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6. Un primo cambiamento
La vita degli italiani cambiò radicalmente. C’era meno
povertà e il controllo sociale (i padroni, i preti, i genitori)
divenne meno esigente. Il lavoro e la famiglia restavano i due
obiettivi principali, ma adesso potevano essere anche pensati
non solo attraverso gli obblighi della tradizione. Si coltivava la
fondata speranza di poter eventualmente cambiare un lavoro
troppo duro e i giovani, studiando, di poterne scegliere uno più
vicino ai propri interessi e meglio remunerato. Il partner era
scelto per amore, romanticamente, ormai non più per obbligo o
convenzione.
Il cambiamento iniziò dalle piccole (ma importanti) cose
della vita quotidiana. Ci si vestì con più fantasia e meno
conformismo. Le case dei figli furono presto molto diverse da
quelle dei loro genitori: nelle cucine dominavano ormai gli
elettrodomestici e nei salotti i «posti a sedere» erano rivolti
verso l’apparecchio televisivo. I vecchi tesori (regali di nozze:
come corredi o servizi di piatti) erano più custoditi che
utilizzati. Cambiarono le abitudini alimentari: quelle vecchie
riemergevano solo nei giorni di festa (la domenica, il Natale)
con le specialità della tradizione regionale e i dolci. Il tempo
libero dal lavoro acquistò sempre maggiore importanza:
adesso molti pensavano alle vacanze come un diritto acquisito;
nei fine settimana molti uscivano dalle città per i week-end.
Solo nei piccoli paesi (specialmente al Sud) si viveva come
sempre, ma anche qui la TV avrebbe portato continui
suggerimenti per una vita diversa e più moderna.
Cambiare modi di vita e guardare a nuovi e più vasti mondi
non era più considerata una (sia pur leggera) devianza. Cercare
di essere diversi non era più uno stigma (questo restava verso
gli omosessuali) ma un progetto considerato possibile e
legittimo. Tutto ciò era facilitato dal fatto che non si doveva
più scegliere, come nel passato, tra pochi modelli che
definivano un preciso stile di vita; adesso si poteva creare il
proprio Sé assemblando frammenti di significato provenienti
da fonti diverse e, apparentemente, non vincolanti. Era un
rimodellare il proprio ruolo sociale più che una costruzione del
tutto nuova, anche perché obblighi e consuetudini non erano
definitivamente sepolti.
Ovviamente, il cambiamento riguardava il mondo del
privato: il pubblico (in Italia) restava ancorato alla tradizione.
In molti casi si trattava di progetti limitati, connotati però da
una decisa volontà di realizzarli. Nell’insieme rappresentarono
un’onda potente che allontanava dal sia pure recente passato.
Ci si liberò anche dalle influenze delle Chiese (terrene e
non, rosse o bianche). La morale diventò più libera.
Nelle piccole cose si realizzò il nascente italian dream. Un
grande mito collettivo (diventare moderni) scacciò quelli legati
al «mondo vecchio», il lavoro, il sacrificio, ecc.
La società italiana prese a strutturarsi più orizzontalmente
(le cerchie di amici, di colleghi, di compaesani; purtroppo, in
certe zone del Paese, contavano anche le vecchie «famiglie»)
che verticalmente (borghesi, proletari); le classi cominciarono
ad avere confini confusi o indefiniti.
C’erano sempre meno capi riconosciuti e gerarchie da
rispettare.
5. Dopo…
La fine delle giunte di sinistra fu, come si è visto,
essenzialmente una questione politica. Ma il «segno dei
tempi» influì notevolmente. Non a caso, il passaggio di
testimone da Tognoli e Pillitteri è emblematicamente
rappresentato dalle personalità dei due sindaci. Il primo
schivo, semplice, orientato al fare. Il secondo «uomo di
mondo», più di relazioni che guida politica. Secondo una
definizione di Pansa era il «Franti del Craxismo milanese».
Questa e altre non erano definizioni obiettive: dipendevano
ovviamente dal suo essere cognato di Craxi. In realtà, aveva
iniziato da tempo il suo cursus politico, era studioso (aveva
insegnato all’università) di cinema.
Il nuovo sindaco dava il suo meglio negli incontri ufficiali e
nelle manifestazioni pubbliche. Toccanti furono le
commemorazioni di due sfortunati protagonisti della
precedente stagione milanese: Enzo Tortora e Walter Chiari e
quella (a un anno dalla sua morte) di un grande milanese,
l’editore Rizzoli, che aveva costruito un impero nel campo
dell’editoria partendo dalla sua condizione di Martinitt. Era
forse meno abile nella regia della sua giunta (che fu più volte
oggetto di necessari rimpasti) e nella messa a punto di grandi
progetti per la città che stava vivendo una prospettiva sempre
più europea.
Nelle elezioni del 1987 solo DC e PSI mantennero le loro
posizioni e, anzi, guadagnarono consensi, mentre il PCI risentì
della profonda crisi a livello nazionale. Il dato da segnalare è
però l’apparizione di uno «strano» movimento: la Lega
Lombarda. L’allora suo sconosciuto leader (Bossi) annunciò
spavaldamente che erano pronti a «conquistare Milano».
Sembrò una spacconata: invece, qualche anno dopo, un loro
candidato (Formentini) sarebbe diventato sindaco.
Queste elezioni segnalarono anche un altro fenomeno
importante: comparvero i primi spot elettorali, per merito dello
stesso pubblicitario inventore dello slogan «Milano da bere» e
di un’intraprendente politica democristiana (Silvia Costa).
Mancavano solo sei-sette anni alla «discesa in campo» di
Berlusconi e al suo sapiente e spregiudicato utilizzo degli spot
politici.
Il ricorso alle tangenti (ormai prassi abituale) e la «finanza
d’assalto» (che attirava i risparmi dei nuovi benestanti che
volevano avere sempre più denaro da spendere) furono i due
caratteri principali della prassi politico-sociale del tempo, non
solo a livello cittadino. In questo contesto, assolutamente non
trasparente, si facevano grandi affari. I palazzinari dominarono
la città; Gardini, venuto dalla provincia, conquistò sia pure per
poco tempo la Montedison.
La zona «grigia» tra pubblico e privato fu il terreno della
costruzione di carriere e guadagni incredibili. Con un ulteriore
risvolto perverso: la mafia diventò sempre più presente. Una
diffusa microcriminalità impose i suoi tristi riti nelle vie del
centro o della nascente movida. Sul versante opposto, i centri
sociali manifestarono la loro rabbia al suono della musica rock
e con la pratica degli espropri: ciò spaventò i ricchi borghesi
che espressero a gran voce la loro esigenza di sicurezza.
La presenza della chiesa cattolica era ancora una voce
importante, anche se non sempre ascoltata: il cardinale Martini
fu sempre più un punto di riferimento autorevole non solo per i
credenti. Non c’erano solo le parole del cardinale; alcuni preti
di strada (don Mazzi, fratel Ettore) si impegnarono in favore
dei poveri ed emarginati. Nella stessa scia si muoveva la
Caritas, un esempio di notevole efficienza e di concreta
solidarietà.
I giovani milanesi furono sempre più obbligati a uscire
dalla città per trovare abitazioni accessibili. Con due
conseguenze: fiumi di macchine si rovesciavano ogni giorno
in città (mettendo sempre più in crisi il traffico nelle zone
centrali) e cresceva il progressivo invecchiamento della
popolazione residente.
Chiusero molti cinema (alcuni si trasformarono in sale a
luci rosse) e qualche teatro; i luoghi di aggregazione erano
solo quelli della sera e per i giovani. I vecchi guardarono
sempre più la TV, rinchiusi nelle loro case.
Molti milanesi conobbero però un maggiore benessere:
facevano le vacanze in luoghi esotici, molti week-end, il
Natale divenne un’orgia di regali inutili. Contrariamente alle
aspettative ci fu il flop (come arrivi di tifosi stranieri e spese
relative) del campionato mondiale di calcio; Milano aveva
presentato il suo nuovo stadio (San Siro) finalmente arrivato al
termine dei lavori con un incredibile dispendio di denaro.
Nel 1988 iniziò a straripare periodicamente il (piccolo
fiume) Seveso e si pose sempre più gravemente la questione
ecologica: si parlò sempre più di inquinamento atmosferico.
Iniziò la raccolta differenziata dei rifiuti.
Pillitteri tentò il suo ultimo rimpasto rivolgendosi al pds:
sembrò una riedizione, imposta dai tempi e dalle difficoltà,
delle giunte di sinistra. Non riuscì. Nel dicembre 1991
pronunciò il suo discorso finale, in cui parlava più dei
rimpianti per le occasioni mancate che non delle realizzazioni.
Era una fine annunciata.
Nel frattempo, nel mondo, stavano accadendo fatti
incredibili: primo tra tutti il crollo del muro di Berlino.
A Milano si annunciava tempesta: il pool dei magistrati di
Mani Pulite era già sul piede di guerra. Il distacco-disaffezione
verso i partiti e gli uomini politici era ormai inarrestabile.
Nel gennaio 1992 venne nominato sindaco Piero Borghini.
Su di lui pesò, fin dall’inizio, l’ombra di essere stato designato
da Craxi. Una specie di peccato originale. «Migliorista» da
sempre nel PCI e nel pds, Borghini aveva fondato un movimento
(Unità Riformista) che aveva cercato il maggiore dialogo
possibile, senza grandi risultati, tra i partiti di sinistra.
Erano sette i gruppi che appoggiarono la sua giunta; tra gli
altri fu arruolato anche De Carolis, l’ormai stagionato
marciatore. Forte spazio ebbe la DC (vicesindaco fu Zola);
restavano gli inossidabili B. Rizzo e M. De Corato. Una sorta
di continuità storica che perdura tutt’oggi.
Borghini tentò tutte le possibili alleanze per superare i
tempi sempre più difficili. Cercò di ricostruire il dialogo con i
cittadini, sempre più disillusi e lontani dalla politica. L’ultimo
tentativo fu caratterizzato dall’inserimento di tecnici in una
giunta di «responsabilità civica».
Un tentativo arrivato forse troppo tardi. Un mese dopo
l’insediamento di questa «inusuale» giunta, un giovane e
agguerrito sostituto procuratore (Antonio Di Pietro) fece
arrestare il presidente del Pio Albergo Trivulzio, Mario
Chiesa. Si mise in moto una valanga chiamata Tangentopoli.
Tra gli altri venne inquisito il costruttore Ligresti, fino ad
allora considerato intoccabile. Alla fine dell’anno anche Craxi
fu raggiunto da un avviso di garanzia.
Il lavoro della giunta Borghini era continuamente scosso da
arresti e interventi della magistratura. Non si poterono
affrontare i problemi di sempre: aree dismesse, trasporti
(adesso anche a proposito degli aeroporti), l’edilizia
residenziale e non, l’inquinamento.
Borghini, in più occasioni, disse che i partiti avrebbero
dovuto «fare un passo indietro» e che era finito il tempo dei
«dirigenti» politici. Nel febbraio 1993 fu costretto a gettare la
spugna. Biagi, dalle colonne del «Corriere della Sera», gli
concesse l’onore delle armi: definendolo un uomo onesto,
colto e competente. Non era stato però in grado di lottare da
solo contro la logica di un sistema politico, a livello nazionale
e adesso anche a livello locale, corrotto e inefficiente.
Fu il canto del cigno dell’«illusione riformista» a Milano.
Una grande stagione. Dopo sarebbero arrivati i «barbari» della
Lega e poi i grandi costruttori. Poi le giunte di centro-destra.
Tutta un’altra storia.
3. Le ragioni del successo delle giunte di sinistra
1. Obiettivi e strategie
Quattro sono i filoni che, a nostro avviso, hanno
caratterizzato il «buon governo» delle due giunte di sinistra: la
cultura, l’urbanistica, i servizi sociali e la macchina
burocratica del Comune. Per necessaria sintesi parleremo solo
molto brevemente degli ultimi due: entrambi caratterizzati da
buoni risultati ma senza particolari exploit.
I numerosi interventi nel sociale (specialmente verso gli
anziani e i bambini) erano conseguenti ai princìpi politici a cui
la giunta si ispirava: ad esempio, in campo scolastico, furono
raggiunti notevoli livelli di efficienza, senza però un
«marchio» particolare, come invece accadde in Emilia a
proposito degli asili il cui modello (pedagogico e
organizzativo) fu copiato in molti paesi stranieri.
Il buon funzionamento della «macchina burocratica»,
necessario alle decisioni politiche, fu un mix di «sintonia»
politica (in qualche caso partitica) e di orgoglio professionale
in chiave di milanesità. Un mix che non si riprodusse, nel
tempo, con la stessa efficienza e nelle stesse proporzioni.
Nei primi tempi aveva operato una burocrazia auto-
reclutata e auto-formata, con un occhio attento sia allo scopo
(agli obiettivi come decisi dai politici) sia alle norme
scrupolosamente rispettate. In qualche caso ciò fu un limite
alla speditezza degli atti, ma sicuramente un baluardo contro
iniziative spericolate, come avvenne in alcuni casi negli anni
ottanta. Questa tradizione si incrinò a causa di interventi
sindacali non sempre «attinenti al merito»: specialmente
quando ai funzionari si affiancarono consulenti esterni (di
nomina partitica) a cui furono concessi notevoli ambiti
decisionali, sia pure in modo informale. Gli scandali degli anni
ottanta riguardarono alcuni assessori ma anche alcuni
funzionari e consulenti a riprova che qualcosa si era inceppato
nella macchina amministrativa comunale.
Per quanto riguarda i primi due filoni, è necessaria una
premessa: l’urbanistica va inquadrata in quel particolare
periodo e nei problemi relativi, soprattutto tecnico-giuridici. Il
quadro era infatti caratterizzato dalla necessità di disporre di
grandi capitali, dall’emergere di diversi interessi (non sempre
evidenti e esplicitati), dalla presenza di protagonisti «di peso»
e di una certa spregiudicatezza, ma soprattutto da una forte
carenza legislativa. Difficilmente, date queste condizioni, si
sarebbero potuti ottenere risultati corrispondenti appieno alle
ipotesi di partenza in «chiave sociale». Come avvenne.
Per la cultura, invece, tali problemi si ponevano in misura
molto minore. Anche per questo fu possibile ottenere in tempi
piuttosto brevi risultati evidenti e con immediata efficacia a
livello sociale. Le attività in questo campo avevano un doppio
scopo: favorire la partecipazione a livello cittadino e
coinvolgere le energie che erano state liberate dai movimenti e
dalla nuova cultura più attenta ai nuovi linguaggi come
musica, cinema, arte. Un risultato (probabilmente inaspettato o
non pianificato) fu quello di dare un’importante immagine alle
giunte e a alcuni suoi esponenti: come successe al sindaco
Tognoli o all’assessore Nicolini a Roma. Come vedremo, tali
politiche furono connotate in modo assai diverso: a Milano
con un certo impegno culturale, nella capitale giocando
«sull’effimero».
Nel suo discorso d’insediamento (12 maggio 1976),
Tognoli dedicò maggiore attenzione all’urbanistica. Partendo
da una premessa («il piano regolatore è quasi al termine»), ne
faceva discendere alcune precise linee operative: fabbisogno
sociale delle abitazioni, verde, trasporti urbani, risanamento di
alcuni quartieri, ecc.
Non fu proprio così. La gestione urbanistica
progressivamente più complicata e non sempre correttamente
gestita ebbe invece, secondo i critici più malevoli, l’effetto di
dare grande spazio «alla Milano dei faccendieri, dei politici
corrotti, dei funzionari felloni, degli affaristi senza scrupoli
[…]» (Barbacetto-Veltri, 1991, p. XV). Con l’indiretto
risultato di «scalfire» la tradizionale immagine di Milano
capitale morale. Un’accusa molto dura, forse troppo, ma non
del tutto infondata. Il mattone dette inizio (e portò alle estreme
conseguenze) alle diffuse pratiche di corruzione poi emerse
con Tangentopoli e continuate fino ai giorni nostri.
La politica culturale ebbe invece l’indubbio merito di
ridisegnare l’identità della città dopo i tempi bui degli anni di
piombo. Come affermò lo stesso sindaco, questa si era
«appannata» perché la borghesia cittadina «si era ritirata
anzitempo, senza avere lasciato, salvo rare eccezioni, traccia
consistente della propria conclamata supremazia culturale e
del proprio mecenatismo […] e dall’allineamento
conformistico, dietro parole d’ordine confusamente
rivoluzionarie di un’altra parte della città». (in Conferenza per
la città, in Di Leva-Tognoli, 2011).
Un’analisi realistica: si rifiutava l’ipotesi (più diffusa) di un
forte decadimento di Milano, ammettendo, però, «una
situazione di appannamento della vivacità e del dinamismo
della città nel campo della produzione culturale». Si
riconosceva come fosse necessario riflettere («con particolare
sollecitudine e preoccupazione», ma «senza ipoteche o pretese
di ordine burocratico») sulla necessità di una politica culturale
come risposta ai «cambiamenti di struttura sociale, di ceti e
gruppi» non più come un tempo attori attenti e positivi della
vita cittadina (ibid.). Il miracolo economico non aveva avuto
immediate (sperate e necessarie) ricadute sul cambiamento
culturale. Lo scenario vedeva sterilmente contrapposti «un
lontano passato di borghesi munifici ed illuminati» e uno più
attuale «di piccoli borghesi tanto arrendevoli di fronte al
richiamo del consumismo quanto restii a partecipare al
dibattito delle idee» (ibid.).
Sulla base di queste premesse, Tognoli riteneva necessario
impostare una coraggiosa politica d’intervento per promuovere
ciò che le forze più attive della città potevano o sapevano
esprimere. Di questi intenti si parla in un volume (Idee per una
città, 1980) in cui è tracciato un esauriente quadro del ricco
panorama culturale della città a partire dalla fine degli anni
settanta.
Il successo della politica culturale del Comune dipese,
come si è già detto, in gran parte dalla «capacità d’ascolto»
(sono parole di Tognoli e Aghina) di quanti, come privati o
istituzioni, seppero proporre progetti degni di essere accolti
favorevolmente e portati a realizzazione.
