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AUTOGRAFO

rivista di letteratura fondata da Maria Corti


diretta da Maria Antonietta Grignani,
Gianfranca Lavezzi e Angelo Stella

numero 65, anno XXIX, 2021


AZIONISTI E SCRITTURA
TRA MEMORIA E NARRAZIONE
a cura di Gianfranca Lavezzi e Giorgio Panizza

INTERLINEA
“Autografo” – Rivista di letteratura fondata da Maria Corti
Autorizzazione del Tribunale di Milano n. 76 del 18 febbraio 1984

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Contorbia, Gabriele Frasca, Luigi Matt, Matteo Motolese, Carla Riccardi,
Luca Carlo Rossi
Comitato scientifico internazionale: Martin McLaughlin (Oxford), Fabio Pu-
sterla (Lugano), Carlo Enrico Roggia (Ginevra)
Coordinamento editoriale: Anna Longoni
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“Autografo” is an International Peer-Reviewed Journal

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ISSN 2039-8670 per l’edizione digitale
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In copertina: C. Levi, Natura morta (“quadro delle ciliegie”, 18 luglio 1935)


SOMMARIO

Premessa di Gianfranca Lavezzi e Giorgio Panizza p. 7

SAGGI
Matteo Castellucci, Raddrizzare (poeticamente) il mondo:
politica e letteratura in Emilio Lussu (1933-1938) » 13
Pierangelo Lombardi, Jacopo Dentici e Le ali del Nord » 27
Emmanuela Carbé, Fausta Cialente, Paolo Vittorelli
e l’esperienza antifascista in Egitto » 41
Nunzio Ruggiero, «Se fossi savia tenterei di rompere
questo circolo chiuso». Per una lettura di
Pamela o la bella estate di Fausta Cialente » 55
Filippo Benfante, «Come si sente l’insufficienza
del ricordo». Su alcuni “ritratti a penna” di Carlo Levi » 69
Francesca Caputo, I “piccoli azionisti” (e azioniste)
di Luigi Meneghello: Licisco Magagnato e gli altri » 81
Luciano Zampese, Luigi Meneghello e la scrittura
come «una specie di dovere» » 107
Clelia Martignoni, Narrazioni azioniste. Diari di guerra
e memorie civili a confronto » 127
Mario Baudino, Letteratura e azionismo » 157
Mauro Novelli, Tre costanti della memorialistica
bellica azionista » 169

INEDITI E RARI
Il Diario 1935 di Carlo Levi (a cura di Gilda Policastro) » 179

ABSTRACTS » 219
LETTERATURA E AZIONISMO
di Mario Baudino

È indubbio che il Partito d’Azione ebbe una notevole fortuna tra


gli intellettuali – e si potrebbe azzardare soprattutto tra gli scrittori
– nei giorni della clandestinità e della Resistenza, fatalmente meno
nel primo dopoguerra e com’è ovvio nel periodo della sua disso-
luzione. Ma alcuni nomi, uno su tutti Luigi Meneghello e natural-
mente Carlo Levi, furono a esso e alla sua eredità culturale legati
per tutta la vita. L’elenco degli aderenti o simpatizzanti è lungo: a
partire da Emilio Lussu – sin dalla fondazione del Partito Sardo
d’Azione –, che avrà una storia diversa di militante e leader politi-
co, come del resto Carlo Levi, si va fino ad abbracciare almeno due
generazioni, da Giuseppe Dessì ed Eugenio Montale, da Giacomo
Noventa – amico e in qualche modo maestro di Aldo Garosci –
a Gianfranco Contini, a Manlio Cancogni, e soprattutto Giorgio
Bassani e Carlo Cassola. Ancora vanno annoverati in quello che
non è un gruppo ma un’area di sensibilità politica, il primo Fortini
e, in apparenza lontano e isolato, un più giovane Nuto Revelli.
Dall’elenco, nonostante la rete di intense frequentazioni comu-
ni e anche le geografie su cui si potrebbe stendere questa esperien-
za (Torino, Firenze, Roma, Parigi come città d’esilio per molti),
andrà invece escluso Mario Soldati, che per questione forse solo
di mero “temperamento”, come ricorda ad esempio raccogliendo
varie testimonianze su un’edizione on line di “Nuovi Argomenti”
(2016) Raffaello Palumbo Mosca, ricava da un precoce incontro
con Piero Gobetti (propiziato da Giacomo Noventa, che ne fu te-
stimone) «una sensazione terribile, di grandissima ammirazione,
ma al tempo stesso di distacco». Per aggiungere in seguito che «la
vera grandezza include sempre una certa ‘grazia’ – e la grazia non
è certo la specialità degli azionisti»: osservazione ovvia, destinata
a far parte di un luogo comune largamente condiviso ma, almeno
per quanto riguarda gli scrittori – si pensi a Contini, e alla sua
filologia funambolica e spesso divertita, senza dimenticare il suo
amore per il fantastico – non del tutto esatta.
Possiamo richiamarla in dubbio già a una prima lettura di
Giorgio Bassani e Carlo Cassola, in particolare nei loro libri più
158 Mario Baudino

