Sei sulla pagina 1di 13

Mauro Visentin, Leonardo Messinese.

Ripensando la metafisica. Dal trascendentale moderno alla metafisica


originaria.
Interventi estemporanei in occasione di un incontro a tre voci tra Mauro Visentin, Leonardo
Messinese, Giuseppe Lorizio, presieduto da Angela Ales Bello1, per la presentazione del libro di L.
Messinese, La via della metafisica (Edizioni ETS, Pisa 2019).

Mauro Visentin
[I parte]

Bene, io anche alla luce delle cose che ho appena sentito, mi rendo conto che il mio intervento qui
sarà un intervento un po' fuori dai binari. So benissimo che non ci sono binari prefissati ma,
Leonardo [Messinese] lo sa - e credo è la ragione per la quale mi ha invitato - tra me e lui, tra me
forse molti dei presenti - sui temi che vengono affrontati in questo libro [L. Messinese, La via della
metafisica, Edizioni ETS, Pisa 2019] il dissenso è esplicito e molto radicale. Naturalmente a me
interessa molto il discorso che fa Leonardo [Messinese]. Mi interessa proprio perché è un discorso
che mette in luce - e direi finisce con l'esasperare - tutte quelle contraddizioni e aporie che io credo
debbano essere messe a fuoco nella metafisica e dalle quali la metafisica non è occasionalmente
investita, ma costitutivamente e strutturalmente investita. La mia posizione però non è quella -
anche se adesso da quello che ho detto è chiaro che io non sono un fautore della metafisica -
dell'antimetafisicismo di cui fa menzione Leonardo nei capitoli iniziali, ma di una obiezione alla
metafisica impostata in chiave ontologica. Questo naturalmente potrà destare sconcerto, visto che
normalmente si ritiene che l'ontologia sia parte integrante della metafisica, sia addirittura la
metafisica generale che poi si suddivide, secondo la classica ripartizione medievale, in tre diverse
metafisiche speciali2.

Fatta questa premessa solo per evitare che le cose che dirò destino troppo sconcerto e troppo
scandalo, cerco di iniziare a spiegare le ragioni per le quali solo in parte condivido quello che il mio
collega ha detto a proposito della "via a ritroso" che il testo di Leonardo (scusate la confidenza,
possiamo anche dire Messinese!) descrive. Perché in realtà, [nell'espressione] "dal trascendentale
moderno alla metafisica originaria", la "metafisica originaria" non è quella di Aristotele e
nemmeno quella di Tommaso o quella scolastica. La "metafisica originaria" è quella di Severino, il
cui XV capitolo del libro di esordio "La struttura originaria" si intitola precisamente così: "La
metafisica originaria". E il percorso - che naturalmente è un percorso circolare, nel senso che il
passato classico, Aristotele, Platone, Parmenide, torna con frequenza nel testo - non è a ritroso
(ripeto, tutt'al più è circolare) ma punta diretto a fare quest'operazione - un'operazione singolare,
curiosa e anche suggestiva. In parole povere quello che mi sembra di desumere dalla lettura del
testo, Messinese prende il primo Severino, quello della Struttura originaria del '58 - non la
riedizione - e lo incrocia col secondo Bontadini, cioè col Bontadini del '65, della dimostrazione
1
Sabato 8 febbraio 2020, 16:30, presso la sede del CIRF - Via dei Serpenti 100 int.1, Roma .
2
«[...] la suddivisione (che ricorda, terminologicamente, quella di Suárez) della m. in ontologia generale (scienza
dell’essere) e ontologia speciale, a sua volta suddivisa in cosmologia razionale, psicologia razionale, teologia
razionale, aventi per oggetto, rispettivamente, il mondo, l’anima e Dio. È la classificazione che diventa classica
nelle università tedesche (è presente, per es., in Baumgarten) e che viene ripresa da Kant, nella Critica della ragion
pura (1781), che proprio alla linea lebniziano-wolffiana si richiamerà per stigmatizzare la sterilità dogmatica della
metafisica.» (da: voce "metafisica" in Enciclopedia Treccani on-line,
https://www.treccani.it/enciclopedia/metafisica_%28Dizionario-di-filosofia%29/).
dialettica dell'esistenza di Dio, che è un Bontadini che però ha già - secondo Severino, ma tutto
sommato dobbiamo dargli anche un po' ragione in questo - subito l'influsso in qualche modo
dell'allievo forse senza rendersene propriamente conto, perché ha modificato in modo significativo
la sua posizione, mantenendo però fermo il Principio di creazione e anche il concetto di creazione
ex-nihilo.

È vero che nel Severino dell'ultimo capitolo della Struttura originaria del '58 c'è un apertura in
questo senso [della creatio ex-nihilo] (che Leonardo sfrutta anche abbastanza abilmente) perché
Severino in quel testo, in quelle ultime pagine del suo libro d'esordio - che però è anche il libro a cui
ha fatto sempre riferimento come al fondamento di tutto il suo pensiero - dice in effetti che
l'apparire e lo sparire dell'ente, cioè l' "immediatezza fenomenologica" come lui la chiama, è
fondata nella totalità dell'essere in virtù di una "decisione" (Severino usa questo termine). Non è
molto chiaro in che senso l'immutabile possa esprimersi in termini di "decisione", alla luce delle
cose che lui dice, però di "creazione" lui non parla formalmente mai. Diciamo che può esserci
un'allusione ma il termine "creazione" non mi pare che compaia mai. [Non compare nei termini di
quest'espressione ma c'è la res. E infatti il termine appare negli Studi di filosofia della prassi, ma
nei termini più... - Messinese]. Sì, dove c'è anche l'apertura al problema della libertà, che viene in
qualche modo considerato un problema aperto, e che poi verrà chiuso. Però il termine, strettamente
parlando, nella Struttura originaria non c'è. Quindi in sostanza tu [Messinese] recuperi la
"metafisica originaria" di Severino, recuperi perfino il discorso del divenire fenomenologico come
del puro apparire e sparire, (quindi non un divenire ontologico), e invochi, o fai intervenire, il
Principio di creazione - in questo recuperando Bontadini - per giustificare precisamente questa cosa,
che in Severino in effetti resta ingiustificata (ma non so se possa essere giustificata come tu
proponi) e cioè la ragione del perché l'essere appaia in modo processuale.

Naturalmente Leonardo assume in toto, da questo punto di vista, il pensiero di Severino e la sua
ermeneutica del divenire come qualcosa in cui non ne va dell'essere ma solo dell'apparire. Come sa
io sono in totale disaccordo non tanto con lui quanto con Severino su questo, e da sempre (lo era del
resto anche Bontadini), per l'eccellente ragione - non vorrei adesso dilungarmi troppo su questo -
che proprio Severino sostiene, per evitare il regresso all'infinito, che l'apparire è già
costitutivamente apparire dell'apparire, cioè della semantica dell'apparire fa costitutivamente
parte l'apparire (di sé). È chiaro allora che quando l'apparire scompare, in questo modo si evita il
regresso, ma non si evita che ne vada anche dell'essere dell'apparire; cosa che Severino ha negato
fino alla morte (ce l'ho anche in qualche lettera sua) cercando di risolvere la cosa in un modo che a
me pare incomprensibile dal punto di vista della coerenza, cioè facendo intervenire il concetto di un
"apparire iniziante" e un "apparire scomparente" che sarebbero, dal mio punto di vista, nella sua
logica, due "inizialità" e "scomparse" eterne e immutabili, inevitabilmente (se sono qualcosa). Ma
questo è un discorso che riguarda il maestro scomparso, al quale va naturalmente il nostro pensiero
rispettoso, ma del quale non possiamo esimerci di sottolineare, nemmeno adesso ch'è scomparso,
quelle che erano, a mio avviso, le carenze strutturali del suo modo di ragionare, rigorosissimo ma in
certi punti, diciamo così, inevitabilmente soggetto alla declinazione accomodante (voglio usare
questo termine).