Non era necessario avanzare prioritariamente credenziali
extraculturali, cioè legate esclusivamente ad appartenenze
politico-ideologiche, per essere «ascoltati» con attenzione. Si
guardava all’intelligenza-originalità del progetto e alla
pregressa credibilità intellettuale dei presentatori. Varie
commissioni furono predisposte a valutare o dirigere i diversi
progetti: di queste fecero parte i nomi più accreditati nei vari
campi della cultura di quegli anni.
Gli anni settanta e ancor più i primi ottanta furono un
periodo di grande effervescenza culturale: mostre, convegni,
attività teatrali. Accanto alle iniziative del Comune, lavorarono
con grande efficacia anche alcune gallerie private (con mostre
di grande valore), circoli culturali (in primis la Casa della
Cultura, il Circolo Turati e il Circolo De Amicis), Università,
gruppi teatrali, ecc.
In questo clima nacquero non poche iniziative fortemente
innovative. Basterebbe ricordare lo spazio e l’importanza che
acquistò in quegli anni la fotografia: diverse mostre fecero
conoscere un’arte e dei maestri da allora noti e giustamente
considerati.
Non vanno però dimenticati due insuccessi: il primo a
proposito della non riuscita esportazione di queste iniziative
verso la periferie, in conseguenza del mai del tutto realizzato
processo di decentramento amministrativo nei quartieri;
l’attività culturale (teatri, cinema, iniziative varie) restò di
fatto confinata nell’area del centro.
Il secondo si riferisce al non essere riusciti a portare a
Milano una parte della programmazione RAI: si chiese (in più
occasioni) di avere un canale o almeno parte dei tg con
particolare riferimento alle attività economiche e culturali.
Invano: il potere (e il controllo politico) restò a Roma. Con il
tempo non se ne parlo più.
L’attività culturale a Milano seppe muoversi
opportunamente tra attività rivolte a un grande pubblico (con
lo scopo di dare occasioni e contenuti alla partecipazione dei
cittadini) e attività di «alto profilo» (teatri, mostre e musei):
nell’insieme queste iniziative fecero sicuramente della Milano
di quegli anni la capitale culturale del Paese.
Le due linee tendevano a raggiungere obiettivi e target
diversi o, meglio, erano adatte a pubblici e occasioni
particolari. Così, si mangiava il risotto in piazza, si cenava (chi
era costretto in città) d’estate al parco assistendo a qualche
spettacolo (magari in milanese), mentre altri seguivano le
conferenze (di ottimo livello) di «Milano per voi» che si
riferivano sia a tematiche di carattere storico o teorico, sia di
attualità. Queste ultime furono anche l’occasione per il
«debutto» presso un largo pubblico delle scienze sociali
(psicologia e sociologia) in un panorama scientifico-culturale
ancora piuttosto tradizionale. Non si parlava solo del passato,
ma anche del presente e di temi fino ad allora assai poco
trattati.
L’intervento del Comune in questo campo ebbe ovviamente
anche un importante risvolto per quanto atteneva alle strutture
(gli spazi) in cui svolgere tale attività. Vi furono notevoli
interventi strutturali (al Castello Sforzesco, a Palazzo Reale, al
pac) essenziali per dare una «nobile cornice» a mostre-eventi e
a numerosi convegni che caratterizzarono quegli anni.
2. Teatro e spettacoli
La Scala e il Piccolo Teatro erano già, da molti anni, una
riconosciuta manifestazione di eccellenza anche in proiezione
europea.
Il Piccolo fu l’iniziatore di nuova stagione del teatro di
prosa nell’immediato dopoguerra grazie ai suoi due fondatori,
Grassi e Strehler: una doppia e diversa genialità che si impose
in brevissimo tempo. Avevano iniziato la loro attività a cavallo
tra guerra e pace, lavorando in riviste di teatro e in alcuni
spettacoli: si misero subito in evidenza. Grassi tentò anche
alcune regie con Strehler come attore (spesso anche con un
altro giovane di grande talento, Franco Parenti), ma presto si
rese conto che questa non era la sua strada. Così, quando nel
1947 i due giovanissimi convinsero il Comune a fondare il
Piccolo Teatro della Città di Milano, la divisione dei compiti
apparve naturale: Strehler alla direzione artistica e Grassi alla
direzione amministrativa.
Si badi alla data: Milano era ancora molto povera ma era
già una città viva. Il sindaco di allora (Antonio Greppi) aveva
voluto che la Scala fosse ricostruita a tempo di record e aprisse
le sue porte già nel 1946, a guerra appena finita. Era un segno
della vocazione cittadina in cui l’operosità economica era
sempre accompagnata da quella in campo artistico.
Grassi iniziò una (per allora) innovativa politica di
reclutamento del pubblico: abbonamenti scontati per più
spettacoli, ricerca di nuovi spettatori nelle scuole e nelle
aziende, decentramento delle attività in periferia e in
provincia. Il teatro non doveva essere più una cerimonia
borghese per una élite, una semplice occasione di modesta
mondanità. Doveva avere invece una sua precisa funzione
sociale: doveva far pensare senza annoiare, far sognare per una
sera, ma anche aprire (a un vasto pubblico) alle tematiche
sociali del tempo.
Si parlò di «produzione collettivistica» (era il lessico di un
tempo molto vicino alla Resistenza e a posizioni
«socialcomuniste») per indicare il contributo di diverse
professionalità sulla base di un progetto comune.
Con un obiettivo: si doveva dar vita a un teatro nazionale,
sovvenzionato, come in altri Paesi europei (Francia, Germania,
ecc.). Per perseguire questa funzione sociale era corretto
chiedere aiuti allo Stato. Fu una battaglia persa.
Fu così d’obbligo trovare ogni altro modo possibile per far
quadrare i conti per una politica culturale di eccellenza. Il
teatro popolare non doveva essere «povero» (una volta Grassi
disse che il socialismo non era necessariamente triste): doveva
stupire, far pensare, non annoiare.
In questo, Grassi si adoperò fino a essere accusato (assieme
a Strehler) di megalomania e sprechi. Si creò la leggenda,
forse non del tutto infondata, del suo cattivo carattere al limite
dell’autoritarismo: era solo un amore cieco per la sua creatura,
come sarebbe stato in seguito per il suo stile di direzione alla
Scala e poi alla RAI (Pozzi, 1977; Grassi, 2007).
Molti spettacoli, grazie al genio teatrale di Strehler
rimangono nella memoria dei milanesi non più giovanissimi e
nella storia del teatro italiano. Basti citare il celeberrimo
Arlecchino servitore di due padroni, I giganti della montagna,
El nost Milan, Vita di Galileo, Il giardino dei ciliegi, Faust e
gli spettacoli sui testi di Brecht (in primis la molto citata
L’opera da tre soldi) che vide il riconoscimento ammirato del
suo autore presente alla prima milanese nel febbraio del 1956.
Un teatro che si reggeva su un rigoroso rispetto del testo
unito a certe magie della regia, assecondata da una squadra di
grandi scenografi e costumisti (Damiani, Frigerio), musicisti
(Negri, Carpi) e di grandi attori, in molti casi allevati in casa.
Dovremo fare, a questo proposito, un elenco troppo lungo e le
cui esclusioni costituirebbero un peccato non lieve.
Un cammino trionfale fino alla contestazione del ’68 che
portò Strehler all’abbandono e Grassi alla direzione unica con
qualche intoppo nel primo anno di gestione. Difficoltà che
avrebbero spinto Grassi verso la direzione del Teatro alla Scala
e il ritorno del regista nel suo teatro, dove conobbe nuovi
successi, fino al suo malinconico addio nel Faust, in cui molti
videro la sua stanchezza come uomo prima che come artista.
Dopo di allora, la vita teatrale di Milano avrebbe avuto una
sua particolare impronta sulla base di un livello elevato da cui
si doveva obbligatoriamente partire per ogni nuova iniziativa:
anche nei casi di reazione alla «prepotente gestione pubblica»
con la nascita di altri teatri stabili a conduzione privata: il
Salone Pier Lombardo (poi Teatro Franco Parenti), il crt
(Centro ricerche teatrali), il Teatro dell’Elfo.
Nascevano in forma di cooperativa ed erano sostenute,
almeno in parte, dall’amministrazione comunale. Furono
quindi teatri a gestione privata ma con finalità pubbliche.
Qualcosa di molto diverso dal teatro delle tradizionali
compagnie di giro autofinanziate con gli incassi e con qualche
«rientro» da parte statale.
Il primo a nascere fu, nel gennaio 1973, il Salone Pier
Lombardo. Il primo spettacolo fu un memorabile Ambleto di
Testori con la regia di Ruth Shammah e l’interpretazione di
Franco Parenti: tutti e tre tra i fondatori di quel teatro.
Indimenticabile l’apparire in scena di una strana figura che
alzava un velario per significare l’inizio di una nuova storia.
Era il teatro povero degli «scarrozzanti» (la definizione è di
Testori, per indicare «i senza parrocchia, i randagi dello
spirito, e della cultura») che ricordava le avventure delle
modeste compagnie di teatranti in giro per poveri teatri e con
modesti pubblici. Quello che iniziava quella sera era un teatro
che nasceva «all’insegna di un’orgogliosa, totale indigenza e
solitudine» (AA.VV., 1999).
Di questo teatro vanno ricordati alcuni spettacoli dei suoi
primi vent’anni: almeno la trilogia di Testori (1972-1977) e il
suo ultimo lavoro I promessi sposi alla prova (1984); La Betia
(1975); Il Misantropo (1977); Il malato immaginario (1980);
Tartufo (1983); Timone d’Atene (l’ultima interpretazione di
Parenti, 1988); L’Adalgisa, ecc.
All’inizio le regie furono di Parenti e Shammah, ma anche
in questo caso andrebbero citati scenografi e musicisti (ancora
Negri e Carpi) e una numerosa serie di bravissimi attori.
L’icona assoluta di questo teatro è stato Franco Parenti: di lui
basta una citazione di Testori: «lui è il maestro che insegna a
una compagnia di teatranti scalcinati, soli, falliti. Nella vita noi
siamo quei teatranti. Lui è quel maestro» (id).
Le proposte di questo teatro sono sempre state di alto
respiro, spesso oggetto di scandalo (come a proposito di alcuni
lavori di Testori), sempre con grande attenzione al testo e alla
parola; basti pensare alla proposta-invenzione di quello strano
«italiano» inventato dall’autore milanese. Un’offerta teatrale
in continua trasformazione, come i suoi spazi, dovuta alla sua
«anima» (fin dagli inizi): Andrée Ruth Shammah che ha
saputo unire, con altrettanta bravura, le due funzioni di
direzione artistica e amministrativa.
Un’esperienza del tutto particolare fu quella del crt, di
ispirazione cattolica come sempre orgogliosamente rivendicata
dal suo fondatore Sisto Dalla Palma. Il suo approccio al teatro
(come funzione culturale e sociale) era contrario
all’impostazione del Piccolo (di cui era stato per breve tempo
vicepresidente) a cui rimproverava il suo «assetto istituzionale
entro una marcata polarizzazione politica» rivolto a un’opera
di proselitismo di un «pubblico numeroso ma del tutto
impreparato, spesso disinteressato» (in Tognoli-Di Leva, 2011,
p. 121).
Il crt proponeva, invece, «una linea lombarda tutta attenta al
concreto, alla memoria, alla ibridazione tra popolarismo e
innovazione…» (ibid., p. 122). A ciò si ispirava il tentativo di
cercare vie diverse, del fare della propria marginalità (e
povertà di mezzi) un’occasione virtuosa di esplorazione di
spazi e pratiche teatrali non convenzionali. Lo scopo ultimo
era quello di evitare la «subalternità ed esternità» dello
spettatore quando era costretto ad assistere con scarso
coinvolgimento a spettacoli raffinati e di grande
professionalità, ma «pur sempre nella convenzione della
tradizione del teatro borghese che si realizzava nell’assistere
alle performances di grandi registi, belle scene e costumi,
splendidi attori, per puro (non sempre) divertimento».
Bisognava, così, andare alle radici delle «tradizioni popolari,
[…] alle strutture non professionali, rituali, festive e
partecipative orientate verso esiti della espressività corporea,
della danza, della voce, della musica […] del folklore […],
sottraendole alla logica dell’evasione e della mercificazione
[…]» (ibid., p. 123).
Era ciò di cui, secondo Dalla Palma, la città aveva bisogno:
come uno specchio in cui guardare alle proprie caratteristiche
antropologiche, vale a dire la «milanesità borghese» in via di
deciso superamento storico. Voleva essere la proposta di una
terza via nella stagnante dialettica teatro pubblico vs. teatro
commerciale, allo scopo di superare sia «la tradizione italiana
dei guitti e dei mattatori» sia «i tratti divistici propri di un
nuovo star system» sostenuti da «risorse considerevoli». La
critica al Piccolo era del tutto trasparente.
Gli intenti dichiarati furono raggiunti attraverso l’ospitalità
data a compagnie straniere e a seminari-laboratori su
tematiche di grande interesse, meno nella produzione diretta.
Le numerose compagnie italiane e (soprattutto) straniere
ospitate proposero un repertorio d’avanguardia. Il crt permise
di vedere spettacoli con la regia di Robert Wilson, Eugenio
Barba, Julian Beck e Judith Malina (con gli attori del Living
Theatre), Jerry Grotowski e altri. Tra questi, lo spettacolo da
citare è La classe morta (con la regia di Kantor) che colpì nel
profondo un’intera generazione di spettatori. Assistervi era
come vivere un sogno a occhi aperti. Sul palco una scena
povera con vecchi banchi di scuola. Ma era una magia, un
incanto. Scattava nello spettatore il gioco della memoria e
insieme dell’oblio, delle cose che ritornano improvvisamente
in mente e si sentono importanti, anche senza saperle
immediatamente interpretare e neppure descrivere con le
parole.
Il crt propose anche spettacoli di danza con compagnie
straniere (ricordiamo almeno Robert Wilson e Merce
Cunningham) che mostrarono come la danza fosse un’arte che
non andava rinchiusa nel classico (i balletti della Scala) o nei
balletti delle riviste o della TV. La danza era una forma di
teatro non declinata dalla parola e come tale andava
interpretata. Era un’esperienza diversa, ma importante.
Esperienze a cui il Comune non fu estraneo. L’impegno
verso il teatro è stato importante. Si creò all’uopo un’iniziativa
speciale chiamata «Milano aperta», gestita da una
commissione di esperti tra cui Giorgio Strehler, Carlo Maria
Badini, Roberto Leydi, Umberto Simonetta, T. Mantegazza, F.
Parenti, S. Dalla Palma, coordinata da un (attivissimo)
segretario artistico, G. Di Leva. Malgrado che tutti i
componenti avessero una responsabilità diretta in alcuni teatri
milanesi, l’iniziativa seppe innovare nelle sue proposte e non
cedette eccessivamente alle tentazioni di lottizzazione politica
sempre presenti. In questo, l’opera del sindaco fu importante.
Ricordarne tutte le iniziative si ridurrebbe a un elenco di
spettacoli, date e interpreti. Tuttavia, alcune non possono
essere dimenticate. Ad esempio, l’arrivo, nel 1979, del
meraviglioso e assolutamente innovativo spettacolo di Ariane
Mnouchkine, 1789: un modo di fare teatro al di fuori dagli
spazi deputati e con l’immediato coinvolgimento (fisico e
psicologico) degli spettatori. Il pubblico camminava accanto
agli attori e li seguiva ascoltandone le parole e partecipando
immediatamente alle emozioni che trasmettevano.
Impossibile non ricordare i due spettacoli di Carmelo Bene
(Manfred e Adelchi alla Scala): anche i borghesi milanesi
furono incantati dalla musicalità di una voce e dall’abilità
ammaliante di un interprete che recitava più parti nello stesso
testo. Il timore verso un genio sregolato (era proverbiale il
disprezzo verso il pubblico) si tramutò in un incondizionato
successo.
Molte di queste iniziative videro coinvolti i principali teatri
milanesi; altre furono pensate ad hoc anche in spazi non
teatrali, come ad esempio nel cortile del Castello Sforzesco, a
Villa Litta e in molti altri luoghi scelti anche sulla base di una
(timida) politica di decentramento.
L’evento che molti (non giovanissimi) ricordano ancora è
stato il concerto di Bob Marley a San Siro: il più famoso
(sicuramente il più ricordato) concerto all’aperto a Milano. Il
ricordo di quella serata si confonde nella nostalgia se non nel
mito: le «vibrazioni» evocate dalla voce di Marley si
dispersero in una grande nube di fumo in uno stadio che ballò
fino a notte fonda in un crescendo di partecipazione emotiva,
per poi disperdersi in silenzio e senza alcun incidente come si
era temuto. Un critico presente alla serata (Castaldo) parlò di
«disincantata consapevolezza» della propria soggettività da
parte degli spettatori. Era stare con altri vivendo i propri
pensieri e emozioni inarrestabili.
Erano viaggi nel cuore; la musica di quel tempo lo
permetteva spesso. Altre occasioni furono altrettanto
memorabili: da West Side Story al coro dell’Armata Russa, dai
tanghi struggenti di Astor Piazzolla alle geniali coreografie di
Bob Fosse.
Complessivamente si raggiunsero risultati quasi incredibili:
«Milano aperta» aveva sostenuto molti spettacoli con un
budget non stratosferico, aggirantesi ogni anno sugli
ottocento-novecento milioni.
Dal 1979, un’iniziativa della Provincia di Milano (assessore
Novella Sansoni) contribuì ad aumentare il pubblico che
«andava a teatro», inventando una originale forma di
abbonamento che permetteva di scegliere alcuni spettacoli tra
tutti quelli offerti dai teatri (molti) che aderivano all’iniziativa.
Ciò permise di poter conoscere le proposte dei teatri minori o
meno promozionati, anche di quelli in periferia.
Un allargamento nel numero degli spettatori e una preziosa
occasione per costruirsi un proprio gusto. Vi fu all’inizio un
notevole entusiasmo, forse eccessivo. In seguito, qualche
esperienza deludente fu causa del progressivo calo del numero
degli abbonati negli anni successivi; questo era dovuto a «una
crescita tanto improvvisa, disordinata […] in assenza di
un’adeguata educazione del gusto e della cultura specifica».
(Bosisio, 2004).
Anche per questo vi fu un riavvicinamento al teatro
leggero, di evasione (riviste, compagnie dialettali).
