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Gli uomini politici professionali costituiscono un gruppetto d’una scarsa decina di migliaia di
persone che tengono a soqquadro l’Italia, litigando intorno a cinquecento posti di deputato, quasi
altrettanti di senatore, circa mille altri cadreghini e canonicati diversi... Noi non abbiamo bisogno
che d’essere amministrati: e quindi ci occorrono degli amministratori, non dei politici». Così
scriveva Guglielmo Giannini, fondatore dell’Uomo qualunque.
In questo libro, vengono ricostruiti lo straordinario successo e le mille contraddizioni del
movimento politico che per primo in Italia, tra il ’46 e il ’48 si scagliò contro tutti i partiti e le
ideologie.
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Sandro Setta (L’Aquila, 1944) è ricercatore di Storia contemporanea presso la facoltà di Scienze
politiche dell’Università «La Sapienza» di Roma e insegna la stessa materia presso la facoltà di
Sociologia della medesima università. Tra le sue pubblicazioni: «Croce, il liberalismo e l’Italia
postfascista» (Roma 1979), «Profughi di lusso. Industriali e manager di Stato dal fascismo
all’epurazione mancata» (Milano 1993), «Mussolini» (Teramo 1993), e, per i nostri tipi, «La Destra
nell’Italia del dopoguerra» (1995).
Ladri di Biblioteche
L’UOMO QUALUNQUE
1944-1948
a Franca
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«Il buono storico somiglia all’orco della fiaba: là dove fiuta carne umana, là sa che è la sua preda».
(Marc Bloch, Apologia della storia o Mestiere di storico, Einaudi, Torino 1969, p. 41.)
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INTRODUZIONE
Nel riproporre ai lettori, non senza qualche emozione, quello che è stato, venti anni or sono, il
primo risultato del mio impegno storiografico, mi accorgo di non dover inserire molte osservazioni
in questa presentazione. Dall’ormai lontano 1975 ad oggi non sono apparse, infatti, opere che
proponessero un’interpretazione diversa dalla mia del fenomeno qualunquismo, né sono usciti, da
archivi pubblici o privati, nuovi documenti idonei a confutare singoli aspetti della sua ricostruzione.
Lo strepitoso successo del movimento di Guglielmo Giannini rivelò, nell’immediato secondo
dopoguerra, l’esistenza di un «paese reale» molto meno avanzato (oggi diremmo «progressista») di
quanto pensassero molti leaders dell’antifascismo. La maggioranza dei ceti medi, specie nell’Italia
meridionale, era poco sensibile, se non ostile, ai valori dell’antifascismo e della Resistenza; subiva
invece ancora, in misura notevole, quelli dell’ordine e dell’antisocialismo, in un contesto
psicologico infarcito di disprezzo per la politica ed i suoi uomini. Un disprezzo che rappresenta una
costante del nostro carattere nazionale, ma che rifiorì con virulenza, subito dopo il fascismo, a causa
dei gravi errori commessi dalla classe politica antifascista. Giannini fu, in quegli anni, straordinario
nell’intuire il malessere dell’opinione pubblica moderata e nel rendersene interprete col suo
originale messaggio.
Ogni fenomeno storico è essenzialmente espressione del suo tempo e le analogie con il passato
possono essere tentate soltanto con grande cautela. Altro discorso è la suggestione che ancora oggi
possono esercitare idee e slogans nati in un contesto diverso. E' facile, dinnanzi alle ceneri di una
prima repubblica crollata sotto il peso della corruzione della sua classe politica, trovare attuali le
cocenti invettive di Giannini contro gli «uomini politici professionali» di ogni colore, intenti
soltanto a saziare la propria fame di potere sulla pelle dei cittadini. Più che mai attuali possono
apparire, anche, le sue richieste di uno «Stato amministrativo» guidato da un «buon ragioniere», che
si traducono nella tendenza a sostituire, nei posti di responsabilità, i politici con i tecnici ed in
quella a ridimensionare l’interventismo statale: donde la presente ondata di privatizzazioni in nome
del ritorno al liberismo. La caduta delle contrapposizioni ideologiche, in tutto il mondo, sembra
infine dar ragione ad uno dei più vivaci argomenti polemici del commediografo, che definì semplici
«fesserie» «la sinistra e la destra, il fascismo, l’antifascismo, il comunismo, l’anticomunismo»...
Gridò queste sue convinzioni in un’Italia dominata dalla guerra fredda, e il popolo qualunquista lo
abbandonò in massa, attratto dalla crociata anticomunista della DC. Come lo abbandonò la
Confindustria, un tempo prodiga di finanziamenti per il Fronte dell’Uomo Qualunque. Anche
l’impari battaglia di Giannini contro gli industriali che pretendevano di imporgli la loro linea
politica appare di una attualità sconcertante, che mostra l’estrema dignità di un personaggio atipico
nella nostra storia.
Il recente successo, nelle elezioni politiche del 27-28 marzo 1994, della coalizione di centro-destra
denominata «Polo delle libertà» presenta, per concludere, evidenti analogie con il passato descritto
in questo libro. E' avvenuto infatti, come nel 1946 ma in misura ben più massiccia, uno spostamento
a destra dell’elettorato moderato ai danni del centro occupato in primo luogo dalla DC. Ma il
successo di Giannini fu determinato essenzialmente dall’istanza anticomunista di quell’elettorato,
che si sentiva tradito dalla politica degasperiana di collaborazione con comunisti e socialisti: il
disprezzo per i politici corrotti era la forma con cui si manifestava tale istanza. Oggi, come
accennato, le ideologie hanno perduto molta della loro forza di attrazione, pur non essendo ancora
giunti alla generalizzazione di quell’indifferentismo ideologico che costituisce uno degli aspetti più
deteriori della mentalità qualunquista.
Il significato ultimo del terremoto elettorale del marzo 1994 è stato proprio quello, ci sembra, di una
rivolta «qualunquista» contro la classe politica di «Tangentopoli». Una rivolta che si è lasciata
sedurre, per disperazione, dalla lotta contro la partitocrazia propugnata dai movimenti di Bossi, Fini
e Berlusconi.
Lasciamo al lettore la riflessione sulle altre possibili analogie tra questi movimenti e quello di
Giannini, come il giudizio, ovviamente, sulla positività o meno del loro attuale successo. Mi si
consenta tuttavia di ribadire, venti anni dopo, una convinzione ben presente nelle pagine di questo
libro. Con tutte le giustificazioni che può avere il suo essere conseguenza del «malgoverno», il
qualunquismo come atteggiamento di indiscriminato disprezzo per la politica ed i suoi uomini
rappresenta una realtà fortemente negativa per il nostro sistema democratico.
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Sandro Setta
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Roma, gennaio 1995
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AVVERTENZA 1975
Ringrazio, per l'incoraggiamento ricevuto durante i primi passi della mia ricerca, il prof. Giuseppe
Galasso; per i colloqui concessimi la on. Olga Giannini e il dott. Igino Lazzari, e per aver messo a
mia disposizione il suo lavoro il dott. Manlio Lo Vecchio-Musti. Per la valutazione del libro e per i
consigli offertimi ringrazio infine il prof. Carlo Vallauri, il prof. Renzo De Felice, il prof. Franco
Catalano, il dott. Lamberto Mercuri e il dott. Antonio Parisella.
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S. S.
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In campo storiografico mancano, come è noto, contributi monografici sull’argomento del presente
studio, oggetto invece di ricostruzioni giornalistiche (cfr. G. Pallotta, Il qualunquismo e l’avventura
di Guglielmo Giannini, Bompiani, Milano 1972 e Μ. Del Bosco, Guglielmo Giannini e «L’Uomo
Qualunque». Storia e politica incredibile e vera, «Il Mondo», 18 aprile-9 maggio 1971, quattro
puntate).
Per la mia ricerca ho perciò utilizzato essenzialmente (oltre alle memorie di Giannini e al
dattiloscritto di Μ. Lo Vecchio-Musti, Il qualunquismo. Cronache di un nuovo movimento politico,
Roma, febbraio-giugno 1950, pp. 1-229 e appendici), la stampa dell’epoca, in particolare «L’Uomo
qualunque» e «Il Buonsenso».
Ho cercato di inquadrare, infine, la storia del Fronte dell’Uomo Qualunque nel più ampio contesto
del secondo dopoguerra, sulla cui problematica la bibliografia è, come noto, molto vasta. In
quest’ambito mi sono limitato tuttavia a citare, nelle note, soltanto alcuni testi, evitando una
elencazione facilmente accessibile in studi specifici.
Dei quotidiani che, a cominciare da «Il Buonsenso», si stampavano in più edizioni, ho utilizzato
l’edizione di Roma. Le Vespe riportate nel testo senza la corrispettiva nota si intendono tratte da
«L’Uomo qualunque».
Parte delle fotografie delle vignette sono state eseguite dallo studio fotografico di Carmelo Catania,
Roma.
L’UOMO QUALUNQUE 1944-1948
I. ANTIFASCISMO E QUALUNQUISMO
aveva lasciato nella legalità (oltre che, naturalmente, sull’appoggio della Chiesa e del suo apparato).
I cattolici, come il proletariato, erano stati tenuti ai margini dello Stato liberale, e contro di esso
nutrivano propositi di rivalsa, non nascondendo l’ambizione di conquistarlo allo «spirito cristiano».
Come base di massa per questa conquista la classe dirigente democristiana si rivolgeva ad un
mondo contadino, piccolo-borghese e anche operaio, che vedeva animato da una immensa sete di
giustizia, e ne faceva sue le istanze rilanciando un solidarismo cristiano che se non auspicava il
sovvertimento totale della società borghese ne confutava fermamente le storture. Con il suo ripudio
del massimalismo, con la sua «democrazia progressiva» che implicava un riformismo non dissimile
da quello dei cattolici13, Togliatti pensava che la costruzione di una nuova società sarebbe stata
possibile proprio con la collaborazione tra comunisti e cattolici, gli esclusi di un tempo. Di qui le
continue riaffermazioni di rispetto per la religione, i pressanti inviti a De Gasperi a realizzare un
«accordo politico concreto [...] allo scopo di creare la base di un programma di lotta contro le forze
reazionarie che già una volta hanno portato l’Italia alla rovina e sulla base di un programma di un
profondo rinnovamento politico e sociale» 14.
Anche da parte cattolica si mostrava un notevole interesse per la collaborazione prospettata da
Togliatti nel nome dei comuni ideali di rinnovamento 15. Lo confermava lo stesso leader
democristiano nel suo discorso alla prima assemblea dei cattolici romani dopo la liberazione della
capitale, tenuta al teatro Brancaccio il 24 luglio 1944 16. In tale occasione De Gasperi (che qualche
giorno dopo avrebbe definito la Dc «partito di riforme, meglio di rivoluzione») 17 esaltava il «genio»
di Stalin e le realizzazioni della Russia sovietica, «paese ove nessuno vive senza lavorare», e
definiva «simpatica» e «suggestiva» la «tendenza universalistica del comunismo russo». Accennava
agli inconvenienti della esperienza sovietica, alla «eccessiva coazione e [al]l’eccessivo intervento
dello Stato e della sua polizia» e ribadiva che «il nemico della libertà è il totalitarismo di Stato», ma
si dichiarava fiducioso che Togliatti avrebbe evitato tali inconvenienti in Italia, e proclamava che, al
di là di essi, rimanevano i comuni obbiettivi finali del comunismo e del cristianesimo, la comune
ansia di sollevazione degli oppressi e di eguaglianza tra gli uomini che era stata al centro della
predicazione di Cristo come di Marx, i due «proletari»:
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Se comunismo si intende nel senso generico che i beni della terra devono essere comunicati a tutti
[...] o che a tutti, secondo la formula americana, sia dato eguale accesso alla proprietà, questo
comunismo è anche nostro. In quanto alle applicazioni pratiche ci sarebbe da sperare che la
presenza di Togliatti in Italia potrebbe in ogni caso servire a evitare gli esperimenti negativi e gli
errori del sistema russo [...]. Collega Togliatti, abbiamo apprezzato, come meritava, la tua
dichiarazione di rispetto per la fede cattolica della maggioranza degli italiani [...]. La tolleranza
mutua nelle forme della civile convivenza che voi proponete e che noi volentieri accettiamo,
costituisce in confronto al passato un notevole progresso che potrà farci incontrare più spesso lungo
l’aspro cammino che dovremo percorrere per il riscatto del popolo italiano [...]. Un altro proletario,
anch’Egli israelita come Marx, duemila anni fa [...] fondò l'internazionale basata sulla
eguaglianza, sulla fraternità universale, sulla paternità di Dio [...].
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I partiti antifascisti riuniti nel Cln avevano ottenuto un significativo successo dopo la Liberazione di
Roma (4 giugno 1944), quando, ignorando il reincarico dato dal luogotenente generale del regno,
Umberto, al dimissionario Badoglio, decidevano la costituzione di un governo «schiettamente
democratico, formato da elementi di sicura fede antifascista, e con tali poteri da poter condurre
energicamente la guerra antitedesca e da poter preparare la libera consultazione popolare per la
scelta delle forme istituzionali» 18, e ne affidavano l’incarico di presidente a Bonomi. Era questa,
come nota il Kogan, «una rivoluzione incruenta, che trasferiva l’effettiva autorità dello Stato dalla
Corona al Comitato Centrale di Liberazione Nazionale» 19, e che riceveva anche l’appoggio degli
Stati Uniti.
Il governo Bonomi nasceva dunque dalla unanime volontà dei sei partiti del Cln contro i tentativi
della monarchia di riaffermare, con Badoglio, la continuità del vecchio Stato: sintomatico era in tal
senso il fatto che solo il presidente Bonomi giurava fedeltà alla Corona, mentre gli altri ministri si
limitarono a giurare «nel loro onore di esercitare la loro funzione nell’interesse supremo della
Nazione e di non compiere, fino alla convocazione dell’Assemblea Costituente, atti che comunque
pregiudichino la soluzione della questione istituzionale»20.
In politica estera il governo Bonomi proseguiva nei tentativi, già avviati da Badoglio, di mitigare le
pesanti condizioni imposte all’Italia dall’armistizio e si sforzava, contemporaneamente, di
provvedere alla sopravvivenza materiale del paese e alle prime opere di ricostruzione del suo
tessuto economico. In questo campo, grazie soprattutto alla buona disposizione degli americani,
riuscì a cogliere qualche successo. Ma ben più complessa e irta di difficoltà si presentava l’azione
del governo sui problemi di politica interna, strettamente legati a quello più generale del
rinnovamento sociale: le funzioni dei Cln e l’epurazione, fra questi, impegneranno a lungo la classe
politica in dibattiti estenuanti e in prese di posizione contrastanti, determinando il sorgere delle
prime aperte voci di opposizione al cosiddetto «clima antifascista».
IMM
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Allo stesso primo congresso dei Cln dell'Alta Italia, svoltosi a Milano dal 31 agosto al 1 settembre
del 1945, il rappresentante della Democrazia cristiana, Brusasca, sarebbe stato costretto a
confessare:
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Purtroppo all’opera di epurazione si oppone una circostanza sulla quale dobbiamo soffermarci: nelle
nostre file si sono infiltrati troppi fascisti (applausi), cosicché si è visto tra l’altro nella Corte
d’Assise di un tribunale della Lombardia un pubblico ministero accusatore ex squadrista chiedere la
pena di morte per un suo compagno di squadrismo (risa, commenti). Di questi fatti non c’è solo
quello che vi ho citato. Non tutti sono così gravi, ma sono tali e tanti da creare un profondo disagio
nel pubblico, che giustamente chiede come possiamo fare seriamente l’epurazione se non
cominciamo ad epurare noi stessi 25.
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La politica epurativa.
Sulla necessità di una epurazione dei responsabili e complici della dittatura, tutte le forze politiche
erano d’accordo; le differenze esistevano sul modo d’intenderne l’estensione e gli obbiettivi finali.
Punire i responsabili del fascismo significava infatti per alcuni punire innanzitutto quell’alta
borghesia capitalistica che del fascismo era stata sostenitrice, e quindi abbatterne la tradizionale
egemonia; l’epurazione era cioè considerata come lo strumento più immediato per attuare un
rinnovamento radicale dal chiaro contenuto classista, come invocava Nenni sull'«Avanti!»:
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Colpire in alto [...] e cominciare dalla oligarchia industriale [...]. Noi predichiamo non l’odio alle
persone né alla classe dei ricchi, ma la urgente necessità di una riforma sociale che a base
dell’umano consorzio ponga la proprietà collettiva [...]. Che varrebbe mutare gli uomini se il
sistema rimanesse lo stesso? L’epurazione noi [l’invochiamo] implacabile e giusta nell’esercito,
nella polizia, nella magistratura, negli alti ranghi dell’amministrazione statale, dove è urgente far
passare una corrente di aria nuova e pura ed eliminare gli uomini che per aver servito con zelo la
dittatura fascista, non possono servire la democrazia che rinasce. Ma vi è un settore in cui
l’epurazione ci appare ancora più urgente, ed è quello produttivo. Secondo la legge del moderno
capitalismo, anzi del supercapitalismo di cui il fascismo è stata la espressione politica, questo
settore è controllato da pochi gruppi, ognuno dei quali è dominato da uno o pochi uomini, più
potenti dei ministri, dei generali, dei direttori di pubblica sicurezza [...]. Se non si colpisce in alto, se
non si strappa dalle mani di venti o cinquanta persone la potenza che deriva loro dal monopolio
della ricchezza, l’epurazione sarà in definitiva una burla e la democrazia una lustra 26.
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Molto più ristretto doveva essere invece il campo d’azione dell’epurazione per i democristiani e i
liberali: essa non doveva essere «classista» ed avere come obbiettivo finale quello della
«soppressione o sostituzione della classe dirigente italiana» 27, ma doveva solo mirare a colpire le
più gravi responsabilità individuali, depurando così nelle sue strutture la società borghese, ma
lasciandola in vita nella sua essenza. Questi due opposti modi d’intendere l’epurazione saranno una
delle cause della contraddittorietà e inefficacia della sua applicazione pratica.
I primi provvedimenti epurativi erano stati presi dagli angloamericani, che nelle zone liberate
avevano iniziato, secondo il contenuto della Dichiarazione sull’Italia formulata a Mosca
nell’ottobre 1943, a rimuovere dall’amministrazione e dalle istituzioni di carattere pubblico «tutti
gli elementi fascisti o filofascisti»28. Molto debole era stata, secondo il principio di non
abbandonarsi a nessuna «recriminazione» del passato, l’azione epurativa dei governi Badoglio, e
solo dietro la costante pressione dei partiti antifascisti si era ottenuta l’emanazione di una prima
serie di provvedimenti. Un forte impulso all’epurazione fu dato dal governo Bonomi, il cui decreto
del 27 luglio 1944 costituirà la legge fondamentale sulle sanzioni contro il fascismo. Esso
prevedeva in otto articoli la punizione dei delitti fascisti, in quindici l’epurazione della pubblica
amministrazione, in quattordici l’avocazione dei profitti di regime, in altri sei l’istituzione dell’Alto
Commissariato per le sanzioni contro il fascismo 29. La legge del 27 luglio ’44 subì numerose
modifiche, con una vasta congerie di disposizioni legislative 30 che non è certo il caso di richiamare.
Quello che in questa sede interessa rilevare è invece il risultato complessivo dell’applicazione delle
sanzioni previste.
Già nel campo dei procedimenti penali per la punizione dei delitti fascisti si andrà manifestando
(accanto a condanne esemplari, specialmente per il reato di collaborazionismo) lo spiacevole
fenomeno del salvataggio di numerosi gerarchi e della punizione in massa di semplici gregari,
impossibilitati a fornirsi, come i primi, di patenti di doppio gioco rilasciate da testimoni
compiacenti, o di veri e propri «brevetti di partigiano» 31. Ma dove tale fenomeno assumerà
dimensioni macroscopiche sarà nel campo dell’epurazione della pubblica amministrazione, il più
importante per il numero delle persone coinvolte. I casi in cui si poteva essere dispensati dal
servizio erano troppo numerosi, andando dalla «faziosità fascista» alla «incapacità» e al
«malcostume», dalla «nomina per il favore del partito o dei gerarchi» alla «partecipazione attiva
alla vita politica del fascismo»: praticamente quasi tutti gli italiani potevano incorrere
nell’epurazione, giacché erano pochi coloro che in vent’anni erano rimasti immuni da ogni
compromissione con il regime, tanto più quando tale compromissione era vista in atti (come la
«partecipazione attiva alla vita politica del fascismo») che erano stati indispensabili per mantenere
al sicuro la propria posizione di lavoro. Inoltre, nella rete epurativa, abilmente elusa a via di
complicità e omertà, appoggi degli alleati, dei circoli vaticani, di un po’ tutti i partiti (a seconda del
nuovo credo politico ostentato), dalla massa degli alti burocrati, cadranno a migliaia i «pesci
piccoli», impossibilitati o incapaci di procurarsi simili difese. Anche nel campo dell’avocazione dei
profitti di regime (come, più tardi, in quello dell’epurazione della dirigenza industriale), il bilancio
si rivelerà fallimentare, per la forte capacità di resistenza rivelata dagli ambienti economici, che ben
presto torneranno in possesso dei beni e delle aziende sottoposte a sequestro. Del resto, come
scriveva l’alto commissario Sforza nel gennaio 1945, si era proceduto con estrema cautela per
«evitare ingiustizie che potessero danneggiare l’economia pubblica e privata» 32, e su 3006
istruttorie per accertamenti di profitti di regime si erano avuti soltanto 334 sequestri 33.
Nella condanna degli sterili, oltreché immorali, risultati dell’epurazione (e in generale, come visto,
di tutte le sanzioni contro il fascismo), che stava colpendo solamente i deboli (facile preda dei livori
personali, che trovavano sfogo nella miserevole arma della denuncia anonima, altra piaga di quei
tempi)34, erano concordi tutte le forze politiche, dai liberali35 ai comunisti36.
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Finora — dichiarava ancora Brusasca al primo congresso dei Cln dell’Alta Italia — sono stati
epurati gli stracci. L’epurazione ingombra i tavoli delle nostre commissioni con le pratiche dei
piccoli impiegati, degli usceri, delle pratiche di coloro che non hanno mezzi per difendersi o
protezioni da fare valere (applausi} mentre disgraziatamente tutti i veri e grandi responsabili, per
deficienza di legge e per ragioni intuitive, riescono ancora a sottrarsi alle sanzioni che li devono
inesorabilmente colpire37.
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Il 15 gennaio 1945 «La Nazione del Popolo», organo del Comitato toscano di Liberazione nazionale
affermava:
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Mille e mille commissioni e sottocommissioni di epurazione sono all’opera e centinaia di migliaia
di schede personali e di questionari si riempiono di chiare domande e di non chiare risposte. A
barche si accumulano le istruttorie, i fascicoli personali, i memoriali, gli attestati di buona condotta,
le copie notarili dei certificati di patriota [...]. Bisogna smetterla di prendersela quasi con
predilezione con i manovali delle ferrovie, con i cantonieri stradali, con gli impiegatucci del
ministero: il numero vastissimo dei sospesi dal lavoro non ci soddisfa, né chiediamo di ampliarlo.
Non è il numero delle vittime che chiediamo, ma la qualità di esse. Non dateci trecento-mila
disoccupati in più: dateci tremila punizioni esemplari [...]. Colpire inesorabilmente in alto, indulgere
in basso38.
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IMM
(da «L’Uomo qualunque», 29 agosto 1945)
Della necessità di colpire in alto e indulgere in basso si rendevano conto tutti, da Sforza 39 a Nenni
da Togliatti41 a Parri42. Ma, in concreto, l’epurazione continuerà a seguire la strada opposta, in un
clima di ambigue lotte sotterranee, contraddizioni e polemiche. La più clamorosa si era avuta nel
novembre 1944: quando due ministri liberali, Soleri e De Courten, avevano minacciato le
dimissioni se fossero stati epurati, secondo le intenzioni dell’alto commissario Scoccimarro, alcuni
alti funzionari dei ministeri del Tesoro e della Marina, Bonomi, solidale con i due ministri, aveva
rassegnato le dimissioni nelle mani del Luogotenente, restituendogli in tal modo quell’iniziativa
avocatagli nel giugno dal Cln.
L’epurazione si ridusse, in conclusione, come aveva paventato Nenni, a una «burla», non solo
mancando gli obbiettivi antiborghesi che ad essa avevano attribuito le sinistre, ma provocando nel
paese sconvolto dalle sue ingiustizie una crescente opposizione alla coalizione antifascista,
opposizione facilmente strumentalizzabile in direzione reazionaria, come aveva ammonito
Brusasca:
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Non possiamo giungere alla Costituente se centinaia di migliaia di italiani dovessero continuare a
vivere nell’attuale stato d’animo d’incertezza e di terrore: non bisogna permettere che da un nostro
errore o da un nostro eccessivo rigore, non necessario alla giustizia, la reazione attinga le forze che
finora ad essa mancano 43.
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IMM
latosi in un gretto individualismo, vuole ignorare i propri doveri di membro della comunità. Il
popolo italiano era «prostrato in una apatia corrosiva» 51, resa tale, oltre che dalla estrema indigenza
materiale, dai tremendi choc subiti negli ultimi tragici eventi: la guerra, la sconfitta e il crollo del
regime fascista, il repentino mutamento delle alleanze, l'affrontarsi devastatore sul suolo patrio dei
due eserciti contrapposti. Questo stato d’animo di disimpegno, che fortemente strideva con lo
slancio idealistico delle minoranze impegnate nella lotta di Liberazione, era diffuso soprattutto nelle
contrade meridionali, che poco o nulla avevano conosciuto la Resistenza e che secoli di
dominazione straniera, di diseducazione politica e civile e di sfiducia nello Stato e nelle sue
istituzioni, riportavano, come in ogni periodo di crisi delle istituzioni, a un individualismo
anarcoide, diffidente di ogni sommo valore e preoccupato soltanto di sopravvivere agli eventi. Stato
d’animo interclassista, male atavico della società italiana, che rifioriva con virulenza dopo la crisi
dello Stato fascista, esso sarebbe potuto restare politicamente atono, a costituire un fenomeno
transitorio della nostra storia, destinato ad essere in qualche modo riassorbito dal ritorno della
fiducia conseguente alla ricostruzione. Ma su quella contingente stanchezza morale, fonte di
disimpegno, s’inserivano più precisi motivi di scontento che la qualificavano politicamente come
«rivolta piccolo-borghese», come «opposizione moderata» alla classe politica antifascista da parte
dei ceti medi, «già fascisti» e ora all’affannosa ricerca di un nuovo valido ubi consistam.
Il problema che avrebbe dovuto affrontare la classe politica antifascista per avviare l’effettivo
rinnovamento della nazione, era quello della riconquista alla democrazia di tali ceti, maggioranza,
allora come oggi, della popolazione italiana. Un governo di emergenza, che si fosse preoccupato
principalmente della ricostruzione materiale, avrebbe costituito forse il migliore esordio per tale
opera di riconquista. Invece era giunto al potere l'anti-fascismo, col suo moralismo intransigente che
finiva col colpire a destra e a manca tra i piccoli lasciandosi sfuggire i veri e grossi «complici» della
dittatura, inquinato dal doppio gioco e dal trasformismo, dalle prepotenze e dall'arrivismo. Esso era
reso in generale poco recepibile, nel suo messaggio programmatico, anche dalla eccessiva
ideologicizzazione di un linguaggio tanto più astratto se paragonato alla monocorde semplicità del
linguaggio «tutto miti» cui aveva abituato il ventennio. Inoltre, dinanzi a questi ceti si ergeva ancora
una volta la «minaccia proletaria», alimentata dal giacobinismo azionista e socialista, con i suoi
piani, soprattutto il secondo, di distruzione della società borghese, sbandierati incessantemente e
debolmente contrastati dall'azione di liberali e democristiani. Mancava, in definitiva, nella classe
politica antifascista (o, come vedremo nel caso del Pci, trovava difficoltà di applicazione) una
strategia di riconquista dei ceti medi. Già nel primo dopoguerra essi erano divenuti antidemocratici
e antisocialisti, e si erano buttati nel nazionalismo e nel fascismo, per reazione all’ascesa del
proletariato promossa dalla democrazia e sostenuta in forme violente dal socialismo 52, e stavano
ora avversando i partiti antifascisti, in ultima analisi, per lo stesso timore di una rivoluzione dei
«sovversivi», acuito nei loro animi da vent’anni di abitudine all’antibolscevismo.
La rinascita democratica dell’Italia iniziava dunque con un dato preoccupante, quello del confuso
distacco tra paese legale e paese reale e del vuoto di rappresentatività, a livello di classe politica
antifascista, delle istanze «moderate» di larghi strati del popolo italiano: tale vuoto sarebbe stato
provvisoriamente colmato, con conseguenze importanti, da destra.
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Non era davvero un giornale umoristico, infatti, quello che Guglielmo Giannini aveva lanciato il 27
dicembre 1944. Nei suoi articoli, nei suoi slogan erano presenti, fin dall’inizio, motivi destinati a
colpire profondamente quella maggioranza moderata che si rivelava timorosa e ostile al clima
antifascista: a tali motivi sarebbe ben presto stato dato un nome, qualunquismo (da «L’Uomo
qualunque»), simbolo della rivolta, alla fine vittoriosa, all’Italia dell’antifascismo e della Resistenza
e alle sue speranze di rinnovamento.
Nel momento in cui Giannini pubblicava la sua accorata protesta contro il professionismo politico,
egli era ancora immerso in contraddizioni e ambiguità di ogni genere. Si trovava in una confusa fase
tattica: cercava di farsi spazio nella vita politica italiana, aspirava ad entrare come protagonista nella
storia del paese, ma non sapeva ancora su quali precise posizioni; cercava consensi, appoggi al suo
programma, e non gli importava da dove venissero. Il desiderio di emergere spiega l’estremo
empirismo (certo favorito dalla carenza di pregiudiziali ideologiche) del suo esordio politico.
Poneva sullo stesso piano fascismo e antifascismo e contestava, in particolare, il diritto del secondo
di essere al potere e di condurre l’epurazione, ma, nello stesso tempo, elogiava in astratto i
programmi dei partiti tutti, dichiarava che la sua opposizione al governo Bonomi non sarebbe mai
stata «feroce e irrispettosa»53, rendeva omaggio al «buon Nenni»54 e, soprattutto, ai comunisti,
affermando che da essi sarebbero forse venuti «i buoni cervelli nuovi» 55 e prospettando, in un
articolo sul realismo comunista, la possibilità di una propria confluenza in quella direzione:
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Quale interesse il comunismo può avere, oggi ed in un paese come l’Italia, a fomentare il disordine?
Il comunismo ormai è conservatore, perché ha qualcosa — molte cose, dicono i suoi entusiasti —
da conservare: le sue conquiste, intanto; che non desidera certo perdere, compromettere o porre in
discussione. È questa la ragione per cui si rivela come partito d’ordine, e non spreca tempo in
chiacchiere accademiche né si cura dei sottili ed eleganti formalismi intorno ai quali altri
bizantineggiano: No: il comunismo, «questo» comunismo, che tiene i piedi per terra senz’aver la
testa fra le nuvole, non può e non deve far paura a chi è abituato a guardar bene in faccia la realtà e
a non temere i fantasmi. Sarà necessario però che il comunismo ci dica esattamente cosa vuole da
noi [...] e pensiamo che il duttile, navigatissimo stato maggiore del comunismo ce lo dirà. Non in
formule vaghe ed ampie — ricostruzione, epurazione, progressività: parole che anche i fascismi
posson dire e dicono — ma con precise, definite e, oseremmo dire, «limitate» enunciazioni. È certo
che, dopo quelle enunciazioni, molta gente potrebbe indursi a vincere le proprie riluttanze 56.
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Mentre dichiarava di apprezzare il realismo comunista, e in una rubrica del suo settimanale
(Galleria dell’Uomo Qualunque) inneggiava al «compagno Stalin», «effettivamente uno degli
uomini più intelligenti che siano mai apparsi nella storia dell’umanità» 57 e al «compagno Molotof»,
«straordinario ingegno» 58, in un’altra, Cronache immaginarie, Giannini pubblicava
disinvoltamente «gli articoli che sarebbero stati scritti, le opinioni che sarebbero state espresse, il
notiziario dei fatti che sarebbero accaduti, se Mussolini non avesse dichiarato la guerra il 10 giugno
1940», facendo così propria l’opinione, largamente diffusa nell’opinione pubblica «benpensante»,
che se il Duce fosse rimasto neutrale, il popolo italiano, oltre che il fascismo, avrebbe avuto
benessere e felicità, e immaginando perfino una svolta democratica della dittatura 59. Nelle
Cronache immaginarie, noterà felicemente il settimanale «Cantachiaro», si sentiva «il fremito
nostalgico di un mancato radiocronista del regime»
Contraddizioni e ambiguità a parte, «L’Uomo qualunque» mostrava subito di possedere parecchi
requisiti per affermarsi con successo tra il pubblico: in primo luogo, quel prendersela contro tutto e
contro tutti, quel «non rompeteci più le scatole» con cui Giannini sapeva esprimere la nevrosi di chi
da anni sopportava ferite materiali e spirituali senza veder mai tornare la tranquillità agognata; poi
quel linguaggio piano e scorrevole, che colpiva, per il suo contrasto con gli incomprensibili dialoghi
«sopra i massimi sistemi» di cui dava mostra di sé la vita politica ufficiale, con la sua richiesta di
pace e di cose concrete, e che faceva, per la prima volta, sorridere.
La parte del giornale destinata a raccogliere maggiori simpatie era appunto la rubrica Le Vespe61,
nella quale Giannini riassumeva le proprie idee politiche e si occupava di fatti e personaggi di
attualità, commentandoli con efficace ironia, ancora aliena, all’inizio, da ogni tono volgare e
violento, come avverrà in seguito allo scatenarsi della lotta contro il qualunquismo. Nenni e
Selvaggi, Bonomi e Sforza, l’epurazione e i Cln furono i protagonisti, accanto a episodi di costume,
delle prime «vespe» a volte vittime di garbati «sfottetti», come li chiamerà Giannini, altre volte
oggetto di critiche serie e di considerazioni amare e delicate:
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C’è un partito che non ha segretario, che non ha sedi, circoli, sezioni: che non ha riformato il
calendario, né dà stipendi, cariche, missioni. Non c’è chi vi diventa commissario, chi vi guadagna
soldi e protezioni. Ecco il programma breve e lapidario: «che nessuno ci rompa più i cordoni».
(27 dicembre 1944)
Pietro Nenni è stato accolto a Londra, dall’Assemblea generale del Partito laburista, «con una delle
più grandi ovazioni della giornata», dice la radio inglese [...]. Non siamo socialisti: ma come si
potrebbe negare che questo di Pietro Nenni è uno dei primi «fatti concreti» di politica estera che si
compie in Italia?
(27 dicembre 1944)
L’Italia Nuova sbaglia sfottendo Nenni proprio su questo punto. Selvaggi vuol diventar ministro
degli Esteri e vabbene: tutti i gusti sono gusti. Ma la prima qualità richiesta per quell’incarico è
l’esser diplomatici.
(27 dicembre 1944)
Socialisti e azionisti vogliono l’onnipotenza dei comitati, ed è giusto: sono essi che li dominano.
Chi si mette contro un locale Cln in un paese? È lo stesso che mettersi contro il fascio locale prima
del 25 luglio 1943, o contro le leghe nel 1919. E, dunque, chi sta a Roma ed è rimasto fregato una
volta non vuol ricaderci.
(27 dicembre 1944)
«Bonomi ha puntato i piedi per calarsi le braghe» opina il conte Sforza: il grande epuratore epurato.
(27 dicembre 1944)
La Democrazia del Lavoro che cos’è? Speriamo non soltanto l’aristocrazia dell’ozio.
(27 dicembre 1944)
Il liberalismo è una supercorazzata con cui i liberali vanno a caccia di alici.
(17 gennaio 1945)
Ora bisognerà trovare uno sfottetto anche per la Democrazia cristiana, altrimenti ci scambieranno
per segreti scherani di De Gasperi e dell’inintelligibile Scelba. E... a pensarci bene: perché no?
Sarebbe un’eccellente trovata per dar fastidio: e noi non vogliamo dar altro, in fondo.
(27 dicembre 1944)
Giornali estremisti, congressi estremisti, direzioni di partiti estremisti = nidi, riserve, focolai
d’intellettuali. Nessuno che abbia i calli alle mani, tutti al pensiero. Proletari di tutto il mondo,
attenti alle fregature!
(3 gennaio 1945)
Il colonnello Emanuelli, arrestato e processato per crimini fascisti, era riuscito a farsi assumere
come epuratore dal buon Scoccimarro. I giornali umoristici credono di scherzare quando raccontano
queste storielle: e invece sono storia.
(3 gennaio 1945)
Troppa gente «non ha mai avuta» la tessera fascista in Italia: e, per conto nostro, abbiamo
incominciato a stimare molto di più chi l’ha avuta e non si vergogna di riconoscerlo.
(27 dicembre 1944)
Ehi, vecchia Italia, di fregnacce ostello, con millanta nocchieri in gran tempesta, prendi la scopa e
spazza, forte e lesta, e torna ad esser patria, non bordello.
(17 gennaio 1945)
«L’uscita di questo giornale» afferma «Il Lavoro» nel suo primo numero apparso il 24 gennaio
«segna una data nella storia sociale d’Italia». All’anema d’a palla! dicono a Napoli a sentire simili
affermazioni.
(31 gennaio 1945)
In verità nel nostro paese basterebbe fucilare un centinaio di persone e mandarne in galera un altro
migliaio. Tutto il vero fascismo si concretava in pochi teppisti: è questa la nostra stupida
convinzione.
(31 gennaio 1945)
È un’oligarchia che va messa sotto processo, non una Nazione. Senonché i capi dell’oligarchia non
si possono toccare: e allora, tanto per gradire, si perseguitano le code.
(10 gennaio 1945)
Noi non disprezziamo soltanto i partiti politici italiani. Siamo integralmente internazionalisti anche
su questo punto.
(10 gennaio 1945)
Accuse terribili si leggono sui giornali contro cittadini d’ogni categoria. Un giornale faceto, che s’è
specializzato in denunzie, parla d’un tale, e, dopo averne fatto il nome e cognome in carattere
neretto, specifica: «Marito compiacente, ha scritto un libro antinglese, anti-americano, antirusso, ha
preso lo stipendio nel ministero e nell’ufficio X, idiota, porco, analfabeta». Tutto qui? Il fascismo ci
aveva abituato a ben altre ingiurie: vorremmo legger qualcosa di più drammatico. D’altronde avere
per moglie una signora un po’ allegra non è prerogativa dei soli fascisti. Conosciamo molti
antifascisti nelle stesse condizioni.
(10 gennaio 1945)
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Nell’ostentazione di sfiducia nei partiti, negli uomini politici e nella politica, ritrovava se stessa una
mentalità antica in Italia ed esacerbata da ultimo, specie nei settori piccolo-borghesi, dalla
propaganda fascista. Nel linguaggio di Giannini tale sfiducia era indiscriminata e coinvolgeva nel
suo irato crucifige i professionisti politici presenti, passati e futuri, e in particolare fascisti e
antifascisti. Ma, a ben vedere, erano le critiche a questi ultimi ad essere più golosamente inghiottite:
e a tendere gli orecchi e a gioirne, ignorando o sottovalutando il contesto nel quale erano espresse,
era proprio l’opinione pubblica moderata, avvilita e sconvolta dall’epurazione, irritata dai Cln e
timorosa del nuovo sovversivismo. A temere poi i programmi di rinnovamento propugnati da un po’
tutti i partiti del Cln era, in particolare, la borghesia imprenditoriale, quasi convinta dell’imminente
instaurazione di un regime collettivistico: e in difesa di essa Giannini, tra un’affermazione e l’altra
di simpatia per il comunismo e per questo o quell’uomo di sinistra, aveva iniziato una decisa
campagna di stampa. Nel secondo numero del giornale, il 3 gennaio 1945, aveva infatti chiesto a
Bonomi uno «Stato forte» che assicurasse ai cittadini l’effettivo esercizio delle libertà, prima fra
tutte quella di «lavorare»:
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Noi non lavoriamo: nessuno lavora in Italia. Tranne i ragazzini che lucidano le scarpe agli anglo-
americani, tutti o speculano, o giuocano o litigano: e nessuno fa niente di positivo [...]. Perché,
invece di tollerare gl’improvvisati, i delinquenti, gli avventurieri, non si dà modo a chi «ci sa fare»
di fare? Perché non si dà la possibilità all’industriale di condurre la sua industria, al commerciante
di dirigere il suo commercio? Il lavoro non è funzione del solo operaio: a che serve il braccio senza
la mente? a che serve la maestranza senza l’organizzatore che cerca, trova, inventa la produzione, il
lavoro, il credito? Oggi questi organizzatori non possono lavorare: molti sono sotto il peso e la
paura dell’«epurazione», moltissimi sono «in attesa» che la situazione si tranquillizzi per arrischiare
il loro denaro; altri si tengono da parte per paura d’essere attaccati dai giornali e dai partiti
estremisti, altri ancora sono seccati e sdegnati dei ricatti che debbono o dovrebbero subire da parte
della verminaia di cialtroni che brulica nella politica e nel giornalismo. Senza questi uomini, i soli
che «possano» ricostruire perché «sanno», i soli che possano organizzare perché ne hanno la
indispensabile e insostituibile capacità, non si farà mai niente. Vogliamo aspettare vent’anni, come
in Russia, che il proletariato esprima una «sua» borghesia che diriga? [...] Ci si dia un governo
capace di tutelare la libertà per tutti, e le libertà per ciascuno: a cominciare da quella di poter
lavorare. Non è che col lavoro che potremo rivivere: e noi — è seccante, ma necessario ripeterlo —
non abbiamo altro62.
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IMM
Quanto alle sue commedie, in un'Autodifesa fatta pubblicare nel marzo 1945, Giannini negherà di
averne mai scritta una fascista, ma successivamente confesserà che l’unico fiasco teatrale della sua
carriera l’aveva avuto con L'angelo nero, commedia fascista «tremendamente fischiata dal
pubblico» 68, e ammetterà che un altro suo lavoro teatrale, Il miliardo, era «fascista e comunista
nello stesso tempo»69.
A guardare i titoli della sua produzione artistica, tuttavia, bisogna ammettere che il genere culturale
cui s’era dedicato costituiva, a parte le due eccezioni, un comodo mezzo di disimpegno, non certo
un’assuefazione allo «spirito» fascista: Mimosa (1934), La bambola parlante (1932), La casa
stregata (1934), La donna rossa (1934), I rapaci (1935), Mani in alto (1935), Super-giallo (1936),
Maschio e femmina (1937), Eva in vetrina (1939) e tante altre simili commedie costituivano infatti
il «tipico teatro borghese, il tipico teatro da cucina, il tipico teatro d’adulterio dell’Italia 1932-
1945»70 e Giannini si vanterà d’essere stato sempre combattuto dalla critica fascista perché non
scriveva «teatro del nostro tempo» 71.
Al di là della ragionevolezza delle accuse di fascismo e dell’alquanto «puritana» Autodifesa72, va
rilevato, comunque, che Giannini era il simbolo di quei vasti settori di opinione pubblica moderata
il cui filofascismo si era limitato a uno stato d’animo di più o meno accentuata benevolenza nei
confronti di Mussolini e del regime, senza gravi compromissioni con la dittatura e, tanto meno, con
le sue manifestazioni più aberranti come il razzismo e la guerra, che anzi avevano finito col
trasformare il consenso in sfiducia e avversione.
