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Ladri di Biblioteche

Presentazione

Ci fu una stagione, a Milano, nella quale le giunte di


sinistra tentarono seriamente di avviare un vero percorso di
riforme. Avvenne tra la fine degli anni settanta e gli anni
ottanta. Il fallimento di quell’esperienza, e poi l’irrompere
della «Milano da bere» e di Tangentopoli, sancirono al
contrario quella distanza tra cittadini e politica che ancora
contraddistingue il nostro Paese.
L’occhio del sociologo percorre in questo libro settant’anni
di storia da una prospettiva originale e poco battuta: ne esce un
Paese sospeso tra un autentico desiderio di partecipazione
pubblica e il predominio della vita privata, tra le istanze
riformatrici di pochi e un caparbio conservatorismo diffuso, tra
elevati slanci culturali di alcuni e un mai sconfitto
analfabetismo profondo, tra la curiosità del mondo al di là
delle Alpi e la persistente atmosfera provinciale.
Milano e l’Italia sono e sono state tutte queste cose, e per
capire il nostro presente (non necessariamente solo milanese)
la narrazione di Livolsi è illuminante. Quella che si chiama la
«società civile», in quei settant’anni è cambiata non tanto per
azione della politica, ma ascoltando i cantanti, guardando i
film, i programmi televisivi, i telegiornali, leggendo le riviste
patinate, i fotoromanzi e i libri pubblicati dai grandi editori.
Come sempre, mentre l’Italia si stava trasformando, la politica
non avvertiva che il cambiamento era in atto.
Marino Livolsi (Milano, 1937), già docente all’Università
di Trento e allo IULM di Milano, ha insegnato Sociologia
delle comunicazioni all’Università Vita-Salute San Raffaele di
Milano. Si è a lungo occupato di partecipazione politica nella
società italiana contemporanea, tema che riprende e espande in
questo volume. Autore di un fortunato e più volte ristampato
Manuale di sociologia della comunicazione (2000, ultima
edizione 2011), ha inoltre pubblicato, tra l’altro, Il pubblico
dei media (2004), La società degli individui. Globalizzazione e
mass-media in Italia (2006) e Chi siamo. La difficile identità
nazionale degli italiani (2011).
www.bollatiboringhieri.it

www.facebook.com/bollatiboringhieri

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© 2016 Bollati Boringhieri editore


Torino, corso Vittorio Emanuele II, 86
Gruppo editoriale Mauri Spagnol
ISBN 978-88-339-7480-4
Illustrazione di copertina: Umberto Boccioni, Rissa in galleria, 1910, particolare.
Pinacoteca di Brera, Milano.
Prima edizione digitale: giugno 2016
Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata
Nuova Cultura - Introduzioni
310
Prefazione

Parleremo dell’Italia e di Milano; dalla fine della guerra


agli anni settanta-ottanta. Cercheremo di capire come il Paese
o, meglio, gli italiani abbiano vissuto quel periodo. Prima sulla
base delle speranze nate dalla Resistenza (almeno al Nord),
subito dopo con una grande voglia di essere meno poveri e di
avere quelle cose che, fino ad allora, non era stato possibile
neppure sognare: vivere dignitosamente, far studiare i figli.
Poi assistendo allo sciagurato duello tra i due partiti della
sinistra che ha lasciato grande spazio alla DC, quella del
«progresso senza avventure». In seguito e di conseguenza, si è
arrivati alla stagione della lottizzazione e della corruzione e
alla conseguente crisi della Prima Repubblica precipitata nella
bufera di Tangentopoli.
Un lungo periodo (circa quarant’anni) caratterizzato da un
persistente «mancato riformismo». Un oggetto di cui i politici
italiani hanno parlato molto, senza però mai impegnarsi per
cercare di realizzarlo.
Per dare un’idea dell’impatto positivo che questo avrebbe
potuto avere sul Paese faremo riferimento alla Milano dello
stesso periodo: una città che è stata (in tempi e modi diversi)
capitale morale, culturale, economico-finanziaria. Un luogo
(più culturale che geografico) che negli anni che
considereremo si è trasformato come non mai. Sicuramente in
meglio, anche se (forse) non come si sarebbe sperato o voluto.
Non è stato facile ricostruire lo «spirito» di quegli anni. I
molti contributi storici a cui ci siamo riferiti, con grande
interesse e rispetto, non sempre sono riusciti a dare il giusto
rilievo alla vita normale della gente comune: i veri artefici del
cambiamento. Hanno dato poco spazio alle aspettative o ai
sogni coltivati da moltissimi italiani nella consolante speranza
che si sarebbero potuti finalmente realizzare dopo anni di
dignitosa ma pesante povertà. Così come non sono riusciti a
spiegare, in modo convincente, come (e perché) sia nato il
progressivo disincanto verso la politica. Un fenomeno che ha
finito per caratterizzare il nostro Paese negli ultimi trent’anni e
che, adesso, si definisce antipolitica. Un germe «cattivo»
sviluppatosi in quegli anni.
Ci siamo rivolti così ad altre fonti. Innanzi tutto alla
memoria di alcuni dei protagonisti della vita politico-sociale
nella Milano di quegli anni.
E poi ai media e ai loro prodotti. A qualcuno potrà
sembrare eccessivo lo spazio che vi abbiamo dedicato. Ci è
parso invece l’unico modo per recuperare quei fantasmi
(personaggi, sogni, credenze e emozioni collettive) che hanno
attraversato la vita della gran parte degli italiani, in un
processo di socializzazione diverso (ma in parallelo) da quello
tradizionalmente trasmesso da genitori, insegnanti, preti e
partiti.
Gli italiani sono diventati moderni nel privato mentre
abbandonavano progressivamente le tradizionali forme di
partecipazione sociale e politica.
Abbiamo considerato con particolare attenzione i media
popolari e i loro prodotti. Un vastissimo repertorio che molti si
ostinano a ritenere poco rilevante, ma da cui derivano invece
quei frammenti che si vanno a depositare nella memoria (e
nell’inconscio) individuale di ognuno: certe sequenze di un
film o di una trasmissione televisiva, alcune fotografie, brani
di una canzone e/o echi di una voce, certi capi di
abbigliamento, qualche oggetto di culto o molto amato e così
via. La memoria personale si confonde con i fotogrammi
dell’immaginario collettivo: milioni di immagini che ritornano
improvvisamente in mente, magari dopo essere state a lungo
dimenticate.
Parleremo di alcune stagioni in cui abbiamo «datato» film,
canzoni, eventi sportivi, personaggi famosi, al di là della loro
oggettiva rilevanza.
Le stagioni si riferiscono all’immaginario e hanno confini
incerti e soggettivi, mentre i periodi storici sono riferiti a
cronologie definite, a eventi o personaggi famosi e/o di grande
carisma. Una stagione si ricorda attraverso il vissuto
individuale: i ricordi che restano e la nostalgia che li avvolge a
distanza di tempo. Della storia devono essere invece ricordati
fatti e personaggi che «hanno cambiato il mondo». Le stagioni
si legano ai ricordi degli individui, i periodi storici alle «gesta»
di attori collettivi (le classi, i partiti): quelle che restano per
sempre scritte nei libri.
Riferendoci alla Milano di quegli anni parleremo degli anni
bui, «di piombo», e di quelli successivi «euforici» che la città
visse dopo aver superato paure e incertezze. Nel primo caso
dominarono il pessimismo e il timore che non sarebbe stato
possibile uscire da quella «dannata» stagione. Molti ricordi
hanno il sottofondo sonoro delle sirene delle auto della polizia
o delle ambulanze; le immagini che ritornano alla memoria
hanno colori («bui») dei sentimenti allora dominanti. Nel
secondo prevalse invece l’ottimismo e la modesta felicità di
scoprire posti nuovi e affascinanti dove andare con grandi
amici e piccoli amori, quando diventò comune pensare che lo
spazio della vita andasse anche oltre al tempo di lavoro.
Riferendoci alle «stagioni» ci siamo anche resi conto che,
più che da certi fatti o personaggi, il loro carattere (il mood)
emerge (ancor più chiaramente) dai linguaggi prevalentemente
utilizzati. Così da quello impositivo (teorico e astratto) delle
ideologie dell’immediato dopoguerra, si è arrivati, a cavallo
tra gli anni sessanta-settanta, in modo del tutto inaspettato e
con un certo scandalo dei benpensanti, al «linguaggio
dell’immaginazione» gridato a gran voce dal movimento degli
studenti. Questo non riuscì neppure a scalfire quel potere che
diceva di voler abbattere. Era troppo semplice e nello stesso
tempo troppo confuso, negli slogan o negli oscuri documenti,
per spiegare una realtà complessa e a maggior ragione per
riuscire a cambiarla. Anche per questo fu sostituito, nel giro di
pochi anni, da quello della musica dei cantautori, e dei
complessi rock. Qualcuno si espresse nel ballo, il linguaggio
del corpo. Fino ad arrivare, in anni più recenti e nella stagione
della comunicazione politica, al linguaggio della futile
provocazione e delle voci che si sovrappongono senza avere
molto da dire.
Dagli anni sessanta la maggioranza degli italiani si è arresa
di fronte all’invasione continua e suggestiva delle immagini
televisive. La TV ha imposto alcuni linguaggi specifici:
paradossalmente quelli dei generi (solo apparentemente) meno
importanti, come nel caso della pubblicità (prima) e della
fiction (poi). Grazie a questi nuovi stili narrativi, molti hanno
finito con il convincersi che non fosse più necessario
interpretare la realtà, capirne i significanti anche meno
evidenti: era sufficiente assistervi come spettatori.
È entrata così in crisi la (tradizionale) comunicazione, in
«politichese o in burocratichese, tra i cittadini e i loro
rappresentanti. La logica dell’annuncio (e, in parallelo,
dell’ascolto distratto) ha prevalso su quella del cercare di
coinvolgere, delle proposte relative al «fare» concreto. Ciò ha
contribuito al diffondersi di una profonda sensazione di «non
contare», di non avere voce e/o poco «ascolto» da parte dei
politici. Esperienza non gradevole per chi andava
sperimentando proprio in quegli stessi anni, sia pur tra molte
incertezze e dubbi, una maggiore consapevolezza sul «che
fare» della propria vita.
Molti hanno preferito rifugiarsi in un proprio piccolo
mondo (le tribù sicure di amici e familiari) perché da quello
lontano (il «pubblico») arrivavano in continuazione cattive
notizie su corruzione e inefficienza. È stato anche sempre più
difficile resistere alla tentazione di farsi catturare dalle mille e
mille storie mediali: quelle intricate e coinvolgenti narrate da
film e soap, quelle brevi e fortemente emotive delle canzoni,
quelle minime ma molto accattivanti della pubblicità. Nessuna
di queste si riferiva al mondo vero (anche se apparivano
verosimili) ma erano certamente più affascinanti della
narrazione della politica e dei politici.
Il privato (gli individui e le loro relazioni sociali) ha
prevalso così sul pubblico (la politica, i partiti), la
«soggettività» sulla «doverosità», i sentimenti e le emozioni
sulla ragione formale (che era stata tipica) della società
industriale. Non è stato del tutto un male, come invece hanno
sostenuto snobisticamente gli apocalittici di sempre.
Non tutti si riconosceranno in questa narrazione, non tutti
saranno d’accordo sulle ipotesi che la reggono. In questo non
riconoscersi gioca un ruolo fondamentale «come» ciascuno ha
vissuto quegli anni: specialmente da parte di chi ha creduto in
certe idee (o ideologie) o in certi progetti politici, rimanendovi
legati nel tempo sia pure con un certo distacco.
Forse, per dare più profondo conto di quegli anni, sarebbe
preferibile una narrazione di tipo letterario: quella che
permette di entrare nei pensieri e nei sentimenti dei personaggi
senza alcun obbligo di oggettività e verità scientifica. Non è il
mio mestiere, così come non lo è quello dello storico.
Provando a fare il mio, parlerò dell’Italia e di Milano e di
coloro che vissero in quel periodo, utilizzando tutti i materiali
che mi hanno permesso di «entrare», battendo sentieri insoliti,
in un periodo importante della storia italiana, anche allo scopo
di avere qualche idea su ciò che è avvenuto (e perché) negli
anni successivi.
Dalla passione di pochi si è arrivati (già negli anni novanta)
al distacco e alla disaffezione verso la politica di molti. Gran
parte degli italiani si sono limitati a diventare spettatori
disincantati di una scena pubblica affollata di piccoli
personaggi e molte vuote chiacchere.
Ho un grosso debito di riconoscenza verso tutti coloro che
ho «tampinato» con le mie (spesso confuse) interviste.
Non posso che ricordarli brevemente, anche se con molta
riconoscenza.
Innanzi tutto il mio sindaco di allora (Carlo Tognoli) che ho
fatto spesso «arrabbiare» con la mia spocchia da scienziato
«duro e puro». Un pensiero a R. Terzi e B. Vitti che ci hanno
lasciato da poco. Poi un grazie a: G. Aghina, G. Banfi, P.
Bassetti, C. Bertelli, M. Bertoli, M. Bolocan, A. Branzi, S.
Casiraghi, G. Cervetti, L. Festa, U. Finetti, G. Galli, M.
Garzonio, G. Lanzone, U. La Pietra, E. Morini, A. Mottola
Molfino, A. Pansera, B. Pellegrino, E. Rotelli, P. Scaramucci,
F. Scalpelli, C. Schirinzi, V. Spinazzola, G. Rosa, R. Vitali.
Ringrazio inoltre l’IREC (Istituto studi età contemporanea)
di Sesto San Giovanni, la Fondazione Quercioli, l’IRES, la
Famiglia Meneghina, la Società Umanitaria.
Se ne ho dimenticato qualcuno, dipende dalla mia
«giovane» età e me ne scuso.
Tutti mi hanno dato più di quanto io restituisca loro in
queste pagine. Con alcuni di loro è stato come tornare a molti
anni or sono, con lo stesso affetto e la stessa stima.
Il riformismo mancato
Parte prima
Milano. Italia
1. Dall’immediato dopoguerra agli anni ottanta

Partiamo dagli anni successivi alla fine di una guerra


dichiarata (e da non pochi condivisa) nell’illusione di fondare
un impero. Una sorta di delirio di onnipotenza: si pensi alle
parate e alle divise dei gerarchi). In molti giocava la speranza
di prospettive (non solo economiche) migliori. Al fondo, un
ambiguo sentimento di orgoglio nazionale. Per qualche anno si
era coltivato il (falso) mito della modernità: le colonie in terre
lontane (come avevano le grandi nazioni), la gestione da parte
dello Stato della grande industria (IRI), le trasvolate atlantiche,
un primo modesto benessere per la piccola borghesia delle
città, i treni in orario.
Qualcuno si travestì da eroe: indossando una divisa, più che
combattendo coraggiosamente. Le donne erano ancora
confinate a casa, governando marito e figli senza darlo troppo
a vedere. Il risveglio fu traumatico: la fine era stata (si pensi
alla fuga del re e di Mussolini) ben diversa dal sogno di
«comandare sul mondo».
Nel ricordo, i mesi subito dopo la fine della guerra sono un
documentario in bianco e nero, sgranato, senza alcun
commento musicale, se non quello dello scalpiccio dei passi di
chi «tornava a casa» a piedi, lacero, percorrendo strade che
mostravano i segni dei bombardamenti. Ovunque, gente
malvestita e denutrita.
Il fascismo aveva lasciato una triste eredità: una macchina
statale inefficiente, un’economia povera (aggravata dalla
guerra e dall’autarchia), scarsa istruzione e poca cultura legata
a un umanesimo storicista poco attrezzato a comprendere e
guidare le trasformazioni sociali, oltre al perdurare del
«controllo morale» di una chiesa premoderna, ecc.
Molti italiani avevano aderito al fascismo come passiva
delega a chi era al potere, come del resto avevano fatto anche
nel passato. Le adunate oceaniche, le organizzazioni
paramilitari e le adunate del sabato fascista, erano stati i rituali
relativi a un’adesione non profonda a un regime che aveva
garantito l’ordine sociale che i moti popolari (a cavallo del
secolo e dopo la prima guerra mondiale) sembravano mettere
in discussione. L’ombra, sia pure lontana, della rivoluzione in
Russia era stata vissuta come un’oscura minaccia. Molti
italiani, nel chiuso delle loro case e delle loro coscienze, erano
stati più a-fascisti che antifascisti o fascisti entusiasti. Il Duce
era stato un mito, più che un’autorevole guida politica e
sociale.

1. Verso la democrazia realizzata


Lo spirito della Resistenza (e la Liberazione) non fu
condiviso in tutto il territorio nazionale. Una parte del Paese (il
Sud) non ne fu toccata. Era stata occupata dalle forze anglo-
americane e non aveva dato luogo a nessun movimento
politico autonomo, se non l’illusione separatistica della Sicilia
governata dalla mafia. Continuò la triste usanza
dell’arrendevolezza verso i vincitori, dovuta anche a una
drammatica povertà. Alcune scene di un film come Sciuscià ne
danno ancora oggi un tragico ma veritiero racconto.
Notabili e «capi» (delle «famiglie») tornarono a comandare
sotto la protezione degli occupanti; i «sudditi» erano in gran
parte contadini al limite della fame e in condizioni di vita
inaccettabili, sopportate per una sorta di fatalismo ancestrale.
Solo un mitico sindacalista (Di Vittorio) riuscì a dare loro
coscienza e a guidarli nelle lotte per l’occupazione dei terreni
incolti. La banda Giuliano ne uccise non pochi a Portella della
Ginestra. Altri coraggiosi sindacalisti furono assassinati negli
anni seguenti. Al Sud la mitica classe operaia era inesistente.
Vi era poi un altro tipo di emarginazione, forse ancora più
profonda, che riguardava le donne. Questa si sommava a
quella dei loro figli e mariti, poveri e socialmente quasi
inesistenti. In molti casi non erano uomini e donne, ma ombre.
Non a caso il Sud votò a maggioranza per la monarchia nel
Referendum.
La continuità con il passato riguardò l’intero Paese in
misura molto diversa. Nel Nord questa riguardò
essenzialmente la piccola borghesia erede del fascismo, finché
non riuscì a liberarsi dalle «rappresentazioni concettuali di
scipitezza smisurata» (Galli della Loggia, in Castronovo,
1976) che avevano dominato negli anni precedenti. Non era un
caso. Nel fascismo, «i ceti medi poterono credersi moderni
anche rimanendo eguali a se stessi, di considerarsi maestri di
arditezza politica e di coraggio sociale pur non rinunciando a
nessuna delle sicurezze e dei canoni tradizionali
dell’esistenza» (ibid., p. 382).
Ciò consentì alla DC di fare riferimento a un blocco storico
(e viceversa) di «ragguardevoli dimensioni con il recupero di
gruppi sociali – dal grosso della piccola borghesia urbana e dei
ceti impiegatizi alle categorie rurali intermedie – su cui si era
retta in larga misura sino alla guerra, l’organizzazione del
consenso del regime fascista» (Castronovo, 1976, p. 9). A
questi si aggregavano larghe fasce di sottoproletari senza alcun
coinvolgimento politico, che avevano come unico riferimento i
preti dei loro sperduti paesi del Sud o delle piccole cittadine
del Nord, come nel Veneto.
Questi gruppi sociali trasmigrarono verso la DC: quella del
«progresso senza avventure», dell’ipocrisia (di sacrestia) e del
bacchettonismo di sembrare «per bene». Il partito cattolico era
argine e difesa della tradizione contro i valori nuovi e solo per
questo considerati pericolosi. Lo avrebbero affermato i
ministri democristiani (per giustificare l’intervento durissimo
della polizia e la censura) con discorsi che, anche nella forma
e nel linguaggio, sembravano reperti di un passato che si
pensava sepolto per sempre. Una retorica utilizzata a difesa
preventiva rispetto alla scarsa incisività del loro operato. Per i
nuovi potenti dal cuore antico impegnarsi in una reale politica
di riforme era innaturale, in chiave antropologica e psicologica
prima ancora che politica. Basterebbe rivederli nei cinegiornali
del tempo o nelle prime riprese televisive: il grigiore dei loro
visi non dipendeva solo da un problema tecnico di ripresa.
Il quadro politico era condizionato dagli accordi di Jalta
sulla spartizione del mondo in due blocchi. La DC manifestò
immediatamente una stretta adesione all’Occidente, di cui
guardiano e guida erano gli USA. Anche per questo, la
maggioranza degli italiani «continuisti» la seguì da subito per
un forte bisogno di rassicurazione che le difficoltà
dell’immediato dopoguerra rendevano ancora più pressante. Il
piano Marshall e fu considerato un segno tangibile di questo
aiuto.
Il rifiuto della continuità spiega invece le speranze e l’agire
dei protagonisti delle lotte sociali nel Nord. Protagonisti operai
e contadini e tutti coloro che avevano partecipato alla
Resistenza e, successivamente, avevano creduto nella
possibilità di realizzare modi nuovi di partecipazione politica
democratica. A guidarli vi erano i partiti di sinistra e la parte
più innovativa della DC: quella delle ACLI, delle associazioni
studentesche, dei preti coraggiosi e innovatori alla don Milani.
Tutti coloro che si sarebbero poi riconosciuti, dopo circa
quindici anni, nelle parole e nella figura di papa Giovanni
XXIII.
In questo contesto, giocò un ruolo fondamentale il PCI con il
suo impegno nazionale e popolare, affermato da Togliatti
appena tornato dalla Russia e mantenuto anche quando il
partito passò all’opposizione. La dura disciplina dei militanti e
la rigida coerenza ideologica resero impossibile a molti italiani
aderirvi, ma una minoranza assai consistente lo guardò con
favore e lo votò come unico argine contro la palude
democristiana.
Il PCI scelse la via politica-partitica (della disciplina del
«centralismo democratico») anziché quella della ricerca di
un’egemonia culturale e sociale come aveva suggerito
Gramsci. Una scelta forse «necessaria» in quei tempi difficili,
anche allo scopo di favorire l’alleanza con il socialismo
libertario ed emotivo (un tempo sovversivo) del PSI di Nenni e
Lombardi.
Come si è già accennato, molti si avvicinarono al
comunismo come possibile strumento per il cambiamento, non
come ideologia. Il materialismo era «cosa da filosofi»;
funzionava poco anche il mito della Russia e di Stalin. Questo
era credibile solo per i quadri del partito. Per molti che
votarono il partito in quegli anni, Stalin era un simpatico e
bonario «baffone» (solo anni dopo se ne sarebbero conosciuti i
crimini); la Russia, il Paese che aveva eroicamente resistito ai
nazisti a Stalingrado. Chi votava comunista lo faceva per altri
motivi: la difesa del posto di lavoro, combattere i «padroni» di
sempre, perché aveva un’idea diversa della giustizia sociale.
Discriminante restava come gli italiani avevano vissuto la
Resistenza, in pochi anni diventata patrimonio pressoché
esclusivo della sinistra anziché nazionale. Al Sud continuò a
rimanere un fenomeno lontano geograficamente e
culturalmente. Al Nord era stata invece guerra civile, guerra di
popolo; necessaria per cambiare il Paese e non solo per
liberarlo (Pavone, 1991). Per la gente delle campagne (i luoghi
degli scontri armati), i partigiani erano stati quelli «da
aiutare», quelli che avevano fatto la scelta giusta.
Anche a distanza di molti anni un test, banale ma infallibile,
è il modo di ascoltare o cantare Bella ciao!: una canzone che
ha unito chi ha fatto (o ha condiviso) questa scelta.
La Resistenza fu un reale momento fondativo per la nuova
Italia: solo una cattiva retorica ha rischiato di non farla più
considerare per quello che fu. La riconciliazione, giusta e
necessaria, si sarebbe dovuta celebrare solo dopo aver
compreso chi aveva visto giusto e lontano (e aveva scelto di
combattere contro un esercito potente e spietato) e chi aveva
preferito, per timore o ignoranza, una certa continuità di fatto
con il regime fascista.
Alla fine della guerra, i partiti giocarono un ruolo
assolutamente positivo, favorendo (e mediando) la
partecipazione politica, dando contenuti e significati alla
«cittadinanza democratica» (Gualtieri, 2006). Fu la
democrazia dei partiti a permettere il decollo della vita politica
e sociale, considerata importante fino a che non divenne (dagli
anni ottanta in poi) luogo e strumento di clientele e/o di
lottizzazione-corruzione.
Essenzialmente tre furono i partiti che favorirono questo
processo: PCI, PSI, DC. Insieme in alcune elezioni arrivarono a
circa il 75% sul totale dei votanti. Ovviamente non vanno
dimenticati gli altri, tra cui PLI (di antica matrice conservatrice
e padronale), socialdemocratici (in diverse versioni, ma
sempre lontani dall’abbraccio con i comunisti), PRI (che univa
repubblicani storici e superstiti del Partito d’Azione) e MSI
(che raccolse prima i «profughi» del fascismo e poi divenne un
riferimento per chi «guardava a destra»). Partiti funzionali per
le compagini di governi con diverse formule, in primis il
pentapartito, ma mai davvero decisivi per orientare le scelte
politiche di fondo necessarie al Paese.
Cominciamo parlando dei comunisti e dei democristiani.
Questi partiti ebbero un ruolo fondamentale nell’avviare alla
democrazia due grandi gruppi sociali contrapposti: chi
desiderava che le «cose cambiassero» strutturalmente e chi
riteneva che il cambiamento non fosse necessario e urgente e
si ispirava, nel sociale, alla dottrina della chiesa cattolica.
Furono definite le due «Chiese», per suggerire
un’immediata idea dell’attaccamento che univa votanti e
simpatizzanti ai vertici e alle direttive di questi due partiti.
Aderirvi (anche senza partecipare attivamente, come solo un
piccolo gruppo faceva regolarmente) era condividere una
particolare idea di democrazia e dei valori su cui questa si
fondava e legittimava. Più una fede che non un’appartenenza:
probabilmente più per i comunisti che non per i democristiani
che avevano già un’altra chiesa (questa vera) di cui seguire le
direttive.
Era comunque un’adesione profonda: era sentirsi parte di
uno schieramento che univa o divideva.
Paradossalmente, tra i due schieramenti vi era una certa
condivisione su non pochi sentimenti comuni (la centralità
della famiglia, una forte onestà di fondo, una certa moralità):
ciò mostrava chiaramente che si trattava di uno stesso popolo
con una matrice storico-culturale con molti tratti in comune.
Una propaganda, ingenua ma radicale, esaltò invece
(strumentalmente) le differenze. I manifesti della DC parlavano
di orde di cosacchi che avrebbero distrutto i luoghi sacri della
Nazione e i valori cristiani; quelli comunisti mettevano in
pesante caricatura preti e votanti democristiani.
Al fondo vi era invece un’«appartenenza naturale» ai valori
della società preindustriale; non si potrebbe capire altrimenti il
successo delle storie che narravano le modeste baruffe tra un
parroco astuto (don Camillo) e un sindaco un po’ ingenuo
(Peppone). Era il desiderio a livello popolare e prepolitico del
«compromesso», come possibile e immediato modo di
convivere con chi non la pensava politicamente nello stesso
modo.
Era il Paese reale e «pulito»; quello lontano dalla volgarità
dell’Uomo Qualunque che sbertucciava i politici e la loro
disonestà e stupidità, rifacendosi più all’umorismo di riviste
come il «Marc’Aurelio» (che era sopravvissuto al fascismo
perché in fondo non vi era mai appartenuto) e ai doppi sensi
che imperavano sui palcoscenici dei piccoli teatri in provincia.
La strada senza incertezze verso la democrazia deve molto
al realismo politico di Togliatti che non smise mai di predicare
molta prudenza nella via da seguire (definita della democrazia
progressiva) per la conquista del potere che restava l’obiettivo
teorico del partito. Per il «Migliore» era invece prioritario
operare in favore di precise norme di convivenza democratica.
In molte occasioni egli reagì violentemente, giocando tutto il
suo grande prestigio personale, alla tentazione di seguire la via
della rivolta armata (esistevano ancora molti arsenali di armi e
una struttura paramilitare di origine partigiana) per arrivare al
potere. Non c’è dubbio che il PCI abbia anteposto l’impegno
per la «costruzione» dell’Italia repubblicana rispetto
all’obiettivo della «lotta di classe».
Era la «doppiezza» (avere come riferimento fondamentale
la Russia e Stalin e perseguire una via nazionale al socialismo)
che permise il confronto con le altre forze politiche, iniziato
con la «scrittura» della Costituzione e la partecipazione ai
primi governi repubblicani. Magari rinunciando a battaglie
sacrosante (come la legge sull’epurazione) ma dal forte
impatto divisorio. Era la via alla responsabilità che il PCI
avrebbe sempre mantenuto. Una scelta sempre perseguita
senza incertezze: dai giorni dell’attentato a Togliatti (1948)
fino a quelli del terrorismo e dell’uccisione di Moro.
Una doppiezza con una precisa linea politica. L’obiettivo
della democrazia progressiva che doveva guidare il partito
nuovo «non si limita più soltanto alla critica e alla propaganda,
ma interviene ‘parlamentarmente’ nella vita del paese con
un’attività positiva e costruttiva» (Gualtieri, 2006, p. 34). Solo
perseguendo questa via si poteva raggiungere l’obiettivo di
«un paese libero, unito e indipendente». Il partito nuovo era
così caratterizzato da «un singolare intreccio, difficilmente
dipanabile, di riformismo e massimalismo, di senso delle
istituzioni e di ideologia anticapitalista», (ibid. p. 21) sospeso
tra appartenenza al blocco comunista e alla Russia e una
progressiva autonomia in chiave nazionale. L’unico e forte
riferimento teorico al marxismo era che la classe operaia era e
restava il principale attore impegnato nella risoluzione dei
problemi che ostacolavano il raggiungimento del controllo
dello Stato.
Una linea politica che sarebbe stata definitivamente sancita
da Berlinguer nel 1978. Non era scontato. Negli anni
dell’immediato dopoguerra la Russia, il paese della
rivoluzione, era sembrata sul punto di realizzare il socialismo
reale, come fine delle disuguaglianze e conseguente
costruzione di una società nuova e volta al progresso non solo
economico. Il primo volo «fuori dallo spazio» di Gagarin
aveva indicato, simbolicamente, questa direzione.
Si dimostrò un’illusione. Il paese del socialismo reale, ai
pochi che avevano avuto l’occasione di visitarlo, era apparso
come un paese triste e povero e in cui non si respirava certo il
senso di una grande e partecipata avventura.
Il mito resse comunque almeno fino alle dichiarazioni di
Chrušc ˇ ëv sui crimini di Stalin. Difficile fu comunque il
tardivo e parziale riconoscimento della «povera» realizzazione
del socialismo reale. Sarebbe stato evidente nel confronto tra
le due Germanie dopo il crollo del muro di Berlino.
Nel frattempo stava crescendo, in Italia, una diversa
generazione di comunisti (meno «trinaricciuti», avrebbe detto
Guareschi) più impegnati a cercare di risolvere i problemi
interni italiani (le riforme mai realizzate) che non a seguire
astratti e lontani modelli.
Lungo gli anni cinquanta Togliatti condusse il partito unito
anche nelle sconfitte, lottando abilmente con De Gasperi: un
duello che ricorda quello successivo degli anni settanta tra
Berlinguer e Moro. In entrambi i casi, l’abilità politica
(dilatatoria) democristiana vinse sulle aspirazioni
«responsabili» dei due capi comunisti. Ciò non impedì che
entrambi fossero accomunati da una sorta di santificazione
dopo la loro morte. I due funerali sono stati l’immagine, forte
e partecipata, di un Paese reale e importante anche se
all’opposizione.
Il popolo comunista era composto, oltre che dai numerosi
iscritti, da coloro che simpatizzavano per il PCI come
alternativa all’inefficienza dei governi democristiani e dei loro
esponenti. Erano coloro che frequentavano le Feste dell’Unità
riconoscendosi in chi vi lavorava con entusiasmo o magari
solo per mangiare il cibo di lontane regioni, comprare qualche
libro, ascoltare i concerti o ballare. Non sempre partecipando
con passione ai comizi, se non a quelli finali. Era un «sentirsi a
casa» che nasceva dal rifiuto delle convenzioni e delle rigide
distinzioni sociali. I simpatizzanti divennero gran parte elettori
del PCI. Molti guardavano al partito con la speranza di ottenere
migliori condizioni di lavoro e di equità sociale. Non a caso,
l’adesione al partito conviveva spesso con quella, altrettanto
forte, al sindacato.
Non giovò a questo costante proselitismo, l’allineamento
costante e «occhiuto» alla pratica del «centralismo
democratico»: i dibattiti all’interno del Comitato Centrale non
tenevano conto delle diverse posizioni. I «miglioristi» furono
sempre in minoranza e poco ascoltati: le loro posizioni
avrebbero potuto invece favorire l’alleanza a sinistra. Era ciò
che avveniva anche nelle migliaia di assisi del partito:
«assemblee fumose» (in tutti i sensi della parola) che venivano
chiuse dal funzionario di turno che aveva il compito di gestire
la riunione e «trarre le conclusioni».
Per molti giovani fu del tutto naturale riconoscersi nel PCI:
erano il nerbo principale dei simpatizzanti che mandarono in
frantumi il fantasma del partito rosso e stalinista che parroci e
giornali borghesi avevano cercato inutilmente di dipingere
come fonte di gravi e drammatici pericoli.
Non era stato facile: non si dimentichi che la chiesa
appoggiava la DC nelle parrocchie e nelle associazioni da essa
controllate, fino a ricorrere alla minaccia della scomunica.
Aveva gestito grandi campagne di indiretta propaganda: come
era avvenuto nel caso delle processioni della Madonna
Pellegrina che percorrevano le vie delle grandi e piccole città
addobbate a festa con bianche lenzuola, drappi colorati e
candele, grandi canti religiosi e ostentata devozione.
Ovviamente maggiori responsabilità per un cambiamento,
annunciato ma mai realizzato, sono da attribuire alla DC.
Anche questa si riconobbe da subito in un leader dal grande
ascendente personale, oltre che dalla grande abilità politica.
De Gasperi aveva una straordinaria abilità nell’indicare
alludendo, nel coinvolgere concedendo poco; in questo modo
(molto democristiano) egli riuscì a perseguire gli obiettivi di
un partito composto da molte anime o correnti, come da questo
momento si sarebbero chiamate i gruppi organizzati all’interno
del partito. Inizialmente queste corrispondevano alle due
anime del partito: la prima di ispirazione popolare e sociale
(come aveva indicato don Sturzo fin dagli anni precedenti al
fascismo) e la seconda impegnata nella difesa dei grandi
interessi agrari-industriali. Richiamarsi agli ideali dalla chiesa
cattolica ne era la legittimazione perfetta. Le due anime
potevano convivere. La chiesa-istituzione interveniva
attraverso le dichiarazioni dei suoi vertici, ma anche (e forse
con maggior efficacia) con l’operato dei parroci nelle prediche
e nella vita nelle parrocchie e all’oratorio. Non a caso, le
donne cattoliche svolsero una «silenziosa» ma efficace opera
di propaganda in difesa dei valori della famiglia tradizionale.
Forte peso ebbero anche le organizzazioni parallele: in
particolare le ACLI (nel mondo del lavoro) e la Coldiretti (nelle
campagne). Non solo: gli scout cattolici furono sempre meglio
organizzati (e più numerosi) dei pionieri (i giovani comunisti).
Quella cattolica (e, indirettamente, democristiana) era una
rete capillare, informale, ma di grande efficacia operativa; era
la controparte della struttura, fondata su cellule e sezioni, del
Partito Comunista. Il confronto era continuo. Alla domenica,
fuori dalle chiese, era esposta la stampa cattolica, mentre gli
attivisti comunisti distribuivano nelle case e nelle piazze
l’«Unità».
Grande influenza ebbe anche l’operato di alcuni gruppi
sociali: ad esempio, la Confindustria contraria a ogni «politica
di piano» e a un’economia con deciso intervento statale.
C’erano poi i piccoli proprietari, i contadini e i commercianti,
che temevano il cambiamento da cui (pensavano) avrebbero
avuto tutto da perdere, con un forte timore di diventare più
poveri, di scendere allo status di operai e contadini. I
funzionari pubblici (specialmente quelli che erano sfuggiti
all’epurazione) vivevano nel timore di una riorganizzazione
funzionale dell’amministrazione pubblica. I benpensanti (si
pensi alle insegnanti cattoliche, alle anziane borghesi delle
piccole città di provincia) erano profondamente spaventati
dalla sicura degenerazione della morale nella famiglia e nel
sociale. E via così. Un timore diffuso e forte, anche se
immotivato, che faceva da efficace collante a un
interclassismo che «metteva insieme» gruppi sociali,
subculture e interessi assai diversi.
L’anticomunismo fu un atteggiamento di fondo che
certamente non favorì innovazione e sperimentazione in
chiave riformista. Per gran parte degli italiani era preferibile
che tutto restasse «come sempre».
Un apparato statale naturalmente conservatore e la
protezione della chiesa favorirono così il «progresso senza
avventure», uno sviluppo economico (prima agevolato dagli
aiuti americani del piano Marshall e poi dal miracolo
economico degli anni sessanta) mai accompagnato da reali
trasformazioni sociali.
La DC, come partito conservatore, ha rappresentato alla
perfezione quell’Italia che non aveva voluto cambiare nel
dopoguerra, scegliendo di fatto la continuità con il passato.
Il Paese era uscito dalla guerra con profonde ferite: «nelle
grandi città, gran parte del patrimonio di abitazioni era andato
distrutto o danneggiato, la rete stradale era sconvolta per gli
innumerevoli crolli di ponti e opere d’arte, la rete ferroviaria
pressoché paralizzata […] [tuttavia] i danni inferti all’apparato
industriale risultarono meno estesi del previsto» (Graziani,
1989, p. 18). Erano stati padroni e operai insieme a salvare le
fabbriche occupandole, durante la ritirata dei tedeschi, per
impedire che fossero distrutte.
L’obiettivo fondamentale della gente comune era quello di
cercare lavoro (non tutti lo trovarono subito) per uscire dalle
condizioni di povertà sperimentate nei precedenti (terribili)
anni: perfino mangiare era stato difficile e si continuava a
vivere in umili case e con poveri vestiti.
Una legione di «sconosciuti eroi del lavoro» (gli uomini
nelle fabbriche e le donne nella difficile gestione della
famiglia) cominciò però a nutrire aspettative crescenti (sempre
però modeste) man mano che miglioravano le condizioni di
vita. I più erano costretti a sopportare una dignitosa povertà.
La ricchezza nazionale aumentò (fino a raddoppiare) e,
anche se in proporzione minore, quella familiare. Anche per
questo una volta superati i tempi più duri non si accettarono
più passivamente le rigide condizioni di lavoro in fabbrica e
nei campi.
Furono ancora anni di migrazioni verso i paesi europei
(meno in America); iniziarono timidamente quelle verso le
grandi città industriali del Nord. Era come uscire dal guscio
familiare per affrontare un mondo lontano anche se
geograficamente vicino. Un’immigrazione soprattutto
culturale, di mentalità. Si cominciarono ad abbandonare, sia
pure lentamente, le vecchie consuetudini, i rituali consolidati.
Si modernizzarono le grandi aziende: nuovi tycoon (per fare
due soli nomi: Borghi e Merloni) si affiancarono a quelli
tradizionali (Agnelli e Pirelli). Si fece strada, faticosamente,
un nuovo modo di gestire le relazioni di lavoro; all’Olivetti si
cominciò a parlare di human relations e si teorizzò la
«fabbrica-comunità»: segnali apparentemente deboli, ma
importanti, di modernizzazione.
Altri fenomeni furono, invece, sconfortanti: ad esempio
iniziò il sacco delle città. Il panorama urbano cambiò
rapidamente e radicalmente. Non in meglio.
Crainz (1996) indica come paletto della svolta che avvenne
nel Paese il 1958. In questo anno avvennero alcuni fatti
significativi: morì papa Paolo VI e ascese al soglio pontificio
Giovanni XXIII (che parlò ai «fratelli separati», di pace e
giustizia sociale); si inaugurò l’autostrada del Sole (con il
boom delle auto rispetto al trasporto pubblico); si chiusero le
«case chiuse» con la legge Merlin. Ma a dare il segno dei
tempi contraddittori avvenne che il vescovo di Prato
scomunicasse (appoggiato dalla chiesa ufficiale e dalla stampa
cattolica) due sposi che avevano celebrato il loro matrimonio
con il solo rito civile: li definì «pubblici concubini».
Il quadro politico cambiò: i comunisti dovettero uscire dal
Governo. In oltre, già da qualche anno, erano iniziati i primi
episodi di forte protesta da parte di chi aveva lavorato
duramente senza aver ottenuto adeguati riconoscimenti.
Un’ondata di scioperi attraversò l’intro Paese, contrastati
duramente dalla polizia. Le condizioni di vita dei poliziotti
erano altrettanto difficili di quelli che protestavano: male
equipaggiati e malamente comandati, guadagnavano assai
poco, vestivano e mangiavano male. Qualche anno dopo
Pasolini li avrebbe definiti proletari in divisa. Lo erano da
tempo.
La polizia fu lo strumento di ministri (a cominciare dal
tristemente noto Scelba, e poi da Taviani e da Gonella)
terrorizzati dai comunisti infiltrati nella società; a parer loro,
nella scuola, nelle imprese culturali, perfino nella RAI (accusa
curiosa visto che questa era saldamente in mano ai vertici
nominati dal Governo) e nei sindacati.
Furono anche gli anni che videro una crescente presenza
della CISL e delle ACLI che ebbero un ruolo importante accanto
alla cgil. La sindacalizzazione fu un volano fondamentale per la
partecipazione sociopolitica di un numero sempre maggiore di
cittadini.
Si parlò di congiura comunista proprio mentre si iniziavano
a tessere le trame tra i vertici militari (e dei servizi segreti) e i
vertici politici per una difesa (non pacifica) dei valori
dominanti; il generale Di Lorenzo mise a punto il suo piano
sovversivo certamente non ostacolato da chi avrebbe potuto e
dovuto farlo.
Si arrivò fatalmente ai «morti in piazza». Genova e Reggio
Emilia sono state tappe tragiche dello scontro tra uno Stato
autoritario (anche perché debole) e i nuovi protagonisti della
protesta: quei giovani lavoratori che stavano maturando una
grande sfiducia nelle istituzioni che si servivano della
repressione anziché cercare un dialogo sicuramente possibile.
Negli anni cinquanta, nel Paese regnò una grande
confusione che spaventò ovviamente i pavidi borghesi sempre
in allarme. Le manifestazioni di piazza marcarono
decisamente la suddivisione tra due gruppi contrapposti: quelli
che allora non si aveva il timore di definire destra e sinistra.
Il Paese faceva fatica a diventare moderno: era spezzato tra
un Sud (dalla grande povertà nelle campagne e dalla pervicace
e rigida tradizione nelle relazioni sociali e politiche) e un Nord
che tentava la via della modernità nel lavoro e nella
partecipazione politica nei partiti e nei sindacati.
Il cambiamento necessario non decollava. La politica dei
vertici DC stentava (o non voleva) a comprendere e guidare
quanto stava cambiando nel paese.

