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Gli uomini politici professionali costituiscono un gruppetto d’una scarsa decina di migliaia di
persone che tengono a soqquadro l’Italia, litigando intorno a cinquecento posti di deputato, quasi
altrettanti di senatore, circa mille altri cadreghini e canonicati diversi... Noi non abbiamo bisogno
che d’essere amministrati: e quindi ci occorrono degli amministratori, non dei politici». Così
scriveva Guglielmo Giannini, fondatore dell’Uomo qualunque.
In questo libro, vengono ricostruiti lo straordinario successo e le mille contraddizioni del
movimento politico che per primo in Italia, tra il ’46 e il ’48 si scagliò contro tutti i partiti e le
ideologie.
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Sandro Setta (L’Aquila, 1944) è ricercatore di Storia contemporanea presso la facoltà di Scienze
politiche dell’Università «La Sapienza» di Roma e insegna la stessa materia presso la facoltà di
Sociologia della medesima università. Tra le sue pubblicazioni: «Croce, il liberalismo e l’Italia
postfascista» (Roma 1979), «Profughi di lusso. Industriali e manager di Stato dal fascismo
all’epurazione mancata» (Milano 1993), «Mussolini» (Teramo 1993), e, per i nostri tipi, «La Destra
nell’Italia del dopoguerra» (1995).

Scansione, ocr e conversione a cura di Natjus

Ladri di Biblioteche

BIBLIOTECA UNIVERSALE LATERZA 427

© 1975, 1995, Gius. Laterza & Figli


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In «Storia e Società»
Prima edizione 1975
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Nella «Biblioteca Universale Laterza» con una nuova introduzione
Prima edizione 1995
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Proprietà letteraria riservata


Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari
Sandro Setta

L’UOMO QUALUNQUE
1944-1948

Editori Laterza 1995

a Franca

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«Il buono storico somiglia all’orco della fiaba: là dove fiuta carne umana, là sa che è la sua preda».
(Marc Bloch, Apologia della storia o Mestiere di storico, Einaudi, Torino 1969, p. 41.)
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INTRODUZIONE
Nel riproporre ai lettori, non senza qualche emozione, quello che è stato, venti anni or sono, il
primo risultato del mio impegno storiografico, mi accorgo di non dover inserire molte osservazioni
in questa presentazione. Dall’ormai lontano 1975 ad oggi non sono apparse, infatti, opere che
proponessero un’interpretazione diversa dalla mia del fenomeno qualunquismo, né sono usciti, da
archivi pubblici o privati, nuovi documenti idonei a confutare singoli aspetti della sua ricostruzione.
Lo strepitoso successo del movimento di Guglielmo Giannini rivelò, nell’immediato secondo
dopoguerra, l’esistenza di un «paese reale» molto meno avanzato (oggi diremmo «progressista») di
quanto pensassero molti leaders dell’antifascismo. La maggioranza dei ceti medi, specie nell’Italia
meridionale, era poco sensibile, se non ostile, ai valori dell’antifascismo e della Resistenza; subiva
invece ancora, in misura notevole, quelli dell’ordine e dell’antisocialismo, in un contesto
psicologico infarcito di disprezzo per la politica ed i suoi uomini. Un disprezzo che rappresenta una
costante del nostro carattere nazionale, ma che rifiorì con virulenza, subito dopo il fascismo, a causa
dei gravi errori commessi dalla classe politica antifascista. Giannini fu, in quegli anni, straordinario
nell’intuire il malessere dell’opinione pubblica moderata e nel rendersene interprete col suo
originale messaggio.
Ogni fenomeno storico è essenzialmente espressione del suo tempo e le analogie con il passato
possono essere tentate soltanto con grande cautela. Altro discorso è la suggestione che ancora oggi
possono esercitare idee e slogans nati in un contesto diverso. E' facile, dinnanzi alle ceneri di una
prima repubblica crollata sotto il peso della corruzione della sua classe politica, trovare attuali le
cocenti invettive di Giannini contro gli «uomini politici professionali» di ogni colore, intenti
soltanto a saziare la propria fame di potere sulla pelle dei cittadini. Più che mai attuali possono
apparire, anche, le sue richieste di uno «Stato amministrativo» guidato da un «buon ragioniere», che
si traducono nella tendenza a sostituire, nei posti di responsabilità, i politici con i tecnici ed in
quella a ridimensionare l’interventismo statale: donde la presente ondata di privatizzazioni in nome
del ritorno al liberismo. La caduta delle contrapposizioni ideologiche, in tutto il mondo, sembra
infine dar ragione ad uno dei più vivaci argomenti polemici del commediografo, che definì semplici
«fesserie» «la sinistra e la destra, il fascismo, l’antifascismo, il comunismo, l’anticomunismo»...
Gridò queste sue convinzioni in un’Italia dominata dalla guerra fredda, e il popolo qualunquista lo
abbandonò in massa, attratto dalla crociata anticomunista della DC. Come lo abbandonò la
Confindustria, un tempo prodiga di finanziamenti per il Fronte dell’Uomo Qualunque. Anche
l’impari battaglia di Giannini contro gli industriali che pretendevano di imporgli la loro linea
politica appare di una attualità sconcertante, che mostra l’estrema dignità di un personaggio atipico
nella nostra storia.
Il recente successo, nelle elezioni politiche del 27-28 marzo 1994, della coalizione di centro-destra
denominata «Polo delle libertà» presenta, per concludere, evidenti analogie con il passato descritto
in questo libro. E' avvenuto infatti, come nel 1946 ma in misura ben più massiccia, uno spostamento
a destra dell’elettorato moderato ai danni del centro occupato in primo luogo dalla DC. Ma il
successo di Giannini fu determinato essenzialmente dall’istanza anticomunista di quell’elettorato,
che si sentiva tradito dalla politica degasperiana di collaborazione con comunisti e socialisti: il
disprezzo per i politici corrotti era la forma con cui si manifestava tale istanza. Oggi, come
accennato, le ideologie hanno perduto molta della loro forza di attrazione, pur non essendo ancora
giunti alla generalizzazione di quell’indifferentismo ideologico che costituisce uno degli aspetti più
deteriori della mentalità qualunquista.
Il significato ultimo del terremoto elettorale del marzo 1994 è stato proprio quello, ci sembra, di una
rivolta «qualunquista» contro la classe politica di «Tangentopoli». Una rivolta che si è lasciata
sedurre, per disperazione, dalla lotta contro la partitocrazia propugnata dai movimenti di Bossi, Fini
e Berlusconi.
Lasciamo al lettore la riflessione sulle altre possibili analogie tra questi movimenti e quello di
Giannini, come il giudizio, ovviamente, sulla positività o meno del loro attuale successo. Mi si
consenta tuttavia di ribadire, venti anni dopo, una convinzione ben presente nelle pagine di questo
libro. Con tutte le giustificazioni che può avere il suo essere conseguenza del «malgoverno», il
qualunquismo come atteggiamento di indiscriminato disprezzo per la politica ed i suoi uomini
rappresenta una realtà fortemente negativa per il nostro sistema democratico.
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Sandro Setta
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Roma, gennaio 1995
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AGGIORNAMENTI BIBLIOGRAFICI ESSENZIALI *


Paul Ginsborg, Storia d'Italia dal dopoguerra ad oggi. Società e politica (1948-1988), Einaudi,
Torino 1989.
Pietro Scoppola, La repubblica dei partiti. Profilo storico della democrazia in Italia (1945-1990), Il
Mulino, Bologna 1991.
Silvio Lanaro, Storia dell' Italia repubblicana. Dalla fine della guerra agli anni novanta, Marsilio,
Venezia 1992.
Aurelio Lepre, Storia della prima repubblica. L'Italia dal 1942 al 1992, Il Mulino, Bologna 1993.
Simona Colarizi, Storia dei partiti nell'Italia repubblicana, Laterza, Roma-Bari 1994.
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Sui partiti di destra:
Percy A. Allum, Potere e società a Napoli nel dopoguerra, Einaudi, Torino 1975.
Pietro Zullino, Il Comandante. La vita inimitabile di Achille Lauro, Sugamo, Milano 1976.
Sandro Setta, Croce il liberalismo e l'Italia postfascista, Bonacci, Roma 1979.
R. Chiarini - P. Corsini, Da Salò a Piazza della Loggia, Angeli, Milano 1985.
Paolo Ignazi, Il polo escluso. Profilo del Movimento Sociale Italiano, Il Mulino, Bologna 1989.
Pierluigi Totaro, Il potere di Lauro, Laveglia, Salerno 1990.
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* Data la segnalata mancanza di ulteriori studi sull’argomento del presente libro, ci limitiamo a
indicare le principali storie generali sul periodo (ricche di bibliografia sui singoli aspetti di esso) e
gli studi più significativi apparsi, sulle destre, dal 1975 ad oggi.
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AVVERTENZA 1975
Ringrazio, per l'incoraggiamento ricevuto durante i primi passi della mia ricerca, il prof. Giuseppe
Galasso; per i colloqui concessimi la on. Olga Giannini e il dott. Igino Lazzari, e per aver messo a
mia disposizione il suo lavoro il dott. Manlio Lo Vecchio-Musti. Per la valutazione del libro e per i
consigli offertimi ringrazio infine il prof. Carlo Vallauri, il prof. Renzo De Felice, il prof. Franco
Catalano, il dott. Lamberto Mercuri e il dott. Antonio Parisella.
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S. S.
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In campo storiografico mancano, come è noto, contributi monografici sull’argomento del presente
studio, oggetto invece di ricostruzioni giornalistiche (cfr. G. Pallotta, Il qualunquismo e l’avventura
di Guglielmo Giannini, Bompiani, Milano 1972 e Μ. Del Bosco, Guglielmo Giannini e «L’Uomo
Qualunque». Storia e politica incredibile e vera, «Il Mondo», 18 aprile-9 maggio 1971, quattro
puntate).
Per la mia ricerca ho perciò utilizzato essenzialmente (oltre alle memorie di Giannini e al
dattiloscritto di Μ. Lo Vecchio-Musti, Il qualunquismo. Cronache di un nuovo movimento politico,
Roma, febbraio-giugno 1950, pp. 1-229 e appendici), la stampa dell’epoca, in particolare «L’Uomo
qualunque» e «Il Buonsenso».
Ho cercato di inquadrare, infine, la storia del Fronte dell’Uomo Qualunque nel più ampio contesto
del secondo dopoguerra, sulla cui problematica la bibliografia è, come noto, molto vasta. In
quest’ambito mi sono limitato tuttavia a citare, nelle note, soltanto alcuni testi, evitando una
elencazione facilmente accessibile in studi specifici.
Dei quotidiani che, a cominciare da «Il Buonsenso», si stampavano in più edizioni, ho utilizzato
l’edizione di Roma. Le Vespe riportate nel testo senza la corrispettiva nota si intendono tratte da
«L’Uomo qualunque».
Parte delle fotografie delle vignette sono state eseguite dallo studio fotografico di Carmelo Catania,
Roma.
L’UOMO QUALUNQUE 1944-1948

I. ANTIFASCISMO E QUALUNQUISMO

Il primo numero dell’«Uomo qualunque».


Mentre l’Italia settentrionale era ancora devastata dalla guerra e in quella liberata la vita cercava di
riprendere, tra difficoltà di ogni genere, il suo ritmo normale, un nuovo settimanale veniva diffuso a
Roma il 27 dicembre 1944. Dalla vignetta della testata — che, dietro una enorme «U» in rosso,
iniziale di «Uomo qualunque», presentava un povero ometto sotto un torchio manovrato da una
serie di anonime mani e dalle cui tasche saltavano fuori, nella stretta, numerose monete — si poteva
pensare a un foglio umoristico, ma una nota in quarta pagina avvertiva del contrario:
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Questo non è un giornale umoristico, pur pubblicando caricature e vignette; non è un giornale
«pesante», pur volendo onorarsi della collaborazione di grandi scrittori su argomenti di drammatico
interesse; non è un giornale frivolo, pur non rinunziando alle pettegole Vespe. È il giornale
dell’Uomo Qualunque, stufo di tutti, il cui solo ardente desiderio è che nessuno gli rompa più le
scatole.
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Questa originale presentazione, il cui senso veniva riassunto da un Abbasso tutti! posto in prima
pagina (era un altro ometto a scriverlo su di un muro, dopo vari abbozzi di evviva alla monarchia,
alla repubblica, ai vari partiti), trovava un’ampia illustrazione in un lungo articolo di fondo
(L'Uomo Qualunque) di Guglielmo Giannini, che oltre ad essere il direttore del giornale era, «per
una buona metà» 1, l’autore degli scritti del primo numero:
(da «L’Uomo qualunque», 3 ottobre 1945)
IMM
Questo giornale non è organo di nessun partito. Le vere forze politiche italiane non si sono ancora
rivelate, come non si sono ancora rivelate le ben più importanti e decisive forze politiche europee.
Non esistono partiti, ma programmi, ed anche abbozzi di programmi sui quali uomini volenterosi
operano per formare dei partiti. Quei programmi, son tutti affascinanti; le idee dalle quali nascono
son tutte e indubbiamente nobili; i propositi in cui si affermano e si concretano appariscono tutti
indistintamente degni di lode. Libertà, giustizia, prosperità, sono generosamente promesse da tutti;
e, in teoria, non c’è che l’imbarazzo della scelta del più virtuoso fra tanti partiti tutti egualmente
perfetti. In pratica assistiamo all’ignobile spettacolo di un arrivismo spudorato, al brulicare d’una
verminaia d’ambizioni, ad una rissa feroce per conquistare i posti di comando dai quali poter fare il
proprio comodo ed i propri affari. Questa rissa, cui 1’«Uomo Qualunque» non partecipa, si svolge
tra gli uomini politici professionali che vivono di politica, che non sanno far altro che politica, e
che, per ragioni di pentola, hanno trasformato la politica in mestiere. Gli uomini politici
professionali costituiscono un gruppetto d’una scarsa decina di migliaia di persone che tengono a
soqquadro l’Italia litigando intorno a cinquecento posti di deputato, quasi altrettanti di senatore,
circa mille altri cadreghini e canonicati diversi, che vanno da quello di primo ministro a quello di
sindaco di centro importante, dall’incarico di ambasciatore alla sinecura di commissario più o meno
straordinario. A causa della guerra fra questi diecimila uomini l’Italia non ha pace: perché alcuni di
quei professionisti della politica potessero diventar ministri o altro, milioni d’italiani sono morti: ed
altri moltissimi dovrebbero ancora morire perché un altro paio di dozzine di politicanti ottenga
onori e prebende. La sproporzione è troppo forte. Da una parte 45 milioni di esseri umani, dall’altra
10.000 vociatori, scrivitori, sfruttatori, iettatori. L’enorme massa dei primi non deve più soffrire per
colpa ed a causa della infima minoranza dei secondi [...]. Il fascismo, che ci ha oppressi per
ventidue anni, era una minoranza. Lo abbiamo combattuto con la resistenza passiva e lo abbiamo
logorato, tanto che è andato in frantumi al primo colpo serio che gli anglo-americani gli hanno
vibrato. L’antifascismo e il fuoruscitismo hanno fatto enormemente meno. Salvo la modesta
aliquota di illusi e di sinceri che non manca mai in nessun movimento politico — non è mancata e
non manca nemmeno al fascismo per cui c’è ancora qualcuno che combatte o si fa fucilare —
antifascisti e fuorusciti erano e sono costituiti da «uomini politici professionali» avversari e nemici
degli «uomini politici professionali» che costituivano il fascismo. Dalle prigioni, dai luoghi di
confino, dai grandi alberghi o dalle povere soffitte in terra straniera, questa minoranza non ha fatto,
contro il fascismo, che una parte infinitesimale di quanto ha voluto e saputo fare l’Uomo Qualunque
rimasto sotto il concreto giogo della tirannide fascista. Ritornati alla vita pubblica d’Italia con la
vittoria militare anglo-americana come le mosche tornano alla stalla sulle corna dei buoi,
antifascismo e fuoruscitismo pretendono, come il fascismo, il diritto di fare una epurazione = ossia
di sopprimere gli u.p.p. [uomini politici professionali] concorrenti e chiunque altro sia d’impaccio o
fastidio. Contestiamo rivendicazione e pretesa: il fascismo ha offeso e ferito tutta la massa degli
italiani, non soltanto gli antifascisti e i fuorusciti. Sono i 45 milioni di esseri umani che hanno il
diritto di fare giustizia, non una più o meno numerosa quota parte dei 10.000 politicanti ansiosi di
rifarsi delle delusioni subite e delle occasioni mancate [...]. Dal 1898, ossia da quasi mezzo secolo,
nel nostro paese si vive una vita d’inferno a causa della gelosia di mestiere fra i politici di
professione. Rivolte, attentati, scioperi, agitazioni, inflazione industriale, caro-vita, interventismo,
crisi del dopo-guerra, speculazione sulla crisi, fascismo, aventinismo, fuoruscitismo, dittatura,
guerre per consolidare la dittatura, catastrofe per liberarcene, sono, per tutti gli italiani, conseguenze
del rabbioso litigio fra i 10.000 pettegoli. Siamo finalmente rovinati: che cos’altro vogliono da noi
gli autori di tutti i nostri mali? Che sopportiamo altri esperimenti, che altri pazzi provino sulle
nostre carni le loro teorie per vedere se son buone o cattive come se si trattasse di fare una sigaretta
con le cicche, che tanto, in caso d’insuccesso, si possono fumare nella pipa? Noi non abbiamo
bisogno che d’essere amministrati: e quindi ci occorrono degli amministratori, non dei politici. Ci
vogliono strade, mezzi di trasporto, viveri, una moneta modesta ma seria, una politica rispettabile
che ci renda sicuri dello scarso bene rimasto, e ci incoraggi a crearne dell’altro liberandoci dal
timore di potere esserne spogliati da nuovi brigantaggi di stato-partito. Per far questo basta un buon
ragioniere: non occorrono né Bonomi né Croce né Selvaggi né Nenni, né il pio Togliatti né l’accorto
De Gasperi. Un buon ragioniere che entri in carica il primo di gennaio, che se ne vada al 31 di
dicembre, che non sia rieleggibile per nessuna ragione. Siamo disposti a chiamarlo anche re e
imperatore: a patto che cambi ogni anno e che, una volta scaduto dalla carica, non possa ritornarvi
almeno per altri cinque [...]. Ecco, nel minimo delle pesate parole, il nostro pesato pensiero, che
fondatamente riteniamo condiviso dalla maggiore e migliore parte degli italiani e non italiani. E,
certamente, dei fatti importanti lo seguiranno.
(da «L’Uomo qualunque», 10 gennaio 1945)
IMM
In quest’articolo programmatico dell’«Uomo qualunque» si racchiudeva il nucleo fondamentale
della «nuova» filosofia politica che Guglielmo Giannini sosterrà di aver scoperto colmando il vuoto
in cui, prima di lui, si trovava il pensiero italiano, ma, soprattutto, la prima pericolosa contestazione
della classe politica antifascista giunta al potere dopo il crollo del regime mussoliniano, destinata ad
influire in misura importante sulle vicende dell’Italia dell’immediato secondo dopoguerra.

L'antifascismo al potere: la rivoluzione impossibile e l'Italia nuova.


Le accuse che Giannini lanciava, dalle colonne del suo settimanale, ai professionisti politici
antifascisti, per nulla diversi, a suo avviso, in malcostume e velleità dittatoriali, dai loro
predecessori fascisti, ci riconducono al particolare clima dell’Italia degli anni 1944-45.
L’aspetto più importante della situazione politica interna era allora rappresentato dall’unità dei sei
partiti antifascisti del Cln. Questa unità era favorita dal comune sforzo perché il contributo italiano
alla lotta contro il nazifascismo fosse quanto più ampio possibile, per cui i partiti si erano impegnati
«a risolvere dentro il governo di cui fanno parte» — come aveva puntualizzato il consiglio dei
ministri in una dichiarazione del 26 settembre ’44 2 — «i problemi che credono necessario
affrontare, astenendosi da quanto può turbare quest’opera che deve essere il prodotto della loro
volontà concorde». Altro motivo di azione comune era costituito dalla diffusa consapevolezza
dell’urgenza di ricostruire, sulle rovine provocate dal fascismo, una società rinnovata nello spirito e
nelle strutture. C’erano differenze notevoli, naturalmente, tra i programmi socialisti di una
distruzione ab imis dello Stato borghese 3 e quelli liberali e cattolici, miranti solo ad una sua, sia
pure incisiva, riforma. Ma su alcuni temi basilari, quali l’abbattimento del prepotere delle forze
capitalistiche (l’eliminazione cioè da parte dello Stato — secondo le richieste contenute nelle Idee
ricostruttive della Democrazia cristiana — di «quelle concentrazioni industriali e finanziarie che
sono creazioni artificiose dell’imperialismo economico», e la modifica delle leggi «che hanno
favorito fin qui l’accentramento in poche mani dei mezzi di produzione e della ricchezza» 4),
esisteva un’ampia convergenza. Vi si ritrovavano anche i liberali, che per bocca di Croce
dichiaravano che il loro partito non voleva essere giudicato un «così detto partito moderato, che
tenga fermo superstiziosamente a taluni capisaldi economici» 5, giacché «molto è da fare o da rifare
nella produzione e distribuzione della ricchezza e nell’ordinamento del lavoro, e tutto in modi che
non saranno più quelli di prima»6.
In quegli anni, come ricorda Piccardi, «anche [ nei ] settori più tradizionalistici e prudenti» era
diffusa la convinzione «della necessità di un nuovo assetto, ispirato a quell’impulso di
rinnovamento che appariva come una fatale tendenza dei tempi» 7. «Fatale» sembrava addirittura a
molti, e non solo a sinistra, il tramonto dell’era borghese e l’avvento di quella proletaria. Fra questi
vi era Luigi Sturzo, che scriverà su «Il Popolo»:
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È certo che in Europa la classe operaia, e per essa i capi dei relativi partiti (che spesso non sono
operai) hanno rimpiazzato o vanno rimpiazzando la classe politica dell’anteguerra, che era la
borghesia capitalistica, conservatrice, burocratica e intellettuale. Il fatto ha il simile a quello che si
iniziò con la rivoluzione francese, della borghesia che sostituì nobiltà e clero 8.
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L’Italia stava vivendo ore delicate e importanti, e la comune «ansia progressista e innovativa» 9 degli
uomini che ne erano alla guida lasciava sperare che fosse giunta «l’occasione storica» 10 per
infondere un contenuto sociale alla nuova rivoluzione nazionale: inserire cioè le masse popolari
nella vita dello Stato, realizzando quello che il Risorgimento aveva trascurato, l’Italia liberale
ostacolato, la dittatura soffocato.
Su queste speranze, soprattutto, Togliatti aveva per buona parte impostato, nell'aprile del 1944, la
cosiddetta «svolta di Salerno». La decisione del leader comunista di deporre ogni intransigentismo
antimonarchico e di accettare di entrare a far parte del governo Badoglio veniva a sbloccare la
situazione politica interna, che si dibatteva in una grave impasse, determinata, da un lato, dal netto
rifiuto dei partiti di collaborare con il «re fascista», dall’altro, dall’ostinazione di Vittorio Emanuele
nel non voler cedere alcuna sua prerogativa.
Togliatti era giunto alla «svolta» dopo una lucida analisi della situazione internazionale e una
realistica presa di coscienza dei pesanti condizionamenti che essa poneva alla costruzione, in Italia,
di un nuovo tipo di società. Mentre la guerra era ancora in pieno svolgimento, infatti, le grandi
potenze stavano già provvedendo a stabilire il futuro assetto mondiale, impostandolo su quella
divisione in sfere d’influenza che decretava la finis Europae, decaduta dal rango di centro
decisionale dei destini dell’umanità a semplice oggetto delle mire imperialistiche dei nuovi «ricchi»
della politica internazionale. L’Italia era entrata a far parte, fin dall’inizio, della sfera anglo-
americana, semplicemente perché, prima di tutto, erano gli alleati occidentali che la stavano
«liberando» e potevano opporre ai sovietici il brutale dato di fatto della conquista, sul quale si
baserà in concreto la spartizione dei vari paesi vinti. Che l’Italia dovesse rientrare nella sfera
d’influenza occidentale, verrà poi definitivamente ammesso dall’Unione sovietica nell’ottobre
1944, quando Churchill e Stalin, con la conferenza di Mosca, stabiliranno la rispettiva influenza sui
paesi balcanici11.
Dinanzi alla rapida avanzata dell’Armata rossa nei Balcani, Churchill, assillato dai vecchi timori di
un’eccessiva espansione del comunismo nel cuore del vecchio continente, si era infatti affrettato a
richiedere l’incontro con Stalin per fissare sulla carta i limiti territoriali al di là dei quali l’Urss
s’impegnasse a non spingersi. L’Italia si trovava «al di là» di tali limiti. Ma la sua soggezione
all’influenza anglo-americana aveva precise remore nelle solenni riaffermazioni del principio della
libertà dei popoli e della loro autodeterminazione che Churchill e Roosevelt avevano affidato alla
Carta atlantica e ribadito più volte, con l’impegno di lasciare arbitri gli italiani (mediante elezioni da
tenersi alla fine della guerra) dell’assetto sociale e istituzionale del paese. Anche se era quindi
prevedibile, come avvenne, che le potenze occidentali — e gli Stati Uniti in primo luogo — si
sarebbero servite di tutti i mezzi per influenzare la politica della «nuova» Italia (primo fra tutti la
sua totale dipendenza economica dagli aiuti stranieri per avviare la ricostruzione nazionale), un
margine di autonomia decisionale rimaneva alla classe politica antifascista e soprattutto al popolo
per le scelte fondamentali, purché queste avvenissero nella «legalità», cioè attraverso quel sistema
di democrazia parlamentare in cui «la maggioranza vince».
Risultava estremamente chiara invece l’impossibilità per le forze rivoluzionarie italiane di guidare il
paese all’insurrezione per una violenta trasformazione delle sue strutture in senso socialista: la
massiccia presenza militare degli eserciti anglo-americani avrebbe impedito un simile tentativo
soffocandolo probabilmente nel sangue, né esso sarebbe stato sostenuto, come dimostreranno gli
avvenimenti interni della Grecia, dall’Unione Sovietica, preoccupata, nell’ambito di una generale
politica del do ut des, di evitare avventure contrarie agli accordi presi sulle rispettive zone
d’influenza.
Era ben chiaro a Togliatti, dunque, che una politica ricalcante i vecchi schemi della lotta ad oltranza
contro la società borghese, mirante alla conquista violenta del potere nel nome della dittatura del
proletariato, sarebbe risultata sterile e anzi dannosa. Occorreva invece prendere atto della realtà
internazionale e percorrere senza indugio la via obbligata per l’affermazione di qualsivoglia
programma, quella del metodo democratico, secondo il quale la vittoria di un partito rivoluzionario
può essere decretata dal consenso della maggioranza del paese in libere competizioni elettorali. Con
la «svolta di Salerno», Togliatti aveva appunto spronato il Partito comunista e le sinistre a
percorrere una via fatta di collaborazione con i partiti borghesi e di accettazione del pluralismo
politico, di rinunzia ad immediati obbiettivi massimalistici («la classe operaia sa che non è suo
compito, oggi, lottare per l’instaurazione immediata di un regime socialista» 12) e di sacrificio dello
stesso linguaggio marxista-leninista, allo scopo di riuscire a farsi stabilmente accogliere nel novero
delle forze determinanti per l’avvenire democratico del paese, a stringere alleanze ed a svolgere in
tutte le direzioni azione di proselitismo per far convergere, attorno all’obbiettivo del rinnovamento
sociale, consensi maggioritari, a livello di classe politica come di «paese reale». Era in quest’ultimo
campo, in particolare, che il Partito comunista doveva compiere i maggiori sforzi. Togliatti era ben
cosciente della istintiva ostilità per il comunismo diffusa in vasti settori sociali, nel mondo
contadino e, specialmente, nei ceti medi. La rinuncia alla propaganda classista e rivoluzionaria, che
in passato aveva confinato le forze del socialismo in una sorta di ghetto operaistico, doveva appunto
facilitare l’opera di penetrazione anche in quei ceti senza l’adesione dei quali il rinnovamento della
società italiana appariva estremamente problematico.
Nell’ambito della sua strategia, Togliatti guardava innanzitutto alla Democrazia cristiana, ritenendo
naturale che essa si sarebbe rivelata un grande partito giacché poteva contare, tra l’altro, sui quadri
delle organizzazioni cattoliche che il fascismo
IMM

aveva lasciato nella legalità (oltre che, naturalmente, sull’appoggio della Chiesa e del suo apparato).
I cattolici, come il proletariato, erano stati tenuti ai margini dello Stato liberale, e contro di esso
nutrivano propositi di rivalsa, non nascondendo l’ambizione di conquistarlo allo «spirito cristiano».
Come base di massa per questa conquista la classe dirigente democristiana si rivolgeva ad un
mondo contadino, piccolo-borghese e anche operaio, che vedeva animato da una immensa sete di
giustizia, e ne faceva sue le istanze rilanciando un solidarismo cristiano che se non auspicava il
sovvertimento totale della società borghese ne confutava fermamente le storture. Con il suo ripudio
del massimalismo, con la sua «democrazia progressiva» che implicava un riformismo non dissimile
da quello dei cattolici13, Togliatti pensava che la costruzione di una nuova società sarebbe stata
possibile proprio con la collaborazione tra comunisti e cattolici, gli esclusi di un tempo. Di qui le
continue riaffermazioni di rispetto per la religione, i pressanti inviti a De Gasperi a realizzare un
«accordo politico concreto [...] allo scopo di creare la base di un programma di lotta contro le forze
reazionarie che già una volta hanno portato l’Italia alla rovina e sulla base di un programma di un
profondo rinnovamento politico e sociale» 14.
Anche da parte cattolica si mostrava un notevole interesse per la collaborazione prospettata da
Togliatti nel nome dei comuni ideali di rinnovamento 15. Lo confermava lo stesso leader
democristiano nel suo discorso alla prima assemblea dei cattolici romani dopo la liberazione della
capitale, tenuta al teatro Brancaccio il 24 luglio 1944 16. In tale occasione De Gasperi (che qualche
giorno dopo avrebbe definito la Dc «partito di riforme, meglio di rivoluzione») 17 esaltava il «genio»
di Stalin e le realizzazioni della Russia sovietica, «paese ove nessuno vive senza lavorare», e
definiva «simpatica» e «suggestiva» la «tendenza universalistica del comunismo russo». Accennava
agli inconvenienti della esperienza sovietica, alla «eccessiva coazione e [al]l’eccessivo intervento
dello Stato e della sua polizia» e ribadiva che «il nemico della libertà è il totalitarismo di Stato», ma
si dichiarava fiducioso che Togliatti avrebbe evitato tali inconvenienti in Italia, e proclamava che, al
di là di essi, rimanevano i comuni obbiettivi finali del comunismo e del cristianesimo, la comune
ansia di sollevazione degli oppressi e di eguaglianza tra gli uomini che era stata al centro della
predicazione di Cristo come di Marx, i due «proletari»:
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Se comunismo si intende nel senso generico che i beni della terra devono essere comunicati a tutti
[...] o che a tutti, secondo la formula americana, sia dato eguale accesso alla proprietà, questo
comunismo è anche nostro. In quanto alle applicazioni pratiche ci sarebbe da sperare che la
presenza di Togliatti in Italia potrebbe in ogni caso servire a evitare gli esperimenti negativi e gli
errori del sistema russo [...]. Collega Togliatti, abbiamo apprezzato, come meritava, la tua
dichiarazione di rispetto per la fede cattolica della maggioranza degli italiani [...]. La tolleranza
mutua nelle forme della civile convivenza che voi proponete e che noi volentieri accettiamo,
costituisce in confronto al passato un notevole progresso che potrà farci incontrare più spesso lungo
l’aspro cammino che dovremo percorrere per il riscatto del popolo italiano [...]. Un altro proletario,
anch’Egli israelita come Marx, duemila anni fa [...] fondò l'internazionale basata sulla
eguaglianza, sulla fraternità universale, sulla paternità di Dio [...].
@@@
I partiti antifascisti riuniti nel Cln avevano ottenuto un significativo successo dopo la Liberazione di
Roma (4 giugno 1944), quando, ignorando il reincarico dato dal luogotenente generale del regno,
Umberto, al dimissionario Badoglio, decidevano la costituzione di un governo «schiettamente
democratico, formato da elementi di sicura fede antifascista, e con tali poteri da poter condurre
energicamente la guerra antitedesca e da poter preparare la libera consultazione popolare per la
scelta delle forme istituzionali» 18, e ne affidavano l’incarico di presidente a Bonomi. Era questa,
come nota il Kogan, «una rivoluzione incruenta, che trasferiva l’effettiva autorità dello Stato dalla
Corona al Comitato Centrale di Liberazione Nazionale» 19, e che riceveva anche l’appoggio degli
Stati Uniti.
Il governo Bonomi nasceva dunque dalla unanime volontà dei sei partiti del Cln contro i tentativi
della monarchia di riaffermare, con Badoglio, la continuità del vecchio Stato: sintomatico era in tal
senso il fatto che solo il presidente Bonomi giurava fedeltà alla Corona, mentre gli altri ministri si
limitarono a giurare «nel loro onore di esercitare la loro funzione nell’interesse supremo della
Nazione e di non compiere, fino alla convocazione dell’Assemblea Costituente, atti che comunque
pregiudichino la soluzione della questione istituzionale»20.
In politica estera il governo Bonomi proseguiva nei tentativi, già avviati da Badoglio, di mitigare le
pesanti condizioni imposte all’Italia dall’armistizio e si sforzava, contemporaneamente, di
provvedere alla sopravvivenza materiale del paese e alle prime opere di ricostruzione del suo
tessuto economico. In questo campo, grazie soprattutto alla buona disposizione degli americani,
riuscì a cogliere qualche successo. Ma ben più complessa e irta di difficoltà si presentava l’azione
del governo sui problemi di politica interna, strettamente legati a quello più generale del
rinnovamento sociale: le funzioni dei Cln e l’epurazione, fra questi, impegneranno a lungo la classe
politica in dibattiti estenuanti e in prese di posizione contrastanti, determinando il sorgere delle
prime aperte voci di opposizione al cosiddetto «clima antifascista».

Il problema dei Cln.


Sorto a Roma dopo l’armistizio dell’8 settembre, il Cln si era presentato come il rappresentante
della volontà popolare antifascista, deciso a guidare la riscossa del paese e il rinnovamento delle sue
strutture. Nell’Italia liberata esso aveva accettato compromessi con la monarchia e con gli alleati,
ma in quella settentrionale la situazione era diversa. Negli uomini del Nord, lontani dalle pastoie
della vita politica ministeriale e immersi nella guerra di Liberazione, prevalevano le tendenze più
radicali. Nelle zone immediatamente liberate, il Cln Alta Italia si proclamò vero e proprio organo di
governo e, nell’attesa delle truppe alleate, assunse tutti i poteri, nominando funzionari (sindaci,
prefetti, etc.), provvedendo agli approvvigionamenti e all’ordine pubblico e, soprattutto, avviando
con propri decreti un’azione epurativa che mirava «alla defascistizzazione esemplare della dirigenza
economica, con particolare riguardo a quella industriale e finanziaria» 21.
Lo scopo del Cln Alta Italia, al di là delle tendenze che, nella base partigiana, premeranno in
direzione di una insurrezione antiborghese come logico completamento di quella antifascista, era di
realizzare, sotto la spinta della volontà popolare, un immediato rinnovamento delle strutture
attraverso provvedimenti come l’allontanamento dell’alta dirigenza industriale e l’istituzione nelle
fabbriche dei consigli di gestione, i quali, imposti come dato di fatto nelle province settentrionali,
avrebbero dovuto essere estesi dopo la Liberazione al resto del paese.
I poteri di governo attribuitisi dai Cln e il loro programma di rimanere anche per il futuro alla base
della struttura statale come «organi rappresentativi dell’autogoverno provinciale ed esecutivi del
governo centrale» non erano però condivisi, all’interno stesso della coalizione antifascista, dai
partiti liberale e democristiano. Soprattutto le direzioni centrali di questi partiti guardavano con
sospetto al rivoluzionarismo del Cln Alta Italia, e propendevano per una funzione limitata dei
comitati di liberazione e soprattutto provvisoria, destinata cioè ad esaurirsi con la liberazione di
tutto il territorio nazionale, che avrebbe dovuto vedere la restituzione di ogni potere decisionale alle
tradizionali autorità dello Stato. Le riserve democristiane e liberali sull’autoinvestitura dei Cln non
erano tuttavia manifestate, inizialmente, in maniera energica. Su di esse prevaleva il richiamo
all’unione nella comune lotta e ai comuni ideali antifascisti e progressisti: ancora nel settembre
1944 un ministro liberale, Carandini, affermava in un discorso al Brancaccio, a Roma, che liberali e
partiti di estrema sinistra erano accomunati da «una stessa aspirazione di giustizia» e definiva i
contrasti sulle funzioni dei Cln, come quelli sull’epurazione, «dissapori accidentali» 23.
Dove le riserve sull’azione dei Cln, e più in generale dei partiti dell’antifascismo, si facevano
sempre più pesanti, era purtroppo nel paese. Nell’Italia centro-meridionale, che non aveva vissuto
l’esperienza della lotta di Liberazione, l’instaurarsi al potere dei comitati a nominare funzionari,
emanare proclami, condurre e stimolare l’epurazione con l’intransigenza moralistica dei buoni e dei
puri contro i cattivi e gli impuri, generava in misura diffusa ostilità e rancori. Alla base del potere
dei Cln, come dei partiti che ne facevano parte, non v’era ancora una volontà popolare liberamente
espressasi attraverso elezioni. Ma, a parte questa carenza di legittimità (che nel Nord era sanata
dallo stato di fatto della lotta clandestina e della mancanza, nella sua guida, di altri centri di potere),
ostilità e rancori avevano una certa giustificazione nel fatto che, in non trascurabili casi,
l’antifascismo degli «uomini nuovi», come amavano presentarsi i membri dei Cln, non era così
adamantino come voleva apparire e, specie nei centri di provincia, serviva come paravento per
meschine prepotenze e vendette personali e come facile strumento di carrierismo e clientelismo.
La lotta politica, ripresa con veemenza dopo venti anni di silenzio, svelava aspetti sconcertanti di
corruzione e di avidità di potere; i partiti si contendevano le cariche pubbliche ostentando una
rappresentatività ottenuta con una gara al tesseramento indiscriminato, che favoriva il reinserimento
nella vita pubblica di elementi squalificati del prefascismo, e anche di ambienti mafiosi, di larghe
schiere di fascisti convertitisi all’ultim’ora agli «ideali della Resistenza» e per nulla vergognosi di
giudicare, nelle nuove vesti «giacobine», le «macchie fasciste» del prossimo.

IMM

L’opposizione qualunquista avrebbe generalizzato tali fenomeni di malcostume, ma un fondo di


verità senza dubbio esisteva nella sua critica, se perfino un meridionalista dal fiero antifascismo
come Guido Dorso metteva in guardia contro il trasformistico rifiorire nel Meridione, sotto le nuove
spoglie antifasciste, della vecchia e corrotta classe dirigente:
@
[... il] solito deputato meridionale, senza idee e senza dignità, che ha formato per tanti decenni la
salsa indispensabile di tutti i ministeri e che votava indifferentemente la fiducia a Giolitti ed a
Salandra, a Nitti ed a Mussolini, e che non sarebbe alieno oggi dal votare la fiducia anche a
Togliatti, se i comunisti fossero veramente disposti a lasciargli nelle mani il governo della provincia
d’origine24.
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IMM

Allo stesso primo congresso dei Cln dell'Alta Italia, svoltosi a Milano dal 31 agosto al 1 settembre
del 1945, il rappresentante della Democrazia cristiana, Brusasca, sarebbe stato costretto a
confessare:
@
Purtroppo all’opera di epurazione si oppone una circostanza sulla quale dobbiamo soffermarci: nelle
nostre file si sono infiltrati troppi fascisti (applausi), cosicché si è visto tra l’altro nella Corte
d’Assise di un tribunale della Lombardia un pubblico ministero accusatore ex squadrista chiedere la
pena di morte per un suo compagno di squadrismo (risa, commenti). Di questi fatti non c’è solo
quello che vi ho citato. Non tutti sono così gravi, ma sono tali e tanti da creare un profondo disagio
nel pubblico, che giustamente chiede come possiamo fare seriamente l’epurazione se non
cominciamo ad epurare noi stessi 25.
@@@

La politica epurativa.
Sulla necessità di una epurazione dei responsabili e complici della dittatura, tutte le forze politiche
erano d’accordo; le differenze esistevano sul modo d’intenderne l’estensione e gli obbiettivi finali.
Punire i responsabili del fascismo significava infatti per alcuni punire innanzitutto quell’alta
borghesia capitalistica che del fascismo era stata sostenitrice, e quindi abbatterne la tradizionale
egemonia; l’epurazione era cioè considerata come lo strumento più immediato per attuare un
rinnovamento radicale dal chiaro contenuto classista, come invocava Nenni sull'«Avanti!»:
@
Colpire in alto [...] e cominciare dalla oligarchia industriale [...]. Noi predichiamo non l’odio alle
persone né alla classe dei ricchi, ma la urgente necessità di una riforma sociale che a base
dell’umano consorzio ponga la proprietà collettiva [...]. Che varrebbe mutare gli uomini se il
sistema rimanesse lo stesso? L’epurazione noi [l’invochiamo] implacabile e giusta nell’esercito,
nella polizia, nella magistratura, negli alti ranghi dell’amministrazione statale, dove è urgente far
passare una corrente di aria nuova e pura ed eliminare gli uomini che per aver servito con zelo la
dittatura fascista, non possono servire la democrazia che rinasce. Ma vi è un settore in cui
l’epurazione ci appare ancora più urgente, ed è quello produttivo. Secondo la legge del moderno
capitalismo, anzi del supercapitalismo di cui il fascismo è stata la espressione politica, questo
settore è controllato da pochi gruppi, ognuno dei quali è dominato da uno o pochi uomini, più
potenti dei ministri, dei generali, dei direttori di pubblica sicurezza [...]. Se non si colpisce in alto, se
non si strappa dalle mani di venti o cinquanta persone la potenza che deriva loro dal monopolio
della ricchezza, l’epurazione sarà in definitiva una burla e la democrazia una lustra 26.
@@@
Molto più ristretto doveva essere invece il campo d’azione dell’epurazione per i democristiani e i
liberali: essa non doveva essere «classista» ed avere come obbiettivo finale quello della
«soppressione o sostituzione della classe dirigente italiana» 27, ma doveva solo mirare a colpire le
più gravi responsabilità individuali, depurando così nelle sue strutture la società borghese, ma
lasciandola in vita nella sua essenza. Questi due opposti modi d’intendere l’epurazione saranno una
delle cause della contraddittorietà e inefficacia della sua applicazione pratica.
I primi provvedimenti epurativi erano stati presi dagli angloamericani, che nelle zone liberate
avevano iniziato, secondo il contenuto della Dichiarazione sull’Italia formulata a Mosca
nell’ottobre 1943, a rimuovere dall’amministrazione e dalle istituzioni di carattere pubblico «tutti
gli elementi fascisti o filofascisti»28. Molto debole era stata, secondo il principio di non
abbandonarsi a nessuna «recriminazione» del passato, l’azione epurativa dei governi Badoglio, e
solo dietro la costante pressione dei partiti antifascisti si era ottenuta l’emanazione di una prima
serie di provvedimenti. Un forte impulso all’epurazione fu dato dal governo Bonomi, il cui decreto
del 27 luglio 1944 costituirà la legge fondamentale sulle sanzioni contro il fascismo. Esso
prevedeva in otto articoli la punizione dei delitti fascisti, in quindici l’epurazione della pubblica
amministrazione, in quattordici l’avocazione dei profitti di regime, in altri sei l’istituzione dell’Alto
Commissariato per le sanzioni contro il fascismo 29. La legge del 27 luglio ’44 subì numerose
modifiche, con una vasta congerie di disposizioni legislative 30 che non è certo il caso di richiamare.
Quello che in questa sede interessa rilevare è invece il risultato complessivo dell’applicazione delle
sanzioni previste.
Già nel campo dei procedimenti penali per la punizione dei delitti fascisti si andrà manifestando
(accanto a condanne esemplari, specialmente per il reato di collaborazionismo) lo spiacevole
fenomeno del salvataggio di numerosi gerarchi e della punizione in massa di semplici gregari,
impossibilitati a fornirsi, come i primi, di patenti di doppio gioco rilasciate da testimoni
compiacenti, o di veri e propri «brevetti di partigiano» 31. Ma dove tale fenomeno assumerà
dimensioni macroscopiche sarà nel campo dell’epurazione della pubblica amministrazione, il più
importante per il numero delle persone coinvolte. I casi in cui si poteva essere dispensati dal
servizio erano troppo numerosi, andando dalla «faziosità fascista» alla «incapacità» e al
«malcostume», dalla «nomina per il favore del partito o dei gerarchi» alla «partecipazione attiva
alla vita politica del fascismo»: praticamente quasi tutti gli italiani potevano incorrere
nell’epurazione, giacché erano pochi coloro che in vent’anni erano rimasti immuni da ogni
compromissione con il regime, tanto più quando tale compromissione era vista in atti (come la
«partecipazione attiva alla vita politica del fascismo») che erano stati indispensabili per mantenere
al sicuro la propria posizione di lavoro. Inoltre, nella rete epurativa, abilmente elusa a via di
complicità e omertà, appoggi degli alleati, dei circoli vaticani, di un po’ tutti i partiti (a seconda del
nuovo credo politico ostentato), dalla massa degli alti burocrati, cadranno a migliaia i «pesci
piccoli», impossibilitati o incapaci di procurarsi simili difese. Anche nel campo dell’avocazione dei
profitti di regime (come, più tardi, in quello dell’epurazione della dirigenza industriale), il bilancio
si rivelerà fallimentare, per la forte capacità di resistenza rivelata dagli ambienti economici, che ben
presto torneranno in possesso dei beni e delle aziende sottoposte a sequestro. Del resto, come
scriveva l’alto commissario Sforza nel gennaio 1945, si era proceduto con estrema cautela per
«evitare ingiustizie che potessero danneggiare l’economia pubblica e privata» 32, e su 3006
istruttorie per accertamenti di profitti di regime si erano avuti soltanto 334 sequestri 33.
Nella condanna degli sterili, oltreché immorali, risultati dell’epurazione (e in generale, come visto,
di tutte le sanzioni contro il fascismo), che stava colpendo solamente i deboli (facile preda dei livori
personali, che trovavano sfogo nella miserevole arma della denuncia anonima, altra piaga di quei
tempi)34, erano concordi tutte le forze politiche, dai liberali35 ai comunisti36.
@
Finora — dichiarava ancora Brusasca al primo congresso dei Cln dell’Alta Italia — sono stati
epurati gli stracci. L’epurazione ingombra i tavoli delle nostre commissioni con le pratiche dei
piccoli impiegati, degli usceri, delle pratiche di coloro che non hanno mezzi per difendersi o
protezioni da fare valere (applausi} mentre disgraziatamente tutti i veri e grandi responsabili, per
deficienza di legge e per ragioni intuitive, riescono ancora a sottrarsi alle sanzioni che li devono
inesorabilmente colpire37.
@@@
Il 15 gennaio 1945 «La Nazione del Popolo», organo del Comitato toscano di Liberazione nazionale
affermava:
@
Mille e mille commissioni e sottocommissioni di epurazione sono all’opera e centinaia di migliaia
di schede personali e di questionari si riempiono di chiare domande e di non chiare risposte. A
barche si accumulano le istruttorie, i fascicoli personali, i memoriali, gli attestati di buona condotta,
le copie notarili dei certificati di patriota [...]. Bisogna smetterla di prendersela quasi con
predilezione con i manovali delle ferrovie, con i cantonieri stradali, con gli impiegatucci del
ministero: il numero vastissimo dei sospesi dal lavoro non ci soddisfa, né chiediamo di ampliarlo.
Non è il numero delle vittime che chiediamo, ma la qualità di esse. Non dateci trecento-mila
disoccupati in più: dateci tremila punizioni esemplari [...]. Colpire inesorabilmente in alto, indulgere
in basso38.
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IMM
(da «L’Uomo qualunque», 29 agosto 1945)
Della necessità di colpire in alto e indulgere in basso si rendevano conto tutti, da Sforza 39 a Nenni
da Togliatti41 a Parri42. Ma, in concreto, l’epurazione continuerà a seguire la strada opposta, in un
clima di ambigue lotte sotterranee, contraddizioni e polemiche. La più clamorosa si era avuta nel
novembre 1944: quando due ministri liberali, Soleri e De Courten, avevano minacciato le
dimissioni se fossero stati epurati, secondo le intenzioni dell’alto commissario Scoccimarro, alcuni
alti funzionari dei ministeri del Tesoro e della Marina, Bonomi, solidale con i due ministri, aveva
rassegnato le dimissioni nelle mani del Luogotenente, restituendogli in tal modo quell’iniziativa
avocatagli nel giugno dal Cln.
L’epurazione si ridusse, in conclusione, come aveva paventato Nenni, a una «burla», non solo
mancando gli obbiettivi antiborghesi che ad essa avevano attribuito le sinistre, ma provocando nel
paese sconvolto dalle sue ingiustizie una crescente opposizione alla coalizione antifascista,
opposizione facilmente strumentalizzabile in direzione reazionaria, come aveva ammonito
Brusasca:
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Non possiamo giungere alla Costituente se centinaia di migliaia di italiani dovessero continuare a
vivere nell’attuale stato d’animo d’incertezza e di terrore: non bisogna permettere che da un nostro
errore o da un nostro eccessivo rigore, non necessario alla giustizia, la reazione attinga le forze che
finora ad essa mancano 43.
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I ceti medi dopo il fascismo.


Di errori capaci di provocare nel paese una vasta ondata di dissensi più o meno solcati da venature
reazionarie, la classe politica antifascista al potere ne stava in realtà commettendo a sufficienza. Un
equivoco fondamentale coinvolgeva pensiero e azione di tutti i partiti, quello di ritenere
profondamente radicato nel popolo italiano lo stesso spirito antifascista e la stessa volontà di
rinnovamento che accomunava, a livello di élites, comunisti, cattolici e liberali. L’epurazione fu
appunto l’indice più evidente di tale equivoco. Essa era stata concepita in termini molto ampi nella
convinzione che, ad eccezione di ristrette minoranze nocive, la stragrande maggioranza degli
italiani non avrebbe avuto nulla da temere da essa, e l’avrebbe anzi accolta con entusiasmo, come
appagamento della propria sete di vendetta contro la dittatura e i suoi complici. Questa sete, se
indubbiamente esisteva nelle masse operaie e anche borghesi impegnate nella lotta di Liberazione, e
nei settori che guardavano a questa lotta come all’occasione storica per costruire una società nuova,
era estranea a una vasta opinione pubblica, quella che aveva vissuto l’esperienza del ventennio con
una calda adesione ai suoi miti.
Identificare il fascismo semplicemente con la volontà e gli interessi delle oligarchie industriali e
agrarie, secondo lo schema un po’ angusto di una parte della sinistra, non era infatti sufficiente a
spiegarne il lungo successo e, di conseguenza, la pesante eredità. L’appoggio dei potentati
economici era stato certo determinante nel favorire la presa del potere da parte di Mussolini: essi
avevano visto nel fascismo l’estrema difesa di un sistema capitalistico minacciato, nel primo
dopoguerra, dal pericolo di una rivoluzione proletaria, ed erano stati larghi di aiuti alla repressione
armata del sovversivismo operaio e contadino, ricevendone in cambio un’ampia protezione, anche
se contraddittoria, all’ombra dell’autarchia, del corporativismo e della politica imperialistica. Ma
all’antisocialismo di industriali e agrari e a quello, più in generale politico-ideologico, della classe
dirigente liberale e della Chiesa cattolica, bisogna aggiungere l’antisocialismo di quella che più per
comuni atteggiamenti sentimentali e spirituali che per mere ragioni economiche può dirsi classe,
cioè la piccola borghesia44. Essa aveva visto nel fascismo la difesa della propria posizione sociale e
del proprio sistema di valori, entrambi minacciati dalla pressione del proletariato il quale mirava,
almeno nel massimalismo verboso dei suoi capi, a divenire esso classe dominante, e aveva
insabbiato, in nome dell’anti-socialismo, quell’anticapitalismo che costituiva una delle «due
facce»45 del suo atteggiamento politico-psicologico. Di quest’ultimo delineava un’efficace analisi,
già nel 1923, Luigi Salvatorelli:
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La mentalità della piccola borghesia umanistica si riassume in una parola sola: retorica. Provenendo
generalmente dalla scuola classica (e del resto anche quella tecnica e magistrale hanno in Italia,
come noto, scarsissimo carattere professionale), essa possiede la cosiddetta «cultura generale» [...].
Consiste essenzialmente, questa cultura generale, in un’infarinatura storico-letteraria, in cui la parte
letteraria è puramente grammaticale e formalistica, mentre quella storica si riduce a un cumulo di
date di battaglie e di nomi di sovrani, con la salsa d’una trasfigurazione o d’uno sfiguramento
patriottico, di cui i due elementi essenziali sono l’esaltazione di Roma e dell’impero romano come
nostri antenati, e il racconto del Risorgimento ad usum Delphini. Tutto l’insegnamento è una
congerie di nozioni generiche, astratte, da imparare meccanicamente, senza stimolo al senso critico
e senza contatto con il processo storico e la realtà attuale. Di qui, nella piccola borghesia
umanistica, la tendenza all’affermazione dogmatica, alla credulità nell’ipse dixit, alla esaltazione
per il gesto e la parola usurpanti il posto dei fatti e delle idee, al fanatismo per la formula indiscussa
e indiscutibile. Gettato nella vita con questa bella preparazione, il piccolo borghese non riesce a
sistemarsi alla peggio — quando pur non rimane totalmente spostato e disoccupato — se non nelle
aule scolastiche, o nell’angusto ambito di una meschina attività professionale. Esso si raffigura un
mondo fantastico di astratto idealismo, e ignora i valori effettivi del mondo moderno; e quando poi
entra, come che sia, in contatto con questo, sente per esso un misto di repulsione moralistica e
inintelligente e di invidiosa cupidigia. Il capitalista è per lui un pescecane sfruttatore, l’operaio
qualificato un parvenu ingiustamente favorito nei suoi confronti. Contro questo mondo ch’egli
considera puramente materialistico, il piccolo borghese eleva il suo mondo ideale; alla realtà
economica delle classi producenti e lottanti egli contrappone il mito della nazione astratta e
trascendente, credendo d’affermare così, di contro alle odiate classi produttrici, una sua superiorità
morale; e considera, nel suo moralismo apolitico, come malvagi e venduti, come nemici della patria,
tutti coloro che non la riconoscono nel fantoccio esangue e senza forma ch’egli stringe al seno 46.
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Il fascismo, nell’opera di consolidamento del potere, si era rivolto ai larghi strati di piccola e media
borghesia, i cosiddetti «ceti medi», come alla propria naturale base di massa, e se aveva avuto
successo nell’attrarli a sé in misura massiccia, ciò era dovuto al fatto che aveva saputo agire con
sagacia sulla loro mentalità, sfruttandone l’idealismo antisocialista, esaltandone il patriottismo, e in
più soddisfacendone ulteriormente le istanze con un’opera in cui la classe politica liberale non era
mai riuscita, cioè la Conciliazione, nel 1929, tra Stato e Chiesa.
I ceti medi italiani erano infatti in buona parte, per dirla con Chabod, «dei cattolici che la
propaganda anticlericale tra il 1860 e il 1914 ha solo superficialmente sfiorato, quando non li ha
toccati affatto. Essi amano la patria, l’Italia unita, Roma capitale; ma sono credenti. L’Italia in pace
col papato garantirebbe per sempre la loro quiete spirituale, la loro tranquillità interiore. Perché
l’immagine di Pio IX nel 1847, del Pio IX ' italiano ’, è stata così popolare, è rimasta nella
tradizione, è passata in tutti i libri di testo per le scuole? Perché, appunto, per un momento, era
parso che essa realizzasse questo sogno»47.
La realizzazione del sogno dei cattolici italiani ad opera del fascismo, conteneva delle importanti
implicazioni politiche, sulle quali la classe dirigente antifascista, e quella democristiana in
particolare, non rifletterà a sufficienza. La conciliazione dei cattolici avveniva infatti con lo Stato
etico fascista, che poneva la religione, considerandola instrumentum regni, come valore tra i propri
valori, in una simbiosi inscindibile con quel patriottismo e quell’antisocialismo che una martellante
propaganda (Roma o Mosca ne diverrà lo slogan più significativo) avrebbe provveduto a radicare
nelle coscienze durante i vent’anni della dittatura. Non più divisi dal problema religioso, soddisfatti
dalla Conciliazione tra Stato e Chiesa, i ceti medi cattolici e quelli, non cattolici, che nel
prefascismo avevano tradizionalmente affidato la tutela delle proprie istanze ai gruppi liberali, si
fonderanno in un blocco omogeneo, in cui il cattolicesimo dei più sarà un dato rispettato dagli altri
e, accanto all’antisocialismo, al patriottismo, all’antiparlamentarismo, un valore basilare del mondo
piccolo-borghese.
Il comune denominatore di tali valori era, a ben vedere, il moderatismo, cioè il desiderio di quieto
vivere, sia pure all’ombra di miti che dessero il senso della propria «superiorità morale» sulle altre
classi. Il fascismo aveva invano tentato di plasmare un «ordine nuovo» umano, una razza italica
guerriera. Lo stesso nazionalismo, che aveva imperversato nel primo dopoguerra come espressione
di un attivismo irrazionalistico che sembrava in qualche modo malattia morale del tempo in Italia e
in Europa, era stato ideale di minoranze, fanaticamente esaltate dai valori di lotta e di superomismo:
dalla maggioranza dei ceti medi esso veniva recepito con favore, ma con un’adesione formalistica e
libresca che ne stemperava le implicazioni «bellicose», riducendolo a un più o meno caldo
patriottismo48.
Il fascismo aveva superato questi limiti con la politica razzistica prima, la guerra con le sue tragiche
vicende poi. Aveva riscosso i consensi maggioritari dei ceti medi italiani finché ne aveva lusingato i
valori, li aveva perduti quando aveva infranto alcuni capisaldi fondamentali del mondo piccolo-
borghese, offendendone il sentimento religioso-umanitario e mettendone a troppo dura prova, con
una guerra affrontata senza preparazione alcuna, il patriottismo: il distacco tra il regime e la sua
base di massa era divenuto insanabile, perché il primo aveva tradito il moderatismo di fondo della
seconda.
Tuttavia, quel «piccolo mondo antico», lusingato ed esasperato tanto a lungo, era sopravvissuto al
crollo della dittatura, e ora confusamente attendeva chi di nuovo ne avrebbe fatto propri i valori
moderati, quale classe di uomini, quale tipo di società: i ceti medi non erano diventati, secondo le
ingenue credenze dei partiti del Cln, degli antifascisti convinti della necessità di un «ordine nuovo»
completamente opposto a quello precedente, ma erano piuttosto dei «non più fascisti» sbandati,
incerti, e istintivamente alla ricerca, nella tempesta materiale e spirituale dei tempi, delle proprie
tavole di valori naufragate.

Classe politica e «paese reale»: il qualunquismo.


Quando, a Liberazione avvenuta, si cominceranno a compilare le prime complete statistiche delle
distruzioni provocate dalla guerra, se ne vedrà la tragica entità in tutti i campi della vita del paese.
Distruzioni, danneggiamenti, asportazioni, logorio, consumo di scorte, riduzione di efficienza
produttiva, avevano ridotto il patrimonio nazionale, ascendente nel 1938 a 700 miliardi, di quasi un
terzo.
Gravissimi danni aveva subito il settore edilizio, con circa tre milioni e 900.000 vani distrutti o
inabitabili, e quello delle opere pubbliche, con un naviglio mercantile ridotto da tre milioni e mezzo
di tonnellate s.l. a 600.000 e con le ferrovie in cui era stato «distrutto o danneggiato un quarto dei
binari, un terzo dei ponti, un terzo dei depositi di locomotive [...] quasi la metà dei carri per merci,
1’80% delle carrozze viaggiatori, bagagliai e postali»49.
L’agricoltura aveva subito danni per 20 miliardi di lire (1938), e la sua produttività era stata
seriamente danneggiata dalla mancata concimazione durante il periodo bellico, che naturalmente ne
aveva ridotto la fertilità. In particolare, la produzione cerealicola, nel 1945, risulterà la metà di
quella del periodo prebellico, quella agricola complessiva diminuita del 40%.
Nell’industria erano stati colpiti soprattutto i settori meccanico e siderurgico, ma, nel complesso, la
sua attrezzatura produttiva era uscita abbastanza salva dalla guerra, anche se afflitta dai problemi
del mancato rinnovamento degli impianti e della mancanza di materie prime. La sua capacità
produttiva risultava ridotta del 20% circa, e i suoi livelli produttivi (rispetto al 1938) saranno, nel
1945, di 1/3 per l’industria mineraria, 1/6 per l’industria metallurgica e meccanica, 1/10 per quella
tessile e chimica.
Non meno difficile si presentava la situazione finanziaria, caratterizzata, nel ’45, da un debito
pubblico di circa 906 miliardi (1939: 145) e da un deficit del bilancio statale di circa 230 miliardi
(esercizio 1945-46). Inoltre l’aumento della circolazione della moneta, aggravato dalla emissione di
am-lire da parte delle truppe alleate, provocava un continuo aumento dei prezzi, che nel 1945
risulteranno superiori di venti volte a quelli prebellici, chiaro indice dell’inflazione che affliggerà
l’Italia fino alla seconda metà del 1947.
La gravità della situazione economica e finanziaria si ripercuoteva a fosche tinte sulla
disoccupazione (2.000.000 circa nel ’46) e in un abbassamento generale del tenore di vita, che
portava le disponibilità individuali di alimenti, nel ’45, «notevolmente ridotte rispetto ai consumi
prebellici e sensibilmente inferiori al fabbisogno minimo fisiologico. Per l’intero 1945 essi
corrispondevano a un valore calorico di 1.725 calorie per abitante al giorno, contro un consumo di
2.795 calorie nella media 1936-1946; la disponibilità di proteine raggiungeva il 60% di quella
prebellica; la disponibilità media di grassi, in Italia già modesta nell’anteguerra, era in rapporto
ancora inferiore, mentre quella di idrati di carbonio raggiungeva il 65%»
In una situazione dominata dalle distruzioni e dalla fame, prosperava la borsa nera e rifiorivano
nella compagine sociale, con veemenza, tutte le miserie morali tenute a freno nei periodi di
normalità, dalla prostituzione al banditismo, ai numerosi episodi di corruzione, singola e di gruppo,
di chi ad altro non riesce a badare che al proprio «arrangiarsi» quotidiano, e iso-

IMM

latosi in un gretto individualismo, vuole ignorare i propri doveri di membro della comunità. Il
popolo italiano era «prostrato in una apatia corrosiva» 51, resa tale, oltre che dalla estrema indigenza
materiale, dai tremendi choc subiti negli ultimi tragici eventi: la guerra, la sconfitta e il crollo del
regime fascista, il repentino mutamento delle alleanze, l'affrontarsi devastatore sul suolo patrio dei
due eserciti contrapposti. Questo stato d’animo di disimpegno, che fortemente strideva con lo
slancio idealistico delle minoranze impegnate nella lotta di Liberazione, era diffuso soprattutto nelle
contrade meridionali, che poco o nulla avevano conosciuto la Resistenza e che secoli di
dominazione straniera, di diseducazione politica e civile e di sfiducia nello Stato e nelle sue
istituzioni, riportavano, come in ogni periodo di crisi delle istituzioni, a un individualismo
anarcoide, diffidente di ogni sommo valore e preoccupato soltanto di sopravvivere agli eventi. Stato
d’animo interclassista, male atavico della società italiana, che rifioriva con virulenza dopo la crisi
dello Stato fascista, esso sarebbe potuto restare politicamente atono, a costituire un fenomeno
transitorio della nostra storia, destinato ad essere in qualche modo riassorbito dal ritorno della
fiducia conseguente alla ricostruzione. Ma su quella contingente stanchezza morale, fonte di
disimpegno, s’inserivano più precisi motivi di scontento che la qualificavano politicamente come
«rivolta piccolo-borghese», come «opposizione moderata» alla classe politica antifascista da parte
dei ceti medi, «già fascisti» e ora all’affannosa ricerca di un nuovo valido ubi consistam.
Il problema che avrebbe dovuto affrontare la classe politica antifascista per avviare l’effettivo
rinnovamento della nazione, era quello della riconquista alla democrazia di tali ceti, maggioranza,
allora come oggi, della popolazione italiana. Un governo di emergenza, che si fosse preoccupato
principalmente della ricostruzione materiale, avrebbe costituito forse il migliore esordio per tale
opera di riconquista. Invece era giunto al potere l'anti-fascismo, col suo moralismo intransigente che
finiva col colpire a destra e a manca tra i piccoli lasciandosi sfuggire i veri e grossi «complici» della
dittatura, inquinato dal doppio gioco e dal trasformismo, dalle prepotenze e dall'arrivismo. Esso era
reso in generale poco recepibile, nel suo messaggio programmatico, anche dalla eccessiva
ideologicizzazione di un linguaggio tanto più astratto se paragonato alla monocorde semplicità del
linguaggio «tutto miti» cui aveva abituato il ventennio. Inoltre, dinanzi a questi ceti si ergeva ancora
una volta la «minaccia proletaria», alimentata dal giacobinismo azionista e socialista, con i suoi
piani, soprattutto il secondo, di distruzione della società borghese, sbandierati incessantemente e
debolmente contrastati dall'azione di liberali e democristiani. Mancava, in definitiva, nella classe
politica antifascista (o, come vedremo nel caso del Pci, trovava difficoltà di applicazione) una
strategia di riconquista dei ceti medi. Già nel primo dopoguerra essi erano divenuti antidemocratici
e antisocialisti, e si erano buttati nel nazionalismo e nel fascismo, per reazione all’ascesa del
proletariato promossa dalla democrazia e sostenuta in forme violente dal socialismo 52, e stavano
ora avversando i partiti antifascisti, in ultima analisi, per lo stesso timore di una rivoluzione dei
«sovversivi», acuito nei loro animi da vent’anni di abitudine all’antibolscevismo.
La rinascita democratica dell’Italia iniziava dunque con un dato preoccupante, quello del confuso
distacco tra paese legale e paese reale e del vuoto di rappresentatività, a livello di classe politica
antifascista, delle istanze «moderate» di larghi strati del popolo italiano: tale vuoto sarebbe stato
provvisoriamente colmato, con conseguenze importanti, da destra.
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Non era davvero un giornale umoristico, infatti, quello che Guglielmo Giannini aveva lanciato il 27
dicembre 1944. Nei suoi articoli, nei suoi slogan erano presenti, fin dall’inizio, motivi destinati a
colpire profondamente quella maggioranza moderata che si rivelava timorosa e ostile al clima
antifascista: a tali motivi sarebbe ben presto stato dato un nome, qualunquismo (da «L’Uomo
qualunque»), simbolo della rivolta, alla fine vittoriosa, all’Italia dell’antifascismo e della Resistenza
e alle sue speranze di rinnovamento.
Nel momento in cui Giannini pubblicava la sua accorata protesta contro il professionismo politico,
egli era ancora immerso in contraddizioni e ambiguità di ogni genere. Si trovava in una confusa fase
tattica: cercava di farsi spazio nella vita politica italiana, aspirava ad entrare come protagonista nella
storia del paese, ma non sapeva ancora su quali precise posizioni; cercava consensi, appoggi al suo
programma, e non gli importava da dove venissero. Il desiderio di emergere spiega l’estremo
empirismo (certo favorito dalla carenza di pregiudiziali ideologiche) del suo esordio politico.
Poneva sullo stesso piano fascismo e antifascismo e contestava, in particolare, il diritto del secondo
di essere al potere e di condurre l’epurazione, ma, nello stesso tempo, elogiava in astratto i
programmi dei partiti tutti, dichiarava che la sua opposizione al governo Bonomi non sarebbe mai
stata «feroce e irrispettosa»53, rendeva omaggio al «buon Nenni»54 e, soprattutto, ai comunisti,
affermando che da essi sarebbero forse venuti «i buoni cervelli nuovi» 55 e prospettando, in un
articolo sul realismo comunista, la possibilità di una propria confluenza in quella direzione:
@
Quale interesse il comunismo può avere, oggi ed in un paese come l’Italia, a fomentare il disordine?
Il comunismo ormai è conservatore, perché ha qualcosa — molte cose, dicono i suoi entusiasti —
da conservare: le sue conquiste, intanto; che non desidera certo perdere, compromettere o porre in
discussione. È questa la ragione per cui si rivela come partito d’ordine, e non spreca tempo in
chiacchiere accademiche né si cura dei sottili ed eleganti formalismi intorno ai quali altri
bizantineggiano: No: il comunismo, «questo» comunismo, che tiene i piedi per terra senz’aver la
testa fra le nuvole, non può e non deve far paura a chi è abituato a guardar bene in faccia la realtà e
a non temere i fantasmi. Sarà necessario però che il comunismo ci dica esattamente cosa vuole da
noi [...] e pensiamo che il duttile, navigatissimo stato maggiore del comunismo ce lo dirà. Non in
formule vaghe ed ampie — ricostruzione, epurazione, progressività: parole che anche i fascismi
posson dire e dicono — ma con precise, definite e, oseremmo dire, «limitate» enunciazioni. È certo
che, dopo quelle enunciazioni, molta gente potrebbe indursi a vincere le proprie riluttanze 56.
@@@
Mentre dichiarava di apprezzare il realismo comunista, e in una rubrica del suo settimanale
(Galleria dell’Uomo Qualunque) inneggiava al «compagno Stalin», «effettivamente uno degli
uomini più intelligenti che siano mai apparsi nella storia dell’umanità» 57 e al «compagno Molotof»,
«straordinario ingegno» 58, in un’altra, Cronache immaginarie, Giannini pubblicava
disinvoltamente «gli articoli che sarebbero stati scritti, le opinioni che sarebbero state espresse, il
notiziario dei fatti che sarebbero accaduti, se Mussolini non avesse dichiarato la guerra il 10 giugno
1940», facendo così propria l’opinione, largamente diffusa nell’opinione pubblica «benpensante»,
che se il Duce fosse rimasto neutrale, il popolo italiano, oltre che il fascismo, avrebbe avuto
benessere e felicità, e immaginando perfino una svolta democratica della dittatura 59. Nelle
Cronache immaginarie, noterà felicemente il settimanale «Cantachiaro», si sentiva «il fremito
nostalgico di un mancato radiocronista del regime»
Contraddizioni e ambiguità a parte, «L’Uomo qualunque» mostrava subito di possedere parecchi
requisiti per affermarsi con successo tra il pubblico: in primo luogo, quel prendersela contro tutto e
contro tutti, quel «non rompeteci più le scatole» con cui Giannini sapeva esprimere la nevrosi di chi
da anni sopportava ferite materiali e spirituali senza veder mai tornare la tranquillità agognata; poi
quel linguaggio piano e scorrevole, che colpiva, per il suo contrasto con gli incomprensibili dialoghi
«sopra i massimi sistemi» di cui dava mostra di sé la vita politica ufficiale, con la sua richiesta di
pace e di cose concrete, e che faceva, per la prima volta, sorridere.
La parte del giornale destinata a raccogliere maggiori simpatie era appunto la rubrica Le Vespe61,
nella quale Giannini riassumeva le proprie idee politiche e si occupava di fatti e personaggi di
attualità, commentandoli con efficace ironia, ancora aliena, all’inizio, da ogni tono volgare e
violento, come avverrà in seguito allo scatenarsi della lotta contro il qualunquismo. Nenni e
Selvaggi, Bonomi e Sforza, l’epurazione e i Cln furono i protagonisti, accanto a episodi di costume,
delle prime «vespe» a volte vittime di garbati «sfottetti», come li chiamerà Giannini, altre volte
oggetto di critiche serie e di considerazioni amare e delicate:
@
C’è un partito che non ha segretario, che non ha sedi, circoli, sezioni: che non ha riformato il
calendario, né dà stipendi, cariche, missioni. Non c’è chi vi diventa commissario, chi vi guadagna
soldi e protezioni. Ecco il programma breve e lapidario: «che nessuno ci rompa più i cordoni».
(27 dicembre 1944)

Pietro Nenni è stato accolto a Londra, dall’Assemblea generale del Partito laburista, «con una delle
più grandi ovazioni della giornata», dice la radio inglese [...]. Non siamo socialisti: ma come si
potrebbe negare che questo di Pietro Nenni è uno dei primi «fatti concreti» di politica estera che si
compie in Italia?
(27 dicembre 1944)

L’Italia Nuova sbaglia sfottendo Nenni proprio su questo punto. Selvaggi vuol diventar ministro
degli Esteri e vabbene: tutti i gusti sono gusti. Ma la prima qualità richiesta per quell’incarico è
l’esser diplomatici.
(27 dicembre 1944)

Socialisti e azionisti vogliono l’onnipotenza dei comitati, ed è giusto: sono essi che li dominano.
Chi si mette contro un locale Cln in un paese? È lo stesso che mettersi contro il fascio locale prima
del 25 luglio 1943, o contro le leghe nel 1919. E, dunque, chi sta a Roma ed è rimasto fregato una
volta non vuol ricaderci.
(27 dicembre 1944)
«Bonomi ha puntato i piedi per calarsi le braghe» opina il conte Sforza: il grande epuratore epurato.
(27 dicembre 1944)

La Democrazia del Lavoro che cos’è? Speriamo non soltanto l’aristocrazia dell’ozio.
(27 dicembre 1944)
Il liberalismo è una supercorazzata con cui i liberali vanno a caccia di alici.
(17 gennaio 1945)

Ora bisognerà trovare uno sfottetto anche per la Democrazia cristiana, altrimenti ci scambieranno
per segreti scherani di De Gasperi e dell’inintelligibile Scelba. E... a pensarci bene: perché no?
Sarebbe un’eccellente trovata per dar fastidio: e noi non vogliamo dar altro, in fondo.
(27 dicembre 1944)

Giornali estremisti, congressi estremisti, direzioni di partiti estremisti = nidi, riserve, focolai
d’intellettuali. Nessuno che abbia i calli alle mani, tutti al pensiero. Proletari di tutto il mondo,
attenti alle fregature!
(3 gennaio 1945)

Il colonnello Emanuelli, arrestato e processato per crimini fascisti, era riuscito a farsi assumere
come epuratore dal buon Scoccimarro. I giornali umoristici credono di scherzare quando raccontano
queste storielle: e invece sono storia.
(3 gennaio 1945)

Troppa gente «non ha mai avuta» la tessera fascista in Italia: e, per conto nostro, abbiamo
incominciato a stimare molto di più chi l’ha avuta e non si vergogna di riconoscerlo.
(27 dicembre 1944)

Ehi, vecchia Italia, di fregnacce ostello, con millanta nocchieri in gran tempesta, prendi la scopa e
spazza, forte e lesta, e torna ad esser patria, non bordello.
(17 gennaio 1945)

«L’uscita di questo giornale» afferma «Il Lavoro» nel suo primo numero apparso il 24 gennaio
«segna una data nella storia sociale d’Italia». All’anema d’a palla! dicono a Napoli a sentire simili
affermazioni.
(31 gennaio 1945)

In verità nel nostro paese basterebbe fucilare un centinaio di persone e mandarne in galera un altro
migliaio. Tutto il vero fascismo si concretava in pochi teppisti: è questa la nostra stupida
convinzione.
(31 gennaio 1945)
È un’oligarchia che va messa sotto processo, non una Nazione. Senonché i capi dell’oligarchia non
si possono toccare: e allora, tanto per gradire, si perseguitano le code.
(10 gennaio 1945)

Noi non disprezziamo soltanto i partiti politici italiani. Siamo integralmente internazionalisti anche
su questo punto.
(10 gennaio 1945)

Accuse terribili si leggono sui giornali contro cittadini d’ogni categoria. Un giornale faceto, che s’è
specializzato in denunzie, parla d’un tale, e, dopo averne fatto il nome e cognome in carattere
neretto, specifica: «Marito compiacente, ha scritto un libro antinglese, anti-americano, antirusso, ha
preso lo stipendio nel ministero e nell’ufficio X, idiota, porco, analfabeta». Tutto qui? Il fascismo ci
aveva abituato a ben altre ingiurie: vorremmo legger qualcosa di più drammatico. D’altronde avere
per moglie una signora un po’ allegra non è prerogativa dei soli fascisti. Conosciamo molti
antifascisti nelle stesse condizioni.
(10 gennaio 1945)
@@@
Nell’ostentazione di sfiducia nei partiti, negli uomini politici e nella politica, ritrovava se stessa una
mentalità antica in Italia ed esacerbata da ultimo, specie nei settori piccolo-borghesi, dalla
propaganda fascista. Nel linguaggio di Giannini tale sfiducia era indiscriminata e coinvolgeva nel
suo irato crucifige i professionisti politici presenti, passati e futuri, e in particolare fascisti e
antifascisti. Ma, a ben vedere, erano le critiche a questi ultimi ad essere più golosamente inghiottite:
e a tendere gli orecchi e a gioirne, ignorando o sottovalutando il contesto nel quale erano espresse,
era proprio l’opinione pubblica moderata, avvilita e sconvolta dall’epurazione, irritata dai Cln e
timorosa del nuovo sovversivismo. A temere poi i programmi di rinnovamento propugnati da un po’
tutti i partiti del Cln era, in particolare, la borghesia imprenditoriale, quasi convinta dell’imminente
instaurazione di un regime collettivistico: e in difesa di essa Giannini, tra un’affermazione e l’altra
di simpatia per il comunismo e per questo o quell’uomo di sinistra, aveva iniziato una decisa
campagna di stampa. Nel secondo numero del giornale, il 3 gennaio 1945, aveva infatti chiesto a
Bonomi uno «Stato forte» che assicurasse ai cittadini l’effettivo esercizio delle libertà, prima fra
tutte quella di «lavorare»:
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Noi non lavoriamo: nessuno lavora in Italia. Tranne i ragazzini che lucidano le scarpe agli anglo-
americani, tutti o speculano, o giuocano o litigano: e nessuno fa niente di positivo [...]. Perché,
invece di tollerare gl’improvvisati, i delinquenti, gli avventurieri, non si dà modo a chi «ci sa fare»
di fare? Perché non si dà la possibilità all’industriale di condurre la sua industria, al commerciante
di dirigere il suo commercio? Il lavoro non è funzione del solo operaio: a che serve il braccio senza
la mente? a che serve la maestranza senza l’organizzatore che cerca, trova, inventa la produzione, il
lavoro, il credito? Oggi questi organizzatori non possono lavorare: molti sono sotto il peso e la
paura dell’«epurazione», moltissimi sono «in attesa» che la situazione si tranquillizzi per arrischiare
il loro denaro; altri si tengono da parte per paura d’essere attaccati dai giornali e dai partiti
estremisti, altri ancora sono seccati e sdegnati dei ricatti che debbono o dovrebbero subire da parte
della verminaia di cialtroni che brulica nella politica e nel giornalismo. Senza questi uomini, i soli
che «possano» ricostruire perché «sanno», i soli che possano organizzare perché ne hanno la
indispensabile e insostituibile capacità, non si farà mai niente. Vogliamo aspettare vent’anni, come
in Russia, che il proletariato esprima una «sua» borghesia che diriga? [...] Ci si dia un governo
capace di tutelare la libertà per tutti, e le libertà per ciascuno: a cominciare da quella di poter
lavorare. Non è che col lavoro che potremo rivivere: e noi — è seccante, ma necessario ripeterlo —
non abbiamo altro62.
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Guglielmo Giannini dal teatro alla politica: un personaggio in cerca di partito.


Guglielmo Giannini era nato a Pozzuoli il 14 ottobre 1891, da madre inglese, Mary Jackson, e da
padre napoletano (pugliese d’origine), il giornalista Federico Giannini.
In gioventù si era dedicato ai mestieri più svariati, da commesso in un negozio di tessuti a muratore,
ma la sua passione si era subito rivelata il giornalismo, nel quale aveva cominciato ad essere
introdotto dal padre. A soli 19 anni, nel 1910, oltre a collaborare al giornale umoristico «Monsignor
Perrelli» e al «Giornale del mattino», si occupava con successo, sul napoletano «Il Domani», di una
rubrica di genere mondano-brillante, Le Vespe (Les Guepes\ rubrica che avrebbe successivamente
ripreso, con lo stesso titolo, in altri giornali, e, per ultimo, sull’«Uomo qualunque».
Una lunga parentesi nella sua vita era stata rappresentata dalla guerra di Libia e dalla prima guerra
mondiale («nove lunghi anni di servizio militare — ricorderà nel 1946 63 — due guerre [...], circa
un anno di prigionia»), dopo le quali era tornato al giornalismo come redattore-capo del
«Contropelo», direttore del «Monocolo», fondatore e direttore della rivista cinematografica
«Kines».
L’attività più congeniale alla sua personalità vivace ed estrosa (sotto lo pseudonimo di Zorro diverrà
anche autore di diverse conzonette di successo), l’aveva trovata però nel teatro, e le commedie del
genere giallo-comico e «rosa» cui si era dedicato a partire dal 1926, gli avevano fatto guadagnare
una certa popolarità. Ne aveva scritto la maggior parte (circa una cinquantina), alternandole alla sua
nuova attività di regista cinematografico, negli anni Trenta, rappresentandole spesso con proprie
compagnie teatrali, all’attività delle quali facevano da sostegno i contributi del ministero della
Cultura popolare.
Per tali contributi Giannini era stato incluso da Mussolini, in una nota della «Corrispondenza
repubblicana» dell’11 novembre 1943, in una lista di Canguri Giganti, cioè di quegli «scrittori e
giornalisti che dopo il 25 luglio si sono scagliati contro il fascismo, dichiarando che mai vi avevano
avuto a che fare, che nutrivano per esso il più pieno disprezzo, che erano finalmente felici che la
bestia immonda fosse stata rovesciata, mentre avevano percepito fino allora assegni e sovvenzioni
non indifferenti da parte del ministero della Cultura popolare» Sulle sovvenzioni si baserà anche, in
buona parte, il processo d’epurazione intentatogli nel 1945 dall’antifascismo. Ma a parte questo
avvenimento, su cui torneremo in seguito, il cosiddetto «fascismo» di Giannini si basava solo su
alcuni episodi di adulazione della dittatura e di Mussolini, da lui paragonato, in una lettera a
Pavolini del 10 agosto 1940, a Lorenzo il Magnifico 65. Di più non si poteva accusarlo, anzi, a suo
dire, anch’egli aveva dato prove di dignità e d’indipendenza nei confronti del fascismo, rifiutandosi,
ad esempio, di far rappresentare dalla propria compagnia la commedia di Farinacci, Redenzione
Giannini in effetti non aveva fatto parte dell’apparato del regime, neanche nelle sue più basse
gerarchie, e aveva preso la famigerata «tessera» soltanto nel 1941. Durante il ventennio non aveva
svolto attività politica, se si esclude, a livello giornalistico, qualche articolo, come Il granello di
pepe (contro il monopolio britannico del pepe) apparso sul «Corriere di Napoli» il 21 luglio 1940
67.

Quanto alle sue commedie, in un'Autodifesa fatta pubblicare nel marzo 1945, Giannini negherà di
averne mai scritta una fascista, ma successivamente confesserà che l’unico fiasco teatrale della sua
carriera l’aveva avuto con L'angelo nero, commedia fascista «tremendamente fischiata dal
pubblico» 68, e ammetterà che un altro suo lavoro teatrale, Il miliardo, era «fascista e comunista
nello stesso tempo»69.
A guardare i titoli della sua produzione artistica, tuttavia, bisogna ammettere che il genere culturale
cui s’era dedicato costituiva, a parte le due eccezioni, un comodo mezzo di disimpegno, non certo
un’assuefazione allo «spirito» fascista: Mimosa (1934), La bambola parlante (1932), La casa
stregata (1934), La donna rossa (1934), I rapaci (1935), Mani in alto (1935), Super-giallo (1936),
Maschio e femmina (1937), Eva in vetrina (1939) e tante altre simili commedie costituivano infatti
il «tipico teatro borghese, il tipico teatro da cucina, il tipico teatro d’adulterio dell’Italia 1932-
1945»70 e Giannini si vanterà d’essere stato sempre combattuto dalla critica fascista perché non
scriveva «teatro del nostro tempo» 71.
Al di là della ragionevolezza delle accuse di fascismo e dell’alquanto «puritana» Autodifesa72, va
rilevato, comunque, che Giannini era il simbolo di quei vasti settori di opinione pubblica moderata
il cui filofascismo si era limitato a uno stato d’animo di più o meno accentuata benevolenza nei
confronti di Mussolini e del regime, senza gravi compromissioni con la dittatura e, tanto meno, con
le sue manifestazioni più aberranti come il razzismo e la guerra, che anzi avevano finito col
trasformare il consenso in sfiducia e avversione.
All’indomani del 25 luglio 1943, ed è questo che interessa particolarmente la nostra storia, Giannini
si trova su posizioni nettamente antifasciste, e antifascista intransigente resterà fino alla conclusione
della sua breve apparizione nel mondo politico italiano. A rendere definitiva la sua avversione al
fascismo aveva fortemente contribuito l’esperienza della guerra. Questa aveva inciso in misura
profonda sulla personalità del commediografo, privandolo, oltre che del padre, dell’unico figlio
maschio, Mario, morto a 22 anni in un incidente aereo occorsogli, nell’aprile del 1942, mentre si
trovava sotto le armi. La ferita per quest’ultimo lutto non si rimarginerà mai nel suo animo, neppure
nei momenti di maggior successo politico-mondano. Nell’ultimo Giannini poi, espulso in forme
violente dalla vita politica e tornato amaramente al teatro, quell’angoscia apparirà come la
componente fondamentale di una personalità irrimediabilmente frustrata dalla vita e dagli uomini.
Da sofferte meditazioni sulla guerra e, più in generale, sull’intera storia dell’umanità, cui Giannini
si era dedicato dal settembre ’43 al giugno ’44, nasce appunto il libro La Folla, testo teorico, per
così dire, del qualunquismo, di cui parleremo nel prossimo paragrafo.
Giannini era stato per parecchi anni un entusiasta del comunismo, poi lo aveva rinnegato e aveva
professato ideali liberali e simpatie nittiane73.
Dopo i lunghi anni trascorsi tra la guerra di Libia e la prima guerra mondiale (in quest’ultima era
andato volontario, e si era guadagnato una promozione per merito e una medaglia di bronzo al valor
militare, nonché la soddisfazione di veder adottato dall’esercito italiano il primo sistema
d’intercettazione telefonica da lui inventato) 74, aveva fatto parte, nel primo dopoguerra, della massa
sbandata e delusa dei reduci, priva di idee ed incapace di trovare uno sbocco esistenziale
nell’impegno politico:
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I sinistri mi nauseavano con la loro folle inconcludenza, in nulla diversa da quella di oggi [...].
Pensavo vagamente che «bisognava fare qualche cosa», ma non sapevo quale: e poi ero giunto a
Roma con le scarpe scalcagnate, una logora divisa grigio-verde, ero senza impiego, senza un’idea 75.
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Durante il fascismo, accettato passivamente anche se benevolmente («Il pazzo Mussolini» dirà 76
«che tanti, con noi, avevan preso enormemente sul serio»), aveva finito per dedicarsi al teatro e alla
cinematografia, ottenendo un certo successo e benessere e impostando su di essi una vita
caratterizzata dal disimpegno politico, «una vita — ricorderà 77 — che mi piaceva trascorrere
giocondamente, poco curandomi delle sciocchezze che udivo e leggevo». Questo corso «giocondo»
della sua vita era stato sconvolto dalle gravi sventure subite a causa della guerra, nelle quali
Giannini cominciava ad intravedere quelle, più grandi, dell’umanità intera, sentendo in se stesso,
sempre più forte, il desiderio di non essere più uno spettatore passivo degli eventi.
Il 25 luglio ’43 aveva rappresentato dunque un momento decisivo:
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Fra cinematografia e teatro giunsi al 25 luglio 1943, con 25 anni di più, lo strazio dei miei lutti nel
cuore, la tessera fascista del 10 luglio 1941 in tasca. Mi resi conto che con quella mia assenza dalla
politica, durata un quarto di secolo, avevo contribuito a rovinare la mia Patria, poiché solo a causa
dell’assenza mia e d’altri milioni d’italiani che, come me, avevano egoisticamente badato solo ai
propri affari, Mussolini aveva potuto diventare padrone d’Italia. Decisi di riparare al mio errore e
d’entrare in un partito politico 78.
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Giannini aveva avvertito l’esigenza di un’azione politica in modo prepotente, come rabbioso
desiderio di «fare», di essere protagonista, e non più semplice spettatore degli eventi. Ma questo suo
era stato istinto attivistico fine a se stesso, senza programmi definiti da perseguire né precise
simpatie ideologiche per un partito o per l’altro, che anzi a queste ultime si contrapponeva, per una
sorta di furore volontaristico, una estrema confusione:
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Feci il giro di tutti i partiti, volevo capire prima di impegnarmi, sapendo che non sarei stato una
semplice comparsa in un partito e pretendendo quindi di calcolare in anticipo le mie prevedibili
responsabilità. Ahimè! Il giro ebbe effetto disastroso sulla mia buona volontà politica. Il solo
gruppo con cui mi sarei messo era quello democratico cristiano ma, volendo servire da giornalista
(non avrei saputo né potuto servire diversamente) vidi che non c’era posto per me. Mi immaginate
vicino al carissimo Guido Gonella? Avrei fatto impazzire Gonella 79.
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Dopo «lunghe riflessioni», Giannini aveva deciso di entrare nel Partito repubblicano, e aveva
lavorato per esso durante l’occupazione tedesca di Roma diffondendo «La Voce repubblicana» e il
foglio «1799» (stampato, per buona parte, a sue spese) 80.
Forse era stata la netta pregiudiziale antimonarchica a spingere in quel partito il commediografo, il
quale, fervente repubblicano, era giunto a progettare con alcuni amici, nel maggio ’44, di occupare
il Campidoglio, nel breve intervallo di ore previsto fra la ritirata tedesca e l’ingresso nella «città
eterna» degli anglo-americani, e da quel solenne luogo proclamare la repubblica, progetto fallito, a
suo dire, per la paura dei dirigenti del Pri («la repubblica romana non fu fatta per paura») 81. Ma
anche il repubblicano, come gli altri partiti, aveva finito col deluderlo, soprattutto a causa del leader
Giovanni Conti:
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Sarei entrato, per servire l’Italia — spiegherà disinvoltamente 82 — nel partito comunista,
monarchico, repubblicano, democristiano, demolaburista, azionista, socialista, liberale, trotskista —
senza nessuna preoccupazione oltre quella di servire. Non ne ho veduto la possibilità, dovunque mi
sono imbattuto in gente vogliosa solo d’essere deputato o altro. La più untuosa e ipocrita falsa
modestia esala da moltissimi di questi uomini come un cattivo odore personale.
@@@
Giannini spiegava il fallimento dei suoi tentativi di inserimento in uno dei partiti esistenti con
l’impossibilità di convivere con le smodate ambizioni degli uomini politici che ne erano a capo. Ma,
in realtà, aveva anche trovato una generale opposizione alle sue improvvisate e ambigue idee: a un
certo punto, all'inizio del ’45, mostrerà di sperare in Pietro Nenni come l’uomo nuovo della politica
italiana e tenterà approcci in direzione socialista, ma con risultati egualmente negativi 83.
Viste le difficoltà di entrare in un partito, il commediografo provò, dopo la Liberazione di Roma, a
farsi accogliere nella redazione di un giornale, per svolgervi in qualche modo il programma che
aveva maturato in difesa degli uomini qualunque oppressi, ma era stato «concordemente respinto
con maggiore o minore scortesia» 84.
Seguendo il consiglio del direttore del «Tempo», Angiolillo 85, Giannini decise allora di lanciare un
proprio giornale, e presentò domanda agli alleati per poter stampare «L'Uomo della strada». L'aveva
poi ritirata presentandone una nuova per «La novella poliziesca» e per «L’Uomo qualunque»,
convinto che gli alleati, diffidenti, gli avrebbero concesso il permesso di pubblicazione solo per la
prima, ed intenzionato a diffondere le proprie idee anche per mezzo di una testata «poliziesca».
Invece l’autorizzazione venne concessa proprio all’«Uomo qualunque», per lanciare il quale
Giannini costituì una società della quale facevano parte anche i fratelli Scalera, grossi industriali del
cinema che nel novembre del ’45 verranno arrestati sotto l’accusa di aver finanziato la marcia su
Roma 86.
«L’Uomo qualunque» voleva essere per Giannini qualcosa di più dell’uomo della strada:
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Era l’uomo nel caffè, nel cinematografo, nella camera da letto, nella sala da pranzo, davanti allo
sportello delle tasse: dovunque. Il suo diritto è indiscutibile anche se minoranze prepotenti lo
contestano e lo annullano, è un personaggio che si contrappone all’eroe, al capo, al re, al duce, al
führer, al conductor, al Churchill, al Roosevelt, allo Stalin. «Che importa a me delle vostre beghe?»,
dice l’Uomo Qualunque; «io voglio vivere liberamente senza essere seccato da nessuno, e
soprattutto senza essere coinvolto nelle vostre risse»87.
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Egli racconterà in varie occasioni che questa idea gli era nata una mattina dell’estate 1944,
assistendo casualmente ad una desolata coda di donne, vecchi e bambini dinanzi a una fontana, a
Roma, «per procurarsi l’acqua di cui i signori Hitler, Mussolini, Churchill, Roosevelt e altri
consimili strofinacci li avevano defraudati»88.
Non c’è ragione di dubitare dell’episodio, ma è certo che fin dall’autunno del 1943 Giannini stava
elaborando le sue teorie sull’oppressione esercitata dai capi sugli uomini, considerando questi, però,
nel loro insieme di «folla», e non ancora nella loro individualità di «uomini qualunque».

«La Folla: seimila anni di lotta contro la tirannide».