All’indomani del 25 luglio 1943, ed è questo che interessa particolarmente la nostra storia, Giannini
si trova su posizioni nettamente antifasciste, e antifascista intransigente resterà fino alla conclusione
della sua breve apparizione nel mondo politico italiano. A rendere definitiva la sua avversione al
fascismo aveva fortemente contribuito l’esperienza della guerra. Questa aveva inciso in misura
profonda sulla personalità del commediografo, privandolo, oltre che del padre, dell’unico figlio
maschio, Mario, morto a 22 anni in un incidente aereo occorsogli, nell’aprile del 1942, mentre si
trovava sotto le armi. La ferita per quest’ultimo lutto non si rimarginerà mai nel suo animo, neppure
nei momenti di maggior successo politico-mondano. Nell’ultimo Giannini poi, espulso in forme
violente dalla vita politica e tornato amaramente al teatro, quell’angoscia apparirà come la
componente fondamentale di una personalità irrimediabilmente frustrata dalla vita e dagli uomini.
Da sofferte meditazioni sulla guerra e, più in generale, sull’intera storia dell’umanità, cui Giannini
si era dedicato dal settembre ’43 al giugno ’44, nasce appunto il libro La Folla, testo teorico, per
così dire, del qualunquismo, di cui parleremo nel prossimo paragrafo.
Giannini era stato per parecchi anni un entusiasta del comunismo, poi lo aveva rinnegato e aveva
professato ideali liberali e simpatie nittiane73.
Dopo i lunghi anni trascorsi tra la guerra di Libia e la prima guerra mondiale (in quest’ultima era
andato volontario, e si era guadagnato una promozione per merito e una medaglia di bronzo al valor
militare, nonché la soddisfazione di veder adottato dall’esercito italiano il primo sistema
d’intercettazione telefonica da lui inventato) 74, aveva fatto parte, nel primo dopoguerra, della massa
sbandata e delusa dei reduci, priva di idee ed incapace di trovare uno sbocco esistenziale
nell’impegno politico:
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I sinistri mi nauseavano con la loro folle inconcludenza, in nulla diversa da quella di oggi [...].
Pensavo vagamente che «bisognava fare qualche cosa», ma non sapevo quale: e poi ero giunto a
Roma con le scarpe scalcagnate, una logora divisa grigio-verde, ero senza impiego, senza un’idea 75.
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Durante il fascismo, accettato passivamente anche se benevolmente («Il pazzo Mussolini» dirà 76
«che tanti, con noi, avevan preso enormemente sul serio»), aveva finito per dedicarsi al teatro e alla
cinematografia, ottenendo un certo successo e benessere e impostando su di essi una vita
caratterizzata dal disimpegno politico, «una vita — ricorderà 77 — che mi piaceva trascorrere
giocondamente, poco curandomi delle sciocchezze che udivo e leggevo». Questo corso «giocondo»
della sua vita era stato sconvolto dalle gravi sventure subite a causa della guerra, nelle quali
Giannini cominciava ad intravedere quelle, più grandi, dell’umanità intera, sentendo in se stesso,
sempre più forte, il desiderio di non essere più uno spettatore passivo degli eventi.
Il 25 luglio ’43 aveva rappresentato dunque un momento decisivo:
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Fra cinematografia e teatro giunsi al 25 luglio 1943, con 25 anni di più, lo strazio dei miei lutti nel
cuore, la tessera fascista del 10 luglio 1941 in tasca. Mi resi conto che con quella mia assenza dalla
politica, durata un quarto di secolo, avevo contribuito a rovinare la mia Patria, poiché solo a causa
dell’assenza mia e d’altri milioni d’italiani che, come me, avevano egoisticamente badato solo ai
propri affari, Mussolini aveva potuto diventare padrone d’Italia. Decisi di riparare al mio errore e
d’entrare in un partito politico 78.
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Giannini aveva avvertito l’esigenza di un’azione politica in modo prepotente, come rabbioso
desiderio di «fare», di essere protagonista, e non più semplice spettatore degli eventi. Ma questo suo
era stato istinto attivistico fine a se stesso, senza programmi definiti da perseguire né precise
simpatie ideologiche per un partito o per l’altro, che anzi a queste ultime si contrapponeva, per una
sorta di furore volontaristico, una estrema confusione:
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Feci il giro di tutti i partiti, volevo capire prima di impegnarmi, sapendo che non sarei stato una
semplice comparsa in un partito e pretendendo quindi di calcolare in anticipo le mie prevedibili
responsabilità. Ahimè! Il giro ebbe effetto disastroso sulla mia buona volontà politica. Il solo
gruppo con cui mi sarei messo era quello democratico cristiano ma, volendo servire da giornalista
(non avrei saputo né potuto servire diversamente) vidi che non c’era posto per me. Mi immaginate
vicino al carissimo Guido Gonella? Avrei fatto impazzire Gonella 79.
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Dopo «lunghe riflessioni», Giannini aveva deciso di entrare nel Partito repubblicano, e aveva
lavorato per esso durante l’occupazione tedesca di Roma diffondendo «La Voce repubblicana» e il
foglio «1799» (stampato, per buona parte, a sue spese) 80.
Forse era stata la netta pregiudiziale antimonarchica a spingere in quel partito il commediografo, il
quale, fervente repubblicano, era giunto a progettare con alcuni amici, nel maggio ’44, di occupare
il Campidoglio, nel breve intervallo di ore previsto fra la ritirata tedesca e l’ingresso nella «città
eterna» degli anglo-americani, e da quel solenne luogo proclamare la repubblica, progetto fallito, a
suo dire, per la paura dei dirigenti del Pri («la repubblica romana non fu fatta per paura») 81. Ma
anche il repubblicano, come gli altri partiti, aveva finito col deluderlo, soprattutto a causa del leader
Giovanni Conti:
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Sarei entrato, per servire l’Italia — spiegherà disinvoltamente 82 — nel partito comunista,
monarchico, repubblicano, democristiano, demolaburista, azionista, socialista, liberale, trotskista —
senza nessuna preoccupazione oltre quella di servire. Non ne ho veduto la possibilità, dovunque mi
sono imbattuto in gente vogliosa solo d’essere deputato o altro. La più untuosa e ipocrita falsa
modestia esala da moltissimi di questi uomini come un cattivo odore personale.
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Giannini spiegava il fallimento dei suoi tentativi di inserimento in uno dei partiti esistenti con
l’impossibilità di convivere con le smodate ambizioni degli uomini politici che ne erano a capo. Ma,
in realtà, aveva anche trovato una generale opposizione alle sue improvvisate e ambigue idee: a un
certo punto, all'inizio del ’45, mostrerà di sperare in Pietro Nenni come l’uomo nuovo della politica
italiana e tenterà approcci in direzione socialista, ma con risultati egualmente negativi 83.
Viste le difficoltà di entrare in un partito, il commediografo provò, dopo la Liberazione di Roma, a
farsi accogliere nella redazione di un giornale, per svolgervi in qualche modo il programma che
aveva maturato in difesa degli uomini qualunque oppressi, ma era stato «concordemente respinto
con maggiore o minore scortesia» 84.
Seguendo il consiglio del direttore del «Tempo», Angiolillo 85, Giannini decise allora di lanciare un
proprio giornale, e presentò domanda agli alleati per poter stampare «L'Uomo della strada». L'aveva
poi ritirata presentandone una nuova per «La novella poliziesca» e per «L’Uomo qualunque»,
convinto che gli alleati, diffidenti, gli avrebbero concesso il permesso di pubblicazione solo per la
prima, ed intenzionato a diffondere le proprie idee anche per mezzo di una testata «poliziesca».
Invece l’autorizzazione venne concessa proprio all’«Uomo qualunque», per lanciare il quale
Giannini costituì una società della quale facevano parte anche i fratelli Scalera, grossi industriali del
cinema che nel novembre del ’45 verranno arrestati sotto l’accusa di aver finanziato la marcia su
Roma 86.
«L’Uomo qualunque» voleva essere per Giannini qualcosa di più dell’uomo della strada:
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Era l’uomo nel caffè, nel cinematografo, nella camera da letto, nella sala da pranzo, davanti allo
sportello delle tasse: dovunque. Il suo diritto è indiscutibile anche se minoranze prepotenti lo
contestano e lo annullano, è un personaggio che si contrappone all’eroe, al capo, al re, al duce, al
führer, al conductor, al Churchill, al Roosevelt, allo Stalin. «Che importa a me delle vostre beghe?»,
dice l’Uomo Qualunque; «io voglio vivere liberamente senza essere seccato da nessuno, e
soprattutto senza essere coinvolto nelle vostre risse»87.
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Egli racconterà in varie occasioni che questa idea gli era nata una mattina dell’estate 1944,
assistendo casualmente ad una desolata coda di donne, vecchi e bambini dinanzi a una fontana, a
Roma, «per procurarsi l’acqua di cui i signori Hitler, Mussolini, Churchill, Roosevelt e altri
consimili strofinacci li avevano defraudati»88.
Non c’è ragione di dubitare dell’episodio, ma è certo che fin dall’autunno del 1943 Giannini stava
elaborando le sue teorie sull’oppressione esercitata dai capi sugli uomini, considerando questi, però,
nel loro insieme di «folla», e non ancora nella loro individualità di «uomini qualunque».
C’era in questi propositi una buona dose d’ingenuità. Una volta infatti rifiutata la strada
dell’insurrezione antiborghese, l’immediato rinnovamento poteva essere avviato solo con il
consenso delle altre forze politiche, e liberali e democristiani non erano certo favorevoli a misure
come quelle instaurate nelle fabbriche. Si voleva superare ogni resistenza, è vero, basandosi sulla
volontà delle masse popolari che quell’immediato rinnovamento chiedevano, ma (e questo era
ancora più importante), quelle masse, anche se consistenti e combattive al Nord, non
rappresentavano la maggioranza del paese nel suo complesso, come forse speravano i leader
antifascisti. C’erano altre masse, molto più numerose, come si vedrà, che nell’Italia centro-
meridionale guardavano attonite a ciò che succedeva al Nord durante le giornate della Liberazione,
e si chiudevano istintivamente in un atteggiamento di ostile difesa, spaventate dagli slogan
rivoluzionari che spesso assumevano toni apocalittici 3. Ma, soprattutto, lo spavento veniva
alimentato da una situazione dell’ordine pubblico che sembrava il sintomo evidente della imminente
catastrofe.
Casi di aggressioni, attentati, violenze contro singoli e partiti avevano movimentato fin dal 1943-44
le cronache dell’Italia meridionale, tanto da indurre De Gasperi a lamentarsene in una sua risposta
agli inviti di collaborazione di Togliatti: «Premessa inderogabile di ogni collaborazione presente e
futura è quella di creare e salvaguardare un clima di libertà e di autodisciplina. Proprio ieri mi sono
stati segnalati, dopo molti altri, quattro casi di comizi democratici cristiani nel Lazio violentemente
interrotti da gruppi comunisti» 4. In qualche caso si era assistito a macroscopici episodi di
sedizione, come nel marzo ’45 in Calabria, quando, a Caulonia e a Roccaforte del Greco, l’arresto
del figlio del sindaco comunista nel primo e la sospensione del sindaco pure comunista nel secondo
centro, avevano provocato tumulti, assalto a caserme di carabinieri, uccisione di un parroco,
isolamento dell’abitato con tanto di mitragliatrici a guardia del ponte di accesso, imperversare di
bande armate pseudopartigiane nella provincia; il prefetto di Reggio Calabria, il. socialista Priolo,
sospeso dal governo per il suo atteggiamento poco fermo nei confronti dei rivoltosi, aveva
volutamente ignorato gli ordini di Roma ed era restato al suo posto facendo affiggere dei manifesti
contro «il governo dei fascisti Bonomi e De Gasperi»5.
Con la Liberazione, gli episodi di violenza aumentarono. La tensione rivoluzionaria delle masse
partigiane aveva trovato un immediato sfogo, nelle giornate dell’aprile, nella punizione dei
collaborazionisti. Nonostante che un decreto del 22 aprile istituisse le corti d’Assise straordinarie
proprio per mantenere su un terreno quanto più possibile legalitario le punizioni, non mancarono gli
episodi di esecuzioni sommarie al di là di ogni garanzia giuridica, o addirittura veri e propri crimini
brutali, destinati purtroppo a protrarsi per diverso tempo ancora dopo la Liberazione.
All’esecuzione dei fascisti andava di pari passo la ostentazione, molto diffusa nella base partigiana,
di un’imminente palingenesi sociale, che avrebbe tolto all’odiata borghesia i suoi antichi privilegi:
nella classe operaia «i ricordi del ’21, la dittatura fascista, la Resistenza, [...] hanno radicato la
convinzione che il riformismo appartenga ormai al passato, che la conquista del potere è questione
di forza ben diretta, che ora questa forza c’è, questa buona direzione esiste, per cui i giorni del
capitalismo italiano sono contati» 6.
L’eco degli avvenimenti del Nord provocava confusi sussulti rivoluzionari in varie zone del paese.
Tra il giugno e il luglio si ripetevano, nel Meridione, i gravi fatti avvenuti nel marzo in Calabria.
Questa volta l’epicentro di essi fu in Puglia, ad Andria e a Minervino Murge. In quest’ultimo paese,
il 23 giugno, l’arresto di 3 uomini sospettati di appartenere a una banda che, in provincia di Bari,
era giunta a rapinare un treno, provocò l’assalto della caserma dei carabinieri, con il bilancio di un
morto e un ferito grave. L’episodio degenerò ben presto in un’aperta rivolta, con occupazione di
uffici pubblici, liberazione di 50 detenuti comuni, barricate sulle vie d’accesso al paese. Quando
giunsero i rinforzi di polizia da Bari e da Foggia, ricorda De Maggi 7, «vennero accolti dal fuoco di
fucili e mitragliatrici e persino di un cannoncino. [...] Intanto le agitazioni si estesero ad Andria: un
gruppo di facinorosi, in gran parte borsari neri pregiudicati, insediato nella locale sezione
comunista, armato di mitra e di bombe [a mano], disarmati i pochi carabinieri, divenne il padrone
assoluto della cittadina, dandosi a persecuzioni, atti di violenze, arresti arbitrari, requisizione di
viveri e di automezzi, il tutto nel nome della rivoluzione comunista: fu una vera repubblica rossa
che per cinque giorni dominò Andria [...]».
In questi episodi, poco o nulla erano implicate le responsabilità dei militanti proletari, giacché si
trattava di delinquenti comuni camuffatisi da comunisti o da partigiani per esercitare vendette
personali e prepotenze. Per di più molto spesso la violenza, anche se si manifestava con etichette
politiche, aveva un chiaro carattere di ribellismo anarcoide motivato dalla miseria e dalla
disperazione. Lo dimostravano la ripresa della occupazione di terre (ad Ortucchio, nel Fucino, il 18
ottobre ’44, un contadino era stato ucciso e sei feriti dalla forza pubblica intervenuta in difesa delle
proprietà del principe Torlonia), le convulse agitazioni dei disoccupati: poteva accadere che 300
contadini assaltassero gli uffici delle imposte ed incendiassero «atti, bollettari, marche e valori
bollati»8, come ad Agnone, in provincia di Campobasso, il 15 agosto 1945, o che turbe di reduci
invadessero municipi reclamando il licenziamento dei fascisti e delle donne, come il 9 agosto a
Messina9. «Dall’Abruzzo in giù — scriveva 1’«Avanti!» il 29 giugno del 1945 10 — il fenomeno
determinante [della violenza] è la miseria. Un po’ dappertutto sono segnalate schiere di giovani
disoccupati, avviliti, sovente affamati, che errano di villaggio in villaggio, spinti dal bisogno e da un
certo gusto dell’avventura, che è anch’esso un postumo della guerra».
I disordini, inoltre, non avevano un’origine univoca anche quando erano provocati da motivi
politici, come dimostravano, qua e là, manifestazioni anticomuniste di reduci, attentati di
fantomatiche organizzazioni neofasciste, ed altri episodi di violenza contro i partiti di sinistra 11.
Nell’estate-autunno del 1945 cominciò anzi a delinearsi nettamente una «ondata di violenza delle
destre» con il suo epicentro in Puglia, come arrivò ad ammettere, il 18 novembre, il quotidiano «Il
Tempo» 12, non certo tenero con il «clima Cln»; lo stesso presidente del Consiglio Parri, il 22
settembre, durante una visita a Napoli, si trovò al centro di una violenta manifestazione di protesta
da parte di reduci, disoccupati, lavoratori del porto, probabilmente aizzati da elementi di destra, che
al grido di «lavoro e pane» giunsero a devastare la Camera del lavoro 13.
Nonostante i gravi perturbamenti, la situazione dell’ordine pubblico non era in realtà così
catastrofica come poteva sembrare:
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Il dopoguerra italiano era per sacrifici, per miseria, per turbolenze, assai meno tetro di quello che i
chiaroveggenti credevano di dover prevedere nel 1944: il Paese mostrava un rigoglio, una capacità
di ripresa, quale i più ottimisti non avrebbero osato sperare. Quanto a turbolenze, a delitti a sfondo
politico o sociale, chi ricordava che cosa fossero stati il 1799 o il 1815, particolarmente nel
Mezzogiorno, o il 1849 in Piemonte, o il 1860-1861 in tutto il Mezzogiorno d’Italia, e raffrontava i
modici eventi di guerra di allora con la immane vicenda bellica del 1940-1945, non poteva non
scorgere quale confortante quadro fosse nell’insieme quello italiano, e come dimostrasse l’alto
grado di civiltà, la mitezza, lo spirito cristiano del nostro popolo.
Ma tutto questo lo poteva vedere l’uomo di cultura; all’uomo della strada che non compie raffronti,
per cui tutto è grande ciò che è nel presente, e ignorate o dimenticate o piccole sono le vicende del
passato, i mali del dopoguerra sembravano enormi, i delitti a sfondo politico o sociale perpetrati in
alcune regioni d’Italia componevano un quadro pauroso 14.
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In questo «quadro pauroso», reso ancor più tale dalla lunga abitudine all’impero dell’«ordine», si
era portati a generalizzare i fenomeni di delinquenza e di banditismo e a parlare di anarchia
dominante; si confondeva violenza comune e politica e si voleva vedere nei delitti commessi al
Nord ed in episodi di autoesaltazione collettiva — delitti di folla — l’ordine superiore dei
«bolscevichi» italiani. I dirigenti del Pci, e Togliatti in primo luogo, avevano invece compiuto ogni
sforzo per soffocare delitti e illegalismo, e se non avevano smantellato del tutto l’apparato
partigiano, era stato un po’ per timore di essere scavalcati a sinistra da altri gruppi, un po’ per non
rinunziare alla forte pressione morale e politica esercitata sugli altri partiti di governo dal potenziale
rivoluzionario popolare. Fatto sta che «nei quadri e nella massa del partito» la «mentalità
massimalista» era «molto diffusa» 15, e gli esponenti locali comunisti si lasciavano spesso andare
«in modo caotico [a] parole d’ordine ispirate alla prospettiva di una rivoluzione socialista
imminente» 16.
In questa situazione, l’equazione era semplice per gli osservatori poco attenti, e tali erano le masse
dei ceti medi italiani: disordini e violenze partigiane si aggiungevano alla già paventata azione
epurativa e più in generale politica dei Cln come ultime tessere che stavano ormai completando quel
piano di una conquista rivoluzionaria del potere in nome della dittatura del proletariato,
continuamente sbandierato dalla base operaia.
Il peso delle forze di sinistra era divenuto, nel giugno 1945, preponderante. Era assurto infatti alla
guida della nuova coalizione governativa (della quale tornavano a far parte azionisti e socialisti)
Ferruccio Parri: la sua nomina sembrava secondare in pieno le aspirazioni delle masse partigiane
che, trascinato dall’entusiasmo per il «vento del Nord», Nenni andava riassumendo nell’obbiettivo
di «un governo nuovo» che avesse «le caratteristiche di un vero e proprio Comitato di Salute
Pubblica per condurre la lotta contro i residui fascisti e per la convocazione della Costituente» 17.
Proprio durante il governo Parri, che rappresentò il tentativo più avanzato di avviare il
rinnovamento nel paese, si verificò quell’inasprimento della tensione interna di cui abbiamo
descritto gli episodi più significativi, che le pubbliche autorità faticavano non poco a dominare, un
po’ per intrinseca debolezza, un po’ perché Parri preferiva assumere nei confronti delle agitazioni
popolari un atteggiamento «conciliante e attendistico» 18. Tutto ciò, unito alla difficoltà di risolvere
d’un tratto i gravi problemi alimentari e più in generale economici, offriva l’estro all’opposizione
crescente di attaccare il governo da tutti i punti di vista, accusandolo di inefficienza e parlando di
disordini e di violenza imperanti, di strapotere dei Cln, di piani rivoluzionari.
Le critiche che da destra erano rivolte a Parri, avevano come sottofondo l’ostilità di circoli ben
determinati verso alcuni provvedimenti che il nuovo governo intendeva varare e che consistevano,
innanzitutto, nel rinvigorimento dell’azione epurativa e nella sua estensione all’industria privata.
Sempre allo scopo di colpire la borghesia monopolistica, il governo aveva elaborato un piano
economico che prevedeva la distribuzione delle scarse materie prime disponibili a favore delle
medie e piccole aziende. Contemporaneamente si profilava, a scopi fiscali contro il grande capitale,
l’idea del cambio della moneta che, accanto a quella di un’imposta straordinaria sul patrimonio, il
ministro comunista Scoccimarro tenterà invano, tra mille difficoltà e rinvìi, di condurre in porto 19.
La difficile situazione dell’ordine pubblico, il problema dell’epurazione e quello dei Cln, uniti ai
progetti «eversori» di
Parri, erano dunque motivi più che sufficienti a provocare la convergente reazione di quelle forze
che, nel paese e all’estero, temevano in varia misura prospettive rivoluzionarie antiborghesi. Fra
queste forze, oltre alle oligarchie economiche minacciate dai programmi del governo, erano gli
alleati anglo-americani, timorosi di uno slittamento a sinistra del paese posto sotto la loro influenza,
e, all’interno stesso della coalizione governativa, partiti come il democristiano e il liberale. Questi
ultimi già si erano trovati in contrasto con le sinistre sull’impostazione dell’epurazione e sul
problema dei Cln. Ora, dopo la Liberazione, il radicalismo di certe richieste, lo spirito
rivoluzionario che, dal Nord, sembrava dovesse sommergere l’intero paese, accentuavano di ora in
ora il contrasto. A renderlo insanabile, fino a provocare la caduta di Parri, contribuirà in modo
decisivo un altro elemento: la constatazione, da parte dei dirigenti cattolici e soprattutto liberali,
della dilagante avversione al governo, e più in generale all’antifascismo al potere, dell’opinione
pubblica moderata italiana. E di tale avversione era indice inequivocabile il grande successo che
andava riscuotendo l’azione politica di un semplice giornalista.
(giacché neanche i liberali osavano innalzarla) non lo preoccupava. Già il 9 maggio ’45, Giannini
aveva criticato aspramente l’arresto di Pirelli, Donegani, e, più in generale, l’epurazione in atto
nelle industrie del Nord. L’errore dell’epurazione industriale era, secondo lui, riconducibile ancora
una volta alle sfrenate ambizioni degli uomini politici:
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Per fare un esercito ci vogliono i generali, per fare le industrie ci vogliono gli industriali. Non basta
che dei professionisti politici vogliano diventar milionari per metterli a capo delle industrie [...].
Dopo tutto la socializzazione fascista delle industrie è stata un mezzo per far capire cos’è la
socializzazione alle cosiddette masse, e incutere in esse un salutare schifo per ogni genere di
socializzazione. Mai l’alta borghesia industriale è stata più forte: e se non avrà paura di difendersi le
industrie saranno salve per davvero58.
@@@
All’alta borghesia intimava di reagire, di «decidersi finalmente a fare il proprio dovere», cioè a
tornare a testa alta alla guida effettiva del paese, a realizzare il governo dei tecnici in
contrapposizione a quello dei politici, lo Stato amministrativo al posto di quello etico:
@
Oggi la borghesia, percossa dalle conseguenze di errori che sa originariamente suoi, aspetta,
disorientata e tremante, di sapere per mano di chi deve morire: se del comunismo, del socialismo o
d’un nuovo fascismo. Ancora stordita dai colpi ricevuti, ancora abituata a pensare, come dal 1876,
che «un altro» debba governare, aspetta che si nomini il nuovo fattore, pregando Iddio che non sia
troppo cattivo. E perché? Quale bisogno ha d’un fattore, d’un nuovo Giolitti, o d’un nuovo
Mussolini, d’un nuovo bischero qualsiasi capace solo di dire e scrivere fesserie come purtroppo tutti
i giornali e tutti i comizi comprovano? Uomini capaci di creare in Italia, paese povero di risorse,
quei capolavori che sono la Montecatini, la Fiat, quel prodigio che è la nostra industria elettrica,
avrebbero bisogno, per svolgere la funzione soltanto amministrativa che è il governo politico del
paese, di una dozzina di scombinati che da sei settimane discutono senza costrutto e senza riuscire
ad accordarsi? È un assurdo pazzesco che l’Uomo Qualunque respinge59.
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IMM
La difesa della borghesia era anche, per Giannini, difesa dei suoi settori medi e piccoli, cioè
dell’«enorme, irresistibile maggioranza delle persone oneste» Di questa, interpretava l’esigenza
fondamentale di «ordine e [ del]la sicurezza della vita e degli averi, senza di che nessuno si metterà
a lavorare» 61.
Usava toni apocalittici nel denunziare la violenza e l’illegalità, accusava il «ministero Parri-Nenni»
di «politica interna debole e incerta» 62, ammoniva che il governo aveva il dovere di «ripulire» il
popolo dalle «canaglie» che vi si confondevano: «senza polizia non si governa - Lenin e Stalin
insegnino»63. «Il paese sta andando stupendamente in malora» scriveva a Parri invitandolo a «far
cessare lo sconcio»64: ma, a suo dire, ogni appello era vano, giacché la situazione interna era
sempre più dominata, proprio durante il governo Parri, dallo spirito dittatoriale delle sinistre:
@
Basta esprimere un parere lievemente discorde, dire bianco dove i nuovi aspiranti caporioni dicono
nero, essere iscritti a un partito diverso o non essere iscritti a nessun partito, rilevare
un’incongruenza, fare una obbiezione, richiamarsi alla legge scritta, invocare l’autorità, esercitare
comunque un proprio diritto civile, per essere immediatamente fatti segno a ingiurie, calunnie,
denunzie, minacce. La qualifica di fascista o di reazionario o di nemico del popolo, è distribuita a
larghe mani fra i poveri dissidenti; il preannunzio di castighi tremendi per ogni aspirazione alla vera
libertà vien fatto a ogni piè sospinto. Ci si vuole mandare per qualunque nonnulla al confino, ai
campi di concentramento, in galera, al muro. E le leggi eccezionali si susseguono come se fossimo
sempre in guerra, i ricatti mal dissimulati sono all’ordine del giorno, la caccia all’uomo non accenna
ad attenuarsi, la persecuzione dell’avversario politico anche nella sua vita privata s’intensifica senza
carità e senza pudore65.
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In questo quadro catastrofico, il «che fare?» aveva un significato di rivolta. «Non aver paura di
nulla e di nessuno»: questo era l’incitamento che Giannini indirizzava alla borghesia italiana, alta,
media o piccola che fosse, giacché tutta interessata alla restaurazione dell’ordine e alla fine di certi
esperimenti «sovversivi»:
@
Ora è tempo che l’italiano decida a non aver più paura di nulla e di nessuno. I minacciati resistano, i
calunniati e ingiuriati si querelino, i ricattati si rivolgano ai rappresentanti della legge. Bisogna non
lasciar passare una sola impunità, ricorrere a tutti i mezzi legali, coprire di querele e di atti
giudiziari i giornalisti diffamatori e denunziatori, trascinare dinanzi al tribunale coloro che attentano
alle nostre libertà politiche e civili, inchiodare alle proprie responsabilità i seminatori di terrore.
Bando alle prudenze male intese, alle cautele eccessive, allo stolto amore del quieto vivere. Per gli
italiani è questa la partita più vitale, se gli italiani non vogliono ritornare al ’22, al ’25, al ’40, al ’43
@@@
Alle ristrette minoranze violente e avide di potere, contrapponeva dunque la vera maggioranza del
paese, e il 23 maggio ’45 aveva rivolto un pressante appello ai liberali perché si decidessero ad
inquadrarla e guidarla, facendo intendere che, in caso contrario, non avrebbe esitato a sostituirsi a
loro nella storica missione:
@
La manovra, che si tenta oggi, è diretta sempre all’unico scopo d’impadronirsi dei mezzi di
governo-polizia, magistratura, forze armate — e con quelli imporre fascisticamente il predominio
d’un migliaio di persone [...]. A questo pericolo la gente di buon senso — la enorme, irresistibile
maggioranza delle persone oneste viventi nel nostro paese — deve opporre tutte le sue forze e
reagire senza esitare e senza spaventarsi. Soprattutto senza spaventarsi, perché non c’È niente da
temere: dato che la somma di tutti i partiti politici esistenti in Italia è inferiore alla centesima parte
del formidabile partito del buon senso al quale aderiscono le persone oneste d’Italia, stanche del
fascismo, di cortei, di chiacchiere, di minacce, di disordine, di totalitarismo più o meno oceanico, di
questo o di quel colore. Noi desideriamo ardentemente che chi deve organizzare l’esercito della
gente di buon senso lo faccia, e subito [...]. Chi ha il dovere di organizzare le persone di buon senso
in Italia è il partito liberale: d’intesa con i partiti vicini e affini. Se, per malintesa prudenza, per
inconciliabilità di piccole ambizioni, per incomprensione dei pericoli e dei doveri dell’ora presente,
il Partito Liberale non farà quanto il suo passato e le speranze nel suo avvenire gli ordinano di fare,
la Borghesia Italiana, che non vuol più affidarsi a nessuno e intende governarsi da sé formerà
ugualmente il suo Grande Partito del Buonsenso, e gli eredi infingardi del luminoso liberalismo
dell’Ottocento, saranno travolti dalle forze che avranno rifiutato di dirigere 67.
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«L’Uomo Qualunque — dichiarava orgogliosamente Giannini il 18 luglio ’45 — che nell’estate del
1943 era solo un uomo, che nel dicembre 1944 era solo un giornale, oggi è la più grande forza
politica italiana»68. Non è questa la prima, né sarà l’ultima, delle boutades del commediografo.
Certo è, comunque, che già nel febbraio ’45, ad appena due mesi dall’uscita del primo numero,
«L’Uomo qualunque» si vendeva in 200.000 copie, destinate a toccare l’eccezionale punta di
850.000 nell’autunno dello stesso anno.
Il grande successo della tiratura, unito al felice esito di una sottoscrizione tra i lettori per l’acquisto
della carta, indussero Giannini a presentare, nel giugno, una domanda di autorizzazione a pubblicare
un quotidiano, «Il Buonsenso», il cui primo numero sarebbe uscito il 30 dicembre ’45.
Consensi, incoraggiamenti e aiuti in denaro (senza i quali, come ammetteva in una «vespa» del 20
giugno, il giornale avrebbe dovuto sospendere le pubblicazioni), piovvero da tutta Italia: «ma di
tutti quegli amici e sostenitori della prima ora — ricorderà nelle sue Memorie 69 — non potrei fare
dieci nomi: nessuno aveva firmato le entusiastiche missive. La paura incombeva su tutti: paura
ingiustificata, assurda, irresistibile».
La paura era invece sconosciuta a Giannini, sebbene avesse oltrepassato i cinquant’anni. Di
corporatura massiccia e dall’aspetto imponente con la sua capigliatura bionda e l’immancabile
monocolo, era, come scrive Ballotta70 «un amplificatore ambulante e instancabile [delle sue] tesi.
Lo si incontrava per il Corso, a piazza Colonna, dinanzi a Montecitorio, parlava, gesticolava,
protestava, faceva scena senza perdere occasione».
Lo stesso commediografo parlerà della sua vita quotidiana durante il periodo «eroico» del
qualunquismo:
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L’amico colonnello A. Perfumo, uno dei primissimi, mi regalò un bastoncello di cuoio con il pomo
riempito di piombo. Lo portavo nella manica sinistra. Andavo sempre solo e a piedi, e dopo due o
tre tentativi di discussione stradale nessuno mi costrinse più a sfilare il dono dell’amico Perfumo
dalla manica71.
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Della sua coraggiosa irruenza avrebbe dato molteplici prove nel corso dei suoi giri elettorali per
l’Italia, nei quali subirà contrasti e ostruzioni d’ogni genere, fino ai colpi di rivoltella. Quando lo
interrompevano in qualche comizio reagiva in maniera violenta, deciso a non lasciarsi dominare
dalla folla ostile.
A coloro che, durante la campagna elettorale per il 2 giugno 1946, lo fischiavano ad Avignano, in
provincia di Potenza (i primi fischi della sua carriera politica), Giannini ricorderà di aver detto:
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Cretini che non siete altro! Fatemi dire ciò che voglio dirvi, e poi fischiate se credete che io meriti i
vostri fischi! Che razza di democratici siete, voialtri comunisti? [...] Fischi e baccano aumentarono
[...]. «Non sperate d’impedirmi di parlare con i vostri fischi» urlai. «Ho la voce forte e gli
altoparlanti che funzionano benissimo. Rimarrò su questo balcone un’ora giusta: sono le otto e
mezzo, parlerò fino alle nove e mezzo, e vi dirò tutto quello che debbo dirvi» [...]. Dopo una ventina
di minuti di urli, la folla si stancò. Erano tutti arrochiti e senza fiato, mentre io, grazie agli
altoparlanti di cui mi so servire — ho decenni di pratica cinematografica — mi trovavo in perfetta
forma.
Il finale d’effetto fu accolto in silenzio: nessun applauso, ma anche nessun fischio72.
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Senza dubbio Giannini s’era buttato con tutta l’anima nella sua battaglia politica controcorrente,
prevedendo reazioni e rappresaglie e facendo quasi un olocausto anticipato della propria vita. C’era
nel suo ardimento qualcosa di profondamente irrazionale, ed era la rabbia angosciosa per quel suo
intimo lutto, la ricerca inconscia di «finirla»:
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Debbo dire — confesserà appunto73 — che l’ardimento di cui ancora qualcuno mi fa merito non era
coraggio fisico vero e proprio. Ho fatto due guerre e so cos’è il coraggio. Era disperazione, che
nasceva dal terribile dolore che avevo sofferto per la morte del mio unico figlio maschio, Mario,
caduto il 24 aprile del 1942 [...]. Non mi ero ancora rassegnato — non lo sono nemmeno oggi, dopo
diciassette anni — e continuavo a ritenere un’ingiustizia quella morte. Dovevo aver scritto in fronte
qualcosa che mi presentava come un uomo deciso a tutto e col quale conveniva essere prudenti. Più
che mai ero «uno che andava in cerca di guai» a causa del mio particolare stato d’animo.
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Giannini si rivelava ormai il capo amato di un movimento d’opposizione dai caratteri non ancora
ben definiti e per certi aspetti ambigui, ma la cui importanza balzava con chiarezza agli occhi
avversari. Ci si chiedeva il perché del successo dell’Uomo Qualunque e si cercava di individuare le
forze più o meno oscure che provvedevano a sostenerlo.
Il commediografo rispondeva ad accuse e sospetti nelle «Vespe», aumentandone, col suo modo
sorridente e arrogante di esprimersi, la già grande fortuna:
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Un tale dice — si leggeva il 13 giugno ’45 — che siamo «araldi della scaltrissima plutocrazia e
della congrega democristiana» nonché «mercenari della borghesia». Denunzia poi che anche il più
ignorante degli italiani — parla di sé, il presuntuoso — ha capito che l’U.Q. è scritto, corretto,
paginato da una sola persona. Ci dà, infine, del Chilone Chilonide. Noi ce ne vendichiamo dandogli
del fregnone fregnoide.
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L’espediente dell’insulto volgare esteso senza alcun riguardo a uomini e partiti, era tuttavia
qualcosa che generava avversione, se non disgusto, anche in molti degli stessi collaboratori di
Giannini. Egli si difendeva dall’accusa di turpiloquio chiamando questo suo modo di condurre la
polemica «squadrismo verbale»74 e lo giustificava con la considerazione che era il solo mezzo per
difendersi dagli avversari, giacché si trovava «solo, senz’armi, senza denaro» 75.
Ma non solo per gli insulti volgari e violenti Giannini diventerà famoso. Suo pezzo forte erano
soprattutto la satira e la caricatura. Qualche suo neologismo ebbe in quei tempi gran successo:
«panscremenzio», ad esempio, che, in particolare, «fece furore nei salotti mondani e negli ambienti
ecclesiastici dove la conoscenza del latino e del greco antico lo rendeva più piccante» 76.
Molte altre furono le «trovate» di successo: i Cln divennero i «Comitati di diffamazione nazionale»
(o anche i «Consigli Littori Nutritivi» e i «Comitati Lavativi Nequitosi»); il Partito comunista il
«partito concimista» e i comunisti i «cameragni» (camerati-compagni) (o anche i «comunfascisti»);
i democratici cristiani i «demofradici» cristiani; Nenni «il romagnolo di turno» (o anche il «Benito
in formato tascabile»); la Rai «Restituirla Agli Italiani»; il Partito d’Azione, uno dei bersagli
preferiti, «il partito più ridicolo dell’Italia post-Federico Barbarossa» (o anche «dell’emisfero
settentrionale»); Togliatti «il cosacco onorario»; Ferruccio Parri «Fessuccio Parmi»...
Volgarità feroci e facezie varie costituivano lo strumento essenziale dell’azione di smantellamento
morale dell’antifascismo al potere, che interpretava la rabbia di chi anelava alla quiete, dopo la
tempesta, e non vedeva tornarla; di chi voleva finalmente tornare a sorridere e ne era dissuaso dal
timore di nuovi sconvolgimenti, questa volta di «marca rossa».
Lo «stil nuovo» gianniniano era innanzitutto espressione di un’epoca che aveva visto crollare, l’uno
dopo l’altro, i templi innalzati dai sogni di gloria e di grandezza, ed ora si chiudeva in se stessa, in
un atteggiamento di resistenza passiva contro tutti e contro tutto. Quest’atteggiamento Giannini lo
sintetizzava, superato ogni residuo pudore, in un motto innalzato a comandamento, iscritto al
«numero uno delle tavole legali»77 dell’uomo qualunque:
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State attenti: dopo la parola qualunque noi abbiamo reso celebre una frase, ossia ciò che
americanamente si dice slogan. Questa frase è stata e rimane: vogliamo che nessuno ci rompa più i
coglioni. Gravi dispute, e accanitissime, precedettero il varo di questa frase. Nessuno, o quasi
nessuno, la voleva; e nel respingerla adduceva le ragioni più serie e solide, incominciando da quelle
di decenza e di morale, non escludendo preoccupazioni di carattere più elevato, quali sono,
senz’alcun dubbio, quelle religiose. «Si può dire: vogliamo che nessuno ci rompa più le scatole»
suggeriva una parte di noi. Un’altra voleva sostituire «scatole» con «stivali» o con «tasche».
Un’altra ancora proponeva «vogliamo che nessuno ci secchi più l’anima». La discussione si
svolgeva però solo sulla forma da dare al «pensiero scritto». Nel «pensiero parlato» erano tutti
d’accordo. Tutti «dicevano» di non voler subire più rotture di «coglioni». A voce i coglioni
potevano andare e nessuno se ne faceva scrupolo: per iscritto non erano tollerabili. Noi
riassumemmo la discussione all’incirca così: «Amici, si tratta di diffondere l’idea, d’imporre nei
cervelli la persuasione che noi non vogliamo più rotture di coglioni da nessuno. Sfrondate da tutte le
brillanti sovrastrutture storiche, politiche, sociali eccetera, è certo che Stalin, Hitler, Mussolini,
Churchill, Ciang-Kai-Sceck, Tojo, Roosevelt, sono dei gran rompicoglioni. Da una lunga serie di
anni i giornali son pieni di loro, non si leggono altri nomi, non vi si descrivono gesta di altri. Dal
loro disaccordo nasce il fatto che noi siamo stati travolti in una guerra di cui non ci fregava
assolutamente nulla.
Con questa guerra — continuammo — ci fu promesso un mucchio di cose belle: le 4 libertà e tutto
il resto. Praticamente abbiamo avuto Nenni, Cianca, Pacciardi, Schiavetti, Togliatti e altri al posto
degli uomini politici che li hanno preceduti al Governo, e il modo di governare è rimasto uguale.
Abbiamo avuto morti, catastrofi, miserie, fame: e tutto ciò non accenna a cessare. È o non è, questa,
una rottura di coglioni?». Tutti convennero che lo era: e allora noi lanciammo la frase con le parole
giuste, le quali colpirono la fantasia dei qualunqui come non l’avrebbe colpita una frase composta
da parole non perfettamente aderenti alla realtà.
(«Le Vespe», 15 gennaio 1947)
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IMM
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Questi studenti: c’è tanta gente seccatissima di vederli girare per Roma in berretto goliardico, fare
un po’ di baccano, cantare qualche canzonetta, bere qualche bottiglia. E mannaggia! Si può sapere
perché c’è sempre chi s’infastidisce che gli altri sorridano e ridano? Gli studenti sono le vittime del
professionismo politico. È ad essi che si raccontano incendiarie ipocrisie, per farne ufficiali di
complemento e mandarli a farsi massacrare inquadrando altri poveri figli della Folla. Essi, pazzi,
generosi, irriflessivi, incapaci di calcolo e torna-contismo, s’entusiasmano, vanno, muoiono! Oh
potessero tornare tutti gli studenti morti, assassinati nelle guerre imbecilli che i politici scatenano!
Oh fossero crepati al posto degli studenti, Stalin, Churchill, Roosevelt, Mussolini, Hitler, Tojo,
Ciang-Kai-Sceck: i sette pazzi che hanno voluto fare la guerra! Lasciate almeno che ridano e
cantino, e magari che bevano e schiamazzino questi poveri ragazzi superstiti ai quali i grossi
politicazzi, direttori generali del mondo, hanno preparato, con la loro delittuosa cretinaggine, un
avvenire di miseria e di malinconia! Sono gli studenti d’oggi che dovranno ricostruire il mondo di
domani! Cantate, urlate, bevete, amate, studenti superstiti: e fregatevene dei beccamorti!
(18 dicembre 1946)
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Era il più bel paese del mondo, il nostro, ai tempi di Giolitti. Si poteva scrivere, fare della politica,
esprimere un’idea, un dissenso, nella più ampia libertà ch’è l’eleganza della gente civile. È bastato
che la borghesia cedesse il potere all’uomo di sinistra, al socialista, al bolscevico, al totalitario
cafone di Predappio, perché la vita politica italiana s’incafonisse. Depretis, Zanardelli, Nicotera,
Giolitti, Sonnino, Orlando, si lasciavano discutere: ed erano uomini di valore, di leonardesca statura
paragonati ai loro successori sinistroidi. Appena il primo merdaiolo diventò ministro non si poté più
criticarlo: tutto ciò che faceva era perfetto. E siamo finiti dove si finisce sempre coi merdaioli: nella
merce loro.
