettiva di un testo tanto anomalo e difficilmente collocabile. Le
contraddizioni dell’oggi compiutamente peccaminoso, ma forse anche le
eventuali soluzioni, possono essere fecondamente inquadrate e, di più,
praticate a partire dalla prospettiva fichtiana. La compiuta peccaminosità
della globalizzazione - è questo il nome pudico e anodino con cui
si contrabbanda oggi l’anarchia commerciale stigmatizzata da Fichte -
corrisponde a una inedita fase di sottomissione della politica all'economia a
cui la prospettiva fichtiana (il ripristino dell’egemonia politica tramite lo
strumento di uno Stato la cui funzione resta quella di rendersi superfluo)
può indubbiamente offrire spunti e suggestioni in vista dell’elaborazione di
strategie oppositive.

1. In questo orizzonte si situa, ad esempio, il lavoro di G. Duso,


Contraddizione e dialettica nella formazione del pensiero fichtiano,
Argalia, Urbino 1974.
2. Cfr. C. AMADIO, Logica della relazione politica: uno studio su
"La dottrina della scienza " (1794/5) di J.G. Fichte, Giuffrè, Milano 1998;
ID., Morale e politica nella “Sittenlehre" (1798) di J.G. Fichte, Giuffrè,
Milano 1991.
3. G. RAMETTA, Fichte, cit., p. 274.
4. Cfr. G. Lebholz, Fichte und der demokratische Gedanke. Ein
Beitrag zur Staatslehre, Freiburg i.Br. 1921.
5. J.G. FICHTE, Die Grundzüge des gegenwärtigen Zeitalters, 1805;
tr. it. a cura di A. Carrano, I tratti fondamentali dell'epoca presente,
Guerini, Milano 1999, p. 89 (GA, 1, 8, p. 201).
6. ID., Der geschlossene Handelsstaat, 1800 (SW, III, p. 453).
7. Cfr. Z. BATSCHA, Gesellschaft und Staat in der politischen
Philosophie Fichtes, Europäische Verlagsanstalt, Frankfurt a.M. 1970.
8. K. FISCHER, Fichtes Leben, Werke und Lehre, Winter,
Heidelberg 1892, p. 664.
9. Cfr. H.J. SCHMIDT, Politische Theorie und Realgeschichte. Zu
Johann Gottlieb Fichtes praktischer Philosophie (1793-1800), Lang,
Frankfurt a.M. 1983, p. 343. Sul nesso tra la filosofia di Fichte e l’economia
politica classica, si veda P. CHAMLEY, Economie politique edt
Philosophie chez Steuart et Hegel, Dalloz, Paris 1963, pp. 198-208.
10. Sulla concretezza come cifra della riflessione fichtiana, cfr. K.
CroNE, Fichtes Theorie konkreter Subjektivität. Untersuchungen zur
“Wissenschaftslehre nova methodo", Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen
2005; G. GURWITSCH, Fichtes System der konkreten Ethik, Tübingen
1924 [ristampato presso Olms, Hildesheim 1984],
11. A. GRAMSCI, Il materialismo storico e la filosofìa di Benedetto
Croce, 3a ed., Einaudi, Torino 1952, p. 234: “la filosofia non si sviluppa da
altra filosofia, ma è una continua soluzione di problemi che lo sviluppo
storico propone”.
12. L'ha adombrato efficacemente C. CESA, Fichte, i romantici, Hegel,
in Storia delle idee politiche, economiche e sociali, vol. IV, 2, diretta da L.
Firpo, UTET, Torino 1975.
13. Cfr. D. Julia, Fichte, la Philosophie ou la conquete de la
liberté, L’Harmattan, Paris 2002.
14. Si veda G. Duso, Libertà e Stato in Fichte. La teoria del
contratto sociale, in G. Duso (a cura di), Il contratto sociale nella filosofia
politica moderna. Il Mulino, Bologna 1987, pp. 273-309.
15. Su questo tema, ci permettiamo di rinviare al nostro saggio La
compiuta peccaminosità. La critica della società capitalistica nei
‘‘Grundzüge ” di Fichte, in “Filosofia Politica”, n. 1 (2013), pp. 97-116.
16. F. HÖLDERLIN, Patmos, 1802, in Id., Sämtliche Werke und
Briefe, a cura di M. Knaupp, 3 voll., Hanser Verlag, München-Wien, I,
1970, p. 379.
17. Lo stesso figlio del filosofo, Hermann Fichte, restò sempre
convinto della profonda unitarietà della filosofia del padre. Cfr. A.
BOYNTON THOMPSON, The Unity of Fichte 's Doctrine of Knowledge,
Ginn, Boston 1895.
18. Ce ne siamo occupati nel nostro studio Idealismo e prassi.
Fichte, Marx e Gentile, Il Melangolo, Genova 2013.
19. Si veda L. FONNESU, La società concreta. Considerazioni su
Fichte e Hegel, in “Daimon. Revista de filosofia”, n. 9 (1994), pp. 231-248.
20. Rimandiamo al nostro Idealismo e prassi. Fichte. Marx e Gentile,
cit., soprattutto al secondo capitolo.
21. Cfr. I. THOMAS-FOGIEL, Fichte. Réflesion et argumentation,
Vrin, Paris 2004, p. 178.
22. Si veda M. Ivaldo, Fichte: l’orizzonte comunitario dell’etica
(le lezioni del 1812), in “Teoria”, 2006, pp. 37-54.
23. A. VERZAR, Das autonome Subjekt und der Vernunftstaat. Eine
systematisch-historische Untersuchung zu Fichtes "Geschlossenem
Handelsstaat " von 1800, Bouvier, Bonn 1979.
3

FICHTE FILOSOFO DELLA CONCRETEZZA STORICA NEL


DIBATTITO STORIOGRAFICO

Il non-Io è esso stesso un prodotto dell’Io che


determina se stesso, e non è nulla di assoluto e posto fuori
dall’Io.

J.G. FICHTE, Fondamento dell'intera dottrina della


scienza

Vi è una consolidata e, almeno apparentemente, intramontabile


tradizione interpretativa che tende a leggere l’opera e il pensiero di Fichte
come se fossero i prodotti di un “metafisico puro”, attento soltanto alle
questioni teoretiche e del tutto estraneo a quelle storiche, politiche e sociali.
Quando non venga interpretato unilateralmente come un puro teoreta, il
pensatore della WL viene surrettiziamente “sdoppiato” in due diverse
e opposte figure: da un lato, il Fichte metafisico puro, e, dall’altro, il Fichte
“storico”, che si occupa di questioni politiche e sociali a prescindere dal suo
impianto metafisico1. Come ha osservato Ravà, “lo studio della filosofia
sociale, politica e giuridica di Fichte è rimasto sempre staccato dall’esame
dei fondamenti speculativi del sistema”2.
Per questa via, non soltanto si tradisce lo spirito dell’impresa della WL,
ossia secondo quanto chiarito fin dalle lezioni sulla Bestimmung des
Gelehrten del 1794 - la volontà di fondere virtuosamente pensiero e azione,
teoresi e prassi trasformatrice, nell’inedita figura di una filosofia che si fa
mondo: si pregiudica anche la possibilità di comprendere l’essenza
stessa della produzione teorica fichtiana, che è venuta maturando in
un nesso simbiotico con il succedersi frenetico degli eventi storici del suo
tempo, ora registrandoli, ora metabolizzandoli (è il caso della Rivoluzione
francese), ora promuovendoli attivamente (l’opposizione operativa
all’occupazione napoleonica, nelle Reden an die deutsche Nation). Del
resto, come ha suggerito Gurvitch, “Fichte è stato il primo a scoprire la
realtà del sociale e, aggiungeremmo, l’intervento del Noi, dei gruppi,
delle Nazioni, in quanto soggetti collettivi della conoscenza e
della moralità”3: con l’ovvia conseguenza che sarebbe un’operazione del
tutto equivoca - peraltro contraria alla lettera, oltre che allo spirito, della
stessa filosofia di Fichte - pretendere di interpretare il sistema fichtiano
disgiungendo la dimensione teoretica da quella sociale, politica e storica.
Se, come riteniamo4, tra i compiti di una storia critica delle idee deve
annoverarsi anche il rovesciamento, la riformulazione e la trasfigurazione
delle ricostruzioni storiche e delle proposte interpretative prospettate
monoliticamente dalla storiografia pigra e accettate inerzialmente dalla
impersonalità maggioritaria dei lettori, allora l’arcipelago delle opere
fichtiane -sia dei cosiddetti “scritti popolari”, sia delle sempre nuove e
mai definitive Darstellungen della WL - potrebbe costituire il
luogo privilegiato per l’esercizio di una storiografia filosofica non
dogmatica. In una simile luce, diventa possibile far emergere un nuovo
profilo di Fichte, mostrando come il suo pensiero - lungi dal configurarsi
come un vuoto e astratto esercizio teoretico, sideralmente distante dalla
concretezza storica - sia animato da una proficua interazione tra la
dimensione storica e quella teoretica e, di più, come la stessa metafisica
fichtiana venga strutturandosi a partire da un serrato confronto con le
dinamiche della storia reale5. La WL si costituisce a partire dalla realtà e si
viene strutturando nella forma di una visione trascendentale
dell’emancipazione come compito inesauribile.
In particolare, il non-detto di larga parte delle ricostruzioni di Fichte6
tende a ridimensionare, quando non a rimuovere, l’incidenza che sulla
genesi della WL ha esercitato la Rivoluzione francese. Non si tratta qui di
ricordare semplicemente il fatto, ampiamente noto, che Fichte interviene
pubblicamente - sia pure in forma anonima - nel dibattito con le due
Revolutionsschriften del 1793, con cui si schiera apertamente in difesa della
integrale legittimità della Rivoluzione. In modo ben più radicale, occorre
mostrare come gli eventi scaturiti dall’89 francese abbiano fortemente
condizionato la struttura stessa della WL, a tal punto da determinarne lo
sviluppo in direzione di una vera e propria ontologia della prassi umana
orientata all’instaurazione di rapporti liberi secondo ragione.
Come sottolineato da Buhr7 (e, sulla sua scia, da un numero tutt’altro
che esiguo di interpreti), nella genesi della WL la Rivoluzione ha svolto un
ruolo decisivo per la centralità della libertà pratica e dell’indipendenza della
soggettività umana; centralità che si traduce nella concezione fichtiana dell'
Ich come Tätigkeit, come libera azione umana, e dunque come
Weltschöpfer, come origine del mondo oggettivo-sociale.
L’opera coraggiosa di un’umanità che lotta per far convergere l’oggettività
storica, sociale e politica con la propria soggettività, emancipandosi
dall'asservimento e, insieme, lottando per una piena Anerkennung di sé
come un unico soggetto (contro le tradizionali forme di disuguaglianza
giuridicamente sancite), viene tradotta da Fichte in un’ontologia della prassi
fondata sulla praticità di una ragione il cui compito primario è di permeare
in modo sempre più capillare e pervasivo la struttura del reale8. Come
evidenziato da Garaudy9, la kantiana praktische Vernunft viene da Fichte
declinata nella forma di una revolutionäre Vernunft, che conforma
liberamente, tramite l’azione, il non-Io all’Io, la serie delle oggettivazioni
alla soggettività agente.
A proposito della Rivoluzione francese, tra l’aprile e il maggio del
1795, dopo aver già composto le due Revolutionsschriften, Fichte instaura
un celebre raffronto diretto tra le virtù liberatrici del proprio System der
Freiheit e quelle dell’agire rivoluzionario del popolo francese:
Il mio sistema è il primo sistema della libertà (das erste System der Freiheit). Come quella
nazione [la Francia] libera l’umanità dalle catene materiali, il mio sistema la libera dal giogo
delle cose in sé ( von den Fesseln der Dinge an sich), dalle influenze esterne e, nel suo primo
principio, presenta l’uomo come un essere autonomo10.

Con il Kant della seconda Kritik, Fichte scopre la libertà umana


(superando il proprio iniziale determinismo fatalistico di inarca wolffiana11)
e, sull’onda degli eventi innescati dall’89 francese, la determina come libera
azione pratica che trasforma il mondo. Per la Grundlage der gesamten
Wissenschaftslehre del 1794-95, praktisch significa “che tutto deve
concordare con l'Io, che ogni realtà deve essere posta assolutamente
dall'Io”12: la praticità della ragione allude alla sua capacità di
determinare liberamente l’oggettività sociale, storica e politica13, per porre
in essere oggettivazioni sempre più conformi (ma mai definitivamente tali)
alle potenzialità ontologiche del genere umano trascendentalmente pensato
come Ich, come un unico soggetto agente: “non è l’agire a dover essere
determinato dall’oggetto -scrive Fichte -, ma, al contrario, è l’oggetto a
dover essere determinato dall’agire”14.
Vera e propria “teoria trascendentale dell’azione”15, la WL viene
costituendosi nella forma di un' ontologicizzazione della Rivoluzione
francese16, ossia di una trasposizione sul piano ontologico dell’evento
storico della Rivoluzione come grandioso superamento, tramite la prassi
trasformatrice, delle oggettivazioni dell’Io; ossia come gesto titanico di
un’umanità non più intesa come il teatro passivo delle attività dei tiranni,
bensì come una soggettività rivoluzionaria17 che opera sulla scena della
storia affinché la serie delle oggettivazioni da essa stessa posta in essere
venga tolta, trasformata e riconfigurata in vista di un suo graduale
adattamento alla ragione della soggettività agente.
È in questo senso che, come si è detto in precedenza, senza
considerazione della concretezza storica la WL resta incomprensibile nelle
sue strutture portanti e nella sua espressività politica di tipo rivoluzionario.
Come sottolineato da Buhr, “la concezione di Fichte, per cui tutto deriva
dalla libera attività creatrice dell’uomo è una convinzione che egli maturò
soprattutto in relazione con la sua trattazione della Rivoluzione francese”18,
oltre che dalla scoperta della ragion pratica kantiana.
Con le parole di Gueroult, “Fichte è il solo filosofo il cui sistema abbia
subito l’influenza profonda della Rivoluzione come fatto storico”19.
Tramite la mediazione degli eventi della Francia rivoluzionaria, il pensatore
di Rammenau perviene alla codificazione dell’unabhängige Tätigkeit, libera
e volta all’emancipazione ad opera di una soggettività (Ich) che, lungi dal
comprendere esclusivamente il singolo individuo o un aggregato di io
empirici, è il concetto trascendentale del genere umano concepito come un
unico soggetto agente in vista dell’autocoscienza di sé come soggetto
unitario e, insieme, della conformazione del mondo oggettivo alla ragione
umana, secondo “l’esigenza che tutto debba concordare con l’io, che ogni
realtà debba essere posta assolutamente dall’io”20.
Per un verso, Fichte scorge negli eventi che attraversano febbrilmente la
Francia rivoluzionaria la prova della sua visione dell’uomo come homo
faber, in grado di determinare in modo attivo l’esistente. Per un altro verso,
egli viene delineando le strutture della WL nella forma di una trasposizione
sul piano teoretico-ontologico della Rivoluzione. Lungi dall’essere il
prodotto di un utopismo astratto e sconnesso dal concreto terreno sociale e
politico, come credeva Lukàcs, la filosofia di Fichte “rappresenta la
teoretizzazzione di una coscienza storica (Theoretisierung eines
geschichtlichen Bewusstseins)”21. Il nicht-Ich della WL si configura come
metafora non solo della società feudale-signorile, bensì di tutti gli ostacoli
che si frappongono tra l'Ich e il pieno dispiegamento della libertà umana
lungo l’asse mobile della storia22. Secondo quanto evidenziato da
Gurvitch, “il punto di partenza di Fichte è l’Umanità reale in atto. Per lui è
questa che incarna lo Spirito infinito”23, l’Io trascendentale come
fondamento della WL.
Come è stato suggerito da Pasquale Salvucci, “la WL è la coscienza
della possibilità oggettiva per l’uomo di modificare la staticità di quella
situazione che Kant aveva creduto (si badi, per fedeltà alla situazione
storica, di fatto) immodificabile”24. La soppressione del Ding an sich
equivale, appunto, alla rimozione di ogni oggettivazione sociale e politica
pensata come indipendente dall’agire umano e, dunque, come tale da dover
essere accettato supinamente come un destino25. L’oggetto esiste sempre
come risultato storicamente mediato di un porre: può, di conseguenza,
sempre da capo essere trasformato ad opera della prassi che l’ha posto in
essere e che nihil a se alienum putat. Le realtà oggettive cessano, dunque,
di essere pensate come immodificabili e intrascendibili: “l’uomo - così nella
Missione del dotto jenese - deve cercare di modificarle, e di farle
corrispondere con la pura forma del suo Io”26. Poste dalla Setzung
soggettiva, possono da essa venire modificate.
Come ha sottolineato Giuseppe Duso, “il legame del pensiero di Fichte
con la rivoluzione appare assai stretto, nel duplice senso che l’evento
storico è visto dal filosofo con gli occhi della sua nascente concezione
dell’uomo e che il suo stesso processo speculativo è spinto e incalzato dagli
interrogativi teorici posti dalla rivoluzione”27. Sembra condivisibile il
giudizio di Buhr, secondo il quale “le questioni della Rivoluzione
francese sono per Fichte il problema fondamentale anche nella
filosofia teoretica”28. Che l' Ich della WL si identifichi con il genere umano
unitariamente pensato nella sua storia è, d’altro canto, testimoniato da
innumerevoli passi dell’opera fichtiana, considerata anche in fasi diverse.
La Sittenlehre jenese del 1798, ad esempio, chiarisce che “la
rappresentazione dell’Io puro è la totalità degli enti razionali, la comunità
dei santi”29.
Sull’onda degli eventi della Francia rivoluzionaria, Fichte si propone
esplicitamente di riscrivere ab imis fundamentis la prima Kritik kantiana
sulla base della seconda, ossia di rifondare l’impresa filosofica sulla base
della praktische Vernunft, a sua volta determinata come prassi
trasformatrice che accorda l’oggetto con il soggetto facendolo
corrispondere pienamente ad esso30. L’oggetto cessa di essere un ens
realissimum, un dato da rispecchiare adeguandovi la propria mente e
diventa un processo storico di acquisizione di autocoscienza da parte
dell’umanità che opera nella storia e che deve superare prassisticamente
le proprie oggettivazioni in vista di una loro piena conformità con il genere
umano pensato come un unico Ich. È questo il grande insegnamento che il
pensatore di Rammenau trae dalla Rivoluzione, grandioso processo con cui
l’umanità pensata come un unico lo ha superato prassisticamente le proprie
oggettivazioni in vista di un loro accordo con la ragione. Johann Georg Rist
-che di Fichte fu uditore a Jena - così descrive il contegno del nostro autore:
“sembrava che avesse dichiarato guerra al mondo, opponendogli il proprio
io”31.
Se è vero che l'Ich fichtiano è unità concettuale del piano logico e di
quello storico, diventa allora comprensibile in che senso la metafisica di
Fichte, per un verso, non sia adattiva e contemplativa rispetto alla
strutturazione del reale, e, per un altro verso, debba essere letta, nel suo
processo genealogico, in costante riferimento alla Rivoluzione francese non
meno che a Kant e al successivo dibattito sul Ding an sich. A suffragarlo in
modo niente affatto evanescente è, d’altra parte, il modo palingenetico,
sul piano pratico-politico, in cui Fichte concepiva la WL e
l’effettivo impatto che, a suo giudizio, il System der Freiheit avrebbe
avuto per il futuro del genere umano. Più precisamente, la WL era,
agli occhi del suo autore, “il sistema filosofico destinato ad accompagnare e
ad illuminare l’inizio di una fase nuova, quella decisiva, della storia del
genere umano”32, secondo un tema che, attraversando l’intera sua
produzione, troverà il momento culminante nel prospetto cronosofico
abbozzato nella Geschichtsphilosophie dei Grundzüge des gegenwärtigen
Zeitalters del 1806.
Non deve sfuggire che “nell’ultimo anno delle antiche tenebre” era stata
la rivelativa datazione che il pensatore di Rammenau aveva apposto in una
delle due Revolutionsschriften. La Rivoluzione viene, infatti, assunta non
già come punto d’approdo del processo emancipativo, ma come suo
momento propulsivo, in grado di schiudere una nuova fase della storia
umana intessuta di progressi e di sempre nuove acquisizioni:
“la destinazione dell’umanità - così nella Missione del dotto del 1794 - è
l’ininterrotto avanzamento della cultura e l’ininterrotto dispiegamento
omogeneo di ogni disposizione e bisogno dell’umanità in quanto tale”33.
La stessa WL - che fonda ontologicamente ciò che il popolo francese ha
fatto - può configurarsi come un guadagno fondamentale in grado di
favorire questo processo di emancipazione, a patto che venga recepita e
adottata come piattaforma teorico-pratica di riferimento. Con le parole
impiegate da Fichte nel 1801, nel Sonnenklarer Bericht, “una volta che la
dottrina della scienza sia accettata e universalmente diffusa tra coloro a cui
si rivolge, l’intero genere umano sarà liberato dal cieco caso e per lui non
esisterà più il destino. L’intera umanità apparterrà a se stessa, sotto la
dipendenza del suo stesso concetto: essa farà di se stessa ciò che vorrà con
libertà assoluta”34. Tramite la svolta trascendentale (kein Objekt ohne
Subjekt), il concetto stesso di destino viene destrutturato e resta solo la
libera prassi autodeterminantesi dell’Io che pone sé e il non-Io.
Altrove, in termini convergenti (che ben rivelano l’incancellabile
portata socio-politica della WL come System der Freiheit), scrive Fichte:
“quando la dottrina della scienza sarà compresa e accettata il governo dello
Stato non procederà più alla cieca, ma sarà ridotto a regole fisse e princìpi. I
rapporti umani saranno subito portati a tal punto che agli uomini non solo
sarà facile, ma quasi necessario essere cittadini onesti e ordinati”35. Come
la Rivoluzione libera l’umanità dalla tirannia e dalle catene, cosi la WL
affranca il genere umano dal fatalismo del Ding an sich e codifica l’opera
coraggiosa di un’umanità che, affidandosi solo alle proprie forze, si batte
ininterrottamente per corrispondere pienamente a se stessa, per acquistare lo
statuto di fine in sé, nella forma del libero autosviluppo autonomo e non più
eterodiretto (“l’ininterrotto dispiegamento omogeneo - così nella
Bestimmung des Gelehrten jenese - di ogni disposizione e bisogno
dell’umanità in quanto tale”36).
Quanto sia stata decisiva per Fichte e per l’elaborazione della WL
l’esperienza della Francia rivoluzionaria, emerge nitidamente tanto dalla
Grundlage der gesamten Wissenschaftslehre quanto, e forse in misura
ancora maggiore, dalla Erste Einleitung alla dottrina della scienza del 1797
e dalla sua contrapposizione frontale tra Idealismus e Dogmatismus.37 Il
dogmatismo - spiega Fichte38 - è l’atteggiamento tipico di chi accetta il
mondo nella sua datità, assumendolo come un dato empirico fattuale, come
una “cosa in sé” che deve essere rispecchiata sul piano gnoseologico: “per il
dogmatico, tutto ciò che compare nella nostra coscienza è prodotto di una
cosa in sé (alles, was in unserem Bewusstseyn vorkommt, Product eines
Dinges an sich)”39. Di conseguenza, “ogni dogmatico coerente è
necessariamente fatalista”40, poiché “il principio dei dogmatici è la
fede nelle cose”41 e nella morta positività del reale.
In antitesi con il dogmatismo, l'Idealismus è per Fichte la sola filosofia
della libertà, poiché muove dall’Io e dalla sua attività creatrice e
trasformativa, assunta come principio assoluto e schlechtin unbedingt. A
debita distanza dal dogmatismo di chi, come Kant, parte dal presupposto
che si dia un oggetto che cade al di là del campo d’azione del soggetto,
l’idealismo muove dalla convinzione che il soggetto sia autenticamente
libero e che non si dia nulla a prescindere dalla sua azione: “il conflitto
tra idealista e dogmatico è, propriamente parlando, la scelta tra il sacrificare
all'indipendenza dell'io (Selbstständigkeit des Ich) l’indipendenza della
cosa, ovvero, al contrario, l’indipendenza dell’io all’indipendenza della
cosa (Selbstständigkeit des Dinges)”42.
La filosofia critica kantiana ha posto, nella seconda Kritik, il
fondamento della libertà assoluta dell’Io; ora, se si vuole veramente mettere
a frutto tale acquisizione, occorre affrancarsi dal presupposto dogmatico
della prima Kritik, ossia dal mantenimento di una “cosa in sé” sussistente a
prescindere da tale libertà ab-soluta. Come ha sottolineato Gurvitch, in
Fichte il “rigetto delle premesse dogmatiche della filosofia kantiana è legato
all’umanesimo realista ed eroico della Rivoluzione francese”43.
Come Fichte precisa a più riprese44, lo scontro insanabile tra le due
diverse posizioni filosofiche del Dogmatismus e dell' Idealismus mette
capo, anzitutto, a due diversi interessi pratici: l'illimitata conservazione
dell’esistente, per il dogmatico; la libera trasformazione della realtà in vista
del suo accordo con la ragione, per l’idealista. Come ha evidenziato Claudio
Cesa, per Fichte la “cosa in sé” è “un fantasma che occorre rimuovere
per garantirsi la libertà”45, ossia per svincolare la prassi da ogni morta
positività data. In termini convergenti, Salvucci ha sostenuto che “Fichte
teorizza nello sforzo infinito la volontà d’agire dell’uomo che ha compiuto
la Rivoluzione, che non considera più la realtà come immodificabile (la
cosa in sé)”46.
L’interesse fichtiano è, quindi, anzitutto pratico, non teoretico. La sua
funzione espressiva primaria coincide con la defatalizzazione dell’esistente:
l’oggetto non è un dato naturale che dev’essere rispecchiato
gnoseologicamente e conservato politicamente, secondo i canoni
dell'adaequatio, ma è, all’opposto, una libera Setzung del soggetto stesso, la
cristallizzazione della sua azione che, in quanto tale, nulla ha di definitivo o
intrascendibile. In quanto esito della libera attività del soggetto,
l’oggettività non presenta alcun carattere destinale: può sempre di nuovo
essere trasformata dalla libera prassi che l’ha posta in essere (risuona qui, in
prospettiva, l’andamento toto genere fichtiano delle undici Thesen über
Feuerbach di Marx47). Come evidenziato da Duso, fin dai testi giovanili, il
pensiero fichtiano si rivela intimamente animato dal “bisogno di un sapere
dell’uomo che non si rifugi nell’atmosfera di un’astratta speculazione, ma
sia direttamente legato alla comprensione dell’esperienza. Il sapere da una
parte appare congiunto con l’utilità e il bene dell’uomo, e perciò in stretto
contatto con la tematica morale, dall’altra richiede la conoscenza del mondo
degli uomini, senza della quale non ci può essere vero sapere”48.
Alla luce di quanto sostenuto, diventa chiaro in che senso e su quali basi
la Strebungsphilosophie di Fichte, con “quell’attivismo sfrenato, quel senso
prometeico della vita”49 che la contraddistingue, possa con diritto essere
considerata un umanesimo radicale50. Lo sforzo della ragione è, esso
stesso, quello della creazione, mediata dall’agire, di un’umanità finalmente
fine a se stessa, trasformando la storia nella vicenda del diventare uomo
dell’uomo, ossia della graduale conformazione dell’umanità alle proprie
potenzialità ontologiche. Secondo quanto chiarito nelle lezioni sulla
Missione del dotto jenese, “la destinazione dell’umanità è l’ininterrotto
avanzamento della cultura e l’ininterrotto dispiegamento omogeneo di ogni
disposizione e bisogno dell’umanità in quanto tale”51.
L’umanesimo radicale di Fichte, con la sua “soggettività autarchica,
trionfante, veramente prometeica”52, assume il genere umano come
titanicamente in lotta per umanizzarsi umanizzando il mondo e rendendolo
sempre più conforme a sé, al libero sviluppo delle proprie potenzialità.
Sono allora fuorvianti le tesi di chi, come - tra i tanti - Pantaleo
Carabellese53, accusa Fichte di aver trascurato il mondo degli uomini e
della comunità. Risultano, invece, convincenti le parole di Pareyson:
Tutta la filosofia di Fichte è pedagogia, nel senso più alto e compiuto del termine, nel senso
cioè che la stessa filosofia, pur avendo in sé un valore soltanto rappresentativo e speculativo,
tuttavia ha la funzione di migliorare l’uomo e di realizzare un’età finalmente buona, in cui tutti
gli errori dello spirito umano vengano eliminati col trionfo della ragione accordata con se
stessa54.

Il tema della defatalizzazione del mondo oggettivo in funzione del


soggetto umano, già al centro della Grundlage der gesamten
Wissenschaftslehre, trova la sua più coerente declinazione nella
Wissenschaftslehre nova Methodo (1796-1799). Qui Fichte - tramite il
“nuovo metodo” dell’unificazione del pratico e del teoretico - mostra more
geometrico come il mondo oggettivo si risolva nell’attività del pensiero del
soggetto, nella consapevolezza che tutto ciò che si può pensare presuppone
l’atto del pensiero, l’azione del conoscere: “la base di ogni coscienza deve
nascere mediante l’agire”55. Il conoscere, dunque, non come inerte
contemplazione dell’essente quale presupposto del pensiero, bensì come
azione creatrice e cosmogonica, che, ponendosi, pone anche il mondo
oggettivo nell’atto del conoscere56. Lungi dall’essere il presupposto del
pensiero, il non-Io ha il pensare quale presupposto: in coerenza con i
princìpi della dottrina fichtiana della Seinsetzung, l’essere è dedotto
dall’azione, il fatto dall’atto. Procedendo in modo
transzendentalphilosophisch e facendo sorgere geneticamente il proprio
oggetto nella forma della Vorstellung des Vorstellenden57, la WL si regge sul
principio trascendentale per cui l’esperienza come fatto si risolve nell’atto
che produce attivamente il fatto dell’esperienza.
Con le parole della Wissenschaftslehre nova Methodo: “l’io si pone
semplicemente, cioè senza ogni mediazione. È insieme soggetto e oggetto.
L’io diviene solo col porre se stesso, non è prima già sostanza, ma il porsi
come ponente è la sua essenza”58. Secondo quanto già chiarito dalla
Grundlage jenese del 1794-95, l’Io, ponendosi, si contrappone un non-Io:
l'Ich si pone allora come pensante e come pensato, come soggetto attivo e
come esito dell’attività del pensare (non abbiamo mai coscienza di un
oggetto esterno e autonomo, ma sempre del pensiero oggettivato come
pensato).
Io e non-Io si danno sempre nello spazio di una relazione di opposizione
e di identità, per cui il non-Io è posto come opposto all’Io e, insieme, come
coincidente con esso (la coincidenza soggetto-oggettiva). Il non-Io, ancora
una volta, esiste come esito dell’atto di posizione dell’Io stesso: il
dogmatismo -philosophia pigrorum - vede solo l’oggetto, obliando l’atto
che lo pone, e dunque il soggetto che lo pensa, e, per questa via,
non perviene alla pienezza dell’autocoscienza e resta paralizzato
al momento dell’opposizione, che pensa il soggetto e l’oggetto come
ontologicamente diversi e reciprocamente indipendenti.

1. Ancorché l’elenco dei testi basati su tale impostazione sia


alquanto lungo, ci limitiamo qui a segnalare come esempio paradigmatico
di questa posizione il pur pregevole volume di C. Cesa, Fichte e il primo
idealismo, Sansoni, Firenze 1975. Cfr. anche ID., Introduzione a Fichte,
Laterza, Roma-Bari 1994.
2. A. RAVÀ, Intoduzione allo studio della filosofia di Fichte, 1909,
ora in Id., Studi su Spinoza e Fichte, cit., p. 261.
3. G. GURVITCH, Dialectique et sociologie, Flammarion, Paris 1962,
p. 61.
4. Su questo tema, ci permettiamo di rinviare al nostro Minima
mercatalia. Filosofia e capitalismo, cit., capitolo I.
5. Cfr., ad esempio, P. SALVUCCI, Grandi interpreti di Kant: Fichte
e Schelling, Argalia, Urbino 1963.
6. Si veda, come caso paradigmatico, l’eccellente lavoro di L.
PareySON, Fichte: il sistema libertà, cit., pp. 168 ss.
7. Si veda M. BUHR, Revolution und Philosophie. Die ursprüngliche
Philosophie Johann Gottlieb Fichtes und die französische Revolution, cit.;
ID., Die Philosophie Fichtes und die französische Revolution, in AA.VV,
Republik der Menschheit. Französische Revolution und deutsche
Philosophie, Pahl-Rugenstein, Köln 1989, pp. 104-117; ID., Die
Philosophie Johann Gottlieb Fichtes und die Französische Revolution, in
ID. e D. LOSURDO, Fichte: die Französische Revolution und das Ideal
vom ewigen Frieden, Akademie Verlag, Berlin 1991.
8. Cfr. A. La Vopa, The Revelatory Moment: Fichte and the French
Revolution, in “Central European History”, n. XXII (1989), pp. 130-159.
9. R. GARAUDY, La méthode antithétique de Fichte, cit., p. 142:
“il trionfo della Rivoluzione ha reso caduchi i compromessi di Kant e il
dualismo filosofico che ne era l’espressione. Il radicalismo rivoluzionario di
Fichte esige un monismo della libertà. La Rivoluzione francese e il
principio kantiano della autonomia, il fatto storico e l’idea non sono, per
Fichte, che due aspetti, esterno ed interno, due espressioni di una medesima
libertà. [...] Il problema insieme teorico e pratico, che si pose Fichte, è di
fare entrare la Rivoluzione francese [...] nella realtà della vita tedesca”.
10. J.G. FICHTE, Briefwechsel (= BF), Kritische Ausgabe, a cura di
H. Schulz, Haessel, Leipzig 1930 (seconda edizione), I, p. 419. Cfr. X.
Tiliette, Fichte, la Science de la liberté, Vrin, Paris 2003.
11. Cfr. R. Preul, Reflexion und Gefühl. Die Theologie Fichtes in
seiner vorkantischen Zeit, Gruyter, Berlin 1969. Sul determinismo del
primo Fichte, si veda inoltre A.G. WIDFEUER, Vernunft als Epiphänomen
der Naturkausalität. Zu Herkunft und Bedeutung des ursprünglichen
Determinismus J.G. Fichtes, in "Fichte-Studien”, n. 9 (1997), pp. 62-82.
12. J.G. FICHTE, SW, I, p. 264. Si veda C. BINKELMANN, Theorie
der praktischen Freiheit. Fichte - Hegel, De Gruyter, Berlin 2007.
13. Come suggerito da Roger Garaudy, “la prassi, per Fichte,
nonostante il suo vocabolario kantiano e il suo idealismo, è l’impegno
dell’uomo, nella sua letalità, in uno sforzo collettivo per fare la storia, per
trasformare la natura e costruire la società”: R. GARAUDY, Clefs pour
Marx, 1972; tr. it. a cura di M. Feldbauer, Karl Marx, Sonzogno, Milano
1974, p. 47.
14. J.G. FICHTE, System der Sittenlehre, 1798; tr. it. a cura di E.
Peroli, Sistema di etica, Bompiani, Milano 2008, pp. 177-179 (GA, I, 5, p.
85).
15. P. BAUMANNS, Fichtes ursprüngliches System: sein Standort
zwischen Kant und Hegel, Frommann, Stuttgart 1972, pp. 204-205.
16. Su questo aspetto, si vedano i seguenti studi: P.P. DRUET, La
politisation de la métaphysique idéaliste. Le cas de Fichte, in “Revue
philosophique de Louvain”, 1974, pp. 678-711; F.L. LENDVAI, Die
Wissenschaftslehre Fichtes im Zusammenhang mit seiner Geschichts- und
Religionsphilosophie, in “Fichte-Studien”, n. 11 (1997), pp. 229-240.
17. Cfr. T. ROCKMORE e D. BREAZEALE (a cura di), Fichte.
Historical Contexts, Contemporary Controversies, Humanities, Highlands
1994.
18. M. BUHR, Revolution und Philosophie. Die französische
Revolution und die ursprüngliche Philosophie Fichtes, cit., p. 106. “La
teoria fichtiana dell’Io è il compendio astratto-teoretico dell’individuo
libero, senza vincoli del ‘Contributo’, come per converso la teoria
dell’individuo dello scritto sulla Rivoluzione è l'applicazione della
concezione dell’Io alle questioni dello Stato e della società” (ivi, pp. 103-
104).
19. M. GUEROULT, Fichte et la Revolution française, in
“Revue philosophique”, 1940, p. 99.
20. J.G. FICHTE, M, I, p. 456.
21. M. BUHR, Revolution und Philosophie. Die französische
Revolution und die ursprüngliche Philosophie Fichtes, eit, p. 11.
22. Ci sembra, allora, condivisibile il giudizio di Buhr, secondo il
quale "le questioni della Rivoluzione francese sono per Fichte il problema
fondamentale anche nella filosofia teoretica”: ivi, p. 94. Già Lukàcs, del
resto, nonostante le sue riserve verso l’elaborazione fichtiana, ne aveva
posto in evidenza lo stretto legame con il concreto quadro storico,
spingendosi a formulare la tesi secondo cui “la filosofia di Fichte è la
traduzione nell’idealismo dell’attivismo rivoluzionario del tempo”: G.
LUKÀCS, Der junge Hegel und die Probleme der kapitalistischen
Gesellschaft, 1948; tr. it. a cura di R. Solmi, Il giovane Hegel e i problemi
della società capitalistica, Einaudi, Torino 1960, 2 voll., II, p. 347.
23. G. GURVITCH, Dialectique et sociologie, cit., p. 60.
24. P. SALVUCCI, Grandi interpreti di Kant: Fichte e Schelling, cit.,
p. 49.
25. Cfr. J. TABER, Fichte’'S Emendation of Kant, in “Kant-Studien”,
n. 74 (1984), pp. 442-459.
26. J.G. FICHTE, Einige Vorlesungen über die Bestimmung des
Gelehrten, 1794; tr. it. a cura di D. Fusaro, Missione del dotto, Bompiani,
Milano 2013, pp. 197-199 (SW, VI, p. 298).
27. G. Duso, Libertà e Stato in Fichte: la teoria del contratto sociale,
cit., p. 274.
28. M. BUHR, Revolution und Philosophie. Die französische
Revolution und die ursprüngliche Philosophie Fichtes, cit., p. 94. Si veda
inoltre Id., Die Philosophie Johann Gottlieb Fichtes und die Französische
Revolution, cit., p. 55: “la rivoluzione è il problema fondamentale anche
nella filosofia teoretica” (p. 55), ed è anzi “la base delle sue riflessioni
teoretico-filosofiche”.
29. J.G. FICHTE, GA, I, 5, p. 230.
30. “L’opera della filosofia è dunque essenzialmente pratica, e la
Metafisica è per Fichte come per Spinoza, sia detto senza dimenticare la
differenza che separa i due sistemi, un’Etica: il suo scopo è di determinare
le condizioni secondo le quali lo Spirito puro o la Libertà si realizzano”: X.
Léon, La philosophie de Fichte, cit., p. 459.
31. H. SCHULZ (a cura di), Fichte in vertraulichen Briefen seiner
Zeitgenossen, Haessel, Leipzig 1923, p. 65.
32. C. CESA, J.G. Fichte e l'idealismo trascendentale, Il Mulino,
Bologna 1992, p. 43.
33. J.G. FICHTE, La missione del dotto, cit., p. 301 (.STI. VI, p. 336).
34. ID., M, III, pp. 530-533.
35. Ibidem.
36. ID., La missione del dotto, cit., p. 301 (SW, VI, p. 336).
37. Cfr. R. Brandt, Fichtes Erste Einleitung in die Wissenschaftslehre,
in “Kant-Studien”, 1978, pp. 67-89; G. COGLIANDRO, Note sulla prima e
seconda introduzione alla Wissenschaftslehre (1797), in “Archivio di
filosofia”, n. 68 (2000), pp. 311-322.
38. Cfr. J.G. FICHTE, Erste Einleitung in die Wissenschaftslehre,
1797; tr. it. a cura di C. Cesa, Prima introduzione alla Dottrina della
scienza, in Id., Prima e Seconda Introduzione alla dottrina della scienza,
Laterza, Roma-Bari 1999, p. 15 ( SW, I, pp. 428 ss.).
39. Ibidem.
40. Ibidem.
41. Ivi, p. 19 (SW, 1, p. 429).
42. ID., Prima introduzione alla Dottrina della scienza, cit., pp. 16-
17 (SW, I, pp. 428 ss.).
43. G. GURVITCH, Dialectique et sociologie, cit., pp. 9-60.
44. “Il motivo ultimo della differenza tra l’idealista e il dogmatico è
quindi la diversità del loro interesse ( Verschiedenheit ihres Interesse)”:
J.G. FICHTE, Prima introduzione alla Dottrina della scienza, cit., p. 17
(SW, I, pp. 428 ss.).
45. C. CESA, J.G. Fichte e l’idealismo trascendentale, cit., p. 134.
46. P. SALVUCCI, Grandi interpreti di Kant: Fichte e Schelling, cit.,
p. 27.
47. Abbiamo dedicato a questo tema il IV capitolo del nostro
Idealismo e prassi. Fichte, Marx e Gentile, cit.
48. G. Duso, Contraddizione e dialettica nella formazione del
pensiero fìchtiano, cit., pp. 69-70.
49. E. OPOCHER, G.A. Fichte e il problema dell’individualità,
CEDAM, Padova 1944, p. 11.
50. Cfr. P. SALVUCCI, Grandi interpreti di Kant: Fichte e Schelling,
cit., pp. 27-34.
51. J.G. FICHTE, Missione del dotto, cit., p. 301 (SW, VI, p. 336).
52. I. THOMAS-FOGIEL, Fichte. Réflesion et argumentatìon, cit., p.
238.
53. P. CARABELLESE, Il problema teologico come filosofia, Senato,
Roma 1931, pp. 45-53.
54. L. PAREYSON, L’estetica di Fichte, a cura di C. Amadio,
Guerini, Milano 1997, p. 48.
55. J.G. FICHTE, Wissenschaftslehre 1798 “nova methodo", 1798, in
NS, II, p. 565; tr. it. a cura di A. Cantoni, Teoria della scienza 1798 nova
methodo, Istituto Editoriale Cisalpino, Milano 1959, p. 214.
56. “Se qualche cosa è per noi fatta in un certo modo, è perché la
vediamo così attraverso il nostro fare”: Id., NS, II, p. 540.
57. ID., GA, I, 2, p. 361.
58. ID.. Teoria della scienza 1798 nova methodo, cit., p. 43 (NS, II,
p. 356).
4

SOGGETTO-OGGETTIVITÀ: WISSENSCHAFTSLEHRE E MONDO


STORICO

La presupposizione potrebbe essere questa, che il


grande lo universale, l’intero genere umano, si debba
elevare alla moralità, proprio la sua, dell’intero genere
umano.

J.G. FICHTE, Etica 1812

Dal punto di vista dell’idealismo pratico di Fichte quale viene


prendendo forma nella Grundlage del 1794-95 e nelle successive
Darstellungen della WL (pur con tutte le novità e le svolte teoriche che le
contraddistinguono1), l’oggetto non è altro che il soggetto che si è
oggettivato a se stesso: è il soggetto a porre l’oggetto a sé contrapponendolo
(l’Io si pone come determinante il non-Io). Quest’ultimo, dunque, è opposto
e, insieme, identico al soggetto stesso (questo il segreto del codice
della idealistica Subjekt-Objektivität). L’oggetto è il soggetto considerato
non come attività-in-atto (Tat-Handlung), ossia come azione al presente, ma
come risultato di quell’attività, come prassi oggettivata (Tat-Sache): esso
non si presenta, pertanto, con gli opachi tratti dell’immodificabilità, bensì
come risultato sempre trascendibile e mai definitivo dell'agire. È questa la
cifra della praxologische Dialektik fichtiana, come l’ha battezzata Klaus
Hammacher2. Così nella Naturrechtslehre jenese:
Il filosofo trascendentale deve assumere che tutto ciò che è, è soltanto per un io, e che tutto
ciò che deve essere per un io, può esserlo soltanto mediante l’io. L’intelletto comune invece dà
a ciò che è e all’io una esistenza indipendente. Afferma che il mondo sempre sarebbe, anche se
lui non fosse3.

La defatalizzazione del mondo oggettivo viene condotta, ancora una


volta, mostrandone la genesi soggettiva, umana, sociale e pratica. L’azione
precede l’essere (esse sequitur operari), il quale rimanda all’azione che l’ha
posto e senza la quale non potrebbe, appunto, essere. Secondo quanto
sostenuto nella Sittenlehre jenese del 1798, “è l’essere che deve essere
dedotto dal fare”4 (ist das Seyn aus dem Thun abzuleiten). Lo spirito è, per
sua stessa natura, capacità di far sì che il reale come datità e fattualità non
annulli l’ideale come l’assolutamente transcendens, ma al contrario lo
traduca nella realtà, e ne produca la trasformazione.
Propriamente, l’essere esiste solo per chi abbia obliato il fare da cui esso
deriva come esito, ossia per chi veda l’oggetto dimenticando l’atto della
visione che lo rende visibile. Come si chiarisce nell'Etica 1812, “l’essere,
concretamente vero, è spirituale: non vi è altro essere. [...] Questo essere
spirituale non è morto, come si comprende da sé, mentre al di là di questo
non ci sarebbe proprio nulla. Diviene morto attraverso il fatto che noi lo
raffiguriamo, lo guardiamo, e dimentichiamo questa nostra vita nel
guardare”5. È questo il principium firmissimum della WL, in ogni sua
esposizione.
Ciò significa che, sul piano ontologico, l’azione è prioritaria rispetto
all’essere, come sul piano socio-politico la prassi lo è rispetto all'oggettività
delle istituzioni sociali, politiche, giuridiche. In quanto poste dal
Vernunftwesen, queste ultime possono sempre di nuovo essere tolte dalla
sua Setzung e nuovamente poste secondo modalità sempre più prossime
all'ideale (asintoticamente rinviato, secondo la logica della schlechte
Unendlichkeit che Hegel rimprovererà alla fichtiana soggetto-oggettività
soggettiva) di un’umanità pienamente conforme a sé.
La Tathandlung des Ichs assurge, pertanto, a condizione di possibilità
della realtà: non si dà mai oggetto senza soggetto, tanto nel senso
gnoseologico (l’oggetto ci si dà sempre tramite la mediazione attiva del
soggetto, ossia come pensato di un pensare in atto), quanto nel senso socio-
politico (le oggettivazioni sociali esistono sempre in forza di una Setzung,
di un atto della soggettività umana che le ha poste), quanto, ancora, in
quello storico (non si danno accadimenti che non siano prodotto della libera
prassi umana). Come programmaticamente si sostiene nella Sittenlehre
jenese, “secondo il punto di vista trascendentale il mondo è fatto (wird
gemacht), secondo il punto di vista comune è dato (ist gegeben)”6.
L’intera opera fichtiana, se letta in trasparenza, può fecondamente essere
interpretata come una titanica reazione all’alienazione moderna, a cui il
Wissenschaftslehrer si oppone tramite il primato assoluto dell’azione
(determinantesi in ogni ambito -dalla morale alla gnoseologia, dalla politica
alla Gotteslehre -come primato dell’agire sull’essere, della prassi sulla
contemplazione, dell’atto sul fatto)7. Mostrando come l’oggetto dipenda
dalla mediatezza del porre del soggetto, la Transzendental-Philosophie
spezza la mistica della necessità e mostra la libertà pratica dell’Io come
fondamento del reale. Con le parole della Destinazione dell’uomo del 1800,
“non tremerai più innanzi a una necessità che esiste solo nel tuo pensiero,
non tremerai di venir schiacciato da cose che sono i tuoi prodotti”8.
Nella Wissenschaftslehre nova Methodo non meno che nella Grundlage
del 1794-95, il primato dell’atto sul fatto, dell’agire sull’essere vale tanto
sul piano gnoseologico, quanto su quello pratico e socio-politico9. Nella
prospettiva dell’idealismo trascendentale, “è l’attività pratica che fonda la
realtà del mondo”10. Il principio dell’idealista “non è qualche cosa di dato,
ma è trovato da un atto libero di attività, nella libera azione
dell’autoporsi”11, nella prassi che determina sé e l’oggetto (e che
deve determinare sé determinando l’oggetto). La dottrina della scienza nova
methodo è costellata di passaggi che adombrano l’unitarietà del piano
teoretico, di quello pratico e di quello socio-politico, connessi tramite il
primato dell'azione determinante l’oggetto: “in generale non so nulla
immediatamente dell’oggetto: so solo del mio fare, ed in virtù di un certo
modo di vedere il mio fare, ottengo l’oggetto”12. E ancora: “il non-io è il
determinabile continuo in ogni determinazione, che esso riceve in virtù
della libertà dell'io”13. L’essente, in ogni sua determinazione, è l’esito di un
porre soggettivo, configurandosi dunque come prassi cristallizzata in
oggettivazioni che sempre da capo possono essere trasformate ad opera
dell’azione che le ha create. La realtà, pertanto, è l’esito sempre riprodotto
della libertà del l’agire. In essa non vi è nulla di fatale o di
intrascendibile: fatum non datur14.
Occorre insistere su questo delicato plesso teorico, da cui si evince
l’intreccio alchemico, nella riflessione fichtiana, tra istanze ontologiche e
gnoseologiche, da una parte, e istanze socio-politiche e storiche, dall’altra.
Tale intreccio, che permette di comprendere in che senso la politica sia
sempre pensata da Fichte come dedotta nach Principien der
Wissenschaftslehre, trova il proprio cardine in quella mediatezza del porre
che defatalizza l'oggettività correlandola alla soggettività agente e alla sua
libera Tätigkeit. Sul piano gnoseologico, si muove dalla convinzione che
l’oggetto esista indipendentemente da noi, per poi acquisire coscienza del
fatto che esso sussiste sempre e solo nella soggetto-oggettività, cioè
nell’atto del pensiero che, pensandolo, lo pone (risolvendosi la dualità di
pensante e pensato nell’unità del pensare in atto).
Analogamente, sul piano storico, si procede dalla convinzione che il
mondo oggettivo si dia in forma autonoma rispetto a noi (come
oggettivamente oggettivo), per poi acquisire gradualmente coscienza,
tramite la mediazione temporale, dell’oggettività non oggettiva di quel
mondo15: vale a dire del suo esistere come mediato dal porre socio-politico,
e dunque della possibilità concreta di mutarne la configurazione agendo16.
In questa luce, la cifra della WL l’Io si determina nella sua opera
di inesauribile determinazione del non-Io - è, a un tempo, gnoseologica e
socio-politica: la Rivoluzione francese e la svolta
transzendentalphilosophisch di Kant ne costituiscono il presupposto storico
e filosofico.
Dal punto di vista della WL, come ricorderà ancora la crepuscolare
Etica 1812, “non resta alcuno spazio per un mondo oggettivo, che non sia
prodotto della libertà”17. Ciò non significa naturalmente, contro i
fraintendimenti a cui da sempre è sottoposto il pensiero fichtiano, che il
mondo oggettivo non esista: vuol dire, al contrario, che la sua esistenza è
dedotta dal fare, esistendo la objektive Welt come prodotto dell’attività
ponente dell’Io schlechthin unbedingt. L’obiettivo teorico della WL
come System der Freiheit consiste nella negazione non già del reale, bensì
del suo carattere fatale, ossia dell’erranza del pensare astratto che intende
l’essere come oggettività data e indipendente dalla prassi umana18.
Tutto ciò che è, si dà sempre mediato dal pensare in atto, ed esiste
dunque come pensato di un pensare, come prodotto della coscienza che si
pone a sé contrapponendo un non-Io e risolvendo l’opposizione nell’unità
dell’atto coscienziale. Al tempo stesso, sul piano politico, sociale e storico,
ogni realtà esiste sempre come risultato di un fare umano, come
oggettivazione indefinitamente riprogrammabile della prassi umana:
secondo quanto già sostenuto ai tempi del Beitrag, “non troveremo
mai nella storia del mondo se non ciò che vi abbiamo messo”19. Per questo,
nella Grundlage del 1794-95 Fichte sostiene che il nonio “è esso stesso un
prodotto dell’Io che determina se stesso, e non è nulla di assoluto e posto
fuori dall’Io”20.
La realtà sociale non è una cosa in sé immutabile e tale da dover essere
asetticamente registrata nella sua datità. È, al contrario, prassi oggettivata e
sempre trasformabile, identità in movimento tra l’umanità e le sue
oggettivazioni, tra l'ordo ordinans della ragione e i suoi prodotti storici.
L'omnimoda determinabilitas è la cifra del reale pensato come esito sempre
riprogrammabile della prassi umana. L’Io fichtianamente determinantesi nel
porre il non-Io, allude al carattere non definitivo del mondo oggettivo: il
quale coincide non già con una natura data a cui adattarsi, secondo il
canone dell’adaequatio gnoseologica e politica, bensì con l’esito
temporalmente mediato della prassi soggettiva, sempre di nuovo
trasformabile in vista del suo accordo con il soggetto stesso21.
In questa luce si spiega in che senso, ancora nella Staatslehre del 1813,
Fichte individui nella vicenda cristica e nella Rivoluzione francese i due più
grandi eventi della storia umana. Essi rappresentano l’irruzione della
novitas nell'ordo temporum, rivelando come la storia non sia strutturata
meccanicisticamente, come sequenza di accadimenti prevedibili e
necessitati, ma presenti invece come propria cifra caratterizzante la
possibilità. La vicenda cristica e la Rivoluzione francese adombrano, in altri
termini, come sia sempre possibile cambiare il corso delle cose, al di
là della mistica della necessità ideologicamente connotata: in questo modo,
tali eventi suffragano l’ontologia della prassi della WL.
Ritraducendo l’ontologia in un’inedita attologia (sulla cui base verrà
costituendosi la dialettica attualistica di Gentile22) e identificando l’essere
con il prodotto del fare, e dunque il fare con il sapere (non essendovi essere
non mediato dalla coscienza del soggetto), la WL può legittimamente
aspirare a porsi come scientia scientiarum, configurandosi come sapere
sapentesi (vuoi anche come das Sehen sehen23), vale a dire come
fondamento metafisico di tutte le scienze, che ad essa stanno come
il fondato sta con il fondamento24. Il suo obiettivo, sul piano conoscitivo,
consiste nel comprendere il comprendere o, se si preferisce, nel sapere il
sapere, riconducendolo alla praticità dello spirito come attiva produzione
che si determina determinando il proprio oggetto25.
Perché, allora, l’Io deve negarsi, ponendosi come non-Io? A questa
domanda, seguendo le coordinate della WL, è possibile rispondere secondo
due modalità segretamente complementari. In primo luogo, per acquisire
coscienza di sé, il soggetto agente deve diventare oggetto (e, dunque,
oggetto della sua stessa azione conoscitiva). Deve, in altri termini, porsi
come oggetto di sé, istituendo la polarità tra il conoscente e il
conosciuto: non soltanto perché, per guadagnare coscienza di sé, deve
porre un conosciuto, e dunque oggettivarsi (facendosi, da Tat-Handlung,
Tat-Sache), ma anche perché, per poter essere cosciente di sé come Io, deve
distinguersi rispetto a qualcosa che sia differente da esso, ossia che sia un
non-Io. In questo senso, la coscienza del non-Io risulta, allora, essa stessa
funzionale alla coscienza che l’Io acquista di sé: coscienza e autocoscienza
si configurano, infatti, come momenti reciprocamente mediati.
Come precisato nella dottrina della scienza nova methodo, “ogni
coscienza è autocoscienza. È questo il fondamento della dottrina della
scienza’’26. Conoscere la realtà significa sempre, ineludibilmente,
conoscere il proprio pensare la realtà: come già si è visto, il nostro rapporto
con il reale è sempre mediato dal pensiero pensante, con la conseguenza che
il realismo, in ogni sua declinazione27, è sempre ingenuo, giacché si fonda
sull’oblio del fatto che l’essere si dà per noi come pensato di un pensare. In
questo risiede, per inciso, il principio idealistico dell’intrascendibilità del
pensiero, ossia, con la grammatica di Gentile. l’idea che “non si possa
trascendere l’atto del pensiero”28 (non vi è essere se non nel pensiero che lo
pensa).
In secondo luogo, se l’Io è strutturalmente attività in atto (inesauribile
esito del proprio porsi libero e incondizionato), allora esso deve sempre di
nuovo agire su un oggetto. Deve, cioè, sempre da capo trasformare le
cristallizzazioni in cui si è oggettivato. Per questo, l’Io sempre di nuovo si
contrappone un non-Io, superandolo e riponendolo come opposto rispetto a
sé. L’essere dell’Io si risolve nell’azione volta a oggettivarsi e a superare le
proprie oggettivazioni, in vista della loro piena identità con l’Io stesso.
Quest’ultima è sempre differita. Se, infatti, fosse raggiunta in actu, allora
l’Io cesserebbe di essere la unabhängige Tätigkeit che strutturalmente è. Si
attua, in questo modo, un ritmo per cui l’Io, nel suo sviluppo, si nega senza
sosta - facendosi non-Io - per poter essere pienamente se stesso, ossia per
superare attivamente, mediante l’azione, la propria negazione sempre da
capo posta29. L’Io si risolve, di conseguenza, in energia pratica, in continua
negazione del proprio negarsi. Per essere attività, la fiamma sempre
rinnovantesi dell’Io non può stare staticamente, in forma inerte. Deve,
appunto, negarsi sempre di nuovo, ossia oggettivarsi, e poi sempre di nuovo
superare la negazione continuamente posta e tolta.
È questa, come si diceva, la logica del conoscere, ma poi anche della
storia del genere umano. Entrambe si risolvono in questo inesauribile
processo di oggettivazioni e loro superamenti, di smarrimento e poi di
ritrovamento di sé nell’altro, di riconoscimento dell’alterità dell’oggetto e
di sua risoluzione nell’identità con il soggetto. Quest’ultimo si perde nelle
proprie oggettivazioni, per poi comprenderne la vera natura di oggetto posto
dal soggetto e, dunque, trasformabile dalla sua prassi. L’oggetto è di nuovo
superato dal porsi, ad opera del soggetto, di una nuova e più alta
oggettivazione, più conforme al soggetto stesso. Il soggetto si aliena
nell’oggetto, per poi ritornare a sé arricchito, perché transitato per la
potenza del negativo e finalmente autocosciente.
È in quest’orizzonte che si comprende in che senso la dialettica
idealistica, lungi dal presentare lo statuto di apologia dell’esistente, riveli, a
uno sguardo ermeneuticamente limpido, la sua vera natura di
defatalizzazione del reale colto nel suo inesauribile farsi ad opera della
prassi umana30. L’agire sempre ricominciato è la sua essenza e, insieme, il
suo ideale orientativo. Dal punto di vista transzendentalphilosophisch della
WL, la propria negazione (il farsi oggetto del soggetto) è, per l’Io,
condizione imprescindibile per la piena corrispondenza con sé. Come si
è detto, per poter essere unabhängige Tätigkeit, il soggetto
deve oggettivarsi e agire sull'oggetto da lui stesso posto; per poter acquisire
piena coscienza di sé, deve farsi oggetto a sé medesimo. Sta qui il segreto
dell’Io che si nega ponendo il non-Io; l’Io esiste nell’atto sempre
ricominciato del negare la propria negazione. Per diventare soggetto
autocosciente, l’Io deve diventare oggetto di se stesso, sdoppiandosi nella
relazione di opposizione e identità di soggetto e oggetto: in quanto oggetto,
il non-Io è opposto all’Io, alla pura soggettività agente; ma, in quanto
libera posizione dell’Io, e dunque Io pensato non come azione, ma come
suo risultato, il non-Io coincide con l’Io stesso31.
Questo movimento di autooggettivazione comporta, eo ipso, uno
sdoppiarsi del soggetto secondo la dualità soggetto-oggetto.
L’oggettivazione che il soggetto fa di se stesso può, allora, diventare la base
per l’acquisizione dell’autocoscienza mediata dalla prassi (l’uscire fuori di
sé dall’in sé originario come condicio sine qua non per la conquista dell’in
sé e per sé), ossia per il ritrovamento di sé nella propria stessa
oggettivazione. In questo caso, lo sdoppiamento dell’Io posto in essere
con la sua oggettivazione diventa la base per il compito della riconquista
dell’unità dopo la scissione: e questo nel senso tanto della consapevolezza
che il non-Io è l’Io stesso pensato come a sé oggettivato, quanto del
compito di conformare il non-Io all’Io tramite l’azione, trasformando il
nesso di identità e opposizione in una relazione di pura identità (ossia di
identità dell’identità e della non-identità).
La storia come libera e mai definitiva sequenza delle libere
oggettivazioni dell’Io si regge, per Fichte, su una continua oscillazione tra il
costituirsi e il perdersi dell’Io stesso per mezzo delle sue realizzazioni, tra
l’acquisire coscienza di sé e dell’oggettività posta come proprio prodotto o
l’alienarsi dogmaticamente in una cosa tra le tante32. Per questo motivo,
una volta di più, l'Ich è, sul piano logico, il principio primo della metafisica
dell’idealismo pratico e, al tempo stesso, sul piano dell’essere sociale,
rappresenta il concetto trascendentale del genere umano, inteso come Io
unitario e titolare di attività autosufficiente. Quest’ultima può determinarsi
unicamente in rapporto con le oggettivazioni che l’Io stesso ha posto.
L’oggetto, pertanto, deve essere inteso come Tat-Sache, e dunque come
“oggetto posto”, come “resistenza” naturale e sociale a tutti i progetti
di emancipazione e di ringiovanimento del mondo33.
Concepito come libero attore e come demiurgo della propria storia, il
genere umano è, allora, chiamato a corrispondere a sé34: e questo secondo
le due modalità reciprocamente innervate e solo in abstracto disgiungibili
della conformazione pratica dell’oggetto al soggetto e dell’acquisizione
dell’autocoscienza, da parte della molteplicità nomade degli io empirici, di
essere parti di un’unica soggettività coincidente con il genere umano
pensato come un unico Ich. Come, nell’ambito conoscitivo, la molteplicità
dei pensati è risolta nell’unità dell’atto del pensiero pensante, così, sul piano
storico, la pluralità nomade degli io empirici si risolve nell’unità del genere
umano concepito come Io unitario e fine a se stesso35. È anche per questa
ragione che, in luogo del termine Gemeinschaft, Fichte preferisce spesso
impiegare quello di Gemeinwesen, che allude direttamente all’idea
ontologica ancor prima che politica della comunità d’essenza e dunque, in
seconda battuta, di scopi e di origine.
In una simile prospettiva, la storia acquista per Fichte lo statuto di
sequenza degli atti liberi con cui il soggetto - l’umanità pensata come un
unico Io - opera per rendere sempre più conformi a sé le proprie
oggettivazioni e per acquisire una sempre più profonda coscienza di sé
come soggetto unitario, in modo che gli io empirici tendano - così in Über
die Würde des Menschen - “a unificarsi e a formare un solo spirito in più
corpi. Tutti sono un’intelligenza e un volere e sussistono come cooperatori
al grande e unico possibile piano dell’umanità”36.
Nel suo monumentale Von Kant bis Hegel, Richard Kroner ha mostrato
come la WL delinei, ben prima della dialettica hegeliana, il processo del
Sich-seiner-bewusst-werden37 attraverso il quale “l’Io diventa Io”38. Sia
pure occultandola dietro l’incessante e, a tratti, ingenerosa polemica
antifichtiana, Hegel avrebbe, allora, metabolizzato, sia pure declinandolo in
modo originale, uno dei principali assunti della WL39, ossia l’idea
secondo la quale lo sviluppo della cultura umana è il frutto di una autoctisi
(e non di un’emanazione divina), secondo un processo nel quale il negativo
è un ostacolo necessario che deve essere storicamente prodotto per poi poter
essere superato, generando l’avanzamento e il dispiegamento
dell’emancipazione40.
In questo senso, come suggerito ancora da Kroner, Fichte ha anticipato
Hegel nella misura in cui das Denken in Fluss bringt41. Anche autori molto
distanti tra loro come Jules Vuillemin42 ed Edith Dusing43 hanno
variamente sostenuto che la WL, prima della Phänomenologie des Geistes,
pone in essere “i tratti fondamentali del programma di una storia idealistica
dell’autocoscienza”44 del genere umano trascendentalmente inteso come un
soggetto unitario; a tal punto che, non senza buone ragioni, vi è stato chi,
come Adriano Bugliani, ha espressamente parlato di una “Fenomenologia
dello spirito fichtiana”45.
1. Si veda l’ormai classico M. GUEROULT, Revolution et la strutture
de la doctrine de la Science chez Fichte, 2 voll., Paris 1930 [ristampa
anastatica in un unico volume presso Olms, Hildesheim 1982],
2. Cft. K. HAMMACHER, Fichtes praxologische Dialektik, in
“Fichte-Studien”, n. 1 (1990), pp. 25-40.
3. J.G. FICHTE, SW, III, p. 24.
4. ID„ Sistema di etica, cit., p. 123 (GA, I, 5, p. 66). Così a proposito
di Fichte sosteneva Ernst Bloch, nelle sue lezioni tubinghesi sull’idealismo
tedesco: “l’azione era già posta alla base della sua filosofia teoretica” (E.
BLOCH, L'idealismo tedesco e dintorni. Dalle Leipziger Vorlesungen, a
cura di V. Scaloni, Mimesis, Milano 2011, p. 74).
5. J.G. FICHTE, GA, II, 13, p. 330.
6. ID., Sistema di etica, cit., p. 803 (GA, I, 5, p. 308).
7. Abbiamo approfondito questo tema nel capitolo II del nostro
Idealismo e prassi. Fichte, Marx e Gentile, cit.
8. JG. FICHTE:, La destinazione dell’uomo, cit, p. 68 (SW II, p. 240).
9. R. LAUTH, Il cuore della concezione pratica di Fichte, in
“Annuario filosofico”, n. 18 (2002). pp. 103-116. Si veda, inoltre, M.
MARCUZZI (a cura di), Fichte, la Philosophie pratique, Publications de
l’université de Provence, Aix en Provence 2008.
10. P. SALVUCCI, La costruzione dell’idealismo. Fichte, Quattro
Venti, Urbino 1984, p. 210.
11. J.G. FICHTE, Teoria della scienza 1798 nova methodo, cit., p. 36
(NS, II, p. 347).
12. ID., NS, II, p. 540.
13. ID., NS, II, p. 589.
14. Si veda l’imprescindibile L. SIEP, Praktische Philosophie im
deutschen Idealismus, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1992.
15. Il non-Io - scrive Fichte nella Grundlage der gesamten
Wissenschaftslehre del 1794-95 “è esso stesso un prodotto dell’Io che
determina se stesso, e non è nulla di assoluto e posto fuori dall’Io”: ID., GA,
1, 2, p. 361.
16. Sulla figura della possibilità nella dialettica hegeliana, si veda,
ad esempio, T. PINKARD, Hegel ’s Dialectic. The Explanation of
Possibility, Tempie University Press, Philadelphia 1988.
17. JG. FICHTE, GA, II, 13, p. 331.
18. Su questo tema, si veda l'imprescindibile lavoro di I.
SCHOSSLER, Die Auseinandersetzung von Idealismus und Realismus in
Dichtes Wissenschaftslehre, Klostermann, Frankfurt a.M. 1972. Cfr.,
inoltre, M. ROY, La doctrine de la Science de Fichte: idealisme speculatif
et realisme pratique, L’Harmattan, Paris 2010.
19. J.G. FICHTE, GA, 1,1, p. 203.
20. ID., GA, I, 2 , p. 361.
21. Cfr. W.M. MARTIN, Idealism and Objectivity. Understanding
Fichte ’s Jena Project, Cambridge University Press, Cambridge 1998.
22. Cfr. soprattutto H.S. HARRIS, Fichte e Gentile, in “Giornale
Critico della Filosofia Italiana”, 1964, pp. 557-578.
23. J.G. FICHTE, GA, II, 6, p. 372.
24. Cfr. Id., GA, I, 2, pp. 129-130.
25. D. BREAZEALE, Der Satz der Bestimmbarkeit. Fichte’s
Appropriation and Transformation of Maimon ’s Principle of Synthetic
Thinking, in “Internationales Jahrbuch des Deutschen Idealismus”, n. 1
(2003), pp. 115-140.
26. J.G. FICHTE, GA, iy 2, p. 205.
27. Si veda, a questo proposito, il recente dibattito intorno al
cosiddetto new realism. Cfr. soprattutto M. FERRARIS, Manifesto del
nuovo realismo, Laterza, Roma-Bari 2012; Id. e M. De Caro (a cura di),
Bentornato realtà. Il nuovo realismo in discussione, Einaudi, Torino 2012.
28. G. GENTILE, Sistema di logica come teorìa del conoscere, 1917-
1922, Le Lettere, Firenze 2003, 2 voll., II, p. 376.
29. Si veda, ad esempio, C. HANEWALD, Absolutes Sein und
Existenzgewissheit des Ich, in “Fichte-Studien”, n. 20 (2003), pp. 13-25.
30. W. JANKE, Historische Dialektik. Destruktion dialektischer
Grundformen vom Kant bis Marx. Gruyter, Berlin 1977.
31. Si veda M. GOETZE, Das praktische Ich in der
"Wissenschaftslehre'’ und in der frühromantischen Philosophie des Lebens,
in “Fichte-Studien”, n. 19 (2002), pp. 137-147.
32. Cfr. R. PICARDI, Il concetto e la storia: la filosofìa della storia
di Fichte, Il Mulino, Bologna 2009; I. RADRIZZANI ET ALII, LA
PHILOSOPHIE DE L’HISTOIRE CHEZ FICHTE, Colin, Paris 1996.
33. Cfr. E. Acosta, Vier Bedeutungen des Wortes Nicht-Ich in
Jenaer Periode Fichtes Wissenschaftslehre, in S. RAPIC e M. PFEIFFER (a
cura di), Das Selbst und sein Anderes. Festschrift Jur Klaus Kaehler, Alber,
Freiburg 2009, pp. 98-108. Si veda anche U. BAUMANN, Fichte in Berlin:
spekulative Ansätze einer Philosophie der Praxis. Wehrhahn, Hannover
2006.
34. Cfr. B. WILLMS, Die totale Freiheit. Fichtes politische
Philosophie, Westdeutscher Verlag, Köln-Opladen 1967.
35. Cfr. A. Honneth, La necessità trascendentale
dell'intersoggettività. Sul secondo teorema del saggio sul diritto naturale di
Fichte, in “Rivista di Filosofia”, n. 89 (1998), pp. 213-238.
36. J.G. FICHTE, Züricher Vorlesungen über den Begriff der
Wissenschaftslehre, 1794; tr. it. a cura di M. Ivaldo, Lezioni di Zurigo. Sul
concetto della dottrina della scienza, Guerini, Milano 1997, pp. 113-115
(GA, I, 2, pp. 81-82).
37. R. KRONER, Von Kant bis Hegel, Mohr, Tübingen 1921-1924, 2
voll., I, p. 562.
38. Ivi, I, p. 562.
39. Cfr. F. FISCHBACH, Fichte et Hegel: la reconnaissance, PUF,
Paris 1999.
40. Cfr. G. VASTA, Storicità e metastoricità dell 'alienazione nella
"Fenomenologia dello Spirito” di G.W. Hegel, ILA, Palermo 1981; G.
ROHTMOSER, Theologie e aliénation dans la pensée du jeune Hegel,
Beauchesne, Paris 1970; P. Cornehl, Die Zukunft der Versöhnung:
Eschatologie und Emanzipation in der Aufklärung, bei Hegel und in der
Hegelschen Schule, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1971.
41. R. KRONER, Von Kant bis Hegel, cit., I, p. 437.
42. “Esiste dunque una fenomenologia dello spirito, perché la
filosofia consiste nel riprodurre la dialettica immanente dei fenomeni, cioè
la storia della coscienza”: J. Vuillemin, L’héritage kantien et la revolution
copemicienne, PUF, Paris 1954, p. 73. Quella della Grundlage del 1794-95
è la storia della prise de conscience de soi par le Je (ivi, p. 89).
43. E. DOSINO, Hegel’s “Phänomenologie” und die
idealistische Geschichte des Selbstbewusstseins, in “Hegel-Studien”, 28,
1993, p. 109.
44. Ibidem.
45. A. BUGLIANI, La storia della coscienza in Fichte, 1794-1798,
Guerini, Milano 1998, p. 122.
5

