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IL MULINO

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Alla memoria di mio padre
che per tanti anni, silenziosamente,
mi aiutò a vivere

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GENNARO SASSO

L'ESSERE E LE DIFFERENZE

Sul «Sofista» di Platone

IL MULINO

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ISBN 88-15-02484-0

Copyright © 1991 by Società editrice il Mulino, Bologna. È vietata la


riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la
fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata.

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INDICE

Prefazione p. 7

I. 11
1. L'inizio dell'indagine: l'essere che «non è» e il
non essere che, in qualche modo, «è». - 2. La disub-
bidienza al 'divieto' di Parmenide: fragilità e apore-
ticità.

II. 23
3.11 «falso», l'errore e il µiì OV in Resp. 476 c - 479
D. - 4. Mé0e!;tc; e bmµcj>oi:epiçetv. - 5. Conclusioni
sul passo della Repubblica.

III. 39
6. Il nulla e la rigorizzazione dell'aporia (che lo
concerne). - 7. La forma estrema dell'aporia. - 8.
L'arte sofistica della parvenza. - 9 .... e la critica del
Forestiero d'Elea. - 10. L'asprezza del logo concer-
nente il nulla e i dubbi del Forestiero d 'Elea. - 11.
Verso la dimostrazione del «non essere» dell'essere.

IV. 57
12. Il problema dell'essere e la sua storia: trinità,
dualità, unità. - 13. La «gigantomachia»: i materiali-
sti. - 14. Oi. i:<i>v d&òv cj>O.ot. - 15. Una digressione.
- 16. Conclusioni sulla storia dell'idea dell'essere.

V. 81
17. Verso il centro della questione. Il moto e la quie-
te. - 18. Il moto, la quiete, l'essere e, di nuovo, la
µÉ0E!;tc;.

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VI. 91
19. La prima parte del Parmenide: la questione
delle idee. - 20. Le idee, la partecipazione, e le
critiche di Parmenide. - 21. «Separazione» e µÉ-
9E!;tc;. I presupposti dell'argomento detto del
'tphoc; àv9pco1toc;. - 22. Le due forme del 'tpi'toc;
àv9pco1toc; nella prima formulazione dell' argomen-
to. - 23. «Terzo uomo», autopredicazione, predica-
zione. - 24. Ancora sulla prima formulazione: 132
A 9-10. - 25. La seconda formulazione del 'tpi'toc;
àv9pco1toc;. - 26. Ancora su µÉ9E!;tc; e autopredica-
zione. - 27. Un'ultima osservazione sul 'tpi'toc;
àv9pco1toc;. - 28. Gli ulteriori argomenti .... - 29 .
. . . e il loro svolgimento.

VII. 135
30. Riprende l'analisi del Sofista: ancora sulla µÉ-
9E!;tc;. - 31. L'uso della µÉ9E!;tc;. - 32. La formula-
zione del tema dialettico. - 33. Il comportamento
anomalo di ri VflO"tC: e cnamc; e un carattere para-
dossale della 1C0tvcovia dialettica. - 34. La dialetti-
ca come superamento dell'aporia. - 35. Kotvcovia e
non KOtvcovia dei yév11: considerazioni e svolgi-
menti. - 36. Ancora sulla Kotvcovia.

VIII. 157
37. La 1C0tvcovia e la deduzione. - 38. L'essere e i
'YÉVfl. - 39. L'irrequieta natura del diverso.

IX. 169
40. La riduzione del µiì òv allo hepov. - 41. Riepi-
logo delle questioni e delle aporie. - 42. Il fallimen-
to della deduzione (della diversità). - 43. La speci-
fica difficoltà del «diverso». - 44. L'essere e le
differenze. - 45. Gli Eio11 e i 'YÉVfl. Ancora sul carat-
tere dell'essere nel quadro della cn>µ7tÀ.Otj. - 46. Il
'non essere assoluto', il suo congedo, il fallimento
del congedo. - 47. eeai'tll'toc; 1tÉ'tE'tat. La parte
conclusiva del Sofista. - 48. Le dame di Leibniz e la
diversità delle foglie.

Note 209

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PREFAZIONE

Poiché, oltre che storiografica, questo libro ha natura teo-


retica, e anzi proprio quest'ultima apparirà a qualcuno come la
sua più autentica, desidero dichiararne subito, o specificarne,
l'intento e la tesi. Ho scritto questo libro per far vedere che,
malgrado la sua importanza, e lo straordinario acume con il
quale l'analisi dell'eleatismo e, in particolare, di Parmenide,
vi è stata condotta fino alle estreme conseguenze, il Sofista
culmina nella dichiarazione, non però nell'autentica dimostra-
zione, della «differenza». Ho scritto questo libro perché, con-
vinto come sono che da nessuno la questione della differenza
sia stata posta e discussa con altrettanta lucidità, ritengo tutta-
via che, pur dopo il tentativo platonico di risolverla, questa
resti, per la filosofia, aperta. Ho scritto questo libro, non per
risolverla, tale questione; ma piuttosto per mostrare, in forma
implicita (e, qualche volta, esplicita), perché quella tracciata
da Platone sia una via che, dopo essere stata seguita fino in
fondo, deve tuttavia, con decisione, essere abbandonata. L'ho
scritto, infine, per far vedere quante difficoltà la consapevo-
lezza del «fallimento» platonico riveli nel fondo della questio-
ne, e quanto lungo, aspro e disagevole sia il cammino che
resta, o resterebbe, da percorrere.
Strettamente connesso a Essere e negazione (1987), que-
sto libro ne è in parte la continuazione; e, per un altro verso, è
invece l'annunzio obiettivo di una nuova indagine, che verrà,
se verrà, dedicata in modo specifico alle categorie della diffe-
renza. Ma, come ho detto e mi permetto di ripetere, nel saggio
platonico che presento ai lettori sta altresì la ragione per la
quale l'indagine specifica della differenza e delle sue catego-
rie offrirà molte resistenze e, forse, non si lascerà concludere.

Ho detto che questo è un libro storiografico e, sopra tutto,


teoretico. Ma qualcuno potrebbe chiedere se sia storiografico

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o teoretico: se sia un libro di filosofia, o di storia della filoso-
fia. La soluzione dell'enigma dipende dal modo in cui queste
due espressioni, «filosofia» e «storia della filosofia», sono
intese. Se per caso qualcuno ritenesse che tanto più, e tanto
meglio, si fa storia della filosofia quanto più ci si tenga lontani
da questa, ossia dalla filosofia, e ad oggetto d'indagine si
ponga qualcosa che con la filosofia abbia, nel migliore dei
casi, non più che un rapporto indiretto, - ebbene, questo non è
un libro di storia della filosofia (perché, potrebbe dirsi, non è
un libro di storia della cultura). Non può escludersi per altro
che, in questa materia, qualcuno pensi, o possa pensare, in
modo diverso.
Per mio conto preferisco piuttosto aggiungere e dichiarare
che se del filosofo non posseggo l'autentico talento, nemmeno
però sono afflitto dall'arroganza che talvolta caratterizza chi
Io abbia (o creda di averlo). E, per questa specifica ragione,
mentre il libro accennava a prendere la sua forma, ho subito
respinta, come ridicola, la tentazione di scriverlo «senza no-
te». Il meglio che potevo e sapevo, ho invece cercato di legge-
re e studiare almeno una parte dell'amplissima letteratura esi-
stente sull'argomento; che ho citata tuttavia con qualche par-
simonia sia perché, dopo tutto, questo è un libro, non una
«rassegna bibliografica», e conveniva che perciò i riferimenti
andassero sopra tutto a contributi il cui tema, in un modo o in
un altro, si legasse al mio, sia perché, malgrado la buona
volontà che ci ho messa, non è stato facile stabilire utili con-
nessioni critiche con una letteratura che, per la gran parte,
s'ispira ad una filosofia (quella analitica di tradizione anglo-
sassone) dalla quale assai lontana è l'altra alla quale m'ispiro,
o cerco di ispirarmi, io. Del che, si badi, non mi rallegro,
perché, per un interprete che non sia affetto dal morbo della
presunzione, l'isolamento non costituisce affatto la condizio-
ne ideale. Ma, piaccia o non piaccia, la cosa sta pur così; e
occorreva prenderne atto, e dichiararlo.
Giova considerare inoltre che la letteratura platonica, non
solo è, come si dice, «sterminata», ma, sopra tutto per quanto
riguarda i dialoghi tardi, e, fra questi, il Sofista, in costante,
quotidiano aumento. E questo è bensì, senza dubbio, un rilievo
materiale e banale; che a parte subiecti configura tuttavia un

8 Mauritius_in_libris
piccolo dramma, perché l'ultimo contributo che si sia riusciti
a raggiungere non è mai sul serio tale, e, anche nell'ambito
della letteratura più recente, la completezza dell'informazione
si rivela un miraggio. Certo, se dall 'inattingibilità dell'ultimo
(che sul serio sia tale) si deducesse la regola che, fino a quando
I 'inattinto non sia stato raggiunto, vieta di pubblicare libri
saggi e articoli di argomento platonico, chi sa quante scioc-
chezze, a cominciare dalle nostre, resterebbero utilmente ine-
dite. Ma le sciocchezze non possono essere abolite, o vietate,
per legge; e nella sua astuzia, o nella sua saviezza, la ragione
dichiara che sarebbe, quella, una regola comunque retriva e
oscurantista. Il che naturalmente è vero: anche se la modestia
e il realismo suggeriscano di intenderla, questa dichiarazione,
nel senso che, dopo aver scritto un libro, è difficile, e forse
impossibile, che l'autore possegga la lucidità necessaria a la-
sciarlo nel cassetto, o, meglio, e per non indurre i posteri in
tentazione, a distruggerlo.

La materia di questo libro è stata elaborata in tre corsi


universitari consacrati, nell'ultimo decennio, al commento del
Sofista; che una volta costituì da solo l'oggetto delle lezioni,
una altra fu presentata in connessione con il Parmenide, una
terza con il Teeteto. A Antonello D'Angelo e Mauro Visentin,
che hanno avuto la pazienza di leggerlo nelle sue varie stesure,
e che con me lo hanno discusso nei suoi punti principali, vada
il mio cordiale ringraziamento.

G.S.

Roma, 30 dicembre 1990

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Avvertenza

I testi platonici sono citati secondo l'edizione del Burnet


(Oxford 1900, ristampa 1946). Le edizioni in lingue moderne
delle quali mi sono giovato, e ho fatto uso, sono di volta in volta
indicate nelle note; le versioni date nel testo sono, salvo contrario
avviso, opera mia. Soltanto in alcuni casi, e cioè quando il contesto
lo rendesse a sufficienza perspicuo, ho lasciato senza traduzione
il testo greco. Vorrei aggiungere che, per non ingenerare equivoci,
ho mantenuto il segno greco dell'interrogazione (;) soltanto quando
ricorresse all'interno di un passo; ma l'ho sostituito con il nostro
(?) quando si trovasse invece in posizione terminale.

10 Mauritius_in_libris
I

1. L'inizio dell'indagine: lessere che «non è» e il non essere


che, in qualche modo, «è»

Il centro ideale del Sofista si trova, forse, in 241 D 5-7:


nelle parole con le quali il Forestiero d'Elea, prima raccoman-
da a Teeteto di non voler pensare che quanto fin Il detto, nel
corso dell'indagine, sia per condurlo a farsi 7t<X'tpaì..oia1, pa-
tricida, uccisore di Parmenide, del filosofo che, infatti, è come
o
il padre, 7tatjp; e poi, subito dopo, dichiara che il logo di
quest'ultimo è pur necessario metterlo ad una prova energica,
spingendo e forse addirittura costringendo il «non essere» a
essere in qualche modo, e l'essere, per contro, in qualche
modo a non essere: il che appunto significa contravvenire al
grande divieto, - che l'essere «non» sia, e sia, invece, il «non
essere» 2•
La parola che enunzia il divieto era in effetti risuonata, alta
e solenne come una sentenza, qualche pagina innanzi; e preci-
samente a 237 A 3 sgg., dove, osservando come già il suo
discorso avesse osato supporre che in qualche modo il «non
essere» fosse, il Forestiero aveva rilevato che per tale via
aveva contravvenuto alla suprema impossibilità che, in prosa e
in verso, Parmenide aveva posta:

où 'YÙP µ'Tln<YtE wuw 00µ1]· EÌvat µiì Mvta·


aù 'tifaS' à<1>' òoou Slç'T\µEVoc; EÌP'YE v611µa· 3 •
<ÌÀ.À.à

L'idea, che in qualche modo, il «non essere» debba essere


costretto ad essere, e il verbo stesso, ~u:içecr0m4 , che, per
meglio esprimerla, Platone sceglie, rinviano ad un 'immagine,
se cosl potesse dirsi, di violazione e profanazione: come se
appunto occorresse qualcosa come una u~piç per indurre ad
essere, e ali' «essere», «ciò che non è», e per capovolgere, in

11
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modo cosl drastico, il logo di Parmenide. Nel primo dei due
versi citati dall'ospite eleate (e anche se, in luogo del comun-
que discutibile 'tofrto oaµift, avesse letto wù't'oùoaµi}), si
dice dell'impossibilità che il «non essere» sia e possa mai
essere; sl che, assumendo come «possibile» quel che nel poe-
ma del maestro era stato dato come «impossibile», non solo ad
una dottrina specifica l'allievo contraddiceva, ma al suo cuore,
- all'immobile essenza della «ben rotonda verità», àA.11eei Tlç
EÙ1CU1CAÉOC cX'tpEµÈç Tjwp5•
Da che cosa nasce la u~ptt;? Perché il Forestiero d'Elea dà
luogo alla violazione e alla profanazione, o, se si preferisce,
proprio a queste sembra che dia luogo? Con grande chiarezza,
dopo aver constatato che la laboriosa «caccia» data al sofista
nella prima, lunga e alquanto noiosa parte del dialogo, si era
risolta in un fallimento perché, nella sua astuzia, l'insidioso
personaggio era andato a nascondersi in «ciò che non è» 6 , su
questa situazione, e sulle sue implicazioni, il Forestiero si
ferma a riflettere; e dell'una e delle altre pone in rilievo l 'a-
spetto antinomico. Se si dice che, maestro della parvenza e
dell'inganno, il sofista è tale che da lui siamo indotti a opinare
il falso, l'irreparabile è allora già accaduto: perché, come il
vero è la stessa cosa dell'essere, cosl il falso lo è del «non
essere», - con la conseguenza che «dire il falso» è la stessa
cosa che affermare l'essere del non essere. In realtà, questo
«apparire e sembrare» (<j>atvE0"0m [... ] 1m\. 'tÒ ooKEtv) e, tut-
tavia, «non essere» (étvm oÈ µ1'), questo dire qualcosa senza
che, in questo atto, si dica il vero, - queste sono, tutte, cose
piene di difficoltà, 1tUV'ta 't<XU'tci ÈO''tl µEO"'tà à1top(ro:;: come
sempre nel passato, cosl anche ora (ciel. tv 'tcQ 1tp00"0ev xpévcp
KaÌ vùv 7 ). Con che diritto potrebbe in effetti pensarsi che «ciò
che non è», e perciò è falso, «sia» tuttavia falso, o il falso?
Come potrebbe ammettersi che «ciò che non è» sia predicato
dell'essere? E che perciò si costituisca in una dimensione
ontologica, - quella del falso, che dunque dovrebbe a sua volta
essere configurata in termini di «essente non essere» 8?
Con un gesto perentorio, Parmenide aveva proclamato
l'impossibilità, l'assoluta impossibilità, che il µTi òv, il «non
essere», fosse «costretto» ad essere. Era questa, come si sa,
l'intangibile verità del logo, - l'inconcussa verità, che non

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conosce tremore e terrore. Eppure, il fatto stesso che un suo
seguace ammettesse che in tanto il sofista era irraggiungibile e
inconfutabile in quanto proprio nel «non essere» aveva collo-
cato il suo rifugio, e che, per snidarvelo, proprio a questo, al
«non essere», era necessario conferire, o riconoscere, l'essere,
- tutto questo complicava al di là di ogni limite la linea del
discorso. Per essere finalmente recato alla luce, e vinto, il
sofista richiedeva che il suo rifugio fosse riconosciuto, e che
perciò in qualche modo il «non essere» fosse. E la conseguen-
za era allora che, nel momento della sua sconfitta, si celebrava
in realtà il suo più malizioso trionfo, ossia la sconfitta di
Parmenide; che mai in effetti avrebbe voluto che al «non
essere» si conferisse l'essere. O se si preferisce (perché anche
da questo angolo visuale, e con pari diritto, il gioco può essere
condotto e osservato). La vittoria del sofista era anche la sua
sconfitta: nel senso tuttavia che, riconoscendo che il suo na-
scondiglio era stato ritrovato e violato, egli concedeva bensl
all'avversario eleatico il segno della vittoria, ma in questo
stesso atto lo costringeva a infrangere il divieto che l'essere
non fosse e fosse, per contro, il «non essere»: - il divieto, in
altri termini, nel quale aveva indicato la suprema garanzia
dell'essere e della verità. Il che in ultima analisi significa (o
questa almeno era la pretesa platonica) che confutare il sofista
era impossibile fin che non ci si fosse risolti a compiere il
passo decisivo, - e realizzare il parricidio.
Era, in realtà, una situazione paradossale, ironica, e apore-
tica, quella che in tal modo si delineava. Ma mentre parados-
salità e ironia sono di per sé stesse evidenti, dell'aporia occor-
re dire che era intrinseca all'impostazione stessa di Parmeni-
de: ossia al modo in cui la quaestio dell'essere era stata da lui
concettualizzata e impostata. Con un gesto non meno perento-
rio, e altrettanto solenne, del precedente, nell'atto in cui all 'es-
sere riconosceva l'essere che rigorosamente negava al non
essere, fra l'uno e l'altro egli aveva infatti tracciato il solco
della differenza assoluta 9, facendo altresl che questa cadesse,
non nell'essere, che, nessuna differenza può mai ammettere e
accogliere in sé, non nel non essere che, semplicemente, «non
è» e niente può accogliere; ma, appunto, e con schietta moven-
za autocontraddittoria, «fra l'uno e l'altro»: quasi che, ed ecco

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che il senso dell 'autocontraddittorietà comincia a manifestar-
si, il «fra» potesse mai istituirsi a partire da un essere che, in sé
ed oltre sé, non ammette differenze (e dunque nemmeno, oltre
sé, un «fra»), e da un «non essere» che, addirittura, «non è».
L'autocontraddittorietà dell'asserto è, in effetti, evidente. Non
è forse osservazione elementare fin quasi alla banalità che, per
stare «fra» l'essere e il «non essere», quello, il «fra», richiede
che l'essere ammetta una differenza (il «fra», appunto, che è
differenza) e che il «non essere», in qualche modo, «sia»? Non
è osservazione elementare che, se cosl fosse, il «fra» sarebbe
bensl quel che assume di essere, un «fra», - ma (e posto che
non sia assurdo) fra essere e essere, e non, come qui invece si
suppone, o si implica, fra essere e non essere? Difficoltà grave,
come si vede, questa, nella quale Parmenide incorre; e che
sarebbe forse da giudicare insuperabile anche se si decidesse
di prescindere, in questa sede, dalla «mutazione» e dalla «dif-
ferenza» che una siffatta idea del «fra» necessariamente intro-
duce nel volto compatto dell'essere, quale a lui accadeva d'in-
tenderlo.
Da questo primo svolgimento parmenideo l'assunto risulta
dunque, non provato o fondato, ma, piuttosto, «tolto». E tolto,
non che fondato, risulta dal secondo. Non è forse evidente che,
in entrambi i casi, lo svolgimento del logo toglie al «fra» la
possibilità di essere «ciò che sta fra» l'essere e il non essere?
Con un gesto assai meno perentorio di quello compiuto dal
maestro, lasciandosi per contro penetrare dallo sconforto, o
quanto meno dal disagio nascente dalla caduta, o dall'incrinar-
si, delle grandi certezze eleatiche, e non di meno chiudendo
nel cuore altrettanta decisione, il Forestiero poneva in risalto
la forza dell'aporia. È vero bensl che non la dichiarava in
forma esplicita, descrivendone l'intera estensione. Ma, senza
dubbio, l'avvertiva, la poneva in rilievo, la faceva risuonare; e
pur non rilevando che, innanzi tutto, è proprio al logo di
Parmenide che questa appartiene, e al modo specifico della sua
costituzione, ne assumeva tuttavia, interi, la responsabilità e il
peso. La avvertiva, infatti (cosl, almeno, sembra debba inten-
dersi, leggendo fra le righe), nel nostro consueto, «umano»,
parlare del «non essere» come di «ciò che non è», e che
assolutamente, dunque, non in relazione a questo o a quello,

14 Mauritius_in_libris
«non è»: perché, come si fa ad asserire che parliamo del «nien-
te» o di «niente» se, intanto, ne parliamo e a «Ciò che non è»
riferiamo il nostro dire, e cosl ne facciamo un essere? Oppure,
e seguendo l'ordine specifico del testo (sul quale, comunque
ritorneremo), come si fa a dire che si parla del nulla se, intanto,
nel parlarne, è a un qualcosa, oppure a un numero, che, neces-
sariamente, lo riferiamo? Li avvertiva, la responsabilità e il
peso dell'aporia eleatica, in questo nostro dire che, per dire e
nel dire il «non essere», è come costretto, prima a scindere
l'essere dal «non», e quindi, con puro procedimento contrad-
dittorio, a restituirglielo: con puro procedimento contradditto-
rio, - dal momento che non può essere «niente», ma deve, al
contrario, essere «essere», quel che comunque si assume nel
discorso, e soltanto quando e in quanto lo si sia assunto (come
l'essere di ciò a cui si assegna il nome di «non essere»),
soltanto allora si può aggiungergli il «non» e togliergli l '«es-
sere», autocontraddittoriamente dicendo che «non è».
Ma (e a questo, sopra tutto, occorre ora dare risalto), men-
tre, per un verso, conferiva espressione a questo tema aporeti-
co (che, del resto, nuovi e assai acuti sviluppi assumerà di qui
a poco), per un altro il Forestiero d'Elea lasciava trasparire la
preoccupazione dalla quale era indotto a dichiarare l'aporia e
altresl, onestamente, ad assumersene il peso; e quindi, in qual-
che modo, a subirla e a condividerla, essendone infatti soltanto
in parte consapevole. Se, come in principio e in fine, in prosa
o in verso, il grande Parmenide aveva insegnato 10 , solo l'essere
è, e assolutamente, per contro, il «non essere» non è, un rischio
assai grave si delineava. E questo è che, anche a prescindere
per un istante dalle difficoltà che insidiano la formulazione
stessa dell'asserto relativo all'essere dell'essere, e al non esse-
re del non essere, «niente», e non altro che «niente», risulta
essere, ed è, il falso: ossia quello stesso del quale di continuo
parliamo nei Àoyot che intessono la nostra esperienza, o che la
nostra esperienza intesse: di continuo, e dunque anche quando,
estremizzando, diciamo che «niente» e nient'altro che «nien-
te» è il falso, e in questo atto non diciamo tuttavia che un o'ÒK
ECJ'tl, un «non è», sia l '«è» in forza del quale, appunto, diciamo
che «niente» e nient'altro che «niente» è il falso. Come con
grande acutezza, anche se in modo parziale, il Forestiero d 'E-

Mauritius_in_libris 15
Iea lasciava intendere, proprio a questo esito un parmenidismo
coerente e radicale avrebbe dovuto pervenire, impegnando la
sua estrema virtù nell'analisi dell'aporia che la stessa formula-
zione dell'identità del «falso» e del «nulla» reca alla luce:
perché, appunto, dato l'asserto che il «falso è nulla», è pur
sempre essenziale che alla sua costituzione contribuiscano, e
come essere, non come nulla, sia il «falso», sia il «nulla».
È per altro anche vero (e per questo aspetto il Forestiero
d'Elea non riusciva a dominare l'aporia che pur contribuiva a
delineare e a mettere in chiaro: non la dominava e perciò vi
s'impigliava, andava a fame parte), - è anche vero che nello
svolgere l'aporia del falso e del «non-essere-che-è», egli s 'ap-
pellava alla realtà dell'esperienza, la anticipava e presuppone-
va al logo, e in questo atto la assumeva nella forma perentoria
di un'auctoritas, che poteva bensl essere discussa nel suo si-
gnificato, non nel suo legittimo e, per questo aspetto, indiscu-
tibile esserci. Di qui la inevitabilità che, nell'atto stesso in cui
tendeva a dar vita ad una sorta di dissidio strutturale fra il logo
che esclude il falso, il «non essere», la loro concepibilità, e
l'esperienza che per contro li include e per ciò stesso Ii «con-
cepisce», Ii svela e li assume come essere, il discorso tornasse
ad involgersi in nuove e non previste difficoltà. Non sono,
beninteso (e come già si è avvertito), difficoltà che il testo
dispieghi e formuli con chiarezza. Per coglierle, occorre al
contrario scendere nel suo «fondo», «tentandolo» con qualche
energia. Ma che, almeno in forma implicita, le contenga dentro
di sé, è indubbio; e conviene perciò correre il rischio di essere
accusati di u~ptc: testuale, e discuterle, piuttosto che seguire il
partito della prudenza, e lasciarsele sfuggire.
Si noti dunque che se indiscutibile è che il logo esclude
quel che, per altro (e per suo conto), l'esperienza invece inclu-
de (e può includere); se indiscutibile è, addirittura, che il logo
esclude che l'esperienza possa includere quel che si assume
includa; se, in altri termini, il logo esclude tutto ciò, e non
ammette quindi che di errore, falso, «non essere», l'esperienza
possa essere, in parte, costituita, la conseguenza deve allora
esser tratta con rigore. Posto che il carattere del logo sia di
escludere quel che l'esperienza include, e quello dell 'espe-
rienza sia per contro di includere quel che il logo esclude che

16 Mauritius_in_libris
essa includa (e possa includere), non solo qui si dà vita ad un
singolare contrasto (a proposito del quale è impossibile deci-
dere con verità a quale delle due esclusioni, o alle due «fonti»
escludenti, appartenga la maggior forza). Ma si dà luogo, in
realtà, a qualcosa di assai più grave. Se indiscutibile è l 'esclu-
sione che, includendo l'errore, il falso, il non essere, l'espe-
rienza fa del logo, e indiscutibile è altresì l'esclusione che
questo fa di quella, la possibilità stessa che si parli di due
«indiscutibilità» viene meno, perché, alla radice, con il suo
stesso esserci, ciascuna pone di contro a sé, non l 'indiscutibi-
lità, ma la discutibilità dell'altra. Potrebbe in effetti mai am-
mettersi come parimenti indiscutibile che (con ciò che la costi-
tuisce, ed essa infatti include in sé) il logo escluda l 'esperien-
za, e che, in forza del suo carattere proprio, questa escluda il
logo (che pure la esclude)? Se sul serio (e ammesso, natural-
mente, che fosse possibile) le «indiscutibilità» si escludessero
a vicenda, l'autentico «soggetto» del discorso sarebbe costi-
tuito, non dalle indiscutibilità, ma dal loro «simultaneo esclu-
dersi», - che sarebbe esso, per conseguenza, il vero «indiscu-
tibile». Il che per altro non toglie, ma piuttosto richiede, che,
raggiunta questa conclusione, subito occorra chiedersi in che
senso, se lo esclude, il logo possa far a meno di assumere come
in qualche modo «essente» il «non essere»; al quale, infatti,
con pura movenza autocontraddittoria, assegna un carattere, -
quello in forza del quale, e in ragione dunque del suo «essere»,
si dice che il «non essere» non è ed è impossibile che sia. La
questione alla quale qui si allude è complessa; ed è necessario,
in questa sede, prescinderne. Ma pur prescindendone, rimane
che, dato e non concesso che riescano a consistere l'una contro
l'altra, non è certo all'indiscutibilità dell'esclusione che il
logo fa dell'esperienza, e questa del logo, che ci si potrebbe
mai rivolgere per entrare in contatto con l'errore, il falso, il
non essere. L'indiscutibilità dell'esclusione che il logo e l'e-
sperienza fanno, o si presume facciano, l'uno dell'altra, è, in
senso assoluto, «essere», non «non essere»; ed è bensì con il
«non essere», non con l '«essere», che qui deve cercarsi di
entrare in contatto. Ma, per riuscirci, e poiché quella seguìta
fin qui si è rivelata sbarrata, quale altra strada seguire?
Certo è, innanzi tutto, che all'incontro con il falso, l'erro-

Mauritius_in_libris 17
re, il «non essere», non potremmo mai sul serio pervenire se
pretendessimo che la sua «possibilità» (la possibilità, s 'inten-
de dire, dell'incontro) fosse garantita da ciò che, poiché l 'e-
sperienza include il falso, l'errore, il non essere, basta «stare
nella esperienza», - e con questo solo il contatto è reso possi-
bile e garantito! Questa via (che a buon diritto potrebbe essere
intitolata alla barbarie filosofica) non conduce in effetti in
alcun luogo: o conduce, se si preferisce, nel cuore dell'aporia.
Posto che sia un fatto, - un fatto irrevocabile, incontrovertibile
e indiscutibile, che l'esperienza include il falso, l'errore, il non
essere, e in questo atto ne è, per una parte, intessuta, è evidente
che non potrebbe mai essere considerata una falsità, o un
errore, o un «non essere», né che essa includa il falso, l'errore,
il non essere, né che, per una parte, ne sia intessuta. Come
potrebbe esser vero, interamente vero e non vero-falso, che
l'esperienza include il falso, l'errore, il non essere, se in una
sua parte essa è «non vera», ed è essa tuttavia, l'esperienza, a
costituire il fondamento dell'asserto in ragione del quale si
dice che include il falso, l'errore, il non essere? Ma, se è cosl,
altre conseguenze, e tutte gravi, emergono da quanto si è fin
qui ragionato. C'è, innanzi tutto, la questione concernente la
concepibilità (che è piuttosto «inconcepibilità») filosofica del
«punto» in cui la verità e la falsità s'incontrano, e la parte
«vera» dell'esperienza tocca quella «non vera», entra in rap-
porto con essa, la lambisce e quindi la include; ed è questione
grave perché, certo, quel «punto» non può essere soltanto vero
(dal momento che tocca il falso, ne è toccato, e cosl si costitui-
sce), non può esser falso (dal momento che tocca il vero, ne è
toccato, e cosl si costituisce), non può essere «intermedio» fra
il vero e il falso, perché per esser tale, dev'essere vero e non
falso: ché se fosse «anche» falso, come sarebbe l'intermedio?
Sarebbe e non sarebbe l'intermedio. Sarebbe vero e falso che
sia l'intermedio.
Ma ci sono altre conseguenze. Se fosse un fatto, e irrevo-
cabile, per di più, e irreversibile e indiscutibile, che l 'esperien-
za include il falso, l'errore, il non essere, non è tuttavia (occor-
re ripetere) falsità, errore, non essere questo suo includerli. Ne
discende, in primo luogo, che non solo il contatto con l 'espe-
rienza intesa come orizzonte è altra cosa dal contatto con

18 Mauritius_in_libris
l'esperienza intesa come falso, errore, non essere: ne discende,
in secondo luogo che altro è l'esperienza che include e, poiché
include e basta, non può esser contesta di, e aver commercio
con, quel che include (sarebbe falso, altrimenti, e non vero,
quel che è vero, e cioè che l'esperienza include!), altro l'espe-
rienza come concretamente affetta e segnata dal falso, dall'er-
rore, dal non essere. Se, per altro è cosl, l'ulteriore conseguen-
za è, in primo luogo, che il contatto con il contenuto non è stato
trovato; in secondo luogo, che la ricerca che se ne faccia è già
un atto o un episodio dell'aporia (dal momento che la ricerca
stessa del nulla intenziona il nulla, e come essere, lo intenziona,
non come nulla: che infatti, se è nulla, non può essere intenzio-
nato); in terzo luogo che un 'aporia ancora più grave e radicale
di quella che qui sta venendo in luce, opera alla radice di
questa situazione concettuale.
Un'aporia sta al fondo dell'aporia. Se infatti si assume
che, indiscutibilmente, l'esperienza include il falso, l'errore, il
non essere, e che è perciò vero e non falso che il falso (l'errore)
e il non essere sono nell'esperienza, - è dunque a ragione, e
con pieno diritto, che qui su si sosteneva che, ove il falso
lambisse e segnasse di sé il cerchio dell'esperienza, che lo
include, non sarebbe vero che, come in un cerchio, l 'esperien-
za include il falso. Non è dunque possibile che l'esperienza
includa il falso. Per includerlo, deve altresl, e necessariamen-
te, lasciarsene penetrare; ed essere insieme «esperienza e fal-
sità», il falso nella sua, per cosl dire, effettualità, attualità e
concretezza. Se, per altro, fosse cosl, allora, di nuovo, il falso
penetrerebbe di sé il cerchio che lo include: con la conseguen-
za che, e già lo si è visto, sarebbe falso, e non vero, che il
cerchio include in sé il falso. Ma, se è cosl, come si esce dalla
difficoltà? Dalla difficoltà certo non si esce con l'assumere
che non solo falso, bensl anche vero, sia il cerchio che include
il falso (l'errore, il non essere): in questo caso, infatti, sarebbe
vero, ma anche falso, falso, ma anche vero, che l'esperienza
include il falso. E nemmeno, per la verità, se ne uscirebbe
(perché lungo questa via si retrocederebbe, addirittura, al pun-
to di partenza), assumendo che nell'includere il falso, il cer-
chio dell'esperienza lo includa bensl, ma senza «toccarlo» ed
esserne toccato: in questo caso, ed è evidente, al di qua del

Mauritius_in_libris 19
falso l'esperienza sarebbe per intero vera, e il falso tuttavia
sarebbe non soltanto al di là, ma altresl dentro l'esperienza!
Esso si configurerebbe in tal modo come una sorta di grande
interpolazione metafisica, della quale, per altro, nessuno po-
trebbe spiegare come e perché si sia prodotta; e quali rapporti
intrattenga con la verità (del cerchio che la include).

2. La disubbidienza al «divieto» di Parmenide: fragilità e


aporeticità

Assai ingegnoso, e non di meno di fragile consistenza, è


l'argomento dal quale, considerandolo invece irresistibile, il
Forestiero d'Elea era stato indotto a compiere il gran passo
della disubbidienza. Ingegnoso, e non di meno fragile, esso dà
infatti subito luogo ad un equivoco, che non è difficile, mal-
grado tutto, scoprire alla sua radice. Subdolo e malizioso, il so-
fista si era celato in un luogo che, addirittura, non è un luogo:
ek <Ì7topov ò crolj>tcrtfii; t67tov Katcx8éouKev (239 C 6-7). Si
era celato, come sappiamo, nel «non essere» che, per ciò stesso
che «non è», non consente che a colui che vi si sia nascosto sia
possibile tendere la rete. Ed è una situazione di maliziosa, e
persino sofistica, ironia, quella che qui viene costruita. Non è
difficile infatti comprendere che a rendere impossibile la cat-
tura del sofista è, a giudizio di Platone, il logos, o, se si pre-
ferisce, il nomos di Parmenide; che, assumendo che solo l 'es-
sere è, e il non essere non è, rende invincibile la capacità del
sofista di sfuggire alla caccia che gli viene data e si pensa di
potergli dare. Per le ragioni che già sono state addotte, questa
è per altro una situazione bensl ingegnosa, ma fragile, anzi
addirittura aporetica; e non è affatto vero che l'inviolabilità
del t67toc in cui il sofista ha nascosto sé stesso sia tale a con-
dizione che al divieto di Parmenide non si abbia il coraggio di
contravvenire 11 • È vero infatti che se sul serio il sofista si fosse
celato ek <Ì7topov t67tov, in un luogo «improprio» che perciò,
pur essendo (un luogo), non è «propriamente» un luogo, di qui
conseguirebbe che per dargli la caccia, e per ciò stesso che la
si intraprende, il luogo dovrà essere considerato «improprio»
senza che, per altro, del suo essere in qualche modo un essere

20 Mauritius_in_libris
si giunga a dubitare. Ed è vero altresl che in tal modo il logo di
Parmenide è stato violato nel principio che lo governa e che,
con intransigenza, lo pone come in assoluto coincidente con il
suo «Sé» e scevro, dunque, di ogni differenza. Ma vero è anche
che in tanto questo avviene, e può avvenire, in quanto la pre-
messa realmente prima del discorso non sia stata raggiunta e
indagata nella sua possibilità; e che per conseguenza si consi-
deri pacifico che, come produttore di illusioni e illusione esso
stesso, il sofista sia, sia illusione, e quindi, proprio nell'atto in
cui è, sia tuttavia diverso dall'essere, che non è illusione. Se
per contro quella premessa sia raggiunta e indagata nella sua
possibilità, l'assurdità di ciò che qui si considera pacifico non
può non risaltare in primo piano; e si arriva perciò a compren-
dere che, posto che il sofista sia illusione, ciò non implica, ed
anzi esclude, che sia illusione l'essere in forza e in ragione del
quale si assume che lo sia. Non è forse evidente che se illusio-
ne fosse l'essere che si predica dell 'illusio~e. di questa non
potrebbe dirsi che «è» illusione, e dirlo sarebbe illusione? Ma
se è cosl, che cosa è allora, nei confronti dell'essere che fonda
la sua possibilità e, per cosl dire, ne costituisce la radice,
l'illusione? In che modo è possibile assumere che l'illusione
abbia il suo essere, e che questo sia perciò diverso dall'essere,
se è in questo, nell'essere, che l'essere dell'illusione trova il
suo fondamento? Ancora: se il sofista è produttore di illusioni,
non è illusione che esso sia produttore di illusioni. Ma se non
è illusione che il sofista è produttore di illusioni, dunque non
è vero che il sofista è illusione: se lo fosse, sarebbe illusione
che esso produce illusioni. Se per altro il sofista è e perciò non
è illusione, e come tale, ossia in quanto è, produce illusioni,
con quale diritto assumiamo (e con ciò si torna al punto già
illustrato) che, avendo la sua radice nell'essere (che non è
illusione), l'illusione sia tuttavia illusione? Sul fondamento
dell'eleatismo di Parmenide, la questione sorge e non riesce ad
essere risolta. Ma la critica che, per questa parte, il Forestiero
d 'Elea muove al logo del maestro, non è una critica; perché è
sul fondamento di questo logo che, senza avvedersene, egli
svolge la critica che dovrebbe colpirlo. Senza presumere che
risolverla sia facile, la questione dev'essere dunque ripropo-
sta: che cosa è l'errore, il falso, il non essere?

Mauritius_in_libris 21
Mauritius_in_libris
II

3. Il «falso», lerrore e il µ1} ò'v in Resp. 476 C-479 D

La questione affaticò a lungo, e in profondità, la mente di


Platone, che ad essa consacrò analisi memorabili. Esemplare,
fra queste, il lungo passo di Resp. 476 C-479 D: dove, stabilito
che la differenza che passa fra l 'ovnpc.O'tttV, il sognare, e il
conoscere da svegli, sta in ciò, che il sognare consiste nel
prendere 'tÒ oµotov' il simile, non già per il simile, ma per la
cosa stessa alla quale assomiglia, mentre il conoscere da svegli
si realizza e risolve nel discernere, ad esempio, il bello in sé da
ciò che soltanto ne partecipa, senza confondere questo con
quello, e quello con questo, il partecipante con il partecipato,
e il partecipato con il partecipante, - stabilita in tal modo la
differenza, si procede a fissare il punto essenziale; e a distin-
guere quindi fra conoscenza, ignoranza, opinione, - yvcòcrtc;,
àyvcoot.cx (o ayvotcx), &Sçcx 12• Poiché sempre, e necessaria-
mente, conoscenza è conoscenza di qualcosa, e mai di «nien-
te» (di ciò che non è non potendoci essere conoscenza), il
primo punto che a Platone sembri di dover stabilire con certez-
za è questo: ossia che 'tÒ µèv 1tCXV'tEÀ.còc; òv 1tCXV'tEÀ.còc; yvcoo'tov,
µTt oè µeocxµi} 7tUV't'TJ ayvcoowv. Conoscenza è dunque ciò
che soltanto l'essere concerne, o, se si preferisce, è una facol-
tà, una ouvcxµtc;' che unicamente a «ciò che è» ha riferimento;
e alla conoscenza si contrappone perciò l'ignoranza, alla yvcòcnc;
l'àyvcoot.cxche, si dice a477 A 10 sgg., di necessità, èç àvaYJCTlc;,
si riferisce al «non essere» (Èm µTi ovn). La conseguenza è
quindi che, se fra essere e non essere potesse darsi e trovarsi un
µe'tcxçu 'tt, qualcosa dunque che e dell'essere partecipasse e
del non essere, ecco allora che anche fra yvcòcrtc; e àyvrocrtcx
l'opposizione potrebbe essere non esclusiva e radicale. Come
fra essere e non essere, cosl anche fra yvcòcrtc; e àyvrocrtcx,
conoscenza e non conoscenza, potrebbe infatti darsi e trovarsi

23
Mauritius_in_libris
un µE'ta!;u 'tt; e questo sarebbe l'opinione, la M!;a, che, per
conseguenza, non si rivolgerebbe né ali 'essere né al non esse-
re, non sarebbe conoscenza e neppure non conoscenza, ma,
appunto, un opinare, la cui efov: è µE'ta!;ù 'ti(i; oùcr{ai; 'TE 1mì.
'tOÙ µiì d. vm 13 , e il cui carattere è identico a quello che segna
't<Ì 'tci'iv 1tOÀÀ.ci'iv 1toì..A.à voµtva. Ebbene, se è così, che cosa
concluderne?
Palese è in questo passo la tendenza ad individuare nel
µE'ta!;u ciò che consente, se non proprio di disubbidire, alme-
no di andar oltre il logo di Parmenide. Se non di disubbidire,
ad andar oltre: nel senso che, stabilita con Parmenide l 'impos-
sibilità che del «non essere», in qualsiasi direzione e in qual-
siasi modo, si parli, al paradosso eristico (che sarà sostenuto
da Dionisodoro e da Eutidemo) relativo all'assoluto «non es-
serci»14 dell'errore, qui si cerca di tagliare le punte estreme,
risolvendo in una sorta di «non essere relativo» il suo altrimen-
ti assoluto «non esserci». L'opinione infatti non è verità (e non
dice l'essere). Non è errore (e non dice il non essere). Ma, col
partecipare di entrambi nell'atto in cui, alla maniera di un
µE'ta!;u, si colloca fra l'uno e l'altro, dischiude il campo reale,
non però vero, dei logoi e dei fatti che costituiscono l'espe-
rienza. Il punto è estremamente delicato. E, con la sua sotti-
gliezza, nello stabilirlo, Platone certo non manca di prudenza:
essendo a lui ben chiaro che, se Èmcr'tT\µ11 si ha e si dà del-
1'essere e di ciò che, appunto, essa, l 'Èmcr'tr\µ11. yryvrocrKEt,
allora non potrà ammettersi che dell'essere, e di ciò che la
scienza conosce, si dia e si abbia anche M!;a, opinione; perché
el1tEp È1t'cXÀ.Àq> cXÀÀ.ll OUVaµv; 1tÉ<j>UKEV, OUVÙ:µEtç OÈ C̵<j>o-
'tEpClt Ècr'tOV, M!;a 'TE KClÌ. È1ttcr'tr\µ11, aì..A.11 oè ÈKCl'tÉpa, Ok
<j>aµEv, ÈK 'tOU'tCOV 01Ì OÙK È'YXWPEl yYCOO''tÒV aì..A.o 'tt av
oo!;acr'tÒV i\ 'tÒ òv elll KClÌ. oo!;acr'tÒV 'tmhòv d.vm (478 A 15-
B 2). L'opinione dunque non si rivolge ali 'essere, - patrimo-
nio ed oggetto specifico dell'Èmcr'tr\µ11. Ma nemmeno po-
trebbe dirsi che, al pari dell 'àyvcocria (che proprio per questo
è tale, e si definisce così), si rivolga e riferisca al µiì ov, al «non
essere». Impossibile è infatti, e in ogni senso, opinare e «opi-
nare nulla»; e, proprio come la yvci'icrti;, anche la M!;a avrà
perciò un oggetto che, a seconda dell'angolo visuale prescelto,
sarà caratterizzato sia come «né essere né non essere», sia,

24 Mauritius_in_libris
conferendo positività di nome a questa espressione, come
l'«opinabile», tò oo!;acrt6v, - ciò di cui la &S!;a è, in senso
specifico, facoltà, Mvaµv;.
Ebbene, se questa è la deduzione che qui, in questo passo
della Repubblica, Platone fornisce dell'opinione e dell'opina-
bile, questo è allora il luogo in cui altresì, e con maggiore
evidenza, emerge l'equivoco che lo affligge (e che, onda dopo
onda, giungerà fino alle pagine del Sofista, dalle quali abbia-
mo preso le mosse). Che cosa è infatti il «né essere né non
essere» in cui tò oo!;acrt6v, l'opinabile, consiste (e a cui, co-
me specifica Mvaµv;, la M!;a si riferisce)? Che cosa è tò
àµ<t>otÉprov µetéxov, toù dvm te 1ml µiì dvm? Che cosa è
questo «partecipante di entrambi, dell'essere e del non esse-
re», - questo µetéxov, appunto, che non potrebbe a giusto
titolo (6p9c3c;) esser ritratto o con l'uno o con l'altro nome? E
che ne è, ossia cosa deve dirsi, della conseguenza che da tutto
ciò scaturisce, e cioè che, ove tale «partecipante» compaia,
con esso compare altresì I' «opinabile»? L '«opinabile» è tanto
gli estremi (tà ch:pa) quanto gli intermedi (tà µeta!;u), sl che
deve dirsi che àel EKacrtov àµ<t>otéprov e!;etm, e che taùta
bmµ<t>otepiçnv, Kat out' étvm OU'tE µiì elvm où8èv aùtrov
ouvatòv mxyicoc; voflcrm, oute àµ<1>6tepa ome oùOétepov (479
C 3-5). Che cos'è, se è così, questo àµ<t>otéprov µetéxov?
La risposta non è facile perché, se, senz'altro, si dicesse
che, ambivalente e oscillante fra essere e non essere, il µetéxov,
o meglio, I 'bmµ<t>otepiçeiv, esso stesso «è e non è»; se, in altri
termini, si assumesse che, in quanto tale, I' «oscillante» e «am-
bivalente» oscilla in sé medesimo, è, nel suo essere ambiva-
lente, ambivalente, e non di meno «è» l'oscillante e l'ambiva-
lente, ecco allora che fra il suo «oscillare», il suo essere ambi-
valente e il suo «è» verrebbe a porsi un 'identità che, invece, è
impossibile porre. È evidente infatti che, nel suo «essere»
l'oscillante, questo è, e coincide con, l'intero ambito dell 'o-
scillare, e, per conseguenza, non oscilla; ed è altresì evidente
che se per contro oscillasse, necessariamente oscillerebbe in
un ambito esso stesso, a sua volta, e con pari intensità, non
oscillante.
Il punto, dunque, è delicato, la risposta non facile. Conver-
rà perciò procedere per gradi; e, cominciando dal rilievo in

Mauritius_in_libris 25
certo senso più semplice, osservare che se, come qui del resto,
eleaticamente, Platone tiene fermo, il «non essere» non è ed è
impossibile che sia, come «essere» tuttavia lo si prenderebbe,
non come «non essere», qualora si seguitasse a pensare che,
con l'essere al quale si oppone, costituisca uno dei due termini
oscillando fra i quali l'opinabile trova il suo «spazio» e la
&S!;a si rivela come la sua specifica ouvaµK. Se per altro
fosse cosl, allora è evidente che non fra «essere» e «non esse-
re» si aprirebbe lo «spazio» dell'opinabile; ma fra «essere» ed
«essere». Il che è assurdo: essendo infatti impossibile che fra
essere ed essere, e dunque nell'identità, si apra uno «spazio»
che, per di più, sia definito come tale che né dell'essere parte-
cipa né del non essere. Dato tuttavia, e naturalmente non con-
cesso, che fra essere ed essere uno spazio potesse mai aprirsi,
non perciò sarebbe lecito assumere che in esso trovi posto la
&S!;a; della quale non a caso, infatti, si asserisce che trova
bensl uno spazio e un posto: ma fra essere e non essere, non fra
essere ed essere. E allora? Certo, potrebbe essere di qualche
interesse cercar di capire quel che dall'assunzione del concetto
di uno spazio apertosi fra essere ed essere ulteriormente deri-
verebbe. Ma, a svolgerla nei suoi vari aspetti, la questione si
presenta subito cosl complicata ed intricata che la saggezza
consiglia di non dirne qui se non questo: e cioè che l'unica
condizione sotto la quale il concetto di uno spazio apertosi fra
essere ed essere possa essere assunto è che l'un termine (I 'es-
sere) sia diverso dall'altro (che è pur esso «essere»), e che la
«diversità», dunque, non l'identità, costituisca il soggetto del
discorso. Se per altro fosse cosl, l'essere sarebbe allora la
stessa cosa della «differenza»; e, in quanto conforme ali 'esse-
re, differenza, e nient'altro che differenza, sarebbe a sua volta
la scienza. Ma se sul serio l'essere fosse la stessa cosa della
differenza, sempre diverso dall'essere l'essere dovrebbe esse-
re: a quel modo stesso che se fosse differenza, e in tale carat-
tere la sua essenza consistesse, anche la scienza, che è confor-
me all'essere, dovrebbe, nell'intrinseco, differire da sé mede-
sima. Il paradosso, e la difficoltà, sono a questo punto eviden-
ti. E non per mitigarne l'asprezza, ma, al contrario, per confe-
rire ali 'uno e ali' altra il loro più radicale carattere, si consideri
l'altro aspetto della questione. Paradossale, senza dubbio, e

26 Mauritius_in_libris
difficile ad essere pensato, è il concetto in ragione del quale si
assume che, essendo, l'essere differisce dall'essere. Ma non
meno paradossale, e difficile, e anzi a rigore schiettamente
impossibile e impensabile, è il concetto in ragione del quale
deve affermarsi che se l'essere è diversità ed è, dunque, in sé
stesso, diverso da sé, certo non diversa da sé, ma identica a sé
e in ogni senso coincidente con sé, è questa «diversità da sé»
sul cui fondamento pretendiamo di dire che, in quanto «diver-
sità», l'essere è diverso dall'essere, la scienza è diversa dalla
scienza. Non siamo forse in vista della grande difficoltà che il
yévoc; del diverso oppone a chi cerchi di pensarlo alla luce di
una siffatta definizione categoriale della sua <j>ucrtc;?
Sarebbe interessante, senza dubbio, indagare con cura in
questa direzione; e tanto più in quanto un aspetto almeno di
questa difficoltà è presente, e a suo tempo lo vedremo, nell 'a-
nalisi che nel Sofista Platone dedica alla inquieta natura del
diverso 15 • Ma altro in questa sede interessa porre in rilievo. E'
si consideri allora che, quand'anche non fosse (come invece è)
impossibile che fra l'essere e il non essere si aprisse lo spazio
dell '«opinabile» e questo si costituisse come il suo stesso
É7mµ<j>o'tep{Cetv 16 , - il suo intrinseco «oscillare» ed «essere
ambivalente», non perciò sulla natura dell'opinabile potrebbe
trarsi la conclusione che Platone ha in mente. Non potrebbe
dirsi, ad esempio, che la <j>ucrtc; dell'opinabile è la stessa cosa
di ciò che si definisce come «l'essente non essente», o, se si
preferisce, come ciò che, in virtù del suo ambivalente oscilla-
re, «partecipa» dell'essere non meno che del non essere, e di
questo non meno che di quello. La ragione di questa «impos-
sibilità» è in effetti chiara. Posto che oscilli fra «essere e non
essere» e sia perciò in sé come un pendolo che, raggiunto sulla
destra il punto estremo della sua estensione oscillativa, in
questo stesso atto intraprende il cammino inverso e si avvia a
raggiungere il punto opposto, - ebbene, posto che l 'bmµ<j>o-
'tep{Cetv sia come un pendolo e coincida perciò con il suo
oscillare stesso fra gli estremi, forse che potrebbe dirsi che,
dopo aver toccato il polo del «non essere», o nell'atto di
toccarlo, il pendolo stesso (l '«oscillare») non sia, e che, per
questa ragione, ossia perché partecipa del «non essere», gli sia
perciò vietato di intraprendere il cammino che, sull'altro fron-

Mauritius_in_libris 27
te, non avrà termine prima che il polo dell '«essere» sia stato
toccato? Dire così è impossibile perché, proprio in quanto dal
polo del «non essere» gli è consentito, e non vietato, di tornare
indietro e di raggiungere quello dell'essere, - proprio per
questo, e solo per questo, il pendolo è il pendolo, e l'oscillare
è l'oscillare. Il che significa che, essendo impossibile che,
quando si trova in contatto con il polo del «non essere», il
pendolo, e l'oscillante, siano nulla, o che nulla sia ciò con cui
sono in contatto, così nemmeno è possibile che l'oscillante si
determini fra essere e non essere. Se infatti si dicesse che
l'oscillare si realizza fra essere e non essere, anche dovrebbe
dirsi che questi ne costituiscono l'ambito e quello, l'oscillare,
vi sia iscritto e compreso. Ma se l'essere e il non essere costi-
tuissero l'ambito entro il quale l'oscillare oscilla, per un verso
il «non essere» non sarebbe «non essere» (ché, se lo fosse, non
potrebbe costituire alcunché, né delimitare un ambito), men-
tre, per un altro, compreso in questo ambito (e per ciò stesso
che vi è, e può esservi, compreso), l'«oscillare» è; e il suo «è»
non oscilla. La conclusione che si trae da questa analisi è
drastica. In quanto «è» l'oscillante, l'oscillante non può non
coincidere con tutta intera la sua estensione; ed è impossibile
che, in sé stesso, oscilli. E nemmeno può dirsi che viceversa
oscilli nell'ambito costituito dagli «estremi» dell'essere e del
non essere. Il non essere infatti non è. Se non è, non è un
estremo, ed è impossibile che, con l'essere, concorra a costi-
tuire un ambito (che sia).

4. MéOel;iç e braµipowpiçeiv

Poiché più di una volta, nel corso di questa analisi, la


parola «partecipazione», µé9el;K 17 , è stata pronunziata, sia
consentita, a questo punto, un'ulteriore, anche se breve, sosta
analitica. La parola è infatti impegnativa; e meno che mai in un
contesto platonico potrebbe essere irresponsabilmente pro-
nunziata. Ebbene, si noti allora che, se si assume che l '«oscil-
lante» sia tale in quanto partecipa dell'essere e del non essere,
la situazione concettuale che ne deriva è, e si rivela, così
ambigua che un immediato chiarimento non può essere rinvia-

28 Mauritius_in_libris
to. E deve perciò chiedersi: l '«oscillante» è tale «in quanto»
partecipa dell'essere e del non essere, oppure ne partecipa in
quanto «è» l'oscillante? Sono due concetti diversi quelli che
sottendono queste due situazioni; che, per conseguenza, sul
serio sono «due». Nel primo caso, se ne sia o no consapevoli,
l'essere proviene all'oscillante dal suo «partecipare» dell 'es-
sere e del non essere. Ma nel secondo è invece il suo «essere»
di oscillante che consente e rende possibile la sua partecipa-
zione dell'essere e del non essere. Nel primo caso, e come che
ciò sia possibile, soggetto e causa dell'essere di ciò che si
definisce come l'oscillante è la µÉ0el;tc:, la «partecipazione».
Nel secondo, soggetto e causa della «partecipazione» è l'esse-
re dell'oscillante. Fra queste due alternative la scelta è, per
altro, impossibile; e in tanto lo è in quanto all'una è necessaria
l'altra come condizione imprescindibile della sua espressione
concettuale. Il che, in altri termini, significa che l'aporia che,
prese insieme, queste due situazioni delineano è tale che cia-
scuna appare segnata da essa che, a prima vista, solo all'inter-
no del loro rapporto sembra sussistere, e, al di fuori, no. Dal-
1'intera aporia è in realtà segnata la prima perché, se si fa che
l'oscillante sia tale in quanto e dell'essere partecipa e del «non
essere», come allora, e d'altra parte, questa partecipazione
sarebbe possibile se, alla sua radice e a fondamento del suo
esercizio, proprio esso, l'oscillante, che pure dovrebbe esserne
reso possibile e derivarne, non agisse come soggetto (e non
rivelasse di esser quindi già in sé stesso costituito)? Ma dall 'a-
poria, da tutta intera l'aporia, anche la seconda situazione
appare, ed è, segnata. Se si fa che l'oscillante sia il soggetto
della partecipazione, e quindi, necessariamente, la preceda,
che ne è allora della pretesa secondo la quale solo in virtù della
partecipazione esso è quel che è, - l'oscillante? Se, innanzi
all'atto della partecipazione, l'oscillante fosse, in quanto tale,
già costituito (e della partecipazione costituisse il soggetto),
come e perché lo si considererebbe determinato nel segno
dell'oscillare? Non è forse evidente che non può essere esso
stesso oscillante fra l'essere e il «non essere» l'oscillante del
quale si dice che costituisce il soggetto di quel «partecipare
dell'essere e del non essere» il cui risultato è, appunto, l 'oscil-
lante? Non è altresl evidente che se, per contro, il soggetto di

Mauritius_in_libris 29
questa partecipazione (dell'essere e del «non essere») fosse
esso stesso oscillante (ossia, partecipe dell'essere e del non
essere, e perciò oscillante), in nessun modo si potrebbe pren-
derlo come soggetto senza aggiungere che, allo stesso titolo, è
«non soggetto»?
Da questa aporia, che in tanto è per intero intrinseca a
ciascuna delle due situazioni qui delineate in quanto è, più in
generale, l'aporia stessa che travaglia il concetto della parteci-
pazione, - da questa aporia venir fuori è impossibile. Il concet-
to richiede dunque di essere criticato; drasticamente criticato
nelle difficoltà che, per dir cosl, costituiscono il suo percorso
aporetico. E per cominciare dalla prima e maggiore, ossia da
quella che da sola rende trasparente la sua impossibilità costi-
tutiva, si consideri che se sul serio si tenesse fermo al concetto
secondo cui in tanto l'oscillante è l'oscillante in quanto è
dall'essere e dal «non essere», nonché dal suo partecipare di
entrambi, che il suo campo ontologico è costituito, allora per
certo la conseguenza suonerebbe opposta all'aspettativa: es-
sendo in effetti evidente che se del «non essere» si fa che, al
pari dell' «essere», contribuisca a definire e a costituire il cam-
po ontologico dell'oscillazione, allora, per ciò stesso che deli-
mita e costituisce, di lui non potrà dirsi che è «non essere».
Dovrà dirsi che è essere. Se per altro, pensato in concreto, il
«non essere» si rivela qui come essere, e come nient'altro che
essere, la conseguenza è che il campo ontologico dell'oscilla-
zione non può costituirsi, perché era dall'essere e dal «non
essere» che in effetti lo si diceva definito e costituito; e, con il
campo ontologico dell'oscillazione, è l'oscillante stesso che,
ed è ovvio, si rivela impossibile (e non pensabile).
Il percorso aporetico non è, per altro, ancora terminato. Si
provi infatti ad assumere che, come che sia del suo essere, o
non essere, il soggetto della partecipazione, realmente l 'oscil-
lante e dell'essere partecipi e del «non essere». Come, tuttavia,
ne parteciperà (il che significa: con quale modalità partecipa-
tiva)? Non potrà farsi innanzi tutto che, partecipando dell'es-
sere e, insieme, del «non essere», l'oscillante disponga questo
suo «parteciparne "insieme"» nella forma della successione:
ossia in modo tale che, quando partecipa dell'essere, «non»
partecipa del «non essere», e quando di questo si trovi invece

30 Mauritius_in_libris
a partecipare, «non» partecipi perciò dell'altro. Cosl non può
farsi perché, e basta poco ad accorgersene, nessuna intrinseca
ragione si è assegnata al «quando», o, se si preferisce, ai
«quando» che scandiscono la duplice partecipazione che, per
essere tale, l'oscillante fa dell'essere (quando è di questo che
partecipa) e del «non essere» (quando a questo, nella sua
oscillazione, sia giunto). In altri termini: mentre la pretesa, o la
tentazione, è di assegnare al «quando» la ragione per la quale
l'oscillante oscilla, e, dopo esser stato partecipe dell'essere,
proprio del suo contrario-opposto passa invece a partecipare,
della ragione in virtù della quale al «quando» si assegna la
ragione dell'oscillare non si indaga il fondamento e non si
inquisisce la natura: quasi che fosse ovvio, evidente, pacifico
per tutti, attribuire al «quando» e alla sua serie, - ossia al
tempo, e alla sua potenza, l'oscillazione dell'oscillante. Ma
assegnare al tempo l'oscillazione dell'oscillante, ossia la ra-
gione per la quale questo oscilla, tutto è fuor che ovvio. Per
quale ragione infatti, posto che in un momento del tempo si
trovi a partecipare dell'essere, l'oscillante dovrebbe passare al
momento opposto del non essere, e parteciparvi? Forse perché
è il tempo che, dopo averlo condotto ali 'essere, lo conduce
altre sì al non essere? Ma che sia il tempo a condurre ali' essere
l'oscillante che, subito dopo, ancora dal tempo viene condotto
al non essere, - non è proprio questo il punto che, lungi dal
costituire la dimostrazione, con maggiore urgenza la richiede?
E del resto, dato e non concesso che sia il tempo a realizzarsi
come il soggetto dell'oscillazione dell'oscillante, qual è, in
questo caso, il rapporto che si stabilisce fra il tempo e l 'oscil-
lante? Basterà, perché tutto sia chiaro, dire che, al modo di un
qualsiasi oggetto, l'oscillante «Sta» nel tempo? Basterà dire
che, come è il tempo a consumare gli oggetti che la sua inarre-
stabile corrente trascina via lungo la sua linea infinita, cosl
anche l'oscillante sta nel tempo che, prima lo spinge ali 'esse-
re, e, quindi lo richiama al non essere, prima lo spinge al non
essere, e quindi lo richiama ali' essere? Ma, a parte la differen-
za che in tal modo si verrebbe a porre fra i molteplici oggetti
che la comune coscienza dei parlanti ritiene siano immersi nel
tempo (che li consuma) e l'oscillante che «sta» bensl nel tem-
po, senza, a differenza di quelli, esserne consumato, - non è

Mauritius_in_libris 31
evidente che anche per altre ragioni a questa tesi è impossibile
attenersi? Non è in effetti evidente che, per ciò stesso che per
intero lo si include nel tempo, proprio per questo non potrà
anche farsi che, in questo «stare nel tempo», l'oscillante oscil-
li? Non è evidente che, se il suo «stare nel tempo» esso stesso
oscillasse, e fosse e perciò anche non fosse il suo «stare nel
tempo», non potrebbe farsi e dirsi che l'oscillante «sta» nel
tempo? Non è infine e in altri termini evidente che, lungi dal
rendere pensabile e possibile l'oscillazione dell'oscillante,
questa tesi ne conferma, per contro, l 'impensabilità e l 'impos-
sibilità?
Ci si illuderebbe, d'altra parte, se si ritenesse che, per
uscire dalle difficoltà, basti identificare tempo e oscillante,
tempo e successione, oscillante e successione, rinunziando
altresì all'idea che sia il tempo a far oscillare, e a render tale,
l'oscillante. Ci si illuderebbe perché, se l'oscillante fosse tem-
po, e questo fosse preso nel senso della successione, come e
dove potrebbe individuarsi il luogo del suo oscillare fra essere
e non essere? Non nel tempo e nella successione questo luogo
potrebbe essere individuato e trovato, perché il tempo e la
successione non sono che l'oscillante stesso, - quell'oscillante
che, nella sua inevitabile coincidenza con sé, non può, pena la
perdita del suo carattere proprio, oscillare. E allora, dove?
Dove lo individueremo e troveremo questo luogo, se, com'è
ovvio, messe le cose in questi termini, tanto poco può dirsi che
l'oscillante è tale perché oscilla fra l'essere e il non essere,
quanto, per contro, deve piuttosto affermarsi che l'essere e il
non essere sono interni all'oscillante? E allora, dove? Dove lo
troveremo questo luogo, se, come anche è ovvio, posto che
l'oscillante sia tempo e successione, e l'essere gli sia interno
non meno che il non essere, questi, l'essere e il non essere,
saranno bensì successivi, ma in forza di una successività che,
in sé essendo non successiva a sé stessa, è tale che, nell' insuc-
cessività del suo «essere successiva», identifica a questo suo
carattere fondamentale (la coincidenza con sé, la insuccessivi-
tà) anche ciò che pure, proprio mediante questo concetto (della
successività), viene definito? Detto in altri, e forse più sempli-
ci termini. Se l'oscillante è, in sé stesso, successività, in modo
tale che, come questa è, o coincide con, l'oscillante, così l'uno

32 Mauritius_in_libris
e l'altra non possono andar oltre il limite della loro strutturale
coincidenza con sé, allora è evidente che, successivi nell'am-
bito di questa successività che, identica a sé, non è perciò
successiva a sé, l'essere e il non essere non sono sul serio tali;
e piuttosto s'identificano: con la conseguenza che non sono,
non possono essere e non costituiscono 'tà <ÌKpcx, gli «estre-
mi», entro i quali si dice che l'oscillante oscilla.
Le difficoltà sono, come si vede, stringenti. Come uscirne?
Basterà, perché ciò avvenga, assumere che, contemporanea-
mente e non in successione, l'oscillante partecipi dell'essere e
del non essere? Se, per altro, fosse così, e questa via fosse
tentata fino al limite della sua intrinseca possibilità concettua-
le, le conseguenze non sarebbero meno delle precedenti di-
struttive. «Partecipare» dell'essere nell'atto stesso in cui si
partecipa del non essere, «partecipare» del non essere nell'atto
stesso in cui si partecipa dell'essere, può significare, e signifi-
ca, due cose diverse: a seconda, in realtà, che in un modo o in
un altro si assuma il concetto di «partecipazione del "non
essere"». Questo concetto è infatti, a osservarlo con qualche
cura, equivoco; e richiede di essere chiarito nei suoi due signi-
ficati essenziali che, l'uno non meno dell'altro, si rivelano
affetti dall'aporia. Se «partecipare» del non essere significa
che l'oscillante ne partecipa essendo, di questa partecipazione,
il soggetto, il concetto si rivela autocontraddittorio: è evidente
infatti che, se l'oscillante è (il soggetto), allora è essere, e, se
è tale, come mai parteciperebbe del non essere? Forse che (in
tutto o in parte) l'essere è non essere? Se «partecipare» del non
essere significa che, partecipandone, l'oscillante è non essere,
come mai allora si dice che partecipa del non essere? Forse che
ha senso dire che il non essere partecipa del non essere? Dire
così non ha in realtà alcun senso, perché, per poter partecipare
del non essere, il non essere dovrebbe «essere»; e di nuovo, se
così fosse, come potrebbe dirsi che l'essere partecipa del non
essere? In entrambi i casi, il concetto della partecipazione che
l '«oscillante» fa del «non essere» si rivela, nell'intrinseco,
impossibile. E a sottrarlo a questa impossibilità certo non
varrebbe, passando così all'altro significato, osservare che il
concetto della «partecipazione» dev'essere assunto nella sua
intrinseca connotazione sintetica; e, quindi, nel senso che

Mauritius_in_libris 33
«contemporaneità» significhi «sintesi» e questa l'atto in forza
del quale, col suo partecipare dell'essere, l'oscillante parteci-
pa insieme del «non essere», e tanto «è» quanto «non è». Il
guadagno ottenuto per questa via sarebbe in effetti un ben
magro guadagno; e anzi non sarebbe affatto un guadagno per-
ché, posto che, quando «è», altrettanto l'oscillante «non è», è
posto altresì il concetto che, quando «non è», altrettanto «è»:
con l'ovvia conseguenza, se è così, che non è l'oscillante a
dividersi in sé stesso secondo il «quando» e l '«altrettanto», ma
sono questi, il «quando» e l' «altrettanto», che, al contrario,
entrano nell'oscillante e si pongono come i poli, entrambi
essenti, del suo «essere», - che, in quanto tale, è e non può non
essere. Con il che, a ben guardare, torna a ribadirsi che, se
l'oscillante è l'oscillante, e l'bmµcpo'tEpiçnv è l'bmµcpo'tE-
piçnv; se, in altri termini, l'oscillare dell'oscillante non può
(pena il suo «non essere» l'oscillante) superare i confini del-
1'oscillare, - parlarne come se la sua qn)crtt; fosse esposta al
«non essere» non meno che all'essere, e, viceversa, all'essere
non meno che al non essere, è, in senso assoluto, assurdo:
meglio ancora, impossibile.
Sarà vero, del resto, che alla dimostrazione dell'assurdità
intrinseca a questa interpretazione dell 'bmµcpo'tEpiçetv proprio
Platone ha fornito qualche fondamento: sarà vero che, nel suo
testo, egli ha offerto la prova, implicita, se si vuole, indiretta,
ma, a suo modo, efficace, dell'assurdo e dell'impossibilità ai
quali, per altro verso, dava luogo. E questo avviene là dove
(479 B-C), per spiegare la natura di questo «oggetto» oscillan-
te e ambivalente, si ricorre agli scherzi a doppio senso che
sono in uso Èv 'tak Écrncfoecrtv, nei conviti; oppure 't~ 'tWV
7tatorov aiviyµmt 't~ 7tEpt wù eùvouxou, all'indovinello dei
ragazzi sull'eunuco; - sull'eunuco che colpisce il pipistrello, e
sull'oggetto con cui lo colpisce nel luogo in cui altresì lo
colpisce. Qui, s'intende, tutto è duplice, perché, come l'eunu-
co è un «uomo non uomo», così egli «colpisce non colpisce»;
mentre, a sua volta, a quel modo che l'uccello che viene
«colpito non colpito» sta su un legno che è e non è un legno,
così ciò che, senza colpirlo, lo colpisce è una «pietra non
pietra». Ebbene, se si pensa che l'«uomo non uomo» è un
eunuco che è tale (e non anche «non tale»); che l'uccello (non

34 Mauritius_in_libris
uccello) è una VUK'tEpk, della quale non potrebbe mai dirsi
che sia «non VUK'tEpk» (perché è nel suo esserlo che di essa si
dice che è un «uccello non uccello»); che il «colpire non
colpire» è una metafora dell'errore di mira (che tale è, e non
anche «non tale»); che il «legno non legno» è una canna (alla
quale appartiene di esser tale, e non anche «non tale»); che la
«pietra non pietra» è una pomice (identica, nel suo esserlo, a sé
medesima), - ebbene, come non vedere che l'equivoco qui
nasce dal ritenere che, definito, ad esempio, come «uomo non
uomo» e come strutturalmente «oscillante» fra questi due àKpa,
l'oscillante sia in sé stesso oscillante, e non invece, quale di
necessità è, una non oscillante struttura? Queste realtà, che
Platone assume siano «oscillanti» e la cui regola è infatti
l 'bmµq,o'tepl.çetv, sono più oscure della conoscenza, ma più
luminose dell'ignoranza: 478 e 13-14 yvrocreroc; µÉv crot q,ai-
VE'tat &Sça CJKO'troOÉcr'tEpoV, àyvoioo; oè <!>CXVO-'tEpov? Hanno
dunque, in sé stessi, una luce. Forse che, nel suo essere più
luminosa delle tenebre (anche se più tenebrosa della luce),
questa non è tuttavia una luce, - una luce «Che è tale» (e non
anche «non tale»)?

5. Conclusioni sul passo della «Repubblica»

Stiamo compiendo un giro più lungo, forse, e più compli-


cato del previsto. Ma tant'è. Occorre affrontarne e sostenerne
la fatica e il rischio, e inoltre cercare di compierlo, perché, a
questo punto, il giro non è ancora ritornato su sé stesso. In
questo luogo della Repubblica si dice che non si dà yvrocrtt: se
non dell'essere; ma del «non essere», invece, il contrario, -
ignoranza, &yvota o àyvcool.a. Ebbene, nel precedente argo-
mento si è dimostrato che, se «non è», è impossibile che il
«non essere» costituisca il limite di uno spazio che abbia,
all'altro limite, l'essere. E se ne sono tratte varie conseguenze,
tutte orientate verso questa conclusione: che il «non essere» è
impossibile che sia; e «non è». Se per altro è cosl, forse che
maggiore consistenza, e migliore capacità di resistere alla cri-
tica, mostra l'asserto secondo cui, come dell'essere, e solo
dell'essere, si dà yvrocrtc;, cosl del «non essere» altro non può

Mauritius_in_libris 35
darsi che à-yvotcx (o àyvcoc:rl.cx), - ignoranza? «Ignoranza del
"non essere"» significa innanzi tutto, rovesciamento, il puro
rovesciamento, della yvc.Oc:rtc; wu ovwc;; e implica il concetto
che la sua possibilità esclude la possibilità del suo opposto:
non solo, e non tanto, dell 'àyvotcx, ma anche, e piuttosto, della
yvc.Oc:rtc; 'tOU µiì ov'toc;. Basta, per altro, che la questione sia
prospettata in questi termini perché subito emerga la difficoltà
logica che la insidia; e ci si avveda che, se si assume come
possibile il parallelo e connesso rovesciamento della yvc.Oc:rtc;
in àyvotcx, e dell 'ov nel µiì ov, dunque, e per ciò stesso,
dovrà assumersi che possibile in sé, e non impossibile, sia
l'opposizione di queste due coppie. Ma, per essere (possibile),
l'opposizione richiede che i suoi termini «siano»; e che anche
il «non essere» dunque «sia» in qualche modo. Se per altro il
«non essere» fosse «in qualche modo», allora certo non sareb-
be «non essere» (ché, se lo fosse, il «qualche modo» non
potrebbe essergli riferito e attribuito). E la conseguenza allora
è che, proprio qui, dove si cerca di conferire «possibilità» alla
sua possibilità, l'opposizione si rivela, nell'intrinseco, impos-
sibile. In altre parole; l'opposizione è impossibile sia nel caso
che il «non essere» sia tenuto fermo come «non essere», sia nel
caso che, col porlo come «in qualche modo essente», alla sua
<1>uc:ric; di µiì ov si contravvenga e non si tenga fermo. Se il
«non essere» è tenuto fermo come «non essere», l'opposizione
non si costituisce perché uno dei due «opposti» non è; se non
è, non è un opposto, e non può perciò costituire termine di
opposizione. Se viene preso come «in qualche modo essente»,
e dunque come termine «che è», non può, proprio per questo,
esser tenuto fermo come opposto: anche l'altro termine è infat-
ti un «opposto-che-è»; e l'opposizione, pertanto, non si costi-
tuisce. Come infatti l'essere potrebbe opporsi all'essere? E per
quanto concerne la natura dell 'àyvcoc:rl.cx o àyvotcx, basti così.
Non questa, infatti, è la sede dove possa dirsene di più, svol-
gendo i curiosi paradossi che, senza eccessivo sforzo, potreb-
bero essere individuati alla sua radice. Non è questa la sede
nella quale convenga riprendere un tema che già è emerso nel
corso dell'analisi; e del quale in effetti si disse a sufficienza
quando si osservò che poiché, al pari della yvc.Omc;, anche
l 'àyvcoc:ricx (o àyvoicx) si presenta, nel ragionamento di Plato-

36 Mauritius_in_libris
ne, come una ouvaµtc:' e il suo carattere è perciò di «intenzio-
nare», - come dunque proprio a questa potrebbe riconoscersi
la capacità di conservare al «non essere» il suo specifico carat-
tere? Come si potrebbe, se «intenzionare» significa altresl
riferirsi a «ciò che» si intenziona, e, di necessità (e per la sua
stessa natura), il riferimento suppone l'essere al quale si rife-
risce e dal quale è reso possibile?