(11. luglio 1945)
///
Abbiamo visto a Roma, in questi giorni, i partigiani convenuti per il loro congresso, in maggioranza
giovani ed entusiasti, con gli occhi sbarrati, con i volti spiranti ingenua soddisfazione per le divise, i
fazzoletti rossi, le bandoliere e altri costosi ammennicoli che qualcuno ha dovuto ben pagare.
Naturalmente non ci siamo preoccupati dei pochi volti d’anziani che abbiamo scorti tra tanta
gioventù: eran quelli degli approfittatoti, dei soliti approfittatori della gioventù. Abbiamo notato,
invece, l’espressione infastidita di moltissimi giovani partigiani provocata dall’indifferenza della
generalità verso i loro canti guerrieri. Quei bravi ragazzi sembravan domandarsi: «Ma perché questa
gente si interessa di noi così poco, perché ci considera con tanta ostilità, perché sembra così lontana
dal nostro animo?». Cari figlioli — e diciamo cari figlioli perché una delle nostre figlie ha militato
nelle vostre file e n’è uscita decorata al valore — voi ignorate un fatto semplice e disadorno, piatto
e pedestre: gli uomini che hanno superato la cinquantina hanno sentito quei canti, che oggi voi fate
echeggiare per le vie d’Italia, fin dal 1914: quando incominciò, precisamente ad opera dell’estrema
destra, la disgregazione dell’autorità dello Stato a cui oggi i comunisti stanno dando allegramente
l’ultima mano [...]. È perfettamente logico che voi vi entusiasmate nel cantare quelle canzoni,
perché avete dai venti ai trent’anni, e sono soltanto due o tre anni che le sentite. Ma in Italia c’è
gente che ne ha i coglioni abbottati dal 1914, ossia da trentott’anni: non vi dovete stupire se dopo
trentott’anni una melodia finisce per scocciar l’anima e per non esser più sopportabile. Aggiungete a
questo il fatto che gli uomini che hanno oltrepassato i cinquantanni hanno già visto altri giovani
arrivare a Roma, guidati da vecchi manfani; hanno già visto i suddetti vecchi manfani diventar
ministri e ambasciatori valendosi della forza di quei giovani che poi hanno tradito e massacrati;
hanno già visto, insomma, quello che si vede oggi. Non dovete indispettirvi per la mancanza
d’entusiasmo intorno ai vostri canti, per la mancanza d’adesione alla vostra così bella ardimentosità.
La colpa non è vostra e non è nostra: è della storia che si ripete e rompe le palle a voi e a noi. Con
questa sola differenza, che le nostre sono più sensibili, avendo già sofferto precedenti rotture.
(10 dicembre 1947)
///
Come l’acqua aborre il fuoco, come il molto aborre il poco, comunisti e proprietari son di soliti
avversari. Ma non è così citrullo il compagno Fausto Gullo, gran borghese, forte agrario, comunista
e milionario.
(4 luglio 1945)
Qualcuno ha definito Parri un santo. Andiamoci piano, eh! Abbiamo già avuto un «uomo della
provvidenza» e ancora ci brucia un sacco di roba.
(4 luglio 1945)
Sull’«Avanti!» di domenica Nenni c’impartisce le sue direttive sulla Costituente, le cui elezioni
vuole libere e non fatte coi mitra. Questo dipende da lui e Togliatti: basta che non tocchino i mitra!
(8 agosto 1945)
«Sei in nota» ci avverte qualche lugubre stronzoide. Disgraziato: egli non sa che chi «fa note» è a
sua volta «in nota». Tutti fanno note nel nostro paese: cosa credono, questi fetentoni, d’essere i soli
a volersi vendicare di qualcuno, i soli ad essere pronti ed attrezzati per la vendetta? Chi semina
vento raccoglie tempesta: e chi spera di potersi levare qualche «sfizio» appena partiti gli anglo-
americani, sarà costretto a nascondersi di nuovo negli ospitali conventi un minuto dopo che gli
anglo-americani se ne saranno andati.
/11 luglio 1945)
Nella vita politica italiana si inserisce da un quarto di secolo il dramma di Pietro Nenni [...]. Pietro
Nenni, per sua e nostra disgrazia, è il foruncolo al culo della politica italiana. Che ci volete fare?
Bisogna subirlo. La mentalità di Pietro Nenni è mentalità dittatoriale, ch’è poi la più fessa delle
mentalità, perché una mente superiore, veramente superiore, non ha bisogno della dittatura per
affermarsi [...]. L’altro romagnolo era tale e quale a lui ed entrambi hanno litigato tra loro per una
sola ragione: si rassomigliavano troppo [...]. Certo sarebbe opera meritoria metterlo fuori della
politica italiana, espellerlo, perseguitarlo un po’, farne insomma di nuovo un martire, e se non un
martire almeno una vittima. Pietro non può vivere senza essere in queste condizioni. Avete visto
cosa gli è successo quando è riuscito ad appagare i suoi più segreti desideri? Voleva il potere: l’ha
avuto. Che cosa ha fatto? Nient’altro che fesserie. Ma nemmeno fesserie imponenti e tragiche come
le fesserie di Mussolini, il quale almeno, oltre a quella della guerra, può allineare la solenne fesseria
di Quota Novanta, la fesseria di Corfú e altre consimili. Le fesserie di Nenni, Alto Commissario
all’Epurazione, Ministro della Costituente, Vice Presidente del Consiglio, Ministro degli Esteri,
sono fesserie ordinarie, senza nessuno splendore. La sua opera di governo non ha lasciato più tracce
di quanto non ne lasci una rondine nell’aria. Se non si riesce a creare per Pietro Nenni una buona
persecuzione che gli consenta di poter fare la vittima e di promettere apocalittiche reazioni in un
futuro che questa volta egli, ammaestrato dall’esperienza, cercherà di non far mai arrivare, Pietro
Nenni è rovinato.
(12 marzo 1947)
A Sessa Aurunca sono stati epurati tre terribili fascisti, scandalosamente arricchiti: un dattilografo
assunto a suo tempo in seguito a concorso col formidabile stipendio di L. 240 mensili; una guardia
municipale ed un impiegato d’ordine. Questo perché si deve «colpire in alto». Chissà chi colpiranno
quando si deciderà di «colpire in basso»: forse le formiche di Sessa.
(25 luglio 1945)
«Le esecuzioni sommarie di fascisti e ritenuti tali hanno raggiunto la cifra di ventimila». Così un
comunicato della Orbis, che, a quanto pare, è una agenzia ufficiosa. Quel ritenuti tali è veramente
prezioso: vi immaginate l’allegria di chi, ritenuto tale, è stato fucilato, spesso in compagnia dei
propri familiari?
(11 luglio 1945)
Quindi: De Nicola che spiana la via a Mussolini è innocente, Giannini che fa il capocomico per
vivere è colpevole; Bonomi, che arma i fascisti nel 1921 e che si porta nella lista di Farinacci, è
innocente; il povero questurino che ha arrestato il ladro iscritto al partito di sinistra è colpevole;
Gronchi, sottosegretario con Mussolini, Croce, che vota per Mussolini, Orlando, che telegrafa a
Mussolini, Nenni che fonda i fasci per ordine di Mussolini, il gruppo comunista che guidato da
Bombacci collabora con Mussolini, i liberali e i radicali che fiancheggiano Mussolini, oggi sono
antifascisti, il disgraziato funzionarietto, che per guadagnare qualche soldarello in più ha preso la
tessera, è fascista.
(3 luglio 1946)
... È un guaio che in Italia si viva in questo modo da tanti secoli. Gli italiani non han fatto altro che
massacrarsi per conto degli stranieri: anche il gran padre Dante cadde in questo deplorevole errore,
e litigò coi fiorentini, preoccupandosi del Papa e dell’Imperatore invece che della sua città. Il
rancore che ci anima l’un contro l’altro è la sola causa dei nostri mali. Avremmo mai fatto la guerra
noi se Mussolini e Nenni non fossero stati due romagnoli l’un contro l’altro armati, se il loro litigio
personale ed episodico non si fosse gonfiato al punto di rompere i coglioni a tutti i buoni italiani?
Non c’è che da pregare ardentemente il Signore che ci dia una buona volta i lumi, che rischiari i
nostri cervelli, che ci convinca della nostra enorme fessaggine...
(23 aprile 1947)
Siamo vivamente preoccupati di ciò che sta accadendo sotto il cuoio capelluto del nostro carissimo
nemico Peppiniello Saragat. Con penna incommensurabilmente più ricca della nostra quel
ricchissimo retore che si chiamò Victor Hugo descrisse le angoscie di Jean Valjean in un capitolo
che aveva per titolo: «Una tempesta in un cranio». Chissà quante procellarie svolazzano intorno al
cranio di Peppiniello [...]. Truman, De Gaulle, sotto certi aspetti Churchill e moltissimi altri uomini
di primissima grandezza della politica mondiale sono qualunquisti; così come l’ex vice Presidente
degli Stati Uniti Wallace, il compagno Stalin, il nostro intimo nemico Togliatti, lo scombinato Pietro
Nenni e altri terrestri, sono comunisti. L’unico che non si sa che cosa sia è Peppiniello Saragat.
(4 giugno 1947)
Dovunque il guardo giriamo non vediamo che mediocrissimi uomini ai quali non affideremmo,
senza batticuore, la compilazione dei nostri avvisi economici. Chi è il Mago? Parri? Bonomi?
Nenni? Togliatti? Mole? Arangio Ruiz? Brosio? Salvatorelli? Giovannino Conti? Il cav. Pacciardi?
Il commendator Spano? Il barone Di Vittorio? Quell’altra trentina di ometti da ventiquattro soldi la
dozzina che hanno presa la parola in quella fiera dell’incoscienza che è stata l’inconsulta Consulta?
Perché il dramma è qui: nei Maghi. A star a sentire certi fessoni sembrerebbe che la politica italiana
fosse ingombra di Cavour, Giolitti, Zanardelli, Depretis, Nicotera, Crispí, Treves, Ferri, Turati,
Bovio, e altri Cavallotti a ceste e a canestri. In realtà si tratta d’un mondarello in cui un Calamandrei
è un giurista anziché un paglietta, un Codignola è un politico anziché un figlio di papà, un Alicata è
un giornalista anziché un aspirante reporter. Un Carandini, pensate, è ambasciatore a Londra dove
una volta un Di San Giuliano si credeva sfigurasse. C’è a Washington un Tarchiani che è solo un
mediocre giornalista, a Parigi il buon Saragat che, Santo Cielo, a farlo sottosegretario alle Poste
sarebbe stato, in tempi normali, uno sfacciato favoritismo.
E non ci dilunghiamo sui maghi minori: tutto un pullulare di fregnoncelli ai quali dar del fesso è già
troppo concedere.
(13 marzo 1946)
A Minervino trecento carabinieri sono scoppiati in pianto quando hanno avuto l’ordine di arrendersi
e di rilasciare tutti i delinquenti comuni che avevano arrestati. Ecco delle lacrime che faranno
piangere chi le ha fatte versare.
(4 luglio 1945)
Insomma: non riusciamo a capire come la Germania abbia resistito tanti mesi in Italia. A Napoli gli
anglo-americani arrivarono di slancio, e vabbene. A Roma però i tedeschi resistettero nove mesi,
pur combattuti da cinque milioni e mezzo di partigiani: quanti sono i valorosi tesserati del
partigianismo di Roma e dintorni. In Alta Italia i disgraziati barbari dovettero combattere venti mesi
contro una trentina di milioni di partigiani. Come hanno fatto a resistere, a far saltare ponti, strade,
centrali elettriche, massacrare ostaggi? È un mistero che la storia spiegherà un giorno.
Però che schifo. Se questo non accadesse anche altrove ci sarebbe da vergognarsi di essere italiani.
(18 luglio 1945)
Donna Qualunque che soffre: grazie delle tue poche, e per me moltissime lire. Non ucciderti: si
sono uccisi quelli che hanno perduto i figli? Riavrai il marito, ti rifarai la casa, la posizione; in Italia
c’è tutto da rifare, ed è solo questione di combattere e di vincere coloro che vorrebbero che si
rifacesse nulla, per poter continuare a vivere di rendita come adesso. Coraggio!
(22 agosto 1945)
Che malinconia! Il partitino d’azione è partito, s’è sgonfiato come un palloncino della Rinascente.
Con chi ci divertiremo, adesso? Chi prenderemo in giro?
(13 febbraio 1946)
Quest’affare del «faceva così anche Mussolini» è d’una comicità macabra. Noi vogliamo l’ordine,
ed ecco un fesso constatare gravemente: «anche Mussolini lo voleva»! Noi chiediamo la
ricostruzione, il governo dei competenti, la politica efficiente, la luce, il gas, gli autobus, le ferrovie:
e subito una pattuglia di fregnoni constata trionfalmente che anche Mussolini voleva le stesse cose
[...]. Dal che si ricava che per non volere quello che Mussolini voleva, bisogna volere il disordine, i
treni in ritardo, il governo degli incompetenti, la polizia priva di autorità, respingere gli autobus,
chiudere la chiavetta della luce, rinunziare al gas. Ma nemmeno con questi sacrifici si riuscirebbe a
non volere ciò che Mussolini voleva e a non fare quello che lui faceva. Mussolini faceva pipì alcune
volte al giorno: ebbene noi non riusciamo a non imitarlo. Non sappiamo se fumasse: ma, se fumava,
come potremmo noi, rinunziare a fumare per non essere accusati di mussolinismo? Mussolini si
grattava dove gli prudeva: ebbene noi dobbiamo confessare che facciamo la stessa cosa! Ci sono
comunque dei punti su cui non concordiamo. Mussolini non leggeva Croce, noi sì; Mussolini
nominò Omodeo professore per «chiara fama», noi non lo nomineremmo nemmeno professore di
carachè; Mussolini prendeva sul serio La Malfa, noi no [...]. Mussolini soppresse la libertà di
stampa e permise che si dicesse male di lui verbalmente e incontrollatamente, perché come poteva
controllare, l’Ovra, le maldicenze di tutto un popolo? Noi non avremmo mai commesso la
cretinaggine d’imitare il comunismo russo sopprimendo i giornali: col bel risultato di non saper più
nulla di quanto accadeva nel paese. Insomma delle notevoli differenze ci sono, fra le quali quella
ch’egli era un professionista politico e noi no, che lui voleva fare il ministro e a noi non ce ne frega
assolutamente nulla.
(23 gennaio 1946)
Noi, che necessariamente fummo e siamo avversari dei mediocri, dei lazzaroni, degli invidiosi, dei
fregnoni, dei margadonni, fummo additati, come antifascisti sotto il fascismo, come fascisti sotto
l’anti-fascismo. E sempre, allora come ora, erano gli stessi ad accusarci: ossia i melensi, i falliti, i
pavidi, gl’incapaci; e noi rispondevamo chiamandoli fetenti allora, come li chiamiamo fetenti
adesso.
(3 gennaio 1946)
Buon Natale, Amici e Amiche, e, per quanto ciò possa stupirvi, Nemici e Nemiche, Buon Natale e
Buon Anno a tutti gli Uomini e Donne Qualunque d’Italia e del Mondo: e buon Natale e buon Anno
a Spano e Togliatti, alle signore Montagnana e Cingolani, ad Alberto Cianca, a Emilio Lussu! A
Tieri e a Nenni, a Fresa e Cannarsa! Noi non sappiamo odiare nessuno, e, al massimo, ci spingiamo
a prendere per i fondelli gli avversari che più se lo meritano. Auguri al nostro spazzaturaio e a Gec,
al nostro pedicure e a Salvatorelli, al nostro vuotacessi e ai Commissari per l’Epurazione dell’Albo
Giornalistico! Buon Natale e Buon Anno ai pagliacci del Circo Arbell e al prof. Calamandrei, ai
fabbricanti di carta igienica e ai colleghi dell’Italia Libera, al teatro dei burattini e al partitino
d’azione! Qui sul nostro seno, in un simbolico abbraccio, amici e nemici, furbi e fessi, porci e
puliti!
(26 dicembre 1945)
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I pubblici appelli al Partito liberale perché inquadrasse la riscossa della borghesia italiana, non
ricevevano risposta. Giannini se ne era servito per «mettere con le spalle al muro» il Pli, offrendogli
la «corrente» qualunquista, dopo che alcuni approcci per entrare personalmente nel partito erano
stati respinti 78. Non riusciva ad accettare ancora l’idea di fondare un nuovo partito e di divenirne il
leader, soprattutto per l’«angoscioso dubbio»79 sulla sua capacità a dirigerlo, ed avrebbe cercato di
convincere Benedetto Croce in persona ad accogliere nel Pli le «masse» qualunquiste, poi Orlando,
Nitti e Bonomi, a capeggiare, o almeno fiancheggiare, il suo movimento. Sarà soltanto nel
novembre del 1945, in seguito al rifiuto generale delle personalità interpellate, che si deciderà a
creare un nuovo partito, commettendo così — ricorderà — «il più grande errore»80 della sua vita.
Per il momento, il commediografo intendeva dare un’organizzazione ai vasti consensi gravitanti
attorno all’azione politica dell’«Uomo qualunque», sperando, certo, da posizioni di maggior forza,
di poter convincere il partito di Benedetto Croce. I tempi, a suo dire, incalzavano. Si sentiva
continuamente incitato dalla marea della «gente di buon senso» a cui aveva ridonato fiducia: e 1’8
agosto 1945 dichiarava, con la solennità di chi sta per segnare una tappa fondamentale nella storia,
di non poterla deludere, di dover accogliere il nuovo «grido di dolore» che si levava da essa, da ogni
parte d’Italia:
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Cari amici, credo sia giunto il momento di dare una struttura non più soltanto giornalistica alla
corrente dell’uomo qualunque che il nostro giornale non ha creata, ma che innegabilmente ha
rivelata. Per la pace della mia coscienza debbo ripetere quanto ho scritto varie volte: né io, né
nessuno dei redattori e collaboratori che mi onorano, desideriamo diventare ministri, sottosegretari,
deputati, sindaci, consiglieri comunali e altro del genere [...]. Abbiamo obbedito a un impulso di
ribellione contro il professionismo politico, di schifo verso i professionisti politici, e iniziata la
nostra opera da null’altro animati [...]. C’era [...] un pubblico che da anni aspettava un giornale che
non fosse solamente un foglio d’ordini di partito [e l’enorme successo dell’Uomo Qualunque
dimostra che] siamo dunque in presenza d’un fatto politico e non giornalistico [...]. È, questa, una
forza politica che non avevo preveduta così vasta e profonda, e per la quale è ormai doveroso fare
qualcosa di più di quanto sino ad oggi ho fatto. Il «grido di dolore» che da ogni parte d’Italia si
leva verso l’U.Q. non può essere più inascoltato; l’anelito di speranza che quel grido accompagna
non deve essere più a lungo deluso. «Bisogna fare qualcosa» e dunque facciamola [...]. Abbiamo già
un punto sul quale siamo tutti d’accordo ed è questo: vogliamo vivere in pace e liberamente,
NELLA MAGGIORE E MIGLIORE PROSPERITÀ, AMMINISTRATI DA UN GOVERNO CHE
CI DIA I PUBBLICI SERVIZI NECESSARI, CI FACCIA RITROVARE LA VOGLIA DI
LAVORARE GARANTENDOCI LA SICUREZZA DELLA VITA E DEI BENI, E NON CI
ROMPA I CORBELLI OBBLIGANDOCI A PENSARE SECONDO QUESTA O QUELLA
DOTTRINA POLITICA. Sembra poco, ma è già quasi tutto, poiché, almeno su un punto, siamo
unanimemente d’accordo [...]. Di fronte non abbiamo che minoranze rissose, divise da gelosie di
ogni genere, scosse da interni terremoti che spesso traggono origine da inconfessate ambizioni e
non confessatali appetiti [...]. [In particolare l’organizzazione comunista], scopiazzatura piatta e
pesante di sorpassate concezioni borghesi quali il militarismo professionale; di inimitabili strutture
spirituali come la Chiesa Cattolica, non può e non deve impressionare il ceto intelligente che con le
organizzazioni assicurative, informative, bancarie, industriali, pubblicitarie, di vendita a rate, di
riscossione eccetera, ha creato organizzazioni enormemente più redditizie, e superiori a quella
comunista in ragione del cento per uno. Ci basterà volerla fare per farla ottimamente meglio. Né la
cosiddetta «paura di scendere in piazza» può e deve turbarci, innanzitutto perché se vorremo
scendere in piazza vi scenderemo, quindi perché anche le parate stradali — vecchie pedisseque
imitazioni delle parate soldatesche con le quali le antiche monarchie spaventavano le folle — hanno
fatto il loro tempo. Oggi si possono fare formidabili dimostrazioni di potenza senza uscire di casa;
obbedire, disobbedire, boicottare, favorire, senza bisogno di cortei, adunate oceaniche ed altre
buffonate. La nostra forza è dunque smisuratamente grande: e giustamente i moltissimi U.Q., le
ardentissime D.Q. che mi hanno scritto, incitandomi, pregandomi, a volte scongiurandomi o
comandandomi di fare «qualche cosa di più che una critica» hanno tutti e concordemente affermato
che formiamo la sola e vera «maggioranza politica italiana»81.
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L’ostilità liberale e il rifiuto dei «Grandi Vecchi». Il programma politico dell’«Uomo Qualunque».
Il «grido di dolore» ebbe entusiastiche adesioni. Ad appena una settimana da esso 82, migliaia di
nuclei (la struttura di base scelta a imitazione della cellula comunista) erano stati costituiti in tutta
Italia. Giannini non tralasciava occasione per ostentare la sua forza 83; lasciava capire che, pur
volendo mantenere su di un terreno strettamente legalitario la «rivolta» degli «uomini qualunque»,
non avrebbe esitato a far scendere in piazza le sue masse del «buon senso» per l’estrema difesa
della libertà: le armi non mancavano, ed egli doveva trattenere molti «amici» dall’usarle, per evitare
una guerra civile84.
In realtà Giannini in buona parte, bluffava. In Puglia, in Campania, in Sicilia, il qualunquismo
mostrava di assumere una diffusione veramente riguardevole e, ad iniziativa di elementi locali, si
delineavano qua e là tentativi di organizzazione armata, quasi squadristica, contro i partiti di
sinistra. Ma, in generale, le sue strutture erano deboli, nel Nord addirittura inconsistenti.
Ma a Giannini le ostentazioni di forza servivano allo scopo d’intimidire gli avversari, per evitare
che sul movimento dell’Uomo Qualunque si abbattesse l’ira dell’antifascismo dileggiato e
contestato. Più tardi si vanterà di aver ingannato con successo gli avversari:
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Noi eravamo pochi, io ho detto che eravamo molti; noi eravamo disarmati e ho lasciato credere che
noi fossimo armati; noi eravamo sparpagliati per l’Italia a piccoli nuclei ed io ho lasciato credere
che avessimo organizzata una formidabile congiura; ed è così che l’Uomo Qualunque [...] è
diventato ciò che è diventato, e io posso dire meridionalmente che li ho fatti fessi. Peggio per
loro...! 85.
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Quello che premeva a Giannini, nella prima fase dell’organizzazione, era la continua esaltazione
dello spontaneismo con cui si stava formando il movimento, della volontà dal basso che
caratterizzava le nomine, in contrapposizione all’autoinvestitura delle gerarchie degli altri partiti,
della ultrademocraticità, insomma, del nuovo raggruppamento politico. Ed era vero che la base del
movimento s’andava organizzando spontaneamente, senza alcun controllo o nomina dall’alto,
essendo sufficiente la riunione di pochi «amici» (da un minimo di cinque ad un massimo di
cinquanta) per costituire un nucleo ed eleggere il relativo «caponucleo».
Con questo spontaneismo assoluto, Giannini intendeva correggere radicalmente il sistema vigente
negli altri partiti, cioè il gerarchismo e il dirigismo che strozzavano ogni autentico conato di volontà
popolare. Ma, questa sua, fu una delle tante ingenuità di cui sarà il primo a pentirsi. Il voler
prescindere, in una seria organizzazione di partito, da ogni forma di controllo sulla base e sulla
classe dirigente locale è evidentemente qualcosa che impedisce al partito stesso di funzionare con
coerente unicità d’azione e di obbiettivi. E infatti, grazie alla estrema liberalità con la quale il
commediografo voleva si formasse il suo «Fronte», in esso confluiranno, anche a causa
dell’improvvisazione e ambiguità ideologica delle prime direttive, elementi profondamente
eterogenei tra di loro e in parecchi casi carichi di profonde riserve mentali nei confronti delle stesse
idee di Giannini. Inoltre, la mancanza di ogni controllo e selezione dei quadri, lungi dallo
scoraggiare i «professionisti politici» tanto odiati, facilitava il loro ingresso nel nuovo Far West del
mondo politico italiano.
Lo stesso «Fondatore» — questo l’appellativo che i qualunquisti attribuiranno al loro capo — si
renderà conto della sua iniziale ingenuità e provvederà a prendere saldamente in mano
l’organizzazione del partito, burocratizzandola e inaugurando una accanita azione di epurazione
interna, a suon di sospensioni, espulsioni e nomine di commissari portatori delle «superiori
direttive»86. In breve, il partito degli antipartito avrà tessere e distintivi, organi gerarchici e consigli
di disciplina per far rispettare la loro volontà, sarà insomma in tutto e per tutto simile agli altri,
compresa la brama di potere dei suoi massimi dirigenti.
Le file s’ingrossavano di giorno in giorno dei gruppi più svariati: generici scontenti, monarchici,
«nostalgici». Delle tendenze che si manifestavano alla base, era indice eloquente il dibattito sul
nome da attribuire al movimento: Giannini stesso, tra le varie proposte dei lettori, ricorda le
seguenti: «partito dei senza partito», «partito anticomunfascista», «partito corporativa antifascista»,
«partito del reduce» («che però doveva avere un trattino tra re e duce»), «partito dell’U» (Umberto),
«partito degli scocciati», «partito degli scontenti» 87.
Giannini mostrava di non avvedersi che il movimento era già inquinato di elementi a lui avversi:
continuava a martellare sui temi della lotta all’antifascismo e alla nuova dittatura, sorvolando sul
fatto che ad applaudire la sua azione c’erano anche gli eredi dell’«immortale idea» fascista:
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La nuova marcia su Roma è già avvenuta per opera del cosiddetto Cln; il quale siede
parlamentarmente incontrastato al governo e prepara con affannosa sollecitudine il nuovo 3 gennaio
[...]. Come allora, alcuni partiti sono rappresentati in seno al governo; ma, peggio di allora, tutti
questi partiti obbediscono già ai signori Nenni e Togliatti, cioè allo stesso spirito dispotico
mussoliniano diviso in due corpi, e i signori Nenni e Togliatti si sono volpinamente attribuito il
compito di governare alla maniera mussoliniana per giungere al dissolvimento completo di ogni
ordinamento costituzionale e preparare la loro personale dittatura in nome di un proletariato che non
li ha mai eletti e che non ha mai avuto modo di esprimere il proprio parere. Disorganizzato
l’esercito, messa sotto soggezione la burocrazia per mezzo dell’assurda epurazione, scompaginata la
pubblica sicurezza, tolta ogni autorità a colui che ancora dovrebbe rappresentare il Capo dello Stato,
colpita a morte la superstite industria per mezzo di sequestri e nomine commissariali e
allontanamenti di dirigenti e proprietari, creata la discordia tra agricoltori e proprietari agricoli,
abolito di fatto il Senato, nominata una «Consulta» che somiglia esattamente alla camera dei fasci e
delle corporazioni, limitata al massimo la libertà di stampa, i due compagni procedono alacremente
verso la loro meta, eliminando elettori e eleggibili mercé arresti, assegnazioni al confino e ai campi
d’internamento, promulgando e preparando leggi restrittive sulla stampa, compiendo ineleganti
ricatti alla maggioranza, istituendo in provincia squadre d’azione che bruciano giornali molesti e
intimoriscono pacifici cittadini, facendo perfino buon viso a straniere rivendicazioni di territorio
italiano [...]. Non siamo forse in tal modo alla vigilia del famigerato 3 gennaio? 88
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Giannini insisteva nei suoi appelli alla borghesia perché reagisse, si decidesse a difendere quel
principio della libertà «che i liberali nostrani si mettono ogni giorno sotto i piedi colaborando con il
tirannico Cln e con la dispotica esarchia, a furia di compromessi orrendi e di mostruose
complicità»89; il qualunquismo doveva rappresentare appunto il movimento di riscossa della
borghesia, l’esercito al contrattacco della gente di buon senso: ed egli scriveva a pieni titoli che ciò
stava effettivamente avvenendo, che «la rapida, entusiastica autoorganizzazione dell’Uomo
Qualunque» era «la prima, vera manifestazione democratica che avviene in Italia dopo il 28 ottobre
1922 e la conseguente presa di possesso del potere da parte del fascismo» che sotto le insegne
dell’Uomo Qualunque si stava raccogliendo la classe dirigente del futuro Stato amministrativo:
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I dirigenti di nucleo, di gruppo, di centro provinciale, di unione regionale dell’Uomo Qualunque,
sono e saranno i dirigenti di domani per il paese bisognoso di direzione, stanco di essere sballottato
tra i vari Lussu e Scoccimarro, fra gli incompetenti e i sognatori che dal 25 luglio 1943 stanno
alacremente riabilitando il fascismo che, dopo aver narcotizzato la Nazione, l’ha portata al disastro
politico e militare [...]. La borghesia che crea il lavoro, lo organizza, lo dirige, lo fa fruttifero e
fecondo [...], la borghesia, dunque, che comprende i grandi e piccoli industriali e artigiani,
gl’imprenditori, i commercianti, i finanzieri, gli organizzatori di traffici marittimi, assicurativi,
bancari, di scambio: di tutto, insomma; la borghesia, che, per badare ai suoi affari, si è lasciata, fino
ad oggi, governare da Giolitti e Mussolini, da Badoglio e da Nenni, deve riprendere nelle sue mani
il governo del paese e rimetterlo in sesto, mandando i politicanti a fare gli acchiappanuvole in
attività meno pericolose di quelle di governo [...].
Noi dobbiamo fare un governo di cui dovrà esser ministro dell’Industria almeno un Vittorio
Vailetta, ministro delle Finanze e del Tesoro [...] un finanziere o un banchiere di gran nome
internazionale
[...]. Non bisogna aver paura di nulla e di nessuno: la diffusione formidabile del nostro giornale, la
stupefacente rapidità con cui si forma il fronte provano che siamo la maggioranza [...]. Si riscuota la
borghesia, che l’ora è scoccata: le forze del Buonsenso devono muovere al contrattacco e
travolgere, su tutta la linea del Fronte, il il disordine, l’incompetenza, l’immoralità 91.
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In un Primo bilancio dell'Uomo Qualunque, svolto sul settimanale il 19 settembre 1945, Giannini
ribadiva il «grandissimo successo conseguito in poche settimane», parlava del «fremito di vita
nuova» che, grazie ad esso, spirava nel paese, e di «disorientamento», «smarrimento»,
«confusione», «agitazione convulsa», degli altri partiti; invitava gli uomini qualunque a non
spaventarsi delle accuse di fascismo, anzi a controbatterle energicamente, fino a «spaccare la
faccia» a chi le formulava:
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Noi non siamo fascisti, e lo dimostriamo parlando chiaro — come il fascismo non ha mai fatto —
votando — come il fascismo non ha mai permesso — costituendo la nostra organizzazione dal
basso — come il fascismo non ha mai voluto e potuto fare! Il nostro è l’unico movimento politico
legittimo in Italia, nascente per spinta dalla periferia verso il centro, organizzantesi in base a chiare
e aperte elezioni. L’ultimo dei capi-nucleo dell’U.Q. ha più autorità di Togliatti, di Nenni, di
Carandini, di Cianca, di De Gasperi, di Ruini, che nessuno ha mai eletti e nominati, e che, fino ad
oggi, non rappresentano che se stessi. Il solo fascismo esistente e agente in Italia è il loro [...].
Dunque non spaventarsi dell’accusa di fascismo che oggi, come giustamente dice il ministro inglese
Bevin, si muove contro chi non fa comodo; e, a chi ci dà del fascista, dare del cornuto e del
pederasta in legittima ritorsione d’ingiuria: e, potendolo fare senza inguaiarsi, rompergli la faccia di
ebete e di figlio di puttana.
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Nonostante i positivi risultati con cui procedeva l’organizzazione del movimento, ancora
nell’autunno del ’45 Giannini sperava che il Partito liberale — da lui ritenuto il naturale partito
della borghesia, «che nessun sindacato protegge, che tutti sfruttano, che per tutti paga con la vita e
con tasse»92 — si decidesse ad accogliere le masse raccoltesi attorno all’Uomo Qualunque, a
rendersi interprete delle loro istanze.
La simpatia per il Pli e, soprattutto, la stretta derivazione ideologica del qualunquismo dal
liberalismo venivano riaffer-
IMM
mate dal commediografo ad ogni piè sospinto93: nel settembre, ad esempio, ribatteva alle accuse di
inconsistenza ideologica in questi termini:
@
Non è vero [...]. Noi abbiamo il più bello, il più nobile, il più ricco, il più collaudato programma
politico: quello del liberalismo, sfrondato delle sciocchezze dei nuovi e vecchi fregnoni del
sedicente Partito Liberale Italiano, e, principalmente, ripulito di quella criminosa e infruttifera
cretinaggine che è l’anticlericalismo di maniera, il laicismo parolaio e inconcludente 94.
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Le idee di Giannini costituivano effettivamente, di per sé, una forma di liberalismo assoluto, ma in
un contesto così indeterminato e contraddittorio che faceva sorridere i teorici del liberalismo, Croce
per primo95.
Quanto pesanti fossero le riserve dei liberali nei confronti del qualunquismo lo chiariva un articolo
di Gabriele Pepe su «Risorgimento liberale» del 9 settembre ’45, il primo dopo il lungo silenzio
ufficiale. Giannini e il suo movimento non vi erano neanche nominati direttamente, ed il tono era
distaccato e altero; sarebbe bastato il titolo per comprenderne il contenuto, Al proprio posto:
@
Quando Dante inizia il suo viaggio nell’Oltretomba incontra una turba di spregevole gente,
sciagurati che mai non fur vivi: Dante non vi riconosce se non un’anima sola che sdegna chiamare a
nome. Guarda e passa: è la folla degli uomini che vissero senza infamia e senza lode; gente vile che
nella vita non scelse il suo posto di combattimento, non fu (come gli angeli neutrali) né con Dio né
con Lucifero. Invano essi ora battono alle porte del Paradiso o dell’inferno: non si entra nei luoghi
della gloria o della punizione se non accettando la lotta della vita, se non partecipando a un partito,
diremmo noi oggi [...]. Uno spirito veramente liberale, veramente democratico, non ama l’uomo
della massa; invano esso chiede che gli si spalanchino le porte del partito liberale: il liberalismo e la
democrazia [...] non apr[ono] le porte a chiunque, ma soltanto agli uomini liberi. Non è possibile
essere uomini liberi se non partecipando con tutta l’anima, specie nei momenti calamitosi della sua
storia, alla vita politica [...].
Coloro che dicono: non ci iscriviamo a un partito perché non abbiamo fiducia negli uomini politici,
nei burocrati della politica, nei profittatori e nei professionisti della politica, denunciano uno dei più
gravi difetti del pensiero troppo ingenuo o troppo primitivo [...]. Viltà d’animo e stolta superbia di
valere più degli uomini politici in vista trattiene molti dall’entrare nel partito. A quelli che in buona
fede si lasciano incantare dall’eterna storiella della politica come cosa sporca e odiano i politicanti
noi diciamo oggi una parola di monito [...]. Non crediate che l’unità nazionale consista
nell’eliminazione dei partiti: è l’inganno dei regimi totalitari.
L’interesse alla vita politica nasce dall’amore di patria: ora è giusto che coloro che veggono in
determinati modi comuni l’interesse della patria si uniscano in partiti [...]. Come si potrebbero fare
le leggi se i partiti non organizzassero le discussioni intorno ad esse secondo grandi correnti di
interessi ideali e reali? Chi ama la Patria, chi ha interessi ideali e reali da difendere, pigli il suo
posto di combattimento; esca dal gregge e si faccia uomo libero, uomo che assume cioè la sua
responsabilità nella storia.
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Giannini chiamerà «borioso e spocchioso» 96 l’articolo di Pepe, riaffermerà di «praticare e difendere
e — presuntuosi! — perfezionare le idee liberali di Benedetto Croce» 97, invitando i liberali a fare
altrettanto:
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Bisogna che i liberali si decidano: o dentro il governo liberticida con tutte le responsabilità dei
liberticidi; o fuori del governo a difendere, con tutti i mezzi suggeriti da Croce, la libertà. Noi non
inventiamo nulla: li richiamiamo semplicemente ai loro sacri testi [...]. Ha voglia «Risorgimento
liberale» di ignorarci o di occuparsi di noi in forma dispregiativa e indiretta; noi siamo la sua
coscienza, saremo il suo rimorso98.
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Era evidente, in queste parole, il tentativo di contrapporre Benedetto Croce alla classe dirigente del
Partito liberale, nella speranza che quei rifiuti non provenissero dal «Maestro». Il commediografo
chiese perciò un incontro con il filosofo, e lo ottenne a Roma, nell’ottobre 1945, «dopo molte
insistenze»99 (Croce stesso dichiarerà che non desiderava «troppo» 100 incontrare Giannini).
La delusione di quel primo e unico incontro con il «Maestro» fu per Giannini grande: Croce si
sarebbe dimostrato proprio il più tenace oppositore ad ogni alleanza liberalqualunquista, che per lui
altro sapore non poteva avere che quello di una ibrida commistione del sacro col profano, di uomini
eletti con masse oscure. Racconta Giannini nelle memorie101:
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Mi disse subito che il Partito liberale era una élite dove c’era già troppa gente. Non solo non doveva
accettare la mia «corrente» ma «alleggerirsi» dei suoi pesi morti. «Alleggerirsi» in napoletano
significa anche ottenere il salutare effetto di una purga.
Mi veniva voglia di ridergli in faccia sentendolo bofonchiare di élite e di alleggerimento. Dopo
cinque minuti mi alzai. «Bene», gli dissi, «non se ne può far niente, buongiorno». Mi guardò stupito
con i piccoli occhi affondati nel grasso delle guance che sembravano impolverate di grigio. «Vi sto
spiegando», ribatté seccato, «perché non è possibile che un partito di élite raccolga una massa nel
suo seno». «L’ho capito», risposi, «e non voglio farle perdere più tempo. Poi ho da fare. La
riverisco».
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Probabilmente Giannini non assunse l’atteggiamento altero di cui parla nelle memorie, e tantomeno
ebbe la forza di alzarsi e, in un certo senso, sbattere la porta in faccia al filosofo. Continuerà infatti a
mostrare per Croce, ancora per molto, rispetto e affetto, e negli attacchi che gli muoverà per i suoi
decisi veti alla tanto agognata alleanza, non riuscirà a celare il suo vero sentimento, il dolore, cioè,
del discepolo abbandonato dal «Maestro». Quando, in un comizio a Napoli del 3 novembre ’46
(pochi giorni dopo un feroce attacco Sull’Uomo Qualunque, in cui aveva definito Croce il più
clamoroso fiasco politico dal compimento dell’Unità d’Italia) 102, Giannini sentirà alcuni fischi
levarsi dal loggione del S. Carlo al nome del filosofo, si risentirà:
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Benedetto Croce non si fischia, altrimenti non parlo più (Bene, applausi). Benedetto Croce si
riverisce, perché è un maestro al quale noi dobbiamo tutto quel poco che sappiamo, si discute
perché egli ci mise in grado di poter discutere con lui; se si pensa che ha torto si tenta di provargli il
suo torto, ma Benedetto Croce si rispetta come un maestro! 103
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(Ma l’amarezza per l’irreversibile ostilità del filosofo finirà per far cambiare atteggiamento a
Giannini: allora chiamerà il «Maestro» «maledetto Croce», collocandolo, sull’«Uomo qualunque»,
in una rubrica dal titolo P.D.F. [Pezzo di fesso], e giungerà a definirlo — in Croce in conflitto col
calendario, cit. —, «l’austero ciarlatano», preso da «meschina gelosia» per l’autore di «un pensiero
nuovo al cui paragone le decrepite teorie crociane appariscono superate e disfatte».)
94
L'Uomo Qualunque
IMM
Dopo l’insuccesso del colloquio con Croce, Giannini racconta che autorevoli personalità liberali gli
consigliarono di conquistare il Partito liberale dall’interno, facendovi cioè iscrivere in massa i
qualunquisti e «vibrando un colpo gobbo» 104 al primo congresso, ma egli respinse simili consigli,
perché riteneva l’azione sleale e soprattutto perché lo tratteneva il dubbio sulle sue capacità a
dirigere un partito (ma anche, così lasciava intendere nel suo settimanale, per non dare un dolore a
Croce)105.
Ugualmente infruttuosa si rivelerà, in quell’autunno 1945, la ricerca di una grossa personalità
politica che accettasse di dirigere o almeno fiancheggiare il Fronte dell’Uomo Qualunque.
Giannini aveva sempre dichiarato che il qualunquismo non si opponeva a una parte soltanto della
classe politica italiana, ma la disprezzava e la combatteva «tutta in blocco» 106 perché la riteneva
«solidalmente responsabile della rovina del paese» 107.
In particolare, non era mai stato tenero con gli esponenti «liberali» del prefascismo, aveva accusato
Bonomi di tradimento della borghesia italiana, da lui consegnata al fascismo, e, nella sua ricerca di
una classe politica nuova e incontaminata, aveva perfino riposto fiducia, in un primo tempo, negli
uomini della Resistenza, con Parri in testa. Nell’ottobre ’45 invece, con gran disinvoltura,
proponeva, in un articolo dal titolo Salvate la Madre Nostra, la «soluzione ONB», cioè il ritorno
alla guida del paese dei «tre grandi superstiti» 108 (Orlando, Nitti e Bonomi, che in quei tempi le
sinistre indicavano con la sigla Opera Nazionale Balilla):
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Un governo che si fondasse sui tre vecchi solidi pilastri ristabilirebbe l’ordine soltanto
presentandosi e, innanzitutto per processo psicologico, creerebbe la sicurezza in pochissimo tempo,
perché in Italia, nel nostro grande e buon paese, non c’è che un migliaio di veri banditi: otterrebbe
immediatamente la più ampia fiducia degli Alleati. Tutte le enormi forze politiche dell’ordine e del
buonsenso si riunirebbero immediatamente in quello che si potrà e si dovrà chiamare il C.R.N.,
ossia nel comitato di ricostruzione nazionale; da cui la Democrazia cristiana non potrebbe essere
assente se non suicidandosi. Le imponenti masse del Fronte dell’Uomo Qualunque, in cui non c’è
nessuno che ambisca diventar ministro, nessuno che voglia altro che la salvezza di Nostra Madre,
accetterebbero, senza un attimo d’esitazione, di fare da umile, felice, volenteroso cemento a così
nobile fabbrica: e il loro stringersi intorno ai tre grandi superstiti scongiurerebbe il pericolo della
ripetizione dell’avventura del 1922 intorno ad un nuovo e forse migliore avventuriero [...]. E se, per
placare fraterne ire, per stornare assurdi sospetti, si renderà necessario che qualcuno rientri
nell’ombra e torni a piantar cavoli nel suo teatrale orticello, nessuno tema che ciò non avverrà
subito e facilmente: e con la grande intima gioia di chi sa d’aver bene e utilmente operato 109.