VISIONE COMUNITARIA E TEORIA DELL’ESTINZIONE DELLO


STATO A PARTIRE DAL BEITRAG

Se mai il fine ultimo venisse completamente raggiunto,


non sarebbe davvero più necessaria alcuna costituzione
politica.

J.G. FICHTE, Contributo per rettificare ì giudizi del


pubblico sulla Rivoluzione francese

La Rivoluzione francese, non meno della praktische Vernunft kantiana,


ha modellato il pensiero fichtiano, spingendolo verso l’assunzione dei
problemi interconnessi della libertà e della liberazione come fulcro del
proprio filosofare. Non è qui importante, ai fini della nostra analisi, una
ricostruzione complessiva del giudizio fichtiano della Rivoluzione anche
negli scritti successivi. Su questo punto, ci paiono convincenti sia
gli argomenti di chi, come Martial Guéroult1, ha chiarito in che senso, dal
punto di vista fichtiano, la rivoluzione venga sempre intesa come legittima,
ma sia sempre più messa in dubbio la sua “saggezza”2, sia quelli - solo
apparentemente in contraddizione con questa posizione - di chi ha sostenuto
che non vi è mai, in Fichte, un rinnegamento del proprio entusiasmo
originario per l’evento rivoluzionario.
È in questa cornice teorica che deve essere inquadrata la vexata quaestio
dello Stato nella riflessione fichtiana. Tale problema, come cercheremo di
mostrare, è direttamente connesso con la WL e con la sua passione
trasformatrice e non può essere affrontato a prescindere da essa, come si
ostina a fare la storiografia pigra. Senza perdere di vista la tutt’altro che
esile bibliografia su questo tema3, occorre anzitutto segnalare come l’aporia
dello Stato commerciale chiuso - ossia, come si è detto, l'improvviso
transito di Fichte dalla tematizzazione della necessaria estinzione della
Staatsform alla codificazione dello Stato forte e commercialmente chiuso -
rivelerebbe, stando alle letture più consolidate, non soltanto una
contraddizione interna alla riflessione fichtiana. Di più, essa sembrerebbe
porre in contraddizione gli stessi principi della WL, il suo pathos
antiadattivo e defatalizzante, la sua stessa essenza di System der Freiheit.
Da una diversa angolatura, come già si è detto, il “primo Fichte”,
“giacobino e sovversivo”, secondo l’immagine - certo tutt’altro che neutra -
che di lui veniva veicolata negli ambienti conservatori, nemico dello Stato
oppressivo quando non dello Stato in quanto tale, risulterebbe del tutto
incompatibile con il “secondo Fichte”, quello che, dopo la sofferta vicenda
dell'Atheismusstreit4, si reinsedia nell’Università e pare conciliarsi con lo
status quo, tematizzando la necessità di uno Stato forte e sovrano,
commercialmente chiuso e organicisticamente strutturato. Questa nuova
fase della riflessione politica fichtiana sembrerebbe, pertanto, costituire una
confutazione non solo delle convinzioni jenesi relative allo Stato, ma anche,
in forma ben più radicale, degli stessi princìpi della WL come ontologia
della prassi orientata all’emancipazione del genere umano pensato come un
unico Io.
Come spiegare questa improvvisa Kehre? E, soprattutto, come può essa
coniugarsi con l’immagine dell’idealismo fichtiano che abbiamo delineato
in precedenza, presentandolo come una forma di filosofia della
trasformazione e della libertà, per sua vocazione avversa al dogmatismo e
all’inerzia conservativa, tesa a superare ogni barriera che ostacoli
l’unificazione in atto de! genere umano? Non è forse racchiuso nel concetto
stesso di uno Stato chiuso l’abbandono dell’infinito processo emancipativo
del genere umano codificato dai princìpi della WL?
Su questa aporia se ne innesta un’altra, a cui occorre fare riferimento
per poter comprendere in tutta la sua portata l’enigma fichtiano dello Stato
commercialmente chiuso: dall’accettazione integrale della Rivoluzione
francese, encomiata (sia pure con riserve sulla saggezza) nelle
Revolutionsschriften e assunta come fondamento ontologico del prassismo
trascendentale della WL, Fichte volge rapidamente alla critica feroce del
mondo storico che dalla Rivoluzione è scaturito, qualificandolo
come “anarchia commerciale” nello Stato commerciale chiuso e
come “epoca della compiuta peccaminosità” nei Tratti fondamentali del
tempo presente. Come si spiegano queste inversioni di tendenza? È
possibile, in antitesi con la soluzione monoliticamente prospettata dalla
storiografia pigra, individuare in questo percorso teorico un coefficiente di
unitarietà e di coerenza?
Come già si è sottolineato, per sciogliere l’aporia, la storiografia
dominante, che spiega obscurum per obscurius, si limita a rilevare la
presenza di un’irrisolvibile contraddizione interna all’evoluzione del
Denkweg fichtiano: come se il pensatore di Rammenau, in modo
improvviso e immotivato, abbandonasse l’entusiasmo originario per la
Rivoluzione (approdando a una critica feroce del mondo che da essa ha
preso forma) e l’ideale dell’estinzione dello Stato (passando alla
tematizzazione di uno Stato forte, autoritario e commercialmente chiuso).
Come già abbiamo evidenziato, la nostra posizione è, su questo punto,
diametralmente opposta. Si tratterà pertanto, nelle pagine che seguono, di
ricostruire alcuni snodi decisivi che caratterizzano la posizione, o, meglio,
le differenti posizioni di Fichte intorno allo Stato, nel tentativo di mostrare
come la contraddizione sia solo apparente5. In particolare, occorrerà
mostrare la genesi e lo sviluppo del concetto dello Stato commercialmente
chiuso all’interno della riflessione fichtiana, prendendo le mosse dagli
scritti giovanili e dalla loro tematizzazione della Vernichtung della forma
statale. A un’attenta analisi, la riflessione di Fichte non soltanto non abdica
mai alla propria originaria istanza critico-trasformatrice (l’endiadi di
ontologia della prassi e comunitarismo cosmopolitico, cifra della vis
dialectica fichtiana), ma, per rimanere fedele ad essa, deve di
necessità mettere a tema ima sferzante requisitoria del cosmo socio-politico
scaturito dalla Rivoluzione e, insieme, codificare uno Stato forte e -
saremmo hegelianamente tentati di dire - “etico” quale è quello delineato in
Der geschlossene Handelsstaat.
È dai testi del “primo Fichte” che occorre, dunque, prendere le mosse.
Nelle Revolutionsschriften e, in particolare, nel Beitrag il tema
dell’estinzione dello Stato è virtualmente racchiuso tra le pieghe di un
discorso incentrato sull’idea dell’avanzamento illimitato del processo
emancipativo del genere umano, ritmato da prassi e moralità, da
autodeterminazione e affrancamento dai vincoli socio-politici6. In specie,
Fichte difende con rigorosa passione l’idea che non possa esistere
costituzione immodificabile. Infatti, rientra tra i diritti inalienabili
dell’umanità la possibilità di perfezionarsi, vuoi anche nella forma della
rimozione di vincoli che essa stessa ha preventivamente posto.
L’immodificabilità della costituzione risulta, pertanto, contraddittoria,
giacché si regge sull’ammissione secondo cui il genere umano ha raggiunto
una condizione definitiva e non necessita più di progredire ed evolversi7. La
critica all’idea di un contratto sociale definitivo e non trasformabile, nel
Beitrag, può con diritto essere letta come una precoce critica del fatalismo
dogmatico, ossia dell’idolo polemico costante della WL in tutte le sue
Darstellungen. Scrive Fichte nel Beitrag:
La promessa di non cambiare mai volontà sarebbe una promessa di non aumentare e
perfezionare la propria condizione. Una tale promessa nessun uomo ha il diritto di farla.
Ognuno ha il dovere, e quindi anche il diritto inalienabile, di lavorare all'infinito al proprio
perfezionamento e di seguire in ogni caso il convincimento che gli sembra migliore8.

Già in queste accorate note in difesa della Rivoluzione scorgiamo, in


filigrana, i tratti fondamentali che andranno ad animare l’impresa teorica
della WL, la sua lotta inesausta contro il fatalismo e la granitica ideologia
dell’immodificabilità dell’esistente, nell’idea che la Bestimmung
dell’umanità coincida con il processo di costante Vervollkommnung pratica
di sé e del mondo oggettivo: “la clausola che nel contratto sociale stabilisce
che esso dovrebbe restare immutabile - così nel Beitrag -sarebbe quindi la
più recisa contraddizione con lo spirito dell’umanità”9. Infatti, “è un diritto
inalienabile dell’uomo quello di poter annullare, anche unilateralmente,
quando vuole, qualsiasi suo contratto; l’indissolubilità e l’eterna validità di
un qualsivoglia contratto è la più netta contraddizione al diritto dell’umanità
in sé”10, ossia al proprio illimitato perfezionamento11.
Il tema tornerà ampiamente negli scritti successivi. Ancora nella
Sittenlehre jenese del 1798 si chiarirà che “completamente contraria al
diritto è solo quella costituzione che ha per fine di conservare tutto com ’è
attualmente (alles, wie es gegenwärtig ist)”12. Non è un caso che, nello
scritto del 1793, sia pure in un impianto in cui la prospettiva comunitaria e
anti-individualistica non ha ancora preso forma (pur essendo già
virtualmente racchiusa in esso), già si consideri l’umanità come un unico
soggetto che, agendo, progredisce (Vorgang der Menschheit13), e che per
progredire deve materializzare la propria libertà in una relazione pratica con
il mondo oggettivo. Per questo, come suggerito da Cesa, “l'uomo fichtiano,
fin dall’inizio, vede il proprio ‘perfezionamento’ in una cornice sociale,
nella quale si confronta con esseri simili a lui”14: la Bestimmung dell’uomo,
come quella del dotto, è intrascendibilmente radicata nella società, ossia nel
nesso comunitario che lega l’io empirico agli altri io empirici come parti
dell’unico Io coincidente con l’umanità in avvicinamento asintotico alla
propria emancipazione15. In questo risiede quello che Marco Ivaldo ha
qualificato come “l’orizzonte comunitario dell’etica”16 fichtiana.
Come si diceva poc’anzi, nelle Revolutionsschriften sono poste in nuce
le basi tanto per la codificazione dei princìpi della WL, quanto per la
formulazione della teoria dell’estinzione dello Stato. In estrema sintesi e
senza alcuna pretesa di esaustività, ci limitiamo a ricordare come nel
Beitrag Fichte aveva difeso la legittimità della Rivoluzione da quanti
l’avevano messa in discussione - in particolare August Wilhelm Rehberg,
nelle Untersuchungen über die französische Revolution17 - e
aveva sostenuto strenuamente il diritto di un popolo a modificare il
contratto e anche ad annullarlo per via rivoluzionaria.
Ora, spiega Fichte nel Beitrag, un’umanità in asintotico avvicinamento
al suo scopo supremo, ossia il rendere la propria volontà del tutto conforme
alle leggi della ragione, renderebbe eo ipso superfluo ogni apparato
statale18. Così scrive il pensatore di Rammenau in un passo che (eccezion
fatta per il forte richiamo alla teoria sei-settecentesca dello Stato come
poderosa macchina artificiale) racchiude integralmente quanto nella
Missione del dotto jenese si sosterrà circa l’estinzione della Staatsform:
Una ruota dopo l’altra, nella macchina di una tale costituzione politica, resterebbe oziosa e
verrebbe eliminata. [...] Se mai il fine ultimo venisse completamente raggiunto, non sarebbe
davvero più necessaria alcuna costituzione politica. La macchina si fermerebbe, perché nessuna
pressione si eserciterebbe più su di essa. La legge universale della ragione unificherebbe tutti
gli uomini nella più completa unanimità di sentimenti e nessun’altra legge avrebbe più a
vegliare sulle loro azioni19.

Un’umanità finalmente moralizzata, che fosse imago vivente della


ragione, non necessiterebbe più della pressione coercitiva statale per fare
ciò che farebbe spontaneamente, aderendo in forma libera al dovere. Sono
già qui embrionalmente abbozzati tutti i temi portanti della dottrina
fichtiana della Vernichtung dello Stato. Il tema verrà esplicitato e
approfondito soprattutto nel 1794, nella seconda delle cinque lezioni
sulla Missione del dotto tenute a Jena. Riprendendo le acquisizioni portanti
della prima lezione (in particolare, l’idea che la Bestimmung dell’uomo stia
nel proprio mai definitivo perfezionamento nell’ambito della società),
Fichte le sviluppa e le approfondisce in coerenza con i princìpi della WL. In
rivendicata antitesi con quelle che Marx definirà le “robinsonate”, il
pensatore di Rammenau mostra come l’uomo non sia un essere isolato,
ma già da sempre un ente comunitario: egli vive con i suoi simili e, di
conseguenza, solo in comunità con essi può realizzare pienamente le
proprie potenzialità ontologiche20.
Il terreno delle relazioni intersoggettive deve, dunque, essere
identificato con la società, il solo luogo in cui possa realmente esprimersi la
morale. Vi è già qui, in nuce, un tema che verrà approfondito e radicalizzato
negli scritti fichtiani successivi, già a partire dal Naturrecht jenese del
1796-97 e dalla dottrina della scienza nova methodo. Lo potremmo
qualificare nei termini di un approfondimento sempre maggiore
dell’eticità comunitaria. Se nel Beitrag l’ente razionale finito accede al
contratto statale dopo essersi già formato come soggetto seguendo la legge
morale (a tal punto che la società attesta, kantianamente, una relazione
sussistente tra enti morali già formati), e se nella Bestimmung des Gelehrten
del 1794 affiora nitidamente l’idea che la morale viene costituendosi
unicamente nel nesso intersoggettivo di tipo comunitario, il percorso
successivo di Fichte sarà quello di mostrare sempre più come la
relazione intersoggettiva sia fondativa dell’io21, in un sempre più
marcato approfondimento della prospettiva comunitaria coerente con
la WL22.
Del resto, sappiamo - è la stessa WL nova Methodo a confessarlo - che
uno degli aspetti del kantismo da cui Fichte più aspirava a congedarsi era il
solipsismo trascendentale, in forza del quale Kant non era mai stato in
grado di spiegare “come io giunga all’ammissione di esseri razionali fuori
di me”23 e, di conseguenza, dal punto di vista fichtiano, aveva concepito
le relazioni intersoggettive come momento secondario24. Tanto in sede
teoretica tramite l'Ich denke, quanto in sede morale con l’idea di
“autonomia”, il soggetto di Kant è non solo pensato, ma trascendentalmente
costituito in modo solipsistico, prescindendo da ogni legame che potrebbe
porlo in rapporto organico e costitutivo con gli altri componenti della
comunità in cui è inserito: i problemi sociali sorgono per Kant solo in
seconda battuta, dalla connessione a posteriori dei singoli soggetti
individuali25.
È in questo senso che Fichte - come evidenziato da Masullo - procede
animato dal “programma di superare l’individualismo astrattamente
pluralistico in una struttura comunitaria dell’umano”26, che assuma la vis
unitiva della comunità non già come momento secondario (frutto
dell’unione delle solitudini individuali, secondo la via kantiana), bensì
come atto genetico dell’uomo in quanto tale, rispetto al quale l’individuo
risulti un momento secondario e, potremmo dire, ricavato per
astrazione dall’impianto gemeinschaftlich. Come per Hegel, anche
per Fichte, soprattutto a partire dal 1800, la comunità etica è prioritaria
rispetto all’individuo, che senza di essa non è possibile, né concepibile. È in
questo senso che, con Gurwitsch, quello di Fichte (in modo lampante dal
Naturrecht jenese) può con diritto essere qualificato come un “sistema
dell’etica concreta”27, vicino a Hegel più che a Kant. Del resto, come ha
significativamente suggerito Ivaldo, il male in Fichte consiste soprattutto
nel concentrarsi sul proprio io individuale empirico, assolutizzando la
propria soggettività e annullando quella altrui, oltre che nell’abbandono
dell’azione in favore delle logiche del dogmatismo28.
Su questa prospettiva fecondamente comunitaria si regge anche la
Sittenlehre jenese del 1798, con la sua fondazione di un’etica della
concretezza e dei costumi sociali tesa a superare il formalismo
individualistico kantiano29. Ciascun Vernunftwesen scorge kantianamente in
ogni Io un fine in se stesso, ma, insieme, coglie se stesso come mero mezzo
per la realizzazione dell’umanità come un unico Io. Ed è in questo senso
che, per ciascuno, la propria individualità “scompare ed è annullata”30, in
quella “dimenticanza di sé” ( Vergessenheit seiner selbst) che pone in essere
una relazione autenticamente intersoggettiva e rispettosa di ogni singolo lo
come membro del genere umano. Là dove le individualità si feticizzano in
forma assolutizzata, dimenticando tanto i singoli Io quanto l’umanità come
intero vivente, allora si ha non già virtù, bensì egoismo, giacché “la vera
virtù consiste nell’agire, nell’agire per la comunità”31. L’epoca che
assolutizza le individualità non può che rivelarsi compiutamente
peccaminosa, complici le prestazioni dell'Handelsanarchie.
Il tema affiora nitidamente anche dalle pagine del Naturrecht jenese, in
cui Fichte lascia emergere come la ragione sia originariamente ima sola e
subisca poi una lacerazione che la pluralizza, affinché il raggiungimento
dell’unità al più alto grado dell’unità autocosciente diventi l’esito di un
processo pratico implicante mediazione temporale e acquisizione di
consapevolezza (dapprima nella forma coercitiva dell’apparato statale,
in seguito grazie al dispiegamento dell’eticità):
L’umanità è un unico intero organizzato e organizzante della ragione; essa fu divisa in più
membri uno indipendente dall’altro, e già l’istituzione naturale dello Stato sopprime
provvisoriamente questa indipendenza, e fonde quantità singole in un intero, finché l’eticità fa
dell’intera specie un’unità32.

Perché la virtù possa dispiegarsi, ognuno deve aspirare a produrre


“l’assoluto accordo”33 (die absolute Übereinstimmung) di sé con gli altri e
con l’intero comunitario. Gli individui costituiscono una pluralità
irriducibile e possono divenire una totalità solo se comunicano e si pongono
in relazione, in una convergenza della ragione frammentata nella pluralità in
una sintesi che faccia si che ciascun Vernunftwesen si concepisca e agisca
come parte integrante di un tutto a lui superiore34.
Un simile obiettivo non può non implicare, ancora una volta, la risoluta
opposizione all'anomia delle solitudini nomadi in preda all’“isolamento”
(Verselbständigkeif) imposto dall’Handelsanarchie: “per ognuno tutti gli
altri fuori di lui sono un fine, ma nessuno è un fine per se stesso”35. La
prospettiva kantiana del riconoscimento degli altri come fini in sé è
conservata e, insieme, superata in una visione comunitaria dell’esistenza
in cui è riconosciuta l’autonomia di ogni singolo individuo nella misura in
cui è raggiunta l’autonomia della ragione della comunità in quanto tale:
“l’autonomia di ogni ragione [...] è la nostra meta finale: non l’autonomia di
una ragione individuale”36.
Come è noto, dopo il 1800, ossia dopo la cosiddetta svolta teologica,
Fichte declina 0 tema comunitario anche in chiave più spiccatamente
religiosa. La comunità degli individui diventa imago Dei, sia pure in una
forma particolare. Essa, infatti, è una, in quanto immagine dell’assoluto; ma
tale unità si concretizza pluralizzandosi, cioè frammentandosi nella
molteplicità dei soggetti individuali. Per questa ragione, lo scopo della
comunità spezzata coincide con lo sforzo teso a riconquistare l’unità
come esito di un agire. Per questo, il dovere del singolo coincide, de facto,
con il dovere della comunità di farsi imago Dei: l’ente razionale finito
diventa io solo comprendendosi come parte della comunità, ossia come
frammento dell’intero scisso e tale da dover essere ricostituito
operativamente. Così nella Sittenlehre del 1812: “la presupposizione
potrebbe essere questa, che il grande Io universale, l’intero genere umano,
si debba elevare alla moralità, proprio la sua, dell’intero genere umano”37.
Secondo quanto sottolineato da Giovanni Cogliandro, dopo il 1800, in
modo sempre più intenso, per Fichte “la comunità è l’assoluto visibile”38.
L’io rende visibile la comunità e, insieme, si mostra unicamente in essa,
perché può agire moralmente o immoralmente solo all’interno e rispetto alla
Gemeinschaft39. In questa prospettiva - questo il nerbo della Sittenlehre del
1812 — la comunità si riconosce come unica realtà sussistente per
sé, scoprendosi come antecedente rispetto a ogni individuo. In seconda
battuta, forte di tale acquisizione teorica, essa agisce concretamente per
realizzare l’immagine di Dio nel mondo, ossia per portare ogni individuo
alla piena moralità, in quanto membro della totalitas comunitaria.
È per questa via fondata, sul piano ontologico, la prospettiva socio-
politica della comunità organica40 e tendente al cosmopolitismo, essendo la
ragione a cui allude la WL la totalità del genere umano come soggetto in sé
unitario. Fichte solleva questo problema richiamandosi, tra l’altro, a Leibniz
e alla sua concezione del nesso plurale e, insieme, strutturalmente unitario
delle monadi: “come si accordano tra loro i pensieri delle monadi? Leibniz
dà questa risposta: se tutte le intelligenze sono una, ma separate, bisogna
che questi frammenti convivano gli uni con gli altri”41, e, più precisamente,
che acquistino coscienza di essere frammenti di un intero.
Nel suo importante lavoro su Fichte e Leibniz42, Ivaldo ha mostrato
come l’armonia prestabilita leibniziana venga da Fichte metabolizzata e
declinata nel senso di una teoria dell’intersoggettività43. Non soltanto in
Leibniz vi è già l’idea dell’azione come prerogativa quintessenziale dell’Io,
nella misura in cui la monadologia si regge sull’assunzione dell'attività
come essenza della sostanza (in una vera e propria anticipazione
dell’attività autoctica dell’Io fichtiano come actus purus essendi). Con i
Principes de la nature et de la gràce fondés en raison (§1), occorre
intendere la “sostanza come un essere capace di azione (un Étre capable d
Action)”44, ossia come puissance d’agir. Seguendo Ivaldo, l’intera teoria
dell’intersoggettività fichtiana dovrebbe, pertanto, essere intesa come una
traduzione sul piano etico-politico dell’ontologia monadologica
leibniziana45.
Come è noto, la caratteristica fondamentale del mondo leibniziano delle
monadi consiste nel suo essere unitario e, insieme, pluralizzato in una
molteplicità di sostanze46. Il problema ontologico fondamentale diventa,
allora, per la monadologia leibniziana, la coordinazione dell’unità e della
molteplicità mediante la loro armonizzazione, proprio come, per Fichte,
la difficoltà principale della visione intersoggettiva risiede
nell’organizzazione della totalitas comunitaria con la pluralità degli
io empirici. Scrive Fichte, “se tutte le intelligenze fossero una sola, e questa
fosse divisa in pezzi, questi pezzi dovrebbero adattarsi l’uno all’altro”47,
instaurando un’armonia reciproca volta a rendere possibile l’unità nella
molteplicità.
L’universo delle monadi leibniziane, proprio come il mondo sociale
fichtiano, si presenta, dunque, come una totalitas divisa e frantumata, come
un’unità plurale e come la totalità articolata di un molteplice, in cui i pezzi
sono chiamati a coordinarsi e a ricostituire l’unità. Vi è, tuttavia, una
differenza decisiva, su cui Ivaldo ha puntualmente richiamato
l’attenzione48: l’armonia prestabilita, che Leibniz ammette
dogmaticamente, è per Fichte un compito della prassi, l’ideale attorno al
quale orientare il pensiero e l’azione, secondo quanto già emergeva in Über
die Würde des Menschen, del 1794. Fichte vi sosteneva la necessità, per gli
io empirici, di riconfluire nella grande unità dello spirito puro, dell’Io come
soggetto unitario coincidente con l’umanità qua talis. L’armonia delle
monadi costitutivamente intersoggettive deve, allora, essere istituita come
pratica di incontro e di relazione armonica tra gli enti razionali finiti, parti
della ragione unitaria che si è frantumata per ritrovare la propria unità come
esito di un’azione49. Con le parole di Ivaldo, “l'armonia è comunità etica in
quanto apparizione originale dell’Uno assoluto in corrispondenza a un
imperativo incondizionato”50. È questa la linea interpretativa che permette
di decifrare l’unità del tema comunitario nella riflessione fichtiana,
considerata in tutte le sue prismatiche evoluzioni e in tutti i suoi molteplici
ripensamenti.
1. Cfr. M. GUÉROULT, Fichte et la révolution française, in id,
Etudes sur Fichte, Hildesheim, New York 1974, pp. 152-246.
2. Come ha sottolineato Lauth, nel Beitrag sulla Rivoluzione francese
in realtà “manca la seconda parte, storica, ove doveva essere trattato ciò
ch’era proprio della situazione del momento. L’interesse prioritario era il
giudizio sulla legittimità della rivoluzione” (R. LAUTH, Il pensiero
trascendentale della libertà. Interpretazioni di Fichte, Guerini, Milano
1996, a cura di M. Ivaldo, p. 308).
3. Senza addentrarci nella ingens silva della letteratura secondaria
sul problema dello Stato in Fichte, ci limitiamo qui a segnalare due lavori
particolarmente significativi, dei quali terremo conto nelle pagine che
seguono: K. HAHN, Staat, Erziehung und Wissenschaft bei J. G. Fichte,
Beck, München 1969; G. Duso e G. RAMETTA (a cura di), La libertà nella
filosofìa classica tedesca: politica e filosofia tra Kant, Fichte, Schelling e
Hegel, Angeli, Milano 2000.
4. Cfr. Y. ESTES e C. BROWMAN, J.G. Fichte and the Atheism
Dìspute (1798-1800), Ashgate, Burlington 2010.
5. Questa tesi è sostenuta anche da I. RADRIZZANI, "Nation-
contrat" ou “nation-génie "? Des diverses figures de la nation chez Fichte,
in J.-C. GODDARD e J. RIVERA DE ROSALES (a cura di), Fichte et la
politique, cit., pp. 108 ss.
6. R. STRECKER, Die Anfänge von Fichtes Staatsphilosophie,
Meiner, Leipzig 1916-1917.
7. Si veda I. RADRIZZANI, La Doctrine de la Science et
l'engagement historique, in “Revue de Métaphysique et morale”, n. 1
(1996), pp. 23-47.
8. J.G. FICHTE, Contributo per rettificare i giudizi del pubblico
sulla Rivoluzione francese, cit., p. 172 (SW, VI, p. 160).
9. Ivi, pp. 113-114 (SW, VI, p. 106).
10. Ivi, p. 171 (SW, VI, p. 180).
11. Cfr. A. LASSON, Johann Gottlieb Fichte im Verhältnis zu Kirche
und Staat, Scientia, Aaalen 1968.
12. J.G. FICHTE, Sistema di etica, cit., p. 819 (GA, I, 5, p. 313),
13. ID., GA, 1, 1, p. 254.
14. C. Cesa, Introduzione a Fichte, cit., p. 78.
15. C. De Pascale, Fichte und die Gesellschaft, in “Fichte-Studien",
n. 24 (2003), pp. 95-102.
16. M. IVALDO, Fichte: l'orizzonte comunitario dell'etica (le lezioni
del 1812), cit., pp. 37-54.
17. Cfr. L. SOSOF., Kant et Rehberg sur la Théorie et Praxis, in
L'Année 1793, Kant: sur La Politique et La Religion, a cura di J. Ferrari,
Vrin, Paris 1995, pp. 145-150. Nel 1795, J.B. EHRARD, medico e
discepolo di Kant, pubblica Über das Recht des Volks zu einer Revolution,
in cui difende la rivoluzione e delegittima la ribellione: cfr. G. RAULER,
Aufklärung. Les Lumières allemandes, Flammarion, Paris 1995, pp. 376-
380.
18. Sì veda G. RAMETTA, Fichte, cit., pp. 50-51.
19. J.G. FICHTE, GA, 1,1, p. 253.
20. Cfr. W. WEISCHEDEL, Der frühe Fichte: Aufbruch der Freiheit
zur Gemeinschaft, Frommann, Stuttgart 1973 [ma prima edizione 1939],
21. C. AMADIO, Morale e politica nella Sittenlehre (1798) di J.G.
Fichte, cit., p. 4.
22. Non è, a questo proposito, condivisibile la tesi di Philonenko,
secondo cui, nella Grundlage del 1794-95, l’altro è puro non-Io (“autrui est
tout d’abord non-moi”): A. PHILONENKO, La libertà humaine dans la
philosophie de Fichte,Vrin. Paris 1966, pp. 152 ss.
23. J.G. FICHTE, NS, II, p. 476. “Che Kant non si sia dichiarato su
questo punto, è il segno più lampante del fatto che il criticismo kantiano
non è compiuto. [...] In Kant il principio dell’assunto di esseri razionali al di
fuori di noi non si presenta come un principio di conoscenza, bensì come un
principio pratico, come egli ha evidenziato nella formula del suo principio
morale: io devo agire in maniera che il mio modo di agire possa diventare
principio di una legislazione universale. Ma allora io devo ammettere altri
esseri razionali al di fuori di me, perché altrimenti come posso riferire ad
essi la legge?" (ID., Teoria della scienza 1798 nova methodo, cit., pp. 150-
151: NS, II, p. 477).
24. Contro corrente è, su questo tema, la lettura di Philonenko, che
interpreta il problema dell’intersoggettività in Fichte come coerente
sviluppo del tema kantiano della comunicazione: “è condotto nello stesso
movimento a considerare la comunità umana fondata sulla comunicazione
come l’Assoluto” (A. PHILONENKO, La libertè humaine dans la
philosophie de Fichte, cit., p. 40). L'idea di comunicazione, centrale in
Kant, in Fichte "acquista un valore costitutivo e s’incarna nelle relazioni
giuridiche e comunitarie” (ivi, p. 41 ). Sul tema della comunicazione in
Kant, cfr. A. TAGLIAPIETRA, Tra corpo e spirito. Kant e l'abbozzo di un
'antropologia della conversazione, in “I Castelli di Yale”, 2011, pp. 115-
147.
25. Solo la crepuscolare Anthropologie in pragmatischer Hinsicht (
1798) compirà un estremo tentativo di recupero dell’empiria e di
ricongiungimento del “cielo stellato” e del mondo, prendendo in esame
l’uomo come individuo empirico che è immediatamente in relazione con gli
altri come “maschera sociale”.
26. A. MASULLO, Fichte: l'intersoggettività e l’originario, cit., p.
40.
27. Cfr. G. GURWITSCH, Fichtes System der konkreten Ethik, cit.,
pp. 123 ss.
28. M. IVALDO, Il problema del male in Fichte, in “Verifiche”, n.
4 (1989), pp. 401-420.
29. Cfr. A. MASULLO, Fichte: l'intersoggettività e l’originario, cit.,
pp. 87 ss.
30. J.G. FICHTE, GA, I, 5, p. 231.
31. Ibidem.
32. ID., Grundlage des Naturrechts nach Principien der
Wissenschaftslehre, 1796-1797; tr. it. a cura di L. Fonnesu, Fondamento del
diritto naturale secondo i princìpi della dottrina della scienza, Laterza,
Roma-Bari 1994, p. 179 (SW, III, p. 203).
33. ID., GA, I, 5, p. 212.
34. Cfr. A. MASULLO, Fichte: l'intersoggettività e l’originario, cit.,
pp. 65 ss.
35. J.G. FICHTE, GA, I, 5, p. 230.
36. ID., GA, I, 5, p. 212.
37. ID., GA, II, 13, p. 337.
38. Si veda G. Cogliandro, La dottrina morale superiore di J.G.
Fichte. I.'“Etica” 1812 e le ultime esposizioni della dottrina della scienza,
Guerini, Milano 2005, p. 237.
39. Ivi, p. 241.
40. A. MASULLO, Fichte: l'intersoggettività e l’originario, cit., p.
145: “l’individualità dell’io, gli ‘altri’ e la ragione come intero di tutti gli io
- comunità - sono trascendentalmente dedotti dal discorso filosofico, dai
primi impacciati tentativi della Missione del dotto, attraverso la svolta
decisiva del Diritto naturale, fino alla seconda Dottrina della scienza (la
‘nova methodo’) ed al Sistema della dottrina morale".
41. J.G. Fichte, NS, U, p. 248.
42. Cfr. M. IVALDO, Fichte e Leibniz: la comprensione
trascendentale della monadologia, Guerini, Milano 2000.
43. "Il teorema dell’armonia prestabilita, che Fichte valorizza in
maniera originale come visione intersoggettiva ante litteram”: ivi, p. 11.
44. G.W. LEIBNIZ, Principes de la nature et de la gràce fondés en
raison, 1714; tr. it. Princìpi razionali della Natura e della Grazia, in Id.,
Scritti filosofici, a cura di M. Mugnai e E. Pasini, UTET, Torino 2000, 3
voll., III p. 444.
45. Cfr. K..V. Taver, Freiheit und Prädetermination unter dem Auspiz
der prästabilierten Harmonie: Leibniz und Fichte in der Perspektive,
Rodopi, Amsterdam 2006.
46. M. IVALDO, Fichte e Leibniz: la comprensione trascendentale
della monadologia, cit., pp. 123 ss.
47. J.G. Fichte, GA, IV, 1, p. 374.
48. M. IVALDO, Fichte e Leibniz: la comprensione trascendentale
della monadologia, cit., p. 126. “L’armonia trascendentale è non armonia
‘prestabilita’, ma armonizzarsi di agenti liberi, costituiti da un’incessante
‘dialettica’ pratica e immaginativa tra finità e infinitezza, non compiuti al
modo della ‘cosa’, ma dati nel compito di formare se stessi” (p. 132).
49. “Il reciproco riconoscimento delle persone come esseri
razionali, liberi ed autocoscienti, che entrando in rapporto di comunione tra
di loro fondano il diritto, la comunità civile e lo Stato, è sicuramente uno
dei motivi di fondo che apre l’idealismo trascendentale ad una dimensione
propriamente etica, interpersonale e comunitaria”: T. VALENTINI, I
fondamenti della libertà in J.G. Fichte. Studi sul primato del pratico,
Editori Riuniti Press, Roma 2012, p. 254.
50. Ivi, p. 132. Per Ivaldo Leibniz è il modello dell'intersoggettività
fichtiana: “il soggetto leibniziano è essenzialmente un soggetto
‘intersoggettivo’. Esso è infatti costruito da relazioni, rinvìi, che lo pongono
fin dall’inizio in una connessione di inter-espressione con gli altri soggetti
che formano la struttura fondamentale della realtà essente. Non è sbagliato
perciò asserire che l’universo leibniziano è un universo né monistico né
semplicemente pluralistico - se con ciò si omette la dimensione della
relazione - ma è essenzialmente ‘intersoggettivo"’ (ivi, p. 256),
Sull’interpersonalità (ivi, pp. 341 ss.): ogni riflettente coglie se stesso e,
insieme, percepisce l’altro riflettente e, insieme, percependo
l’altro riflettente, ogni riflettente coglie se stesso come riflettente. La
riflessione di ogni riflettente si rivela così come un riflettersi a partire dal
riflettersi dell’altro.
6

LO STATO COME MEZZO E NON COME FINE NELLA MISSIONE


DEL DOTTO DEL 1794

Lo Stato, come d'altra parte tutte quante le istituzioni


umane che non sono nient’altro che mezzi, è orientato al
proprio stesso annientamento: l’obiettivo di ogni governo
è di rendere accessorio il governo.

J.G. FICHTE, Missione dei dotto

Lasciando a margine la questione, a cui in questa sede abbiamo solo


accennato, dell'approfondimento dell’eticità comunitaria (l’intero Denkweg
fichtiano potrebbe essere letto -secondo la proposta interpretativa
euristicamente feconda di Masullo1 - come un graduale passaggio dal punto
di vista della morale a quello dell’etica centrato sull’idea di
Aufforderung2 come vincolo comunitario), torniamo ora alla seconda
lezione della Missione del dotto del 1794. La relazione reciproca
dei Vernunftwesen coincide con la società, teatro dell’agire degli uomini e,
dunque, sola possibilità del loro essere autenticamente morali. A dover
caratterizzare la società è anzitutto la libertà, in un fecondo rimando per cui
il singolo Vernunftwesen è libero, solo se la società nel suo insieme lo è e, in
modo simmetrico, la società è libera solo se tutti i suoi membri lo sono in
senso pieno.
Il problema principale che - così nella seconda lezione jenese sul
Gelehrter - la filosofia è chiamata a risolvere per poter approdare al rango
di Wissenschaft, senza superare il quale non potrebbe neppure fondare quel
“diritto naturale fondato razionalmente” che Fichte codificherà
compiutamente due anni dopo, nella Grundlage des Naturrechts, suona in
questa maniera3: come può l’uomo ammettere che vi siano enti esterni
rispetto a lui e a lui simili (ugualmente morali), se tali enti non sono dati
immediatamente nella pura autocoscienza, ma sono offerti nella sfera
ingannevole dell’empiria? Solo in questo modo, del resto, diventa possibile
la fondazione della Bestimmung dell’uomo nella società come prassi di
attiva trasformazione di sé e degli altri.
La società - si insiste in questa seconda lezione - è “la relazione
reciproca degli esseri razionali”4, ossia il nesso che essi instaurano
organicamente tra loro secondo libertà5. Ora, il concetto stesso di società
non è possibile se non si fonda il presupposto dell’esistenza degli altri (e
dunque della Anerkennung) come Vernunftwesen a noi esterni e, non di
meno, razionali e morali quanto noi. L’esperienza mostra ininterrottamente
che esistono altri enti esternamente rispetto a noi, ma non potrà
mai dimostrare che a questa rappresentazione corrisponda qualcosa di reale,
vale a dire se effettivamente esistano enti razionali indipendenti dalla nostra
rappresentazione, ossia enti che siano e agiscano moralmente e
razionalmente a prescindere dal fatto che noi ce li rappresentiamo come tali.
Il problema era stato recentemente sollevato da Jacobi, che l’aveva
risolto tramite il ricorso alla fede: “è per fede che noi sappiamo che
abbiamo un corpo e che fuori di noi esistono altri corpi e altri esseri
pensanti. Rivelazione veritiera! Rivelazione meravigliosa!!”6. Fichte
impiega la formula di Jacobi e, al tempo stesso, aspira a dimostrare
razionalmente la credenza circa l'esistenza di altri Vernunftwesen. In
particolare, al fine di dimostrare quanto attestato in modo vago dalla
rappresentazione, Fichte ricorre a una duplice strategia argomentativa,
condotta lungo due snodi concettuali che si richiamano a vicenda e di cui
l’uno costituisce il coerente sviluppo dell’altro: a) se è vero che al razionale
deve corrispondere il reale (nel senso della libera trasformazione
dell’oggetto secondo i princìpi del soggetto), è anche vero che in noi è
saldamente radicato il concetto dell’azione conforme a ragione, mediante il
quale valutiamo le azioni che l’esperienza ci mostra7. È di conseguenza
necessario - spiega Fichte - che esistano Vernunftwesen a noi esterni ed essi
stessi alfieri di quelle azioni morali che continuamente esperiamo intorno a
noi e di cui pure non siamo noi gli artefici; b) se la mia libera azione
modifica a tal punto il fenomeno che esso non può più essere spiegato a
partire da quella legge a cui si conformava in precedenza, ma solo a partire
da quella che io gli ho liberamente impresso agendo su di esso, allora, dove
questo processo si verifichi in altri casi non determinati direttamente da
me, dovrò ugualmente ammettere, per estensione, che vi sia un
altro Vernunftwesen che imprime liberamente la sua legge al fenomeno
esattamente come accade con la mia stessa azione trasformatrice.
Per questa via, è razionalmente fondata l’esistenza di altri
Vernunfiwesen nella Missione del dotto di Jena. È evitato il solipsismo e,
insieme, sono poste le basi per la fondazione di “una comunità conforme a
imo scopo; e questo è ciò che chiamo una società”8. La stessa tendenza a
trovare fuori di noi altri esseri razionali coincide, per Fichte, con
quell’“istinto sociale” che è coessenziale all’essere al mondo dell’uomo,
ossia alla Destinazione dell’uomo nella società, secondo il titolo che reca
questa seconda lezione sulla Missione del dotto jenese.
In coerenza con questa fondazione della socievolezza dell’uomo e della
sua naturale vocazione all’esistenza comunitaria9, Fichte svolge un’ampia
digressione sulla natura dell’uomo aristotelicamente concepito come ζωον
πολιτικόν10, animale socievole, politico e comunitario, chiamato a vivere in
comunità e impossibilitato a isolarsi se non tramite un’innaturale
disgiunzione dal tessuto comunitario d’origine:
L'istinto sociale (der gesellschaftliche Dieb) appartiene dunque agli istinti fondamentali
dell’uomo. L’uomo è destinato a vivere in società (ist bestimmt, in der Gesellschaft zu leben),
egli deve vivere nella società; se vive isolato non è un uomo completo e compiuto, e
contraddice a se stesso11.

Contro la moderna ideologia robinsoniana dell’individuo originario


(ideologia che si snoda, variamente declinata, dall’ego cogitans cartesiano
all’Ich denke kantiano12), Fichte insiste sulla sostanza comunitaria come
fondamento realmente dato dell’umanità, secondo un tema che,
attraversando l’intera sua opera, trova forse la sua espressione più efficace
nel Naturrecht jenese: “l’uomo è realmente titolare di diritti soltanto
quando vive in comunità con altri, così come soltanto in una comunità può
essere pensato”13, contro le astrazioni illusorie di quanti -sulla scia di Locke
e dell’ideologia dell'homo oeconomicus -immaginano come originario il
singolo individuo isolato che lavora per sé e concepiscono la comunità
come momento secondario e derivato14.
Subito dopo aver spiegato la necessità di vivere in società come
condizione per poter realizzare la propria essenza comunitaria tramite
un’“azione reciproca per mezzo della libertà”15 (Wechselwirkung durch
Freiheit), Fichte chiarisce che l’uomo è certamente un animale socievole e
comunitario, ma non un “animale statale”: vivere nella società è un fine,
mentre vivere nello Stato è un mezzo per far sì che gli uomini, non ancora
dotati di una solida morale, possano raggiungere pacificamente quel fine.
Occorre prestare attenzione a questo delicato plesso teorico, in cui è
custodito il segreto della dottrina fichtiana della Vernichtung dello Stato e,
insieme, come vedremo, la chiave per risolvere l’enigma legato alla genesi
e allo sviluppo del concetto di Stato commercialmente chiuso. Le due
dimensioni -società e statualità - devono essere rigorosamente distinte e
se nella prima è necessario vivere, non lo è parimenti nella seconda.
Da un diverso angolo prospettico, l’uomo è certamente un “animale
socievole” e societario, ma non un “animale statale”: vivere nella società è
un fine, mentre vivere nello Stato è un mezzo per far sì che gli uomini, non
ancora dotati di una solida morale, possano raggiungere pacificamente quel
fine. Questo non vuol dire che lo Stato sia un istituto arbitrario o,
peggio ancora, contrario alla ragione. Secondo quanto verrà sostenuto nel
Naturrecht jenese, “lo Stato non è un’invenzione arbitraria, ma è comandato
dalla natura e dalla ragione”16, la quale prescrive di organizzare la comunità
tramite la forma coercitiva dello Stato, affinché quest’ultima educhi
l’umanità a diventare autonoma e, dunque, a poter finalmente fare a meno
dello Stato. Affinché l’umanità apprenda a strutturare i propri rapporti
in forma comunitaria, e dunque a vivere nello spazio della Gemeinschaft, lo
Stato svolge un ruolo di prim’ordine, rivelandosi congiunturalmente
necessario e, insieme, destinato a essere superato quando abbia
efficacemente portato a compimento la propria funzione. In altri termini, la
forma statale è lo strumento subordinato al fine della socialità.
È in accordo con le coordinate teoriche della WL come System der
Freiheit che Fichte delinea questo programma di superamento della forma
Stato, che - sia detto per incidens -sarà integralmente ripreso e
metabolizzato da Marx17: poiché la storia dell’umanità si configura come
un sempre più marcato dispiegamento della moralità, ne segue che
un’umanità finalmente moralizzata, e dunque tale da vivere con libertà e
ragione in rapporti comunitaristicamente strutturati, non avrà più bisogno di
ricorrere a uno strumento coercitivo per imporre dall’esterno la moralità
tramite il rispetto di leggi non avvertite dal soggetto stesso come cogenti.
L’obiettivo di ogni Stato diventa, allora, quello di rendersi superfluo18,
realizzandosi nel proprio superamento (Fichte parla espressamente di
“annientamento”, Vernichtung19). Più precisamente, la legge che nella
società (tramite le istanze coattive dello Stato) domina con sanzioni, nella
comunità finalmente emancipata si imporrà unicamente tramite l’imperativo
categorico, in forma morale e non coercitiva (come dovere riconosciuto e
rispettato da ogni membro), perché ciascuno e, per ciò stesso, la comunità
tutta sarà cosciente dell’unità profonda del corpo sociale e delle sue leggi
etiche. Come suggerito da Gaetano Rametta, dal punto di vista qui espresso
da Fichte “lo Stato non sarebbe che un’istituzione provvisoria, destinata
a scomparire quanto più si estende, sulla terra, il regno della ragione”20. Il
passo fichtiano sull’estinzione dello Stato della Missione del dotto jenese
merita di essere riportato integralmente:
Miei signori, voi capite quanto sia rilevante non confondere la società in generale con
quella specifica specie di società empiricamente determinata che viene definita Stato. Il vivere
nello Stato non rientra tra gli obiettivi assoluti dell’uomo, con buona pace di quanto va
sostenendo un celebre pensatore. Viceversa, è semplicemente lo strumento per edificare una
società perfetta, valida in precise circostanze, Lo Stato, come d’altra parte tutte quante le
istituzioni umane che non sono nient’altro che mezzi, è orientato al proprio
stesso annientamento (Vernichtung): l’obiettivo di ogni governo è di rendere accessorio il
governo (es ist der Zweck aller Regierung, die Regierung überflüssig zu machen). Noi non
siamo ancora pervenuti a questo esito, e non so quante miriadi di anni oppure miriadi di miriadi
di anni dovranno ancora trascorrere, e in genere qui non si tratta di una applicazione
all’esistenza, bensì semplicemente di raddrizzare un asserto speculativo. Lo ripeto, non siamo
ancora pervenuti a quell’esito, tuttavia è sicuro che, lungo la via marcata a priori per il
genere umano, si dà un momento in cui tutte le associazioni statali si faranno accessorie (alle
Staatsverbindungen überflüssig seyn werden). Sarà quello il momento in cui solamente la
ragione, e non la forza o la scaltrezza, verrà riconosciuta in maniera universale come
sommo giudice21.