legati all’epoca, penso ovviamente alle Storie ferraresi (1956) e a


Fausto e Anna (1952), dove incontriamo con grande evidenza per-
sonaggi legati o aderenti al partito, che dunque diviene materia
narrativa nel quadro del percorso di un giovane borghese critico e
insoddisfatto, alla ricerca, in modo spesso timido e guardingo, di
una matura coscienza storica e sociale. Non mi sembrano privi di
una ruvida grazia.
In Gli ultimi anni di Clelia Trotti (nelle Storie ferraresi) lo stu-
dente Bruno Lattes, personaggio largamente autobiografico, cerca
una maestra antifascista dallo storico passato socialista, tornata dal
confino e segregata in casa, guardata a vista dai parenti e dalla po-
lizia segreta. I due hanno un intenso se pur breve rapporto intellet-
tuale. E lei, in una pagina di grande intensità e di tensione politica,
gli spiega che non può insegnargli nulla, ma in quel momento era
giusto e opportuno «che egli non fosse socialista, appunto, bensì
qualcosa di diverso, di nuovo»:
Il futuro, gli anni che a guisa di oscura nube attendevano l’Italia e il mondo
di là dalla guerra ancora agli inizi – anni a cui si sarebbe approdati dopo aver
pagato chissà quale scotto di sangue e di lacrime –: codesto futuro, ella era
solita dire, non avrebbe saputo cosa farsene di loro, socialisti della vecchia
scuola. «Siamo dei vecchioni, noialtri, dei poveri ferrivecchi», insisteva: ed
era come se intanto affermasse che domani, invece di loro, ci sarebbe stato
bisogno di giovani come lui, Bruno, che fossero socialisti senza esserlo. Non
già, con questo, che lei ripudiasse «l’Idea». Lei era socialista, e tale intendeva
morire affermò esplicitamente una sera. Ma non perciò era meno convinta
che fosse necessario pensare fin da ora a qualcosa di inedito, di originale,
che non rientrasse assolutamente nei soliti schemi. Soltanto così sarebbe stato
possibile, «dopo», dar del filo da torcere ai comunisti, i quali, sebbene fossero
dei “giganti” […] anche loro, sicuro, soprattutto «nei metodi» appartenevano
ormai al passato.

Il Partito d’Azione non è menzionato, ma il suo orizzonte ideale,


non troppo curiosamente descritto da un’eroica socialista, quasi a
lasciare una sorta di eredità, è evidentissimo. Nel transito generazio-
nale Bassani vede un passaggio anche di cultura politica, se pure –
siamo ormai negli anni cinquanta quantomeno per ciò che riguarda
la pubblicazione e dunque le ultime revisioni del libro – le speranze
siano ormai deluse: era chiaro che il «filo da torcere» ai comunisti
non l’avevano dato certo gli azionisti come il giovane Lattes.
Più esplicito è il Cassola di Fausto e Anna. Qui il protagonista,
che pure nei momenti di delusione dice di essere salito in mon-
Letteratura e azionismo 159