Come del resto il pensiero di Bontadini. Perché quando Bontadini sostiene che il divenire degli enti
sarebbe contraddittorio, perché farebbe intervenire il nulla, se non intervenisse il Principio di
creazione - che nell'atto stesso in cui pone un essere pone l'annullamento [del nulla] - dice una cosa
che, dal mio punto di vista, non è assolutamente compatibile con la logica della coerenza del PdnC
alla quale sia lui che Severino si richiamano con una logica che non conosce eccezioni e non può
conoscerne. Devo dire che, a differenza di Severino, Bontadini non ha mai posto l'accento, non ha
mai cercato di risolvere la famosa aporia platonica del nulla alla quale viceversa Severino dedica il
IV capitolo della Struttura originaria (risolvendola in un modo che per me continua ad essere anche
in quel caso molto insoddisfacente). Proprio per questa consapevolezza della natura aporetica del
nulla (che in Severino è presente più che in Bontadini) in Severino la tesi "creazionistica", il
Principio di Parmenide per lo meno, non si è mai trasformato in un Principio di creazione come era
accaduto in Bontadini.

Vero è che anche in Severino, nell'ultimo capitolo della Struttura originaria, si dice che il divenire
fenomenologico astrattamente considerato è compatibile con l'idea di un entrare e uscire dal
nulla, ma un'interpretazione del genere diventa contraddittoria nel momento in cui lo si
confronta con la totalità dell'essere. Perché Severino, che era molto avvertito da questo punto di
vista, molto sensibile alla tematica relativa all'aporia del nulla, dice una cosa del genere? Secondo
me perché, nella sua impostazione del problema dell'aporia del nulla nel IV capitolo della Struttura
originaria, ravvisa questa aporia non nel fatto che il nulla venga declinato come essere, ma nel fatto
che il nulla venga declinato come semanticamente dotato di una positività (e quindi la
contraddizione interviene). Ma il fatto che il nulla venga definito 'nulla', cioè identico a sé e 'non-
essere', Per Severino questo non è di per sé contraddittorio. (Cosa che viceversa credo non sia vera,
proprio perché l'identità è uno dei tratti dell'essere e quindi, se il nulla avesse la capacità di
coincidere concettualmente con se stesso, sarebbe... [essere e non nulla]. Quindi la contraddizione a
mio avviso è molto più insidente3 nel termine nulla - non uso neanche l'espressione concetto - di
quanto Severino non credesse. Ma aver distinto questo due cose forse è per Severino quello che gli
ha consentito di pensare (nel XVI capitolo della prima versione della Struttura originaria, poi non
lo penserà più) che una interpretazione in chiave ontologica del divenire, astrattamente considerato,
non comportasse immediatamente una contraddizione, ma comportasse la contraddizione soltanto
nel momento in cui veniva confrontata con la totalità - [cioè, nel momento in cui] questo divenire
fenomenologico (l'Unità dell'esperienza, per dirla con Bontadini) venisse confrontato con la totalità
dell'essere.

Questo è il contesto che Leonardo tenta (e mette in campo molte questioni, molti concetti, molti
argomenti)... fa uno sforzo davvero notevole per riconnetterla [l'interpretazione in chiave ontologica
del divenire] al percorso della metafisica classica, per mostrarla come il coronamento stesso della
metafisica classica. Dove però il concetto di "creazione" non ha più nulla a che fare con il
concetto classico di creazione perché, appunto, non si può parlare in questo contesto di
creazione ex-nihilo: qui la "creazione" è soltanto il "governo" dell'apparire e dello sparire da
parte della totalità dell'essere. È chiaro che questo apparire e questo sparire, questa successione,
in Severino è un dato che viene assunto, preso di peso dall'esperienza, non giustificata; ed è anche
vero che Severino ritiene - in questo concorde con Bontadini e viceversa - che questo divenire
fenomenologico non aggiunga e non incrementi in nessun modo la totalità dell'essere (che non può
per definizione essere incrementata); e lì, nel Ritornare a Parmenide, vede appunto l'espressione di
quella che, dal suo punto di vista, è la differenza ontologica.

Anche in questo caso non mi sento di condividere questa tesi e bisognerebbe, da questo punto di
vista, dire - forse una volta per tutte - che il ricorso, che in Severino è frequente, al concetto di
"astrazione", che gli deriva dalla tradizione idealistica, e in particolare a Gentile, [è il ricorso ad un
concetto] equivoco e fuorviante. Perché l' "astrazione" è essa stessa qualcosa. In Gentile il "pensiero
astratto" è un pensiero, tanto è vero che la "logica dell'astratto" è in realtà una logica concreta
dell'astratto. Il "pensiero astratto" è un pensiero e come tale è un atto del pensare, è una concretezza,
non può certamente essere considerato, come dire, nulla. Cosa che dovrebbe essere considerata l'
"astratto astrattamente concepito", ma anche questo in Gentile finisce poi con l'avere un ruolo,
3
) insidènza s. f. [der. di insidente, part. pres. di insidere], letter. raro. – Nel linguaggio filos., l’essere insidente,
cioè intrinseco, intimamente unito: la partecipazione dell’essere non si fa per via di limitazione e di divisione, ma
semplicemente per via di presenza, o se più piace d’i. (Rosmini); dicendo: «questo corpo è», non esprimiamo soltanto
la realtà del corpo in se stessa, ma accenniamo eziandio alla sua i. nell’Ente (Gioberti). [Vocabolario Treccani on-line,
https://www.treccani.it/vocabolario/insidenza/]. -- [insĭdĕo], insĭdes, insedi, insessum, insĭdēre [...] (intransitivo; in
senso figurato) stare, trovarsi, fermarsi, avere sede [Dizionario Latino Olivetto on-line, https://www.dizionario-
latino.com/dizionario-latino-italiano.php?lemma=INSIDEO100].
perché comunque se ne parla, lo si declina, lo si utilizza, lo si fa entrare in gioco. Allora questo
vizio d'origine, secondo me, idealistico e gentiliano che in Severino arriva attraverso la mediazione
di Bontadini (almeno in origine) è poi la ragione di fondo che gli consente di pensare che basti di
una cosa, come il divenire fenomenologico, declinare la "astrattezza" per mettere le cose a posto.
Cose che, viceversa, sotto il profilo ontologico, a mio modo di vedere, non è affatto vera né
concepibile. Posta la questione così, è chiaro che la situazione si complica molto dal punto di vista
dell'approdo a cui tu [Leonardo Messinese] vuoi arrivare.