Se, in coerenza con il dettato della WL, la Bestimmung dell’umanità


consiste in un asintotico processo di emancipazione orientato al
raggiungimento di una completa autonomia, tale per cui il dovere verrà
realizzato dai singoli individui interni alla comunità in forma libera e
spontanea, senza più alcun ricorso all’impiego del monopolio della violenza
dello Stato, ne seguono due conseguenze degne di rilievo22. Da esse, come
cercheremo di chiarire, affiora come, per un verso, l’estinzione dello Stato -
la sua Vernichtung - permanga stabilmente il telos della WL anche dopo il
1800 e, per un altro verso, come la codificazione di uno Stato
commercialmente chiuso non soltanto non sia in contraddizione con questo
orientamento generale, ma si ponga come una sua coerente esplicitazione. È
già, allora, nelle pagine della jenese Bestimmung des Gelehrten che si può
ravvisare la genesi, in prospettiva, dell’idea dello Stato commercialmente
chiuso come soluzione ai dilemmi di un’umanità non ancora moralizzata e,
di più, massimamente distante da tale telos.
La prima conseguenza che scaturisce dall’impostazione fichtiana - e su
cui già si è portata l'attenzione - può così essere formulata: se l’obiettivo del
genere umano consiste nella piena autonomia in senso etico e comunitario,
allora lo Stato è destinato “a rendersi superfluo” (überflüssig zu machen)
una volta che abbia instaurato tale condizione. Infatti, gli
individui autonomi e moralizzati faranno liberamente, in maniera
spontanea, ciò che nel presente, non essendo ancora pervenuti alla piena
moralità, fanno perché costretti dall’apparato coercitivo dello Stato come
forza in grado di conservare l'ethos comunitario e la socialità altrimenti
destinata a dissolversi sotto la pressione dell’egoismo dilagante23. Secondo
quanto precisato nel passaggio che abbiamo precedentemente riportato, lo
Stato è, per Fichte, “semplicemente lo strumento per edificare ima società
perfetta, valida in precise circostanze”. Il suo compito, appunto, consiste
nell’accompagnare il genere umano nel proprio processo di emancipazione
e di avvicinamento a una condizione di piena moralità. Se gli uomini
fossero già perfetti in actu, allora lo Stato sarebbe già ora del tutto superfluo
e degno di essere abbandonato. Fintantoché essi non sono tali, la forma
statale si rivela, di conseguenza, imprescindibile.
Alla luce di quanto siamo venuti dicendo, diventa evidente come, lungi
dall’essere fine a se stesso, lo Stato presenti un’unica funzione:
accompagnare - lo ripetiamo l’umanità a un tale livello di moralità da non
dover più ricorrere alla coercizione statale per rispettare le leggi, in quella
piena identità tra posizione delle leggi e libera sottomissione ad esse a cui
Kant aveva attribuito il nome di “autonomia”. Era stato lo stesso filosofo
di Königsberg a mostrare come la condizione di piena moralità dell’umanità
fosse da intendersi nel suo uso regolativo e costituisse, pertanto, un
obiettivo a cui approssimarsi asintoticamente. Secondo l’espressione della
Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht, “per
ritenerci moralizzati (moralisirt) ci manca ancora molto”24.
Fichte mantiene, sotto questo aspetto, l’impostazione kantiana. La
moralizzazione dell’umanità deve essere intesa in forma asintotica come
movimento di progressivo e mai definitivo avvicinamento al telos, e dunque
come compito inesauribile, in armonia con la logica dello Streben sempre
reiterato. Il tema della Vernichtung dello Stato matura certamente in Fichte
anche in forza della sua frequentazione degli ambienti massonici (si era
affiliato alla massoneria fin dal 1793): in particolare, era stato Lessing,
nell’opera Gespräche für Freimaurer (1778-1780), a porre al centro della
propria riflessione l’estinzione dello Stato come condizione per la
moralizzazione dell'umanità25. E, non di meno, si tratta di un tema che trova
il proprio fondamento nei princìpi stessi della WL come System der
Freiheit, secondo quanto abbiamo cercato di adombrare.
La seconda conseguenza che scaturisce dall’impostazione fichtiana del
tema dello Stato nella Bestimmung des Gelehrten del 1794 può così essere
compendiata: in coerenza con gli stessi princìpi della WL messi a tema nella
Grundlage del 1794-95 e, in particolare, con l’etica del cattivo infinito dello
Streben sempre da capo riattivato, lo scopo ultimo non potrà mai
essere raggiunto. Ciò significa, in altri termini, che la Vernichtung della
forma Stato è destinata a rimanere un orientamento ideale, nella forma del
telos in nome del quale pensare e agire, ma non potrà mai avvenire
concretamente, perché l’umanità non potrà mai dirsi definitivamente
moralizzata26.
Come si diceva, si tratta di un corollario coerente con l’impostazione
della WL, in particolare con la sua articolazione secondo i tre Grundsätze
della Grundlage del 1794-95. Nel teatro dello scontro infinito tra i due
princìpi assoluti (l’autoctisi dell’Io e l’opposizione a sé del non-Io), viene,
infatti, a istituirsi quello spazio in cui l’umanità come unione degli “io
empirici” può contrastare e togliere sempre di nuovo i “non-io empirici”
agendo prassisticamente in vista dell’ininterrotta trasformazione del mondo,
in armonia con quel compito la cui inesauribilità è garantita dal primo e dal
secondo principio della Grundlage.
Secondo quanto esplicitato nella seconda delle lezioni della Missione
del dotto jenese, “la nostra destinazione nella società è un avanzamento
comunitario (gemeinschaftliche Vervollkommnung), un avanzamento di noi
stessi in virtù dell’uso del libero operare degli altri su di noi, e un
avanzamento degli altri tramite l’incidenza del nostro operare su essi come
enti liberi”27. L’essenza di tale Vervollkommnung sta nella sua inesauribilità,
in perfetta armonia con il cuore speculativo della WL e della sua
praxologische Dialektik: se l’Io coincidesse in actu con sé, allora
cesserebbe di essere l’attività in atto che strutturalmente è. Esso, come si è
visto, può esistere unicamente nel ritmo della costante negazione della
propria negazione, ossia superando senza posa il non-Io sempre da capo
contrapposto all’Io.
È noto che, se non si desse il non-Io, l’Io stesso non potrebbe esistere
come prassi trasformatrice, come insopprimibile sforzo di trascendimento
delle oggettività ostacolanti e, insieme, occasionanti la sua prassi. È,
dunque, solo nel sempre reiterato “urto” (Anstoß) con il non-Io che l’Io può
esistere come prassi, ossia secondo la sua essenza più peculiare: all’Io, nel
suo porsi tendente all’infinito, “capita” - così nella Grundlage del 1794-95
un impedimento che frena l’attività illimitata facendola risultare
determinata28. L’ostacolo deve darsi, ma al tempo stesso deve essere inteso
come a sé stante, ossia come un’oggettività disgiunta dalla soggettività e ad
essa opposta (in ciò si determina il ruolo dell’Einbildungskraft), giacché
altrimenti non si tratterebbe di resistenza e ostacolo, ma di un mero
duplicato del soggetto ponente.
Se non si desse un ostacolo, se cioè non si ponesse come limitato, l’Io
non potrebbe porsi quale Tätigkeit, illimitata capacità di autoporsi
all’infinito, ossia precipiterebbe in quell’inerzia che è la negazione stessa
dell’Io come prassi inesauribile perché sempre rinnovantesi29. In quanto
impedimenti, a vario titolo, dell’azione che l’Io è, pigrizia, viltà, accidia e
apraxia costituiscono, allora, le tre massime colpe di cui possa macchiarsi
l’umanità e, sul piano individuale, ciascun uomo30. Di qui, appunto,
l’esigenza della “determinabilità all’infinito”31 (Bestimmbarkeit ins
Unendliche) come scopo dell’agire.
A essere postulato è lo Streben che tende infinitamente a porre come
identico a sé ogni oggetto, riconducendo il non-Io all’Io, ovvero togliendo
sempre di nuovo il non-Io stesso, poiché “un’attività che oltrepassa
l’oggetto diviene uno sforzo appunto oltrepassando l’oggetto”32, secondo il
principio del primato della praktische Vernunft che fa da basso continuo alla
WL in tutte le sue molteplici Darstellungen: “agire (handeln)! Agire!
Questo è ciò per cui siamo al mondo”33. Per non cristallizzarsi nell'inerte
accettazione del dato di fatto come esito intrascendibile e come factum
brutum, lo Streben deve sempre di nuovo attivarsi in vista di un’armonia
con l’esistente realizzabile solo a livello ideale: l’imperativo “adempi ogni
volta la tua destinazione”34 si traduce nell’esecuzione, di volta in volta, di
“una determinata azione” incastonata “in ima serie che, continuata
all'infinito, dovrebbe rendere l’io assolutamente indipendente”35 perché
tale da aver ricondotto integralmente a sé il non-Io.
È la stessa praxologische Dialektik della WL a imporre, con logica
stringente, la trasformabilità continua dell’esistente, in modo che l’oggetto
non tomi a essere concepito come pura presenza immutabile, secondo la
visione dogmatica. Come si è sottolineato, l’intera riflessione di Fichte
sorge come reazione alla mistica della necessità che il dogmatismo
trionfante impone nel tentativo di assolutizzare il mondo storico trasfigurato
in Ding an sich. L’insistenza fichtiana sulla prassi trasformatrice come
coerente corollario della WL e, insieme, come “spirito di scissione” rispetto
al proprio tempo e alla sua assunzione delle geometrie dell’esistente come
graniticamente immutabili affonda le sue radici nella lotta titanica contro
l’immodificabilità dell’esistente, e dunque, come ha puntualmente precisato
Cesa, nel “timore che il mondo esterno diventasse per l’uomo una ‘ferrea
necessità’”36.
Lo stesso mantenimento fichtiano di un orizzonte aperto, nella forma
della schlechte Unendlichkeit, risulta coerente con questa logica di illimitata
conservazione della prassi. L’irraggiungibilità dell’orientamento teleologico
fa sì che l’azione stessa non si cristallizzi mai in morta positività, in
oggettività solida e definitiva (il “pratico-inerte” codificato dalla
Critique de la raison dialectique sartriana37), riprecipitando a sua volta
in quella mistica della necessità contro cui la prassi si era attivata. La
schlechte Unendlichkeit diventa, allora, il segreto di una coscienza che resta
perennemente critica e in contrasto con le logiche dell’esistente, senza mai
approdare a quella Weltanpassung che, neutralizzando l’azione e la
progettualità, coincide di fatto con la santificazione della monotonia del
“così-è” coerente con le logiche imperanti del Dogmatismus: “l’oggetto -
si sostiene nel Naturrecht jenese - deve potere venir
modificato all’infinito”38.
In armonia con queste coordinate teoriche, il telos dell’estinzione dello
Stato resta l’orientamento in nome del quale agire, pur nella consapevolezza
della sua feconda irrealizzabilità. Si tratta di un’incompiutezza che è
feconda, poiché permette alla prassi trasformatrice di riattivarsi sempre ex
novo, a distanza di sicurezza dalle sirene dell’inerzia e del dogmatismo.
Il superamento della Staatsform resta un ideale in nome del quale sforzarsi
per favorire il perfezionamento dell’umanità lungo il suo cammino di
moralizzazione. Scrive Fichte nella seconda lezione della Missione del
dotto jenese:
Approssimarsi a questo obiettivo estremo, e approssimarsi in progressione infinita, questo
egli è in grado di farlo ed è suo dovere farlo. Potremmo chiamare unione tale approssimarsi a
una totale unità e unanimità di tutti quanti i soggetti. Pertanto l’autentica destinazione
dell’uomo in società è un’unione che sotto il profilo dell’interiorità diventi sempre più
profonda e sotto il profilo dell’estensione sempre più ampia. Tale unione è, tuttavia, possibile
solamente tramite un avanzamento, dato che gli uomini concordano e possono
accordarsi solamente circa la loro estrema destinazione. Per questo motivo, possiamo affermare
ugualmente che la nostra destinazione nella società è un avanzamento comunitario, un
avanzamento di noi stessi in virtù dell’uso del libero operare degli altri su di noi, e un
avanzamento degli altri tramite l’incidenza del nostro operare su essi come enti liberi39.

Ci troviamo al cospetto di una prima aporia, che come subito chiariremo


è direttamente connessa con l’enigma della genesi e dello sviluppo del
concetto di Stato commercialmente chiuso: Fichte tematizza la non-
necessità, per l’uomo, di vivere nello Stato e, al tempo stesso, sostiene
l’insuperabilità della forma statale, motivandola - come si è visto - sulla
base dell’avanzamento infinito come scopo dell’agire umano nella
storia. Da un diverso angolo prospettico, in coerenza con i princìpi della
WL, l’obiettivo dell’agire - quella moralizzazione perfettamente compiuta
che renderebbe ipso facto superfluo lo Stato, determinandone la
Vernichtung - non potrà mai dirsi realizzato in via definitiva: l’estinzione
dello Stato resta, pertanto, la prospettiva del pensiero e dell’azione, pur
nella consapevolezza della sua irrealizzabilità40.
Il paradosso, coerente con i princìpi della WL e con l’inesauribilità dello
Streben, sta tutto nel fatto che, ammettendo la necessità di superare la forma
statale e, in pari tempo, l’irrealizzabilità di tale obiettivo se non come sforzo
sempre ricominciato, Fichte sembra, volens nolens, riprecipitare nel
dogmatismo da cui aspirava a prendere congedo. Se, infatti, il compito
dell’umanità risiede nell’asintotica approssimazione a una condizione di
moralità che renda superfluo il ricorso allo Stato (determinando, di più, la
necessità della sua Vernichtung) e se tale compito è unendlich, allora non
soltanto - come si è evidenziato - lo Stato non può mai essere superato, ma
esso pare diventare in modo inatteso una nuova “cosa in sé” di fatto
inaccessibile per il raggio d’azione della prassi trasformatrice41.
Per questa via, la praxologische Dialektik di Fichte pare capovolgersi
nel proprio opposto, nella dogmatica ammissione di un Ding an sich. E. non
di meno, il mantenimento dello Stato è, dal punto di vista
transzendentalphilosophisch, la condizione fondamentale per conservare lo
sforzo inesauribile orientato a superarlo. Se infatti - occorre insistervi -
l’umanità raggiungesse in actu la corrispondenza definitiva con se stessa,
con le proprie potenzialità ontologiche, nella già rievocata forma della piena
moralizzazione di ogni individuo e della Gemeinschaft come unità organica
dei singoli soggetti morali, allora si riprecipiterebbe per ciò stesso
nell’inazione, secondo la forma oggi egemonica della Weltanschauung
dogmatica condensata nel teorema dell'end of history42. La
Strebungsphilosophie si capovolgerebbe in Dogmatismus.
La necessità morale dell’autonomia impone lo sforzo volto a rendere
superfluo lo Stato; l’insuperabilità del quale garantisce il ricominciamento
sempre ripreso dello sforzo pratico. In questo delicato equilibrio sembra
potersi risolvere, per Fichte, il problema del trascendimento della
Staatsform nelle lezioni del 1794 sulla Bestimmung des Gelehrten. Si
tratterà, nelle pagine che seguono, di esplorare comparativamente la
soluzione che al tema della forma statale prospetta, sei anni dopo le lezioni
jenesi, lo Stato commerciale chiuso.

1. Si veda A. MASULLO, Filosofìa morale, Editori Riuniti, Roma


2005.
2. Sulla nozione di Aufforderung, cfr. E. DOSING, Sittliche
Aufforderung. Fichtes Theorie der Interpersonalität in der
"Wissenschaftslehre nova methodo ” und in der “Bestimmung des
Menschen ”, in A. MUES (a cura di), Transzendentalphilosophie als
System. Die Auseinandersetzung zwischen 1794 und 1806, Meiner,
Hamburg 1989, pp. 174-197; J. RIVERA DE ROSALES, Die
Begrenzung. Vom Anstoss zur Aufforderung, in “Fichte-Studien”, n. 16
(1999), pp. 167-190.
3. Si veda P. Dobouchet, Philosophie et doctrine du droit chez
Kant, Fichte et Hegel, L'Harmattan, Paris 2005.
4. J.G. Fichte, Missione del dotto, cit., p. 185 (SW, VI, p. 293).
5. Su questo aspetto, cfr. A. HONNETH, La necessità trascendentale
dell'intersoggettività. Sul secondo teorema del saggio sul diritto naturale di
Fichte, cit., pp. 213-238.
6. F.H. JACOBI, Werke, a cura di C.J.F. von Roth e F. Koppen, IV,
Leipzig 1812 ss., pp, 210-211.
7. Ci permettiamo di rinviare alla nostra monografia Un titano in
lotta per l'umanità: Fichte e la missione dell’intellettuale, in J.G. FICHTE,
Missione del dotto, cit., pp. 5-169.
8. J.G. FICHTE, Missione del dotto, cit., p. 185 (SW, VI, p. 293).
9. Si veda V.E. LÓPEZ-DOMÌNGUEZ, Individuo y Comunidad:
reflexiones sobre el eterno circulo fìchteano, in “Daimon. Revista de
Filosofia”, n. 11 (1994), pp. 139-154.
10. ‘'L’uomo è per natura uno ζωον πολιτικόν: quindi chi vive fuori
dalla comunità statale per natura e non per qualche caso o è un abietto o è
superiore all’uomo”: ARISTOTELE, Politica, I A, 2, 1253 a 3; tr. it. a cura
di R. Laurenti, Laterza, Roma-Bari 20026, p. 6. Cfr. 1D„ Etica Nicomachea,
I, 1169 b 18, in Id., Le tre etiche, a cura di A. Fermani, Bompiani, Milano
2008, p. 871: “l’essere umano, infatti, è un animale politico ed è portato
naturalmente a vivere insieme agli altri (συζήν πεψυκός)”. Cfr. G. BIEN,
Die Grundlegung der politischen Philosophie bei Aristoteles, 1973; tr. it. a
cura di M.L. Violante, La filosofìa politica di Aristotele, Il Mulino, Bologna
1985.
11. J.G. FICHTE, Missione del dotto, cit., p. 220 (SW, VI, p. 306). Sul
tema della comunità e dell’intersoggettività in Fichte, cfr. A. MASULLO,
Fichte: l'intersoggettività e l'originario, cit., pp. 79 ss.; Id., La comunità
come fondamento: Fichte, Husserl, Sartre, Libreria Scientifica. Napoli
1965.
12. Su questo tema, a cui in questa sede possiamo solo fare cenno, ci
permettiamo di rinviare al capitolo III del nostro Minima mercatalia.
Filosofìa e capitalismo, cit.; si veda, inoltre, C. PREVE, Storia dell'etica.
Petite Plaisance, Pistoia 2007, pp. 97 ss.
13. J.G. FICHTE, Fondamento del diritto naturale secondo i princìpi
della dottrina della scienza, cit., p. 100 (SW, III, p. 112). “Si può parlare di
diritti soltanto a condizione che una persona venga pensata come persona,
cioè come individuo, dunque in rapporto con altri individui, e che tra questa
persona e le altre, anche se non venisse istituita una società reale, si
concepisce tuttavia una società possibile” (ivi, sezione III, paragrafo 9). Cff.
E. SCHENKEL, Individualität und Gemeinschaft. Der demokratische
Gedanke bei J.G. Fichte, Spicker, Dörnach 1987.
14. Su questo tema, rimandiamo ai seguenti studi: M.H. KRAMER,
John Locke and the Origins of Private Property: Philosophical
Explorations of Individualism, Community, and Equality, Cambridge
University Press, Cambridge 1997 ; J. HAHN, Der Begriff des Property bei
John Locke. Zu den Grundlagen seiner politischen Philosophie, Lang,
Frankfurt a.M. 1984; J.T. PETERS, Der Arbeitsbegrff bei John Locke, LIT,
Münster 1997; W. EUCHNER, Naturrecht und Politik bei John Locke,
1969; tr. it. La filosofìa politica di Locke, Laterza, Roma-Bari 1976.
15. J.G. FICHTE, Missione del dotto, cit., p. 223 (SW, VI, p. 307).
16. ID., Fondamento del diritto naturale secondo i princìpi della
dottrina della scienza, cit., p. 322 (GA, 1,4, p. 151).
17. Cfr. D. Zolo, La teoria comunista dell’estinzione dello Stato,
De Donato, Bari 1974.
18. Ha scritto Masullo: “il fine ultimo dell’uomo, il suo ideale
supremo è il passaggio dalla convivenza societaria alla libera comunità. Mai
era stato con tanto vigore speculativo e tanto appassionatamente
sottolineato il carattere profondamente comunitario, e perciò etico, della
condizione umana: L'originaria intersoggettività dell’uomo si trasfigura in
suprema sostanza del dovere” (A. MASULLO, Fichte: l' intersoggettività e
l’originario, cit., p. 140).
19. J.G. FICHTE, Missione del dotto, cit., p. 221 (SW, VI, p. 306).
20. G. RAMETTA, Fichte, cit., p. 136.
21. J.G. FICHTE, La missione del dotto, cit., pp. 221-223 (SW, VI, p.
306). Cfr. J.-C. GODDARD (a cura di), Fichte: le moi et la libertà, PUF,
Paris 2000.
22. Si veda S. AZZARO, Politica e storia in Fichte, Jaca Book,
Milano 1993.
23. Spunti interessanti si trovano in G. ZÖLLER, Die Individualität des
Ich in Fichtes Zweiter Jenaer Wissenschaftslehre (1796-99), in “Revue
Internationale de Philosophie”, n. 206 (1998), pp. 641-663.
24. I. KANT, Idee zu einer allgemeinen Geschichte in
weltbürgerlicher Absicht, 1784; tr. it. a cura di F. Gonnelli, Idea per una
storia universale dal punto di vista cosmopolitico, in ID., Scritti di storia,
politica e diritto, Laterza, Roma-Bari 20066, p. 38.
25. C'fr. H. SCHÜTTLER, Anmerkungen zu Fichtes "Philosophie der
Freimaurerei ", in "Quatuor Coronati”, n. 31 (1994), pp. 133-143.
26. Cfr. F. Neuhouser, Fichte and the Relationship between Right
and Morality, in D. Breazeale e T. ROCKMORE (a cura di), Fichte:
Historical Contexts, Contemporary Controverties, Humanities Press, New
Jersey 1994, pp. 158-180.
27. J.G. FICHTE, Missione del dotto, cit., p. 233 (SW, VI, p. 310).
28. “L’io pone se stesso assolutamente”: ciò vuol dire che la sua
attività è un’attività su se stessa ritornante, e per ciò infinita, illimitata e
circolare. In questa attività non è possibile distinguere producente e
prodotto, agente e prodotto dell’azione, azione e fatto: atto e fatto si
identificano tout court. “L’Io assoluto è assolutamente eguale a se stesso:
tutto in esso è un unico e medesimo io, e appartiene (se è lecito esprimersi
così impropriamente) a un solo e medesimo io. In lui non v’è nulla da
distinguere, non v’è nulla di molteplice: l’Io è tutto ed è niente, poiché per
sé esso non è niente, e in se stesso non può distinguere nulla che ponga e
nulla che è posto” (ID., Af, I, p. 457).
29. Su questo aspetto, si veda A. Philonenko, Théorie et Praxis dans
la pensée morale et politique de Kant et de Fichte en 1793, cit, pp. 46 ss.
30. Come sottolineato da Bernard Bourgeois, per Fichte “il male morale
consiste dunque nella cessazione oziosa dello sforzo, che sia quella del
piacere o dell’indifferenza”: B. Bourgeois, L’idéalisme de Fichte, PUF,
Paris 1968, p. 91.
31. J.G. FICHTE, SW, m, p. 79.
32. ID., Fondamento dell’intera dottrina della scienza, cit., p. 527
(GA, I, 2, p. 404).
33. ID.. La missione del dotto, cit., p. 325 (SW, VI, p. 345).
34. ID., SW, IV, p. 150.
35. ID., SW, IV, p. 153.
36. C. CESA, J.G. Fichte e l'idealismo trascendentale, cit., p. 119.
37. Si veda soprattutto L.T. HEUMANN, Ethik und Ästhetik bei
Fichte und Sartre. Eine vergleichende. Studie über den Zusammenhang von
Ethik und Ästhetik in der Transzendentalphilosophie. Fichtes und der
Existenzialismus Sartres, Rodopi, Amsterdam 2009.
38. J.G. FICHTE, Fondamento del diritto naturale secondo i princìpi
della dottrina della scienza, cit., p. 27 (SW, III, p. 28).
39. ID., Missione del dotto, cit., pp. 231-233 (Sw, VI, p. 310).
40. Cfr. H.T. BETTERIDGE, Fichte ’s Political Ideas: a Retrospect,
in “German Life and Lettere I”, 1936-1937, pp. 293-304.
41. Si veda B. BOURGEOIS, Philosophie et droits de l'homme de
Kant à Marx, PUF, Paris 1990.
42. Cfr. H. SCHÜTTLER, Freiheit als Prinzip der Geschichte: die
Konstitution des Prinzips der Geschichte [...] nach J.G. Fichtes
Wissenschaftslehre, Königshäusen und Neumann, Würzburg 1984.
7

STORIA DELL’IDEA DI ANARCHIA COMMERCIALE NEL


PENSIERO FICHTIANO

Il genere non ha ancora istituito con un libero atto i


suoi rapporti secondo ragione.

J.G. FICHTE, I tratti fondamentali dell'epoca presente

Alla luce di questo pur cursorio attraversamento del problema dello


Stato nei testi del “primo Fichte”, con particolare attenzione per la seconda
delle lezioni jenesi del 1794 sulla figura del Gelehrter, dovrebbe già
emergere, in prospettiva, come la soluzione del 1800 al centro dello Stato
commerciale chiuso non possa continuare a essere letta inerzialmente come
un semplice quanto incoerente mutamento di prospettiva. Come già si è
detto, è interamente racchiuso nelle pagine della jenese Missione del dotto il
segreto dello Stato commerciale chiuso e dei testi che verranno maturando
nella nuova prospettiva da esso inaugurata. È nel testo del 1794 che deve
essere individuata la genesi dell’idea dello Stato commercialmente chiuso
nell’atto stesso con cui viene messa a tema da Fichte l’esigenza del
superamento della forma statale come orientamento teleologico dell'agire.
Anticipando ora, in forma apodittica, quanto tenteremo di dimostrare
nelle pagine che seguono, se è vero che lo Stato svolge un ruolo
congiunturale nel processo di moralizzazione dell’umanità, rivelandosi
tanto più importante quanto più il genere umano è distante dal potersi dire
perfettamente morale, ne segue more geometrico una conseguenza decisiva
per comprendere l’arcano dello Stato commerciale chiuso: la necessità di
uno Stato forte ed eticamente strutturato sarà tanto maggiore quanto più
l’epoca sarà immorale e distante dall’instaurazione di quei liberi rapporti
nach der Vernunft in cui consisterebbe la realizzazione della moralità in
forma comunitaria. È questa, come cercheremo di mostrare, la chiave per
comprendere l’enigma dello Stato commercialmente chiuso e, insieme, la
convivenza apparentemente aporetica, in Fichte, dell’accettazione
integrale della Rivoluzione francese e del rigetto della compiuta
peccaminosità del mondo che ne è scaturito, sottoposta a
sferzante requisitoria nei successivi Grundzügel.
Ancora una volta, è necessario congedarsi dalla già richiamata idea,
egemonica nella Fichte-Forschung, secondo cui la riflessione del pensatore
di Rammenau sarebbe animata da una profonda contraddizione e, di più, da
una sorta di repentino disincantamento che lo condurrebbe inesorabilmente
- in un vero e proprio transito inconfessabile dall’idealismo trascendentale
al Dogmatismus - dalla passione antiadattiva condensata nel suo encomio
della Rivoluzione e nella sua formulazione del superamento della forma
statale alla riconciliazione con lo status quo e con la codificazione di imo
Stato forte e autoritario.
Così ha compendiato Radrizzani l’aporia: “Fichte sarebbe stato un
ardente partigiano dei Lumi, filo-rivoluzionario convinto, seguace della
nazione-contratto, militante per un universalismo e un cosmopolitismo
generosi, prima della ‘svolta romantica’ e prima di diventare uno dei
difensori della nazione-ghenos, facendosi portavoce di tesi herderiane e
schlegeliane, come sarà provato indubitabilmente dai Discorsi alla nazione
tedesca"2.
L’aporia può essere superata continuando a concentrare l’attenzione sul
mondo storico a contatto con il quale la WL come System der Freiheit si è
venuta costituendo. È nostra convinzione che l'aporia possa essere superata
continuando a concentrare l' attenzione sul mondo storico a contatto con il
quale la WL è sorta. Se la Rivoluzione francese ha mostrato
l’attività coraggiosa di un’umanità agente in vista della propria
emancipazione e del proprio riconoscimento come soggetto
unitario, svelando dunque il carattere cosmogonico dell’Io come
determinante il non-Io e, insieme, come determinantesi tramite razione su di
esso esercitata, il mondo che ne è scaturito ha offerto a Fichte ben altro
spettacolo: è il mondo quale viene sottoposto a critica - non solo, ma
sicuramente nella forma più radicale e sferzante - nello Stato commerciale
chiuso, nei Tratti fondamentali dell ’epoca presente, nei Discorsi alla
nazione tedesca e in molti altri testi della fase successiva al 18003.
Nelle opere appena ricordate, si mostra come la soggettività
rivoluzionaria dell’Io quale si è eroicamente manifestata nella Rivoluzione
sia successivamente precipitata in uno smarrimento di sé nell’oggetto, ossia
in una vera e propria ricaduta in quel Dogmatismus che pensa come
prioritario l’oggetto rispetto al soggetto, l’essere rispetto al fare. Con la
sintassi della sartriana Crìtique de la raison dialectique, il “gruppo in
fusione” è riprecipitato nel “pratico-inerte”. È il mondo dell' Anarchie
des Handels denunciata con vibrante pathos nello Stato commerciale
chiuso: una realtà in cui l’Io si è assoggettato al non-Io, ossia alle proprie
oggettivazioni storiche - il mondo dello scambio e del commercio -
trasformato feticisticamente in “cosa in sé”, in oggetto indipendente dalla
soggettività agente e, dunque, tale da richiedere la supina adaequatio.
Già comincia, allora, a intravvedersi sullo sfondo la soluzione
dell’aporia da cui abbiamo preso le mosse. In Fichte, come in Hegel, la
piena accettazione della Rivoluzione francese (sobria nel pensatore di
Stoccarda, entusiastica in quello di Rammenau) convive con la critica
corrosiva del mondo che ne è scaturito, la “compiuta peccaminosità”
(Fichte) e il “regno animale dello Spirito” (Hegel). Proprio come Hegel
interpreta il proprio tempo come il culmine della scissione e, insieme,
come il punto del possibile trapasso (l'“epoca di trapasso e gestazione”4
evocata nella Phänomenologie) verso una nuova fondazione veritativa del
vivere comunitario, così Fichte - soprattutto, in modo radicale, dopo la
soglia epocale del 1800 - ravvisa nel proprio tempo la “compiuta
peccaminosità” e, insieme, la possibile “epoca di liberazione”5 (Epoche der
Befreiung).
L’ideale di riferimento di Fichte, come sarà - mutatis mutandis - di
Hegel, è il raggiungimento, da parte del genere umano, della piena
conformità con le proprie potenzialità ontologiche, mediato dal transito per
l’“immane potenza del negativo” di un’avventura storica ritmata da
alienazioni e disalienazioni superate liberamente tramite la prassi6. Come si
è cercato di argomentare altrove7, è questo l’orizzonte espressivo
anticapitalistico del pensiero borghese idealistico, ossia di una borghesia
che, animata dalla ricerca dell’emancipazione del genere umano, vive
con hegeliana “coscienza infelice” (unglückliches Bewußtsein) la propria
appartenenza al cosmo capitalistico che la vede dominante e, eo ipso, va in
cerca di un’ulteriorità nobilitante rispetto ad esso8.
Come episodio della coscienza infelice borghese dell’idealismo può a
giusto titolo considerarsi anche il “prassismo trascendentale” di Fichte. Con
tale espressione9, alludiamo alla concezione propria della WL, secondo la
quale il fare è condizione dell’essere, tanto a livello ontologico, quanto a
livello socio-politico: esse sequitur operari. L’essere, l’oggetto, il fatto, sul
piano ontologico, come le istituzioni, le leggi, i fatti storici, in ambito
sociale e politico, esistono tramite la mediatezza del porre. Si danno cioè -
come si è visto - come risultati dell’agire e della Setzung, come prassi
cristallizzata (Tat-Sache), considerata non più in atto (Tat-Handlung), ma
come esito del suo stesso operare. È questo il nucleo del codice soggetto-
oggettivo declinato nei due ambiti della conoscenza e della storia.
Da questo angolo prospettico, il prassismo trascendentale fichtiano si
lascia anche inquadrare nei già più volte richiamati termini di un’ontologia
della prassi. Il sistema degli oggetti non è dato, ma prodotto, configurandosi
concretamente come l’esito di un fare mediato dal tempo. L' oggettività
come fatto si risolve nell’atto che la produce, rendendola possibile.
L’oggetto è un prodotto sempre trasformabile della prassi inesauribile
dell’Io. Così nel Natur recht jenese:
L’Io stesso fa l’oggetto, mediante il proprio agire; la forma del suo agire è essa stessa
l’oggetto, e non si deve pensare a nessun altro oggetto. Ciò il cui modo di agire diventa
necessariamente un oggetto, è un Io, e l’Io stesso non è nient’altro che ciò il cui mero modo di
agire diventa un oggetto10.

Nell’ontologia idealisticamente declinata come attologia si riflette,


come si è visto, la concezione dell’essere sociale della coscienza infelice
borghese: la quale defatalizza resistente e pensa il proprio mondo storico
come esito non definitivo della Setzung, aprendo dunque lo spazio per la
riprogrammazione della sintassi dell’esistente mediata dall’agire umano.
Storicità, prassi e futuro compongono la costellazione teorica di riferimento
della coscienza infelice borghese e anticapitalistica dell’idealismo
trascendentale fichtiano.
Il carattere antiadattivo del pensiero borghese dell’idealismo11 affiora
dal fatto che in Fichte e in Hegel la filosofia è concepita come il solo
strumento adeguato per ricostituire la comunità sociale perduta o in fase di
dissoluzione12. Più precisamente, la filosofia è “ricomposizione” (
Wiedervereinigung) su nuove e più solide basi di una preventiva “scissione”
(Trennung), dovuta al capovolgersi della virtù nel regno animale dello
spirito e nella compiuta peccaminosità dell’Handelsanarchie
fattasi mondo13. Tale capovolgimento è causato dallo scatenamento
del binomio letale costituito dal mercato e dal predominio dell’intelletto
astratto, che tutto frammenta e scompone, rivelandosi in ciò funzionale alle
logiche di destrutturazione dell’Intero e di atomizzazione sociale promosse,
sul piano socio-politico, dal pensiero illuministico14. Fichte, come Hegel,
sottopone a critica, dell'Illuminismo, soprattutto il codice individualistico e
antimetafisico.
L’idealismo trascendentale fichtiano viene prendendo forma come
acquisizione della consapevolezza che il sistema delle mediazioni sociali in
cui si cristallizza la strutturazione della società, lungi dal presentare lo
statuto della morta positività propria di una “cosa in sé”, è il prodotto
sempre riprodotto dell’attività sociale degli uomini (è l’Io visto come a sé
oggettivato, è la Tat-Handlung considerata come Tat-Sache). Il
presupposto fichtiano kein Objekt ohne Subjekt diventa, allora, il
codice segreto della concezione sociale e politica dell’idealismo, nonché
della sua soggettività pratica emersa in forma archetipica con la
Rivoluzione.
Come si è detto, in Fichte, ben prima che in Hegel, troviamo codificato
un processo dialettico in cui l’umanità pensata come un unico soggetto
agente (Ich) si crea e si ritrova in ciò che ha creato, acquistando
autocoscienza: si tratta di un processo dialettico ritmato da alienazione,
disalienazione e acquisizione dell’autocoscienza tramite la prassi. Il grande
tema idealistico della Subjekt-Objektivität significa, sul piano dell’essere
sociale, che l’oggettività degli oggetti è un prodotto del soggetto e che,
dunque, si dà identità tra il soggetto (l’umanità pensata come un unico Io) e
l’oggetto (la storia intesa come il teatro delle sue oggettivazioni).
Come si è visto, la stessa eliminazione di ogni presunta “cosa in sé”
conduce Fichte, sul piano pratico, alla tematizzazione di un Io Weltschöpfer,
di una soggettività titanica, in grado di trasformare liberamente il mondo in
accordo con i suoi stessi princìpi. Si tratta allora, come si diceva, di operare
un “riorientamento gestaltico”: l’idealismo, solitamente inteso come una
filosofia conservatrice quando non reazionaria, rivela - in Fichte come in
Hegel - un’incancellabile vocazione rivoluzionaria e una durevole passione
critica e antiadattiva. Lo sapeva bene Theodor Adorno, che nella sua
Philosophische Terminologie mostrava il valore strutturalmente antiadattivo
dell’idealismo fichtiano, nonché l’esigenza di ripartire da esso per
contrastare il Dogmatismus imposto da un’industria culturale sempre più
saldamente alleata dello status quo:
Fichte e l’intero movimento dell’idealismo tedesco si sono già difesi contro qualcosa che
solo oggi si è pienamente dispiegato, contro la coscienza reificata, pigra, che prende il mondo
così com’è. Hanno lottato contro il realista volgare che si accontenta senza ribellarsi della
superficie della mera esistenza, e che non oppone alcuna resistenza a ciò che di fatto esiste, ma
gli si adatta15.

Per decifrare lo snodo decisivo dell’elogio fichtiano della Rivoluzione


e, insieme, della condanna del mondo che ne è scaturito - snodo alla cui
luce si può comprendere un’opera come Der geschlossene Handelsstaat,
altrimenti destinata a rimanere enigmatica e a essere illimitatamente
diffamata come reazionaria e dogmatica - occorre fare riferimento, sia pure
rapidamente, ad alcuni passaggi delle opere di Fichte successive al
1800, che tracciano un orizzonte a cui è del tutto interno - come vedremo -
il problema dello Stato commercialmente chiuso. Se si concentra
l’attenzione sui Grundzüge, vi si trova codificato il mondo affiorato dalla
Rivoluzione francese nei già richiamati termini di un’epoca della “compiuta
peccaminosità”16 (vollendete Sündhaftigkeit). La Rivoluzione francese, a
cui va il merito di aver rovesciato il dispotismo e di aver debellato il
negativo fino ad allora dominante, non è poi riuscita a creare un
mondo all’altezza della sua impresa. Essa ha distrutto tutto senza
nulla creare, rivelandosi, appunto, indispensabile e al tempo
stesso insufficiente, come si chiarisce nelle successive Reden an
die deutsche Nation17:
Evidente e credo confessato da tutti il fatto che lo sforzo dell’epoca che si chiude mirava a
bandire gli oscuri istinti per far trionfare la chiarezza e la conoscenza. Questa mira è stata
raggiunta in quanto ha smascherato il ‘nulla ’ finora conseguito (das bisherige Nichts
vollkommen enthüllt ist). Questo impulso verso la chiarezza non deve affatto venir ricacciato
indietro, permettendo agli oscuri istinti di tornare a signoreggiare, ma anzi deve essere
ulteriormente sviluppato e portato a un grado superiore (soll nur noch weiter entwickelt und
in höhere Kreise eingefuhrt werden), sicché dopo che si scoperse il ‘nulla’, appaia anche il
‘qualcosa e cioè una forma di verità positiva che ponga un punto di partenza (auch das Etwas,
die bejahende und wirklich etwas setzende Wahrheit, ebenfalls offenbar werde)18.
j f ff )
Proprio come, in ambito teoretico, la prima Kritik kantiana ha avviato la
“rivoluzione copernicana” senza però portarla a compimento, così, in
ambito storico, la Rivoluzione francese è rimasta un “processo
incompiuto”19, che deve essere ultimato tramite il ristabilimento di un
nuovo fondamento sociale e veritativo all’altezza dei tempi, in grado di
contrastare l’endiadi di utilitarismo ed empirismo che signoreggia l’epoca.
Alla positiva opera di annientamento del vecchio ordine l'Aufklärung
non fa seguire il necessario momento di fondazione veritativa di un nuovo
nesso sociale. Si resta, appunto, paralizzati all’atomistica delle solitudini,
facendo valere un concetto negativo di libertà e di tolleranza poggianti su
scetticismo generalizzato, agnosticismo metafisico, indifferenza e
relativismo. Come suggerito da Radrizzani, “per Fichte, il culto di
una libertà puramente formale porta all’indifferenza [...] e
alla sopravvalutazione dell’individuo some autorità massima.
[...] Indifferenza e individualismo sono due facce dello stesso fenomeno,
l’atomizzazione dell’ambito sociale (Atomisierung
des Gesellschaftlichen)” .20

È in questo senso che la WL fichtiana aspira a fondare un nuovo sistema


scientifico della verità che superi, sul piano teoretico, l’indifferenza e il
relativismo e, insieme, sul piano socio-politico, l’individualismo e
l’atomizzazione sociale, fondando una nuova verità del vivere sociale, una
nuova comunità che superi e conservi l'Illuminismo, ereditandone la spinta
verso l’emancipazione universale (assumendo il genere umano come
orizzonte di riferimento) e congedando l’abbandono illuministico
della metafisica, la correlata fede iperbolica nell’esperienza e l’adozione
dell’individuo sradicato come unico soggetto di riferimento.
Dal mai rinnegato processo della Rivoluzione è scaturito un mondo che,
svuotato della trascendenza, ha surrettiziamente elevato l’empiria - e,
dunque, il realismo dell’accettazione del mondo nella sua datità - a
dimensione dominante, eleggendo come propria filosofia di riferimento “il
peggiore di tutti i sistemi filosofici, quello di Locke”21, basato appunto
sull’accertamento empiristico (e, dunque, sull’integrale duplicazione
simbolica) dell’esistente.
Come tratti salienti dell’epoca, nei Grundzüge Fichte individua
l’empirismo radicale e l’utilitarismo, due poli in correlazione essenziale
perché basati su un codice rigorosamente individualistico e sul rifiuto della
dimensione sociale e comunitaria. Non deve stupire che un mondo che ha
liquidato le forme storiche precedenti senza fondare una nuova
costellazione veritativa “non possa assolutamente essere né contenere
nient’altro che l’accortezza di promuovere il proprio vantaggio
personale”22, dando luogo a quell’utilitarismo “dal punto di vista
cosmopolitico” su cui si fonda il nichilismo della globalizzazione del
mercato, l'Anarchie des Handels, in cui è legittimo ravvisare, ex post,
un’incondizionata critica delle logiche della globalizzazione oggi
trionfante23.
Utilitarismo, egoismo figlio dell’empirismo, delegittimazione della
metafisica come ricerca di un nuovo fondamento per una superiore sintesi
sociale rispetto all’atomistica delle solitudini: sono questi i tratti che, nella
vibrante condanna fichtiana dei Grundzüge, rappresentano la forma
peggiore della corruzione dell’epoca presente quale si è storicamente
imposta in forma dilagante - questo il punto - al tramonto del secolo XVIII,
Ed è alla luce di questa nuova configurazione storica che deve
essere pensata e compresa, in coerenza con la WL come ontologia della
Rivoluzione francese, la nuova fase della filosofia politica fichtiana
inaugurata con lo Stato commerciale chiuso.
Nei Grundzüge, si sostiene che “la fondamentale proprietà permanente e
il carattere di una tale epoca è di fare solo per sé e per il suo proprio utile
ogni autentico prodotto della medesima, tutto quel che essa pensa e fa”24.
Nella misura in cui è incardinato sulla programmatica ricerca dell’utile
personale, l'utilitarismo non necessita, e anzi scoraggia il più possibile, ogni
sistema metafisico: “di qui deriva, come tratto caratteristico di una
tale epoca, la magnificazione dell’esperienza come unica fonte
del sapere”25, in quella convergenza di annullamento dello spazio veritativo
della filosofia e di rispecchiamento inerte del mondo che caratterizza
l’empirismo fin dal suo momento genetico.
Una simile epoca, che, con la sua mistica della necessità, neutralizza il
futuro e la categoria ontologica della possibilità e che, in maniera
convergente, delegittima sotto i colpi del relativismo il problema della
verità come possibile fondamento in nome del quale criticare il presente e
agire in vista di un suo trascendimento, non può - ad avviso di Fichte - che
rispecchiarsi interamente nell' esperienza (l’empirismo come imposizione
dell 'aderenza ai fatti è l’alleato naturale di ogni prospettiva conservatrice) e
nell’utilità come solo parametro di riferimento del mos oeconomicus.
Così, da un lato, viene “elogiata l’esperienza come l’unica fonte
possibile di ogni conoscenza”26, nella riproduzione integrale dell’esistente
come esperienza data, e, da un altro lato, in modo simmetrico, cresce
smisuratamente l’indifferenza verso il problema filosofico della verità, in
forza del sopravvento preso da dubbio, relativismo e nichilismo come tratti
quintessenziali dell’epoca: “il colmo dell’intelligenza sarà per l’epoca
dubitare di tutto e non prendere partito in alcuna cosa, sia a favore
che contro: essa riporrà la vera e perfetta saggezza in questa neutralità, in
questa imperturbabile imparzialità, in questa incorruttibile indifferenza
verso ogni verità (unbestechbare Gleichgültigkeit für alle Wahrheit)"27.
Alla luce di quanto siamo venuti sostenendo, non si tratta, per Fichte, di
abbandonare il progetto della Rivoluzione, ma, in maniera diametralmente
opposta, di portarlo a compimento: una volta che la positiva opera di
distruzione sia stata realizzata, occorre ricostruire su nuove basi veritative.
Si tratta, appunto, di portare a compimento la dinamica avviata ma non
completata dalla Rivoluzione, per superare la pura negatività in cui è
sospeso il presente. È in questa prospettiva che debbono essere lette opere
come Lo Stato commerciale chiuso o, mutatis mutandis, i Discorsi alla
nazione tedesca. L’Io rivoluzionario dell’89 francese è precipitato
nell’inerte accettazione, in stile dogmatico, della realtà compiutamente
peccaminosa come un dato di fatto, come un destino intrascendibile: di qui
l’esigenza, per Fichte, di riattivare l’istanza della defatalizzazione
dell’esistente coessenziale alla WL come praxologische Dialektik, in modo
da progettare il superamento operativo dell ’ Handelsanarchie e da
promuovere, conseguentemente, il processo emancipativo ins Unendliche
del genere umano.
I testi che si inscrivono nell’orizzonte schiuso dallo Stato commerciale
chiuso, al di là delle differenze, certo dovute anche al mutato contesto
storico, sociale e politico, sono attraversati da un’appassionata difesa
dell’universalismo dell’emancipazione e della libertà: dapprima lo Stato
commercialmente chiuso e, in seguito, la Germania figurano come vettori di
questo progetto universalistico che, coerente con i princìpi del System der
Freiheit, presenta quale obiettivo lo sforzo teso a promuovere la libertà del
genere umano. Si compie, così, il passaggio dall’originaria convinzione
fichtiana - al centro del Beitrag - che lo sviluppo del genere umano dovesse
avvenire sotto l’egemonia francese alla nuova idea che spetti al popolo
tedesco accompagnare l’umanità nel suo processo di emancipazione. Il
timbro universalistico delle Reden - troppo spesso presentate come un’opera
a tinte razziste e imperialistiche28 - è inconfondibile: “chiunque crede nello
spirito, e alla libertà dello spirito, e vuole il progresso all’infinito dello
spirito per mezzo della libertà, dovunque sia nato e qualunque lingua parli è
della nostra razza; egli ci appartiene; egli verrà con noi”29. Del resto, fin dal
testo del 1795, Von der Sprachfahigkeit und dem Ursprung der Sprache,
Fichte rigetta incondizionatamente la possibilità di distinguere i popoli su
basi etniche o razziali30.
Più che tra tedeschi e stranieri, per di più su presunte basi razziali, le
Reden instaurano, dunque, una polarità sul piano universale tra
“progressisti” e “regressisti”, tra sostenitori della possibilità storica e della
necessità morale dell’emancipazione dell’umanità, da ima parte, e
sostenitori di una temporalità “circolare”, da cui non può emergere alcuna
novità e dunque alcuna emancipazione, dall’altra; i Tedeschi sono chiamati
a farsi promotori della prima visione del mondo e, alla sua luce, a
guidare l’umanità verso l’infinito perfezionamento.
L’opera si riconnette esplicitamente ai Grundzüge e all’esigenza,
delineata in essi, di reagire all’utilitarismo e alla dittatura dell’empiria: “in
queste conferenze - spiega Fichte nelle Reden a proposito dei Grundzüge -
dimostrai che l’èra attuale appartiene al terzo dei grandi periodi della storia
mondiale, periodo che ha come impulso unico alle sue reazioni e ai
suoi moti l ’utile materiale (der sinnlich Eigennutz); che solo ammettendo
la possibilità di questo impulso la nostra èra si spiega e si comprende; che
attraverso questa chiara coscienza di tale sua natura essa rinsalda e
consolida se stessa in quel suo vitale carattere”31. E aggiunge
significativamente in riferimento alle Reden: “questi discorsi saranno il
seguito di quelle mie conferenze intorno all’epoca attuale, annunziando
l’èra nuova che può e deve sbocciare dalla distruzione del regno
dell’egoismo, compiutasi per opera dello straniero”32.
Alla Francia napoleonica è imputata l’introduzione in area tedesca,
tramite l’invasione militare, dell’ideologia egoistica dell’individuo
possessore, miscela instabile di utilitarismo ed empirismo radicale. A
differenza di Hegel, Fichte non ravvisa in Napoleone lo spirito del mondo a
cavallo, ma l’incarnazione dell’egoismo e del particolarismo che tradisce
gli ideali della Rivoluzione: le sue guerre sono di conquista, non di
liberazione33. Ancora nella Staatslehre 1813, Napoleone verrà menzionato
come Namenlos, il “senza nome”, l’incarnazione dell’anti-concetto, ossia
come colui che non ha alcuna idea della destinazione morale dell’uomo.
Alla luce di queste considerazioni, e soprattutto della nuova prospettiva
che Fichte espone in forma compiuta nel 1804-1805 con i Grundzüge,
diventa pienamente comprensibile la concettualizzazione, nel 1800, dello
Stato commercialmente chiuso come coerente reazione all’egemonia
dell’utile (economico) e alla correlata soppressione dello spazio veritativo
della filosofia. In un mondo in cui, in un precipitare nichilistico di tutti i
valori e delle stesse istanze critiche e veritative del sapere filosofico, la
ricerca dell’utile diventa l’obiettivo assoluto dell’esistenza umana, alla cui
luce la gelida razionalità formale funge da vernice che occulta
l’irrazionalità complessiva di un mondo che Marx avrebbe più tardi definito
nei termini di una verkehrte Welt34, la libertà idealistica sta, ancora ima
volta, nell’avanzare risolutamente la pretesa della Weltveränderung, della
trasformazione operativa del mondo, contro le resistenze dei dogmatici di
sempre con la loro incrollabile fede nell’immodificabilità dell’assetto
vigente trasfigurato in Ding an sich.
Per Fichte, fedele ai princìpi della Rivoluzione e, ipso facto, nemico del
mondo che ne è scaturito, si tratta di contrastare l’egemonia dell’utile e
dell’egoismo sfrenato che ad esso si accompagna. È in questi casi che, in
coerenza con i temi della seconda delle lezioni jenesi sulla Bestimmung des
Gelehrten, lo Stato deve svolgere la sua funzione di strumento coercitivo
per favorire l’avanzamento dell’umanità in vista della sua
completa moralizzazione, e dunque in vista - questo è il punto - della
Vernichtung dello Stato. Anche nella teorizzazione dello Stato commerciale
chiuso e degli scritti che si inscrivono nell’orizzonte di senso da esso
schiuso, Fichte non rinuncia, dunque, al presupposto fondamentale della
WL, l’avanzamento ins Unendliche dell’umanità, con la conseguente
estinzione dello Stato come ideale regolativo in nome dell’emancipazione
del genere unitariamente concepito.
Non è certo un caso che, nel testo del 1800, il pensatore di Rammenau
definisca lo Stato commercialmente chiuso anche nei termini di un
Vernunftstaat, di uno “Stato secondo ragione”.
Nell’epoca della compiuta peccaminosità determinata dall’imporsi di
quell’esiziale Handelsanarchie che destruttura ogni valore e rende l’uomo
un semplice strumento subordinato alla dinamica autoreferenziale di quella
che Marx chiamerà la Verwertung des Werts, unicamente lo Stato può far
valere in maniera coattiva i princìpi dell’ordo ordinans della ragione che
rendono possibile la moralizzazione del genere umano. È la stessa passione
idealistica della libertà a imporlo come principio morale decisivo, in
coerenza - questo l’aspetto decisivo - con quanto sostenuto nella seconda
lezione jenese sul dotto circa l’estinzione della forma statale35.
Se inteso non nella forma - del tutto estranea all’orizzonte teorico
fichtiano - dei nazionalismi che coloreranno di lacrime e sangue il
Novecento, ma come garanzia dell’etica sociale in un momento in cui ogni
sostanza comunitaria è sottoposta alla spinta centrifuga dell’anarchia del
mercato, lo Stato può, allora, svolgere un ruolo imprescindibile nella
conservazione di una norma etica nella vita della comunità disaggregata
dall’imporsi dell’algida legge del do ut des. La potenza statale può,
infatti, porsi come l’ultimo baluardo dell’egemonia del politico
sull’economico e, dunque, di resistenza contro l’irruzione dell’entropia
commerciale e del suo cattivo cosmopolitismo, universalizzazione
planetaria degli egoismi.
Nell’ottica fìchtiana al centro dello Stato commerciale chiuso, il
compito dello Stato deve essere, innanzitutto, il ristabilimento
dell’egemonia della politica sull’economia, ossia la reimposizione della
capacità della comunità di sottrarsi ai meccanismi fatali dell’economia
globale e di ritrovare in se stessa, nella propria particolarità, la forza di
gestire responsabilmente la propria esistenza assumendo il libero e uguale
sviluppo di ogni suo membro come ideale orientativo di riferimento. È
allo Stato, nel 1800, e poi ai Tedeschi, nel 1806, che Fichte attribuisce il
compito di forza propulsiva in grado di difendere operativamente i princìpi
della WL, guidando - come il Gelehrter delle lezioni jenesi del 1794 - lo
sviluppo emancipativo, ritmato da prassi e moralità, del genere umano in
cerca della corrispondenza con sé e con il mondo oggettivo36.
Si tratta, allora, di operare un’inversione di tendenza rispetto alle
logiche del presente compiutamente peccaminoso, esito del processo che,
nell'imporre la sovranità assoluta dell’anarchia commerciale, ha
determinato - secondo la grammatica di Carl Schmitt - l’avviamento di quel
processo (oggi giunto a compimento) di spostamento di senso dal centro
teologico-metafisico a quello economico-tecnico, con annessa
spoliticizzazione in favore del nomos dell’economia37. Lo Stato
commerciale chiuso, nel suo complesso, costituisce una reazione a questa
dinamica che, da Fichte analizzata in statu nascendi, sembra oggi giunta
alla sua più radicale realizzazione.