tagna «per sport», perché «si annoiava», a Miro che gli chiede se
sia comunista risponde di no. Miro è il suo antagonista, il giovane
semplice e sereno che sposerà Anna, di cui Fausto è innamorato in
modo contraddittorio e contorto. In occasione di un incontro fra
i tre, Fausto, che ha da poco scoperto l’esistenza del Partito d’A-
zione leggendo La ricostruzione dello Stato di Emilio Lussu, grazie
a uno studente di Siena con il quale dopo un’azione di guerriglia
si è creata una certa comunità di intenti e sentimenti, spiega nei
dettagli – e con non poca enfasi – che cosa sia la nuova formazione
politica. Invita anzi Miro a far proseliti, insomma lo arruola seduta
stante:
Il Partito d’azione, disse, era stato fondato nel 1929 da un gruppo di fuo-
rusciti. Esso aveva il compito di rinnovare il socialismo. Il Partito d’azione
aveva avuto una grande parte nella guerra di Spagna. Qui Fausto fece una
digressione sulla guerra di Spagna. Raccontò della Brigata Internazionale che
aveva sconfitto i fascisti a Guadalajara, della Brigata Thaelmann, del cava-
tore Lister, del generale Miaja detto “El Defensor”. Di fronte al racconto di
tante imprese, Miro andava sempre più entusiasmandosi. L’esposizione del
programma del Partito d’azione, che Fausto condensò nella equazione libertà
politica-giustizia sociale, lo trovò pienamente consenziente. «Il socialismo è
necessario» concluse Fausto, «ma bisogna conciliarlo con la libertà. Cos’era il
fascismo? Una dittatura borghese. E noi dobbiamo instaurare una democra-
zia proletaria».

Proprio Fausto prenderà poi altre strade, rivolgendosi semmai


alla religione (al proposito è nota la maliziosa osservazione di Calvi-
no, in una lettera del ’51 a Carlo Muscetta, dove scrive che il titolo
giusto per quel romanzo, arrivato in casa editrice col titolo Anna e
i comunisti, sarebbe dovuto essere Come si diventa democristiani); i
protagonisti delle Storie ferraresi al contrario rimarranno sulle loro
posizioni, semmai risentite. Ma il reticolo delle concorrenze fra i
due libri, per ciò che riguarda temi e situazioni, è fitto. Basti pen-
sare al rapporto di Bruno Lattes col ciabattino Rovigatti, o a quello
di Fausto con l’alabastraio Baba, vecchio comunista. In entrambi i
casi pare emergere una sorta di complesso di inferiorità «borghe-
se» nei confronti del popolo, un popolo «vero» – sia di comunisti
sia di socialisti –; e una diffidenza verso i borghesi stessi, anche
di sinistra (come, sempre nel racconto di Bassani, avviene per la
figura dell’avvocato socialista Bottecchiari, in fondo, nonostante le
dichiarazioni d’intenti, scivolato in una sorta di confortevole zona
grigia rispetto al regime).
160 Mario Baudino