C'è un'altra questione che devo sollevare e che riguarda il problema della trascendentalità. Perché
tu spesso dici che l'essere è trascendentale nel pensiero metafisico. In realtà l'essere come tale non è
trascendentale, il TRASCENDENTALE è sempre qualcosa che ha a che fare con il pensiero e con la
conoscenza, con la POSSIBILITÀ di concepire e di pensare, p. es. il concetto di Dio (in epoca
medievale). Quindi il trascendentale ha una funzione che non è semplicemente costitutiva, nel senso
di entrare a far parte di un concetto, ma è costruttiva: serve a costruire quel concetto, senza di che
quel concetto non è esprimibile, non prende corpo. Questo vuol dire che non l'essere, ma è il
pensiero, il concetto, la categoria dell'essere ad essere trascendentale. Questo significa che noi non
possiamo pensare nulla senza declinarlo secondo questo concetto/categoria, senza attribuirgli in
modo implicito o esplicito questo connotato. Qualsiasi cosa noi pensiamo, persino il nulla - donde
l'aporia del Sofista di Platone - dobbiamo pensarlo attribuendogli questo significato. Ma qui c'è però
un problema. Perché come ho appena detto parlando dell'astrazione - ch'è un atto, l'atto dell'astrarre
- così anche il pensiero è un atto, un agire, cioè richiede tempo.

Veniamo allora ad un punto decisivo (che hai toccato anche tu [Lorizio]). Il libro lambda della
Metafisica, principio e fine di ogni metafisica classica e non classica. Allora, tu [Lorizio] p. es.
dicevi: "il Motore non è immobile ma è immoto". Attenzione. Se per "immoto" tu intendi che non è
mosso da altro ma è mosso da se stesso, questo non solo Aristotele non lo dice, ma non lo può dire
perché per Aristotele l'<automaton>, "ciò che muove se stesso", lo definisce in un certo modo.
L'<automaton> è ciò che si divide in due parti, la parte movente e la parte mossa, e per la parte
movente si ripropone lo stesso discorso. Quindi il Motore immobile, se è veramente un primo, non è
semplicemente qualcosa che non è mosso da altro, ma non muove nemmeno se stesso: se è uno e
semplice non può muovere nemmeno se stesso. È la cosa più eccellente che ci sia, infatti muove per
attrazione. E ciò verso cui gli enti sono attratti è il Bene sommo, la cosa più bella e desiderabile: il
pensiero, perché questo è, per Aristotele, l'essere o l'ente al sommo grado. Aristotele usa due
espressioni: "nóesis noéseos" e "nous", non usa mai "nóema noématos". C'è una ragione, che però
è anche l'espressione di una difficoltà. La "nóesis" è l'attività del pensare, il "nous" è sia il pensiero
che questa stessa attività - del resto anche il nostro termine "pensiero" ha questa doppia valenza:
quando diciamo "pensiero" intendiamo sia l'attività del pensare che il contenuto del pensare. Invece
il "nóema" è - direbbe Gentile - il pensiero pensato o già pensato o ch'è stato pensato, però può
essere in realtà tale soltanto se può essere ripensato o se viene assunto all'interno dell'intenzionalità
di un atto di pensiero che, in questo caso, non deve considerarsi come un atto concluso e compiuto
ma come un atto in fieri, come l'atto del muoversi o il movimento in atto e non con come l'atto
dell'aver conseguito o raggiunto la realizzazione piena della potenzialità. Sono due diverse
espressioni dell'atto. Come ci sono due potenze, ci sono due atti: c'è la potenza generica del tradursi
in atto, a cui corrisponde l'atto di questo tradursi - ch'è un atto in fieri (quello che piaceva tanto a
Gentile) -; e poi c'è la potenza specifica, p. es. del blocco di marmo di diventare una statua, e c'è
l'atto della statua ch'è un atto compiuto, non più in fieri, in cui la potenzialità s'è interamente
esaurita. Nell'atto in via di compiersi, viceversa, ch'è l'attualità del movimento, lì la potenzialità è
sempre presente, è insidente. Realtà e potenzialità sono, in quell'atto ch'è il movimento in divenire,
perennemente confuse.

Questo per dire che il pensiero di pensiero - anche se Aristotele si rende conto che il pensiero è
fondamentalmente attività - non può avere altro contenuto che se stesso. Ma il pensiero è
relazionale: una relazione che abbia come contenuto la propria relazionalità è una relazione che non
ha alcun senso da un punto di vista concettuale. Allora noi dobbiamo pensare che il pensiero di
pensiero - anche al di là Aristotele e forzando il suo testo - debba avere e coincidere con un
contenuto che è fermo, statico, ch'è appunto il "nóema noématos". Da questo punto di vista "nóesis
noéseos" e "nóema noématos" dovrebbero essere coincidenti, con un unico problema che a questo
punto sorge e cioè che in questo modo la "nóesis noéseos" coincidendo con il "nóema noématos"
coincide con una condizione4 piuttosto che con un'attività. È un essere, non è un agire.

Qui effettivamente il problema della metafisica originaria viene ad imbattersi nella questione poi
più grossa e più grave che la affligge: come sia possibile conferire dynamis all'eterno,
all'immutabile, all'immoto, che è anche immobile per le ragioni che ho appena detto.

Credo che in Severino sia stata precisamente questa la deriva che lo ha poi portato ad assumere sia
la necessità del destino (della necessità), sia l'esclusione di ogni ipotesi o possibilità di creazione. In
fondo le due cose che lui aveva lasciate aperte, nella Struttura originaria e negli Studi di filosofia
della prassi, erano la possibilità della creazione - nel senso molto particolare di cui parlavamo
prima - e la possibilità della libertà; negate queste restava solo il Ritornare a Parmenide e
l'espulsione dalla Cattolica. Devo dire che il tuo [di Messinese] nobile tentativo di ricondurlo sulla
strada della Cattolica, bisogna dire che, purtroppo, morto il maestro, si deve considerare fallito, nel
senso che lui, fino all'ultimo, non mi pare che abbia accettato di assecondare la tua proposta.
Diciamo che tu hai nobilmente tentato di riconvertirlo, ma mi sembra che lui questo non lo abbia
accettato.

[C'è rimasta una curiosità, che riguarda l'ontologia. Mi piacerebbe sapere qualcosa. - Ales Bello]

Lo faccio molto volentieri.

Mauro Visentin
[II parte]

A questo punto parlo di una posizione personale, e mi rifaccio ad una idea di Parmenide che non è
quella di Severino. Perché quello di Severino non è un neo-parmenidismo, dal mio pio punto di
vista è una forma di metafisica condotta alle estreme conseguenze, che casomai andrebbe forse
avvicinata (come qualcuno ha fatto) allo spinozismo più che al parmenidismo.

Spiego per quale ragione parlo di una metafisica condotta alle estreme conseguenze. Perché lì, tra il
fondamento (l'essere, la totalità dell'essere) e il fondato (il divenire fenomenologico, l'immediatezza
fenomenologica) la saldatura è una saldatura necessaria e tale che il secondo termine viene
interamente riassorbito nel primo. Secondo me la conseguenza involontaria di questo è l'implosione
della metafisica e una riproposizione suo malgrado di una forma di impostazione eleatica. Ma
questo, ripeto, suo malgrado. Non era quello cui Severino mirava.