1. Cfr. J. Heinrichs, Die Mitte der Zeit als Tiefpunkt einer


Parabel. Fichtes Geschichtskonstruktion und Grundzüge der gegenwärtigen
Zeitenwende, in “Fichte-Studien”, n. 23 (2003). pp. 175-189.
2. I. RADRIZZANI, "Nation-contrat" ou "nation-génie”? Des
diverses figures de la nation chez Fichte, cit., p. 108.
3. Cfr. R. Picardi, Il concetto e la storia: la filosofia della storia
di Fichte, cit., pp. 138 ss.
4. G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, cit, p, 59.
5. J.G. Fichte, I tratti fondamentali dell'epoca presente, cit., p. 97
(GA, I, 8, pp. 206-207).
6. Cfr. W. Hartkopf, Die Dialektik Fìchtes als Vorstufe zu Hegels
Dialektik, in “Zeitschrift für philosophische Forschung”, 1967, pp. 173-207.
7. Sul pensiero borghese anticapitalistico, ci permettiamo di
rimandare ancora al nostro Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo, cit.,
capitolo IV Si veda, inoltre, C. Preve, Storia dell'etica, cit., pp. 120 ss.
8. H. Schmitz, Die entfremdete Subjektivität. Von Fichte zu Hegel,
Bouvier, Bonn 1992.
9. Su tale espressione si è insistito in Idealismo e prassi. Fichte, Marx
e Gentile, cit., soprattutto capitolo II.
10. J.G. Fichte, Fondamento del diritto naturale secondo i princìpi
della dottrina della scienza, cit, p. 22 (SW, III, p. 23).
11. Questo aspetto è stato evidenziato da Costanzo Preve (Hegel
antiutilitarista, Settimo Sigillo, Roma 2007) e da Domenico Losurdo
(Hegel, Marx e la tradizione liberale, Editori Riuniti, Roma 1988). Con
buona pace di Norberto Bobbio, che critica “la leggenda, perché di
leggenda si tratta, di un Hegel rivoluzionario” (N. Bobbio, Studi hegeliani,
Einaudi, Torino 1981, p. XVII), non si tratta qui di comprendere se e in che
misura Hegel fosse rivoluzionario, ma, piuttosto, in che termini il suo
sistema si rapportasse al capitalismo dell’epoca.
12. Questo punto è stato adombrato da F. Heine, Freiheit und
Totalität: zum Verhältnis von Philosophie und Wirklichkeit bei Fichte und
Hegel, Bouvier, Bonn 1980, pp. 47 ss.
13. Cff. C. Amadio, Die Logik der politischen Beziehung, in “Fichte-
Studien”, n. 24 (2003), pp. 103-111.
14. Su Hegel e l'Illuminismo, si veda soprattutto J. D’Hondt (a cura
di), Hegel et le siècle des Lumières, 1974; tr. it. a cura di A. Magini, Hegel e
l’Illuminismo, Guerini, Milano 2001. Su Fichte e l’Illuminismo, si veda
invece specialmente C. De Pascale (a cura di), Fichte und die Aufklärung,
Olms, Hildesheim 2004.
15. T.W. Adorno, Philosophische Terminologie. Zur Einleitung, 1973;
tr. it. a cura di A. Solmi e S. Petrucciani, Terminologia filosofica, Einaudi,
Torino 2007, pp. 231-232.
16. J.G. Fichte, I tratti fondamentali dell 'epoca presente, cit., p. 89
(GA, I, 8, p. 201).
17. Cfr. E. Kiss, Anmerkungen zu Fichtes Begriff der Nation, in
“Archiv für Geschichte der Philosophie”, n. 2 (1995), pp. 189-196; J.R.
Medina Cepero, Fichte a traves de los "Discursos a la nacion alemana ”,
Ediciones Apostrofe, Barcelona 2001.
18. Id., Reden an die deutsche Nation, 1808; tr. it. a cura di B.
Allason, Discorsi alla nazione tedesca, UTET, Torino 1965, p. 70 (SW, VH,
pp. 306-307).
19. Utilizziamo qui l’espressione con cui Habermas qualifica la
modernità: cfr. J. Habermas, Die Moderne: ein unvollendetes Projekt, in Id.,
Kleine politische Schriften (I-IV), Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1980, pp. 444-
464.
20. I. Radrizzani, Wissenschaftslehre und die Aufklärung, in C.
De Pascale ET ALII (a cura di), Fichte und die Aufklärung, cit, p. 92.
21. J.G. FICHTE, I tratti fondamentali dell'epoca presente, cit., p.
195 (GA,1, 8, p. 223).
22. Ivi, p. 151 (GA, 1, 8, p. 243).
23. S. FURLANI, Libertà economica e controllo politico. Lo "Stato
commerciale chiuso ” di Fichte, in “La Società degli Individui”, n. 24
(2005), pp. 33-46.
24. J.G. FICHTE, I tratti fondamentali dell'epoca presente, cit., p.
152 (GA, I, 8, p. 244).
25. Ivi, pp. 151-152 (GA, I, 8, p. 244).
26. Ivi, p. 107 (GA, I, 8, p. 214).
27. Ivi, p. 108 (GA, I, 8, p. 215).
28. Cfr. D. Bergner, Neue Bemerkungen zu J.G. Fichte: Ftchtes
Stellungnahme zur nationalen Frage, Deutscher Verlag der Wissenschaften,
Berlin 1957.
29. J.G. Fichte, Discorsi alla nazione tedesca, cit., p. 141 (SW, VII, p.
375).
30. Cfr. D. Barbarìc, Fichtes Gedanken vom Wesen der Sprache,
in "Fichte-Studien”, n. 19 (2002), pp. 213-222; J.P Surber, Language and
German Idealism. Fichte’s Linguistic Philosophy, Humanities, Highlands
1996.
31. J.G. Fichte, Discorsi alla nazione tedesca, cit., p. 27 (SW, VII, p.
264). “Anche l’aura del nuovo mondo è già spuntata, e già indora le cime
dei monti e ci figura il giorno che verrà. Per quanto è in mio potere, io
voglio raccogliere i raggi di quest’aurora e condensarli in uno specchio, e
porgerlo a questa nostra desolata generazione, perché ci si guardi e ci si
convinca che è ben viva, e nello specchio le appaia la sua vera essenza e gli
sviluppi e le ulteriori forme di essa le sfilino innanzi in profetica visione. In
tale visione l’immagine della sua vita passata svanirà, dileguerà, e il
cadavere potrà esser portato al suo estremo riposo senza troppe lacrime e
senza troppi lamenti”: ivi, p. 43 (SW, VII, p. 279).
32. Ivi, p. 29 (SW, VII, p. 264).
33. Si veda soprattutto D. Losurdo, Fichte, la resistenza
antinapoleonica e la filosofìa classica tedesca, cit., pp. 194-216.
34. K. Marx, Zur Kritik der Hegelschen Rechtsphilosophie.
Einleitung, 1844, in MEW, I, p. 378.
35. La nostra epoca - si sostiene anche in Der Patriotismus und
sein Gegentheil - è caratterizzata dal trionfo incontrastato dell’egoismo: “è
esaurita la sorgente del genio [dell'ispirazione sostenuta dall’istinto
razionale], mediante cui soltanto l’umanità è stata formata finora. La
scienza ha preso il suo posto. Da questo momento in poi l’umanità può
essere condotta innanzi soltanto da questa chiara scienza e secondo le sue
leggi distintamente comprese e, dal punto in cui l’arte oscura la genialità
[dell’ispirazione] l’ha abbandonata, soltanto mediante arte riflessa” (J.G.
Fichte, GA, II, 9, pp. 401 ss.). Si tratta dell’epoca del freddo intelletto degli
enciclopedisti, della filosofia popolare tedesca e dell’illuminismo berlinese
rappresentato da Friedrich Nicolai.
36. Cfr. C. De Pascale, Vivere in società, agire nella storia.
Libertà, diritto, storia in Fichte, Guerini, Milano 2001, p. 208. Fichte
“constata come dall'inizio della storia fino ai suoi giorni la civilizzazione
abbia impetuosamente progredito nel tempo, oltre che avanzato nello spazio
geografico; dichiara che il compito dell’umanità è la diffusione progressiva
della cultura e mette in guardia le singole nazioni dal procedere senza
volgere all’indietro lo sguardo: ognuna deve sacrificare al legame che le
unisce, e all’alleanza per la quale soltanto esse esistono, i suoi secoli di
apparente stasi o regresso. Solo allora l’umanità nella sua interezza
raggiungerà un grado fin li impensato di cultura, ma soprattutto solo allora
potrà percorrere il proprio cammino di elevazione e perfezionamento ‘in
modo ininterrotto, senza stasi e regresso’” (ivi, p. 126).
37. C. Schmitt, Das Zeitalter der Neutralisierung und
Entpolitisierung, 1929; tr. it. L'epoca delle neutralizzazioni e delle
spoliticizzazioni, in Id., Le categorie del "politico”, Il Mulino, Bologna
1972, pp. 167-183.
8

GENESI DEL CONCETTO DI STATO COMMERCIALMENTE


CHIUSO

Nell’amministrazione dello Stato, come nelle altre


cose, occorre riportare ai concetti tutto quel che è possibile
ricondurvi e smettere di lasciare in preda del cieco caso ciò
che può essere misurato, nella speranza che le
cose possano procedere bene automaticamente.

J.G. FICHTE, Lo Stato commerciale chiuso

In coerenza con i fondamenti della WL, la politica in quanto nesso


dinamico tra individui liberi e uguali che si relazionano nello spazio sociale
deve rispondere non alla condizione entropica del mercato feticizzato, ma al
sistema dei bisogni sociali della comunità: il suo fine, come si sosterrà nei
Grundzüge, consiste nel creare “con libertà tutti i rapporti
secondo ragione”1 (alle Verhältnisse mit Freiheit nach der Vernunft).
Di conseguenza, l’economia deve configurarsi come una
disciplina dipendente dalla politica e, dunque, amministrata e
governata dallo Stato come potenza etica in cui si esprime lo spirito
della comunità umana. Coincidendo con l’agire comune degli individui
nello spazio sociale in vista della conservazione della comunità, la politica
deve informare di sé l’economia e tenerla sempre a contatto con i reali
bisogni della società.
Pertanto, la politica è da Fichte chiamata a reagire con vigore contro la
dinamica in cui si compendia l’essenza stessa dell'Handelsanarchie,
coincidente con la prima società della storia umana in cui la sfera
dell’economico, non più “incorporata” (embedded), secondo la diagnosi di
Karl Polanyi2, nel tessuto della comunità, si dissocia in forma feticistica. Si
autonomizza come autoreferenziale e anonima produzione illimitata
di valore, che l’etica greca del “giusto mezzo” aveva embrionalmente
esorcizzato come “crematistica”3. Da criterio per la circolazione dei beni e
dei servizi, lo scambio mercantile assurge a principio uniformatore coattivo
di tutti i rapporti sociali.
Nell’epoca dell’economia globalizzata che svuota di sovranità gli Stati
nazionali in vista della delegittimazione del politico e della sua
sottomissione all’economico autonomizzato, lo Stato è allora - per il Fichte
dello Stato commerciale chiuso -chiamato a configurarsi come una preziosa
risorsa per invertire la tendenza. Esso deve restaurare l’egemonia della
politica sull’economia e, per questa via, frenare il moto nichilistico
dell’estensione del codice della forma merce a ogni ambito dell’esistenza e
del pensiero. Deve, in altri termini, conservare vivo l’ideale comunitario
come telos dell’azione in vista dell’emancipazione universale.
Nelle pagine dello Stato commerciale chiuso, Fichte sembra
intravvedere, con lungimiranza, la fatale tendenza allo smantellamento
degli Stati e della loro egemonia politica ad opera del nomos dell’economia
mercantile autonomizzatasi e divenuta, con la grammatica della
Phänomenologie hegeliana, “signore del mondo”4 (Herr der Welt). Tale
dinamica di spoliticizzazione mediata dalla neutralizzazione degli Stati - il
cui unico scopo è l’imposizione di una potenza economica non più
controllata politicamente - rappresenta oggi, come già si diceva, la cifra di
quel cattivo cosmopolitismo che, mera universalizzazione dell’egoismo
acquisitivo, coincide con il mercato transnazionale e mondializzato,
realizzazione della logica dell'Handelsanarchie denunciata e avversata da
Fichte. Nel suo spazio deterritorializzato e svuotato da ogni radicamento
comunitario e culturale, i cittadini globali figurano come semplici
emanazioni della “teologia mercatistica”, come meri atomi di scambio e
di consumo il cui scopo si risolve nell’alimentare perpetuamente
la macchina anarchica della produzione e della circolazione di merci, a
danno della vita umana e del pianeta.
Il consumo e lo scambio di merci non necessitano di cultura, di
tradizioni simboliche e linguistiche e, ancor meno, di radicamento
comunitario: devono, anzi, destrutturarli, in quanto essi costituiscono un
impedimento all’illimitata dinamica di autoreferenziale circolazione delle
merci e del denaro. Per questo, come mostrato da Fichte nello Stato
commerciale chiuso, l’Handelsanarchie tende irresistibilmente a imporre
come unico profilo antropologico possibile quello dell’apolide atomo
deterritorializzato e senza cultura, senza patrimonio simbolico e
senza tradizione, plasmato capillarmente dalle reificanti prestazioni del do
ut des mercatistico. Quest’ultimo non conosce né tradizione, né autorità, ma
solo illimitata circolazione senza barriere morali e religiose, senza confini
etici o statali. Prova ne è, oggi, la retorica, sempre più roboante, che
prescrive il superamento di tutto ciò che non si inscrive in questo orizzonte
di senso transnazionale e fintamente multiculturale. Si impone
all’apolide postmoderno l’abbandono della propria terra d’origine e
della propria madre lingua, delle proprie tradizioni e della propria cultura.
Compito primario di uno Stato etico che non fosse il semplice garante
del nomos dell’economia sarebbe, allora, quello -al centro dello Stato
commerciale chiuso - di impedire questi cataclismi sociali, tutelando il
lavoro e gli uomini anziché il capitale e la sua auri sacra fames: ossia
imponendo attivamente il primato delle norme politiche funzionali al vivere
comunitario su quei processi economici che, abbandonati a sé, generano la
dissoluzione della comunità e, come le definiva Hegel con formula quanto
mai attuale, sempre nuove “tragedie nell’etico”5. Ed è esattamente questa la
soluzione promossa da Fichte nel 1800 alle patologie che, all’epoca
nascenti, sono oggi divenuti insostenibili in termini di vite umane e di
sacrifici.
Nel desolante scenario dell’Handelsanarchie mondializzata, la
contraddizione della mercificazione universale - che fa dell’uomo un
semplice supporto per la dinamica della valorizzazione del valore - si
manifesta nitidamente in quello che, per la coscienza infelice fichtiana,
resta scandalo e follia. Secondo l’impietosa descrizione dello Stato
commerciale chiuso, là dove domina l’anarchia del commercio, le merci si
muovono in modo multidirezionale nel mondo simbolicamente ridotto a
piano liscio funzionale al loro libero e illimitato scorrimento,
senza conoscere frontiere né limitazioni di alcun tipo. Gli esseri umani,
invece, sono costretti a rispettare frontiere e limitazioni di ogni sorta (si
pensi, nel nostro presente, al rito del passaporto e a quello, decisamente più
tragico, del “permesso di soggiorno”).
La mossa teorica che Fichte propone, nel 1800, consiste nel
rovesciamento di questa logica illogica: la chiusura delle frontiere e
l’instaurazione dello Stato commercialmente chiuso renderà, infatti,
possibile la libera circolazione delle idee e della cultura, secondo la
splendida chiusa dell’opera, reimponendo un primato della politica e della
gestione umana dell’economia. Quest’ultima tornerà a essere un mezzo, e
più precisamente uno strumento subordinato alle libere relazioni degli
individui solidali all’interno della comunità.
La prospettiva comunitaria resta stabilmente al centro della riflessione
fichtiana, che anzi viene sempre più intensificandola anche alla luce degli
eventi che attraversano febbrilmente l’Europa a cavaliere tra XVIII e XIX
secolo. Il Naturrecht jenese costituisce, in una simile prospettiva, un
decisivo snodo tra il Fichte delle lezioni sul Gelehrter e la stesura dello
Stato commerciale chiuso. Nel testo del 1796-97, infatti, la presenza dello
Stato comincia già a farsi più massiccia e a precorrere, a tratti, la visione
dell’opera del 1800. Come ha sottolineato Buhr6, la Naturrechtslehre jenese
si regge su un fecondo equilibrio tra i princìpi rivoluzionari del Beitrag
(che, lungi dall’essere rinnegati, si presentano, se mai è possibile, in forma
iperbolica) e un’inedita etica comunitaria, coerente con rimpianto della
WL stessa7.
La libertà non esiste se non nel rapporto intersoggettivo e, di
conseguenza, si configura per sua essenza nella forma relazionale della
reciprocità attiva delle volontà libere che, nello spazio comunitario,
agiscono in vista della realizzazione delle condizioni per il libero sviluppo
di tutti i Vernunftwesen8. La radicalizzazione della visione comunitaria al
centro del Naturrecht jenese - secondo un’acquisizione che accompagnerà
stabilmente Fichte - è, del resto, corroborata dall’insistenza di quest’opera
sul tema dell’assicurazione dell’esistenza tramite il lavoro: si tratta di un
tema che verrà sviluppato e approfondito, su questa scia, nello Stato
commerciale chiuso.
Se già nella jenese Bestimmung des Gelehrten si era portata l’attenzione
sull’importanza della possibilità, per ciascun individuo, di esprimere se
stesso tramite il lavoro svolto all’interno del proprio ceto, Fichte si
concentra ora sull’esigenza, per il singolo, di lavorare, di produrre e di
disporre di proprietà. È, per questa via, fondato il “diritto al lavoro” (Recht
auf Arbeit) come inalienabile diritto di ogni essere umano, all’interno
della Gemeinschaft, di realizzarsi sul piano lavorativo, ossia nella prassi
orientata alla trasformazione della natura e alla sua antropizzazione.
La proprietà è essa stessa il concretarsi dell’attività pratica quale Arbeit,
configurandosi come la sfera “per l’agire libero in generale”; di
conseguenza, in uno Stato ove “vi sia un solo cittadino senza proprietà, non
esiste proprietà legittima”9. In maniera convergente, la Sittenlehre jenese
precisa che “è lo Stato che deve preoccuparsi che ognuno abbia la sua
proprietà”10, ossia la concreta dimensione su cui esercitare la propria
attività come Arbeit11. Come suggerito da Buhr12, a partire dal Naturrecht
di Jena - e, dunque, ben prima della cosiddetta Kehre del 1800 - gli scritti
fichtiani sono animati dal tema della garanzia dell’esistenza tramite il
lavoro: “il principio di ogni ordinamento statele razionale è: ognuno deve
poter vivere del proprio lavoro”13.
Il lavoro è pensato da Fichte come un diritto-dovere, poiché tutti hanno
il diritto di lavorare (è lo Stato a dover garantire il lavoro), ma tutti hanno
anche il dovere di farlo: non sono, infatti, ammessi né oziosi, né poveri (“in
uno Stato razionale non deve esistere nessun povero”14). Qualora un
cittadino sia materialmente impossibilitato a lavorare, è lo Stato come
Unterstützungsanstalt, come “istituto di assistenza”, a farsi carico di lui: gli
garantisce l'esistenza, secondo il presupposto di una comunità di
individualità libere e solidali, ciascuna delle quali è dotata di una sua
proprietà frutto del suo stesso lavoro.
Là dove l'Handelsanarchie disgrega la proprietà del Vernunftwesen,
questi non è più tenuto a rispettare quella altrui: "non appena, dunque,
qualcuno non può vivere del suo lavoro, non gli è cioè lasciato ciò che è
semplicemente il suo, il contratto è del tutto annullato, per quanto lo
riguarda, e da questo momento in poi egli non è più legalmente obbligato a
riconoscere la proprietà di qualsivoglia uomo”15. Questo aspetto, d’altro
canto, risulta coerente con rimpianto di Fichte, se si considera che lo stesso
concetto di proprietà, al pari di quello di individuo, è un Wechselbegriff, un
“concetto relazionale”, che implica il reciproco riconoscimento: “io non mi
posso pensare come individuo senza contrappormi un altro individuo.
Ugualmente, io non posso pensare nulla come mia proprietà senza
pensare, allo stesso tempo, qualcosa come proprietà di un altro. E così, per
parte sua, l’altro. Ogni proprietà si fonda sul riconoscimento reciproco
(wechselseitige Anerkennung)”16. Si tratta - è bene insistervi - di temi che
troveranno un loro fecondo sviluppo nello Stato commerciale chiuso e nella
sua codificazione della Arbeit come diritto fondamentale di ogni ente
razionale finito.
È particolarmente significativo - anche contro l’ingenerosa accusa della
Differenzschrift hegeliana, secondo cui il pensiero fichtiano trapasserebbe
in un “sistema dell’atomistica”17 - il fatto che nel 1812, in quella ulteriore
redazione della dottrina del diritto che è la Rechtslehre, Fichte riconfermi i
risultati del testo del 1796-97 (a riprova dell’unitarietà del suo pensiero
per quel che concerne l’etica declinata sul piano
gemeinschaftlich), codificando espressamente l’ideale del “progresso della
cultura verso il pensiero e l’eticità” (Fortschritt der Bildung zu
Verstand und Sittlichkeit). Come evidenziato da Luca Fonnesu, delle
differenze che separano Fichte da Hegel, una tra le più macroscopiche resta
indubbiamente “la diversa opinione dei due filosofi su quale sia il soggetto
dell’eticità”18: se per Hegel tale soggetto coincide con lo Stato, in cui
ricevono valore tutte le altre figure dello “Spirito oggettivo”, per Fichte è,
invece, la società civile (rispetto alla quale lo Stato è del tutto funzionale),
intesa non certo come aggregato di individui, ma come sostanza etica che si
autodetermina liberamente e in cui si compie la destinazione di ognuno19,
nel pieno rispetto della sua possibilità di autodeterminarsi liberamente. Lo
Stato, come già si è visto, resta in Fichte stabilmente subordinato e
funzionale al processo di moralizzazione della società, risultando per ciò
stesso superfluo al cospetto di un’umanità pienamente moralisirt.
Alla luce di quanto siamo venuti dicendo, si può, dunque, sostenere
plausibilmente che l’aporia da cui avevamo preso le mosse - la
contraddittoria transizione da una posizione che riconosceva la superabilità
della forma statale alla codificazione di uno Stato etico e commercialmente
chiuso - si rivela, a un attento esame, più apparente che reale. Per un verso,
come si è sottolineato, anche negli scritti anteriori a Der geschlossene
Handelsstaat, si sostiene che lo Stato deve essere superato, ma che tale
telos consiste in un’approssimazione infinita, che mai potrà dirsi compiuta,
con la conseguente permanenza illimitata dello Stato. Quest’ultimo
dev’essere tanto più forte quanto più l'epoca è distante dall’eticità:
nell’epoca della compiuta peccaminosità dell’anarchia commerciale esso,
per poter svolgere la propria mansione, dovrà chiudersi commercialmente.
Per un altro verso, l’elaborazione dell’idea di uno Stato
commercialmente chiuso si regge sugli stessi princìpi della WL come
System der Freiheit esposti nella Bestimmung des Gelehrten del 1794, in
accordo con i quali lo Stato è un mezzo funzionale alla moralizzazione di
un’umanità che non è ancora a tal punto moralisirt da poterne fare a meno.
Di conseguenza, in un’epoca di compiuta peccaminosità, di anarchia
commerciale e di egoismo universale, diventa necessario, ad avviso di
Fichte, l’intervento massiccio di uno Stato etico e forte, che sappia opporsi
al cosmopolitismo utilitaristico del mercato e al codice individualistico su
cui esso si regge, per far valere l’istanza morale di un comunitarismo
solidale che si opponga alle logiche illogiche dominanti.
A suffragare la nostra tesi circa la profonda coerenza e, di più,
continuità tra l’idea dell’estinzione della forma statale e la codificazione
dello Stato commerciale chiuso è un aspetto che non può essere omesso:
l’idea della Staatsform come strumento finalizzato alla moralizzazione
comunitaria non viene mai meno nella riflessione fichtiana, neppure nei
testi successivi alla svolta imposta dallo Stato commerciale chiuso. Ciò è
corroborato dal fatto che ancora nel 1813 - un anno prima di morire - Fichte
sosterrà che lo Stato è un apparato coattivo (Zwangstaat) che scomparirà
per via della sua Nichtigkeit20. Ma questa prospettiva - che riprende
apertamente l’ideale della Vernichtung della Staatsform al centro della
Missione del dotto di Jena - ritorna con insistenza anche nei Grundzüge,
soprattutto nella decima lezione: in essa lo Stato è presentato nei termini di
un “istituto artificiale”21 (künstliche Anstalt) che, lungi dall’essere fine a
se stesso o intrascendibile, è congiunturalmente necessario fintantoché gli
uomini non saranno perfettamente moralizzati e in grado di agire
autonomamente senza la pressione coercitiva delle leggi e del monopolio
della violenza statale.
Per questa via, lungi dall’essere smentita, la prospettiva della
Vernichtung della Staatsform della seconda lezione della Missione del dotto
jenese è riconfermata. Anche in Der geschlossene Handelsstaat, come del
resto nei Grundzüge e nelle Reden, Fichte è, dunque, coerente con i princìpi
cardinali della WL come System der Freiheit e con l’esigenza della
Weltveränderung orientata a far sì che il reale si accordi con i princìpi della
ragione e diventi possibile istituire “con libertà tutti i rapporti secondo
ragione”22. Il codice del prassismo trascendentale e della sua
defatalizzazione dell’esistente mediante l’azione continua, pertanto, a
costituire stabilmente la cifra della riflessione fichtiana come praxologische
Dialektik, tanto nelle differenti Darstellungen della WL, quanto degli scritti
a carattere più spiccatamente sociale e politico successivi rispetto alla
soglia del 1800.
I mutamenti prospettici, di conseguenza, rivelano la loro vera natura
non già di abbandono dell’impianto della WL e del suo portato socio-
politico, ma, semmai, di sua ridefinizione in coerenza con le mutate
condizioni sociali e politiche. In altri termini, se Fichte trasforma e
ridefinisce le proprie posizioni politiche lo fa per rimanere fedele alla verità
della WL e al suo progetto di emancipazione universale del genere umano,
rimodellandolo alla luce delle trasformazioni storiche nel
frattempo intervenute e, in particolare, alla luce della nuova esigenza
di prendere operativamente posizione contro il dilagante dogmatismo che
accetta in modo irriflesso, come se si trattasse di una necessità destinale, la
compiuta peccaminosità dell' Handelsanarchie.
Di questa passione trasformatrice che fa da sfondo costante alla
Strebungsphilosophie fichtiana, al di là di ogni presunta Kehre teoretica e
politica, offre una preziosa testimonianza un passaggio di Der geschlossene
Handelsstaat, in cui la dicotomia della Erste Einleitung del 1797 tra
idealismo e dogmatismo si ridispone politicamente nell'alternativa tra chi
accetta supinamente, in forma dogmatica, l’assetto del mondo disegnato
dall’anarchia commerciale e chi, invece, fa valere idealisticamente la libertà
trasformatrice, proponendo ima strategia oppositiva rispetto alla
peccaminosità dilagante23.
In particolare, il Dogmatismus come irriflessa accettazione del presente
come Ding an sich sottratto alla libera prassi trasformatrice è
l’atteggiamento tipico di chi assume passivamente l'utilitarismo dilagante
dell’anarchia commerciale come situazione intrascendibile, adattandosi alla
logica di disarticolazione degli Stati e della supremazia del politico
sull’economico; viceversa, l’Idealismus è la prerogativa filosofica di colui
che, deducendo l’essere dal fare e, dunque, rigettando ogni
pretesa definitività dell’esistente, si sforza senza posa per
riconfigurare alternativamente la realtà, affinché essa, sempre da capo
trasformata, si avvicini ogni giorno di più all’ideale24: in questo senso,
l’idealista, nell’epoca della peccaminosità pienamente dispiegata, si affida
alla potenza etica dello Stato come strumento di garanzia dell’etica
comunitaria in via di dissoluzione25. Il solo modo per reagire attivamente
alle logiche illogiche del presente compiutamente peccaminoso consiste,
infatti, ad avviso di Fichte, nel recupero dell’egemonia politica
garantita dalla sovranità statale, ossia dalla sola forza concretamente
in grado di arginare il nomos dell’economia dispiegatosi
nell'Handelsanarchie. Scrive Fichte:
Chi non è pensatore (der Nichtdenker), ma ha tuttavia buon senso e memoria, comprende lo
stato reale delle cose che si presentano ai suoi occhi, e ne prende nota. Egli non ha bisogno di
altro, perché deve soltanto vivere nel mondo reale e farvi i suoi affari; e non si sente stimolato a
riflessioni, di cui non vede l'immediata utilità. Egli non corre mai col pensiero al di là di questo
stato reale, e non ne concepisce un altro; ma per il fatto stesso di essersi abituato a non
pensare che alla realtà esistente, nasce in lui, quasi senza che se ne accorga, la supposizione che
solo questa realtà esista, e solo essa possa esistere. Le idee e i costumi del suo popolo e del suo
tempo gli paiono le sole idee e i soli costumi possibili presso tutti i popoli e in tutti i tempi. Egli
certamente non si meraviglia che tutto sia così com’è, perché, a parer suo, non può essere
altrimenti; e non si propone la questione del come ciò sia avvenuto, poiché, secondo lui, tutto
del pari è stato da principio. [...] La sua malattia incurabile è di scambiare l ’accidentale con il
necessario (seine unheilbare Krankheit ist die, das zuföllige für nothwendig zu halten)26.

Si tratta di un passo rivelativo, da cui affiora limpidamente come


l’ontologia della prassi non soltanto informi di sé anche un’opera così
eteroclita come Der geschlossene Handelsstaat, ma in essa si manifesti in
forma mutata, in coerenza con il nuovo contesto storico in cui il pensatore
di Rammenau pensa e agisce. Nel tempo dell'Handelsanarchie, la sola via
per rimanere fedeli alla lezione della WL come System der Freiheit
consiste, infatti, nell’opposizione incondizionata alle logiche
della destrutturazione delle potenze statali: lo Stato, infatti, come si è detto,
deve essere abbandonato solo quando l’umanità sia pienamente moralizzata
e non certo nel tempo presente, che segna il massimo pervertimento delle
potenzialità del genere umano. L’abbandono dello Stato mentre imperversa
la furia disgregatrice dell’anarchia commerciale costituisce, anzi, un passo
ulteriore verso la demoralizzazione e la deemancipazione egemoniche nel
tempo presente.
In accordo con le coordinate della WL e, di più, con le linee tratteggiate
nelle cinque lezioni jenesi sulla Bestimmung des Gelehrten, per cui la
cultura coincide con la capacità di “trasformare le cose al nostro esterno e di
mutarle secondo i nostri concetti”27, e contro l’atteggiamento contemplativo
e dogmatisch di chi, preso dal vortice dei suoi affari e dalla ricerca
dell'utile, non si pone il problema della moralizzazione dell’umanità né del
perfezionamento del reale, e anzi pensa, con falsa coscienza necessaria, che
l’assetto utilitaristico del mondo sia immodificabile, l’idealista fa valere
l’istanza trasformatrice, ponendosi come custode del processo emancipativo
del genere umano e, dunque, della tensione verso un futuro diverso
e migliore28.
Ora - ed è questo il punto fondamentale per comprendere la continuità
della riflessione politica fichtiana al di là della presunta Kehre -, nel 1800
non si dà altra possibilità di essere idealisti se non contrastando l’anarchia
commerciale tramite quella sola forza - la potenza statale - in grado di
frenare l’illimitatezza del profitto e degli squilibri che esso va sempre più
generando, creando differenziali di ricchezza di fronte ai quali la ragione
non può che inorridire29. Il passo prima riportato deve, di conseguenza,
essere letto congiuntamente con il seguente:
Chi, al contrario, si è abituato non solo a riprodurre nel pensiero il realmente esistente, ma
anche a foggiarsi liberamente con il pensiero il possibile, non raramente trova che legami e
rapporti delle cose totalmente diversi da quelli esistenti, sono altrettanto possibili, anzi più
possibili, più naturali e conformi a ragione; egli trova che i rapporti realmente esistenti sono
non solo accidentali, ma qualche volta pure bizzarri30.

L’idealismo trascendentale mantiene stabilmente la prospettiva


dell’indocilità ragionata rispetto alle condizioni esistenti presentate come
intrascendibili. Il progetto della chiusura commerciale dello Stato si pone,
pertanto, come concreta modalità di opposizione rispetto al dramma
dell’anarchia commerciale. Pensare idealisticamente significa innanzitutto -
così, programmaticamente, nella Erste Einleitung del 1797 - considerare la
realtà in forma non statica né definitiva, ma nel flusso del divenire, e
dunque nelle sue concrete figure storiche: ossia come luogo delle possibili
trasformazioni e della critica operativa di ciò che è, ma potrebbe essere
altrimenti. Per questo, il pensiero idealistico così come lo codifica la
praxologische Dialektik di Fichte rappresenta lo spazio del possibile
incontro tra la critica demistificante e l’azione trasformatrice, nel quadro
della storicità assunta come dimensione in cui, tra contraddizioni e
superamenti delle medesime, l’autocoscienza umana si fa sempre
più matura.
Dal punto di vista del transzendentaler Idealismus, tra le due
dimensioni della critica e dell’azione si dà un nesso di rinvio reciproco.
Infatti, da un lato, la critica autentica - ossia quella che non ammetta
aprioristicamente la propria ineffettualità -incorpora virtualmente la praxis
rovesciante come suo esito31. La demistificazione di un esistente diverso da
come dovrebbe essere è chiamata a tradursi nell’azione orientata a
conformarlo con l’ideale in nome del quale si è attivata la critica stessa.
E, dall’altro lato, la prassi rovesciante si pone come energia della critica,
come la sua traduzione sul piano della concretezza materiale: si configura
come il modo in cui essa effettivamente interviene sul reale per operarvi
disarticolandolo e ricostituendolo secondo geometrie alternative, che lo
portino a corrispondere alle sue potenzialità inevase. In quanto esito
storicamente determinato di un porre, l’esistente può sempre da capo essere
trasformato: non vi è alcunché, in esso, di definitivo, con buona pace delle
ideologie che contrabbandano l'Handelsanarchie come condizione naturale-
eterna dell’essere al mondo dell’uomo.
Alla luce di quanto siamo venuti sostenendo, diventa possibile ricavare
un principio interpretativo generale: esso permette non solo di decifrare
l’espressività generale del pensiero di Fichte al di là delle svolte e dei
ripensamenti, ma rende anche possibile comprendere tali svolte e tali
ripensamenti come momenti interni alla dinamica in sé unitaria della
riflessione del pensatore di Rammenau. Lo potremmo formulare in
questa maniera, volutamente apodittica: il cuore della riflessione
transzendentalphilosophisch fichtiana - la titanica reazione
contro l'oggettività presentata come immutabile, a cui Fichte contrappone
l’idealistica concezione del fare come prioritario rispetto all’essere - dà
luogo a quella dicotomia tra Idealismus e Dogmatismus che si incarna e si
ridispone in differenti figure a seconda del momento storico. Per questa via,
una volta di più, i princìpi della WL, lungi dall’essere abbandonati, sono di
volta in volta modulati in forme diverse, che li rendano compatibili con il
mutato contesto storico, sociale e politico.
Sembra, a questo proposito, dirimente il già richiamato argomento di
Radrizzani: il fatto che Fichte abbia stabilmente mantenuto il principio
fondativo del suo pensiero - l’atto come prioritario rispetto al fatto, il fare
rispetto all’essere - costituisce la prova dell’assenza di una vera rottura
epistemologica nel suo percorso32. Il principio fondante la WL come System
der Freiheit - la priorità del fare sull’essere, e dunque la deduzione
dell’esperienza dall’agire - resta stabilmente invariato, costituendo la solida
base su cui Fichte viene rimodellando e riarticolando la dottrina della
scienza in tutte le sue molteplici stesure, fermo restando il suo durevole
pathos antiadattivo. Per questo, nello Stato commerciale chiuso, come si è
accennato, la polarità tra idealismo e dogmatismo si ridispone nell’antitesi
tra l’accettazione dell’anarchia commerciale e l’opposizione ad essa
mediante la chiusura dello Stato.
Ancora, nelle Reden, l’antitesi tra Idealismus e Dogmatismus si incarna
nello iato tra la visione futurizzante di chi scommette su un avvenire aperto
e lo determina attivamente tramite il pensiero e l’azione e la prospettiva
ciclica di chi accetta fatalisticamente l’ordine delle cose, convinto della sua
inesorabilità, insensatezza e immutabilità ricorsiva. Per chi crede nel futuro,
la prassi e, dunque, la libertà dell’agire restano il solo mezzo in grado di far
sì che l’avvenire corrisponda ai propri progetti; per lui - così nelle Reden -
“la storia, e con essa l’umanità, non si svolge secondo le occulte
meravigliose leggi di una danza circolare, ma l’uomo le crea a sua
immagine, non ripetendo quello che è già stato, ma attraverso i nuovi tempi
creando il nuovo. Perciò egli non si aspetta mai il ritorno e la ripetizione”33.
Per questo motivo, nelle Reden Fichte fa valere un timbro
inequivocabilmente universalistico, che conferma la passione emancipativa
della WL come progetto teso alla liberazione del genere umano. Dovranno
consociarsi al popolo tedesco - precisano le Reden - quanti, senza limiti di
sesso, età e provenienza, credono nella libertà dell’azione umana e nel
futuro come campo di esplicazione di tale azione, e più precisamente
dell’illimitato processo di emancipazione del genere. Questa concezione del
tempo, propria dei Tedeschi, “considera l’umanità come qualcosa che è in
continuo progresso, e tutta la sua azione nel tempo pone in relazione con
questo progresso”34.
Si spiega così l’affermazione, apparentemente sibillina, racchiusa in Der
Patriotismus und sein Gegentheil (1807), in cui Fichte sostiene che
solamente i Tedeschi sono in grado di “porre come fine della propria
nazione l'interaumanità”35, giacché soltanto essi possono concretamente
salvare la civiltà umana dalla barbarie in cui sta precipitando: “se la
Germania non salva la civilizzazione umana, nessuna altra nazione europea
potrà farlo”36. La WL assume, pertanto, lo statuto di piattaforma teorica per
un programma d’azione che, tramite il Gelehrter e a partire dalla
concretezza etica del popolo tedesco, si pensa destinato a incidere
profondamente sulla storia dell’umanità.
Nelle Reden, pertanto, la dicotomia tra Tedeschi e non-Tedeschi è il
modo in cui si ripresenta l’opposizione tra idealisti e dogmatici, tra
criticismo trascendentale e dogmatismo conservativo. Tedeschi - si
chiarisce nelle Reden - sono, di fatto, gli idealisti, ossia “tutti quelli che
vivono essi stessi una vita creatrice e produttrice di novità”37. Costoro
“formano un popolo originario (ein Urvolk), il popolo per eccellenza (das
Volk schlechtweg), quello tedesco. Tutti quelli che si rassegnano a essere
qualcosa di secondario o di derivato [...] sono una appendice della vita”38 e,
per ciò stesso, non possono essere tedeschi.
Proprio come quella tra l’essere idealisti o dogmatici al centro della
Erste Einleitung, anche quella tra l’essere Tedeschi o non-Tedeschi, nelle
Reden, resta una scelta che l’individuo liberamente compie a seconda delle
proprie inclinazioni: sceglierà di appartenere al popolo tedesco ogni spirito
libero, “chiunque crede nello spirito, e alla libertà dello spirito, e vuole il
progresso all’infinito dello spirito per mezzo della libertà”39.

1. J,G. FICHTE, I tratti fondamentali dell'epoca presente, cit., p. 85


(GA, 8, p. 198).
2. Cfr. K. Polanyi, The Great Transformation. The Political and
Economic Origins of Our Time, 1944; tr. it. a cura di R. Vigevani, La
grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974.
3. Si veda M. Venturi Ferriolo, Aristotele e la crematistica. La
storia di un problema e le sue fonti, La Nuova Italia, Firenze 1983.
4. Cfr. G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, cit., pp. 597
ss. (HGW, IX, pp. 241 ss.).
5. ID., Sämtliche Werke, a cura di G. Lasson, 20 voll., Meiner,
Hamburg 1917 ss., I,p. 492.
6. M. Buhr, Revolution und Philosophie. Die französische
Revolution und die ursprüngliche Philosophie Fichtes, cit., pp. 72 ss.
7. Tant'è che nel Naturrecht si chiarisce che il diritto alla resistenza
e alla rivoluzione non è mai del singolo, ma del popolo come unità
organica. Il singolo è solo un ribelle, e come tale va trattato. Anche qui per
Buhr “la vicinanza del pensiero di Fichte e di Robespierre sulla fondazione
del diritto del popolo alla rivoluzione è lampante” (ivi, p. 76). Il fatto stesso
che, nel Naturrecht, compaia l’eforato rivela bene l’influenza termidoriana.
Dice bene inoltre Buhr che tra il 1793 e il 1800 Fichte incrocia anche il
pensiero di Babeuf.
8. M.J. Siemek, Fichtes und Hegels Konzept der Intersubjektivität,
in “Fichte-Studien”, n. 23 (2003), pp. 57-75. Si veda, inoltre, S. Turro, De
la Grundlage a la Nova Methodo: la intersubjectivitat, in “Comprendre.
Revista Catalana de Filosofia”, n. 3 (2001), pp. 43-52.
9. J.G. Fichte, GA, I, 5, p. 262.
10. Ibidem.
11. Cfr. C. Amadio, Morale e politica nella Sittenlehre (1798) di
J.G. Fichte, cit., pp. 286-288, Si veda inoltre T. Papadopoulos, Die Theorie
des Eigentum bei J.G. Fichte, Ars Una, München 1993, pp. 35 ss.
12. M. Buhr, Die Philosophie Johann Gottlieb Fichtes und die
Französische Revolution, cit., pp. 45 ss.
13. J.G. Fichte, Fondamento del diritto naturale secondo i princìpi
della dottrina della scienza, cit, p. 187 (SW, III, p. 212).
14. Ivi, p. 188 (SW, III, p. 214).
15. Ivi, p. 187 (SW, III, p. 213).
16. Ivi, p. 115 (SW, III, p. 130).
17. Sembra, a questo proposito, ingenerosa l’accusa che Hegel muove
a Fichte nella Differenz: “il popolo non è corpo organico di una vita comune
e ricca, bensì una pluralità atomistica. [...) Questa assoluta sostanzialità dei
punti fonda un sistema dell’atomistica della filosofia pratica” (G.W.F.
Hegel, Differenza tra il sistema filosofico fìchtiano e schellinghiano, cit., p.
70).
18. L. Fonnesu, Antropologia e idealismo. La destinazione
dell’uomo nell'etica di Fichte, Laterza, Roma-Bari 1993, p. 154.
19. Cfr. Z. Batscha, Gesellschaft und Staat in der politischen
Philosophie Fichtes, Europäische Verlagsanstalt, Frankfurt a.M. 1970; C.
De Pascale, Fichte und die Gesellschaft, in “Fichte-Studien”, n. 24 (2003),
pp. 95-102.
20. J.G. Fichte, SW, IV, p. 599.
21. Ibidem.
22. ID., SW, IV, p. 599.
23. Cfr, M. IVALDO, Libertà e ragione. L’etica di Fichte, Mursia,
Milano 1992, pp. 73 SS.
24. Dal punto di vista fichtiano, “è falso concepire il reale come
qualcosa che sussiste già tutto compiuto; esso deve essere visto come
qualcosa che sorge solo nel processo di attuazione dì se stesso”: R. Lauth, Il
pensiero trascendentale della libertà. Interpretazioni di Fichte, cit., p. 80.
25. Si veda G. Schmoller, J.G. Fichte. Eine Studie aus dem Gebiete
der Ethik und der Nationalökonomie, 1865 [poi ricompreso nella raccolta
Zur Litteraturgeschichte der Staats- und Sozialwissenschaften, Leipzig
1888].
26. J.G. FICHTE, SW, III, pp. 448-449.
27. ID., Missione del dotto, cit., p. 260 (SW, VI, p. 321).
28. Cft. M. Oesch, Das Handlungsproblem. Ein
systemgeschichtlicher Beitrag zur ersten Wissenschaftslehre Fichtes,
Gerstenberg, Hildesheim 1981, pp. 62 ss.
29. Cfr. G. Solari, L’idealismo sociale del Fichte, in “Rivista di
Filosofia”, 1942,pp. 141-181 [poi ricompreso in Id., Studi storici di filosofia
del diritto, Giappichelli, Torino 1949, pp. 281-313].
30. J.G. FICHTE, SW, III, p. 449.
31. Cfr. K.. Hammacher, Transzendentale Theorie und Praxis:
Zugänge zu Fichte, Rodopi, Amsterdam 1996, pp. 132 ss.
32. I. RADRIZZANI, Vers la fondation de l’intersubjectìvité chez
Fichte. Des Principes à la Nova Methodo, Vrin, Paris 1993, p. 43.
33. J.G. FICHTE, Discorsi alla nazione tedesca, cit., p. 134 (SW, VII,
p. 368). Al contrario, la concezione ciclica della temporalità, “appena abbia
preso cittadinanza fra i tedeschi, si rivelerà nella loro vita pratica sotto
forma di tranquillo adagiarsi nel proprio ‘io’, riconosciuto come necessario
e immutabile, sotto forma di rinuncia a perfezionare sé o gli altri per mezzo
della libertà; di tendenza a sfruttar sé e gli altri quali sono, spremendone il
maggior vantaggio possibile” (ivi, p. 139; SW, VII, p. 368).
34. Ivi, p. 161 (SW, VII, p. 394). Rinviamo al nostro saggio
Particolarismo e universalismo nei “Discorsi alla nazione tedesca ” di
Fichte, in “Filosofia Politica”, n. 2 (2014), pp. 227-246.
35. J.G. FICHTE, GA, 11, 9, pp. 404-405.
36. la, SW, VII, p. 184.
37. ID., GA, 1,10, p. 195.
38. Ibidem.
39. ID., Discorsi alla nazione tedesca, eit, p. 141 (SW, VII, p. 375).
9

STATO ED EMANCIPAZIONE NEL TESTO DI FICHTE E NELLA


SUA RICEZIONE STORICA

Il mondo è la visibilità della libertà. [...] Ora sta nella


libertà tesserci come società, come condizione prima e
somma.

J.G. FICHTE, Diarium I

Nel 1800, in Der geschlossene Handelsstaat, nel contesto storico


dell’anarchia commerciale, non si dà altra possibilità di essere idealisti se
non riproponendo l’egemonia della politica sull’economia
1
autonomizzatasi . Solo per questa via diventa possibile, tramite l’azione
dello Stato, garantire l’eguale libertà dei Vernunftwesen e il loro libero
sviluppo, frenando il movimento nichilistico del commercio globale:
“ufficio dello Stato -così in Der geschlossene Handelsstaat - sia prima di
tutto di dare a ciascuno il suo, immetterlo nella sua proprietà, e poi
di proteggerlo”2. Infatti, ripugna alla ragione “che uno possa pagarsi il
superfluo, mentre pur uno dei suoi concittadini manchi del necessario o non
possa pagarlo”3.
È questo il programma teorico attorno al quale viene prendendo forma
l’opera fichtiana del 1800, la cui genesi e la cui struttura sono state
mirabilmente ricostruite nel già citato studio monografico del 1979 di
Verzar, Das autonome Subjekt und der Vernunftstaat. Eine systematisch-
historische Untersuchung zu Fichtes “Geschlossenem Handelsstaat ” von
1800. Come suggerito da Ravà nella sua ricostruzione dell’immediata
Wirkungsgeschichte dello Stato commerciale chiuso4, inizialmente il
testo fichtiano passò quasi inosservato, eccezion fatta per una severa critica
(Über einen philosophischen Entwurf von Herrn Fichte, betitelt: der
geschlossene Handelsstaat) di Adam Müller apparsa sulla rivista “Berliner
Monatsschrift” del dicembre 1801 e per le parole di scherno (“mir hat
besonders Spass gemacht...”) con cui Christian Gottfried Körner
annunciava a Schiller la nuova uscita editoriale5. E, tuttavia, pochi anni
dopo il filosofo prima schellinghiano e poi fervente antischellinghiano
Johann Jacob Wagner propose, nella fase tarda del suo pensiero, di
regolare ogni attività umana secondo princìpi matematici, pervenendo a una
suddivisione dei cittadini direttamente ispirata al testo fichtiano del 18006.
Curiosamente, Lo Stato commerciale chiuso da subito destò maggiore
interesse presso economisti di professione. Ad esempio, Wilhelm Roscher,
nella sua Geschichte der Nationalökonomie in Deutschland (1874), fa
cenno a un nutrito gruppo di “economisti fichtiani”, ed è certo che le teorie
economico-filosofiche del pensatore di Rammenau vennero ampiamente
prese in considerazione da Heinrich Luden, nel suo testo Handbuch der
Staatsweisheit (1811). Ancora, nel 1865, Gustav von Schmoller esaminava
analiticamente il contenuto del testo fichtiano nel suo saggio. J. G. Fichte.
Eine Studie aus dem Gebiete der Ethik und Nationalökonomie, apparso su
“Jahrbücher für Nationalökonomie und Statistik”.
Per quel che riguarda la ricezione italiana, occorre segnalare. accanto al
testo di Luigi Clerici, Le idee economico-sociali di Fichte7 (1900), la
memoria di Igino Petrone su Lo Stato mercantile chiuso di G.Am. Fichte e
la premessa teorica del comunismo giuridico8. Petrone critica severamente
l’opera di Fichte, imputandole il sacrificio della libertà individuale
sull’altare dell'uguaglianza sociale. Quest’ultima - sostiene Petrone,
secondo una linea che ritorna, mutatis mutandis, in ogni critica liberale di
Fichte - è ottenuta annullando la libertà e, di più, instaurando una sorta di
dispotismo egualitario, del tutto incompatibile con il fichtiano System der
Freiheit. Per questo, il testo del 1800, ad avviso di Petrone, non solo non è
coerente con i princìpi della WL, ma ne segna un palese rovesciamento.
L’auspicata libertà dell’autodeterminazione pratica sarebbe, infatti, negata
dalla struttura socio-politica teorizzata nell’opera del 1800, in cui il solo
soggetto libero pare essere lo Stato.
Tesi in larga parte convergenti si trovano nel saggio di Enrico Opocher,
G.A. Fichte e il problema dell’individualità (1944).
La tesi di Opocher9 è che tutta la filosofia di Fichte si risolve in un
tentativo fallito di conciliare individualità e comunità: fallimento
culminante nell’annientamento dell’individualità, sacrificata sull’altare
della “comunità organica in cui vive la vita stessa di Dio”10. In questo
senso, a Fichte spetterebbe il titolo di “filosofo dell’annientamento delle
individualità”11: il suo progetto, evidente soprattutto negli scritti successivi
al 1800, coinciderebbe, a dire di Opocher, con la “costruzione di un
ideale Stato socialistico che costituisce la negazione stessa della
libertà individuale, pur pretendendo di garantirla”12. Der geschlossene
Handelsstaat segnerebbe il momento culminante di questo annientamento
delle individualità in favore della comunità organica, il punto di non ritorno
di una filosofia naturaliter sfociante nello statalismo autoritario: “con lo
Stato commerciale chiuso - scrive Opocher - il fallimento del tentativo
fichtiano di risolvere il problema della personalità, muovendo dai
principi della Dottrina della scienza, raggiunge il suo culmine”13.
A questo proposito, occorre ricordare come, in Fichte als Politiker
(1859), anche Eduard Zeller avesse sottolineato l’aporia dell’annullamento
fichtiano dell’individualità in favore della comunità, provando peraltro a
fornirne una spiegazione. A giudizio di Zeller, il sistema della libertà
fichtiano si rovescerebbe, con Lo Stato commerciale chiuso, in una
schiavitù dell’uguaglianza non già per l’intima contraddizione costituita
dall’opera del 1800 rispetto agli altri testi del System der Freiheit,
secondo la prospettiva di Petrone; al contrario, si tratterebbe, per Zeller, di
un’aporia interna al sistema stesso. Quest’ultimo, in forza del suo stesso
carattere idealistico, non è in grado di tenere in debita considerazione né la
realtà effettuale, né i singoli soggetti empirici e non può, di conseguenza,
che tradursi in un sistema politico oppressivo e illiberale. Lungi dal
costituire una contraddizione rispetto al dettato della WL, l’opera del 1800
ne rappresenterebbe, invece, per Zeller, la coerente applicazione in sede
socio-politica. A questi argomenti, Zeller aggiunge anche quello ad
personam, sostenendo che lo stesso carattere di Fichte, spigoloso e
dispotico, si riverbera nel suo modo di concepire il Vernunftstaat in termini
illiberali e apertamente autoritari.
Eppure, a una lettura attenta dell’opera del 1800, soprattutto se condotta
nell’odierna epoca che segna l’apice dell’anarchia commerciale denunciata
da Fichte, il cuore teorico del progetto fichtiano non deve essere rintracciato
nell’opposizione dell’uguaglianza alla libertà, secondo la linea
interpretativa cara al pensiero liberale. Adottando tale linea, peraltro, si
finisce immancabilmente per essere riassorbiti nel campo teorico liberale,
rispetto al quale Fichte non può che risultare un autore incompatibile e non
organico.
Contro le letture liberali e i loro schemi troppo rigidi, Fichte mostra
come la sola via per fare salva la libertà, proteggendola dalla dissoluzione
operatane dalla spinta centrifuga dell’economico non disciplinato
politicamente, consista nel ricorso allo Stato come strumento in grado di
conservare l’eguale libertà di tutti i cittadini. L’obiettivo teorico di Fichte
consiste, allora, nella messa in sicurezza della comunità umana dalle
tragedie prodotte dall’economico assolutizzato. Un simile obiettivo può
realizzarsi solo disciplinando politicamente l’economia, anteponendole la
communitas e i suoi concreti bisogni. Ancora una volta, il fatto che Fichte
pensi la libertà secondo un paradigma alternativo a quello della “libertà
liberale” non significa che egli sia un “nemico della libertà umana” (Berlin)
e della “società aperta” (Popper), a meno che non si identifichi quella
liberale con la sola libertà possibile.
Non si tratta, ancora una volta, di uno statalismo autoritario fine a se
stesso, in quanto lo Stato è sempre inteso come mezzo per il dispiegamento
della libertà dell’uomo: “il vero scopo dello Stato - scrive Fichte - è di
aiutare ciascuno a raggiungere quello a cui, come partecipe dell’umanità, ha
diritto, e di mantenerlo in tale condizione”14. E ancora: “ognuno deve
avere a giusto prezzo tutto ciò che è necessario per i suoi bisogni”15. Lo
Stato non diventa mai, in Fichte, fine a se stesso, come accadrà nelle
eterogenee forme totalitarie che hanno popolato le formazioni statolatriche
del Novecento: resta sempre - è bene insistervi - uno strumento al servizio
dell’uomo e dei suoi bisogni, e più precisamente della comunità in costante
progresso verso il proprio perfezionamento. È questo il fondamento della
concezione fichtiana dello Stato abbozzata nel Beitrag e coerentizzata nella
Bestimmung des Gelehrten jenese.
Alla luce di queste considerazioni, dovrebbe ora essere evidente in che
senso, dietro l’aporia da cui avevamo preso le mosse, si nasconda in verità
una coerente linea di sviluppo del pensiero politico fichtiano che, in
armonia con i dettami dalla WL e dalla sua metabolizzazione dei princìpi
della Rivoluzione francese, trova la sua cifra nella libertà umana e individua
nello Stato un mezzo per garantire il processo di moralizzazione. Dovrebbe
inoltre affiorare, in filigrana, quanto sia attuale la posizione propugnata da
Fichte in Der geschlossene Handelsstaat, se non in tutte le soluzioni
concretamente proposte, sicuramente nelle problematiche individuate e
nella strategia di opposizione all’anarchia del commercio oggi
compiutamente globalizzata. La stessa espressione Handelsanarchie si
rivela particolarmente felice, giacché allude esplicitamente al carattere
intimamente anarchico del potere economico: il nomos dell’economia
disarticola l'ordo politicus, sostituendolo con un caos ingovernabile e
ingestibile, con la disorganizzazione organizzata del capitale come forza
spoliticizzante o, se si preferisce, come forza che sostituisce la politica
svuotandola di ogni significato16.
Il nostro tempo - suona quasi pleonastico sottolinearlo -continua a
essere l’epoca della compiuta peccaminosità, in cui il nichilismo della
forma merce si configura come il solo fondamento di un mondo che si
dichiara “post-metafisico”17 e senza fondamenti, denunciando lo Stato
come forma autoritaria e -questo è il punto - ben sapendo come esso sia
l’ultima forza in grado di opporsi all’odierno monoteismo del mercato di
marca neoliberista. In questo, Der geschlossene Handelsstaat si rivela a
tutti gli effetti un testo preveggente, che decripta un processo che solo oggi
si è dispiegato in forma compiuta:
Nasce così nel mondo commerciale una lotta perpetua di tutti contro tutti, lotta tra
compratori e venditori; e questa lotta diventa sempre più ardente, più ingiusta e più pericolosa
per le conseguenze (heftiger, ungerechter und in seinen Folgen gefährlicher), a misura che la
popolazione cresce, lo stato commerciale s’ingrandisce per le acquisizioni che sopraggiungono,
la produzione e le arti si sviluppano, e con ciò si aumentano e diversificano le merci circolanti
e i bisogni18.

In questo scenario, peraltro decisamente più peccaminoso oggi che ai


tempi di Fichte, lo Stato può oggi essere, allora, l’ultima forma di resistenza
contro il dilagare dell'utilitarismo e dell’egoismo. Prova ne è che il sogno
del cosiddetto “pensiero unico” neoliberale - l’ideologia del tempo che,
autocelebrandosi come la fine delle ideologie, si rivela eo ipso come
l’epoca più ideologica dell’intera storia umana19 - consiste, da sempre,
nell’estinzione dello Stato, secondo un processo che si sta
peraltro consumando sempre più massicciamente sotto i nostri
occhi, favorito dalla dinamica della globalizzazione.
Nelle pagine di Der geschlossene Handelsstaat batte, di conseguenza, il
cuore di un progetto emancipativo in senso cosmopolitico, rovesciamento
del falso universalismo - la globalizzazione degli egoismi - posto in essere
dall’anarchia commerciale. In particolare, a partire da Der geschlossene
Handelsstaat, Fichte si oppone con energia all’idea di un
universalismo dell’annullamento delle differenze e delle specificità non
soltanto in quanto convinto - su un piano sia metafisico, sia politico20 - del
fatto che l’unità debba manifestarsi in forme plurali (la molteplicità dei
pensati che rinvia all’unità del pensare in atto), ma anche perché un tale
universalismo antidifferenzialistico stava concretamente prendendo forma,
in quegli anni, nelle due dimensioni dell’anarchia commerciale e
dell’espansionismo napoleonico21, contrastate con eguale forza - come
sappiamo - dal pensatore di Rammenau.
Si tratta, certo, di fenomeni profondamente diversi tra loro e, tuttavia,
accomunati dal movimento - di cui sono ugualmente fautori -
dell’annichilimento dei particolarismi nazionali e culturali, in una sempre
più marcata neutralizzazione del diritto alla differenza. In riferimento
all’oppressione napoleonica, Fichte condanna espressamente la “chimera di
una monarchia universale”22 (das Traumbild einer Universalmonarchie).
Il francese Namenlos, proprio come l'Handelsanarchie, aspira
a sottomettere il pianeta al suo impero, neutralizzando, tramite una perversa
reductio ad unum, la pluralità delle tradizioni e dei modi di esistere. Si tratta
di un tema già presente nello scritto kantiano Zum ewigen Frieden (1795),
che Fichte ben conosceva e già aveva discusso con attenzione:
La separazione di molti stati vicini ed indipendenti fra loro è già di per sé uno stato di
guerra (a meno che la loro unione in federazione non prevenga lo scoppio delle ostilità), ma
esso vai sempre meglio, secondo l’idea della ragione, che la fusione di tutti questi stati per
l'opera di una potenza che sì sovrapponga alle altre e si trasformi in monarchia universale
(durch eine die andere überwachsende, und in eine Universalmonarchie übergehende
Macht)23.

Secondo il rilievo di Kant, poi assimilato da Fichte, la pluralità degli


Stati sovrani comporta, di per sé, un potenziale stato di guerra permanente,
e, ciò non di meno, si tratta di una condizione pur sempre preferibile a
quella dell’Universalmonarchie, “perché le leggi, a misura che la mole del
governo aumenta, perdono di forza, e un dispotismo senz’anima, dopo aver
sradicato i germi del bene, degenera da ultimo nell’anarchia”24, in
quell'Handelsanarchie denunciata da Fichte che presenta, in effetti, come
base necessaria la destrutturazione degli Stati nazionali come centri plurali
dotati di sovranità politica.
Di qui la necessità, per Kant come per Fichte, del mantenimento di una
pluralità di Stati autonomi che pervengano alla pace non già come prodotto
della violenza del dispotismo, bensì come equilibrio tensionale che si viene
a instaurare dai nessi emulativi tra gli Stati stessi quali centri sovrani in
grado di amministrare autonomamente la vita politica della Gemeinschaft
all’interno dei propri confini25. In luogo dell'Universalmonarchie di
Napoleone o del mercato, che impone dispoticamente la sua cultura e la sua
politica come le sole possibili, Fichte pensa alla monarchia universale della
WL, sotto l’egida della nazione tedesca, in grado di garantire lo sviluppo
libero dell’umanità come un tutto unitario e, insieme, differenziato secondo
le culture, le lingue e le tradizioni. Se l'Universalmonarchie, come le
campagne napoleoniche, tende alla disgregazione degli Stati, la soluzione
non sta nella moltiplicazione delle monarchie europee colonialistiche, ma,
viceversa, nella soppressione dell’assolutismo qua talis, in una vera e
propria delegittimazione ante factum dell’imperialismo come forma
politica connessa con l’anarchia del commercio26.
In termini profondamente convergenti, nelle Reden - l’evento storico
ideale in cui la WL come System der Freiheit può manifestarsi nella sua
valenza pratica - batte il cuore di un progetto di emancipazione universale
mediato dal particolare nazionale27. Il vero scopo dell’opera è
universalistico, non nazionalistico, poiché la Germania è assunta come il
tramite del progresso universale, come lo sarà per Marx il proletariato.
Lo Stato, scrive Fichte confermando ancora una volta la tesi dell’estinzione
della Staatsform, “non è un elemento primitivo e per sé stante, ma soltanto
il mezzo per giungere a un fine più alto”28. E, a proposito dei Tedeschi: “di
tutti i popoli moderni è in voi che il germe dell’umana perfettibilità si
conserva più spiccato, a cui quindi è affidato il compito di avanzare alla
testa dell’umano sviluppo”29, ossia di farsi alfieri di una missione che
resta inconfondibilmente universalistico-emancipativa. A questo tema - la
correlazione tra universalismo emancipativo e nazionalismo statale, con
particolare attenzione per le Reden - è dedicato il volume a più voci
programmaticamente intitolato Kosmopolitismus und Nationalidee (“Fichte-
Studien”, n. 2, 1990)30.
Poiché l’egoismo permeante l’epoca ha raggiunto il proprio
compimento, si dà la concreta possibilità di un suo capovolgimento, ad
opera della prassi umana, nell’opposta configurazione di una nuova
Gemeinschaft cosmopolitica. Perché questa transizione possa dispiegarsi,
occorre però che un’istanza particolare se ne faccia carico - con le parole di
Fichte, “deve aver inizio in qualche punto del tempo e dello spazio” - e
operi concretamente in vista di tale fine. L’universale dev’essere costruito
nel tempo e nello spazio, come esito di un processo pratico dispiegantesi
gradualmente. In questo risiede il compito del popolo tedesco, la sua
Bestimmung storica di vettore dell’emancipazione umana. Scrive Fichte:
A questo è destinata l’umanità in terra [...]: a foggiarsi in libertà quale è già
spontaneamente. Questo auto-foggiarsi meditato e secondo una norma, deve aver inizio in
qualche punto del tempo e dello spazio; sarà il punto di partenza di una nuova epoca; quella del
libero e meditato sviluppo dell’umanità, facente seguito alla prima epoca dello sviluppo
abbandonato al caso. Noi crediamo che, in quanto a tempo, ci si sia arrivati ora, e che la
generazione che oggi si trova in mezzo del cammino della vita, stia proprio tra l’una e l’altra di
queste due grandi epoche; in quanto a spazio crediamo poi che alla Germania e ai tedeschi
spetti di iniziare la nuova èra, precedendo gli altri e tracciando loro il cammino31.