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Questo recupero degli esponenti della classe politica liberale prefascista prima condannata, andava
di pari passo, in primo luogo, con il tentativo che egli stava effettuando di conferire un più preciso
ancoramento politico-ideologico al qualunquismo.
Egli additava al suo Fronte la via del liberalismo, e dopo essersi dichiarato discepolo di Croce ed
aver esaltato i valori dell’Italia liberale 110, intendeva, con la proposta di un governo «ONB»,fugare
definitivamente i dubbi sull’indifferentismo dell’Uomo Qualunque, che rappresentava la vera difesa
dei valori liberali.
Ma c’era una ragione più immediata di questa simpatia per i tre «grandi vecchi». Dopo il rifiuto di
Croce, Giannini si stava rivolgendo a loro, in quel periodo, per convincerli a porsi a capo del
movimento:
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Il primo che interpellai fu Vittorio Emanuele Orlando, che mi ricevette cordialmente ma non accettò
le mie offerte. Seppi in seguito che aveva rifiutato anche altre e lusinghiere offerte. «Sono il
Presidente della vittoria», disse, «e desidero rimaner tale».
Andai a fare la mia proposta a Nitti, al quale ero legato da vecchia e rispettosa amicizia, ma ne ebbi
un altro rifiuto. «Ho paura di questo Uomo Qualunque», mi disse, «che cos’è? Cosa può diventare?
Dovrei avere vent’anni di meno per affrontare un’incognita simile. D’altra parte hai determinato tu
la corrente, praticamente il partito esiste già. Perché non lo presiedi tu?». Lo guardai sbalordito:
«Caro professore», gli dissi, «com’è possibile? Sapete bene che io sono nessuno». Nitti alzò le
spalle infastidito. «E gli altri cosa credi che siano?» esclamò. «Gli ex fuoriusciti li conosco: sono
niente. La sola classe politica è quella fascista, e ovviamente non si può utilizzarla. Rimangono i
democristiani preparati dall’Azione Cattolica, di cui il migliore è quel De Gasperi: figurati un po’
gli altri! Fai il partito, dirigilo senza paura, non farai mai sciocchezze peggiori di quelle che fanno
gli altri!».
Gli risposi che avrei accettato il suo consiglio a patto che lui mi fosse stato dietro, a dirigermi.
Rifiutò. «Diventerei l’eminenza grigia del tuo partito, ti danneggerei perché ti farei apparire come
un fantoccio nelle mie mani e tu finiresti col diventarmi nemico e con l’attaccarmi». [...]
Il solo che non rifiutò subito di capeggiare il partito fu Ivanoe Bonomi. Fece due o tre volte le
terribili scale della casa del maestro Vincenzo Bellezza al sesto piano di via della Mercede [...]. Poi
[...] svanì nell’aria, senza darmi nessuna spiegazione 111.
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Continuava dunque, per Giannini, la serie delle amare delusioni: se attorno alla sua battaglia politica
si andavano raccogliendo, nel paese, vasti consensi, nel mondo politico rimaneva un isolato.
Egualmente infruttuoso si era rivelato il tentativo di formare un grande partito della «ricostruzione
nazionale» (un incontro in tal senso si era svolto il 13 ottobre tra Giannini, Orlando, Nitti, Bonomi,
Arturo Labriola, Ruini e Selvaggi).
A Giannini non rimaneva altra scelta che quella di porsi senza ulteriori indugi a capo del movimento
da lui suscitato. A favorirla doveva intervenire, verso la fine dell’ottobre ’45, l’antifascismo, con
l’arresto dei fratelli Scalera, accusati di aver finanziato la marcia su Roma. Corse allora voce di un
imminente arresto di Giannini (inizialmente aiutato dagli Scalera 112), sotto l’accusa di
ricostituzione del Partito fascista, e «don Guglielmo» si rifugiò al sesto piano di un palazzo di via
della Mercede, ospite della signora Clarj.
Nell’abitazione clandestina (dove aveva ricevuto Tito Zaniboni — il socialista attentatore di
Mussolini —, il sen. Bergamini e, come visto, Bonomi), Giannini decretò appunto la nascita del
Fronte dell’Uomo Qualunque, compilandone il programma politico e facendolo pubblicare in
anticipo sul numero del 7 novembre del giornale113 (pensava infatti di esporlo al primo congresso
nazionale del Fronte).
La pubblicazione anticipata doveva prevenire e svuotare di ogni significato la nuova imputazione di
fascismo, giacché il programma qualunquista si riduceva a un continuo, esasperato inno alla libertà
dell’individuo. Esso si fondava infatti sulle quattro libertà della Carta Atlantica, proclamava il
ripudio della violenza e la fiducia nel sistema delle libere elezioni; riaffermava la volontà di
costruire uno «Stato amministrativo», a capo del quale era indifferente sedesse un re o un presidente
di repubblica e di tale Stato tentava di dare una più precisa configurazione. Esso doveva basarsi
sulla «indipendenza e autonomia dei tre poteri» e su una «Suprema Corte costituzionale», adibile
gratuitamente e liberamente da ogni cittadino, «per le violazioni alla Costituzione»; in conformità ai
princìpi già enunziati nella Folla, si reclamava inoltre la fine di ogni ingerenza dello Stato nella vita
collettiva e la massima libertà per l’individuo, nel campo etico, come in quello economico:
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Il governo [...] non deve avere altro compito che quello di procurare e incrementare il benessere
comune, con esclusione, assoluta e totale, di ogni ingerenza nel campo del pensiero [...]. I cittadini
debbono essere assolutamente e totalmente [sic!] liberi di pensare, credere, desiderare tutto ciò che
a essi piace [...]. La gestione delle Ferrovie, delle Poste, dei Telegrafi, dei Monopoli, di ogni altra
forma d’attività statale che non siano i Grandi Lavori Pubblici, deve passare all’iniziativa privata, e
col criterio della libera concorrenza fra iniziativa e iniziativa.
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Si chiedeva, in particolare, il ritorno dell’industria agli industriali e la sua liberazione dal
«parassitismo politico che oggi la opprime», la restituzione dell’«indipendenza» alle banche contro
lo strapotere del ministero delle Finanze, e si riaffermava fiducia nel «secolare istituto della
mezzadria», da lasciare «libero», contro «la tanto strombazzata e mai spiegata riforma agraria
caldeggiata dai nuovi profittatori del socialcomunfascismo».
In politica finanziaria ci si opponeva al cambio della moneta «se non per sostituire i biglietti
sciupati e non mai per esercitare un inutile controllo sui beni dei cittadini né tanto meno per
prelevarne coattivamente parte, con un metodo che, se è quello immaginato, e altrove, purtroppo,
già realizzato, non costituisce che una improduttiva spoliazione».
La politica estera dello Stato amministrativo non doveva essere, e non lo poteva, date le condizioni
del paese, «di forza e di prestigio», ma «d’intelligenza e d’accortezza».
Responsabile del fascismo, si ribadiva, non era stato il popolo italiano, ma «quei governi e [...}
quelle forze straniere che prime lo finanziarono e potenziarono nel lontano 1914», e che in seguito
gli conferirono, con la loro ammirazione, prestigio e potenza: «Noi dobbiamo affermare la
corresponsabilità di tutto un mondo nei delitti del fascismo [...]. Ciò premesso dobbiamo e
possiamo rinunziare a quanto fu male acquistato dal fascismo, rivendicare alla integrità del nostro
territorio, alla quale ci danno diritto gli errori e l’imprevidenza altrui che ci portarono al fascismo, il
nostro effettivo innegabile contributo di sangue e di averi alla vittoria delle Nazioni Unite».
Per quanto riguarda la «questione sociale», Giannini ribadiva i concetti esposti nella Folla,
affermando che non esistono «classi sociali, ma soltanto individualità umane», e che era perciò
«assurdo voler sostituire una classe sociale a un’altra»; l’elevazione del proletariato quindi doveva
avvenire attraverso la «individuale sproletarizzazione del proletario, al quale debbono essere offerte
[...] tutte le possibilità di migliorare la sua condizione e rendersi indipendente con l’intelligente
lavoro e la tenace perseveranza», e non doveva invece consistere «nella presa del potere da parte di
avvocati e professori sedicenti proletari; e allo scopo d’esercitare, in nome del proletariato, una
dittatura su tutto il popolo, compreso in questo il proletariato».
I capisaldi del programma qualunquista, che il primo congresso del Fronte avrebbe in buona parte
fatti propri, esprimevano dunque la fondamentale esigenza, comune anche agli altri partiti, di una
restaurazione delle strutture democratico-parlamentari che il fascismo aveva smantellato, ma in un
contestò di antistatalismo assoluto che nemmeno il più liberista dei liberali avrebbe osato
prospettare.
Significativo, infine, era l’accento posto sul «problema dell’ordine», «che deve essere — affermava
Giannini — ed è il primo: e che costituisce il presupposto d’ogni base di partenza per la
realizzazione d’un programma politico».
Successi qualunquisti e involuzione a destra della situazione politica: la caduta del governo Parri.
Anche se gli appelli gianniniani venivano respinti dal Partito liberale, esso stava lentamente
scivolando sulle stesse posizioni di aperta ostilità al clima Cln del commediografo.
Si rafforzava ogni giorno di più, nel partito di Benedetto Croce, la corrente del segretario generale
Cattani, ostile (in contrasto con la sinistra rappresentata da Brosio, Carandini e altri) a tale clima,
che aveva denunziato già nel maggio in una lettera ai segretari degli altri partiti:
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Non è consentito tacere oltre sul dilagare di crimini e di violenze e sulla vasta opera di
intimidazione che si svolge in molte regioni contro alcuni partiti o alcune categorie di cittadini [...].
In molte zone la libertà di pacifica propaganda è di fatto impedita perfino a membri del governo e
l’espressione delle opinioni politiche è riservata ad alcune tendenze estremiste. Ingenti quantità di
armi sono nascoste da cittadini per fini politici. La preoccupazione e il timore ovunque diffusi
stanno per tramutarsi in vero e proprio panico che paralizzerebbe lo spirito d’iniziativa e con esso le
possibilità della ricostruzione [...]. Il voler diffondere in tutta la struttura della società i comitati di
liberazione quando ormai la liberazione è avvenuta, contrasta con la loro natura provvisoria,
contrasta con la democrazia [...] minaccia insomma di porre le basi di un secondo Stato accanto e
forse contro lo Stato democratico unitario che faticosamente si va ricostruendo114.
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Altro esempio significativo delle preoccupazioni liberali era la descrizione che della situazione
nazionale faceva Domenico Bartoli su «Risorgimento liberale» del I luglio ’45: situazione in cui «lo
spettro della Grecia va lentamente dissipandosi, anche se non siamo completamente fuori pericolo»:
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Lo spirito pubblico è inquieto. Ogni giorno qualche fatto isolato di violenza o qualche
dimostrazione collettiva indica l’intima inquietudine. Una volta è il caso Basile, la inattesa e
veramente assurda condanna a soli vent’anni del prefetto fascista di Genova a sollevare la piazza: i
tram di Milano sono andati in giro ricoperti di scritte rosse, molto perentorie. Un’altra volta il caro-
vita suscita dimostrazioni di donne, e assalti di mercatini e arbitrari sequestri di merci. Un’altra
volta si minaccia lo sciopero immediato se i salari non saranno aumentati. Insomma, c’è la tendenza
a credere che i problemi della giustizia e dell’economia possano essere risolti dalla piazza [...]. I
casi di linciaggio e le invasioni dei tribunali sono purtroppo frequenti. Talvolta le folle sono prese
da irresistibili furori e fanno a pezzi chi capita nelle loro mani. È il caso Carretta, moltiplicato per
dieci o per cento. Ogni tanto qualche vendetta o azione delittuosa fascista contribuisce ad aumentare
l’agitazione. La gravità della situazione annonaria, la minaccia della disoccupazione, pungolano
ogni giorno le masse. Quando c’è disordine le strade si riempiono di berretti rossi e di elmetti 115.
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Ma la più grave denunzia del «pericolo dell’ora» era venuta da Benedetto Croce. Il filosofo aveva
mostrato, dopo la caduta del fascismo, di sperare nel comunismo e nella possibilità, con il suo
appoggio, di preservare la nuova Italia dalla conquista clericale. Ma, a poco a poco, violenze e
ostentazioni di propositi rivoluzionari lo avevano convinto che il comunismo fosse il vero pericolo,
1’«Anticristo» tornato a minacciare l’umanità, e lo avevano indotto a farsi propugnatore di
un’alleanza tra liberali e cattolici in funzione antimarxista. «Una richiesta che si esprima — aveva
detto Croce il 27 maggio ’45 a Firenze — di serbare l’ordine pubblico anche mercé la forza
pubblica e di osservare la legalità, incontra subito la taccia di ‘ reazione ’ o addirittura di ‘ fascismo
’! Per contrario, i propositi di violenza, di sopraffazione e di dittatura si decorano e si celano col
nome di ‘ instaurazione della democrazia ’, o della ‘ vera democrazia ’. E via discorrendo. Che cosa
fare? Certe volte si sarebbe portati a fregiarsi dei nomi ingiuriosi che hanno ricevuto ora un
contenuto lodevole» 116.
L’opposizione al prepotere dei Cln e all’epurazione, ai consigli di gestione nelle fabbriche come alle
iniziative di politica economica tese a turbare la normale e spontanea ricostruzione del paese, la
ferma richiesta, in ultima analisi, del ritorno all’ordine e della restaurazione dell’autorità dello Stato
contro violenze e propositi rivoluzionari delle sinistre, accomunava ormai, nell’estate-autunno
1945, sempre più vasti ambienti.
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Noi non intendiamo — aveva affermato ad esempio De Gasperi associandosi alle lagnanze dei
liberali117 — che in virtù delle benemerenze passate i Comitati di Liberazione possano pretendere
di trasformarsi in clubs giacobini [...] né tanto meno in soviets [...]. Saremo intransigenti contro
ogni deviazione dei Comitati di Liberazione poiché qui vi è lo spartiacque per la democrazia e altri
regimi che sono negatori della democrazia.
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Il 3 ottobre, in un discorso al S. Carlo di Napoli pronunziato subito dopo il ritorno dal suo lungo
esilio, era stato Nitti a sferrare un duro attacco al «clima Cln». Egli aveva generalizzato le critiche
alla situazione italiana, affermando che «mai, da secoli, il nostro paese [aveva] traversato ore così
terribili»; che i Cln disponevano «delle funzioni statali più importanti» e che «l’azione degli
epuratori [contribuiva] a dissolvere la produzione e a paralizzare la ricostruzione»; che lo Stato si
«anemizzava» «nella molteplicità e nella confusione dei partiti» e abdicava «ogni giorno i suoi
poteri» 118.
Alle conclusioni di Nitti giungeva anche Amedeo Giannini, presidente della Banca d’America e
d’Italia, che in una conferenza stampa del 15 novembre, sempre a Napoli, dichiarava ai giornalisti
che gli aiuti da parte dell’alta banca e dell’alta industria americane non sarebbero stati possibili
finché gli italiani non si fossero decisi a mettere «la casa in ordine» per mezzo di «un governo
forte»119. Dello scontento degli ambienti industriali italiani si rendeva interprete, d’altro canto,
«L’Economia. d’Italia», che «polemizzava vivacemente contro lo ‘ sfrenato interventismo dello
Stato in ogni settore della vita nazionale ’, che soffocava l’iniziativa privata; contro ‘ le imposizioni
violente e l’energumenismo degli irresponsabili ’, che, favoriti dal governo, minavano lo sforzo dei
dirigenti di azienda, degli imprenditori, dei finanziatori i quali avrebbero voluto un clima di ‘
collaborazione aperta e leale, posta su un piano di legalità ’» 120.
L’attacco dei liberali poggiava su argomentazioni in gran parte simili:
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Inefficienza nella direzione di governo; mancanza di unità di orientamento; incertezza sui problemi
economici e monetari; carenze di competenze; meccanica distribuzione di dicasteri troppo
numerosi; legislazione tumultuosa e senza controllo; disorientamento dell’amministrazione
provocato dall’oscillazione delle leggi epurative e conseguente disagio nel Paese, il quale vedendo
così poco soddisfatte le sue aspirazioni, [poteva] finire per compiere l’errore di sbandarsi verso le
forze ostili alla nuova democrazia, che naturalmente [avrebbero approfittato] di questa situazione
per tentare di rialzare il capo 121.
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Gli attacchi al governo Parri, sferrati con sempre maggiore incisività da molteplici direzioni,
avevano una reale rispondenza negli umori di larghi strati del paese. Di «frattura tra il paese così
detto legale e il paese così detto reale» parlavano i liberali 122; di «contatto tra la classe antifascista
al governo ed il Paese [che] è lungi dall’essere perfetto», gli azionisti 123; di «generale
insofferenza», i socialisti124. Anche «Il Ponte», la rivista di Calamandrei, constatava il «distacco dei
partiti dall’opinione pubblica» (riconducendolo al fatto «che sempre più, dalla Liberazione ad oggi
[i partiti si sono] andati isolando in se stessi, quasi gelosi di parlare ognuno per proprio conto al
popolo, senza ammettere interferenze o suggerimenti dall’esterno» 125). «La Voce repubblicana»,
poi, parlava di «inquietudine del paese», attribuendone senza riserve la colpa alla «impotenza
governativa» 126.
Di fronte a questa situazione di scontento quasi unanime, mancava per lo più a sinistra una precisa
coscienza delle sue cause e dello sbocco politico che essa stava per assumere. In genere, nonostante
le lezioni di realismo che continuava a dare Togliatti, lo scontento veniva attribuito, per buona parte,
a manovre reazionarie, e comunque condannato sic et simpliciter per il suo significato di fondo
antidemocratico, mentre gli aspetti più appariscenti del suo dilagare venivano addirittura scambiati
per sintomi della crisi della società capitalistica, come indicava ingenuamente un articolo
dell’«Avanti!» cui abbiamo già accennato (Responsabilità 127):
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Della generale insofferenza pochi si preoccupano e molti gioiscono [...]. Principi e istituti sono
governati da una immoralità che, sorta dal fascismo, non si riesce ad arginare e a sanare. [...] Noi
fidiamo su tutti gli organismi che la emergenza ha suggerito, ma puntiamo principalmente sulla
massa lavoratrice [...]. Il proletariato, custode delle più alte virtù umane, deve ribellarsi a tutto [ciò]
che sa di caos e al caos può condurci. Non deve cedere al generale conformismo, alla inciviltà, alla
scorrettezza, al malcostume, né lasciarsi andare allo scetticismo, proprio delle classi e dei ceti al
tramonto. Noi proletariato, noi popolo, dobbiamo resistere alle irritazioni e agli attriti tra città e
campagna e tra centro e villaggio per aderire totalmente alla sincerità democratica del nostro verbo
[...]. È vero. Una formazione sociale, è Marx che parla, non tramonta prima che siano sviluppate
tutte le forze produttive che essa è capace di dare. Ma non siamo forse all’acme della crisi
capitalistica? Siamo all’acme della crisi capitalistica [...]. Siamo alla vigilia di un profondo
mutamento nei rapporti sociali. Siamo al momento del trapasso dall’una all’altra forma di civiltà.
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Lo stesso Parri, in una conferenza stampa del 7 settembre 128, pur individuando con chiarezza che
alla base di «certi fenomeni di opinione pubblica [...] in qualche modo allarmanti» c’erano i ceti
medi del paese, non faceva nulla per giustificare almeno i motivi più evidenti del loro malcontento,
e biasimava duramente la loro «critica negativa, demolitrice, corrosiva, contro il regime politico nel
quale viviamo, contro il governo di cui è espressione: critica demolitrice di ogni sforzo onesto di
ricostruzione». «Questa opinione pubblica di fiacca memoria — aveva esordito Parri — è formata
in sostanza da una larga parte di quelle classi di mezzo, che sono le prime responsabili del regime
fascista in quanto ne sono state il maggiore sostegno: dobbiamo ricordare la loro adesione
entusiastica all’avventura spagnola e all’avventura imperialistica e anche alla guerra insieme a
Hitler [...]. Esse lo hanno dimenticato, ed è per loro facile fare manifestazione di critica negativa,
demolitrice [...]».
Se a sinistra si mostrava di non voler comprendere le ragioni dello scontento dei ceti medi (che
costituiva l’aspetto più importante e politicamente significativo del malessere generale del popolo
italiano), a destra si iniziava a fare a gara, invece, per rendersene interpreti. Da più parti si collegava
ormai con chiarezza e senza più reticenze quello scontento alla politica dei partiti antifascisti e ai
vari timori e turbamenti che essa stava provocando, e si reclamava a gran voce quel ritorno
all’«ordine» che costituiva l’istanza fondamentale dell’opinione pubblica moderata: «il paese vuole
l’ordine, la libertà, la pace — scriveva Alberto Giovannini sul «Tempo» il 7 dicembre ’45 — non la
continuazione di metodi fascisti che solo hanno invertito il bersaglio» 129.
Anche all’interno della coalizione governativa, come si è visto, il Partito liberale si stava facendo
promotore di una energica azione in difesa della restaurazione dell’autorità dello Stato contro
l’azione sovvertitrice delle sinistre, ridimensionando con sempre maggiore spregiudicatezza quella
fedeltà all’unità nel nome dei comuni ideali della Resistenza e del rinnovamento civile che avevano
caratterizzato la sua precedente politica. Questo mutamento di posizioni aveva in parte motivazioni
autonome, in quanto i disordini e le illegalità, i fermenti rivoluzionari della base partigiana e il
massimalismo di certe correnti di sinistra, uniti ai propositi «antiborghesi» di Parri, stavano
istintivamente spingendo i liberali sulla china dell’acceso antisocialismo e della conservazione
dell’ordine preesistente. Ma la decisa contestazione del «clima Cln» era anche determinata, nei
liberali, dalla presa di coscienza sempre più netta di quello scontento dei ceti medi, che, in
mancanza di altri interpreti, stava trovando una vivace forma di espressione nel qualunquismo.
Verso quest’ultimo i liberali vedevano convergere a tappe forzate i consensi di quei settori del paese
che essi pensavano dovessero costituire invece la propria naturale base elettorale, ed era logico che
cercassero di svolgere un’azione di recupero di tali consensi 130.
L'Esame di coscienza, al quale invitava in quei giorni Mario Pannunzio su «Risorgimento liberale»
131, indicava chiaramente la preoccupazione dei liberali:
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Da ogni parte d’Italia si levano voci inquiete e uniformi a denunciare i pericoli in cui incorre la
nuova democrazia [...]. Dappertutto le stesse polemiche, le stesse proteste, così monotone nei temi
sempre eguali: disordine nell’amministrazione, prepotenze di parte, inefficienza dello Stato,
scontento generale [...]. Non è bastata la fine della guerra a ridar pace agli animi. Nuove torture
sono state inventate. Ecco i partiti di sinistra indicare, con furia dogmatica, nuovi esperimenti,
nuove rivoluzioni, nuove immancabili mete. La vita del cittadino apparve ancor più precaria e
instabile. Insicura la vita, i beni, gli affetti, le amicizie, i propositi. Si abusò in ogni modo del potere
di resistenza del nostro popolo. La reazione doveva venire ed è venuta [...]. L’opinione pubblica ha
cominciato a orientarsi, a far la sua scelta. La sfiducia nei partiti, il discredito che colpisce gli
uomini di governo, l’opposizione a tutte le nuove strutture create nel periodo infuocato della
resistenza, e in particolare ai Cln, hanno nel fondo una loro ragion d’essere, anche se oggi soltanto
negativa. È il «governo», nel suo complesso, considerato responsabile del disordine [...]. Dal grave
disagio morale che si esprime in forme sempre più clamorose bisogna pure trarre gli insegnamenti
[...]. Spetta dunque ai partiti di tener conto delle forze effettive che si sviluppano nel paese Dare un
volto, una coscienza, un orientamento consapevole al moto confuso e ancor torbido dello spirito
pubblico è dovere dei partiti. Primo fra tutti del Partito liberale, sul quale si appunta oggi
l’aspettativa di larghissime correnti del paese. È questo il momento degli esami di coscienza, e
tocca al Partito liberale incominciare. Tocca al Partito liberale assumere di fronte al paese quella
posizione risoluta, decisiva, ch’è conforme alle sue tradizioni e alla sua natura. Tocca al Partito
liberale dir chiaro che i tempi eccezionali sono finiti e che le amministrazioni straordinarie, le
gestioni commissariali, i Cln centrali, periferici, rionali, aziendali, di fabbricato e così via,
debbono al più presto finire.
@@@
Era dunque evidente nei liberali, con le preoccupate allusioni a quella «opposizione confusa e
disordinata e per ciò stesso pericolosa», come la chiamava Croce 132, il riferimento al
qualunquismo, che andava convogliando nella sua protesta contro l’antifascismo i «ceti medi,
ancora una volta trascurati, vilipesi, ignorati» (come scriveva Angiolillo sul «Tempo» del 13
novembre) e che ora si stavano scotendo, conquistati dai travolgenti slogan gianniniani (La grande
lava si è mossa, era l’efficace titolo dell’articolo di Angiolillo). Riconquistare quei ceti, «riallacciare
al governo quell’opinione pubblica che si è andata mano a mano allontanando, passando
torbidamente all’opposizione», diveniva lo scopo del Partito liberale: lo affermava ancora una volta
«Risorgimento liberale» il 5 dicembre, ponendo alle altre forze politiche «dieci punti» come
«condizioni inderogabili» 133 per raggiungere tale scopo e quindi per poter continuare la
collaborazione a livello di governo.
Dopo la denunzia della «inefficienza nella direzione di governo», contenuta nella lettera indirizzata
il 17 novembre agli altri cinque partiti, i liberali ritirarono la fiducia facendo dimettere i propri
ministri il 22. I democristiani avevano rinforzato l’attacco dei liberali, sostenendo, in una
risoluzione del 23 novembre che «il gabinetto presieduto da Parri poggiava sull’unanime decisione
dei sei partiti. Tale base viene oggi a mancare e decade perciò automaticamente il mandato che gli
era stato affidato dal Cln nel giugno scorso» 134.
A Parri non rimaneva che rassegnare le dimissioni, e le annunziò, il 24, in una polemica conferenza-
stampa, nella quale accusò liberali e democristiani di aver agito nel governo da «quinta colonna», e
parlò di un «colpo di Stato» teso a «restituire il potere a quelle forze politiche e sociali che avevano
formato la base del regime fascista» 135.
Dopo una serie di complesse trattative, che vedevano cadere luna dopo l’altra le candidature
Orlando, Nitti e Bonomi, era De Gasperi ad annunziare, il 10 dicembre, la formazione del nuovo
governo. Per la prima volta nella storia d’Italia un cattolico saliva alla presidenza del Consiglio; egli
si accingeva però a guidare il paese con un programma nel quale gli obbiettivi di rinnovamento che
avevano caratterizzato il ritorno dei cattolici all’agone politico dopo il ventennio fascista erano posti
alquanto in sottordine, anche se solennemente riaffermati, rispetto alle nuove e pressanti esigenze
del ristabilimento dell’ordine e dell’autorità dello Stato.
Il programma prevedeva infatti, tra l’altro, «la sostituzione rapida e progressiva degli organi
esecutivi e amministrativi provvisori, costituiti per necessità di emergenza [...], con normali organi
rappresentativi della esclusiva e superiore volontà ed autorità dello Stato»; «la riassunzione da parte
dei competenti organi ed enti pubblici di tutte le funzioni amministrative od esecutive loro proprie,
comprese quelle esercitate, spesso anche con molta benemerenza, dai Cln ai fini della lotta di
liberazione e in dipendenza delle condizioni straordinarie dell’occupazione e della mancata
funzionalità dell’apparato statale [...]»; «l’abolizione più rapida delle misure e degli organi
eccezionali, al quale riguardo corrisponde la abolizione dell’Alto Commissariato e la già annunziata
decisione di concludere l’epurazione prima delle elezioni della Costituente» 136.
Il programma «restauratore» di De Gasperi accettava praticamente tutti i dieci punti che i liberali
avevano presentato, il 4 dicembre, appunto come «condizioni inderogabili» per la loro
partecipazione al nuovo governo 137, e che Togliatti aveva definito, con somma gioia di Giannini,
una «specie di programma dell’Uomo Qualunque» 138.
In effetti liberali e democristiani avevano fatto proprie le richieste avanzate dal commediografo fin
dal dicembre 1944, ed erano stati spinti alla loro azione contro il governo Parri anche dalla
constatazione del successo che le parole d’ordine qualunquiste mostravano di raccogliere in settori
sempre più vasti del paese. Aveva dunque ragione «Rinascita» a motivare «la manovra dei liberali
contro Parri» nei seguenti termini:
@
Si avvicinano le elezioni, e gli strateghi del partito, soprattutto nel Mezzogiorno ma in sostanza
anche nel Settentrione, sarebbero arrivati alla conclusione che il solo rimedio atto a garantire ai
liberali un successo qualsiasi era quello di farsi esponenti e organizzatori del malcontento della
destra conservatrice e reazionaria. Rimanendo nel governo del Cln e facendosi corresponsabile della
politica di questo governo, il Partito liberale, secondo questi strateghi, avrebbe favorito il sorgere
dell’opposizione dell’Uomo Qualunque e spinto verso questa opposizione la maggior parte dei suoi
attuali seguaci139.
@@@
IMM(da «L’Uomo qualunque», 5 dicembre 1945)
«Il vento gagliardo del Nord si è affievolito e quasi spento», constatava con amarezza Nenni
sull’«Avanti!» del 30 dicembre 1945 140.
La caduta del governo Parri rappresentava effettivamente una grossa sconfitta per le speranze di
rinnovamento della Resistenza. Con essa si vanificava il tentativo di attuare un rinnovamento
immediato, sotto l’impulso dell’entusiasmo succeduto alle giornate della Liberazione. Si
rimprovererà spesso alle sinistre, e a Parri in particolare, di non aver avuto la capacità, per
inesperienza, indecisione, scarsa lucidità programmatica e perfino «superlativa imperizia tecnica»
ed «ingenuità giuridica» 141, di attuare, nel momento favorevole dominato dal «vento del Nord»,
misure riformatrici. In realtà, se apparivano giustificati i rimproveri di scarsa efficienza rivolti a una
classe politica di formazione forse eccessivamente idealistica e in ogni caso impossibilitata per
venti anni ad esercitare qualsiasi pratica di governo, la ragione determinante dell’insuccesso di Parri
andava ricercata nella opposizione a quelle stesse misure riformatrici di forze della coalizione
governativa, come liberali e democristiani. Mutare il volto della società italiana radicalmente, ma
senza correre i rischi di una guerra rivoluzionaria, s’era rivelato impossibile, in quel 1945.
Le possibilità di incidere profondamente nel tessuto economico e sociale erano ora legate alla
volontà popolare: una grande vittoria delle forze del rinnovamento alle imminenti elezioni per
l'Assemblea costituente avrebbe infatti permesso la formazione di una maggioranza parlamentare e
governativa apertamente progressista, che avrebbe potuto agire sulla strada delle riforme senza
infrangere i suoi sforzi sugli scogli rappresentati dalle «quinte colonne». Elezioni, Costituente:
erano questi ora gli avvenimenti che galvanizzavano l’interesse delle sinistre, fiduciose di ottenere
dagli italiani i consensi necessari per rivalersi della sconfitta subita, nel novembre ’45, con la caduta
del governo Parri. Ma la realtà preparava nuove delusioni.
///
Giannini esultava della caduta di Parri, affermando, e non senza ragioni, che essa era avvenuta per
merito della tenace opposizione qualunquista (sosteneva addirittura che era stata la pubblicazione
del programma politico dell’Uomo Qualunque ad abbattere il governo). Ai protagonisti di quello
che Parri aveva chiamato «colpo di Stato» si rivolgeva con arroganza:
@
Oggi liberali e democratici cristiani dicono ciò che noi abbiamo sempre detto; e lo dicono non come
lo abbiamo detto noi, e cioè per intima convinzione, per diretta cognizione ed esperienza di
giustizia: bensì perché, con l’acuto orecchio, sentono il brontolio della tempesta popolare. Meglio
tardi che mai, sta bene; ma sta bene anche affermare, com’è nostro diritto e dovere, che liberali e
democristiani arrivano al traguardo nei limiti del tempo massimo, e con enorme ritardo Sull’Uomo
Qualunque 142.
@@@
Per il superamento della crisi il commediografo aveva già proposto nell’ottobre la «soluzione
ONB», ma ora oscillava da un’affermazione all’altra, in un coacervo di proposte contraddittorie
dovute certo, per buona parte, al «qualunquismo puro» che riemergeva a tratti quale componente
dominante del suo carattere. Il 21 novembre, ad esempio, esigeva un governo quale che fosse,
purché informato ai princìpi dello Stato amministrativo, pena un colossale e «originale» sciopero
degli uomini qualunque di tutta Italia:
@
Sia dunque ben chiaro il nostro pensiero, e chiarissima la nostra volontà che è quella di milioni di
italiani. Gli uomini che andranno al Governo, siano essi i Superstiti della buona politica, siano essi i
volenterosi elementi di classi politiche più giovani, sappiano che noi li appoggeremo se ci
lasceranno liberamente vivere; li combatteremo se, in nome di altri ideali, altre fanfaluche di cui
altissimamente ci strafottiamo, vorranno imporci altre limitazioni, altre scocciature, altre rotture di
corbelli. Noi esigiamo che cessi una buona volta la guerra civile, che la polizia arresti tutti i
facinorosi, che la magistratura li punisca, che sia possibile lavorare, guadagnare, andare, venire,
godere, ridere, senza tessere, senza comitati, senza camorristi che impongano taglie, senza filosofi
bischeri che impongano teorie, senza pazzi che ci spingano in guerre per mettere uno straccio di un
colore al posto di uno straccio d’altro colore [... Altrimenti] noi uomini qualunque, che non ne
possiamo più, che siamo stufi di fascismo e d’antifascismo, di mussolinismo e di nennismo,
incroceremo le braccia nel più colossale sciopero che abbia mai visto il mondo moderno, non
pagheremo più tasse, pigioni, debiti, salari, stipendi; non compreremo, non venderemo più, non
parteciperemo a nessuna manifestazione di vita pubblica: ci chiuderemo nelle nostre case e
soffocheremo, con la nostra assenza, tutti i nostri tormentatori e rapinatori [...] 143.
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Il 5 dicembre proponeva di nuovo, nel caso di non riuscita di De Gasperi, il «Gabinetto dei Grandi
Vecchi [che] deve portare i nuovi e i giovani all’amministrazione del paese senza scosse: così come
i padri accompagnano i figli al loro primo grande cimento» 144, ma tale gabinetto doveva essere
così composto:
@
Orlando Presidente; Nitti ai riuniti dicasteri del Tesoro e Finanze; De Gasperi Esteri; Ruini ai Lavori
Pubblici senza scocciarci l’anima con la Ricostruzione che dev’essere affidata a un Istituto da
crearsi, tecnico e non politico. Alla Giustizia, per preparare la soppressione di quel ministero e
trasformarlo da organo politico in organo amministrativo-giudiziario, andrà De Nicola o Tupini.
All’Industria un industriale, al Commercio un commerciante, all’Agricoltura un agricoltore. I
comunisti si prendano l’Alimentazione, loro che sono così bravi a nutrire i popoli; gli azionisti si
prendano le Comunicazioni, visto che sanno così bene trafficare; i socialisti si prendano il Lavoro,
dato che pretendono di rappresentarlo tutto e in esclusiva! Agli altri ministeri vadano pure le vedove
inconsolabili del politicantismo, in attesa della gente seria che verrà fuori dalle elezioni.
A un ministero così formato l’Uomo Qualunque e il Fronte dell’Uomo Qualunque daranno tutto
l’appoggio, senza chiedere neppure un posto d’usciere nei corridoi ministeriali. A qualunque altra
combine che ripetesse, più o meno apertamente, la situazione Parri e la situazione Cln, le nostre
forze si opporranno con tutto il terribile peso della loro resistenza passiva: ossia con quella inerzia
del Paese reale a cui — lo abbiamo dimostrato — nessun governo può resistere 145.
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Una volta varato il governo De Gasperi, Giannini si dichiarava nei suoi confronti in «doverosa
benevola aspettativa, così come fummo in doverosa benevola aspettativa con quello che lo
precedette e finché fu possibile aspettare benevolmente» 146. L’innegabile successo della propria
azione aveva esaltato il commediografo, legittimando il sorgere di prospettive trionfalistiche. A suo
dire, il qualunquismo rappresentava «il più grande movimento politico del dopoguerra mondiale»
147, con «un numero di aderenti superiore almeno al doppio della somma degli aderenti a tutti gli
altri partiti», perché in esso andavano confluendo «imponenti masse di uomini e di donne che non
s’occuparono mai di politica, e la [sua] forza sta appunto in questi elementi nuovi» 148. Quanto a se
stesso, Giannini si definiva «lo scrittore a cui, attualmente, si interessa tutta la stampa mondiale»
149. I suoi sforzi erano tutti tesi all’organizzazione del movimento in vista del primo Congresso
nazionale, il quale doveva costituire la piattaforma di lancio della nuova classe dirigente necessaria
all’Italia:
@
Gli Amici debbono tener presente questo: che il fascismo, in venticinque anni, ha distrutto la vita
politica italiana, e che c’è tutto da rifare, incominciando proprio dalla classe politica. I Salvatorelli, i
Lussu, gli Spano, i Nenni, tutti gli altri, sono uomini foderati di teoria senza nessuna pratica, e non
valgono niente di più di uno qualunque di noi [...]. Dal Primo Congresso dovranno uscire almeno un
paio di centinaia di uomini e di donne di prim’ordine, che saranno i nostri capi e rinsangueranno la
tisica classe dirigente italiana [...]. Le elezioni, comunque saranno fatte, le vinceremo noi: e quando
le avremo vinte daremo alla nostra Patria la pace e la prosperità perdute nel 1914 150.
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Sul fenomeno «qualunquismo» (questo era il neologismo trovato dalla rivista fiorentina «L’Arno»:
a Giannini non piaceva ma si adattò al suo uso) cominciavano intanto ad accendersi commenti e
giudizi vivaci anche all’estero, mentre incidenti di varia entità caratterizzavano l’apertura di nuove
sedi del Fronte.
Giannini tuonava contro le violenze avversarie, scriveva di non volervi rispondere per non
trascinare il paese nella guerra civile, ma non esitava a minacciare rappresaglie:
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Bene, bene — affermava in una «vespa» del 5 dicembre —: stiamo facendo un elenco di questi
fattarelli, e il giorno in cui il popolo italiano incomincerà a menar botte — e saranno da orbi —
potremo dimostrare che ciò è avvenuto solo dopo lunga, estenuante, irresistibile provocazione. Quel
giorno dimostreremo praticamente come bastino venti italiani qualunque — venti galantuomini — a
mettere in fuga cinquecento falsi valorosi delle spedizioni punitive contro le edicole indifese: che
noi dobbiamo vedere assalire con le mani legate dalla necessità di non rovinare il nostro Paese.
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La sua convocazione dal luogotenente, il 29 novembre, nell’ambito delle consultazioni per la
soluzione della crisi (si diceva che fossero stati gli alleati a far pressioni perché Umberto lo
«invitasse»), aveva provocato proteste e manifestazioni di piazza, alle quali aveva risposto col suo
solito stile:
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Trecentocinquanta uomini hanno dimostrato contro l’Uomo Qualunque a Roma [...]: e solo a Roma
vendiamo centomila copie, ciò che significa almeno trecentornila lettori! Basterebbero gli sputi
riuniti di tal imponente massa per annegare i suoi oppositori151.
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Si avvicinavano le elezioni amministrative, e il commediografo dava consigli «preziosi» ai suoi
amici:
@
Infischiatevi della «questione istituzionale»: per amministrare un comune non occorre essere
monarchici o repubblicani, ma cittadini onesti e non disonesti, intelligenti e non fregnoni [...].
Dov’è possibile, cercate d’avere il curato dalla vostra parte, e, se egli accetta, mettetelo in lista Non
lasciatevi impressionare [dall’accusa di «fascista»], e respingetela con energia. Se potete, senza
compromettervi, spaccare la testa a chi vi dà del fascista, fatelo [per quest’ultimo consiglio il
settimanale subirà un sequestro] 152.
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II. Aprile 1945 - febbraio 1946
113
Dello stesso tono era il giudizio azionista. Nell’invocare contro il qualunquismo le leggi contro il
fascismo, «L’Italia libera» scriveva infatti il 20 febbraio 1946 243:
@
Il qualunquismo va ripetendo pedissequamente l’esperienza del fascismo, [la sua] forza è il riflesso
della nostra passività, della nostra inazione di fronte al dilagare della [sua] funesta attività [...]. È
venuto il momento di opporre una intransigenza concreta, operosa, assoluta, e d’impedire che il
nostro avvenire possa essere compromesso dal propagarsi di un «virus» che ripete i caratteri del
fascismo e che può procacciarci tutto il danno che il fascismo ci ha già procurato [...]. [All’inizio] il
fenomeno qualunquista costituiva la secrezione purulenta di un fascismo cadaverico che tentava di
sopravvivere come farsa recitata da pochi recidivi commedianti [ed allora] il fenomeno poteva
essere trascurato, ignorato e magari preso in burletta. Oggi i termini non sono più quelli di una
farsa, siamo entrati ormai nel vivo di un dramma, e drammatiche possono essere le conseguenze che
il qualunquismo può riservare al paese.
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Anche per l’«Avanti!», con «L’Italia libera» uno dei più accaniti nemici di Giannini, «al di fuori dei
lavoratori» c’era «il fascismo, oggi apertamente dichiarato nel cinismo dell’Uomo Qualunque» 244.
«Fascismo al cento per cento» era il qualunquismo per «Nuova Europa», che pubblicava il 24
febbraio 1946 un incisivo giudizio di Luigi Salvatorelli 245 su quel fenomeno, sorto
@
in piena guerra contro il nazifascismo con l’intento preciso e dichiarato di distruggere
l’antifascismo nella coscienza degli italiani e conseguentemente (anche se non altrettanto
dichiaratamente) di riabilitare il fascismo. Questo è il vero intento. La lotta contro l’antifascismo è
stata mascherata con la vecchia scemenza dell’antipoliticismo, dello stato puramente tecnico o
amministrativo, scemenza che si tradurrebbe, nel fatto, sotto pretesto di libertà, nell’onnipotenza
dell’amministrazione governativa sui cittadini rinunciatari politicamente, e nel dominio di questa
amministrazione, per conto del partito unico qualunquista: fascismo, cioè, al cento per cento...
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Non diversi erano i giudizi in campo internazionale. Già il 12 dicembre 1945 il deputato laburista
Wilkes aveva presentato
IMM
una interrogazione alla Camera dei Comuni sul «movimento fascista» dell’Uomo Qualunque 246 e,
ancor prima, l’11 novembre, l'«Observer» aveva scritto che Giannini, benché non fascista, era
pronto a raccogliere «la fiaccola del regime dal duce morente» 247. «Le Figaro», nel gennaio ’46 248
con una «variazione sul tema» che diverrà consueta, sosteneva che il qualunquismo (il cui
«successo è rivelatore dello stato di incoscienza morale e civile in cui è immerso il popolo italiano»)
provocava continui disordini «atti ad impedire le elezioni [...] allo scopo evidente di salvare la
dinastia dei Savoia e sbarrare la strada all’avvento della Repubblica».