Mauritius_in_libris 37
Mauritius_in_libris
III

6. Il nulla e la rigorizzazione del/' aporia (che lo concerne)

Malgrado l'impegno con il quale, fra l'essere e il non


essere, cercò di aprire lo spazio logico-ontologico della &S!;a.
e del oo!;a.crtov, dell'opinabile, nessuno potrebbe dire che qui,
in queste pagine (per altro mirabili), Platone riuscisse nell 'im-
presa che si era proposta. Quali che siano le differenze rinve-
nibili fra questa sua idea della M!;a., e del µeta.!;u che la rea-
lizza (o dovrebbe realizzarla), e quella, enigmatica fin quasi
ali 'impenetrabilità, che compare nel poema di Parmenide, -
certo è che una compatta atmosfera eleatica avvolge il ragiona-
mento; e, connessa con quella del «non essere», la questione
del «falso» e dell'errore vi risulta insoluta: a quel modo, può
aggiungersi, che insoluta, e insolubile, risulta nelle sottili e
problematiche discussioni (che qui conviene dare per note)
svolte nell'Eutidemo, nel Cratilo, nel Teeteto 18 •
Riprendiamo dunque, dopo questa non breve parentesi,
l'analisi diretta del Sofista. Riprendiamola al punto in cui, su-
bito dopo averla iniziata, la interrompemmo per dare spazio
alla digressione; e, come che sia del rilievo che è stato mosso
all'esordio stesso dell'argomento che, conclusa la parte dedi-
cata alle definizioni del sofista, il Forestiero d 'Elea aveva
preso a svolgere nella forma della «disubbidienza» al logo di
Parmenide, osserviamo piuttosto che in quel che segue (237 B
sgg.) il discorso assume un volto sottilmente paradossale. Per
un verso infatti il suo scopo è di dimostrare che, per ciò stesso
che se ne parla, del nulla deve e può dirsi che «in qualche
modo» è. Ma, per un altro, la disubbidienza si realizza attra-
verso la forma estrema di una paradossale fedeltà che, quanto
più è e pretende di esser tale, di altrettanto evoca lo spirito
della ribellione, del distacco, della critica. Non diversamente
dal Forestiero d'Elea, anche Parmenide aveva sostenuto che

Mauritius_in_libris 39
mentre l'essere è, ed è dovunque con pari forza, pieno di
essere, µiì éòv o'à.v 7t<XV'tÒc; è8tl'to 19 , il non essere è privo di
tutto, così che CJÙ 't'IÌc; o'àcj>' ooou otç1'at0c; dpyt v611µa 20•
Implicitamente, se si vuole, e tuttavia con sostanziale chiarez-
za, anche Parmenide aveva sostenuto che il µiì Mv non può
essere oggetto né di logos né di noema. Nella logica da cui il
suo argomento è costituito, il «nulla» è infatti bensì nulla, ma
essere, per contro, e non nulla, è la ooòc; 8tç1'CJtoc; ffic; o'ÒK
eanv 21 dalla quale è necessario che il noema sia tenuto lon-
tano: con la conseguenza che basta, anche qui, un minimo di
riflessione per avvedersi che, se il nulla è il nulla, e non di
meno lo si pronunzia, lo si dice, lo si pensa e se ne fa l'oggetto
di un logos e di un noema, allora è autocontraddittorio asserire
che dal nulla è necessario che logos e noema siano tenuti
lontani. Rilevando questa, che è in effetti la «contraddizione»
di Parmenide, il Forestiero si allontanava bensì da lui e dalla
sua impostazione; ma solo perché (e in questo era invece
massimamente fedele al suo tema più profondo) non faceva
che rendere esplicito il problema che gli si agitava dentro.
Come che sia del sottile gioco che, nel segno dell 'identifi-
cazione, conferendo altresì al discorso il suo peculiare, ironico
e insieme solenne, aroma dialettico, in questo punto conduce,
sta di fatto che nella rigorizzazione del nulla e della sua aporia
Platone raggiunse forse il punto più alto della sua lunga inda-
gine speculativa, e, in assoluto, uno dei più alti a cui la filoso-
fia occidentale sia stata in grado di pervenire. Nell'accingersi
all'indagine che ha per «oggetto» il nulla, e che, già per questo
suo necessario presentarlo come il suo inevitabile oggetto (e
non, dunque, come nulla), di continuo rischia di andare a far
parte dell'aporia dalla quale, nell'intrinseco (e per ciò .che ha
un «intrinseco») il nulla appare segnato, all'orecchio di Plato-
ne risuonavano, senza alcun dubbio, i temi eleatici che, in altre
pagine, variamente erano stati da lui intrecciati con il filo
aureo dell'ironia, della paradossalità, della levità letteraria, ma
anche della grande serietà che, al di qua dell'ironia e del gioco
elegante dei paradossi, vi riconosceva. Alle sottigliezze eristi-
che dei Dionisodoro e degli Eutidemo22 , senza sul serio riu-
scire a dimostrarne l'infondatezza aveva contrapposto l'ironia
di Socrate. Ma, per le ragioni che sono state dette, questa era

40 Mauritius_in_libris
rimasta prigioniera di sé stessa; e come quelli davano corpo ai
paradossi più stridenti circa il «non essere» dell'errore e del
falso, così, per allontanarli da sé, per toglier loro la parola che
pure aveva ad essi concessa, per riprendere contatto con l 'one-
sta realtà dell'esperienza e ritrovare la pace, si era servito di un
qualsiasi artificio della drammatizzazione dialogica, quasi che,
a confutarli, un mutamento, all'improvviso introdotto nella
tonalità argomentativa, potesse sul serio essere sufficiente.
Allo stesso modo, e con la medesima tecnica, aveva cercato di
tener testa alla rigorosità estremistica di Cràtilo23 , che, per al-
tro, e ancora una volta, non riusciva a sconfiggere nel suo
autentico nucleo. Di fronte a questi avversari l'eleganza e la
sapienza letteraria avevano tenuto il posto dell'autentica criti-
ca filosofica; e poiché dopo tutto li prendeva sul serio, a lui
non era riuscito di rassicurare, con questi strumenti, né il
lettore né sé stesso. Ma ora, in questo conclusivo esperimento
della sua grande vicenda intellettuale, Platone avvertiva che,
nei confronti di Parmenide e dell'eleatismo, ironia e letteratura
non potevano bastare. Avvertiva che ogni indugio doveva es-
sere troncato; e, come se a parlare e a condurre il discorso
fosse stato, non il suo alter ego di Elea, quanto piuttosto un
qualsiasi, insidioso, Dionisodoro o Eutidemo, agli argomenti
eristici conferiva (o riconosceva) serietà, e non esitava a chie-
dere: l'assoluto «non essere» è, esso stesso, cosa che ci sentia-
mo di pronunziare 24? Poiché, d'altra parte, così, leggermente,
come se si trattasse di stare al solito gioco eristico delle sotti-
gliezze e delle audaci provocazioni logiche, alla domanda
dell 'Eleate Teeteto rispondeva di sì, che al quesito poteva
darsi risposta affermativa e dire possibile l'enunciazione del
«non essere», - ecco che, nel discorso, subito l'ospite introdu-
ceva la nota grave della serietà. Se a Teeteto aveva rivolta
quella domanda, certo, spiegava, non l'aveva fatto per gioco;
ma, al contrario, perché non era possibile che, giunta l'indagi-
ne a quel punto, egli non la formulasse. Era una seria, non
frivola, domanda quella che egli poneva al suo interlocutore; e
seria, non frivola, era l'ulteriore questione che, per convincer-
lo della gravità del dibattito da cui entrambi si erano lasciati
prendere, delineava dinanzi agli occhi della sua mente: se cioè
fosse possibile, questa espressione «non essere», riferirla,

Mauritius_in_libris 41
quando la pronunziamo, a «cosa che sia», e se, nel pronunziar-
la, sia possibile sottrarla a questa specifica necessità. Il muta-
mento tonale che, in tal modo, il Forestiero d 'Elea introduceva
nel discorso era del resto cosl netto che subito la risposta di
Teeteto vis 'intonava: X<XÀ.e1tÒV iipou 1ml crxeoov EÌ1telV OlO) ye
ȵOt 1t<XV'Ccl1t<XO'tV a1topov 25 • E a questo punto l'ardua ricerca
ha inizio.

7. La forma estrema del/' aporia

L'argomento al quale, iniziando l'analisi, subito il Fore-


stiero d 'Elea fa ricorso è che a niente «che sia» il «non essere»
può essere riferito. Ma, se è cosl, neppure allora si direbbe
bene e rigorosamente se si assumesse che almeno a un 'ti, a un
«qualche», a un grado infinitesimo di realtà il µiì òv possa
essere riferito. Che, in effetti, dire cosl non sia possibile 26 è
tanto più evidente in quanto, come il 'ti, il «qualche», non può
a sua volta non essere riferito a cosa che sia (della quale di
necessità fa parte, e rispetto alla quale, e al suo «essere», non
può essere separato o isolato), cosl il primo rilievo che a
questo assunto fu rivolto risulta confermato e, se possibile,
rafforzato. Confermato e rafforzato risulta il concetto in ragio-
ne del quale è necessario che, chi dice «qualche», una qualche
cosa dica ('t6v n Af:yov'ta Èv yé n Af:yetv 27 ): con la conse-
guenza che, addirittura, in questa concisa presentazione del
problema, alla radice del 'tt è dato discernere lo ev, l'uno, e il
discorso s'avvia a raggiungere quella che potrebbe esser defi-
nita la sua prima stazione argomentativa. Chi non dice qualco-
sa, è necessario, anzi necessarissimo (àvayx:m6'tmov),
1t<XV'tcX1t<XO'tV µ11Sèv ì..éyetv, che, in senso assoluto niente di-
ca28; e allo stesso modo, con altrettanta intransigenza, di qui
discende l'impossibilità, non solo che, dicendo, si dica «nien-
te», ma altresl, sull'altro fronte, che dica e dia luogo ad un
autentico À.Éyetv chi enunzia, o pretende di enunziare, il non
essere. Il «non essere», in altri termini, non può nemmeno
essere detto: nel senso che «niente», e «non dire», è il dire che
lo dice (o pretende di dirlo) 29 •
Questa prima stazione argomentativa è stata appena rag-

42 Mauritius_in_libris
giunta, e già, confidando di essere riuscito ad intravvedere, fra
le nebbie del difficile argomento, la soluzione, Teeteto ritiene
di potersi abbandonare al più schietto ottimismo (237 E 7
o
'tÉÀoc yoùv èiv cbmpicxc; Myoc; éxot). Ma il Forestiero d'E-
lea è pronto a disilluderlo, e nel modo più crudo. In effetti,
proprio qui, dove il suo interlocutore aveva sperato che la
difficoltà fosse stata vinta, o avviata almeno verso la sua riso-
luzione, essa svela la sua natura più aspra, e si palesa come la
più grande e la prima, 'tcOV à1toptc.Ov Ti µeyicm1 Kcxì. 1tpcO'tTt30•
Per misurarne la grandezza e la primalità, l'altezza e l 'esten-
sione, non basta, in realtà, limitarsi a far vedere che, se al «non
essere» non è consentito unire «cosa che sia», e, dunque,
nemmeno il numero, allora è necessario chiedersi come sia
possibile pronunziare otà 'tOÙ <J'tOµawu, con la bocca, o
concepire 't1j otavoi~. con il pensiero, 'tà µiì ov'tcx iì 'tÒ µiì ov,
le cose che non sono o ciò che non è: chiederselo, e concludere
che è impossibile, dal momento che, in verità, quando diciamo
«cose che non sono», che altro facciamo se non pensarle nella
loro pluralità e, quindi, contravvenendo alla già vista e stabili-
ta «impossibilità», unire ad esse, che non sono, un numero
«che è»? E quando diciamo «ciò che non è», come altrimenti
procediamo se non con il «singolare», e dunque, ancora una
volta contro la regola, con il numero31 ? Non basta, in realtà, a
giudizio del Forestiero d 'Elea, spingersi fino a questo confine,
dal quale, per altro, e con buona probabilità di discernere i
contorni concettuali, è pur possibile contemplare, nella sua
radicalità, il principio secondo il quale, indicibile e impensabi-
le, il µiì ov è sul serio àotcxv611'tov 'tE Kcxl &pp11wv Kcxl
a<j>0eyK'tOV Kcxl aÀoyov 32• Non basta perché in realtà il «non
essere» rivela una così singolare natura che proprio chi, per
questa via, provi a negarlo è costretto a contraddirsi. E lungi
dall'essere il semplice ribadimento di quanto già era stato
detto, - la pura enfatizzazione di gusto ellenico del già acqui-
sito, questa è sul serio un 'ulteriore aporia, o, se si preferisce
dire in questa forma, l'estrema estensione dell 'aporia33 • Non è
infatti la stessa cosa (ma, appunto, occorre arrivare a capirlo)
assumere che il «non essere» è «indicibile», e quindi dire che,
nell'assumere e per assumere la sua «indicibilità», anche deve
assumersi e pronunziarsi il «non essere» che, per definizione,

Mauritius_in_libris 43
assumibile e pronunziabile non è! Se è così, il Forestiero
d 'Elea ha ragione. Dichiarando che, con questo svolgimento,
l'aporia è pervenuta, o sta per pervenire, al suo culmine, non
ha concesso nulla al gusto virtuosistico dell 'argomentazione34 •
Ha indicato, al contrario, la radice del problema concernente il
«non essere». Soltanto ora, infatti, l'aporia ha raggiunto, e
mostrato, la sua autentica estensione; soltanto ora si presenta
nella forma più inquietante; soltanto ora alla rigorizzazione
platonica sembra esser possibile aggiungere l'ulteriore corol-
lario, e concludere che persino nell'assumere il criterio della
suprema rigorosità e nell'astenersi dalla nominazione del «non
essere», l'aporia interviene e fa valere i suoi diritti: essendo
dopo tutto non difficile osservare che astenersi dal nominare il
nulla è impossibile senza, attraverso la formulazione e l'attua-
zione del proposito, presupporlo e, perciò, nominarlo e pensar-
lo. Il silenzio mantenuto «sul» nulla, non si costituisce forse a
partire «dal» nulla? Ma se è così, e questa è la forma estrema
dell'aporia, allora, si ripete, il Forestiero d'Elea ha ragione nel
dichiararsi, in questo tentativo di EÀE'YXOC: wù µiì ov'toc;,
vinto; e altresì nell'avvertire, onestamente, che errerebbe chi
credesse di poter trovare nel SUO logo 'flÌV op90À.Q'YtClV 1tEpt
'tÒ µiì ov (239 B 4). Non è forse vero che, dicendo poc'anzi del
«non essere» che è impronunziabile, indicibile, inconcepibile,
proprio lui finiva con l'unirgli l'essere; e che, ancora, nell 'as-
segnare questo «è» al «non essere», contrariamente alla sua
prima affermazione e asserzione, come di un «essente» e di un
«uno» ne parlava?

8. L'arte sofistica della parvenza ...

Raggiunto in tal modo il vertice dell'aporia, la sconfitta


del Forestiero d 'Elea è inevitabilmente, sull'altro fronte, una
nuova vittoria del sofista, - una nuova prova, se così potesse
dirsi, della sua inafferrabilità. Il sofista si era nascosto nel
«non essere», ossia in un luogo che «non è» un luogo; e come
di questo (che non è un «questo», o è un «non questo») il
Forestiero d 'Elea non riesce ad istituire l 'EÀEYXOC:, così nem-
meno gli accade di snidarlo dal suo nascondiglio, di recarlo

44 Mauritius_in_libris
alla luce del sole e qui di dissolvere il suo inganno. Occorrerà
allora dire che, capace di ogni impresa (7t<XV'tÒc; 7tavoupyoc;),
a quel modo che è andato a cacciarsi dc; &7topov 't07tOV, così,
per questa medesima ragione, il sofista merita di esser definito
in possesso di una cj>av'tacr'ttKTt 'tÉXVTt 35 , di un'arte dell'im-
magine e della parvenza?
Assai complessa è, in effetti, la questione che ora comincia
a delinearsi; e non solo in sè stessa, ma nel suo punto d'avvio,
e, dunque, nella sua intrinseca «possibilità» di autocostituzio-
ne. Non si tratta infatti soltanto e unicamente del tema specifi-
co che, riprendendo in questo punto del dialogo quanto aveva
detto a 235 D 6 sgg.36 (dove per altro era rimasto indeciso se il
sofista dovesse essere assegnato all'arte icastica o a quella
fantastica), di nuovo Platone fa risuonare; e non si tratta nem-
meno della circostanza che è alla seconda di queste 'tÉXVat che
ora egli assegna la sua cj>umc;. Ma si tratta bensì di una diffi-
coltà preliminare, concernente, come si diceva, il punto d'av-
vio e, dunque, l'intrinseca possibilità di autocostituzione. Non
riesce agevole, in effetti, comprendere (e anzi, a rigore, non si
comprende affatto) come sia possibile che, nascosto nell' &7topoc;
't07toc; che è il µi\ òv, il sofista (che certo per parte sua «è» e
non è «non essere») possa nascondervisi. Se il 't07tOC: è, e
proprio in quanto «è» è &7topoc;, ossia suscettibile di ricevere
questa predicazione, allora è impossibile che, nascondendovi-
si, il sofista vi realizzi la sua propria inaccessibilità, inafferra-
bilità, introvabilità. Era infatti il «non essere» del luogo che,
secondo l'ingegnoso paradosso platonico, di queste sue prero-
gative costituiva la condizione. Ma, per ciò stesso che «è»
&7topoc;, il 't07toc;, come si è detto, «è»; e non è «non essere».
E del resto, chi non vede che, al di là dell'aspetto paradossale
dell'argomento, assurda è la premessa stessa di ciò che si
assume: e cioè che il «non essere» possa circondare e nascon-
dere «Ciò che è»? Ma può dirsi di più; e conviene andare
avanti.
Se, a sua volta, il sofista è, e non è non essere, allora non
si riesce proprio a comprendere come e perché si potrebbe mai
definirlo in possesso di 'tÉXVat concernenti, non l'essere, ma
«altro»; come e perché si potrebbe definirlo un produttore (ed
ecco il senso di questo «altro») di illusioni e di immagini 37 • Che,

Mauritius_in_libris 45
nel luogo in questione e, quindi, nell'impianto stesso del dia-
logo, il punto d'avvio, e la possibilità di autocostituzione della
tesi, risultino non sottoposti a rigoroso controllo razionale,
sembra evidente; e, scherzando, potrebbe dirsi che il sofista
non aveva tutti i torti nel suo probabile ribellarsi alla definizio-
ne che di lui era stata data (di «produttore di immagini e di
illusioni»), e altresì nel chiedere, a chi così lo definiva, che
cosa propriamente intendesse con «immagine» e «illusione».
Si voleva forse dire che, come produttore di immagini e fabbri-
cante di illusioni, il sofista fosse, in sé stesso, e in quanto
produttore delle une e delle altre, della medesima qualità del
suo prodotto, - fosse immagine e illusione? Ma se, in sé stesso,
fosse stato immagine e illusione, come allora ne sarebbe stato
il produttore? Forse che è illusione ciò che produce l'illusione,
è immagine ciò che produce l'immagine? Non è possibile, in
effetti, che, essendo illusione, l'illusione produca l'illusione (e
non è possibile, in senso inverso, che, se produce l'illusione,
l'illusione sia illusione). Non è possibile che, essendo immagi-
ne, sia questa a produrre l'immagine (e non è possibile, in
senso inverso, che, se produce l'immagine, l'immagine sia
immagine). Non è possibile perché, come non è illusione il
produrre illusioni, e non è immagine il produrre immagini,
così è ovvio che se questo nesso (di produzione e illusione, di
produzione e immagine) non venisse spezzato e a ciò che
produce (I 'immagine e l'illusione) non si riconoscesse salda
realtà, mai potrebbe dirsi che illusione ed immagine siano tali
da poter essere prodotte.
C'è, d'altronde, il rovescio di questa situazione. Se l'illu-
sione che produce illusioni non è illusione, se è essere e non
illusione, come, dunque, può dirsi che produce illusioni? E lo
stesso può esser ripetuto per l'immagine. Posta in questi termi-
ni, la questione dell'immagine, dell'illusione, e di ciò che le
produce, appare assai più complessa di quanto non risulti dal-
1'analisi che, in questo luogo, Platone ne fornisce; e richiama,
in effetti, da vicino le difficoltà nelle quali aveva finito con
l'impigliarsi nelle pagine della Repubblica consacrate all 'in-
dividuazione, fra la yvcilO'tC: (che concerne l'essere) e l'&yvota.
(che concerne il «non essere»), del µeta!;u, ossia dell'«opi-
nabile» che, appunto, proprio «fra» l'essere e il non essere

46 Mauritius_in_libris
trova, o dovrebbe trovare, posto. In altri termini: anche
l'immagine è in effetti tale che, senza essere vera (perché del
vero è soltanto «mimetica»), non perciò è «non vera», e, senza
essere «non vera», non per questo è necessariamente vera e col
vero coincidente. Anche l'immagine si presenta come un µe'taçu
'tt, come qualcosa d'intermedio fra l'esser vero e il non es-
serlo.
Ebbene, se è così, una conseguenza s'impone con forza e
dev'essere tratta con la maggiore, possibile chiarezza. Alla
luce della controanalisi che qui su è stata condotta dell 'imma-
gine, dell'illusione, e di ciò che le produce, è impossibile
condividere la tesi che, con estrema sottigliezza (e fin quasi
con amabile malizia), Platone svolge in questa parte del dia-
logo38. A guardar bene, la sua tesi è duplice, e implica il
coinvolgimento di due specifici oggetti polemici, - da una
parte il sofista, da un'altra Parmenide (e l'opposizione dell 'as-
soluto essere all'assoluto «non essere»). Al sofista, in sostan-
za, Platone obietta che se l'immagine, della quale egli è pro-
duttore e con la quale coincide, è cosa che, senza esser vera, al
vero (e quindi a «ciò che è») assomiglia, allora, in quanto «non
vera», sarà opposta al vero, dal momento che, indubitabilmen-
te, 'tÒ µii <ÌÀ.119tvov è Èvav'tiov àÀ.119oùç, il «non vero» è
l'opposto del vero. Ma, come «non vera», l'immagine è tutta-
via «ciò che» al vero assomiglia, questo suo «somigliare al
vero» essendo il suo essere e la sua verità; e, se è così, ne
deriva che, sebbene «non vera» e, in questo senso, «non essen-
te», indiscutibilmente, per un altro verso, essa è ed è vera;
perché, appunto, come El icrov, come immagine, non può ne-
garsi che sia e sia vera. 240 B 11-12 OÙK ov apa [oùic] OV't(l)t;
Ècr'tl v ov'tcoc; iìv À.éyoµev El Kova?, domanda a questo punto, il
Forestiero d 'Elea; e con il complicato intreccio che rivela, la
risposta non può non suonare affermativa. Se, per altro, suona
affermativa, allora l'ulteriore conseguenza è che, per ciò stes-
so che in qualche modo «essenti» il «non essere» e il «non
vero» si sono rivelati, il nascondiglio del sofista è stato viola-
to, la sua inaccessibilità è stata vinta. Per un altro verso,
tuttavia, e proprio perché il µii ov è in qualche modo un ov, un
essente, deve anche ammettersi che in qualcosa quel personag-
gio ambiguo e dalle molte teste (7toÀ.uicécj>aÀ.oc) ha vinto. Se

Mauritius_in_libris 47
infatti la confutazione del «non essere» è confutazione del
sofista e dell'impenetrabilità del suo rifugio, come allora que-
sta medesima confutazione potrebbe non riguardare l'assoluta
opposizione dell 'òv e del µiì òv, dell'essere e del non essere;
e dunque in primo luogo Parmenide che, a differenza di quel
malizioso personaggio, di teste ne aveva una, non molte, e a
chi, come forse (a suo parere) Eraclito39 , avesse preteso di
averne due, aveva rivolto gli strali della sua solenne polemica?

9. ... e la critica del Forestiero d' Elea

Condotta in questa guisa, l'argomentazione di Platone si


rivela come un autentico capolavoro, non solo di sottigliezza
concettuale, ma altresì di grazia ed eleganza letteraria, di im-
palpabile e pur percepibile ironia. Ma con altrettanta decisione
occorre tuttavia ribadire quel che già fu anticipato: che non
persuade. Palesemente, di traverso o di scorcio, essa utilizza la
tripartizione, stabilita nella Repubblica, della yvwcrtc;, del-
1'àyvotex , della Ml;a; e si dice di traverso, o di scorcio, per-
ché, dopo avere (almeno in forma implicita) presentato l 'im-
magine (che se non è vera nemmeno, per altro verso, è «non
vera») in termini di µe'tal;u fra «vero» e «non vero», «essere»
e «non essere», sull '«intermedio» Platone si ferma bensì, ma
per ragioni ulteriori a quelle che dovrebbero costituire ed inte-
ressare la «dimostrazione» della sua realtà ed autonomia. Non
a questa dimostrazione infatti il suo logo ora tende; e come
della necessità che questa sia fornita egli non sembra avvertire
la necessità, così, senza per altro cogliere e saper cogliere il
punto della differenza, tende piuttosto all'individuazione del
diverso sul fondamento dell'immagine e del suo esistere; ten-
de, se si preferisce, alla sua immediata deduzione da questa,
dal suo esserci e dal modo in cui lo si ottiene e produce: quasi
che «diverso» e «immagine» fossero cose della medesima
natura, e, afferrata questa, anche quello, il diverso, fosse ine-
vitabilmente colto e afferrato. Ma dall '«immagine» (e non in
astratto, bensì nella realtà specifica del pensiero di Platone) il
diverso è diverso. E, a rendersene conto, basta considerare
che, mentre questo, il diverso, non è in alcun modo un 'imma-

48 Mauritius_in_libris
gine del vero e dell'essere, perché ne è piuttosto un 'articola-
zione necessaria, inevitabile e costitutiva, - l'immagine è in-
vece immagine e non articolazione necessaria del vero: con la
conseguenza che è improprio servirsene per provare la realtà
del «diverso» e pervenire alla sua fondazione.
Era, dunque, uno scambio illegittimo quello che in tal
modo il personaggio poneva in atto; e tanto più in quanto non .
è vero quel che qui sopra sembrava fosse stato ammesso, - e
cioè che dell'immagine il suo logo aveva colto, non solo il
fatto, ma, insieme con questo, la genesi. Vero è invece che,
come dell'immagine egli ha preteso di fornire la dimostrazio-
ne ricavandone la realtà dal suo immediato «esserci» e esistere
e darsi a vedere nella cosl detta concretezza dell'esperienza, e
senza quindi fondarne, in nessun modo, la possibilità, cosl
l'illegittimità dello scambio risulta doppia. E senza insistere
ora sulla questione del «diverso», e sul «modo» (che ci occu-
perà in seguito40) della sua deduzione, sul difetto di dimostra-
zione che questa ricerca dell'immagine rivela occorre invece
far battere con forza l'accento.
Palese è infatti, nel logo di Platone, la tendenza, illegitti-
ma, a sottendere la constatazione fattuale dell '«immagine»
alla dimostrazione del suo esserci, darsi, costituirsi. E che sia
cosl è evidente. Se, posta e tenuta ferma l'equivalenza eleatica
di «essere» e «esser vero» (che qui è, in effetti, posta da
Platone, e tenuta ferma), si fa che tuttavia l'immagine «sia», e
sia senza, ciò non ostante, esser vera, la ragione per la quale
questa equivalenza, o, meglio, identità, subisce l'eccezione,
non può in alcun modo essere considerata come un'autentica
ragione fondante. E deve al contrario essere identificata con il
vizio deduttivo per il quale la costituzione ontologica dell 'im-
magine è presupposta alla regola che, stabilendo l'identità di
«essere» e «esser vero», in realtà la esclude. Se infatti il vero
è l'essere, e questo è il vero, delle due l'una: o, in quanto
essere, l'essere dell'immagine è «esser vero», e allora non può
esser vero che, essendo, l'immagine sia senza esser vera; op-
pure è vero che l'immagine non è vera, e allora, semplicemen-
te, non è possibile che sia (l'immagine). Insomma: se l'imma-
gine «è», e perciò è vera, allora è «verità-realtà», non immagi-
ne (della «verità-realtà»). Se non è vera, non solo non è possi-

Mauritius_in_libris 49
bile che «sia» (I 'immagine), ma, più radicalmente, non è pos-
sibile che sia. In entrambi i casi, la realtà-verità dell'immagine
(in quanto immagine) non riesce ad essere dedotta (nella sua
possibilità di non essere immediatamente identificata con la
«realtà-verità» dell'essere).
Se è cosl, è necessario riconoscere che, nel suo tentativo di
«dedurre» la realtà dell'immagine (in quanto immagine), l'o-
spite eleate è riuscito tanto poco quanto poco, nella Repubblica,
era andato a segno il tentativo socratico di dar vita, pensandolo
come un µe·ml;u inserito fra l'essere e il «non essere», all'opi-
nabile; e che proprio qui dove, con maggior forza, riteneva di
essere riuscito a provare la necessità della disubbidienza, tanto
più, invece, il «divieto» parmenideo si mostra insuperabile e
ineludibile. Che sia cosl, è, a capirsi, non difficile. E lo si
capisce, infatti, se, ulteriormente, si abbia la pazienza (che del
resto proprio l 'Eleate sente, e a ragione, di dover raccoman-
dare41) di seguire le ultime battute che costituiscono questa
parte del dialogo e dell'analisi, che vi si svolge, 'del «non
essere». La si prenda, questa analisi, a 240 C sgg.: ossia nel
punto in cui, stabilito che (come riteneva di aver provato),
senza esser vera, l'immagine tuttavia «è», il Forestiero d 'Elea
avverte che nei confronti di Parmenide il sofista dalle molte
teste ha pur conseguito il risultato di costringerci ad ammette-
re, nolenti, che il «non essere» in qualche modo «è». 240 C 4-
5 6 7tOÀUKÉcj>aÀO<; O'Ocj>tO''tftC: T\vayKaKEV Tjµéic; 'tÒ µ1) òv oùx
ÉKOV'tac; oµoì..oyeì:v el.va( 7troc:42 • L'argomento dell'ospite è
presentato in forma semifantastica (240 D); ma il nucleo razio-
nale può esserne ottenuto con facilità osservando che, come
tale che, in sé stesso, è «parvenza», illusione, immagine, e
dunque qualcosa come una scissione in atto di verità e realtà,
o come, se si preferisce, «realtà senza verità», per ciò stesso il
sofista impone che il pensamento della sua realtà sia, eo ipso,
pensamento del «non vero», ossia del «falso» che, mentre,
certo, non è vero, con altrettanta certezza non è «non essere».
Ne deriva, a giudizio dell'ospite, che se pensare la «realtà» del
sofista significa lo stesso che pensare la sua «non verità», e
non di meno pensare la sua realtà e, dunque, «pensare», - ecco
allora che, esclusa in sede eleatica, la pensabilità del «falso» si
rivela tanto possibile quanto inevitabile appare, ed è, il suo

50 Mauritius_in_libris
paradosso: che infatti non si riesce a risolvere, e tanto meno
appare risolubile quanto più, per cercare di venirne a capo, si
cerchi di scavarne la natura. Poiché il sofista è una parvenza,
un'illusione, un'immagine, ed è bensl reale, ma senza esser
vero, pensarlo vale quanto avere un'opinione. Ma se, essendo
non vero e il «non vero» essendo «non essere», per questo
aspetto di lui deve dirsi che «non è», opinione di «ciò che non
è» viene ad essere l'opinione che se ne ha. E questa opinione
è perciò falsa opinione: di cosa, tuttavia, che per altro verso è;
dal momento che, se, in quanto «non vero» «non è», vero è
anche che, in quanto immagine, il sofista «è» non vero, e
dunque tale che, senza esser vero, è - è reale43 •
Malgrado la sottigliezza dell'argomentazione, anche qui,
in queste estreme battute dell'indagine concernente l'immagi-
ne, il ragionamento dell'ospite eleate mostra la sua sostanziale
inadeguatezza; e per non andare troppo per le lunghe, si con-
sideri, nella connessione interna delle sue parti, questo argo-
mento. Il quale dice che se del «non essere» (= «non esser
vero») si dà falsa opinione, allora, di necessità, deve assumersi
che è vero che del «non essere» si dà falsa opinione. Ma se è
vero che di questo nesso («non essere» = «non esser vero») si
dà falsa opinione, ne deriva che questa opinione, falsa, non
può non essere, e proprio in quanto falsa, vera; e altresl ne
deriva che la verità del suo esser falsa opinione non potrebbe
mai essere, a sua volta, falsa (o convertibile in falsità), ché
altrimenti sarebbe falso quel che invece è risultato esser vero:
ossia che l'opinione è falsa. Se è cosl, è evidente che l'opinio-
ne falsa è come sovrastata dalla verità del suo essere «falsa
opinione». Se, per altro, ne è sovrastata, ne è anche resa pos-
sibile, perché questo significa il suo esserne sovrastata: che ne
è resa possibile nell'atto in cui, apparendo come «falsa opinio-
ne», ne è, appunto, sovrastata. Ma se ne è resa possibile, ecco
allora che il sovrastante-possibilitante non può non intrattene-
re con ciò che, nell'atto del sovrastarlo, rende possibile, un
rapporto: e un rapporto unitario. Ciò che, per altro, è reso
possibile dal sovrastante-possibilitante è l '«opinione falsa»; la
quale, resa possibile, è tale che, entrando in contatto con quel
che la sovrasta e la fa possibile, altresl fa possibile il rapporto,
e, con questo, l'unità; che dunque sono veri in ragione dPlla

Mauritius_in_libris 51
verità di ciò che sovrasta e rende possibile, falsi in ragione di
ciò che, reso da essi possibile, rende a sua volta possibili e il
rapporto e l'unità. Se, per altro, ciò che è reso possibile (la
falsa opinione) rende a sua volta possibile l'unità, e questa è
vera, allora non può essere falso ciò da cui questa (l'unità) è
resa possibile. Se ne deduce che la «falsa opinione» non può
essere ciò che si era assunto, - la falsa opinione. È opinione
vera. Se è verità, non è opinione (non dandosi per essa, in
quanto opinione, uno spazio ontologico entro il quale possa
costituirsi). E anche per questa via si conferma che Platone
non è riuscito ad aprire, al «non essere», il varco ontologico
essenziale al suo poter essere, in qualche modo, «non essere».

10. L'asprezza del logo concernente il nulla e i dubbi del


Forestiero d' Elea

Non aveva dunque torto il Forestiero d'Elea a raccoman-


dare TT)v O"uyyvroµT\V, la pazienza, e, nello stesso tempo, a
dichiarare, nei confronti dell'aspro discorso (lO"xupòç M-
yoç)44 svolto fin Il, la sua propria, risorgente, perplessità. E
nemmeno potrebbe dirsi che avessimo torto noi nel dichiarar-
ci, a nostra volta, oltre che perplessi, insoddisfatti, si minima
licet, delle ragioni intrinseche alla sua insoddisfazione: ossia,
per farla breve, all'autentica concludenza del modo in cui gli
accadde di costituire l'aporia del nulla e, quindi, dal suo punto
di vista, di risolverla. Modo acuto, senza dubbio, anzi acutis-
simo; ma non tale che, nello stesso tempo, gli consentisse di
attingere il fondo della questione. Dall'accoglimento e, quin-
di, dalla radicalizzazione della tesi parmenidea relativa al non
essere del «non essere», l'ospite eleate era stato indotto a
costituire la tesi della sua ineffabilità e inconcepibilità. Ma la
radicalizzazione era, per cosl dire, rimasta a metà. Il Forestiero
di Elea non era infatti riuscito ad avvedersi, e a mettere in
chiaro fino nelle estreme conseguenze, che, per essere formu-
lata nel quadro categoriale da lui predisposto ad accoglierla,
l'asserzione relativa all'ineffabilità e inconcepibilità del «non
essere» avrebbe richiesto particolare cautela; e tanto maggio-
re, per la verità, in quanto, con radicalità e fino in fondo, si

52 Mauritius_in_libris
fosse inteso tener fermo a quel che pure si era proclamato, e
cioè che, se il non essere «non è», a niente «che sia» può mai
essere legato e connesso: - a niente «che sia» e, quindi, nem-
meno al discorso mediante il quale si asserisce che a niente
«che sia» il non essere può essere legato e connesso. Non è
forse evidente che, assunto nel discorso che lo concerne e che,
con il suo ausilio, costituisce sé stesso come discorso, il lemma
«niente che sia» viene ad essere ontologizzato e a significare il
contrario-opposto di quel che intenderebbe?
Palesemente, in altri termini, il Forestiero non era riuscito
ad avvedersi, e a mettere in chiaro fin nelle conseguenze estre-
me, che del tutto inconcepibile, e autocontraddittorio, è quel
che a prima vista appare come il più normale degli svolgimen-
ti, - e cioè che, assumendo l '«ineffabilità» e l'inconcepibilità
come altrettanti caratteri del «non essere», proprio per questo
è impossibile asserire che il «non essere» è ineffabile e incon-
cepibile e che a niente «che sia» può essere legato e connesso.
Dichiarando che il non essere «è» ineffabile e inconcepibile,
con questa stessa dichiarazione, che «è» parola e pensiero, si
contravviene a quel che si dichiara: si dice il contrario di quel
che si dice (o si intende dire). Si contravviene alla «ineffabili-
tà» e «inconcepibilità» del «non essere». A qualcosa «che è»,
infatti, lo si lega e connette allorché si dice che «è» ineffabile
e inconcepibile, e questi due caratteri gli sono assegnati come
necessariamente intrinseci alla sua <!>UO"tc;. In quanto tali, «i-
neffabilità» e «inconcepibilità» «Sono», e non sono niente:
ché, se lo fossero, non sarebbe vero (sarebbe, appunto, «nien-
te») che il «non essere» è ineffabile e inconcepibile. Se, per
altro, si conviene sul punto che «ineffabilità» e «inconcepibi-
lità» siano, e non siano niente, e per questo si assume che
altresì appartengano al «non essere», ecco allora che, nell'atto
in cui li riceve come i suoi «essenti» predicati, è impossibile
che il «non essere» sia il «non essere». Per ciò stesso che li
riceve, è necessario che sia, e non sia, dunque, «non essere».
La radicale inconcepibilità e ineffabilità del «non essere»
si rivela dunque, per questa via, in tutto simile e, per un tratto,
identica, a quella indicata da Platone; ma dissimile, per un
altro tratto, e anzi addirittura opposta alla sua. Simile e, per un
tratto, identica; e la cosa è così evidente che non occorre

Mauritius_in_libris 53
insistervi. Dissimile, per un altro, e anzi addirittura opposta.
Occorre infatti pur arrivare a comprendere che ogni discorso
che si svolga nepì. toù µTi ÒV'tOt.;, intorno al nulla, necessaria-
mente lo «intenziona», lo ontologizza, lo riferisce al suo pro-
prio essere, come «essere», dunque, prendendolo, non come
nulla; e che solo in quest'ultima battuta, per un attimo, di
scorcio, e attraverso il suo stesso «intenzionarsi» e «ontologiz-
zarsi», il «non essere» mostra il suo autentico (e in sé, in forma
diretta, non affisabile) volto di «non essere». Sarà facile, senza
dubbio, concedere al paziente lettore che, come questa idea,
questo concetto, questa «prospettazione» del nulla, sembrano
presupporre, e qui condensare in poche, scarne, battute, un
assai più ampio giro argomentativo, così sarebbe giusto che
alla sua esposizione si concedesse maggiore spazio. Ma questo
giro più ampio abbiamo, come che sia del risultato, cercato di
tracciarlo altrove45 ; e qui invece conviene dire che, constatan-
do dentro di sé la necessità di disubbidire al «divieto» posto da
Parmenide, Platone pretese che la disubbidienza consistesse
nel «costringere» (~taçecr0m)46 il «non essere» a essere in
qualche modo; e al «nulla», ossia alla sua forma assoluta, si
preparò a dire addio, per reincontrarlo, trasformato e trasfigu-
rato, nella diversa forma dello ttEpov, o, se si preferisce, della
ttEPO'tTI<, della «diversità» o «alterità». E anche questa volta
non riuscì ad avvedersi della sottile e insidiosa conseguenza
alla quale andava incontro: alla contraddizione nella quale
incorreva quando, congedando l'assoluto µTi òv, «dicendogli
addio» e presentandolo nella forma dell'altro (o «non essere
relativo»), non come «altro» in realtà lo prendeva, e nemmeno
come nulla assoluto; ma, semplicemente, come essere (e non
«nulla»).

11. Verso la dimostrazione del «non essere» del/' essere

Nel dichiarare l'inevitabilità che il «divieto» posto da Par-


menide fosse infranto e il «non essere» fosse forzato a in
qualche modo (1mta tt) essere, l'ospite di Elea aveva dato
espressione alla radicalità dalla quale il suo sentimento era
animato; e aveva infatti aggiunto che, non che il «non essere»,

54 Mauritius_in_libris
anche l'essere sarebbe stato sottoposto ad analoga «violenza»:
sarebbe stato, in altri termini, forzato a non essere: 241 D 7
1m\. 'tÒ òv aù miÀ.tv che; oÙK fon mJ. Dopo il grande, anche se
imperfetto, ÈÀI:YXOC: wù µiì ov'toc;, il tema che lo attendeva
era dei più ardui; e dei più dolorosi, perché rivolto, non solo,
o non tanto, contro la negazione del nulla assoluto, ma, diret-
tamente, contro l'affermazione dell'essere, ossia contro il cuo-
re stesso della filosofia di Parmenide. E il «momento» è, senza
dubbio, alto e solenne; richiede una sorta di radicale emendatio
cordis atque intellectus, una trasformazione eseguita dall 'in-
temo, - che è poi il vero senso della parola µavtKOt;, affetto da
µavi a, che il Forestiero d 'Elea rivolge a sé stesso mostrando,
in quest'atto, di temere che altri sia sul punto di rivolgerla, con
altre intenzioni significative, a lui. 242 A 10-B 1 cpopoùµm O'IÌ
'tà dp11µtva, µ1\ 7tO'tE Olà 't<lÙ'tcX crot µavtKÒt; étvat oo!;ro
7tapà 7tOOa µe'tapaì..c.òv ȵamòv à.vro Kat Kci'tro. Questa
µavia è il meno che possa chiedersi a chi, per altro verso,
avverta dentro di sé l'irresistibile costrizione a dar torto al
padre, e ad affermare, non che l'essere è e non può non essere,
ma che, Ka'tci 'tt, può «non essere»47 : tante volte, in effetti, non
essendo, quante altre, per contro, è.

Mauritius_in_libris 55
Mauritius_in_libris
IV

12. Il problema del/' essere e la sua storia: triunità, dualità,


unità

Non deve far meraviglia che in un dialogo di cosl alto e


ambizioso impegno, e ne II' accingersi ad una trattazione del
problema dell'essere che sapeva tanto «rischiosa» quanto ri-
voluzionaria, più forte che altrove Platone avvertisse l 'esigen-
za della storicizzazione; e a partire da Parmenide e da quanti si
posero a indagare gli enti e a decidere quanti e quali (x6cra -re
1m\. xota) siano, per arrivare fino alle «muse ioniche e sicilia-
ne», di tutti costoro storicizzasse, appunto, il pensiero, chie-
dendosi se, nel cimentarsi con la terribile questione, non se la
fossero per caso cavata un po' troppo a buon mercato. Non è
questa tuttavia la sede nella quale sia possibile, questa storiciz-
zazione, illustrarla e, a nostra volta, storicizzarla48 • Non è
possibile, in altri termini, chiedersi fino a che punto delle
dottrine prese in esame Platone abbia alterato il volto: questio-
ne interessante, e, anzi, addirittura affascinante, ma, si ripete,
estranea alla linea essenziale di questa indagine, - che concer-
ne il nucleo speculativo dcl dialogo, e a questo, unicamente,
intende restare aderente, e fedele. Perché questa aderenza e
questa fedeltà si realizzino nei fatti, occorrerà partire da 243
C-D: dal punto, si vuol dire, nel quale, terminata l'esposizione
degli altrui pensieri, espressa, al riguardo, la propria personale
insoddisfazione, di nuovo I 'Eleate rivolge le sue cure ali 'esse-
re; e, nel più puro stile parmenideo, già velato, non di meno,
dalla critica, lo definisce il più grande e il primo (non, dunque,
come si sarebbe dovuto se all'insegnamento del maestro e
ali 'impossibilità, che ne discendeva, di fare dell'essere un
termine di paragone e di rapporto con «altro» si fosse sul serio
rimasti fedeli, come l'unico e lo oÀ.ov). Palesemente, l'analisi
deve cominciare di qui; e dalle domande che il Forestiero

57
Mauritius_in_libris
rivolge a quanti, affermando che caldo e freddo, o due elemen-
ti di consimile qualità, costituiscono il tutto, debbono pur
spiegare che cosa sia mai quel che dicono quando di entrambi
affermano l'essere. Se infatti l'uno e l'altro, il caldo e il freddo
(ad esempio), «sono», che cosa è e come deve essere inteso
questo «essere» - forse come un terzo termine napà. 'tÒ. ouo49 :
con la conseguenza che non due (caldo e freddo, appunto) è 'tÒ
miv, il tutto, ma tre, caldo, freddo, essere? E, oltre che acuta,
l'osservazione è, nella strategia del ragionamento, cosl impor-
tante che subito l'ospite eleate procura di renderla del tutto
esplicita osservando che, certo, non è con il definire «ente»
l'uno o l'altro dei due che di entrambi potrebbe dirsi che
egualmente sono, dal momento che cosl si avrebbe un modo
doppio di porre come essere l'uno, e quindi la dualità. L 'osser-
vazione è, come si diceva (e per quel che può capirsene), assai
acuta; ma, forse, non del tutto perspicua50• È probabile, per
altro, che Platone intendesse far notare che in tanto, nel modo
descritto, si darebbe una duplice, e non concorde, maniera,
consistente nel porre come «essere» l'uno e laltro termine
senza porli, come essere, entrambi, in quanto di questa dupli-
ce, e non concorde, maniera non si coglieva la ragione, e non
si riusciva ad avvertire e a dominare l'aporia. Sembra, in altri
termini, che il suo intento sia di rilevare che, nel porre l'uno e
l'altro, il caldo e il freddo, come «essere», questi pensatori
procedono «separatamente», ponendo come essere prima l 'u-
no, quindi l'altro, e ignorando o non vedendo che se l'uno «è»
l'uno e «non è» l'altro, non solo all '«essere» ma anche al «non
essere», non solo all '«è» ma anche al «non è», sarebbe stato
necessario trovare posto nel sistema della realtà 51 •
Se è così, è la questione della «diversità» (il caldo e il
freddo «sono», ma l'uno «non è» l'altro), che in questa veloce
battuta emerge in primo piano, anticipando, per così dire, il
tempo riservato alla sua apparizione. E, ragionando in astratto,
a Platone la cosa non avrebbe dovuto dispiacere: non è forse il
Sofista il dialogo della «differenza»? Se, tuttavia, gli dispiac-
que, nessuno, ciò non ostante, potrebbe sul serio dargli torto. E
non solo perché il presentarsi, in questo quadro, della «diver-
sità», o «differenza», è la semplice conseguenza del non avere,
questi pensatori, saputo dominare il concetto che potrebbe

58 Mauritius_in_libris
esser detto della «dualità essente», ossia del caldo e del freddo
che, insieme, e allo stesso modo, «sono» senza che, per ciò,
l'uno «sia» l'altro; ma per un 'ulteriore, e, forse, anche più
seria, ragione. La ragione che qui, salvo errore, Platone affisò
e, senza esplicitamente dichiararla, tenne tuttavia ben ferma
nella mente, è che, per essere pensata, la «diversità» richiede
la previa istituzione di un fondamento che valga a giustificarne
l'insorgere e a sciogliere il paradosso in cui si esprime: - un
fondamento che in tanto, in questo arcaico quadro categoriale,
non viene posto in quanto i pensatori che lo delinearono non
giunsero ad avvedersi della difficoltà che, come sappiamo, era
intrinseca nel loro modo, ingenuo e immediato, d'intendere la
dualità. Se 'tÒ miv, il tutto, è costituito dal caldo e dal freddo,
che «sono» e, non di meno, nell'essere ciascuno sé stesso,
«non sono» l'altro, delle due l'una. O questo paradossale in-
treccio dell'essere e del non essere si riesce a dominarlo,
esplicandone la possibilità nel quadro di una nuova, più consa-
pevole e raffinata ontologia critica (e dialettica); oppure, lo si
subisce come un fatto, lo si accoglie senza consapevolezza, e
si finisce perciò con l'ammettere e permettere che, in ciascuna
sua fibra, la realtà si dirompa, si scinda in sé stessa, e, in
quanto realtà, sia non «calda e fredda», ma «caldofredda» o
«freddocalda»: oppure, se si preferisce, «calda non calda»,
«fredda non fredda», e, in una parola, «essere non essere». Un
esito catastrofico; che richiede, per altro, di essere studiato e
considerato anche nella prospettiva opposta che, e non paia
paradossale, gli è intrinseca. Ponendo la dualità come essere,
questi pensatori non riuscivano, la dualità, a mantenerla sul
serio (a mantenerla, s'intenda, nella sua peculiare articolazio-
ne ontologica), ma al «due» consentivano di sfumare e perder-
si nell '«uno» (244 A 1-2 ò.U', cìi q,t.J..ot, <1>1'croµev, Kà.v ou'tro
'tà Mo À.Éyot 't' dv craq,fo'tcna ev), e al caldo, quindi, di non
poter avere di contro a sé il freddo, al quale a sua volta era
impedito di avere di contro a sé il caldo.
In tal modo, attraverso queste rapide e brucianti battute, il
logo dell'ospite eleate ritrovava di fronte a sé, in una prospet-
tiva specifica, la questione dell'essere e dell'uno, che aveva
costituito il tema, arduo e affascinante, e tanto più affascinante
quanto più arduo, dell'analisi svolta nel Parmenide 52• A coloro

Mauritius_in_libris 59
che all'uno, inteso come il carattere stesso dell'essere, dirigo-
no lo sguardo, egli rivolge perciò la domanda essenziale: chie-
de, infatti, se solo l'uno sia «essere». E come, alla domanda, la
risposta non può, o cosl sembra, non suonare affermativa, ecco
allora che, non senza qualche malizia, l'ospite eleate si diverte
a far notare che, se sul serio l'essere fosse «uno» (e in questo
carattere fosse tenuto fermo con coerenza), allora una ben
singolare conseguenza emergerebbe: essendo in effetti eviden-
te che, posto l'essere come uno, e l'uno come essere, due sono
tuttavia i nomi che si richiedono perché questa «unità» sia resa
possibile nell'affermazione che se ne fa. 244 C 1-2 1t6'tepov
01tep ev, Ém 'tcQ mhci) 1tpocrxproµevot ouotv 6v6µcxcrtv, ii
mik? Alla domanda, quando la si specifichi, è dunque facile
rispondere congetturando che nulla questi pensatori avrebbero
saputo e potuto rispondere, perché, certo, concedere che si
diano due nomi quando si sia sostenuto che nulla c'è al di fuori
dell'uno, è cosa risibile 53 • La questione del nome non è, d'altra
parte, semplice; e suggerisce infatti al Forestiero d'Elea una
acuta, quanto breve, analisi, relativa al suo «essere» di nome,
che, senza dubbio, sarebbe interessante esaminare nella sua
struttura. Ma maiora premunt. Subito dopo, infatti, e chia-
mando in causa, addirittura, i versi di Parmenide affermanti
che il tutto è

miv't00EV, EÙKUKÀ.O'U crc)>a{p1w ÈvaÀ.tyKtOV OyKCOl,


µrncr60Ev icronaAf:i; nciv'tTjt · -rò yàp ou-rE n µEtçov
ou-rE n ~mo-rEpov 1tEÀ.Évm XPE6v Ècm 'ti'jt Ti 'ti'jt 54

il Forestiero d'Elea passa a considerare se, nell'opinione


esaminata, il tutto debba esser preso come diverso dall'uno-
essere, oppure come identico a questo. «Identico» costoro lo
diranno, - questa, almeno, è l'opinione di Teeteto; e, per
quanto concerne l'intenzione che li guidò, a tale opinione,
certo, l'ospite non potrebbe contraddire. Ma, al di là dell 'in-
tenzione, guardando alla cosa stessa, nessuno, invece, potreb-
be dire che quella, l'intenzione, ne risulti confermata; ed egli
infatti osserva che persino dalle parole di Parmenide emerge
un concetto dal quale l'intenzione è addirittura smentita.
In realtà, i vv. 43-45 del fr. 8 Diels-Kranz sono fra i più

60 Mauritius_in_libris
tormentati, e tormentosi, dell'intero poema (o di ciò che ne
resta); e tutti, al riguardo, conoscono il travaglio delle inter-
pretazioni, che non sarà per altro necessario, in questa sede,
ripercorrere 55 • Basti infatti osservare che, postosi di fronte a
questi tre versi, non senza arbitrio Platone li interpretò come
se, con quello dell'estensione materiale, l'idea della «ben ro-
tonda sfera» (EÙKUKÀ.ou cr<j>O.tPllC:) implicasse, per conse-
guenza, il concetto della sua divisibilità56 ; e come se a contra-
stare questa esegesi non fosse sufficiente l'affermazione se-
condo cui all'essenza, per così dire, di questa figura ideale
ogni minorazione, maggiorazione e, comunque, differenza di
essere, è, di necessità, estranea. Ne ricavò infatti la conseguen-
za che 'tOlOÙ'tOV "(E OV µfoov 'tE KO.Ì. EcrXù.'tO. EXEl, 'tO.Ù'tO. Oè
exov 1téiO'O. àvayKTJ µÉpTJ EXElV (244 E 6-7); e stabilito questo
punto, che gli sembrava inconfutabile, dette inizio alla sua
argomentazione distruttiva. Se l'essere ha parti, ed è l'artico-
lazione delle sue parti, niente, certo, vieta di supporre che, al di
sopra delle parti che lo costituiscono, a lui sia dato di parteci-
pare dell'unità; e che, in forza di questa partecipazione, altresì ·
gli sia dato di essere 'tÒ 1téiv e 'tÒ oÀ.ov, - un tutto e un intero.
La difficoltà, per altro, si dà subito a vedere in ciò, che quel
che in tal modo è reso partecipe dell'uno, in nessun senso
potrebbe, in sé stesso, essere assunto come «uno». E non solo
per la ragione formalmente addotta, e cioè che come «diviso in
parti» e, dunque, come molteplice lo si era fin dall'inizio
considerato, ma anche, se così fosse lecito dire, per la ragione
che sta dentro questa ragione. Se, al di qua della partecipazio-
ne, l'essere fosse «uno», perché mai, allora, per esser tale, ne
parteciperebbe (e dovrebbe parteciparne)? Non è forse eviden-
te che se, distinto dall'uno del quale partecipa, l'uno parteci-
passe dell'uno, l'uno che partecipa sarebbe, non «uno», ma
«uno dei due», - a quel modo stesso che «uno dei due», e non
uno, sarebbe l'uno del quale il primo partecipa? Che sia così,
è evidente. Ma, se fosse così, impossibile sarebbe la partecipa-
zione dell'uno, perché, in realtà, non l'uno si dà, ma, per il
fatto stesso della partecipazione (che l'uno fa dell'uno), il due.
Nei confronti dell'idea della «metessi», il rilievo che è
stato formulato contiene in sé una potenzialità distruttiva assai
più alta di quella che fin qui non sia emersa; e se, già a questo

Mauritius_in_libris 61
punto, si potesse svolgerla e esplicarla, dimostrarlo non sareb-
be difficile. Come che sia di ciò, è un fatto, tuttavia, che, senza
porre formalmente in questione la struttura concettuale di ciò
che ha nome «metessi», Platone si restringe qui ad osservare
che, se come assolutamente privo di parti dev'essere pensato
ciò che sul serio è «uno», allora, partecipandone (e un «tutto di
parti» essendo il soggetto della partecipazione), la conseguen-
za sarà che un «tutto (di parti)» e un «uno» sarà l'essere; e
questo è assurdo, perché, se è un «tutto (di parti)», com'è
possibile che sia «uno», e se, per contro, è «uno», com'è
possibile che sia un «tutto (di parti)»?
In modo indiretto, e con l'ambiguità che al suo ragiona-
mento deriva dal non essere riuscito a prendere contatto con il
fondo autentico della questione, attraverso il suo stesso invol-
gersi nella difficoltà il Forestiero d 'Elea rende esplicito il
tratto aporetico da cui l'idea della partecipazione è segnata57 •
Palesemente, il risultato del processo partecipativo gli si con-
figura come la somma dei termini che, intrinseci al processo,
di questo sono altresl costitutivi: da una parte, l'essere che,
essendo un «tutto (di parti)» partecipa dell'uno, da un'altra
l'uno che, scevro di parti, dal «tutto (di parti)» è partecipato. E
qui, allora, se ci si pone mente, l'equivoco intrinseco all'idea
della µÉ0e!;tc;, la sua discrasia interna, la sua irresistibile ten-
denza al circolo vizioso, rifulgono di piena luce. È evidente
infatti che, se dell'essere si dice che è un «tutto (di parti)»,
anche dovrà dirsi che è il contrario-opposto di una scissione; il
contrario-opposto di una scissione e, dunque, un 'unità -1 'uni-
tà che a lui deriva dal suo intrinseco partecipare dell'uno: che
se dell'uno non partecipasse nell'intrinseco, ossia, si badi,
nell'atto stesso in cui è un «tutto (di parti)», se, come che sia,
il filo aureo dell'unità non legasse fra loro le parti, e queste
stessero, scisse, l'una di contro ali' altra, come mai sarebbero
costituite in un tutto, e di questo sarebbero le parti? Ma, se è
cosl, di qui allora discende che, come totalità e unità di parti,
l'essere è «uno» già al di qua del processo partecipativo che,
per contro (e come s'immagina), dovrebbe renderlo tale. E,
altamente paradossale, configurante inoltre un'autentica im-
possibilità, la conseguenza allora è che il risultato della parte-
cipazione deve già essere stato conseguito innanzi ali' atto che,

62 Mauritius_in_libris
come si pretende, lo istituisce: il che significa che conseguirlo
attraverso la partecipazione è tanto più impossibile in quanto,
a richiederlo come necessaria premessa del suo atto, è proprio
la partecipazione che, invece, dovrebbe consentire il suo con-
creto determinarsi nella realtà.
Per ragioni varie che, è sperabile, il corso ulteriore della
ricerca poco alla volta chiarirà, a questa interna dissoluzione
del concetto della «metessi» il Forestiero d 'Elea non riuscirà a
pervenire: anzi, nella parte centrale del dialogo, sarà costretto
a servirsene (e la cosa riesce sorprendente se si pensa - ma
dovrà riparlarsene - a quel che si legge nello straordinario
prologo del Parmenide 58 ). Come che sia, sta di fatto che, svol-
gendo in questo luogo del dialogo le ulteriori implicazioni del
concetto al quale è pervenuto, l'ospite eleate osserva che,
costretto ali 'unità dal suo stesso atto partecipativo, l'essere
non sarà, proprio in ragione di questo atto, identico ali 'uno
(del quale partecipa); e la ragione di questo asserto che, a
prima vista, non appare, forse, del tutto perspicua, sta in questa
sequenza che, per chiarirne il senso, occorrerà cercar di rende-
re esplicita.
Se, per esser «uno», è necessario che dell '«uno» l'essere
partecipi, segno è che, nella sua immediatezza d'essere, non è
«uno». Ma, se è così, è proprio, allora, ciò che lo «rende
identico ali 'uno» a svelarne l'originaria differenza. Realizzan-
do l'unità dell'essere, l'atto partecipativo ribadisce che, ali 'o-
rigine, essere e unità non sono lo stesso; e che per questo, -
perché non sono lo stesso, l'atto partecipativo mostra la sua
necessità. Per questo verso, dunque, la partecipazione è l'atto
mediante il quale l'essere giunge alla pienezza di sé, e stringe
in unità le sue parti che, altrimenti, starebbero, scisse, le une
contro le altre. Ma c'è di più (e, per questo aspetto, i termini
della questione tendono a capovolgersi, anzi, si capovolgono
senz'altro). Se l'essere è l'essere, è ovvio che il tutto non possa
«mancargli», per ciò stesso che anche al «tutto» mai potrebbe
mancare l'essere. Ne consegue che, mentre nel primo movi-
mento del concetto la partecipazione sembrava indicare la via
lungo la quale ali' essere era consentito di raggiungere il tra-
guardo della sua propria pienezza, qui, per contro, essa si
rivela come addirittura intrinseca alla pura posizione dell 'es-

Mauritius_in_libris 63
sere: al quale, in effetti, come potrebbe «mancare», se è un
«tutto», l'uno? Ma se la partecipazione è intrinseca all'essere,
anzi, cosl intrinseca da coincidere, addirittura, con il suo atto
d'essere, ossia con l'essere nella sua concretezza, come non
vedere allora che di un processo partecipativo del quale l'esse-
re si faccia, per cosl dire, I' auctor e il soggetto, non è possibi-
le, né lecito, parlare? Come non vedere, altresì, che se l'essere
è un tutto (di parti), e non più che una sua parte è l'uno,
necessariamente è, e a riconoscerlo è lo stesso Forestiero d'E-
lea, più che uno?
Se per altro è cosl, allora è evidente che, al di là della
consapevolezza che il personaggio platonico mostra di averne,
una ben grave difficoltà si è formata, e proprio in questo punto,
alla radice del suo ragionamento. Una difficoltà che, condu-
cendo (nell'esame che se ne faccia) oltre il testo, richiede
particolare attenzione. Se l'uno, che, per definizione, è uno, e,
se è tale, non ha parti, è tuttavia parte di un tutto, allora, certo,
non sarà uno; e non può dirsi per conseguenza che, nell'inclu-
derlo e nel sommarlo a sé, più che uno l'essere venga ad
essere. Dire cosl non è possibile perché, come potrebbe l'uno,
che non ha parti, esser parte di un tutto? Se è parte di un tutto,
necessariamente starà in relazione ad altro, ossia alle «parti»
onde il tutto è costituito. Ma l'uno è uno: come potrebbe
dunque, se è tale, stare in relazione ad «altro»? Non è forse
evidente che, nel suo stare in relazione ad altro, starebbe altre-
sl, e proprio in sé stesso, nel «due», e che mai perciò potrebbe
sul serio essere «uno»?
In realtà, l'equivoco e l'inconseguenza a cui, in questo
punto, il ragionamento dell'ospite eleate dà luogo, nascono da
ciò, che, senza interrogarsi intorno alla sua possibilità, Platone
ha posto nella sua immediatezza, e quindi non ha «fondato», il
concetto del tutto come «tutto di parti», come «unità delle
parti», come l'organico «intreccio» di queste. Ha parlato di
un'unità che, oltre e al di là delle parti, è l'unità delle parti; e
dell '«oltre» e dell' «al di là» non ha indagato il senso: ossia, se
siano possibili. Era lecito che a questa indagine non desse
corso? Era lecito porre a questo modo il concetto dell'unità? In
realtà, non era lecito. Sebbene, nel prospettarlo, il Forestiero
d 'Elea lo definisse come ovvio, di per sé stesso evidente, come

64 Mauritius_in_libris
tale, in altri termini, che il parlarne non richiedesse un previo
atto di «fondazione», basta poco in realtà per avvedersi che,
senza fondazione, il concetto dell'unità (delle parti) non riesce
a consistere con sé stesso. Certo, postulando, oltre e al di là
delle parti, l'unità e la totalità, Platone ha supposto che a
queste, e all'una non meno che all'altra, non potesse mancare
ciò che le rende tali, e dunque l'uno; e la ragione di questa sua
postulazione sta, con ogni probabilità, nel previo convinci-
mento che, se questa è un'unità, e totalità, di parti, come
potrebbe, in quanto tale, non esser «una»? Come potrebbe, in
quanto tale, essere in sé stessa molteplice? Forse che l'unità
sarebbe unità (di parti) se, in sé stessa, fosse divisa in parti?
Ma, ammesso che la questione possa esser posta in questi
termini (e che il concetto non richiedesse quella previa, e più
radicale, ricognizione della sua propria «possibilità», della
quale si parlava); ammesso che l'unità delle parti sia in sé
stessa, come «unità», «una» e priva di parti, resta tuttavia da
considerare il punto essenziale; e questo è che se, come certo
in questo quadro si assume e deve assumersi, nell'unità le parti
sono sul serio «parti», allora non solo saranno (e dovranno
essere) l'una diversa dall'altra (come, altrimenti, sarebbero
«parti»?), ma anche saranno (e dovranno essere) diverse dal-
1'unità: che se cosl non fosse, e all'unità fossero invece iden-
tiche, come mai sarebbero (e potrebbero esser definite come)
quelle parti «reali» di cui, appunto, si postula, e deve postular-
si, la diversità? Se, per altro, nell'unità le parti sono parti (al
punto che, come suole dirsi nelle sublimazioni «dialettiche» di
questa situazione concettuale, è l'unità a rendere reali le parti,
ma sono queste a rendere reale l'unità); se, per esser tali,
debbono essere diverse l'una dall'altra, e diverse altresl dal-
l'unità che le stringe in sé, non è allora evidente che, come
diversa dalle parti (che a loro volta ne sono diverse), l'unità
non è che un «diverso», e, proprio per questo, non può essere
quel che s'immagina, o si fantastica, sia, - l'unità e la totalità
delle parti? Non basta. Se, ulteriormente considerando, si sco-
pre che, come diversa dalle parti, l'unità non è che un diverso,
non sarà anche evidente che fra l'unità e le parti non si dà
alcuna diversità? Non è evidente, in altri termini, che, l'unità
essendo diversa dalle parti tanto quanto queste sono diverse

Mauritius_in_libris 65
dall'unità, nel «tanto quanto» le diversità si pareggiano, e si
rivelano identiche? Non è evidente, insomma, che fra «diver-
sità» e «diversità» nessuna autentica diversità è possibile por-
re, e che, per conseguenza, il «tutto (di parti)» si dà a vedere
come l'identico (privo di parti), ossia, quando sia esaminato
nelle sue intrinseche potenzialità, come un concetto che non
riesce a consistere con sé e con la sua intenzione?
Nell'economia di questo discorso, la parentesi può, a que-
sto punto, considerarsi chiusa. E resta perciò da concedere
ulteriore attenzione al logo che il Forestiero d'Elea è impegna-
to a svolgere. Se, egli dice, per essere «uno», l'essere non
fosse altresl un «tutto», allora di sé stesso l'essere verrebbe a
mancare 59 • E, una volta che la questione sia stata impostata in
questi termini, la cosa è chiara. È chiara perché, se si dice che,
per esser «uno», l'essere non è un «tutto», e di questo «man-
ca», allora dovrà anche ammettersi che il «tutto» sia essere:
essendo impossibile, altrimenti, dire quel che si è detto e si
dice: ossia che, come «uno», l'essere «manca» (o è privo) del
«tutto». Il «tutto», dunque, è, ed è essere. Ne consegue che in
quanto, come «uno», manca del «tutto», l'essere manca di sé
stesso; e altresl che, in quanto, come «uno», manca del «tutto»,
e come «tutto» non è uno, sempre allora l'essere «non è»
essere.

13. La «gigantomachia»: i materialisti

Era una conseguenza grave, questa, che l'ospite eleate


traeva dal suo logo. Ma, a questo punto, una nuova sezione
della difficile analisi si apre. E, ancora una volta, è come se,
dall'angolo visuale appena raggiunto, Platone -invitasse il suo
lettore a dirigere l'occhio della memoria verso regioni e pro-
vincie filosofiche già, in altri tempi, percorse. Nello svolgere
un logo cosl radicalmente eversivo di ogni precedente consue-
tudine concettuale, non poteva infatti non accadere che a lui in
primo luogo si imponesse la necessità di richiamare alla men-
te, e di ricordare, cose alle quali già nel passato aveva conces-
so attenzione. E chi, fra i suoi lettori, potrebbe in effetti dimen-
ticare, o non ricordare, che già nel Teeteto 60 , ad esempio, la

66 Mauritius_in_libris
questione che anche qui, nel Sofista, viene ripresa, era stata
sottoposta ad un'analisi? Chi non ricorda, o ha dimenticato,
non si dice soltanto i pÉov'tec;, e, quindi, contrapposti a questi,
gli <J'tacnro'tm 'tOU oÀ.ou, i «fluenti» e gli «immobilizzatori
del tutto», ma anche, in quel medesimo, mirabile e complicato
dialogo, la contrapposizione che Platone stabilisce fra i «mate-
rialisti» aµoucrot, cioè privi di grazia, duri, intrattabili, e quegli
assai più raffinati filosofi che saranno bensl, forse, da definire
«idealisti», ma allo stesso titolo onde gli altri sono detti «ma-
terialisti», ossia con discrezione, senza rigidezze definitorie, e
cercando di impedire che, resi pesanti dall'accumulo dei seco-
li, questi termini ci spingano verso «allotrie» passioni? Come
che sia del «materialismo», dell '«idealismo» e di altre, consi-
mili, approssimazioni e astrazioni, certo è infatti che, nel So-
fista, all'analisi di questi pensatori, per vari riguardi privi di
volto, si concede alquanto spazio; e come ai primi si assegna
l'ostinata volontà di trarre ogni cosa dal cielo giù in terra, e,
ogni altra realtà e ogni altro pensiero disprezzando, di non
avere a che fare se non con rocce, con querce 61 , - con ciò, in-
somma, che offra resistenza e consenta un contatto, cosl gli
altri sono ritratti nel mentre alla realtà del sensibile oppongono
un consimile, anche se diverso, dispregio, perché, nel fatto,
unicamente a quel che «non si vede», non si tocca, non consen-
te contatto e non oppone resistenza, si mostrano disposti a
concedere il loro favore.
Si sa bene che grave è l'ignoranza che, riguardo alla loro
identità, pesa su di noi 62; - di noi che, dalla scienza altrui, non
possiamo trarre luce quanto basta ad illuminare il volto di
questi filosofi che, con grande facilità (può supporsi), i lettori
del dialogo avranno, ai loro tempi, riconosciuti. Ma, anche qui,
l'intento che muove la ricerca è diverso da quello di chi della
fisionomia storica di costoro vorrebbe, e non può, sapere di
più; e poiché, d'altra parte, quanto è avaro di notizie, altrettan-
to il testo platonico è ricco di «concetti», e a questi, qui ed ora,
l'attenzione deve dirigersi, - a che pro lamentarsi? Dopo tutto,
anche a Platone, che li conosceva bene, e dei primi aveva con
ogni probabilità sperimentata l'arroganza63 , mentre dei secon-
di amava (e forse anche ironizzava) la mitezza, - anche a lui
accadeva di dichiarare che, per poter meglio discutere con

Mauritius_in_libris 67
costoro, avrebbe cercato epyO) ~EÀ:tl.ouc; [... ] 7tOtdv, di ren-
derli, nel fatto, migliori, ossia di realizzarli nei rispettivi, con-
trapposti, concetti: il che implica, appunto, idealizzazione,
ossia, per dire la stessa cosa con maggiore chiarezza, una
radicale «essenzializzazione» filosofica, alla quale, quindi,
tanto più converrà cercare di restare aderenti. Poiché non è
raggiungibile, l'esattezza storica può essere lasciata, in questo
caso, là dove si trova, - nelle nostre aspirazioni a raggiungerla
nei nostri desideri, nelle nostre varie fantasie di perfezione e di
oggettività, che un giorno forse, in questo o in un altro «subiet-
to», ci riuscirà di appagare. L'impresa che, in questa sede, ci
attende è diversa. E come, altamente, il testo dice: Tiµnc; 8è où
'tOU'trov cjlpov'tl.çoµev, ciUà 'tcXÀ.1l0Èc; çewùµev (246 D 8-9):
non di loro noi ci curiamo, noi cerchiamo la verità.
Immaginandoli migliori di quanto in realtà non siano, il
Forestiero d'Elea interroga, in primo luogo, i materialisti; e
solo dopo che l'esame di questi sia terminato, dichiara che si
rivolgerà agli altri, agli El8rov cj>l.Àot, agli amici delle forme, o
delle idee. Per andare subito all'essenziale, è facile compren-
dere, d'altra parte, che ai materialisti resi, o divenuti, migliori
Platone cerca di strappare una concessione essenziale, un'am-
missione. Dalla loro viva voce vuole, in sostanza, farsi dire
che, per quanto piccolo ed esile, qualcosa che non sia corporeo
esiste. Esiste non solo l'anima (alla quale, come che sia, essi
forse pretenderebbero di subito attribuire un crroµa., un corpo),
ma anche che esistono giustizia, saggezza, le altre virtù, cia-
scuna accompagnata dal suo proprio éva.v'ttov; esistono «co-
se», insomma, che, per un verso, indiscutibilmente, «sono»,
posseggono l'essere, hanno realtà, senza che per altro ad esse
sia possibile attribuire un corpo tangibile, pesabile, misurabi-
le. Ma, se è cosi, non è forse vero che, a questo punto, la
questione si fa assai difficile? Non è forse evidente che, se
«essere» è ciò che si vede, si tocca, si pesa, si misura, ed
«essere» è altresl ciò che non si vede, non si può toccare,
pesare, misurare 64, allora la questione non riguarda solo i ma-
terialisti, ma chiunque, meglio di costoro, arrivi a comprende-
re che assai arduo concetto è quello in forza e in ragione del
quale nell '«essere» si tenta di introdurre la «differenza»?
Il punto cruciale e, certo, non estraneo alle «intenzioni»

68 Mauritius_in_libris
come alla sostanza filosofica del dialogo, - il grande e compli-
cato nodo concettuale che con somma energia l'argomento
platonico pone in evidenza, è questo: anche se, per un istante
almeno, convenga prestare ascolto alla definizione che qui
viene proposta dell'essere: che sia oÙK &ÀÀO 'tt nÀ:r)v Mvaµtc: 65 ,
niente altro che «potenza», e, in quanto tale, possegga perciò
la capacità sia di agire, sia di patire. Prestare ascolto a questa
definizione, e non insistere troppo, tuttavia, nell'analisi del
suo significato; perché è Platone stesso a suggerire che, per
ora, ci si comporti cosl.