2. Il Paese povero e incolto


In quegli anni, l’Italia era un Paese povero anche dal punto
di vista culturale: pochissimi leggevano libri e giornali, non
molti frequentavano le scuole dopo l’obbligo e ancor meno
arrivavano all’università. Chi ci riuscì sarebbe entrato a far
parte della classe dirigente del Paese: avrebbe avuto non poche
possibilità, certamente molto maggiori di quelle che avevano
avuto i loro genitori.
Gli svaghi erano modesti: alla domenica i più giovani
andavano a ballare, molti passeggiavano per le vie del centro;
per i bambini c’era la speranza di un gelato.
Il cinema era il passatempo preferito: una sorta di rituale
laico (il pomeriggio della domenica, il sabato sera)
appassionante. Le storie sullo schermo alludevano (sempre
pudicamente) a piccole trasgressioni (forse) possibili anche per
la gente comune. Amare fanciulle bellissime, ribellarsi ai
prepotenti. Era facile identificarvisi, sognare per un’ora.
Il cinema italiano dell’immediato dopoguerra si aprì con la
stagione del neorealismo. Roma città aperta (Rossellini, 1945)
fu il manifesto della retorica buona della Liberazione da
fascismo e nazismo. La scena finale mostra una fila di poveri
orfanelli (forse non solo dei genitori caduti in guerra, ma
anche dei valori che stavano franando) andati a salutare per
l’ultima volta il loro prete buono che ha scelto «da che parte
stare» (assieme al comunista onesto e coraggioso) e per questo
fucilato. La scena in cui Pina (Anna Magnani) urla verso il
camion che porta via il suo uomo e cade morta sulla strada, tra
gente spaventata e nugoli di militari tedeschi e fascisti, fu ed è
tutt’ora un richiamo lacerante alla coscienza (e all’emozione)
degli spettatori.
Erano film che facevano pensare: come Sciuscià (1946) e
Ladri di biciclette (1948), entrambi di De Sica. Non tutti
ebbero un grande e immediato successo: molti tra gli spettatori
pensavano soprattutto a fuggire dalla miseria della guerra e del
dopoguerra. Ebbe così buon gioco Andreotti a suggerire che
era meglio «lavare i propri panni sporchi in famiglia»: la sua
parte politica fu sicuramente d’accordo.
Questi film vanno considerati oggi uno straordinario museo
antropologico: i registi portarono la macchina da presa nelle
strade, mostrando le vie con i segni dei bombardamenti e i
poverissimi vestiti dei passanti, gli oggetti umili, le biciclette
come unico mezzo di locomozione. La gente sullo schermo
parlava ancora i dialetti. Da notare, però, che in tutti i film
italiani del periodo non comparissero operai e fabbriche,
malgrado molti registi dichiarassero forti simpatie di sinistra;
si limitarono alla denuncia del mito della borghesia
(ovviamente) «decadente».
Nello stesso periodo arrivò dagli Stati Uniti un film di culto
come La vita è meravigliosa (Frank Capra, 1946) che era il
manifesto dell’ottimismo americano e del lieto fine
cinematografico; altri film, sempre americani, che lo seguirono
mostrarono case (al confronto) ricche, donne belle ed eleganti,
relazioni sociali naturalmente «democratiche». Non deve
quindi meravigliare che gli spettatori fossero portati a preferire
questo tipo di cinema e cominciassero a essere sedotti dal
sogno americano. Si mostravano nuovi (e possibili) modi di
vivere certamente migliori di quelli della maggioranza degli
spettatori.
Passati pochi anni ebbe inizio la stagione dei «poveri ma
belli»: film in cui ragazze e ragazzi normali vivevano la
stagione (felice e «litigarella») dei loro amori, nella
prospettiva di un avvenire (modesto) di lavoro e famiglia.
A questi se ne affiancarono altri di non eccelsa qualità che
basavano il loro successo mostrando affascinanti creature (le
maggiorate) che diventeranno presto famose, come la Loren e
la Lollobrigida. Le donne «oggetto del desiderio» erano anche
presenti in altri due generi di successo. Il primo celebrava il
teatro leggero: l’avanspettacolo che seguiva la proiezione di
un film nei cinema di periferia, frequentati prevalentemente da
uomini attratti da ballerine con costumi (per allora) succinti e
da comici che facevano grande uso di doppi sensi da caserma.
È quanto veniva mostrato in Vita da cani (Steno e Monicelli,
1950) e in Luci del varietà (Lattuada e Fellini, 1950).
Il secondo, di ancor maggior successo popolare, vedeva
protagoniste formose eroine: innocenti, calunniate e vittime di
tragici eventi. Erano i film di Matarazzo: il trittico Catene
(1949), I figli di nessuno (1951), Tormento (1950) con
protagonisti Yvonne Sanson e Amedeo Nazzari. Erano i
capolavori del genere strappalacrime. In questi film si
recitavano battute come «mi struggerò in ricordo del nostro
amore, della nostra perduta felicità», «ti amo come prima, più
di prima» (Brunetta, 1991).
Nel gusto dei più semplici erano molto simili ai
fotoromanzi: anche in questi si parlava di donne di modesta
condizione che «cadevano per poi risorgere», con un
immancabile lieto fine dopo molte lacrime. Storie elementari
in cui le immagini sostituivano le parole per un popolo in via
di alfabetizzazione di massa.
Il fotoromanzo di maggior successo (Grand Hotel) arrivò a
tirare un milione di copie. Anche i bambini avevano le loro
strisce: «Topolino» e «L’Intrepido» erano i più diffusi. Si
calcolò che questi fumetti arrivassero a tirare due milioni di
copie ogni settimana.
Un genere popolare per eccellenza furono anche i film di
Totò; un surreale-pop che, oggi, molti riabilitano esagerandone
i pregi come altri, commettendo l’errore opposto, li avevano
sistematicamente denigrati alla loro uscita.
Un film ha mirabilmente rappresentato questo tempo
(storico e cinematografico): Una vita difficile (Risi, 1961). In
questo, un partigiano che aveva creduto nei valori della
Resistenza e nei tempi nuovi del dopoguerra si prestava a fare
mille lavori, modesti ma «impegnati», pur di non tradire le
proprie idee. Fino a rifiutare un lavoro molto vantaggioso
(offertogli da un «padrone») preferendo guadagnare molto di
meno scrivendo per un giornale di sinistra. Con una scena
memorabile: quella in cui il protagonista (un fantastico Sordi),
all’alba in Versilia sputa sulle auto di passaggio,
presumibilmente di ricchi borghesi: è un voler continuare a
sentirsi diverso anche se sconfitto. La morale, molto amara,
arriva però nelle ultime sequenze: per non perdere la moglie,
molto amata, ritorna da lei presentandosi con un’auto lussuosa.
Alla sua domanda («come ci sei riuscito?») risponde di essersi
«arrangiato come tutti!». Una battuta che spargeva cenere sulle
illusioni di molti che fosse possibile arrivare a una società
diversa e più giusta.
In molti casi il cinema italiano di questi anni sarebbe stato
lo specchio abbastanza fedele della difficile e confusa via al
cambiamento della società italiana del tempo. Ben diverse e di
maggior impatto furono invece le proposte (come contenuti e
modi di raccontarle) che venivano dai film americani. Basti
citare alcuni titoli: Da qui all’eternità (1953), L’amore è un
cosa meravigliosa (1955), I dieci comandamenti (1956),
Fronte del porto (1954). Parlavano di un mondo nuovo e
lontano che appariva straordinario: era quello della gente
comune che si faceva rispettare e viveva bene. Vi si narrava
una società «moderna».
A livello popolare grande successo riscuoteva la musica: a
Sanremo, cantanti melodici e canzoni alquanto melense,
parlavano in rima di «cuor e amor» per un pubblico semplice.
Era un appuntamento imperdibile. Mentre Nilla Pizzi
coinvolgeva l’intero paese con Grazie dei fior (1951),
ascoltata alla radio, in Francia J. Greco cantava nelle caves
ben altri tormenti nella stagione dell’esistenzialismo.
Qualcosa però stava cambiando. Un forte segnale fu il grido
a braccia distese di Modugno che cantava Nel blu dipinto di
blu: il Paese sembrò buttare via di colpo le melodie
tradizionali per rivolgersi, almeno i più giovani, a quanto
proponevano i nuovi cantanti.
Erano «segnali in musica» di una prima modernità che i
jukebox trasmettevano ad altissimo volume (assieme al rumore
delle palline dei flipper) nei bar diventati luoghi di importante
aggregazione e/o socializzazione laica e non politicizzata. I più
audaci alternavano la Coca-Cola con il whiskey. Bastava per
sentirsi moderni. Chi li frequentava (anche le prime coraggiose
ragazze) poteva parlare liberamente di amore e di sogni per il
futuro.
Poco più tardi sarebbero apparsi i mangianastri per ballare
in spiaggia o ascoltare la musica con gli amici. Grazie a questi
mezzi e a un’accorta politica discografica (che mirava a questo
nuovo pubblico) si imposero i cantautori. Era cominciata la
fuga dalla noia con la prospettiva di poter «giocare» e
divertirsi: «la notte è piccola per noi» cantavano le algide
gemelle Kessler.
Mina e Celentano apparvero come «due lampi» (Berselli,
1999) che squarciarono il cielo sereno dell’Italietta provinciale
e fecero impazzire il grande pubblico. Fecero scandalo per il
loro modo di presentarsi e atteggiarsi, per il loro modo di
vestirsi, per come cantavano le parole dei loro testi.
Mina incarnò l’inedito modello di una donna che sceglieva
la propria vita e i propri amori senza curarsi delle critiche dei
benpensanti. Invece Celentano, malgrado il rock, arrivò
piuttosto rapidamente a «un’irrefrenabile e fastidiosissima
vocazione pedagogico-religiosa» (Berselli, ibid., p. 28) con
frequenti irruzioni in un ecologismo di maniera, anche se
innovativo per quei tempi.
Erano due modi, contrapposti, di una voglia di trasgressione
che andava contro le indicazioni delle due Chiese e della loro
morale. Parafrasando la Heller, era la banalità del «voler
essere diversi», non alternativi.
Seguirono l’ironia di Carosone e l’estro «da finto duro» di
Buscaglione. Poi arrivarono i due «ragazzi per bene», anche se
yé-yé, Morandi e Pavone. Cantavano brani semplici che
piacevano anche a coloro che erano rimasti alle canzoni
melodiche. Erano pezzi da ascoltare alla radio insieme con gli
amici e i compagni. Uno di quei «ragazzi per bene» cantò
(censurato) di un suo coetaneo americano che era andato a
morire in Vietnam.
Restava però anche la voglia di divertirsi con le canzoni
(tutte pinne e occhiali) di Vianello. Era il mare dell’estate.
Molto lontano da quello esotico dove si ballava il calypso di
Belafonte o dai brividi antirazzisti degli «angeli neri» di
Marino Barreto nei locali milanesi.
Ma un segno importante della svolta fu l’esplodere del rock
and roll: la musica importata dagli States, all’inizio cantata in
qualche locale e poi, per la prima volta, in uno stadio (il
palazzo del ghiaccio di Milano). Una musica urlata, ma
soprattutto ballata, da giovani che adesso utilizzavano una
particolare divisa: i blue-jeans.
I giovani erano, ormai, un gruppo diverso e sempre più
lontano dai loro padri da cui presero sempre più le distanze.
Questi ultimi ovviamente condannarono il fenomeno
chiamandoli gioventù yé-yé, teddy-boys, poi «capelloni»,
prendendo spunto da qualche loro ingenua forma di protesta; i
più coraggiosi tra loro, nelle piazze delle grandi città, si erano
mostrati con capelli e barbe lunghe, le ragazze con sottane a
fiori. Fu una rivolta solo immaginata e ideale: si sognava una
società diversa ma irrealizzabile: senza lavoro, niente guerre e
solo amore.
Furono, comunque, un importante aspetto del cambiamento
culturale che stava avvenendo in quegli anni; di ben maggiore
impatto rispetto a quello proposto dai cantanti impegnati del
gruppo Cantacronache che si rivolgevano al «compagno
cittadino, fratello partigiano… [per ricordare loro che] son
morti dei compagni per colpa dei fascisti…». Erano i tempi dei
«morti di Reggio Emilia», ma l’epica della Liberazione stava
ormai implodendo nei giovani borghesi.
Non si può parlare degli anni cinquanta senza ricordare
l’avvento della TV. Oggi, quelle immagini in bianco e nero
appaiono povere; ma, relativamente a quei tempi «grigi», fu
una bomba dagli effetti imprevedibili. Il piccolo schermo aprì
ad un mondo pressoché sconosciuto alla gran parte degli
italiani. La TV parlò di luoghi dell’Italia nascosta (con i
collegamenti dalle piazze) e, più timidamente, del mondo fuori
dai confini nazionali. Due realtà sconosciute ai più.
Il piccolo schermo creò le occasioni (e fornì i contenuti di
fondo) per una nuova e diversa identità collettiva. Quella
nazionale non era mai stata gran cosa (Livolsi, 2011) e quella
religiosa stava sbiadendo nel rifiuto del bigottismo
moraleggiante. Solo quella politica (le due Chiese) restava
forte, ma la TV cominciò a eroderla con la proposta di
contenuti (dal varietà e alle canzoni) che ne prescindevano
completamente. Erano suggestioni immediatamente
coinvolgenti perché divertenti, convincenti perché non
avevano l’aria di predicare né di insegnare.
Fin dall’inizio, la TV italiana ispirò il suo operare alla
missione di «servizio pubblico» declinato, in chiave
democristiana, nella pedagogia cattolica dei valori tradizionali.
Un velato disprezzo verso i suoi utenti (alcuni autorevoli
dirigenti dissero che lo spettatore medio non aveva più di 14
anni) fece ritenere che la promozione culturale dovesse
necessariamente coniugarsi con la divulgazione per poter
avere ascolto. Un esempio positivo di questo impegno fu Non
è mai troppo tardi del maestro Manzi: per molti adulti, ancora
analfabeti, fu come ritornare a scuola e imparare finalmente a
leggere.
A dare professionalità al mezzo (e valore ai suoi
programmi) contribuirono i cosiddetti «corsari» (coloro che
avevano partecipato ai corsi interni ed erano stati in seguito
assunti): tra questi Eco, Colombo, Vattimo, Guglielmi. Era una
vague molto milanese, destinata in breve a ridimensionarsi per
la crescente e prepotente centralità dei dirigenti romani.
Ma il grande traguardo fu la condivisione di un linguaggio
nazionale che contribuì a scalzare i dialetti dal parlare comune.
Piuttosto rapidamente gli italiani appresero anche una
semantica nuova, affascinati da un modo di raccontare facile e
piano con costrutti semplici e con poche parole, che passava
disinvoltamente da un argomento a un altro anche senza un
nesso immediato. Era un esercizio, nuovo ma piacevole, di
elasticità mentale, senza dover necessariamente tener conto dei
vincoli linguistici e culturali di sempre. Era il linguaggio
parlato della gente comune, ormai sdoganato per sempre.
Nella programmazione dei primi anni grande spazio ebbero
gli adattamenti letterari (gli sceneggiati) e il teatro, con una
generazione di grandi attori e registi che seppero coinvolgere
un largo pubblico.
Ad avvicinare un ampio pubblico alla TV furono, però, gli
entertainer (Mike Bongiorno su tutti e Tortora), i comici
(Tognazzi, Vianello, Chiari, Rascel, Bramieri), gli uomini e le
donne dello spettacolo (Scala, Manfredi, le Kessler).
Conducevano programmi di grande successo; spettacoli come
Un, due, tre o Canzonissima diventarono appuntamenti
imperdibili al sabato sera per un vasto pubblico. Per i più
semplici, il varietà era anche occasione di scandalo, quando
mostrava le lunghe gambe delle Kessler o faceva apparire
nella penombra una soubrette (Alba Arnova) che sembrava
nuda, o quando ricorreva a molti espliciti doppi sensi, ecc. Era
sentirsi moderni pur conservando un gusto ancora antico e
provinciale.
Tutto sembrava nuovo e divertente. E non sempre banale,
malgrado il parere negativo dei primi apocalittici. Il momento
culmine del successo del mezzo televisivo fu il trionfo di
Lascia o Raddoppia che riempiva le case dei non molti
fortunati possessori di un apparecchio televisivo costretti a
«ricevere» i vicini di casa. I bar si riempivano il giovedì sera,
alcuni cinema cittadini furono costretti a sospendere la
proiezione del film per mostrare sul grande schermo il gioco
televisivo.
Eco, nella bellissima Fenomenologia di Mike Bongiorno
(1963), celebrò il mito del campione della mediocrità e del
conformismo: non tutti compresero che parlava indirettamente
del pubblico a cui si rivolgeva e che in lui si identificava. Era
il mondo dell’italiano che voleva divertirsi e sognava, in cuor
suo, di poter diventare celebre facilmente e guadagnare molti
soldi rispondendo a qualche «domandina facile facile».
L’unica altra possibilità per sognare di uscire dalla propria
modesta condizione era vincere al Totocalcio.
Piuttosto rapidamente la TV italiana fece ricorso ad alcuni
programmi stranieri (Perry Como Show, Perry Mason,
Hitchcock presenta, ecc.). Ma il vero «contatto con il mondo»
fu quello di trasmettere alcuni grandi eventi in diretta: le
«grandi cerimonie dei media», come le avrebbero definite
Dayan e Katz (1993). Tra questi, il matrimonio di Grace Kelly
e Ranieri di Monaco, la morte di Pio XII e l’ascesa al soglio
pontificio di Giovanni XXIII, il primo volo spaziale di
Gagarin, ecc.
In tempi relativamente brevi, la TV seppe anche
sperimentare alcuni «generi» nuovi. Sicuramente i programmi
per i bambini: il mago Zurlì e lo Zecchino d’Oro, Topo Gigio,
caratterizzarono una felice stagione. Poi sarebbero arrivatati i
cartoni giapponesi; da quel momento il mondo dei bambini
iniziò ad essere abitato da mostri e violenza.
Ma la grande invenzione fu Carosello. Questo aveva una
sua particolare struttura: uno spettacolino di cinquanta secondi
(con attori famosi, come Virna Lisi e il suo meraviglioso
sorriso o «pupazzi» come Calimero) seguiti da un «codino» di
dieci secondi per presentare il prodotto. Carosello riuscì a fare
immediatamente accettare a un largo pubblico la pubblicità,
anche a chi era ideologicamente contrario ai consumi (da loro
definiti spregevolmente «consumismo») e rappresentò la
«grande illusione» per chi non poteva ancora permetterseli.
Erano le favole moderne dei bambini di allora e dei loro
genitori. Era un modo accattivante per esplorare nuovi modi di
vita: ad esempio, cosa mangiare, come arredare la casa, come
presentarsi agli altri nelle relazioni sociali o nei rapporti con
l’altro sesso. Una semplice ma efficacissima socializzazione a
una prima modernità culturale.
La peculiarità meno positiva della TV fu, fin dall’inizio,
l’informazione «allineata ai governi» e senza nessuno scrupolo
di pluralismo. Solo nel 1960, due giornalisti veri (e diventati
presto famosi: Ugo Zatterin e Gianni Granzotto) si
affiancarono agli annunciatori professionali che si attenevano
rigidamente ad una professionale lettura di testi scritti e
«asettici». Per molto tempo non si avvertì, da parte dei vertici,
alcuna necessità (o scrupolo) di approfondimento delle notizie.
Il Viaggio nella valle del Po alla ricerca di cibi genuini
(1957) e La donna che lavora (1959), entrambi di Soldati,
furono due tra i pochi esempi di inchieste, antesignane di temi
che sarebbero diventati in seguito assai dibattuti.
Restavano sempre molto scarsi (e di parte) i riferimenti al
sociale e all’attualità, come misero in luce i principali critici
televisivi che, all’avvento del secondo canale RAI nel 1961,
chiesero unanimemente che il nuovo canale se ne occupasse.
Ovviamente ciò non avvenne.
Era l’epoca di Bernabei, un fanfaniano di rigida osservanza,
ma di grande abilità professionale. A dare il segno della
perdurante scarsa vena di pluralismo va ricordata Tribuna
elettorale (poi diventata Tribuna Politica) in cui comparvero
leader di grande carisma accanto alle grigie maschere dei
«capi» (corrente) democristiani, a cominciare da Scelba. Una
sfilata di maschere plumbee che avrebbe caratterizzato
l’informazione televisiva per moltissimi anni. La politica
aveva capito la rilevanza del mezzo e se ne era impadronita.
Per fortuna non la seppe utilizzare al meglio.
Nel giro di circa dieci anni, la TV raggiunse un milione di
abbonati, circa 5-8 milioni di potenziali spettatori.
L’apparecchio televisivo era ancora piuttosto caro, ma i prezzi
si sarebbero abbassati e il reddito della piccola borghesia
urbana sarebbe salito.
Avere la TV diventò un obbligo. Era lo strumento necessario
per non sentirsi emarginati.

3. Le vie soggettive verso la prima modernità


Alla fine degli anni cinquanta per molti ma non per tutti
italiani la povertà era sul punto di essere vinta. Era diventato
possibile progettare un modo di vivere come fino ad allora non
si era neppure pensato possibile: in particolare dedicando una
parte del reddito familiare a consumi non strettamente legati
alla sopravvivenza.
Al di là delle immediate apparenze (i segni della guerra
erano ancora visibili) si mise in moto, senza che gli stessi
protagonisti se ne rendessero del tutto conto, una sotterranea
discontinuità rispetto al passato anche recente. Più nel privato
nel pubblico, nella vita «di tutti i giorni», anche se il pubblico
restava centrale nella vita degli italiani. La politica era ancora
importante.
Avvenne però che nelle case (almeno nelle città) alcuni
ambienti mutassero radicalmente: gli elettrodomestici
cominciarono a essere indispensabili, i mobili «svedesi»
sostituirono vecchie madie e credenze. Si mangiava di più e
meglio, anche se resistevano vecchie abitudini: come ad
esempio pranzare a casa a mezzogiorno anche da parte di chi
lavorava.
I più giovani inaugurarono timidamente alcuni rituali:
uscivano la sera magari, i più ricchi usando la macchina del
babbo; qualcuno aveva lo scooter. I più innovativi
organizzarono le prime feste a casa dei genitori (quelli più
aperti), ascoltando cantanti e canzoni allora di moda, in stanze
poco illuminate e bevendo qualche liquore. I più audaci
(pochi) presero a viaggiare all’estero.
Le loro mamme (quelle più abbienti anche se non ricche;
giovani, ma non giovanissime) furono attratte da una nuova
avventura: cominciarono a personalizzare il proprio
guardaroba. Essere alla moda con vestiti già confezionati era
alla portata di (quasi) tutte. Ma emozioni ben maggiori le
giovani donne le sperimentarono nel poter finalmente
scegliersi fidanzati e mariti; le più audaci, con chi e dove
andare in vacanza.
Tutti lavoravano o studiavano. Il termine disoccupato si
riferiva solo a chi era molto sfortunato o aveva poca voglia di
lavorare. Andare a votare era un dovere accettato e condiviso:
il numero dei votanti sfiorò il 90% degli aventi diritto nelle
elezioni di quegli anni. Chi non ci andava non se ne vantava. Il
voto si rifaceva, in genere, ai valori tradizionali della propria
famiglia. I tre partiti maggiori raggiunsero circa il 75% del
totale di voti; chi non li votava non lo faceva per protesta o
sfiducia ma per particolari ragioni familiari o culturali.
C’era un aspetto del sociale che colpiva i turisti che
cominciavano a venire nel nostro Pese: la convivialità.
Specialmente nelle piccole città del Centro-Sud vi erano
ancora luoghi dove si poteva stare a lungo a conversare con gli
amici. Rituali che mettevano insieme tradizione e tempi nuovi
nella cornice naturale di luoghi splendidi (i monumenti, le
chiese, certi caffè o ristoranti) e ottimo cibo e buon vino. La
vita in questi luoghi sembrava scorrere secondo un copione
antico: un esempio di società integrata, dove tutti facevano il
loro dovere e non esistevano (o così sembrava) forti tensioni
sociali.
Più comune e più reale era un’altra Italia, anche se meno
conosciuta e ricordata: quella del lavoro e della famiglia e dei
rapporti sociali nella quotidianità. Un’Italia, con i suoi rituali e
convenzioni, che si esprimeva prevalentemente nelle relazioni
con i familiari e gli amici, che ascoltava la musica alla radio e
la domenica andava al cinema, che diceva di fidarsi ancora dei
politici. Anche se, nella gran maggioranza, non avvertiva
ancora cosa sarebbe successo, nel giro di pochissimi anni, nel
mondo che stava arrivando.
Non era più l’Italia della rassegnazione, ma quella della
speranza. Adesso si poteva pensare al futuro e non restare più
inchiodati a un presente fatto di problemi (difficili da
risolvere) e povertà. Adesso era possibile progettare un proprio
destino, non dando retta ai saggi o ai potenti (che venivano
ascoltai sempre meno) ma fidandosi e confidandosi con chi
condivideva le stesse esperienze. Molti impararono a farlo con
il proprio coniuge che non si era scelto, come nel passato, per
convenienza.
Erano fatti nuovi e importanti anche se apparentemente
banali: suggerivano che la propria vita poteva essere
considerata un progetto e non più come le pagine già scritte di
un destino deciso da altri. Fu l’inizio dell’avventura degli
italiani che vivevano, sia pure tra mille incertezze e difficoltà
reali, in un Paese che si stava avviando alla prima modernità.
Per la gran parte degli italiani la cultura alta (una certa
istruzione, la scuola frequentata dopo l’obbligo, i libri
importanti, ecc.) cominciò ad avere minor peso nel suggerire
come vivere la propria vita.
Sicuramente, per molti italiani, qualcosa di più venne dalla
cultura bassa (o midcult) che si stava sempre più diffondendo
in quegli anni: dal cinema, dalla musica, dai programmi
televisivi. Furono i segnali (solo apparentemente deboli) di un
importante cambiamento socioculturale che si stava mettendo
in moto. Contrariamente a quanto ne dissero i primi
apocalittici, non si trattò sempre di temi e suggerimenti banali.

4. Gli anni del miracolo


Malgrado i fermenti nuovi in campo culturale, continuò la
delega a chi «era al potere» da parte della maggioranza degli
italiani. La DC gestì i governi che si succedettero fino al 1963:
PSI e PCI restarono una (forte) minoranza.

Continuava l’intenso impegno collettivo nel lavoro.


Qualcuno, nel Nord, divenne un imprenditore di successo: ad
esempio, un nostrano padrone «con il cuore in mano» (e il
gioco facile) fu il mitico Borghi; produceva frigoriferi e
sponsorizzava squadre sportive, parlando un italiano dalle forti
inflessioni dialettali.
Chi studiava lo faceva con impegno. Bocciature ed esami di
riparazione erano messi in conto: la scuola era severa.
Importante era comunque andare avanti: un diploma o una
laurea erano il traguardo (o il sogno) dei genitori che facevano
grandi sacrifici con la speranza di dare un futuro migliore ai
propri figli.
Nelle regioni settentrionali continuava a soffiare il Vento
del Nord. La partecipazione politica si realizzava nelle
organizzazioni dei partiti (cellule o sezioni) o nelle
associazioni cattoliche o nelle parrocchie.
Nelle campagne l’occupazione delle terre e le successive
riforme agrarie, anche attraverso i contributi statali gestiti dalla
Coldiretti, garantivano (non a tutti) un livello minimo di una
vita dignitosa: il cibo era quello che si produceva direttamente
e moltissimi vivevano da sempre nelle case di proprietà
familiare.
I più poveri continuarono a emigrare, adesso anche verso le
città del Nord: quelle delle grandi fabbriche. Milioni di
immigrati rinforzarono un esercito di mano d’opera a basso
costo. Nei luoghi di arrivo, le condizioni di abitazione e di
lavoro erano difficili; vi furono anche non pochi fenomeni di
emarginazione. A Torino gli immigrati erano costretti ad
abitare nelle case di un centro deteriorato, a Milano nelle più
lontane e povere periferie. I nativi erano diffidenti e scostanti,
ma non del tutto ostili. C’erano diffuse prese in giro (venivano
chiamati «terroni»), ma non avvenne nulla che si potesse
definire razzismo o reale esclusione. Grazie alla loro tenacia
(povertà e difficoltà non erano esperienze per loro nuove;
adesso, però, c’era la speranza di un futuro migliore), la gran
parte di loro si integrò in tempi relativamente brevi. (Livolsi,
1967).
C’erano indubbiamente anche lati positivi, oltre al lavoro.
Per le donne vi era maggiore rispetto, per i giovani erano
possibili esperienze nuove nel tempo libero (le balere, il
cinema), il corteggiamento senza pesanti riprovazione o rischi.
Le mafie erano al momento ancora confinate nei loro luoghi
tradizionali.
Il boom era stato il miracolo di un esercito di lavoratori a
basso costo e grande impegno. Lungo tutti gli anni cinquanta
la mitica classe operaia, a cui si riferivano puntualmente i
discorsi e i documenti del PCI, era in realtà un gruppo sociale
poco conosciuto. Chi ne faceva parte abitava nelle periferie
delle grandi città e lavorava nelle grandi industrie, allora per i
più un luogo quasi misterioso.
Gli operai trovarono voce e protezione nei sindacati, più
che nei partiti. La loro controparte era un padronato (poco
illuminato) che imponeva difficili condizioni di lavoro e bassi
salari.
I sindacati, nel corso degli anni cinquanta, passarono da
circa 2 milioni a poco più di 1,2 milioni di iscritti a riprova di
una periodo difficile e dalle scarse e difficili conquiste. Ma
qualcosa stava profondamente cambiando grazie a due nuovi
«attori collettivi»: i giovani e gli immigrati. Specialmente i
primi furono i protagonisti di lotte dagli obiettivi non solo
economici ma anche politici. Erano i giovani con le «magliette
a strisce» (e non in tuta, nelle foto del tempo) che si
scontravano con la polizia nelle manifestazioni che lasciavano
a volte anche qualche morto sulle strade. A quei giovani
appariva assurdo che una società, nata in nome della libertà e
della democrazia, continuasse ad accettare condizioni sociali
«antiche», dove a comandare (in politica e nell’economia)
erano «sempre gli stessi» e non sembrava esserci nessuna
imminente prospettiva di cambiamento. Era anche comune
convincimento che le trasformazioni del Paese non fossero
guidate, per inadeguatezza, dalla politica e che il sistema
capitalistico si limitasse a cercare una maggiore produttiva nel
lavoro, senza impegnarsi nella ricerca di nuovi modi di
produrre o di nuovi prodotti.
Le macchine si fabbricano sempre nello stesso modo, alla
catena di montaggio. Le condizioni di lavoro erano sempre
durissime, i salari restavano bassi. Non bastava avere una
piccola moto e sperare di potersi sposare dignitosamente. Si
cominciò sempre più a sentire di avere diritti (fino ad allora
poco riconosciuti) e non solo doveri (lavorare duro senza
protestare). Era lo stesso sentimento che provano i giovani da
poco scesi dai treni che venivano dal Sud: per questo
affiancarono naturalmente i loro coetanei anche senza
pregresse appartenenze politiche nelle due Chiese (quella
bianca e quella rossa) e conoscendo a stento «cosa sono e cosa
fanno» i sindacati.
L’insoddisfazione era un fermento sociale diffuso: basti
pensare, in campo cattolico, al ruolo della CISL e delle ACLI
rispetto ai governi a stabile conduzione democristiana. Si
aspirava a una società diversa. Fu il germe della protesta che
emergerà, con ben altra «coscienza», qualche anno dopo.
Il periodo delle grandi lotte operaie (1960-63) ebbe inizio
con la grande manifestazione di Genova (contro i missini e
con il governo Tambroni che scelse la linea dura della
repressione poliziesca), poi si diffuse in varie città del Nord
(basti pensare alla canzone sui morti di Reggio Emilia) e del
Sud. Divenne una sorta di conflittualità permanente che vide
continui scioperi e manifestazioni con cortei (fatto abbastanza
nuovo per quei tempi) che attraversavano le città, in
particolare a Torino e Milano.
Il suono dei fischietti ne fu la colonna sonora sempre più
forte. Un suono nuovo: suscitò speranze ma anche timori.
Nelle città industriali, un canale importante di
partecipazione era quello offerto dalle organizzazioni
sindacali; queste ottennero miglioramenti nelle condizioni di
lavoro, sicuramente si batterono per una maggiore dignità e il
riconoscimento dei diritti fondamentali dei lavoratori, anche di
quelli appena arrivati. Le lotte, dure, sarebbero arrivate in
tempi brevi.
I traguardi condivisi e adesso possibili erano: lavorare,
sposarsi, avere una casa, far studiare i figli.
Il mondo delle periferie delle grandi città era il teatro di
queste trasformazioni, sociali prima che politiche: i nuovi
quartieri e le strade con auto e moto ne erano la prova
immediata e evidente. Le fotografie del tempo ne sono una
testimonianza diretta. Ovviamente quelle che si riferiscono
alle grandi città del Nord (Milano, Torino). Altrove, ad
esempio a Roma, il panorama urbano era quello dei ricchi o
dei piccolo-borghesi. Qui giocava un altro tipo di
emarginazione sicuramente più profondo, quello delle periferie
estreme. Ne parlava con grande partecipazione Pasolini.
Mentre andavano crescendo i consumi privati,
continuavano a essere assolutamente deficitari quelli sociali:
case, ospedali, scuole. Erano i capitoli mai affrontati, malgrado
il continuo e astratto discorso dei politici relativi alle riforme
necessarie e urgenti.
La faticosa marcia verso il «nuovo e diverso» procedette
comunque, sia pure lentamente. La politica non seppe gestire il
cambiamento sociale: anzi sembrò ignorarlo. Un germe che
avrebbe portato alla crisi degli attori collettivi e,
conseguentemente, al sorgere di un progressivo e forte
individualismo. Del resto questo era un carattere degli italiani,
da sempre.
Eppure fu quella la stagione dei grandi sogni nel mondo
intero suggeriti da tre grandi personaggi: Kennedy (e la nuova
frontiera), papa Giovanni XXIII (e le sue encicliche, tra cui la
«rivoluzionaria» Pacem in terris, e il rispetto per i non
credenti), Chrušcˇëv (e la sua coraggiosa denuncia dei crimini
dello stalinismo).
Martin Luther King gridò di avere un sogno: nel corteo che
lo seguiva, Joan Baez e una grande folla cantarono «we shall
overcome». Probabilmente molti ci credettero: più in tutto il
mondo che non negli States. Il predicatore nero sarebbe stato
ucciso e le Pantere Nere avrebbero imboccato una strada nella
quale non furono seguite neppure dai loro fratelli. Mohammed
Alì rinunciò al titolo mondiale (e a grandi guadagni)
affermando che nessun vietcong lo aveva mai chiamato
«sporco negro».
Erano messaggi fulminanti per chi viveva nella quiete del
piccolo Paese Italia. Si stavano svegliando coscienze
addormentate. Sarebbe accaduto in poco tempo.

5. Il sociale marciò più veloce della politica


Fu mediante i suggerimenti della cultura popolare che si
imboccò, irreversibilmente, la via dell’italian dream.
Dalla musica pervenne il segnale più forte del
cambiamento. I divi del tempo erano ancora Mina e Celentano,
ma presto furono affiancati dagli urlatori (Dallara tra tutti) e
dai complessi (Equipe 84, I giganti, I nomadi). La vera svolta
avvenne però con l’arrivo dei cantautori. La loro fu una sorta
di piccola rivoluzione: cambiarono la musica, le parole,
l’interpretazione.
In particolare, i testi, che uscirono dalle rime baciate e da
un vocabolario elementare per raccontare storie o situazioni in
cui era facile immedesimarsi. Era la «parola cantata», una
nuova e accattivante forma di poesia.
Ma fu però nell’interpretazione che si avvertì
immediatamente il nuovo: le voci suggerivano
immediatamente uno stile particolare. Bastavano poche note e
poche parole per accorgersene. Iniziò Paoli, seguirono Bindi,
Tenco e Lauzi, la cosiddetta scuola genovese. Le loro canzoni
avevano anche una linea melodica diversa: si rifacevano più
alle canzoni francesi o inglesi, con qualche accenno al rhythm
and blues e al rock. La tradizionale canzone all’italiana sparì
in fretta.
In queste canzoni si narravano storie di tutti i giorni, di
amori non convenzionali, delle strade e della natura, ma
adesso il mare e i fiori erano più veri. C’era perfino qualche
accenno gozzaniano, come nel «gusto un po’ amaro delle cose
perdute…» (Paoli).
Parlavano di una certa insofferenza di vivere nelle
consuetudini (strette) della società «vecchia»; di opposizione
personale (più che di una ribellione collettiva) al quieto vivere
borghese; di amori non necessariamente avviati al matrimonio
e del rifiuto di accettare una vita senza sogni. Si cantava il
«mal di vivere», un’estraneità che veleggiava verso i lidi di
un’anarchia non violenta. Il cielo in una stanza e Sassi di Paoli
(con le sue chiacchierate storie amorose), Ritornerai di Bindi
(che aprì all’omosessualità fino ad allora nascosta), Teresa di
Endrigo (che continuava ad amare una donna che lo aveva
tradito), Modugno (Resta cu’mme) che desiderava che la sua
donna ritornasse «malgrado tutto», furono la «buona novella»
per coloro che non si riconoscevano più nella tradizione e
nelle convenzioni. In tempi di un ancora riconosciuto delitto
d’onore non era poca cosa.
E poi Tenco: le sue canzoni (Mi sono innamorato di te,
Lontano, lontano) parlavano di un poeta incapace di lottare
con le avversità di un mondo (non solo quello discografico)
difficile; non erano facili ma erano bellissime. Erano come i
sogni ancora confusi di molti giovani.
Negli stessi anni iniziò l’invasione musicale «born in the
USA»: dal mitico Presley ai melodici come Paul Anka o Pat
Boone. Il rock italiano (Bobby Solo, Little Tony) aveva una
ben più modesta carica eversiva. Del resto, il confronto tra
duri e melodici era ben rappresentato dalla sfida, al vertice
della scena musicale mondiale, tra Beatles e Rolling Stones:
due partiti ancora rappresentati ai nostri giorni e senza
possibilità di compromesso. I Beatles fecero una comparsa a
Milano; il pubblico che assistette al loro show fu piuttosto
scarso.
Più numeroso fu quello dei complessi rock italiani che
gridavano «che colpa abbiamo noi se non siamo come voi»
rivolgendosi agli adulti borghesi chiusi nelle loro case a
guardare la TV. Mal sosteneva che anziani e benpensanti gli
«tiravano le pietre»; la Caselli affermava con grande decisione
che Nessuno mi può giudicare Canzoni che segnarono la
giovinezza di molti e divennero un riferimento importante
nella loro socializzazione (almeno un po’) diversa. Ascoltarle
era sufficiente per capire che si viveva in un mondo che
andava mutando.
Erano gli anni che Patty Pravo cantava al Piper. In alcune
piazze delle grandi città arrivarono i capelloni e le minigonne,
con grave scandalo dei benpensanti (e del loro portavoce, il
«Corriere della Sera») rimasti poi del tutto spiazzati quando gli
stessi giovani andarono a spalare fango in occasione
dell’alluvione di Firenze del 1966.Qualcuno si ricredette: forse
quei giovani non erano solo sporchi e fannulloni. Ma ancora in
pochi.
Quei giovani non erano dei rivoluzionari e non riuscirono a
esprimere una cultura realmente alternativa. L’accostamento al
Movimento Beat americano (Ginsberg, Kerouac, Ferlinghetti)
fu il tentativo (non riuscito) di dare una dignità a un
movimento che si limitava a predicare la non violenza
(«mettete dei fiori nei vostri cannoni»). Ben pochi tra loro si
misero «on the road» in Europa, e quasi nessuno era italiano.
Venne sbrigativamente definita la «rivolta yé-yé». Era,
comunque, il segno dell’irrequietezza che stava montando tra i
giovani. Anche se lontani, il Che, Mao e le rivolte dei neri in
America, facevano riflettere i meno distratti dalle (ancora)
modestissime follie del sabato sera.
Più che da studi e saggi delle scienze sociali (in quei tempi
al loro debutto in Italia), il cambiamento in corso fu narrato da
due capolavori del cinema italiano, allora oggetto di un
qualche scandalo: Rocco e i suoi fratelli (Visconti) e La dolce
vita (Fellini), entrambi del 1960.
Qui li considereremo semplicemente due interpretazioni di
una stessa stagione da due prospettive diverse, come lo erano
le due città in cui erano ambientati. Da un lato, la Milano
industriale, dall’altro la Roma dei nuovi borghesi (un po’
cafoni) e della vecchia nobiltà. Due realtà che più diverse non
avrebbero potuto essere.
Milano nebbiosa, moderna, ancora con un piede nel recente
passato che stava per gettarsi alle spalle. Visconti ambientò la
sua storia nei luoghi meno belli e famosi della città per narrare
le storie intrecciate di una famiglia appena immigrata: una
madre persa (per sempre) nel suo passato, due fratelli che si
perderanno invece inseguendo sesso e denaro facile e altri due
che si salveranno diventando milanesi (da sempre, non
occorreva nascervi per esserlo) e insieme cittadini dell’Italia
del miracolo economico. Un film dalle tinte forti (nasce da una
novella di Testori), dall’accentuata impronta ideologica e con
un messaggio chiaro: il futuro sarebbe stato di chi accettava di
integrarsi nella «vita nuova», lavorando come operaio in una
grande azienda moderna o studiando (all’Istituto Tecnico)
come si immagina avrebbe fatto il fratello minore. Sono loro
due che, nell’ultima scena, si salutano sorridenti sicuri del loro
futuro: sullo sfondo una fidanzatina del fratello maggiore che
sarà la mogliettina che vivrà con lui nell’appartamento di
periferia, come cantava Jannacci. Ma sono le inquadrature
relative al viale che porta alla fabbrica (con qualche piccola
vettura e moto parcheggiate ai margini), con le case popolari
(povere, ma assolutamente dignitose), che danno un’idea del
tempo e del cambiamento verso un modesto benessere. Anche
per chi aveva iniziato la sua avventura milanese abitando in
una cantina mal sopportando un freddo (la neve e il gelo) che
non aveva mai conosciuto. I due fratelli, più belli e affascinanti
(quelli a cui avrebbe dovuto arridere il successo) si
distruggono tra loro. Una metafora sui miti del passato
(bellezza, forza fisica, coraggio) che non hanno più valore
nella società industriale.
Il passato è, invece, molto presente nel film di Fellini,
rappresentato dalla nobiltà nera che sembra sopravvivere a
stento, occupata com’è in riti obsoleti e ormai privi di senso.
Sono maschere, non uomini e donne. Come sono maschere
(ma sicuramente più belle e intriganti) quelle dei protagonisti
mondani delle serate di via Veneto, in particolare delle prime
star cinematografiche. Ripresi, con un accanimento
professionale che diventerà famoso, dai paparazzi e da un
giornalista mondano che li osserva con profondo scetticismo e
nessun coinvolgimento. Incredibilmente la scena si ripeterà
(nella Grande bellezza di Sorrentino) dopo più di
cinquant’anni, adesso attraverso gli occhi di un giornalista
mondano e cinico come quello interpretato da Mastroianni
molti anni prima.
La storia di Fellini era ambientata in una città in pieno
sviluppo edilizio: i grandi palazzoni che appaiono sullo sfondo
di molte inquadrature annunciavano la speculazione che
avrebbe rovinato le città italiane, specialmente al Sud. Nel film
nessuno sembra lavorare; si vive alla giornata, giocando su
raccomandazioni e favori.
C’è solo un elemento che accomuna i due film: non vi
appaiono politici. Il «pubblico» è distante e indistinto: c’è solo
il «privato» della gente che sta, con molte incertezze, entrando
nei tempi nuovi.
Il cinema italiano era ancora vitale. Tre anni dopo
arrivarono I mostri (Risi) e Le mani sulla città (Rosi):
mostravano, in modi assai diversi, la crisi di una società come
«sovrapporsi di crisi personali e di disorientamenti più
generali» (Crainz, 2005). Il primo era la metafora dei tempi
confusi e delle persone che li abitavano senza alcuna coscienza
del proprio essere: alieni travolti da una mutazione profonda e
non consapevole che li aveva coinvolti senza che se ne
accorgessero, come sosteneva Pasolini. Era ciò che accadeva
anche nel Sorpasso (Risi): un road-movie in cui si incontrano
casualmente due persone assolutamente diverse destinate a un
tragico epilogo, senza senso come le loro vite. Ben diverso il
film di Rosi in cui si denunciava il malaffare dell’alleanza tra
politica e delinquenza organizzata nel «sacco di Napoli». Era
un’accusa dura e senza attenuanti. Non sarebbe stata ascoltata.
Fu considerata la denuncia di un estremista, anche se il film
era «vero» nelle storie che narrava.
Ma, cinematograficamente, il fenomeno più rilevante fu
l’imporsi di un genere, la commedia all’italiana: una critica
feroce, tra sorrisi e risate, a uomini e mode assurdi con il
piglio dello sberleffo riuscito. Dovremmo citare troppi titoli,
ma va almeno ricordato come in questi film siano emerse le
performance di grandi attori come Sordi (l’italiano gaglioffo
che si inventa tutte le occasioni per «restare a galla»),
Tognazzi (che propone personaggi simili, ma con maggiore
autoironia), Gassman (che si permetteva di passare da
L’armata Brancaleone (1966) al professore borghese, saggio e
malinconico, de La famiglia di Scola (1987), Manfredi
(l’italiano buono) e l’unica maschera-donna (Monica Vitti)
passata dai film di Antonioni alla Ragazza con la pistola di
Monicelli.
Centinaia di storie dovute anche a una leva di grandi
sceneggiatori che seppero interpretare il Paese sia pure
distorcendolo per l’obbligo di far ridere. Una galleria che ha
raccontato quei tempi con una lente appena deformante. Una
stagione, comunque, di grande intelligenza e creatività;
probabilmente la migliore che il cinema italiano abbia avuto.
Dopo qualche anno i film si sarebbero prevalentemente
visti alla TV. Il cinema italiano aveva perso di vista la gente e i
problemi del Paese e le sale cinematografiche il loro pubblico.
Intanto da noi la marcia trionfale del cinema americano
proseguiva: basti ricordare Cleopatra e lo sbarco di
Hollywood a Cinecittà.
Nel loro insieme, film e canzoni furono una convincente
proposta dei contenuti relativi a una nuova cultura che nasceva
sulla base di un «rimescolamento di valori indotto dai consumi
di massa» (Crainz, 2003).
Questa nuova cultura, sul punto di diventare
prevalentemente mediale, avrebbe suggerito nuovi
comportamenti e valori, anche se il paese sembrava
attraversare una stagione ben diversa: Togliatti sarebbe morto
un anno dopo e nello stesso periodo iniziava la guerra in
Vietnam. Nel 1967 moriva il Che: la grande icona dei giovani
di sinistra e non solo. Per molti il suo corpo fu la
rappresentazione moderna di una immagine sacra. Il mito
continua ancora oggi.
Non c’erano solo i media. Nel teatro più impegnato
emergevano i segni di una grande inquietudine: Brecht veniva
celebrato al Piccolo Teatro e Dario Fo iniziava la sua
straordinaria carriera di giullare. Ciò non distoglieva i maturi
borghesi dal frequentare le sale dove molti comici (Totò) e
soubrette (Wanda Osiris) e stuoli di ballerine «poco vestite»
facevano la «passerella finale» raccogliendo entusiastici
applausi da un pubblico borghese in gran vena di divertirsi.
I tempi stavano però davvero cambiando, come cantava
Bob Dylan nel 1964. Nello stesso anno usciva in Italia Eros e
civiltà di Marcuse, seguito, tre anni dopo, da L’uomo a una
dimensione. Opere che divennero, insieme a Lettera a una
professoressa di don Milani, il sillabario degli studenti
prossimi alla contestazione. Nello stesso anno Eco pubblicò
Apocalittici e integrati, una svolta per i giovani massmediologi
che cominciarono a studiare seriamente il fenomeno che stava
cambiando il mondo, non solo l’Italia.
Media e consumi rappresentavano un diverso modo di
vivere. Era una silenziosa rivoluzione culturale che i contenuti
televisivi (non ultima la pubblicità) stavano diffondendo e
legittimando. Alberoni (1964) sostenne che le donne erano
adesso più apprezzate (erano moderne e carine «quasi» come
le modelle della pubblicità) di quando mettevano grande fatica
e inventiva nella cura della casa e nella preparazione di cibi
poveri ma di grande sapore.
Le auto di piccola cilindrata furono il motore di nuove
abitudini: ad esempio favorirono le vacanze estive in case
d’affitto o in modeste pensioni sull’Adriatico. Si caricavano le
macchine e si partiva per lunghi viaggi: un’emozione nuova
era fermarsi in uno degli autogrill appena aperti.
Molti (giovani) impararono ad «andare all’estero».
Soprattutto in Europa: a Londra, che rappresentava, insieme, la
tradizione dell’Impero e la modernità delle minigonne. O nei
paesi del Nord, teatro possibile di incredibili (forse nel senso
di non-credibili) avventure con ragazze bionde e molto carine,
certamente diverse da quelle che si frequentavano nelle
festicciole casalinghe. Gli USA restavano geograficamente
lontani, anche se erano molto presenti attraverso il cinema e la
musica jazz e rock.
Il ’68 stava arrivando. Nelle scuole superiori avvenivano
strani fenomeni di paleo-contestazione: «La zanzara» aveva
già punto al liceo Parini di Milano.