Non è da trascurare inoltre la forte critica verso la società ante-


guerra che subito si ricompatta, presentissima in entrambi: si veda
delle Storie ferraresi, Una notte del ’43, dove la voglia di dimentica-
re, e di nascondere qualcosa di troppo doloroso, grazia il fascista
Sciagura; o Una lapide in via Mazzini, quando il ritorno a Ferrara
di Geo Josz, deportato a Buchenwald, crea alla lunga un disagio
collettivo fino all’emarginazione di un personaggio divenuto «in-
sopportabile». Quanto a Fausto e Anna è al proposito esemplare il
cedimento di Fausto alla convinzione ormai diffusa che, in fondo,
i fascisti fino al ’43 non hanno fatto nulla di sbagliato: è la clausola
un po’ melanconica di una discussione su Sandro, il capo del comi-
tato resistenziale di San Ginesio, fascista fino al 25 luglio e all’indo-
mani della Liberazione interlocutore privilegiato degli alleati. Ma
anche Miro ha un passato simile e dunque pone una domanda che
suona retorica: «Abbiamo sbagliato e poi ci siamo ravveduti. Dico
bene?» Fausto ammette a denti stretti – lui che fascista non è stato
mai: «non c’era nulla di male, specie per un giovane, a essere stato
fascista prima del 25 luglio».
Sono i primi segni di delusione e in fondo di resa, una sorta di
palinodia considerata la data di edizione dei libri, in un’Italia già
radicalmente cambiata – o vista come tale – rispetto agli ideali e
alle speranze dei due scrittori negli anni trenta e quaranta, e paral-
lelamente a quelli del Partito d’Azione in cui si erano riconosciuti.
Ne scriverà un azionista ironico come Luigi Meneghello nei Piccoli
maestri, ammettendo errori e sconfitta: «Bastava conoscere i testi
giusti, essere un po’ meno ignoranti. Si doveva proclamare l’insur-
rezione, subito. Non la resistenza, ma l’insurrezione».
Siamo a questo punto nel ’64, dunque lontani temporalmente
da quella Resistenza vissuta come momento decisivo di formazio-
ne, pur attraverso errori d’ogni genere: «È stata tutta una serie di
sbagli, la nostra guerra; non siamo stati all’altezza. Siamo un po’
venuti a mancare a quel disgraziato del popolo italiano. Almeno io,
gli sono certamente venuto a mancare: si vede che non siamo fatti
l’uno per l’altro». Come per gli altri coetanei la caratteristica di
Meneghello è quella di raccontare la guerra partigiana attraverso
l’imprescindibile filtro dell’antiretorica, attento al rischio dell’au-
tocompiacimento, dell’esaltazione smodata di persone o di idee.
Più di altri esplicita infine, parallelamente a Bassani (per il quale
valga qui la dettagliata analisi di Piero Pieri in Memoria e Giustizia.
Le cinque storie ferraresi, Ets, Pisa 2008), anche la delusione per il
Letteratura e azionismo 161

riemergere, dopo la caduta del regime fascista, di quello stato pro-


fondo che ne rappresenta la continuità. L’idea tuttavia di democra-
zia proletaria (dichiarata come si è visto in Cassola), l’attenzione
agli umili e ai «vinti» si situano – nonostante l’assenza di contatti
e di confronti – su una curvatura poetica non troppo lontana da
quella di Nuto Revelli: il cui Mondo dei vinti – pubblicato da Ei-
naudi nel ’77, quindi a una data ormai lontana dalla guerra e dalla
Resistenza, cui lo scrittore cuneese dedica invece i primi e memo-
rabili scritti – ha sin dal titolo un evidente riferimento a Verga,
autore caro anche a Bassani.
Nelle lettere inviate alla madre durante la sua pur breve car-
cerazione (maggio-luglio ’43 – ora col titolo Da una prigione, nel
volume saggistico Di là dal cuore, Mondadori, Milano 1984) tro-
viamo ad esempio un ragionamento critico su Verga, in cui Bassani
legge un fenomeno di maturazione tardiva, un diventare «cattivo»
che tuttavia è
un diventar buoni sul serio, vedere le cose non più secondo una, ma secondo
quattro dimensioni, e distaccarsene, e vagheggiarle, ricreate al di fuori dell’at-
mosfera privata della propria autobiografia in quello che si può chiamare un
mondo morale, dove la cieca realtà acquista un significato ideale, il particolare
assume un valore simbolico […] un mondo distrutto e poi rifatto [...]. Nei
tramonti e nelle albe dei Malavoglia non c’è forse quel senso di aspettazione
stupita, l’intatta e solenne verginità della creazione primigenia?

La stessa attenzione a un mondo se non più «intatto» di certo


«solenne» vale per quanto riguarderà di lì a poco il grande inte-
resse intorno a Cristo si è fermato a Eboli di Levi. Lo testimonia
Eugenio Montale, il cui atteggiamento verso il fascismo può essere
ben riassunto da uno scritto del 7 aprile ’45 (poi raccolto in Auto-
dafé), Il fascismo e la letteratura, dove parla del passato regime che
«aveva ricoperto i muri di balorde iscrizioni e non aveva seminato
che scetticismo, indifferenza morale e basso opportunismo» (una
valutazione in armonia con la sensibilità e la tensione etica del Par-
tito d’Azione). In una lettera all’amico Silvio Guarnieri (17 maggio
1946) gli ricorda: «Politicamente ho appartenuto al Partito d’Azio-
ne fino allo scisma, poi mi sono dimesso; ho scritto anche di politi-
ca non senza successo e ho rifiutato di dirigere La Nazione per non
subire controlli politici da fessi. Ecco tutto quanto mi riguarda».
Ma è soprattutto interessante il passo in apparenza secondario di
questa missiva, quasi un inciso, sulle letture del momento: quando
162 Mario Baudino