14. Oi 'UiJV eiO<iJv q,O•.oi

Più complessa, certo, anche se di poco più estesa nello


spazio argomentativo, è la questione che, con l'ausilio di Teeteto,
l'ospite eleate pone agli altri, agli «amici delle forme» 66 ; ai
quali in effetti comincia col chiedere se yf.vmtc: e oùol.a, di-
venire ed essere, essi li considerino xcopk, separati, oppure
no67 • E come, resi più gentili dall'idealizzazione alla quale
sono stati sottoposti, quelli rispondono nel primo modo, che
sono separati, subito la sua domanda si specifica, si fa più
stringente, scende verso il cuore del problema. Diranno dun-
que, gli «amici delle forme», che, owµan, con il corpo, e ot'
alo~oecoc;, per mezzo della sensazione, possiamo yevf.on
Kotvcovetv, entrare in contatto, o in comunione, con il diveni-
re, mentre con l'anima ('11UX1]) e otà Àoytoµou comunichiamo
npòc: Tiiv ov'tcoc; oùol.av, con l'essenza autentica dell'essere:
ossia con la sua immobilità e costanza e permanenza e invaria-
bilità, che gli appartengono per natura e come opposto al
divenire che, di per sé, è continua (<ÌÀÀO'tE àUcoc;) alterazio-
ne, lo prospettano? Lo diranno. Ma non per ciò, come il Fore-
stiero d 'Elea suggerisce, ammetteranno che all'essere compe-
ta quella tale, duplice, Mvaµtc: 68 , quella capacità di agire e,
anche, di patire, che era stata proposta a conclusione dell 'in-
chiesta condotta intorno al pensiero dei «materialisti». All'es-
sere non riconosceranno questa capacità di agire e patire per
ciò stesso che è al divenire che, per contro, la riconoscono: al
divenire che, proprio in quanto la possiede e ne è, nel profon-

Mauritius_in_libris 69
do, caratterizzato, proprio per questo è il divenire, e si diffe-
renzia dall'essere.
La risposta che, concedendo al divenire quel che, vicever-
sa, rifiutano possa appartenere all'essere, gli «amici delle for-
me» danno alla domanda del Forestiero d'Elea è, da quest'ul-
timo, ricevuta in forma interlocutoria; anzi, a tal punto interlo-
cutoria che, alla domanda, se la risposta fornita da costoro
valga per alcunché, egli a sua volta risponde senza sul serio
rispondere, perché, dice, l'inchiesta non è ancora giunta alla
radice, e altro occorre che essi dicano e spieghino. Invece di
dissertare intorno all'intreccio di parmenidismo e di «altro»
che, con il concetto dell'immutabilità dell'essere, da una parte,
e, da un'altra, con quello antieleatico del divenire, questa
risposta mette innanzi, il Forestiero preferisce aggiungere, alla
sua precedente, un'altra domanda. Dagli «amici delle forme»
egli desidera infatti sapere se accetterebbero ·nìv µfv 'ljlUX'JÌV
')'lyYolO'lCElV, TIÌV O' OUO'tClV ')'lyYolO'KE0'9at, che l'anima Co-
nosca, l'essere, invece, sia conosciuto. E poiché Teeteto opina
che di questo anch'essi si mostrerebbero persuasi, e ne condi-
viderebbero il principio formale, subito, allora, il Forestiero fa
scattare la conseguenza. È un luogo di fulminea concentrazio-
ne quello che (248 D) ora il lettore si trova dinanzi. Senza
indicare la risposta, ma con appena contenuta malizia, egli
chiede infatti se la stessa cosa siano, e che cosa, no{ llµcx i\
mieoc:, il ytyvrocrx:nv e il ytyvrocrx:ecrem, il conoscere e l'es-
ser conosciuto; se siano l'uno no{ llµcx, azione, l'altro mieo.:;,
passione; se, invece, e da ultimo, chiuso ciascuno nella sua
propria identità con sé, né del no{llµcx né del mieoc: partecipino.
Preoccupato di salvare la loro coerenza, Teeteto si affretta a
dichiarare che, in realtà, proprio a questa conclusiva proposi-
zione costoro dovrebbero dare l'assenso: ché, appunto, in caso
contrario, 'tàvcxvtfcx [... ] &v 'tOk èµnpocreev 'Al.yotev (248 D
8-9), direbbero cosa contraria a ciò che avevano sostenuto
quando al divenire, ma non all 'oucr{cx, all'essere, avevano at-
tribuite le due opposte OuvaµEtt; dell'agire e del patire.
La coerenza che Teeteto rivendica, e vuole sia riconosciu-
ta, agli «amici delle forme», non può, in quanto tale, non
essere apprezzata dall'ospite eleate; che, in effetti, dichiara di
comprenderla. E non di meno egli ritiene di poter riprendere il

70 Mauritius_in_libris
filo dell'argomento che, quasi all'improvviso, ha fatto interve-
nire questo principio del ytyvrocrKEtv e del ytyvrocrKecrem. Lo
riprende, infatti, come se si trattasse della più pacifica delle
questioni; e, riprendendolo, non fa che ribadire quanto già,
qualche linea più in alto, aveva affermato. Se, com'è indiscu-
tibile, il conoscere è un agire, altrettanto indiscutibile sarà che
l'esser conosciuto è un patire69; e poiché 'tÒ ytyvrocrKecr9m,
l'esser conosciuto, qui è l'essere, la conseguenza ovvia sarà
che, come ciò che patisce è mosso e, se mosso, non fermo, cosl
non fermo ma tale che si muove l'essere richiederà di essere
definito. L'attacco rivolto alla tesi di Parmenide è, come si
vede, indiretto; ma, nel radicale capovolgimento che induce
nell'idea dell'immobilità dell'essere, estremamente deciso.
Certo, posta in questi termini, la questione appare ben
lungi dall'esser stata persuasivamente risolta. E non soltanto
perché assai brusco, e non dedotto, appaia, in questo luogo, il
passaggio dalla considerazione ontologica a quella gnoseolo-
gica; ma, altresl, per ragioni intrinseche. La secca antitesi del
conoscere e dell'essere conosciuto, e l'assunzione del primo in
forma di soggetto agente, dell'altro in forma di (oggetto) pa-
ziente, l'elaborazione concettuale dell'agente e dell'agito in
termini di movimento, e di questo, a sua volta, in termini di
movente e di mosso, - tutto questo è, a rigore, preso come un
fatto ovvio, di per sé stesso evidente, e tale, quindi, da non
richiedere alcuna specifica indagine «fondativa»; mentre non
ci vuole molto a capire che il gioco di queste contrapposizioni
rischia, ad ogni passo, di riuscire gratuito e, in ogni senso,
immotivato. Sia pure, infatti, che il conoscere agisca, muova e
sia il soggetto. Sia pure, per contro, che l'essere (conosciuto)
patisca, sia mosso e, di necessità, quindi, assuma la posizione
dell '«oggetto». Ma occorrerà pur sempre chiedersi se «essere»
sia altresl, e possa non essere, il conoscere dal quale si dice che
l'essere è conosciuto; e poiché certo non potrà farsi che «non
essere», invece che «essere», il conoscere sia; poiché non
potrà farsi che, senza essere, il conoscere «sia» il conoscere, -
ecco allora che, essendo (ed essendo perciò «essere»), l'essere
sarà agente, se tale è il conoscere, ma anche paziente, se
paziente si assume che l'essere (conosciuto) sia: con la conse-
guenza che, e questo è impossibile, l'essere sarà agente e

Mauritius_in_libris 71
paziente, movente e mosso. Né, al riguardo, per sfuggire a
questo paradosso, potrebbe dirsi che l'identificazione contrad-
dittoria di questi «opposti» concerne bensl l'essere che, allo
stesso modo, sottende il conoscere e l'essere conosciuto; non
però questi due ultimi, che sono diversi, e possono, di conse-
guenza, sopportare il peso di diverse predicazioni. Ciascuno
vede infatti che, se fosse così, lungi dal risultare appianata, la
difficoltà toccherebbe il punto estremo della esasperazione.
Distinguendosi (o pretendendo di distinguersi) come agente e
paziente, movente e mosso, su un fondamento che, per sé, è
tanto movente quanto mosso, tanto agente quanto paziente,
ciascuna di queste determinazioni opposte si opporrebbe in sé
stessa; e, perduta l'identità, non potrebbe più corrispondere
alla sua propria definizione. L'agente sarebbe, infatti, anche
paziente; il movente, mosso: senza che, per la forza delle
premesse, l'identità di ciascuno possa essere recuperata e mes-
sa in salvo.
E c'è di più. Svolgendo l'analisi, non è difficile infatti
comprendere che, se si assume che, per la sua natura stessa, il
conoscere muova ciò che conosce, e questo, per conseguenza,
ne sia mosso, ecco allora che il conoscere viene a trovarsi in
una situazione, sotto ogni riguardo, singolare. Se, conoscendo,
muove il conosciuto, e, sebbene mosso, questo è, non di meno,
conosciuto, dovrà concludersene che il conoscere conosce il
«mosso»; che, per conseguenza, non sarà mosso, e non si
muoverà, al di là dell'ambito che il conoscere costituisce. Ma
se, mosso dal movente, ossia (in questo caso) dal conoscere, il
«mosso» non eccede l'ambito del conoscere, e il limite che
questo pone a sé stesso e al conosciuto (se li eccedesse, come
potrebbe essere conosciuto?), allora è necessario ammettere
che, proprio in quanto mosso, esso sia incluso nell'ambito di
ciò che lo muove (e conosce). Se, per altro, è incluso, come
mai si muoverebbe? Se è «incluso», non può essere mosso al di
là di ciò che lo include. Ne consegue che, in quanto conosciu-
to, non è mosso, e in quanto, eventualmente, sia mosso, non è,
e non può essere, conosciuto. Ma, se è cosi, se il nesso che,
poste le premesse, dovrebbe risultare assoluto, fra «esser co-
nosciuto» e «esser mosso», si spezza invece senza rimedio,
non è altresl evidente che, proprio ragionando in questa forma,

72 Mauritius_in_libris
nemmeno all'altro termine del rapporto potrebbe mai ricono-
scersi il carattere che invece gli si vuole attribuire? Se il
conoscere fosse agente, e l'essere paziente, se il primo perciò
muovesse e l'altro fosse mosso, la conseguenza sarebbe che,
mosso dal movente, il mosso starebbe perennemente insieme e
oltre il movente: insieme al movente nel punto in cui questo,
con la sua energia, gli comunica il suo impulso e, in tal modo,
lo muove; oltre il movente nel suo necessario riceverne l 'im-
pulso e allontanarsi dal luogo in cui lo riceve. Ma, se fosse
così, il conoscere (che è un muovere) includerebbe per non
includere, - questo essendo il carattere che il concetto dèl-
1'«insieme oltre» racchiude in sé; e di qui discenderebbe che il
conoscere «conosce non conosce». Come, dunque, potrebbe
dirsi che sia il «conoscere»? Ancora. Se fosse così, nemmeno
potrebbe dirsi che il conoscere realizzi la sua Mvaµtc; inclu-
dendo l'essere; e che, come «incluso», questo si distingua
dall'includente. Forse che, se l '«incluso» è l'essere, il cono-
scere non è «essere»? Forse che vorremo definirlo come «non
essere», o come «più che essere»? Se, necessariamente, il
conoscere è essere, certo non sarà «non essere»; e meno che
mai lo definiremo «più che essere», per l'ovvia ragione che ciò
che viene detto «più che essere» non potrà, per esser tale e se
è tale, essere se non «essere»; e non mediante il «più che
essere» si definirà, bensì, invece, mediante l'essere. Se, dun-
que, essere è il conoscere, - essere, e non «non essere» o «più
che essere»; se essere è l'includente, ed essere altresì l 'inclu-
so, - con quale diritto l'essere potrebbe esser definito come
«inclusione» de II' essere? Forse che è possibile che lessere
che include sia il medesimo che ne è incluso, e, sempre essen-
do il medesimo essere, sia includente e, eo ipso, incluso 7°?

15. Una digressione

Sulle difficoltà intrinseche a questo rapido, ma assai im-


portante, passaggio platonico, non fermarsi era impossibile. E
tanto più in quanto, non solo esso contiene di scorcio una
tendenza alla risoluzione dell'ontologia in gnoseologia, che,
nell'intrinseco, si rivela immotivata e aporetica; ma anche

Mauritius_in_libris 73
perché altro, ben altro, vi si dà a vedere. Dopo aver rivolto a
Parmenide l'implicito rilievo secondo cui, se «patisce», ed è
«mosso» dall'atto mediante il quale lo si conosce, dunque non
sarà vero che l'essere è immobile, a Platone questo rilievo non
basta. Travolto dalla passione, o, se si preferisce, dalla forza
delle sue stesse convinzioni morali, di quella passione e di
questa convinzione diviene egli stesso la vittima; e mentre, nel
suo argomento, il «bene» e il «buono» prendono il sopravven-
to sul «vero», egli scrive parole di alta, solenne, e tuttavia, a
tratti, quasi sinistra eloquenza. 248 E 6-249 A 2 tl Oè 7tpòt; dtoc;
Wc: clÀT\9ci)<; riVT\OlV 1ml çrofiv 1ml 'lfUXftV 1w.l cj>pOVT\OlV il
p~8{roç 7tEt0'9T\O"oµeea -re\) 7tav-reÀci)<; ov-rt µfi 7tapeìvm, µ118è
çifv aù-rò µ110è cj>poveìv, cXÀÀ<Ì O"Eµvòv 1ml &y1.0v, voùv oÙK
èxov, cXKLVT\'tOV ÉO"'tÒt; Elvm71 ? Ebbene, a nessuno che pos-
segga un pur minimo senso dello stile sfuggirà l'intenzione di
queste linee; nelle quali in effetti si assume che, proprio perché
gli si nega il pensiero e la vita, proprio per questo, alla maniera
di Parmenide72, l'essere può essere detto O"Eµvòv Kal aytov (o,
in senso contrario, ma con il medesimo risultato, proprio per-
ché lo si prende come «venerando e santo», proprio per questo
si è come costretti a farne alcunché di àKtVT\'tOV, voùv oÙK
éxov). Contro questa visione delle cose, ed è chiaro, Platone è
preso da sdegno. E lo sdegno, l'indignazione morale, occupa-
no, pericolosamente, il posto del logo. Non gli sembrava infat-
ti possibile che all'essere il possesso della mente fosse negato.
Non gli sembrava possibile che, se di una «mente» fosse inve-
ce stato accreditato, gli si negasse poi il possesso della «vita».
Non gli sembrava possibile che, avendo mente e vita, non
avesse «anima», e quindi, anche, movimento73 •
E qui, in effetti, converrà fermarsi un istante a riflettere su
quell '«altro» che, come si diceva, in questo «argomento» pla-
tonico affiora e si dà infine a vedere. Può cogliervisi, in realtà,
una tendenza a ragionare per metafore naturalistiche e, sopra
tutto, antropologiche, che, senza intenzione specifica, anzi, se
si vuole, contro l'intenzione, e tuttavia irresistibilmente, con-
duce a risultati assai gravi; e che forse potrebbero addirittura
esser detti «fatali» se il frequente abuso che, ai nostri giorni, si
fa del lessico della catastrofe non consigliasse la moderazione
e la «prosa».

74 Mauritius_in_libris
Questa tendenza produce risultati gravi (ossia destinati a
pesare a lungo sullo «stile» argomentativo della nostra tradi-
zione filosofica) perché, nel suo intrinseco, pone in atto, e
rappresenta, una sorta di arrogante abdicazione, - una segreta
rinunzia, armata tuttavia piuttosto di «violenza» che non di
«persuasione» 74, alla potenza e all'assolutezza del logo. Essa
si costituisce, in effetti, nell'atto stesso in cui riflette su di sé,
accoglie e subisce, il verdetto della cosl detta ragionevolezza
mondana, vi si modella e vi si identifica; e, per parlare con
maggiore chiarezza, il modello che subisce, e con il quale
s'identifica, è quello che suole essere delineato e proposto da
coloro che, invece di «dimostrare» e di «provare», con lo
strumento puro del logo, che le cose stanno cosl e, piaccia o
no, non altrimenti, sentenziano che, se stessero altrimenti e
non cosl, allora terribili conseguenze nascerebbero, gravi peri-
coli si profilerebbero all'orizzonte dell'umanità: tal che è cosl,
e solo cosl, che «debbono» stare. La minaccia etica, il richia-
mo al «dover essere», l'evocazione dei torbidi satelliti del
male, si sostituiscono, in questo punto, alla forza pacata del
logo, - del logo che non minaccia, ma dimostra, non evoca i
mostri della notte e del sottosuolo, ma deduce. E, dispiace
dirlo, è la minaccia che, in questa parte del dialogo, usurpa il
luogo della ragione, è l'etica che, indebitamente, con lo stru-
mento impuro del terrore, si sostituisce al logo. Non è forse
vero che, chiedendo se sia possibile e ammissibile che l'essere
sia privo di mente e di vita e di anima, e altresl se, posto che
invece ne sia in possesso, possa essere al tutto «immobile»,
Platone in effetti invita, anzi, meglio, costringe il suo interlo-
cutore a pronunziare lui la sentenza di gusto terroristico, e a
dire che, qualora come vouv oÙK fxov l'essere fosse conce-
pito, questa sarebbe appunto un 'enormità, una mostruosità, un
delitto perpetrato contro l'evidenza stessa delle cose umane, -
in ultima analisi, contro il genere umano stesso? E non è forse
vero che questa è una autentica minaccia, - una sfida sottesa
da una minaccia, una costrizione violenta, e non una prova:
una minaccia e una costrizione che tanto più appaiono eviden-
ti, quanto meglio si arrivi a comprendere che nessun autentico
argomento il logo è stato capace di produrre in favore della tesi
ritenuta giusta e meritevole di affermazione? Invocare, come

Mauritius_in_libris 75
all'ospite eleate accadrà di qui a poco (249 C 6-8), la forza del
ragionamento, dichiarando altresì, in questo medesimo atto,
che egli intende dirigerla contro chi neghi Èmcr't'T~µ11v il
cj>p6v11mv il voùv, è certo un nobile esercizio. E chi, senza
commozione, potrebbe leggere parole così alte, - e così ben
scritte? Chi, nel leggerle, non avverte che alla sua memoria
altre parole, pronunziate in altri tempi da altri scrittori, ma con
non diversa intenzione, sono per sopraggiungere? Chi non ha
letto il F aust 15? Ma l'intelletto, la scienza, il pensiero non
possono essere difesi se non con l'intelletto, la scienza e il
pensiero; e difenderli significa infatti usarli nell'unica forma
che ad essi convenga, - nella forma della dimostrazione e della
prova, la forma pura del logo che dimostra e deduce, e, come
non conosce le armi della minaccia e della costrizione, così
nemmeno conosce e si serve di quelle della parenesi morale
che, per indicare la via del bene, descrive intanto, con foschi
colori, il terrore dell'inferno.
Certo, e sia consentita la breve, ulteriore, digressione, alla
radice di questo atteggiamento un altro è possibile scoprirne e
indicarne; e l'intreccio che, pur senza confondersi o identifi-
carsi, l'uno e l'altro costituiscono, è istruttivo e degno di
qualche considerazione. Non è, in effetti, solo la speranza del
bene, e l'orrore del male, è anche la convinzione che, così
come si presentano nella normale rappresentazione che se ne
fa, le cose si danno nell'esperienza obiettiva, a legittimare
questo stile argomentativo; che, in effetti, che altro ha di mira
se non l'accordo del logo con l'esperienza, ossia la riduzione
di quello alla legge di questa? E questa convinzione, dalla
quale è la metafisica stessa a prendere il suo avvio e a ricavare
la sua forma specifica, - questa convinzione che, nella realtà
se non nelle intenzioni, è comune al pensiero metafisico, e poi
anche, in forme varie, a coloro che Io criticano e dicono di
averne orrore, questa convinzione è fonte di gravi equivoci;
che non possono, per altro, essere tutti illustrati in questa sede.
Dove, piuttosto, converrà notare che non solo, in questa pro-
spettiva, dopo esser stata presa come !'«esperienza», - come
esperienza, si badi, e non come logo, questa viene, non di
meno, essa stessa assolutizzata, resa irrefutabile e incontrover-
tibile (cosi irrefutabile e incontrovertibile che, appunto, nel

76 Mauritius_in_libris
contrasto, è l'incontrovertibilità del logo a dover cedere le
armi), ma si fa anche di peggio: qualcosa, in ogni caso, di più
grave. Senza che in alcun modo si giunga ad avvedersene, oltre
quelli dell'irrefutabilità e dell'incontrovertibilità, all'esperienza
si assegna il carattere dell'immobilità; - le si assegna, in altri
termini, quel tratto che, in questo contesto platonico, significa
morte, assenza di anima, di pensiero, di vita, e, proprio per
questo, contro Parmenide, si ritiene di non dover ascrivere
all'essere.
Potrà sembrare, questo, un paradosso: potrà leggervisi
qualcosa come una ritorsione polemica, un capovolgimento
eristico, una provocazione. Ma non è così. Che, data la pre-
messa, questo accada è, a guardar bene, inevitabile. Se, in
effetti, nella sua struttura, ossia nel suo essere ciò che è, e non
altro, l'esperienza non fosse immobile; se, in sé medesima,
nella sua tessitura di «esperienza» e nella qualità del suo esser
tale, ad essa accadesse di esser «questo» e poi anche il contra-
rio-opposto; se al suo essere appartenesse di passare al «non
essere», e dalla vita pervenire alla morte, a quel modo stesso
che, come si assicura, entro la sua cornice, le cose vanno e
vengono e poi, di nuovo, vanno, si affermano, passano e,
ancora non hanno toccato il punto della 'tEAf:tO't11C:, della per-
fezione, che già prendono congedo dal loro essere, e si allon-
tanano; se, insomma, il «questo ed altro» che l'esperienza
racchiude in sé, e tiene fermo, fosse il suo stesso, strutturale
carattere, allora, certo, alla sua cornice non potrebbe conceder-
si che sia una cornice, alla sua struttura non potrebbe conce-
dersi che sia una struttura, e schiettamente contraddittorio
sarebbe dire che, al contrario, possiede una cornice e, a sé
stessa, costituisce una struttura. Sarebbe contraddittorio, inol-
tre, assumere che, con lo spettacolo che offre di varietà e di
movimento, essa, l'esperienza, fosse in sé stessa altrettanto
variabile e non ferma delle cose che, nel suo quadro, si muovo-
no e si trasformano; perché, appunto, è la fermezza a costituire
la condizione, la ragion d'essere e il fondamento di quel che si
muove. E si lasci pure da parte, qui, l'ulteriore questione se,
poste le cose in questi termini, la fermezza riesca a rimaner
tale, e il movimento ad essere garantito nella sua realtà speci-
fica di movimento. Su questo punto, che è di grande delicatez-

Mauritius_in_libris 77
za e che, in altre sedi, ha costituito materia di qualche riflessio-
ne, non si può, in questa, se non invitare il lettore alla cautela
e, se si preferisce, al dubbio; che diventerebbe bensì certezza,
ma negativa, qualora l'indagine venisse spinta verso il fondo.
Come che sia di ciò, è in ogni caso inevitabile ammettere che,
presa come garanzia, testimonianza, fondamento del movi-
mento, l'esperienza è, in sé, immobile. E, in questo contesto
platonico, l'immobilità è morte: veneranda e santa, ma morte.
Se è così, come allora potrà dirsi che per far rifluire nelle vene
dell'essere la linfa della vita, per sottrarlo alla morte, per
ridargli anima e pensiero, proprio dell'esperienza, che an-
ch'essa è immobile e, quindi, morta, dovremmo fare il fonda-
mento e la condizione del suo esser vivo e mobile? L'ambizio-
ne era che il logo si incarnasse nell'esperienza, vi si facesse
concreto, si rimodellasse sulla sua realtà senza perdere niente
che fosse intrinseco alla sua essenza. Era, in altri termini, che
con l'esperienza giungesse a stringere l'accordo. Ma, irresisti-
bilmente, e senza che di ciò ci si avvedesse, all'esperienza si
sono assegnati i caratteri che, proprio perché presenti nel logo,
imponevano che questo si accordasse con quella!

16. Conclusioni sulla storia del/' idea del/' essere

L'essere (e con questo il contesto platonico può essere


riavvicinato) non può tuttavia essere solo mobile. La critica
rivolta a Parmenide non può ricondurre, quasi si trattasse di un
luogo risolutivo, a Eraclito. Se 'tÒ xwouµevov ori x:al KlVflC1lV
cruncop11tfov cix òvta, non perciò potrebbe dirsi che l 'im-
mobilità, essa, non sia. A non ammetterla, si darebbe vita,
infatti, ad una difficoltà non diversa da quella nella quale
s'incorre quando, escludendo che l'essere possa muovere e, eo
ipso, esser mosso, lo si priva del pensiero; e dopo aver propo-
sto il suo cauto elogio del movimento, il Forestiero può allora
proporne uno, altrettanto cauto, non però, nel fondo, meno
preciso, della quiete. Alla domanda tò x:mà. taùtà. x:al
OOC1ClU'tCOC KClL 1tEpl 'tÒ ClÙ'tÒ ÒOKEl C10l xcoplc; C1'tClcrECOC "(EVÉ-
C19at 1tOt' à.v 76 ? la risposta non può infatti suonare se non
negativa: e con questo, alla vittoria dell'eraclitismo, è posto un

78 Mauritius_in_libris
limite insuperabile. Senza queste cose, opposte, e non di me-
no, allo stesso modo, necessarie, - senza, da una parte, il
movimento, e, da un 'altra, la quiete, e dunque la ~e~mé,..n1c; 'tiìc;
oucrl.cxc;, non si darebbe mente, non si darebbe pensiero. E qui,
nelle forme già viste, il testo innalza, all'improvviso, il suo
tono. Sono, come si diceva, parole pericolose, quelle che ora
Platone pronunzia; e si è cercato di far vedere perché, e in che
senso, lo siano. Sono, non di meno, parole solenni che, nell 'at-
to in cui fanno risuonare il grande tema dialettico che, a partire
di qui, animerà la ricerca, anche delineano il compito proprio
del filosofo; che tale è se queste cose, µaÀ.tcr'ta, onora, e, come
non si sottrae alla necessità di non accogliere né l'immobilità
del tutto, né l'unicità dell'uno, né, per un altro verso, la plura-
lità senza orizzonte delle forme, così del pari rispetta l'altra
che vieta di muovere, in ogni possibile direzione, l'essere. La
tesi dei filosofi che, ora con sottigliezza, ora con grossolanità,
ora con eleganza, ora con arrogante rozzezza, hanno indagata
l'inquieta natura dell'essere, sono, in tal modo, respinte tutte.
E l'esempio dei 1tatoec;, il cui costume è di prendere insieme,
dell'essere e del tutto, e l'immobilità e la mobilità77 , proprio
questo, forse, sta a significare: che, ripercorrendo la storia dei
pensieri, e, nel ripercorrerla, procedendo verso la vecchiaia, si
sappia nello stesso tempo andare in senso inverso, compiere il
miracolo, e rifare giovane e puro l'animo.

Mauritius_in_libris 79
Mauritius_in_libris
V

17. Verso il centro della questione. li moto e la quiete

La grande analisi propedeutica è, in tal modo, giunta alla


fine; e sta per aver inizio quella risolutiva e costruttiva che, a
parte l'importanza filosofica che è giusto riconoscerle, è altre-
sl una delle poche che, in Platone, si presenti con questo
carattere di esplicita conclusività e costruttività. Eppure, pro-
prio qui, dove più l'intenzione costruttiva e risolutiva e con-
clusiva rifulge, e, non senza qualche soggettiva soddisfazione,
guardando al cammino percorso, il Forestiero d 'Elea dichiara
di essere riuscito, Èmeucci)c;78 , a circuire l'essere, - proprio qui,
con la sua grande sapienza ironica, Platone fa intervenire una
sorta di anticlimax. Non senza crudeltà, introduce, infatti,
qualcosa come una sospensione; e mentre Teeteto già immagi-
na che, con il richiamo al vero filosofo che deve saper tenere
insieme immobilità e mobilità, il viaggio sia giunto al termine
e altro non resti da desiderare e da fare, per suo conto avverte
che, in realtà, la ricerca è appena agli inizi, che la soluzione è
lontana e che, con occhi fermi, occorre saper affisare e discer-
nere 'tTJV Ù7topicxv 'tljc; mcÉ'lfECOC:, la difficoltà della ricerca.
Teeteto ne è come contrariato: 7tci)c; cxu K<Xt 'tt 'tOU't' EÌPllKCXC:;
- «come e perché dici ancora cosl?» 79 • Ma la sua meraviglia
non ha alcuna ragion d'essere. Che la difficoltà fosse intrinse-
ca al modo in cui l'argomentazione si era svolta nelle ultime
battute del precedente dialogo (e, per la verità, non in queste
soltanto), avrebbe pur dovuto essere di per sé evidente. Forse
che non è pacifico che, assumendo il contemporaneo essere ed
esistere del moto e della quiete, si assume altresl l'essere dei
contrari, anzi dei massimamente contrari: con la conseguenza
che, tenuta ferma, l'assunzione condurrebbe a dire che l'essere
è opposto in sé stesso, e tale quindi che nell'atto in cui è in
quiete è in moto, e in moto nell'atto in cui è in quiete? Forse

Mauritius_in_libris
81
che di qui non scaturisce l'ulteriore conseguenza che, questa
assunzione essendo tenuta ferma, è impossibile tenere altresl
fermo alla ~e~m6tT1<: Tij<: oùcr(ac;, che, come si era detto a
249 B-C, è anche garanzia imprescindibile, e sine qua non, di
voUc;?
Che sia cosl è indubitabile; e non giustificata, nascente
solo dalla estrema durezza della ricerca, è la «meraviglia» di
Teeteto. Occorre però anche aggiungere che un sottile equivo-
co, o, se si preferisce, qualcosa di inconcluso e di non pensato,
si dà a vedere, già a questo punto, nell'argomento del Forestie-
ro: quasi che, disposto a considerare TIÌV Ò.7top(av Tij<: CJKÉ-
'ljfEroc;80, e a sopportarne il peso, tale disposizione non arrivasse
in lui al punto da indurlo a rimettere in questione i risultati
raggiunti, riesaminandoli e investendoli con la critica. Sta di
fatto che se, messosi di fronte alle difficoltà che avvertiva
irrisolte, o non abbastanza a fondo esaminate, per meglio os-
servarle, e guadagnare cosl una migliore prospettiva, il Fore-
stiero d 'Elea avesse indietreggiato alquanto e, con più com-
prensivo sguardo; avesse tentato di abbracciare la intera esten-
sione dell'aporia, forse, chi sa, si sarebbe accorto di ciò che a
noi, suoi tardi seguaci, necessariamente sembra richiedere un
più stringente esame. Si sarebbe accorto che, dopo aver indivi-
duato il punto del suo prodursi, altro, e di essenziale importan-
za, sulla natura dell'aporia rimaneva da dire.
Se il moto e la quiete sono massimamente opposti, e, non
di meno, sono; se sono, e, non di meno, sono opposti, è conce-
pibile che questo «e non di meno», al quale (lo si sappia o no)
è affidato il destino dell'argomento, e cioè la possibilità stessa
che gli opposti «siano» e siano opposti, sia senz'altro posto
fuori questione? In realtà I' «e non di meno» richiede, esso
stesso, di essere provato nella sua possibilità, - questo essendo
l'unico modo, critico e non mitico, di metterlo «fuori questio-
ne». Finché questa impresa non venga tentata, e, sopra tutto,
condotta alla sua felice conclusione, non resta che tornare alla
vecchia, monotona, insidiosa domanda; e chiedersi se sul serio
il moto e la quiete «siano» e possano essere; se, essendo,
possano costituire, gli opposti, - quegli opposti che, a loro
volta, per essere e poter essere tali, debbono innanzi tutto, allo
stesso modo e, dunque, senza patire, nell'opporsi, alcuna dif-

82 Mauritius_in_libris
ferenza, essere. Chiederselo, e cercar di rispondere con radica-
lità. Il che significa: senza illudersi che la riformulazione della
domanda contenga qualcosa di più e di meglio della domanda
stessa che, presente al fondo del ragionamento, non riesce ad
incontrare la vera ed autentica risposta. Certo, ritenendo di
aver dimostrato che l'essere «muove» ed «è mosso», mentre,
per un altro verso (e perché salva sia la sua ~e~at6't'Tlc;), sta in
quiete ed è immobile, il Forestiero d'Elea era soggettivamente
autorizzato a opinare di essere altresl riuscito a mettere fuori
questione tanto l'essere della quiete e del moto quanto quello
della loro massima contrarietà: 250 A 8-9 elev otj, KtVflcrtv x:cxl
cr'tcicrtv, à:p'oùx: èvcxv'ttro'tmcx Myw; cH.A.tjA.otc;; «moto e
quiete non li dici anche tu fra loro contrarissimi?»; x:cxl µiìv E1vcxi
ye òµoiroc; qil]c; àµqxStepa aù-tci x:cxl ÉKa'tepov81 ; «eppure an-
che "essere" li dici, allo stesso modo, ambedue e ciascuno». E
il paradosso che, se mai, fermava e attraeva la sua attenzione,
consiste nel rilevamento dell'impossibilità, nella quale era
venuto a trovarsi, di scegliere l'una di queste due proposizioni
contro l'altra, - entrambe essendo, in effetti, o apparendogli,
inevitabili e necessarie.
Il suo convincimento non corrisponde, d'altra parte, alla
realtà. Fondato sull'argomento con il quale aveva cercato di
dimostrare che l'essere non è soltanto «in quiete» e non è
soltanto «in moto», perché piuttosto è tanto «in moto» quanto
«in quiete», il suo convincimento riuscirebbe fondato se fon-
dato, e non apparente, fosse stato il modo concreto della «de-
duzione» da lui eseguita, o tentata, della realtà intrinseca al
moto non meno che alla quiete, e a questa non meno che a
quello. Ma, come si è visto, la deduzione non è un'autentica
deduzione, il suo argomento è privo di autentica forza dedut-
tiva; e nascendo, a sua volta, da questo, e risentendone in sé la
fragilità, il paradosso che l'ospite eleate costruiva attraverso la
contrapposizione di quelle due secche battute non ha alcuna
intrinseca consistenza o necessità. Altro, in effetti, a questo
riguardo sarebbe stato necessario osservare; e, in primo luogo,
che, ponendo come opposti, anzi, come massimamente oppo-
sti, il moto e la quiete, dichiarandoli, non di meno, e l'uno e
l'altra, allo stesso modo «essenti», si dava luogo ad una diffi-
coltà assai sottile e tale che, se non fosse stata rimossa, l'intera

Mauritius_in_libris 83
istituzione della contrarietà (o opposizione), e, quindi, della
dialettica, sarebbe stata travolta, prima ancora di esser stata
dispiegata, nella rovina.
Ammesso, infatti, che entrambi, il moto e la quiete siano,
si ammette altresì che l'uno «non sia» l'altra. L'essere, per
altro, è «in quiete» e in moto; è quiete e moto; e, dunque, è e
non è. La contrarietà, e la massima contrarietà, è perciò il suo
carattere. Ma, a sua volta, la contrarietà «è» senza che ad essa
possa essere consentito di «essere» e, insieme, di «non esse-
re»: ossia di essere, come contrarietà, contraria in, e a, sé
medesima. Se di essere e, insieme, di non essere le fosse
consentito, ed essa dunque fosse, e potesse essere, contraria in,
e a, sé medesima, allora per certo non potrebbe dirsi che
contrari, e massimamente contrari, sono il moto e la quiete.
Posto, infatti, che, insieme, la contrarietà fosse e non fosse,
ciascun contrario sarebbe e non sarebbe il contrario, e in cia-
scuno la contrarietà realizzerebbe intera la sua estensione: il
moto sarebbe moto, ma anche «non moto», la quiete, quiete,
ma anche «non quiete». Se, per altro, questo accadesse e in
ciascun contrario la contrarietà realizzasse, nell'intera sua
estensione, sé medesima, - allora, non solo non potrebbe farsi
che questo realizzarsi della contrarietà «fosse e non fosse», ma
altro dovrebbe ammettersi. Dovrebbe ammettersi che, ogni
contrario essendo tutta intera la contrarietà, - moto, ma anche
non moto (quiete), quiete, ma anche non quiete (moto), i con-
trari siano specularmente identici; e la contrarietà, sia dunque,
per conseguenza, identità. Lungi dal mostrarsi, nell'estrinseca
eguaglianza, «indifferenti», e diversamente, quindi, dal quel
che Hegel dirà, i contrari sono identici, - anzi, meglio, sono
l '«identico»: a tal punto che, a muoversi su questa via, mai la
contrarietà potrà essere incontrata. Il che, fra l'altro, si rende
ulteriormente manifesto, e si ribadisce, se soltanto si ponga
mente alla natura dell '«insieme», simul, &µcx, in forza e in ra-
gione del quale la contrarietà dei contrari si articola, o preten-
de di articolarsi, come «contrarietà». In questa prospettiva
concettuale, la «contrarietà» è certamente il simul, lo &µcx,
l '«insieme». Ma forse che è altrettanto pacifico che il simul, lo
&µcx, l '«insieme» costituiscono il punto in cui la contrarietà si
fa, in sé stessa, contraria a sé stessa? E se costituissero il punto

84 Mauritius_in_libris
della contrarietà intrinseca alla contrarietà, forse che è pacifi-
co che tale punto sia, in sé stesso, contrario a sé stesso? No di
certo: ché, se cosl fosse, subito saremmo ricondotti sul sentie-
ro che, già percorso, ci ha condotti a constatare che, necessa-
riamente, pensata in questa forma, la contrarietà non è che
identità. Il simul, lo &µa, l '«insieme» sono; e di «non essere»
in tanto ad essi è vietato in quanto, per essere e insieme non
essere, richiederebbero l'intervento di un simul, di uno &µa, di
un «insieme» che, senza, insieme, non essere, fosse, e fosse
soltanto. Ma, se è cosl, allora è evidente che, paradossalmente,
realizzata entro questo quadro categoriale, nemmeno la pre-
supposizione della quiete e del moto alla dimostrazione della
loro «possibilità» è tale da procurare il vantaggio che si ritiene
di conseguire dicendo: «la diversità non può non essere pre-
supposta perché l'esperienza ne offre la testimonianza». In
effetti, anche a prescindere qui dalla difficoltà che a questa
assunzione dell'esperienza come «fonte» potrebbe di nuovo
opporsi, è evidente che la «presupposizione» dei contrari, o
opposti, alla loro possibilità non produce alcun vantaggio:
essendo appunto conseguenza diretta della presupposizione il
loro inevitabile rivelarsi come «identità».

18. Il moto, la quiete, l'essere e, di nuovo, la µéOef,tt:

Che d'altra parte il Forestiero d'Elea avesse in qualche


modo avvertito il punto aporetico che non riusciva ad affisare
nelle sue ultime conseguenze, e quindi nella sua natura più
profonda, risulta evidente da quel che subito dopo si legge:
anche se, e occorre specificarlo, nel tentativo che egli compie
di evitare l'aporia, inevitabilmente finisca coll'impigliarsi in
un'altra, che della prima rappresenta, se si vuole, un aspetto e
uno svolgimento. Posto che «moto» e «quiete» siano, per un
verso, massimamente contrari, e, per un altro òµoiroc; «essenti»,
avvertendo nel suo vecchio cuore parmenideo la difficoltà,
l'ospite suggerisce a Teeteto che, non in quanto entrambi «so-
no», per ciò stesso sarà da dire che entrambi, e ciascuno, si
muovono; non in quanto entrambi «sono», dovrà dirsi che
entrambi, e ciascuno, sono fermi. E gli suggerisce altresl r~~.

Mauritius_in_libris 85
dunque, 'tpt'tOV àpa n 7tapà 't<lU't<l 'tÒ ov èv 't'lj 'l'UX1} 'tt9ek,
òx Ù7t' h:dvou tjv 'tE cm:fotv 1ml 't1ÌV KtVT\Crtv 7tEptexoµé-
VT\V82; invitandolo, inoltre, a considerare che, se del moto e
della quiete l'essere è come il legame, il vincolo, ciò insomma
che, nel tenerli avvinti a sé, li fa «essere», a questo allora
occorre prestare attenzione. Questo legame, questo vincolo,
questo nesso in ragione e in forza del quale, sottilmente cer-
cando di sciogliere l'assoluta identità di essere, moto e quiete,
il Forestiero d 'Elea prova a far sl che, senza di per sé essere
«essere», dell'essere il moto e la quiete tuttavia partecipino e,
poiché ne partecipano, «siano», - questo legame, questo vin-
colo, questo nesso è la «partecipazione», la metessi 83 . E la
questione che la concerne, e alla quale già varie analisi sono
state dedicate, torna con forza in primo piano, - con le diffi-
coltà che subito Platone vi individua, e con le altre, che non vi
individua e che non sono, tuttavia, di minor peso.
Se l'essere è essere, ma non è moto e quiete, dunque
diverso da moto e quiete dovrà essere considerato. Se, per
altro, sul serio potesse dirsi che è diverso da moto e quiete,
ecco allora che di per sé, essendo, l'essere non sarebbe né in
moto né in quiete: il che sembra impossibile, oltre che a Teete-
to, allo stesso Forestiero d 'Elea84• Né all'uno, né all'altro, è
evidentemente mai riuscito di concepire cosa che sia senza
essere in moto o in quiete; ed ecco allora che, per uscire dalla
difficoltà, l'ospite propone di considerare un punto fondamen-
tale, già esaminato, per altro, e sul quale gli sembra necessario,
tuttavia, che il pensiero tomi a soffermarsi. Il punto che, a suo
giudizio, occorre non lasciarsi sfuggire, evoca, del resto, la più
aspra fra le difficoltà; che è quella che, concernendo il «non
essere» e la possibilità che sia riferito a «cosa che sia», torna
ora a rivelare l'estrema sua gravità. La difficoltà intrinseca al
«non essere» si è in tal modo rivelata come l'altro volto di
quella che investe, alla radice, l'essere; e in uno stile che non
potrebbe essere più platonico, il Forestiero può ben dire ora
che insieme occorre risolverle, oppure soccombere, vinti, alla
loro micidiale potenza85 .
Rimane, a questo punto, da considerare l'altra difficol-
tà, - quella che, più volte sfiorandola, il Forestiero non riesce
tuttavia ad affisare nel suo vero volto, e a mettere a tema. È,

86 Mauritius_in_libris
come sappiamo, la difficoltà che si rivela (è già si è rivelata)
intrinseca all'idea della partecipazione. E, dopo che già qual-
cosa ne è stato detto, la riaffronteremo nel corso dell'analisi
che sarà eseguita della parte del dialogo che ancora ci sta di
fronte. Per affrontarla, e condurla, in modo adeguato, sarà
tuttavia indispensabile dedicare qualche attenzione a quel che
si legge nel «prologo», o, se si preferisce, nella prima parte di
un dialogo celeberrimo e che, come si sa, per molti versi, sia
stato scritto prima, sia stato scritto dopo, si lega al Sofista. Il
dialogo è il Parmenide; e, come si è detto, la parte che qui
interessa prendere in esame è quella «proemiale»86• Prima, per
altro, di eseguirne l'esame, occorrerà dare ulteriore ascolto a
quel che, svolgendo il suo argomento, il Forestiero d 'Elea
osserva a proposito della difficoltà da lui individuata e messa
in chiaro: soltanto, infatti, quando la questione della partecipa-
zione, che il Sofista delinea, sarà stata colta nel suo nucleo,
l'analisi del «proemio» del Parmenide potrà, a sua volta,
prendere l'avvio.
Se è cosl, torniamo allora sulla natura della difficoltà indi-
viduata e messa in chiaro dal Forestiero d'Elea; il quale, in
effetti, la formula, o formula di nuovo, chiedendo come sia
possibile che, con predicati opposti, ci riferiamo alla medesi-
ma cosa, e cosl, con questi predicati, la definiamo: l'essere, ad
esempio, con la quiete ed il moto. Ma poi aggiunge anche che
la questione è altresl come sia possibile che noÀ.À.Ok òv6µcxO'l,
con più di un nome, designamo, di volta in volta, la medesima
cosa: come, ad esempio, accade quando, prendendolo nella sua
individualità e concretezza, all'uomo attribuiamo colori, figu-
ra, grandezza, e poi vizi e virtù87 , e non solo diciamo che «è»,
ma all'essere aggiungiamo il «buono», il contrario del buono,
il bello, il contrario del bello, e cosl via. Del resto, che sia
questo il modo che sempre teniamo nel parlare dell'essere, e
delle cose che sono, è evidente: di qualsiasi «essere», - uomo
o pianta o stella, sempre in effetti accade che cosl parliamo e
a questa difficoltà ci troviamo dinanzi: alla difficoltà che,
senza neppur lui riuscirci, Aristotele cerca di risolvere me-
diante la distinzione di predicazione essenziale e predicazione
accidentale, e Platone attraverso l'assai elaborata argomenta-
zione 4ialettica che, a questo punto del dialogo, sta per aver

Mauritius_in_libris 87
inizio, e che, proprio nella predicazione ha, per dire cosi, il suo
centro88 •
La questione, o, se si preferisce, la difficoltà è da lui
enunziata in modo perentorio a 251 D-E, dove si fronteggiano
queste tre alternative: la prima, che unire l'essere al moto e alla
quiete, e, in genere, a «cosa che sia», non sia possibile, e che
perciò sia forza pensarle, le cose, ciascuna in sé stessa, ciascu-
na, essendo incapace di relazione, di comunicazione, di nesso;
la seconda, che, per contro, tutto sia unificabile a tutto, senza
alcuna eccezione; la terza, intermedia fra le prime due, che
alcune cose siano bensl congiungibili, ma altre no 89 : con la
conseguenza che proprio questo gioco complesso della possi-
bilità, e dell'impossibilità, di congiungere, costituisce l 'auten-
tico argomento del filosofo. A queste tre alternative il Fore-
stiero consiglia di concedere separata udienza; e, innanzi tutto,
si chiede se, nessuna cosa rivelando in sé, e possedendo, la
possibilità e la capacità di unirsi con un'altra, ciò nonostante
«moto» e «quiete» partecipino dell'essere. Certo, se questa
fosse la regola, dell'essere non parteciperebbero, - KtVTlcrk tE
Kaì. crtacrv; oùoaµl] µeeéçetov oùcr{cxc; (251 E 9). Ma se sul
serio il moto o la quiete non possedessero questa capacità; se,
come il testo dice, ad essi questa ouvaµic; 't'ljc; Kotvrov{cxc;
fosse negata, come allora potrebbe dirsi che, ciò non di meno,
«sono» (il moto e la quiete)? Coerentemente, dovrebbe dirsi
che «non sono» (con la conseguenza, può aggiungersi, che il
massimo dell'assurdo si delineerebbe, in tal modo, all 'oriz-
zonte del logo, - essendo evidente che, se di «moto» e di
«quiete», ossia di ciò che «è» moto e di ciò che «è» quiete, si
dicesse che «non sono», del loro essere si direbbe che imme-
diate non è!). Con questa ammissione (ed è il Forestiero a
notarlo, esplicitamente), tutto, infatti, sarebbe gettato nel più
grande scompiglio90; perché, sia quelli che il Teeteto definisce
i pfovtec;, e la cui caratteristica è di «muovere» il tutto, sia gli
altri che, per contro, lo immobilizzano, sia infine coloro che
K<l't' El01) tà òvta K<l'tà taùtà cOO-autroc; exovta E1 va{ <j>acrtv
àd (252 A 7-8) - tutti allo stesso modo legano a qualcosa
l'essere, i primi affermando che, in realtà, tutto si muove, ed
«è» mobile, gli altri che, in realtà, tutto «è» immobile. E il
medesimo rilievo formale il Forestiero d 'Elea vuole che sia

88 Mauritius_in_libris
rivolto non solo a quelli che a 242 D-E erano stati definiti con
il nome di muse ioniche e siciliane: non solo insomma ad
Eraclito e della varia legione dei suoi seguaci, che tutto com-
pongono e separano (-ro-rÈ µÈv cruv-rt0fo<n -rà 1tcXV'tCX, w-rÈ oÈ
otmpoumv), e non direbbero nulla (Àéyotev dv oùoév) se sul
serio, fra gli enti, non si desse possibilità di Kotvrovicx, ma
anche, e non meno, a coloro che, assurdamente, non consento-
no che una cosa partecipi, e possa partecipare, alla condizione
di un'altra. Senza che se ne avvedano, e tanto più, perciò,
risibilmente, simili a Èuricle, il ventriloquo, è come se costoro
avessero dentro di sé il contraddittorio: si che godono di questa
poco invidiabile autosufficienza e non richiedono che altri si
scomodi a confutarli: dal momento che, per esprimere il con-
cetto della «separazione», sono costretti a servirsi di espres-
sioni che, invece di separare, in realtà legano e connettono91 •
L'altra alternativa è che per contro tutto sia congiungibile con
tutto. Ma se a quanti la sostengono si desse la palma della
vittoria, allora, per certo, accadrebbe qualcosa di molto singo-
lare; perché la quiete si muoverebbe, il movimento si ferme-
rebbe, e, in sé, quella sarebbe movimento, questo sarebbe
quiete. Resta, cosi, la terza ipotesi: che alcune cose si combi-
nino, altre, invece, no. Ed è questa l'ipotesi nel cui svolgimen-
to «partecipazione» e «dialettica» realizzano la loro unità. Ma,
a questo punto, anche perché la µéeel;tc; ha, almeno in parte,
rivelato il suo volto, e la sua intenzione, converrà fermarsi. È
giunto infatti il momento di esaminare lo straordinario «prolo-
go», o, se si preferisce, la prima parte del Parmenide.

Mauritius_in_libris 89
Mauritius_in_libris
VI

19. La prima parte del «Parmenide»: la questione delle idee

Un «prologo» straordinario, di eccezionale complessità.


Una grande pagina di filosofia; grande, ma, per alcuni riguar-
di, ambigua, sfuggente. Dopo aver presentato, attraverso le
obiezioni che Parmenide rivolge a Socrate, una critica della
dottrina delle idee che non si sarebbe potuto desiderare più
radicale, stringente e impietosa, nella parte conclusiva, senza
arrecare argomenti filosofici, questo medesimo personaggio
osserva che se, da quanto detto fin n, si traesse la conclusione
necessaria, e perciò si negasse che per ciascun ente si dia
un'idea corrispondente, allora, persistendo in questa negazio-
ne, non sapremmo dove, ossia in quale direzione e verso quale
traguardo, rivolgere il pensiero ('t1ÌV OtaVOt<XV), e l'arte della
dialettica ('tOU ouxÀ.éyecrem Mvaµtc;) risulterebbe, per con-
seguenza, per intero (1t<XV'tci1tacrt) distrutta 92• Nel corso del
prologo, via via che il senso della questione si specificava e
approfondiva, era sembrato che, con la forza invincibile dei
suoi argomenti, Parmenide avesse provveduto a criticare, e
proprio nella forma che in precedenza, per esempio nel Fedonern,
Platone le aveva conferita, la dottrina delle idee. E che non si
trattasse di un'impressione, bensl piuttosto di una realtà; che,
in altri termini, dalle ceneri alle quali era stata ridotta fosse
impensabile che la teoria delle idee rinascesse con i medesimi,
precedenti caratteri, è confermato dalle osservazioni che, nel-
1'ultima pagina del prologo, sono con chiarezza dirette a sotto-
linearne l'insostituibilità. È vero infatti che, in questo luogo,
Parmenide dice che, senza teoria delle idee, la dialettica e, in
ultima analisi, la stessa filosofia tramonterebbero; ma, in con-
creto, non produce un solo argomento che valga a mostrare la
via del loro vittorioso riaffermarsi. Non è vero, dunque, quel
che da varie parti, con alquanta grossolanità, si è affermato: e

Mauritius_in_libris 91
cioè che, alla fine, dalle critiche impietose che le erano state
rivolte la teoria delle idee riemerge invincibile94 • Vero è piut-
tosto che ad essere riaffermata è soltanto la sua «esigenza»;
che è, per altro, esigenza, non (che sarebbe assurdo) della
teoria criticata e confutata, ma di una ripensata nel suo fonda-
mento; di una teoria della quale la critica stessa rivolta alla
vecchia concezione delle idee pone, appunto, l'esigenza, sen-
za, d'altra parte (non è infatti che un'esigenza), saperne fornire
la positiva tessitura logica.
Un prologo straordinario. Una grande pagina di filosofia.
Un supremo modello di spregiudicatezza filosofica, o, se pro-
prio non vuole rinunziarsi all'abusata espressione, di radicalità
problematica. E di tutto questo, se si desidera capire, occorrerà
tener conto: rinunziando, in qualsiasi forma sia stata presenta-
ta, alla tesi secondo la quale, lungi dall'essere il capolavoro
della dialettica platonica95, il Parmenide non sarebbe che un
paignion, un elegante e ironico gioco intellettuale96 • Ma seb-
bene, al pari di un cielo che, carico di pioggia, incomba sulle
anime, con tale forza il limite problematico gravi su questa
parte del Parmenide che il passaggio alla successiva non riu-
scirebbe ad essere trovato, e reso comprensibile, se non fosse
eseguito nel segno dell'esercizio metodico e, quasi si direbbe,
dell'esperimento compiuto attraverso lo svolgimento delle «i-
potesi», c'è qualcosa tuttavia in essa che, e non paia parados-
sale, al limite problematico in qualche modo sfugge; e questo
è ciò che, per un altro verso, quel limite include, - è il com-
plesso delle argomentazioni, obiezioni, confutazioni che Par-
menide rivolge alla dottrina delle idee, e alla sua principale
conseguenza: la teoria della µÉ0El;K che, malgrado la critica
dalla quale è, in queste pagine, investita, come se niente fosse
accaduto, il Sofista riprenderà.

20. Le idee, la partecipazione, e le critiche di Parmenide

Nel «prologo» del Parmenide, a rigor di termini, la que-


stione si presenta in un quadro teorico e concettuale almeno in
parte, rispetto al Sofista, diverso. Nella disputa che il giovane
Socrate sostiene, prima con Zenone, e, quindi, con lo stesso

92 Mauritius_in_libris
Parmenide, l'oggetto precipuo dell'indagine è infatti costituito
si dalla µéee!;tt;, ma intesa, tuttavia, come partecipazione che
le cose (e non le idee) fanno dell'idea, o delle idee, - di ciò
dunque che sta in sé e gode del privilegio ontologico del
xcoptcrµ6c;, della separazione (e separabilità). L'oggetto speci-
fico dell'indagine, l'autentico suo punctum saliens, è perciò
costituito, in questo quadro, dalla «differenza» che intercorre
fra le idee e le cose: fra l'immutabilità, l'eternità, l'autosuffi-
cienza delle prime, alle quali propriamente appartiene di «es-
sere», e la mutabilità, transitorietà, non autosufficienza delle
seconde, alle quali appartiene bensi, senza dubbio, di essere,
ma soltanto quando e in quanto si trovino, qui ed ora, ad
essere. Che questo «luogo» sia in Platone fondamentale, e la
«differenza» fra idee e cose costituisca il centro della sua
ontologia, è ovvio; e non vale insistervi. Che, per questo aspet-
to, nei confronti di quanto sostenuto nella prima parte del
Parmenide, la «dialettica» del Sofista introduca elementi di-
versi, e il quadro si presenti per conseguenza con una fisiono-
mia alquanto mutata, - anche questo è ovvio. Ma non tanto,
tuttavia, che qualche considerazione non sia richiesta.
Se si fa attenzione, non è difficile infatti comprendere che
è proprio la differenza dell'impianto categoriale, e della stessa
preoccupazione filosofica fondamentale, a svelare nel Sofista
la presenza di una radice problematica analoga a quella che
anche nel Parmenide si trova. A quel modo infatti che l'idea,
della quale Socrate discute con il grande eleate, e la cui teoria
esplicita sembra che Platone quasi abbandoni alle critiche,
taglienti e impietose, di quest'ultimo, si presenta con il carat-
tere dell '«in sé» e della «separazione», cosi anche l'essere del
quale, nel Sofista, il moto e la quiete, l'identico e il diverso
partecipano, esibisce, per un suo aspetto essenziale, un non
diverso carattere. E anzi, per questo riguardo, identico: essen-
do evidente che se, innanzi tutto, non fosse un assoluto «in sé»,
se, come tante volte poi Aristotele dirà della «sostanza», non
dipendesse che da sé medesimo e la sua assoluta «Separazio-
ne» e «separabilità» non costituisse, essa, la condizione impre-
scindibile del suo poter essere partecipato, la partecipazione
stessa, la µÉ9e!;tc;, non sarebbe, per questo tratto, né possibile
né concepibile. Certo, non soltanto in questi termini la questio-

Mauritius_in_libris 93
ne dell'essere si presenta nel Sofista. La tendenza, per contro,
a risolverlo nella specifica concretezza ontologica dei yÉvTt,
facendolo, per questo verso, decadere dal suo alto piedistallo
eleatico, vi è almeno altrettanto forte della tendenza opposta, a
non risolvervelo, a non farlo cadere da questo piedistallo, a
considerarlo x:cx0'mYto. E le ragioni di questa, che è un 'auten-
tica e insuperabile difficoltà, saranno, da questo momento in
poi, al centro dell'attenzione. Ma, se è così, tanto più allora il
confronto del Sofista con questa parte del Parmenide s'impone.
E diamole inizio, finalmente. Come punto di partenza del-
1'analisi si scelga il luogo nel quale, discutendo con Zenone
alla presenza di Parmenide, subito dopo aver ascoltato il primo
dei due spiegare perché mai, da giovane, per pure ragioni
filosofiche, avesse deciso di difendere, in un suo scritto, la
dottrina del maestro, Socrate gli propone di considerare se non
ci sia, di per sé, un'idea della simiglianza, e, contraria a questa,
una della dissimiglianza, della quale, dice, «io, tu e tutto quan-
to assumiamo sia multiplo partecipiamo». Nel suo scritto, Ze-
none aveva cercato di far vedere che, come molteplicità e
divenire sono impensabili, così il tentativo che, per contro, si
faccia di assumerli come le, ovvie, categorie dell'esperienza,
suscita difficoltà senza dubbio assai maggiori di quelle che si
rivelano intrinseche alla pura posizione dell '«uno» 97 • Per parte
sua, sfidandolo, Socrate si proponeva di dimostrare, sul fonda-
mento non misconosciuto dell'unità, le ragioni del molteplice.
E, appunto, dava inizio alla dimostrazione rilevando l 'assurdi-
tà intrinseca ali' argomento in ragione del quale si sostenesse
mhà 'tcl oµotcx [... ] àvoµotcx ytyvoµevcx il 'tcl àvoµotcx
oµotcx 98 , che le medesime cose da simili diventassero dissimili
e viceversa. Ma perché mai, invece, ci si dovrebbe scandaliz-
zare se qualcuno affermasse che quanto partecipa del simile, è
simile, e dissimile quanto partecipa del dissimile? E nemme-
no, in verità, per quanto almeno è in lui, Socrate avrebbe
ragione di stupirsi, o meravigliarsi, se da altri sentisse dire che
tutto è «uno» perché dell'uno partecipa, e tutto è non di meno
anche multiplo perché partecipa della molteplicità. Nei suoi
termini, la questione sembra, dunque, chiara. E, con Socrate,
occorre ribadirla, osservando che, certo, le forme non ospitano
in sé i contrari, e non poco ci sarebbe dunque da meravigliarsi

94 Mauritius_in_libris
se qualcuno, invece, proprio questo affermasse, - che li ospi-
tano, vi si modellano e, perciò, risultano in sé stesse contrarie.
Nessuna meraviglia, per contro, è lecita di fronte all'afferma-
zione (che agli occhi di Socrate appare anzi del tutto pacifica)
secondo cui ciascun uomo è «uno e multiplo»: uno, perché
partecipa dell'unità, multiplo, perché partecipa della pluralità.
Condizione essenziale della ragionevolezza è di non affermare
che, in quanto uno, l'uno è multiplo, e, in quanto multiplo,
questo è uno. Ma condizione essenziale della ragionevolezza è
altresi, e non meno, che l'uno e il multiplo non siano messi a
contrasto, e che uno dei due, uno ad esclusione dell'altro, si sia
costretti a scegliere99 •
Con la risposta che Parmenide in persona dà al vivace logo
di Socrate, l'argomento entra nella sua parte essenziale. E
tralasciando ora la questione, che il secondo di questi due
personaggi dichiara di non aver ancora saputo risolvere, se
anche del fango, e di altro consimile, spregevole oggetto, si
dia, oppure no, un 'idea, assoluta ed «in sé» 100, si consideri il
luogo in cui Parmenide chiede - ed è la domanda fondamenta-
le - se realmente si diano idee dalle quali, poiché ne partecipa-
no, le cose traggono il nome: come avviene delle cose simili,
che cosi si dicono perché partecipano della simiglianza, o delle
grandi, che partecipano della grandezza, e cosi pertanto si
dicono, o, infine, delle belle e giuste. 130 E 5-131 A ~oKd crot,
CÌX qn)ç, EÌ Vat E'icST\ cX't't<l, OOV ta8E 'tà cXÀÀ<l µE't<lÀaµ~aVOV't<l
tàç Èmovuµ\.aç mhwv icrxnv, o1ov òµotO'tT\'tOt; µèv µeta-
Àa~6vta 0µ0ta, µeyéeooc &è µeyaÀ.a, KaÀÀ.Ooc &è Kaì. 8t-
KatoucruvT\ç 8\. Kata te Kaì. KaÀà yl.yvecrem 101 ? La domanda,
come si vede, è formulata con estrema semplicità, ma con
altrettanto rigore; e nell'atto stesso in cui si avvia ad investire
un aspetto essenziale della questione, tale anche da sollevare,
sul concetto stesso della partecipazione, un dubbio, e anzi una
critica, cosi radicali che proprio si stenta a credere che, ciò
nonostante, dopo averla formulata, Platone abbia pensato di
potersi comunque ancora servire di ciò che con simile, distruttiva
energia metteva in questione. In realtà, la critica che, per gradi,
passo dopo passo, Parmenide rivolge a Socrate è cosi acuta da
poter essere considerata un autentico capolavoro. E notevole
essa è, fin dal suo esordio. Posto che ogni oggetto che si dia

Mauritius_in_libris 95
nella realtà partecipi di un'idea, che cosa deve dirsi - che
partecipa della sua intera estensione, o invece di una sua parte 102 ?
Oppure esiste una terza modalità partecipativa, in ragione del-
la quale né del tutto né della parte (dell'idea) l'oggetto parte-
cipa, e tuttavia, in qualche modo, di essa partecipa? In realtà,
qui come altrove, il ragionamento platonico si svolge con così
fulminea concentrazione, che intere sezioni rimangono, per
così dire, nella rete delle cose implicite; e occorre qualche
sforzo di pazienza per farsele rifluire, complete ed esplicite,
nella mente.
Ragionando intorno al rapporto, o, se si preferisce, al nes-
so che lega insieme le idee e le cose, Platone ha subito posto il
problema della differenza e della molteplicità; e non soltanto
per quel che concerne le idee, che tante sono quanti sono gli
oggetti che, in forza della µéeel;tc;, ad esse corrispondono; non
soltanto per quanto concerne questi ultimi, che molteplici,
potrebbe dirsi, sono per definizione; non soltanto per quel che
concerne l'organismo concettuale intrinseco all'atto parteci-
pativo. Ma lo ha posto per ciascuna di queste situazioni
concettuali: e anche, se non in primo luogo, per lo stesso atto
partecipativo. Il quale, se è un atto, non potrà essere in sé
stesso molteplice. E non di meno è un atto partecipativo: tale,
dunque, che proprio perché partecipa dell'unità, non di questa,
nella sua intera estensione, può in realtà partecipare, ma, ap-
punto, per ciò stesso che ne partecipa, di una sua parte soltan-
to; ché se, al contrario, dell'intera sua estensione partecipasse,
non che ne partecipa sarebbe giusto dire, bensì piuttosto che vi
coincide al punto che, con la teoria che la definisce, ogni
differenza di partecipante e partecipato svanirebbe, e di parte-
cipazione non potrebbe in alcun modo parlarsi più 103 • Così,
svolgendo questo aspetto della questione, occorre aver chiaro,
e dire, che la teoria della µÉ9E1;tc; si presenta come un'artico-
lazione della generale teoria della diversità; e in termini tali,
quindi, che, con questa, sta o cade. Occorre dire, in altre
parole, che, per costituirsi come concreto atto partecipativo,
questo non può riferirsi all'intera estensione e, dunque, all 'u-
nità dell'idea; ma, come si è notato, alla sua parte. Se, per
altro, si riferisse alla parte, allora, certo, non potrebbe dirsi che
partecipa dell'idea; la quale è la sua estensione, la sua unità, e,

96 Mauritius_in_libris
al di qua di queste, non è l'idea che pur si assume come «ciò di
cui» si partecipa. A considerare la questione da questo punto di
vista, l'aporia si rivela dunque intrinseca alla formulazione e,
addirittura, alla dizione stessa della teoria che ritrae l'atto in
cui la µé0e!;ti; consiste; e che è infatti schiettamente autocon-
traddittorio perché, nel suo stesso esercizio, nega quel che
afferma, - e cioè che sia e possa essere l'idea (I 'idea presa,
com'è necessario, nella sua intera estensione e nella sua unità)
«ciò di cui» esso, l'atto partecipativo, partecipa.
Ma c'è di più. Non può dirsi, infatti, che con queste consi-
derazioni il quadro delle aporie sia stato sul serio esaurito.
Nella sua prima articolazione, l'aporia, rivela che, per ciò
stesso che «partecipa» dell'idea, l'atto partecipativo non par-
tecipa dell'idea, - dell'idea, si vuol dire, nella sua interezza,
perché «partecipare» significa partecipare della parte. Nella
seconda articolazione, l'aporia, o, se si preferisce, il rilevamento
dell'aporia, dice che partecipare della parte è impossibile. Per
partecipare della parte, si richiede che il partecipante sia in
grado di assumere, come oggetto del suo atto partecipativo, la
totalità. E che sia così, è evidente. Forse che la parte non è la
parte di un tutto (o del tutto)? Ma se, per definizione, il parteci-
pante partecipa della parte, e non della totalità, e, nondimeno,
per partecipare della parte è costretto a partecipare della totalità,
non si viene con ciò a dire che, nell'intrinseco, il suo concetto
è autocontradittorio? Non basta. Assumere la totalità come
oggetto della partecipazione significa, o che, abbracciandola
con il suo sguardo in ciascuna delle sue parti, il partecipante
include in sé la totalità; o che vi coincide. In entrambi i casi, le
difficoltà appaiono insuperabili. Se l'atto partecipativo inclu-
de la totalità, questa è parte, non totalità; e perciò deve dirsi
che, per ciò stesso che la include, l'atto partecipativo non
include la totalità. Se, viceversa, vi coincide, come, allora,
potrebbe dirsi che ne partecipa? Nel primo caso, la totalità non
è la totalità. È meno di sé stessa, perché è minore del parteci-
pante che la include. Nel secondo, coincide con sé e coincide
con il partecipante: che perciò, se la totalità è la totalità, non è
il partecipante, è la totalità, perché, sia pure autocontradditto-
riamente, partecipare significa partecipare della parte, non
della totalità.

Mauritius_in_libris 97
Non basta ancora. Si è detto: se partecipasse dell'idea
presa nella sua totalità, allora nella sua totalità, e nell;interezza
della sua estensione, l'atto partecipativo sarebbe atto, non di
µÉ0El;,K, ma di coincidenza; e non sarebbe, perciò, atto parte-
cipativo. Il partecipante che, per definizione, è parte, si por-
rebbe, infatti, come il tutto. Se questa, per altro, è la difficoltà,
potrebbe forse dirsi che la si eviterebbe, o, se si preferisce, si
eviterebbe di farla nascere, se si tornasse all'assunto in ragione
del quale si dice che il partecipante, che è parte, partecipa della
parte? Ma a questo assunto, e già lo sappiamo, tornare è im-
possibile; e riproporlo non giova. «Partecipare» significa che,
per ciò stesso che «partecipa», il partecipante è ciò che va a
«far parte». Ma se si assume che, essendo parte, della parte,
mediante il suo atto, il partecipante vada a «far parte», allora,
anche qui, è impossibile assumere che il partecipante partecipi
della parte (della quale si era invece supposto che partecipasse
e potesse partecipare). Se infatti, come parte, partecipasse
della parte, non per questo la partecipazione cesserebbe di
essere segnata dai caratteri che la rendono autocontraddittoria
e impossibile. Assunta come oggetto, o termine, di partecipa-
zione, la «parte» starebbe, nei confronti di ciò che ne parteci-
pa, nella posizione del tutto: sarebbe bensl, rispetto al tutto, la
parte, ma sarebbe anche, rispetto al partecipante, un tutto. Se è
cosl, la questione torna allora a presentarsi nei termini noti.
Necessariamente, l'atto partecipativo è, o di inclusione, o di
coincidenza. Nel primo caso, il partecipante è maggiore di ciò
che costituisce, o dovrebbe costituire, l'oggetto del suo atto; e
questo è impossibile. Nel secondo, è identico (coincidente fino
all'identità); e, per conseguenza, il suo non è, e non può essere
considerato, un atto di partecipazione. È piuttosto, se così è
lecito esprimersi, un atto di identità. Del resto, se ad ogni costo
volesse assumersi che, come parte, il partecipante partecipi
della parte, come non capire che, proprio perché la parte «va-
le» qui come «il tutto», non della parte parteciperà, ma della
parte della parte, e che sempre la specifica determinatezza del
suo oggetto regredirebbe al di qua del suo limite costitutivo?
La questione, come si vede, è intricata; e non sarebbe
difficile, forse, proseguirne, in questa direzione, l'analisi apo-
retica. Ma, tornando al testo (che, del resto, non è stato affatto

98 Mauritius_in_libris
perso di vista: è stato solo allontanato perché meglio potessero
osservarsene le implicazioni e connessioni intrinseche), con-
verrà rilevare che a qualcosa di molto simile a quel che qui
sopra si è detto Platone aveva la mente là dove fa che a Socrate
Parmenide chieda se gli sembri possibile che l'idea passi tutta
intera in ciascuno degli oggetti molteplici, e, ciò nonostante,
mantenga la sua unità. n6n:pov oùv ooKd crot owv 'tÒ dooi:
È:V èKacr'tq> Et VCXl 'tcOV 7tOÀ.À.cOV ev òv, lì 7tCÒ<? (131 A 9-10). La
differenza che, senza dubbio, può notarsi fra il modo tenuto in
precedenza e questo che ora emerge dal testo, consiste nella
netta inversione che qui Platone produce: essendo evidente
che, per sfuggire all'aporia che subito si manifesta allorché si
nota che, per poter partecipare dell'essere, e cosl essere, il
partecipante non può, a sua volta, non essere (il partecipante),
egli preferisce assumere la partecipazione che gli oggetti fan-
no dell'idea nella forma di una sorta di comunicazione che
l'idea fa di sé stessa agli oggetti che, per tale via, vengono a
parteciparne. Ma, comunque sia di ciò (e a parte le difficoltà
che anche tale inversione suscita), è evidente che, a partire di
qui, il percorso aporetico è, quanto meno, simile a quello che
già è stato in breve tracciato. Con grande acutezza, Platone
osserva che se l'idea passasse intera in ciascuno degli oggetti
nei quali, appunto, passa (o si dice che passa), essa sarebbe una
e identica, e poi anche diversa da sé medesima: sarebbe mede-
sima, per cosl dire, e non medesima. E l'unico rilievo che, al
riguardo, potrebbe muoversi concerne l'esigenza, o il deside-
rio, di una più aderente determinazione del quadro problema-
tico. È evidente infatti che, se si dicesse che tutta intera l'idea
passa negli oggetti e che è la molteplice esistenza di questi a
separarla e a renderla diversa da sé, si argomenterebbe in
modo incompleto, anzi, semifantastico. La rigorosa determi-
nazione del concetto che ora emerge richiede infatti altro; e
cioè che, moltiplicandosi negli oggetti e tuttavia rimanendo
una, rimanendo una e tuttavia moltiplicandosi negli oggetti (se
infatti non rimanesse una, non potrebbe dirsi che sia essa,
l'idea, a moltiplicarsi negli oggetti), la diversità dell'idea dal-
1'idea sia concepita come una pura diversità di identici, e
dunque come non autentica diversità. «Diversità di identici»
nient'altro infatti significa che rapporto o nesso di identici; e,

Mauritius_in_libris 99
dunque, identità: nei confronti della quale, come potrebbe
dirsi che, posto che sul serio ne siano penetrati, gli oggetti
conservano la loro molteplicità e differenza? Non è forse evi-
dente che tutti, allo stesso modo, penetrati dall'idea (che in
ciascuno immane nella sua interezza), gli oggetti sono altresì
non molteplici, ma identici: identici all'idea, che è identica, e
identici l'uno ali 'altro, dal momento che tutti, allo stesso mo-
do, ne sono penetrati?
Come che sia, di questo ulteriore e più rigoroso svolgi-
mento (nonché delle conseguenze che ancora potrebbero trar-
sene), rimane che, nel suo intento fondamentale, questo è lo
scopo al quale il testo tende. Esso tende, infatti, ad una sorta di
radicalizzazione e problematizzazione di ogni facile certezza
che, al riguardo, si ritenesse, o si fosse ritenuto, di poter nutri-
re. Si lasci quindi da parte la questione, che è stata sollevata e
che non avrebbe comunque dovuto essere decisa mediante
l'assegnazione della vittoria ali 'argomento socratico, se sia
più sottile il logo di Parmenide, che la esemplifica con l 'imma-
gine del velo che, lasciato cadere sopra una moltitudine di
uomini, è non di meno ev bt\. 7tOÀ.À.ok oÀ.ov, (131 B 9) uno e
intero sopra questi molti, oppure quello delineato dal più gio-
vane e alludente al giorno e alla sua luce, che risplendono
integri e uni pur se molti siti ne siano illuminati 104• All'uno
come ali' altro argomento non sarebbe in realtà difficile pre-
sentare obiezioni. Ma, stabilito quel che in effetti appare indi-
scutibile, e cioè che, nella logica di questo scambio e contrasto
concettuale, è l'argomento di Parmenide (il quale sottolinea
l'impossibilità che il velo stia «tutto» su ciascuna delle parti),
non l'altro, di Socrate, a prevalere, ne deriva che ogni difesa
che si tenti di questo contro quello ha la sua radice nelle scelte
e nelle preferenze ideologiche, o, se si vuole, filosofiche, dei
critici che, appunto, la delineano e propongono. E costoro,
beninteso, avranno le loro buone ragioni a fare di Socrate una
sorta di superiore paradigma della civiltà, dell'umanità e ma-
gari persino della verità 105 ; ma non possono tuttavia pretendere
che, come personaggio (e per di più giovane e ancora inesper-
to) di un dialogo platonico, sia nel vero anche quando, palese-
mente, il suo auctor gli dà torto. Invece di isolare un suo argo-
mento (per la verità non irresistibile) e, riscrivendo a proprio

100 Mauritius_in_libris
gusto il dialogo che Platone avrebbe dovuto scrivere e tuttavia
non ha scritto, sollevare questo personaggio al di sopra del
puro fluire logico delle «tesi» che lo costituiscono, gioverà
restare al testo; e considerare quel che vi accade. Se, come del
resto anche Socrate è costretto ad ammettere, le idee sono
divisibili per ciò stesso che è la molteplicità degli oggetti ai
quale esse si comunicano a supporne come necessaria la divi-
sibilità, - ecco allora che µeptcr-tò: &pcx [... ] fottv cxùtò: tò:
ElOTJ, 1mì. 'tÒ: µE'tÉXOV'tCX CXÙ'tWV µÉpouc; àv µetÉXOl, KCXÌ. OÙKÉ'tl
ÈV ÈKcXO''tql OÀ.OV, cXÀ.À.Ò: µÉpoc; É:KcXO''tOU àv ElTJ (131 e 5-7), -
le idee sono divisibili, e gli oggetti che di un 'idea partecipino,
di una delle sue parti parteciperanno, e quella, l'idea, non starà
allora intera in ciascun oggetto, ma soltanto in una sua parte.
Se, per altro, è cosl, dovrà allora ammettersi (e anche Socrate,
dunque, dovrà) che, come divisibili (µeptcrtci), ciò non ostante
ciascuna rimarrà una? Ammetterlo sembra, a Parmenide, im-
possibile; e anche Socrate, a questo punto, si dichiara d'ac-
cordo.
La questione è dunque, come si vede, se sia possibile che,
nel comunicarsi alle cose (che in tal modo vengono a parteci-
parne), le idee rimangano, ciascuna, una. E cosl importante è il
punto in discussione che, convinto che questa «possibilità»
sia, piuttosto, un 'imp6ssibilità, Parmenide avverte tuttavia l 'e-
sigenza di insistere con altri esempi, e di togliere, in tal modo,
alla teoria della partecipazione ogni possibile fondamento. La
parte che segue è stata tuttavia giudicata difficile, oscura, e
tale che, soltanto per congettura, il pensiero che Platone vi
espone può esservi colto e ricostruito. E non c'è dubbio: è
proprio cosl. La pagina che, attraverso aspre determinazioni
concettuali, culmina nel cosl detto argomento del tpi toc:
&v0pro7toc;, è sul serio difficile: sebbene chiaro ne sia, per altro
verso, l'intento. È pur sempre contro la teoria della partecipa-
zione che, infatti, i suoi argomenti sono diretti.
La questione che ora Parmenide presenta a Socrate concer-
ne la grandezza 106 , - la grandezza in sé, l'idea della grandezza;
che sarà divisibile, se si assicura che, per sé stessa, ogni idea lo
sia. Se, per altro, la grandezza in sé, o idea della grandezza,
venisse divisa (e pensata nelle sue divisioni), ecco allora che,
necessariamente, le sue sarebbero «parti» della grandezza, e

Mauritius_in_libris 101
«grandi» proprio perché wù µeyÉ0ooc µe'tÉXOV'ta, partecipi
della grandezza in sé. Ma ciò che, partecipando della grandez-
za, è grande, in concreto non partecipa che di una parte della
grandezza, e, proprio in quanto ne partecipa, non può che
essere «meno grande», o «più piccolo», della grandezza: con
la conseguenza che il grande è «meno grande», ed è perciò il
«più piccolo» che, contro ogni aspettativa, ora, all 'improvvi-
so, interviene nella trattazione. Considerazioni analoghe sono
richieste dall'esempio che segue, e che riguarda l'eguaglian-
za107; la quale - questo è ora l'argomento di Parmenide -
all'oggetto comunica soltanto una parte di sé. Ma, se è cosl, -
se, come soltanto partecipato, l'eguale è sempre minore dell 'e-
guale in sé (o «eguaglianza») di cui partecipa, se, insomma, a
non poter essere sul serio eguale è proprio questo, - l'eguale,
non è allora evidente che mai e poi mai un oggetto potrà
essere, in senso rigoroso, eguale ad un altro; e che, anche qui,
tanto più l'altro dall'eguale, il diseguale, interviene, quanto
più è inevitabile che differisca dall'eguale in sé, ossia dall'e-
guaglianza, ciò che in tal modo ne partecipa? Cosl, come si
vede, sebbene l'analisi che Platone attribuisce a Parmenide
non giunga fino alle conseguenze estreme che, se non sia
illusione, sono state toccate nelle precedenti pagine, è tuttavia
pur sempre questa la direzione in cui, nella sostanza, si muove.
E, del resto, lucida, netta, e chiaramente affermata, appare la
consapevolezza che egli ha del fatto che della partecipazione,
e della teoria che ne determina il tema, questi sono, non già
inconvenienti, quanto piuttosto autentiche impossibilità. La
battuta che si legge a 131 D-E ha, senza dubbio, un forte
sapore eristico 1 ~; e il gusto ellenico della sottigliezza, della
bravura, se non, addirittura, della destrezza concettuale, la
percorre infatti per intero, da un capo all'altro. Nel suo nucleo
è, per altro, ben solida. Posta la «piccolezza in sé», e posta
altresl la parte della piccolezza, a scaturirne è, in effetti, un
paradosso, un 'tÉpcxc; che, a ben considerarlo, si rivela tuttavia
ricco di autentica forza speculativa, e, nei confronti della teo-
ria della partecipazione, eversivo e distruttivo. Poiché l'idea in
sé, e quindi la «piccolezza», è un tutto, che sempre è maggiore
della parte, la conseguenza è che, per un verso, la piccolezza in
sé, della quale niente in effetti dovrebbe essere più piccolo, è

102 Mauritius_in_libris
più grande della parte; mentre, per un altro, questa parte essen-
do piccola, l'aggiunta che di essa si faccia ad un qualsiasi
oggetto produce non il suo accrescimento, ma la sua diminu-
zione. Sl che, come Parmenide dice a Socrate, non c'è proprio
alcun modo di fondarla, questa dottrina della partecipazione,
sottraendola agli assalti e alle insidie dell'aporia. Né per il
tutto, infatti, né per la parte, è possibile che le cose partecipino
delle idee. Ti va oùv -rp67tov, EÌ7tdv, & l:rox:pmec;, -rffiv ei8ffiv
crot -rà &.ì..ì..a µe-raÀ.~"'e-rm, µ~-re x:mà µÉpT\ µ~-re x:mà oì..a
µe-raÀ.aµ~civnv 8uvciµeva? E a Socrate non resta, in effetti,
che convenirne. Où µà -ròv Ma [... ], ou µot oox:Et eux:oÀ.Ov
d vm -rò wwuwv où8aµci)c; 8wpicracrem 109 •

21. «Separazione» e µé8el;K. I presupposti dell'argomento


detto del -rpfroç &vOp<mroç

La parte che segue è, com'è noto, per intero occupata


dall'esposizione, per altro assai veloce, dell'argomento detto
del -rpl.wc; &.vepo>7toc; 110 : argomento celebre, variamente di-
scusso e apprezzato, e che, a seconda del modo in cui lo si
ricostruisce ed intende, merita, oppure no, la fama di irresisti-
bilità confutativa della quale, presso alcuni, gode. Ma, sia per
il rispetto che, in ogni caso, si deve alle tradizioni illustri e agli
argomenti celebri, sia per il carattere «privilegiato» che, ri-
spetto agli altri addotti e messi in campo da Parmenide nella
sua disputa con Socrate, gli si può riconoscere, sia infine
perché, come s'è detto, potrebbe darsi che, convenientemente
interpretato, rivelasse integra la sua energia confutativa, - è
necessario, questo argomento, non solo esaminarlo a parte, e
con qualche cura, ma altresì richiamare le premesse filosofi-
che sul cui fondamento, e nel cui quadro, trova il suo senso
specifico 111 • Occorre evitare infatti che la sua «Struttura logi-
ca» sia isolata dal suo fondamento e considerata al di fuori del
suo quadro: come se appunto il contesto del -rpl.wc; &.vepo>7toc;
consistesse nello spazio astratto dell'argomentazione logica, e
non invece nella teoria delle idee e nella relativa questione 112 •
Se è cosl, dopo aver ricordato che nel Parmenide l'argomento
riceve due formulazioni, o che, almeno, viene svolto sul fon-

Mauritius_in_libris 103
damento di due diverse idee (da un lato, quella della grandez-
za, da un altro, quella della «simiglianza»), passiamo ali' a-
nalisi.
Considerato nella sua intera estensione logica, l 'argomen-
to detto del terzo uomo assume come suo proprio e necessario
punto di riferimento la «separazione» delle idee dalle cose, la
loro «perfezione» che, in quanto tale, implica, nei confronti
dell'opposto mondo del divenire e della &S!;a, il carattere della
trascendenza; e, sebbene in modo implicito e indiretto, a mate-
ria di critica e di confutazione assume altresì il vario tentativo
che Platone compie di far sì che le idee costituiscano il criterio
in forza e in ragione del quale l'esperienza, o, se si preferisce,
il mondo del divenire e della &S!;a, cessa di essere il puro
fluire di ciò che non ha regola per conformare sé medesimo al
segno dell'intelligibilità razionale. Di questi due aspetti, per
altro strettamente congiunti, l'argomento detto del «terzo uo-
mo» intende, com 'è noto, fornire la confutazione. La dottrina
delle idee culmina nel paradosso (che ha per altro in Platone
pretesa di verità) secondo cui è proprio la «separazione» loro
dalle cose (che sono perciò in sé stesse irrazionali) a costituire,
attraverso la µéee!;tc:, la premessa e la condizione del loro
essere assumibili e pensabili in un quadro di intrinseca razio-
nalità. L'argomento del «terzo uomo» assume invece che que-
sto paradosso esprima, non la verità, ma piuttosto il vizio della
logica che insidia l'intera costruzione degli eLOT\, intesi nella
loro «separazione», e quindi, attraverso la µéee!;tt;, nel nesso
che stabiliscono con le cose. E allora, agli occhi dell 'interpre-
te, la questione è: l'argomento del «terzo uomo» è, in quanto
tale, un'autentica e sostanziale confutazione della dottrina che
pone le idee come separate dalle cose? Oppure non lo è (e non
perché la dottrina delle idee abbia di per sé la energia suffi-
ciente a respingere ogni critica che le sia rivolta, ma per la
diversa ragione che l'argomento del «terzo uomo» non colpi-
sce il suo punto critico)?
Se è così, si lasci per ora indecisa la questione se, in quanto
argomento confutativo, quello del «terzo uomo» concluda o
non concluda, abbia o non abbia efficacia. E prescindendo
dalle modalità argomentative che si rivelano intrinseche alla
sua struttura logica, si consideri piuttosto, preliminarmente,

104 Mauritius_in_libris
quel che la «separazione» delle idee dalle cose induce nel
quadro che, mediante questo concetto, e l'altro che gli si con-
giunge della µÉ9e1;tc;, Platone intende costruire. Ebbene, co-
munque ora si giudichi del loro essere molteplici di numero
(ed esemplate, per questo lato, sulla molteplicità stessa delle
cose alle quali, infatti, corrispondono) 113 , è fuori questione che
le idee sono, ciascuna, un «in sé»; e questo, come si sa, com-
porta che, prive, ciascuna, di interna molteplicità, tutte siano
ferme in sé stesse: ferme, e cioè extratemporali, sottratte alla
vicenda dell'essere e del non essere, dotate di intrinseca per-
fezione114. Fuori di questione è altresl, e per converso, che,
rispetto alle idee, le cose appaiono e sono in possesso del
carattere opposto; e quanto quelle sono «in sé», altrettanto
queste sono «per altro», quanto quelle sono scevre di interna
molteplicità e caratterizzate piuttosto nel senso dell'identità,
altrettanto queste sono segnate di molteplicità e, almeno prima
facie, non di identità, quanto le prime sono un «esser sempre»,
altrettanto queste sono pervase di temporalità e, se cosl potes-
se dirsi, di imperfezione ontologicarn. Se è cosl, fra l'ordine
ideale e quello mondano c'è differenza: massima e radicale
differenza. E come della realtà di questa differenza non può
dubitarsi perché, a garantirla, è la stessa, diversa, struttura che
si rivela intrinseca alle idee, da una parte, alle cose, da un'al-
tra, cosl nemmeno può dubitarsi del punto che, in effetti,
Platone considera fondamentale: e cioè che la fermezza delle
idee e il loro «essere separate» tanto più debbono esser assunti
con rigore, e tenuti saldi al centro del quadro, in quanto è in
questo carattere che può rinvenirsi, o deve comunque ricercar-
si, il criterio che alle cose, altrimenti irrazionali, conferisce
l'opposto carattere della razionalità.
Se è cosl, proprio in questo punto la costruzione comincia
a rivelare la debolezza del suo impianto. Da quanto s'è detto
consegue infatti che, anche a prescindere dalle difficoltà che
insorgono alla radice della differenza che Platone asserisce
esistente fra le idee (che, ciascuna essendo in sé stessa «una»
e non molteplice, tutte sono, non di meno, molteplici per
numero e non «una» 116 ), la struttura complessiva dell'universo
è segnata da una duplice differenza. Mentre infatti, molteplici
di numero, le cose sono altresl ciascuna molteplice in sé stessa,

Mauritius_in_libris 105
fluida, e variabile dalla vita alla morte, le idee sono bensì
molteplici di numero, ma in sé stesse sono, ciascuna, «una». E
la difficoltà che a questo punto si dà a vedere consiste in ciò
che, affermata, la differenza non ritrova tuttavia in sé stessa la
forza che ad essa consenta di pensarsi e di essere pensata: con
la conseguenza che il suo essere affermata, e non pensata,
induce nell'universo platonico il dissidio e la difficoltà. Senza
insomma che Platone riesca ad avvedersene, e a controllare il
movimento obiettivo del suo pensiero, insensibilmente (e ora
lo vedremo) l'estrema «separazione» e la massima differenza
sussistenti fra l'eternità delle idee e la temporalità delle cose
tendono a capovolgersi nel loro contrario-opposto; ed è I 'iden-
tità che, infatti, emerge e rivela il suo volto.
Al di là del loro essere diverse, e quindi molteplici, le cose
sono infatti, tutte e ciascuna, diverse dalle idee che ad esse (si
dice che) corrispondono. Ma appunto, se è così, non dovrà
asserirsi che identicamente esse sono diverse dalle idee? E
come, in effetti, se non identicamente, potrebbero esserlo?
Diverse, come si presume, fra loro, le cose sono tutte, e ciascu-
na allo stesso modo dell'altra, intessute di tempo, - tutte, e
ciascuna allo stesso modo dell'altra, sono sottoposte alla vi-
cenda dell'essere e del non essere, del nascere e del perire. E
non è forse per questo, ossia per il loro intrinseco essere
molteplici, che sono diverse dalle idee? Per questo, senza
dubbio. E dunque, identicamente diverse. Se per altro è così,
se nell'essere, tutte e ciascuna, diverse dalle idee, tutte rivela-
no il medesimo carattere, e sono identiche, - in che modo
saranno fra loro «anche» diverse? Non è forse nell'essere «non
idee» che, tutte e ciascuna, le cose trovano la ragione del loro
«essere cose»? Come si deduce, dunque, quell '«anche», che è
la conseguenza, ma altresì dev'essere la radice, della loro
differenza? Si risponderà platonicamente che la ragione onde,
tutte e ciascuna, le cose sono fra loro diverse risiede nella
differenza, e qui ha la sua radice, che le idee intrattengono fra
loro? Si risponderà che la differenza delle cose non è, in altri
termini, se non il riflesso della differenza delle idee, di cui le
cose sono copie, immagini, imitazioni, e che, per conseguen-
za, si tratta di una differenza indotta: - un 'imitazione di diffe-
renza?