6. Un primo cambiamento
La vita degli italiani cambiò radicalmente. C’era meno
povertà e il controllo sociale (i padroni, i preti, i genitori)
divenne meno esigente. Il lavoro e la famiglia restavano i due
obiettivi principali, ma adesso potevano essere anche pensati
non solo attraverso gli obblighi della tradizione. Si coltivava la
fondata speranza di poter eventualmente cambiare un lavoro
troppo duro e i giovani, studiando, di poterne scegliere uno più
vicino ai propri interessi e meglio remunerato. Il partner era
scelto per amore, romanticamente, ormai non più per obbligo o
convenzione.
Il cambiamento iniziò dalle piccole (ma importanti) cose
della vita quotidiana. Ci si vestì con più fantasia e meno
conformismo. Le case dei figli furono presto molto diverse da
quelle dei loro genitori: nelle cucine dominavano ormai gli
elettrodomestici e nei salotti i «posti a sedere» erano rivolti
verso l’apparecchio televisivo. I vecchi tesori (regali di nozze:
come corredi o servizi di piatti) erano più custoditi che
utilizzati. Cambiarono le abitudini alimentari: quelle vecchie
riemergevano solo nei giorni di festa (la domenica, il Natale)
con le specialità della tradizione regionale e i dolci. Il tempo
libero dal lavoro acquistò sempre maggiore importanza:
adesso molti pensavano alle vacanze come un diritto acquisito;
nei fine settimana molti uscivano dalle città per i week-end.
Solo nei piccoli paesi (specialmente al Sud) si viveva come
sempre, ma anche qui la TV avrebbe portato continui
suggerimenti per una vita diversa e più moderna.
Cambiare modi di vita e guardare a nuovi e più vasti mondi
non era più considerata una (sia pur leggera) devianza. Cercare
di essere diversi non era più uno stigma (questo restava verso
gli omosessuali) ma un progetto considerato possibile e
legittimo. Tutto ciò era facilitato dal fatto che non si doveva
più scegliere, come nel passato, tra pochi modelli che
definivano un preciso stile di vita; adesso si poteva creare il
proprio Sé assemblando frammenti di significato provenienti
da fonti diverse e, apparentemente, non vincolanti. Era un
rimodellare il proprio ruolo sociale più che una costruzione del
tutto nuova, anche perché obblighi e consuetudini non erano
definitivamente sepolti.
Ovviamente, il cambiamento riguardava il mondo del
privato: il pubblico (in Italia) restava ancorato alla tradizione.
In molti casi si trattava di progetti limitati, connotati però da
una decisa volontà di realizzarli. Nell’insieme rappresentarono
un’onda potente che allontanava dal sia pure recente passato.
Ci si liberò anche dalle influenze delle Chiese (terrene e
non, rosse o bianche). La morale diventò più libera.
Nelle piccole cose si realizzò il nascente italian dream. Un
grande mito collettivo (diventare moderni) scacciò quelli legati
al «mondo vecchio», il lavoro, il sacrificio, ecc.
La società italiana prese a strutturarsi più orizzontalmente
(le cerchie di amici, di colleghi, di compaesani; purtroppo, in
certe zone del Paese, contavano anche le vecchie «famiglie»)
che verticalmente (borghesi, proletari); le classi cominciarono
ad avere confini confusi o indefiniti.
C’erano sempre meno capi riconosciuti e gerarchie da
rispettare.

7. La stagione dei governi di centro-sinistra


Mentre nel sociale avvenivano fenomeni nuovi e
importanti, nel mondo della politica i governi DC si erano
succeduti gli uni agli altri senza alcun segno di novità. Il
linguaggio dei politici restava ancorato al politichese.
Una grande illusione (legata al necessario e possibile
cambiamento) accompagnò la nascita dei governi di centro-
sinistra. Si nutrì la speranza che il PSI potesse rompere
l’immobilismo della DC.
Se ne parlò molto sui giornali: le premesse c’erano tutte.
Apparvero sulla scena personaggi di notevole respiro, come La
Malfa e Lombardi, oltre a una piccola schiera di tecnici: una
novità rispetto al passato. Si cominciarono a usare termini
come «programmazione» per indicare una possibile guida
politica dell’economia. Bastò questo accenno per spaventare
un padronato tradizionale: perfino i vertici delle aziende
pubbliche tennero un atteggiamento prudente. I tempi di
Mattei erano lontani.
Continuò la sfilata di volti grigi usciti dalle parrocchie di
provincia e diventati importanti perché «signori delle tessere»
nei loro territori; prevalentemente nel Meridione o nel Veneto.
La DC iniziò l’«occupazione» dello Stato mettendo ovunque
uomini fidati che furono maestri (?) nella pratica antica delle
raccomandazioni e delle clientele. Sarebbero presto stati
imitati dai socialisti al Governo. Lo scollamento tra pubblico
(luogo dell’inerzia) e privato (luogo di una confusa ma sentita
e praticata voglia di cambiare) si fece sempre più profondo.
Allo scopo di evitare le montanti proteste sociali, la DC
imboccò una politica di mediazioni e compromessi per
rispondere agli interessi corporativi che avevano più voce nel
Paese: dalla Coldiretti alle grandi industrie, fino alle piccole
clientele locali.
Le «correnti» (specialmente all’interno della DC)
diventarono sempre più importanti. Allo scopo di assicurarsi
una posizione di potere all’interno del partito (misurato in
numero di tessere), ogni notabile si doveva impegnare a
intrecciare una rete di contatti «interessati» sulla base di
scambi di favori-ricompense. Era il modo per raccogliere voti
e preferenze.
Ciò favorì «una incessante circolazione di servizi e favori,
di minacce e promesse che creano una fitta rete di
obbligazioni, le “correnti” costituiscono un canale di scambio
di importanza essenziale che offre agli uomini politici più abili
e ambiziosi il modo di provare la loro forza e la loro destrezza
[…] Questo circolo vizioso di dipendenza reciproca spiega la
stabilità del sistema: nessuno ha interesse a infrangere le
regole di un gioco che conviene a tutti» (Bourricaud, in
Cavazza-Graubard, 1974, pp. 98-99). Un’analisi lucida e
definitiva.
Questa reta capillare di «legami interessati» favorì
l’«occupazione dello Stato» da parte di legioni di clienti fedeli,
garantendo nel contempo una forte stabilità interna. Non ne
era la sola causa. Basti ricordare la protezione della chiesa
cattolica e l’essere il Paese sotto l’ombrello USA con la
conseguente obbligata esclusione dei comunisti (il «fattore
K») dal Governo.
Il sistema politico si fondava quindi su un consolidato
sistema sociale. I socialisti che avrebbero dovuto correggerlo
ne furono rapidamente cooptati.
La piccola-media borghesia (fino ad allora prevalentemente
impiegatizia) si trasformò così nel ceto burocratico-
parassitario dei clienti inquadrati nelle correnti democristiane.
Carli (Banca d’Italia) la definì «borghesia di Stato» (composta
da alti burocrati delle imprese pubbliche, da faccendieri e
piccoli mediatori all’interno dei partiti) e Scalfari «razza
padrona». Da notare che tali definizioni non furono coniate da
due pericolosi sovversivi.
Un nuovo gruppo sociale formato da tutti coloro che
vivevano nel mondo degli affari, fuori o ai margini dei vincoli
della legalità. Una borghesia improduttiva ma rapace in cui
entrarono tutti i parassiti del sistema economico-politico e gli
attori (inconfessati) di un «golpe invisibile» (Galli, 2015)
attuato attraverso l’economia della corruzione. Anche chi
veniva denunciato in alcune inchieste giornalistiche, in
occasione degli scandali più gravi, non fu messo ai margini.
Anzi, diventare «noto» rese qualche faccendiere ancora più
potente.
Malgrado il (tragico e fallimentare) tentativo di
destabilizzazione del terrorismo nero-rosso, si andò invece
realizzando una «stabilizzazione» nella comune convenienza
di coloro che lucravano (o speravano di farlo) nell’ampio mare
delle risorse pubbliche rapinate in molti modi: nel «sistema
delle tangenti sugli appalti, sui contratti di commesse, sulle
licenze e sulle autorizzazioni, sui mutui accordati da istituti di
credito pubblici, sulle deliberazioni del Governo in materia di
prezzi, tariffe e crediti agevolati […]» (Galli ibid., p. 41).
Corruzione non combattuta dagli esponenti politici (i
signori delle tessere, anzi, se ne giovavano) e con qualche
affanno delle forze dell’ordine e della magistratura ai cui
vertici, in qualche caso, vi erano affiliati alla loggia segreta P2.
Questa aveva suoi adepti anche nel mondo dell’informazione,
come dimostrò in modo eclatante la scalata al «Corriere della
Sera» di Tassan Din, non molti anni dopo arrestato assieme al
debole erede dell’impero Rizzoli.
Furono pochi i tentativi di resistere a questa perversa
spirale. L’unico degno di nota avvenne nel 1973, quando
alcuni imprenditori (tra cui Agnelli) e qualche economista
(Napoleoni) proposero un «patto dei produttori», aperto anche
ai rappresentanti dei lavoratori, per un reale cambiamento in
economia e in politica. Se ne parlò molto ma non si realizzò. Il
muro di gomma contro cui si scontrò era più forte delle pur
rilevanti forze in campo.
La DC conservò il suo primato fondandosi sul ceto
parassitario che aveva troppi e variegati interessi da difendere.
Si proteggevano dietro lo scudo crociato, anche se questo era
continuamente eroso da scandali e denunce giornalistiche.
C’erano comunque grandi affari in vista: la cementificazione
di alcune grandi città (Palermo, Napoli) e delle coste ne fu un
triste esempio.
Il saccheggio del denaro pubblico non cessò: il sistema
delle tangenti divenne una prassi comune. Non accompagnato
da nessuna riforma nel sistema fiscale (anzi, con un aumento
dell’evasione); un anomalo e improduttivo esborso di risorse
pubbliche che fece precipitare il debito pubblico.
Così, malgrado le speranze, la coalizione di centro-sinistra
a lungo progettata e contrattata fu «singolarmente avara di
frutti concreti» (Lanaro, 1992).
Restava inevaso il grande tema delle riforme necessarie:
sarebbe stato necessario e urgente intervenire nei settori
dell’edilizia (specialmente quella popolare), dell’urbanistica
(per prevenire lo scempio di periferie e coste), della scuola
secondaria e dell’università, degli ospedali e della cura della
salute, della giustizia e della magistratura, e così via. Non si
fece quasi nulla.
L’unica riforma portata a termine, quella della «scuola
media unica», fu sicuramente uno strumento di crescita
culturale e sociale. L’altra grande riforma realizzata, sul piano
strutturale, fu la costruzione di una grande rete autostradale, un
prodotto dell’accordo tra potere politico e grande industria, sia
privata (le auto) che pubblica (le strade).
La nazionalizzazione dell’energia elettrica fu una folle
dispersione di denaro pubblico. Si rinviò la legislazione
relativa alle Regioni; la legge urbanistica scomparve per
sempre anche dalle intenzioni del legislatore.
Le riforme erano rinviate o svuotate nella loro reale
efficacia, sia nella messa a punto legislativa sia nelle modalità
attuative che avrebbero dovuto essere gestite da un’efficace
macchina statale: quella che Lombardi definì come «una
macchina dotata di motore imballato, di freni capaci solo di
inchiodarla e di un sistema di guida inesistente o arrugginito
[…]» (in Crainz, 2009, p. 84).
Nella guida improvvida della macchina c’era, accanto ai
politici, una classe di burocrati che pensavano che il loro ruolo
fosse quello dei controllori occhiuti della forma giuridico-
amministrativa, anziché considerarsi tecnici al servizio dello
Stato e dei cittadini. Il paradosso è che non riuscirono neppure
in quel compito, come si sarebbe visto negli anni successivi.
L’«aggiramento delle leggi in vigore» divenne infatti pratica
continua. Non a caso ai vertici dell’amministrazione pubblica
c’erano ancora uomini che avevano iniziato la loro carriera nel
periodo fascista e non ne avevano mai preso distanza alcuna.
Il centro-sinistra fu una svolta rispetto al passato; il vecchio
Nenni ritenne un grande risultato aver portato i rappresentanti
dei lavoratori nelle stanze dei bottoni. Purtroppo i bottoni non
furono schiacciati o furono schiacciati malamente. L’«Avanti»,
il giorno dopo il giuramento del primo Governo della
coalizione, intitolò: «da oggi ognuno è più libero». Forse era
vero, ma i risultati concreti tardarono a manifestarsi.
Non si affrontò alcun discorso di razionalizzazione
dell’economia tramite una politica di programmazione. Anzi
questa divenne sinonimo di sinistrismo socialista e come tale
evitato dalla DC in ogni modo, nonostante si predisponessero
strumenti per una sua attuazione. Furono infatti istituite varie
commissioni: per la programmazione economica, per la
riforma tributaria, per la riforma della pubblica
amministrazione. Non portarono ad alcun risultato concreto:
produssero solo montagne di documenti e grandi (e retorici)
discorsi caduti presto nell’oblio.
Il riformismo, che avrebbe dovuto essere l’obiettivo
primario delle coalizioni di centro-sinistra, fu quasi del tutto
disatteso. I più pessimisti sostengono che lo stesso sarebbe
successo nel caso di una collaborazione tra DC e PCI: i risultati
dei governi con l’astensione dei comunisti negli anni
successivi inducono a crederlo.
Non si era affatto superato il divario tra l’arretratezza della
politica (e dei modi di intendere la guida del Paese) e le
«esigenze e le aspirazioni nuove della società […] che aveva
conosciuto allora la sua prima “opulenza” e aveva visto al
tempo stesso incrinarsi un orizzonte arcaico di valori […]
[con] aspetti dirompenti, innovativi e positivi della
trasformazione sul terreno del costume, della cultura, della
consapevolezza dei diritti […]» (Crainz, 1996, p. 240).
La profonda trasformazione del sociale fu ignorata dalla
politica a causa dello «sterile immobilismo e [del] tempo
irresponsabilmente sciupato» (Lanaro, 1992). Anziché
sull’efficienza, si cercò il consenso (soprattutto dei ceti medi)
attraverso un progressivo aumento della spesa pubblica con
perverse politiche localistiche o corporative.
Si impose un «ideologismo dimostrativo» per intendere il
comune vizio dell’indulgere a una discussione teorica, astratta,
svincolata da ogni dimensione reale dei problemi affrontati e
senza alcuna volontà di avviarli a risoluzione. Ci si limitava a
mettere a confronto le relative posizioni in merito. Fu il brodo
di coltura della autoreferenzialità dei politici che da allora non
è mai venuta meno.
La politica continuava a restare sorda ai bisogni del Paese.
Pagava anche la sua debole legittimazione. La svolta del
centro-sinistra era stata accolta con scarso favore sia dal PCI,
che la giudicò «un’operazione neocapitalista di divisione della
classe operaia [con lo scopo] di neutralizzarne le capacità di
lotta per un autentico rinnovamento sociale» (Lanaro, 1992),
dalla chiesa cattolica (almeno all’inizio) e, ovviamente, dagli
imprenditori.
I politici del tempo non si accorsero (o vollero ignorare) del
profondo cambiamento nel sociale. Non solo in politica ma
anche nella fede religiosa, con un progressivo processo di
abbandono delle pratiche di culto che neppure il papa Buono
seppe arrestare.
Era iniziata quella che Pasolini definì «mutazione
antropologica» degli italiani. La cultura mediale (e i primi
consumi) stavano erodendo ideologie e convenzioni.
Apparentemente non era successo nulla di importante. Il
lavoro restava il valore centrale nella vita degli italiani, ma
anche qui stavano avvenendo fenomeni rilevanti. Le
condizioni di vita nelle grandi fabbriche diventavano sempre
più pesanti a causa di una diffusa ristrutturazione
dell’organizzazione del lavoro resasi necessaria dal rincaro
delle risorse petrolifere. Il fordismo e la catena di montaggio si
stavano avviando al loro termine.
Il tempo dei grandi attori collettivi stava conoscendo le
prime crepe. Il PCI, nel suo XI congresso (1966), rifiutò ancora
una volta la scelta socialdemocratica: ovviamente, fu un
grosso errore.

8. Studenti e operai uniti nella lotta


Nel grigio e apparentemente quieto contesto sociale e
politico qualcosa, inaspettatamente, accadde. Scoppiò il
movimento degli studenti. Un «urlo» lo definisce Lanaro per
riferirsi alla sua improvvisa apparizione nelle università
italiane, anche se alcuni precisi segnali si erano già manifestati
a Parigi e a Berkeley.
Sul ’68 sono state scritte migliaia di pagine senza una
interpretazione condivisa. Forse perché non ottenne nessun
risultato concreto, forse perché è tuttora difficile prendervi le
distanze, analizzarlo senza farsi coinvolgere da posizioni
(preconcette) di natura ideologica.
Una grande differenza divide ancora il giudizio di chi vi
partecipò (più o meno direttamente) e di chi, invece, ne lesse,
da lontano, sui giornali. I primi vissero con forte empatia
anche gli slogan di lotta: ad esempio, quelli più famosi come
«lo Stato si abbatte non si cambia» o «la fantasia al potere».
Gli altri li giudicarono provocatori e assurdi. Furono, anzi,
occasione per un deciso rifiuto dei benpensanti verso un
movimento che predicava, in modo confuso e velleitario, la
necessità e l’urgenza di una rivoluzione: senza nessuna
alleanza reale (gli operai non condivisero questo obbiettivo del
tutto astratto rispetto ai loro problemi reali) e ignorando il
potere della politica, della polizia e della magistratura. Perfino
la maggioranza dei giovani (e anche parte degli studenti)
guardò con qualche ambiguità al movimento, capendone le
ragioni e meno l’agire.
Un dato non va però ignorato: gli studenti universitari erano
circa 500 000 nell’anno accademico 1967-68, contro circa la
metà all’inizio degli anni sessanta quando era scoppiato il
boom economico. All’università erano entrati i figli della
piccola borghesia urbana, molte ragazze (anche se ancora in
minoranza): portarono esigenze nuove e minor reverenza verso
la tradizione accademica.
Una rivolta contro l’università (di cui si erano accettati, fino
ad allora, anche senza eccessivo entusiasmo, contenuti e
metodi di insegnamento), ma soprattutto contro una società di
cui non si comprendevano più, e tanto meno si condividevano,
i valori. Qualche anno dopo, un saggio sociologico si intitolò
significativamente Senza padri né maestri: gli uni e gli altri
avevano perso il loro carisma e, conseguentemente, la loro
autorità.
La grande maggioranza dei giovani apprezzava il
benessere, ma una parte di loro non era più disposta ad
accettarlo acriticamente, come invece sembravano farlo ancora
molti dei loro coetanei definiti i giovani delle 3M (moglie,
macchina, mestiere).
La contestazione fu una sorta di autoanalisi collettiva a cui
si sottoposero tutti coloro che arrivarono a provare le stesse
emozioni e la stessa volontà di capire (chi sono, cosa farò, di
chi mi fiderò…). Era la voglia di costruirsi un futuro diverso
(con poco rispetto verso «chi comandava») assieme a chi
aveva le stesse esigenze e lo esponeva in lunghe e fumose
assemblee. Era un volersi sentire diversi da chi si disprezzava.
Una scritta diventata famosa diceva «voglio essere orfano»:
non solo da padri e madri, ma anche da sacerdoti e politici.
Le assemblee erano il momento centrale di formazione e
socializzazione: erano lunghe riunioni di grande impatto nella
discussione ma dalle deboli conclusioni. Lo scopo non era
quello «di impadronirsi del potere, ma di costruire spazi liberi
di espressione e comunicazione, che [consentissero] di
diventare soggetti di decisione e azione […] [una] fiammata di
un comunitarismo allegro, cameratesco, inventivo […]»
(Lanaro, 1992, pp. 348-49).
Per questo, più che una riflessione collettiva per trovare
soluzioni atte a rovesciare gli equilibri politici del Paese, si
guardava ai grandi esempi che venivano da lontano ma che si
sentivano oltremodo vicini: le battaglie dei neri in America,
quelle del Che per esportare l’esperienza rivoluzionaria
cubana, la rivoluzione culturale in Cina e così via. Si
studiavano testi neomarxisti (gli autori della Scuola di
Francoforte fino a Marcuse) che parlavano di una nuova e più
attuale alienazione e/o di una violenza levigata e soft,
esercitata più mediante la seduzione dei consumi e dei media
che non fondata sulla repressione poliziesca: per questo era
anche più difficile ribellarvisi.
Nella lotta (come si diceva allora senza ironia) si
sperimentarono nuove modalità di relazione sociale meno
formali e autoritarie: nei rapporti tra uomo e donna, ma poi
anche nei manicomi, nelle carceri, nel servizio militare.
Tentativi spesso astratti, ma molto sentiti e partecipati. Si
cercò anche una nuova religiosità, con non pochi episodi di
contestazione alle gerarchie ecclesiastiche.
Si cominciò anche a diffidare profondamente
dell’informazione (giornali e TV) che ometteva o distorceva
ciò di cui parlava: ad esempio, quanto avveniva nelle
università. In particolare, erano rifiutati (non a torto) i
commenti «ufficiali», ovviamente contrari ma superficiali,
sulle manifestazioni che vedevano protagonisti studenti e
operai. Una presa di posizione condivisa anche da molti
intellettuali e che «ebbe effetto» sugli «operatori»
dell’informazione che presero a interrogarsi sulla loro
professione e, in seguito, a cercare una maggiore
indipendenza. Erano finiti i tempi della P2, anche il «Corriere
della Sera» cambiò. Più avanti sarebbe nata «la Repubblica».
Il movimento declinò piuttosto rapidamente, ma dalle sue
iniziative meno astratte si svilupparono alcuni percorsi politici
(non partitici) che ne furono una sorta di eredità indiretta. Il
primo e più fattivo fu la partecipazione alle lotte operaie
dell’autunno caldo, prima con l’intenzione (velleitaria) di
guidarlo e poi come esercito «affiancato» nelle manifestazioni.
Non a caso, in molte occasioni, vi fu uno scontro duro tra le
organizzazioni sindacali e le frange estreme dell’autonomia
operaia. Quest’ultima era nata con i Comitati unitari di base e
con le proteste spontanee in fabbrica, in molti casi partite dai
giovanissimi operai di recente immigrazione.
Si arrivò a teorizzare che il salario doveva essere svincolato
dalla prestazione e misurato esclusivamente in base al bisogno
individuale. Una follia anarcoide che non sarebbe approdata a
nulla se i sindacati non l’avessero saputa ricondurre su più
concreti obiettivi, come il Contratto nazionale per i
metalmeccanici e poi lo Statuto dei lavoratori.
Non pochi tra gli irriducibili contestatori passarono dalle
lotte operaie all’adesione nei partiti-movimenti dell’estrema
sinistra: da Lotta Continua, colta e attenta al nuovo, a Servire
il popolo, povera imitazione del partito rivoluzionario cinese.
In queste frange estreme sarebbero stati reclutati coloro che
avrebbero aderito alla lotta armata.
La maggioranza, però, abbandonò il movimento e rientrò
nella società. Fu un importante componente della «borghesia
riflessiva» degli anni settanta: il PCI era un nemico «meno
peggiore» della DC e dei suoi alleati, anche se il partito non
aveva compreso (e condiviso) le istanze di cambiamento del
movimento.
Qualcosa si mosse anche dentro la parte repressiva dello
Stato: si cominciò a parlare di sindacato di polizia, di un
diverso modo di gestire le manifestazioni, ad esempio senza
ricorrere alle armi.
Il sistema produttivo continuava a mostrare i suoi limiti: le
condizioni di lavoro erano sempre molto dure: le
ristrutturazioni successive alla crisi del 1962-64 portarono a un
generalizzato e pesante aumento dei ritmi di lavoro. I salari
non avevano avuto aumenti consistenti e certamente non erano
adeguati all’aumento del costo della vita. La politica era
assente o schierata dalla «parte dei padroni» (la Confindustria
aveva forte ascolto nei governi, anche dopo l’entrata dei
socialisti nelle coalizioni governative del centro-sinistra) e i
sindacati apparivano a volte in crisi nel rappresentare le
istanze espresse dalla base operaia.
Questa era ancora formata, in gran parte, da operai non
qualificati: solo che a differenza dei loro padri avevano
frequentato la scuola dell’obbligo e visto il mondo in TV.
Anche per questo non si rassegnarono a subire umiliazioni (ad
esempio avere difficoltà a utilizzare i servizi nell’orario di
lavoro) e discriminazioni, soprattutto quelle che riguardavano
le donne e i sindacalisti «di fabbrica». Così come ritenevano
ingiusto non potere accedere a quei consumi che la pubblicità
televisiva mostrava come possibili o necessari. La stagione dei
sacrifici (magari «per fare studiare i figli») apparve superata.
Ma non era solo un fatto economico: era sempre più una
questione di dignità personale. Un sociologo (Marino Regini)
parlò di «fine della deferenza»; i capi e i padroni erano adesso
giudicati per come si comportavano e non in base alla loro
mansione.
Gli italiani, tutti, stavano iniziando a diffidare nella guida
dei partiti e, adesso, a dubitare (in qualche circostanza) della
politica dei sindacati. Credevano invece sempre di più nei
propri diritti e valori e non in quelli imposti dal sistema. Si
voleva contare di più, avere voce. Si prese a credere nella
necessità di manifestare e lottare. Anche quando non si
ottenevano subito risultati concreti, si sperimentava un fatto
nuovo e sentito importante: era la fiducia in se stessi e la
vicinanza con i compagni di fabbrica. Con loro si parlava uno
stesso linguaggio, non quello ideologico o della astratta
coscienza di classe: si volevano le stesse cose e subito. Ci si si
intendeva immediatamente.
Le proteste erano spontanee e sempre molto partecipate.
Queste trovavano continue occasioni per manifestarsi; erano
autoconvocate e gestite secondo gli umori del momento, di
«quel» reparto, di qualche improvvisato (ma non per questo
meno seguito) leader. L’operaio-massa fu sempre più
protagonista. Alcuni slogan si imposero velocemente: ad
esempio quello che indicava lapidariamente l’obiettivo di
fondo: «più soldi, meno fatica», per affermare la richiesta di
maggiori salari con un minor (come tempi e modalità) lavoro.
Per questa via si arrivò a teorizzare che la retribuzione andasse
commisurata al bisogno del singolo e non in base al suo
lavoro.
Si chiesero aumenti indifferenziati per tutti. Qualcuno
definì tutto ciò «spontaneismo rivoluzionario». Montò la paura
verso una protesta (che apparve) incontrollabile, anche a causa
dell’alleanza (più dichiarata che reale) tra operai e studenti. Il
numero di ore scioperate aumentò vertiginosamente. Erano
anche conseguenza delle nuove forme di lotta: duri
picchettaggi, assemblee interne interminabili e dalle parole
d’ordine rivoluzionarie precedute da cortei interni minacciosi
con il ricorso al suono ossessivo dei tamburi di latta e delle
grida feroci contro i crumiri e i caporeparto.
Il clima diventò pesante anche per le manifestazioni nelle
vie cittadine e con il ricorso ai blocchi stradali. Il timore dei
benpensanti trovava valide ragioni per manifestarsi: la
presenza massiccia della polizia lo alimentava. Il suono,
lugubre, delle sirene aveva sostituito quello dei fischietti.
Si cominciò temere, anche da parte del sindacato, che
questo tipo di rivendicazioni potessero essere incompatibili
con il sistema produttivo. Ma era una valutazione superficiale,
dettata dalla paura di un estremismo che celava una realtà ben
diversa. Non a caso il numero degli iscritti ai sindacati
conobbe un nuovo picco: oltre 1,6 milioni nel 1969 e oltre 2,7
milioni cinque anni dopo (Crainz, 1996). I lavoratori coinvolti
furono oltre cinque milioni (Ginzborg, 1989). Come dire che
la grande maggioranza degli operai «prese coscienza» dei
propri diritti anche se molti non si riconoscevano nelle
manifestazioni più estreme.
La partecipazione e la lotta degli operai non erano
correttamente rappresentate (si parlava solo in cronaca degli
incidenti) dai giornali, specialmente quelli padronali come «La
Stampa» e «il Corriere della Sera». Non mancarono resoconti
più attendibili e profondi nell’analizzare le cause della protesta
là dove si manifestava concretamente: si pensi ad esempio a
molti articoli di Bocca, su «Repubblica», sulla provincia
italiana e la sua mutevole realtà.
Le lotte guidate dal sindacato portarono a numerose
conquiste: innanzi tutto alla conquista dello Statuto dei
lavoratori; fu una svolta fondamentale nei rapporti di lavoro.
Il movimento degli operai fu una fondamentale occasione
di partecipazione. Con qualche contraddizione che avrebbe
giocato negativamente negli anni successivi: innanzi tutto la
voluta e esasperata contrapposizione tra operai e impiegati. La
proteste di questi ultimi, esplosa nella «marcia dei
quarantamila» a Torino diede un forte colpo al mito
dell’invincibilità della classe operaia. E poi non avere cercato
alleanze stabili con chi operava in altri settori, ad esempio nel
settore del commercio. Ma soprattutto «giocò contro» aver
contribuito alla «diffidenza» verso i partiti della sinistra e in
particolare verso il PCI. Questo, malgrado le sue incertezze ed
errori, restava l’unica forma di opposizione alla politica di
basso profilo dei governi di centro-sinistra.
Nei primi anni settanta si era inoltre messo in moto un
fenomeno particolare: i piccoli movimenti di lotta,
autoconvocati (e senza grandi strategie se non le
rivendicazioni immediate), si allearono spontaneamente con il
movimento degli studenti. Questo all’inizio si illuse di esserne
la guida, abbastanza rapidamente si accontentò di esserne il
semplice fiancheggiatore, soprattutto nei cortei e fuori dai
cancelli delle fabbriche.
Gli operai furono anche il referente dei movimenti della
sinistra rivoluzionaria che ne sposò le rivendicazioni, dandole
anche una forma politica alquanto velleitaria. Movimenti
politici come Avanguardia Operaia, Potere Operaio e Lotta
Continua nacquero, si svilupparono e agirono, soprattutto nelle
città del Nord.
Da queste aree «contigue» vennero prevalentemente coloro
che sposarono la lotta armata: fu una perversa tentazione che
riguardò sicuramente più i giovani borghesi che non gli operai.
Una deriva sociale e politica che diede inizio al fenomeno
della strategia della tensione sulla base di una innaturale
alleanza tra estremisti di destra e sinistra e servizi segreti. Fu il
brodo di coltura degli anni di piombo. Lo Stato (o meglio i
politici al governo) non fece nulla per evitarlo. Sarebbe stato
un altro motivo di allontanamento dalla partecipazione
politica.
Molti fatti restano ancora oscuri: chi avrebbe dovuto
chiarirli non lo fece per una miope valutazione politica. Si
pensò che il timore diffuso fosse un valido motivo per non
chiedere, da parte dei «benpensanti», le riforme sempre più
necessarie: a cominciare dall’economia e nelle università.
Vale la pena di ricordare una strana coincidenza. Nel 1970
si scoprì il piano eversivo (piuttosto ingenuo) del principe
Junio Valerio Borghese; nel 1962 era stato messo a punto il
Piano Solo (ben più pericoloso) da parte del Generale Di
Lorenzo.
Nel contesto del mutato clima culturale il secondo
movimento (il ’77) fu rapidamente riassorbito, anche perché
non aveva la stessa carica emotivo-valoriale del primo. I nuovi
contestatori sostituirono la violenza verbale con una forte
ironia. Si definirono indiani metropolitani, per sottolineare la
loro marginalità nel sociale e la loro cultura diversa. La loro
resistenza fu però poca cosa: affidata al gioco o a vampare di
assurda violenza. Gli stessi indiani metropolitani dichiararono
(in questo caso con poca ironia) che avrebbero accettato di
ritornare nelle «riserve», se la società capitalista avesse
provveduto a fornire quanto da loro desiderato: pane, rose e
musica. Qualcuno aggiunse (con altrettanta scarsa ironia)
qualche spinello.
I nuovi «ribelli» si erano limitati a sognare immaginando
un mondo diverso in cui l’utopia sconfinava nella satira e nello
sberleffo. Era la rivoluzione che si poteva immaginare (o
sognare) ascoltando «Radio Alice» e le radio libere «tutta
musica» non italiana.
Non c’è da meravigliarsi, così, che gli eroi delusi per gli
scarsi risultati ottenuti, specialmente se confrontati con ciò che
si era sperato o ritenuto possibile, sperimentarono l’esperienza
(che si sarebbe definita) del riflusso. Si cominciò ballando
nelle discoteche le musiche dance, di cui la più famosa (o di
immediato successo) fu quella tratta dal film La febbre del
sabato sera. Qualcuno teorizzò (le banalità non erano più
evitate) che il movimento, adesso, era quello dei corpi e non
più quello teorizzato negli slogan.
Non pochi si lasciarono tentare dall’esperienza della droga:
la conclusione più tragica delle illusioni perdute. In seguito,
sarebbe scoppiata l’epidemia di AIDS: quasi una metafora
dell’emarginazione e della disperazione dei giovani chiusi nel
loro profondo isolamento a causa della fine delle proprie
speranze. Fino al desiderio di voler morire.
Quello degli studenti (dal 1968 al 1977) fu un movimento
che operò più in ambito culturale e sociale che politico. In
quest’ultimo campo ottenne scarsissimi o nessun risultato: non
patrocinò nessuna riforma, neppure quella assolutamente
necessaria dell’università.
Gli obiettivi che gli studenti avevano lanciato, con
fulminanti parole d’ordine o verbosissimi e nebulosi
documenti, erano troppo astratti per diventare la base di una
qualsiasi «moderata» forma di partecipazione politica.
Certamente, erano lontani da una qualsiasi logica (o prassi) di
tipo riformistico.
Il movimento finì connotato da una diffusa aria di morte.
Era la fine di chi moriva negli scontri a fuoco con le forze
dell’ordine o di chi si lasciava prendere dalla spirale delle
droghe pesanti. Le lettere dei militanti delusi di Lotta Continua
al loro giornale, in fase di chiusura, ne furono un tragico canto
finale: si parlava di fine della politica e di «rientro a casa», di
non voler più buttare via la propria vita, di nostalgici ricordi di
compagni caduti, ecc.
Le fragili armi della spontaneità e della soggettività che
avevano costruito nuovi «improbabili paesaggi sociali» (Galli
dalla Loggia) dell’illusione rivoluzionaria si erano infrante
contro il muro, fermo e duro, della politica partitica e delle
istituzioni conservatrici. La fantasia non salì al potere: restò
invischiata e sconfitta nel polveroso linguaggio dei politici di
mestiere.
Il doppio movimento degli studenti era riuscito solo a
spaventare i pavidi borghesi conservatori; non aveva
minimamente cambiato la società e, tanto meno, la politica.