4
) condizióne 1. prov. condicio-s; fr. condition; sp. condicion; port. condiçâo: dal lat. CONDITIÒNEM e
CONDICIÒNEM da CONDICERE concertare, stabilire di comune accordo, accordarsi, convenire, significare,
annunziare, comp. della partic. CON = CUM con, insieme e DÍCERE dire (v. q. voce).
Patto, Clausola contrattuale; Limitazione ad un qualche patto.
Deriv. Condizionàle; Condizionàto; Condizionèlla.
2. Nel senso però di maniera nella quale alcuna cosa è composta, costruita, viene da CÒNDERE
mettere insieme, comporre, edificare, fabbricare, comp. della partic. CON indicante strumento e rad. indo-europea DHA
porre, fare (v. Tema). - Maniera di essere, Stato, Qualità e fig. Grado sociale, Stato di fortuna, Lignaggio.
Deriv. Condizionàre.
(Vocabolario Etimologico Pianigiani, on-line - https://www.etimo.it/?term=condizione&find=Cerca)
Il Parmenide che ho in mente io, non è nemmeno lontanamente quello di Luigi Ruggiu, che di
Severino è stato allievo (e che, sebbene lo neghi, secondo me ha costruito un Parmenide che sembra
ritagliato sulle posizioni del maestro. Ma lui si offende molto quando glielo dico, non so perché.
Anche perché lui sostiene che ci è arrivato autonomamente. Sta di fatto che - e questa è una cosa
abbastanza singolare - proprio su questo il maestro e l'allievo hanno litigato. Perché Severino non
voleva essere anticipato da nessuno, meno che mai da Parmenide. E conseguentemente la lettura
filo-severiniana di Parmenide che dava Ruggiu, [a Severino] non gli era piaciuta affatto).

La mia personale lettura di Parmenide ritorna alla lettura classica. Oggi è molto in voga vedere nella
doxa di Parmenide qualcosa di abbinabile, di associabile alla verità. Ma la mia impressione è che,
viceversa, le cose stiano in un modo molto diverso, e che Parmenide - nei diciannove frammenti
(alcuni fatti di mezzo verso) che ci ha lasciato o, meglio, che ci sono rimasti - dica (da quello che se
ne può ricavare: ogni frammento di Parmenide può essere letto e interpretato in dieci modi diversi,
sia chiaro!) - sostanzialmente che... anzi, interponga uno iato radicale tra la verità e la doxa. Che
del resto non si capirebbe perché chiamerebbe in questi due modi diversi se non li separasse.

Quella che io credo sia l'ontologia è semplicemente il discorso sull'essere, che si risolve
semplicemente nella negazione assoluta, nella negazione del nulla da parte dell'essere. In quello che
dice il secondo frammento di Parmenide, quando appunto dice che è impossibile pensare che
l'essere sia non-essere. Non sono certo che la formula sia reversibile per una ragione molto
semplice, perché il non-essere non può essere investito della stessa impossibilità - così come la
contraddizione non può essere investita della stessa impossibilità, che inerisce alla identità - di
negare il suo opposto. [Quindi il non-essere può essere pensato? - Ales Bello]. No. Il non-essere
non può essere pensato come negativo dell'essere. Il non-essere non è un oggetto della negazione,
perché una negazione che avesse oggetto, non sarebbe una negazione, sarebbe una relazione
reversibile e reciproca: sarebbero due opposti. Detto questo, se il nulla non è un oggetto, non è un
negante, è un semplice negato.

Cioè, dobbiamo pensare ad uno "spazio curvo", non una sfera vuota, cioè uno spazio curvo della
geometria euclidea, ma uno "spazio curvo" di una geometria non-euclidea (a curvatura costante
positiva), cioè uno spazio curvo che sia pieno della sua curvatura. In questo spazio curvo concepito
così, saremmo in grado di distinguere il concavo dal convesso? Esattamente lo stesso secondo me
accade nella negazione assoluta. L'essere è questa curvatura - naturalmente si tratta di una
immagine spaziale e l'essere non è lo spazio - e il nulla non è altro che l'espressione attraverso la
quale noi formuliamo questa curvatura, questo senso, questa irreversibilità, questa
incontrovertibilità.

Tutto questo non ha nulla a che fare con l'ente, proprio perché l'ente è reversibile, soggetto al tempo,
mutevole. Allora, la discriminazione che a mio avviso è necessario riconoscere nel pensiero eleatico
e nel pensiero parmenideo in particolare - quella cioè tra la verità, che riguarda esclusivamente
l'essere, e la doxa, che riguarda invece gli enti e la loro molteplicità - impedisce che sull'essere si
possa costruire una metafisica, sull'essere si può costruire solo un'ontologia. Una metafisica si può
costruire, ma a questo punto è una metafisica doxastica, cioè una metafisica negativa, quella di cui
parla la dea. La dea, nella seconda parte del poema, illustra l'origine del mondo, il modo in cui il
mondo si è costituito, ma tutto ciò appartiene alla doxa, non è verità. [Non è nemmeno falsità -
Lorizio]. Non è verità, e non è nemmeno falsità; ma la verità non sa nulla del suo essere doxa,
mentre la doxa sa... [che] non è falsità per [quanto riguarda] se stessa. La doxa, cioè la coscienza, è
consapevole di essere, quindi non può negarsi, ma nello stesso tempo sa di non essere verità e di
non poterlo essere.

In questo senso l'ontologia, dal mio punto di vista è radicalmente altra cosa dalla metafisica e
irriducibile alla metafisica. E della metafisica io prospetterei una versione negativa, cioè doxastica,
una versione che denunciando le aporie della metafisica classica e anche di quella originaria, si
proponga come l'espressione della via della dea nella seconda parte del poema.

[Solitudine dell'essere - Ales Bello]. Solitudine dell'essere e anche a-coscienzialità dell'essere.


Questo è un essere totalmente opaco, non è consapevole di sé, perché, se fosse consapevole di sé e
della doxa, assorbirebbe in sé la doxa. Insomma il problema è questo: il rapporto tra l'essere e la
doxa non può essere un rapporto biunivoco. [Sì, ho capito. Ma come ci viene in mente? - Ales
Bello]. Perché noi siamo coscienti, la coscienza è solamente doxastica. [Come ci viene in mente
l'essere - Ales Bello]. Perché appunto noi, come enti - ci definiamo enti, ma in realtà è un termine
improprio - irrompiamo nello spazio dell'essere. Come dire, il nostro pensiero ha la stessa curvatura
dell'essere. Noi non possiamo pensare se non in modo determinato. La determinatezza è il senso
dell'essere. Non siamo in grado di pensare una cosa come, p. es. "un tavolo che sia una sedia nel suo
esser tavolo e una sedia che sia un tavolo nel suo esser sedia", non siamo in grado di pensare questo
e neanche di pensare che l'essere o il qualcosa sia nulla. Questo è un fatto. [Questo è un processo
astrattivo - Ales Bello]. In che senso un processo astrattivo? [All'essere si arriva per via astrattiva -
Ales Bello]. No; io penso sia un possesso originario, che la coscienza ha in sé, di cui non è in grado
di spiegare l'origine. Però quello che è importante in questo caso è che la coscienza può accogliere
in sé l'essere senza deformarlo, proprio perché la coscienza lo accoglie doxasticamente. [Allora è
Dio - Ales Bello]. Chi, la coscienza? [No; l'essere - Ales Bello]. No; perché Dio ha coscienza, è
persona. In questo caso invece l'essere è privo di coscienza, è opaco, è un oggetto opaco che non sa
nulla della doxa. [L'essere c'è o non c'è? - Ales Bello]. Già dire che l'essere "c'è" è, come dire,
problematico, perché l'essere è la negazione del nulla, e questo è tutto quello che si può dire della
semantizzazione dell'essere. Poi noi possiamo dire che c'è, che esiste, ma sono attributi che gli
conferiamo in modo interpretativo. L'espressione dell'essere è un'espressione pura che non può
essere a rigore interpretata. E anche che, oltretutto, viene manifestata in una lingua ontico-storica
della coscienza. Noi diciamo dell'essere quello che ho appena detto usando la lingua italiana, lo
possiamo usando la lingua tedesca, la lingua francese, etc. (tutte queste sono lingue ontico-storiche
della coscienza). La lingua dell'essere è il senso dell'essere, che però si deposita nelle lingue ontico-
storiche senza subirne alcuna deformazione proprio perché queste sono puramente doxastiche. Se
invece - e concludo - l'essere fosse consapevole della doxa non potrebbe non assorbirla in sé e
renderla identica a sé, cioè omologarla a sé. Perché il rapporto tra essere e doxa può essere o
necessario o doxastico: se è necessario la doxa scompare; se è doxastico l'essere continua a
sussistere perché la doxa non è in grado di assimilarlo a sé e renderlo doxastico. Proprio perché è
doxa. La debolezza della doxa è anche la tutela e la preservazione che la doxa fornisce all'essere e
alla sua consapevolezza. [Quella è la differenza tra essere e ente - Ales Bello]. È qui la differenza,
che però è doxastica, anche questa, tra essere e ente. Perché se noi parliamo della differenza tra
essere e ente, è una differenza che si costituisce solo da un "lato" e non dall'altro.