Durante l’occupazione tedesca di Roma, Giannini, oltre che alla propaganda per il Partito
repubblicano e al «lavoro bestiale di scriver due romanzi polizieschi al mese» 89, si era dedicato alla
stesura di un originale trattato storico-politico, dal titolo La Folla: seimila anni di lotta contro la
tirannide90.
A questo libro la propaganda del Fronte dell’Uomo Qualunque farà riferimento come al «codice dei
princìpi»91 qualunquisti, ma, come vedremo, solo in parte l’impostazione e lo spirito che il
commediografo aveva inteso dare a quel «codice» verranno fatti propri dalla classe dirigente e dalla
base del nuovo partito. Già la dedica della Folla al figlio Mario era indicativa dello spirito libertario
che animava tutta l’opera:
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Quest’opera è dedicata a una meravigliosa creatura d’amore, mio figlio Mario, che cessò di vivere
all’età di ventun anno undici mesi ventisette giorni, nel pieno della salute e della bellezza, il 24
aprile 1942.
Una versione ufficiale dice ch’egli cadde nell’adempimento del proprio dovere verso la patria, ma
in realtà egli fu assassinato insieme a milioni di altri innocenti esseri umani da alcuni pazzi
criminali che scatenarono la guerra.
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L’ultima guerra, secondo Giannini, non era stata soltanto la logica conseguenza del fascismo:
rappresentava, in ultima analisi, una delle manifestazioni dell’oppressione che il potere in quanto
tale, quale ne sia la contingente colorazione politica, esercita sull’umanità da sempre, da quando
cioè i primi uomini si son scelti dei capi, e questi hanno creduto «di essere investiti del grado e della
dignità di padroni», si son resi conto che «fare il capo» era un mezzo per vivere, «esercitare il
potere, una fonte di lucro», e sono divenuti dei «professionisti del potere», dando origine, tra loro e
gli «aspiranti capi», alla lotta per il potere, cioè alla politica92.
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Capi e Folla, nell’accezione gianniniana, rappresentano i veri elementi contrapposti in una


comunità. I Capi sono gli «uomini politici professionali», tenacemente aggrappati al potere o
avidamente miranti ad esso. I vantaggi illimitati che offre il potere hanno infatti determinato la
corsa, la concorrenza, la lotta per conquistare la qualità di capo — non si dice, anche oggi, che
bisogna «conquistare» il potere? — non per la fatica a cui costringe o dovrebbe costringere la
carica, ma per il premio che la carica dà. È quindi inevitabile che, mirando al premio e non alla
fatica, non siano i migliori ad aspirare alla carica, ma i peggiori; sia detto salvando le eccezioni,
rarissime in ogni epoca. Lo sdegnoso appartarsi di tanti uomini veramente grandi e degni, il
profondo disprezzo che essi hanno e nutrono per la lotta politica, nasce dalla istintiva convinzione
che in quella gazzarra non c’è un dovere da compiere, ma un bene, più o meno legittimo, da
arraffare. Ecco perché nella cosiddetta «classe politica» sovrabbondano i rissosi, i violenti, i giovani
ancora in cerca d’un lavoro redditizio: tutti elementi assolutamente inadatti — per mentalità prima
che per capacità — a coprire la carica a cui, invece, aspirano. In questa lotta i buoni e gli adatti non
trovano posto se non a prezzo di sacrifici sproporzionati. Quelli realmente animati dal «sacro
fervore» di operare il bene sono pochissimi e non bastano. Un uomo di vero merito novantanove
volte su cento si ritrarrà nauseato dal verminaio, e adoprerà il suo ingegno per diventare un grande
artista, un grande professionista, un gran maestro: posizione sociale per il cui raggiungimento anche
dovrà battersi e vincere, ma contro una maggioranza di uguali in capacità e dignità, non contro una
massa di cialtroni. L’«invito agli onesti» ad occuparsi di politica, che oggi risuona alto e forte, ma
non più alto e più forte di come ha sempre risuonato, è oggi, come sempre, vano: poiché gli onesti
che non vogliono subire ingiurie, diffamazioni, coltellate; che non intendono mettere a repentaglio
la pace, l’onore, il benessere dei loro cari; che non sanno gridar più forte di chi grida più forte,
calunniare l’avversario che li calunnia, mandare a bastonare il concorrente che li manda a bastonare,
questi onesti non vorranno e non potranno mai occuparsi di politica, e così quella preziosa attività
sarà sempre monopolio degli altri93.
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Dall’altro lato v’è la «Folla», cioè, i «galantuomini», la gente di «buon senso, buon cuore e buona
fede [...], onesta laboriosa e pacifica che forma l’enorme maggioranza della popolazione in tutti i
paesi del mondo» 94. Suo unico desiderio è quello di «essere libera di esser buona, pacifica, amante
del proprio lavoro e del proprio benessere»95, ma è invece costretta a subire privazioni, guerre, lutti,
— essa, maggioranza, — dalla suddetta minoranza di uomini politici professionali:
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L’eterna fonte delle [sue] miserie [è] la verminaia di Capi Sottocapi e Aspiranti Capi intorno al
potere, nella quale ciascun verme vuol mangiare l’altro e teme d’esser mangiato dall’altro 96.
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Con una prolissa (e decisamente semplicistica) trattazione, storica e filosofico-politica, Giannini
intende dimostrare il suo assunto; da un lato cioè la imputabilità al professionismo politico di tutte
le disgrazie dell’umanità, prima tra tutte la guerra, dall’altro l’illegittimità del potere dei «capi». E
la sua è, prima di tutto, una filippica contro il potere, condotta in nome di uno sconfinato, anarchico
amore per la libertà sul cui sfondo riecheggia la famosa frase di Rousseau: «L’Uomo è nato libero e
dappertutto egli è in ceppi»97.
In uno dei punti centrali del libro, si parla appunto della inutilità e illegittimità della guerra, che le
Folle del mondo «non vogliono [...]: la fanno, ma senza convinzione e senza odio»:
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La Folla — e cioè la maggioranza, il vero popolo, la gente veramente onesta —, se ne infischia
delle ideologie dei Capi, non ne ritiene responsabile l’altra Folla, e considera come una comune
disgrazia la tragica imbecillità dei pochi omuncoli in possesso del potere di far tanto e così inutile
male98.
La guerra, benché fatta dalla Folla, non interessa la Folla. È un affare dei Capi: che non fanno la
guerra e si mangiano la vittoria. Bisogna ripetere questa terribile verità come il ritornello d’una
canzone: ripeterla, ripeterla, senza stancarsi, sfidando ogni rischio e ogni minaccia, pronti a subire
ogni reazione degli interessati e dei loro più o meno incoscienti sicari. La guerra è un affare dei
capi! 99
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Per dimostrare l’inutilità della guerra, che la Folla «deve rifiutarsi di fare» 100 perché costituisce
solo un «affare dei capi», Giannini si serve degli esempi della storia, ed esamina con estrema
spregiudicatezza i risultati, per l’Italia, della prima guerra mondiale:
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Nei nuovi territori che entrarono a far parte dell’Italia dopo la conclusione della guerra furono
sostituiti i sindaci di alcune città importanti ed alcuni deputati delle circoscrizioni elettorali
politiche. Gli impiegati austriaci, salvo poche ed altissime eccezioni, rimasero negli uffici e
diventarono impiegati italiani. I militari di carriera del disciolto esercito austro-ungarico entrarono a
far parte del nostro esercito. I magistrati austriaci diventarono magistrati italiani. Ciascuno rimase al
suo posto, e percepì il suo stipendio in lire anziché in corone. Le tasse furono riscosse ugualmente,
dopo essere state aggravate, dagli stessi vecchi uffici, nei quali rimasero quelli che le avevano
sempre riscosse e sapevano riscuoterle: non cambiò che le intestazioni delle bollette, mentre i
sequestri, le angherie, le persecuzioni fiscali crebbero e si acutizzarono. Del cambiamento soffrì la
Folla italiana che pagò, che s’era sbracciata ad applaudire l’irredentismo, che aveva dato la vita dei
suoi figli per sostenerlo: e con lei soffrì la Folla rimasta austriaca o slava o d’altra nazionalità, che
pagò come l’italiana, s’era sbracciata ad applaudire gli antirredentisti, aveva dato la vita dei suoi
figli per combattere l’irredentismo. [...]
Migliorò la sorte di poche centinaia di persone che divennero deputati, senatori, ministri, appaltatori
e altro; non peggiorarono poche migliaia di persone che conservarono il loro grado e il loro
impiego; peggiorò la Folla al di là della nuova linea di confine. Al di qua di quella linea accadde lo
stesso. Salvo pochi politici balzati alla ribalta della notorietà e della prosperità, salvo pochi altri
militari che guadagnarono promozioni e titoli, salvo pochi funzionari, pochi appaltatori: pochi
«Capi» insomma, d’importanza e posizione già preminente, nessuno guadagnò e tutti perdettero.
La Folla italiana ebbe settecentomila morti, la Folla austriaca qualche milione di morti; e per un po’
credette d’aver vinto vedendo sventolare sulle nuove terre la bandiera che le dicevano sua, mentre la
seconda ritenne d’aver perduto vedendone sventolare altre che le dicevano non sue [...] 101.
La sconfitta, realtà per i Capi che perdono lo stipendio, è soltanto un’opinione per la Folla.
Supponiamo che l’Italia dovesse cedere il Veneto alla Jugoslavia, e che la Jugoslavia fosse tanto
sciocca da prenderselo. Cosa accadrebbe per la Folla? Niente.
L’autore di libri continuerebbe a vendere i suoi libri nel Veneto, dove i libri jugoslavi non
potrebbero essere venduti poiché nessuno saprebbe leggerli. Chi commerciava con Treviso, Udine,
Padova, continuerebbe a commerciarvi. Su tutto il territorio ceduto si continuerebbe a fare l’amore,
nascerebbero dei bimbi che imparerebbero a parlare l’italiano con accento veneto, e andrebbero poi
a studiare, nelle scuole italiane, delle sciocchezze poco diverse da quelle che studierebbero se il
provveditore agli studi dipendesse da Roma anziché da Belgrado [...]. Dall’Italia si continuerebbe
ad andare a Venezia in viaggio di nozze, così come prima della guerra ci si andava dalla Jugoslavia.
Gli sposi comprerebbero ricordi di Venezia con piacere e profitto dei venditori, pacchetti di miglio o
di grano da dare ai piccioni, e si farebbero fotografare alla luce dell’eterno sole, indipendente da
Roma e da Belgrado, dallo stesso fotografo [...]. Unico vero cambiamento: il prefetto di Venezia
sarebbe jugoslavo anziché napoletano o piemontese. E cos’importa alla Folla che un prefetto si
chiami Milan Nencic anziché Gennaro Coppola o Alberto Rossi? Deve dare la vita dei suoi figli e la
sua per così poco? Da quando sono finite la spedizione di cannibali e di sterminio che interessavano
la Comunità attaccante bisognosa di vettovagliamento e di bottino, la Comunità difendentesi per
non essere annientata, le guerre son diventate un esclusivo interesse dei Capi, al quale la Folla non
partecipa se non soffrendo la guerra, quale ne sarà l’esito. L’angelo rosso della vittoria, l’angelo
grigio della sconfitta, non visitano mai la Folla: ma sempre e soltanto i Capi. È perciò che le Folle
non bramano che la fine della guerra che è il loro danno: e, quando possono, l’affrettano con la
rivolta contro il Capo che vorrebbe continuare la Resistenza a lui solo utile 102.
@@@
Dopo questa dissacrazione della guerra e dei suoi obiettivi, particolarmente cruda quando si
soffermava con ironia su quella con cui l’Italia aveva completato il proprio Risorgimento nazionale,
Giannini passava a demolire valori come patria, eroismo e onore, null’altro che fraudolenti miti di
cui i capi si servono per indurre le proprie Folle alla guerra:
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I Capi per costringere le Folle a battersi per essi, hanno inventato ed escogitato ogni sorta di mezzi:
polizia, tribunali, carceri, plotoni d’esecuzione, disciplina, gerarchia militare. Ma la costrizione
materiale basta fino a un certo punto, e così i Capi hanno fatto ricorso a certi speciali miti, mezzi di
costrizione spirituale, che agiscono con enorme forza specialmente sull’animo dei giovani, nei quali
la generosa esperienza facilita l’assorbimento delle panzane. Questi miti si presentano sotto i più bei
nomi, fra i quali quello di Patria è il più affascinante e sonoro [...]. Non c’è niente di più falso [del
mito della patria e della sua immortalità] e, se qualcosa è mortale sulla terra, l’idea della patria è la
più mortale di tutte [...]. Oltre a quello della «patria» vari altri miti incombono sulla guerra per
rappresentarla sempre più necessaria e «fatale» nell’esclusivo interesse dei Capi. Tali miti si
fregiano dei nomi di gloria, onore, eroismo, dignità, giustizia, indipendenza e altri [...]: [essi sono]
trucchi dietro cui si nascondono l’interesse, l’avidità, la stupidaggine o l’intelligenza dei Capi. La
guerra, che solo alla Folla tocca fare o soffrire, ha altre cause, mai quelle mascherate dai miti
bugiardi dal sonante nome. Non è che un affare di Capi, un affare di Capi, un affare di Capi103.
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Le sventure delle Folle dipendono dunque dall’eccessivo potere di cui dispongono i Capi, potere
che non ha più alcuna giustificazione allo stadio attuale cui il progresso ha condotto l’umanità: i
popoli non hanno più bisogno di essere guidati dai capi in tutte le attività della loro vita, e al potere
non deve restare altra funzione, in uno Stato moderno, che quella di «amministrare» la comunità.
Inizia così, da parte di Giannini, l’esposizione di quella che vorrebbe essere la parte «costruttiva»
della sua teoria:
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Con l’invenzione della stampa, del cinematografo, della radio, la diffusione della cultura con i
mezzi sempre più efficaci che il progresso ha donato e continua a donare all’umanità, la Folla può e
deve rinunziare all’eroe, così come ha rinunziato al mulattiere da quando l’attraversamento della
montagna si può fare in uno scompartimento ferroviario. La Folla d’oggi non è più il branco di
disorientati che aveva bisogno di Prometeo per accendere il fuoco, [essa non ha bisogno altro che di
essere «amministrata», che cioè le sia «consentita»] la libertà di muoversi; per cui occorrono strade,
ferrovie, ponti, porti, navi; la libertà di nutrirsi: per cui occorrono l’agricoltura, l’industria, il
commercio; la libertà di gioire del dono della vita, che è la vita stessa: per cui occorrono tutte le
altre cose necessarie alla gioia di vivere; dalla giustizia, per dare al cittadino la sicurezza contro i
delinquenti; alla scuola, per metterlo in grado d’imparare a leggere e, con questo, di conoscere il
pensiero altrui; a scrivere e, con questo, di poter far conoscere ad altrui il suo pensiero [...]. Oltre
alla funzione di assicurare queste libertà, che costituiscono il massimo di quel preziosissimo bene
che è la libertà civile, e per il conseguimento del quale l’uomo rinunzia alla libertà naturale dandosi
un governo e delle leggi, il governo d’un paese non ha e non può avere altre funzioni: non deve
averle.
Il «governo morale», il cosiddetto «Stato etico» che pretende d’insegnare a pensare al cittadino ciò
che esso Stato crede morale, giusto, bene, costituisce una violazione della libertà del cittadino [...].
La concezione dello Stato pedagogo, mentore, tutore, seccatore, [... dello] Stato-padre, [del]lo Stato-
etico, [del]lo Stato-cervello che pretende di regnare sull’anima, sul cuore, sulla coscienza del
cittadino, è un non senso da respingere per principio, senza onorarlo di discussione [...]. Lo Stato
dev’essere ridotto alla sua funzione più semplice ed elementare che è quella d’amministrare il
paese, lasciando che gli uomini che vivono nel paese ci vivano nella massima libertà civile
consentibile. Ogni appesantimento dello Stato non è che un appesantimento che tutta la Folla deve
sopportare; ogni nuova mansione che si vuol dare allo Stato, togliendola all’uomo che sa esplicarla
per conferirla a un upp [uomo politico professionale] che non sa, è un attentato alla libertà civile, e
un danno alla prosperità comune. Lo Stato non deve commerciare, non deve produrre [...]. Non
deve — non può — nemmeno gestire la vendita dei tabacchi e del sale 104.
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Con la riduzione delle funzioni dello Stato alla pura e semplice «amministrazione», Giannini vede
risolti i problemi dal cui assillo era stato indotto alla sua speculazione teorica: essendo la naturale
amministratrice della società, e quindi il suo «effettivo governo», la burocrazia, composta «di
persone che sanno governare, e che di fatto governano, illuminandoci le strade di notte,
provvedendo a che le fognature funzionino, e che le derrate arrivino sui mercati e a tutti gli altri
bisogni pubblici»105, gli uomini politici non dovranno fare altro che «controllare chi effettivamente
governa» 106. Essi verranno scelti a sorte e sempre per un limitato periodo di tempo e, dato che il
potere non avrà più da offrire gli smisurati vantaggi di prima, scompariranno i professionisti politici
e con essi le disavventure delle Folle; a fare i controllori degli amministratori della comunità
saranno gli uomini onesti, tornati alla politica che ha cessato di essere lotta per il potere.
Termina così la lunga querelle contro i Capi: l’eliminazione del loro potere è urgente, pena una
colossale rivoluzione in tutto il mondo, perché la Folla, «la grande truffata, non sa parlare, ma pensa
con tutti i suoi cervelli. Non è contenta, si sente ingannata e offesa, le sue ferite bruciano, la sua
collera spaventevole può esplodere da un momento all’altro. Se scoppia, scoppierà in tutto il
mondo: e non ci sarà angolo dimenticato di terra dove i Capi, buoni o cattivi, potranno morire di
vecchiaia» 107.
L’eccessivo potere dei Capi, fonte per l’umanità di miserie e di lutti, era un problema realmente
vivo in un paese appena uscito da una guerra voluta da un solo uomo. Ma Giannini non distingueva
tra dittatura e democrazia, condannava i regimi politici in quanto tali, di tutte le epoche, di tutti i
colori. Alla base del suo sistema c’era il rifiuto dei «sommi valori» in difesa dei quali anche una
democrazia può chiamare i suoi figli a combattere: per lui erano tutti tragici espedienti della lotta
politica, miti bugiardi, «panzane», di cui gli uomini politici si servono per la scalata al potere.
Anche le critiche alla classe politica potevano avere una qualche giustificazione, ma Giannini la
condannava in blocco e in maniera radicale, e non pensava a correggerne i difetti attraverso sistemi
di controllo e di maggior apertura dei suoi metodi al «paese reale»; al contrario intendeva
soppiantarla completamente bandendo la politica dalla vita civile, non rendendosi conto che
soltanto attraverso la lotta politica una comunità può scegliere quel sistema di valori di fondo, ideali
e pratici, entro i quali vivere 108.
Giannini negava valore alle ideologie quali che fossero, in nome di «uomini qualunque» che
avevano rinunciato alla loro umanità, al loro essere cioè «animali politici» naturalmente portati a
scelte ideali e alla lotta per esse, e altro desiderio non avevano che quello di vivere in pace, badando
tranquillamente ai propri affari in una esistenza piatta ed edonistica all’insegna di una libertà quasi
assoluta. È questo, innanzitutto, come meglio vedremo, il qualunquismo, cioè il cieco
individualismo di chi, rinchiusosi in se stesso, ad altro non riesce a badare che al proprio gretto
«particulare», rifiutandosi di impegnare la propria esistenza nella vita della comunità; lo scetticismo
e la diffidenza nei confronti degli ideali e della politica, e il radicato disprezzo per gli uomini
politici unito al moralistico sentimento della propria superiorità: una mentalità negativa e
irrazionale, incapace di sano discernimento e istintivamente portata al rifiuto del confronto
dialettico, e perciò al rifiuto sic et simpliciter del mondo che vuole scegliere e lottare per le sue
scelte.
Questo qualunquismo — «la vecchia scemenza dell’antipoliticità», come scriverà Salvatorelli 109 —
non era certo un’invenzione di Giannini: egli, da buon uomo di teatro, lo aveva notato come stato
d’animo largamente diffuso nel paese, ed aveva cercato di innalzarlo a filosofia politica, con
risultati che se da un punto di vista ideologico toccavano molto spesso la banalità, da quello
sociopolitico si riveleranno produttivi di eventi importanti per la nostra storia.
La protesta lanciata dal commediografo era, a ben vedere, una protesta borghese. Sebbene egli
parlasse della Folla comprendendo in essa proletariato e borghesia, accomunati nell’oppressione dei
«capi proletari» e di quelli «borghesi», alla borghesia (alta, media e piccola) si riferiva come alla
parte eletta: era essa l’aristocrazia dell’intelligenza e del lavoro contrapposta agli inetti e corrotti
politicanti, la massa dei burocrati, con il «buon ragioniere» in testa, che, dall’alto della propria
competenza e onestà morale, criticava la classe politica e intendeva soppiantarla; essa, soprattutto,
la maggioranza di «buon senso, buon cuore e buona fede, onesta laboriosa e pacifica», «amante del
proprio lavoro e del proprio benessere». Nel mondo ideale di Giannini, alla borghesia spettava una
superiorità indiscussa.
La difesa della borghesia fu appunto un motivo polemico svolto fin dai primi numeri dell’«Uomo
qualunque». E il qualunquismo, divenuto partito politico, costituirà effettivamente un fenomeno di
protesta borghese. Ma in questa protesta verranno messi da parte molti aspetti dell’originaria teoria
gianniniana, tutta pervasa, come si è visto, da un forte spirito libertario, nel quale la filippica contro
gli uomini politici professionali era anche dissacrazione dei falsi miti di patria ed eroismo, era
antimilitarismo ed internazionale dei popoli oppressi («se dovessi darmi un colore politico — dirà il
commediografo 110 — io mi definirei anarchico»).
Nel concreto della sua battaglia politica il Fronte dell’Uomo Qualunque insabbierà le tinte anarcoidi
che costituivano la genuina essenza del pensiero del suo capo, metterà da parte l’agnosticismo
ideologico dandosi vesti liberali e cattoliche, rifiuterà di considerare sullo stesso spregevole piano
tutti gli uomini politici e tutti i partiti cercando alleanze e intese, in funzione antimarxista, con
monarchici, liberali, democristiani, si proclamerà difensore dei miti di patria e di onore.
Tuttavia, lo spirito profondamente libertario di Giannini rifiorirà a tratti, con veemenza, al di là dei
pesanti condizionamenti della realtà, costituendo, in ultima analisi, la causa principale della sua
subitanea fine politica.

II. APRILE 1945-FEBBRAIO 1946: DAL «VENTO DEL NORD» AL PRIMO


CONGRESSO NAZIONALE DEL FRONTE DELL’UOMO QUALUNQUE

La lotta politica dopo la Liberazione: il governo Parri.


L’ostilità nei confronti della coalizione di governo antifascista era destinata ad accentuarsi con la
completa liberazione del paese.
Nelle giornate dell’aprile ’45 si realizzava finalmente il sogno della sconfitta del nazifascismo, e,
con esso, sembrava dovesse attuarsi quel radicale rinnovamento delle strutture sociali che costituiva
parte essenziale e qualificante del significato storico della Resistenza. Milano, Torino, Genova,
Modena, Ferrara e molti altri centri più o meno importanti erano stati liberati autonomamente dalle
formazioni partigiane, e i Cln avevano immediatamente assunto in essi tutti i poteri di governo,
provvedendo ad alcuni atti di chiaro contenuto rivoluzionario, come l’emissione di mandati di
cattura per i principali «capitani di industria» e la nomina di commissari e consigli di gestione nelle
aziende.
Negli uomini di sinistra che erano a capo del movimento di Liberazione era assai viva la
persuasione che si stessero vivendo ore decisive per il futuro assetto dell’Italia, che cioè «dalla
Resistenza, dalla guerra partigiana, dagli scioperi, dall’insurrezione, una qualche rivoluzione
potesse e dovesse scaturire» 1. Non era questa una rivoluzione da affidare alla violenza delle armi,
giacché anche socialisti e azionisti volevano evitare una
«prospettiva greca», ma si intendeva imporla come dato di fatto, come frutto della volontà popolare
2.

C’era in questi propositi una buona dose d’ingenuità. Una volta infatti rifiutata la strada
dell’insurrezione antiborghese, l’immediato rinnovamento poteva essere avviato solo con il
consenso delle altre forze politiche, e liberali e democristiani non erano certo favorevoli a misure
come quelle instaurate nelle fabbriche. Si voleva superare ogni resistenza, è vero, basandosi sulla
volontà delle masse popolari che quell’immediato rinnovamento chiedevano, ma (e questo era
ancora più importante), quelle masse, anche se consistenti e combattive al Nord, non
rappresentavano la maggioranza del paese nel suo complesso, come forse speravano i leader
antifascisti. C’erano altre masse, molto più numerose, come si vedrà, che nell’Italia centro-
meridionale guardavano attonite a ciò che succedeva al Nord durante le giornate della Liberazione,
e si chiudevano istintivamente in un atteggiamento di ostile difesa, spaventate dagli slogan
rivoluzionari che spesso assumevano toni apocalittici 3. Ma, soprattutto, lo spavento veniva
alimentato da una situazione dell’ordine pubblico che sembrava il sintomo evidente della imminente
catastrofe.
Casi di aggressioni, attentati, violenze contro singoli e partiti avevano movimentato fin dal 1943-44
le cronache dell’Italia meridionale, tanto da indurre De Gasperi a lamentarsene in una sua risposta
agli inviti di collaborazione di Togliatti: «Premessa inderogabile di ogni collaborazione presente e
futura è quella di creare e salvaguardare un clima di libertà e di autodisciplina. Proprio ieri mi sono
stati segnalati, dopo molti altri, quattro casi di comizi democratici cristiani nel Lazio violentemente
interrotti da gruppi comunisti» 4. In qualche caso si era assistito a macroscopici episodi di
sedizione, come nel marzo ’45 in Calabria, quando, a Caulonia e a Roccaforte del Greco, l’arresto
del figlio del sindaco comunista nel primo e la sospensione del sindaco pure comunista nel secondo
centro, avevano provocato tumulti, assalto a caserme di carabinieri, uccisione di un parroco,
isolamento dell’abitato con tanto di mitragliatrici a guardia del ponte di accesso, imperversare di
bande armate pseudopartigiane nella provincia; il prefetto di Reggio Calabria, il. socialista Priolo,
sospeso dal governo per il suo atteggiamento poco fermo nei confronti dei rivoltosi, aveva
volutamente ignorato gli ordini di Roma ed era restato al suo posto facendo affiggere dei manifesti
contro «il governo dei fascisti Bonomi e De Gasperi»5.
Con la Liberazione, gli episodi di violenza aumentarono. La tensione rivoluzionaria delle masse
partigiane aveva trovato un immediato sfogo, nelle giornate dell’aprile, nella punizione dei
collaborazionisti. Nonostante che un decreto del 22 aprile istituisse le corti d’Assise straordinarie
proprio per mantenere su un terreno quanto più possibile legalitario le punizioni, non mancarono gli
episodi di esecuzioni sommarie al di là di ogni garanzia giuridica, o addirittura veri e propri crimini
brutali, destinati purtroppo a protrarsi per diverso tempo ancora dopo la Liberazione.
All’esecuzione dei fascisti andava di pari passo la ostentazione, molto diffusa nella base partigiana,
di un’imminente palingenesi sociale, che avrebbe tolto all’odiata borghesia i suoi antichi privilegi:
nella classe operaia «i ricordi del ’21, la dittatura fascista, la Resistenza, [...] hanno radicato la
convinzione che il riformismo appartenga ormai al passato, che la conquista del potere è questione
di forza ben diretta, che ora questa forza c’è, questa buona direzione esiste, per cui i giorni del
capitalismo italiano sono contati» 6.
L’eco degli avvenimenti del Nord provocava confusi sussulti rivoluzionari in varie zone del paese.
Tra il giugno e il luglio si ripetevano, nel Meridione, i gravi fatti avvenuti nel marzo in Calabria.
Questa volta l’epicentro di essi fu in Puglia, ad Andria e a Minervino Murge. In quest’ultimo paese,
il 23 giugno, l’arresto di 3 uomini sospettati di appartenere a una banda che, in provincia di Bari,
era giunta a rapinare un treno, provocò l’assalto della caserma dei carabinieri, con il bilancio di un
morto e un ferito grave. L’episodio degenerò ben presto in un’aperta rivolta, con occupazione di
uffici pubblici, liberazione di 50 detenuti comuni, barricate sulle vie d’accesso al paese. Quando
giunsero i rinforzi di polizia da Bari e da Foggia, ricorda De Maggi 7, «vennero accolti dal fuoco di
fucili e mitragliatrici e persino di un cannoncino. [...] Intanto le agitazioni si estesero ad Andria: un
gruppo di facinorosi, in gran parte borsari neri pregiudicati, insediato nella locale sezione
comunista, armato di mitra e di bombe [a mano], disarmati i pochi carabinieri, divenne il padrone
assoluto della cittadina, dandosi a persecuzioni, atti di violenze, arresti arbitrari, requisizione di
viveri e di automezzi, il tutto nel nome della rivoluzione comunista: fu una vera repubblica rossa
che per cinque giorni dominò Andria [...]».
In questi episodi, poco o nulla erano implicate le responsabilità dei militanti proletari, giacché si
trattava di delinquenti comuni camuffatisi da comunisti o da partigiani per esercitare vendette
personali e prepotenze. Per di più molto spesso la violenza, anche se si manifestava con etichette
politiche, aveva un chiaro carattere di ribellismo anarcoide motivato dalla miseria e dalla
disperazione. Lo dimostravano la ripresa della occupazione di terre (ad Ortucchio, nel Fucino, il 18
ottobre ’44, un contadino era stato ucciso e sei feriti dalla forza pubblica intervenuta in difesa delle
proprietà del principe Torlonia), le convulse agitazioni dei disoccupati: poteva accadere che 300
contadini assaltassero gli uffici delle imposte ed incendiassero «atti, bollettari, marche e valori
bollati»8, come ad Agnone, in provincia di Campobasso, il 15 agosto 1945, o che turbe di reduci
invadessero municipi reclamando il licenziamento dei fascisti e delle donne, come il 9 agosto a
Messina9. «Dall’Abruzzo in giù — scriveva 1’«Avanti!» il 29 giugno del 1945 10 — il fenomeno
determinante [della violenza] è la miseria. Un po’ dappertutto sono segnalate schiere di giovani
disoccupati, avviliti, sovente affamati, che errano di villaggio in villaggio, spinti dal bisogno e da un
certo gusto dell’avventura, che è anch’esso un postumo della guerra».
I disordini, inoltre, non avevano un’origine univoca anche quando erano provocati da motivi
politici, come dimostravano, qua e là, manifestazioni anticomuniste di reduci, attentati di
fantomatiche organizzazioni neofasciste, ed altri episodi di violenza contro i partiti di sinistra 11.
Nell’estate-autunno del 1945 cominciò anzi a delinearsi nettamente una «ondata di violenza delle
destre» con il suo epicentro in Puglia, come arrivò ad ammettere, il 18 novembre, il quotidiano «Il
Tempo» 12, non certo tenero con il «clima Cln»; lo stesso presidente del Consiglio Parri, il 22
settembre, durante una visita a Napoli, si trovò al centro di una violenta manifestazione di protesta
da parte di reduci, disoccupati, lavoratori del porto, probabilmente aizzati da elementi di destra, che
al grido di «lavoro e pane» giunsero a devastare la Camera del lavoro 13.
Nonostante i gravi perturbamenti, la situazione dell’ordine pubblico non era in realtà così
catastrofica come poteva sembrare:
@
Il dopoguerra italiano era per sacrifici, per miseria, per turbolenze, assai meno tetro di quello che i
chiaroveggenti credevano di dover prevedere nel 1944: il Paese mostrava un rigoglio, una capacità
di ripresa, quale i più ottimisti non avrebbero osato sperare. Quanto a turbolenze, a delitti a sfondo
politico o sociale, chi ricordava che cosa fossero stati il 1799 o il 1815, particolarmente nel
Mezzogiorno, o il 1849 in Piemonte, o il 1860-1861 in tutto il Mezzogiorno d’Italia, e raffrontava i
modici eventi di guerra di allora con la immane vicenda bellica del 1940-1945, non poteva non
scorgere quale confortante quadro fosse nell’insieme quello italiano, e come dimostrasse l’alto
grado di civiltà, la mitezza, lo spirito cristiano del nostro popolo.
Ma tutto questo lo poteva vedere l’uomo di cultura; all’uomo della strada che non compie raffronti,
per cui tutto è grande ciò che è nel presente, e ignorate o dimenticate o piccole sono le vicende del
passato, i mali del dopoguerra sembravano enormi, i delitti a sfondo politico o sociale perpetrati in
alcune regioni d’Italia componevano un quadro pauroso 14.
@@@
In questo «quadro pauroso», reso ancor più tale dalla lunga abitudine all’impero dell’«ordine», si
era portati a generalizzare i fenomeni di delinquenza e di banditismo e a parlare di anarchia
dominante; si confondeva violenza comune e politica e si voleva vedere nei delitti commessi al
Nord ed in episodi di autoesaltazione collettiva — delitti di folla — l’ordine superiore dei
«bolscevichi» italiani. I dirigenti del Pci, e Togliatti in primo luogo, avevano invece compiuto ogni
sforzo per soffocare delitti e illegalismo, e se non avevano smantellato del tutto l’apparato
partigiano, era stato un po’ per timore di essere scavalcati a sinistra da altri gruppi, un po’ per non
rinunziare alla forte pressione morale e politica esercitata sugli altri partiti di governo dal potenziale
rivoluzionario popolare. Fatto sta che «nei quadri e nella massa del partito» la «mentalità
massimalista» era «molto diffusa» 15, e gli esponenti locali comunisti si lasciavano spesso andare
«in modo caotico [a] parole d’ordine ispirate alla prospettiva di una rivoluzione socialista
imminente» 16.
In questa situazione, l’equazione era semplice per gli osservatori poco attenti, e tali erano le masse
dei ceti medi italiani: disordini e violenze partigiane si aggiungevano alla già paventata azione
epurativa e più in generale politica dei Cln come ultime tessere che stavano ormai completando quel
piano di una conquista rivoluzionaria del potere in nome della dittatura del proletariato,
continuamente sbandierato dalla base operaia.
Il peso delle forze di sinistra era divenuto, nel giugno 1945, preponderante. Era assurto infatti alla
guida della nuova coalizione governativa (della quale tornavano a far parte azionisti e socialisti)
Ferruccio Parri: la sua nomina sembrava secondare in pieno le aspirazioni delle masse partigiane
che, trascinato dall’entusiasmo per il «vento del Nord», Nenni andava riassumendo nell’obbiettivo
di «un governo nuovo» che avesse «le caratteristiche di un vero e proprio Comitato di Salute
Pubblica per condurre la lotta contro i residui fascisti e per la convocazione della Costituente» 17.
Proprio durante il governo Parri, che rappresentò il tentativo più avanzato di avviare il
rinnovamento nel paese, si verificò quell’inasprimento della tensione interna di cui abbiamo
descritto gli episodi più significativi, che le pubbliche autorità faticavano non poco a dominare, un
po’ per intrinseca debolezza, un po’ perché Parri preferiva assumere nei confronti delle agitazioni
popolari un atteggiamento «conciliante e attendistico» 18. Tutto ciò, unito alla difficoltà di risolvere
d’un tratto i gravi problemi alimentari e più in generale economici, offriva l’estro all’opposizione
crescente di attaccare il governo da tutti i punti di vista, accusandolo di inefficienza e parlando di
disordini e di violenza imperanti, di strapotere dei Cln, di piani rivoluzionari.
Le critiche che da destra erano rivolte a Parri, avevano come sottofondo l’ostilità di circoli ben
determinati verso alcuni provvedimenti che il nuovo governo intendeva varare e che consistevano,
innanzitutto, nel rinvigorimento dell’azione epurativa e nella sua estensione all’industria privata.
Sempre allo scopo di colpire la borghesia monopolistica, il governo aveva elaborato un piano
economico che prevedeva la distribuzione delle scarse materie prime disponibili a favore delle
medie e piccole aziende. Contemporaneamente si profilava, a scopi fiscali contro il grande capitale,
l’idea del cambio della moneta che, accanto a quella di un’imposta straordinaria sul patrimonio, il
ministro comunista Scoccimarro tenterà invano, tra mille difficoltà e rinvìi, di condurre in porto 19.
La difficile situazione dell’ordine pubblico, il problema dell’epurazione e quello dei Cln, uniti ai
progetti «eversori» di
Parri, erano dunque motivi più che sufficienti a provocare la convergente reazione di quelle forze
che, nel paese e all’estero, temevano in varia misura prospettive rivoluzionarie antiborghesi. Fra
queste forze, oltre alle oligarchie economiche minacciate dai programmi del governo, erano gli
alleati anglo-americani, timorosi di uno slittamento a sinistra del paese posto sotto la loro influenza,
e, all’interno stesso della coalizione governativa, partiti come il democristiano e il liberale. Questi
ultimi già si erano trovati in contrasto con le sinistre sull’impostazione dell’epurazione e sul
problema dei Cln. Ora, dopo la Liberazione, il radicalismo di certe richieste, lo spirito
rivoluzionario che, dal Nord, sembrava dovesse sommergere l’intero paese, accentuavano di ora in
ora il contrasto. A renderlo insanabile, fino a provocare la caduta di Parri, contribuirà in modo
decisivo un altro elemento: la constatazione, da parte dei dirigenti cattolici e soprattutto liberali,
della dilagante avversione al governo, e più in generale all’antifascismo al potere, dell’opinione
pubblica moderata italiana. E di tale avversione era indice inequivocabile il grande successo che
andava riscuotendo l’azione politica di un semplice giornalista.

Dalla sospensione dell’«Uomo qualunque» al «Grido di dolore».


Il primo numero dell’«Uomo qualunque», «giornale antinazionalista» come l’aveva chiamato
Giannini, aveva ottenuto un lusinghiero successo. Le 25.000 copie stampate si erano esaurite
rapidamente e, in appena due giorni, con le ristampe, ne erano state vendute in totale 80.000 20. «A
che cosa ed a chi è dunque dovuto il gran successo? — si era chiesto il commediografo sul secondo
numero21 —. Al programma del giornale che ha trovato immediata rispondenza nel pubblico; al
pubblico che s’è ‘ passata la voce ’ ed è corso a chiedere il giornale. Si tratta dunque di un successo
politico prima che giornalistico: ne tengano conto i colleghi che ci onoreranno dei loro consensi e
dissensi».
A parte un breve comunicato del «Popolo», nessun giornale si era occupato dell’uscita dell’«Uomo
qualunque», e in realtà per diverso tempo ancora la grande stampa nazionale mostrerà di ignorare la
presenza del settimanale e l’importanza della sua battaglia politica, provocando la stizza di
Giannini. A prendere sul serio la nuova pubblicazione fu invece, ben presto, «l’Unità», che in una
nota del 7 gennaio ’45 ne denunziava le torbide posizioni, accusandola di disfattismo e di invitare
«metodicamente i suoi lettori a rimpiangere il fascismo»:
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Quando un uomo qualunque — spiegava il quotidiano comunista 22 — ci dice che non crede più a
niente né a nessuno, che sono la stessa cosa fascismo e antifascismo e cento altre cose del genere
che non possono in nessun modo contribuire allo sforzo di guerra, nessuno può contestarci il diritto
di affermare che quest’uomo qualunque è oggettivamente un fascista e un provocatore. E nessuno
può contestarci il diritto di chiedere che a questo giornale venga tolta la carta, che gli venga tolto il
permesso di pubblicazione e che i suoi redattori vengano puniti per propaganda disfattista.
@@@
Giannini mostrerà di meravigliarsi dell’attacco comunista, date le lodi fatte nei primi numeri a quel
partito, si dichiarerà quasi offeso nel suo «sincero, disinteressato, convinto filocomunismo» 23. Al
De Vita, autore delle accuse, risponde però con arrogante fermezza:
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Non sono fascista e non lo sono mai stato [...]. Ma non sono nemmeno antifascista o, se lo sono
stato quando esserlo apertamente era pericoloso e quindi coraggioso, non lo sono più da quando
l’antifascismo è diventato, come il fascismo, una professione, una qualifica per far carriera, un
mezzo per assicurarsi impieghi, stipendi, forniture, appalti, un modo per farsi una posizione e
concludere dei buoni affari [...]. Come mi sono infischiato del fascismo e dei suoi settari così
m’infischio dell’antifascismo e dei suoi settari24.
@@@
A questa ostentazione di indifferenza tra fascismo e antifascismo replicava il De Vita, e anche
Momigliano sul demolaburista «Ricostruzione», entrambi stigmatizzando la «neutralità» del
commediografo: «Quando un regime ha la responsabilità di una serie di delitti e di quello maggiore
di aver portato l’Italia alla rovina — affermava Momigliano 25 — non è possibile essere neutrali:
occorre scegliere tra il carnefice e la vittima. E quando non ci si pronunzia chi ci guadagna è il
carnefice e così si solidarizza con lui anche col silenzio».
La reazione di Giannini è pronta: al De Vita chiarisce di non essere affatto neutrale rispetto al
fascismo e all’antifascismo, «ma nemico: e acerrimo, e disprezzatore convinto di tutti e due. Niente
neutralità, ma inimicizia, e calci all’uno e all’altro con rigorosa equanimità. Esser soltanto neutrali
tra due parassitismi sarebbe troppo comodo: per i parassiti, s’intende» 26. Per rispondere a
Momigliano, poi, Giannini inaugura la «tecnica» dell’attacco personale all’avversario, condotto
senza alcun ritegno, anche a costo di invadere e diffamare la sua vita privata, con una ironia a volte
divertente ed efficace, altre insolente e triviale.
Per il momento, tuttavia, dalla prosa di Giannini sono ancora assenti le famose «parolacce»:
«Ricostruzione» è «il quotidiano più inutile d’Europa», e non è letto da nessuno «fuori che [da] i
trentacinque capi dei radicali»27; quanto al suo direttore, Eucardio Momigliano, «come giornalista
non è niente — e lo prova “ Ricostruzione ” —, come avvocato non supera d’un centimetro la folla
degli avvocati medi che sbarca il lunario nel nostro paese, come scrittore non ha messo fuori altro
che operette di compilazione che qualunque laureato può agevolmente e diligentemente produrre.
Se non portasse il curioso nome di Eucardio nessuno si accorgerebbe di lui» 28.
Ma, soprattutto, è all’antifascismo dell’autorevole esponente demolaburista che Giannini dirige,
nelle Vespe, i suoi strali:
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Durante il fascismo, dopo quel monumento di significativo ed operante antifascismo che fu «la
clausola di irresponsabilità per furto nel contratto di trasporto marittimo» Eucardio dette alla luce
un’altra opera spaventosamente antifascista: «Il valore morale del settebello nello Scopone
scientifico». Sta preparando ora un -significativo volume che non poté pubblicare prima per non
incorrere nei rigori del terrore fascista [...]. L’opera getta una corrente di luce sul terribile problema
dell’alimentazione mondiale, e s’intitola: «Cinquanta maniere di cucinare il coniglio» 29.
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Giannini sentiva che il suo stile riscuoteva successo. L’attacco dell’«Unità», d’altro canto, lo aveva
reso più bellicoso: egli riprendeva con veemenza gli attacchi ai «bonzi del Comitato Nazionale di
Liberazione, che non hanno liberato che se stessi dai conventi dov’erano nascosti» 30; al
«banditismo politico che non si può più eliminare se non eliminando la politica e trasformandola in
amministrazione pura e semplice»31; all’epurazione, che solo il popolo italiano aveva il diritto di
fare, e non gli antifascisti, interni e stranieri, per nulla mondi di responsabilità.
Giannini impostava, con queste affermazioni, un altro dei motivi del successo qualunquista: al
paese afflitto da un pesante complesso di colpa, egli griderà sempre di scuotersi dall’avvilimento, di
non considerarsi sconfitto, di guardare orgogliosamente, dall’alto in basso, i suoi pretesi giudici, e
lo farà rievocando la sua storia millenaria, le glorie di Roma, l’onore con cui si era combattuto, etc.
È indubbio il sapore nazionalistico di certe argomentazioni lanciate in nome della «Grande Madre
Nostra» (qualche volta coincidenti con quelle della propaganda fascista) 32. Se è vero che Giannini,
nonostante queste «impennate», non era assolutamente un nazionalista, tuttavia esse facevano
nascere grossi equivoci sulle posizioni del qualunquismo. Che diritto avevano gli stranieri di punire
l’Italia per le sue colpe fasciste? — si leggeva sul settimanale —. Non erano stati forse Churchill e
Roosevelt a pregare il «dittatore folle»33 perché rimanesse neutrale, ben disposti a coprirlo di onori?
E poi, non era vero che i vincitori rappresentassero la verità e la giustizia, anzi fascismo e
antifascismo, Churchill e Mussolini, Roosevelt e Hitler, non facevano differenza: «aggressori e
vittime» s’identificavano assurdamente anche in campo internazionale, e l’aver «prostituito» l’Italia
ai tedeschi o agli anglo-americani costituiva «identica turpitudine», secondo una convinzione molto
diffusa nell’opinione pubblica moderata:
@
La pretesa di una politica italiana è ridicola, come è ridicola e assurda l’idea di volere e dover
pagare per la nostra cosiddetta sconfitta, come sono ridicole assurde e pazzesche le requisitorie di
politici mestieranti, italiani e stranieri, sulle nostre colpe, sulla nostra riabilitazione ed altre
sciocchezze più o meno malvage e più o meno melense. Non abbiamo mai creduto che Mussolini
avesse sempre ragione: non crediamo che l’abbiano sempre gli altri. Prostituire e avvilire il proprio
paese ai tedeschi, prostituirlo e avvilirlo agli angloamericani, per noi è identica turpitudine.
Non comprendiamo perché l’aggressione fascista alla Francia debba disonorare tutti gli italiani;
mentre l’aggressione polacca alla Cecoslovacchia piegata, l’aggressione russa alla Polonia morente,
alla Finlandia incolpevole, alla Romania abbandonata, debbano esser considerate buona e legittima
politica34.
@@@
Quanto all’antifascismo italiano, Giannini gli negava il diritto di «scagliare la prima pietra»:
@
Ridotta nella formula essenziale l’accusa che si muove ai colpevoli del fascismo e della catastrofe è
quella di non essere stati eroi. Ma chi ha il diritto di scagliare questa prima pietra? Non certo gli
uomini politici professionali che, autoproclamatisi rappresentanti del popolo, non ci appariscono
mondi dello stesso peccato. E difatti chi scappò davanti ai primi e pochi squadristi? Chi subì
passivamente gli ostracismi imposti dai primi sparuti gruppi di manganellatori? Chi permise
l’espulsione dei primi consiglieri comunali, dei primi deputati? Chi tollerò l’assalto ai primi
giornali, alle prime abitazioni? [...] Resistettero i pochi, i pochissimi, gl’isolati, gli anonimi: molti
pagarono con la vita quella resistenza.
Ma gli uomini politici professionali — deputati, senatori, grandi giornalisti, grandi elettori, pezzi
grossi delle amministrazioni locali — ad eccezione di Matteotti e di Amendola, non dettero prova
che del facile coraggio verbale, presto risolto in prudente mormorazione. Chi osò organizzare delle
controsquadre, chi impugnò il contromanganello, chi s’armò di una bottiglia di olio di ricino e
costrinse un Mussolini o un Farinacci a berla? [...]
Senza la guerra, perduta dopo la prima prova sul fronte francese, [Mussolini] starebbe a Palazzo
Venezia [...]. Nessuno è stato eroe tra quelli che avrebbero dovuto esserlo [...]. Questo l’Uomo
Qualunque lo sa e lo sente: ed ecco perché diffida dell’epurazione, e la guarda con lo stesso amaro
sorriso con cui ha guardato il fascismo per tanti anni35.
@@@
Nella sua polemica, Giannini condannava il potere in quanto tale, quale che ne fosse la colorazione
ideologica. Ma, in quel momento, il potere era dell’antifascismo, ed era naturale che fosse esso il
bersaglio principale.
Gli antifascisti erano «i soli ex fascisti veramente pericolosi, [cioè] quelli che, cambiata casacca» 36,
persistevano nel voler imporre la propria volontà al paese:
@
Come il fascismo, l’Antifascismo non ha vinto una battaglia né sconfitto un nemico. L’Antifascismo
[...] è giunto in Italia al seguito delle salmerie straniere, ben nutrito da 22 anni di buon esilio, in un
paese che s’è liberato da sé. Le sue arie di liberatore son dunque ridicole, e la sua prosopopea di
minoranza che si crede una classe dirigente indispongono tutti. Nessuno capisce perché si debbano
dare venti o trenta e più mila lire al mese ad un commissario antifascista e incompetente per far
andare avanti un’azienda ch’è sempre andata senza di lui o con altri sfruttatori. Nessuno si spiega
perché il tale debba essere assolutamente ministro, il tal altro indispensabile epuratore. Ed è così
che tutti ne abbiamo le scatole piene dell’antifascismo professionale [...] 37.
La guerra e il totalitarismo ci hanno familiarizzato con l’idea della soppressione dell’avversario.
Non è stata chiesta la soppressione di questo giornale, l’arresto del suo direttore e dei suoi redattori,
rei di pensare con la propria testa? Non si «segnalano agli alleati» i concorrenti che danno fastidio?
Non si «denunziano al commissariato per l’Epurazione» le persone che si vorrebbero togliere di
mezzo, l’inquilino di cui si vuol occupare la casa, il marito a cui si vuol portar via la moglie,
l’industriale al quale si vuol rubare lo stabilimento, il banchiere di cui si vuol votare la cassa, il
proprietario di cui si vuol usurpare la proprietà? 38
@@@
Il commediografo si rivelava estremamente abile, fin dall’inizio, nell’esasperare con la sua incisiva
ma demagogica dialettica gli aspetti negativi della situazione interna italiana. La sua azione era
ancora confusa, piena di ambiguità e priva di precise prospettive, ma ben presto avrebbe cominciato
a chiarire i propri obiettivi e la propria posizione nel quadro delle altre forze politiche.
A fare una poderosa pubblicità a Giannini e all’«Uomo qualunque» intervenne l’alto commissario
aggiunto per l’Epurazione, Ruggero Grieco (comunista), che il 5 febbraio 1945 deferiva il
commediografo alla commissione di primo grado per la revisionè dell’albo dei giornalisti,
presieduta da Mario Vinciguerra. Egli fu sospeso dall’esercizio della professione, in attesa di
giudizio, il 27 febbraio, insieme con parecchi grossi nomi del giornalismo fascista, come Pettinato,
Spampanato, Bottai, Federzoni, Scorza, Vittorio Mussolini e altri. Contemporaneamente, il 20
febbraio, in seguito a una deliberazione della commissione nazionale per la Stampa, che aveva
giudicato «L’Uomo qualunque» «insidioso per lo sforzo bellico della Nazione» 39, il prefetto di
Roma, Giovanni Persico (Democrazia del Lavoro), su ordine del sottosegretario alla Stampa e
Propaganda, il liberale Libonati, soppresse il settimanale, revocando con un decreto l’autorizzazione
a pubblicarlo. L’accusa di «insidiosità» era fondata sulla campagna contro l’intervento dell’Italia a
fianco degli angloamericani, che Giannini aveva spinto a toni estremamente duri nell’articolo La
guerra dei parenti poveri, apparso sull’«Uomo qualunque» il 17 gennaio ’45 40. Le accuse di
trascorsi fascisti, invece, si basavano principalmente, come già accennato, sulle sovvenzioni del
ministero della Cultura popolare e su qualche articolo o commedia filofascista, e non erano certo
così gravi da porlo sullo stesso piano di uno Spampanato (le sovvenzioni ministeriali, poi,
rappresentavano una prassi normale per tutte le compagnie teatrali). Era evidente che si voleva
colpire Giannini per la sua attività politica presente, e non per quella passata.
Il commediografo ebbe buon gioco nello sfruttare l’iniziativa antifascista, affermò che la sua
inclusione nell’elenco dei giornalisti fascisti da epurare stava «facendo ridere tutta l’Italia» 41, che
la «Commissione d’epurazione non [era] riuscita ad altro che a fare un uomo politico d’un pacifico
scrittore che odia la politica e i professionisti politici, e che non voleva altro che tornare ai suoi libri
e al suo teatro»42:
@
Se sono epurato io, non si salverà nessuno nel giornalismo italiano ad eccezione degli ex-fascisti
imboscati nelle redazioni comuniste. Certamente ci sono in Italia dei giornalisti puliti come me: non
c’è nessuno che lo sia di più: qualunque sia per essere il giudizio di una Commissione alla quale
potrei chiedere di mostrare le sue carte prima di offrirle in esame le mie 43.
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Inveiva contro il «nano furente»44 Vinciguerra e contro il «settarismo idiota» dei «nequitosi bassotti
del giornalismo» responsabili del «miserevole fattaccio di malavita politica» 45, giungeva perfino a
minacciarli di «licenziamento»:
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I tre commissari [Mario Vinciguerra, Domenico Ravaioli, Giuseppe Di Vittorio] colpevoli della
terribile gaffe Giannini salteranno dai loro posti: ma non basta questo salto e non bastano quei tre.
Ben altri e più numerosi salti dovranno aver luogo, ben altri e più numerosi pagliacci dovranno
sgombrare l’arena perché il nostro paese risorga a dignità di Patria per tutti gli italiani degni di
questo nome 46.
@@@
Il filocomunismo di Giannini s’era ormai liquefatto di fronte a quella iniziativa, di cui l’organo del
Pci era stato il propugnatore e Grieco il promotore: egli la definiva appunto un «basso servizio»
reso per paura al «nazionalcomunismo italiano»47.
In realtà, Giannini aveva compreso subito che quello era un grosso servizio reso all’Uomo
Qualunque, una preziosa occasione per imporsi all’opinione pubblica come un martire
dell’antifascismo, simbolo del paese sofferente sotto la nuova dittatura. Il 28 febbraio 1945, sul
nono numero del settimanale, l’ultimo prima della sospensione che avrebbe impedito all’«Uomo
qualunque» di uscire fino al 25 aprile, affermava:
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È la nazione intera che, con Giannini, è sotto epurazione: è la maggioranza stragrande della gente
perbene, degli onesti, dei lavoratori, che è sul banco degli accusati col giornalista che, primo e solo,
ha osato sfidare il comunfascismo, e dire alto e forte ch’esso non deve più rompere le scatole a
nessuno in Italia [...]. Ma l’ingiustizia esperimentata contro di lui [Giannini] non è la sola e non è la
prima nell’Italia caduta dalla padella fascista nella brace antifascista. Il «caso Giannini» è
rumoroso e appassionante: ma il paese ormai è pieno di simili «casi», molti dei quali hanno
cagionato scompigli, rovine, disordini familiari e sociali. Milioni di uomini non lavorano, non osano
mostrarsi per non attirarsi guai da parte d’invidiosi cialtroni: milioni d’altri individui si dedicano ad
attività ignobili ma lucrose e al sicuro dall’epurazione politica. L’Italia langue, stremata
dall’impotenza dei suoi figli migliori tenuti in catene da poche centinaia di profittatori politici, di
esaltati, di vittime vere o false del fascismo, che vogliono vendicarsi su tutti gli italiani del loro
infortunio, di cui oggi si può fare — e purtroppo da molti si fa — sfruttamento e mercimonio 48.
@@@
In difesa di Giannini e della libertà di stampa intervenivano Gonella, Mattei, Monicelli, ed altri
giornalisti italiani (Igino Giordani, sul cattolico «L’Indipendente», si chiedeva se ci si trovasse di
fronte a un caso di «caccia all’uomo» 49); il direttore dell’«Uomo qualunque» stava acquistando
fama e solidarietà, e l’aureola di vittima della prepotenza dell’antifascismo gli avvicinava, come
aveva sperato, diffuse simpatie.
D’altro canto, i promotori dell’attacco contro di lui non erano riusciti a impedire che per poco la
pubblicazione del giornale: il ricorso immediatamente presentato al Consiglio di Stato, tramite
l’avvocato antifascista Giovanni Selvaggi (repubblicano, futuro alto commissario per la Sicilia),
otteneva infatti esito favorevole, e una sentenza dell’11 aprile stabiliva la sospensione del decreto
del prefetto Persico. Il settimanale, sia pure sotto la formale direzione di un suo disegnatore
(Giuseppe Russo: Girus) poteva così tornare alla luce il 25 aprile. Né aveva qualche efficacia la
sentenza della commissione d’epurazione giornalistica che, emessa il 16 maggio, si limitava a
comminare a Giannini la «sospensione di un mese, col significato di censura solenne»
La mitezza della condanna indicava che, da parte antifascista, ci si era resi conto che la
«persecuzione» contro Giannini era controproducente, e si era voluto porre fine all’abile
speculazione che la pretesa vittima ne andava facendo. Ma se prima ci si era mossi con leggerezza,
ignorando lo scoglio rappresentato dal Consiglio di Stato e non prevedendo la violenta reazione del
commediografo, ora si dimostrava indecisione, debolezza: in effetti l’antifascismo usciva sconfitto
da quello che doveva essere un episodio di «ordinaria amministrazione», e Giannini poteva ben
vantarsi di aver messo in fuga i suoi attentatori.
Il «mito Giannini» s’andava sempre più imponendo all’opinione pubblica italiana. Sul tavolo del
commediografo s’accumulavano migliaia di lettere di anonimi cittadini rincuorati ed esaltati dalla
sua azione politica, incitandolo a dare una organizzazione alla sua protesta «anti-antifascista».
Ma Giannini comprendeva bene la contraddizione in cui sarebbe caduto, egli che rifiutava per
principio gli uomini politici, fondando un nuovo partito. A ciò va aggiunta una consapevolezza
perfino eccessiva, in un uomo istintivamente portato alla sopravvalutazione di se stesso, della
propria inattitudine a divenire un leader di partito. Dopo il vano tentativo di inserirsi in uno dei
partiti esistenti, si era deciso a fondare «L’Uomo qualunque» sperando tuttavia che le sue elementari
idee fossero accolte da qualcuno di essi.
La naturale delusione subita ad opera del Partito comunista, di cui s’era dichiarato, come si è visto,
sincero simpatizzante, e la (altrettanto naturale) aperta avversione delle altre sinistre, lo spingevano
ora a guardare in diversa direzione come al valido interprete delle proprie istanze, al Partito liberale.
Le affinità non mancavano. Le idee di Giannini si riducevano, in fondo, a una specie di liberalismo
assoluto. A parte ciò, Giannini impostava sempre più nettamente la sua azione sulla difesa della
borghesia, sul suo buon diritto a prendere in mano la direzione del paese, ed era questa la funzione
che avrebbe dovuto assolvere il Pli:
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Il partito liberale — aveva scritto già il 24 gennaio 51 — deve riprendere la direzione effettiva ed
esclusiva della politica italiana e la riprenderà appena si sarà rinnovato, riorganizzato e depurato.
Non esiste in Italia partito più forte, se se ne eccettui quello dell’Uomo qualunque, che però si
rifiuta di irregimentarsi in partito.
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L’identità tra qualunquismo e liberalismo verrà ben presto proclamata da Giannini ad ogni piè
sospinto, in una continua, pressante serie di appelli all’unione delle due forze. Ma, ancora dopo la
Liberazione, il commediografo non era giunto a un chiarimento delle proprie prospettive politiche.
Nel suo cieco empirismo guardava continuamente a destra e a manca, cercando di lasciarsi aperta
ogni possibilità.
A ridimensionare notevolmente questa sua ambiguità, doveva contribuire una nuova delusione
subita da sinistra.
All’indomani del 25 aprile ’45, Giannini si poneva in prima linea nell’esaltare la Liberazione 52 e,
soprattutto, nell’elogiare l’«eroismo e la serietà del Nord». Nella sua stupefacente ingenuità
contrapponeva la nuova classe politica, espressasi nella Resistenza, ai politicanti di Roma,
dichiarando di sperare in essa per la guida del paese. Dopo aver inneggiato ai «grandi italiani nuovi
che nell’Italia del Nord hanno preparato, diretto, concluso il dramma della Liberazione», così infatti
concludeva in un articolo del 2 maggio53:
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È dagli italiani di queste classi che l’Italia deve essere diretta: da coloro che, anche per età, non
hanno avuta e non potevano avere alcuna corresponsabilità né con i tiranni né con coloro che, per
viltà, debolezza, tornacontismo, permisero alla tirannide di incatenare la Patria e portarla alla
catastrofe.
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Era il disprezzo per la classe politica prefascista vile e corrotta che portava dunque Giannini a
sperare negli «uomini nuovi» del Nord; poco gli importava che i suoi Parri, Valiani, Pettini,
Morandi, fossero tutti espressione di quel «Clima Cln» contro il quale andava lanciando accuse e
offese fin dal primo numero del suo giornale; nella sua estrema spregiudicatezza, questo fatto
scompariva di fronte alla «visione» che la Resistenza aveva espresso degli elementi che
costituivano la antitesi degli uomini politici professionali54:
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I professionisti, i mestatori, gli speculatori del politicantismo erano tutti a Roma; qui accorsi in
cerca d’incarichi e d’impieghi, di prebende e di commissariati. In Alta Italia erano rimasti quelli che
volevano seriamente far le cose: ed ecco perché, mentre a Roma la politica s’è impantanata nella:
farsa, nel Nord ha avuto bagliori di tragedia. Tre giorni di vera epurazione nell’Italia settentrionale
hanno spazzato più fascismo di quanto, in tanto tempo e con tanta fatica e spesa, non ne ha
disturbato il complicatissimo organismo sedente a Roma.
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Ma la fiducia entusiastica negli uomini del Nord e in Ferruccio Parri 55 era destinata a durare poco.
Dinanzi al radicale rinnovamento politico e sociale che il «vento del Nord» sembrava dovesse
imporre a tutto il paese, il commediografo aveva una brusca sterzata e tornava alla sua sarcastica
opposizione:
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[Dopo l’entusiasmo della Liberazione] subito la miseria morale dei soliti ometti in cerca di
stipendio ci ha violentemente richiamati alla realtà [...]. Un gruppo d’energumeni ha cominciato a
strillare le solite formule cretinissime, a minacciare i soliti finimondi, rivendicando la
rappresentanza esclusiva del solito popolo e delle solite masse, se non addirittura di tutta l’Alta
Italia: e pretendendo di parlare in nome di milioni d’innocenti che non hanno, invece, aperto bocca.
Sul disordinato corale che i tecnici del suono chiamano «vocio confuso» quattro sole parole si sono
udite distintamente: ora tocca a noi. E questo, con buona pace di Nenni che lo chiama vento, di
Pacciardi che lo chiama sospiro, è il rutto del Nord56.
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Il governo Parri, come si è visto, rappresentava il tentativo di colpire l’egemonia borghese-
oligarchica che aveva costituito la tradizionale struttura della società nazionale. Per Giannini questo
era un vero e proprio delitto. L’alta borghesia, cioè gli imprenditori intelligenti e capaci,
costituivano per lui la parte più rappresentativa della Folla, i veri artefici del progresso 57
contrapposti agli inetti e ingordi politicanti. E in difesa dell’alta borghesia, il commediografo
rilanciava un’appassionata campagna: il fatto di essere un isolato in questa sua elegia dei privilegiati
IMM

(giacché neanche i liberali osavano innalzarla) non lo preoccupava. Già il 9 maggio ’45, Giannini
aveva criticato aspramente l’arresto di Pirelli, Donegani, e, più in generale, l’epurazione in atto
nelle industrie del Nord. L’errore dell’epurazione industriale era, secondo lui, riconducibile ancora
una volta alle sfrenate ambizioni degli uomini politici:
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Per fare un esercito ci vogliono i generali, per fare le industrie ci vogliono gli industriali. Non basta
che dei professionisti politici vogliano diventar milionari per metterli a capo delle industrie [...].
Dopo tutto la socializzazione fascista delle industrie è stata un mezzo per far capire cos’è la
socializzazione alle cosiddette masse, e incutere in esse un salutare schifo per ogni genere di
socializzazione. Mai l’alta borghesia industriale è stata più forte: e se non avrà paura di difendersi le
industrie saranno salve per davvero58.
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All’alta borghesia intimava di reagire, di «decidersi finalmente a fare il proprio dovere», cioè a
tornare a testa alta alla guida effettiva del paese, a realizzare il governo dei tecnici in
contrapposizione a quello dei politici, lo Stato amministrativo al posto di quello etico:
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Oggi la borghesia, percossa dalle conseguenze di errori che sa originariamente suoi, aspetta,
disorientata e tremante, di sapere per mano di chi deve morire: se del comunismo, del socialismo o
d’un nuovo fascismo. Ancora stordita dai colpi ricevuti, ancora abituata a pensare, come dal 1876,
che «un altro» debba governare, aspetta che si nomini il nuovo fattore, pregando Iddio che non sia
troppo cattivo. E perché? Quale bisogno ha d’un fattore, d’un nuovo Giolitti, o d’un nuovo
Mussolini, d’un nuovo bischero qualsiasi capace solo di dire e scrivere fesserie come purtroppo tutti
i giornali e tutti i comizi comprovano? Uomini capaci di creare in Italia, paese povero di risorse,
quei capolavori che sono la Montecatini, la Fiat, quel prodigio che è la nostra industria elettrica,
avrebbero bisogno, per svolgere la funzione soltanto amministrativa che è il governo politico del
paese, di una dozzina di scombinati che da sei settimane discutono senza costrutto e senza riuscire
ad accordarsi? È un assurdo pazzesco che l’Uomo Qualunque respinge59.
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IMM
La difesa della borghesia era anche, per Giannini, difesa dei suoi settori medi e piccoli, cioè
dell’«enorme, irresistibile maggioranza delle persone oneste» Di questa, interpretava l’esigenza
fondamentale di «ordine e [ del]la sicurezza della vita e degli averi, senza di che nessuno si metterà
a lavorare» 61.
Usava toni apocalittici nel denunziare la violenza e l’illegalità, accusava il «ministero Parri-Nenni»
di «politica interna debole e incerta» 62, ammoniva che il governo aveva il dovere di «ripulire» il
popolo dalle «canaglie» che vi si confondevano: «senza polizia non si governa - Lenin e Stalin
insegnino»63. «Il paese sta andando stupendamente in malora» scriveva a Parri invitandolo a «far
cessare lo sconcio»64: ma, a suo dire, ogni appello era vano, giacché la situazione interna era
sempre più dominata, proprio durante il governo Parri, dallo spirito dittatoriale delle sinistre:
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Basta esprimere un parere lievemente discorde, dire bianco dove i nuovi aspiranti caporioni dicono
nero, essere iscritti a un partito diverso o non essere iscritti a nessun partito, rilevare
un’incongruenza, fare una obbiezione, richiamarsi alla legge scritta, invocare l’autorità, esercitare
comunque un proprio diritto civile, per essere immediatamente fatti segno a ingiurie, calunnie,
denunzie, minacce. La qualifica di fascista o di reazionario o di nemico del popolo, è distribuita a
larghe mani fra i poveri dissidenti; il preannunzio di castighi tremendi per ogni aspirazione alla vera
libertà vien fatto a ogni piè sospinto. Ci si vuole mandare per qualunque nonnulla al confino, ai
campi di concentramento, in galera, al muro. E le leggi eccezionali si susseguono come se fossimo
sempre in guerra, i ricatti mal dissimulati sono all’ordine del giorno, la caccia all’uomo non accenna
ad attenuarsi, la persecuzione dell’avversario politico anche nella sua vita privata s’intensifica senza
carità e senza pudore65.
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In questo quadro catastrofico, il «che fare?» aveva un significato di rivolta. «Non aver paura di
nulla e di nessuno»: questo era l’incitamento che Giannini indirizzava alla borghesia italiana, alta,
media o piccola che fosse, giacché tutta interessata alla restaurazione dell’ordine e alla fine di certi
esperimenti «sovversivi»:
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Ora è tempo che l’italiano decida a non aver più paura di nulla e di nessuno. I minacciati resistano, i
calunniati e ingiuriati si querelino, i ricattati si rivolgano ai rappresentanti della legge. Bisogna non
lasciar passare una sola impunità, ricorrere a tutti i mezzi legali, coprire di querele e di atti
giudiziari i giornalisti diffamatori e denunziatori, trascinare dinanzi al tribunale coloro che attentano
alle nostre libertà politiche e civili, inchiodare alle proprie responsabilità i seminatori di terrore.
Bando alle prudenze male intese, alle cautele eccessive, allo stolto amore del quieto vivere. Per gli
italiani è questa la partita più vitale, se gli italiani non vogliono ritornare al ’22, al ’25, al ’40, al ’43
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Alle ristrette minoranze violente e avide di potere, contrapponeva dunque la vera maggioranza del
paese, e il 23 maggio ’45 aveva rivolto un pressante appello ai liberali perché si decidessero ad
inquadrarla e guidarla, facendo intendere che, in caso contrario, non avrebbe esitato a sostituirsi a
loro nella storica missione:
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La manovra, che si tenta oggi, è diretta sempre all’unico scopo d’impadronirsi dei mezzi di
governo-polizia, magistratura, forze armate — e con quelli imporre fascisticamente il predominio
d’un migliaio di persone [...]. A questo pericolo la gente di buon senso — la enorme, irresistibile
maggioranza delle persone oneste viventi nel nostro paese — deve opporre tutte le sue forze e
reagire senza esitare e senza spaventarsi. Soprattutto senza spaventarsi, perché non c’È niente da
temere: dato che la somma di tutti i partiti politici esistenti in Italia è inferiore alla centesima parte
del formidabile partito del buon senso al quale aderiscono le persone oneste d’Italia, stanche del
fascismo, di cortei, di chiacchiere, di minacce, di disordine, di totalitarismo più o meno oceanico, di
questo o di quel colore. Noi desideriamo ardentemente che chi deve organizzare l’esercito della
gente di buon senso lo faccia, e subito [...]. Chi ha il dovere di organizzare le persone di buon senso
in Italia è il partito liberale: d’intesa con i partiti vicini e affini. Se, per malintesa prudenza, per
inconciliabilità di piccole ambizioni, per incomprensione dei pericoli e dei doveri dell’ora presente,
il Partito Liberale non farà quanto il suo passato e le speranze nel suo avvenire gli ordinano di fare,
la Borghesia Italiana, che non vuol più affidarsi a nessuno e intende governarsi da sé formerà
ugualmente il suo Grande Partito del Buonsenso, e gli eredi infingardi del luminoso liberalismo
dell’Ottocento, saranno travolti dalle forze che avranno rifiutato di dirigere 67.
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«L’Uomo Qualunque — dichiarava orgogliosamente Giannini il 18 luglio ’45 — che nell’estate del
1943 era solo un uomo, che nel dicembre 1944 era solo un giornale, oggi è la più grande forza
politica italiana»68. Non è questa la prima, né sarà l’ultima, delle boutades del commediografo.
Certo è, comunque, che già nel febbraio ’45, ad appena due mesi dall’uscita del primo numero,
«L’Uomo qualunque» si vendeva in 200.000 copie, destinate a toccare l’eccezionale punta di
850.000 nell’autunno dello stesso anno.
Il grande successo della tiratura, unito al felice esito di una sottoscrizione tra i lettori per l’acquisto
della carta, indussero Giannini a presentare, nel giugno, una domanda di autorizzazione a pubblicare
un quotidiano, «Il Buonsenso», il cui primo numero sarebbe uscito il 30 dicembre ’45.
Consensi, incoraggiamenti e aiuti in denaro (senza i quali, come ammetteva in una «vespa» del 20
giugno, il giornale avrebbe dovuto sospendere le pubblicazioni), piovvero da tutta Italia: «ma di
tutti quegli amici e sostenitori della prima ora — ricorderà nelle sue Memorie 69 — non potrei fare
dieci nomi: nessuno aveva firmato le entusiastiche missive. La paura incombeva su tutti: paura
ingiustificata, assurda, irresistibile».
La paura era invece sconosciuta a Giannini, sebbene avesse oltrepassato i cinquant’anni. Di
corporatura massiccia e dall’aspetto imponente con la sua capigliatura bionda e l’immancabile
monocolo, era, come scrive Ballotta70 «un amplificatore ambulante e instancabile [delle sue] tesi.
Lo si incontrava per il Corso, a piazza Colonna, dinanzi a Montecitorio, parlava, gesticolava,
protestava, faceva scena senza perdere occasione».
Lo stesso commediografo parlerà della sua vita quotidiana durante il periodo «eroico» del
qualunquismo:
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L’amico colonnello A. Perfumo, uno dei primissimi, mi regalò un bastoncello di cuoio con il pomo
riempito di piombo. Lo portavo nella manica sinistra. Andavo sempre solo e a piedi, e dopo due o
tre tentativi di discussione stradale nessuno mi costrinse più a sfilare il dono dell’amico Perfumo
dalla manica71.
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Della sua coraggiosa irruenza avrebbe dato molteplici prove nel corso dei suoi giri elettorali per
l’Italia, nei quali subirà contrasti e ostruzioni d’ogni genere, fino ai colpi di rivoltella. Quando lo
interrompevano in qualche comizio reagiva in maniera violenta, deciso a non lasciarsi dominare
dalla folla ostile.
A coloro che, durante la campagna elettorale per il 2 giugno 1946, lo fischiavano ad Avignano, in
provincia di Potenza (i primi fischi della sua carriera politica), Giannini ricorderà di aver detto:
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Cretini che non siete altro! Fatemi dire ciò che voglio dirvi, e poi fischiate se credete che io meriti i
vostri fischi! Che razza di democratici siete, voialtri comunisti? [...] Fischi e baccano aumentarono
[...]. «Non sperate d’impedirmi di parlare con i vostri fischi» urlai. «Ho la voce forte e gli
altoparlanti che funzionano benissimo. Rimarrò su questo balcone un’ora giusta: sono le otto e
mezzo, parlerò fino alle nove e mezzo, e vi dirò tutto quello che debbo dirvi» [...]. Dopo una ventina
di minuti di urli, la folla si stancò. Erano tutti arrochiti e senza fiato, mentre io, grazie agli
altoparlanti di cui mi so servire — ho decenni di pratica cinematografica — mi trovavo in perfetta
forma.
Il finale d’effetto fu accolto in silenzio: nessun applauso, ma anche nessun fischio72.
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Senza dubbio Giannini s’era buttato con tutta l’anima nella sua battaglia politica controcorrente,
prevedendo reazioni e rappresaglie e facendo quasi un olocausto anticipato della propria vita. C’era
nel suo ardimento qualcosa di profondamente irrazionale, ed era la rabbia angosciosa per quel suo
intimo lutto, la ricerca inconscia di «finirla»:
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Debbo dire — confesserà appunto73 — che l’ardimento di cui ancora qualcuno mi fa merito non era
coraggio fisico vero e proprio. Ho fatto due guerre e so cos’è il coraggio. Era disperazione, che
nasceva dal terribile dolore che avevo sofferto per la morte del mio unico figlio maschio, Mario,
caduto il 24 aprile del 1942 [...]. Non mi ero ancora rassegnato — non lo sono nemmeno oggi, dopo
diciassette anni — e continuavo a ritenere un’ingiustizia quella morte. Dovevo aver scritto in fronte
qualcosa che mi presentava come un uomo deciso a tutto e col quale conveniva essere prudenti. Più
che mai ero «uno che andava in cerca di guai» a causa del mio particolare stato d’animo.
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Giannini si rivelava ormai il capo amato di un movimento d’opposizione dai caratteri non ancora
ben definiti e per certi aspetti ambigui, ma la cui importanza balzava con chiarezza agli occhi
avversari. Ci si chiedeva il perché del successo dell’Uomo Qualunque e si cercava di individuare le
forze più o meno oscure che provvedevano a sostenerlo.
Il commediografo rispondeva ad accuse e sospetti nelle «Vespe», aumentandone, col suo modo
sorridente e arrogante di esprimersi, la già grande fortuna:
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Un tale dice — si leggeva il 13 giugno ’45 — che siamo «araldi della scaltrissima plutocrazia e
della congrega democristiana» nonché «mercenari della borghesia». Denunzia poi che anche il più
ignorante degli italiani — parla di sé, il presuntuoso — ha capito che l’U.Q. è scritto, corretto,
paginato da una sola persona. Ci dà, infine, del Chilone Chilonide. Noi ce ne vendichiamo dandogli
del fregnone fregnoide.
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L’espediente dell’insulto volgare esteso senza alcun riguardo a uomini e partiti, era tuttavia
qualcosa che generava avversione, se non disgusto, anche in molti degli stessi collaboratori di
Giannini. Egli si difendeva dall’accusa di turpiloquio chiamando questo suo modo di condurre la
polemica «squadrismo verbale»74 e lo giustificava con la considerazione che era il solo mezzo per
difendersi dagli avversari, giacché si trovava «solo, senz’armi, senza denaro» 75.
Ma non solo per gli insulti volgari e violenti Giannini diventerà famoso. Suo pezzo forte erano
soprattutto la satira e la caricatura. Qualche suo neologismo ebbe in quei tempi gran successo:
«panscremenzio», ad esempio, che, in particolare, «fece furore nei salotti mondani e negli ambienti
ecclesiastici dove la conoscenza del latino e del greco antico lo rendeva più piccante» 76.
Molte altre furono le «trovate» di successo: i Cln divennero i «Comitati di diffamazione nazionale»
(o anche i «Consigli Littori Nutritivi» e i «Comitati Lavativi Nequitosi»); il Partito comunista il
«partito concimista» e i comunisti i «cameragni» (camerati-compagni) (o anche i «comunfascisti»);
i democratici cristiani i «demofradici» cristiani; Nenni «il romagnolo di turno» (o anche il «Benito
in formato tascabile»); la Rai «Restituirla Agli Italiani»; il Partito d’Azione, uno dei bersagli
preferiti, «il partito più ridicolo dell’Italia post-Federico Barbarossa» (o anche «dell’emisfero
settentrionale»); Togliatti «il cosacco onorario»; Ferruccio Parri «Fessuccio Parmi»...
Volgarità feroci e facezie varie costituivano lo strumento essenziale dell’azione di smantellamento
morale dell’antifascismo al potere, che interpretava la rabbia di chi anelava alla quiete, dopo la
tempesta, e non vedeva tornarla; di chi voleva finalmente tornare a sorridere e ne era dissuaso dal
timore di nuovi sconvolgimenti, questa volta di «marca rossa».
Lo «stil nuovo» gianniniano era innanzitutto espressione di un’epoca che aveva visto crollare, l’uno
dopo l’altro, i templi innalzati dai sogni di gloria e di grandezza, ed ora si chiudeva in se stessa, in
un atteggiamento di resistenza passiva contro tutti e contro tutto. Quest’atteggiamento Giannini lo
sintetizzava, superato ogni residuo pudore, in un motto innalzato a comandamento, iscritto al
«numero uno delle tavole legali»77 dell’uomo qualunque:
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State attenti: dopo la parola qualunque noi abbiamo reso celebre una frase, ossia ciò che
americanamente si dice slogan. Questa frase è stata e rimane: vogliamo che nessuno ci rompa più i
coglioni. Gravi dispute, e accanitissime, precedettero il varo di questa frase. Nessuno, o quasi
nessuno, la voleva; e nel respingerla adduceva le ragioni più serie e solide, incominciando da quelle
di decenza e di morale, non escludendo preoccupazioni di carattere più elevato, quali sono,
senz’alcun dubbio, quelle religiose. «Si può dire: vogliamo che nessuno ci rompa più le scatole»
suggeriva una parte di noi. Un’altra voleva sostituire «scatole» con «stivali» o con «tasche».
Un’altra ancora proponeva «vogliamo che nessuno ci secchi più l’anima». La discussione si
svolgeva però solo sulla forma da dare al «pensiero scritto». Nel «pensiero parlato» erano tutti
d’accordo. Tutti «dicevano» di non voler subire più rotture di «coglioni». A voce i coglioni
potevano andare e nessuno se ne faceva scrupolo: per iscritto non erano tollerabili. Noi
riassumemmo la discussione all’incirca così: «Amici, si tratta di diffondere l’idea, d’imporre nei
cervelli la persuasione che noi non vogliamo più rotture di coglioni da nessuno. Sfrondate da tutte le
brillanti sovrastrutture storiche, politiche, sociali eccetera, è certo che Stalin, Hitler, Mussolini,
Churchill, Ciang-Kai-Sceck, Tojo, Roosevelt, sono dei gran rompicoglioni. Da una lunga serie di
anni i giornali son pieni di loro, non si leggono altri nomi, non vi si descrivono gesta di altri. Dal
loro disaccordo nasce il fatto che noi siamo stati travolti in una guerra di cui non ci fregava
assolutamente nulla.
Con questa guerra — continuammo — ci fu promesso un mucchio di cose belle: le 4 libertà e tutto
il resto. Praticamente abbiamo avuto Nenni, Cianca, Pacciardi, Schiavetti, Togliatti e altri al posto
degli uomini politici che li hanno preceduti al Governo, e il modo di governare è rimasto uguale.
Abbiamo avuto morti, catastrofi, miserie, fame: e tutto ciò non accenna a cessare. È o non è, questa,
una rottura di coglioni?». Tutti convennero che lo era: e allora noi lanciammo la frase con le parole
giuste, le quali colpirono la fantasia dei qualunqui come non l’avrebbe colpita una frase composta
da parole non perfettamente aderenti alla realtà.
(«Le Vespe», 15 gennaio 1947)
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IMM

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Questi studenti: c’è tanta gente seccatissima di vederli girare per Roma in berretto goliardico, fare
un po’ di baccano, cantare qualche canzonetta, bere qualche bottiglia. E mannaggia! Si può sapere
perché c’è sempre chi s’infastidisce che gli altri sorridano e ridano? Gli studenti sono le vittime del
professionismo politico. È ad essi che si raccontano incendiarie ipocrisie, per farne ufficiali di
complemento e mandarli a farsi massacrare inquadrando altri poveri figli della Folla. Essi, pazzi,
generosi, irriflessivi, incapaci di calcolo e torna-contismo, s’entusiasmano, vanno, muoiono! Oh
potessero tornare tutti gli studenti morti, assassinati nelle guerre imbecilli che i politici scatenano!
Oh fossero crepati al posto degli studenti, Stalin, Churchill, Roosevelt, Mussolini, Hitler, Tojo,
Ciang-Kai-Sceck: i sette pazzi che hanno voluto fare la guerra! Lasciate almeno che ridano e
cantino, e magari che bevano e schiamazzino questi poveri ragazzi superstiti ai quali i grossi
politicazzi, direttori generali del mondo, hanno preparato, con la loro delittuosa cretinaggine, un
avvenire di miseria e di malinconia! Sono gli studenti d’oggi che dovranno ricostruire il mondo di
domani! Cantate, urlate, bevete, amate, studenti superstiti: e fregatevene dei beccamorti!
(18 dicembre 1946)
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Era il più bel paese del mondo, il nostro, ai tempi di Giolitti. Si poteva scrivere, fare della politica,
esprimere un’idea, un dissenso, nella più ampia libertà ch’è l’eleganza della gente civile. È bastato
che la borghesia cedesse il potere all’uomo di sinistra, al socialista, al bolscevico, al totalitario
cafone di Predappio, perché la vita politica italiana s’incafonisse. Depretis, Zanardelli, Nicotera,
Giolitti, Sonnino, Orlando, si lasciavano discutere: ed erano uomini di valore, di leonardesca statura
paragonati ai loro successori sinistroidi. Appena il primo merdaiolo diventò ministro non si poté più
criticarlo: tutto ciò che faceva era perfetto. E siamo finiti dove si finisce sempre coi merdaioli: nella
merce loro.
(11. luglio 1945)
///
Abbiamo visto a Roma, in questi giorni, i partigiani convenuti per il loro congresso, in maggioranza
giovani ed entusiasti, con gli occhi sbarrati, con i volti spiranti ingenua soddisfazione per le divise, i
fazzoletti rossi, le bandoliere e altri costosi ammennicoli che qualcuno ha dovuto ben pagare.
Naturalmente non ci siamo preoccupati dei pochi volti d’anziani che abbiamo scorti tra tanta
gioventù: eran quelli degli approfittatoti, dei soliti approfittatori della gioventù. Abbiamo notato,
invece, l’espressione infastidita di moltissimi giovani partigiani provocata dall’indifferenza della
generalità verso i loro canti guerrieri. Quei bravi ragazzi sembravan domandarsi: «Ma perché questa
gente si interessa di noi così poco, perché ci considera con tanta ostilità, perché sembra così lontana
dal nostro animo?». Cari figlioli — e diciamo cari figlioli perché una delle nostre figlie ha militato
nelle vostre file e n’è uscita decorata al valore — voi ignorate un fatto semplice e disadorno, piatto
e pedestre: gli uomini che hanno superato la cinquantina hanno sentito quei canti, che oggi voi fate
echeggiare per le vie d’Italia, fin dal 1914: quando incominciò, precisamente ad opera dell’estrema
destra, la disgregazione dell’autorità dello Stato a cui oggi i comunisti stanno dando allegramente
l’ultima mano [...]. È perfettamente logico che voi vi entusiasmate nel cantare quelle canzoni,
perché avete dai venti ai trent’anni, e sono soltanto due o tre anni che le sentite. Ma in Italia c’è
gente che ne ha i coglioni abbottati dal 1914, ossia da trentott’anni: non vi dovete stupire se dopo
trentott’anni una melodia finisce per scocciar l’anima e per non esser più sopportabile. Aggiungete a
questo il fatto che gli uomini che hanno oltrepassato i cinquantanni hanno già visto altri giovani
arrivare a Roma, guidati da vecchi manfani; hanno già visto i suddetti vecchi manfani diventar
ministri e ambasciatori valendosi della forza di quei giovani che poi hanno tradito e massacrati;
hanno già visto, insomma, quello che si vede oggi. Non dovete indispettirvi per la mancanza
d’entusiasmo intorno ai vostri canti, per la mancanza d’adesione alla vostra così bella ardimentosità.
La colpa non è vostra e non è nostra: è della storia che si ripete e rompe le palle a voi e a noi. Con
questa sola differenza, che le nostre sono più sensibili, avendo già sofferto precedenti rotture.
(10 dicembre 1947)
///
Come l’acqua aborre il fuoco, come il molto aborre il poco, comunisti e proprietari son di soliti
avversari. Ma non è così citrullo il compagno Fausto Gullo, gran borghese, forte agrario, comunista
e milionario.
(4 luglio 1945)

Qualcuno ha definito Parri un santo. Andiamoci piano, eh! Abbiamo già avuto un «uomo della
provvidenza» e ancora ci brucia un sacco di roba.
(4 luglio 1945)
Sull’«Avanti!» di domenica Nenni c’impartisce le sue direttive sulla Costituente, le cui elezioni
vuole libere e non fatte coi mitra. Questo dipende da lui e Togliatti: basta che non tocchino i mitra!
(8 agosto 1945)

«Sei in nota» ci avverte qualche lugubre stronzoide. Disgraziato: egli non sa che chi «fa note» è a
sua volta «in nota». Tutti fanno note nel nostro paese: cosa credono, questi fetentoni, d’essere i soli
a volersi vendicare di qualcuno, i soli ad essere pronti ed attrezzati per la vendetta? Chi semina
vento raccoglie tempesta: e chi spera di potersi levare qualche «sfizio» appena partiti gli anglo-
americani, sarà costretto a nascondersi di nuovo negli ospitali conventi un minuto dopo che gli
anglo-americani se ne saranno andati.
/11 luglio 1945)

Nella vita politica italiana si inserisce da un quarto di secolo il dramma di Pietro Nenni [...]. Pietro
Nenni, per sua e nostra disgrazia, è il foruncolo al culo della politica italiana. Che ci volete fare?
Bisogna subirlo. La mentalità di Pietro Nenni è mentalità dittatoriale, ch’è poi la più fessa delle
mentalità, perché una mente superiore, veramente superiore, non ha bisogno della dittatura per
affermarsi [...]. L’altro romagnolo era tale e quale a lui ed entrambi hanno litigato tra loro per una
sola ragione: si rassomigliavano troppo [...]. Certo sarebbe opera meritoria metterlo fuori della
politica italiana, espellerlo, perseguitarlo un po’, farne insomma di nuovo un martire, e se non un
martire almeno una vittima. Pietro non può vivere senza essere in queste condizioni. Avete visto
cosa gli è successo quando è riuscito ad appagare i suoi più segreti desideri? Voleva il potere: l’ha
avuto. Che cosa ha fatto? Nient’altro che fesserie. Ma nemmeno fesserie imponenti e tragiche come
le fesserie di Mussolini, il quale almeno, oltre a quella della guerra, può allineare la solenne fesseria
di Quota Novanta, la fesseria di Corfú e altre consimili. Le fesserie di Nenni, Alto Commissario
all’Epurazione, Ministro della Costituente, Vice Presidente del Consiglio, Ministro degli Esteri,
sono fesserie ordinarie, senza nessuno splendore. La sua opera di governo non ha lasciato più tracce
di quanto non ne lasci una rondine nell’aria. Se non si riesce a creare per Pietro Nenni una buona
persecuzione che gli consenta di poter fare la vittima e di promettere apocalittiche reazioni in un
futuro che questa volta egli, ammaestrato dall’esperienza, cercherà di non far mai arrivare, Pietro
Nenni è rovinato.
(12 marzo 1947)

A Sessa Aurunca sono stati epurati tre terribili fascisti, scandalosamente arricchiti: un dattilografo
assunto a suo tempo in seguito a concorso col formidabile stipendio di L. 240 mensili; una guardia
municipale ed un impiegato d’ordine. Questo perché si deve «colpire in alto». Chissà chi colpiranno
quando si deciderà di «colpire in basso»: forse le formiche di Sessa.
(25 luglio 1945)

«Le esecuzioni sommarie di fascisti e ritenuti tali hanno raggiunto la cifra di ventimila». Così un
comunicato della Orbis, che, a quanto pare, è una agenzia ufficiosa. Quel ritenuti tali è veramente
prezioso: vi immaginate l’allegria di chi, ritenuto tale, è stato fucilato, spesso in compagnia dei
propri familiari?
(11 luglio 1945)

Quindi: De Nicola che spiana la via a Mussolini è innocente, Giannini che fa il capocomico per
vivere è colpevole; Bonomi, che arma i fascisti nel 1921 e che si porta nella lista di Farinacci, è
innocente; il povero questurino che ha arrestato il ladro iscritto al partito di sinistra è colpevole;
Gronchi, sottosegretario con Mussolini, Croce, che vota per Mussolini, Orlando, che telegrafa a
Mussolini, Nenni che fonda i fasci per ordine di Mussolini, il gruppo comunista che guidato da
Bombacci collabora con Mussolini, i liberali e i radicali che fiancheggiano Mussolini, oggi sono
antifascisti, il disgraziato funzionarietto, che per guadagnare qualche soldarello in più ha preso la
tessera, è fascista.
(3 luglio 1946)

... È un guaio che in Italia si viva in questo modo da tanti secoli. Gli italiani non han fatto altro che
massacrarsi per conto degli stranieri: anche il gran padre Dante cadde in questo deplorevole errore,
e litigò coi fiorentini, preoccupandosi del Papa e dell’Imperatore invece che della sua città. Il
rancore che ci anima l’un contro l’altro è la sola causa dei nostri mali. Avremmo mai fatto la guerra
noi se Mussolini e Nenni non fossero stati due romagnoli l’un contro l’altro armati, se il loro litigio
personale ed episodico non si fosse gonfiato al punto di rompere i coglioni a tutti i buoni italiani?
Non c’è che da pregare ardentemente il Signore che ci dia una buona volta i lumi, che rischiari i
nostri cervelli, che ci convinca della nostra enorme fessaggine...
(23 aprile 1947)

Siamo vivamente preoccupati di ciò che sta accadendo sotto il cuoio capelluto del nostro carissimo
nemico Peppiniello Saragat. Con penna incommensurabilmente più ricca della nostra quel
ricchissimo retore che si chiamò Victor Hugo descrisse le angoscie di Jean Valjean in un capitolo
che aveva per titolo: «Una tempesta in un cranio». Chissà quante procellarie svolazzano intorno al
cranio di Peppiniello [...]. Truman, De Gaulle, sotto certi aspetti Churchill e moltissimi altri uomini
di primissima grandezza della politica mondiale sono qualunquisti; così come l’ex vice Presidente
degli Stati Uniti Wallace, il compagno Stalin, il nostro intimo nemico Togliatti, lo scombinato Pietro
Nenni e altri terrestri, sono comunisti. L’unico che non si sa che cosa sia è Peppiniello Saragat.
(4 giugno 1947)

Dovunque il guardo giriamo non vediamo che mediocrissimi uomini ai quali non affideremmo,
senza batticuore, la compilazione dei nostri avvisi economici. Chi è il Mago? Parri? Bonomi?
Nenni? Togliatti? Mole? Arangio Ruiz? Brosio? Salvatorelli? Giovannino Conti? Il cav. Pacciardi?
Il commendator Spano? Il barone Di Vittorio? Quell’altra trentina di ometti da ventiquattro soldi la
dozzina che hanno presa la parola in quella fiera dell’incoscienza che è stata l’inconsulta Consulta?
Perché il dramma è qui: nei Maghi. A star a sentire certi fessoni sembrerebbe che la politica italiana
fosse ingombra di Cavour, Giolitti, Zanardelli, Depretis, Nicotera, Crispí, Treves, Ferri, Turati,
Bovio, e altri Cavallotti a ceste e a canestri. In realtà si tratta d’un mondarello in cui un Calamandrei
è un giurista anziché un paglietta, un Codignola è un politico anziché un figlio di papà, un Alicata è
un giornalista anziché un aspirante reporter. Un Carandini, pensate, è ambasciatore a Londra dove
una volta un Di San Giuliano si credeva sfigurasse. C’è a Washington un Tarchiani che è solo un
mediocre giornalista, a Parigi il buon Saragat che, Santo Cielo, a farlo sottosegretario alle Poste
sarebbe stato, in tempi normali, uno sfacciato favoritismo.
E non ci dilunghiamo sui maghi minori: tutto un pullulare di fregnoncelli ai quali dar del fesso è già
troppo concedere.
(13 marzo 1946)

A Minervino trecento carabinieri sono scoppiati in pianto quando hanno avuto l’ordine di arrendersi
e di rilasciare tutti i delinquenti comuni che avevano arrestati. Ecco delle lacrime che faranno
piangere chi le ha fatte versare.
(4 luglio 1945)

Insomma: non riusciamo a capire come la Germania abbia resistito tanti mesi in Italia. A Napoli gli
anglo-americani arrivarono di slancio, e vabbene. A Roma però i tedeschi resistettero nove mesi,
pur combattuti da cinque milioni e mezzo di partigiani: quanti sono i valorosi tesserati del
partigianismo di Roma e dintorni. In Alta Italia i disgraziati barbari dovettero combattere venti mesi
contro una trentina di milioni di partigiani. Come hanno fatto a resistere, a far saltare ponti, strade,
centrali elettriche, massacrare ostaggi? È un mistero che la storia spiegherà un giorno.
Però che schifo. Se questo non accadesse anche altrove ci sarebbe da vergognarsi di essere italiani.
(18 luglio 1945)

Donna Qualunque che soffre: grazie delle tue poche, e per me moltissime lire. Non ucciderti: si
sono uccisi quelli che hanno perduto i figli? Riavrai il marito, ti rifarai la casa, la posizione; in Italia
c’è tutto da rifare, ed è solo questione di combattere e di vincere coloro che vorrebbero che si
rifacesse nulla, per poter continuare a vivere di rendita come adesso. Coraggio!
(22 agosto 1945)

Che malinconia! Il partitino d’azione è partito, s’è sgonfiato come un palloncino della Rinascente.
Con chi ci divertiremo, adesso? Chi prenderemo in giro?
(13 febbraio 1946)

Quest’affare del «faceva così anche Mussolini» è d’una comicità macabra. Noi vogliamo l’ordine,
ed ecco un fesso constatare gravemente: «anche Mussolini lo voleva»! Noi chiediamo la
ricostruzione, il governo dei competenti, la politica efficiente, la luce, il gas, gli autobus, le ferrovie:
e subito una pattuglia di fregnoni constata trionfalmente che anche Mussolini voleva le stesse cose
[...]. Dal che si ricava che per non volere quello che Mussolini voleva, bisogna volere il disordine, i
treni in ritardo, il governo degli incompetenti, la polizia priva di autorità, respingere gli autobus,
chiudere la chiavetta della luce, rinunziare al gas. Ma nemmeno con questi sacrifici si riuscirebbe a
non volere ciò che Mussolini voleva e a non fare quello che lui faceva. Mussolini faceva pipì alcune
volte al giorno: ebbene noi non riusciamo a non imitarlo. Non sappiamo se fumasse: ma, se fumava,
come potremmo noi, rinunziare a fumare per non essere accusati di mussolinismo? Mussolini si
grattava dove gli prudeva: ebbene noi dobbiamo confessare che facciamo la stessa cosa! Ci sono
comunque dei punti su cui non concordiamo. Mussolini non leggeva Croce, noi sì; Mussolini
nominò Omodeo professore per «chiara fama», noi non lo nomineremmo nemmeno professore di
carachè; Mussolini prendeva sul serio La Malfa, noi no [...]. Mussolini soppresse la libertà di
stampa e permise che si dicesse male di lui verbalmente e incontrollatamente, perché come poteva
controllare, l’Ovra, le maldicenze di tutto un popolo? Noi non avremmo mai commesso la
cretinaggine d’imitare il comunismo russo sopprimendo i giornali: col bel risultato di non saper più
nulla di quanto accadeva nel paese. Insomma delle notevoli differenze ci sono, fra le quali quella
ch’egli era un professionista politico e noi no, che lui voleva fare il ministro e a noi non ce ne frega
assolutamente nulla.
(23 gennaio 1946)
Noi, che necessariamente fummo e siamo avversari dei mediocri, dei lazzaroni, degli invidiosi, dei
fregnoni, dei margadonni, fummo additati, come antifascisti sotto il fascismo, come fascisti sotto
l’anti-fascismo. E sempre, allora come ora, erano gli stessi ad accusarci: ossia i melensi, i falliti, i
pavidi, gl’incapaci; e noi rispondevamo chiamandoli fetenti allora, come li chiamiamo fetenti
adesso.
(3 gennaio 1946)

Buon Natale, Amici e Amiche, e, per quanto ciò possa stupirvi, Nemici e Nemiche, Buon Natale e
Buon Anno a tutti gli Uomini e Donne Qualunque d’Italia e del Mondo: e buon Natale e buon Anno
a Spano e Togliatti, alle signore Montagnana e Cingolani, ad Alberto Cianca, a Emilio Lussu! A
Tieri e a Nenni, a Fresa e Cannarsa! Noi non sappiamo odiare nessuno, e, al massimo, ci spingiamo
a prendere per i fondelli gli avversari che più se lo meritano. Auguri al nostro spazzaturaio e a Gec,
al nostro pedicure e a Salvatorelli, al nostro vuotacessi e ai Commissari per l’Epurazione dell’Albo
Giornalistico! Buon Natale e Buon Anno ai pagliacci del Circo Arbell e al prof. Calamandrei, ai
fabbricanti di carta igienica e ai colleghi dell’Italia Libera, al teatro dei burattini e al partitino
d’azione! Qui sul nostro seno, in un simbolico abbraccio, amici e nemici, furbi e fessi, porci e
puliti!
(26 dicembre 1945)
@@@
I pubblici appelli al Partito liberale perché inquadrasse la riscossa della borghesia italiana, non
ricevevano risposta. Giannini se ne era servito per «mettere con le spalle al muro» il Pli, offrendogli
la «corrente» qualunquista, dopo che alcuni approcci per entrare personalmente nel partito erano
stati respinti 78. Non riusciva ad accettare ancora l’idea di fondare un nuovo partito e di divenirne il
leader, soprattutto per l’«angoscioso dubbio»79 sulla sua capacità a dirigerlo, ed avrebbe cercato di
convincere Benedetto Croce in persona ad accogliere nel Pli le «masse» qualunquiste, poi Orlando,
Nitti e Bonomi, a capeggiare, o almeno fiancheggiare, il suo movimento. Sarà soltanto nel
novembre del 1945, in seguito al rifiuto generale delle personalità interpellate, che si deciderà a
creare un nuovo partito, commettendo così — ricorderà — «il più grande errore»80 della sua vita.
Per il momento, il commediografo intendeva dare un’organizzazione ai vasti consensi gravitanti
attorno all’azione politica dell’«Uomo qualunque», sperando, certo, da posizioni di maggior forza,
di poter convincere il partito di Benedetto Croce. I tempi, a suo dire, incalzavano. Si sentiva
continuamente incitato dalla marea della «gente di buon senso» a cui aveva ridonato fiducia: e 1’8
agosto 1945 dichiarava, con la solennità di chi sta per segnare una tappa fondamentale nella storia,
di non poterla deludere, di dover accogliere il nuovo «grido di dolore» che si levava da essa, da ogni
parte d’Italia:
@
Cari amici, credo sia giunto il momento di dare una struttura non più soltanto giornalistica alla
corrente dell’uomo qualunque che il nostro giornale non ha creata, ma che innegabilmente ha
rivelata. Per la pace della mia coscienza debbo ripetere quanto ho scritto varie volte: né io, né
nessuno dei redattori e collaboratori che mi onorano, desideriamo diventare ministri, sottosegretari,
deputati, sindaci, consiglieri comunali e altro del genere [...]. Abbiamo obbedito a un impulso di
ribellione contro il professionismo politico, di schifo verso i professionisti politici, e iniziata la
nostra opera da null’altro animati [...]. C’era [...] un pubblico che da anni aspettava un giornale che
non fosse solamente un foglio d’ordini di partito [e l’enorme successo dell’Uomo Qualunque
dimostra che] siamo dunque in presenza d’un fatto politico e non giornalistico [...]. È, questa, una
forza politica che non avevo preveduta così vasta e profonda, e per la quale è ormai doveroso fare
qualcosa di più di quanto sino ad oggi ho fatto. Il «grido di dolore» che da ogni parte d’Italia si
leva verso l’U.Q. non può essere più inascoltato; l’anelito di speranza che quel grido accompagna
non deve essere più a lungo deluso. «Bisogna fare qualcosa» e dunque facciamola [...]. Abbiamo già
un punto sul quale siamo tutti d’accordo ed è questo: vogliamo vivere in pace e liberamente,
NELLA MAGGIORE E MIGLIORE PROSPERITÀ, AMMINISTRATI DA UN GOVERNO CHE
CI DIA I PUBBLICI SERVIZI NECESSARI, CI FACCIA RITROVARE LA VOGLIA DI
LAVORARE GARANTENDOCI LA SICUREZZA DELLA VITA E DEI BENI, E NON CI
ROMPA I CORBELLI OBBLIGANDOCI A PENSARE SECONDO QUESTA O QUELLA
DOTTRINA POLITICA. Sembra poco, ma è già quasi tutto, poiché, almeno su un punto, siamo
unanimemente d’accordo [...]. Di fronte non abbiamo che minoranze rissose, divise da gelosie di
ogni genere, scosse da interni terremoti che spesso traggono origine da inconfessate ambizioni e
non confessatali appetiti [...]. [In particolare l’organizzazione comunista], scopiazzatura piatta e
pesante di sorpassate concezioni borghesi quali il militarismo professionale; di inimitabili strutture
spirituali come la Chiesa Cattolica, non può e non deve impressionare il ceto intelligente che con le
organizzazioni assicurative, informative, bancarie, industriali, pubblicitarie, di vendita a rate, di
riscossione eccetera, ha creato organizzazioni enormemente più redditizie, e superiori a quella
comunista in ragione del cento per uno. Ci basterà volerla fare per farla ottimamente meglio. Né la
cosiddetta «paura di scendere in piazza» può e deve turbarci, innanzitutto perché se vorremo
scendere in piazza vi scenderemo, quindi perché anche le parate stradali — vecchie pedisseque
imitazioni delle parate soldatesche con le quali le antiche monarchie spaventavano le folle — hanno
fatto il loro tempo. Oggi si possono fare formidabili dimostrazioni di potenza senza uscire di casa;
obbedire, disobbedire, boicottare, favorire, senza bisogno di cortei, adunate oceaniche ed altre
buffonate. La nostra forza è dunque smisuratamente grande: e giustamente i moltissimi U.Q., le
ardentissime D.Q. che mi hanno scritto, incitandomi, pregandomi, a volte scongiurandomi o
comandandomi di fare «qualche cosa di più che una critica» hanno tutti e concordemente affermato
che formiamo la sola e vera «maggioranza politica italiana»81.
@@@

L’ostilità liberale e il rifiuto dei «Grandi Vecchi». Il programma politico dell’«Uomo Qualunque».
Il «grido di dolore» ebbe entusiastiche adesioni. Ad appena una settimana da esso 82, migliaia di
nuclei (la struttura di base scelta a imitazione della cellula comunista) erano stati costituiti in tutta
Italia. Giannini non tralasciava occasione per ostentare la sua forza 83; lasciava capire che, pur
volendo mantenere su di un terreno strettamente legalitario la «rivolta» degli «uomini qualunque»,
non avrebbe esitato a far scendere in piazza le sue masse del «buon senso» per l’estrema difesa
della libertà: le armi non mancavano, ed egli doveva trattenere molti «amici» dall’usarle, per evitare
una guerra civile84.
In realtà Giannini in buona parte, bluffava. In Puglia, in Campania, in Sicilia, il qualunquismo
mostrava di assumere una diffusione veramente riguardevole e, ad iniziativa di elementi locali, si
delineavano qua e là tentativi di organizzazione armata, quasi squadristica, contro i partiti di
sinistra. Ma, in generale, le sue strutture erano deboli, nel Nord addirittura inconsistenti.
Ma a Giannini le ostentazioni di forza servivano allo scopo d’intimidire gli avversari, per evitare
che sul movimento dell’Uomo Qualunque si abbattesse l’ira dell’antifascismo dileggiato e
contestato. Più tardi si vanterà di aver ingannato con successo gli avversari:
@
Noi eravamo pochi, io ho detto che eravamo molti; noi eravamo disarmati e ho lasciato credere che
noi fossimo armati; noi eravamo sparpagliati per l’Italia a piccoli nuclei ed io ho lasciato credere
che avessimo organizzata una formidabile congiura; ed è così che l’Uomo Qualunque [...] è
diventato ciò che è diventato, e io posso dire meridionalmente che li ho fatti fessi. Peggio per
loro...! 85.
@@@
Quello che premeva a Giannini, nella prima fase dell’organizzazione, era la continua esaltazione
dello spontaneismo con cui si stava formando il movimento, della volontà dal basso che
caratterizzava le nomine, in contrapposizione all’autoinvestitura delle gerarchie degli altri partiti,
della ultrademocraticità, insomma, del nuovo raggruppamento politico. Ed era vero che la base del
movimento s’andava organizzando spontaneamente, senza alcun controllo o nomina dall’alto,
essendo sufficiente la riunione di pochi «amici» (da un minimo di cinque ad un massimo di
cinquanta) per costituire un nucleo ed eleggere il relativo «caponucleo».
Con questo spontaneismo assoluto, Giannini intendeva correggere radicalmente il sistema vigente
negli altri partiti, cioè il gerarchismo e il dirigismo che strozzavano ogni autentico conato di volontà
popolare. Ma, questa sua, fu una delle tante ingenuità di cui sarà il primo a pentirsi. Il voler
prescindere, in una seria organizzazione di partito, da ogni forma di controllo sulla base e sulla
classe dirigente locale è evidentemente qualcosa che impedisce al partito stesso di funzionare con
coerente unicità d’azione e di obbiettivi. E infatti, grazie alla estrema liberalità con la quale il
commediografo voleva si formasse il suo «Fronte», in esso confluiranno, anche a causa
dell’improvvisazione e ambiguità ideologica delle prime direttive, elementi profondamente
eterogenei tra di loro e in parecchi casi carichi di profonde riserve mentali nei confronti delle stesse
idee di Giannini. Inoltre, la mancanza di ogni controllo e selezione dei quadri, lungi dallo
scoraggiare i «professionisti politici» tanto odiati, facilitava il loro ingresso nel nuovo Far West del
mondo politico italiano.
Lo stesso «Fondatore» — questo l’appellativo che i qualunquisti attribuiranno al loro capo — si
renderà conto della sua iniziale ingenuità e provvederà a prendere saldamente in mano
l’organizzazione del partito, burocratizzandola e inaugurando una accanita azione di epurazione
interna, a suon di sospensioni, espulsioni e nomine di commissari portatori delle «superiori
direttive»86. In breve, il partito degli antipartito avrà tessere e distintivi, organi gerarchici e consigli
di disciplina per far rispettare la loro volontà, sarà insomma in tutto e per tutto simile agli altri,
compresa la brama di potere dei suoi massimi dirigenti.
Le file s’ingrossavano di giorno in giorno dei gruppi più svariati: generici scontenti, monarchici,
«nostalgici». Delle tendenze che si manifestavano alla base, era indice eloquente il dibattito sul
nome da attribuire al movimento: Giannini stesso, tra le varie proposte dei lettori, ricorda le
seguenti: «partito dei senza partito», «partito anticomunfascista», «partito corporativa antifascista»,
«partito del reduce» («che però doveva avere un trattino tra re e duce»), «partito dell’U» (Umberto),
«partito degli scocciati», «partito degli scontenti» 87.
Giannini mostrava di non avvedersi che il movimento era già inquinato di elementi a lui avversi:
continuava a martellare sui temi della lotta all’antifascismo e alla nuova dittatura, sorvolando sul
fatto che ad applaudire la sua azione c’erano anche gli eredi dell’«immortale idea» fascista:
@
La nuova marcia su Roma è già avvenuta per opera del cosiddetto Cln; il quale siede
parlamentarmente incontrastato al governo e prepara con affannosa sollecitudine il nuovo 3 gennaio
[...]. Come allora, alcuni partiti sono rappresentati in seno al governo; ma, peggio di allora, tutti
questi partiti obbediscono già ai signori Nenni e Togliatti, cioè allo stesso spirito dispotico
mussoliniano diviso in due corpi, e i signori Nenni e Togliatti si sono volpinamente attribuito il
compito di governare alla maniera mussoliniana per giungere al dissolvimento completo di ogni
ordinamento costituzionale e preparare la loro personale dittatura in nome di un proletariato che non
li ha mai eletti e che non ha mai avuto modo di esprimere il proprio parere. Disorganizzato
l’esercito, messa sotto soggezione la burocrazia per mezzo dell’assurda epurazione, scompaginata la
pubblica sicurezza, tolta ogni autorità a colui che ancora dovrebbe rappresentare il Capo dello Stato,
colpita a morte la superstite industria per mezzo di sequestri e nomine commissariali e
allontanamenti di dirigenti e proprietari, creata la discordia tra agricoltori e proprietari agricoli,
abolito di fatto il Senato, nominata una «Consulta» che somiglia esattamente alla camera dei fasci e
delle corporazioni, limitata al massimo la libertà di stampa, i due compagni procedono alacremente
verso la loro meta, eliminando elettori e eleggibili mercé arresti, assegnazioni al confino e ai campi
d’internamento, promulgando e preparando leggi restrittive sulla stampa, compiendo ineleganti
ricatti alla maggioranza, istituendo in provincia squadre d’azione che bruciano giornali molesti e
intimoriscono pacifici cittadini, facendo perfino buon viso a straniere rivendicazioni di territorio
italiano [...]. Non siamo forse in tal modo alla vigilia del famigerato 3 gennaio? 88
@@@
Giannini insisteva nei suoi appelli alla borghesia perché reagisse, si decidesse a difendere quel
principio della libertà «che i liberali nostrani si mettono ogni giorno sotto i piedi colaborando con il
tirannico Cln e con la dispotica esarchia, a furia di compromessi orrendi e di mostruose
complicità»89; il qualunquismo doveva rappresentare appunto il movimento di riscossa della
borghesia, l’esercito al contrattacco della gente di buon senso: ed egli scriveva a pieni titoli che ciò
stava effettivamente avvenendo, che «la rapida, entusiastica autoorganizzazione dell’Uomo
Qualunque» era «la prima, vera manifestazione democratica che avviene in Italia dopo il 28 ottobre
1922 e la conseguente presa di possesso del potere da parte del fascismo» che sotto le insegne
dell’Uomo Qualunque si stava raccogliendo la classe dirigente del futuro Stato amministrativo:
@
I dirigenti di nucleo, di gruppo, di centro provinciale, di unione regionale dell’Uomo Qualunque,
sono e saranno i dirigenti di domani per il paese bisognoso di direzione, stanco di essere sballottato
tra i vari Lussu e Scoccimarro, fra gli incompetenti e i sognatori che dal 25 luglio 1943 stanno
alacremente riabilitando il fascismo che, dopo aver narcotizzato la Nazione, l’ha portata al disastro
politico e militare [...]. La borghesia che crea il lavoro, lo organizza, lo dirige, lo fa fruttifero e
fecondo [...], la borghesia, dunque, che comprende i grandi e piccoli industriali e artigiani,
gl’imprenditori, i commercianti, i finanzieri, gli organizzatori di traffici marittimi, assicurativi,
bancari, di scambio: di tutto, insomma; la borghesia, che, per badare ai suoi affari, si è lasciata, fino
ad oggi, governare da Giolitti e Mussolini, da Badoglio e da Nenni, deve riprendere nelle sue mani
il governo del paese e rimetterlo in sesto, mandando i politicanti a fare gli acchiappanuvole in
attività meno pericolose di quelle di governo [...].
Noi dobbiamo fare un governo di cui dovrà esser ministro dell’Industria almeno un Vittorio
Vailetta, ministro delle Finanze e del Tesoro [...] un finanziere o un banchiere di gran nome
internazionale
[...]. Non bisogna aver paura di nulla e di nessuno: la diffusione formidabile del nostro giornale, la
stupefacente rapidità con cui si forma il fronte provano che siamo la maggioranza [...]. Si riscuota la
borghesia, che l’ora è scoccata: le forze del Buonsenso devono muovere al contrattacco e
travolgere, su tutta la linea del Fronte, il il disordine, l’incompetenza, l’immoralità 91.
@@@
In un Primo bilancio dell'Uomo Qualunque, svolto sul settimanale il 19 settembre 1945, Giannini
ribadiva il «grandissimo successo conseguito in poche settimane», parlava del «fremito di vita
nuova» che, grazie ad esso, spirava nel paese, e di «disorientamento», «smarrimento»,
«confusione», «agitazione convulsa», degli altri partiti; invitava gli uomini qualunque a non
spaventarsi delle accuse di fascismo, anzi a controbatterle energicamente, fino a «spaccare la
faccia» a chi le formulava:
@
Noi non siamo fascisti, e lo dimostriamo parlando chiaro — come il fascismo non ha mai fatto —
votando — come il fascismo non ha mai permesso — costituendo la nostra organizzazione dal
basso — come il fascismo non ha mai voluto e potuto fare! Il nostro è l’unico movimento politico
legittimo in Italia, nascente per spinta dalla periferia verso il centro, organizzantesi in base a chiare
e aperte elezioni. L’ultimo dei capi-nucleo dell’U.Q. ha più autorità di Togliatti, di Nenni, di
Carandini, di Cianca, di De Gasperi, di Ruini, che nessuno ha mai eletti e nominati, e che, fino ad
oggi, non rappresentano che se stessi. Il solo fascismo esistente e agente in Italia è il loro [...].
Dunque non spaventarsi dell’accusa di fascismo che oggi, come giustamente dice il ministro inglese
Bevin, si muove contro chi non fa comodo; e, a chi ci dà del fascista, dare del cornuto e del
pederasta in legittima ritorsione d’ingiuria: e, potendolo fare senza inguaiarsi, rompergli la faccia di
ebete e di figlio di puttana.
@@@
Nonostante i positivi risultati con cui procedeva l’organizzazione del movimento, ancora
nell’autunno del ’45 Giannini sperava che il Partito liberale — da lui ritenuto il naturale partito
della borghesia, «che nessun sindacato protegge, che tutti sfruttano, che per tutti paga con la vita e
con tasse»92 — si decidesse ad accogliere le masse raccoltesi attorno all’Uomo Qualunque, a
rendersi interprete delle loro istanze.
La simpatia per il Pli e, soprattutto, la stretta derivazione ideologica del qualunquismo dal
liberalismo venivano riaffer-