9. La fuga nel privato


Nel periodo cha va dagli anni sessanta ai settanta, il
«pubblico» conobbe tre momenti di forte discontinuità. Il
primo (debole) quando i socialisti si unirono alla DC nella
coalizione di centro-sinistra; il secondo (forte) relativo alle
contestazioni di studenti e operai; il terzo (grave) quando fu
ucciso Moro e non si parlò più di un possibile compromesso
storico.
L’unico elemento di continuità fu il pervicace rifiuto di
affrontare le riforme necessarie al Paese per realizzare quel
salto che gli individui-cittadini avevano già compiuto a livello
culturale, negli stili di vita e nella quotidianità; diventando
sempre più moderni nel privato e sempre più distaccati dal
pubblico e, conseguentemente, avviati a abbandonare ogni
forma di partecipazione sociale e politica di tipo tradizionale.
Una delle cause (allora sottovalutata) fu l’impatto dei media
e, in particolare, della TV. Questa divenne la principale agenzia
di socializzazione. Fu una svolta epocale caratterizzata da un
fenomeno di indubbia rilevanza: il legame società-cultura si
interruppe o invertì il suo rapporto. Non fu più il sociale a
determinare il prevalere di alcuni media (e soprattutto dei loro
contenuti), ma furono questi a indirizzare il sociale in alcune
sue tendenze o peculiarità. Da questo momento furono i media
a suggerire modelli di comportamento e mode.
A dieci anni dal suo avvento, la TV aveva una vasta platea
di spettatori: quattro milioni di abbonati, molti di più gli
spettatori. La TV nazionale continuava nel perseguire la sua
mission pedagogico-censoria. Biagi fu nominato direttore del
tg nel 1961 per dimettersi pochissimo tempo dopo (come lui
stesso disse, era «l’uomo sbagliato nel posto sbagliato»). Nel
1962 Dario Fo e Franca Rame dovettero abbandonare
«Canzonissima» per non aver potuto interpretare uno sketch
(sugli incidenti di lavoro nei cantieri) che pure aveva passato il
primo vaglio di controllo sui testi. Nel 1963 il disastro del
Vajont fu presentato come tragica fatalità, correggendo il
primo intervento dell’inviato che riferiva correttamente di
colpe dell’industria elettrica responsabile dei lavori alla diga.
La TV insisteva sulle due linee produttive maggiori. Gli
sceneggiati continuavano ad avere successo, anche grazie alle
grandi prove di attori di talento (due attrici sarebbero presto
diventate famose: Monica Vitti e Lea Massari) e di alcuni abili
registi. I programmi di varietà divennero un appuntamento
importante del sabato sera, con protagoniste diventate presto
piccole dive come Mina, Pavone e Carrà. Fu la definitiva
affermazione di un genere fondato sulla simpatia di comici e
cantanti di successo, balletti di grande professionalità, eleganti
scenografie.
Anche la TV dei ragazzi si impose definitivamente: divenne
la «baby-sitter elettronica» a cui le madri affidavano volentieri
i bambini nei lunghi pomeriggi liberi dagli impegni scolastici.
Altri generi divennero popolari: ad esempio, il poliziesco,
grazie alla serie di Maigret (che iniziò nel 1964) e al suo
omologo italiano, il tenente Sheridan (1967). Loy sperimentò i
programmi candid-camera con lo Specchio segreto (1964). Era
un’assoluta novità, interessò una minoranza di spettatori
attenti.
C’era ancora poco cinema nella normale programmazione
televisiva, anche se alcune pellicole difficili ebbero, in una
sola sera, più pubblico che non in tutte le proiezioni nelle sale
cinematografiche. C’era sempre molta prudenza, per non
parlare di censura: La dolce vita apparve sul piccolo schermo
solo nel 1975.
Ma i veri grandi eventi furono alcune riprese in diretta:
innanzi tutto, la lunga telecronaca dello sbarco sulla Luna nel
1969 (immagini indimenticabili in chi le visse in diretta) la
tempestiva copertura del terremoto del Belice, le Olimpiadi, i
campionati del mondo di calcio.
Paradossalmente, il vero carattere di questa TV era da
ricercare più in ciò che non fu trasmesso (o nell’ambiguo
modo in cui veniva presentato) che non in quello che
mostrava. In particolare a proposito dell’informazione. Il paese
reale restava lontano o nascosto anche nei tg. Il minutaggio (lo
spazio concesso ai diversi partiti) ne fu la prova più evidente:
l’attenzione (come spazio dedicato) verso i tre maggiori partiti
fu ben lontana dalla par condicio; ovviamente quello per la DC
fu ben maggiore.
Anche le inchieste ebbero poco spazio; del resto, si sarebbe
dovuta aspettare la seconda metà degli anni settanta per
vederle comparire sulla stampa quotidiana, grazie a firme di
grande notorietà (Bocca, Pansa). In TV, abili giornalisti
televisivi (Zavoli, Biagi) non ebbero per molti anni lo spazio
che meritavano.
L’era «bernabeiana» (un potere retto sulla base di un
preciso controllo sull’operato dei dirigenti alle sue
dipendenze) finì nel 1974. Negli anni precedenti era riuscita
però a imporre i caratteri prevalenti nella socializzazione
dell’italiano medio o meglio dell’italiano «televisizzato».
L’unico indiscutibile risultato positivo fu la comune
alfabetizzazione degli italiani: non solo adesso tutti (o quasi)
parlavano una stessa lingua (i dialetti erano usati per riderne),
ma appresero anche a destreggiarsi tra i differenti linguaggi
relativi ai vari generi/contenuti, come ad esempio tra quelli
della pubblicità e degli sceneggiati rispetto all’informazione.
Nel frattempo, erano arrivati ai vertici RAI i socialisti; nel
1975 il primo presidente «nominato» dal PSI. Ma neppure loro
riuscirono a cambiare lo stile della conduzione televisiva,
adesso forse solo un po’ meno bacchettona.
Si cominciò a usare il termine «lottizzazione» a proposito
della riforma (incompiuta rispetto agli obiettivi iniziali) della
RAI che si caratterizzò per il passaggio del «controllo» e la
nomina dei vertici aziendali dal Governo al Parlamento. Ciò
permise l’entrata di «nominati» dal PCI nei vertici RAI: ebbero
una rete, la terza, quella di minor ascolto, ma in cui fu tentata
una qualche sperimentazione. La DC ebbe la prima e il PSI Ia
seconda; inutile dire che il peso (in termine di ascolti ed
efficacia) era molto diverso.
Non fu una scelta felice da parte del PCI, che si trovò
nell’impossibilità di proporre strategie diverse rispetto alla
funzione della TV come servizio pubblico. I giochi erano ormai
fatti: il duopolio (con Fininvest, poi divenuta Mediaset)
avrebbe ulteriormente ingessato il sistema. Quella della RAI fu
un’altra delle riforme (e non la meno importante) malamente
affrontata e tanto meno risolta.
In circa vent’anni, la TV italiana aveva, però, compiuto uno
straordinario percorso: più di dieci milioni di abbonati (con
una platea potenziale di oltre venti milioni di spettatori) e
seimila ore di trasmissione annue.
Era ormai diventata la maggior fonte di informazione e
divertimento per gran parte degli italiani.
Il bisogno di nuovo a cui la TV non aveva dato una
convincente risposta trovò, invece, grandi aperture del mondo
della musica pop. Nei testi in musica dei più noti cantautori si
riconoscevano i pensieri e le emozioni che tutti provavano
nella vita quotidiana, anche se avevano molte difficoltà a
esprimerle.
Una nuova era si aprì con le canzoni di Battisti e Mogol:
nella musica del primo e nei testi del secondo. Battisti non
parlava di sé, né del suo tempo. Non si sentiva neppure
lontanamente l’eco della contestazione, delle passioni
politiche. Il sociale era lontano e non importante. Era il canto
libero delle emozioni. Quelle di quando si «guida a fari spenti
nella notte», ma anche di quando, una volta al mese, al
supermercato si spinge «il carrello pieno, sotto braccio a
te…». O quelle legate ai ricordi («mi ritorni in mente…») dei
grandi amori irripetibili e dei forti dolori di un tempo. Le
emozioni che tutti hanno provato almeno una volta nella vita.
Era una sorta di più attuale romanticismo, nel contesto di una
neo-cultura (di massa) popolare. Non era più necessario
«andare contro» o ribellarsi per sentirsi liberi e moderni.
Ancora oggi, poche note riportano a una stagione
irripetibile per molti italiani che «viaggiavano a fari spenti
nella notte» sospesi tra paure e ansie di modernizzazione.
Probabilmente, i battistiani erano già pronti a uscire dagli anni
di piombo per entrare in quelli «da bere», a farsi travolgere da
consumi e mode, a vivere con gioia il tempo nuovo, pieno di
proposte e lusinghe.
Molti equivoci interpretativi si devono ai testi di queste
canzoni (su cui Battisti interveniva assai poco) «sospesi tra il
banale e il sublime… [ma con una] capacità semi-medianica
nell’intuire tendenze e spostamenti progressivi del costume
[…]» (Berselli, 1999, pp. 86-87). Il sublime e il kitsch si
fondevano mirabilmente in quei testi. Si respirava comunque
una grande voglia di romanticismo: quella che Baglioni
avrebbe riempito qualche anno dopo.
Molto più radicali e critici furono i cantautori di sinistra, in
particolare Jannacci, Gaber, De André e Guccini.
Gaber aveva iniziato con canzoni belle, innovative, ma
ancora non particolarmente impegnate (La ballata del Cerutti,
Porta Romana); poi aveva duettato con Jannacci nel non
indimenticabile duo I Due Corsari. Erano gli anni del decollo
della scuola milanese, ricordando anche le esperienze dei
cantanti da cabaret del Derby (Cochi e Renato), dei Gufi, dei
testi di Fo e Strehler.
Erano anche gli anni in cui anche i veri poeti si
avvicinarono alla canzone: basti ricordare il testo di Franco
Fortini (cantato dalla Betti) «pomeriggio di domenica, […] di
millecento ferme sulla via con i vetri appannati di bugie e di
fiati lungo i fossati della periferia […] l’unico posto per fare
all’amore» (riportato in Jacchia, 1998).
Jannacci non era da meno quando cantava della sua
Vincenzina («che ama la fabbrica come se non ci fosse altro
che fabbrica…») che lavorava anche per poter avere quella
piccola casa (due stanze in periferia) dove vivere con il
proprio uomo. Era il risvolto sentimentale dell’istrione e buffo
Jannacci che cantava i disgraziati con «lucida e disperata
allegria» (ibid., p. 72), come nel caso di un barbone con «i
scarp del tennis» o di Vengo anch’io.
Una svolta importante fu quella del teatro canzone di Gaber
con i testi di Luporini: nel corso di trent’anni (con almeno
dieci spettacoli diversi) ebbe diverse risposte dal pubblico che,
nel corso del tempo virarono dall’entusiasmo a una certa
«diffidenza rispettosa». Il pubblico era prevalentemente
composto dalla media borghesia (riflessiva o progressista) che
si era andata riconoscendo nel PCI come unica alternativa alle
deludenti giunte di centro-sinistra. Non a caso Gaber cantava:
«qualcuno era comunista […] perché non c’era niente di
meglio […] non se ne poteva più di quarant’anni di governi
viscidi e ruffiani, […] perché piazza Fontana, Brescia, la
stazione d Bologna, l’Italicus, Ustica, eccetera, eccetera,
eccetera […]». E, più avanti, in un monologo, «qualcuno era
comunista perché […] sentiva il bisogno di una morale
diversa, forse era solo […] un volo, un sogno» (testi riportati
da Luporini, 2013).
Una speranza che andò almeno parzialmente delusa in
pochi anni. Non a caso, Gaber e Luporini misero come titolo a
uno dei loro ultimi spettacoli Anche per oggi non si vola!: ogni
speranza di cambiamento era limitata ormai nel cercare
«dentro se stessi» il significato da dare alla propria vita, senza
più credere nelle ideologie e, ancor meno, negli slogan. I
borghesi restavano tutti dei porci, ma non bastava più limitarsi
alla condanna. Diventava sempre più necessario capire,
approfondire: «un’idea, un concetto, un’idea, finché resta
un’idea è soltanto un’astrazione». Non si poteva andare avanti
con i soliti discorsi, come quelli del bar Casablanca, dove i
buoni borghesi «blue-jeans scoloriti, la barba sporcata da un
po’ di gelato, parliamo, parliamo di rivoluzione, di
proletariato». Sarebbe stato necessario parlare anche del
proprio personale (di Maria…) e non sempre del Vietnam e di
rivoluzione. Sarebbe stato necessario riflettere, approfondire,
le cose di reale impatto sulla vita di tutti e non solo parlare per
slogan.
Si cominciò a dire che Gaber, forse, non era più di sinistra,
specialmente quando provocatoriamente si domandava «ma
cos’è la destra, cos’è la sinistra?», scherzando su una bella
minestrina di destra e il minestrone di sinistra.
Di qui, l’amara conclusione: «la mia generazione ha perso».
Era l’ultimo Gaber, difficile da capire e da amare: forse anche
perché i suoi spettatori non avevano più la voglia di
interrogarsi e di darsi risposte. Forse, come cantò, «la realtà è
più avanti». Era una provocazione a cui il pubblico reagiva
istintivamente preferendo le canzoni facili anche se di grande
intelligenza (Lo shampoo, Le elezioni).
Neppure il suo carisma e l’amore del suo pubblico
riuscirono a far superare la stagione della delusione per la
politica e mantenere la speranza che si potesse fare qualcosa
per cambiare il Paese.
Più o meno nello stesso periodo, con De André, apparve un
mondo del tutto diverso. Era quello degli emarginati, degli
umili, dei ladri e degli assassini, delle minoranze tutte. Cantati
in ballate immediatamente coinvolgenti, anche grazie a una
voce inconfondibile. Raccontavano di personaggi particolari,
sicuramente ai margini della società, in storie sospese tra il
realismo e il simbolico. Storie, in cui si alternavano
indignazione e solidarietà, dolore e sarcasmo. Era la denuncia
appassionata di un anarchico non violento, malgrado le sue
invettive, che cantava di lacrime, sangue, disperazione e
morte. L’amore era rivolto soprattutto a chi era vittima di
tragici destini, non era solo quello tra un uomo e una donna.
Erano storie che si disponevano sulle coordinate di una
geografia e di una storia del tutto particolari. La geografia era
quella dei caruggi della sua città o di terre lontane (la
Sardegna, il carcere, i campi rom): un mondo più simbolico
che reale. La storia era quella della mai conclusa lotta di
individui soli contro un forte potere ingiusto.
Canzoni da ascoltare in gruppo, magari nei bus delle gite
scolastiche. Parole in musica che era naturale considerare
poesia (una domanda che né la scuola né i media riuscivano a
soddisfare), sicuramente qualcosa in più della semplice
«parola cantata». Un linguaggio poliedrico in cui coesistevano
dialetti diversi, al limite dell’invenzione e strumenti non
utilizzati abitualmente.
Un messaggio sicuramente «fuori dal coro»: si parlava di
povertà e antimilitarismo. Era una proposta scomoda per chi
era tentato dal cantare più per divertirsi che per pensare.
Ma il panorama della musica importante deve considerare
almeno due altri autori. In quegli stessi anni Guccini iniziava
infatti a cantare, contro ogni apparente logica commerciale,
del suo mondo (il suo paese, Pavana), delle difficili scelte
esistenziali e dell’ambiguità del sociale in cui continuavano a
comandare i partiti e la chiesa. Era il canto di un anarchico
libero, del tutto alieno da ogni retorica. Anche le sue storie
raccontavano di personaggi ai margini (e non colpevoli) che
non hanno saputo o voluto integrarsi. In una sua canzone
famosa (Dio è morto) parlò della morte ai bordi delle strade in
auto prese a rate e degli orrori di Auschwitz. L’unica soluzione
era la rivoluzione, quella che «sembrava avesse dentro un
potere tremendo, la stessa forza della dinamite […], scoppiava
nella via, la bomba proletaria e illuminava l’aria, la fiaccola
dell’anarchia» (riportata in Jacchia, 1998). Siamo nel 1972: le
lotte (operai e studenti) erano ancora vive e La locomotiva
divenne un inno cantato in coro dagli spettatori in piedi alla
fine dei suoi concerti.
Diversa e originale fu invece la proposta di Dalla. Anche in
lui la «parola cantata» aveva l’immediato suono della poesia,
anche se in chiave alquanto surreale. Le sue non erano
canzonette, ma opere compiute in tre-quatto minuti: sia che
fossero un melodramma (Caruso), un film (Anna e Marco) o
un saggio (L’anno che verrà, Futura).
Per qualche tempo Dalla fu conosciuto solo come
musicista, un grande clarinettista che aveva suonato con i
maggiori jazzisti del suo tempo. Altri (anche il poeta Roversi)
avevano scritto le parole, spesso bellissime anche se non facili,
delle sue canzoni. Il debutto anche come autore dei testi
(Come è profondo il mare) fu clamoroso. Era l’anno
dell’omicidio di Moro e, prima, della contestazione
dell’autonomia nella «rossa» Bologna. Le sue canzoni, in
modo profondo anche se indiretto, parlavano di quegli anni
difficili. Si possono considerare una collana di metafore (o
meditazioni?) sul cambiamento che stava avvenendo nel
paese. In Cosa sarà, Dalla si chiedeva cosa spingesse a cercare
«il giusto dove giustizia non c’è» e si domandava cosa è «che
ti fa comprare di tutto anche se è di niente che hai bisogno».
Nell’Anno che verrà, parlava dell’anno finito (in cui c’era
qualcosa che «ancora qui non va», tanto che «si esce poco la
sera […] si sta senza parlare per intere settimane») e di quello
prossimo nel quale si poteva sperare che «sarà tre volte Natale
[…] ci sarà da mangiare e luce tutto l’anno […] i muti
potranno parlare […] anche i preti potranno sposarsi ma
soltanto a una certa età…». Aggiungendo ironicamente che «la
televisione ha detto che il nuovo anno porterà una
trasformazione», per aggiungere alla fine, «vedi cosa si deve
inventare per poterci ridere sopra, per continuare a sperare».
Con un risvolto amaro: era evidente la convinzione che l’anno
appena iniziato si sarebbe consumato senza grandi speranze di
poterlo cambiare.
Con una considerazione finale su cui riflettere. Nei testi
(ma anche nel modo di cantarli) degli autori di cui si è detto, si
possono cogliere suggerimenti diversi sul modo di vivere e
sulla necessità di riflettere su quegli anni in cui sembrava
possibile uscire dalle convenzioni e dagli obblighi della vita
«normale», almeno come si erano imposti fin lì. Erano
suggestioni relative al bisogno di «sentirsi diversi» e
«moderni». Era una soggettiva presa di coscienza sul fatto che
i tempi erano sul punto di mutare profondamente: ancora
molto individuale e legata alle emozioni e non a un progetto
comune di cambiamento.
Abbiamo parlato di pochi protagonisti della storia della
musica italiana. Quelli che, a nostro avviso, hanno più
significativamente «raccontato il presente» (di quegli anni),
riuscendo a ricostruirne il senso o interpretandolo nei suoi
aspetti solo apparentemente marginali. È stato comunque un
modo, molto partecipato, di proporre parole e sentimenti senza
appiattirli sul banale. La parola cantata non fu forse poesia, ma
certamente non fu «solo canzonette».
Gli autori di cui abbiamo parlato ebbero maggior presa
presso un largo pubblico che non quello dei nostri pochi folk
singer che non riuscirono del tutto nell’intento di
modernizzare un repertorio di origine popolare. Così,
malgrado pochi ma importanti esempi (Giovanna Marini, Ivan
Della Mea), il genere popolare arrivò paradossalmente solo a
un pubblico colto ma limitato.
Ovviamente le scelte potevano essere diverse: ad esempio
si sarebbe potuto parlare di De Gregori, Vecchioni o di altri
artisti di grande valore come Battiato, Gaetano, Cocciante. O
di autori che hanno avuto grandi pubblici e inventato generi
come Baglioni, Vasco Rossi, Renato Zero. O, in tempi più
recenti di Ligabue e Jovanotti.
Molti tra i meno giovani si perdono ancora nel
romanticismo dei giovani amori di Baglioni, nel kitsch
sublime di Renato Zero, nelle avventure picaresche-provinciali
di Vasco. I più raffinati ricordano le musiche di Rino Gaetano
o le parole di Franco Battiato. Altri navigano ancora nei luoghi
lontani e nei personaggi mitici cantati da Vecchioni. E via cosi.
Nell’insieme e nella loro diversità i cantautori hanno
coinvolto un gran numero di persone impegnate a progettare e
seguire percorsi individuali (a forte soggettività) di
esplorazione, nel privato, dei tempi nuovi: quelli in cui i
sentimenti contarono progressivamente più della ragione e
della partecipazione politica.
Sulla base di una rivendicazione implicitamente condivisa:
«la storia siamo noi» (De Gregori). In questa chiave una storia
della canzone d’autore è ancora tutta da scrivere. Non è
materia banale. Sarebbe anche un modo per ripensare a un più
convincente discorso sulla cultura a cui canzoni e autori si
riferiscono: il termine «bassa» (da noi usata ironicamente, se
non paradossalmente) non riesce a darne compiutamente il
senso. Il termine, di origine statunitense, midculture è ancora
più equivoco.
Nel biennio 1975-76 ci fu un fenomeno di grande rilevanza
nel determinare la cultura della modernità e di quella giovanile
in particolare. Scoppiò il fenomeno delle radio private o libere:
entrambi gli aggettivi indicano la fine del monopolio
radiofonico della RAI.
La prima emittente (Milano radio international o Radio
Bra) è del 1975. Quando nello stesso anno la legge sulla
riforma dell’emittenza venne promulgata si stimò che le
emittenti in onda fossero diventate circa 150. Non tutte ebbero
lunga vita. Spesso erano iniziative di volenterosi non-
professional attratti dal mezzo per il relativo basso costo degli
impianti. Bastava un gruppo di amici presi dall’entusiasmo: a
spingerli era soprattutto la passione per la musica e una gran
voglia di poter enunciare a gran voce le proprie idee senza
alcun filtro, il bisogno di poter parlare di pensieri e sentimenti
personali e di sottolinearli con le canzoni in cui testi e autori
esprimevano gli stessi sentimenti.
Qualche emittente nacque anche dalle istanze sociali e
politiche che erano state alla base del movimento degli
studenti del 1977. In sintesi, molta musica e molte parole in
libertà, condite da un mix di ingenuo spontaneismo, ironia e
tanta voglia di capire quanto stava succedendo nel Paese e nel
mondo. Il film di Ligabue (Radiofreccia) lo ha raccontato in
modo esemplare.
La musica ebbe un ruolo sempre più importante: se
all’inizio aveva una semplice funzione di stacco tra i
programmi o di riempitivo, essa diventò con il tempo il codice
prevalente per individuare una certa emittente. Crebbe così
negli anni una non banale cultura in questo campo: gli
improvvisati speaker si destreggiarono anche come
informatori-docenti, parlando con apparente competenza sui
complessi-cantanti che mettevano in onda, sulla loro
provenienza e il loro particolare stile.
Le radio libere hanno contribuito alla globalizzazione
culturale dei più giovani. Qualche dj provò anche a mettere
insieme qualche parola di inglese: quelle che potevano essere
utili l’estate in vacanza al mare o nei viaggi all’estero, ma
soprattutto per cercare di capire i testi di canzoni bellissime
che parlavano di un mondo insieme lontano e vicino.
L’apporto fondamentale di queste radio fu però quello di
avere dato voce ai loro ascoltatori: tutti potevano «dire la
loro», senza filtri e nessun timore di fare brutta figura. Molti,
anche nei più sperduti paeselli e delle più diverse collocazioni
sociali, si impadronirono dell’etere. Un delirio di frasi (spesso)
«in libertà» ma in diretta, senza censure: dallo sfogo personale
alla dichiarazione politica che dava «precise» indicazioni sulla
linea da seguire per la «prossima» rivoluzione. Nel frattempo,
la politica non era più solo quella dei partiti, ma anche quella
(«portata avanti», come si diceva allora) dei movimenti.
Fu questa la rivoluzione avviata da queste radio. Il pavido
tentativo della RAI, di qualche anno prima, di dare spazio al
pubblico (Chiamate Roma 3131) non aveva convinto fino in
fondo, perché era evidente che ci fosse ancora un forte
controllo preventivo sui contenuti delle telefonate. Si sceglieva
chi doveva parlare, ed era presente una forte autocensura da
parte di chi era in onda relativamente alle cose che si potevano
dire.
Così dai tardi anni settanta, il pubblico, specialmente quello
giovanile (tra cui molte ragazze), si impadronì del mezzo
facendolo diventare un partner fisso delle proprie giornate. Era
anche un modo per «darsi voce», non avendo altre occasioni
per manifestare ciò che si sentiva dentro e i propri interessi. I
ragazzi parlavano di politica e di musica (rock), le ragazze di
sentimenti e di musica meno dura. Un diverso modo di
partecipare sulla base di quanto, almeno in quel momento, era
per loro importante, «vero». C’era molta ingenuità, ma anche
molto entusiasmo. Ognuno di questi ascoltatori coinvolti
pensava di essere «in presa diretta» con il proprio tempo.
Alcuni cantautori (da Dylan a De André e Guccini)
cantavano le parole che chi ascoltava avrebbe voluto dire
senza gli impacci alla Ecce Bombo. «C…» diventò un
intercalare d’obbligo e perse ogni carica dissacrante: adesso lo
usavano anche giovani ragazze e vecchie signore.
È stata l’illusione della libertà assoluta: nel pubblico come
nel privato. Quando non si riusciva a ottenere ciò che si era
sperato, era sempre possibile la fuga nella musica o nel ballo.
Negli anni successivi, per poche radio politicizzate ce ne
furono moltissime che trasmettevano praticamente solo musica
e pubblicità (locale) per mantenersi. Non tutte ce la fecero.
Quelle che ci riuscirono allevarono una generazione di
entertainer caratterizzati da uno stile che miscelava
spontaneità e ironia. Giocare con le parole divenne un modo di
dire, forse ancor più di pensare.
Alcune di queste radio si rivolsero prevalentemente a un
loro pubblico che le ascoltava in certe ore della giornata. Un
pubblico di nicchia (le più note arrivarono ad avere alcune
centinaia di migliaia di ascoltatori), ma fedele e attivo. Un
fenomeno destinato a aumentare anche quando i programmi
non si ascoltarono più solo da un apparecchio fisso, ma in
macchina durante brevi o lunghi viaggi.
Le radio libere furono più politiche: ma più che indicazioni
per un progetto comune, furono l’occasione per un
ripensamento personale. Chi ne rimase coinvolto fu spinto a
pensare «in proprio», ignorando maestri e ideologie.

10. Gli anni di piombo


La gran parte degli italiani aveva assistito ai «disordini»
(come veniva riportato nei giornali quanto accadeva dentro le
università e nel mondo del lavoro) senza comprendere fino in
fondo i motivi e le cause della protesta.
Il movimento (studenti e operai) ottenne un importante
effetto anche se non immediatamente evidente: diede un forte
impulso a una silenziosa «rivoluzione culturale» che riuscì a
trasformare in profondità i valori di fondo che guidavano le
relazioni sociali, ad esempio tra uomo e donna o tra chi
apparteneva a una diversa condizione sociale.
Ne fu interprete chi entrò nel mondo del lavoro con una
diversa mentalità o restò come docente nelle università. Se il
sociale e la cultura cambiarono fu merito loro, certamente non
dei partiti e delle istituzioni. I valori da cui era partita la
contestazione (rifiuto del sistema capitalistico, egualitarismo)
rimasero istanze ideali, ma non più del tutto astratte.
Un cambiamento culturale che assunse i toni della laicità,
come dimostrarono anche le indagini di un pioniere della
sociologia religiosa (Silvano Burgalassi) che, già dai primi
anni settanta, aveva dimostrato con le sue ricerche come i
credenti non fossero più del 40% degli italiani (in particolare
conformisti e tradizionalisti), con una maggioranza di
indifferenti e uno sparuto gruppo di atei (in Crainz, 2003, p.
176). Il concilio e i papi che seguirono non riuscirono ad
arrestare questa diaspora.
Un cambiamento socioculturale reale e profondo di cui la
politica non tenne, ancora una volta, adeguatamente conto;
non se ne accorse neppure in quanto ormai chiusa nella propria
progressiva autoreferenzialità.
Non a caso, l’immediata risposta alla contestazione
giovanile fu di stampo autoritario. La strategia della tensione
si realizzò con interventi sempre più duri delle forze
dell’ordine contro le manifestazioni di studenti e operai,
mentre vi fu maggiore tolleranza verso quelle dei gruppi di
matrice fascista che ebbero, di fatto, un indiretto
riconoscimento della loro esistenza. Un quadro in cui vanno
considerate anche le oscure manovre dei servizi segreti e
l’uscita delle mafie dai loro territori tradizionali.
La macchina dello Stato non si era autoepurata o innovata.
Era una macchina non solo «imballata», ma profondamente
conservatrice: certamente fu un ulteriore freno a ogni istanza
politica (peraltro debole) di cambiamento.
L’espandersi di questa zona grigia dello Stato (tentati colpi
di stato, segreti, indagini insabbiate, collusioni con mafie e
società segrete fino all’esplodere della P2) è ancora da
scrivere.
A dare il segno di una stagione difficile vanno ricordate le
bombe esplose alla Banca dell’agricoltura di Milano e la morte
di un innocente (Pino Pinelli).
Il dicembre del 1969 era caratterizzato da un mite inverno,
l’approssimarsi del Natale predisponeva alla serenità; un
primo timido benessere rendeva possibile fare regali ad amici
e parenti. Una consuetudine piuttosto recente.
Una tranquillità solo apparente, almeno nelle grandi città
del Nord. Qui i giornali e i telegiornali parlavano
continuamente di manifestazioni e scontri nelle strade. Le
sirene delle ambulanze e delle jeep della polizia ne erano il
sottofondo continuo.
Nelle università vi erano assemblee infuocate, così come in
molte grandi fabbriche. Studenti e operai (non ancora «uniti
nella lotta») sembravano voler mettere in discussione l’ordine
sociale che tanto stava a cuore a chi sognava il definitivo
abbandono della povertà. Si potevano finalmente immaginare
stili di vita moderni: le vacanze, bei vestiti, ma anche flirt
senza obbligo di fidanzamento, ecc. Era ciò che raccontava la
TV; dopo circa quindici anni dal suo avvento era già un potente
«apparato di distrazione di massa», come la definivano gli
«studenti ribelli». C’era molta musica nuova nell’aria: i
complessi rock e i cantautori su tutti.
Era la modernità: l’aveva definitivamente sancito lo sbarco
dell’uomo sulla Luna. Tutti lo avevano visto in TV.
In questo clima confuso ma volto all’ottimismo echeggiò,
improvviso e spaventoso, il boato delle bombe scoppiate alla
Banca dell’agricoltura di Milano; in piazza Fontana, davanti
all’Arcivescovado e a pochi passi dal Duomo. Rimasero uccise
sedici persone e ottanta furono i feriti: erano anziani
commercianti, come se si volessero colpire le tradizioni di una
città dalle salde radici democratiche.
Dopo poche ore fu arrestato un uomo (che si era recato in
questura con il proprio motorino, sicuro della propria
innocenza); dopo circa ottanta ore senza sonno e scarso cibo,
si disse fosse «precipitato» dalla finestra di una stanza di
piccole dimensioni in cui vi erano almeno quattro «servitori
dello Stato» (poliziotti e un carabiniere). Affermarono di avere
assistito impotenti al «folle gesto».
Per darne notizia, il principale giornale della città intitolò Si
uccide un ferroviere anarchico: i suoi alibi erano crollati.
Quali?
Quasi subito si trovò un altro «mostro»: un ballerino
anarchico che aveva depositato materialmente la borsa con le
bombe. L’aveva incastrato la «memoria prodigiosa» di un
taxista. Dopo molti anni risultò innocente. Non si trovarono
mai i colpevoli: l’unica certezza fu che i responsabili
appartenevano alla destra di matrice neofascista.
Lo sgomentò dilagò. Come potevano accadere fatti di
questo genere? Subito sembrò dominare la paura. Avvenne
invece un fatto inaspettato. Non tutti credettero alla versione
ufficiale, malgrado l’univoca posizione dei media. Non solo
chi aveva conosciuto Pino come uomo mite e puro, ma presto
anche molti giornalisti e intellettuali e poi studenti e operai lo
dichiararono a gran voce nelle loro assemblee.
All’inizio una minoranza esigua, poi sempre più nutrita
grazie a uno spontaneo circuito di controinformazione che
ebbe il suo culmine con la pubblicazione di un instant book, a
più voci, dal titolo inequivocabile La strage di Stato. Se ne
vendettero in poco tempo oltre 100 000 copie.
Importante fu il lavoro di quei giornalisti che non credettero
alla verità ufficiale. Basta, a questo riguardo, un fotogramma
simbolico relativo alle prime ore del fatto, quando si
presentarono alla porta di Licia, la moglie di Pino, tre
giornalisti: Camilla Cederna, Corrado Stajano, Giampaolo
Pansa. Non erano certo semplici cronisti di nera, avevano
compreso la gravità di quanto stava accadendo. Erano nel
pieno di tre splendide carriere. Stajano e Pansa avrebbero
narrato le vicende di un’Italia attraversata da una cattiva
politica. Il primo l’avrebbe anche rappresentata in molti
splendidi documentari per la RAI, si sarebbe occupato di mafia,
sarebbe stato eletto in Senato. Il secondo fu l’inventore
sarcastico di molte definizioni sui politici: la più celebre quella
di «balena bianca» a proposito della DC. La Cederna, che
veniva da interessi apparentemente più frivoli (come nella
celebre rubrica Il lato debole sull’«Espresso»), si impegnò
duramente da quel momento nel cercare di svelare i «misteri»
di un’Italia ammalata di cattivo uso del potere. Scrisse un libro
molto bello su Pinelli. Ne scrisse un altro, molto coraggioso,
sul presidente della Repubblica Leone (e sui suoi figli): fu una
delle cause che lo spinsero alle dimissioni. In Italia non era
mai successo prima e non sarebbe più successo poi.
Ovviamente gli intellettuali erano tutti nell’area della
sinistra. Andrebbero fatti molti nomi. Vanno almeno ricordati
un toccante filmato di Pasolini (che non ebbe grande
circolazione e successo) e lo spettacolo coraggioso di Dario Fo
e Franca Rame Morte accidentale di un anarchico.
Seguirono, negli anni, numerose vicende processuali che
non riuscirono a «ristabilire la verità»: non fu mai possibile
chiarire fino in fondo quanto era «successo in quella stanza».
È rimasto per sempre un segreto, molto ben custodito.
Con gli anni nessuno o quasi credette alla storia del
ferroviere-mostro. Recentemente il presidente della repubblica
Napolitano ha dichiarato che Pinelli «morì innocente», era
stato una delle vittime di quelle bombe.
Chi si ostinò ad accettare la versione ufficiale apparteneva
naturalmente a quel gruppo sociale di italiani conservatori
senza ideali, scettici e qualunquisti, che non avrebbero
neppure reagito dopo gli attentati di Brescia e dell’Italicus,
come se fossero tragica fatalità e non opera di gruppi mai
condannati anche se identificati. Per chi invece cercò di capire,
fu un (potente) incentivo per riflettere su come vivere e su
quali valori progettarsi. I più giovani furono svegliati dai loro
sogni: avere un buon posto alla fine degli studi, un matrimonio
con la scelta del partner, partecipare al sociale scegliendo un
partito da seguire con fiducia e via così. Nessuno di loro aveva
messo in conto di cedere di fronte a lottizzazione e corruzione:
erano fenomeni ancora da venire. L’onestà era un dovere
imparato naturalmente in famiglia e a scuola.
Fatti come la morte di Pinelli spensero la loro innocenza:
persero la fiducia verso istituzioni e politica. Molti iniziarono
un percorso di autorealizzazione; il privato sarebbe apparso
sempre più l’unico terreno in cui immaginarsi. Ai più furbi si
aprirono i percorsi ambigui della politica clientelare.
Fu uno spartiacque fondamentale: molto simile a quello che
aveva diviso gli italiani subito dopo la guerra. Adesso la
divisione passava tra chi correva il forte rischio di perdere le
ultime illusioni nel cambiamento e chi si impegnava a trarre
risorse e vantaggi dal malfunzionamento della sfera pubblica.
Così, tra velleità rivoluzionarie portate fino alla violenza (la
rivoltella divenne simbolo di un’assurda identità personale) e
cecità istituzionale, si scivolò negli anni di piombo. Girare per
le vie delle grandi città (come a Milano) divenne motivo di
timore. Gli incidenti potevano scoppiare all’improvviso e
ovunque: la colonna sonora di quegli anni aveva come
sottofondo il suono dalle sirene della polizia e delle
ambulanze. Il sindaco di Milano di allora (Aniasi), per avere
manifestato la sua tristezza nel vedere il pesante schieramento
delle forze dell’ordine nelle vie della sua città, fu accusato di
essere «rosso» e di non rappresentare tutti i milanesi. Forse era
vero: non erano i «suoi» milanesi, ad esempio, quelli che
sfilavano nei cortei della cosiddetta maggioranza silenziosa,
riuscendo a dividere chi si riconosceva nella comune
appartenenza nella DC.
Fortunatamente, Milano e il Paese reagirono; il «Corriere
della Sera» non seguì quelli che erano stati, fino ad allora, i
suoi lettori più conservatori e fu, a sua volta, accusato di
sinistrismo. A descrivere quegli anni furono le inchieste di
grandi giornalisti come Cederna, Bocca, Pansa. Importante fu
anche l’impegno di altre categorie: ad esempio, i magistrati,
specialmente i più giovani. Si parlò di «pretori d’assalto» a
proposito di quelli che si occupavano dei problemi del lavoro.
Il mondo degli insegnanti seppe, sia pure non nella sua totalità,
tener conto dei loro (ormai diversi) allievi e cercò di portare
qualche innovazione, nella didattica e nel rapportarsi con loro,
sia pure nei limiti di programmi e indirizzi rimasti pressoché
immutati.
La classe politica non si dimostrò neppure in grado di
affrontare i concreti e drammatici problemi posti dalla grande
crisi (petrolifera) del 1973. Il Paese si salvò grazie a una forte
ristrutturazione produttiva con l’espulsione di migliaia di
lavoratori dalle grandi imprese o dalle piccole aziende
dell’indotto. Quelle con un numero minore di occupati
resistettero meglio alla crisi, anche per le loro particolari
modalità di impiego e assicurative. Queste piccole aziende si
basavano sul lavoro di familiari (a volte compaesani) e di
lavoratori con i quali era naturale avere un rapporto informale,
fuori da ogni regola. Non a caso si cominciò a parlare di
lavoro nero e di doppio lavoro.
Un sociologo (Bagnasco) suggerì che esistessero ormai tre
Italie: al Nord industriale, si accompagnavano un’Italia
centrale (nella dorsale adriatica) in cui erano sorti i «distretti»
(fondati su una particolare specializzazione produttiva) e il
Sud agricolo.
Il mutamento nel sistema economico-produttivo aveva
cause profonde già emerse negli anni precedenti. Fin dai tardi
anni sessanta il censis aveva indicato alcuni fattori strutturali
all’origine della crisi, primo tra tutti l’iniqua distribuzione
delle risorse: le retribuzioni erano cresciute (in proporzione)
meno dei profitti, erano differenti nell’industria o
nell’agricoltura, tra Nord e Sud, tra uomini e donne, e così via.
Il tutto nel quadro di una conflittualità operaia non gestita (e
tanto meno avviata a risoluzione) politicamente, ma solo
contenuta.
Lo Stato aveva assistito, senza intervenire, alla
ristrutturazione del sistema industriale fondata su una decisa
riconversione tecnologica (i robot nella catena di montaggio) e
un forte decentramento produttivo: fenomeni che avevano
causato, come si è detto, l’espulsione di un gran numero di
lavoratori dal settore industriale. Questi si riconvertirono
trovando lavoro nelle piccole-medie imprese o nel terziario
povero del commercio o del turismo. Non pochi gonfiarono il
numero di impiegati nelle amministrazioni locali o nelle
imprese pubbliche. Altri fecero ricorso a sussidi (le pensioni di
invalidità) e a favori clientelari di vario tipo, con uno
«scaricamento sul pubblico» del loro costo. Un perverso
welfare che avrebbe in pochi anni messo definitivamente in
crisi il bilancio statale.
I protagonisti (operai e piccole industrie) del sistema
economico impararono ad «adattarsi» e «galleggiare»: termini
usati del censis in diversi rapporti annuali dal 1972 al 1978 per
evidenziare una crescente economia del sommerso.
Si cominciò a parlare del sistema economico come
«conglomerato complesso», caratterizzato da uno stato di
«elasticità nella precarietà». Sarebbe stato necessario, secondo
gli estensori dei diversi rapporti, un deciso intervento
regolatore capace di ordinare la caotica pressione dei «bisogni
individuali e dei comportamenti di carattere corporativi»
(Rapporto censis 1972) anche per contrastare una crescente
deresponsabilizzazione collettiva. (Rapporto censis 1973) In
mancanza di regole, si arrivò a una privatizzazione del
pubblico, cioè «a una strumentalizzazione dell’intervento e
delle risorse pubbliche a interessi categoriali, corporativi,
familistici, che ha minato nel profondo la funzionalità e la
credibilità di molte istituzioni» (Rapporto censis 1977, p. 163).
Si parlò di «società del cespuglio», in cui «l’indifferenziato
e l’inassociato non potevano fare sistema» (Rapporto censis
1978), anche a causa del contrapporsi (sterile) tra esigenze
sociali e fini individuali. A questo proposito, gli estensori dei
rapporti misero in luce il riemergere (in chiave più attuale)
dell’antica pratica dell’arte di arrangiarsi degli italiani.
Contemporaneamente vi fu un forte aumento delle spese
relative a quelle riforme (ad esempio, l’istituzione del servizio
sanitario nazionale e il sistema delle autonomie regionali) che,
salutate con molto entusiasmo al loro avvento, contribuirono
invece a un massiccio e progressivo aumento delle spese senza
il ritorno di adeguati benefici collettivi. Inoltre, lo Stato fu
costretto a ripianare i debiti accumulati da molte imprese a
gestione pubblica che avevano accumulato gravi perdite di
gestione; si creò perfino un ente specializzato nel loro
salvataggio.
Questa sciagurata politica si fondava su un’assurda e
inefficace elargizione di risorse pubbliche in chiave
clientelare. Un welfare caritatevole più che solidaristico. Era la
macchina inventata dalla DC per lenire il malcontento sociale,
ma anche come necessità di gestire il potere dei «signori delle
tessere». Sarebbe stata necessaria una decisa politica fiscale
per sostenere queste spese straordinarie. Non si affrontò però
mai questo problema e non si perseguì in alcun modo
l’evasione.
Così, il disavanzo pubblico superò il 60% del pil; sarebbe
aumentato rapidamente per assestarsi attorno al 130% ai giorni
nostri. Questa continua emorragia del denaro pubblico fu un
ulteriore e rilevante motivo di impossibilità di «mettere mano
alle riforme». Una sorta di perversa e obbligata
razionalizzazione (o giustificazione-obbligo) dell’inefficienza
della macchina statale.
L’anomalia di questo sistema-Stato (spese folli e mancate
riforme) divenne un carattere noto anche a chi non si
interessava particolarmente di politica e si limitava a una
superficiale informazione tramite i quotidiani e la TV. Qui
vedeva sfilare le «maschere funebri» (Pasolini) dei politici,
dall’aspetto non gradevole e dall’eloquio incomprensibile.
L’informazione parlava ogni giorno di problemi irrisolti e
dell’inefficienza dei politici. L’immagine di chi «gestiva lo
Stato» divenne sempre meno credibile. I media non furono
all’altezza di un compito (spiegare, chiarire, cosa stava
avvenendo e quali ne fossero le cause) forse complicato ma
non impossibile. Si preferì la denuncia (l’invettiva del
momento) all’indagine (l’approfondimento), alimentando così
una sempre più diffusa disaffezione verso la politica.
Gli scandali della finanza corrotta (Sindona, Calvi), le
tangenti miliardarie (l’affare Lockheed), l’esplodere dalla P2)
alimentarono un clima un progressivo deficit di credibilità
della politica e del potere.
Il «mistero dei misteri», rimasto ancor più insoluto dei fatti
relativi ad attentati e trame sovversive, fu il perverso intreccio
tra massoneria, partiti e banche. È stata la fondamentale trama
nascosta, anche se decisiva, nell’ambigua gestione del potere
economico e politico nel nostro Paese, fino ai nostri giorni.
Ne sappiamo ancora molto poco, malgrado il lavoro di
storici e giornalisti. Se ne conoscono solo i fenomeni eclatanti
(l’apparente suicidio di Calvi sotto un ponte di Londra,
l’assassinio da parte di un sicario americano di Ambrosoli
chiamato a chiarire gli intrecci perversi degli affari del Banco
Ambrosiano, e ancor prima l’uccisione di Sindona in carcere),
ma non gli intrecci tra mandanti nascosti e protagonisti minori.
Un aspetto inquietante ha riguardato il coinvolgimento della
finanza vaticana (lo ior); talmente profondo e così poco chiaro
da preoccupare profondamente, anche in tempi recentissimi, i
due ultimi papi.
È uno dei tre grandi territori misteriosi che rendono difficile
ancor oggi scrivere una storia del Paese: riguardano banche e
finanza, mafie e associazioni segrete (massoneria),
finanziamento dei partiti. Sarebbe un errore ritenere che tutto
ciò appartenga al passato: anche la cronaca di oggi riporta alla
grande diffusione e gravità di questi fenomeni.
Sarebbe oggetto di forte preoccupazione pensare che, nel
frattempo, la società contemporanea sia dominata dal
finanzcapitalismo, che le banche continuino ad avere
criticabilissime strategie (non certo a vantaggio di piccoli
imprenditori e famiglie) e «debbano» comunque essere
«salvate», che la corruzione dei politici sia diventata materiale
di cronaca di scarso interesse per la sua prevedibilità e
ripetitività, che non si siano ancora chiariti i rapporti tra Stato
e Mafia negli anni novanta.
Qualche motivo di forte riflessione sembrerebbe d’obbligo.
Non sembra che ciò avvenga.
Le spese relative al crescere degli apparati organizzativi dei
partiti continuarono ad aumentare, richiedendo una sempre più
elevata quantità di risorse economiche da reperire in
«qualsiasi» modo. Anche la legge sul finanziamento pubblico
ai partiti (presentata come baluardo contro la corruzione) si
trasformò (e come tale venne percepita) in un’ulteriore forma
di finanziamento che si aggiungeva a quello occulto.
La metafora del palazzo (impenetrabile e misterioso, se non
«marcio») divenne il modo più comune per considerare il
mondo dei politici e dei loro affari; corruzione e clientelismo
le caratteristiche di fondo usate per descriverlo. La
«democrazia dei partiti» che aveva fatto decollare il Paese
Italia alla fine della guerra entrò progressivamente in grave
crisi.
La tradizionale borghesia parassitaria si era adesso
trasformata in speculativo-finanziaria. La posta in gioco era
ulteriormente aumentata: i nuovi settori di intervento
riguardavano l’esportazione di capitali e i traffici di valuta,
ovviamente oltre ai «soliti affari» diventati miliardari.
Era in forte pericolo il corretto funzionamento delle
istituzioni democratiche infiltrate da quelli che si sarebbero
definiti «poteri forti». Fiumi di denaro di dubbia provenienza
alimentarono un’economia corrotta e improduttiva, da alcuni
impropriamente definita «secondo miracolo economico».
Questa euforia fece da contesto alla corsa ai consumi intesi
sempre più come status symbol. Sarebbe stato il clima della
«Milano da bere» degli anni ottanta.
L’individualismo povero del «familismo amorale» (pensare
alla propria famiglia, difendendola da calamità e povertà) si
trasformò nell’individualismo egoista e rapace del ceto
parassitario che lucrava le risorse pubbliche, ovviamente senza
alcun vantaggio per la comunità.