Del qualunquismo si occupava perfino radio Mosca, in una trasmissione del 25 febbraio ’46 249,
definendolo la «schiuma delle forze della reazione dell’Italia che per un certo tempo non avevano
osato uscire nell’arena politica». Per l’emittente sovietica, che, commentando il primo congresso,
sosteneva che «il capo dei qualunquisti, Giannini, ha fatto suoi tutti i metodi di Mussolini [e] per
parecchie ore ha invitato i suoi partigiani ad organizzare dei conflitti nel paese, a fomentare stati
d’animo antidemocratici ed antisovietici», «la rinascita del fascismo, soltanto pochi mesi dopo la
sua sconfitta, rappresenta un reale pericolo, ed è più che sorprendente che la rinascita del fascismo
in Italia si sia svolta mentre nel paese esistono tutte le autorità alleate».
Se è vero che molte delle accuse di fascismo risentivano di un certo schematismo, era pur vero che
l’azione politica svolta da Giannini costituiva un obbiettivo «regalo» al fascismo, perché lo stato
d’animo qualunquista di disprezzo per la politica e i partiti e di disimpegno civile poteva di per sé,
come aveva rilevato Lupinacci, portare al fascismo.
Abbiamo già visto l’articolo di Gabriele Pepe, che riaffermava nei confronti degli ignavi uomini
qualunque la superiore etica dantesca del «guarda e passa». Di «opposizione dei liberti», quella cioè
«cieca e livida» di chi è, secondo il noto verso alfieriano, «vile all’oprare, al favellar feroce»,
parlava «Il Ponte» nel dicembre 1945 considerandola effetto della passata dittatura, giacché, «sotto
la schiavitù la critica per forza di cose non poteva essere altro che intinta nel fiele, alimentata dai
rancori personali e dalle invidie, armata di sarcasmi e contumelie [...]. Era scomparso dalla
coscienza ogni senso di solidarietà collettiva, ogni impegno di salvare il domani». Contro la viltà
dell’uomo qualunque si poneva anche «La Rivolta ideale», una volta rotta la momentanea alleanza
con Giannini, in un articolo dell’8 agosto 1946 251 che dimostrava quanto fosse lontana la
concezione eroica della vita dei neofascisti dall' aurea mediocritas esaltata dal commediografo: non
del fascismo il qualunquismo era la reviviscenza, ma del suo opposto, cioè di quegli aspetti
meschini e spregevoli del costume nazionale che Mussolini (era sottinteso) aveva invano tentato di
cancellare:
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La formula basilare del «qualunquismo» — come è noto — è «non ci rompete i...». L’insegna del
«dolce far niente». Gli eroi del «qualunquismo» sono Pulcinella e Sciosciamocca. La parola
d’ordine, il «chi t’o fa ffa?», è quella dell’atavico agnosticismo imbelle ed anarcoide, insofferente di
ogni disciplina, che discende dai servili «qualunquisti» del Medio Evo che invocavano «Franza o
Allemagna purché se magna». Nobile dottrina! Essa esalta quanto di deteriore, di contraddittorio, di
spregevole, di bassamente furbesco e utilitario, di pezzente, di antieroico, di «tira a campà» i
sedimenti delle occupazioni straniere hanno accumulato nell’animo di molti italiani: coloro che
preferiscono le capitolazioni alle vittorie, le canzonette agli entusiasmi patriottici, Al Capone ai
carabinieri; quelli che come supremo ideale di vita concepiscono il piatto quotidiano di maccaroni e
la siesta, gli sberleffi alle spalle dei ricchi, dei forti, dei padroni, Γ«arrangiarsi», il «fare fessi» i
gonzi e gli ingenui, il frodare lo Stato.
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Il contrasto tra la «quiete rinunciataria» ch’era al fondo del qualunquismo con l’essenza stessa del
cristianesimo veniva d’altro canto illustrato da Aldo Moro, su «Studium», nel settembre ’45 252:
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Vorremmo poter essere benevoli con la politica dell’Uomo Qualunque perché comprendiamo le
profonde ragioni di stanchezza, di esasperazione, di disperazione, nelle quali questa corrente trova
motivo di successo e sostanziale giustificazione Ma tale e tanto è il pericolo di diseducazione e di
rovina spirituale e sociale che un tale stato di cose porta con sé che non si può compatire più che per
un istante, e si deve subito passare dall’umano riconoscimento al monito severo ed urgente [...].
Bisogna pur dire che questo che è oggi indicato come ideale di vita all’uomo qualunque è quello
stesso che era richiesto ieri come comodo fondamento di una fedeltà incondizionata, tranquilla e
irresponsabile [...] bisogna pur dire che questa quiete rinunciataria è una radicale apostasia del
cristianesimo e quindi un rinnegamento della dignità umana. La vita non è un riposo, è una cosa
seria, impegnativa, responsabile in ogni suo aspetto [...]. L’Uomo Qualunque non è se stesso, è altri
da sé, disposto a tutto pur di conservare quella sua quiete che è una terribile perdita, la perdita
dell’umanità che acquista con il lavoro la gioia di vivere. L’Uomo Qualunque, per non essere se
stesso, è pronto a tutto, così ad accettare qualsiasi dittatura, che nasce fatalmente dove al posto della
ansiosa libertà dello spirito c’è il vuoto.
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Ad eccezione di alcuni gruppi della destra monarchica come il Pdi di Selvaggi, e organi della
grande stampa «indipendente» che, come «Il Tempo», giudicavano il qualunquismo positivamente
(ma non senza riserve di vario ordine) per la sua reazione al «clima Cln» 253, la condanna, morale
prima che politica, del significato ultimo del fenomeno appariva dunque generale, venendo anche
da quei settori, come la Dc e il Pli, in seno ai quali le simpatie per l’azione politica del Fronte erano
pure notevoli.
IMM
Quanto a Giannini, andava collezionando da ogni parte gli «aggettivi» più svariati, spesso come
ritorsione ai suoi attacchi corrosivi e volgari. Per «Cantachiaro», il primo settimanale a polemizzare
vivacemente con lui, era lo «scrivano Giannini», «tipica Taide dei tempi moderni», «caricatura
piedigrottesca di Mussolini», teorico di quella «sciocchezza risibile» dello Stato amministrativo e
autore di un «libro per ragazzi pieno di belle figure» (La Folla) 254. Ma, soprattutto, era un fascista,
anzi un «fascista qualunque» 255, che aveva lanciato una «perfida campagna contro una qualsiasi
rinascita democratica d’Italia» 256.
Giannini possedeva, per «Cantachiaro», «tutti i requisiti di un ex fascista, nonché la lungimirante
idiozia solo illuminata a tratti da lampi di imbecillità» 257 (e la parola d’ordine all’interno del Fronte
era: «Giannini docet, Giannini doma, Giannini ha sempre ragione»; il motto lanciato dal «più
grande uomo politico dei millenni passati, presenti e futuri»: «Fessi di tutta Italia, uniamoci» 258:
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Allievo di Benedetto Croce, di cui non ha mai letto le opere, il Giannini ha lanciato l’immortale
principio «nessuno ci rompa i corbelli», essendo il diritto di romperli al prossimo esclusivamente
riservato al Fondatore ed ai suoi amici. La sua oratoria, un misto straordinariamente efficace di
napoletano e di esperanto turpiloquente, si infiora di vocaboli eletti, pescati nella cloaca massima
259.
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Anche per i neofascisti di «Rivolta ideale», Giannini era solo una caricatura di «duce», uno
«straccione» impostosi alla attenzione del paese per un tragico equivoco:
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Il popolo, allora accecato dal dolore, dall’angoscia, dalla disperazione, in cerca affannosa di
qualcuno e di qualcosa che segnasse il limite della sua disperazione, ha scambiato per eroe uno
straccione che s’era messo a gridare col frasario scurrile della teppaglia; ha scambiato per ardito ciò
che era soltanto laido; coraggioso ciò che era soltanto violento; ha scambiato per un’aquila colui
che è soltanto un barbagianni [...]. E pare persino che il destino si sia voluto vendicare [degli
italiani] creando questa sbracata caricatura di «duce» che in medesimo tempo fa ridere e fa spavento
260.
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«L’Italia libera» considerava Giannini un «commediante», un «fregnone che tenta di imitare
Metternich quando vuole adoperare la polizia per eliminare dalla vita politica le sinistre», un
«Mussolini in sedicesimo», un «sedicente trascinatore di masse»261,
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[un] attore, che parla in smaccato accento napoletano e ricerca gli effetti più facili: un incrocio tra
Pasquariello e De Filippo. La sua oratoria è tutta fatta di motti di spirito, mediante i quali si concilia
il favore dell’uditorio che si diverte come a teatro, e applaude con entusiasmo [...] 262; [un] libellista
[ed un] regista da strapazzo, che dirigeva con il distintivo fascista all’occhiello e che ha dimostrato
per primo agli italiani che si può impunemente sputare su quanto di buono e di onesto è stato fatto
in questi anni, che si può con l’approvazione di un vasto pubblico mettere in giro infamie d’ogni
genere sul conto dei difensori della libertà 263.
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Anche da parte dell’«Avanti!» le critiche erano spietate: Giannini era un «grottesco ed immorale
buffone» dallo «stile apocalittico», che andava minacciando colpi di Stato «per i caffè di Roma,
come un giochetto da ragazzi che le sue squadre democratiche potrebbero realizzare nel giro di
mezz’ora» 264; un «astuto vecchio» dal «vocabolario da lupanare» 265, il «terribile Catone dei partiti
e della politica, l’uomo a cui nessun pelo nell’uovo sfugge e per il quale tutti i problemi sarebbero
di lapalissiana soluzione, se non ci fossero i partiti».
Il più indulgente era, invece, il giudizio riferito da «Popolo e libertà», settimanale della Democrazia
cristiana 267, secondo il quale Giannini era
@
«sotto certi aspetti», uno Shaw; uno Shaw con animo e sentimenti napoletani, beninteso. Come il
famoso George Bernard Shaw in Inghilterra, egli predilige spesso i toni sarcastici anche nel parlare.
È l’iconoclasta del mondo politico professionale, è il volgarizzatore di una falsa scienza e di una
falsa iniziazione politica. È uno Shaw più immediato, soprattutto più costruttivo.
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Giannini era dunque divenuto un grosso e originale personaggio. Agli avversari era facile rivolgere
critiche ad alcuni stupefacenti aspetti del suo carattere, ma egli era con il suo stile, come il
movimento da lui lanciato, il simbolo di un’epoca: il capo spirituale di un’Italia decisa a vivere non
più «pericolosamente», che non additava più grandi e «immancabili» mete, ma ideali di pace e di
quiete domestica. Forse era vero che, in questo senso, egli era una caricatura del Duce, come l’Italia
martoriata e sconfitta del 1945 era una caricatura, tragica, di quella «imperiale».
C’era qualcosa in Giannini, proprio per questo suo essere espressione di un’epoca, che suscitava
simpatia perfino negli avversari più duri. Quando l’«Avanti!», nel marzo ’46 lo accuserà di aver
offeso l’eroismo dei partigiani (in un’intervista aveva dichiarato che in Italia c’era stata «una sola e
vera ribellione: quella dei napoletani nel settembre del 1943. Le altre sono state organizzazioni
politiche, finanziate dal governo di Badoglio prima, di Bonomi poi» 269, e pubblicherà in prima
pagina la sua fotografia, il commediografo crederà trattarsi di una «istigazione all’assassinio» 270,
accuserà il quotidiano socialista e il suo difettare Silone di voler provocare un «delitto di folla» 271,
li coprirà di insulti. L’invasione e la devastazione della redazione romana del «Buonsenso»,
avvenuta la mattina del 19 marzo ad opera di un gruppo di una ventina di ex partigiani, rafforzerà
questa convinzione: avevano tentato di ucciderlo, solo la casuale assenza dalla redazione lo aveva
salvato, le sinistre volevano soffocare la sua libera voce. Dell’episodio il commediografo si servirà
ancora una volta per presentarsi come martire:
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Questi fessi fottuti giudicano il mio dal loro coraggio, e non hanno pensato, né lo potrebbero, che il
sacrificio della mia vita è già fatto; e che, al massimo, conto di crepare in compagnia del maggior
numero possibile dei miei aggressori, se il destino vorrà ch’io abbia il tempo di voltarmi [...]. Ma
non s’illudano, i capi social-comunfascisti, di passarla liscia se a qualcuno dei nostri dirigenti
dovesse capitare un’avventura brigantesca 272.
@@@
L’«Avanti!», in realtà, non aveva la benché minima intenzione di provocare Passassimo di Giannini
(Silone scriveva che le reazioni dei partigiani erano state «eccessive e riprovevoli» 273): solo «un
pazzo» poteva pensarlo. E tale veniva definito Giannini dal giornale il 20 marzo 274:
@
La sua pazzia è goffa e tetra. Dei matti ha lo sfacelo mentale, non certo la fantasia [...]. La pazzia,
dicono, è il sogno di chi è sveglio. Lasciamo dunque che Giannini si abbandoni all’ebbrezza dei
suoi folli sogni: che si creda un signore soltanto perché ha le tasche gonfie degli assegni spediti
dagli agrari assassini di Ruvo di Puglia 275, che si creda un irresistibile uomo di spirito soltanto
perché scrive «panscremenzio»; che si creda un polemista della classe di Felice Cavallotti soltanto
perché dice che noi siamo «fessi fottuti». Vi è un piacere ad essere matti che solo i matti capiscono
[...]. E non speri di essere assassinato. I martiri italiani si chiamano Matteotti, si chiamano Buozzi,
si chiamano Fioretti, non si chiamano Giannini.
Quella dell’assassinio è la sua monomania. Giannini è un pazzo che, aprendo la finestra, si affaccia
sempre sul piazzale Loreto. Ma non s’illuda in un sangue diverso da quello delle sue emorroidi.
Nessuno vuole Giannini morto: è troppo spassoso vivo, perché questa malinconica Italia possa
privarsene. Pubblicando la sua gentile immagine abbiamo voluto semplicemente offrirla
all’ammirazione di chi ne ignorava le fattezze. L’uomo che scrive le cose che lui scrive, che bara
come lui bara, che ingiuria i nostri santi morti come lui fa, non poteva avere che quel monocolo da
Patrissi, quel cappotto da «macrò» e quel frustino da Michelino Bianchi»...
@@@
«È troppo spassoso vivo, perché questa malinconica Italia possa privarsene». Quest’espressione
sfuggita, tra le righe, all'«Avanti!», indicava la ragione delle patetiche simpatie che Giannini
suscitava un po’ dovunque.
«Servite la patria con letizia! Nessuno più degli italiani è stanco di musi, di assise, di giberne, di
stivaloni, di gagliardetti e d’altre lugubre fregnacce», esclamerà in un comizio in Sardegna, nel
dicembre 1946 276 (e nel giugno aveva salutato la repubblica scrivendo: «dobbiamo creare una
repubblica soprattutto allegra, guai se fosse scocciatrice!») 277.
A Cagliari, sempre nel dicembre ’46, al termine di un altro suo incontro con trentamila persone, si
innalzerà dalla folla un formidabile coro, «spontaneamente, in un’esplosione di sana allegria»:
«Dove sta’ Za-Za, bellezza mia» 278.
Con i suoi motti di spirito, le sue battute anche polemiche, le sue pose gladiatorie e un po’
guappesche («Quando uno è nato signore non c’è che fare», amava dire e scrivere di se stesso) 279,
Giannini «conquisterà» anche il Parlamento, dove gli accadrà perfino, al suo ingresso, di ricevere
gli applausi e gli «Evviva il Fondatore!» delle sinistre.
Spesso si commuoveva, specialmente al ricordo dei suoi dolori più intimi, e allora lo si vedeva
piangere, magari nel mezzo d’un comizio: anche questo alternarsi tra ansia di tornare a vivere e
abbandono alla tristezza era il simbolo di tanta parte del paese. Dinanzi ai giovani qualunquisti,
riuniti a congresso a Roma, nel maggio 1947, non riuscirà a portare avanti il suo discorso (23
maggio), come riferirà «L’Uomo qualunque» 280:
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Io lo sapevo d’aver torto nel venire fra voi oggi. Non ci volevo venire, perché voi non potete
credere quale profonda commozione mi dà il trovarmi fra i giovani, fra i quali non vedo soltanto
quelli che ci sono, ma principalmente quelli che mancano (L'oratore si raccoglie in meditazione, e
qualche lagrima solca il suo volto addolorato). Ecco perché io non volevo venire fra voi. Adesso
che vi ho confessato... (L'oratore s'interrompe ancora, perché profondamente commosso. Grida di
«Viva Giannini». Tutti in piedi applaudono a lungo).
@@@
Certo, della sua violenta polemica godevano i settori più reazionari, e il qualunquismo si prestava a
interpretazioni antidemocratiche, ma Giannini reagirà con fermezza alle adulterazioni del suo
insegnamento: era un uomo sincero e in buona fede, che aveva concepito un sistema dominato, pur
nella sua vacuità, da un appassionato amore per la libertà e la pace. Tuttavia, il qualunquismo
restava di per sé qualcosa di deleterio nella sua triste asocialità, che s’esprimeva nel disimpegno e
nello scetticismo, nella sfiducia e nella sostanziale carenza di convinzioni ideali.
Il distacco tra paese reale e pase legale, di cui Giannini individuava a suo modo le cause e per il cui
superamento teorizzava le sue «rivoluzionarie» soluzioni, costituisce realmente un male antico della
società italiana, le cui radici meno remote vanno certo individuate nel modo stesso in cui ebbe a
concludersi il processo di formazione dello Stato unitario, opera di ristrette minoranze compiutasi
tra l’indifferenza, se non l’ostilità, delle grandi masse popolari. Nei confronti dello Stato liberale
rimanevano infatti in uno stato d’animo di avversione le masse cattoliche, a causa della sua essenza
anticlericale; quelle contadine e operaie, che la propaganda socialista renderà sempre più
consapevoli del prepotere borghese-oligarchico nella società nazionale; frange estese, infine, di
media e piccola borghesia, di contadini e di sottoproletariato meridionali, legati all' ancien regime e
diffidenti e pieni di rancore verso quella che appariva nient’altro che una conquista piemontese del
Sud.
Per giunta la classe politica liberale si mostrò abbarbicata al potere e scarsamente desiderosa di
ampliarne le basi, e, allo scopo di mantenerlo, si lasciò inquinare dal trasformismo, dalla corruzione
e dal clientelismo: era naturale che tale gestione ristretta e affaristica del potere acuisse, in tutti i
settori sociali, la diffidenza nei confronti dello Stato a lungo maturata sotto le dominazioni straniere
e favorisse il rifiorire di quell’individualismo anarcoide di chi, convinto che «nulla cambia mai
sotto il sole», si rinchiude nel proprio «particulare» e rifiuta l’impegno nella vita politica, convinto
dell’impossibilità di mutare la natura corrotta e oppressiva di coloro che ne tessono le trame. E
questo è innanzitutto il qualunquismo: la sfiducia generalizzata nella classe politica e nella politica
stessa, il gretto individualismo di chi si erge ad approssimativo giudice della disonestà altrui senza
avere nel contempo il coraggio di scendere nell’agone a combatterla; la reale mancanza di idealità
che vela l’amaro scetticismo nei confronti di quelle degli altri e spinge, al riparo di un moralistico e
vuoto sentimento di superiorità, al meschino vivere «pur che sia», nella quiete dorata del proprio
mondo domestico.
Fenomeno interclassista, dunque, che ha unito nella «contestazione» della classe politica dello Stato
unitario i settori sociali più disparati, lasciando ampie tracce nella storia del costume nazionale, fino
a formare un immenso partito dello scetticismo e del malcontento, il partito del «piove, governo
ladro», come lo definirà Lussu 281, la cui antica esistenza in Italia è stata sempre registrata anche
dalla letteratura 282.
Smantellare il qualunquismo è compito della classe politica, che deve a tal scopo rimuovere quella
sfiducia nei suoi confronti che di esso costituisce l’origine. Compito difficile, giacché quando essa
ha tentato in qualche modo di adempiervi ha provocato l’accentuarsi, in alcune direzioni, proprio
delle manifestazioni più pericolose del fenomeno.
Quando la classe dirigente italiana ha cercato di ampliare le basi dello Stato con un’azione
riformistica a favore delle masse operaie e contadine (di riconquistare cioè la loro fiducia in
maniera sostanziale, e non con una formale «moralizzazione» di se stessa), si è verificata una
radicalizzazione della opposizione ad essa delle masse borghesi, per cui «nella nostra storia unitaria
ogni impulso liberatore [si è] esaurito in un ripiegamento determinato dalla paura di più profondi
rivolgimenti» 283.
Il fascismo in particolare, come si è già osservato, era stato proprio una reazione dei ceti medi
all’ascesa del proletariato che si presentava nel primo dopoguerra con prospettive apocalittiche. Di
quella sfiducia nella classe politica e nei partiti, di quel desiderio di quieto vivere meschinamente
individualistico che costituivano la base naturale dello stato d’animo qualunquista, faceva anche
parte infatti, nella piccola borghesia italiana, un’istintiva avversione alle classi economiche
meschinamente in lotta in nome dell’utilitarismo, alle quali essa contrapponeva, come abbiamo
visto dall’analisi del Salvatorelli, la superiore eticità del proprio mondo ideale fatto di miti
moderati, e in particolare alle classi «inferiori» che, come il proletariato, minacciavano quel mondo.
Il fascismo, agendo su questi timori, aveva fatto dei ceti medi la propria base di massa,
assecondandone l’antisocialismo e quel superiore disprezzo per i politicanti e i partiti, ai quali aveva
sostituito la retorica monocorde dell’ipse dixit e il partito unico, gli strumenti, insomma, suggeriti
dalla filosofia anti-parlamentaristica che, sviluppatasi all’interno stesso della classe politica liberale
come critica alle degenerazioni del sistema democratico-rappresentativo 284, s’era esacerbata in
ripudio del sistema stesso, in nome dello Stato autoritario, nella versione nazionalista e poi fascista.
Anche quando, dopo la guerra, i ceti medi sostenitori del fascismo avevano finito per distaccarsene,
il loro qualunquismo, come superiore disprezzo per i partiti e la politica, rimase ben radicato,
aggravato da venti anni di propaganda e di diseducazione alla dialettica ideologica, come stato
d’animo fondamentale nel loro atteggiamento sociale, strettamente legato all’antisocialismo.
Il qualunquismo, nel suo imporsi nel panorama politico italiano del secondo dopoguerra, mostrava
dunque di possedere, rispetto al fascismo, strette relazioni di parentela, ma nello stesso tempo se ne
distaccava nettamente: al di là dei suoi significati contingenti (generico scontento, anarchismo
protestatario, trampolino di lancio del neofascismo) esso indicava infatti, di fronte alla nuova
avanzata delle masse proletarie in nome del rinnovamento civile, una nuova reazione dei ceti medi,
con l’esigenza di un ritorno al quieto vivere all’ombra di ideali moderati che non presentasse più,
come con il fascismo, il pericolo di sbocchi violenti e drammatici.
Dopo le delusioni del fascismo, solo la democrazia, ma a certe condizioni «moderate», avrebbe
potuto soddisfare agevolmente queste esigenze. E il moderatismo dei ceti medi italiani era infatti
destinato a essere rappresentato dalla Democrazia cristiana.
IMM
Il dialogo Giannini-Togliatti.
Dopo l’ennesimo «gran rifiuto» dei liberali e la ribadita ostilità dei cattolici agli inviti alla
collaborazione, Giannini sembrava voler dimostrare che il Fronte dell’Uomo Qualunque aveva
un’altra strada per realizzare l’ambizioso disegno di divenire un partito di governo, quella
dell’intesa con il Partito comunista. Il commediografo prospettava la spregiudicata ipotesi in
un’intervista all’Ansa del 19 dicembre ’46 117, nella quale dichiarava che esistevano due sole idee
politiche, quella liberale e quella totalitaria; che la questione sociale — il solo problema che
realmente travagliasse il mondo — non poteva essere risolta che dall’una o dall’altra; che un
conflitto tra comunismo e qualunquismo (che rappresentavano la vera incarnazione del totalitarismo
e del liberalismo) avrebbe portato al totalitarismo la forza superstite («anche se questa fosse il
qualunquismo antitotalitario»), e che era quindi sua «convinzione e speranza» che fosse possibile
«trovare un punto d’incontro sul quale iniziare una utile collaborazione qual è quella che, fra gente
civile, si concreta nel fronteggiarsi fecondo di due grandi e oneste correnti politiche. Per vincere la
difficoltà, e diciamo pure la diffidenza, il qualunquismo ha proposto lo ‘ Stato amministrativo ’ a
poteri divisi e indipendenti [...] nel quale tutti gli esperimenti sono possibili. I comunisti a loro volta
si proclamano ‘ democratici progressivi ’. A mio parere né la democrazia né il progresso dovrebbero
opporsi al trionfo del buon senso e della ragionevolezza. Comunque non vi ci opponiamo noi».
Quell’invito, proveniente dal leader di un partito che aveva basato le proprie fortune elettorali sulla
contrapposizione intransigente al comunismo, appariva subito assurdo.
Senza dubbio, Giannini era stato spinto a quella sconcertante iniziativa dal desiderio di rendere più
pesante il ricatto alla Democrazia cristiana, facendole intendere che, se non si decideva all’alleanza
con il qualunquismo, quest’ultimo sarebbe giunto al potere insieme con i comunisti, passando sul
suo cadavere. E, almeno teoricamente, le possibilità di successo di una simile alternativa politica
esistevano, giacché si calcolava che, ripetendo alle nuove elezioni politiche il successo del
novembre ’46, il Fronte dell’Uomo Qualunque avrebbe ottenuto oltre cento deputati, i quali, uniti a
quelli socialcomunisti, avrebbero dominato il parlamento (anche nella Costituente, del resto, come
si vedrà, nell’ottobre ’47, la confluenza dei qualunquisti con le sinistre avrebbe potuto sconfiggere
la Dc e il governo). Ma, molto probabilmente, non era soltanto questione di ricatti alla Dc.
Giannini credeva davvero nella possibilità di giungere ad una specie di bipartito Pci-UQ:
impressionato dall’esito delle elezioni del novembre ’46, li considerava come i veri, grandi partiti
italiani (in effetti, nell’elettorato s’era manifestata la tendenza a rafforzare a destra il qualunquismo,
a sinistra il comunismo). Rifaceva la sua comparsa il qualunquismo «puro» di Giannini come
indifferenza di fondo per le pregiudiziali ideologiche: voleva giungere comunque al governo del
paese e, nel suo cieco empirismo (quello che, dopo la caduta di Mussolini, lo aveva fatto girovagare
per Roma alla ricerca di un partito, quale che fosse, per soddisfare il proprio desiderio di azione),
non badava al colore dei suoi potenziali alleati.
L’incompatibilità con il comunismo ostentata nel corso della campagna elettorale sembrava ora
diluirsi: lo Stato amministrativo, come si è visto, era realmente una formula capace di accogliere
tutti gli esperimenti, quindi anche quello comunista, e nell’affermarlo il teorico del «liberalismo
progredito» confermava la vuotezza delle sue teorie. Già all’indomani della vittoria del novembre,
mentre in un’intervista era tornato a dichiarare che il qualunquismo non andava «né a destra, né a
sinistra, ma avanti» 118, sul «Buonsenso» aveva scritto 119: «Il qualunquismo coincide col
comunismo in molti punti, mentre in moltissimi altri lo sopravanza». Qualche mese più tardi lo
definirà «un partito di extrasinistra, che va al di là del comunismo, oltre il comunismo» 120.
Quali che fossero le motivazioni delle profferte gianniniane (dietro le quali ben presto si potrà
scorgere, in ultima analisi, un ritorno di fiamma del suo «sincero, disinteressato, convinto
filocomunismo» degli anni ’44-45), Togliatti non era certo il tipo da lasciarle cadere nel vuoto,
giacché esse venivano proprio dal simbolo dell’anticomunismo 121. Inoltre, dopo il successo
strepitoso del «torchietto» nelle amministrative del novembre ’46, era diffusa una certa tendenza a
giudicare con animo più aperto quel fenomeno divenuto veramente di massa, a comprendere le
ragioni di scontento dei ceti medi che ne costituiva l’essenza, a dispiegare un’azione di recupero di
essi:
@
È necessario renderci noi stessi interpreti del malcontento, della esasperazione — spesse volte in
tutto o in parte giustificati — di molti italiani, facendo nostre le loro proteste e le loro rivendicazioni
ed operando, con ferma volontà e tenacia, per far sì che questi motivi di malcontento e di
esasperazione spariscano, con il miglioramento della situazione italiana e, in particolare, con il
miglioramento delle condizioni degli appartenenti ai ceti medi che costituiscono, come è noto, la
maggior parte degli aderenti e degli elettori del Fronte dell’UQ 122.
@@@
Togliatti portava alle estreme conseguenze quella tendenza, accettando il dialogo propostogli da
Giannini, e nel far ciò superava resistenze e schematismi di alcuni settori del suo stesso partito 123:
@
Qualcuno mi ha detto che a Guglielmo Giannini, per l’ipotesi di collaborazione ch’egli ha avanzato
tra il movimento da lui diretto e il Partito comunista, non vale la pena di rispondere, perché l’ipotesi
non è seria, perché viene avanzata soltanto a scopo di propaganda, perché il qualunquismo è
movimento qualificatamente reazionario e di tipo fascista, perché si tratta d’un commediografo e
non d’un uomo politico. Non mi è parso, però, che tutti questi argomenti, e tutti gli altri che ancora
si potrebbero scoprire, siano pertinenti.
@@@
Il leader comunista mostrava di possedere una perspicacia notevole, assente in troppi uomini di
sinistra: comprendeva con chiarezza che nel qualunquismo si manifestava una rivolta dei ceti medi,
simile nella sostanza, se non nella forma, a quella che, nel primo dopoguerra, era stata abilmente
strumentalizzata dal fascismo per consolidare la propria egemonia; ora c’era il rischio che questi
ceti fossero ancora usati come massa di manovra, se non da un nuovo fascismo, dalle forze
conservatrici del paese allo scopo di ristabilire il proprio predominio nella società italiana contro i
partiti di sinistra: poteva insomma ripetersi — e in effetti si stava ripetendo — la vecchia storia, che
aveva visto i ceti medi ributtarsi a destra per timore del sovversivismo delle sinistre, con grave
pregiudizio per l’avvenire democratico e progressista della nazione.
Togliatti vedeva nell’invito alla collaborazione di Giannini la possibilità di penetrazione in settori
sociali fino ad allora preclusi al comunismo (e più in generale, per la loro miopia strategica,
all’insieme delle sinistre), ed era logico che ne approfittasse: non era forse il teorico del «partito
nuovo», il fautore della collaborazione con i partiti borghesi, lo stratega della conquista alle idee
«moderate» del Pci di quanto più vasti ambienti fosse possibile?
@
Alcuni rimproveri — dirà ancora, nell’ottobre ’47, all’Assemblea costituente 124 — sono stati fatti a
noi, a me personalmente, accusandoci non so se di eccessiva simpatia per questo partito o di una
tendenza a determinati accordi con esso. Si è persino parlato di patti. Onorevole Giannini, ella sa
perfettamente che questi patti non esistono. Però è verissimo che noi, nei confronti del Partito
qualunquista, abbiamo seguito e seguiamo una politica determinata, la quale non può in nessun
modo ridursi a una ingiuria o a una serie di male parole. No, per noi lo sviluppo del Partito
qualunquista è un fenomeno che studiamo con attenzione e di fronte al quale sentiamo il dovere
come democratici e nell’interesse della democrazia italiana di reagire in un determinato modo.
Riteniamo che se nel 1919-20, quando gruppi all’inizio, e poi masse di piccola borghesia, presero
orientamenti analoghi a quelli che prendono oggi determinati gruppi della stessa natura sociale che
seguono il qualunquismo, orientamenti che poi vennero sfruttati dal partito fascista agli scopi della
sua politica reazionaria, crediamo che se allora vi fosse stata nella democrazia italiana la capacità di
comprendere a tempo questo fenomeno e di riparare facendo fronte ad esso, forse lo sviluppo del
fascismo sarebbe stato meno facile.
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Togliatti impartiva dunque lezioni di storia e di politica ai suoi avversari e, soprattutto, ai suoi
«colleghi» di sinistra: l’iniziativa di Giannini offriva la possibilità di sottrarre in qualche modo alla
strumentalizzazione dei circoli reazionari parte dei ceti medi (funzione questa che non era riuscito
ad assolvere il Partito d’azione), e costituiva soltanto mancanza di realismo rigettarla in nome di
schematiche condanne:
@
Il periodo che viviamo è di grave sconvolgimento sociale, politico, morale. Volete pretendere che in
un periodo simile tutto si svolga, nel campo della politica, e soprattutto per quanto riguarda gli
schieramenti delle masse lavoratrici e dei disorientati ceti medi, in modo regolare, secondo le norme
prestabilite, senza scarti, senza che si producano fenomeni impreveduti, paradossali e persino
grotteschi? E soprattutto, volete pretendere che in un periodo simile i movimenti politici di rilievo si
producano allo stato puro, tutti di natura omogenea, tutti reazionari o tutti progressivi, dal capo alla
coda, secondo la qualifica che voi loro avrete data o secondo la natura del gruppo che prevale alla
loro sommità? Avrete preteso l’impossibile e finirete come i poveri liberali, abilissimi
nell’acchiappare idee eterne nella rete come si acchiappano le farfallette nei prati, e incapaci di
comprendere un’acca della realtà.
Il movimento dell’«Uomo Qualunque», a parte le sue formule politiche generali, a cui pure
dedicheremo qualche parola, si è presentato sin dall’inizio, per quello che riguarda la sua direzione,
come una corrente conseguentemente antidemocratica e soprattutto conseguentemente
anticomunista. Antidemocratico è stato sinora l’U.Q. perché in modo conseguente si è sforzato di
screditare quel poco di democrazia che dopo il crollo del fascismo eravamo riusciti a riconquistarci
[...]. Antidemocratico è stato ed è l’U.Q. perché là dove conta qualcosa, — in Puglia, per esempio
—, alla sua testa si trovano uomini e gruppi nettamente reazionari, nemici del benessere dei
lavoratori, nemici del progresso delle loro stesse regioni, legati a forme arretrate di organizzazione
sociale e di governo, e perché la stessa cosa tende a prodursi un po’ dappertutto, a Napoli coi capi
della camorra (che nessuno vorrà pretendere essere forza progressiva), in Sicilia coi latifondisti, a
Roma con l’ala più reazionaria della Curia romana, etc. etc. Più ancora che antidemocratico, però,
l’U.Q. è stato sinora anticomunista, per le vane campagne di calunnia condotte contro di noi, e poi,
soprattutto, perché su questa strada lo hanno spinto quei gruppi reazionari di cui sopra, e gli ex
fascisti ancora fascisti che affollano i suoi quadri. Ma il movimento dell’U.Q. è lungi dall’essere
cosa omogenea, e a renderlo eterogeneo hanno contribuito non poco le sue campagne
antidemocratiche, per alimentar le quali la direzione del movimento ha favorito, sollecitato,
incorporato, ogni sorta di malcontento e di malcontenti. In queste condizioni, il fatto che il dirigente
dell’U.Q. presenti all’opinione pubblica, seriamente, un’ipotesi di collaborazione con i comunisti, è
cosa che grandemente ci deve interessare, se non altro perché significa che per lo meno una parte di
coloro che si raccolgono in questo movimento e attorno ad esso non sono anticomunisti, o almeno,
se lo sono stati, l’esperienza sta loro facendo cambiare opinione e posizione nei nostri confronti. E
siccome noi pensiamo che l’anticomunismo è forse il nemico principale, nell’ora presente, della
nostra democrazia, commetteremmo un ben grave errore se non ci comportassimo in modo da
favorire, da accelerare, da estendere questa resipiscenza. Bisogna, per questo, discutere punto per
punto il programma dell’U.Q.? Non credo servirebbe molto. Forse servirebbe solo ad accrescere la
confusione. Prendete, ad esempio, la formula dello Stato amministrativo.
Che cosa può mai significare questa formula?
Presa alla lettera e interpretata scientificamente, questa formula è comunista pura. Uno «Stato
amministrativo» non è altro che quel «governo delle cose», di cui parlarono alcuni dei classici del
marxismo come del termine a cui tende la trasformazione socialista della società. Ma se per
amministrazione si intende l’attuale sistema dei funzionari dello Stato italiano, dai prefetti ai
marescialli dei carabinieri, allora è un disastro! [...] Se attraverso una discussione onesta e leale
avverrà che molti odierni seguaci dell’U.Q. si convinceranno che noi comunisti, che mai ci siamo
creduti e mai ci crederemo infallibili, lavoriamo e lottiamo sinceramente e con tenacia per
l’interesse dei lavoratori e per il bene del Paese, ebbene, sarà tanto di guadagnato. Avremo per lo
meno impedito che, nell’interesse dei soliti nemici della Nazione italiana e del suo progresso, della
gente in buona fede venga ancora una volta trascinata a occhi chiusi in una via che potrebbe esser
quella della sua rovina e della rovina per tutti125.
@@@
Era chiaro che per Togliatti la conclusione del dialogo con Giannini non poteva portare che alla
«resipiscenza» dei qualunquisti, all’abbandono cioè delle loro posizioni anticomuniste: il leader
comunista lo poneva come punto fermo della sua accettazione del dialogo stesso.
Giannini replicava con articoli-fiume, nei quali non riusciva a nascondere la gioia di essere asceso
al limbo degli interlocutori di una personalità così importante. Nella cordialità con la quale si
rivolgeva a Togliatti (che definirà «un galantuomo e un uomo di cuore e d’intelletto» 126) c’era un
profondo sentimento di rivalsa umana: tutti lo avevano ignorato, offeso, o, peggio, trattato con
ironia e degnazione; il «comunista», invece, mostrava di prenderlo sul serio. L’istintiva gratitudine
per chi gli consentiva, per un attimo, di sentirsi realmente tra i tessitori della politica italiana,
contribuirà non poco a spingere il commediografo ad alcune ingenue concessioni all’avversario.
Non che egli giungesse a rinnegare il proprio anticomunismo, ma chiariva che la sua opposizione si
riferiva alla «forma» totalitaria assunta dal comunismo:
@
Il nostro anticomunismo è tale principalmente in quanto è antitotalitarismo. Crediamo che il
comunismo sia totalitario e che non consenta l’esistenza di una minoranza oppositrice, d’una
stampa d’opposizione: e poiché abbiamo già esperimentato questo regime politico nei ventidue anni
ch’è durato il fascismo in Italia, siamo antitotalitari e dunque anticomunisti perché il comunismo
«appare» totalitario 127.
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Quanto alla sostanza, infatti, non esitava a scrivere che qualunquismo e comunismo avevano uno
«scopo comune» 128; ma, soprattutto, confermava «solennemente» l’osservazione di Togliatti, che
cioè la formula dello Stato amministrativo, nella quale si racchiudeva l’essenza della dottrina
qualunquista, altro non era che una formula «comunista pura». A questo punto il commediografo,
trascinato da una sorta di infantile orgoglio, sembrava davvero volersi buttare tra le braccia di
Togliatti:
@
Come non esser d’accordo con Togliatti in questa precisa perfetta interpretazione? La nostra umana
vanità d’improvvisati politici assapora soddisfatta questo ghiotto elogio d’un politico come Togliatti
che conosce il suo Marx e che riconosce che noi l’abbiamo letto, studiato, capito e oltrepassato:
come deve fare ogni scolaro con il maestro, altrimenti finirebbe il Mondo e si fermerebbe il
Progresso. Mentre i filosofi liberali hanno riso del nostro Stato amministrativo, mentre i ciarlatani
dell’azionismo l’hanno identificato col fascismo al quale essi, con i loro vari Calamandrei,
collaborarono fattivamente, Togliatti ci conferisce un diploma d’intelligenza e di diligenza [...]. Il
nostro Stato amministrativo «preso alla lettera e interpretato scientificamente» proprio come
Togliatti ha detto credendo forse d’azzardare un’opinione che ci avrebbe spaventati, il nostro Stato
amministrativo è precisamente quel «governo delle cose», e sia pure quel «comunismo puro a cui
tende la trasformazione socialista della società». Credeva forse, l’on. Togliatti, che noi ci fossimo
presa la «briga di riempirci di Marx e d’altri filosofoni al solo scopo di dire buffonate? Si rassicuri:
noi siamo gente enormemente seria, e quando proclamiamo che l’uomo qualunque deve vivere in
pace e liberamente senza essere seccato e senza seccare, noi enunciamo un principio politico,
un’esigenza insopprimibile dell’uomo d’oggi che ha fatto il suo esperimento liberale, il suo
esperimento socialista, il suo esperimento totalitario nero e rosso, durante il quale ha assistito al
supremo disfacimento del socialismo evolventesi in capitalismo di Stato con le socializzazioni e le
altre mostruose adunazioni di ricchezza che minacciano di rendere ancora più schiavo quel povero
schiavo ch’è sempre stato l'uomo qualunque nei millenni. A questo punto l’U.Q. si ferma, s’impunta
e dice: «Adagio, non tentate d’ingannarmi, il socialismo m’aveva promesso il governo delle cose,
ossia lo Stato amministrativo, non il Capitalismo di Stato che è altro affare. Mi si dia quanto m’è
stato promesso, non quello che vi piacerebbe impormi sia con la bolscevizzazione nazionalizzante
sia col saragattismo evanescente 129.
@@@
In tale contesto di comuni radici ideologiche e comuni obbiettivi finali, Giannini definiva quella che
stava avendo con Togliatti una «chiarificazione stupenda» 130. Egli scriveva che il comunismo era
una forza preziosa per la società, lo incitava a ripudiare decisamente alcuni schemi e idolatrie del
passato, ad accettare chiaramente il metodo democratico, a nazionalizzarsi («abbiamo udito parlare
d’un comunismo nazionale, svincolato da ogni soggezione straniera: perché non si fa?» 131): a
queste condizioni sarebbe stato davvero sfondato il «muro di ghiaccio» che separava qualunquismo
e comunismo.
Giannini aveva respinto l’accusa che il qualunquismo fosse antidemocratico e legato alla reazione,
al latifondo, alla camorra, all’«ala più reazionaria della Curia romana» e aveva invitato Togliatti a
rispondere ad una «precisa domanda»:
@
La democrazia progressiva è quella, una e indivisibile, che comporta una maggioranza che governa
e una minoranza libera di controllarla e libera, soprattutto, di agire per diventare a sua volta
maggioranza e prendere legalmente il potere [...]?
La democrazia progressiva esclude, come in Inghilterra e negli Stati Uniti d’America, come in Italia
prima del fascismo, che si possa conquistare il potere politico con la violenza? La democrazia
progressiva riconosce che il solo mezzo per conseguire il potere politico sia quello di riportare la
piena vittoria in libere elezioni? Se l’on. Togliatti risponderà affermativamente a queste domande
molte preoccupazioni e prevenzioni saranno eliminate, perché egli avrà dichiarato che la
«democrazia progressiva» non è totalitaria 132.