IMM

mate dal commediografo ad ogni piè sospinto93: nel settembre, ad esempio, ribatteva alle accuse di
inconsistenza ideologica in questi termini:
@
Non è vero [...]. Noi abbiamo il più bello, il più nobile, il più ricco, il più collaudato programma
politico: quello del liberalismo, sfrondato delle sciocchezze dei nuovi e vecchi fregnoni del
sedicente Partito Liberale Italiano, e, principalmente, ripulito di quella criminosa e infruttifera
cretinaggine che è l’anticlericalismo di maniera, il laicismo parolaio e inconcludente 94.
@@@
Le idee di Giannini costituivano effettivamente, di per sé, una forma di liberalismo assoluto, ma in
un contesto così indeterminato e contraddittorio che faceva sorridere i teorici del liberalismo, Croce
per primo95.
Quanto pesanti fossero le riserve dei liberali nei confronti del qualunquismo lo chiariva un articolo
di Gabriele Pepe su «Risorgimento liberale» del 9 settembre ’45, il primo dopo il lungo silenzio
ufficiale. Giannini e il suo movimento non vi erano neanche nominati direttamente, ed il tono era
distaccato e altero; sarebbe bastato il titolo per comprenderne il contenuto, Al proprio posto:
@
Quando Dante inizia il suo viaggio nell’Oltretomba incontra una turba di spregevole gente,
sciagurati che mai non fur vivi: Dante non vi riconosce se non un’anima sola che sdegna chiamare a
nome. Guarda e passa: è la folla degli uomini che vissero senza infamia e senza lode; gente vile che
nella vita non scelse il suo posto di combattimento, non fu (come gli angeli neutrali) né con Dio né
con Lucifero. Invano essi ora battono alle porte del Paradiso o dell’inferno: non si entra nei luoghi
della gloria o della punizione se non accettando la lotta della vita, se non partecipando a un partito,
diremmo noi oggi [...]. Uno spirito veramente liberale, veramente democratico, non ama l’uomo
della massa; invano esso chiede che gli si spalanchino le porte del partito liberale: il liberalismo e la
democrazia [...] non apr[ono] le porte a chiunque, ma soltanto agli uomini liberi. Non è possibile
essere uomini liberi se non partecipando con tutta l’anima, specie nei momenti calamitosi della sua
storia, alla vita politica [...].
Coloro che dicono: non ci iscriviamo a un partito perché non abbiamo fiducia negli uomini politici,
nei burocrati della politica, nei profittatori e nei professionisti della politica, denunciano uno dei più
gravi difetti del pensiero troppo ingenuo o troppo primitivo [...]. Viltà d’animo e stolta superbia di
valere più degli uomini politici in vista trattiene molti dall’entrare nel partito. A quelli che in buona
fede si lasciano incantare dall’eterna storiella della politica come cosa sporca e odiano i politicanti
noi diciamo oggi una parola di monito [...]. Non crediate che l’unità nazionale consista
nell’eliminazione dei partiti: è l’inganno dei regimi totalitari.
L’interesse alla vita politica nasce dall’amore di patria: ora è giusto che coloro che veggono in
determinati modi comuni l’interesse della patria si uniscano in partiti [...]. Come si potrebbero fare
le leggi se i partiti non organizzassero le discussioni intorno ad esse secondo grandi correnti di
interessi ideali e reali? Chi ama la Patria, chi ha interessi ideali e reali da difendere, pigli il suo
posto di combattimento; esca dal gregge e si faccia uomo libero, uomo che assume cioè la sua
responsabilità nella storia.
@@@
Giannini chiamerà «borioso e spocchioso» 96 l’articolo di Pepe, riaffermerà di «praticare e difendere
e — presuntuosi! — perfezionare le idee liberali di Benedetto Croce» 97, invitando i liberali a fare
altrettanto:
@
Bisogna che i liberali si decidano: o dentro il governo liberticida con tutte le responsabilità dei
liberticidi; o fuori del governo a difendere, con tutti i mezzi suggeriti da Croce, la libertà. Noi non
inventiamo nulla: li richiamiamo semplicemente ai loro sacri testi [...]. Ha voglia «Risorgimento
liberale» di ignorarci o di occuparsi di noi in forma dispregiativa e indiretta; noi siamo la sua
coscienza, saremo il suo rimorso98.
@@@
Era evidente, in queste parole, il tentativo di contrapporre Benedetto Croce alla classe dirigente del
Partito liberale, nella speranza che quei rifiuti non provenissero dal «Maestro». Il commediografo
chiese perciò un incontro con il filosofo, e lo ottenne a Roma, nell’ottobre 1945, «dopo molte
insistenze»99 (Croce stesso dichiarerà che non desiderava «troppo» 100 incontrare Giannini).
La delusione di quel primo e unico incontro con il «Maestro» fu per Giannini grande: Croce si
sarebbe dimostrato proprio il più tenace oppositore ad ogni alleanza liberalqualunquista, che per lui
altro sapore non poteva avere che quello di una ibrida commistione del sacro col profano, di uomini
eletti con masse oscure. Racconta Giannini nelle memorie101:
@
Mi disse subito che il Partito liberale era una élite dove c’era già troppa gente. Non solo non doveva
accettare la mia «corrente» ma «alleggerirsi» dei suoi pesi morti. «Alleggerirsi» in napoletano
significa anche ottenere il salutare effetto di una purga.
Mi veniva voglia di ridergli in faccia sentendolo bofonchiare di élite e di alleggerimento. Dopo
cinque minuti mi alzai. «Bene», gli dissi, «non se ne può far niente, buongiorno». Mi guardò stupito
con i piccoli occhi affondati nel grasso delle guance che sembravano impolverate di grigio. «Vi sto
spiegando», ribatté seccato, «perché non è possibile che un partito di élite raccolga una massa nel
suo seno». «L’ho capito», risposi, «e non voglio farle perdere più tempo. Poi ho da fare. La
riverisco».
@@@
Probabilmente Giannini non assunse l’atteggiamento altero di cui parla nelle memorie, e tantomeno
ebbe la forza di alzarsi e, in un certo senso, sbattere la porta in faccia al filosofo. Continuerà infatti a
mostrare per Croce, ancora per molto, rispetto e affetto, e negli attacchi che gli muoverà per i suoi
decisi veti alla tanto agognata alleanza, non riuscirà a celare il suo vero sentimento, il dolore, cioè,
del discepolo abbandonato dal «Maestro». Quando, in un comizio a Napoli del 3 novembre ’46
(pochi giorni dopo un feroce attacco Sull’Uomo Qualunque, in cui aveva definito Croce il più
clamoroso fiasco politico dal compimento dell’Unità d’Italia) 102, Giannini sentirà alcuni fischi
levarsi dal loggione del S. Carlo al nome del filosofo, si risentirà:
@
Benedetto Croce non si fischia, altrimenti non parlo più (Bene, applausi). Benedetto Croce si
riverisce, perché è un maestro al quale noi dobbiamo tutto quel poco che sappiamo, si discute
perché egli ci mise in grado di poter discutere con lui; se si pensa che ha torto si tenta di provargli il
suo torto, ma Benedetto Croce si rispetta come un maestro! 103
@@@
(Ma l’amarezza per l’irreversibile ostilità del filosofo finirà per far cambiare atteggiamento a
Giannini: allora chiamerà il «Maestro» «maledetto Croce», collocandolo, sull’«Uomo qualunque»,
in una rubrica dal titolo P.D.F. [Pezzo di fesso], e giungerà a definirlo — in Croce in conflitto col
calendario, cit. —, «l’austero ciarlatano», preso da «meschina gelosia» per l’autore di «un pensiero
nuovo al cui paragone le decrepite teorie crociane appariscono superate e disfatte».)
94

L'Uomo Qualunque
IMM
Dopo l’insuccesso del colloquio con Croce, Giannini racconta che autorevoli personalità liberali gli
consigliarono di conquistare il Partito liberale dall’interno, facendovi cioè iscrivere in massa i
qualunquisti e «vibrando un colpo gobbo» 104 al primo congresso, ma egli respinse simili consigli,
perché riteneva l’azione sleale e soprattutto perché lo tratteneva il dubbio sulle sue capacità a
dirigere un partito (ma anche, così lasciava intendere nel suo settimanale, per non dare un dolore a
Croce)105.
Ugualmente infruttuosa si rivelerà, in quell’autunno 1945, la ricerca di una grossa personalità
politica che accettasse di dirigere o almeno fiancheggiare il Fronte dell’Uomo Qualunque.
Giannini aveva sempre dichiarato che il qualunquismo non si opponeva a una parte soltanto della
classe politica italiana, ma la disprezzava e la combatteva «tutta in blocco» 106 perché la riteneva
«solidalmente responsabile della rovina del paese» 107.
In particolare, non era mai stato tenero con gli esponenti «liberali» del prefascismo, aveva accusato
Bonomi di tradimento della borghesia italiana, da lui consegnata al fascismo, e, nella sua ricerca di
una classe politica nuova e incontaminata, aveva perfino riposto fiducia, in un primo tempo, negli
uomini della Resistenza, con Parri in testa. Nell’ottobre ’45 invece, con gran disinvoltura,
proponeva, in un articolo dal titolo Salvate la Madre Nostra, la «soluzione ONB», cioè il ritorno
alla guida del paese dei «tre grandi superstiti» 108 (Orlando, Nitti e Bonomi, che in quei tempi le
sinistre indicavano con la sigla Opera Nazionale Balilla):
@
Un governo che si fondasse sui tre vecchi solidi pilastri ristabilirebbe l’ordine soltanto
presentandosi e, innanzitutto per processo psicologico, creerebbe la sicurezza in pochissimo tempo,
perché in Italia, nel nostro grande e buon paese, non c’è che un migliaio di veri banditi: otterrebbe
immediatamente la più ampia fiducia degli Alleati. Tutte le enormi forze politiche dell’ordine e del
buonsenso si riunirebbero immediatamente in quello che si potrà e si dovrà chiamare il C.R.N.,
ossia nel comitato di ricostruzione nazionale; da cui la Democrazia cristiana non potrebbe essere
assente se non suicidandosi. Le imponenti masse del Fronte dell’Uomo Qualunque, in cui non c’è
nessuno che ambisca diventar ministro, nessuno che voglia altro che la salvezza di Nostra Madre,
accetterebbero, senza un attimo d’esitazione, di fare da umile, felice, volenteroso cemento a così
nobile fabbrica: e il loro stringersi intorno ai tre grandi superstiti scongiurerebbe il pericolo della
ripetizione dell’avventura del 1922 intorno ad un nuovo e forse migliore avventuriero [...]. E se, per
placare fraterne ire, per stornare assurdi sospetti, si renderà necessario che qualcuno rientri
nell’ombra e torni a piantar cavoli nel suo teatrale orticello, nessuno tema che ciò non avverrà
subito e facilmente: e con la grande intima gioia di chi sa d’aver bene e utilmente operato 109.
@@@
Questo recupero degli esponenti della classe politica liberale prefascista prima condannata, andava
di pari passo, in primo luogo, con il tentativo che egli stava effettuando di conferire un più preciso
ancoramento politico-ideologico al qualunquismo.
Egli additava al suo Fronte la via del liberalismo, e dopo essersi dichiarato discepolo di Croce ed
aver esaltato i valori dell’Italia liberale 110, intendeva, con la proposta di un governo «ONB»,fugare
definitivamente i dubbi sull’indifferentismo dell’Uomo Qualunque, che rappresentava la vera difesa
dei valori liberali.
Ma c’era una ragione più immediata di questa simpatia per i tre «grandi vecchi». Dopo il rifiuto di
Croce, Giannini si stava rivolgendo a loro, in quel periodo, per convincerli a porsi a capo del
movimento:
@
Il primo che interpellai fu Vittorio Emanuele Orlando, che mi ricevette cordialmente ma non accettò
le mie offerte. Seppi in seguito che aveva rifiutato anche altre e lusinghiere offerte. «Sono il
Presidente della vittoria», disse, «e desidero rimaner tale».
Andai a fare la mia proposta a Nitti, al quale ero legato da vecchia e rispettosa amicizia, ma ne ebbi
un altro rifiuto. «Ho paura di questo Uomo Qualunque», mi disse, «che cos’è? Cosa può diventare?
Dovrei avere vent’anni di meno per affrontare un’incognita simile. D’altra parte hai determinato tu
la corrente, praticamente il partito esiste già. Perché non lo presiedi tu?». Lo guardai sbalordito:
«Caro professore», gli dissi, «com’è possibile? Sapete bene che io sono nessuno». Nitti alzò le
spalle infastidito. «E gli altri cosa credi che siano?» esclamò. «Gli ex fuoriusciti li conosco: sono
niente. La sola classe politica è quella fascista, e ovviamente non si può utilizzarla. Rimangono i
democristiani preparati dall’Azione Cattolica, di cui il migliore è quel De Gasperi: figurati un po’
gli altri! Fai il partito, dirigilo senza paura, non farai mai sciocchezze peggiori di quelle che fanno
gli altri!».
Gli risposi che avrei accettato il suo consiglio a patto che lui mi fosse stato dietro, a dirigermi.
Rifiutò. «Diventerei l’eminenza grigia del tuo partito, ti danneggerei perché ti farei apparire come
un fantoccio nelle mie mani e tu finiresti col diventarmi nemico e con l’attaccarmi». [...]
Il solo che non rifiutò subito di capeggiare il partito fu Ivanoe Bonomi. Fece due o tre volte le
terribili scale della casa del maestro Vincenzo Bellezza al sesto piano di via della Mercede [...]. Poi
[...] svanì nell’aria, senza darmi nessuna spiegazione 111.
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Continuava dunque, per Giannini, la serie delle amare delusioni: se attorno alla sua battaglia politica
si andavano raccogliendo, nel paese, vasti consensi, nel mondo politico rimaneva un isolato.
Egualmente infruttuoso si era rivelato il tentativo di formare un grande partito della «ricostruzione
nazionale» (un incontro in tal senso si era svolto il 13 ottobre tra Giannini, Orlando, Nitti, Bonomi,
Arturo Labriola, Ruini e Selvaggi).
A Giannini non rimaneva altra scelta che quella di porsi senza ulteriori indugi a capo del movimento
da lui suscitato. A favorirla doveva intervenire, verso la fine dell’ottobre ’45, l’antifascismo, con
l’arresto dei fratelli Scalera, accusati di aver finanziato la marcia su Roma. Corse allora voce di un
imminente arresto di Giannini (inizialmente aiutato dagli Scalera 112), sotto l’accusa di
ricostituzione del Partito fascista, e «don Guglielmo» si rifugiò al sesto piano di un palazzo di via
della Mercede, ospite della signora Clarj.
Nell’abitazione clandestina (dove aveva ricevuto Tito Zaniboni — il socialista attentatore di
Mussolini —, il sen. Bergamini e, come visto, Bonomi), Giannini decretò appunto la nascita del
Fronte dell’Uomo Qualunque, compilandone il programma politico e facendolo pubblicare in
anticipo sul numero del 7 novembre del giornale113 (pensava infatti di esporlo al primo congresso
nazionale del Fronte).
La pubblicazione anticipata doveva prevenire e svuotare di ogni significato la nuova imputazione di
fascismo, giacché il programma qualunquista si riduceva a un continuo, esasperato inno alla libertà
dell’individuo. Esso si fondava infatti sulle quattro libertà della Carta Atlantica, proclamava il
ripudio della violenza e la fiducia nel sistema delle libere elezioni; riaffermava la volontà di
costruire uno «Stato amministrativo», a capo del quale era indifferente sedesse un re o un presidente
di repubblica e di tale Stato tentava di dare una più precisa configurazione. Esso doveva basarsi
sulla «indipendenza e autonomia dei tre poteri» e su una «Suprema Corte costituzionale», adibile
gratuitamente e liberamente da ogni cittadino, «per le violazioni alla Costituzione»; in conformità ai
princìpi già enunziati nella Folla, si reclamava inoltre la fine di ogni ingerenza dello Stato nella vita
collettiva e la massima libertà per l’individuo, nel campo etico, come in quello economico:
@
Il governo [...] non deve avere altro compito che quello di procurare e incrementare il benessere
comune, con esclusione, assoluta e totale, di ogni ingerenza nel campo del pensiero [...]. I cittadini
debbono essere assolutamente e totalmente [sic!] liberi di pensare, credere, desiderare tutto ciò che
a essi piace [...]. La gestione delle Ferrovie, delle Poste, dei Telegrafi, dei Monopoli, di ogni altra
forma d’attività statale che non siano i Grandi Lavori Pubblici, deve passare all’iniziativa privata, e
col criterio della libera concorrenza fra iniziativa e iniziativa.
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Si chiedeva, in particolare, il ritorno dell’industria agli industriali e la sua liberazione dal
«parassitismo politico che oggi la opprime», la restituzione dell’«indipendenza» alle banche contro
lo strapotere del ministero delle Finanze, e si riaffermava fiducia nel «secolare istituto della
mezzadria», da lasciare «libero», contro «la tanto strombazzata e mai spiegata riforma agraria
caldeggiata dai nuovi profittatori del socialcomunfascismo».
In politica finanziaria ci si opponeva al cambio della moneta «se non per sostituire i biglietti
sciupati e non mai per esercitare un inutile controllo sui beni dei cittadini né tanto meno per
prelevarne coattivamente parte, con un metodo che, se è quello immaginato, e altrove, purtroppo,
già realizzato, non costituisce che una improduttiva spoliazione».
La politica estera dello Stato amministrativo non doveva essere, e non lo poteva, date le condizioni
del paese, «di forza e di prestigio», ma «d’intelligenza e d’accortezza».
Responsabile del fascismo, si ribadiva, non era stato il popolo italiano, ma «quei governi e [...}
quelle forze straniere che prime lo finanziarono e potenziarono nel lontano 1914», e che in seguito
gli conferirono, con la loro ammirazione, prestigio e potenza: «Noi dobbiamo affermare la
corresponsabilità di tutto un mondo nei delitti del fascismo [...]. Ciò premesso dobbiamo e
possiamo rinunziare a quanto fu male acquistato dal fascismo, rivendicare alla integrità del nostro
territorio, alla quale ci danno diritto gli errori e l’imprevidenza altrui che ci portarono al fascismo, il
nostro effettivo innegabile contributo di sangue e di averi alla vittoria delle Nazioni Unite».
Per quanto riguarda la «questione sociale», Giannini ribadiva i concetti esposti nella Folla,
affermando che non esistono «classi sociali, ma soltanto individualità umane», e che era perciò
«assurdo voler sostituire una classe sociale a un’altra»; l’elevazione del proletariato quindi doveva
avvenire attraverso la «individuale sproletarizzazione del proletario, al quale debbono essere offerte
[...] tutte le possibilità di migliorare la sua condizione e rendersi indipendente con l’intelligente
lavoro e la tenace perseveranza», e non doveva invece consistere «nella presa del potere da parte di
avvocati e professori sedicenti proletari; e allo scopo d’esercitare, in nome del proletariato, una
dittatura su tutto il popolo, compreso in questo il proletariato».
I capisaldi del programma qualunquista, che il primo congresso del Fronte avrebbe in buona parte
fatti propri, esprimevano dunque la fondamentale esigenza, comune anche agli altri partiti, di una
restaurazione delle strutture democratico-parlamentari che il fascismo aveva smantellato, ma in un
contestò di antistatalismo assoluto che nemmeno il più liberista dei liberali avrebbe osato
prospettare.
Significativo, infine, era l’accento posto sul «problema dell’ordine», «che deve essere — affermava
Giannini — ed è il primo: e che costituisce il presupposto d’ogni base di partenza per la
realizzazione d’un programma politico».

Successi qualunquisti e involuzione a destra della situazione politica: la caduta del governo Parri.
Anche se gli appelli gianniniani venivano respinti dal Partito liberale, esso stava lentamente
scivolando sulle stesse posizioni di aperta ostilità al clima Cln del commediografo.
Si rafforzava ogni giorno di più, nel partito di Benedetto Croce, la corrente del segretario generale
Cattani, ostile (in contrasto con la sinistra rappresentata da Brosio, Carandini e altri) a tale clima,
che aveva denunziato già nel maggio in una lettera ai segretari degli altri partiti:
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Non è consentito tacere oltre sul dilagare di crimini e di violenze e sulla vasta opera di
intimidazione che si svolge in molte regioni contro alcuni partiti o alcune categorie di cittadini [...].
In molte zone la libertà di pacifica propaganda è di fatto impedita perfino a membri del governo e
l’espressione delle opinioni politiche è riservata ad alcune tendenze estremiste. Ingenti quantità di
armi sono nascoste da cittadini per fini politici. La preoccupazione e il timore ovunque diffusi
stanno per tramutarsi in vero e proprio panico che paralizzerebbe lo spirito d’iniziativa e con esso le
possibilità della ricostruzione [...]. Il voler diffondere in tutta la struttura della società i comitati di
liberazione quando ormai la liberazione è avvenuta, contrasta con la loro natura provvisoria,
contrasta con la democrazia [...] minaccia insomma di porre le basi di un secondo Stato accanto e
forse contro lo Stato democratico unitario che faticosamente si va ricostruendo114.
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Altro esempio significativo delle preoccupazioni liberali era la descrizione che della situazione
nazionale faceva Domenico Bartoli su «Risorgimento liberale» del I luglio ’45: situazione in cui «lo
spettro della Grecia va lentamente dissipandosi, anche se non siamo completamente fuori pericolo»:
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Lo spirito pubblico è inquieto. Ogni giorno qualche fatto isolato di violenza o qualche
dimostrazione collettiva indica l’intima inquietudine. Una volta è il caso Basile, la inattesa e
veramente assurda condanna a soli vent’anni del prefetto fascista di Genova a sollevare la piazza: i
tram di Milano sono andati in giro ricoperti di scritte rosse, molto perentorie. Un’altra volta il caro-
vita suscita dimostrazioni di donne, e assalti di mercatini e arbitrari sequestri di merci. Un’altra
volta si minaccia lo sciopero immediato se i salari non saranno aumentati. Insomma, c’è la tendenza
a credere che i problemi della giustizia e dell’economia possano essere risolti dalla piazza [...]. I
casi di linciaggio e le invasioni dei tribunali sono purtroppo frequenti. Talvolta le folle sono prese
da irresistibili furori e fanno a pezzi chi capita nelle loro mani. È il caso Carretta, moltiplicato per
dieci o per cento. Ogni tanto qualche vendetta o azione delittuosa fascista contribuisce ad aumentare
l’agitazione. La gravità della situazione annonaria, la minaccia della disoccupazione, pungolano
ogni giorno le masse. Quando c’è disordine le strade si riempiono di berretti rossi e di elmetti 115.
@@@
Ma la più grave denunzia del «pericolo dell’ora» era venuta da Benedetto Croce. Il filosofo aveva
mostrato, dopo la caduta del fascismo, di sperare nel comunismo e nella possibilità, con il suo
appoggio, di preservare la nuova Italia dalla conquista clericale. Ma, a poco a poco, violenze e
ostentazioni di propositi rivoluzionari lo avevano convinto che il comunismo fosse il vero pericolo,
1’«Anticristo» tornato a minacciare l’umanità, e lo avevano indotto a farsi propugnatore di
un’alleanza tra liberali e cattolici in funzione antimarxista. «Una richiesta che si esprima — aveva
detto Croce il 27 maggio ’45 a Firenze — di serbare l’ordine pubblico anche mercé la forza
pubblica e di osservare la legalità, incontra subito la taccia di ‘ reazione ’ o addirittura di ‘ fascismo
’! Per contrario, i propositi di violenza, di sopraffazione e di dittatura si decorano e si celano col
nome di ‘ instaurazione della democrazia ’, o della ‘ vera democrazia ’. E via discorrendo. Che cosa
fare? Certe volte si sarebbe portati a fregiarsi dei nomi ingiuriosi che hanno ricevuto ora un
contenuto lodevole» 116.
L’opposizione al prepotere dei Cln e all’epurazione, ai consigli di gestione nelle fabbriche come alle
iniziative di politica economica tese a turbare la normale e spontanea ricostruzione del paese, la
ferma richiesta, in ultima analisi, del ritorno all’ordine e della restaurazione dell’autorità dello Stato
contro violenze e propositi rivoluzionari delle sinistre, accomunava ormai, nell’estate-autunno
1945, sempre più vasti ambienti.
@
Noi non intendiamo — aveva affermato ad esempio De Gasperi associandosi alle lagnanze dei
liberali117 — che in virtù delle benemerenze passate i Comitati di Liberazione possano pretendere
di trasformarsi in clubs giacobini [...] né tanto meno in soviets [...]. Saremo intransigenti contro
ogni deviazione dei Comitati di Liberazione poiché qui vi è lo spartiacque per la democrazia e altri
regimi che sono negatori della democrazia.
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Il 3 ottobre, in un discorso al S. Carlo di Napoli pronunziato subito dopo il ritorno dal suo lungo
esilio, era stato Nitti a sferrare un duro attacco al «clima Cln». Egli aveva generalizzato le critiche
alla situazione italiana, affermando che «mai, da secoli, il nostro paese [aveva] traversato ore così
terribili»; che i Cln disponevano «delle funzioni statali più importanti» e che «l’azione degli
epuratori [contribuiva] a dissolvere la produzione e a paralizzare la ricostruzione»; che lo Stato si
«anemizzava» «nella molteplicità e nella confusione dei partiti» e abdicava «ogni giorno i suoi
poteri» 118.
Alle conclusioni di Nitti giungeva anche Amedeo Giannini, presidente della Banca d’America e
d’Italia, che in una conferenza stampa del 15 novembre, sempre a Napoli, dichiarava ai giornalisti
che gli aiuti da parte dell’alta banca e dell’alta industria americane non sarebbero stati possibili
finché gli italiani non si fossero decisi a mettere «la casa in ordine» per mezzo di «un governo
forte»119. Dello scontento degli ambienti industriali italiani si rendeva interprete, d’altro canto,
«L’Economia. d’Italia», che «polemizzava vivacemente contro lo ‘ sfrenato interventismo dello
Stato in ogni settore della vita nazionale ’, che soffocava l’iniziativa privata; contro ‘ le imposizioni
violente e l’energumenismo degli irresponsabili ’, che, favoriti dal governo, minavano lo sforzo dei
dirigenti di azienda, degli imprenditori, dei finanziatori i quali avrebbero voluto un clima di ‘
collaborazione aperta e leale, posta su un piano di legalità ’» 120.
L’attacco dei liberali poggiava su argomentazioni in gran parte simili:
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Inefficienza nella direzione di governo; mancanza di unità di orientamento; incertezza sui problemi
economici e monetari; carenze di competenze; meccanica distribuzione di dicasteri troppo
numerosi; legislazione tumultuosa e senza controllo; disorientamento dell’amministrazione
provocato dall’oscillazione delle leggi epurative e conseguente disagio nel Paese, il quale vedendo
così poco soddisfatte le sue aspirazioni, [poteva] finire per compiere l’errore di sbandarsi verso le
forze ostili alla nuova democrazia, che naturalmente [avrebbero approfittato] di questa situazione
per tentare di rialzare il capo 121.
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Gli attacchi al governo Parri, sferrati con sempre maggiore incisività da molteplici direzioni,
avevano una reale rispondenza negli umori di larghi strati del paese. Di «frattura tra il paese così
detto legale e il paese così detto reale» parlavano i liberali 122; di «contatto tra la classe antifascista
al governo ed il Paese [che] è lungi dall’essere perfetto», gli azionisti 123; di «generale
insofferenza», i socialisti124. Anche «Il Ponte», la rivista di Calamandrei, constatava il «distacco dei
partiti dall’opinione pubblica» (riconducendolo al fatto «che sempre più, dalla Liberazione ad oggi
[i partiti si sono] andati isolando in se stessi, quasi gelosi di parlare ognuno per proprio conto al
popolo, senza ammettere interferenze o suggerimenti dall’esterno» 125). «La Voce repubblicana»,
poi, parlava di «inquietudine del paese», attribuendone senza riserve la colpa alla «impotenza
governativa» 126.
Di fronte a questa situazione di scontento quasi unanime, mancava per lo più a sinistra una precisa
coscienza delle sue cause e dello sbocco politico che essa stava per assumere. In genere, nonostante
le lezioni di realismo che continuava a dare Togliatti, lo scontento veniva attribuito, per buona parte,
a manovre reazionarie, e comunque condannato sic et simpliciter per il suo significato di fondo
antidemocratico, mentre gli aspetti più appariscenti del suo dilagare venivano addirittura scambiati
per sintomi della crisi della società capitalistica, come indicava ingenuamente un articolo
dell’«Avanti!» cui abbiamo già accennato (Responsabilità 127):
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Della generale insofferenza pochi si preoccupano e molti gioiscono [...]. Principi e istituti sono
governati da una immoralità che, sorta dal fascismo, non si riesce ad arginare e a sanare. [...] Noi
fidiamo su tutti gli organismi che la emergenza ha suggerito, ma puntiamo principalmente sulla
massa lavoratrice [...]. Il proletariato, custode delle più alte virtù umane, deve ribellarsi a tutto [ciò]
che sa di caos e al caos può condurci. Non deve cedere al generale conformismo, alla inciviltà, alla
scorrettezza, al malcostume, né lasciarsi andare allo scetticismo, proprio delle classi e dei ceti al
tramonto. Noi proletariato, noi popolo, dobbiamo resistere alle irritazioni e agli attriti tra città e
campagna e tra centro e villaggio per aderire totalmente alla sincerità democratica del nostro verbo
[...]. È vero. Una formazione sociale, è Marx che parla, non tramonta prima che siano sviluppate
tutte le forze produttive che essa è capace di dare. Ma non siamo forse all’acme della crisi
capitalistica? Siamo all’acme della crisi capitalistica [...]. Siamo alla vigilia di un profondo
mutamento nei rapporti sociali. Siamo al momento del trapasso dall’una all’altra forma di civiltà.
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Lo stesso Parri, in una conferenza stampa del 7 settembre 128, pur individuando con chiarezza che
alla base di «certi fenomeni di opinione pubblica [...] in qualche modo allarmanti» c’erano i ceti
medi del paese, non faceva nulla per giustificare almeno i motivi più evidenti del loro malcontento,
e biasimava duramente la loro «critica negativa, demolitrice, corrosiva, contro il regime politico nel
quale viviamo, contro il governo di cui è espressione: critica demolitrice di ogni sforzo onesto di
ricostruzione». «Questa opinione pubblica di fiacca memoria — aveva esordito Parri — è formata
in sostanza da una larga parte di quelle classi di mezzo, che sono le prime responsabili del regime
fascista in quanto ne sono state il maggiore sostegno: dobbiamo ricordare la loro adesione
entusiastica all’avventura spagnola e all’avventura imperialistica e anche alla guerra insieme a
Hitler [...]. Esse lo hanno dimenticato, ed è per loro facile fare manifestazione di critica negativa,
demolitrice [...]».
Se a sinistra si mostrava di non voler comprendere le ragioni dello scontento dei ceti medi (che
costituiva l’aspetto più importante e politicamente significativo del malessere generale del popolo
italiano), a destra si iniziava a fare a gara, invece, per rendersene interpreti. Da più parti si collegava
ormai con chiarezza e senza più reticenze quello scontento alla politica dei partiti antifascisti e ai
vari timori e turbamenti che essa stava provocando, e si reclamava a gran voce quel ritorno
all’«ordine» che costituiva l’istanza fondamentale dell’opinione pubblica moderata: «il paese vuole
l’ordine, la libertà, la pace — scriveva Alberto Giovannini sul «Tempo» il 7 dicembre ’45 — non la
continuazione di metodi fascisti che solo hanno invertito il bersaglio» 129.
Anche all’interno della coalizione governativa, come si è visto, il Partito liberale si stava facendo
promotore di una energica azione in difesa della restaurazione dell’autorità dello Stato contro
l’azione sovvertitrice delle sinistre, ridimensionando con sempre maggiore spregiudicatezza quella
fedeltà all’unità nel nome dei comuni ideali della Resistenza e del rinnovamento civile che avevano
caratterizzato la sua precedente politica. Questo mutamento di posizioni aveva in parte motivazioni
autonome, in quanto i disordini e le illegalità, i fermenti rivoluzionari della base partigiana e il
massimalismo di certe correnti di sinistra, uniti ai propositi «antiborghesi» di Parri, stavano
istintivamente spingendo i liberali sulla china dell’acceso antisocialismo e della conservazione
dell’ordine preesistente. Ma la decisa contestazione del «clima Cln» era anche determinata, nei
liberali, dalla presa di coscienza sempre più netta di quello scontento dei ceti medi, che, in
mancanza di altri interpreti, stava trovando una vivace forma di espressione nel qualunquismo.
Verso quest’ultimo i liberali vedevano convergere a tappe forzate i consensi di quei settori del paese
che essi pensavano dovessero costituire invece la propria naturale base elettorale, ed era logico che
cercassero di svolgere un’azione di recupero di tali consensi 130.
L'Esame di coscienza, al quale invitava in quei giorni Mario Pannunzio su «Risorgimento liberale»
131, indicava chiaramente la preoccupazione dei liberali:

@
Da ogni parte d’Italia si levano voci inquiete e uniformi a denunciare i pericoli in cui incorre la
nuova democrazia [...]. Dappertutto le stesse polemiche, le stesse proteste, così monotone nei temi
sempre eguali: disordine nell’amministrazione, prepotenze di parte, inefficienza dello Stato,
scontento generale [...]. Non è bastata la fine della guerra a ridar pace agli animi. Nuove torture
sono state inventate. Ecco i partiti di sinistra indicare, con furia dogmatica, nuovi esperimenti,
nuove rivoluzioni, nuove immancabili mete. La vita del cittadino apparve ancor più precaria e
instabile. Insicura la vita, i beni, gli affetti, le amicizie, i propositi. Si abusò in ogni modo del potere
di resistenza del nostro popolo. La reazione doveva venire ed è venuta [...]. L’opinione pubblica ha
cominciato a orientarsi, a far la sua scelta. La sfiducia nei partiti, il discredito che colpisce gli
uomini di governo, l’opposizione a tutte le nuove strutture create nel periodo infuocato della
resistenza, e in particolare ai Cln, hanno nel fondo una loro ragion d’essere, anche se oggi soltanto
negativa. È il «governo», nel suo complesso, considerato responsabile del disordine [...]. Dal grave
disagio morale che si esprime in forme sempre più clamorose bisogna pure trarre gli insegnamenti
[...]. Spetta dunque ai partiti di tener conto delle forze effettive che si sviluppano nel paese Dare un
volto, una coscienza, un orientamento consapevole al moto confuso e ancor torbido dello spirito
pubblico è dovere dei partiti. Primo fra tutti del Partito liberale, sul quale si appunta oggi
l’aspettativa di larghissime correnti del paese. È questo il momento degli esami di coscienza, e
tocca al Partito liberale incominciare. Tocca al Partito liberale assumere di fronte al paese quella
posizione risoluta, decisiva, ch’è conforme alle sue tradizioni e alla sua natura. Tocca al Partito
liberale dir chiaro che i tempi eccezionali sono finiti e che le amministrazioni straordinarie, le
gestioni commissariali, i Cln centrali, periferici, rionali, aziendali, di fabbricato e così via,
debbono al più presto finire.
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Era dunque evidente nei liberali, con le preoccupate allusioni a quella «opposizione confusa e
disordinata e per ciò stesso pericolosa», come la chiamava Croce 132, il riferimento al
qualunquismo, che andava convogliando nella sua protesta contro l’antifascismo i «ceti medi,
ancora una volta trascurati, vilipesi, ignorati» (come scriveva Angiolillo sul «Tempo» del 13
novembre) e che ora si stavano scotendo, conquistati dai travolgenti slogan gianniniani (La grande
lava si è mossa, era l’efficace titolo dell’articolo di Angiolillo). Riconquistare quei ceti, «riallacciare
al governo quell’opinione pubblica che si è andata mano a mano allontanando, passando
torbidamente all’opposizione», diveniva lo scopo del Partito liberale: lo affermava ancora una volta
«Risorgimento liberale» il 5 dicembre, ponendo alle altre forze politiche «dieci punti» come
«condizioni inderogabili» 133 per raggiungere tale scopo e quindi per poter continuare la
collaborazione a livello di governo.
Dopo la denunzia della «inefficienza nella direzione di governo», contenuta nella lettera indirizzata
il 17 novembre agli altri cinque partiti, i liberali ritirarono la fiducia facendo dimettere i propri
ministri il 22. I democristiani avevano rinforzato l’attacco dei liberali, sostenendo, in una
risoluzione del 23 novembre che «il gabinetto presieduto da Parri poggiava sull’unanime decisione
dei sei partiti. Tale base viene oggi a mancare e decade perciò automaticamente il mandato che gli
era stato affidato dal Cln nel giugno scorso» 134.
A Parri non rimaneva che rassegnare le dimissioni, e le annunziò, il 24, in una polemica conferenza-
stampa, nella quale accusò liberali e democristiani di aver agito nel governo da «quinta colonna», e
parlò di un «colpo di Stato» teso a «restituire il potere a quelle forze politiche e sociali che avevano
formato la base del regime fascista» 135.
Dopo una serie di complesse trattative, che vedevano cadere luna dopo l’altra le candidature
Orlando, Nitti e Bonomi, era De Gasperi ad annunziare, il 10 dicembre, la formazione del nuovo
governo. Per la prima volta nella storia d’Italia un cattolico saliva alla presidenza del Consiglio; egli
si accingeva però a guidare il paese con un programma nel quale gli obbiettivi di rinnovamento che
avevano caratterizzato il ritorno dei cattolici all’agone politico dopo il ventennio fascista erano posti
alquanto in sottordine, anche se solennemente riaffermati, rispetto alle nuove e pressanti esigenze
del ristabilimento dell’ordine e dell’autorità dello Stato.
Il programma prevedeva infatti, tra l’altro, «la sostituzione rapida e progressiva degli organi
esecutivi e amministrativi provvisori, costituiti per necessità di emergenza [...], con normali organi
rappresentativi della esclusiva e superiore volontà ed autorità dello Stato»; «la riassunzione da parte
dei competenti organi ed enti pubblici di tutte le funzioni amministrative od esecutive loro proprie,
comprese quelle esercitate, spesso anche con molta benemerenza, dai Cln ai fini della lotta di
liberazione e in dipendenza delle condizioni straordinarie dell’occupazione e della mancata
funzionalità dell’apparato statale [...]»; «l’abolizione più rapida delle misure e degli organi
eccezionali, al quale riguardo corrisponde la abolizione dell’Alto Commissariato e la già annunziata
decisione di concludere l’epurazione prima delle elezioni della Costituente» 136.
Il programma «restauratore» di De Gasperi accettava praticamente tutti i dieci punti che i liberali
avevano presentato, il 4 dicembre, appunto come «condizioni inderogabili» per la loro
partecipazione al nuovo governo 137, e che Togliatti aveva definito, con somma gioia di Giannini,
una «specie di programma dell’Uomo Qualunque» 138.
In effetti liberali e democristiani avevano fatto proprie le richieste avanzate dal commediografo fin
dal dicembre 1944, ed erano stati spinti alla loro azione contro il governo Parri anche dalla
constatazione del successo che le parole d’ordine qualunquiste mostravano di raccogliere in settori
sempre più vasti del paese. Aveva dunque ragione «Rinascita» a motivare «la manovra dei liberali
contro Parri» nei seguenti termini:
@
Si avvicinano le elezioni, e gli strateghi del partito, soprattutto nel Mezzogiorno ma in sostanza
anche nel Settentrione, sarebbero arrivati alla conclusione che il solo rimedio atto a garantire ai
liberali un successo qualsiasi era quello di farsi esponenti e organizzatori del malcontento della
destra conservatrice e reazionaria. Rimanendo nel governo del Cln e facendosi corresponsabile della
politica di questo governo, il Partito liberale, secondo questi strateghi, avrebbe favorito il sorgere
dell’opposizione dell’Uomo Qualunque e spinto verso questa opposizione la maggior parte dei suoi
attuali seguaci139.
@@@
IMM(da «L’Uomo qualunque», 5 dicembre 1945)
«Il vento gagliardo del Nord si è affievolito e quasi spento», constatava con amarezza Nenni
sull’«Avanti!» del 30 dicembre 1945 140.
La caduta del governo Parri rappresentava effettivamente una grossa sconfitta per le speranze di
rinnovamento della Resistenza. Con essa si vanificava il tentativo di attuare un rinnovamento
immediato, sotto l’impulso dell’entusiasmo succeduto alle giornate della Liberazione. Si
rimprovererà spesso alle sinistre, e a Parri in particolare, di non aver avuto la capacità, per
inesperienza, indecisione, scarsa lucidità programmatica e perfino «superlativa imperizia tecnica»
ed «ingenuità giuridica» 141, di attuare, nel momento favorevole dominato dal «vento del Nord»,
misure riformatrici. In realtà, se apparivano giustificati i rimproveri di scarsa efficienza rivolti a una
classe politica di formazione forse eccessivamente idealistica e in ogni caso impossibilitata per
venti anni ad esercitare qualsiasi pratica di governo, la ragione determinante dell’insuccesso di Parri
andava ricercata nella opposizione a quelle stesse misure riformatrici di forze della coalizione
governativa, come liberali e democristiani. Mutare il volto della società italiana radicalmente, ma
senza correre i rischi di una guerra rivoluzionaria, s’era rivelato impossibile, in quel 1945.
Le possibilità di incidere profondamente nel tessuto economico e sociale erano ora legate alla
volontà popolare: una grande vittoria delle forze del rinnovamento alle imminenti elezioni per
l'Assemblea costituente avrebbe infatti permesso la formazione di una maggioranza parlamentare e
governativa apertamente progressista, che avrebbe potuto agire sulla strada delle riforme senza
infrangere i suoi sforzi sugli scogli rappresentati dalle «quinte colonne». Elezioni, Costituente:
erano questi ora gli avvenimenti che galvanizzavano l’interesse delle sinistre, fiduciose di ottenere
dagli italiani i consensi necessari per rivalersi della sconfitta subita, nel novembre ’45, con la caduta
del governo Parri. Ma la realtà preparava nuove delusioni.
///
Giannini esultava della caduta di Parri, affermando, e non senza ragioni, che essa era avvenuta per
merito della tenace opposizione qualunquista (sosteneva addirittura che era stata la pubblicazione
del programma politico dell’Uomo Qualunque ad abbattere il governo). Ai protagonisti di quello
che Parri aveva chiamato «colpo di Stato» si rivolgeva con arroganza:
@
Oggi liberali e democratici cristiani dicono ciò che noi abbiamo sempre detto; e lo dicono non come
lo abbiamo detto noi, e cioè per intima convinzione, per diretta cognizione ed esperienza di
giustizia: bensì perché, con l’acuto orecchio, sentono il brontolio della tempesta popolare. Meglio
tardi che mai, sta bene; ma sta bene anche affermare, com’è nostro diritto e dovere, che liberali e
democristiani arrivano al traguardo nei limiti del tempo massimo, e con enorme ritardo Sull’Uomo
Qualunque 142.
@@@
Per il superamento della crisi il commediografo aveva già proposto nell’ottobre la «soluzione
ONB», ma ora oscillava da un’affermazione all’altra, in un coacervo di proposte contraddittorie
dovute certo, per buona parte, al «qualunquismo puro» che riemergeva a tratti quale componente
dominante del suo carattere. Il 21 novembre, ad esempio, esigeva un governo quale che fosse,
purché informato ai princìpi dello Stato amministrativo, pena un colossale e «originale» sciopero
degli uomini qualunque di tutta Italia:
@
Sia dunque ben chiaro il nostro pensiero, e chiarissima la nostra volontà che è quella di milioni di
italiani. Gli uomini che andranno al Governo, siano essi i Superstiti della buona politica, siano essi i
volenterosi elementi di classi politiche più giovani, sappiano che noi li appoggeremo se ci
lasceranno liberamente vivere; li combatteremo se, in nome di altri ideali, altre fanfaluche di cui
altissimamente ci strafottiamo, vorranno imporci altre limitazioni, altre scocciature, altre rotture di
corbelli. Noi esigiamo che cessi una buona volta la guerra civile, che la polizia arresti tutti i
facinorosi, che la magistratura li punisca, che sia possibile lavorare, guadagnare, andare, venire,
godere, ridere, senza tessere, senza comitati, senza camorristi che impongano taglie, senza filosofi
bischeri che impongano teorie, senza pazzi che ci spingano in guerre per mettere uno straccio di un
colore al posto di uno straccio d’altro colore [... Altrimenti] noi uomini qualunque, che non ne
possiamo più, che siamo stufi di fascismo e d’antifascismo, di mussolinismo e di nennismo,
incroceremo le braccia nel più colossale sciopero che abbia mai visto il mondo moderno, non
pagheremo più tasse, pigioni, debiti, salari, stipendi; non compreremo, non venderemo più, non
parteciperemo a nessuna manifestazione di vita pubblica: ci chiuderemo nelle nostre case e
soffocheremo, con la nostra assenza, tutti i nostri tormentatori e rapinatori [...] 143.
@@@
Il 5 dicembre proponeva di nuovo, nel caso di non riuscita di De Gasperi, il «Gabinetto dei Grandi
Vecchi [che] deve portare i nuovi e i giovani all’amministrazione del paese senza scosse: così come
i padri accompagnano i figli al loro primo grande cimento» 144, ma tale gabinetto doveva essere
così composto:
@
Orlando Presidente; Nitti ai riuniti dicasteri del Tesoro e Finanze; De Gasperi Esteri; Ruini ai Lavori
Pubblici senza scocciarci l’anima con la Ricostruzione che dev’essere affidata a un Istituto da
crearsi, tecnico e non politico. Alla Giustizia, per preparare la soppressione di quel ministero e
trasformarlo da organo politico in organo amministrativo-giudiziario, andrà De Nicola o Tupini.
All’Industria un industriale, al Commercio un commerciante, all’Agricoltura un agricoltore. I
comunisti si prendano l’Alimentazione, loro che sono così bravi a nutrire i popoli; gli azionisti si
prendano le Comunicazioni, visto che sanno così bene trafficare; i socialisti si prendano il Lavoro,
dato che pretendono di rappresentarlo tutto e in esclusiva! Agli altri ministeri vadano pure le vedove
inconsolabili del politicantismo, in attesa della gente seria che verrà fuori dalle elezioni.
A un ministero così formato l’Uomo Qualunque e il Fronte dell’Uomo Qualunque daranno tutto
l’appoggio, senza chiedere neppure un posto d’usciere nei corridoi ministeriali. A qualunque altra
combine che ripetesse, più o meno apertamente, la situazione Parri e la situazione Cln, le nostre
forze si opporranno con tutto il terribile peso della loro resistenza passiva: ossia con quella inerzia
del Paese reale a cui — lo abbiamo dimostrato — nessun governo può resistere 145.
@@@
Una volta varato il governo De Gasperi, Giannini si dichiarava nei suoi confronti in «doverosa
benevola aspettativa, così come fummo in doverosa benevola aspettativa con quello che lo
precedette e finché fu possibile aspettare benevolmente» 146. L’innegabile successo della propria
azione aveva esaltato il commediografo, legittimando il sorgere di prospettive trionfalistiche. A suo
dire, il qualunquismo rappresentava «il più grande movimento politico del dopoguerra mondiale»
147, con «un numero di aderenti superiore almeno al doppio della somma degli aderenti a tutti gli
altri partiti», perché in esso andavano confluendo «imponenti masse di uomini e di donne che non
s’occuparono mai di politica, e la [sua] forza sta appunto in questi elementi nuovi» 148. Quanto a se
stesso, Giannini si definiva «lo scrittore a cui, attualmente, si interessa tutta la stampa mondiale»
149. I suoi sforzi erano tutti tesi all’organizzazione del movimento in vista del primo Congresso
nazionale, il quale doveva costituire la piattaforma di lancio della nuova classe dirigente necessaria
all’Italia:
@
Gli Amici debbono tener presente questo: che il fascismo, in venticinque anni, ha distrutto la vita
politica italiana, e che c’è tutto da rifare, incominciando proprio dalla classe politica. I Salvatorelli, i
Lussu, gli Spano, i Nenni, tutti gli altri, sono uomini foderati di teoria senza nessuna pratica, e non
valgono niente di più di uno qualunque di noi [...]. Dal Primo Congresso dovranno uscire almeno un
paio di centinaia di uomini e di donne di prim’ordine, che saranno i nostri capi e rinsangueranno la
tisica classe dirigente italiana [...]. Le elezioni, comunque saranno fatte, le vinceremo noi: e quando
le avremo vinte daremo alla nostra Patria la pace e la prosperità perdute nel 1914 150.
@@@
Sul fenomeno «qualunquismo» (questo era il neologismo trovato dalla rivista fiorentina «L’Arno»:
a Giannini non piaceva ma si adattò al suo uso) cominciavano intanto ad accendersi commenti e
giudizi vivaci anche all’estero, mentre incidenti di varia entità caratterizzavano l’apertura di nuove
sedi del Fronte.
Giannini tuonava contro le violenze avversarie, scriveva di non volervi rispondere per non
trascinare il paese nella guerra civile, ma non esitava a minacciare rappresaglie:
@
Bene, bene — affermava in una «vespa» del 5 dicembre —: stiamo facendo un elenco di questi
fattarelli, e il giorno in cui il popolo italiano incomincerà a menar botte — e saranno da orbi —
potremo dimostrare che ciò è avvenuto solo dopo lunga, estenuante, irresistibile provocazione. Quel
giorno dimostreremo praticamente come bastino venti italiani qualunque — venti galantuomini — a
mettere in fuga cinquecento falsi valorosi delle spedizioni punitive contro le edicole indifese: che
noi dobbiamo vedere assalire con le mani legate dalla necessità di non rovinare il nostro Paese.
@@@
La sua convocazione dal luogotenente, il 29 novembre, nell’ambito delle consultazioni per la
soluzione della crisi (si diceva che fossero stati gli alleati a far pressioni perché Umberto lo
«invitasse»), aveva provocato proteste e manifestazioni di piazza, alle quali aveva risposto col suo
solito stile:
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Trecentocinquanta uomini hanno dimostrato contro l’Uomo Qualunque a Roma [...]: e solo a Roma
vendiamo centomila copie, ciò che significa almeno trecentornila lettori! Basterebbero gli sputi
riuniti di tal imponente massa per annegare i suoi oppositori151.
@@@
Si avvicinavano le elezioni amministrative, e il commediografo dava consigli «preziosi» ai suoi
amici:
@
Infischiatevi della «questione istituzionale»: per amministrare un comune non occorre essere
monarchici o repubblicani, ma cittadini onesti e non disonesti, intelligenti e non fregnoni [...].
Dov’è possibile, cercate d’avere il curato dalla vostra parte, e, se egli accetta, mettetelo in lista Non
lasciatevi impressionare [dall’accusa di «fascista»], e respingetela con energia. Se potete, senza
compromettervi, spaccare la testa a chi vi dà del fascista, fatelo [per quest’ultimo consiglio il
settimanale subirà un sequestro] 152.
@@@
II. Aprile 1945 - febbraio 1946
113

DI VITTORIO — E dove andate, voi due, In ibrido connubio?


IL PARROCO E L'UOMO QUALUNQUE — Pezzo di so! Non lo vedi? Andiamo a votare la stessa
lista di galantuomini!
IMM
Il Fronte dell’Uomo Qualunque si presentava in nome dell’efficientismo, di una politica delle cose
che superasse le diatribe ideologiche, mirava al «buon governo» dei tecnici per sostituire il
«malgoverno» dei politicanti; non poneva pregiudiziali, tutti potevano concorrere ai suoi pratici
obbiettivi. I qualunquisti potevano perciò allearsi con tutti gli altri partiti (e perfino esservi
iscritti)153, sebbene Giannini, in piena contraddizione con il suo iniziale rifiuto delle ideologie quali
che fossero e in coerenza — però labile — con la sua «scelta» liberale, sconsigliasse, salvo
necessità locali, l’alleanza con le sinistre:
@
L’alleanza naturale nostra è quella col Partito liberale, che dobbiamo assorbire e assorbiremo. Dopo
i liberali vengono i democristiani, un po’ matti anche loro, ma in complesso brava gente. I
Democratici del Lavoro anche possono essere appoggiati [...]. Sconsiglio la collaborazione con le
sinistre, ma là dove esigenze locali la imponessero, tenete presente che secondo me i sinistri vanno
considerati in quest’ordine:
1 - azionisti, [i] più pericolosi settari, non sanno cosa vogliono, hanno il solo programma di
comandare loro e si credono tutti padreterni;
2 - socialisti, secondi in pericolosità, scombinati, divisi, vaniloquenti, dottrinari a freddo, né carne
né pesce, rassegnati a un destino che non indovinano, incapaci di realizzare, o, come si dice adesso,
di «quagliare»;
3 - comunisti, terzi in pericolosità, molto meno numerosi di quanto vanno dicendo, ma organizzati,
sicuri di quello che vogliono, ben diretti da un cervello centrale, assolutamente mancanti di uomini
di primo piano, pieni di soldi spesso spesi male, amici infidi, nemici spietati, ma sempre disposti a
transigere, accordarsi, combinare, «quagliare», ricchi di senso pratico almeno ai loro fini.
L’idea dell’UOMO qualunque affascina i comunisti, ed è principalmente per questo che i loro capi
intelligenti (sono in pochi però) la temono tanto. A patto di non averne paura si fa quello che si
vuole dei comunisti: abbiate sempre presente che la grandissima maggioranza dei comunisti non sa
cos’è il comunismo, e basta spiegar loro le nostre idee e il nostro programma, con calma se sono
calmi, strillando più di loro se strillano, per tirarli dalla nostra parte154.
@@@
Alla luce dell’empirismo gianniniano, si può ben comprendere la confusione che caratterizzò i primi
congressi provinciali del Fronte, che avevano cominciato a svolgersi dal dicembre ’45. In generale
ad essi intervenivano democristiani, liberali, demolaburisti. A Brindisi addirittura, il 27 gennaio ’46,
il congresso fu presieduto da esponenti del Pci, elettisi da una maggioranza assembleare
precostituita (i comunisti vi si erano artatamente infiltrati), ma con il consenso dei locali leader
qualunquisti, desiderosi di dimostrare in tal modo la propria democraticità.
Ma, a parte gli episodi di colore come quello di Brindisi, un importante elemento teso a favorire una
più precisa caratterizzazione politica del nuovo partito, già da Giannini avviato, pur tra varie
contraddizioni, sulla strada del liberalismo, sarebbe venuto dalla confluenza in esso di gruppi e
movimenti dichiaratamente di destra.

Confluenze e simpatie varie.


Le prime significative confluenze nel Fronte dell’Uomo Qualunque cominciarono ad essere
impostate, il 3 febbraio 1946. in occasione del congresso regionale di Bari, nel quale Giannini tenne
il suo primo discorso politico pubblico.
Accanto a Giannini si presentarono sul podio degli oratori, a pronunziare discorsi di ammirazione e
solidarietà, il gen. Roberto Bencivenga e il dott. Emilio Patrissi, entrambi consultori, il primo
fondatore del monarchico Centro democratico, il secondo segretario generale della Concentrazione
democratico-liberale, pure a tendenza monarchica. Bencivenga criticò l’oligarchia al potere e
l’epurazione, esaltò i reduci e i ceti medi, «spina dorsale della nazione», che dovevano assumere
«una funzione preminente facendo opera di mediazione tra capitale e lavoro» 155. Anche Patrissi
esaltò i reduci e attaccò l’epurazione e le leggi eccezionali, ma con un’intonazione ben più grave.
Parlò di «governo inefficiente ed inoperante», di «paese sull’orlo dell’abisso finale»; reclamò la
necessità di una politica di «concordia e pacificazione», perché non era «ulteriormente possibile
continuare a dividere il popolo italiano in giusti e reprobi, buoni e cattivi, fascisti e antifascisti»,
invitando infine a «cacciare i farisei dal tempio» e inneggiando a «questa nostra povera Patria oggi
così colpita, così derelitta, [la quale] non ha che i valori della sua storia, incancellabile ed eterna, da
affermare contro un mondo che era barbaro quando Essa da secoli era civile» 156.
Patrissi, che usava ostentare, come Giannini, un vistoso monocolo, diverrà famoso, pochi giorni
dopo, per le ingiurie contro i fuorusciti antifascisti pronunziate al primo congresso nazionale del
Fronte.
Ex partigiano, nel partito di Giannini diverrà il leader ammirato dell’ala nazionalista e «nostalgica»,
ben presto in netto disaccordo con le posizioni del Fondatore. Per ora, dopo il congresso di Bari,
stipulava il 9 febbraio un «Patto della ricostruzione»157 con Giannini e Bencivenga, ma, sconfessato
dalla direzione del suo movimento (fondato dal senatore Alberto Bergamini, ex direttore del
«Giornale d’Italia», e del quale faceva parte anche Alfredo Covelli), entrerà nel qualunquismo a
titolo individuale.
L’alleanza con Giannini del gen. Bencivenga suscitò notevole scalpore (eguagliato soltanto, qualche
mese dopo, dall’adesione al Fronte dell’Uomo Qualunque del presidente del Tribunale di Roma,
Milziade Venditti, dimessosi dalla carica per contrasti con il ministro della Giustizia, Togliatti).
Bencivenga era stato deputato aventiniano, capo della Resistenza romana durante l’occupazione
tedesca e governatore militare e civile della città dopo la Liberazione. Aveva fondato il Centro
democratico con un programma in 16 punti, reso noto nel novembre ’45 dopo un «appello ai ceti
medi», il quale, pur nella sua ispirazione di fondo liberale, ammetteva notevoli concessioni sul
piano delle riforme sociali. In particolare, il punto 14 prevedeva la «nazionalizzazione delle grandi
imprese d’interesse pubblico riguardanti i servizi fondamentali per la vita del paese [e la]
municipalizzazione dei servizi pubblici locali». Giannini aveva fatto pubblicare il programma
sull’«Uomo qualunque» dichiarandosi d’accordo su «quasi tutti» i punti, ma facendo espresse
«riserve su quanto si dice al punto 14; nemici, come siamo, di ogni nazionalizzazione,
municipalizzazione e altre forme di monopolio statale e comunale» 158.
Anche con Bencivenga il patto d’alleanza resterà momentaneamente lettera morta, e il generale
verrà eletto alla Costituente nelle liste del monarchico Blocco nazionale della Libertà, per aderire
però subito dopo (nell’agosto) al Fronte dell’Uomo Qualunque, nel quale rimarrà fino all’ultimo un
fedelissimo di Giannini.
La più importante alleanza col qualunquismo doveva essere quella di un altro partito monarchico,
l’unico, in verità, che godesse in quel momento di una certa consistenza e rappresentatività, cioè il
Partito democratico italiano. Costituito a Roma il 6 giugno 1944 dalla fusione di vari gruppi
clandestini (Centro della democrazia italiana, Partito di Unione, Partito socialdemocratico italiano)
il Pdi si proclamava per bocca del suo segretario generale, Vincenzo Selvaggi 159, nettamente
antifascista, e professava ideali liberali e democratici. In politica interna esso intendeva lottare
contro ogni «rigido centralismo politico sociale ed economico», giacché occorreva «lasciare
all’iniziativa privata di fare quello che può, sa e vuole fare» 160; in politica estera si ispirava alle
«grandi linee direttive della concezione democratica, quali sono state espresse nelle ‘ quattro libertà
’ di Roosevelt e negli ‘ otto punti ’ della Carta Atlantica» 161. I punti in comune con il programma
qualunquista erano dunque notevoli, ma soprattutto era comune Fazione politica svolta dai due
movimenti.
Selvaggi aveva iniziato molto tempo prima di Giannini una ferma battaglia contro il «clima Cln»,
con motivazioni e linguaggio che il commediografo avrebbe provveduto abilmente a esasperare. Fin
dal I marzo ’44 poteva leggersi sul terzo numero clandestino dell’«Italia nuova», che diverrà
l’organo ufficiale del Pdi, un parallelismo tra fascismo e antifascismo destinato ad essere lo slogan
preferito del qualunquismo:
@
Il fascismo aveva costituito il monopolio della Patria, della capacità tecnica e politica, del diritto di
cittadinanza e di lavoro. Ora si è costituito il monopolio dell’antifascismo (ma che significa
antifascismo?), e chi non è per costoro, chi non li applaude e li segue, così, senza poter dire la sua,
non è antifascista, non è patriota, non è forse nemmeno italiano. E non è fascismo questo? 162
@@@
Significativo era anche stato, ad esempio, l’«appello all’ordine» approvato il 6 settembre 1945 dal
Consiglio nazionale del Pdi, che riaffermava princìpi sostenuti continuamente dalla martellante
polemica gianniniana:
@
Il Consiglio Nazionale del Pdi — constata con allarme il perdurare di un profondo turbamento
nell’ordine civile e politico del paese —constata che tali condizioni alimentano il disagio morale
della Nazione estraniando sempre più i cittadini dalla consapevole partecipazione alla vita pubblica
ed ai doveri che la ricostruzione del Paese impone — addita come primo responsabile di tale
situazione il sistema dei Cln in cui si sommano arbitrio ed artificio, faziosità e violenza — denuncia
che il mantenimento di tale situazione risponde solo all’interesse di coloro che si propongono di
dare al disagio ed al fermento del Paese un violento sbocco rivoluzionario — invita i partiti
sinceramente democratici aderenti al Cln a considerare l’estrema gravità della situazione, in
conseguenza delle enormi responsabilità che essi si assumono avallando una politica sempre più
evidentemente estranea all’interesse della libertà e della democrazia — proclama che il supremo
interesse del Paese esige oggi la rivendicazione della piena libertà dei cittadini, la difesa della loro
sicurezza, la tutela del loro lavoro, la restaurazione della legge163.
@@@
Non era mancato inizialmente, nel Pdi, un certo atteggiamento di diffidenza e di superiorità nei
confronti di Giannini e del qualunquismo. Ma una sempre più viva corrente all’interno del partito
aveva finito per guardare con simpatia alla coraggiosa campagna «anti-antifascista» del
commediografo e al suo crescente successo, sì da spingere Selvaggi (che già in occasione della
epurazione di Giannini aveva solidarizzato con lui e gli aveva offerto le pagine del suo quotidiano
nel caso che il governo avesse impedito la ripubblicazione dell’«Uomo qualunque») a rendersi
promotore, tra i due partiti, di un’altra alleanza «per la ricostruzione della Patria», sottoscritta con
Giannini il 14 febbraio del ’46 164.
Nel giustificare l’alleanza, Selvaggi rese omaggio, intervenendo al congresso regionale del Pdi di
Spoleto, il 24 febbraio, al «fervido ingegno» di Giannini, difese il Fronte, nato da «un’ansia di
libertà, dal disgusto della dittatura, dal senso diffuso di malessere e di oppressione che i governi del
Cln hanno provocato in Italia, ansia di libertà, disgusto della dittatura forse talvolta esasperanti e
scomposti, ma ciò anche a causa della posizione presa contro il Movimento dell’esarchia»; ribadì
che il Fronte si prefessava democratico e che era «concorde» col «programma di ricostruzione» del
Pdi, per concludere che gli avversari del qualunquismo erano anche avversari del Pdi e della «vera
democrazia» 165.
Questa concordia sui principali obbiettivi della lotta politica non riuscirà a impedire che l’alleanza
Pdi-UQ finisca momentaneamente nel nulla e che, come Bencivenga, Selvaggi si presenti alle
elezioni per l’Assemblea costituente nelle file del Blocco nazionale della Libertà. A porre in crisi
l’alleanza tra qualunquismo e gruppi monarchici sarà il problema istituzionale, rispetto al quale
Giannini, di convinzioni repubblicane, farà adottare al Fronte dell’Uomo Qualunque una posizione
ufficiale di agnosticismo, naturalmente invisa ai primi, che della difesa dell’istituto monarchico
facevano un punto irrinunciabile dei propri programmi. Ma il contrasto su tale problema si rivelerà
contingente, giacché, come Bencivenga, anche Selvaggi, dopo un’iniziale adesione al Partito
liberale, entrerà a far parte definitivamente dell’Uomo Qualunque.
Agli appelli di Giannini, alla sua ricerca di consensi e di appoggi, stava finalmente giungendo
qualche risposta positiva: ma da destra, ed era naturale, data l’azione pratica contro le sinistre svolta
dal qualunquismo. Certo, vi erano differenze lampanti tra il sereno senso della patria e la sincera
fede democratica di un Bencivenga e il morboso nazionalismo di un Patrissi. Quest’ultimo, poi,
ostentava idee socialistoidi in contrasto con il liberismo intransigente di Giannini e quello, non
meno acceso, di Selvaggi. Ma tutti guardavano con simpatia al Fronte come reazione alla classe
politica antifascista che minacciava i propri valori, dando scarso peso allo sfondo anarcoide nel
quale il commediografo aveva impostato la sua battaglia, alle sue ricorrenti boutades contro gli
«stracci» di qualsiasi colore, al suo qualunquismo come indifferentismo ideologico.
Quel tanto di torbido che c’era nell’ignavia dell’uomo qualunque e nel suo disprezzo per la politica
e gli uomini politici, suscitava invece, accanto a un fiero intransigentismo nella difesa della casa
Savoia, le serie riserve di monarchici liberali come Manlio Lupinacci, il quale dalle colonne del
«Secolo XX» 166 dichiarava di apprezzare la lotta di Giannini «contro certe misure illiberali» e la
sua azione per la «pacificazione degli italiani», ma si dichiarava nello stesso tempo «lontanissimo
da Giannini, come da ogni altro che come lui fomenti il disprezzo della discussione, del sistema
parlamentare e dei partiti, propugni l’avvento di uno Stato amministrativo e in questa tesi non felice
veda una affermazione di vero liberalismo».
Lupinacci prendeva atto del fatto che Giannini si dichiarava antifascista, «ma non posso
nascondermi — proseguiva — che lo stato d’animo qualunquista può condurre a una dittatura», e
così concludeva:
@
E finalmente non sto con Giannini e con i suoi perché io sono per la monarchia costituzionale, per
la Casa di Savoia, per la continuità dello Stato e delle tradizioni del Risorgimento, e loro affettano
una disinvolta noncuranza verso queste insostituibili condizioni di una libertà ordinata e sicura.
Coloro che, come i miei amici ed io, vedono nella conservazione della monarchia la soluzione unica
della crisi nazionale, come potrebbero approvare programmi improvvisati e inutili?
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Anche Lupinacci, però, si mostrava disposto a un dialogo con i qualunquisti, giacché, dopo le
severe critiche, li invitava a muoversi verso le sue posizioni.
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Le destre dunque, che fino allora avevano trattato Giannini e il suo movimento con «degnazione»
167, incominciavano a considerare seriamente il qualunquismo e ad apprezzarlo, ad allearvisi con
slancio e a cercare, in ogni caso, una possibile strada di comprensione e intesa.
Giannini, d’altro canto, non intendeva certo raffreddare le simpatie che gli venivano da destra. Egli
sapeva bene che molta parte del suo bagaglio teorico era inaccettabile per certi gruppi politici 168,
ma ora, dinanzi alla possibilità di ingrossare le fila del suo Fronte, non si preoccupava più tanto dei
contrasti di fondo e, nel suo cieco empirismo, sosteneva di non essere di destra, ma nemmeno
«nemico della destra», e chiamava Benedetto Croce, del quale si confermava «rispettoso
discepolo», «nume della destra» 169.
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Agli appelli di Giannini avevano fin dall’inizio aderito masse considerevoli di ex fascisti,
naturalmente ostili, oltre al resto, al processo materiale e morale quotidianamente svolto contro il
ventennio, Mussolini e i suoi sostenitori. In queste masse il sentimento predominante era sì il
positivo ricordo delle «glorie» passate, che era ingiusto trasformare in colpe da addossare solo agli
umili e agli onesti, mentre i «grandi» riuscivano abilmente ad eluderle con disgustose operazioni di
trasformismo; ma questo sentimento si stemperava, nei più, nel riconoscimento degli errori fatali
del Duce, cioè la guerra, il razzismo, l’eccessiva soppressione di ogni libertà, per cui, nella loro
maggioranza, essi non nutrivano propositi di rivalsa, ma chiedevano, convinti dell’irripetibilità della
recente esperienza, un certo rispetto per essa, la fine di ogni persecuzione per chi vi aveva in buona
fede creduto e, soprattutto, la difesa di quei valori piccolo-borghesi che il fascismo aveva a lungo
sostenuto.
In questo senso tali ex fascisti facevano parte nel secondo dopoguerra del più ampio schieramento
dei ceti medi che, alla ricerca di forze politiche atte a rappresentare la difesa dei propri istintivi
valori, la venivano in parte affidando al qualunquismo contro il sinistrismo imperante nell’esarchia.
In essi poteva tutt’al più notarsi un’accentuazione di alcuni di quei valori, come il patriottismo,
esacerbantesi nel nazionalismo, e l’anticomunismo intransigente e irrazionale, ma per il resto
potevano essere agevolmente riconquistati alle istituzioni democratiche, sia pure nell’ambito di uno
Stato che mantenesse alcuni elementi dello Stato forte.
Nei confronti di questi ex fascisti «in buona fede», Giannini aveva dichiarato subito di non avere
alcuna preclusione (e, del resto, la sua azione contro l’epurazione si rivolgeva innanzitutto in loro
favore). Il suo discorso era chiaro: tutti erano stati fascisti in Italia, e il qualunquismo non accettava
false discriminazioni tra puri e impuri. Purché si accettasse il principio della «conquista della libertà
da ogni tirannia passata o presente», e si fosse in tal senso antifascisti 170, il Fronte intendeva
accogliere nel suo seno anche chi aveva sinceramente creduto nel fascismo:
@
Nelle organizzazioni locali del Fronte dell’Uomo Qualunque accade, a volte, che dopo conciliaboli
e discussioni, caute esibizioni e accorti sfoggi di falsa modestia, qualcuno si secchi di star soltanto a
far chiacchiere, prenda l’iniziativa di far presto, e fa, senza curarsi degli indecisi. Subito coloro che
fino a un’ora prima erano esitanti, preoccupati di non spiacere alla levatrice, di non indisporre il
segretario comunale, di non seccare il preside, si affrettano a scriverci che il tale, messosi a
organizzare il Fronte U.Q. «non è degno» o «ha passato fascista», eccetera. Sarà bene che amici e
avversari sappiano che non teniamo nessun conto di queste generiche accuse. Specialmente del
«passato fascista» non c’importa nulla, perché tutti gli italiani, meno un migliaio di emigrati e
confinati, hanno «passato fascista». L’unico modo di impedire ai peggiori ex fascisti di riaffacciarsi
alla vita pubblica è quello di convincere i migliori ex fascisti a precederli. Il partito comunista è
costituito per il novanta per cento di ex fascisti, e nessun partito ne avrà mai tanti 171.
@@@
Una ristretta minoranza di ex fascisti si mostrava invece in quegli anni per nulla rassegnata a
considerare definitiva la sconfitta del fascismo, anzi, nutrita di morbosi propositi di rivalsa, era
decisa a riorganizzare le file. Erano, questi, i «fedelissimi» di Mussolini, esponenti minori o
semplici militi della Repubblica sociale italiana, giacché gli alti gerarchi rimasero in disparte nella
prima fase di riorganizzazione del neofascismo, quella clandestina degli anni 1945-46. Mancava
una grossa personalità che potesse attirare in un unico centro di raccolta le sparse file dei
«nostalgici» oltranzisti, sicché i gruppi erano numerosi, ma per lo più poco consistenti 172.
Mancavano, soprattutto, programmi, e una chiara coscienza della propria ideologia, anzi in questo
campo dominava una «confusione senza precedenti», come scrive Mario Tedeschi, uno dei
protagonisti della fase clandestina del neofascismo173. Uno solo era il denominatore comune, «ma
tanto forte da segnarli tutti come membri di una unica setta: l’odio per l’antifascismo ed il nuovo
ordine da esso creato, la nostalgia lancinante della ' epopea ’ di Salò, il desiderio spasmodico di
vendetta» 174.
L’impegno di questi gruppi si riversava tutto o quasi nella elucubrazione di velleitari piani
insurrezionali, che si riducevano in pratica a sporadiche azioni dimostrative, come lettere minatorie
o attentati ad esponenti e sedi dell’antifascismo, furtivi innalzamenti di gagliardetti neri (come a
Roma, il 28 ottobre 1945, sulla Torre delle Milizie), fomentazione di rivolte nelle carceri (come a S.
Vittore, a Milano, nel febbraio ’46, con a capo l’ex gerarca Giuseppe Caradonna insieme con il
bandito Barbieri), e audaci colpi di mano (come l’occupazione, nella primavera ’46, della stazione
radio di Monte Mario, a Roma, dalla quale un commando del gruppo «Credere» diffuse le note di
Giovinezza). L’azione più famosa doveva essere, nella notte tra il 22 e il 23 aprile 1946, il
trafugamento del cadavere di Mussolini dal cimitero milanese del Musocco, avvenuta ad opera del
gruppo Lotta fascista 175, capeggiato da Domenico Leccisi. Significativo del sentimento dominante
in questi gruppi era lo scritto lasciato dal Leccisi nella fossa di Mussolini: «Finalmente, o Duce, ti
abbiamo con noi. Ti circonderemo di rose, ma il profumo delle tue virtù supererà quelle rose» 176.
La rinascita di un movimento fascista in Italia non fu tuttavia dovuta alla capacità di proselitismo
dei vari gruppi clandestini (tra i quali il più importante si rivelerà i Fasci di Azione rivoluzionaria,
costituiti nell’autunno ’46 ad iniziativa di Giorgio Almirante e Roberto Mieville). A prepararne le
basi, rilanciandone l’ideologia e rinverdendone il culto per i suoi miti e i suoi eroi, provvederà
invece la propaganda di un cospicuo numero di giornali, sorti fin dai primi mesi del ’46:
«Manifesto» (1945); «Rosso e nero»; «La Rivolta ideale»; «Rataplan»; «Meridiano d’Italia»;
«L’Italiano»; «La Diga»; «La Gazzetta del lunedì», etc. Attorno ad essi, come era avvenuto — ma
in misura ben maggiore — per «L’Uomo qualunque», si formeranno vari gruppi di opinione ed
embrioni di organizzazioni partitiche, come il Fronte dell’italiano («La Rivolta ideale») e il Partito
fusionista italiano («Manifesto»).
Ripetuti e laboriosi saranno i tentativi compiuti per giungere alla unificazione di questi in un grande
partito che apertamente si richiamasse al fascismo. Ma quest’ultimo potrà essere ufficialmente
costituito, con il nome di Movimento sociale italiano, soltanto nel dicembre 1946, quando le larghe
amnistie e, soprattutto, il dissiparsi del «clima della Resistenza», permetteranno ai neofascisti di
tornare a testa alta nell’agone politico, con il loro bagaglio di nostalgie e di revanscismo. Fino a
quel momento ad essi non rimaneva, al di là di una sterile posizione di attesa, che appoggiare quel
partito che con la sua corrosiva polemica contro l’antifascismo al potere stava contribuendo
fortemente, fin dal dicembre ’44, a smantellare quel «clima» che costituiva il maggior ostacolo ai
loro conati di rinascita.
Queste considerazioni valgono sia per la base che per la dirigenza neofascista; per quest’ultima
anzi, come ricorda ancora Tedeschi parlando dei gruppi clandestini, si trattava appunto, nell’attesa
dei tempi migliori, di «inserire nuclei fascisti nei principali partiti» 177.
Gli eredi di Mussolini godevano, naturalmente, dei feroci attacchi di Giannini ai Cln e
all’epurazione, ai voltagabbana e agli «uomini politici professionali» che sostituivano la
competenza con l’arrivismo, la dedizione al dovere con l’affarismo: quel disprezzo per la politica
«sporca» e per i politicanti inetti e corrotti, che in Giannini era parte di una concezione vacua e
utopistica, ma certo profondamente ispirata al concetto della libertà individuale, era per essi un
motivo familiare, che avrebbero ripreso a svolgere, come meglio vedremo, nell’ambito della loro
contestazione di sempre del parlamentarismo e della democrazia, alle quali contrapponevano i
valori gerarchici e dello Stato autoritario.
L’adesione dei neofascisti al qualunquismo era tuttavia concessa con pesanti riserve, prima tra tutte
il sordo rancore con cui essi assistevano alle reiterate affermazioni di antifascismo del
commediografo, ai suoi fieri attacchi contro la passata dittatura e alle sue sprezzanti ironie sul
«buffone di Predappio»178.
Inoltre Giannini, pur tra varie contraddizioni, aveva conferito al Fronte dell’Uomo Qualunque una
posizione di destra conservatrice, fautrice del ritorno della borghesia, e di quella imprenditoriale in
particolare, alla guida del paese, in una visione antistatalista che, come si è detto, neanche il più
liberista dei liberali avrebbe osato difendere. Il neofascismo, invece, tentava il suo rilancio su
posizioni di «sinistra nazionale e sociale», intendeva cioè realizzare i princìpi socializzatori
elaborati nel Manifesto di Verona e si proclamava, accentuando lo spirito rivoluzionario dell’ultimo
Mussolini, antiborghese e anticapitalistico.
A sfogliare i giornali neofascisti cui abbiamo accennato ci si trova dinanzi a un ampio dibattito sul
«ritorno alle origini» che doveva caratterizzare il «nuovo» fascismo, sulle critiche al «totalitarismo
antidemocratico» 179 del ventennio e alla innaturale alleanza del regime con le forze più retrive
della società. Il primo neofascismo, in sostanza, proclamava di voler andare «verso sinistra», «al di
là del capitalismo e del comunismo», per realizzare «una giustizia sociale in un nuovo sistema
economico» 180.
La contrapposizione al materialismo marxista veniva riaffermata continuamente, «ma non meno dei
marxisti e dei comunisti — scriverà «La Rivolta ideale» — si deve essere convinti della necessità di
superare definitivamente le forme della organizzazione economica capitalistica, e di creare una
società in cui a base del lavoro non siano più l’egoismo, la lotta, lo sfruttamento, la frode, ma il
senso del dovere, la coscienza della comunità, l’amore cristiano del prossimo» 181. Nello stesso
periodo, Alberto Giovannini, sul primo numero del suo settimanale, dall’emblematico titolo «Rosso
e nero», scrive:
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Siamo gli uomini che per lunghi anni hanno inteso di dare al fascismo, sopra ogni cosa, volto e
contenuto sociali realmente rivoluzionari; siamo i superstiti di quella che, a torto o a ragione, fu
definita la «sinistra del fascismo», che vogliono coerentemente legare il loro passato al loro
avvenire [...] perciò nell’offrire oggi noi stessi alla ricostruzione del Paese ci poniamo nettamente a
sinistra, senza pregiudizi inutili, senza riserve mentali, senza bizantinismi ideologici; appunto
perché siamo stati fascisti, perché questo fu e sarebbe stato domani il nostro fascismo.
Italia-Repubblica-Socializzazione: in questo trinomio si è concluso tragicamente il nostro passato,
in esso si sintetizza il nostro credo politico, ad esso noi dedichiamo il nostro avvenire. Fermi su
questa posizione noi terremo fino in fondo, senza crisi di coscienza quando verrà (poiché verrà)
l’ora del pericolo: come abbiamo già dimostrato essere nostro costume 182.
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La «terza via» riproposta dai neofascisti quale naturale sintesi della propria vocazione ideale,
intendeva dunque assumere quel contenuto di «ordine nuovo» sociale che il ventennio non aveva
saputo realizzare. Dei due volti caratteristici del fascismo, quello «anticapitalistico» e quello
«antiproletario», ebbe la netta prevalenza, nell’immediato secondo dopoguerra, il primo, forse
anche per risentimento verso la borghesia che aveva abbandonato Mussolini nell’ora del pericolo
dopo aver ampiamente approfittato della sua protezione. In ogni caso, questo era dovuto al fatto che
le schiere neofasciste erano costituite da entusiasti del programma socializzatore, considerato una
specie di testamento del «vero» Mussolini, e in particolare, come punta ideologicamente avanzata,
da esponenti di quei gruppi frondisti di sinistra che nella Repubblica sociale avevano espresso
istanze antidittatoriali e socialiste. Fra essi spiccherà la figura di Franco De Agazio, già allievo
prediletto di Guido De Ruggiero e direttore, nella Rsi, del giornale «Rinnovamento»: assassinato il
14 marzo 1947, verrà ricordato dai suoi compagni di fede come «vittima non meno significativa di
Matteotti» 183.
Anche dal punto di vista ideologico, perciò, il qualunquismo veniva giudicato negativamente dai
neofascisti, in quanto movimento «fin dal suo sorgere [...] prettamente e grettamente conservatore,
privo della capacità di intendere una qualsiasi istanza sociale» 184.
C’era, infine, un abisso incolmabile tra il qualunquismo come ignavia della gente di «buon senso,
buon cuore e buona fede» e la concezione eroica della vita che il neofascismo ereditava da una
lunga tradizione attivistica: il perbenismo piccolo-borghese, con il suo meschino desiderio di quieto
vivere, non poteva che suscitare scherno e disgusto nei fautori del «vivere pericolosamente».
Di queste differenze molte sarebbero scomparse con il riemergere nel Msi del fascismo moderato, o,
se vogliamo, dalla riscossa della sua faccia antiproletaria su quella anticapitalistica, e, in ultima
analisi, tra qualunquismo e neofascismo saranno più le affinità che le divergenze. Ma, negli anni
1945-46, era chiaro che l’adesione dei neofascisti al Fronte dell’Uomo Qualunque non poteva
essere che contingente: essi lo consideravano, come scriverà Giannini, un «ombrello» 185 di cui
servirsi nei momenti di burrasca, da abbandonare una volta tornato a splendere il sole. Riusciti
finalmente a costituire un proprio partito, inizieranno contro quello qualunquista una decisa lotta,
allo scopo di ereditarne in qualche misura le fortune elettorali.
Giannini reagirà agli attacchi dei neofascisti col suo solito violento stile, accusandoli di essere
finanziati dalle sinistre e di voler sabotare il Fronte, nel quale si erano subdolamente inseriti, in
combutta con esse.
Eppure era stato lui stesso, soprattutto in vista delle prime elezioni politiche dopo il ventennio, cioè
quelle del 2 giugno 1946, a sollecitare l’appoggio, e quindi a legittimare l’ingresso nel Fronte
qualunquista, non solo degli ex fascisti in buona fede, alieni da ogni proposito revanscista, ma
anche di quelli dei quali ben conosceva la volontà di riscossa. Indicativa di tale tattica gianniniana,
invero piuttosto ambigua, sarà la pubblicazione sul «Buonsenso» del 15 maggio ’46 di una Lettera
di un ex fascista sulla tragedia degli italiani divisi e nemici, con il sottotitolo Un consenso non
sollecitato.
L’anonimo cittadino (che il giornale definiva «intelligente, onesto e stimato» del quale «solo se
necessario [si] renderà pubblico nome e cognome») esordiva affermando di essere un ex fascista
«tutt’altro che persuaso della ‘ necessità morale ’ di vergognarmi della mia condotta passata e delle
mie idee, in gran parte vive tutt’ora in me e che considero, a dispetto delle verità convenzionali oggi
in voga, assolutamente vitali»; metteva in guardia i suoi «camerati» sbandati dall’«abboccare
all’esca duna improvvisa fraternità sospesa nell’amo elettorale dei ‘ Togliatti, dei Nenni, dei De
Gasperi e anche di certo liberalume ’», giacché «chi è stato, chi è tuttora con i Cln, o ne ha
comunque approvato l’azione criminosa non può attendersi dagli ex fascisti se non inimicizia e
disprezzo».
Da tali premesse derivava un aperto invito ad appoggiare con il voto il partito di Giannini, «il cui
antifascismo ha un substrato umano ed ideologico che non gli ha invelenito l’anima»:
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Io voglio esortare in nome della comune fede e del comune sacrificio i miei ex camerati a
riconoscere che se non tutti di noi SONO A QUEST’ORA UNO STRATO DI LORDURA QUESTO È DOVUTO ALLA
CORAGGIOSA E SPESSO EROICA E TEMERARIA AZIONE DELL’UOMO QUALUNQUE.
Noi non possiamo permetterci il lusso — perché la libertà è un lusso non permesso a noi — di
esprimere un voto che corrisponda alla nostra dottrina e alla nostra fede, l'una e l’altra al bando
della società civile, in forza delle leggi imposte dal vincitore. E allora dobbiamo votare in base al
sentimento, fra i nostri avversari scegliendo i non nemici, quelli che non hanno scelto come
piedistallo la nostra disperazione. Il mio sentimento, come il vostro, non può che indirizzarsi verso
il movimento che ha per insegna l’italiano sotto il torchio. Questo italiano sono io, sei tu, mio
disgraziato camerata cui ieri lessi negli occhi lo sgomento e la fame. Siete voi, figli, madri, sorelle
delle centinaia di migliaia di assassinati per aver creduto in un’idea.
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Ancora più importante, come prova dell’appoggio che anche i primi movimenti d’opinione
neofascisti dettero al qualunquismo, sarà la polemica fra Giannini e «La Rivolta ideale», iniziatasi
nell’aprile e improvvisamente interrotta il 2 maggio ’46. «La Rivolta ideale» era uno dei più
rappresentativi tra quei giornali sui quali si stava sviluppando l’ampio dibattito sulla vocazione di
sinistra del neofascismo. Attorno ad essa si sarebbe costituito, nel settembre dello stesso anno, il
Fronte dell’italiano, dalla cui unione con altri gruppi affini sarebbe sorto il Movimento sociale
italiano.
Il linguaggio con cui esordiva, nell’aprile ’46, il settimanale, esprimeva con efficacia i sentimenti
dei nostalgici italiani. Costi quel che costi era il titolo dell’articolo di fondo del direttore, Giovanni
Tonelli186, nel quale il panorama politico italiano era rappresentato, in parte con concetti
tipicamente qualunquisti, come
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[...] un mare di fango che si muove in basse e sudice onde che talora si agitano, pullulano e
schiumano o mandano bollicine alla superficie. Ma non chiedete quale vento di passioni politiche
agiti quella broda! Nessuna passione politica! L’agitano alcuni scellerati che ci son sotto a quella
belletta, vi corron dentro e, bizzosi e stizzosi, s’azzuffano come le sorche nel pantano delle fogne.
Tale è l’origine delle cosiddette periodiche crisi [...]. Bisogna reagire, vi gridiamo noi: risollevarci
dal disonore in cui ci hanno fatto cadere e in cui ci vogliono tenere attuffati! Bisogna che superiamo
con atti di indomabile coraggio la vergogna che ci lega ad una così totale ed umiliante disfatta.
Nella luce di questi propositi rivedremo allora la nostra patria scrollarsi di dosso i nuovi e i vecchi
parassiti che la dilaniano, vasto branco di politicanti nella cui testa la parte più importante è la
bocca.
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In questo delirante quadro, Giannini e il suo movimento non si salvano dal generalizzato disprezzo:
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Gruppi di sbandati stanchi o impauriti o invigliacchiti, si sono raccolti come il campagnolo che è
venuto al mercato col primo treno del mattino attorno al venditore di callifughi, l’ascoltano a bocca
aperta, gli battono le mani e non si accorgono che i compari del «fenomeno» gli sfilano dalla tasca
il biglietto di ritorno. Intanto molti di costoro si bevono le infantili enunciazioni sullo stato
amministrativo e sullo stato neutrale come berrebbero una pozione per fermare la loro dissenteria.
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Giannini aveva ostentato la sua solita aria di superiorità nei confronti del settimanale, ma,
contrariamente alle sue abitudini, non aveva replicato alle sferzanti accuse che il Tonelli gli aveva
mosso sul numero del 2 maggio, collocandolo nel novero di quei giornalisti che, «pur di far
quattrini spargono dai loro giornali odio fratricida contro i deboli, i dispersi, i vinti, salvo poi —
volgari mercanti di dolore — a fare ‘ correre la voce ’ in forma confidenziale che quel loro
atteggiamento è una finta» 187. L’ambiguità del commediografo, preoccupato da un lato di apparire
un fiero antifascista e dall’altro di accattivarsi i consensi dei nostalgici, era in un certo senso
confermata dalla mancata risposta al Tonelli, che troncava anch’esso, improvvisamente, ogni
ostilità.
Giannini, infatti, un po’ per propria intuizione, un po’ sotto la pressione di elementi del suo stato
maggiore, s’era convinto del danno che, ad appena un mese dalle elezioni politiche, sarebbe venuto
al Fronte da una campagna polemica contro un giornale che raccoglieva sempre più gli appassionati
consensi dei fascisti, i quali, in mancanza di un proprio partito, potevano essere portati a votare per
il Fronte.
Dopo l’articolo del 2 maggio, Mercanti di dolore, la sede della «Rivolta ideale» era stata addirittura
invasa da un gruppo di qualunquisti, capeggiati da due candidati all’Assemblea costituente, i quali
avevano scongiurato Tonelli e i suoi di desistere da ulteriori attacchi al Fronte, dietro la promessa di
richiamare Giannini «ai suoi doveri verso la massa degli elettori» 188. In effetti, incoraggiato dal
sintomatico chetarsi, sulla stampa del commediografo, delle consuete violente requisitorie contro il
fascismo e il «dittatore folle», il settimanale invitava i propri lettori, in occasione delle elezioni del
2 giugno, a votare, oltre che per i monarchici e per i liberali, per le liste del «torchietto» 189:
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Il guaio era proprio questo — ricorderà Giannini190 —: mentre gli antifascisti veri e falsi mi davano
del fascista per diffamarmi, gli altri mi davano del fascista per esaltarmi. E quando io strepitavo che
non ero mai stato fascista «gli altri» strizzavano l’occhio per dire: «Va bene, siamo intesi, ne
riparleremo».
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Ma, come visto, anch’egli aveva contribuito a far nascere, in tutte le direzioni, quel grosso
equivoco. A parte i rapporti qualunquismo-neofascismo, sui quali torneremo, l’aperto risorgere del
secondo ad appena un anno dalla morte di Mussolini era stato proprio l’effetto più macroscopico
dell’azione di smantellamento del «clima della Resistenza» svolta dal primo.

L’atteggiamento del Vaticano, della Dc e dell’alta borghesia.


Nel suo libro La Lolla, Giannini si era richiamato ai Dieci comandamenti, vedendo in essi le regole
«immutabili» della convivenza umana all’interno del suo Stato amministrativo e, soprattutto, la
giustificazione della sua filippica contro l’illimitato potere dei capi 191.
«Sii libero! Sii libero! Sii libero!» è anche il «divino, continuo grido all’uomo» 192 rivolto da Cristo,
e la sua «arguta risposta» 193 ai farisei che gli chiedevano se l’uomo è libero di non pagare il tributo
a Cesare («date a Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio») non significava una
giustificazione della sottomissione al potere, ma solo l’esigenza che quest’ultimo fosse messo in
condizione, con il tributo, di provvedere all’ordinato svolgimento della vita sociale, cioè di
amministrare la comunità 194.
Giannini si era accostato alla religione dopo i lutti familiari subiti durante la guerra, e il suo primo
articolo politico dopo il fascismo era apparso, il 12 agosto 1943, proprio sull’«Osservatore
romano», sotto forma di una lettera nella quale difendeva la borghesia dalle accuse mossele in
precedenza dall’organo vaticano. Quest’ultimo, in un editoriale infarcito di spirito integralistico e
antimodernista, aveva sostenuto il 6 agosto che la nuova tragedia che aveva colpito l’umanità era
un’altra conseguenza di «ciò che si è pensato, voluto e perpetrato contro Cristo e nonostante la
Chiesa», fin da quando, nella seconda metà del secolo XVIII, la borghesia aveva scelto il
razionalismo 195.
Nella lettera Giannini si vantava di essere un autore «borghese», e difendeva la borghesia, «potenza
politica enorme [...] che ha espresso tutti gli uomini degni, da Keplero a Marconi, da Dante a
Einstein». Per il resto, tuttavia, ammetteva che l’anti-cristianesimo era partito da essa, e concludeva
con una invocazione alla Chiesa, tra l’assurdo e il ridicolo, ad «evangelizzare» la borghesia e a
«inquadrarla»:
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Voi, Uomini di Chiesa ch’io sto imparando troppo tardi a conoscere ed amare, da quando una
terribile sventura m’ha colpito e stroncato, certo a punirmi di colpe che meglio avrei preferito
pagare con la «mia» vita, Voi, apostoli che v’occupate del proletariato, di mondine e di mietitori, di
meccanici e braccianti, perché non volgete gli occhi e non aprite il cuore anche ai medici e
ingegneri, ai ragionieri e ai negozianti, ai maestri di musica e agli autori drammatici?
Se il cristianesimo «inquadrasse» la borghesia, se incominciasse col rivelarla a se stessa, se le desse
il coraggio e la dignità di confessarsi borghesia senza mascheramenti politici più o meno
opportunistici, allora sì avremmo una «rivoluzione» d’importanza veramente europea e mondiale!
Incontro al proletariato, oggi spettro pauroso e paralizzante, la gioventù borghese andrebbe senza
impazienti appetiti e smodate ambizioni, ma con vero sano candido spirito di carità [...]. Non
vivremmo più sotto il terrore di una «dittatura proletaria» [...], né di altre che da quella promettano
di difenderci. Il bene, l’elevazione degli umili, il miglioramento delle loro condizioni: tutto ciò
potrebb’essere disinteressato: l’apostolato sociale ridiventerebbe una missione cessando d’essere
una professione 196.
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Egli era senza dubbio sincero nel suo spirito «evangelico» e, anche se la Chiesa non poteva certo
accogliere il suo oscuro invito ad «inquadrare» la borghesia, si era procurato con quel patetico mea
culpa calde approvazioni negli ambienti vaticani. Queste erano destinate a crescere nei confronti
dell’azione politica del Fronte dell’Uomo Qualunque.
Il Vaticano guardava con diffidenza all’alleanza tra cattolici e marxisti sulla quale si stava
impostando, nel nome dei comuni ideali dell’antifascismo e del rinnovamento sociale, la
costruzione della nuova Italia. Per Pio XII il comunismo rimaneva un pericolo terribile, ben
maggiore da quello rappresentato dal fascismo: non passeranno molti anni, anzi, che in nome del
papa verrà richiesta alla Dc l’alleanza con la destra monarchica e neofascista in funzione
anticomunista 197.
Certo, dalla collaborazione tra comunisti e cattolici dipendeva, in buona parte, la salvaguardia
dell’enorme patrimonio politico costituito dai Patti Lateranensi, e la diplomazia vaticana guardava a
quella collaborazione come a un male inevitabile per assicurare tale salvaguardia. Ma a livello di
gerarchia ecclesiastica, soprattutto in vasti settori di medio e basso clero, il dissenso con la linea
politica ufficiale della Dc si faceva sempre più intenso, e, parallelamente ad esso, crescevano le
simpatie per il qualunquismo. Queste si riveleranno molto importanti quando Giannini, accentuando
le sue professioni di fede 198, giungerà a dichiarare che il qualunquismo faceva sua la morale
cattolica, e lo contrapporrà, in nome dell’ortodossia religiosa, alla Dc, che nel suo insano connubio
con i marxisti si trovava nel pieno di una nuova apostasia.
Fin dai primi tempi della sua attività politica, Giannini mostrava comunque di mantenere relazioni
importanti con gli ambienti ecclesiastici (tra l’altro si vanterà dei suoi rapporti amichevoli con il
cardinale Montini199), tanto che, nel settembre 1945, aveva potuto annunziare che l’assistenza
caritativa sarebbe stata assunta, per conto del Fronte, dall’istituzione vaticana «L’Aiuto cristiano»
Eguali simpatie Giannini raccoglieva in considerevoli settori della Democrazia cristiana, alla quale
aveva rivolto già un pressante appello alla collaborazione in una specie di «Fronte dell’ordine» che
ponesse fine all’esperimento esarchico201. Ma, al pari dei liberali, i democristiani non avevano
risposto al suo invito: ufficialmente, il partito cattolico mostrava di sottovalutare, inizialmente, il
qualunquismo 202.
Costantemente teso ad individuare con esattezza i connotati socio-politici della massa degli «uomini
qualunque», cioè dell’elettorato moderato che si andava raccogliendo sotto le bandiere di rivolta
piccolo-borghese del qualunquismo, il commediografo comprenderà, dando prova questa volta di
notevole intuito, che uno di tali connotati era costituito dal sentimento religioso diffuso nei più, e di
esso farà un caposaldo della «dottrina» qualunquista.
Considerando quindi naturale, sulla base della comune fede cattolica, l’alleanza con la Dc, tornerà a
ricercare l’accordo con essa per le elezioni della Costituente, ma, nuovamente respinto, maturerà
sempre più il disegno di un secondo partito cattolicomoderato, in contrapposizione decisa a quello
di De Gasperi, iniziando un’accesa polemica contro il «partito biscia» 203 che pretendeva il
monopolio del sentimento religioso a bassi fini elettorali:
@@@
Alcuni si chiedono il perché del nostro improvviso assalto ai demofradici cristiani: è sempre la
solita storia della pazienza stancata. Siamo fatti così e bisogna adattarsi ai nostri difetti. Noi
sopportiamo, subiamo fino all’estremo limite della pazienza, poi, di colpo, reagiamo. I
democristiani avrebbero potuto essere invincibili alleandosi con noi. Ci hanno portato in giro per
mesi [...]. Ad ogni nostra cortesia rispondevano con un calcio in faccia, spiegandoci che dovevano
far così altrimenti i comunisti li avrebbero sculacciati. Credevamo che trescassero solo con noi, e
invece trescavano con tutti, per fregare tutti con noi. Venuto il momento li abbiamo presi a pedate: e
siamo appena al principio.
@@@
Nonostante la violenta denunzia del doppio gioco dei democristiani, Giannini continuò ancora per
mesi a rivolgersi alla Dc, in un continuo alternarsi di attacchi e di nuove profferte di collaborazione,
finalmente accolte da De Gasperi nel maggio ’47, quando l’espulsione dei socialcomunisti dal
governo poté essere «varata» grazie all’appoggio determinante del gruppo parlamentare
qualunquista. Ma l’ultima fase dei rapporti Dc-Uq sarà caratterizzata da un’accanita campagna
antiqualunquista del partito democristiano, uscito duramente sconfitto dal Fronte nelle elezioni
amministrative del novembre ’47: tale campagna costituirà una delle cause più importanti dello
sfaldamento del partito di Giannini, e le modalità in cui si svolse rappresentano ancor oggi una
pagina sconcertante, come vedremo, dei retroscena della vita politica italiana di questo dopoguerra.
Per ora è interessante sottolineare la diffidenza che, al pari dei liberali, i democristiani ostentavano
nei confronti del qualunquismo, ma, nello stesso tempo, le più o meno sotterranee simpatie che
venivano manifestate a Giannini anche da quella direzione. Era evidente che i settori moderato-
conservatori del partito di De Gasperi, ostili alla collaborazione con il socialcomunismo, vedevano
nel qualunquismo un positivo elemento di rottura, dall’esterno, di quel clima di collaborazione. Più
in generale, poi, una grossa formazione di destra, che costituisse una potenziale alternativa di potere
per la Dc, avrebbe aumentato la forza contrattuale di quest’ultima nei confronti delle sinistre: ed era
questa una prospettiva vista con favore da quasi tutta la classe dirigente cattolica.
Per tali motivi, da parte democristiana, come confesserà Giannini, ci si era spinti, all’inizio, ad
aiutare «discretamente»204 il qualunquismo.
Giannini, naturalmente, oscillando dal vittimismo al trionfalismo, esagerava l’entità delle simpatie,
riducendo l’ostilità democristiana ai gruppi della sinistra, in contrasto con la maggioranza del
partito:
@
Da cento parti onestamente cattoliche — scriverà in una «vespa» il 13 febbraio ’46 —, dai sacerdoti
più sereni, dalle Autorità ecclesiastiche meno facili all’elogio, ci giungono voti e plausi e
incoraggiamenti [...] nella stessa D.C., e in tutti i suoi ranghi, contiamo amici. I Gronchiaconi
[Giovanni Gronchi] e i Loionchi [Natale Lojacono, sindaco di Bari] son dunque in contrasto con la
maggioranza del partito.
@@@
Quasi del tutto inconsistenti, e frutto di isolate iniziative individuali più che di una scelta comune di
«investimento» furono, in questa prima fase della vita del Fronte dell’Uomo Qualunque, gli apporti
finanziari dell’alta borghesia imprenditoriale italiana. Giannini, che soprattutto ad essa aveva rivolto
i suoi appelli alla riscossa, riceveva anche in tale direzione una grossa delusione.
In effetti la politica dell’alta borghesia si trovava, fin dalla caduta del fascismo, in una complessa
fase diplomatica difensiva, tendente a muoversi, come vedremo, per conservare le proprie posizioni
di potere, su diversi piani, ma ancora restia ad appoggiare apertamente un’opposizione decisa e
intransigente all’Italia dei Cln.
Di questa «pavida» politica, facevano le spese i vari gruppi di destra, e il qualunquismo in
particolare. Già in una «vespa» del 6 febbraio ’46 Giannini protestava vivacemente contro
l’atteggiamento vile ed ambiguo di certi industriali:
@
È certo soltanto questo: che la borghesia agricola, industriale eccetera, si merita, in fondo, le pedate
nel sedere che prende. C’è un grande industriale del Nord, che è venuto a farci visita, indignato,
protestando contro le persecuzioni del Cln e dei partiti di cui si dice vittima.
«Cosa posso fare per voi» ci ha chiesto «di che avete bisogno? Io sono a vostra disposizione».
Gli abbiamo risposto: «Noi, del giornale, non abbiamo bisogno di nulla, ma il Fronte è sempre
scannato di soldi: date ciò che vi sembra giusto».
Entusiasticamente il grande industriale ha riempito e firmato un assegno per l’importo di qualche
migliaio di lire e se n’è andato tutto contento e lasciandoci, in verità, un po’ delusi.
«Poveraccio» abbiamo pensato «si vede ch’è stato ridotto proprio male». E abbiamo passato
l’assegno al Fronte, aggiungendovene uno nostro perché ce n’era realmente bisogno. Bè: una
settimana dopo abbiamo saputo che il grande industriale aveva dato ben cinquanta milioni a un
partito di sinistra in Alta Italia: per essere lasciato tranquillo. Cinquanta milioni, e non sono favole.
Il nome di questo gran borghese, indignato delle prepotenze di sinistra, incomincia col B.
@@@
Ma, anche se all’insegna del doppio gioco, gli aiuti ricevuti dal qualunquismo erano frutto di isolate
iniziative individuali:
@
Teniamo a dichiarare alto e forte — proclamerà Giannini al primo congresso del Fronte — che,
salvo poche eccezioni, la cosiddetta alta borghesia s’è compromessa pochissimo con noi, mentre i
piccoli, i poveri, gli esponenti più modesti di quel tenace e serio medio ceto sul quale sempre si
basarono e si basano le fortune del nostro paese, furono i primi a venire a noi a viso aperto senza
ridicole paure [...]. Sono stato accusato d’essere stato mantenuto dagli industriali che invece hanno
avuto paura di aiutarmi come sarebbe stato loro dovere di uomini d’ordine e creatori di lavoro: ed
hanno, viceversa, abbondantemente foraggiato i cialtroni che li ricattavano. Dove sono questi
industriali che mi hanno mantenuto, che non hanno saputo trovarci una ventina di stanze per il
movimento politico in questa
Roma dove pure hanno centinaia di palazzi, che ci hanno lasciati soli a combattere? 205
@@@
Soprattutto con la Confindustria e la Confida, Giannini è feroce: le accusa, soprattutto la prima, di
mancanza di «dignità e di coraggio» e di «senso della classe» non riesce a rassegnarsi al fatto che
esse non appoggino il suo partito, presentatosi fin dalla nascita come il partito della borghesia:
@
I fondi per le sinistre — afferma in una «vespa» del 10 aprile ’46 — li danno gli industriali italiani,
quelli del Nord specialmente. La ricca borghesia dell’Alta Italia tratta col sovversivismo, e lo paga
sperando di non esserne infastidita.
Questo facevano i Romani della decadenza: pagavano i barbari perché difendessero i confini
dell’impero, chissà da chi se non dai barbari stessi. I quali poi si presero l’Impero: e fecero
benissimo perché l’Impero che non seppe armare i propri figli per difendersi, proprio per questo
non aveva più diritto d’esistere.
@@@
La quasi generale «insensibilità» dell’alta borghesia continuerà anche in occasione della campagna
elettorale per l’Assemblea costituente, che il Fronte dell’Uomo Qualunque sarà costretto a condurre
in una estrema penuria di mezzi: «I pochi soldi che la borghesia ha messo fuori per le cosiddette '
forze dell’ordine ’ se li sono presi l’Udn [...] e il Bl [Blocco della Libertà]»
Ma, in seguito agli strepitosi successi del qualunquismo, e al dissiparsi della paura quasi fisica del
«vento del Nord», gli aiuti cominceranno a venire, in misura massiccia nell’inverno ’46 208, fino a
delineare un rapporto «collaborativo» stabile tra Confindustria e qualunquismo.
Giannini stesso confesserà con spregiudicatezza, in un comizio all’Adriano di Roma del 23 ottobre
’49, tale rapporto 209:
@
Eravamo in contatto con larghe zone della borghesia italiana, padrona delle finanze e creatrice del
lavoro che dalla buona finanza nasce [...]. Vi prego di non stupirvi se vi parlo con tanta sincerità dei
rapporti che abbiamo avuto e vogliamo ancora avere con la Borghesia Italiana. Fare un partito, fare
dei giornali è fatica che esige mezzi [...]. Noi che siamo un partito borghese dalla borghesia
dobbiamo avere i mezzi necessari, dalle organizzazioni sindacali borghesi dobbiamo essere
appoggiati. Dovremmo forse chiederli alla
Russia sovietica o all’America attraverso i vari Piani, o a qualche Cardinale volante?
@@@
Ad un certo punto, per le ragioni che analizzeremo, la Confindustria toglierà ogni appoggio: ne
seguirà Γ«affamamento del qualunquismo», come lo chiamerà il commediografo 210, causa non
ultima, anche questa, del suo sfaldamento interno, e pagina altrettanto sconcertante della storia
italiana del secondo dopoguerra.