11. Gli anni del mancato cambiamento


La crisi precipitò nel giro di pochi anni. Nel 1974 vi furono
due orribili stragi: l’attentato al treno Italicus e la bomba in
piazza della Loggia a Brescia. Si ripeté il copione di Milano
nel 1969 e di molte altre occasioni: le indagini non portarono
ad alcun risultato anche a distanza di tempo. Il terrorismo
rosso e nero aveva alzato il livello dei suoi interventi: nelle
grandi città cresceva la tensione. Non furono mai trovati i
colpevoli. L’ombra dei servizi deviati e dei gruppi neofascisti
era sempre più forte.
Un poeta (Pasolini) in un articolo sul «Corriere della Sera»
del 1974, scrisse: «Io so i nomi dei responsabili delle stragi di
Brescia e di Bologna […]. Io so i nomi di coloro che tra una
messa e l’altra hanno dato le disposizioni e assicurato la
protezione politica a vecchi generali […]. Io so tutti questi
nomi e so tutti i fatti… di cui si sono resi colpevoli. Io so. Ma
non ho le prove. Non ho nemmeno indizi […]» (riportato in
Crainz, p. 484). E concludeva, sconsolato, io so perché cerco
di immaginare «tutto ciò che non si sa o che si tace».
Era ciò che pensavano molti italiani, anche se non così
lucidamente. Chi cercò di capire non poté fare riferimento a
nessuno capace di fornire prove o almeno di suggerire indizi.
Chi avrebbe dovuto scovare e denunciare i colpevoli
continuava a mantenere un atteggiamento ambiguo se non
omertoso.
Molti rinunciarono a capire: un motivo ulteriore per
allontanarsi dal pubblico, luogo di misteri e corruzione. Vi
avevano contribuito, in eguale misura, il terrorismo assurdo e
l’inanità di gran parte dei politici. L’arresto del generale
Maletti (ai vertici dei servizi segreti) confermò il sospetto
diffuso del coinvolgimento diretto della «zona grigia» dello
Stato. La credibilità della classe politica toccò il suo livello più
basso con lo scandalo Lockheed che vide coinvolti, tra gli
altri, alcuni ministri che non riuscirono a scagionarsi in modo
convincente.
Nel frattempo erano cresciuti in modo esponenziale gli
scioperi. Continuavano le proteste degli autonomi e dei gruppi
più duri tra gli extraparlamentari: l’atto più emblematico fu
l’assalto al palco del segretario della cgil, Lama, all’università
di Roma nel 1977. Il servizio d’ordine degli operai fu messo in
fuga dagli studenti che cacciarono i comunisti traditori. Fu una
dura sconfitta per il PCI impegnato in una politica di alleanze
per arrivare al compromesso storico. Incidenti analoghi
avvennero a Bologna, città rossa per eccellenza, anche se un
anno dopo il PCI riuscì a «rioccupare» le vie e le piazze della
città, riaffermando il «potere democratico» (fermo e vigilante)
del partito, grazie anche alla forte credibilità del sindaco
Zangheri.
Nello stesso anno avvenne un altro fatto tragico, anche se
non insolito in quegli anni: venne uccisa a Roma una
studentessa (Giorgiana Masi). Sulla lapide a ponte Garibaldi a
Roma si legge: «se io non fossi impotente di fronte al tuo
assassinio…» che dice molto, ancora oggi, dello sgomento di
chi partecipava (o ogni giorno leggeva e vedeva in TV) alle
manifestazioni che finivano fatalmente per scontrarsi
duramente con la polizia.
Il 1977 si chiuse con l’uccisione di un agente da parte di un
autonomo nelle strade di Milano. La fotografia del ragazzo
mascherato che prende la mira per sparare a un poliziotto è
l’icona tragica di quei mesi. Un’immagine che si rilevò in
seguito falsa, ma che è rimasta incancellabile
dall’immaginario collettivo relativo a quegli anni.
Pochi giorni dopo venne gambizzato (un tragico
neolinguismo) Montanelli: aveva consigliato i suoi elettori di
votare DC «turandosi il naso» per resistere all’avanzata dei
rossi. Dopo pochi giorni subì la stessa sorte il direttore (molto
stimato) del tg 1 (Rossi). Erano il prodotto della folle ideologia
dei «rivoluzionari armati» che considerava pericolosi nemici
(della rivoluzione) chi faceva onestamente il proprio lavoro. Si
gambizzarono o uccisero giudici, dirigenti e anche operai: nel
1979 venne ucciso un militante comunista alla Fiat di Torino
accusato di aver denunciato un compagno «fiancheggiatore»
delle br. Tutte vittime innocenti di una paranoia rivoluzionaria
che non ottenne consensi e/o seguaci. Finì senza aver
raggiunto alcun risultato e nessun rimpianto, con però una
grave colpa: aveva contribuito a uccidere la partecipazione
politica dei cittadini. Ognuno si sentì più solo e ritenne inutile
lottare per un qualche ideale. Con una ulteriore perversa
conseguenza: i politici si liberarono, anche per questa via, dal
controllo dei cittadini.
Nel mondo, negli stessi anni, si assistette alla denuncia (e
alla fine) della rivoluzione culturale di Mao da parte del
Partito Comunista Cinese, all’elezione di Brežnev a segretario
del partito comunista in Russia, ai primi scontri tra israeliani e
palestinesi. Ma, forse, il fatto più clamoroso furono le
dimissioni di Nixon in seguito all’affare Watergate. Fu la
celebrazione della democrazia (e del ruolo dei media liberi) in
una nazione che aveva visto sbiadire la sua immagine di Paese
libero nella guerra del Vietnam che stava clamorosamente
perdendo: la foto degli elicotteri che aiutavano a fuggire da
Saigon gli ultimi americani sarebbe rimasta a lungo (assieme a
quella della bambina nuda sfuggita alle fiamme del napalm)
nella memoria di chi aveva tifato per i poveri combattenti delle
risaie che erano riusciti a vincere la prima potenza mondiale.
Episodi che «toccarono la coscienza» di molti che stavano
orientandosi a sinistra, nel nostro Paese principalmente a causa
del malcostume dei politici al potere.
In questo contesto, nel 1975 si tennero le elezioni locali, i
cui risultati (DC, 35,3%; PCI 33,4%; PSI 12%; MSI 6,4%) furono
in parte inaspettati. Permisero la nascita delle giunte rosse in
molte regioni e città, soprattutto nel Centro-Nord. Fu una
svolta senza precedenti. Il paese sembrava davvero deciso a
cambiare.
Non a caso, il PCI si era presentato alle elezioni con lo
slogan «è ora, è ora, è ora di cambiare; il PCI deve governare».
Uno slogan credibile, grazie al patrimonio di non settarismo,
onestà, competenza amministrativa, accumulato negli anni da
molti funzionari di questo partito nelle realtà locali. Era
credibile perché il PCI non era omologabile agli altri partiti, in
particolare alla DC. Insieme al PSI rappresentava la modernità:
certamente i suoi esponenti erano diversi dalle facce dei vecchi
notabili DC, come apparivano regolarmente sugli schermi della
TV o negli ultimi cinegiornali.

Con una certa enfasi, Pasolini, in un articolo, affermò: «Il


Partito Comunista Italiano è un Paese pulito in un Paese
sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese
intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese
ignorante, un Paese umanistico in un Paese consumistico.»
Forse non così intelligente e colto, visto che avrebbe espulso il
poeta per un vizio allora non tollerabile, l’omosessualità.
Lo scontro tra i partiti non avveniva solo sul terreno della
produzione (i conflitti e i problemi del lavoro), ma adesso
anche su quello della riproduzione sociale (la scuola, le
condizioni di lavoro, la vita familiare); divenne naturale
battersi per i propri diritti di cittadino come persona in un
ambiente possibilmente non danneggiato.
Un segno preciso in tal senso fu il referendum sul
mantenimento della legge sul divorzio: andò a votare l’80%
degli italiani e quasi il 60% dei votanti si pronunciò a favore
del suo mantenimento, sconfiggendo clamorosamente chi
credeva che la società italiana fosse su queste tematiche ancora
molto arretrata. Nello stesso periodo fu approvata la legge sul
diritto di famiglia che riconosceva dignità a figure fino ad
allora ai margini, come le donne e i bambini. Le battaglie del
movimento femminista ottennero nuovi e maggiori consensi,
malgrado i toni (spesso troppo) accesi delle loro denunce
sicuramente condivisibili. Crebbe comunque un maggior
riconoscimento di un diverso ruolo sociale della donna. Non
era cosa da poco.
Ci fu (anche se breve) un inaspettato ritorno di interesse
verso la politica. Quando, un anno dopo, si tennero le elezioni
nazionali, i risultati confermarono (DC 38,9%; PCI 33,8%; PSI
10,2%; MSI%. 6,1) sia l’avanzata del PCI che la tenuta della DC.
I due partiti, insieme, ottennero oltre il 70% degli elettori. Il
PCI toccò il suo massimo consenso; i democristiani tennero (la
paura della sinistra e dei «tumulti» degli anni precedenti aveva
avuto un forte peso); i socialisti ebbero uno scarso consenso
(forse erano ancora ritenuti subalterni all’altro partito della
sinistra); i neofascisti non raccolsero i consensi che
sembravano aver conquistato nelle piazze.
Da valutare anche il fatto che i diciottenni parteciparono
per la prima volta al voto.
Sembrava aperta la stagione dell’alleanza, sia pure tattica,
tra DC e PCI, ma i vertici comunisti sottovalutarono la tattica
dilatoria di Moro e il veto degli USA ribadito più di una volta e
anche alla vigilia delle elezioni in occasione di un viaggio di
Moro negli States. Ciò malgrado le ribadite affermazioni sulla
scelta della via italiana del partito e di accettazione della Nato
fatte pubblicamente da Berlinguer.
Si aprì la stagione dei governi di sinistra nelle regioni e
nelle citta, prevalentemente del Centro-Nord: Piemonte,
Liguria, Emilia-Romagna, Umbria, Lazio, furono regioni
rosse. Il PCI divenne il partito più forte nelle giunte cittadine
delle grandi città, tra cui Milano, Torino, Bologna, Roma e
Napoli, oltre a molte altre non capoluogo di regione.
Una grande svolta con due principali conseguenze. La
prima fu quella di far considerare diverse, in termini di voto, la
questione locale da quella nazionale. Sarebbe stato un dato
ricorrente nella geografia elettorale italiana. La seconda (forse
più importante) fu che le nuove giunte garantirono una
maggiore partecipazione a livello culturale e sociale grazie alle
numerose iniziative volte a questo scopo e di cui parleremo
più avanti a proposito di Milano.
Il possibile, ma mai realizzato, accordo tra PCI e DC lasciò
grandi margini di incertezza sul futuro del Paese. Si aprì la
confusa stagione dei governi di «solidarietà nazionale» e della
«non sfiducia». Questi furono la massima apertura concessa da
Moro, che teorizzava tempi lunghi «per una naturale
evoluzione senza allarmanti fratture», paventando rischi per il
sistema politico italiano o forse solo per la DC che, come disse
lui stesso, sarebbe stato necessario trasformare. Lo statista
pugliese si spinse fino a dichiarare che al PCI sarebbe stato
possibile riconoscere «un ruolo di partner subalterno rispetto
alla centralità democristiana». Qualcosa di simile a quanto era
avvenuto, anni prima, con il PSI nei governi di centro-sinistra.
L’«utopica» apertura del compromesso storico si infranse
contro la resistenza democristiana e la diffidenza socialista
quando Craxi divenne segretario autonomista nel 1976.
Papa Giovanni Paolo II, con forti diffidenze verso il
comunismo, salì al soglio pontificio nel 1978, dopo la breve
parentesi «angelica» di papa Giovanni Paolo I.

12. La morte del cinema (italiano)


Il cambiamento culturale procedeva invece a grandi passi.
Nel mondo dei media stavano avvenendo grandi
trasformazioni. Una rilevante, ma negativa, riguardò
l’industria cinematografica. Alla fine degli anni settanta si
parlò di morte del cinema: la TV aveva preso il suo posto nei
sogni (a pagamento) degli italiani. Era la fine di una stagione.
La scomparsa di De Sica (1974), Visconti (1976), Rossellini
(1977), assieme a quella tragica di Pasolini (1975), ne era
sembrata una triste anticipazione. Erano tempi altrettanto tristi
per il Paese: la morte di Moro sembrò annunciare la fine della
Repubblica nata dalla Resistenza. Una coincidenza forse non
del tutto fortuita.
Emblematici di questo periodo sono alcuni film: innanzi
tutto I nuovi mostri (Monicelli, Risi, Scola, 1977 come sequel
di quello del 1963), Un borghese piccolo piccolo (Monicelli,
1977), Prova d’orchestra (Fellini, 1979). In modi molto
diversi parlavano della disgregazione della società italiana. Il
più allusivo fu quello di Fellini: la necessaria (e riconosciuta)
autorità di un prestigioso direttore d’orchestra (per di più
tedesco) era l’unica possibilità per «rimettere al loro posto» gli
orchestrali contestatori che pronunciavano, invece di suonare,
frasi prive di senso. Insieme una metafora e una profezia. Non
ebbe, però, molto successo: forse la gente viveva, impotente e
spaventata, storie analoghe tutti i giorni.
Più vicina ai tempi, e perciò di più facile immedesimazione,
la parabola tragica del padre (piccolo borghese) deluso dal
destino del figlio su cui aveva risposto tante speranze.
Cominciava a succedere a molti, frustrati nel loro sogno di
ascesa sociale. Assolutamente surreale era, invece, la galleria
dei nuovi mostri. Questi sembravano suggerire il definitivo
realizzarsi della profezia (la drammatica rivoluzione
antropologica) di Pasolini: il benessere produceva alieni e non
persone adatte a vivere i tempi nuovi. La metafora era
evidente: l’edonismo aveva prodotto umani disumanizzati.
Il cinema, come industria, perdeva colpi. Un segnale
inequivocabile fu il drastico ridursi del pubblico, che passò
dalle oltre 500 000 presenze (biglietti) del 1975 alle circa 120
000 del 1985.
Un crollo dovuto ad alcune cause, tra le quali: i film italiani
scadenti (inadatti a sostenere la concorrenza di Hollywood), un
certo timore a uscire di casa la sera nelle grandi città,
l’emergere di altre occasioni del tempo libero, ma soprattutto
l’invasione della TV con una crescente offerta di programmi
(spesso) di un qualche interesse.
La TV tolse pubblico, ma diventò un importante produttore
di molti film. Aveva già avuto, alla fine degli anni settanta,
alcuni prestigiosi riconoscimenti: a Cannes, con Padre
padrone (1977 dei Taviani) e nel 1978 con L’albero degli
zoccoli di Olmi. La Fininvest si sarebbe presto affiancata con
buoni risultati.
Il cinema italiano, nella sua produzione normale, sembrava
comunque di un altro pianeta (piccolo e molto provinciale)
rispetto a quello americano: basti pensare a Lo squalo
(Spielberg, 1975), Star Wars (Lucas, 1977), Manhattan (Allen,
1979), I predatori dell’arca perduta (Spielberg, 1981).
Malgrado ci fossero alcuni grandi registi (Bertolucci, Olmi,
Pasolini), anche il cinema italiano scelse di «galleggiare»
grazie agli incassi dei suoi prodotti minori. La crisi parve però
inarrestabile: si passò dalla produzione di 240 film nel 1975 ai
90 di dieci anni dopo.
I film campioni d’incasso furono costruiti attorno a un
(piccolo) divo del momento, meglio se televisivo: Celentano
su tutti e poi Pozzetto, Villaggio, Abatantuono. Film
certamente non indimenticabili. Analoghi per furberia
produttiva furono quelli incentrati su donne poco vestite
(meglio se spiate da un buco della serratura mentre facevano la
doccia), oggetto del desiderio da parte di un Pierino (Alvaro
Vitali). Un sogno adolescenziale e banale per uomini
(probabilmente) un po’ frustrati.
Un altro filone fu quello delle parodie dei film di avventura,
tutti pugni e botte, recitati dalla coppia Terence Hill e Bud
Spencer o le parodie dei western, modesti eredi dei grandi film
di Sergio Leone.
Come è evidente, non si sciuparono molte energie ideative.
Erano film a basso costo (salvo i cachet dei divi che
funzionavano da richiamo) girati in fretta e sciattamente.
Nel complesso una produzione progettata per attrarre un
pubblico senza pretese. Tattica miope: di un certo successo in
qualche caso, ma anche di molti flop che causarono il
fallimento di produttori improvvisati che non avevano capito
che il pubblico stava cambiando.
Va però anche ricordato che nelle grandi città stavano
progressivamente sparendo le seconde e terze visioni (a poco
prezzo e vicine a casa) e che nelle piccole città o nei paesi
andavano chiudendo anche le benemerite sale parrocchiali.
Solo qualche anno dopo si impose il cinema d’essai e sorsero i
primi multisala.
Era la sfida tra industria (quella dei film americani, che
prestava una grande attenzione a distribuzione e promozione,
oltre che all’ideazione e alla produzione) e artigianato (spesso
minore) che si limitava ad affidarsi all’attore noto o alle mode
del momento. L’esito era scontato.
Era questo il panorama che indusse a parlare della morte
del cinema. In realtà, si trattava di una crisi, grave ma non
definitiva. Dopo i grandi maestri e quelli che li avevano
sostituiti come artefici di film di qualità (Risi, Comencini, tra
gli altri) arrivò la stagione dei nuovi grandi registi, come
Ferreri, i Taviani, ecc.
Si stava esaurendo nel frattempo la vena del Monicelli
malinconico, sempre più scettico sui destini della società
italiana e del cinema che lo avrebbe potuto descrivere,
prendeva invece forma il tragitto di Scola che, nei suoi film,
descriveva la vita della gente comune nella quotidianità, con le
loro relazioni felici o tristi, ma vere. Per questo era facile
immedesimarvisi: giovava ovviamente la bravura degli
interpreti, Gassmann e Mastroianni su tutti. In C’eravamo
tanto amati (che sembra proseguire il racconto di Una vita
difficile di Risi) viene descritta la parabola del diverso destino
di compagni che erano stati molto uniti ai tempi della
Resistenza. Con meno pessimismo e più realismo. Alla fine,
come bilancio delle loro vite, appaiono vincenti (perché veri
nei loro affetti e nel modo di affrontare la vita e le relazioni
con gli altri) coloro che erano confinati in umili professioni e
perdente chi si era sembrato vincente, per aver avuto successo,
forse senza merito.
La parabola filmica sulla storia italiana continua con Una
giornata particolare (1977) in cui si descrive, con molta
delicatezza, un amore impossibile tra due emarginati (non a
caso un omosessuale e una moglie sfiorita, non più amata e
rispettata) che cercano di conservare la propria identità in un
tempo di vuoti proclami e slogan assurdi, e con La terrazza
(1980) in cui alcuni personaggi (fantasmi di un tempo vuoto)
si incontrano parlando del nulla, forse solo per mostrarsi agli
altri che contano. Un percorso che ha una sua conclusione: La
famiglia (1987) è una sorta di saga su un nucleo familiare
borghese dal fascismo fino all’incerto e confuso dopoguerra.
Ancora una volta, vincono le persone vere, mentre non riesce a
perseguire i propri ideali (d’amore o economici) chi si perde
nei sogni impossibili di una piccola borghesia che non sa
interpretare e vivere i tempi nuovi e diversi.
Nel frattempo continuava il successo del cinema americano.
Gli spettatori più avvertiti, prevalentemente giovani, si
orientarono verso i grandi registi americani come Spielberg,
Lucas, Coppola e i loro film, come Blade Runner» (Scott,
1982) ed E.T. (Spielberg, 1982) che anticipavano, con grande
impatto spettacolare, un futuro fantascientifico su cui
interrogarsi o semplicemente di cui spaventarsi. Accanto al
futuro, vi era il passato (fiabesco) delle favole dei fantasy; film
con molti mostri e grandi effetti speciali su un mondo
fantastico che alludeva a possibili incubi, solo apparentemente
assurdi in chi frequentava le patinate vie delle moderne
metropoli.
Il cinema italiano perse ogni possibilità di confronto:
sarebbe approdato pochi anni dopo ai cinepanettoni, con
comici e belle donne che si muovono in trame che ricordano le
antiche pochades degli anni trenta. Era l’eredità del cinema
minore degli anni precedenti, senza fantasia e dal banale (oltre
che ripetitivo) umorismo.

13. La modernità nel privato, l’egemonia della TV


Gli anni settanta-ottanta furono quelli della definitiva
affermazione della TV: non solo come principale occasione di
divertimento e informazione, ma anche come fonte primaria di
socializzazione a scapito delle tradizionali agenzie di
formazione come scuola, religione, partiti politici. Resisteva
con qualche affanno la famiglia: forse vedere insieme la TV era
una forma, meno intima e partecipata, dello «stare insieme in
casa»
La TV, dopo circa 25 anni, si trasformò in modo sostanziale.
Alcuni studiosi la definirono «neotelevisione», per intendere
una TV che aveva come scopo principale quello di vendere
pubblico agli inserzionisti pubblicitari, ormai i veri padroni dei
palinsesti.
Per resistere a una concorrenza sempre più aggressiva, la
RAI fu obbligata a inseguire un grande pubblico, rinunciando
così, di fatto, alla sua missione di servizio pubblico. Con la
conseguenza che sempre più spazio ebbero i programmi
leggeri (con entertainer di successo, risate e un po’ di nudo), i
film e telefilm; questi ultimi in gran parte con lo scopo di
riempire i palinsesti nelle ore di stanca.
Con l’affermarsi delle emittenti private (le grandi reti del
cosiddetto Biscione e la sterminata platea di quelle locali), la
«caccia al pubblico» diventò feroce. La RAI accettò il duello in
termini di ascolto. Riuscì a mantenere il suo primato, ma lo
pagò a caro prezzo. La sua struttura, lottizzata e con molto
personale dai costi altissimi, non era la più adatta a raccogliere
pubblicità come invece faceva la sua concorrente, nata fin
dall’inizio con questo scopo e con un’organizzazione
efficiente e più snella. Così i suoi bilanci cominciarono a
virare verso un rosso profondo, mentre la controparte
diventava sempre più una «macchina da soldi».
Per avere un’idea del fenomeno, basti ricordare che nel
1984 vennero trasmessi oltre 600 000 spot per un totale di
3521 ore: quasi 15 giorni di ininterrotta programmazione di
questo genere. Per gioco, avanzando l’ipotesi che un
(inesistente) spettatore medio guardasse la comunicazione
pubblicitaria in TV anche solo per circa dieci minuti (ed è una
stima prudenziale) ogni giorno, ciò voleva dire che ogni anno
passava più di sei ore a guardare solo spot. Fortunatamente, lo
spettatore televisivo aveva appreso, abbastanza in fretta, a non
farsi troppo coinvolgere. Era attento solo a ciò che gli
interessava; il resto era rumore di fondo. Il massiccio impatto
ebbe però un risultato: fece accettare la pubblicità.
Cancellando con il tempo le residue resistenze nate nei primi
anni settanta. Così quando la sinistra si impegnò in un
battaglia alquanto «retrò» (limitare la interruzioni pubblicitarie
che «distruggono le emozioni») perse decisamente.
Contemporaneamente si era andata implicitamente
affermando un principio: per «convincere la gente» era
sufficiente insistere su uno stesso messaggio, anche se non
rilevante, del tutto vero o banale.
La pubblicità diede un’impronta nuova al linguaggio
televisivo; svecchiandolo profondamente e in un tempo
relativamente breve, tanto da influenzare anche altri generi più
tradizionali. Dopo il suo affermarsi, divenne obbligatorio dire
«in fretta» qualsiasi cosa, catturare al volo l’attenzione dello
spettatore che altrimenti era tentato a cambiare canale.
Il grande e continuo flusso televisivo era scandito da alcuni
appuntamenti fissi. Primo fra tutti il tg della sera: le famiglie
presero l’abitudine di trovarsi a tavola, tutti insieme,
ascoltando (più che vedendo) le ultime notizie. Continuava
quello legato al varietà del sabato sera su RAI 1. Che si
chiamassero Premiatissima o Fantastico, poco importa. Era il
genere ad avere successo.
Un ulteriore appuntamento rituale fu quello degli
sceneggiati, spesso di buona qualità e non banali, come
sarebbe avvenuto qualche anno dopo con i biopic su santi e
uomini illustri.
Ma il prodotto che va ricordato a proposito di questo genere
e della TV in bianco e nero, sono le molte stagioni de La
piovra. Si parlava finalmente di un tema d’attualità, non a
fondo ma in modo sufficiente perché molti capissero cosa
fosse la mafia, il suo evolversi dalla lupara ai mercati
finanziari internazionali, le sue collusioni con la politica e i
«poteri forti». Specialmente nelle prime stagioni, ottimi registi
(Damiani, Vancini), bravissimi sceneggiatori (Rulli e
Petraglia) e un grande interprete (Placido) ne fecero un
programma di grandissimo successo. Così quando il
commissario Cattani, nell’ultima puntata, moriva sotto un
diluvio di fuoco da parte di alcuni killer (che non aveva saputo
o voluto evitare), il Paese sembrò smarrirsi come se il fatto
fosse accaduto realmente. Molti ebbero il timore che la Piovra
fosse invincibile. Ma il successore di Cattani, assieme a una
strana giudice fuori da ogni cliché tradizionale, riuscì a battere
i cattivi e a evidenziarne la miseria morale. Fu una sorta di
liberazione: la mafia si poteva combattere e vincere! Sarebbe
successo anche nella realtà: anche se con ben altre difficoltà e
con molte più vittime: queste purtroppo vere. Tuttavia, la TV
aveva suggerito da che parte stare, senza dubbi o
tentennamenti. Avrebbe contato.
Nella crescente offerta televisiva del periodo vi furono
anche alcune proposte innovative. Innanzi tutto, i programmi
monotematici che si occuparono di un genere particolare (e in
genere, prima di allora, mai trattato): come Check up (1977)
per la medicina; Disco ring per le hit della musica pop; Linea
verde (1981) per l’agricoltura; Quark (1981) per la
divulgazione scientifica e storica; Non solo moda (1984) e altri
ancora. Era come dare rilevanza a mondi importanti, anche se
fino ad allora alquanto trascurati dai media. Ma la vera novità
fu l’arrivo di Maurizio Costanzo con i suoi programmi «fatti di
parole» (che anticiparono i talk show) e di Arbore con i suoi
programmi surreali basati su un’abile improvvisazione di
grande fantasia e intelligenza: i personaggi di Quelli della
notte (il frate Frassica, il filosofo Catalano) dominarono una
stagione e si ricordano sorridendo ancor oggi.
Con Portobello iniziò l’invasione degli sconosciuti sul
video: una trasmissione di grande successo, condotta da un
ironico e bravo Enzo Tortora in cui venne alla ribalta un’Italia
minore, quella della provincia sconosciuta e della gente
comune che aspirava al suo «quarto d’ora di celebrità». Vi
comparvero strani inventori che proponevano le cose più
assurde (ad esempio, un grande tunnel nel colle del Turchino
per far defluire la nebbia della Val Padana verso il mare): il
tutto sotto gli occhi di un fiero e muto pappagallo.
Il pubblico conquistò il video come era successo con le
radio private: all’inizio, telefonando da casa, poi come finto
pubblico che applaudiva a comando, per diventare anni dopo
principale protagonista nei reality.
Ma, ancora una volta, la stagione televisiva fu caratterizzata
dalle riprese dirette di fatti di interesse mondiale (le nozze di
Carlo e Diana) o nazionale, come la lunga diretta sull’atroce
morte di Alfredino nel pozzo di Vermicino (1981). Una notte
indimenticabile per chi vi assistette.
Le dirette si occuparono sempre più di sport: calcio,
soprattutto, e ciclismo, per un certo periodo anche boxe. Il
momento clou fu la finale del campionato del mondo di calcio
in Spagna quando l’Italia vinse, con il presidente Pertini sugli
spalti di Madrid a tifare e centinaia di migliaia di persone nelle
strade delle città italiane a urlare e cantare.
Un’altra importante novità furono i palinsesti delle reti
private. Queste ricorsero massicciamente a programmi
acquistati, ma non mancarono alcune proposte innovative.
Innanzi tutto occupando certi spazi come il mattino o il primo
pomeriggio per le casalinghe e il pomeriggio per i ragazzi a
cui vennero proposti i cartoon giapponesi, mentre in RAI
apparivano i più «corretti» Heidi o Furia cavallo del West.
Da allora mostri e violenza dominano nell’immaginario dei
più piccoli.
Due furono i generi che fecero definitivamente decollare la
Fininvest. Il primo fu il ricorso in massa dei serial americani: è
sufficiente ricordare Happy Days (1977), Radici (1978), le
detective stories (Colombo e il tedesco L’ispettore Derrick,
entrambe nel 1979), Dynasty (1981), Saranno famosi (1983).
Fu un’importante svolta nel gusto degli spettatori, diventato
più moderno e meno provinciale, anche se definitivamente
orientato verso la fiction e a una «quasi-realtà» che appariva
un mondo parallelo in cui entrare (e sognare) come se fosse
vero, certamente più appetibile. Il più famoso (anche se non il
più visto) fu Dallas (1981), acquistato dopo che la RAI lo
aveva bruciato con poche puntate sconnesse. L’intera serie
funzionò come agnizione collettiva di un mondo fino ad allora
sconosciuto agli italiani: quello della ricchezza e del successo
e della necessaria e accettata cattiveria per ottenerli. I
panorami (pianure sterminate attraversate da macchine
enormi), location mai viste prima (case lussuose), personaggi
a tuttotondo (il perfido J.R., la dolce Sue Ellen) e
assolutamente moderni, parlavano di un mondo nuovo di cui si
desiderava far parte, anche se con qualche residua reticenza ad
accettarlo del tutto.
Il secondo genere di grande successo fu costituito dai
programmi «comici». Anche Drive in parlava (a modo suo) di
un mondo alle soglie del benessere. Non era il lusso formale,
ripetitivo, tradizionale dei varietà della RAI: in quelli sui canali
Fininvest apparivano donne provocanti, comici rampanti con
personaggi surreali (yuppie bocconiani, non credibili guardie
giurate, ecc.) non troppo dissimili dai nuovi mostri che gli
spettatori frequentavano anche nella vita vera specialmente
nelle grandi città. Il tutto con un ritmo iperveloce che
sembrava rifarsi a quello della pubblicità che dominava in
quelle reti.
Nel complesso, fu un’offerta fondata sull’eccesso, sulla
proposta continua di frammenti che si susseguivano senza
precisi collegamenti: dovevano divertire all’istante senza
lasciare tempo per pensare.
I veri «mostri» furono però i venditori: Wanna Marchi e
Guido Angeli su tutti. Con nessun senso del ridicolo e della
misura proponevano prodotti miracolosi (alghe che «facevano
dimagrire», mobili bellissimi a basso costo) con spericolate
iperboli linguistiche. Erano la «nuova televisione», dove si
vedeva di tutto senza alcun criterio di rilevanza estetica o
logica. Gridare era un modo di proporsi e di catturare un largo
e un po’ sprovveduto (ma era quello a cui ci si intendeva
rivolgere) pubblico.
La neo-TV doveva coinvolgere più pubblico possibile e
doveva convincerlo a comprare cose. Non era necessario farlo
pensare. Neppure con l’informazione, che alludeva (più che
riportare) ma non spiegava e non approfondiva, sicuramente
allineata al potere politico da chiunque fosse rappresentato.
Anche i primi talk-show si allinearono a questo grigiore: la
politica-spettacolo era ancora ai suoi inizi.
L’impatto della TV, nella stagione dell’alluvionale (e per
certi versi affascinante) offerta del duopolio, ha avuto precise
ricadute sociali. Innanzi tutto la costruzione di una
affascinante «scena pubblica», dove apparivano personaggi (e
mode) del tutto nuovi: ovviamente provenienti più dal mondo
dello spettacolo o del gossip che non dalla politica. La «scena
pubblica» (quella in cui ci si divertiva o sognava) in breve
tempo sostituì la «sfera pubblica», quella in cui si sarebbero
dovuti discutere i problemi di interesse collettivo a livello
politico.
Si stava uscendo dagli anni di piombo con una grande
voglia di cambiare pagina, di farsi sedurre dal benessere e dai
consumi. Del resto un gran numero di italiani era rimasto
profondamente deluso dall’impossibilità di cambiare, come
dimostrò la fine della stagione del compromesso storico. Ci si
avviava verso l’«Italia da bere», l’Italia della televisione.
Non fu così un caso che la gente normale invadesse gli
studi televisivi: era la voglia di esserci, di apparire.
Quest’ultimo sembrò un imperativo comune: essere visti (nei
posti giusti), fare soldi. Il lavoro doveva servire per
guadagnare denaro da spendere e non per soddisfazione
personale e, tanto meno, per scopi sociali. Il dovere era
definito soggettivamente, così come la morale a cui attenersi.
Il volontariato sarebbe nato dal rifiuto di una minoranza
virtuosa di inseguire questi valori.
Il riflusso, alla fine degli anni settanta, aveva lasciato
un’eredità precisa: il mondo era ormai circoscritto nell’ambito
del privato. La conseguenza fu che il «nazional-popolare»
diventò sempre più pop e meno nazionale e con sempre meno
radici nella cultura tradizionale.
La globalizzazione fu percepita essenzialmente come
fenomeno culturale: si realizzò, in particolare, nell’ambito
della società dello spettacolo, quella popolata dai divi del
piccolo e grande schermo: un palcoscenico fittizio dove molti
si illusero di essere, almeno per un attimo, protagonisti. O gli
sembrava di conoscere (di «poter toccare») quelli che lo
frequentavano davvero.
L’emittenza privata riuscì nell’intento di imporre una
particolare versione dell’italian dream: quello fondato sul
successo e il narcisismo, senza valutarne i costi e l’impegno
necessari per ottenerli.
Ogni italiano fu tentato dall’ebbrezza (mai avuta nel
passato) di costruirsi un personale progetto di vita: per i più
fondato (in prevalenza) su quanto vedeva in televisione; in
particolare (anche se lo si negava) a partire dalle suggestioni
dei personaggi e delle situazioni presentati dalla pubblicità
televisiva. Suggerimenti relativi a un nuovo e diverso modo di
vivere nella quotidianità: essere belle/i, sapere come
comportarsi nella quotidianità, come vestirsi, gestire la casa,
come e dove passare le vacanze, ecc.
Dai primi anni ottanta ogni sera fu una festa televisiva, non
importava se ripetitiva e piuttosto banale: l’importante era che
prendesse, coinvolgesse immediatamente chi stava guardando.
Stava tramontando il tempo della riflessione (se mai era
esistito davvero) e del cercare di dare senso alla propria vita
sulla base di valori e credenze che venivano da lontano.
Il mondo della TV era un continuo susseguirsi di catturanti
frammenti spettacolari. Nel loro insieme costituirono il nuovo
spazio o scena pubblica condivisa e a cui fare riferimento.
Come parlare, in questo contesto, di impegno, di fiducia nei
politici, di austerità? Il tempo dei partiti e della partecipazione
divenne un ricordo sbiadito. La politica non aveva più niente
da dire, si limitava a dare qualche modesta ricompensa ai più
furbi.
Con questo spirito ci si inoltrò negli anni ottanta.
L’obiettivo comune diventò quello di vivere al presente,
meglio all’istante.

14. A proposito di riflusso


Come si diceva nei romanzi di un tempo, facciamo un
passo indietro. Occupiamoci del fenomeno definito riflusso,
emerso alla fine degli anni settanta. Una sorta di prologo di
quella che si sarebbe definita la grande «fuga nel privato»
negli anni successivi.
Come si è visto alla fine degli anni settanta
l’allontanamento dalla politica era già iniziato. A parziale
riabilitazione della situazione italiana va ricordato che quelli
erano gli anni della Thatcher e di Reagan: certamente non due
accesi riformisti. Il modesto riformismo (il welfare
caritatevole) su basi consociative evitò in Italia lo scontro
sociale che invece sconvolse a lungo l’Inghilterra.
Da noi il biennio orribile (1977-78) fece emergere e
scoppiare la bolla del vuoto della politica a causa della sua
perdurante inerzia. Con la morte di Moro sembrava essere
entrata definitivamente in crisi la politica dal patteggiamento
eterno. Non fu proprio così.
Numerosi erano stati i segni di una svolta nel sociale. Ad
esempio nel 1978 l’austero «Corriere della Sera» pubblicò in
prima pagina la lettera disperata di un cinquantenne che voleva
suicidarsi, non sapendo come dividersi tra una vecchia moglie
(a cui era ancora affezionato) e una giovane donna di cui si era
perdutamente innamorato. Forse non era vera ma appassionò
egualmente moltissimi lettori. Il tema dell’amore occupò
molte pagine di numerose testate e sarebbe stato celebrato dal
suo massimo teorico (Francesco Alberoni) sulle colonne dello
stesso giornale (che anni prima aveva ospitato nella stessa
prima pagina gli Scritti corsari di Pasolini) e in molti libri dal
grande successo.
Tutti, specialmente i giornalisti, diventarono un po’
sociologi e si esercitarono a «dare un parere» su ogni cosa:
intenzione in sé molto lodevole se non si fosse spesso
tramutata in puro dilettantismo (parlare di qualunque cosa
senza saperne nulla) e in un facile qualunquismo. Dopo i
giornalisti, guru ascoltati sarebbero diventati i cantanti e gli
entertainer televisivi. Una parabola discendente senza freni
apparenti e che continua anche ai nostri giorni.
«Sociologico» diventò, per i timidi benpensanti, aggettivo
qualificativo del nulla o di un complessità incomprensibile. E
invece i sociologi veri erano gli unici a tentare di interpretare
cosa stava accadendo.
Ne è singolare prova un curioso documento che Morando
(2009) riporta nel suo libro. Si tratta di una ricerca effettuata
per conto della Rizzoli (da Finzi per «Astra»), intitolata
Scenario e distribuita tra i vertici aziendali e in particolare tra i
direttori delle oltre trenta testate (quotidiani e periodici) del
gruppo.
In questo lavoro si anticipavano le tendenze culturali
relative al triennio 1978-81 e si parlava esplicitamente di
fenomeni quali nascente individualismo, edonismo, esibizione
di alcuni simboli del benessere, liberazione sessuale,
espressione del Sé, e così via. Comparve anche la magica
parola che avrebbe dominato in seguito: riflusso. Certamente
espressiva anche se piuttosto ambigua.
A rileggerla oggi sembra quasi una profezia degli anni a
venire: vi erano le avvisaglie di quella che si sarebbe poi
definita «società degli individui». Una particolare via alla
modernizzazione, fondata sulle aspirazioni degli individui e
non sui tortuosi processi decisionali della politica.
Non era un fenomeno soltanto italiano: Christopher Lasch
(1981) avrebbe parlato di una me generation caratterizzata da
un forte narcisismo fondato sul Sé e sul rifiuto di un’etica
pubblica. Era la motivazione che spingeva al raggiungimento
del benessere come immediata illusione della felicità: cercata
nell’apparire, nell’immediata approvazione di altri in cui
rispecchiarsi: qualcosa di simile a ciò che faceva Narciso
quando si rispecchiava nelle acque, in cui si contemplava.
Un altro «messaggio in bottiglia» venne da un film che
descrisse, meglio di molti saggi, il periodo: Ecce Bombo
(1978) di Moretti, che riportava, con molta ironia, il dolce
vaneggiare in neo-politichese di un contestatore confuso.
Ma ben più forte eco ebbe un film americano (La febbre del
sabato sera, 1977) in cui un proletario bianco (che, in altri lidi
e in altri modi, aveva gli stessi sogni: un lavoro, una moglie e
una casetta nei suburbi) sceglieva di far vincere i suoi rivali in
una gara di ballo in una discoteca manipolata da un voto
falsato. Un luogo diventato simbolico (amicizia, divertimento,
musica) negli anni successivi. Quello vestito di bianco era uno
strano proletario che incarnava la semplice epica della
(desiderata) leggerezza del sabato sera, la voglia di divertirsi
senza troppi pensieri, conservando però una propria morale di
fondo anche se del tutto soggettiva e, apparentemente, assai
semplice.
Nelle discoteche, che sorsero come funghi nelle grandi e
piccole città, ci si trovava tra «amici» non tra «compagni».
Ognuno vestiva come pensava fosse più confacente o solo più
divertente. Ci si faceva vedere, si recitava una parte senza
eccessivi timori di riservatezza. Si poteva pensare (anche le
ragazze) di fare sesso senza doversi prima sposare. Nelle
piccole tribù di amici fidati si ragionava del proprio privato (il
futuro, gli amori) in assenza di padri e maestri, laici o religiosi
che fossero.
Consumi e divertimento diventarono importanti. Un
paradossale avveramento del pensiero di Marcuse che aveva
affascinato gli studenti del ’68 parlando di una levigata e
suadente socializzazione fondata sul disimpegno e l’evasione e
non su una morale autoritaria imposta dalle tradizionali
agenzie di socializzazione.
Emerse così un individualismo (gentile o egoista a seconda
dei casi) che poneva fine a ogni esigenza (o obbligo morale) di
partecipazione sociale impegnata. I più egoisti pensarono
soprattutto ad accumulare denaro; i loro fratelli più giovani
(gli edonisti) a divertirsi. Molti si occuparono del loro
benessere fisico (essere in forma); pochi cominciarono a
pensare anche alla salute della Terra in progressivo
deterioramento.