@@@
Il leader comunista, in verità, non aveva risposto nel modo chiaro che Giannini avrebbe desiderato.
Nell’articolo Un po' più di coraggio, apparso sull’«Unità» il 5 gennaio ’47, aveva scritto che c’era il
passato di lotta contro il fascismo e il comportamento presente a dimostrare se i comunisti stessero
dalla parte della democrazia: «Diteci per favore quanti sono i Comuni che abbiamo conquistato con
le latte di petrolio o scalando i palazzi municipali col pugnale tra i denti». A Giannini aveva chiesto,
se veramente voleva «fare un passo avanti sulla via della comprensione reciproca» di liberarsi
dell’anticomunismo:
@
Discutete ciò che noi siamo e ciò che noi facciamo, e non ciò che qualcuno vorrebbe che noi
fossimo o facessimo perché ciò gli farebbe comodo. Imparate a conoscerci: ecco il passo avanti che
dovete fare ora. Il resto poi, se è possibile, verrà da sé.
@@@
Giannini rilanciava la palla a Togliatti 133: era ben disposto a liberarsi dell’anticomunismo, ma
Togliatti doveva «cessare di far paura», e lo poteva fare solo «rispondendo senza giri di frase e
complicazioni d’intelligenti arzigogoli, alle nostre precise domande»: che prova era di democraticità
la conquista di amministrazioni comunali senza latte di benzina e pugnale fra i denti?
@
Noi abbiamo fatto precisamente la stessa cosa [...]: ma ciò non è bastato a convincere l'on. Togliatti
della nostra democrazia e del nostro non totalitarismo. Perché ciò che non basta a convincere lui
dovrebbe, invece, bastare a convincere noi?
@@@
Il capo comunista accennava di nuovo a Giannini in un discorso a Firenze (10 gennaio) 134, poi, il
19 gennaio, nell’articolo sull’«Unità!» Dove vai? Porto pesci!. A Firenze aveva ribadito i
lineamenti della politica comunista, la convinzione che la ricostruzione del paese non potesse
«essere condotta o diretta da un solo partito, «ma essere opera di tutte le forze vive e
democratiche»: il Pci non intendeva «fare una politica ristretta di classe, ma un’ampia politica
democratica e nazionale».
Ma questi chiarimenti non erano bastati ai suoi interlocutori, fossero Giannini 135 o gli altri
giornalisti e uomini politici intervenuti nel dibattito. Togliatti si era spazientito:
@@
La questione è che tutta questa gente, che risponde: «Porto pesci!», quando le si chiede: «Dove
vai?», (e Fon. Giannini, del resto, in questo caso non s’è nemmeno dimostrato il peggiore) non è
affatto stimolata dalla preoccupazione di impostare e seguire con attenzione e coscienza i dibattiti
politici, allo scopo d’illuminare l’opinione pubblica, favorire i necessari contatti, precisare le
indispensabili differenze. Costoro hanno la via tracciata sino all’ultimo ancor prima che noi apriamo
bocca. Qualunque cosa diciamo o facciamo, non importa nulla, devono dire e dimostrare che noi
siamo «totalitari» (che vorrebbe poi dire fascisti), squilibrati, menzogneri, seminatori di discordie,
sognatori di camere a gas, assassini, cannibali, etc. etc. Per dir questo e cercare di farsi credere da
chi li legge, gli uni son pagati in dollari: gli altri in altra valuta. Gli uni rimasticano quello che
dicevano o sentivan dire ai tempi del fascio littorio. Gli altri cercano, al di là del Tevere, nuove od
analoghe ispirazioni136.
@@@
Era quello il terzo e ultimo articolo che il leader comunista dedicava al dibattito. Nessuna risposta,
infatti, otteneva l’ennesimo articolo-fiume scritto da Giannini il 22 gennaio ’47: Togliatti locutus
est. In esso confermava che Togliatti non aveva risposto alle sue domande, che il concetto
comunista della democrazia era ambiguo, e, in ultima analisi, coincidente con il fascismo, il
totalitarismo, l’assolutismo, il «feudalismo politico». Ma da ciò non derivava l’irrigidimento
qualunquista su posizioni anticomuniste: alcune frasi di Togliatti («il marxismo [...] non è un
dogma, un catechismo, ma è una guida per l’azione. Ora l’azione per la classe operaia è arrivata
oggi a un punto tale che essa, per svilupparsi, deve seguire strade nuove, che non sono state ancora
battute nel passato»137), facevano ben sperare Giannini che il Pci avrebbe effettivamente
abbandonato, per nuove strade, il totalitarismo e tutto ciò che lo rendeva temibile al paese:
@
Ma deve conseguire, da tutto quanto sopra detto e argomentato, che la polemica è servita solo a
smascherare il Comunismo, che bisogna più di prima asserragliarsi dietro «il muro di ghiaccio» che
dal Comunismo ci divide e ci protegge, che dobbiamo riprendere «attivamente» la nostra campagna
anticomunista, non spaventandoci di portarla alle estreme conseguenze? Secondo noi no: questo
non si può e non si deve fare, è contro i nostri interessi, contro i nostri propositi, contro la morale
cristiana che ci governa e ci guida. Possiamo e dobbiamo non collaborare col Comunismo al
governo, perché non possiamo e non dobbiamo condividerne l’idea che non ci convince e che è in
netta opposizione con la nostra; dobbiamo e possiamo però collaborare con il Comunismo come
opposizione legale al Partito Comunista Italiano, e non rinunziare a nessuna possibilità d’intesa nel
superiore interesse della Patria 138.
@@@
Quella discussione con Togliatti era stata, secondo Giannini, «serena, ampia, e ci sia concesso di
dire nobile» 139:
@
Sincero e disinteressato impeto di bene ci ha mossi e ci muove verso la possibilità di un’intesa con
questa grande corrente politica che vuole ciò che noi non possiamo non volere, e cioè una maggiore
e migliore felicità per l’essere umano durante il suo terrestre passaggio. Abbiamo ardito chiamare
questo un «modus politicandi», e cioè un «modo di convivere». Perché, se, sia il Comunismo, sia
noi, siamo animati dalla buona volontà «d’assicurare all’essere umano una felicità maggiore e
migliore nel suo terrestre passaggio», perché non dovremmo «convivere combattendo», ed entrambi
tendere allo scopo che è comune? 140.
@@@
Conclusioni di questo genere vanificavano evidentemente le precedenti riserve sul totalitarismo
comunista: al di là di esse permaneva la volontà di collaborazione con una forza politica ritenuta
valida e nobilitata dalla sua missione sociale.
Ma proprio per le sue dichiarazioni di simpatia, di speranza, di coincidenza negli obbiettivi finali
con il comunismo (riaffermate solennemente, come vedremo, al secondo congresso nazionale del
Fronte dell'Uomo Qualunque), Giannini usciva sconfitto da quel dialogo. Aveva commesso un
grosso errore nel proporre, egli che era stato il simbolo dell’anticomunismo intransigente, un’intesa
con il Pci; aggravava tale errore nel ribadirne, al termine del suo «incontro» con Togliatti, la
possibilità.
Il dialogo Giannini-Togliatti era stato, certo, un esempio di correttezza e di distensione: ma appunto
per questa sua natura appariva estemporaneo in un paese in cui la radicalizzazione politica e, con
essa, la divisione tra comunisti e anticomunisti diveniva di giorno in giorno più forte. Tra i due,
naturalmente, il terribile ingenuo era stato Giannini. Togliatti non aveva fatto altro che approfittare
dell’iniziativa del leader qualunquista per tentare una penetrazione in settori fino a quel momento
pre-elusi al comunismo: non riuscendovi, perché l’anticomunismo era a tal punto radicato negli
«uomini qualunque» che questi abbandoneranno in massa il loro capo, colpevole di aver provato a
«sfondare il muro di ghiaccio» 141 che li separava dal comunismo.
Giannini sembrava essersi reso conto fin dall’inizio dei pericoli della sua apertura al comunismo,
cioè del dissenso serpeggiante alla base come al vertice del partito e delle incipienti speculazioni
avversarie sul suo preteso filocomunismo, ma aveva dichiarato di volerli ignorare, di essere
disposto a correre ogni rischio, «per puro amore di Patria e di pace»:
@
Crede davvero l'on. Togliatti, che noi non abbiamo avuto il coraggio necessario? Non gli riesce di
rendersi conto che abbiamo sfidato l’impopolarità in questa polemica con il comunismo, che da
taluno ci viene rinfacciata come un tradimento? Che c’è chi si propone d’accusarcene come d’un
delitto di leso-partito nel prossimo Congresso del Fronte? Forse cadiamo nel volgare errore di
sopravvalutarci personalmente: ma siamo convinti che pochi altri e disinteressati uomini politici
avrebbero corso, per puro amore di Patria e di pace, questo rischio 142.
@@@
Ma è certo che egli non poteva prevedere il turbine di proteste che stava per investirlo, pensava a
dissensi marginali, limitati a quelle che chiamava le «zone stupide» 143 del qualunquismo,
facilmente dominabili, come per il passato, dalla sua personalità e dal successo morale e politico di
un dialogo che al suo spirito libertario sembrava aver spianato la strada alla pace sociale.
Contro le prospettive gianniniane di un incontro col comunismo aveva cominciato invece
@
a levarsi un coro che in poche settimane assordò l’Italia, scoppiando non come «un colpo di
cannone» di rossiniana memoria, ma come diecimila cannonate. «Giannini è comunista, è passato al
Comunismo, s’è fatto fregare da Togliatti, comprare da Togliatti, è stato pagato in sterline, in
dollari, in oro, in carta, povero Giannini, vigliacco d’un Giannini, idiota d’un Giannini, filo, filo,
filocomunista, comunista, comunista, comunista [...]. Non avevo preveduto, non avrei potuto
prevedere un così colossale caso di follia collettiva 144.
@@@
Le critiche, impastate di più o meno sprezzante ironia, venivano da giornali come «Il Tempo» e «Il
Giornale d’Italia», che non avevano lesinato simpatie, fino a quel momento, per la battaglia
anticomunista del Fronte 145.
Liberali, monarchici e neofascisti avevano subito approfittato del dialogo per stigmatizzare le
ambiguità di Giannini, o addirittura il suo tradimento, e per proclamare, nello stesso tempo,
l’incorruttibilità della propria opposizione al comunismo.
Il 24 dicembre il segretario del Pli, Cassandro, si era affrettato a dichiarare, in un’intervista al
«Giornale d’Italia» 146, che il suo partito era «in contrasto irreducibile» col Partito comunista e il 1
febbraio ’47 aveva dichiarato in pieno consiglio nazionale che Togliatti e Giannini si erano ritrovati
«a un tratto, comuni antenati marxistici» 147.
I giornali monarchici avevano parlato di «idillio Giannini-Togliatti» 148, di «errore di Giannini» 149,
di malumori, dissensi e «vivaci proteste» della base qualunquista «per essersi Giannini
incautamente strofinato a Togliatti» 15°.
Significativo il titolo di un articolo apparso sul «Giornale della sera» 1’8 gennaio, Il baro:
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Non è napoletano Guglielmo Giannini? Non è nato in quella città che ha la più forte esportazione di
persone intelligenti? Ed allora, dove aveva messo tutto il suo sale partenopeo, quando gli venne
l’idea di scherzare con Togliatti? Gliel’avevamo predetto che si sarebbe trovato male: ecco l’ultima
risposta del comunista e non c’è niente da dire, ha proprio ragione Togliatti [...]. Per oltre due anni
Giannini è stato dei più instancabili e dei più abili accusatori del governo e del Partito comunista sul
terreno della realtà. Poi, all’improvviso, ci ha ripensato. Scoperto di essere un liberale, si è fatto una
coscienza da liberale ed ha scoperto, conseguentemente, di non poter essere anticomunista. Cosa
che, dice Togliatti, «a sentirla noi tendiamo l’orecchio». E ne è nata quella discussione dalla quale
Giannini è uscito battuto 151.
@@@
Nelle file neofasciste non era mancato chi, nel pieno della propria vocazione «a sinistra», aveva
giudicato «sommamente apprezzabile» quel dialogo, cioè il «passaggio dall’alterco quotidiano [...]
ad una forma più cavalleresca, e diciamo pure, più civile di lotta» 152. Ma in generale la stampa
nostalgica, specie quella ufficiale del Msi, si allineava, nella ferma condanna, con liberali,
monarchici, democristiani: Giannini era un traditore e un baro, giacché stava «corteggiando [...]
proprio coloro che si era impegnato solennemente a combattere» 153. «La Rivolta ideale» era
impegnata in prima fila nell’attaccare Giannini, scaricandogli addosso ogni genere di accuse:
parlava di «duello ad armi troppo cortesi» offerto a Togliatti «dal suo fino a ieri irreconciliabile
oppugnatore» 154, di «scambio di dolciastre amabilità» 155; Giannini era stato un «maldestro
antagonista» 156, «il neofita della politica» si era «lasciato sedurre» «dal seducente canto melodico
della sirena moscovita» 157.
Per l’organo ufficiale del Msi nessuna intesa era possibile con il comunismo, e Giannini, avviando
trattative in tal senso, aveva confermato che il qualunquismo, al pari del comunismo, costituiva una
minaccia per la nazione italiana:
@
Il Comunismo è un nemico da abbattere. Qualunque dialogo con Togliatti ci ripugna. Non
conosciamo e non vogliamo imparare il russo. Lasciamo ad altri ingenui, illusi o interessati, certe
fantasiose divagazioni158. [...] Comunismo e qualunquismo s’incontrano effettivamente, e stanno
già collaborando per affrettare la rovina della Patria. L’opposizione sabotatrice del primo equivale
alla parolaia opposizione del secondo, come la statolatria del primo confina con la statoabulia del
secondo. Entrambi sconoscono la realtà e, quel che è peggio, sconoscono l’Italia. Sposar l’uno,
equivale nei confronti degli autentici interessi nazionali, a sposar l’altro159.
@@@
Ma l’offensiva più pericolosa doveva venire dalla Dc, della quale Giannini aveva compromesso le
fortune elettorali proprio accusandola di «bolscevismo nero». La palese contraddizione in cui egli
era caduto con il suo invito alla collaborazione a Togliatti era stata subito messa in rilievo da
Andreotti, che ironizzava, sul «Popolo», a proposito degli «amorosi sensi» sviluppatisi tra i due
uomini politici:
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Permanendo il disprezzo per gli impuri democristiani, rei di peccaminosi contatti con i bolscevichi,
si passa con disinvoltura alle avances verso i rossi, alle collaborazioni tattiche [...]. È probabile che
Giannini, accortosi del passo falso compiuto, corra ai ripari, e, da bravo commediografo, non gli
mancheranno le battute per riconquistarsi il plauso del particolare pubblico imbronciato. Ma la
mossa resta di per sé densa di un gran significato [...]. Qualunquisti e comunisti differiscono nella
specie, ma hanno una identica caratteristica essenziale, il disprezzo per una democrazia così come
noi la intendiamo, regime di legalità, di effettiva giustizia e di libertà 160.
@@@
Il dialogo Giannini-Togliatti serviva dunque ai democristiani per rilanciare l’incompatibilità delle
proprie posizioni con quelle qualunquiste.
La «proposta di collaborazione e di pace avanzata da Giannini a Togliatti» era infatti conseguenza
«della sostanziale mancanza di idee e di direttive sicure di quel movimento»: lo scriveva Tupini, sul
«Popolo» del 23 febbraio ’47, in un articolo dal titolo Il partito più immenso. Secondo Tupini era
stato forse «un errore della De quello di aver sempre parlato poco di questo movimento [...]. È
quindi perfettamente naturale che la Dc senta il dovere di chiarire di fronte all’opinione pubblica il
suo giudizio sul qualunquismo». E questo giudizio era negativo: il qualunquismo non aveva «una
sua concezione filosofica, un programma originario, una qualsiasi tradizione» e appariva pertanto
«non priva di inconsapevole umorismo la pretesa di aver ‘ scoperto ’ princìpi e istituti che già fanno
parte della cultura e delle concezioni tradizionali» (si alludeva alla Corte costituzionale e alla
divisione dei tre poteri). La Dc sarebbe stata lieta dell’esistenza in Italia di un altro partito cattolico,
«ma quando mai l’Uomo Qualunque ha fatto suoi gli insegnamenti della scuola sociale cristiana
[...], quando ha fatto del solidarismo non la formula di uno statico interclassismo ma l’elemento
dinamico di redenzione dei ceti più umili?». Tupini concludeva affermando che il qualunquismo era
in declino perché era venuto meno a molte delle sue premesse e il dialogo con Togliatti non aveva
fatto altro che accentuare tale declino: «E proprio questa è la constatazione più importante che ci
sembra di poter fare».
Giannini aveva dunque offerto un’arma preziosa a liberali, monarchici, neofascisti e, soprattutto, ai
democristiani, che dell’anticomunismo andavano facendo la loro sventolante bandiera, per strappare
al Fronte dell’Uomo Qualunque i consensi di quell’opinione pubblica moderata che aveva creduto
di affidare ad esso la difesa dei propri valori e che ora guardava delusa a quella specie di
embrassons nous proposto dal commediografo a Togliatti.
Il «Fondatore» reagiva col suo scintillante stile alle accuse di filocomunismo, dichiarava di
«strafottersene» 161, insultava i suoi calunniatori chiamandoli «uomini imbecilli e melensi» 162, ma
l’etichetta di filocomunista sarà un cilicio che dovrà portarsi addosso fino al termine della sua
carriera politica.
IMM
essere sostituito col generale Marshall — al famoso messaggio al Congresso americano il passo sarà
breve.
Con la «dottrina Truman» (marzo 1947), la svolta tanto invocata da Churchill è compiuta. La lotta
al comunismo è posta al centro della strategia occidentale, il piano Marshall e, qualche anno più
tardi, la Nato, ne divengono gli strumenti più importanti (ai quali sono contrapposti, da parte
sovietica, il Cominform e il Patto di Varsavia): è di nuovo la guerra, «fredda» per la comune
consapevolezza che un nuovo conflitto non avrebbe lasciato dietro di sé vincitore alcuno, ma
egualmente tempestata di ansie e timori per i continui focolai e le crisi che rischieranno più volte di
infrangere quello che verrà chiamato l'«equilibrio del terrore».
La contrapposizione tra Usa e Urss verrà motivata con gli altisonanti miti della difesa del mondo
libero, da un lato, della liberazione dei popoli oppressi, dall’altro, ed anche se non mancava di
ragione chi vedeva al fondo di essa «la bramosia impenalistica» che «trionfava di nuovo sugli ideali
democratici»5, non c’è dubbio sulla natura ideologica dello scontro che avrebbe dominato il
secondo dopoguerra mondiale: di fronte erano due modi opposti di sentire, vivere, concepire i
rapporti tra gli uomini, e la scelta di ogni essere umano era tra uno di essi.
In tale contesto, la «scelta occidentale» dell’Italia era condizionata dagli stretti legami che fin dal
1943 essa aveva con gli Stati Uniti d’America, dei quali era «zona d’influenza». Il governo di
Washington stava fortemente contribuendo alla ricostruzione italiana e sempre più apertamente
andava subordinando la prosecuzione degli aiuti all’allontanamento dei socialcomunisti dal
governo. Ne aveva una ennesima dimostrazione De Gasperi, nel corso del suo viaggio negli Stati
Uniti (3-15 gennaio 1947). «Infatti — scrive Catalano 6 — nei colloqui che il nostro primo ministro
ebbe con lo stesso presidente Truman, con il Byrnes, con William Clayton, sottosegretario per gli
affari economici, e con gli altri esponenti americani, venne chiaramente precisato, come disse lo
stesso De Gasperi al suo ritorno, che le concessioni e gli aiuti economici (un prestito di 100 milioni
di dollari; rimborso di altri 50 milioni in risarcimento delle spese sostenute per l’esercito americano;
possibilità di finanziamenti alle nostre industrie; sblocco dei beni italiani negli Stati Uniti;
trattamento commerciale basato sulla riduzione delle barriere doganali) erano legati ‘ alla stabilità e
al consolidamento del regime democratico italiano ’. ' Ce lo siamo sentito dire da per tutto ’,
soggiungeva De Gasperi, pur cercando di respingere l’accusa di essersi prestato a campagne
anticomuniste. Ma, in realtà, le esortazioni a rendere più stabile, efficiente e compatto il governo
[...] erano proprio dirette contro i socialisti ed i comunisti [...]. Del resto, mentre nei paesi
dell’Europa orientale si susseguivano le elezioni con notevoli vittorie dei blocchi del popolo
dominati dal Partito comunista, era, in un certo senso, naturale che gli Stati Uniti cercassero di
consolidare la loro sfera d’influenza».
Le pressioni americane (e quelle dei circoli economici e vaticani) non sono però sufficienti a
spiegare la scelta dell’Italia, che i democristiani meditavano di rendere definitiva, al di là delle
formali dichiarazioni di neutralità, con l’espulsione dei comunisti e dei socialisti dal governo. La
richiesta di una politica decisamente anticomunista era da tempo il motivo conduttore della
propaganda delle opposizioni di destra, e le elezioni del novembre ’46 avevano confermato che
vasti strati di opinione pubblica erano fortemente sensibili a tale propaganda. L’anticomunismo,
insomma, non era qualcosa di importato dagli Stati Uniti insieme con i milioni di dollari di aiuti, ma
un dato radicato nella struttura sociale italiana: preparando la svolta del maggio 1947 De Gasperi
eseguiva, sì, i consigli degli alleati di Washington, ma si adeguava anche ad umori largamente
diffusi tra gli italiani, che avevano punito severamente il partito cattolico proprio per aver mancato
alla sua funzione di «diga» contro il marxismo.
IMM
Giannini reagì con un atto di forza al gesto di Patrissi. Il 25 febbraio convocò la giunta esecutiva e
fece leggere da Tieri — egli era infatti ammalato — una sua «comunicazione» 39. In essa rifaceva la
storia del qualunquismo, ribadiva la sua incompatibilità con il fascismo e accusava Patrissi, per la
sua «ambizione molto superiore alle sue capacità», di aver minato con le sue manovre
secessionistiche l’unità del partito accreditando la voce avversaria dell’esistenza di una corrente
chiaramente neofascista nel qualunquismo. Patrissi (che era in contatto — a quanto sembra per sua
stessa ammissione40 — con l’ex segretario del Partito nazionale fascista Augusto Turati) aveva
agito d’accordo con l’ex segretario generale del Fronte Armando Fresa, che Giannini accusava «per
infantile e irragionevole gelosia», dovuta alla sua sostituzione con Tieri, di aver trasformato il suo
ufficio in «sede di un vero e proprio antipartito» («Non v’è stato inevitabile dissenso, inevitabile
malinteso, inevitabile differenza d’opinioni, che non abbia trovato rinfocolamento ed esasperazione
nell’ufficio di Fresa»).
Al gruppo Patrissi-Fresa, Giannini imputava i tentativi di disorganizzazione del qualunquismo
compiuti in varie zone d’Italia, da Milano ad Avellino, allo scopo di «dargli un aspetto più
marcatamente contrario a quello che il qualunquismo vuole e deve avere». Citava il caso di Festa,
proposto per l’espulsione dalla corte disciplinare già dal 23 dicembre, per essere stato in contatto
con un centro di assistenza a favore di militari della Repubblica sociale, e quello di Pini che in
Irpinia «ha apertamente fatto propaganda, nel Fronte, per un misterioso ' movimento sociale ’».
Meschine ambizioni personali e tendenze neofasciste si intrecciavano, secondo il commediografo,
concorrendo entrambe alla disgregazione del Fronte. Bisognava dare un taglio netto alle une e alle
altre: perciò egli proponeva l’espulsione «per slealtà politica» di Patrissi, Festa, Pini (e di altri due
nostalgici, Mario Fresa e Giuseppe Rivelli) e la sospensione da ogni attività politica per la durata di
un anno di Armando Fresa («tenuto conto della sua qualità di pioniere del movimento, applicando
in via eccezionale un criterio d’indulgenza e volendo sperare che ciò serva ad evitargli una sanzione
maggiore»)41. La giunta esecutiva approvava tali proposte, con la sola astensione di Marina.
L’amputazione imposta da Giannini era dolorosa: il Fronte dell’Uomo Qualunque perdeva con
Patrissi una delle sue personalità di rilievo (Giannini aveva pensato a lui, in un primo momento, per
la carica di segretario generale) e con Festa e Armando Fresa due «pionieri».
Con quelle «punizioni» egli era convinto di aver messo definitivamente a tacere l’opposizione
interna, di aver depurato il partito dalle scorie, dando un solenne ammonimento a quanti ancora
nutrivano propositi disgregatori: era un’altra delle sue illusioni. Il malumore cresceva, sulle rivalità
personali e sul dissenso ideologico s’inseriva ora il rancore per il «dittatorialismo» del Fondatore, e
lotte di fazioni e tentativi scissionistici continuavano a movimentare le cronache interne del
qualunquismo.
Giannini era furibondo, reagiva con la nomina di commissari e insulti pubblici sui suoi giornali ai
fomentatori di disordini interni. A Napoli, come scriveva l'«Avanti!» 42, c’erano state «polemiche e
pugni» tra i vari leader locali, e Giannini aveva scritto sul «Buonsenso» 43:
@
Invito Perentoriamente e Tutti Indistintamente gli Amici di Napoli di smettere ogni polemica, di
sospendere le pubblicazioni dell’Idea Qualunquista, di non diramare altri comunicati imbecilli, di
non rompere, insomma, più i coglioni ai Napoletani e a noi, e di aspettare disciplinati che il
commissario Aprà abbia finito il suo lavoro. Soprattutto tengano presente che la pazienza del
Presidente non è eterna, e che la ramazza è già in funzione.
@@@
Era un uomo politico davvero sui generis, il capo del Fronte dell’Uomo Qualunque: non temeva di
pubblicizzare gli episodi di dissidenza, dando così modo agli avversari di specularvi. Con le sue
maniere forti, inoltre, non faceva che acuire i risentimenti. Alla base di questi sfoghi violenti, c’era
una comprensibile nota di amarezza: si vedeva circondato dal «professionismo politico», e questa
era la contraddizione più grande per un partito sorto per combattere quella mala pianta in nome
dell’onestà e della dedizione al dovere:
@
Ogni tanto qualche imbecille, o qualche criminale, dalla periferia scrive, o telefona, o viene di
persona, per spiegarci che nel suo villaggio o nella sua città si deve fare quello che vuole lui
altrimenti «tutto si sfascia» [...]. Molti di questi sporcaccioni, che ci accusano di nutrire ambizioni
dittatoriali — mentre invece la nostra sola ambizione sarebbe quella di tornare al teatro e alla
letteratura per non avere più a che fare con tanti fregnoni e lazzaroni — sono in sostanza dei piccoli
dittatori locali, i quali pensano che la dittatura sia di chi non intende subire le loro sciocche
prepotenze [...]. Tutte le irrequietezze, tutti i nervosismi, sia personali che centrali, non hanno altra
origine che quella della fermentazione di sproporzionate ambizioni nel professionismo politico che
fatalmente si sta determinando anche nel Qualunquismo, così come sulle migliori e più robuste
piante dei boschi meglio tenuti finisce sempre per arrampicarsi il parassita che bisogna combattere
con i disinfettanti e con gli altri mezzi suggeriti dall’esperienza44.
@@@
Il 27 agosto 1947, scriveva sull’«Uomo qualunque» un articolo dal titolo II partito della forchetta:
vi erano «idealmente iscritti» spiegava «tutti coloro che fanno i partiti per camparci sopra, o per
raggiungere con essi obbiettivi d’uguale modesta e contingente utilità». L’allusione era diretta ai
dissidenti interni, che, al vertice come alla base, continuavano ad agitarsi, a fare del
«sansepolcrismo», a tentare di «creare dei sottofronti, partiti nel Partito, conventicole, comunelle, e,
insomma, le solite lagrimevoli coglionerie d’ogni altra corrente politica».
Giannini era indispettito anche contro i suoi deputati che criticavano, spettegolavano, si
atteggiavano a frondisti: a Sorrento, sempre nell’agosto, aveva invitato in un discorso i qualunquisti
a «scegliersi rappresentanti più qualunquisti per le prossime elezioni» 45, provocando le immediate
dimissioni di tre di loro, Puoti, De Falco e Vilardi.
Contro gli espulsi e i dimissionari inveiva dalle colonne dei suoi giornali, cercava di diffamarli, di
ridicolizzarli: Patrissi era «l’uomo che prima parla e poi pensa», dalla «mentalità da bamboccione
inoffensivo», un «sedicente oratore che sa dire solamente ' coacervo e socialità ’» 46; Armando Fresa
era un uomo incapace perfino di parlare, tanto che durante la campagna elettorale era andato in giro
«con uno dei nostri oratori professionali che parlava per suo conto e lui presente, raccontando ogni
volta agli attoniti elettori la storiella che l'on. Fresa era affetto da raucedine per cui non poteva aprir
bocca» (!)47; Puoti («del quale non avete mai udito la voce alla Camera») aveva confessato di
essere un fascista, e non un qualunquista, e nel suo ufficio di avvocato, a Napoli, si faceva
propaganda per il Movimento sociale italiano48.
Alla fine, il commediografo si era reso conto che quelle accese polemiche «pubbliche»
danneggiavano ancor più il suo partito, accentuando una crisi che, a lungo andare, avrebbe potuto
rivelarsi irreversibile. Invano aveva cercato di rassicurare la sua base tornando agli slogan
anticomunisti, invano aveva cercato di rilanciare l’ideologia del movimento nel discorso al teatro
Petruzzelli di Bari del 4 giugno: i dieci punti esposti, con la loro anarcoide vacuità, non avevano
fatto altro che accentuare le perplessità di fedeli e simpatizzanti:
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7) I tre poteri costitutivi dello Stato si esercitano secondo le Leggi Fondamentali che la comunità si
è data e che soltanto la comunità può modificare o revocare.
8) Cardine della Legge Fondamentale della comunità sono le quattro libertà dell’Uomo Qualunque
e cioè: libertà di parola, LIBERTÀ DI RELIGIONE, LIBERTÀ DAL BISOGNO, LIBERTÀ
DALLA PAURA.
9) Una suprema corte costituzionale, cui ogni cittadino può direttamente adire, controlla ed accetta
la costituzionalità delle Leggi.
10) Custode della Legge Fondamentale e di tutte le Leggi che ne derivano è il Capo dello Stato che
la comunità elegge direttamente a salvaguardia di ogni suo diritto49.
@@@
Polemiche e dissidenze non accennavano a placarsi, il Fronte rischiava di naufragare, e Giannini si
decise a un chiarimento generale e solenne, dinanzi alla sede più appropriata: un secondo congresso.
Il secondo congresso nazionale del Pronte democratico liberale dell’Uomo Qualunque.
Giannini avrebbe voluto la convocazione del secondo congresso fin dal marzo ’47, ma gli erano
state opposte continue obiezioni da parte di Tieri (necessità del tesseramento e dei congressi
provinciali, elezioni siciliane, impossibilità di svolgere un congresso nel periodo estivo, etc.),
finché, sempre pubblicamente, aveva posto un perentorio ultimatum per il settembre:
@
Si rimanga fermi su questa decisione e non ci si ritorni più sopra. Chi è pronto tanto meglio, chi non
è pronto s’arrangi: ma si faccia finalmente questo secondo Congresso perché il Vostro povero
Dittatore non ne può più d’aver pazienza, mandar giù bocconi amari, fingere di non accorgersi di
certe cose, far finta di non averne udite certe altre. Il Congresso è la grande lavanderia del Fronte,
nella quale dovremo e potremo serenamente lavare tutti i panni sporchi che ci sono nel nostro
partito. C’è gente che non è contenta di me: che abbia possibilità di gridarlo e di provocare un voto
di sfiducia. C’è chi non è contento di Tieri: e vabbene, strilli e strepiti contro Tieri! Ci sono altri ai
quali non garba il Gruppo Parlamentare, altri ancora che non approvano l’azione giornalistica: che
possano, finalmente, urlare le loro ragioni! Poi, se non vi dispiace, ci sono anch’io che debbo
lagnarmi di qualcosa e di qualcuno: ho diritto anch’io di berciare, no? Sono forse il più fesso di
tutti? Non ho anch’io qualche merito?
@@@
Prima del congresso si svolse, nei giorni 1-3 settembre, uno speciale precongresso dei
rappresentanti maggiori del partito, voluto da Giannini e da Tieri per sedare le più spinose
polemiche ed evitare che esse venissero date in pasto all’opinione pubblica nel corso
dell’imminente adunata generale. Ma il resoconto dei lavori del precongresso, in un primo momento
tenuto segreto, venne fatto pubblicare da Giannini sull’«Uomo qualunque» del 10 settembre, per
ribattere, egli disse, i «pettegolezzi di Patricolo» 51: in tal modo, però, non si faceva altro che
stendere al sole i «panni sporchi» del qualunquismo, dando ai congressisti, e soprattutto
all’opinione pubblica, una penosa impressione.
Al precongresso il commediografo, lungi dal\ tentare di placare le acque, aveva rinvigorito i suoi
attacchi ai dissidenti:
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Io vi dico: Amici, o voi vi liberate dei pazzi, o voi vi liberate di coloro che non sanno ciò che
vogliono [...] o voi vi liberate dei fomentatori di pettegolezzi, di tutti coloro che approfittano delle
minime difficoltà del Partito per aumentare queste difficoltà e per creare crisi interne nelle quali
poter speculare o io [...] non me ne vado, no, innanzitutto perché non avrò il tempo d’andarmene,
perché sarà stato l’U.Q. a lasciarci se noi continueremo a seguire questo sistema 52.
@@@
A Patrissi e a Fresa («disgraziato manovale arricchito» 53), Giannini aveva aggiunto Patricolo,
deputato e sindaco di Palermo, il quale era intervenuto per criticare la gestione autoritaria del
partito, aveva difeso Patrissi e gli altri dimissionari, si era lamentato del metodo gianniniano di
diffamazione pubblica dei suoi oppositori interni e lo aveva accusato di mancanza di un «preciso
programma», di eccessivo liberalismo e di tiepidismo nazionalistico54.
Patricolo si era reso interprete dei dissensi dell’ala destra del partito, ma una destra che in quegli
anni andava inserendo la riaffermazione delle proprie istanze nazionalistiche in un contesto saturo
di tensioni rinnovatrici e di tendenze a porsi come terza forza tra comunismo e capitalismo 55.
Giannini lo aveva chiamato «un cotale, divenuto uomo politico per la forza e con i mezzi del
Fronte», aveva insinuato che era stato un vigliacco a non difendere Patrissi in occasione della sua
espulsione. Quanto alle accuse del deputato siciliano, il commediografo le respingeva in blocco,
negando che il qualunquismo non avesse un programma («contro questo programma noi vediamo
scatenata una lotta a cui capo sta niente di meno che la Russia sovietica» (!) o che fosse insensibile
ai problemi nazionali e a quelli sociali; esso non era nazionalista, «essendo definitivamente finita la
politica nazionalista in un continente dove non ci sono più NAZIONI ma solo esseri umani che non
vogliono più soffrire»56, e non voleva la rottura dell’unità sindacale, perché avrebbe rappresentato
la divisione della massa operaia, e quindi il suo indebolimento 57 (e nell’affermare ciò Giannini
confermava le contraddizioni e l’ispirazione libertaria delle proprie idee). Rimaneva l’accusa di
dittatorialismo. Giannini faceva rispondere da Tieri che «finora abbiamo avuto nel nostro partito un
solo dittatore o aspirante dittatore, e costui è Patricolo» ma, in realtà, non c’era alcun dubbio
sull’assoluto predominio che il Fondatore, direttamente o tramite i suoi fedelissimi, intendeva
esercitare nel Fronte: egli si riteneva il solo autorizzato interprete della dottrina qualunquista e,
sebbene avesse sempre negato di voler fare il dittatore 59, si stava mostrando spietato con chi non
applicava conformisticamente il suo «verbo», considerava i dissidenti degli eretici, si sentiva ferito
a morte dalle loro deviazioni. Inoltre, non riusciva ad ammettere la buona fede di çhi lo
contraddiceva, vedeva i suoi oppositori animati dai più meschini sentimenti, si rifiutava quasi di
discutere con quei piccoli uomini che egli aveva beneficiato e che ora, ingrati, gli si ribellavano.
Contro Patricolo aveva chiuso col dire che nei suoi attacchi «non si sente che il livore, l’acredine,
l’astio personale, qualcosa di così basso che mi sento umiliato nel difendermene» 60.
Poco più di un mese dopo, dovrà riconoscere che Patricolo era stato «il solo e leale nostro
avversario dichiarato»61.
E in effetti quella del deputato siciliano era stata l’unica voce d’opposizione chiaramente levatasi, al
precongresso, come, pochi giorni dopo, al congresso, a difendere le proprie tesi (cioè «l’idea
nazionalista — riassumerà Giannini — contro la quale il qualunquismo si dimostra assolutamente
irriducibile»62). Gli altri frondisti tacevano, sfogando nei corridoi la propria ostilità, certo intimoriti
dai sistemi duri con cui il «capo» svergognava gli avversari.
Anche per questa cautela dei dissidenti interni, il commediografo potrà illudersi dell’esito
trionfalistico del secondo congresso nazionale, svoltosi a Roma, nell’aula magna dell’università, dal
21 al 26 settembre.
Parlando agli oltre mille congressisti, Giannini fece appello a tutte le sue risorse oratorie per
eccitare la commozione, risuscitare gli entusiasmi, rinverdire la fede. Ricordò ancora una volta la
fase eroica, le coraggiose e vittoriose battaglie contro i Cln e i falsi partigiani 63, contro l’epurazione
e le prepotenze dei sovversivi; parlò con orgoglio dei più recenti successi, quali la cacciata dei
comunisti dal governo («noi abbiamo impresso il nostro pensiero alla politica italiana, noi abbiamo
imposto il Governo che volevamo alla politica italiana, noi abbiamo purificato l’atmosfera della
politica italiana») e rivendicò, contro le accuse di insensibilità ai problemi nazionali, la propria
azione in difesa dell’Italia, all’interno e all’estero: non era stato forse lui, al convegno dei
parlamentari europei di Gstaad, a pronunziare «per la prima volta, dopo la fine della guerra [...] la
difesa del soldato italiano che si è dimostrato non secondo a nessuno»? Non era stato lui ad
affermare «alto e solenne dalle tribune parlamentari, che il nostro paese non aveva nessuna colpa da
purgare, nessun conto da rendere, nessuna cattiva azione di cui pentirsi: ma che aveva soltanto
perduto la guerra e doveva pagarla»? 64
Ma nello stesso tempo, ribadendo che certe sue posizioni non dovevano essere fraintese (come in
effetti lo erano state), Giannini confermava il suo antinazionalismo e il suo europeismo, parlava del
qualunquismo come un’idea immortale e universale (il primo uomo qualunque — diceva — era
stato Adamo)65 che aveva ormai conquistato il mondo, e questo perché si fondava sull’aspirazione
alla pace, alla fratellanza cristiana e all’elevazione degli umili, secondo l’insegnamento del
Vangelo:
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L’amore, il senso religioso e politico dell’Uomo Qualunque, lavorerà e debellerà quanto c’è di
minaccioso, di terrificante, d’apocalittico, nell’aeroplano senza pilota che dovrebbe portare la morte
senza discriminazione, servire alle smisurate ambizioni d’una infinitesimale minoranza
d’intellettuali contro milioni di uomini [...].
L’uomo è più o meno lo stesso sotto tutte le latitudini. Quando noi avremo permeato di
Qualunquismo, cioè a dire di senso della giustizia, di senso dell’equilibrio, della bontà, della
religiosità, il cuore della grande maggioranza degli uomini del mondo, l’aeroplano senza pilota
servirà unicamente a trasportare con maggiore urgenza i beni dei Paesi ricchi verso i Paesi poveri
[...]. È con serenità che io vi dico: Venga pure l’aeroplano senza pilota, noi gli opporremo il
Vangelo, noi gli opporremo l’amore, noi gli opporremo la nostra spiritualità (applausi, grida). È
dunque davvero un segno di Dio, una benedizione maggiore e rinnovata che il Signore dà alla
nostra terra avendo permesso che qui nascesse l’idea costruttrice d’un nuovo modo per fondare la
convivenza sociale66.
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Nell’ambito di quello spirito evangelico, Giannini parlava al suo attonito pubblico del comunismo:
@
C’è un comunismo-dottrina politica nazionalista e un comunismo dottrina economica, rivolta alla
elevazione delle classi umili, al maggiore benessere di tutti, all’instaurazione di una nuova, vera, più
alta giustizia sociale, per citare una vecchia frase che ci è stata per tanto tempo detta, ed al cui
significato morale e sentimentale noi crediamo ancora e sempre, perché la giustizia sociale è quella
che noi cerchiamo, che noi vogliamo, alla quale noi vogliamo arrivare (calorosi battimani).
Se il comunismo è elevazione degli umili, abolizione della povertà, benessere per tutti, lavoro per
tutti, Cristo era comunista, San Francesco era comunista, io sono comunista Disgraziatamente il
comunismo italiano [...] disgraziatamente il Partito comunista si rivela sempre più come un partito
nazionalista straniero [...]. Trovi modo il comunismo di liberarsi dalle catene che lo avvincono a
mentalità e poteri che son fuori dei confini d’Italia, e troverà in noi dei fratelli (applausi) che lo
aiuteranno a compiere la sua nobile missione sociale.
Ma si liberi dalle catene che lo tengono prigioniero. Il Partito Comunista Italiano abbia il coraggio
di diventare un Partito Nazionale Comunista, e noi rispetteremo le sue idee e i suoi uomini, e
collaboreremo con loro col massimo delle nostre forze (applausi)67.
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Le speranze di poter rilanciare il qualunquismo con quei presupposti ideologici apparivano assurde:
il suo era stato, per molti aspetti, più un messaggio apostolico urbi et orbi che un discorso politico e
se i suoi obiettivi erano nobili, non potevano, in ultima analisi, che accrescere lo sbandamento del
Fronte dell’Uomo Qualunque, in un momento in cui anche la Chiesa cattolica si preparava alla
crociata contro l'Anticristo. Nell’epoca della guerra fredda non c’era posto per le idealità
gianniniane e, nel proclamare che la genuina essenza del qualunquismo era sempre stata la stessa,
quella che andava ora illustrando, il commediografo confermava che c’era sempre stato un
equivoco, tra lui e il «resto del mondo», nei modi d’intenderla.
In realtà si era verificata negli ultimi tempi, nell’animo di Giannini, una decisa accentuazione dello
spirito evangelico che era al fondo della propria ispirazione, e, con essa, un avvicinamento al
mondo del lavoro, una specie di spostamento a sinistra delle proprie posizioni. Le lotte e le
delusioni ricevute dalle destre, dalla Dc e, come vedremo, da quell’alta borghesia un tempo esaltata,
erano le cause di questa sua evoluzione, che lo portava a riaffermare solennemente la sua simpatia
per la nobile missione sociale del comunismo e la volontà di aiutarlo, senza preoccuparsi delle
reazioni del pubblico anticomunista.