scrive che «libri notevoli non sono usciti tranne Cristo s’è fermato a
Eboli di Carlo Levi». Allo scrittore e pittore torinese Montale ave-
va appena dedicato del resto, su “Il Mondo”, un’ampia recensione
nel febbraio precedente.
Nel suo caso l’idea dominante, che troverà piena espressione
nelle prose di Fuori di casa – cui già lavora – e nella Bufera (vivere
o sopravvivere significa compromettersi col mondo), ha un rife-
rimento diretto con la pur breve esperienza di militante politico.
L’impegno da una parte, la rinuncia al «grande stile» dall’altra, se-
gnano una nuova stagione poetica: dove l’attenzione a Carlo Levi
può essere interpretata come un segnale. E proprio in Cristo si è
fermato a Eboli non è difficile individuare una serie di affermazioni
che ancora ci possono ricondurre per analogia a Revelli – anche lui
militante politico nel primo dopoguerra, a livello locale, nel con-
siglio comunale. «Non può essere lo Stato […] a risolvere la que-
stione meridionale, per la ragione che quello che noi chiamiamo
problema meridionale non è altro che il problema dello Stato». O
ancora: «L’antistatalismo dei contadini […] [finirà] quando riusci-
remo a creare una forma di Stato di cui anche i contadini si sentano
parte». E se «la civiltà contadina sarà sempre vinta», leggiamo più
oltre, è tuttavia vero che «non si lascerà mai schiacciare del tutto,
si conserverà sotto i veli della pazienza, per esplodere di tratto in
tratto».
In Nuto Revelli la lunga ricerca documentaria, sette anni, su
ciò che resta dopo «l’immenso massacro» della guerra approda a
un tono che potremmo definire quasi testamentario, ma il modo
di porsi, persino stilisticamente, non pare molto diverso. L’invito
a non dimenticare, il «ricorda, mi dicevo, ricorda tutto di questo
immenso massacro contadino, non devi dimenticare niente», che il
giovane ufficiale alpino rivolge a sé stesso nel ’42 durante la ritirata
di Russia, facendone il proprio imperativo morale e anche il dise-
gno di poetica, il proprio destino di scrittore, già indica la strada
delle opere a venire; e certo nella direzione della memoria e della
pietà, non si allontana dallo sguardo di Levi, se pure ambienti e
situazioni sono molto diversi, per certi aspetti antitetici.
La guerra, i poveri, la guerra dei poveri: il tema, trasversale,
sembra davvero collegare come un basso continuo i fili degli scrit-
tori vicini al Partito d’Azione, anche se com’è ovvio non è loro
esclusivo appannaggio. Servono più approfondite analisi, ma re-
sta forte l’impressione che questa comune sensibilità sia declinata
Letteratura e azionismo 163