15. Verso gli anni ottanta con sinistre previsioni


Un periodo di grandi incertezze esplose con l’uccisione di
Moro da parte delle br. La «lucida geometria» messa in atto in
quella tragica occasione indusse non pochi a ipotizzare un
intervento esterno e professionale. Parafrasando Pasolini, si
potrebbe dire anche in questa occasione «io lo so, anche se
non ho le prove»: l’accurata regia del sequestro e la totale
inefficienza degli investigatori autorizzarono a pensarlo da
subito. Qualche anno dopo, quando rapirono il generale
americano Dozier della Nato, gli autori del sequestro furono
rapidamente trovati e tragicamente sconfitti: in questo caso,
investigatori e servizi segreti (ovviamente non solo italiani)
furono molto efficienti.
Su come «regolarsi» sulla sorte di Moro prese un deciso
avvio il duello tra PCI e PSI: non solo un conflitto ideologico,
quanto uno scontro per l’egemonia della sinistra. Persero
entrambi i contendenti, ma soprattutto perse il Paese.
Ciò malgrado un Presidente della Repubblica molto amato
avesse, invano, chiesto un modo diverso di governare (si pensi
alla durissima accusa ai politici dopo il terremoto del Belice).
Pertini era stato partigiano: nei suoi discorsi ricordò spesso la
Resistenza. Raccolse grande stima e ammirazione come uomo
onesto in un contesto di montante corruzione e dubbia
moralità.
I tempi erano, però, ormai diversi. Un leader socialista
arrivò a teorizzare la doppia morale dei politici, con un
semplicistico richiamo a Machiavelli. Queste le sue parole:
«gli uomini e le donne che rappresentano la ragion di stato
[…] sembrano disporre di una morale e di uno status che li
dota di una sorta di sovracittadinanza e li fa diversi dai comuni
cittadini […] presto abbandonano la morale comune per
assumere quella politica, che giustifica molti mezzi che morali
non sono» (Martelli, 2013).
Fu la morale che presiederà ai comportamenti dei politici
negli anni successivi.
Berlinguer aveva parlato di un’altra (alta) politica, anche se
non era riuscito a convincere chi stava conoscendo un
benessere mai sperimentato prima, indicando problemi e
(possibili) soluzioni (sviluppo economico sostenibile, onestà
dei politici, ecc.) che sarebbero emersi in tutta la loro evidenza
qualche anno dopo.
L’Italia comunque esprimeva in quegli anni una grande
vitalità: si stava imponendo nel mondo almeno in certi settori
produttivi con i suoi affascinanti prodotti Made in Italy e con
le proposte di stili di vita trendy.
Ci si avviò così alla fine degli anni ottanta. La situazione
economica risentì di una doppia arretratezza: quella del
Meridione, con la mancata industrializzazione, e quella del
Nord che non aveva avuto un adeguato sviluppo tecnologico al
pari dei paesi concorrenti (Giappone, Corea). Reggevano bene
solo i prodotti di qualità e alta gamma.
Si stava completando un ciclo: quello del capitalismo
povero e delle relazioni industriali difficili. Il quadro del
periodo fu così descritto: «occupazione piena ma non
garantita, e disoccupazione elevata ma sussidiata, sono le
caratteristiche strutturali che dominano rispettivamente nel
Nord e nel Sud del paese» (Graziani,1989, p. 160).
Il lavoro si trovava con più difficoltà, spesso con il ricorso
alle raccomandazioni e al clientelismo. Non era più un diritto,
se mai lo era stato. Nel Sud si ricorse ancora all’assunzione nei
vari rami della Pubblica Amministrazione, con caratteristiche
di «ipertrofia e inefficienza» (Graziani). Chi poteva fu spinto a
una perversa «privatizzazione»: i più ricchi scelsero i medici e
le cliniche private o le scuole non statali, l’automobile e non i
treni, ecc.
Si realizzò anche una profonda trasformazione della
stratificazione sociale. Come mise chiaramente in luce Sylos
Labini (1986) nel periodo 1971-1983, nell’ambito di un
processo di «democratizzazione tipico di tutti i paesi più
progrediti», vi fu un netto aumento della borghesia
(prevalentemente industriale) che passò dall’1,9% al 3,3%, ma
soprattutto un forte aumento delle classi medie urbane (in
particolare impiegati pubblici e privati) che passarono dal
26,5% al 46,4% e un forte declino degli impiegati
nell’agricoltura che passarono dal 42,0% all’11,6%.
Almeno due fenomeni vanno sottolineati: la mai cessata
trasmigrazione dai campi alle officine (e, in seguito, al
terziario) e l’imborghesimento della società, con l’assoluta
perdita di centralità della classe operaia. Dopo qualche anno,
De Rita (1996) avrebbe parlato di «cetomedizzazione», per
sottolineare come questo ceto (non una classe) si riconoscesse
prevalentemente nella cultura dei consumi e dei media, ormai
egemone. Tanto da attirare anche chi non vi apparteneva per
reddito o professione, come nel caso dei «nuovi ceti popolari»
descritti da Magatti-De Benedditis (2006).
Il rapporto Stato-cittadini sembrò realizzarsi, in gran parte,
nelle pratiche clientelari-corruttive. Si sviluppò sempre più la
perversa pratica della «privatizzazione del pubblico». Erano
definitivamente saltati i «canali di collegamento, a livello
intermedio, fra vita quotidiana della società e le istituzioni. Si
dissolsero le identità personali legate alle tradizionali forme di
appartenenza sociale… (erano ormai) lontani i tempi in cui
essere sindacalizzato, giovane, iscritto a un partito sembrava
essenziale per avere chiara la propria personalità» (censis, 1982,
p. 52). Si era ormai imposta la «società degli individui»
(Livolsi, 2006) e «televisizzata».
Il ceto medio (in costante aumento) era un gruppo sociale
caratterizzato da comuni aspirazioni e stili di vita, ma non più
da una responsabilità collettiva e dall’impegno di guidare il
Paese, come aveva fatto la borghesia alla nascita della società
industriale. Il nuovo ethos si caratterizzava, invece, per un
«individualismo esasperato che si traduce in egoismo, scarsa
generosità, mancanza del senso del collettivo» (De Rita-Galdo,
2011, p. 24).
La partecipazione fu sempre più realizzata nell’ambito del
sociale (la «civic culture») che non in quello della politica.
L’imperativo dominante era accumulare denaro e divertirsi.
Era quanto accadeva nella «Milano da bere»: nelle piccole
gesta cafone degli yuppie e dei piccoli imprenditori diventati
ricchi all’improvviso.
Nel linguaggio allusivo del censis, si parlò di «divaricazione
tra la quasi anarchica vitalità della società e la crisi dei più
importanti strumenti di governo» (ibid. p. 46). Era la denuncia
di un fallimento ormai irreversibile della politica. Non a caso,
un rapporto censis di qualche anno dopo parlò di «enfatico
nascondimento del distacco crescente (della politica) rispetto
ai processi reali in corso».
La progressiva depoliticizzazione riguardò anche i più
giovani. La fonte principale della loro socializzazione divenne
il gruppo di coetanei, le piccole tribù di amici e compagni.
Apparivano adesso ben integrati, anche se con qualche timore
sul proprio futuro. Gli autori di un’indagine (Cavalli-DeLillo,
1986) li definirono «fatalisti». Furono una delle ultime
generazioni di giovani non coinvolte dalle nuove tecnologie
informatiche. Erano molto diversi dai loro fratelli maggiori;
non più «contro», ma diversi nella loro individualità. Non
c’erano più nemici da combattere. Scomparvero gli arrabbiati,
gli impegnati e anche i contestatori. Forse erano stati sempre
una minoranza, adesso molto esigua o inesistente.
La pratica delle tangenti e dell’evasione fiscale fu sempre
più diffusa. La grande devianza (corruzione e criminalità delle
mafie) giustificò la piccola devianza dei cittadini quando, ad
esempio, non pagavano le tasse.
La pubblica opinione non aveva voce né influenza alcuna.
La «sfera» pubblica (i luoghi della discussione del confronto)
si andò definitivamente trasformando nella «scena» pubblica
mediata: le piazze furono sempre più televisive, il confronto
sostituito dallo spettacolo.
Il cancro della disfunzionalità e della non credibilità lambì
anche il recinto sacro della democrazia: il Parlamento. Gli
«eletti dal popolo» non risposero più (l’avevano mai fatto?) ai
loro elettori ma ai partiti e, in qualche caso, agli interessi
particolari di alcune lobby.
L’impegno maggiore di molti politici continuava a essere
rivolto all’occupazione dell’apparato istituzionale e delle
imprese pubbliche; la lottizzazione raggiunse il suo apogeo.
Due cause di questa politica perversa furono l’aumentato
numero dei politici di professione (funzionari di partito, eletti
nelle liste del decentramento amministrativo come consiglieri-
assessori, portaborse e faccendieri) e le spese relative alla
comunicazione dei partiti e ei loro candidati. Si rese necessario
un aumento delle entrate dei partiti: divenne obbligata (?) la
tangente come una sorta di (non dovuta) tassa su appalti e
concessioni. In pochi anni divenne una consuetudine perversa
ma diffusissima. Una tassa con tariffe precise: a Milano si
parlò del 7%.
Quando ciò venne alla luce, la sfiducia totale nei partiti
dilagò: i giudici di Mani Pulite sarebbero diventati eroi
popolari. Avevano provato e denunciato il sospetto di tutti.
La corruzione condusse alla fine il sistema dei partiti: il
discorso di Craxi sul «comune peccato» («tutti i partiti lo
hanno commesso!») non lo giustificò e salvò. Sembrò anzi
un’aggravante tanto da costringerlo all’«esilio». Lui stesso
aveva affermato «una rete di corruttele grandi e piccole […]
suscita la più viva indignazione, legittimando un vero e
proprio allarme sociale […] buona parte del finanziamento
politico è irregolare o illegale.» (riportato dai resoconti della
seduta parlamentare, in Crainz, 2009).
Gli anni ottanta erano stati, tuttavia, un periodo di grande
vitalità. L’Italia divenne la quinta potenza industriale al
mondo. Senza contare la fiorente economia sommersa che
dava lavoro e guadagni esentasse, almeno in certe regioni del
Paese. I più abili o i più furbi ne approfittarono e salirono
velocemente di status. Forti consumi caratterizzarono il loro
stile di vita.
Nel contesto di una grande e diffusa euforia collettiva,
individualismo e consumismo divennero valori fondamentali.
Per la prima volta nella loro storia, gli italiani (circa tre
milioni) investirono in borsa, tanto che la ricapitalizzazione
azionaria conobbe un vero boom. Si impose la figura, alquanto
caricaturale, dello yuppie che parlava un buffo italo-inglese e
sfoggiava spavaldamente abiti e accessori costosi. Una
ricchezza cafona che sembrò coincidere con la cultura del
tempo.
Qualcuno si illuse che il «sogno» non andasse coniugato
con il duro lavoro, come era invece nella versione originale,
«americana». Molti però si impegnarono come non mai: i
piccoli imprenditori (con le loro aziende a conduzione
familiare) e i grandi professionisti, ma anche chi riuscì a
trovare nicchie di forte rendita lucrando sugli infiniti rivoli
della spesa pubblica. Era la borghesia «affaristica» che si
impose anche perché venne favorita. La mitica classe operaia
era sul punto di sparire, almeno come coscienza collettiva e
agire comune; presto anche come consistenza numerica.
Esemplare fu l’esperienza di Milano, il luogo dove si era
imposto questo nuovo ceto e si erano affermati riti e
consuetudini relativi all’ultima stagione della Prima
Repubblica.
La «Milano da bere» era la città della moda, del design e
delle nuove professioni. Come disse lo slogan della pubblicità
che la rese famosa (per l’Amaro Ramazzotti, creata da Marco
Mignani), era la città della «gente che sa vivere, sognare,
godere», che frequentava i luoghi giusti (i ristoranti le
discoteche alla moda), che viveva in case splendide arredate
da architetti, vestiva abiti e accessori firmati dagli stilisti
famosi in tutto il mondo, frequentava luoghi esotici per le
vacanze e ubbidiva all’obbligo del week-end.
Era la nuova élite (insieme ai piccoli divi della TV) e a cui
guardare con ammirazione.
La rappresentazione del sociale passò attraverso le piccole
storie della pubblicità, le lunghe narrazioni delle soap, la
cronaca frettolosa dei tg. L’immaginario mediale sostituì
progressivamente la memoria storica.
Del resto cosa c’era da ricordare? La Resistenza era ormai
un mito sfocato, i grandi leader (Berlinguer, Moro, Craxi)
personaggi di agiografie ormai non più convincenti.
Il «trionfo del privato» era giunto al suo culmine. Era ormai
il tempo «dei piccoli roditori e dei grandi avvoltoi» (Scalfari)
che, da tempo, stavano spolpando la carcassa delle Stato.
Parte seconda
Dagli anni di piombo alla «Milano da bere»
2. Milano e le giunte di sinistra

Milano, a metà degli anni settanta viveva una situazione


difficile. La città era sconvolta dalle attività terroristiche degli
eredi deviati della sinistra radicale e delle «trame nere»:
entrambe non contrastate dai Servizi dello Stato che
giocavano, ormai da qualche anno, un ruolo ambiguo,
comunque di scarsa o nulla interdizione.
A giorni alterni, per le stesse strade, avevano luogo le
manifestazioni di studenti o operai, ma la città era attraversata
anche da altri cortei, quelli della «maggioranza silenziosa»
guidata da un esponente atipico della DC, l’avvocato Massimo
De Carolis.
I giornali parlavano della reticenza della gente per bene a
uscire la sera, specialmente in certe zone del centro o della
periferia, anche per il timore di finire in mezzo a qualche
sparatoria tra polizia e bande di delinquenti. Le gesta dei loro
capi più famosi riempivano, con grandi titoli e foto, le pagine
dei giornali. Furono oggetto di un’ambigua curiosità,
specialmente da parte del pubblico femminile.
Era una città che stava cambiando pelle: non più solo
operaia e non ancora proiettata decisamente verso il terziario.
Continue e dure erano le lotte dei lavoratori in aziende
milanesi in grave crisi, come l’Innocenti (l’alternativa
milanese alla Fiat) e le due aziende-simbolo Motta e
Alemagna.
Il primato di capitale industriale stava vacillando.
A Milano gli anni che vanno dal 1973 al 1978 furono
scanditi da continui e gravi incidenti. Spesso con contusi
(molti) e feriti (non pochi) divisi tra forze dell’ordine e
manifestanti; il numero di questi ultimi è sempre restato vago,
preferivano sparire per non essere perseguiti.
In quegli anni giravano troppe spranghe, sassi e molte armi.
Non solo tra chi era autorizzato a servirsene e non lo fece
sempre nel modo migliore.
Sarebbe una storia lunghissima con moltissimi episodi. Ne
citiamo solo pochi: allora fecero clamore e sgomento, oggi
tendono a essere dimenticati.
Il primo è l’uccisione (1978), da parte di neofascisti, di
Fausto (Tinelli) e Iaio (Lorenzo Iannucci) nei pressi di un
luogo (il circolo Leocavallo) di ritrovo della sinistra
alternativa, dove assemblee, cortei e molta musica
caratterizzarono un tempo e un particolare gruppo sociale che
fece molto parlare di sé per alcuni anni, alimentando il mito
(negativo) di una difficile se non impossibile integrazione di
questi strani giovani. A cui, va detto, non erano date molte
alternative in campo sociale e culturale e ovviamente ancor
meno in politica.
Fausto e Iaio furono uccisi per il loro impegno sociale nel
quartiere, per vendicare alcuni camerati uccisi a Roma, per
dare un segno della presenza della destra in una città che non
voleva accettarla.
Il fatto ebbe enorme importanza («Non si può morire a 18
anni!»), amplificato anche da un fatto relativamente nuovo: la
diretta senza soste di Radio Popolare che diede voce a chi
stava vivendo di persona quei momenti. Quegli interventi
confusi, tra dolore e rabbia, ne diedero una ricostruzione
indimenticabile.
Tra l’altro ciò riportava ad altri due tragici incidenti: nel
1975 morirono due giovani studenti, Claudia Varalli e
Giannino Zibecchi. Nessuno pagò per le loro morti.
Attivisti di destra furono responsabili di una altro triste
fatto avvenuto pochi anni prima. Nel 1973 fu ucciso un agente
di polizia (Antonio Marino) colpito da una bomba, partita da
un corteo non autorizzato ma fortemente voluto dai vertici del
MSI milanese e nazionale e a cui sarebbe dovuto seguito un
comizio tenuto da personaggi di primo piano del partito. Era
l’ennesimo tentativo per imporre una presenza politica non
adeguatamente supportata dal voto. Un modo di voler contare
e influenzare le scelte politiche dei partiti non progressisti in
una città sicuramente antifascista.
Ebbe però un esito non voluto: il MSI, per cercare di
mostrarsi estraneo ai fatti, mise a disposizione una taglia «per
chiarire l’accaduto». La intascò un suo attivista che incolpò
due camerati: a questo punto il partito fu costretto ad assumere
la difesa dei due imputati.
In quello stesso anno uno studente della Università
Bocconi, appartenente al Movimento Studentesco, fu ucciso da
un colpo di rivoltella di un agente che si disse «avesse perso la
testa» nella concitazione dello scontro. All’inizio le
dichiarazioni ufficiali scelsero un’altra (e del tutto
inattendibile) versione dei fatti. Nei diversi gradi del processo
i responsabili ne uscirono senza condanna o per archiviazione.
Lo Stato si limitò a pagare i danni alla famiglia dell’ucciso;
questi fondi furono devoluti dalla madre a una fondazione che
porta il nome dello studente ucciso (Franceschi), ancora attiva
ai nostri giorni.
La tecnica di addebitare la responsabilità dei fatti a chi ne
era stata invece vittima era stata già usata più volte in
precedenza. Non solo nel caso Pinelli, ma anche nell’uccisione
di un agente (Annarumma) morto nel 1969 a causa di uno
scontro tra due jeep (una da lui guidata) e invece attribuita al
lancio di una sbarra di ferro da parte dei manifestanti. Il tutto
era avvenuto nel casuale incontro tra i partecipanti a una
manifestazione di studenti e coloro che uscivano da un
comizio (di Luciano Lama) al Teatro Lirico. Nella confusione
che ne seguì, non adeguatamente controllata dalla polizia,
volarono effettivamente sassi e sbarre tratte dai ponteggi usati
per la ristrutturazione di un palazzo comunale adiacente. Un
filmato di una TV francese che aveva ripreso la scena sparì in
fretta; rimase solo una foto a incidenti avvenuti e da cui non
era possibile trarre alcuna conclusione. Molte sbarre di metallo
erano sulla strada: non fu mai dimostrato che una avesse
ucciso l’agente.

1. La prima giunta di sinistra


Milano è stata città partigiana. Qui il fascismo aveva
vissuto i sui ultimi giorni: le torture dei fascisti nell’estremo
tentativo di «difendersi» dai partigiani e la fuga di Mussolini
erano episodi che molti milanesi avevano conosciuto o vissuto
in prima persona.
Nell’immediato dopoguerra la città aveva avuto una serie di
sindaci socialisti (da Greppi ad Aniasi, il comandante
partigiano Iso) che avevano dato prova di una gestione
amministrativa corretta e attenta (almeno per allora) ai meno
abbienti e ai bisogni sociali.
Giocava a questo proposito sia l’eredità socialista (Turati,
per fare solo un nome di una tradizione gloriosa), sia il peso
della chiesa cattolica moderata ma non chiusa alle istanze dei
più poveri, sulla scia di una certa «milanesità» caritatevole. A
queste due correnti ideali (non ideologiche) si era aggiunto,
dall’immediato dopoguerra il PCI che rappresentava, senza
eccedere in settarismi, due istanze: Resistenza e classe operaia.
Il contesto nei primi anni settanta, era molto dinamico: i
partiti tradizionali conoscevano grandi trasformazioni. Ad
esempio il PCI milanese doveva gestire il conflitto tra la linea
nazionale (il compromesso storico di Berlinguer) e quella
locale di alleanza con le forze riformiste, in particolare con il
PSI.

Un dialogo che si era andato forgiando nelle iniziative del


Comitato Antifascista milanese, in cui operarono personaggi
(Cervetti, Terzi, Vertemati, Martelli e altri) che poi sarebbero
stati decisivi nel decidere l’esperienza della giunta di sinistra.
Il PSI stava muovendo verso la svolta autonomista: Craxi fu
eletto segretario del partito a Roma nel 1976 e il suo delfino
Martelli (che aveva avuto una giovanile esperienza nel PRI)
divenne segretario cittadino. La DC era divisa tra due anime:
una di destra (cittadina) e una di sinistra (la base) in Provincia
e Regione. I due maggiori rappresentanti, De Carolis e
Borruso erano agli antipodi e ciò avrebbe reso meno incisivo il
peso del partito a livello locale. Va ricordato che cl, tramite la
formazione del Movimento Popolare (già allora con Formigoni
in primo piano), presentò suoi candidati (quasi tutti eletti)
nelle elezioni amministrative del 1975.
In crisi erano il PLI della vecchia Milano liberale (dei
padroni illuminati) e il PRI (della borghesia «progressista»),
così come il psdi a causa delle continue scissioni e mutamenti
di rotta. La destra rappresentata dal Movimento Sociale era più
forte nelle piazze (negli scontri con il Movimento) che come
peso elettorale, sempre al di sotto del 10%. Debuttarono,
anche se con scarso successo, nuove formazioni come
Democrazia Proletaria che avevano raccolto parte
dell’elettorato giovanile e operaio che aveva partecipato alla
contestazione.
I dati delle elezioni amministrative del 1975 furono
eloquenti: il PCI era il partito che ottenne più voti (il 30,4% e
25 seggi); seguivano la DC (al 26,95% e 22 seggi) e il PSI
(14,8% e 12 seggi). Conquistarono 5 seggi i psdi e il
Movimento Sociale, mentre il PRI, pdup e PLI ebbero ognuno 3
seggi.
Sulla base dei numeri, i partiti del centro-sinistra avrebbero
avuto ancora la maggioranza, ma il momento politico era
diverso. Il PCI era adesso il primo partito, anche sulla scia
dell’aumento dei consensi in tutto il territorio nazionale. Il PSI
temeva che un’edizione milanese del compromesso storico
avrebbe reso molto meno forte il suo peso in città, fino ad
allora determinante. Con un timore aggiunto: l’esperimento
milanese avrebbe potuto agire da traino, a livello nazionale,
per questa possibile svolta; la DC milanese rifiutò questa
possibile prospettiva, come del resto continuava a fare a
Roma.
In sede di discussione in Consiglio Comunale, Tognoli, a
nome del PSI, intervenne proponendo la nomina di Aniasi a
sindaco, sostenendo nel contempo che il «centro-sinistra è
precipitato in una crisi così grave da non farne intravedere il
superamento sulla base degli schemi del passato […]»
(archivio Tognoli, 31 luglio 1975). Nello stesso discorso,
Tognoli prendeva invece atto del mutamento del PCI che aveva
saputo stabilire buoni rapporti con altri strati sociali, non
facendo più esclusivo riferimento al proletariato. Il partito
comunista milanese aveva dato inizio a un dialogo con
l’imprenditoria privata e imboccato decisamente la via
democratica nazionale.
In questa prospettiva il PSI (non chiudendo agli altri partiti
che avessero deciso di partecipare) avrebbe potuto utilmente
lavorare, insieme al PCI, sui problemi della casa, del
decentramento, del carovita, dei trasporti, della sanità,
dell’urbanistica, dell’assistenza e della riorganizzazione della
macchina comunale.
La conclusione era semplice e chiara: per rispondere alle
richieste del Paese occorreva «modificare metodi, formule e
uomini […] stabilire un rapporto reale con i ceti produttivi»
(ibid.).
Una dichiarazione di intenti che lasciò pochi dubbi.
Così le trattative dei (giovani) rappresentanti politici dei
due partiti (i due segretari cittadini del PCI e del PSI: Terzi e
Martelli), con l’attiva mediazione del sindaco Aniasi, resero
possibile la svolta. Il clima tra i due partiti, a livello cittadino
era cordiale, così come i rapporti tra i loro leader: per questo
Cervetti, Quercioli, Korach (nel PCI) e Vertemati e Tognoli (nel
PSI) spinsero congiuntamente verso l’accordo.

Si andava delineando così una giunta ben diversa dalle


precedenti; anche se queste avevano, a giudizio di molti,
lavorato con ben altra efficacia rispetto alle coalizioni di
centro-sinistra a livello nazionale.
Aniasi presentò una giunta formata da PSI e PCI (insieme
avevano 37 consiglieri), tre consiglieri del pdup fuorusciti dal
psdi (con Pillitteri) e due «dissidenti» della DC, più un voto
personale al sindaco.
Tra i transfughi dalla DC il personaggio di spicco era
Ogliari, un curioso e intraprendente «tecnico prestato alla
politica». Una singolare figura di studioso (in particolare di
diritto dei trasporti ed ex presidente del Museo della Scienza e
della Tecnica) che ebbe una parte attiva nelle iniziative
culturali (a cominciare da «Milano per voi») che avrebbero
caratterizzato il lavoro della nuova giunta. Di lui si ricorda
anche la passione per treni e tram, poi esposti in un grande
museo a cielo aperto a Ranco sul Lago Maggiore.
Lo scandalo, alla presentazione della giunta, fu grande: in
particolare, si criticò pesantemente il «tradimento» dei due ex
DC nominati assessori. Le previsioni sul futuro non erano
rosee. Eppure, la giunta resistette (per dieci mesi) fino a
quando Aniasi non diventò ministro e si crearono le basi per le
due giunte (con a capo) Tognoli.
Fu evidente la continuità di lavoro tra queste giunte fondate
su una lunga esperienza di governo locale di stampo riformista
e quindi su programmi concreti e non sulle dichiarazioni dei
protagonisti. Vi facevano parte politici-amministratori che si
stimavano e non si abbandonavano (o raramente) ai giochi
della politica. Erano accomunati dalla volontà del «fare».
Forse stava in ciò il segreto del loro successo.
A dare il senso del tempo, va ricordato che il peso di
interventi esterni «corruttivi» era ancora modesto. Molto
importante era il clima che si respirava in città: una certa
effervescenza culturale era evidente in molti settori, innanzi
tutto in quello culturale: nei teatri, nelle mostre e nei convegni,
nelle attività di circoli e associazioni, ecc.
Milano era città europea ma (ancora) alquanto provinciale.
Questo mix tra vecchio e nuovo aveva una precisa matrice
politico-sociale che lo legittimava. Ad esempio era stato molto
importante che il sindaco Aniasi fosse riuscito a stabilire un
buon rapporto tra cittadini e Comune: sarebbe stata una
costante anche negli anni successivi.
Il suo attivismo (qualcuno disse che, in quegli anni, i
politici erano più presenti alle manifestazioni-
commemorazioni delle vittime del terrorismo che non in aula
consiliare), la sua matrice realmente riformista che lo aveva
fatto dialogare anche con la contestazione studentesca, tanto
da attirarsi l’accusa dei giornali del tempo (in particolare da
Montanelli) di essere un sindaco rosso (allora ancora una
grave accusa), il suo carisma «bonario», gli permisero di
traghettare la città verso le giunte di sinistra in modo non
traumatico, malgrado il clima politico nel Paese (le segreterie
nazionali di PCI e PSI, oltre naturalmente alla DC) non fosse per
nulla favorevole.
Così, quella che lo stesso Aniasi definirà «amministrazione
democratica, progressista e popolare» fu una formula che si
impose definitivamente, anche per la scarsa incisività della DC
milanese indebolita da conflitti interni non gestiti o irrisolti.
Nella primavera del 1976 Aniasi annunciò la sua decisione
di andare a Roma come parlamentare; sarebbe poi diventato
ministro. Nel suo discorso di fine mandato (maggio 1976)
rivendicò con orgoglio il lavoro compiuto in un momento
estremamente difficile («si è cercato di colpire Milano per
colpire il Paese»), con molte cose fatte anche se ne restavano
molte altre ancora da fare, come la difesa delle autonomie
locali, la definizione istituzionale della città-metropoli, le
tematiche legate all’urbanistica, ecc.
L’orgoglio maggiore si riferiva alle «battaglie per ottenere il
miglioramento nelle condizioni di vita nella città, soprattutto
nelle periferie […] [per superare] gli anni delle stragi, delle
bombe, degli assassini, del terrorismo politico, delle marce
silenziose, delle squadre fasciste; gli anni, infine, della
strategia della tensione. Milano non è malata […] essa è stata,
invece, un punto di riferimento politico e morale» (in
Emanuelli, 2002, p. 247).
In queste dichiarazioni appare evidente l’orgoglio di avere
guidato una città che si sentiva forte e sicura. Nella sua ultima
intervista dichiarò esplicitamente che era finita l’esperienza di
collaborazione con la DC e con i partiti che intendevano
importare a livello locale le formule astratte della politica
nazionale. Era quasi un’investitura per chi sarebbe venuto
dopo di lui.
Passano solo quattro giorni dalle sue dimissioni e si arrivò
(il 12 maggio 1976) all’insediamento della prima giunta con
sindaco Carlo Tognoli, il più giovane che Milano avesse mai
avuto: un sindaco imposto dalla corrente autonomista del PSI al
posto del più noto Dragone, molto amato negli ambienti della
borghesia «progressista» per il suo indubbio charme e la
grande cultura.
Il sindaco Tognoli fu giudicato inizialmente incolore, un
funzionario di partito, come la stampa di allora (a cominciare
dal «Corriere della Sera») lo definì, criticando decisamente
tale scelta. Malgrado questo scetticismo iniziale, la sua
capacità di gestire le alleanze (e i rapporti con le minoranze in
Consiglio Comunale), di comunicare con i cittadini, oltre che
il suo grande attivismo, ne fecero in tempo relativamente
breve, il sindaco più amato dai milanesi. Ancora oggi avviene
che i suoi coetanei, quando lo incrociano nelle strade, lo
salutino con l’appellativo di «ciao sindaco».
Nelle sue dichiarazioni di accettazione dell’incarico, il
nuovo sindaco fin dall’inizio disse che non vi sarebbero stati
ripensamenti, ma solo necessari adeguamenti, rispetto al
programma su cui si era basata la giunta precedente. Si augurò
che «la direzione di marcia non (venisse) interrotta», perché
Milano doveva recuperare il suo ruolo, malgrado la «perdita di
alcuni primati» e l’aumento della «violenza politica» e della
criminalità.
Tra gli obiettivi proposti: la spinta verso il decentramento
(per favorire la partecipazione dei cittadini), la difesa delle
grandi istituzioni culturali (la Scala e il Piccolo Teatro) e lo
sviluppo di una cultura popolare non limitata al centro della
città, l’efficienza dell’apparato comunale, una politica per i
giovani, l’approvazione del piano regolatore, i necessari
interventi sulla casa e i trasporti. Erano i punti su cui rilanciare
Milano perché riprendesse al più presto il «posto che le
compete» malgrado la difficile situazione economica e politica
del Paese.
Ma è la conclusione che va considerata attentamente: «la
crisi non deve sospingerci a ripetere gli errori del passato
innescando un nuovo processo di espansione incontrollata.
Dobbiamo favorire uno sviluppo razionale ed equilibrato
fondato su una più equa distribuzione dei redditi, garantita da
un sistema fiscale giusto, efficiente e decentrato e su un
progressivo trasferimento dello sforzo produttivo dai consumi
privati a quelli pubblici, senza mortificazioni verso la parte
sana della classe imprenditoriale» (archivio Tognoli, 12
maggio 1976).
Dichiarazioni sicuramente condivisibili e tuttora molto
attuali che sembravano «strizzare l’occhio» ai compagni di
strada comunisti (e al futuro discorso di Berlinguer
sull’austerità) in una direzione che, se perseguita da entrambi i
partiti, avrebbe permesso una costruttiva alleanza (e non il
duello a sinistra!) per uno sviluppo cittadino sostenibile. Un
esempio che sarebbe stato utile per il Paese.
L’entusiasmo doveva però fare i conti con un contesto non
facile a livello politico e sociale (gli anni di piombo sarebbero
continuati fino al rapimento e all’uccisione di Moro) ed
economico (la crisi di molte aziende e lo stentato avvio del
terziario).
Milano era restata comunque fondamentalmente unita: il
terrorismo aveva fatto pochi proseliti ed era stato decisamente
combattuto da partiti e sindacati. Altre possibili tensioni non
giocarono un ruolo particolare: ad esempio i «terroni» (le
ondate migratorie iniziate dagli anni sessanta) si erano ormai
integrati e continuavano a fornire mano d’opera con grande
impegno a costi non elevati.
Con le giunte Tognoli ebbe inizio un esperimento politico
diverso e particolare: resistette per dieci anni ai tentativi di
modificarlo o condizionarlo, almeno fino a quando Roma (le
segreterie nazionali dei partiti) non si impose definitivamente
su Milano.
Fin da subito furono chiare le due principali direttrici di
questo progetto: le iniziative importanti e innovatrici in campo
culturale e gli interventi sul territorio (in particolare, il piano
regolatore e i progetti sulla mobilità pubblica). Con due
caratteri di fondo: l’importanza data alla cultura (era forse la
prima volta che un’amministrazione comunale vi dedicava tale
rilievo) e la sintonia dell’intero programma alle esigenze di
modernizzazione espresse dalla città e dovute al mutamento
della «composizione sociale» dei milanesi. Alcune grandi
imprese (e un certo capitalismo tradizionale) in difficoltà
stavano lasciando il passo alle piccole-medie aziende e al
terziario (come servizi alle imprese). Un diverso sistema
economico, sicuramente più innovatore (moda e design) si
stava affermando.
Questi rilevanti mutamenti strutturali non furono invece
considerati con attenzione da parte dei vertici industriali locali
che pure li avrebbero dovuti conoscere di prima mano; la loro
estrema cautela politica non li predispose favorevolmente
verso la nuova giunta. Anzi, all’inizio furono decisamente
ostili.
Invece la città, procedendo verso gli anni ottanta, stava
cambiando radicalmente. Non si poteva ancora parlare di
benessere diffuso, ma era palpabile l’illusione che questo fosse
alle porte. Erano anni pieni di avvenimenti strani e diversi:
Montale (milanese di adozione) vinse il Nobel (1975), nello
stesso anno moriva Borghi che aveva saputo coniugare il
localismo «provinciale» con i mercati internazionali.
Non tutto era positivo: la crisi attanagliava le grandi
aziende. Innocenti, Falck, Pirelli conobbero momenti molto
difficili. C’era inoltre un forte bisogno di abitazioni per chi
arrivava in città o per le famiglie appena create.
Milano era così teatro di forti contraddizioni. Continuavano
gli attentati e le azioni dei terroristi neri e rossi; quasi ogni
giorno si leggevano sui giornali le loro tristi gesta. Il culmine
si può datare con il delitto Ambrosoli nel 1979, sempre in un
contesto di ambigui rapporti tra poteri forti, servizi deviati o
incapaci e delinquenza comune.
Le cronache della continua conflittualità tendevano a
esasperare il sentimento di incertezza e timore nella «gente per
bene». Un episodio su tutti: la sera dell’inaugurazione della
stagione scaligera poliziotti in assetto antiguerriglia cercarono
di arrestare il lancio di uova sulle signore eleganti da parte
degli studenti.
Continuavano scioperi e manifestazioni e gli scontri nelle
strade. Nel 1979 vennero uccisi due studenti mentre uscivano
dal centro sociale Leocanvallo. L’emozione fu enorme:
centomila persone (non solo studenti) assistettero ai funerali.
Nello stesso anno si riuscì a posare una lapide in piazza
Fontana per Pinelli «ucciso innocente»; malgrado i tentativi di
rimozione da parte di qualche successivo sindaco non
progressista: esiste tuttora anche se accanto a un’altra ufficiale
e anonima.
In quegli anni, Milano conobbe anche la breve ma violenta
stagione della delinquenza per bande armate: nomi come
Vallanzasca, Epaminonda, Turatello riempirono le cronache
dei giornali con le loro gesta dal fascino ambiguo. Qualcuno
arrivò perfino ad ammirarli: il «bel René» ebbe un grande
successo presso il pubblico femminile, come un eroe dei
romanzi popolari di un tempo. Molti sequestri di persona
sembrarono confermare l’apparente strapotere di una
delinquenza che imitava fenomeni tipici di altre regioni; ci
furono anche le prime (ancora timide) collusioni con le diverse
mafie del Sud.
Era del tutto naturale che il clima della città fosse
improntato alla chiusura, al timore e al pessimismo.
La giunta cercò di porvi rimedio vietando le manifestazioni
nelle vie del centro, da un lato, e dall’altro promuovendo
numerose iniziative di incontro tra i cittadini, come il ripristino
delle sfilate del Carnevale (con le due maschere, Meneghino e
Cecca, che aprirono il corteo assieme al sindaco), le iniziative
nel periodo estivo, i concerti nelle piazze, ecc.
Ci furono anche altre preoccupazioni, non legate al
territorio cittadino: per usare una frase, divenuta di moda e
nata in quel periodo, «l’inflazione galoppava» senza che si
riuscisse a arrestarla. Nel giro di uno-due anni alcuni beni (il
caffè, i giornali, alcuni beni di prima necessità) raddoppiarono
il loro prezzo. Per fortuna l’occupazione teneva. Ci furono
anche altri problemi: la crisi energetica esplose nel 1979 e il
disastro di Seveso (la fuoriuscita della diossina) fece gravi
danni e fu causa di forte timore rispetto ai rischi di uno
sviluppo tecnologico senza controllo.
In quegli anni successe di tutto: in due occasioni la neve
paralizzò la città anche per la difficoltà di trovare spalatori in
breve tempo e senza preavviso.
Per contrastare questo clima di incertezza e timore, si
decise di ricorrere a una serie di iniziative per incoraggiare i
cittadini a «stare insieme» nelle vie della città senza paura.
«Milano per voi», «Vacanze a Milano», «Week-end a Milano»
offrirono una divulgazione ad alto livello, risotto in piazza,
balli nei luoghi pubblici, prevalentemente rivolti a un pubblico
anziano e non ricco. Un mix che incontrò il favore dei
cittadini.
La gente ricominciò a uscire dalle proprie case e a
partecipare alle varie iniziative come non succedeva da
qualche tempo. I più critici parlarono di iniziative banali, di
populismo, non considerando ciò che si era voluto esorcizzare.
Ovviamente, non si era pensato di risolvere, per questa via, i
problemi di un’economia in crisi e l’incertezza-insicurezza
dovuta a una situazione difficile, ma si riuscì a recuperare il
vecchio spirito di comunità tipico dei milanesi.
I tempi cominciarono lentamente a cambiare: ad esempio ci
si cominciò a vestire non tenendo conto delle convenzioni; i
giovani abbandonarono per sempre gonnellone ed eskimo.
La moda cominciò a «mostrarsi»: nella primavera del 1978
si aprì la manifestazione Milanovendemoda, antesignana
dell’ormai prossima stagione delle grandi sfilate a Milano.
Per questa via Milano fu ancora una volta «capitale»: forse
non più morale, ma certamente della moda. Da ricordare che
Fiorucci aveva aperto, qualche anno prima, un suo strano
negozio, inventandosi una moda giovane e alternativa. Un
grande successo. Diventò un luogo di ritrovo per i più giovani.
Milano era anche la capitale del calcio: nel 1977 il Milan
vinse la Coppa dei Campioni e l’Inter vi riuscì un anno dopo.
Il tifo esplose: era ancora genuino e popolare. Purtroppo
peggiorerà qualche anno dopo.
Fu anche la stagione dei grandi concerti: era ormai lontano
il tempo in cui il concerto di Santana dovette essere interrotto
a causa di gravi incidenti provocati dagli (autoproclamatisi)
«autoriduttori» che volevano entrare senza pagare.
Fenomeni destinati a lasciare un segno profondo furono la
nascita, in città e nell’hinterland, di un grande numero di radio
private (musica rock e/o politichese) e l’apparire delle prime
TV locali.

I tempi sembrarono segnati per sempre dall’assassinio di


Moro, ma due figure erano sul punto di parlare un linguaggio
diverso e aperto alla speranza: Pertini a Roma e Montini a
Milano.
Milano «stava cambiando pelle»: l’internalizzazione e la
globalizzazione erano ancora scenari lontani, ma se ne
avvertiva l’avvento prossimo.
Nel luglio 1980 si arrivò alla seconda giunta di sinistra, con
sindaco Tognoli. Venne votata da PCI, PSI, psdi e pdup (43 voti)
dopo trattative non facili. Positivamente giocò il fatto che
Tognoli avesse avuto un forte successo personale come
preferenze ricevute.
Nelle sue prime dichiarazioni affermò che «squadra che
vince non si cambia» e di considerarsi alla guida di
un’alleanza riformista alla ricerca di una «convergenza politica
e programmatica di tutta l’area laica e progressista» senza
discriminazioni pregiudiziali a sinistra. (Landoni, 2011, p.
274).
I voti avrebbero permesso altre possibilità (ad esempio, un
pentapartito), ma l’esperienza degli anni precedenti spinse al
rinnovo di una giunta di sinistra, anche se il clima non
sembrava più così favorevole come cinque anni prima. Gli
equilibri politici a Roma spingevano infatti verso altre
soluzioni.
Il Consiglio Comunale vide l’ingresso di molti volti nuovi e
di notevole valore. Alcuni ritorneranno frequentemente nelle
cronache milanesi di quel periodo: Quercioli, Korach, Terzi,
Petruccioli, Sangiorgio, Adamo, Camagni, Mottini, per il PCI;
Polotti, Finetti, Dragone, Schemmari, Falconieri, Banfi,
Aghina (che proveniva dalle fila del pr) per il PSI; Re Mursia,
Pellicano nel PRI; Capanna in dp; Cominelli nel pdup.
Era una giunta con molte anime: Polotti rappresentava la
vecchia guardia (un vecchio e molto stimato socialista e
sindacalista) e due giovani donne (fatto allora non scontato)
del PCI (Sangiorgio e Adamo) un diverso approccio alla
politica.
La nuova giunta apparve forte e coesa. Lottizzazioni e
corruzione erano tenute a freno: erano ancora eccezioni e non
la regola. Iniziò, così, la seconda «avventura» di Tognoli:
quella che riuscì a dare ancor maggior impulso alla
trasformazione della città, sempre più attraversata da un
(convulso e non sempre immediatamente evidente) processo di
modernizzazione.
Ritornò con ancor più frequenza il termine «riformismo»,
nell’accezione del «fare» in sintonia con le esigenze della città
e dei cittadini.
Nel discorso di presentazione della giunta, il sindaco elencò
i punti fondamentali: casa (come emergenza abitativa), servizi
(si passerà dall’acquisizione del gas dal gestore privato alla
metanizzazione e al progetto del teleriscaldamento),
riqualificazione urbana (le aree in progressiva dismissione
dalle grandi aziende in crisi), trasporti (metropolitana e
passante ferroviario), autonomia degli enti locali e, ancora,
grande attenzione alle attività culturali come strumento di
superamento della «chiusura nel privato» (in questa direzione
avrebbe lavorato con grande fervore il neo-assessore, ex
radicale, Aghina) e lotta all’emarginazione.
Non mancò un preciso riferimento alla strisciante e
continua crisi delle grandi aziende milanesi (come Breda,
Pirelli, Autobianchi, Falck e altre) che ritornavano quasi
quotidianamente nelle cronache dei giornali in quanto sull’orlo
del fallimento e perciò costrette al licenziamento degli operai
che inutilmente cercavano di opporvisi manifestando nelle
strade.
Due furono i maggiori vulnus per l’immagine della città:
l’acquisto da parte della Fiat della Alfa Romeo (la marca
milanese di auto famosa in tutto il mondo) e le vicende del
«Corriere della Sera», che i rampolli di Angelo Rizzoli
avevano distrutto con una sciagurata gestione fino a
consegnarla alla massoneria. Due profonde ferite per
l’orgoglio della città.
Malgrado le turbolenze della politica a livello nazionale, i
primi anni ottanta sono stati il momento di maggior sviluppo
della città e di una progettualità «pubblica» anche se non
chiusa ai privati.
Una politica propositiva anche in tempi di «stretta
finanziaria». Basterebbe ricordare l’acquisto dall’Edison della
produzione e distribuzione del gas che vide un forte esborso
(200 miliardi dell’epoca) e il trasferimento di 1500 dipendenti
all’aem. Assieme al servizio passarono al Comune molti terreni
(dove erano installati i vecchi gasometri): sarebbero diventati
negli anni successivi un grosso patrimonio edilizio, per le
casse municipali un’importante fonte di entrate.
Qualche ombra accompagnò la politica nei riguardi della
costruzione di nuove abitazioni (assolutamente necessarie): le
modifiche al piano regolatore e al regolamento edilizio non
contrastarono efficacemente l’intervento dei privati (definiti
eufemisticamente «spontanee dinamiche del mercato») che
seppero, ovviamente, approfittarne.
Un insuccesso fu la politica comunale riguardante i
Consigli di zona. Questi, eletti direttamente dai cittadini per la
prima volta nel 1980, ma senza fondi e personale e spesso con
sedi precarie, furono solo uno strumento dai contenuti
indefiniti di partecipazione dei cittadini nelle aree periferiche.
Cosa non da poco, ma ben lontana dalle intenzioni di un reale
decentramento amministrativo e dai progetti (di cui si
discuteva già da allora senza alcuna proposta concreta) di una
città metropolitana.
Il clima in città stava decisamente cambiando (in positivo):
gli anni di piombo stavano sbiadendo nel ricordo. Un segno fu
il grande successo del concerto a San Siro di Bob Marley.
Malgrado qualche incidente all’inizio (gli ultimi
«autoriduttori» sfondarono i cancelli), chi vi partecipò ne ha
conservato ricordi magici.
Ma era la «cultura del tempo» a cambiare in profondità:
aumentò il numero dei divorzi e delle separazioni, alcune
decine di migliaia di stranieri, molti senza permesso di
soggiorno, cercarono un lavoro tra quelli che gli italiani
stavano lasciando. In pochi anni, le pizze e il pane sarebbero
stati cotti da egiziani, i vecchi accuditi da donne filippine. Il
razzismo non era ancora un problema grave: lo teneva ancora
a bada il «buon cuore» dei milanesi.
Milano era città di incontri importanti anche di carattere
religioso, come quando arrivarono in città papa Wojtya e
Madre Teresa di Calcutta. Ad applaudirli con entusiasmo non
c’erano solo i papa-boys e i seguaci di Comunione e
Liberazione. Ma l’evento destinato a lasciare un segno
profondo fu l’arrivo di Martini a Milano come arcivescovo nel
1980; sarebbe diventato un fondamentale punto di riferimento
anche per i non credenti.
Sul fronte della violenza vanno ricordate le uccisioni di
Turatello e quella efferata di Epaminonda (il suo sicario ne
mangiò il fegato appena ucciso) e l’avanzata delle mafie,
sempre più estesa e radicata, malgrado l’impegno di alcuni
servitori dello Stato, non famosi e poco apprezzati
pubblicamente. L’ultimo rapimento «eccellente» riguardò la
moglie del costruttore Ligresti: l’immediato pagamento del
riscatto lo risolse in fretta.
Alcuni milanesi di adozione ebbero un destino diverso:
Spadolini fu il primo Presidente del Consiglio non
democristiano; il generale Dalla chiesa venne ucciso con la
moglie a Palermo. Entrambi i fatti sono accaduti nel 1982.
Nello stesso anno venne trovato «impiccato» a Londra il
banchiere Calvi: i suoi affari avevano messo in ginocchio il
Banco Ambrosiano. Perfino la finanza vaticana era restata
coinvolta in equivoci traffici tra politici, banchieri, massoneria
e mafia.
Nell’estate dello stesso anno, molti milanesi corsero per le
strade sventolando grandi bandiere: eravamo diventati
«campioni del mondo». L’anno successivo Craxi diventò
presidente del Consiglio dei Ministri (il primo socialista) e si
inaugurò una nuova stagione politica, dovuta anche al calo
progressivo del PCI che continuerà per qualche anno, tra alti
(elezioni europee) e bassi (elezioni italiane) e con la parentesi
«emotiva» del voto seguito alla morte di Berlinguer.
Malgrado un rimpasto con l’entrata dei socialdemocratici,
gli equilibri rimasero di fatto inalterati anche se la vita della
giunta conobbe alcuni momenti difficili. La politica era
sempre più decisa a Roma e non a Milano. I «miglioristi» nel
PCI avevano visto crescere il loro peso fino alla
normalizzazione dei vertici cittadini imposta da Roma.
L’ombra di Craxi si allungò su Milano.
La città continuava a cambiare profondamente. Nelle strade
vi erano sempre più extracomunitari; gli abitanti di Milano
(circa 1 500 000) si confondevano, durante il giorno, con i
city-user (circa 1 600 000) che abitavano nei cento comuni
limitrofi. Le macchine invasero la città: quelle immatricolate
nella provincia furono oltre un milione. Si pose decisamente il
problema del traffico urbano.
La città di giorno era molto diversa dalla città di notte: nelle
ore diurne il traffico era convulso, in quelle notturne
l’accrescersi del numero dei locali pubblici preannunciò la
futura movida, allora appena agli inizi.
Comparvero nuovi locali (il fast-food di Burghy e
McDonald, i bar con molti panini): erano i nuovi luoghi di
aggregazione sociale, specialmente per i più giovani. Strane
creature (i paninari) invasero alcune piazze e vie del centro
con le loro divise di moda, anticipando i loro fratelli maggiori
yuppie con altre divise (e consumi) di riconoscimento.
I manager stavano sostituendo i padroni ai vertici di molte
aziende: in qualche caso furono bravi e di successo; in molti
altri casi si limitarono a imporre una cultura pseudo-
efficientistica che si fondava su formule (e linguaggi) apprese
frettolosamente in qualche master che alcune università
milanesi cominciarono a proporre innovando la propria offerta
didattica.
I mutamenti riguardarono ogni settore dell’economia. Ad
esempio, si andò sviluppando la grande distribuzione; i
supermarket scacciarono le vecchie botteghe. Perfino la
gloriosa Fiera Campionaria dovette mutare la sua proposta,
moltiplicandosi durante tutto l’anno in più mostre
«specializzate» nei diversi settori della produzione e del
commercio.
I cambiamenti maggiori (o solo più evidenti) riguardarono
il tempo libero. Nuove abitudini diventarono presto di
«moda»: ad esempio si imposero i locali sui Navigli. Non era
solo un modo diverso di mangiare e bere o di ascoltare musica:
era il nuovo rito collettivo (trendy) dello stare insieme in tribù
che si riconoscevano in uno stesso stile di vita. La subcultura
giovanile si era definitivamente liberata dal controllo di padri,
maestri e sacerdoti, e partecipava con entusiasmo ai riti-
modelli della globalizzazione. Soprattutto nelle ore notturne.
Milano diventava «da bere» nel senso migliore (si imposero
settori come la moda e il design) e peggiore (apparvero i
«finanzieri d’assalto» e si imposero le pratiche della
mondanità più banale).
La tradizione della «milanesità» del lavoro e del «coeur in
man» implose fino quasi a sparire.
Si affermò una nuova cultura (di matrice americana e pop),
non più fondata sulle ideologie, ma sugli stili di vita o le mode
del momento. L’imperativo era: divertirsi e consumare.
Milano, come «capitale morale», stava fortemente declinando.
Nell’inverno del 1985 una fortissima nevicata sembrò la
scenografia inventata da un abile regista per suggerire una
metafora: «cosa c’era sotto la neve» e cosa sarebbe emerso
quando sarebbe (ammesso che lo fosse) stata «spazzata via»?