Leonardo Messinese

[...]

[La posizione di Visentin esprime un] rapporto di "esternità" tra la verità e la doxa, di "rigido
parmenidismo" - tutto l'opposto di una filosofia come interpretazione che raccoglierebbe tutte le
forme di filosofia doxastica - e per la quale non resterebbe in campo neppure il trascendentale
moderno posto come ambito del filosofare incontrovertibile. Un "incontrovertibile" relegato
[quindi] anch'esso nella doxa dal punto di vista di un rigido parmenidismo... ma che continuava
comunque a suo modo la tradizione greca dell'epistème mediante il riferimento al puro pensiero,
alla pura ragione, al pensiero non contaminato da altre dimensioni. In questo senso la posizione di
Roberto Esposito ["Da fuori"] ritiene che la filosofia deve farsi contaminare da altro. Lontane
ascendenze di una posizione come questa sono quelle della "svolta antropologica" del pensiero
post-hegeliano, perché è da lì che il pensiero perde questa caratteristica di essere il "trascendentale",
il luogo dell'assolutezza.

Se pensiamo al trascendentale moderno vedendolo nel suo volto antropologico, potremmo parlare di
un "passo indietro" riferendoci all'espressione "dal trascendentale alla metafisica". Il punto è che
non è necessario parlarne in questi termini, identificandolo con un carattere antropologico.
Pensiamo allo sviluppo che ha avuto il trascendentale a partire da Cartesio - avendo presente la
lezione di Gustavo Bontadini (il quale a sua volta ha presente lo sviluppo che del trascendentale ha
dato Gentile fino ad identificarlo con il suo Attualismo): qui scompare l'elemento antropologico.
Questa "curvatura antropologica" del trascendentale è presente in Cartesio, è presente il Kant; è in
qualche modo è presente anche in Husserl, che per un certo lato potrebbe riportare all' "io"
gentiliano... si tratterebbe - e questo è per me l'elemento essenziale - di non pensare all'Attualismo
in termini di "io". L'Attualismo convertito da una posizione antropologica del trascendentale
significa per Bontadini passare dall'Attualismo del Gentile della Filosofia dello Spirito a quello
della Logica, che avrebbe superato questa connotazione antropologico-centrica del trascendentale.

Qui il trascendentale si fa pensiero ch'è pura manifestazione dell'essere. Ciò equivarrebbe ad un


riportarsi all'identità intenzionale del pensiero classico (non quindi un passo indietro nel senso: "dal
trascendentale alla metafisica", ma di un crescere su di sé del trascendentale). Se metafisica è
essenzialmente affermazione della trascendenza, questo "crescere" del trascendentale mostra il volto
trascendente del trascendentale. Questo significa che qui incrociamo un'altra identità (che da
Visentin è stata messa in questione), quella dell'essere come trascendentale. Nel pensiero classico,
quando si nomina la dimensione "trascendentale" si fa riferimento alla totalità; il pensiero moderno
in una sua certa configurazione non indica più come luogo della totalità l'essere, ma il pensiero. È
indicato il pensiero come luogo della totalità in contrapposizione all'essere (come luogo della
totalità). Al termine del processo della filosofia moderna noi giungiamo a vedere come questa
opposizione viene meno, perché quella totalità che è l'essere non è [ri-]affermata "al di fuori" del
pensiero e quindi come alternativa ad un altro porsi della trascendentalità medesima; e d'altra parte
il pensiero non viene più a presentare ed affermare se stesso in quanto toglimento dell'essere (come
se, per far spazio a sé - essendo lo stesso luogo da occupare - [togliesse l'essere]). Cioè come se lo
stesso "luogo" da occupare, possa essere occupato solo alternativamente dal pensiero o dall'essere.
Ecco, viene meno questo concetto di "luogo", questo intendere quasi fisicamente questo "luogo".
Quell'essere che, secondo Bontadini, era stato validamente negato dall'idealismo, come presupposto
al pensiero, gioca a favore di questa identità del trascendentale moderno e del trascendentale
classico. È rispetto a quest'identità che prima si faceva riferimento a quel "crescere" del
trascendentale che "crescendo" si mostra nella sua dimensione trascendente. Questo elemento
potrebbe aiutare ad eliminare una concezione del trascendente come un'affermazione presupposta
rispetto al piano, dal quale non si può deflettere, del pensare attuale - come se ad un certo punto
questo pensare si interrompesse, limitasse se stesso, per fare spazio a qualche cosa d'altro rispetto a
sé.

Quella identificazione delle due dimensioni del trascendentale, consente di non vedere
l'affermazione del trascendente come qualcosa ch'è oltre il pensiero - perché sarebbe un non
pensare. Ciò che viene ad essere trasceso non è il pensiero, il pensiero di suo è intrascendibile.
Questa affermazione non ha il sapore dell'idealismo, se per idealismo intendiamo l'affermazione
dell'immanenza. Ciò che si trascende è l'unità dell'esperienza. Di solito faccio questo esempio:
quando noi affermiamo dimostrativamente l'esistenza di Dio, questa affermazione è un'affermazione
del pensiero o no? Non stiamo uscendo dal pensiero perché stiamo affermando. Quindi, ciò che
viene ad essere trasceso non è il pensiero o il pensare, ma un certo ambito che fino ad allora era
stato ritenuto il contenuto assoluto del pensiero. Se si ha ragione di mostrare che la totalità
dell'esperienza (potremmo anche dire la totalità della storia) non può essere affermata come ciò che
coincide con l'assoluto, ecco allora che abbiamo il costituirsi dell'affermazione metafisica in senso
stretto. Solo che, quello che noi diciamo attraverso il linguaggio, attraverso il tempo che ci serve per
poter fare tutto questo, non è qualcosa che tocca l'originarietà della metafisica. Noi abbiamo
bisogno del tempo, di tante parole, magari anche perché dobbiamo superare obiezioni e contro
obiezioni, ma questo non toglie l'originarietà di ciò di cui stiamo parlando, di ciò che indichiamo
attraverso il linguaggio. Sotto questo aspetto direi che si possa parlare di una metafisica originaria.