Il discorso inaugurale era stato incentrato su una fiera requisitoria contro la Dc e su un’aperta
minaccia al governo De Gasperi:
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Amici miei, noi abbiamo molti nemici e ciò è perfettamente naturale. Siamo gente forte, temibile e
dobbiamo aver dei nemici. Nemici non ne ha se non chi è buono a niente (approvazioni, voci di:
Bravo!). Ma fra questi nemici, il più insidioso non è quello che molti di voi... (ilarità) perché col
nostro coraggio e la nostra dignità noi ci siamo imposti al rispetto di molti di quei nemici, e questo è
uno dei più grandi successi della nostra politica [...]. Il nostro principale nemico non è quello che ci
affronta a viso aperto, con il quale scambiamo giornalmente bastonate e sassate; il nostro nemico
più temibile è il partito della Democrazia cristiana (approvazioni) che noi appoggiamo, che noi
sosteniamo, per il cui Governo noi votiamo68.
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Aveva rievocato i vari episodi della lotta antiqualunquista del partito di De Gasperi, dai rifiuti a
collaborare all’amministrazione di Roma alla fomentazione di scissioni. E qui era chiara l’allusione
a Patrissi:
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Il capo di questi strani scissionisti che noi abbiamo messo fuori delle nostre file... (interruzioni)
Lascia fare, ne parlo per ragioni politiche, che vuoi che me ne importi di lui! Il capo e i suoi gregari
in scissionismo attaccano tutti, ma un solo partito non hanno mai attaccato: la Democrazia cristiana.
È strano. Non ci sono galantuomini in Italia in nessun partito (tranne il suo); son tutti farabutti,
senza esclusione; l’unico partito pieno di angioletti con le ali è la Democrazia cristiana.
voci: Perché lo paga.
Giannini: Sta’ zitto, non dire parolacce! (applausi).
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Non era la prima volta che Giannini si lamentava della «slealtà» della Dc e gli attacchi
democristiani non gli avevano impedito di appoggiare il governo della svolta di maggio. Ma questa
volta, dietro i suoi sfoghi, c’era qualcosa che lo preoccupava seriamente e, come di consueto, si
accingeva a rivelarlo, almeno in parte, coram populo: la Dc stava sottraendo i finanziamenti al
Fronte dell’Uomo Qualunque, il partito era senza soldi, gli ambienti che lo avevano in passato
sostenuto erano divenuti avari. Erano notizie sconcertanti per molti ingenui «uomini qualunque»,
ma Giannini non si vergognava di pubblicizzarle:
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Amici, Amiche di tutta l’Italia, io sono accusato di essere cinico, mentre invece sono un vecchio
fesso che troppe volte si commuove fino alle lacrime. Sono accusato d’essere un cinico perché dico
pane al pane e Nenni al Nenni, senza peli sulla lingua (applausi). Adesso io vi dirò un’altra verità: i
partiti, senza danari, non si fanno, e chi dice che i partiti si fanno senza danaro mente
spudoratamente. Un solo partito s’è fatto senza soldi: è stato il nostro all’inizio [...]. Per fare i partiti
ci vogliono dunque danari. I danari bisogna trovarli. C’è chi li trova con la violenza, con il ricatto,
attaccando i ricchi, mezzi che noi abbiamo sempre respinti. Dobbiamo trovare anche noi questi
danari, e ne dovremo trovare molti di più, e chi li ha ce li deve dare, perché se non ci fossimo stati
noi a quest’ora non solamente i quattrini, ma nemmeno loro ci sarebbero più (applausi).
Questo è un discorso molto serio: stiamo parlando di soldi; state attenti. Ora, mentre si dice che la
Democrazia cristiana ha trovato 160 milioni per fare le elezioni di Roma, io vi dico, Amici, che [...]
il mio giornale [...] ha corso il rischio di non uscire stamane, perché, per una questione
amministrativa poco simpatica, mi è stato messo un ultimatum, a me, a me che non solo non ne ho
mai tollerato ultimatum, che non solo non ne ho mai posti, pur avendo il diritto di porne, ma ho
impedito che gli ultimatum degli altri arrivassero a molta parte della borghesia italiana, alla quale
abbiamo ridato il coraggio e la dignità di sentirsi ancora una classe politica, col sacrificio di molti
nostri caduti. E io mi domando: come si spiega che per fare le elezioni amministrative di Roma un
partito possa manovrare milioni a diecine di diecine, e il nostro, il quale ha il solo torto di non
andare in giro col mitra oppure con la cassetta delle elemosine (risate), ma di andare semplicemente
a viso aperto, debba trovarsi senza danaro? Vi dico questo non per terrorizzarvi, non temiate che fra
poco io prenda un vassoio e venga tra voi a fare una questua. I danari ci saranno, e li andrò a
prendere io. Voglio vedere, quando andrò io, se non usciranno! So ben io dove li debbo prendere:
quindi ci saranno. Ma il fatto che ci siano negati, che ci siano contestati, che ci siano misurati, che
cosa è se non un’altra prova di quella lotta sorda, feroce, di concorrenti commerciali, che tentano di
limitare le munizioni dell’alleato che pure si batte per essi, che dovrebbe coprirne i fianchi troppo
opimi e le terga che troppe volte si sono mostrate al nemico? Perché se la Democrazia cristiana ha
anch’essa preso coraggio oggi, non ho bisogno di dirvi da chi ha avute le prime iniezioni di
«coraggina» che le sono state e le sono così necessarie per condurre la battaglia politica 70.
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La conclusione del lungo j'accuse contro la Dc era una fiera minaccia rivolta al governo De
Gasperi:
@
Io vi dico che il Governo di Alcide De Gasperi, il Governo della Democrazia cristiana, ha le ore
contate, può capitombolare da un giorno all’altro, forse domani stesso, e non nell’Assemblea
costituente, no, ma in questa Assemblea (applausi vivissimi). Questo vostro lungo e caldo intervento
dice molto di più di quanto io avrei potuto dire a voi, e mi dimostra, e dimostra agli altri, la vostra
squisita sensibilità politica. Dal Secondo Congresso Nazionale del Fronte Liberale Democratico
dell’U.Q. dipende la vita o la morte (voci: mortel) di questo Governo71.
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Era un nuovo pesante ricatto alla Dc che Giannini aveva lanciato. De Gasperi e i suoi dovevano
decidersi a cedere una porzione di potere al qualunquismo che non voleva e, come vedremo, non
poteva più attendere.
Il proposito ostentato dal Fondatore di far cadere il governo era il vero, importante risultato politico
del secondo congresso nazionale. Per il resto era mancato un chiarimento ideologico, anzi le parole
di Giannini avevano accresciuto dissensi e disorientamento; le mozioni approvate, poi, — questa
volta soltanto quattro72 — si erano limitate a ripetere i princìpi dello Stato amministrativo — con
qualche aggiustamento a favore dell’intervento pubblico 73 — e a riaffermare l’idea degli Stati Uniti
d’Europa — ma quella, parallelamente, della revisione dell’«iniquo» trattato di pace.
Ad eccezione di Patricolo le opposizioni avevano taciuto. La massa dei congressisti, poi, si era
lasciata trascinare dall’entusiasmo del momento, dai ricordi abilmente rinverditi da Giannini, dagli
osanna al papa (che, ad un certo momento, sembrava dovesse ricevere i qualunquisti in un’udienza
speciale, tanto che Giannini aveva dovuto smentire pubblicamente tale eventualità). Si erano così
dimenticate certe affermazioni del Fondatore, certi spiacevoli episodi accaduti nell’aula — come le
proteste dalla tribuna dell’on. Mastro]anni, che non era stato eletto al consiglio direttivo centrale; i
diverbi tra Bencivenga e Russo-Perez; la «comica gara» 74 tra lo stesso Russo-Perez e Selvaggi per
tenere la relazione ufficiale sulla politica estera — e le acclamazioni finali avevano legittimato
l’impressione che il Fronte fosse tornato ad essere un partito unito e vitale.
Giannini (rieletto presidente) parlava dell’esito del congresso con accenti trionfalistici: orgoglioso
del fatto che ad assistervi — sia pure in breve visita — fossero andati Togliatti, Piccioni e il
presidente dell’Assemblea costituente, Terracini, credeva davvero che per il qualunquismo stesse
iniziando l’«età dell’oro».
La rottura con la Confindustria.
Le rivelazioni che Giannini aveva fatto al secondo congresso nazionale del Fronte dell’Uomo
Qualunque e quelle che, con la sua sconcertante ingenuità, renderà note nei mesi successivi, sono di
una importanza fondamentale per documentare la strategia seguita dai potentati economici italiani
nel secondo dopoguerra.
Per l’alta borghesia imprenditoriale e agraria si era trattato, all’indomani della caduta del fascismo,
di salvaguardare le posizioni di predominio sostanzialmente conservate durante il ventennio, anzi di
abbattere quei limiti che ad esso aveva potuto frapporre la politica autarchica e interventistica del
regime.
Nel suo sforzo di ritorno al pieno laissez faire, molto era stata agevolata dalla mancanza, a sinistra,
di una effettiva volontà rivoluzionaria. I programmi economici comunisti escludevano infatti
collettivizzazioni e pianificazioni, limitandosi a propugnare la lotta alle concentrazioni
monopolistiche, la riforma agraria e quelle altre riforme che anche i cattolici, come accennato,
avevano posto alla base dei loro programmi. Poteva sembrare assurdo che Togliatti avesse
dichiarato, ad un convegno economico del Pci, nell’agosto 1945 75: «Se dicessimo di volere oggi un
piano economico generale come condizione per la ricostruzione, sono convinto che porremmo una
rivendicazione che noi stessi non saremmo in grado di realizzare. Voglio dire che anche se fossimo
al potere da soli faremmo appello per la ricostruzione all’iniziativa privata». Ma la politica
economica comunista era coerente con l’impostazione data alla politica generale del «partito
nuovo» con la svolta di Salerno. Anche in quel campo si cercava la collaborazione, e non lo scontro
di classe, ben convinti che l’ostentazione di velleità collettivistiche avrebbe portato alla rottura
dell’unità tra le varie forze politiche e al panico e al disimpegno di un’iniziativa privata che,
realisticamente, era considerata indispensabile alla ricostruzione del paese.
Una volta accettato il principio della libertà dell’iniziativa privata, però, questa aveva mostrato di
non voler subire controllo o limitazione alcuna e si era posta a lottare con sottile tenacia contro
quelle misure che, come l’avocazione dei profitti di regime, il cambio della moneta o l’imposta
straordinaria sul patrimonio, ne avrebbero compromessi gli interessi.
L’alta borghesia italiana aveva inizialmente agito con cautela sulla strada che verrà chiamata della
restaurazione capitalistica: di qui i finanziamenti alla Resistenza, le ostentazioni di progressismo e il
doppio gioco che tanto avevano scandalizzato Giannini. Essa si era servita di molteplici complicità
internazionali e, all’interno, del sostegno di partiti come quello liberale e democristiano, ostili alla
palingenesi sociale che sembrava dovesse essere provocata dal «vento del Nord» 76; aveva anche
sfruttato la remissività dei comunisti e, più in generale, l’incapacità delle sinistre di dare una
concreta attuazione ai loro programmi di rinnovamento, continuamente rinviati a un futuro più o
meno immediato, ed era riuscita in tal modo a vanificare i provvedimenti cui abbiamo accennato e
gli altri che, come i consigli di gestione, avrebbero dovuto avviare la riforma dell’ordinamento
economico nazionale.
L’alta borghesia non si accontentava, tuttavia, dell’effettiva impotenza riformatrice dei governi De
Gasperi: essa vedeva, continuamente sospesa sul proprio capo, la minaccia dell’attuazione delle
riforme, e se diffidava profondamente del Pci, nonostante le rassicuranti affermazioni che Togliatti
non tralasciava occasione di pronunziare, poneva serie riserve anche nei confronti della Democrazia
cristiana che, alleata dei socialcomunisti in nome del rinnovamento, continuava a confermare la
propria vocazione sociale, a dichiarare, come visto, che dal proprio interclassismo erano esclusi i
ceti capitalistici, contro i quali le «dichiarazioni di guerra» si susseguivano periodicamente.
In tale contesto vanno spiegate le simpatie per il qualunquismo dei «ceti ultraricchi», come li
chiamerà Giannini. All’inizio, egli si era visto negare ogni aiuto, e aveva accusato di viltà e di
mancanza di coscienza di classe l’alta borghesia che non appoggiava l’unico partito dichiaratamente
borghese esistente, non rendendosi conto delle esigenze di cautela e di diplomazia di una classe
contestata ad ogni parte e perciò costretta a restare sorda agli appelli del qualunquismo, a quei tempi
identificato sic et simpliciter con la reazione e il fascismo. Inoltre, il Fronte dell’Uomo Qualunque
non dava affidamento, forse, a quei ceti, che lo giudicavano un fenomeno transitorio.
Dopo le elezioni del 2 giugno ’46, chetatosi il «vento del Nord» e rivelatosi il successo del nuovo
partito, i circoli economici, e in particolare confindustriali, avevano ripreso coraggio e avevano
iniziato, in un certo senso, a corteggiare Giannini. Il finanziamento del qualunquismo era divenuto
sempre più consistente, fino ad assumere dimensioni solide e stabili, come si è accennato, verso la
fine del 1946, quando Giannini aveva impostato con decisione la sua politica su una alternativa di
centro-destra al tripartito, dimostrando, con il successo ottenuto, che poteva effettivamente
realizzarsi l’allontanamento dei socialcomunisti dal governo. Il qualunquismo era stato considerato,
per la sua opposizione al comunismo che altri non sapevano o non potevano assumere, un prezioso
elemento di rottura della collaborazione tra comunisti e cattolici che stava, minacciosa, alla base
della formula di governo tripartitica. Esso aveva assolto in pieno tale compito
(affidatogli, come si è visto, non soltanto dai potentati economici, ma anche da ambienti
ecclesiastici e dai settori conservatori della stessa De) 77, stimolando la «sconfitta» De alla
espulsione dei «marxisti» dal governo e sostenendo in misura determinante il monocolore
degasperiano.
Dopo la svolta del maggio 1947, le forze che in passato avevano potuto esprimere riserve e
diffidenza nei confronti della politica democristiana erano state progressivamente rassicurate dalla
constatazione che il quarto governo De Gasperi, di democristiani e tecnici, costituiva una sicura
garanzia che il quadro politico generale sarebbe stato il più favorevole al libero e pieno dispiegarsi
delle capacità imprenditoriali: lo aveva confermato indirettamente lo stesso presidente del
Consiglio, dopo la svolta, dichiarando:
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Le leve di comando decisive in un momento economico così grave non sono in mano né degli
elettori né del governo [...]. Non sono i nostri milioni di elettori che possono fornire allo Stato i
miliardi e la potenza economica necessaria a dominare la situazione. Oltre ai nostri partiti vi è in
Italia un quarto partito, che può non avere molti elettori, ma che è capace di paralizzare e rendere
vano ogni nostro sforzo, organizzando il sabotaggio del prestito e la fuga del capitale, l’aumento dei
prezzi e le campagne scandalistiche. L’esperienza mi ha convinto che non si governa in Italia senza
attrarre nella nuova formazione di governo i rappresentanti di questo partito, del partito di coloro
che dispongono del denaro e della forza economica 78.
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La «resa» del leader del partito cattolico indicava quanto labili fossero divenute le velleità
riformistiche e antimonopolistiche dei democristiani, e apriva la via allo stabile ancoramento degli
interessi confindustriali alla politica governativa. L’adesione italiana al piano Marshall, annunziato
dal segretario di Stato americano il 5 giugno, consolidava in modo definitivo tale ancoramento,
perché inseriva gli interessi italiani nel più vasto gioco del capitalismo occidentale.
La ricostruzione italiana veniva così affidata a un regime di laissez faire che secondava le
aspirazioni dell’alta borghesia, gli aiuti americani promettevano ad essa prosperità, le minacce
riformistiche apparivano sempre più come fantasmi del passato, ora che comunisti e socialisti erano
stati allontanati da ogni leva del potere: rafforzare e difendere il quarto governo De Gasperi
costituiva perciò un ovvio obbiettivo per il «quarto partito».
In questa situazione il nuovo ruolo affidato al qualunquismo, e alle destre in generale, era di
incondizionato sostegno del governo e di garanzia della sua politica anticomunista. Ma Giannini
aveva mostrato chiari segni di non essere uomo da rassegnarsi a ruoli da comparsa. Il suo dialogo
con Togliatti, che aveva chiaramente allarmato gli ambienti economici, gli aveva procurato
disapprovazioni e inviti al revirement, cui in parte egli aveva dato ascolto. Ma la cordialità della
Confindustria nei confronti del qualunquismo aveva cominciato a scemare di nuovo, nell’estate ’47,
per contrasti con Giannini sull’atteggiamento da tenere in materia di politica finanziaria.
Le severe misure di restrizione creditizia che il ministro del Bilancio Einaudi aveva annunziato
nell’agosto, allo scopo di combattere il pericoloso processo inflazionistico, avevano provocato
inizialmente «dure critiche»79 da parte degli ambienti industriali, che vedevano in esse, e non a
torto, il pericolo di una generale recessione produttiva.
Giannini scriverà di essere stato «letteralmente assediato», in quel periodo, da industriali ed uomini
d’affari che lo supplicavano di «intervenire»:
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Durante il periodo balneare siamo stati letteralmente assediati da industriali e uomini d’affari che ci
prospettavano tutti i guai ai quali il Paese andava incontro con la «rovinosa politica creditizia del
senatore Einaudi». La quiete che speravamo di godere nell’incantevole Sorrento fu turbata da visite,
telefonate, telegrammi: in cui si deprecava la politica finanziaria di Einaudi, lo si accusava d’esser
un professore, un teorico, e subordinatamente, anche uno scombinato. Potremmo fare i nomi —
quale tentazione! — di coloro che più angosciati ci chiedevano d’intervenire. Non v’era chi non ci
assicurasse che la politica d’Einaudi era folle, che la disoccupazione più pericolosa ne sarebbe stata
la conseguenza, che la produzione ne sarebbe stata arrestata. A onor del vero dobbiamo riconoscere
che solo Gaetano Marzotto ci espresse un parere nettamente contrario a quello della generalità: ma
quando riferimmo il suo parere ai moltissimi nostri sollecitatori ci sentimmo rispondere che
Marzotto aveva forze finanziarie proprie di tale importanza da potersi infischiare dei deliri teorici
dell’on. Einaudi80.
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Il commediografo s’era messo a «studiare il problema» 81, era giunto alla conclusione che le
lamentele degli ambienti imprenditoriali erano giustificate, e aveva iniziato a combattere la politica
di Einaudi, giudicando che essa «avrebbe potuto portare il Paese in un grave disordine» 82 (più tardi
la definirà «una sopraffazione finanziaria, una eccessiva restrizione del credito che impediva alle
aziende di funzionare, che anemizzava il denaro assassinando un po’ tutti»83).
Ma il governo varava anche una serie di provvedimenti a favore dei complessi industriali
(soprattutto del settore meccanico), costituendo un apposito fondo di 50 miliardi (Firn) per il loro
finanziamento: si trattava, evidentemente, di un tentativo di ovviare al pericolo della paventata
recessione produttiva, se non del vero e proprio «collasso» 84 dell’attività industriale nazionale, e
serviva, come scrive Catalano, a «calmare l’allarme dei ceti capitalistici» 85. Questi dovevano
essersi inoltre convinti della obbiettiva necessità di misure di restrizione del credito, giacché il
salvataggio della lira era in fin dei conti anche un loro interesse. Ma, soprattutto, erano giunti alla
conclusione che la lotta al governo De Gasperi — che rappresentava quanto di meglio si potesse
pretendere nella situazione politica di quegli anni — non faceva altro che favorire la possibilità di
un ritorno al tripartito, secondo la richiesta che socialisti e comunisti (questi ultimi mobilitati sulle
piazze, nel settembre, dalle direttive del Cominform), andavano continuamente gridando.
Si era avuto quindi, negli ambienti confindustriali (specie i più elevati, giacché le accennate misure
di «finanziamento delle aziende si traducevano in un rafforzamento delle industrie più forti» 86), un
mutamento d’atteggiamento circa l’opportunità di combattere apertamente la politica finanziaria del
governo, e Giannini, che aveva iniziato la sua polemica contro Einaudi tra un «coro di laudi» 87, si
vedeva repentinamente invitato a desistere dai suoi attacchi:
@
Improvvisamente dal massimo organo sindacale borghese ci vennero pressioni per cessare la
campagna contro la politica finanziaria del Governo 88.
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Il capo del qualunquismo aveva mostrato di scandalizzarsi del fatto che la Confindustria osasse
impartire ordini ad un partito, e aveva opposto loro un netto, e probabilmente violento — com’era
nel suo stile — rifiuto:
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Bisognava che la Confindustria ci convincesse che eravamo in errore, non che ci dicesse senz’altro:
«Cambiate parere». Cosa siamo noi? Forse una truppa di soldati di ventura? Una squadra di lacchè?
Una turba di schiavi affamati? Ma noi siamo uomini, e abbiamo un cervello: ed è col nostro cervello
che vogliamo giudicare le situazioni che vogliamo discutere. Questo io risposi a quei signori. E quei
signori stupirono; erano abituati a trattare con gente pronta all’inchino e al baciamano. Io
m’inchino... m’inchinavo... solamente alle belle signore, tanti anni fa: agli uomini non mi sono mai
inchinato 89.
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Iniziava, con quell’orgoglioso «no» agli ordini della Confindustria, la fase più drammatica della
vicenda politica e umana del povero Giannini. In questa occasione egli rivelava l’onestà della sua
personalità e la buona fede del suo qualunquismo, ma, anche, la sua ingenuità di parvenu della
politica, che credeva di poter ignorare la forza schiacciante di certi ambienti economici e i
condizionamenti che impongono ad uomini e partiti: cominciava anche a comprendere di essere
stato soltanto uno strumento nelle loro mani.
Le gravi difficoltà economiche del Fronte che Giannini aveva rivelato al secondo congresso,
insieme a oscuri ultimatum postigli 90, erano dunque causate dalla crisi con la Confindustria che,
dal momento in cui il commediografo s’era rifiutato di cessare gli attacchi al governo, aveva
sospeso i finanziamenti. Quella crisi era destinata a sfociare nell’aperta rottura.
IMM
Che con gli aiuti economici all’Europa, gli Stati Uniti tendessero a creare un blocco antisovietico,
da loro egemonizzato, apparve subito chiaro dal rifiuto del piano, dichiarato da Molotov, il 2 luglio,
a nome dell’Urss e dei paesi comunisti: il piano Marshall — scriveva la «Pravda» — non era altro
che una ripetizione della dottrina Truman «mirante a intervenire negli affari interni degli Stati sotto
la pressione dei dollari» 156.
La risposta sovietica al piano Marshall e alla dottrina Truman veniva, nel settembre, con la
costituzione del Cominform. La reciproca sfida che avrebbe a lungo caratterizzato i rapporti tra i
due blocchi era un dato di fatto, e la Nato e il Patto di Varsavia l’avrebbero soltanto resa più
drammatica.
@
Due politiche opposte si sono cristallizzate — affermava infatti la dichiarazione costitutiva del
Cominform157 —: a uno dei poli, la politica dell'Urss e degli altri Paesi democratici, che mira a
scalzare l’imperialismo [...] al polo opposto la politica degli Stati Uniti d’America e dell’Inghilterra
che mira a rafforzare l’imperialismo [...] i partiti comunisti devono mettersi alla testa della
resistenza ai piani imperialistici [...] devono serrare i propri ranghi, unire i propri sforzi [...] e
raggruppare intorno a sé tutte le forze democratiche e patriottiche del popolo.
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A Breslavia, dove per sette giorni si erano svolti i lavori da cui sarebbe scaturita la costituzione del
Cominform, era stata duramente attaccata la politica del Partito comunista italiano. accusata di
opportunismo e di debolezza, di avere troppo a lungo cercato la collaborazione con le forze
borghesi e non la lotta contro di esse, di essersi rassegnata passivamente, inoltre, all’offensiva
contro i partiti proletari, coronata da successo nel maggio ’47.
In sostanza, si chiedeva al Pci il netto ripudio della «via nazionale al socialismo» e della
«democrazia progressiva» elaborate da Togliatti, si imponeva un’aperta dichiarazione di guerra a
quelle forze con le quali il leader comunista sperava di potere avere ancora intese, il ritorno alla
teoria e alla pratica rivoluzionaria della lotta aperta e senza concessioni al mondo borghese,
capitalistico, imperialistico.
Le direttive del Cominform vennero recepite nelle nuove parole d’ordine del Pci, che ora chiamava
alla lotta contro i «reazionari italiani e in particolare [contro il] partito democristiano, servitori
dell’imperialismo americano a cui vogliono asservire il nostro Paese» 158.
Le tendenze radicali del partito, che Togliatti aveva cercato in ogni modo, fino ad allora, di tenere a
freno, si sentirono legittimate a liberarsi, la base operaia e partigiana si sfogava nelle manifestazioni
di piazza della pesante moderazione imposta alle sue velleità rivoluzionarie.
Nell’autunno del ’47, si succedevano quotidianamente «scioperi tumultuosi, [...] manifestazioni di
strada, [...] attac[chi] alle sedi di tutti i partiti, dal Msi al Psdi; il Pc sfruttava insomma tutte le
occasioni, che non mancavano, di organizzare in modo aggressivo il malcontento popolare» 159.
Togliatti non pensava certo a sbocchi insurrezionali, la sua era piuttosto una forzata obbedienza alle
direttive del Cominform, dietro la quale non rinunziava a svolgere quell’azione di freno, necessaria
ad evitare scontri frontali con lo Stato borghese.
Sintomatico di questa politica, fu il caso Troilo, il prefetto di Milano nominato dal Cln. Nel
novembre, il ministro degli Interni, Scelba, avrebbe voluto sostituirlo, ma si trovò di fronte alla
reazione dell’apparato comunista milanese, mobilitato da Giancarlo Pajetta, il quale giunse a far
occupare da ex partigiani armati la prefettura finendo convocato a Roma da un Togliatti
«furibondo» 160.
Ma gli sforzi di Togliatti di rimanere in qualche modo fedele ai postulati della svolta di Salerno
erano vani: nel rivoluzionarismo imposto da Mosca, gli avversari volevano vedere ad ogni costo il
vero volto del Pci, che solo il calcolo del suo astuto leader aveva tenuto fino a quel momento
nascosto.
I tentativi di penetrazione in aree sempre più vaste di opinione pubblica, grazie alle ostentazioni di
democraticità e di rispetto per gli ideali piccolo-borghesi, dalla religione al patriottismo e alla difesa
della proprietà, già resi difficili da un antisocialismo radicato in certi settori del paese e
continuamente rinfocolato dal massimalismo ricorrente nella base di sinistra, ora si stavano
infrangendo definitivamente sugli scogli della guerra fredda, che aveva provocato il ritorno a
schemi di propaganda e di lotta in precedenza superati dal «partito nuovo».
Il volto con cui si era cercato di far accogliere il Pci nel novero delle forze democratiche, quale
elemento indispensabile per la ricostruzione nazionale, stava ora perdendo ogni residua base di
credibilità. Si avvicinavano gli anni del ghetto politico e delle scomuniche.
Il 18 aprile 1948 è alle porte. I disordini e le violenze «rosse» all’interno, l’eco drammatica di
avvenimenti come il colpo di Stato comunista in Cecoslovacchia (febbraio 1948), favoriscono la
propaganda di chi vuol porre il paese dinanzi a una scelta che può dimostrarsi «fatale», quella tra
libertà e dittatura, civiltà e barbarie, materialismo e cristianesimo. La Democrazia cristiana ha ormai
fatto dell’anticomunismo più apocalittico la propria bandiera, ponendosi come «l’ultima ma
poderosa trincea in cui si difende la libertà», come il partito «all’avanguardia nella battaglia per
l’indipendenza nazionale dalle brutali manomissioni barbariche» 161.
I risultati, come noto, premiarono al di là di ogni più rosea previsione il partito di De Gasperi,
conferendogli il 48,5% alla Camera dei deputati e il 48,2% al Senato e, in entrambe le assemblee, la
maggioranza assoluta dei seggi (rispettivamente 305 e 131).
A sinistra si era sperato, con la formula del Fronte democratico popolare, di ampliare in misura
massiccia i successi registrati nelle amministrative del novembre 1946 e nelle regionali siciliane
dell’aprile ’47, e di ottenere o di almeno sfiorare la maggioranza, in modo da poter capovolgere una
situazione politica decisamente avversa (il governo, allargato nel dicembre ’47 a repubblicani,
liberali e socialdemocratici, aveva mostrato di possedere una base parlamentare larghissima: il 19
dicembre aveva infatti ottenuto la fiducia con 365 voti contro 118). La delusione fu grande.
Comunisti e socialisti non riuscirono a conquistare che il 31,0% e 183 seggi. Essi parleranno, nella
irritazione della sconfitta, di elezioni non libere a causa dello sfacciato intervento straniero e del
«terrorismo religioso» 162 che aveva artificiosamente posto gli italiani di fronte a un’assurda guerra
di religione. E certo avevano molte ragioni, giacché non erano un mistero il clima da crociata creato
dal Vaticano 163, gli scopi elettoralistici di certe clamorose iniziative degli alleati occidentali come,
il 20 marzo, la promessa, con la Dichiarazione tripartita, della restituzione di Trieste all’Italia, o le
minacce di sospendere gli aiuti al paese in caso di vittoria dei socialcomunisti.
Ma era pur vero che, a fare blocco intorno alla Dc, era la stessa maggioranza, sia pure gonfiata a
dismisura dal clima di «grande paura», che già il 2 giugno ’46 aveva mostrato di essere orientata su
posizioni moderato-conservatrici e anticomuniste. A ben vedere, infatti, l’estrema sinistra, tenuto
conto dei voti di Unità socialista, aveva accusato una flessione del solo
IMM
1,6% (il Fronte aveva perduto nell’Italia centrosettentrionale, guadagnato in quella meridionale: in
realtà a cedere erano stati i socialisti, giacché il Pci aveva aumentato suffragi e seggi).
La Dc aveva eroso notevolmente le posizioni dei repubblicani e di quelle forze della sinistra
democratica, come gli azionisti, scomparse dalla vita politica, ma la maggior parte del suo
incremento elettorale, lo aveva ottenuto ai danni delle destre che, rispetto al 2 giugno, perdevano
ben il 6,3%. Rispetto al novembre ’46, poi, la ripresa della Dc appariva strepitosa, ed altrettanto la
débàcle delle destre e, come vedremo, del qualunquismo in particolare. Si era avuto, in sostanza,
uno spostamento di voti in direzione inversa a quella verificatasi nel novembre ’46: allora una parte
notevole dell’elettorato moderatoconservatore aveva abbandonato la Dc riversandosi a destra; ora,
rassicurato dall’acceso anticomunismo di De Gasperi, era tornato in massa al partito cattolico
(accompagnato, nell’eccezionaiità del momento, da molti elementi «moderati» della sinistra).
Questo dato risultava particolarmente evidente nell’Italia meridionale, tradizionale roccaforte delle
destre: vi avevano perduto ben il 12,4% (dal 31,5% al 19,1%) mentre la Dc era passata dal 35,0% al
50,2% (+ 15,2%); nell’Italia settentrionale esse si erano ridotte al 3,0% (—3,5%); in quella centrale
al 5,1% (—6,9%); in Sicilia al 20,0% (—7,5%); in Sardegna al 13,1% (—5,6%).
Il referendum anticomunista del 18 aprile 1948 aveva visto il blocco moderato-conservatore (Dc +
destre) raccogliere il 57,1% dei voti (contro il 50,1% del 2 giugno): e questa era la dura realtà
contro la quale si infrangevano le illusioni di rilanciare gli ideali di rinnovamento della Resistenza,
le speranze di non sciupare definitivamente l’occasione storica presentatasi con la caduta del
fascismo.
Gli interessi dei potentati economici, coalizzatisi con quelli della gerarchia ecclesiastica e degli
ambienti conservatori interni e internazionali, erano riusciti a saldare a sé la grande maggioranza del
paese, ripetendo l’operazione compiuta con successo con il fascismo.
IMM
Ma c’è di più. Ad accaparrare la maggior parte degli scarsi suffragi del Blocco nazionale erano stati
i liberali, che avevano lasciato ai qualunquisti soltanto 5 dei 19 seggi ottenuti alla Camera e soltanto
1 dei 7 ottenuti al Senato 164.
Il Fronte dell’Uomo Qualunque era stato dunque cancellato dal panorama politico italiano: la sua
repentina fine era impressionante, se si paragonavano i cinque deputati del 18 aprile 1948 non tanto
con i trenta del 2 giugno 1946 (divenuti in seguito 37), ma con il centinaio che ci si era
legittimamente atteso dopo la grande vittoria nelle amministrative del novembre.
In verità, già il 20 aprile del 1947, nelle elezioni regionali siciliane, il qualunquismo aveva
mostrato, come accennato, che le sue capacità di presa sull’elettorato erano in declino. Nelle
elezioni amministrative di Roma del 12 ottobre ’47, poi, i seggi del torchietto erano stati quasi
dimezzati, a vantaggio della Dc che, per la prima volta dopo il 2 giugno 1946, aveva iniziato a
risalire la china dei suoi insuccessi:
IMM
La crisi del qualunquismo, che il suo capo addebitava esclusivamente ai tradimenti e ai complotti,
era perciò, da diverso tempo, anche crisi di fiducia della sua base.
Giannini non aveva saputo impostare un’azione di riconquista delle simpatie che gli stavano
sfuggendo. Il rancore per le disavventure subite gli aveva fatto perdere ogni senso della realtà, per
cui la sua campagna elettorale era stata una continua lamentela contro i suoi persecutori e
calunniatori, dalla Dc all’alta borghesia, dal «brigante di mare» 165 Lauro a Costa, «bizzarro
argonauta genovese che pretende di fare il bello e il brutto tempo nella politica italiana» 166, dagli
scissionisti agli «straccioncelli del Msi» 167:
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Avevo contro di me — si giustificherà il 28 aprile 168 — tutta la Democrazia cristiana, la
Confidustria, la Confida, la potenza personale del commendator Angelo Costa, armatore italo-
panamense e miliardario; nonché quella del suo collega minore Achille Lauro, armatore italo-
napoletano, proprietario di tutti i giornali quotidiani di Napoli, a eccezione del comunista «Voce», e
praticamente dittatore del pensiero nell’Italia del Sud. Basterebbe un tal imponente gruppo di
nemici per darmi, secondo quanto diceva Mussolini, un onore enorme. Ma non basta. Ho avuto
contro di me il cento per cento della grande e piccola stampa italiana, dal «Corriere della Sera»
all’ultimo quotidianello pseudoborghese e liberaloide della Sicilia.
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La sua era stata dunque una battaglia difensiva, infarcita di vittimismo e priva di mordente ideale.
Le tragiche vicende subite avevano provocato una ulteriore spinta a sinistra del suo qualunquismo,
in cui la lotta della folla contro i suoi oppressori era divenuta innanzitutto lotta contro gli
«ultraricchi» che la sfruttavano: ma aveva sciupato questa sua «scoperta» inserendola in un contesto
che delineava il ritorno alle tesi più amare e scettiche del qualunquismo. Aveva gridato che, dietro le
opposte bandiere e ideologie, c’erano solo gli interessi economici dei ceti plutocratici, ai quali, in
Italia, erano asserviti sia la Dc che il Pc, che, con le loro ambizioni di bipartitismo, miravano a
schiacciare il popolò 169.
Quanto alla situazione internazionale, quel contrasto tra i due modi di vivere che stava dividendo il
mondo, era solo contrasto tra i meschini interessi commerciali dei «cinquecento o mille miserabili
che effettivamente governano il mondo», mem-
IMM
bri della «piccola aristocrazia ultraricca che veramente non ha patria» 170. L’Italia, anche se
tendenzialmente portata a simpatizzare per l’Occidente, non doveva aderire a nessuno dei due
blocchi «per sostenere l'una o l’altra ideologia che abbiamo riconosciute egualmente false e
bugiarde», giacché avrebbe corso il rischio di essere polverizzata dal loro scontro; doveva invece
lavorare per la costruzione degli Stati Uniti d’Europa, i quali avrebbero dovuto «dire all’Oriente e
all’Occidente: fate i vostri affari all’infuori di noi e tenetevi lontani dai nostri territori e dai nostri
interessi» 171.
Nessun «uomo qualunque» avrebbe più dovuto soffrire o morire, dunque, per i «lerci interessi»
mascherati da «fesserie» come «la sinistra e la destra, il fascismo, l’antifascismo, il comunismo,
l’anticomunismo» 172:
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Affari: nient’altro. I politici professionali, reggitori della società anonima dello Stato russo,
vogliono fare affari sul petrolio della Persia e avere il modo d’affacciarsi sul Golfo Persico e sulle
coste mediterranee dell’Asia Minore, per poter vendere il loro petrolio al prezzo che a loro fa
piacere. Gli uomini d’affari che dirigono la politica americana vogliono anche loro avere il petrolio
persiano per le stesse nobilissime ragioni. Gli uomini d’affari inglesi hanno anch’essi il desiderio
d’impadronirsi dei petroli persiani, potenziando ancora più quella loro Anglo-Iranian Company che
monopolizza tutto il commercio petrolifero dell’Oriente vicino e medio. Ora, noi, uomini
qualunque, non abbiamo nulla in contrario a che qualcuno faccia il commercio del petrolio;
vogliamo solo non esser chiamati alle armi e mandati a scannarci con altri uomini qualunque d’altre
nazioni sotto il pretesto di ideologie che inalberano le magiche parole di Civiltà, Storia, Razza,
Cultura, Patria, e altre ignobili bugie sotto le quali si nasconde il petrolio. Vogliamo, insomma, non
esser più vittime di questa truffa. [...] Ora tutto questo quando scomoda i socialcomunisti diventa
fascismo, quando scomoda i democristiani diventa comunismo. Ed ecco perché noi, che vogliamo
soltanto difendere i nostri coglioni dalle rotture che ci vengono da destra e da sinistra, siamo volta a
volta accusati d’esser filofascisti dai sinistri e filocomunisti dai destri173.
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IMM
Con tali crude tesi, Giannini non poteva certo sperare di riscuotere successo. La sua voce non aveva
recepito la tensione morale del tempo, le scelte che l’umanità credeva di dover compiere, e si era
perciò perduta nel vuoto, insieme col suo anarcoide invito al terzaforzismo:
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Noi staremo fra le due superbestie, quella rossa e quella nera, per attenuare l’urto fra la destra e la
sinistra e per imporre a tutti il rispetto delle libertà democratiche 174. Il Blocco Nazionale dovrà
appunto costituire quella terza forza che si inserirà fra la massa democristiana e quella comunista
per evitare che la libertà venga schiacciata da un nuovo e non meno tragico totalitarismo 175.
(da «Il Buonsenso», 23 febbraio 1947)
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IMM
Neanche le sue filippiche contro la Confindustria e gli uomini ad essa asserviti 176 avevano
impressionato, a quanto pare, i qualunquisti: in fondo anch’essi erano membri della borghesia,
alleati con le sue più elevate sfere nella difesa contro il comunismo, e i loro orecchi erano troppo
rapiti dal grido di «Roma o Mosca» per poter prestare ascolto a chi ne andava svelando tutti i
retroscena.
Tra i cinque deputati qualunquisti eletti non figurava il nome di Giannini. Egli aveva rifiutato di
essere inserito nella lista nazionale, perché Nitti aveva preteso per il proprio figlio Giuseppe il
secondo posto (il primo era stato destinato ad Alberto Giovannini). Al terzo posto, il
commediografo aveva preferito inserire la sorella Olga, regolarmente eletta. Nei tre collegi in cui si
era presentato (Roma, Pisa, Napoli) era stato clamorosamente battuto, e quella ennesima delusione
lo aveva portato al limite della resistenza fisica e morale.
Anche i suoi principali «nemici» erano stati sconfitti: Selvaggi si era presentato invano nelle liste
del Pnm; Patrissi, unico consigliere comunale eletto, nelle amministrative romane del 12 ottobre
1947, nelle liste del Movimento nazionalista per la Democrazia sociale, da lui fondato dopo
l’espulsione dal Fronte dell’Uomo Qualunque, aveva ottenuto, con lo stesso emblema, poco più di
4.000 voti a Roma (e 1.094 di preferenza), trascinando nell’insuccesso Armando Fresa e Renato
Puoti; Tieri (che Giannini accuserà di essere finanziato dagli industriali dello zucchero) 177 aveva
raccolto, con una lista improvvisata, La Destra, appena 69 preferenze (l’intera lista, a Roma, 1.472
voti; con Tieri si era «bruciato» Giuseppe De Falco). Ma questi dati non erano certo sufficienti a
consolarlo, tanto più che fra gli eletti c’erano Russo-Perez (uno dei sei deputati del Msi) e, nella sua
Napoli, Alberto Consiglio ed Ezio Coppa (entrambi nel Pnm), che egli considerava traditori del
qualunquismo, passati a Lauro per i suoi soldi 178: il qualunquismo era stato sgretolato e il suo capo
umiliato; poco importava la sconfitta della maggior parte dei transfughi 179.
Quest’ultima confermava tutt’al più che, a parte le frange confluite nel Pnm e quelle, esigue, attratte
dal Msi, la massa dell’elettorato qualunquista del 2 giugno, e soprattutto del novembre 1946, era
stata riconquistata dalla Dc. E nello spiegarne le ragioni, Giannini tornava a vane recriminazioni,
pur partendo da lucide premesse quando sosteneva che le elezioni avevano inflazionato la Dc
perché si erano svolte «sotto il segno della paura» 180 e che era avvenuta una vera e propria
«circonvenzione d’elettorato incapace» 181.
Dopo le elezioni del 18 aprile nel Fronte avvenivano nuove polemiche, nuove lotte e dimissioni.
Furono vicende penose per Giannini: lo abbandonavano tutti, dai deputati ai consiglieri comunali di
Napoli, dagli assessori di Roma 182 agli iscritti (circa mezzo milione nel settembre ’47) 183 e ai
semplici simpatizzanti.
A dargli un momentaneo sollievo veniva la notizia dell’accoglimento del ricorso presentato alla
giunta delle elezioni della Camera dei deputati da Igino Lazzari — nuovo segretario generale del
Fronte, e in realtà l’ultimo — per il controllo delle schede nulle della circoscrizione di Roma:
Giannini, che in precedenza si era visto escluso dalla elezione per soli 765 voti (era risultato primo
nella lista del Bn con 13.055 voti, contro i 59.555 del ’46) era così proclamato deputato 1’11 ottobre
1949. La rielezione sembrava avergli dato nuova vitalità, sì da indurlo a tentare una
riorganizzazione del Fronte, un rilancio del qualunquismo sulle posizioni terzaforziste che aveva già
manifestato nella campagna elettorale del 18 aprile. Il 13 dicembre, in un comizio al Metropolitan
di Bologna184, proponeva la creazione di un grande Partito del lavoro orientato su una linea di
centrosinistra, invitava Romita («mio buon amico») e Saragat («mio ottimo amico») a farvi
confluire le proprie forze, la borghesia a fornire uomini e mezzi. Ma il suo appello cadeva nel
vuoto. Nel ’53 il vecchio leone era soltanto un’ombra di se stesso: si era ridotto ad appoggiare la
Democrazia cristiana, perfino in certe iniziative, come la c.d. «legge truffa» che, appena qualche
anno prima, lo avrebbero certamente fatto fremere di sdegno.