nell’ambito di un gruppo intellettuale come quello che va da Bas-


sani a Revelli e soprattutto a Meneghello, in modo quantomeno
autonomo rispetto a chi, come Vittorini o il primo Calvino, aveva
analoghi orizzonti ma non gli stessi riferimenti politici e ideali. An-
che I piccoli maestri è un’esperienza – rammemorata – del mondo
povero: «Ero imbarazzato di bergli il latte, a questa povera gente,
tanto più vomitandolo; ma sarebbe stato ancora più difficile dire di
no», scrive il giovane partigiano riferendosi a una povera famiglia
che lo soccorre. Ma già nella prima parte del libro vede i «popola-
ni» come parte di quelle «enormi riserve non catalogate nei libri»
e, anzi, «quando vi vanno dentro […] sembrano assunti in servi-
zio», a testimonianza che «una cultura comune non c’è»; mentre al
contrario «cosa valgano questi qui si vede ora che si organizzano
da sé. Fanno le cose più facilmente di noi, con meno fisime, sba-
gliano anche, ma così alla buona, in modo pratico e rimediabile».
In questa attenzione ai popolani o ai «poveri», intesi non tanto
come classe sociale quanto come singole esistenze irriducibili, in
questo guardare alla loro dimensione esistenziale, c’è forse un le-
game segreto che può spiegare una sensibilità particolare nei con-
fronti di un autore imprevedibile e in apparenza distante, come è
James Joyce: gran parte di questi scrittori «azionisti» lo legge, in-
fatti, avidamente. Lo troviamo citato in Montale, nel suo peraltro
unico intervento sullo scrittore irlandese. Nella lettera-recensione
ai Dubliners (letto in francese nell’edizione del ’26) per la “Fiera
letteraria” – ora nei saggi di Il secondo mestiere –, il poeta rico-
nosce nel «puntiglioso rilievo di ogni sussulto delle esistenze più
povere» uno dei tratti costitutivi del metodo e degli scopi narrativi
dell’autore.
È quasi un collante stilistico, per molti dei nomi cui si è fat-
to cenno: Cassola-Bassani-Cancogni-Fortini da un lato, Carlo
Levi e Meneghello dall’altro, per i quali Joyce è una delle prime
e fondamentali letture. Ricorderà Cancogni (in una conversazione
con Giovanni Capecchi, Il racconto più lungo, Interlinea, Nova-
ra 2014) l’interesse dell’amico Cassola – i due erano legatissimi,
com’è noto, fino a essere trasfigurati in Azorin e Mirò – , sin dal
’36. Joyce, caldamente consigliato da Cassola, «era diventato una
specie di breviario»: «Mi dette i Dublinesi e mi dette Dedalus. Mi
fecero impressione, ma, intendiamoci, non mi dettero l’emozio-
ne che mi avevano dato Dostoevskij e Tolstoj. C’era, evidente-
mente, già una coscienza letteraria, era una cosa molto mentale».
164 Mario Baudino

E comunque, in parziale contraddizione, «i Dublinesi io li so a


memoria: se apri una pagina e mi leggi una frase, io ti dico qual
è il racconto». Bassani fece altrettanto, e poco dopo, come per
un appuntamento: «Ho cominciato a leggere Proust nel ’36. Ho
cominciato a leggere Joyce intorno alla stessa epoca, non il Joyce
dell’Ulisse, ma il Joyce dei Dubliners e del Dedalus», ricordò in
un’intervista radiofonica.
Fluviale memorialista, Cancogni torna altre volte sull’argomen-
to: per esempio in un’intervista con il quotidiano “la Repubblica”
– in occasione della ripubblicazione di Azorin e Miró –, dove ricor-
da gli anni romani e l’attrazione sua e di Cassola per la modalità
conoscitiva da loro definita del «sublimine»:
Una sorta di rivelazione. La realtà che si rivela in un attimo. L’ esistente che ti
balza incontro nella sua immediatezza. Per noi la verità non era una creazione
umana, ma qualcosa che si manifesta inaspettata, all’improvviso. Ancora oggi
quel punto di partenza mi sembra seducente, ma guai a restargli attaccati.
Eravamo anti-idealisti, anti-marxisti, anti-storicisti. Non sopportavamo le
ideologie. I nostri amici erano tutti intrisi di Croce e Gentile. Si arrovellava-
no intorno a Marx. Noi ci ridevamo sopra, un po’ fanciullescamente. Non è
l’infanzia un’età antistorica, metafisica, che riceve intuitivamente i messaggi
del sublime? A nostra insaputa, Joyce aveva definito tutto questo l’epifania.