106 Mauritius_in_libris
Ebbene, lasciando da parte l'arduo problema che subito,
per altro, si porrebbe se, in questo contesto, il significato di
«imitazione» fosse sottoposto ad analisi, sia pur questa la
risposta: perché, certo, almeno nelle linee essenziali, cosi è in
Platone. Ma in tal modo, e anche nel caso in cui il concetto
della copia, dell'immagine, dell'imitazione fosse mediato da
quello della µÉ0E!;tc:, certo è che non perché sia stata assunta
sotto il segno di un'ulteriore e più estesa differenza (quella,
appunto, che concerne le idee), la differenza delle cose (dalle
cose) risulterebbe meglio fondata, giustificata, dedotta. È ve-
ro, anzi, il contrario: dal momento che la differenza delle idee,
nella quale si ravvisa e si indica il criterio in ragione del quale
quella delle cose si costituisce, è, anch'essa, non già dedotta,
bensl crudamente presupposta alla sua possibilità. Che infatti,
identiche ciascuna alla sua cj>umc; di idea, e quindi alla propria
intrinseca identità e non molteplicità, le idee siano poi molte-
plici, e, in quanto tali, diverse, è bensl assunto esplicito di
Platone; il quale parla di tante idee quanti sono gli oggetti, o
gli «insiemi» di oggetti, ai quali, riconoscendone il carattere,
di volta in volta ciascuna di esse si riferisce. Ma è, il suo,
assunto dogmatico, e, quel che più conta, autocontraddittorio,
perché se degli ElOTJ si dice che ciascuno è caratterizzato dal-
! 'assoluta identità, e non molteplicità, che intrattiene con sé,
come mai potrebbe anche assumersi che la sua identità abbia il
suo «oltre» nell'identità degli altri ei.ori? L '«oltre» dell 'iden-
tità è un'alterità anche nel caso in cui si asserisse che nient'al-
tro che un'identità è ciò che sta «oltre» l'identità. È, dunque,
un'alterità; che è impossibile trovi un legittimo posto nella
sede concettuale delle idee, il cui carattere è, rigorosamente,
costituito dall'identità. In altri termini: se si dice che le idee
sono, ciascuna, identica a sé, questo stesso asserto è autocon-
traddittorio, perché dire «ciascuno» è dire cosa incompatibile
con la nominazione dell'identico. E il paradosso è dunque che,
quando pure si ammettesse la molteplicità delle idee, e si
pretendesse tuttavia di tener fermo all 'irrinunziabile punto
della identità di ciascuna, proprio questa ammissione, che
ciascuna è identica alla sua identità, toglierebbe alla radice la
possibilità che le idee fossero specificate come aventi «ciascu-
na» la propria identità e come tali da costituire, essendo eia-

Mauritius_in_libris 107
scuna una specifica idea, una serie molteplice. È evidente
infatti che se ciascuna è identica a sé, e tutte sono quindi
segnate da questo medesimo carattere fondamentale, nell 'es-
sere identica a sé ciascuna sarà identica ali' essere, ciascuna,
identica a sé: con la conseguenza che né di «ciascuna» potrà
parlarsi, né di «altra» idea, ma solo di identità: di identità
senza alcuna molteplicità.
Se per altro è cosl, proprio di qui emerge, e non senza
qualche apparenza di paradossalità, l'estrema aporia che la
dottrina delle idee rivela nella sua stessa filigrana logica. Se
infatti, molteplice o unitario, l'oggetto mondano non è un'i-
dea, e da questa dunque è diverso, altrettanto dovrà dirsi del-
l'idea, - che «non è» l'oggetto mondano e da questo, per
conseguenza, è diversa. L'idea e la cosa, o, se si preferisce,
l'ordine ideale e quello mondano, sono dunque diversi, - sim-
metricamente diversi. Ma come la simmetria dei diversi è in sé
a sé stessa identica e non diversa (che, altrimenti, non sarebbe
la simmetria dei diversi), cosl, costituendo gli estremi di quel-
1'identico a sé che è la simmetria, i diversi sono identici l'uno
ali 'altro, e non diversi: che se, nell'essere gli estremi dell 'i-
dentico, fossero diversi, l'identico non sarebbe l'identico. Op-
pure, e se si preferisce: l '«essere i diversi diversi» è, in quanto
tale, identico. O ancora: come i diversi potrebbero essere di-
versi dalla diversità in ragione della quale sono diversi, e che,
non potendo essere diversa da sé, è in effetti a sé stessa iden-
tica? - Ebbene, se è cosl, le conseguenze che da questo ragio-
namento scaturiscono sono delle più gravi. E sia, infatti, che
l'identità (dei diversi) sia stabilita nell'ambito ontologico del-
le idee (e le cose siano perciò, non cose, ma idee), sia che per
contro sia stabilita in quello delle cose (e le idee siano perciò
cose), sia infine che, forse con maggior rigore, si assuma che
il fatto dell'identità è tale da risolvere in sé l'essere idea
dell'idea e l'esser cosa della cosa, la conseguenza è, in ciascu-
no di questi tre casi, distruttiva. Nel primo caso, il ragiona-
mento ha messo capo a un mondo di idee senza cose; nel
secondo, ad un mondo di cose senza idee; nel terzo (che è
come la verità dei primi due), alla pura identità priva di artico-
lazioni, - ad una sorta di trionfo negativo del più crudo e
feroce eleatismo.

108 Mauritius_in_libris
Sarebbe vano, e forse anche ridicolo, chiedersi quali aspet-
ti di questa difficoltà Platone fosse giunto a percepire, in quale
forma se la prospettasse, fino a che punto, nella straordinaria
acutezza della sua capacità autocritica, fosse stato in grado di
intendere il rivelarsi, alla radice della diversità intesa come
pura simmetria dei diversi, dell'identità. Certo è che della
differenza, e delle conseguenze che ne scaturiscono, fu fino in
fondo consapevole, perché non da altro dedusse il tentativo di
collegare, mediante la µÉ0e!;tt;, i due ordini delle idee e delle
cose. Ma, come sappiamo (e qui si può velocemente ricorda-
re), se pur non riuscl peggiore, il rimedio non eliminò il male.
Con la differenza, e la sua immediata «presupposizione», lo
riprodusse alla radice dello strumento con il quale cercava di
rimuoverlo ed eliminarlo. Nella varia gamma delle sue realiz-
zazioni, e specificazioni, lo strumento partecipativo dà infatti
luogo a molteplici, e pur connesse, difficoltà. Nei riguardi
dell'essere e della partecipazione che, appunto, per essere, le
cose ne fanno, la µÉ0e!;tt: produce, come sappiamo, lo scarto
per il quale, per essere, le cose debbono partecipare dell'esse-
re, per partecipare dell'essere, debbono essere 117 • Ma nei ri-
guardi di questo luogo logico, e di ogni altro che gli si connet-
ta, lo scarto che essa produce non è, e anche questo lo sappia-
mo già, meno grave. Se «partecipare di» non è lo stesso che
«identificarsi con», allora è inevitabile che, partecipando del-
1'essere, della bellezza, della grandezza, della giustizia, pro-
prio in quanto ne partecipano, e non vi si identificano, le cose
siano «altre» dall'essere, dalla bellezza, dalla grandezza, dalla
giustizia. È inevitabile, se al loro esser «altre» si intenda con-
ferire un 'ulteriore determinazione, che siano «meno» essenti,
«meno» belle, «meno» grandi, «meno» giuste delle corrispon-
denti idee, senza che d'altra parte lo strumento partecipativo
offra il modo onde questa «differenza» sia controllata, inclusa
in un ambito razionale, oppure eliminata. Di qui, come si vede,
gravi conseguenze. Non solo, infatti, non ha senso dire che
l'ente è «meno» dell'ente, e la cosa bella è «meno» della
bellezza. Ma nessun senso razionale è altresì possibile confe-
rire, su questo fondamento, al mondo delle cose; che, abban-
dÒnato alla sua «minorità» logico-ontologica, torna a ribadire,
nei confronti di quello ideale, la netta differenza che, per parte

Mauritius_in_libris 109
sua, lo strumento partecipativo aveva cercato, se non di aboli-
re, almeno di risolvere in un orizzonte di razionalità, e non
riesce invece se non a confermare. Escogitata per mediare la
differenza dell'ordine ideale e di quello mondano, la µéee!;ii;
dunque non media. Non media ma, piuttosto, esaspera (e non
occorre ora ribadire come nell'esasperazione stessa della dif-
ferenza traluca, nel fondo, il volto dell'identità).
Si assuma infatti, a mo' d'esempio e di ipotesi, che, parte-
cipata dalla cosa, l'idea (che di per sé non è una cosa perché,
appunto, è un «in sé») «si faccia», ossia divenga, cosa, e, per
cosl dire, entri a far parte dell'ordine mondano. Ebbene, poi-
ché il senso di questa espressione («farsi, o divenire, cosa»,
«entrare nell'ordine mondano») richiede di essere determinato
con precisione contro il rischio immanente della vaghezza
metaforica, si osservi allora che se il «farsi cosa» della idea
significasse che, venendo a far parte delle cose e della ct>umc;
che caratterizza il loro specifico esser tali nell'ambito che
costituiscono e che le accoglie, questa, l'idea, penetra in quelle
senza tuttavia assumerle nel suo ordine specifico, il guadagno
sarebbe ben misero; e grande, per contro, la complicazione. È
evidente infatti che, divenuta cosa, l'idea non è, né può più
essere, quel fermo «in sé», quell'assoluto valore, quel non
tramontabile 1tcxpci&ryµcx, che, come garanzia di razionalità,
si era pur deciso di conservare alla radice dell'atto costitutivo
di ciò che è «oggettività»: sl che, ancora una volta, è ad una
razionalità dimidiata che in questo caso ci si rivolgerebbe: ad
una razionalità dimidiata, e non a quella piena che si pretende-
va di aver sottesa alle cose. Né al riguardo varrebbe osservare
che, divenuta cosa, non per ciò l'idea ha cessato di essere idea:
dal momento (potrebbe aggiungersi) che diventar cosa questo
significa, - penetrare in essa e, in questo atto, ricostruirla,
dall 'intemo, nel segno della razionalità. Questa osservazione
non ha in effetti alcun valore, è fatta di pure parole prive di
senso; e rischia per di più di riuscire gravemente fuorviante,
perché a due diverse prospettive il ragionamento che la sotten-
de mette a capo: e rispetto al quadro categoriale entro il quale
le idee assumono il loro senso, entrambe sono insostenibili.
La prima prospettiva delinea, culminandovi, una sorta di
situazione intermedia, un µE'tcx!;u che, in quanto risulta dal-

110 Mauritius_in_libris
l'incontro e dal contatto che le idee realizzano e stabiliscono
con le cose, si colloca altresì, ma in senso ideale, fra queste e
quelle; ed è in ogni senso inconsistente perché, posto che
l'idea è eterna e la cosa, invece, mortale, che l'una è «in sé e
per sé» e l'altra «per altro», che la prima non è sottoposta alla
vicenda dcll 'essere e del non essere, del nascere e del perire, e
la seconda invece proprio dall'esservi sottoposta trae il suo
carattere, - che cosa sarebbe questo µetcxl;u se non una mo-
struosa «eternità mortale» (o «mortalità eterna»), un «in sé-
per-sé-per-altro» (o un «per-altro-in sé-per sé»), un «essere
non essere» (o un «non essere essere»)? Che cosa sarebbe se
non la forma pura della contraddizione, la forma (si vuol dire)
di ciò che è «impossibile», il supremo ciouvmov 118 ? La se-
conda prospettiva delinea, culminandovi, non già questa as-
surda situazione intermedia, che non regge e dev'essere ab-
bandonata; mal 'assai diversa situazione in forza della quale il
«divenir cosa» dell'idea cede al «divenir idea» della cosa, e la
luce della razionalità si raccoglie nel punto, massimamente
inestesa, in cui la sua essenza consiste. Rispetto alla premessa
generale del discorso è anch'essa, tuttavia, per intero assurda.
Quale mondo in effetti questo raggio di luce illuminerebbe se
il mondo si è, per così dire, essenzializzato in lui, si è fatto esso
stesso raggio di luce, e non ha per sé alcuna consistenza?

22. Le due forme del -rplnx àv8pmTtoç nella prima formula-


zione dell'argomento

Nella sua forma specifica, e nella peculiarità della sua


struttura argomentativa (che, assumendo il «fatto» della sepa-
razione delle idee e la pretesa che possa farsene il criterio per
l'intelligenza delle cose, li critica entrambi nella «contraddi-
zione», e per la «contraddizione», che producono), il «terzo
uomo» esprime il senso generale di questa critica ed è riduci-
bile al suo tema filosofico? Per decidere quale risposta debba
darsi a questa domanda, osserviamo quel che in concreto acca-
de a 132 A 1-B 2, che è il luogo nel quale l'argomento detto del
«terzo uomo» è esposto nella prima delle sue due forme. Come
si ricorderà, nelle linee immediatamente precedenti Parmenide

Mauritius_in_libris 111
e Socrate avevano dibattuto la questione della grandezza in sé,
della piccolezza in sé, della parte e del tutto. E richiamandosi
alle difficoltà incontrate e, d'altro lato, cercando di spiegare a
sé stesso perché mai tanto il suo interlocutore riluttasse a
distaccarsi dalla dottrina delle idee e, con giovanile accani-
mento, in ogni modo cercasse di difenderla e ribadirla, Parme-
nide osserva: 132 A 1-3 olµai crr é'K: wù 'tot0ù8r ev h:acrwv
rl&x o'i.mem Elvm · o'tav 1t6 A.A.• &ua µeyciA.a crot M!;1J Elvm,
µia ne; 'i.<J'roç OOKEl lBéa 1' m'.m) El vm btì. 1tclV't<l lMvn, oerv
ev 'tÒ µÉya 1'Y'I El vm 119 • Nella ricostruzione che Parmenide ne
fornisce, è dunque la visione delle cose grandi a suggerire che
in esse si dia e vi sia un 'unica idea, - la grandezza in sé, 'tÒ
µÉya, o 'tÒ µÉyr0oc;, che, venendo fuori dalle cose grandi in
virtù del loro stesso esser grandi, le trascende per collocarsi sul
piano metempirico che alle idee spetta di diritto. A questo
punto, l'argomento entra nel vivo, e raggiunge la sua articola-
zione essenziale. Ottenuto il consenso di Socrate, Parmenide
infatti aggiunge: 132 A 6-8 'ti 8' aù'tò 'tÒ µéya 1ml 'taA.A.a 'tà
µryciA.a, èàv ci>crau'troç 'tij 'lfUXiJ È1tÌ. 1tclV'ta 'i.81)<;, oùxì. ev 'tt
aù µéya <1>avd'tm, e(> 't<Xù'ta 1tclV'ta àvciyKl) µryciA.a <1>aive-
crem iw7 E subito dopo, traendo l'estrema conseguenza: 132 A
10-B 2 &A.A.o &pa Elooç µeyé0ouç àva<1>a~crE'tat, 1tap' aù't6
'tE 'tÒ µÉye0oç yeyovòç Kal 'tà µE'tÉXOV'ta aùwù· Kal È1tÌ.
wuwtç aù m'icrtv E'tEpov, e(> 't<XÙ'ta 1tclV'ta µeyciA.a Ecr'tat ·
KClÌ. OÙKÉ'tt Biì ev EKClO''tOV O'Ot 'tWV El8ci5v Ecr't<ll, àA.A.à cl1trtpa
'tÒ 1tÀ.if 0oç121.
Questa dunque, scandita nelle sue tre fasi, la sequenza
dell'argomento. Ebbene, prescindendo, o cercando di prescin-
dere, dalla specificità argomentativa (il regresso all'infinito)
che il terzo uomo assume, osserviamo le proposizioni che
costituiscono il fondamento filosofico della dottrina (quella
delle idee) che s'intende dimostrare viziata d'incoerenza. Il
primo tempo della sequenza non richiede particolare discorso,
perché, comunque si pensi di averla dedotta, l'idea della gran-
dezza è presentata come tale che, con la sua unità, sovrasta
l'ambito (che essa stessa in questo atto costituisce) delle cose
grandi; ed è questo che, coincidendo con il carattere generale
che Platone riconosce alla sua essenza, in primo luogo conta e
interessa. È vero bensl, senza dubbio, che, sottilizzando al-

112 Mauritius_in_libris
quanto (e in modo dopo tutto non illegittimo), a proposito di
questo primo tempo dell'argomento potrebbe almeno notarsi
che opera in esso il rischio del circolo vizioso, dal momento
che, per un verso, è lo spettacolo stesso delle cose grandi a far
insorgere in colui che lo contempla l'idea della grandezza,
mentre, per un altro, il senso complessivo del logo impone di
concludere che è piuttosto il possesso dell'idea della grandez-
za a rendere possibile la contemplazione delle cose grandi, se
non, addirittura, a costituire, ontologicamente, lo spettacolo
che esse offrono. E il rischio del circolo vizioso è, come si
comprende, qualcosa di più che un semplice rischio: come
subito si vede se si consideri che, nel modo in cui Parmenide
velocemente lo formula e lo costituisce, il primo tempo del-
1'argomento postula qualcosa come uno sguardo che, scevro
ancora del criterio atto a far riconoscere nelle cose grandi la
grandezza per la quale sono tali, a tal punto tuttavia per un
altro verso deve non esserne scevro che dalle cose grandi
deduce l'idea, - quella stessa che, certo, mai riuscirebbe a
dedurre se non la possedesse alla radice dell'atto mediante il
quale, appunto, la deduce. Malgrado l'insidiosità dei problemi
che qui sono stati accennati, i punti essenziali, e che richiedo-
no la maggiore attenzione, stanno tuttavia nel secondo e nel
terzo tempo; ed è a questi che, appunto, ora occorre rivolgersi.
Nel secondo tempo si suppone che, per il suo stesso carat-
tere di «idea» e, dunque, in ragione del suo essere trascendente
e «separata», la «grandezza in sé», che a colui che contempla-
va le «Cose grandi» s'imponeva come il criterio e la ragione
del loro esser tali, formi, divenuta cosa, l'oggetto di un'ulte-
riore contemplazione; e che alla radice del nuovo atto una
nuova idea della grandezza insorga, in forza della quale ciò
che è grande appare grande: non solo le «cose» grandi delle
quali la prima idea è andata a far parte, ma questa stessa idea,
divenuta, essa pure, una cosa grande. La situazione concettua-
le che, svolto in questa forma ciò che vi è implicito, questo
passo delinea, prevede dunque che non si dia, né possa darsi,
contemplazione di oggetti, o di un ordine di oggetti omogenei,
se alla radice stessa dell'atto contemplante, e come suo imma-
nente criterio, non agisca l'idea che al carattere di quegli
oggetti corrisponde. E nel suo ulteriore svolgimento implica

Mauritius_in_libris 113
altresl che se l'idea, con il cui criterio gli oggetti sono stati
contemplati e riconosciuti nel loro carattere, viene a sua volta
contemplata insieme agli oggetti che da lei trassero, e traggo-
no, il carattere della grandezza, - perché questa ulteriore con-
templazione sia possibile è necessario (e già lo si è detto) che
una nuova idea della grandezza insorga: una nuova idea, alla
luce della quale la grandezza della grandezza, e quella altresl
delle cose grandi, appaiano e si manifestino come tali.
Ebbene, se è cosl, il nervo della questione è stato toccato
nel suo punto più vivo. E occorre perciò chiedersi: qual è,
propriamente, e di che natura, la difficoltà logica che qui si
rivela e che, nelle sue tipiche modalità argomentative e confu-
tative, il tpl-toc; &vepro1toc; cerca di recare in piena luce (per-
ché ciascuno, e in primo luogo chi si fosse fatto sostenitore
della dottrina delle idee separate, possa persuadersi della sua
insostenibilità)? Per rendere possibile la risposta, si cominci
con il considerare che della natura specifica della grandezza
che, avendo dapprima costituito il criterio in ragione del quale
le cose grandi sono grandi, entra nell'ambito di queste e fa
perciò insorgere una «nuova» idea della grandezza, Platone si
mostra assai meno perentoriamente sicuro di quanto, al riguar-
do, alcuni critici non mostrino di essere. Per costoro, andata a
far parte delle cose grandi e dell'ambito che le include, la
grandezza in sé è, non più la «grandezza in sé», l'idea della
grandezza, ma è bensl (divenuta) una cosa grande fra le altre
cose grandi 122 : con la conseguenza, parrebbe, che, proprio per-
ché ormai è tale, a dar conto e ragione del suo essere «grande»
una nuova idea della grandezza si richiede, che infatti, inevita-
bilmente, si delinea ali' orizzonte della sua intelligibilità. Ma
rispetto a questa possibilità interpretativa (che il testo non
esclude e, forse, in analisi estrema, richiede), Platone è, come
si diceva, alquanto esitante; e non senza, infatti, qualche ambi-
guità, per questa idea alla radice della quale la nuova idea è
sorta parla di tò µÉya, o di tò µÉye9oc;, distinguendola, sem-
brerebbe, dalle «altre cose grandi» (tà.Ua tà µeyciÀ.a), nel cui
ambito, tuttavia, per un altro verso la colloca. Non senza am-
biguità; perché se tò µÉya è, al di fuori di ogni possibile dub-
bio, la «grandezza in sé», l'idea della grandezza, e, propria-
mente, quella con il cui criterio le «altre cose grandi» erano

114 Mauritius_in_libris
state contemplate e riconosciute in questo loro carattere, vero
è anche che, in quanto sia a sua volta e in qualche modo
divenuta oggetto di contemplazione, e questa si riveli impossi-
bile se alla sua radice non sia una <<nuova» idea, essa è, a
rigore, non più 'tÒ µÉycx, la «grandezza in sé», l'idea della
grandezza, ma è bensl, ormai, una «cosa grande», e come tale
va considerata. Per chiarezza, si considerino dunque, distinta-
mente, le due ipotesi che qui su sono state delineate: (1) che,
anche se ormai si trovi a far parte del «campo» che include le
cose grandi e sia, per questa parte, una di esse, 'tÒ µÉycx sia, per
un'altra, e seguiti ad essere, 'tÒ µÉycx, l'idea della grandezza;
(2) che, inclusa nel campo delle cose grandi, non sia ormai che
una di queste, e il carattere dell'idea non gli appartenga più. Le
due ipotesi richiedono infatti, in prima istanza, di essere di-
stintamente esaminate. Se poi, e in che senso, tendano a ricon-
vergere in unità, è quanto si vedrà svolgendole.
Se è cosl che la questione richiede di essere schematizzata,
e queste sono le ipotesi che ne articolano il campo, si prenda a
considerare la prima, e se ne misuri il grado di coerenza, o,
eventualmente, di incoerenza. (1) A parte la disparità di un
campo ontologico-semantico che, essendone al contempo co-
stituito, si trovi ad ospitare tanto 'tÒ µÉycx, la grandezza in sé,
l'idea della grandezza, quanto 't<ÌÀÀ.cx 't<Ì µeyciì..cx, le altre cose
grandi, - ben altro infatti, a questo riguardo, rimane da consi-
derare. Le incongruenze che si rivelano intrinseche alla sua
costituzione non sono che le difficoltà emergenti da questa
simultanea e duplice assunzione dell'idea come idea e come
cosa. E si consideri allora, in primo luogo che, se è cosl, altro
sarà il rapporto che, insorgendo, la nuova idea intratterrà con
le «cose grandi», altro, necessariamente, quello che intratterrà
con la «grandezza» che, sebbene stia fra le cose e del loro
ambito sia andata a far parte, è tuttavia ancora definita come 'tÒ
µÉycx, come l'idea della grandezza. Se nel primo caso, e quali
che siano le difficoltà, le inconseguenze, le complicazioni
strutturali, che questo tipo di rapporto fa insorgere, la predica-
zione che le cose fanno dell'idea è, in sostanza, fondata sulla
«differenza» intercorrente fra questa e quelle: sulla differenza,
se si preferisce, che sussiste e si mantiene fra il soggetto e il
predicato, e che il µE'tÉXEtV riassume e simboleggia, - nel r~-

Mauritius_in_libris 115
condo non potrà invece essere che di un altro tipo. Palesemen-
te, infatti, 'tÒ µÉya è un 'idea; e, sebbene faccia parte dell 'am-
bito in cui 'tclÀ.À.a 'tà µqciÀ.a sono incluse, non è una cosa: con
la conseguenza che identica, e soltanto identica, alla sua natura
specifica sarà la natura dell'ulteriore «grandezza» che, non per
altro che per questo «aggettivo», verbalmente introdotto, potrà
distinguersene. Se è così, non si richiede allora particolare
sottigliezza per comprendere che la predicazione non potrà
essere, in questo caso, se non un'autopredicazione, intesa tut-
tavia, a sua volta, nella forma estrema e rigorosa della perfetta
identità del soggetto e del predicato, - ossia, in modo tale che
ogni distinzione ne sia tenuta lontana, e, con la distinzione,
ogni autentica discorsività predicativa sia sacrificata al rigore
della identità che, in sé stessa, e senza alcun bisogno di uscire
da sé stessa, l'idea realizza 123 • Ma, se è così, allora è evidente
che mediante questa argomentazione viene in sostanza a dirsi
che, poiché l'idea non può mai essere altra da sé, e pèr essa,
che non ha tempo ed estensione, non si dà un tempo e un'esten-
sione lungo i quali le sia concesso di presentarsi e ripresentar-
si, sdoppiarsi e riappropriarsi della sua identità, così appunto è
impossibile che l'idea si presenti e si ripresenti, si sdoppi e si
riappropri della sua identità, - entrando nella serie del «que-
sto» e dell '«altro». Che è poi quel che, interpretando il senso
profondo di questa situazione, l'argomento del «terzo uomo»
cerca di mettere in chiaro, e di criticare, là dove osserva che, in
questo quadro, lo sdoppiamento delle idee è inevitabile, e,
poiché è contraddittorio, impossibile. È inevitabile perché, se
si fa che l'idea in ragione della quale le cose sono «grandi» e
con questo carattere appaiono a chi le contempli, entri nel
campo ontologico in cui queste sono incluse e se ne lasci,
anch'essa, includere, necessariamente allora dovrà ammettersi
che essa venga a trovarsi dinanzi ad un 'idea «altra e identica»,
«identica e altra»; e questo, appunto, è contraddittorio, - con-
traddittorio e, dunque, impossibile, perché, per definizione,
l'idea è identica e, in quanto tale, ogni traccia di alterità non
può che essere esclusa dal suo orizzonte ontologico. Alla con-
traddittorietà che si rivela intrinseca all'assunto che l'idea, alla
quale ogni divenire è estraneo, entri nel divenire e, rimanendo
ciò non ostante un 'idea, si «faccia cosa», si aggiunge così

116 Mauritius_in_libris
quella che potrebbe esser definita dell '«identico e altro», del-
1'«altro e identico»: la contraddittorietà, si vuol dire, che emerge
dal concetto secondo cui, alla radice dell'identico, un «altro»
identico (che sia «identico», ma anche «altro», che sia «altro»,
ma assurdamente, anche «identico») può insorgere, e cosl via,
all 'infinito 12A.
Sono queste le aporie che, interpretato a sua volta nel suo
motivo di verità, e al di là quindi delle imperfezioni che possa-
no, eventualmente, rilevarsi in questa sua prima formulazione,
l'argomento del «terzo uomo» scopre nella dottrina delle «idee»
e del loro «esser separate». E l'unica avvertenza, unica ma
fondamentale, che al riguardo sia richiesta, è che se, come
talvolta accade, si fa che l'argomento consideri anomalo, non
tanto lo sdoppiamento regressivo dell'idea, quanto piuttosto la
sua conseguenza, e cioè la non fermezza del fondamento (che,
preso in quel regresso, non è un fondamento), allora si dà
luogo ad un'anomalia altrettanto grave di quella che s'intende
porre in luce e, appunto, confutare: ad un'anomalia, e non ad
un argomento confutativo. Posta l'identità dell'idea, a risulta-
re, e ad essere, inammissibile è infatti (e qui sta il fulcro
dell'argomento) proprio il suo sdoppiamento regressivo (nel
quale in effetti non altro si esprime se non la pretesa, autocon-
traddittoria, che all'identità un' «altra» identità possa accom-
pagnarsi, al «sé stesso» dell 'él&K un identico, e tuttavia «al-
tro», sé stesso); e lungi dal poter essere materializzato in una
qualsiasi sequenza fenomenologica e temporale, il cosl detto
«regresso» all'infinito non è se non il simbolo di questa impos-
sibilità logica, - della contraddizione per la quale l'identico si
sdoppia nell'identico, o, se si preferisce, è identico e, tuttavia,
assurdamente si sdoppia 125 •
Il punto delicato è qui. L'argomento detto del «terzo uo-
mo» rivela la sua efficacia in ciò che, evocando lo spettro della
molteplicità, o della moltiplicazione, dell'idea conseguente al
suo sdoppiamento, nonché dello sdoppiamento conseguente al
suo moltiplicarsi, e facendo dell'uno e dell'altro il risultato
tanto della «separazione» che le idee intrattengono nei con-
fronti delle cose, quanto del tentativo messo in atto per supe-
rarla, di entrambi questi procedimenti dichiara l'impossibilità
logica: ossia, la contraddittorietà. Quel che in altri termini esso

Mauritius_in_libris 117
pone in luce come «contraddizione» e «impossibilità» è che,
assunta a criterio di interpretazione e di riconoscimento del
carattere intrinseco alle cose, l'idea si sdoppi, decada nella
cosa e, in questo atto stesso, risorga come idea; e ad essere
contraddittorio, impossibile e assurdo è perciò, come si vede,
lo sdoppiamento, - lo sdoppiamento in quanto tale, e non il suo
riprodursi, dopo essersi una prima volta prodotto, all'infinito.
Il «regresso» (o progresso) ek <Ì7tetpov può infatti essere
bensì visto come il simbolo della contraddittorietà intrinseca
all'assunto che, identica com 'è a sé stessa, l'idea possa farsi
«altra» da sé, - passare nella cosa e riemergere come idea. Ma
la contraddittorietà sta, appunto, nello sdoppiamento; e non
nel suo doversi ripetere (che, in quanto tale, sarebbe conse-
guenza di ciò che non è ammissibile, e cioè che il «primo»
sdoppiamento si produca).
(2) Si assuma ora l'altra ipotesi: che, divenuta «cosa»
mercé il suo stesso includersi nell'ambito degli oggetti che,
con il suo criterio, sono stati «riconosciuti» come «grandi», -
non come idea, ma, appunto, come «cosa grande» l'idea stia
dinanzi all'idea che ora sorge all'orizzonte: questo sorgere
essendo in sostanza interpretabile come la conseguenza del
suo essere «divenuta» cosa. E si consideri, innanzi tutto, que-
sto concetto del «divenir cosa»: ci si soffermi su questo «dive-
nire», che della situazione che stiamo studiando costituisce il
nucleo, - il nucleo problematico, e deve tuttavia essere presup-
posto come se si trattasse di un ovvio, pacifico e niente affatto
problematico concetto; ché, in caso contrario, la tesi stessa
dell'essere, o del divenire, «cosa» dell'idea non sarebbe for-
mulabile. Che, in effetti, questo concetto del «divenire» sia
richiesto dal modo concreto in cui la questione si presenta, è
ovvio. All'inizio, quando era assunta come il criterio in ragio-
ne del quale le «cose grandi» sono riconoscibili per tali, l'idea
infatti era l'idea, non la cosa: il suo essere idea, e non cosa,
essendo richiesto dall'istanza razionalistica intrinseca alla
dottrina, e cioè dall 'irrinunziabile tesi secondo cui, senza il
riferimento ad un ordine in sé stesso saldo, intransitivo e im-
mutabile, la fluidità e transitività degli enti mondani sarebbe
stata travolta nel suo stesso gorgo e per sempre, di conseguen-
za, si sarebbe sottratta al tentativo che si fosse compiuto di

118 Mauritius_in_libris
decifrarla e comprenderla in termini di ragione. Se quindi si fa
che l'idea sia niente di più che una cosa quando, in virtù del
suo stesso costituire la ratio essendi et cognoscendi della
«grandezza», ad esempio, delle cose grandi, entra a far parte
del loro ordine specifico, il ricorso al concetto del divenire si
rende indispensabile. E, nel rendersi tale, sottolinea e pone in
rilievo la contraddittorietà dell'intera situazione. Il divenire (e
non potrebbe essere altrimenti) è qui inteso come il divenire
stesso dell'idea; che diviene infatti e, divenendo, si fa cosa.
Ma per ragioni ovvie, e che non è perciò necessario rendere
esplicite, il divenire non può appartenere all'idea, il cui carat-
tere è infatti la fermezza, l'intransitività, l'eternità. Appartie-
ne, per definizione, alla cosa: con la conseguenza che, se
diviene, è in quanto cosa, non in quanto idea, che l'idea divie-
ne; e con l'ulteriore conseguenza della contraddizione, della
grave contraddizione, che a questo punto si rivela. Se infatti è
in quanto «cosa» che l'idea diviene, la contraddizione è evi-
dente nello scambio che qui si determina in riferimento al
soggetto del divenire, che è contemporaneamente indicato nel-
1'idea e nella cosa. Ed è altresl evidente nella situazione che, in
termini generali, qui si manifesta. Per diventare cosa, è neces-
sario, come si è visto, che l'idea sia cosa, perché è a questa, e
non a quella, che il divenire, in quanto tale, appartiene. Ma in
questo caso è il divenire a risultare impossibile: la cosa infatti
è, e non diviene, cosa (e se diviene, è in quanto cosa che
diviene: il che esclude l'inversa possibilità che, divenendo,
divenga cosa). Perché il divenire fosse messo fuori questione,
occorrerebbe che a divenir cosa fosse ciò che non è cosa; e
dunque l'idea; alla quale per altro di «divenire» è rigorosa-
mente vietato. Nel primo caso, per conseguenza (e dato che
fosse altrimenti possibile), il divenire è inutile; nel secondo, è
impossibile.
È questa dunque la ragione essenziale per la quale è im-
possibile che, al pari del resto di ogni altra «idea» (che sul
serio sia, e sia presa come, tale), la «grandezza in sé» divenga
una cosa (grande), - e come «cosa grande» stia fra le altre cose
grandi. Con che diritto, in effetti, pronunzieremmo un giudizio
dal quale si ricavasse che l'idea, ossia «ciò che è immortale e
non passa», si fa ed «è» cosa, ossia «ciò che muore, passa»,

Mauritius_in_libris 119
esce dal circolo luminoso dell'esistenza e, come immaginosa-
mente si suol dire, entra, per non uscirne più, nelle compatte
tenebre del nulla? Se è cosl, la seconda ipotesi si svela come
una pura contraddizione. Ed è questo, in sostanza che, nella
sua modalità specifica, l'argomento del «terzo uomo» pone in
rilievo: questo, ossia l'impossibilità che, rimanendo per un
altro verso idea, questa si faccia e sia una cosa.

23. «Terzo uomo», autopredicazione, predicazione

Via via che l'analisi ha proceduto verso il loro centro,


sempre di più le due ipotesi hanno rivelato quel che le accomu-
na; e non avevamo dunque torto a chiederci, nell'iniziarla, se
sul serio fossero due. Distinte per comodità espositiva e per
ragioni di chiarezza, nella realtà del concetto che le sottende
queste due ipotesi infatti non si distinguono, ma piuttosto si
unificano: la seconda essendo al più un modo abbreviato e più
veloce di esprimere il senso e la direzione della prima. E
poiché il punto è pacifico e non richiede ulteriore dimostrazio-
ne, si aggiunga allora che, ricostruito così, l'argomento del
«terzo uomo» dimostra che la contraddizione insorge quando e
in quanto dell'idea si pretenda che, oltre che di sé stessa, possa
essere predicata delle cose (e costituisca il criterio del loro
riconoscimento). Più specificamente, e con maggiore esattez-
za, l'argomento del «terzo uomo» dimostra che sia nel caso
che, come unica forma possibile, all'idea si assegni l 'autopre-
dicazione, sia nell'altro, che viceversa si ritenga di poterla
predicare delle cose, - il risultato è la contraddittorietà dell 'as-
sunto: e cioè che di essa possa farsi il criterio per l'interpreta-
zione e il riconoscimento della realtà empirica. Che l'assunto
sia contraddittorio nel primo caso è tanto più evidente quanto
meglio si consideri che autopredicazione autentica si ha quan-
do si intende che la proposizione «la grandezza è grande»
significhi, non che la grandezza è una «cosa grande», ma che
la grandezza è la grandezza 126 • È indiscutibile infatti che, se
questo è il senso dell 'autopredicazione e che soltanto di questo
tipo è la predicazione che alla cj>ucru; dell'idea si rivela confa-
cente, allora è contraddittorio asserire che l'idea può essere

120 Mauritius_in_libris
predicata delle cose: l'identità non può essere infatti predicata
della molteplicità, né questa può essere predicata di quella.
Che lo sia nel secondo, è del pari evidente. Se, predicandosi
del molteplice, l'idea entra nel molteplice, allora è molteplice;
se è molteplice, non è idea, perché l'idea è identità e non
molteplicità. E perciò è contraddittorio assumere che, predi-
candosi del molteplice, l'idea entri nel molteplice; senza dire
che se, autocontraddittoriamente, entrasse nel molteplice e
fosse perciò molteplice, non sarebbe più idea. Ma se fosse
molteplice, e non idea, come potrebbe dirsi che l'idea costitui-
sce il criterio in ragione del quale il molteplice è riconosciuto
nei caratteri che le corrispondono?
La questione della predicazione e dell 'autopredicazione
richiede senza dubbio altri svolgimenti e molte, ulteriori preci-
sazioni. Ma, per quanto concerne largomento del «terzo uo-
mo», il punto essenziale è stato forse toccato: l'assunto che le
idee costituiscano altrettanti criteri d'interpretazione della realtà
empirica è contraddittorio in relazione tanto all 'autopredica-
zione quanto alla predicazione.

24. Ancora sulla prima formulazione: 132 A 9-10

Sulla prima articolazione argomentativa e confutativa del


«terzo uomo» l'essenziale, per quel che sta in noi, è stato
detto; e non resterebbe perciò che procedere all'analisi della
seconda se non vi si desse ancora un «passaggio» al quale
conviene forse prestare attenzione e conferire rilievo. A 132 A
10-11 UÀ.À.O apa étooc; µeyÉ0ouc; cXVCXc!>CXV'T\O'E'tat, 1tCXp' mho
'tE 'tÒ µéyeeoc; yeyovòc; 1mì. 'tÒ. µe'téxov'ta aùwu, con estrema
chiarezza Parmenide osserva che una nuova, o un'altra, idea
della grandezza si paleserà al di là della precedente e delle
cose che ne partecipano ('tÒ. µe'tÉXOV'ta aùwu) e per questo,
può aggiungersi, sono grandi. Ebbene, se è cosl, cercando di
interpretare il senso di queste linee e, in particolare, dell 'e-
spressione 'tÒ. µe'tÉXOV'ta aùwu, dovrà dirsi che, con e nel suo
insorgere, la nuova idea troverà dinanzi a sé, non solo la
precedente idea (della grandezza) e 'tÒ. µe'tÉXOV'ta aùwu, le
cose che ne partecipano, ma altresl il nesso che, comunque lo

Mauritius_in_libris 121
s1 mterpreti, ne consegue. In altre parole: l'idea e le cose
stanno bensl dinanzi alla nuova idea che, con il suo stesso
insorgere, le include in un orizzonte: l'orizzonte, in questo
caso, che la grandezza delle cose grandi costituisce. Vi stanno,
per altro, non come disparate e irrelate; ma come strette in quel
particolare rapporto che ha nome µéeeçv;. Se è cosl, qui forse
può cogliersi l'estrema radice della difficoltà che, prospettata
e pensata con il criterio della «partecipazione», la dottrina
delle idee rivela: - una difficoltà che, per altra via, già ci è
nota. Poiché «partecipare di» significa bensl «andare a far
parte», ma, proprio per questo, non significa «identificarsi
con» ciò di cui si va a far parte; poiché, se si vuol dire cosl,
µéee!;tc; non significa la stessa cosa di 'tCXÙ'tO'tT\C:, e non la
implica come sua conseguenza; poiché, inoltre, col suo stesso
attuarsi la «partecipazione» mette in atto una sorta di inevita-
bile «differenza ontologica» dal momento che, di necessità, le
cose grandi sono diverse dalla «grandezza» della quale parte-
cipano (e con la quale, dunque, non si identificano), ne deriva
che quel che la nuova idea viene a trovarsi di fronte è nient'al-
tro che la «differenza» dell'idea dalla cosa: - proprio la situa-
zione, in altri termini, che a Platone era apparsa con il carattere
dell'estrema crudezza dualistica e nella forma, dunque, dell 'ir-
razionalità, che invano egli aveva cercato di dissipare con lo
strumento della µÉ9e!;tc:. Ma, come ormai sappiamo, tale è la
µéeeçv; che, invece di curare la malattia dalla quale l'universo
è afflitto, la riproduce alla radice di sé medesima. Se la razio-
nalità sta nell'idea, e dagli oggetti mondani non può se non
essere «partecipata», - partecipata e non, dunque, adeguata,
non è forse proprio per questo evidente che della razionalità
questi non potrebbero trattenere in sé se non una parte, - una
razionalità dimidiata e deformata? Ma, per la logica intrinseca
alla sua <1>umc;, l'idea è insuscettibile di divisione e di diminu-
zione: non può esser presa in una sua parte, e in un 'altra no,
perché l'idea non ha parti. Il metodo della µÉ9e!;tc; è, per
conseguenza, illegittimo; e, nella sua pretesa (che è, in ultima
analisi, di dividere l 'individibile), contraddittorio.

122 Mauritius_in_libris
25. La seconda formulazione del -rpfroc &v0pW1C<K

E passiamo, finalmente, a considerare la seconda articola-


zione dell'argomento, che, per cosl dire, Parmenide esegue
facendo scendere in campo l'idea della oµotO't'Tlt;, della «si-
miglianza». Per coglierne tutta intera l'estensione logica, con-
viene risalire al luogo in cui, in un rinnovato tentativo di
sottrarre la dottrina delle idee alla critica, fin n dimostratasi
stringente e implacabile, di Parmenide, Socrate dice che in
realtà le idee esistono come «modelli nell'anima» (mxpa-
od:yµma év 't1] 'l'UXi}), e che 't<Ì &Ua, le altre cose, hanno
con queste rassomiglianza e ne sono come le immagini e le
copie: talché, aggiunge, la µÉ0el;tt; che queste fanno delle idee
altro non è, e non produce, se non rassomiglianza delle prime
alle seconde. A questo argomento che, nelle intenzioni di colui
che lo propone, dovrebbe costituire la ragione in virtù della
quale la dottrina delle idee può essere sottratta alla critica a
cui, l'una dopo l'altra, tutte le sue precedenti formulazioni
erano state sottoposte, Parmenide ne contrappone uno che, di
nuovo, viene ad assumere la forma del «terzo uomo». Ebbene,
nell'accingersi a riferirlo con le parole stesse che ricorrono nel
dialogo, si consideri per altro che anche in questo caso la
correlativa questione sarà posta nel più largo contesto che mai,
nello svolgerla, Platone perse di vista, e non senza altresl aver
l'occhio alle ragioni per le quali, dopo aver argomentato con
l'idea della grandezza, è a questa della oµoté>'tTJt;, - a questa,
e non ad un'altra, che egli fa qui riferimento.
La scelta non è infatti casuale. Se l'idea della grandezza
poteva ben essere sostituita, nella prima formulazione dell'ar-
gomento, da un'altra qualsiasi, - bellezza, giustizia, bontà,
quella della oµoto'tTJt; è legata ad una precisa ragione struttu-
rale, che deve altresl sapersi cogliere alla radice della scelta
che ne è stata fatta. Essa simboleggia, in effetti, la differenza
che, costituendo la premessa e poi anche la conseguenza della
µÉ0el;tt;, fa sl che fra le idee e le cose non si dia relazione che,
come qui Socrate propone, non si risolva nella «simiglianza».
Se, poniamo, la grandezza della cosa non realizza tutta intera
l'idea in sé della grandezza, non dovrà dunque dirsi che le è
«simile», e non identica? In questo senso, e lo vedremo via via

Mauritius_in_libris 123
sempre meglio, l'idea della oµotO'tll< sembra costituire qual-
cosa come l'autocritica della pretesa che, nel suo esercizio, la
µÉ0E!;t< sembra voler tradurre in realtà: dal momento che,
come l'intento suo è la realizzazione del rapporto, il fatto che
essa svela è invece che, fondato sulla simiglianza (o risolto
nella forma della simiglianza), il rapporto non è un autentico
rapporto perché, alla radice di sé stesso, suppone e mantiene
una differenza irrisolta, e, con questa, l'impossibilità di realiz-
zare fino in fondo la sua natura.
Come che sia di ciò, converrà intanto, anche in questo
caso, offrire il documento testuale della confutazione che sotto
questo riguardo Parmenide svolge della dottrina delle idee. A
Socrate che, a 132 C 12-D 6, aveva proposto il suo argomento,
egli replica infatti domandando: 132 D 5-8 El ouv n [... ] EotlCEV
'tql ElOEl, OtoV 'tE Èlcdvo 'tÒ ElOO<; µ1Ì oµotov El Vcxt 'te\) El1CCX-
cr0ÉV'tl, 1CCX0' OCJOV clU'tql ci<j>roµou:.0011; i\ fon 'tt<; µllXCXVTÌ 'tÒ
oµotov µiì oµotq> oµotov E1vcxt 127 ?; e di qui ricava la prima
conseguenza: 132 D 9-10: 'tÒ oè oµotov 'tql oµotq> àp' ou
µqciì..11 civciy1Cll èvòç wù auwù [Eioooc]1 28 µe'tÉXEtv 129 ?: e
quindi dopo la precisazione, presentata in forma interrogativa:
où o' dv 'tà oµota µE'tÉXOV'tCX oµota i], ÒulC ElCElVO Èa'tcxt
au'tò 'tÒ E1ooc 130 , l'ultima, nella quale l'argomento del «terzo
uomo» si dispiega nella sua interezza: 132 E 6-133 A 3 ouic àpa
oi.ov 'tÉ 'tl 'tql ElOEl oµotov ElVCXl, O'ÒOÈ 'tÒ ELOO<; àA.Aq>· El oè
µ1', 7tapà 'tÒ Elooc cid. <ÌÀÀo civa<1>av1'crE'tcxt dooç, Kal dv
ElCElVO 'tq> oµotov i], E'tEpov aù, lCCXÌ. OUOÉ7tO'tE 7tCXUCJE'tcxt cid.
Kcxt vòv ElOO< ytyvoµevov, Mv 'tÒ ElOO< 'te\> èm.rtoù µE'tÉxovn
oµotov 'Yl'YV'Tl'tcxt 131 •
Questo, dunque, nella sua concretezza testuale, l'argo-
mento del «terzo uomo» assunto nella seconda delle sue due
formulazioni; che è, nell'impianto, sostanzialmente analoga
alla prima, ma è altresì tale che, svolta, come s'è detto, a
partire da un'idea diversa da quella precedentemente utilizza-
ta, finisce col far risaltare, dall 'intemo, e con maggiore effica-
cia, I 'antinomicità che si rivela intrinseca alla categoria della
µÉ0E!;t< non meno che all'idea della oµotO'tll< che dello stru-
mento partecipativo pone in luce l'inefficacia. Per il resto
l'argomento assume qui la caratteristica per la quale, posto che
il simile è simile, e non può non esserlo, al simile, ne consegue

124 Mauritius_in_libris
che deve esserci e darsi un'idea, la oµotontc:. della quale
partecipando, e per ciò che ne partecipano, i simili sono si-
mili 132• Ma, posto che questa idea ci sia, come potrebbe am-
mettersi che, a sua volta, non fosse simile a ciò che le è
simile 133 ? Donde la conseguente necessità dell'insorgere di
un'altra idea (della simiglianza), e del regresso, di idea in idea,
all'infinito: di un regresso, per altro, nel quale, anche qui, che
altro potrebbe vedersi se non il simbolo della impossibilità che
l'idea abbia con ciò che le è simile quel contatto che, se
avvenisse, importerebbe appunto il regresso, e la contraddizio-
ne - l'impossibilità del regresso, e della contraddizione? An-
che qui, in altri termini, a essere dichiarato impossibile (e
contraddittorio) è proprio il regresso; che, in quanto tale, rende
simbolicamente evidente il separarsi da sé, e farsi molteplice,
dell'idea, alla quale, in quanto identica a sé e non molteplice,
questa possibilità è, in senso assoluto, vietata 134• In altri termini,
e ancora una volta: non è il regresso che, realizzandosi, manifesta
e realizza la contraddizione. Regresso e contraddizione sono
infatti lo stesso; e, nel loro essere «impossibili», entrambi non
simboleggiano se non l '«impossibilità», che, concretamente, il
regresso abbia luogo e, in forma contraddittoria, l'idea vi si
renda molteplice.
Per questo aspetto, e se perciò si prescinde da quel che, in
questo contesto, l'uso dell'idea della oµotontc: simboleggia,
anche in questa formulazione l'argomento del «terzo uomo» si
presenta con i caratteri che già nella precedente lo definivano.
E quel che infatti vi si nota, e occorre tener fermo, è che, per
entrare in contatto con le cose, l'idea contravviene al suo
carattere essenziale, che è l'identità; e da una parte «si fa»,
ossia diviene, cosa, perde l'identità e, rispetto al suo essere
identica, si fa invece «altra», mentre da un'altra si ricostituisce
come idea, riacquista l'identità perduta, torna ad essere idea,
per poi rientrare fra le cose, e così via all'infinito, perdendo e
riacquistando il suo carattere essenziale, senza che in nessun
modo la prima e quindi la seconda di queste due opposte
«possibilità» siano spiegate e dedotte come, invece che
«impossibili», possibili 135 •
La questione che il concetto della oµot6't11c: pone richiede
tuttavia che, andando per alcuni aspetti oltre la linea letterale

Mauritius_in_libris 125
del testo, nella sua struttura logica si seguiti ad indagare. E
lunga, molto lunga potrebbe, al riguardo, essere la discussio-
ne. Ma innanzi tutto, e sia ben chiaro, non si va affatto oltre la
linea del testo, e piuttosto lo si interpreta nelle sue movenze
essenziali, se ci si chiede che cosa significhi che il simile è
simile al simile, e che, per esser tale, è necessario che partecipi
dell'idea della «simiglianza». Che il simile sia simile al simile
significa, in primo luogo, che appunto è simile, e non identico,
al simile, perché, palesemente, se invece gli fosse identico, e
non simile, addirittura tolta risulterebbe la possibilità che si
argomentasse in termini di rapporto. Che il simile sia simile al
simile non significa, in secondo luogo (e sempre che si riman-
ga su questo piano), se non che i due oggetti che fra loro
intrattengono il rapporto di simiglianza sono innanzi tutto due,
non uno; e perciò diversi. Che il simile sia simile al simile
(simile, non identico), significa infine che non si dà oµoto't'Jl<:
senza É'tepo't'Jl<:, anche se non sia immediatamente pacifico il
darsi del caso inverso, e cioè che non si dà É'tepo't'Jl<: senza che
la oµoton1<: riveli il suo volto.
In questo contesto, tuttavia, Parmenide asserisce che non
c'è simiglianza dei simili senza simiglianza: della quale parte-
cipando i simili sono simili. E la «simiglianza» della quale, per
esser tali, i simili partecipano, è un 'idea che, per sé, non è
simile, ma identica a sé, perché se fosse simile e non identica
sarebbe impossibile che ad essa si facesse riferimento come ad
una unità e a un'idea; la quale, del resto, se fosse simile e non
identica a sé, non potrebbe tuttavia non essere identica, e non
simile, a questo suo essere simile, e non identica, a sé. È
dunque di un 'identità che, per essere simili, i simili partecipa-
no. E a parte la generale difficoltà che anche qui la µÉ0e!;t<:
rivela, e per la quale ciò che per un verso dovrebbe conseguire
alla partecipazione ne costituisce, per un altro, l'atto e il sog-
getto, un 'altra, e specifica, si delinea. Di qui deriva infatti che,
poiché dell'identità partecipano e con essa dunque non s 'iden-
tificano, i simili sono dissimili dalla simiglianza (che infatti è
identità). Ma fra loro come sono: simili o dissimili (dissimili
dalla simiglianza, e perciò identici)? È certo che poiché in
forza del loro partecipare della simiglianza sono dissimili da
questa, in questo stesso atto dovranno essere l'uno all'altro

126 Mauritius_in_libris
identici: dal momento che, identicamente partecipando della
simiglianza, allo stesso modo sono dissimili da lei, e, per
quanto concerne la loro <1>ucrtt:, dissimili entrambi dall'esser
simili, ossia diversi: dissimili dall'esser simili e diversi, e
perciò identici. Ne consegue che, per un verso la partecipazio-
ne della simiglianza (che per sé è non simile a sé, ma identica)
stabilisce, fra el&x- e -rà µe-réxov-rcx mhoù, la differenza ir-
riducibile; e per un altro, invece, l'identità. Ne consegue altre-
sl che, anche per questa via, il logo ci ha ricondotti dinanzi a
due identità che, identicamente altre, non sono altre ma, in
realtà, identiche - a un 'unica identità, e quindi a un mondo o di
idee senza cose, o di cose senza idee. Anche per questa via, si
giunge dunque a ribadire la conclusione che per suo conto, e
con i suoi modi tipici, il -rpl.-roc; &vepc01coc; consegue: - anche
per questa via che, nella sua letterale diversità da quella trac-
ciata dall'argomento, ne ripete tuttavia, e ripropone, lo spirito.

26. Ancora su µéOel;l<: e autopredicazione

A questa medesima conclusione si perviene, e con pari


necessità, se la questione del «terzo uomo» sia di nuovo esami-
nata, anche qui in breve, sotto il profilo sia della predicazione
che l'idea fa delle cose (che ne partecipano), sia dell'autopre-
dicazione, ossia della predicazione che, in sé stessa, fa di sé
stessa. In entrambi i casi, è impossibile sottrarsi alla contrad-
dizione. Sotto il primo profilo, la questione concerne essen-
zialmente il carattere della «cosa partecipata»; che, se è intesa
come una sorta di sintesi, o, forse, meglio, di identità dell 'eter-
no e del transeunte, culminante e specificante sé stessa nell 'as-
serto secondo cui l' «eterno è transeunte», oppure nell'altro,
analogo, in ragione del quale si dice che «l'idea che è passata
nelle cose passa con il passare di queste», è, in sostanza, una
pura contraddizione («ciò che, per sua natura, non passa, pas-
sa»), la semplice semantizzazione di un 'impossibilità. Sotto il
secondo profilo, posto che l'idea sia l'idea e che il suo carat-
tere risieda perciò nel suo «esser sempre», nell'eternità e indi-
visibilità, o come altrimenti piaccia dire, allora è evidente che
l'unica predicazione che questo carattere contempli e consen-

Mauritius_in_libris 127
ta, è l 'au topredicazione, intesa nella forma dell'assoluta
'tO:Ù'tO'tll<. Ma, intesa cosl, l 'autopredicazione significa che lo
sdoppiamento dell'idea è (già lo sappiamo) autocontradditto-
rio, e come tale, impossibile. Soltanto nel caso in cui la propo-
sizione «la bellezza è la bellezza» fosse intesa come «la bellez-
za è (una cosa) bella», lo sdoppiamento predicativo sarebbe
possibile (perché fondato sulla differenza, non sulla pretesa
che, in quanto tale, l'identità possa essere differenza, o compa-
tibile con essa); ma, appunto, anche qui a prezzo di una con-
traddizione, perché, come sappiamo, la «bellezza» che compa-
re nella posizione del «soggetto» è l'idea, che, se è tale, lungi
dal poter entrare nell'ambito molteplice delle cose «belle» e
qui farsi cosa e molteplicità, non coincide invece che con sé
stessa. Ne consegue che, anche in questo caso, la possibilità
dello sdoppiamento predicativo non ha alcuna reale consisten-
za, e, ammessa verbis, dev'essere ritirata. (Che poi nella se-
quenza «la bellezza è la bellezza, e non è una cosa bella», il
«non è» possa celare la «differenza ontologica», è possibile.
Ma è una questione che richiede di essere trattata altrove, non
qui).

27. Un'ultima osservazione sul -rpiw<: &v9pOJ1C<X

Ad un'ultima osservazione, prima di considerare conclusa


l'analisi dedicata ali 'argomento del «terzo uomo», conviene
dare spazio: con rapidità, tuttavia, congiunta a molta cautela,
perché estremamente arduo è proporre argomenti nei quali
siano implicite questioni di cronologia platonica. La lunga
digressione concernente la prima parte del Parmenide ha, co-
me si ricorderà, la sua ragion d'essere in ciò che, avendo in
questo dialogo criticato fino all'ultima conseguenza il concet-
to della µÉ9El;tt;, non solo nel tessere, in alcuni punti, il filo
delle «ipotesi» e delle aporie, Platone tornò a servirsene, ma
nel Sofista, che nella serie cronologica occupa, con ogni pro-
babilità, un luogo successivo, addirittura ne fece uno dei fon-
damenti dell'argomentazione consacrata all'operazione dia-
lettica. Come mai, sembrò legittimo chiedersi, dopo la critica,
il ritorno, senza alcuna giustificazione, alla cosa criticata?

128 Mauritius_in_libris
Ebbene, la questione è, come si è visto, tanto «reale»
quanto, a risolversi, difficile. Ma si dà tuttavia, in questo
medesimo contesto concettuale, e se ne avverte (o è come se se
ne avvertisse) il suono, un altro tema al quale, come si diceva,
conviene dedicare attenzione; e questo è che in ciascuno dei
suoi aspetti la grande impresa che Platone affronta nel Sofista
può forse esser vista come il tentativo volto a dare una risposta
positiva e costruttiva alla critica, culminante nell'argomento
del 'tpt'tOc; avepcmtoc;. che nel dialogo intitolato al suo
nome Parmenide aveva diretta contro la teoria delle idee, il
loro «essere separate» e le conseguenze, infine, che ne deriva-
no. Malgrado l'eterodossia eleatica intrinseca agli argomenti
che Platone gli fa esporre, può infatti ben dirsi (e non è un
paradosso), che, svolgendo la sua critica, Parmenide è come
costretto a prendere atto del punto più acutamente critico della
sua stessa dottrina, che infatti in che altro culmina se non
nell'impossibilità (in ogni senso analoga a quella che si dà a
vedere nella teoria delle idee, da una parte, delle cose sensibili,
da un'altra) che fra il regno dell'aÀ:r\0na e quello della
ool;a. fra l'ordine dell'autentico essere, imperituro e indistrut-
tibile, e quello del nascere e del perire, si indichi il Kotv6v e,
quindi, il passaggio? E questa è bensl, se si vuole (e come qui
si propone), una critica che, mentre la dirige a Platone, Parme-
nide rivolge altresl a sé stesso. Ma è poi anche una critica
rivolta a Platone e alla sostanza (che non a caso è profonda-
mente parmenidea) del suo pensiero: con la conseguenza che
ogni tentativo che egli intendesse compiere, e in realtà compis-
se, di criticare la teoria delle idee necessariamente doveva
coinvolgere il suo fondamento eleatico, ponendosi perciò, sen-
za possibilità di scampo, come un'autocritica 136 •
Se è così, era inevitabile che il tentativo di superamento
esperito nel Sofista dovesse innanzi tutto presupporre alla ra-
dice di sé stesso la caduta, o il tramonto, della separazione
esistente fra le idee e le cose; della situazione concettuale, in
altri termini, che l'argomento del «terzo uomo» aveva tolto ad
oggetto della sua critica. E lo strumento dal quale la caduta fu
provocata ebbe nella teoria dei yévri la sua radice: nella teoria
dei yévri. che degli Ei.011 hanno bensì la necessità, non però
anche l'altro carattere dell'assoluta separabilità e separazione

Mauritius_in_libris 129
dalle cose, perché è appunto la distinzione fra etBri e 1tpciy-
µa'ta che tacitamente in questa rappresentazione dei yÉVTJ è
data ormai per superata, ali 'assoluta separabilità e separazione
contrapponendosi e sostituendosi l'arte dialettica del KOtvrove'i:v,
che tiene (o presume di poter tenere) legati i yévri nella
cruµ1tÀ.OJCTl anche nel caso in cui la connessione (e la possibi-
lità di connettere) coesistano con la non connessione (e l'im-
possibilità di connettere). È una questione complessa, questa;
complessa ed esegeticamente difficile; e richiederebbe forse
una nuova, speciale trattazione, tanto più che, come l'analisi
dedicata al nucleo dialettico del Sofista dimostra, nemmeno per
questa via il tentativo platonico è riuscito a pervenire al suo
scopo. Sarebbe tuttavia difficile lasciarsi sfuggire che in tanto
a Platone il tema della Kotvrovia 'tcilv yevwv s'impose in
quanto, ripensata attraverso l'argomento del 'tpt wç àvepro1toç,
la teoria delle idee gli apparve incapace di dar conto, senza
contraddizione, non solo della possibilità che queste, le idee,
entrassero in contatto con il mondo sensibile, ma altresl del
loro contemporaneo essere identiche a sé e, non di meno,
molteplici. In realtà, nell'atto stesso in cui gli apparivano
come molteplici di numero, essendo tuttavia, ciascuna, un'i-
dentità (come il «santo», ad esempio, di cui nell 'Eutifrone si
dice che sempre è identico a sé stesso in tutte le sue azioni 137 ),
era impossibile che, all'occhio acuto di Platone, le idee non
rendessero palese la questione del loro essere, sul fondamento
dell'identità, molteplici: la questione, in sostanza, che, come si
è detto, egli aveva svolta in forma aporetica mediante l'argo-
mento del «terzo uomo».
Bastava, per questo, che, tenendo ferma l'identità come il
carattere di ciascuna, egli lasciasse scorrere l'occhio lungo la
linea costituita dal (dogmatico) succedersi delle «identità»
che, in tal modo, contraddicevano sé stesse nella molteplicità.
E subito avrebbe compreso quel che in effetti comprese, e cio~
che se all'identità e alla molteplicità si fosse voluto non dover
«dire addio» (in questo atto anche della filosofia dichiarando
l'impossibilità), non c'era altra via ali 'infuori di quella che
conduce a provare «come», invece che in un nesso contraddit-
torio, e autocontraddittorio, gli Èvav'tta della 'tCXÙ'tO'tT)<; e
della bepo'tT)<; potessero tuttavia essere posti in relazione e

130 Mauritius_in_libris
comunicazione. Fu questo, come si sa, il tentativo che, nel
Sofista, Platone esperì. E perché dunque meravigliarsi se in
esso additiamo la risposta che egli provò a dare all'autocritica
della quale l'argomento del «terzo uomo» rappresenta il mo-
mento aporeticamente più intenso? In effetti, non c'è in questa
indicazione niente di cui ci si debba meravigliare: anche se,
come si diceva, sia necessario aggiungere che, nel dare questa
risposta e nel criticare, insieme con Parmenide, anche il suo
precedente sé stesso, Platone non poté non far ricorso allo
strumento della µÉ9rl;tc;, ossia ad un concetto che, sorto nel-
l'ambito della teoria delle idee per consentire che la loro «se-
parazione» fosse in qualche modo «violata» dalle cose che ne
«partecipano», anch'esso era stato colpito dalla critica del
«terzo uomo» e non avrebbe perciò dovuto essere riproposto
come idoneo a risolvere la contraddizione, della quale, in
realtà, era parte.

28. Gli ulteriori argomenti ...

Malgrado la spettacolarità e il virtuosismo confutativo che


lo caratterizzano, l'argomento detto del «terzo uomo» non
costituisce, nella varia critica che Parmenide rivolge alla teo-
ria delle idee e della partecipazione, l'ultima parola. La critica,
infatti, prosegue. Dopo avere egli stesso considerato chiuso il
discorso concernente le idee e il loro «essere separate» dalle
cose che ne partecipano; dopo aver invitato il suo interlocutore
a guardare indietro al cammino percorso e alle difficoltà che,
mentre si svolgeva, via via (e senza che nel contempo si sapes-
se indicare il criterio del superamento) si presentavano allo
sguardo, Parmenide avverte che, in realtà, della più grande e
terribile ancora non si è preso atto. E la indica in ciò che, se le
idee sono tali che, per essere «in sé», necessariamente non
sono, e non possono essere, «in noi» (ché, in questo caso, non
«in sé» sarebbero, ma «in altro»), allora non potrà sfuggirsi
alla conclusione che, fra questi due diversi «in sé» (anche
l '«in noi» è infatti, rispetto all'altro, «in sé»), la frattura e il
divario sono incolmabili; e l'unità dell'universo, da una parte

Mauritius_in_libris 131
l '«in sé», da un 'altra (senza possibilità di comunicazione)
I' «in noi», giace in pezzi.
Ebbene, forse che questa non è una considerazione interes-
sante e, nella strategia complessiva degli argomenti, d'impor-
tanza addirittura essenziale? Tanto, in realtà, lo è che, nel
formularla, l'intento di Platone fu di conferire alla critica e
all'autocritica delle idee la maggior forza. Di qui, infatti, fino
alla fine del «proemio», il crescendo degli argomenti rivolti
contro la dottrina delle idee, e della loro «separazione» dalle
cose, è sul serio impressionante. Coinvolge in sé la scienza, la
verità, Dio, il destino stesso degli uomini. Poiché, d'altra par-
te, non riguarda in modo specifico il centro della questione,
che già è stato raggiunto, e, piuttosto, la svolge e la specifica
nei suoi, pur importanti, corollari, ci si consenta allora di non
seguirla, questa critica, punto per punto; e di darla per nota.
Non può invece non rilevarsi che il momento della più alta
drammaticità questa indagine platonica lo consegue là dove,
invertendo il senso della critica e proponendo una sorta di
apologia negativa della cosa criticata, Parmenide osserva che
se, senza alcuna possibilità di alternativa, alla prima si dovesse
consentire fino in fondo, e da essa fossimo perciò costretti a
dire che le idee non esistono e, meno che mai, si dà, per
ciascuno degli enti, un'idea che determinatamente gli corri-
sponda, allora, certo, la disperazione sarebbe completa, non
sapremmo più dove rivolgere il pensiero e infranta per sempre
giacerebbe la wu 8taÀ.Éyecr0m 8uvaµtc;, l'energia o la forza
della dialettica. Ti oùv 1tOtil eme; <)>tÀ.ocro<)>iac; 1tÉpt; ml -rpÉ'lfll
ò:yvoouµÉvmv wu-rmv 138 ? E, come ciascuno intende, la do-
manda è altamente drammatica: certo non è formulata per
gioco. A esserne coinvolti sono la sorte stessa della filosofia,
e il destino di chi pensa. Se è un gioco, è perciò un ben
drammatico gioco quello che si è svolto fin qui; un gioco
drammatico è quello che sta per avere inizio. L'esercitazione
dialettica nella quale, a partire da questo punto, il dialogo si
risolve, può essere, a ragione, considerata enigmatica nella sua
quasi ostentata incapacità conclusiva, non scevra, forse, di
ironia. È certo, per altro, che ad essa sono consapevolmente
affidate, e da Parmenide e da Socrate, in questo concordi, le
sorti stesse della filosofia.