Il primo congresso nazionale del Fronte dell’Uomo Qualunque.


Giannini si presentò al primo Congresso nazionale del Fronte dell'Uomo Qualunque (svoltosi a
Roma dal 16 al 19 febbraio 1946) con un bilancio ampiamente positivo sia dal punto di vista
politico che da quello organizzativo. La sua azione si svolgeva da poco più di un anno, eppure
aveva in parte contribuito al ridimensionamento del Cln, alla caduta del governo Parri,
all’allontanamento dei liberali e (sia pure in diversa misura) dei democristiani dalla collaborazione
con i socialcomunisti. Con il qualunquismo avevano stretto patti di alleanza vari gruppi (quelli di
Bencivenga e di Selvaggi e, il 28 gennaio, il Partito laburista italiano), e perfino il socialista Arturo
Labriola, esule antifascista e capo di una Alleanza democratica, aveva dichiarato, in un comizio a
Napoli del 10 febbraio, che il suo movimento era «confluente» con quello dell’Uomo
Qualunque211.
«L’Uomo qualunque» era il settimanale più diffuso d’Italia («d’Europa», sosteneva Giannini), e
l’organizzazione creatasi intorno ad esso era notevole, anche se concentrata quasi esclusivamente
nel Meridione. La politica del Fronte era propagandata, dal 30 dicembre 1945, anche da un
quotidiano, «Il Buonsenso» (edizione di Roma e di Milano), alla cui direzione erano stati posti,
polemicamente, ex fascisti ed ex partigiani 212. Ben presto la stampa qualunquista comprenderà
anche «La Donna qualunque», diretto da una figlia di Giannini (ex partigiana), Yvonne; «L’Europeo
qualunque» (diretto dallo stesso Giannini), «Politeama», diretto dal figlio di Vincenzo Tieri,
Gherardo (tutti periodici, in verità, dalla vita effimera) e un gran numero di fogli locali (nel gennaio
1947 Giannini ne calcolava una trentina) 213 dai variopinti titoli: «Il Torchio Campano» (Salerno),
«La Vespa» (Pavia), «La Mosca» (Campobasso), «La zanzara del rapido» (Cassino), «La siringa»
(Novara), etc. Il Fronte, che il congresso avrebbe ufficialmente trasformato in partito, disponeva
anche di un inno, di cui lo stesso Giannini, tornando per un attimo alla sua passione di canzonettista,
aveva composto le parole con il vecchio pseudonimo di Zorro214.
Giannini rievocò ai seicento congressisti (ma il «pubblico», fra invitati, giornalisti, etc., toccava le
duemila persone) il clima in cui era nata la riscossa qualunquista, — che a suo avviso stava
«impressionando profondamente l’estero» — l’eroismo delle prime battaglie, le persecuzioni e le
stolte diffamazioni degli avversari:
@
Un anno fa, il 20 febbraio 1945, i rappresentanti d’una cosiddetta esarchia soppressero l’uomo
qualunque, colpevole d’aver stampato che eravamo stanchi di tutte le dittature e pretendevamo di
vivere in pace senza esser più seccati da nessuno. Sembrò allora a qualche miope, a qualche duro
d’orecchio, a qualche insensibile politico professionale con lo stomaco al posto del cervello, che
tutto fosse finito per noi, che bastava il non autorizzato raduno d’una dozzina di non autorizzati
gerarchi per decretare la morte di una idea. Invece fu precisamente da quel 20 di febbraio 1945 che
la nostra formidabile vitalità cominciò a fremere e rafforzarsi come la linfa nel solido tronco
dell’albero potato. A un anno da quel giorno noi siamo, qui e in tutta Italia, quello che siamo: il
mondo intero guarda a noi sgomento e interessato secondo ch’esso ci guardi con ingiustificata
diffidenza o ammirata fiducia, mentre la cosiddetta esarchia è in briciole e già uno dei suoi più
rumorosi e ridicoli partitini s’è diviso in due tronconi ciascuno dei quali si va successivamente
spezzettando (applausi, bene, fischi, rumori) [...]. Dovunque abbiamo assistito allo stesso immondo
spettacolo di ex aguzzini, di ex servi dei tedeschi e dei fascisti, di ex imbonitori, profittatori del
fascismo, rivoltare le vecchie gabbane e precipitarsi nei ranghi, fino a quel momento scarsi e
fieramente combattuti, di quelli che veramente avevano fatto qualche cosa. Gente che fino a un’ora
prima aveva tremato davanti all’invasore, che ne aveva eseguito gli ordini con la più turpe solerzia,
si trasformava di punto in bianco in patriota, in liberatore, in eroe d’un doppio giuoco che a volte
diventava triplo e quadruplo (si ride, bene, applausi) [...].
L’epurazione, che avevamo attesa per anni, che avevamo sperata e immaginata come una
purificazione di tutte le nostre scorie, come uno strumento di severa e superiore giustizia, fu
ghermita da una parte politica che se ne fece arma d’intimidazione e di propaganda, mezzo per
togliere dalla circolazione non già i colpevoli del fascismo, ma i nemici personali, i concorrenti che
davan fastidio, gli uomini probi o eccezionali a cui la nazione disorientata avrebbe potuto riferirsi
nel suo smarrimento (bene, applausi) [...]. Fu in quella soffocante atmosfera che uscì il primo
numero dell’UOMO qualunque. Immediatamente si rasserenarono i volti, immediatamente
gl’italiani ripresero a respirare [...]. Noi abbiamo ridato il coraggio agli italiani avviliti da ventitré
anni di fascismo e già disposti a subire chissà quanti altri anni di nuova tirannide215.
@@@
Riaffermò che la lotta del qualunquismo era per il trionfo «di quell’indispensabile bene che è la
libertà, senza la quale non mette conto di vivere»; che due sole erano le vie per risolvere la crisi
italiana, «quella liberale e quella socialista», e che il Fronte aveva scelto la prima, giacché la via
socialista portava direttamente ad una nuova tirannide. Proponeva che, «sull’esempio dei grandi
Stati inglesi e americani», si costituissero «due, tre soli grandi partiti nazionali, e non ridicole
clientele di famelici aspiranti intorno a mezze figure di omettini politici, che credono di essere
centri di sistemi planetari per essere stati una volta ministri e perché muoiono dalla voglia di esserlo
ancora»; ribadì che il qualunquismo rifiutava «il famoso Stato Etico che imponeva il numero dei
figli e contabilizzava le gravidanze», ma non per questo pretendeva «di fare a meno della morale
[per] tornare alla primitiva esistenza della bestia»:
@
Noi — affermava a questo proposito — crediamo in un'etica e abbiamo una morale; l'etica, la
morale cristiana, che vogliamo accettare e accettiamo dalla Chiesa Cattolica, maestra davanti alla
quale vogliamo chinare e chiniamo umilmente la fronte (applausi)216.
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Questo richiamo alla morale cattolica costituiva uno dei punti più importanti del discorso di
Giannini, che intendeva in tal modo rilanciare il motivo religioso come elemento unificante, come
«idea forza» della dottrina qualunquista, pensando, fin da questo momento, alla possibilità di una
concorrenza alla Dc217.
E tuttavia il motivo religioso che, in Giannini, si inseriva in un contesto libertario fatto di pacifismo
e antimilitarismo, di antinazionalismo e di «abbraccio generale dei popoli europei» 218 non era
compreso, in generale, dalla base qualunquista. Questa applaudiva i richiami alla morale cattolica,
recependola però come elemento di un perbenismo piccolo-borghese che andava a tutt' uno con un
certo revanscismo patriottardo e conservatorismo antisocialista: gli osanna al papa e alla Chiesa
venivano, in sostanza, da persone che intendevano, anche in questo aspetto della loro dissidenza nei
confronti della Dc, essere «più realisti del re».
Nell’aula serpeggiavano inoltre, favorite dalla «liberale» organizzazione del Fronte che aveva
permesso ogni tipo d’inserimento anche a livello congressuale, sensibili correnti di nazionalisti,
monarchici ultras, veri e propri «nostalgici». Ne erano state indice le grida di «Viva Trieste» che
avevano bruscamente interrotto Giannini mentre stava riaffermando la fratellanza dei popoli italiano
e jugoslavo, le minacce che erano risuonate sull’argomento dell’epurazione 219 e altri interventi
inequivocabili:
@
Giannini [...] Questa nostra prima adunata [...] è riuscita quella che il mio cuore sperava...
Voci Oceanica...!
Giannini Ma che oceanica! [...] 220.
@@@
Non era mancato neanche l’inno di Giovinezza, intonato da «agenti provocatori», sosteneva
Giannini, contro i quali i suoi «amici» avevano subito reagito 221.
Addirittura, secondo il giornale francese «L’Aube», Giannini era stato accolto al suo ingresso
nell’aula magna dell’Università di Roma, dove era stato inaugurato il congresso, al grido scandito di
«Duce, Duce, Duce!» 222. Ma Giannini smentì violentemente l’episodio: «Come si dice
panscremenzio in francese? Tout en merde, all’incirca. Giriamo l’approssimativa traduzione
all’informatore dell’Aube che, solo su cinquemila persone, ha udito le grida di ‘ Duce! Duce! ’» 223.
In particolare aveva raccolto frenetici applausi una frase di Patrissi:
@
L’origine di tutti i nostri mali, o Amici, è una sola: al seguito delle truppe vittoriose, come branchi
di iene e di sciacalli, dei rinnegati che per venti anni congiurarono alla perdita della Patria, hanno
inteso accamparsi sulle rovine comuni, sulla miseria di tutti 224.
@@@
Questa espressione provocò una nuova ondata di attacchi al qualunquismo, sebbene sull’«Uomo
qualunque» e sul «Buonsenso» fosse stata riferita con la «prudenziale» aggiunta di «salvo rare e
nobili eccezioni» 225.
In notevoli settori del congresso, in definitiva, come notava «L’Italia libera» era percepibile
un’atmosfera di «contenuto rancore, di represso spirito di vendetta» 226.
///
Le varie tendenze presenti al congresso emergevano in qualche modo dalle mozioni approvate. A
parte la confusione, le contraddizioni e le banalità, indice, nonostante le pletora delle relazioni
presentate — ben 184 — dell’improvvisazione e inconsistenza del dibattito (nella mozione sui
«problemi della donna» ad esempio, per rimediare al costo della vita si giudicava «assai opportuno
favorire la coltivazione degli ortaggi e l’allevamento degli animali da cortile, con distribuzione [alle
massaie] di semi, piante, fertilizzanti, coppie di animali selezionati») 228, esse riaffermavano in
sostanza, sulla scia del programma gianniniano del novembre 1945, la posizione liberista del
qualunquismo e la sua volontà di realizzare un assetto fondato sulle quattro libertà rooseveltiane, da
strutturare nell’ambito dello «Stato amministrativo» a poteri separati con al vertice la Corte
costituzionale.
Ma, inserite qua e là nelle varie mozioni, non mancavano affermazioni chiaramente nazionaliste,
mentre un fermo accento veniva posto, nella mozione conclusiva sul «problema morale e
spirituale», sulla necessità dell’abolizione di tutta la legislazione eccezionale contro il fascismo:
@
Il primo Congresso Nazionale del Fronte dell’U.Q., nel porre le basi per la soluzione del problema
morale e spirituale, eleva il pensiero riverente a tutti coloro che, dalla guerra spenti, sono risorti
nella luce di quell’eterno amore onde l’italica civiltà trasse al volo che conobbe soste ma non fine,
considera impossibile qualsiasi opera di ricostruzione, anche soltanto di ordine spirituale, ove si
prescinda da una profonda e generosa opera di pacificazione sociale [...].
In particolare, convinto della impossibilità di riparare ogni deleterio effetto senza rimuovere le
cause che ne sono la genesi, richiamandosi alle fonti limpide della tradizione giuridica di Roma,
denuncia al popolo italiano l’assurdità della esiziale congerie di leggi eccezionali che hanno
disastrosamente contribuito ad aggravare ancor più la già gravissima situazione morale della
Nazione, esacerbando gli animi, esasperando oltre i limiti della umana dignità ogni odio di parte,
capovolgendo la scala dei valori umani, violando impudentemente le più elementari norme di diritto
naturale, sovvertendo ogni principio di sana e retta economia; quindi afferma la necessità e
l’urgenza di abrogarle; rivolge il pensiero al Clero Italiano che nella propria insostituibile funzione
sociale di vindice incrollabile ed ardito dell’amore e della libertà, protesse e difese i perseguitati ed i
miseri di ogni razza e colore [...] proclama che, pur assicurata la intangibilità della piena ed ottenuta
libertà di culto delle minoranze confessionali che non contraddicano le fondamentali norme etiche,
la religione cattolica apostolica romana deve essere la religione dello Stato, secondo il principio
affermato nei Patti Lateranensi che debbono essere lealmente osservati 229.
@@@
Il liberismo fu il principio onnipresente nelle mozioni. Quella sull’agricoltura chiedeva il
frazionamento «delle grandi proprietà terriere che non siano suscettibili di coltura meccanizzata in
quanto si riconosce che l’opera del contadino proprietario rende più certa e più rapida la
trasformazione fondiaria di quei terreni di collina e di montagna che assorbano molta mano d’opera.
È però indispensabile che sia assolutamente impedita la polverizzazione della proprietà in piccoli
lotti», e reclamava la «alienazione dei beni rurali statali parastatali e delle opere pie che
costituiscono la mano morta» 230. La mozione sui «princìpi finanziari» chiedeva agevolazioni
fiscali e creditizie per le imprese dirette alla ricostruzione e al miglioramento della produzione, una
politica tributaria tesa ad un adeguamento proporzionale delle quote — con esclusione quindi di
ogni criterio di progressività — e una politica monetaria che raggiungesse la stabilizzazione
«attraverso la pace e l’ordine all’interno del Paese, la fiducia nel governo, la tranquillità tra i
possessori di moneta ed il giusto uso del credito»231.
Unica concessione allo Stato era fatta in tema di ferrovie 232, per il resto l’iniziativa privata doveva
essere libera da ogni vincolo:
@
(Mozione sull’iniziativa privata)233. il fronte dell’uomo qualunque presa in esame la questione
dell’intervento dello Stato e della iniziativa privata nel settore economico; constatato, sulla base
dell’esperienza degli ultimi decenni, il progressivo aumento dell’ingerenza statale; ricordati i
notevoli inconvenienti connessi a tale ingerenza quali la antieconomicità delle produzioni e dei
servizi, la facile imputazione delle perdite allo Stato e per esso al contribuente, la irresponsabilità
degli organismi produttivi e dei loro dirigenti, la burocraticità e la pesantezza di tutto l’apparato
economico, il dilagare della immoralità e della corruzione affaristica; rilevato che anche agli effetti
del credito estero di cui l’Italia ha urgente bisogno, la funzionalità e la robustezza dell’attrezzatura
produttiva privata costituiscono un coefficiente di ben migliore valutazione di quello che non sia
l’economicismo statale; rilevato ancora che la dittatura economica è una diretta conseguenza — e
talvolta una precisa premessa — della dittatura politica e che pertanto anche per questo motivo va
severamente condannata; afferma la necessità di una progressiva e rapida smobilitazione della
maggior parte dell’apparato statalistico della economia nazionale così da ridare alla iniziativa
privata, grande media e piccola, il respiro della propria responsabilità e la coscienza del proprio
valore; ravvisa i principali strumenti dell’auspicato ritorno alla iniziativa privata:
a) nella ripresa del commercio con l’estero;
b) nell’abolizione dei vincolismi economici in atto, oramai quasi tutti inoperanti e controproducenti;
c) nell’autonomia tecnica e amministrativa e nella riprivatizzazione degli attuali organismi
economici statali e statali privati;
d) nella salvaguardia dell’ordine pubblico, nella difesa della proprietà, nella stabilizzazione del
valore della moneta.
@@@
Nel campo sociale 234 si affermava tra l’altro il diritto dei lavoratori «ad una cointeressenza agli
utili dell’azienda nella equa misura che con temperi l’interesse dei lavoratori, lo sviluppo
dell’impresa come nuova fonte di lavoro, il giusto compenso al capitale e all’imprenditore, ideatore,
organizzatore, dirigente. Gli utili dovranno essere rigorosamente accertati, nei più opportuni modi,
senza che ciò comporti alcuna diretta ingerenza del lavoratore nella gestione dell’azienda di cui
tutta la responsabilità ed i rischi devono gravare stabilmente sull’imprenditore».
In politica estera 235 il congresso sostenne la necessità di una posizione di «prudente indipendenza,
soprattutto allo scopo pratico che il Paese non venga trascinato in ulteriori e più temibili
conflagrazioni» e la volontà di contribuire all’opera di collaborazione internazionale. Si proclamava
però la intangibilità dei confini metropolitani e coloniali («ogni tentativo di manomissione dei
territori metropolitani e coloniali che all’Italia appartengono per diritto storico nonché di sangue e
lavoro, deve essere decisamente respinto») e si concludeva che «l’Italia, per lo spirito
universalistico che caratterizzava il suo genio, non può non aspirare ad una forma di
consolidamento dei popoli europei che conservi al nostro continente il carattere di culla della
civiltà».
In un’apposita «mozione per la Venezia Giulia» 236 si proclamava come «sacra realtà» la
inscindibilità di quella regione dal territorio nazionale, ma nello stesso tempo, nello spirito di
«comprensione e collaborazione con tutte le nazioni», si prendeva atto della realtà «che la posizione
della Venezia Giulia è d’interesse commerciale per il centro e sud Europa» e se ne auspicava la
trasformazione in uno «Stato commerciale e industriale franco e autonomo».
I delegati siciliani, infine, in una mozione sul «problema della Sicilia» 237 dichiaravano che
@
i Siciliani hanno il senso dell’italianità e della romanità non meno sentito degli altri italiani e che
solo l’incuria di 86 anni di mal governo e l’opera sobillatrice di qualche elemento straniero, ha
potuto destare in alcuni idee separatiste [...].
La responsabilità del disagio attuale è del Governo dell’esarchia perché esso anziché adottare le
misure atte a rasserenare gli animi, ha mandato truppe e cannoni per domare un popolo esasperato
[...]. I siciliani, consci che il loro problema è un problema prettamente economico, affermano
l’indissolubile unità della Patria [...]. Rivendicano alla Patria le colonie fecondate dal sangue e dal
lavoro italiano.
@@@
È evidente dunque il «filtraggio» che delle idee di Giannini aveva effettuato il congresso,
tradendone lo spirito e provocando molte contraddizioni tra quella parte di esse che veniva
formalmente recepita e l’intonazione nazionalistica di molte affermazioni: il qualunquismo si
presentava, in tal modo, liberale e antistatalista, patriottardo (con spiccate venature nazionalistiche)
e filoclericale, coacervo insomma di sentimenti moderati piccolo-borghesi molto poco rappresentati,
fino ad allora, dal «progressismo» dominante negli altri partiti.
Giannini, che aveva sempre dichiarato di considerare provvisorio il proprio ruolo di capo della
corrente qualunquista accettò dal Congresso la carica di presidente del Fronte. Vicepresidenti
vennero nominati il rag. Mario Marina, industriale del vetro, e il chirurgo Nicola Lagravinese.
Uno schematico statuto 239 la cui dettagliata interpretazione era rinviata ad un apposito regolamento
da elaborarsi, prevedeva tra i massimi organi direttivi del Fronte, oltre al presidente e ai
vicepresidenti, un «comitato nazionale» di 145 membri, il quale avrebbe dovuto eleggere un
«comitato direttivo» di 24 membri e quest’ultimo, a sua volta, una «giunta esecutiva» di 8, con il
compito di nominare il segretario del partito. In realtà, come vedremo, l’arbitro delle nomine di
maggior rilievo si rivelerà lo stesso Giannini.
A chiusura dei lavori del congresso, infine, veniva approvato il seguente ordine del giorno 240:
@
Il Fronte dell’U.Q. costituitosi in partito politico nella terza seduta del Primo Congresso Nazionale
in data 18 febbraio 1946, invita le provvisorie autorità che provvisoriamente reggono il paese in
attesa che libere elezioni indichino gli uomini che debbono guidarlo, a prendere atto della
costituzione del partito.
@@@

Il qualunquismo e Giannini: giudizi.


Il Fronte dell’Uomo Qualunque era ormai un nuovo partito sul quale si appuntava il crescente
interesse del mondo politico italiano e internazionale, anche se la sprezzante ironia e la decisa
condanna costituivano, e non soltanto a sinistra, il comune denominatore dei vari giudizi sulla sua
azione e sulla sua «ideologia».
L’accusa più diffusa, superata qualche iniziale perplessità, era ancora quella che vedeva nel
qualunquismo un fenomeno di reviviscenza del fascismo. La ribadiva, il 16 febbraio 1946,
«l’Unità»241, il primo giornale che aveva denunziato, un anno prima, l’identità qualunquismo-
fascismo. Per l’organo comunista, l’Uomo Qualunque era un «movimento che costituisce al tempo
stesso una sopravvivenza e un’anticipazione del fascismo», e i suoi dirigenti «tristi speculatori delle
sventure d’Italia, torbidi giocolieri che tentano di riesumare il fascismo vestendolo da pagliaccio»
242.

Dello stesso tono era il giudizio azionista. Nell’invocare contro il qualunquismo le leggi contro il
fascismo, «L’Italia libera» scriveva infatti il 20 febbraio 1946 243:
@
Il qualunquismo va ripetendo pedissequamente l’esperienza del fascismo, [la sua] forza è il riflesso
della nostra passività, della nostra inazione di fronte al dilagare della [sua] funesta attività [...]. È
venuto il momento di opporre una intransigenza concreta, operosa, assoluta, e d’impedire che il
nostro avvenire possa essere compromesso dal propagarsi di un «virus» che ripete i caratteri del
fascismo e che può procacciarci tutto il danno che il fascismo ci ha già procurato [...]. [All’inizio] il
fenomeno qualunquista costituiva la secrezione purulenta di un fascismo cadaverico che tentava di
sopravvivere come farsa recitata da pochi recidivi commedianti [ed allora] il fenomeno poteva
essere trascurato, ignorato e magari preso in burletta. Oggi i termini non sono più quelli di una
farsa, siamo entrati ormai nel vivo di un dramma, e drammatiche possono essere le conseguenze che
il qualunquismo può riservare al paese.
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Anche per l’«Avanti!», con «L’Italia libera» uno dei più accaniti nemici di Giannini, «al di fuori dei
lavoratori» c’era «il fascismo, oggi apertamente dichiarato nel cinismo dell’Uomo Qualunque» 244.
«Fascismo al cento per cento» era il qualunquismo per «Nuova Europa», che pubblicava il 24
febbraio 1946 un incisivo giudizio di Luigi Salvatorelli 245 su quel fenomeno, sorto
@
in piena guerra contro il nazifascismo con l’intento preciso e dichiarato di distruggere
l’antifascismo nella coscienza degli italiani e conseguentemente (anche se non altrettanto
dichiaratamente) di riabilitare il fascismo. Questo è il vero intento. La lotta contro l’antifascismo è
stata mascherata con la vecchia scemenza dell’antipoliticismo, dello stato puramente tecnico o
amministrativo, scemenza che si tradurrebbe, nel fatto, sotto pretesto di libertà, nell’onnipotenza
dell’amministrazione governativa sui cittadini rinunciatari politicamente, e nel dominio di questa
amministrazione, per conto del partito unico qualunquista: fascismo, cioè, al cento per cento...
@@@
Non diversi erano i giudizi in campo internazionale. Già il 12 dicembre 1945 il deputato laburista
Wilkes aveva presentato

IMM

una interrogazione alla Camera dei Comuni sul «movimento fascista» dell’Uomo Qualunque 246 e,
ancor prima, l’11 novembre, l'«Observer» aveva scritto che Giannini, benché non fascista, era
pronto a raccogliere «la fiaccola del regime dal duce morente» 247. «Le Figaro», nel gennaio ’46 248
con una «variazione sul tema» che diverrà consueta, sosteneva che il qualunquismo (il cui
«successo è rivelatore dello stato di incoscienza morale e civile in cui è immerso il popolo italiano»)
provocava continui disordini «atti ad impedire le elezioni [...] allo scopo evidente di salvare la
dinastia dei Savoia e sbarrare la strada all’avvento della Repubblica».
Del qualunquismo si occupava perfino radio Mosca, in una trasmissione del 25 febbraio ’46 249,
definendolo la «schiuma delle forze della reazione dell’Italia che per un certo tempo non avevano
osato uscire nell’arena politica». Per l’emittente sovietica, che, commentando il primo congresso,
sosteneva che «il capo dei qualunquisti, Giannini, ha fatto suoi tutti i metodi di Mussolini [e] per
parecchie ore ha invitato i suoi partigiani ad organizzare dei conflitti nel paese, a fomentare stati
d’animo antidemocratici ed antisovietici», «la rinascita del fascismo, soltanto pochi mesi dopo la
sua sconfitta, rappresenta un reale pericolo, ed è più che sorprendente che la rinascita del fascismo
in Italia si sia svolta mentre nel paese esistono tutte le autorità alleate».
Se è vero che molte delle accuse di fascismo risentivano di un certo schematismo, era pur vero che
l’azione politica svolta da Giannini costituiva un obbiettivo «regalo» al fascismo, perché lo stato
d’animo qualunquista di disprezzo per la politica e i partiti e di disimpegno civile poteva di per sé,
come aveva rilevato Lupinacci, portare al fascismo.
Abbiamo già visto l’articolo di Gabriele Pepe, che riaffermava nei confronti degli ignavi uomini
qualunque la superiore etica dantesca del «guarda e passa». Di «opposizione dei liberti», quella cioè
«cieca e livida» di chi è, secondo il noto verso alfieriano, «vile all’oprare, al favellar feroce»,
parlava «Il Ponte» nel dicembre 1945 considerandola effetto della passata dittatura, giacché, «sotto
la schiavitù la critica per forza di cose non poteva essere altro che intinta nel fiele, alimentata dai
rancori personali e dalle invidie, armata di sarcasmi e contumelie [...]. Era scomparso dalla
coscienza ogni senso di solidarietà collettiva, ogni impegno di salvare il domani». Contro la viltà
dell’uomo qualunque si poneva anche «La Rivolta ideale», una volta rotta la momentanea alleanza
con Giannini, in un articolo dell’8 agosto 1946 251 che dimostrava quanto fosse lontana la
concezione eroica della vita dei neofascisti dall' aurea mediocritas esaltata dal commediografo: non
del fascismo il qualunquismo era la reviviscenza, ma del suo opposto, cioè di quegli aspetti
meschini e spregevoli del costume nazionale che Mussolini (era sottinteso) aveva invano tentato di
cancellare:
@
La formula basilare del «qualunquismo» — come è noto — è «non ci rompete i...». L’insegna del
«dolce far niente». Gli eroi del «qualunquismo» sono Pulcinella e Sciosciamocca. La parola
d’ordine, il «chi t’o fa ffa?», è quella dell’atavico agnosticismo imbelle ed anarcoide, insofferente di
ogni disciplina, che discende dai servili «qualunquisti» del Medio Evo che invocavano «Franza o
Allemagna purché se magna». Nobile dottrina! Essa esalta quanto di deteriore, di contraddittorio, di
spregevole, di bassamente furbesco e utilitario, di pezzente, di antieroico, di «tira a campà» i
sedimenti delle occupazioni straniere hanno accumulato nell’animo di molti italiani: coloro che
preferiscono le capitolazioni alle vittorie, le canzonette agli entusiasmi patriottici, Al Capone ai
carabinieri; quelli che come supremo ideale di vita concepiscono il piatto quotidiano di maccaroni e
la siesta, gli sberleffi alle spalle dei ricchi, dei forti, dei padroni, Γ«arrangiarsi», il «fare fessi» i
gonzi e gli ingenui, il frodare lo Stato.
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Il contrasto tra la «quiete rinunciataria» ch’era al fondo del qualunquismo con l’essenza stessa del
cristianesimo veniva d’altro canto illustrato da Aldo Moro, su «Studium», nel settembre ’45 252:
@
Vorremmo poter essere benevoli con la politica dell’Uomo Qualunque perché comprendiamo le
profonde ragioni di stanchezza, di esasperazione, di disperazione, nelle quali questa corrente trova
motivo di successo e sostanziale giustificazione Ma tale e tanto è il pericolo di diseducazione e di
rovina spirituale e sociale che un tale stato di cose porta con sé che non si può compatire più che per
un istante, e si deve subito passare dall’umano riconoscimento al monito severo ed urgente [...].
Bisogna pur dire che questo che è oggi indicato come ideale di vita all’uomo qualunque è quello
stesso che era richiesto ieri come comodo fondamento di una fedeltà incondizionata, tranquilla e
irresponsabile [...] bisogna pur dire che questa quiete rinunciataria è una radicale apostasia del
cristianesimo e quindi un rinnegamento della dignità umana. La vita non è un riposo, è una cosa
seria, impegnativa, responsabile in ogni suo aspetto [...]. L’Uomo Qualunque non è se stesso, è altri
da sé, disposto a tutto pur di conservare quella sua quiete che è una terribile perdita, la perdita
dell’umanità che acquista con il lavoro la gioia di vivere. L’Uomo Qualunque, per non essere se
stesso, è pronto a tutto, così ad accettare qualsiasi dittatura, che nasce fatalmente dove al posto della
ansiosa libertà dello spirito c’è il vuoto.
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Ad eccezione di alcuni gruppi della destra monarchica come il Pdi di Selvaggi, e organi della
grande stampa «indipendente» che, come «Il Tempo», giudicavano il qualunquismo positivamente
(ma non senza riserve di vario ordine) per la sua reazione al «clima Cln» 253, la condanna, morale
prima che politica, del significato ultimo del fenomeno appariva dunque generale, venendo anche
da quei settori, come la Dc e il Pli, in seno ai quali le simpatie per l’azione politica del Fronte erano
pure notevoli.

IMM

Quanto a Giannini, andava collezionando da ogni parte gli «aggettivi» più svariati, spesso come
ritorsione ai suoi attacchi corrosivi e volgari. Per «Cantachiaro», il primo settimanale a polemizzare
vivacemente con lui, era lo «scrivano Giannini», «tipica Taide dei tempi moderni», «caricatura
piedigrottesca di Mussolini», teorico di quella «sciocchezza risibile» dello Stato amministrativo e
autore di un «libro per ragazzi pieno di belle figure» (La Folla) 254. Ma, soprattutto, era un fascista,
anzi un «fascista qualunque» 255, che aveva lanciato una «perfida campagna contro una qualsiasi
rinascita democratica d’Italia» 256.
Giannini possedeva, per «Cantachiaro», «tutti i requisiti di un ex fascista, nonché la lungimirante
idiozia solo illuminata a tratti da lampi di imbecillità» 257 (e la parola d’ordine all’interno del Fronte
era: «Giannini docet, Giannini doma, Giannini ha sempre ragione»; il motto lanciato dal «più
grande uomo politico dei millenni passati, presenti e futuri»: «Fessi di tutta Italia, uniamoci» 258:
@
Allievo di Benedetto Croce, di cui non ha mai letto le opere, il Giannini ha lanciato l’immortale
principio «nessuno ci rompa i corbelli», essendo il diritto di romperli al prossimo esclusivamente
riservato al Fondatore ed ai suoi amici. La sua oratoria, un misto straordinariamente efficace di
napoletano e di esperanto turpiloquente, si infiora di vocaboli eletti, pescati nella cloaca massima
259.

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Anche per i neofascisti di «Rivolta ideale», Giannini era solo una caricatura di «duce», uno
«straccione» impostosi alla attenzione del paese per un tragico equivoco:
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Il popolo, allora accecato dal dolore, dall’angoscia, dalla disperazione, in cerca affannosa di
qualcuno e di qualcosa che segnasse il limite della sua disperazione, ha scambiato per eroe uno
straccione che s’era messo a gridare col frasario scurrile della teppaglia; ha scambiato per ardito ciò
che era soltanto laido; coraggioso ciò che era soltanto violento; ha scambiato per un’aquila colui
che è soltanto un barbagianni [...]. E pare persino che il destino si sia voluto vendicare [degli
italiani] creando questa sbracata caricatura di «duce» che in medesimo tempo fa ridere e fa spavento
260.

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«L’Italia libera» considerava Giannini un «commediante», un «fregnone che tenta di imitare
Metternich quando vuole adoperare la polizia per eliminare dalla vita politica le sinistre», un
«Mussolini in sedicesimo», un «sedicente trascinatore di masse»261,
@
[un] attore, che parla in smaccato accento napoletano e ricerca gli effetti più facili: un incrocio tra
Pasquariello e De Filippo. La sua oratoria è tutta fatta di motti di spirito, mediante i quali si concilia
il favore dell’uditorio che si diverte come a teatro, e applaude con entusiasmo [...] 262; [un] libellista
[ed un] regista da strapazzo, che dirigeva con il distintivo fascista all’occhiello e che ha dimostrato
per primo agli italiani che si può impunemente sputare su quanto di buono e di onesto è stato fatto
in questi anni, che si può con l’approvazione di un vasto pubblico mettere in giro infamie d’ogni
genere sul conto dei difensori della libertà 263.
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Anche da parte dell’«Avanti!» le critiche erano spietate: Giannini era un «grottesco ed immorale
buffone» dallo «stile apocalittico», che andava minacciando colpi di Stato «per i caffè di Roma,
come un giochetto da ragazzi che le sue squadre democratiche potrebbero realizzare nel giro di
mezz’ora» 264; un «astuto vecchio» dal «vocabolario da lupanare» 265, il «terribile Catone dei partiti
e della politica, l’uomo a cui nessun pelo nell’uovo sfugge e per il quale tutti i problemi sarebbero
di lapalissiana soluzione, se non ci fossero i partiti».
Il più indulgente era, invece, il giudizio riferito da «Popolo e libertà», settimanale della Democrazia
cristiana 267, secondo il quale Giannini era
@
«sotto certi aspetti», uno Shaw; uno Shaw con animo e sentimenti napoletani, beninteso. Come il
famoso George Bernard Shaw in Inghilterra, egli predilige spesso i toni sarcastici anche nel parlare.
È l’iconoclasta del mondo politico professionale, è il volgarizzatore di una falsa scienza e di una
falsa iniziazione politica. È uno Shaw più immediato, soprattutto più costruttivo.
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Giannini era dunque divenuto un grosso e originale personaggio. Agli avversari era facile rivolgere
critiche ad alcuni stupefacenti aspetti del suo carattere, ma egli era con il suo stile, come il
movimento da lui lanciato, il simbolo di un’epoca: il capo spirituale di un’Italia decisa a vivere non
più «pericolosamente», che non additava più grandi e «immancabili» mete, ma ideali di pace e di
quiete domestica. Forse era vero che, in questo senso, egli era una caricatura del Duce, come l’Italia
martoriata e sconfitta del 1945 era una caricatura, tragica, di quella «imperiale».
C’era qualcosa in Giannini, proprio per questo suo essere espressione di un’epoca, che suscitava
simpatia perfino negli avversari più duri. Quando l’«Avanti!», nel marzo ’46 lo accuserà di aver
offeso l’eroismo dei partigiani (in un’intervista aveva dichiarato che in Italia c’era stata «una sola e
vera ribellione: quella dei napoletani nel settembre del 1943. Le altre sono state organizzazioni
politiche, finanziate dal governo di Badoglio prima, di Bonomi poi» 269, e pubblicherà in prima
pagina la sua fotografia, il commediografo crederà trattarsi di una «istigazione all’assassinio» 270,
accuserà il quotidiano socialista e il suo difettare Silone di voler provocare un «delitto di folla» 271,
li coprirà di insulti. L’invasione e la devastazione della redazione romana del «Buonsenso»,
avvenuta la mattina del 19 marzo ad opera di un gruppo di una ventina di ex partigiani, rafforzerà
questa convinzione: avevano tentato di ucciderlo, solo la casuale assenza dalla redazione lo aveva
salvato, le sinistre volevano soffocare la sua libera voce. Dell’episodio il commediografo si servirà
ancora una volta per presentarsi come martire:
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Questi fessi fottuti giudicano il mio dal loro coraggio, e non hanno pensato, né lo potrebbero, che il
sacrificio della mia vita è già fatto; e che, al massimo, conto di crepare in compagnia del maggior
numero possibile dei miei aggressori, se il destino vorrà ch’io abbia il tempo di voltarmi [...]. Ma
non s’illudano, i capi social-comunfascisti, di passarla liscia se a qualcuno dei nostri dirigenti
dovesse capitare un’avventura brigantesca 272.
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L’«Avanti!», in realtà, non aveva la benché minima intenzione di provocare Passassimo di Giannini
(Silone scriveva che le reazioni dei partigiani erano state «eccessive e riprovevoli» 273): solo «un
pazzo» poteva pensarlo. E tale veniva definito Giannini dal giornale il 20 marzo 274:
@
La sua pazzia è goffa e tetra. Dei matti ha lo sfacelo mentale, non certo la fantasia [...]. La pazzia,
dicono, è il sogno di chi è sveglio. Lasciamo dunque che Giannini si abbandoni all’ebbrezza dei
suoi folli sogni: che si creda un signore soltanto perché ha le tasche gonfie degli assegni spediti
dagli agrari assassini di Ruvo di Puglia 275, che si creda un irresistibile uomo di spirito soltanto
perché scrive «panscremenzio»; che si creda un polemista della classe di Felice Cavallotti soltanto
perché dice che noi siamo «fessi fottuti». Vi è un piacere ad essere matti che solo i matti capiscono
[...]. E non speri di essere assassinato. I martiri italiani si chiamano Matteotti, si chiamano Buozzi,
si chiamano Fioretti, non si chiamano Giannini.
Quella dell’assassinio è la sua monomania. Giannini è un pazzo che, aprendo la finestra, si affaccia
sempre sul piazzale Loreto. Ma non s’illuda in un sangue diverso da quello delle sue emorroidi.
Nessuno vuole Giannini morto: è troppo spassoso vivo, perché questa malinconica Italia possa
privarsene. Pubblicando la sua gentile immagine abbiamo voluto semplicemente offrirla
all’ammirazione di chi ne ignorava le fattezze. L’uomo che scrive le cose che lui scrive, che bara
come lui bara, che ingiuria i nostri santi morti come lui fa, non poteva avere che quel monocolo da
Patrissi, quel cappotto da «macrò» e quel frustino da Michelino Bianchi»...
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«È troppo spassoso vivo, perché questa malinconica Italia possa privarsene». Quest’espressione
sfuggita, tra le righe, all'«Avanti!», indicava la ragione delle patetiche simpatie che Giannini
suscitava un po’ dovunque.
«Servite la patria con letizia! Nessuno più degli italiani è stanco di musi, di assise, di giberne, di
stivaloni, di gagliardetti e d’altre lugubre fregnacce», esclamerà in un comizio in Sardegna, nel
dicembre 1946 276 (e nel giugno aveva salutato la repubblica scrivendo: «dobbiamo creare una
repubblica soprattutto allegra, guai se fosse scocciatrice!») 277.
A Cagliari, sempre nel dicembre ’46, al termine di un altro suo incontro con trentamila persone, si
innalzerà dalla folla un formidabile coro, «spontaneamente, in un’esplosione di sana allegria»:
«Dove sta’ Za-Za, bellezza mia» 278.
Con i suoi motti di spirito, le sue battute anche polemiche, le sue pose gladiatorie e un po’
guappesche («Quando uno è nato signore non c’è che fare», amava dire e scrivere di se stesso) 279,
Giannini «conquisterà» anche il Parlamento, dove gli accadrà perfino, al suo ingresso, di ricevere
gli applausi e gli «Evviva il Fondatore!» delle sinistre.
Spesso si commuoveva, specialmente al ricordo dei suoi dolori più intimi, e allora lo si vedeva
piangere, magari nel mezzo d’un comizio: anche questo alternarsi tra ansia di tornare a vivere e
abbandono alla tristezza era il simbolo di tanta parte del paese. Dinanzi ai giovani qualunquisti,
riuniti a congresso a Roma, nel maggio 1947, non riuscirà a portare avanti il suo discorso (23
maggio), come riferirà «L’Uomo qualunque» 280:
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Io lo sapevo d’aver torto nel venire fra voi oggi. Non ci volevo venire, perché voi non potete
credere quale profonda commozione mi dà il trovarmi fra i giovani, fra i quali non vedo soltanto
quelli che ci sono, ma principalmente quelli che mancano (L'oratore si raccoglie in meditazione, e
qualche lagrima solca il suo volto addolorato). Ecco perché io non volevo venire fra voi. Adesso
che vi ho confessato... (L'oratore s'interrompe ancora, perché profondamente commosso. Grida di
«Viva Giannini». Tutti in piedi applaudono a lungo).
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Certo, della sua violenta polemica godevano i settori più reazionari, e il qualunquismo si prestava a
interpretazioni antidemocratiche, ma Giannini reagirà con fermezza alle adulterazioni del suo
insegnamento: era un uomo sincero e in buona fede, che aveva concepito un sistema dominato, pur
nella sua vacuità, da un appassionato amore per la libertà e la pace. Tuttavia, il qualunquismo
restava di per sé qualcosa di deleterio nella sua triste asocialità, che s’esprimeva nel disimpegno e
nello scetticismo, nella sfiducia e nella sostanziale carenza di convinzioni ideali.
Il distacco tra paese reale e pase legale, di cui Giannini individuava a suo modo le cause e per il cui
superamento teorizzava le sue «rivoluzionarie» soluzioni, costituisce realmente un male antico della
società italiana, le cui radici meno remote vanno certo individuate nel modo stesso in cui ebbe a
concludersi il processo di formazione dello Stato unitario, opera di ristrette minoranze compiutasi
tra l’indifferenza, se non l’ostilità, delle grandi masse popolari. Nei confronti dello Stato liberale
rimanevano infatti in uno stato d’animo di avversione le masse cattoliche, a causa della sua essenza
anticlericale; quelle contadine e operaie, che la propaganda socialista renderà sempre più
consapevoli del prepotere borghese-oligarchico nella società nazionale; frange estese, infine, di
media e piccola borghesia, di contadini e di sottoproletariato meridionali, legati all' ancien regime e
diffidenti e pieni di rancore verso quella che appariva nient’altro che una conquista piemontese del
Sud.
Per giunta la classe politica liberale si mostrò abbarbicata al potere e scarsamente desiderosa di
ampliarne le basi, e, allo scopo di mantenerlo, si lasciò inquinare dal trasformismo, dalla corruzione
e dal clientelismo: era naturale che tale gestione ristretta e affaristica del potere acuisse, in tutti i
settori sociali, la diffidenza nei confronti dello Stato a lungo maturata sotto le dominazioni straniere
e favorisse il rifiorire di quell’individualismo anarcoide di chi, convinto che «nulla cambia mai
sotto il sole», si rinchiude nel proprio «particulare» e rifiuta l’impegno nella vita politica, convinto
dell’impossibilità di mutare la natura corrotta e oppressiva di coloro che ne tessono le trame. E
questo è innanzitutto il qualunquismo: la sfiducia generalizzata nella classe politica e nella politica
stessa, il gretto individualismo di chi si erge ad approssimativo giudice della disonestà altrui senza
avere nel contempo il coraggio di scendere nell’agone a combatterla; la reale mancanza di idealità
che vela l’amaro scetticismo nei confronti di quelle degli altri e spinge, al riparo di un moralistico e
vuoto sentimento di superiorità, al meschino vivere «pur che sia», nella quiete dorata del proprio
mondo domestico.
Fenomeno interclassista, dunque, che ha unito nella «contestazione» della classe politica dello Stato
unitario i settori sociali più disparati, lasciando ampie tracce nella storia del costume nazionale, fino
a formare un immenso partito dello scetticismo e del malcontento, il partito del «piove, governo
ladro», come lo definirà Lussu 281, la cui antica esistenza in Italia è stata sempre registrata anche
dalla letteratura 282.
Smantellare il qualunquismo è compito della classe politica, che deve a tal scopo rimuovere quella
sfiducia nei suoi confronti che di esso costituisce l’origine. Compito difficile, giacché quando essa
ha tentato in qualche modo di adempiervi ha provocato l’accentuarsi, in alcune direzioni, proprio
delle manifestazioni più pericolose del fenomeno.
Quando la classe dirigente italiana ha cercato di ampliare le basi dello Stato con un’azione
riformistica a favore delle masse operaie e contadine (di riconquistare cioè la loro fiducia in
maniera sostanziale, e non con una formale «moralizzazione» di se stessa), si è verificata una
radicalizzazione della opposizione ad essa delle masse borghesi, per cui «nella nostra storia unitaria
ogni impulso liberatore [si è] esaurito in un ripiegamento determinato dalla paura di più profondi
rivolgimenti» 283.
Il fascismo in particolare, come si è già osservato, era stato proprio una reazione dei ceti medi
all’ascesa del proletariato che si presentava nel primo dopoguerra con prospettive apocalittiche. Di
quella sfiducia nella classe politica e nei partiti, di quel desiderio di quieto vivere meschinamente
individualistico che costituivano la base naturale dello stato d’animo qualunquista, faceva anche
parte infatti, nella piccola borghesia italiana, un’istintiva avversione alle classi economiche
meschinamente in lotta in nome dell’utilitarismo, alle quali essa contrapponeva, come abbiamo
visto dall’analisi del Salvatorelli, la superiore eticità del proprio mondo ideale fatto di miti
moderati, e in particolare alle classi «inferiori» che, come il proletariato, minacciavano quel mondo.
Il fascismo, agendo su questi timori, aveva fatto dei ceti medi la propria base di massa,
assecondandone l’antisocialismo e quel superiore disprezzo per i politicanti e i partiti, ai quali aveva
sostituito la retorica monocorde dell’ipse dixit e il partito unico, gli strumenti, insomma, suggeriti
dalla filosofia anti-parlamentaristica che, sviluppatasi all’interno stesso della classe politica liberale
come critica alle degenerazioni del sistema democratico-rappresentativo 284, s’era esacerbata in
ripudio del sistema stesso, in nome dello Stato autoritario, nella versione nazionalista e poi fascista.
Anche quando, dopo la guerra, i ceti medi sostenitori del fascismo avevano finito per distaccarsene,
il loro qualunquismo, come superiore disprezzo per i partiti e la politica, rimase ben radicato,
aggravato da venti anni di propaganda e di diseducazione alla dialettica ideologica, come stato
d’animo fondamentale nel loro atteggiamento sociale, strettamente legato all’antisocialismo.
Il qualunquismo, nel suo imporsi nel panorama politico italiano del secondo dopoguerra, mostrava
dunque di possedere, rispetto al fascismo, strette relazioni di parentela, ma nello stesso tempo se ne
distaccava nettamente: al di là dei suoi significati contingenti (generico scontento, anarchismo
protestatario, trampolino di lancio del neofascismo) esso indicava infatti, di fronte alla nuova
avanzata delle masse proletarie in nome del rinnovamento civile, una nuova reazione dei ceti medi,
con l’esigenza di un ritorno al quieto vivere all’ombra di ideali moderati che non presentasse più,
come con il fascismo, il pericolo di sbocchi violenti e drammatici.
Dopo le delusioni del fascismo, solo la democrazia, ma a certe condizioni «moderate», avrebbe
potuto soddisfare agevolmente queste esigenze. E il moderatismo dei ceti medi italiani era infatti
destinato a essere rappresentato dalla Democrazia cristiana.

III. 1946: DAL 2 GIUGNO AL «VENTO DEL SUD»

2 giugno 1946: La repubblica e le «due Italie»


Le speranze in un radicale rinnovamento della società italiana erano destinate a subire una nuova
delusione il 2 giugno 1946, data del referendum istituzionale e delle elezioni per l’Assemblea
costituente, le prime dopo il ventennio fascista e a suffragio universale, giacché vedevano il diritto
di voto esteso anche alle donne. Quella che in tale occasione venne a mancare fu infatti una decisa
maggioranza popolare orientata in senso progressista che, secondo le aspettative delle sinistre,
avrebbe permesso di rilanciare l’azione riformatrice bloccata, nel dicembre ’45, con la caduta del
governo Parri.
Già l’esito del referendum induceva ad alcune sconfortanti considerazioni La repubblica otteneva la
vittoria con appena 12.717.923 (54,3%) contro 10.719.284 (45,7%) voti. Monarchia o repubblica
erano stati presentati come i due poli di un dilemma riconducibile, in ultima analisi, a quello tra
rinnovamento o conservazione. Non a caso la propaganda monarchica aveva insistito sul «salto nel
buio» rappresentato dalla repubblica, e le sinistre avevano presentato la repubblica come condizione
indispensabile per l’attuazione d’un incisivo programma di rinnovamento, anzi come prima
fondamentale riforma, essa stessa, del vecchio Stato borghese accentratore e dispotico. S’era
verificato, dunque, un evidente parallelismo tra voto monarchico-voto moderato-conservatore e
voto repubblicano-voto progressista-rivoluzionario, e la vittoria della repubblica, in apparenza,
sembrava coincidere con quella della volontà di rinnovamento. Ma tale vittoria era inficiata, nel suo
significato morale e politico, dal fatto che essa fu il frutto della volontà del Nord giacché, dal Lazio
in giù, le popolazioni avevano confermato la propria fedeltà alla monarchia e, con essa, la propria
diffidenza nei confronti dei programmi di rinnovamento propugnati dalle élites antifasciste.
IMM
Una netta spaccatura s’era verificata tra l'Iitalia settentrionale, repubblicana e progressista, e quella
meridionale, monarchica e moderato-conservatrice. Ma c’è di più. I risultati delle elezioni per la
Costituente rivelarono quali partiti avevano raccolto l’ingente massa dei voti dell’elettorato
«d’ordine» riversatisi sulla monarchia nel referendum. Tra questi c’erano i liberali e i qualunquisti,
oltre che, naturalmente, i monarchici riuniti nel Blocco nazionale della Libertà, che avevano
raccolto i propri voti essenzialmente nel Sud.
Ma le destre, nel loro insieme, riuscirono a superare di poco i quattro milioni di voti, mentre la
monarchia, nel referendum, ne aveva ottenuti quasi undici. È evidente allora che la maggior parte
dei voti ottenuti dalla monarchia venivano da quell’elettorato che nelle elezioni per la Costituente
aveva conferito la propria fiducia alla Democrazia cristiana. Sommando tutte le destre (senza la Dc)
«si hanno 4.300.000 voti. Per raggiungere il totale della monarchia ne occorrono circa sei milioni e
mezzo. La Dc ebbe 8.083.208 voti: di questi, dunque, non più di un milione e mezzo confluirono
sulla scelta repubblicana. Poiché è legittimo supporre che del 1.209.918 voti ottenuti dall’Uomo
Qualunque, almeno tre-quattrocentomila erano di fascisti repubblicani che non votarono per la
monarchia, si può ritenere che il contributo dell’elettorato democratico-cristiano al voto
repubblicano, sia, appunto, attorno al 1.100.000» 1.
Appena nell’aprile, al primo congresso nazionale della Dc, era stato reso noto un sondaggio tra gli
iscritti che indicava come la maggioranza di essi (il 70%) fosse di orientamento repubblicano. Ma,
si trattava, evidentemente, della ristretta aliquota dei dirigenti e militanti del partito e non della
sterminata massa dei suoi elettori, in gran parte monarchici. Esisteva dunque un significativo
contrasto tra l’orientamento repubblicano della Dc e quello, monarchico, dei suoi «simpatizzanti»,
che era anche, di conseguenza, contrasto tra l’orientamento progressista ancora prevalente nella
classe dirigente cattolica, come meglio vedremo, e quello, moderato-conservatore, della sua base.
La Dc aveva in realtà egemonizzato i consensi dell’elettorato d’ordine italiano, lasciando alle destre
la rappresentanza di quelle aliquote di esso che non si erano fidate dell’anticomunismo
dell’ultim’ora ostentato nella propaganda elettorale dal partito di De Gasperi: essa costituiva perciò
il centro di un grosso blocco moderato-conservatore (Dc + destre) che nel paese, e nel Meridione in
particolare, mostrava di attrarre a sé la maggioranza degli italiani. Le componenti repubblicane e
progressiste del partito cattolico rimarranno sommerse da questa realtà e, senza il coraggio di
reagirvi anche a prezzo di scissioni, dovranno rassegnarsi a continuare a dare il proprio contributo
politico ed elettorale a favore, in pratica, del blocco moderato-conservatore del quale era parte
essenziale il loro partito.
Pienamente coscienti del loro insuccesso erano i comunisti, e non soltanto per non essere riusciti ad
affermarsi «per il numero di voti come il partito più forte della classe operaia» 2 (ruolo ottenuto dal
Psiup), ma per aver abbondantemente fallito l’obbiettivo di ottenere, insieme con i socialisti, «una
somma di voti che ci permettesse di contare la metà dei deputati all’Assemblea costituente» 3.
Comunisti e socialisti, insieme, non avevano superato il 39,7%: solo nell’Italia settentrionale
avevano ottenuto la maggioranza assoluta dei suffragi (50,9%); in quella centrale solo il 42,4%; in
quella meridionale il 20,9%; in Sicilia il 20,1% e in Sardegna il 21,4%.
La sconfitta, nonostante la vittoria repubblicana, era stata di tutte le forze di sinistra (dai comunisti
agli azionisti e ai repubblicani) che, nel loro complesso, avevano conquistato poco più del 46%, e la
maggioranza assoluta nell’Italia settentrionale e centrale, ma non in quella meridionale e insulare
(27,3% nel Meridione; 27,5% in Sicilia: risultati superati nel primo caso ed eguagliati nel secondo
dall’insieme delle destre).
Gli ideali di rinnovamento non avevano avuto il consenso della maggioranza del paese, giacché il
loro successo nel Centro-Nord era decisamente compensato dall’aperta avversione del Sud: per
giunta i fautori di una rivoluzione, sia pure democratica, dovevano ridimensionare ancora quel già
deludente 46%, giacché, «nello stesso elettorato di sinistra, moltissimi non volevano correre alcuno
dei rischi o sopportare alcuno dei sacrifici che ogni rivoluzione, per quanto democratica,
comporta»4.
Il 2 giugno ’46 significò dunque la vittoria dei moderatoconservatori: il blocco Dc+destre aveva
superato il 50% invano sognato dalle sinistre, e se nel Nord e nel Centro si era dovuto accontentare,
rispettivamente, del 43,8% e del 41,2%, nel Meridione e nelle isole straripava nel 66,5%, nel 61,1%
(Sicilia) e nel 59,8% (Sardegna) (complessivamente: 50,1%).
L’abile condotta della propaganda democristiana, impostata sui temi dell’ordine e
dell’anticomunismo, aveva tolto notevole spazio alle destre, che sugli stessi temi avevano cercato di
basare le proprie fortune elettorali. Ciononostante, liberali, monarchici e qualunquisti erano riusciti
ad ottenere i voti di una parte non trascurabile di opinione pubblica. I 30 seggi dei qualunquisti, i 41
dei liberali e i 16 dei monarchici (nel complesso il 14,9% dei voti) possono apparire un risultato
modesto, ma non lo sono se considerati nella loro configurazione territoriale. Questi gruppi avevano
in realtà ottenuto, nel loro insieme, solo il 6,5% nel Nord e il 12,0% al Centro, ma ben il 31,5% nel
Sud (contro il 35,0% della Dc e il 27,3% delle sinistre), il 27,5% in Sicilia (contro il 33,6% della Dc
e il 27,5% delle sinistre), il 18,7% in Sardegna.
Anche per il Fronte dell’Uomo Qualunque i risultati del 2 giugno furono tutt’altro che
insignificanti. Con oltre un milione e duecentomila voti (5,3%) e trenta seggi, esso si poneva come
il quinto partito, sorprendendo con la sua affermazione un po’ tutti gli avversari che, dopo
l’insuccesso nelle amministrative del marzo-aprile, lo avevano dato per spacciato. Ancora più
sorprendente si rivelò il successo personale di Giannini: egli fu uno dei sei deputati eletti in tre
circoscrizioni (con De Gasperi, Togliatti, Pertini, Saragat, Nitti) e il terzo, dopo De Gasperi e
Togliatti, per numero di preferenze ricevute: 75.849 a Napoli, contro le 115.534 di De Gasperi, le
27.366 di Croce, le 36.445 di Sereni, etc; 59.555 a Roma, contro le 197.936 di De Gasperi, le
75.146 di Togliatti, le 29.981 di Saragat e le 24.961 di Nenni, etc.; 51.875 a Bari, contro le 74.809
di Di Vittorio, le 49.989 di Petrilli (Dc), le 22.358 di Fioritto (Psiup), etc.
L’affermazione qualunquista appare particolarmente importante se si considera che, al pari di quella
delle altre formazioni di destra, era stata essenzialmente un fenomeno meridionale. Le liste del
torchietto avevano infatti raccolto appena il 2,3% nel Nord, ma il 5,3% nel Centro, il 9,7% nel Sud,
il 9,7% in Sicilia e il 12,4% in Sardegna. Dei deputati qualunquisti solo l'ing. Marina era stato eletto
a Milano: gli altri in Lazio (2), Molise (1), Campania (5), Puglie (4), Calabria (2), Sicilia (4),
Sardegna (1) (gli altri dieci furono eletti nel Collegio unico nazionale)5.
Questi dati indicavano come fosse superficiale l’accusa, subito rivolta a Giannini, di aver rastrellato
quasi esclusivamente voti «fascisti». Certo, Sull’Uomo Qualunque erano confluiti anche i voti di
gruppi «nostalgici», impossibilitati ad esprimere la propria preferenza per un partito
dichiaratamente neofascista, ma nel complesso il loro contributo era stato minoritario, come quello
delle oligarchie agrarie e industriali timorose del rinnovamento. A gonfiare il qualunquismo
avevano poi contribuito la generica protesta e l’anarcoide ribellismo e perfino, in Sicilia, il
sentimento separatista 6. Ma il qualunquismo s’era confermato, nel suo significato di fondo, un
fenomeno piccolo-borghese, una protesta dei ceti medi contro la nuova Italia che minacciava il loro
moderatismo. E che venisse dal Meridione era spiegabile, se si pensa che esso non aveva conosciuto
la lotta di Liberazione ed era caratterizzato da un tessuto sociale in cui, nelle città, la realtà
dominante era costituita dal pubblico impiego — quello sconvolto dall’epurazione — e dal libero
professionismo e piccolo commercio individualista (accanto a masse di reduci-disoccupati, e di
sottoproletariato naturalmente portati all’odio contro la classe dirigente), e, nelle campagne, da
piccoli proprietari-contadini istintivamente ostili, per motivi religiosi o di timore per «la roba», alla
penetrazione della propaganda «collettivistica» dei partiti di sinistra.
Fino all’autunno del ’45 Giannini era stato il più autorevole interprete di tale protesta. In seguito,
l’involuzione dei liberali e quella, particolare, della Dc, avevano ridotto di molto le sue possibilità
di proselitismo, e della grossa maggioranza moderatoconservatrice che nel Meridione e nelle isole
aveva votato per la Dc e per le destre, egli aveva conquistato un’aliquota solo relativamente
consistente.
Gli avvenimenti e l’intuito del commediografo avrebbero però consentito al qualunquismo, nel giro
di pochi mesi, di accrescere in misura strepitosa tale aliquota, ai danni dei liberali e, soprattutto, dei
cattolici.

Frime difficoltà nel Fronte dell’Uomo Qualunque.


Giannini era stato costretto a condurre la sua battaglia per le elezioni dell’Assemblea costituente
(imperniata sui consueti slogan contro l’antifascismo, contro il «governo debole e inetto» 7, contro
«le inquisizioni, le persecuzioni e le leggi speciali» 8 e «contro i rossi»9) in un isolamento assoluto,
giacché erano falliti tutti i suoi tentativi di alleanze elettorali.
Il principale bersaglio della polemica gianniniana era stata la Democrazia cristiana, accusata di
essere un «partito biscia», il «partito del tradimento» e dei «monopolisti del cristianesimo»:
@@L’abbiamo aiutata dovunque, in cambio di promesse che non sono state mantenute, in cambio
di un rispetto che non ci è stato concesso, in cambio di una lealtà che ci è stata negata. Allora noi
abbiamo abbandonato questo partito del tradimento che ha tradito perfino se stesso, come ha tradito
la religione di cui fa commercio, la monarchia che ha sfruttata. Domani credo che tradirà anche i
socialisti a cui si appoggia [...]. La lotta che ci fa il comunismo ha almeno la bella e stupida
violenza della belva. La lotta che ci fa la Democrazia cristiana è ignobile perché è serpentina. Se ho
chiamato partito biscia questo partito non era solamente per farvi su delle freddure, ma perché c’è
del rettile in ciò che esso ha fatto contro di noi. I democristiani sono andati raccontando che noi non
siamo cattolici, che non siamo cristiani. Tutta questa gente che vediamo oggi qui alla Basilica di
Massenzio, evidentemente sono scintoisti o maomettani (ilarità), non cattolici, non cristiani10.
@@@
Anche con i monarchici (riunitisi nel Blocco nazionale della Libertà) ogni accordo era fallito, a
causa dell’irrinunziabile agnosticismo che il commediografo aveva fatto assumere al Fronte; da
parte liberale, poi, era giunto ancora una volta un secco rifiuto, e in quanto a Bonomi, Nitti e
Orlando, essi avevano preferito allearsi con Croce nella Unione democratica nazionale.
Giannini non aveva risparmiato attacchi alla «carognaggine liberale» 11 e ai leader della nuova
formazione politica. I suoi maestri Croce, Orlando, Nitti e Bonomi, i «grandi vecchi» di appena
pochi mesi prima, erano divenuti, nella sua prosa sarcastica, i «quattro vegliardi» 12, oppostisi «per
gretto tornacontismo elettorale» all’unificazione «di tutte le forze politiche italiane non
dichiaratamente socialcomuniste» 13.
Bonomi era «il più giovane della quadriglia di cadaveri che vogliono governare l’Italia» 14, Nitti
«dopo aver sfruttato il nostro movimento e il nostro giornale, ha fatto il voltafaccia» 15.
Quanto a Croce, il venerato maestro, era stato definito «il più grande fiasco politico che si potesse
prevedere in Italia», in un articolo del 10 aprile ’46 16 in cui Giannini, con la sua stupefacente
presunzione, aveva inteso esaltare le altezze speculative raggiunte dal qualunquismo:
@
Prima del 27 dicembre 1944 — data del primo numero dell’«Uomo qualunque» — il pensiero
politico italiano era quanto mai confuso per non dire caotico. Benedetto Croce is tesso non aveva
saputo trovar altro che il concetto della «libertà protetta», e, per il partito liberale, niente di meglio
che la qualifica di «riformista» [...] Croce, che è ritenuto il miglior cervello della vecchia politica
italiana, ha anche il privilegio d’impersonare il più grande fiasco politico che si potesse prevedere in
Italia: e con lui, a distanze diverse da misurarsi in base alle rispettive intelligenze, hanno
fiascheggiato Sforza, Bonomi, Orlando, Nitti, Nenni, Cianca, Lussu, Conti, e tanti altri. Lo stesso
Togliatti, che pure dà, ogni tanto, strani e disordinati bagliori che denunziano un talento lontano e
non sempre presente, non ha dato idee alla nuova politica del nostro paese, che è rimasta quella che
era sotto il fascismo [...].
I SOLI CHE ABBIANO DATO NUOVE IDEE ALLA POLITICA ITALIANA SIAMO NOI.
@@@
Ma più che l’isolamento politico e l’ostilità degli avversari, a preoccupare Giannini erano alcuni
problemi interni che si andavano delineando nel Fronte.
Secondo lo statuto, il partito aveva quali organi fondamentali, come si è visto, un comitato
nazionale, un comitato direttivo e una giunta esecutiva. In pratica a dirigere la politica qualunquista
era unicamente Giannini. Egli aveva costituito di sua iniziativa, dopo il congresso, una giunta
esecutiva provvisoria, immettendovi i due vice-presidenti, Lagravinese e Marina, e sei «pionieri»
del qualunquismo, che aveva presentato alle acclamazioni dei congressisti: l’ing. Armando Fresa,
costruttore edile; Vincenzo Tieri, giornalista e commediografo; il rag. Ludovico Festa, funzionario
dell’amministrazione doganale; il prof. Antonio Capua, radiologo; il dott. Edoardo Stolli, laureato
in economia e commercio; il geometra Renato Aprà, impiegato di prefettura 17.
Il comitato direttivo, riunitosi il 28 marzo ’46, si era limitato ad «integrare» la giunta con due nomi,
l’ing. Gino Nisi e il dott. Gennaro Patricolo. Anche la nomina a segretario generale del Fronte di
Armando Fresa, decisa dalla giunta lo stesso 28 marzo, era stata ispirata da Giannini. Il 24 giugno,
nella sua prima riunione, il gruppo parlamentare conferiva a Giannini i pieni poteri per la
riorganizzazione del partito. Anche tale riorganizzazione era voluta dal commediografo, per vari
motivi. Egli aveva sempre esaltato la purezza e il disinteresse della classe dirigente qualunquista e
lo spontaneismo e l’assoluta libertà con cui s’era formato il Fronte. Ma ora ch’esso era diventato un
partito con un ragguardevole gruppo parlamentare e varie cariche direttive in palio, a livello
nazionale come locale, Giannini doveva iniziare a constatare con sempre maggiore evidenza la
terribile ingenuità della sua fiducia nell’assoluto disinteresse degli homines novi qualunquisti:
rivalità e ambizioni personali, carrierismo e conseguente lotta per il potere all’interno del partito si
andavano intensificando, al centro come alla periferia, a ritmo crescente, aggravati, in molti casi,
dalla scadente qualità umana di uomini accomunati dal disimpegno sostanziale nei confronti dei
valori ideologici, e perciò portati a vivere nel più meschino machiavellismo.
Ben presto il leader di un movimento che aveva ostentato la parola d’ordine della lotta al
professionismo politico, dovrà amaramente confessare: «il pericolo più grave lo abbiamo ‘ dentro ’
e non ‘ fuori ’ di noi, [ed è] il professionismo politico» 18. Per ovviare a tali inconvenienti, il
commediografo decise di rovesciare completamente quello spontaneismo, quella volontà dal basso
che aveva fino allora caratterizzato la vita del qualunquismo, iniziando una intensa opera di
controllo dall’alto di nomine e situazioni locali, inviando ispettori e sottoponendo a consigli di
disciplina i disobbedienti alle «superiori direttive». Nello stesso tempo, il Fronte riorganizzerà i
propri uffici ampliandone il numero e le competenze, istituirà un organico tesseramento, finirà per
avere, soltanto a Roma, più di 100 impiegati.
Uno dei primi provvedimenti nell’ambito della riorganizzazione fu, il 27 giugno ’46, la sostituzione
alla segreteria generale di Armando Fresa con Vincenzo Tieri, effettuata allo scopo di dimostrare
che il Fronte doveva essere immune da ogni «sansepolcrismo». Ma a Fresa quella sostituzione non
andò giù: nel suo ufficio in via Francesco Crispi, che era stato per lunghi mesi la sede del Fronte,
cominciò a far capo una consistente mormorazione contro Tieri e Giannini, presto coloratasi di
motivazioni politiche e conclusasi con la sua sospensione dal partito.
A Roma, Napoli, Milano, in diversi altri grossi e piccoli centri, Giannini faticava non poco a
dirimere le numerose controversie originate da rivalità personali. Ma c’era di più. In non pochi casi
non si trattava soltanto di meschine ambizioni di uomini. In alcuni settori qualunquisti s’andava
delineando una marcata insofferenza per la politica ufficiale del Fronte: l’agnosticismo gianniniano
e il suo lealismo repubblicano (Giannini, dopo l’esito del referendum istituzionale, aveva invitato i
suoi alla serena accettazione della repubblica) irritavano i monarchici «legittimisti»; il ribadito
antifascismo e la insensibilità, anzi l’opposizione, ai temi del revanscismo nazionalistico, i settori
nostalgici: la destra reazionaria, insomma, che s’era buttata nella travolgente opposizione
qualunquista, cominciava a comprendere di non potersi riconoscere nelle posizioni liberaloidi del
commediografo. Su questa insoddisfazione della base, cercavano poi di agire elementi neofascisti,
entrati nel Fronte con il disegno di future secessioni, se non di conquista dall’interno del
qualunquismo.
Alcuni episodi misero in allarme Giannini. Particolarmente, nell’estate ’46, il caso «Senso nuovo»
di Milano, che si definiva «quotidiano qualunquista», ma in realtà era su posizioni chiaramente
neofasciste, come il suo fondatore, Antonio Cruciani, il quale si era fatto nominare segretario del
centro provinciale di Milano da una maggioranza precostituita (Giannini aveva definito l’episodio
«congiura di palazzo» 19) e svolgeva propaganda a favore di un fantomatico Partito nazionale
italiano. Dopo una lunga serie di polemiche e inchieste (alla fine si verrà a sapere che aveva agito
d’accordo con il vicepresidente Marina, senatore del Msi nel 1953), Cruciani verrà espulso dal
Fronte e «Senso nuovo» cesserà le pubblicazioni. Ma l’episodio era significativo: l’estrema
liberalità del Fronte aveva permesso l’inserimento in esso di elementi che poco o nulla avevano in
comune con le idee di Giannini e che consideravano il qualunquismo, come si è detto, un
«ombrello», da gettar via una volta tornato a splendere il sole.
Il caso «Senso nuovo» non rimase isolato. Episodi di infiltrazioni neofasciste verranno segnalati a
Giannini da varie parti d’Italia. Tipico — e clamoroso — il «caso Cione», il filosofo ex allievo
prediletto di Benedetto Croce, divenuto mussoliniano e leader, nella Repubblica di Salò, del
Raggruppamento nazionale repubblicano socialista 20. Edmondo Cione aveva avuto diversi colloqui
con Giannini, che gli aveva sempre rifiutato, anche se cortesemente, l’ingresso nel Fronte, ma
riuscirà egualmente ad ottenere la tessera qualunquista da Armando Calabrese, segretario del centro
provinciale di Napoli (che verrà espulso anche per questo motivo) e si farà addirittura eleggere
delegato di Napoli al secondo congresso nazionale (ma Giannini gliene vieterà la partecipazione,
provocandone le dimissioni ed il successivo ingresso nel Msi). L’episodio più grave di questa
ambigua presenza nel partito di tendenze neofasciste (a parte la secessione di Patrissi, sulla quale
torneremo) sarà, tuttavia, l’espulsione di Ludovico Festa, uno dei «pionieri» del qualunquismo e
vicesegretario nazionale per l’Alta Italia (accusato, come vedremo, di essere in contatto con ex
repubblichini).
La riorganizzazione del Fronte aveva dunque lo scopo, oltre che di combattere il «professionismo
politico», di frenare l’inserimento nel qualunquismo di elementi neofascisti e legittimisti: «Per
effetto di una sedicente interpretazione democratica del nostro statuto — scriverà il commediografo
in una lettera a Tieri21 — qualsiasi malintenzionato senza seguito né credito può farsi eleggere di
sorpresa capo-centro di una città di importanza europea come Milano». Naturalmente egli esagerava
nella valutazione di episodi come quello del «Senso nuovo». In essi voleva vedere un complotto
organizzato dai partiti di sinistra (con a capo Nenni), accusandoli apertamente di essere «gli
incoraggiatori, i finanziatori, i riutilizzatori del disordinato movimento neofascista» 2?, nell’ambito
della nuova «strategia antiqualunquista» diretta dal «cervellino romagnolo» 23:
@
Le sinistre, dopo aver invano tentato di distruggere l’Uomo Qualunque per attacco frontale, hanno
provato a vuotarlo creando e vettovagliando, e comunque tollerando, una serie di giornali
neofascisti nell’ingenua convinzione di attrarre fuori dal Fronte, con quelle ingenue caiamite, tutti
gli ex fascisti24.
@@@
Quali che ne fossero i retroscena, l' escalation neofascista (e legittimista) del qualunquismo doveva
essere combattuta e vinta ad ogni costo. Giannini vedeva innanzi a sé aperte ampie prospettive per il
Fronte, scriveva che «il bimbo» era divenuto «un gigante» 25, parlava di «quarto partito di massa
che può riequilibrare la politica italiana e spezzare la triarchia dittatoria» 26, addirittura di «partito
che può essere chiamato ad esprimere un governo tra pochi mesi» 27.
L’inserimento di neofascisti e legittimisti spingeva invece il Fronte a destra, confinandolo nel ghetto
di una opposizione senza speranze. Di qui la continua proclamazione dell’incompatibilità morale e
ideologica tra qualunquismo e fascismo, la ripresa della polemica, dopo la pausa elettorale, con
giornali tipo «La Rivolta ideale»28, le direttive di lotta intransigente ai «tentativi d’infiltrazione dei
professionisti politici monarchici come dei professionisti politici fascisti, i quali non hanno altra
mira che il loro personale vantaggio, e non esiterebbero a gettare il paese nel disordine e nella
guerra civile per ghermire una carica o una prebenda» 29:
@@@
Gli ex fascisti venuti all’Uomo Qualunque in buona fede sanno che tra fascismo e qualunquismo
non v’è la minima analogia, che la concezione fascista è in netta, diametrale opposizione con la
concezione qualunquista [...]. D’altra parte noi, e con noi gli Amici e le Amiche che ci hanno eletti a
rappresentarli nel Fronte e alla Costituente, non possiamo ammettere l’esistenza d’un patto segreto
mediante il quale si sia fatto finta di aderire al programma politico dell’Uomo Qualunque con
l’intesa, però, di ricostituire il fascismo, il gerarchismo, il totalitarismo, lo squadrismo e tutto
quant’altro abbiamo avversato ed avversiamo. [...]
Non potremmo rimanere e non rimarremmo in un partito nel quale gli onesti italiani onestamente ex
fascisti non fossero in grandissima maggioranza, bensì dominato dai faziosi, dai totalitari, rimasti
attaccati al concetto che nel nostro paese ci debba essere chi bastona e chi dev’essere bastonato, gli
eletti e i reprobi, i nazionali e gli antinazionali e così via [...]. Noi siamo e rimaniamo anti totalitari
[...]. Se, per nostra sventura e a punizione dei nostri peccati, nel Fronte ci fosse o fosse per esserci
molta gente che pensa diversamente da noi, la soluzione non può essere che questa: o questa molta
gente se ne va dal Fronte o ce ne andremo noi30.
@@@
La netta chiusura al fascismo e al «legittimismo savoiardo» 31 («Non contestiamo il diritto di
esistere ad un partito monarchico, ma questo non è il nostro partito») e la parallela lotta al
professionismo politico32, aveva lo scopo di aprire al Fronte dell’Uomo Qualunque ampie
prospettive. Giannini intuiva che il milione di voti conquistati il 2 giugno ’46 rappresentava appena
una parte di quella gente di «buon senso, buon cuore e buona fede» che era la maggioranza del
paese.
Il suo sforzo di distinguere il Fronte dalla destra oltranzista, di depurarlo dagli spiriti dittatoriali che
vi si celavano, aveva anche lo scopo di conquistare all’alternativa qualunquista ulteriori fette di tale
maggioranza, in nome della quale lanciava, il 7 agosto 1946, un Grido di speranza delineante «la
soluzione dei fondamentali problemi dell’umanità» nei seguenti punti33:
@@@
1) Alleanza di tutti gli esseri umani contro la Natura matrigna, per costringerla a dare in maggior
copia i suoi beni a tutti gli uomini secondo il concetto leopardiano del poeta della Ginestra,
antesignano del qualunquismo [! ];
2) Abolizione, anche formale, degli Stati Nazionali d’Europa, di fatto aboliti dall’aviazione, dalla
radio, dalle armi atomiche;
3) Politica di Continenti, che comporta l’unificazione delle monete continentali, il risanamento
mediante compensazione d’ogni debito passato che nessuno vuole e può pagare, e che, ove per
disgrazia fossero pagati, rovinerebbero i creditori non meno irrimediabilmente dei debitori.
A questo risultato, al quale mai i professionisti politici vorranno portarci, il vecchio mondo europeo
arriverà per volontà e forza dell’UOMO QUALUNQUE EUROPEO...
@@@
In tale contesto veniva proposta anche l’abolizione delle frontiere italo-slave.
Nell’ambito del deciso processo di chiarificazione avviato dopo il 2 giugno, Giannini riprendeva
anche, con pazienza, le trattative con il Partito liberale, un’alleanza con il quale avrebbe certo tolto
ogni dubbio sulla posizione ideologica del Fronte. Negava di voler giungere alla creazione di una
grande formazione di destra («al grande partito di ‘ destra ’ non s’arriverà: o, almeno, noi non ci
arriveremo perché non siamo destri e non intendiamo passare per tali 34»); pensava piuttosto a una
formazione di centro che costituisse un’alternativa all’egemonia della Dc e del tripartito 35.
L’idea di contrapporsi alla Dc maturava in lui con sempre maggiore chiarezza e, con essa, lo sforzo
di elaborare una piattaforma concorrenziale a quella del partito di De Gasperi; la stava trovando,
come accennato, in una spregiudicata commistione di liberalismo e cattolicesimo (nell’ambito della
quale cadevano le precedenti «pesanti» riserve nei confronti dell’interventismo statale) e l’andava
ingenuamente sottoponendo all’approvazione del partito di Croce 36:
@
C’è la questione religiosa: noi riteniamo che, dopo il Concordato, non esistano più ragioni di
dissenso con la Chiesa cattolica, e pensiamo che l’ostentazione, spesso inutilmente provocatoria, di
una laicità più formale che sostanziale, debba essere relegata fra i vecchi se pur gloriosi fucili
dell’Ottocento. C’è poi la questione sociale, su cui il chiarimento non può esser meno ampio [...]
non intendiamo che si rimanga su posizioni intenibili in materia economico-sociale, e, chiedendo lo
Stato amministrativo, non chiediamo lo Stato agnostico e imbelle.
L’ideale — irraggiungibile altrimenti non sarebbe ideale — è il metodo di governo del «lasciar fare
e lasciar andare». Ma come nell’ordinaria vita dei singoli è indispensabile adattarsi alle condizioni
ambientali, e, comunque, a tener conto della volontà e delle azioni degli altri, così, nella vita
associata, non è possibile prescindere dalla volontà e dall’azione degli organismi associativi
coesistenti. Esiste un totalitarismo russo che non si può ignorare specie se si vuole combatterlo, e
praticamente esistono i totalitarismi inglese, americano, spagnolo, con le relative economie
controllate e manovrate con criteri strategici, politici e insomma sottratti al libero giuoco dell’ampia
iniziativa privata.
Che cosa vogliamo fare? Mandare allo sbaraglio la nostra gente senza difesa e senza metodo?
Si rendano conto i maestri del liberalismo economico, al quale non vogliamo certo mancar di
riguardo, che se la Spagna volesse, per caso, prendersi il gusto di rovinare la nostra produzione di
agrumi, sua concorrente, lo potrebbe facilmente se i nostri coltivatori d’aranci fossero portati
individualmente e liberamente a cozzare contro una produzione controllata spagnuola [...].
Vogliamo, per esser fedeli al feticcio liberale quarantottesco, chiudere gli occhi sulla realtà in cui
pur dobbiamo vivere?
@@@
Nonostante le difficoltà di ordine ideologico prospettate da Giannini (nella forma banale e
confusionaria che gli era spesso caratteristica), le trattative tra liberali e qualunquisti sembravano
procedere speditamente, tanto che, verso la fine di settembre, circolava la voce di un’imminente
annunzio dell’unificazione. Premevano in tal senso, da parte liberale, consistenti settori della base,
soprattutto meridionale (e in molti casi la fusione era, a livello locale, un fatto compiuto); esponenti,
nella direzione centrale, della corrente di destra del partito, e, soprattutto, il gruppo, facente capo a
Selvaggi, del Pdi, che il 21 settembre era confluito nel Pli, e ora auspicava la fusione tra i liberali e i
qualunquisti considerandola «un ulteriore e decisivo passo verso la costituzione di un blocco
unitario di tutte le forze essenzialmente libere»37.
Ma, ancora una volta, doveva giungere il «gran rifiuto» di Benedetto Croce, chiaramente espresso
in un’intervista concessa all’«Avanti!» il 5 ottobre ’46: «questa storia [della fusione] — dichiarava
il filosofo — mi pare una costruzione alquanto artificiosa. Per conto mio sono un liberale e non ho
mai pensato di diventare un Uomo Qualunque. Del resto lo dissi a Giannini quando respinsi la sua
prima offerta» 38. Giannini sembrava dunque destinato, nonostante i suoi sforzi, a rimanere nel più
pericoloso isolamento, costretto a una continua azione difensiva contro neofascisti e legittimisti.
I mesi di dure polemiche contro questi ultimi, la definitiva scelta liberale, non erano garanzie
sufficienti per il partito di Benedetto Croce. Giannini aveva definito il Pli «un padre dal quale ci si è
staccati per formare una famiglia più giovane» 39, ma quel padre non intendeva riconoscere il
proprio figlio. Croce poi era giunto all’aperto disprezzo: intervistato nuovamente sulla fusione,
aveva detto: «Perché vuole che in un ambiente così simpatico io pronunzi delle brutte parole?» 40.
Per Giannini era stato il colmo: con un significativo titolo, Croce del Partito liberale41, aveva
rinnovato i suoi attacchi al filosofo, proclamando il proprio divorzio spirituale dal Maestro:
@
Vien sempre, e con fatale ricorso, il momento in cui il discepolo si presenta al Maestro e gli dice:
«Maestro, la saluto e me ne vado, perché con lei non posso più rimanere». A tutti i maestri è capitata
e capita quest’avventura: ad eccezione di Cristo tutti furono piantati dai discepoli stanchi di sentirli
predicare in un modo e vederli razzolare in un altro [...]. La croce del Liberalismo in Italia è Croce.
Il Partito liberale ne è morto: e questo bisogna pure decidersi a dirlo con la necessaria se pur crudele
franchezza. Indubbiamente Croce non è un liberale, come non può esserlo chi vuole, ad ogni costo e
caso, imporre a tutti il proprio parere.
Chi può negare che Benedetto Croce eserciti una dittatura non solo spirituale nella cultura italiana?
Si può forse stampare un libro di filosofia, di storia, di sociologia, e insomma di tutto quant’è
materia crociana senza il beneplacito di Croce? Il liberalismo italiano, che è tutto per noi, da chi è
arrestato, inceppato, appesantito nel suo muoversi verso il qualunquismo se non da Croce? Chi vietò
al Pli d’accogliere l’U.Q. nelle sue file se non Croce? S’aggiunga che praticamente Croce non ne ha
azzeccata una. Bandiera del Liberalismo durante la dittatura fascista, alla quale del resto egli
s’oppose non immediatamente provando così di non averne subito intuito il carattere, Croce avrebbe
potuto e dovuto salvare l’Italia. Riuscì solo ad accordarsi al furbo Togliatti, quando questi propose
la collaborazione a Napoli. Difensore, accanito e stilografico, di una libertà teorica, la lasciò
assassinare a Salerno votando le leggi retroattive, accettando la stolta epurazione, contribuendo a
incrementare il più nequitoso disordine materiale e morale che abbia mai sconvolto il nostro paese.
Monarchico non seppe far altro che disorientare i monarchici; creatore di teorie non riuscì a
tradurne in atto mezza; capo del Partito liberale in un paese da vent’anni privo di libertà, non seppe
farne altro che un partito di minoranza, laddove, anche a causa dell’improvvisa liberazione, avrebbe
potuto e dovuto raccogliere nelle sue schiere la quasi totalità degli italiani.
Assunto al governo non vi concluse nulla. Finalmente padrone di scrivere su tutti i giornali d’Italia
non se ne giovò che per chiedere la soppressione dell’Accademia d’Italia e avviare una sterile
polemica sul «liberalismo protetto».
Nessuno più di lui rassomiglia a quel tale che trovatosi inopinatamente in possesso d’un cannone lo
utilizzò andando con esso a caccia di passeri. Il più grande, il più clamoroso, il più significativo
insuccesso politico italiano è quello di Benedetto Croce. Mai, dal compimento della prima Unità
d’Italia, il nostro paese aveva assistito a un simile fiasco.
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Se non dal Partito liberale, un riconoscimento a Giannini per il coraggioso processo di
chiarificazione ideologica portato avanti nell’estate ’46 sarebbe però venuto, e in misura insperata,
dal paese.

Dal tripartito alla marea qualunquista: il «vento del Sud».