«Il massimo del subliminare, in letteratura, era Joyce. Ma sol-


tanto quello dei Dubliners e di Dedalus. L’Ulisse io lo lessi nella tra-
duzione francese di Valery Larbaud e poi, con l’aiuto di un amico,
in inglese. Mi sforzavo di farmelo piacere, ma invano», prosegue
poi, con il suo tipico gusto del rovesciamento a sorpresa, che tut-
tavia conferma l’estraneità all’opera maggiore e, se ne può dedur-
re, alla nuova frontiera stilistica da essa portata a maturazione – o
a compimento. Non senza una stoccata agli scrittori italiani del
tempo, a conferma di ciò che quella generazione di autori vicini al
Partito d’Azione cercò e si direbbe trovò nel primo Joyce, non il
tessuto linguistico ma l’epifania della realtà: «Li odiavamo un po’
tutti, per un loro presunto peccato di magniloquenza».
Bassani, nel ’55, in una delle lettere a Claudio Varese – che
cito qui da un saggio di Lucia Bachelet pubblicato nei “Cahiers
d’études italiennes” (2018) col titolo La città sepolta sotto la neve.
Narrazione e lirica nel carteggio Bassani-Varese –, dettaglia il pro-
prio debito persino tecnico, a proposito delle sue Storie ferraresi:
Letteratura e azionismo 165

La storia del pomeriggio di Bruno Lattes in Piazza della Certosa non è che la
storia della consapevolezza di un fallito. Ricordi I morti di Joyce? Io volevo
fare di Bruno Lattes un personaggio simile a quello del marito-professore
di quel racconto meraviglioso. C’è un altro punto del racconto di Joyce che
avevo presente, scrivendo. Quando Bruno torna a casa, e trova il padre nello
studio, e poi guarda fuori, alla città che si va ricoprendo di neve, intendevo
porlo in una situazione non diversa da quella del professore-marito quando,
dopo la confessione e il pianto della moglie, si accorge, guardando fuori nella
notte, che «the snow was general on all Ireland».

Bassani è stato ovviamente molto studiato dal punto di vista


della presenza di Proust nella sua opera. Ma tutte le Storie ferraresi,
non solo quella citata nella lettera, recano tracce cospicue di una
forte attenzione all’altra grande polarità del romanzo primonove-
centesco, che forse, non solo per lui, è l’esempio più credibile di
romanzo sociale, incomparabile per complessità e ricchezza a ogni
dottrina «neorealistica». Qualcosa di simile accade, ovviamente,
e a un livello molto diverso di declinazione stilistica – che si fa a
tratti quasi mimetica –, nel Meneghello di Libera nos a malo (siamo
però ormai nel 1963, quando lo scrittore da 15 anni si è trasferito
in Inghilterra). «Joyciano» è stato definito in un’intervista di Gior-
gio Melchiori (con la cautela di aggiungere «in un certo senso»)
L’orologio di Carlo Levi.
Non c’è ovviamente nulla di Joyce, almeno come riferimento
diretto e consapevole, in Nuto Revelli, il quale però rispetto a que-
sto gruppo di scrittori sconta un isolamento non solo geografico
ma anche letterario. È evidente inoltre che l’attenzione per il ri-
voluzionario scrittore irlandese non riguarda solo gli “azionisti”
– basti pensare a Giacomo Debenedetti, o a Cesare Pavese, che
furono comunisti l’uno forse convinto, l’altro forse per rassegna-
zione. Nelle memorie dell’esilio parigino (a partire dal ’32) ora
ripubblicate nella versione originale a cura di Mariolina Bertini
per Berti editore col titolo Anni di Torino, anni di Parigi e altre
pagine autobiografiche, il giovane azionista Aldo Garosci, legatissi-
mo a Carlo Levi, ricorda gli incontri con Giansiro Ferrata (fascista
“di sinistra” fino al ’36, prima di avvicinarsi ai comunisti), allora
in Francia per studio e per piacere, e l’entusiasmo di quest’ulti-
mo proprio per Joyce: cui si era ispirato per il romanzo Luisa, che
in quei frangenti amava leggere agli amici (venne pubblicato nel
’33 per le Edizioni di Solaria). La lezione dei Dubliners e del Por-
trait, ben prima dell’Ulisse, vale se non per tutta una generazione
166 Mario Baudino