132 Mauritius_in_libris
29 .... e il loro svolgimento

L'argomento detto del «terzo uomo» è da Socrate conside-


rato forte abbastanza da indurlo ad abbandonare il suo logo e
a proporne uno nuovo che, d'altra parte, e lo abbiamo notato,
implacabile Parmenide criticherà. La prima formulazione del-
1'argomento detto del «terzo uomo», e cioè la (presunta) dimo-
strazione dell'idea data e concepita come «una» gli ha in
effetti prodotto dentro una tale impressione che, quasi rico-
minciando da capo, egli ora propone di considerare le idee
come tali che ciascuna sia un v6TJµCX, un pensiero, Kcxl
oùOcxµou cxù-rci) 1tpocr1'K1J èyy{yvecrem &U..oet lì èv 'l'uxcxk:
di natura siffatta, dunque, che non possa esser nata altrove che
nelle anime 139 • Gli sembrava che, in tal modo, al precedente
rilievo parmenideo potesse sfuggirsi. Ma, ancora una volta, si
ingannava e s'illudeva. La risposta che il suo interlocutore a
questo punto offre è velocissima; e nell'estrema concentrazio-
ne in cui, J;_>er così dire, si raccoglie, non facile ad essere
ricostruita. E presentata, tuttavia, come irreversibile. Alla tesi
socratica, che ciascuna di queste idee non è che un v6TJµcx,
nato e quindi incluso nell'anima, Parmenide ribatte che, se
fosse così, il pensiero sarebbe v6TJµcx où0ev6c; 140 , «pensiero di
nulla». E poiché il suo interlocutore ammette che questo non
può essere, ed è assurdo, subito lo invita a considerare che di
necessità, se non è pensiero di nulla, il pensiero è pensiero di
qualcosa, e di esistente, per giunta, non di inesistente: di un
oggetto, in altri termini, che, alla maniera di un'idea, esso, il
pensiero, concepisce come presente in tutto 141 • Ma, poste le
cose secondo questa specifica modalità concettuale, Parmeni-
de (che così, appunto, ha contribuito a porle) è pronto a far
scattare la critica; la quale consiste nel rilievo secondo cui,
poiché ogni cosa viene definita come tale che partecipa 'tcOV
elowv, allora deve anche ammettersi come necessario ÈlC
VOTJµc:i'trov eKcxcrwv etvm Kcxl 1tclV'tCX voetv, oppure vo1'µmcx
òv-rcx àvOTJ'tCX e1vcxt 142 , - o che ciascuna cosa sia retta dal
pensiero e tutto pensi, o che tutto sia pensiero, ma senza
pensare (àvOTJ'tCX). El 'osservazione, dalla quale subito Socra-
te si dichiara persuaso ad abbandonare anche questa sua tesi, e
a proporne un'altra, è bensì, come si diceva, presentata come

Mauritius_in_libris 133
irresistibile. Ma è in realtà cosl fulminea da riuscire oscura.
Essa perciò richiede qualche spiegazione. Il significato del
passo è forse che, ammessa la teoria del µE'tÉXEtV 'trov loerov,
si danno due prospettive; ed entrambe assurde.
Contrariamente a quel che alcuni studiosi (e, fra questi, il
Comford 143 ) pensano, se si assume la prima posizione, -quel-
la, si vuol dire, del miV'ta vodv, si delinea bensl una tesi assai
simile a quella attestata dal poema di Parmenide: 'tÒ yàp aÙ'tÒ
vodv È:cl'ti v 'tE 1ml El vm 144 ; e in tanto ciò avviene in quanto, a
sua volta, la dottrina della partecipazione è intesa nel senso di
una sostanziale coincidenza, e potrebbe dirsi identità, fra il
partecipante e ciò di cui questo partecipa e che, per intero,
passa a costituire la sua <1>ucrtc;. Ma, se è cosl, la conseguenza
inevitabile è che tutto allora è pensiero; nient'altro che un'uni-
ca, e unitaria, idea pensante, l'essere. E questa è una conse-
guenza assurda: la cui assurdità tanto più risulta in quanto si
consideri che, in luogo di assegnargli il pensiero da lui real-
mente pensato, a Parmenide, non senza malizia, Platone attri-
buisce la qualsiasi oo!;a dei mortali, per i quali, che il pensiero
non sia l'essere, e questo non sia il pensiero, è cosa di imme-
diata e pacifica evidenza. Se, viceversa (e anche qui a molti
studiosi, fra i quali il Taylor 145 , sembra si debba dar torto), si
assume che, con la medesima certezza onde l'essere non è il
pensiero, questo non è l'essere, la conseguenza è altresl para-
dossale: dal momento che, partecipe del pensiero, e per intero
compenetrato da esso, l'essere verrebbe ad essere un voT1µa
<ÌVOT\'tOV, un pensiero senza pensiero, un pensiero che, essen-
do tale, tuttavia non pensa: ossia una palese, e anche clamoro-
sa, assurdità. E, come si vede, intesa cosl, liberata (se nell 'in-
tento siamo riusciti) dalle opposte unilateralità del Comford e
del Taylor, la battuta di Parmenide rivela, non solo il suo senso
specifico, ma anche l'estrema e maliziosa sottigliezza con la
quale è costruita. Valeva la pena di insistervi, cercando di
ricostruirne il significato: anche se, quando la si consideri
nella concretezza della sequenza argomentativa del dialogo, la
sua importanza si riveli, e sia, secondaria, e, per l'interpreta-
zione della teoria della µéee!;tc;, non più che marginale 146 •

134 Mauritius_in_libris
VII

30. Riprende lanalisi del «Sofista»: ancora sulla µéoe;iç

Ma ora, dopo questa non breve, e pure non evitabile, di-


gressione, si tomi all'altro dialogo, al Sofista; nel quale, come
si è detto, e proprio nel punto cruciale in cui sta per dare inizio
ali' esposizione della dottrina dialettica della cruµ1tÀ.ox:'f1,
quella della partecipazione viene proposta, o riproposta, come
se di questa, e della sua struttura logica, il Parmenide non
avesse offerto la critica e il relativo tema non fosse più presen-
te, nel suo significato, alla mente di Platone. È questo, com'è
evidente, un luogo critico ed esegetico di particolare delicatez-
za; e poiché, in mancanza di incontrovertibili certezze cro-
nologiche147, risolverlo in modo soddisfacente sembra, ed è,
impossibile, cosl sarà bene che alle congetture si ponga un
freno, ed anche ci si astenga dal far ricorso al concetto dello
«sperimentalismo» concettuale del tardo Platone: un concetto
che dà in effetti un suono alquanto vacuo. In mancanza di dati
cronologicamente incontrovertibili, conviene piuttosto ricor-
dare che alla dottrina della partecipazione, quale il Sofista la
ripresenta, era stato, fra le altre cose, osservato che nella sua
formulazione platonica non appare in grado di vincere l'ambi-
guità intrinseca alla situazione per la quale, da una parte non si
riesce a capire se il «moto» e la «quiete» siano perché parteci-
pano dcll 'essere, o se partecipino dell'essere perché, innanzi
tutto, sono 148 , e, da un'altra, ancor meno, si riesce a dominare
il complesso itinerario aporetico che da quell'impostazione si
svolge: la parte, il tutto, la differenza, l'identità e tutto ciò che,
in ordine a questi concetti, l'analisi tenta di mettere in chiaro.
A queste osservazioni deve tenersi fermo. Ma se, con l'oc-
chio rivolto al «proemio» del Parmenide, volessimo servirci
della critica che qui si fornisce della teoria della partecipazio-
ne, non sarebbe difficile argomentare in questa forma. Posto

Mauritius_in_libris 135
che, come che sia del «modo», moto e quiete partecipano
dell'essere, e posto altresì che, al pari dell'essere, sono YÉVll,
e non semplicemente «cose», oggetti, c'è qualche ragione per
assumere che solo per questo, - per il fatto di questa differen-
za, la dottrina della partecipazione presentata nel Sofista sfugge
alle critiche formulate nel «proemio» del Parmenide? Oppure
deve dirsi che, sarà bene che, come YÉVll, moto e quiete non
sono oggetti, ma che come tali tuttavia si comportano, e debbono
comportarsi, nel quadro di un'assunzione concettuale il cui
criterio sia costituito, appunto, dalla teoria della partecipazio-
ne? Che in questi, e non in quei, termini, la questione stia,
sembra in effetti pacifico. Sia pure un problema, infatti, e non
una certezza, che ali' essere debba riconoscersi il carattere del
«genere sommo», e soltanto «generi», non «generi sommi»,
siano per contro i YÉVTl, il moto e la quiete, che, senza esserne
partecipati, ne partecipano. Ma se si fa che dell'essere il moto
e la quiete partecipino, allora è evidente che, in questo atto, a
ciò di cui partecipano essi stanno, e necessariamente debbono
stare, nella stessa proporzione in cui, rispetto ali 'idea, stanno
gli oggetti: a quel modo stesso, deve dirsi, che se dal dialogo
platonico risultasse che (e come che sia delle altre complica-
zioni intrinseche a questa ipotesi) anche l'essere partecipa del
moto e della quiete, a questi allora, e non a quello, apparterreb-
be, in questo atto, il carattere del «genere sommo». Se per altro
è così, e pur semplificando qui ed ora la trama delle difficoltà,
la conseguenza è che la critica rivolta, nel «proemio» del
Parmenide, alla teoria della partecipazione, anche a questa
situazione concettuale può essere, e con pieno diritto, riferita.
Che sia così è, dunque, evidente. Ma, quale che ne sia il
motivo, a queste complicazioni, nel Sofista Platone non bada:
il che gli consente di svolgere una ricerca, e di innalzare una
costruzione, alle quali addirittura non avrebbe potuto metter
mano se, a quei temi, fino in fondo avesse prestato ascolto. È
una circostanza singolare, questa, alla quale, al di là del gioco
(forse vano) delle precedenze, non sarebbe dopo tutto stato
male se si fosse concessa maggiore attenzione concettuale. È
infatti alla radice stessa dell'operazione dialettica, ossia nel
criterio che la costituisce e la rende possibile; - è dunque nella
µÉ0e!;tc; e nella teoria che Platone ne delinea, che si annidano

136 Mauritius_in_libris
le difficoltà: quelle, si vuol dire, dalle quali, invece che «pos-
sibile», essa è resa incerta, precaria, anzi schiettamente impos-
sibile.

31. L'uso della µéoe;K

Come mai, dunque, dopo aver criticato nel «proemio» del


Parmenide e la teoria delle idee e lo schema formale della
«mecessi», - come mai, dopo esser giunto a dire che µ1'te
Kcxtà µÉprt µ1'te Kcxtà oÀcx le cose possono trov dorov
µetcxÀcxµ~civetv 149 , e, con l'argomento detto del «terzo uo-
mo», aver fornito di questo insieme di dottrine una critica
giudicata irresistibile, - come mai, si ripete, se non formal-
mente la prima, nel Sofista Platone torna a presentare il se-
condo150; e cioè lo schema partecipativo, del quale anzi, come
se niente fosse, a tal punto si avvale da farne il centro ideale
della pars construens, e risolutiva, del dialogo? Rispondere a
questa domanda è, come si è detto, difficile; e tanto più lo è in
quanto si consideri che, anche nel Parmenide, dopo averlo
criticato nel «proemio», dello schema formale della «metessi»
il protagonista del dialogo si serve per tessere il lungo filo
aporetico delle ipotesi. Se ne serve, si vuol dire, non già per-
ché, tenuta ferma la sua aporeticità abbia a giudicarsi che, in
tanto le «ipotesi» rivelano il loro volto aporetico, in quanto,
appunto, proprio dall 'aporeticità dello schema procedono e di
questa sono conseguenza. Se ne serve, al contrario, perché,
nella concretezza del ragionamento volto a far emergere l 'apo-
ria intrinseca alle ipotesi, lo schema partecipativo si rivela
come lo strumento, in sé (si presume) niente affatto aporetico,
mediante il quale lo svelamento dell'aporia consegue il suo
proprio traguardo.
Si dirà che questa non è una risposta. Sia pure: non è una
risposta. Non attinge il fondo della questione. Produce «incon-
venienti» e, non adducendo ragioni, non risolve l'argomento.
Ma, senza nulla concedere a schemi interpretativi di gusto
catastrofico, e, certo, non indulgendo noi, per abito mentale, a
quella che potrebbe dirsi la «maniera» di Henry Jackson 151 , è
tuttavia difficile non convenire sul punto che qui è stato messo

Mauritius_in_libris 137
in rilievo; e cioè che alcuni degli argomenti addotti contro la
teoria delle idee e lo schema della «metessi» sono tali da non
consentire che all'una e ali' altro si tomi come se la potenzia-
lità critica e distruttiva che li caratterizza non si fosse per
intero esplicata nella sua irresistibilità. Potrà dirsi, senza dub-
bio, che, come il passaggio dal «proemio» alla seconda parte
del dialogo dimostra, di ciò che, e con tale energia, aveva
criticato, Platone non poteva fare a meno. Rimane che, in
alcuni suoi aspetti, la critica si rivela assai più forte della cosa
criticata; che a nessun titolo, dunque, se si rimanesse sul terre-
no della filosofia, potrebbe pretendere ad una difesa e ad una
rivalutazione, concettualmente intonate. E questa è una con-
clusione obiettiva, ricavata, si vuol dire, dall'analisi del con-
cetto, non dalla divinazione degli intenti: una conclusione
obiettiva, dunque, e che tanto più richiede di essere sottoli-
neata e tenuta ferma, in quanto, consapevole della gravità delle
critiche mosse da Parmenide alla dottrina delle idee e della
partecipazione, Platone si mostrava tuttavia convinto che ri-
presentarla, e servirsene, fosse, per chi avesse a cuore la filo-
sofia e la forza del suo logo, indispensabile 152•

32. La formulazione del tema dialettico

E veniamo, finalmente, ali 'operazione dialettica, o, se si


preferisce, alle condizioni che la rendono (o dovrebbero ren-
derla) possibile; e che, come sappiamo, nell'opinione del Fo-
restiero d 'Elea consistono nell'avvertimento che, rispetto alle
due ipotesi opposte dell'assoluta incomunicabilità e, per con-
verso, dell'assoluta comunicabilità, e varia componibilità, del-
le cose, la più assurda è la prima, - ossia quella di coloro che
in nessun modo consentono che una cosa partecipi, e possa
partecipare, della condizione di un 'altra. Nel mettere in atto
questa esclusione, i pensatori che ne proclamano la necessità
non s'avvedono infatti che, in tanto «esclusioni», separazioni
e consimili esercizi logico-concettuali sono possibili, in quan-
to, nel discorso in cui occorrono, ci si serva di espressioni di
opposto significato, e non di esclusioni e separazioni si faccia
uso, ma di «inclusioni» e «connessioni» 153 • Accade cosl che,

138 Mauritius_in_libris
nel comportamento che mettono in atto, simili in questo al
ventriloquo Èuricle, il contraddittorio essi lo tengano, senza
saperlo, celato in sé stessi; e che altresl lo presuppongano, e
perciò, per cosl dire, se ne facciano guidare, dando luogo, in
tal modo, alla confutazione di sé stessi. Non assoluta separa-
zione, dunque; perché, in questo caso, di niente potrebbe aver-
si intelligenza. Ma neppure il contrario: ché se tutto avesse
comunione e comunicazione con tutto, ecco allora (e a osser-
varlo è lo stesso Teeteto) che il moto si fermerebbe nella
quiete, questa si muoverebbe e sarebbe moto; e di nuovo,
proprio come nell'altra ipotesi, alla mescolata comunicazione
del tutto con il tutto niente altro corrisponderebbe che l'impo-
tenza del logo a comprenderla e a conoscerla.
È a questo punto che l'esito catastrofico al quale, concordi,
queste due opposte vie conducono, fa scattare, per intrinseco
contrasto, l'esigenza dell'ipotesi intermedia, ossia del vero
criterio speculativo al quale, nella sua pars construens, il
dialogo si ispira. E, certo, la struttura complessiva di questo
argomento richiederà, fra breve, qualche commento: non pri-
ma, per altro, di aver rilevata, a proposito della seconda ipote-
si, la difficoltà logica che, ove la si scruti in relazione alla
prima, vi appare evidente. A confutazione della prima ipotesi,
- che tutto fosse separato da tutto, il Forestiero d 'Elea aveva
affermato le ragioni che, direttamente o indirettamente, parla-
no in nome, e a favore, della connessione. Ma, nel criticare la
seconda, si limita ad accogliere il suggerimento di Teeteto
relativo al necessario fermarsi, se a questa ipotesi si tenesse
fermo, del moto, e, per converso, al non meno necessario
muoversi della quiete. E questa è un'osservazione bensl acuta,
ma parziale; e tale infine che, per conseguenza, contro la sua
intenzione, finisce col ripresentare, in sé sussistenti e indipen-
denti, i 'YÉVT\ che si pretende vi si siano «confusi». È evidente,
infatti, che, se si assume che, ogni cosa avendo comunicazione
con ogni altra, il risultato è la «confusione», è bene perché
ogni cosa viene per un attimo presa nella sua autonomia e
distinzione, e al di qua, quindi, del suo «confondersi» con le
altre, - è bene per questo che la «confusione» può aver luo-
go154. In tanto, insomma, la «confusione» può aver luogo in
quanto, a fondamento della sua possibilità, si ponga, e si man-

Mauritius_in_libris 139
tenga, il suo contrario: ossia la distinzione, all'origine, delle
cose che, poi, si confondono. Il punto è delicato; e contro la
possibilità di (per altro) facili fraintendimenti, occorre, al ri-
guardo, precisare che, certo, sarebbe gravemente errato sup-
porre che fra «distinzione» e «confusione» si dia qualcosa
come uno scarto cronologico, e, quindi, una «successione»:
come se nel subentrare alla «distinzione», la confusione ne
prendesse il posto e, o la «annullasse», o la ricacciasse indie-
tro, nell'inattualità del passato. È vero invece che, struttural-
mente, la possibilità della confusione riposa sulla possibilità, e
la persistenza, della distinzione; e che è proprio in quanto
conservano, ciascuna, la propria specifica identità ontologica,
che le cose possono «confondersi».
Queste considerazioni sono, salvo errore, importanti; e
tanto più, in effetti, meritano di essere tenute presenti in quan-
to aiutano ad affisare un punto logico al quale non si suole, in
genere, guardare con sufficiente attenzione. Il punto al quale
deve prestarsi attenzione è che fra l'asserto secondo cui «mo-
to» e «quiete» sono contraddittorii, non hanno nulla in comune
o, se si preferisce, sono privi di ogni KOtvrov{a, e l'altro as-
serto secondo cui se si confondessero, e quindi stessero «insie-
me», sarebbero contraddittorii, c'è assoluta incompatibilità; e
prenderli (come talvolta accade) «insieme», facendo dell'uno
il fondamento dell'altro, è, in senso forte, impossibile. Basta
infatti che l'argomento sia considerato con rigore, e spinto
verso le sue conseguenze, perché subito si faccia chiaro che,
pensata sul fondamento della «Confusione», la contraddizione
non è contraddizione. Se, come il testo suggerisce, la confusio-
ne comportasse il muoversi della quiete e, simultaneamente, il
fermarsi del moto, avremmo in realtà tutt'altro dalla contrad-
dizione. Avremmo infatti, non solo la quiete (in luogo del
moto) e il moto (in luogo della quiete); ma avremmo altresl
che proprio perché, come si assume, questo scambio si produ-
ce in simultaneità, e tuttavia si produce, proprio per questo dal
suo prodursi la simultaneità sarebbe divisa in sé stessa e resa
successiva. Non è forse vero che alla quiete che si muove e, in
quanto tale, è moto, segue, o se si preferisce la metafora
spaziale, si affianca, il moto che si ferma e, in quanto tale, è
quiete? Ne deriva che, contro ogni diversa apparenza, la dedu-

140 Mauritius_in_libris
zione messa in atto dal Forestiero d 'Elea non regge e non
conclude. La deduzione dice: se tutto si confonde con tutto, la
quiete e il moto si contraddicono in sé stessi, dando luogo ad
un moto che si ferma e ad una quiete che si muove: ad un moto,
quindi (ed è qui che il logo non controlla più sé stesso), che è
quiete, e ad una quiete che è moto. Ma, come si diceva, la
deduzione non conclude; e in tanto la contraddizione non ha
luogo in quanto nello spazio e nel tempo, ossia nella simulta-
neità resa successiva, i due termini (il moto e la quiete) coesi-
stono, e seguitano a coesistere, nel continuo e ininterrotto
scambio del loro carattere costitutivo; che perciò, ininterrotta-
mente, si ricostituisce.
Perché alla «contraddizione» possa darsi luogo si richiede,
in realtà, altro. Si richiede, non già che il moto si fermi, e «Sia»
quiete, e che questa si muova, e «sia» moto: si richiede bensl
che, persistendo come moto, questo sia quiete, e che, nel per-
sistere come quiete, questa sia moto. Si richiede in altri termini
che la simultaneità sia simultaneità, non sia resa successiva, ed
ospiti, ciò non ostante, la dualità dei termini: si richiede, in
poche parole, l'impossibile, - ossia che la contraddizione, che
è impossibile, sia possibile, e di essa possa parlarsi come di
una «realtà», di qualcosa insomma che sia in possesso di uno
status ontologico. O, se si preferisce dire cosl, si richiede che,
essendo in sé stessa simultanea e non successiva, la simulta-
neità sia successiva e non simultanea. Se, per altro, la simulta-
neità fosse, in sé stessa, successiva e non simultanea, e della
«contraddizione», che è impossibile, potesse non di meno par-
larsi come di un «qualcosa» che abbia un «sé stesso» e a cui sia
perciò attribuibile uno status, la contraddizione non sarebbe
contraddizione; e questo è lo svolgimento che occorre impri-
mere al discorso. Ammesso che la contraddizione sia «qualco-
sa», ed abbia uno status che possa perciò essere riferito al suo
«essere», del suo «qualcosa», del suo status e del suo «essere»
sarebbe impossibile, e contraddittorio, negare l 'incontraddit-
torietà. E perciò deve assumersi che parlare della contraddi-
zione, ossia del supremamente impossibile, è ciouvmov, im-
possibile. Impossibile è farne l'oggetto di un discorso; e anche
di un discorso che la neghi e la dica impossibile, perché negar-
la e dirla impossibile significa ontologizzarla, prenderla, auto-

Mauritius_in_libris 141
contraddittoriamente, come «possibile», conferirle l'essere (che
si dice impossibile conferirle e riconoscerle 155 ). Il che ulte-
riormente significa che, essendo impossibile (e autocontrad-
dittorio) affisarla «in sé» (perché l' «in sé» della contraddizio-
ne è impossibile che non sia incontraddittorio), soltanto nel
rinvio alla «contraddizione» che insorge nell'atto in cui se ne
parla, questa, la contraddizione, consiste 156 • Ma, dopo avervi
accennato, non è necessario, questo argomento, condurlo alle
estreme conseguenze: almeno in questa sede, dove, se mai,
occorre precisare che, al di là di quel che nel suo logo permane
di non pensato e di non chiarito, c'è tuttavia, nell'assunto del
Forestiero d 'Elea, qualcosa come il presentimento della estre-
ma difficoltà che questo giro di questioni racchiude in sé. Il
modo in cui il KotvrovEtv e il µiì KotvrovEtv dei YÉVTl sono
stabiliti rivela senza dubbio, nell'argomentazione che lo con-
cerne, qualcosa di estrinseco, di non necessario, di presuppo-
sto e non dedotto: nel senso che è dalla pura analisi dei yÉvT1,
non dalla necessità del loro costituirsi, che il Forestiero ricava
la ragione del loro Kotvrove'lv e µiì KotvrovEtv. Ma nel di-
chiarare la non compossibilità di KlVTl<JK e <J't<icrtc; Platone era
tuttavia guidato dalla consapevolezza che il rapporto dei YÉVTl
della quiete e del moto non è di puri contraddittorii, forse
anche che il loro non è un rapporto: e occorre rilevarlo perché,
quando si tenga fisso lo sguardo alle implicazioni della cosa
intorno alla quale in questo dialogo si affaticò, non può esclu-
dersi che alla radice del diverso rapporto che egli intrecciò, o
cercò di intrecciare, fra i «generi» operi la divinazione del
carattere autocontraddittorio della pura contraddizione.

33. Il comportamento anomalo di 1C{V1Jmç e crraaK e un ca-


rattere paradossale della ICot vmvla dialettica

Il che per altro non toglie che, dopo aver dissertato in


questi termini sulle conseguenze, o le implicazioni, filosofi-
che, che il concetto della «Contraddizione», e l'altro dell'«im-
possibilità» (che ambiguamente la sottende), contengono in
sé, occorra giungere, a questo riguardo, ad un'ulteriore deter-
minazione; e, dato (e non concesso) che l'idea della «contrad-

142 Mauritius_in_libris
dizione» sia costruibile e prospettabile nella forma dell '<<im-
possibilità» (ossia in modo tale che del moto e della quiete si
dice che, stretti in un rapporto, è «impossibile» che stiano in
questo medesimo rapporto), chiedersi se sia senz'altro impos-
sibile, e cioè contraddittorio (oppure: se sia contraddittorio, e
cioè impossibile) il rapporto che, se si stringesse, stringerebbe
quiete e moto. Detto in altri termini. Il Forestiero d'Elea asse-
risce che se fra «moto» e «quiete» si desse un rapporto, a
caratterizzarlo sarebbe la contraddittorietà; e che perciò è im-
possibile che fra moto e quiete si dia un rapporto. Ma è proprio
vero che, nella obiettività del suo ragionamento, a questa linea
egli rimanga fedele, e che, al contrario, fra moto e quiete non
finisca per dischiudere una qualche (non confessata e non
voluta) possibilità di rapporto?
Il punto è delicato (e, come si vede, non privo di qualche
faticosa complicazione intrinseca). Ma dev'essere affrontato
perché è di essenziale importanza; e per cominciare a svolger-
lo, si osservi allora, innanzi tutto, che per un verso nel suo
ragionamento il Forestiero d 'Elea esclude che fra il moto e la
quiete possa darsi un rapporto, perché, se si desse, la conse-
guenza ne sarebbe la contraddizione, ossia (si badi) l 'impossi-
bilità, per l'uno e per l'altra, di «essere» nel rapporto (che
verrebbe dunque, esso stesso, ad essere impossibile). Ma, per
un altro, il personaggio è pur costretto ad almeno in parte
contravvenire al suo asserto, e ad ammettere quel che aveva
negato. Lo si vede, infatti, e si arriva a comprenderlo, se si
considera che, incomunicanti fra loro e privi perciò di ogni
KOtv6v, il moto e la quiete partecipano tuttavia, non solo
dell'essere, ma anche, e il Forestiero esplicitamente lo asseri-
sce, dell'identico e del diverso (255 B 3 µetÉXEWV µiìv àµcj>ro
taùwù 1ml emépou), ossia di quei yév11 che alla quiete con-
sentono di essere la quiete e non il moto, e a questo di essere
il moto e non la quiete. Se per altro, distintamente e non
x:ot Vl]-, il moto e la quiete partecipassero dell'identico e del
diverso, dovrebbero altresì partecipare di ciò che questi due
YÉV11 hanno in comune, e che ad essi viene invece negato; e
questo è il x:otvrovdv, il reciproco contatto. Ma a questa con-
seguenza che, se tratta con rigore, avrebbe complicato non
poco la linea del suo logo, il Forestiero d'Elea non perviene.

Mauritius_in_libris 143
La «diversità», dalla quale il Kotvrovdv e il µTi Kotvrovdv
traggono, o piuttosto dovrebbero trarre, la loro ragion d'esse-
re, non viene né spiegata né tanto meno, e in un quadro cosl
ricco di ambizioni deduttive, dedotta. È semplicemente antici-
pata alla dimostrazione della sua possibilità. E questo, per la
verità, è procedimento irrazionale: sul quale, per altro, l'edifi-
cio della dialettica viene innalzato, e l'essere di Parmenide
trasgredito e violato.
Detto questo, può passarsi a cogliere, ed indicare, il carat-
tere «paradossale» che alla relazione dialettica si rivela intrin-
seco. Formalitater spectata, la cruµ1tÀ.oK1' si presenta come
tale che a costituirla è, per un verso, un rapporto di diversità,
per un altro, un «non rapporto» di termini che, caratterizzati
cosl, da un «non rapporto», non si sa per altro che cosa mai,
ossia di che natura, possano essere. Del moto e della quiete
(che, appunto, sono i paradossali termini di questo non meno
paradossale «non rapporto») non può dirsi infatti, senza dover-
sene in qualche modo pentire, che sono contraddittorii, perché,
come si è visto, considerati dall'angolo visuale del cosl detto
rapporto dei contraddittorii, presentano piuttosto la caratteri-
stica dei «contrari» o dei «diversi». Ma nemmeno, a rigore,
può dirsi che siano tali, cioè contrari o diversi, perché, consi-
derati dall'angolo visuale della contrarietà o diversità, presen-
tano, se mai, e piuttosto, la caratteristica dei contraddittorii. È
impossibile, infatti, che moto e quiete comunichino, e che fra
l'uno e l'altra si dia perciò qualcosa, un intermedio. È impos-
sibile, se non comunicano, che non si escludano in modo
assoluto; e, per definizione, una siffatta impossibilità è intrin-
seca al cosl detto rapporto (che perciò non è un rapporto) dei
contraddittorii, non a quello dei contrari. Non perciò, d'altra
parte, ci sarebbero serie ragioni per tornare sul logo che ci
aveva indotti ad escludere il loro essere contraddittorii, e per
assumere che proprio questo (il loro esserlo, non il loro non
esserlo) costituisca il loro carattere. Non è forse evidente che,
se fossero contraddittorii, la quiete dovrebbe essere in sé stes-
sa moto, e questo dovrebbe, in sé stesso, essere quiete, -
laddove qui è detto con estrema chiarezza che la quiete è
quiete (e per questo non è moto), e che il moto è moto (e per
questo non è quiete)? Ma, se è cosl, il «non è» che compare

144 Mauritius_in_libris
nella proposizione «il moto "non è" quiete», o nell'inversa, «la
quiete "non è" moto», indica piuttosto la contrarietà che non la
contraddittorietà. E allora? Se fra moto e quiete non si dà
contraddittorietà, e nemmeno, d'altra parte, contrarietà, che
cosa si dà fra moto e quiete? Che cosa esprime il «non essere»
l'uno l'altra?
Se è così, e alla domanda formulata qui su il testo non
consente alcuna decisiva risposta, è necessario allora ribadire
che uno degli elementi sui quali la cruµ1tÀ.O~ si regge, e fonda
la sua possibilità, presenta un carattere di forte, e anzi fortissi-
ma, indecisione strutturale; che con la maggiore evidenza ri-
salta quando, ad esempio, si consideri che, essendo un rappor-
to di «diversi», reso possibile dalla i<:otvrovta di alcuni YÉVll e
dalla non i<:otvrovta di altri, anche quest'ultima, la non i<:otvro-
vta, la cruµ1tÀ.OKll dovrà includere dopo averla in qualche mo-
do assunta come uno dei fondamenti della sua stessa possibi-
lità. Se per altro la cruµ1tÀ.OKll è un rapporto, e certo nient'altro
è la cruµ1tÀ.OKll se non un rapporto; se, ulteriormente, la sua
possibilità di esser tale è fondata non solo sul rapporto, ma
anche sul «non rapporto», dei yév11, questo allora viene ad es-
sere incluso nel rapporto che, includendo a sua volta il rappor-
to e il non rapporto, si presenta con il volto della cruµ1tA.o~.
Ne consegue che se il «non rapporto» entra, con il rapporto,
nella cruµ1tÀ.oi<:il, ossia nel più ampio rapporto che ha nome
cruµ1tÀ.OKll e in cui ogni rapporto e «non rapporto» entrano,
anche quest'ultimo (il «non rapporto») deve stare in essa come
un elemento e, dunque, come un diverso. Ma se, standovi
come un diverso, vi stesse come un «contrario non contraddit-
torio», come mai allora, rispetto al «rapporto», il «non rappor-
to» configurerebbe una assoluta alterità? Se per altro è così,
questo è allora l'indizio della persistente difficoltà, o anoma-
lia, intrinseca al criterio mediante il quale l'intreccio dei «ge-
neri» è stato pensato e descritto dal Forestiero d 'Elea.

34. La dialettica come superamento del/' aporia

E fermiamoci, giunti a questo punto, sulla struttura dell 'ar-


gomentazione che, aprendosi (o cercando di aprirsi), fra queste

Mauritius_in_libris 145
varie difficoltà, il suo spazio, dischiude, o cerca di dischiude-
re, a giudizio di Platone, la possibilità del superamento dell'a-
poria. La esamineremo, sia pure con relativa brevità, sotto due
distinti profili: concernente, il primo, quel che in essa sembra
presentarsi nella forma di una sorta di «principio del terzo
escluso»; riguardante, il secondo, la relazione che in concreto
vi si stabilisce, o vi risulta stabilita, fra l'aporia e il suo supe-
ramento. E si cominci, naturalmente, dal primo.
Dice, con molta chiarezza, il Forestiero d'Elea: 252 E 1-2
K<XÌ. µT\v EV yÉ 'tl 'tOU'tffiV Ò.vay1mtov, iì 7tcXV't<l iì µrioèv ÌÌ 'tcl
µèv ÉSÉÀnv, 'tcl oè µT\ cruµµdyv00"0at. Nella sua articolazio-
ne, l'argomento esibisce una necessità, una à.v<iyKT1. o un
à.vayKatov, che esclude il contraddittorio: una verità il cui
carattere è di escludere il falso. E l'à.vayKatov del quale si
parla affermando che, delle tre ipotesi prese in esame, una è
«necessaria», e dunque vera, e le altre no, questo, in effetti,
significa: significa il suo esser vera a differenza delle altre che,
corrose dal loro stesso interno contraddirsi, inesorabilmente
sono false. Ebbene, che, presentato così, l'argomento dia luo-
go a qualcosa come una «esclusione del terzo», risulta, se ci si
fa attenzione, evidente. Apparentemente, si ha qui la presenta-
zione di tre ipotesi, o, se si preferisce, di tre tesi, delle quali
due cadono, e si rivelano false, e una emerge come la vera: sì
che, da questo punto di vista, sembrerebbe impossibile ricon-
durre la struttura conferita all'argomento a quella delineante il
principio del terzo escluso, che di due termini consiste, non di
tre, il terzo risultando appunto, di necessità, escluso. Non
occorre dire, infatti, che due, e non più di due, sono i termini
mediante i quali questo principio si articola: essendo evidente
che fra la verità dell'uno e la falsità dell'altro il «terzo» è bensì
«nominabile», ma, appunto, soltanto come «impossibile». Nella
sostanza, per altro, le cose non vanno, in nessun modo, cosl.
Non sarà il caso, in questa sede, di sottilizzare su un punto che,
in un'altra e più propizia, potrebbe addirittura rivelarsi essen-
ziale; e cioè sul senso che, nel suo essere escluso, e proprio
perché escluso, il «terzo» viene ad assumere nella costituzione
formale del principio che ne vieta la possibilità, o, se si prefe-
risce, lo proclama «impossibile». Il nesso che, in tal modo, e
per tale via, si stabilisce fra «nominazione» e «impossibilità»

146 Mauritius_in_libris
(del terzo) è assai delicato, ricco, anzi, di complicazioni e di
asprezze; e senza indagarne di proposito la natura specifica,
converrà tuttavia tenerla sullo sfondo, allo scopo, se il discorso
sia per richiederlo, di poterne, al momento opportuno, richia-
mare il tema. Ma, contro l'apparenza che tre, e non due, siano
le tesi che si articolano nell'argomento delineato dal Forestie-
ro d 'Elea, non può invece non osservarsi che, nella sua realtà
effettiva, e al di là, quindi, di ogni formale apparenza, le tesi
che vi si contrappongono sono due, non tre; e, come l'una è
vera e l'altra falsa, così non si dà, fra esse, la possibilità del
terzo.
L'osservazione apparirà capziosa, perché, proprio nel suo
essere intermedia fra le due contrapposte affermazioni della
comunicabilità e dell'incomunicabilità (di tutto con tutto), la
tesi difesa dal Forestiero d 'Elea ritrova il suo carattere proprio
di verità; e tanto più, in effetti, può apparire capziosa, e, in
ultima analisi, errata, in quanto, se il principio del terzo esclu-
so vieta, appunto, che il terzo, e l'intermedio, giungano mai a
costituirsi, proprio come un terzo, e un intermedio, questa
pretende invece di atteggiarsi e, secondo il giudizio del Fore-
stiero d'Elea, si atteggia. Ma capziosa l'osservazione non è
affatto: meno che mai, errata. Quello dell'intermedio è, in
filosofia, un assai arduo concetto; e non è detto che, a ben
studiarlo, si riveli pensabile e possibile 157 • È evidente infatti
che il tentativo che si compia di istituirlo non può aver luogo
se non alla condizione che due, ed entrambi reali, siano i
termini fra i quali l'intermedio è, in effetti, intermedio: ché se,
per contro, questa dualità si rivelasse fittizia, in che senso, e
sopra tutto, con quale diritto seguiteremmo a parlare di un
«terzo» e di un «intermedio»? Di un terzo, si vuol dire, e di un
intermedio, non esclusi, bensì, piuttosto, inclusi nell 'argomen-
to e tali da articolarne la specifica struttura? Ma, a guardar
bene, i termini qui non sono affatto due; e in tanto, nella sua
effettualità, l'argomento delineato dal Forestiero d 'Elea si pre-
senta come una (implicita) formulazione del principio del ter-
zo escluso, in quanto, se delle tre tesi che costituiscono la
struttura dell'argomento due sono certamente autocontraddit-
torie, e dunque false, di entrambe allora può e deve dirsi che,
identiche l'una all'altra nell'essere del pari autocontradditto-

Mauritius_in_libris 147
rie, il loro destino strutturale è, o di ridursi ad una, o, se si
preferisce dire cosl, di non essere mai state due. Ne consegue
che se uno, e non duplice, è il termine che le simboleggia, non
a due termini, ma ad uno, la cosl detta tesi intermedia (che tale
dunque non può essere) si contrappone come la tesi vera. E
l'ulteriore conseguenza è che, mentre ogni apparenza di triplicità
si rivela per tale, ossia come apparenza, e si dissolve, la dualità
dei termini viene altresl a configurarsi come la pura e semplice
opposizione del vero e del falso, fra i quali, appunto, secondo
la legge enunziata dal principio, tertium non datur.

35. Koivwvia e non Kotvwvia dei yéV1}: considerazioni e


svolgimenti

La questione che si è posta potrebbe, naturalmente, essere


approfondita ben oltre questo limite (che, per altro, converrà in
questa sede non oltrepassare). È necessario infatti dar corso
all'altra considerazione che la struttura intrinseca all'argo-
mento addotto dal Forestiero d'Elea richiede. Come si ricorde-
rà, la sua analisi si era esercitata sulle opposte tesi della sepa-
razione e della connessione del tutto; e poiché entrambe ave-
vano dato luogo al rilievo d'inconcepibilità, era ad una terza,
e intermedia, che, per superare l'impasse, egli si era rivolto.
Che nessuna cosa abbia Kotvc.ovia con un'altra, o con le altre,
è altrettanto falso del caso inverso, - che tutto comunichi, e
possa comunicare, con tutto. E la verità è dunque che, come
accade per le lettere dell'alfabeto, che talvolta (nelle parole
della lingua greca) si combinano e altre volte no, in alcuni casi
i «generi» comunicano e partecipano l'uno dell'altro, in altri
non partecipano e non comunicano, e cosl, partecipando e non
partecipando, comunicando e non comunicando, danno luogo
ad un sistema articolato e connesso, la cui unità e assolutezza
proprio dalla non assoluta separazione e dalla non assoluta
connessione è garantito.
Ebbene, formalmente considerato, questo argomento si
rivela non poco problematico. È evidente, in primo luogo, che
nel suo rilievo specifico la tesi emergente come vera, in tanto
è tale, in quanto appunto a farla emergere è l'autocontradditto-

148 Mauritius_in_libris
rietà intrinseca alla tesi opposta, relativa ali' assoluta separa-
zione e all'assoluta connessione. E non per caso, a ritrarre
questa situazione ci si è serviti del verbo «emergere»; che in
effetti dà bene l'idea alla quale qui deve conferirsi rilievo:
l'idea, si vuol dire, del contatto che, alla radice di sé stesso,
«ciò che emerge» stabilisce con «ciò da cui emerge». Anche
Venere, che pure era una dea, sarà emersa bagnata dalle spume
del mare: perché dunque non anche il vero? Ma in realtà, e con
tutto il rispetto, la verità non è la stessa cosa di un dio o di una
dea; e se a questi è, a quel che pare, concesso di bagnarsi nelle
acque del mare greco e, quindi, di emergerne, a quello, al vero,
altrettanto non è concesso: non è concesso di venir fuori e,
appunto, di «emergere» da cosa che sia diversa dalla sua es-
senza: tanto diversa, in questo caso, quanto la falsità è diversa
dal vero.
Si dice tuttavia (e anche il Forestiero d'Elea si rivela in tal
modo tributario di questa idea, o dei suoi incunaboli), che la
verità consiste nel trascendimento del falso, dell'errore, di ciò
che è in sé stesso contraddittorio. Ma il trascendimento del-
) 'errore, del falso, di ciò che è in sé stesso contraddittorio,
implica in realtà che, per la sua stessa possibilità, il suo atto
rinvii al «trasceso»: ossia all'errore, al falso, al contradditto-
rio, che, in tal modo, vengono a costituire, addirittura, il suo
fondamento e la sua ragion d'essere. E questo è assurdo, per-
ché, al di là dei giochi di fantasia a cui lo spirito rappresenta-
tivo indulge, come potrebbe essere di autentico trascendimen-
to un atto il quale di necessità abbia nel «trasceso» la ragion
d'essere e il fondamento della sua possibilità? Forse che è
nell'errore che, con il suo proprio fondamento, la verità trova
il criterio del suo essere (anzi, in questo caso, del suo «venire
ali 'essere»)?
La questione è, come si vede, assai delicata; e tale, anzi,
che, a guardar bene, coinvolge lo stesso criterio della reductio
ad absurdum, al quale, in una precedente battuta argomentati-
va, noi pure abbiamo fatto ricorso. In realtà, la riduzione al-
i 'assurdo di un argomento, l'esibizione della sua falsità, la
dimostrazione della sua autocontraddittorietà e, per conse-
guenza, la sua risoluzione in un altro e contrario argomento
(che di questi caratteri negativi si mostri privo), - tutto questo

Mauritius_in_libris 149
ha non poco da chiedere al rigore e alla coerenza. Se, infatti, è
il confronto con l'assurdo (a cui errore, falsità, contradditto-
rietà e autocontraddittorietà mettono capo) a imporre la tra-
sformazione di un argomento; se, insomma, il confronto con
l'assurdo implica che con questo si stabilisca una relazione, -
che cosa è, allora, l'assurdo? Se è qualcosa che è, come mai,
dunque, essendo, sarebbe assurdo? L'assurdo è, per conse-
guenza, «non essere»? Ma, se fosse non essere, non sarebbe; e
nemmeno, quindi, sarebbe l'assurdo, con il quale nessuna rela-
zione potrebbe, in questo caso, essere stabilita. Oppure si dirà
che, sì, l'assurdo è, ma come assurdo (a quel modo che anche
l'errore, il falso, il «non essere» sono, ma, appunto, come
l'errore, il falso, il «non essere»)? Senonché, dire così è come
dire che l'assurdo è assurdo; e dire che l'assurdo è assurdo
implica che sia bensì tale l'assurdo che, come soggetto, viene
predicato dell'assurdità; non però che assurda sia questa, ché
altrimenti non sarebbe possibile, ma, appunto assurdo, che
l'assurdo fosse assurdo. A guardar bene, c'è, tuttavia, di più; e
nemmeno questa specifica deduzione può essere mantenuta
nella sua interezza. Se si fa che l'assurdo che in tal modo viene
predicato dell'assurdità (non assurda) sia, per un verso, assur-
do, e non di meno costituisca, per un altro, il soggetto della
predicazione, come mai allora potrebbe dirsi che, costituendo
il soggetto e, dunque, essendo, sia assurdo? È perciò assurdo
che l'assurdo sia assurdo, ossia che, &µcx, l'assurdo sia assurdo
e l'essente soggetto dell'assurdità. Ma, di nuovo, come potreb-
be essere «assurdo» l'assurdo designante l'assurdità di una
situazione per la quale l'assurdo è tanto l'assurdo quanto l'es-
sente soggetto dell'assurdità?
La questione è dunque delicata; e rischia di non poter
essere risolta se non si arriva a dominare l'insidioso processo
aporetico lungo il quale (se questa metafora può, in un'analisi
rigorosa, essere concessa) l'assurdo sfugge, all'infinito, a sé
stesso. Rimane, per altro, che, per grande che sia la difficoltà
che si incontra a dominare e a risolvere questa situazione
aporetica, e il suo ripresentarsi nell'atto in cui sfugge a sé
stessa, sarebbe in ogni caso impossibile addurre l 'inconveniens
che essa rappresenta a sostegno dell'argomento criticato: e
cioè che la verità possa emergere dalla «crisi» di alternative

150 Mauritius_in_libris
autocontraddittorie. Che, del resto, anche per altre ragioni
questa possibilità sia esclusa, non è difficile comprendere se,
più da vicino, si osservi quel che emerge dal presentarsi della
tesi difesa dal Forestiero d'Elea come in qualche modo «inter-
media» fra le due alternative opposte e autocontraddittorie. Le
quali ne sono bensl, in quanto le si assuma nella loro intera
estensione, rifiutate: non però in quanto, per contro, si presen-
tino, e siano prese, nella loro parzialità. È falso infatti che tutto
sia separato da tutto; ma è vero che alcune cose sono separate
da altre cose, e, con queste, non comunicanti. È falso che tutto
sia connesso con tutto; ma è vero che, con alcune cose, alcune
cose sono connesse; e con queste, dunque, comunicanti. Ne
consegue che la tesi intermedia esclude bensl la totalità delle
alternative contrapposte, in quanto la pretesa di questa sia di
imporre, senza condizioni, sé stessa; ma non le esclude affatto
in quanto, al contrario, sia, per cosl dire, disposta a valere
soltanto come parte e a riconoscere che, appunto, per la sua
parte, anche l'altra e opposta alternativa possiede un elemento
di verità.
Se è cosl, la tesi intermedia risulta, non dal rifiuto, bensl
piuttosto dalla riduzione a parte della totalità (alla quale cia-
scuna delle due alternative pretende), e, quindi, dalla combina-
zione della parte con la parte. Ma, se è cosl, la possibilità di
questa operazione suppone il darsi, come totalità, delle alter-
native. Ne consegue che è il darsi dell'autocontraddittorietà (le
alternative sono infatti, o sono presentate come, autocontrad-
dittorie) a porsi, autocontraddittoriamente, come condizione
del darsi dell'operazione dalla quale la tesi intermedia scaturi-
sce; e ne consegue altresl che questa, la tesi intermedia, deriva
dal porsi dell 'autocontraddittorietà come totalità. Posto infatti
che fosse possibile ciò che la tesi intermedia esige come con-
dizione del suo potersi costituire, e cioè che l 'autocontraddit-
torietà sia la totalità alla quale essa, la tesi intermedia, sottrae,
per potersi costituire, una parte, l'ulteriore conseguenza sareb-
be un'ulteriore aporia: della quale ci si avvede qualora non
manchi l'animo di entrare, sia pure per una breve ricognizione,
nell'arida e spinosa questione del tutto e della parte.
Il tutto e la parte: ossia, come si suole argomentare, il tutto
come «tutto di parti». Ebbene, si prescinda qui dal rilievo

Mauritius_in_libris 151
concernente, ii.berhaupt, la concepibilità di questa espressio-
ne. Se il tutto è «tutto di parti», e, d'altro lato, non c'è luogo,
o parte, del tutto che non sia parte; se, in altri termini, il tutto
è nelle parti che, esse sole, formano il tutto, allora è evidente
che questo non è mai attingibile, in sé, come tutto: essendo
parti, e soltanto parti, le realtà che, come si dice, lo compongo-
no. Non varrebbe in effetti dire che, inattingibile dall'intelletto
analitico che, discorsivamente, lo ripercorra nelle sue parti e
non incontrando perciò altro che «parti», il tutto possa invece
essere attinto in virtù di un atto di pura intuizione, capace, in
quanto tale, di coglierne il legame e la connessione: il legame
e la connessione (delle parti) che, appunto, sono il tutto. Se,
infatti, si assume che il legame e la connessione siano il tutto,
e, conforme alla definizione, si seguiti a tener fermo al punto
che il tutto è «tutto di parti», non è allora evidente che, lungi
dall'aver fatto un passo innanzi, siamo al contrario restati
esattamente al punto di partenza? Se viceversa si assume che,
proprio perché è un «tutto di parti», il tutto va oltre le parti, e
che in questo «andar oltre» consistono il legame e la connes-
sione, non è, anche qui, evidente che, per questa via, la solu-
zione non è stata e non può essere trovata? Si assume infatti
che l '«andar oltre» sia un autentico andar oltre, e dunque
qualcosa come un «trascendere». Ma se, di contro al trascen-
dere, le parti costituiscono il «trasceso», non è allora evidente
che proprio per questo, perché si distingue dal «trasceso», il
trascendere è anch'esso parte, - parte, dunque, e non tutto? Si
assume che l '«andar oltre», il «trascendere», o comunque que-
sto atto sia nominato, non lascino oltre sé le «parti» e si
pongano come il tutto (che ha le parti non fuori, o innanzi a sé,
ma dentro, racchiuse nel suo ambito). Ma se fosse cosl, non
sarebbe allora, ancora una volta, evidente che l'attingibilità
del tutto in quanto tale risulta impossibile; e che in effetti
siamo tornati proprio alla definizione (il tutto è «tutto di par-
ti») che rendeva ineseguibile la sua attingibilità?
Se tali, quindi, sommariamente descritte, sono le difficoltà
(o alcune delle difficoltà) che l'unità-distinzione del tutto e
delle parti presenta, a superarle certo non varrebbe osservare
che, il tutto essendo immanente nella parte per ciò stesso che
questa riceve la sua definizione dal suo organico parteciparne,

152 Mauritius_in_libris
chi colga la parte coglie il tutto e, senza fare e dover fare
ricorso all'ambigua «intuizione», lo possiede nella sua inte-
rezza. Questa osservazione non contribuisce, in effetti, a risol-
vere le difficoltà; e anzi, se possibile, le aggrava, le esaspera,
le conduce al risultato opposto a quello che si immaginava di
conseguire. Non è necessario, e nemmeno possibile, elencare
in questa sede le questioni che, a seguire questa via, insorgono
e non trovano risposta. Ma basta, in effetti, considerare che se,
eo ipso, il coglimento della parte fosse il coglimento del tutto,
allora dovrebbe altresl esser vero che, per ciò stesso che nella
totalità delle due alternative in contrasto la tesi intermedia
ritaglia una parte, in questo stesso atto coglie il tutto. Coglie il
tutto: ed entra quindi in contatto con la totalità delle due
alternative. Se per altro fosse cosl, non sarebbe allora evidente
che l'atto mediante il quale la tesi intermedia si costituisce
come verità sta a provare che l'errore, il falso, la contraddizio-
ne nella sua interezza, - sono questi a rendere possibile la
verità?

36. Ancora sulla K'Otvrovla

Di questa difficoltà non può, qui ed ora, dirsi di più. Ma,


sulle soglie dell'analisi che sta per essere dedicata alla que-
stione dei yÉVJ1 e della loro Kotvcovi.cx, era necessario sottoli-
nearla e insistervi alquanto. È infatti sul fondamento infido
dell'aporia che, senza avvedersene, il Forestiero d'Elea prova
ad innalzare la sua costruzione. Nell'innalzarla, egli per contro
introduce l'elogio del metodo con il quale l'impresa sarà, di Il
innanzi, perseguita e condotta alle estreme conseguenze. E
bene a ragione pronunzia questo elogio, perché, cercando il
sofista, gli sembrava di aver trovato di meglio, di molto me-
glio, - di aver trovato il filosofo, e, sopra tutto, la dialettica
che, della filosofia, è, per cosl dire, l'affare supremo, se è vero
che in nient'altro questa consiste che nel «dividere per generi»
(Kmà yÉVTt otmpetcrem) e, dunque, nel non giudicare né l 'i-
dentico come diverso, né questo come identico 158 : nel non se-
parare, in altri termini, tutto da tutto senza, per ciò solo, tutto
con tutto confondere. È a questo principio che, in effetti, dan-

Mauritius_in_libris 153
do inizio al momento conclusivo della ricerca, il Forestiero
d'Elea torna a rivolgersi: sembrandogli evidente che quanto
riteneva di aver provato e dimostrato, e cioè l'insostenibilità
delle tesi contrapposte dell'assoluta separabilità e dell 'assolu-
ta inseparabilità, costituisse il fondamento della costruzione.
Non sorprende perciò che, riprendendo quanto affermato a
253 B-C, dei 'YÉVTl egli dichiari che alcuni comunicano, altri
no 159 : anche se, per la verità, non possa poi nascondersi il
disagio che nasce allorché, nel prosieguo, e come se si trattasse
di un'inezia, prima il personaggio afferma che alcuni comuni-
cano per una piccola, altri invece per una maggiore estensio-
ne1(J(), e subito dopo, tuttavia, rassicura il lettore circa il suo
intento, che non è di svolgere, in quella sede, l'analisi della
questione 161 : quasi che trattarla, una questione del genere, cosi
grave e cosi strettamente intrecciata con la teoria del µe'tÉXElV,
o non trattarla, potesse dipendere, non dalla necessità obiettiva
della cosa, ma da un «intento», ossia da un semplice atto della
volontà! Non staremo, per altro, a sottilizzare; né accadrà che,
entrando in gara con il Forestiero d'Elea, proviamo noi a
svolgere le conseguenze della sua asserzione. Ma, di nuovo,
non può nascondersi il disagio che, in effetti, di nuovo insorge
quando, anche qui come se niente fosse, l'Eleate dichiara che,
evitando, per non correre il rischio di perdersi nella moltepli-
cità, di considerare tutti i generi, egli ne sceglierà soltanto
alcuni, e fra questi proverà a stabilire le relazioni: ossia a
determinare il loro vario e intrecciato potersi e non potersi
connettere. Il disagio nasce in realtà da ciò che se, come
sembra doversi ammettere, i 'YÉVTl costituiscono un sistema,
allora il rischio della dispersione nella molteplicità non sussi-
ste, e richiamarlo è vano. Dove si dà «sistema», non si dà, per
ciò stesso, molteplicità: che se al contrario, e come non do-
vrebbe potersi ammettere, non il sistema si desse ma, appunto,
la molteplicità, - la pura e astratta molteplicità, allora nessuna
scelta che si facesse di un yÉvoc; avrebbe razionalità. Sarebbe
infatti casuale, e tutto fuor che un sistema potrebbe stringere i
YÉVTl che, come che sia, si fossero scelti. Ma a questa difficoltà
che, a differenza della precedente, non trova presso il Forestie-
ro d 'Elea la minima udienza, non conviene, in questa sede,
concedere ulteriore spazio. Già troppo a lungo abbiamo indu-

154 Mauritius_in_libris
giato sulle difficoltà che insidiano l'avvio della pars con-
struens. E conviene perciò entrare in argomento. Insieme alla
grandezza dell'analisi, e alle tante cose mirabili che racchiude
in sé, ritroveremo in questa parte del dialogo le difficoltà che,
per altro verso, lo rendono cosl affascinante, e, per la filosofia,
insostituibile.

Mauritius_in_libris 155
Mauritius_in_libris
VIII

37. La 'KOt vwv{a e la deduzione

È notevole, innanzi tutto, che subito dopo aver composto


la pagina che si è appena finito di commentare, quasi che di
quel che vi aveva scritto avvertisse lui pure l'inadeguatezza,
Platone si cimenti in un tentativo di deduzione dei generi fra i
quali sta per intessere la Kot vrovia. dialettica. La deduzione che
qui egli mette in atto è senza dubbio, almeno intenzionalmen-
te, e per un verso, una deduzione 162 , volta a sottrarre alla pura
immediatezza del loro «esser dati» i generi che costituiscono
l'oggetto del logo. Ma, per un altro verso, è parziale. Riguarda
infatti, a rigore, i due generi, l'identico e il diverso, che, con
l'essere, il moto e la quiete, formano l'intero dialettico. E la
sua parzialità rifulge in ciò che, nell'iniziarla, Platone non si
chiede se anche l'essere, il moto e la quiete, dei quali aveva fin
Il ragionato, non esigessero, essi pure, che la «deduzione» li
coinvolgesse, in questo atto strappandoli alla immediatezza
del loro puro «esser dati». Li assume, al contrario, come se
della loro realtà, e della posizione che occupano, non potesse
dubitarsi; e li definisce generi sommi1 63 • 254 D 4-5 µ.éytcr'tcx µiìv
'tWV yevwv d VUV01Ì Ot'ljµev 'tO 'tE òv mhò Ka.Ì. <J'tcl<Jtc; KCXÌ.
KtVTlmC:. Ma, a partire di qui, c'è deduzione. Dopo aver riba-
dito che di questi tre termini, l'essere, il moto, la quiete, i due
ultimi sono certamente incomunicanti, ma, con inversa cer-
tezza, sono entrambi comunicanti con l'essere, - proprio da
questa circostanza il Forestiero d 'Elea ricava l'ulteriore con-
seguenza; e questa riguarda l'identico e il diverso. Non è forse
vero che, identici, ciascuno, al suo proprio «sé stesso» 164 , il
moto e la quiete sono, l'uno nei confronti dell'altra, diversi?
Ma, identici, ciascuno, al suo proprio «Sé stesso», diversi
l'uno dall'altro, il moto e la quiete sono il moto e la quie-
te: non sono, in quanto tali, l'identico e il diverso; che,

Mauritius_in_libris 157
dunque, sono due nuovi generi che, aggiunti ai tre precedenti,
innalzano a cinque il numero di quelli fra i quali loperazione
dialettica s'intesse.
Se è così, ecco allora farsi evidente che on7ttp dv KOtvij
7tpo<Jtl7tO>µtv KlVfl<JtV KCXt CJ'tCXcrtV, 'tOU'tO OÙOÉ'ttpov aù-rotv
o16v -re el vm (255 A 7-8), - ossia che quel che possiamo
predicare in comune del moto e della quiete non può essere né
il diverso né l'identico; perché - e qui si riprende un argomen-
to già in parte sfruttato - se così fosse, KtVJlcrk 'tt cr~crt-rm
Kal CJ'tcX<Jtc; au KlVTJ91'crt'tat (255 A 10), il moto si fermereb-
be e, per contro, la quiete si muoverebbe. Al suo primo appa-
rire, l'argomento era stato adoperato a provare l'assurdità del-
la teoria concernente l'universale comunicazione di tutto con
tutto; e si ricorderanno le obiezioni che ad esso furono mosse.
Pur giungendo alla medesima conclusione, il ragionamento
del Forestiero d 'Elea si muove ora in un quadro più ampio. E
si diparte infatti dal rilievo che se, dati la quiete e il moto,
l'identico e il diverso, i primi due sono diversi, allora ne
consegue che di essi né l'identico né il diverso potranno essere
predicati insieme, perché, se questo accadesse, quelli si scam-
bierebbero i caratteri, la quiete muovendosi, il moto fermando-
si. In realtà, svolgendo l'argomento, deve dirsi, innanzi tutto,
che se il moto fosse identico al diverso, anche la quiete, che è
pur essa diversa (dal moto), si rivelerebbe identica al moto. E
cosi, per converso, se il moto fosse identico all'identico, anche
alla quiete si rivelerebbe identico, perché questa, la quiete, è
pur essa identica. Il passaggio è, per altro, alquanto più delica-
to di quanto, esponendolo in questi termini, non si sia in
genere ritenuto; e per venirne, se possibile, a capo, occorrerà
scavare ancora.
Il moto è diverso dalla quiete che, a sua volta, è diversa dal
moto. E questa diversità (che, altrimenti, potrebbe essere con-
siderata cosa ovvia) si specifica come la loro «incomunicabi-
lità». Sia del moto, sia della quiete si dice infatti chiaro, a 254
D 7-8, che sono incomunicanti: Kal µTiv -rw ye ouo <1>aµÈv
aù-rotv àµdK-rro 7tpÒc; àA.ì..1'A.ro. E a rendere ancora più strin-
gente la consapevolezza di questo luogo concettualmente cru-
ciale, il testo specifica che, come l'essere si unisce a moto e a
quiete che, di per sé, sono invece 7tpÒc; àì..ì..1'ì..ro incomunicanti,

158 Mauritius_in_libris
così ciascuno di essi si dà come diverso, essendo a sé stesso
identico. Il punto delicato è qui. Per un verso, a leggere queste
linee senza spingersi oltre a cercarne gli sviluppi, parrebbe di
dover concludere che, proprio dall'identità che si rivela intrin-
seca al loro essere il moto e la quiete derivino la loro diversità:
e che insomma l'identità, ciascuno con sé, del moto e della
quiete, sia, nell'intrinseco, la loro diversità. Per un altro verso,
tuttavia, l'identità e la diversità vengono drasticamente sepa-
rate dal moto e dalla quiete; e non solo cade la possibilità di
considerarle intrinseche all' «essere e al darsi» dell'uno (il
moto) e dell'altro (la quiete), ma si afferma la tesi opposta. Si
dice infatti che, rispetto a questi, identità e diversità sono
generi ulteriori1 65 • Se è così, come mai, e donde, questa sfasa-
tura (che è un'autentica sfasatura, e deve dunque esser colta e
meditata con cura, perché, in caso contrario, un 'articolazione
essenziale di questo logo sfuggirebbe)?
Per rispondere, è necessario ricorrere alla congettura che,
oscuramente, ossia senza avere distinta consapevolezza della
difficoltà alla quale sarebbe andato incontro se all'ipotesi del-
1'intrinsecità (dell'identico e del diverso al moto e alla quiete)
avesse tenuto fermo, proprio di questa difficoltà in qualche
modo il Forestiero d'Elea riuscisse ad intuire il lineamento.
Egli riuscì, in effetti, ad intuire che, assegnata al moto l 'iden-
tità con sé, e, conseguenza di questa, la diversità dalla quiete;
assegnata a questa l'identità con sé, e, conseguenza di questa,
la diversità dal moto, da tale contemporanea assegnazione
sarebbe sorto, qualora la si fosse tenuta ferma, una paradosso
ben altrimenti radicale di ogni altro che, in precedenza, si
fosse affacciato all'orizzonte della ricerca. Ne sarebbe deriva-
to che, ciascuno dei due essendo identico a sé e diverso dall 'al-
tro, sia l'uno, sia l'altro sarebbero stati, in sé stessi, «identici (a
sé)-diversi (dall'altro)»: sarebbero stati, in altri termini, iden-
tici in forza e in ragione di un'identità più profonda di quella
che, nel rapporto, fa coppia con la diversità. E, come ulteriore
conseguenza, il Forestiero d 'Elea riuscì forse ad intuire che di
qui sarebbe derivato che, questa identità rivelandosi come
l'anima dell'identità non meno che della diversità, moto e
quiete sarebbero risultati identici; e a tal punto da configurarsi
come l'identico stesso, nel cui interno, con il venir meno di

Mauritius_in_libris 159
ogni differenza, anche il moto e la quiete vengono meno. -
Ebbene, se questa è la difficoltà che il Forestiero d 'Elea aveva
in qualche modo intravista, chi potrebbe negare che, nella sua
radice, avesse guardato a fondo? E, se è così, fu questa allora
la ragione per la quale, drasticamente, all'identità e alla diver-
sità (del moto e della quiete) assegnò la natura di due generi
ulteriori, diversi dal moto e dalla quiete e tali che di questi non
potessero essere predicati in comune, perché, appunto, se que-
sto fosse avvenuto, moto e quiete si sarebbero, ciascuno, mutato
nel suo contrario. Ma si può dire, se è così, che, ponendosi per
questa via, egli avesse sul serio individuato il criterio del
superamento dell'aporia? Oppure occorre rassegnarsi a dire
che, al contrario, camminando lungo questo sentiero, finì,
questa aporia, per renderla, se possibile, ancora più grave,
intricata, e insuperabile?
Per risolvere la difficoltà, il Forestiero d'Elea era stato
costretto a presentare l'identico e il diverso come due generi a
sé, ciascuno coincidente con la sua propria natura, e non coin-
cidente con quella del moto e della quiete; che, diversi l'uno
dall'altra, sono tuttavia, ciascuno, identico a sé, - la diversità
e l'identità derivando da ciò che, senza essere identici all 'iden-
tico e al diverso, ne partecipano. Ma, appunto, messosi per
questa via, contribuì, la difficoltà, a renderla più ardua. Di
nuovo, infatti, dovette far ricorso a quell'idea della partecipa-
zione che, oltre il suo più generale difetto costitutivo, altri ne
presenta, in questo luogo specifico, che conviene esaminare.
Da un lato, il moto e la quiete si presentano come diversi
perché, appunto, sono il moto e la quiete, della loro <?ucrti:: non
si dubita, e la diversità che s'instaura fra essi è la principale
conseguenza del loro essere, ciascuno, chiuso nella sua identi-
ca natura. Da un altro, invece, sono diversi e, dunque, ciascuno
nella sua identità con sé, moto e quiete: oltre che dell'identità,
sono infatti partecipi della diversità. E, sebbene (in questo
contesto) non inattesa, questa è tuttavia una sfasatura grave;
che si acuisce ad autentica contraddizione quando si consideri
che è nella, e per la, loro diversità che il moto e la quiete
partecipano della diversità che dovrebbe farli diversi, mentre è
nella, e per la, loro diversità che entrambi, e l'uno non meno
dell'altra, partecipano della identità che dovrebbe farli, eia-

160 Mauritius_in_libris
scuno, identico. Ma (e con questo accade che la difficoltà si
radicalizzi) se si fa che partecipino della diversità, non può,
proprio per ciò, farsi che vi si identifichino, perché, se vi si
identificassero, da questo atto sarebbero resi l'uno identico
all'altro. Se, d'altra parte, si fa che partecipino dell'identico,
per le medesime ragioni non può farsi che vi s'identifichino.
Altro, infatti, partecipare, altro identificarsi. Ma se, per la
propria identità, soltanto in parte il moto partecipasse dell 'i-
dentico, non dovrebbe allora dirsi che soltanto per una parte
l'identità gli appartiene, e che, per conseguenza, esso, il moto,
è, in sé stesso, non più che parte dell'identità? II carattere del
moto sarebbe dunque, per questo Iato, di essere un tutto (il
moto è il moto) al quale, per altro, il tutto, o, se si preferisce,
l'identità con sé (che Io fa un tutto), non appartiene che in
parte; e, in sé stesso, il tutto del moto sarebbe la parte, per ciò
stesso che parte, e non più che parte, dell'identità è l'identità
del moto. Ma un tutto a cui manchi una parte, un'identità alla
quale, anche qui, una parte dell'identità faccia difetto, sono,
rispettivamente, una parte (non un tutto), una diversità (non
un'identità). II che, se della realtà del moto non s'intenda
dubitare, significa che, in sé stesso, nella sua essenza, il moto
è la sua propria diversità da sé, - è la quiete: proprio la conse-
guenza aporetica che, affisata nell'altra ipotesi, avevamo pro-
vato a superare e a risolvere in questa!
Il medesimo discorso dovrà essere ripetuto, e sempre a
proposito del moto, per ciò che concerne il suo µetÉXetV della
diversità: anche qui rilevando la singolare conseguenza per la
quale, se partecipazione non significa identificazione (e, quin-
di, identità con la cosa partecipata), soltanto di una parte del
diverso, e con i già visti risultati (ossia rivelandosi, in sé
stesso, il contrario di sé stesso), il moto parteciperà. Ma, se è
cosl, non è evidente che un ragionamento della medesima
natura dovrà essere svolto per la quiete che, per queste mede-
sime ragioni, paradossalmente si rivelerà, in sé stessa, il con-
trario di sé stessa? Se, infine, è cosl, altre considerazioni s 'im-
pongono; e il loro oggetto è costituito proprio dall'identico e
dal diverso che, certo, nella loro propria identità, - nell 'iden-
tità, si vuol dire, per la quale ciascuno è sé stesso, sono bensl
diversi, ma, a differenza del moto e della quiete, immediata-

Mauritius_in_libris 161
mente diversi, e non tali, dunque, che la loro diversità, e
identità, derivino dal partecipare che essi facciano di una pre-
gressa diversità e identità. Che sia così, è evidente. È evidente
perché, se, al contrario, l'identico e il diverso fossero tali in
quanto partecipi dell'identico e del diverso, la conseguenza 166
sarebbe allora che, per la natura stessa della partecipazione,
l'identità sarebbe parte dell'identità (e quindi, in sé stessa,
diversità), la diversità sarebbe parte della diversità (e quindi,
diversa da sé stessa, sarebbe, almeno per questo aspetto, iden-
tità). Se, d'altra parte, in quanto tali, e non per partecipazione,
l'identico e il diverso sono l'identico e il diverso, allora un' al-
tra conseguenza, e tanto più importante quanto meno il testo vi
alluda in forma esplicita, occorre esser pronti a ricavare; e
questa è che, «generi» allo stesso titolo del moto e della quiete,
l'identico e il diverso se ne differenziano, tuttavia, perché,
possedendo per sé l'identità e la diversità, non sono costretti a
ricavarle, per via partecipativa, da un identico e da un diverso
ulteriori, o, se si preferisce, anteriori, al loro essere (l'identico
e il diverso). Che è, a guardar bene, e come si diceva, conse-
guenza importante. Nel quadro delle connessioni dialettiche, e
degli elementi che le rendono possibili, introduce infatti un'a-
nomalia assai difficile da riassorbire e normalizzare. Se il
moto e la quiete traggono la loro diversità, e quindi, alla
radice, la loro identità con sé, dalla partecipazione che fanno
dell'identico e del diverso, e questi, invece, immediatamente
dal loro essere l'identico e il diverso, - dunque c'è diversità
intrinseca fra il moto e la quiete, da una parte, l'identico e il
diverso, da un'altra. Ma, anche qui, di quale «diversità» si
tratta? Si tratta di una «diversità» in sé, o di una ottenuta
mediante la partecipazione? A questa domanda, pur contenen-
dola, in qualche modo, in sé, il testo non risponde. Ma il lettore
che abbia avuto la pazienza di seguire e dipanare il filo del
discorso svolto fino a questo punto non avrà difficoltà a entra-
re, con qualche sicurezza, e a orientarsi, nella selva di questa
aporia 167 •

162 Mauritius_in_libris
38. L'essere, i YÉV11 (e la partecipazione)

Se il moto e la quiete sono diversi per partecipazione, e


l'identico e il diverso per virtù intrinseca alla loro natura, tal
che, considerando queste due coppie dall'alto, è una nuova
diversità quella che dà a vedersi come la loro diversità, l 'ulte-
riore questione che ora si delinea è se il medesimo accada
ali 'essere; che è bensl predicabile dell'identico e del diverso,
del moto e della quiete (che infatti tutti e quattro «sono»), ma
non è detto sia la stessa cosa dell'identico e del diverso, mentre
deve considerarsi escluso che sia e possa essere la stessa cosa
del moto e della quiete. In realtà, la questione che ora si
delinea è molto, e variamente, complessa; e richiede di essere
affrontata, con qualche cautela, per gradi.
Che l'essere non sia, e non possa essere, la stessa cosa del
moto e della quiete, è evidente: e lo si dimostra, in ogni caso,
così. Se l'essere fosse la stessa cosa del moto e della quiete,
anche questi dovrebbero essere la stessa cosa dell'essere. Nel
primo movimento, ossia se, nello stesso tempo e sotto il mede-
simo riguardo, fosse moto e quiete, l'essere sarebbe allora in
moto e in quiete: sarebbe, in sé stesso, la contraddizione di sé
stesso. Nel secondo movimento, ossia se il moto e la quiete
fossero la stessa cosa dell'essere, l'uno dunque sarebbe iden-
tico ali' altro: autocontraddittoriamente. E qui, interrompendo
per un istante il ritmo dell'esposizione, occorrerà fermarsi e
proporre una breve pausa. Più che altrove, infatti, è palese in
questo luogo l'equivoco concettuale che segna il concetto del-
la partecipazione; che una volta è identificazione e identità (e
per questo aspetto rende addirittura superflua sé stessa), ma,
un'altra, è un «andare a far parte», e, sia pure in modo impro-
prio, dischiude l'ambito della differenza ontologica. È eviden-
te in effetti che, quando parla del moto e della quiete e del loro
«essere», in tanto il Forestiero d 'Elea ne parla cosl, in quanto,
lungi dall'identificarli con l'essere, li prospetta come tali che
di questo sono soltanto partecipi; ché se con l'essere invece si
identificassero, allora la conseguenza sarebbe delle più im-
barazzanti168. Accadrebbe infatti, in questo caso, o che il moto
e la quiete sarebbero, non tali, ma, senza alcuna differenza,
essere; oppure che, senza alcuna differenza, l'essere sarebbe e

Mauritius_in_libris 163
moto e quiete, e in moto e in quiete. Qui dunque, e non ci vuol
molto a rendersene conto, partecipazione è, non un «identifi-
carsi» facendo emergere l'identità originaria: è invece un «an-
dare a far parte». Per un altro verso, tuttavia, altrettanto evi-
dente è che la distinzione, che il Forestiero stesso introduce e,
sotto vari aspetti, mantiene, fra partecipazione come identifi-
cazione e partecipazione come «andare a far parte», crolla
senza rimedio quando, per escludere che essere e identico sono
«lo stesso», egli osserva che se, invece, lo fossero, allora, in
quanto entrambi essenti, anche il moto e la quiete sarebbero,
anzi che (come erano stati definiti) «contrarissimi» 169 , identici.
Che sia cosl, è, come sappiamo, inevitabile, perché, consi-
derato nella sua struttura intrinseca, il concetto della parteci-
pazione non rivela che questa irresolubile oscillazione. E par-
ticolarmente notevole è che questo suo carattere torni a mani-
festarsi in questo luogo, nel quale è l'essere a costituire il
termine degli atti partecipativi. Al di là della aporia più volte
segnalata, e per la quale al «partecipante» l'essere deriva bensl
dal suo partecipare dell'essere, ma è poi dal suo «essere il
partecipante» che questo trae la possibilità di partecipare del-
1'essere, al di là di questa aporia che ha, per cosl dire, carattere
generale ed anche qui è, ovviamente, presente, altro resta da
rilevare. E questo è che Platone incontra particolari ostacoli in
questo tratto della sua navigazione speculativa: ostacoli appar-
tenenti alla tessitura categoriale del suo logo, e perciò, in
questo contesto, inevitabili. In che senso, infatti, avrebbe potu-
to assumere e tener ferma la conseguenza che discende dal
concetto in ragione del quale «partecipare» non è che un «an-
dare a far parte»? Forse dicendo che, senza dubbio, il moto e la
quiete «sono», e che, non di meno, soltanto parziale è il loro
«essere»?

39. L'irrequieta natura del diverso

Riprendendo il filo principale del discorso, deve dirsi che


considerazioni non diverse da quelle già avanzate a proposito
del non essere, l'essere, la stessa cosa del moto e della quiete,
valgono anche per l'identico; che, se fosse la stessa cosa del-

164 Mauritius_in_libris
l'essere, e questo dell'identico, allora, quando diciamo che il
moto e la quiete «sono», altresl verremmo a dire che l'uno è
identico all'altra. E valgono altresl per il diverso e per la
relazione che intrattiene con l'essere; che non è una relazione
d'identità, quale invece sarebbe se si dicesse (ma dirlo è,
appunto, àouva:tov, impossibile) che essere e diverso sono
«lo stesso», oppure che, indicandoli con i loro diversi nomi,
nel pensarli e nell'intenderli si pensa e s'intende la medesima
cosa. La dimostrazione che il Forestiero d 'Elea fornisce di
questo punto è assai veloce; ma, ricca di spunti, richiede di
essere seguita con qualche cura.
Palesemente, il suo centro consiste in ciò, che, come 'tcilv
OV'tù)V 'tà µ.èv CXÙ'tà 1ccxe cxm6., 'tà fil: 1tpòt; &Ucx àel. Àiymem,
I

delle cose che sono, alcune in relazione a sé stesse sono dette,


altre invece ad altre, cosi il diverso appartiene a questa secon-
da schiera, la sua natura essendo di essere sempre altra (diver-
sa) rispetto ad ogni altro. 255 D 1 'tÒ Oé y' E'tepov àEl 1tpÒt;
E'tepov. E di questo, ossia dell'esclusione che l'essere e il
diverso siano lo stesso, non può dubitarsi, perché, si osserva,
se il diverso fosse tanto 1ccxe'cx\mS quanto 1tpòt; <ÌÀ.À.cx, e a lui
quindi accadesse di poter essere preso sia in sé, sia nella sua
«relazione ad altro», soltanto una sua parte.sarebbe 1tpÒt; &U..cx,
e un'altra invece no; mentre quel che, a giudizio del Forestiero
d 'Elea, è risultato fin qui è che, nella sua intera estensione, e
non in una sua parte soltanto, il diverso è non altrimenti che nel
suo essere «relativo ad altro».
Connessa com'è ad una delle questioni più ardue che la
riflessione filosofica si trovi di fronte, la pagina che ora si apre
è di particolare complessità. E certo può ben intendersi perché,
nel formularne i termini, per cosi dire, iniziali, Platone si
esprima cosl; e in ogni sua possibile dimensione il diverso
prospetti come sempre, dal diverso, diverso. In che modo
infatti di ciò che è diverso potrebbe dirsi che non è tale rispetto
ad altro? Basta, per altro, che la questione sia enunziata in
questi termini perché subito le difficoltà si facciano innanzi.
Che, sempre, il diverso sia diverso dal diverso significa bensi,
certamente, a) che, poiché è tale nei confronti di ogni cosa, per
questa medesima ragione ogni cosa è diversa dal diverso (da
ciò, s'intenda, che le è diverso). Ma significa anche b) che, il

Mauritius_in_libris 165
diverso essendo anch'esso «cosa che è», e ogni «cosa che è»
essendo diversa dal diverso, anche da sé medesimo il diverso
è diverso? E posto (senza concedere) che anche a questo se-
condo quesito debba e possa darsi risposta positiva, i due
punti, a) e b), sono, o no, destinati a rivelarsi identici: ossia tali
che, svolgendoli, si perviene alla medesima conclusione?
(a) Se il diverso è diverso da ogni cosa, e ogni cosa è
diversa dal diverso, una medesima diversità caratterizza il
primo, come il secondo, versus di questa relazione: sia l'essere
il diverso diverso da ogni cosa, sia l'essere ogni cosa diversa
dal diverso. Ma la «medesima diversità» è un 'identità con sé;
e di essa non potrebbe certo dirsi che sia diversa da sé. Ne
consegue che se, in entrambe le direzioni in cui questo rappor-
to si svolge, una «medesima diversità» è immanente, e questa
non è che «la» medesima diversità, allora, nell'esserne mede-
simamente intessuti e nel loro essere non diversi da, ma iden-
tici a, sé stessi, entrambi, sia l'essere il diverso diverso da ogni
cosa, sia l'essere questa diversa dal diverso, saranno identici:
allo stesso modo diversi, e, per ciò, identici. La questione è
stata esposta in termini alquanto astrusi; e semplificarne l 'e-
spressione era in effetti più difficile che esporla cosl. Ma la sua
sostanza è chiara. In sé stessa, e rispetto a sé stessa, la diversità
è identità; e identici sono i diversi.
(b) Essendo anch'esso «cosa che è», e ogni cosa che è
essendo diversa dal diverso, ne consegue che il diverso è
diverso da sé. È, in sé stesso, 1tpòc; &Un (o 1tpÒç &A.A.o); ma,
appunto, in sé stesso e secondo sé stesso: x:a0'm'rt6. Per
quanto infatti sia detto essere 1tpòc; &A.A.a, e anzi proprio in
quanto lo è, in questo suo «essere per altro» il diverso non può,
innanzi tutto, non essere «per sé», o, x:a0' m'rt6, 1tpÒç &A.A.a:
ché se «per sé», o x:a0'aùt6, non fosse 1tpòc; &A.A.a, se in-
somma l '«esser per altro» non appartenesse alla sua essenza e,
nel suo esser diverso, proprio da sé e dal suo essere diverso
fosse diverso, come mai allora si affermerebbe la sua diversità
e lo si proclamerebbe diverso dal diverso? Il quale (ultimo) è,
a sua volta (e se ci si ponga dal punto di vista della semplice
rappresentazione, senza alcuna possibilità di dubbio), un altro
diverso, - quel diverso «diverso» dal quale, e nei confronti del
quale, il diverso è diverso. Ma diverso dal diverso non può

166 Mauritius_in_libris
certo essere se, invece che dal punto di vista dell 'immediatez-
za rappresentativa, ci si ponga da quello della considerazione
filosofica. Diverso dal diverso, quello, il diverso, non può
essere, perché, - si assuma pure la dualità dei termini: forse
che, studiandone gli elementi, nei «due» diversi che, l'uno nei
confronti dell'altro, tendono il filo della diversità, sarà possi-
bile trovare qualcosa di diverso, e non invece la medesima
identità che, in effetti, sussiste alla radice del, e nel, loro essere
diversi, - anzi «i diversi»? Insomma, e per non andare troppo
per le lunghe: presentati come tali che ad entrambi compete la
medesima natura e il medesimo comportamento ontologico, i
diversi non riescono a tendere il famoso filo della diversità, il
loro destino essendo piuttosto di svelare quello dell'identità:
come dovrebbe del resto riuscire chiaro a chi consideri che se
quella della diversità è (e Platone lo dice in modo esplicito)
una qn)cnc; 170 , una natura, a tale natura non potrà certo apparte-
nere di essere diversa da sé, anche se per avventura la natura di
questa natura fosse, come qui si dice, la «diversità» da ogni
cosa che sia: e, quindi, anche da sé stessa. Potrebbe infatti mai
ammettersi che, nell'essere diversa dal suo essere diversa da
ogni cosa che sia e, quindi, anche da sé stessa, che è diversa,
proprio in questo punto la natura del diverso sia diversa? Non
potrebbe perché, se fosse diversa dal suo essere diversa da
ogni cosa che sia e, quindi, da sé stessa, non sarebbe diversa da
ogni cosa che sia e, quindi, da sé stessa. Per essere diversa da
ogni cosa che sia e, quindi, da sé stessa, si richiede che la
qn)cnc; del diverso non sia diversa da questo suo essere diversa
da ogni cosa che sia e, quindi, da sé stessa. Ma se, per essere
e poter essere diversa da ogni cosa che sia e, quindi, da sé
stessa, si richiede che sia identica (a questo suo esser sempre
diversa da ogni cosa che sia, e, quindi, da sé stessa), ecco
allora che non è vero che la natura del diverso è di essere
diversa da ogni cosa che sia e, quindi, da sé stessa; e la questio-
ne delle cose che sono x:ae'm'.mi, e di quelle che, semplice-
mente, sono 7tpòc; àUa, si rivela perciò assai più complessa di
quanto di necessità risulti a chi non le distingua che con le
parole, e di queste si contenti.