Il nuovo governo formato da De Gasperi dopo le elezioni del 2 giugno ’46 si basava essenzialmente
sulla collaborazione tra i tre partiti di massa (Dc, Pci e Psiup). Vi partecipava anche, per la prima
volta (ma con un peso politico del tutto trascurabile), il Partito repubblicano, mentre ne uscivano i
liberali, postisi su posizioni nettamente anticomuniste e perfino contestative dei risultati del
referendum istituzionale. L’assenza dei liberali sembrava accentuare la volontà rinnovatrice del
primo governo della repubblica. Il programma presentato da De Gasperi alla Costituente manteneva
infatti l’impegno all’attuazione di una imposta straordinaria sul patrimonio («che dovrà anche
fornire i presupposti di una riforma fiscale a base personale» 42) e quello di una riforma agraria per
giungere ad una più equa distribuzione della proprietà — in attesa che la Costituzione ne stabilisse i
princìpi, si promettevano misure urgenti — e s’impegnava, tra l’altro, a codificare l’esistenza e le
funzioni dei consigli di gestione. Era un programma riformatore che aveva soddisfatto ampiamente
il Partito comunista, la cui direzione si era compiaciuta del fatto «che alcune tra le più importanti
proposte comuniste siano state accettate [...] e [...] in particolare del raggiunto accordo sulla
necessità dell’introduzione per legge dei consigli di gestione» 43.
La comune volontà di rinnovare le strutture dello Stato borghese continuava dunque a tenere in vita
la collaborazione tra comunisti e cattolici al di là dei motivi di contrasto.
Abbiamo già accennato ai programmi sociali della Dc all’indomani della caduta del fascismo,
rispetto ai quali l’azione contro il governo Parri aveva indubbiamente rappresentato un’involuzione
in senso moderato-conservatore. Ma di questa involuzione occorre ora chiarire la natura e i limiti.
La restaurazione dell’ordine e dell’autorità dello Stato, in nome delle quali De Gasperi si era accinto
a dirigere il paese nel dicembre del 1945, pur con l’obbiettiva soddisfazione che essa dava ai ceti
più retrivi, non implicava la rinunzia al rinnovamento della società, ma intendeva solo ribadire la
concezione che nel partito cattolico si aveva di tale rinnovamento, che non doveva essere radicale al
punto di sovvertire lo Stato borghese a favore di un regime di tipo collettivistico. L’azione
democristiana contro il «clima Parri» aveva anche avuto lo scopo, come si è visto, di rendersi in
qualche modo interprete del dissenso che, sulla scia dei liberali, i cattolici avevano visto estendersi
nel paese contro la pretesa azione rivoluzionaria delle sinistre, ma di tale dissenso aveva una visione
particolare.
La classe dirigente della Dc guardava alle larghe masse contadine e a quelle dei ceti medi
considerandole, nell’ambito della vecchia strategia sturziana, come propria naturale base elettorale,
ma le vedeva entrambe orientate a favore di un deciso riformismo sociale, il che legittimava il
suggestivo disegno integralistico di estendere in profondità l’influenza del nuovo partito cattolico
anche sulle masse proletarie — non più respinte dal reazionarismo delle prime —, sì da farne il
punto d’incontro, «veramente» interclassista, delle forze progressiste del paese. Nella Dc doveva
infatti trovare soddisfazione, come aveva scritto Gonella sul «Popolo» del 19 febbraio ’46 44, «il
generale orientamento verso sinistra dell’opinione pubblica che aspira a radicali rinnovamenti
sociali», e Tupini aveva sostenuto il 20 aprile 40 che il suo partito aveva appunto, da tempo, attuato
al suo interno «quell’unione tra proletariato e ceti medi per un blocco progressivo che, in regime di
libertà, si affermerà con il peso del numero e della qualità in un’aspirazione di giustizia, che è
l’anima di una socialdemocrazia stabile e sicura»: in questo consisteva l’interclassismo cattolico,
dal quale erano esclusi «i ceti detentori dei privilegi monopolistici e responsabili dello sfruttamento
capitalistico, contro cui combattiamo la nostra battaglia» 46.
I cattolici si sentivano dunque alla guida di un blocco progressista decisamente favorevole alle
riforme, ma nell’ambito dell’ordine e della legalità: la lotta contro il governo Parri aveva avuto lo
scopo di mantenere integro quel blocco, di evitare cioè che i ceti medi, «per il timore di perdere
l’ordine, siano respinti sulla opposta barricata del conservatorismo più gretto, che se ne serve per
massa di manovra»47. A quest’ultima esigenza aveva anche soddisfatto con efficacia, nella
campagna elettorale per il 2 giugno, la propaganda democristiana, che aveva accentuato il «vivace
contrasto»48 con i comunisti delineatosi in occasione delle amministrative del marzo-aprile,
parlando di «battaglia per la civiltà italica e cristiana» 49 e di «pericolo grave di un’affermazione
comunista o comunistoide»50, di contrapposizione tra marxismo e cristianesimo e di necessità della
difesa dei valori della famiglia e della proprietà privata contro le «statizzazioni comuniste» 51. «Se
mai l’alito del marxismo — aveva esclamato De Gasperi al primo Congresso della Dc, il 24 aprile
— raffreddasse questa nostra Italia così pittoresca di monumenti, di fede, così palpitante di una
storia in cui si mescolano cielo e terra, il popolo italiano non capirebbe più la sua tradizione e la sua
storia e accuserebbe la nostra debolezza come un tradimento» 52.
L’anticomunismo ostentato alla vigilia delle elezioni del 2 giugno aveva effettivamente consentito
alla Dc di recuperare molti consensi che altrimenti sarebbero confluiti a destra, ma aveva anche
finito per attrarre a sé non l’ideale «blocco progressivo» di cui parlava Tupini, ma un blocco
moderato-conservatore, per il quale la fine dell’ibrida alleanza tra cattolici e comunisti era una
richiesta ben più pressante di quella delle riforme: ben presto tra coloro che si erano affidati alla Dc
rassicurati dalla sua propaganda contro il marxismo sarebbe circolata davvero, come aveva
dichiarato di temere De Gasperi, la parola «tradimento».
Nonostante le polemiche elettorali, i cattolici avevano dunque rinnovato la propria collaborazione
con i socialcomunisti nel secondo governo De Gasperi. Alla base della loro scelta c’erano svariate
motivazioni. Il timore, evidentemente, che l’esclusione dal governo dei partiti del proletariato
provocasse una radicalizzazione della lotta politica con non imprevedibili sussulti insurrezionali e, a
livello internazionale, un ulteriore indurimento delle richieste dell’Unione sovietica sul nostro
trattato di pace; l’esigenza di far recepire dalla nuova Costituzione alcune fondamentali conquiste
della Chiesa cattolica, come i Patti Lateranensi, e questo appariva difficile senza l’appoggio dei
comunisti; l’esigenza, soprattutto, di avviare effettivamente il rinnovamento della società italiana,
secondando quell’orientamento a sinistra prevalente — si credeva — negli oltre otto milioni di
elettori del 2 giugno ’46: ed anche questo non era possibile senza i comunisti, data la mancanza di
alternative al tripartito. In realtà, nell’Assemblea costituente come nel paese, il blocco Dc-destre
poteva contare su di un’ampia maggioranza (294 seggi su 555) 53. Ma, a parte il frazionamento dei
gruppi di destra, ogni possibilità di intese con questi veniva esclusa proprio a causa della loro
ostilità ai programmi di rinnovamento, cioè, come affermava Andreotti sul «Popolo» del 17 maggio
’46, della loro «cieca paura della riforma dell’ordinamento economico che De Gasperi ed il suo
partito faranno inesorabilmente»54.
Con i socialcomunisti, invece, esisteva, al di là dei contrasti ideologici di fondo, una sostanziale
comunanza di programmi55. Certo molta acqua era passata sotto i ponti cattolici dai tempi del
degasperiano «Cristo, proletario come Marx», ed i rapporti tra Dc e Pci non erano più sereni come
in precedenza. Ma, per le ragioni indicate, la collaborazione tra i due partiti sembrava dovesse
durare ancora a lungo. Lo stesso De Gasperi, al primo congresso della Dc, non aveva escluso la
continuazione della collaborazione con il Pci «per la ricostruzione del paese e per il rinnovamento
democratico dell’Italia», sia pure a condizione della altrui «franchezza», «probità» e «sincerità» dei
programmi e dalla condotta 56.
Togliatti stava compiendo ogni sforzo per consacrare agli occhi dell’opinione pubblica in generale e
dei cattolici in particolare la credibilità del nuovo volto del Pci dopo la svolta di Salerno, ma gli
ostacoli che continuava ad incontrare in questa sua lungimirante politica erano molti, primo tra tutti
il massimalismo ricorrente in alcuni atteggiamenti della stessa base comunista, convinta che quella
proclamata dai capi del partito fosse mera tattica e che il via alla distruzione totale dello Stato
borghese dovesse prima o poi esser dato. Violenze e ostentazioni di estremismo, esagerate dagli
avversari fino a divenire la causa principale di quel «quadro pauroso» cui si riferiva Jemolo 57,
avevano innanzitutto provocato l’insuccesso elettorale dei comunisti, che non erano riusciti a
penetrare in quei settori di opinione pubblica in cui l’antisocialismo, già istintivamente radicato, era
stato esacerbato dal timore di una nuova «rivoluzione rossa». Esse avevano inoltre incrinato la
fiducia nel Pci da parte della classe dirigente cattolica. La condanna del settarismo si ripeteva con
decisione nelle circolari e nella stampa comunista:
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Deve essere denunciata con forza, dinanzi alle nostre organizzazioni, la persistenza di posizioni
settarie che sono un gravissimo ostacolo allo sviluppo dell’influenza del partito e al suo successo
elettorale. Il settarismo si nasconde dietro l’accettazione puramente formale della linea politica del
partito [...] il settarismo si è espresso anche nella [...] intolleranza verso certe correnti politiche con
noi concorrenti [...] la tendenza assai diffusa a disturbare i comizi convocati da altri [...] la
lacerazione o l’imbrattamento dei manifesti avversari [...] canti con parole di cattivo gusto ed
esprimenti una posizione politica diversa da quella del partito, la troppo frequente uscita anticipata
degli operai dalle fabbriche per assistere ai comizi elettorali del partito, l’impiego in massa di
autotrasporti e il loro superfluo scorrazzare sovraccarichi di compagni e di bandiere rosse; Fuso di
bandiere prive del nastro tricolore; questi e altri sono sintomi [...] che occorre al più presto
distruggere. Così pure dobbiamo condannare certe espressioni di volgarità anticlericale [...] segni
evidenti e deplorevoli di deviazione dalla linea politica del partito 58.
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Nella denuncia dell’«opportunismo estremista, che [...] si limita spesso a declamazioni, vanterie,
minacce che respingono da noi le masse meno avanzate e creano in quelle più avanzate un
pericoloso stato d’irritazione e d’isolamento» 59, Togliatti era naturalmente impegnato in prima
persona. La sua strategia mirava all’espansione del Pci in quanto più vasti settori fosse possibile, al
rafforzamento della fiducia dei cattolici nel «partito nuovo»: quell’estremismo, invece, rafforzava
diffidenze e timori. L’amnistia del giugno ’46, alla quale il leader comunista aveva dato il suo nome
quale ministro della Giustizia, aveva provocato un’ondata di sdegno nella base comunista. Ma
Togliatti non defletteva certo dalla sua politica. Le sue disposizioni ai procuratori della repubblica
erano tutte un invito al mantenimento dell’ordine pubblico ben cosciente che l’anticomunismo si
alimentava proprio del timore del disordine e della sovversione.
Ma la classe dirigente comunista, se condannava con decisione il settarismo, non poteva certo
rinunziare a incanalare in qualche modo il potenziale rivoluzionario della base, e lo faceva
promuovendo «un’attività concreta di agitazione e di lotta» 61 nel campo sindacale, con facili
sconfinamenti, però, in quello politico. Scioperi contro il caro-vita e manifestazioni di piazza (come
quelle, nel settembre, contro la politica economica di Corbino, che costrinsero il ministro alle
dimissioni) furono molto frequenti in Italia in quella seconda metà del ’46. Esse si svolgevano su un
terreno strettamente legalitario62, ma indisponevano egualmente gli alleati di governo, che
stigmatizzavano la «doppiezza» dei comunisti, ministri nel governo e oppositori dello stesso sulle
piazze.
Ancora una volta le manifestazioni ufficiali organizzate dal Pci venivano confuse con gli episodi di
velleitarismo rivoluzionario che, opera degli ambienti settari che il Pci per primo condannava,
continuavano a turbare la situazione interna del paese: gli scioperi contro il caro-vita e per gli
aumenti salariali venivano accomunati alle sedizioni partigiane, la delinquenza comune a quella
politica; il massimalismo della base veniva preso alla lettera, come confessione dei piani del vertice,
in un clima che episodi come quello del 4 ottobre, quando nei pressi di Imola venne ritrovato,
perfettamente occultato insieme con altre armi, addirittura un carro armato, rendevano di nuovo
drammatico, continuamente esposto, agli occhi dell’opinione pubblica moderata, al pericolo di
sbocchi insurrezionali.
In questa situazione i rapporti tra cattolici e comunisti divenivano sempre più tesi: «Siamo [...] in
una situazione molto triste — aveva detto il 25 luglio De Gasperi nel suo discorso alla Costituente 63
—: senza esagerare devo dire che siamo agli inizi di una brutta china. Quando a Mantova si arriva
durante lo sciopero a imporre il permesso della Camera del Lavoro per entrare o uscire dalla città, ci
si ritrova in quella stessa situazione del tempo passato, che condusse alle squadre fasciste». Il 29
agosto, il Consiglio dei ministri si era riunito per discutere il problema della rivolta partigiana
dell’Astigiano64 e Scoccimarro aveva subito dichiarato che i «capi responsabili dei partigiani»
erano «con il governo»: «È solo zavorra quella che si agita» 65.
Ma De Gasperi non si accontentava più di dichiarazioni formali. Nello stesso Consiglio dei ministri,
dichiarava di vedere nei disordini un pericolo incombente per la rinata democrazia, in quanto la
esponevano al ripetersi del «fenomeno del 1922», e di non volere un «governo imbelle... Il Facta
non lo faccio!»66. Soprattutto, cominciava ad accusare apertamente il Pci67.
Nonostante l’accentuarsi della polemica nei confronti dei comunisti continuava a prevalere, nella
classe dirigente cattolica, la convinzione che non fosse opportuno giungere a una rottura del
tripartito, in primo luogo per la mancanza di una alternativa accettabile. Lo ribadiva, ancora il 24
ottobre68, Luigi Sturzo, scrivendo che «come per ottenere la pace nel mondo non può farsi a meno
dell’intesa concorde fra i tre Grandi, così, si parva licet componere magnis, l’Italia oggi non potrà
risolvere i suoi problemi immediati senza l’intesa politica fra i tre partiti di massa» (l’ostilità al
«programma sociale della Democrazia cristiana» da parte delle destre rendeva infatti «difficile alle
classi di lavoro l’idea di una [...] collaborazione» con esse).
Le posizioni della Dc si trascinavano dunque, in quell’ultimo scorcio del ’46, nella sostanziale
contraddizione data dalla continua critica ai comunisti e, nello stesso tempo, dal ribadimento della
necessità di mantenere la formula del tripartito. Ne era stata un’altra prova evidente l’ordine del
giorno del consiglio nazionale del 22 settembre che mentre riaffermava la volontà di collaborazione
con i comunisti, «richiesta anche dalla necessità di attenuare i violenti contrasti» e dal timore delle
«gravi conseguenze interne ed internazionali di una crisi», dichiarava che «ciò non [poteva]
continuare oltre, sia per eliminare un equivoco politicamente immorale, sia e soprattutto perché
viene resa incerta, contraddittoria, e quindi inefficiente l’azione di governo nel quale più dovrebbe
essere unitaria e risoluta. Ciò tanto più in quanto tale inefficienza si presta a manovre di partiti
antidemocratici, e in quanto la linea di condotta sinora tenuta dal Partito per maniere, anche con
proprio sacrificio, l’unione nazionale, è stata nel paese interpretata come debolezza, il che potrebbe
ingenerare una posizione di menomata fiducia nei suoi confronti»; perciò si richiamavano i
comunisti «alla lealtà fin qui mancata», invitandoli «a riconsiderare il loro atteggiamento e ad
accettare a fatti il metodo democratico che esclude il ricorso ad ogni illegalismo, rendendo in un
momento non illusoria la loro collaborazione».
Le continue polemiche all’interno della coalizione governativa il permanere — nonostante i
concreti risultati della ricostruzione — di gravi difficoltà economiche, le cocenti delusioni che
venivano dai «Grandi» i quali, ignorando le promesse fatte, si preparavano ad imporre dure
condizioni di pace — specie per Trieste, incorporata in un territorio libero — screditando in tal
modo l’antifascismo italiano; tutto questo non favoriva certo la conquista alla rinata democrazia del
paese, anzi, a ben guardare, acuiva il disimpegno, la sfiducia e la diffidenza nei confronti della
politica e dei partiti di governo.
«Il febbrile malessere della Nazione» 71 era la nota più dolente della situazione dell’Italia, la cui
rinascita rischiava di porsi su basi estremamente fragili. Su quel malessere s’inseriva poi, in vasti
settori di opinione pubblica moderata, l’irritazione nei confronti del partito cattolico, accusato
apertamente di essere venuto meno agli impegni anticomunisti presi nella campagna elettorale per il
2 giugno e perciò di debolezza, se non addirittura di complicità con le violenze che agitavano il
paese.
In questi stati d’animo trovava il suo naturale campo di espansione la propaganda del Fronte
dell’Uomo Qualunque, con i consueti slogan contro l’impotenza governativa, l’ambizione dei
politicanti e la «finzione e malafede» dei partiti dell’«orribile tripartitismo» 72.
Erano le solite critiche corrosive e sarcastiche, ma questa volta Giannini stava riuscendo ad
impostare un più concreto discorso politico, nel quale la critica generalizzata e puramente negativa
veniva superata dall’indicazione di precisi bersagli e precise alternative. Questi bersagli erano il
comunismo sovvertitore e la democrazia cristiana imbelle e incapace di reagire ai suoi ricatti, non
«baluardo capace di resistere alle ondate marxiste [ma] muro che ha permesso le più pericolose
infiltrazioni»73.
L’espulsione dei socialcomunisti dal governo e la costituzione di una nuova coalizione di
centrodestra erano, nello stesso tempo, le richieste sbandierate da Giannini come l’unico mezzo per
porre fine all’anarchia che stava disgregando l’Italia:
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Cosa importa se di mese in mese l’Italia si disintegra corrosa da un processo sempre più grave di
anarchia? Cosa importa se l’incipiente inverno trova ancora una volta il paese dinanzi alle più
tremende incognite dei suoi rifornimenti? Cosa importa se tutte le diagnosi della crisi
concordemente giungono a indicarne la causa principale nella incapacità di funzionamento del
governo per le continue pressioni e i ricatti dell’elemento più attivo della coalizione, del vero
motore della nostra vita politica, il Partito comunista? De Gasperi capisce come noi, meglio di noi,
che questa è la realtà e che coi comunisti non si governa ma si aprono nuove e continue falle nella
vita nazionale; ma ha paura di trarre le conclusioni pratiche di una simile constatazione che
porterebbe la Democrazia cristiana verso nuove amicizie e nuove solidarietà e preferisce mantenere
la paralisi del governo che si riflette dannosamente sull’attività di tutto il paese 74.
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La lotta al comunismo e l’alternativa di centrodestra non erano certo richieste esclusive del Fronte,
giacché le sostenevano liberali, monarchici, ambienti industriali, vaticani, occidentali, e anche i
gruppi di destra della stessa Dc. Ma, a livello di partiti, Giannini superava tutti per l’abilità con la
quale andava propagandando le sue posizioni. Innanzitutto, c’era la travolgente efficacia della
demagogia qualunquista, con il suo costante bagaglio di disprezzo per i politicanti e con lo stile
semplice e popolare con cui il Fondatore l’andava ribadendo, riuscendo a rendersi interprete, con
maggiore efficacia delle altre opposizioni, di certi stati d’animo degli italiani.
Ma Giannini aveva compreso con chiarezza che il disprezzo per i politicanti, e il desiderio di quieto
vivere della gente di «buon senso», avevano come pendant politico non l’indifferentismo
ideologico, ma la netta propensione a credere in qualche sommo valore moderato che ponesse al
riparo, spiritualmente e materialmente, dalla nuova ondata proletaria eccitata dal socialcomunismo.
Questi valori erano, per il commediografo, il liberalismo e la fede religiosa, e su questi si preparava
a riconquistare i consensi «moderati» sfuggitigli il 2 giugno. La violenta e spregiudicata polemica
contro il neofascismo e il legittimismo aveva d’altro canto allontanato dal Fronte la taccia di partito
della destra eversiva e antidemocratica, sicché esso non trovava difficoltà a presentarsi come il
nuovo liberalismo in contrapposizione al «liberalismo antiquato» e aristocratico del Pli e come il
vero difensore del cattolicesimo in contrapposizione al «bolscevismo nero» della Dc.
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La caratteristica della politica italiana — aveva detto il 3 novembre al S. Carlo di Napoli 75 — non è
cambiata che in questo senso: s’è dimezzata del 50 per cento la tirannide che c’era prima; prima
comandavano in sei, adesso comandano in tre (applausi) [...]. Noi abbiamo creato, con l’Uomo
Qualunque, il nuovo liberalismo, quello che cammina, quello che è vivo e che non è il liberalismo
antiquato [...]. Dov’è il torto del nostro grande maestro? [Benedetto Croce] Il suo torto è quello di
aver creduto nelle élites. Egli tiene al suo partito liberale antiquato, egli è convinto che quel partito
sia una élite, egli pensa che ad onta di tutto quello che noi abbiamo fatto, costruito, realizzato, noi
siamo soltanto una folla, una folla disordinata e disorientata. Sbaglia: è una folla di milioni di
aderenti, non più la folla dei secoli scorsi [...]. Oggi [...] la folla non è più gregge, la folla ha una
volontà, una capacità, un peso politico enorme, tanto vero che socialisti e comunisti si appoggiano
sulla folla, la illudono, la incantano, la invitano a percorrere strade che portano solo alle loro
particolari fortune! E noi, noi che siamo fra questa folla, noi che ne abbiamo conquistato una
grandissima parte e che ogni giorno ne conquistiamo di più e di meglio, perché ogni giorno
vengono a noi operai di tutte le opere, lavoratori di tutte le industrie, e non soltanto intellettuali,
impiegati, artigiani, industriali, ma anche piccola, umile gente, che sente la verità e la bellezza di
quest’idea che i professori non hanno saputo diffondere con il loro linguaggio astruso, ma che noi
abbiamo saputo far entrare nel cuore di chi ci ha amorosamente ed umilmente ascoltati, noi
dovremmo andare ad inquadrarci nella comunella dei quattordici professori in cui si è racchiuso il
Partito Liberale Antiquato? Mi dispiace per il mio grande Maestro, ma io posso rispondere
solamente questo: per i liberali le iscrizioni all’Uomo Qualunque sono sempre aperte (applausi
vivissimi).
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A Roma, nel discorso del 7 novembre alla basilica di Massenzio 76, infarcito di atti di omaggio alla
Chiesa e alla «Roma Imperiale e papale» Giannini era giunto a chiedere che il primo atto del nuovo
sindaco fosse quello di andare «a prostrarsi ai piedi di Sua Santità Pio XII e ringraziarlo di quello
che ha fatto per Roma, per l’Italia e per l’umanità».
Il discorso era incentrato su una fiera requisitoria contro la Dc e sull’alternativa politica
antimarxista rappresentata dal qualunquismo. In tale contesto appariva vano e contraddittorio il
formale ribadimento dell’indifferenza nei confronti delle ideologie:
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Noi vogliamo i servizi pubblici, noi vogliamo andare in tram, noi vogliamo avere il gas, noi
vogliamo avere la luce, noi vogliamo essere serviti. Noi non facciamo storie su chi ci debba dare
l’acqua, il gas, il tram, la luce; non vogliamo sapere se queste cose ce le debba dare gente che pensa
in un modo piuttosto che in un altro, gente di destra, di sinistra o del centro. Noi vogliamo i pubblici
servizi. Che essi ci siano dati. Questo conta per noi; tutto il resto non c’importa, perché qui non si
tratta, o non si dovrebbe trattare, di fare politica, ma solo di permettere a una popolazione di quasi
due milioni d’individui di poter vivere nel miglior modo possibile, senza battersi per simboli,
simulacri, ideologie che ormai hanno per loro campo il mondo e non la ristretta cerchia di una città,
dove la gente ha diritto di vivere senza essere seccata (applausi). [...] Ma i problemi amministrativi
sono superati da quello che è il contenuto politico che si vuol dare alle elezioni nel Comune di
Roma. Io non vi dirò, come hanno detto altri, che tutto il mondo ci guarda. Il mondo ha i suoi
grattacapi come li abbiamo noi, e consentitemi di dirvi che sono molto contento di sapere che li ha,
perché se li menta (ilarità). Certo è però che il problema politico delle elezioni amministrative
romane è connesso al fatto che a Roma c’è il Papato.
C’è un partito che dovrebbe essere un partito di ordine e che invece è il partito del disordine e
dell’equivoco, il quale ha monopolizzato quella che è la Cattolicità, ossia quello che è il sentimento
religioso del 999 per mille degli italiani [...]. Caro De Gasperi, se c’è uno, se c’è un uomo, se c’è un
partito che manca ai più elementari doveri del buon cristiano e del buon cattolico, sei tu e sono i
tuoi amici (approvazioni).
La Democrazia cristiana fu eletta con i voti di una larga percentuale di italiani, fra cui moltissimi
qualunquisti che non avevano acquistato la necessaria fiducia in quello che si dice ancora fenomeno
qualunquista e che non è affatto un fenomeno perché è una germi nazione spontanea [...].
Questa grande percentuale di qualunquisti, di monarchici, di repubblicani, di gente amante
dell’ordine, ha votato per la Democrazia cristiana nella sicurezza che la Democrazia cristiana
costituisse un argine a pericolose inondazioni, e ha dato alla Democrazia cristiana un suffragio
imponente di oltre 8 milioni di voti, costituendola partito dirigente della politica italiana.
Evidentemente questo risultato la Democrazia cristiana, che ha il dovere di credere in Dio, lo ha
avuto con la protezione di Dio. Che cosa ha fatto la Democrazia cristiana di quest’arma, di questa
direzione, di questa forza che 8 e più milioni di italiani hanno messo in mano ai suoi capi? Non ha
fatto altro che compromessi, trattative, svicolando, facendo quella politica che io definii politica
della biscia, e non quello che avrebbe dovuto fare, quello per cui era stata eletta a fare: cioè a dire
assumere la direzione del Paese, assicurare l’ordine del Paese, difenderlo contro tutti e non soltanto
contro i deboli, lasciando che i forti spadroneggiassero, per non aver fastidi (applausi). La
Democrazia cristiana ha completamente mancato all’obbligo suo [...]. Invece di spettegolare su chi
è più o meno cattolico [...], invece di autorizzare mani nere con l’Uomo Qualunque sull’indice, il
nostro amico De Gasperi, se vuol davvero fare l’imitazione di Cristo, cominci a fare quello che
Cristo fece: scacci i mercanti dal Tempio (approvazioni) [...]. La Cattolicità è un fatto universale,
costituisce la più grande Internazionale che ci sia al mondo, che invano i partiti demagogicizzati
cercano di imitare [...] e da Roma questa Internazionale parte, regola e domina. E dovremmo esser
proprio noi romani a disinteressarci di questa forza, di questa potenza, permetterle di divenire
monopolio di De
Gasperi, oppure metterla da parte per il comodo di quei quattro fessoni del partitino d’azione che
fanno l’anticlericalismo di maniera dopo essere stati a mangiare la zuppa del Papa nei conventi
dove hanno trascorso il periodo clandestino? (risa, applausi) Noi abbiamo il nostro Papa e ce lo
teniamo, e lo difendiamo, e baseremo la nostra politica su questo fatto: perché oggi, che non c’è più
la monarchia in Italia, l’unico simbolo, l’unica gloria che c’è, è ancora il Papato (bene, applausi).
Che cosa vogliamo contrapporre a San Pietro, che cosa vogliamo contrapporre a questa costruzione
meravigliosa, formidabile, che ha due millenni di vita, che è il Papato, che cosa vogliamo
contrapporle? La Confederazione del Lavoro? Noi non abbiamo l’onore di avere i consigli del
Vaticano, ma vorremmo averli! Se De Gasperi ascoltasse un po’ più i consigli del Vaticano e un po’
meno quelli dei bolscevichi neri del suo partito farebbe meglio le cose e tutto andrebbe molto
meglio per lui e per il Paese.
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IMM
I risultati delle elezioni amministrative del novembre 1946 premiavano oltre ogni previsione la
strategia gianniniana, determinando un grosso sconvolgimento dei rapporti di forza tra i partiti
italiani.
Il Fronte dell’Uomo Qualunque riusciva ad ottenere buone affermazioni nei centri settentrionali,
dove la sua presenza era stata, fino a pochi mesi prima, addirittura irrisoria (9,2% e 5 seggi a La
Spezia, contro il 14,2% e i 7 seggi della Dc; 10,0% e 4 seggi a Mantova, contro il 20,2% e gli 8
seggi della Dc; 8,4% e 7 seggi a Torino, contro il 18,6% e i 15 seggi della Dc; 13,7% e 8 seggi a
Firenze, contro il 23,7% e i 15 seggi della Dc).
Ma dove il suo successo si rivelò senza esagerazione strepitoso era nel Meridione. A Palermo,
Foggia e Lecce le liste del «torchietto» erano prime in senso assoluto, così come a Bari, Catania,
Messina e Salerno (dove i qualunquisti si erano presentati insieme con liberali, monarchici,
indipendenti).
Ma anche dove il Fronte dell’Uomo Qualunque era stato superato, lo era stato da una coalizione
che, come a Roma e a Napoli, comprendeva tutti i partiti di sinistra (che avevano sperimentato con
successo la formula dei «blocchi del popolo», riuscendo a ridimensionare la pur schiacciante
egemonia del blocco moderato Dc-destre); considerando questi singolarmente, esso si rivelava il
partito più forte da Roma in giù.
Il Fronte aveva conquistato molte posizioni dei liberali e dei monarchici (e l’alleanza stessa con i
primi in diversi centri, nonostante i veti di Croce, era in fondo una conquista), ma la maggior parte
del suo bottino elettorale lo aveva sottratto alla Dc, che, rispetto al 2 giugno, subiva una vera e
propria rotta perdendo nella sola Roma circa 110.000 voti (dal 29,5% al 20,3%) e passando a Napoli
dal 23,6% al 13,5%, a Benevento dal 31,4% al 18,7%, a Salerno dal 27,0% al 17,1%, a Palermo dal
25,3% al 14,5%, a Catania dal 33,9% al 16,7%, a Bari dal 22,8% al 9,2%, a Foggia dal 40,9% al
16,9% etc. (ma anche: a Firenze dal 28,2% al 23,7%, a Torino dal 27,4% al 18,6%, a Genova dal
25,6% al 21,0%).
Ad alimentare il qualunquismo, avevano contribuito svariati motivi e ceti sociali, giacché esso
aveva attratto, ancora una volta, il generico e anarcoide scontento, la rabbia dei reduci disoccupati e
la disperazione del popolino semianalfabeta ammassato, in condizioni di estrema precarietà, nelle
città della Campania, della Puglia, della Sicilia. Ma (e questa volta in modo lampante) esso era
stato, prima di tutto, una rivolta dei moderati, una protesta in massa dei ceti medi italiani contro il
partito cattolico. Si era illusa, la classe dirigente democristiana, di essere a capo di un «blocco
progressivo», e, nel nome di un mondo che vedeva andare decisamente a sinistra, aveva ritenuto di
dover dare più importanza agli ideali di rinnovamento che alle «cautele» anticomuniste, anzi si era
ridotta, per salvaguardare la propria vocazione sociale, a scongiurare i socialcomunisti di essere più
«leali».
Ora la realtà le indicava un mondo che andava a destra, e non a sinistra, un blocco che non era
«progressivo», non lo era mai stato, e glielo indicava attraverso il dilagare di quello che era stato
considerato un fenomeno contingente e tutto sommato trascurabile.
Il qualunquismo offriva appunto, in quel novembre ’46, una radiografia del vero habitus mentale e
politico dei ceti medi dopo il fascismo: e Giannini aveva dimostrato che la «sua gente», se non
costituiva la stragrande maggioranza del paese, ne era certo una parte cospicua, quella moderata,
perdendo la quale partiti come la Democrazia cristiana si vedevano ridotti a un ruolo di semplice
minoranza.
La rivolta qualunquista era riuscita a toccare anche il Nord d’Italia, ma il suo focolaio restava a
Roma e nel Meridione, a conferma della contrapposizione tra le due Italie già emersa dai risultati
delle elezioni del 2 giugno. Stavolta, tuttavia, l’orientamento «antiprogressista» delle contrade
meridionali s’era manifestato con intensità sorprendente: la marea qualunquista era il «vento del
Sud»77, levatosi minaccioso a disperdere gli ultimi aneliti di quello del Nord. E il «vento del Sud»
sarebbe prevalso sul «vento del Nord».

IMM

L’«inattesa affermazione»78 del qualunquismo ai danni principalmente della Democrazia cristiana


era dunque il risultato più importante delle elezioni amministrative del novembre 1946.
Si tornava a discutere il fenomeno, le ragioni delle proporzioni straripanti che aveva assunto, le
incognite che si aprivano sull’avvenire politico del paese.
Gioivano gli ambienti conservatori, dalla grande stampa «indipendente» ai circoli economici ed
ecclesiastici (non era un mistero per nessuno l’appoggio dato dal clero e dall’Azione cattolica al
partito di Giannini); per essi si avvicinava l’attesa fine dell’ibrido connubio tra cattolici e marxisti e
dei timori ad esso connessi, giacché la Dc non avrebbe potuto ulteriormente ignorare l’alternativa di
potere delineatasi a destra: «Perpetuando l’attuale situazione — scriveva «Il Nuovo Giornale
d’Italia»79 — la Democrazia cristiana si assume le più gravi responsabilità, è inchiodata alla sua
croce e, a meno di un miracolo, è votata al sacrificio».
Anche tra i monarchici e i neofascisti si ostentava soddisfazione per il successo qualunquista e si
auspicava la fusione di tutti i gruppi di destra in un «solido aggregato a carattere anticomunista» 80.
Per i monarchici, naturalmente, il Fronte dell’Uomo Qualunque era stato «sostenuto esclusivamente
da voti monarchici»81, mentre per i neofascisti, in esso si era espressa la volontà di riscossa
nazionale «che non trova altri sbocchi di fronte alle inique leggi che vietano l’organizzazione di
vaste correnti politiche del paese» 82.
In realtà, se la prima affermazione aveva un qualche fondamento (ma i veri e propri legittimisti
avevano potuto liberamente votare per propri gruppi — tra i quali il più importante era il Pnm,
costituitosi dopo il referendum soprattutto ad iniziativa di Covelli), la seconda era sostanzialmente
errata. L’apporto dei nostalgici al qualunquismo, dopo le violente polemiche del commediografo,
era stato minimo, ed essi avevano alimentato per lo più l’astensionismo, manifestatosi in misura
elevata in quelle ultime elezioni. Inoltre a simpatizzare ancora per il qualunquismo potevano essere
i «fascisti moderati» 83, ma non certo quelli che, rapiti dalla loro vocazione a sinistra, si stavano
raccogliendo attorno ai movimenti promossi da giornali tipo «La Rivolta ideale», per i quali, come
si è visto, esisteva una incompatibilità assoluta con l’ideologia del «torchietto», borghese e
«panciafichista». «La Rivolta ideale» giudicherà con disprezzo il successo qualunquista, proprio
perché determinato essenzialmente da «tutti i borghesi malati della loro solita malattia, misto di
paura, egoismo conservatore, mancanza d’ideali, anticollettivismo, panciafichismo, quieto vivere»
84.

A sinistra le dimensioni macroscopiche assunte dal qualunquismo preoccupavano seriamente:


@
Il qualunquismo — si leggeva su «L’Italia libera» — è, come ogni malattia organica, una cosa seria.
Non bisogna sottovalutarlo. È un male che attesta una forte deficienza nello sviluppo politico del
nostro Paese; ma esiste e bisognerà fare i conti con esso come con altri postumi dell’infezione
fascista85.
@@@
Ma quell’ambiguo «fare i conti» non significava, ancora una volta, volontà di comprendere e di
impostare una terapia per curare la malattia. Certo era maturata la convinzione che il fenomeno non
potesse identificarsi semplicemente con un tentativo di reviviscenza fascista, ma lo si condannava
egualmente, con durezza e senza appello, per il suo contenuto reazionario: «Man mano che le classi
conservatrici perdono il loro pudore — scriveva Γ«Avanti!» il 12 novembre ’46 86 — passano
sempre più decisamente dalla parte della reazione».
Il qualunquismo era dunque «divenuto ormai qualcosa di più di un generico malcontento, [era
divenuto] la espressione politica di ceti e di interessi sociali che all’indomani del 25 luglio ’43 e del
4 giugno ’44 andarono sommersi nel crollo fascista» 87. Quali erano questi ceti? «Gli agrari di
Puglia e di Campania, i borghesucci delusi ed arrabbiati di Napoli e di Roma» 88. A Roma, in
particolare, il «torchietto» aveva tratto a sé «i borsari neri», i «commendatori già epurati e poi
rientrati, le amiche dei militari alleati e i trafficanti di valuta e di automezzi», i quali avevano
«ritenuto di negare questa volta i loro voti al partito dello scudetto, ingannati dalla ipocrita
attestazione di fede cattolica fatta dall’U. Q.»
Non si ignorava certo, da parte socialista, la protesta dei moderati che costituiva il significato più
importante del qualunquismo, ma, in realtà, non si faceva che inveire contro di essi senza altre
prospettive politiche se non quelle di un ulteriore irrigidimento del loro antisocialismo — a
vantaggio dei gruppi di potere che se ne servivano come massa di manovra:
@
Questa classe vilissima fra le vili — scriveva appunto Nenni sull’«Avanti!» riferendosi ai
moderati90 — appena capace di un certo sadismo crudele (che è anch’esso segno di viltà) quando
un Mussolini o un Hitler ne salvaguardano le comode digestioni [...]. Or capita che i moderati
possono anche essere numerosi, quindi forti, potenti mai. Potenti sono sempre nella storia i pionieri,
della borghesia due secoli fa, dell’imperialismo a mezzo dell’Ottocento, del proletariato dal 1917 in
poi [!].
@@@
Diversa la posizione comunista. Non mancavano, anche dopo le elezioni del novembre, i soliti
schematismi nel giudicare il qualunquismo «espressione di gruppi di profittatori fascisti, di grandi
proprietari di terra e di grandi capitalisti» e i suoi dirigenti «agenti della reazione» 91, ma si faceva
contemporaneamente strada l’idea che nei confronti della sua base di massa, cioè dei ceti medi,
occorresse senz’altro uscire dalla condanna indiscriminata, e dispiegare invece un’azione tesa al
loro «recupero».
Il dialogo di Togliatti con Giannini, mentre le altre sinistre mantenevano la loro condanna senza
appello del qualunquismo, era vicino:
@@@
Questo successo non deve essere sottovalutato. Esso dimostra che molta gente, anche onesta, anche
in buona fede, spinta dalla miseria e dalla disperazione, può facilmente cadere in braccio alla
reazione. Esso dimostra inoltre che lo Stato repubblicano e i partiti democratici debbono rimanere
vigilanti, non illudersi che il pericolo fascista sia per sempre scomparso e debbono, soprattutto,
andare incontro con spirito fraterno, con un senso di solidarietà nazionale ed umana, alle grandi
masse di lavoratori e, in particolare, agli appartenenti ai ceti medi, per lenire le loro sofferenze,
per attenuare le loro privazioni, per far risorgere in essi la speranza e la fiducia in un avvenire
migliore, nel quadro della Repubblica, nel quadro della democrazia92.
@@@
Grande era l’amarezza nelle file liberali. Il qualunquismo si era appropriato della gloriosa bandiera
del liberalismo e con la sua irruente demagogia ne aveva sconfitto l’autentico alfiere: per il partito
di Croce, era la vittoria della quantità sulla qualità, delle masse sugli uomini eletti. A questi ultimi
sarebbe forse convenuto adeguarsi ai tempi e accogliere, secondo le pressanti richieste di Giannini,
tali masse nel proprio seno. Ma permanevano, nei settori più vicini a Croce, le pesanti riserve
espresse fin dall’inizio sul fenomeno qualunquista, e nessun calcolo elettoralistico sembrava capace
di farle cadere. «Tra il nostro liberalismo e quello qualunquista — ribadiva Panfilo Gentile il 20
novembre 1946 93 — esistono distanze notevoli, che legittimano pienamente le riserve che i liberali,
da Giannini definiti antiquati, credono di dover mantenere verso il qualunquismo». Queste riserve si
riferivano alla «temperie di enfasi, di iperbole, di ingiustizia, di violenza sia pure solo verbale, di
dissennatezza, di leggerezza, di demagogia» proprie del qualunquismo, ma, soprattutto,
all’impostazione di fondo della sua opposizione: «Esiste opposizione e opposizione. L’opposizione
di Giannini non può essere la nostra, perché essa ha preso le mosse da un’equiparazione
inammissibile tra l’autentica tirannia fascista e la supposta esarchica e triarchica, e cioè tra un
passato abominevole e un presente certo censurabile [...] ma che non può essere parificato alla
vergogna fascista senza ingiuria agli uomini e senza pericolo per la democrazia». Inoltre, la
funzione del Partito liberale doveva continuare ad essere «rivolta alla preparazione di élites
coscienti oggi più necessaria della lenta penetrazione nelle ‘ masse ’, cui intendiamo in ogni caso
rivolgere sempre la parola della ragione e mai quella della facile e menzognera demagogia» 94.
Nessuna possibilità esisteva dunque, per Gentile, che il successo qualunquista inducesse i liberali a
rivedere la precedente avversione al progetto di una fusione: il Pli preferiva restare un partito di
esigua minoranza e assistere alla conquista dello Stato di cui aveva guidato per generazioni le sorti
da parte delle masse, cattoliche comuniste o qualunquiste che fossero, e dei partiti che le
rappresentavano, ma mai avrebbe accettato, per contrastare tale conquista, di divenire anch’esso un
partito di «masse».
Le reazioni più importanti ai risultati delle amministrative del novembre furono naturalmente quelle
della Dc, la grande sconfitta. I risultati indicavano infatti il profondo disaccordo tra la classe
dirigente del partito cattolico e parte notevole della sua base del 2 giugno 1946, chiaramente
orientata su posizioni moderato-conservatrici e perciò facile preda della propaganda qualunquista.
La delusione nelle file democristiane era stata cocente. Si rendeva ben conto dei motivi della
pesante sconfitta Giuseppe Cappi, in un articolo sul «Popolo» del 14 novembre dal titolo
Chiarificazione:
@
Il significato delle recenti elezioni è lampante: una parte di quegli elettori che il 2 giugno avevano
votato per la Dc ha ora votato per le formazioni di destra. Con ciò è sparito quel certo equivoco che
si annidava nella vittoria del giugno. Allora molti elementi conservatori avevano appoggiato la Dc
perché vedevano in essa l’argine più forte contro la temuta marea rossa [...]. Essi dimenticarono
semplicemente che la Dc ha un suo programma, il quale, lungi dall’avere uno scopo negativo, ha un
suo lato positivo, arditamente innovatore nel campo economico e sociale. La Dc lo aveva
apertamente propugnato. Credevano questi elementi che si trattasse di uno specchietto elettorale? Il
contegno del partito dopo le elezioni li ha delusi ed irritati.
@@@
Giannini aveva «praticamente costituito — come scriveva «Popolo e libertà», settimanale della
Dc95 — un fronte di difesa degli agrari pugliesi», accresciuto dagli scontenti e dai timorosi di una
«politica sociale troppo audace («se hanno orrore del collettivismo comunista non amano certo il
programma sociale della Dc e si strappano i capelli pensando al loro De Gasperi» 96); un fronte che
aveva decisamente ridimensionato la forza elettorale della Dc, e che imponeva ai suoi leader
l’elaborazione di una politica tendente, ancora una volta, a recuperare il dissenso moderato
espressosi nel qualunquismo. È vero che Cappi invitava solennemente a «restare saldi sul nostro
programma» e, rispondendo all'aut-aut di Giannini 97, scriveva: «Se perderemo o no terreno, lo dirà
l’avvenire. Se le riforme sociali, ispirate alla scuola cristiana, e la volontà democratica,
costituiscono il bolscevismo nero, non sappiamo che farci. Sappiamo che esse costituiscono la
democrazia cristiana»; ma simili riaffermazioni di fedeltà agli ideali di rinnovamento che
costituivano la genuina essenza del programma dei cattolici apparivano più che altro il frutto di
un’impennata d’orgoglio. In realtà, all’interno della Dc si andava svolgendo un vero e proprio
processo al tripartito, che non era stato, affermava Piccioni sul «Popolo» 98, «una coalizione, non
[era stato] una collaborazione, ma una ‘ coabitazione forzata ’ e, ciò che è peggio, intenzionale, cioè
tesa non ad eliminare o attutire i disagi, ma ad accentuarli». La slealtà e la mancanza di
collaborazione da parte dei socialcomunisti avevano fatto sì che il paese scambiasse «per debolezza
la pazienza, per incapacità la ricerca costante di una risultante utile per il paese, per impotenza la
difficoltà di funzionamento del metodo democratico». D’altro canto Sturzo affermava: «oggi le
azioni del partito della Democrazia cristiana sono in ribasso, e il panico si è sviluppato a destra,
perché si è diffusa la convinzione che la Democrazia cristiana non si difende dal comunismo» 99: la
Dc era ormai considerata dalle fameliche destre, secondo l’anziano leader del Partito popolare, una
«eredità giacente».
I sogni di egemonia del partito cattolico sembravano infrangersi sullo scoglio del responso popolare
che minacciava, rimanendo immutata la situazione politica, di relegare la Dc a un ruolo di
minoranza, sia pure cospicua, simile a quello svolto dal Partito popolare nell’Italia liberale. E se a
tale ruolo aveva dichiarato di volersi rassegnare il Cappi, pur di non far perdere al partito la propria
vocazione sociale100, la necessità di recuperare, a tutti i costi, i dissensi moderati del novembre, per
restituire alla Dc la posizione di più forte partito politico italiano, dominava i pensieri della maggior
parte dei suoi leader. Per far ciò non esisteva altra via che quella del ripudio del connubio
marxismo-cristianesimo, ripudio chiesto ormai a gran voce, all’interno stesso del partito, dai gruppi
di destra, organizzatisi ufficialmente in Centro democristiano di studi politici (la nuova corrente,
capeggiata dall’on. Dominedò, sosteneva la rottura con il Pci e l’uscita dei cattolici dalla Cgil e si
dichiarava «sul terreno politico [...] per la libertà contro il totalitarismo [...] sul terreno economico
per l’iniziativa contro lo statalismo», proclamando che occorreva «impegnarsi su questa via pronti a
tutto per la difesa del primato dello spirito nell’urto immane fra due concezioni che stanno per la
libertà o contro la libertà, per Cristo o contro Cristo» 101).
Significativo del nuovo clima che andava maturando all’interno della Democrazia cristiana era
intanto il rifiuto di questa a collaborare con il Blocco del Popolo all’amministrazione del comune di
Roma: non si era ancora alla svolta auspicata dalle destre, ma senza dubbio questa decisione
indicava la volontà, se non il proposito immediato, di sconfessare il tripartito anche a livello
governativo 102.
Alla rottura del tripartito contribuirà anche la situazione internazionale, ma la sua irreversibile crisi
era già stata decretata dalle elezioni del novembre ’46, dalle masse dei ceti medi che non credevano
alla «democrazia progressiva» di Togliatti e continuavano a temere il comunismo e ad esigere
l’ordine.
A ben vedere, perciò, si era avuto un preannunzio del più vasto referendum anticomunista del 18
aprile 1948, e ad uscirne sconfitta non era stata tanto la Democrazia cristiana, che riuscirà a
recuperare abbondantemente le perdite subite, quanto il blocco delle sinistre, che sarà costretto ad
assistere impotente all’involuzione a destra della situazione politica italiana come conseguenza,
principalmente, della volontà del paese nel quale aveva invece sperato per capovolgere la tendenza
manifestatasi nel dicembre del 1945 con la caduta del governo Parri. La vasta diffusione
dell’anticomunismo confermava gli errori compiuti da socialisti e azionisti, che si erano troppo
spesso lasciati andare al massimalismo verboso, e la sostanziale inefficacia della politica comunista
che, nonostante gli sforzi di Togliatti — ostacolati in primo luogo dalla base — non era riuscita a
penetrare nella misura sperata nell’opinione pubblica e a conservare la fiducia degli alleati di
governo cattolici, l’accordo con i quali avrebbe dovuto costituire l'«asse» 103 della repubblica
italiana. In questo contesto, a nulla valeva il successo, del resto relativo, ottenuto dalle sinistre con
la formula dei blocchi popolari, tanto più che su di esso venivano impostate prospettive che
servivano solo ad accrescere i timori dei «moderati» 104.

La denominazione di Fronte democratico liberale dell’Uomo Qualunque.


«Noi soli abbiamo vinto!», esclamava Giannini all’indomani dei lusinghieri risultati elettorali 105.
L’euforia (ma questa volta pienamente legittima) lo portava a scrivete che il Fronte dell’Uomo
Qualunque era il partito «più immenso»: subito dopo sosterrà che s’era trattato di un errore del
correttore di bozze106, ma probabilmente l’errore era stato suo, dovuto all’entusiasmo che gli aveva
fatto perdere il controllo.
Nel commediografo e nella classe dirigente del Fronte maturavano i disegni più ambiziosi: avevano
presentato il qualunquismo come «l’unico movimento che non transige coll’unico, vero, grande
avversario, che non si presta a genuflessioni o a combinazioni coi comunisti» ma si trova rispetto ad
essi in «antitesi [...] assoluta; senza la possibilità di compromessi» 107, e il paese aveva mostrato di
voler effettivamente attribuire al «torchietto» quella funzione di difesa dal comunismo che la Dc
non riusciva ad assolvere. Il successo poteva quindi aumentare a dismisura.
La «lezione» del novembre riguardava le varie formazioni di destra 108, ma soprattutto, la
Democrazia cristiana:
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La Democrazia cristiana [...] paga il fio delle sue incoerenze e delle sue debolezze. [Essa] avrebbe
potuto conservare in gran parte il suo prestigio ove avesse tenuto fede a quello che era Finequivoco
mandato dei suoi elettori: la restaurazione, dopo due anni di governo esarchiale, dell’autorità dello
Stato sempre più avvilita nei compromessi. E poiché era evidente che i comunisti erano la
principale causa di disordine e di impotenza, bisognava rompere la collaborazione coi comunisti.
I capi democristiani non hanno avuto tale coraggio morale ed oggi il loro partito ne sconta le
conseguenze. Con 207 deputati De Gasperi poteva ben costituire un governo omogeneo e non
mettersi da sé in posizione di minoranza verso i social-comunisti; ma occorreva energia e spirito
d’iniziativa che non sono doti del presidente del Consiglio, il quale ancor oggi si trastulla con rinvìi
e compromessi.
Oggi la Democrazia cristiana dovrebbe capire che c’è una destra e che potrebbe esercitare la
funzione, che sempre proclama, di partito di centro; invece preferisce ricevere i calci nel sedere da
Togliatti e rilasciarne regolare ricevuta. Altri sei mesi di ricatti comunisti e la Democrazia cristiana
si sarà definitivamente logorata: l'unico argine per contenere la pressione comunista sarà il Fronte
dell’Uomo Qualunque. Dobbiamo prepararci per la grande prova 109.
@@@
Il trionfo elettorale del novembre ’46 rilanciava dunque le velleità governative del qualunquismo.
Giannini riproponeva la candidatura del suo partito come nuovo alleato della Dc, e lo faceva in
termini ricattatori, chiedendo innanzitutto che il nuovo sindaco di Roma venisse dalle file
qualunquiste:
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O la Democrazia cristiana si deciderà ad allinearsi con l’uomo qualunque rinunciando al suo
irrealizzabile bolscevismo nero, o perderà sempre più terreno, e nelle prossime elezioni politiche
sarà irrimediabilmente travolta [...]. Per colpa dei loro non arditi strateghi i democristiani si trovano
con le spalle al muro e tra una minestra e una finestra. Bisogna che si decidano 110.
@@@
Alla perentoria alternativa di Giannini aveva, come visto, prontamente ed orgogliosamente risposto
Cappi. Che il partito di De Gasperi si stesse muovendo verso il ripudio del tripartito era confermato
dalle vicende dell’amministrazione capitolina, ma questa chiusura a sinistra non implicava una
parallela chiara apertura a destra. La Dc si muoveva con cautela, le remore a una netta svolta
politica erano ancora forti. La proposta dei cattolici per il governo di Roma era quella di una
soluzione amministrativa proporzionale, alla quale cioè partecipassero tutti i gruppi, dai comunisti
ai qualunquisti.
Il rifiuto del Blocco del Popolo ad aderire ad una simile soluzione induceva però Pli dicembre 1946
il democristiano Rebecchini, eletto sindaco da una maggioranza di centro-destra (Dc, qualunquisti,
liberali, monarchici) a dimettersi dalla sua carica: la Dc preferiva il commissario prefettizio a una
soluzione decisamente impostata a destra. Di lì a meno di un anno le riserve sulla collaborazione
con il Fronte dell’Uomo Qualunque sarebbero cadute, e al governo della città eterna contribuiranno
ben quattro assessori qualunquisti. Ma verso questa svolta la Dc si stava muovendo lentamente: per
il momento aveva respinto l’alleanza richiesta in termini non certo diplomatici da Giannini.
Per il commediografo era stata una decisione esasperante. Da mesi egli premeva per un’alleanza
con il partito cattolico 111, ed ora che la situazione italiana sembrava imporla, s’imbatteva in un
ennesimo rifiuto. In realtà, la Dc si preparava a una dura controffensiva nei confronti di quel
parvenu della politica che, privo di solide basi culturali e di una seria tradizione di pensiero, era
riuscito egualmente a mettere in forse i sogni di egemonia dei cattolici.
Appena un giorno dopo le dimissioni di Rebecchini, nelle quali si concretizzava il no dei
democristiani ad «allinearsi» con l’Uomo Qualunque, Giannini doveva subire quello del Partito
liberale. Il 12 dicembre, infatti, la direzione nazionale del Pli respingeva con 15 voti contro 13 (e
due astensioni) un ordine del giorno che Selvaggi aveva presentato a favore della fusione con
l’UQ112.
Selvaggi e altri esponenti dell’ex Pdi si dimettevano subito dal Partito liberale per aderire al Fronte
ma il loro gesto non era sufficiente a bilanciare il significato negativo della sentenza «ufficiale» del
partito di Croce, per il quale il rifiuto alla fusione con l’UQ voleva essere innanzitutto «un logico
rifiuto alla confusione»113.
Ma Giannini, che voleva uscire a tutti i costi dal ghetto morale e politico, ed entrare nella «stanza
dei bottoni» per dare attuazione alla «rivoluzione qualunquista», andava meditando qualcosa di
clamoroso, che costringesse le altre forze politiche, e la Dc in particolare, ad accettare il ruolo di
primus inter pares del qualunquismo.
Per prima cosa decise di aggiungere al suo partito l’etichetta di «liberale», della quale il Pli si era
mostrato tanto geloso, e quella di «democratico»: comunicava questa sua proposta all’assemblea
straordinaria dei dirigenti del Fronte, composta dai deputati e dai capi delle unioni regionali e dei
centri provinciali, convocata per i giorni 13 e 14 dicembre (per sanzionare, evidentemente, l’attesa
— ma poi svanita — fusione con il Pli). Buona parte del suo discorso venne dedicata al pericolo
costituito dalla permanenza nelle file qualunquiste di elementi «nostalgici» che screditavano il
Fronte, legittimando in qualche modo l’accusa di fascismo ad esso rivolta. Aveva parlato perfino di
un progetto di scioglimento del partito sotto l’imputazione di ricostituzione del partito fascista,
imputazione che si basava appunto sull’attività di elementi «provocatori» 114.
Che Giannini esagerasse il pericolo interno rappresentato dai neofascisti e, soprattutto, la pretesa
minaccia di scioglimento del Fronte appariva chiaro dalle stesse parole con cui aveva giustificato la
convocazione di quell’assemblea straordinaria. Egli aveva voluto una manifestazione «eccezionale»
115 che ribadisse solennemente l’opposizione al fascismo del qualunquismo e che ne consacrasse la
scelta liberale e democratica. Visto l’atteggiamento del Pli, tale scelta doveva essere scolpita nel
nome stesso del Fronte. Lo scopo era quello di far crollare ogni dubbio sulla natura del
qualunquismo, ed ogni remora alla sua credibilità di leale alleato di governo.
La sua proposta fu accolta con 92 voti favorevoli e 45 contrari (3 gli astenuti): qualcuno aveva
dichiarato di voler rimanere fedele al vecchio nome, ad altri non andava quel «liberale» che faceva
pensare a un partito in netto declino; altri, infine, come Patrissi, avevano proposto, in coerenza con
la vaga tendenza a sinistra del proprio nazionalismo, la denominazione di Fronte socialdemocratico
dell’Uomo Qualunque116.
Si era in questa occasione manifestato, dunque, un rilevante dissenso dalle decisioni del Fondatore,
che non si limitava, come vedremo, a questioni formali come quella del nome del partito, ma era
alimentato da rivalità personali e insofferenza per alcune posizioni ideologiche di Giannini: il
dialogo Giannini-Togliatti avrebbe accentuato il dissenso, fino a farlo sconfinare nell’aperta
secessione.

Il dialogo Giannini-Togliatti.
Dopo l’ennesimo «gran rifiuto» dei liberali e la ribadita ostilità dei cattolici agli inviti alla
collaborazione, Giannini sembrava voler dimostrare che il Fronte dell’Uomo Qualunque aveva
un’altra strada per realizzare l’ambizioso disegno di divenire un partito di governo, quella
dell’intesa con il Partito comunista. Il commediografo prospettava la spregiudicata ipotesi in
un’intervista all’Ansa del 19 dicembre ’46 117, nella quale dichiarava che esistevano due sole idee
politiche, quella liberale e quella totalitaria; che la questione sociale — il solo problema che
realmente travagliasse il mondo — non poteva essere risolta che dall’una o dall’altra; che un
conflitto tra comunismo e qualunquismo (che rappresentavano la vera incarnazione del totalitarismo
e del liberalismo) avrebbe portato al totalitarismo la forza superstite («anche se questa fosse il
qualunquismo antitotalitario»), e che era quindi sua «convinzione e speranza» che fosse possibile
«trovare un punto d’incontro sul quale iniziare una utile collaborazione qual è quella che, fra gente
civile, si concreta nel fronteggiarsi fecondo di due grandi e oneste correnti politiche. Per vincere la
difficoltà, e diciamo pure la diffidenza, il qualunquismo ha proposto lo ‘ Stato amministrativo ’ a
poteri divisi e indipendenti [...] nel quale tutti gli esperimenti sono possibili. I comunisti a loro volta
si proclamano ‘ democratici progressivi ’. A mio parere né la democrazia né il progresso dovrebbero
opporsi al trionfo del buon senso e della ragionevolezza. Comunque non vi ci opponiamo noi».
Quell’invito, proveniente dal leader di un partito che aveva basato le proprie fortune elettorali sulla
contrapposizione intransigente al comunismo, appariva subito assurdo.
Senza dubbio, Giannini era stato spinto a quella sconcertante iniziativa dal desiderio di rendere più
pesante il ricatto alla Democrazia cristiana, facendole intendere che, se non si decideva all’alleanza
con il qualunquismo, quest’ultimo sarebbe giunto al potere insieme con i comunisti, passando sul
suo cadavere. E, almeno teoricamente, le possibilità di successo di una simile alternativa politica
esistevano, giacché si calcolava che, ripetendo alle nuove elezioni politiche il successo del
novembre ’46, il Fronte dell’Uomo Qualunque avrebbe ottenuto oltre cento deputati, i quali, uniti a
quelli socialcomunisti, avrebbero dominato il parlamento (anche nella Costituente, del resto, come
si vedrà, nell’ottobre ’47, la confluenza dei qualunquisti con le sinistre avrebbe potuto sconfiggere
la Dc e il governo). Ma, molto probabilmente, non era soltanto questione di ricatti alla Dc.
Giannini credeva davvero nella possibilità di giungere ad una specie di bipartito Pci-UQ:
impressionato dall’esito delle elezioni del novembre ’46, li considerava come i veri, grandi partiti
italiani (in effetti, nell’elettorato s’era manifestata la tendenza a rafforzare a destra il qualunquismo,
a sinistra il comunismo). Rifaceva la sua comparsa il qualunquismo «puro» di Giannini come
indifferenza di fondo per le pregiudiziali ideologiche: voleva giungere comunque al governo del
paese e, nel suo cieco empirismo (quello che, dopo la caduta di Mussolini, lo aveva fatto girovagare
per Roma alla ricerca di un partito, quale che fosse, per soddisfare il proprio desiderio di azione),
non badava al colore dei suoi potenziali alleati.
L’incompatibilità con il comunismo ostentata nel corso della campagna elettorale sembrava ora
diluirsi: lo Stato amministrativo, come si è visto, era realmente una formula capace di accogliere
tutti gli esperimenti, quindi anche quello comunista, e nell’affermarlo il teorico del «liberalismo
progredito» confermava la vuotezza delle sue teorie. Già all’indomani della vittoria del novembre,
mentre in un’intervista era tornato a dichiarare che il qualunquismo non andava «né a destra, né a
sinistra, ma avanti» 118, sul «Buonsenso» aveva scritto 119: «Il qualunquismo coincide col
comunismo in molti punti, mentre in moltissimi altri lo sopravanza». Qualche mese più tardi lo
definirà «un partito di extrasinistra, che va al di là del comunismo, oltre il comunismo» 120.
Quali che fossero le motivazioni delle profferte gianniniane (dietro le quali ben presto si potrà
scorgere, in ultima analisi, un ritorno di fiamma del suo «sincero, disinteressato, convinto
filocomunismo» degli anni ’44-45), Togliatti non era certo il tipo da lasciarle cadere nel vuoto,
giacché esse venivano proprio dal simbolo dell’anticomunismo 121. Inoltre, dopo il successo
strepitoso del «torchietto» nelle amministrative del novembre ’46, era diffusa una certa tendenza a
giudicare con animo più aperto quel fenomeno divenuto veramente di massa, a comprendere le
ragioni di scontento dei ceti medi che ne costituiva l’essenza, a dispiegare un’azione di recupero di
essi:
@
È necessario renderci noi stessi interpreti del malcontento, della esasperazione — spesse volte in
tutto o in parte giustificati — di molti italiani, facendo nostre le loro proteste e le loro rivendicazioni
ed operando, con ferma volontà e tenacia, per far sì che questi motivi di malcontento e di
esasperazione spariscano, con il miglioramento della situazione italiana e, in particolare, con il
miglioramento delle condizioni degli appartenenti ai ceti medi che costituiscono, come è noto, la
maggior parte degli aderenti e degli elettori del Fronte dell’UQ 122.
@@@
Togliatti portava alle estreme conseguenze quella tendenza, accettando il dialogo propostogli da
Giannini, e nel far ciò superava resistenze e schematismi di alcuni settori del suo stesso partito 123:
@
Qualcuno mi ha detto che a Guglielmo Giannini, per l’ipotesi di collaborazione ch’egli ha avanzato
tra il movimento da lui diretto e il Partito comunista, non vale la pena di rispondere, perché l’ipotesi
non è seria, perché viene avanzata soltanto a scopo di propaganda, perché il qualunquismo è
movimento qualificatamente reazionario e di tipo fascista, perché si tratta d’un commediografo e
non d’un uomo politico. Non mi è parso, però, che tutti questi argomenti, e tutti gli altri che ancora
si potrebbero scoprire, siano pertinenti.
@@@
Il leader comunista mostrava di possedere una perspicacia notevole, assente in troppi uomini di
sinistra: comprendeva con chiarezza che nel qualunquismo si manifestava una rivolta dei ceti medi,
simile nella sostanza, se non nella forma, a quella che, nel primo dopoguerra, era stata abilmente
strumentalizzata dal fascismo per consolidare la propria egemonia; ora c’era il rischio che questi
ceti fossero ancora usati come massa di manovra, se non da un nuovo fascismo, dalle forze
conservatrici del paese allo scopo di ristabilire il proprio predominio nella società italiana contro i
partiti di sinistra: poteva insomma ripetersi — e in effetti si stava ripetendo — la vecchia storia, che
aveva visto i ceti medi ributtarsi a destra per timore del sovversivismo delle sinistre, con grave
pregiudizio per l’avvenire democratico e progressista della nazione.
Togliatti vedeva nell’invito alla collaborazione di Giannini la possibilità di penetrazione in settori
sociali fino ad allora preclusi al comunismo (e più in generale, per la loro miopia strategica,
all’insieme delle sinistre), ed era logico che ne approfittasse: non era forse il teorico del «partito
nuovo», il fautore della collaborazione con i partiti borghesi, lo stratega della conquista alle idee
«moderate» del Pci di quanto più vasti ambienti fosse possibile?
@
Alcuni rimproveri — dirà ancora, nell’ottobre ’47, all’Assemblea costituente 124 — sono stati fatti a
noi, a me personalmente, accusandoci non so se di eccessiva simpatia per questo partito o di una
tendenza a determinati accordi con esso. Si è persino parlato di patti. Onorevole Giannini, ella sa
perfettamente che questi patti non esistono. Però è verissimo che noi, nei confronti del Partito
qualunquista, abbiamo seguito e seguiamo una politica determinata, la quale non può in nessun
modo ridursi a una ingiuria o a una serie di male parole. No, per noi lo sviluppo del Partito
qualunquista è un fenomeno che studiamo con attenzione e di fronte al quale sentiamo il dovere
come democratici e nell’interesse della democrazia italiana di reagire in un determinato modo.
Riteniamo che se nel 1919-20, quando gruppi all’inizio, e poi masse di piccola borghesia, presero
orientamenti analoghi a quelli che prendono oggi determinati gruppi della stessa natura sociale che
seguono il qualunquismo, orientamenti che poi vennero sfruttati dal partito fascista agli scopi della
sua politica reazionaria, crediamo che se allora vi fosse stata nella democrazia italiana la capacità di
comprendere a tempo questo fenomeno e di riparare facendo fronte ad esso, forse lo sviluppo del
fascismo sarebbe stato meno facile.
@@@
Togliatti impartiva dunque lezioni di storia e di politica ai suoi avversari e, soprattutto, ai suoi
«colleghi» di sinistra: l’iniziativa di Giannini offriva la possibilità di sottrarre in qualche modo alla
strumentalizzazione dei circoli reazionari parte dei ceti medi (funzione questa che non era riuscito
ad assolvere il Partito d’azione), e costituiva soltanto mancanza di realismo rigettarla in nome di
schematiche condanne:
@
Il periodo che viviamo è di grave sconvolgimento sociale, politico, morale. Volete pretendere che in
un periodo simile tutto si svolga, nel campo della politica, e soprattutto per quanto riguarda gli
schieramenti delle masse lavoratrici e dei disorientati ceti medi, in modo regolare, secondo le norme
prestabilite, senza scarti, senza che si producano fenomeni impreveduti, paradossali e persino
grotteschi? E soprattutto, volete pretendere che in un periodo simile i movimenti politici di rilievo si
producano allo stato puro, tutti di natura omogenea, tutti reazionari o tutti progressivi, dal capo alla
coda, secondo la qualifica che voi loro avrete data o secondo la natura del gruppo che prevale alla
loro sommità? Avrete preteso l’impossibile e finirete come i poveri liberali, abilissimi
nell’acchiappare idee eterne nella rete come si acchiappano le farfallette nei prati, e incapaci di
comprendere un’acca della realtà.
Il movimento dell’«Uomo Qualunque», a parte le sue formule politiche generali, a cui pure
dedicheremo qualche parola, si è presentato sin dall’inizio, per quello che riguarda la sua direzione,
come una corrente conseguentemente antidemocratica e soprattutto conseguentemente
anticomunista. Antidemocratico è stato sinora l’U.Q. perché in modo conseguente si è sforzato di
screditare quel poco di democrazia che dopo il crollo del fascismo eravamo riusciti a riconquistarci
[...]. Antidemocratico è stato ed è l’U.Q. perché là dove conta qualcosa, — in Puglia, per esempio
—, alla sua testa si trovano uomini e gruppi nettamente reazionari, nemici del benessere dei
lavoratori, nemici del progresso delle loro stesse regioni, legati a forme arretrate di organizzazione
sociale e di governo, e perché la stessa cosa tende a prodursi un po’ dappertutto, a Napoli coi capi
della camorra (che nessuno vorrà pretendere essere forza progressiva), in Sicilia coi latifondisti, a
Roma con l’ala più reazionaria della Curia romana, etc. etc. Più ancora che antidemocratico, però,
l’U.Q. è stato sinora anticomunista, per le vane campagne di calunnia condotte contro di noi, e poi,
soprattutto, perché su questa strada lo hanno spinto quei gruppi reazionari di cui sopra, e gli ex
fascisti ancora fascisti che affollano i suoi quadri. Ma il movimento dell’U.Q. è lungi dall’essere
cosa omogenea, e a renderlo eterogeneo hanno contribuito non poco le sue campagne
antidemocratiche, per alimentar le quali la direzione del movimento ha favorito, sollecitato,
incorporato, ogni sorta di malcontento e di malcontenti. In queste condizioni, il fatto che il dirigente
dell’U.Q. presenti all’opinione pubblica, seriamente, un’ipotesi di collaborazione con i comunisti, è
cosa che grandemente ci deve interessare, se non altro perché significa che per lo meno una parte di
coloro che si raccolgono in questo movimento e attorno ad esso non sono anticomunisti, o almeno,
se lo sono stati, l’esperienza sta loro facendo cambiare opinione e posizione nei nostri confronti. E
siccome noi pensiamo che l’anticomunismo è forse il nemico principale, nell’ora presente, della
nostra democrazia, commetteremmo un ben grave errore se non ci comportassimo in modo da
favorire, da accelerare, da estendere questa resipiscenza. Bisogna, per questo, discutere punto per
punto il programma dell’U.Q.? Non credo servirebbe molto. Forse servirebbe solo ad accrescere la
confusione. Prendete, ad esempio, la formula dello Stato amministrativo.
Che cosa può mai significare questa formula?
Presa alla lettera e interpretata scientificamente, questa formula è comunista pura. Uno «Stato
amministrativo» non è altro che quel «governo delle cose», di cui parlarono alcuni dei classici del
marxismo come del termine a cui tende la trasformazione socialista della società. Ma se per
amministrazione si intende l’attuale sistema dei funzionari dello Stato italiano, dai prefetti ai
marescialli dei carabinieri, allora è un disastro! [...] Se attraverso una discussione onesta e leale
avverrà che molti odierni seguaci dell’U.Q. si convinceranno che noi comunisti, che mai ci siamo
creduti e mai ci crederemo infallibili, lavoriamo e lottiamo sinceramente e con tenacia per
l’interesse dei lavoratori e per il bene del Paese, ebbene, sarà tanto di guadagnato. Avremo per lo
meno impedito che, nell’interesse dei soliti nemici della Nazione italiana e del suo progresso, della
gente in buona fede venga ancora una volta trascinata a occhi chiusi in una via che potrebbe esser
quella della sua rovina e della rovina per tutti125.
@@@
Era chiaro che per Togliatti la conclusione del dialogo con Giannini non poteva portare che alla
«resipiscenza» dei qualunquisti, all’abbandono cioè delle loro posizioni anticomuniste: il leader
comunista lo poneva come punto fermo della sua accettazione del dialogo stesso.
Giannini replicava con articoli-fiume, nei quali non riusciva a nascondere la gioia di essere asceso
al limbo degli interlocutori di una personalità così importante. Nella cordialità con la quale si
rivolgeva a Togliatti (che definirà «un galantuomo e un uomo di cuore e d’intelletto» 126) c’era un
profondo sentimento di rivalsa umana: tutti lo avevano ignorato, offeso, o, peggio, trattato con
ironia e degnazione; il «comunista», invece, mostrava di prenderlo sul serio. L’istintiva gratitudine
per chi gli consentiva, per un attimo, di sentirsi realmente tra i tessitori della politica italiana,
contribuirà non poco a spingere il commediografo ad alcune ingenue concessioni all’avversario.
Non che egli giungesse a rinnegare il proprio anticomunismo, ma chiariva che la sua opposizione si
riferiva alla «forma» totalitaria assunta dal comunismo:
@
Il nostro anticomunismo è tale principalmente in quanto è antitotalitarismo. Crediamo che il
comunismo sia totalitario e che non consenta l’esistenza di una minoranza oppositrice, d’una
stampa d’opposizione: e poiché abbiamo già esperimentato questo regime politico nei ventidue anni
ch’è durato il fascismo in Italia, siamo antitotalitari e dunque anticomunisti perché il comunismo
«appare» totalitario 127.
@@@
Quanto alla sostanza, infatti, non esitava a scrivere che qualunquismo e comunismo avevano uno
«scopo comune» 128; ma, soprattutto, confermava «solennemente» l’osservazione di Togliatti, che
cioè la formula dello Stato amministrativo, nella quale si racchiudeva l’essenza della dottrina
qualunquista, altro non era che una formula «comunista pura». A questo punto il commediografo,
trascinato da una sorta di infantile orgoglio, sembrava davvero volersi buttare tra le braccia di
Togliatti:
@
Come non esser d’accordo con Togliatti in questa precisa perfetta interpretazione? La nostra umana
vanità d’improvvisati politici assapora soddisfatta questo ghiotto elogio d’un politico come Togliatti
che conosce il suo Marx e che riconosce che noi l’abbiamo letto, studiato, capito e oltrepassato:
come deve fare ogni scolaro con il maestro, altrimenti finirebbe il Mondo e si fermerebbe il
Progresso. Mentre i filosofi liberali hanno riso del nostro Stato amministrativo, mentre i ciarlatani
dell’azionismo l’hanno identificato col fascismo al quale essi, con i loro vari Calamandrei,
collaborarono fattivamente, Togliatti ci conferisce un diploma d’intelligenza e di diligenza [...]. Il
nostro Stato amministrativo «preso alla lettera e interpretato scientificamente» proprio come
Togliatti ha detto credendo forse d’azzardare un’opinione che ci avrebbe spaventati, il nostro Stato
amministrativo è precisamente quel «governo delle cose», e sia pure quel «comunismo puro a cui
tende la trasformazione socialista della società». Credeva forse, l’on. Togliatti, che noi ci fossimo
presa la «briga di riempirci di Marx e d’altri filosofoni al solo scopo di dire buffonate? Si rassicuri:
noi siamo gente enormemente seria, e quando proclamiamo che l’uomo qualunque deve vivere in
pace e liberamente senza essere seccato e senza seccare, noi enunciamo un principio politico,
un’esigenza insopprimibile dell’uomo d’oggi che ha fatto il suo esperimento liberale, il suo
esperimento socialista, il suo esperimento totalitario nero e rosso, durante il quale ha assistito al
supremo disfacimento del socialismo evolventesi in capitalismo di Stato con le socializzazioni e le
altre mostruose adunazioni di ricchezza che minacciano di rendere ancora più schiavo quel povero
schiavo ch’è sempre stato l'uomo qualunque nei millenni. A questo punto l’U.Q. si ferma, s’impunta
e dice: «Adagio, non tentate d’ingannarmi, il socialismo m’aveva promesso il governo delle cose,
ossia lo Stato amministrativo, non il Capitalismo di Stato che è altro affare. Mi si dia quanto m’è
stato promesso, non quello che vi piacerebbe impormi sia con la bolscevizzazione nazionalizzante
sia col saragattismo evanescente 129.
@@@
In tale contesto di comuni radici ideologiche e comuni obbiettivi finali, Giannini definiva quella che
stava avendo con Togliatti una «chiarificazione stupenda» 130. Egli scriveva che il comunismo era
una forza preziosa per la società, lo incitava a ripudiare decisamente alcuni schemi e idolatrie del
passato, ad accettare chiaramente il metodo democratico, a nazionalizzarsi («abbiamo udito parlare
d’un comunismo nazionale, svincolato da ogni soggezione straniera: perché non si fa?» 131): a
queste condizioni sarebbe stato davvero sfondato il «muro di ghiaccio» che separava qualunquismo
e comunismo.
Giannini aveva respinto l’accusa che il qualunquismo fosse antidemocratico e legato alla reazione,
al latifondo, alla camorra, all’«ala più reazionaria della Curia romana» e aveva invitato Togliatti a
rispondere ad una «precisa domanda»:
@
La democrazia progressiva è quella, una e indivisibile, che comporta una maggioranza che governa
e una minoranza libera di controllarla e libera, soprattutto, di agire per diventare a sua volta
maggioranza e prendere legalmente il potere [...]?
La democrazia progressiva esclude, come in Inghilterra e negli Stati Uniti d’America, come in Italia
prima del fascismo, che si possa conquistare il potere politico con la violenza? La democrazia
progressiva riconosce che il solo mezzo per conseguire il potere politico sia quello di riportare la
piena vittoria in libere elezioni? Se l’on. Togliatti risponderà affermativamente a queste domande
molte preoccupazioni e prevenzioni saranno eliminate, perché egli avrà dichiarato che la
«democrazia progressiva» non è totalitaria 132.
@@@
Il leader comunista, in verità, non aveva risposto nel modo chiaro che Giannini avrebbe desiderato.
Nell’articolo Un po' più di coraggio, apparso sull’«Unità» il 5 gennaio ’47, aveva scritto che c’era il
passato di lotta contro il fascismo e il comportamento presente a dimostrare se i comunisti stessero
dalla parte della democrazia: «Diteci per favore quanti sono i Comuni che abbiamo conquistato con
le latte di petrolio o scalando i palazzi municipali col pugnale tra i denti». A Giannini aveva chiesto,
se veramente voleva «fare un passo avanti sulla via della comprensione reciproca» di liberarsi
dell’anticomunismo:
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Discutete ciò che noi siamo e ciò che noi facciamo, e non ciò che qualcuno vorrebbe che noi
fossimo o facessimo perché ciò gli farebbe comodo. Imparate a conoscerci: ecco il passo avanti che
dovete fare ora. Il resto poi, se è possibile, verrà da sé.
@@@
Giannini rilanciava la palla a Togliatti 133: era ben disposto a liberarsi dell’anticomunismo, ma
Togliatti doveva «cessare di far paura», e lo poteva fare solo «rispondendo senza giri di frase e
complicazioni d’intelligenti arzigogoli, alle nostre precise domande»: che prova era di democraticità
la conquista di amministrazioni comunali senza latte di benzina e pugnale fra i denti?
@
Noi abbiamo fatto precisamente la stessa cosa [...]: ma ciò non è bastato a convincere l'on. Togliatti
della nostra democrazia e del nostro non totalitarismo. Perché ciò che non basta a convincere lui
dovrebbe, invece, bastare a convincere noi?
@@@
Il capo comunista accennava di nuovo a Giannini in un discorso a Firenze (10 gennaio) 134, poi, il
19 gennaio, nell’articolo sull’«Unità!» Dove vai? Porto pesci!. A Firenze aveva ribadito i
lineamenti della politica comunista, la convinzione che la ricostruzione del paese non potesse
«essere condotta o diretta da un solo partito, «ma essere opera di tutte le forze vive e
democratiche»: il Pci non intendeva «fare una politica ristretta di classe, ma un’ampia politica
democratica e nazionale».
Ma questi chiarimenti non erano bastati ai suoi interlocutori, fossero Giannini 135 o gli altri
giornalisti e uomini politici intervenuti nel dibattito. Togliatti si era spazientito:
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La questione è che tutta questa gente, che risponde: «Porto pesci!», quando le si chiede: «Dove
vai?», (e Fon. Giannini, del resto, in questo caso non s’è nemmeno dimostrato il peggiore) non è
affatto stimolata dalla preoccupazione di impostare e seguire con attenzione e coscienza i dibattiti
politici, allo scopo d’illuminare l’opinione pubblica, favorire i necessari contatti, precisare le
indispensabili differenze. Costoro hanno la via tracciata sino all’ultimo ancor prima che noi apriamo
bocca. Qualunque cosa diciamo o facciamo, non importa nulla, devono dire e dimostrare che noi
siamo «totalitari» (che vorrebbe poi dire fascisti), squilibrati, menzogneri, seminatori di discordie,
sognatori di camere a gas, assassini, cannibali, etc. etc. Per dir questo e cercare di farsi credere da
chi li legge, gli uni son pagati in dollari: gli altri in altra valuta. Gli uni rimasticano quello che
dicevano o sentivan dire ai tempi del fascio littorio. Gli altri cercano, al di là del Tevere, nuove od
analoghe ispirazioni136.
@@@
Era quello il terzo e ultimo articolo che il leader comunista dedicava al dibattito. Nessuna risposta,
infatti, otteneva l’ennesimo articolo-fiume scritto da Giannini il 22 gennaio ’47: Togliatti locutus
est. In esso confermava che Togliatti non aveva risposto alle sue domande, che il concetto
comunista della democrazia era ambiguo, e, in ultima analisi, coincidente con il fascismo, il
totalitarismo, l’assolutismo, il «feudalismo politico». Ma da ciò non derivava l’irrigidimento
qualunquista su posizioni anticomuniste: alcune frasi di Togliatti («il marxismo [...] non è un
dogma, un catechismo, ma è una guida per l’azione. Ora l’azione per la classe operaia è arrivata
oggi a un punto tale che essa, per svilupparsi, deve seguire strade nuove, che non sono state ancora
battute nel passato»137), facevano ben sperare Giannini che il Pci avrebbe effettivamente
abbandonato, per nuove strade, il totalitarismo e tutto ciò che lo rendeva temibile al paese:
@
Ma deve conseguire, da tutto quanto sopra detto e argomentato, che la polemica è servita solo a
smascherare il Comunismo, che bisogna più di prima asserragliarsi dietro «il muro di ghiaccio» che
dal Comunismo ci divide e ci protegge, che dobbiamo riprendere «attivamente» la nostra campagna
anticomunista, non spaventandoci di portarla alle estreme conseguenze? Secondo noi no: questo
non si può e non si deve fare, è contro i nostri interessi, contro i nostri propositi, contro la morale
cristiana che ci governa e ci guida. Possiamo e dobbiamo non collaborare col Comunismo al
governo, perché non possiamo e non dobbiamo condividerne l’idea che non ci convince e che è in
netta opposizione con la nostra; dobbiamo e possiamo però collaborare con il Comunismo come
opposizione legale al Partito Comunista Italiano, e non rinunziare a nessuna possibilità d’intesa nel
superiore interesse della Patria 138.
@@@
Quella discussione con Togliatti era stata, secondo Giannini, «serena, ampia, e ci sia concesso di
dire nobile» 139:
@
Sincero e disinteressato impeto di bene ci ha mossi e ci muove verso la possibilità di un’intesa con
questa grande corrente politica che vuole ciò che noi non possiamo non volere, e cioè una maggiore
e migliore felicità per l’essere umano durante il suo terrestre passaggio. Abbiamo ardito chiamare
questo un «modus politicandi», e cioè un «modo di convivere». Perché, se, sia il Comunismo, sia
noi, siamo animati dalla buona volontà «d’assicurare all’essere umano una felicità maggiore e
migliore nel suo terrestre passaggio», perché non dovremmo «convivere combattendo», ed entrambi
tendere allo scopo che è comune? 140.
@@@
Conclusioni di questo genere vanificavano evidentemente le precedenti riserve sul totalitarismo
comunista: al di là di esse permaneva la volontà di collaborazione con una forza politica ritenuta
valida e nobilitata dalla sua missione sociale.
Ma proprio per le sue dichiarazioni di simpatia, di speranza, di coincidenza negli obbiettivi finali
con il comunismo (riaffermate solennemente, come vedremo, al secondo congresso nazionale del
Fronte dell'Uomo Qualunque), Giannini usciva sconfitto da quel dialogo. Aveva commesso un
grosso errore nel proporre, egli che era stato il simbolo dell’anticomunismo intransigente, un’intesa
con il Pci; aggravava tale errore nel ribadirne, al termine del suo «incontro» con Togliatti, la
possibilità.
Il dialogo Giannini-Togliatti era stato, certo, un esempio di correttezza e di distensione: ma appunto
per questa sua natura appariva estemporaneo in un paese in cui la radicalizzazione politica e, con
essa, la divisione tra comunisti e anticomunisti diveniva di giorno in giorno più forte. Tra i due,
naturalmente, il terribile ingenuo era stato Giannini. Togliatti non aveva fatto altro che approfittare
dell’iniziativa del leader qualunquista per tentare una penetrazione in settori fino a quel momento
pre-elusi al comunismo: non riuscendovi, perché l’anticomunismo era a tal punto radicato negli
«uomini qualunque» che questi abbandoneranno in massa il loro capo, colpevole di aver provato a
«sfondare il muro di ghiaccio» 141 che li separava dal comunismo.
Giannini sembrava essersi reso conto fin dall’inizio dei pericoli della sua apertura al comunismo,
cioè del dissenso serpeggiante alla base come al vertice del partito e delle incipienti speculazioni
avversarie sul suo preteso filocomunismo, ma aveva dichiarato di volerli ignorare, di essere
disposto a correre ogni rischio, «per puro amore di Patria e di pace»:
@
Crede davvero l'on. Togliatti, che noi non abbiamo avuto il coraggio necessario? Non gli riesce di
rendersi conto che abbiamo sfidato l’impopolarità in questa polemica con il comunismo, che da
taluno ci viene rinfacciata come un tradimento? Che c’è chi si propone d’accusarcene come d’un
delitto di leso-partito nel prossimo Congresso del Fronte? Forse cadiamo nel volgare errore di
sopravvalutarci personalmente: ma siamo convinti che pochi altri e disinteressati uomini politici
avrebbero corso, per puro amore di Patria e di pace, questo rischio 142.
@@@
Ma è certo che egli non poteva prevedere il turbine di proteste che stava per investirlo, pensava a
dissensi marginali, limitati a quelle che chiamava le «zone stupide» 143 del qualunquismo,
facilmente dominabili, come per il passato, dalla sua personalità e dal successo morale e politico di
un dialogo che al suo spirito libertario sembrava aver spianato la strada alla pace sociale.
Contro le prospettive gianniniane di un incontro col comunismo aveva cominciato invece
@
a levarsi un coro che in poche settimane assordò l’Italia, scoppiando non come «un colpo di
cannone» di rossiniana memoria, ma come diecimila cannonate. «Giannini è comunista, è passato al
Comunismo, s’è fatto fregare da Togliatti, comprare da Togliatti, è stato pagato in sterline, in
dollari, in oro, in carta, povero Giannini, vigliacco d’un Giannini, idiota d’un Giannini, filo, filo,
filocomunista, comunista, comunista, comunista [...]. Non avevo preveduto, non avrei potuto
prevedere un così colossale caso di follia collettiva 144.
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Le critiche, impastate di più o meno sprezzante ironia, venivano da giornali come «Il Tempo» e «Il
Giornale d’Italia», che non avevano lesinato simpatie, fino a quel momento, per la battaglia
anticomunista del Fronte 145.
Liberali, monarchici e neofascisti avevano subito approfittato del dialogo per stigmatizzare le
ambiguità di Giannini, o addirittura il suo tradimento, e per proclamare, nello stesso tempo,
l’incorruttibilità della propria opposizione al comunismo.
Il 24 dicembre il segretario del Pli, Cassandro, si era affrettato a dichiarare, in un’intervista al
«Giornale d’Italia» 146, che il suo partito era «in contrasto irreducibile» col Partito comunista e il 1
febbraio ’47 aveva dichiarato in pieno consiglio nazionale che Togliatti e Giannini si erano ritrovati
«a un tratto, comuni antenati marxistici» 147.
I giornali monarchici avevano parlato di «idillio Giannini-Togliatti» 148, di «errore di Giannini» 149,
di malumori, dissensi e «vivaci proteste» della base qualunquista «per essersi Giannini
incautamente strofinato a Togliatti» 15°.
Significativo il titolo di un articolo apparso sul «Giornale della sera» 1’8 gennaio, Il baro:
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Non è napoletano Guglielmo Giannini? Non è nato in quella città che ha la più forte esportazione di
persone intelligenti? Ed allora, dove aveva messo tutto il suo sale partenopeo, quando gli venne
l’idea di scherzare con Togliatti? Gliel’avevamo predetto che si sarebbe trovato male: ecco l’ultima
risposta del comunista e non c’è niente da dire, ha proprio ragione Togliatti [...]. Per oltre due anni
Giannini è stato dei più instancabili e dei più abili accusatori del governo e del Partito comunista sul
terreno della realtà. Poi, all’improvviso, ci ha ripensato. Scoperto di essere un liberale, si è fatto una
coscienza da liberale ed ha scoperto, conseguentemente, di non poter essere anticomunista. Cosa
che, dice Togliatti, «a sentirla noi tendiamo l’orecchio». E ne è nata quella discussione dalla quale
Giannini è uscito battuto 151.
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Nelle file neofasciste non era mancato chi, nel pieno della propria vocazione «a sinistra», aveva
giudicato «sommamente apprezzabile» quel dialogo, cioè il «passaggio dall’alterco quotidiano [...]
ad una forma più cavalleresca, e diciamo pure, più civile di lotta» 152. Ma in generale la stampa
nostalgica, specie quella ufficiale del Msi, si allineava, nella ferma condanna, con liberali,
monarchici, democristiani: Giannini era un traditore e un baro, giacché stava «corteggiando [...]
proprio coloro che si era impegnato solennemente a combattere» 153. «La Rivolta ideale» era
impegnata in prima fila nell’attaccare Giannini, scaricandogli addosso ogni genere di accuse:
parlava di «duello ad armi troppo cortesi» offerto a Togliatti «dal suo fino a ieri irreconciliabile
oppugnatore» 154, di «scambio di dolciastre amabilità» 155; Giannini era stato un «maldestro
antagonista» 156, «il neofita della politica» si era «lasciato sedurre» «dal seducente canto melodico
della sirena moscovita» 157.
Per l’organo ufficiale del Msi nessuna intesa era possibile con il comunismo, e Giannini, avviando
trattative in tal senso, aveva confermato che il qualunquismo, al pari del comunismo, costituiva una
minaccia per la nazione italiana:
@
Il Comunismo è un nemico da abbattere. Qualunque dialogo con Togliatti ci ripugna. Non
conosciamo e non vogliamo imparare il russo. Lasciamo ad altri ingenui, illusi o interessati, certe
fantasiose divagazioni158. [...] Comunismo e qualunquismo s’incontrano effettivamente, e stanno
già collaborando per affrettare la rovina della Patria. L’opposizione sabotatrice del primo equivale
alla parolaia opposizione del secondo, come la statolatria del primo confina con la statoabulia del
secondo. Entrambi sconoscono la realtà e, quel che è peggio, sconoscono l’Italia. Sposar l’uno,
equivale nei confronti degli autentici interessi nazionali, a sposar l’altro159.
@@@
Ma l’offensiva più pericolosa doveva venire dalla Dc, della quale Giannini aveva compromesso le
fortune elettorali proprio accusandola di «bolscevismo nero». La palese contraddizione in cui egli
era caduto con il suo invito alla collaborazione a Togliatti era stata subito messa in rilievo da
Andreotti, che ironizzava, sul «Popolo», a proposito degli «amorosi sensi» sviluppatisi tra i due
uomini politici:
@
Permanendo il disprezzo per gli impuri democristiani, rei di peccaminosi contatti con i bolscevichi,
si passa con disinvoltura alle avances verso i rossi, alle collaborazioni tattiche [...]. È probabile che
Giannini, accortosi del passo falso compiuto, corra ai ripari, e, da bravo commediografo, non gli
mancheranno le battute per riconquistarsi il plauso del particolare pubblico imbronciato. Ma la
mossa resta di per sé densa di un gran significato [...]. Qualunquisti e comunisti differiscono nella
specie, ma hanno una identica caratteristica essenziale, il disprezzo per una democrazia così come
noi la intendiamo, regime di legalità, di effettiva giustizia e di libertà 160.
@@@
Il dialogo Giannini-Togliatti serviva dunque ai democristiani per rilanciare l’incompatibilità delle
proprie posizioni con quelle qualunquiste.
La «proposta di collaborazione e di pace avanzata da Giannini a Togliatti» era infatti conseguenza
«della sostanziale mancanza di idee e di direttive sicure di quel movimento»: lo scriveva Tupini, sul
«Popolo» del 23 febbraio ’47, in un articolo dal titolo Il partito più immenso. Secondo Tupini era
stato forse «un errore della De quello di aver sempre parlato poco di questo movimento [...]. È
quindi perfettamente naturale che la Dc senta il dovere di chiarire di fronte all’opinione pubblica il
suo giudizio sul qualunquismo». E questo giudizio era negativo: il qualunquismo non aveva «una
sua concezione filosofica, un programma originario, una qualsiasi tradizione» e appariva pertanto
«non priva di inconsapevole umorismo la pretesa di aver ‘ scoperto ’ princìpi e istituti che già fanno
parte della cultura e delle concezioni tradizionali» (si alludeva alla Corte costituzionale e alla
divisione dei tre poteri). La Dc sarebbe stata lieta dell’esistenza in Italia di un altro partito cattolico,
«ma quando mai l’Uomo Qualunque ha fatto suoi gli insegnamenti della scuola sociale cristiana
[...], quando ha fatto del solidarismo non la formula di uno statico interclassismo ma l’elemento
dinamico di redenzione dei ceti più umili?». Tupini concludeva affermando che il qualunquismo era
in declino perché era venuto meno a molte delle sue premesse e il dialogo con Togliatti non aveva
fatto altro che accentuare tale declino: «E proprio questa è la constatazione più importante che ci
sembra di poter fare».
Giannini aveva dunque offerto un’arma preziosa a liberali, monarchici, neofascisti e, soprattutto, ai
democristiani, che dell’anticomunismo andavano facendo la loro sventolante bandiera, per strappare
al Fronte dell’Uomo Qualunque i consensi di quell’opinione pubblica moderata che aveva creduto
di affidare ad esso la difesa dei propri valori e che ora guardava delusa a quella specie di
embrassons nous proposto dal commediografo a Togliatti.
Il «Fondatore» reagiva col suo scintillante stile alle accuse di filocomunismo, dichiarava di
«strafottersene» 161, insultava i suoi calunniatori chiamandoli «uomini imbecilli e melensi» 162, ma
l’etichetta di filocomunista sarà un cilicio che dovrà portarsi addosso fino al termine della sua
carriera politica.

IV. 1947-1948 COME MUORE UN PARTITO

La situazione internazionale nel 1947 e la «scelta di civiltà» dell' Italia.


A rendere inevitabile la frattura fra cattolici e socialcomunisti doveva contribuire, nel 1947, la fine
della «grande alleanza» antinazista e la divisione del mondo in due blocchi contrapposti.
I motivi di contrasto tra angloamericani e sovietici, relativi alla sistemazione postbellica dei paesi
europei ed extraeuropei, s’erano progressivamente aggravati fin dai giorni della vittoria, ma erano
stati continuamente insabbiati dalla politica di Roosevelt, di cui si faceva fedele portavoce il
segretario di Stato Byrnes, tesa a «minimizzare, per quanto possibile, il problema sovietico» 1.
La buona volontà americana era apparsa nient’altro che debolezza al vecchio Churchill, ai cui occhi
il pericolo sovietico aveva sostituito quello nazista, ma invano il «guerrafondaio antisovietico»,
come lo chiamerà la «Pravda»2, aveva ammonito nel 1945 «che la Russia sovietica era diventata un
pericolo mortale per il mondo libero» e «che si doveva immediatamente creare un nuovo fronte
contro la sua avanzata»3.
Nel 1947 la situazione internazionale era profondamente mutata. Le preoccupazioni di Churchill
erano ormai largamente condivise negli ambienti americani e, con esse, la convinzione che si
dovesse porre un freno all’espansionismo dell’Urss: dal «sono stanco di viziare i sovietici» 4 con cui
il presidente Truman esprimeva il proprio disaccordo a Byrnes — già in procinto di

IMM

essere sostituito col generale Marshall — al famoso messaggio al Congresso americano il passo sarà
breve.
Con la «dottrina Truman» (marzo 1947), la svolta tanto invocata da Churchill è compiuta. La lotta
al comunismo è posta al centro della strategia occidentale, il piano Marshall e, qualche anno più
tardi, la Nato, ne divengono gli strumenti più importanti (ai quali sono contrapposti, da parte
sovietica, il Cominform e il Patto di Varsavia): è di nuovo la guerra, «fredda» per la comune
consapevolezza che un nuovo conflitto non avrebbe lasciato dietro di sé vincitore alcuno, ma
egualmente tempestata di ansie e timori per i continui focolai e le crisi che rischieranno più volte di
infrangere quello che verrà chiamato l'«equilibrio del terrore».
La contrapposizione tra Usa e Urss verrà motivata con gli altisonanti miti della difesa del mondo
libero, da un lato, della liberazione dei popoli oppressi, dall’altro, ed anche se non mancava di
ragione chi vedeva al fondo di essa «la bramosia impenalistica» che «trionfava di nuovo sugli ideali
democratici»5, non c’è dubbio sulla natura ideologica dello scontro che avrebbe dominato il
secondo dopoguerra mondiale: di fronte erano due modi opposti di sentire, vivere, concepire i
rapporti tra gli uomini, e la scelta di ogni essere umano era tra uno di essi.
In tale contesto, la «scelta occidentale» dell’Italia era condizionata dagli stretti legami che fin dal
1943 essa aveva con gli Stati Uniti d’America, dei quali era «zona d’influenza». Il governo di
Washington stava fortemente contribuendo alla ricostruzione italiana e sempre più apertamente
andava subordinando la prosecuzione degli aiuti all’allontanamento dei socialcomunisti dal
governo. Ne aveva una ennesima dimostrazione De Gasperi, nel corso del suo viaggio negli Stati
Uniti (3-15 gennaio 1947). «Infatti — scrive Catalano 6 — nei colloqui che il nostro primo ministro
ebbe con lo stesso presidente Truman, con il Byrnes, con William Clayton, sottosegretario per gli
affari economici, e con gli altri esponenti americani, venne chiaramente precisato, come disse lo
stesso De Gasperi al suo ritorno, che le concessioni e gli aiuti economici (un prestito di 100 milioni
di dollari; rimborso di altri 50 milioni in risarcimento delle spese sostenute per l’esercito americano;
possibilità di finanziamenti alle nostre industrie; sblocco dei beni italiani negli Stati Uniti;
trattamento commerciale basato sulla riduzione delle barriere doganali) erano legati ‘ alla stabilità e
al consolidamento del regime democratico italiano ’. ' Ce lo siamo sentito dire da per tutto ’,
soggiungeva De Gasperi, pur cercando di respingere l’accusa di essersi prestato a campagne
anticomuniste. Ma, in realtà, le esortazioni a rendere più stabile, efficiente e compatto il governo
[...] erano proprio dirette contro i socialisti ed i comunisti [...]. Del resto, mentre nei paesi
dell’Europa orientale si susseguivano le elezioni con notevoli vittorie dei blocchi del popolo
dominati dal Partito comunista, era, in un certo senso, naturale che gli Stati Uniti cercassero di
consolidare la loro sfera d’influenza».
Le pressioni americane (e quelle dei circoli economici e vaticani) non sono però sufficienti a
spiegare la scelta dell’Italia, che i democristiani meditavano di rendere definitiva, al di là delle
formali dichiarazioni di neutralità, con l’espulsione dei comunisti e dei socialisti dal governo. La
richiesta di una politica decisamente anticomunista era da tempo il motivo conduttore della
propaganda delle opposizioni di destra, e le elezioni del novembre ’46 avevano confermato che
vasti strati di opinione pubblica erano fortemente sensibili a tale propaganda. L’anticomunismo,
insomma, non era qualcosa di importato dagli Stati Uniti insieme con i milioni di dollari di aiuti, ma
un dato radicato nella struttura sociale italiana: preparando la svolta del maggio 1947 De Gasperi
eseguiva, sì, i consigli degli alleati di Washington, ma si adeguava anche ad umori largamente
diffusi tra gli italiani, che avevano punito severamente il partito cattolico proprio per aver mancato
alla sua funzione di «diga» contro il marxismo.

IMM

Il presidente del Consiglio aveva rassegnato le dimissioni il 20 gennaio, approfittando della


scissione socialista (il 9 gennaio, a palazzo Barberini, era stato fondato dai gruppi facenti capo a
Saragat e a Matteotti il Partito socialista dei lavoratori italiani), ma si era trovato subito
nell’impossibilità di costituire un governo senza i comunisti a causa dell’avversione a tale progetto
espressa dal nuovo partito e da quelle forze della sinistra democratica (repubblicani e azionisti) sulle
quali egli contava. In realtà, l’allontanamento dei socialcomunisti era giudicato pericoloso e
prematuro anche all’interno della Democrazia cristiana 7, dove permanevano le preoccupazioni di
una radicalizzazione della lotta politica che, con il passaggio del Pci all’opposizione, avrebbe
turbato i lavori della Costituente e messo in forse alcune importanti richieste dei cattolici, quali
l’inclusione nella nuova Costituzione dei Patti Lateranensi.
Il 25 marzo questo inserimento avveniva effettivamente, con l’art. 7, anche con il voto del Partito
comunista, e dopo tale data, nonostante le illusioni di Togliatti, il quale pensava che con sì
importante appoggio i comunisti si erano assicurati la permanenza al governo per altri venti anni 8,
veniva meno, nel campo democristiano, una delle più importanti remore alla «svolta».
Nello stesso marzo, d’altro canto, l’enunciazione della «dottrina Truman» affrettava l’urgenza della
«scelta occidentale» sollecitata dagli americani, e il 20 aprile i risultati delle elezioni regionali
siciliane, nelle quali la Dc perdeva rispetto al 2 giugno circa 250.000 voti, confermavano ancora una
volta la sfiducia dell’elettorato moderato-conservatore, ansioso di una politica anti-• Q comunista.
Gli avvenimenti, dunque, premevano tutti in senso favorevole a quella svolta che nel gennaio era
apparsa irrealizzabile. De Gasperi dava nuovamente le dimissioni il 13 maggio, e dopo vani
tentativi di Nitti e di Orlando, tornava ad accentrare nelle sue mani la soluzione della crisi. Aveva
pensato inizialmente a una coalizione in cui entrassero a far parte tutti i partiti, ma aveva ricevuto il
netto rifiuto dei liberali a collaborare di nuovo con i comunisti; si era poi rivolto, come nel gennaio,
a repubblicani, azionisti e socialdemocratici per tentare una coalizione di centro-sinistra, ma il
partito di Saragat aveva richiesto l’assegnazione ad uomini di sinistra dei ministeri economici,
rompendo in tal modo la possibilità di un’intesa; alla fine aveva deciso la formazione di un
ministero di soli democristiani, con l’inclusione, in qualità di «tecnici» di due liberali (Einaudi alla
vicepresidenza e al Bilancio, Grassi alla Grazia e Giustizia) e di quattro indipendenti (Sforza agli
Esteri, Merzagora al Commercio con l’estero, Del Vecchio al Tesoro e Corbellini ai Trasporti).
Con la formazione, annunziata il 31 maggio, del quarto governo De Gasperi, si interrompeva
bruscamente quella collaborazione tra comunisti e cattolici sulla quale tante speranze si erano
riposte, da una parte e dall’altra, per rinnovare la società italiana. Non tanto un partito — si dirà da
più parti — era uscito ulteriormente sconfitto dalla «svolta di maggio», quanto uno spirito, quello
della Resistenza, come occasione storica per incidere nelle strutture dello Stato borghese ed
estirparne i mali e le ingiustizie.
Si parlerà da allora, a sinistra, di svolta imposta dalla diplomazia occidentale e dalle «forze oscure
della reazione in agguato» (F.O.D.R.I.A.) e ci si rivolgerà con disperazione al «paese reale» per
invertire, con il suo appoggio, la tragica rotta sulla strada della restaurazione capitalistica e della
chiusura ad ogni istanza sociale: ma il paese, il 18 aprile ’48, confermerà di approvare quella svolta.

L’offensiva antiqualunquista della Dc e delle destre.


Nel presentare il nuovo governo all’Assemblea costituente 10, De Gasperi ne aveva ribadito la
vocazione sociale affermando che nel suo programma era ancora prevista, tra l’altro, l’attuazione
dell’imposta straordinaria sul patrimonio, un accordo sui consigli di gestione e la riforma agraria (in
particolare il nuovo governo faceva propri, in materia economico-finanziaria, i 14 punti elaborati
dal socialista Morandi).
Queste parole apparivano in realtà piuttosto ambigue. Fin da qualche tempo dopo la caduta del
fascismo, il partito cattolico si era trovato a dover contemperare la volontà di rinnovamento che
traeva ispirazione dalla propria dottrina sociale, con una complessa realtà interna e internazionale
che lo spingeva, per non perdere l’occasione storica di conquistare una posizione egemonica nello
Stato borghese, a rendersi sempre più chiaramente interprete dei desideri dei gruppi conservatori
occidentali, dei centri di potere interni, soprattutto, delle istanze moderate e anticomuniste dei ceti
medi.
La svolta del maggio ’47 significava che, da parte democristiana, alla lotta per il potere si era
sacrificata la volontà di portare avanti un programma di audaci riforme: la riaffermazione di
quest’ultima era diretta a tener avvinte le masse lavoratrici cattoliche, oltre che a smorzare la
reazione degli «esclusi» partiti della sinistra, ma appariva meramente formale. La Dc aveva
accettato il ruolo di partito guida di un blocco moderato-conservatore e difensore degli interessi che
ad esso si appoggiavano: le dichiarazioni di interclassismo e, con esse, il ribadimento dei
programmi sociali, non potevano certo cancellare questa realtà.
Che l’equilibrio politico dell’Italia si fosse sensibilmente spostato a destra lo aveva dimostrato
l’esito delle votazioni con cui, il 21 giugno, De Gasperi aveva ottenuto la fiducia della Costituente:
274 voti favorevoli e 231 contrari. Si era avuto un atteggiamento benevolo dei repubblicani e dei
socialdemocratici (Catalano ricorda 11 che «buona parte» dei saragattiani, «una ventina su 51», si
era astenuta dalla votazione), ma a dare al governo quella pur esigua maggioranza di 43 voti erano
state le destre, cioè liberali, monarchici, e, soprattutto, qualunquisti. Conti alla mano, Giannini era
dunque riuscito a trasformare i suoi deputati da oppositori velleitari (fin dal luglio ’46 avevano
invano votato contro i governi De Gasperi, quelli del c.d. «tripartito») ad arbitri della nuova formula
governativa («noi abbiamo voluto questo governo», aveva detto nel suo discorso a Montecitorio 12).
Eppure l’appoggio determinante dei qualunquisti non aveva avuto contropartite in termini di potere.
Giannini racconterà in un comizio di aver risposto «Non voglio niente» a De Gasperi che gli
chiedeva cosa volesse in cambio di quell’appoggio 13. In realtà non aveva abbandonato affatto le
sue ambizioni di fare del Fronte un partito di governo, ma si era imbattuto nei dinieghi, sia pure
diplomatici, del leader democristiano.
Nelle memorie scriverà che De Gasperi, nel maggio del 1947, «voleva qualcuno di noi al governo
come ostaggio, e io avrei dovuto essere l’ostaggio numero uno» 14, e confesserà di aver richiesto il
ministero della Difesa per il generale Bencivenga, ma di avere avuto come controproposta
«l’agricoltura, la direzione generale della sanità, qualche sottosegretariato e un ministero senza
portafoglio» 15.
Ma quelle di De Gasperi erano soltanto promesse, frutto della sua famosa abilità manovriera. La
Democrazia cristiana non disdegnava certo l’appoggio delle destre, tuttavia riservava a queste una
evidente posizione subalterna, di appoggio senza concessioni formali in termini di potere. Èssa si
accingeva a svolgere una politica che concretamente era di destra, ma non rinunziava alla
riaffermazione della sua volontà di rinnovamento in contrapposizione alle destre.
Era, questo contrasto tra realtà e affermazioni verbali, un comportamento ambiguo, e non a torto
Giannini se ne lamentava:
@
Che cosa sono i partiti democristiani? La risposta è quanto mai facile e chiara: sono partiti borghesi,
costituiti da fortissime aliquote di borghesia intelligente, convinte della necessità e della giustizia
d’andare incontro al popolo, di promuoverne il progressivo elevamento nell’ordine e nello spirito
della morale cristiana: praticamente gli stessi obbiettivi che intende raggiungere il Qualunquismo.
Senonché, per colpa d’una paura congenita, e profondamente irragionevole, i partiti democristiani
non vogliono essere chiamati partiti borghesi, e dopo aver giuocato sull’equivoco del popolarismo
in Italia durante la dittatura sturziana, giuocano oggi sull’equivoco del sinistrismo, al quale essi
stessi non credono e al quale nessuno può prestare fede, appunto perché si sa ch’è un equivoco [...].
Nella sua preoccupazione di voler a ogni costo differenziarsi dalla cosiddetta destra borghese della
quale invece è la genuina espressione, la Democrazia cristiana è costretta a fare della demagogia e a
fingersi più sinistra dei sinistri16.
@@@
Alla perenne ricerca della strada che portasse al potere, il commediografo sembrava essersi reso
conto che quella dell’intesa con Togliatti non era la più adatta, ed era tornato ai toni anticomunisti
cari ai suoi «uomini qualunque». Era tornato anche, nella sua continua oscillazione tra odio e
amore, ricatti e lusinghe, ad invitare la Dc a un’alleanza con il qualunquismo, per la creazione di un
blocco borghese-liberale che sapesse contrapporsi con efficacia a quello del popolo dominato dai
comunisti («noi borghesi, se continueremo nella nostra folle politica di massacrarci fra noi, finiremo
schiavi di quella minoranza ch’è il Partito comunista in Italia e nel mondo» 17).
Ma il suo invito, che riguardava in particolare le nuove elezioni amministrative di Roma e aveva lo
scopo di impedire «che l’amministrazione comunale di Roma cattolica [cadesse] fra le zampe ben
unghionate d’un incestuoso blocco del popolo»18, era stato ancora una volta respinto.
Piccioni, sul «Popolo» del 3 maggio19, aveva riconosciuto la «fondatezza» dell’obbiettivo
proclamato da Giannini, ma aveva fermamente ribadito la «sterilità ed equivocità» che avrebbe
avuto «un blocco di forze così distinte e diverse»:
@
La premessa programmatica non è comune: la Democrazia cristiana non è convinta che alla sola
borghesia liberale spetti il compito di dirigere il Paese, pensa anzi che le classi lavoratrici hanno
qualcosa da dire a questo riguardo e che non si può pretendere di ritornare, sic et simpliciter, a
vecchie posizioni e configurazioni storicamente superate.
@@@
L’appoggio dei qualunquisti era stato determinante, nel giugno, per il varo del nuovo governo De
Gasperi, ma neanche in quella occasione la Dc si era rassegnata ad accettare il qualunquismo come
alleato partecipante alla divisione dei vari ministeri: lo considerava piuttosto, come scriverà Tieri,
un «servo sciocco»20, disposto a tutto dare senza nulla ricevere.
La condotta della Dc indicava anche la volontà di rivalsa nei confronti del qualunquismo, che ne
aveva seriamente intaccato, con il suo porsi come secondo partito cattolico, le posizioni elettorali.
Giannini si vantava delle posizioni sostenute dal suo gruppo parlamentare alla Costituente («senza
essere democristiani siamo stati i primi ad affermare l’intangibilità dei Patti Lateranensi alla
Costituente; i primi a votare contro il divorzio; i primi a difendere la famiglia legittima
dall’intrusione dei figli nati fuori del matrimonio» 21). Eppure, a suo dire, i democristiani andavano
«dicendo e facendo dire che noi non siamo cattolici, che siamo gli alleati del diavolo; magari che
combattiamo la Chiesa e il Papa. Vanno bofonchiando che siamo divorzisti. Denunziano un
inesistente ‘ equivoco qualunquista ’ unicamente per tentare di strapparci qualche voto» 22. Ma,
soprattutto, la propaganda democristiana insisteva con frenesia sull’accusa di filocomunismo,
giungendo a parlare, in volantini che il commediografo sosteneva fossero stati ideati da Piccioni e
da Andreotti 23, di «asse Giannini-Togliatti» (in essi, i due uomini politici erano raffigurati mentre si
stringevano la mano).
Giannini reagiva con violenza a quest’ultima accusa, tentava in ogni modo di neutralizzarla,
evidentemente perché era cosciente della sua pericolosità: «mai si vide speculazione politica più
sporca — scriveva24 — malafede politica più nera».
Alla campagna antiqualunquista della Democrazia cristiana 25, si affiancava quella dei monarchici
del Pnm e dei neofascisti del Msi. Anche per questi il motivo propagandistico più sfruttato era,
come si è visto, il filocomunismo di Giannini. Ma c’era dell’altro. I monarchici accusavano
Giannini di aver tradito, con il suo agnosticismo, il sentimento della maggioranza dei suoi elettori; i
nostalgici di aver tradito, con le sue invettive contro il recente passato, la massa degli ex fascisti che
avevano avuto fiducia nel «torchietto»; entrambi, poi, gli rimproveravano aspramente la sua
insensibilità ai concetti di patria ed eroismo, il suo conformismo parlamentare, le sue vuote formule
programmatiche, il suo dittatorialismo interno.
Democristiani e destre erano dunque uniti nell’offensiva contro quel partito improvvisato che aveva
messo in crisi o ridimensionato notevolmente le proprie possibilità di espansione elettorale: lo
scopo era comune, sottrarre al qualunquismo le simpatie dei moderati italiani 26.
Anche contro i monarchici legittimisti e i nostalgici Giannini reagì violentemente, accusandoli di
ingratitudine, di slealtà, di ipocrisia, di «azione diffamatoria del qualunquismo e dei suoi uomini più
amati»27 dettata da bassi calcoli elettoralistici. Senza la sua coraggiosa azione politica, a suo dire, le
cosiddette destre sarebbero state travolte dall’ondata socialcomunista e i fascisti, in particolare, non
avrebbero trovato scampo dalla vendetta avversaria, giacché la persecuzione epurativa sarebbe
durata all’infinito. Ma con la sua azione contro le ingiustizie dell’antifascismo — ed era questo il
succo del discorso — il qualunquismo non aveva mai inteso riabilitare princìpi e metodi del passato,
si era sempre dichiarato ostile al legittimismo e nemico del neofascismo, ed aveva cercato di
impedire, con successo, che la reazione popolare alla «dittatura dei Cln» sfociasse nella guerra
civile con il pericolo di una restaurazione del totalitarismo fascista. Quando mai, poi, Giannini
aveva mostrato di simpatizzare con il nazionalismo? Tutto il suo pensiero era una condanna di esso
e della guerra cui inevitabilmente la sua logica conduce gli «uomini qualunque» 28.
L’ira di Giannini era provocata dalla constatazione che le critiche che gli venivano lanciate dai
partiti «concorrenti» stavano trovando vasta eco negli stessi ambienti qualunquisti, al vertice come
alla base.
IV. 1947-1948: come muore un partito
227

Rataplan, sono nn vecchio sergente!