Riconquistarono spazio le sale (Manzoni, Nuovo, Smeraldo,
ecc.) a «conduzione privata» e gli spettacoli scelti
esclusivamente in base al nome e alla bravura degli attori «di
cartello». Il teatro sembrò tornare al puro divertimento. Il
gusto (più facile) del pubblico, di matrice prevalentemente
televisiva, sembrava essere tornato l’unico metro di giudizio.
A causare un certo allontanamento dal teatro di qualità sono
stati almeno due fenomeni: la cripticità (verbosità,
velleitarismo nelle regie e nella recitazione) di alcuni
spettacoli d’avanguardia e la sciagurata politica del «teatro per
le scuole», con le recite mattutine divenute occasione di puro
svago (risate e sciocchi commenti) per scolaresche
assolutamente non preparate dagli insegnati.
«Milano aperta» e «Invito a teatro» permisero però, nel
decennio 1975-85, che Milano avesse un indubbio primato
nella produzione di spettacoli e nell’ospitalità di compagnie
italiane e straniere: centinaia di spettacoli, migliaia di repliche,
milioni di spettatori: ovviamente non tutto fu di eccelsa qualità
e degno di essere ricordato nel tempo. La grande stagione (gli
spettacoli di successo, alcuni teatri aperti anche in periferia)
portò però molti spettatori a «uscire di sera», contribuendo a
rompere il clima di paura degli anni precedenti. Non fu solo
voglia di riappropriarsi della città, ma anche il tentativo di
capire i tempi nuovi, ciò che stava accadendo.
Molte delle proposte teatrali del periodo erano state
un’occasione «coinvolgente» di riflessione. Si pensi ai testi di
Brecht e Testori, per fare solo due esempi; ma si pensi anche al
recupero dei classici che una scuola severa aveva presentato
con pedanteria e che, invece, messi in scena con abilità,
ritornavano a essere favole incantevoli in cui perdersi.
Fu una stagione probabilmente irripetibile.
3. Le grandi mostre
Alcune mostre di quegli anni sono rimaste famose: eppure
non erano tempi di vacche grasse (per le casse comunali)
neanche allora. Uno dei motivi di successo si deve alla già
ricordata capacità di «ascolto» delle proposte-progetti di
grande valore.
Mancano ancora contributi capaci di ricostruire, non
episodicamente, il clima e la prassi che permisero questi
importanti risultati. Due caratteri possono, però, essere
sottolineati: l’essere state «pensate» (inventate e realizzate) a
Milano e non «affittate» (come invece avviene oggi a
proposito di mostre realizzate in massima parte all’estero) e
essere state oggetto di precise ipotesi di ricerca che facevano
di queste mostre un’occasione per un accurato lavoro
interpretativo su un periodo, una tendenza o un artista. Di
questo impegno sono prova i cataloghi delle mostre: alcuni
sono diventati fondamentali testi di riferimento su uno
specifico tema.
Alcune proposte danno un’idea di un progetto complessivo,
anche se questo non fu mai concepito come tale. Certo è che
alcune mostre scandirono idealmente un itinerario coerente,
con particolare riferimento a certi momenti storici della città
come nel caso del recupero delle radici («I longobardi a
Milano», 1978; «I Camuni», 1982) o dei tempi degli Sforza
(con le importantissime mostre e i convegni su «Leonardo a
Milano», 1982) o come ripensamento della storia più recente
(come nel caso della grande esposizione sugli «Anni Trenta»,
1982).
In altri casi si lavorò su alcuni aspetti meno noti ma
rilevanti della storia dell’arte, come per «Origini
dell’astrattismo» (1979) o il grande successo di «L’altra metà
dell’avanguardia» (1980). Ovviamente, non mancarono le
mostre dedicate a singoli artisti di grande fama, tra le quali:
Melotti (1979), Mirò (1981), Marini (1984), Hayez (1993) e
altri.
Non potendo ovviamente considerarle tutte, ci riferiremo a
tre sole mostre: «L’altra metà dell’avanguardia», «Leonardo» e
«Anni Trenta».
La prima ha permesso alla curatrice (Lea Vergine) di
esplorare l’altra metà del cielo della creatività del Novecento:
la metà scomparsa in quanto non le era stato permesso di
emergere, come avrebbe meritato: per i pregiudizi imperanti
(dipingono gli uomini!), per amore o timidezza, per i tempi
oggettivamente difficili in cui avevano vissuto. Così molte
pittrici che pure erano state artiste di grande talento,
fondamentali in alcuni movimenti, hanno finito per restare
figure di secondo piano, come del resto succedeva alle donne
in molti altri campi. Parlare di queste donne-artiste permise di
passare in rassegna, da un particolare punto di vista, molti dei
movimenti artistici del tempo tra cui cubismo, futurismo,
dadaismo, astrattismo, surrealismo.
Una mostra che ha riscattato il valore di queste pittrici, non
solo in nome del femminismo imperante in quegli anni. Non
una rivalsa postuma, ma un riconoscimento dovuto. La mostra
ha permesso di esplorare le vite di un centinaio di artiste nelle
loro relazioni (professionali e non), gli eventi che ne avevano
caratterizzato la vita nei loro spostamenti in Europa (voluti o
costretti) durante il loro percorso artistico. Ciò che ha condotto
a molte conferme (o a un riscatto dall’oblio), ma anche ad
alcune scoperte importanti. Così, accanto a pochi nomi famosi
(Sonia Delaunay, Tamara De Lempicka, Frida Kahlo), fu
possibile conoscere per la prima volta molte artiste con alcune
loro splendide opere note solo ai critici professionali.
Una mostra curata in modo esemplare, didattica nel senso
più alto del termine. Ricca e molto documentata,
accompagnata da un catalogo che è rimasto una sorta di testo
di riferimento obbligato sull’argomento. Fu un’immediata
chiave di coinvolgimento anche per lettori scarsamente
informati, come probabilmente lo era la gran parte del vasto
pubblico che vide e apprezzò la mostra. (Vergine, 1980)
Quella sul quinto centenario dell’arrivo di Leonardo da
Vinci a Milano fu una grande occasione per «visitare il mito»
di Leonardo e per ripensare alla Milano di quei tempi. Una
mostra di grandissimo impegno (anche economico) che
coinvolse molti esperti e fu realizzata in più luoghi (dal
Castello Sforzesco alla Pinacoteca Ambrosiana) e fu
accompagnata da almeno quindici convegni internazionali che
spaziarono su molte attività del genio: dalla musica ai suoi
progetti architettonici, oltre ovviamente sul suo tempo e i suoi
allievi.
In particolare grandissimo interesse suscitò il ritorno a
Milano di alcuni codici e disegni dalla Biblioteca Reale di
Windsor, come il Codice Atlantico esposto con altre opere
della cerchia leonardiana all’Ambrosiana. Tutto ciò permise di
accostare il grande pittore al geniale anticipatore del futuro (le
macchine che volano, le armi avveniristiche, le opere
idrauliche, ecc.).
Una mostra rimasta memorabile nella storia culturale di
Milano di quel periodo. Fu anche occasione di un’iniziativa
per coinvolgere un largo pubblico su temi non sempre facili.
Ciò che accadde in alcuni convegni, quelli meno specialistici.
Il progetto più controverso fu quello relativo agli «Anni
Trenta» riletti in chiave artistica nei campi della pittura, della
scultura, del teatro, dell’architettura, della moda e del design,
della musica e della fotografia. Molti insorsero al suo
annuncio temendo un’indiretta apologia del regime. A
garanzia ci fu una commissione di noti studiosi e critici (tra i
quali Barilli, Caroli, Fagone) che impostò il progetto e seguì i
lavori dei curatori a cui fu affidato l’allestimento delle
numerose sezioni (si veda il catalogo: AA.VV., Anni Trenta.
Arte e cultura in Italia, 1982).
Anche in questo caso la mostra occupò più spazi: dal
Palazzo Reale al sagrato del Duomo alla Galleria, dove fu
esposto il logo di una famosa marca di liquori: uno dei primi
interventi di sponsorizzazione delle aziende private alle attività
culturali del Comune.
Al di là delle critiche ideologiche, formulate prima ancora
di averla vista, la mostra ricostruì l’opera di alcuni artisti,
scrittori e architetti di grande valore. Era l’accurata (e molto
ricca) rivisitazione di un periodo che aveva visto emergere
molti fenomeni legati ad alcune trasformazioni di carattere
economico e sociale (in tutto il mondo) e verso cui il regime
aveva agito talora da acceleratore, talora da freno (Barilli nel
catalogo): in particolare a proposito del rapporto tra società
agricola e società industriale o tra privato (i primi sogni di
modernità) e pubblico (la mistica collettiva). Temi
contestualizzati dal saggio storico d’apertura (Vita politica e
sociale) di Giordano Bruno Guerri non lontano dalla lezione di
De Felice sul fascismo nel periodo 1929-1940, gli anni trattati
dalla mostra.
La mostra illustrò una rivoluzione ideale mancata per la
modestia dei suoi protagonisti ma a cui avevano fatto
riferimento gran parte degli italiani. Specialmente coloro che
erano ancora inseriti in una società preindustriale che si
rivolsero con entusiasmo ai primi consumi (auto e vestiti), ai
divertimenti (in particolare il cinema), malgrado le difficoltà
economiche (il 1929 colpì anche il nostro Paese) e le
successive politiche legate alle sanzioni e all’autarchia. Un
viaggio tra povertà (non solo economica) e illusioni di
potenza.
Di ciò la mostra documentò molti aspetti con una varietà e
ricchezza di materiali e con un apparato didascalico di ottimo
livello. Fu la mostra più visitata e citata in quegli anni.
5. Milano e Roma
Teatro, lezioni e conferenze, mostre, design, furono nel loro
insieme una proposta culturale che sprovincializzò la ancora
tradizionale cultura borghese di una ricca città avviata alla
modernità.
Una politica culturale molto diversa da quella di cui si parlò
certamente di più e che vide la luce negli stessi anni: quella
definita dell’«effimero» e di cui fu artefice l’assessore Nicolini
a Roma. Anche qui lo scopo era quello di attirare più gente
possibile in alcuni luoghi della città (ad esempio, nella
Basilica di Massenzio, alla terme di Caracalla, al Colosseo,
ecc.) giocando sullo spettacolo e sulla festa.
Fin da subito fu di grande successo e forte clamore mediale,
ma forse senza chiari effetti e ricadute se non quella di aver
esportato, negli anni successivi, l’«effimero» in tutti i comuni
d’Italia. Non ci fu comune o borgo in cui non si sfruttassero
feste e sagre (o una qualsiasi occasione o pretesto) da parte di
sindaci e assessori vogliosi di emulare il collega romano
diventato famoso. In qualche caso furono iniziative positive
almeno sul piano dell’aggregazione sociale; in altri furono
esibizioni di sano provincialismo e/o di qualche ambigua
elargizione di denaro agli amici degli amici.
Sono state, comunque, un preciso indicatore di come si
intendesse la cultura popolare in quel periodo. Innanzi tutto
era d’obbligo riferirsi a un «grande pubblico», pescando anche
nei gruppi sociali meno abituati a queste iniziative. Una folla
indifferenziata era la protagonista della vita culturale del
tempo.
Al fondo l’«estate romana» aveva avuto le stesse
motivazioni di quelle degli amministratori milanesi. Come
disse lo stesso Nicolini (1991) lo scopo iniziale era stato
quello di far uscire i romani dalla «logica della
militarizzazione», richiamare alla partecipazione il «popolo
delle borgate», far riappropriare i romani di alcuni luoghi
«sacri» (fino ad allora non molto frequentati) della loro città.
Il tratto dominante fu quello di cercare il più possibile la
mescolanza dei pubblici (borghesi e proletari) e delle offerte:
così il ballo nelle piazze era accostato al «Festival dei poeti» a
Castel Porziano, con esiti spesso imprevedibili. Si proponeva
di tutto: cinema, teatro, musica, non sempre interrogandosi
sulla qualità dell’offerta e degli interpreti.
Le serate delle estati romane erano piene di sorprese, di
eventi. Si cercava una «creatività delle masse popolari» che
spesso, però, si limitò a dar luogo a happening collettivi e
divertiti su cui si teorizzò in maniera alquanto superficiale. Il
pensiero (e l’opera) di Pasolini era molto utilizzato in queste
analisi, non sempre coerentemente.
Lo stesso termine di «effimero» diede luogo a molte
discussioni teoriche. Alcuni intellettuali che affiancarono
l’assessore nella progettazione delle diverse iniziative
(assieme a un grande numero di volontari) parlarono del
trionfo dell’estetica (moderna, creativa e popolare) sull’etica
tradizionale, non più culturalmente e socialmente legittimata.
L’«effimero» era legato (Nicolini, ibid.) a sensazioni,
emozioni, impressioni, apparenza, immagine. Una sorta di
(modesta) eredità dell’immaginazione al potere declamata a
gran voce nel maggio parigino. Si lavorò sull’eccesso, sulla
trasgressione, con un approccio dada, in cui l’assurdo finì per
essere la nota dominante, quella a cui ci si abbondonava con
un certo compiacimento.
Difficile darne, ancora oggi, un preciso giudizio: questo
resta diviso tra valutazioni negative (futilità e improvvisazione
che avrebbero accompagnato anche in seguito una certa
cultura di sinistra a livello locale) e positive, come l’aver
allargato la partecipazione a chi ne era stato fino ad allora
escluso, tanto da averne perfino un positivo ritorno elettorale.
Su queste valutazioni ha spesso giocato il protagonismo
(alquanto narcisista) del più celebre assessore d’Italia.
Con tutti i suoi limiti fu una stagione indimenticabile per i
romani e per tutti coloro che ne vissero le imitazioni più o
meno riuscite in centinaia di comuni grandi e piccoli.
Certamente fu qualcosa di assai diverso dalla politica
culturale di Milano, di Tognoli, Ogliari e Aghina. Non va
cercato, ovviamente, chi «fu il migliore»: furono due modi per
reagire ai tempi bui sulla base di una precisa leadership
politica giocata in chiave culturale.
6. Urbanistica e dintorni
L’urbanistica è stata l’area di più complicata gestione nei
rapporti tra amministrazione cittadina e società civile. Non a
caso è in questa area che sarebbero comparsi personaggi molto
«chiacchierati»: i grandi costruttori di quel tempo.
Per entrare in questa complessa materia sono necessarie due
premesse (solo apparentemente) teoriche. Una riguarda la
dimensione della città. A questo proposito Milano ha vissuto
due periodi. Il primo fu quello della «fuga verso la città»
grazie alla capacità attrattiva di quest’ultima: sia rispetto alle
possibilità di lavoro, sia per quanto atteneva a relazioni sociali
aperte e moderne. Un periodo culminato con il fenomeno delle
migrazioni interne e proseguito lungo gli anni settanta. Milano
era la città accogliente che offriva notevoli possibilità di
mobilità ai più «meritevoli». Aveva il fascino della grande
città per chi veniva da piccoli paesi o dalla campagna, dal
Meridione. Non aveva ancora una dimensione cosmopolita,
conservava al contrario un suo tratto provinciale che si
coglieva immediatamente nei modi cordiali dei rapporti sociali
nella quotidianità.
Nel giro di non molti anni (grazie agli affitti troppo cari e
alla mancanza di abitazioni popolari) si mise in moto il
fenomeno inverso: quello della «fuga dalla città» verso i
sobborghi e poi anche verso piccoli paesi anche più lontani.
Con un sempre più grave problema di trasporti mai affrontato
funzionalmente. Non pochi cominciarono a «pendolare», non
solo per problemi economici ma anche per il desiderio di
abbandonare le periferie degradate. La città perse abitanti o
non li aumentò come ci si sarebbe aspettato.
La conseguenza fu che, ogni giorno, al mattino, molte
decine di migliaia di persone erano costrette a spostarsi dai
luoghi dove erano andati ad abitare verso la città; non solo per
lavoro, ma anche per sbrigare pratiche burocratiche, fare
acquisti, ecc.
All’inverso, i pendolari lasciavano, alla sera, la città,
riprendendo i mezzi di trasporto per tornare a casa verso l’ora
di cena, da dove sarebbero ripartiti il mattino successivo. Solo
una minoranza si fermava qualche ora in più per andare al
cinema o a teatro.
La loro faticosa vita (in treni affollati e scomodi o in
colonne di auto in lunghe code) portava qualche vantaggio nei
week-end, almeno per coloro che avevano scelto località nel
verde o senza gravi problemi di affollamento.
È la popolazione che Martinotti (2013) ha definito dei city-
user: un fenomeno comune nel mondo dove si sono formati
grandi agglomerati urbani. Con la conseguenza di portare
nuovi problemi alle amministrazioni locali nella gestione della
dimensione «metropolitana»; con gravi rischi per i loro bilanci
che dovevano trovare risorse per i servizi utilizzati anche da
chi «non pagava tasse» perché residente altrove. Milano non è
diventata, dal punto di vista legislativo, una metropoli; è
restata una grande città, un comune, ma non un’area
metropolitana che raggruppa diversi comuni dal punto di vista
amministrativo. Ciò ha impedito che venissero prese misure o
iniziative collettive per quanto attiene i piani urbanistici, i
trasporti, la differenziazione funzionale delle diverse aree.
È il fenomeno avvenuto anche in altre parti del Paese. Sul
territorio nazionale sono infatti cresciute le aree urbanizzate,
passate dal 4,4% della superficie nel 1951 all’11,5% nel 1981.
Ovviamente è aumentata lanche a popolazione che vi abita:
nello stesso periodo passata dal 31,1% al 55,8% (Ercole,
1996). La concentrazione metropolitana nel nostro Paese vede
ormai oltre dieci milioni di residenti. Un fenomeno destinato a
crescere ulteriormente nel futuro.
Secondo alcuni studiosi (Castells, tra questi) è in queste
aree che si realizza un maggiore sviluppo economico legato
alla finanza, al commercio internazionale, alla ricerca
scientifica, alla creazione di nuovi prodotti e alle più recenti
applicazioni digitali. Ci sono però anche lati negativi: il
fenomeno è, infatti, causa di un crescente problema ecologico
(l’inquinamento) oltre che di quelli, futuri, legati al fabbisogno
alimentare di questi grandi agglomerati. Sarebbe anche
interessante studiare le nuove (e complesse) modalità di
relazione sociale (sempre più in chiave digitale) necessarie in
queste nuove e (continuamente) mutanti forme di
aggregazione e partecipazione sociale.