La missione della nazione tedesca non è, dunque, imperialistica, ma


volta all’emancipazione del genere umano dall’egoismo e dall'utilitarismo
mercatistico imperanti, in modo che comunitarismo patriottico e
universalismo emancipativo possano coesistere in unità dialettica, trovando
nell’emancipazione del genere il proprio coefficiente di unitarietà32. In
questo risiede il codice filosofico dell’apparentemente ossimorico
comunitarismo cosmopolitico che abbiamo assunto come cifra
della filosofia politica fichtiana unitariamente considerata.
A partire dal 1800, Fichte pensa una Gemeinschaft che, a partire da una
specifica particolarità spazio-temporale, operi attivamente per estendersi
gradualmente su scala universale, in un riconoscimento completo di ogni
membro come parte dell’umanità e, quindi, dell’umanità stessa come un
unico Ich. In una simile prospettiva, come è stato rilevato, il telos, per
Fichte, è che “tutti gli uomini sulla faccia della terra [...] divengano uniti in
un unico Stato”33. L’uomo è ontologicamente comunitario e, di
conseguenza, per poter corrispondere al proprio concetto, è chiamato a
instaurare liberamente una comunità sempre più ampia (asintoticamente
cosmopolitica), in modo da riguadagnare, tramite la mediazione temporale,
l’unità originaria perduta. Con le parole del Naturrecht jenese: “poiché nel
mondo gli esseri liberi, in quanto tali, devono essere in comunità, il
mondo deve essere disposto così. Ora, però, una comunità di esseri liberi
esiste esclusivamente se viene posta da loro”34.
È in questo senso che si può sostenere, con Radrizzani, che “Fichte resta
nei Discorsi alla nazione tedesca fedele al suo impegno rivoluzionario e
universalistico”35. Lo stesso si può ragionevolmente sostenere in merito allo
Stato commerciale chiuso. Come anche ha sottolineato Goddard, “la
continuità dei Discorsi con la difesa della Rivoluzione francese pubblicata
dal giovane Fichte è, su questo punto, totale. Ciò che la nazione tedesca
libera nel 1807-1808 non è altra cosa rispetto a ciò che la Rivoluzione
francese ha realizzato nel 1793: la possibilità per ogni individuo di
abbandonare un ordine sociale per un altro”36, in vista di quel libero
sviluppo di un’umanità fine a se stessa che, nel 1789, è ostacolato dalla
sopravvivenza dell’ordine feudale e che, nel 1800, trova il proprio
principale freno in un nuovo non-Io, l’Handelsanarchie del mondo retto
dalla micidiale legge del do ut des.
Un tale sviluppo, dopo il 1800, pare a Fichte possibile solo nel quadro
di uno Stato nazionale commercialmente chiuso, in grado di reagire
all’anomia commerciale in espansione su scala globale. Come mostrato da
Thomas-Fogiel, Fichte mette a tema lo Stato non “per denunciare gli ideali
universalistici e internazionalistici della Rivoluzione francese, ma, al
contrario, per promuoverli in concreto, ossia in uno spazio politico reale”37,
il cui principale vettore è ora la potenza etica dello Stato che si chiuda
commercialmente, ponendo un argine concreto alla dinamica disgregatrice
del mercato transnazionale e del mos oeconomicus.
Nel testo del 1800, come meglio vedremo esplorandone analiticamente
la struttura, la chiusura dello Stato rovescia il locus communis liberale
secondo cui il principale ufficio di ogni Stato andrebbe identificato con la
garanzia di protezione della persona e della sua proprietà. In questo modo,
spiega Fichte, “si è trascurato il più importante dovere dello Stato, che è
quello di porre prima ciascuno in possesso di ciò che gli spetta”38, ossia di
garantire a ognuno le condizioni per soddisfare i suoi bisogni fondamentali
di vernünftiges Wesen. La teoria fichtiana del Vernunftstaat si regge
esattamente, nella sua essenza, sull’idea di una comunità di liberi e uguali,
tutelata dalla potenza etica dello Stato.
Il diritto al lavoro e alla fruizione dei beni materiali prodotti dalla
comunità sono, secondo un tema già abbozzato nella jenese Missione del
dotto, un dovere imprescindibile per ogni Stato39. Per questo, come
suggerito da Ravà, si può plausibilmente sostenere che Lo Stato
commerciale chiuso è “il primo scritto, dopo l'Aufklärung, in cui si dichiara
esplicitamente erroneo il principio che l’attività dello Stato debba limitarsi
al campo del diritto, e in cui si cerca di dare alla formale
uguaglianza giuridica il contenuto concreto di un’uguaglianza
economica”40.
La proprietà, del resto, soprattutto nello Stato commerciale chiuso (ma
già anche nel Naturrecht jenese), non è concepita come una “cosa” da
possedere e da custodire gelosamente, né come il medium di
un’accumulazione smisurata. Al contrario, secondo un tema su cui
torneremo a soffermarci in seguito, essa è per Fichte legittima come luogo
di esercizio dell’azione lavorativa dell’ente razionale finito, secondo una
coerente declinazione in chiave materiale del primato fichtiano dell’atto sul
fatto41. Lo Stato, dunque, non dev’essere concepito, alla maniera liberale,
come mero garante giuridico delle libertà degli individui, bensì come attore
nell’economia in vista dell’assicurazione, per ogni cittadino, della
possibilità di affermarsi tramite il lavo-
Lo Stato deve, di conseguenza, pianificare centralmente l'economia
(tanto la produzione, quanto la distribuzione) per permettere ai cittadini di
vivere del loro lavoro43. Nello Stato commercialmente chiuso sarà,
pertanto, garantita per ogni Vernunftwesen quella che Marx chiamerà
“proprietà dei mezzi di produzione”, ossia l’insieme delle cose che
consentono a ogni individualità di svilupparsi liberamente agendo,
lavorando, esplicitando l’attività che strutturalmente è in quanto ente tätig.
Per Fichte, la proprietà - è bene insistervi fin da ora - coincide con il
diritto non sulle cose, ma sulle azioni, ossia con il diritto a esprimere
liberamente la freie Wirksamkeit. Essa, dunque, si dà come diritto, per
ciascuno, di avere accesso a una sfera del mondo sensibile in cui poter
dispiegare liberamente per sé la propria libertà. Per questo motivo, il
Vernunftstaat è chiamato ad assicurare a ciascuno la proprietà e il lavoro, in
modo che non vi siano né ricchi, né poveri: “non vale - scrive Fichte in
un passaggio che rievoca il Contrat social rousseauiano44 — che vi sia chi
dica: io posso pagare; è appunto ingiusto che uno possa pagarsi il superfluo,
mentre anche solo uno dei suoi concittadini manchi del necessario o non
possa pagarlo”45.
È in vista del garantimento di uguali diritti civili e sociali per tutti che,
nel testo del 1800, si propugna la chiusura commerciale dello Stato.
Quest’ultima renderà possibile il disciplinamento dell’economia da parte
della politica (permettendo allo Stato di essere sovrano economicamente
come lo è giuridicamente) e, inoltre, eviterà tanto il colonialismo, che -
frutto dell’anarchia del commercio - Fichte condanna senza mezzi termini,
quanto l’asservimento dei propri connazionali in forza del rapporto
economico di signoria e sudditanza reso possibile dall’economia non
regolamentata.
Nello Stato commercialmente chiuso - spiega Fichte -“nessuno può
essere sfruttato; nessuno ha bisogno di sfruttare gli altri, e se pure lo volesse
non troverebbe da sfruttare nessuno”46. Come è stato opportunamente
segnalato dalle più recenti prestazioni ermeneutiche della Fichte-
Forschung, “dal 1794 al 1813, Fichte intende promuovere l’ideale
dell’universalità. Di tutti i pensatori del suo tempo, egli è, ad esempio, uno
dei pochi a denunciare i crimini dell’Europa sulle ricchezze dell’Africa”47.
L’universalismo cosmopolitico e lo sforzo dell’emancipazione al centro del
Beitrag e della jenese Bestimmung des Gelehrten sono ugualmente presenti,
sia pure in un diverso quadro teorico (condizionato, come si è detto, dal
mutato contesto storico e politico), anche in Der geschlossene Handelsstaat
e nelle Reden48.
Appare dunque evidente in che senso, senza alcun abbandono
dell’impianto della WL come System der Freiheit, Fichte aderisca al
progetto di uno Stato forte, organicistico e commercialmente chiuso. Poiché
l’Handelsanarchie rischia di imporre, con l’egemonia dell’economico sul
politico, l’abbandono dei singoli enti razionali finiti alle imperscrutabili
leggi del mercato internazionale, la chiusura commerciale dello Stato pare
a Fichte, nel 1800, la sola possibilità perché sopravvivano il diritto al lavoro
e alla proprietà per ogni individuo, ossia perché il tessuto comunitario non
si disgreghi sotto le spinte centrifughe del commercio planetario: “da questa
garanzia, per cui ognuno deve avere a giusto prezzo tutto ciò che è
necessario per i suoi bisogni, segue la chiusura dello Stato commerciale
rispetto all’estero”49, in modo che la dimensione politica possa mantenere il
proprio primato sul movimento disgregatore del commercio e la comunità
possa conservare la propria unità solidale.
Come si chiarisce fin dalla Einleitung al testo del 1800, il Vernunftstaat
si oppone all’anomia dell’anarchia commerciale pianificando la produzione
secondo i bisogni degli individui, senza abbandonarla al movimento
insensato della crescita fine a se stessa che lascia morire di fame gli uomini
nel mezzo dell’abbondanza delle merci: “nel governo dello Stato, come
nel resto, si deve ricondurre ai concetti tutto ciò che vi può esser riportato, e
cessare di lasciare in balia del cieco caso ciò che può essere calcolato, con
la speranza che le cose possano andare da sé bene”50. Una simile reazione
all’anarchia commerciale mediante la pianificazione della produzione
finalizzata al soddisfacimento dei bisogni umani finiti e, dunque, sottratta
al nichilistico movimento di crescita illimitata e fine a se stessa, sembra
anticipare la soluzione marxiana. Così nel primo libro di Das Kapital: “la
figura del processo vitale sociale, cioè del processo materiale di produzione,
si toglie il suo mistico velo di nebbie soltanto quando sta, come prodotto di
uomini liberamente uniti in società, sotto il loro controllo cosciente e
condotto secondo un piano”51. In questa prospettiva, si può
sottoscrivere quanto affermato da Léon, il quale ha posto in relazione la
filosofia politica di Fichte con “l’ideale del socialismo contemporaneo, che
egli ha definito e prefigurato”52.
È solo riproponendo l’egemonia della politica sull’economia
autonomizzatasi che diventa possibile, tramite l’azione dello Stato,
garantire l’eguale libertà dei soggetti e il loro libero sviluppo, frenando il
movimento nichilistico dell'Handelsanarchie, secondo un tema che
attraversa lo Stato commerciale chiuso non meno che i Grundzüge: “ognuno
deve avere a giusto prezzo tutto ciò che è necessario per i suoi bisogni”53.
Solo in questa maniera, i rapporti sociali, economici e giuridici cessano di
essere pensati in modo dogmatisch come cose autonome e tornano a essere
idealisticamente concepiti come prodotti dell’azione degli uomini e, di
conseguenza, ad essi funzionali.
Anche in questo caso, più che di una rottura con le posizioni
precedentemente assunte da Fichte, si dovrebbe, piuttosto, parlare di una
continuità, come è corroborato dal fatto che molti dei temi al centro dello
Stato commerciale chiuso sono già codificati nella Naturrechtslehre jenese.
Al centro di quest’ultima, infatti, vi era il principio in accordo con il quale
“il commercio sta sotto la sorveglianza dello Stato”54. Nel suo complesso,
lo Stato commerciale chiuso non è che uno sviluppo di quel principio. Il
fatto che lo Stato resti al servizio dell’uomo e del libero sviluppo delle sue
potenzialità, che l’anarchia commerciale tende invece a neutralizzare, è la
prova lampante del fatto che, con il testo del 1800, come evidenziato da
Thomas-Fogiel, “l’universalismo non solo non è abbandonato, ma lo Stato,
lungi dal definirsi come istanza dispotica, diventa la garanzia della
sopravvivenza della libertà di ogni individuo. In questo senso, la tesi di un
abbandono spettacolare degli ideali del 1796 sembra rivelarsi un mito”55.
Nel 1800, Fichte assegna allo Stato commercialmente chiuso il compito di
difendere e promuovere i principi del 1789, in cui egli non cessa di
identificarsi e che, come si è detto, costituiscono il fondamento stesso della
WL in tutte le sue Darstellungen.
Che Fichte ravvisi nello Stato la forza politica in grado di arginare la
potenza disgregatrice dell’economia e, insieme, di tutelare il libero sviluppo
dell’umanità in quanto tale, affiora chiaramente dall’insistenza, nello Stato
commerciale chiuso, sull’umanesimo come ideale di riferimento a cui la
potenza statale deve rimanere legata, in ciò opponendosi alla tendenza
dell’epoca compiutamente peccaminosa:
Non è già un pio desiderio dell’umanità, ma un’esigenza imprescrittibile dei suoi diritti e
della sua destinazione, che essa viva sulla terra così agevolmente, così libera, così padrona
della natura, così umanamente, come la natura glielo consente. L’uomo deve bensì lavorare, ma
non come una bestia da soma, che si addormenta sotto il peso che porta e che, dopo il
necessario sollievo delle forze esauste, è di nuovo costretta a portare lo stesso peso. Egli deve
lavorare senza affanno, con piacere e letizia, e avere un resto di tempo per elevare lo spirito56.

In questo progetto fichtiano, erede del discorso avviato nel Naturrecht


jenese e destinato a trovare ulteriori sviluppi negli scritti successivi, è
possibile individuare, con Remo Cantoni, “il tentativo più alto che abbia
intrapreso il romanticismo tedesco per costruire un’etica del lavoro, della
cooperazione sociale, del progresso umano, della ragione impegnata nel
mondo, un’etica che ha ancor oggi un valore attuale per la modernità dei
suoi temi e l’originalità delle sue soluzioni”57, soprattutto se si considera
che, al cospetto dell’attuale monoteismo del mercato globale (che,
rovesciando l’assunto fichtiano, pone lo Stato sotto la sorveglianza del
commercio e fa dell’economico spoliticizzato la sola realtà sovrana),
l’unica via per reagire a questa disorganizzazione organizzata sembra oggi
da ricercarsi in quel ristabilimento dell’egemonia della politica
sull’economia che è percorribile solo reagendo alla delegittimazione della
sovranità nazionale imposta dal mercato globale nell’epoca della
“costellazione postnazionale”58 che viene “dopo il Leviatano”59.

1. Cfr. S. Furlani, Libertà economica e controllo politico. Lo “Stato


commerciale chiuso ” di Fichte, cit., pp. 33-46.
2. J.G. Fichte, SW, III, p. 399.
3. Ivi, p. 409.
4. Cit. A. Ravà, Studi su Spinoza e Fichte, cit., pp. 286-288.
5. Briefwechsel zwischen Schiller und Koemer, Cotta, Stuttgart 1892,
V. p. 159.
6. J.J. Wagner, Der Staat, Erlangen 1811.
7. L. Clerici, Le idee economico-socialì di Fichte, in “Archivio
giuridico”, LXIV (1900), fase. 3.
8. I. PETRONE, LO STATO mercantile chiuso di G.Am. Fichte e la
premessa teorica del comunismo giuridico, memoria letta alla R.
Accademia di Scienze Morali e Politiche della Società Reale di Napoli,
Napoli 1904.
9. Cfr. E. Opocher, G.A. Fichte e il problema dell 'individualità, cit., p.
139.
10. Ivi, p. 194.
11. Ivi, p. 134.
12. Ivi, p. 184.
13. Ibidem.
14. J.G. Fichte, SW, III, p. 420.
15. Ivi, p. 447.
16. Cfr. C. Schmitt, L'epoca delle neutralizzazioni e delle
spoliticizzazioni, cit, pp. 174-178.
17. Cfr. J. Habermas, Nachmetaphysisches Denken: philosophische
Aufsätze, 1988; tr. it. a cura di M. Calloni, Il pensiero postmetafisico,
Laterza, Roma-Bari 1991.
18. J.G. FICHTE, SW, III, pp. 456-457.
19. Su questo tema, ci permettiamo di rinviare ai nostri saggi La
logica ideologica. Vecchie e nuove legittimazioni del potere, in “La società
degli individui”, n. 1 (2012), pp. 149-166, e L"‘Ideologia tedesca " tra
critica della spettralità e fondazione della scienza filosofica, in K. Marx e F.
Engels, Die deutsche Ideologie, 1845-1846 (1932); tr. it. a cura di D.
Fusaro, Ideologia tedesca, Bompiani, Milano 2010, con presentazione di A.
Tagliapietra, pp. 19-306.
20. Sul nesso tra politica e metafisica nell’opera fichtiana, si veda
soprattutto P.P. Druet, La politisation de la métaphysique idéaliste. Le cas
de Fichte, cit., pp. 690-694.
21. Cfr. D. Losurdo, Fichte, la resistenza antinapoleonica e la filosofìa
classica tedesca, cit., pp. 189-216.
22. J.G. Fichte, GA, I, 10, p. 273.
23. I. Kant, Zum ewigen Frieden, 1795; tr. it. Per la pace perpetua, in
Id., Scritti di storia, politica e diritto, cit., p. 185.
24. Ibidem. Cfr. A. Trucchio (a cura di), Cartografie di guerra. Le
ragioni della convivenza a partire da Kant, Mimesis, Milano 2011.
25. Cfr. C. Preve, Del buon uso dell’universalismo: elementi di
filosofia politica per il XXI secolo, Settimo Sigillo, Roma 2005; Id., La
quarta guerra mondiale, Edizioni All’Insegna del Veltro, Parma 2008.
26. Si veda soprattutto G. Cogliandro, La dottrina morale superiore di
J.G. Fichte. L'“Etica" 1812 e le ultime esposizioni della dottrina della
scienza, cit., pp. 253-254.
27. Si veda R. Schottky, Fichtes Nation-Begriff 1806-1813.
Innenspannung und Entwicklung, in R. Burger, H.-D. Klein e W. H.
Schräder (a cura di), Gesellschaft, Staat, Nation, Österreichische Akademie
der Wissenschaften, Wien 1996, pp. 159-184; E. Kiss, Anmerkungen zu
Fichtes Begriff der Nation, cit., pp. 189-196.
28. J.G. Fichte, Discorsi alla nazione tedesca, cit., p. 159 (SW, VII, p.
392).
29. Ivi, p. 269 (SW, VII, p. 498).
30. Si segnalano soprattutto il testo di Ives Radrizzani, Ist Fichtes
Modell des Kosmopolitismus pluralistich? (pp. 7-19): questi ha adombrato
come la correlazione tra idea nazionale e universalismo permetta a Fichte di
far valere un principio pluralistico di cosmopolitismo, essendo quest’ultimo
la relazione dinamica tra le realtà nazionali particolari. Una lettura affine si
trova nel saggio di Wolfgang Schräder, Nation, Weltbürgertum und
Synthesis der Geisterwelt (pp. 27-36). In modo per alcuni versi
convergente, Alois Söller (Nationale Erziehung und sittliche Bestimmung,
pp. 89-110) ha posto in relazione il cosiddetto nazionalismo fichtiano con la
sua etica della concretezza materiale. Dal canto suo, Karl Hahn (Die Idee
der Nation als Implikat der Interpersonalitäts-und Geschichtstheorie, pp.
20-26) ha evidenziato il nesso tra la dottrina dell'intersoggettività
storicamente declinata con l’idea di nazione messa a tema da Fichte.
Johannes Heinrichs (Nationalsprache und Sprachnation: zur
Gegenwartsbedeutung von Fichtes “Reden an die deutsche Nation”, pp. 51-
73) ha, invece, portato l’attenzione sul problema della lingua nazionale, e
Peter Oesterreich (Politische Philosophie oder Demagogie?: zur
rhetorischen Metakritik von Fichtes Reden an die deutsche Nation, pp. 74-
88) ha insistito sull’aspetto demagogico e retorico dell'impianto delle
Reden. Di questa nuova linea interpretativa hanno ampiamente tenuto conto
le nuove edizioni delle Reden, sia quella tedesca (curata da Alexander
Aichele nel 2008 per l’editore Meiner di Hamburg, sia quella italiana curata
da Gaetano Rametta nel 2003 per l’editore Laterza di Roma). Su questo
tema rinviamo ancora la nostro studio Particolarismo e universalismo nei
Discorsi alla nazione tedesca ” di Fichte, cit., soprattutto pp. 233-236.
31. J.G. Fichte, Discorsi alla nazione tedesca, cit., p. 70 (SW, VII, pp.
438-439). Si veda M. GuÉroult, Études sur Fichte, Olms, Hildesheim 1974,
pp. 236-237, 274-275: l’autore vi mostra in maniera efficace il forte legame
tra Reden e Naturrecht.
32. Del resto, ancora negli scritti del 1812-1813, la nazione, nel
pensiero fichtiano, è definita da un regime rappresentativo, dalla libertà
politica e dalla soppressione di privilegi e sfruttamento.
33. W. Dunning, Political Theories from Rousseau to Spencer, New
York 1950, p. 73.
34. J.G. Fichte, Fondamento del diritto naturale secondo i princìpi
della dottrina della scienza, cit., p. 65 (SW, III, p. 73).
35. I. Radrizzani, “Nation-contrat" ou "nation-génie"? Des diverses
figures de la nation chez Fichte, cit., p. 122.
36. J.-C. Goddard, Fichte est-il réactionnaire ou révolutionnaire?, in
Id. ET ALII (a cura di), Fichte et la politique, cit., p. 490.
37. I. THOMAS-FOGIEL, Fichte. Reflexion et argumentation, cit., p.
235.
38. J.G. FICHTE, SW, III, p. 453.
39. Così ha sottolineato Hermann Klenner in riferimento allo Stato
commerciale chiuso: “per quanto riguarda la sua rivendicazione del diritto
al lavoro, Fichte non era diventato un rinnegato ed era rimasto fedele anche
a Berlino agli ideali e alle illusioni della sua giovinezza” (H. Klenner, Das
Recht auf Arbeit bei Johann Gottlieb Fichte, in Festschrift für Erwin Jacobi,
Veb, Berlin 1957, p. 155). Quella delineata da Fichte sarebbe, stando a
Klenner, una visione antifeudale e, insieme, anticapitalistica del lavoro.
40. A. Ravà, Studi su Spinoza e Fichte, cit., p. 285.
41. Si veda X. Léon, La Philosophie de Fichte, cit., p. 332.
42. J. Braun, Freiheit, Gleichheit, Eigentum: Grundfragen des Rechts
im Lichte der Philosophie J.G. Fichtes, Mohr, Tübingen 1991.
43. Si veda G.H. Turnbull, The Changes in Fichte’s Attitude Toward
State Intervention in Education, in “International Journal of Ethics”, n. 47
(1937), pp. 234-243.
44. Cfr. G. Gurwitsch, Kant et Fichte, interprètes de Rousseau, in
"Revue de Métaphysique et de Morale”, n. 76 (1971), pp. 385-405; G.
Vlachos, L' INFLUENT E DE ROUSSEAU SUR LA CONCEPTION DU
CONTRAI SOCIAL CHEZ KANT ET FICHTE, in AA.VV, Etudes sur le
contrat social de J.J. Rousseau, Les Belles Lettres, Paris 1964, pp. 459-488.
45. J.G. Fichte, SW, III, p. 402.
46. Id., SW, III, p. 462.
47. I. THOMAS-FOGIEL, Fichte. Reflexion et argumentation, cit., p.
235.
48. Cfr. ivi, pp. 234 ss.
49. J.G. FICHTE, SW, III, p. 447.
50. ID., SW, III, p. 397.
51. K. MARX, Das Kapital. Kritik der politischen Ökonomie, Band I,
1867; tr. it. a cura di D. Cantimori, Il capitale. Critica dell'economia
politica, Libro 1, Editori Riuniti 1964, p. 111 (MEW, XXIII, p. 89).
52. X. LEON, La philosophie de Fichte, cit., p. 477.
53. J.G. Fichte, SW, III, pp. 473-474. Cfr. T. Papadopoulos, Die
Theorie des Eigentum bei J.G. Fichte, cit., pp. 48 ss.; J. Braun, Freiheit,
Gleichheit, Eigentum: Grundfragen des Rechts im Lichte der Philosophie
J.G. Fichtes, Mohr, Tübingen 1991.
54. J.G. Fichte, Fondamento del diritto naturale secondo i princìpi
della dottrina della scienza, cit., p. 206 (SW, III, p. 235).
55. I. THOMAS-FOGIEL, Fichte. Reflexion et argumentation, cit., p.
230.
56. J.G. Fichte, SW, III p. 443.
57. R. Cantoni, Introduzione, in J.G. Fichte, Il sistema della dottrina
morale secondo i princìpi della scienza, Sansoni, Firenze 1957, p. XXIII.
Anche Leon insiste su questo tema, individuando in Fichte “il primo tra i
filosofi moderni che abbia, in certa misura, umanizzato la Morale e le abbia
impresso, come suo tratto essenziale, un carattere sociale” (X. Léon, La
philosophie de Fichte, cit., p. 477).
58. Cfr. J. Habermas, Die postnationale Konstellation, 1998; tr. it. a
cura di L. Ceppa, La costellazione postnazionale: mercato globale, nazioni e
democrazia, Feltrinelli, Milano 1999.
59. Cfr. G. Marramao, Dopo il Leviatano: individuo e comunità nella
filosofia politica, Giappichelli, Torino 1995.
10

LO STATO TRA PARTICOLARE E UNIVERSALE

Compito dello Stato sia anzitutto fornire a ognuno il


suo, collocarlo nella sua proprietà e poi tutelarlo in essa.

J.G. FICHTE, Lo Stato commerciale chiuso

A suffragare la nostra tesi circa la coerenza del percorso teorico lungo il


quale viene sviluppandosi la filosofia politica fichtiana in ogni sua
articolazione è un aspetto degno di rilievo, che così potremmo formulare e
che, di fatto, rovescia il collaudato paradigma della Kehre, rivelando come
esso, a un’analisi attenta, sia privo di ogni ubi consistane, per un verso, le
tesi confluite nello Stato commerciale chiuso cominciano a prendere forma
nel periodo jenese, e dunque quando Fichte ancora dovrebbe essere legato -
secondo la tesi della Kehre - all’ideale della Vernichtung dello Stato; per un
altro verso, come subito vedremo, nei testi successivi rispetto all’opera del
1800, in cui vengono in linea di principio mantenute le acquisizioni
politiche dello Stato commerciale chiuso, l’argomento dell’estinzione dello
Stato continua a svolgere un ruolo di primaria importanza, suffragando -
questo il punto - la nostra convinzione, secondo cui le due prospettive
(estinzione della forma statale e Stato commercialmente chiuso), lungi
dall’elidersi mutuamente, risultano pienamente coerenti tra loro.
La prospettiva dello Stato commercialmente chiuso e quella della
Vernichtung della Staatsform, lungi dall’escludersi mutuamente, coesistono
nello stesso quadro teorico. La seconda resta l’orientamento ideale a cui
Fichte mai rinuncia (esplicitamente riprendendola, come si è visto, anche
nei suoi ultimissimi scritti filosofico-politici); la seconda, coerente con
quell’ideale stesso, assume un rilievo decisivo a partire dal 1800, quando
cioè Fichte mette a tema la critica del presente compiutamente peccaminoso
e massimamente distante dall’ideale dell’umanità autonoma. Da una diversa
angolatura, il transito per lo Stato commercialmente chiuso si configura,
agli occhi di Fichte, come la condicio sine qua non per un possibile
superamento della Staatsform che non sia quello perseguito
dall'Handelsanarchie: se quest’ultima mira a rimuovere la forma Stato,
abbandonando l’umanità in balia della peccaminosità dilagante, lo Stato
commercialmente chiuso deve invece, ad avviso di Fichte, guidare il genere
umano verso la propria moralizzazione, educando la comunità al senso della
giustizia e della libertà.
Come si è visto, già in un testo come il Naturrecht jenese, di tre anni
anteriore rispetto alla cosiddetta rottura epistemologica dello Stato
commerciale chiuso, troviamo una nutrita serie di passi che esplicitamente
precorrono la soluzione dell’opera del 18001. Fichte vi sostiene che lo Stato
ha “il diritto di sorveglianza su come ciascuno amministra la sua proprietà
di cittadino dello Stato”2. E ancora, in un passo che potrebbe
tranquillamente trovarsi tale e quale nello Stato commerciale chiuso:
“poiché il commercio estero rende dipendente un popolo, e poiché non si
può fare affidamento sulla sua durata uniforme, si dovrebbe raccomandare
ad ogni Stato di organizzarsi in modo da poterne fare a meno”3. Né bisogna
dimenticare che, nella stessa Sittenlehre jenese, che precede di due anni la
stesura dello Stato commerciale chiuso, già viene codificata l’idea secondo
cui compito primario dello Stato sarebbe quello di garantire a ogni
individuo il possesso di ciò che gli spetta in quanto essere umano: “è lo
Stato - spiega Fichte nel testo del 1798 - che deve preoccuparsi che ognuno
abbia la sua proprietà”4, ossia la concreta dimensione su cui esercitare la
propria attività come Arbeit5.
Del resto, se si legge con attenzione e senza lo schermo interpretativo
della Kehre la Missione del dotto jenese, è difficile non individuare la
corrispondenza pressoché perfetta tra il telos a cui essa mira e quello a cui
tenderanno le opere successive al 1800: la comunità e i suoi bisogni
costituiscono il fine primario per l’umanità finalmente moralizzata, al quale
lo Stato é funzionale. Scrive Fichte, in una prospettiva che tornerà
pressoché invariata nelle pagine dello Stato commerciale chiuso:
La società raccoglierà come bene comune i guadagni ricavati da tutti quanti i soggetti, per
consentirne il libero impiego ad opera della comunità, e, operando in questa maniera, li
moltiplicherà per il numero dei soggetti, si farà comunitariamente carico delle lacune
dei soggetti, portandole così al grado più basso6.
Ciò che gli individui pienamente moralizzati e rispettosi dell'ethos
comunitario faranno liberamente, senza coercizione statale, è garantito,
nell’epoca della compiuta peccaminosità dell’anarchia commerciale, dalla
potenza etica dello Stato. Esso, non a caso, nell’opera del 1800 avrà il
compito di garantire ciò che, nel passo appena menzionato della Missione
del dotto, un’umanità autonoma farebbe liberamente. Il legame comunitario
- così ancora nella Missione del dotto del 1794 - “unisce la collettività in un
unico organismo”7 solidale, in cui la libertà del singolo non è soffocata tra
le spire della totalità, ma trova anzi la propria garanzia in essa, la sola
istanza in grado di arginare la disuguaglianza posta in essere dalla natura.
Se, poi, volgiamo lo sguardo alle opere successive rispetto allo Stato
commerciale chiuso, riscontriamo l’innesto - a cui si faceva poc’anzi
riferimento - della teoria della Schliessung, della “chiusura” commerciale
dello Stato sulla dottrina dell’estinzione della forma statale embrionalmente
delineata fin dai tempi del Beitrag. Se, ad esempio, prendiamo in
considerazione i Grundzüge, essi si caratterizzano per una esplicita ripresa
della tesi della chiusura commerciale e dello “Stato forte”, sia pure in una
cornice teorica di più ampio respiro rispetto a quella dell’opera del 1800: tra
i compiti primari dello Stato vi è “l’equiparazione dei diritti di tutti [...] e la
progressiva eliminazione della disuguaglianza”8. E, insieme, viene ribadita
la tesi jenese dello Stato come strumento finalizzato alla moralizzazione
comunitaria, e dunque come künstliche Anstalt, come “istituto artificiale”,
secondo la già richiamata espressione della decima lezione dei Grundzüge.
Per questo motivo, sempre nel quadro geschichtsphilosophisch
abbozzato nei Grundzüge, l’ultima età della storia universale e del Weltplan
è presentata da Fichte come perfetta realizzazione della moralità del genere,
finalmente corrispondente al proprio concetto, e dunque in armonia con sé
senza necessità di ricorrere alla coercizione statale9. Così si sostiene anche
nella Philosophie der Maurerei:
Tutta l’umanità deve formare un solo Stato completamente giuridico; la relazione di ogni
uomo con gli altri negli Stati, la relazione di tali Stati tra loro sulla faccia della terra devono
essere ordinati completamente secondo le leggi giuridiche ed eterne della ragione: è questo lo
scopo di ogni costituzione legale in ogni Stato e in tutti i patti e i trattati tra i popoli10.

Un impianto per molti versi simile, nelle sue strutture di fondo, si trova
anche nella crepuscolare Staatslehre del 1813". Secondo quanto si è già
ricordato, Fichte vi mostra come, realizzando la profezia evangelica della
venuta sulla terra dello Spirilo santo, la WL segni l'incipit dell’eclisse della
nozione stessa di sovranità12. Il Regno dei cieli scende sulla terra
realizzandosi grazie a quello che la WL qualifica come Vernunftreich, il
“regno della ragione”: la razionalità pienamente dominante
renderà superfluo lo Stato come apparato coercitivo13. Il compito
dello Stato è, pertanto, quello di rendersi superfluo (Missione del dotto di
Jena) e di frenare l’entropia deemancipativa dell’anarchia commerciale,
preparando l’avvento di un’umanità moralmente autonoma (Stato
commerciale chiuso, Staatslehre 1813).
Lo scopo della vicenda storica, identificato nei Grundzüge con lo sforzo
teso a instaurare alle Verhältnisse mit Freiheit nach der Vernunft, si
riconfigura, nella Staatslehre del 1813, come avvento della civitas humana,
di un futuro Reich in cui si attuerà “la libertà di tutti tramite la libertà di
tutti”14. Dopo la vicenda cristica - spiega Fichte - tutti gli uomini sono liberi
in senso sia morale, sia politico, in quanto non riconoscono alcun
“potere superiore” (Obergewalt), ma solo uguaglianza e libertà nella loro
reciproca relazione di Vernunftwesen. L’età buona sarà quella in cui tutti,
senza eccezioni, saranno ispirati dalla volontà di Dio e nessuno emergerà
più sugli altri, giacché tutti ugualmente rifletteranno l’idea divina. Secondo
un tema su cui già abbiamo richiamato l’attenzione e che costituisce uno dei
cardini della fichtiana Gotteslehret5, la comunità umana sarà imago Dei.
Alla luce di queste considerazioni, si può sostenere che l’obiettivo di
Fichte resta, in Der geschlossene Handelsstaat non meno che nelle Reden,
cosmopolitico, ma per essere raggiunto necessita della forza particolare
dello Stato nazionale. Come evidenziato da Thomas-Fogiel, nello scritto del
1800 “il progetto non è quello della chiusura di uno Stato come fine in sé,
ma una comune organizzazione economica all’interno di tutti gli Stati al
fine di pervenire alla pace universale”16, ossia alla compiuta realizzazione
di un’umanità che si riconosca liberamente in ogni suo membro. È questo il
senso della già rievocata splendida conclusione di Der geschlossene
Handelsstaat, in cui Fichte tratteggia un’universalizzazione alternativa a
quella dell’odierna reificazione universale dell’Handelsanarchie. Si tratta
di un’universalizzazione in cui ogni popolo, senza smarrire la propria
cultura e le proprie specificità, dialoga con gli altri e agli altri le trasmette,
secondo quella dinamica del dare e del ricevere tematizzata nella Missione
del dotto di Jena:
Nulla quindi impedisce che i dotti e gli artisti di tutte le nazioni si tengano nella più libera
comunicazione tra loro. D’ora in poi i fogli pubblici non conterranno più narrazioni di guerre e
battaglie, trattati di pace e di alleanza. Tutto questo è sparito dal mondo. Essi contengono
soltanto notizie dei progressi della scienza, delle nuove invenzioni, degli avanzamenti della
legislazione, del perfezionamento degli ordinamenti del governo: e ogni Stato si affretta ad
arricchirsi delle scoperte degli altri popoli17.

Sia pure con la differenza niente affatto irrilevante che comporta il


passaggio dal concetto di Stato (Der geschlossene Handelsstadt) a quello di
nazione (Reden, Der Patriotismus und sein Gegentheil)18, la comune
prospettiva è ancora una volta quella - coerente con il paradigma della
coscienza infelice idealistica - del particolare che rende possibile
l’universale, sempre identificato con l’emancipazione del genere umano
pensato come un unico Ich in cerca dell’identità con sé e con la objektive
Welt. Il concetto di Stato, come quello di nazione (e al di là delle non
trascurabili differenze tra i due), serve a Fichte per pensare una specifica
comunità nazionale come vettore del movimento di emancipazione del
genere, non diversamente da come, nella Missione del dotto jenese, il ceto
intellettuale era identificato con il particolare in grado di sviluppare il
progresso universale dell’umanità. Comunitarismo particolaristico
e universalismo cosmopolitico procedono di conserva, nella misura in cui
l’orientamento teleologico del pensiero e della prassi fichtiana resta sempre
l’universale del genere umano come comunità cosmopolitica organizzata
secondo rapporti di libera e uguale Anerkennung19.
Non ci paiono, pertanto, condivisibili le posizioni di Claudio Cesa (per
cui, con le Reden, “il modello ‘nazionale’ si inserisce non senza frizioni in
un modello universalistico”20) e di Roberta Picardi (“in questo quadro
appare però effettivamente compromessa la tenuta dell’orizzonte universale
del movimento storico”21). Crediamo, invece, che il punto di vista
cosmopolitico resti l’orizzonte costante della riflessione fichtiana in
ogni suo momento, trovando nelle determinazioni particolari del
ceto intellettuale, della comunità religiosa, dello Stato commerciale chiuso,
della nazione tedesca la sola possibilità concreta per addivenire
gradualmente all’universale, mediante la mediazione temporale richiesta
dalla prassi22. Parafrasando quanto sostenuto nella Filosofia della
massoneria, l’emancipazione non potrebbe mai farsi universale se non
prendesse preventivamente a svilupparsi nel particolare, per poi estendersi
in misura sempre maggiore, gradualmente e in forma mediata dalla
libera prassi23.
Per Fichte, lungi dall’essere fini in sé, lo Stato e la nazione sono essi
stessi funzionali all’universale dell’emancipazione e, dunque, sono sempre
pensati in linea di principio come destinati a essere superati, secondo il
grande tema della Vernichtung della Staatsform codificato nella jenese
Missione del dotto. Così, nelle pagine di Der geschlossene Handelsstaat,
Fichte sostiene che il fine della chiusura dello Stato commerciale consiste
nell’accesso a una cultura nazionale che “possa trapassare in una pura
universale cultura e possa fondere i popoli” per raggiungere quell’obiettivo
da cui siamo ancora distanti, ossia “essere una totalità e trovarci ovunque a
casa”24. Senza alcuna frizione con il modello statalistico prima,
nazionalistico poi, come sottolineava Ernst Bloch nelle sue lezioni
sull’idealismo tedesco, Fichte ha costruito “la casa dell’umanità”25 come
telos dell’agire nella storia. In questo risiede il paradosso del nazionalismo
cosmopolitico del Wissenschaftslehrer26.
L’inflessione cosmopolitica che anima stabilmente il discorso fichtiano
in tutte le sue fasi trova, ancora una volta, riscontro nei Grundsätze della
WL: la società potenzialmente cosmopolitica è, infatti, una comunità in cui
si esercita “un’azione reciproca tramite la libertà”, perfezionando sé e la
società tutta, secondo un processo di universalizzazione dell’emancipazione
che non può non trovare nel genere umano e, dunque, nel cosmopolitismo il
proprio più coerente punto d’approdo.
Nell’ambito della società - si sosteneva nella Bestimmung des Gelehrten
di Jena - ciascuno desidera trovare un uomo simile al suo ideale di uomo e,
per questo motivo, quando si imbatte in singoli uomini che non sono al
livello di tale ideale, cerca in ogni modo di condurveli esercitando su di essi
un’opera di perfezionamento27. In questo modo, allora, ciascuno mira a
perfezionare se stesso e, insieme, tutti gli altri: e, così operando, produce un
universale perfezionamento della specie che comporta eo ipso il
cosmopolitismo dell’emancipazione come proprio ineludibile orizzonte di
riferimento, in antitesi diretta con il cosmopolitismo degli egoismi imposto
dall' Anarchie des Handels. Così nella Missione del dotto jenese:
La nostra destinazione nella società è un avanzamento comunitario (gemeinschaftliche
Vervollkommnung), un avanzamento di noi stessi in virtù dell’uso del libero operare degli altri
su di noi, e un avanzamento degli altri tramite l’incidenza del nostro operare su essi come enti
liberi28.

Proprio in quest’opera di Vervollkommnung di sé e degli altri (e,


dunque, della comunità tutta, come vivente e organica totalità di individui
che liberamente agiscono su di sé e sugli altri per il proprio reciproco
perfezionamento) risiede, nell’ottica fichtiana, la Bestimmung dell’uomo in
società, in quella “condizione in cui il fecondo avanzamento di ciascun
singolo membro costituisce un fecondo avanzamento per tutti quanti,
e l’insuccesso del singolo soggetto è un insuccesso della comunità”29. La
società può essere libera solo se tutti lo sono egualmente: e produrre una
società libera è il compito assegnato, nel 1794, al Gelehrter come
“educatore del genere umano” e, nel 1800, allo Stato commercialmente
chiuso come potenza politica in grado di preservare la disgregazione della
comunità in monadi isolate e reciprocamente conflittuali.
Da una diversa angolatura, si può dire che la prima lezione della
Missione del dotto trovi ora - grazie al détour che ci ha condotti a prendere
in esame lo Stato commerciale chiuso - una sua coerente risposta. Se, nel
1794, si sosteneva che la Bestimmung dell’uomo è il diventare uomo, ossia
l’ininterrotto perfezionamento di sé, ora questa missione viene meglio
determinata tramite la specificazione per cui tale opera di Vervollkommnung
può attuarsi solo in forma sociale, nella concreta dimensione del vivere
comunitario, in cui lo Stato stesso può rivelarsi un importante strumento
pedagogico soprattutto in tempi peccaminosi come quelli presenti. La
destinazione dell’uomo si identifica, allora, una volta di più, con il processo
di emancipazione di sé e della comunità secondo modalità via via più
universali e più prossime, asintoticamente, a quel cosmopolitismo
coincidente con il riconoscimento dell’intera umanità come unità
indivisibile, in vista della “globale interazione dell’intera razza umana con
se stessa”30 (Einwirken des ganzen Menschengeschlechtes auf sich selbst).
Sul piano sociale e politico, la Bestimmung dell’uomo in società quale
viene delineata da Fichte comporta una conseguenza degna di rilievo, sulla
quale è lo stesso filosofo di Rammenau a porre l’accento: se tutti gli uomini
riuscissero a diventare perfetti, allora sarebbero tutti perfetti e perfettamente
uguali, a tal punto che giungerebbero a costituire un’unità assoluta e
armonica, una totalitas in cui l’uguale libertà di ciascuno renderebbe
possibile l’uguale libertà di tutti31. L’uguaglianza - l'uguale libertà -
diventa, allora, l’esito ineludibile del processo di emancipazione del genere
umano: “il fine ultimo e sommo della società - così nella Missione del dotto
jenese - è dunque una completa unità e unanimità tra tutti i suoi possibili
membri”32. Nella Sittenlehre del 1798, il tema della völlige Einigkeit
verrà approfondito e, in certa misura, radicalizzato nella tesi per cui il fine
della storia coincide con una “comunione dei santi” (Gemeinde der
Heiligen).
Si tratta di un tema decisivo, che permette di inquadrare, senza
fuorviamenti, Fichte come un pensatore dell’uguaglianza. Nello Stato
commerciale chiuso, come vedremo, il “principio uguaglianza”, come l’ha
qualificato Giovanni Moretto33, svolgerà un ruolo di prim’ordine:
“assecondando l’ispirazione proveniente dall’evento della rivoluzione
francese, il sistema filosofico di Fichte, oltre a essere un ‘sistema della
libertà’, vuole essere, nella sua intenzionalità più segreta e nel suo
compimento dichiarato, un ‘sistema dell’uguaglianza’”34. Come
suggerito da Pareyson, per Fichte “la società degli individui in reciprocità è
la realtà e l’assoluto è la vita della società come reciprocità degli
individui”35 che si relazionano secondo uguale libertà.
Poiché si tratta, una volta di più, di un fine irraggiungibile e tale da
richiedere l’ininterrotto riprodursi dello sforzo di approssimazione
asintotica, la vera Bestimmung dell’uomo in società coincide con un'unione
comunitaria sempre più approfondita, che diventa più radicale
interiormente (si approfondisce, nel senso che ciascuno la sente sua, se ne
sente partecipe poiché matura sempre più l’autocoscienza del
genere umano) ed esteriormente (sempre più uomini entrano a fame parte,
secondo le coordinate del cosmopolitismo dell’emancipazione prima
richiamato)36.
Si ritorna, per questa via, a un tema su cui già ci siamo concentrati: il
cosmopolitismo comunitario resta il telos del processo di Vervollkommnung
dell’uomo, il necessario esito di quell’acquisizione dell’autocoscienza e
della conformità al genere coincidenti con il vero scopo dell’uomo. In
antitesi con il paradigma dominante dell’anarchia commerciale, quello
delineato da Fichte è un cosmopolitismo comunitario (e dunque
nemico dichiarato del codice ostinatamente individualistico fatto
valere daH’Illuminismo) e dell’uguaglianza sociale (e quindi opposto a
quello scaturito dall’autonomizzazione dell’economico37, che porta gli
individui nella condizione che il giovane Hegel definisce dell’“uguaglianza
dell’irrilevanza”).
Il fine ultimo della società consiste, allora, nella già più volte richiamata
unità di tutti gli uomini (l’acquisizione di auto-coscienza del genere umano
che comprende pienamente la propria unitarietà), unità che si potrebbe
ottenere solamente qualora si realizzasse la perfezione morale su scala
universale: lo Stato stesso è funzionale al raggiungimento sempre differito
di questo telos. In questa cornice, emerge il nesso robusto che lega
la riflessione fichtiana successiva al 1800 con le considerazioni che il
pensatore di Rammenau era venuto svolgendo nelle fasi precedenti del suo
pensiero, in particolare con l’idea del Gelehrter che, “educatore del genere
umano”38, pensa e agisce nella comunità e per essa, con il solo scopo di
promuoverne l’emancipazione. Nella quarta lezione della Bestimmung des
Gelehrten, intitolata La missione dell'intellettuale, Fichte desume
dall’impianto della WL come System der Freiheit le due prerogative che
devono caratterizzare l’azione del dotto: si tratta dell’endiadi di critica
glaciale dell’esistente e di concreta prassi volta a trasformare la società
tutta.
In questo modo, da un lato, è suffragata la vocazione eminentemente
sociale, pratica e politica dell’operato del Gelehrter in coerenza con i
princìpi della WL: “egli è destinato alla società in tutto e per tutto: egli
esiste, in quanto intellettuale, solo grazie alla società e per la società, più di
quanto non avvenga per qualunque altro ceto”39. Da un altro lato, è fissata,
in prospettiva, la linea-guida a cui Fichte rimarrà sempre fedele, ossia
l’ideale trasformativo volto a garantire l’emancipazione inesauribile del
genere umano; si tratta dell’ideale in cui, come si è visto, il pensatore di
Rammenau condensa il senso profondo della svolta
transzendentalphilosophisch come opposizione alle logiche dogmatiche e
conservative40.
Dalle lezioni jenesi sul dotto fino alla serotina Staatslehre del 1813,
passando naturalmente per le Reden, in cui l’intellettuale Fichte agisce
concretamente, in prima persona, per rendere operativo il dettato della WL
sul piano sociale e politico, il senso dell’idealismo etico-pratico del
pensatore di Rammenau viene fatto coincidere con la prassi trasformativa
volta a promuovere operativamente l’emancipazione dell’umanità. Con
il lessico della Sittenlehre jenese, “è solo con l’agire, con l’agire nella e per
la società, che si adempie il proprio dovere”41.

1. Si veda W.H. Schräder, L'État et la società dans la Grandlage


des Naturrechts de 1796, in “Archives de Philosophie”, 1976, pp. 177-195.
2. J.G. Fichte, Fondamento del diritto naturale secondo i princìpi
della dottrina della scienza, cit., p. 188 (GA, I, 4, p. 23).
3. Ivi, p. 206 (GA, 1,4, p. 39).
4. ID., GA, I, 5, p. 262.
5. Cfr. C. Amadio, Morale e politica nella Sittenlehre (1798) di
J.G. Fichte, cit., pp. 286-288. Si veda inoltre T. Papadopoulos, Die Theorie
des Eigentum bei J.G. Fichte, cit., pp. 35 ss.
6. J.G. Fichte, La missione del dotto, cit., p. 247 (SW, VI, p. 316).
7. Ivi, p. 249 (SW, VI, p. 317).
8. ID., I tratti fondamentali dell 'epoca presente, cit., pp. 318-319
(GA, I, 10, p. 360).
9. In particolare, l'ultima epoca dei Grundzüge “è rappresentata
come l’età nella quale gli uomini sono compiutamente morali, non esiste
più il diritto come diritto positivo, perché la coazione, ovvero la necessità,
ha del tutto esaurito il proprio compito (lo Stato si è estinto)”: C. De
Pascale, Vivere in società, agire nella storia. Libertà, diritto, storia in
Fichte, cit., p. 83.
10. J.G. Fichte, GA, I, 8, p. 431.
11. M. Ivaldo, Politik, Geschichte und Religion in der Staatslehre
von 1813, in “Fichte-Studien”, n. 11 (1997), pp. 209-227.
12. Si veda G. Rametta, Fichte, cit., pp. 280-281.
13. G. Cogliandro, La Vita Divina e il compimento della filosofìa
trascendentale. I diari filosofici di J.G. Fichte e la "Staatslehre", in
“Archivio di filosofia”, n. 71 (2003), pp. 391-424.
14. J.G. Fichte, SW, IV, p. 41.
15. Cfr. soprattutto G. Ghia, Fichte nella teologia: dall
'Atheismusstreit ai giorni nostri, Guerini, Milano 2003; E. Brito, La
théologie de Fichte, Cerf, Paris 2007.
16. I. Thomas-Fogiel, Fichte. Reflexion et argumentation, cit., pp.
233-234.
17. J.G. Fichte, SW, III, p. 513.
18. Cfr. E. Kiss, Anmerkungen zu Fichtes Begriff der Nation, cit.,
pp. 193-194.
19. Sul tema dell' Anerkennung in Fichte e in Hegel, cfr. soprattutto
M. Tokada, Vergleich der Fichteschen Anerkennungslehre mit der
Hegelschen, in “Fichte-Studien”, n. 18 (2000), pp. 85-101; E. Nowak-
Juchacz, Das Anerkennungsprinzip bei Kant, Fichte und Hegel, in “Fichte-
Studien”, n. 23 (2003), pp. 75-84; H. Girndt (a cura di), Selbstbehauptung
und Anerkennung. Spinoza, Kant, Fichte, Hegel, Academia, Sankt Augustin
1990. Ci permettiamo di rinviare anche al nostro Per una filosofia del
riconoscimento: a partire da Fichte, in V. Cordero, La libertà come
riconoscimento. Taylor interprete di Hegel, Il Prato, Padova 2012, pp. 5-23.
20. C. CESA, Introduzione a Fichte, cit., p. 181.
21. R. PICARDI, Il concetto e la storia: la filosofìa della storia di
Fichte, cit., p. 204.
22. Si veda G. Rametta, "Deutschland oder Europa Fichte e la
nazione tedesca, in “Filosofia politica”, n. 1 (2003), pp. 23-37; M.
Maesschalck, Fichte and the National Question, in “Archives de
philosophie”, n. 59 (1996), pp. 355-380.
23. M. RIEDEL, Universalismus mit Nationalsinn. Ernst Bloch als
Fichte-Leser und Fürsprecher eines aufgeklärten Patriotismus, in “Sinn
und Form”, n. 46 (1994), pp. 384-394.
24. J.G. FICHTE, GA, I, 7, p. 166.
25. E. BLOCH, L'idealismo tedesco e dintorni, cit., p. 74.
26. Cfr. H. Kohn, The Paradox of Fichte s Nationalism, in “Journal of
the History of Ideas”, n. 10 (1949), pp. 319-343.
27. Cfr. A. Philonenko, La destination du jeune Fichte, Vrin, Paris
2008.
28. J.G. Fichte, Missione del dotto, cit., p. 233 (SW, VI, p. 310).
29. Ivi, p. 261 (SW, VI, p. 321).
30. Ivi.p. 233 (SW,VI, p. 311).
31. Cfr. J. Braun, Freiheit, Gleichheit, Eigentum: Grundfragen
des Rechts im Lichte der Philosophie J.G. Fichtes, cit., pp. 119 ss.
32. J.G. Fichte, Missione del dotto, cit., p. 231 (SW, VI, p. 310).
33. Si veda G. Moretto, Il principio uguaglianza nella filosofia.
Guida, Napoli 1999, pp. 156-159.
34. Ivi, p. 156.
35. L. PAREYSON, Fichte: il sistema libertà, cit., p. 304.
36. J.G. Fichte, Missione del dotto, cit., p. 233 (SW, VI, p. 310).
37. Cfr. T. Papadopoulos, Die Theorie des Eigentum bei J.G. Fichte,
cit., pp. 53 ss.
38. J.G. Fichte, Missione del dotto, cit., p. 289 (SW, VI, p. 332).
39. Ivi, p. 283 (SW, VI, p. 329).
40. Cfr. C. Luporini, Fichte e la destinazione del dotto, in
“Società”, 1946, pp. 639-666, 1947, pp. 193-216.
41. J.G. Fichte, Sistema di etica, cit., p. 531 (GA, I, 5, p. 212).
11

STRUTTURA E TEMI DELLO STATO COMMERCIALE CHIUSO

Non ha alcun valore che vi sia qualcuno che dica: io


sono nelle condizioni di poter pagare; è, per l’appunto,
un’ingiustizia che qualcuno possa permettersi ciò che è
superfluo, mentre anche solo uno dei suoi concittadini sia
privo di ciò che è necessario o non sia nelle condizioni di
poterselo permettere.