Mauritius_in_libris 167
Mauritius_in_libris
IX

40. La riduzione del µ1) ov allo ewpov

Per intanto, sebbene l'analisi delle premesse abbia già per


sé chiarito molto di quel che appartiene ali' ambito delle con-
seguenze, accingiamoci, anche a costo di dover ripetere cose
già dette, a seguire la nuova sezione del dialogo, che a questo
punto si apre; e che, come si sa, concerne la famosa riduzione
del µiì òv allo hepov. Da quanto, nel corso della precedente
analisi, era riuscito a mettere in chiaro, il Forestiero d'Elea si
accinge ora a trarre le conseguenze generali ed estreme; e a
sferrare, contro il padre, l'attacco decisivo. Aveva messo in
chiaro che il movimento è 7tO.V'tchmcnv hepov cr'tacrecoc; 171 ,
sotto ogni riguardo diverso dalla quiete: tale, quindi, che con
essa realizza qualcosa come una µeytcr't'Tl 5ta.<J>op0.. E, traendo
la conclusione, ora dice che, dunque, il movimento non è
quiete (où cr'tacrtc: cip' Ècr'ttV), e, per conseguenza, «non è».
Ma dice anche che, ciò nonostante, 5tà 'tÒ µE'tÉXEtV 'tOÙ ÒV'toc: 172,
in ragione del suo partecipare dell'essere, per un altro verso, è.
Ancora, e allo stesso modo, Ti JCt v11crtc; E'tEpov 'ta.Ù'toù
Ècrnv 173 , - il movimento è altro, o diverso, dall'identico: non
è, perciò, l'identico, sebbene, per altro verso, anch'esso, come
ogni altra realtà, dell'identità sia partecipe, - in questo atto di
partecipazione realizzandosi la sua stessa, specifica <t>ucrtc;. E,
allo stesso modo, come per la quiete, il medesimo ragionamen-
to dev'essere ripetuto per il diverso; dal quale, come dalla
quiete, il movimento è diverso: con la conseguenza che, anche
qui, non diverso e diverso si dovrà definirlo. Ne consegue che
il movimento è identico, senza essere l'identico, è diverso
senza essere il diverso: e sebbene, dal punto di vista di Parme-
nide, la cosa suoni scandalosa, la conclusione non può, a
giudizio del Forestiero d 'Elea, né stupire, né muovere ali 'indi-
gnazione, chi abbia seguito il filo del ragionamento, dal quale,

Mauritius_in_libris
169
in effetti, si ricava altresl che, com'è diverso dalla quiete,
dall'identico e dal diverso, cosl del pari anche dall'essere il
movimento è diverso 174 • Di lui deve perciò dirsi che realmente
«non è», e non di meno che «è», perché partecipa dell'essere:
con la conseguenza che, come si legge in un passo (256 D-E)
riassuntivo, che, per questo suo carattere, gioverà citare: «ne-
cessariamente (ÈI; àvciyKTl';) il non essere è: riguardo al movi-
mento e altresl KCX'tà 7tclV'ta 'tà yévri. Per tutti, infatti, col
rendere ciascuno diverso dall'essere (E'tepov [... ] 'toù òvwc;
EKaawv), la natura del diverso (Tt 0CX'tépou <1>uatc;) lo fa "non
essere" (oÙK òv 7tOtd); e cosl, allo stesso modo, a ragione di
tutti diremo che non sono, e di nuovo, in quanto partecipano
dell'essere, diremo invece che sono e sono enti» (25 6 D 11-
E 3).
Per il suo stesso carattere, il riassunto inviterebbe a ferma-
re l'esposizione e a produrre qualche commento. Ma conviene
per ora andare avanti, perché, a questo punto, il Forestiero
d'Elea osserva che, come i generi sono ciascuno diverso dal-
l'altro, e, in questo atto, sono e non sono, cosl è pure dell'es-
sere; che, genere fra i generi, anch'esso, per conseguenza,
quanti sono gli altri, altrettante volte non è 175 • L'essere, infatti,
non è quiete, non è movimento, non è l'identico, non è il
diverso, non è, insomma, le realtà che, per loro conto, sono ciò
che sono e non sono l'essere (in quanto tale); e soltanto in
questo atto, in questo atto, si direbbe, del loro «non essere»,
per suo conto «è». Di questo occorre riconoscere la verità, e
non menare scandalo: 257 A 8-9 oÙKoùv oiì Kal 'tCXÙ'ta où
ouaxepavtéov' È7tet7tEp ÈXEt lCOtvrovtav MÀ1'À.Ot<; Ti 'tci>V yevci>v
<1>umc;; occorre riconoscerlo, e non menarne scandalo, perché
la natura dei generi è di convenire l'un l'altro. E in ragione di
questa <1>uatc:, che tutti li caratterizza nel profondo, accade in
effetti che, quando diciamo «non essere», diciamo non già
cosa contraria all'essere, e di questo al tutto scevra, ma diver-
sa; a quel modo che, quando al nome di una cosa premettiamo
il «non», intendiamo in realtà che il suo significato consiste
nell'indicare qualcosa di diverso da quel nome, o, meglio
ancora, dalla cosa che ne è designata.
In tal modo, la realtà viene a configurarsi come un sistema
di determinazioni, ciascuna delle quali è, nel suo essere quel

170 Mauritius_in_libris
che è, il suo non essere le altre che, a loro volta, ciascuna
essendo sé stessa, non sono né quella determinazione né le
altre tutte. E la cj>u<nc; toù 0mÉpou, della quale già il Fore-
stiero d'Elea aveva parlato, viene perciò a configurarsi come
qualcosa di «più grande» del «diverso» che compare come
uno, e non più che uno, dei YÉVTI che costituiscono la cruµ-
7tA.otj. O meglio: si configura come tale che, essendo elemen-
to del tutto, è nello stesso tempo il tutto che, per la sua virtù
specifica, proprio come un 'articolata «diversità» appare ed è
costituito. Questa, a guardar bene, è la ragione per la quale del
«diverso», che è parte, Platone dice, paradossalmente, che è
articolato in parti; e questa ragione consiste in ciò, che non
come il «diverso» che sta nella cruµ7tA.otj, e contribuisce a
costituirla, il «diverso» ha parti, ma come la cruµ7tA.otj stessa
che, essendone parte e in quanto è partecipato dagli altri gene-
ri, esso, il «diverso», concorre a costituire nelle «parti» che, in
concreto, la articolano e la rendono tale. Per questo, conclusi-
vamente semplificando, il Forestiero può ormai sostenere che,
alla luce di quanto fin qui chiarito, data la contrapposizione
«bello non bello», «giusto non giusto», e cosl via, «uno» degli
enti, di un dato genere determinato e ad un altro genere con-
trapposto, risulta essere il «non bello», il «non giusto», e cosl
via: con la conseguenza che, se il «non essere» («non bello»,
«non giusto») è, ed essere, come tutti converranno, è l'essere
(«bello», «giusto»), contrapposizione di essere ad essere è la
contrapposizione che, nella scrittura, si realizza mediante l 'in-
troduzione del «non» 176 • Il quale ha in effetti la funzione di
specificare e determinare l'essere: sempre negando secundum
quid, e mai, dunque, in assoluto. E non suscita meraviglia,
giunti a questo punto, l'appello che, ancora una volta, il Fore-
stiero d 'Elea fa al coraggio: al coraggio che, in effetti, si
richiede per affermare che tÒ µ1) ÒV pepate.oc; È:crtt 'tftV ClU'tOÙ
cj>u<nv exov 177 ; e che, a quel modo che il grande è il grande, il
bello è il bello, il giusto è il giusto, cosl, del pari, anche il «non
grande», il «non bello», il «non giusto» sono, e con altrettanta
pepauh11c;, con altrettanta fermezza: con la pepm6t11c; e, per
cosl dire, la incrollabilità, che al solo essere Parmenide ricono-
sceva.
L'addio rivolto a questo grande pensatore che, come un

Mauritius_in_libris 171
fantasma non pacificato, cosl a lungo, e sempre suscitando
inquietudine, si aggira nella regione platonica, suona, in tal
modo, come un definitivo addio, - un addio per sempre che,
per la dolorosa serietà polemica con la quale è pronunziato,
non ammette, appunto, il ritorno. Come, infatti, il ritorno -
potrebbe dirsi citando uno scrittore moderno, dopo un simile
addio? E converrà ascoltarla, la voce di Platone, mentre, solen-
nemente, scandisce le parole dell'estremo commiato:

Né ci si venga ora ad obiettare che, avendo definito il non essere


come il contrario dell'essere ('toùvavnov wu ov'toç), osiamo af-
fermare che è. Perché noi a un contrario dell'essere, se è o se non è,
se pensabile o affatto impensabile, abbiamo da un pezzo detto addio
(fiµEic; yàp 7tEpì µÈV Évavnou 'tl.VÒc; aù'tcp xatpnv mH.m ì..tyoµEV,
El 't' Ècr'tl.V EÌ'tE µr\, MSyov fxov T\ 1mì 7taV'tcl1taow aÀ.oyov). E
quanto alla definizione che del non essere ora abbiamo data, o ci si
confuti e convinca del nostro errore; o, finché uno non sia capace di
farlo, è forza che anch'egli dica quel che noi diciamo e come dicia-
mo: che vicendevolmente si uniscono i generi; e essere e diverso, a
tutto ciò che è estendendosi, anche, in modo reciproco, si compene-
trano: sì che, nel partecipare dell'essere, in virtù di questa partecipa-
zione il diverso è, ed è, com'è ovvio, non ciò di cui partecipa, ma
altro, e poiché è altro dall'essere, in modo manifesto e di necessità è
non essere. E, venendo a sua volta a partecipare del diverso, l'essere
sarà altro dagli altri generi, e, come altro da ogni altro, non è singo-
larmente nessuno di essi nel loro complesso, ma è soltanto sé stesso.
Sì che l'essere senza alcun dubbio infinite volte, e per infiniti rispetti,
è, e tutti gli enti, considerati in sé e nel loro essere insieme, per molti
rispetti sono, e per molti viceversa non sono 178 •

Sono, se non proprio quelle finali, le parole che idealmente


concludono il dialogo, e, non senza qualche persistente ambi-
guità, restituiscono intero il senso della grande fatica compiu-
ta. E ascoltarle, era giusto. Ma ora, in vista della conclusione
che, si licet, noi pure dobbiamo cercar di raggiungere, è tempo
di commento.

41. Riepilogo delle questioni e delle aporie

È tempo di commento, e anche, se possibile, di sintesi


delle varie osservazioni che, via via, seguendo la linea del
dialogo, sono state formulate in margine alle analisi aporetiche

172 Mauritius_in_libris
e a quelle risolutive delle quali s'intesse. Occorrerà perciò che,
nel sentirsi ripetere cose già dette, il lettore si rassegni e tanto
meno imprechi quanto più, per altro verso, si sia egli stesso
convinto che questo non è un testo facile, ma complesso,
intricato, e tale che richiede di essere ascoltato e riascoltato
nella musica proveniente dalle sue parti nevralgiche. E per
cominciare, si consideri di nuovo la natura del procedimento
partecipativo del quale, esplicitamente, il Forestiero d'Elea si
serve per mandare a buon fine la sua rivolta contro il padre. A
questo scopo, dopo aver ripetuto che, anche in questa parte del
dialogo, è facile, alla radice del procedimento partecipativo,
cogliere lo scambio in forza del quale, per un verso le realtà
partecipanti ricevono il carattere della realtà da ciò di cui
partecipano, ma, per un altro, posseggono questo carattere e
per ciò solo partecipano ed è possibile che partecipino; dopo
aver richiamato, senza apertamente ripercorrerli, gli svolgi-
menti ulteriori che a questa tesi furono impressi allorché il
problema della µéee!;tc; fu posto al centro dell'indagine, - si
concentri ora l'attenzione sul punto che, in quest'ultima parte
della ricerca, s'impone come il fondamentale, il più importan-
te, - e come quello altresl in cui il senso dell'intero ragiona-
mento culmina. Questo punto viene colto nel suo autentico
carattere quando si ripercorrano le questioni alle quali si darà,
qui di seguito, rilievo, o se si preferisce (e com'è più giusto
dire), ulteriore rilievo.
Già variamente toccata e trattata, la prima delle questioni
che, in vista della conclusione, richiedono nuova analisi, con-
cerne la «presupposizione» dei generi all'esercizio concreto
delle connessioni dialettiche; e culmina nel rilievo secondo cui
la diversità, che dovrebbe costituire il 'tÉÀOc; della dialettica e
del suo concreto esercizio, risulta, per un altro verso, estrinse-
camente presupposta alla dialettica che, appunto, proprio da
tale esercizio dovrebbe risultare. Strettamente connessa a que-
sta, la seconda questione riguarda il primato che, nel quadro
dei 'YÉVTl e del loro vario connettersi e non connettersi, il Fore-
stiero d 'Elea finisce col concedere alla É'tEp6't1lc;, o, se si pre-
ferisce, allo E'tEpov che, e lo si è già notato, per un verso è
niente più che uno dei cinque generi, ma per un altro, è la
cruµ7tÀ.OK1' stessa, nel senso almeno che ne riproduce in sé,

Mauritius_in_libris 173
nella sua cjnScrv;, la specifica articolazione. La terza questione
concerne il congedo del nulla assoluto (che altresl, e com'è
ben noto, implica che anche all'idea dell'assoluto essere si sia
detto addio). Infine, la quarta questione riconduce al tema
della diversità; che il dialogo pretende di aver collocato su un
fondamento incontrovertibile, e invece, in concreto, non ci
riesce: con la conseguenza che, dopo aver comunicato il fermo
convincimento che, con la delineazione del suo concetto, su-
perate per sempre fossero state le aporie intrinseche all 'eleati-
smo, proprio quello, il concetto della È'tep6't11<, si mostra in
una abbagliante luce aporetica. Elencandole e distinguendole
cosl, sembra agevole, queste quattro questioni, tenerle distinte
anche nell'analisi; sembra agevole trattarle l'una dopo l'altra,
separatamente. Ma le quattro questioni non sono che le quattro
articolazioni, o, se si preferisce, dimensioni, dell'unica que-
stione che, in effetti, il Sofista presenta; e per sforzi che si
facciano per tenerle distinte e separate, sarà difficile, questo
proposito, rispettarlo e, quindi, realizzarlo sul serio. Nel pro-
fondo, le quattro questioni si intrecciano, si richiamano, si
scambiano le parti, l'una entra nell'altra; e mostrano, ciascuna,
di possedere, oltre il proprio, anche il carattere che incide il
volto delle altre.

42. Il fallimento della deduzione (della diversità)

L'alterna presupposizione dei generi ali' esercizio concre-


to della dialettica significa che al compito specifico, consi-
stente nella dimostrazione, o deduzione, della diversità, Plato-
ne non è riuscito ad esser pari. Perché possa dirsi che sul serio
sia stato dedotto, giustificato, e dimostrato legittimo, il yévoc;
della diversità dovrebbe, per cosl dire, scaturire dallo stesso,
concreto esercizio ed intreccio dialettico. Ma l'intreccio dia-
lettico suppone che alla sua radice, e prima comunque che il
suo esercizio abbia avuto inizio, i generi siano, ciascuno in sé,
reali e, nella loro realtà, fermi. Suppone altresl che nella loro
fisionomia siano inconfondibili: con la conseguenza che tale
fisionomia (la fisionomia, s'intende, della cruµ1tÀOtj) sarà

174 Mauritius_in_libris
bensl dialettica quando, secondo le regole che il Forestiero
d 'Elea detta, i generi siano entrati in contatto e abbiano pro-
dotto le necessarie combinazioni, ma di necessità non sarà tale
quando, ciascuno in sé e presso di sé, i YÉVT\, siano bensl, in-
nanzi tutto, pronti ad entrare nel gioco, e tuttavia, chiusi in sé,
ancora si trovino al di qua del suo inizio.
La difficoltà che, per questa via, viene a delinearsi è estre-
mamente grave; e non consiste infatti soltanto nella sfasatura
che si è segnalata e per la quale i generi, prima stanno presso
di sé, nella loro già costituita fisionomia ontologica, e poi
entrano l'un l'altro in contatto, perché questa sfasatura ha
come una radice, nella quale la vera difficoltà si nasconde.
Basta, del resto, pensarci, e subito ci si avvede che, se i generi
stessero presso di sé, e tale «stare» contenesse tuttavia la
condizione del loro vario combinarsi dialettico, allora, per
certo, non potrebbe dirsi che i generi stanno, prima, in sé, e poi
si connettono, perché, in questo quadro, lo «stare in sé» sareb-
be, eo ipso, e senza alcun divario, condizione e realizzazione
del connettersi. Ma che, prima, i generi stiano in sé, e poi
passino a variamente connettersi, è invece richiesto dalla logi-
ca intrinseca alla situazione concettuale a cui Platone era per-
venuto; e, con le aporie alle quali dà luogo, la discrasia del
«prima» e del «poi» si riproduce infatti, e, come un nodo
insolubile, torna dinanzi al pensiero, anche se, capovolgendo il
rapporto, si faccia che sia la crnµ7tÀ.01CT\ a costituire, rispetto ai
generi, il prius. È evidente infatti che, essa stessa essendo
costituita dai generi ai quali, per altro verso, si pretende che
conferisca realtà, e questa, che essa forma col dar vita ai
generi, essendo la sola realtà cui competa il titolo di dialettica,
alla crnµ7tÀ.01CT\ (che, formata dai generi, a questi conferisce
l'esistenza) dovrà per forza riconoscersi una realtà non dialet-
tica: che, in caso contrario, se cioè già in questa sua prima
dimensione, la dialettica le appartenesse, a che scopo allora
s'impegnerebbe a renderla possibile mediante l'atto di costitu-
zione dei generi? Nel primo caso, per conseguenza, ad essere
adialettici, e costituiti innanzi alla dialettica, come sua condi-
zione, erano i generi; che pure, per un altro verso, e a ragione,
erano definiti in funzione della cn>µ7tÀO~. Nel secondo, ad
essere adialettica è la cruµ7tÀO~ stessa che pure, per un altro

Mauritius_in_libris
175
verso, e bene a ragione, richiede di essere definita come la
dialettica - la dialettica, si vuol dire, assunta e realizzata nel
suo concreto esercizio.
Ma le difficoltà alle quali l'esame della prima questione
mette capo non finiscono qui. Se, per la sua propria esistenza,
il yÉvoc; che concorre a costituire la cruµ7tÀOK'J\ (e, in tale atto
può ben dirsi che si risolva in essa), alla sua radice, e come
condizione della sua possibilità, presuppone sé medesimo, ma,
per così dire, in accezione non dialettica, è ben vero che questi
due YÉVTI sono pur sempre lo stesso yÉvoc;, dal momento che,
ad esempio, è l'identico, è il diverso, è il moto, è la quiete, è
l'essere stesso, a supporre, ciascuno alla sua propria radice,
l'identico, il diverso, il moto, la quiete, l'essere. Vero è però
anche che questi due yÉv11 non sono affatto lo stesso yÉvoc;,
perché, nell'identità del nome, l'uno è adialettico, l'altro dia-
lettico. E se è così, non è allora evidente che la non identità che
li caratterizza è bensì «diversità», ma diversa, tuttavia, dalla
diversità che, nella cruµ7tÀOK'J\, contribuisce alla possibilità e
alla realtà di questa? In quest'ultimo caso, la diversità è intrin-
seca alla cruµ7tÀotj (che quindi, se legittima è tale diversità,
anch'essa è legittima). Ma nell'altro caso le cose vanno diver-
samente, perché la diversità qui riguarda i YÉVTI che, presi in
sé, al di qua della cruµ7tÀotj, le danno vita insieme ai yÉv11
che, quello della diversità compreso, stanno in essa. La conse-
guenza è, concettualmente, assai grave: non solo perché (e non
si vede come la pretesa sia sostenibile) si assume che, fra i
YÉVTI presi al di qua della dialettica e quelli connessi nella
cruµ7tÀ.Otj, si dia comunque un nesso; ma anche per un'altra
ragione, che converrà rendere esplicita. E questa è che, nella
vicenda che stiamo descrivendo e analizzando, incontrolla-
tamente (e senza che il controllo della situazione riesca mai, in
questo quadro, ad essere ripreso) il yÉvoc; della diversità si
duplica in due diversità che tali sono rese da una differenza
pregressa, irriducibile, e, in luogo di essere fonte e coelemento
di KOtvrovia, separante.

176 Mauritius_in_libris
43. La specifica difficoltà del «diverso»

Non meno che della prima, anche la seconda questione dà


luogo a difficoltà gravi. Il suo aspetto paradossale sta, come
già ci è noto, in ciò che, genere fra i generi e, al pari degli altri,
concorrente all'attuazione della dialettica, il «diverso» è tutta-
via tale che, come la scienza, esso stesso si articola e si orga-
nizza in parti: 257 C 7-8 Tt 0cnépou µot cj>ucrtç cj>atVE'tat lCCl-
'tCllCElCEpµatlcr0m Ka0ci1tep èmcr't"T\µ11: con la conseguenza che,
momento o coelemento della cruµ1tA.oK1\, esso è tuttavia, se
non identico, analogo alla cruµ1tA.oK1\ stessa. Contempora-
neamente, dunque, e senza che la difficoltà sia messa a tema,
il diverso è parte di un tutto (la cruµ1tÀ.OlC1\, che è bensì arti-
colata in parti, ma è, non di meno, il tutto delle sue parti), e il
tutto di cui è parte; e, al pari della cruµ1tA.oK1\ di cui è parte,
diverso in e da sé stesso: con la conseguenza del suo essere
articolato in parti. Ne deriva una situazione singolare che,
presentando non una difficoltà ma, piuttosto, un ventaglio di
difficoltà, richiede attento esame.
Per cominciare, si osservi intanto che, presentandosi, nella
cruµ7tA.oK1\, come parte e, nello stesso tempo, come a sua volta
articolato e distinto in parti, il diverso si presenta altresì come
una parte che, per essere l'orizzonte delle parti in cui si artico-
la e si distingue, svolge la funzione di, ed è, un tutto. È
insomma bensì una parte (della cruµ1tA.olC1\), ma tale che a sua
volta, e senza cessare di essere parte, svela, poiché ha parti, il
volto strutturale del tutto. Se per altro nell'essere parte, e
nell'atto in cui è parte, il diverso si presenta come un tutto
(articolato e distinto in parti), ecco allora che fra la cruµ7tA.oK1\,
di cui il diverso è parte, e questo stesso diverso, che ha parti e
perciò offre allo sguardo una fisionomia analoga, o identica, a
quella del tutto di cui è parte, il rapporto appare, ed è, estrema-
mente problematico. E si veda, in breve, perché.
Considerata nella pienezza dell'operazione che la fonda e
la costituisce, la cruµ1tÀOK1\ è tale in quanto, e alla condizione
che, di essa possa dirsi che è l'intreccio dei YÉV'Tl dal cui rap-
porto, e non rapporto, trae l'esistenza. A sua volta, l'intreccio
dei 'YÉV'Tl non si realizzerebbe, e non sarebbe tale, se in esso
ciascun yévoç non fosse, qual è e deve essere, il yévoç che è:

Mauritius_in_libris
177
diverso da ogni altro, ma ad ogni altro identico, tuttavia, nel-
1'essere un yÉvoc;. Dall'analisi e dal ragionamento che sono
stati svolti fin qui, è per altro risultato che non così, in concre-
to, le cose vanno nel testo platonico: dove, nell'essere, al pari
dell'identico, del moto, della quiete e dello stesso essere, mo-
mento e coelemento della cruµ7tÀ.Cnc1\, il diverso si presenta
tuttavia, rispetto agli altri 'YÉVJ'\, come ulteriormente «diverso».
La sua «diversità» merita, in effetti, di essere definita «ulterio-
re», non perché il «diverso» sia diverso, e tale, dunque, che
con gli altri 'YÉVT\ stabilisce «diversità», ma piuttosto perché, a
differenza di questi, che sono 'YÉVT\ e nella cruµ7tÀ.OK1\ si danno
come parti, a lui, e a lui solo, compete invece di avere parti e
di essere quindi, proprio come la cruµ7tÀ.OK1\, un tutto. Se è
così, non avevamo torto a dire che, nel quadro di questa situa-
zione, il rapporto intercorrente fra queste due accezioni del
«diverso» presenta caratteri di così radicale problematicità da
far dubitare se, addirittura, di un rapporto possa parlarsi. Il
rapporto, in effetti, può darsi soltanto se gli elementi che,
entrando in contatto (e, appunto, in rapporto), lo costituiscono,
siano «diversi»: che se, in luogo di essere diversi, fossero, per
caso, identici, in rapporto, certo, non potrebbero entrare; e
mai, per conseguenza, questo, il rapporto, si costituirebbe. Il
che, come è ovvio, trova nella teoria della cruµ7tÀ.OK1\ la sua
puntuale conferma: essendo evidente che mai i 'YÉVT\ istitui-
rebbero fra loro un rapporto se, per la virtù intrinseca al diver-
so, non fossero tutti, di volta in volta, diversi(e qui, per la
verità, non appare decisivo il rilievo secondo cui è, o potrebbe
essere, la diversità dei 'YÉVT\ a istituire il diverso: quel che conta
è infatti, non tanto di stabilire se il diverso derivi dalla diver-
sità dei 'YÉVT\, o questa derivi da quello, ma è bensì che, in un
modo o in un altro, per una ragione o per la ragione opposta, i
diversi siano diversi). Condizione essenziale, dunque, perché,
per questa parte, il rapporto si dia e la cruµ7tÀ.OK1\ si realizzi, è
che, in essa il diverso sia il diverso e, fonte o conseguenza
della «diversità», svolga intera la sua virtù. Ma, nella visione
che Platone ne ha, e nella concreta teorizzazione che ne offre,
il diverso non è solo elemento, o coelemento, della cruµ7tÀ.OK1\.
È, al pari di questa, una cruµ7tÀ.OK1\ di parti; e ne deriva quindi
che, presentando, in un suo momento costitutivo, un incontro

178 Mauritius_in_libris
di identici anzi che di diversi, la O"Uµ7tA.otj non può costi-
tuirsi, perché incostituibile è in realtà un rapporto che, in ogni
sua parte o articolazione, non sia fondata sulla diversità degli
elementi. Si dirà che questo è, tuttavia, un sofisma, e che gli
elementi della O"Uµ7tA.oKT\ sono diversi? Ma, in realtà che dif-
ferenza può esserci mai fra un «tutto di parti» e una parte che,
per essere articolata e distinta in parti, anch'essa è un «tutto»
(di parti)?
La difficoltà che, per questo verso, insidia la costituzione
del rapporto e della O"Uµ7tA.otj, è, come si vede, cosl grave da
rivelarsi addirittura come un 'autentica impossibilità costituti-
va; e potrebbe suggerirsi che non è forse senza qualche obiet-
tiva ironia che la logica del pensiero sembra qui vendicarsi, e
anzi si vendica, del logo di Platone, dal momento che è proprio
la scoperta e la definizione del «diverso», di questo diverso, a
mettere in crisi la possibilità concettuale di una teoria elabora-
ta allo scopo di mostrare l'insostenibilità dell'assoluto essere e
non essere e volta, per contro, a celebrare le lodi della «diver-
sità». In realtà, sembra difficile negare che in questo punto,
estremamente specifico ma di cruciale importanza, il logo di
Platone si rivolga contro sé stesso, o, se si preferisce, fornisca
gli elementi della sua autodissoluzione. E, tutto considerato,
poiché è alla struttura generale della O"Uµ7tA.otj che, in questa
parte dell'indagine, l'occhio si sta rivolgendo, deve allora
aggiungersi che anche per altri motivi il suo quadro comples-
sivo si rivela, qui, tracciato con insufficiente rigore.
Si faccia, perché è necessario, un passo indietro; e si retro-
ceda al luogo in cui, scartate come autocontraddittorie le due
opposte teorie dell'universale separazione e, per contro, del-
l'universale connessione di «tutto con tutto», il Forestiero
d 'Elea suggerisce che alcune cose comunicano, altre no, e che
questo è, appunto, il fondamento della dialettica 179 • Che, ad
esempio, moto e quiete non possano non partecipare dell'esse-
re, dell'identico e del diverso, risulta ovvio solo se si consideri
che entrambi «sono», sono identici a sé e, 1'uno rispetto all 'al-
tro, diversi. Ma, proprio per ciò, come potrebbero partecipare
1'uno dell'altro, e dar cosl luogo al duplice assurdo di un moto
fermo e di una quiete in moto? D'altra parte, non è anche
evidente che se moto e quiete partecipano dell'essere, dell'i-

Mauritius_in_libris 179
dentico e del diverso, non avrebbe senso, lasciando per ora da
parte la questione dell'essere, rovesciare il versus e dire sen-
z'altro che anche l'identico e il diverso partecipano del moto e
della quiete? In effetti, che senso avrebbe dire cosi, se la
conseguenza, palesemente assurda, sarebbe, da una parte, un
identico fermo e un identico in moto, da un'altra, un diverso
fermo e un diverso in moto; e dunque un identico che, per la
fermezza di cui è predicato, sarebbe identico al diverso «fer-
mo», e un diverso che, predicato del movimento, sarebbe iden-
tico all'identico in moto? Che senso avrebbe dire cosi, se di
tutto ciò l'ulteriore conseguenza sarebbe che, nello stesso atto
e sotto il medesimo riguardo, l'identico sarebbe tanto in moto
quanto fermo, mentre, anche sull'altro fronte, il diverso pati-
rebbe in sé questa duplice e contraddittoria predicazione?
Né, al riguardo, riuscirebbe decisiva l'osservazione secon-
do cui, se partecipare non è identificare, di qui consegue che,
partecipando del moto, solo in parte la quiete sarebbe moto, e
per il resto, invece, quiete; e che questa stessa situazione si
ripeterebbe per tutti gli altri casi di partecipazione. Questo
rilievo è, come sappiamo, giustissimo; e proprio noi l'abbiamo
formulato nel corso di questa indagine. Ma, nel caso presente,
non ha alcun valore. Sia pur vero, infatti, che, partecipando, ad
esempio, del moto, solo di una sua parte la quiete partecipereb-
be; e che altrettanto avvenga al moto nella sua partecipazione
della quiete. Ma, se è cosi, due sole conseguenze sembrano
possibili. La prima è che se, in sé stessa, la quiete «ospitasse»,
e potesse ospitare, e la quiete e il moto, e secondo questi si
dividesse in sé stessa, il risultato sarebbe il distinguersi della
quiete dal moto, e basta; e niente, infatti, sarebbe il luogo
ospitante (la quiete che ospita), perché in concreto, oltre la
quiete, il moto e il loro dividersi «non comunicando», non si
dà, appunto, niente. La seconda è che in sé stessa, partecipan-
do del moto, la quiete sia quiete, o ferma, perché del moto solo
in parte partecipe; ma anche «in moto», perché, sia pure in
parte, partecipe di questo. Se è cosi, questa è, per altro, la
forma pura della contraddittorietà.
Ebbene, se è cosi che deve dirsi, chi potrebbe negare, di
questo dire, la ragionevolezza? Non è forse evidente che, cam-
minando sulla via dell'assoluta reciprocità partecipativa, ci' si

180 Mauritius_in_libris
avvierebbe verso l'approdo dell'assoluta contraddittorietà? Che
sia cosl, sembra, in effetti, evidente. Eppure, malgrado la pale-
se assurdità intrinseca all'idea, non solo di un moto quieto e di
una quiete «in moto», di un identico e di un diverso, a loro
volta, contemporaneamente in moto e in quiete, ma anche di
un moto solo in parte fermo, e di una quiete solo in parte in
moto, - malgrado questa assurdità, deve dirsi che le cose non
stanno in termini altrettanto semplici e lineari di quelli che fin
qui sono stati descritti; e non già perché sia falso che il «moto
fermo» e la «quiete in moto», l'identico e il diverso &µa in
quiete e in moto, configurino altrettante contraddittorietà, ma
per un 'ulteriore e più sostanziale ragione. La vera difficoltà sta
nell'idea che, prese nella loro immediatezza, la comunicabilità
reciproca di alcune realtà e, per converso, l'incomunicabilità
di altre costituiscano la condizione della dialettica; e sta altresl
nel mancato avvertimento che, assunte in questa forma, la
comunicabilità e l'incomunicabilità non posseggono alcuna
energia fondativa, e, lungi dal dimostrare, sono esse che ri-
chiedono dimostrazione. La comunicabilità e l 'incomunicabi-
lità, o, se si preferisce, il «fatto» che alcune realtà comunichi-
no e altre invece no - tutto questo è, appunto, un fatto; che,
costituendo nella sua immediatezza il fondamento della co-
struzione, rivela che, nel senso pieno e rigoroso del termine,
questa è per certo infondata perché quello, il fatto, non è, nella
sua immediatezza, fondamento. Con il che, come si vede, si
torna al punto della «presupposizione» dei YÉVTI alla concre-
tezza, che perciò rimane inattinta, dell'esercizio dialettico 180 : un
punto, e occorre ribadirlo, cruciale, e che non per caso costitui-
sce qualcosa come il tema conduttore dell'intera ricerca.
C'è, del resto, di più. Poiché la tesi della comunicabilità e
dell'incomunicabilità costituisce bensl il fondamento «di fat-
to», e non «di diritto», del discorso, e richiede perciò di essere
criticata, ma offre poi in compenso alcuni ulteriori elementi di
riflessione, - si consideri allora quel che qui di seguito si dirà.
A giudizio del Forestiero d'Elea, moto e quiete sono come due
lettere alfabetiche alle quali, in una determinata lingua, sia
vietato di stare insieme, l'una accanto e di seguito all'altra:
due lettere che non comunicano, ed è impossibile che comuni-
chino. Sono dunque, in quel contesto, sempre separate. Ma

Mauritius_in_libris
181
«esser separato» può significare due cose, a loro volta assolu-
tamente diverse. Può voler dire che, quando si considera la
quiete, assolutamente non si considera il moto: ossia che non
occorre considerarlo, che considerarlo non è necessario, che
considerarlo è, addirittura, impossibile, tal che «prendere» la
quiete non implica, rispetto al moto, alcun atto specifico di
negazione. E in questo quadro non può dirsi quindi che la
quiete è quiete e, in quanto tale, «non è» moto, - questo suo
«non esser moto» costituendo la condizione specifica del su~
esser quiete. Non si può dire così perché, plausibile o no che
sia in sé, e nella sua intrinseca coerenza, il senso del discorso
è qui che, il moto essendo separato dalla quiete (e la quiete
essendo separata dal moto}, né quella è in quanto è il «non» di
questo, né il moto è in quanto è negazione della quiete, ma è
bensì in forza della «separazione» che l'uno è la quiete e
l'altro il moto; e in modo tale, inoltre, che la separazione li
«separi» assolutamente, e non sia perciò lecito dire che la
quiete è quiete in quanto è separata dal moto, e viceversa. Per
questa via si tornerebbe infatti ali 'assunto, che qui è stato
escluso, della negazione; e come che sia della possibilità (che
qui viene data, ma non concessa) di costruirne il concetto,
«separazione» vale altrimenti che «negazione», perché, a dif-
ferenza di questa, separa, senza, per altro verso, mettere in
contatto.
L'asserto può, tuttavia, significare tutt'altro. Può signifi-
care che, come (a giudizio del Forestiero di Elea), quiete e
moto sono fra loro contrari, e, anzi, massimamente contrari,
così è nel riferimento a questa massima contrarietà, a questa
µeyi.cr't'Tl oux<1>opci che ciascuno definisce il suo carattere. A
differenza di quel che si sosteneva qui su, la «Separazione»
onde l'una è la quiete e l'altro il moto significa «riferimento»
che, a sua volta, e necessariamente, significa «contatto». E
"contatto" significa «partecipazione». Come mai, in effetti, la
quiete entrerebbe in contatto con il moto, e questo con la
quiete, se, appunto, l'una non andasse in qualche modo a «far
parte» della realtà dell'altro, e viceversa? Ma, con estrema
chiarezza, il Forestiero aveva escluso che la quiete potesse
«partecipare» del moto, e che questo potesse mai partecipare
della quiete. Non avrebbe perciò, sull'altro fronte della sua

182 Mauritius_in_libris
considerazione, dovuto assumere che moto e quiete sono fra
loro massimamente opposti, o contrari: non avrebbe dovuto
perché, dire «massima opposizione», che altro significa se non
che, per potersi opporre, i termini che la costituiscono debbo-
no entrare in contatto, e qui, appunto, nel contatto, produrre la
loro opposizione? La prima tesi esclude, infatti, la seconda.
Questa esclude quella. Ma, senza avvedersi della difficoltà
nella quale in tal modo entrava, il Forestiero d 'Elea le sosten-
ne, l'una dopo l'altra, o, meglio, l'una contemporaneamente
ali 'altra, entrambe. Che a questa non lieve inavvertenza logica
egli fosse, per cosl dire, costretto, e quasi predestinato, dalla
duplice esigenza che avvertiva in sé di prendere e pensare
insieme, nella loro relazione e poi al di fuori di questa, separa-
tamente, il moto e la quiete, è evidente. Ma, come si vede,
1'esigenza era non solo duplice. Era altresl contraddittoria. E
di questo egli non riusci ad avvedersi.

44. L'essere e le differenze

La questione della comunicabilità-incomunicabilità che


qui, da vari punti di vista, stiamo indagando e dibattendo,
riguarda, naturalmente, anche l'essere: del quale può, salvo
errore, ben dirsi che, come, per suo conto, s'unisce ai quattro
generi che con lui formano la cruµ7tÀOJCi1, cosl, allo stesso
modo, consente che questi gli si uniscano. Che, infatti, moto,
quiete, identico, diverso «siano», - questo è, per il Forestiero
d'Elea, indiscutibile. Ma non altrettanto indiscutibile potrebbe
per contro risultare il rovescio, o il reciproco, di questo concet-
to; e cioè che, a quel modo che i quattro generi «sono» e perciò
partecipano dell'essere, anche 1'essere ne partecipa ed è quin-
di, di volta in volta, diverso da sé in ragione, sia del suo non
essere in moto, quando è in quiete, e in quiete, quando è in
moto, sia del suo essere diverso dal diverso, se è identico, sia
del suo essere diverso dall'identico, se è diverso. Questa con-
clusione potrebbe in effetti risultare discutibile in ragione del-
1'ambiguità che, a più riprese, ci si è rivelata intrinseca al
concetto della cruµ7tÀOKi1; che, per la verità, non coglie questo
punto, e lascia indeciso se identico e diverso, moto e quiete

Mauritius_in_libris
183
siano ciò che sono perché, e in quanto, partecipi dell'essere, o
di questo partecipino perché, e in quanto, sono (I 'identico, il
diverso, il moto, la quiete). Ed in realtà, se a questa ambiguità
si tiene fermo come al carattere stesso della teoria della metes-
si, risolvere la questione è difficile: anzi, a rigore, impossibile;
sì che, dopo aver detto che, senza dubbio, l'essere è partecipa-
to dai quattro generi che, perciò, «sono», dire che di questi
quello partecipa non è né possibile né impossibile fin tanto che
permanga l'ambiguità che sta alla radice di questa situazione
concettuale. Se è così, si arriva allora a comprendere perché,
nella schematizzazione e (parziale) deduzione dei generi, che
il Forestiero d'Elea pone in atto, o cerca, almeno, di eseguire,
questi siano, per un verso, cinque; ma altrettanti non riescano
ad essere nella concretezza del ragionamento che, ripercorren-
do il senso complessivo di quella schematizzazione e (parzia-
le) deduzione, cerchi altresl di stringerne l'ultimo significato.
È noto, e da varie parti vi si è particolarmente insistito 181 ,
che non perfetta è, o sembra essere, nel Sofista, la rispondenza
fra 243 0 182 e 256 D-E 183 : ossia fra i luoghi cruciali nei quali si
parla dell'essere e della sua posizione nei confronti degli altri
generi. Fra questi due luoghi c'è, o ci sarebbe, discordanza,
perché, mentre nel primo l'essere è definito 'tÒ µÉ"(t.O''tOV e
clPXE"fOC:, a quel modo stesso, all'incirca, che nel Timeo, 31 A
4, è m:ptÉXOV nciv'tcx, nel secondo è invece assai meno pacifico
che questo ruolo gli competa e che, rispetto a quiete, moto,
identico e diverso, sul serio l'essere si collochi più in alto, in
una posizione che gli consenta, quei quattro yév11, di sovra-
starli e, ecco appunto il neptéxov, di abbracciarli e accoglierli
nel suo ambito, senza, perciò, andare a farne parte. Certo, se,
come ad alcuni è sembrato, così la situazione concettuale e,
quasi si direbbe, la proporzione interna ai generi richiedessero
di essere schematizzate, i YÉVll sarebbero cinque solo nel caso
che nel numero si decidesse di far entrare anche ciò che, per
natura e autorevolezza ontologica, da tutti gli altri si differen-
zia: ché se al contrario, in ragione di questa diversa natura e
diversa autorevolezza ontologica, tale inclusione fosse giudi-
cata scorretta, ecco allora che a quattro i generi dovrebbero
essere ridotti, e a cinque non potrebbero, in nessun modo,
essere innalzati 184 • Quattro, dunque, i generi, se l'essere sia sul

184 Mauritius_in_libris
serio il capo; cinque se, pur con questo nome, non sia che uno
dei YÉVll. Ma se è alla prima di queste due ipotesi che s'intende
assegnare il maggior peso filosofico, allora è evidente che
nella natura dell'essere occorre scavare fino a renderne evi-
dente la più nascosta radice - e cioè la capacità per la quale a
lui compete bensì di essere partecipato, non però di essere
anche, a sua volta, un soggetto di partecipazione: la capacità,
in altri termini, che Aristotele riconobbe alla sostanza che,
certo, anch'essa è, fra le categorie, una categoria, ma tale che,
mentre tutte le altre la presuppongono, «sono» in quanto la
presuppongono, e sono, altresì, per lei, essa, al contrario, non
ne presuppone alcuna e, rigorosamente, è «per sé», x:cx0'cxùt6.
Se per altro a questo riconoscimento il Forestiero d'Elea fosse
stato costretto; se la nostalgia del padre che aveva appena
ucciso o era nell'atto di uccidere, lo avesse indotto a dar corpo
a questa idea della «separabilità in sé» dell'essere, a farne il
punto di riferimento esclusivo di ogni operazione partecipati-
va, e a collocarlo, quindi, al di fuori di ciascuna di tali opera-
zioni, allora, certo, gravi sarebbero state le conseguenze. Da
queste premesse sarebbe infatti derivata, in primo luogo, una
sorta di singolare duplicazione dell'essere; che, oggetto e non
soggetto di partecipazione, per un verso sta a sé e, per questo
suo «stare», non richiede altro; ma per un altro verso è l'essere
che, per partecipazione, i quattro YÉVll del moto, della quiete,
dell'identico e del diverso assumono quale fondamento del
loro specifico essere, - l'essere in forza e in ragione del quale
«sono» i YÉVll che sono. Se per altro fosse così, e tanto l'essere
fosse incapace di partecipazione, quanto, per contro, è capace
di riceverla; se, ancora, e in altri termini, tutto intero l'essere
stesse presso di sé, e al di qua, quindi, di ogni sua determina-
zione «generica» (il moto, la quiete, l'identico, il diverso); se
le determinazioni stessero «al di là» dell'essere e questo fosse
non di meno il fondamento di ciascuna, - ebbene, non è allora
evidente che da questo suo carattere, acute e non dominabili,
scaturirebbero le difficoltà, delle quali si parlava?
Si consideri innanzi tutto che, assunto così, il concetto
della «separazione» presenta come un interno disagio costitu-
tivo: essendo evidente che per un verso «separazione» signifi-
ca il puro «stare a sé» dell'essere, mentre, per un altro, costi-

Mauritius_in_libris 185
tuendo la condizione del suo poter essere partecipato, per ciò
stesso contiene in sé la radice nascosta di un «esser per altro».
Una difficoltà, questa, analoga a quella che può rinvenirsi nel
fondo della dottrina aristotelica della sostanza; - della sostan-
za che, palesemente, nel suo essere separata dalle categorie
che, al contrario, la presuppongono per il loro specifico essere
e poter essere, è senza dubbio immune dalla necessità di do-
verle, a sua volta, presupporre; ma è anche tale che, proprio
attraverso questo specifico «non» presupporle, e questo sol-
tanto, si definisce: con la conseguenza che, questo suo speci-
fico «non» presupporle essendo di necessità presupposto, e
costituendo anzi il suo carattere, la sua «1>ucrtc; finisce con
l'apparire congegnata in forma contraddittoria. È questa una
difficoltà alla quale soltanto in sede aristotelica potrebbe con-
ferirsi l'adeguato sviluppo 185 • E qui invece è tempo di sottoli-
neare l'altra, alla quale il concetto della «separazione» dà
luogo. Se, assolutamente, l'essere stesse «per sé» e, con pari
assolutezza, fosse «Separato», non è allora evidente che, anco-
ra una volta, al sistema della O"Uµ7tÀOtj questa sua «separa-
zione» imporrebbe una «differenza» che, condizione della
O"Uµ1tÀOtj stessa, ed esterna tuttavia al suo confine, mai po-
trebbe essere ricondotta, e spiegata, ali 'interno della sua speci-
fica razionalità? Non è anche evidente che questa «differen-
za», dalla quale il sistema delle connessioni dialettiche prende
l'avvio e dipende, non ha niente a che vedere con la «differen-
za» che, interna alla O"Uµ7tÀOK1', è una parte, e non l'autrice,
dell'articolazione dialettica? Il punto essenziale è questo; ed è
a questo che occorre rivolgere, e tener fermo, lo sguardo.
Lasciamo perciò da parte, in questa sede, le varie compli-
cazioni che da questo discorso scaturirebbero se, con riferimento
a osservazioni già in precedenza formulate, si richiamasse alla
memoria il punto fondamentale secondo cui, poiché «parteci-
pare di» non è la stessa cosa che «identificarsi con», nel parte-
cipare dcli' essere non di tutta la sua estensione i generi parte-
ciperebbero, e soltanto per una parte lo tradurrebbero in sé
come il proprio essere: con la conseguenza, se fosse cosl, che
dalla partecipazione l'essere sarebbe come diviso, e una parte
rimarrebbe presso di lui (che sta intero, e padrone di ogni sua
parte, presso di sé), mentre un'altra passerebbe nei generi che

186 Mauritius_in_libris
in tal modo «sarebbero» bensl, ma, proprio riguardo al loro
essere, in forma dimidiata (il loro «essere» non essendo che
una parte dell'essere). Lasciamole da parte, queste osservazio-
ni: ossia, evitiamo di svolgerle con astratto spirito sistematico.
E passiamo piuttosto a considerare l'altro aspetto della que-
stione, - quello per il quale, in un senso ulteriore a quello fin
qui esaminato, sembra che da cinque i generi si riducano a
quattro. Se, in effetti, si dice che tante volte l'essere è quanto,
per contro, «non è», non è allora evidente che il suo essere non
è scindibile dal «non essere»; che per contro ne è condizionato
e che, a prender posto sull'orgoglioso piedistallo eleatico esso
non può più in alcun modo ambire? E vero bensl che in una
linea del passo che svolge queste considerazioni il Forestiero
d 'Elea osserva che, poiché partecipa del «diverso», l'essere è
diverso dagli altri generi (257 A 1-2 oÙKoùv K<Xt 'tÒ òv cxÙ'tÒ
'tcOV aÀ.À.rov E'tEpoV Elv<Xl À.ElC'tÉov); 'e poiché è diverso da
questi, è l'essere. Ma, a parte la sottile ambiguità che, a ben
guardare, si rivela intrinseca a questa specifica formulazione e
senza richiamare in forma esplicita le difficoltà che, in genera-
le (ed anche qui), derivano dall'uso dello schema partecipati-
vo, sta di fatto che nella «diversità da» che il Forestiero ravvi-
sa nell'essere sarebbe senza dubbio assurdo pretendere dico-
gliere qualcosa come la sua assoluta autonomia, la sua capaci-
tà di essere oggetto e mai, per contro, il soggetto della parteci-
pazione, il segno, insomma, della sua eccellenza ontologica.
Sarebbe assurdo perché quella diversità è una «diversità da»:
implica perciò la relazione, e, con questa, la dipendenza, non
l'autonomia. Sarebbe assurdo perché, lungi dal supporre e far
supporre che, oggetto di partecipazione, mai l'essere possa
partecipare di altro, con grande chiarezza il testo dice proprio
il contrario. Vi si legge infatti che, proprio in quanto partecipa
del diverso, l'essere è l'essere e «non è» i generi (il diverso
compreso); e deve trarsene perciò la conseguenza che, al pari
degli altri 'YÉVTl, anche l'essere è nel «non essere» gli altri 186 • La
«diversità» in forza e in ragione della quale è sé stesso è, da
questo punto di vista, non diversa da quella che a~li altri generi
consente di essere «sé medesimi» e non gli altri. E non diversa,
e, anzi, rigorosamente la stessa: con la conseguenza che, con-
forme al quadro categoriale che ha nella crnµ1tÀ.OK1' il suo

Mauritius_in_libris 187
strumento e il suo criterio, dell'autonomia dell'essere deve
dirsi che è un'autonomia, non dalla, ma nella relazione, -
aggiungendosi che, nell'esser tale, è pari e non superiore alle
altre che anch'esse, infatti, sono autonome nella, e non dalla,
relazione.
Se è cosl, l'essere non è 'tÒ µÉytcrwv, non è l'ciPXTJ'Y6c;;
meno che mai è il 1tEptéxov 1tcXV't<X del Timeo; perché, lungi
dall'abbracciare senza ricevere l'abbraccio, partecipa, invece,
ed è partecipato, e se di lui volesse dirsi che è 'tÒ µÉyunov e
l'ciPXTJ'Y6c;, anche degli altri yÉVTJ dovrebbe dirsi cosl, - cia-
scuno di questi essendo congegnato, da questo punto di vista,
come l'essere, e l'essere come i 'YÉVTJ. Se, per altro, le cose
stanno cosl, altro, allora, per questo riguardo, rimane da dire.
Non ci si chiede, infatti, per solito, - e chiederselo è invece
necessario, se la cruµ1tÀOK1' abbia un tempo di realizzazione,
ossia, per parlare in modo forse più chiaro, se si realizzi nel
tempo; oppure se le operazioni partecipative, che la costitui-
scono e, appunto, la realizzano, accadano in una sorta di atti-
malità strutturale, dalla quale il tempo successivo della realiz-
zazione risulti rigorosamente escluso. La prima ipotesi è indi-
fendibile. La cruµ7tÀOK1' non può accadere, e realizzarsi, nel
tempo, perché, in questo caso, la presupposizione dei soggetti
partecipanti alla partecipazione che, in quanto tale, dovrebbe
renderli possibile, rifulgerebbe nella più abbagliante luce apo-
retica. Può, dunque, e deve accadere nell 'attimalità strutturale:
con la conseguenza che a delinearsi è perciò una situazione in
forza della quale, nell'atto stesso in cui è partecipato, e fatte
salve le note incompatibilità, un yÉvoc; partecipa di ciò che ne
partecipa, come ad esempio avviene quando si assume che
l'essere è partecipato dal diverso (che dunque è), ma in questo
atto, appunto, ne partecipa (e dunque è diverso). Ci si deve
perciò chiedere: la simultaneità è, in altri termini, il puro
tempo, non successivo, dell'incrociarsi degli atti partecipativi:
tal che, mentre è un attimo, è anche una struttura?
Per quanto assai più sottile, questa ipotesi non è tuttavia
meglio difendibile della precedente. Per sforzi che si rivolgano
ad evitare la necessità della presupposizione, a questa il logo
che presiede alla cruµ1tÀOK1' non riesce a sfuggire. È evidente
infatti che, per poter partecipare del diverso nell'atto in cui ne

188 Mauritius_in_libris
è partecipato, l'essere deve già essere l'essere; e che, per poter
partecipare, in questo atto, dell'essere, anche il diverso deve
già essere il diverso. Ma, se è cosl, non è allora evidente che
l'essere e il diverso preesistono alla cruµ7tÀ.o!CT\, e, lungi dal
coincidere con la sua struttura, risolvendovisi, sono essi che la
rendono possibile? Se è cosl, non è anche evidente che, l'esse-
re e il diverso preesistendo, al di qua della cruµ7tÀ.OICT\, come
qualcosa da cui questa dovrebbe derivare, la derivazione è
invece impossibile perché, stabilito che in questa anteriorità,
l'essere e il diverso stanno ciascuno in sé, e dunque sono
«diversi», la loro «diversità» è originaria, appartiene origina-
riamente, e non per partecipazione, alla loro indipendente «na-
tura»? Fra questi due assunti, e le conseguenze che ne deriva-
no, il contrasto è insanabile. Era infatti (converrà ribadirlo) in
ragione della partecipazione che, nella cruµ7tÀ.OICT\, l'essere è
diverso, e il diverso «è»; laddove qui, nell'originario, la diver-
sità è una cesura assoluta, un'assoluta «non comunicabilità»
che, svelandosi come inevitabile al di qua della cruµ7tÀ.OICT\,
rende, quest'ultima, impossibile.
Se queste considerazioni non sono errate, una prima con-
clusione sembra legittima. Né l'ipotesi che l'essere sia un
yévoc; fra i yévT1, e cioè un «partecipabile» che altresl, in que-
sto medesimo atto, è un concreto soggetto di partecipazione,
né l'altra, che sia invece 'tÒ µéytcrwv, l'àPXTIYOC:, e, separato
e indipendente, riceva, senza ricambiarla, la partecipazione
dei YÉVTI, sono sostenibili. Esse rinviano l'una all'altra nel
circolo dell'aporia. Ed è una situazione delicata e complessa,
questa, che poco alla volta si è venuta determinando; una
situazione sulla quale, dopo questo primo esame, non sarà
pedanteria insistere ancora. Svolgendola e insistendovi, avre-
mo modo di affrontare, sia pure in breve, la questione della
predicazione e, a questa connessa, l'altra concernente il rap-
porto che lega i YÉVTI del Sofista alle idee, quali Platone le de-
linea nei dialoghi del cosl detto periodo di mezzo.

Mauritius_in_libris 189
45. Gli eio17 e i rfV7J. Ancora sul carattere dell'essere nel
quadro della crnµnA,olCTf

Due, dunque, sono le questioni che richiedono di essere


esaminate. Con più precisa formulazione, esse si schematizza-
no cosl. (1) Qual è il rapporto che alla predicazione, e parteci-
pazione, lega, rispettivamente, gli et811 (di cui si parla negli
altri dialoghi ) e i 'YÉVTI (di cui si parla nel Sofista)? È il me-
desimo, oppure un diverso, assai diverso, rapporto? (2) L'es-
sere è nel Sofista un x:cx0'cxu-ro, e i quattroyÉVTt del moto, della
quiete, dell'identico e del diverso nient 'altro, invece, che n:pòç
W..A.cx; oppure, lungi dall'essere x:cx0'cxù-r6, anche l'essere è n:pòc;
&A.A.cx, e dunque non -rò µtyunov, non àpx11yoç, non n:epttxov?
Oppure, ancora, come l'essere è sia x:cxe 'cxu-ro che n:pòç &A.A.cx,
anche i 'YÉVTI anzidetti rivelano, se li si osserva con cura, que-
sto medesimo carattere?
(1) A dispetto di ogni complicazione esegetica, che i dia-
loghi appartenenti al periodo intermedio impongano, o possa-
no imporre, la prima questione non sembra, nella sostanza,
lasciar dubbi. Nel quadro delle idee, qual è delineato nel Fe-
done, nella Repubblica, nel Fedro, ma anche, ad esempio, in
un dialogo più tardo, come il Timeo, il tema della predicazione
proposto dal Sofista presenta una struttura concettuale diversa.
In qualsiasi modo il significato delle idee sia ricostruito, le si
consideri, alla maniera di Paul Natorp, quali «condizioni tra-
scendentali» della possibilità dell'essere empirico, o, come è
più plausibile, quali strutture ontologicamente costituite, certo
è che la loro non è una natura che, in quanto tale, sottostia alla
vicenda dell'alterazione, della variazione, del divenire; e mai
potrà accadere che, dopo essere state, non siano più. L'idea
può essere raffigurata, o pensata, come -rò ov àd, yÉveow
8' oùx: exov, e, di essa mai potrebbe dirsi che è -rò ytyvoµevov
àd, ov 8'où8Én:o-re. Molteplici per numero e per qualità, le
idee, innanzi tutto, sono àe\. cxù-rò É:cxm<Q µÉvov, ci>cmu-rroc;
exov, oppure anche ciò che realmente e veramente «è» (ov-rroc;,
àA.Tt0cik ov). E, al riguardo, poche definizioni sono forse più
efficaci di quella che si legge nel discorso di Diotima, e che
ritrae la bellezza come n:pc.Owv µÈv àe\. òv x:cxì ou-re ytyvoµe-
vov ou-re àn:oA.A.uµevov, ou-re cxùl;cxvoµevov ou-re cj>0ì:vov,

190 Mauritius_in_libris
come tale dunque che, in primo luogo, è sempre, non nasce e
non muore, non cresce e non scema, e, in secondo luogo, non
è per un verso bella e per un altro brutta, non è ora sl e ora no,
oppure bella rispetto a una cosa, e, rispetto ad un'altra, brutta,
bella per alcuni, ma, per altri, invece, brutta. Essa è in effetti
bella «in Sé Stessa»: CXÙ'tÒ 1m0' CXUtÒ µe0' CXUtOU µOVOEtOÈc;
àtl. ov, tà oe &A.A.cx Jtcivtcx KcxA.à ÈKdvou µetéxovtcx tp61tov
ttvà totoutov, olov ytyvoµévrov tE tffiv àA.A.rov lCCXt cX1tOÀ-
A.uµévrov µTtOÈv ÈKEtvo µ1'tt tt 1tÀÉov µ1'tt eA.cxttov yiyve-
cr0m µTtOÈ 1tcicrxetv µTtoév (211 B 1-5) 187 • E come le cose che
di essa partecipano, e perciò sono belle, non sono, a loro volta,
partecipate da lei che, µovottoèc; àtl. ov, sta su sé stessa e
unicamente su sé stessa riposa, cosl è evidente che il versus
della predicazione si presenta qui come unico e unidirezionale:
essendo escluso, e nel modo più perentorio, che la struttura
parmenidea, o, comunque, eleatica, nella quale l'idea è rac-
chiusa, o con la quale, se si preferisce, coincide, possa richie-
dere, per l'attingimento della sua perfezione, l'intervento di
qualcosa di non originariamente appartenente alla sua <1>ucrtc:.
Come del resto già sappiamo, l'unico possibile predicato della
bellezza è la bellezza: non, in ipotesi, una bellezza che, rispet-
to alla prima, sia altra, ulteriore e diversa, ma la stessa bellez-
za, che è predicato, se si vuole parlare questo linguaggio,
proprio come, senza divario, è soggetto: con la conseguenza,
in ogni senso ineludibile, che, intesa cosl, la predicazione è
autopredicazione: e con l'ulteriore conseguenza che, com 'è
impossibile che, partecipata dalle cose, l'idea a sua volta ne
partecipi, cosi, altrettanto impossibile è che il nesso in cui le
idee tutte rientrano possa significare, per ciascuna, il sacrifi-
cio, almeno parziale, della sua propria autonomia e compiutez-
za: quasi che fosse comunque ammissibile che ali 'esser bella
della bellezza un essenziale contributo possa venire, poniamo,
dalla bontà, oppure dalla giustizia, e all'essere buono del buo-
no, o giusto del giusto, qualcosa possa derivare dal bello o da
una qualsiasi della altre idee in sé.
Pensato cosi, l'ElOoc; svela il suo schietto volto parmeni-
deo o (come da qualche studioso si è proposto) melissiano. E
questo carattere trova ulteriore conferma nella contrapposizio-
ne in cui la fermezza, la compiutezza e l '«esser per sé» delle

Mauritius_in_libris 191
idee si trovano nei confronti dell'instabilità, dell 'incompiutez-
za e dell '«esser per altro» del divenire, al quale non l '<ÌÀ:1' Seta
è essenziale e corrisponde, ma, piuttosto, la &Sl;cx. Che, sepa-
rati dal regno del divenire, e tuttavia, proprio attraverso la
«separazione», pensati in relazione ad esso, gli d811 dovessero
ben presto porre a Platone più problemi di quanti, su un altro
fronte, ne risolvessero, è ben noto; e non si dura fatica a
comprendere che proprio dalla consapevolezza, fattasi via via
più penetrante, della difficoltà intrinseca a questa visione delle
cose e del loro riferimento alle idee, delle idee e del loro
riferimento alle cose, derivò l'ispirazione teoretica che, negli
ultimi dialoghi, gli dettò le linee di una profonda, se pur
parziale, revisione del quadro teorico tracciato nei grandi dia-
loghi del periodo intermedio. La secca antitesi del mondo
eidetico, fermo e stabile nell'essere «per sé» ed eterno, e di
quello del divenire, mobile, instabile ed essente «per altro»,
implicava, per un verso, la separazione assoluta, e l 'incomuni-
cabilità. Ma, per ciò stesso, richiamava in vita ciò che preten-
deva di negare: la connessione e la comunicazione. E in tal
modo delineava una conseguenza tanto importante quanto im-
barazzante, foriera di nuove e altrettanto aspre difficoltà.
La cornice eleatica (parmenidea o melissiana) entro la
quale, cercando il raccordo delle idee con le cose e di queste
con le idee, Platone meditava il suo problema, era stata deli-
neata, prima che a lui accadesse di osservarla e riconsiderarla
con l'occhio del dubbio e della critica, mediante il criterio
della separazione, non con quello della connessione; e, sebbe-
ne ne fosse in qualche modo suggerito (con energia, a guardar
bene, inversamente proporzionale a quella con cui se ne nega-
va la possibilità), il passaggio dalle une alle altre era sul serio,
in tale cornice, ineseguibile. Inesorabilmente, gli strumenti
concettuali mediante i quali egli cercò di venire a capo delle
difficoltà si mostrarono essi stessi intessuti dall'aporia: come
sa chi sulla µÉ0el;tc: abbia riflettuto con qualche cura. Non
solo, infatti, anche a proposito del rapporto che, in virtù della
partecipazione, le cose dovrebbero intrattenere con le idee,
Platone non riusciva a dominare la difficoltà che a questo
strumento è intrinseca, e che, come sappiamo, consiste nell 'in-
decisione, e nel circolo vizioso, che si mostrano quando si

192 Mauritius_in_libris
consideri che, mentre l'essere di ciò che partecipa dovrebbe
essere il risultato dell'atto partecipativo, di questo atto è inve-
ce la condizione, la ragion d'essere e, in ultima analisi, I'auctor.
Non solo non giungeva ad avvedersi dell'altra conseguenza
alla quale questa teoria mette capo, e cioè che, la partecipazio-
ne non essendo l'identificazione, la cosa bella sarà sempre,
rispetto alla «bellezza in sé», meno bella piuttosto che bella:
cosl come «meno giuste» del giusto in sé, e «meno buone» del
buono in sé, saranno le cose giuste e quelle buone. Non solo,
dunque, di queste difficoltà Platone non riusciva ad avvedersi,
individuando e dominando il luogo logico del loro insorgere.
Ma nemmeno arrivava a rendere plausibile quella KOtvrovicx -rrov
dòrov, che pure, e a ragione, gli appariva come la condizione
stessa della razionalità e intellegibilità del mondo. E come in
effetti avrebbe potuto, se la Kotvrovicx implica il contatto e lo
scambio predicativo, e le idee sono invece ciascuna chiusa
nell'assoluta autosufficienza di ciò che, essendo eterno e per-
fetto, soltanto di sé stesso, e non di altro, può predicarsi? Così,
la molteplicità delle idee e, per un altro verso, la loro Kotvrovicx
risultavano essere due presupposti, che l'indagine non riusciva
in nessun modo a sciogliere nel ritmo razionale della deduzio-
ne. E l'universo risultava, a sua volta, e nell'intrinseco, sepa-
rato: in quanto separato, incomprensibile.
Rispetto a questa situazione, il capovolgimento tematico
che, con la teoria della cruµ7tÀOK1' e con l'operazione dialettica
che la realizza, Platone cercò di eseguire nel Sofista, non è
meno drastica della µE-ra~cxcrti; significativa imposta ai con-
cetti dell'essere e del nulla. Ne è, in realtà, un ulteriore aspetto.
E comprenderlo non è difficile. Contrariamente a quel che si
legge nel prologo del Parmenide, dove, a tener conto del ma-
teriale susseguirsi delle battute scambiate dai personaggi, la
teoria delle idee, proposta e difesa da Socrate, è criticata e
confutata dal padre dell'eleatismo, I 'eÀ.f-yxoc; di quest'ultimo
suppone, nel Sofista, non soltanto l'affermazione del non es-
sere dell'essere, ma anche, come condizione di questa, la radi-
cale riforma dello schema predicativo e partecipativo intrinse-
co alle idee. È in questa riforma che, in altri termini, la critica
rivolta ai concetti eleatici dell'essere e del non essere trova il
suo fondamento; e la riforma è avviata, e quindi attuata, col

Mauritius_in_libris 193
togliere ai µÉyt<na yÉVT\ il privilegio per il quale, pur essendo
state moltiplicate, pluralizzate e poste in relazione con le cose
che mutano (e sono 1tpòi; &A.A.a), esse, le idee, permangono
ciascuna «per sé», come se, in sé stessa, ciascuna realizzasse la
compiutezza e la perfezione dalle quali l 'Mv di Parmenide
trae il suo carattere essenziale. A differenza delle idee che 188 ,
per quanto si tenti di inserirle in un sistema, non hanno in sé
nulla che le predisponga ad entrarvi, e sono tali, anzi, da
rendere questo atto inconcepibile, i ì'ÉVT\ sono invece, in primo
luogo, parte comunicanti e parte incomunicanti; e non per altro
sono l'una cosa e l'altra che per rendere possibile la Kotvcovia
(che infatti sarebbe impedita nella sua radice se, al pari dell 'i-
dentico e del diverso, anche il moto e la quiete avessero l'un
l'altra Kotvcovia). Alla radice di sé stessi, e con la già vista
eccezione, essi ammettono la Kotvcovia predicativa e parteci-
pativa; e se, come sappiamo, è in virtù del loro partecipare
dell'essere che assumono l'essere, e «Sono» - partecipando
dell'identico e del diverso sono ciò che sono, e cioè tanto
identici quanto diversi, ciascuno identico a sé e diverso da
ogni altro che, a sua volta, per la medesima ragione, è identico
(a sé) e diverso (dagli altri). Se non fosse per questo, certo
Platone non potrebbe dire, nel Sofista, che tante volte l'essere
«è» quante «non è» 189 ; e che, in virtù di questa situazione,
l'intreccio dell'essere e del non essere si è rivelato assai più
intrinseco di quanto mai il verdetto eleatico potesse ammette-
re, e comunque, rispetto ad ogni precedente dicotomizzazione,
assai diversamente congegnato. Se non fosse per questo, non
avrebbe potuto mettere in atto la disubbidienza, ed eseguire il
parricidio. E con questo, nell'atto stesso in cui la differenza fra
generi e idee tocca il punto estremo della chiarezza, siamo
giunti per la seconda volta, di fronte all'essere, e alla domanda
che, nel Sofista, concerne la sua natura.
Al di là, o al di qua, delle altre anomalie che, intrinseche
allo strumento partecipativo, l'analisi ha fin qui puntualmente
cercato di far emergere, il quadro che, in questa parte centrale
del dialogo, Platone delinea ne presenta infatti una di partico-
lare asprezza; che, come si notava, concerne l'òv, l'essere, e se
di lui possa dirsi che è tò µéyunov, l 'àPXT\ì'Oi;. Alla domanda
concernente la sua natura, può rispondersi affermando che tò

194 Mauritius_in_libris
ov, l'essere, è un yévoc;, il quinto, o il primo, dei µéytcr'ta "fÉVll
che, con lui, ascendono infatti al numero di cinque; e altresl
specificando che, sebbene lo si definisca «primo» o «quinto»,
e, quindi, lo si inserisca, con un numero, nella serie, l'essere in
realtà non ne fa parte e non ha numero. Il suo carattere è infatti
di sovrastare e di trascendere. Ma potrebbe anche rispondersi
che, l'essere non essendo in concreto se non l'essere della
KtVT\crt< e della cr'tacnc;, del 'taÙ'tov e dello E'ttpov, ossia dei
YÉVTl che, in numero di quattro, simboleggiano il reale e la sua
totalità, di esso deve dirsi che non è un yévoc; al quale possa
riconoscersi l'autonomia e, quindi, la struttura dell'aÙ'tÒ Ka0'
mho, perché, appunto, non è che la concretezza ontologica dei
YÉVTl.
Siamo dunque tornati alla questione che, già dibattuta nel-
la parte conclusiva del precedente paragrafo, ha richiesto, per-
ché si potesse risolverla, questo supplemento d'indagine. Vi
siamo tornati, essendo per altro in grado, ora, di arricchirla
della considerazione essenziale. Per stabilire se cinque, oppure
quattro, siano i generi fra i quali l'operazione dialettica s 'in-
tesse, non basta cercar di stabilire se l'essere sia un yévoc; (e,
in questo caso, i yéVT\ sarebbero cinque), o se non sia che la
loro concretezza ontologica (e, in questo caso, i yÉVT\ sarebbero
quattro). Ma occorre bensl decidere se, anche nel caso che sia
un yévoc;, e possegga quindi l'identità con sé (quell'identità
che è altresl ragione della sua differenza dagli altri), esso sia o
no tale quale questi pure sono: ossia autosufficiente, e autono-
mo, non perché, al pari degli tLOT\, si predichi soltanto di sé
stesso e sia perciò un perfetto aÙ'tÒ Ka0' au'to, ma per la ra-
gione inversa; la quale consiste in ciò che, in tanto esso è il
yévoc; che è, identico a sé e diverso dagli altri, in quanto, lungi
dal predicarsi soltanto di sé, di sé stesso soltanto partecipando,
- proprio degli altri, e cioè dell'identico e del diverso, si
predica e partecipa, e per questo è identico (a sé) e diverso
(dagli altri).
Questo, salvo errore, è il punto autentico, e autenticamente
delicato, della questione. E tanto più lo è, in quanto, l'altra
ipotesi, che non un yévoc; sia l'essere, ma la concretezza onto-
logica dei YÉVll, non ha nel testo, e nella logica del testo, alcun
autentico sostegno: essendo, dopo tutto, evidente che, in ragio-

Mauritius_in_libris 195
ne della modalità costitutiva del µe'tÉXEtv, la risoluzione del-
1'essere nella concretezza ontologica dei 'YÉVTI suppone in ogni
caso che, come termine di partecipazione, l'essere sussista,
come yévoc;, innanzi alla partecipazione che gli altri 'YÉVTI ne
fanno nell'atto stesso in cui lo riducono a sé (che è, come si sa,
il senso concreto del «non essere dell'essere»). Se questo suo
esser termine di partecipazione non stesse fermo in sé stesso,
e ferma in sé stessa, strutturalmente ferma in sé stessa, non
stesse questa sua «anteriorità», - la condizione stessa della
partecipazione verrebbe meno (e si prescinda qui dalle altre
ragioni che rendono difettoso il suo strumento e difettoso il
suo esercizio). Ma, se è cosl, ed è alla prima ipotesi che, come
all'unica sul serio razionale, siamo ricondotti, ecco allora che,
essendo uno dei cinque, dagli altri quattro generi l'essere deve
tuttavia necessariamente distaccarsi, separarsi, collocandosi
rispetto a questi «al di sopra», e, anche nella compagnia di cui
si è reso parte e nella quale vuole permanere, far valere il suo
antico privilegio eleatico.
L'essere è infatti lessere. A differenza dell'identico, del
diverso, del moto e della quiete, dei quali non potrebbe dirsi
che «sono» se dell'essere non partecipassero, quest'ultimo
non ha alcuna necessità, per essere, di ricorrere ai 'YÉVTI dei
quali condivide la compagnia. È l'essere; e la legge predicati-
va alla quale è sottoposto è intrinsecamente diversa da quella
che presiede ai restanti yÉVT\. Anche per predicarsi di sé stessi
(I 'identico «è» l'identico, il diverso «è» il diverso, e così via),
ciascuno di essi deve, di necessità, e per cosl dire, passare
«per» l'essere (perché se, poniamo, l'identico non «fosse», ed
esso in tanto è in quanto partecipa dell'essere, non sarebbe
l'identico). L'essere no. Per predicarsi di sé stesso non gli
occorre (se si voglia far uso di questa metafora) che di passare
«per» sé stesso; e certo, per essere l'essere, non deve passare
«per» l'identico, il diverso, il moto, la quiete. Comunque sia
della predicazione che esso fa dell'identico, del diverso, del
moto, della quiete, c'è, alla sua radice, un atto predicativo che
(nel senso più volte chiarito in queste pagine) è, piuttosto, atto
di autopredicazione. Ed è forse perché questo aveva visto, di
questa intrinseca proprietà dcli' essere si era, nel profondo,
reso consapevole, - è forse per queste ragioni che, dopo averlo

196 Mauritius_in_libris
inserito nella serie facendone un yÉvoc; fra gli altri, e avere
anzi persino cercato di ridurlo alla concretezza ontologica dei
quattro YÉVT\ del moto, della quiete, dell'identico e del diverso,
Platone non poté non riassegnargli, in una dimensione interna
del suo pensiero, i caratteri del primato. Lo ricollocò sull 'or-
goglioso piedistallo eleatico, dal quale aveva tentato di farlo
decadere; e, a costo di non poter più toccare l'approdo, al quale
tendeva, della «differenza ontologica», intesa come la suprema
concretezza dell'essere, lo definì come il «capo» e il «il più
grande».
Era impossibile, per altro, che in questa posizione, alla
quale era di nuovo asceso, l'essere permanesse; e non solo per
ragioni, estranee ali 'eleatismo, e intrinseche invece ali 'oriz-
zonte concettuale di Platone. In realtà, fin da quando Parmeni-
de e gli altri lo avevano edificato, il piedistallo eleatico sul
quale di nuovo l'essere avrebbe dovuto trovar posto si era
mostrato troppo fragile per poterne sostenere il peso. Accanto
ali' essere ospitava il «non essere». Accanto ali' &ì.:1\eeu:x lasciava
sussistere, senza dedurla, la ooça; e così ali 'essere e alla verità
sottraeva, nel fatto, l'assolutezza e l'incontrovertibilità che, de
jure, pretendeva di assegnargli. Proclamando l'unità dell'esse-
re, e, anzi, la sua unicità, il suo maggiore artefice scavava, in
realtà, l'abisso del più crudo dualismo; e ai suoi successori
lasciava in eredità un'affermazione tanto perentoria, quanto
ambigua, e, nell'apparenza della sicurezza, incerta fino al li-
mite della contraddittorietà. Pensata sul fondamento del suo
essere e non poter essere altro che assoluta, I,' assolutezza del-
1'essere si trovava in effetti a non poter prescindere né dal
«non essere» al quale le era vietato di ridursi, né dall' «altro»
che entrava in effetti pieno jure nella sua definizione e così ne
contraddiceva l'essenza: a non poterne prescindere e dunque,
per conseguenza, a dipenderne, scadendo in questo atto dal-
1'«assoluto» piedistallo sul quale si era ritenuto di averla assi-
sa. Un'eredità difficile, ambigua, contraddittoria; destinata a
raggiungere, in Platone, il punto più alto del suo immanente
travaglio. Nel quadro della sua concezione, la debolezza in-
trinseca a quell'orgoglioso sostegno dell'essere, era infatti
destinata ad accentuarsi, il piedistallo a vieppiù sgretolarsi. A
differenza dei pensatori dell'eleatismo, con il mondo della

Mauritius_in_libris 197
&S!;a, del variabile, del controvertibile, dell'opinabile, che,
non diverso in questo da Parmenide, anch'egli ammetteva
come «in qualche modo» esistente al di sotto di quello eideti-
co, cercava addirittura, e proprio per superare il dualismo, non
certo per ribadirlo, la x:ot vrovia e il contatto: e ne II' atto in cui,
per questa via, legittimava quel mondo, e lo assumeva come
«in qualche modo» reale, l'essere che definiva come assoluta-
mente «per sé», e non per altro, anche in lui si configurava
come un essere «per altro», e non per sé, essendo come costret-
to a non potersi definire «per sé» se non in ragione di quel «per
altro» del quale ammetteva l'esistenza e con il quale cercava la
x:otvrovia e il contatto. Intrinseca alla dottrina delle idee, al
loro «essere separate» e, ciò nonostante, in contatto con le cose
del mondo, questa difficoltà era destinata a rivelarsi intrinseca
ali 'essere quando, come accade in certe movenze del Sofista,
questo fosse stato tratto fuori dalla serie dei generi nella quale
pur trova posto.
E c'è di più. Nel momento in cui, dalla logica stessa della
sua impostazione, era condotto a far riemergere, dalla sua
riduzione alla concretezza ontologica dei YÉV11, 1'essere come
cXPX1l'Y<k e 'tÒ µ.éyunov, tanto più era impossibile che in que-
sta idea Platone permanesse, in quanto, se vi si fosse adattato,
1'essere avrebbe senz'altro riassunto il volto dell 'Mv parme-
nideo, e al nulla non sarebbe stato più in nessun modo possibi-
le «dire addio». Perché questo «addio» fosse pronunziato,
occorreva che l'autopredicazione dell'essere fosse risolta nel
suo predicarsi di sé, non al di fuori ma attraverso gli altri yÉV'Jl,
e che, in una parola, l'essere non stesse a sé e fosse invece
l'essere del moto, della quiete, dell'identico e del diverso. Ma
che l'essere si predichi di sé stesso attraverso «altro», è impos-
sibile. Necessariamente, per quanto concerne la sua «costitu-
zione d'essere», la predicazione dell'essere è autopredicazio-
ne (nella forma rigorosa e intransigente della medesimezza). E
nei modi escogitati dal Forestiero d'Elea il congedo del nulla
si rivela inseguibile. Giunti alla fine della grande battaglia,
dobbiamo constatare che l'aporia non è stata vinta, ma ha
preso posto proprio al centro della costruzione che, per venirne
a capo, Platone aveva innalzata.