Tornando alla Milano degli anni settanta, partiamo da un
contributo di Bernardo Secchi (1985) che a proposito dei piani
regolatori (che stabilivano destinazioni d’uso e prospettive di
sviluppo delle aree urbane) ha suggerito di considerarli più una
«narrazione» che contributi tecnico-scientifici opera di
specialisti.
Gli urbanisti-architetti sono stati infatti progressivamente
indotti a spiegare-giustificare-promuovere le loro proposte
sulla base di una presentazione fondata su alcune premesse
valoriali: il caso più frequente è stato quello delle giunte che
dichiaravano di volersi impegnare in chiave congiunta di
sviluppo della città e protezione delle categorie più
svantaggiate. Di conseguenza la narrazione doveva
«presentare» in buona luce alcuni protagonisti «pubblici» (le
categorie professionali, i gruppi a cui rivolgersi
prioritariamente, le istituzioni, ecc.), mettere in secondo piano
altri che pure erano fondamentali nella logica concreta dello
sviluppo come i costruttori «potenti» (per il possesso di grandi
aree e imponenti mezzi finanziari) e così via.
Con il risultato che queste narrazioni sono state spesso
piuttosto astratte (specialmente nel periodo a cui ci riferiamo),
costruite per promuovere gli obiettivi (o l’immagine) di una
certa amministrazione. A ciò si aggiunga il non potersi-doversi
riferire a una precisa e valida normativa a cui attenersi. Così, il
più delle volte, queste narrazioni sono state una sorta di
razionalizzazione dell’agire di alcuni attori di primo piano
(soprattutto politici) abili nel «farsi» narrare. Il canovaccio più
seguito, in quegli anni, fu il tentativo di affrontare per il
meglio il forte contrasto tra necessità pubbliche e interessi
privati. Le difficoltà in chiave tecnico-finanziaria posero però
grossi ostacoli alla realizzazione degli obiettivi di carattere
sociale che erano invece chiari e assolutamente condivisibili in
chiave narrativa.
Nella pratica quotidiana era però necessario passare dalle
prospettive narrative alle iniziative specifiche (concrete), come
spesso avvenne alla fine degli anni settanta quando si passò
dalla logica complessiva del piano urbanistico a quella degli
interventi specifici (i «progetti d’area»).
Il principale obiettivo che si era posto già alla prima giunta
di sinistra fu quello della riconversione delle aree industriali
dismesse per l’irreversibile crisi di alcune grandi aziende come
Alfa Romeo, Innocenti, Pirelli, Falck, Montedison. Un
secondo problema, altrettanto importante, fu quello dei
trasporti.
Furono però necessari quasi cinque anni per arrivare a
iniziative concrete in entrambe le direzioni.
Nella relazione con cui diede il via ai lavori della seconda
giunta, il sindaco affermò di voler «aggiornare» il prg,
impegnandosi a snellire le norme tecniche di attuazione e le
procedure, ricorrendo a specifici piani d’intervento (i progetti
speciali), con un forte impegno nella realizzazione di vaste
aree «a verde […] sia per acquisto diretto sia per cessione di
standard e/o scomputo di oneri di urbanizzazione» (Mottini,
1985).
Era un modo assolutamente nuovo di procedere da parte
dell’amministrazione pubblica; erano i presupposti di quella
che sarebbe stata definita «urbanizzazione contrattata».
Di conseguenza, il Comune si dotò di strutture, informali
ma efficienti (con consulenti e ricorso a istituti quali il pim e
l’irer) per promuovere studi e ricerche integrate. Così su
specifici «progetti d’area», accanto agli urbanisti, lavorarono
economisti, sociologi e altri specialisti.
Erano i progetti sui quali si sarebbe deciso il futuro di vaste
aree della città. La giunta si trovò infatti a dover decidere in
merito a milioni di metri cubi di possibili (e necessarie) nuove
costruzioni. Con un problema non di poco conto:
l’impreparazione e l’inadeguatezza della macchina burocratica
rispetto a questo compito gigantesco. Si trattava di edificare
vastissime aree investendo cifre da capogiro.
Forse solo nel dopoguerra ci si era trovati in una situazione
analoga: allora avevano però operato un gran numero di
costruttori di modeste dimensioni. Anche per questo la
speculazione fu di modesta entità: prevalse di gran lunga lo
spirito della ricostruzione, come impegno insieme individuale
e collettivo.
Alla fine degli anni settanta si trattava di costruire interi
quartieri, piccole città nella città: un impegno gravoso per una
macchina burocratica non usa a un compito di quelle
dimensioni, anche tenendo conto delle nuove concezioni in
campo architettonico e urbanistico.
I principali difetti di questa impreparazione furono: la
lentezza e la scarsa efficienza delle procedure, il continuo iato
tra aspettative-bisogni (sociali) e realizzazioni concrete, la
mancanza di fondi necessari per alcuni interventi (ad esempio,
la ristrutturazione degli stabili in precarie condizioni), il dover
restare confinati in ambito localistico e non «metropolitano».
Inoltre il «necessario» affiancamento di esperti fu, in
qualche caso, oggetto di qualche ambiguità: ad esempio, tra
progettazione e controllo delle procedure, tra pubblico (come
incarico professionale) e privato (le loro altre occupazioni, non
essendo mai la consulenza incarico esclusivo). Una vicenda
ancora da scrivere, ma su cui esiste un lucido anche se
sconsolato contributo di grande interesse (Balzani, 1995),
Queste carenze sono state alla base della deregulation che
finì per caratterizzare progressivamente il settore, con un
conseguente appannamento dell’impegno programmatico e
sociale che ne era stato il principio ispiratore.
Per descrivere questo accidentato percorso (specialmente
nel periodo 1980-86) ci si dovrebbe inoltrare nell’analisi di
centinaia di episodi, transazioni, personaggi, che hanno
composto il quadro confuso, anche se molto vivace, delle
vicende urbanistiche del periodo. Molti di questi progetti
potrebbero essere ricostruiti come una narrazione (in questo
caso ex post) tra cronaca giornalistica e giallo: una narrazione
molto meno ispirata rispetto a quella a cui si era riferito
Secchi.
Due grandi iniziative, più come progetto-indirizzo che
come risultati concreti, hanno caratterizzato il periodo. La
prima fu il progetto del passante ferroviario. Il «documento
direttore», che ne indicava la sua utilità in chiave di
riconversione di alcune zone, è del 1983. La seconda fu il
«Progetto casa». Quest’ultimo fu ideato (1982) per dare
risposta a un forte fabbisogno di abitazioni private a prezzo
contenuto. A questo proposito, vennero scelte le aree e
predisposte numerose varianti al piano sulla base di progetti a
normativa speciale con procedure che si cercò di rendere più
spedite possibili. Si parlò, a questo proposito, di «rito
ambrosiano».
Ma al momento del necessario coinvolgimento dei
costruttori privati avvenivano (puntualmente) molte
«deviazioni»; costoro giocavano sulle procedure non definite e
sulla lentezza delle burocrazia, sul disporre di grandi capitali
che non li obbligavano a «chiudere» in tempi brevi, sull’uso di
abili interpretazioni della normativa in molti casi piuttosto
vaga. Così malgrado si fosse progettato di costruire oltre un
milione di metri cubi di abitazione privata in chiave non
speculativa, solo una modesta quantità abitazioni arrivarono
sul mercato a prezzi accessibili. Molti progetti subirono
trasformazioni in corso d’opera e vennero destinati a terziario
o ad altri scopi, magari giocando sul tenerli sfitti per qualche
tempo.
Nel caso del passante ferroviario (il percorso nel sottosuolo
milanese di alcune linee ferroviarie regionali), alcuni progetti
d’indirizzo (predisposti con il «documento direttore»)
dovevano servire a dare ordine alla destinazione d’uso di certe
aree, in particolare tenendo conto della esistenza di ampie aree
dismesse. Si pensava che, agevolando la mobilità, si sarebbe
favorita una migliore progettazione dello spazio urbano. In
questa prospettiva vennero, in particolare, predisposti studi
d’area su due zone: il Portello (dove era insediata l’Alfa) e la
zona Repubblica-Garibaldi (allora di proprietà delle Ferrovie
dello Stato). Nel primo caso si pensò di farne un polo di nuove
attività fieristiche e un grande centro convegni; nel secondo di
concentrare in quella zona le attività del terziario avanzato,
dalla finanza alla moda.
L’obiettivo era quello di favorire lo sviluppo di una città
moderna come richiedevano i tempi; si parlò anche (allora
assoluta novità) di cablaggio di queste zone.
Malgrado la serietà di questi progetti, l’ipotesi si perse nelle
fumisterie di convegni e nelle discussioni tra addetti ai lavori.
Basti pensare che le due zone vedranno la realizzazione di
progetti concreti solo dopo circa quarant’anni, con «City Life»
(parzialmente) nel primo caso e delle torri Unicredit e il
«bosco verticale» nel secondo.
Da sottolineare in particolare è che lo sviluppo della città
non avvenne lungo la direttrice ovest-est (quella considerata
dal passante), ma verso nord (il complesso Bicocca della
Pirelli) o verso sud (con il quartiere Missaglia di Ligresti e la
difficile difesa del Parco Sud). In entrambi i casi, iniziative
private fuori dagli obiettivi auspicati dal «documento».
Molti progetti non riuscirono neppure a partire. Tra questi
alcune iniziative in campo culturale: ad esempio, l’idea di
trasformate una grande caserma della polizia (in piazza
Sant’Ambrogio) nel «Beaubourg milanese», proposito presto
dimenticato. La stessa costruzione della nuova sede del
Piccolo Teatro si prolungò per anni e con qualche difetto non
del tutto risolto. Non si riuscì a ricostruire il palasport distrutto
da una forte nevicata.
Una vicenda esemplare fu quella del «Piano parcheggi».
Questo era partito da una doppia intuizione corretta: risolvere
il traffico, complicato anche dallo «stare in strada» di molte
migliaia di automobili ferme, e privilegiare la costituzione di
cooperative private per risolvere il problema. Allo scopo
vennero studiate normative facilitanti; ancora una volta, però,
una legislazione incerta portò a procedure insicure e lente che
bloccarono la maggior parte delle iniziative per molti anni.
Emblematico è stato il caso del parcheggio di piazza
Sant’Ambrogio inaugurato solo recentemente.
Alcuni progetti innovativi non riuscirono ad andare in porto
in quanto di scarso interesse per i privati. Così, malgrado il
forte impegno per una progettazione «ordinata», la città finì
con il crescere essenzialmente secondo gli interessi dei grandi
costruttori. Questi diventarono protagonisti assoluti, grazie
anche alla loro rete di complicità politiche e alle grandi
protezioni bancarie.
L’estremo tentativo di governare il settore fu tentato tramite
quella che venne definita «urbanistica controllata o
contrattata» che consisteva nel chiedere a chi voleva costruire
in certe zone di lasciare una quota degli spazi da destinare a
verde o servizi. In qualche caso si lasciò costruire in altre zone
(da quelle previste dal piano) con una permuta (uno scambio)
nella proprietà dei terreni. In teoria, un procedimento snello e
utile. Era però un terreno scivoloso, come emerse quando
scoppiò nel 1987 il caso delle «aree d’oro». La magistratura
accertò che lo scambio di terreni non era stato a sfavore del
Comune e che non vi era stata nessuna pratica tangentizia. Ma
fu altrettanto evidente la non ritualità formale di queste
pratiche: in quest’area grigia si aprì un ampio varco per
costruttori privi di scrupoli e amministratori di modesta virtù.
Il caso emblematico che dà un’idea di questa stagione si
riferisce a un grande e scaltro costruttore, Ligresti. Fu
l’assoluto protagonista della politica urbanistica a Milano. Un
personaggio di cui si sa ancora poco, al di là dei «rumor» e
delle poche inchieste non confortate da prove inconfutabili. Su
di lui esistono solo due interviste che non illuminano a fondo
la sua storia e la sua personalità. Quello che è certo è che
Ligresti ha costruito, nel giro di circa trent’anni, interi quartieri
grazie alla sua influenza o grande abilità nello stabilire
relazioni, informali ma importanti, in molti campi.
Era un siciliano di modeste origini, la cui accumulazione
primitiva del suo capitale ha sollevato qualche dubbio su
possibili connivenze non «alla luce del sole»; anche in questo
caso una tale ipotesi non è stata però oggetto di riscontro
alcuno da parte della magistratura.
La grande riservatezza ha consolidato la sua fama di
intoccabile e inavvicinabile. È stato il massimo esempio del
«capitalismo di relazione», intendendo con questa formula i
suoi numerosi e sostanziali «appoggi» politici (dalla destra
missina del conterraneo La Russa alla sinistra socialista, con
Craxi come principale sponsor) e in campo finanziario, con la
lunga e forte collaborazione (qualcuno la definisce
«protezione») di Cuccia e di Mediobanca. Anche le forze
politiche di opposizione non hanno mai denunciato con forza
(e con successo) il suo operato. La chiesa ha avuto verso di lui
una posizione sostanzialmente di favore anche grazie a sue
cospicue donazioni. I grandi quotidiani hanno avuto un
atteggiamento (molto) «prudente» nei suoi riguardi.
Molto riservato lo era stato fin dai suoi inizi, quando ebbe
un’importante frequentazione con Virgillito, finanziere (che lo
iniziò alle grandi operazioni in borsa) e imprenditore (padrone
della Liquigas sino al suo fallimento); da lui «ereditò» il primo
pacchetto di azioni sai, perno della sua grande ricchezza.
Il suo impero era fondato su tre elementi: una grande
quantità di denaro (non solo è stato uno degli uomini più ricchi
del paese, ma era in grado di raccogliere enormi capitali in
quanto «appoggiato» dalle grandi banche), una intelligente
politica di acquisizioni di aree edificabili (magari poco
appetibili al momento dell’acquisto), una grande conoscenza
delle norme urbanistiche (grazie a una vasta e efficiente rete di
dipendenti-consulenti) che gli permisero abili strategie nelle
procedure di assegnazione dei lavori e nella definizione finale
della loro destinazione d’uso.
In questa prospettiva vanno considerate le sue realizzazioni
nel sud-est di Milano: una zona rimasta praticamente del tutto
«non-costruita» (mentre a nord la conurbazione era arrivata
fino a Monza e alla Brianza) e quindi terreno ideale di grandi
interventi speculativi con milioni di metri cubi edificabili, di
cui riuscì a mutare nel tempo la destinazione d’uso da
abitazioni in terziario (Balducci-Piazza, 1981).
Ligresti fu altrettanto abile nel seguire la trasformazione
della città anche nel centro storico, con l’acquisto di immobili
di prestigio da rivendere o affittare ai nuovi imprenditori nei
settori del lusso o della finanza. Finì anche con l’acquistare
uno dei simboli della città, la Torre Velasca.
Si disse che Ligresti fosse direttamente interessato al 70%
dei volumi in costruzione in quegli anni; probabilmente una
stima esagerata, ma che testimonia il suo potere (o la sua
fama) in quegli anni. Un non comune personaggio che teorizzò
come Milano, nel suo trasformarsi in metropoli moderna e
europea, avrebbe prodotto enorme ricchezza. Tutti avrebbero
potuto trarne vantaggio; implicitamente ritenendo che i più
abili ne avrebbero potuto approfittare in misura maggiore.
Il primo periodo della sua marcia trionfale fu frenato dal
sopraggiungere di molti problemi (anche giudiziari) a
proposito della «disinvolta» gestione sai. Fu salvato ancora una
volta da cordate a guida Mediobanca giunte in suo aiuto.
Passarono alcuni anni (fino alle soglie del duemila) prima che
tornasse a essere protagonista nella costruzione di grandi lotti
sulle aree che erano rimaste dismesse e quindi oggetto di
grandi investimenti a forte carattere speculativo.
Il suo fallimento (ancora per problemi legati più al ramo
assicurativo che alle costruzioni) fu definitivo nel 2012.
Con lui si chiuse la stagione dei grandi tycoon del mattone:
la crescente dimensione (e costi) degli investimenti obbligò i
anche i grandi costruttori ad agire in associazione e con il
sempre più decisivo intervento delle banche.
Stavano anche arrivando tempi difficili: l’offerta stava
diventando superiore alla domanda. I più giovani e meno
abbienti erano infatti obbligati a trovare casa nei grandi
paesoni dell’hinterland.
Il contesto sociale e politico stava inoltre decisamente
cambiando. Esplose il fenomeno della corruzione e delle
infiltrazioni mafiose sempre più estese. Alcuni gruppi (che
godevano di precisi appoggi politici in Regione) ebbero facile
accesso agli appalti; in altri la magistratura, con sempre
maggiore difficoltà, riuscì a smascherare i prestanome dietro
cui si nascondevano i gestori reali di grandi capitali di dubbia
provenienza.
Va comunque detto che il «sacco della città» non fu
drammatico, malgrado si fosse costruito come in nessuna altra
città, a eccezione di Napoli, e con ben altri esiti.
Il confronto tra il frenato sviluppo negli anni ottanta e
quello sfrenato degli anni duemila sembra prestarsi a un
dibattito teorico sui vantaggi della pianificazione rispetto a
quelli del liberismo assoluto. A dare qualche ragione ai
sostenitori della pianificazione e del controllo pubblico,
possiamo ricordare due fenomeni «perversi»: l’arrembaggio e
il fallimento dei «furbetti del quartierino» (i vari Ricucci,
Coppola, Zunino) che sono arrivati a costruire imperi edilizi
franati in poco tempo e l’esplosione del fenomeno delle
tangenti che hanno visto nell’edilizia il loro naturale ambito. A
dare qualche ragione ai secondi, va detto che l’opera dei
costruttori d’assalto ha indubbiamente mutato il panorama
della città (adesso più simile a quello delle metropoli moderne
e con un suo indubbio fascino), malgrado i difetti di sempre (il
verde e i servizi) non siano stati del tutto risolti.