J.G. FICHTE, Lo Stato commerciale chiuso

Vi è un altro aspetto su cui soffermare l’attenzione per decifrare la


continuità che, dietro l’apparente frattura, conduce dalle lezioni jenesi
sull’intellettuale allo Stato commerciale chiuso, dal Beitrag alla Staatslehre
del 1813. Nel testo del 1794, Fichte mostra come il Gelehrter sia chiamato
a unire virtuosamente il sapere puramente teoretico (filosofico) con quello
di tipo empirico (storico), cercando ima feconda sintesi tra i due (un sapere,
cioè, che sia storico-filosofico). Più precisamente, l’intellettuale deve
possedere una conoscenza filosofica (a priori) dei bisogni dell'umanità,
nonché una conoscenza filosofico-storica dei concreti mezzi per soddisfarli
e, infine, un sapere storico che lo renda consapevole del passato,
permettendogli di comprendere a che punto del suo sviluppo effettivamente
si trovi il genere umano guidato dal Gelehrter come suo educatore1.
“L’intellettuale, da una parte, deve conoscere l’oggetto della cultura
della sua epoca, dall’altra deve farlo progredire”2, fondendo virtuosamente i
tre tipi di conoscenza appena evocati nella forma di un sapere della
concretezza storica come teatro di un’azione volta alla Weltveränderung,
secondo il già richiamato primato del pratico sul teoretico su cui è
incardinata la praxologische Dialektik fichtiana.
Ora, mutatis mutandis, nello Stato commerciale chiuso Fichte riprende
quest’idea del nesso tra filosofia e storia, sviluppando una concezione tale
per cui la filosofia determina platonicamente a priori il Vernunftstaat e la
storia rende possibile un’analisi realistica delle condizioni politiche attuali e
passate; tesi, questa, che ancora nelle Reden sarà rimodulata, nell’idea che
l’intellettuale debba porsi come precorritore dell’avvenire dotato dei tre tipi
di conoscenza prima delineati: egli “deve, con la sua visione, sorpassare il
presente, abbracciare l’avvenire e essere in grado di trapiantarlo, fecondo di
sviluppo, nel presente. A far ciò gli occorre chiara visuale dello stato attuale
della scienza, libera agilità speculativa indipendente dal
3
fenomeno momentaneo” . Il più difficile compito del Gelehrter
consiste nella capacità di coniugare le due istanze della dimensione ideale
(il dover-essere) e di quella reale (l’essere), nel tentativo di modellare la
seconda alla luce della prima4 (nel caso specifico dell’opera del 1800, nel
tentativo di far trovare cittadinanza nelle strutture del reale al
Vernunftstaat).
Le tre parti in cui è suddiviso Lo Stato commerciale chiuso sono, da
questo punto di vista, emblematiche. La prima parte è la filosofia, che
descrive come deve essere lo Stato, tratteggiando appunto, con stigma quasi
platonico, il Vernunftstaat. La seconda è la storia, ossia la descrizione
effettiva di com’è attualmente lo Stato nell’epoca dell’anarchia
commerciale. La terza parte, infine, è la politica: il suo difficile compito
consiste nello stabilire un ponte tra le due parti precedenti, in vista della
trasformazione dell’esistente che ne consenta la razionalizzazione. La
politica è, in altri termini, chiamata a modulare ima strategia operativa che
consenta all’ideale filosofico di incarnarsi nel reale storicamente esistente.
Si tratta di un’evidente riproposizione del nucleo portante del
programma trasformativo su cui si regge la dialettica prassistica della WL,
in cui il dover essere è chiamato a tradursi nell’essere, riconfigurandolo
alternativamente per mezzo della prassi come trait d’union tra realtà e
idealità, tra storia e filosofia, tra essere e dover essere5. Da questo punto di
vista, l’opera del 1800 è a tal punto ben costruita che, come ricorda il
figlio di Fichte, nella sua edizione delle opere del padre, il filosofo
di Rammenau lo considerava apertamente come il migliore tra i suoi testi.
Lo Stato commerciale chiuso si apre con un’epistola dedicatoria. Fichte
premette, infatti, al proprio testo una lettera al ministro dello Stato
prussiano, a cui il saggio è dedicato. Tale epistola è finalizzata alla
giustificazione di uno scritto così inusuale, ma poi anche a far sì che le linee
cardinali della teoria delineata da Fichte possano essere recepite ed
eventualmente applicate con il consenso di chi si trova al potere.
Quest’ultimo aspetto non deve, tuttavia, indurre a pensare che Lo Stato
commerciale chiuso si inscriva idealmente nella costellazione dei testi legati
all'ormai tramontata esperienza del “dispotismo illuminato” o, in modo
convergente, dei progetti filosofico-politici consegnati al potere affinché si
faccia carico della loro applicazione. Sappiamo, del resto, che Fichte rimane
saldamente legato - in ogni fase della sua elaborazione teorica - all’idea
secondo cui soltanto l’umanità pensata come un unico soggetto libero e
responsabile può produrre l’emancipazione di sé, secondo il modello della
Rivoluzione francese.
Il riferimento del pensatore di Rammenau, in Lo Stato commerciale
chiuso, è immediatamente alla repubblica platonica intesa come
Vernunftstaat, come idealità da tradursi in atto, ossia come “Stato secondo
ragione” che spetta all’agire umano rendere operativo nelle strutture del
reale. L’intero progetto dell’opera può, in questo senso, essere racchiuso nel
dispositivo teorico volto a tradurre nell’essere il dover-essere
dell’archetipo ideale della società giusta, affinché essa trovi cittadinanza
nel mondo reale6. Certo - argomenta Fichte nell’epistola dedicatoria - si
muove da sempre ai filosofi della politica l’obiezione secondo la quale i
loro progetti e le loro opere sono difficilmente realizzabili: e questo sia per
la distanza abissale che separa l’essere dal dover-essere, sia per la resistenza
che ogni progetto di ringiovanimento del mondo trova ad opera del
potere, inflessibilmente legato a logiche conservative e, per ciò
stesso, avverse a ogni pathos antiadattivo.
Infatti - spiega Fichte - il filosofo trova dinanzi a sé, incarnato nelle
strutture della realtà, non già lo Stato come dovrebbe essere (il
Vernunftstaat), né una forma in qualche modo simile all’archetipo e,
dunque, tale da dover essere semplicemente modificata in maniera, per così
dire, lieve7. Al contrario, il Wissenschaftslehrer si imbatte senza sosta, nel
mondo di cui è abitatore, nella negazione dello Stato secondo ragione, e, più
precisamente, in una realtà intessuta di ingiustizie e soprusi, di miseria e
sofferenza, in forza della quale quello tra essere e dover essere si mostra
come un abisso, che spetta all’agire orchestrato dalla ragione rimuovere
operativamente. Una tale divergenza tra i due piani dell’essere e del dover-
essere non soltanto rende ardua la traduzione in atto del Vernunftstaat,
ma induce i più a ritenere che il progetto stesso di un’idealità a
cui richiamarsi per emendare prassisticamente il reale sia una chimera
utopica, un folle sogno destinato a rimanere per l’eternità privo di riscontri
nel mondo realmente dato. È questo, come sappiamo, il contegno realistico
e dogmatisch contro cui Fichte ha sempre combattuto e rispetto al quale la
WL stessa si pone come una titanica reazione.
E tuttavia - prosegue Fichte - il filosofo non può cadere vittima di una
tale illusione: se lo facesse - potremmo dire sviluppando l’argomento
fichtiano -, precipiterebbe eo ipso nel Dogmatismus, che della filosofia è la
negazione. Il filosofo non può, in altri termini, accettare sic et simpliciter il
pregiudizio, niente affatto valorialmente neutro, secondo cui i progetti a
cui mira a conferire cittadinanza tra le pieghe del reale siano semplici sogni
visionari, mere chimere degne di essere perseguite solo nel pensiero.
Secondo un tema già al centro della Bestimmung des Gelehrten jenese, la
“missione-vocazione” dell’intellettuale consiste nell’azione nella e per la
società, a distanza di sicurezza dalla torre d’avorio del mero tesaurizzatore
di cultura8.
D’altro canto, se si sapesse fin dall’inizio che i propri progetti politico-
filosofici non hanno alcuna speranza di permeare le strutture del reale,
converrebbe abbandonare il terreno della filosofia e dedicarsi ad attività più
utili e, soprattutto, più redditizie, assecondando lo spirito dell’epoca. Per
rispondere a questa obiezione - particolarmente viva ai tempi del pensatore
di Rammenau e, a maggior ragione, nei nostri -, Fichte mostra come sia
fuorviante l’idea stessa - accolta inerzialmente dai più - secondo cui
compito del filosofo sarebbe quello di occuparsi dello Stato secondo
ragione, id est di speculare su un’idealità programmaticamente ritenuta
irrealizzabile e aprioristicamente valutata come non traducibile nelle
strutture del mondo terreno.
Una tale occupazione rientra certo tra i compiti del filosofo, ma non è il
solo, né il più importante. La “vocazione” del filosofo, la sua Bestimmung,
per riprendere il termine così fecondamente polisemantico del lessico
fichtiano9, consiste innanzitutto nell’impegno concreto per organizzare,
tramite la cultura, le energie della società in modo che l’idealità e la
realtà possano incontrarsi: ossia in modo che il dover-essere
possa concretamente informare di sé il reale, riconfigurandolo
alternativamente. È questo il grande tema che Fichte sviluppa
programmaticamente a partire dalla Missione del dotto di Jena e che
costituirà una costante della sua riflessione.
In effetti, come già si è evidenziato, in questa declinazione socio-
politica del sapere e dei suoi compiti riaffiora, chiaramente visibile, l’ideale
del Gelehrter delineato nelle lezioni jenesi del 1794: ideale che costituisce
il locus revelationis della WL come filosofia della praxis, come poderoso
progetto trasformativo volto a razionalizzare l’esistente portandolo a
coincidere con il soggetto umano. La Bestimmung dell’uomo di cultura -
che potremmo pacificamente etichettare come “intellettuale”, se non si
trattasse di un termine tanto compromesso, che di fatto oggi allude ai quadri
ideologici che legittimano la riproduzione del potere10 - consiste dunque,
nello Stato commerciale chiuso non meno che nelle lezioni jenesi sulla
Missione del dotto, nel difficile compito dell’azione nella e per la società, e,
quindi, nello sforzo volto a educare il genere umano affinché intraprenda
liberamente quell’opera di emancipazione di sé tramite la trasformazione
del mondo che non può attuarsi se non concretizzando l’ideale. Non
soltanto il terzo libro dello Stato commerciale chiuso è
programmaticamente dedicato alla politica, ossia all’arte della concreta
Weltveränderung, ma gli stessi principi della WL, in ogni sua Darstellung,
presentano una naturale espressività di tipo politico-trasformativo, non solo
in forza della defatalizzazione dell’esistente da essi operata, ma anche in
grazia dell’assunzione del compito dell’infinito Streben volto a far
coincidere il non-Io con l’Io.
Ed è per questa ragione che, nella lettera dedicatoria, Fichte insiste con
tanta enfasi sulla necessità incondizionata di prendere congedo da un’idea
che potremmo qualificare “empiristica” della politica. Secondo la visione
empiristica, che è poi il modo in cui si declina sul coté politico il fatalismo
dogmatico, la politica coincide con il mero realismo, vale a dire con la
semplice e disincantata analisi delle condizioni presenti, senza mai far
valere la pretesa di trascendere i confini del reale per sporgersi verso
l’ideale11. Come per il Dogmatismus sottoposto a critica nella Erste
Einleitung del 1797, per il realismo politico bersagliato nello Stato
commerciale chiuso la realtà è un dato di fatto che fieri nequit e che, per ciò
stesso, dev’essere accertato-accettato, lasciato essere nella sua inemendabile
configurazione. Qui si comprende limpidamente in che senso lo Stato
commerciale chiuso debba essere letto in continuità con gli
scritti precedenti di Fichte e, di più, come pienamente coerente con
la struttura portante della WL come System der Freiheit e con il suo codice
della defatalizzazione dell’esistente: il senso più profondo del testo del
1800 risiede, infatti, nella riapertura del senso della possibilità contro la
trionfante mistica della necessità e, insieme, la tutela operativa del processo
di emancipazione del genere umano contro i dispositivi disgreganti
coessenziali all' Handelsanarchie.
Che lo Stato commerciale chiuso chieda di essere letto in continuità con
gli altri testi fichtiani e - secondo il tema del presente lavoro - risulti
coerente con l'impianto generale della WL, emerge nitidamente da un passo
della lettera dedicatoria: “l’autore di quest’opera - scrive Fichte - non
pretende affatto di aver composto un trattato perfetto di politica”12. Si tratta
di una dichiarazione di grande rilievo, in quanto adombra, una volta di più,
come la Schliessung commerciale dello Stato al centro del testo del 1800
non costituisca un fine in sé, né possa essere intesa come un ripensamento
dell’ideale emancipativo tematizzato nei testi anteriori13. La chiusura
commerciale dello Stato corrisponde, invece, a un provvedimento
congiunturale, che - come si è cercato di argomentare - si rivela esso stesso
funzionale all’ideale del cosmopolitismo emancipativo orbitante attorno
al fuoco prospettico di un’umanità finalmente fine a se stessa e intesa come
un unico Ich. Per questa ragione, Lo Stato commerciale chiuso deve essere
letto - così spiega Fichte nella conclusione dell’epistola dedicatoria - come
ein Glied aus der Kette seines allmählig aufzufuhrenden Systems, “un
anello della catena del suo sistema”14, e dunque non in rottura, ma in
continuità — quod erat demonstrandum - con i testi precedenti.
Come anche ha suggerito Ravà, l’opera del 1800 “lungi dall’essere, come
può sembrare a prima vista, un episodio staccato nel pensiero fichtiano, o
un’escursione da dilettante nel mondo delle utopie, è legato a tutta la
concezione giuridico-politica, e più ancora a tutto il sistema filosofico del
Fichte”15.
A questo proposito, occorre tenersi a debita distanza da un possibile
equivoco. Il fatto che Fichte delinei le basi del Vernunftstaat non significa
che nell’ideale stesso dell’organizzazione dell’umanità secondo rapporti
liberi e razionali figuri lo Stato. Esso, al contrario, come già si è
ampiamente sottolineato, dovrà estinguersi al cospetto di un’umanità
perfettamente etica e tale da garantire il libero e uguale riconoscimento di
ogni suo membro. E, tuttavia, fintantoché tale obiettivo non si è
concretizzato, è allo Stato che occorre rivolgersi, in particolare a quello che,
in accordo con i dettami dell’ordo ordinans della ragione, si rivela
massimamente in grado di promuovere il processo emancipativo del genere
umano. Tale è, appunto, lo Stato secondo ragione, il solo che assuma
scientemente la Gemeinschaft come fine a se stessa, anteponendola - questo
il punto - al nomos dell’economia autonomizzata16.
Alla luce di quanto si è appena sostenuto, diventa possibile suffragare
ulteriormente la tesi di cui il presente lavoro non aspira a essere altro che
una conferma: con lo Stato commerciale chiuso Fichte non sta descrivendo
tout court l’idealità dell’essere insieme dell’umanità, come se, appunto, il
telos della Missione del dotto jenese venisse sostituito dal nuovo
progetto della statalità come realizzazione dell’essere al mondo dell’uomo.
Da una diversa angolatura, Fichte sta descrivendo lo Stato secondo ragione,
fermo restando che è secondo ragione la Vernichtung dello Stato qua talis,
come si è già estesamente sottolineato. Ora, fintantoché lo Stato vi è (e deve
esservi per i motivi già esplicitati), occorre realizzare quella Staatsform che
più si accorda con i princìpi della ragione umana: tale è, appunto, lo Stato
commercialmente chiuso, con annesso primato della decisione politica
umana sugli automatismi anonimi del mercato globale feticizzato17.
Lo Stato commercialmente chiuso si presenta, infatti, come la
realizzazione del Vernunftstaat per il fatto che esso soltanto, per i motivi
che chiariremo più diffusamente nelle pagine che seguono, può garantire
l'ethos comunitario e il libero sviluppo della Gemeinschaft nell’epoca
compiutamente peccaminosa. Per questa via, è fatta salva la coerenza del
costrutto fichtiano complessivamente considerato, in cui la politica, la
società e l’economia dipendono integralmente dall’impianto della WL
come filosofia della praxis orientata alla realizzazione del genere umano
come fine a se stesso.
Tramite la dichiarazione poc’anzi ricordata - il progetto politico dello
Stato commerciale chiuso non si configura come il “trattato perfetto” della
teoria politica -, il pensatore di Rammenau non soltanto sottolinea il
carattere non definitivo del suo trattato sullo Stato commerciale chiuso -
confermando, de facto, quanto dicevamo circa il ruolo congiunturale dello
Stato stesso -, ma evidenzia anche la naturale difficoltà in cui si imbatterà il
suo progetto politico18. A determinarla non è unicamente la già rievocata
alterità tra l’essere e il dover-essere, disgiunti e, di più, opposti. Fichte
introduce qui un ulteriore argomento, connesso ab intrinseco con la storia
del tempo e tale da rivelare la grandissima attenzione del pensatore di
Rammenau per la concretezza politica e per gli effettivi rapporti di forza
operanti su scala anche internazionale, contro le letture egemoniche che
presentano in maniera ingiustificata il pensiero fichtiano come disancorato
dal mondo storico. L’Europa - spiega Fichte - rigetterà senza remore la
Schliessung degli Stati sul piano commerciale perché essa “nel commercio
ha immensi vantaggi sulle restanti parti del pianeta e ricava dal suo lavoro e
dai suoi prodotti profitto incommensurabilmente maggiore”19.
Fichte menziona direttamente, con tono di aperta condanna, la
“dipendenza delle colonie dalla madre patria”20 e “il traffico degli
schiavi”21. L’argomento si inscrive idealmente in quella critica delle
ideologie che, meno di cinquant’anni dopo, celebrerà i suoi fasti con il
pensiero e l’opera di Karl Marx: il momento strutturale-economico
costituisce la base su cui vengono costituendosi formazioni ideologiche la
cui unica funzione consiste nella glorificazione dei rapporti di forza
egemonici. Le ideologie, in ogni loro determinazione, non sono altro -
così nel manoscritto della Deutsche Ideologie del 1845-46 - che i rapporti
dominanti trasferiti sul piano ideale-simbolico22. Il fatto che la chiusura
commerciale dello Stato rappresenti la necessaria fine di queste oscenità è,
agli occhi di Fichte, uno dei principali motivi per cui il potere e l’ideologia
si adopereranno in ogni maniera per renderla impossibile, vuoi anche per
diffamarla e ridicolizzarla.
Proseguendo su questa stessa linea argomentativa, il filosofo della WL
anticipa qui un tema che verrà ampiamente sviluppato nel seguito del testo
e che potremmo condensare nella maniera che segue. Quand’anche si voglia
concedere alla Real politik il fatto che non ha alcun rilievo, da un punto di
vista realistico, considerare seriamente il fatto che i rapporti colonialistici
resi possibili dall’Handelsanarchie producono ogni sorta di miseria e di
ingiustizia, non di meno è impossibile trascurare un altro fatto: l’equilibrio
basato sul colonialismo e sullo sfruttamento non può durare a lungo,
rivelandosi precario e instabile per sua stessa natura. I rapporti di forza,
infatti, possono essere repentinamente rovesciati e sostituiti da nuove
configurazioni del potere. Ne discende che un simile sistema non può alla
lunga mantenersi e deve essere sostituito, secondo un argomento che
neppure il realismo più cinico può ignorare23.
Ed è proprio in conclusione dell’epistola dedicatoria, in riferimento ai
temi che stiamo qui delineando, che Fichte prende in esame il decisivo tema
della stabilità e dell’equilibrio, su cui tornerà diffusamente nell’ultima parte
del testo. Acefalo per sua natura, il nomos dell’economia vuole tutto e
subito, disintegra ogni stabilità e destruttura ogni progetto di lunga durata,
ai danni della vita umana e del pianeta, senza curarsi delle generazioni
future, né delle risorse per l’avvenire. Il discorso dell’economia è sempre
quello della rimozione programmatica del futuro a favore dell'hic et nunc
del godimento illimitato proiettato nell’immanenza assoluta del presente24.
Ed è appunto contro questa logica illogica, manifestantesi nell’anarchia del
commercio mondializzato, che Fichte prende posizione con Lo
Stato commerciale chiuso, progetto politico volto a riscrivere la sintassi
dell’esistente tramite il ripristino dell’egemonia della politica come forza
etica in grado di garantire l'ethos comunitario rispetto alle spinte
centrifughe dell’economia25. Il futuro dev’essere sottratto alla prosa
reificante del presente e della sua terribile riduzione dell’essente a puro
calcolo e a pura materia quantificabile e scambiabile sul mercato. È in
questo senso che, conno il dogmatismo dominante, occorre essere idealisti.
All’epistola dedicatoria, Fichte fa seguire un 'Einleitung, dedicata a un
chiarimento preliminare dei “rapporti dello Stato razionale con lo Stato
effettivo e del diritto puro con la politica”, come recita
programmaticamente il titolo. L’Einleitung si apre mettendo a tema, in
forma radicale, la già più volte menzionata alterità tra realtà e idealità. La
scienza del diritto puro di Stato produce il Vernunftstaat come idealità di
riferimento, vuoi anche come telos orientativo. È - con le parole di Fichte -
lo “Stato secondo ragione edificato in accordo con i concetti filosofici del
diritto”26 (Vernunftstaat nach Rechts begriffen). Il suo presupposto è,
appunto, quello per cui gli uomini e i loro nessi non possono essere risolti
ed esauriti nell’effettività, cioè nei leali nessi giuridici in cui attualmente
sono. Vi è qui una chiara presa di posizione contro la Realpolitik e, dunque,
una volta di più, contro il realismo dogmatico che pensa come
prioritario l’essere e non il fare, il fatto e non l’atto27. Esso dissolve la
possibilità nella realtà, glorificando ciò che è non perché sia giusto e
razionale, ma semplicemente perché è: in maniera diametralmente opposta,
muovendo dall’idealità, il Wissenschaftslehrer può adombrare l’irrazionalità
dell’esistente e promuovere la sua trasformazione come telos di una politica
che miri a realizzare l’ideale.
Come Fichte non si stanca di ribadire, tra la dimensione dell’essere e
quella del dover-essere sussiste una frattura che è compito degli uomini
provare a sanare in maniera operativa: “lo Stato realmente esistente - spiega
Fichte - può dunque essere inteso come intento alla progressiva creazione
dello Stato secondo ragione”28 (der wirkliche Staat lässt sich sonach
vorstellen, als begriffen in der allmähligen Stiftung des Vernunft-Staates), a
patto però che tale creazione sia concepita come opera dell’azione umana
che cerca di realizzare l’idealità. Ed è a questo punto che il pensatore di
Rammenau spiega, sia pure cursoriamente, il senso della tripartizione -
altrimenti sfingica -dello Stato commerciale chiuso in filosofia, storia e
politica: la filosofia suggerisce come lo Stato deve essere (delineando i tratti
salienti del Vernunftstaat), mentre la storia indica come esso è
concretamente. Infine, spetta alla politica il compito più arduo: essa deve
additare la concreta via da seguire, sul piano pratico, per far convergere le
due dimensioni precedenti, ossia per accompagnare operativamente l’essere
verso il dover essere, lo Stato così com’è verso lo Stato così come deve
essere29.
L’arduo compito della politica, dunque, consiste nel porsi come un
raccordo tra la filosofia e la storia, tra il dover-essere e l’essere, tra l’idealità
codificata filosoficamente su un piano situato al di là dello scorrere del
tempo e la concretezza storica del mondo realmente dato. Per tale ragione -
scrive Fichte -läge diese Politik in der Mitte zwischen dem gegebenen
Staate und dem Vernunftstaate, “questa politica è mediatrice tra lo Stato
reale e lo Stato secondo ragione”30: il suo compito primario coincide con la
difficile opera tesa a riannodare tra loro l’idealità e l’effettività, in modo che
la seconda diventi immagine concreta della prima. Così nello Stato
commerciale chiuso:
Chi intende adombrare con quali leggi, nella fattispecie, si debba amministrare nello Stato
l’economia pubblica, deve anzitutto cercare che cosa sia giusto in materia di economia in uno
Stato razionale (was im Vernunftstaate über den Verkehr Rechtens sey), in secondo luogo
mostrare che cosa sia in uso fare negli Stati effettivamente esistenti, e infine segnalare la strada
lungo la quale uno Stato possa passare dall’ultima alla prima condizione31.

Alla luce di quanto siamo venuti sostenendo finora, ma poi soprattutto


in coerenza con la tripartizione dell’opera, diventa evidente in che senso,
come prima si diceva, Lo Stato commerciale chiuso debba essere letto come
la coerente declinazione politica, storicamente determinata (e, dunque, tale
da rispondere ai concreti dilemmi dell’epoca), del codice defatalizzante
della praxologische Dialektik della WL, o, se si vuole, come la variante
politica della stessa lotta contro il dogmatismo fatalista che nella Erste
Einleitung era combattuto sul piano metafisico.
In rivendicata antitesi con la dogmatica visione che pensa la realtà
politica data come intrascendibile, santificandola nel suo effettivo assetto,
Lo Stato commerciale chiuso - capolavoro dell’idealismo politico32 -
presenta come propria cifra unitaria l'assunzione della politica come
difficile arte della mediazione tra realtà storica e possibilità filosofica: e
questo in modo che, tramite la mediazione dell’agire dispiegantesi nel
tempo, la realtà possa essere modificata e accordata con i princìpi
della ragione. Si tratta del grande tema - vera anima della WL
come deduzione dell’essere dal fare - che Fichte aveva già apertis verbis
propugnato nelle lezioni sul dotto del 1794, mettendo a tema la necessità di
modificare il reale sulla base del razionale, in vista del pieno accordo della
objektive Welt con la soggettività umana agente nella storia.
Al cospetto della realtà storica intessuta di contraddizioni e storture,
Fichte non sceglie, allora, la via della Realpolitik, tomba della prassi
antiadattiva33. Al contrario, propone una riconfigurazione integrale del
presente, vuoi anche nella forma di una riorganizzazione pratico-
rivoluzionaria della morfologia del reale. La chiusura commerciale dello
Stato deve, a questo proposito, essere intesa come il quid proprium di
questo progetto antiadattivo che assume la politica come arte della
“filosoficizzazione della realtà storica”, come anche potremmo connotarla,
in coerenza con la tripartizione stessa dell’opera.
L’assunto su cui tale ambizioso progetto si regge è esplicitato da Fichte
in chiusura della Einleitung: occorre sottrarre lo Stato dalla cieca
accidentalità che lo caratterizza, abbandonato com’è all’arbitrio
dell’economia. Muss man alles unter Begriffe bringen: “bisogna ricondurre
tutto sotto la sfera del concetto”34, scrive Fichte. Occorre, di conseguenza,
neutralizzare l’irrazionalità che domina sovrana nello Stato realmente
esistente, in preda all’Handelsanarchie. Il dominio transnazionale del
mos oeconomicus produce, infatti, come esito inaggirabile l’anarchia del
commercio e la polverizzazione di ogni comunità umana, riducendo
quest’ultima al gelido spazio di atomi isolati e reciprocamente in
concorrenza, pronti a guerreggiare tra loro fino alla reciproca rovina35.
La strategia di Fichte è, allora, di una chiarezza adamantina: occorre
affrontare l’economia neutralizzandone il campo operativo. Se essa si
regge, per sua natura, su uno spazio senza confini e tale da produrre una
globocrazia anonima e impersonale, deterritorializzata e senza culture,
senza Stati e senza residua forza in grado di frenarla, bisogna reagire
rimuovendo le condizioni di possibilità dell’operare dell’Handelsanarchie,
e dunque chiudendo le frontiere e garantendo quello spazio di sovranità
politica - inaccessibile per le leggi dell’economia -che solo la potenza dello
Stato può garantire stabilmente36.
In questa prospettiva, fin dalla Einleitung, Fichte delinea con estrema
chiarezza di profilo la soluzione alle aporie dell’internazionalismo
economico. La politica esercitata secondo i princìpi della WL, e dunque
pensata e praticata come riscrittura pratica della sintassi dell’esistente
(filosoficizzando l’epoca compiutamente peccaminosa), deve assumere
come obiettivo primario e come ineludibile orientamento teleologico la
sostituzione del caso con il calcolo razionale, dell’accidentalità selvaggia
del mos oeconomicus con la pianificazione razionale della produzione e
della gestione delle risorse. Per rendere operativo questo progetto politico,
da cui emerge con eguale forza la totale alterità dell’essere presente dal
dover essere futuro e la necessità di riattivare la categoria della possibilitas
- la sola in grado di conferire un senso a una politica che non sia
mera accettazione della fattualità -, occorre, una volta di più, congedarsi
incondizionatamente dal Dogmatismus e dal suo propalare la pericolosa
idea che la realtà sia inemendabile o - ed è l’altra faccia della visione
dogmatica - che le cose mutino da sé, secondo presunte leggi della storia37.
Il primo dei tre libri di cui consta Lo Stato commerciale chiuso, sulla
Filosofia, si apre con una discussione intorno a quello che a Fichte pare il
più macroscopico degli equivoci maturati intorno all’essenza dello Stato. Il
libro discute, appunto, dell’idealità, ossia di come lo Stato dovrebbe essere
qualora corrispondesse in actu alle sue potenzialità ontologiche. Ora,
il grande equivoco consiste nel pensare che “lo Stato non abbia nuli'altro da
fare se non garantire a ognuno i suoi diritti personali e la proprietà (heden
hei seinen persönlichen Rechten und seinem Eigenthume zu erhalten)”38.
Si tratta di un equivoco niente affatto innocente o valorialmente neutro.
Se, infatti, lo Stato in sé e per sé si esaurisse nella garanzia dei diritti
personali e delle proprietà dei singoli individui, ne scaturirebbe, ad avviso
di Fichte, una conseguenza del tutto paradossale e, anche in questo caso,
tutto fuorché innocente: in un riassorbimento integrale dell’idealità
nell’effettualità, il Vernunftstaat coinciderebbe in toto con lo Stato
realmente esistente39. Quest’ultimo, infatti, si caratterizza per il suo statuto
di mero garante del rispetto dei diritti formali e delle proprietà
dell’individuo. Per questa via, la realtà storica viene essa stessa trasfigurata
in idealità, in un vero e proprio riassorbimento del regno del dover-essere in
quello dell’essere, con annessa assolutizzazione del reale e delegittimazione
di ogni ideale che non sia il mero raddoppiamento simbolico di ciò che già
è. Con la sua sovrapposizione di essere e dover-essere, il Dogmatismus
avrebbe vinto in partenza.
Sia pure mediante concetti differenti e certo irriducibili a quelli che
saranno propri dell’arsenale critico marxiano, Fichte sta già qui, in
prospettiva, abbozzando una proto-teoria dell’ideologia40. Quest’ultima -
ancorché il pensatore di Rammenau non impieghi questo termine - coincide
con la naturalizzazione o, se si preferisce, con l’idealizzazione
dell’esistente, in modo che questo vada a saturare lo spazio del possibile,
sostituendosi ad esso e, per questa via, colonizzando l’immaginario. In
forza delle sue prestazioni naturalizzanti e santificanti, l’ideologia mira a
convincere le menti che la realtà esistente non possa essere altrimenti e che,
di più, coincida in quanto tale con il massimo grado di perfezione possibile.
La visione dogmatica così come viene criticata da Fichte è, in quanto tale,
ideologica: essa, infatti, ipostatizza il presente in fattualità intrasformabile,
imponendo al soggetto la Weltanpassung e la resa all’esistente.
In termini che, per molti versi, precorrono la critica marxiana, nello
Stato commerciale chiuso Fichte sostiene che quanti presentano nella
maniera summenzionata lo Stato quale dovrebbe essere non fanno altro che
trasferire l’esistente sul piano dell’ideale, ipostatizzandolo e, dunque,
sottoponendolo al quadruplice e convergente movimento di glorificazione,
naturalizzazione, eternizzazione e idealizzazione: come se, appunto, ciò che
è fosse naturale (e non storicamente determinato), e dunque esistente da
sempre e per sempre e, di conseguenza, di per se stesso giusto e buono,
corrispondente all’ideale (in un’integrale identità già realizzata di reale e
ideale, di essere e dover-essere)41.
Opponendosi alle logiche fatalizzanti che tracciano l’orizzonte di senso
dell’epoca della peccaminosità compiutamente dispiegata, Fichte prende le
mosse, nel delineare filosoficamente il profilo del Vernunftstaat, da una
diversa visione, alla cui luce lo Stato quale realmente è si mostra come il
più palese pervertimento: es sey die Bestimmung des Staats, jedem erst
das Seinige zu geben, ihn in sein Eigenthum erst einzusetzen, und sodann
erst, ihn dabei zu schützen, “compito dello Stato sia innanzitutto il dare a
ciascuno il suo, l’immetterlo nella sua proprietà, e poi proteggervelo”42. Si
tratta di una definizione di capitale importanza. Non soltanto la Bestimmung
che il pensatore di Rammenau assegna allo Stato è radicalmente
differente da quella che esso concretamente ha assunto nel tempo presente:
di più, grazie a tale mistificazione, in cui la sua vera vocazione viene
rimossa e sostituita dal pervertimento in cui lo Stato è concretamente
precipitato, esso può presentare la propria negazione dell’ideale come se
fosse giusta e naturale. Opponendosi a questo dispositivo ideologico, Fichte
fa valere una concezione non liberale della libertà, ossia una diversa
prospettiva rispetto a quella della visione liberale che intende lo Stato
come mero garante dei diritti personali e delle proprietà accumulate.
Ed è in tale rovesciamento di prospettiva che è custodito, a nostro
giudizio, il segreto dello Stato commerciale chiuso come grandioso
tentativo volto a pensare la libertà alternativamente rispetto a come la
presentano le prospettive dominanti: il presupposto - coerente con i princìpi
della WL - resta quello del rigetto dell’assolutizzazione dell’essere e del
presente, e, dunque, dello Stato reale dogmaticamente trasfigurato in
Vernunftstaat. Compito della WL è mostrare filosoficamente lo Stato quale
deve essere, quale storicamente è e, infine, agire politicamente per
trasformare l’esistente, rimodellandolo alla luce dell’ideale: l’essere deve
essere dedotto dal fare politico, dall’azione concertata volta a filosoficizzare
la storia. In questo programma si condensa l’essenza dell’opera del 180043,
coerente espressione politica dell’idealismo trascendentale.
Si tratta, appunto, di realizzare l’ideale e non, secondo il modus
operandi delle ideologie gravide di adattamento dogmatisch, di idealizzare
il reale. Lo Stato al centro del testo fichtiano non è un semplice e freddo
poliziotto che garantisce proceduralmente l’acquisizione, la conservazione e
l’accrescimento dei beni degli individui. Un simile Stato è integralmente
subordinato agli individui agonali e, dunque, alla forza
disgregante dell’economia autoreferenziale, avente quale unico scopo
la propria crescita illimitata, e dunque tale da produrre - con la formula
hegeliana - sempre nuove “tragedie nell’etico”44.
Seguendo Fichte lungo le anse del suo ragionamento, il compito dello
Stato secondo ragione - alla cui luce valutare criticamente quello realmente
esistente e agire in vista della sua trasformazione - consiste, invece,
nell’assicurare a ogni vernünftiges Wesen in quanto tale, entro i confini
statali, il libero possesso di quel che imprescrittibilmente gli spetta in
quanto membro della razza umana. La definizione liberale dello Stato come
forza che protegge la proprietà dei cittadini è inevitabilmente parziale,
spiega Fichte: la Bestimmung dello Stato, infatti, consiste certo anche in
questo, ma si tratta di un momento secondario. Lo Stato secondo ragione,
infatti, come si è evidenziato, è quello che protegge il cittadino dopo avergli
preventivamente garantito la proprietà che gli spetta in quanto
Vernunftwesen, evitando in partenza ciò che nell’anarchia commerciale
diventa una scena di ordinaria tragedia nell’etico, ossia la polarizzazione
della società in smisuratamente ricchi e in infinitamente poveri45.
Una simile tragedia nell’etico si produce senza tregua dalla reale
configurazione dell’esistente nel presente storico, in cui la forza cieca
dell’economia internazionale disgrega ogni ethos comunitario frazionando
il genere umano in un gelido e amorfo aggregato di atomi egoistici e
concorrenziali di possessività, in cui la povertà smisurata si sviluppa nel
cuore della società opulenta. Fichte sa bene ciò che il pensiero liberale ha
finto e continua a fingere di non sapere, ossia il fatto che il povero non
può essere libero, quand’anche lo Stato gli riconosca diritti formali. Per chi
muore di fame, la libertà non sta nella libertà di parola o nel vedersi
garantite le proprietà di cui neppure dispone. Uno Stato così inteso, id est
funzionale all’Handelsanarchie legittimata dal pensiero liberale, non può
essere considerato secondo ragione: è, al contrario, la negazione della
razionalità in ogni sua possibile determinazione che non sia quella della
pura ratio strumentale, sotto i cui gelidi raggi - parafrasando l'incipit della
Dialektik der Aufklärung46 - matura la nuova barbarie.
Con la grammatica del nostro presente, potremmo sostenere che,
nell’ottica di Fichte, il quale - secondo la formula di Massolo - non cessa di
lottare “per la ragione e le ragioni degli uomini”47, i diritti che il
Vernunftstaat è chiamato a garantire devono, pertanto, essere sia civili, sia
sociali: e lo Stato ha da garantirli intervenendo massicciamente nell’ambito
economico, piegandolo al suo fine - la garanzia per ogni Vernunftwesen
di ciò che gli spetta in quanto tale -, in modo che tutti, all’interno della
Gemeinschaft, possano godere di eguali diritti sociali e civili. Anche in
questo senso (oltre che nell’ontologia della praxis48), è lampante la
vicinanza di prospettive tra Marx e Fichte, secondo la linea interpretativa
che mette capo a Marianne Weber e al suo orma classico Fichtes
Sozialismus und sein Verhältnis zur Marx 'schen Doktrin49.

1. C. ASMUTH, Metaphysik und Historie bei J. G. Fichte, in “Fichte-


Studien”, n. 23 (2003), pp. 145-158.
2. J.G. FICHTE, Sistema di etica, cit., pp. 787-789 (GA, I, 5, p. 303).
3. ID., Discorsi alla nazione tedesca, cit., pp. 195-196 (SW, VII, p.
427).
4. Su questo punto, si vedano i seguenti saggi: P.L. OESTERREICH,
Die Einheit der Lehre ist der Gelehrte selbst. Zur personalen Idee der
Philosophie bei Johann Gottlieb Fichte, in “Fichte-Studien”, n. 16 (1999),
pp. 1-18; J. SCHURR, Zur "Bestimmung des Gelehrten ” nach der späten
Wissenschaftslehre Fichtes, in “Vierteljahrsschrift für wissenschaftliche
Pädagogik”, n. 65 (1989), pp. 426-440; O. DANN, Die "Bestimmung des
Gelehrten " in der Gesellschaft, in P. ALTER, W.J. MOMMSEN e T.
NIPPERDEY (a cura di), Geschichte und politisches Handeln. Studien zu
europäischen Denkern der Neuzeit, Klett, Stuttgart 1985, pp. 102-127.
5. Cfr. C. Cesa, G.B. Passerini und die erste italienische
Übersetzung des "Der geschlossne Handelsstaat ”, in K. HAMMACHER e
A. MUES (a cura di), Erneuerung der Transzendentalphilosophie in
Anschluss an Kant und Fichte. R. Lauth zum 60. Geburstag, Frommann,
Stuttgart 1979, cit., pp. 84-95.
6. Si veda P.P. DRUET, La politisation de la métaphysique idéaliste.
Le cas de Fichte, cit., pp. 692-708.
7. Cfr. T. HARADA, Politische Ökonomie des Idealismus und der
Romantik: Korporatismus von Fichte, Müller und Hegel, Duncker und
Humblot, Berlin 1989.
8. Cfr. G. LEBHOLZ, Fichte und der demokratische Gedanke. Ein
Beitrag zur Staatslehre, Freiburg i.Br. 1921.
9. Sulle determinazioni polisemantiche del termine Bestimmung nel
lessico fichtiano, rimandiamo a P.L. OESTERREICH e H. TRAUB, Zur
Semantik des Wortes “Bestimmung", in IDD., Der ganze Fichte: die
populäre, wissenschaftliche und metaphilosophische, Erschliessung der
Welt, Kohlhammer, Stuttgart 2006, pp. 267 ss. Cfr. inoltre L.A. MACOR,
Die Bestimmung des Menschen (1748-1800): eine Begriffsgeschichte,
Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 2013.
10. Su questo tema, ci permettiamo di rinviare al capitolo V del
nostro Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo (cit.) e a C. Preve, Il
ritorno del clero. La questione degli intellettuali oggi, C.R.T., Pistoia 1999.
Si veda, inoltre, Z. BAUMAN, Legislators and Interpreters. On Modernity,
Post-Modernity and Intellectuals, 1987; tr. it a cura di G. Franzinetti, La
decadenza degli intellettuali: da legislatori a interpreti, Bollati Boringhieri,
Torino 1992.
11. G. WALLWITZ, Fichte und das Problem des intelligiblen
Fatalismus, in “Fichte-Studien”, n. 15 (1999), pp. 121-145.
12. J.G. FICHTE, SW, III, p. 392.
13. Cfr. S. FURLANI, Libertà economica e controllo politico. Lo
"Stato commerciale chiuso " di Fichte, in “La Società degli Individui”, n.
24 (2005), p. 36.
14. J.G. FICHTE, SW, III, p. 393.
15. A. RAVÀ, Studi su Spinoza e Fichte, cit., p. 285.
16. Cfr. S.M. Shell, Organizing the State. Transformations of the
Body Politic in Rousseau, Kant and Fichte, in “Internationales Jahrbuch des
Deutschen Idealismus / International Yearbook of German Idealism”, n. 2
(2004), pp. 49-75.
17. Cff. G. Solari, L'idealismo sociale del Fichte, cit., pp. 148 ss.
18. Si veda C. CESA, Alle origini della concezione ‘‘organica" dello
Stato: le critiche di Schelling a Fichte, in “Rivista critica di storia della
filosofia”, n. 24(1969), pp. 135-147.
19. J.G. FICHTE, SW, 111, p. 393. Cfr. R. PICARDI, Nation -
Gesellschaft Individuum. Fichtes politische Theorie der Indentität, in
“Fichte-Studien", n. 40 (2012), pp. 123-147.
20. J.G. FICHTE, SW, III, p. 393.
21. Ibidem.
22. Su questo tema, ci permettiamo di rinviare ancora al nostro
l'ideologia tedesca" tra critica della spettralità e fondazione della scienza
filosofica, cit., pp. 45 ss. Si vedano, inoltre, i seguenti studi sull’ideologia:
T. EAGLETON, Ideology. An Introduction, 1991; tr. it. a cura di S. Negrini,
Che cos’è l’ideologia, Il Saggiatore, Milano 1993; F. ROSSI-LANDI,
Ideologia. Per l 'interpretazione di un operare sociale e la ricostruzione di
un concetto, Meltemi, Roma 2005; I LARRAIN, The concept of Ideology,
Hutchison, London 1979.
23. Si veda R. PICARDI, L'idea di equilibrio di potenza nel pensiero
storico-politico di Fichte, in “Il Pensiero Politico”, n. 1 (2003), pp. 48-82.
24. Ce ne siamo più diffusamente occupati nel nostro lavoro Essere
senza tempo. Accelerazione della storia e della vita, Bompiani, Milano
2010 (con saggio introduttivo di A. Tagliapietra).
25. Si veda H. FREYER, Das Material der Pflicht. Eine Studie über
Fichtes spätere Sittenlehre, in “Kant-Studien”, 1920, pp. 114-155.
26. J.G. FICHTE, SW, III, p. 397.
27. H. SCHMIDT, Politische Theorie und Realgeschichte. Zu Johann
Göttlich Fichtes praktischer Philosophie (1793-1800), Lang, Frankfurt a.M.
1983.
28. J.G. FICHTE, SW, III, p. 397.
29. Si veda N. NOMER, Fichte and the Ideal of Liberal Socialism,
in “Journal of Political Philosophy”, n. 13 (2005), pp. 53-73.
30. J.G. FICHTE, SW, III, p. 397.
31. Ibidem.
32. Cfr. I. FETSCHER, Die politische Philosophie des "deutschen
Idealismus ", in Handbuch der politischen Ideen, a cura di I. Fetscher e H.
Münkler, vol. 4, Piper, München 1985.
33. L’ha evidenziato efficacemente M. MAESSCHALCK, Droit et
création sociale chez Fichte. Une Philosophie moderne de l' action
politique, cit, pp. 128 ss.
34. J.G. Fichte, SW, III, p. 398.
35. Cfr. A. Verzar, Das autonome Subjekt und der Vernunftstaat:
Eine systematisch-historische Untersuchung zu Fichtes "Geschlossenem
Handelsstaat " von 1800, cit., pp. 92 ss.
36. Cfr. G. Schmoller, J.G. Fichte. Eine Studie aus dem Gebiete
der Ethik und der Nationalökonomie, cit., pp. 23 ss.
37. Si veda l’eccellente saggio di I. Radrizzani, Quelques réflexion
sur te statuì de l’histoire dans le système fichtéen, in “Revue de theologie et
de Philosophie”, 1991, pp. 293-304.
38. J.G. FICHTE, SW, III, p. 399.
39. Si veda H. Rickert, Die philosophischen Grundlagen von
Fichtes Sozialismus, in “Logos”, n. II (1922-23), pp. 149-180.
40. Cfr. M. BUHR, Revolution und Philosophie. Die französische
Revolution und die ursprüngliche Philosophie Fichtes, cit., pp. 94 ss.
41. Cfr. L.P. Hickey, Fichte ’s Critique of Dogmatism. The Modern
Parallel, cit., pp. 69 ss.
42. J.G. FICHTE, SW, III, p. 399.
43. Si veda R. STRECKER, Die Anfänge von Fichtes
Staatsphilosophie, Meiner, Leipzig 1916-1917.
44. Cfr. S. FURLANI, Libertà economica e controllo politico. Lo
"Stato commerciale chiuso " di Fichte, cit., pp. 39-42.
45. Si veda, ad esempio, U. THIELE, Distributive Gerechtigkeit und
demokratischer Staat: Fichtes Rechtslehre von 1796 zwischen
vorkantischem unti kantischem Naturrecht, Duncker & Humblot, Berlin
2002.
46. “Con l’espansione dell’economia mercantile borghese l’oscuro
orizzonte del mito è rischiarato dal sole della ratio calcolante, ai cui gelidi
raggi matura la messe della nuova barbarie”: M. HORKHEIMER e T.W.
ADORNO, Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente, 1947; tr.
it. a cura di R. Solmi c C. Galli, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino
1997, p. 39.
47. A. MASSOLO, Fichte e la filosofia, cit., p. 23.
48. Cfr., su questo tema, T. ROCKMORE, Fichte, Marx, and the
German Philosophical Tradition, Feffer & Simons, Edwardsville 1980; 1d.,
Fichte’s Idealism and Marx’s Materialism, in “Man and World”, vol. 8
(1975), pp. 189-206; Id, Activity in Fichte and Marx, in“Idealistic Studies”,
n. 8 (1976), pp. 191-215.
49. Cfr. M. WEBER, Fichtes Sozialismus und sein Verhältnis zur
Marx'schen Doktrin, Tübingen 1900.
12

FILOSOFIA E VERNUNFTSTAAT. GENESI E CONTESTO

Il vero scopo dello Stato è di aiutare ciascuno a


ottenere ciò a cui, come membro dell'umanità, ha diritto e
di mantenerlo in tale condizione.

J.G. FICHTE, Lo Stato commerciale chiuso

A questo punto, può sorgere un legittimo dubbio, che si potrebbe


condensare in una domanda: come stabilire che cosa è giusto che spetti a
ciascuno in quanto membro del genere umano? Fichte risponde a tale
quesito tramite un vero e proprio rovesciamento del tradizionale concetto di
proprietà; rovescia mento in virtù del quale, come subito vedremo, egli può,
in pari tempo, delineare i tratti fondamentali della sua concezione
non liberale della libertà, su cui si regge Lo Stato commerciale chiuso. Si
tratta di una mossa argomentativa del tutto coerente con la struttura
dell’opera e, in particolare, con questa prima parte Filosofia - dedicata a
tratteggiare lo Stato quale dovrebbe essere.
Dopo aver chiarito quale dovrebbe essere il compito del Vernunftstaat
(attribuire a ciascuno ciò che gli spetta in quanto ente razionale finito e poi
garantirglielo per l’intero corso delta sua esistenza), il pensatore di
Rammenau descrive adesso come dovrebbe essere intesa la proprietà, in
diretta antitesi con la maniera in cui essa è effettivamente concepita nello
Stato quale realmente è. Su questa base, sarà possibile rendere ragione del
concreto modo con cui si può determinare ciò che spetta a ogni
Vernunftwesen in quanto tale all’interno dell’ordine statale1.
Nell’ottica fichtiana, la fonte di ogni nostro errore nel modo di
concepire la proprietà poggia sull’idea, ubiquitariamente diffusa e
inerzialmente accettata, che essa sia una cosa o, meglio, una serie di cose di
cui si può disporre liberamente2. Da una tale concezione, del tutto erronea,
segue con logica stringente la visione liberale dello Stato come garante
delle proprietà accumulate individualmente. Ora, Fichte contrappone a
quella liberale la propria concezione dell' Eigentum, deducendola ordine
geometrico dai princìpi trascendentali della WL3: contro la visione
dogmatica che la intende come cosa, come realtà data e stabile, il pensatore
di Rammenau presenta la proprietà, idealisticamente, come un’azione. Su
questo plesso teorico si è già insistito, allorché si è discusso del ruolo
imprescindibile del lavoro nella prospettiva fichtiana. Ma, data l’importanza
del tema, non sarà ozioso tornarvi ora più diffusamente. Per comprendere
questo passaggio teorico delicato e, insieme, decisivo occorre seguire con
attenzione, in tutte le sue anse, il ragionamento fichtiano e il rovesciamento
prospettico da esso operato della concezione della proprietà e dei compiti
dello Stato4.
Fichte immagina ipoteticamente la condizione originaria dell’umanità,
quando la Gemeinschaft ancora non era pervenuta all’artificio dello Stato.
In quella condizione, argomenta il pensatore di Rammenau, tutti avevano
eguale diritto su tutto, giacché ancora non vi era la divisione della proprietà
quale sarebbe subentrata in seguito. Di conseguenza, ciascuno disponova di
un suo ambito di azione, ovvero di una sua propria dimensione in cui
esercitava la sua azione lavorando. Ciascuno doveva, pertanto, poter
tutelare la propria sfera d’azione, proleggendola dalle legittime brame
altrui. È in vista di questa tutela degli interessi dei singoli “io empirici” che
si può congetturare si sia posta in essere la Staatsform come traduzione in
atto di un principio che così si può compendiare: io mi asterrò dal fare ciò
che ti danneggia, a patto che tu faccia altrettanto5.
Alla luce di questa sua ricostruzione ipotetica della nascita della
Staatsform, Fichte sostiene che lo Stato assolve, fin dal suo atto genetico, la
funzione di istituto artificiale prodotto dalla comunità umana aspirante a
garantire la conservazione della libera azione originaria per ciascuno. Di
conseguenza, spiega Fichte, l'Eigentum non coincide con una cosa, ma con
il diritto a un'azione: ich habe das Eigenthumsrecht beschrieben, als
das ausschliessende Recht auf Handlungen, “io ho delineato il diritto di
proprietà come il diritto esclusivo sulle azioni”6. In altri termini, dal fatto
stesso che l’oggetto del contratto con cui si statuisce lo Stato non sono mai
le cose, ma sempre e solo l'“attività libera”7 (freie Handlung) come
condizione di esercizio dell'azione sulle cose, segue che la proprietà deve
essere intesa essa stessa come un’azione, contro le moderne logiche della
reificazione che tutto riconducono alla dimensione della cosalità. Sicché -
scrive Fichte - “la proprietà di un oggetto di libera azione deriva dal diritto
esclusivo a questa libera azione’’*.
Accade, allora, che l’ambito della libera azione viene equa mente diviso
tra gli individui mediante la stipula di un contratto di tutti con tutti, ed è
appunto su queste basi che si istituisce il diritto all 'Eigentum.
Naturalmente, questa ipotesi congetturale di Fichte non deve essere
considerata da un punto di vista storico, ma, piuttosto, in senso logico, ché
se si trattasse di una semplice ricostruzione storica riprecipiteremmo, di
necessità, nell’idealizzazione del reale e, dunque, nella soppressione
dell’alterità tra l’essere e il dover essere9.
Bisogna, a questo punto, domandarsi come debba essere effettuata
questa divisione della libera azione perché sia conforme alle leggi del
diritto. Su questo punto, Fichte non ha dubbio alcuno: in coerenza con
l’uguaglianza del diritto, la si deve effettuare in modo che tutti possano
vivere il più agiatamente possibile, ossia in maniera tale che tutti possano
vivere ugualmente bene10. Detto altrimenti, la divisione deve essere
realizzata in modo tale che se alcuni si trovano a vivere meno bene rispetto
ad altri, ciò dipenda concretamente solo da loro, dalle loro azioni, e da
null’altro. L’agire effettivo del vernünftiges Wesen, e soltanto quello, deve
essere responsabile della diversa condizione tra gli individui, ossia del fatto
che alcuni dispongano di un maggior quantitativo di risorse rispetto ad altri,
fermo restando, comunque, che tutti debbono avere ciò a cui hanno diritto
in quanto membri della razza umana. Il già rievocato tema dell’uguaglianza,
centrale nella Missione del dotto jenese, ma poi pure nel Diritto naturale
del 1796-97, riaffiora qui con tratti quanto mai nitidi.
Il secondo capitolo di questo primo libro dello Stato commerciale
chiuso sulla Filosofia riguarda l’“applicazione generale dei princìpi fissati”.
Esso si apre con un paragrafo dedicato al tema dei ceti sociali11: si tratta,
come è noto, di una tematica a cui Fichte già aveva ampiamente prestato
attenzione teorica nelle lezioni jenesi sul Gelehrter, mostrando, nel testo del
1794, come la stratificazione sociale non fosse d’ostacolo per lo sviluppo
della libertà e dell’uguaglianza, ma ne fosse invece condizione
imprescindibile12. In forza della disuguaglianza fisica, che sviluppa
inclinazioni, capacità e interessi diversi in ogni individuo, ciascuno - così
nella Missione del dotto del 1794 — è chiamato a specializzarsi in quel
settore a lui più congeniale, in modo che in esso possa liberamente dare il
suo contributo alla società. L’esistenza di quest’ultima è, pertanto, quella di
un organismo composto da parti diverse e unificate dal fine comune a cui
tendono in quanto corpo sociale in sé unitario.
L’esistenza di ceti diversi rende possibile lo sviluppo della comunità
umana, facendo sì che ciascuno si determini secondo le proprie capacità (“a
nobilitare il soggetto non è il ceto, bensì l’affermarsi con dignità in esso”13),
per poi ricevere dalla Gemeinschaft stessa ciò di cui necessita per vivere e
per soddisfare i propri bisogni. L’uguaglianza e la divisione in ceti non solo
non contrastano, ma paiono per Fichte fondersi virtuosamente all’interno
della comunità organica pensata unitariamente: "in tal maniera, viene a
fissarsi, esattamente in virtù della disuguaglianza fisica sussistente tra gli
uomini, un inedito rafforzamento del nesso che lega in un solo organismo la
comunità”14.
Riprendendo e rideclinando su nuove basi il tema organicistico svolto
nella Missione del dotto jenese e poi sviluppato nel Diritto naturale del
1796-97, Lo Stato commerciale chiuso distingue tra tre ceti fondamentali,
quello dei “produttori” (Producenten), quello degli “artigiani” (Künstler) e
quello dei “commercianti” (Kaufleute). Il primo lavora la terra e ricava da
essa i prodotti, mentre il secondo li lavora e li trasforma in manufatti. Il
terzo, infine, garantisce lo scambio tra i primi due (il Naturrecht jenese già
effettuava una ripartizione generale tra produttori e artigiani). Per questa via
- spiega Fichte - dev’essere garantito tramite dei patti, per un verso, il fatto
che i produttori non si limitino a produrre quanto basta per sé, ma anche ciò
che è necessario per il resto della società, e, per un altro verso, il fatto che
gli artigiani forniscano agli altri membri della collettività i prodotti elaborati
tramite la loro opera. Infine, si ottiene anche la garanzia che i primi due ceti
non effettuino direttamente scambi tra loro, essendo ogni transazione
mediata dall’agire dei commercianti15. Se, infatti, lo scambio avvenisse in
forma diretta tra i primi due ceti, ne deriverebbe una grande perdita di
tempo e di energia, che essi debbono invece dedicare alle loro specifiche
attività, in modo che l’equilibrio sociale sia stabilmente preservato.
Scrive Fichte: die drei aufgeführten Stände sind die Grundbestandteile
der Nation, “i tre ceti a cui si è fatto cenno costituiscono le parti principali
della nazione”16. Come si chiarisce più estesamente nel paragrafo seguente,
dedicato all'“ordinamento dei ceti”, è lo Stato stesso a regolare,
disciplinandole, le transazioni tra i tre ceti. Tra i principali compiti dello
Stato vi è, appunto, quello di imporre coercitivamente il rispetto dei patti
a cui si è precedentemente fatto riferimento, in modo che sia mantenuto
l’equilibrio sociale senza che si generino disuguaglianze ed eccessi e senza
che uno dei ceti prevalga sugli altri. La vis unitiva della comunità è, per tale
via, garantita rispetto alle spinte centrifughe dell’accumulazione illimitata o
della sete di arricchimento individuale. L’individuo può svilupparsi
liberamente, in forma piena, solo se è garantito il libero sviluppo della
comunità nel suo complesso: è questo uno dei principali presupposti dello
Stato commerciale chiuso e, più in generale, dell’intera filosofia politica di
Fichte17.
Il telos orientativo attorno al quale è chiamata a orbitare la vita della
communitas disciplinata dalla forza etica dello Stato coincide, per Fichte,
con l’ideale della giusta misura, con l’aurea norma del limite come antidoto
alla forza dissolutrice dell'economico abbandonato a se stesso18: “il
superfluo - scrive Fichte - dev’essere subordinato al necessario e a ciò che
difficilmente può essere omesso. Questa regola è valida pure per la grande
economia statale”19 (das entbehrliche ist überall dem unentbehrlichen oder
schwer zu entbehrenden nachzusetzen; ebenso in der grossen Wirthschaft
des Staates). Perché questo ideale possa concretamente tradursi in atto, lo
Stato è chiamato a sorvegliare l’operato dei cittadini, calcolando con
precisione il numero dei membri di ogni classe, senza mai perdere di vista
l’ideale della giusta e non negoziabile soddisfazione dei
bisogni fondamentali dell’esistenza a cui ogni membro della comunità ha
diritto.
In una simile prospettiva, non è difficile comprendere in che senso, per
Fichte, la perfetta realizzazione della Gemeinschaft, e dunque il pieno
dispiegamento delle potenzialità di ogni suo membro, sia il vero fine a cui
mira la potenza etica dello Stato: “devono tutti quanti essere ben nutriti e
alloggiati, prima che uno pensi a decorare la propria casa; tutti quanti
devono essere vestiti dignitosamente e difesi dalle intemperie, prima che
uno pensi a indossare abiti eleganti”20. Infatti, è in palese contraddizione
con i princìpi della ragione il fatto che nello Stato possa esservi chi non è
nelle condizioni di accedere al soddisfacimento di bisogni primari e,
insieme, qualcuno possa, invece, permettersi il superfluo e magari anche i
cosiddetti beni di lusso. È, in altri termini, eticamente inaccettabile, per
Fichte, che un individuo possa avere il superfluo, quando un suo simile non
dispone neppure del necessario:
Non ha alcun valore che vi sia qualcuno che dica: io sono nelle condizioni di poter pagare;
è, per l'appunto, un 'ingiustizia che qualcuno possa permettersi ciò che è superfluo, mentre
anche solo uno dei suoi concittadini sia privo di ciò che è necessario o non sia nelle condizioni
di poterselo permettere (es ist eben unrecht, dass einer das entbehrliche bezahlen könne, indess
irgend einer seiner Mitbürger das nothdürfuge nicht vorhanden findet, oder nicht bezahlen
kann). In uno Stato in accordo con la ragione, ciò mediante cui il primo paga non è di diritto il
suo21.