— Attenzione, le destre avanzano per attaccarci!
— Lasciale attaccare, faranno la stessa figura che facemmo fare alle sinistre!
(da «L’Uomo qualunque», 5 novembre 1947)
IMM
Da tempo gli venivano segnalate insofferenze, malumori, tentativi scissionistici: in essi voleva
scorgere soltanto rivalità e ambizioni di piccoli uomini e manovre sabotatrici di democristiani,
monarchici, neofascisti, ma anche se tali componenti non erano estranee a quegli episodi, essi erano
alimentati soprattutto dai dissensi ideologici cui abbiamo accennato. E non era soltanto questione di
«antimonarchismo» o di «antinostalgismo» che indisponeva, tutto sommato, settori marginali del
qualunquismo, giacché legittimisti e neofascisti avevano ormai loro partiti cui affidare la difesa
delle proprie velleità. Quella che era in crisi, che cominciava a dubitare della bontà della propria
scelta elettorale, era proprio la maggioranza di «buon senso, buon cuore e buona fede» che
costituiva la reale base del Fronte, non più fascista, ma ancora sensibile a certi valori «moderati»
come il patriottismo (facilmente sconfinabile, specie a livello emotivo, in un più o meno accentuato
nazionalismo), e perciò contrariata dalle boutades antinazionalistiche del commediografo e da certe
sue tesi — come l’unione doganale con la Jugoslavia, in un momento in cui il problema di Trieste
galvanizzava l’appassionato interesse del sentimento nazionale italiano — e sconvolta dalle
proposte di collaborazione rivolte dal Fondatore a Togliatti.
Il qualunquismo andava perdendo molto del suo fascino iniziale. Il ricordo di unico e coraggioso
oppositore al bolscevismo dilagante si sbiadiva in una realtà in cui la Dc andava facendo suo tale
ruolo mentre Giannini sembrava tradirlo. La sua contestazione dei politicanti avidi e corrotti in
nome dell’onestà, del disinteresse e della competenza, era contraddetta dalla deludente
constatazione che anche il qualunquismo era divenuto un partito con organi gerarchici, ambizioni di
potere, lotta tra i suoi uomini per questa o quella carica. E Giannini stesso non poteva sottrarsi
all’accusa di essere divenuto un «uomo politico professionale», mostrava di tenere molto al suo
ruolo di leader e alla sua carica di deputato.
Nel momento in cui aveva deciso di far partecipare il Fronte dell’Uomo Qualunque alla battaglia
elettorale, per strappare qualche seggio ai partiti avversari, si era reso conto della fondamentale
contraddizione della sua iniziativa e aveva ostentato, per controbilanciarla agli occhi della pubblica
opinione, propositi bellicosi: i qualunquisti volevano andare in parlamento per contestare dal di
dentro il sistema dei politicanti e distruggerlo con la terribile arma del ridicolo:
@
Sarà la pacchia dei giornali della sera con i resoconti parlamentari — aveva scritto il 22 maggio
1946 —Sarà il carnevale dei giornali umoristici. Le vespe, prima che scritte, sarano dette sul muso
degli interessati, al cospetto della nazione. Bisognerà, per farci tacere, prendere la rivoltella che
freddò il consigliere comunale Giordani, nel tempo prefascista. Ma che cosa prenderemo noi se gli
altri prenderanno quella rivoltella? Ah ah ah! Che risate! [...]. Il gruppetto del signor Parri sarà il
nostro spasso più giocondo. Signore, fate che il signor Parri riesca: per letificarci. Concedeteci il
piacere di prendere a sberleffi il probo cuoco della Edison, e d’investigare il di lui intelligente
servizio. La Malfa, ah ah ah! Vogliamo godercelo. Chiunque di noi andrà a Montecitorio dovrà
prendersi il gusto di ascoltare La Malfa, il teorico: e poi spiegargli le sue teorie per vedere se le
capisce. Bè, parliamo di cose più serie: che ci frega di quella buffonata che sarà la Costituente?
@@@
Ma, una volta entrato a far parte dell’«aula sempre sorda e sempre grigia» Giannini aveva limitato
la sua «contestazione» a qualche gesto folcloristico: all’inaugurazione dell’Assemblea costituente,
ad esempio, aveva diffidato con successo i socialcomunisti dall’intonare l'Internazionale, pena il
contemporaneo levarsi, dal gruppo qualunquista, delle note della popolare canzonetta napoletana,
Tazza 'e cafè31; il 28 giugno, data della elezione di De Nicola a presidente della Repubblica, il
gruppo del Fronte aveva votato per l’unica «donna qualunque» esistente a Montecitorio, Ottavia
Penna-Buscemi32.
In realtà, il commediografo s’era lasciato intimidire da quell’austero ambiente, in cui troneggiavano
i «grandi» Orlando, Nitti, Bonomi, Croce, e ammaliare dal piacere di poter parlare avendo come
platea Togliatti, Nenni, De Gasperi, Saragat, che qualche volta si degnavano perfino di dibattere con
lui. La sua vanità e — perché no? — il suo rispetto di uomo intimamente liberale per il simbolo più
alto della libertà, gli avevano impedito di attuare i suoi propositi: non una delle famose «parolacce»
gli uscirà di bocca durante la sua attività in parlamento, e perfino nelle zuffe tra qualunquisti e
socialcomunisti, egli si darà da fare per mettere pace tra i contendenti, venendo meno, anche in
questo campo, ai precedenti propositi:
Il concittadino che presiederà l’Assemblea costituente — aveva scritto il 12 giugno 33 — è [dunque]
informato di quanto segue:
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1) A chi ci darà del fascista noi risponderemo con le ingiurie più gravi e, vicinanza consentendolo,
con i ceffoni più sonori, senz’alcun riguardo né per l’Assemblea né per il suo Presidente, chiunque
egli sia per essere, quale che sia il suo passato;
2) A chi ci avrà insultato nell’Aula, e senz’alcun pregiudizio delle immediate reazioni nell’aula
stessa, verrà rotta la faccia fuori dell’Aula, qualunque sia il suo nome, il suo passato, il suo grado.
@@@
Giannini era subito diventato un personaggio nell’ambiente parlamentare. Una sua frase,
pronunziata in un discorso a Cagliari, aveva avuto ampie ripercussioni nella seduta di Montecitorio
del 12 dicembre 1946, così riferita dal «Tempo»34:
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In un momento di pausa, Lussu riprende e tira in ballo, non si capisce a quale proposito, l’on.
Giannini. Il quale, in un suo recente discorso a Cagliari avrebbe detto: «Vi è un solo uomo in Italia
che non vuole la guerra civile, e quest’uomo sono io!» (Risate clamorose a sinistra e al centro). I
qualunquisti insorgono compatti rigettando il lato ridicolo della frase con punte ironiche contro
Lussu, il quale, come preannunciando una rivelazione drammatica, grida: «L’on. Giannini...», e qui
si ferma per dare una tinta anche più fosca a quello che seguirà; ma di quell’attimo di sospensione
approfittano i qualunquisti per riempirlo con un grande applauso di solidarietà al loro leader, che
malauguratamente non è nell’aula. Ed ecco la saetta: parte dai comunisti e si abbatte sul settore
qualunquista: Fascisti! Sì, qualcuno l’ha gridato, e poiché i qualunquisti insorgono violentemente,
entrano in scena i questori Priolo e Bibolotti per placare i più agitati. L’incidente minaccia battaglia:
già gli stenografi si guardano alle spalle, quand’ecco, al colmo della gazzarra, lento e solenne, come
un monumento ambulante, entra Giannini, accolto da una grande ovazione a destra e da ironici
applausi a sinistra. Egli si ferma nel bel mezzo dell’emiciclo, accetta stupito quell’omaggio
fragoroso e fa un ironico salamelecco alle sinistre, le quali gli rispondono con un grido alla voce:
«Viva il Fondatore!». A ristabilire un po’ di calma, interviene Saragat: «Stiamo trasformando una
discussione molto seria in una farsa». Così egli dice, e il monito ha un certo effetto. Intanto
Giannini s’informa di ciò che è accaduto e ottiene di parlare. Giannini: Sì, l’ho detto. L’ho proprio
detto. La guerra civile non si fa, anche perché io lo voglio (rumori altissimi a sinistra). E se voi
m’interrompete, non fate che darmi spago (ilarità). Io posso sempre giurare, con la formula che
l’on. Lussu vorrà, che alla guerra civile non si deve arrivare e che occorre smorzare comunque
l’odio di parte per il bene del Paese. Ho finito, signor Presidente. E qui si siede con la calma dei
forti, tra i frenetici applausi che partono dal suo settore.
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I suoi discorsi, molto spesso, rappresentavano una pausa simpatica e divertente, infarciti com’erano
di battute di spirito e di storielle, di excursus impostati sulla «sconvolgente» filosofia del buon
senso, e tutti lo ascoltavano con interesse. Il 12 maggio 1947, parlando per illustrare un suo
emendamento al progetto di art. 36 della Costituzione («Lo sciopero e la serrata sono vietati. I
conflitti del lavoro sono regolati dalla legge»), aveva detto tra l’altro 35:
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Tutti lavorano: lavora il bambino non ancora nato, nel ventre della mamma (commenti, ilarità);, va
bene, voi ridete. A Napoli si dice: «Fatemi quattro soldi di risate». Io cerco di insegnarvi qualche
cosa, se volete starmi a sentire (ilarità a sinistra). Lavora il bambino nel ventre della madre, perché,
quando non è ancora nato [...] già egli fornisce la sua quantità di lavoro, determinando tutto il
lavoro che è necessario per i corredini, la culla, il medico, la levatrice eccetera. Non è vero che non
mi capite: non siete stupidi, avete capito benissimo. Fornisce la sua parte di lavoro anche l’uomo
che è morto (commenti, ilarità a sinistra). Voi volete che si allunghi la mia dichiarazione di voto,
che si perda del tempo: che cosa ci guadagniamo? L’uomo che è morto fornisce infatti, con la sua
morte, lavoro a tutti coloro che fanno il mestiere di occuparsi dei morti. Quindi una vera e propria
classe lavoratrice, ossia una categoria di gente che lavora in confronto a una categoria di gente che
non lavora, non esiste. Noi dunque dobbiamo esser grati all’on. Di Vittorio (commenti, ilarità a
sinistra)...
Presidente: Onorevoli colleghi!
Una voce a sinistra: Ma come si fa!
Giannini: Ma cosa c’è? Ho offeso qualcuno di voi? Qualcuno di voi forse fa il becchino? (ilarità).
Dopo di che, desidero dire all’on. Di Vittorio e ai suoi amici che noi non crediamo, perché non lo
riteniamo vero, che lo sciopero — e la serrata, intendiamoci: perché noi non dividiamo un
fenomeno dall’altro e li condanniamo tutti e due — possano in alcun modo modificare, accelerare o
ritardare quella che è la marcia del Progresso.
Il Progresso, onorevoli colleghi, è di origine divina e non si arresta mai. Il Progresso procede per
intima forza (commenti a sinistra). Non c’è sciopero, non c’è serrata, che possano sbarrargli il
passo: non c’è che il genio umano, il quale ne carpisce i segreti e ne fa dono a tutta l’umanità.
Voce a sinistra: Anche a Giannini!
Giannini: Anche a me, sì, ed io ne ho avuti molti di doni: forse più di qualche altro.
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La compattezza del Fronte democratico liberale dell’Uomo Qualunque cominciava dunque a
vacillare, in quei primi mesi del 1947, per il naturale deterioramento di posizioni puramente
demagogiche, per il mutamento della situazione politica interna e, principalmente, per l’esplosione
di alcuni equivoci che avevano caratterizzato fin dall’inizio il qualunquismo, che nella
interpretazione del suo teorico aveva un contenuto anarchico, antinazionalista e internazionalista, al
quale i «moderati» accorsi ad applaudire le invettive del commediografo contro i Cln,
l’antifascismo e l’epurazione non avevano dato troppo peso. Il dialogo Giannini-Togliatti aveva poi
acuito in misura notevole la delusione e l’insoddisfazione dei «moderati».
Del grave dissenso che il dialogo Giannini-Togliatti aveva prodotto nelle stesse file qualunquiste si
era avuto un clamoroso sintomo nel febbraio. In un’intervista rilasciata il giorno 13 all’«United
Press» Emilio Patrissi, leader riconosciuto dell’ala destra del Fronte, aveva dichiarato che lui e «un
numero considerevole del partito» si trovavano definitivamente in disaccordo con Giannini sulla
questione comunista e avrebbero iniziato la pubblicazione di un giornale qualunquista dissidente il
primo marzo» («L’Ora d’Italia»). L’intervistatore parlava di «scissione definitiva» del Fronte
dell’Uomo Qualunque in due frazioni «intorno alla questione comunista» 37. Patrissi smentiva
l’intervista, ma confermava la sua dissidenza nei confronti del «recente atteggiamento del partito»
38.

Giannini reagì con un atto di forza al gesto di Patrissi. Il 25 febbraio convocò la giunta esecutiva e
fece leggere da Tieri — egli era infatti ammalato — una sua «comunicazione» 39. In essa rifaceva la
storia del qualunquismo, ribadiva la sua incompatibilità con il fascismo e accusava Patrissi, per la
sua «ambizione molto superiore alle sue capacità», di aver minato con le sue manovre
secessionistiche l’unità del partito accreditando la voce avversaria dell’esistenza di una corrente
chiaramente neofascista nel qualunquismo. Patrissi (che era in contatto — a quanto sembra per sua
stessa ammissione40 — con l’ex segretario del Partito nazionale fascista Augusto Turati) aveva
agito d’accordo con l’ex segretario generale del Fronte Armando Fresa, che Giannini accusava «per
infantile e irragionevole gelosia», dovuta alla sua sostituzione con Tieri, di aver trasformato il suo
ufficio in «sede di un vero e proprio antipartito» («Non v’è stato inevitabile dissenso, inevitabile
malinteso, inevitabile differenza d’opinioni, che non abbia trovato rinfocolamento ed esasperazione
nell’ufficio di Fresa»).
Al gruppo Patrissi-Fresa, Giannini imputava i tentativi di disorganizzazione del qualunquismo
compiuti in varie zone d’Italia, da Milano ad Avellino, allo scopo di «dargli un aspetto più
marcatamente contrario a quello che il qualunquismo vuole e deve avere». Citava il caso di Festa,
proposto per l’espulsione dalla corte disciplinare già dal 23 dicembre, per essere stato in contatto
con un centro di assistenza a favore di militari della Repubblica sociale, e quello di Pini che in
Irpinia «ha apertamente fatto propaganda, nel Fronte, per un misterioso ' movimento sociale ’».
Meschine ambizioni personali e tendenze neofasciste si intrecciavano, secondo il commediografo,
concorrendo entrambe alla disgregazione del Fronte. Bisognava dare un taglio netto alle une e alle
altre: perciò egli proponeva l’espulsione «per slealtà politica» di Patrissi, Festa, Pini (e di altri due
nostalgici, Mario Fresa e Giuseppe Rivelli) e la sospensione da ogni attività politica per la durata di
un anno di Armando Fresa («tenuto conto della sua qualità di pioniere del movimento, applicando
in via eccezionale un criterio d’indulgenza e volendo sperare che ciò serva ad evitargli una sanzione
maggiore»)41. La giunta esecutiva approvava tali proposte, con la sola astensione di Marina.
L’amputazione imposta da Giannini era dolorosa: il Fronte dell’Uomo Qualunque perdeva con
Patrissi una delle sue personalità di rilievo (Giannini aveva pensato a lui, in un primo momento, per
la carica di segretario generale) e con Festa e Armando Fresa due «pionieri».
Con quelle «punizioni» egli era convinto di aver messo definitivamente a tacere l’opposizione
interna, di aver depurato il partito dalle scorie, dando un solenne ammonimento a quanti ancora
nutrivano propositi disgregatori: era un’altra delle sue illusioni. Il malumore cresceva, sulle rivalità
personali e sul dissenso ideologico s’inseriva ora il rancore per il «dittatorialismo» del Fondatore, e
lotte di fazioni e tentativi scissionistici continuavano a movimentare le cronache interne del
qualunquismo.
Giannini era furibondo, reagiva con la nomina di commissari e insulti pubblici sui suoi giornali ai
fomentatori di disordini interni. A Napoli, come scriveva l'«Avanti!» 42, c’erano state «polemiche e
pugni» tra i vari leader locali, e Giannini aveva scritto sul «Buonsenso» 43:
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Invito Perentoriamente e Tutti Indistintamente gli Amici di Napoli di smettere ogni polemica, di
sospendere le pubblicazioni dell’Idea Qualunquista, di non diramare altri comunicati imbecilli, di
non rompere, insomma, più i coglioni ai Napoletani e a noi, e di aspettare disciplinati che il
commissario Aprà abbia finito il suo lavoro. Soprattutto tengano presente che la pazienza del
Presidente non è eterna, e che la ramazza è già in funzione.
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Era un uomo politico davvero sui generis, il capo del Fronte dell’Uomo Qualunque: non temeva di
pubblicizzare gli episodi di dissidenza, dando così modo agli avversari di specularvi. Con le sue
maniere forti, inoltre, non faceva che acuire i risentimenti. Alla base di questi sfoghi violenti, c’era
una comprensibile nota di amarezza: si vedeva circondato dal «professionismo politico», e questa
era la contraddizione più grande per un partito sorto per combattere quella mala pianta in nome
dell’onestà e della dedizione al dovere:
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Ogni tanto qualche imbecille, o qualche criminale, dalla periferia scrive, o telefona, o viene di
persona, per spiegarci che nel suo villaggio o nella sua città si deve fare quello che vuole lui
altrimenti «tutto si sfascia» [...]. Molti di questi sporcaccioni, che ci accusano di nutrire ambizioni
dittatoriali — mentre invece la nostra sola ambizione sarebbe quella di tornare al teatro e alla
letteratura per non avere più a che fare con tanti fregnoni e lazzaroni — sono in sostanza dei piccoli
dittatori locali, i quali pensano che la dittatura sia di chi non intende subire le loro sciocche
prepotenze [...]. Tutte le irrequietezze, tutti i nervosismi, sia personali che centrali, non hanno altra
origine che quella della fermentazione di sproporzionate ambizioni nel professionismo politico che
fatalmente si sta determinando anche nel Qualunquismo, così come sulle migliori e più robuste
piante dei boschi meglio tenuti finisce sempre per arrampicarsi il parassita che bisogna combattere
con i disinfettanti e con gli altri mezzi suggeriti dall’esperienza44.
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Il 27 agosto 1947, scriveva sull’«Uomo qualunque» un articolo dal titolo II partito della forchetta:
vi erano «idealmente iscritti» spiegava «tutti coloro che fanno i partiti per camparci sopra, o per
raggiungere con essi obbiettivi d’uguale modesta e contingente utilità». L’allusione era diretta ai
dissidenti interni, che, al vertice come alla base, continuavano ad agitarsi, a fare del
«sansepolcrismo», a tentare di «creare dei sottofronti, partiti nel Partito, conventicole, comunelle, e,
insomma, le solite lagrimevoli coglionerie d’ogni altra corrente politica».
Giannini era indispettito anche contro i suoi deputati che criticavano, spettegolavano, si
atteggiavano a frondisti: a Sorrento, sempre nell’agosto, aveva invitato in un discorso i qualunquisti
a «scegliersi rappresentanti più qualunquisti per le prossime elezioni» 45, provocando le immediate
dimissioni di tre di loro, Puoti, De Falco e Vilardi.
Contro gli espulsi e i dimissionari inveiva dalle colonne dei suoi giornali, cercava di diffamarli, di
ridicolizzarli: Patrissi era «l’uomo che prima parla e poi pensa», dalla «mentalità da bamboccione
inoffensivo», un «sedicente oratore che sa dire solamente ' coacervo e socialità ’» 46; Armando Fresa
era un uomo incapace perfino di parlare, tanto che durante la campagna elettorale era andato in giro
«con uno dei nostri oratori professionali che parlava per suo conto e lui presente, raccontando ogni
volta agli attoniti elettori la storiella che l'on. Fresa era affetto da raucedine per cui non poteva aprir
bocca» (!)47; Puoti («del quale non avete mai udito la voce alla Camera») aveva confessato di
essere un fascista, e non un qualunquista, e nel suo ufficio di avvocato, a Napoli, si faceva
propaganda per il Movimento sociale italiano48.
Alla fine, il commediografo si era reso conto che quelle accese polemiche «pubbliche»
danneggiavano ancor più il suo partito, accentuando una crisi che, a lungo andare, avrebbe potuto
rivelarsi irreversibile. Invano aveva cercato di rassicurare la sua base tornando agli slogan
anticomunisti, invano aveva cercato di rilanciare l’ideologia del movimento nel discorso al teatro
Petruzzelli di Bari del 4 giugno: i dieci punti esposti, con la loro anarcoide vacuità, non avevano
fatto altro che accentuare le perplessità di fedeli e simpatizzanti:
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7) I tre poteri costitutivi dello Stato si esercitano secondo le Leggi Fondamentali che la comunità si
è data e che soltanto la comunità può modificare o revocare.
8) Cardine della Legge Fondamentale della comunità sono le quattro libertà dell’Uomo Qualunque
e cioè: libertà di parola, LIBERTÀ DI RELIGIONE, LIBERTÀ DAL BISOGNO, LIBERTÀ
DALLA PAURA.
9) Una suprema corte costituzionale, cui ogni cittadino può direttamente adire, controlla ed accetta
la costituzionalità delle Leggi.
10) Custode della Legge Fondamentale e di tutte le Leggi che ne derivano è il Capo dello Stato che
la comunità elegge direttamente a salvaguardia di ogni suo diritto49.
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Polemiche e dissidenze non accennavano a placarsi, il Fronte rischiava di naufragare, e Giannini si
decise a un chiarimento generale e solenne, dinanzi alla sede più appropriata: un secondo congresso.
Il secondo congresso nazionale del Pronte democratico liberale dell’Uomo Qualunque.
Giannini avrebbe voluto la convocazione del secondo congresso fin dal marzo ’47, ma gli erano
state opposte continue obiezioni da parte di Tieri (necessità del tesseramento e dei congressi
provinciali, elezioni siciliane, impossibilità di svolgere un congresso nel periodo estivo, etc.),
finché, sempre pubblicamente, aveva posto un perentorio ultimatum per il settembre:
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Si rimanga fermi su questa decisione e non ci si ritorni più sopra. Chi è pronto tanto meglio, chi non
è pronto s’arrangi: ma si faccia finalmente questo secondo Congresso perché il Vostro povero
Dittatore non ne può più d’aver pazienza, mandar giù bocconi amari, fingere di non accorgersi di
certe cose, far finta di non averne udite certe altre. Il Congresso è la grande lavanderia del Fronte,
nella quale dovremo e potremo serenamente lavare tutti i panni sporchi che ci sono nel nostro
partito. C’è gente che non è contenta di me: che abbia possibilità di gridarlo e di provocare un voto
di sfiducia. C’è chi non è contento di Tieri: e vabbene, strilli e strepiti contro Tieri! Ci sono altri ai
quali non garba il Gruppo Parlamentare, altri ancora che non approvano l’azione giornalistica: che
possano, finalmente, urlare le loro ragioni! Poi, se non vi dispiace, ci sono anch’io che debbo
lagnarmi di qualcosa e di qualcuno: ho diritto anch’io di berciare, no? Sono forse il più fesso di
tutti? Non ho anch’io qualche merito?
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Prima del congresso si svolse, nei giorni 1-3 settembre, uno speciale precongresso dei
rappresentanti maggiori del partito, voluto da Giannini e da Tieri per sedare le più spinose
polemiche ed evitare che esse venissero date in pasto all’opinione pubblica nel corso
dell’imminente adunata generale. Ma il resoconto dei lavori del precongresso, in un primo momento
tenuto segreto, venne fatto pubblicare da Giannini sull’«Uomo qualunque» del 10 settembre, per
ribattere, egli disse, i «pettegolezzi di Patricolo» 51: in tal modo, però, non si faceva altro che
stendere al sole i «panni sporchi» del qualunquismo, dando ai congressisti, e soprattutto
all’opinione pubblica, una penosa impressione.
Al precongresso il commediografo, lungi dal\ tentare di placare le acque, aveva rinvigorito i suoi
attacchi ai dissidenti:
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Io vi dico: Amici, o voi vi liberate dei pazzi, o voi vi liberate di coloro che non sanno ciò che
vogliono [...] o voi vi liberate dei fomentatori di pettegolezzi, di tutti coloro che approfittano delle
minime difficoltà del Partito per aumentare queste difficoltà e per creare crisi interne nelle quali
poter speculare o io [...] non me ne vado, no, innanzitutto perché non avrò il tempo d’andarmene,
perché sarà stato l’U.Q. a lasciarci se noi continueremo a seguire questo sistema 52.
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A Patrissi e a Fresa («disgraziato manovale arricchito» 53), Giannini aveva aggiunto Patricolo,
deputato e sindaco di Palermo, il quale era intervenuto per criticare la gestione autoritaria del
partito, aveva difeso Patrissi e gli altri dimissionari, si era lamentato del metodo gianniniano di
diffamazione pubblica dei suoi oppositori interni e lo aveva accusato di mancanza di un «preciso
programma», di eccessivo liberalismo e di tiepidismo nazionalistico54.
Patricolo si era reso interprete dei dissensi dell’ala destra del partito, ma una destra che in quegli
anni andava inserendo la riaffermazione delle proprie istanze nazionalistiche in un contesto saturo
di tensioni rinnovatrici e di tendenze a porsi come terza forza tra comunismo e capitalismo 55.
Giannini lo aveva chiamato «un cotale, divenuto uomo politico per la forza e con i mezzi del
Fronte», aveva insinuato che era stato un vigliacco a non difendere Patrissi in occasione della sua
espulsione. Quanto alle accuse del deputato siciliano, il commediografo le respingeva in blocco,
negando che il qualunquismo non avesse un programma («contro questo programma noi vediamo
scatenata una lotta a cui capo sta niente di meno che la Russia sovietica» (!) o che fosse insensibile
ai problemi nazionali e a quelli sociali; esso non era nazionalista, «essendo definitivamente finita la
politica nazionalista in un continente dove non ci sono più NAZIONI ma solo esseri umani che non
vogliono più soffrire»56, e non voleva la rottura dell’unità sindacale, perché avrebbe rappresentato
la divisione della massa operaia, e quindi il suo indebolimento 57 (e nell’affermare ciò Giannini
confermava le contraddizioni e l’ispirazione libertaria delle proprie idee). Rimaneva l’accusa di
dittatorialismo. Giannini faceva rispondere da Tieri che «finora abbiamo avuto nel nostro partito un
solo dittatore o aspirante dittatore, e costui è Patricolo» ma, in realtà, non c’era alcun dubbio
sull’assoluto predominio che il Fondatore, direttamente o tramite i suoi fedelissimi, intendeva
esercitare nel Fronte: egli si riteneva il solo autorizzato interprete della dottrina qualunquista e,
sebbene avesse sempre negato di voler fare il dittatore 59, si stava mostrando spietato con chi non
applicava conformisticamente il suo «verbo», considerava i dissidenti degli eretici, si sentiva ferito
a morte dalle loro deviazioni. Inoltre, non riusciva ad ammettere la buona fede di çhi lo
contraddiceva, vedeva i suoi oppositori animati dai più meschini sentimenti, si rifiutava quasi di
discutere con quei piccoli uomini che egli aveva beneficiato e che ora, ingrati, gli si ribellavano.
Contro Patricolo aveva chiuso col dire che nei suoi attacchi «non si sente che il livore, l’acredine,
l’astio personale, qualcosa di così basso che mi sento umiliato nel difendermene» 60.
Poco più di un mese dopo, dovrà riconoscere che Patricolo era stato «il solo e leale nostro
avversario dichiarato»61.
E in effetti quella del deputato siciliano era stata l’unica voce d’opposizione chiaramente levatasi, al
precongresso, come, pochi giorni dopo, al congresso, a difendere le proprie tesi (cioè «l’idea
nazionalista — riassumerà Giannini — contro la quale il qualunquismo si dimostra assolutamente
irriducibile»62). Gli altri frondisti tacevano, sfogando nei corridoi la propria ostilità, certo intimoriti
dai sistemi duri con cui il «capo» svergognava gli avversari.
Anche per questa cautela dei dissidenti interni, il commediografo potrà illudersi dell’esito
trionfalistico del secondo congresso nazionale, svoltosi a Roma, nell’aula magna dell’università, dal
21 al 26 settembre.
Parlando agli oltre mille congressisti, Giannini fece appello a tutte le sue risorse oratorie per
eccitare la commozione, risuscitare gli entusiasmi, rinverdire la fede. Ricordò ancora una volta la
fase eroica, le coraggiose e vittoriose battaglie contro i Cln e i falsi partigiani 63, contro l’epurazione
e le prepotenze dei sovversivi; parlò con orgoglio dei più recenti successi, quali la cacciata dei
comunisti dal governo («noi abbiamo impresso il nostro pensiero alla politica italiana, noi abbiamo
imposto il Governo che volevamo alla politica italiana, noi abbiamo purificato l’atmosfera della
politica italiana») e rivendicò, contro le accuse di insensibilità ai problemi nazionali, la propria
azione in difesa dell’Italia, all’interno e all’estero: non era stato forse lui, al convegno dei
parlamentari europei di Gstaad, a pronunziare «per la prima volta, dopo la fine della guerra [...] la
difesa del soldato italiano che si è dimostrato non secondo a nessuno»? Non era stato lui ad
affermare «alto e solenne dalle tribune parlamentari, che il nostro paese non aveva nessuna colpa da
purgare, nessun conto da rendere, nessuna cattiva azione di cui pentirsi: ma che aveva soltanto
perduto la guerra e doveva pagarla»? 64
Ma nello stesso tempo, ribadendo che certe sue posizioni non dovevano essere fraintese (come in
effetti lo erano state), Giannini confermava il suo antinazionalismo e il suo europeismo, parlava del
qualunquismo come un’idea immortale e universale (il primo uomo qualunque — diceva — era
stato Adamo)65 che aveva ormai conquistato il mondo, e questo perché si fondava sull’aspirazione
alla pace, alla fratellanza cristiana e all’elevazione degli umili, secondo l’insegnamento del
Vangelo:
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L’amore, il senso religioso e politico dell’Uomo Qualunque, lavorerà e debellerà quanto c’è di
minaccioso, di terrificante, d’apocalittico, nell’aeroplano senza pilota che dovrebbe portare la morte
senza discriminazione, servire alle smisurate ambizioni d’una infinitesimale minoranza
d’intellettuali contro milioni di uomini [...].
L’uomo è più o meno lo stesso sotto tutte le latitudini. Quando noi avremo permeato di
Qualunquismo, cioè a dire di senso della giustizia, di senso dell’equilibrio, della bontà, della
religiosità, il cuore della grande maggioranza degli uomini del mondo, l’aeroplano senza pilota
servirà unicamente a trasportare con maggiore urgenza i beni dei Paesi ricchi verso i Paesi poveri
[...]. È con serenità che io vi dico: Venga pure l’aeroplano senza pilota, noi gli opporremo il
Vangelo, noi gli opporremo l’amore, noi gli opporremo la nostra spiritualità (applausi, grida). È
dunque davvero un segno di Dio, una benedizione maggiore e rinnovata che il Signore dà alla
nostra terra avendo permesso che qui nascesse l’idea costruttrice d’un nuovo modo per fondare la
convivenza sociale66.
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Nell’ambito di quello spirito evangelico, Giannini parlava al suo attonito pubblico del comunismo:
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C’è un comunismo-dottrina politica nazionalista e un comunismo dottrina economica, rivolta alla
elevazione delle classi umili, al maggiore benessere di tutti, all’instaurazione di una nuova, vera, più
alta giustizia sociale, per citare una vecchia frase che ci è stata per tanto tempo detta, ed al cui
significato morale e sentimentale noi crediamo ancora e sempre, perché la giustizia sociale è quella
che noi cerchiamo, che noi vogliamo, alla quale noi vogliamo arrivare (calorosi battimani).
Se il comunismo è elevazione degli umili, abolizione della povertà, benessere per tutti, lavoro per
tutti, Cristo era comunista, San Francesco era comunista, io sono comunista Disgraziatamente il
comunismo italiano [...] disgraziatamente il Partito comunista si rivela sempre più come un partito
nazionalista straniero [...]. Trovi modo il comunismo di liberarsi dalle catene che lo avvincono a
mentalità e poteri che son fuori dei confini d’Italia, e troverà in noi dei fratelli (applausi) che lo
aiuteranno a compiere la sua nobile missione sociale.
Ma si liberi dalle catene che lo tengono prigioniero. Il Partito Comunista Italiano abbia il coraggio
di diventare un Partito Nazionale Comunista, e noi rispetteremo le sue idee e i suoi uomini, e
collaboreremo con loro col massimo delle nostre forze (applausi)67.
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Le speranze di poter rilanciare il qualunquismo con quei presupposti ideologici apparivano assurde:
il suo era stato, per molti aspetti, più un messaggio apostolico urbi et orbi che un discorso politico e
se i suoi obiettivi erano nobili, non potevano, in ultima analisi, che accrescere lo sbandamento del
Fronte dell’Uomo Qualunque, in un momento in cui anche la Chiesa cattolica si preparava alla
crociata contro l'Anticristo. Nell’epoca della guerra fredda non c’era posto per le idealità
gianniniane e, nel proclamare che la genuina essenza del qualunquismo era sempre stata la stessa,
quella che andava ora illustrando, il commediografo confermava che c’era sempre stato un
equivoco, tra lui e il «resto del mondo», nei modi d’intenderla.
In realtà si era verificata negli ultimi tempi, nell’animo di Giannini, una decisa accentuazione dello
spirito evangelico che era al fondo della propria ispirazione, e, con essa, un avvicinamento al
mondo del lavoro, una specie di spostamento a sinistra delle proprie posizioni. Le lotte e le
delusioni ricevute dalle destre, dalla Dc e, come vedremo, da quell’alta borghesia un tempo esaltata,
erano le cause di questa sua evoluzione, che lo portava a riaffermare solennemente la sua simpatia
per la nobile missione sociale del comunismo e la volontà di aiutarlo, senza preoccuparsi delle
reazioni del pubblico anticomunista.
Il discorso inaugurale era stato incentrato su una fiera requisitoria contro la Dc e su un’aperta
minaccia al governo De Gasperi:
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Amici miei, noi abbiamo molti nemici e ciò è perfettamente naturale. Siamo gente forte, temibile e
dobbiamo aver dei nemici. Nemici non ne ha se non chi è buono a niente (approvazioni, voci di:
Bravo!). Ma fra questi nemici, il più insidioso non è quello che molti di voi... (ilarità) perché col
nostro coraggio e la nostra dignità noi ci siamo imposti al rispetto di molti di quei nemici, e questo è
uno dei più grandi successi della nostra politica [...]. Il nostro principale nemico non è quello che ci
affronta a viso aperto, con il quale scambiamo giornalmente bastonate e sassate; il nostro nemico
più temibile è il partito della Democrazia cristiana (approvazioni) che noi appoggiamo, che noi
sosteniamo, per il cui Governo noi votiamo68.
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Aveva rievocato i vari episodi della lotta antiqualunquista del partito di De Gasperi, dai rifiuti a
collaborare all’amministrazione di Roma alla fomentazione di scissioni. E qui era chiara l’allusione
a Patrissi:
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Il capo di questi strani scissionisti che noi abbiamo messo fuori delle nostre file... (interruzioni)
Lascia fare, ne parlo per ragioni politiche, che vuoi che me ne importi di lui! Il capo e i suoi gregari
in scissionismo attaccano tutti, ma un solo partito non hanno mai attaccato: la Democrazia cristiana.
È strano. Non ci sono galantuomini in Italia in nessun partito (tranne il suo); son tutti farabutti,
senza esclusione; l’unico partito pieno di angioletti con le ali è la Democrazia cristiana.
voci: Perché lo paga.
Giannini: Sta’ zitto, non dire parolacce! (applausi).
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Non era la prima volta che Giannini si lamentava della «slealtà» della Dc e gli attacchi
democristiani non gli avevano impedito di appoggiare il governo della svolta di maggio. Ma questa
volta, dietro i suoi sfoghi, c’era qualcosa che lo preoccupava seriamente e, come di consueto, si
accingeva a rivelarlo, almeno in parte, coram populo: la Dc stava sottraendo i finanziamenti al
Fronte dell’Uomo Qualunque, il partito era senza soldi, gli ambienti che lo avevano in passato
sostenuto erano divenuti avari. Erano notizie sconcertanti per molti ingenui «uomini qualunque»,
ma Giannini non si vergognava di pubblicizzarle:
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Amici, Amiche di tutta l’Italia, io sono accusato di essere cinico, mentre invece sono un vecchio
fesso che troppe volte si commuove fino alle lacrime. Sono accusato d’essere un cinico perché dico
pane al pane e Nenni al Nenni, senza peli sulla lingua (applausi). Adesso io vi dirò un’altra verità: i
partiti, senza danari, non si fanno, e chi dice che i partiti si fanno senza danaro mente
spudoratamente. Un solo partito s’è fatto senza soldi: è stato il nostro all’inizio [...]. Per fare i partiti
ci vogliono dunque danari. I danari bisogna trovarli. C’è chi li trova con la violenza, con il ricatto,
attaccando i ricchi, mezzi che noi abbiamo sempre respinti. Dobbiamo trovare anche noi questi
danari, e ne dovremo trovare molti di più, e chi li ha ce li deve dare, perché se non ci fossimo stati
noi a quest’ora non solamente i quattrini, ma nemmeno loro ci sarebbero più (applausi).
Questo è un discorso molto serio: stiamo parlando di soldi; state attenti. Ora, mentre si dice che la
Democrazia cristiana ha trovato 160 milioni per fare le elezioni di Roma, io vi dico, Amici, che [...]
il mio giornale [...] ha corso il rischio di non uscire stamane, perché, per una questione
amministrativa poco simpatica, mi è stato messo un ultimatum, a me, a me che non solo non ne ho
mai tollerato ultimatum, che non solo non ne ho mai posti, pur avendo il diritto di porne, ma ho
impedito che gli ultimatum degli altri arrivassero a molta parte della borghesia italiana, alla quale
abbiamo ridato il coraggio e la dignità di sentirsi ancora una classe politica, col sacrificio di molti
nostri caduti. E io mi domando: come si spiega che per fare le elezioni amministrative di Roma un
partito possa manovrare milioni a diecine di diecine, e il nostro, il quale ha il solo torto di non
andare in giro col mitra oppure con la cassetta delle elemosine (risate), ma di andare semplicemente
a viso aperto, debba trovarsi senza danaro? Vi dico questo non per terrorizzarvi, non temiate che fra
poco io prenda un vassoio e venga tra voi a fare una questua. I danari ci saranno, e li andrò a
prendere io. Voglio vedere, quando andrò io, se non usciranno! So ben io dove li debbo prendere:
quindi ci saranno. Ma il fatto che ci siano negati, che ci siano contestati, che ci siano misurati, che
cosa è se non un’altra prova di quella lotta sorda, feroce, di concorrenti commerciali, che tentano di
limitare le munizioni dell’alleato che pure si batte per essi, che dovrebbe coprirne i fianchi troppo
opimi e le terga che troppe volte si sono mostrate al nemico? Perché se la Democrazia cristiana ha
anch’essa preso coraggio oggi, non ho bisogno di dirvi da chi ha avute le prime iniezioni di
«coraggina» che le sono state e le sono così necessarie per condurre la battaglia politica 70.
@@@
La conclusione del lungo j'accuse contro la Dc era una fiera minaccia rivolta al governo De
Gasperi:
@
Io vi dico che il Governo di Alcide De Gasperi, il Governo della Democrazia cristiana, ha le ore
contate, può capitombolare da un giorno all’altro, forse domani stesso, e non nell’Assemblea
costituente, no, ma in questa Assemblea (applausi vivissimi). Questo vostro lungo e caldo intervento
dice molto di più di quanto io avrei potuto dire a voi, e mi dimostra, e dimostra agli altri, la vostra
squisita sensibilità politica. Dal Secondo Congresso Nazionale del Fronte Liberale Democratico
dell’U.Q. dipende la vita o la morte (voci: mortel) di questo Governo71.
@@@
Era un nuovo pesante ricatto alla Dc che Giannini aveva lanciato. De Gasperi e i suoi dovevano
decidersi a cedere una porzione di potere al qualunquismo che non voleva e, come vedremo, non
poteva più attendere.
Il proposito ostentato dal Fondatore di far cadere il governo era il vero, importante risultato politico
del secondo congresso nazionale. Per il resto era mancato un chiarimento ideologico, anzi le parole
di Giannini avevano accresciuto dissensi e disorientamento; le mozioni approvate, poi, — questa
volta soltanto quattro72 — si erano limitate a ripetere i princìpi dello Stato amministrativo — con
qualche aggiustamento a favore dell’intervento pubblico 73 — e a riaffermare l’idea degli Stati Uniti
d’Europa — ma quella, parallelamente, della revisione dell’«iniquo» trattato di pace.
Ad eccezione di Patricolo le opposizioni avevano taciuto. La massa dei congressisti, poi, si era
lasciata trascinare dall’entusiasmo del momento, dai ricordi abilmente rinverditi da Giannini, dagli
osanna al papa (che, ad un certo momento, sembrava dovesse ricevere i qualunquisti in un’udienza
speciale, tanto che Giannini aveva dovuto smentire pubblicamente tale eventualità). Si erano così
dimenticate certe affermazioni del Fondatore, certi spiacevoli episodi accaduti nell’aula — come le
proteste dalla tribuna dell’on. Mastro]anni, che non era stato eletto al consiglio direttivo centrale; i
diverbi tra Bencivenga e Russo-Perez; la «comica gara» 74 tra lo stesso Russo-Perez e Selvaggi per
tenere la relazione ufficiale sulla politica estera — e le acclamazioni finali avevano legittimato
l’impressione che il Fronte fosse tornato ad essere un partito unito e vitale.
Giannini (rieletto presidente) parlava dell’esito del congresso con accenti trionfalistici: orgoglioso
del fatto che ad assistervi — sia pure in breve visita — fossero andati Togliatti, Piccioni e il
presidente dell’Assemblea costituente, Terracini, credeva davvero che per il qualunquismo stesse
iniziando l’«età dell’oro».
La rottura con la Confindustria.
Le rivelazioni che Giannini aveva fatto al secondo congresso nazionale del Fronte dell’Uomo
Qualunque e quelle che, con la sua sconcertante ingenuità, renderà note nei mesi successivi, sono di
una importanza fondamentale per documentare la strategia seguita dai potentati economici italiani
nel secondo dopoguerra.
Per l’alta borghesia imprenditoriale e agraria si era trattato, all’indomani della caduta del fascismo,
di salvaguardare le posizioni di predominio sostanzialmente conservate durante il ventennio, anzi di
abbattere quei limiti che ad esso aveva potuto frapporre la politica autarchica e interventistica del
regime.
Nel suo sforzo di ritorno al pieno laissez faire, molto era stata agevolata dalla mancanza, a sinistra,
di una effettiva volontà rivoluzionaria. I programmi economici comunisti escludevano infatti
collettivizzazioni e pianificazioni, limitandosi a propugnare la lotta alle concentrazioni
monopolistiche, la riforma agraria e quelle altre riforme che anche i cattolici, come accennato,
avevano posto alla base dei loro programmi. Poteva sembrare assurdo che Togliatti avesse
dichiarato, ad un convegno economico del Pci, nell’agosto 1945 75: «Se dicessimo di volere oggi un
piano economico generale come condizione per la ricostruzione, sono convinto che porremmo una
rivendicazione che noi stessi non saremmo in grado di realizzare. Voglio dire che anche se fossimo
al potere da soli faremmo appello per la ricostruzione all’iniziativa privata». Ma la politica
economica comunista era coerente con l’impostazione data alla politica generale del «partito
nuovo» con la svolta di Salerno. Anche in quel campo si cercava la collaborazione, e non lo scontro
di classe, ben convinti che l’ostentazione di velleità collettivistiche avrebbe portato alla rottura
dell’unità tra le varie forze politiche e al panico e al disimpegno di un’iniziativa privata che,
realisticamente, era considerata indispensabile alla ricostruzione del paese.
Una volta accettato il principio della libertà dell’iniziativa privata, però, questa aveva mostrato di
non voler subire controllo o limitazione alcuna e si era posta a lottare con sottile tenacia contro
quelle misure che, come l’avocazione dei profitti di regime, il cambio della moneta o l’imposta
straordinaria sul patrimonio, ne avrebbero compromessi gli interessi.
L’alta borghesia italiana aveva inizialmente agito con cautela sulla strada che verrà chiamata della
restaurazione capitalistica: di qui i finanziamenti alla Resistenza, le ostentazioni di progressismo e il
doppio gioco che tanto avevano scandalizzato Giannini. Essa si era servita di molteplici complicità
internazionali e, all’interno, del sostegno di partiti come quello liberale e democristiano, ostili alla
palingenesi sociale che sembrava dovesse essere provocata dal «vento del Nord» 76; aveva anche
sfruttato la remissività dei comunisti e, più in generale, l’incapacità delle sinistre di dare una
concreta attuazione ai loro programmi di rinnovamento, continuamente rinviati a un futuro più o
meno immediato, ed era riuscita in tal modo a vanificare i provvedimenti cui abbiamo accennato e
gli altri che, come i consigli di gestione, avrebbero dovuto avviare la riforma dell’ordinamento
economico nazionale.
L’alta borghesia non si accontentava, tuttavia, dell’effettiva impotenza riformatrice dei governi De
Gasperi: essa vedeva, continuamente sospesa sul proprio capo, la minaccia dell’attuazione delle
riforme, e se diffidava profondamente del Pci, nonostante le rassicuranti affermazioni che Togliatti
non tralasciava occasione di pronunziare, poneva serie riserve anche nei confronti della Democrazia
cristiana che, alleata dei socialcomunisti in nome del rinnovamento, continuava a confermare la
propria vocazione sociale, a dichiarare, come visto, che dal proprio interclassismo erano esclusi i
ceti capitalistici, contro i quali le «dichiarazioni di guerra» si susseguivano periodicamente.
In tale contesto vanno spiegate le simpatie per il qualunquismo dei «ceti ultraricchi», come li
chiamerà Giannini. All’inizio, egli si era visto negare ogni aiuto, e aveva accusato di viltà e di
mancanza di coscienza di classe l’alta borghesia che non appoggiava l’unico partito dichiaratamente
borghese esistente, non rendendosi conto delle esigenze di cautela e di diplomazia di una classe
contestata ad ogni parte e perciò costretta a restare sorda agli appelli del qualunquismo, a quei tempi
identificato sic et simpliciter con la reazione e il fascismo. Inoltre, il Fronte dell’Uomo Qualunque
non dava affidamento, forse, a quei ceti, che lo giudicavano un fenomeno transitorio.
Dopo le elezioni del 2 giugno ’46, chetatosi il «vento del Nord» e rivelatosi il successo del nuovo
partito, i circoli economici, e in particolare confindustriali, avevano ripreso coraggio e avevano
iniziato, in un certo senso, a corteggiare Giannini. Il finanziamento del qualunquismo era divenuto
sempre più consistente, fino ad assumere dimensioni solide e stabili, come si è accennato, verso la
fine del 1946, quando Giannini aveva impostato con decisione la sua politica su una alternativa di
centro-destra al tripartito, dimostrando, con il successo ottenuto, che poteva effettivamente
realizzarsi l’allontanamento dei socialcomunisti dal governo. Il qualunquismo era stato considerato,
per la sua opposizione al comunismo che altri non sapevano o non potevano assumere, un prezioso
elemento di rottura della collaborazione tra comunisti e cattolici che stava, minacciosa, alla base
della formula di governo tripartitica. Esso aveva assolto in pieno tale compito
(affidatogli, come si è visto, non soltanto dai potentati economici, ma anche da ambienti
ecclesiastici e dai settori conservatori della stessa De) 77, stimolando la «sconfitta» De alla
espulsione dei «marxisti» dal governo e sostenendo in misura determinante il monocolore
degasperiano.
Dopo la svolta del maggio 1947, le forze che in passato avevano potuto esprimere riserve e
diffidenza nei confronti della politica democristiana erano state progressivamente rassicurate dalla
constatazione che il quarto governo De Gasperi, di democristiani e tecnici, costituiva una sicura
garanzia che il quadro politico generale sarebbe stato il più favorevole al libero e pieno dispiegarsi
delle capacità imprenditoriali: lo aveva confermato indirettamente lo stesso presidente del
Consiglio, dopo la svolta, dichiarando:
@
Le leve di comando decisive in un momento economico così grave non sono in mano né degli
elettori né del governo [...]. Non sono i nostri milioni di elettori che possono fornire allo Stato i
miliardi e la potenza economica necessaria a dominare la situazione. Oltre ai nostri partiti vi è in
Italia un quarto partito, che può non avere molti elettori, ma che è capace di paralizzare e rendere
vano ogni nostro sforzo, organizzando il sabotaggio del prestito e la fuga del capitale, l’aumento dei
prezzi e le campagne scandalistiche. L’esperienza mi ha convinto che non si governa in Italia senza
attrarre nella nuova formazione di governo i rappresentanti di questo partito, del partito di coloro
che dispongono del denaro e della forza economica 78.
@@@
La «resa» del leader del partito cattolico indicava quanto labili fossero divenute le velleità
riformistiche e antimonopolistiche dei democristiani, e apriva la via allo stabile ancoramento degli
interessi confindustriali alla politica governativa. L’adesione italiana al piano Marshall, annunziato
dal segretario di Stato americano il 5 giugno, consolidava in modo definitivo tale ancoramento,
perché inseriva gli interessi italiani nel più vasto gioco del capitalismo occidentale.
La ricostruzione italiana veniva così affidata a un regime di laissez faire che secondava le
aspirazioni dell’alta borghesia, gli aiuti americani promettevano ad essa prosperità, le minacce
riformistiche apparivano sempre più come fantasmi del passato, ora che comunisti e socialisti erano
stati allontanati da ogni leva del potere: rafforzare e difendere il quarto governo De Gasperi
costituiva perciò un ovvio obbiettivo per il «quarto partito».
In questa situazione il nuovo ruolo affidato al qualunquismo, e alle destre in generale, era di
incondizionato sostegno del governo e di garanzia della sua politica anticomunista. Ma Giannini
aveva mostrato chiari segni di non essere uomo da rassegnarsi a ruoli da comparsa. Il suo dialogo
con Togliatti, che aveva chiaramente allarmato gli ambienti economici, gli aveva procurato
disapprovazioni e inviti al revirement, cui in parte egli aveva dato ascolto. Ma la cordialità della
Confindustria nei confronti del qualunquismo aveva cominciato a scemare di nuovo, nell’estate ’47,
per contrasti con Giannini sull’atteggiamento da tenere in materia di politica finanziaria.
Le severe misure di restrizione creditizia che il ministro del Bilancio Einaudi aveva annunziato
nell’agosto, allo scopo di combattere il pericoloso processo inflazionistico, avevano provocato
inizialmente «dure critiche»79 da parte degli ambienti industriali, che vedevano in esse, e non a
torto, il pericolo di una generale recessione produttiva.
Giannini scriverà di essere stato «letteralmente assediato», in quel periodo, da industriali ed uomini
d’affari che lo supplicavano di «intervenire»:
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Durante il periodo balneare siamo stati letteralmente assediati da industriali e uomini d’affari che ci
prospettavano tutti i guai ai quali il Paese andava incontro con la «rovinosa politica creditizia del
senatore Einaudi». La quiete che speravamo di godere nell’incantevole Sorrento fu turbata da visite,
telefonate, telegrammi: in cui si deprecava la politica finanziaria di Einaudi, lo si accusava d’esser
un professore, un teorico, e subordinatamente, anche uno scombinato. Potremmo fare i nomi —
quale tentazione! — di coloro che più angosciati ci chiedevano d’intervenire. Non v’era chi non ci
assicurasse che la politica d’Einaudi era folle, che la disoccupazione più pericolosa ne sarebbe stata
la conseguenza, che la produzione ne sarebbe stata arrestata. A onor del vero dobbiamo riconoscere
che solo Gaetano Marzotto ci espresse un parere nettamente contrario a quello della generalità: ma
quando riferimmo il suo parere ai moltissimi nostri sollecitatori ci sentimmo rispondere che
Marzotto aveva forze finanziarie proprie di tale importanza da potersi infischiare dei deliri teorici
dell’on. Einaudi80.
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Il commediografo s’era messo a «studiare il problema» 81, era giunto alla conclusione che le
lamentele degli ambienti imprenditoriali erano giustificate, e aveva iniziato a combattere la politica
di Einaudi, giudicando che essa «avrebbe potuto portare il Paese in un grave disordine» 82 (più tardi
la definirà «una sopraffazione finanziaria, una eccessiva restrizione del credito che impediva alle
aziende di funzionare, che anemizzava il denaro assassinando un po’ tutti»83).
Ma il governo varava anche una serie di provvedimenti a favore dei complessi industriali
(soprattutto del settore meccanico), costituendo un apposito fondo di 50 miliardi (Firn) per il loro
finanziamento: si trattava, evidentemente, di un tentativo di ovviare al pericolo della paventata
recessione produttiva, se non del vero e proprio «collasso» 84 dell’attività industriale nazionale, e
serviva, come scrive Catalano, a «calmare l’allarme dei ceti capitalistici» 85. Questi dovevano
essersi inoltre convinti della obbiettiva necessità di misure di restrizione del credito, giacché il
salvataggio della lira era in fin dei conti anche un loro interesse. Ma, soprattutto, erano giunti alla
conclusione che la lotta al governo De Gasperi — che rappresentava quanto di meglio si potesse
pretendere nella situazione politica di quegli anni — non faceva altro che favorire la possibilità di
un ritorno al tripartito, secondo la richiesta che socialisti e comunisti (questi ultimi mobilitati sulle
piazze, nel settembre, dalle direttive del Cominform), andavano continuamente gridando.
Si era avuto quindi, negli ambienti confindustriali (specie i più elevati, giacché le accennate misure
di «finanziamento delle aziende si traducevano in un rafforzamento delle industrie più forti» 86), un
mutamento d’atteggiamento circa l’opportunità di combattere apertamente la politica finanziaria del
governo, e Giannini, che aveva iniziato la sua polemica contro Einaudi tra un «coro di laudi» 87, si
vedeva repentinamente invitato a desistere dai suoi attacchi:
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Improvvisamente dal massimo organo sindacale borghese ci vennero pressioni per cessare la
campagna contro la politica finanziaria del Governo 88.
@@@
Il capo del qualunquismo aveva mostrato di scandalizzarsi del fatto che la Confindustria osasse
impartire ordini ad un partito, e aveva opposto loro un netto, e probabilmente violento — com’era
nel suo stile — rifiuto:
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Bisognava che la Confindustria ci convincesse che eravamo in errore, non che ci dicesse senz’altro:
«Cambiate parere». Cosa siamo noi? Forse una truppa di soldati di ventura? Una squadra di lacchè?
Una turba di schiavi affamati? Ma noi siamo uomini, e abbiamo un cervello: ed è col nostro cervello
che vogliamo giudicare le situazioni che vogliamo discutere. Questo io risposi a quei signori. E quei
signori stupirono; erano abituati a trattare con gente pronta all’inchino e al baciamano. Io
m’inchino... m’inchinavo... solamente alle belle signore, tanti anni fa: agli uomini non mi sono mai
inchinato 89.
@@@
Iniziava, con quell’orgoglioso «no» agli ordini della Confindustria, la fase più drammatica della
vicenda politica e umana del povero Giannini. In questa occasione egli rivelava l’onestà della sua
personalità e la buona fede del suo qualunquismo, ma, anche, la sua ingenuità di parvenu della
politica, che credeva di poter ignorare la forza schiacciante di certi ambienti economici e i
condizionamenti che impongono ad uomini e partiti: cominciava anche a comprendere di essere
stato soltanto uno strumento nelle loro mani.
Le gravi difficoltà economiche del Fronte che Giannini aveva rivelato al secondo congresso,
insieme a oscuri ultimatum postigli 90, erano dunque causate dalla crisi con la Confindustria che,
dal momento in cui il commediografo s’era rifiutato di cessare gli attacchi al governo, aveva
sospeso i finanziamenti. Quella crisi era destinata a sfociare nell’aperta rottura.

Propositi antigovernativi di Giannini e «rivolta dei pretoriani».


Lungi dal rinunziare agli attacchi al governo, Giannini, come si è visto, lo aveva minacciato di
morte. Sembrava quindi voler sfidare Confindustria e Democrazia cristiana, punirle della loro
slealtà e dei loro ricatti.
Ma le minacce di Giannini erano motivate da ragioni più profonde. Egli si rendeva ben conto di
quanto il clima politico del paese fosse cambiato negli ultimi mesi. Con l’espulsione dei
socialcomunisti dal governo e l’accentuazione della propaganda anticomunista, il partito cattolico
stava togliendo molto terreno ai qualunquisti, anzi, sfruttando il dialogo Giannini-Togliatti,
perseguiva con abilità l’operazione di recupero di quei dissensi moderati che nel novembre ’46
avevano duramente ridimensionato la sua consistenza.
Il Fronte era in crisi, le ragioni che avevano attratto l’opinione pubblica verso la sua protesta si
stavano esaurendo, le simpatie dei circoli economici ed ecclesiastici si dirigevano ora apertamente
verso la De, la lotta dei vecchi e nuovi avversari rischiava di sgretolarlo: occorreva perciò
conquistare senza indugio le tanto agognate posizioni di potere, per poter rilanciare dall’alto di esse
— tanto più che si avvicinavano le nuove elezioni politiche — la struttura del partito e contrastare
con efficacia la altrui ostilità.
Il senso delle minacce gianniniane era appunto questo: il qualunquismo intendeva andare al
governo, e se la Dc avesse persistito nei suoi rifiuti, non avrebbe potuto contare più sul suo
determinante e «disinteressato» appoggio.
I circoli «benpensanti» di tutta Italia, e non solo d’Italia, seguivano con il fiato sospeso le vicende
parlamentari dell’ottobre ’47. Un pericoloso attacco stava per essere sferrato contro il governo De
Gasperi. Ben tre mozioni e un ordine del giorno di sfiducia erano in discussione all’Assemblea
costituente (rispettivamente comunista, socialista, socialdemocratica e repubblicano).
Socialdemocratici e repubblicani miravano ad essere inclusi nella coalizione governativa, comunisti
e socialisti a travolgerla, sperando in una riedizione del tripartito. Tutti, in ogni caso, intendevano
approfittare del rancore di Giannini, dei suoi propositi antigovernativi.
Circolavano le voci più disparate in quei giorni, si parlava di contatti tra Giannini e Togliatti e di
intese per un ministero Nenni-Togliatti-Giannini. Erano voci, naturalmente, smentite dagli
interessati, ma, per quanto riguarda Giannini, è certo che egli avrebbe accettato con favore una
simile intesa. L’aveva prospettata a Togliatti fin dal dicembre del ’46, e aveva cercato di renderla
operante a Napoli, quando, come aveva confessato al secondo congresso, aveva preso l’iniziativa di
trattare con i comunisti per l’amministrazione del comune (il progetto era fallito — aveva spiegato
— per le minacce di dimissioni di alcuni esponenti qualunquisti 91): era un empirista e, nel suo
inesausto desiderio di giungere al governo, aveva già dimostrato di non prestare troppa attenzione
alle ideologie dei suoi possibili alleati. Per giunta, nell’ottobre ’47, sarebbe stato ben felice di fare
un «dispetto» alla Dc e alla Confindustria.
Giannini interveniva nella discussione il 2 ottobre92 («la crisi ministeriale virtualmente aperta»,
scriveva «Il Buonsenso» nel riferirne il discorso93). La sua era una lunga lamentela contro la Dc
(«noi l’abbiamo aiutata sempre e non ne abbiamo avuto, in cambio, che colpi, ingiurie e, il più delle
volte, qualche cosa di peggio: della degnazione») e contro il governo «troppo pianificatore» e
«troppo socialista». Chiedeva la pacificazione degli italiani, una «condotta liberale progredita» che
portasse alla «smobilitazione, graduale e rapida, dell’economia di guerra» e al «ritorno alla
maggiore libertà possibile, nel più breve tempo possibile».
Dopo aver richiesto «l’europeismo a fatti e non a parole», Giannini lanciava il suo ultimatum a De
Gasperi:
@
Noi vogliamo vigilare dentro il governo, per impedirne le deviazioni. Quello che chiediamo è una
partecipazione adeguata all’amministrazione del Paese [...]. Devo adesso chiedere una cosa molto
seria: noi chiediamo che uno di questi ministeri sia quello dell’Unione europea, Unione europea che
noi dobbiamo dirigere, perché abbiamo il diritto almeno di tentare di riportare il nostro Paese,
spiritualmente, alla testa di questo continente la cui civiltà si è formata al lume della fiaccola che
splendeva nel nostro Paese! [...] Da quanto ci risponderà l’onorevole presidente del Consiglio (il
solo col quale desideriamo avere a che fare) dipenderà il nostro voto su questa discussione 94.
@@@
Il leader qualunquista aveva affermato chiaramente che il suo partito si rifiutava di continuare a
sottostare al ricatto politico per cui era costretto a votare in ogni caso a favore del governo per non
fare il gioco delle sinistre («Voi dovete votare per noi — ci si dice —, voi non potete votare per
altri. Non votando per noi voi votate per Togliatti, per il comunismo, per le forche, per la Siberia»
95): «a un certo punto ci si ribella», aveva esclamato, e aveva descritto lo stato d’animo del gruppo
parlamentare del Fronte dell’Uomo Qualunque con la storiella di un pappagallo:
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Si tratta d’un pappagallo, il quale viveva in una famiglia di monarchici spagnoli, una famiglia di
hidalga, fierissima del suo sentimento monarchico. Sapete come vanno le cose nella Spagna: ogni
tanto i repubblicani si avventano sui monarchici e viceversa. Questa famiglia subì assalti da parte
dei repubblicani di fresco tornati al potere. Spaventata dalle conseguenze che avrebbe potuto avere
l’eccessiva loquacità del pappagallo, la famiglia hidalga aveva preso l’abitudine di nasconderlo ogni
volta che avvenivano le perquisizioni, e lo metteva sotto la gonna della nonna perché stesse più
tranquillo. Per una volta, per due, il povero pappagallo ha resistito al mefitico ambiente (si ride) di
quella gonna così come il gruppo parlamentare qualunquista resiste eroicamente sotto la tonaca
democristiana (si ride). Ma alla terza volta non ne ha potuto più, e con un colpo di becco ha
spaccato la gonna della nonna ed è uscito gridando: Prefiero la muerte, viva el rey! (vivissima
ilarità). Ora se un pappagallo ha avuto tanto coraggio, noi qualunquisti riteniamo di non poter
essere da meno dell’ardimentosa bestiola che a un certo momento, come noi, non ne ha potuto
più96.
@@@
Giannini aveva visto ridere tutti alla sua brillante storiella, e se ne era mostrato orgoglioso:
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Lo spettacolo d’un intero parlamento che ride — scriveva in una «vespa» 97 — è certamente
interessantissimo. De Gasperi non ha nemmeno tentato di trattenere la sua ilarità, e ha riso insieme a
Togliatti, a Nenni, a Lucifero, a Nitti, a Bergamini, a Lussu, a Valiani, a Saragat e a tutti gli altri.
Sono rimasti seri soltanto l’on. Dossetti, che in seguito a un severo allenamento è riuscito a ridere
tutte le risate della giornata al mattino presto dalle sette alle sette e un quarto; e l’on. Piccioni, che,
un po’ per sordità, un po’ per altre ragioni, non ha compreso lo spirito della storiella.
Ha riso dopo, oh molto dopo, quando l’on. Proia e l’on. Tupini, sommando i loro sforzi, sono
riusciti a spiegarglielo. L’on. Caronia, ch’è sempre premuroso verso il collega Piccioni, vedendolo
ridere s’è congratulato con lui e gli ha detto: «Bravo, sono contento che tu l’abbia finalmente
capita».
Al che l’on. Piccioni ha risposto: «Caro, ho riso solamente perché Proia e Tupini ridevano come
matti, ma t’assicuro che non ho capito niente. Io non capisco mai niente».
@@@
Non tutti, probabilmente, avevano gradito in maniera così «calda» la storiella del pappagallo: «un
senso di costernazione
— aveva notato l'«Avanti!» 98 — si diffonde a questa storiella nei banchi democristiani, che tuttavia
subiscono in silenzio. De Gasperi tace». (Il quotidiano socialista descriveva i democristiani come
«umiliati, senza tuttavia avere la forza di difendersi per paura di perdere l’alleato, e disposti quindi a
subire tutti i paragoni»).
Sarà questa l’ultima volta che Giannini godrà del personale successo delle sue esibizioni
parlamentari. Mentre egli mieteva allori dinanzi a quell’autorevole pubblico, maturavano infatti gli
eventi del dramma del qualunquismo.
Al «secco ultimatum di Giannini», come lo chiamava «l’Unità» 99 (l’«Avanti!» lo definiva «ricatto
burlesco» 100) replicava duramente, il 3 ottobre, il segretario della Dc, Piccioni, il quale, senza
neanche rispondere direttamente al leader qualunquista, proclamò che la Dc intendeva «rivendicare
pienamente — contro qualsiasi illusione, più o meno interessata — la propria libertà di
atteggiamento e di azione» e perciò non avrebbe ceduto «a lusinghe, a promesse, a minacce di vario
genere»: «È affar vostro, di voi gruppi parlamentari di assumere questa grave responsabilità in
quest’ora storica del nostro Paese, di rinnovare o di togliere la fiducia concessa al governo, per
precipitare il Paese in non so quale nuova grave crisi» 101.
Era evidente il rifiuto da parte democristiana delle richieste di Giannini, anche se De Gasperi
tentava di addolcirlo nel suo intervento102 dichiarandosi d’accordo con molte idee qualunquiste e in
particolare con l’europeismo 103.
Sembrava anche evidente, a questo punto, che il gruppo parlamentare qualunquista avrebbe votato
contro il governo, ponendo in atto le minacce acclamate al secondo congresso e approvate dai
deputati in una riunione nella quale si era provveduto perfino a distribuire le cariche nel nuovo
governo 104.
Ma è a questo punto che si verificò quella che il commediografo chiamerà «la rivolta dei pretoriani»
105.
In una nuova riunione del gruppo parlamentare qualunquista, avvenuta, il 4 ottobre, poche ore
prima delle votazioni sulle mozioni di sfiducia, Giannini doveva amaramente constatare che,
improvvisamente, la unanimità con la quale i suoi deputati avevano approvato il progetto di far
cadere il governo s’era dissolta. Un cospicuo numero di essi, con a capo Selvaggi e Russo-Perez.
manifestava aperto disaccordo sulla precedente decisione: messa la questione ai voti, i «ribelli» si
rivelavano ben 18, contro i 13 fedeli a Giannini e ai suoi propositi antigovernativi. Per evitare che la
spaccatura divenisse di pubblico dominio (si era alla vigilia delle nuove elezioni amministrative di
Roma), non rimase a Giannini che invitare i 13 a uniformarsi alle decisioni della maggioranza.
I risultati delle votazioni alla Costituente, nella notte tra il 4 e il 5 ottobre, dimostrarono che la
salvezza del governo fu dovuta proprio al revirement qualunquista.
La mozione Nenni veniva respinta con 271 voti contro 178, quella Togliatti, visto l’esito della
precedente, ritirata. Ma la mozione Saragat veniva respinta con 271 voti contro 224, e l’ordine del
giorno Magrini (repubblicano) con 270 contro 236.
Giannini, che personalmente si era astenuto, guardava con particolare amarezza all’esito dell’ultima
votazione, che aveva visto la maggioranza filogovernativa ridotta a soli 34 voti: «Il quarto
Gabinetto De Gasperi — scriveva — s’è salvato per 34 voti, ossia per i 33 qualunquisti più il voto
dello stesso De Gasperi; [...] solo per i nostri voti il governo si regge [...] solo per i nostri voti il
Governo sarebbe caduto» 106.
Cominciavano a circolare i primi commenti su quello che l’«Avanti!» definiva il «voltafaccia
qualunquista» 107 («il governo nero salvo per 34 voti», scriveva il quotidiano socialista). «l’Unità»
sosteneva 108 che «il pappagallo qualunquista» era tornato «sotto la tonaca democristiana» a causa
degli «ordini di scuderia» della Confindustria, e rivelava che Selvaggi (il quale aveva avuto un
segreto colloquio con De Gasperi il 3 ottobre) sarebbe stato «ricompensato» del «suo servigio» con
la nomina di ambasciatore a Washington 109.
Le risposte ai perché della scelta parlamentare qualunquista sarebbero venute, dopo qualche giorno
di silenzio imposto dalle elezioni amministrative romane (il 9 ottobre, Giannini aveva partecipato,
con Bencivenga e Selvaggi, a un comizio alla basilica di Massenzio, e nel suo intervento aveva
detto che i qualunquisti si erano voluti limitare, per il momento, ad «ammonire» il governo De
Gasperi110), dallo stesso commediografo.
Il 22 ottobre Giannini si sfogava sull’«Uomo qualunque» con un articolo dal significativo titolo: La
serpe in seno. Si riferiva ai deputati ribelli, li chiamava «democristiani onorari», li accusava di
«delitto di leso partito», definiva il loro gesto un «pronunciamento da repubblichetta
sudamericana». Ma, soprattutto, se la prendeva con i capi dei «golpisti», i responsabili della
«sobillazione del gruppo parlamentare», cioè Selvaggi e Russo-Perez: Selvaggi era «non soltanto un
disgregatore e un perturbatore per costituzione», ma anche «e principalmente, un dilettante politico
d’intelligenza molto limitata», il quale, «accecato dall’ambizione», si era dedicato all’impresa di
impossessarsi del Fronte qualunquista; lo aveva seguito nella sua stolta impresa Russo-Perez, «la
cui sete di posti e di promozioni è documentabile dal nostro archivio nel quale sono contenute le sue
affannose richieste».
Giannini si dedicava dunque all’azione di diffamazione pubblica dei suoi nuovi avversari.
All’inizio, tuttavia, non si rendeva ancora ben conto di che cosa ci fosse effettivamente dietro la
loro ribellione, sapeva solamente che Selvaggi «aveva ricevuto una somma abbastanza forte dalla
Confindustria senza una ragione precisa» 111 e che, nella riunione in cui s’era manifestata la
ribellione, aveva promesso molti milioni se i deputati qualunquisti avessero votato a favore del
governo («Il Fronte non si vende!», scriverà di avergli risposto 112).
Ben presto, doveva constatare a sue spese che Selvaggi era stato soltanto lo strumento di un vero e
proprio complotto organizzato dalla Confindustria, dalla Dc e da un uomo destinato a divenire un
prestigioso leader dei monarchici (ed erede tra i più importanti, nel Meridione, delle fortune del
qualunquismo): l’armatore Achille Lauro. La tesi del complotto non è il frutto della vittimistica
fantasia di Giannini: ne farà una preziosa «confessione», molti anni dopo, lo stesso Lauro, allora
qualunquista e amico del commediografo:
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La situazione del governo De Gasperi, in quel momento, era particolarmente delicata ed appariva
evidente che se tutto il gruppo Giannini fosse passato a votare con le sinistre, il governo sarebbe
caduto. Eravamo a questo punto, quando l’on. Piccioni, allora segretario della Democrazia cristiana,
mi mandò a chiamare, pregandomi di intervenire presso Giannini per fare opera di persuasione e
indurlo a recedere da un proposito che avrebbe potuto consegnare l’Italia al comunismo con le mani
e con i piedi legati. Si rivolse a me perché mi sapeva concittadino e amico di Guglielmo Giannini e
forse anche perché credeva che io, in seno al partito dell’«Uomo Qualunque», godessi di una
autorità maggiore di quella che realmente avessi. Secondo quanto egli mi espose, la situazione era
veramente grave: Guglielmo Giannini aveva raggiunto un accordo con Togliatti e con Nenni per far
cadere il governo De Gasperi, ottenendo in cambio la promessa che egli stesso sarebbe stato il
nuovo presidente del Consiglio con a lato, in qualità di vice-presidenti, Togliatti e Nenni. Quale
sarebbe stato il seguito non è difficile immaginare.
Mi recai da Giannini. Egli era degente per dolorosissime fistole e mi ricevette a letto. Rimasi a
discutere con lui per ben quattro ore, ma non riuscii a convincerlo. Io credo che le sue sofferenze,
veramente terribili, gli impedissero di vedere le cose con la necessaria obbiettività. Era diventato
irascibile, nervoso, ostinato. A ogni mio argomento rispondeva: «Debbo dare un colpo in testa alla
Democrazia cristiana e glielo darò». Tornai da Piccioni per riferirgli il fallimento della mia
missione. Mi accompagnava l'on. Cappa, allora ministro della Marina mercantile, e che, genovese e
conoscente mio, gli aveva fatto il mio nome come quello del solo uomo capace di convincere
Giannini a mutare opinione. Di fronte alla ostinata pervicacia del leader qualunquista, non
rimaneva che una sola cosa da fare: persuadere uno ad uno i suoi deputati a votargli contro. Ora,
se dal punto di vista della lotta politica a me non importava nulla come la pensasse Giannini e
neppure che egli intendesse rovesciare De Gasperi, io sono convinto avversario del comunismo e di
tutto ciò che porta alla dittatura dello Stato ai danni dei cittadini. E fu per evitare la iattura di un
governo paracomunista che io mi decisi ad incontrarmi con l'on. Piccioni e con Fon. Cappa, non
certo per salvare la Democrazia cristiana perché tale. Dunque, alcuni giorni dopo il mio lungo
colloquio con Giannini, ebbe luogo in una sala riservata deli Albergo Moderno, a Roma, la
riunione con i deputati dell’«Uomo Qualunque». Era presente anche il presidente della
Confindustria, Costa. Per la verità trovammo il terreno molto favorevole. I deputati del partito di
Giannini, tutti eletti con i voti di accaniti e irriducibili anticomunisti, si sentivano a disagio. Ma se
da una parte avrebbero voluto che Giannini mutasse i propri progetti, dall’altra temevano che, se
fossero usciti dal partito, non avrebbero più avuto alcuna probabilità di essere rieletti. In definitiva,
essi chiedevano, in cambio di un voto contro la politica impostata da Giannini, la garanzia del
nostro appoggio per essere rieletti alla prossima occasione, ma non nelle file della Democrazia
cristiana. E così fui costretto a prendere precisi impegni per le future elezioni.
Nella storica seduta dell’Assemblea costituente che ebbe luogo pochi giorni dopo, il gruppo
dell’U.Q. votò compatto per De Gasperi, con la sola eccezione di Giannini113.
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Certamente, come ricorda Lauro, molti deputati qualunquisti dissentivano dai propositi di Giannini,
in parte per le sue dichiarazioni filocomuniste al secondo congresso: Selvaggi scriveva appunto
sull’«Italia nuova» che «la caduta del governo avrebbe significato soltanto la vittoria delle
sinistre»114 e che «il nemico numero uno del qualunquismo» non poteva essere la Democrazia
cristiana «nonostante tutti i suoi torti», ma il Partito comunista 115. Ma il modo in cui s’era
manifestato questo dissenso indicava che le convinzioni ideali s’erano lasciate inquinare dalla
slealtà e dalla corruzione. E quest’ultima, a quanto pare, non si limitava alle promesse di rielezione
di Lauro o a quelle di incarichi ministeriali di De Gasperi, ma anche alle concrete elargizioni
finanziarie.
La vicenda dei giornali di Selvaggi («Italia nuova» di Roma e «Il mattino d’Italia» di Milano)
confermerà, anche in questo caso, le accuse di Giannini.
Espulso dal Fronte e non eletto, il 18 aprile ’48, nelle liste del Pnm, Selvaggi si vedrà infatti
costretto a sospendere per difficoltà economiche le pubblicazioni dei suoi giornali. Per provvedere
alle passività delle sue aziende giornalistiche, il giovane leader monarchico farà citare
dall’amministratore unico del gruppo editoriale, Giorgio Criscuolo, la Confindustria, sostenendo
che fra quest’ultima e le società editoriali si era costituita una società di fatto:
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Assume l’istante [Criscuolo] — si leggerà sul «Tempo» il 30 gennaio 1949 116 — che fra le società
da lui rappresentate e la Confindustria si fosse costituito un contratto innominato o, in via gradata,
una società di fatto, adducendo, a sostegno di tale assunto, le erogazioni, da parte della
Confindustria, di fondi necessari alla vita dei due giornali dopo il 2 giugno 1946, nonché le direttive
generiche e specifiche che la Confindustria stessa avrebbe impartito alla direzione politica degli
organi in questione; e vengono citati, in proposito, colloqui, riunioni, assicurazioni, veti, pagamenti,
susseguitesi più o meno regolarmente per due anni. In particolare, poi, l’istante assume che, venuti a
cessare i due giornali, per il rifiuto dell’ente sovvenzionatore di continuare a provvedere ai crescenti
bisogni editoriali, i supremi esponenti dell’ente stesso, magari per eccesso di mandato, si assunsero
l’obbligo di provvedere alla liquidazione delle passività, concordando all’uopo, con un alto prelato
[...] la nomina di un mandatario investito delle funzioni di liquidatore di fatto delle due aziende [...].
Dopo la prima rata, peraltro, il mandatario in questione si sarebbe trovato nell’impossibilità di far
fronte agli impegni presi per la mancata corresponsione da parte dei mandanti delle somme residue
e necessarie; donde l’azione giudiziaria delle due società editrici che rivendicano inoltre danni vari.
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Il 23 ottobre ’49, nel comizio all’Adriano di Roma cui ci siamo già riferiti, Giannini leggerà alcuni
passi della citazione:
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Ci sono frasi in questa citazione che davvero mi spiace di non poter leggervi tutte. Cose di questo
genere:
«C’erano fra i collaboratori dei giornali, in posti preminenti come redattore economico, un
funzionario della Confindustria, il dott. Pistoiesi [...]. Venivano dalla Confindustria non solo articoli
da pubblicare, ma inviti, direttive e ordini, di natura anche non redazionale». Io non so con quale
pudore sia stata scritta questa citazione, ma a me interessa leggervi soltanto un capoverso a pag. II
[...]. «Che se talvolta un pezzo veniva saltato o una pubblicazione trascurata, la mattina seguente
giungevano puntualmente al giornale rimostranze da parte della Confindustria (Testi [...]) che nel
novembre (ma in realtà nell’ottobre) 1947, in occasione dell’azione socialcomunista intesa a
rovesciare il Governo De Gasperi, gli esponenti della Confindustria fecero pressioni sull’on.
Selvaggi perché i due quotidiani appoggiassero il Governo De Gasperi e furono in quei giorni
larghi di aiuti finanziari».
[...] Questi e non altri erano i puri difensori d’un ideale democratico, d’un anticomunismo, d’un
antigianninismo pagato in contanti. Essi vendevano non solo la loro penna di giornalisti, ma la loro
opera, la loro coscienza di eletti del popolo [...]. Potevo io non cacciare questa gente? L’ho cacciata,
la caccerei ancora, rifarei dieci volte quello che ho fatto, ridurrei il Partito a cento Amici, a
cinquanta, a due, l’ucciderei: di questo pane io non ne mangio! (Bravo, applausi) 117.
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Giannini verrà a conoscenza di tutti i retroscena del complotto ordito contro di lui quando il Fronte
era ormai scomparso dal panorama politico italiano (solo negli anni Cinquanta un’intervista di
Lauro gli rivelerà la riunione al Moderno; stupito, scriverà a Costa chiedendogliene conferma, e la
avrà, insieme con attestazioni di rincrescimento per i «malintesi» passati 118). Ma che nella lotta
antigianniniana e nella tenace difesa del governo De Gasperi, si fossero coalizzati Dc, Confindustria
e Lauro (con l’approvazione dei circoli vaticani) doveva apparirgli sempre più chiaro dopo quel
fatidico 4 ottobre ’47.
La ribellione del gruppo parlamentare non lo aveva indotto alla ragione, aveva anzi esacerbato il
suo animo barricadiero e accresciuto le sue velleità antigovernative: far cadere De Gasperi era
diventato per lui quasi un fatto personale, una vendetta contro i traditori e i loro mandanti.
Giorno dopo giorno si susseguivano sulla stampa qualunquista gli attacchi alle «invereconde voglie
di sconfinato predominio del Partito democristiano» 119. «Io non posso più continuare ad
appoggiare un governo — scriveva Giannini sul1’«Uomo qualunque»120 — espressione d’un
partito ch’è venuto meno all’impegno assunto con noi di non abusare del potere», e Tieri gli faceva
eco sul «Buonsenso»121 ribadendo che il qualunquismo doveva «potere stare anche esso al potere
per influire direttamente sull’azione governativa italiana secondo il suo programma»:
Collaboratori, non servi sciocchi era appunto il titolo di un altro suo articolo.
Ma mentre Giannini si ostinava nel voler abbattere il governo e Tieri avvertiva: «né vale la
continua, indiretta, ipocrita azione lusingatrice dei corridoi di Montecitorio ad addormentarci: siamo
resistenti agli oppiacei e ai narcotici» 122, il Fronte dell’Uomo Qualunque era investito da una crisi
terribile.
«l’Unità» scriveva il 29 ottobre: De Gasperi e Confindustria ricattano Guglielmo Giannini - Costa
e Lauro negano i soldi se l'U. Q. non si piegherà a tornare sotto la tonaca di De Gasperi, e dava
notizia di 20 milioni offerti da Alberto Consiglio per conto di industriali napoletani a condizione
che Giannini «si mettesse di nuovo agli ordini del governo»; un altro colloquio — riferiva sempre il
quotidiano comunista — s’era svolto tra Tieri e Costa e quest’ultimo aveva confermato che il Fronte
non avrebbe avuto finanziamenti se non cessando la campagna contro un governo «giudicato dalla
Confindustria ‘ il migliore possibile ’» 123.
Ma Giannini mostrava di non essere disposto a subire imposizioni o ricatti:
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Sembrerà molto strano a chi è abituato a comprare o a vender coscienze sul mercato della politica,
ma noi non ammettiamo che ci si possa dire: «Attaccate il governo perché così ci fa comodo». Lo
attacchiamo solo se ci convinciamo che è utile e necessario al Paese l’attaccarlo. Meno che mai
possiamo ammettere che ci si dica: «Bè, adesso smettete di attaccare il governo perché oggi a noi
così conviene». E se qualcuno s’azzarda a dirci: «O fate come noi vogliamo o vi facciamo la guerra
senza esclusione di colpi bassi e sleali», noi rispondiamo tranquillamente che camorristi e mafiosi
non ci fanno più paura di quanta non ce ne fecero le sinistre vere e false all’epoca dei Comitati di
Liberazione [...]. Il nostro programma è sempre lo stesso: contro tutti gli oppressori, tutti gli
sfruttatori, d’ogni classe, d’ogni colore, d’ogni risma.
E a chi ci tratta senza riguardo guerra senza quartiere. A parte che di nulla e di nessuno abbiamo
indispensabile bisogno, sta il fatto che per la nostra opera, per il nostro ardimento, per quanto
abbiamo per tutti ottenuto o conquistato, noi siamo creditori di chiunque si ritenga persona
d’ordine.
Chi vuol pagare il suo debito e offrirci il suo aiuto, deve offrircelo col cappello in mano, e
pregandoci d’accettarlo. Chi non sente la necessità di dimostrarsi riconoscente, e soprattutto ben
educato con noi, rimanga dietro il suo banchetto di strozzino e tratti con i suoi pari124.
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Il povero commediografo doveva pagare a caro prezzo la sua fiera volontà di indipendenza. Al
secondo congresso aveva annunziato che le difficoltà economiche del Fronte sarebbero state
superate 125, ma ora, con la sua sfida alla Confindustria, non faceva altro che aggravarle:
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Non avemmo più appoggi, non ci fu più un soldo, incominciammo a essere soffocati dai debiti126.
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La sospensione della pubblicazione del «Buonsenso».


La prima conseguenza della orgogliosa resistenza di Giannini alle pressioni della Confindustria, fu
la fine del quotidiano qualunquista.
«Il Buonsenso» (che si stampava nelle due edizioni di Roma e di Milano) non era mai riuscito a
raggiungere la diffusione dell’«Uomo qualunque», e le sue passività erano state sanate, fino al
dicembre del ’46, con i guadagni del settimanale, che il commediografo vantava come uno dei rari
giornali attivi d’Italia (e in effetti con «L’Uomo qualunque» si era contribuito perfino al
finanziamento del partito). Dopo quella data, però, la situazione s’era rivelata sempre più
insostenibile, a causa del generale aumento dei costi editoriali, e Giannini aveva scritto il 12
febbraio che probabilmente avrebbe dovuto «sacrificare» le due edizioni del quotidiano 127. Perché
questa eventualità non si fosse poi verificata, lo aveva candidamente confessato in una «vespa»
apparsa sul «Buonsenso» del 23 luglio (’47): «Non abbiamo nessuna difficoltà a dichiarare che il
nostro passivo è sanato dall’intervento finanziario dei nostri amici politici».
Ma i rapporti tra Giannini e i suoi «amici» erano giunti, nell’ottobre, come si è visto, all’aperta
rottura. Il Fondatore e i suoi fedeli si erano buttati in un’impari lotta contro i potenti, ed essi si
stavano servendo, per sconfiggerli, delle loro tradizionali armi.
Il I novembre «Il Buonsenso» annunziava, con un drammatico articolo del suo direttore, Ettore
Basevi, la sospensione delle pubblicazioni. Fascismo bianco era il significativo titolo dell’articolo:
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Ieri 31 ottobre «Il Buonsenso» edizione Alta Italia ha sospeso le pubblicazioni. Come si è giunti a
questo? È necessario dirlo chiaramente senza veli di ipocrisia. Un giornale quotidiano inghiotte una
quantità di denaro che è andata man mano crescendo per gli aumenti pazzeschi dei vari costi [...]. Ci
furono offerti non chiesti aiuti che erano, o sembravano disinteressati, che non influivano sulla
nostra condotta politica, che non modificavano la linea qualunquista che volevamo e vogliamo
seguire. Ma un giorno, a torto o a ragione, ci siamo schierati contro il prepotere della Democrazia
cristiana, contro alcune realizzazioni e non realizzazioni del Governo democristiano: e da quel
giorno, di colpo, gli aiuti ci sono mancati. Era facile prevedere che ci si voleva portare di fronte al
dilemma: o seguire un’altra linea politica o essere schiacciati. E al momento in cui il dilemma è
apparso chiaro ai nostri occhi abbiamo immediatamente scoperto il suo legame con altre
macchinazioni, nonché il vero movente di certe speculazioni scandalistiche intorno al
Qualunquismo, il perché della sua inopinatissima crisi nel settore parlamentare all’indomani di un
Secondo Congresso trionfale, la ragione dell’agitarsi di certi perturbatori e disgregatori,
sperimentati becchini di partiti e movimenti politici [...]. Tutti sono indignati per il nostro attacco
alla Democrazia cristiana, per la nostra assurda pretesa di non volerle fare da lustrascarpe, bensì
trattar con lei sulla base del reciproco rispetto. E fra loro non sono mancati quelli che ci hanno
affettuosamente consigliato di non batter la testa nel muro, di rinunziare alla nostra idea
qualunquista, di concentrarci in una solida combinazione parlamentare per votar meglio e di più per
il Governo, di non dimenticare «che oggi si va a destra». Noi non andiamo certo a sinistra, né tanto
meno all’estrema sinistra, della quale respingiamo i concetti e i metodi in tutto e per tutto simili a
quelli dell’estrema destra che nemmeno vogliamo accettare. Il nostro programma è quello del primo
giorno e di sempre: qualunquismo puro, opposizione alla guerra specialmente civile da chiunque
fatta. Intendiamo rimanere quelli che fummo e che siamo [...]. Né pochi né molti milioni potranno
farci cambiar d’idea.
Come non ci piegammo al fascismo nero che soppresse partiti e giornali avversi con la violenza
fisica, così non ci piegheremo al fascismo bianco che vuol sopprimere partiti e giornali avversi con
la violenza morale.
Al momento opportuno riprenderemo le pubblicazioni che oggi sospendiamo, e le riprenderemo
enormemente rafforzati dalla prova di purità e di indipendenza che diamo oggi, prova che è vittoria
nostra e vergogna altrui. Il Qualunquismo è più vivo che mai; si irrobustì per effetto d’una prima
persecuzione, e diventerà ancora più gigantesco attraverso questa seconda e quante altre ancora
potranno seguirla.
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Sul «caso Buonsenso», che rendeva d’attualità il problema del finanziamento della stampa e, più in
generale, dei partiti, il democratico del lavoro Nasi presentava il 10 novembre ’47 una
interrogazione al presidente del Consiglio dei ministri, «per conoscere se egli non stimi che possa
tradursi in grave accusa contro il governo l’affermazione del quotidiano «Buonsenso» di essere
stato costretto a cessare la pubblicazione per aver perduto le abituali sovvenzioni di organismi e ceti
plutocratici e questo non appena il qualunquismo si schierò contro il Governo democristiano» 128.
A Nasi rispondeva il sottosegretario per la presidenza del Consiglio, Andreotti, che cercava di
minimizzare l’episodio ed in ogni caso affermava che «il governo e[ra] stato compieta-mente
estraneo alle vicende che [avevano] condotto alla sospensione del giornale ' Buonsenso ’; e che
quindi ogni insinuazione o critica, o e[ra] gratuita o e[ra] calunniosa»129.
Ma Nasi replicava citando il caso del «Giornale dell’Emilia», finanziato dagli agrari, prima anti e
poi filogovernativo e, soprattutto, quello del «Risorgimento» di Napoli, di proprietà dell’armatore
Achille Lauro, divenuto improvvisamente filogovernativo dopo una visita a Lauro del ministro della
Marina mercantile Cappa (latore di promesse di appoggio «per i suoi interessi di armatore»).
La verità era, concludeva Nasi, che si stava assistendo alla riscossa degli interessi più reazionari, e
che il governo e il partito di De Gasperi (che, del resto, costituivano «un tutto inscindibile»)
garantissero tale riscossa, era confermato dalle vicende del «Buonsenso» e degli altri giornali:
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Quelli che oggi pagano i giornali sono gli stessi che pagavano durante il fascismo (applausi a
sinistra). Sono gli stessi che ora tentano l’arrembaggio alle fonti dello Stato e a tutti i punti cruciali
della Nazione, sono gli stessi che noi dobbiamo affrontare. È un cancro questo nella vita della
Nazione, che bisogna assolutamente estirpare 130.
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Giannini e il suo movimento avevano rappresentato, come si è visto, uno strumento importante per
quella riscossa: ma, con le sue dolorose disavventure, il commediografo stava dimostrando di
esserlo stato in buona fede, in perfetta ingenuità. «Non si può che ammirare — scriveva in quei
giorni 1’«Avanti!»131 — il franco linguaggio del ‘ Buonsenso ’ in punto di morte. Più complicato è
apprezzarne il valore in vita e soprattutto le illusioni. Credeva dunque il Giannini che i capitalisti
dessero milioni per il gusto di leggere la sua saporita prosa a base di ' non rompetemi gli zebedei
’?».

Lo sfaldamento del Fronte dell’Uomo Qualunque.


La sospensione delle pubblicazioni del «Buonsenso» era stata la conseguenza più vistosa
dell’«affamamento» 132 del qualunquismo deciso dall’alta borghesia italiana, ma non certo l’unica.
Per Giannini iniziava un periodo di penose vicissitudini. Il Fronte era soffocato dai debiti. Solo per
il secondo congresso nazionale, organizzato da Tieri in maniera grandiosa, c’erano da pagare 21
milioni. Sull’amministrazione del partito gravavano inoltre, solo a Roma, ben 120 impiegati e, vista
la grave crisi economica, si doveva procedere alla loro liquidazione (che in diversi casi avverrà, per
«iniziativa» degli interessati, in sede giudiziaria).
Giorno dopo giorno giungevano agli uffici qualunquisti intimazioni di pagamento, e «per mesi e
mesi i creditori (tipografi, albergatori, trattori, cartolai, etc.) si avvicendarono [...] vociando; lo
scandalo, ingrandito dai malevoli commenti degli avversari, formò oggetto di conversazione per
lungo tempo; né mancarono fastidiosi strascichi giudiziari» 133.
Ai circa 50 milioni di debiti del Fronte si dovevano aggiungere quelli accumulati dal «Buonsenso»,
e Giannini dovrà subire l’umiliazione di vedersi minacciato di fallimento (lo salverà da tale pericolo
monsignor Ronca, nominando un liquidatore e provvedendo a fronteggiare i più grossi impegni 134:
il Vaticano mostrava, in qualche modo, la sua riconoscenza).
Parallelamente alla crisi economica, si aggravava quella politica. Le feroci accuse di Giannini ai
«golpisti», contenute nell’articolo La serpe in seno 135, avevano indotto il gruppo parlamentare,
riunitosi il 22 ottobre, a dettare a Giannini 10 condizioni, pena le dimissioni in massa dal Fronte
(all’accettazione dei 10 punti era subordinata la firma di un ordine del giorno di fiducia nei suoi
confronti):
@
1) Indispensabilità di rendersi immediata soddisfazione reciproca tra offensori ed offesi a seguito
della recente polemica.
2) Impegno che per nessuna ragione vengano più effettuati attacchi di stampa diretti o indiretti nei
confronti di elementi del Fronte.
3) Necessità di immediata eliminazione delle cause di dissensi e di conseguente danno per il Partito,
dovute a sistemi e a metodi non consoni alla denominazione liberale e democratica del Fronte che
importa invece una precisa prassi.
4) RICONOSCIMENTO PIENO DELL’AUTORITÀ E DEL VALORE POLITICO E DIRETTIVO
DEL GRUPPO PARLAMENTARE NEL PARTITO.
5) Indispensabilità che ogni decisione [...] sia preventivamente discussa dal gruppo parlamentare e
dagli organi collegiali direttivi con votazione di maggioranza.
6) Precisa regolamentazione di ogni attività politica e parlamentare tanto singola quanto collegiale.
7) Necessità da parte del presidente del Fronte di considerarsi un primus inter pares ed in
conseguenza tenere in giusto valore la personalità di ogni singolo elemento.
8) Evitare che la stessa persona cumuli cariche direttive ed in conseguenza necessità che i rapporti
esterni siano effettuati da 2 o più elementi designati dagli organi collegiali.
9) Coerenza inequivocabile verso i princìpi fondamentali che hanno portato alla costituzione e al
rafforzamento del partito.
10) Controllo della stampa ufficiale del partito, dove e qualora questo esista [quest ultima richiesta
era stata alla fine cancellata] 136.
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Il documento del «ricatto politico», come lo chiamerà Giannini 137, era stato firmato da 23 dei 25
deputati presenti alla riunione. Russo-Perez lo aveva ritenuto troppo blando e Maffioli aveva
sostenuto che si dovesse firmare un ordine del giorno di solidarietà e fiducia con il Fondatore, senza
porgli alcuna condizione. Gli altri fedeli di Giannini (tra questi il gen. Bencivenga) avevano aderito
ai 10 punti per evitare nuove scissioni.
Dinanzi all’ultimatum, il commediografo aveva scritto di voler accettare le condizioni del gruppo
parlamentare «in blocco e senza discutere, avendo io ricevuto dal Congresso il mandato di difendere
il partito, di rafforzarlo se possibile, non già d’ucciderlo o comunque metterlo in pericolo» 138, ma
successivamente, ad una lettera del segretario del gruppo parlamentare, on. Rodino, che lo invitava
ad una nuova riunione per concretizzare l’applicazione dei 10 punti 139, rispondeva con una dura
«nota» 140, nella quale accusava la maggioranza dei deputati di non aver capito nulla della sua
azione politica, respingeva tutte le accuse, da quella di filocomunismo a quella di dittatorialismo,
sostenendo che i dissidenti erano mossi soltanto dal loro «piccolo interesse locale e personale».
Ma, soprattutto, Giannini negava al gruppo parlamentare il diritto di giudicare il presidente, diritto
spettante, in base allo statuto, al consiglio direttivo centrale (il c.d. Parlamentino) e concludeva con
una larvata minaccia: «Ritengo mio imprescindibile dovere mettere il gruppo parlamentare di fronte
alle sue precise responsabilità, separandone nettamente le mie di cui risponderò, com’è mio obbligo,
agli organi competenti del Fronte» 141.
La mossa di Giannini era abile: delegare la questione al Parlamentino il quale, composto in buona
parte da uomini «fedeli», avrebbe certamente sconfessato la nuova ribellione ed acclamato in lui
l’eterno capo del qualunquismo. Ben coscienti delle intenzioni del commediografo, si dimettevano
subito due deputati: Castiglia e Ottavia Penna.
Il Parlamentino, riunitosi il 7 novembre, confermava, come previsto, la propria fiducia a Giannini,
ed espelleva il capo dell’opposizione interna, Selvaggi (accusato soprattutto di essere stato il
promotore della «rivolta dei pretoriani» che, il 4 ottobre, aveva salvato il governo De Gasperi), per
«indegnità e slealtà politica» 142.
Giannini era ancora una volta riuscito a riaffermare la propria suprema autorità nel Fronte
dell’Uomo Qualunque. Ma il suo atto di forza somigliava a una «vittoria di Pirro»; all’espulsione di
Selvaggi seguiva infatti una serie impressionante di dimissioni: Cannizzo, Coppa, Corsini,
Cicerone, Marina, Rodi, etc. L’11 novembre, dopo una «tempestosa riunione», si dimetteva da tutte
le cariche addirittura il segretario generale del partito, Tieri, al quale Giannini aveva addebitato «la
responsabilità della mancata presentazione del rendiconto amministrativo» 143. Il Fronte si sfaldava;
il 19 novembre, lo stesso Giannini doveva fare un triste bilancio: tra espulsi e dimissionari ben 14
deputati erano fuori del qualunquismo, provvisoriamente riuniti in gruppo parlamentare autonomo
(di Unione Nazionale)144. A questi si doveva aggiungere l’on. Mazza, in procinto di aderire alla
Democrazia cristiana, nelle liste della quale verrà rieletto, dal 18 aprile ’48, in numerose legislature,
ricoprendo anche varie cariche ministeriali (Alto commissario, sottosegretario, ministro).
Secessioni e dimissioni avvenivano anche in periferia: a Napoli Armando Calabrese fondava un
Movimento qualunquista indipendente; a Palermo il locale raggruppamento si dichiarava
«autonomo» dalla direzione centrale; nella stessa Roma, il segretario del centro provinciale,
Cremascoli, si dimetteva con tutta la giunta e lanciava un «Appello agli italiani qualunquisti» 145.
Un altro boccone amaro per Giannini era costituito dall’iniziativa di Tieri (fino a quel momento
dimessosi dalle cariche, ma non dal partito) di fondare il Partito qualunquista italiano, con un
proprio giornale, «Il Mattino di Roma». «Non è esagerato dire — scriveva l’«Avanti!» 146 — che
non vi è stata mai crisi più movimentata di quella che attraversa il Fronte dell’U. Q.».
Giannini era sconvolto: stava assistendo alla morte della sua creatura e non riusciva a salvarla.
Amarezza e rabbia si alternavano nei suoi atteggiamenti. Si diceva che dopo l’ultimatum del gruppo
parlamentare aveva deciso di dimettersi, ma che Perugi e Bencivenga erano riusciti a dissuaderlo
dopo un colloquio durato quattro ore.
Dall’ottobre-novembre 1947, quasi tutto il suo impegno si riverserà nelle recriminazioni pubbliche
contro i nemici. Continuerà a ingiuriare i ribelli, a svelare i loro piani tesi ad allontanarlo dal Fronte
per sostituirlo con il gen. Messe prima, con Bencivenga poi; dirà che il gruppo parlamentare era
stato offerto a Nitti, addirittura a De Gasperi. Attaccherà con particolare accanimento Lauro, che a
Napoli stava decisamente contribuendo allo sfaldamento del Fronte «comprando» deputati e
attirando nel Partito nazionale monarchico «perfino alcuni balordi consiglieri comunali
qualunquisti» 147, e degli stessi sistemi di corruzione accuserà la Democrazia cristiana:
@
Ecco perché sono incominciate le nostre scissioni. L’«Intelligence Service» della Democrazia
cristiana, asservita [ai] grandi manipolatori di miliardi, è entrato nel mio partito e ha incominciato a
corrompere i più corrompibili. Non bisogna infierire contro di loro, Amici. Non bisogna infierire
perché nella maggior parte erano uomini impreparati alla politica. Ho avuto uno, non voglio farne il
nome — è uno stupido avvocato siciliano (ilarità) — il quale ha parlato con De Gasperi ed è tornato
tutto tronfio e ha detto: De Gasperi ha fatto il mio nome come ministro della Giustizia. Ma De
Gasperi fa il nome di chiunque come ministro della Giustizia! A me ha offerto la vice presidenza del
Consiglio ed io non sono che un poveruomo! A tutti si promettono sottosegretariati e ministeri!
L’importante non è prometterli, è darli! (ilarità) A che cosa è servita l’offerta del ministero della
Giustizia a questo coglione siciliano? (ilarità) È servita a questo: a iniziare lo scardinamento del
Partito. A un altro è stato offerto il ministero dell’industria. A un altro è stato offerto un altro
ministero. Io ho chiesto... Ma non ho tempo, che vi spiegherei il ministero che ho chiesto io a De
Gasperi. (voce: lo vogliamo sapere!) Gli dissi: senti, tu il ministero per me non ce l’hai, perché io
non so far altro che parlare e scrivere, non so che riuscire a farmi capire, qualche volta riuscire a
rendermi simpatico, spesso riuscire a convincere. Io non ho altra capacità che questa. Io dovrei fare
il ministro delle Fregnacce (ilarità) per poter andare in tutto il mondo — io che posso parlare non
solamente nella mia lingua, ma altrettanto bene in inglese e francese — a spiegare ai popoli del
Mondo che cos’è l’Italia, quali diritti ha, com’è mal compresa all’estero. «Ma io per questo ho già il
ministro degli Esteri» mi rispose De Gasperi. Gli dissi: «Lo vedi che non ce l’hai il ministero per
me?» (ilarità). Ora questo «Intelligence Service» ha creato la prima scissione, la seconda scissione,
la terza scissione. E fatto costante, meraviglioso: ogni fesso che usciva dal mio partito
immediatamente trovava i danari per fare un giornale quotidiano, per organizzare un altro partito.
Noi non li troviamo. Gli altri li trovano 148.
@@@
Più in generale, la polemica gianniniana si dirigerà con furore, singolare beffa del destino, contro
quei settori sociali ch’egli aveva coraggiosamente difeso dagli attacchi dei Cln e del sinistrismo,
cioè contro l’alta borghesia di cui aveva reclamato il ritorno a testa alta alla guida del paese, e che vi
era effettivamente tornata, ma passando anche sul cadavere del qualunquismo. Degli sfoghi del
commediografo contro i «ceti ricchi», «gli agrari», i «grandi proprietari terrieri» che lo stavano
abbandonando 149, contro i suoi «imbecillissimi nemici dell’alta plutocrazia italiana» che lo
avevano «fatto oggetto di tante stolte persecuzioni» 150, potrebbe riempirsi un’antologia. All’ostilità
di quella che chiamerà «Demo-pluto-fregnocrazia» 151 egli addebiterà l’insuccesso del
qualunquismo nelle elezioni del 18 aprile ’48 e, in particolare, all’ordine della Confindustria di
«diffamarci e di metterci nelle più dure condizioni» 152, ai «milioni a decine se non a centinaia
profusi dai ceti ultraricchi»153 per cancellarlo dalla vita politica.
Il qualunquismo — griderà — non aveva mai inteso difendere i privilegi, mai fare del
«forcaiolismo», alla base del suo programma c’era sempre stata l’esigenza di ottenere «un minimo
di benessere per tutti coloro che lavorano» 154; per questo la borghesia lo stava combattendo, perché
era stata delusa nelle sue aspettative:
@
La borghesia non si è preoccupata né di lustrarci le scarpe né di ricever pedate da noi: a suo tempo
ci offerse tutto, talvolta anche qualche bella borghese. Ma ci voleva più cretini [...]. La borghesia
italiana voleva, dal qualunquismo, semplicemente dei manganellatori, degli squadristi che
avrebbero dovuto assaltare le Camere del Lavoro e «mettere a posto» Di Vittorio e compagni perché
la borghesia potesse continuare a fare i suoi comodi. Questo ebbe dal fascismo che protesse e pagò,
questo voleva da noi155.
@@@

Le elezioni del 18 aprile 1948.


In un contesto internazionale ormai dominato dalla frattura tra Oriente e Occidente, il governo
italiano aveva consacrato la sua scelta del «modo di vivere» occidentale. Se ne era avuta conferma,
dopo la svolta del maggio ’47, con l’adesione al piano Marshall, annunziato dal segretario di Stato
americano il 5 giugno.