A distanza di tempo, si può ritenere che a favore della
seconda giunta di centro-sinistra vada ascritto il merito di aver
cercato di governare il conflitto tra interesse pubblico e
interessi privati, con la costante ricerca di un equilibrio in base
ai criteri (non sempre facili da definirsi e da attuarsi) della
«concertazione» e dell’«equità». Ovviamente si entrò nel
territorio dello scambio politico, dove non sempre tutto
funzionò secondo giustizia e non per colpa esclusiva dei
politici.
Il binomio mattone-tangente cominciò a essere
praticamente inscindibile. Le giunte di sinistra ne furono
esenti, salvo casi di modeste dimensioni. Furono forse le
ultime a salvarsi. Non a caso, l’intervento della magistratura,
anche negli anni successivi, non mise in luce gravi scandali.
Nel giro di pochi anni la prassi corruttiva diventò però la
regola (in particolare riguardo alle opere pubbliche e agli
appalti conseguenti, come nel caso della metropolitana): tutto
ciò sarebbe venuto alla luce con Tangentopoli.
Per finire, si deve accennare ad alcune altre carenze da
attribuirsi al deficit tecnico-professionale di amministratori e
addetti ai lavori. Ad esempio, è mancata una politica di
redevelopment (abbattere case e quartieri per ricostruirli più
moderni ed efficienti, come avviene ad esempio a New York e
in altre metropoli) e di styling urbano, immediato indice di una
migliore vita in città.
Gli scarsi risultati ottenuti relativamente al social housing si
accompagnarono al prevalere di costruzioni con altri scopi e
funzioni non abitative. Ciò ha favorito indirettamente una
metropolizzazione selvaggia, come si può anche oggi vedere
dalla brutta conurbazione delle periferie dove, salvo poche
eccezioni, il panorama è caratterizzato da anonimi casermoni
con scarso spazio ad aree verdi e ai servizi in chiave
partecipativa.
Probabilmente ha anche influito negativamente una cattiva
comunicazione con i cittadini sugli obiettivi prioritari: i
necessari interventi sulle aree dismesse, la possibile
riprogettazione di quartieri in progressivo decadimento, le
difficili procedure «obbligate» per perseguire tali obiettivi.
Sarebbe stato necessario un maggior coinvolgimento attivo dei
cittadini nell’individualizzazione di «esigenze e fabbisogni»
(Mottini, 1985) e sulla valutazione (non astratta e ideologica
come è accaduto spesso nei quartieri interessati) sulle scelte e
le modalità operative.
Un grave difetto nella «politica narrativa» delle
amministrazioni; questa avrebbe dovuto cercare di coinvolgere
davvero l’intera comunità su un terreno di comune e rilevante
interesse. Non era certo facile. Tra l’altro gli strumenti di
comunicazione erano controllati da chi aveva altri interessi da
perseguire.
1. Giornali e periodici
I giornali alla fine della seconda guerra mondiale erano
l’unica fonte (assieme alla radio) della «cronaca in diretta» di
ciò che accadeva nel paese e nel mondo. Ma non sfruttarono,
neppure negli anni seguiti al miracolo economico questa
potenzialità. I quotidiani italiani continuarono a dare grande
spazio alla politica e ai «potenti»: i loro proprietari e chi
governava. Sicuramente più ai loro interessi che non a quelli
dei propri lettori. Inoltre in tempi di pre-marketing, la
conoscenza del loro specifico target era affidata al fiuto del
direttore. In genere poco attento e scarsamente sensibile a
questo problema.
I giornali non erano considerati un oggetto da vendere; in
molti casi si limitavano a essere i portavoce delle «posizioni»
dei loro proprietari o referenti. In Italia non erano mai esistiti
editori puri, da intendersi come imprenditori che gestivano una
testata come un’impresa da cui ricavare lecitamente guadagni.
Ciò che, invece, caratterizzava da tempo molta della stampa
quotidiana degli altri paesi, specialmente quelli di lingua
inglese. Un vincolo che portava ad avere attenzione per i
propri lettori che li acquistavano solo riconoscendosi nei loro
contenuti e linguaggio.
In Italia, nel 1975, solo 17 testate di quotidiani su 74 (e non
le maggiori) dichiararono di avere un bilancio in pareggio
(Castronovo-Tranfaglia, 1994). Non avrebbero potuto
proseguire la loro attività (tra l’altro condotta non
spartanamente) senza i finanziamenti dalle grandi imprese
private o pubbliche; i nomi di Agnelli e Cefis, come esempi
delle prime e delle seconde, sono indicativi di una certa
stagione.
I giornali vendevano poco: per lungo tempo si disse che il
traguardo fosse di sei milioni di copie da vendere ogni giorno.
Quando questo traguardo fu superato (a metà degli anni
ottanta), si sperò di superare quello dei sette milioni. Non ci si
riuscì mai; anzi dagli anni novanta si verificò un lento ma
costante regresso nelle vendite che continua ai nostri giorni.
Va fatta una premessa per meglio comprendere questo dato:
il numero sulle copie vendute è strettamente connesso a quello
del numero dei lettori, ma ovviamente non coincide. Rimane
così il dubbio su quanti fossero davvero gli italiani che
leggevano un giornale. Le poche ricerche del tempo non vanno
considerate del tutto attendibili, sia per quanto riguardava i
proponenti (i giornali stessi), sia per quanto attiene alla
definizione di lettore. Ovviamente, un conto è parlare di «chi
ha letto o sfogliato un giornale il giorno precedente» (ma per
quanto tempo, ad esempio oltre i 15-20 minuti?) o di chi si è
limitato a sfogliarlo distrattamente, leggendo solo i titoli o
poco più. Ancora: diverso è il caso di chi si può considerare
lettore regolare (legge il giornale tutti i giorni o quasi) da
quello di chi dichiara di aver letto o sfogliato un giornale
«negli ultimi sette giorni», cioè un lettore saltuario e poco
coinvolto. La nostra ipotesi è che i lettori di quotidiani non
fossero più di un terzo degli italiani. Una stima confermata da
un semplice calcolo: quello che, partendo dal presupposto che
una copia di giornale possa avere almeno tre lettori (in
famiglia o nei locali pubblici) e facendo riferimento al dato di
6 milioni di vendite giornaliere, ci porta a ritenere che i lettori
di quotidiani fossero circa 18 milioni, pari cioè al 30-35%
degli italiani.
Sicuramente i lettori di quotidiani sono sempre stati una
minoranza composta da uomini, in età non giovanissima, di
buona istruzione e di ceto medio-alto e residenti
prevalentemente nel Nord e nelle grandi città. Un quadro forse
non precisissimo (e non troppo cambiato nel tempo) ma che
indica chiaramente nella media-alta borghesia il pubblico
privilegiato di questo mezzo in quegli anni.
Per quanto attiene invece al prodotto-giornale si può
ritenere che questo non abbia avuto grandi innovazioni fino
alla metà degli anni settanta. Le grandi testate (nazionali o
pluriregionali) si sono a lungo riferite al «Corriere della Sera»
come modello da seguire, anche a proposito delle scansioni
per genere: la prima pagina destinata alla politica, la «terza»
alla cultura, poi la cronaca e infine le ultime pagine (e scarso
spazio) a sport e spettacoli. Un modello poco accattivante,
aggravato da un linguaggio non immediato se non difficile.
A metà degli anni settanta avvennero tre fatti molto
importanti: nel 1974 i Rizzoli acquistarono «Il Corriere della
Sera» dagli storici proprietari (i Crespi, espressione della
grande borghesia milanese ormai al tramonto) e si proposero
come primo esempio di editore puro. La loro azienda era
leader nell’editoria libraria e la storia del suo fondatore (orfano
e poi self made man affermatosi nell’Italia della ricostruzione)
era esemplare di un mondo che stava scomparendo ma ancora
con saldi valori tradizionali. Un evento che si tramuterà nel
giro di pochissimi anni nella parabola dell’inefficienza e della
corruzione, quando l’azienda sarebbe stata salvata dalla
catastrofica gestione del figlio Andrea solo dall’intervento di
banche e banchieri «particolari» (da Calvi e dal Banco
Ambrosiano e dallo ior del Vaticano) «facilitati» nelle loro
operazioni dalla mediazione di personaggi nell’orbita della P2.
Quest’ultima finirà per avere, anche se per breve tempo, il
controllo della testata: proprietario, amministratore delegato e
direttore appartenevano tutti alla (poco venerabile) loggia P2.
Nello stesso anno, Montanelli uscì dal «Corriere» (per gravi
dissidi con la vecchia proprietà) e fondò e diresse «Il Giornale
Nuovo»; che tanto nuovo non era, per stile e contenuti ma
anche per il pubblico a cui intendeva rivolgersi. Era la piccola
borghesia conservatrice, prevalentemente milanese, che
diventerà il gruppo sociale a cui si riferì la «discesa in campo»
di Berlusconi. All’inizio Montanelli aveva cercato di
smarcarsi. Mentre aveva detto ai suoi lettori di votare DC
«turandosi il naso» nelle elezioni del 1975, cercò invano di
resistere al Cavaliere quando questi acquistò la testata. In
seguito Montanelli ritornò al suo vecchio e amato giornale,
anche se in posizione alquanto defilata: si limitò a curare la
«posta con i lettori».
Nel 1976 uscì «la Repubblica», senza dubbio un giornale
«nuovo» rispetto alla tradizione del giornalismo italiano: si
rivolgeva al «popolo della sinistra» (progressivamente deluso
e orfano del PCI) con uno stile (taglio delle notizie e
linguaggio) immediato; presto avrebbe trattando diffusamente
di argomenti quali spettacolo e sport fino ad allora marginali
nei quotidiani italiani.
Anche a causa del suo formato tabloid, fu obbligato a
ricorrere a titoli brevi e urlati, con rapidi richiami dalla prima
alle pagine interne. Ogni giorno prendeva netta posizione, fin
dai titoli della prima pagina, sui fatti più rilevanti. Non era
nello stile dei quotidiani italiani. Si disse che «Repubblica» era
un «partito» che aveva sostituito quelli della sinistra in crisi.
Fin dall’inizio collaborarono al giornale grandi firme sotto
la guida del suo fondatore Scalfari. La «macchina giornale»
era un esempio di organizzazione interna (Livolsi, 1984).
Nel giro di pochi anni il duello tra la «Repubblica» e il
«Corriere della Sera» (nel frattempo rigenerato da un drastica
cura di amministrazione controllata e poi acquistato dalla
grande alleanza: Agnelli, Pirelli, Mondadori) fu il contesto
entro il quale si vanno a inquadrare i cambiamenti (scarsi)
nell’editoria giornalistica del Paese.
Il fenomeno più evidente di questa modernizzazione si
riferisce alla cosiddetta «settimanalizzazione», cioè
l’affermarsi nelle pagine dei quotidiani di argomenti
(spettacoli, consumi, moda, viaggi, grandi personaggi) che
erano stati, fino ad allora, trattati dai settimanali. La
conseguenza, immediata e diretta, fu che questi ultimi
conobbero una progressiva perdita di lettori.
Il quadro complessivo va completato con poche altre testate
nazionali («La Stampa» di Torino e, sempre meno, «Il Giorno»
di Milano), da alcune testate pluriregionali («La Nazione» di
Firenze, «Il Messaggero» di Roma, «Il Mattino» di Napoli).
Insieme, questi giornali esaurivano circa la metà delle copie
vendute ogni giorno.
Il fatto più curioso era che il primo giornale per diffusione
fosse una testata sportiva («La gazzetta dello Sport»). Assieme
al suo concorrente del Centro-Sud («Il Corriere dello Sport»),
tiravano ogni giorno (ancor più il lunedì) oltre un milione di
copie: cioè quanto tutti i regionali e molto di più dei locali
(attestati a circa 600 000 copie). Questi ultimi avevano sempre
rappresentato una realtà provinciale più che locale, poco
progressiva sia politicamente che culturalmente. Avrebbero
potuto essere un importante veicolo di partecipazione (a
proposito di quanto avveniva nella propria «piccola» città):
finirono per soffrire la concorrenza dei notiziari locali della
terza rete televisiva.
Nei primi anni ottanta avvennero altri due fenomeni
rilevanti: il primo fu l’introduzione di alcune importanti novità
tecnologiche. Ad esempio il reperimento delle notizie
mediante l’utilizzo delle banche dati, la stampa a freddo
(questa provocò tensioni sindacali con i tipografi che temettero
il rischio di perdere il posto) e la diffusione delle copie anche
nelle lontane province mediante la teletrasmissione.
Il secondo fu il varo di una legge sull’editoria che vide il
considerevole impegno del Governo per ridurre (ma non
abbattere) i deficit aziendali. Forte fu anche il coinvolgimento
delle organizzazioni sindacali dei giornalisti che si batterono
(anche) per il pluralismo e la correttezza/completezza
dell’informazione. Traguardi che non si raggiunsero mai del
tutto ma che rappresentarono, sicuramente, un impegno
importante per una categoria che da quel momento (e in quelle
battaglie) prese maggiore coscienza del proprio ruolo.
Come si è già accennato, i giornalisti italiani non erano stati
fino ad allora dalla parte dei lettori, non ne avevano certo
difeso gli interessi come un feroce «cane da guardia» contro i
potenti. A cavallo degli anni settanta-ottanta qualcosa però,
cambiò. Il giornalismo d’inchiesta restò sempre alquanto
marginale, anche se i tempi avrebbero richiesto un maggior
impegno in questa direzione e malgrado che alcune firme
(Bocca, Pansa, Zavoli e Biagi anche in TV) percorressero il
Paese mettendone in luce problemi e fenomeni nuovi.
Non fu un periodo facile per la categoria; verso la fine degli
anni settanta alcuni giornalisti furono gambizzati o uccisi dalle
Brigate Rosse: erano accusati di essere schierati dalla parte dei
padroni. Un’accusa assurda e sciocca: sarebbe stato più
corretto affermare che spesso una maggiore determinatezza nel
leggere e approfondire ragioni e cause della cattiva gestione
politica ed economica del Paese sarebbe stata utile e
necessaria. Non era però questo un peccato da punire così
tragicamente.
I periodici ebbero un pubblico più numeroso e coinvolto,
specialmente nel caso dei meno colti, più anziani e marginali,
sia geograficamente che culturalmente. Si è stimato che quasi
tutti gli uomini e le donne (di più), sotto i 50 anni e con
almeno una discreta istruzione leggessero o sfogliassero
almeno un periodico ogni settimana.
L’elevato numero di queste testate e la loro estrema
frammentazione hanno reso difficile avere stime esatte sulle
diverse tipologie (fruizione e orientamento per
generi/contenuti) di lettori e/o testate. Limitiamoci pertanto a
una tipologia estremamente sintetica, iniziando dai «politici» o
«di costume», come «L’Espresso» e «Panorama». Arrivarono
a tirare il primo oltre 400 000 e il secondo circa 600 000 copie,
per poi declinare all’arrivo dei news-magazine (i supplementi
della «Repubblica» e del «Corriere della Sera»). Tra i due vi
era una differenza che sembrava riferirsi ai due quotidiani
maggiori. Disse, al tempo, Nello Ajello: «“L’Espresso” è un
giornale di battaglia […] la sua titolazione è immaginosa,
pungente, ironica (a volte barocca) allo stesso modo che quella
di “Panorama” è discreta, piana, rassicurante» (riportato in
Volli, 1994, p. 355).
Gli stili corrispondevano a differenti modi di considerare
«quegli anni» sulla base di due distinte visioni sociopolitiche
entrambe presenti all’interno dello stesso gruppo sociale: la
piccola-media borghesia. La prima si interessava di politica e
«prendeva posizione»; la seconda si interessava più a
tematiche del sociale o della contemporaneità. I primi
guardavano a Roma (ai palazzi del potere), i secondi al Paese
intero e al mondo che stava cambiando. Nell’insieme, una
minoranza attenta e coinvolta che probabilmente leggeva
anche almeno un quotidiano, sia pure saltuariamente.
Ben diversi i lettori dei «familiari», nati nell’immediato
dopoguerra: prima «Oggi» e poi «Gente» che finì per
sopravanzare il primo nelle vendite. Questo tipo di testate si
rivolgeva alla classe media più tradizionale e meno colta,
offrendo un’immagine del mondo fatta di «caute aperture alle
novità sociali e culturali, buoni sentimenti, analisi semplificate
dei fatti del mondo, […] casi emblematici e pietosi su cui
meravigliarsi e/o indignarsi ma soprattutto commuoversi […]»
(in Volli, p. 378).
Molto probabilmente questi lettori votavano in modo
diverso da quelli delle testate ricordate in precedenza e
avevano comunque un atteggiamento molto cauto verso ogni
cambiamento inaspettato: cioè praticamente verso ogni fatto o
fenomeno che mettesse a rischio (ai loro occhi) l’ordine
costituto. L’unica novità che accettarono fu la sostituzione
delle notizie sulle vite dei monarchi (regnanti o ex regnanti)
con quelle relative ai divi del cinema.
Dello stesso gruppo sociale possono essere considerati i
lettori di «Famiglia Cristiana», settimanale ovviamente in
linea con i valori del cattolicesimo (anche in politica) ma non
in chiave conservatrice: anzi, negli anni più vicini a noi la
testata aprì, cautamente ma chiaramente, ai tempi nuovi sulla
spinta di due direttori-sacerdoti di grande professionalità.
Assolutamente opposti a questo gruppo di lettori, come
interessi e curiosità, vanno considerati i giovani (soprattutto
ragazze) che fecero di «TV. Sorrisi e canzoni» il periodico
italiano più diffuso, con oltre due milioni di copie vendute
ogni numero. Erano i giovani non politicizzati che
perseguivano una particolare via verso la modernità attraverso
il disimpegno. Erano i fan dei divi della canzone pop e della
TV, con grande interesse al gossip e ai fatti della loro vita
privata. Probabilmente le lettrici erano quelle ragazze che non
potevano partecipare direttamente ai concerti pop-rock,
accontentandosi di seguire questo mondo da casa e attraverso
la TV.