Si tratta di un tema che accompagna la riflessione fichtiana fin dai tempi


delle Revolutionsschriften22. Già nel Beitrag, infatti, inserendosi nel
polifonico dibattito settecentesco intorno al lusso, Fichte aveva preso
apertamente posizione contro di esso, secondo argomenti che torneranno,
mutatis mutandis, nello Stato commerciale chiuso. Il lusso, infatti, prolifera
allorché si danno disuguaglianze tra gli enti razionali finiti,
creando asimmetrie di proprietà sempre più marcate; “ciascuno - precisa il
Beitrag - deve avere l’indispensabile. [...] Questo è un diritto inalienabile
dell’uomo. [...] Finché esiste soltanto uno al quale per causa loro è
impossibile guadagnarsi questo minimo col suo lavoro, il loro [delle classi
possidenti] lusso deve essere limitato senza alcuna compassione”23. A
questo proposito, è sorprendente come, fin dagli aurorali Zufälligen
Gedanken in einer schlaflosen Nacht, scritti il 24 luglio del 1788, il
pensatore di Rammenau - secondo quella che resterà una costante della
sua riflessione - identifichi precocemente i tratti dell’epoca nell’“egoismo e
assenza di ogni virtù sociale”24 (Egoismus und gänzliche Mangel aller
gesellschaftlichen Tugend). È, del resto, degno di nota che nello scritto del
1788 affiori precocemente una forte attenzione per il problema dei gruppi
sociali e del loro rapporto sul terreno agonale della società civile, che
rivela, come suggerito da Duso, una “attenta osservazione della società che
gli sta attorno”25.
Il fatto che, nel Vernunftstaat, il lusso non potrà esistere e che, dunque,
non vi saranno le condizioni di possibilità per la disuguaglianza sociale
costituisce la prova, se ancora ve ne fosse bisogno, che lo Stato come lo
immagina Fichte non solo non coincide con quello ammesso dal pensiero
liberale e dalla sua idealizzazione del reale, ma ne è il puntuale
capovolgimento: non è forse vero, infatti, che nel regno
dell’Handelsanarchie di cui è attualmente preda lo Stato sono le leggi
selvagge e spietale dell’economia a governare la vita degli uomini,
determinando osceni differenziali di ricchezza tali per cui, accanto a chi può
permettersi i più pregiati beni di lusso, vive chi non dispone neppure dei
mezzi necessari per il sostentamento? È sotto questo profilo che emerge,
con la massima chiarezza, l’alterità tra essere e dover-essere, tra Stato reale
e Vernunftstaat.
Riprendendo e sviluppando questi temi, il terzo paragrafo, dedicato
all’“equilibrio dei prodotti”, adombra in che senso e su quale base lo Stato
debba operativamente garantire che i prodotti siano sempre stabilmente
disponibili per ogni membro della comunità. Perché ciò sia possibile, lo
Stato - in quella che a giusto titolo potrebbe chiamarsi una “economia
pianificata” - è chiamato a calcolare il numero dei lavoratori per ogni
settore, in modo che non si creino squilibri ed eccessi e l’equilibrio sia
stabilmente preservato26. Lo Stato deve, inoltre, garantire che ogni prodotto
sia creato nel miglior modo possibile, che sia, cioè, perfetto in relazione al
territorio in cui viene coltivato o elaborato. Si tratta di una specificazione
degna di nota, perché, come Fichte stesso rileva, è una logica illogica quella
- divenuta ordinaria follia - di cercare prodotti esotici, provenienti
dall’altra parte del pianeta. Variando il lessico di Fichte, senza
tuttavia stravolgerne il coefficiente espressivo, potremmo anche sostenere
che una simile follia coincide con il proliferare illimitato dei bisogni indotti
e artatamente disciplinati dall’anarchia commerciale27. Già da queste
determinazioni preliminari si evince, per inciso, come il Vernunfistaat quale
viene pensato da Fichte debba essere spazialmente limitato, né debba
racchiudere entro i propri confini un numero eccessivo di abitanti,
reggendosi appunto su questo delicato equilibrio prescritto dalla ragione
e, come vedremo, tradotto in atto dalla politica.
L’assurdità - spiega Fichte - non è l’idea di una Schliessung
commerciale, in forza della quale ogni Stato consuma ciò che produce entro
i suoi confini, ma è, al contrario, il nostro usuale modo di rapportarci al
commercio internazionale, pretendendo di consumare le merci più esotiche,
provenienti dalle aree più remote del pianeta: colui il quale si lamentasse
perché non può, in virtù della Schliessung commerciale del suo Stato,
ottenere merci estere sarebbe del tutto analogo a una quercia che si
lamentasse di non essere una palma!28 “Ognuno - precisa Fichte -
dev’essere contento della sfera in cui la natura l’ha posto e di tutto quel che
dipende da tale sfera”29, abbandonando la folle idea - figlia dell’anarchia
del commercio - di possedere indistintamente tutto quel che vi è al mondo.
Le logiche del dogmatismo inducono gli uomini a pensare che il reale sia di
per sé razionale, quand’anche esso si riveli, per la ragione pensante non
arresa alle logiche dell’esistente, l’apice dell’irrazionalità dilagante30.
Per quel che concerne lo specifico ceto dei commercianti, a cui è
consacrato il quarto paragrafo, Fichte insiste con enfasi sul fatto che esso
dev’essere accuratamente sorvegliato dallo Stato, di modo che il potere non
si concentri nelle mani di tale ceto ed esso non possa trarre profitti smisurati
dalla propria posizione potenzialmente privilegiata. Anche in questo caso,
la tenuta dell’equilibrio non è garantita da un’ipotetica “mano invisibile”
dell’economia, la quale produrrebbe esclusivamente tragedie visibili, bensì
dalla potenza etica dello Stato, che costantemente tiene a freno, tramite la
forza della politica, quegli animal spirits che, se non adeguatamente
disciplinati, genererebbero sempre nuove tragedie nell’etico31.
Il quinto paragrafo concentra, invece, l’attenzione sul valore e sul
prezzo. Occorre - precisa Fichte - trovare un’unità di misura tramite cui
valutare la mera possibilità di vivere; deve trattarsi di una realtà che, per
consenso nazionale, sia necessario che tutti possano avere per condurre la
loro esistenza. Ora, una tale realtà è il pane, di cui nessuno può, in concreto,
essere privo. Fichte ribadisce, a questo proposito, quello che, con diritto,
potrebbe essere individuato come il Leitmotiv dell’opera: nel Vernunftstaat
deve dominare incontrastato “il giusto limite”32 (die rechtliche Grenze),
tutelato dalla forza politica dello Stato come potenza in grado di
disciplinare le logiche dell’illimitatezza coessenziali all’economico. Per
questo, entro i confini dello Stato secondo ragione, tutti devono disporre del
necessario e il superfluo dev’essere diviso tra tutti proporzionalmente.
Ora, spiega Fichte, l'imposizione fiscale costituisce il mezzo per garantire
che ciascuno abbia ciò che gli spetta come vernuftliges Wesen e che la
società non si polarizzi secondo la dicotomia di possidenti e nullatenenti.
L’imposizione fiscale coincide, de facto, con uno dei modi con cui la
politica può e deve disciplinare l’economico, impedendogli di
autonomizzarsi e di produrre la tragedia etica della disgregazione sociale.
Senza esagerazioni o inganni prospettici, Lo Stato commerciale chiuso
si caratterizza per una nemmeno troppo dissimulata ripresa dell’ideale greco
della “giusta misura” (μέτρον) come ideale attorno al quale organizzare la
vita etica della comunità sociale33. In questo senso, l’opera fichtiana del
1800 si rivela come la potenziale prosecuzione del progetto platonico della
Repubblica, il “paradigma in cielo”34 (έν ούρανω παράδειγμα) alla cui luce
condurre il duplice movimento di critica dell’esistente e di riscrittura
operativa della sua sintassi. Secondo il suggerimento di Max Wundt35, la
filosofia politica al centro dello Stato commerciale chiuso è il luogo teorico
in cui più nitidamente affiora il platonismo di Fichte, il quale, d’altro canto,
a partire dal 180036, ravvisa apertamente in Platone il grande precursore
della WL.
Come Platone, anche Fichte è in cerca, tramite il λόγος filosofico, della
καλλίπολις, la “città giusta” - il Vernuftstaat -, in cui la sacra legge del
giusto mezzo si imponga come garanzia dell’equilibrio sociale, contro le
perverse logiche della πλεονεξία stigmatizzata dalla Repubblica e
dell’anarchia commerciale avversata nello Stato commerciale chiuso.
L’obiettivo coincide, in Platone come in Fichte, con la creazione di un
ordo socialis giusto ed equo, alternativo a quello esistente, in cui tutti
possano soddisfare liberamente i loro bisogni e la comunità nel suo
complesso sia preservata dal pericolo di un suo rovinoso precipitare in
quello che, con splendida formulazione, il Politico platonico qualifica come
τής άνομοιότητος άπειρον όντα πόντον, il “mare infinito della
disuguaglianza”37.
Accanto alla Repubblica platonica, affiorano naturalmente, fra le pieghe
del discorso fichtiano, anche impliciti riferimenti al modello della Politica
aristotelica, non solo per quel che concerne l’ideale del “giusto mezzo”
come fondamento della κοινωνία politica, ma anche in riferimento
all’ideale di un’economia governata e funzionale al soddisfacimento dei
bisogni umani, in rivendicata antitesi con le logiche di quella “crematistica”
(χρηματιστιχή τέχνη) che ha come solo obiettivo l’insensata crescita
smisurata degli averi38. Scrive Fichte, in un passaggio - a cui se ne
potrebbero affiancare non pochi altri dello stesso tenore - da cui emerge
limpidamente l’ideale greco del giusto mezzo e della priorità della comunità
sulla crematistica:
Nello Stato in accordo con la ragione, tutti quanti sono servi dell’intero e partecipano
secondo giustizia ai beni dell’intero (sind Alle Diener des Ganzen, und erhalten dafur ihren
gerechten Antheil an den Gütern des Ganzen). Non vi è alcuno che possa diventare ricco
in maniera specifica, però non vi è neppure alcuno che possa diventare indigente. È a tutti
quanti assicurata la durata di tale situazione e pure all 'intero è assicurata una solidità irenica e
giusta (dem Ganzen seine ruhige und gleichmässige Fortdauer garantiert)39.

Riprendendo questi temi, il quinto paragrafo, espressamente dedicato


allo Stato commercialmente chiuso come Vernunftstaat, mostra come debba
essere mantenuto questo “equilibrio commerciale”40 appena tratteggiato. In
altri termini, Fichte delinca, ora, la via che occorre concretamente seguire
perché vengano stabilmente mantenuti l’equilibrio sociale e la conseguente
esorcizzazione della funesta legge dell’illimitatezza. La prima condizione
affinché ciò possa realizzarsi consiste nel fare in modo che
ogni Vernunftwesen, senza esclusioni di sorta, sia sottoposto
inflessibilmente alle regole che fino a qui sono state abbozzate.
Nessuno deve esserne dispensato: se anche uno solo lo fosse, si spezzerebbe
eo ipso l’equilibrio sociale e si produrrebbero asimmetrie funeste, destinate
ad annientare l’ordine gemeinschaftlich.
Ora, affinché tutti siano sottoposti senza esclusioni a queste regole,
spiega Fichte, aller Verkehr mit dem Ausländer muss den Unterthanen
verboten seyn und unmöglich ge macht werden, “deve essere vietato e reso
impraticabile per i sudditi ogni commercio con paesi stranieri”41. Se, infatti,
un singolo cittadino potesse entrare in contatto commercialmente con
membri di Stati non sottoposti alle stesse regole a cui la comunità
statale costringe quel cittadino, allora l’equilibrio all'interno dello
Stato verrebbe turbato e si riprecipiterebbe inevitabilmente nell’anomia che
si mirava a sconfiggere. La via della disgregazione dell’equilibrio
comunitario sarebbe rovinosamente aperta. La politica - sta implicitamente
suggerendo Fichte - può essere concretamente operativa solo in ristrette
aree, coincidendo di fatto con l’agire concertato di una comunità che ha
confini nello spazio e che comprende al proprio interno un numero limitato
di individui. Per questa ragione, sviluppando il ragionamento fichtiano, il
nomos dell’economia mira già da sempre a destrutturare gli Stati
come garanti dell’egemonia del politico; la quale egemonia, appunto, può
esercitarsi solo su basi nazionali, mai sul piano infinito del mercato
planetario. La comunità può essere preservata nella sua armonica stabilità
solo là dove i suoi membri siano tutti ugualmente sottoposti alla potenza
politica dello Stato42.
Già da queste prime determinazioni emerge, allora, la necessità di
chiudere commercialmente lo Stato come condicio sine qua non per il
mantenimento dell’ordo socialis tramite la forza - inevitabilmente limitata
nello spazio - della politica. Lo Slato è, allora, chiamato a fissare e a
garantire il prezzo delle merci, ma poi anche a far sì che i manufatti e le
merci siano concretamente distribuiti e, dunque, vadano a soddisfare i
bisogni della Gemeinschaft43. Un sistema di questo tipo, il cui scopo
primario coincide con il soddisfacimento dei bisogni della Gemeinschaft e
non con l’incremento illimitato degli averi degli individui isolati, esclude di
necessità - è bene ribadirlo, trattandosi del cuore teorico dello Stato
commerciale chiuso - la possibilità di commerciare con paesi stranieri, ossia
con realtà non sottoposte a questo stesso equilibrio e soggette a leggi
differenti44.
In una simile prospettiva, Fichte ribadisce a più riprese che, affinché lo
Stato possa mantenere il suo compito - che, come si è visto fin dall'
ouverture del primo capitolo, consiste nell’immettere ogni uomo nella
proprietà a cui ha diritto come essere umano e nel mantenervelo stabilmente
-, esso deve chiudersi commercialmente45. Solo in questa maniera,
all'interno di una comunità delimitata, può prevalere la forza etica della
politica, la sola capace di disciplinare lo spirito consustanzialmente
anarchico dell'economia. Ogni commercio con l’estero si tratta di uno snodo
teorico decisivo - deve essere impedito, giacché esso renderebbe ipso facto
possibile la sottrazione del singolo individuo alla potenza etica dello Stato
di cui è abitatore. È, per questa via, disarticolato a priori lo spazio operativo
dell’economia, la quale, come prima si diceva, si muove nella dimensione,
senza confini e barriere, del pianeta idealmente unificato nella forma del
piano liscio per lo scorrimento senza impedimenti delle merci.
Già da queste considerazioni preliminari emerge limpidamente
l’obiettivo che anima il progetto politico di Fichte, nel quale si compendia
l’intero senso della WL come filosofia della prassi e dell’emancipazione46.
L’universalizzazione emancipativa dev’essere costruita gradualmente,
anzitutto rovesciando la falsa universalità dell’Handelsanarchie tramite il
ritorno agli Stati chiusi commercialmente: all’interno dei quali, anche
in forza dell’apparato coercitivo, dev’essere edificata un’eticità comunitaria
che, progressivamente, costituisca il fondamento di un’universalizzazione
etica opposta a quella dell’anarchia commerciale, e dunque tale da porre in
essere liberi rapporti nach der Vernunft tra gli individui appartenenti a
un’umanità finalmente in grado di riconoscersi come un soggetto unitario.
Al fine di adombrare i lati più perversi del nomos dell’economia, Fichte
tratteggia una vera e propria “fenomenologia del lavoro” che, per certi
versi, sembra precorrere quella marxiana dei Manoscritti del 184447. Il
sistema anarchico del commercio fa sì che, per via delle leggi della
concorrenza spietata che costringono gli uomini a lottare reciprocamente
per sopravvivere, ogni individuo sia costretto a lavorare come una bestia
da soma per l’intera sua esistenza, a patto che non voglia soccombere alla
concorrenza e andare in rovina. Ora, nel “paradigma in cielo” del
Vernunftstaat, una tale coercizione non può sussistere, giacché la forza
politica egemonica permetterà a ogni individuo di lavorare secondo la
giusta misura, al riparo dagli eccessi determinati dal mos oeconomicus e
dalle inossidabili leggi della concorrenza sfrenata.
Affinché lo Stato commercialmente chiuso possa essere operativo,
occorre - rileva Fichte - che vi siano persone che si occupino stabilmente
delle leggi, dell’ordine pubblico, dell'istruzione, delle armi. In altri termini,
è necessario che una parte dei membri della comunità provveda alla
gestione concreta dell’apparato statale, il quale, lungi dal procedere
automaticamente, si regge sull’agire effettivo degli individui che lo
costituiscono48. Queste persone, votate alla gestione dell’apparato statale,
non possono evidentemente rientrare in nessuno dei tre ceti prima descritti.
Non fanno parte di tali ceti e, insieme, tramite la loro gestione dello Stato,
ne garantiscono l’equilibrio. Di conseguenza, i membri degli altri tre ceti
devono lavorare anche per loro. È anche questa la funzione delle imposte, le
quali permettono, appunto, a quanti si occupano stabilmente del
buon funzionamento dello Stato di poter condurre la loro esistenza alla
stregua di ogni altro membro della comunità. Fichte definisce
genericamente “pubblici impiegati”49 (die öffentlichen Beamten) tali
soggetti operanti concretamente nelle strutture dello Stato. Si tratta, a ben
vedere, di una sorta di quarto ceto che sorge, per così dire, in seconda
battuta rispetto agli altri e che è la garanzia della loro sopravvivenza
nell’equilibrio precedentemente tratteggiato.
Un punto decisivo, su cui Fichte si sofferma estesamente, riguarda la
moneta. Anche nel Vernunftstaat essa sarà presente, poiché in sua assenza
sarebbero letteralmente impossibili gli scambi tra i ceti50. La moneta, però,
non dovrà essere un materiale di per sé utile, giacché - scrive Fichte Alles
auf der Ober fläche des Staates befindliche Brauchbare wird immerfort
für den Gebrauch des Volkes in Anspruch genommen, “tutto quel che di
utile vi è nel territorio dello Stato deve sempre essere messo a disposizione
del popolo”51. E, non di meno, pur non essendo utile, il materiale di cui sarà
composta la moneta dovrà essere durevole. Senza crescere o diminuire,
dovrà rappresentare la somma dei valori accumulati all’interno dello Stato
chiuso commercialmente.
Per tutte queste ragioni, spiega Fichte, occorre che la moneta sia coniata
con il materiale meno pregevole che vi sia. Questo aspetto non crea
problemi di alcun tipo, se si considera che lo Stato chiuso commercialmente
rispetto all’estero può sovranamente decidere di far valere come equivalente
monetario, entro i propri confini, ciò che desidera, senza alcuna limitazione
di sorta. È in questo modo che sorge il Landesgeld, il “denaro del paese”52,
la moneta coniata dallo Stato. È del tutto privo di interesse il fatto che tale
moneta non sia riconosciuta dagli altri Stati: infatti, spiega Fichte, “per uno
Stato commerciale chiuso è come se l’estero (das Ausland) non esistesse
neppure”53.
Sotto questo profilo, il solo punto di rilievo, per lo Stato
commercialmente chiuso, consiste nel garantire che la moneta non possa
essere imitata, contraffatta o prodotta in proprio dai cittadini: “deve allora
essere impossibile contraffare la moneta, che dev’essere di tale forma e
natura da poter essere prodotta unicamente dallo Stato”54. Deve, in altri
termini, essere posta in essere la condizione in cui la moneta, di per sé, non
valga nulla e svolga il ruolo di equivalente monetario unicamente in
grazia della volontà statale. È, questo, un altro modo per disarticolare la
potenza dell’economia autonomizzata e per ricondurre l’economico sotto
l’egida del politico.
Anche dal punto di vista monetario, proprio per via della sua funzione
di stabile controllo, lo Stato impedisce sempre di nuovo che il momento
economico si affranchi dal tessuto comunitario e si autonomizzi.
Quand’anche la nazione cresca e diventi produttiva, l’equilibrio
commerciale non viene sconvolgendosi, poiché lo Stato lo controlla e lo
disciplina, assicurando permanentemente il primato del momento politico
su quello economico55. Né, del resto, può crearsi accumulazione di
ricchezze fine a se stessa, in quanto la crematistica è rigorosamente proibita
dallo Stato stesso. Il solo risparmio consentito è quello con cui l'ente
razionale finito si garantisce di che vivere anche quando le malattie o l’età
avanzata gli impediscano di lavorare come prima o di lavorare tout court.
L’accumulo fine a se stesso non è contemplato: di più, è reso impraticabile
dal controllo statale e dalla sua forza etica, nemica irriducibile dell'auri
sacra fames in ogni sua possibile declinazione.
Il capitolo settimo del primo libro sulla Filosofia riepiloga e sunteggia
le acquisizioni teoriche guadagnate fin qui da Fichte. Può, pertanto, essere
utile menzionare un rapido passaggio in cui, in tale capitolo, il pensatore di
Rammenau compendia il senso del percorso teorico che è venuto fino a qui
prospettando:
In uno Stato coerente con il diritto, i tre ceti basilari della nazione sono misurati l’uno in
relazione agli altri e sono limitati a un preciso numero di soggetti. A ciascun cittadino è
garantita la partecipazione a tutti quanti i prodotti naturali e artificiali del paese, in cambio e in
modo proporzionale rispetto al lavoro che gli spetta di compiere, che è indubbiamente
equivalente, come capita agli impiegati pubbli ci. In vista di questo scopo, viene stabilito in
maniera immutabile il valore delle cose raffrontate tra loro e il loro prezzo in relazione
alla moneta. Infine, per quanto questo sia fattibile, bisogna rendete impossibile il commercio
dei cittadini con paesi esteri. Però tutte quante queste proposte si reggono sulla mia dottrina
della proprietà ne segue che, se è corretta tale dottrina, pure quelle hanno una valida base; al
contrario, se la mia dottrina è sbagliata, con essa crolla tutto quel che non aspira a esserne che
una conseguenza56.

Nella conclusione del passo appena riportato, Fichte torna a insistere


pervicacemente sul tema del nesso tra la proprietà e l’azione. Se si accetta
la definizione della proprietà nei già ricordati termini dell’azione, in
coerenza con la WL e in conseguente antitesi con la coscienza reificata che
tutto riconduce all’ambito delle cose inerti, allora tutto quel che segue e che
fin qui è stato sostenuto è logico e coerente: di più, si mostra con stringente
necessità57. Se, viceversa, si respinge la definizione fichtiana dell'
Eigentum, allora, con altrettanta coerenza, occorre rigettare ogni singolo
passaggio argomentativo che si è fino ad ora svolto. In aggiunta a ciò,
bisogna, con altrettanta onestà intellettuale, riconoscere che, qualora venga
rigettata la teoria fichtiana della proprietà e si aderisca a quella propria del
Dogmatismus, allora sono a priori legittimate inappellabilmente
la disuguaglianza, l’anarchia commerciale, l’ingiustizia sociale e tutte le
patologie che insanguinano lo scenario socio-politico del tempo
compiutamente peccaminoso. Scrive Fichte:
Che meraviglia se, in virtù di tale idea egemonica, siamo pervenuti a una dottrina tale che il
ceto dei grandi possessori fondiari, la nobiltà, sono gli unici proprietari, i soli cittadini che
formano lo Stato e tutti gli altri non sono che preposti ai loro fondi, che devono acquistare la
loro tolleranza alle condizioni che essi prediligono?58.

Ora - ed è questo uno dei punti cardinali del sistema fichtiano al centro
dello Stato commerciale chiuso - se la proprietà dedotta con rigore dai
princìpi stessi della WL è indissolubilmente legata alla mia sfera d’azione,
ne segue che non può sussistere la proprietà illimitata. L’azione, infatti,
comunque la si voglia intendere, proprio come la forza politica, si esercita
sempre su oggetti limitati nel tempo e nello spazio. Il suo campo operativo
è, conseguentemente, quello del finito, là dove lo spazio dell’economia e,
con essa, della proprietà intesa come semplice accumulo di cose, coincide
con l’illimitatezza non sottoponibile alle leggi della politica e del controllo
statale. Dalla dottrina fichtiana dell' Eigentum segue, con rigore, la
condanna inappellabile dell’accumulo illimitato su cui si regge il
sistema del commercio anarchico59.
Anche da questa prospettiva, si toma all’orizzonte di senso della giusta
misura greca, la quale, come si è visto, attraversa diagonalmente,
informando di sé, la struttura complessiva dello Stato commerciale chiuso,
versione del platonico “paradigma in cielo” portato all’altezza dei tempi. Ne
segue, con logica stringente, che “la proprietà della terra, secondo la nostra
dottrina, non ha luogo”60. D’altro canto, come si è già in precedenza
sottolineato, dal punto di vista fichtiano, l 'Eigentum presenta, come propria
caratteristica, anche il fatto di configurarsi come un concetto di reciprocità,
un Wechselbegriff. Infatti, io posso riconoscere la proprietà solo quando
essa sia riconosciuta a me. Se ne evince, una volta di più, che l’idea liberale
della proprietà illimitata, in cui vi è chi ha tutto e chi non ha nulla, si regge
essa stessa, come suggerisce Fichte, su un’antropologia individualistica e
anticomunitaria, che finge robinsonianamente che a esistere sia sempre e
solo il singolo: come se, appunto, si trattasse, con le parole di Fichte (che
sembrano, anche in questo caso, precorrere le critiche marxiane delle
robinsonate dell’economia politica classica), “della proprietà di un
individuo isolato, che conduce la sua esistenza su un’isola irraggiungibile.
Per lui, il concetto di proprietà è completamente inutilizzabile. Di quel che
trova, egli può prendere quanto vuole e quanto può’’61.
In questa maniera, è - spiega Fichte - ammessa e legittimata l’oscena
realtà, che ripugna alla ragione, in cui il nullatenente è tenuto a riconoscere
la proprietà del possidente senza godere di un analogo riconoscimento. La
giusta comunità etica garantita dalla Schliessung commerciale dello Stato si
fonda, invece, sul libero riconoscimento di proprietà per ogni membro della
communitas in quanto tale. Solo per questa via, ciascuno può riconoscere la
proprietà di tutti gli altri - godendo di eguale riconoscimento -, trovando nei
propri imprescrittibili possessi il campo per l’esercizio della propria azione.
Con la ripresa di questo tema, si chiude il primo libro dello Stato
commerciale chiuso.
Con esso, Fichte ha delineato, nei suoi tratti essenziali, lo Stato quale
dovrebbe essere se corrispondesse ai principi della ragione. Si tratterà ora di
analizzare, con il secondo libro, lo Stato quale realmente è nel tempo
presente.

1. Cfr. A.W. WOOD, Kant and Fichte on Right, Welfare and


Economic Redistribution, in “Internationales Jahrbuch des Deutschen
Idealismus”, n. 2 (2004), pp. 77-101.
2. D. JAMES, Fichte’S Social and Political Philosophy: Property
and Virtue, Cambridge University Press, Cambridge 2011.
3. Cfr. J. BRAUN, Freiheit, Gleichheit, Eigentum: Grundfragen
des Rechts im Lichte der Philosophie J. G. Fichtes, cit., pp. 56 ss.
4. Si veda E. ZELLER, Fichte als Politiker, in “Historische
Zeitschrift”, 1860, pp. 1-35.
5. Cfr. J.G. FICHTE, SW, III, pp. 406-407.
6. Ivi, p. 401.
7. Ibidem.
8. Ibidem.
9. Si veda R. SCHOTTKY, Untersuchungen zur Geschichte der
staatsphilosophischen Vertragstheorie im 17. und 18. Jhdt., Dissertation,
München 1962.
10. Cfr. J.G. FICHTE, SW, III, p. 403.
11. Si veda L. FONNESU, Diritto, lavoro e “Stände il modello di
società di J.G. Fichte, in “Materiali per una storia della cultura giuridica”,
1985, pp. 51-76.
12. “L’uguaglianza costituisce per Fichte una mèta, comandata
dalla suprema legge razionale dell’assoluta identità; mèta che è però
irraggiungibile,e alla quale ci si può avvicinare all’infinito solo attraverso
l’istituzione della nuova ineguaglianza rappresentata dalla divisione della
società in ceti, che risulta così non solo come legittima, bensì anche come
indirettamente doverosa per il singolo, in quanto unico mezzo per
contribuire al meglio al perfezionamento del genere umano”: R. PICARDI,
Il concetto e la storia: la filosofìa della storia di Fichte, cit., p. 154.
13. J.G. FICHTE, Missione del dotto, cit., p. 269 (SW, VI, p. 324).
14. Ivi, p. 249 (SW, VI, p. 316).
15. Id., SW, III, pp. 421-424.
16. Ivi, p. 405.
17. Cfr. J.-C. MERLE, Notrecht und Eigentumstheorie im Naturrecht,
bei Kant und bei Fichte, in “Fichte-Studien”, n. 11 (1997), pp. 41-61.
18. L’ha messo adeguatamente in luce H.-J. VERWEYEN, Recht und
Sittlichkeit in J.G. Fichtes Gesellschaftslehre, Alber, Freiburg 1975.
19. J.G. FICHTE, SW, III, p. 408.
20. Ivi, p. 397.
21. Ivi, p. 409.
22. Cfr. G. RAMETTA, Fichte, cit., pp. 58 ss.
23. J.G. FICHTE, Contributo per rettificare i giudizi del pubblico
sulla Rivoluzione francese, cit., p. 201 (GA I, 1, p. 323).
24. ID., GA, II, 1, pp. 104-106.
25. G. Duso, Contraddizione e dialettica nella formazione del
pensiero fichtiano, cit., p. 67.
26. J.G. FICHTE, SW, III, pp. 421-424.
27. Ce ne siamo occupati più estesamente nel nostro Minima
mercatalia. Filosofia e capitalismo, cit., capitolo IV.
28. J.G. FICHTE, SW, III, p. 411.
29. Ivi, p. 410.
30. Cfr. L. Fonnesu, Metamorphosen der Freiheit in Fichtes
‘‘Sittenlehre", in “Fichte-Studien”, n. 16 (1999), pp. 255-271; tr. it.
Metamorfosi della libertà nel "Sistema di etica " di Fichte, in “Giornale
critico della filosofia italiana”, n. 76 (1997), pp. 30-46.
31. Si veda G. LEGHISSA, Neoliberalismo. Un'introduzione
critica, Mimesis, Milano 2012.
32. J.G. FICHTE, SW, III, p. 417.
33. Su questo tema, al quale in questa sede possiamo solo accennare
cursoriamente, ci permettiamo di rinviare al nostro Minima mercatalia.
Filosofia e capitalismo, cit., II. Si veda, inoltre, C. PREVE, Elogio del
comunitarismo, Controcorrente, Napoli 2006.
34. PLATONE, Repubblica, IX, 592 c; tr. it. a cura di R. Radice, in
PLATONE, Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2000, p.
1305.
35. Cfr. M. WUNDT, Fichte als Platoniker, in ID., Fichte-
Forschungen, Fromann, Stuttgart 1929, p. 347.
36. J.G. FICHTE, GA, I, 9, p. 73.
37. PLATONE, Politico, 273 e; tr. it. a cura di C. Mazzarelli, in
PLATONE, Tutti gli scritti, cit., p. 333.
38. “C’è un’altra forma d’acquisizione che in modo particolare
chiamano, ed è giusto chiamare, crematistica, a causa della quale molti
ritengono che sia una sola e identica con quella predetta per la sua affinità,
mentre non è identica a quella citata e neppure molto diversa. Il vero è che
delle due una è per natura (φύσει), l’altra non è per natura (ού φύσει) e
deriva piuttosto da una forma di abilità e di tecnica”: ARISTOTELE,
Politica, I, 9, 1256 b 40 - 1257 a 7; tr. it. a cura di R. Laurenti, Laterza,
Roma-Bari 20026, p. 18. Cfr. S. MEIKLE, Aristotle's Economic Thought,
Clarendon, Oxford 1995.
39. J.G. FICHTE, SW, III, p. 419.
40. Ivi, pp. 428-430.
41. Ivi, p. 419.
42. Si veda soprattutto A. VERZAR, Das autonome Subjekt und der
Vernunftstaat. Eine systematisch-historische Untersuchung zu Fichtes
“Geschlossenem Handelsstaat" von 1800, cit., pp. 82-86.
43. Cfr. L. FONNESU, La società concreta. Considerazioni su Fichte
e Hegel, cit., pp. 231-248.
44. Si veda H.-J. VERWEYEN, Recht und Sittlichkeit in J.G. Fichtes
Gesellschaftslehre, cit., pp. 139 ss.
45. Cfr. L. PEREGO, L’idealismo etico di Fichte e il socialismo
contemporaneo. Per una religione socialista, Formiggini, Modena 1911.
46. Cfr. E. SCHENKEL, Individualität und Gemeinschaft: der
demokratische Gedanke bei J.G. Fichte, cit., pp. 89 ss.
47. Si veda C. DE PASCALE, Droit à la vie. Nature et travail chez
J.G. Fichte, in “Archives de philosophie”, 1988, pp. 597-612.
48. Cfr. H.T. BETTERIDGE, Fichte’s Political Ideas: a Retrospect, in
“German Life and Lettere I”, 1936-1937, pp. 293-304.
49. J.G. FICHTE, SW, III, p. 426.
50. Si veda A. Masullo, Fichte. L'intersoggettività e l 'originario,
cit., pp. 121 ss.
51. J.G. FICHTE, SW, III, p. 432.
52. Ivi, p. 433.
53. Ibidem.
54. Ivi, p. 435.
55. Si veda D. JULIA, Fichte, la philosophie ou la conquete de la
liberté, L’Harmattan, Paris 2002.
56. J.G. FICHTE, SW, III, 446-447.
57. Cfr. J.-C. MERLE, Fichte'S Economic Philosophy and the
Current Debate Concerning Distributive Justice, in “Daimon. Revista de
Filosofia”, n. 9 (1994), pp. 259-273.
58. J.G. FICHTE, SW, III, p. 446.
59. Cfr. T. PAPADOPOULOS, Die Theorie des Eigentum bei J.G.
Fichte, cit., pp. 58-64.
60. J.G. FICHTE, SW, III, p. 446.
61. Ivi, p. 444. Cfr. T. PAPADOPOULOS, Die Theorie des Eigentum
bei J.G. Fichte, cit., pp. 58-64.
13

LA STORIA DEL PRESENTE COME NEGAZIONE DELL’IDEALE


FILOSOFICO

L’autore non soltanto reputa che sia possibile uno stato


di cose differente da quello che effettivamente esiste, ma
che esso sia un’esigenza della legge giuridica.

J.G. FICHTE, Lo Stato commerciale chiuso

Il secondo libro di Der geschlossene Handelsstaat, dedicato alla Storia,


abbandona il regno celeste del dover-essere e compie una catabasi negli
inferi della realtà effettuale, l’anarchia commerciale perfettamente
realizzata1. L’importante preambolo con cui si apre il libro mette a tema il
già a più riprese richiamato nesso tra realtà storica e idealità. Come già si
è evidenziato, il libro secondo muove dalla convinzione fichtiana che la
ragione filosofica debba innestarsi sulla concretezza storica - sul tempo
presente - per agirvi in vista della razionalizzazione del reale o, se si
preferisce, della realizzazione dell’ideale. Ed è in questo preambolo al libro
secondo che il pensatore di Rammenau riprende quanto già abbiamo in più
occasioni sottolineato: il transzendentaler Idealismus concepisce la
concretezza storica come il regno della Möglichkeit, intendendo la realtà
stessa come esito provvisorio e mai definitivo di un fare che si dipana nella
temporalità storica. Tutto quel che è - questo l’architrave della WL - è il
risultato dell’agire, la Tat-Sache di una Tat-Handlung: in quanto tale, può
sempre da capo essere trasformato in vista di un accordo - sempre differito -
tra la ragione e il reale, tra il soggetto agente e l’oggetto2.
La dicotomia tra dogmatismo e idealismo risulta, anche in questo caso,
il necessario punto di partenza alla cui luce rendere conto dei due diversi
atteggiamenti pratici rispetto alle logiche del reale. Se per il dogmatico la
storia è strutturata secondo una ferrea necessità, configurandosi di
conseguenza come realtà data a cui adattarsi cadavericamente, per
l’idealista, al contrario, l'ordo temporum coincide con la serie delle libere
oggettivazioni della prassi umana che si dispiega sub specie temporis e
che, per ciò stesso, si rivela il luogo naturale della materializzazione della
libertà umana. In sede storica, come alcune pietre miliari della Fichte-
Forschung hanno adombrato3, il dogmatismo sfocia ineluttabilmente nel
fatalismo proprio di chi concepisce il corso storico come un Ding an sich
sottratto all’azione e alla libertà umana, là dove l’idealismo dà luogo a una
concezione per cui l'ordo temporum altro non è se non la libera serie delle
oggettivazioni dell'Io.
In coerenza con i princìpi trascendentali del sistema della libertà,
l’oggetto non è altro che il soggetto che si è oggettivato a se stesso e
coincide, dunque, con il passato dell’Io attivo rispetto al suo presente
attuale: è il soggetto stesso a porre l’oggetto a sé contrapponendolo;
quest’ultimo, dunque, è opposto e, insieme, identico al soggetto stesso
(questo, come si diceva, il segreto dell’idealistica Subjekt-Objektivität).
L’oggetto è il soggetto considerato non come attività-in-atto (Tat-
Handlung), ossia come azione al presente, ma come risultato di
quell’attività, come prassi oggettivata (Tat-Sache). L’oggetto non si
presenta, pertanto, con gli opachi tratti dell'immodificabilità -secondo
l’odierno trionfo della mistica della necessità che mira a conservare il
mondo così com’è -, bensì come risultato sempre trascendibile e mai
definitivo dell’agire4: “il non-io è il determinabile continuo in ogni
determinazione, che esso riceve in virtù della libertà dell’io”5.
La modalità ontologica fondamentale del dogmatico è la necessità;
quella dell’idealista la possibilità. Il primo idealizza il reale, là dove il
secondo aspira a realizzare l’ideale. Il dogmatico confonde la realtà come
esito della libera prassi con un'oggettività data e inemendabile: la sua
malattia incurabile, come Fichte chiarisce, riprendendo apertamente i temi
al centro della Erste Einleitung del 1797, consiste nello scambiare
l’accidentale con il necessario, arrendendosi passivamente alle logiche
del mondo trasfigurato in Ding an sich sottratto alla sfera d’influenza della
libera prassi trasformatrice. Ciò che è sul piano ontologico, come ciò che
accade su quello storico, è per lui necessario e, in quanto tale, degno di
essere accettato passivamente6.
Per il Dogmatismus, tutto deriva dall’oggetto come factum brutum
indipendente dal soggetto. Come la conoscenza è rispecchiamento
dell’essente, così la politica è conservazione del mondo nella sua effettiva
configurazione. L'adaequatio è, a un tempo, gnoseologica e politica:
conoscere la realtà effettiva significa adattarsi supinamente ad essa,
risolvendo il poter-esse-re nell’essere. Viceversa, per l'Idealismus, ogni cosa
scaturisce dal fare: il conoscere è azione che pone l’unità soggetto-
oggettiva, la politica è inesausta trasformazione dell’esistente in vista della
sua sempre differita identità con l'Ich. In questa luce, si spiega, una volta di
più, la struttura dello Stato commerciale chiuso, coerente declinazione
politica dell’idealismo trascendentale: lo studio dell’essere è funzionale alla
sua trasformazione, affinché esso venga portato a corrispondere al dover
essere. Con le parole di Lauth, “risiede nel nostro volere-in actu
quale ‘mondo’ realizzeremo come obiettivamente essente”7: è questa la
cifra della visione politica della WL.
Come non ci stancheremo di ribadire, la politica si configura, per
Fichte, come il tramite tra le due dimensioni dell’ideale e del reale. Essa è,
di conseguenza, tensione tra l’impulso alla Weltveränderung e il
riconoscimento realistico degli effettivi ostacoli che rendono ardua tale
operazione. La politica, pertanto, nella sua determinazione più generale,
consiste nell’attività concreta con cui si agisce realisticamente nello Stato
quale è per portarlo a corrispondere con le sue potenzialità inevase,
ossia affinché diventi come dovrebbe essere. Per questo si può dire, con
Léon, che Fichte “crede nella efficacia della ragione per riformare il
mondo”8.
In una simile prospettiva, anche leggendo Lo Stato commerciale chiuso
è facile - come suggerito da Salvucci - “vanificare tutte quelle letture pigre
e/o disinvolte che si attardano a considerare l’idealismo tedesco come una
filosofia estranea alla prassi trasformatrice. La storia dell’uomo nel mondo
è, per l’idealismo, il luogo nel quale l’uomo si trasforma trasformando, in
pari tempo, il mondo”9. La storia non interessa a Fichte come mero studio
delle vicende pregresse fine a se stesso e alla magnificazione del passato,
secondo la modalità che Nietzsche definirà della “storia antiquaria”10: e ben
si capisce, in quest’ottica, la confidenza che il pensatore di Rammenau fece
a Friedrich Schlegel, negli anni jenesi, di preferire contare i piselli piuttosto
che studiare la “storia empirica”11.
La realtà storica interessa a Fichte come luogo della possibilità, ossia
come trama di eventi che si succedono secondo il ritmo della prassi e della
libertà: conoscere la storia equivale a prendere coscienza delle possibilità
d’azione in essa racchiuse, per poi modulare un progetto politico volto a
conferire all 'ordo temporum nuove direzioni mediate dall’agire. Ha scritto
Duso, in riferimento al Beitrag jenese (ma si potrebbe
tranquillamente estendere una simile considerazione anche alle altre fasi
del pensiero fichtiano, senza esclusione per Lo Stato commerciale chiuso):
L’idealismo fichtiano [...] consiste nel mostrare la necessaria implicazione di ragione e
storia, di pensiero e prassi: lungi dunque dal dissolvere il mondo della storia o dal separarlo
dalla vita dello spirito, Fichte afferma che è nella attività innegabile della ragione che
l’esperienza viene alla luce e prende il suo significato12.

È in forza delle logiche dogmatiche e della loro sostituzione del


possibile con il necessario che, spiega Fichte, si tende inaggirabilmente a
vivere come se fossero necessari i rapporti di forza vigenti e lo stesso ordine
imposto dall’Handelsanarchie (concependo, quindi, l’assurdità del presente
come del tutto naturale, fisiologica e, di più, come il solo senso possibile),
pensando invece come irrealizzabili rapporti alternativi, differenti rispetto a
quelli dati. In un simile orizzonte, il compito della WL, anche sul coté
politico, e a maggior ragione in un’opera come Lo Stato commerciale
chiuso, che solo la pigrizia interpretativa congiunta con la forza inerziale
dell’ideologia può ostinarsi a presentare come reazionaria, si risolve nella
riattivazione del senso della possibilità come fondamento su cui innestare
l’agire della politica. L’ufficio di quest’ultima, come si è sottolineato,
consiste nella traduzione del filosofico nello storico o, se si preferisce,
dell’ideale nel reale, facendo sì che il Vernunftstaat possa concretizzarsi
mediante l’agire umano che si dispiega nel tempo.
Nell’ottica dell’idealismo trascendentale fichtiano, la storia coincide
con quello che Der Mann ohne Eigenschaften di Musil13 etichetta come il
“senso della possibilità” (Möglichkeitssinn). In questa luce, quello storico è
lo spazio della programmabilità di configurazioni dell’esistente alternative.
Storicizzare la realtà significa - ed è questo il suo senso più profondo -
mostrarne la genesi, il carattere temporalmente e socialmente determinato, e
dunque destrutturare i dispositivi fatalizzanti dell’ideologia e di quel suo
correlato essenziale che è la malia della necessità propria dei dogmatici
vecchi e nuovi. Miscela perversa di fatalismo e di destinalità ingovernabile,
la mistica della necessità annulla in modo dogmatisch il poter-essere
nell’essere reale, la possibilità nella fattualità, la tridimensionalità
temporale nel presente onnipresente14.
Solo in questa prospettiva schiettamente storica emerge in che senso,
per Fichte, l’ordine sociale e politico realmente esistente non sia il prodotto
della provvidenza divina (così, ad esempio, in Edmund Burke15), né l’esito
ingovernabile di leggi naturali immutabili, dogmaticamente pensate come
indipendenti dall’agire umano (così, tra l’altro, in Adam Smith16): in
coerenza con la prospettiva della Seinssetzung, la realtà storica e politica è
l’esito temporalmente determinato del fare umano e, in quanto tale, può
essere alternativamente riprogrammata, vuoi anche per via rivoluzionaria,
secondo il grandioso esempio del popolo francese. L’ordine può
ontologicamente e deve moralmente essere mutato: può ontologicamente, in
quanto, coincidendo con il libero esito di un fare dispiegantesi nella storia,
non presenta i tratti dell’intrasformabilità e della destinalità che gli vengono
surrettiziamente attribuiti dai dogmatismi in ogni loro formulazione; deve
moralmente, in quanto la Bestimmung del genere umano corrisponde
all’opera di ininterrotta trasformazione di sé e del reale in vista del
raggiungimento, sempre differito, della condizione in cui il reale e
l’umanità stessa diventino immagine vivente della ragione17.
A questo proposito, Alain Renaut ha efficacemente qualificato la
Geschichtsphilosophie fichtiana nei termini di una “filosofia pratica della
storia”18, unendo virtualmente le due dimensioni della determinazione
aprioristica dello sviluppo storico (il Weltplan messo a tema nei Grundzüge)
e della libertà pratica come suo unico fondamento. La
Transzendentalphilosophie comporta, dunque, in Fichte una vera e propria
“rivoluzione copernicana” nel modo di pensare la storia, concependo
quest’ultima come il prodotto del soggetto agente: l’idealismo
trascendentale mostra che, avendo noi costituito il mondo, possiamo anche
ricostituirlo, trasformandolo secondo ragione, in vista della
Übereinstimmung, la “completa armonia” con noi, con gli altri e con il
mondo. Come si diceva, è questo il concreto modo in cui si determina la
WL sul piano geschichtsphilosophisch. Ha scritto Francesco Moiso a
proposito della visione fichtiana della storia:
La storia è sviluppo, ascesa e raffinamento dei bisogni, in cui la natura diviene cultura, il
potere immediato dei singoli eventi sulla umanità viene costantemente ridotto. Ma in ogni
momento questo processo deve essere ripreso, eseguito, realizzato con libertà e responsabilità,
pena la perdita di tutto quanto è stato acquisito. Chi accusa Fichte di non avere raggiunto la
coscienza della storicità in misura paragonabile a quella che sarebbe stata propria di momenti
successivi dell’idealismo tedesco o della ‘Historische Schule’ rischia di identificare il senso
della storia con le tante metafisiche storicistiche19.

Come per il Kant del Über das Mißlingen aller philosophischen


Versuche in der Theodizee (1791), anche per Fichte la teodicea non è
dottrinale o ontologica, ma esiste solo nella forma di una teodicea della
ragion pratica: il nostro libero agire nella storia è la sola garanzia del fatto
che, alla fine, il male non avrà la meglio sul bene20. Alla luce di questa
impostazione, Fichte, in questo importante preambolo al secondo libro dello
Stato commerciale chiuso, svolge una considerazione di grande rilievo, che
condensa icasticamente le riflessioni che abbiamo poc’anzi svolto:
L'autore non soltanto reputa che sia possibile uno stato di cose differente da quello che
effettivamente esiste, ma che esso sia un 'esigenza della legge giuridica (der Verfasser einen
ganz anderen Zustand desselben, als wir in der wirklichen Welt vorfinden, nicht nur für
möglich hält, sondern sogar für gefordert durch das Rechtsgesetz). Per questa ragione, desta in
lui stupore il fatto che un tale stato non si sia realizzato in luogo di quello che troviamo nella
realtà21.

Si tratta di un brano di grande rilievo, non solo perché sunteggia le


principali acquisizioni della WL sul piano politico, ma anche per il fatto
che, una volta di più, prende posizione contro l’idea dominante secondo cui
il principale obiettivo dello storico consisterebbe nel vincolare
dogmaticamente ogni progetto politico alla Realpolitik, alla mistica della
necessità e al “principio realtà”, delegittimando aprioristicamente ogni
possibile programma di ringiovanimento del mondo teso a realizzare un
ideale eccedente rispetto agli angusti perimetri dell’esistente.
Dal punto di vista idealistico, l’attenzione per la concretezza storica è
essa stessa subordinata alla volontà di ridisegnare le geometrie del reale.
Per poter portare a compimento un tale progetto, occorre, infatti, acquisire
coscienza della effettiva configurazione del potere e dei rapporti di forza,
dello scarto sussistente tra la realtà e l’ideale. In altri termini, secondo
rimpianto dello Stato commerciale chiuso, lo studio della realtà concreta
non dev’essere volto a neutralizzare la possibilitas, secondo la visione
egemonica, ma a valorizzarla massimamente, attivando la pratica della
traduzione operativa dell’ideale nel reale: ed è, appunto, per queste ragioni
che - spiega Fichte - gegenwärtig haben wir diesen wirklich eingetretenen
nur zu schildern, welches ein Theil der Zeitgeschichte wäre, “al momento
dobbiamo tratteggiare questo stato effettivo, che rientra nella storia della
nostra epoca”22. Del resto, il titolo di questo secondo libro dello Stato
commerciale chiuso, che abbiamo genericamente reso con Storia, è
espresso da Fichte con la più specifica formula Zeitgeschichte: essa allude
soprattutto al tempo più recente della storia e la si potrebbe, di
conseguenza, più precisamente tradurre con “storia del tempo presente”, a
sottolineare come l’interesse fichtiano orbiti, nello Stato commerciale
chiuso, attorno a una conoscenza del presente che sia funzionale all’azione
trasformatrice.
Il secondo capitolo del secondo libro sulla Storia occupa un ruolo
nodale nella trattazione fichtiana, a partire dal titolo: Die bekannte Welt als
ein einiger grosser Handelsstaat angesehen, “il mondo conosciuto inteso
come un grande Stato commerciale”23. Fichte vi tratteggia - con
un’aderenza che dovrebbe, una volta di più, indurre a riflettere quanti si
ostinano a presentarlo come un pensatore scarsamente attento alle
dinamiche della concretezza storica - la situazione del mondo signoreggiata
dall’anarchia del commercio che ha unificato il globo e avviato un processo
che, se non arrestato in tempo, produrrà la soppressione delle realtà
nazionali e delle culture sostituite dall’unica Universalmonarchie dell’utile
innalzato a solo criterio direttivo della vita umana e della gestione della
politica24. La politica liberale non ha princìpi da opporre a questa
condizione, perché condivide integralmente l’idea che lo Stato serva
a garantire la proprietà: l’idea liberale qui avversata da Fichte duplica
simbolicamente ciò che già è, ossia la reale sottomissione della politica
all’economia autonomizzata, con conseguente riduzione dello Stato a
garante del mos oeconomicus.
Fichte individua la genesi di questo immenso Handelsstaat planetario
con la formazione stessa dell’Europa cristiana: lassen die Völker des neuen
christlichen Europa sich betrachten als Eine Nation, “i popoli della
moderna Europa cristiana possono essere concepiti come un’unica
nazione”25. E ancora:
Quando esisteva ancora l’unità dell’Europa cristiana, si è tra l'altro venuto costituendo
pure il sistema del commercio, che, per lo meno nei suoi tratti basilari, permane ancora oggi
(während jener Einheit des christlichen Europa hat unter andern sich auch das Handelssystem
gebildet, das wenigstens nach seinen Grundzügen bis auf die gegenwärtige Zeit fortdauert).
Ogni parte del sommo intero e ogni soggetto coltivava, fabbricava, commerciava con altre
nazioni, a seconda della sua libera scelta in merito. I prodotti venivano condotti sui diversi
mercati e i prezzi si costituivano da sé26.

Nel quadro dell’unità garantita dall’Europa cristiana, la moneta in oro e


in argento era universalmente riconosciuta e, ipso facto, rendeva possibile
uno scambio senza frontiere. Quest’ultimo è progressivamente divenuto la
base per il costituirsi del moderno Handelsstaat e della funesta anarchia che
ne è scaturita. L’Europa cristiana, unita dalla fede e dai valori, pur nella
pluralità delle culture e delle lingue, costituiva un intero, in cui l’autonomia
delle parti era rispettata: war das christliche Europa ein Ganzes, so musste
der Handel der Europäer unter einander frei seyn, “l’Europa cristiana era
come un’unica totalità, e di conseguenza il commercio tra gli Europei
doveva essere libero”27.
Oggi, invece, seguita Fichte, tale situazione si è rovesciata
perversamente: l’economia si è autonomizzata e, grazie all'unità cristiana,
tende a distruggere le culture e a imporre se stessa come solo principio di
riferimento. La positiva unità cristiana si è dialetticamente rovesciata nella
propria negazione, nella falsa universalità del commercio fine a se stesso,
che trascina nell’abisso i popoli, le culture e i valori stanti alla base della
stessa civiltà cristiana.
Ne è scaturita, appunto, quella che proprio in questo passaggio Fichte
connota espressamente come la moderna Anarchie des Handels, che occorre
combattere per gli effetti funesti che provoca, in primis la dissoluzione della
comunità in singoli atomi concorrenziali e reciprocamente ostili. Fichte
riprende, a questo punto, quanto già ampiamente sostenuto: se il
compito dello Stato è garantire ciascuno nella proprietà dopo
avercelo immesso, in modo che i suoi bisogni fondamentali siano
stabilmente garantiti, allora occorre lottare incondizionatamente contro
quella forza - l’Handelsanarchie - che tende a distruggere un tale equilibrio.
In particolare, precisa Fichte:
È stato omesso il principale dovere dello Stato, che consiste nel porre anzitutto ognuno in
possesso di quel che gli spetta. Non si può però soddisfare un tale dovere se non allorché sia
annientata l'anarchia del commercio (ist nur dadurch möglich, dass die Anarchie des Handels
ebenso aufgehoben werde), proprio come si è un po’ alla volta neutralizzata l’anarchia politica,
e fintantoché non si sia chiuso commercialmente lo Stato, proprio com’è chiuso nella sua
legislazione e nelle sue funzioni giudiziarie28.

Si tratta di uno snodo concettuale decisivo, su cui è bene soffermare


l’attenzione. Secondo quanto già sostenuto, l'Handelsanarchie distrugge il
primato dell’umano sulle cose, della politica sull’economia: tende, cioè, a
produrre quella che, con Carl Schmitt, potremmo definire la
Entpolitisierung29, svuotando la politica e riducendola a mera ancilla
oeconomiae. L’anarchia commerciale si capovolge puntualmente in
anarchia politica. Il fatto che lo Stato liberale sia semplice garante formale
della proprietà, senza curarsi della sostanza, è il modo in cui l’anarchia
commerciale sussume sotto di sé la politica piegandola ai propri fini,
riconfigurandola come semplice mezzo, come strumento al servizio del mos
oeconomicus.
Secondo quanto precisato nel sesto capitolo di questo secondo libro,
entstehen durch das Handelsinteresse politische Begriffe, die nicht
abenteuerlicher seyn könnten, “in forza degli interessi commerciali,
sorgono i princìpi politici più bislacchi”30: i quali, se letti in trasparenza, si
rivelano immancabilmente funzionali al consolidamento dell’immane
potenza del negativo economico. Variando la nota formula di von
Clausewitz, la politica decade e si riconfigura come mera continuazione
dell’economia con altri mezzi31. È questa la condizione mortifera in cui
versa l’Europa, svilita a immenso Handelstaat in cui le leggi dell’economia
costringono gli individui alla miseria e sgretolano ogni solidarietà
comunitaria.
Sulle patologie che scaturiscono dalla situazione anarchica generata dal
nomos dell’economia, Fichte si sofferma ulteriormente nel terzo capitolo
del secondo libro, programmaticamente intitolato Gegenseitiges Verhältniss
der Einzelnen in diesem grossen Handelsstaate, “rapporto oppositivo tra gli
individui in questo grande Stato”32. L'Handelstaat modellato secondo
i princìpi dell’anarchia commerciale, e dunque sulla base
della Entpolitisierung e sulla destrutturazione di ogni realtà statale in grado
di opporre resistenza, pone in essere l’esatto opposto di quello che abbiamo
individuato come il Vernunftstaat. In quest’ultimo, come si è visto, e come
qui Fichte ricorda en passant, il denaro sarebbe ugualmente distribuito tra
gli individui, e tutti avrebbero, dunque, eguale diritto a un’eguale quantità
delle merci esistenti: l’eguale libertà costituirebbe il fondamento dello Stato
edificato in accordo con i princìpi dell'ordo ordinans della ragione, come
Fichte ha evidenziato nel primo libro, sulla Filosofia33.
In nome della legge della giusta misura, non vi sarebbero né troppo
ricchi, né troppo poveri. Se lo Stato reale, modellato secondo i princìpi dell
'Handelsanarchie, è il rovesciamento del Vernunftstaat, ciò dipende
direttamente dal fatto che si configura, in pari tempo, come la negazione
dell’ideale dei liberi rapporti secondo uguale riconoscimento all’interno
della comunità umana, ossia, come si è visto, di quello che è lo scopo del
processo emancipativo del genere umano: rispetto al quale lo stesso Stato
commercialmente chiuso si pone come un importante strumento34.
L’immenso Stato commerciale europeo, destinato a farsi globale, mostra
l’esatto opposto del Vernunftstaat delineato secondo i princìpi della WL. In
luogo della solidarietà comunitaria, domina l’individualismo acquisitivo ed
egoistico; in luogo della giusta misura, trionfa su tutto il giro d’orizzonte
l’infausta norma della smisuratezza; anziché la pace sociale, si impone
la lotta perpetua tra gli individui, atomi sociali che si sentono
reciprocamente ostili, hobbesianamente lupi desiderosi di avere tutto a
scapito degli altri. Fichte descrive senza perifrasi la scena globale
dell’anarchia commerciale, intessuta di ingiustizia e di conflitti, di egoismo
e di passioni tristi, di miseria e sfruttamento35. La realtà storica del tempo
presente si configura, di conseguenza, come la più grande negazione
dell’ideale che si possa concepire. Non vi è, in concreto, altro modo di
essere idealisti, nella congiuntura storica, se non opponendosi
operativamente all'Handelsanarchie e supportando la teoria del
Vernunftstaat36.
Il presente compiutamente peccaminoso esibisce il macabro spettacolo
di una vera e propria tragedia nell’etico, direbbe Hegel: il quale, non a caso,
nelle Grundlinien der Philosophie des Rechts, tratteggiando la miseria
scaturente dal System der Bedürfnisse non disciplinato dalle potenze
etiche37, profila uno scenario che sembra direttamente richiamarsi a queste
pagine fichtiane di denuncia incondizionata del mondo signoreggiato dalle
logiche capitalistiche. Si tratta, a tutti gli effetti, dell’hobbesiano stato di
natura, del “sistema atomistico”38 (System der Atomistik) - secondo la
pregnante formula hegeliana - in cui il singolo si pensa autonomo e, di più,
in antitesi rispetto alla comunità disgregata dal mos oeconomicus. Con la
sintassi dell'Enzyklopädie di Hegel, “queste persone, in quanto tali,
hanno nella loro coscienza e per loro fine non l’unità assoluta, bensì la loro
propria particolarità e il loro essere-per-sé. E così ha luogo il sistema
atomistico”39.
Quella che il Leviatano pensa come condizione naturale è, invece, il
prodotto dell’anarchia commerciale, secondo il classico dispositivo
ideologico per cui si naturalizza il presente eternizzandolo e santificandolo.
Scrive Fichte, tratteggiando come situazione propria dell’anarchia
commerciale quella che Hobbes, in fondo, aveva delineato come status
naturae: kurz, keinem ist für die Fortdauer seines Zustandes bei der
Fortdauer seiner Arbeit im mindesten die Gewähr geleistet; denn die
Menschen wollen durchaus frei seyn, sich gegenseitig zu Grunde zu richten,
“in poche parole, non viene affatto assicurata a nessuno la stabilità della sua
condizione con la durata del lavoro. Infatti, gli uomini desiderano essere del
tutto liberi di mandarsi vicendevolmente in rovina”40.
Il quarto capitolo del libro sulla Zeitgeschichte approfondisce e
radicalizza la logica del precedente. Dall’esame dei rapporti oppositivi tra
gli individui all’interno dello Stato, Fichte volge ora all’esplorazione - così
recita il titolo di questo quarto capitolo — del Gegenseitiges Verhältniss der
Nationen, als Ganzer im Handelsstaats, ossia del “rapporto oppositivo tra
le nazioni come un intero nello Stato commerciale”. Anche sul piano
internazionale, l’anarchia del commercio pone in essere una condizione
profondamente affine allo status naturae delineato da Hobbes: gli Stati
come magni homines si fronteggiano minacciosamente con postura
gladiatoria41. Ognuno scorge nell’altro i tratti di un pericoloso rivale
commerciale da sottomettere o, alternativamente, da annientare. Il bellum
omnium contra omnes traccia l’orizzonte di senso dell’immenso
Handelstaat, in cui l’economico autonomizzato è andato a occupare in
modo pressoché integrale lo spazio del politico nazionale, piegandolo al
proprio obiettivo insensato - la valorizzazione del valore - e producendo,
per ciò stesso, quel colonialismo e quell’imperialismo che Fichte ha
demonizzato fin dall’epistola dedicatoria42.
Il quinto e il sesto capitolo di questo secondo libro sono essi stessi
dedicati a un approfondimento di questi temi e, in particolare, a una
vibrante condanna della peccaminosità dilagante nel tempo presente. Nella
fattispecie, il sesto capitolo tenta di mostrare come, allorché una nazione
abbia ottenuto l’egemonia commerciale, le altre debbano di necessità
cercare di ridimensionarla per ristabilire un equilibrio: se non possono farlo
a spese della nazione dominante, lo faranno inevitabilmente ai danni di
quella più debole. È in questo quadro di potenziale conflittualità illimitata,
generata dell'auri sacra James, che ogni nazione mira senza posa a
estendere i propri confini per potenziarsi economicamente: a rimetterci sono
tutte le nazioni e, soprattutto, le più deboli. Scrive Fichte:
Accanto alla tensione tra uno Stato e l’altro a causa dei confini, sorge un nuovo motivo di
conflitto per via degli interessi del commercio (Handelsinteresse), e una comune e sotterranea
guerra commerciale. All’interesse del proprio tornaconto va ad aggiungersi quello delle perdite
degli altri. Si gode di queste ultime pur in assenza del primo, per mero amore del danno a
svantaggio di altri43.