2. Anche la seconda giunta di sinistra arriva al suo termine


La politica nazionale «impose» una giunta pentapartito con
sindaco Pillitteri. C’era stato un breve interregno di una giunta
con sindaco Tognoli, obbligato dai suoi a restare a causa della
sua grande popolarità. Avrebbe «garantito» agli occhi
dell’opinione pubblica il ritorno, non convincente e non
gradito, delle giunte di pentapartito.
Tognoli dichiarò, da subito, di non gradire il ruolo di
sindaco «per tutte le stagioni». Dopo poco più di un anno, uno
scandalo (le cosiddette «aree d’oro») lo spinse a dimettersi,
anche se verrà completamente scagionato. Era iniziato il
tempo delle non trasparenti manovre dei grandi costruttori e
dei loro alleati (o protettori) politici sulle grandi aree
edificabili. La grande speculazione edilizia muoveva enormi
capitali finanziari e «facilitava» le carriere politiche.
Il suo ultimo discorso fu una sorta di elenco delle cose fatte
e delle cose che rimanevano da fare: alcune (le costruzioni
sulle aree dismesse e i parcheggi) sarebbero state portate a
termine circa vent’anni dopo.
Il logorio dell’esperienza milanese era iniziato fin dai primi
anni ottanta quando la realtà riformista del «fare» si scontrò
con il duello, a livello nazionale, tra i due maggiori partiti per
la guida della sinistra. Ci fu qualche tentativo di resistere alle
indicazioni romane. Contro la linea ufficiale (romana) il
segretario del PCI milanese, Vitali, aveva sostenuto (al
congresso della federazione milanese del 1983) che andava
riconosciuto come importante «un rapporto […] di
collaborazione e alleanza (tra PCI e PSI) che dura ormai da sette
anni […] solido, non indenne, ovviamente, da polemiche e
differenziazioni […] un rapporto che si vuole paritario e senza
dominanze». (archivio isec)
Era quanto aveva sostenuto anche Tognoli quando aveva
rivendicato la «politica del fare» in una prospettiva della
concretezza contro le «impostazioni astratte», ideologiche o
partitiche; possibile anche senza rinunciare a perseguire, nella
prospettiva nazionale, l’alternativa socialista (congresso
nazionale del PSI di Palermo, 1981).
Era però una stagione finita. Alcuni episodi marginali ma
simbolici, lo avevano evidenziato. Ad esempio i «comunisti»
si opposero alle celebrazioni di Filippo Turati, nel centenario
della sua morte, alla Scala. Un errore inutile.
Così da Roma, subito dopo le elezioni (politiche) del 1983,
venne la ferma indicazione di realizzare una giunta
pentapartito. Si tentò ancora (Camagni per il PCI) di
distinguere tra questioni locali e nazionali e di fare presente
che la città non aveva bisogno di una crisi. (Quercioli). Ma il
segretario socialista Finetti in risposta teorizzò: «Vogliamo una
modernizzazione a misura d’uomo, non offuscando le
tradizioni e l’identità della città […] una modernizzazione in
cui il modo di vita sia nel quadro della socialità e del vivere
civile e culturale». Sembrava una posizione condivisibile, ma
in realtà era di chiara matrice socialista anti-PCI. «Quella»
modernizzazione era teorizzata dai socialisti, non dai
comunisti.
Lo stesso Tognoli dovette prendere atto del mutamento del
clima politico, soprattutto a livello «romano», dichiarando:
«tra Partito Comunista e Partito Socialista, allo stato delle
cose, (esiste) un contrasto nella politica nazionale che rende la
collaborazione oggettivamente più faticosa, rispetto agli anni
scorsi» (riportato in Landoni, 2011, p. 405). Così, la terza e
breve giunta Tognoli fu costretta a prendere atto dello
«sviluppo di tutte le condizioni che avevano determinato
effettivamente l’allineamento della città allo schema politico
nazionale e alle sue dinamiche» (ibid., p. 453). Sembrava
impossibile fare diversamente.
La fine di ogni possibile accordo era stata annunciata dai
fischi (e dall’infelice uscita di Craxi) al congresso nazionale
del PSI a Verona. Pochi mesi dopo, la morte di Berlinguer
chiuse definitivamente quel periodo.
Era comunque finita la stagione del riformismo «milanese».
Non esisteva più la convenienza dei due maggiori partiti. Il PSI
era ormai sicuro della sua forza e non temeva più di essere
schiacciato dalla tenaglia DC-PCI come conseguenza dell’ormai
tramontata proposta politica del compromesso storico. Craxi
era al Governo e il suo partito sembrava dettare la linea
politica a livello nazionale.
Il PCI era in piena crisi, dovuta al fallimento della politica di
solidarietà a causa della persistente sordità della DC,
accentuatasi anche con la morte di Moro. La DC a Milano
continuava ad esercitare un ruolo fortemente conservatore: la
borghesia della città (e non solo) continuava a immedesimarsi
nel partito della conservazione al di là delle sue beghe interne.

3. Verso gli anni spensierati della «Milano da bere»


Era finita l’esperienza delle due giunte di sinistra. Cosa
avevano rappresentato? Per quali motivi (non solo politici)
erano state possibili?
A nostro avviso la spiegazione è abbastanza semplice: si
trattò di un reale esperimento riformista, portato avanti da
politici che ci credettero sulla base di una fiducia reciproca al
di là degli schieramenti. Esperimento caratterizzato da una
grande volontà d’ascolto della città o, meglio, di coloro che
nella società civile (termine allora poco usato) avevano da
proporre iniziative valide per la città.
Sicuramente giocò anche l’antico orgoglio municipalistico
e la correlata diffidenza per la politica a livello nazionale.
Rispetto alle manovre partitiche «romane», a Milano resisteva
ancora la dimensione del «fare»: quella che aveva spinto la
borghesia milanese a occuparsi concretamente e direttamente
della guida della propria città.
Era l’eredità del socialismo riformista e della tradizione
«caritatevole» della chiesa lombarda. Un carattere molto
lombardo che sarebbe emerso, nel modo peggiore, dopo circa
10-15 anni con la Lega Lombarda del «barbaro» Bossi con i
suoi slogan su «Roma ladrona». Da quest’ultimo aspetto anche
i «lombardi» non sarebbero stati esenti, come si vide negli
anni successivi.
Un altro motivo di «riuscita» fu che le due giunte si
mossero nello spirito dei tempi nuovi che stavano avanzando.
In questa prospettiva gli «amministratori» furono attenti ai
bisogni e agli interessi dei «nuovi» milanesi (adesso più ricchi
e meno tradizionalisti) che si stavano allontanando dalle
ideologie e dagli apparati dei partiti, ma non dall’interesse per
i problemi della propria città. Questi avevano molte cose da
dire (e da fare) come fu evidente nei nuovi settori dell’attività
culturale: comunicazione (TV e pubblicità), arte (e design),
ricerca scientifica nelle università.
Passare dall’ascolto al dialogo e poi al «fare insieme», in un
mix (pratico e sperimentale) molto milanese tra pubblico e
privato, avvenne naturalmente.
Arrivò la stagione della «Milano da bere». Lo slogan
coniato da Marco Mignani, nei primi anni ottanta, per un
amaro da bere in compagnia di amici moderni in luoghi
trendy, si riferiva a una città affascinante e ben diversa da
quella di pochi anni prima in preda alla paura. Ebbe un
immediato successo perché rappresentava un sentimento che si
stava diffondendo in chi viveva in questa città. Dalla metà
degli anni ottanta si era affermata la voglia dei milanesi di
«uscire» e di «fare». Come disse il suo autore, era tornata la
«Milano dell’ottimismo, del dinamismo […] c’era un grande
clima di euforia […] anche la Milano by night esprimeva la
gioia di vivere» (Mignani, in Emanuelli 2002, p. 330). Si era
girato pagina, decisamente e rapidamente.
Lo slogan avrebbe finito, poi, per dare un’immagine
negativa della città, fino a farla coincidere con la stagione
della corruzione e delle tangenti. L’ispirazione iniziale era
stata, però, quella di suggerire l’immagine di una città
moderna e molto vivibile. Già all’inizio degli anni ottanta si
era realizzato infatti un diffuso (anche se modesto) benessere.
Coloro che sognavano di diventare ricchi scoprirono, in quegli
anni, la possibilità di investire i propri risparmi in attività
finanziarie (ad esempio, investire in borsa, una assoluta novità
per gran parte degli italiani), per poi «spendere gli interessi» in
consumi fino ad allora pensati difficili: proprio in quei settori
(l’arredamento della casa o l’acquisto di auto) che in quegli
anni «tiravano».
Il fortunato slogan di Mignani si era riferito proprio a
questa euforia, ai nuovi stili di vita e/o abitudini del tempo
libero. La Milano del lavoro era adesso più conosciuta come la
«Milano by night» e/o quella dei locali e negozi eleganti.
Una trasformazione che volle dire la chiusura delle vecchie
botteghe e la fine delle attività artigiane. Si mangiarono «crek»
anziché pane, non si aggiustò più nulla: era meglio comprare i
nuovi prodotti più in e moderni. Milano non era più solo una
città europea, adesso era conosciuta in tutto il mondo.
I cambiamenti culturali erano legati, ovviamente, a quelli
strutturali: l’invecchiamento di chi abitava in città (i più
giovani erano dovuti emigrare nell’hinterland), la netta
diminuzione del numero degli operai e l’emergere di nuove
professioni con l’affermarsi di una borghesia «affluente» con
denaro da spendere e nuovi interessi, il progressivo aumento
dei casi di separazione (e, meno, di divorzi) con il conseguente
aumento del numero di single e delle famiglie di fatto (e a
termine), la riuscita integrazione degli stranieri «buoni» come
gli egiziani e i filippini.
Era, inoltre, avvenuto un fenomeno sociale rilevante: i
giovani non «contestavano più», se non rifugiandosi in futili
mode (i paninari, i punk) legate ad alcuni oggetti (di «culto»
come il bomber, i Ray Ban, le Timberland) o ad alcuni luoghi
o rituali («parlare del nulla» e mangiare «hamburger and
chips»). Cominciarono anche a bere superalcolici e,
naturalmente, continuavano a ballare molto. Non volevano
cambiare il mondo, forse neppure se stessi; si integrarono
facilmente nella società dei consumi.
I loro fratelli delle periferie «venivano in città» per
ascoltare i concerti dei cantanti (o dei complessi) più famosi.
Poi tornavano a casa; dove abitavano non c’erano luoghi di
aggregazione sociale interessanti.
Ovviamente, sezioni e parrocchie erano frequentate ormai
soltanto da una minoranza. La politica era diventata ai più del
tutto estranea.
La grande euforia era destinata però a una sorta di
autocombustione: bruciò troppo in fretta. Favorì chi aveva
saputo scegliere mestieri nuovi e redditizi, ma fu causa di una
strisciante emarginazione per chi esercitava professioni
tradizionali (insegnanti, impiegati, ecc.). Era fondata più sulle
mode e gli eventi che non su un reale e sentito processo di
cambiamento sociale e culturale.
Così, piuttosto in fretta, l’euforico slogan «Milano da bere»
si rovesciò nello stereotipo negativo dei consumi inutili, della
vita vuota. Milano «città degli affari» sarebbe diventata, per
qualche osservatore (un po’superficiale), la «città del
malaffare».
Fatti, eventi, fenomeni di moda si succedettero senza una
chiara ed evidente connessione o prospettiva. In termini
sociologici si stava realizzando, anche se in modo ancora
incerto e confuso, la «società degli individui»: ognuno, in
assenza o credibilità di valori tradizionali condivisi, doveva
cercare di trovare da solo un senso e dei significati da dare al
proprio individuale progetto di vita.
In assenza di modelli o di maestri, era la cultura mediale a
offrire continui suggerimenti anche se volti più all’evasione
che non alla riflessione. La pubblicità e i settimanali ne erano i
principali ispiratori.
Nella vita reale c’erano spettacoli di grande valore (per
esempio a teatro) e mostre di notevole interesse, ma era forte il
richiamo del varietà del sabato sera televisivo. Quella del
tempo libero era una realtà dalle molte facce. Comparvero
anche uno strano teatro (il cabaret) e una nuova musica (il jazz
«made in Milano») in luoghi che divennero di moda (Cà
Bianca, Le Scimmie, Il Capolinea). Erano gli eredi del mitico
Derby degli anni sessanta: frequentandoli ci si sentiva
moderni, in.
Al cinema i milanesi non espressero un loro preciso gusto.
Nei film di quel periodo fatti e personaggi della società
italiana del momento non comparivano o erano messi in
caricatura: emergevano, invece, le storie relative alla società
americana, dove le commedie incentrate sulle vicende del
«common people» costruivano un discorso coinvolgente che si
contrapponeva alla fantascienza degli extraterrestri o ai
fantasy. La rappresentazione del futuro data dal cinema era
questa.
Molti cercarono la fortuna giocando al Totocalcio. San Siro
si riempiva di tifosi dell’Inter e del Milan, ma molti
cominciarono a guardare le partite in TV. Si passò dal telefono
a gettoni a quello a schede: buffi (e grossi) telefonini
cominciarono a comparire.
Intanto la città cresceva, si ampliava la rete metropolitana.
In centro il prezzo delle abitazioni (o dei negozi) saliva
vertiginosamente, non bastarono leggi come l’equo canone; in
periferia ricchi immobiliaristi costruivano interi quartieri per
famiglie della media borghesia, con «finiture di pregio» e una
parvenza di verde. La differenza con la città anche di pochi
anni prima era ormai evidente.
Anche per non farsi coinvolgere da «trasposizioni
meccaniche» di modelli politici (il centro-sinistra), il sindaco
Tognoli fu costretto a prendere atto che era finito il tempo
delle «sue» giunte. Per dare il senso del cambiamento, basti
ricordare che assessore alla cultura fu designato un anziano (ed
egregio) professore universitario di filosofia, Nicola
Abbagnano, che, certamente, sarebbe rifuggito da feste in
piazza, divulgazione o cultura popolare. Era un ritorno al
passato, non una diversa prospettiva verso il futuro.
Alle cronache venne l’indagine denominata «Duomo
connection» in cui mafia, massoneria e politica risultarono
profondamente intrecciati; «tangente» divenne una parola
molto usata sui giornali, poi apparve nelle inchieste
giudiziarie. Una trasparente gestione della cosa pubblica fu
sempre meno perseguita.
Craxi avrebbe «nominato» sindaci Pillitteri e Borghini.
L’«ascolto» non era più il carattere primario degli
amministratori della città.

4. Il fenomeno moda e Milano


I caratteri (creatività, benessere) che avevano portato alla
«Milano da bere» furono particolarmente evidenti a proposito
del fenomeno «moda».
La «moda moderna» aveva avuto i suoi inizi a partire dagli
anni sessanta. Fino ad allora era stata il combinarsi di pratiche
assai diverse: il rivolgersi alle sartorie di alta moda da parte
delle abbienti signore borghesi o alle sartine per la gran parte
delle altre donne.
Al passaggio dagli anni sessanta ai settanta, il vestirsi non
fu più un modo di coprirsi o una divisa di classe. Non era più
d’obbligo il conformismo: il vestirsi secondo condizione
sociale e convenzione. Una spinta in tal senso la diedero i
giovani: quelli che avevano iniziato ad andare ai concerti o a
seguire la musica rock. La minigonna era diventata una sorta
di manifesto prima che un fenomeno di moda, come del resto
era la Londra di quegli anni. I pantaloni divennero unisex, le
cravatte cominciarono a scomparire, vestirsi casual divenne un
modo di sentirsi e presentarsi scelto da molti.
Un segno del cambiamento fu la comparsa dei negozi
Benetton dove si vendevano maglioncini colorati
assolutamente originali: indossarli era mostrarsi giovani e
moderni, come la pubblicità che li esibiva.
Inaspettatamente la vera svolta iniziò dalla moda maschile:
i vestiti confezionati (ad esempio della Facis, Lebole, ecc.)
liberavano dalla schiavitù delle prove dal sarto e dalla scelta
della stoffa (in precedenza spesso delegata alla madre o
moglie) ed erano altrettanto comodi e eleganti. Si potevano
scegliere in pochi minuti in un negozio: gli uomini impararono
così a guardare le vetrine.
Le donne, specialmente le più giovani ma non
giovanissime, scoprirono un mondo nuovo e diverso di
abbigliarsi facendo riferimento alle boutique, dove impararono
a coltivare un gusto (non ancora uno stile) personale,
scegliendo «quel negozio» dove trovavano i capi che
sembravano «fatti apposta per loro» a un prezzo non
eccessivo.
Ma il vero fatto nuovo fu la comparsa (e il rapido successo)
della moda prêt-à-porter: quella fornita dalla industria
dell’abbigliamento che si impose proprio in quegli anni. Una
moda giovane, informale, moderna, poco costosa, adeguata ai
tempi. Vestirsi con quegli abiti (o «firme») era un modo di
vivere quei tempi nuovi. Basterebbe ricordare le due headline
di un brand (Cori del Gruppo Finanziario Tessile di Torino):
«sulle ali di una farfalla» e «né strega né madonna» per dare
un’idea della nuova immagine della donna proposta da questa
moda.
A questi fenomeni produttivi va affiancato un evento
tipicamente moderno per quei tempi: la nascita e l’affermarsi
di nuove professioni. Innanzi tutto gli stilisti e poi le
professioniste delle relazioni pubbliche, le giornaliste dei
periodici femminili (che dedicarono sempre più pagine alla
moda), i beauty stylist, ecc. (Puccinelli, 2011)
Il passaggio divenne definitivo quando gli stilisti, da
esperti-consulenti delle aziende, divennero imprenditori in
proprio. Negli anni sessanta avevano iniziato Krizia e Missoni,
poi Armani, Versace e Ferré resero irreversibile il successo
della moda italiana. Non a caso lavoravano tutti a Milano.
La nuova moda si impose al grande pubblico (attraverso
stampa e TV) con il fenomeno delle sfilate-spettacolo e
l’emergere di una nuova professione sempre più centrale
nell’immaginario collettivo: le modelle. La bellezza diventò
definitivamente una chiave di successo: dalle attrici di scarso
valore alle veline. Le «miss» di un tempo e le «maggiorate»
dei film divennero uno sbiadito ricordo di un’Italia
provinciale: la bellezza, adesso, era molto diversa, aveva più
classe, meno chili e più sottile giro vita.
Le sfilate non erano un’assoluta novità: già da tempo erano
state organizzate in alcuni grandi alberghi: erano però riservate
ai compratori e alle poche «mitiche» giornaliste che si
occupavano di queste «frivolezze» in quegli anni Brunetta,
Maria Pezzi, Anna Riva, Camilla Cederna (che alternava
coraggiose battaglie civili alla rubrica Il lato debole
sull’«Espresso») e poche altre.
A metà degli anni settanta Milano era la «città della moda
italiana». Volendo stabilire simbolicamente una data iniziale
possiamo riferirci al 1975: è l’anno del primo calendario
messo a punto dalla Camera delle moda come tentativo di
razionalizzare le diverse presentazioni. Fu anche l’anno della
prima sfilata di Armani.
Ma perché proprio in questa città? C’erano molte ragioni.
Milano era moderna e industriale: non rappresentava la
splendida ma polverosa tradizione di città come Roma (la
capitale dell’alta moda) o Firenze (dove avevano avuto luogo
le prime sfilate della «nuova moda» a Palazzo Pitti). Era la
città dell’editoria (giornali e riviste), delle banche,
dell’immigrazione di gente di grande valore con la voglia di
affermarsi e arricchirsi. Quella delle avanguardie artistiche e
intellettuali. Sempre qui era nato l’altro grande fenomeno, il
design, in cui si era realizzato un incontro tra stilisti e
industria.
Non poteva quindi che essere Milano, anche se le istituzioni
locali non si impegnarono mai a fondo nella favorire e
appoggiare il fenomeno che fecero conoscere la città in tutto il
mondo.
Negli anni immediatamente successivi arrivarono
Valentino, Dolce & Gabbana, Moschino, la meteora Romeo
Gigli. Si affermò anche un’importante novità: accanto ai
vestiti, molti marchi «firmarono» accessori (in particolare
borse e scarpe) che diventeranno sempre più importanti, come
mercato e come espressione del made in Italy.
Il prêt-à-porter, nel giro di pochi anni, «fu la moda»
(Morini, 2010). Alcuni capi cominciarono a costare cifre
importanti e a rivolgersi alle signore più ricche della «Milano
da bere» (mogli di broker, professionisti in vari campi,
personaggi del mondo dello spettacolo, ecc.) e, ancor più, alle
ricche straniere innamorate del made in Italy.
Milano cominciò a essere una tappa obbligata nel «giro»
delle principali mete turistiche nel mondo.

5. Dopo…
La fine delle giunte di sinistra fu, come si è visto,
essenzialmente una questione politica. Ma il «segno dei
tempi» influì notevolmente. Non a caso, il passaggio di
testimone da Tognoli e Pillitteri è emblematicamente
rappresentato dalle personalità dei due sindaci. Il primo
schivo, semplice, orientato al fare. Il secondo «uomo di
mondo», più di relazioni che guida politica. Secondo una
definizione di Pansa era il «Franti del Craxismo milanese».
Questa e altre non erano definizioni obiettive: dipendevano
ovviamente dal suo essere cognato di Craxi. In realtà, aveva
iniziato da tempo il suo cursus politico, era studioso (aveva
insegnato all’università) di cinema.
Il nuovo sindaco dava il suo meglio negli incontri ufficiali e
nelle manifestazioni pubbliche. Toccanti furono le
commemorazioni di due sfortunati protagonisti della
precedente stagione milanese: Enzo Tortora e Walter Chiari e
quella (a un anno dalla sua morte) di un grande milanese,
l’editore Rizzoli, che aveva costruito un impero nel campo
dell’editoria partendo dalla sua condizione di Martinitt. Era
forse meno abile nella regia della sua giunta (che fu più volte
oggetto di necessari rimpasti) e nella messa a punto di grandi
progetti per la città che stava vivendo una prospettiva sempre
più europea.
Nelle elezioni del 1987 solo DC e PSI mantennero le loro
posizioni e, anzi, guadagnarono consensi, mentre il PCI risentì
della profonda crisi a livello nazionale. Il dato da segnalare è
però l’apparizione di uno «strano» movimento: la Lega
Lombarda. L’allora suo sconosciuto leader (Bossi) annunciò
spavaldamente che erano pronti a «conquistare Milano».
Sembrò una spacconata: invece, qualche anno dopo, un loro
candidato (Formentini) sarebbe diventato sindaco.
Queste elezioni segnalarono anche un altro fenomeno
importante: comparvero i primi spot elettorali, per merito dello
stesso pubblicitario inventore dello slogan «Milano da bere» e
di un’intraprendente politica democristiana (Silvia Costa).
Mancavano solo sei-sette anni alla «discesa in campo» di
Berlusconi e al suo sapiente e spregiudicato utilizzo degli spot
politici.
Il ricorso alle tangenti (ormai prassi abituale) e la «finanza
d’assalto» (che attirava i risparmi dei nuovi benestanti che
volevano avere sempre più denaro da spendere) furono i due
caratteri principali della prassi politico-sociale del tempo, non
solo a livello cittadino. In questo contesto, assolutamente non
trasparente, si facevano grandi affari. I palazzinari dominarono
la città; Gardini, venuto dalla provincia, conquistò sia pure per
poco tempo la Montedison.
La zona «grigia» tra pubblico e privato fu il terreno della
costruzione di carriere e guadagni incredibili. Con un ulteriore
risvolto perverso: la mafia diventò sempre più presente. Una
diffusa microcriminalità impose i suoi tristi riti nelle vie del
centro o della nascente movida. Sul versante opposto, i centri
sociali manifestarono la loro rabbia al suono della musica rock
e con la pratica degli espropri: ciò spaventò i ricchi borghesi
che espressero a gran voce la loro esigenza di sicurezza.
La presenza della chiesa cattolica era ancora una voce
importante, anche se non sempre ascoltata: il cardinale Martini
fu sempre più un punto di riferimento autorevole non solo per i
credenti. Non c’erano solo le parole del cardinale; alcuni preti
di strada (don Mazzi, fratel Ettore) si impegnarono in favore
dei poveri ed emarginati. Nella stessa scia si muoveva la
Caritas, un esempio di notevole efficienza e di concreta
solidarietà.
I giovani milanesi furono sempre più obbligati a uscire
dalla città per trovare abitazioni accessibili. Con due
conseguenze: fiumi di macchine si rovesciavano ogni giorno
in città (mettendo sempre più in crisi il traffico nelle zone
centrali) e cresceva il progressivo invecchiamento della
popolazione residente.
Chiusero molti cinema (alcuni si trasformarono in sale a
luci rosse) e qualche teatro; i luoghi di aggregazione erano
solo quelli della sera e per i giovani. I vecchi guardarono
sempre più la TV, rinchiusi nelle loro case.
Molti milanesi conobbero però un maggiore benessere:
facevano le vacanze in luoghi esotici, molti week-end, il
Natale divenne un’orgia di regali inutili. Contrariamente alle
aspettative ci fu il flop (come arrivi di tifosi stranieri e spese
relative) del campionato mondiale di calcio; Milano aveva
presentato il suo nuovo stadio (San Siro) finalmente arrivato al
termine dei lavori con un incredibile dispendio di denaro.
Nel 1988 iniziò a straripare periodicamente il (piccolo
fiume) Seveso e si pose sempre più gravemente la questione
ecologica: si parlò sempre più di inquinamento atmosferico.
Iniziò la raccolta differenziata dei rifiuti.
Pillitteri tentò il suo ultimo rimpasto rivolgendosi al pds:
sembrò una riedizione, imposta dai tempi e dalle difficoltà,
delle giunte di sinistra. Non riuscì. Nel dicembre 1991
pronunciò il suo discorso finale, in cui parlava più dei
rimpianti per le occasioni mancate che non delle realizzazioni.
Era una fine annunciata.
Nel frattempo, nel mondo, stavano accadendo fatti
incredibili: primo tra tutti il crollo del muro di Berlino.
A Milano si annunciava tempesta: il pool dei magistrati di
Mani Pulite era già sul piede di guerra. Il distacco-disaffezione
verso i partiti e gli uomini politici era ormai inarrestabile.
Nel gennaio 1992 venne nominato sindaco Piero Borghini.
Su di lui pesò, fin dall’inizio, l’ombra di essere stato designato
da Craxi. Una specie di peccato originale. «Migliorista» da
sempre nel PCI e nel pds, Borghini aveva fondato un movimento
(Unità Riformista) che aveva cercato il maggiore dialogo
possibile, senza grandi risultati, tra i partiti di sinistra.
Erano sette i gruppi che appoggiarono la sua giunta; tra gli
altri fu arruolato anche De Carolis, l’ormai stagionato
marciatore. Forte spazio ebbe la DC (vicesindaco fu Zola);
restavano gli inossidabili B. Rizzo e M. De Corato. Una sorta
di continuità storica che perdura tutt’oggi.
Borghini tentò tutte le possibili alleanze per superare i
tempi sempre più difficili. Cercò di ricostruire il dialogo con i
cittadini, sempre più disillusi e lontani dalla politica. L’ultimo
tentativo fu caratterizzato dall’inserimento di tecnici in una
giunta di «responsabilità civica».
Un tentativo arrivato forse troppo tardi. Un mese dopo
l’insediamento di questa «inusuale» giunta, un giovane e
agguerrito sostituto procuratore (Antonio Di Pietro) fece
arrestare il presidente del Pio Albergo Trivulzio, Mario
Chiesa. Si mise in moto una valanga chiamata Tangentopoli.
Tra gli altri venne inquisito il costruttore Ligresti, fino ad
allora considerato intoccabile. Alla fine dell’anno anche Craxi
fu raggiunto da un avviso di garanzia.
Il lavoro della giunta Borghini era continuamente scosso da
arresti e interventi della magistratura. Non si poterono
affrontare i problemi di sempre: aree dismesse, trasporti
(adesso anche a proposito degli aeroporti), l’edilizia
residenziale e non, l’inquinamento.
Borghini, in più occasioni, disse che i partiti avrebbero
dovuto «fare un passo indietro» e che era finito il tempo dei
«dirigenti» politici. Nel febbraio 1993 fu costretto a gettare la
spugna. Biagi, dalle colonne del «Corriere della Sera», gli
concesse l’onore delle armi: definendolo un uomo onesto,
colto e competente. Non era stato però in grado di lottare da
solo contro la logica di un sistema politico, a livello nazionale
e adesso anche a livello locale, corrotto e inefficiente.
Fu il canto del cigno dell’«illusione riformista» a Milano.
Una grande stagione. Dopo sarebbero arrivati i «barbari» della
Lega e poi i grandi costruttori. Poi le giunte di centro-destra.
Tutta un’altra storia.
3. Le ragioni del successo delle giunte di sinistra

1. Obiettivi e strategie
Quattro sono i filoni che, a nostro avviso, hanno
caratterizzato il «buon governo» delle due giunte di sinistra: la
cultura, l’urbanistica, i servizi sociali e la macchina
burocratica del Comune. Per necessaria sintesi parleremo solo
molto brevemente degli ultimi due: entrambi caratterizzati da
buoni risultati ma senza particolari exploit.
I numerosi interventi nel sociale (specialmente verso gli
anziani e i bambini) erano conseguenti ai princìpi politici a cui
la giunta si ispirava: ad esempio, in campo scolastico, furono
raggiunti notevoli livelli di efficienza, senza però un
«marchio» particolare, come invece accadde in Emilia a
proposito degli asili il cui modello (pedagogico e
organizzativo) fu copiato in molti paesi stranieri.
Il buon funzionamento della «macchina burocratica»,
necessario alle decisioni politiche, fu un mix di «sintonia»
politica (in qualche caso partitica) e di orgoglio professionale
in chiave di milanesità. Un mix che non si riprodusse, nel
tempo, con la stessa efficienza e nelle stesse proporzioni.
Nei primi tempi aveva operato una burocrazia auto-
reclutata e auto-formata, con un occhio attento sia allo scopo
(agli obiettivi come decisi dai politici) sia alle norme
scrupolosamente rispettate. In qualche caso ciò fu un limite
alla speditezza degli atti, ma sicuramente un baluardo contro
iniziative spericolate, come avvenne in alcuni casi negli anni
ottanta. Questa tradizione si incrinò a causa di interventi
sindacali non sempre «attinenti al merito»: specialmente
quando ai funzionari si affiancarono consulenti esterni (di
nomina partitica) a cui furono concessi notevoli ambiti
decisionali, sia pure in modo informale. Gli scandali degli anni
ottanta riguardarono alcuni assessori ma anche alcuni
funzionari e consulenti a riprova che qualcosa si era inceppato
nella macchina amministrativa comunale.
Per quanto riguarda i primi due filoni, è necessaria una
premessa: l’urbanistica va inquadrata in quel particolare
periodo e nei problemi relativi, soprattutto tecnico-giuridici. Il
quadro era infatti caratterizzato dalla necessità di disporre di
grandi capitali, dall’emergere di diversi interessi (non sempre
evidenti e esplicitati), dalla presenza di protagonisti «di peso»
e di una certa spregiudicatezza, ma soprattutto da una forte
carenza legislativa. Difficilmente, date queste condizioni, si
sarebbero potuti ottenere risultati corrispondenti appieno alle
ipotesi di partenza in «chiave sociale». Come avvenne.
Per la cultura, invece, tali problemi si ponevano in misura
molto minore. Anche per questo fu possibile ottenere in tempi
piuttosto brevi risultati evidenti e con immediata efficacia a
livello sociale. Le attività in questo campo avevano un doppio
scopo: favorire la partecipazione a livello cittadino e
coinvolgere le energie che erano state liberate dai movimenti e
dalla nuova cultura più attenta ai nuovi linguaggi come
musica, cinema, arte. Un risultato (probabilmente inaspettato o
non pianificato) fu quello di dare un’importante immagine alle
giunte e a alcuni suoi esponenti: come successe al sindaco
Tognoli o all’assessore Nicolini a Roma. Come vedremo, tali
politiche furono connotate in modo assai diverso: a Milano
con un certo impegno culturale, nella capitale giocando
«sull’effimero».
Nel suo discorso d’insediamento (12 maggio 1976),
Tognoli dedicò maggiore attenzione all’urbanistica. Partendo
da una premessa («il piano regolatore è quasi al termine»), ne
faceva discendere alcune precise linee operative: fabbisogno
sociale delle abitazioni, verde, trasporti urbani, risanamento di
alcuni quartieri, ecc.
Non fu proprio così. La gestione urbanistica
progressivamente più complicata e non sempre correttamente
gestita ebbe invece, secondo i critici più malevoli, l’effetto di
dare grande spazio «alla Milano dei faccendieri, dei politici
corrotti, dei funzionari felloni, degli affaristi senza scrupoli
[…]» (Barbacetto-Veltri, 1991, p. XV). Con l’indiretto
risultato di «scalfire» la tradizionale immagine di Milano
capitale morale. Un’accusa molto dura, forse troppo, ma non
del tutto infondata. Il mattone dette inizio (e portò alle estreme
conseguenze) alle diffuse pratiche di corruzione poi emerse
con Tangentopoli e continuate fino ai giorni nostri.
La politica culturale ebbe invece l’indubbio merito di
ridisegnare l’identità della città dopo i tempi bui degli anni di
piombo. Come affermò lo stesso sindaco, questa si era
«appannata» perché la borghesia cittadina «si era ritirata
anzitempo, senza avere lasciato, salvo rare eccezioni, traccia
consistente della propria conclamata supremazia culturale e
del proprio mecenatismo […] e dall’allineamento
conformistico, dietro parole d’ordine confusamente
rivoluzionarie di un’altra parte della città». (in Conferenza per
la città, in Di Leva-Tognoli, 2011).
Un’analisi realistica: si rifiutava l’ipotesi (più diffusa) di un
forte decadimento di Milano, ammettendo, però, «una
situazione di appannamento della vivacità e del dinamismo
della città nel campo della produzione culturale». Si
riconosceva come fosse necessario riflettere («con particolare
sollecitudine e preoccupazione», ma «senza ipoteche o pretese
di ordine burocratico») sulla necessità di una politica culturale
come risposta ai «cambiamenti di struttura sociale, di ceti e
gruppi» non più come un tempo attori attenti e positivi della
vita cittadina (ibid.). Il miracolo economico non aveva avuto
immediate (sperate e necessarie) ricadute sul cambiamento
culturale. Lo scenario vedeva sterilmente contrapposti «un
lontano passato di borghesi munifici ed illuminati» e uno più
attuale «di piccoli borghesi tanto arrendevoli di fronte al
richiamo del consumismo quanto restii a partecipare al
dibattito delle idee» (ibid.).
Sulla base di queste premesse, Tognoli riteneva necessario
impostare una coraggiosa politica d’intervento per promuovere
ciò che le forze più attive della città potevano o sapevano
esprimere. Di questi intenti si parla in un volume (Idee per una
città, 1980) in cui è tracciato un esauriente quadro del ricco
panorama culturale della città a partire dalla fine degli anni
settanta.
Il successo della politica culturale del Comune dipese,
come si è già detto, in gran parte dalla «capacità d’ascolto»
(sono parole di Tognoli e Aghina) di quanti, come privati o
istituzioni, seppero proporre progetti degni di essere accolti
favorevolmente e portati a realizzazione.
Non era necessario avanzare prioritariamente credenziali
extraculturali, cioè legate esclusivamente ad appartenenze
politico-ideologiche, per essere «ascoltati» con attenzione. Si
guardava all’intelligenza-originalità del progetto e alla
pregressa credibilità intellettuale dei presentatori. Varie
commissioni furono predisposte a valutare o dirigere i diversi
progetti: di queste fecero parte i nomi più accreditati nei vari
campi della cultura di quegli anni.
Gli anni settanta e ancor più i primi ottanta furono un
periodo di grande effervescenza culturale: mostre, convegni,
attività teatrali. Accanto alle iniziative del Comune, lavorarono
con grande efficacia anche alcune gallerie private (con mostre
di grande valore), circoli culturali (in primis la Casa della
Cultura, il Circolo Turati e il Circolo De Amicis), Università,
gruppi teatrali, ecc.
In questo clima nacquero non poche iniziative fortemente
innovative. Basterebbe ricordare lo spazio e l’importanza che
acquistò in quegli anni la fotografia: diverse mostre fecero
conoscere un’arte e dei maestri da allora noti e giustamente
considerati.
Non vanno però dimenticati due insuccessi: il primo a
proposito della non riuscita esportazione di queste iniziative
verso la periferie, in conseguenza del mai del tutto realizzato
processo di decentramento amministrativo nei quartieri;
l’attività culturale (teatri, cinema, iniziative varie) restò di
fatto confinata nell’area del centro.
Il secondo si riferisce al non essere riusciti a portare a
Milano una parte della programmazione RAI: si chiese (in più
occasioni) di avere un canale o almeno parte dei tg con
particolare riferimento alle attività economiche e culturali.
Invano: il potere (e il controllo politico) restò a Roma. Con il
tempo non se ne parlo più.
L’attività culturale a Milano seppe muoversi
opportunamente tra attività rivolte a un grande pubblico (con
lo scopo di dare occasioni e contenuti alla partecipazione dei
cittadini) e attività di «alto profilo» (teatri, mostre e musei):
nell’insieme queste iniziative fecero sicuramente della Milano
di quegli anni la capitale culturale del Paese.
Le due linee tendevano a raggiungere obiettivi e target
diversi o, meglio, erano adatte a pubblici e occasioni
particolari. Così, si mangiava il risotto in piazza, si cenava (chi
era costretto in città) d’estate al parco assistendo a qualche
spettacolo (magari in milanese), mentre altri seguivano le
conferenze (di ottimo livello) di «Milano per voi» che si
riferivano sia a tematiche di carattere storico o teorico, sia di
attualità. Queste ultime furono anche l’occasione per il
«debutto» presso un largo pubblico delle scienze sociali
(psicologia e sociologia) in un panorama scientifico-culturale
ancora piuttosto tradizionale. Non si parlava solo del passato,
ma anche del presente e di temi fino ad allora assai poco
trattati.
L’intervento del Comune in questo campo ebbe ovviamente
anche un importante risvolto per quanto atteneva alle strutture
(gli spazi) in cui svolgere tale attività. Vi furono notevoli
interventi strutturali (al Castello Sforzesco, a Palazzo Reale, al
pac) essenziali per dare una «nobile cornice» a mostre-eventi e
a numerosi convegni che caratterizzarono quegli anni.