Senza dubbio le testate che ebbero un profondo impatto sul
propri lettori (lettrici) furono le riviste femminili. Dirette a un
pubblico medio («Gioia») o medio-alto (in termini di potere di
acquisto, come nel caso di «Amica» e «Anna») o sofisticato
(da «Cosmopolitan» a «Vogue»), queste testate furono
sicuramente la fonte privilegiata di socializzazione per le
giovani donne che stavano decisamente cambiando modo di
vivere, anche se lontane dalla proposte del femminismo. Come
disse un grande esperto (che riuscì in molti progetti in questo
settore), Paolo Pietroni, queste riviste si rivolgevano a quelle
donne che «adoperano il mascheramento come un gioco di
intelligenza, di bellezza, e di divertimento con il fine di
esprimere la propria personalità […], per vivere con piacere e
intelligenza; […] anche per entrare in rapporto con gli altri,
come seduzione, provocazione…» (riportato in Lilli, 1994, p.
428).
Ad esempio le compagne degli yuppie erano sicuramente
più sofisticate, più sveglie e autonome, dei loro compagni che
seguivano passivamente la moda del tempo, limitandosi a
indossare una divisa (abito scuro e occhiali) «d’ordinanza». Le
loro compagne scoprivano invece mondi nuovi: psicologia
(nelle relazioni sociali, in particolare nei rapporti con l’altro
sesso), come «tenere la casa», fino alla realtà spesso
sconosciuta dei paesi lontani. Erano curiose e ricettive.
Le lettrici più coinvolte erano le donne di condizione
sociale modesta: quelle che lavoravano e che si interessavano
alle proposte di moda considerate utili (come vestirsi in
determinate occasioni) e alle rubriche varie di specialisti che
spiegavano «pianamente» il mondo, quello semplice delle
relazioni sociali nella quotidianità che loro frequentavano. Le
casalinghe, più che alle ricette di cucina (allora non così
importanti come oggi) erano attratte dai consigli di un modesto
bon ton, le più eccentriche su come truccarsi e flirtare (e dove
andare) nel tempo libero. Erano i veicoli di una modesta ma
importante mobilità sociale e culturale.
A rileggerle oggi queste testate, nel loro complesso,
appaiono una sorta di manifesto della nuova cultura del
disimpegno e dei consumi che ebbero nella «Milano da bere»
il loro palcoscenico. Era la società della moda e della
pubblicità, dei fotografi, del made in Italy. Vestirsi, truccarsi,
essere in forma, avere una bella casa, viaggiare in luoghi
esotici (ma lontani da ogni avventura), furono gli imperativi
del momento e lo restarono per anni. Apparire era considerato
più importante che essere. Il denaro divenne il metro su cui
misurare il successo, non il merito. Tutto il resto era poco
importante. Erano i «favolosi anni ottanta»: quelli in cui si
cercò di realizzare una (modesta e terrena) via alla felicità in
chiave di autorealizzazione personale giorno dopo giorno.
I contenuti delle riviste femminili dovevano far sognare,
suggerire, non informare. Solo alcune rubriche aprirono
cautamente al nuovo e diverso: ad esempio a un più attuale e
disinibito «senso del pudore». Queste eleganti giovani donne
erano moderne ma non spregiudicate: dopo qualche serata in
tornavano nelle loro case arredate secondo le mode e ai loro
bambini.
Donne che, in maggioranza, avevano scarso interesse per la
politica e i problemi sociali eppure, a modo loro, erano
moderne e aperte ai nuovi stili di vita che i media
proponevano.
Erano comunque ben lontane dal modo di vivere delle loro
madri. Curiosamente queste finirono con il seguire il loro
esempio, con un rovesciato (e paradossale) processo di
socializzazione: le madri presero esempio dalle figlie. Anche
per questa via il privato divenne moderno.
Alla fine degli anni ottanta comparvero i «maschili», dalle
cui pagine giovani uomini palestrati ricevevano «utili»
indicazioni sul modo di essere e comportarsi, soprattutto verso
le donne che andavano sedotte all’istante con il fascino
irresistibile del macho, nella realtà spesso alquanto modesto.
Nel complesso, i periodici sono stati una via per la
costruzione di una soggettività più libera dai vincoli della
tradizione e delle convenzioni. Sono stati un efficace araldo
dell’italian dream.
Ma per comprendere l’emergere di una nuova cultura,
specialmente a Milano, andrebbe considerato il caso di uno
strano periodico: «Linus». Nato nel 1966 (con la direzione del
suo creatore Gandini) ebbe però la sua massima diffusione e
popolarità negli anni settanta e ottanta sotto la direzione di uno
strano ma affascinante intellettuale (Oreste Del Buono),
presenza importante nell’editoria milanese come scrittore e
responsabile editoriale.
Era una proposta del tutto innovativa: dava grande spazio ai
fumetti, incrociando i Peatnuts di Charlie Brown (la terribile
Lucy e lo stupendo cagnetto scrittore-filosofo Snoopy) con la
spregiudicatezza della disinibita e bellissima Valentina di
Crepax. Oltre ai molti fumetti dei principali autori americani
ed europei, non c’era argomento rilevante nella Milano «bene»
di quegli anni che non fosse discusso su «Linus». O, spesso,
viceversa.
Tutti i grandi intellettuali della città (da Vittorini a Eco)
intervennero, con molta intelligenza e grande ironia, su temi
apparentemente frivoli fino ad allora ignorati dalla cultura alta.
Per chi era giovane e viveva intelligentemente il suo tempo
era impossibile non leggere «Linus».
Le strisce erano sempre esistite e avevano sempre avuto
molti lettori, anche se preferibilmente tra i ragazzi: dai tempi
dello strambo Jacovitti (con i suoi stravaganti disegni in cui
lische di pesce e salami erano i particolari più ricorrenti) sul
«Vittorioso» a quelle, divenute di culto, di Tex di Bonelli.
Senza considerare gli eroi Disney spesso scritti da italiani per
un pubblico italiano.
Negli anni cinquanta avevano già milioni di lettori ed erano
una forma non disprezzabile di narrativa popolare. Ma
«Linus» rappresentò la modernità. Era un segno dei tempi.
Ignorare i fumetti ha voluto dire non considerare un aspetto,
tutt’altro che banale, della cosiddetta cultura popolare.
Basterebbe porsi una semplice domanda: chi non ne ha mai
letto almeno uno?
2. I libri
Subito dopo la guerra si ricominciò a leggere. Due furono i
principali filoni. Il primo, quello dell’impegno, fu promosso
dai comunisti. I cattolici rimasero fedeli alle loro letture
tradizionali con una cauta immissione di qualche autore
d’attualità, ad esempio don Sturzo. Il PCI si impegnò invece in
una politica editoriale (di cui rimane oggi scarsa traccia): era
per lo più destinata alle bibliotechine-librerie delle sezioni e si
proponeva la difesa di un’autentica e valida cultura popolare,
minacciata da quella ben più attraente che veniva dagli USA (il
cinema hollywoodiano e i romanzi) o dai vecchi-nuovi media
come i fotoromanzi (Gundle, 1995).
Basti pensare che i lettori di «Grand Hotel» erano a quel
tempo almeno due-tre milioni e ogni numero vendeva oltre un
milione di copie.
Il miracolo economico era alle porte. C’era qualche soldo in
più, ma contava anche la voglia di scoprire il «mondo nuovo»
(quello del mondo intero, anche lontano) e di comprenderlo.
Lo si chiedeva ai libri che, anche quando parlavano di
fenomeni drammatici, dovevano avere uno stile facile e
coinvolgente. Come nel caso di Faulkner (che raccontava la
miseria nei campi nel profondo sud americano) o, ancor più, di
Cronin che narrava della vita difficile dei minatori alla fame.
Al di là di ciò che narravano avevano una scrittura dallo stile
immediato e piano.
La Doxa stimò che circa il 30% degli italiani leggesse
almeno un libro: un dato (probabilmente) sovrastimato e senza
le necessarie indicazioni su «quanti e cosa» stessero leggendo.
Erano pur sempre una minoranza. Per dare un’idea del
periodo, ricordiamo che autori come Flaiano (1947) e Pavese
(1950) vinsero il Premio Strega; altri come Hemingway
(1953), Guareschi (1954), Pasternak (1958), con i loro libri più
facili e di successo, furono i vincitori del più popolare Premio
Bancarella.
Questi autori e questi libri sono il segnale di un fenomeno
editoriale (in Italia) molto importante, allora agli inizi, fondato
sul successo di pochi «best seller di qualità». Una produzione
assolutamente non disprezzabile e su cui si formò la
generazione dei lettori dagli anni sessanta in poi.
I due autori «icona» del periodo furono Pratolini e Pasolini.
Il primo con Metello (l’operaio fiorentino che iniziava un suo
percorso di vita tra lavoro e amore) sembrò rispondere alle
esigenze di un neorealismo letterario: curiosamente, fu più
lodato dai cattolici che non dai suoi compagni comunisti che
gli rimproverarono una scarsa coscienza proletaria, almeno
secondo i più tradizionali canoni marxisti.
Pasolini iniziò il suo «scandaloso» percorso letterario
parlando di sottoproletari e di omosessualità: negli anni
successivi sarebbe stata una delle voci più ascoltate della
«coscienza civile» degli italiani, anche se mantenne sempre
una qualche ambigua nostalgia per un passato che felice non
era mai stato. Le lucciole avevano riempito le notti di una
campagna povera, abitata da contadini con poco cibo e
nessuna speranza.
Ma la vera svolta nel gusto dei lettori va riferita a tre
romanzi che, per la prima volta nell’editoria italiana,
toccarono le centomila copie: Il Gattopardo (Tomasi di
Lampedusa, 1958), La ragazza di Bube (Cassola, 1960) e Il
giardino dei Finzi-Contini (Bassani, 1962). Diversi tra loro
(nell’ambientazione, nei personaggi), avevano però una
caratteristica comune: sembravano rappresentare lo
scetticismo e/o il pessimismo sul destino individuale, anche in
riferimento alla storia del nostro Paese dalla fine
dell’Ottocento fino ad allora. Specialmente gli ultimi due
parlavano di dolore e sofferenza vissuta tra amori infelici e
morte. Era una particolare (tra intimismo e pessimismo) chiave
di lettura dell’esperienza umana che finì con l’imporsi nel
gusto letterario del tempo.
Un grande successo di pubblico che forse si riconobbe, con
una qualche ambiguità, nel modo di vivere il proprio destino
tra sogni e disillusioni, tra speranze e timori che un futuro
migliore sarebbe stato comunque difficile da realizzare. Il
passato non rendeva ottimisti anche se i tempi «stavano
cambiando». Il futuro sembrava ancora incerto anche se si
sperava migliore degli anni che si stavano vivendo. Forse, per
molti italiani, il pessimismo del passato non aveva ancora
lasciato il passo all’ottimismo per il futuro.
La «patria delle lettere» reagì con supponenza. Pasolini
parlò di «restaurazione nello stile» perché si era usata la
formula «vecchia» del romanzo. Qualcuno definì, con intento
spregiativo, Cassola la nuova Liala. Asor Rosa scrisse di
«pateticità struggente» e di «bozzettismo pessimistico» per
quei personaggi che rinchiudevano la loro vita nel sacrificio
anziché nella lotta: era un restare nei canoni della letteratura
otto-novecentesca con personaggi «naturalmente» buoni, forti,
tenaci, che mettevano nella loro «eterna» sofferenza una
capacità infinita di sopportazione anziché di rivolta. In una
sola parola, dei perdenti. Del resto Asor Rosa ne aveva anche
per Pasolini (l’eretico) che «scambia sé stesso, letterato
decadente e palesemente conservatore, per uno scrittore
progressista, aperto ai drammi più vasti del mondo moderno»
(Asor Rosa, 2004, p. 449).
La distanza tra pubblico e critica si andò approfondendo:
anche l’avanguardia (il Gruppo 63) combatté il nuovo-vecchio
che si stava imponendo, senza però indicare alternative che
non fossero astratte e ideologiche. Perfino il vero
sperimentatore di un linguaggio nuovo e diverso (Gadda)
venne «salvato» considerando il suo libro (Quer pasticciaccio
brutto de via Merulana) un anomalo giallo di qualità.
Il gradimento del (potenziale) pubblico rispetto a questi
prodotti venne bollato come passatista, anche se era inseguito
e blandito dalla nascente industria editoriale (con i due colossi,
Rizzoli e Mondadori, in un contesto quasi oligopolistico) che
sfornava un grande numero di prodotti con l’unico obiettivo
della grande tiratura. Si cercavano pochi titoli per molti lettori
(i best seller) mentre si stampavano migliaia di volumi ogni
anno.
Nel frattempo si stava imponendo una nuova lingua, quella
di tutti i giorni e della gente comune; quella dei dialoghi dei
film e, con il tempo, della pubblicità televisiva. Non va
dimenticato che, negli anni precedenti, era esistita una
letteratura popolare che aveva usato una lingua analoga. I
fotoromanzi e i fumetti erano infatti caratterizzati da un
linguaggio essenziale, scarno, senza scrupoli di letterarietà.
Una lingua viva, diversa e più attraente, dal politichese-
burocratichese che aveva ancora grande spazio nella politica e
sui giornali.
Si tentarono nuove iniziative per «rincorrere» il grande
pubblico: la più importante fu l’invenzione dei tascabili.
L’uscita del primo volume nelle edicole (già questo un fatto
nuovo), nel 1965, di Addio alle armi di Hemigway, seguito da
La ragazza di Bube di Cassola, fu fenomeno epocale; all’inizio
un grande successo che proseguì per un certo (ma non lungo)
periodo. La caccia alla grande tiratura portò a pubblicare di
tutto, disordinatamente, senza alcuna informazione o apparato
critico per i lettori meno colti e preparati: grandi autori e altri
sconosciuti, classici e contemporanei, si succedevano in
rapidissima sequenza anche per l’entrata in campo di molti
editori. In breve tempo il disorientamento di un pubblico, non
in grado di scelte autonome anche se fortemente interessato,
aumentò e fu la causa principale di un progressivo calo nelle
vendite.
Nello stesso periodo avevano conosciuto grande successo le
pubblicazioni a dispense: un modo per conoscere mondi
diversi e accattivanti (dalla storia dell’arte agli hobby più
diversi) con un linguaggio assolutamente easy e con l’ausilio
di un rilevante e accattivante apparato fotografico. Con numeri
più modesti si pubblicarono anche alcune enciclopedie
popolari, specialmente rivolte ai ragazzi. I genitori volevano
che i figli studiassero: non sempre seppero scegliere gli
strumenti più utili a questo scopo.
Ancora più importanti furono i fenomeni della letteratura
popolare di genere. I gialli e i rosa catturarono un gran numero
di lettori: in prevalenza uomini nel primo caso e donne nel
secondo. Fu, in chiave meno ambiziosa (i letterati l’avrebbero
definita bassa letteratura o paraletteratura), l’arrivo di molti
nuovi lettori nel mondo dei libri. Un fatto sicuramente
positivo.
I lettori dei gialli aumentarono molto e in poco tempo:
facendo diventare questi libri i middle sellers dagli anni
novanta in poi: ai classici (con il sempreverde Simenon)
sarebbero seguiti altri autori di paesi diversi e lontani.
Avrebbero contribuito a rendere il «linguaggio dei libri»
sempre più semplice; con il tempo sarebbero diventati una
chiave di lettura per capire la contemporaneità nella sua
montante vena di violenza e follia individuale. Dalla Christie a
Marlowe (e Chandler), agli oltre mille titoli della collana
Mondadori, si è costruito un percorso lastricato di misteri e
omicidi che hanno accompagnato il tempo libero di milioni di
persone.
Le lettrici dei rosa ebbero una grande occasione con l’uscita
delle serie «Harmony» (Mondadori) e «Blue Moon» (Fabbri).
Per le lettrici della piccola borghesia fu anche un modo per
emanciparsi dalla morale tradizionale. Se Liala (si disse) aveva
fatto varcare alle sue lettrici, pudicamente, «la soglia delle
camere da letto», le sue più moderne epigoni fecero delle
proprie protagoniste delle spregiudicate protagoniste di amori
sentimentali ma anche molto passionali. Molte di queste
(modeste) eroine, come le loro lettrici, erano ancora confinate
nell’ambito della loro casa e del loro ruolo di mogli-madri, ma
ne sarebbero presto uscite. Le lettrici dei rosa non erano più gli
angeli del focolare, anche se non erano certo le femministe che
in quegli stessi anni lottavano per i diritti delle donne.
Questi due generi ebbero un forte successo: nel 1985 se ne
vendettero complessivamente oltre 24 milioni di copie, con
una tiratura media di quasi oltre 40 000 copie per titolo.
Nel frattempo, i grandi colossi dell’editoria continuavano
nella loro caccia al libro di successo, senza però riuscirci.
Alcuni autori ritornavano periodicamente nelle librerie: erano
gli autori più noti del tempo. Nessuno di loro riuscì, però, a
scrivere il «grande successo».
L’unico best seller fu quello di Elsa Morante (La Storia,
1974); ancora una volta un romanzo e ancora una volta con
protagonisti «perdenti» che non si ribellavano ma accettavano
il loro destino. Il successo di pubblico era assicurato, quello di
critica (specialmente «di sinistra») molto meno. Continuavano
a essere personaggi che guardavano «all’indietro» e non
avanti, cioè a un possibile cambiamento sociale o al loro
riscatto personale. C’era (un’oscura e difficilmente spiegabile)
nostalgia per un tempo che non era stato né facile né felice.
Non appariva la volontà di superarli, la voglia di cambiare.
Il disorientamento dei lettori era causato anche dal fatto che
si pubblicavano troppi libri. Nel periodo 1973-1983 (quello
delle giunte di centro-sinistra), si passò dai circa 12 000 titoli
(escludendo gli «scolastici») del 1973 agli oltre 17 000 del
1983 (Livolsi, 1986).
In questo stesso anno i lettori erano considerati al di sotto
del 50% degli italiani: dato destinato a non mutare negli anni
successivi. Le diverse indagini concordavano con limitati
scostamenti su questo dato. Tutte si riferivano a
un’autodefinizione di lettore, cioè alla dichiarazione
dell’intervistato di avere letto «almeno un libro» negli ultimi
3-6 mesi. Una soglia così bassa (e un certo obbligato
scetticismo su tali dichiarazioni) fanno ritenere alta la stima
del 50% di italiani come lettori. Sicuramente molti «non
lettori» (o lettori occasionali) dichiararono di esserlo: come
dire che la lettura dei libri conservava un certo prestigio anche
agli occhi di chi continuava a rimanerne lontano.