Il pensatore di Rammenau tratteggia con grande realismo la condizione


di sconvolgimenti e di conflitti che caratterizza lo scenario dell'
Handelsanarchie e, con altrettanta lungimiranza, adombra come le guerre
tra gli Stati sorgano sempre dalla “questione economica” e dagli
Handelsinteresse, dalla sete di dominio e di profitto: come se, appunto,
sulla macroscala dei rapporti tra gli Stati si verificasse quanto accade anche
nelle relazioni tra gli individui conflittuali all’interno dello Stato soggiogato
alla potenza dell’economico assolutizzato44.
Un punto su cui l’analisi fichtiana dello Stato commerciale chiuso
insiste con enfasi riguarda l’impiego ideologico che dei princìpi politici si
esercita al solo fine di legittimare le guerre di aggressione e - saremmo
tentati di dire con termine non fichtiano - l’imperialismo connaturato al
nomos dell’economia. In questo, l’analisi di Fichte è decisamente
lungimirante, si diceva, perché non solo denuncia con rigore le
contraddizioni del presente (identificandone correttamente la matrice
economica e, insieme, smascherando la copertura ideologica a cui il
potere inaggirabilmente ricorre per nobilitarle), ma anche perché, di fatto,
anticipa teoricamente l’odierno scenario compiutamente globalizzato: in
esso, in nome di cause nobili come i “diritti umani” e la pace si
aggrediscono imperialisticamente gli Stati con il solo scopo di trame
vantaggi economici45.
Già allo sguardo critico di Fichte il movimento di mondializzazione
promosso a propria e immagine e somiglianza dal mos oeconomicus rivela,
in ciò, la propria essenza imperialistica artatamente occultata tramite le
sgargianti prestazioni dell’ideologia. Scrive il pensatore di Rammenau, in
una pagina che dovrebbe indurre alla riflessione critica il nostro
presente, addormentato com’è nel sonno del dogmatismo dilagante:
Il conflitto degli interessi commerciali è frequentemente l’autentico motivo delle guerre
(das streitende Handelsinteresse ist oft die wahre Ursache von Kriegen), per le quali si tende
sempre a cercare un ordine di motivi differenti. In tal maniera, viene assoldata una metà del
pianeta contro i princìpi politici di una popolazione, per quanto si dice, mentre la guerra è, in
verità, indirizzata contro il suo commercio e a detrimento degli stessi reclutati46.

È sulla base di questa ipocrisia imperante che la guerra viene


contrabbandata come pace e le leggi economiche vengono occultate, ieri
come oggi, dietro la vernice della politica asservita al mos oeconomicus. Per
questo motivo, precisa Fichte, sorge il dominio sul mare, ossia su
quell’elemento che, come l’aria e la luce, dovrebbe essere liberamente
accessibile per ogni ente razionale finito. Se quella descritta con timbro
spietatamente critico da Fichte corrisponde alla realtà storica di un presente
che già si lascia connotare come epoca della compiuta peccaminosità, ne
segue, con tutta evidenza, che occorre adoperarsi per reagire attivamente
alle logiche del reale, nel tentativo di conformarlo all’ideale del
Vernunftstaat, di cui l’esistente, come si è visto, costituisce
complessivamente la più perversa negazione47.
Se oggi domina incontrastatamente il conflitto sociale interno e lo
scontro geopolitico esterno, si tratta, spiega Fichte, di invertire la tendenza.
Per farlo, occorre attuare i princìpi fissati nel primo libro, sulla Filosofia,
mediante i quali diventa possibile instaurare il Vernunftstaat:
Il mantenimento della pace interna (Erhaltung der inneren Ruhe) è, di necessità, l’obiettivo
primario del governo, e lo si deve anteporre alla pretesa di potere esterno, essendo quest’ultimo
condizionato dal primo. Tale sicurezza delle usuali condizioni di ciascuno non può essere
ottenuta se non attraverso un calcolo preciso dei differenti ceti nazionali in relazione tra loro,
secondo quanto si è mostrato nel primo libro, e attraverso la compiuta chiusura del commercio
con l'estero (durch die völlige Schliessung des Handels gegen das Ausland)48.
L’armonia sociale come base per il mantenimento dell'ethos comunitario
può solo essere raggiunta tramite la chiusura dello Stato sul piano
commerciale. Per questa ragione, una volta di più, il geschlossene
Handelsstaat è la sola via che la ragione consiglia di percorrere per reagire
alla disgregazione dell’etico in atto49.

1. C. De Pascale, Vivere in società, agire nella storia: libertà, diritto,


storia in Fichte, cit., pp. 129 ss.
2. Cfr. J.-P. Mittmann, Tathandlung und absolutes Subjekt,
in “Philosophisches Rundschau”, n. 40 (1993), pp. 274-290.
3. Si veda soprattutto H. Heimsoeth, J.G. Fichtes Aufschliessung
der gesellschaftlichgeschichtlichen Welt, Edizioni di Filosofia, Torino 1962.
4. In Fichte “la storia è pensata come il processo in cui i princìpi
della ragione vengono cercati e divengono pratici nella realtà storico-
sociale”: F.J.E. BECKER, Freiheit und Entfremdung bei Fichte, Marx und
in der kritischen Theorie, dissertazione di dottorato, Köln 1972, p. 55.
5. J.G. Fichte, Nachgelassene Schriften (= NS), a cura di H. Jacob,
II, Schriften aus den Jahren 1790-1800, Junker und Dünnhaupt, Berlin
1937. II, p. 589.
6. Nei Grundzüge, l’ordine del mondo diventa il Weltplan, l'ideale
in nome del quale agire nella storia affinché trionfi l’ordine morale. Come
evidenziato da Jean-Christoph Goddard, “il concetto di un piano del mondo
( Weltplan) non significa la predeterminazione necessaria e reale del tempo,
ma - come nel 1798 nella Sittenlehre - la predeterminazione dei compiti,
che devono essere porlati a compimento solo liberamente. L’umanità può di
fatto solo ‘con le sue proprie gambe’, ‘con la propria forza’ percorrere la
via che le è assegnata tramite il piano del mondo. [...] Il Weltplan si lascia
così intendere come progetto storico dell’umanità”: J.-C. Goddard, Der
Gott Fichtes und der Gott Rousseaus, in C. De Pascale ET ALII (a cura di),
Fichte und die Aufklärung, cit., p. 174.
7. R. Lauto, Con Fichte, oltre Fichte, a cura di M. Ivaldo,
Trauben, Torino 2004, p. 57.
8. X. LÉON, Fichte et son temps, cit., I, p. 4.
9. P. Salvucci, La costruzione dell'idealismo. Fichte, cil., p. 69. "Che
la filosofia di Fichte intenda restare intimamente legata alla vita, alla prassi
vivente degli uomini, in breve alla comunità umana, è costantemente
ribadito nella sua pagina” (ivi, p. 70). Così si sostiene in merito alla
missione degli uomini: “essi tendono a realizzare la ‘unità assoluta’, una
comunità (un soggetto) assoluta, tendono alla unificazione delle coscienze
(l’io assoluto come progetto e/o compito” (ivi, p. 73). “Il rapporto che il
pensiero di Fichte mantiene, nel suo movimento, con la realtà etico-politica
contemporanea, il suo porsi come filosofia della conquista e della
costruzione di una società ragionevole, dinamica ed aperta, e la sua
concezione dello Stato” (ivi, p. 229).
10. Cfr. F. Nietzsche, Unzeitgemässe Betrachtungen. Zweites Stück:
Vom Nutzen und Nachteil der Historie für das Leben, 1874; tr. it. a cura di
S. Giametta, Sull'utilità e il danno della storia per la vita, Adelphi, Milano
200718, p. 27.
11. J.G. Fichte im Gespräch. Berichte der Zeitgenossen, a cura di E. l
uchs, Stuttgart-Bad Cannstatt, 1978-1992, 6 voll, in 7 tomi, I, p. 375.
12. G. Duso, Contraddizione e dialettica nella formazione del
pensiero fichtiano, cit., p. 136.
13. R. MUSIL, Der Mann ohne Eigenschaften, 1930-1942; tr. it. a
cura di A. Rho, L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino 1972, 2 voll., I, pp.
12-13.
14. Sul senso della possibilità filosoficamente declinato, si veda G.
ZINGARI, Speculum possibilitatis. La filosofìa e l'idea di possibile, Jaca
Book, Milano 2000.
15. Cfr. E. BURKE, Reflections on the Revolution in France, 1790; tr.
it. a cura di V. Beonio-Brocchieri, Riflessioni sulla Rivoluzione Francese,
Ciarrapico editore, Roma 1984.
16. Cff. A. Smith, An Inquiry into the Nature and Causes of the
Wealth of Nations, 1776; tr. it. a cura di A. Roncaglia, La ricchezza delle
nazioni, Newton, Roma 1995.
17. Non possiamo pertanto condividere la tesi di Picardi secondo
cui Fichte, volens nolens, finirebbe per precipitare nel fatalismo storico e
nel determinismo radicale: “Fichte stesso utilizza, in riferimento al proprio
concetto a priori di piano cosmico, il termine Leitfaden, di chiara
derivazione kantiana. La differenza fondamentale consiste nel fatto che
Fichte, al pari di Schelling e Hegel, si sforza di risolvere il problema, già
kantiano, della intelligibilità della storia - in quanto mondo prodotto dalla
libertà - a partire da un impianto metafisico che conferisce alla nozione di
‘piano cosmico’ un significato ontologico e costitutivo, ben diverso dal
valore meramente regolativo che, almeno a partire dalla terza Critica, Kant
assegna alla propria concezione teleologica della storia” (R. Picardi, Il
concetto e la storia: la filosofìa della storia di Fichte, cit., p. 13).
18. A. RENAUT, Le Systeme du droit. Philosophie et droit dans la
pensée de Fichte, PUF, Paris 1986, pp. 230. ss.
19. F. MOISO, Natura e cultura nel primo Fichte, Mursia, Milano
1979, p. 337.
20. Cfr. M. Ivaldo, Fichte e Leibniz: la comprensione
trascendentale della monadologia, cit., pp. 130 ss.
21. J.G. Fichte, SW, III, P. 449.
22. Ibidem.
23. Ivi, p. 450.
24. Cfr. M. Maesschalck, Droit et création sociale chez Fichte. Une
Philosophie moderne de l’action politique, cit., pp. 104 ss.
25. J.G. Fichte, SW, III, p. 450.
26. Ivi, p. 452.
27. Ivi, p. 453.
28. Ibidem.
29. Cfr. C. Schmitt, L'epoca delle neutralizzazioni e delle
spoliticizzazioni, cit., pp. 177 ss.
30. J.G. FICHTE, SW, III, p. 468.
31. “La guerra non è dunque solamente un atto politico, ma un vero
strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua
continuazione con altri mezzi”: K. von Clausewitz, Vom Kriege, 1832; tr. it.
a cura dl H, Aroldi, Della guerra, Mondadori, Milano 1970, p. 798.
32. J.G. Fichte, SW, III, p. 454.
33. Ivi, pp. 454-457.
34. Cfr. A. Verzar, Das autonome Subjekt und der Vernunftstaat.
Eine systematisch-historische Untersuchung zu Fichtes "Geschlossenem
Handelsstaat" von 1800, cit., pp. 73 ss.
35. J.G. Fichte, SW, III, pp. 454 ss.
36. Si veda S. Furlani, Libertà economica e controllo politico. Lo
"Stato commerciale chiuso" di Fichte, cit, pp. 43-45.
37. “Se lo Stato viene scambiato per la società civile, e se quindi la
sua destinazione viene posta nella sicurezza e nella protezione della
proprietà e della libertà personale, allora l’interesse dei singoli in quanto tali
diviene il fine ultimo (der letzte Zweck) per cui essi sono uniti, e, a un
tempo, il l'atto di essere membro dello Stato finisce col dipendere dal
capriccio individuale": G.W.K Hegel, Grundlinien der Philosophie des
Rechts, 1821; tr. it. a cura di V. Cicero, Lineamenti di filosofia del diritto,
Bompiani, Milano 2006, p. 417
38. G.W.F. Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften
im Grundrisse, § 523, 1830; tr. it. a cura di V. Cicero, Enciclopedia delle
scienze filosofiche in compendio, Bompiani, Milano 2000, p. 825.
39. Ibidem.
40. J.G. Fichte, SW, III, p. 458.
41. Cfr. D. James, Fichte's Social and Political Philosophy: Property
and Virtue, cit., p. 419.
42. I. THOMAS-FOGIEL, Fichte. Reflexion et argumentation, cit., p.
235.
43. J.G. Fichte, SW, III, pp. 468-469.
44. Cfr. A.W. Wood, Kant and Fichte on Right, Welfare and
Economic Redistribution, cit.,pp. 79-85.
45. Su questo tema, si veda ad esempio N. Chomsky, The New
Military Humanism: Lessons from Kosovo, 1999; tr. it. a cura di S. Fusari, Il
nuovo umanitarismo militare. Lezioni dal Kosovo, Asterios, Trieste 2000; S.
Zizek, Against Human Rights, 2005; tr. it. a cura di D. Cantone, Contro i
diritti umani, Il Saggiatore, Milano 2006.
46. J.G. Fichte, SW, III, p. 468.
47. Cfr. B. Wulms, Die totale Freiheit. Fichtes politische
Philosophie, cit., pp. 95 ss.
48. J.G. Fichte, SW, III, p. 470.
49. Cfr. S. Furlani, Libertà economica e controllo politico. Lo
“Stato commerciale chiuso" di Fichte, cit., pp. 45-46.
14

LA POLITICA COME MEDIAZIONE TRA ESSERE E DOVER-


ESSERE

Questa politica è mediatrice tra lo Stato reale e lo Stato


secondo ragione.

J.G. FICHTE, Lo Stato commerciale chiuso

Come già si è sottolineato, il terzo libro dello Stato commerciale chiuso


è dedicato alla Politica, ossia al modo concreto per mediare tra idealità e
realtà, permettendo alla prima di andare a innestarsi sulla seconda e di
riconfigurarla ex novo. L’obiettivo della politica coincide allora, secondo
l’icastica formula che Fichte impiega nel primo capitolo di questo terzo
libro, con l’attuazione del “passaggio dalla condizione di anarchia
commerciale a quella conforme a ragione (aus der Handelsanarchie zur
vernunftmässigen Einrichtung des Handels)”1. La politica deve, in altri
termini, garantire operativamente il transito dallo Stato reale a quello
razionale, permettendo al secondo di rimodellare il primo. Già da questo
primo inquadramento generale emerge in che senso quella di Fichte possa a
giusto titolo essere considerata, secondo il titolo della monografia di Marc
Maesschalck, une philosophie moderne de l’action politique2.
Alla luce di quanto si è sostenuto in precedenza, non dovrebbero più
esservi dubbi sul fatto che il Vernunftstaat fichtiano debba configurarsi in
forma commercialmente chiusa, come Fichte stesso chiarisce ripercorrendo
succintamente le principali acquisizioni teoriche delle precedenti sezioni del
suo testo:
Lo Stato deve chiudersi del tutto rispetto a ogni commercio con l’estero e deve, di qui in
avanti, costituire un corpo commerciale disgiunto (einen abgesonderten Handelskörper),
esattamente come ha sempre formato un corpo giuridico e politico disgiunto. Una volta che sia
stata fissata tale chiusura, tutto il resto seguirà automaticamente (ist nur erst diese Schliessung
zu Stande gebracht, so ergiebt alles übrige sich gar leicht)3.

Fichte è convinto che la chiusura delle frontiere non implichi affatto


l'impoverimento dei cittadini, secondo un’obiezione che il pensiero unico
dominante non cessa di muovere a ogni progetto di ripristino dell’egemonia
del politico sull’economico mediata dalla potenza statale. Al contrario,
nello Stato commercialmente chiuso - spiega Fichte - ciascuno disporrà
liberamente di tutto ciò di cui necessita, e che viene prodotto, fabbricato e
coltivato all’interno dei confini nazionali4. Non vi è paese - spiega il
pensatore di Rammenau - in cui non si possa produrre o fabbricare tutto
quel che è sufficiente per permettere a tutti i suoi abitanti di soddisfare i
bisogni fondamentali e, di più, di vivere agiatamente.
Occorre, naturalmente, distinguere in maniera accurata, sulla scia di
Epicuro e del suo calcolo razionale dei piaceri5, tra desideri “naturali e
necessari” e desideri “non naturali né necessari”, o, più in generale, tra
bisogni e desideri tout court, il the cinese o la pelliccia di zibellino, spiega
Fichte, sono con tutta evidenza desideri non naturali né necessari, di cui si
può tranquillamente fare a meno all’interno di uno Stato secondo ragione.
E, per irrazionale che una tale condizione possa a tutta prima apparire, essa
risulterà comunque meno irrazionale, per la ragione pensante, rispetto a
quella - ordinaria follia del presente - per cui, nello Stato realmente
esistente, vi è chi dispone del superfluo e chi manca del necessario. Così
compendia Fichte la propria visione sulla necessità della Schliessung dello
Stato sul piano commerciale, in chiusura del secondo capitolo di
questo terzo libro:
La chiusura dello Stato dal punto di vista commerciale (das Verschliessen des
Handelsstaates) non comporta affatto unicamente l’astinenza o la rigorosa limitazione ai
prodotti naturali del nostro Stato. Tale chiusura non sopprime l’energica appropriazione, ad
opera nostra, di ciò che è buono e bello sulla superficie della terra. E indubbiamente una parte
ci è dovuta, giacché pure la nostra nazione ha indubbiamente da secoli cooperato mediante il
lavoro e l’industria alla costituzione del comune patrimonio del genere umano (Gemeinbesitze
der Menschheit)6.

Il terzo capitolo del libro sulla Politica è dedicato al tentativo di


mostrare come sia la natura stessa a indicare la via secondo la quale istituire
Stati commerciali chiusi. In particolare, spiega Fichte, fiumi, mari,
montagne e colline disegnano confini naturali per gli Stati, a cui sarebbe
bene attenersi per la suddivisione del mondo in Stati commerciali chiusi. E,
invece, l’Europa nel suo assetto vigente offre uno spettacolo di tutt’altro
genere. Anche in questo caso, la realtà ostenta una completa negazione
dell’idealità: infatti, negli Stati europei, senza eccezioni di rilievo, i confini
sembrano tracciati dal cieco caso7. La conseguenza di questa accidentalità
sta nel fatto che ogni Stato avverte di essere incompleto, ossia sente che
parti che, di fatto, rientrano per natura appieno nel suo territorio sono
invece annesse ad altri Stati.
In questa maniera, accade che “Stati che dovrebbero costituirne
unicamente imo e che sono collocati all'interno degli stessi confini naturali
sono in perpetua guerra”8. In modo convergente, Stati che non intrattengono
rapporti conflitti per ragioni di confine si alleano tra loro, perché aspirano a
sottomettere un altro Stato. Discende da queste premesse quella situazione
di guerra di tutti contro tutti che caratterizza, nel mondo dell’anarchia
commerciale, le relazioni tra gli individui come tra gli Stati: so erfolgt
nothwendig ein Zustand, in welchem der Friede nur darum geschlossen
wird, damit man wiederum Krieg anfangen könne, “ne scaturisce, di
necessità, uno stato di cose in cui non è stipulata la pace, se non al fine di
poter riavviare la guerra”9.
Dopo queste precisazioni, Fichte viene svolgendo alcune considerazioni
intorno alla guerra. Ancorché i filosofi abbiano da tempo assunto la
tendenza a condannarla in quanto tale, quello che, con termine odierno,
qualificheremmo come “pacifismo” è da Fichte liquidato senza mezzi
termini, giacché corrisponde a uno stato di impotenza che a nulla vale
quando la realtà sia intessuta di conflitti e scontri armati10. Anche da
questo, per inciso, emerge l’attenzione fichtiana per la concretezza storica.
L’anarchia commerciale produce fisiologicamente sempre nuove guerre,
con la conseguenza che, per Fichte, i belati inoffensivi di chi inneggia alla
pace sono, oltre che del tutto ineffettuali, la prova di una effettiva
impotenza; la quale, peraltro, oltre a non eliminare la condizione
conflittuale, delegittima la resistenza degli aggrediti ponendola
surrettiziamente sullo stesso piano della violenza degli aggressori. Per
rimuovere la condizione del conflitto, occorre sopprimere l
'Handelsanarchie: con le parole del pensatore di Rammenau, soll der
Krieg aufgehoben werden, so muss der Grund der Kriege
aufgehoben werden, “qualora si desideri sopprimere la guerra, occorre
rimuovere le cause che la fanno sorgere”11.
Per superare questa condizione anomica, e dunque per rimuovere,
insieme con l’anarchia del commercio, la conflittualità che le è
coessenziale, ogni Stato, prima di operare la propria Schliessung
commerciale, deve chiudersi nei suoi confini naturali, in modo da
guadagnare una sorta di unità naturale, occupando lo spazio che gli è, per
così dire, assegnato dalla natura. Ciò non significa necessariamente che
debba invadere altri Stati spiega Fichte in modo, invero, non del tutto
convincente -, perché potrebbe anche rinunciare di sua spontanea iniziativa
a parti del proprio territorio, arretrando fino a rientrare stabilmente in una
precisa delimitazione spaziale racchiusa entro confini naturali12.
Chiudendosi in sé, lo Stato assicurerà ai suoi confinanti che esula dai
suoi interessi l’espansionismo militare. Infatti, una volta che si sia chiuso
commercialmente, il potere statale non ha più alcun interesse alla conquista
militare, la quale, come si è visto, corrisponde alla maniera con cui il nomos
dell’economia si riproduce alimentando conflitti e concorrenza su tutta la
linea. Commercialmente chiuso in se stesso, lo Stato non ha alcun motivo
per intrattenere rapporti commerciali - né pacifici, né conflittuali - con i
confinanti: ne scaturirà, di conseguenza, una feconda situazione di pace tra
gli Stati che, dopo essersi chiusi sul piano commerciale, non avranno altro
interesse all’infuori del libero sviluppo e dell’emancipazione dei singoli
membri interni alla comunità etica. Secondo Fichte, si dovrebbe, per questa
via, pervenire a una condizione di pacifica coesistenza tra gli Stati
commercialmente chiusi.
Il quarto capitolo del libro sulla Politica approfondisce in che modo e
secondo quali criteri debba attuarsi la chiusura commerciale. Il titolo del
capitolo suona, significativamente. Entscheidende Maassregel, um die
Schliessung des Handelsstaates, und alle soeben aufgestellten Bedingungen
dieser Schliessung zu erreichen, “norme fondamentali per pervenire allo
Stato chiuso e per raggiungere le condizioni che rendano possibile tale
chiusura”13. È in questo delicato snodo teorico che risiede, a ben vedere, il
più arduo compito della politica come mediazione operativa tra ideale e
reale. Il primo aspetto, lampante, su cui Fichte porta l’attenzione riguarda il
fatto che “deve estinguersi ogni commercio immediato del cittadino con
qualsiasi straniero”14 (aller unmittelbare Verkehr des Bürgers mit
irgend einem Ausländer soll durchaus aufgehoben werden). Il fatto stesso
che, come si è visto, la moneta sarà valida solo nei confini nazionali e sarà
composta con un materiale privo di valore, renderà impossibile il
commercio tra i singoli individui di uno Stato e quelli di un altro.
Come unica possibilità, una volta che si sia neutralizzata la facoltà di
scambiare mediante la moneta, resterebbe lo scambio diretto di merci con
merci. E, tuttavia, spiega Fichte, si tratta di una possibilità assai remota,
giacché, per lo Stato, non è affatto difficile sorvegliare le merci e i loro
movimenti. Allora, rebus sic stantibus, la vera soluzione per portare a
compimento la chiusura commerciale degli Stati consiste nella rimozione
della moneta come possibilità dello scambio15. Scrive Fichte, mostrando
come realizzare concretamente l’ideale tracciato fin dal primo libro:
Pertanto, la soluzione del nostro dilemma sarebbe quella che segue: ciascuna moneta
circolante in generale per il globo e presente presso i cittadini, vale a dire tutto quanto I 'oro e
l ’argento, verrebbe messa fuori corso e mutata nella nuova moneta territoriale, ossia in una
nuova moneta circolante solamente nello Stato (Alles in den Händen der Bürger befindliche
Weltgeld, d.h. alles Gold und Silber, wäre ausser Umlauf zu bringen, und gegen ein neues
Landesgeld, d.h. welches nur im Lande gälte, in ihm aber ausschliessend gälte, umzusetzen). E,
poi, si assegnerebbe valore e valore esclusivo alla moneta locale in questo modo: il governo
non accetterebbe pagamenti in alcuna altra moneta (il governo, al quale per via delle tasse si
fanno i più robusti pagamenti e che, tramite l'introduzione della nuova moneta e tramite altre
norme adeguate potrebbe diventare, in fondo, il solo acquirente)16.

Il capitolo quinto di questo terzo libro sulla Schliessung des


Handelsstaates riprende e approfondisce questo tema. Fichte prospetta
anche una giustificazione della ridondanza della sua esposizione e del fatto
che torni di continuo su princìpi fissati in precedenza. In forza dei
pregiudizi radicati, vuoi anche grazie alla complicità del lavoro più o meno
carsico dell’ideologia, occorre ripetere quanto già sostenuto, in modo che
possa scolpirsi nelle menti e sia possibile liberarle dal gravame delle
false idee da cui sono colonizzate17.
Del resto, spiega Fichte, quand’anche si mostrasse more geometrico la
falsità dei pregiudizi più collaudati e, insieme, la necessità di pensare
altrimenti, le menti, pur sinceramente convinte di ciò, continuerebbero per
inerzia a pensare come prima, e dunque a rimanere prigioniere della forza di
attrazione della falsità organizzata. Per questa ragione, questo quinto
capitolo, come anche il sesto, ripropone questi temi, specificando - è questo
il titolo del capitolo sesto - weitere Maassregeln zur Schliessung des
Handelsstaates, “ulteriori misure per chiudere commercialmente lo
Stato”18.
La moneta d’oro e d’argento, come si è visto, è stata ritirata ad opera
dello Stato. In suo luogo, è stata emessa una moneta composta in un
materiale senza valore, di modo che risulti valida come mezzo di scambio
solo entro i confini statali e non vi sia possibilità di impiegarla nel
commercio con gli stranieri. Tramite questa soluzione, il commercio con
l’estero è apriori sticamente impedito, senza neppure fare ricorso a
punizioni e a pene ai danni dei cittadini. Non potranno esservi
trasgressori, per il semplice fatto che sarà materialmente impossibile - per
i motivi che si sono esplicitati poc’anzi - commerciare con l’estero. Anche
da ciò si evince come lo Stato commercialmente chiuso non sia, per Fichte,
uno Stato disciplinare e - diremmo oggi - “totalitario”.
La vecchia moneta in oro e in argento, ritirata, come si è visto, ad opera
dello Stato, potrà, tuttavia, ancora svolgere un’importante funzione. Lo
Stato, ossia l’unico suo legittimo detentore, la impiegherà, innanzitutto, per
portare felicemente a compimento l’opera della propria Schliessung. Ma
poi, accanto a questa funzione, ve ne sarà un’altra: lo Stato, infatti,
potrà avvalersi della moneta argentea e dorata “in vista dell’acquisizione
valida per la nazione della sua parte di quel che di buono e bello si dà sulla
superficie dell’immensa repubblica del commercio”19 (der Nation ihren
Antheil an allem Guten und Schönen auf der ganzen Oberfläche der
grossen Handelsrepublik kräftig zuzueignen). In concreto, lo Stato, qualora
si trovi - esso solo - a trattare con gli stranieri, pagherà e riscuoterà con
la moneta comune argentea e dorata. Invece, nelle relazioni con i suoi
cittadini seguiterà a impiegare unicamente quella nazionale, valida come
mezzo di scambio solo entro i confini statali.
Occorre, a questo punto, domandarsi in che senso e sulla base di quali
presupposti lo Stato possa trattare con l’estero per acquistare ciò che di
buono e bello manca entro i suoi confini. È quanto Fichte prova a chiarire
nel terzo paragrafo del sesto capitolo del terzo libro dello Stato commerciale
chiuso. Scrive il pensatore di Rammenau:
Il governo dispone, con il denaro d’oro e d’argento che ha ritirato, del più potente
strumento possibile (das wirksamste Mittet). Con esso, lo Stato può attirare e acquistare tutte le
forze e gli aiuti di cui potrà avere bisogno. Attira a sé dagli Stati esteri, a qualunque prezzo, le
persone più valide nelle scienze applicate, i sommi chimici, fisici, meccanici, artisti,
fabbricanti. Lo Stato è nelle condizioni di remunerare la loro opera più di quanto siano in grado
di fare gli altri Stati, e dunque si precipitano a offrirgli i loro servizi. Con questi stranieri, esso
stipula un contratto per un po’ di anni, nel corso dei quali essi introducono nel paese la loro
scienza o arte e formano i nazionali. E, non appena essi se ne siano andati, cambia la moneta
nazionale delle loro parcelle in altrettanta moneta comune20.

Tramite lo stratagemma appena chiarito - l’impiego esclusivo della


moneta in oro e in argento da parte dello Stato nelle relazioni con l’estero -,
si otterrà, sul piano della politica interna, un guadagno di inestimabile
valore: lo Stato tratterà con i paesi stranieri al solo fine di generare
benessere all’intero dei propri confini, ossia - questo il punto - in vista della
tutela dei singoli membri della comunità statale e del loro libero
sviluppo multilaterale21. Resta tuttavia inspiegato, nell’analisi fichtiana, se
e fino a che punto su queste basi sia davvero scongiurato il rischio di un
conflitto tra gli Stati.
Il settimo capitolo prende in esame, secondo quanto
programmaticamente annunciato nel titolo, l'Erfolg dieser Maassregeln, le
“conseguenze di queste misure”22. Dopo aver delineato i metodi concreti
per relizzare lo Stato secondo ragione, occorre valutare altrettanto
realisticamente quali conseguenze concretamente ne discenderanno. Anche
questo rientra tra i principali compiti della politica come arte della difficile
mediazione tra ideale e reale. A questo proposito, Fichte mostra come il
Vernunftstaat, una volta che si sia realizzato tramite la chiusura
commerciale, garantisca la soppressione delle ingiustizie e dello
sfruttamento che, invece, sono largamente egemonici nello Stato quale
realmente è: questa è, a ben vedere, la principale conseguenza delle misure
a cui si faceva poc’anzi riferimento. La Schliessung rende, infatti, possibile
la gestione sovrana da parte della comunità umana dei meccanismi
dell’economia, impedendo che quest’ultima vada spoliticizzandosi e
imponendosi come un soggetto autonomo e incontrollabile.
Preso dalla sua analisi e dalla passione del profeta che si prefigge, come
compito prioritario, la trasformazione operativa dell’esistente, Fichte non
sembra intravvedere rischi e pericoli nella sua politica: ed è, indubbiamente,
in questa scarsa considerazione per le conseguenze effettive della chiusura
commerciale dello Stato che è lecito individuare uno dei più macroscopici
limiti dell’analisi del pensatore di Rammenau. Si potrebbe, forse,
plausibilmente sostenere che, della chiusura commerciale dello Stato su cui
si fonda il suo progetto politico custodito nelle pagine incendiarie del testo
del 1800, Fichte ha contezza esclusivamente degli aspetti positivi, sui quali,
non a caso, si sofferma in maniera estesa, a tal punto - questo il già
ricordato limite della sua indagine - da omettere completamente un
serio confronto con le difficoltà e le contraddizioni che
potrebbero scaturirne sul piano della concretezza storica23.
In sostanza, spiega Fichte, una volta che lo Stato si sia
commercialmente chiuso, determinando quella positiva autonomia del
politico sull’economico di cui si diceva, si estinguerà ogni forma di
sfruttamento. Non sarà più possibile sfruttare alcun essere umano, non solo
perché, de facto, non vi sarà più nessuno in condizioni economiche tali da
coartarlo a sottomettersi alla potenza altrui - come avviene nel regime
liberale e, a maggior ragione, nell’odierna fase della schiavitù salariata
propria del capitalismo flessibile24 -, ma anche in virtù del fatto stesso che
lo Stato, cessando di essere mero garante delle transazioni economiche tra i
soggetti, si eleverà a garante della loro libertà e dei loro diritti. Ancora una
volta, in una lampante anticipazione di temi che verranno successivamente
elaborati e raffinati da Marx, emerge nitidamente la consapevolezza critica
di Fichte circa la natura economica della violenza e del potere, ossia
l’aspetto che ogni concezione liberale della libertà non può che occultare o,
in ogni caso, liquidare come secondario: individui economicamente poveri
sono, ipso facto, asserviti e, più precisamente, costretti dalla loro stessa
condizione materiale a sottomettersi alla forza dei possidenti25. È questa la
cifra delle nuove forme di schiavitù economica che, nel regno
compiutamente peccaminoso dell’anarchia commerciale, vengono a
investire individui formalmente liberi.
In questo scenario, in cui tutto sarà prodotto e consumato all’interno dei
confini nazionali, unicamente in rarissimi casi, e per motivi del tutto
particolari, sarà per Fichte possibile tornare a effettuare scambi con
l’estero26. Come già si è mostrato, sarà lo Stato stesso a farlo. Fichte adduce
alcuni esempi per rendere conto dei possibili scambi con l’estero che lo
Stato commercialmente chiuso tornerà a effettuare: se, infatti, egli spiega,
tutti gli Stati si chiudessero e si generasse, per questa via, un sistema di
Stati chiusi e commercialmente non comunicanti, ne seguirebbe che il vino
non potrebbe più essere disponibile nelle nazioni del nord, nelle quali le
condizioni climatiche rendono ardua, se non impossibile, la sua produzione.
Per questo motivo - a cui se ne potrebbero, in concreto, affiancare numerosi
altri -, si stringerà un accordo tale per cui uno Stato del nord otterrà vino da
uno Stato del sud, il quale, a sua volta, riceverà dal primo l’equivalente in
frumento27. Un simile scambio non risulterebbe finalizzato al profitto, ma,
semplicemente, all'eguaglianza del valore, ossia, in termini concreti, a
ottenere por la propria comunità nazionale ciò che ad essa manca per via
della situazione climatica che la caratterizza.
Fichte non si sofferma su un punto che, a rigore, stanti le premesse del
suo discorso sviluppate nelle parti precedenti, sarebbe stato opportuno
prendere in considerazione: fino a che grado sarà possibile scambiare con
l’estero? In nome di quali bisogni? Come si ricorderà, Fichte aveva escluso
la possibilità di godere di beni pregiati provenienti dall’estero (il the
cinese, secondo l’esempio fichtiano). Quali beni, dunque, potrà lo Stato
introdurre al proprio interno tramite il commercio con l’estero? A queste
domande si cercherebbe invano una risposta tra le pagine dello Stato
commerciale chiuso. E non sarebbe, poi, fuorviarne segnalare come, volens
nolens, il pensatore di Rammenau sia precipitato in una contraddizione,
ammettendo - tramite l’esempio del vino - ciò che aveva precedentemente
escluso mediante l’esempio del the.
Lasciando a margine quest’aporia, occorre ora soffermare la
concentrazione su un aspetto sul quale l’analisi fichtiana si sofferma
estesamente e che, con diritto, può essere assunto come uno dei più
importanti - e, forse, dei più problematici -snodi argomentativi del suo testo.
Si tratta del problema della mobilità degli individui una volta che le
frontiere dello Stato siano state chiuse28. Su questo punto, l’analisi di Fichte
è di estrema chiarezza: unicamente i dotti e gli artisti potranno spostarsi da
uno Stato all’altro, senza alcun vincolo. In questo modo, essi potranno
fecondamente arricchirsi sul piano culturale e, per questa via, arricchire
anche il loro Stato. La gente comune, invece, non potrà varcare le frontiere,
perché, se ciò accadesse, si rischierebbe di compromettere il delicato
equilibrio faticosamente raggiunto all’interno dell’unità statale.
È questo, indubbiamente, uno dei principali limiti dell’analisi di Fichte.
La sua volontà di rovesciare il sistema dell’Handelsanarchie, che permette
alle merci e non agli uomini di circolare liberamente e senza frontiere non
è, in questo senso, coerentemente compiuta fino in fondo; ché, se lo fosse,
comporterebbe, come logica conseguenza, l’instaurarsi di una situazione in
forza della quale le merci rimarrebbero vincolate entro i confini nazionali e
gli uomini - dotti e non dotti, artisti e non artisti - potrebbero, invece,
muoversi senza restrizioni di sorta. Scrive Fichte, in un passo giustamente
celebre:
In uno Stato chiuso, devono potersi spostare unicamente gli intellettuali e gli artisti più
rinomati (nur der Gelehrte und der höhere Künstler). Non deve essere consentito oltre alla
vacua curiosità e alla pura ricerca di distrazione l’andare a menare in giro per il pianeta la noia.
Quelli sì che girano il mondo a vantaggio dell’umanità e dello Stato; e i loro viaggi, lungi
dall’essere ostacolati, debbono al contrario essere agevolati ad opera del governo. Artisti e
scenziati devono poter viaggiare a spese pubbliche (auf öffentliche Kosten)29.

In forza del suo ideale orientativo dell’emancipazione umana e della


cultura come suo tramite fondamentale, Fichte perviene, allora, a una
conclusione degna di nota, ossia alla soppressione della possibilità, per la
gente comune, di varcare i confini del proprio Stato, liquidando
indistintamente - in modo effettivamente poco convincente - come vana
curiosità o come ozioso sfogo per la noia l’idea stessa - così cara al
pensiero romantico - del viaggio e dell’esplorazione. Si tratta, come già si è
visto, di uno degli aspetti della teoria fichtiana dello Stato commerciale
chiuso che, nel complesso, destano maggiori perplessità, anche per via delle
ragioni precedentemente esplicitate30.
In seguito, Fichte sostiene che lo Stato che per primo si chiuderà
attiverà una sorta di catena mimetica, in forza della quale tutti gli altri lo
imiteranno, finalmente consapevoli di quali e quanti benefici scaturiscono,
per la totalitas statale come per i singoli cittadini che la compongono, dalla
Schliessung commerciale. E, tuttavia, spiega Fichte, solamente lo Stato che
per primo attuerà il provvedimento della chiusura commerciale potrà trarre i
massimi vantaggi: gli Stati che si porranno sulla sua scia, dal canto loro,
ricaveranno benefici via via più limitati31.
Dopo aver svolto questa considerazione, Fichte torna a insistere su
quello che, a rigore, coincide con il vero obiettivo per cui la macchina dello
Stato commercialmente chiuso è stata escogitata: tramite la pianificazione
dell’economia garantita dall’egemonia del politico sugli automatismi del
mercato, l’umano costituirà il vero fine della produzione e dello
scambio. Pertanto, si porrà finalmente termine all’improvvida accidentalità
del nomos dell’economia e del suo insensato fine della crescita smisurata e
autoreferenziale, con annessa accumulazione di ricchezze immense nelle
mani di pochi. Per questa via, verranno finalmente neutralizzate in maniera
definitiva tutte quelle tragedie nell’etico che, nel mondo dell’anarchia
commerciale, sono scene di ordinaria quotidianità: “non vi sarebbe -
scrive Fichte - più alcuno spazio per le speculazioni avventurose, per gli
arricchimenti accidentali e per i colpi di fortuna repentini”32 (keine
schwindelnde Speculation, kein zufälliger Gewinn, keine plötzliche
Bereicherung mehr stattfindet).
In luogo di quell’accidentalità che si traduce puntualmente in lotta per la
sopravvivenza dominerebbe la ragione, e più precisamente la scelta
razionale della comunità mediata dalla potenza etica dello Stato. A decidere
della gestione della Gemeinschaft sarebbe, infatti, il popolo stesso come
unità organica, in cui i rapporti sono di libera e reciproca Anerkennung
tra uguali, secondo il tema della Naturrechtslehre jenese33. Emerge da
queste considerazioni, strategicamente collocate proprio nelle ultime pagine
dell’opera, il senso più profondo dello Stato commerciale chiuso, il suo
enigma finalmente risolto o, con la grammatica marxiana34, il nucleo
razionale nascosto dal guscio mistico: se si legge con rigore ermeneutico
l’opera, facendola interagire con gli altri scritti fichtiani, e dunque
risolvendone il messaggio nell’unità complessiva della riflessione del
pensatore di Rammenau, allora l’obiettivo del Vernunftstaat codificato dallo
Stato commerciale chiuso è quello di preparare le condizioni del proprio
superamento, della propria Vernichtung, secondo l’espressione della
Bestimmung des Gelehrten del 1794.
Da un diverso angolo prospettico, lo Stato secondo ragione, nel senso
che si è chiarito, coincide con quella potenza statale in grado di educare
l’umanità a considerare l’uomo il fine più alto, a cui l’economia e ogni altra
attività devono risultare funzionali e subordinate, in antitesi con le logiche
reificanti e disumanizzanti che l'Handelsanarchie tende a imporre su
scala planetaria35. Se si volesse compendiare il senso più intimo dello Stato
commerciale chiuso in una formula volutamente generica, ma, non di meno,
in grado di condensare icasticamente quanto si è provato ad argomentare
nel presente lavoro, si potrebbe plausibilmente sostenere che la sola via per
evitare che il processo di emancipazione affidato all’agire umano si
interrompa consiste per Fichte, a partire dal 1800, nel ritorno allo Stato
chiuso commercialmente, e dunque in grado di governare politicamente
l’economia e di gestire eticamente lo sviluppo della comunità, ponendola al
riparo dalle spinte centrifughe delle due patologie reciprocamente innervate
dell’anarchia commerciale e dell’individualismo anomico e
anticomunitario.
Quando l’umanesimo comunitario garantito dall'egemonia della forza
politica si sarà diffuso in ogni Stato, allora, secondo il progetto fichtiano,
verrà meno la funzione stessa degli Stati È in questo senso che, secondo la
lezione della Missione del dotto jenese, il compito dello Stato consiste nel
porre in essere le condizioni che lo rendano überflüssig: non già nel senso
di un suo abbandono, come avviene nella peccaminosità
dell’anarchia commerciale, bensì nel senso di quella sua realizzazione che
ne determina - saremmo tentati di dire con la sintassi hegeliana -
un'Aufhebung, ossia un “superamento-conservazione” all’interno di una
Gemeinschaft finalmente in grado di agire autonomamente in modo etico e
solidale36.
È questo, come si è detto, l’enigma dello Stato commerciale chiuso, il
delicato plesso teorico che permette di comprendere l’anomalia di una
simile opera nella produzione fichtiana e, insieme, la sua profonda coerenza
con il percorso intellettuale del filosofo del System der Freiheit. Se
interpretata secondo l’ordine di un “pluslavoro ermeneutico” che,
spingendosi anche al di là della lettera per afferrare lo spirito del testo, la
inquadri come una parte del movimento di pensiero posto in essere
da Fichte, allora l’opera del 1800 rivela un inconfondibile
timbro cosmopolitico. Quest’ultimo risuona chiaramente nell’ideale
di un’umanità fine a se stessa, libera da Stati e tale da riconoscersi come
soggetto indiviso della sua storia. In questo progetto universalistico
dell’emancipazione umana mediata dal particolare statale, un compito
decisivo è svolto dalla scienza, in particolare dal sistema
transzendentalphilosophisch della WL. Scrive Fichte:
Al di fuori della scienza, non vi è nulla che rimuova ogni distinzione di territori e popoli, e
che sia proprietà dell'uomo in quanto tale e non in quanto cittadino (es giebt nichts, das allen
Unterschied der Lage und der Völker rein aufhebe, und bloss und lediglich dem Menschen, als
solchem, nicht aber dem Bürger angehöre, ausser der Wissenschaft). Orbene, per la scienza, e
solo ed esclusivamente per essa, gli uomini sono e devono seguitare a essere connessi,
allorché, una volta che si siano disgiunti in tutto il resto, avranno composto uno Stato chiuso.
Unicamente il sapere rimane patrimonio comune, dopo che sia stato diviso tutto il resto (bleibt
ihr Gemeinbesitz, nachdem sie alles übrige unter sich getheilt haben). Tale nesso non sarà
spezzato da alcuno Stato chiuso, e verrà anzi sempre più promosso, giacché l’aumento del
sapere, tramite le forze unite dell’intera umanità, giova pure agli scopi specifici e materiali dei
singoli Stati. I tesori delle letterature straniere saranno introdotti ad opera di accademie
statalmente retribuite, e scambiati con quelli della letteratura nazionale37.

Anche quando la chiusura degli Stati sul piano commerciale sarà portata
a compimento, la cultura continuerà a circolare liberamente, ponendosi
come coefficiente di unitarietà del genere umano e, in particolare,
ricordando a ogni uomo che la sua Bestimmung corrisponde al diventare
pienamente se stesso, ossia al concepirsi come parte dell’umanità e,
insieme, allo sforzo inesausto volto a razionalizzare secondo forme sempre
più intense il reale, portandolo gradualmente alla piena corrispondenza con
il concetto. Non bisogna, a questo proposito, dimenticare che Lo Stato
commerciale chiuso e la Destinazione dell’uomo vedono la luce nello stesso
anno e devono essere lette congiuntamente.
La stessa struttura delle due opere rivela una profonda affinità, se si
considera che entrambe sono tripartite (in Filosofia, Storia e Politica il testo
dello Stato commerciale chiuso; in Dubbio, Sapere e Fede la Destinazione
dell 'uomo). Solo quando la WL avrà conquistato le menti e i cuori
dell’intera umanità, grazie alla diffusione sempre più capillare del sapere,
l’umanità sarà unificata in actu, secondo un tema che, come si è
visto, costituisce uno dei principali orientamenti della riflessione fichtiana
in ogni sua declinazione e in ogni sua fase.
Alla luce di quanto sostenuto seguendo Fichte nello sviluppo del suo
ragionamento, la somma degli Stati nazionali commercialmente chiusi si
pone come la condizione fondamentale per la formazione di una cultura
globale e multilaterale, che ammetta l’unità del genere umano e il suo darsi
nella caleidoscopica varietà delle tradizioni e delle lingue: “sarebbe
opportuno che noi fossimo prima veri popoli e vere nazioni, e che si desse
una stabile cultura nazionale: quest’ultima dovrebbe, poi, sfociare in una
cultura globale poliedrica ed effettivamente umana”38 (wenn wir nur erst
Völker und Nationen wären; und irgendwo eine feste Nationalbildung
vorhanden wäre, die durch den Umgang der Völker mit einander in eine
allseitige, rein menschliche übergehen, und zusammenschmelzen könnte).
A partire dalle singole comunità ospitate entro i confini degli Stati nazionali
può maturare quel senso di appartenenza al genere umano come unico
soggetto indiviso, composto da enti razionali finiti ugualmente liberi, che
può costituire il solo fondamento per l’universalizzazione autentica,
contrapposta a quella falsa propria dell’ Handelsanarchie.
In una simile prospettiva, la cultura, in particolare la WL, svolge un
ruolo imprescindibile, nel senso già evocato: i dotti e gli artisti
comunicheranno su scala planetaria e permetteranno, tramite il loro operare,
una feconda diffusione capillare della cultura. Le guerre stesse, secondo
quanto già si è mostrato, spariranno senza eccezioni, a tal punto che -
secondo l’evocativa chiusa dell’opera - i libri di storia narreranno soltanto
gli avanzamenti nelle scienze e nelle arti, secondo una dinamica tale per cui
“ciascuno Stato si dà da fare per arricchirsi grazie alle scoperte degli altri”39
(jeder Staat eilt, die Erfindung des anderen bei sich einheimisch zu
machen).
Alla luce di questo pur cursorio attraversamento dei temi portanti dello
Stato commerciale chiuso, volto innanzitutto a far emergere i principali
snodi teorici del progetto fichtiano, diventa possibile sostenere quanto di
Fichte ha splendidamente affermato Remo Cantoni: “vi sono etiche volte
alla giustificazione del mondo, alla glorificazione dei processi della realtà,
ed etiche volte, invece, alla trasformazione laboriosa del mondo. Il
moralismo fichtiano è un attivismo instancabile che non si placa mai nei
risultati raggiunti, ma riprende sempre, al di là delle mete parziali ottenute,
la fatica e la lotta per un mondo migliore”40.
Si tratta di un insegnamento importante, non solo per via della profonda
analogia tra i problemi affrontati dallo Stato commerciale chiuso e quelli
che travagliano il nostro presente, anch’esso sotto il segno dell'anarchia
commerciale, ma anche perché il codice filosofico fichtiano, in ogni sua
articolazione, costituisce oggi il più potente antidoto contro quella
patologia frustrante che è la “sindrome di Siracusa”41. Si tratta della
suadente ideologia con cui il potere delegittima in partenza ogni progetto di
ringiovanimento del mondo pensato e organizzato dal pensiero filosofico,
stringendo in un abbraccio fatale l’utopia e la violenza, la trasformazione
dell’esistente e la barbarie, convincendo le menti che quello in cui viviamo
sia il solo ordine possibile o, come avrebbe detto Fichte, inducendole a
pensare che a esistere sia solo la modalità ontologica della necessità, con
conseguente riconciliazione obbligata con le pur deplorate logiche
dell’esistente.

1. J.G. Fichte, SW, III, p. 476.


2. Cfr. M. Maesschalck, Droit et création sociale chez Fichte. Une
Philosophie moderne de l'action politique, cit., pp. 35 ss.
3. J.G. Fichte, SW, III, p. 476.
4. Ivi, pp. 476-479.
5. Su questo tema, ci permettiamo di rimandare al nostro lavoro La
farmacia di Epicuro. La filosofia come terapia dell 'anima, Il Prato, Padova
2006, con presentazione di G. Reale.
6. J.G. Fichte, SW, III, 479-480.
7. Cfr. ivi, pp. 480-482.
8. Ivi, p. 481.
9. Ivi, p. 482.
10. Cfr. ivi, pp. 483 ss.
11. Ivi, p. 482. Cfr. G. Vlachos, Federalismi’ et raison d'etat dans
la pensée internationale de Fichte, Pedone, Paris 1948.
12. J.G. FICHTE, SW, III, p. 484.
13. Ibidem.
14. Ibidem.
15. Cfr. ivi, pp. 484-486.
16. Ivi, p. 485.
17. Cfr. ivi, pp. 489-492.
18. Ivi, p. 494.
19. Ibidem.
20. Ivi, p. 500.
21. Cfr. ivi, pp. 501 ss.
22. Ivi, p. 504.
23. Cfr. S. Furlani, Libertà economica e controllo politico. Lo
“Stato commerciale chiuso " di Fichte, cit., pp. 43-44.
24. Su questo tema, si veda Formai classico R. Sennett, The
Corrosion of Character: the Personal Consequences of Work in New
Capitalism, 1998; tr. it. a cura di M. Savosanis, L’uomo flessibile: le
conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Feltrinelli, Milano
1999. Ci permettiamo di rimandare anche al nostro studio Karl Marx e la
schiavitù salariata. Uno studio sul lato cattivo della storia, Il Prato, Padova
2007, con presentazione di A. Tosel.
25. Cfr. J.G. Fichte, SW, III, pp. 495 ss.
26. Cfr. ivi, pp. 496 ss.
27. Cfr. ivi, pp. 505 ss.
28. Cfr. ivi, pp. 507 ss.
29. Ivi, pp. 505-506.
30. Cfr. A. Verzar, Das autonome Subjekt und der Vernunftstaat. Eine
systematisch-historische Untersuchung zu Fichtes "Geschlossenem
Handels Staat" von 1800, cit., pp. 88 ss.
31. Cfr. J.G. Fichte, SW, III, pp. 506-509.
32. Ivi, p. 511.
33. Su questo tema, si veda soprattutto W. Janke, Anerkennung.
Fichtes Grundlegung des Rechtsgrundes, in “Kant-Studien”, 1991, pp. 197-
218.
34. K. Marx. Il capitale, I, cit., p. 45 (MEW. XXIII. p. 27|
35. Cfr. J.G. Fichte, SW, III, pp. 512 ss.
36. Cfr. L. Fonnesu, La società concreta. Considerazioni su Fichte e
Hegel, cit., pp. 239-244.
37. Cfr. J.G. Fichte, SW, III, p. 512.
38. Ibidem.
39. Ivi, p. 513.
40. R. Cantoni, Introduzione, in J.G. Fichte, Il sistema della
dottrina morale, Sansoni, Firenze 1927, p. XXII.
41. Cfr. M. Lilla, Die Versuchung von Syrakus. Zur Tyrannophilie
der Intellektuellen, in “Merkur”, LVI (2002), pp. 369-382.
15

CONCLUSIONE

Se si parla di un mondo migliore e delle tracce della


bontà di Dio in questo mondo, allora la risposta è questa: il
mondo è il peggiore che possa esserci, se in generale deve
ancora essere possibile un mondo. Tuttavia, è diffusa in
esso l' intera bontà di Dio che sola è possibile: che
l’intelligenza può da esso sollevarsi alla decisione di
renderlo migliore.

J.G. FICHTE, Dottrina della scienza 1801-1802

Il percorso teorico che abbiamo proposto si è prefisso il duplice


obiettivo a) di mostrare la genesi e lo sviluppo del concetto di Stato nella
filosofia fichtiana e b) di adombrare come, in tale sviluppo, sia possibile
rinvenire un filo unitario, alla cui luce leggere l’unità del Dekweg fichtiano
anche nell’ambito della filosofia politica del pensatore di Rammenau. La
stessa teoria dello Stato commercialmente chiuso al centro dell’opera
del 1800 trova insospettabilmente il proprio fondamento, come si è visto,
nella dottrina della Vernichtung della Staatsform al centro delle lezioni
jenesi sul dotto del 1794. L’orientamento teleologico del pensiero fichtiano
resta stabilmente, in ogni sua fase (e, dunque, al di là di ogni presunta
Kehre), l’emancipazione universalistica del genere umano inteso come un
unico lo; obiettivo rispetto al quale lo Stato, in ogni sua possibile
tematizzazione (compreso lo Stato chiuso commercialmente), si pone
sempre come strumento, mai come fine (così ancora come si è mostrato -
nella Staatslehre del 1813).
Le diverse prospettive maturate da Fichte intorno al tema dello Stato
devono, di conseguenza, essere intese non come rotture di un percorso in
cui ogni fase contraddice le precedenti, bensì come svolte che, in forza del
mutare del contesto storico e politico, garantiscono a Fichte il
mantenimento della propria visione coerente con il dettato della WL come
System der Freiheit. Il concetto di Stato, assunto tanto nella sua genesi
quanto nelle sue molteplici ridefinizioni, può con diritto essere
assunto come il punto nodale in cui individuare il definirsi - sempre in fieri
- del sistema politico fichtiano come emanazione sul piano socio-politico
della WL come visione trascendentale dell’opera asintotica di
gemeinschaftliche Vervollkommnung e di liberazione del genere umano.
La visione fichtiana dello Stato e della politica instaura anche una
tensione ideale nel nostro presente, permettendoci di fare luce su alcune
aporie che lo caratterizzano. In particolare, il testo fichtiano del 1800 può a
giusto titolo essere assunto, con la sintassi benjaminiana, come il
“segnalatore di un incendio”, come l’indicatore di un problema che non ha
smesso di angustiarci. A una considerazione non superficiale né
ideologicamente condizionata, la nostra congiuntura rivela, in effetti,
molteplici affinità con l’epoca compiutamente peccaminosa sottoposta a
critica dallo Stato commerciale chiuso mediante la categoria
dell’Handelsanarchie, versione fichtiana di quella che oggi qualifichiamo
come globalizzazione. Senza esagerazioni, potremmo spingerci a sostenere
che la peccaminosità vibratamente denunciata da Fichte nello Stato
commerciale chiuso e nei Grundzüge, lungi dall’essere stata risolta
dall’ordine della prassi trasformatrice e dalle sue pur numerose
determinazioni novecentesche, è oggi trapassata nella forma
autenticamente compiuta che il pensatore di Rammenau pensava di vedere
già incarnata nel suo presente.
Se letto in trasparenza e portato in tensione con il presente, Lo Stato
commerciale chiuso si presenta come un’opera fecondamente “inattuale”,
nel senso che all’aggettivo unzeitgemäß attribuiva Nietzsche, ossia
dissonante, quando non apertamente oppositiva, rispetto allo spirito del
tempo. La fichtiana critica del Dogmatismus deve tornare a costituire il
cuore di un progetto di emancipazione dell’uomo rispetto alla prosa della
società reificata, ma poi anche rispetto alle logiche conservative
che glorificano l’esistente presentandolo come intrascendibile. In questo
senso, l’opera fichtiana si rivela profondamente inattuale nella sua
dissonanza ragionata rispetto alle logiche del presente: non solo nella
diagnosi, nella misura in cui - come si è visto - disarticola l’ingenua visione
irenica della mondializzazione del commercio come trionfo del
multiculturalismo (la vernice che occulta il carattere monocratico del
mercato) e del relativismo valoriale (l’ideologia che rivela
l’assolutizzazione della forma merce, a cui tutto diventa relativo),
presentando l'Handelsanarchie come una vera e propria tragedia nell’etico,
come un’esiziale dinamica di destrutturazione della vita comunitaria dei
popoli.
Come già intuito da Fichte nello Stato commerciale chiuso, la
globalizzazione è la forma flessibile e postmoderna dell’imperialismo1:
l’esatto opposto, dunque, del tranquillizzante universalismo irenico dei
diritti umani con cui viene presentata dal pensiero unico politicamente
corretto. Per questo motivo, nelle pagine di Der geschlossene Handelsstaat
è lecito individuare, in nuce, la comprensione della dinamica di
internazionalizzazione del mercato e della sua tendenza a produrre uno
spazio sottratto a ogni sovranità politica e decisionale - l’anarchia
commerciale, appunto, oggi salutata dalle politiche neoliberali come
deregulation, sempre nel nome del laissez-faire globale -, in cui cioè
a essere sovrano sia unicamente il momento economico autonomizzatosi2.
Forse è solo per mezzo della Staatsform come forza in grado di
garantire l’egemonia della politica della comunità democratica e sovrana sui
meccanismi anonimi dell’economia che diventa oggi possibile salvare
l'ethos comunitario e il tessuto sociale dalla sua disgregazione in atto,
ristabilendo in seconda battuta il progetto dell’universalismo
dell’emancipazione orbitante attorno al fuoco prospettico di un’umanità
fine a se stessa. Occorre sottrarsi con forza alla presa dell’anarchia
commerciale mondializzata prima che inizi la “gran notte che non ha
mattino”. Idealismo o barbarie, tertium non datur. Quella prospettata da
Fichte nelle pagine dello Stato commerciale chiuso non può certo essere
assunta come soluzione ai drammi dell’odierno tempo della
spoliticizzazione e del fanatismo dell’economia: può, però, costituire un
fecondo punto di partenza per sottoporre a critica il nostro presente e
magari anche per avventurarsi, con Fichte, oltre Fichte.

1. Si veda, ad esempio, Z. Bauman, Globalization. The Human


Consequences, 1998; tr. it. a cura di O. Pesce, Dentro la globalizzazione le
conseguenze sulle persone, Laterza, Roma-Bari 1999.
2. Cfr. Z. Laidi, Un monde prive de sens, Fayard, Paris 1994
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INDICE

1. Sulla presunta Kehre nel percorso filosofico-politico di Fichte

2. La Fichte-Forschung e l’unità della filosofia politica fichtiana

3. Fichte filosofo della concretezza storica nel dibattito storiografico

4. Soggetto-oggettività: Wissenschaftslehre e mondo storico

5. Visione comunitaria e teoria dell’estinzione dello Stato a partire dal


Beitrag

6. Lo Stato come mezzo e non come fine nella Missione del dotto del
1794

7. Storia dell’idea di anarchia commerciale nel pensiero fichtiano

8. Genesi del concetto di Stato commercialmente chiuso

9. Stato ed emancipazione nel testo di Fichte e nella sua ricezione


storica

10. Lo Stato tra particolare e universale

11. Struttura e temi dello Stato commerciale chiuso

12. Filosofia e Vernunftstaat: genesi e contesto

13. La storia del presente come negazione dell’ideale filosofico


14. La politica come mediazione tra essere e dover-essere

15. Conclusione

Bibliografìa essenziale

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