198 Mauritius_in_libris
46. Il «non essere assoluto», il suo congedo, il fallimento del
congedo

Siamo cosl tornati alla questione del «nulla», e del conge-


do che, come a quella dell'essere, anche alla sua «assolutezza»
qui s'intende dare. Non è necessario, e sarebbe del resto far
torto all'intelligenza del lettore che abbia percorso la via che
conduce fin qui, osservare che in tanto, nella relazione dialet-
tica, l '«assoluto non essere» si risolve nell '«esser altro», e,
dunque, nel soltanto «relativo» nulla, in quanto, non nulla, ma
essere, è pur sempre il «non essere» dal quale, di volta in volta,
l'essere si differenzia. Meno ovvia (anche se variamente toc-
cata nel corso dell'indagine) è invece la questione che questo
giro di pensieri suscita; e che può essere formulata cosl. È
evidente che in tanto i 'YÉVTI diversi dall'essere e che perciò
«non sono» l'essere (s'intenda il moto e la quiete, l'identico e
il diverso») «sono» tuttavia i 'YÉVTI in quanto, dell'essere par-
tecipando, appunto «sono» e nell'essere riconoscono la loro
radice. Ne consegue che, diverso dai 'YÉ\ITI, l'essere non potrà
tuttavia (o non dovrebbe potere) essere diverso dall'essere dei
'YÉ\ITI, che è in realtà il suo stesso «essere», -1 'essere del quale,
per il loro essere e poter essere, i 'YÉVTI «partecipano» e, per
conseguenza, sono. In che senso allora si dice che l'essere è
diverso dai 'YÉVTI? Forse nel senso per il quale si argomenta e
si assume che esso si distingue non già da ciò che in questa
sorta di «sinolo» che il yÉvoc; si rivela, è costituito dall '«esse-
re», ma sl invece dal moto e dalla quiete, dall'identico e dal
diverso: ossia dal «carattere» per il quale, ciascuno «essendo»,
ciascuno è il yÉvoc; che è, e «non» gli altri?
L'argomento e l'assunto sono, per altro, inconsistenti.
Conducono bensl nei pressi della difficoltà. Ma la rivelano
senza risolverla; e in questo senso, appunto, non hanno «con-
sistenza». È evidente infatti che se l'essere si distinguesse
dagli altri 'YÉVTI non per l '«essere» che di ciascuno di questi è
la radice, ma piuttosto per il «Carattere» onde ciascuno è quel-
lo che è (e «non è» l'altro), la conseguenza sarebbe in primo
luogo che in sé stesso ciascun genere dovrebbe potersi distin-
guere, - e presentare perciò, da una parte, l'essere in forza del
quale «è», e da un'altra invece il «carattere» in forza del quale

Mauritius_in_libris 199
è lo specifico essere che è. Se per altro nel yévoc; l'essere si
distinguesse dal «carattere», per ciò stesso occorrerebbe am-
mettere che, in quanto tale, anche il «carattere» è, e che,
essendo tuttavia il carattere e non l'essere, anche dall'essere
per il quale «è» si distingue come carattere. Il che è compiuta-
mente assurdo. Ma se è cosl, se il yévoc; non è che «l'essere»,
in che modo allora, a sua volta, l'essere si distinguerà dal
yévoc;? Non è evidente che la distinzione riposa sulla presup-
posizione della differenza, ossia di sé stessa: su ciò dunque
che, per definizione, è à.J...oyov?
La difficoltà si rivela dunque, per questa via, insuperabile.
E certo a superarla non gioverebbe l'osservazione (che se mai
la ribadisce, e la esaspera) secondo cui, «partecipare di» non
essendo lo stesso che «identificarsi con», l'atto mediante il
quale il moto e la quiete, l'identico e il diverso partecipano
dell'essere, e sono, implica appunto, in ciascuno, una «mino-
rità» di essere, e di questi fa in qualche modo piuttosto dei
«gradi» di realtà che non la realtà piena e tutt'intera. Questa
osservazione non supera, e piuttosto ribadisce la difficoltà,
perché, dato e non concesso che possa essere assunto in forma
non problematica e la sua conseguenza non sia (come invece è)
la rivelazione di un 'ulteriore difficoltà, il concetto secondo il
quale la realtà è articolata in «gradi» è comunque non omoge-
neo a quello per il quale deve ben essere per intero reale ed
essente l'essere che al partecipante consente la partecipazione:
con la conseguenza, se è cosl, che la «minorità d'essere»
intrinseca ai YÉVT\ (che per questo, e non in quanto partecipano
del diverso, sono diversi dall'essere) avrebbe alla radice di sé,
e come sua condizione, il suo contrario-opposto: non la mino-
rità, ma la pienezza, dell'essere!
Anche su un altro punto (già variamente toccato nel corso
dell'indagine) deve del resto insistersi; e questo è che se il
«non essere relativo» è altresl un diverso essere, e diverso,
perciò, dall'assoluto non essere, non è allora evidente che
tanto poco questo può essere escluso, vietato, negato, che,
nell'escluderlo, vietarlo, negarlo lo si ammette, autocontrad-
dittoriamcnte, come condizione del divieto che se ne fa (e che,
per questa ragione, non si ha il diritto di fare)? Non è evidente
che è proprio la negazione platonica del nulla, o, se si preferi-

200 Mauritius_in_libris
sce, il modo determinato in cui, nel Sofista, il nulla assoluto
viene negato e congedato, a riammetterlo nel quadro e a far
nascere la relativa questione? Una questione che, d'altra parte,
si presenta identica quando si prenda a considerare, nel suo
complesso, la stessa cruµ7tÀ.OK1'. Della quale non basta dire
che, come ha i YÉVTI dentro di sé, o è tale che esprime e simbo-
leggia la relazione che questi intessono e stringono, cosi, e per
la stessa ragione, nel suo ambito logico chiude il non essere;
che non è l'assoluto nulla, ma il diverso essere che, nel con-
trapporsi ad ogni altro, ciascun yévoc; è. Dire cosi, di tale
questione, non basta: e deve infatti aggiungersi che, come gli
«essere per altro», che la cruµ7tÀ.Otj chiude nel suo ambito,
sono bensi tali l'uno in relazione all'altro, ma in quanto, in-
nanzi tutto, sono ciascuno essere, e non nulla; come di questi
deve specificarsi che il loro «essere altro (o per altro)» è un
essere che, prima che all'altro e diverso essere, proprio al
nulla, all'assoluto nulla, si contrappone, cosi è della cruµ7tÀ.oK1'
presa nel suo complesso. Anche questa, infatti. la cruµ7tÀ.OK1',
è, e non è nulla; e tanto più del suo «essere» deve dirsi cosi, -
che non è nulla, in quanto addirittura, ogni altro essere essendo
incluso nel suo orizzonte, palesemente essa non incontra, fuori
o accanto a sé, un esser altro con il quale entrare in relazione
e costituire una ulteriore cruµ7tÀ.OK1'. Che sia cosi, è evidente.
Ma, se è cosi, come allora non trarne l'estrema conferma che,
nella forma in cui il Forestiero d'Elea lo ha presentato, impen-
sabile è il congedo del nulla? L'addio non era radicale. E il
nulla, l'assoluto nulla, torna a visitare le notti, non necessaria-
mente serene, del filosofo.

47. eealTI}w<: né-re-rai. La parte conclusiva del «Sofista»

Con le considerazioni che precedono l'analisi del Sofista


potrebbe, nella sua parte essenziale, considerarsi conclusa. È
ben vero infatti che alla lunga introduzione concernente le
definizioni del «sofista» fa riscontro, dopo la trattazione dia-
lettica, una sorta di epilogo, assai più breve, nel quale, innanzi
di riprendere la questione definitoria, e, con un ultimo esempio
di otcx{pecrtc;, di concludere, si torna sul tema dell'errore,

Mauritius_in_libris 201
del falso, dell'inganno, dell'opinione vera e di quella falsa:
ossia sul tema con il quale la parte centrale e nevralgica aveva
preso 1'avvio. E vero è anche che in ciascuna delle sue artico-
lazioni questo testo conclusivo non contiene, rispetto al prece-
dente, novità sostanziali. Ma altresl è vero che la trattazione
dell'errore, del falso e dell'opinione esposta nell'epilogo è la
prima che presupponga come eseguito il parricidio di Parme-
nide e che, per conseguenza, si svolga nella luce e nella pro-
spettiva che questo evento ha accesa e determinata. Vero è
infine che nello svolgere, in questa luce e in questa prospetti-
va, le anzidette questioni, il Forestiero d'Elea vi ha tuttavia
introdotto qualcosa di ulteriore: che produce difficoltà e non
sarebbe perciò ammissibile lasciare senza qualche parola di
commento.
Certo, non nuovo, dopo quel che fin qui si è udito, appare
l'elogio che il Forestiero d 'Elea fa del «connettere» di contro
al «separare» 190 : a quel separare ogni cosa da ogni altra che, in
ultima analisi, importa l'à«1>6.vtcrtc;, la soppressione, di ogni
logo, dal momento che otà [... ] tjv cXÀ.À.1'À.rov 'trov Eiowv
cruµ1tÀ.OK1ÌV ò Myoc; yéyovev i'tµtv, soltanto dall'intreccio,
l'uno con l'altro, dei generi il discorso ci si origina. E non
nuovo è 1'avvertimento che subito dopo segue: che se, per
avventura, tutto da tutto separando, al logo si sottraesse la sua
stessa possibilità, allora per certo accadrebbe la cosa fra tutte
la più grave, perché senza logo, senza discorso, non si dà
filosofia, e, con quello, anche di questa saremmo privi e non
saremmo in grado di dir nulla. Non nuova è altresl la connes-
sione che il Forestiero d'Elea stabilisce (o torna, piuttosto, a
stabilire) fra quanto detto fin n e 1'autentica questione filoso-
fica, che mai in realtà era uscita dal cerchio della considerazio-
ne; e a Teeteto che, pur comprendendo quel che di specifico
era stato affermato circa la natura del logo, della connessione
non s'era accorto e dichiarava perciò di non capire perché
proprio in quel punto dell'indagine dovesse tornarsi a discu-
terne, spiega infatti che, come il µiì ov si è rivelato un genere
fra gli altri, ica'tà 1tav'ta 'tà ov'tn otE0"1tapµÉvov, sparso
dovunque per tutti gli enti, cosl è necessario stabilire se al logo
si unisca oppure no. Agli occhi del Forestiero è infatti evidente
che se con il µiì ov il logo non avesse alcuna connessione, tutto

202 Mauritius_in_libris
allora sarebbe vero 191 • Ma altrettanto evidente è il caso oppo-
sto: che se al «non essere» e il logo e l'opinione si connettono
e si uniscono, l'uno per conseguenza non è vero, e l'altra è
falsa. Tò yàp tà µ1) ÒV'ta ooçciçetv il ì.1yetv, 'tOùt' fott 7tOU
tò 'ljfEùOOc: èv owvol.~ te 1m\. Myotc; ytyv6µevov, - opinare e
dire le «cose che non sono», - questo propriamente è il falso
che nasce nel pensiero e nei discorsi1 92 •
Ebbene, niente di quanto qui si afferma è tale da introdurre
nel quadro novità di rilievo: niente, o, piuttosto, quasi niente,
perché qualcosa di nuovo c'è in queste pagine: e richiede di
essere notato. Mentre infatti, a 260 A 5-6, con chiarezza si dice
che tòv A6yov Tiµtv trov òvtrov Ev n yevrov et vm, e il carat-
tere schiettamente ontologico dell'indagine viene mantenuto e
ribadito, nel passo che abbiamo sott'occhio è pur necessario
che cosa fra le cose il logo non sia, che non appartenga all'or-
dine ontologico, o a questo soltanto, dal momento che accade
in esso quel che nella realtà mai potrebbe accadere. L'intreccio
in forza del quale tanto il «non essere» è quanto l'essere «non
è», - questo intreccio non dà luogo né al falso né all'errore né
al conseguente inganno. E che sia cosl è chiaro perché, nella
realtà, «non essendo» l'identico e nell'atto in cui «non è»
l'identico, il diverso «è» tuttavia il diverso: il che ulteriormen-
te significa che nell'essere ciò che è il diverso è il diverso e
non è il falso o l'errore. Analogamente, il moto «non è» la
quiete e questa «non è» il moto, ma non per questo, nell'essere
il moto moto e la quiete quiete, e nel non essere l'uno l'altra,
il moto e la quiete sono falsità ed errore. Al contrario, quella
per la quale l'essere del «non essere» e il non essere dell'esse-
re sono entrambi degni di essere accolti nell'ambito del reale,
qui essendo riconosciuti come entrambi in qualche modo «es-
senti», - è in realtà la regola della àì..~0rnx, non certo del-
1'errore. È la regola dell 'àì..~0rnx rifulgente nella cruµ7tÀ.OJC1':
della quale deve quindi dirsi che, al di là delle molteplici
difficoltà che nel corso dell'indagine sono state via via poste
in rilievo, ospita bensl il «non», il negativo, senza per altro che
questi esprimano l'errore e il falso, la loro espressione concer-
nendo piuttosto il risolversi del µiì òv nello etepov.
Proprio qui, per altro, risiede la specifica difficoltà che
.
questo «passaggio» presenta; e che consiste nella netta diffe-

Mauritius_in_libris 203
renza, - nella differenza senza risoluzione, che a questo punto
si rivela fra l'ordine ontologico, nel quale è impossibile che
l'errore e il falso trovino stanza (la quiete non è la falsità del
moto, e cosl via), e ciò che invece accade È:v owvo{~ Kcxt
A.6y0tc; i quali appartengono bensl anch'essi al medesimo
ordine nel quale ogni altro yévoç s'inscrive, ma sono tuttavia
tali che, con assoluta eccezione, è in essi che, tuttavia, il falso,
'tÒ 'JfEùooc, si dà a vedere nella sua specificia natura ontologi-
ca. La quale consiste, in sostanza, nella realtà dello scambio
che si determina quando una cosa sia attribuita ad un 'altra, e di
Teeteto, che siede, si afferma che cammina, sta in piedi, o,
addirittura, vola 193 • In altri termini: la molteplicità dell'essere,
o, se si preferisce, il suo articolarsi secondo i modi della
cruµnA.oK'T\ che, nell'atto in cui lo distingue, lo connette ai
YÉVTI, - la molteplicità dell'essere e la cruµnA.oKl\ costi-
tuiscono bensl la condizione obiettiva perché l'errore si produ-
ca e di esso possa parlarsi; non però l'immediato fondamento.
Costituiscono, in altri termini, la condizione necessaria e non
sufficiente, non la condizione necessaria e sufficiente. È evi-
dente infatti che per produrre e far essere l'errore si richiede
l'intervento di un atto della ouivotcx, e del logo, che, confon-
dendo, alterando l'obiettivo profilo del reale e ad una cosa
assegnando la caratteristica e la qualità di un'altra, produce
appunto l'errore e tende la rete dell'inganno. E altresl è evi-
dente che in tal modo il discorso rischia seriamente di intra-
prendere il giro che potrebbe esser detto della viziosità logica.
Basta in effetti, per rendersene conto, considerare che se è ad
un atto della mente o del logo che la produzione dell'errore è
assegnata, questo, l'errore, dovrà a sua volta stare, e proprio
come errore, alla radice della mente e del logo che, confonden-
do l'ordine delle cose, e l'una prendendo per l'altra, errano.
Ma se è cosl, il circolo vizioso è evidente. Da che deriverà
infatti, e a partire da che si formerà, questo errore che, stando
e agendo alla radice della mente, fa sl che erroneo sia il suo
atto ed «errore» e «falsità» ciò che ne scaturisce? Da che
dipenderà che, nel vederlo seduto, di Teeteto, e proprio di
questo che gli occhi discernono e con il quale stiamo qui
parlando, si affermi tuttavia che sta in piedi, cammina, o,
addirittura, 1tÉ'tE'text, vola? E vedendolo invece stare in piedi,

204 Mauritius_in_libris
camminare e, se fosse possibile, volare, da che dipenderà che
invece lo si dica «seduto»?
Ebbene, se è così, è ben vero quel che qui innanzi si
affermava, non essere priva di qualche novità e peculiarità la
breve trattazione con la quale il Sofista raggiunge il traguardo,
o tocca, almeno, la sua conclusione. Ma è per altro, questa, una
novità, e una peculiarità, che, rispetto a ciò che precede e alle
difficoltà che vi sono contenute, non produce e non consente
progressi: essendo in realtà essa stessa solcata dall'aporia, -
una specifica e grave aporia. Palesemente, per un verso e in
qualche modo, il Forestiero d'Elea si avvede che la questione
dell'errore è quella, altresì, della sua genesi, o, meglio ancora,
del suo «esser possibile». Ma altrettanto palese è che, per un
altro, non riesce ad andare oltre l'asserzione iniziale, - che
«verità» è affermare, e non negare, le «cose che sono», «falsi-
tà» è il contrario, ossia negarle, affermando quelle che «non
sono»: come gli esempi, già ricordati, di Teeteto, che siede e
che vola, dimostrano. Non potrebbe dirsi infatti che qualche
luce provenga, per questa parte, dalla breve battuta che s 'in-
contra a 263 D 6-264 B 8 e che concerne il otciÀO'yoc &veu c1>rovi1<
che l'anima intrattiene 1tpòc; èau't~v: la situazione insomma
che, per distinguerlo da quella sorta di peùµa che si comunica
dall'anima otà 'toù <noµciwu e che prende il nome di Myoc;,
a giusto titolo è invece definito con quello di otcivota, pen-
siero194. Nessuna luce, in effetti, proviene da questa situazione
e dalla diversità che caratterizza i due atti della otcivota e del
Myoc;; che si distinguono bensì, perché l'uno è muto e l'altro
sonoro, ma non perché l'uno sia sempre e soltanto vero, e
l'altro sia invece passibile di errore . .1tcivota e À.6yoc; sono
infatti, per il Forestiero d 'Elea, lo stesso 195 ; e la distinzione che
egli stabilisce fra l'atto dianoetico che l'anima compie dialo-
gando con sé stessa, l'opinione che ne deriva (e che è priva di
sensazione), e l'opinione, infine, con sensazione, - questa
distinzione presuppone tuttavia che in ciascuno di questi tre
ambiti la possibilità del vero sia, per dir così, pareggiata dal-
1'opposta possibilità del falso. Lo dichiara, senza mezzi termi-
ni, a 264 A 10-B 3: nel passo in cui è detto che È1tet1tEp Myoç
CÌÀ.ll01Ì< 1'v Kat 'lfEUO~<. poiché il logo è vero o falso, e fra i
logoi c'è anche il pensiero, la otcivota, che è in effetti mhiìc;

Mauritius_in_libris 205
1tpòc; èau't1Ìv 'lfUXfic; ouiÀ.oyoc;, un dialogo de II' anima con sé
stessa, mentre l'opinione è la conclusione del pensiero, &Sl;a
oÈ OtaVOtac; cX1tO'tEÀ.EUTilcrtC:, e ciò di cui diciamo «Sembra»
(<J>atVE'tat) è cruµµetl;tc: alcr01'creroc; 1ml &Sl;T\c;. una mesco-
lanza di sensazione e opinione, così è necessario che, congene-
ri al logo, anch'esse possano, qualche volta, essere false. So-
no, come si vede, proposizioni esplicite. Ma rimane tuttavia
incomprensibile come, nell'esercizio (silenzioso o no) dell 'af-
fermare e del negare, possa accadere che la medesima mente
che, òp0c.i)c:;, sa affermare e negare, in certi casi affermi quel
che dovrebbe negare, e in altri neghi quel che dovrebbe affer-
mare. E deve riconoscersi che, da questo punto di vista, la
veloce analisi offerta dal Sofista non raggiunge il livello di
quella, non solo più ampia, ma assai più complessa, che Plato-
ne aveva svolta nel Teeteto 196 •

48. Le dame di Leibniz e la diversità delle foglie

Si può ormai, tornando sul centro della questione, con-


cludere. II tentativo di congedare il nulla assoluto può conside-
rarsi fallito. E con il congedo del nulla fallisce altre sì l'altro e
connesso tentativo, che nel dialogo si compie, di pervenire alla
dimostrazione della «diversità», della È'tep6't1lc;: fallisce il
tentativo di «dire addio» ali 'essere, anch'esso assoluto. Ma, da
un lato, il fallimento non esclude la grandezza del tentativo, e
dell'impegno speculativo di chi, meglio forse di ogni altro, ha
capito che, perché possa parlarsene, la diversità richiede di
essere dimostrata, e non semplicemente «raccolta», quasi fos-
se un qualsiasi oggetto empirico, dall'esperienza (che, si dice,
è il tessuto stesso delle diversità). Da un altro, invita a consi-
derare con qualche attenzione il relativo problema; e a formu-
lare alcune, non inessenziali, domande. Perché della «diversi-
tà» diciamo che dev'essere dimostrata, e non «raccolta» come
se fosse un oggetto fra i tanti che costituiscono la nostra
«esperienza»? Posto che «diversità» ed «esperienza» siano Io
stesso, che plausibilità avrebbe la tesi di chi sostenesse che, sì,
la diversità è un problema, che, peraltro, l'esperienza stessa
risolve? Come e perché diciamo che la diversità è un proble-

206 Mauritius_in_libris
ma, e che per questo, perché è un problema, entra nel discorso,
o nella domanda, che la concerne? Oppure si dirà che vi entra
perché è evidente che le cose sono diverse, e che è nell 'eviden-
za (come prima nell'esperienza), - nell'evidenza che per sé
non richiede evidenza, che la diversità ha la sua fonte legitti-
mante?
È dunque al modo delle famose dame leibniziane che la
questione della «diversità» richiede di essere prospettata e,
infine, risolta? Passeggiando sul prato di un bel giardino, in
compagnia di Leibniz, le nobildonne osservavano le foglie
che, cadute dagli alberi, graziosamente vi si erano depositate;
e, nella sua saggezza, il grande precettore le invitò a conside-
rare come, per qualche particolare, ciascuna fosse diversa da
ogni altra, nessuna identica: per qualche particolare, ossia in
forza e in ragione della diversità che, in tal modo, senza alcun
razionale controllo, veniva anticipata a sé medesima. Per il
rispetto che il nome di Leibniz suscita in noi, e per il riguardo
che deve aversi per le belle signore che erano, quel giorno, con
lui, non esclameremo con Hegel: «Gliickliche Zeiten fiir die
Metaphysik, wo man sich am Hofe mit ihr beschaftige, und wo
es keiner andem Anstrengung bediirfte, ihre Satze zu priifen
als Baumblatter zu vergleichen!» 197 • Ma certo a risolvere la
questione della diversità, osservare e paragonare le foglie non
basta. Come dunque la risolveremo? È addirittura un problema
se quello della diversità sia un problema. Ma è comunque fuori
di dubbio che se, senza memoria del Sofista, ci accingessimo
ad un'impresa cosl ardua, il rischio sarebbe assai alto, e come
le gentildonne leibniziane potremmo trovarci a confrontare le
foglie cadute, in un giorno d'autunno, sul prato del nostro
giardino.

Mauritius_in_libris 207
Mauritius_in_libris
Note

1 Poiché non è infrequente che, anche da parte di qualche dotto, si


dica «parricidio», e «parricida», e, conforme ad un' etimologia che godette
di credito anche presso filologi e giuristi (cfr., al riguardo, U. Coli, Pa-
ricida esto, in Studi in onore di U.E. Paoli, Firenze 1955, pp. 171-94),
s'intenda l'uccisione, e l'uccisore, del padre (ma, per fare un esempio,
già P. Bonfante, Istituzioni di diritto romano, Milano 1934, p. 198 n. 1,
assumeva pater nel senso di un capo delle gentes e specificava che «par-
ricidium era forse l'uccisione di un pater o compiuta da un pater»), meglio
che al breve saggio di G. Pasquali, Paricidas esto (1938), ora in Terze
pagine stravaganti, Firenze 1942, pp. 135-38, rinvio per la questione a
A. Pagliaro, La formula 'Paricidas esto' »,in Altri saggi di critica seman-
tica, Firenze-Messina 1971, pp. 41-110, dove potrà trovarsi un'ampia
bibliografia. Sarà vero che, come passim il Pagliaro osserva, su paricidas
si formò, per etimologia popolare, 'parricida' col significato di «uccisore
del padre». Ma, come lo stesso Pagliaro rileva (p. 88), l'arbitrio
dell'accostamento (parricida) rese alla fine «necessaria una definizione
precisa del termine nella legislazione» e la «nozione che in parricida finì
con il prevalere, fu quella di uccisore di uno stretto parente», finché «la
'lex Pompeia de paricidiis' del 70 a.C. venne a precisare la figura del
reato con la determinazione della persona, contro e nella quale l'azione
delittuosa si qualificava come parricidio (ne rimase ancora esclusa la
uccisione del figlio)» (p. 88 n. 1).
2 Soph. 241 D 5-7 'tÒV 'tOU 1tCl'tpÒc; napµi:vioou 'A.6yov à.vay1miov
i}µiv à.µuvoµÉvmc; Ècnm pacravisttv, 1mì. Puiçmem 'tO 'tE µii òv eòc;
fou IC<X'ta 'tt IC<XÌ. 'tÒ òv aù 1tUÀ.tV CÒc; OÙIC fou 1t1J.
3 Parm. B 7, 1-2 Diels-Kranz. A proposito di 'tOU'tO &xµfit, che è lezione
generalmente accolta, avendo la «sua base [ ... ] in qualche mss. di
Simplicio» (P. Albertelli, Gli Eleati. Testimonianze e frammenti, Bari 1939,
p. 138: e cfr. l'apparato del Bumet, in Platonis Opera, Oxford 1946, I, a
357 A 8), si ricordi che, per contro, i mss. platonici hanno 'tOU't'où
oaµ'lj. Contro la lezione 'tOU'tO µ11oaµ'lj. giudicata un «nesso durissimo»,
indipendentemente dallo Heindorf (cfr. T. Bergk, Emendationum
parmenidearum pars I et pars li, in Kleine Schriften, Halle 1886, II, 67
e 73) che la formulò per primo, G. Calogero, Studi sull'eleatismo, Roma
1932, pp. 20-21 in nota, avanzò la proposta di leggere 'tOU'tO oofic; (e il
primo verso interpretò come «non ti lasciare mai insegnare questo»). Ma,
sebbene assai sottilmente argomentata, la proposta non è stata, per quel
che ho visto, accolta (nella sua recente edizione dei Fragments of
Parmenides. A criticai Text with /ntroduction, Translation, the ancient
testimonia and a Commentary, Assen-Maastricht 1986, pp. 190-91, A.H.
Coxon non ha creduto di doverla nemmeno ricordare); e nel capitolo
parmenideo della Storia della logica antica, I, L'età arcaica, Bari 1967,
p. 159 n. 26, implicitamente prendendo atto della scarsa fortuna incontrata
dalla sua proposta, il Calogero osservò che «quand'anche si ritenga
possibile il &xµij ormai tradizionale[ ... ], non muta il valore di quel che
più importa nel verso». Cfr., al riguardo, e ad esempio, M. Untersteiner,

Mauritius_in_libris 209
Introduzione, a Parmenide, Testimonianze e frammenti, Firenze 1967, p.
LXXXIV n. 53, e L. Tanin, Parmenides. A Text with Translation
Commentary, and criticai Essay, Princeton 1965, pp. 73-74. Andrà infine
almeno ricordato che, pur presupponendo nella sua versione, il 'tOÙ'tO
ooµijt tradizionale, H. Frlinkel, Dichtung und Philosophie der fruhen
Griechentums. Eine Geschichte der griechischen Literatur von Homer
bis Pindar, New York 1951, p. 457 n. 10 («Denn nie kann dies erwiesen
werden» ), pone dubitosamente, dopo erwesen, un punto interrogativo.
4 Nella sua edizione italiana del dialogo (Bari 1951, p. 122), pur
senza fare questione esplicita di tradizione manoscritta, VI. Arangio Ruiz
osservò che questo verbo, che torna a 246 D 8, «può anche far pensare
che sia giustificato il ooµij che trovammo a p. 237 a nella citazione dei
due famosi versi di Parmenide».
s Parm. B 1, 29 Diels-Kranz.
6 Soph. 236 D 1-5 ciì..ì..'Òv'tcoi: 0auµacnòc: civrìp 1mì Ka'ttlìeiv
7taYX<iÀ.E7tOC:, É7tEÌ JCaÌ vùv µ<iì..a EÙ KaÌ KOµ\jlcik dc: <Ì7topov dlìoc:
OtEpEuvii<mcr0at JCa'ta7tÉcj>EuyEV.
1 Soph. 236 E 3.
8 Soph. 236 E 3-237 A 1 o7tcoi: yàp EÌ7t6v'ta XPlÌ \jlE'l>Ofj ì..ÉyEtv Tj
oo!;<isEtV OV'tCOC: dvat, JCaÌ 'tOÙ'tO cj>0ty!;<iµEVOV Évavnoì..oyi.~ µ1'
CJ'l>VÉXECJ0at, 7tClV'ta7tacrtv, ro 9EClt'tTJ'tE, X<lÀ.E7t6V.
9 La questione discussa qui richiederebbe altro discorso. Per non
andare troppo per le lunghe, può tuttavia dirsi, sinteticamente, che, in
tanto (senza riuscire a controllare le conseguenze che ne nascono) fra
essere e non essere Parmenide stabilì una «differenza assoluta», in quanto,
per esprimersi così, gli accadde di porre il «non essere» (nella sua
immediatezza, appunto, «posizionale»), dinanzi alla negazione con la
quale lo investiva, e, dopo averlo «posto», di dichiararlo «impossibile».
In tal modo, anche Parmenide si contraddiceva. Non è forse evidente,
infatti, che, se è «posto» (o anche soltanto «nominato»). il «non essere»
non è «non essere, ma «è» posto, «è» nominato, e, per conseguenza, «è»?
E che sia così, risulta chiaro, ad esempio, da B 7, 2 sgg. ciì..ì..à cr'Ì>
'tfjcro'cicj>'òlìoù lìtsr\crwc: EÌP'YE v611µa etc. L'òOOc:, dalla quale occorre
che il pensiero sia tenuto lontano sarà bensì, infatti, una metafora che, per
il rispetto che si deve al linguaggio e alla sua natura, converrà non
materializzare in una via «reale». Ma la metafora della «via» non sorge
per caso; e forse non sorgerebbe affatto se 'tÒ µ1' òv non vi si presentasse,
in forma, appunto, autocontraddittoria, come entificato in «ciò che non
è», e come tale, quindi, che ad esso la mente e l'intenzione possano
dirigere sé stessi compiendo un cammino. Allo stesso modo, l'immediata
«interpolazione» del «nascere» (e quindi del concetto che potrebbe esser
detto del «venire all'essere») è evidente, ad esempio, nella prima
predicazione dell'essere; che infatti è ciyév11'tov (B 8, 4), e tale quindi
che, con questo suo predicato, toglie bensì, ma, appunto, «ponendolo», il
suo contrario, la «generabilità» e, per conseguenza, la temporalità. E lo
stesso si dica della seconda predicazione, cioè dell'essere, l'essere,
civroì..E0pov: un carattere, questo, o un predicato, che, anch'esso, ammette
ciò che esclude, perché solo mediante questa ammissione, si costituisce.

210 Mauritius_in_libris
Il medesimo discorso potrebbe essere, pressoché alla lettera, ripetuto per
le altre predicazioni: a cominciare dalla «atemporalità», a proposito della
quale, senza pretendere di poter discutere qui, in modo adeguato, le varie
questioni che le si connettono, valga tuttavia questo rilievo. È noto che,
riprendendo del resto i risultati conseguiti da altri (cfr., ad es., A. Levi,
Sulla dottrina di Parmenide e sulla teoria della &S!;a, «Athenaeum», n.s.,
5, 1927, p. 274 n. 4; R. Mondolfo, L'infinito nel pensiero del/' antichità
classica, Firenze 1956, pp. 92-93, 366; O. Gigon, Der Ursprung der
griechischenPhilosophievonHesiod bis Parmenides, Basel 1945, p. 261),
Untersteiner, Parm., pp. XXX-XXXII, CLXXXII, passim, ha sostenuto che
le prime predicazioni dell'essere, àyévrrrov, àvroAf'.'tpov, significano la
sua atemporalità o extratemporalità; e che la tesi sua e dei suoi predecessori
fu criticata dal Taran, Parmenides, p. 88, con l'argomento che «the fact
that a thing does not come into being or perish does not necessarily imply
atemporality; it may also imply infinite existence in time». Ma, a parte
l'ambiguità di questo rilievo (che esigerebbe in effetti, almeno il
chiarimento del senso che si attribuisce all'appartenenza dell'infinità al
tempo e, in esso, all'esistenza), rimane che né coloro che parlano dell'essere
in termini di atemporalità (o extratemporalità), né gli altri che (quasi si
trovassero di fronte alle prime due analogie kantiane dell'esperienza!)
preferiscono assumere l'idea della sua <<permanenza» nel tempo, mostrano
di avvedersi che, con assai maggiore radicalità, la questione è se l'idea
dell'atemporalità o della transitività, nel tempo, dell'essere possa essere
conseguita mediante concetti come quelli dell'esclusione (che, in realtà,
include) e della negazione (che, in realtà, afferma).
10 Soph. 237 A 6-7.
11 Diversamente giudica, ad es., R.S. Bluck, Plato' s Sophist. A
Commentary edited by G.C. Neal, Manchester 1975, pp. 64-65, il quale
non sembra dubitare dell 'inattingibilità di questo inexplorable hiding-place.
12 Un'ampia trattazione di yvrocnc; e &S!;a è in R. Murphy, The
lnterpretation o/ Plato's Republic, Oxford 1951, pp. 97-128; ma non mi
sembra che presenti punti di contratto con le questioni dibattute nel testo.
Un breve accenno in D. Ross, Plato's Theory o/ Jdeas, Oxford 1951, p.
48. Brevemente, al riguardo, anche P. Natorp, Platos Jdeenlehre. Eine
Einfuhrung in den Jdealismus, Leipzig 1921, pp. 186-87, e C. Ritter,
Platon. Sein Leben, seine Schriften, seine Lehre, Milnchen 1923, II, 28
sgg.
13 E cfr. anche Symp. 202 A 90, dove l'opinione retta è definita come
µe'ta!;ù cppovr\cmoc: 1caì. àµa0iac:.
14 Si ricordi, ad es., Euthyd. 283 E 7-284 A 1 'ti BÉ, rcp11, cò K'tr\<Jtmte,
6 EU0ul511µoc;, ii ooJCei crot oi6v 't'EÌ.vm 'lfEU&cr0m; Niì ~ia, Ecl>ll. ei µiì
µaivoµai ye. n6'tepov ÀÉyOV'tll 'tÒ 1tpdyµa 1tEpÌ OÙ dv Ò WyOC: ij, i\ µlÌ
Ai.yov'ta? Ebbene, I' Eutidemo non è, come si sa, un dialogo facile: e
certo è che anche quando, come in questo luogo, alludono a questioni
serie, i paradossi di Eutidemo e Dionisodoro non sono discussi da Platone;
che sembra in realtà non prenderli sul serio e voler suggerire che, per
criticarli, basti presentarli in questo loro carattere. Cfr. quel che al riguardo
si legge in A.E. Taylor, Platone, tr. it., Firenze 1975, p. 152. - Sul passo

Mauritius_in_libris 211
dell'Eutidemo richiamato qui su, cfr. H. Chemiss, Timaeus 38 A 8-B 5,
«Journal of Hellenic Studies», 1 (1975), pp. 18-19 (= Selected Papers,
Leiden 1977, pp. 340-41), il quale, discutendo G.E.L. Owens, The Piace
of the "Timaeus" in Plato' s Dialogues, «Classica! Quarterly», 47 (1953),
pp. 79-95, lo ha giustamente messo in relazione a Theaet. 188 D-189 B,
e a Crat. 385 B, dove analoga è l'impostazione, ma diversa, e cioè seria
in modo esplicita, risulta essere la disposizione ad affrontare e risolvere
la difficoltà. Sul modo in cui, in questi dialoghi, la questione si atteggia,
non è possibile fermarsi qui. Ma ancora utile è, al riguardo, il contributo
offerto da A. Levi, Il problema dell'errore nella metafisica e nella
gnoseologia di Platone, a cura di G. Reale, Padova 1971.
lS Cfr. qui di seguito, § 39.
16 Desidero ricordare che l'btaµcpoi:EptçEtV platonico, quale appare
in questo luogo della Repubblica, è stato sottoposto ad analisi da E.
Severino, Il destino della necessità, Milano 1980, pp. 21 sgg.; ma in una
direzione diversa da questa. E cfr. anche Aletheia, in Il problema della
contraddizione («Verifiche» 10, 1981 ), Trento 1981, pp. 107 sgg.
(ristampato in L'essenza del nichilismo, Milano 1982, pp. 415-34).
17 Uno studio recente della questione è Ch. Bigger, Participation. A
platonic lnquiry, Baton Rouge 1968; e cfr. anche V. Brochard, La théorie
pla!onicienne de la part icipat ion d' après le "Parménide" et le "Sophiste",
in Etudes de philosophie ancienne et de philosophie moderne, Paris 1974,
pp. 113-50. Ma ancora da tener presente e da meditare è il saggio di E.
Hoffmann, Metexis und Metaxy, «Mitteilungen des philosophischen
Vereins», 1919; nonché le considerazioni dedicate alla µÉ0E/;t< da N.
Hartmann, Platos Logik des Seins, Berlin 1965, pp. 314 sgg., 360-65,
passim. Fra le molte cose che di recente, direttamente o no, sono state
dedicate alla questione, cfr. M. Frede, Priidikation und Existenzaussage,
«Hypomnemata», 18 (1967), pp. 9-99, J.L. Aclaill, Plato and the Copula:
Sophist 251-259, in Plato, I, Metaphysics and Epistemology, ed. G. Vlastos,
New York 1971, R.T. Ketchum, Participation andPredication inSophist
251-260, «Phronesis», 23 (1978), pp. 42-62. Per le critiche di Aristotele,
rimane fondamentale, anche se talora discutibile, il libro di L. Robin, La
théorie platonicienne des idées et des nombres d' après Aristote, Paris 1908,
pp. 79 sgg.,passim. E si veda anche L. Stefanini, Platone, Milano 1932,
I, 242-44.
18 Rinvio per questo ai saggi del Levi citati alla n. 14. Ma cfr. anche,
fra gli altri, C. Ritter, Die Kerngedanken der platonischen Philosophie,
Miinchen 1931, pp. 243-44 (e anche Platon, I, 534 sgg., passim; II, 98
sgg.).
19 Parm. B 7, 33 DK.
20 B 7, 2 DK.

21 Sul senso di otçrjcnoc; (oiç11cnt;), oiç11cr0at, etc., cfr. Untersteiner,


Parmenide, p. LXXXI n. 119, il quale vi coglie l'espressione di «una
incertezza esegetica precedente la scoperta del vero» (cfr. O. Becker,
Das Bild des Weges und verwandte Vorstellung imfruhgriechische Denken,
«Hermes» Einzelschriften, 4, Berlin 1937, p. 141).

212 Mauritius_in_libris
22 Cfr. qui su 14.
23 Cfr. n. 113.
24 Soph. 237 B 7-8.
25 Soph. 237 C 5-6. Un'analisi dei luoghi (237 B sgg.) che, qui di
seguito, saranno affrontati nel testo, è in Y. Lafrance, Sur une lecture
analytique concernant le non-et re (Sophiste 237 BI 0-239 A I 2 ), «Revue
de philosophie ancienne», 2 (1984), pp. 74-76. La «lecture analytique»
alla quale il Lafrance rivolge la sua attenzione è quella di J.M.E., Moravcsik,
Being and Meaning in the Sophist, «Acta philosophica Fennica», 14 (1962),
pp. 23-78 (ma, in particolare, 26-29), alla quale noi pure avremo talvolta
occasione di riferirci; e occorre dire che di questa interpretazione il suo
saggio fornisce una critica, anche se cordialmente intonata, radicale,
volta ad infirmare il criterio stesso che la ispira (sulle «interpretazioni
analitiche» che riscuotono molta e, anzi, pressoché esclusiva fortuna
nella storiografia anglosassone, cfr. la «tesi di dottorato» di M.J. Quirk,
Contemporary Analitica[ Commentary onPlato' s Parmenides. A Critique,
New York 1985, che, pp. 66-113, prende l'avvio dall'esame delle tesi di
G. Vlastos). Non sono purtroppo riuscito a vedere fin qui il libro di S.
Rosen, Plato' s Sophist. The Drama of Originai and Jmage, New Haven
and London 1983, che [a quanto apprendo sopra tutto da «Lustrum», p.
209], nella sua prima parte svolge una serrata critica delle interpretazioni
analitiche del Sofista e, in genere, della filosofia platonica). Al Lafrance
replica, ribadendo la bontà del punto di vista analitico, J. Thorp, Form,
Concept and i:ò µiì òv, «Revue de philosophie ancienne», 2 (1984), pp.
· 77-92. Per quanto infine concerne l'interpretazione che il Lafrance offre
del passo citato del Sofista, basti dire che, a suo giudizio, la problematica
platonica «repose entiérement sur une théorie du langage et de la vérité
selon la quelle tout discours doit porter sur unpragma qui est, et elle soulève
le cas tout à fait insolit et signalé par ]es sophistes de l'époque, d'un
pragma qui n 'est pas ou qui n 'existe pas. Dans sa réponse à cette difficulté
sophistique, Platon maintient que tout discours porte sur un pragma et
propose de concevoir le pragme qui n'est pas comme un pragma qui est
"autre" que celui désigné dans le discours. C'est de cette façon qu'il
établit, contre ]es sophistes, la possibilité du jugement faux. Cette lecture
ontologique du Sophiste (237 b-239 a) nous semble plus près de la vérité
historique que la lecture conceptualiste de Moravcsik» (p. 76). Vorrei
lasciare da parte, in questa sede, se gli interpreti che si ispirano alla
filosofia analitica siano, o no, mossi unicamente dall'esigenza di «établir
la verité philosophique» del testo antico; e piuttosto osservare che la
«ripetizione» che il Lafrance compie della «tesi platonica» sarà, nelle
grandi linee, fedele, ma lascia tuttavia nell'ombra alcune delle più acute
fra le «aporie» concernenti il «non essere».
26 Soph. 237 e 10-11 OÙlCOUV E1tel7tEp OÙlC E7tÌ. 'tÒ òv' oùlì' E1tÌ 'tÒ 'tÌ
cflÉprov 6p0cik dv i:1.1; cf1Ép0t.
27 Soph. 237 D 6-7 àpa 't'ljlìE (J1C07tcOV cruµcf111c;. cix: av<iylCll i:6v 't1.
ì.i:yovi:a i:v yÉ 1:1. Ai.yetv?
28 Soph. 237 E 1-2

Mauritius_in_libris 213
29 Soph. 237 E 4-6.
30 Soph. 238 A 2.
31 Soph. 238 B-D.

32 Soph. 238 C 10.


33 Soph. 238 D 4-7 éb 9auµcime, oùic évvoek aù'tOtc; 'tOk A.ex9etmv
òu icaì 'tÒV ÉÀ.ÉyXov'ta ek cbmptav ica9tcnr1m 'tÒ µiì òv OU'tO><;, <l>cr'tE,
Òmhav <XÙ'tÒ É1ttXEtp'1j 'ti.I; ÉÀé)'XEtV, Évavna <XÙ'tÒV a\l'tql 7tEpÌ ÈICEÌVO
àva'"f1Ccisecr9m '>J:yetv? Debbo dire, riprendendo quanto già affermato
nel testo, che non riesco a capire perché (nella sua edizione italiana del
Sofista, p. 114), I' Arangio Ruiz asserisca che questa osservazione «non
aggiunge nulla», ma è «nel gusto greco». In realtà, se si considera la
sequenza argomentativa nella sua interezza, e per «aggiunta» si intende
la migliore determinazione di una fase dell'argomento, rimasta fin lì
implicita, allora è evidente che, a 238 D 4-7, al già detto il Forestiero
d'Elea qualcosa aggiunge, e di essenziale: dichiara infatti una specifica
modalità di coinvolgimento nell'aporia. - Su questa argomentazione, cfr.
anche Taylor, Platone, p. 549, che, fornendone un'incisa parafrasi, non
riesce per altro, o almeno così pare a me, a coglierne la implicazione
essenziale.
34 Si consideri del resto che tanto poco, almeno soggettivamente, gli
sembrava di star giocando di sottigliezze (e sovrabbondanze argomentative)
che, subito dopo, Platone fa che Teeteto abbia bisogno di 1dteriori
chiarimenti; e li chieda: 238 D 8 7tùk" •iJe; elTd: fu cracj>ÉO"'tEpov. Il culmine
dell'argomento non è infatti raggiunto se non a 239 A 8-11.
35 Soph. 239 C 6.
36 Soph. 235 D 6 sgg. Cfr., al riguardo, F.M. Comford, Plato' sTheory
of Knowledge. The "Theaetetus" and the "Sophist" of Plato translated
with a running Commentary, London 1951, pp. 198-99; N.C. Gulley,
Plato's Theory of Knowledge, London 1962, pp. 149-50; Bluck, Plato's
Sophist, pp. 59-61. Ma cfr. anche la nota dell' Arangio Ruiz, pp. 100-101
e, senza dimenticare le osservazioni di E. Panofsky, /dea. Contributo alla
storia dell'Estetica, tr. it., 1952, pp. 5, 99, 196, il notevole saggio di R.
Bianchi Bandinelli, Osservazioni storico-artistiche su un passo del
"Sofista", ora in Archeologia e cultura, Roma 1979, pp. 146-63,
regolarmente ignorato nella letteratura di lingua inglese. E cfr. ora anche
E.C. Keuls, Plato and greek Painting, Leiden 1978, p. 114.
37 Soph. 239 C 9-D 5. A 235 B 5-6 lo aveva definito del genere degli
illusionisti: 'tÒ µiì où 'to'ii yt.vouç d vm 'to'ii 'tcOV 9auµmo7tot<Ov 'ti.e ek.
38 Soph. 240 A 7 sgg.
39 La questione della priorità, o posteriorità, di Eraclito rispetto a
Parmenide è, come si sa, dibattutissima. Si può vederla delineata e
largamente riassunta nell'ottima nota di G. Reale, in Ed. Zeller-R.
Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, I,/ Presocratici,
Ili, Gli Eleati, Firenze 1967, pp. 173-83. In margine alla conclusione
raggiunta dal Reale («noi non abbiamo alcun diritto di supporre una
conoscenza da parte di Parmenide dello scritto di Eraclito» [p. 183])
vorrei però invitare ad un'attenta riconsiderazione di quanto scritto da J.

214 Mauritius_in_libris
Bemays, Heraklitische Studien, «Rh. Museum», 7 (1850), pp. 90-116 (=
Gesammelte Abhandlungen, hrsg. von H. Usener, Berlin 1885, I, 3-73).
Non capisco del resto, dinanzi alla difficoltà e, forse, insolubilità della
questione, i sarcasmi che, contro la tesi della posteriorità parmenidea,
furono prodotti da G. Colli, <J>ucnc: KpU7t'tE09at <ptÀEÌ. Studi di filosofia
greca, Milano 1948, p. 124 n. 2 (va precisato per altro che questo
studioso sostiene una tesi analoga a quella illustrata da M. Heidegger,
Introduzione alla metafisica, tr. it., Milano 1966, pp. 133 sgg., la tesi, si
vuol dire, della sostanziale «coincidenza» dei due pensatori). Sulla
questione cfr. anche le equilibrate considerazioni di G. Calogero, Storia
della logica antica, I, L'età arcaica, Bari 1967, pp. 63-64, 129-30, 158-
59, che è, per suo conto, persuaso dell'anteriorità eraclitea.
40 Cfr. qui di seguito, § 36.

41 Soph. 241 c 7-9 ~çeiç oùv auyyvo>µ11v IC<lÌ JCa9<i7tEp vuv EÌTtEc:
àyatjaEtc: Mv 7t1J Kaì Ka'tà ppaxù 7tapaa7taaroµe9a ou'troç iaxupou
')..jyyou?
42 Efficacemente il Comford, Plato's Theory of Knowledge, p. 212,
rese 7tOA'l>KÉcpaÀOc: con hydraheaded (sophist).
43 Soph. 240 D 1-E 10. Il passo è stato variamente interpretato. Il
Comford, op. cit., p. 210, lo ricostruisce così: «thinking or stating what
is false means asserting that what is not the fact is a fact, or that what is
the fact is not a fact. We are asserting something; our words have
meaning. So "what is not the fact" must ha ve some sort of being; it is not
sheer nonentity. The conclusion will be that we must escape from the
Parmenidean dilemma: "a thing must be either perfectly real or totally
unreal", and recognise a third intermediate region of things that are
neither wholly real nor utterly non-existent. There must be some sense in
which what is not (wholly real or true) has some sort of existence or
meaning». L'esegesi del Comford è puntuale; ma è certo inadeguata
nella pretesa che ciò di cui qui si parla, e cioè l'immagine, abbia un
carattere intermedio fra l'essere e il non essere, il vero e il falso e, non
diversamente da quel che accade nei luoghi già ricordati (476 D sgg.)
della Repubblica, si presenti come un µE'taçu. Rinviando a quanto detto
qui su, §§ 3-5, nel testo, circa il carattere autocontradditorio di questo
concetto dell' «intermedio» (che «è» intermedio e proprio per questo,
perché «è», non potrà essere intermedio fra l'essere e il non essere), basti
rilevare che se avesse avuto in mente qualcosa come un µE'taçu, certo
Platone non avrebbe fatto dire al Forestiero d 'Elea quel che questo
personaggio in effetti dice, e cioè che il sofista dalle molte teste ci ha
costretti ad ammettere che il «non essere» in qualche modo «è» (240 C 3-
5 6p4c; youv on Kaì vuv Btà 'tl'ic: È7taÀMiçeroç 't<IU'tl]C: 6 7tOA'l>KÉcpaÀOc:
aocptO"t'lÌC: i;vayJCalCEV itµdc: 'tÒ µi) òv oux ÈK6V'tac; òµOÀQ'YElV Eivai
7t(l)ç. A proposito dell'dvat 7troc:, W.G. Runciman, Plato's Later
Episterrwlogy, Cambridge, 1962, p. 69, ha osservato che il significato
dell'espressione è che l'immagine esiste soltanto «to some (limited)
extent», e si contrappone in effetti a aÀT]9ci)c; (fon). Ma che il significato
di Eivai Ttroç debba, comunque ciò sia possibile, rimanere indeterminato,
è evidente: se fosse contrapposto a aÀT]9ci)c; (Èan), sarebbe infatti non

Mauritius_in_libris 215
«in qualche modo», ma in «questo modo» specifico: ossia sarebbe
specificamente contrapposto a <iì..Tt0ci)c; (fon). Meglio quindi, al riguardo,
il Bluck, Plato' s Sophist, p. 66, il quale osserva che «the solution the EV
eventuality finds is to isolate the "is" which expresses identity, and the to
show that "is not" can express nonidentity, meaning "is other than"»; e,
polemizzando con il Comford, aggiunge che «We are not concemed with
degrees of reality» e che the «only question here is how a thing that "is
not" something else can "be" at ali - how it can even "be" itself». Ma
anche questa interpretazione si rivela inidonea a risolvere il problema:
non determina infatti con esattezza il senso della sequenza argomentativa.
È evidente che, ad interpretare così, dell 'ei icrov dovrebbe farsi quel che lo
E:tepov è rispetto agli altri yÉvrJ, e, sia o no un yÉVoc: fra gli altri, all'essere
stesso. Ma per varie ragioni è impossibile che l'immagine sia la stessa
cosa dello hEpov. Ed anche è evidente che del «third intermediate» che,
a torto per altro, il Cornford ha postulato alla radice logica del passo, il
Bluck non deve aver colto il carattere proprio: ché, in caso contrario,
certo non avrebbe parlato di degrees of reality (per escluderli bensì, in
questo contesto, non però per criticarne la possibilità, at ali).
44 Soph 241 e 7-9. A 236 D 9-E l, OV't(l)ç [... ] i:crµÈV i:v 7taV'tclTt<l(Jt
xaì..Ttmj crKÉ'\jlEt, aveva parlato di una ricerca di estrema difficoltà; e a
242 B 6-7 parlerà di xapalCtVOOVE'IYtl.KÒC: ').jyyoc:, di rischiosissimo discorso.
4 s Cfr. il mio Essere e negazione, Napoli 1987.
46 II verbo è usato anche a 246 B 8 (246 B 6-8 -totyapoùv ol 7tpÒç
aùw'Ì>ç <iµcptcr~Tt'tOÙV'tEt; µciì..a E'Ì>ì..a~ci)c; àvro0EV ÉI; <iopci-tou 7to0èv
<iµuvov-tm, voTt-tà à-t-ta ical <icrcbµa-ta eio,, ~taçoµevot 't1Ìv <iì..Tt0tviìv
oùmav Elvm).
47 Nella sua interezza il passo suona così: 241D5-7 -tòv wù 7ta'tpÒç
TiapµEVtOOU ì..&yov avayicaiov fiµtv aµuvoµÉVOtt; Ècr'tat ~acraviçEtv,
ical ~tciçrnem 'tO 'tE µiì òv còc; fon icmci n ical -tò òv aù 7tciì..tv còc; oùic
fon 7t1J.
48 Sulla questione basti il rinvio a Comford, Plato' s Theory of
Knowledge, pp. 216 sgg., e al Bluck, Plato's Sophist, pp. 69 sgg .. E cfr.
anche Ritter, Platon, II, 131 sgg.
49 Soph. 243 E 3.

so II passo è di difficile interpretazione: cfr., ad es., Comford, Plato' s


Theory of Knowledge, pp. 219-20.
SI Diversamente il Taylor nella sua edizione inglese del Sofista e del
Politico (London-New York 1961, p. 138).
Sl II Parmenide precede il Sofista in ciascuno degli elenchi platonici
costituiti da Armin, Lutoslawski, Raeder, Ritter, Wilamowitz (cfr. D.
Ross, Plato' s Theory ofldeas, Oxford 1951, p. 2). Sul rapporto intercorrente
fra questi due dialoghi, cfr. anche G. Ryle, Plato' s Progress, Cambridge
1966, pp. 286 sgg.
53 Soph. 244 e 8-9 'tO'tE olio òvoµa-taòµoì..oyéiv EÌVat µTtOÈV 0ɵEVOV
7tÌ..1ÌV (v ica-tayÉì..acr-tov 7tOU. E cfr. anche Parm. 141 E. Si veda in genere
la veloce trattazione del Comford, Plato' s Theory of Knowledge, pp. 121-

216 Mauritius_in_libris
22. Il Moravcsik, Being and Meaning, p. 31, ritiene che i nomi esistano
allo stesso titolo delle cose che ne sono designate. Ma lo svolgimento
dell'argomento platonico non consente che con questa tesi possa senz'altro
consentirsi. Cfr. anche Bluck, Plato' s Sophist, p. 73, a giudizio del quale
Platone «simply suggests that if names exist they must designate things
other than themselves, and that the monists have overlooked what our use
of names implies».
54 Parm. B 8, 43-45 DK.

55 Le contrastanti interpretazioni di questi versi cruciali, e in particolare


~ 43, sono ben schematizzate dal Reale, op. cit., pp. 238-41; e cfr. anche
Taran, Parmenides, pp. 150-60. Sull'interpretazione proposta dal Calogero,
Studi sull'eleatismo, pp. 27-28, e quindi Storia, I, 133-34, e accolta da R.
Mondolfo, Studi sul pensiero antico, Bologna 1936, p. 159, e quindi,
L'infinito nel pensiero dei Greci, Firenze 1939, pp. 276 sgg. (nuova
edizione, ampliata, Firenze 1956, pp. 363 sgg.), ma respinta dai più
(Reale, pp. 241-42), credo sia opportuno discutere a parte: cfr. perciò il
mio saggio L'esegesi parmenidea di Guido Calogero, «Cultura», 26 (1988),
pp. 189-285.
56 Cfr., del resto, 8, 22 oÙoÈ ouupE't6v ÈCJ'tl.V, btEÌ. miv ÈCJ'ttv òµoiov.
Si veda, al riguardo, Untersteiner, Parmenide, p. CXLIII; e anche Taran,
Parmenides, pp. 106-107, il quale, a ragione, ritiene che «"indivisibile"
does not referto materiai division, but is an ontologica] predicate of what
exists (whatever that may be)» (p. 106).
57 La difficoltà alla quale accenno qui su è stata da me discussa, in un
più ristretto ambito, in un articolo dedicato a Luigi Scaravelli e il "Sofista"
di Platone, «La nottola», 5 (1986), pp. 7-46. Ma si danno anche difficoltà
testuali che, variamente discusse, richiedono tuttavia di essere, sia pure
in breve, riesaminate. A proposito di 245 A 1-3 cH.. ÀÙ µiìv 'tO "(E
µEµEptaµÉvov mi0oç µÈv 'toi'i ÈVÒ< E;(EtV btì. 'tote; µÉprnt mi<Jtv oÙoÈv
clTtOICO>À.UEt, ICClÌ 'tClU't1J oiì TtdV 'tE òv ICClÌ OÀ.OV EV EÌ VCll, il Moravcsik,
Being and Meaning, p. 31 n. 3, ha osservato che qui non si dà un tutto di
parti costituite in unità, perché altro è l'uno, altro il tutto; e, criticando le
interpretazioni di L. Campbell, The "Sophistes" and "Politicus" ofPlato,
Oxford 1867, pp. 114 sgg., e del Comford, Plato'sTheory of Knowledge,
p. 224, ha concluso: «it is not the whole but only the parts thai are said to
be units». A suo parere, infatti, l'errore del Campbell e del Comford
deriva dall'aver entrambi ritenuto che un intero (a whole) è tale «in virtue
of its participation of the One»; laddove tale esso è «in virtue of its
participation of the Whole, and not in virtue of its participation of any
other Form». In altri termini: «what is F is Fin virtue of its partaking of
F, and not of any other form G». Egli ha perciò ritenuto (p. 31) che il
passo sia spiegabile così: «having parts it is not prevented from being
affected by the One in respect of its parts (i.e. each part is a unit). Thus
the totality exists, it is a whole, and it is one». Se lo capisco bene, il
Moravcsik ha supposto che ciò che ha parti sia affetto dall'uno «in
respect of its parts». Ma, in linea generale, sembra non aver considerato
l'ulteriore difficoltà che, in questo quadro categoriale, emerge; e cioè che
se, come egli ritiene, le parti fossero, ciascuna, «a unit», allora sarebbero

Mauritius_in_libris 217
identiche, ossia l'identico. Se, per altro, fossero identiche, ossia l'identico,
non potrebbero essere «parti»; e dall"'uno" delle parti, o meglio,
semplicemente, dall"'uno", sarebbe impossibile ottenere l'intero (che
suppone le parti, la realtà delle parti).
58 Cfr., più oltre, §§ 19-29.
59 Soph. 245 c 1-2 icaì. µiìv Mv YE 'l:Ò òv iJ µiì OÀOV Buhò 7tE1tOV0ÉVat
oc
'l:Ò u7t' Éicdvou mi0oç, iJ mhò 'l:Ò oÀOv, i:vBW; 'l:Ò òv èau'l:ou cruµjkli vei.
È questo il passo sul quale I' Arangio Ruiz chiese l'intervento di Luigi
Scaravelli, ottenendone la risposta che è stata pubblicata, a cura di M.
Corsi, «Filosofia», 30 (1974), pp. 37-44, e sulla quale mi sono intrattenuto
nell'articolo citato alla n. 57. Riferendosi a questo passo, e già lo si è
visto, il Moravcsik, Being and Meaning, p. 33 n. 1, ha osservato che «an
entity is not whole in virtue of its participation of the One, but in virtue
of its participation of the Whole». Altra cosa, insomma, l'unità, altra la
totalità; altra cosa l'uno, altra, l'intero; e, a parte quel che qui, n. 57, gli
è stato osservato, sarebbe naturalmente interessante sapere per quali vie
specifiche, in termini teoretici, il Moravcsik proverebbe questo asserto.
Poiché, d'altra parte, è mediante il concetto della «partecipazione» che,
com 'è facile vedere, egli costruisce l'argomento, allora deve notarsi che,
la partecipazione essendo tale che, non l'identità il suo atto realizza,
quanto piuttosto, e appunto, il «partecipare», ossia l' «andare a far parte»,
di necessità «ciò che partecipa» viene sempre ad esser meno di «ciò di
cui partecipa»: non l'unità, se di questa si trovi a partecipare, ma meno
della unità; non la totalità, ma meno della totalità, e così via. Da questo
punto di vista potrebbe dirsi che la µÉ0~u: si configuri come uno strumento,
imperfetto, di «differenza ontologica». Del resto, e anche a prescindere
qui dalle ulteriori, gravi, difficoltà che allo strumento «partecipativo»
sono intrinseche (e per le quali, si veda, passim, nel testo), è proprio sicuro
che, posto che «partecipazione» e «identità» (identificazione) fossero sul
serio lo stesso, l'identificazione con l'intero consentirebbe a «ciò che ne
partecipa» l'interezza? Concettualmente considerata, l'identificazione
suppone una differenza (fra «ciò che partecipa» e «ciò di cui si partecipa»):
una differenza, per colmare la quale l'atto partecipativo insorge. E sarà
vero che, mediante l'esercizio di questo atto, la differenza scompare. Ma
certo non potrà assumersi che, nell'identità conseguente all'identificazione
che latto «partecipativo» realizza con «ciò di cui partecipa», I' «esser
stato» della differenza anch'esso scompaia. Della possibilità stessa che
l'identificazione dispieghi il suo atto mediante l'esercizio della µÉ0el;u;,
I' «esser stato», o, meglio, I' «essere», della differenza costituisce, in
effetti, la condizione; e questo allora significa che l'identità (con l'intero)
non è pura, perché alla sua radice l'originaria differenza resta ineliminabile.
60 Theaet. 179 D sgg. (ma anche 155 E 3-156 A 7). E cfr., per qualche
indicazione, Cornford, Plato' s Theory of Knowledge, pp. 91 sgg.
61 Soph. 246 A 7-B 3 ol µÈv elc: yfjv i:I; oùpavou icaì. 1:0u àop<i'l:ou
miV'l:a EÀKOUO'l, 'l:aù: XEPmv à'l:l:'.Xvcik 7tÉ'l:pro; icaì. Bpik" 7tEpiÀnµ~voV'l:Et;.
'l:còv yàp 'l:oiou'l:wv É$a7t'l:6µevoi 7tav'l:wv Biicrxupiçov'l:at 1:0u1:0 Ei vai
µ6vov onapÉXEl 7tpocr~oÀfiv icaì. È7ta$r\v uva, 'l:<lÙ'l:Òv crc:Oµa icaì oùmav
òpiç6µevm, 'l:CÒV Bè aÀÀWV EÌ. 'l:ic: <'tl> $1'\0'El µiì crcòµa èxov éivat,
ica'l:a(j>povouv'l:Et; 'l:Ò 7tapa7tav icaì. oÙBÈv É0ÉÀOV'l:Et; aÀÀO àicoUElV.

218 Mauritius_in_libris
62 Comford, Plato' s Theory ofKnowledge, pp. 228-32. Ma vedi anche
Arangio Ruiz, op. cit., pp. 136 sgg., e Bluck, Plato' s Sophist, pp. 83 sgg.
63 Soph. 246 B 3-4 ... H oewo'Ù< eip111Cro; èivopro; - commenta infatti
Teeteto, che di qualcuno di quelli aveva fatto diretta esperienza.
64 Soph. 247 D 1 sgg.

65 Per il senso intrinseco di questa espressione, cfr. Comford, Plato' s


Theory, pp. 234-38; e anche Ritter, Platon, II, 126, il quale, non senza
qualche enfasi, osserva che «wir sind hiermit zu einer Erklarung gekommen,
die fiir die althergebrachte Auffassung der platonischen ldeenlehre den
allerschwersten Anstoss enthii.lt und die triftigste Einrede gegen sie
begriindet. Es wird notig sein, dass wir uns bei ihr etwas lii.nger aufhalten.
Und doch mochte ich hier keine unterbrechende Erorterung einschalten,
ehe wir auch die erkenntnistheoretischen Ausfiihrungen des Sophistes
angesehen haben, die noch eine weitere Klii.rung des Seinsbegriffs mit
sich bringen».
66 Il Bluck, Plato' s Sophist, p. 94, non dubita che qui Platone abbia di
mira la dottrina delle idee quale da lui stesso esposta nel Pedone e nella
Repubblica ( «it seems clear, though the questi on has been much debated,
that the idealist's theory represents Plato's own theory of Fornis, as
propounded in the Phaedo and the Republic, which he now whishes to
modify» ), e che, potrebbe aggiungersi, si determini qui qualcosa di
simile a quel che può notarsi nel «proemio» (o prima parte) del Parmenide:
cfr. altresì R.S. Bluck, The "Parmenides" and the "ThirdMan", «Classica!
Quarterly», n.s., 6 (1956), p. 29. Più prudente il Ritter, Platon, II, 131 sgg.,
aveva supposto che fra gli «amici delle forme» dovessero contarsi alcuni
seguaci del maestro, che, misticizzandola, a tal punto irrigidivano la
teoria delle idee da rendergliela inaccettabile. Cfr. anche Natorp, op. cit.,
pp. 292-93; e, al riguardo, la puntuale discussione di H. Chemiss, Aristot/e' s
Criticism of Plato and the Academy, New York 1944, pp. 439-40 in nota.
Sulla questione, cfr. più oltre, §§ 19 sgg.
67 Soph. 248 A 7-8 yévecnv, Tiiv oè oùaiav xropic; Ttou oteMSµevot
/..tyE'tE; il yap? Quanto si legge qui su, nel testo, non ha, mi pare, riscontri
nella letteratura platonica (a me nota). Il Moravcsik, Being and Meaning,
p. 38, osserva che in questo luogo Platone è «showing that the sharp
dichotomy between "being" and "becoming" is untenable». Ma, presentato
così, il rilievo è generico; e, certo, nemmeno nella pars construens del
dialogo, lo sforzo di Platone sarà diretto a far cadere, fra questi termini,
ogni sharp dichotomy: la auµdoiol 'tcòv yevcòv non implica infatti una
rivalutazione, quale qui la si intende, del divenire. E credo abbia ragione
il Bluck, Plato' s Sophist, p. 96, a giudizio del quale, «there has been
nothing in the argument to warrant any conclusion about "becoming"».
H. Chemiss, The Relation of the "Timaeus" to Plato's later Dialogues,
«American Joumal of Philology», 78 (1957), pp. 238-39 (=Se/ected Papers,
Leiden 1977, p. 312), ha conclusivamente sostenuto che «the "friends of
the ideas" are asked to recognize that they overlook this when they restrict
action and affection to yévecnc; alone - not that they are mistaken in making
the disjunction ofyéveaic; and oùma; and that this motion, the existence
of which Plato thought he had here established, is entirely different from

Mauritius_in_libris 219
phenomenal becoming is rei!mphasized by his statement in conclusion
that, if there is to be knowledge, there must exist voi>c;, which cannot be
immobile, and objects ofvoi>c;, which are in every respect unalterable» (i
corsivi sono nel testo). Ma sulla distinzione che il Chemiss stabilisce, o
individua, fra riVTtcnc;, intesa come «idea», e riVTtcnc;, intesa come «vital
motion (i.e. selfmotion)», occorrerebbe discutere a parte, perché il punto
è, concettualmente, della massima delicatezza. Altra letteratura sarà citata
in seguito; ma sulla questione, cfr. anche Bluck, Plato' s Sophist, pp. 95-
96.
68 Cfr. qui n. 65.

69 Soph. 248 D 4-E 4.


70 A quel che so, e ho potuto vedere, non risulta che lo svolgimento
che qui su, nel testo, è stato impresso all'analisi abbia riscontri nella
letteratura concernente questo passo. Cfr., comunque, più oltre.
71 Il passo può essere reso così: «e che, per Dio, ci lasceremo indurre
a sottrarre a ciò che veramente è moto sia la vita sia l'anima, e sul serio
penseremo che esso né viva né pensi, ma, venerando e santo, non
possedendo mente, se ne stia immobile?».
72 È possibile infatti che, definendo cn:µvòv 1mì ay1.0v. e dunque voi>v
oux exov, l'essere, Platone alludesse ironicamente, e senza indulgenza,
allo Mv di Parmenide, che anch'esso è, come si sa, ciriVTt'tOV, immobile:
con la conseguenza che, del suo esser tale, l'essere crrµvòv icaì aytov
finisce per costruire un'essenziale predicazione. È singolare che, se ho
ben visto, la cosa non sia stata notata, nel luogo in cui tratta del Sofista,
da K. Reinhardt, Parmenides und die Geschichte der griechischen
Philosophie, Bonn 1916, pp. 247-48; e nemmeno dal Comford e dal
Bluck, o, per citare l'ultimo commentatore del dialogo a me noto, dal De
Rijk (cfr. più oltre, n. 73). Può forse riuscire di qualche interesse osservare
che nel rilievo platonico relativo all'impossibilità che, per ciò stesso che
ha mente e anima, l'essere sia immobile, è il germe, e anzi ben più che il
germe, della critica che G. Gentile, Sistema di logica come teoria del
conoscere, Firenze 1964, I, 149, rivolse alla «logica dell'essere» (e
quindi anche ali' autore del Sofista) in una pagina nella quale, a conclusione
di una breve analisi, si afferma che, «per essere realizzato come veramente
immutabile», l'essere deve «1° non essere pensato (o non essere pensato
come pensato), 2° non essere propriamente (pensato come) immutabile».
E cfr. quindi quel che, molti anni più tardi, scrisse nella (postuma) Storia
della filosofia (dalle origini a Platone), Firenze 1964, p. 67: «il pensare
vero è quello che è, e però è tutt'uno col suo oggetto, e cioè s'immedesima
con la natura. Conclusione grave, perché, immedesimarsi con la natura,
potrebbe pur significare impietrare per pensare la pietra, e spegnere,
insomma, la luce del pensiero per vederci meglio». Non starò qui a
rilevare quante, e quali, difficoltà, nel quadro di questa visione del
«logo» di Parmenide, importi quel «per pensare la pietra» che condurrebbe
ad «impietrare»; e piuttosto aggiungerò che, alla fine, anche Platone è
assegnato a un consimile pensiero (o non pensiero). Si veda, ad es.,
Storia della filosofia, p. 248: «tutta la dialettica rimane sempre quella che
abbiamo detta; nella sua totalità, immediata; immobile, e perciò morta»

220 Mauritius_in_libris
(e cfr. Sistema di logica, I, 145-46). Ma sull'interpretazione storica che
Gentile fornì della logica dell' «astratto», non è possibile fermarsi qui.
73 A proposito di 248 E 6-249 A 2, il Bluck, Plato' s Sophist, p. 96, ha
osservato che «whereas in the Phaedo and Republic Plato excludes change
from what is real, he here acknowledges that since souls must belong to
"what is", and souls undergo change, "change" and "what which changes"
must belong to "what is"». E a sua volta, come sappiamo, il Moravcsik,
Being and Meaning, p. 38, ha osservato che in questo luogo Platone ha
mostrato la insostenibilità della «dicotomia» di essere e non essere. La
questione è discussa con grande ricchezza di osservazioni da Chemiss,
Aristotle' s Criticism, pp. 423 sgg., 437 sgg.; e andrebbe esaminata non
tanto qui, quanto piuttosto in riferimento al concetto di yévr.cru:: ad un
concetto, dunque, in ragione del quale la nozione di «cambiamento» può
con facilità essere assimilata a quella, non solo di moto, ma anche di
diversità. Vorrei tuttavia osservare che a ragione il Chemiss (p. 437 n.
374) ha rilevato che, contro ogni diversa apparenza, Platone «continued
to assert that the ideas are immobile and unchangeable [ ... ] The idea of
motion [ ... ] is itself immobile». Certo, il rapporto fra mobilità e immobilità
andrebbe discusso; e, svolta con rigore, la discussione condurrebbe a
infirmare il fondamento stesso della distinzione. Ma, in linea specifica, il
Cherniss ha ragione. Su questo punto, cfr. comunque le diverse
interpretazioni del Comford, Plato' s Theory of Knowledge, pp. 245-47;
di C.J. Voge!, Philosophia I. Studies in Greek Philosophy, Assen 1970,
pp. 200 sgg.; del Ross, Plato' s Theory ofJdeas, pp. 110-11; del Runciman,
Plato' s Later Epistemology, pp. 81 sgg.; di P. Seligman, Being and Not-
Being. An /ntroduction lo Plato' s Sophist, The Hague 1974, pp. 33-40; e
infine di L.M. De Rijk, Plato's Sophist. A philosophical Commentary
(Koninklijke Nederlandse Akademie van Wetenschappen. Verhandelingen
Afdeling Letterkunde), 1984, pp. 103 sgg.
74 La «persuasione» si contrappone alla «violenza» solo se la molte-
plicità dei «soggetti pensanti», e il loro contrapporsi, siano assunti come
un indiscutibile dato di fatto: per una critica di questa presupposizione,
mi si consenta di rinviare a Essere e negazione, pp. 418-31.
75 Goethe, Faust, 1851-52; «Verachte nur Vemunft und Wissenschaft
I Des Menschen allerhochste Kraft».
76 Soph. 249 B 12-C 1. E cfr. Theaet. 182 C-183 A (su cui Comford,
Plato's Theory of Knowledge, pp. 98-101, 242).
11 Soph. 249 D 2-4.
78 Soph. 249 D 6-7.
79 Soph. 249 E 1.
80 Soph. 249 D 10.

8! Soph. 250 A 11-12.