Per le nuove elezioni, quelle del 7 giugno ’53, accettò l’invito di De Gasperi a presentarsi come
indipendente nelle liste della Dc nei collegi di Roma e di Bari: fu una cocente lezione alla sua
mancanza di rassegnazione ad abbandonare dignitosamente la politica, alle sue velleità di contare
ancora qualcosa. A Roma finì al ventisettesimo posto con 13.439 voti (contro i 244.154 di De
Gasperi); a Bari risultò ventunesimo su 23 candidati con 11.785 voti. Nel 1958 volle ritentare la
fortuna addirittura nelle liste del suo acerrimo nemico Lauro, cioè nel Pnm, a Roma e a Napoli: nel
primo collegio finì sesto con appena 4.967 voti (contro i 30.761 di Lauro) e nel secondo
tredicesimo, con 10.683 (contro i 172.299 del «Comandante»).
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Giannini morì a Roma il 13 ottobre 1960 (subito dopo cessò la pubblicazione dell’«Uomo
qualunque»). La sua carriera politica era finita, al di là dei tentativi di rilancio, il 18 aprile
1948. Da molto era un uomo stanco, irrimediabilmente frustrato dalla vita e dagli uomini.
A sinistra si era compreso il suo dramma e nell’ultima fase della sua presenza in Parlamento non gli
erano mancate, da quei settori una volta accesamente ostili, attestazioni di rispetto e di stima
(Togliatti era giunto, per le elezioni del ’53, ad invitarlo nella lista del Pci 185). Dopo il 18 aprile ’48
era tornato a dedicarsi soprattutto al teatro, ma il ricordo delle amarezze subite durante la parentesi
politica sembrava perseguitarlo e, tra una recriminazione e l’altra riemergeva, improvvisa,
l’angoscia per la morte del figlio, alla quale non era riuscito ancora a rassegnarsi.
Il qualunquismo era destinato a sopravvivere a Giannini, come generico e interclassistico
atteggiamento di disprezzo per la classe politica a tutt’oggi vivo, e che ha anzi toccato in questi
ultimi tempi le punte più acerbe, ma soprattutto come atteggiamento caratteristico dei ceti medi.
Disprezzo per la politica, sfiducia nelle istituzioni e nei loro rappresentanti, amaro scetticismo nei
confronti degli ideali ostentati dai «politicanti» e asociale rinchiudersi nel mondo dei propri
interessi particolari e, molto spesso, parassitari; ma, nello stesso tempo, desiderio di quieto vivere,
moderatismo, quindi, e anticomunismo come istintiva avversione alla «rossa» ascesa delle «masse»:
queste, ancor oggi, le componenti fondamentali dell’atteggiamento psicologico-politico di una
piccola borghesia numericamente cresciuta, dal dopoguerra ad oggi, proprio nei settori — impiegati
e commercianti 186 — più facilmente sensibili al «qualunquismo».
Il desiderio di quieto vivere ha spinto la maggioranza dei ceti medi ad aderire, dopo il fascismo e la
breve simpatia per il partito di Giannini, alla Democrazia cristiana e, per essa, alle istituzioni
democratico-parlamentari. Ma è stata, questa, una adesione avvenuta all’insegna della
rassegnazione (del meno peggio) più che di una effettiva convinzione e scelta ideale, che anzi la
sfiducia e lo scetticismo nei confronti di partiti, uomini politici e istituzioni, rendono la nostra
democrazia perennemente esposta alle minacce del neofascismo. Perché quando il disordine e il
comunismo sono apparsi comprometterne le istanze moderate, nella maggioranza di «buon senso,
buon cuore e buona fede», recentemente chiamata «maggioranza silenziosa», quella sfiducia e
quello scetticismo si sono esasperati, ed essa ha mostrato la tendenza a divenire oltremodo sensibile
al richiamo di coloro che, a cominciare dal «principio superiore» dell’ordine, hanno fatto proprio il
linguaggio qualunquista, ma nell’ambito della loro vecchia contestazione del sistema democratico,
nel nome di una concezione gerarchica e attivistica della vita estranea, come si è già osservato, al
desiderio di quieto vivere della suddetta maggioranza.
La nostra storia più recente lo conferma. Ogni qualvolta è apparsa venir meno alla propria funzione
di partito d’ordine, antimarxista, la Dc è stata costretta a cedere frange più o meno consistenti di
elettorato «moderato» alle destre (ai qualunquisti, come visto, nel novembre ’46; ai monarchici e ai
missini negli anni Cinquanta e nel ’72), mentre li ha recuperati, ai danni delle destre, quando ha
accentuato tali caratteristiche (la «diga» contro il comunismo nel ’48, il «progresso senza
avventure» nel ’68, la nuova crociata anticomunista del ’75).
Dal dopoguerra ad oggi la lotta politica italiana è stata dunque, da questo punto di vista, lotta tra Dc
e destre per contendersi i consensi della «maggioranza silenziosa», cioè le sue frange perennemente
oscillanti dall’una all’altra in difesa del proprio mondo moderato. Di qui il dramma del partito
cattolico (e, sic et simpliciter, della democrazia italiana), costretto a ridimensionare continuamente
la propria vocazione sociale per l’esigenza di non esasperare il qualunquismo largamente diffuso
nella sua base elettorale.
Ma qualcosa, ultimamente, sembra essere cambiata.
La «lezione» di Togliatti è stata pienamente compresa, sicché tutti gli sforzi si sono diretti, da parte
del Pci, proprio in direzione dei ceti medi, per sottrarne la maggior parte possibile all’influenza
delle forze conservatrici e perfino dell’estrema destra. Il successo, come noto, non è mancato.
Aliquote importanti di questi ceti hanno sposato negli ultimi tempi la causa del progresso e della
democrazia, come ha dimostrato l’esito del referendum sul divorzio. Il loro contributo alla storica
svolta a sinistra del 15 giugno 1975 è stato infine sorprendente, tanto da far pensare che la protesta
piccolo-borghese contro la corruzione e l’inefficienza dei governanti, la protesta qualunquista
insomma, abbia iniziato a cercare un costruttivo sbocco a sinistra, perdendo in tal modo la sua
tradizionale componente anticomunista. Quest’ultima, tuttavia, continua a costituire parte integrante
e in fondo qualificante, come si è detto, di una parte ancora grande dei ceti medi, quelli che hanno
sentito il bisogno di raccogliersi attorno alla nuova crociata anticomunista della De e del Msi-Destra
nazionale. La Democrazia cristiana ha finito col perdere, con le sue componenti più aperte al
rinnovamento — e con quelle meno timorose del cambiamento o, in ogni caso, esasperate dal
malgoverno — molti dei suoi alibi interclassistici, fino ad apparire, con una nitidezza mai avuta
prima, il partito dei moderato-conservatori. Ma con ciò essa è divenuta maggiormente esposta ai
ricatti della concorrenza dell’estrema destra, e quindi ancor meno disponibile al dialogo con il
Partito comunista: ed è questo, nell’attuale realtà politica italiana, il nodo più importante da
sciogliere.
NOTE
%
I. Antifascismo e qualunquismo.
1 Μ. Lo Vecchio-Musti, Il qualunquismo. Cronache di un nuovo movimento politico, Roma 1950, p.
2.
2In Μ. De Maggi, Cronache senza regime. Vicende italiane dal 1944 al 1952, Cappelli, Rocca San
Casciano 1953, pp. 41-2.
3 Cfr. ad esempio P. Nenni, Che cosa è, che cosa ha fatto, che cosa vuole il Partito Socialista,
opuscolo, in Tagli netti, «Avanti!», 17 giugno 1944 (articolo non firmato, in L. Guerci, Il Partito
socialista italiano dal 1919 al 1946, Cappelli, Rocca San Casciano 1969, pp. 215-8).
4 In E. A. Rossi, Dal Partito popolare alla Democrazia cristiana, Cappelli, Rocca San Casciano
1969, p. 339. Le Idee ricostruttive della Democrazia cristiana furono elaborate essenzialmente da
De Gasperi e pubblicate nel periodo 25 luglio - 8 settembre 1943.
5 B. Croce, Scritti e discorsi politici (1943-1947), Laterza, Bari 1963, vol. I, p. 105.
6 Ivi, p. 124.
7 L. Piccardi, La storia non aspetta (1942-1956), Laterza, Bari 1957, p. 15.
8 L. Sturzo, DC «una e multipla», «Il Popolo», 8 gennaio 1946.
9 Così si esprimeva (riferendosi al «nuovo liberalismo») un fedele discepolo di Croce: A. Parente, Il
pensiero politico di Benedetto Croce e il nuovo liberalismo, Artigianelli, Napoli 1944, p. 44.
10G. Dorso, L'occasione storica, Einaudi, Torino 1955 (raccolta di articoli del periodo 1943-46, la
maggior parte dei quali — maggio-dicembre 1945 — pubblicati sul quotidiano «L’Azione» di
Napoli).
11Cfr. W. Churchill, La seconda guerra mondiale, Mondadori, Milano 1963, vol. VI, p. 257:
«Romania: Russia 90%; gli altri 10%; Grecia: Gran Bretagna (d’intesa con gli Stati Uniti): 90%;
Russia 10%, etc.».
12 Su «La Rinascita», I, 1944, 3; cfr. P. Togliatti, Il Partito comunista e il nuovo Stato, in Fascismo
e antifascismo. Lezioni e testimonianze, Feltrinelli, Milano 1963, vol. II, p. 636.
13 «Avevamo letto un programma elaborato da De Gasperi negli anni in cui egli era ancora illegale
in Roma e in quel programma si rivendicavano [...] un maggior numero di nazionalizzazioni di
quanto non ne rivendicassimo noi. Era, insomma, un programma molto avanzato nella stessa
direzione che era la nostra»: P. Togliatti, Il Partito comunista e il nuovo Stato, cit., p. 642.
14 Lettera a De Gasperi del settembre 1944, in Μ. De Maggi, op. cit., p. 16.
15Possibilità di intese furono discusse da Togliatti e De Gasperi in «lunghe sedute» nej ’44: P.
Togliatti, Il Partito comunista e il nuovo Stato, cit., p. 642.
16 Cfr. «Il Popolo», 25 luglio 1944. Il corsivo è mio.
17 Discorso tenuto a un convegno organizzativo della Dc (Napoli, 28 luglio 1944), riportato in R.
Colapietra, La lotta politica in Italia dalla liberazione di Roma alla Costituente, Patron, Bologna
1969, p. 79. Togliatti approfittò dello slogan degasperiano per insistere nella sua proposta di patto
d’azione comune (cfr. ivi, p. 84).
18 Dichiarazione dei membri del Cln in una riunione con Badoglio (Roma, 8 giugno 1944), in F.
Catalano, L'Italia dalla dittatura alla democrazia, 1919-1948, Feltrinelli, Milano 1970, vol. II, p.
78.
19 N. Kogan, L'Italia e gli alleati, Lerici, Milano 1963, p. 100.
20 F. Catalano, op. cit., vol. II, p. 80.
21Decreto del Cln Alta Italia del 26 ottobre 1944; cfr. L. Valiani, Il partito d'Azione, in L. Valiani -
G. Bianchi - E. Ragionieri, Azionisti cattolici e comunisti nella Resistenza, Angeli, Milano 1971, p.
410.
22 Memoriale presentato a Bonomi il 9 novembre 1944 dal Comitato toscano di Liberazione
nazionale, in P. Permoli, La Costituente e i partiti politici italiani, Cappelli, Rocca San Casciano
1966, pp. 94-5.
23 Cfr. «Risorgimento liberale», 4 settembre 1944.
24 G. Dorso, La leva dei morti, «L’Azione», 20 maggio 1944, ora in L'occasione storica, cit., pp.
12-6. Cfr. anche, tra gli altri articoli, Trasformismo sempre vivo, «L’Azione», I agosto 1945 (ivi, pp.
41-4): «...Ora Silvio Gava nel “ Domani d’Italia ”, del 29 corrente, ci dà notizia di un signore della
provincia di Napoli, che ha distribuito i suoi congiunti in cinque dei sei partiti costituenti il
Comitato di Liberazione e, col loro aiuto, domina il panorama della vita politica paesana». Sul
trasformismo meridionale dopo il fascismo cfr., da ultimo, Percy A. Allum, Il Mezzogiorno e la
politica nazionale dal 1945 al 1950, in AA.VV., Italia 1943-1950. La ricostruzione, a cura di S. J.
Woolf, Laterza, Roma-Bari 1974, pp. 155-91.
25In Unire per ricostruire. I Congresso dei Cln dell'Alta Italia (Milano, 31 agosto -1 settembre
1945, Teatro Lirico), numero unico a cura dell’ufficio stampa del Cln Alta Italia, Milano 1945, p.
22.
26 P. Nenni, Colpire in alto... e cominciare dalla oligarchia industriale, «Avanti!», 21 giugno 1944.
27 Non firmato, Epurazione senza Consulta, «Risorgimento liberale», 6 novembre 1945.
28 G. Mammarella, L'Italia dopo il fascismo, 1943-1968, Il Mulino, Bologna 1970, pp. 72-3.
29Testo in T. Fortunio, La legislazione definitiva sulle sanzioni contro il fascismo, Jus, Roma 1946.
Cfr. anche, dello stesso autore, Revisione e revoca dell'epurazione, Universal, Roma 1948.
30 Attivitàlegislativa «tumultuosa», secondo A. Battaglia, Giustizia e politica nella giurisprudenza,
in AA. VV., Dieci anni dopo. 1945-1955. Saggi sulla vita democratica italiana, Laterza, Bari 1955,
p. 333, nota.
31 Ivi, p. 345.
32 C. Sforza, Le sanzioni contro il fascismo, quel che si è fatto e quel che deve farsi. Dichiarazioni
e documenti inediti di Carlo Sforza, Edizioni Roma, Roma 1945, p. 13 (si tratta di una lettera-
relazione indirizzata da Sforza al presidente del Consiglio in occasione delle dimissioni da alto
commissario per le sanzioni contro il fascismo).
33 Ivi, p. 13.
34 Lo stesso Sforza ammise che causa di «errori e mende minori» era stata 1’«atmosfera generale di
rancori ingiustificati e di denunce a volta faziose» (ivi, p. 14).
35 Cfr., ad es., Μ. Lupinacci, Garanzie di giustizia, «Risorgimento liberale», 23 giugno 1944:
«Chiediamo che non si confonda il generale che ha tradito il suo giuramento con il tranviere che
andò a sgolarsi a piazza Venezia».
36 Cfr., ad es., P. Togliatti, Da Salerno a Caulonia, «l’Unità», 20 marzo 1945: «In provincia di
Reggio Calabria, se le nostre informazioni sono esatte, l’epurazione si è ridotta, sinora, a colpire un
bidello delle scuole».
37 In Unire per ricostruire, cit., p. 21.
38 Non firmato, Tremila per trecentomila, «La Nazione del Popolo», 15 gennaio 1945.
39Cfr. Conferenza stampa al Viminale del 30 luglio 1944, resoconto in «Risorgimento liberale», I
agosto 1944.
40 Cfr. dichiarazioni a «Il Tempo», 18 novembre 1945.
41 Cfr. direttiva all’alto commissario per l’Epurazione, Grieco (gennaio 1945), in G. Bocca,
Paimiro Togliatti, Laterza, Roma-Bari 19732, p. 457.
42Cfr. resoconto della riunione del Consiglio dei ministri dell’11 luglio 1945, «Avanti!», 12 luglio
1945.
43 In Unire per ricostruire, cit., p. 22.
44 Sulle varie analisi del rapporto piccola borghesia (ceti medi) - fascismo, cfr. R. De Felice, Le
interpretazioni del fascismo, Laterza, Roma-Bari 19746. Cfr. anche, per il più recente dibattito
sull’argomento, G. Quazza, Storia del fascismo e storia d’Italia, in AA.VV., Fascismo e società
italiana, Einaudi, Torino 1973, pp. 5-43. Per una visione globale della problematica cfr. il
fondamentale P. Sylos Labini, Saggio sulle classi sociali, Laterza, Roma-Bari 19754.
45 L. Salvatorelli, Nazionalfascismo, Gobetti, Torino 1923, p. 16.
46 L. Salvatorelli, Nazionalfascismo, cit., in N. Valeri, La lotta politica in Italia dall’Unità al 1925.
Idee e documenti, Le Monnier, Firenze 1962, pp. 514-5.
47 F. Chabod, L’Italia contemporanea. 1919-1948, Einaudi, Torino 1961, p. 65.
48Quella piccola borghesia — scrive ancora Chabod — «tutta tranquillità, ordine e rispettabilità,
che vuol vedere la patria rispettata, che è soddisfatta all’idea di godere un certo prestigio nel mondo
e che, perciò, può essere influenzata dalle campagne di stampa, dai discorsi di intonazione
nazionalistica [... quella] borghesia [...] non vuole spingersi oltre certi limiti» (ivi, p. 66).
49 Cfr. Annuario della congiuntura economica italiana. 1938-1947, a cura di A. De Vita, Vallecchi,
Firenze 1949, pp. 1-2.
50 Ivi, pp. 4-5.
51 A. Degli Espinosa, Il regno del Sud, Parenti, Firenze 1955, p. 335.
52 Cfr. Salvatorelli, Nazionalfascismo, cit.
53Non firmato (ma G. Giannini), Lo Stato Forte, «L’Uomo qualunque» (d’ora in avanti: «Uq»), 3
gennaio 1945.
34 Ibid.
55 Non firmato (ma G. Giannini), rubrica Specola, «Uq», 3 gennaio 1945.
56 Non firmato (ma G. Giannini), Realismo comunista, rubrica L’Uq, ivi, 3 gennaio 1945.
Non firmato (ma G. Giannini), Il compagno Giuseppe Stalin, rubrica Galleria dell’Uomo
Qualunque, ivi, 3 gennaio 1945.
58 Non firmato (ma G. Giannini), Il compagno Molotof, ivi, 24 gennaio 1945.
59 Non firmato (ma G. Giannini), rubrica Cronache immaginarie (datate Anno VÍ, 26 luglio 1943,
n. 16), ivi, 24 gennaio 1945: «Mussolini proclama lo scioglimento del Partito fascista e ridona al
popolo le libertà statutarie in vista di importanti e impegnativi avvenimenti». Le Cronache
immaginarie apparvero sull’«Uq» fino al 31 gennaio 1945.
60 G. Manca, Fascisti qualunque, lettera al giornale «Cantachiaro», riportata nell’articolo A scanso
di equivoci, non firmato, «Cantachiaro», 27 gennaio 1945.
61 Sull’origine della rubrica Le Vespe cfr. la prima Vespa del n. 1 dell’«Uq» (27 dicembre 1944):
«Questa rubrica fu iniziata su “ Il Domani ” nell’edizione che si cominciò a pubblicare a Napoli nel
1909, dopo la fine del “ Domani ” romano di De Felice. Del piccolo quotidiano napoletano furono
fondatori Arturo Assante e Guglielmo Giannini, allora giovinetto, biondo, poeta e temerario: al
punto di non spaventarsi di rubare rubrica e titolo della rubrica ad Alfonso Karr, uno dei maggiori
giornalisti dell’Ottocento. Ma chi la fa l’aspetti: e Giannini, dopo il grande successo ottenuto
derubando e imitando Karr, fu a sua volta derubato e imitato da tanta gente, che credette di imitare e
derubare soltanto lui. Oggi la rubrica riprende perché così piace e fa comodo al primo ladro; e sarà
quella che fu sul “ Domani ” e su “ Kines ”. Gl’inesperti e i giovani son dunque avvisati: non
cadano nell’errore di crederci ladri dei nostri ladri».
62 G. Giannini, Lo Stato forte, cit.
63 G. Giannini, Piccolo mondo repubblicano, «Uq», 3 aprile 1946.
64Cfr. B. Mussolini, Opera omnia, a cura di Edoardo e Duilio Susmel, vol. XXXII, Appendice, p.
265 (Canguri giganti era appunto il titolo della nota della «Corrispondenza repubblicana» citata, pp.
264-6. Nell’elenco, accanto al nome Guglielmo Giannini, figurava la dizione «sovvenzioni varie»:
p. 266). L’attacco di Mussolini («Benito s’è occupato una sola volta di me, nell’autunno del ’43,
dopo la sua epica evasione dall’orrido carcere con acqua corrente, per citarmi nella
“Corrispondenza repubblicana” come ‘ canguro gigante ’») era stato determinato, secondo il
commediografo, dalla sua lettera in difesa della borghesia pubblicata sull’«Osservatore romano»
nell’agosto del 1943 («Benito, furibondo contro di me per il mio primo articolo politico dopo 22
anni, scritto in difesa della borghesia che a lui non andava più a fagiolo»). Per il resto, Giannini
cercava di mutare le carte in tavola e, con alquanta megalomania, scriveva: «Come Benito ha potuto
dire che il fascismo, da me tradito, m’ha dato onori e ricchezze [sic!], non riesco a capire. Non ero
fascista quindi non ho potuto tradire il fascismo; i modesti onori che ho guadagnati son quelli di
autore e scrittore e quindi miei, dovuti alla mia intelligenza e al mio lavoro: in trent’anni non sono
riuscito a comprarmi un appartamento a Roma. Benito è stato male informato sul conto mio, così
com’è stato mal informato su tanti altri uomini e fatti — ed è così che ha perduto la partita. I futuri
avversari son dunque avvisati: non si comportino come Benito se non voglion fare la stessa
figuraccia» (cfr. G. Giannini, Questa, in anticipo, «Uq», 27 dicembre 1944). (In occasione del suo
processo d’epurazione Giannini ammetterà di aver avuto le sovvenzioni in questione e, mutando
linea di difesa, sosterrà — ragionevolmente — che si trattava di una prassi normale per aiutare i
lavoratori dello spettacolo.)
65 «Io credo che noi siamo all’alba di un nuovo Quattrocento e che niente ci manchi, a cominciare
dal Magnifico. Consideratemi come un soldato pronto a tutto»: Atto di deferimento di Giannini alla
Commissione di primo grado per la revisione dell’Albo dei giornalisti, redatto dall’alto
commissario aggiunto per l’Epurazione, Ruggero Grieco, 5 febbraio 1945, in Μ. Lo Vecchio-Musti,
op. cit., pp. 20-3. La lettera a Pavolini fu riportata anche dal quotidiano socialista (cfr. Non firmato,
Storia vera dell’uomo qualunque, «Avanti!», 15 luglio 1945) con il seguente commento: «‘
Magnifico ’, a Mussolini, non glielo aveva detto ancora nessuno!».
66 Cfr. G. Giannini, Questa, in anticipo, cit., «Uq», 27 dicembre 1944.
67 Quest’articolo verrà segnalato alla commissione di epurazione dall’alto commissario aggiunto
Grieco «per la sua faziosità che raggiunge la cretineria»: cfr. Atto di deferimento di Giannini, cit.
(Μ. Lo Vecchio-Musti, op. cit., p. 22). Grieco aggiungeva che Giannini aveva inviato l’articolo in
questione «al Duce dal quale ebbe il gradimento» (ibid.).
68 Cfr. Le Vespe, «Uq», 10 marzo 1948.
69 Ibid.
70 P. Grassi, Il teatro e il fascismo, in Fascismo e antifascismo, cit., vol. I, p. 342.
71 G. Giannini, Questa, in anticipo, cit.
72G. Giannini, Autodifesa, opuscolo fatto pubblicare nel marzo 1945 (brani riportati in Μ. Lo
Vecchio-Musti, op. cit., pp. 24-7).
73 «È orribile pensare che, da ragazzi, c’entusiasmava il comunismo, di cui avevamo un’idea
idilliaca. Poi, un po’ più avanti negli anni, leggemmo il Capitale di quel fregnone di Carlo Marx, e
ne rimanemmo affascinati per anni: fino a che la ragione, soccorrendo la naturale intelligenza, non
ci provò che la biblica fesseria di Marx era la biblica fesseria che è» (Le Vespe, «Uq», 3 aprile
1946). Quanto alle «simpatie nittiane», Giannini aveva fondato nel 1914 «Il Risveglio» «per
appoggiare la lista nittiana ‘ Blocco popolare ’ in un’accesa compagna elettorale contro il Fascio
liberale dell’ordine». Cfr. Μ. Del Bosco, Guglielmo Giannini e «L’Uomo Qualunque». Storia e
politica incredibile e vera, «Il Mondo», 18 aprile 1971 (titolo della puntata: Abbasso tutti).
74 Cfr. Μ. Lo Vecchio-Musti, op. cit., pp. 3-4 e, per l’episodio della scoperta del sistema
d’intercettazione telefonica, Le Vespe, «Uq», 8 agosto 1945.
75 G. Giannini, Piccolo mondo re pubblicano, cit.
76 Non firmato (ma G. Giannini), Sull’Inghilterra splende una stella, «Uq», 26 dicembre 1945.
77Discorso alla seduta inaugurale del primo Congresso nazionale del Fronte dell’Uomo Qualunque
(Roma, Aula magna dell’università, 16 febbraio 1946), ivi, 20 febbraio 1946.
78 G. Giannini, Piccolo mondo repubblicano, cit.
79 Ibid.
80 Ibid.
81 Le Vespe (accanto alla testata), «Uq», 15 maggio 1946.
82 G. Giannini, Piccolo mondo repubblicano, cit.
83 «Tastammo il polso a Nenni. L’impressione non fu disastrosa, ma nemmeno buona; e poi
s’incaricò Nenni stesso di farla peggiorare con gl’improvvisi, ingiustificati, inutili attacchi» (Le
Vespe, «Uq», 22 gennaio 1947).
84 Cfr. La grande avventura dell’Uomo Qualunque raccontata da Guglielmo Giannini, in
Enciclopedia del Centenario. Contributo alla storia politica, economica, letteraria e artistica
dell’Italia meridionale nei primi cento anni di vita nazionale, a cura di G. Scognamiglio, Tipografia
Gennaro
D’Agostino, Napoli 1960, vol. II, p. 40 (d’ora in avanti: G. Giannini, Memorie). In particolare
Angiolillo, direttore del «Tempo», gli avrebbe detto: «Caro Guglielmo, ci conosciamo da
venticinque anni e ti parlerò francamente. Il tuo programma politico-giornalistico è
interessantissimo, ma chi vuoi che se la senta d’arrischiare il proprio giornale e forse la propria
libertà, per mettersi contro l’antifascismo?» (ibid.).
85 Ibid.
86 Per il lancio dell’«Uomo qualunque», ad essere precisi, Giannini aveva costituito una società
editrice della quale, secondo 1’«Avanti!», facevano anche parte, attraverso un prestanome, i fratelli
Salvatore e Michele Scalera (che avrebbero percepito, insieme con la società editrice Faro, il 60%
degli utili, lasciando a Giannini il restante 40%). Cfr. Dalla marcia su Roma all’Uomo Qualunque
(art. non firmato), «Avanti!», 3 novembre 1945. Per una smentita, in verità piuttosto ambigua, cfr.
Non firmato (ma G. Giannini), Gli Scalera fratelli terribili, «Uq», 7 novembre 1945. In occasione
della sospensione del settimanale (febbraio ’45) Giannini ottenne comunque dai suoi due soci (un
«distributore di giornali» e un «industriale tipografo» — Umberto Guadagno —) la cessione delle
loro quote, divenendo così proprietario unico dell’«Uomo qualunque».
87 Giannini, Memorie, cit., p. 41.
88 I. Montanelli, Gli incontri, Rizzoli, Milano 1967, p. 74. Di Montanelli cfr. anche Gente
Qualunque, Rizzoli, Milano 1963, pp. 7-8, dove l’autore sostiene che nel 1947 Giannini «vide e
additò» nel romanzo Qui non riposano «l’anticipo» del qualunquismo.
89 G. Giannini, Piccolo mondo repubblicano, cit.
90 G. Giannini, La Folla: seimila anni di lotta contro la tirannide, Faro, Roma 1945, IV ed. (I ed.
luglio 1945). Del libro furono stampate sette edizioni, per un totale di 29.000 volumi (cfr. Memorie,
cit., p. 41).
91 Frase pubblicitaria apparsa sull’«Uq» del 3 luglio 1946.
92 Giannini, La Folla, cit., pp. 23-4.
93 Ivi, p. 78. Sul mito dell’uomo «d’intelligenza e di cultura» contrapposto all’incompetente «uomo
politico professionale» cfr. anche pp. 217 sgg., in part. 219-20 («Perché mai gli uomini politici
professionali di tutti i partiti, gli upp comunque qualificati, hanno tutti la pistola spianata contro la
borghesia, le formano intorno un circolo nemico, le sparano addosso senza nemmeno badare a non
colpirsi fra loro? Perché la sentono, tutti, nemica: perché sanno che gli uomini d’intelligenza e di
cultura, che sono tutti borghesi appunto perché non sono upp, sono non soltanto i loro naturali
nemici, ma i certissimi loro vincitori in un futuro non più tanto lontano, nel quale gli upp parassitari
e dannosi spariranno, e saranno sostituiti da coloro che hanno i mezzi e la capacità per sostituirli: gli
uomini d’intelligenza e di cultura che non fanno professionismo politico. Gli upp sentono
l’imminenza di questa rivoluzione che li travolgerà spazzando via con loro gl’inutili partiti politici e
le loro non meno inutili e stupide risse»).
94 Ivi, p. 7.
95 Ivi, p. 61.
96 Ivi, pp. 73-4.
97 Ivi, p. 46.
98 Ivi, p. 97.
99 Ivi, p. 91.
100 Ivi, p. 88.
101 Ivi, pp. 85-7.
102 Ivi, pp. 107-8.
103 Ivi, pp. 100, 119, 123.
104 Ivi, pp. 8, 274-5, 260.
105 Ivi, p. 281.
106 Ibid.
107 Ivi, p. 208. A p. 258 Giannini riassume in questi termini il desiderio della Folla: «Ciò che noi
chiediamo, noi gente, noi Folla, noi enorme maggioranza della Comunità, noi padroni della
Comunità e dello Stato, è che nessuno ci rompa più i coglioni». Per questa «parolaccia» ΓΑ. si
appella alla «indulgente comprensione» del lettore («l’ho cancellata e sostituita dieci volte, e ho
sempre dovuto riscriverla, non trovando niente di ugualmente giusto ed esatto», ivi, p. 7, nota): ma
in seguito, come vedremo, ne farà largo uso, fino ad elevarla a «primo Comandamento» del
qualunquismo.
108 Cfr. G. Perticone, La torre di Babele. Italia 1949, Sansoni, Firenze 1949, p. 68: «Non vi è
disegno e non vi è programma, anche quello di non far nulla, che non discenda da una concezione
politica e non risponda a un interesse politico».
109 L. Salvatorelli, Monarchia svelata, «Nuova Europa», 24 febbraio 1946.
110Cfr. discorso conclusivo all’Assemblea straordinaria dei dirigenti del Fronte dell’Uomo
Qualunque (Roma, cinema Parioli, 14 dicembre 1946), «Uq», 18 dicembre 1946.
II. Aprile 1945-febbraio 1946: dal «vento del Nord» al primo congresso nazionale del Fronte
dell’Uomo Qualunque.
1 L. Valiani, Il partito d’Azione, cit., p. 124.
2 «La spinta delle masse avrebbe dovuto essere suscitata ed incanalata dai Cln, al centro e in tutte le
regioni e province. Il Cln stesso avrebbe dovuto pronunciarsi per un’urgente, radicale, profonda
attività riformatrice e iniziarla, mettendo il governo e la Costituente davanti all’obbligo di
legalizzarla, generalizzarla, perfezionarla» (ivi, p. 134).
3 Cfr. ad es. Non firmato, Tagli netti, cit. (in L. Guerci, Il Partito socialista italiano dal 1919 al
1946, cit., pp. 217-8): «Pensiamo che oggi per liberare il territorio nazionale dal nazifascismo sia
necessario stringere momentanee alleanze con partiti della borghesia; ma domani, quando questo
pericolo comune a tutto il popolo italiano sarà cessato, il contrasto tra classe operaia e le forze
capitalistiche risorgerà con tutta la sua violenza [...]. Verrà quindi una svolta in cui il taglio tra noi e
tutte le forze della borghesia si farà netto. Ed a questa svolta ed a questo taglio netto dobbiamo
prepararci sin d’ora».
4 Risposta di De Gasperi ad una lettera di Togliatti (settembre 1944), in Μ. De Maggi, Cronache
senza regime, cit., p. 17.
5 Ivi, p. 68.
6 G. Galli, Storia del Partito comunista italiano, Schwarz, Milano 1958, p. 259.
7 Μ. De Maggi, Cronache senza regime, cit., pp. 123-4.
8 Non firmato, Dieci arresti per gl'incidenti di Agnone, «Avanti!», 21 agosto 1945.
9 Non firmato, Tumulti a Messina - Un gruppo di reduci invade il Municipio dopo essersi
impadronito di un'autoblinda, «Risorgimento liberale», 10 agosto 1945.
10 Non firmato, Un problema sociale, «Avanti!», 29 giugno 1945.
11 Clamorosa fu il 18 febbraio ’45 a Roma l’invasione della sede dell’«Avanti!» da parte di un
gruppo di marinai offesi da un articolo del quotidiano socialista; il 28 agosto dello stesso anno, a
Trani, marinai armati del battaglione S. Marco imponevano ai passanti di gridare «Viva il Re!» e
assalivano la sezione del Pci. Cfr. G. Saragat, Neo-squadrismo, ivi, 19 febbraio 1945 e Non firmato,
In vista delle elezioni - Viva il re! si grida in Puglia davanti alle pistole spianate dei marinai
monarchici, ivi, 30 agosto 1945.
12 G. Borgogna, Manganellate e scioperi in Puglia, «Il Tempo», 18 novembre 1945.
13 Cfr. Non firmato, Interpretazioni e significato dei fatti di Napoli, «Uq», 26 settembre 1945.
14A. C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia. Dalla unificazione a Giovanni XXIII, Einaudi, Torino
1965, p. 298.
15 V. Spano, La classe operaia alla testa della nazione, in Trenta anni di vita e lotte del Pci (a cura
di P. Togliatti), Quaderni di «Rinascita», n. 2, Roma 1952, p. 171.
16 Ibid.
17 Cfr. F. Catalano, L’Italia dalla dittatura alla democrazia, cit., voi. II, p. 185.
18 G. Mammarella, L’Italia dopo il fascismo, cit., p. 104.
19 Cfr., sull’argomento, E. Piscitelli, Del cambio o meglio del mancato cambio della moneta nel
secondo dopoguerra, «Quaderni dell’istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla
Resistenza», Roma 1969, n. 1, pp. 9-88.
20Cfr. G. Giannini, Memorie, cit., p. 42. V. anche P. Murialdi, La stampa italiana del dopoguerra
1943-1972, Laterza, Roma-Bari 1973, p. 45.
21 Non firmato (ma G. Giannini), rubrica L’UQ, «Uq», 3 gennaio 1945.
22 Non firmato (ma C. De Vita), L’uomo qualunque, «l’Unità», 7 gennaio 1945.
23 G. Giannini, Questi fascismi, «Uq», 10 gennaio 1945.
24 Ibid.
25Non firmato (ma E. Momigliano), I «non sinceri», rubrica Di giorno in giorno, «Ricostruzione»,
12 gennaio 1945.
26 Non firmato (ma G. Giannini), Ma che razza di giornalisti sono?, «Uq», 17 gennaio 1945.
27 Ibid.
28 Ibid.
29 Le Vespe, «Uq», 17 gennaio 1945.
30 Non firmato (ma G. Giannini), La guerra dei parenti poveri, ivi, 17 gennaio 1945.
31Non firmato (ma G. Giannini), Breve e succosa storia del banditismo politico, ivi, 31 gennaio
1945.
32 Cfr. intervista al «New York Post», 24 dicembre 1945, in Non firmato, I qualunquisti son tutti
Patrissi - Giannini al «New York Post»: Roosevelt ha commesso un delitto contro l’Europa
entrando in guerra a fianco dell’Inghilterra - parla «l’aspirante duce», «Avanti!», 20 marzo 1946.
La tesi espressa da Giannini nell’intervista era la seguente: «Gli Stati uniti europei sono quello che
ci vuole. Che siano diretti dalla Germania, dall’America, dall’Italia, dall’Inghilterra per me è lo
stesso [...].
Se gli Stati Uniti non avessero preso parte a questa guerra, si sarebbe arrivati a una federazione
basata sul compromesso e l’equilibrio. Invece, voi avete rovinato l’Europa».
33 G. Giannini, Madonna Pace, «Uq», 10 gennaio 1945. Si tratta di un articolo scritto nel giugno
1944 e rifiutato da «Il Tempo», «La Voce repubblicana» e «Il Popolo», nel quale Giannini ribadiva
una tesi già in parte sostenuta nelle Cronache immaginarie: «Churchill scongiurò Mussolini di
starsene tranquillo, Roosevelt mandò ambascerie e messi al dittatore folle, chiedendogli soltanto
una neutralità che sarebbe stata la fortuna non solo dell’Italia, ma anche quella dell’uomo dal
balcone».
34 Non firmato (ma G. Giannini), L'Uomo Qualunque, «Uq», 27 dicembre 1944.
35 Non firmato, rubrica L’UQ, ivi, 27 dicembre 1944.
36 Non firmato (ma G. Giannini), Fascisti di tutte le ore, ivi, 7 febbraio 1945.
37 Non firmato (ma G. Giannini), rubrica L’UQ, ivi, 17 gennaio 1945.
38Non firmato (ma G. Giannini), vignetta (prima pagina) illustrante il caso del «Gobbo del
Quarticciolo», Giuseppe Albano, «Uq», 24 gennaio 1945.
39Cfr. G. Giannini, Mentre Nenni s’insedia al Ministero Ricostituente - Un povero scemo vuol farci
paura agitando un capocronaca dell’«Avanti!» (lettera a Giuseppe Russo), ivi, 18 luglio 1945.
40 G. Giannini, Memorie, cit., p. 45: «[...] non risparmiai parole roventi a nessuno. Dissi che
all’Italia non interessava affatto quella guerra, che gli anglo-americani non erano i nostri alleati ma i
nostri vincitori, che eravamo ancora e sempre in attesa del mantenimento delle promesse fatte da
radio Londra [...]; che il soldato italiano, dopo aver combattuto con coraggio e onore per tre anni e
mezzo, non doveva essere umiliato con l’incarico di portare le salmerie delle armate anglo-
americane».
41Non firmato (ma G. Giannini), Un’ingiustizia che avrà gravi conseguenze, «Uq», 21 febbraio
1945.
42 Ibid.
43 G. Giannini, Nequitosi bassotti del giornalismo, «Uq», 21 febbraio 1945.
44 G. Giannini, Un’ingiustizia che avrà gravi conseguenze, cit.
45 G. Giannini, Un’ingiustizia che avrà gravi conseguenze, cit. e Nequitosi bassotti del
giornalismo, cit.
46 G. Giannini, Un’ingiustizia che avrà gravi conseguenze, cit.
47 Ibid.
48Non firmato (ma G. Giannini), Squadrismo da tavolino, «Uq», 28 febbraio 1945. Il corsivo è
mio.
49 In G. Giannini, Un’ingiustizia che avrà gravi conseguenze, cit.
50In G. Giannini, Un povero scemo vuol farci paura agitando un capocronaca dell’«Avanti!», cit.
Sull’episodio dell’epurazione cfr. anche, oltre alle Memorie, cit. (pp. 45-6) Μ. Lo Vecchio-Musti,
op. cit., pp. 20 sgg.
51 Le Vespe, «Uq», 24 gennaio 1945.
52 Firmato L’Uomo Qualunque (ma G. Giannini), Eroismo e serietà del nord, ivi, 2 maggio 1945:
«Il nostro cuore esulta di incontenibile entusiasmo».
53 Ibid.
54 Ibid.
55 «Parri non è, a quanto si dice, e a quanto sembra, un uomo politico professionale, ma un
galantuomo che fino ad oggi ha mangiato il sudato pane di chi se lo guadagna con onesta e spesso
ignorata fatica. Se è così, Parri è un uomo qualunque, uno dei nostri»: Non firmato (ma G.
Giannini), vignetta in prima pagina, «Uq», 20 giugno 1945.
56 G. Giannini, Un grosso affare di cui non c’importa niente, ivi, 16 maggio 1945.
57 «La vera classe dirigente, il serbatoio sociale da cui escono i capi» (Non firmato, ma G. Giannini,
Si vuole dunque un altro duce?, ivi, 13 giugno 1945).
58 Le Vespe, ivi, 9 maggio 1945.
59 G. Giannini, Si vuole dunque un altro duce?, cit.
60 Non firmato (ma G. Giannini), Il Partito del buonsenso, «Uq», 23 maggio 1945.
61 Non firmato (ma G. Giannini), Dentisti senza tenaglie, ivi, 4 luglio 1945.
62 Ibid.
63 Ibid.
64Cfr. Non firmato (ma G. Giannini), vignetta di prima pagina, e Non firmato (ma G. Giannini),
Regime provvisorio, «Uq», 11 luglio 1945.
65 Non firmato (ma G. Giannini), LI on aver paura di nulla e di nessuno, ivi, 13 giugno 1945. Cfr. a
p. 101 l’analoga doglianza di Croce, che certamente Giannini aveva tenuto presente nella redazione
di quest’articolo.
66 Ibid.
67 G. Giannini, Il Partito del buonsenso, cit.
68 Non firmato (ma G. Giannini), No» solamente anticomunisti, «Uq», 18 luglio 1945.
69 G. Giannini, Memorie, cit., p. 43.
70 G. Palletta, Il qualunquismo e l’avventura di Guglielmo Giannini, Bompiani, Milano 1972, p. 49.
71 G. Giannini, Memorie, cit., p. 44.
72Ivi, p. 50. Non sempre Giannini riusciva a contenere le proprie reazioni. Cfr. ad es. resoconto di
un discorso del marzo ’48 a Bologna su «Uq», 31 marzo 1948.
73 G. Giannini, Memorie, cit., pp. 44, 47.
74 Ivi, p. 43.
75 Ibid. Cfr. Discorso inaugurale al primo congresso nazionale del Fronte dell’Uomo Qualunque (16
febbraio), «Uq», 20 febbraio 1946: «Che dovevo fare sentendomi dare del fascista non perché lo
fossi o lo fossi stato, ma perché accusato di fascismo io potessi essere tolto di mezzo? Mi sono
servito dei miei mezzi, della mia arte ch’è fatta della maestria della battuta: ho risposto all’ingiuria
con l’ingiuria (Ha fatto bene!), all’insinuazione malvagia con lo sberleffo, all’austera ipocrisia dei
puri cialtroni con la caricatura [...]. Non c’era altro da fare: e quanto è accaduto mi dà forse ragione
d’averlo fatto». Cfr. anche G. Giannini, Storia e parolacce, «Il Buonsenso», 24 novembre 1946:
«Noi, faticosamente, stiamo tentando di raggiungere lo scopo di ridare educazione, eleganza,
misura, cavalleria, alla politica del dopoguerra. C’è chi obbietta ch’è ben strana la nostra pretesa
d’insegnar le buone usanze con il nostro linguaggio pepato, ma noi controbbiettiamo che la
stranezza è solo apparente. Parliamo a facchini: quale linguaggio dovremmo adoperare se non
quello ch’essi comprendono? Non diversamente i missionari che vanno fra i selvaggi per
evangelizzarli ne apprendono prima il dialetto: per farsi capire da chi altro e più alto parlare non
potrebbe comprendere».
76 G. Giannini, Memorie, cit., p. 43.