Certo restano le questioni che sono state poste prima in campo, ma mi chiedo... Si diceva che
l'essere nega il non essere, e non si può dire il contrario. Ma quando diciamo questo, c'è un
significato in quello che stiamo dicendo? Immagino di sì. E se c'è un significato in quello che
stiamo dicendo quando si afferma che l'essere nega il non essere, credo che abbia significato anche
la parola non-essere...

[Visentin:] No. Se è una domanda ti devo rispondere di no. Proprio perché ho detto: questa è
un'espressione non interpretabile. L'interpretazione che cos'è? È il tentativo di risalire al significato
attraverso i singoli elementi di una formula. È chiaro che l'espressione, il termine, non-essere qui
compare come una voce. Ma noi non possiamo ricostruire il senso, il significato della negazione
originaria che l'essere fa del nulla, attraverso una ricostruzione di quel significato partendo dai
singoli termini di questa formula. [cfr. Gennaro Sasso - nota mia]. Questa è un'espressione
originaria. E, ripeto, altra cosa è l'espressione in una lingua ontico-storica del senso dell'essere, altra
cosa è questo stesso senso, diciamo, nella "lingua dell'essere". Io ho utilizzato nel corso delle mie
divagazioni a riguardo, termini come "vettorialità". Quello che intendo, quando parlo di senso
dell'essere è esattamente questo, questa irreversibilità. Che è la stessa che sussiste tra, ripeto,
l'identico e il contraddittorio; ciò che è contraddittorio, cioè in realtà auto-contraddittorio, non può
contraddire nulla, perché essendo auto-contraddittorio contraddice solo se stesso - e in realtà non
contraddice nemmeno se stesso, perché per contraddire se stesso dovrebbe prima porsi come
identico e poi negarsi. È chiaro che l'auto-contraddittorio è semplicemente il modo in cui noi
evochiamo l'indeterminato semantico, cioè il nulla, ciò che non ha alcun significato e alcun senso.

[Messinese:] Che non abbia una consistenza ontica, va bene, ma che non abbia significato... [Il
nulla dici? -Visentin]. Ecco, il nulla... Che non significhi... Certo che, significando, è auto-
contraddittorio. Però distinguerei tra l'auto-contraddittorietà compiuta nel positivo... [È quello che
fa Severino - Visentin] Esattamente. Su quello starei un po più... [Attenzione. Però lì c'è un punto
delicato. Severino quando tenta di risolvere - dico tenta perché a mio avviso non ci riesce affatto -
l'aporia del Sofista, distingue appunto il "nulla-momento", come lui lo chiama, dal "positivo
significare del nulla" e dice che tutta la positività del "nulla momento" viene trasferita sul "positivo
[significare]". Poi tutto questo dà luogo a quello che lui chiama una auto-contraddizione concreta.
Allora, mi dispiace tanto per il maestro defunto - al quale va tutto il mio rispetto e il mio omaggio
(ma io queste cose gliel'ho dette anche in vita): se lui parla di "nulla-momento" e parla di una
"contraddizione concreta", quel "nulla-momento" lui può deprivarlo di tutta la positività semantica
che vuole ma non di quella che ne fa un "momento", altrimenti, diciamo così, il suo discorso
implode5. Non so se... - Visentin] E facendone un "momento"? [Ne fa una contraddizione in termini
o ne fa un essere, qualcosa che non può essere negato con l'essere - Visentin]. Ma quell' "essere
momento" non è qualcosa di più di quel "positivo significare auto-contraddittorio"? [No, per
Severino è qualcosa di meno. Ma è a tal punto qualcosa di meno che non dovrebbe avere alcun
significato. Ma non può non avere per lo meno il significato dell'essere "momento" che lui gli
attribuisce. Altrimenti è proprio il suo discorso che perde di significato, e quindi la sua soluzione
dell'aporia del nulla. Questo almeno secondo me. - Visentin]

[Messinese:] Ma adesso, al di là dell'aspetto molto tecnico ovviamente di questo tema dell'aporia


del nulla; in riferimento a quel significato è che, forse però, di questo essere... Giustamente, questa
5
[Nota mia: In quanto non potrebbe più esprimersi nei termini di "apparire" e "sparire", non potendo alcun
"momento" essere dedotto dalla struttura originaria].
posizione che ho chiamato in termini di "rigido parmenidismo" sostiene che tutto quello che
diciamo è sempre detto dal punto di vista della doxa. Però resta sempre che la doxa indica l'essere,
ne parla. [Sì sì, certo - Visentin]. Quello che dice è doxastico rispetto a ciò che l'essere è. Però c'è
almeno questa indicazione dell'essere. [È consapevole dell'essere, ci mancherebbe altro! Se così
non fosse la doxa non sarebbe in grado di gerarchizzarsi. La doxa si gerarchizza. Non tutte le doxe
sono uguali - Visentin]. Quindi almeno in questo, nell'essere indicatrice dell'essere, la doxa non è
doxa. [No no, lo è anche in questo, secondo me. Nel senso che allora, per dirla tutta, anche
l'ontologia è doxastica, in quanto onto-logia. Quello che non è doxastico è semplicemente il senso
dell'essere, che viene accolto nell'ontologia senza subire deformazioni proprio perché è ontologia
doxastica - Visentin] Sì, ma questo ulteriore "residuo", è affermato. [Sì, con una lingua ontico-
storica che di conseguenza lo accoglie senza... - Visentin] Certo, però penso che possiamo
distinguere fra il modo in cui accogli tutto questo e questa semplice indicazione. Almeno in questa
semplice indicazione ritengo che si è nella verità. [Sì, ma non è una verità nostra, del nostro dire. È
la... Vorrei chiarire una cosa: la mia tesi non è una tesi debolista. Io non sono uno scettico
negatore; sono un sostenitore della verità dell'essere intesa coma assoluta incontrovertibilità, solo
che questa verità si risolve nel puro e semplice essere - Visentin]. Sì sì, so benissimo che siamo
all'opposto dello scetticismo. Dico: questo elemento della verità che viene affermato, viene
affermato. Il fatto di dire "noi siamo"... perché introduciamo il "noi"? Il "noi", appunto, può essere
doxastico... [Diciamo che, questa tesi è una tesi doxastica che si confronta, in quell'<erizain> che è
il confronto filosofico - secondo me la filosofia è essenzialmente un'eristica da questo punto di vista
- con tutte le altre opinioni sulla base dell'argomentare, che ha come criterio di riferimento quel
senso dell'essere che, ripeto, è depositato in ogni linguaggio. Allora, quello è il criterio che
consente di stabilire una gerarchia, che può essere mutevole. Diciamo che ogni tesi, a cominciare
da questa, è una tesi vincente (parlo di vincente, in questo caso, non di vera) fino a che non ne
trova una più forte. Quando Severino, che mi ha obiettato più di una volta che allora io, rendendo
doxastica anche la mia tesi, mi condannavo da me stesso, gli rispondevo che però per me era
doxastica anche la sua, e il problema è che tra le due doxe la mia prevaleva, perché più coerente
con il senso della verità. Anche se in una forma in cui il senso della verità non può essere che
approssimato asintoticamente; perché il senso della verità come tale è la pura espressione della
negazione che l'essere fa del nulla, e basta. - Visentin] Quello che io tento di dire non è una tesi che
si contrappone a questa... [No no, ho capito. Volevo dire che non c'è nessuna verità in quello che io
dico - Visentin] Intendo dire che forse... si potrà discutere sul contenuto di ciò che è doxa, se,
mettiamo il caso, la metafisica sia doxa... possiamo distinguere i due problemi, le due questioni. Ma
dire che, proprio per il fatto che comunque affermiamo questa differenza, questa distinzione... c'è un
presentarsi, c'è un apparire della verità. [Sì - Visentin]. Benissimo. E si può dire che ciò che chiamo
"io", sono questo duplice apparire. [Sì, purché non si consideri questo apparire come un apparire -
nella formulazione in cui si traduce, nel linguaggio ontico-storico - ultimativo e definitivo. -
Visentin]. Io sono d'accordo di mantenere la distinzione tra - l'ho detto prima in altro contesto -
linguaggio e pensiero. [La verità non è un dire, la verità è un oggetto, un oggetto che sta lì e con
cui ci si confronta con gli elementi ermeneutici del linguaggio ontico-storico - Visentin]. Difatti ho
parlato di "indicazione".