Sarebbe stato necessario distinguere tra lettori forti (quelli
che leggevano almeno un libro ogni due mesi) e saltuari (o
occasionali, o deboli); il dato sulla lettura, così, si sarebbe
ridimensionato immediatamente. I veri lettori probabilmente
non erano più del 20%-25% degli italiani. Le ricerche
mostravano come i primi leggessero prevalentemente narrativa
e saggistica, i secondi erano, invece, attratti da generi più
popolari. (Buzzi in Livolsi, 1986). È quasi scontato
sottolineare come i «lettori» fossero prevalentemente giovani
(i vecchi non avevano mai acquisito una tale abitudine), di
buona scolarità e condizione sociale, più donne che uomini.
Queste ultime attratte dalla narrativa, alta e bassa che fosse.
Se si considera che furono tirate, mediamente ogni anno,
150 milioni di copie, si può stimare che ogni italiano,
calcolando anche i bimbi e gli analfabeti, aveva acquistato
(non sempre letto) tre libri a testa. Una media perfetta tra i sei
(attribuiti dalle indagini ai forti lettori) e il nessuno dei non
lettori.
Sarebbe stato utile anche approfondire l’analisi relativa a
«quali» libri venivano pubblicati. Un dato è certo: nel gran
numero di libri pubblicati molti furono «pagati» dagli stessi
autori o, come mise in luce l’istat, molti altri erano strumento di
«pubbliche relazioni» da parte delle amministrazioni
pubbliche, con una valanga di opuscoli o pubblicazioni
occasionali.
Una stima attendibile fa quindi ritenere che i libri «veri»
non fossero più di 4-5000. Sempre un numero alto: come se
ogni giorno oltre 10 titoli arrivassero nelle librerie. La
difficoltà di un lettore (anche sufficientemente informato e già
questo non era facile) di scegliere adeguatamente in base ai
propri interessi, è con tutta probabilità il motivo principale
della scarsa lettura degli italiani di allora, probabilmente anche
di oggi.
Un filone nuovo e diverso fu quello della saggistica, molto
diversa da quella «togata» del passato: molti titoli furono
firmati dai più noti giornalisti del tempo, tra cui Biagi,
Goldoni e Bocca. Specialmente i primi due davano alle stampe
un titolo quasi ogni anno, creando così un particolare
fenomeno di fedeltà con i propri affezionati lettori. In questi
libri si parlava dell’Italia che stava cambiando e di alcune sue
realtà locali o (meno) del vasto mondo che, per molti italiani
prima dell’era dei viaggi organizzati, restavano ancora luoghi
alquanto misteriosi. Erano definiti saggi, ma in molti casi si
trattava di semplici narrazioni-descrizioni di eventi o fenomeni
(non sempre realmente) rilevanti socialmente.
I criteri del successo editoriale restarono essenzialmente
due: il primo consisteva nel creare (e curare) l’immagine di
alcuni autori quali «brand» riconoscibili e interessanti: fu ad
esempio il caso di Goldoni nella saggistica e di Chiara nella
narrativa. Chi acquistava un loro libro sapeva «cosa lo
attendeva» a proposito di personaggi, luoghi e trame, con la
sicurezza di una scrittura dallo stile piacevole e non
impegnativo.
Il secondo fu quello di affidarsi (o, meglio, costruire)
«casi» su cui fare insistita promozione sui periodici
specializzati e non. Una sorta di sofisticata lotteria.
Due esempi: uno, del tutto inaspettato, fu quello di Porci
con le ali, pubblicato da una piccola casa editrice (Savelli) e
scritto da due autori fino ad allora praticamente sconosciuti
(Lidia Ravera e Marco Lombardo Radice). Un romanzo
d’amore ambientato negli anni della contestazione e senza
alcun ricorso al romanticismo. Per analoghi motivi Love Story,
(1971), ottenne un grandissimo successo: vi si narrava, con un
linguaggio comune e piuttosto crudo, una (molto) romantica
storia d’amore. Il secondo esempio si riferisce a un’opera
attesa, promossa ancora prima che fosse terminata, come il
caso letterario dell’anno (Horcynus Orca di D’Arrigo): fu una
grande delusione, tanto che l’autore scomparve in fretta dalla
scena letteraria.
In entrambi i casi si può parlare di scarso intuito da parte
degli «addetti ai lavori». Non a caso ai responsabili editoriali
(che sceglievano autori e opere) si andarono affiancando gli
esperti di marketing. In molti casi un connubio poco felice:
l’accostamento non diede infatti grandi risultati.
Il periodo si chiuse con alcuni eventi di notevole
importanza. Uno fu il grande successo di un libro di Oriana
Fallaci (Un uomo, 1979) che narrava di un grande amore
ambientato in tempi politici difficili sia in Grecia che in Italia,
i paesi dei luoghi e dei fatti raccontati. Era l’opera atipica di
una grande e famosa (oltre che coraggiosa) giornalista, dalle
analisi condotte sulla base di un pensiero forte e senza dubbi.
Era il suo secondo best seller: il primo era stato Lettera a un
bambino mai nato (1975), in cui il desiderio di maternità
veniva descritto con accenti non tradizionali anche se molto
partecipati.
Un altro si riferisce ai libri di Francesco Alberoni,
specialmente Innamoramento e amore (1979). L’autore era un
noto professore universitario, autore di molti saggi accademici
notevoli, ma soprattutto conosciuto dal grande pubblico per
scrivere ogni lunedì un articolo sulla prima pagina del
«Corriere della Sera» oltre che per molte apparizioni
televisive. I suoi libri (e i suoi articoli) avevano un pregio
particolare: erano di facile lettura anche se trattavano problemi
complessi. Molti dei suoi lettori «provarono l’ebbrezza» di
capire finalmente cosa stava succedendo nel mondo (e intorno
a loro) potendone riflettere seriamente e personalmente.
Fondamentale era il soggetto trattato (l’amore e
l’innamoramento); non più argomento banale ma tema molto
rilevante non solo nella vita privata. Alberoni parlava
dell’amore come di una «rivoluzione a due», per intendere che
la profondità di questo sentimento cambiava la vita di chi ne
era coinvolto, non solo a livello dei sentimenti. Da qui, il
successo di vendite che avrebbero avuto anche i libri
successivi, anche se in progressivo calo. Fu comunque uno dei
titoli che permise alla saggistica di affiancarsi, nell’interesse di
un vasto pubblico e nelle vendite, alla letteratura.
In seguito però l’interesse per la saggistica, forse anche per
la sua «superficialità» di alcuni autori e delle loro analisi iniziò
a declinare.
Quanto alla letteratura dobbiamo ricordare un duplice
grande successo: assieme a quello di Calvino Se una notte
d’inverno un viaggiatore (1979), l’esempio più alto di una
narrativa di grande valore letta da un vasto pubblico, va
ricordato il successo de Il nome della rosa di Eco (1980).
Quest’ultimo apparteneva a un genere del tutto nuovo, tra il
giallo e il romanzo: colto, pieno di riferimenti eruditi. Un libro
nuovo e affascinante. Come si poteva leggere nella quarta di
copertina «ciò di cui non si può teorizzare, si deve narrare».
Era un discorso intrigante: sembrava riprendere quello che
«dopo Hiroshima e l’Olocausto non si può fare più poesia» e
quello (che si sarebbe potuto dire a proposito della narrativa
italiana degli anni settanta) che «dopo la psicoanalisi» sarebbe
stato difficile parlare in modo convincente di sentimenti ed
emozioni. Il mondo della fantasia iniziava a invadere il mondo
reale anche nella cultura alta.
In seguito furono pochi eventi da ricordare; oltre ai «soliti»
Cassola e Moravia, una qualche popolarità ebbero anche
Arpino, Chiara, Camon. Ma l’autore su cui si discusse di più
fu Sciascia per la sua (coinvolta e coinvolgente) attenzione ai
temi di attualità (sulla Sicilia dai mille misteri) trattati con un
linguaggio suggestivo ma non difficile.
Nel frattempo si stava imponendo la narrativa straniera: dal
collettivo innamoramento per quella sudamericana (si pensi a
Cent’anni di solitudine di García Márquez) a quelli di
avventura o spionaggio con autori molto popolari come
Follett, Cartland, Le Carré, ecc. Non mancarono opere
importanti come quelle di Hesse, Roth, Bukowski, Yourcenar.
Continuò il successo delle opere di Fromm.
Il pubblico dei lettori restava però una minoranza, per
quanto colta e informata. Non vi era più un «unico» pubblico
(su cui indirizzare i best seller) ma una progressiva
segmentazione del mercato librario in più target con interessi
differenziati. Comunque un mercato ristretto.
3. Per concludere
Da quanto detto nelle pagine precedenti, riteniamo che
l’ipotesi che ha aperto questo capitolo sia stata dimostrata: i
libri e i giornali non hanno aiutato il percorso di maturazione
critica e politica di un gruppo sociale (la piccola-media
borghesia) in ascesa economica e culturale.
Era come se anche i lettori guardassero all’indietro (come
facevano i protagonisti dei romanzi che leggevano) e si
rassegnassero a vivere un incerto presente senza essere indotti
a pensare a come cambiarlo. I romanzi parlavano di sentimenti
e di introspezione personale, senza alcun riferimento al mondo
in cui vivevano i protagonisti e, a maggior ragione, quello dei
loro lettori. Anche i saggi descrivevano una realtà in certi suoi
aspetti (non sempre i più rilevanti) descrivendoli senza
approfondirli, non inducendo così il lettore ad alcuna
riflessione sulle cause e sulle conseguenze di ciò di cui
trattavano.
In parallelo, i quotidiani davano una rappresentazione della
politica distante dagli interessi reali (e dal linguaggio) dei
propri lettori, mentre i periodici li coinvolgevano su diversi
aspetti del privato (dal gossip alla moda) insistendo
prevalentemente sulle tematiche rivolte all’evasione più che
all’impegno. Favorivano, così, la fuga nel privato, lasciando
ampio spazio alla spettacolarizzazione televisiva o al gossip:
un mondo «dove tutto è detto e descritto; anzi urlato e
sottolineato con effetti spettacolari» (Livolsi, 1986, p. 21).
Le parole vennero progressivamente sostituite dalle
immagini e per i giovani dalla musica.
I «media alti» hanno lasciato così grande spazio a quelli
«popolari» (in particolare film e musica e poi TV) nella
costruzione di una cultura comune a cui riferirsi. Per questa
via si imposero i sentimenti e la soggettività: divenne naturale
farsi coinvolgere all’istante (da quello che si vedeva o sentiva)
più che riflettere e valutarne il significato o l’effettiva
rilevanza.
La cultura pop era immediatamente convincente e più
intrigante. Il «piacere» (divertirsi, emozionarsi) vinse
abbastanza facilmente sul «dovere» di istruirsi o informarsi.
Anche grazie all’esperienza non esaltante che molti avevano
vissuto negli anni scolastici. La scuola aveva allontanato molti
da un impegno che non sembrava più del tutto giustificato: si
rimandava a un passato del tutto privo di fascino, come le
letture che venivano consigliate o imposte. Un problema anche
attuale e di cui si parla ancora poco.
Utilizzando il linguaggio della «drammatizzazione», tipico
dei media, potremmo parlare di colpa grave dei media alti,
almeno per quanto riguarda la non riuscita socializzazione ai
loro valori.
Volendo articolare questo giudizio, iniziamo dai quotidiani
con alcuni loro specifici difetti. Il primo si riferisce al voler
continuare a proporre contenuti superati dai tempi secondo
modelli tradizionali «alti ma difficili». Basterebbe fare
l’esempio della «terza pagina», dove letterati e filosofi
disquisivano su temi che interessavano solo una ristretta
minoranza che sembrava vivere ancora nel chiuso di polverose
biblioteche.
Più dannoso socialmente fu, però, il modo di «narrare» la
politica che nel tempo venne ad assumere un carattere
connotato da una forte ambiguità: i quotidiani continuavano a
dare grande spazio (la prima pagina e grandi titoli anche su
modesti eventi o dichiarazioni di politici di scarso peso reale)
e a manifestare deferenza (la critica arrivò tardi e fu
partigiana) ai politici. Ma dai primi anni ottanta i giornali
furono costretti, quasi quotidianamente, a riferire di tangenti e
corruzione. Il tono scandalizzato (senza però approfondire
responsabilità e analizzare la dinamica dei fatti) contribuì a
una certa «assuefazione senza sdegno» da parte dei lettori.
Mancava il materiale per comprendere non superficialmente e
valutare non superficialmente o ideologicamente.
I giornalisti italiani, salvo rare eccezioni, non furono
sicuramente gli avvocati (o, almeno, convinti portavoce)
dell’opinione pubblica, forse anche perché questa non si
esprimeva chiaramente. A ciò si aggiunga un altro difetto
«grave»: il linguaggio utilizzato. Non facile né accattivante, in
qualche caso simile al politichese, certamente «distante» da
quello utilizzato comunemente dai lettori nella vita quotidiana.
Il dubbio che non fosse necessario leggere i giornali tutti i
giorni si diffuse in larghi strati dei potenziali acquirenti; del
resto i convinti lettori di quotidiani erano sempre stati una
minoranza. E poi, ormai, per molti c’era la TV a fornire
l’informazione (ritenuta) strettamente necessaria.
La rincorsa dei quotidiani a una certa modernità (ad
esempio, dare spazio alle notizie sul mondo dello spettacolo e
dello sport) fu alquanto estemporanea e non sempre si trovò lo
stile più adatto. Ci si limitò a copiare i periodici più popolari,
come quelli politici/di costume («L’Espresso», «Panorama») o
femminili. Si tentò anche, senza riuscirci del tutto, la
«domenicalizzazione» (sull’esempio dei giornali inglesi) con
un supplemento, nel giorno festivo, di pagine dedicate
prevalentemente alla cultura del tempo anche a quella meno
«impegnata».
Non del tutto riuscito fu anche l’esperimento di dare largo
spazio alle fotografie. Il loro inserimento non seguì sempre
due funzioni essenziali: dare un’immagine immediata dei
luoghi e delle persone a cui si riferivano i testi o essere un
commento (un diverso e suggestivo modo di «leggere»)
immediato e diretto di un fatto o di un evento. Spesso le foto
sembravano semplicemente «aggiunte», non erano chiari i
motivi della loro scelta.
Iniziative che non salvarono la stampa quotidiana dal suo
declino ma affondarono quella periodica. In primis quella dei
generi vampirizzati: si pensi alla crisi irreversibile dei
femminili. Restarono a galla le testate rivolte a un target
mirato (non ampio ma fidelizzato): come quelle «auto-moto»
per gli uomini e di «giardinaggio-cucina» per le signore.
La condanna più dura (e con scarse attenuanti) va però
attribuita, sempre a nostro avviso, all’editoria libraria.
A proposito dell’editoria libraria, sicuramente non partiamo
dalle tesi (fuori dal tempo) della critica marxista per cui la
letteratura doveva servire a dare fondamento e spessore alla
coscienza di classe: motore rivoluzionario che avrebbe dovuto
unire, nella lotta, proletariato e borghesia. In questa
prospettiva, super ideologizzata, si criticarono non solo gli
scrittori «borghesi» (con un riferimento, allora obbligato, a
Cassola), ma anche opere come Metello di Pratolini e i primi
romanzi di Pasolini; non sfuggirono «all’indice» classici come
Gadda o Tommasi di Lampedusa.
Si può, però, convenire sul giudizio che la letteratura del
tempo si rifugiasse in un soggettivismo iperpsicologizzato
lavorando, esclusivamente ma superficialmente, sui sentimenti
dei protagonisti e «restando» in un passato da cui non veniva
alcun insegnamento. Un intimismo piuttosto «estraneo» a una
generazione di lettori che stava conoscendo il fascino delle
nuove prospettive (come stili di vita e diversa morale) che il
benessere prometteva. Molti di questi romanzi narravano la
vita di persone sconfitte quando una crescente parte degli
italiani (sicuramente i più giovani e curiosi) stava marciando
verso il condiviso (e adesso possibile) obiettivo di
«realizzarsi». In questa prospettiva il sacrificio, come valore
ultimo, era un destino da rifiutare.
Un approccio aggravato da una scrittura a volte alquanto
noiosa, non sempre di grande pregio letterario, come il genere
avrebbe dovuto invece garantire.
Ancora maggiori «colpe» vanno attribuite alla saggistica.
Questa per sua natura, più che la letteratura, avrebbe dovuto
«spiegare il mondo» che stava cambiando, suggerendo ipotesi
valide (scientifiche e meno ideologizzate) sulla realtà che si
presentava all’orizzonte immediato. La maggior parte di questi
saggi si limitò a dare una semplice descrizione dei fenomeni di
cui non si indicavano le cause, le responsabilità dei
protagonisti e, tanto meno, possibili prospettive di
cambiamento. Utilizzando più il «buon senso» che non la
ricerca. Giocando più sull’ironia e sul divertimento immediato
dei lettori che non stimolando in loro una qualche forma di
ragionamento critico.
La saggistica era distinta in due filoni: il primo (appena
descritto) era quello dei giornalisti-guru; il secondo quello,
alquanto astratto anche se scientificamente corretto, di un
limitato numero di accademici che si impegnarono in un’utile
opera di divulgazione, forse per desiderio di essere conosciuti
e popolari. I maggiori colpevoli furono questi ultimi, che
avevano gli strumenti per definire e interpretare i fenomeni più
rilevanti e indicare le vie attraverso le quali il Paese avrebbe
potuto crescere non solo economicamente. Quando lo fecero,
abbandonando il linguaggio da iniziati, ebbero un buon
successo. Lo provano i «casi» Eco e Alberoni, noti a tutti e
letti da molti. Invece uno stile incerto tra lo stile accademico e
una banale divulgazione non cambiò l’istituzione universitaria
e contribuì alla fuga di molti italiani verso la cultura mediale.
Una forte responsabilità per quanto riguarda il mancato
incontro libri-lettori va attribuita alle case editrici, soprattutto a
quelle maggiori. Inizialmente ossessionate dalla ricerca di
grandi tirature, poi limitandosi a pubblicare i titoli (ritenuti)
«sicuri» o finendo per ricorrere anche all’autofinanziamento
degli autori (magari come adozione in corsi universitari
affollati) o alla sovvenzione di qualche istituzione pubblica. Si
sarebbe così indebolita la credibilità di molti marchi editoriali,
un tempo immediata garanzia di qualità. Si è continuato a
pubblicare di tutto e troppo.