IMM

Che con gli aiuti economici all’Europa, gli Stati Uniti tendessero a creare un blocco antisovietico,
da loro egemonizzato, apparve subito chiaro dal rifiuto del piano, dichiarato da Molotov, il 2 luglio,
a nome dell’Urss e dei paesi comunisti: il piano Marshall — scriveva la «Pravda» — non era altro
che una ripetizione della dottrina Truman «mirante a intervenire negli affari interni degli Stati sotto
la pressione dei dollari» 156.
La risposta sovietica al piano Marshall e alla dottrina Truman veniva, nel settembre, con la
costituzione del Cominform. La reciproca sfida che avrebbe a lungo caratterizzato i rapporti tra i
due blocchi era un dato di fatto, e la Nato e il Patto di Varsavia l’avrebbero soltanto resa più
drammatica.
@
Due politiche opposte si sono cristallizzate — affermava infatti la dichiarazione costitutiva del
Cominform157 —: a uno dei poli, la politica dell'Urss e degli altri Paesi democratici, che mira a
scalzare l’imperialismo [...] al polo opposto la politica degli Stati Uniti d’America e dell’Inghilterra
che mira a rafforzare l’imperialismo [...] i partiti comunisti devono mettersi alla testa della
resistenza ai piani imperialistici [...] devono serrare i propri ranghi, unire i propri sforzi [...] e
raggruppare intorno a sé tutte le forze democratiche e patriottiche del popolo.
@@@
A Breslavia, dove per sette giorni si erano svolti i lavori da cui sarebbe scaturita la costituzione del
Cominform, era stata duramente attaccata la politica del Partito comunista italiano. accusata di
opportunismo e di debolezza, di avere troppo a lungo cercato la collaborazione con le forze
borghesi e non la lotta contro di esse, di essersi rassegnata passivamente, inoltre, all’offensiva
contro i partiti proletari, coronata da successo nel maggio ’47.
In sostanza, si chiedeva al Pci il netto ripudio della «via nazionale al socialismo» e della
«democrazia progressiva» elaborate da Togliatti, si imponeva un’aperta dichiarazione di guerra a
quelle forze con le quali il leader comunista sperava di potere avere ancora intese, il ritorno alla
teoria e alla pratica rivoluzionaria della lotta aperta e senza concessioni al mondo borghese,
capitalistico, imperialistico.
Le direttive del Cominform vennero recepite nelle nuove parole d’ordine del Pci, che ora chiamava
alla lotta contro i «reazionari italiani e in particolare [contro il] partito democristiano, servitori
dell’imperialismo americano a cui vogliono asservire il nostro Paese» 158.
Le tendenze radicali del partito, che Togliatti aveva cercato in ogni modo, fino ad allora, di tenere a
freno, si sentirono legittimate a liberarsi, la base operaia e partigiana si sfogava nelle manifestazioni
di piazza della pesante moderazione imposta alle sue velleità rivoluzionarie.
Nell’autunno del ’47, si succedevano quotidianamente «scioperi tumultuosi, [...] manifestazioni di
strada, [...] attac[chi] alle sedi di tutti i partiti, dal Msi al Psdi; il Pc sfruttava insomma tutte le
occasioni, che non mancavano, di organizzare in modo aggressivo il malcontento popolare» 159.
Togliatti non pensava certo a sbocchi insurrezionali, la sua era piuttosto una forzata obbedienza alle
direttive del Cominform, dietro la quale non rinunziava a svolgere quell’azione di freno, necessaria
ad evitare scontri frontali con lo Stato borghese.
Sintomatico di questa politica, fu il caso Troilo, il prefetto di Milano nominato dal Cln. Nel
novembre, il ministro degli Interni, Scelba, avrebbe voluto sostituirlo, ma si trovò di fronte alla
reazione dell’apparato comunista milanese, mobilitato da Giancarlo Pajetta, il quale giunse a far
occupare da ex partigiani armati la prefettura finendo convocato a Roma da un Togliatti
«furibondo» 160.
Ma gli sforzi di Togliatti di rimanere in qualche modo fedele ai postulati della svolta di Salerno
erano vani: nel rivoluzionarismo imposto da Mosca, gli avversari volevano vedere ad ogni costo il
vero volto del Pci, che solo il calcolo del suo astuto leader aveva tenuto fino a quel momento
nascosto.
I tentativi di penetrazione in aree sempre più vaste di opinione pubblica, grazie alle ostentazioni di
democraticità e di rispetto per gli ideali piccolo-borghesi, dalla religione al patriottismo e alla difesa
della proprietà, già resi difficili da un antisocialismo radicato in certi settori del paese e
continuamente rinfocolato dal massimalismo ricorrente nella base di sinistra, ora si stavano
infrangendo definitivamente sugli scogli della guerra fredda, che aveva provocato il ritorno a
schemi di propaganda e di lotta in precedenza superati dal «partito nuovo».
Il volto con cui si era cercato di far accogliere il Pci nel novero delle forze democratiche, quale
elemento indispensabile per la ricostruzione nazionale, stava ora perdendo ogni residua base di
credibilità. Si avvicinavano gli anni del ghetto politico e delle scomuniche.
Il 18 aprile 1948 è alle porte. I disordini e le violenze «rosse» all’interno, l’eco drammatica di
avvenimenti come il colpo di Stato comunista in Cecoslovacchia (febbraio 1948), favoriscono la
propaganda di chi vuol porre il paese dinanzi a una scelta che può dimostrarsi «fatale», quella tra
libertà e dittatura, civiltà e barbarie, materialismo e cristianesimo. La Democrazia cristiana ha ormai
fatto dell’anticomunismo più apocalittico la propria bandiera, ponendosi come «l’ultima ma
poderosa trincea in cui si difende la libertà», come il partito «all’avanguardia nella battaglia per
l’indipendenza nazionale dalle brutali manomissioni barbariche» 161.
I risultati, come noto, premiarono al di là di ogni più rosea previsione il partito di De Gasperi,
conferendogli il 48,5% alla Camera dei deputati e il 48,2% al Senato e, in entrambe le assemblee, la
maggioranza assoluta dei seggi (rispettivamente 305 e 131).
A sinistra si era sperato, con la formula del Fronte democratico popolare, di ampliare in misura
massiccia i successi registrati nelle amministrative del novembre 1946 e nelle regionali siciliane
dell’aprile ’47, e di ottenere o di almeno sfiorare la maggioranza, in modo da poter capovolgere una
situazione politica decisamente avversa (il governo, allargato nel dicembre ’47 a repubblicani,
liberali e socialdemocratici, aveva mostrato di possedere una base parlamentare larghissima: il 19
dicembre aveva infatti ottenuto la fiducia con 365 voti contro 118). La delusione fu grande.
Comunisti e socialisti non riuscirono a conquistare che il 31,0% e 183 seggi. Essi parleranno, nella
irritazione della sconfitta, di elezioni non libere a causa dello sfacciato intervento straniero e del
«terrorismo religioso» 162 che aveva artificiosamente posto gli italiani di fronte a un’assurda guerra
di religione. E certo avevano molte ragioni, giacché non erano un mistero il clima da crociata creato
dal Vaticano 163, gli scopi elettoralistici di certe clamorose iniziative degli alleati occidentali come,
il 20 marzo, la promessa, con la Dichiarazione tripartita, della restituzione di Trieste all’Italia, o le
minacce di sospendere gli aiuti al paese in caso di vittoria dei socialcomunisti.
Ma era pur vero che, a fare blocco intorno alla Dc, era la stessa maggioranza, sia pure gonfiata a
dismisura dal clima di «grande paura», che già il 2 giugno ’46 aveva mostrato di essere orientata su
posizioni moderato-conservatrici e anticomuniste. A ben vedere, infatti, l’estrema sinistra, tenuto
conto dei voti di Unità socialista, aveva accusato una flessione del solo

IMM

1,6% (il Fronte aveva perduto nell’Italia centrosettentrionale, guadagnato in quella meridionale: in
realtà a cedere erano stati i socialisti, giacché il Pci aveva aumentato suffragi e seggi).
La Dc aveva eroso notevolmente le posizioni dei repubblicani e di quelle forze della sinistra
democratica, come gli azionisti, scomparse dalla vita politica, ma la maggior parte del suo
incremento elettorale, lo aveva ottenuto ai danni delle destre che, rispetto al 2 giugno, perdevano
ben il 6,3%. Rispetto al novembre ’46, poi, la ripresa della Dc appariva strepitosa, ed altrettanto la
débàcle delle destre e, come vedremo, del qualunquismo in particolare. Si era avuto, in sostanza,
uno spostamento di voti in direzione inversa a quella verificatasi nel novembre ’46: allora una parte
notevole dell’elettorato moderatoconservatore aveva abbandonato la Dc riversandosi a destra; ora,
rassicurato dall’acceso anticomunismo di De Gasperi, era tornato in massa al partito cattolico
(accompagnato, nell’eccezionaiità del momento, da molti elementi «moderati» della sinistra).
Questo dato risultava particolarmente evidente nell’Italia meridionale, tradizionale roccaforte delle
destre: vi avevano perduto ben il 12,4% (dal 31,5% al 19,1%) mentre la Dc era passata dal 35,0% al
50,2% (+ 15,2%); nell’Italia settentrionale esse si erano ridotte al 3,0% (—3,5%); in quella centrale
al 5,1% (—6,9%); in Sicilia al 20,0% (—7,5%); in Sardegna al 13,1% (—5,6%).
Il referendum anticomunista del 18 aprile 1948 aveva visto il blocco moderato-conservatore (Dc +
destre) raccogliere il 57,1% dei voti (contro il 50,1% del 2 giugno): e questa era la dura realtà
contro la quale si infrangevano le illusioni di rilanciare gli ideali di rinnovamento della Resistenza,
le speranze di non sciupare definitivamente l’occasione storica presentatasi con la caduta del
fascismo.
Gli interessi dei potentati economici, coalizzatisi con quelli della gerarchia ecclesiastica e degli
ambienti conservatori interni e internazionali, erano riusciti a saldare a sé la grande maggioranza del
paese, ripetendo l’operazione compiuta con successo con il fascismo.

L'ultimo Giannini e l'eredità qualunquista.


Lo strepitoso successo della Democrazia cristiana era avvenuto, come visto, soprattutto ai danni
delle destre. In realtà, i monarchici erano riusciti a mantenere le posizioni del 1946, e i neofascisti
del Msi, presenti per la prima volta alle elezioni politiche, avevano ottenuto circa mezzo milione di
voti (2,0%) e 6 seggi; il vero sconfitto era stato, a destra, il Blocco nazionale, con il quale i liberali
avevano finalmente accettato — subendo però una grave secessione della sinistra — l’alleanza con
le residue forze qualunquiste, voluta, nel gennaio ’48 e contro l’ostilità di Croce, dal nuovo
segretario Roberto Lucifero, leader della corrente di destra risultata vittoriosa, nel dicembre ’47, al
quarto congresso nazionale del partito.
Liberali e qualunquisti avevano conquistato, il 2 giugno ’46, il 12,1%: ora erano scesi al 3,8%, con
un calo dell’8,3% (quanto ai seggi erano passati dai 71 del ’46 a soli 19). La sconfitta del Blocco
nazionale era stata particolarmente significativa nell’Italia meridionale e insulare:

IMM
Ma c’è di più. Ad accaparrare la maggior parte degli scarsi suffragi del Blocco nazionale erano stati
i liberali, che avevano lasciato ai qualunquisti soltanto 5 dei 19 seggi ottenuti alla Camera e soltanto
1 dei 7 ottenuti al Senato 164.
Il Fronte dell’Uomo Qualunque era stato dunque cancellato dal panorama politico italiano: la sua
repentina fine era impressionante, se si paragonavano i cinque deputati del 18 aprile 1948 non tanto
con i trenta del 2 giugno 1946 (divenuti in seguito 37), ma con il centinaio che ci si era
legittimamente atteso dopo la grande vittoria nelle amministrative del novembre.
In verità, già il 20 aprile del 1947, nelle elezioni regionali siciliane, il qualunquismo aveva
mostrato, come accennato, che le sue capacità di presa sull’elettorato erano in declino. Nelle
elezioni amministrative di Roma del 12 ottobre ’47, poi, i seggi del torchietto erano stati quasi
dimezzati, a vantaggio della Dc che, per la prima volta dopo il 2 giugno 1946, aveva iniziato a
risalire la china dei suoi insuccessi:

IMM

La crisi del qualunquismo, che il suo capo addebitava esclusivamente ai tradimenti e ai complotti,
era perciò, da diverso tempo, anche crisi di fiducia della sua base.
Giannini non aveva saputo impostare un’azione di riconquista delle simpatie che gli stavano
sfuggendo. Il rancore per le disavventure subite gli aveva fatto perdere ogni senso della realtà, per
cui la sua campagna elettorale era stata una continua lamentela contro i suoi persecutori e
calunniatori, dalla Dc all’alta borghesia, dal «brigante di mare» 165 Lauro a Costa, «bizzarro
argonauta genovese che pretende di fare il bello e il brutto tempo nella politica italiana» 166, dagli
scissionisti agli «straccioncelli del Msi» 167:
@
Avevo contro di me — si giustificherà il 28 aprile 168 — tutta la Democrazia cristiana, la
Confidustria, la Confida, la potenza personale del commendator Angelo Costa, armatore italo-
panamense e miliardario; nonché quella del suo collega minore Achille Lauro, armatore italo-
napoletano, proprietario di tutti i giornali quotidiani di Napoli, a eccezione del comunista «Voce», e
praticamente dittatore del pensiero nell’Italia del Sud. Basterebbe un tal imponente gruppo di
nemici per darmi, secondo quanto diceva Mussolini, un onore enorme. Ma non basta. Ho avuto
contro di me il cento per cento della grande e piccola stampa italiana, dal «Corriere della Sera»
all’ultimo quotidianello pseudoborghese e liberaloide della Sicilia.
@@@
La sua era stata dunque una battaglia difensiva, infarcita di vittimismo e priva di mordente ideale.
Le tragiche vicende subite avevano provocato una ulteriore spinta a sinistra del suo qualunquismo,
in cui la lotta della folla contro i suoi oppressori era divenuta innanzitutto lotta contro gli
«ultraricchi» che la sfruttavano: ma aveva sciupato questa sua «scoperta» inserendola in un contesto
che delineava il ritorno alle tesi più amare e scettiche del qualunquismo. Aveva gridato che, dietro le
opposte bandiere e ideologie, c’erano solo gli interessi economici dei ceti plutocratici, ai quali, in
Italia, erano asserviti sia la Dc che il Pc, che, con le loro ambizioni di bipartitismo, miravano a
schiacciare il popolò 169.
Quanto alla situazione internazionale, quel contrasto tra i due modi di vivere che stava dividendo il
mondo, era solo contrasto tra i meschini interessi commerciali dei «cinquecento o mille miserabili
che effettivamente governano il mondo», mem-
IMM

bri della «piccola aristocrazia ultraricca che veramente non ha patria» 170. L’Italia, anche se
tendenzialmente portata a simpatizzare per l’Occidente, non doveva aderire a nessuno dei due
blocchi «per sostenere l'una o l’altra ideologia che abbiamo riconosciute egualmente false e
bugiarde», giacché avrebbe corso il rischio di essere polverizzata dal loro scontro; doveva invece
lavorare per la costruzione degli Stati Uniti d’Europa, i quali avrebbero dovuto «dire all’Oriente e
all’Occidente: fate i vostri affari all’infuori di noi e tenetevi lontani dai nostri territori e dai nostri
interessi» 171.
Nessun «uomo qualunque» avrebbe più dovuto soffrire o morire, dunque, per i «lerci interessi»
mascherati da «fesserie» come «la sinistra e la destra, il fascismo, l’antifascismo, il comunismo,
l’anticomunismo» 172:
@
Affari: nient’altro. I politici professionali, reggitori della società anonima dello Stato russo,
vogliono fare affari sul petrolio della Persia e avere il modo d’affacciarsi sul Golfo Persico e sulle
coste mediterranee dell’Asia Minore, per poter vendere il loro petrolio al prezzo che a loro fa
piacere. Gli uomini d’affari che dirigono la politica americana vogliono anche loro avere il petrolio
persiano per le stesse nobilissime ragioni. Gli uomini d’affari inglesi hanno anch’essi il desiderio
d’impadronirsi dei petroli persiani, potenziando ancora più quella loro Anglo-Iranian Company che
monopolizza tutto il commercio petrolifero dell’Oriente vicino e medio. Ora, noi, uomini
qualunque, non abbiamo nulla in contrario a che qualcuno faccia il commercio del petrolio;
vogliamo solo non esser chiamati alle armi e mandati a scannarci con altri uomini qualunque d’altre
nazioni sotto il pretesto di ideologie che inalberano le magiche parole di Civiltà, Storia, Razza,
Cultura, Patria, e altre ignobili bugie sotto le quali si nasconde il petrolio. Vogliamo, insomma, non
esser più vittime di questa truffa. [...] Ora tutto questo quando scomoda i socialcomunisti diventa
fascismo, quando scomoda i democristiani diventa comunismo. Ed ecco perché noi, che vogliamo
soltanto difendere i nostri coglioni dalle rotture che ci vengono da destra e da sinistra, siamo volta a
volta accusati d’esser filofascisti dai sinistri e filocomunisti dai destri173.
@@@

IMM

Con tali crude tesi, Giannini non poteva certo sperare di riscuotere successo. La sua voce non aveva
recepito la tensione morale del tempo, le scelte che l’umanità credeva di dover compiere, e si era
perciò perduta nel vuoto, insieme col suo anarcoide invito al terzaforzismo:
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Noi staremo fra le due superbestie, quella rossa e quella nera, per attenuare l’urto fra la destra e la
sinistra e per imporre a tutti il rispetto delle libertà democratiche 174. Il Blocco Nazionale dovrà
appunto costituire quella terza forza che si inserirà fra la massa democristiana e quella comunista
per evitare che la libertà venga schiacciata da un nuovo e non meno tragico totalitarismo 175.
(da «Il Buonsenso», 23 febbraio 1947)
@@@
IMM

Neanche le sue filippiche contro la Confindustria e gli uomini ad essa asserviti 176 avevano
impressionato, a quanto pare, i qualunquisti: in fondo anch’essi erano membri della borghesia,
alleati con le sue più elevate sfere nella difesa contro il comunismo, e i loro orecchi erano troppo
rapiti dal grido di «Roma o Mosca» per poter prestare ascolto a chi ne andava svelando tutti i
retroscena.
Tra i cinque deputati qualunquisti eletti non figurava il nome di Giannini. Egli aveva rifiutato di
essere inserito nella lista nazionale, perché Nitti aveva preteso per il proprio figlio Giuseppe il
secondo posto (il primo era stato destinato ad Alberto Giovannini). Al terzo posto, il
commediografo aveva preferito inserire la sorella Olga, regolarmente eletta. Nei tre collegi in cui si
era presentato (Roma, Pisa, Napoli) era stato clamorosamente battuto, e quella ennesima delusione
lo aveva portato al limite della resistenza fisica e morale.
Anche i suoi principali «nemici» erano stati sconfitti: Selvaggi si era presentato invano nelle liste
del Pnm; Patrissi, unico consigliere comunale eletto, nelle amministrative romane del 12 ottobre
1947, nelle liste del Movimento nazionalista per la Democrazia sociale, da lui fondato dopo
l’espulsione dal Fronte dell’Uomo Qualunque, aveva ottenuto, con lo stesso emblema, poco più di
4.000 voti a Roma (e 1.094 di preferenza), trascinando nell’insuccesso Armando Fresa e Renato
Puoti; Tieri (che Giannini accuserà di essere finanziato dagli industriali dello zucchero) 177 aveva
raccolto, con una lista improvvisata, La Destra, appena 69 preferenze (l’intera lista, a Roma, 1.472
voti; con Tieri si era «bruciato» Giuseppe De Falco). Ma questi dati non erano certo sufficienti a
consolarlo, tanto più che fra gli eletti c’erano Russo-Perez (uno dei sei deputati del Msi) e, nella sua
Napoli, Alberto Consiglio ed Ezio Coppa (entrambi nel Pnm), che egli considerava traditori del
qualunquismo, passati a Lauro per i suoi soldi 178: il qualunquismo era stato sgretolato e il suo capo
umiliato; poco importava la sconfitta della maggior parte dei transfughi 179.
Quest’ultima confermava tutt’al più che, a parte le frange confluite nel Pnm e quelle, esigue, attratte
dal Msi, la massa dell’elettorato qualunquista del 2 giugno, e soprattutto del novembre 1946, era
stata riconquistata dalla Dc. E nello spiegarne le ragioni, Giannini tornava a vane recriminazioni,
pur partendo da lucide premesse quando sosteneva che le elezioni avevano inflazionato la Dc
perché si erano svolte «sotto il segno della paura» 180 e che era avvenuta una vera e propria
«circonvenzione d’elettorato incapace» 181.
Dopo le elezioni del 18 aprile nel Fronte avvenivano nuove polemiche, nuove lotte e dimissioni.
Furono vicende penose per Giannini: lo abbandonavano tutti, dai deputati ai consiglieri comunali di
Napoli, dagli assessori di Roma 182 agli iscritti (circa mezzo milione nel settembre ’47) 183 e ai
semplici simpatizzanti.
A dargli un momentaneo sollievo veniva la notizia dell’accoglimento del ricorso presentato alla
giunta delle elezioni della Camera dei deputati da Igino Lazzari — nuovo segretario generale del
Fronte, e in realtà l’ultimo — per il controllo delle schede nulle della circoscrizione di Roma:
Giannini, che in precedenza si era visto escluso dalla elezione per soli 765 voti (era risultato primo
nella lista del Bn con 13.055 voti, contro i 59.555 del ’46) era così proclamato deputato 1’11 ottobre
1949. La rielezione sembrava avergli dato nuova vitalità, sì da indurlo a tentare una
riorganizzazione del Fronte, un rilancio del qualunquismo sulle posizioni terzaforziste che aveva già
manifestato nella campagna elettorale del 18 aprile. Il 13 dicembre, in un comizio al Metropolitan
di Bologna184, proponeva la creazione di un grande Partito del lavoro orientato su una linea di
centrosinistra, invitava Romita («mio buon amico») e Saragat («mio ottimo amico») a farvi
confluire le proprie forze, la borghesia a fornire uomini e mezzi. Ma il suo appello cadeva nel
vuoto. Nel ’53 il vecchio leone era soltanto un’ombra di se stesso: si era ridotto ad appoggiare la
Democrazia cristiana, perfino in certe iniziative, come la c.d. «legge truffa» che, appena qualche
anno prima, lo avrebbero certamente fatto fremere di sdegno.
Per le nuove elezioni, quelle del 7 giugno ’53, accettò l’invito di De Gasperi a presentarsi come
indipendente nelle liste della Dc nei collegi di Roma e di Bari: fu una cocente lezione alla sua
mancanza di rassegnazione ad abbandonare dignitosamente la politica, alle sue velleità di contare
ancora qualcosa. A Roma finì al ventisettesimo posto con 13.439 voti (contro i 244.154 di De
Gasperi); a Bari risultò ventunesimo su 23 candidati con 11.785 voti. Nel 1958 volle ritentare la
fortuna addirittura nelle liste del suo acerrimo nemico Lauro, cioè nel Pnm, a Roma e a Napoli: nel
primo collegio finì sesto con appena 4.967 voti (contro i 30.761 di Lauro) e nel secondo
tredicesimo, con 10.683 (contro i 172.299 del «Comandante»).
///
Giannini morì a Roma il 13 ottobre 1960 (subito dopo cessò la pubblicazione dell’«Uomo
qualunque»). La sua carriera politica era finita, al di là dei tentativi di rilancio, il 18 aprile
1948. Da molto era un uomo stanco, irrimediabilmente frustrato dalla vita e dagli uomini.
A sinistra si era compreso il suo dramma e nell’ultima fase della sua presenza in Parlamento non gli
erano mancate, da quei settori una volta accesamente ostili, attestazioni di rispetto e di stima
(Togliatti era giunto, per le elezioni del ’53, ad invitarlo nella lista del Pci 185). Dopo il 18 aprile ’48
era tornato a dedicarsi soprattutto al teatro, ma il ricordo delle amarezze subite durante la parentesi
politica sembrava perseguitarlo e, tra una recriminazione e l’altra riemergeva, improvvisa,
l’angoscia per la morte del figlio, alla quale non era riuscito ancora a rassegnarsi.
Il qualunquismo era destinato a sopravvivere a Giannini, come generico e interclassistico
atteggiamento di disprezzo per la classe politica a tutt’oggi vivo, e che ha anzi toccato in questi
ultimi tempi le punte più acerbe, ma soprattutto come atteggiamento caratteristico dei ceti medi.
Disprezzo per la politica, sfiducia nelle istituzioni e nei loro rappresentanti, amaro scetticismo nei
confronti degli ideali ostentati dai «politicanti» e asociale rinchiudersi nel mondo dei propri
interessi particolari e, molto spesso, parassitari; ma, nello stesso tempo, desiderio di quieto vivere,
moderatismo, quindi, e anticomunismo come istintiva avversione alla «rossa» ascesa delle «masse»:
queste, ancor oggi, le componenti fondamentali dell’atteggiamento psicologico-politico di una
piccola borghesia numericamente cresciuta, dal dopoguerra ad oggi, proprio nei settori — impiegati
e commercianti 186 — più facilmente sensibili al «qualunquismo».
Il desiderio di quieto vivere ha spinto la maggioranza dei ceti medi ad aderire, dopo il fascismo e la
breve simpatia per il partito di Giannini, alla Democrazia cristiana e, per essa, alle istituzioni
democratico-parlamentari. Ma è stata, questa, una adesione avvenuta all’insegna della
rassegnazione (del meno peggio) più che di una effettiva convinzione e scelta ideale, che anzi la
sfiducia e lo scetticismo nei confronti di partiti, uomini politici e istituzioni, rendono la nostra
democrazia perennemente esposta alle minacce del neofascismo. Perché quando il disordine e il
comunismo sono apparsi comprometterne le istanze moderate, nella maggioranza di «buon senso,
buon cuore e buona fede», recentemente chiamata «maggioranza silenziosa», quella sfiducia e
quello scetticismo si sono esasperati, ed essa ha mostrato la tendenza a divenire oltremodo sensibile
al richiamo di coloro che, a cominciare dal «principio superiore» dell’ordine, hanno fatto proprio il
linguaggio qualunquista, ma nell’ambito della loro vecchia contestazione del sistema democratico,
nel nome di una concezione gerarchica e attivistica della vita estranea, come si è già osservato, al
desiderio di quieto vivere della suddetta maggioranza.
La nostra storia più recente lo conferma. Ogni qualvolta è apparsa venir meno alla propria funzione
di partito d’ordine, antimarxista, la Dc è stata costretta a cedere frange più o meno consistenti di
elettorato «moderato» alle destre (ai qualunquisti, come visto, nel novembre ’46; ai monarchici e ai
missini negli anni Cinquanta e nel ’72), mentre li ha recuperati, ai danni delle destre, quando ha
accentuato tali caratteristiche (la «diga» contro il comunismo nel ’48, il «progresso senza
avventure» nel ’68, la nuova crociata anticomunista del ’75).
Dal dopoguerra ad oggi la lotta politica italiana è stata dunque, da questo punto di vista, lotta tra Dc
e destre per contendersi i consensi della «maggioranza silenziosa», cioè le sue frange perennemente
oscillanti dall’una all’altra in difesa del proprio mondo moderato. Di qui il dramma del partito
cattolico (e, sic et simpliciter, della democrazia italiana), costretto a ridimensionare continuamente
la propria vocazione sociale per l’esigenza di non esasperare il qualunquismo largamente diffuso
nella sua base elettorale.
Ma qualcosa, ultimamente, sembra essere cambiata.
La «lezione» di Togliatti è stata pienamente compresa, sicché tutti gli sforzi si sono diretti, da parte
del Pci, proprio in direzione dei ceti medi, per sottrarne la maggior parte possibile all’influenza
delle forze conservatrici e perfino dell’estrema destra. Il successo, come noto, non è mancato.
Aliquote importanti di questi ceti hanno sposato negli ultimi tempi la causa del progresso e della
democrazia, come ha dimostrato l’esito del referendum sul divorzio. Il loro contributo alla storica
svolta a sinistra del 15 giugno 1975 è stato infine sorprendente, tanto da far pensare che la protesta
piccolo-borghese contro la corruzione e l’inefficienza dei governanti, la protesta qualunquista
insomma, abbia iniziato a cercare un costruttivo sbocco a sinistra, perdendo in tal modo la sua
tradizionale componente anticomunista. Quest’ultima, tuttavia, continua a costituire parte integrante
e in fondo qualificante, come si è detto, di una parte ancora grande dei ceti medi, quelli che hanno
sentito il bisogno di raccogliersi attorno alla nuova crociata anticomunista della De e del Msi-Destra
nazionale. La Democrazia cristiana ha finito col perdere, con le sue componenti più aperte al
rinnovamento — e con quelle meno timorose del cambiamento o, in ogni caso, esasperate dal
malgoverno — molti dei suoi alibi interclassistici, fino ad apparire, con una nitidezza mai avuta
prima, il partito dei moderato-conservatori. Ma con ciò essa è divenuta maggiormente esposta ai
ricatti della concorrenza dell’estrema destra, e quindi ancor meno disponibile al dialogo con il
Partito comunista: ed è questo, nell’attuale realtà politica italiana, il nodo più importante da
sciogliere.

NOTE
%

I. Antifascismo e qualunquismo.
1 Μ. Lo Vecchio-Musti, Il qualunquismo. Cronache di un nuovo movimento politico, Roma 1950, p.
2.
2In Μ. De Maggi, Cronache senza regime. Vicende italiane dal 1944 al 1952, Cappelli, Rocca San
Casciano 1953, pp. 41-2.
3 Cfr. ad esempio P. Nenni, Che cosa è, che cosa ha fatto, che cosa vuole il Partito Socialista,
opuscolo, in Tagli netti, «Avanti!», 17 giugno 1944 (articolo non firmato, in L. Guerci, Il Partito
socialista italiano dal 1919 al 1946, Cappelli, Rocca San Casciano 1969, pp. 215-8).
4 In E. A. Rossi, Dal Partito popolare alla Democrazia cristiana, Cappelli, Rocca San Casciano
1969, p. 339. Le Idee ricostruttive della Democrazia cristiana furono elaborate essenzialmente da
De Gasperi e pubblicate nel periodo 25 luglio - 8 settembre 1943.
5 B. Croce, Scritti e discorsi politici (1943-1947), Laterza, Bari 1963, vol. I, p. 105.
6 Ivi, p. 124.
7 L. Piccardi, La storia non aspetta (1942-1956), Laterza, Bari 1957, p. 15.
8 L. Sturzo, DC «una e multipla», «Il Popolo», 8 gennaio 1946.
9 Così si esprimeva (riferendosi al «nuovo liberalismo») un fedele discepolo di Croce: A. Parente, Il
pensiero politico di Benedetto Croce e il nuovo liberalismo, Artigianelli, Napoli 1944, p. 44.
10G. Dorso, L'occasione storica, Einaudi, Torino 1955 (raccolta di articoli del periodo 1943-46, la
maggior parte dei quali — maggio-dicembre 1945 — pubblicati sul quotidiano «L’Azione» di
Napoli).
11Cfr. W. Churchill, La seconda guerra mondiale, Mondadori, Milano 1963, vol. VI, p. 257:
«Romania: Russia 90%; gli altri 10%; Grecia: Gran Bretagna (d’intesa con gli Stati Uniti): 90%;
Russia 10%, etc.».
12 Su «La Rinascita», I, 1944, 3; cfr. P. Togliatti, Il Partito comunista e il nuovo Stato, in Fascismo
e antifascismo. Lezioni e testimonianze, Feltrinelli, Milano 1963, vol. II, p. 636.
13 «Avevamo letto un programma elaborato da De Gasperi negli anni in cui egli era ancora illegale
in Roma e in quel programma si rivendicavano [...] un maggior numero di nazionalizzazioni di
quanto non ne rivendicassimo noi. Era, insomma, un programma molto avanzato nella stessa
direzione che era la nostra»: P. Togliatti, Il Partito comunista e il nuovo Stato, cit., p. 642.
14 Lettera a De Gasperi del settembre 1944, in Μ. De Maggi, op. cit., p. 16.
15Possibilità di intese furono discusse da Togliatti e De Gasperi in «lunghe sedute» nej ’44: P.
Togliatti, Il Partito comunista e il nuovo Stato, cit., p. 642.
16 Cfr. «Il Popolo», 25 luglio 1944. Il corsivo è mio.
17 Discorso tenuto a un convegno organizzativo della Dc (Napoli, 28 luglio 1944), riportato in R.
Colapietra, La lotta politica in Italia dalla liberazione di Roma alla Costituente, Patron, Bologna
1969, p. 79. Togliatti approfittò dello slogan degasperiano per insistere nella sua proposta di patto
d’azione comune (cfr. ivi, p. 84).
18 Dichiarazione dei membri del Cln in una riunione con Badoglio (Roma, 8 giugno 1944), in F.
Catalano, L'Italia dalla dittatura alla democrazia, 1919-1948, Feltrinelli, Milano 1970, vol. II, p.
78.
19 N. Kogan, L'Italia e gli alleati, Lerici, Milano 1963, p. 100.
20 F. Catalano, op. cit., vol. II, p. 80.
21Decreto del Cln Alta Italia del 26 ottobre 1944; cfr. L. Valiani, Il partito d'Azione, in L. Valiani -
G. Bianchi - E. Ragionieri, Azionisti cattolici e comunisti nella Resistenza, Angeli, Milano 1971, p.
410.
22 Memoriale presentato a Bonomi il 9 novembre 1944 dal Comitato toscano di Liberazione
nazionale, in P. Permoli, La Costituente e i partiti politici italiani, Cappelli, Rocca San Casciano
1966, pp. 94-5.
23 Cfr. «Risorgimento liberale», 4 settembre 1944.
24 G. Dorso, La leva dei morti, «L’Azione», 20 maggio 1944, ora in L'occasione storica, cit., pp.
12-6. Cfr. anche, tra gli altri articoli, Trasformismo sempre vivo, «L’Azione», I agosto 1945 (ivi, pp.
41-4): «...Ora Silvio Gava nel “ Domani d’Italia ”, del 29 corrente, ci dà notizia di un signore della
provincia di Napoli, che ha distribuito i suoi congiunti in cinque dei sei partiti costituenti il
Comitato di Liberazione e, col loro aiuto, domina il panorama della vita politica paesana». Sul
trasformismo meridionale dopo il fascismo cfr., da ultimo, Percy A. Allum, Il Mezzogiorno e la
politica nazionale dal 1945 al 1950, in AA.VV., Italia 1943-1950. La ricostruzione, a cura di S. J.
Woolf, Laterza, Roma-Bari 1974, pp. 155-91.
25In Unire per ricostruire. I Congresso dei Cln dell'Alta Italia (Milano, 31 agosto -1 settembre
1945, Teatro Lirico), numero unico a cura dell’ufficio stampa del Cln Alta Italia, Milano 1945, p.
22.
26 P. Nenni, Colpire in alto... e cominciare dalla oligarchia industriale, «Avanti!», 21 giugno 1944.
27 Non firmato, Epurazione senza Consulta, «Risorgimento liberale», 6 novembre 1945.
28 G. Mammarella, L'Italia dopo il fascismo, 1943-1968, Il Mulino, Bologna 1970, pp. 72-3.
29Testo in T. Fortunio, La legislazione definitiva sulle sanzioni contro il fascismo, Jus, Roma 1946.
Cfr. anche, dello stesso autore, Revisione e revoca dell'epurazione, Universal, Roma 1948.
30 Attivitàlegislativa «tumultuosa», secondo A. Battaglia, Giustizia e politica nella giurisprudenza,
in AA. VV., Dieci anni dopo. 1945-1955. Saggi sulla vita democratica italiana, Laterza, Bari 1955,
p. 333, nota.
31 Ivi, p. 345.
32 C. Sforza, Le sanzioni contro il fascismo, quel che si è fatto e quel che deve farsi. Dichiarazioni
e documenti inediti di Carlo Sforza, Edizioni Roma, Roma 1945, p. 13 (si tratta di una lettera-
relazione indirizzata da Sforza al presidente del Consiglio in occasione delle dimissioni da alto
commissario per le sanzioni contro il fascismo).
33 Ivi, p. 13.
34 Lo stesso Sforza ammise che causa di «errori e mende minori» era stata 1’«atmosfera generale di
rancori ingiustificati e di denunce a volta faziose» (ivi, p. 14).
35 Cfr., ad es., Μ. Lupinacci, Garanzie di giustizia, «Risorgimento liberale», 23 giugno 1944:
«Chiediamo che non si confonda il generale che ha tradito il suo giuramento con il tranviere che
andò a sgolarsi a piazza Venezia».
36 Cfr., ad es., P. Togliatti, Da Salerno a Caulonia, «l’Unità», 20 marzo 1945: «In provincia di
Reggio Calabria, se le nostre informazioni sono esatte, l’epurazione si è ridotta, sinora, a colpire un
bidello delle scuole».
37 In Unire per ricostruire, cit., p. 21.
38 Non firmato, Tremila per trecentomila, «La Nazione del Popolo», 15 gennaio 1945.
39Cfr. Conferenza stampa al Viminale del 30 luglio 1944, resoconto in «Risorgimento liberale», I
agosto 1944.
40 Cfr. dichiarazioni a «Il Tempo», 18 novembre 1945.
41 Cfr. direttiva all’alto commissario per l’Epurazione, Grieco (gennaio 1945), in G. Bocca,
Paimiro Togliatti, Laterza, Roma-Bari 19732, p. 457.
42Cfr. resoconto della riunione del Consiglio dei ministri dell’11 luglio 1945, «Avanti!», 12 luglio
1945.
43 In Unire per ricostruire, cit., p. 22.
44 Sulle varie analisi del rapporto piccola borghesia (ceti medi) - fascismo, cfr. R. De Felice, Le
interpretazioni del fascismo, Laterza, Roma-Bari 19746. Cfr. anche, per il più recente dibattito
sull’argomento, G. Quazza, Storia del fascismo e storia d’Italia, in AA.VV., Fascismo e società
italiana, Einaudi, Torino 1973, pp. 5-43. Per una visione globale della problematica cfr. il
fondamentale P. Sylos Labini, Saggio sulle classi sociali, Laterza, Roma-Bari 19754.
45 L. Salvatorelli, Nazionalfascismo, Gobetti, Torino 1923, p. 16.
46 L. Salvatorelli, Nazionalfascismo, cit., in N. Valeri, La lotta politica in Italia dall’Unità al 1925.
Idee e documenti, Le Monnier, Firenze 1962, pp. 514-5.
47 F. Chabod, L’Italia contemporanea. 1919-1948, Einaudi, Torino 1961, p. 65.
48Quella piccola borghesia — scrive ancora Chabod — «tutta tranquillità, ordine e rispettabilità,
che vuol vedere la patria rispettata, che è soddisfatta all’idea di godere un certo prestigio nel mondo
e che, perciò, può essere influenzata dalle campagne di stampa, dai discorsi di intonazione
nazionalistica [... quella] borghesia [...] non vuole spingersi oltre certi limiti» (ivi, p. 66).
49 Cfr. Annuario della congiuntura economica italiana. 1938-1947, a cura di A. De Vita, Vallecchi,
Firenze 1949, pp. 1-2.
50 Ivi, pp. 4-5.
51 A. Degli Espinosa, Il regno del Sud, Parenti, Firenze 1955, p. 335.
52 Cfr. Salvatorelli, Nazionalfascismo, cit.
53Non firmato (ma G. Giannini), Lo Stato Forte, «L’Uomo qualunque» (d’ora in avanti: «Uq»), 3
gennaio 1945.
34 Ibid.
55 Non firmato (ma G. Giannini), rubrica Specola, «Uq», 3 gennaio 1945.
56 Non firmato (ma G. Giannini), Realismo comunista, rubrica L’Uq, ivi, 3 gennaio 1945.
Non firmato (ma G. Giannini), Il compagno Giuseppe Stalin, rubrica Galleria dell’Uomo
Qualunque, ivi, 3 gennaio 1945.
58 Non firmato (ma G. Giannini), Il compagno Molotof, ivi, 24 gennaio 1945.
59 Non firmato (ma G. Giannini), rubrica Cronache immaginarie (datate Anno VÍ, 26 luglio 1943,
n. 16), ivi, 24 gennaio 1945: «Mussolini proclama lo scioglimento del Partito fascista e ridona al
popolo le libertà statutarie in vista di importanti e impegnativi avvenimenti». Le Cronache
immaginarie apparvero sull’«Uq» fino al 31 gennaio 1945.
60 G. Manca, Fascisti qualunque, lettera al giornale «Cantachiaro», riportata nell’articolo A scanso
di equivoci, non firmato, «Cantachiaro», 27 gennaio 1945.
61 Sull’origine della rubrica Le Vespe cfr. la prima Vespa del n. 1 dell’«Uq» (27 dicembre 1944):
«Questa rubrica fu iniziata su “ Il Domani ” nell’edizione che si cominciò a pubblicare a Napoli nel
1909, dopo la fine del “ Domani ” romano di De Felice. Del piccolo quotidiano napoletano furono
fondatori Arturo Assante e Guglielmo Giannini, allora giovinetto, biondo, poeta e temerario: al
punto di non spaventarsi di rubare rubrica e titolo della rubrica ad Alfonso Karr, uno dei maggiori
giornalisti dell’Ottocento. Ma chi la fa l’aspetti: e Giannini, dopo il grande successo ottenuto
derubando e imitando Karr, fu a sua volta derubato e imitato da tanta gente, che credette di imitare e
derubare soltanto lui. Oggi la rubrica riprende perché così piace e fa comodo al primo ladro; e sarà
quella che fu sul “ Domani ” e su “ Kines ”. Gl’inesperti e i giovani son dunque avvisati: non
cadano nell’errore di crederci ladri dei nostri ladri».
62 G. Giannini, Lo Stato forte, cit.
63 G. Giannini, Piccolo mondo repubblicano, «Uq», 3 aprile 1946.
64Cfr. B. Mussolini, Opera omnia, a cura di Edoardo e Duilio Susmel, vol. XXXII, Appendice, p.
265 (Canguri giganti era appunto il titolo della nota della «Corrispondenza repubblicana» citata, pp.
264-6. Nell’elenco, accanto al nome Guglielmo Giannini, figurava la dizione «sovvenzioni varie»:
p. 266). L’attacco di Mussolini («Benito s’è occupato una sola volta di me, nell’autunno del ’43,
dopo la sua epica evasione dall’orrido carcere con acqua corrente, per citarmi nella
“Corrispondenza repubblicana” come ‘ canguro gigante ’») era stato determinato, secondo il
commediografo, dalla sua lettera in difesa della borghesia pubblicata sull’«Osservatore romano»
nell’agosto del 1943 («Benito, furibondo contro di me per il mio primo articolo politico dopo 22
anni, scritto in difesa della borghesia che a lui non andava più a fagiolo»). Per il resto, Giannini
cercava di mutare le carte in tavola e, con alquanta megalomania, scriveva: «Come Benito ha potuto
dire che il fascismo, da me tradito, m’ha dato onori e ricchezze [sic!], non riesco a capire. Non ero
fascista quindi non ho potuto tradire il fascismo; i modesti onori che ho guadagnati son quelli di
autore e scrittore e quindi miei, dovuti alla mia intelligenza e al mio lavoro: in trent’anni non sono
riuscito a comprarmi un appartamento a Roma. Benito è stato male informato sul conto mio, così
com’è stato mal informato su tanti altri uomini e fatti — ed è così che ha perduto la partita. I futuri
avversari son dunque avvisati: non si comportino come Benito se non voglion fare la stessa
figuraccia» (cfr. G. Giannini, Questa, in anticipo, «Uq», 27 dicembre 1944). (In occasione del suo
processo d’epurazione Giannini ammetterà di aver avuto le sovvenzioni in questione e, mutando
linea di difesa, sosterrà — ragionevolmente — che si trattava di una prassi normale per aiutare i
lavoratori dello spettacolo.)
65 «Io credo che noi siamo all’alba di un nuovo Quattrocento e che niente ci manchi, a cominciare
dal Magnifico. Consideratemi come un soldato pronto a tutto»: Atto di deferimento di Giannini alla
Commissione di primo grado per la revisione dell’Albo dei giornalisti, redatto dall’alto
commissario aggiunto per l’Epurazione, Ruggero Grieco, 5 febbraio 1945, in Μ. Lo Vecchio-Musti,
op. cit., pp. 20-3. La lettera a Pavolini fu riportata anche dal quotidiano socialista (cfr. Non firmato,
Storia vera dell’uomo qualunque, «Avanti!», 15 luglio 1945) con il seguente commento: «‘
Magnifico ’, a Mussolini, non glielo aveva detto ancora nessuno!».
66 Cfr. G. Giannini, Questa, in anticipo, cit., «Uq», 27 dicembre 1944.
67 Quest’articolo verrà segnalato alla commissione di epurazione dall’alto commissario aggiunto
Grieco «per la sua faziosità che raggiunge la cretineria»: cfr. Atto di deferimento di Giannini, cit.
(Μ. Lo Vecchio-Musti, op. cit., p. 22). Grieco aggiungeva che Giannini aveva inviato l’articolo in
questione «al Duce dal quale ebbe il gradimento» (ibid.).
68 Cfr. Le Vespe, «Uq», 10 marzo 1948.
69 Ibid.
70 P. Grassi, Il teatro e il fascismo, in Fascismo e antifascismo, cit., vol. I, p. 342.
71 G. Giannini, Questa, in anticipo, cit.
72G. Giannini, Autodifesa, opuscolo fatto pubblicare nel marzo 1945 (brani riportati in Μ. Lo
Vecchio-Musti, op. cit., pp. 24-7).
73 «È orribile pensare che, da ragazzi, c’entusiasmava il comunismo, di cui avevamo un’idea
idilliaca. Poi, un po’ più avanti negli anni, leggemmo il Capitale di quel fregnone di Carlo Marx, e
ne rimanemmo affascinati per anni: fino a che la ragione, soccorrendo la naturale intelligenza, non
ci provò che la biblica fesseria di Marx era la biblica fesseria che è» (Le Vespe, «Uq», 3 aprile
1946). Quanto alle «simpatie nittiane», Giannini aveva fondato nel 1914 «Il Risveglio» «per
appoggiare la lista nittiana ‘ Blocco popolare ’ in un’accesa compagna elettorale contro il Fascio
liberale dell’ordine». Cfr. Μ. Del Bosco, Guglielmo Giannini e «L’Uomo Qualunque». Storia e
politica incredibile e vera, «Il Mondo», 18 aprile 1971 (titolo della puntata: Abbasso tutti).
74 Cfr. Μ. Lo Vecchio-Musti, op. cit., pp. 3-4 e, per l’episodio della scoperta del sistema
d’intercettazione telefonica, Le Vespe, «Uq», 8 agosto 1945.
75 G. Giannini, Piccolo mondo re pubblicano, cit.
76 Non firmato (ma G. Giannini), Sull’Inghilterra splende una stella, «Uq», 26 dicembre 1945.
77Discorso alla seduta inaugurale del primo Congresso nazionale del Fronte dell’Uomo Qualunque
(Roma, Aula magna dell’università, 16 febbraio 1946), ivi, 20 febbraio 1946.
78 G. Giannini, Piccolo mondo repubblicano, cit.
79 Ibid.
80 Ibid.
81 Le Vespe (accanto alla testata), «Uq», 15 maggio 1946.
82 G. Giannini, Piccolo mondo repubblicano, cit.
83 «Tastammo il polso a Nenni. L’impressione non fu disastrosa, ma nemmeno buona; e poi
s’incaricò Nenni stesso di farla peggiorare con gl’improvvisi, ingiustificati, inutili attacchi» (Le
Vespe, «Uq», 22 gennaio 1947).
84 Cfr. La grande avventura dell’Uomo Qualunque raccontata da Guglielmo Giannini, in
Enciclopedia del Centenario. Contributo alla storia politica, economica, letteraria e artistica
dell’Italia meridionale nei primi cento anni di vita nazionale, a cura di G. Scognamiglio, Tipografia
Gennaro
D’Agostino, Napoli 1960, vol. II, p. 40 (d’ora in avanti: G. Giannini, Memorie). In particolare
Angiolillo, direttore del «Tempo», gli avrebbe detto: «Caro Guglielmo, ci conosciamo da
venticinque anni e ti parlerò francamente. Il tuo programma politico-giornalistico è
interessantissimo, ma chi vuoi che se la senta d’arrischiare il proprio giornale e forse la propria
libertà, per mettersi contro l’antifascismo?» (ibid.).
85 Ibid.
86 Per il lancio dell’«Uomo qualunque», ad essere precisi, Giannini aveva costituito una società
editrice della quale, secondo 1’«Avanti!», facevano anche parte, attraverso un prestanome, i fratelli
Salvatore e Michele Scalera (che avrebbero percepito, insieme con la società editrice Faro, il 60%
degli utili, lasciando a Giannini il restante 40%). Cfr. Dalla marcia su Roma all’Uomo Qualunque
(art. non firmato), «Avanti!», 3 novembre 1945. Per una smentita, in verità piuttosto ambigua, cfr.
Non firmato (ma G. Giannini), Gli Scalera fratelli terribili, «Uq», 7 novembre 1945. In occasione
della sospensione del settimanale (febbraio ’45) Giannini ottenne comunque dai suoi due soci (un
«distributore di giornali» e un «industriale tipografo» — Umberto Guadagno —) la cessione delle
loro quote, divenendo così proprietario unico dell’«Uomo qualunque».
87 Giannini, Memorie, cit., p. 41.
88 I. Montanelli, Gli incontri, Rizzoli, Milano 1967, p. 74. Di Montanelli cfr. anche Gente
Qualunque, Rizzoli, Milano 1963, pp. 7-8, dove l’autore sostiene che nel 1947 Giannini «vide e
additò» nel romanzo Qui non riposano «l’anticipo» del qualunquismo.
89 G. Giannini, Piccolo mondo repubblicano, cit.
90 G. Giannini, La Folla: seimila anni di lotta contro la tirannide, Faro, Roma 1945, IV ed. (I ed.
luglio 1945). Del libro furono stampate sette edizioni, per un totale di 29.000 volumi (cfr. Memorie,
cit., p. 41).
91 Frase pubblicitaria apparsa sull’«Uq» del 3 luglio 1946.
92 Giannini, La Folla, cit., pp. 23-4.
93 Ivi, p. 78. Sul mito dell’uomo «d’intelligenza e di cultura» contrapposto all’incompetente «uomo
politico professionale» cfr. anche pp. 217 sgg., in part. 219-20 («Perché mai gli uomini politici
professionali di tutti i partiti, gli upp comunque qualificati, hanno tutti la pistola spianata contro la
borghesia, le formano intorno un circolo nemico, le sparano addosso senza nemmeno badare a non
colpirsi fra loro? Perché la sentono, tutti, nemica: perché sanno che gli uomini d’intelligenza e di
cultura, che sono tutti borghesi appunto perché non sono upp, sono non soltanto i loro naturali
nemici, ma i certissimi loro vincitori in un futuro non più tanto lontano, nel quale gli upp parassitari
e dannosi spariranno, e saranno sostituiti da coloro che hanno i mezzi e la capacità per sostituirli: gli
uomini d’intelligenza e di cultura che non fanno professionismo politico. Gli upp sentono
l’imminenza di questa rivoluzione che li travolgerà spazzando via con loro gl’inutili partiti politici e
le loro non meno inutili e stupide risse»).
94 Ivi, p. 7.
95 Ivi, p. 61.
96 Ivi, pp. 73-4.
97 Ivi, p. 46.
98 Ivi, p. 97.
99 Ivi, p. 91.
100 Ivi, p. 88.
101 Ivi, pp. 85-7.
102 Ivi, pp. 107-8.
103 Ivi, pp. 100, 119, 123.
104 Ivi, pp. 8, 274-5, 260.
105 Ivi, p. 281.
106 Ibid.
107 Ivi, p. 208. A p. 258 Giannini riassume in questi termini il desiderio della Folla: «Ciò che noi
chiediamo, noi gente, noi Folla, noi enorme maggioranza della Comunità, noi padroni della
Comunità e dello Stato, è che nessuno ci rompa più i coglioni». Per questa «parolaccia» ΓΑ. si
appella alla «indulgente comprensione» del lettore («l’ho cancellata e sostituita dieci volte, e ho
sempre dovuto riscriverla, non trovando niente di ugualmente giusto ed esatto», ivi, p. 7, nota): ma
in seguito, come vedremo, ne farà largo uso, fino ad elevarla a «primo Comandamento» del
qualunquismo.
108 Cfr. G. Perticone, La torre di Babele. Italia 1949, Sansoni, Firenze 1949, p. 68: «Non vi è
disegno e non vi è programma, anche quello di non far nulla, che non discenda da una concezione
politica e non risponda a un interesse politico».
109 L. Salvatorelli, Monarchia svelata, «Nuova Europa», 24 febbraio 1946.
110Cfr. discorso conclusivo all’Assemblea straordinaria dei dirigenti del Fronte dell’Uomo
Qualunque (Roma, cinema Parioli, 14 dicembre 1946), «Uq», 18 dicembre 1946.

II. Aprile 1945-febbraio 1946: dal «vento del Nord» al primo congresso nazionale del Fronte
dell’Uomo Qualunque.
1 L. Valiani, Il partito d’Azione, cit., p. 124.
2 «La spinta delle masse avrebbe dovuto essere suscitata ed incanalata dai Cln, al centro e in tutte le
regioni e province. Il Cln stesso avrebbe dovuto pronunciarsi per un’urgente, radicale, profonda
attività riformatrice e iniziarla, mettendo il governo e la Costituente davanti all’obbligo di
legalizzarla, generalizzarla, perfezionarla» (ivi, p. 134).
3 Cfr. ad es. Non firmato, Tagli netti, cit. (in L. Guerci, Il Partito socialista italiano dal 1919 al
1946, cit., pp. 217-8): «Pensiamo che oggi per liberare il territorio nazionale dal nazifascismo sia
necessario stringere momentanee alleanze con partiti della borghesia; ma domani, quando questo
pericolo comune a tutto il popolo italiano sarà cessato, il contrasto tra classe operaia e le forze
capitalistiche risorgerà con tutta la sua violenza [...]. Verrà quindi una svolta in cui il taglio tra noi e
tutte le forze della borghesia si farà netto. Ed a questa svolta ed a questo taglio netto dobbiamo
prepararci sin d’ora».
4 Risposta di De Gasperi ad una lettera di Togliatti (settembre 1944), in Μ. De Maggi, Cronache
senza regime, cit., p. 17.
5 Ivi, p. 68.
6 G. Galli, Storia del Partito comunista italiano, Schwarz, Milano 1958, p. 259.
7 Μ. De Maggi, Cronache senza regime, cit., pp. 123-4.
8 Non firmato, Dieci arresti per gl'incidenti di Agnone, «Avanti!», 21 agosto 1945.
9 Non firmato, Tumulti a Messina - Un gruppo di reduci invade il Municipio dopo essersi
impadronito di un'autoblinda, «Risorgimento liberale», 10 agosto 1945.
10 Non firmato, Un problema sociale, «Avanti!», 29 giugno 1945.
11 Clamorosa fu il 18 febbraio ’45 a Roma l’invasione della sede dell’«Avanti!» da parte di un
gruppo di marinai offesi da un articolo del quotidiano socialista; il 28 agosto dello stesso anno, a
Trani, marinai armati del battaglione S. Marco imponevano ai passanti di gridare «Viva il Re!» e
assalivano la sezione del Pci. Cfr. G. Saragat, Neo-squadrismo, ivi, 19 febbraio 1945 e Non firmato,
In vista delle elezioni - Viva il re! si grida in Puglia davanti alle pistole spianate dei marinai
monarchici, ivi, 30 agosto 1945.
12 G. Borgogna, Manganellate e scioperi in Puglia, «Il Tempo», 18 novembre 1945.
13 Cfr. Non firmato, Interpretazioni e significato dei fatti di Napoli, «Uq», 26 settembre 1945.
14A. C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia. Dalla unificazione a Giovanni XXIII, Einaudi, Torino
1965, p. 298.
15 V. Spano, La classe operaia alla testa della nazione, in Trenta anni di vita e lotte del Pci (a cura
di P. Togliatti), Quaderni di «Rinascita», n. 2, Roma 1952, p. 171.
16 Ibid.
17 Cfr. F. Catalano, L’Italia dalla dittatura alla democrazia, cit., voi. II, p. 185.
18 G. Mammarella, L’Italia dopo il fascismo, cit., p. 104.
19 Cfr., sull’argomento, E. Piscitelli, Del cambio o meglio del mancato cambio della moneta nel
secondo dopoguerra, «Quaderni dell’istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla
Resistenza», Roma 1969, n. 1, pp. 9-88.
20Cfr. G. Giannini, Memorie, cit., p. 42. V. anche P. Murialdi, La stampa italiana del dopoguerra
1943-1972, Laterza, Roma-Bari 1973, p. 45.
21 Non firmato (ma G. Giannini), rubrica L’UQ, «Uq», 3 gennaio 1945.
22 Non firmato (ma C. De Vita), L’uomo qualunque, «l’Unità», 7 gennaio 1945.
23 G. Giannini, Questi fascismi, «Uq», 10 gennaio 1945.
24 Ibid.
25Non firmato (ma E. Momigliano), I «non sinceri», rubrica Di giorno in giorno, «Ricostruzione»,
12 gennaio 1945.
26 Non firmato (ma G. Giannini), Ma che razza di giornalisti sono?, «Uq», 17 gennaio 1945.
27 Ibid.
28 Ibid.
29 Le Vespe, «Uq», 17 gennaio 1945.
30 Non firmato (ma G. Giannini), La guerra dei parenti poveri, ivi, 17 gennaio 1945.
31Non firmato (ma G. Giannini), Breve e succosa storia del banditismo politico, ivi, 31 gennaio
1945.
32 Cfr. intervista al «New York Post», 24 dicembre 1945, in Non firmato, I qualunquisti son tutti
Patrissi - Giannini al «New York Post»: Roosevelt ha commesso un delitto contro l’Europa
entrando in guerra a fianco dell’Inghilterra - parla «l’aspirante duce», «Avanti!», 20 marzo 1946.
La tesi espressa da Giannini nell’intervista era la seguente: «Gli Stati uniti europei sono quello che
ci vuole. Che siano diretti dalla Germania, dall’America, dall’Italia, dall’Inghilterra per me è lo
stesso [...].
Se gli Stati Uniti non avessero preso parte a questa guerra, si sarebbe arrivati a una federazione
basata sul compromesso e l’equilibrio. Invece, voi avete rovinato l’Europa».
33 G. Giannini, Madonna Pace, «Uq», 10 gennaio 1945. Si tratta di un articolo scritto nel giugno
1944 e rifiutato da «Il Tempo», «La Voce repubblicana» e «Il Popolo», nel quale Giannini ribadiva
una tesi già in parte sostenuta nelle Cronache immaginarie: «Churchill scongiurò Mussolini di
starsene tranquillo, Roosevelt mandò ambascerie e messi al dittatore folle, chiedendogli soltanto
una neutralità che sarebbe stata la fortuna non solo dell’Italia, ma anche quella dell’uomo dal
balcone».
34 Non firmato (ma G. Giannini), L'Uomo Qualunque, «Uq», 27 dicembre 1944.
35 Non firmato, rubrica L’UQ, ivi, 27 dicembre 1944.
36 Non firmato (ma G. Giannini), Fascisti di tutte le ore, ivi, 7 febbraio 1945.
37 Non firmato (ma G. Giannini), rubrica L’UQ, ivi, 17 gennaio 1945.
38Non firmato (ma G. Giannini), vignetta (prima pagina) illustrante il caso del «Gobbo del
Quarticciolo», Giuseppe Albano, «Uq», 24 gennaio 1945.
39Cfr. G. Giannini, Mentre Nenni s’insedia al Ministero Ricostituente - Un povero scemo vuol farci
paura agitando un capocronaca dell’«Avanti!» (lettera a Giuseppe Russo), ivi, 18 luglio 1945.
40 G. Giannini, Memorie, cit., p. 45: «[...] non risparmiai parole roventi a nessuno. Dissi che
all’Italia non interessava affatto quella guerra, che gli anglo-americani non erano i nostri alleati ma i
nostri vincitori, che eravamo ancora e sempre in attesa del mantenimento delle promesse fatte da
radio Londra [...]; che il soldato italiano, dopo aver combattuto con coraggio e onore per tre anni e
mezzo, non doveva essere umiliato con l’incarico di portare le salmerie delle armate anglo-
americane».
41Non firmato (ma G. Giannini), Un’ingiustizia che avrà gravi conseguenze, «Uq», 21 febbraio
1945.
42 Ibid.
43 G. Giannini, Nequitosi bassotti del giornalismo, «Uq», 21 febbraio 1945.
44 G. Giannini, Un’ingiustizia che avrà gravi conseguenze, cit.
45 G. Giannini, Un’ingiustizia che avrà gravi conseguenze, cit. e Nequitosi bassotti del
giornalismo, cit.
46 G. Giannini, Un’ingiustizia che avrà gravi conseguenze, cit.
47 Ibid.
48Non firmato (ma G. Giannini), Squadrismo da tavolino, «Uq», 28 febbraio 1945. Il corsivo è
mio.
49 In G. Giannini, Un’ingiustizia che avrà gravi conseguenze, cit.
50In G. Giannini, Un povero scemo vuol farci paura agitando un capocronaca dell’«Avanti!», cit.
Sull’episodio dell’epurazione cfr. anche, oltre alle Memorie, cit. (pp. 45-6) Μ. Lo Vecchio-Musti,
op. cit., pp. 20 sgg.
51 Le Vespe, «Uq», 24 gennaio 1945.
52 Firmato L’Uomo Qualunque (ma G. Giannini), Eroismo e serietà del nord, ivi, 2 maggio 1945:
«Il nostro cuore esulta di incontenibile entusiasmo».
53 Ibid.
54 Ibid.
55 «Parri non è, a quanto si dice, e a quanto sembra, un uomo politico professionale, ma un
galantuomo che fino ad oggi ha mangiato il sudato pane di chi se lo guadagna con onesta e spesso
ignorata fatica. Se è così, Parri è un uomo qualunque, uno dei nostri»: Non firmato (ma G.
Giannini), vignetta in prima pagina, «Uq», 20 giugno 1945.
56 G. Giannini, Un grosso affare di cui non c’importa niente, ivi, 16 maggio 1945.
57 «La vera classe dirigente, il serbatoio sociale da cui escono i capi» (Non firmato, ma G. Giannini,
Si vuole dunque un altro duce?, ivi, 13 giugno 1945).
58 Le Vespe, ivi, 9 maggio 1945.
59 G. Giannini, Si vuole dunque un altro duce?, cit.
60 Non firmato (ma G. Giannini), Il Partito del buonsenso, «Uq», 23 maggio 1945.
61 Non firmato (ma G. Giannini), Dentisti senza tenaglie, ivi, 4 luglio 1945.
62 Ibid.
63 Ibid.
64Cfr. Non firmato (ma G. Giannini), vignetta di prima pagina, e Non firmato (ma G. Giannini),
Regime provvisorio, «Uq», 11 luglio 1945.
65 Non firmato (ma G. Giannini), LI on aver paura di nulla e di nessuno, ivi, 13 giugno 1945. Cfr. a
p. 101 l’analoga doglianza di Croce, che certamente Giannini aveva tenuto presente nella redazione
di quest’articolo.
66 Ibid.
67 G. Giannini, Il Partito del buonsenso, cit.
68 Non firmato (ma G. Giannini), No» solamente anticomunisti, «Uq», 18 luglio 1945.
69 G. Giannini, Memorie, cit., p. 43.
70 G. Palletta, Il qualunquismo e l’avventura di Guglielmo Giannini, Bompiani, Milano 1972, p. 49.
71 G. Giannini, Memorie, cit., p. 44.
72Ivi, p. 50. Non sempre Giannini riusciva a contenere le proprie reazioni. Cfr. ad es. resoconto di
un discorso del marzo ’48 a Bologna su «Uq», 31 marzo 1948.
73 G. Giannini, Memorie, cit., pp. 44, 47.
74 Ivi, p. 43.
75 Ibid. Cfr. Discorso inaugurale al primo congresso nazionale del Fronte dell’Uomo Qualunque (16
febbraio), «Uq», 20 febbraio 1946: «Che dovevo fare sentendomi dare del fascista non perché lo
fossi o lo fossi stato, ma perché accusato di fascismo io potessi essere tolto di mezzo? Mi sono
servito dei miei mezzi, della mia arte ch’è fatta della maestria della battuta: ho risposto all’ingiuria
con l’ingiuria (Ha fatto bene!), all’insinuazione malvagia con lo sberleffo, all’austera ipocrisia dei
puri cialtroni con la caricatura [...]. Non c’era altro da fare: e quanto è accaduto mi dà forse ragione
d’averlo fatto». Cfr. anche G. Giannini, Storia e parolacce, «Il Buonsenso», 24 novembre 1946:
«Noi, faticosamente, stiamo tentando di raggiungere lo scopo di ridare educazione, eleganza,
misura, cavalleria, alla politica del dopoguerra. C’è chi obbietta ch’è ben strana la nostra pretesa
d’insegnar le buone usanze con il nostro linguaggio pepato, ma noi controbbiettiamo che la
stranezza è solo apparente. Parliamo a facchini: quale linguaggio dovremmo adoperare se non
quello ch’essi comprendono? Non diversamente i missionari che vanno fra i selvaggi per
evangelizzarli ne apprendono prima il dialetto: per farsi capire da chi altro e più alto parlare non
potrebbe comprendere».
76 G. Giannini, Memorie, cit., p. 43.

77 Le Vespe, «Uq», 15 gennaio 1947.


78 G. Giannini, Memorie, cit., p. 48.
79 Ibid.
80 Ivi, p. 49.
81 G. Giannini, Grido di dolore, «Uq», 8 agosto 1945.
82 G. Giannini, Memorie, cit., p. 49.
83 G. Giannini, Il programma politico dell’Uomo Qualunque (sopratitolo: Contro la fascistica
reazione dell’antifascismo opportunista), «Uq», 7 novembre 1945: «Crediamo d’essere
prudentissimi ritenendo il numero dei nostri aderenti superiore almeno al doppio della somma di
tutti gli inscritti ai sei partiti dei Cln».
84 Cfr. discorso del 7 novembre 1946 alla basilica di Massenzio, «Il Buonsenso», 8 novembre 1946:
«Noi siamo disarmati. Noi dell’Uomo Qualunque siamo disarmati mentre potremmo non esserlo, e
vi debbo dire che sono costretto a trattenere moltissimi amici». Sul vanto di Giannini di essere il
solo ad impedire la guerra civile cfr. infra, pp. 229-30.
85 Discorso a Bari del 5 giugno 1947, «Il Buonsenso», 6 giugno 1947 (Non firmato, Una grande
giornata per la libertà umana. Giannini fissa a Bari in 10 punti i principii fondamentali del
Qualunquismo italiano).
86Le Vespe, «Uq», 28 agosto 1946: «È finito il tempo in cui ogni passante poteva entrare nelle sale
dei nostri convegni a far la voce grossa, a sputar sentenze, a intorbidar le acque».
87 G. Giannini, Memorie, cit., p. 47.
88 Non firmato (ma G. Giannini), Dittatura in atto,«Uq», 12 settembre 1945.
89 Le Vespe, ivi, 5 settembre 1945.
90 Non firmato (ma G. Giannini), Il Buonsenso al contrattacco, ivi, 5 settembre 1945.
91 Ibid. Il corsivo è mio.
92 Non firmato (ma G. Giannini), Partito dei Senza Partito, ivi, 15 agosto 1945.
93 Cfr. ad es. Le Vespe, ivi, 29 agosto 1945.
94 G. Giannini, Primo bilancio dell’Uomo Qualunque, cit.
95 Cfr. il giudizio di Croce su La Polla·. «Una specie di storia universale dove è chiaramente
esposta questa formidabile teoria: l’umanità è composta nella stragrande maggioranza da uomini
che desiderano vivere in pace, ma vi sono due caste che lo impediscono, quella dei generali e quella
dei politicanti: la folla, la folla degli uomini qualunque, deve eliminare queste due caste e. vivrà in
pace» (B. Croce, dichiarazioni rese a Giorgio Bocca — «Gazzetta del Popolo», 4 settembre 1948 —
in G. Giannini, Croce in conflitto col calendario, «Uq», 8 settembre 1948). Croce, evidentemente
per una svista, collocava nel 1946 — e non nel 1945 — il suo incontro con Giannini.
96 G. Giannini, Le destre e noi, «Uq», 6 febbraio 1946.
97 Non firmato (ma G. Giannini), I liberali con le spalle al muro, ivi, 12 settembre 1945.
98 Ibid.
99 G. Giannini, Memorie, cit., p. 48.
100 B. Croce, dichiarazioni a G. Bocca, cit.
101 G. Giannini, Memorie, cit., p. 48. Per la versione di Croce sull’incontro con Giannini cfr. B.
Croce, dichiarazioni a G. Bocca, cit.: «Venne a casa mia e mi chiese se conoscevo il suo pensiero
politico [...].
Così, a conoscenza del suo pensiero, io dissi a Giannini: ‘ Senta, onorevole, non discuto le sue idee,
ma il mio è un partito, la sua è una folla. Credo che un matrimonio non sia possibile ’».
102 Non firmato (ma G. Giannini), Croce del Partito liberale, «Uq», 30 ottobre 1946.
103 Cfr. «Uq», 6 novembre 1946 (Non firmato, Un grande fatto politico - Guglielmo Giannini parla
a Napoli - «Per chi è dentro e fuori dal San Carlo, per chi ci ascolta dentro e fuori i confini
d’Italia»).
104 G. Giannini, Memorie, cit., p. 48: «Il consiglio mi fu autorevolmente dato da varie personalità
liberali».
105 Le Vespe, «Uq», 23 gennaio 1946: «Se la nostra reverenza per Croce fosse meno solida, a
quest’ora la crisi del professionismo politico liberale si sarebbe già risolta in un senso che né a
Omodeo né a Croce potrebbe far piacere. Dicono molti liberali ‘ La nostra croce è Croce ’. Ma non
è vero. Almeno nei nostri riguardi la loro fortuna, il loro scudo è Croce. Se non temessimo di dare
un dolore a Croce, a quest’ora il Partito liberale sarebbe... Ma non diciamo cosa sarebbe, altrimenti
la venerazione per il Maestro va a farsi benedire».
106 Non firmato (ma G. Giannini), Non solamente anticomunisti, «Uq», 18 luglio 1945.
107 Ibid.
108 Non firmato (ma G. Giannini), Salvate la Madre Nostra, ivi, 10 ottobre 1945.
109 Ibid.
110«Noi abbiamo fatto un caposaldo qualunquista di questo fatto storico, sostenendo che fino al
1914 l’Italia era un grande paese libero, ricco e felice, la cui volontà collettiva fu violata dalla
minoranza che impose il primo intervento»: Non firmato (ma G. Giannini), Neofascismo del signor
Togliatti, ivi, 3 gennaio 1946.
111 G. Giannini, Memorie, cit., pp. 48-9.
112 Cfr. supra, cap. I, nota 86.
113G. Giannini, Il programma politico dell’Uomo Qualunque, cit. Sull’episodio del rifugio di
Giannini in via della Mercede cfr. G. Giannini, Memorie, cit., p. 49.
114 Testo della lettera su «Risorgimento liberale», 30 maggio 1945.
115 D. Bartoli, Il Nord è inquieto - Lo spettro della Grecia svanisce; ma talvolta le folle sono prese
da irrefrenabili furori, «Risorgimento liberale», I luglio 1945.
116 B. Croce, Il Partito liberale e il pericolo dell’ora, in Scritti e discorsi politici, cit., vol. II, pp.
229-30. Il corsivo è mio. Sulla problematica relativa al rapporto Croce-cattolici-comunisti,
accennata nel testo, cfr. S. Setta, Croce e la Resistenza, «Rivista di Studi crociani», X, aprile-giugno
1973, fasc. II, pp. 144-64. Cfr. anche, in polemica, A. Parente, La presunta «involuzione» politica di
Croce seguita al 1943, ivi, pp. 165-76 e Ancora su Croce e la Resistenza. Una replica di Sandro
Setta. Alcune precisazioni (Alfredo Parente), ivi, luglio-settembre 1973, fasc. III, pp. 318-20 e 320-
5.
117 A. De Gasperi, discorso a Milano del maggio 1945, in Μ. De Maggi, op. cit., p. 111.
118 Testo del discorso sul «Tempo», 4 ottobre 1945 (Non firmato, Il discorso della saggezza e della
rinascita - Nitti esorta gli italiani a unirsi per l’opera di ricostruzione).
119 Cfr. «Il Tempo», 16 novembre 1945 (Non firmato, Gli industriali americani per ora non ci
aiuteranno - Il banchiere Giannini espone le cause della sfiducia dei finanziatori statunitensi).
Giannini indicava anche, tra le cause della sfiducia del capitale americano, «l’interferenza delle
commissioni interne nelle aziende».
120 F. Catalano, L'Italia dalla dittatura alla democrazia, cit., vol. II, p. 218.
121 Lettera agli altri partiti del 17 novembre 1945, ivi, p. 225.
122 Ivi, p. 226.
123 Cfr. mozione del comitato esecutivo del Partito d’Azione — 25 ottobre 1945 —, «L’Italia
libera», 26 ottobre 1945 (Non firmato, La dichiarazione politica del Partito d’Azione - Raccogliere
tutti gli italiani per costruire la democrazia).
124 Non firmato, Responsabilità, «Avanti!», 8 settembre 1945.
125 Firmato ‘ Renzo ’, Prima rassegna delle elezioni amministrative (rubrica Cantiere), «Il Ponte»,
4 aprile 1946, p. 381.
126 R. Pacciardi, L’inquietudine del paese, «La Voce repubblicana», 11 agosto 1945.
127 Non firmato, Responsabilità, cit.
128 «Avanti!», 8 settembre 1945 (Non firmato, Parri ricorda agli scontenti di oggi il loro
entusiasmo per le avventure fasciste).
129 A. Giovannini, Motivi liberali, «Il Tempo», 7 dicembre 1945.
130 Nella relazione politica al comitato nazionale del partito, il segretario del Pli Cattaui affermava:
«I partiti politici e il governo devono tener conto di questo diffuso malumore del popolo italiano,
denunciando e combattendo quel che può esservi di ingenuo e superficiale, ma [...] accogliendo
tutte le espressioni amare della pubblica opinione e trarne occasione per ovviare agli inconvenienti:
solo così si impediscono certi dilaganti movimenti di malcontento». Cfr. «Risorgimento liberale»,
21 settembre 1945.
131 Μ. Pannunzio, Esame di coscienza, ivi, 19 settembre 1945. Il corsivo è mio.
132Cfr. Non firmato, Il significato della crisi: dichiarazioni di Benedetto Croce, ivi, 21 novembre
1945.
133 Non firmato, Condizioni inderogabili, ivi, 5 dicembre 1945.
134 Risoluzione della direzione della Dc, 23 novembre 1945, «Avanti!», 24 novembre 1945.
135Cfr. G. Mammarella, L’Italia dopo il fascismo, cit., p. 109 e (per l’espressione «colpo di stato»)
Non firmato, Le dimissioni del governo -Parri denuncia il losco gioco delle destre, «Avanti!», 25
novembre 1945.
136 Cfr. lettera di De Gasperi al Pli, in F. Catalano, op. cit., p. 233.
137Testo in «Risorgimento liberale», 5 dicembre 1945 (Non firmato, I dieci punti programmatici
posti dai liberali per il nuovo governo).
138 Non firmato, Dichiarazioni di Togliatti sul programma dei liberali, «l’Unità», 5 dicembre 1945.
139 Non firmato, L’Italia al bivio, «Rinascita», novembre 1945.
140 P. Nenni, L’anno che muore, «Avanti!», 30 dicembre 1945.
141 P. Calamandrei, Crisi della Resistenza, «Il Ponte», novembre-dicembre 1947, in F. Catalano,
Problemi e prospettive della storiografia della Resistenza, in II movimento operaio e socialista.
Bilancio storiografico e problemi storici, Atti del Convegno promosso da «Mondo operaio» per il
LXX del Partito socialista italiano (Firenze, 18-20 gennaio 1963), Edizioni del Gallo, Milano 1965,
p. 342.
142 Non firmato (ma G. Giannini), La crisi e le sue cause, «Uq», 21 novembre 1945.
143 Ibid.
144 Non firmato (ma G. Giannini), Ma dove sono queste destre?, ivi, 5 dicembre 1945.
145 Ibid.
146 Non firmato (ma G. Giannini), Tecoppa va a sinistra, ivi, 19 dicembre 1945.
147 Ibid.
148 Ibid.
149 Ibid.
150 G. Giannini, Verso il primo congresso dell'U.Q., ivi, 21 novembre 1945.
151 Non firmato (ma G. Giannini), Ma dove sono queste destre?, cit.
152 Non firmato (ma G. Giannini), Le elezioni amministrative, «Uq», 30 gennaio 1946.
153 Cfr. il deliberato del 5 marzo ’46 della presidenza del Fronte dell’UQ (in «Uq», 6 marzo 1946):
«1. Possono essere inscritti al Fronte dell’Uomo Qualunque anche gl’inscritti ai seguenti partiti
politici: a) Partito Liberale Italiano; b) Partito Democratico del Lavoro; c) Democrazia Cristiana; d)
Partito Repubblicano Italiano; e) Partito d’Azione. 2. Possono essere inscritti al Fronte dell’Uomo
Qualunque anche gl’inscritti al Partito Socialista e al Partito Comunista Italiano, previo esame, caso
per caso, della domanda d’inscrizione, da farsi dall’Ufficio Politico Centrale del Fronte in via
Francesco Crispí 49, Roma».
154 G. Giannini, Le elezioni amministrative, cit.
155Testo del discorso in «Uq», 6 febbraio 1946 (Non firmato, Il Congresso regionale pugliese del
Fronte dell'U.Q. si è svolto a Bari con l'intervento di Guglielmo Giannini - Importanti discorsi di
Roberto Bencivenga e di Emilio Patrissi).
156 Ibid.
157 Cfr. «Uq», 13 febbraio 1946 (Patto della Ricostruzione: «Amici e Amiche di tutta Italia, il
trionfale esito del Congresso di Bari ha fornito la prova che intorno al Programma dell'Uomo
Qualunque si raccoglie la parte sana e operosa del Paese. Abbiamo quindi deciso di unire le nostre
forze, le nostre volontà, i nostri mezzi per ricostruire la Patria. Roma, 9 febbraio 1946 - Roberto
Bencivenga - Guglielmo Giannini - Emilio Patrissi»).
158 Cfr. «Uq», 21 novembre 1945 (Bencivenga e il suo programma politico). Il commento al
programma non è firmato (ma G. Giannini).
159Cfr. E. Selvaggi, Il Partito democratico italiano, discorso pronunziato in Roma il 3 dicembre
1944 al teatro Quirino, Tipografia La Tribuna, s. 1. 1944.
160 Ivi, pp. 15, 22.
161 Ivi, p. 24.
162 Non firmato, Il vivo che tace, «Italia nuova», I marzo 1944 (Roma, Museo della Liberazione).
163 Ordine del giorno presentato da Selvaggi e approvato dal Consiglio nazionale del Pdi il 6
settembre 1945, ivi, 7 settembre 1945.
164 Cfr. «Uq», 20 febbraio 1946 (Per la ricostruzione della Patria -Alleanza fra il P.D.I. e il Fronte
dell'U.Q. - Esaminata la situazione politica: il Partito Democratico Italiano e il Fronte dell'Uomo
Qualunque hanno deciso di allearsi per la ricostruzione della Patria, Roma, 14 febbraio 1946 -
Enzo Selvaggi - Guglielmo Giannini).
165 Testo del discorso in «Italia nuova», 26 fçbbraio 1945.
166 Μ. Lupinacci, Giannini e noi, «Secolo XX», 30 gennaio 1946.
167 Ad essa «preferisco la franca canaglieria dei comunisti»: G. Giannini, Le destre e noi, cit.
168Non firmato (ma G. Giannini), Non si può andare che avanti, «Il Buonsenso», 27 gennaio 1946:
«L’idea politica della nazione è superata [...]. La manifesta avversione delle destre per l’Uomo
Qualunque è istintiva e irriflessiva, ma nasce dal presentimento di questa idea continentale europea
che supera il nazionalismo vecchio stile dal quale le destre non sanno staccarsi».
169 G. Giannini, Le destre e noi, cit.
170 Non firmato (ma G. Giannini), Rapporto della settimana, «Uq», 29 agosto 1945.
171 Non firmato (ma G. Giannini), trafiletto in terza pagina, ivi, 17 ottobre 1945.
172 Cfr. ad es. AIL = Armata Italiana di Liberazione; FAI = Fronte Antibolscevico Italiano; PSR =
Partito Socialista Repubblicano; PNF = Partito Nazionale Fusionista; PRM = Partito Repubblicano
Mazziniano; ABIRAC = Arditi Bianchi Italiani Reparti Anticomunisti; etc. Cfr. Μ. Giovana, Le
nuove camicie nere, Edizioni dell’Albero, Torino 1966, p. 29 e F. Catalano, L’Italia dalla dittatura
alla democrazia, cit., vol. II, p. 209, nota. Sul neofascismo cfr. anche Μ. Tedeschi, Fascisti dopo
Mussolini, L’Arnia, Roma s. d. (ma 1950) e i recenti P. G. Murgia, Il vento del nord. Storia e
cronaca del fascismo dopo la Resistenza (1945-1950), Sugar, Milano 1975 e P. Rosenbaum, Il
nuovo fascismo. Da Salò ad Almirante. Storia del Msi, Feltrinelli, Milano 1975.
173 Μ. Tedeschi, op. cit., p. 64.
174 E. Forcella, Dieci anni di neofascismo. L’ora dei cimiteri, «Il Mondo», 13 aprile 1954.
175 Cfr. G. Almirante - F. Palamenghi-Crispi, Il Movimento sociale italiano, Nuova Accademia,
Milano s. d., p. 27. Secondo il Giovana (op. cit., p. 34) la denominazione del gruppo protagonista
del trafugamento della salma di Mussolini era Partito fascista democratico.
176 Cfr. Μ. Giovana, op. cit., p. 35.
177 Ivi, p. 28: «Grosso modo, i conati organizzativi si orientavano in tre direzioni: l’organizzazione
dei gruppi clandestini veri e propri, quella di partiti di comodo che potessero agire mascherando
l’attività dei clandestini dietro una facciata democratica, quella di nuclei neo-fascisti inseriti nei
principali partiti».
178 Cfr. anche E. Forcella, Dieci anni di neofascismo. La chioccia qualunquista, «Il Mondo», 20
aprile 1954.
179 Firmato ‘ L’amico ’, Testimonianza, «Meridiano d’Italia», 14 marzo 1948.
180 Cfr. Non firmato, Contro i partiti dell’antinazione reazionari e liberticidi - Appello per una lega
di difesa nazionale a «Manifesto», «La Rivolta ideale», «Il Merlo giallo», «Meridiano d’Italia»,
«La Gazzetta del Lunedì», «La Diga» e agli organi affini, «Rataplan» (il giornale di De Marsanich
e Tripodi, che si autodefiniva di «estrema sinistra»), 11 novembre 1946. Cfr. anche N. Tripodi,
All’estrema sinistra, ivi, 21 ottobre 1946.
181 Firmato ‘ Paulus ’, Fede nel socialismo, «La Rivolta ideale», 21 agosto 1947.
182 A. Giovannini, Il nostro passato e il nostro avvenire, «Rosso e nero», 27 luglio 1946.
183 Firmato ‘ L’amico ’, Testimonianza, cit.
184 Non firmato, Editoriale, «L’Ordine sociale», 11 marzo 1948. Ma a «Giannini ed ai
qualunquisti» veniva riconosciuto «il lodevolissimo merito di avere alzata una voce, sia pure non
sempre pulita, mentre imperversava il terrore e gli altri tacevano» (ibid.).
185 G. Giannini, Discorso agli amici di Toscana, «Uq», 27 agosto 1947.
186 Non firmato (ma G. Tonelli), Costi quel che costi, «La Rivolta ideale», 11 aprile 1946.
187 Non firmato (ma G. Tonelli), Mercanti di dolore, ivi, 2 maggio 1946.
188 Non firmato (ma G. Tonelli), Seguito e fine, ivi, 8 agosto 1946.
189 Cfr. Non firmato, Orientamenti, ivi, 23 maggio 1946: «Noi siamo nettamente ‘di sinistra’ [...] e
non abbiamo nessuna affinità coi 70 o 80 Partiti, Movimenti e Concentramenti ufficialmente in
lotta. Ciononostante dovremo oggi usare le armi altrui: e converrà scegliere quelle che con maggior
chiarezza portano scritta la parola Italia. Il Blocco Nazionale della Libertà, l’Uomo Qualunque, la
Unione Democratica Nazionale, ci sembrano i movimenti ai quali possiamo, in questa circostanza,
aderire».
190 G. Giannini, Memorie, cit., p. 46.
191 G. Giannini, La Folla, cit., p. 41, dove l’A. riporta una singolare parafrasi della legge mosaica.
192 Ivi, p. 44.
193 Ivi, p. 46.
194 Ibid.
195 Firmato ‘ V', La vittoria della verità, «L’Osservatore romano», 6 agosto 1943.
196 G. Giannini, lettera all’«Osservatore romano», pubblicata il 12 agosto 1943 con il titolo Per la
vittoria della verità (Giannini la ricorderà con il titolo Difesa della borghesia).
197«Il papa preferirebbe, alla conquista elettorale del Campidoglio da parte dei comunisti, Stalin e i
suoi cosacchi in Piazza San Pietro»: parole rivolte da p. Lombardi a De Gasperi il 19 giugno 1952,
in Μ. R. Catti De Gasperi, De Gasperi uomo solo, Mondadori, Milano 1964, p. 127.
198 Pochi giorni dopo le elezioni del 2 giugno ’46 Giannini, che «non aveva ricevuto il battesimo e
la cresima e non aveva contratto matrimonio religioso», si convertì ufficialmente al cattolicesimo,
regolarizzando «la sua posizione di fronte a Dio e agli uomini» (Μ. Lo Vecchio-Musti, op. cit., p.
83, nota 2).
199 Cfr. G. Giannini, Memorie, cit., p. 58.
200 Cfr. «Uq», 12 settembre 1945 (Non firmato, L'Aiuto cristiano e l'U.Q.).
201 Cfr. G. Giannini, Salvate la Madre Nostra, cit.
202 G. Giannini, Memorie, cit., p. 43: «I democristiani si davano l’aria di non conoscermi, benché
c’incontrassimo spesso con De Gasperi da monsignor Ronca, allora non ancora arcivescovo di
Lepanto».
203 Cfr. Le Vespe, «Uq», 15 maggio 1946.
204Non firmato (ma G. Giannini), Troppo volere, nulla stringere, ivi, 3 febbraio 1948. Cfr. cap. IV,
nota 77.
205 Discorso alla seduta inaugurale del primo Congresso nazionale del Fronte dell’Uomo
Qualunque, cit., «Uq», 20 febbraio 1946.
206 Le Vespe, ivi, 17 luglio 1946.
207 Non firmato (ma G. Giannini), Fine del primo tempo, ivi, 24 aprile 1946.
208Cfr. Μ. Lo Vecchio-Musti, op. cit., p. 183 («La forte organizzazione padronale che lo aveva
sovvenuto [il qualunquismo] dal dicembre 1946 in poi»).
209Testo in «Uq», 26 ottobre 1949 (Non firmato, Roma, 23 ottobre 1949, data della rinascita - Il
Fronte dell’Uomo Qualunque esce dalla trincea dove ha con lunga pazienza aspettato la sua ora).
210 Comizio al S. Carlo di Napoli, cit. («Uq», 10 marzo 1948).
211 G. Giannini, Il sasso nel pantano, «Il Buonsenso», 16 febbraio 1946.
212 Direttore del «Buonsenso» era infatti l’ex partigiano Ettore Basevi, redattore-capo Vincenzo
Tieri, che durante il fascismo era stato redattore-capo del «Popolo di Roma». Tra i redattori c’era
Rodolfo Crociani, esponente della Rsi che Basevi aveva «più volte segnalato» nella rubrica «Spie al
muro!» di radio Anzio (cfr. «Cantachiaro», 4 gennaio 1946). Altri ex partigiani del «Buonsenso»
erano Mario Bontempi, Edoardo Stolli, Gerardo Zampaglione. Cfr. I partigiani del «Buonsenso»,
lettera di solidarietà a Giannini in occasione della invasione del quotidiano da parte di un gruppo di
ex partigiani, firmata da Basevi, Bontempi e Stolli («Il Buonsenso», 20 marzo 1946) e da
Zampaglione (ivi, 21 marzo 1946).
213 Cfr. Le Vespe, «Uq», 8 gennaio 1947. Per i titoli della stampa locale cfr. Μ. Lo Vecchio-Musti,
op. cit., p. 64, nota 2. Altri giornali d’ispirazione qualunquista furono: «L’Idea qualunquista»
(Napoli), «Orizzonte» (Bari), «Prisma» (Firenze), «Gianduia e l’Italiano» (Torino), «5 minuti»
(Catanzaro), «L’Intransigente - La Ragione» (Parma), «Luce nuova» (Salerno), «L’Obiettivo»
(Genova), «L’Informatore» (Gorizia), «La Nuova penna» (Reggio Emilia), «L’Ora» (Rieti), «La
Provincia» (Siena).
214 Testo in «Uq», 24 aprile 1946. Ecco alcune fra le strofe più significative: «Ma perché, perché la
gente / crede sempre a chi più strilla / e per vivere tranquilla / lo fa duce, presidente, / lo fa re, lo fa
padrone, / per averne calma e pace, / e poi soffre, paga e tace, / governata dal bastone? [...] Ogni
tanto spunta un fregno / che si piazza avanti a tutti, / grida: abbasso i farabutti! / Via di qui chi non è
degno! / Via chi succhia il sangue altrui / Chi ci sfrutta e ci maltratta! / E poi sai di che si tratta? /
Scaccia gli altri e resta lui / [...] Le tue frasi le conosciamo / Le sappiamo le tue intenzioni / È per
questo che ti preghiamo / di non romperci più i cordoni».
215 Discorso inaugurale al primo Congresso nazionale del Fronte dell’Uomo Qualunque, cit.
216 Discorso inaugurale, cit. Il corsivo è mio.
217 «C’è qualcuno il quale pensa che tutta questa bellezza spirituale, tutta questa grandezza [del
cattolicesimo...] sia monopolio elettorale di alcuni uomini che vogliono diventare deputati»:
dichiarazioni conclusive al primo Congresso nazionale del Fronte dell’Uomo Qualunque (Roma,
teatro Rex, 19 febbraio 1946), «Uq», 20 febbraio 1946.
218 Ibid.
219Cfr. sempre discorso inaugurale, cit. Alle grida di «Viva Trieste!» Giannini aveva replicato:
«Viva Trieste! Ma temete forse che io abbia paura di gridarlo? Viva Trieste!» (ibid.).
220 Intervento conclusivo (dopo i discorsi di Bencivenga e di Patrissi) dei lavori della prima
giornata (16 febbraio, «Uq», 20 febbraio 1946, cit.).
221 Cfr. «Il Buonsenso», 6 marzo 1946 (rubrica senza titolo, ma Le Vespe), d’ora in avanti: Le
Vespe, «Il Buonsenso», etc.
222 Cfr. Le Vespe, «Uq», 6 marzo 1946.
223 Ibid.
214 Discorso di Patrissi, 16 febbraio ’46, «Uq», 20 febbraio 1946, cit.
225 Cfr. Μ. Lo Vecchio-Musti, op. cit., p. 72, nota.
226 Non firmato, Un commediante all’Aula Magna, «L’Italia libera», 17 febbraio 1946.
227 Cfr. Μ. Lo Vecchio-Musti, op. cit., Appendice, p. 4.
228 Nella mozione sull’agricoltura si scopriva che «l’agricoltura nazionale deve essere orientata
verso quelle produzioni che il nostro clima e la varia natura dei nostri terreni rendono
economicamente più convenienti e tale che ne sia sicura l’affermazione su tutti i mercati
internazionali» (!): ivi, Appendice, p. 5.
229 Ivi, pp. 74-6.
230 Ivi, Appendice, p. 6.
231 Ivi, Appendice, p. 9.
232 Ivi, Appendice, p. 10.
233 Ivi, Appendice, pp. 12-3.
234Cfr. mozione sui Rapporti fra imprese e lavoratori; Libere associazioni professionali, ivi,
Appendice, p. 1.
235 Ivi, Appendice, pp. 14-6.
236 Ivi, Appendice, pp. 16-7.
237 Ivi, Appendice, pp. 7-8.
238 «L’uomo di teatro — aveva scritto — appena avrà finito la prima organizzazione e portato
l’Uomo Qualunque al suo primo congresso, uscirà di scena e tornerà a fare ciò che ha fatto per tanti
anni»: Le Vespe, «Uq», 19 settembre 1945.
239 Testo in «Uq», 20 febbraio 1946, cit. (Lo Statuto del partito, articoli 1-10).
240 Cfr. «Uq», 20 febbraio 1946, cit. (l’ordine del giorno venne proposto all’assemblea da Giannini
al termine delle sue dichiarazioni conclusive dei lavori).
241 Cfr. Non firmato, Monarchia fascista, «l’Unità», 16 febbraio 1946: «Un anno fa eravamo i soli
ad averlo capito. Più tardi se ne sono progressivamente accorti tutti, in Italia e all’estero».
242Cfr. Monarchia fascista, cit. e Non firmato, Fascismo qualunquista, «l’Unità», 19 febbraio
1946.
243 A. Claudio Rocchi, È ora di dire basta!, «L’Italia libera», 20 febbraio 1946.
244 A. Corona, Classe dirigente, «Avanti!», 12 novembre 1946.
245 L. Salvatorelli, Monarchia svelata, «Nuova Europa», 24 febbraio 1946.
246 Cfr. G. Giannini, Risposta al laburista Wilkes, «Uq», 19 dicembre 1945 (si tratta di una lettera
inviata il 14 dicembre ’45 da Giannini all’ambasciatore inglese Sir Noel Charles).
247Cfr. Hechy Pecky, Osservando «L’Observer» (rubrica Pettegolezzi europei), ivi, 21 novembre
1945.
248 In Non firmato, Commenti francesi all’«Uomo Qualunque», «L’Italia libera», 16 gennaio 1946.
249Trasmissione radio Mosca (Residui fascisti in Italia), in Non firmato (ma G. Giannini), Quattro
acconce parole, «Il Buonsenso», 27 febbraio 1946.
250 L’opposizione dei liberti, «Il Ponte», dicembre 1945.
251 Non firmato, L’inventore del cavallo, «La Rivolta ideale», 8 agosto 1946.
252 In R. Colapietra, La lotta politica in Italia dalla Liberazione alla Costituente, cit., pp. 345-6.
253 Cfr. A. Airoldi, La reazione della borghesia, «Il Tempo», 16 febbraio 1946.
254 Cfr. F. Monicelli, Un cialtrone qualunque, «Cantachiaro», 10 febbraio 1945; Costa,
Radioscopia della crisi, ivi, 30 novembre 1945; Μ. Sfila, Inchiesta sui partiti - «L’U.Q.», il più
immenso, ivi, 6 dicembre 1946; G. Manca, Fascisti qualunque, in A scanso di equivoci, cit. (ivi, 27
gennaio 1945); Melletti, L’UQ a congresso - Percorre a piedi 28 km per vedere Giannini (rubrica
Gazzettino del Regno), ivi, I febbraio 1946.
255 Cfr. G. Manca, Fascisti qualunque, cit.
256 Ibid.
257 Non firmato, Lettere apocrife di un canzonettista qualunque, ivi, 17 maggio 1946.
258 Firmato Savi, Il partito delle meraviglie, ivi, 8 marzo 1946.
259 Μ. Sfila, Inchiesta sui partiti - «L’U.Q.», il più immenso, cit.
260 G. Tonelli, Seguito e fine, cit. («La Rivolta ideale», 8 agosto 1946). Per il settimanale
neofascista Giannini era, ancora, «un vecchio ricattatore [...] che ha costruito la sua fortuna
giornalistica sfruttando il dolore di decine di migliaia di disgraziati, e riuscendo casualmente a
creare un clima discretamente propizio a frenare l’ondata degli scervellati, [ma che] vede ora ne «La
Rivolta ideale» il temibile concorrente che già gli fa traballare la fu lauta mensa amministrativa e gli
sgonfia la vescica politica» (Non firmato, Chiarimento, ivi, I agosto 1946).
261 Cfr. Non firmato, Un commediante all’«Aula Magna», cit.; Non firmato, Vietato ai minori di 16
anni perché si cita la prosa di Giannini (rubrica Riflettore), ivi, 13 ottobre 1946; Firmato Micron,
Voilà bien du bruit pour une omelette!, ivi, 14 marzo 1946.
262 Non firmato, Un commediante all’«Aula Magna», cit.
263 A. Garosci, Un patto fascista, «L’Italia libera», 16 febbraio 1946.
264 Cfr. Non firmato, Calcolo sbagliato, «Avanti!», 23 maggio 1946; Non firmato, Gente inquieta,
ivi, 24 maggio 1946; Non firmato, Michele e Salvatore Scalera sono a Regina Coeli - Dalla marcia
su Roma all’«Uomo Qualunque», cit., ivi, 3 novembre 1945.
265 Non firmato, A che servono questi Giannini? (rubrica Parentesi), ivi, 29 novembre 1945.
266 Non firmato, Storia vera dell’uomo qualunque, cit.
267 Cfr. Non firmato, Qualunquismo: poche idee, molta boria, «Popolo e libertà», 22 dicembre
1946: «Malgrado ciò bisogna tenerlo d’occhio: anche il programma fascista, sul nascere, era un
insieme di luoghi comuni e di male parole».
268Non firmato, I qualunquisti sono tutti Patrissi - Giannini offende l’eroismo dei nostri partigiani,
«Avanti!», 17 marzo 1946.
269 Testo dell’intervista — al giornalista francese Μ. Serge Hyb — in «Uq», 27 marzo 1946 (Non
firmato, Uno scandalo giornalistico con ripercussioni mondiali - L’intervista concessa da Giannini
al giornalista Serge Hyb nel suo testo integrale e nelle falsificazioni dell’«Avanti!»). L’«Avanti!»
aveva pubblicato un testo parzialmente diverso, di qui le accuse di falso rivoltegli da Giannini (cfr. I
qualunquisti sono tutti Patrissi, cit.: «Ad una domanda sulla Liberazione il ‘ quattrinaio ’ Giannini
risponde: ‘ In Italia ha avuto luogo una sola ribellione popolare: quella di Napoli. Gli altri pretesi
movimenti di resistenza non sono stati che movimenti politici pagati, prima dal governo di
Badoglio, poi da quello di Bonomi ’»).
270 G. Giannini, Istigazione all’assassinio, «Il Buonsenso», 19 marzo 1946.
271 Le Vespe, «Uq», 27 marzo 1946. Ed ecco le «parolacce» usate contro i giornalisti
dell’«Avanti!»: «Bene: per i redattori-falsari dell’“Avanti!” adopereremo l’espressione di farabutti,
che di solito usiamo poco, accompagnata dai soliti fetenti, fetentoni, pezzi di escremento, fregnoni,
panscremenzi, carogne e simili. In segno di speciale attenzione conferiamo all’autore materiale del
falso l’attributo di ‘ concentrato di cloaca ’ e il diploma di Sovrano Commerdatore dell’Ordine della
Fogna, col diritto di risiedere nell’antro di Caco» (ibid.).
272 G. Giannini, Istigazione all’assassinio, cit.
273 I. Silone, Di che si tratta?, «Avanti!», 21 marzo 1946.
274Non firmato, I qualunquisti son tutti Patrissi - Giannini al «New York Post»: «Roosevelt ha
commesso un delitto contro l’Europa entrando in guerra a fianco dell’Inghilterra» - Un pazzo,
«Avanti», 24 marzo 1946, cit. (Per l’intervista v. nota 32, cap. II).
275A Ruvo di Puglia, il 14 marzo (1946), al termine di un comizio qualunquista sciolto dal
commissario di P.S. in seguito ad incidenti, erano state lanciate bombe contro la folla dalla sede del
Fronte, provocando 2 morti e 29 feriti (cfr. «Avanti!», 15 marzo 1946).
276 Le Vespe, «Uq», 11 dicembre 1946.
277 Le Vespe, ivi, 12 giugno 1946.
278 Le Vespe, ivi, 11 dicembre 1946.
279 Le Vespe, «Il Buonsenso», 2 aprile 1947.
280 Cfr. Non firmato, Primo congresso nazionale della Gioventù Qualunquista - Il saluto dei
congressisti ai fratelli giuliani - Gli argomenti trattati e la mozione conclusiva - Una corona
d’alloro al Milite Ignoto, «Uq», 28 maggio 1947 (i lavori del congresso si svolsero dal 23 al 25
maggio).
281 «Il partito del malcontento è sempre esistito in Italia, anche in Roma attorno a Pasquino e
Marforio. Credo che in tutta Italia vi sia stato sempre questo grande movimento e partito senza
tessera dei malcontenti e dei critici, che si sarebbe potuto chiamare movimento o partito ‘piove,
governo ladro! ’»: E. Lussu, discorso all’Assemblea costituente del 17 luglio 1946, in Atti
dell’Assemblea costituente, Discussioni dal 25 giugno 1946 al 14 dicembre 1946, vol. I, pp. 83-4.
282 «Pe’ noi, rubbi Simone o rubbi Giuda / Magni Bartolomeo, magni Taddeo, / Sempr’è tutt’uno e
nun ce muta un gneo: / Er ricco gode e ’r poverello suda. / Noi mostreremo sempre er culiseo / E
moriremo co’ la panza ignuda. / Io nun capisco dunque a che concruda / D’avè da seguità sto
piagnisteo. / Lo so, lo so, che tutti li quadrini / Ch’arrubbeno sti ladri è sangue nostro / E de li fiji
nostri piccinini. / Che serveno però tante cagnare? / Un pezzaccio de carta, un po’ d’inchiostro / E
tutt’Ora-pro-me: l’acqua va ar mare» (27 novembre 1832): G. G. Belli, È ’gnisempre un
pangrattato, in Sonetti, prefazione e note di Giorgio Vigolo, stampe del Pinelli, A. F. Formiggini
Editore in Roma, Tip. G. Ferraguti & C., Modena 1930, vol. I, p. 93.
283L. Piccardi, La storia non aspetta, cit., Introduzione, p. 17. Il Piccardi riassume appunto un
concetto esposto da Federico Chabod nella sua Storia della politica estera italiana dal 1870 al
1896, vol. I: Le premesse, Laterza, Bari 19712.
284
Sull’argomento cfr. L’antiparlamentarismo italiano (1870-1919), a cura di C. Cerbone, Volpe,
Roma 1972 (ivi, soprattutto la nota bibliografica).

III. 1946: dal 2 giugno al «vento del Sud».


1 G. Galli, Il bipartitismo imperfetto. Comunisti e democristiani in Italia, Il Mulino, Bologna 1966,
p. 117.
2Dichiarazione della direzione del Pci, in La politica dei comunisti dal quinto al sesto congresso,
Risoluzioni e documenti raccolti a cura dell’Ufficio di segreteria del Pci (La stampa moderna,
Roma s. d., in G. Galli, Storia del Partito comunista italiano, cit., p. 273).
3 Ibid.