82 Soph. 250 B 7-8.
83 In Soph. 250 B 7-1 O 'tpi 'tOV dpa 'tl 1tapà 't<X'\Ì'ta 'tÒ <'iv ÉV 'tfj \j/UXi]
'tl0Eic:, ci>c: \m'bcr.i.vou -nlv 'tE cr'tcicrtv 1mì. 'tlÌV iciV11mv 1tEptr.xoµÉvT)v,
cruÀÀ<l~<Ì>v icaì. cim&òv aÙ'toov 1tpÒc: 'tlÌV 'tfjc: oùcriac: icm vooviav, o{hooc:

Mauritius_in_libris 221
Elvat 7tpom:tmxc; à.µ<1>0-u:pa?, il Bluck, Plato's Sophist, p. 104, ha visto
qualcosa come un richiamo di 249 D; e ha osservato che «"what is" and
the Ali consists of what is changeless and of what is in change - both
together». Ma il rilievo è generico; e il richiamo che il Bluck propone di
249 D non chiarisce la questione e non risolve la difficoltà. Il 7tEptÉXOV
onde «moto» e «quiete» sono avvinti, e nel quale sono come compresi, è
certamente quel i:pi i:ov 'tt 7tapà i:aui:a che è i:ò ov, l'essere. In concreto,
tuttavia, il legame è la 1Cotvcovia Tij<: oùcriw;, ciò per la cui forza, essendo
partecipato in comune dal moto e dalla quiete, in questo atto l'essere
costituisce il 7tEptÉXOV di entrambi. Il significato di i:pi i:ov 'tt che, rispetto
a moto e a quiete, i:ò ov assume, sembra essere questo. E nell'esegesi del
passo non può perciò consentirsi con il Comford, Plato' s Theory, pp. 250-
51, il quale osserva che, sebbene Platone si diverta, in questo luogo, a
descrivere «the natural confusion of mind of ordinary reader and of
Theaethetus itself» (ma non direi [cfr. anche B luck, P lato' s Sophist, p. 104]
che il personaggio platonico si trovi qui nella situazione assegnata al
comune lettore), c'è del metodo, tuttavia, nella paradossalità intrinseca al
discorso svolto dal Forestiero d'Elea, e, fra 249 De 250 B 7-10, coerenza.
La prima conclusione che il Comford trae assume «that the Real, or the
sum of things that are real, includes both things that are changeless and
things that change». La seconda conclusione dice che «Reality (realness)
- the Form with which the two other Forms, Motion and Rest, are
associated or combined in the judgements "Motion is real", "Rest is real"
- does not include as part of its content or meaning either "being in
motion" or "being at rest", but is a third distinct form. Hence it is not true
to say that the Real "by virtue of its own nature" - the real, qua real - either
is at rest or is motion. If "to be real" implied either "being at rest" or
"being in motion", evidently the real could not include both moving and
unchanging things. This conclusion is in entire harmony with the earlier
one». - Sulla coerenza che, malgrado ogni diversa, superficiale apparenza,
il Comford ravvisa fra le due proposizioni, non cade dubbio. In entrambi
i casi, infatti, il verbo to include significa la medesima cosa, dal momento
che, una volta, indica la k'.Otvcovia che, entrambi, il moto e la quiete,
intrattengono con la o'Ì>cria, con l'essere che, in quanto tale, nell'includere,
ossia nell'aver comunanza con il moto e la quiete, non per ciò è in moto
o in quiete; e un'altra specifica che, includendo il moto e la quiete nel suo
proprio ambito, non li include, tuttavia, come sue proprie parti costitutive
e, quindi, del suo stesso atto includente, ma è, rispetto all'uno e all'altra,
una «terza cosa». Il dissenso non concerne dunque questo punto, che mi
sembra perfettamente inteso dal Comford; ma riguarda bensì (malgrado
i rilievi svolti a p. 252) il sostanziale isolamento della questione, - il
rilievo non concesso ai suoi ulteriori sviluppi problematici.
84 Soph. 250 D 2-3 i:ò OÈ òv iiµtv vuv É1Ci:Òc; i:oui:cov àµ<1>oi:Épcov
à.va7tÉ<l>avi:at. il ouvai:òv oùv i:oui:o? Al che Teeteto risponde: 7tclV'tCOV
µÈv oùv à.ouvai:o>i:ai:ov.
85 Ma nel fondo c'è un moto di ottimismo. 251 A 1-3 1CaÌ. Éàv aù
µ110É'tepov ÌOElV ouvroµe0a, 'tÒV youv ì.JJyov Ò7tlJ7tEp àv Otot 'tE CÌ>µEV
EÙ7tpE7tfoi:ai:a Oicocroµe0a o{hcoç à.µ<1>otv <'iµa.

222 Mauritius_in_libris
86 Sulle questioni che qui di seguito saranno trattate altra letteratura
sarà indicata via via: cfr. sopra tutto, n. 93. Ma fin d'ora si tenga presente
l'importante saggio di H. Chemiss, Parmenides and the "Parmenides"
o/ Plato, «American Joumal of Philology», 51 (1931), pp. 128-38 (=
Selected Papers, pp. 291-97), con il quale, per altro, non concordo.
Avverto qui una volta per tutte che per <<parte proemiale», o, senz'altro,
«proemio», intendo quella che comprende la discussione che, prima che
la sequenza delle "ipotesi" abbia inizio, si svolge, sulla questione delle
idee, fra Socrate e Parmenide.
87 Soph. 251 A-B. E cfr. anche Parm. 129 C-D.
88 La letteratura è, al riguardo, assai ampia; e anche di recente si è
arricchita di nuovi titoli. Senza alcuna pretesa di completezza, anche di
quella di cui ho diretta conoscenza citerò soltanto le cose che, per il loro
legarsi e anche per il loro non legarsi a quanto detto nel testo, mi sono
sembrate più interessanti. A parte gli scritti che già sono stati citati (e, in
particolare, Comford, Plato' s Theory o/ Knowledge, pp. 68-80), ricorderò
G. Vlastos, OnAmbiguity in the "Sophist", in Platonic Studies, Princeton
1972, pp. 270-321; J.S. Clegg, Self-Predication and linguistic Reference
in Plato' s Theory o/ the Forms, «Phronesis», 18 (1973), pp. 26-43; F.A.
Lewis, Did Plato discover the "est in" o/ identity, «California Studies in
Classica! Antiquity», 8 (1975), pp. 113-43; G. Vlastos, On a Proposed
Redefinition o/ "Self-Predication" in Plato, «Phronesis», 26 (1981), pp.
76-79; R. Heineman, Self-Predication in the "Sophist", ivi, pp. 55-66;
R.T. Ketchum, Participation and Predication in "Sophist" 251-260,
«Phronesis», 23 (1978), pp. 42-62, e la letteratura citata, ivi, p. 59 n. 1;
D. Bostock, Plato on "is not", «Oxford Studies in ancient Philosophy»,
2 (1984), pp. 89-119.
89 Soph. 251 D 5-E 1 xo'tEpov µr]'tE 't'IÌV oùcriav nvr]crEt x:aì cr'tacrEt
xpomfa'tO>µEV µr]'tE aÀÀ.O aÀÀCp µ11Bèv µ11BEvi, CÌÀÀ'CÌ>ç aµEtK'ta OV'ta
x:aì ciBuva'tOv µE'taÀaµ~<ivnv CÌÀ.ÀrJÀO>V oihcoc: aù'tà Év 'tOk xap'iiµtv
Myotc; n0roµEV; ii xav'ta Ek 'tUU'tÒV cruvay<iyroµEv còc: Buva'tà
i:micoivrovdv CÌÀ.ÀrJÀ.Otc;; ii 't<Ì µÉv, 't<Ì Bè µr]; 'tOU'tO>V, iI> ewi'ti,'tE, 'ti
1tO't'dv aÙ'tOÙC: xpompdcr0m cj>T]croµEV?
90 Soph. 252 A 5-10.
91 Soph. 252 e 2-9 'tcp 'tE "E1 vaift 1t0\l 1tEpÌ xav'ta civayic<içov'tat
XPfi<J0at ICUÌ 'tcp "xropÌc;ft KUÌ 'tci> "'tcOV UÀÀO>Vft KUÌ 'tcp "ica0'aÙ'tÒft KUÌ
µupimc; i:'tÉpmc;, rov ciicpa'tdc; OV'tEc: dpyrn0at 1mì µiì cruva1t'tElV ÉV
'tOtc: Mymc; OÙIC aÀÀO>V BÉoV'tat 'tcOV i:l;EÀE"(l;OV't(l)V' CÌÀÀÙ 'tÒ ÀE"(OµEVOV
oi'. K00EV 'tÒV 1tOÀɵt0v icaì ÉVUV'tt(l)(JQ µEvov ÈXOV'tEC:' ÉV'tÒC:
ùxocj>0EyyoµEvov rocrxEp 'tÒV a'toxov EùpuicÀéa 1tEptcj>ÉpOV'tEc: CÌEÌ
1tOpEUOV'tat.
92 Parm. 135 B 9-C 2.
93 Phaedo 99 E 4-101 B 3. Quale che sia l'interpretazione che,
considerandolo nell'insieme, debba darsi del Parmenide, mi sembra per
la verità impresa alquanto disperata quella di chi vorrebbe escludere che
le obiezioni rivoltevi alla dottrina delle idee non siano considerate da
Platone come autentiche e serie obiezioni (così, ad es., B. Liebrucks,

Mauritius_in_libris 223
Platons Entwicklung zur Dialektik, Frankfurt a.M. 1949, p. 170; e cfr. da
ultimo, Plato' s Late Ontology. A Riddle resolved, Princeton 1983, pp.
18-19, nonché, ad es., M. McPherran, Plato's Parmenides Theory of
Relations, in New Essays on Plato, ed. by F.J. Pellettier and J. King-
Farlow «Canadian Joumal of Philosophy», Suppi., 9, 1983, pp. 149-64,
e anche dello stesso Plato' s Reply to the "Worst Difficulty" Argument of
the Parmenides: Sophist 248 a-249 d, «Archiv filr Geschichte der
Philosophie», 68, 1986, pp. 233-52). Ma cfr. altresì Chemiss, Parmenides,
p. 138 (= p. 297), il quale ritiene che la confutazione che in questo
dialogo, nella prima parte di questo dialogo, Parmenide fa della dottrina
delle idee sia in realtà affidata all'intera seconda parte ( «the second part
of the dialogue, for the reason that it is a parody of the Eleatic method
applied to the doctrine of Parmenides - and by Parmenides himself -, is
a complete answer to the objections raised in the first part» ). Alla trattazione
svolta nel testo è affidato il compito di spiegare perché la tesi del Chemiss
non possa, a mio modo di vedere, essere accolta. E del resto, anche
ammettendo che la sostanza concettuale della seconda parte consista in
nient'altro che in un 'ironizzazione del «metodo eleatico» e dell' «equivocai
use of the verb "to be"», non per questo potrebbe inferirsene che la
ironizzazione del metodo costituisca necessariamente, in quanto tale,
una adeguata risposta alla critica che Platone immagina rivolta alla
dottrina delle idee. Posto che il «metodo eleatico», e, in particolare,
quello di Zenone, richieda e meriti di essere ironizzato, forse che per ciò
risulta meno efficace la critica che, prestandola ad un personaggio di
nome "Parmenide", Platone stesso (non si dimentichi) rivolge alla dottrina
delle idee? La questione del rapporto, e della proporzione, intercorrenti
fra la prima e la seconda parte è senza dubbio, per la comprensione del
Parmenide, di importanza essenziale; e non è possibile fame qui oggetto
specifico di indagine. Rimane che fra «ironizzazione» del metodo
zenoniano e «critica» rivolta alla dottrina delle idee occorre tener ferma
la distinzione. Cfr. comunque n. 136.
94 Cfr., ad es., J. Wahl, Étude sur le "Parménide" de Platon, Paris 1926,
pp. 46-47, dove non si fa, in sostanza, se non parafrasare il testo; e così
accade anche a A. Diès, Notice, a Parmènide, Paris 1956, pp. 28-29. La
parafrasi si fa addirittura retorica in E. Paci, /l significato del "Parmenide"
nellafilosofia di Platone, Messina-Milano 1938, pp. 108-10. Ma deludente
è al riguardo anche F.M. Comford, Plato and Parmenides, London 1950,
pp. 102-103.
95 È la celebre definizione formulata da G.W. Fr. Hegel, Vorlesungen
iiber die Geschichte der Philosophie, II (in Samtliche Werke,
Jubilliumsausgabe, ed. Glockner, Stuttgart 1928, XVIII, 240): «die
ausgefiihrte eigentliche Dialektik aber ist in Parmenides enthalten, dem
bertihmtesten Meisterstilck der platonischen Dialektik».
96 Alludo alla tesi di coloro che proprio a questa conclusione sono
giunti: ossia, in particolar modo, al Taylor, Platone, pp. 547-48, e al
Calogero, Studi sull'eleatismo, pp. 223-75. Le interpretazioni del
Parmenide sono rapidamente schematizzate da R.S. Brumbaugh, Plato on
the One. The Hypotheses in the "Parmenides", New Haven 1961, pp. 41

224 Mauritius_in_libris
sgg. «the study of interpretations of the dialogue is as complex as a study
of the history of philosophy» ). Una sorta di caricatura della tesi del
Taylor e del Calogero è in T.W. Bestor, Plato's Semanlics and Plato's
Parmenides, «Phronesis», 30 (1980), pp. 38-75, il quale in sostanza
sostiene che, se si accoglie la sua proposta relativa alla natura
specificamente semantica delle teoria delle idee, le obiezioni di Parmenide
crollano; e che l'intero dialogo è stato scritto non per altro che per
esercitare i giovani nel metodo aporetico! Vorrei per altro aggiungere
che sulla questione concernente il carattere fondamentale del Parmenide,
il Calogero è tornato, nell'Avvertenza premessa alla seconda edizione
degli Studi (Firenze 1977, pp. XV-XVI) per negare di averlo mai considerato
come un semplice Ttaiyvwv sofisteggiante, e per avvertire che, al contrario,
fra le tesi positive e quelle negative, la sua presenta il carattere della
perfetta equidistanza. Sul che ci sarebbe tuttavia da discutere alquanto:
perché il positivo e il negativo, se li si assume così, si escludono
assolutamente, e, fra l'uno e l'altro, niente può darsi.
97 Parm. 128 B 1 sgg.

98 Parm. 129 B 1-2.


99 Parm. 129 B-E.

100 Parm. 130 C 4-D 1.


101 «A te, come dici, sembra che ci siano certe idee, delle quali le altre
cose partecipando traggono gli eponimi, e sono simili in quanto partecipano
delle simiglianza, grandi in quanto partecipano della grandezza, belle e
giuste in quanto partecipano della bellezza e delle giustizia».
102 Parm. 131 A 4-6 oÙKouv ll'tOl oÀ<ru 'tOU Eioouc.: ii µÉp<ru<; EIC<lO''tOV
'tÒ µE'tamµ~civov µnaì..aµ~civEt; ii dì..ì..n 'tlC; dv µE'tclÌ..Tlljllt: x.ropì.t;
'tOU'trov "(ÉVOl'tO? «È dunque all'idea nella sua interezza, oppure ed una
parte di essa, che ciascun partecipante partecipa? O, al di là di questo, si
dà un altro modo di partecipare?».
103 Nello svolgere queste considerazioni, non sono riuscito ad evitare
l'inconveniente che, per questo rispetto, deriva dall'uso del verbo italiano
«partecipare», e dal riferimento che, adoperandolo, si è costretti a fare
all'unità e alla parte. «Partecipare dell'unità» significa non identificarvisi,
ed essere l'unità, ma andare a fame parte, e dunque, come conseguenza
di questo atto, «esserne parte». «Esser parte dell'unità» significa tuttavia
anche «coincidere» con la parte dell'unità con la quale effettualmente,
mediante l'atto partecipativo, si coincide. Ma, se è così, proprio per
questo non dovrebbe potersi dire «partecipazione della parte»: a meno
che l'intenzione fosse di parlare, non di coincidenza, bensì piuttosto di
«andare a far parte (della parte)», e di esserne, quindi, parte. Ho preferito
tuttavia non introdurre nel testo queste considerazioni che, in effetti,
sono intrinseche al ragionamento che vi svolgo e che, ritengo, qualsiasi
lettore è capace di richiamare e di eseguire per suo conto.
104 Cfr., ad es., K. von Fritz, «Gnomon», 1938, pp. 106-107 (e ora in
Schriften zur griechischenLogik, I, Logik und Erkennlnistheorie, Stuttgart
1979, pp. 67-68). A sua volta, a differenza di quanti nelle obiezioni
rivolte da Parmenide a Socrate vedono una sorta di autocritica (platonica)

Mauritius_in_libris 225
della teoria delle idee, il Calogero evita bensì di pervenire ali' affermazione
secondo cui sarebbero state delineate per gioco; ma è anche estremamente
riluttante ad ammettere che, in questa parte del dialogo, il secondo dei
due personaggi soccomba al primo. E non solo osserva che, per quanto
giovane, Socrate sostiene «molto validamente il compito di presentare e
difendere la dottrina delle idee di fronte alle obiezioni dell'eleate», ma,
addirittura, aggiunge che «in più d'un caso i suoi argomenti sono ben più
maturi di quelli del venerando vegliardo, come là dove egli accenna al
punto che, per sfuggire alle difficoltà dell'esistenza trascendente delle
idee, bisognerà forse supporre che esse siano pensieri nella nostra anima
(132 b)». Dove sarà vero, o non vero (cfr. più oltre nel testo), che questa
specifica osservazione socratica (che, per altro, nel seguito della disputa,
Platone fa che sia anch'essa confutata da Parmenide) presenti in sé
particolare maturità e, in virtù di questa, quasi si sollevi al di sopra della
critica che la concerne. Ma non perciò può pretendersi che una disputa,
con estrema nettezza risolta dall'autore a favore del personaggio chiamato
Parmenide, sia invece riaperta mediante il giudizio di chi, ripercorrendola,
si trovi a considerare l'argomento confutato superiore a quelli con i quali
lo si confuta! Niente, beninteso, vieta che a questo specifico argomento,
o ad altri, si conceda il proprio consenso teoretico; ma, in termini storici,
le cose stanno in tutt'altro modo.
IOS Come, sopra tutto, accade al Calogero, nel quale forte, e anzi
fortissima è la tendenza a fare di Socrate un maestro della perennis
philosophia. Cfr., ad es., il suo, per altri versi notevole, Socrate (1955),
ora in Scritti minori di filosofia antica, Napoli 1985, pp. 106-26 (sopra
tutto, 120-21); e, ancor più significativo di questa tendenza, l'altro suo
saggio, parimenti notevole, su Erasmo, Socrate e il nuovo Testamento,
«Celebrazioni lincee», 1972, poi in Scritti minori, pp. 136-59. Vorrei per
altro notare che, alla luce dello stesso criterio metodologico che, per
l'intelligenza storica della figura di Socrate nel primo di questi due saggi
il Calogero, Scritti, pp. 109 sgg., ha stabilito, questa «difesa» rivela la
sua origine passionale. Osservando che la «scuola dei platonici inglesi,
capeggiata da studiosi del livello di un Bumet e di un Taylor, giunge ad
attribuire a Socrate non solo la dottrina della catarsi orfico-pitagorica
dell'anima ma addirittura tutta la teoria delle idee», il Calogero produce
tuttavia un 'eccezione notevole. E specifica che la presenza ideale, filosofica
e concettuale, del maestro nell'allievo è constatabile «almeno fino a quel
punto» dello sviluppo di quest'ultimo «in cui, intervenendo la personale
riflessione di Platone, la figura di Socrate abbandona sempre più, come
accade nei dialoghi tardi, la funzione di protagonista del dibattito». Ma,
se è così, e, com'è detto con forza alle pp. 121-22, la «svolta» è rappresentata
dal Gorgia, - perché allora non prendere atto della «possibilità» obiettiva
che, in uno di questi dialoghi dell'ultimo periodo, Socrate sia fatto
decadere dal suo piedistallo e, addirittura, confutato? Se poi questa
«caduta» debba esser vista come un progresso, per Platone, o, al contrario
(ed è questo il senso tendenziale della «tesi» di Catogero) come il segno
della sua involuzione, è problema ulteriore, che non occorre discutere in
questa sede.
106 Parm. 131 C 11-D 2.

226 Mauritius_in_libris
107 Parm. 131 D 4-5.
108 Parm. 131 D 7-E 2 àUà w'ii crµucpo'ii µtpoc: -ne; fiµc0v Egt, -romou
fil: aù-ro'ii -rò crµucpòv µEtçov fo-rat a'tE µÉpouç tauw'ii ou-roc:, JCaÌ
m'ho Biì aÙ'tÒ 'tÒ crµt 1CpÒv µEtçov Ecr'tat. ci> a' dv 1tpOCJ'tE01j 'tÒ à+atpE0ÉV.
w'iiw crµtKpO'tEpov ÈCJ'tat àì..ì..'où µEtçov Ti 7tplv.
109 Le due battute sono, rispettivamente, a 131 E 3-5, e 6-7.

110 Sull'argomento del «terzo uomo» esiste una mezza biblioteca; che
anche di recente ha subito notevoli incrementi per merito, sopra tutto,
degli studiosi anglosassoni di indirizzo analitico. Cfr. innanzi tutto G.
Vlastos, Plato' s "Third Man" Argument in the "Parmenides", «Philoso-
phical Review», 69 (1960), pp. 289-301, e quindi in Studies in Plato' s
Metaphysics, ed. by R.E. Allen, London 1969, pp. 231-63. E cfr. anche la
revisione che il Vlastos ha eseguita delle sue idee nel saggio raccolto nei
suoi Platonic Studies cit., pp. 342-65. Ulteriore bibliografia, ivi, pp. 361-
62: si notino comunque, perché a vario titolo rilevanti, oltre il celebre
studio di A.E. Taylor, Parmenides, Zeno, and Socrates, «Proceedings of
the Aristotelian Society», 16 (1915/16), pp. 234-89 (e quindi in
Philosophical Studies, London 1934, pp. 28-90), i contributi di R.E.
Allen, Participation and Predication in Plato' s Middle Dialogues,
«Philosophical Review», 69 (1960), pp. 147-64 (poi in Studies in Plato' s
Metaphysics cit., pp. 43-60); P. Geach, "The Third Man again",
«Philosophical Review», 65 (1956), pp. 72-78; J.M.E. Moravcsik, The
"Third Man" Argument and Plato' s Theory of Forms, «Phronesis», 8
(1963), pp. 50-62. Cfr. anche W. Sellars, Vlastos and the "Third Man",
«Philosophical Review», 64 (1955), pp. 405-37; Vlastos and the "Third
Man": a Rejoinder, in Philosophical Perspectives, Springfield Ill. 1967,
pp. 55-72; C. Strang, Plato and the Third Man, «Proceedings of the
Aristotelian Society», Suppi., 37 (1963), pp. 147-64. Per l'indicazione di
altra letteratura, e in particolare sul dibattito suscitato dai contributi di
Vlastos, cfr. E. Cavagnaro, L'argomento del terzo uomo ne II' interpretazio-
ne di Gregory Vlastos e dei suoi critici, «Cultura», 27 (1989), pp 26-56.
111 Ho per questo preferito lasciare da parte l'intricata questione del
«terzo uomo» in Aristotele, sulla quale, con l'aiuto della fortuna, vorrei
intrattenermi in altra occasione: cfr. intanto, oltre il classico libro del
Robin, La théorie platonicienne cit., pp. 21 sgg., 70-72, 182 e l'analisi
del Taylor, Parmenides, Zeno, and Socrates cit., pp. 255 sgg., le ampie
indicazioni contenute in E. Berti, Aristotele: dalla dialettica alla filosofia
prima, Padova 1977, p. 216 n. 54.
112 È questo, salvo errore, il maggior difetto che si riscontra nei più
recenti contributi degli studiosi di lingua inglese; ed anche in quelli, per
molti riguardi assai notevoli, di G. Vlastos.
113 Sulla problematicità intrinseca all'assunto della molteplicità delle
idee, potrebbe discutersi a lungo; e anche, con qualche utilità, potrebbe
discutersi sull'infrequenza onde tale problematicità è stata, almeno in
termini espliciti, rilevata. Ma non è questa la sede (cfr. comunque il
rapido riepilogo offerto da W. Kamlah, Platons Selbstkritik im Sophistes,
Milnchen 1963, pp. 1 sgg.). Vorrei tuttavia ricordare che, osservando
come le idee, -rà Ei&Ti. non fossero, per Platone, àì..ì..'Ti alcr0"11-rà àtBta

Mauritius_in_libris 227
(Metaph. B 2, 997 b 12), Aristotele aveva colto con estrema acutezza
questa sorta di idealizzazione «immediata» del molteplice empirico che
urge, in effetti, alla radice delle idee (molteplici, com 'è noto, pur essendo,
ciascuna, «una»); e anche vorrei notare, velocemente, che, mediante
l'interpretazione delle idee come pensieri dell'intelletto divino, il così
detto medioplatonismo aveva avvertito la questione della molteplicità,
che mai, per altro, per questa via, avrebbe potuto essere risolta.
114 Cfr., ad es., Phaedo 78 D 1-7, la domanda che Socrate rivolge a
Cebète: au't"TÌ ii ouaia ile 'AiYyov oiooµEV 'tOÙ Elvm 1caì. ÈpOYCCÒV'tE<: lCaÌ.
ii
<Ì1t01Cptvoµtvot, 1tou:pov còamh0>e; àeì ExEt JCmà 'tau'tà àìJ..cn'èil..Moç;
au'tÒ 'tÒ foov, au'tÒ 'tÒ lCaÀÒv, aU'tÒ ElCa<J'tOV éi fonv, 'tÒ ov, µil 1tO'tE
µE'taj3oì..iJv lCaÌ. i;vnvoùv ÈVOÉXE'tat; ii <ÌEÌ. amrov ElCa<J'tOV ò fon,
µovoetoÈc; òv au'tò JCa0'm'>'t6, ci>aau'tO>C; JCa'tà 'tau'tà ÈXEt JCaÌ. ouoÉ1tO'tE
ouliaµij ouliaµcOc; àì..ì..oicoow ouoeµiav ÉVOÉ;(E'tat ?; e la risposta di
quest'ultimo: 78 D 8 còaau'tO>C; [ ... ] àvcin11 [ ... ] JCmà 'tau'tà ÈXEtV. E
cfr. altresì il famoso passo di Symp. 210 E 6-211 A 5, nel quale delle
bellezza si dice che 1tpcò'tov µÈv àeì òv JCaÌ. oùu: ytyvoµi:vov oÙ'tE
<Ì1tOÀ.À.uµEVOV, OÙ'tE au!;avoµEVOV OÙ'U'. cj>0{VOV, È1tEt'ta OU 't1j µÈv lCaWV,
't1j o' aiaxpov' OUOÈ 'tO'tÈ µÉv. 'tO'tÈ OÈ où, OUOÈ 1tpòc; µÈv 'tÒ lCaÀ.Òv' 1tpòc;
oÈ 'tÒ aiaxpov, ouo'Èv0a µÈv JCawv, lvaa oÈ aiaxp6v, eòc; naì. µÈv òv
JCaMSv, naì. OÈ aiaxpov. Si consideri infine, per quanto concerne
l'atemporalità (o eternità) dell'idea, Tim. 37 E 5-38 A 2, dove, osservando
come si soglia parlare non correttamente (oulC Òp0c0c;) È1tÌ. 't"TÌV àiowv
OUataV, si aggiunge: À.ÉyoµEVyàp OTJ CÒc; 1ÌV È<J'ttV 'tE lCaÌ. È<J'tat, 't1j OÈ 'tÒ
fonv µovov 1Ca'tà 'tÒV <ÌÀ.l10fi ÀiYyOV 1tpO<JlllCEl, 'tÒ OÈ ilv 'tÒ 't' È<J'tat
1tEpÌ. 't"TÌV ÉV XPOV(\'l 'YÉVE<JlV ÌOÙ<JaV 1tpÉ1tEt À.ÉyE<J0at.
115 La differenza è segnata con perentoria nettezza, ad es., in Resp. 476
C 2-D 3, dove, dopo aver osservato che colui che, sapendo riconoscere
('tà) JCaÀ.à 1tpciyµa'ta, le cose belle, sia non di meno incapace di affisare
il bello, au'tÒ [ ... ] 1Cciì..ì..oc;, è come se, invece di essere sveglio, sognasse,
Socrate rileva che, se si procede in senso inverso, si è svegli e non si
sogna. E aggiunge: ò 't<Ìvavna 'tOU't(l)V iiyouµi:vOc; 'tE 'tl au'tÒ lCaÀ.Òv
lCaÌ. OuvaµEVOC 1Ca0opdv lCaÌ. aU'tÒ lCaÌ. 'tà ÈlCetVOU µE'tÉ;(OV'ta lCaÌ. OÙ'tE
'tà µE'tÉXOV'ta au'tÒ OÙ'tE au'tÒ 'tà µE'tÉXOV'ta ii'Youµi:voc;, U1tap ovap ii
aù JCaÌ. oÙ'toc; 001CE'ì <JOt çi'jv? (Si ricordi, su questo passo, il commento
di Hegel, Vorlesungen uber die Geschichte der Philosophie cit., pp. 198-
99). Ma cfr. anche Symp. 211 B 1-5 dove, se l'idea è, in quanto tale, au'tò
JCa0'au'tò µe0'au1:0ù µovoetocc àeì òv, 'tà oè àna 7tciv'ta JCaì..à ÈJCEivou
µE'tÉXOV'ta 'tpo7tov nvà 't0toù1:0v, o"i.ov ytyvoµÉvwv 'tE 'tcOV <ÌÀ.À.Wv JCaÌ.
<Ì1tOÀ.À.uµÉVwv µ110Èv EJCE'ìvo µil'tE n 1tÀ.Éov µil'te ÈÀ.a't'tOV yiyvm0m
µ110È 1tcl<JXElV µ11ocv. E si veda altresì Phil. 59 3-7.c
116 Il che, fra le altre cose (e si veda più oltre nel testo), suona
contraddittorio con quel che caratterizza nella sua cj>oou; l 'e"i.Ooc;, che, come
si legge, ad es., in Tim. 38 A 1-5, sta immobile, non ha rapporti con il
tempo e, dunque, non può esser «diverso». Che questo complichi la
questione, di per sé assai spinosa, della molteplicità delle idee, è evidente;
e così avrei qualche esitazione ad accettare senz'altro quel che si legge in
G. Calogero, La conclusione della filosofia del conoscere, Firenze 1938,

228 Mauritius_in_libris
p. 182 (cfr. anche la «voce» Platone, in Enciclopedia italiana, Roma 1935,
XXVI, 518-20).
117 J.S. Clegg, Self-Predication and linguistic Reference in Plato' s
Theory of Forms, «Phronesis», 18 (1973), pp. 30-37, ha sagacemente
osservato che se, ad es., di un oggetto si assumesse l'eternità, allora
sarebbe superfluo (e anzi, meglio, contraddittorio) asserire che è tale in
quanto partecipa dell'eternità; e, proponendo che le proposizioni
«partecipare dell'idea (o della forma)» e «averne il carattere» siano prese
come inconciliabili, ha sostenuto che non il possesso, da parte dell'oggetto,
dell'eternità, ma al contrario il suo esserne privo, costituisce la condizione
del suo «partecipare» dell'eternità. Con il che, per altro, il Clegg dimostra
di non aver tuttavia colto la radice dell'aporia, e la sua estensione.
118 Il ragionamento qui accennato potrebbe proseguire, e assumere un
andamento diverso, qualora, ad es., si facesse che eternità e mortalità
siano compatibili nel µE'ta!;u. In questo caso, per altro, occorrerebbe
ammettere che questo fosse non già determinato, o costituito, dal sussistere
di questi «estremi» (l'eternità, appunto, e la mortalità), ma tale invece da
includerli: con la conseguenza che, se fosse così, il µE'ta!;u perderebbe
tutt'intero il suo carattere di «intermedio» per assumere quello, in ogni
senso opposto, dell'ambito includente. In questo caso, inoltre, includendo
l'eternità e la mortalità (e non essendo quindi «intermedio»), il µE'ta!;u
consisterebbe in questo atto includente; e idealmente presupporrebbe
altresì gli «inclusi» che, inclusi a loro volta, l'uno e l'altro allo stesso
modo nel suo ambito, sarebbero costitutivi della condizione (l'atto
includente) di ciò che, per un altro verso, li costituisce. Ma se fosse così,
allora non potrebbe dirsi che il µE'ta!;u è «mortale-immortale», perché,
includendo la mortalità e l'immortalità, e costituendole nello stesso atto
in cui ne è costituito, non può se non pareggiarle e togliere, quindi, la loro
«opposizione». Insomma, pensato come intermedio «fra» opposti, il µE'ta!;u
è una pura contraddizione (ed è impossibile). Pensato come «inclusione»,
è il luogo non dell'opposizione, ma dell'identità.
119 «Penso che da questo tu sia indotto a porre come "una" ciascuna
idea. Quando molte cose ti sembra siano grandi, ti sembra altresì che sia
visibile in esse una sola e identica idea; ed è questo che t'induce a porre
il grande come uno (ossia come la "grandezza in sé")».
120 «Ebbene, la grandezza in sé e le altre cose grandi, forse che
ali' anima che le contempli insieme non rivelano l'unità di una ulteriore
grandezza in sé, in virtù della quale tutte queste appariranno come cose
grandi?»
121 «Si manifesterà dunque un'altra forma (idea) di grandezza, insorta
accanto e oltre la grandezza in sé e le cose che ne partecipano, e quindi
se ne darà un'altra, in ragione e in forza della quale ogni cosa dovrà esser
grande; e ciascuna forma non sarà più, dunque, "una", ma molteplice
all'infinito».
122 Su questo punto ha insistito il Vlastos, art. cit., pp. 232-34, e quindi
Platonic Studies, pp. 351-52. Ritengo per altro che l'argomento possa
essere difeso; perché lo scambio fra «idea» e «cosa» è, per l'appunto, ciò

Mauritius_in_libris 229
di cui, nel suo modo tipico, il «terzo uomo» sottolinea l'impossibilità.
Per questa medesima ragione, non credo condividibile l'opinione del
Cherniss, Aristotle' s Criticism, pp. 287-300 (e cfr. anche Selected Papers,
p. 295), il quale in sostanza ritiene che l'argomento è fallace e che la
fallacia consista nell'assunzione dell'idea come un semplice «individuo»,
una semplice «cosa grande». Se questo fosse vero, il Chemiss avrebbe
certo ragione. Ma che I' «idea» non possa essere assunta come un semplice
«individuo» - proprio questo è l'assunto del «terzo uomo»! E la
conseguenza è che, malgrado la sua acutezza e l'ammirevole equilibrio,
egli è incorso nell'equivoco di assegnare all'argomento la contraddizione
che esso rileva nella teoria delle idee. In modo sostanzialmente analogo
si era, com 'è noto, espresso il Taylor, Parmenides, Zeno, and Socrates
cit., pp. 287 sgg.
123 Sul tema dell' «autopredicazione» mi propongo di tornare in un
apposito articolo. Ma cfr. quel che in questo libro si legge ai§§. 23 e 44:
se ne ricaveranno le ragioni per le quali non mi è possibile convenire, su
questo punto, con la ricostruzione che di questo concetto è in genere
fornita dagli studiosi anglosassoni, e che G. Vlastos, Self-Predication and
Self-Participation in Plato' s later Period, «Philosophical Review», 78
(1969), p. 74 (poi in Platonic Studies, p. 335), ha schematizzato vedendovi
«the assumption that the Form corresponding to a given character itself
has that character ("self-predication")».
124 È la situazione che, con la sua miracolosa brevità, Platone ha
condensata nelle due linee che concludono la prima esposizione
dell'argomento: 132 B 1-3 Kat O'ÒKÉ'tt BTi Ev ElCUO''tOV crot 't~V ElOO>v
Ecr'tat, aÀ.À.Ù àm:tpa 'tÒ 7tÀ.f'j0oç.
125 Questo punto, che il processo all'infinito è assurdo in quanto è
«divenire» (e dunque tempo), e non in quanto va all'infinito e non
consente «fermate», mi sembra fondamentale. È necessario, in altri termini,
che, per coglierne la specificità platonica, il primo tema (quello del
«divenire» contraddicente alla natura dell'idea), sia distinto dal secondo
(il «divenire» inteso neUa sua fenomenicità), e non contaminato con
esso.
126 Cfr. qui su n. 123.
127 «Se una qualche cosa è simile a un'idea, potrebbe mai ammettersi
che questa non sia simile alla sua immagine, per ciò stesso che ne è la
copia? O c'è forse qualche artificio per il quale il simile non sia simile al
simile?».
128 Seguìto dal Burnet, dal Diès e dal Cornford, il Jackson, com'è
noto, espunse da questa frase e'loouc;, che pure è attestato nella tradizione
manoscritta (cfr., al riguardo, Cherniss, The Relation, p. 253 n. 114 = p.
326 n. 114).
129 «Ma non è grandemente necessario che il simile e ciò che gli è
simile partecipino di un 'unica idea?».
130 «E non sarà proprio in quanto partecipano dell'idea che i simili
sono i simili?».
131 «Non è dunque possibile che qualcosa sia simile all'idea, e che

230 Mauritius_in_libris
questa lo sia ad altro: in caso contrario accanto all'idea si manifesterà
un'altra idea, e se questa è simile a qualcosa un 'altra ancora si manifesterà,
e mai cesserà di venir fuori una nuova idea, se questa sarà simile a ciò che
di lei partecipa».
132 Owen, The Piace of the «Timaeus» in Plato' s Dialogues, p. 83, ha
osservato che questa relazione è «simmetrica»; e che all'argomento con
il quale, criticando la teoria delle idee come mxpaoEiyµa'ta, Parmenide
la confuta, in tanto Platone non oppone nulla in quanto nulla, in effetti,
era possibile opporgli. Ma non mi pare che da questa osservazione abbia
poi tratto la conseguenza che, a parer mio, occorre trarne, e che il lettore
può vedere esposta qui su nel testo; e nemmeno che, considerandola nel
contesto, abbia ben valutata la ragione per la quale, dopo averla proposta
in termini di simmetria, Platone la dichiara, in questi termini, impossibile
(cfr. Parm. 132 E 6-7 OUlC d.pa ot6v 'tÉ 't1. 'tq5 EÌ&t òµowv ElV<ll, ouoÈ 'tÒ
dOoc: d.)..ì..q>).
133 Anche il Cherniss, The Relation, pp. 252-53 (= pp. 325-26), accetta
da Owen (nonché da W.F.R. Hardie, A Study of Plato, Oxford 1936, pp.
96-97, e da Ross, Plato' s Theory of ldeas, p. 89) l'idea che quella che si
stabilisce fra copia e modello sia una relazione simmetrica; ma, conforme
alla tesi che le critiche rivolte da Parmenide alla dottrina delle idee non
siano prese sul serio e condivise da Platone, ne restringe il significato.
«Socrates - scrive - had suggested only that the relations of things other
than ideas (i.e. phenomenal particulars) to ideas is that of images or
likenesses to their originai; and, even if an idea does ·resemble the
phenomenon that resembles it, it still does not follow from his hypothesis
that both are likeness of a single originai, for they are not both "other than
ideas", and by hypothesis one is itself the originai of which the other is
a likeness» (e si ricordi, in proposito, quanto già osservato dal Taylor,
Parmenides, Zeno and Socrates, p. 287, per il quale la «fallacia» della
situazione «become manifest in a simple case. My carte-de-visite
photograph and my living face may be like one another, but the likeness
is not such that it could be argued "this photograph is a likeness of you,
ergo, by conversion, you are a likeness of it". You can argue that since
my reflection in a looking-glass is like me, therefore I am like it, but you
cannot argue that since it is the reflection of me, I am the reflection of
it» ). L'osservazione del Cherniss, e questa del Taylor, sono senza dubbio
assai acute (anche se, in linea generale, la seconda potrebbe essere
variamente criticata). Ma confido che il lettore tragga dal testo le ragioni
per le quali la questione richiede, a mio parere, altro.
134 È questa, salvo errore, la questione specifica che nella letteratura
(a me nota) non ha riscontro.
13S Cfr., ad es., Parm. 132 E 6-133 A 3.
136 Questa complessa situazione per la quale il Parmenide è, per certi
aspetti, un'ironizzazione (platonica) dell'eleatismo, ma, per ciò stesso e
in questo medesimo atto, è anche una sorta di autocritica (eleatica) del
platonismo e della teoria delle idee, meriterebbe di essere seguita ponendo
in relazione strutturale la prima e la seconda delle sue due parti, senza
assumere (alla maniera, ad es., del Cherniss) che la critica data, nella

Mauritius_in_libris 231
seconda, della critica rivolta, nella prima, alla teoria delle idee, non cada
anch'essa sotto i colpi che a questa erano stati diretti nella prima parte. In
realtà, occorre assumere la prospettiva opposta; e abituarsi a pensare che
la critica svolta nella prima parte, e laltra svolta nella seconda, abbiano
il loro proprio limite l'una nell'altra, con le ulteriori conseguenze aporetiche
che ne discendono e che soltanto l'analisi diretta potrebbe specificare.
Credo infatti che soltanto in questo modo, e in questo senso, ossia
considerando le sue due parti come consapevolmente contrapposte, l'una
ali' altra e ciascuna in sé stessa, sia possibile intendere la particolare
«unità» di questo dialogo.
137 Eutyphr. 5 D 1-5 i\ ou 'ta'Ò'tov Èonv i:v m:i<TIJ 7tpcil;Et 'tÒ omov
a'Ò'tÒ mhqi, JCaÌ 'tÒ avomov aÙ 'tOU µÈV òoiou 7taV'tÒC: i:vav'tiov, a'Ò'tÒ
oÈ a'Ò'tcf5 oµowv JCaÌ èxov µiav nvà iocav JCa'tà TIÌV UVO<JlOTll'ta miv
on7tEp dv µÉÀ.À.lJ avomov elvm? Ho preferito citare il passo nella sua
interezza perché il lettore osservi come, dopo aver posta l'identità di ciò
che è santo, Platone altresì ponga quella del suo contrario.
138 Parm. 135 C 5-6.
139 Parm. 132 B 4-5.
140 Parm. 132 B 8-9.
141 Parm. 132 c 1-5 (e cfr. 3-5 oùx èvc)ç 'ttVOC:, ò btì mimv ÈICElVO
'tÒ vollµa È7tÒv voei, µiav nvà oùoav iocav?).
142 Parm. 132 C 10-11.
143 Cornford, Plato and Parmenides, p. 92.
144 Parrn. 3 Diels-Kranz.
145 Taylor, Platone, pp. 556-51.
146 Conviene ricordare che il Cherniss, Parmenides, p. 137 (= p. 296),
ha definito questo «the only piace in ali his writings that Plato suggests
the theory which has come to be called in modem times ldea/ism, and he
proposed and rejects it in twenty lines». Gli sembra infatti ovvio «from
this passage as well as others that he never held a theory of ldeas in the
idealistic sense». Sul passo in questione, cfr. anche Paci, /l significato del
"Parmenide", cit. pp. 101-103.
147 Il metodo in forza del quale, alla maniera, ad es., di Owen, reali,
o presunte, discrasie concettuali vengono «spiegate» con date diverse, è,
a mio modo di vedere, esposto a vari e gravi rischi; e per quanto riguarda
il rapporto, e la qualità del rapporto, che lega il Parmenide e il Sofista,
occorre cercare in altro dal criterio della presunta evoluzione registrata,
dall'un dialogo all'altro, dal pensiero di Platone, la ragione per la quale,
criticata nel primo, la teoria della «partecipazione» è, come se niente
fosse accaduto, utilizzata nel secondo e posta al centro del suo maggiore
impegno costruttivo. Del resto, non deve dimenticarsi che persino nella
seconda parte del Parmenide, dello schema partecipativo Platone si avvale,
nell'elaborazione delle ipotesi, senza tener conto delle critiche alle quali,
nella prima, lo aveva sottoposto.
148 Va sottolineato, per altro, quel che si legge in Parm. 158 A 3-5,
dove, con straordinaria acutezza, è detto: µE'tÉ:;(Ol oÉ YE dv 'tOU E:vòc; ofiì..ov

232 Mauritius_in_libris
O'tl. dÀ.ÀO OV ii Èv' ou yàp µE'tElXEV, aÀÀ'i\v dv au'tÒ Èv. A prescindere
dagli svolgimenti che conosce nel corso dell'argomento, e nel suo contesto
speculativo, questo tema costituisce forse il vertice che, in materia di
«partecipazione», la consapevolezza critica di Platone abbia raggiunto:
anche se l'ulteriore approfondimento della questione avrebbe comportato
l'osservazione secondo cui, se partecipare è «andare a far parte di» e non
«identificarsi con», ecco allora che «partecipare dell'uno», µE'tÉXEtV 'tOU
èvcX-, dovrebbe significare «esserne parte». Ma «esser parte dell'uno» è
impossibile perché, per definizione, l'uno è l'uno, e non ha parti.
149 Parm. 131 E 4-5.
150 Del quale del resto, e come si dice nel testo, anche nella seconda
parte del Parmenide Platone si serve con larghezza.
lSl H. Jackson, Plato' s late Theory of ldeas, «Journal of Philology»,
IO (1882); 11 (1982). Cfr., al riguardo, Cherniss, Parmenides, p. 122 (=
p. 281), il quale scrive che la sua «reconstruction of the history of Plato's
development» «has had a vigorous and malign influence on Platonic
studies in spite of the prompt and complete refutation of it given by Paul
Shorey». Il Cherniss rinvia a P. Shorey, Recent Platonism in England,
«American Journal of Philology», 9 (1888). Ma cfr. altresì quel che lo
Shorey scrisse più tardi nel suo What Plato said, Chicago, 1933, p.v,
ribadendo il suo concetto della Unit of Plato' s Thought (come suona il
titolo di un suo libro, che non ho, per altro, potuto vedere, di molti anni
prima). Vorrei soltanto aggiungere che la tesi fortemente «unitaria» alla
quale il Cherniss ispira la sua interpretazione, è, per quanto concerne
lesclusione della possibilità che in Platone si diano «salti» e bruschi
mutamenti di prospettiva teorie!, altrettanto rigida di quella più di recente
sostenuta dal Gaiser e dal Krlimer. Il contrasto che, ciò non ostante,
divide i platonici di Tilbingen dalle tesi del grande studioso nordamericano
concerne infatti la questione della «dottrina non scritta»; che, per i primi,
costituisce il criterio in ragione del quale l'autentica unità del pensiero di
Platone può essere stabilita al di sopra di ogni apparente differenza, e per
il secondo non è se non il frutto di una sorta di illusione storiografica (e
documentaria). Non entro qui nella questione dei «princìpi», ripresa e
riformulata dagli studiosi di Tilbingen; e rinvio a M. Isnardi Parente, Il
Platone non scritto e le autotestimonianze. Alcune note a proposito di un
libro recente, «Elenchos», 5 (1984), pp. 201-209, e quindi Il problema
della "dottrina non scritta di Platone", «La parola del passato», 1986,
pp. 5-30. Al primo di questi due articoli il Krlimer ha replicato con
vivacità nel suo La nuova immagine di Platone, Napoli 1986, pp. 48 sgg.
(e a p. 59 n. 14 si noti il rimprovero rivolto alla Isnardi che non avrebbe
«tentato di prendere» una qualche «distanza autocritica» dal «chernissia-
nismo», legato «a condizionamenti culturali del dopoguerra» e, per
conseguenza, ali' «immagine di un Platone aperto ali "'esistenzialismo"».
Dove, per altro, mi sembra strano che tonalità e suggestioni esistenzialisti-
che siano rinvenibili in una studiosa come la Isnardi (che credo ne sia
stata in ogni tempo immune). La Isnardi è tornata sull'argomento nel
recentissimo L'eredità di Platone nell'Accademia antica, Milano 1989,
pp. 31-48, uscito quando questo libro era già in bozze.

Mauritius_in_libris 233
152 Parm. 135 B 5 - e 3 CÌÀMX µÉvi:ot, EÌm:v 6 Ilapµi:vilìT1<. d 'YÉ 'tl.<;
&ri. ro I:rox:pai:E<, au µiì Mcm EÌlìl'I i:c3v OV'l:(l)V Eivm, Ek 1tcivi:a i:à
vuvlìiì x:aì d).m i:otaui:a CÌ1to~ÀÉ'lfa<:, µTllìÉ n òpiEii:m EÌ&x" évòc;
éx:cicnou, oùoÈ &1tot i:pÉ'lfEl i:ftv lìicivotav e!;Ei, µiì Éoov llìfov i:rov òvi:rov
éx:cicri:ou i:ftv aùi:ftv ci.El EÌ vm, x:aì oui:CO<; i:ftv i:ou lìlaÀÉyE00m Mvaµi v
1taV1:a1tacrt Ola~0EpEi. 'l:OU i:otmhou µÈv OUV µot OoKEi<: KaÌ µdÀÀOV
ijcr0i;cr0m. Poiché, nell'intervento immediatamente precedente (134 E
9-135 B 3), Parmenide aveva svolto, in termini conclusivi, la sua critica
dell'idea in quanto «separata» dalla cosa, e in questo, come si vede,
sostiene che, ciò non ostante, se la dottrina delle idee fosse abbandonata
al suo destino, la Mvaµi<: stessa del oiaÀ.ÉyE00m si frantumerebbe, si ha
qui una situazione che potrebbe definirsi «problematica» in senso forte,
o, se si preferisce, di «irresolubilità dialettica», dal momento che né la
critica riesce a dissolvere la cosa criticata, né questa ha il potere di
togliere, o confutare, la sua propria confutazione. Quale sia, in questo
quadro, lo spazio logico che l'esercizio dialettico, a cui Parmenide esorta,
ritaglia a sé stesso, è tanto più difficile dire, per alcuni aspetti, in quanto,
nel suo svolgimento, proprio alcuni fra i concetti più drasticamente
criticati nella prima parte del dialogo si rivelano essenziali alla sua
«possibilità» e al suo svolgimento. Ma, per altri aspetti, lo «spazio
logico» che l'esercizio dialettico costituisce si include, esso stesso, nel
quadro aporetico; e questo è un punto essenziale, che deve aversi il
coraggio di riconoscere. Si aggiunga che la situazione qui descritta, e
cioè il non poter accogliere senza riserve, anche gravi, sia la dottrina
delle idee sia la critica che la colpisce in luoghi essenziali, ha almeno un
precedente in Resp. 532 D 2-4 Éyro µÈv, [... ] CÌ1tooéxoµm o\hro. x:aii:ot
1tavi:ci1tacri yÉ µot oox:Ei xaÀE1tà µÈv CÌ1tOOÉXE00m EÌvm, <ÌÀÀOV lì'au
i:p01tOV XaÀE1tà µiJ CÌ1tolìÉXE00m.
153 Si noti che, all'inizio di questa parte del dialogo, s'incontra il
famoso passo relativo alle molte denominazioni mediante le quali possiamo
ritrarre l'uomo; che pure, in quanto tale, è «uno». All'uomo, infatti,
attribuiamo i:ci 'l:E xproµai:a [... ] x:aì i:à crxr\µai:a x:aì µEyÉ0TI x:aì x:aria<:'
x:aì CÌpEi:ci<:; e in tutti questi casi, e in altri ancora, où µovov àv0pro1tov
aùi:òv EÌVai ~aµEV, CÌÀMX x:aì ciya0òv 1mì hEpa <Ì1tEtpa, x:aì i:à).).a lìiì
x:ai:à i:òv aùi:òv ).Qyov oui:(I)<; Èv Ex:acri:ov Ù1to0ɵEVot 1taÀiv aùi:ò
1tOÀMX x:aì 1tOÀÀOi<; ovoµam À.ÉyoµEV (251 A 9-B4 ). Il Comford, Plato' s
Theory of Krwwledge, p. 253, ha osservato che «the opening paragraph
makes it clear that we shall be concemed only with relations of Forms to
one another, not with the old question of the participation of an individuai
concrete thing in many Forms» (e in nota rinvia a Parm. 129 A sgg., dove
la questione «Was dismissed [ ... ] as solved by the earlier statement of the
theory of forms, and will be descrived as "childish" at Philebus 14 D».
Analogamente, il Moravcsik, Being and M eaning, pp. 57-58; ma cfr. Bluck,
Plato' s Sophist, pp. 111-12, il quale ha ricordato che in Phil. 14 C sgg.
c'è di nuovo un'allusione al problema (vorrei per altro osservare che, a
proposito della questione dell'uno e dei molti, anche qui Socrate si
esprime con la medesima impazienza che può cogliersi nelle parole del
Forestiero d'Elea: Phil. 14 D 4-8 crù µÉv, & Ilpcbi:apxE, EÌPT1Ka<: i:à
lìElìTlµEuµéva i:c3v 0auµacri:rov 1tEpÌ i:ò Ev x:aì 1tOÀÀ<X, cruyx:ExropT1µÉVa

234 Mauritius_in_libris
Bè ck t1t<X" Eim:tv Ù7tÒ 7tcXV"tO>V T\&ri µTi BEiv "t6>v "tOlOU"tO>V a7t"tto9m,
7tmBaptoSBTt 1cal pq'.Bta x:al oc1>6Bpa "tote; ì..6-yoic; ɵ7t6Bta
i'>7toì..aµ~avov"trov yiyveo9m.
154 Con gli svolgimenti che gli sono intrinseci, e che, nel testo ho
cercato di rendere espliciti, questo punto è di importanza fondamentale;
e sembra, ciò non ostante, essere sfuggito all'attenzione degli studiosi (a
me noti). Notevole, per altro, è il caso del Moravcsik, Being and Meaning,
p. 45, il quale, dopo aver osservato che, «if there were a thoroughgoing
universal mingling, then Rest and Motion could not be regarded as
separate Forms», aggiunge che, in questo caso, «Motion and Rest could
not be contradictories, and this is absurd». Per la sua singolarità,
l'osservazione merita un breve commento. È evidente innanzi tutto che,
senza averne laria ed esserne forse a pieno consapevole, il Moravcsik
rovescia il versus dell'argomento platonico. A differenza del critico, nel
luogo in questione (252 D 6-8), Teeteto non dice che, se si desse
un 'universale e onnipervasiva «confusione», allora, assurdamente, moto
e quiete non si escluderebbero come l'uno all'altra contradditori. Ma
dice bensì che, EÌ7tEp Ém"{lyvoio9T1v É7t'àì..ì..1\wtv, il moto si arresterebbe,
la quiete invece si muoverebbe; e questo è appunto, per lui, assurdo e
contraddittorio. Se è così, dovrà allora intendersi che per «Confusione»,
o mescolamento, degli tvav"tia Platone intende non lo «stare insieme di
entrambi in un luogo» anziché in due, il contaminarsi, il reciproco
influenzarsi e segnarsi degli opposti, ciascuno dei quali deve dunque ben
mantenere, per poter sopportare la contaminazione, la sua autonomia.
Ma intende bensì il puro contraddirsi, quell'entrare dell'uno nell'altro
che fa sì che, in quanto moto, questo sia quiete, e, in quanto quiete, questa
sia moto. A rigore dunque, e sempre che il suo intento sia di esporre
l'argomento svolto nel testo, il Moravcsik dice proprio il contrario di
quel che vi sta scritto, - e dà luogo, mi pare, al suo fraintendimento.
Come qui ho cercato di far vedere, il moto e la quiete si contraddicono se
si assume, non già il loro «confondersi» (che suppone il permanere della
loro identità e distinzione), ma quel che propriamente è «impossibile», e
cioè che, in sé stesso, e in quanto moto, il moto sia quiete, e in sé stessa,
e in quanto quiete, questa sia moto. Il «luogo logico» del «contraddirsi»
è in altri termini l'impossibilità che i contraddittorii vi si includano: più
radicalmente, è l'impossibilità che tale luogo «sia» un luogo. Ma certo è
che, comunque si giudichi in proposito, Platone non parla qui di
«confusione»; o, se ne parla, la intende, in senso specifico, come
«contraddizione».
155 Una diversa prospettiva interpretativa in Bluck, Plato' s Sophist ,
pp. 113-14.
156 Sia consentito il rinvio a Essere e negazione, pp. 229-59, passim.
157 Cfr., intanto, quanto si è notato nei §§ 3 sgg. di questo studio.
158 Soph. 253 D-E; e quindi 253 D 7-254 A 2. Il passo è, come si sa,
estremamente controverso; e notevole è l'interpretazione che ne dette J.
Stenzel, Studien zur Entwicklung der platonischen Dialektikvon Sokrates
zu Aristoteles, Leipzig u. Berlin 1931, pp. 62-71. Cfr. altresì quel che ne
dice l' Arangio Ruiz, op. cit., pp. 164-65, e quindi nel saggio Le operazioni

Mauritius_in_libris 235
della dialettica nel "Sofista" di Platone, in Studi di filosofia greca (in onore
di R. Mondolfo ), a cura di V.E. Alfieri e M. Untersteiner, Bari 1950, pp.
233-44. Ma si tenga presente Cornford, Plato' s Theory, pp. 264 sgg., Bluck,
Plato's Sophist, pp. 125 sgg., A. Gomez-Lobo, Plato's Description of
Dialectics in the "Sophist" 253d1-2, «Phronesis», 22 (1977), pp. 29-47.
L'interpretazione del passo è affidata al discorso svolto nel testo.
159 Soph. 254 B 8-9 'tcl µÈv bt'é>A.iyov, 'tcl o'brl. 7toUci.

160 Soph. 254 B 8-D 2. Sulla questione della maggiore o minore


estensione, cfr. H. Cherniss, L'enigma dell'Accademia platonica, tr.it.,
Firenze 1974, pp. 65-66, il quale osserva, giustamente, che la minore
estensione di «moto» e «quiete» rispetto alla maggiore di «essere»,
«identico» e «diverso» non implica che i primi due siano meno indipendenti
di questi tre. La questione alla quale il Cherniss accenna è, in realtà, assai
più complessa di quanto da questa sua esposizione non risulti; e, per
delinearla, occorrerebbe chiedersi se I' «indipendenza», la «primalità» e
la «sostanzialità» che, aristotelicamente, egli attribuisce alle «forme»
platoniche debbano esser considerate tali anche nei confronti della
auµ7tA.otj e della Kotvrovia, o se, piuttosto, con questi caratteri, convenga
assumerle ali 'interno di queste: nel senso che, dipendendo dalla auµ7tA.otj
e dalla Kotvrovia allo stesso modo che queste dipendono dalle «forme»,
è senza dubbio vero che le forme non dipendono in senso assoluto dalla
auµ7tA.otj e dalla Kotvrovia, - e, tuttavia, non meno vero è che non
possono prescinderne. Per queste ragioni escluderei che l' «indipendenza»,
la «primalità», la «sostanzialità», o come altrimenti piaccia dire, delle
forme possano essere senz'altro interpretate come la stessa cosa
dell'indipendenza, primalità, anteriorità che, nei confronti delle altre
categorie, caratterizza la «sostanza» aristotelica; e questa è, fra le altre,
la ragione che occorrerebbe tenere in maggior conto quando si dovesse
discutere il punto, sollevato e positivamente risolto da Plotino (Enn. 6, 1
e 2), respinto da altri (cfr., ad es., Cornford, Plato' sTheory of Knowledge,
pp. 274-79), se i yÉVT) presentino o no caratteri analoghi alle categorie
aristoteliche. La tesi proposta da Plotino va respinta non perché, per dirla
con Y. Lafrance, La théorie platonicienne de la Doxa, Montréal-Paris 1981,
p. 343, quella «des Formes-Genres du Sophiste est une théorie ontologique,
tandis que la théorie aristotélicienne des catégories est une théorie logique
entièrement élaborée dans le cadre de la prédication», ma perché (a parte
la plausibilità dell'assunto in ragione del quale le categorie aristoteliche
sono intese così), è la questione della primalità, dell'anteriorità e
dell'autonomia a essere qui decisiva; e nessuno dei generi platonici ha,
nei confronti degli altri, la stessa pretesa di primalità e autonomia di cui
gode la ouma. Non l'essere, come si è visto; e neppure, in relazione ai
generi, la auµ7tA.otj.
161 Taylor, Platone, p. 604. Analizzando questo passo nel quadro
della sua interpretazione della filosofia esposta nei dialoghi alla luce
della «non scritta teoria dei princìpi», H. Kriimer, Platone e i fondamenti
della metafisica, intr. e tr. di G. Reale, Milano 1987, p. 205, vi ha colto
l'intenzione e la volontà, non solo di «mantenere il silenzio su certe
cose», ma altresì di lasciare nell'oscurità «proprio lessenza dell'essere e

236 Mauritius_in_libris
del non essere», «il che risulta ulteriormente accentuato, se si considera
il progetto del Filosofo che avrebbe dovuto contenere la esposizione
positiva e che Platone non eseguì mai per iscritto». Che, senza reale
necessità, il passo sia qui «sforzato» ad un significato ulteriore a quello
che appare come il più semplice e il più ovvio, sembra evidente. Il
Forestiero d'Elea non parla infatti dell'impossibilità di cogliere, in quella
specifica sede, l'essenza dell'essere e del non essere; ma dice solo del
suo non poterla afferrare 1tcXITTJ cracJnlvri~ (254 c 6)- «con tutta chiarezza»,
o con piena evidenza; che è, mi parrebbe, cosa diversa da quella che il
Kriimer vi legge.
162 Per «deduzione dei generi» intendo, non che un genere è dedotto
quando è ricavato da un principio, o da un genere che, precedendolo
gerarchicamente e sovrastandolo, stia, nei suoi riguardi, nella posizione
del principio. Ma intendo bensì che un genere è dedotto quando il suo
essere e la sua ragion d'essere riescano, entrambi, ad essere provati, o, se
si preferisce, quando essere e ragion d'essere coincidano. Non questo,
dunque, che non prende in considerazione, ma il primo, che sono io,
questa volta, a non considerare, è il senso di «deduzione» che il Chemiss,
L'enigma, pp. 67 sgg., critica.
163 È noto che i µÉytcr-ta 'YÉVTI fra i quali, nel Sofista, Platone intesse
la cruµ1tÀOJCTl, sono considerati non «princìpi» (questi sono, come si
ricorderà, I' «uno» e la «diade infinita»), ma metaidee, dal Kriimer, Platone,
pp. 205 sgg., e, quindi, da G. Reale, Per una nuova interpretazione di
Platone, Milano 1984, pp. 360 sgg. Come ho già avvertito, non intendo,
in questa sede, entrare nei particolari storici e filologici di questa
interpretazione; anche se di nuovo debba confessare di non riuscir bene
a capire (e sarà certo colpa mia) come la sovrapposizione dei «princìpi»
alle idee, o, meglio, alle metaidee e alle idee, che gli studiosi di Tubingen
operano, riesca in concreto ad essere pensata, e che significhi, ad esempio,
parlare di un «essere» di natura peculiare che sta al di sopra dell'essere,
etc.
164 Su questo punto ha insistito, giustamente (ma in un rapido accenno),
M. Heidegger, Jdentitiit und Differenz, Pfullingen 1978, pp. 9-10.
165 Soph. 255 A 4-5 cin'ou u µiìv riVTtcrk'YE icaì. cr'tcimo; oM'hepov
ou'tE 'tmhov fou. Giustamente, direi, a togliere ogni possibilità di
equivoco, il Diès rende queste due linee così: «or ce n'est certes point le
couple mouvent-repos qui est l"'autre" ou le "meme"».
166 Non direi per altro che la difficoltà si configuri nella forma del
regresso all'infinito. Se infatti l'identico e il diverso, dei quali l'identico
e il diverso partecipano, fossero lo stesso di quest'ultima coppia; se, in
altri termini, la «partecipazione» fosse «identificazione» e, alla radice di
questa, si desse, a renderla possibile, addirittura l'identità, - allora,
appunto, si darebbe identità; e, nonché la partecipazione, nemmeno
l'identificazione sarebbe possibile al di fuori del puro gioco tautologico.
Se, al contrario, la coppia (dell'identico e del diverso) della quale la
seconda coppia partecipa, fosse sul serio, rispetto a questa, una prima
coppia, e il «primo» e il «secondo» configurassero così una diversità,
ecco allora che, non per partecipazione, ma innanzi alla partecipazione,

Mauritius_in_libris 237
la diversità dell'identico e del diverso dall'identico e dal diverso si
darebbe come diversità: con la conseguenza che la diversità derivante
dalla partecipazione sarebbe, rispetto alla diversità, un'altra e diversa
diversità. Ma, se è così, allora si conferma che né per la via dell'identità,
né per quella della diversità, il cosiddetto regresso ali' infinito ha la
possibilità di instaurarsi. Nel primo caso, infatti, c'è assoluta identità.
Nel secondo, diversità. Dov'è, dunque, il regresso all'infinito?
167 Le questioni discusse in questo paragrafo hanno suscitato, nella
critica più recente, un ampio dibattito, per il quale può essere sufficiente
rinviare a Comford, Plato' s Theory of Knowledge, pp. 274 sgg., a Bluck,
Plato' s Sophist, pp. 133 sgg. (e alla letteratura ivi citata: Moravcsik,
Runciman, ecc.). In quel che segue, nel testo, il lettore vedrà in che modo
debba a mio giudizio essere definita la questione, dibattuta dal Comford,
Plato's Theory of Knowledge, pp. 255-57, 278-79, 296-97, che intende
come «simmetrica» la relazione dei generi, e da J.L. Ackrill, Plato and
the Copula: Sophist 251-52, in Studies in P lato' s Metaphysics, ed. by R.E.
Allen, London 1968, pp. 216-17, che la intende invece come «asimmetrica».
I termini del loro conflitto sono lucidamente riassunti dal Lafrance, La
théorie platonicienne, pp. 349-61.
168 Che quindi entrambi i significati siano presenti alla mente di
Platone, è evidente; e poiché li ha più volte distinti, e come tali, ossia
come distinti, li ha in concreto considerati, così ha senso chiedersi, non
se li abbia distinti, ma come piuttosto sia potuto accadere che, avendoli
distinti, li abbia talvolta confusi.
169 Proprio così, come si ricorderà, come contrarissimi, Évavnohm:a,
li aveva definiti a 250 A 7.
170 Cfr., ad es., Soph. 258 D 7.

m Soph. 255 E 11-12.


172 Soph. 256 A 1.
173 Soph. 256 A 3.
174 Soph. 256 D 5-6 ò.oedk àpa -nìv rlvriow hepov EÌVat -roi> òv-roc:
otaµa:x,oµevot ÀÉ'yroµev? E Teeteto: ò.oefo-ra-ra µl:v oùv.
175 E non è dunque infinite volte, se «infinito» è il non essere. Questo
sembra essere il senso di 256 E 5-6 7tEpÌ. h:acr-rov àpa -rrov d&i>v TtoÀu
µÉv fon -rò Òv, à7tEtpov ol: 7tÀr\9Et -rò µiì ov. Cfr., su questo passo, Bluck,
Plato's Sophist, pp. 157-59, il quale osserva che «each kind is distinct
from Being and so is "a thing that is not" and yet partakes of Being and
so is a "thing what is"; and in fact it seems that in the case of each Form
its "being" is plentiful and its "not-being" unlimited in number - it "is"
many things and it "is not" an unlimited number of things. This last
observation will be an inference not simply from the fact that each Form
is and is not Being, but also, we may suppose, from what was said a little
earlier about Change being and yet not being "the same" and "other"; for
that, too, must be true of all Forms. There will of course be many other
things also that each Form "is not"» (pp. 158-59). Cfr. anche G.E.L.
Owen, Plato on not-Being in Plato, ed. by G. Vlastos, New York 1971,
I, 121-22; e quindi J. Mcdowell, Falsehood and not-Being in Plato's

238 Mauritius_in_libris
"Sophist", in Language and Logos. Studies in ancient Greek Philosophy
presented to G.E.L. Owen, ed. by M. Schofield and M.C. Nussbaum,
Cambridge 1983, pp. 115-34.
176 Soph. 257 E 6-7 OV'tO<; oiì 1tpÒc: òv avn9EcrtC:, cix: Èouc', Eivai 'ttC:
cruµ~aivet 'tÒ µiì 1mMSv.
177 Soph. 258 B 10.

178 Soph. 258 E 6-259 B 6.


179 Soph. 253 A 1 sgg.
180 Sebbene il rilievo relativo alla «presupposizione della diversità»
non compaia, se ho ben visto, nel capitolo che Hegel dedicò a Platone
nelle Vorlesungen uber die Geschichte der Philosophie, è tuttavia ad
osservazioni ispirate al suo pensiero che, filosoficamente parlando, occorre
farla risalire: cfr., ad es., Wissenschaft der Logik, hrsg. von G. Lasson,
Hamburg 1966, I, 105; Il, 35-36.
18 1 Cfr. Arangio Ruiz, op. cit., p. 175.
182 Soph. 243 c 10-D 2 'tOOV µèv 'tOtV'l>V 1tOÀÀCOV 1tÉpt 1mì. µe'tà. 'tOU'tO
crKE'ljl6µe9', dv 06!;1J, 1tEpÌ. oÈ 'to'G µE"(icrwu 'tE Kaì ap:x.11Yo'i> 7tpùYcou vuv
<rKE1t'tfov. Su questa espressione (che rende con «the chief and the most
important of then all»), cfr. Comford, Plato's Theory, pp. 219-20, che
per altro non la connette con 256 D 12- E 4. Cfr., infatti, op. cit., p. 289).
183 Soph. 256 D 11-E 4 fo-nv c'ipaé!; civci"f11'.Tl(' 'tÒ µiì òv mi 'tE nvt;creroc:
EÌ vm Kaì Ka'tà. 7tciv'ta 'tà. YÉV'Tl · Ka'tà. 7tciv'ta yà.p ii 9a'tÉpou ci>umc:
hepov cl1tEpyaçoµév'Tl 'tOU OV'tO<; ÈKacr'tOV OÙll'. òv 1t01.d, 11'.aÌ cruµ1tav'ta
oiì ica'tà. 'taÙ'tà. oihroc: oÙK ov'ta 6p900c: Épo'i>µEV, Kaì 1tclÀtv, on µE'tÉX,Et
'to'G ov'toc;, EÌ vai 'tE Kaì ov'ta.
184 Che, letteralmente, il contesto sia ambiguo può vendersi anche da
257 A 1-6, dove, dopo aver osservato: oÙKo'i>v KaÌ 'tÒ Òv aÙ'tÒ 'tOOV ÙÀÀCOV
hepov EÌVat ÀEK'tÉOV, il Forestiero aggiunge: 11'.aÌ. 'tÒ òv àp'iiµtv, ocra1tép
Écr-n 'tà. ÙÀ.Àa, Ka'tà. 'tocra'G'ta OÙK fo-nv (257 A 4-5), e in tal modo
spiega il senso, che altrimenti potrebbe riuscire oscuro, della precedente
battuta: 256 E 5-61tEpÌ ÈKacr'tov àpa 'tOOV El&ov 1tOÀÙ µèv 'tÒ ov, c'inetpov
oÈ 1tÀrj9Et 'tÒ µTi ov («per ciascuno dei generi molto è l'essere, e infinito
il non essere»), che il Cornford, Plato' s Theory, p. 288, intende: «so, in
the case of every one of the Formas there is much that it is and an indefinite
number of things that is not», e (n. 1) spiega: «this means that many
affirmative statements are true of any Form, and also any number of
negative are true of any form, and also any number ofnegative statements,
expressing its difference from other Form. This conclusion is next applied
to Existence itself». Ma il senso di 1tOÀÙ µÉv Écr'tt 'tÒ ov etc. richiede un
ulteriore sforzo interpretativo; e si arriva forse ad intenderla, questa
espressione, se si considera che il «molto essere» che si dà per ciascuna
forma deriva da ciò che a sé stessa ciascuna aggiunge l'essere del quale
partecipa. Se per altro fosse questo il senso del passo, allora la
contraddizione che insidia il concetto della µÉ0E!;tc: si rivelerebbe, ancora
una volta, in ciò, che, alla radice dell'atto partecipativo, assurdamente,
agirebbe l'essere; che perciò, con altrettanto grande assurdità, si
«sommerebbe» con l'essere! È tuttavia tutt'altro che pacifico che il passo

Mauritius_in_libris 239
sia da interpretare così: cfr. anche Runciman, Plato' s Later Epistemology,
p. 85, e Bluck, Plato' s Sophist, pp. 157-59, che, senza per altro cogliere
il punto che a me sembra essenziale, offrono entrambi interessanti
osservazioni.
185 Cfr., ad es., Metaph. Z 3, 1029 a 7-9 vuv µÈv ouv 'tU7tq> ei'.p11-rm
'ti TtO't'EO"'tÌV ii oucria, O'tl. 'tÒ µfi 1m9'U7t01CEtµÉvou aì..M JCa9'où -rà
à.ì..ì..a. E poiché è proprio Aristotele a dire che questa definizione non è
sufficiente, cfr. 1029 a 27-28, dov'è detto che 'tÒ X(l)PlO"'tÒV JCaÌ 'tÒ 't60E
n umipXElV ooJCEi µaì..tma 't1'.i oucri~. E cfr. altresì ~ 8, 1017 a 24; e Z
13, 1038 b 23-29. (Cfr., da ultimo, G. Fine, Separation, «Oxford Studies
in Classica] Philosophy», 2, 1984, pp. 31-87; D. Morison, "Choristos" in
Aristotle, «Harvard Studies in Classical Philology», 89, 1985, pp. 89
sgg., G. Vlastos, Separation in Plato, «Oxford Studies in Classica]
Philosophy», 5, 1987, pp. 187-96).
186 Symp. 210 E 6-211 A 1.
187 «Essa stessa in sé e per sé, uniforme in eterno, e tutte le altre cose
belle partecipi di lei in tal modo che, mentre queste nascono e muoiono,
essa non cresce né diminuisce per nulla, né subisce alcuna mutazione» (è
la versione di G. Calogero, Il Simposio di Platone, Bari 1928, p. 133).
188 Su questo punto, che mi sembra essere di importanza fondamentale,
è necessario insistere. Ma sia ben chiaro: non perché a differenza delle
idee, che sono l'una dell'altra impartecipi, i ytv11 siano ora partecipi e
ora, invece, impartecipi, sarebbe giusto interpretarli alla stregua di pure
funzioni predicative, alla maniera del Moravcsik, Being and Meaning, pp.
41-56, o anche, alla maniera del Prede, Priidikation, pp. 93-94, come
significati predicativi. Che si tratti di strutture ontologiche è, per me,
indiscutibile: anche se, di volta in volta, l'espressione richieda di essere
interpretata.
189 Soph. 257 A 4-b.

190 Soph. 259 D 9-E 3 JCaÌ ycip, roya9É, -r6 yE miv aTtÒ TtaV'tÒC: i:mxnpliv
aTtOX(l)PiSElV à.ì..ì..coc 'tE OUIC i:µµEì..ÈC: JCaÌ ofi Ttav-rciTtaO"tV <iµoucrou
'tl.VÒC: JCaÌ acj>tì..ocr6cj>ou. E cfr. già 252 B 1-6 (5-6 JCa'tà TtclV'ta -rau-ra
ì..tyotEV dv OUOÉV, EiTtEp µ11oeµia fon cruµµEtl;tc:).
191 Soph. 260 C 1-3 µfi µEtyvuµÉvou µÈv auwu wuwtc; avayJCatov
aì..119TI TtclV't' Elvm, µEt yvuµtvou OÈ ool;a 'tE 'lfEUOiìc; yiyYE'tat JCaÌ ì..6yoc:.
192 Soph. 260 C 3-4.
193 Soph. 263 A 8 (e cfr. 263 B 2 sgg.). Su questo passo, e il suo
contesto, cfr. l'analisi del Cornford, Plato' s Theory, pp. 309 sgg., e quindi
K. Lorenz u. J. Mittelstrass, Theaitetos fliegt. Zur Theorie wahrer und
falscher Siitze bei Platon, «Archiv filr Geschichte der Philosophie», 48
(1966), pp. 113-52 (134 sgg.); Runciman, op. cit., pp. 104-108; Moravcsik,
Being and Meaning, pp. 60-61; Prede, Priidikation, pp. 40-44. Cfr. altresì,
fra i più recenti interventi, D. Keyt, Plato on Falsity: Sophist 263 B, in
Exegesis and Argument. Studies in GreekPhilosophy presented to Gregory
Vlastos, ed. by E.N. Lee, A.P.D. Mourelatos, R.H. Rorty, «Phronesis
Supplementary Volume I», 1973, pp. 285-305; J.P. Kostman, FalseLogos
and Not-Being in Plato' s Sophist, in Patterns in Plato' s Thought, ed. by

240 Mauritius_in_libris
J.M.E. Moravcsik, Boston 1973, pp. 193-202; De Rijk, Plato's Sophist,
pp. 209 sgg. Varrà la pena di ricordare che, a proposito di questa linea
(emi 't'Tl't<><, <ìi vùv È:ycò otaÀéyoµm 7tÉ'tE'tat) l 'Arangio Ruiz, op. cit ., p.
195, dichiarò di non riuscire a comprendere «che cosa provi "col quale
discorro"» e, a rinforzare la sua impressione che niente quell'inciso
provasse di ulteriore al senso generale del discorso, ricordò C.
Michelstaedter, La persuasione e la retorica, Firenze 1922, p. 203 in
nota. Ma sembra chiaro che l'cò vùv ÈyCÒ ota).iyoµm, «col quale ora
discorro», non è che la ripresa enfatizzante, forse, non però superflua, di
quel che si legge a 262 E 5-6 Myov civayx:atov, Ò'taV7tEp iJ, nvòç Eivm
A.Oyov, µiì oÈ nvòc: ciouva'tov (e cfr. anche 263 A 4). A ragione, mi pare,
il Comford, Plato' s Theory, p. 309 n. 1, ha scritto: «not an immaginary
Theaetetus or Theaetetus at some other moment, but the real Theaetetus
here and now».
194 La battuta concernente il «muto dialogo» che l'anima intrattiene
con sé medesima si trova già in Theaet. 189 E 6-7, dove per «pensare»
(omvoetcr0m) s'intende Myovòv aÙ't'IÌ 7tpÒC: aÙ't'IÌvii 'lf\>XlÌ otel;ÉPXE'tat
7tEpÌ còv dv crx:omj. E cfr. Philebus 38 E 1-4, nonché Tim. 37 B 3-C 5 (su
cui A. Taylor, A Commentary on Timaeus, Oxford 1928 pp. 178-80).
195 Soph. 263 E 3 oùx:oùv ouivma µÈ:v x:aì A.Oyoc: 'taù't6v.
196 Theaet. 187 B.

197 Hegel, Wissenschaft der Logik, II, 39.

Mauritius_in_libris 241
finito di stampare nel gennaio 1991
dalla litosei
via bellini, 22/4, rastignano, bologna

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