Si consideri inoltre la sparizione di una figura importante, il
libraio-consigliere: la chiusura di molte librerie è stata un
segnale sinistro per quanto riguarda il livello culturale del
Paese.
A causa di tutte queste ragioni i lettori, anche la minoranza
più attenta, finirono per essere profondamente disorientati.
Probabilmente lo sono ancor oggi.
6. Il riformismo mancato
2. E poi?…
Nella storia della Prima Repubblica si possono trovare
molte tracce del malessere sociale che caratterizza il tempo
presente nel nostro Paese.
L’Italia è ora una «società di individui», come tutte gli altri
Paesi investiti dalla post modernità. Da notare che
l’individualismo è stato, da sempre, un carattere preminente
dell’identità nazionale: da quello «amorale» (preoccuparsi
esclusivamente del proprio immediato intorno familiare)
studiato da Banfield (1976) negli anni immediati del
dopoguerra a quello egoista-edonista al passaggio del secolo.
Nel dopoguerra le premesse erano diverse. Il «vento del
Nord» (quello che aveva iniziato a spirare con la Resistenza)
aveva reso possibile l’illusione che potesse nascere una diffusa
partecipazione politico-sociale nell’ambito di profondo
cambiamento economico e culturale. Un vento piuttosto forte
al Nord, debolissimo al Sud.
Una speranza durata circa trent’anni, vanificata dal mancato
riformismo: non si sono fatte (o si sono malamente realizzate)
quelle riforme che avrebbero fatto dell’Italia un Paese
moderno.
Si è così assistito allo scempio delle città (e delle coste), al
malgoverno della scuola (carente nell’indirizzare a un lavoro
e/o costruire buoni cittadini), della giustizia (lenta e non
sempre adeguata ai tempi, anche se spesso obbligata a sanare i
guasti della politica), del sistema sanitario, dapprima assente e
poi carente (almeno nei tempi e nella sua organizzazione), e
così via. Alcune riforme non furono del tutto adeguate e
efficaci: basti pensare a quelle relative alle Regioni o alla RAI.
La conseguenza fu che la partecipazione venne a declinare
proprio quando sarebbe stata invece necessaria una forte opera
di proposta e vigilanza nei riguardi dei politici che si erano
messi in cammino verso una progressiva autoreferenzialità. La
politica finì con l’essere un mondo lontano se non estraneo per
la gran parte degli italiani che si erano da tempo impegnati a
fare, per il meglio e onestamente, il proprio lavoro.
La politica fu dominata per anni dalla DC (bigotta e
bacchettona) che aveva come missione il «progresso senza
avventure» ed era lacerata da correnti interne (guidate dai
«signori delle tessere») unite solo dalla comune pratica della
lottizzazione-corruzione. I clientes fedeli furono ricompensati
con un perverso utilizzo delle risorse pubbliche. Si mise in
moto un perverso welfare. Se ne pagano ancora le
conseguenze.
Chi avrebbe (i due partiti della sinistra) dovuto combatterla
con forza (e non era affatto facile!) esaurì le proprie energie in
uno sciagurato duello: lo persero entrambi e con loro il Paese.
Si creò così un vasto spazio per la «zona grigia» del Paese e
il suo malcostume: quella abitata da banchieri, faccendieri e
malavitosi, logge massoniche, mafie. Un luogo sempre di forte
attrazione per i politici peggiori: non furono pochi. Così come
non furono pochi gli italiani che cercarono di imitarli.
In precedenza vi erano stati gli anni del terrorismo nero e
rosso e la (breve) stagione delle bande criminali nelle grandi
città. Nel Sud le mafie consolidarono il loro dominio.
Perché gli italiani avrebbero dovuto riconoscersi in questo
sistema? La scontata conseguenza fu che il dialogo cittadini-
politici si interruppe o diventò sempre più ambiguo e colluso.
Una soluzione (molto diffusa) fu la «fuga nel privato».
Molti si lasciarono sedurre dalle lusinghe del benessere (i
consumi, i viaggi, il vestirsi secondo un proprio gusto) e dalle
magie del piccolo o grande schermo, ma anche dai settimanali,
dal canto libero dei cantautori. Contemporaneamente si
imposero gli spettacoli «modestamente sfarzosi» del sabato
sera televisivo: canzoni, comici, balletti. Perse smalto la
commedia all’italiana che aveva «preso in giro», ridendo,
l’italiano un po’ gaglioffo.
Lentamente ma inesorabilmente, gli italiani furono attratti
(come ipnotizzati) dalla «scena» pubblica (quella narrata dai
media) in cui si raccontavano le storie di personaggi famosi
anche se modesti: era la vita che molti avrebbero voluto vivere
e che sembrava possibile. Una ventata di collettivo
pettegolezzo (il gossip) fu la parte più consistente della
cronaca della quotidianità; una sorta di storia della
contemporaneità (quella dei «soliti noti») che fece da contesto
alla vita normale della gente comune. Un inconsueto ma
efficace canale di socializzazione ai tempi nuovi.
Gli italiani vissero così l’emozionante avventura di
diventare protagonisti del proprio personale progetto di vita:
scegliersi un partner, un lavoro, dove vivere, come divertirsi,
chi frequentare, come investire i primi risparmi.
Ciò che appariva sulla scena mediale era certamente più
coinvolgente di ciò che avveniva e caratterizzava la sfera
pubblica: quella in cui (secondo Habermas, 2002) si trattano,
si discutono e si prende posizione sui problemi comuni che
decidono del futuro di un gruppo sociale, di una nazione.
La sfera pubblica rimase esclusivo dominio dei politici; la
difesero da ogni possibile controllo esterno utilizzando un
linguaggio astruso, tessendo trame a cui facevano partecipare
solo i più fedeli seguaci (o complici?).
Criticare era possibile ma inutile. Pochi avevano voce e/o
ascolto da parte dei potenti. Non certo i bravi cittadini, sempre
più ai margini; ovviamente non si impegnavano in tal senso
coloro che cercavano di trarre qualche vantaggio dalla politica
del malaffare.
Non ci riuscirono neppure i media che avrebbero dovuto
essere i paladini della pubblica opinione. La TV era la voce
«ufficiale» dei potenti al Governo; i giornali prima dovettero
tener conto degli interessi (tra economia e politica) dei loro
editori, poi si abbandonarono a una cronaca intessuta da
continui scandali, senza però che se indicassero chiaramente le
cause e i responsabili. Produssero così più assuefazione (o
rassegnazione) che non un atteggiamento critico forte e
costruttivo.
Il confronto fu sempre più favorevole alla «scena», alle
storie e ai suoi protagonisti narrati dai media. Qualcuno cercò
anche di emularli: magari provando a cantare o a rispondere a
qualche domandina facile facile. Altrimenti c’erano
scommesse e lotterie varie. Le belle ragazze scoprirono che
«mostrarsi» era una via non troppo complicata alla notorietà e
a un certo benessere: prima come modelle e poi come vallette.
Non a caso tutto ciò era promozionato dalle due industrie
allora di grande successo: la televisione e la moda.
Il cambiamento a livello culturale fu comunque notevole,
anche se limitato alla sfera del privato. Anche grazie alla
«quasi-realtà» dei media che faceva apparire tutto possibile, da
«tentare»; spesso senza calcolare le risorse necessarie e le
possibili conseguenze. Fare «sogni a occhi aperti» (davanti a
un televisore o leggendo un settimanale femminile) era
ovviamente più attraente che ascoltare Andreotti o Moro o
seguire le poco convincenti proposte del compromesso storico
e dell’austerità: queste erano apparse estremamente
improbabili anche ai poco esperti spettatori della politica.
Le differenze non furono più di matrice ideologica, ma
determinate dagli stili di vita che ogni italiano si andava
scegliendo sulla base delle proprie scelte di fondo: chi si
sentiva moderno (e un poco spregiudicato) e guardava al
futuro anche in chiave europea, votava PSI; chi si sentiva
«diverso» (non riconoscendosi nei potenti di turno) e aspirava
a un deciso cambiamento (anche se il termine rivoluzione era
tramontato per sempre) votava PCI o radicali. Chi non voleva
che le cose cambiassero, da conservatore convinto (anche se
non amava definirsi tale), votava DC sulla base di una filosofia
e di una politica fondata su una occhiuta difesa dei propri
interessi. Quest’ultima una posizione («preideologica») che ha
stabilmente attirato almeno un terzo di tutti gli italiani lungo
tutta la storia del Paese. Chi era «nostalgico» (giovane o
vecchio che fosse) votava MSI; i «rivoluzionari» (post-
movimenti) per il pd. Gli altri, malgrado spesso valide ragioni
familiari o «geografiche», sembravano restare fuori dai giochi.
La democrazia dei partiti, nata nell’immediato dopoguerra,
declinò nel giro di circa trent’anni. La partecipazione politica
divenne una pratica che si andò svuotando di significato, quasi
un dovere inutile: non serviva a cambiare le cose.
Con Tangentopoli arrivò a conclusione la Prima
Repubblica; la storia narrata nelle pagine di questo libro
finisce qui. Da allora ne è iniziata un’altra che arriva ai giorni
nostri e che ha origine negli anni precedenti.
Di questa accenniamo solo a due fenomeni che, a nostro
avviso, hanno caratterizzato gli ultimi vent’anni: la
comunicazione politica e il fenomeno del leaderismo-
populismo.
Quanto al primo, si pensò di utilizzare la stessa arma (gli
stilemi di successo della comunicazione mediale, tra spot e
fiction), rivestendo di immagini (e quindi modernizzandoli)
slogan che lanciavano messaggi fulminanti: come quelli della
«discesa in campo» o del «milione di posti di lavoro».
Ovviamente, perché la comunicazione fosse efficace, erano
necessari protagonisti credibili e di immediato carisma, capaci
di «bucare lo schermo» arrivando alla pancia prima che alla
testa dei potenziali elettori, ormai ridotti a spettatori. L’altra
alternativa, molto battuta, sono stati i talk show, dove tutti
parlano senza ascoltarsi e senza confrontarsi sui fatti; magari
ricorrendo allo sberleffo, alla pesante ironia fino ad arrivare
all’insulto, nell’illusione di mantenere desta l’attenzione di chi
guarda e non sempre ascolta.
I cittadini-elettori sono così diventati «audience», da
«contare», da studiare con i sondaggi che dovrebbero dar
conto delle loro aspettative o richieste. Ovviamente in modo
del tutto superficiale.
È il passaggio dalla partecipazione alla politica-spettacolo,
senza però l’impegno di ricerca (le tecniche di marketing alla
base della comunicazione aziendale) e la imprescindibile
«professionalità» di abili comunicatori (che, come registi e
sceneggiatori) creano le apparentemente «facili» storie degli
spot.
I cosiddetti spin doctor nostrani sembrano una caricatura di
quelli che tentano di imitare sull’onda dei “racconti” che
provengono dagli USA, senza tener conto della diversa
preparazione e precise professionalità (anche tecniche, ad
esempio in chiave di comunicazione digitale) utilizzate. Senza
contare il notevolissimo impegno finanziario.
Non a caso molti politici che avevano messo il proprio
nome sulle bandiere di partito sono scomparsi in fretta. Basti
un solo esempio: quello dell’eroe di Mani Pulite, finito nel
tritacarne della politica «bassa» che aveva tentato di arrestare.
Il populismo, filosofia di fondo di questo perverso rapporto
con i cittadini-elettori, è fenomeno molto prossimo all’
antipolitica. Quest’ultima è, a nostro avviso, una forma molto
attuale di qualunquismo: una tentazione ricorrente negli
italiani nel loro rapporto con il gioco democratico (spesso
complicato e poco chiaro) della politica. Con un importante
risvolto: l’antipolitica dei tempi presenti è un fenomeno
negativo ma assolutamente comprensibile nelle sue
motivazioni. È il prodotto di quanto, nelle pagine del libro, si è
definito autoreferenzialità, inefficienza e corruzione dei
politici. Fenomeni che continuano tutt’ora: basti pensare alla
corruzione che ritorna puntualmente nella cronaca dei
quotidiani.
L’antipolitica è stata la risposta conseguente a quei
fenomeni. Altre sarebbero state possibili solo sulla base di una
rivolta culturale (o morale?) possibile, forse, senza la sbornia
mediale e del privato edonistico.
È stato quasi impossibile, negli ultimi vent’anni circa,
coltivare la «bellezza e dignità» della politica. La sua difesa
sarebbe stata la più importante delle riforme assolutamente
necessarie. Nessuno si è impegnato in tal senso.
Si è così passati dalla rappresentanza alla rappresentazione.
Ovviamente quest’ultima ha certamente favorito il rifiuto e/o il
disinteresse per la politica.
La generalizzata fuga nel privato ha finito per confluire,
naturalmente, nel più vasto alveo del fenomeno
dell’individualismo di massa e/o della «società degli
individui» (Livolsi, 2006): quella fondata essenzialmente sulla
rete delle relazioni sociali di chi ne fa parte, adesso (sempre
più) integrate dalle connessioni digitali che collegano con il
mondo virtuale della «realtà aumentata».
L’individualismo non si muove per progetti collettivi, ma
solo come esplosione di progetti individuali nel contesto di un
mondo magmatico, affollato di suggestioni e cose nuove. Un
mondo caotico, affascinante, di cui è difficile comprenderne le
tendenze e i reali valori di fondo. Una esperienza in cui
l’entusiasmo per il «tutto possibile e affascinante» convive con
il malessere di non riuscire a costruirsi un progetto individuale
di vita che corrisponda alle aspettative soggettive e alle
promesse del sociale mediato. Un progetto spesso reso difficile
dalle molte incertezze personali e dalle risorse (economiche,
ma non solo) non sempre adeguate.
Un contesto definito anche «società liquida» (Bauman); in
Italia coincisa con la «liquefazione» della prima modernità e
della Prima Repubblica. In questo più attuale contesto si
muove un «io liquido», dall’identità incerta e ondivaga:
prodotto del confronto tra ipertrofia delle possibilità
(apparenti) e i limiti-incertezze delle abilità individuali usate
per affrontale. L’«io liquido» è quello dell’attore «solitario»,
dall’identità multiforme e indefinita, preda spesso di un
«malessere» che nasce dalle esperienze di precarietà e
insicurezza e per la paura di non essere all’altezza dei compiti
e delle possibilità che si manifestano come continua tentazione
(Young, 2007).
Abbiamo dato molto spazio a Milano. Mettere a confronto
la «piccola patria lombarda» con quella nazionale ci è servito
per illustrare due diversi modi di «fare politica» o due modi di
intendere il rapporto tra politici e cittadini. O, detto
diversamente, di «illustrare le virtù» del riformismo inteso
come «ascolto» dei bisogni, interessi e attese, di chi fa parte di
una certa comunità.
Milano, negli anni settanta, era una realtà con molti
problemi. Era attraversata dalla crisi economica delle grandi
industrie milanesi e dalla tragica follia del terrorismo e da
quella (breve ma intensa) di alcune bande criminali. Una città
con mille problemi, forse non più una comunità a cui
appartenere con orgoglio: non più capitale economica e
sempre meno capitale morale.
Eppure, nel giro di dieci anni circa, passò dagli anni di
piombo alla «Milano da bere». Da intendersi non solo
nell’accezione negativa del facile consumismo o e del
malaffare, ma come la stagione di fenomeni economico-
culturali di assoluta rilevanza (nell’ormai prossima stagione
della seconda modernità) come la moda, il design, la
comunicazione (con le TV e le radio private), la pubblicità.
Un passaggio fondato sulla motivazione del voler «fare»
(dei milanesi e dei loro amministratori) anziché sulle sterili
discussioni-concertazioni in chiave lottizzatrice. Era questo un
carattere che apparteneva da sempre all’identità di Milano,
durato fino al doversi assoggettare alla politica del Palazzo e a
un diverso modo di fare politica.
Può sembrare scontato che sia più facile governare una
città-provincia che non un Paese: non solo come problema di
scala, ma come complessità dei problemi da affrontare e delle
risorse necessarie per avviarli a risoluzione.
Vero. Ma si può considerare anche il contrario. Ottenere
risultati concreti a livello nazionale (sulla base di riforme
portate efficacemente a termine) ha un valore simbolico ben
maggiore e una ricaduta di ben più vaste proporzioni.
Facciamo un solo esempio. Si pensi a quali effetti avrebbe
potuto ottenere una reale riforma della scuola e della ricerca
scientifica. Sicuramente il Paese avrebbe avuto un ben diverso
sviluppo, non solo a livello economico.
Un’ultima ipotesi. Un confronto tra Milano e la realtà
nazionale sarebbe intrigante anche proiettandolo nel futuro.
Dopo il «grande sonno» (in città fino all’Expo e nel Paese con
il ventennio della politica-spettacolo), le due «belle
addormentate» potrebbero (apparentemente vorrebbero)
svegliarsi. Perché ciò avvenga sono però necessari fenomeni-
fatti che avviino a una precisa discontinuità, agendo da volano
per il cambiamento.
Al momento non sono evidenti. In molti casi sono solo
ipotesi. Anticiparli, più che aspettarli, è il senso della sfida nel
prossimo futuro; a Milano e nel Paese.
Bibliografia
Prefazione
Il riformismo mancato
Parte prima. Milano. Italia
1. Dall’immediato dopoguerra agli anni ottanta
1. Verso la democrazia realizzata
2. Il Paese povero e incolto
3. Le vie soggettive verso la prima modernità
4. Gli anni del miracolo
5. Il sociale marciò più veloce della politica
6. Un primo cambiamento
7. La stagione dei governi di centro-sinistra,
8. Studenti e operai uniti nella lotta
9. La fuga nel privato
10. Gli anni di piombo
11. Gli anni del mancato cambiamento
12. La morte del cinema (italiano)
13. La modernità nel privato, l’egemonia della TV
14. A proposito di riflusso
15. Verso gli anni ottanta con sinistre previsioni
6. Il riformismo mancato
1. Il duello a livello nazionale
2. E poi?…
Bibliografia
www.illibraio.it