di scrittori, quantomeno per una cerchia ampia e dai differenti


orizzonti ideologici, compreso ad esempio il Vittorini di Piccola
borghesia. Ma è indubbio che per gli azionisti, o comunque alla
sensibilità che condusse all’adesione o alla contiguità col Partito
d’Azione, questa presenza è significativa, radicata proprio nel mo-
mento della formazione: nel segno, si direbbe, della precisa analisi
fatta da Montale: un atteggiamento joycianamente epifanico.
Il «puntiglioso rilievo di ogni sussulto delle esistenze più po-
vere» sembra, con varie gradazioni, essere davvero l’obbiettivo di-
versamente realizzato – e si direbbe al di fuori dei canoni del neo-
realismo, alla scoperta delle epifanie della realtà – fra gli autori che
sentirono forte il richiamo gobettiano e, come scriveva nel 2003
Giovanni De Luna a proposito di Aldo Garosci, quel progetto di
«rivoluzione democratica» in cui confluivano «il volontarismo e la
speranza, la tensione verso il futuro e l’insofferenza per il passato,
una visione non compiaciuta della nostra storia, il proposito di ri-
scattarne le “tare” ereditate dal Risorgimento attraverso l’impegno
e la dedizione delle minoranze eroiche; e poi ancora, il rifiuto di
ogni interpretazione economicistica e deterministica del marxi-
smo, l’adesione entusiasta ai nuovi fermenti idealistici dopo l’arida
stagione del positivismo». Apertamente esplicitato, o implicito,
non c’è dubbio che faccia parte del bagaglio ideale conservato e
nutrito da questi autori, ben oltre la conclusione dell’esperienza
azionista.

Nota bibliografica
Per ciò che riguarda Giorgio Bassani, cito il primo passo dalle Storie ferraresi
nell’edizione delle Opere, Mondadori, Milano 1998, p. 1718. La lettera alla
madre, ibi, pp. 957-958. L’intervista rilasciata all’Istituto Italiano di cultura
di New York negli anni sessanta è pubblicata in Poscritto a Giorgio Bassa-
ni, a cura di R. Antognini e R. Diacunescu Blumenfeld, Led, Milano 2011,
pp. 611-612. Quella a Claudio Varese è citata nel saggio di L. Bachelet, La
città sepolta sotto la neve. Narrazione e lirica nel carteggio Bassani-Varese, in
“Cahiers d’études italiennes”, Università di Grenoble, 26 (2018) (<https://
journals.openedition.org/cei/3846>). Per Fausto e Anna, si veda C. Casso-
la, Racconti e romanzi, Mondadori, Milano 2007, pp. 464 e 466; il beffardo
giudizio di Calvino sullo scrittore toscano è in I. Calvino, I libri degli altri,
Einaudi, Torino 1991, p. 52. Per le testimonianze di Cancogni, rinvio a M.
Cancogni, Il racconto più lungo: storia della mia vita. Conversazione con Gio-
vanni Capecchi, Interlinea, Novara 2014, p. 150. L’intervista con Nello Ajello
per “la Repubblica” è del 21 settembre 1996. La recensione di Montale ai
Letteratura e azionismo 167

Dubliners è in E. Montale, Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, a cura di G.


Zampa, Mondadori, Milano 1996, t. I, pp. 143-150. Il fascismo e la letteratura
e la recensione a Carlo Levi sono in Autodafé: si veda E. Montale, Il secondo
mestiere. Arte, musica, società, a cura di G. Zampa, Mondadori, Milano 1996,
pp. 18 e 33-37. Cito la lettera a Silvio Guarnieri dall’inserto settimanale “Mer-
curio” (“la Repubblica”), 22 settembre 1990. Si veda inoltre C. Levi, Cristo si
è fermato a Eboli, Einaudi, Torino 1947, pp. 224-228 e I piccoli maestri in L.
Meneghello, Opere scelte, Mondadori, Milano 2006, pp. 380, 344, 509-510,
420. Per Nuto Revelli il riferimento è a Il mondo dei vinti, Einaudi, Torino
1977, p. XIX. Per G. De Luna rinvio a Carlo Levi e Aldo Garosci: i percorsi
dell’amicizia, in Gli anni di Parigi. Carlo Levi e i fuoriusciti, 1926-1933, Comi-
tato nazionale per le celebrazioni di Carlo Levi, Ministero per i Beni e le Atti-
vità culturali, Savigliano 2003, pp. 13-23. Il riferimento di Garosci a Giansiro
Ferrata è in A. Garosci, Anni di Torino anni di Parigi, a cura di M. Bertini,
Nuova editrice Berti, Parma 2019, pp. 73-74.

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