E poi una piccola chiosa riguardo la parte doxastica... forse lì, dal mio punto di vista direi: d'accordo
che quello che viene ad essere presentato... quel contenuto è doxa. Ma a quel contenuto darei
piuttosto il nome di fisica che di metafisica. Cioè, quel discorso riguarda il mondo. Se posso dire
un'ultima parola circa... ma è qualcosa di cui non si parla direttamente nel testo, perché il testo
vuole cercare di trascrivere, questo è un po' il senso, sia pure con tutti i limiti con cui esso è fatto, la
metafisica classica, i suoi concetti fondamentali alla luce di questo concetto più originario di essere
che vorrebbe perdere quella connotazione per la quale il significato di essere viene quasi a
succedere a quello di divenire e di molteplicità. Qui si cerca di fare un discorso esattamente
rovesciato, cioè: se la metafisica è filosofia prima, deve esserlo sino in fondo e quindi non costruirsi
su concetti della fisica, ma viceversa i concetti della fisica devono essere ripensati e ricostruiti alla
luce dei concetti metafisici. Questo non è detto esplicitamente nel testo, ma è ciò che si tenta di fare,
al di là poi delle obiezioni che possono esser poste... [L'unica cosa che volevo aggiungere è questa:
è una metafisica che io chiamo negativa, anche se è poi una fisica. Perché nelle parole della dea
viene condannata la metafisica ingannevole, gli "uomini a due teste", ecc. ecc. E si dice anche che
sono "solo nomi" tutte le cose - «toi pant'onom estai, ossa brotoi katethento pepoithotes einai
alethè» (<38-39, fr. 8 [theta]>)6 - sono solo "nome" (anzi non "nomi", ma al singolare) tutte le cose
che i mortali hanno... katèthento... è un verbo che può essere tradotto... si dice normalmente
"stabilito", ma "stabilito" sembra quasi attribuire - qualcuno infatti lo dice - una forma di
convenzionalismo linguistico. <Katatithemi> è un verbo che in greco significa anche 'registrare' - i
magazzinieri, quando le merci arrivavano le registravano, e il verbo che veniva usato era [questo]
- quindi io direi piuttosto: "tutte le cose che i mortali hanno registrato credendo che fossero vere,
sono solo nomi". In questo non c'è solo una fisica, c'è anche un metafisica rovesciata, questo io
intendevo. - Visentin]. Si potrebbe dire 'categorizzare'. Il verbo che tu dici, registrare in magazzino,
diventeranno le categorie... [Certo. - Visentin].

[L'essere si rivela o è frutto di una rivelazione? - Ales Bello] [Il modo attraverso cui si attinge
l'essere non è posto da noi stessi, ma è dato. Un Dio che viene all'idea, non un'idea che va a Dio -
Lorizio] [Questo è chiaro, noi non possiamo arrivare a Dio, è Dio che viene a noi - Ales Bello]
[Quindi il pensiero sarà un pensiero "rivelativo" (non un pensiero che fonda - direbbe Pareyson - ma
un pensiero che si fa fondare) - Lorizio] [Sono d'accordo; tant'è vero che secondo me quell'essere
[di Visentin] è il Dio che abbiamo dentro - Ales Bello] [È un dio che non ha coscienza e non ha
personalità - Visentin].

[Perciò, alla fine, mica Tommaso dimostra l'esistenza di Dio! - Lorizio] [Anzi della dimostrazione
di Anselmo [Tommaso] dice che in realtà non è una dimostrazione ma è una definizione. È
verissimo. - Visentin] [Che però nasce da un'intuizione intellettuale, quindi non la dobbiamo
nemmeno troppo denigrare... Facciamo questo a favore a Dio, gli dimostriamo che esiste?! -
Lorizio] [È l'espressione [dimostrazione] che è impropria, "via" è già diverso. - Messinese].

[Messinese:] Dimostrazione o, in forma meno compromessa, "via", significherebbe che comunque


noi abbiamo già un'idea, vediamo un'idea [Non è un'idea - Ales Bello] e ci proponiamo di arrivare a
questo qualcosa, ma in questo modo siamo già nel campo del presupporre [Ma non è un'idea! - Ales
Bello]. Sto dicendo che quando si presenta la questione nei termini di una dimostrazione
dell'esistenza di Dio, sembra quasi che ci sia già presente l'idea di Dio e ci si chiede qual è la strada,
l'argomentazione per pervenire. Ma se si presenta in questo modo la dimostrazione, già si
presuppone quello che si presume di poter dimostrare. Ed è per questo che in alcuni ambienti della
scolastica milanese si parlava di Dio, in filosofia, il quale è presente prima come predicato che
come soggetto. Con questa formula si intendeva che non si presuppone un Dio, ma... che
corrisponde alla formula di Tommaso. E attraverso questo si perviene, con l'argomentazione...
adesso non stiamo discutendo se l'argomentazione abbia bisogno di qualche... a ciò che noi
chiamiamo Dio in altri [ambiti, scil. rivelativi].

[Ecco, appunto, ma non è un'idea. E, secondo me, nemmeno in Anselmo è un'idea, è un'esperienza
profonda. Sarebbe addirittura questo essere... ch'è un "essere trascendentale", potremmo dire,
costitutivo. Non è trascendentale, noi lo pensiamo in modo "trascendentale" come costitutivo, e
questo è Dio - Ales Bello]

[Il pensiero doxastico dell'essere è trascendentale... è il senso della doxastica... ma non l'essere
come tale... è un Dio pensato doxasticamente. È fondamentale per me. Se Dio non è più la verità,
ma è la doxa, a me va benissimo. - Visentin] [Dio è la verità, non è la doxa. L'essere è Dio. Quell'
6
) Così nell'edizione economica della Bompiani. E non "37-38 del fr. tau"... Visentin sembra sbagliare il luogo
della citazione.
«essere» lì è la verità?- Ales Bello]. [Quell'«essere» è la verità, ma non è coscienza, non è
individuo... quindi non ha nessuno dei tratti... - Visentin] [Questo è un'altra cosa, non mi interessa.
Se è verità... [Se è vero - Lorizio] No no, io dico s'è verità... è quello che noi - quod nos -
chiamiamo verità perché è presente dentro di noi. Teniamo la verità "in vasi d'argilla"... San Paolo
- Ales Bello]. [Sono d'accordo, però non è necessariamente... Questo uno può interpretarlo - è
un'interpretazione - come Dio, ma uno può anche interpretarlo in tutt'altro modo - Visentin].
[Sarebbe la lettura laica di quello che Anselmo e Agostino dicono della presenza della Totalità,
della Potenza... diamo dei nomi... nell'essere umano. È una presenza "trascendentale", questo è il
punto, quod nos, è una traccia, è la traccia del divino - Ales Bello]. [Quindi io aggiungo: su un
terreno che è coscienziale, perciò ontico-storico, non il terreno dell'essere, perché noi non siamo
posti sul terreno dell'essere. - Visentin].