4 L. Valiani, Il partito d'azione, cit., p. 133.


5 Oltre a Giannini e a Marina (industriale del vetro), i qualunquisti eletti all’Assemblea Costituente
furono: Michele Maria Tumminelli (dottore in lettere, eletto nel collegio Milano-Pavia); Emilio
Patrissi (dottore in economia e commercio, eletto nei collegi elettorali di Roma-Viterbo-Latina-
Frosinone, Bari-Foggia, Collegio unico nazionale); avv. Ottavio Mastrojanni (Roma-Viterbo-
Latina-Frosinone); gen. Giulio Perugi (Roma-Viterbo-Latina-Frosinone); avv. Francesco Colitto
(Benevento-Campobasso); Milziade Venditti (magistrato, ex presidente del tribunale di Roma,
Napoli-Caserta e C.u.n.); ing. Mario Rodinò (dirigente industriale, Napoli-Caserta); Ezio Coppa
(medico, Napoli-Caserta); Crescenzo Mazza (medico, Napoli-Caserta); avv. Renato Puoti (Napoli-
Caserta); Giuseppe De Falco (dottore in economia e commercio, Salerno-Avellino); Nicola
Lagravinese (medico, Bari-Foggia); avv. Martino Trulli (Bari-Foggia); ing. Leonardo Miccolis
(Bari-Foggia); prof. Cesario Rodi (Bari-Foggia); Antonio Capua (medico, Catanzaro-Cosenza-
Reggio Calabria); rag. Giuseppe Vilardi (Catanzaro-Co-senza-Reggio Calabria); Bartolomeo
Cannizzo (dottore in legge, Catania-Messina-Siracusa-Ragusa-Enna); Ottavia Buscemi-Penna
(Catania-Messina-Sira-cusa-Ragusa-Enna); avv. Gennaro Patricolo (Palermo-Trapani-Agrigento-
Calta-nissetta); avv. Guido Russo-Perez (Palermo-Trapani-Agrigento-Caltanissetta); avv. Giuseppe
Abozzi (Cagliari-Nuoro-Sassari); Tommaso Corsini (principe fiorentino, dottore in agraria e
dirigente di proprie aziende agricole, C.u.n.); ing. Armando Fresa (C.u.n.); Arturo Rognoni
(industriale, C.u.n.); Vincenzo Tieri (commediografo, C.u.n.); Catullo Maffioli (industriale, C.u.n.);
avv. Pietro Castiglia (Palermo-Trapani-Agrigento-Caltanissetta).
Altri due deputati qualunquisti furono eletti nella lista monarchica del Bnl nella circoscrizione
Lecce-Brindisi-Taranto (dopo il 2 giugno aderirono al gruppo parlamentare dell’UQ): Giuseppe
Carissimo Airoldi (medico) e Pasquale Lagravinese (avvocato).
Il gruppo parlamentare qualunquista (32 componenti) giunse a toccare, alla fine del 1946, con
l’adesione del gen. Bencivenga, di Enzo Selvaggi, Francesco Marinaro, Vincenzo Cicerone (tutti
eletti nel Bnl) e Domenico Tripepi (eletto nell’Udn) le 37 unità. (Per una sommaria biografia dei
deputati eletti all’Assemblea costituente cfr. I deputati alla Costituente, a cura di Mela, Casa
Editrice Quartara, Torino 1946.)
Come si accennerà nella parte finale «del testo, «la maggior parte dei deputati qualunquisti
scomparvero dalla vita politica italiana il 18 aprile 1948.
6Giannini si vanterà anche di essere stato il solo uomo politico che, durante la campagna elettorale
nell’isola, era stato libero di circolare, per espresso ordine del bandito Giuliano (G. Giannini,
Memorie, cit., p. 51).
7 Non firmato, Scandalo a Terni, «Il Buonsenso», 31 marzo 1946.
8 Slogan propagandistico («Finiranno le inquisizioni, le persecuzioni e le leggi speciali se il 2
giugno segnerai nella circoscrizione del Lazio il contrassegno di questa lista», segue elenco
candidati), ivi, 12 maggio 1946.
9 G. Giannini, Milano non abbia paura, ivi, 5 aprile 1946.
10 Testo del discorso conclusivo della campagna elettorale alla basilica di Massenzio, «Il
Buonsenso», 31 maggio 1946 (Non firmato, La conclusione della campagna elettorale dell'Uomo
Qualunque per la Costituente -Lolla enorme alla Basilica di Massenzio per ascoltare i discorsi di
Giannini e Patrissi).
11 Non firmato (ma G. Giannini), Carognaggine liberale, trafiletto, «Uq», 24 aprile 1946.
12 Non firmato (ma G. Giannini), Stanno giuocando l'unità d'Italia, ivi, 10 aprile 1946.
13 Ibid.
14 Cfr. comizio a Napoli in piazza Plebiscito del 28 maggio 1946, «Il Buonsenso», 9 maggio 1946
(Non firmato, Centocinquantamila elettori napoletani acclamano Giannini in piazza Plebiscito - Al
di sopra della polemica contingente).
15 Le Vespe, «Uq», 24 aprile 1946.
16 Non firmato (ma G. Giannini), Essi non possono capire, «Il Buonsenso», 10 aprile 1946.
17 Cfr. discorso alla seduta inaugurale del primo Congresso nazionale, cit. («Uq», 20 febbraio
1946).
18 Non firmato (ma G. Giannini), Rivelare il Fronte al nord, ivi, 2 ottobre 1946.
19 Cfr. G. Giannini, Lettera all'amico Tieri, ivi, 21 agosto 1946.
20 Cfr., sull’argomento, E. Cione, Storia della Repubblica sociale italiana, Latinità, Roma 19502 e,
più in generale, tra gli altri, F. W. Deakin, Storia della repubblica di Salò, Einaudi, Torino 1963.
21 G. Giannini, Lettera all'amico Tieri, cit.
22 Cfr. Le Vespe, «Il Buonsenso», I agosto 1946. Sull’ infiltrazione neofascista nel qualunquismo
cfr. Μ. Tedeschi, op. cit., pp. 89-90: «Una delle organizzazioni (clandestine) di Roma, per esempio,
aveva adottato come mascheramento proprio il partito qualunquista, ed io che ebbi poi occasione di
incontrare una volta Guglielmo Giannini, rimasi veramente esilarato, nel vedere quel grasso e
placido napoletano, all’idea che quegli era l’uomo sotto il cui nome si erano riuniti i moderni fuori
legge per discutere e preparare cose che certo avrebbero destato la curiosità dei solerti commissari
di pubblica sicurezza. Perché sia possibile avere un’idea di quello che spesso avveniva, ecco quanto
era stabilito da quel gruppo sotto il titolo Organizzazione e funzionamento dei comandi di zona [...].
Il comandante, il vicecomandante, i consegnatari, sono i soli che hanno diretto contatto con il
Comando centrale. I consegnatari saranno scelti in numero di due dal comandante di zona tra gli
elementi più fidati e che nel contempo non siano conosciuti per precedenti fascisti [...]. Uno di essi,
iscritto all'U.Q. come promotore di nucleo, conserverà le schede di tutti gli organizzati, unitamente
alle copie di costituzione dei verbali di nucleo, formati con alcuni elementi dell'organizzazione. Il
secondo, possibilmente iscritto ad un partito di sinistra, conserverà tutti gli incartamenti del
comando di zona.
Come si vede, se per Giannini c’è da piangere, per Togliatti o per Nenni non c’è da ridere davvero».
23 Le Vespe, «Uq», 14 agosto 1946.
24 G. Giannini, Lettera all'amico Tieri, cit.
25 Non firmato (ma G. Giannini), Il Bimbo diventa gigante, «Uq», 17 luglio 1946.
26 G. Giannini, Riorganizziamo il nostro Fronte, ivi, 13 luglio 1946.
27 G. Giannini, Il Bimbo diventa gigante, cit.
28 Cfr. G. Giannini, Sgonfiamo dunque questo pallone, «Il Buonsenso», 2 agosto 1946.
29 G. Giannini, Qualunquismo puro, «Uq», 31 luglio 1946.
30 G. Giannini, Vendonsi voti ed altro in borsa nera, «Il Buonsenso», 8 agosto 1946.
31 G. Giannini, Qualunquismo puro, cit.
32 «Sia ben chiaro [...] che il periodo iniziale e inevitabilmente confusionario del Fronte è
definitivamente chiuso. Il partito è ormai una forza imponente, che dev’esser diretta con criterio
unitario e come debbono uscirne i professionali del politicantismo [...], come debbono andarsene i
faziosi, gli speranzuoli di vendette a catena eccetera, così debbono filarsela i buffoni, gli affaristi e i
profittatori di ogni congiuntura» (Le Vespe, «Uq», 14 agosto 1946).
33 G. Giannini, Grido di speranza, 7 agosto 1946.
34 Le Vespe, «Il Buonsenso», 25 settembre 1946.
35 Perciò definiva l’Uq «un formidabile magnete di centro verso il quale gravitano le destre e le
sinistre» (Le Vespe, «Uq», 9 ottobre 1946).
36 Non firmato (ma G. Giannini), Per il più grande partito, «Il Buonsenso», 11 settembre 1946.
37 Intervista di Selvaggi a «Italia nuova» (Non firmato, Il «quarto partito» contribuirà ad un
migliore equilibrio politico, ivi, 4 ottobre 1946).
38 Firmato ‘ r. m. Benedetto Croce ci ha detto: non ho mai pensato di diventare un U.Q., «Avanti!»,
6 ottobre 1946.
39 G. Giannini, Per il più grande partito, cit.
40 Non firmato (ma G. Giannini), Croce del Partito liberale, «Uq», 30 ottobre 1946: «Si trattasse di
noi, soltanto e personalmente — spiegava Giannini —, non ci sogneremmo di opporci a Benedetto
Croce, e ci limiteremmo a guardarlo a far le bizze col cuore stretto, magari continuando a dirgli: ‘
Sì, Maestro ’. Ma non si tratta solo di noi, c’è altra gente: l’Uomo Qualunque d’Italia e del Mondo,
la Donna Qualunque d’Italia e del Mondo, una folla che spinge credendo d’esser guidata. Bisogna
pure, in nome e per conto di questa folla, dire a Benedetto Croce alcune verità, per amare che siano,
e reagire così alle sue birichinate, imperdonabili in un filosofo».
41 Ibid.
42 Cfr. Non firmato, La seduta di ieri all'Assemblea Costituente - Messaggio del Capo dello Stato e
dichiarazioni pro grammatiche del governo, «Il Messaggero», 16 luglio 1946.
43Dichiarazione della Direzione del Pci, in G. Galli, Storia del Partito comunista italiano, cit., p.
273.
44 G. Gonella, Anche in Belgio, «Il Popolo», 19 febbraio 1946.
45 G. Tupini, La nostra via, ivi, 20 aprile 1946.
46 Ibid.
47 Ibid.
48 Cfr. G. Pastore, Invito alla lealtà, ivi, 30 marzo 1946: «Il fatto nuovo maturato nel fervore delle
prime competizioni elettorali amministrative è rappresentato dalle posizioni di vivace contrasto
delincatesi nella propaganda tra noi democratici cristiani ed i comunisti [...]. È così avvenuto che la
tregua imposta dalle esigenze della lotta antifascista cedesse il passo alla inevitabile necessità che
idee e programmi hanno di misurarsi».
49Relazione politica di De Gasperi (24 aprile 1946) al primo congresso nazionale della Dc, ivi, 25
aprile 1946.
50 G. Andreotti, La tecnica della libertà, ivi, 23 aprile 1946.
51 Non firmato, L'attacco frontale di Togliatti alla Democrazia cristiana, ivi, 19 marzo 1946.
52 Cfr. Relazione politica, cit.
53 Equivalente, come già accennato, al 50,1%. Il blocco delle sinistre raggiungeva invece il 46,4%,
con 253 seggi. Calcolando anche le liste minori si avrebbe per il blocco Dc + destre il 50,7%, per le
sinistre il 46,6% (cfr. G. Galli, Bipartitismo imperfetto, cit., pp. 110 sgg.).
54 G. Andreotti, Veleno, «Il Popolo», 17 maggio 1946.
55 G. Tupini, La vera libertà, ivi, 15 maggio 1946: «Le rivendicazioni del Pci e del Psi non
differiscono di molto da quelle avanzate dalla Dc».
56Discorso conclusivo dei lavori del primo congresso nazionale della Dc (27 aprile 1964), «Il
Popolo», 28 aprile 1946.
57 A. C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia, cit., p. 298. Cfr. supra, p. 55.
58Dichiarazione della direzione del Pci (primavera del 1946), in G. Galli, Storia del Partito
comunista tialiano, cit., pp. 271-2.
59 Comunicato della direzione Pci (dopo il 2 giugno ’46), ivi, p. 274.
60 Cfr. G. Bocca, Palmiro Togliatti, cit., cap. XXI (Il discusso Guardasigilli), pp. 451 sgg.
61 Comunicato direzione Pci (dopo il 2 giugno 1946), cit., in G. Galli, Storia del Partito comunista
italiano, cit., p. 275.
62 Direttiva generale della direzione del Pci (2 marzo 1946), ivi, p. 272.
63 Discorso di chiusura del dibattito sul programma governativo (25 luglio 1946), «Il Popolo», 26
luglio 1946.
64 Una trentina di partigiani della polizia ausiliaria di Asti erano stati licenziati dal ministero
dell’Interno, «nel quadro del rafforzamento dei reparti di P.S.», e per reazione al provvedimento, si
erano radunati armati a Santo Stefano Balbo, chiamandovi a raccolta tutti gli ex partigiani dei
dintorni. Cfr. Μ. De Maggi, Cronache senza regime, cit., p. 213.
65 «Il Popolo», 30 agosto 1946.
66 Cfr. ibid.
67 «Non è lecito sedere al consiglio dei ministri, partecipare alla responsabilità
dell’amministrazione, avere i vantaggi dell’apparato statale, e contemporaneamente fare
l’opposizione nei giornali e nella propaganda. Ciò disgrega la democrazia, annulla il metodo
democratico e rende fatale la dittatura» (discorso di chiusura del dibattito sul programma
governativo, cit.).
68 L. Sturzo, Tripartitismo, «Il Popolo», 24 ottobre 1946.
69 Ivi, 24 ottobre 1946.
70 I partiti sembravano subordinare continuamente — come notava Salvatorelli — il loro «compito
nazionale» ai loro interessi particolari: L. Salvatorelli, Partiti e paese, «La Tribuna del popolo», 29
settembre 1946.
71 G. Gonella, Difendere la democrazia, «Il Popolo», 28 agosto 1946.
72 Non firmato, Finzione e malafede, «Il Buonsenso», 26 ottobre 1946.
73 Non firmato (ma G. Giannini), Gli equivoci di De Gasperi, ivi, 5 novembre 1946.
74 Ibid.
75Testo in «Uq», 6 novembre 1946: Un grande fatto politico - Guglielmo Giannini parla a Napoli
«per chi è dentro e fuori del San Carlo, per chi ci ascolta dentro e fuori i confini d'Italia».
76Testo nel «Buonsenso», 8 novembre 1946. Il corsivo è mio. Un documento pubblicato da Pietro
Scoppola su un colloquio tra De Gasperi ed un’«alta personalità vaticana» (12 novembre 1946),
conferma le pressioni del Vaticano sulla Dc (i «consigli del Vaticano» di cui parla Giannini nel
comizio) perché rompesse la collaborazione con i comunisti e ricercasse un accordo con le destre.
De Gasperi smorzò le richieste del suo interlocutore ponendo il problema della Costituente (cfr. P.
Scoppola, I partiti e le nuove prospettive della politica ecclesiastica in Italia, «Humanitas»,
gennaio-febbraio 1974, p. 62).
77 V. Cicerone, Vento del Sud, ivi, 30 novembre 1946.
78Non firmato, Inattesa affermazione a Roma delle forze qualunquiste con 105.741 voti, «Il
Tempo», 12 novembre 1946.
79 S. Savarino, In cerca di soluzione, «Il Nuovo Giornale d’Italia», 19 novembre 1946.
80 R. Trombetti, Le due crisi, «Azione monarchica», 25 novembre 1946.
81 Non firmato, La generale astensione alle urne è una protesta contro la repubblica e contro il
governo - Nell’Italia centro-meridionale i monarchici, vittorosi ovunque, pagano il prezzo della
loro disunione, ivi, 11 novembre 1946.
82 Non firmato, Preda bellica, «Rataplan», 18 novembre 1946.
83 Cfr. Firmato ‘Ausonio’, Una cosa «qualunque», «La Rivolta ideale», 6 marzo 1947. Nell’articolo
si replicava alle dichiarazioni di Giannini di volere nel suo partito gli ex fascisti in buona fede, nei
seguenti termini: «È proprio qui che casca l’asino. Il fascista in buona fede ebbe un suo ideale e un
suo programma soprattutto rivoluzionario nel campo sociale, di cui non esiste ombra di riflesso nel
programma conservatore, individualista e liberaloide dell’Uomo Qualunque. Impossibile dunque
che i fascisti che rimarranno nell’Uomo Qualunque siano quelli onesti e in buona fede. Ben presto
nel qualunquismo resteranno solo quegli ex fascisti che furono tali in mala fede, per opportunismo o
per ambizioni o per interesse, ossia quegli elementi di destra, anzi di estrema destra, conservatori e
reazionari, che inquinarono il fascismo, ne ostacolarono le riforme, sabotarono il corporativismo e
infine tradirono. I responsabili del maggior equivoco della nostra storia; questi sono gli ex fascisti
che possono conciliarsi col programma dell’U.Q. Gli altri, quelli che perseguivano veramente
un’idea sociale, troveranno maggiori affinità in altri partiti».
84 Ibid.
85 F. Schiavetti, Il Blocco del Popolo ha con sé l’avvenire, «L’Italia libera», 13 novembre 1946.
86 A. Corona, Classe dirigente, cit.
87 P. Nenni, Epigrafe per la tomba della borghesia, «Avanti!», I marzo 1947.
88 Ibid.
89Non firmato, Panorama della vittoria (Il «Blocco» invita i romani a festeggiare Garibaldi in
Campidoglio - Una grande fiaccolata di giubilo percorrerà oggi le vie della città), «Avanti!», 12
novembre 1946.
90 P. Nenni, Epigrafe per la tomba della borghesia, cit.
91 Μ. Montagnana, La lotta al qualunquismo, «l’Unità», 11 dicembre 1946.
92 Μ. Montagnana, Ha vinto il popolo, ivi, 12 novembre 1946. Il corsivo è mio.
93 P. Gentile, Quel che va detto a Giannini, «Risorgimento liberale», 20 novembre 1946.
94 Non firmato, La corsa agli estremi, ivi, 12 novembre 1946. Cfr. il giudizio di Togliatti sulla «crisi
di dissoluzione» dei liberali e sul successo qualunquista: «...Don Benedetto ha ragione, come uomo
di cultura, filosofo, etc. di arricciare il naso; ma l’agrario, il latifondista, l’industriale retrivo, il
monarchico sconfitto, il clericale risorto, perché non possono pensare che quella di Giannini sia
oggi la sola formula che può loro permettere di tenere avvinte — incantate e paralizzate da una
demagogia di nuovo tipo — quelle masse di cui hanno bisogno per continuare a contar qualcosa?
Anzi, vi è l’esperienza fascista e nazista che parla del successo insperato di tentativi di questo
genere. Per questo fanno ridere i Pannunzio e gli altri quando rimproverano a Giannini le sue
banalità [...]. Offrite a una classe dirigente in decomposizione un filosofo e una filosofia: preferirà
le grazie equivoche d’una comiziante bertuccia e le parolacce dell’uccù, se sarà convinta che è
questo che le serve» (P. Togliatti, Vendetta delle cose, «l’Unità», 18 dicembre 1946). Per il giudizio
di Togliatti sul qualunquismo v. anche cap. IV, nota 77.
95 Non firmato, Qualunquismo: poche idee, molta boria, cit.
96 Ibid. Con il giudizio (impropriamente detto lodo) De Gasperi, del 28 giugno 1946, venivano
previste numerose concessioni ai mezzadri (ad es. indennizzo danni di guerra) a carico della parte
padronale. Cfr. E. Piscitelli, Da Parri a De Gasperi. Storia del dopoguerra. 1945-1948, Feltrinelli,
Milano 1973, pp. 153-4.
97 G. Giannini, Noi soli abbiamo vinto, «Il Buonsenso», 13 novembre 1946. Cfr. supra, p. 198.
98 A. Piccioni, Partito e paese, «Il Popolo», 16 novembre 1946 (si tratta di una lettera indirizzata ai
dirigenti della De).
99 L. Sturzo, Democrazia cristiana: eredità giacente?, ivi, I dicembre 1946.
100 G. Cappi, Chiarificazione, cit.
101 Dichiarazioni dell’on. Dominedò, «Il Nuovo Giornale d’Italia», 3 dicembre 1946 (Non firmato,
La situazione politica - I Democristiani si ridestano - La Destra chiede di uscire dal tripartitismo e
dalla Confederazione del Lavoro).
102 «Dopo le ultime elezioni amministrative la Democrazia cristiana si trova indubbiamente al
bivio. La decisione che essa deve prendere in Campidoglio non è che il riflesso di quella più grande
decisione che riguarda tutto il piano nazionale e come tale sarà valutata da amici e avversari. Il
paese attende di sapere se lo scudo crociato servirà a difendere gli interessi delle classi lavoratrici o
i privilegi dei conservatori» (A. Corona, Il sindaco di Roma, «Avanti!», 15 novembre 1946).
103 Cfr. l’intervista di Togliatti all’«Unità» dell’ll dicembre 1945: «Dopo le elezioni [...] quando noi
e i socialisti ci troveremo senza alcun dubbio a capo del più forte schieramento elettorale, l’accordo
politico con la Dc potrà diventare l’asse della stabilità governativa in regime repubblicano. È dalla
liberazione di Roma che noi lavoriamo con questa prospettiva».
104 «Il problema fondamentale — dichiarava ad esempio Nenni in un discorso a La Spezia del 23
novembre — è quello della conquista legale del potere da parte delle classi lavoratrici che hanno nel
proletariato la loro pugnace avanguardia [...]. Si persuada il paese, si persuadano soprattutto i ceti
medi, che per evitare i rischi della guerra civile o la ricaduta nel totalitarismo, la sola garanzia è un
forte partito socialista affiancato al partito comunista, ed alla testa dei blocchi del popolo». (E Lelio
Basso scriveva che «il partito socialista resta un partito rivoluzionario, anche quando collabora al
governo [...] la classe lavoratrice non può rinunciare a conquistare il potere in quanto classe
lavoratrice, anche se è per ora costretta a restare al governo insieme ai partiti della borghesia».) Cfr.
il discorso di Nenni a La Spezia su «Avanti!», 24 novembre 1946; e lo scritto di L. Basso (su
«Quarto Stato») in F. Catalano, L’Italia dalla dittatura alla democrazia, cit., vol. II, p. 311.
105 G. Giannini, Noi soli abbiamo vinto, cit.
106 Cfr. G. Giannini, Memorie, cit., p. 52.
107 Non firmato, Sulla buona strada, «Il Buonsenso», 12 novembre 1946.
108 Cfr. G. Giannini, Noi soli abbiamo vinto, cit.
109 Non firmato (ma G. Giannini), Il 10 novembre per noi e per gli altri, «Uq», 20 novembre 1946.
Il corsivo è mio.
110 G. Giannini, Noi soli abbiamo vinto, cit.
111 Anche per le amministrative del novembre Giannini aveva proposto un accordo alla Dc,
soprattutto per Roma. Cfr. G. Giannini, Popolo di Roma tradito, «Il Buonsenso», 23 novembre
1946: «Noi, che volentieri ci saremmo accordati con i democristiani, dopo una inutile personale
telefonata del Presidente dell’U.Q. all’on. Piccioni, abbiamo conseguentemente dovuto badare ai
fatti nostri da soli».
112 Il principale avversario di Selvaggi era stato Gentile, che aveva presentato una mozione
contraria alla fusione a nome della corrente Rinascita liberale; a tale mozione aveva» aderito
Benedetto Croce. Cfr. «Risorgimento liberale», 13 dicembre 1946 (Non firmato, L’autonomia del
Partito liberale riaffermata dalla direzione centrale - Una mozione per la fusione con l’U.Q. messa
in minoranza provoca le dimissioni dell’on. Selvaggi) e A. Ciani, Il Partito liberale italiano,
Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1968, p. 55.
113 A. Ciani, op. cit., p. 56.
114 «Fra noi abbiamo anche le canaglie, abbiamo fra noi gente che provoca incidenti [...]. Io vi
denunzio costoro, ve li denunzio come agenti provocatori e vi dico: espelleteli dal vostro seno,
cacciateli via [...]. Noi non siamo fascisti, ma se nel secondo congresso del Fronte [...] si dovesse
manifestare una tendenza fascista o neofascista, la quale [...] assumesse la padronanza del partito io
farei il mio più bel saluto ai nuovi eletti, farei loro le consegne [...] e lascerei il Fronte dell’Uomo
Qualunque»: discorso del 13 dicembre 1946 all’assemblea straordinaria dei rappresentanti delle
unioni regionali, dei centri provinciali, del gruppo parlamentare (Roma, cinema Parioli, 13-14
dicembre 1946); «Uq», 18 dicembre 1946, cit. (Non firmato, Il Pronte liberale e democratico
dell’Uomo Qualunque riafferma il suo antitotalitarismo e antimarxismo).
115 Ibid.
116 Ibid.
117 Cfr. «Il Buonsenso», 19 dicembre 1946 (Dichiarazioni di Giannini all’Ansa).
118 Non firmato (ma G. Giannini), Non si può andare che avanti, «Il Buonsenso», 27 gennaio 1946.
119 G. Giannini, Respingere il feudalesimo, ivi, 28 novembre 1946.
120 Dichiarazioni ai giornalisti del 15 maggio 1947, ivi, 16 maggio 1947.
121 P. Togliatti, Un po’ più di coraggio!, «l’Unità», 5 gennaio 1947.
122 Μ. Montagnana, La lotta al qualunquismo, cit., ivi, 11 dicembre 1946.
123 P. Togliatti, Discorso serio a gente faceta, ivi, 22 dicembre 1946.
124 Atti dell'Assemblea costituente, vol. VII, discussioni dal 9 settembre 1947 al 4 ottobre 1947,
seduta del 4 ottobre, p. 891. Per una singolare, ma — riteniamo — inaccettabile ipotesi sui motivi
che spinsero Togliatti ad accogliere l’invito al dialogo con Giannini (in sostanza l’intenzione di
distruggere l’Uomo Qualunque a favore della Dc) cfr. A. Gambino, Storia del dopoguerra. Dalla
liberazione al potere Dc, Laterza, Roma-Bari 1975, p. 399, nota.
125 P. Togliatti, Discorso serio a gente faceta, cit. Il corsivo è mio.
126 Cfr. La polemica del «muro di ghiaccio» Giannini-Togliatti, con gli articoli integralmente
riprodotti e completati dalle prove dirette e induttive del colossale trucco politico che preparò
l’avvento del bipartitismo al 18 aprile 1948, Ceschina, Milano 1951, p. 166: «Personalmente ho
simpatizzato con Palmiro Togliatti che mi si è rivelato un galantuomo, e un uomo di cuore e
d’intelletto. ‘ Abitualmente chi ha un grande ingegno l’ha ingenuo ’ scriveva Montesquieu: e questa
massima s’addice perfettamente a Togliatti e, mi si perdoni l’immodestia, un po’ anche a me se mi
si fa l’onore di credere anche me dotato di qualche fettina d’ingegno non del tutto piccolo».
127 G. Giannini, Apologia del Buon Senso, «Uq», I gennaio 1947.
128 G. Giannini, Togliatti locutus est, ivi, 22 gennaio 1947.
129G. Giannini, «Il muro di ghiaccio». Trovare il punto d’incontro, «Il Buonsenso», 28 dicembre
1946. Corsivo mio.
130 Ibid.
131 G. Giannini, Apologia del Buon Senso, cit.
132 Ibid.
133 G. Giannini, L’arte di convivere, «Il Buonsenso», 8 gennaio 1947.
134 Discorso alla conferenza d’organizzazione del Pci, «l’Unità», 12 gennaio 1947 (Non firmato,
Gli obiettivi e i metodi di lotta del Pci nel discorso del compagno Togliatti a Firenze).
135 Definito «spirito di politicante consumato, abile soprattutto nel mascherare con frasi le proprie
intenzioni per riuscire in qualsiasi modo a raccogliere adesioni per farsi un piedistallo» (ibid.).
136 P. Togliatti, Dove vai? Porto pesci!, cit. Per gli altri interventi nel dibattito Giannini-Togliatti
(Cassandro, Angiolillo, Gentile, Consiglio, etc.) cfr. La polemica del «muro di ghiaccio», cit., s. t.,
pp. 101 sgg. (Spaventevole rigurgito della fogna politica italiana).
137 Discorso alla conferenza d’organizzazione del Pci, cit.
138 G. Giannini, Togliatti locutus est, cit.
139 Ibid.
140 Ibid.
141 G. Giannini, Apologia del Buon Senso, cit.
142 G. Giannini, L’arte di convivere, cit.
143 G. Giannini, Togliatti locutus est, cit.
144 La polemica del «muro di ghiaccio» Giannini-Togliatti, cit., pp. 17-8.
145 R. Angiolillo, Non sappia la destra ciò che fa la sinistra, «Il Tempo», 24 dicembre 1946; Non
firmato, Serenate al balcone. Ipotesi di collaborazione tra comunismo e U.Q., «Il Nuovo Giornale
d’Italia», 24 dicembre 1946, e Discussione cortese fra P.C. e U.Q., ivi, 28 dicembre 1946.
146 Non firmato, Dichiarazioni del Segretario del Pli, ivi, 24 dicembre 1946.
147 Cfr. relazione di Giovanni Cassandro al consiglio nazionale del Pli, «Risorgimento liberale», I
febbraio 1947: «Nel campo dei princìpi le dispute sono pericolose, come hanno esperimentato
Giannini e Togliatti i quali si sono ritrovati a un tratto comuni antenati marxistici». Cfr. anche Non
firmato, Un partito efficiente, ivi, 4 febbraio 1947 (l’articolo poneva l’UQ tra «i partiti democratici
variamente aggettivati, che o per candore o per errato calcolo politico o per complessi di inferiorità,
si colludono coi partiti marxistici, esperimentando convivenze e fiancheggiamenti ora ingenui ora
fraudolenti».
148 Non firmato, La crisi in tasca, «Il Corriere della nazione», 21 gennaio 1947.
149 Non firmato, L'errore di Giannini, «Il Giornale della sera», 21 dicembre 1946.
150 Non firmato, UQ ambidestro, «Il Corriere della nazione», 4 febbraio 1947: «Il dialogo, lungo e
anche piuttosto pretenzioso tra Togliatti e Giannini, ha richiamato alla coscienza dell’elettore dubbi
gravissimi. L’elettore intenzionato a dare il suo voto all’U.Q. ci pensa sopra. Egli ha letto nella
prosa di Giannini, oltre alla solita compiaciuta vanità e a quell’accentuato narcisismo che occorre
scontare e perdonare in anticipo, anche una palese inclinazione a scivolare sul terreno
dell’avversario [...]. Insomma l’opinione più diffusa tra i qualunquisti è che ci si trovi dinanzi ad un
oscuro fenomeno di deformazione dovuto alle arti sottili e all’abilità dialettica del Togliatti».
151 Non firmato, Il baro «Giornale della sera», 8 gennaio 1947.
152 Firmato ‘ erre ’, Si discute, finalmente!, «Rataplan», 30 dicembre 1946.
153 A. Giovannini, Pulcinella è impazzito, «L’Ordine sociale», 11 aprile 1948.
154 Firmato ‘ Arce ’, Anticomunismo, «La Rivolta ideale», 16 gennaio 1947.
155 Ibid.
156 Ibid.
157 Cfr. relazione politica di Vito Celsi alla terza riunione del comitato centrale del Msi (Roma, 7
settembre 1947), «La Rivolta ideale», 11 settembre 1947.
158 Non firmato, Rivolta politica, ivi, 12 giugno 1947.
159 Firmato ‘ M.S.I. ’, I nostri amici, ivi, 29 maggio 1947 (rubrica «Movimento sociale italiano»).
160 G. Andreotti, Tra gente faceta, «Il Popolo», 27 dicembre 1946.
161 G. Giannini, Primo malcontento da eliminare, «Il Buonsenso», 8 marzo 1947: «Come chiunque
ha potuto vedere e constatare noi non abbiamo tremato di fronte al pericolo di passare per
filocomunisti; ci strafottiamo enormemente di quei falsi e melensi patrioti i quali credono che la
difesa della Patria si faccia unicamente con le grida incomposte, salvo a imboscarsi al momento del
vero pericolo».
162 G. Giannini, Ah! ah! ah! Questo branco di fessi - Calunnia del filocomunismo, «Il Buonsenso»,
8 aprile 1848.

IV. 1947-1948: come muore un partito.


1 Ultimo messaggio di Roosevelt a Churchill (12 aprile 1945, giorno della sua morte), in A. Maurois
- L. Aragon, Usa-Urss, Storie parallele dal 1917 ai giorni nostri, Mondadori, Milano 1964, vol. IV
(Aragon, Storia dell’Urss dal 1917 ai giorni nostri), p. 204.
2 In W. Churchill, La seconda guerra mondiale, cit., vol. VI, p. 764.
3 Ivi, p. 541.
4 Maurois-Aragon, op. cit., vol. III (A. Maurois, Storia degli Stati Uniti d’America dal 1939 ai
giorni nostri), p. 201.
5L. Valiani, Il problema politico della nazione italiana, in AA. VV., Dieci anni dopo: 1943-1933.
Saggi sulla vita democratica italiana, Laterza, Bari 1955, p. 75.
6 F. Catalano, L’Italia dalla dittatura alla democrazia, cit., vol. II, p. 315.
7 Cfr., ad es., G. Cappi, Responsabilità, «Popolo e libertà», 2 febbraio 1947. Cappi scriveva che
«non era possibile né desiderabile escludere dal governo i comunisti» (cit. in P. Scoppola, De
Gasperi e la svolta politica del maggio 1947, «Il Mulino», gennaio-febbraio 1974, p. 41).
8 Dichiarazione di Togliatti a Lelio Basso, in G. Bocca, Paimiro Togliatti, cit., p. 450.
9 Il vero vincitore delle elezioni regionali siciliane era stato il Blocco del Popolo (590.881 voti,
30,3% e 29 seggi), mentre le destre erano riuscite ad avvantaggiarsi solo in misura minima della
débàcle della Dc (399.182 voti, 20,4% e 19 seggi; il 2 giugno ’46: 32,5%), ottenendo soltanto
287.588 voti, 14,7% e 15 seggi il Blocco liberale democratico dell’Uomo Qualunque (UQ + Pli) e
184.844 voti, 9,5% e 9 seggi il Partito nazionale monarchico («È evidente — commentava «l’Ora
d’Italia» — che una certa aliquota di coloro che votarono lo scorso anno per i liberali o per i
qualunquisti, sono passati a sinistra, in quanto appare logico che una parte dei democratici cristiani
si sia riversata verso destra». Cfr. F. Ballotti, Dura lezione, ivi, 23 aprile 1947). Giannini
commentava i risultati siciliani — tutto sommato deludenti per il qualunquismo, che si era visto
sottrarre consensi anche dal successo dei monarchici — sostenendo non senza ragione che il vero
vincitore delle elezioni era stato il partito «borghese liberale» (Dc, UQ, destre varie) che aveva
ottenuto nell’isola «più di due terzi e quasi tre quarti dei voti» (cfr. G. Giannini, Il Primo Partito,
«Il Buonsenso», 24 aprile 1947; cfr. i dati elettorali ivi, 23 aprile 1947).
10 9 giugno 1947. Cfr. F. Catalano, L’Italia dalla dittatura alla democrazia, cit., vol. II, pp. 335-6.
11 Ivi, p. 335.
12 Cfr. Non firmato, Per il riscatto dell’Italia e per la libertà dell’Europa. Punti fermi di Giannini
sui problemi politici ed economici, «Uq», 25 giugno 1947.
13Comizio all’Adriano di Roma del 23 ottobre 1949, cit., in «Uq», 26 ottobre 1949 (Non firmato,
Roma, 23 ottobre 1949, data della rinascita - Il Fronte dell’Uomo Qualunque esce dalla trincea
dove ba con lunga pazienza aspettato la sua ora): «Nel maggio del 1947, quando Alcide De
Gasperi, disperato per la lotta che gli facevano le due estreme comunista e socialista, chiese il mio
appoggio per costituire il governo che ancor oggi, salvo qualche variante, è al potere, io dissi ad
Alcide De Gasperi: ‘ Il mio appoggio e quello del mio partito sono per te; noi voteremo per te ’ e
quando egli mi disse: ‘ Cosa vuoi in cambio? io gli risposi: ‘Non voglio niente’».
14G. Giannini, Memorie, cit., p. 52 (alle offerte di De Gasperi «nel gruppo qualunquista spirò un
vento di follia. Pochissimi furono quelli che non si sentirono capaci di reggere un dicastero»).
15 Ibid. In un comizio a Piazza del Popolo, Roma 16 aprile 1948 (cfr. «Il Buonsenso», 17 aprile
1848), Giannini dichiarerà che De Gasperi gli aveva offerto un ministero ben quattro volte —
l’ultima addirittura la vicepresidenza del Consiglio (per quest’ultima offerta v. anche infra p. 268.
Secondo Gambino (op. cit., p. 401, nota) Giannini «mente» quando «parla di precise offerte
ministeriali di De Gasperi» alla vigilia della «svolta di maggio». Ma tale interpretazione si basa,
essenzialmente, su un appunto scritto da De Gasperi il 24 maggio dopo un colloquio con De Nicola,
«Non qualunquisti» (rintracciato da Gambino, op. cit., p. 400, nota, nei documenti Bartolotta), che
conferma invece la tattica del leader democristiano di promettere con l’intenzione di non dare: e le
offerte di incarichi governativi ai deputati qualunquisti e allo stesso Giannini furono, appunto,
molteplici.
16 Le Vespe, «Uq», 30 aprile 1947.
17 Ibid.
18 G. Giannini, Invito alla Democrazia cristiana, «Il Buonsenso», 27 aprile 1947. L’invito era stato
ribadito in una lettera ufficiale diretta alla segreteria della De da quella del Fronte.
19 A. Piccioni, Risposta a un invito, «Il Popolo», 3 maggio 1947.
20 V. Tieri, Collaboratori, non servi sciocchi, «Il Buonsenso», 19 ottobre 1947.
21Non firmato (ma G. Giannini), Speculazione democristiana. Sfruttano anche il divorzio!, ivi, 23
gennaio 1947.
22 Ibid.
23 Le Vespe, «Uq», 5 febbraio 1947.
24 Ibid.
25 «La Democrazia cristiana non vuole concorrenti: è come quelle vecchie baldracche che insultano
le compagne di lavoro» (ibid.).
26 Ma i neofascisti continuavano a trattare con disprezzo i «moderati»: «Si rassicurino — aveva
scritto il 6 marzo ’47 “ La Rivolta ideale ” (Ausonio, Una Cosa Qualunque, cit.) — i qualunquisti
rimasti a far da comparse nel sorprendente teatrino del Giannini: sappiamo benissimo che essi non
sono filocomunisti, che essi per il Comunismo nutrono solo una gran paura; strapieni di buon senso,
gelosi della propria quiete, ignari dei problemi sociali, tetragoni contro qualsiasi sforzo per un fine
superiore, essi non vogliono saperne né di sacrifici per la nazione, né di sacrifici per la società, né di
sacrifici per il Comunismo».
27 Le Vespe, «Uq», 16 luglio 1947 (Giannini si riferiva ad Alfredo Covelli, che si stava attivamente
dando da fare allo scopo di «prendersi tutti i monarchici che sono nel Fronte liberale democratico
dell’Uomo Qualunque e arricchire con quelli le sue schiere sparute» (ibid.).
28 G. Giannini, Istero-nazionalismo delirante, «Il Buonsenso», 9 marzo 1947.
29 Le Vespe, «Uq», 22 maggio 1946.
30 Non firmato (ma G. Giannini), Le pecore impazzite, «Il Buonsenso», 14 febbraio 1946.
31 Cfr. Le Vespe, «Uq», 10 marzo 1948 (Giannini citava l’episodio dall’«Ora d’Italia»).
32 Cfr. dichiarazione del gruppo parlamentare qualunquista (27 giugno 1946), «Il Buonsenso», 28
giugno 1946. Cfr. anche G. Giannini, Ah! ah! ah! Che ridere!, ivi, 30 giugno 1946.
33 Le Vespe, «Uq», 12 giugno 1946.
34 Non firmato, Gazzarra e farsa ieri a Montecitorio, «Il Tempo», 13 dicembre 1946.
35 Cfr. «Il Buonsenso», 13 maggio 1947 (Non firmato, Il diritto di sciopero - Comunisti e
democristiani operano una ritirata strategica sull’emendamento Merlin che è la parodia di quello
Giannini).
36Cfr. «Uq», 19 febbraio 1947 (Non firmato, Importante notizia politica - Dichiarazioni dell’on.
Patrissi all’agenzia americana United Press).
37 Ibid.
38 Cfr. lettera di Patrissi al «Buonsenso», datata Roma, 18 febbraio ’47, «Il Buonsenso», 19
febbraio 1947 (E. Basevi, Il pettegolezzo Patrissi. Strani sviluppi della polemichetta). L’United
Press confermava l’intervista, ammettendo soltanto che essa era destinata «esclusivamente al
pubblico americano» (ibid.). Nella sua lettera Patrissi, accusato da Basevi di «opera
inconcludentemente disgregatrice» all’interno del Fronte, dichiarava appunto: «Ciò tuttavia non
significa che io approvi il recente atteggiamento del partito, i tentennamenti molteplici che creano
pericolose incertezze fra i nostri amici e le nostre recenti manovre tattiche che l’avvenire dirà se
giustificate e opportune» (ibid.).
39 Testo in «Il Buonsenso», 26 febbraio 1947 (Non firmato, Chiarificazione nel Fronte Liberale
Democratico dell’U.Q. - L’onorevole Emilio Patrissi e altri inscritti espulsi dal Partito -
L’onorevole Armando Fresa sospeso per un anno da ogni attività politica).
40 Cfr. le dichiarazioni di Edoardo Stolli nella riunione della giunta esecutiva del 25 febbraio 1947,
verbale letto da Giannini al precongresso del Fronte (Roma, 1-3 settembre), «Uq», 10 settembre
1947 (contiene il resoconto stenografico del precongresso). Stolli dichiarò che dopo il 2 giugno ’46
propose a Patrissi la carica di segretario generale e che Patrissi rispose che doveva essere investito
da Giannini e da Augusto Turati. Patrissi aveva anche contatti settimanali con il Cruciani. Cfr.
sull’argomento le interessanti notizie fornite da Μ. Tedeschi, op. cit., pp. 150-151: «È molto
probabile che, oltre al desiderio di fare all’amore con i liberali, Giannini sia stato spinto a questa
decisione (di assumere un atteggiamento antifascista) dalle voci che dovevano essergli giunte circa i
contatti tra alcuni antichi gerarchi [...] ed alcuni deputati del suo partito. Contatti che esistevano, e
che rappresentarono in un certo senso l’atto di nascita della corrente patrissiana del partito
qualunquista [...]. In base ai progetti enunciati in quegli accordi tra ex gerarchi e deputati
qualunquisti, tutti i gruppi a carattere fascista avrebbero dovuto riversarsi nell’Uomo Qualunque in
maniera che ad un certo momento fosse effettivamente possibile far convergere l’attenzione e la
simpatia del partito verso determinati uomini, agevolandone in tal modo il reingresso nella vita
politica italiana. Il progetto comprendeva, come è facile immaginare, anche la completa
esautorazione di Guglielmo Giannini, che i vecchi gerarchi non giudicavano, in fondo, in una
maniera molto diversa da quella in cui lo giudicava Benedetto Croce. Io penso che con tutta
probabilità le cosa sarebbero andate in maniera diversa se il signor Giannini avesse saputo in quel
momento che le organizzazioni clandestine, e per esse i F.A.R., si opponevano con tutta la loro
forza a questo progetto. Ma egli ignorava il fatto e riteneva che quei signori, delle cui tenebrose
manovre gli giungevano ogni giorno nuove notizie, fossero veramente in grado di determinare un
grande movimento d’iscritti nel suo partito».
41 Cfr. «Il Buonsenso», 26 febbraio 1947, cit. (Chiarificazione nel Fronte liberale democratico
dell’U.Q.).
42G. D’Amato, Gli Uomini «Qualunque» vogliono diventare qualcuno - Polemiche e pugni tra gli
uccù napoletani, «Avanti!», 20 febbraio 1947.
43 Le Vespe, «Il Buonsenso», 20 febbraio 1947. «L’idea qualunquista», organo del Fronte a Napoli,
aveva ospitato, contro il volere di Giannini, articoli di Edmondo Cione, «filosofo senza dubbio
stimabile, ma che non può trovar posto nel qualunquismo, e che, soprattutto, non deve scrivere sui
nostri giornali». Sul «caso Cione» cfr. supra, pp. 166-7.
44 Non firmato (ma G. Giannini), Il qualunquismo non è mai stato più forte, «Uq», 2 aprile 1947.
Ma il professionismo politico, come si è accennato, aveva inquinato il qualunquismo fin dall’inizio.
Cfr., ad es. G. Giannini, Lettera agli Amici di Napoli ed altri siti, ivi, 19 dicembre 1945: «Cari
Amici di Napoli e d’altri siti, che vi accapigliate fra voi per arraffare posti di comando nel fronte
dell’uomo qualunque dove non ci sono posti di comando, io, vostro Amico, vi prego di non fare i
fessi e di non costringermi a mandarvi a farvi friggere come scocciatori, disgregatori, e, insomma,
come nemici del nostro movimento [...]. Se il nostro movimento non ha bisogno di me, che pure ho
trovato l’idea e scritto il programma, figuratevi se può aver bisogno di qualche ambiziosetto
fregnone di voi che, per aver messo insieme un po’ di schede d’adesione, si crede Farinacci o Pietro
Nenni».
45 Il discorso di Sorrento non fu riportato né sull’«Uomo qualunque» né sul «Buonsenso». Giannini
vi accennò nel Discorso agli Amici di Toscana («Uq», 27 agosto 1947).
46 Le Vespe, «Uq», 3 settembre 1947.
47 Ibid.
48 G. Giannini, Discorso agli Amici di Toscana, cit. (testo di un discorso pronunziato a Montecatini
in una cena, il 22 agosto).
49 «Il Buonsenso», 6 giugno 1947 (Non firmato, Una grande giornata per la libertà umana.
Giannini fissa a Bari in 10 punti i princìpi fondamentali del Qualunquismo italiano).
50 G. Giannini, Non ci si torni più sopra!, «Uq», 23 luglio 1947.
51Resoconto stenografico del precongresso, ivi, 10 settembre 1947, cit. (il resoconto era presentato
con il titolo: È giunta l'ora di tagliar corto).
52 Ibid.
53 Ibid.
54 Ibid.
55 «Se il partito si fonda sul sano nazionalismo mi sento qualunquista; se questo qualunquismo
voleva far leva sulle masse operaie io sono qualunquista [...]; se si vogliono attrarre le masse
attraverso sindacati liberi, se si ammette uno Stato amministrativo, non come rinunciatario ai fini
nazionali né che si amministri sotto gli sforzi e la preponderanza del capitalismo industriale, io sono
qualunquista [...]» (ibid.). Patricolo aveva mosso critiche anche a La Folla e a Il ragionier Ventura,
l’ultima commedia di Giannini.
56 Ibid.
57 Nel suo discorso inaugurale al secondo congresso («Uq», 24 settembre 1947, cit.) Giannini aveva
incluso tra i successi del qualunquismo il fatto che al congresso di Firenze della Cgil avevano
partecipato anche delegati qualunquisti — con tanto di distintivo all’occhiello — i quali avevano
presentato una mozione sull’apoliticità dei sindacati, ottenendo 19.000 voti.
58 Ibid.
59 «[...] io non posso essere un dittatore perché sono napoletano (applausi). Il giorno in cui io fossi
investito di una dittatura, non potrei resistere all’irresistibile bisogno di fare un pernacchio a me
stesso»: discorso del 13 dicembre 1946 all’assemblea straordinaria dei dirigenti del Fronte, cit. (cfr.
«Il Buonsenso», 14 dicembre 1946).
60 Discorso al precongresso, cit.
61 Non firmato (ma G. Giannini), La serpe in seno, «Uq», 22 ottobre 1947.
62 Le Vespe, ivi, I ottobre 1947.
63 Discorso all’inaugurazione del secondo congresso nazionale (21 settembre 1947), ivi, 24
settembre 1947 (Non firmato, L’Uomo Qualunque domina la politica italiana. «Il Governo
democristiano può cadere da un momento all’altro non all’Assemblea costituente ma in questa
nostra Assemblea» afferma Giannini in un grande discorso politico al II Congresso del Fronte).
64 Ibid. Il gruppo qualunquista aveva votato all’Assemblea costituente per il rinvio della ratifica del
trattato di pace. Per il discorso di Giannini — che aveva ribadito il rifiuto di distinguere tra Stati
aggressori e vittime («Non esiste [...] un gruppo di Nazioni che rappresenti il bene e un gruppo di
Nazioni che rappresenti il male; esistono gruppi di Nazioni che hanno contrastanti interessi, e in
questo contrasto i più forti vincono») cfr. «Il Buonsenso», I agosto 1947 (Non firmato, Il discorso
di Giannini alla Costituente - È ora di liberarsi della «mentalità di colpa» che ci umilia e ci
diminuisce al cospetto di noi stessi e dello straniero).
65Discorso di chiusura del secondo congresso (26 settembre 1947), «Il Buonsenso», 27 settembre
1947 (Non firmato, Il discorso di Giannini alla chiusura del secondo Congresso del Fronte
dell’U.Q. - Il Qualunquismo è l’idea costruttrice di un nuovo modo per fondare la convivenza
sociale).
Ibid.
Ibid.
68 Cfr. «Uq», 24 settembre 1947, cit.
69 Ibid.
70 Ibid.
71 Ibid.
72Mozione economico-sociale, Mozione sullo Stato amministrativo, Mozione sulla politica estera,
Mozione sulla cultura e sulla scuola (testi in Μ. Lo Vecchio-Musti, op. cit., pp. 165-6).
73 Cfr. la Mozione sullo Stato amministrativo, nella quale si riconosceva «che la crescente
moltiplicazione dei rapporti economici, unitamente al più maturo sviluppo dei sentimenti di
giustizia e di solidarietà sociale rendono inadeguato alla realtà l’ideale di uno Stato ridotto alla
elementare funzione del mantenimento dell’ordine pubblico» (ivi, appendice, p. 111).
74 Cfr. ivi, p. 173, nota.
75 Il convegno economico del Pci si svolse a Roma il 21-23 agosto 1945. Cfr. P. Togliatti,
Ricostruire innanzi tutto, in AA.VV., L’economia italiana: 1945-1970, a cura di A. Graziani, Il
Mulino, Bologna 1972, pp. 111-3.
76Per il «caso», estremamente indicativo, di Agnelli cfr. V. Castronovo, Giovanni Agnelli, Utet,
Torino 1971.
77 Sul qualunquismo e il suo rapporto con la Dc cfr. quanto scritto da Togliatti nel 1958 (Il Partito
comunista italiano, cit., pp. 11-2): «Quando quel partito sorse, si era negli anni della collaborazione
governativa della Democrazia cristiana con i comunisti e con i socialisti. I dirigenti democristiani
non potevano rompere quella collaborazione, né chiamare apertamente a raccolta attorno a sé i
gruppi reazionari della borghesia, i residui del movimento fascista e tutte le forze conservatrici della
società. A questo essi tendevano e ci lavoravano, ma era necessario, inizialmente, l’intervento di un
fattore di rottura della situazione allora esistente. Questa funzione, contingente, dunque, e limitata,
adempì il partito dell’Uomo Qualunque. I suoi successi non potevano quindi che essere brevi. La
borghesia conservatrice e reazionaria cercava uno strumento ben più solido per la restaurazione del
suo potere: e già sapeva di avere a disposizione questo strumento nel partito della Democrazia
cristiana. Quando questa poté superare del tutto gli scrupoli che ancora la legavano a una politica di
unità delle masse lavoratrici, l’Uomo Qualunque non ebbe più alcuna ragione di esistere. I tentativi
dei suoi dirigenti, di giustificare la sua esistenza e affermarsi con formule politiche autonome e con
un loro autonomo programma, finirono nel riso, come tutti ricordano».
A parte l’impietosa espressione finale sul qualunquismo, l’interpretazione di Togliatti appare
deviante solo laddove sostiene una vocazione conservatrice-reazionaria della Dc sic et simpliciter
già all’indomani della caduta del fascismo. Tale «vocazione» fu invece imposta a una classe
dirigente cattolica orientata in prevalenza, ancora negli anni 1945-46, in senso progressista,
soprattutto da una base elettorale, come rivelò il qualunquismo, ab initio decisamente moderato-
conservatrice. Da notare infine che il giudizio di Giannini sul subitaneo tramonto del qualunquismo
coincideva in un certo senso, come puntualizzato nel testo, con quello di Togliatti. Cfr., sul rapporto
Dc-qualunquismo, Non firmato (ma G. Giannini), Troppo volere, nulla stringere, cit. («Uq», 3
febbraio 1948): «[I democristiani] hanno prima discretamente aiutato il Qualunquismo, quando
credevano di potersene fare un docile servitore; poi ne hanno giurato la distruzione e la morte
appena si son resi conto che il Qualunquismo voleva collaborare come alleato e non come schiavo
[...]. Preso il Potere, tutto il Potere, sul consiglio e con l’appoggio dei qualunquisti, i democristiani
hanno aperto le ostilità contro il Qualunquismo; e sono riusciti a metterlo in fieri imbarazzi. Non è
un mistero per nessuno che sia le scissioni, sia lo squagliamento di quasi tutti i sostenitori del
Fronte Qualunquista sono avvenuti a opera d’alcuni influenti democristiani che hanno agito, e
agiscono, senza, almeno apparentemente, scoprire la direzione del partito».
78 In R. Del Carria, Proletari senza rivoluzione, Edizioni Oriente, Milano 1966, vol. II, p. 380.
79 B. Foà, Stabilizzazione e depressione dopo il 1947, in AA.VV., L'economia italiana, cit., p. 151.
80 G. Giannini, I ladri di Pisa, «Uq», 5 novembre 1947.
81 Ibid.
82 Ibid. Giannini ammetteva però che la politica finanziaria di Einaudi era «lodevole in linea di
principio, e non priva di risultati almeno apparenti all’inizio».
83 Discorso al teatro Adriano (Roma, 23 ottobre 1949), cit. («Uq», 26 ottobre 1949).
84 A. O. Hirschman, Effetti depressivi della stretta creditizia, in AA.VV., L'economia italiana, cit.,
p. 147.
85 F. Catalano, L'Italia dalla dittatura alla democrazia, cit., vol. II, p. 349. I provvedimenti citati
furono varati il 6 settembre (1947).
86 Ivi, p. 350.
87 G. Giannini, I ladri di Pisa, cit.
88 Discorso al teatro Adriano, cit.
89 Ibid.
90Probabilmente Giannini era stato invitato a non pronunziare la sua feroce requisitoria contro la
Dc. Cfr. supra, pp. 241-3.
91 Cfr. discorso inaugurale al secondo congresso, 21 settembre 1947, cit.: «Vi svelo un altro segreto.
C’è stata la crisi comunale a Napoli. Avevamo formato l’amministrazione di Napoli con un gruppo
consigliare monarchico che fa capo all’on. Giuseppe Bonocore, personalmente mio amico, ma
politicamente nostro avversario per lo che farò di tutto per fregarlo nelle prossime elezioni, a meno
che egli non passi col grado che gli compete fra noi (bene). Si sono succedute varie crisi, l’ultima
delle quali determinata dal gruppetto liberale che avevamo accettato di far entrare nella giunta. Mi
trovavo di passaggio per Napoli e volli vederci chiaro. Ebbi vari colloqui e domandai perché i
democristiani non entravano anche loro a rafforzare la giunta qualunquista-monarchico-liberale? Mi
si rispose: ‘ I democristiani vogliono tenersi da parte, voteranno per noi ma non entrano nella giunta
’. Parlai con i liberali, i quali misero fuori richieste che mi sembrarono assurde. Si trattava d’un
gruppetto di 5 o 6 persone, tra le quali Corbino e Cortese, che non vanno mai al municipio: un
gruppo più teorico che pratico. Parlo con gli esponenti liberali e con altri esponenti borghesi e mi si
fa un ragionamento di cui ecco il succo: ' È vero che avete avuto un’affermazione elettorale
qualunquista a Napoli, ma non potete amministrare il Comune senza di noi. Dovete subire la nostra
iniziativa, vi piaccia o non vi piaccia ’. Allora ho chiamato il Blocco del Popolo, sissignori, i
comunisti, ed ho trattato con loro per l’amministrazione del Comune di Napoli [...]. Quando mi son
trovato di fronte alle destre che non sentono il loro dovere politico, ho detto ai comunisti: entrate nel
Comune con noi, e insegnateci a fare le cose, voi che dite di saperle far tanto bene. Ci sarà un
sindaco qualunquista, voi collaborerete e vedremo se avrete da insegnarci. Avrei avuto almeno il
risultato di spulzellarli, privarli di quella loro falsa verginità di zitella viziosa che fa le cose di
nascosto, e sputtanarli come meritava la loro faccia. Amici, non l’ho potuto fare: c’è stato il
finanziatore che ha rifiutato di finanziare, altri che hanno minacciato di dimettersi».
92 Cfr. Atti dell'Assemblea costituente, Discussioni dal 9 settembre 1947 al 4 ottobre 1947, vol. VII,
cit., pp. 762-72.
93Non firmato, Giannini mette il governo di fronte alla realtà e denuncia le manovre democristiane
per le elezioni di Roma - Tutti i tentativi per raggiungere un accordo sabotati dalla Dc - Il
monopolio del cattolicesimo - La religione non è un affare da trattare al mercato - La crisi
ministeriale virtualmente aperta, «Il Buonsenso», 3 ottobre 1947.
94 Atti dell'Assemblea costituente, voi. VII, cit., pp. 771-2.
95 Ivi, p. 767.
96 Ibid.
97 Le Vespe, «Uq», 8 ottobre 1947.
98 Non firmato, La Dc fra l'atto d'accusa di Lussu e il ricatto burlesco di Giannini, «Avanti!», 3
ottobre 1947.
99 Non firmato, Conclusione della grande battaglia parlamentare - Stasera la Costituente vota
sulla sfiducia a De Gasperi - Lo schieramento dei partiti alla vigilia del voto, «l’Unità», 4 ottobre
1947.
100 Cfr. «Avanti!», 3 ottobre 1947, cit.
101 Cfr. «Il Popolo», 4 ottobre 1947.
102 Il 4 ottobre 1947: cfr. «Il Popolo», 5 ottobre 1947.
103 Atti dell'Assemblea costituente, Discussioni dal 9 settembre 1947 al 4 ottobre 1947, vol. VII,
cit., p. 908: «Se il qualunquismo si trasformerà in qualunquismo europeo, nel senso della fratellanza
dei popoli, ci troverà pienamente concordi e collaboratori con esso in tutti i sensi».
104 G. Giannini, I nodi sono giunti al pettine - Non c'è crisi nel Partito Qualunquista, c'è solo il
travaglio di pochi uomini inferiori alle loro stesse ambizioni - Tutta la verità sulle polemiche
interne durate dieci mesi - Una grande manovra tattica per impadronirsi del Fronte - Com'è stato
sventato il nuovo tentativo d'assassinio del Qualunquismo - Appello al Parlamentino, «Uq», 5
novembre 1947: si tratta di una lettera ai membri del Parlamentino nell’imminenza della riunione
del 7 novembre (cfr. pp. 266-7).
105 Discorso all’Adriano di Roma del 23 ottobre 1949, cit.
106 G. Giannini, Crisi di purificazione, «Uq», 8 ottobre 1947.
107 Non firmato, Il governo nero salvo per 34 voti dovuti alle manovre disgregatrici di Saragat e al
voltafaccia qualunquista, «Avanti!», 5 ottobre 1947 (l’accusa rivolta a Saragat era di non aver
voluto votare, con i socialcomunisti, a favore della mozione Nenni).
108 Non firmato, Gli ordini di scuderia del dollaro e della Confindustria - De Gasperi salvato dalla
disfatta dai saragattiani e dai qualunquisti - I compagni Nenni e Togliatti smantellano la difesa del
Governo e dimostrano che esso non ha risposto alle critiche delle sinistre - Il pappagallo
qualunquista torna sotto la tonaca democristiana - Saragat rompe il fronte delle opposizioni,
«l’Unità», 5 ottobre 1947.
109Non firmato, La situazione politica - Malumore tra i «soci» dopo il voto al Governo - Piselli e
UQ vorrebbero entrare - Dimissioni di Sforza? De Gasperi a consiglio con parlamentari
americani, «l’Unità», 7 ottobre 1947.
110 Cfr. «Il Buonsenso», 10 ottobre 1947 (Non firmato, Grande manifestazione qualunquista alla
Basilica di Massenzio - Giannini al popolo romano: «Noi vogliamo fare di Roma la Capitale
politica d'Europa e religiosa del mondo»).
111 G. Giannini, Memorie, cit., p. 54.
112 Le Vespe, «Uq», 22 ottobre 1947.
113 A. Lauro, La mia vita, la mia battaglia, Editrice Sud, Portici-Napoli 1958, pp. 62-5. Il corsivo è
mio. In effetti gli «impegni» presi da Lauro si concretizzarono, in occasione del 18 aprile ’48,
soltanto con qualcuno dei deputati qualunquisti: «venuto il momento delle elezioni potenziai
decisamente il Pnm appunto per consentire la inclusione dei deputati qualunquisti napoletani che mi
avevano seguito» (ivi, p. 66).
114 E. Selvaggi, Qualunquismo e Democrazia cristiana, «Italia nuova», 16 ottobre 1947.
115 Non firmato (ma E. Selvaggi), Buonsenso, ivi, 7 novembre 1947.
116 Cfr. Non firmato, Originale vertenza per «contratto innominato» -La Confindustria citata in
giudizio da «Italia nuova» e «Mattino d'Italia», «Il Tempo», 30 gennaio 1949; v. anche Μ. Lo
Vecchio-Musti, op. cit., pp. 186-8.
117 Testo del discorso in «Uq», 26 ottobre 1949, cit.
118 G. Giannini, Memorie, cit., p. 54: «Scrissi a Costa dicendogli del mio stupore e della mia
incredulità. Costa mi rispose confermando, scusandosi, esprimendo il suo dispiacere per quanto era
accaduto tanti anni prima, frutto di equivoci e incomprensioni».
119 G. Giannini, Risposte al presidente del Consiglio, «Il Buonsenso», 18 ottobre 1947. De Gasperi,
in un’intervista al «Messaggero», aveva respinto le accuse di slealtà mosse alla Dc da Giannini:
«Confesso che non so darmi ragione dell’attacco qualunquista. Riconosco l’apporto disinteressato
del gruppo liberale democratico qualunquista per la formazione di una maggioranza in certe
contingenze parlamentari, ma per esplicita dichiarazione del suo capo alla Camera l’appoggio venne
dato per ragioni obiettive e nell’interesse del Paese; non ci sono stati, quindi, né equivoci né
slealtà». (Da notare che Giannini tendeva ad escludere la personale responsabilità di De Gasperi
nella lotta contro di lui. Cfr., ad es., «Uq», 21 gennaio 1948 — Il nemico n. 1 —, in cui parlava
della «cordiale amicizia di De Gasperi, che s’è volenterosamente, e si potrebbe dire strenuamente,
interessato per evitarci grossi fastidi, per appianare non indifferenti questioni insorte fra noi e
vecchi e buoni amici del Fronte».) Ma sulla «ingratitudine» della Dc vedi la «confessione» di
Andreotti in un articolo scritto su «Concretezza» all’epoca della morte di Giannini (Il pappagallo in
aula): «Nel 1947 il gruppo qualunquista ebbe modo di giuocare un ruolo determinante nella svolta
più impegnativa del dopoguerra. [...] In quanto ad un dovere di maggior riconoscenza per gli
appoggi rischiosi e disinteressati del 1947 il discorso sarebbe troppo lungo, ed è da augurarsi che
nell’altro mondo si sia più attenti e memori che non in questo» (in G. Pallotta, Il qualunquismo e
l’avventura di Guglielmo Giannini, cit., pp. 172-3).
120 G. Giannini, Risposte al presidente del Consiglio, cit.: «e di limitarsi ad amministrare il Paese
fino alle prossime elezioni, senza valersi in nessun modo e nel proprio vantaggio dei mezzi di
governo».
121 V. Tieri, Un governo facile a farsi, «Il Buonsenso», 21 ottobre 1947. Cfr. in questo articolo le
considerazioni di Tieri sul Vaticano, «dal cui atteggiamento recentissimo dipende in gran parte la
scomodità della nostra posizione». Secondo il segretario qualunquista era necessario convincere il
Vaticano «che fa malissimo a puntare su una carta sola, molto debole appunto per la sua forza
fittizia, e prossima a spappolarsi con danno grave della Chiesa» (V. Tieri, Collaboratori, non servi
sciocchi, cit., «Il Buonsenso», 19 ottobre 1947).
122 V. Tieri, Tristo orgoglio, «Il Buonsenso», 25 ottobre 1947. Certo anche allo scopo di smussare
l’ostilità qualunquista, la Dc acconsentiva a costituire a Roma, dopo le elezioni dell’ottobre, una
giunta di centro-destra (Dc, UQ, Partito liberale, sostenuta dall’esterno anche da monarchici e
missini), lasciando all’UQ tre assessori effettivi e uno supplente (sindaco veniva eletto, il 5
novembre, il dc Salvatore Rebecchini). Sui motivi del «collaborazionismo» dell’UQ erano circolate,
ancora una volta, le voci più disparate, ivi inclusa quella di una ennesima promessa di
partecipazione al governo. Effettivamente, alla fine del novembre, De Gasperi dichiarò l’intenzione
di estendere l’allargamento del governo anche verso i qualunquisti, ma l’opposizione a simile
eventualità di socialdemocratici e repubblicani fece rientrare il suo progetto. Con l’ingresso di
questi due ultimi partiti nella compagine governativa, l’UQ perse ogni forza contrattuale nei
confronti della Dc, che poté tranquillamente continuare — senza il timore di rabbiose reazioni —
l’opera di demolizione, politica e materiale, del suo concorrente di destra. Cfr., sull’argomento, Non
firmato, De Gasperi ha convocato Tieri per mercanteggiare Governo e Campidoglio, «l’Unità», 28
ottobre 1947; P. Ingrao, Sindaco Msi, ivi, 6 novembre 1947 (Ingrao scriveva che «il pappagallo
qualunquista, dopo aver strillato tanto, si è lasciato chiudere il becco da tre assessorati o forse dalla
nuova promessa di qualche milione da parte degli industriali»); Non firmato, In settimana le
decisioni di De Gasperi sul rimpasto - Probabile formazione di un Consiglio di Presidenza
costituito dai capi dei partiti partecipanti al governo, «Il nuovo Corriere della Sera», 3 dicembre
1947; Non firmato, È probabile l’esclusione dei qualunquisti dal rimpasto, ivi, 5 dicembre 1947.
123 Non firmato, De Gasperi e Confindustria ricattano Guglielmo Giannini - Costa e Lauro negano
i soldi se l'UQ non si piegherà a tornare sotto la tonaca di De Gasperi, «l’Unità», 29 ottobre 1947.
124 G. Giannini, I ladri di Pisa, cit. («Uq», 5 novembre 1947).
125L’«Avanti!» ricordava in quei giorni le parole allora dette da Giannini, commentando: «È da
supporre che Giannini sia andato dai vari Scalera, Federici, Lauro, Marzotto, Valletta, ecc. e che
questi lo abbiano cortesemente accompagnato alla porta», «Avanti!», 29 ottobre 1947, cit.
126 Discorso all’Adriano di Roma del 23 ottobre 1949, cit.
127 Le Vespe, «Uq», 12 febbraio 1947: «Non è improbabile che [...] verremo nella determinazione di
sospendere la pubblicazione dei periodici che non riescono a mantenersi da sé: e, fra questi,
indubbiamente ‘ Il Buonsenso ’ di Roma e ‘ Il Buonsenso ’ di Milano saranno i primi a essere
sacrificati».
128 Atti
dell' Assemblea costituente, Discussioni dal 6 novembre 1947 al 27 novembre 1947, vol. IX,
p. 1891. Nasi sollecitava con l’occasione «la discussione alla Costituente della legge sulla stampa,
che contempli anche la denunzia delle fonti di finanziamento dei giornali».
129 Ibid.
130 Ivi, p. 1893.
131 Non firmato, Il caso del «Buonsenso», «Avanti!», 2 novembre 1947.
132 Discorso al San Carlo di Napoli, cit. («Uq», 10 marzo 1948).
133 Μ. Lo Vecchio-Musti, op. cit., p. 160.
134 Cfr. G. Giannini, Memorie, cit., p. 55: «Da un giorno all’altro mi trovai a dover rispondere di
una ottantina di milioni, e di mio non avevo che quel pochissimo che avevo guadagnato col
settimanale nel suo momento di maggiore diffusione. Col disastro finanziario — mi trovai
inopinatamente corresponsabile anche delle spese del secondo Congresso — si profilò un disastro
morale ben più grave. I libri contabili delle gestioni giornalistiche non erano in ordine — è vero che
raramente lo sono — e la prospettiva di bancarotta fraudolenta mi si presentò in tutta la sua sinistra
luce. Per aver svolto una azione che ancor oggi è giudicata provvidenziale, per aver ridato coraggio
agli italiani in un’ora di generale smarrimento, sarei finito in galera come un ladro, e per ironia del
destino senza aver rubato un centesimo. Mi salvò, senza che io lo chiedessi e per puro slancio di
carità cristiana, monsignor Roberto Ronca, da poco creato arcivescovo di Lepanto e prelato nullius
del santuario di Pompei: monsignor Ronca fece intervenire un liquidatore di sua fiducia che
pazientemente sanò quasi tutte le passività, liquidò i redattori e l’altro personale, lasciando a me
alcune partite da pagare nel limite delle mie possibilità».
135 Cfr. pp. 255-6.
136 Testo in «Uq», 5 novembre 1947, cit. (I nodi sono giunti al pettine). Si tratta, come si è già
avvertito, di una lettera di Giannini ai membri del Parlamentino, contenente i documenti della
polemica interna qualunquista.
137 Ibid.
138 Ibid, (lettera di risposta di Giannini — 24 ottobre 1947 — indirizzata al segretario del gruppo
parlamentare, on. Rodino).
139 Ibid, (la lettera era del 25 ottobre 1947).
140 Ibid. (Nota ai membri del gruppo parlamentare qualunquista da parte del presidente del Fronte e
del gruppo parlamentare).
141 Ibid.
142 Cfr. l’ordine del giorno del consiglio direttivo centrale — 7 novembre 1947 — cit. in Μ. Lo
Vecchio-Musti, op. cit., pp. 183-5. Per gli altri dissidenti il Parlamentino dava «mandato alla giunta
esecutiva di esaminare e giudicare con umana comprensione le singole posizioni di coloro che,
fuorviati e comunque agendo in buona fede, hanno contribuito a turbare l’armonia del Fronte» (ivi,
p. 185).
143Cfr. Non firmato, La crisi qualunquista'segue il suo corso normale - Un gruppo parlamentare
formato dai deputati usciti dal Fronte - L’on. Tien si dimette da tutte le cariche - Voci sul
Congresso della Dc, «Italia nuova», 12 novembre 1947.
144 Cfr. Le Vespe, «Uq», 19 novembre 1947: «I deputati del gruppo d’Unione Nazionale sono 14 e
cioè: Cannizzo, Marina, Penna, Coppa, Corsini, Castiglia, Russo-Perez, Patrissi, Puoti, De Falco,
Fresa, Patricolo. Cicerone, Selvaggi. I deputati del Fronte Liberale Democratico dell’UQ sono
ventidue: Abozzi, Airoldi, Bencivenga, Capua, Colitto, Lagravinese Nicola, Lagravinese Pasquale,
Maffioli, Marinaro, Mastrojanni, Miccolis. Perugi, Rodi, Rodino Mario, Rognoni, Tieri, Trulli,
Tumminelli, Vilardi, Tripepi, Venditti, Giannini». Il 9 novembre «l’Unità» conteggiava 15 deputati
fedeli a Giannini, 12 nel gruppo di Selvaggi, 5 in quello di Patrissi (quasi tutti i dimissionari
scomparvero dalla scena politica, dopo, in taluni casi, tentativi vari di inserirsi nelle file
monarchiche, liberali, missine o democristiane).
143 Cfr. «l’Unità», 8 novembre 1947; «Italia nuova», 19 ottobre e 4 novembre 1947.
140 Cfr. Non firmato, Un maresciallo ha dimenticato le ritirate - Messe è nell’anticamera di
Selvaggi per essere il De Gaulle dei Russo-Perez -Giannini si dimetterebbe da presidente dell’UQ
abbandonando il suo armento parlamentare alle grandi manovre dei clericali, «Avanti!», 29
ottobre 1947.
147 G. Giannini, Incidentino a Napoli, «Uq», 22 dicembre 1948.
148 Cfr. comizio alla basilica di Massenzio, in «Uq», 18 febbraio 1948 (Non firmato, Certi fregnoni
dicevano ch’era morto - Appassionato incontro tra il Qualunquismo e il grande e nobile cuore del
popolo di Roma). I documenti Bartolotta (cfr. A. Gambino, op. cit., p. 400, nota).confermano, in un
appunto di De Gasperi, la «ironica» richiesta di Giannini (maggio 1947) di essere nominato
«ministro della Propaganda».
149Cfr. «Uq», 12 novembre 1947 (Il discorso di Giannini al Parlamentino qualunquista - Nel
Qualunquismo è rimasto il metallo nobile).
150 Le Vespe, «Uq», 25 febbraio 1948.
151 Cfr. Non firmato (ma G. Giannini), Demo-pluto-fregnocrazia, ivi. 10 dicembre 1947.
152 G. Giannini, Non ci fidiamo più. ivi, 25 febbraio 1948.
153 Le Vespe, ivi, 25 febbraio 1948.
154 Discorso al Parlamentino, cit. («Uq», 12 novembre 1947).
155 Firmato L’UQ (ma G. Giannini), Una voce chiede: perché?, ivi. 22 agosto 1951.
156 A. Maurois - L. Aragon, op. cit., vol. IV (L. Aragon, Storia dell’Urss dal 1929 ai giorni nostri),
p. 246.
157Cfr. La politica dei comunisti dal quinto al sesto Congresso, in G. Galli, Storia del Partito
comunista italiano, cit., p. 281.
158 La politica dei comunisti, in G. Bocca, Palmiro Togliatti, cit., p. 485.
159 G. Galli, Storia del Partito comunista italiano, cit., p. 284. L’offensiva di piazza dei comunisti
colpì anche il Fronte dell’UQ: secondo Giannini (Memorie, cit., p. 58) ben 200 sedi vennero
distrutte nell’autunno del 1947.
160«Il povero Pajetta si sentì ricoprire di contumelie e per tutto il resto della sua vita con Togliatti
dovrà rassegnarsi ai suoi lazzi ironici: Pajetta, come va la rivoluzione?» (G. Bocca, Paimiro
Togliatti, cit., p. 487).
161 L. A. Mondini, Dovere di italiani, «Il Popolo», 18 aprile 1948.
162 Comunicato del Cc del Pci dopo la riunione del 4-6 maggio 1948, in Trent’anni di vita e lotte
del Pci (in G. Galli, Storia del Partito comunista italiano, cit., p. 289): «I risultati elettorali del 18
aprile sono stati determinati in gran parte dall’intervento dell’imperialismo straniero, dal terrorismo
religioso, dalle illecite pressioni dell’apparato statale e da una vasta serie di brogli astutamente
organizzati. La ‘ vittoria ’ democraticocristiana è conseguenza della violazione della libertà
elettorale del popolo italiano che in questo modo è stata compiuta».
163 Cfr. ad es. discorso di Pio XII in piazza S. Pietro (29 marzo 1948), «Il Popolo», 30 marzo 1948.
164 I qualunquisti eletti furono, alla Camera dei deputati: Capua (Cosenza), Caramia (Taranto),
Colitto (Campobasso), Trulli (Bari) e Olga Giannini (Cun). Al Senato della Repubblica fu eletto
Nicola Nacucchi, sindaco di Lecce. Bencivenga e Tripepi ebbero la nomina a senatore «di diritto».
È da notare che nel Blocco nazionale erano candidati una ventina dei deputati qualunquisti del 2
giugno '46 (ivi incluso qualche dissidente che, come Patricolo, aveva insabbiato momentaneamente,
per ragioni elettorali, la polemica antigianniniana).
165 G. Giannini, Ah! Ah! Ah! - Questo branco di fessi!, «Il Buonsenso», 7 aprile 1948 (il giornale,
ripubblicato per il periodo elettorale, sospese di nuovo e definitivamente le pubblicazioni dopo il 18
aprile 1948). Contro Achille Lauro (che prima della rottura con Giannini «si professava ardente
qualunquista, veniva a casa mia tre o quattro volte al mese, prometteva mari e monti senza mai dare
un soldo a nessuno», Memorie, cit., pp. 53-4), Giannini pronunziò un duro discorso al San Carlo di
Napoli («Uq», 10 marzo 1948, cit.).
166 G. Giannini, Non ci fidiamo più, «Uq», 25 febbraio 1948. Nel comizio all’Adriano del 23
ottobre 1949 («Uq») 26 ottobre 1949, cit.), Giannini giungerà a lanciare la «parola d’ordine»:
«scacciare Costa dalla Confindustria».
167 Cfr. G. Giannini, Ah! Ah! Ah! - Questo branco di fessi!, «Il Buonsenso», 9 aprile 1948. Secondo
Giannini il Msi rappresentava soltanto uno «squadrismo di seconda mano a disposizione della
Democrazia cristiana», senza speranze di poter «restaurare» il fascismo, giacché mancava
assolutamente di nomi: che valore potevano avere «poveracci sul tipo di Giovanni Tonelli, di
Giorgio Almirante e d’altri fregnoni che non sono mai stati niente e che non potranno mai essere
niente? È dunque pazzesco, oltreché ridicolo, credere che il fascismo si possa restaurare con simili
melensi cercatori di posticini». Nelle memorie Giannini scriverà che tra i suoi grandi errori vi fu
quello di non aver saputo valutare «giustamente» il neofascismo: «Molte cose mi sono riuscite, altre
no; ho avuto delle buone idee, ho commesso qualche grande errore fra cui quello di non aver
giustamente valutato il neo-fascismo. Credevo, in base al disposto della Costituzione che vieta ‘ la
ricostituzione del partito fascista anche sotto altro nome ’, che per almeno una generazione non si
sarebbe costituito un partito del tipo Msi. Invece s’è costituito, e la Democrazia cristiana ha avuto
piacere che si costituisse, perché avrebbe indebolito il Fronte qualunquista che pure l’aveva sorretta
e difesa» (G. Giannini, Memorie, cit., pp. 61-2).
168 G. Giannini, Il povero Giannini, «Uq», 5 maggio 1948.
169 Comizio alla basilica di Massenzio, cit.
170 Ibid.
171 G. Giannini, L’Armata rossa ha l’arma al piede, «Uq», 17 marzo 1948.
172 Comizio alla basilica di Massenzio, cit.
173 Le Vespe, «Uq», 18 febbraio 1948.
174 Comizio a Padova, ivi, 17 marzo 1948 (Non firmato, Certi fregnoni dicevano ch’eravamo
morti! Guglielmo Giannini nel Veneto - Entusiastici comizi a Padova, Udine e Gorizia - Commosso
incontro di Giannini con gli amici di Trieste - Vitalità dell’Uomo Qualunque - Anche il Veneto è con
noi).
175 Comizio a Udine, ivi, 17 marzo 1948.
176 Cfr. ad es. Le Vespe, ivi, 26 novembre 1947.
177 Cfr. comizio all’Adriano di Roma del 23 ottobre 1949, cit.
178 Cfr. comizio al San Carlo di Napoli, cit. Alberto Consiglio era un redattore del «Buonsenso».
Secondo quanto riferiva Giannini, egli lo aveva inviato ad aiutare Lauro nella direzione del
«Risorgimento», ricevendone in cambio solo attacchi: «Egli [Lauro] non sapeva come fare per
mandare avanti la sua azienda giornalistica. Aveva litigato coi suoi direttori, coi sùoi giornalisti.
Allora mi chiese aiuto e io l’ho aiutato, io filocomunista l’ho aiutato, mandandogli il mio migliore
redattore, Alberto Consiglio, questo pagliaccio che oggi m’attacca sul giornale dove l’ho messo io a
percepire stipendio. Questo buffone, che ripete gli articoli che ha imparato a scrivere nella mia
redazione (approvazioni), questo Pulcinella che ha imparato da me come si combattono i comunisti,
perché io gli ho dato dieci volte lo spunto per gli articoli che pubblicava sul mio giornale, da me
pagato, oggi per merito mio passato agli stipendi del troppo rapidamente arricchito Lauro, attacca
me, fa dello spirito su me [...]» (ibid.).
179 Tra questi, occorre notare, qualcuno riuscì a rientrare in Parlamento alle elezioni del ’53:
Selvaggi e De Falco (Pnm), Marina (senatore del Msi). Con Mazza (Dc) riuscirono ad ottenere
cariche governative (sottosegretari) i «liberali» Capua e Colitto, dimessisi dall’UQ dopo il 18 aprile
1948; ma, come già accennato, quasi tutti i deputati qualunquisti del 2 giugno ’46 scomparvero
dalla vita politica italiana dopo il 18 aprile 1948.
180 G. Giannini, Una rivoluzione politica - Bipartitismo inaspettato, «Uq», 28 aprile 1948.
181 Cfr. La polemica del «muro di ghiaccio» Giannini-Togliatti, cit., p. 8.
182 L’ammiraglio Monico, l’ex questore Solimando e il prof. Mario Ferraguti, assessori al comune
di Roma, furono espulsi dal Fronte «per non aver voluto seguire le direttive del partito in occasione
del ‘ rimpasto ’ della Giunta comunale intervenuto nell’ottobre 1950» (Μ. Lo Vecchio-Musti, op.
cit., p. 118, nota 2).
183 Ivi, p. 103. La cifra (es. 488.012) si riferisce al periodo dell’inaugurazione del secondo
congresso nazionale e denotò, rispetto al precedente periodo, «una certa diminuzione di iscritti».
184 Cfr. «Uq», 21 dicembre 1949 (Non firmato, «Parole senza veli» a Bologna - «Prendo impegno
di portare la borghesia italiana sulla linea del centro-sinistra, in un grande Partito del lavoro» - Il
Qualunquismo delle ingiurie e delle beffe è oggi una corrente politica rafforzata dal senso «d’aver
avuto ragione» - Una nuova interpretazione del Terzo Comandamento - Totalitarismo orientale e
occidentale: tirannie uguali e contrarie -Aspettare pazientemente la nostra ora: questo si chiede al
Qualunquismo).
185 G. Giannini, Memorie, cit., p. 60 (Giannini scelse la Dc perché — racconta — i liberali gli
avevano posto, quale condizione per l’inserimento nelle loro liste, l’iscrizione al loro partito). Sul
mutamento di giudizio delle sinistre nei confronti di Giannini cfr., per tutti, il discorso di Lussu
all’Assemblea costituente del 2 ottobre 1947: «Credo [...] che parecchi di noi debbano fare
ammenda pubblica — ed io la faccio — di un giudizio molto affrettato espresso sull’onorevole
Giannini, leader dell’Uomo Qualunque. L’onorevole Giannini, dopo aver scolpito il suo nome nella
storia del teatro e del film, rischia (ed io glielo auguro) di scolpirlo anche nella storia politica, nella
storia della democrazia. Egli ha indubbiamente il merito di aver detto ai suoi seguaci, in massima
parte ex fascisti: non parliamo più di fascismo. A me pare doveroso parlare con rispetto di un uomo
che, avendo sofferto molto personalmente [...] ha individuato nella sua tragedia personale e
familiare tutta la tragedia nazionale e ha dichiarato: non più fascismo e non più guerra. Io penso
perciò che se egli subisse — privilegio degli uomini illustri — un attentato, l’autore non andrebbe
cercato in queste file, ma in quelle dei nemici-amici, come si chiamano nel campo dell’Uomo
Qualunque. Io credo che anche la partecipazione dell’onorevole Togliatti al Congresso dell’Uomo
Qualunque, seguita dalla visita del nostro Presidente dell’Assemblea, pure comunista, abbia avuto
questo significato di affermazione di benevolenza» (Atti dell'Assemblea costituente, vol. VII, cit., p.
737).
186 P. Sylos Labini, op. cit., soprattutto cap. III.
%%%
INDICI
INDICE DEI NOMI*
%
* Per la frequenza con cui ricorre nel testo, non è registrato in questo indice il nome di Guglielmo
Giannini.
%%%
Abozzi, Giuseppe, 309, 328.
Agnelli, Giovanni, 322.
Airoldi, Aldo, 307.
Airoldi, Giuseppe, 309, 328.
Albano, Giuseppe, 297.
Al Capone, 148.
Alicata, Mario, 81.
Allum, Percy A., 290.
Almirante, Giorgio, 122, 303, 329.
Amendola, Giorgio, 61.
Andreotti, Giulio, 175, 214, 224; 263, 312, 317, 326.
Angiolillo, Renato, 41, 106, 294, 316.
Apra, Renato, 164, 233.
Aragon, Louis, 317-8, 328.
Arangio-Ruiz, Vincenzo, 81.
Assante, Arturo, 292.
Badoglio, Pietro, 8, 13, 19, 88, 151, 307.
Ballotti, Felice, 318.
Barbieri, Ezio, 122.
Bartoli, Domenico, 100, 300.
Bartolotta, Francesco, 319, 328.
Basevi, Ettore, 262, 305, 320.
Basile, Carlo Emanuele, 100.
Basso, Lelio, 315, 318.
Battaglia, Achille, 290.
Bellezza, Vincenzo, 97.
Belli, Giuseppe Gioacchino, 308.
Bencivenga, Roberto, 115-6, 118-9, 136, 223, 244, 255, 266, 268, 302, 305, 309, 328-9.
Bergamini, Alberto, 97, 115, 253.
Bevin, Ernest, 89.
Bianchi, Gianfranco, 290.
Bianchi, Michele, 153.
Bibolotti, Aladino, 230.
Bocca, Giorgio, 291, 299, 312, 318, 328.
Bombacci, Nicola, 80.
Bonocore, Giuseppe, 324.
Bonomi, Ivanoe, 6, 13, 19, 22, 30-32, 34, 53, 80-1, 83, 95, 97, 106, 151, 163-4, 229, 290, 307.
Bontempi, Mario, 305.
Borgogna, Gino, 296.
Bottai, Giuseppe, 62.
Bovio, Giovanni, 81.
Brosio, Manlio, 81, 99.
Brusasca, Giuseppe, 17, 20, 22.
Buozzi, Bruno, 152.
Byrnes, James, 217, 219.
Calabrese, Armando, 167, 267.
Calamandrei, Piero, 81, 83, 102, 207, 301.
Cannarsa, Fausto, 83.
Cannizzo, Bartolomeo, 267, 309.
Cappa, Paolo, 257, 264.
Cappi, Giuseppe, 194-6, 198, 314, 318.
Capua, Antonio, 164, 309, 328-30.
Caradonna, Giuseppe, 122.
Caramia, Agilulfo, 329.
Carandini, Niccolò, 15, 81, 89, 99.
Caronia, Giuseppe, 253.
Carretta, Donato, 100.
Cassandro, Giovanni, 213, 316.
Castiglia, Pietro, 267, 309.
Castronovo, Valerio, 322.
Catalano, Franco, vii, 219, 223, 249, 290, 296, 301, 303, 315, 318, 323.
Cattani, Leone, 99, 301.
Cavallotti, Felice, 81, 152.
Cavour, Camillo Benso, conte di, 81.
Celsi, Vito, 317.
Chabod, Federico, 24, 291, 308.
Ch’ang Kai-shek, 75, 77.
Charles, Noel, 306.
Churchill, Winston, 9, 41, 60, 75, 77, 80, 217-8, 289, 297, 317-8.
Cianca, Alberto, 76, 83, 89, 164.
Ciani, Arnaldo, 315.
Cicerone, Vincenzo, 267, 309, 313, 328.
Cingolani Guidi, Angela Maria, 83.
Cione, Edmondo, 166-7, 310, 321.
Clarj, signora, 97.
Clayton, William, 219.
Codignola, Tristano, 81.
Colapietra, Raffaele, 290, 366.
Colitto, Francesco, 309, 328-30.
Consiglio, Alberto, 260, 282, 316, 330.
Conti, Giovanni, 40, 164.
Coppa, Ezio, 267, 282, 309.
Corbellini, Guido, 221.
Corbino, Epicarmo, 177, 324.
Corona, Achille, 306, 313-4.
Corsini, Tommaso, 267, 309.
Cortese, Guido, 324.
Costa, Angelo, 257, 259-60, 278, 307, 325, 329.
Covelli, Alfredo, 115, 191, 319.
Cremascoli, avvocato, 267.
Criscuolo, Giorgio, 258.
Crispí, Francesco, 81.
Croce, Benedetto, 6, 7, 80, 82, 91-3, 95-6, 99, 101, 106, 120, 150, 161, 163-4, 166, 170-2, 181, 189,
193, 199, 229, 276, 289, 298-300, 311, 314-5, 320.
Crociani, Rodolfo, 305.
Cruciani, Antonio, 166, 320.
D’Amato, Gino, 320.
De Agazio, Franco, 125.
Deakin, Frederick William, 310.
De Courten, Raffaele, 22.
De Falco, Giuseppe, 234, 282, 309, 328, 330.
De Felice, giornalista, 292.
De Felice, Renzo, vii, 291.
De Gasperi, Alcide, 6, 12, 32, 52, 53, 89, 96, 101, 106-7, 110-1, 126, 132-3, 159, 161, 169, 172-6,
178, 180, 183-4, 195, 198, 219-223, 225, 229, 241, 243, 246-9, 251-60, 264, 267-9, 273, 275, 283,
289-90, 295, 300-1, 304, 312-4, 318-9, 325-6, 328.
De Gasperi Catti, Maria Romana, 304.
De Gaulle, Charles, 80.
Degli Espinosa, Agostino, 291.
Del Bosco, Manlio, vii, 293.
Del Carria, Renzo, 323.
Del Vecchio, Gustavo, 221.
De Maggi, Michele, 53, 289, 295, 300, 312.
De Marsanich, Augusto, 303.
De Nicola, Enrico, 80, 110, 229, 319.
Depretis, Agostino, 77, 81.
De Ruggiero, Guido, 125.
De Vita, Corrado, 58-9, 291, 296.
Di Vittorio, Giuseppe, 63, 81, 161, 231, 270.
Dominedò, Francesco, 196, 314.
Donegani, Guido, 68.
Dorso, Guido, 16, 289-90.
Dossetti, Giuseppe, 253.
Einaudi, Luigi, 248-9, 323.
Einstein, Albert, 130.
Emanuelli, colonnello, 33.
Facta, Luigi, 178.
Farinacci, Roberto, 37, 61, 80, 321.
Federici, 327.
Federzoni, Luigi, 62.
Ferraguti, Mario, 330.
Ferri, Enrico, 81.
Festa, Ludovico, 164, 167, 232-3.
Fioretti, Mario, 152.
Fioritto, Domenico, 161.
Foà, Bruno, 323.
Forcella, Enzo, 303.
Fortunio, Tommaso, 290.
Fresa, Armando, 83, 164-5, 232-3, 235, 237, 282, 309, 328.
Fresa, Mario, 233.
Galasso, Giuseppe, vii.
Galli, Giorgio, 295, 309, 311-2, 328.
Gambino, Antonio, 316, 319, 328.
Garosci, Aldo, 307.
Gava, Silvio, 290.
Gentile, Panfilo, 193-4, 314-6.
Giannini, Amedeo, 102.
Giannini, Federico, 36.
Giannini, Mario, 38, 42, 73.
Giannini, Olga, vii, 282, 329.
Giannini, Yvonne, 136.
Giolitti, Giovanni, 16, 69, 77, 81, 88.
Giordani, Igino, 64, 228.
Giovana, Mario, 303.
Giovannini, Alberto, ex direttore del «Giornale d’Italia», 104, 282, 301.
Giovannini, Alberto, ex direttore del «Rosso e nero», 124, 303, 317.
Giuliano, Salvatore, 309.
Gonella, Guido, 40, 64, 174, 311-2.
Grassi, Giuseppe, 221.
Grassi, Paolo, 293.
Graziani, Augusto, 322.
Grieco, Ruggero, 62, 64, 291, 293.
Gronchi, Giovanni, 80, 133.
Guadagno, Umberto, 294.
Guerci, Luciano, 289, 295.
Gullo, Fausto, 78.
Hirschman, Alberto O., 323.
Hitler, Adolf, 41, 60, 75, 77, 104, 192.
Hugo, Victor, 80.
Hyb, Μ. Serge, 307.
Ingrao, Pietro, 326.
Jackson, Mary, 36.
Temolo, Arturo Carlo, 176, 296, 312.
Karr, Jean-Baptiste-Alphonse, 292.
Kepler, Johannes, 130.
Kogan, Norman, 13, 290.
Labriola, Arturo, 97, 136.
Lagravinese, Nicola, 144, 309, 328.
Lagravinese, Pasquale, 164, 309, 328.
La Malfa, Ugo, 82, 228.
Lauro, Achille, 256, 258-60, 264, 268, 278, 282-3, 325, 327, 329-330.
Lazzari, Igino, vii, 283.
Leccisi, Domenico, 122.
Lenin, Vladimir Ilic, 70.
Libonati, Francesco, 62.
Lojacono, Natale, 133.
Lombardi, padre, 304.
Lo Vecchio-Musti, Manlio, vii, 289, 293, 297, 304-6, 322, 325, 328, 330.
Lucifero, Roberto, 253, 276.
Lupinacci, Manlio, 119, 147, 291, 302.
Lussu, Emilio, 83, 88, 111, 155, 164, 229, 230, 253, 308, 331.
Maffioli, Catullo, 266, 309, 328.
Magrini, Luciano, 255.
Mammarella, Giuseppe, 290, 296, 301.
Manca, Giuseppe, 292, 307.
Marconi, Guglielmo, 130.
Marina, Mario, 144, 161, 164, 166, 233, 267, 309, 328, 330.
Marinaro, Francesco, 309, 328.
Marshall, George, 218, 247, 270, 271.
Marx, Karl, 12, 13, 103, 176, 207, 293.
Marzotto, Gaetano, 248, 327.
Mastrojanni, Ottavio, 244, 309, 328.
Mattei, Enrico, 64.
Matteotti, Giacomo, 61, 125, 152.
Matteotti, Matteo, 220.
Maurois, André, 317-8, 328.
Mazza, Crescenzo, 267, 309, 330.
Mela, 309.
Mercuri, Lamberto, vii.
Merzagora, Cesare, 221.
Messe, Giovanni, 268.
Metternich, Klemens Lothar, principe di, 150.
Miccolis, Leonardo, 309, 328.
Mieville, Roberto, 122.
Molè, Enrico, 81.
Molotov, Vjaceslav Michajlovic, 31, 270.
Momigliano, Eucardio, 58-9, 296.
Monicelli, Francesco, 64, 307.
Mondini, Agostino, 329.
Monico, Umberto, 330.
Montagnana, Mario, 313, 315.
Montagnana, Rita, 83.
Montanelli, Indro, 294.
Montesquieu, Charles-Louis de Secondat, barone di, 316.
Montini, Giovan Battista, 131.
Morandi, Rodolfo, 66, 222.
Moro, Aldo, 148.
Murgia, Pier Giuseppe, 303.
Murialdi, Paolo, 296.
Mussolini, Benito, 16, 23, 31, 36-39, 41, 60-1, 69, 74-5, 77, 79, 80, 82, 88, 97, 120-5, 129, 146-7,
149-50, 192, 202, 278, 292-3, 297, 303.
Mussolini, Vittorio, 62.
Nacucchi, Nicola, 329.
Nasi, Virgilio, 263-4, 327.
Nenni, Pietro, 6, 18, 22, 31-2, 40, 56, 67, 70, 74, 76, 78-81, 83, 87-9, 108, 111, 126, 161, 164, 192,
229, 242, 251, 253, 255, 257, 289-90, 293, 301, 310, 313-315, 321, 325.
Nicotera, Giovanni, 77, 81.
Nisi, Gino, 164.
Nitti, Francesco Saverio, 16, 83, 95-97, 101-2, 106, 110, 161, 163-4, 221, 229, 253, 268, 281.
Nitti, Giuseppe, 281-2.
Omodeo, Adolfo, 82, 300.
Orlando, Vittorio Emanuele, 77, 80, 83, 95-7, 106, 110, 163-4, 221, 229.
Pacciardi, Randolfo, 67, 76, 81, 301.
Pajetta, Giancarlo, 272, 328-9.
Palamenghi-Crispi, Francesco, 303.
Palletta, Gino, vii, 72, 298, 326.
Pannunzio, Mario, 105, 301, 314.
Parente, Alfredo, 289, 300.
Parisella, Antonio, vii.
Parri, Ferruccio, 22, 54, 56-7, 66-67, 70, 75, 78, 81, 95, 99, 102-104, 106-9, 111,136, 157, 173-4,
197, 228, 297-8.
Pasquariello, Gennaro, 150.
Pastore, Giulio, 311.
Patricolo, Gennaro, 164, 237-8, 244, 309, 321, 328-9.
Patrissi, Emilio, 115, 119, 139, 153, 167, 200, 232-3, 235, 237-8, 241, 282, 302, 305-6, 309, 320,
328.
Pavolini, Alessandro, 37.
Penna-Buscemi, Ottavia, 229, 267, 309, 328.
Pepe, Gabriele, 91-2, 147.
Perfumo, A., 72.
Permoli, Piergiovanni, 290.
Persico, Giovanni, 62, 65.
Perticone, Giacomo, 295.
Pertini, Sandro, 66, 161.
Perugi, Giulio, 268, 309.
Petrilli, Raffaele Pio, 161.
Pettinato, Concetto, 62.
Piccardi, Leopoldo, 8, 289, 308.
Piccioni, Attilio, 195, 224-5, 244, 253-4, 256-7, 314-5, 319.
Pini, 232-3.
Pio IX, papa, 25.
Pio XII, papa, 131, 182.
Pirelli, Alberto, 68.
Piscitelli, Enzo, 296, 314.
Pistoiesi, 259.
Priolo, Antonio, 52, 230.
Proia, Alfredo, 253.
Puoti, Renato, 234-5, 282, 309, 328.
Quazza, Guido, 291.
Ragionieri, Ernesto, 290.
Ravaioli, Domenico, 63.
Rebecchini, Salvatore, 199, 326.
Rivelli, Giuseppe, 233.
Rocchi, A. Claudio, 306.
Rodi, Cesario, 267, 309, 328.
Rodino, Mario, 266, 309, 327-8.
Rognoni, Arturo, 309, 328.
Romita, Giuseppe, 283.
Ronca, Roberto, 265, 304, 327.
Roosevelt, Franklin Delano, 9, 41, 60, 75, 77, 117, 217, 297, 317.
Rosenbaum, Petra, 303.
Rossi, Elena A., 289.
Rousseau, Jean-Jacques, 44.
Ruini, Meuccio, 97, 110.
Russo, Giuseppe, 65, 297.
Russo-Perez, Guido, 244, 254, 256, 266, 282, 309, 328.
Salandra, Antonio, 16.
Salvatorelli, Luigi, 23, 49, 81, 83, 111, 145, 155, 291, 295, 306, 312.
San Giuliano, Antonino Paternò-Castello, marchese di, 81.
Saragat, Giuseppe, 80-1, 161, 220, 221, 229-30, 253, 255, 283, 296, 325.
Savarino, Santi, 313.
Savoia, casa, 119, 146.
Scalerà, Michele e Salvatore, fratelli, 41, 97, 294, 327.
Sceiba, Mario, 32, 272.
Schiavetti, Fernando, 76, 313.
Scoccimarro, Mauro, 22, 33, 56, 88, 178.
Scognamiglio, Gennaro, 293.
Scoppola, Pietro, 313, 318.
Scorza, Carlo, 62.
Selvaggi, Giovanni, 64.
Selvaggi, Vincenzo, 6, 31-2, 116-9, 136, 148, 171, 199, 244, 254-6, 258-9, 267, 282, 302, 309, 315,
325, 328, 330.
Sereni, Emilio, 161.
Setta, Sandro, 300.
Sfila, Marco, 307.
Sforza, Carlo, 20, 22, 31-2, 164, 221, 290-1.
Shaw, George Bernard, 151.
Silone, Ignazio, 152, 308.
Soleri, Marcello, 22.
Solimando, ex questore di Roma, 330.
Sonnino, Sidney, 77.
Spampanato, Bruno, 62-3.
Spano, Velio, 81, 83, 111, 296.
Stalin, Josif Vissarionovic, 9, 12, 31, 41, 70, 75, 77, 80, 304.
Stolli, Edoardo, 164, 305, 320.
Sturzo, Luigi, 8, 178, 195, 289, 312, 314.
Susmel, Duilio, 292.
Susmel, Edoardo, 292.
Sylos Labini, Paolo, 291, 331.
Tarchiani, Alberto, 81.
Tedeschi, Mario, 122-3, 303, 310, 320.
Terracini, Umberto, 244.
Tieri, Gherardo, 136.
Tieri, Vincenzo, 83, 136, 164-5, 167, 225, 232, 236-8, 260, 264, 267, 282, 305, 319, 326, 328.
Togliatti, Paimiro, 6, 8, 10-2, 16, 22, 52, 55, 75-6, 78, 80, 81, 83, 87, 89, 103, 107, 116, 126, 161,
164, 172, 176-7, 193, 196-8, 200-204, 206-15, 221, 224-5, 228-9, 231, 244-6, 248, 251-3, 255, 257,
271-2, 284-5, 289-91, 295-6, 310, 314-8, 322-3, 329, 331.
Tojo, Hideki, 75, 77.
Tonelli, Giovanni, 127-8, 304, 329.
Torlonia, principe, 54.
Treves, Claudio, 81.
Tripepi, Domenico, 309, 328-9.
Tripodi, Nino, 303.
Troilo, Ettore, 272.
Trombetti, Roberto, 313.
Trulli, Martino, 309, 328-9.
Truman, Harry, 80, 217-9, 221, 270-1.
Tumminelli, Michele Maria, 309, 328.
Tupini, Giorgio, 110, 174-5, 215, 253, 311-2.
Turati, Augusto, 232, 320.
Turati, Filippo, 81.
Umberto II di Savoia, 13, 87, 112.
Valeri, Nino, 291.
Valiani, Leo, 66, 253, 290, 295, 318.
Vallauri, Carlo, vii.
Valletta, Vittorio, 88, 327.
Venditti, Milziade, 116, 309, 328.
Vigolo, Giorgio, 308.
Vilardi, Giuseppe, 234, 309, 328.
Vinciguerra, Mario, 62-3.
Vittorio Emanuele III di Savoia, 8.
Wallace, Henry, 80.
Wilkes, deputato laburista, 145.
Woolf, Stuart J., 290.
Zampaglione, Gerardo, 305.
Zanardelli, Giuseppe, 77, 81.
Zaniboni, Tito, 97.

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