[Non credo che fosse l'intenzione di Parmenide... - Ales Bello] [L'intenzione di Parmenide...
siccome nessuno di noi fa opera di spiritismo.... - Visentin] [L'intenzione di Parmenide nel senso...
forse lo era nella misura in cui c'era la descrizione dello "Sfero". Nella misura in cui c'era la
simbolizzazione di tutto questo. - Ales Bello] [Quello è un tema estremamente controverso. Come
anche il problema della "interezza", l'unum: l'uno non è la totalità - dal mio punto di vista - perché
la radice indoeuropea del termine è <serta'> vuol dire 'integro', 'ciò che non può essere toccato',
quindi non totalità fatta di parti, molteplice... - Visentin]. [Ancora di più sarebbe... - Ales Bello]
[Sono due interpretazioni [dell'essere] legittime che, come tutte le interpretazioni dell'ontologia si
fondano sul terreno della doxa, che non è però il terreno su cui si fonda l'essere in quanto tale -
Visentin]. [Ma noi non possiamo mai metterci da punto di vista di Dio. È questo il punto. - Ales
Bello] [Dal punto di vista dell'essere noi possiamo metterci doxasticamente, attribuendogli qualcosa
che l'essere non può avere.- Visentin]. [Ma appunto, è la stessa cosa. È la stessa cosa per la
presenza del divino in noi, non possiamo metterci dal punto di vista del divino. Il divino è tenuto nei
"vasi d'argilla" - Ales Bello] [Però lo chiama "divino", e quindi qualcosa si dice. Allora anche
questa forma per cui "noi non ci possiamo mettere dal..." certo che è vero - <auto-verità> - però non
fino al punto per cui non possiamo dire qualcosa. - Messinese] [...che non possiamo dire nulla. Ma
difatti lì [nell'argomentazione di Visentin] qualcosa si dice - Ales Bello] [Perché altrimenti restiamo
nella doxa - Messinese].

[Visentin:]

Ma io quando parlo dell'essere, non parlo dell' "essere rivelato"...

Sia in Fredegiso che in Bouvelles il nulla è qualcosa... l'unica obiezione che a me sembra, come
dire, incontestabile è che se il nulla significa "il nulla non è nulla ma essere", [allora] non è più
nulla. Solo che noi non possiamo dire che l'essere nega l'essere, perché questa sarebbe una
contraddizione in termini - quindi non diamo senso, se diciamo una cosa del genere, all'espressione
che l'essere nega il nulla. Dico che non possiamo pensare la negazione assoluta se pensiamo il
nulla come qualcosa che è, come l'oggetto di una negazione. [«Questo vuol dire che non
possiamo pensare la negazione assoluta»]; però possiamo pensare che non la pensiamo.

L'aporia del nulla, sollevata nel Sofista dallo Straniero di Elea, tutti pensano si risolve con il
passaggio all' <eterotes> al <metathu>, e invece no. Se uno intanto legge il testo nel passaggio, si
rende conto che lo Straniero dice a Teeteto: «ma, se mi consenti, di venire in qualche modo ai patti
con un discorso così duro», cioè il passaggio non si mantiene sullo stesso piano di rigore della
denuncia dell'aporia. Dopodiché c'è un altro problema: se quella è la soluzione, o se lo fosse, ci
sarebbe però pur sempre che l'abbandono del nulla assoluto sarebbe una negazione assoluta del
nulla assoluto, quindi non verrebbe abbandonato manco per niente.
[In merito all'essenza] Per dire, come dice Tommaso (ma anche Spinoza) che in Dio, nella
Sostanza, Essenza ed Esistenza coincidono, bisogna partire dalla loro distinzione concettuale.
L'essenza in che senso si distingue dall'esistenza? L'essenza è la causa formale di Aristotele, una
delle quattro cause. Il problema è che la Metafisica di Aristotele si occupa della sostanza, così
come dell'essenza e degli attributi, ma poi - dice il libro gamma della Metafisica all'inizio - si
occupa innanzitutto dell' on e on, l'essere in quanto essere, che non è ne essenza né esistenza,
infatti non direi - come dicevo prima alla collega [A. Ales Bello] - che "l'essere è", avrei qualche
difficoltà a dirlo: potremmo dirlo per intenderci, ma affermare una cosa del genere già significa
attribuire all'essere una predicazione o un auto-predicazione che secondo me esula o sconfina dalla
dimensione propriamente... [ontologica]. L'essenza è to ti en einai, "ciò che era essere" - formula
molto strana e ambigua -; si potrebbe interpretarla così... io a Berti glielo avevo chiesto se secondo
lui questa cosa è plausibile, ma lui era piuttosto vago nella risposta... si potrebbe dire che ciò che
era essere... il problema è en, perché 'era', perché l'imperfetto? Perché si potrebbe appunto pensare
che sia ciò che emerge dall'essere indifferenziato, che viene prima, logicamente, e diciamo
cronologicamente (nell'ipotesi che lei fa della creazione). Quindi che ci sia un'essenza originaria
che precede un essere indifferenziato, mi sembra difficile a sostenerlo senza un presupposto
implicito, che è appunto quello dell'on e on, [i.e.] della semantizzazione originaria dell'essere come
pura negazione del nulla.

[Sì, però questo indifferenziato è in realtà la semplicità del puro atto che ha l'attributo della
potenza, cioè la potenza non è tanto il non-essere...]

Lei sta attribuendo troppe cose a questo, ci mette l'atto, la potenza... noi stiamo parlando di
qualcosa che si esaurisce nella pura e semplice negazione del nulla, in questa vettorialità, in questo
che è l'unico senso interpretabile come un senso... come dire "alla lettera". Cioè è un senso univoco
e irreversibile. Perché l'essere è incontrovertibile? Perché la sua negazione [genitivo] nega
qualcosa che non può negarlo, perché non è nulla, il negato dell'essere. Ma questo è
preliminare7, non successivo rispetto al problema dell'essenza, della mente di Dio, etc.

[«[Georg Steiner] ha scritto un piccolo libretto che però secondo me è il più importante, Dieci
possibili situazioni di infelicità del pensiero. È un modo, dal suo punto di vista, per dire che il
pensiero comunque incontra uno scacco, e per questo è infelice. Allora io mi ponevo il problema:
possiamo pensare... prima il prof. Visentin diceva "la vita non è solo pensiero"... questo, tra l'altro,
lo coglie anche in una piccola nota un pensatore attuale come Jean-Luc Nancy, che dice che noi
forse abbiamo privilegiato troppo il pensiero, perché la vita non è solo pensiero. Allora il punto è,
come ci rapportiamo a ciò che non possiamo risolvere col pensiero, quindi come ci rapportiamo con
l'infelicità del pensiero (direbbe Steiner)? - uditore].

Tant'è che Nancy è un teorico del pensiero che non opera. È stato tradotto un libretto da noi con il
titolo "Il pensiero inoperoso". In realtà bisogna dire "il pensiero inoperato" propriamente, perché
non viene né prodotto né è producente di qualcosa da questo punto di vista.

****

7
[Nota mia: E perché non almeno "concomitante"? Per cui l'essere (logico) è prodotto di un'astrazione ultimissima].

Potrebbero piacerti anche