2. Teatro e spettacoli
La Scala e il Piccolo Teatro erano già, da molti anni, una
riconosciuta manifestazione di eccellenza anche in proiezione
europea.
Il Piccolo fu l’iniziatore di nuova stagione del teatro di
prosa nell’immediato dopoguerra grazie ai suoi due fondatori,
Grassi e Strehler: una doppia e diversa genialità che si impose
in brevissimo tempo. Avevano iniziato la loro attività a cavallo
tra guerra e pace, lavorando in riviste di teatro e in alcuni
spettacoli: si misero subito in evidenza. Grassi tentò anche
alcune regie con Strehler come attore (spesso anche con un
altro giovane di grande talento, Franco Parenti), ma presto si
rese conto che questa non era la sua strada. Così, quando nel
1947 i due giovanissimi convinsero il Comune a fondare il
Piccolo Teatro della Città di Milano, la divisione dei compiti
apparve naturale: Strehler alla direzione artistica e Grassi alla
direzione amministrativa.
Si badi alla data: Milano era ancora molto povera ma era
già una città viva. Il sindaco di allora (Antonio Greppi) aveva
voluto che la Scala fosse ricostruita a tempo di record e aprisse
le sue porte già nel 1946, a guerra appena finita. Era un segno
della vocazione cittadina in cui l’operosità economica era
sempre accompagnata da quella in campo artistico.
Grassi iniziò una (per allora) innovativa politica di
reclutamento del pubblico: abbonamenti scontati per più
spettacoli, ricerca di nuovi spettatori nelle scuole e nelle
aziende, decentramento delle attività in periferia e in
provincia. Il teatro non doveva essere più una cerimonia
borghese per una élite, una semplice occasione di modesta
mondanità. Doveva avere invece una sua precisa funzione
sociale: doveva far pensare senza annoiare, far sognare per una
sera, ma anche aprire (a un vasto pubblico) alle tematiche
sociali del tempo.
Si parlò di «produzione collettivistica» (era il lessico di un
tempo molto vicino alla Resistenza e a posizioni
«socialcomuniste») per indicare il contributo di diverse
professionalità sulla base di un progetto comune.
Con un obiettivo: si doveva dar vita a un teatro nazionale,
sovvenzionato, come in altri Paesi europei (Francia, Germania,
ecc.). Per perseguire questa funzione sociale era corretto
chiedere aiuti allo Stato. Fu una battaglia persa.
Fu così d’obbligo trovare ogni altro modo possibile per far
quadrare i conti per una politica culturale di eccellenza. Il
teatro popolare non doveva essere «povero» (una volta Grassi
disse che il socialismo non era necessariamente triste): doveva
stupire, far pensare, non annoiare.
In questo, Grassi si adoperò fino a essere accusato (assieme
a Strehler) di megalomania e sprechi. Si creò la leggenda,
forse non del tutto infondata, del suo cattivo carattere al limite
dell’autoritarismo: era solo un amore cieco per la sua creatura,
come sarebbe stato in seguito per il suo stile di direzione alla
Scala e poi alla RAI (Pozzi, 1977; Grassi, 2007).
Molti spettacoli, grazie al genio teatrale di Strehler
rimangono nella memoria dei milanesi non più giovanissimi e
nella storia del teatro italiano. Basti citare il celeberrimo
Arlecchino servitore di due padroni, I giganti della montagna,
El nost Milan, Vita di Galileo, Il giardino dei ciliegi, Faust e
gli spettacoli sui testi di Brecht (in primis la molto citata
L’opera da tre soldi) che vide il riconoscimento ammirato del
suo autore presente alla prima milanese nel febbraio del 1956.
Un teatro che si reggeva su un rigoroso rispetto del testo
unito a certe magie della regia, assecondata da una squadra di
grandi scenografi e costumisti (Damiani, Frigerio), musicisti
(Negri, Carpi) e di grandi attori, in molti casi allevati in casa.
Dovremo fare, a questo proposito, un elenco troppo lungo e le
cui esclusioni costituirebbero un peccato non lieve.
Un cammino trionfale fino alla contestazione del ’68 che
portò Strehler all’abbandono e Grassi alla direzione unica con
qualche intoppo nel primo anno di gestione. Difficoltà che
avrebbero spinto Grassi verso la direzione del Teatro alla Scala
e il ritorno del regista nel suo teatro, dove conobbe nuovi
successi, fino al suo malinconico addio nel Faust, in cui molti
videro la sua stanchezza come uomo prima che come artista.
Dopo di allora, la vita teatrale di Milano avrebbe avuto una
sua particolare impronta sulla base di un livello elevato da cui
si doveva obbligatoriamente partire per ogni nuova iniziativa:
anche nei casi di reazione alla «prepotente gestione pubblica»
con la nascita di altri teatri stabili a conduzione privata: il
Salone Pier Lombardo (poi Teatro Franco Parenti), il crt
(Centro ricerche teatrali), il Teatro dell’Elfo.
Nascevano in forma di cooperativa ed erano sostenute,
almeno in parte, dall’amministrazione comunale. Furono
quindi teatri a gestione privata ma con finalità pubbliche.
Qualcosa di molto diverso dal teatro delle tradizionali
compagnie di giro autofinanziate con gli incassi e con qualche
«rientro» da parte statale.
Il primo a nascere fu, nel gennaio 1973, il Salone Pier
Lombardo. Il primo spettacolo fu un memorabile Ambleto di
Testori con la regia di Ruth Shammah e l’interpretazione di
Franco Parenti: tutti e tre tra i fondatori di quel teatro.
Indimenticabile l’apparire in scena di una strana figura che
alzava un velario per significare l’inizio di una nuova storia.
Era il teatro povero degli «scarrozzanti» (la definizione è di
Testori, per indicare «i senza parrocchia, i randagi dello
spirito, e della cultura») che ricordava le avventure delle
modeste compagnie di teatranti in giro per poveri teatri e con
modesti pubblici. Quello che iniziava quella sera era un teatro
che nasceva «all’insegna di un’orgogliosa, totale indigenza e
solitudine» (AA.VV., 1999).
Di questo teatro vanno ricordati alcuni spettacoli dei suoi
primi vent’anni: almeno la trilogia di Testori (1972-1977) e il
suo ultimo lavoro I promessi sposi alla prova (1984); La Betia
(1975); Il Misantropo (1977); Il malato immaginario (1980);
Tartufo (1983); Timone d’Atene (l’ultima interpretazione di
Parenti, 1988); L’Adalgisa, ecc.
All’inizio le regie furono di Parenti e Shammah, ma anche
in questo caso andrebbero citati scenografi e musicisti (ancora
Negri e Carpi) e una numerosa serie di bravissimi attori.
L’icona assoluta di questo teatro è stato Franco Parenti: di lui
basta una citazione di Testori: «lui è il maestro che insegna a
una compagnia di teatranti scalcinati, soli, falliti. Nella vita noi
siamo quei teatranti. Lui è quel maestro» (id).
Le proposte di questo teatro sono sempre state di alto
respiro, spesso oggetto di scandalo (come a proposito di alcuni
lavori di Testori), sempre con grande attenzione al testo e alla
parola; basti pensare alla proposta-invenzione di quello strano
«italiano» inventato dall’autore milanese. Un’offerta teatrale
in continua trasformazione, come i suoi spazi, dovuta alla sua
«anima» (fin dagli inizi): Andrée Ruth Shammah che ha
saputo unire, con altrettanta bravura, le due funzioni di
direzione artistica e amministrativa.
Un’esperienza del tutto particolare fu quella del crt, di
ispirazione cattolica come sempre orgogliosamente rivendicata
dal suo fondatore Sisto Dalla Palma. Il suo approccio al teatro
(come funzione culturale e sociale) era contrario
all’impostazione del Piccolo (di cui era stato per breve tempo
vicepresidente) a cui rimproverava il suo «assetto istituzionale
entro una marcata polarizzazione politica» rivolto a un’opera
di proselitismo di un «pubblico numeroso ma del tutto
impreparato, spesso disinteressato» (in Tognoli-Di Leva, 2011,
p. 121).
Il crt proponeva, invece, «una linea lombarda tutta attenta al
concreto, alla memoria, alla ibridazione tra popolarismo e
innovazione…» (ibid., p. 122). A ciò si ispirava il tentativo di
cercare vie diverse, del fare della propria marginalità (e
povertà di mezzi) un’occasione virtuosa di esplorazione di
spazi e pratiche teatrali non convenzionali. Lo scopo ultimo
era quello di evitare la «subalternità ed esternità» dello
spettatore quando era costretto ad assistere con scarso
coinvolgimento a spettacoli raffinati e di grande
professionalità, ma «pur sempre nella convenzione della
tradizione del teatro borghese che si realizzava nell’assistere
alle performances di grandi registi, belle scene e costumi,
splendidi attori, per puro (non sempre) divertimento».
Bisognava, così, andare alle radici delle «tradizioni popolari,
[…] alle strutture non professionali, rituali, festive e
partecipative orientate verso esiti della espressività corporea,
della danza, della voce, della musica […] del folklore […],
sottraendole alla logica dell’evasione e della mercificazione
[…]» (ibid., p. 123).
Era ciò di cui, secondo Dalla Palma, la città aveva bisogno:
come uno specchio in cui guardare alle proprie caratteristiche
antropologiche, vale a dire la «milanesità borghese» in via di
deciso superamento storico. Voleva essere la proposta di una
terza via nella stagnante dialettica teatro pubblico vs. teatro
commerciale, allo scopo di superare sia «la tradizione italiana
dei guitti e dei mattatori» sia «i tratti divistici propri di un
nuovo star system» sostenuti da «risorse considerevoli». La
critica al Piccolo era del tutto trasparente.
Gli intenti dichiarati furono raggiunti attraverso l’ospitalità
data a compagnie straniere e a seminari-laboratori su
tematiche di grande interesse, meno nella produzione diretta.
Le numerose compagnie italiane e (soprattutto) straniere
ospitate proposero un repertorio d’avanguardia. Il crt permise
di vedere spettacoli con la regia di Robert Wilson, Eugenio
Barba, Julian Beck e Judith Malina (con gli attori del Living
Theatre), Jerry Grotowski e altri. Tra questi, lo spettacolo da
citare è La classe morta (con la regia di Kantor) che colpì nel
profondo un’intera generazione di spettatori. Assistervi era
come vivere un sogno a occhi aperti. Sul palco una scena
povera con vecchi banchi di scuola. Ma era una magia, un
incanto. Scattava nello spettatore il gioco della memoria e
insieme dell’oblio, delle cose che ritornano improvvisamente
in mente e si sentono importanti, anche senza saperle
immediatamente interpretare e neppure descrivere con le
parole.
Il crt propose anche spettacoli di danza con compagnie
straniere (ricordiamo almeno Robert Wilson e Merce
Cunningham) che mostrarono come la danza fosse un’arte che
non andava rinchiusa nel classico (i balletti della Scala) o nei
balletti delle riviste o della TV. La danza era una forma di
teatro non declinata dalla parola e come tale andava
interpretata. Era un’esperienza diversa, ma importante.
Esperienze a cui il Comune non fu estraneo. L’impegno
verso il teatro è stato importante. Si creò all’uopo un’iniziativa
speciale chiamata «Milano aperta», gestita da una
commissione di esperti tra cui Giorgio Strehler, Carlo Maria
Badini, Roberto Leydi, Umberto Simonetta, T. Mantegazza, F.
Parenti, S. Dalla Palma, coordinata da un (attivissimo)
segretario artistico, G. Di Leva. Malgrado che tutti i
componenti avessero una responsabilità diretta in alcuni teatri
milanesi, l’iniziativa seppe innovare nelle sue proposte e non
cedette eccessivamente alle tentazioni di lottizzazione politica
sempre presenti. In questo, l’opera del sindaco fu importante.
Ricordarne tutte le iniziative si ridurrebbe a un elenco di
spettacoli, date e interpreti. Tuttavia, alcune non possono
essere dimenticate. Ad esempio, l’arrivo, nel 1979, del
meraviglioso e assolutamente innovativo spettacolo di Ariane
Mnouchkine, 1789: un modo di fare teatro al di fuori dagli
spazi deputati e con l’immediato coinvolgimento (fisico e
psicologico) degli spettatori. Il pubblico camminava accanto
agli attori e li seguiva ascoltandone le parole e partecipando
immediatamente alle emozioni che trasmettevano.
Impossibile non ricordare i due spettacoli di Carmelo Bene
(Manfred e Adelchi alla Scala): anche i borghesi milanesi
furono incantati dalla musicalità di una voce e dall’abilità
ammaliante di un interprete che recitava più parti nello stesso
testo. Il timore verso un genio sregolato (era proverbiale il
disprezzo verso il pubblico) si tramutò in un incondizionato
successo.
Molte di queste iniziative videro coinvolti i principali teatri
milanesi; altre furono pensate ad hoc anche in spazi non
teatrali, come ad esempio nel cortile del Castello Sforzesco, a
Villa Litta e in molti altri luoghi scelti anche sulla base di una
(timida) politica di decentramento.
L’evento che molti (non giovanissimi) ricordano ancora è
stato il concerto di Bob Marley a San Siro: il più famoso
(sicuramente il più ricordato) concerto all’aperto a Milano. Il
ricordo di quella serata si confonde nella nostalgia se non nel
mito: le «vibrazioni» evocate dalla voce di Marley si
dispersero in una grande nube di fumo in uno stadio che ballò
fino a notte fonda in un crescendo di partecipazione emotiva,
per poi disperdersi in silenzio e senza alcun incidente come si
era temuto. Un critico presente alla serata (Castaldo) parlò di
«disincantata consapevolezza» della propria soggettività da
parte degli spettatori. Era stare con altri vivendo i propri
pensieri e emozioni inarrestabili.
Erano viaggi nel cuore; la musica di quel tempo lo
permetteva spesso. Altre occasioni furono altrettanto
memorabili: da West Side Story al coro dell’Armata Russa, dai
tanghi struggenti di Astor Piazzolla alle geniali coreografie di
Bob Fosse.
Complessivamente si raggiunsero risultati quasi incredibili:
«Milano aperta» aveva sostenuto molti spettacoli con un
budget non stratosferico, aggirantesi ogni anno sugli
ottocento-novecento milioni.
Dal 1979, un’iniziativa della Provincia di Milano (assessore
Novella Sansoni) contribuì ad aumentare il pubblico che
«andava a teatro», inventando una originale forma di
abbonamento che permetteva di scegliere alcuni spettacoli tra
tutti quelli offerti dai teatri (molti) che aderivano all’iniziativa.
Ciò permise di poter conoscere le proposte dei teatri minori o
meno promozionati, anche di quelli in periferia.
Un allargamento nel numero degli spettatori e una preziosa
occasione per costruirsi un proprio gusto. Vi fu all’inizio un
notevole entusiasmo, forse eccessivo. In seguito, qualche
esperienza deludente fu causa del progressivo calo del numero
degli abbonati negli anni successivi; questo era dovuto a «una
crescita tanto improvvisa, disordinata […] in assenza di
un’adeguata educazione del gusto e della cultura specifica».
(Bosisio, 2004).
Anche per questo vi fu un riavvicinamento al teatro
leggero, di evasione (riviste, compagnie dialettali).
Riconquistarono spazio le sale (Manzoni, Nuovo, Smeraldo,
ecc.) a «conduzione privata» e gli spettacoli scelti
esclusivamente in base al nome e alla bravura degli attori «di
cartello». Il teatro sembrò tornare al puro divertimento. Il
gusto (più facile) del pubblico, di matrice prevalentemente
televisiva, sembrava essere tornato l’unico metro di giudizio.
A causare un certo allontanamento dal teatro di qualità sono
stati almeno due fenomeni: la cripticità (verbosità,
velleitarismo nelle regie e nella recitazione) di alcuni
spettacoli d’avanguardia e la sciagurata politica del «teatro per
le scuole», con le recite mattutine divenute occasione di puro
svago (risate e sciocchi commenti) per scolaresche
assolutamente non preparate dagli insegnati.
«Milano aperta» e «Invito a teatro» permisero però, nel
decennio 1975-85, che Milano avesse un indubbio primato
nella produzione di spettacoli e nell’ospitalità di compagnie
italiane e straniere: centinaia di spettacoli, migliaia di repliche,
milioni di spettatori: ovviamente non tutto fu di eccelsa qualità
e degno di essere ricordato nel tempo. La grande stagione (gli
spettacoli di successo, alcuni teatri aperti anche in periferia)
portò però molti spettatori a «uscire di sera», contribuendo a
rompere il clima di paura degli anni precedenti. Non fu solo
voglia di riappropriarsi della città, ma anche il tentativo di
capire i tempi nuovi, ciò che stava accadendo.
Molte delle proposte teatrali del periodo erano state
un’occasione «coinvolgente» di riflessione. Si pensi ai testi di
Brecht e Testori, per fare solo due esempi; ma si pensi anche al
recupero dei classici che una scuola severa aveva presentato
con pedanteria e che, invece, messi in scena con abilità,
ritornavano a essere favole incantevoli in cui perdersi.
Fu una stagione probabilmente irripetibile.

3. Le grandi mostre
Alcune mostre di quegli anni sono rimaste famose: eppure
non erano tempi di vacche grasse (per le casse comunali)
neanche allora. Uno dei motivi di successo si deve alla già
ricordata capacità di «ascolto» delle proposte-progetti di
grande valore.
Mancano ancora contributi capaci di ricostruire, non
episodicamente, il clima e la prassi che permisero questi
importanti risultati. Due caratteri possono, però, essere
sottolineati: l’essere state «pensate» (inventate e realizzate) a
Milano e non «affittate» (come invece avviene oggi a
proposito di mostre realizzate in massima parte all’estero) e
essere state oggetto di precise ipotesi di ricerca che facevano
di queste mostre un’occasione per un accurato lavoro
interpretativo su un periodo, una tendenza o un artista. Di
questo impegno sono prova i cataloghi delle mostre: alcuni
sono diventati fondamentali testi di riferimento su uno
specifico tema.
Alcune proposte danno un’idea di un progetto complessivo,
anche se questo non fu mai concepito come tale. Certo è che
alcune mostre scandirono idealmente un itinerario coerente,
con particolare riferimento a certi momenti storici della città
come nel caso del recupero delle radici («I longobardi a
Milano», 1978; «I Camuni», 1982) o dei tempi degli Sforza
(con le importantissime mostre e i convegni su «Leonardo a
Milano», 1982) o come ripensamento della storia più recente
(come nel caso della grande esposizione sugli «Anni Trenta»,
1982).
In altri casi si lavorò su alcuni aspetti meno noti ma
rilevanti della storia dell’arte, come per «Origini
dell’astrattismo» (1979) o il grande successo di «L’altra metà
dell’avanguardia» (1980). Ovviamente, non mancarono le
mostre dedicate a singoli artisti di grande fama, tra le quali:
Melotti (1979), Mirò (1981), Marini (1984), Hayez (1993) e
altri.
Non potendo ovviamente considerarle tutte, ci riferiremo a
tre sole mostre: «L’altra metà dell’avanguardia», «Leonardo» e
«Anni Trenta».
La prima ha permesso alla curatrice (Lea Vergine) di
esplorare l’altra metà del cielo della creatività del Novecento:
la metà scomparsa in quanto non le era stato permesso di
emergere, come avrebbe meritato: per i pregiudizi imperanti
(dipingono gli uomini!), per amore o timidezza, per i tempi
oggettivamente difficili in cui avevano vissuto. Così molte
pittrici che pure erano state artiste di grande talento,
fondamentali in alcuni movimenti, hanno finito per restare
figure di secondo piano, come del resto succedeva alle donne
in molti altri campi. Parlare di queste donne-artiste permise di
passare in rassegna, da un particolare punto di vista, molti dei
movimenti artistici del tempo tra cui cubismo, futurismo,
dadaismo, astrattismo, surrealismo.
Una mostra che ha riscattato il valore di queste pittrici, non
solo in nome del femminismo imperante in quegli anni. Non
una rivalsa postuma, ma un riconoscimento dovuto. La mostra
ha permesso di esplorare le vite di un centinaio di artiste nelle
loro relazioni (professionali e non), gli eventi che ne avevano
caratterizzato la vita nei loro spostamenti in Europa (voluti o
costretti) durante il loro percorso artistico. Ciò che ha condotto
a molte conferme (o a un riscatto dall’oblio), ma anche ad
alcune scoperte importanti. Così, accanto a pochi nomi famosi
(Sonia Delaunay, Tamara De Lempicka, Frida Kahlo), fu
possibile conoscere per la prima volta molte artiste con alcune
loro splendide opere note solo ai critici professionali.
Una mostra curata in modo esemplare, didattica nel senso
più alto del termine. Ricca e molto documentata,
accompagnata da un catalogo che è rimasto una sorta di testo
di riferimento obbligato sull’argomento. Fu un’immediata
chiave di coinvolgimento anche per lettori scarsamente
informati, come probabilmente lo era la gran parte del vasto
pubblico che vide e apprezzò la mostra. (Vergine, 1980)
Quella sul quinto centenario dell’arrivo di Leonardo da
Vinci a Milano fu una grande occasione per «visitare il mito»
di Leonardo e per ripensare alla Milano di quei tempi. Una
mostra di grandissimo impegno (anche economico) che
coinvolse molti esperti e fu realizzata in più luoghi (dal
Castello Sforzesco alla Pinacoteca Ambrosiana) e fu
accompagnata da almeno quindici convegni internazionali che
spaziarono su molte attività del genio: dalla musica ai suoi
progetti architettonici, oltre ovviamente sul suo tempo e i suoi
allievi.
In particolare grandissimo interesse suscitò il ritorno a
Milano di alcuni codici e disegni dalla Biblioteca Reale di
Windsor, come il Codice Atlantico esposto con altre opere
della cerchia leonardiana all’Ambrosiana. Tutto ciò permise di
accostare il grande pittore al geniale anticipatore del futuro (le
macchine che volano, le armi avveniristiche, le opere
idrauliche, ecc.).
Una mostra rimasta memorabile nella storia culturale di
Milano di quel periodo. Fu anche occasione di un’iniziativa
per coinvolgere un largo pubblico su temi non sempre facili.
Ciò che accadde in alcuni convegni, quelli meno specialistici.
Il progetto più controverso fu quello relativo agli «Anni
Trenta» riletti in chiave artistica nei campi della pittura, della
scultura, del teatro, dell’architettura, della moda e del design,
della musica e della fotografia. Molti insorsero al suo
annuncio temendo un’indiretta apologia del regime. A
garanzia ci fu una commissione di noti studiosi e critici (tra i
quali Barilli, Caroli, Fagone) che impostò il progetto e seguì i
lavori dei curatori a cui fu affidato l’allestimento delle
numerose sezioni (si veda il catalogo: AA.VV., Anni Trenta.
Arte e cultura in Italia, 1982).
Anche in questo caso la mostra occupò più spazi: dal
Palazzo Reale al sagrato del Duomo alla Galleria, dove fu
esposto il logo di una famosa marca di liquori: uno dei primi
interventi di sponsorizzazione delle aziende private alle attività
culturali del Comune.
Al di là delle critiche ideologiche, formulate prima ancora
di averla vista, la mostra ricostruì l’opera di alcuni artisti,
scrittori e architetti di grande valore. Era l’accurata (e molto
ricca) rivisitazione di un periodo che aveva visto emergere
molti fenomeni legati ad alcune trasformazioni di carattere
economico e sociale (in tutto il mondo) e verso cui il regime
aveva agito talora da acceleratore, talora da freno (Barilli nel
catalogo): in particolare a proposito del rapporto tra società
agricola e società industriale o tra privato (i primi sogni di
modernità) e pubblico (la mistica collettiva). Temi
contestualizzati dal saggio storico d’apertura (Vita politica e
sociale) di Giordano Bruno Guerri non lontano dalla lezione di
De Felice sul fascismo nel periodo 1929-1940, gli anni trattati
dalla mostra.
La mostra illustrò una rivoluzione ideale mancata per la
modestia dei suoi protagonisti ma a cui avevano fatto
riferimento gran parte degli italiani. Specialmente coloro che
erano ancora inseriti in una società preindustriale che si
rivolsero con entusiasmo ai primi consumi (auto e vestiti), ai
divertimenti (in particolare il cinema), malgrado le difficoltà
economiche (il 1929 colpì anche il nostro Paese) e le
successive politiche legate alle sanzioni e all’autarchia. Un
viaggio tra povertà (non solo economica) e illusioni di
potenza.
Di ciò la mostra documentò molti aspetti con una varietà e
ricchezza di materiali e con un apparato didascalico di ottimo
livello. Fu la mostra più visitata e citata in quegli anni.

4. Un’arte minore (?): il design


A Milano, nel periodo tra la fine degli anni cinquanta e gli
anni ottanta, ebbe luogo una rivoluzione profonda, così
partecipata collettivamente da apparire (oggi) scontata.
In questo periodo «furono inventati» e conobbero un grande
successo oggetti che hanno cambiato l’aspetto del mondo e
della vita quotidiana: non solo mobili come le cucine
funzionali e le librerie, che da questo momento non si
chiamarono più «svedesi», ma anche tavoli, sedie e divani per
i salotti diventati luogo di incontro e conversazione. Eleganti
elettrodomestici e complementi dell’arredamento (piatti,
bicchieri, soprammobili, luci, ecc.) che mutarono il volto delle
case, anche di quelle più modeste. Non solo nell’aspetto, ma
anche nei modi di viverci, di come utilizzarle.
Notevoli trasformazioni subirono anche, nel giro di pochi
anni, uffici e luoghi pubblici. In certi casi cambiò il volto e
l’approccio con i loro utenti: segnaletica, negozi, insegne e
impianti della metropolitana, trasformarono il volto della città.
Gli spazi urbani furono invasi da ciclomotori e piccole auto
che permisero a molti di muoversi come non avevano mai
fatto. I più avventurosi, con roulotte e caravan, girarono
l’Europa, mentre i più ricchi e sportivi furono irresistibilmente
attratti da auto belle e sportive o da barche (a vela e a motore)
dalle linee filanti. Assieme a una valanga di altri oggetti
(apparecchi televisivi e radiofonici, macchine fotografiche,
pipe, accendini, ecc.) connotarono, da quel momento, certe
abitudini del tempo libero.
Erano i segni di una modernità che contemplava anche il
desiderio di ostentare le raggiunte disponibilità economiche.
Una rivoluzione «democratica» negli stili di vita. Ne furono
coinvolti quasi tutti, almeno nelle grandi città.
Basterebbero poche decine di fotografie per segnalare il
passaggio tra due epoche diverse (come paesaggi illustrati e
«abitati» da oggetti) succedutesi nel giro di poco più di
trent’anni.
Così negli anni settanta il design diventò, assieme alla
moda, il veicolo privilegiato del made in Italy nel mondo. Da
questo momento molte cose belle erano (per definizione
comune) italiane, non venivano più solo dal Nord Europa o da
altri Paesi.
Definire il design è un’impresa quasi impossibile: le diverse
definizioni utilizzate (arte applicata, messa in forma,
artigianato d’arte, ecc.) sono tentativi insoddisfacenti di
definire un’attività sospesa tra la creatività e la produzione in
serie, tra l’estetica (la cosa bella) e la funzionalità di un
oggetto. Eppure è stato un tema trattato in mille convegni, in
accesi e affollati dibattiti, in centinaia di mostre e relativi
cataloghi.
La difficoltà nasce, a nostro avviso, dal dover considerare
una molteplicità di oggetti che hanno funzioni e collocazioni
molto diverse. Ogni oggetto meriterebbe probabilmente un
discorso-presentazione particolare.
A ciò si aggiunga che ogni designer di fama è stato un
grande affabulatore; molti dei loro interventi scritti sono
affascinanti ma non privi di qualche forma di esoterismo e
qualche traccia di narcisismo.
Tutto ciò ha reso un discorso complessivo sul settore
difficilissimo e non riducibile a periodi definiti, funzioni,
scuole o correnti. Una storia del design resta ancor oggi
un’opera difficile e coraggiosa. Così come non è sempre
agevole legare il momento storico e sociale a certi oggetti o
progetti di quegli anni, così è facile cadere nella tentazione di
un discorso «alla Warhol», per cui gli oggetti di consumo sono
le opere d’arte della postmodernità fruite da consumatori
«raffinati» o, in quello opposto, di considerarli solo un
«gioco», magari facendo riferimento agli oggetti casalinghi di
Alessi.
Anche il design di quegli anni fu un prodotto milanese. Non
poteva che nascere a Milano: qui era naturale l’incontro tra
creativi e piccole imprese in un contesto (o in un clima?) dove
l’innovazione e la qualità dei prodotti diventarono nel tempo
un must.
Con una differenza importante rispetto alla moda: nessun
designer, neppure i più famosi, sono diventati imprenditori,
anche se molti maestri (Branzi, La Pietra, Sottsass jr, Mendini)
hanno creato oggetti di culto, adesso materiale vintage a caro
prezzo. I loro prodotti sono così entrati in produzione con il
nome dell’azienda. Si è dovuto infatti a imprenditori di
notevoli capacità e fiuto la trasformazione dei progetti dei
creativi in una produzione di alto livello. Come nel caso della
Kartell che, dalla fine degli anni cinquanta, ha costruito
meravigliose sedie (con un materiale allora d’avanguardia, la
plastica) diventate immediatamente di uso comune o Cassina
che ha costruito mobili di altissima qualità e di grande stile,
come nel caso della sedia Superleggera di Ponti.
Si può ricordare, come una curiosità ma non banale, che
negli anni precedenti la pop-art, grazie al design, fosse arrivata
anche nella vita quotidiana: basti ricordare la poltrona Sacco
che Fantozzi ha reso celebre nei suoi film.
Un secondo ordine di motivi che fece di Milano la culla del
design fu che qui si pubblicarono alcune importanti riviste che
imposero tendenze, definirono correnti, segnalarono grandi
professionisti. Tra queste: «Casabella», «Domus», «Modo».
Insieme queste riviste raggiunsero un pubblico calcolato in
circa 30 000 addetti ai lavori. Intorno a «Domus» sarebbe poi
sorta la prima scuola postuniversitaria di design che attrasse
giovani professionisti da ogni parte del mondo.
Le riviste ebbero anche il merito di fare formazione in un
campo che le facoltà di architettura avevano negletto (almeno
fino ai primi anni novanta), preferendo riferirsi alla
progettazione di case e piani urbanistici: campi in cui non
sempre gli architetti «firmarono» capolavori.
Per rimediare a questa lacuna, si pensò di creare una
specifica «scuola di arti e mestieri» presso l’Umanitaria. Un
nome prestigioso, nel passato luogo di formazione di
eccellenza per alcuni mestieri nel campo dell’arte applicata.
Non se ne fece però nulla.
Milano era anche il luogo delle «vetrine» importanti: la
Triennale innanzi tutto, poi le mostre relative agli oggetti in
concorso al Compasso d’Oro, il Salone del Mobile, lo smau e le
mille iniziative dei negozi del settore nei quartieri di moda.
Luoghi che, in tempi brevi, attrassero i primi turisti
professionali.
La città divenne, così, il luogo «obbligato» dove impiantare
studi professionali, stabilire contatti e far nascere nuove
occasioni di lavoro. Milano era il luogo naturale dove si
fondevano naturalmente creatività (Brera e dintorni) e
produttività (nelle centinaia di piccole-medie aziende della
provincia).
Il design italiano si impose rapidamente nel mondo: nel
1973 una grande mostra a New York («Italy, the New
Domestic Landscape») lo certificò in modo definitivo.
L’impetuosa crescita pose, però, alcuni problemi: primo fra
tutti il conflitto mai risolto (e forse non risolvibile) tra
creatività pura (arte, trasgressione) e produzione di massa.
Conflitto che si ripropose anche a proposito di falsi dilemmi:
ad esempio, se privilegiare il privato (gli oggetti della casa o
l’automobile) o il sociale (la città, i trasporti), oppure se
fondarsi sul lavoro artigianale-artistico piuttosto che su quello
dell’industria che «fabbricava» su larga scala.
Qualcuno parlò di «funzionalità poetica», ma fu (a nostro
avviso) un artificio dialettico, come altri che tralasciamo. La
ricerca di una identità a cui rifarsi era già emersa, anni prima
ai tempi della contestazione studentesca, quando si teorizzò il
rifiuto del bello e dell’inutile in nome di una (astratta)
progettualità sociale.
Solo in tempi successivi, nella progettazione di grandi spazi
e oggetti complessi, riemerse l’anima (e la professionalità) «da
architetto» fino ad allora negata. Questa sembrava funzionale
o necessaria in certi casi: ad esempio a proposito di quelli di
notevole portata proposti dalla committenza pubblica (le
scuole, i mezzi di trasporto pubblici). Non a caso a Milano e in
Lombardia molte amministrazioni locali divennero
committenti importanti.
La storia più recente del design italiano ha avuto inizio
negli anni ottanta. Milano restava «capitale del design» anche
per la cosiddetta «Terza Generazione» (Grassi-Pansera, 1980)
orientata verso nuovi obiettivi e modalità progettuali. Si
potrebbe datare questa svolta nel 1982, quando un’équipe di
designer (capitanati da Ugo La Pietra) e di sociologi (a guida
di Gianfranco Bettettini) propose alla Triennale il progetto «La
casa telematica» in cui si mostrava come l’uomo, avvalendosi
di congegni telematici, sarebbe arrivato a una più facile e
meno faticosa gestione delle attività legate allo spazio
domestico. Un progetto avveniristico (per quel tempo) e che, a
distanza di circa trent’anni, ha invece una forte connotazione
di antiquariato. Una prova che i tempi presero a marciare a
velocità incredibile.
Ormai si vive in un mondo popolato a dismisura e
connotato da «oggetti, di immagini, di segnali» (Pansera,
1993). Alcune firme sono diventate un brand riconosciuto e
riconoscibile.
La definizione della disciplina è diventata ancora più
difficile: qualcuno ha parlato (Mendini) di un «nuovo
umanesimo informatico e artigianale»; i più hanno preferito la
più realistica etichetta di «industrial design» (ibid.).

5. Milano e Roma
Teatro, lezioni e conferenze, mostre, design, furono nel loro
insieme una proposta culturale che sprovincializzò la ancora
tradizionale cultura borghese di una ricca città avviata alla
modernità.
Una politica culturale molto diversa da quella di cui si parlò
certamente di più e che vide la luce negli stessi anni: quella
definita dell’«effimero» e di cui fu artefice l’assessore Nicolini
a Roma. Anche qui lo scopo era quello di attirare più gente
possibile in alcuni luoghi della città (ad esempio, nella
Basilica di Massenzio, alla terme di Caracalla, al Colosseo,
ecc.) giocando sullo spettacolo e sulla festa.
Fin da subito fu di grande successo e forte clamore mediale,
ma forse senza chiari effetti e ricadute se non quella di aver
esportato, negli anni successivi, l’«effimero» in tutti i comuni
d’Italia. Non ci fu comune o borgo in cui non si sfruttassero
feste e sagre (o una qualsiasi occasione o pretesto) da parte di
sindaci e assessori vogliosi di emulare il collega romano
diventato famoso. In qualche caso furono iniziative positive
almeno sul piano dell’aggregazione sociale; in altri furono
esibizioni di sano provincialismo e/o di qualche ambigua
elargizione di denaro agli amici degli amici.
Sono state, comunque, un preciso indicatore di come si
intendesse la cultura popolare in quel periodo. Innanzi tutto
era d’obbligo riferirsi a un «grande pubblico», pescando anche
nei gruppi sociali meno abituati a queste iniziative. Una folla
indifferenziata era la protagonista della vita culturale del
tempo.
Al fondo l’«estate romana» aveva avuto le stesse
motivazioni di quelle degli amministratori milanesi. Come
disse lo stesso Nicolini (1991) lo scopo iniziale era stato
quello di far uscire i romani dalla «logica della
militarizzazione», richiamare alla partecipazione il «popolo
delle borgate», far riappropriare i romani di alcuni luoghi
«sacri» (fino ad allora non molto frequentati) della loro città.
Il tratto dominante fu quello di cercare il più possibile la
mescolanza dei pubblici (borghesi e proletari) e delle offerte:
così il ballo nelle piazze era accostato al «Festival dei poeti» a
Castel Porziano, con esiti spesso imprevedibili. Si proponeva
di tutto: cinema, teatro, musica, non sempre interrogandosi
sulla qualità dell’offerta e degli interpreti.
Le serate delle estati romane erano piene di sorprese, di
eventi. Si cercava una «creatività delle masse popolari» che
spesso, però, si limitò a dar luogo a happening collettivi e
divertiti su cui si teorizzò in maniera alquanto superficiale. Il
pensiero (e l’opera) di Pasolini era molto utilizzato in queste
analisi, non sempre coerentemente.
Lo stesso termine di «effimero» diede luogo a molte
discussioni teoriche. Alcuni intellettuali che affiancarono
l’assessore nella progettazione delle diverse iniziative
(assieme a un grande numero di volontari) parlarono del
trionfo dell’estetica (moderna, creativa e popolare) sull’etica
tradizionale, non più culturalmente e socialmente legittimata.
L’«effimero» era legato (Nicolini, ibid.) a sensazioni,
emozioni, impressioni, apparenza, immagine. Una sorta di
(modesta) eredità dell’immaginazione al potere declamata a
gran voce nel maggio parigino. Si lavorò sull’eccesso, sulla
trasgressione, con un approccio dada, in cui l’assurdo finì per
essere la nota dominante, quella a cui ci si abbondonava con
un certo compiacimento.
Difficile darne, ancora oggi, un preciso giudizio: questo
resta diviso tra valutazioni negative (futilità e improvvisazione
che avrebbero accompagnato anche in seguito una certa
cultura di sinistra a livello locale) e positive, come l’aver
allargato la partecipazione a chi ne era stato fino ad allora
escluso, tanto da averne perfino un positivo ritorno elettorale.
Su queste valutazioni ha spesso giocato il protagonismo
(alquanto narcisista) del più celebre assessore d’Italia.
Con tutti i suoi limiti fu una stagione indimenticabile per i
romani e per tutti coloro che ne vissero le imitazioni più o
meno riuscite in centinaia di comuni grandi e piccoli.
Certamente fu qualcosa di assai diverso dalla politica
culturale di Milano, di Tognoli, Ogliari e Aghina. Non va
cercato, ovviamente, chi «fu il migliore»: furono due modi per
reagire ai tempi bui sulla base di una precisa leadership
politica giocata in chiave culturale.

6. Urbanistica e dintorni
L’urbanistica è stata l’area di più complicata gestione nei
rapporti tra amministrazione cittadina e società civile. Non a
caso è in questa area che sarebbero comparsi personaggi molto
«chiacchierati»: i grandi costruttori di quel tempo.
Per entrare in questa complessa materia sono necessarie due
premesse (solo apparentemente) teoriche. Una riguarda la
dimensione della città. A questo proposito Milano ha vissuto
due periodi. Il primo fu quello della «fuga verso la città»
grazie alla capacità attrattiva di quest’ultima: sia rispetto alle
possibilità di lavoro, sia per quanto atteneva a relazioni sociali
aperte e moderne. Un periodo culminato con il fenomeno delle
migrazioni interne e proseguito lungo gli anni settanta. Milano
era la città accogliente che offriva notevoli possibilità di
mobilità ai più «meritevoli». Aveva il fascino della grande
città per chi veniva da piccoli paesi o dalla campagna, dal
Meridione. Non aveva ancora una dimensione cosmopolita,
conservava al contrario un suo tratto provinciale che si
coglieva immediatamente nei modi cordiali dei rapporti sociali
nella quotidianità.
Nel giro di non molti anni (grazie agli affitti troppo cari e
alla mancanza di abitazioni popolari) si mise in moto il
fenomeno inverso: quello della «fuga dalla città» verso i
sobborghi e poi anche verso piccoli paesi anche più lontani.
Con un sempre più grave problema di trasporti mai affrontato
funzionalmente. Non pochi cominciarono a «pendolare», non
solo per problemi economici ma anche per il desiderio di
abbandonare le periferie degradate. La città perse abitanti o
non li aumentò come ci si sarebbe aspettato.
La conseguenza fu che, ogni giorno, al mattino, molte
decine di migliaia di persone erano costrette a spostarsi dai
luoghi dove erano andati ad abitare verso la città; non solo per
lavoro, ma anche per sbrigare pratiche burocratiche, fare
acquisti, ecc.
All’inverso, i pendolari lasciavano, alla sera, la città,
riprendendo i mezzi di trasporto per tornare a casa verso l’ora
di cena, da dove sarebbero ripartiti il mattino successivo. Solo
una minoranza si fermava qualche ora in più per andare al
cinema o a teatro.
La loro faticosa vita (in treni affollati e scomodi o in
colonne di auto in lunghe code) portava qualche vantaggio nei
week-end, almeno per coloro che avevano scelto località nel
verde o senza gravi problemi di affollamento.
È la popolazione che Martinotti (2013) ha definito dei city-
user: un fenomeno comune nel mondo dove si sono formati
grandi agglomerati urbani. Con la conseguenza di portare
nuovi problemi alle amministrazioni locali nella gestione della
dimensione «metropolitana»; con gravi rischi per i loro bilanci
che dovevano trovare risorse per i servizi utilizzati anche da
chi «non pagava tasse» perché residente altrove. Milano non è
diventata, dal punto di vista legislativo, una metropoli; è
restata una grande città, un comune, ma non un’area
metropolitana che raggruppa diversi comuni dal punto di vista
amministrativo. Ciò ha impedito che venissero prese misure o
iniziative collettive per quanto attiene i piani urbanistici, i
trasporti, la differenziazione funzionale delle diverse aree.
È il fenomeno avvenuto anche in altre parti del Paese. Sul
territorio nazionale sono infatti cresciute le aree urbanizzate,
passate dal 4,4% della superficie nel 1951 all’11,5% nel 1981.
Ovviamente è aumentata lanche a popolazione che vi abita:
nello stesso periodo passata dal 31,1% al 55,8% (Ercole,
1996). La concentrazione metropolitana nel nostro Paese vede
ormai oltre dieci milioni di residenti. Un fenomeno destinato a
crescere ulteriormente nel futuro.
Secondo alcuni studiosi (Castells, tra questi) è in queste
aree che si realizza un maggiore sviluppo economico legato
alla finanza, al commercio internazionale, alla ricerca
scientifica, alla creazione di nuovi prodotti e alle più recenti
applicazioni digitali. Ci sono però anche lati negativi: il
fenomeno è, infatti, causa di un crescente problema ecologico
(l’inquinamento) oltre che di quelli, futuri, legati al fabbisogno
alimentare di questi grandi agglomerati. Sarebbe anche
interessante studiare le nuove (e complesse) modalità di
relazione sociale (sempre più in chiave digitale) necessarie in
queste nuove e (continuamente) mutanti forme di
aggregazione e partecipazione sociale.
Tornando alla Milano degli anni settanta, partiamo da un
contributo di Bernardo Secchi (1985) che a proposito dei piani
regolatori (che stabilivano destinazioni d’uso e prospettive di
sviluppo delle aree urbane) ha suggerito di considerarli più una
«narrazione» che contributi tecnico-scientifici opera di
specialisti.
Gli urbanisti-architetti sono stati infatti progressivamente
indotti a spiegare-giustificare-promuovere le loro proposte
sulla base di una presentazione fondata su alcune premesse
valoriali: il caso più frequente è stato quello delle giunte che
dichiaravano di volersi impegnare in chiave congiunta di
sviluppo della città e protezione delle categorie più
svantaggiate. Di conseguenza la narrazione doveva
«presentare» in buona luce alcuni protagonisti «pubblici» (le
categorie professionali, i gruppi a cui rivolgersi
prioritariamente, le istituzioni, ecc.), mettere in secondo piano
altri che pure erano fondamentali nella logica concreta dello
sviluppo come i costruttori «potenti» (per il possesso di grandi
aree e imponenti mezzi finanziari) e così via.
Con il risultato che queste narrazioni sono state spesso
piuttosto astratte (specialmente nel periodo a cui ci riferiamo),
costruite per promuovere gli obiettivi (o l’immagine) di una
certa amministrazione. A ciò si aggiunga il non potersi-doversi
riferire a una precisa e valida normativa a cui attenersi. Così, il
più delle volte, queste narrazioni sono state una sorta di
razionalizzazione dell’agire di alcuni attori di primo piano
(soprattutto politici) abili nel «farsi» narrare. Il canovaccio più
seguito, in quegli anni, fu il tentativo di affrontare per il
meglio il forte contrasto tra necessità pubbliche e interessi
privati. Le difficoltà in chiave tecnico-finanziaria posero però
grossi ostacoli alla realizzazione degli obiettivi di carattere
sociale che erano invece chiari e assolutamente condivisibili in
chiave narrativa.
Nella pratica quotidiana era però necessario passare dalle
prospettive narrative alle iniziative specifiche (concrete), come
spesso avvenne alla fine degli anni settanta quando si passò
dalla logica complessiva del piano urbanistico a quella degli
interventi specifici (i «progetti d’area»).
Il principale obiettivo che si era posto già alla prima giunta
di sinistra fu quello della riconversione delle aree industriali
dismesse per l’irreversibile crisi di alcune grandi aziende come
Alfa Romeo, Innocenti, Pirelli, Falck, Montedison. Un
secondo problema, altrettanto importante, fu quello dei
trasporti.
Furono però necessari quasi cinque anni per arrivare a
iniziative concrete in entrambe le direzioni.
Nella relazione con cui diede il via ai lavori della seconda
giunta, il sindaco affermò di voler «aggiornare» il prg,
impegnandosi a snellire le norme tecniche di attuazione e le
procedure, ricorrendo a specifici piani d’intervento (i progetti
speciali), con un forte impegno nella realizzazione di vaste
aree «a verde […] sia per acquisto diretto sia per cessione di
standard e/o scomputo di oneri di urbanizzazione» (Mottini,
1985).
Era un modo assolutamente nuovo di procedere da parte
dell’amministrazione pubblica; erano i presupposti di quella
che sarebbe stata definita «urbanizzazione contrattata».
Di conseguenza, il Comune si dotò di strutture, informali
ma efficienti (con consulenti e ricorso a istituti quali il pim e
l’irer) per promuovere studi e ricerche integrate. Così su
specifici «progetti d’area», accanto agli urbanisti, lavorarono
economisti, sociologi e altri specialisti.
Erano i progetti sui quali si sarebbe deciso il futuro di vaste
aree della città. La giunta si trovò infatti a dover decidere in
merito a milioni di metri cubi di possibili (e necessarie) nuove
costruzioni. Con un problema non di poco conto:
l’impreparazione e l’inadeguatezza della macchina burocratica
rispetto a questo compito gigantesco. Si trattava di edificare
vastissime aree investendo cifre da capogiro.
Forse solo nel dopoguerra ci si era trovati in una situazione
analoga: allora avevano però operato un gran numero di
costruttori di modeste dimensioni. Anche per questo la
speculazione fu di modesta entità: prevalse di gran lunga lo
spirito della ricostruzione, come impegno insieme individuale
e collettivo.
Alla fine degli anni settanta si trattava di costruire interi
quartieri, piccole città nella città: un impegno gravoso per una
macchina burocratica non usa a un compito di quelle
dimensioni, anche tenendo conto delle nuove concezioni in
campo architettonico e urbanistico.
I principali difetti di questa impreparazione furono: la
lentezza e la scarsa efficienza delle procedure, il continuo iato
tra aspettative-bisogni (sociali) e realizzazioni concrete, la
mancanza di fondi necessari per alcuni interventi (ad esempio,
la ristrutturazione degli stabili in precarie condizioni), il dover
restare confinati in ambito localistico e non «metropolitano».
Inoltre il «necessario» affiancamento di esperti fu, in
qualche caso, oggetto di qualche ambiguità: ad esempio, tra
progettazione e controllo delle procedure, tra pubblico (come
incarico professionale) e privato (le loro altre occupazioni, non
essendo mai la consulenza incarico esclusivo). Una vicenda
ancora da scrivere, ma su cui esiste un lucido anche se
sconsolato contributo di grande interesse (Balzani, 1995),
Queste carenze sono state alla base della deregulation che
finì per caratterizzare progressivamente il settore, con un
conseguente appannamento dell’impegno programmatico e
sociale che ne era stato il principio ispiratore.
Per descrivere questo accidentato percorso (specialmente
nel periodo 1980-86) ci si dovrebbe inoltrare nell’analisi di
centinaia di episodi, transazioni, personaggi, che hanno
composto il quadro confuso, anche se molto vivace, delle
vicende urbanistiche del periodo. Molti di questi progetti
potrebbero essere ricostruiti come una narrazione (in questo
caso ex post) tra cronaca giornalistica e giallo: una narrazione
molto meno ispirata rispetto a quella a cui si era riferito
Secchi.
Due grandi iniziative, più come progetto-indirizzo che
come risultati concreti, hanno caratterizzato il periodo. La
prima fu il progetto del passante ferroviario. Il «documento
direttore», che ne indicava la sua utilità in chiave di
riconversione di alcune zone, è del 1983. La seconda fu il
«Progetto casa». Quest’ultimo fu ideato (1982) per dare
risposta a un forte fabbisogno di abitazioni private a prezzo
contenuto. A questo proposito, vennero scelte le aree e
predisposte numerose varianti al piano sulla base di progetti a
normativa speciale con procedure che si cercò di rendere più
spedite possibili. Si parlò, a questo proposito, di «rito
ambrosiano».
Ma al momento del necessario coinvolgimento dei
costruttori privati avvenivano (puntualmente) molte
«deviazioni»; costoro giocavano sulle procedure non definite e
sulla lentezza delle burocrazia, sul disporre di grandi capitali
che non li obbligavano a «chiudere» in tempi brevi, sull’uso di
abili interpretazioni della normativa in molti casi piuttosto
vaga. Così malgrado si fosse progettato di costruire oltre un
milione di metri cubi di abitazione privata in chiave non
speculativa, solo una modesta quantità abitazioni arrivarono
sul mercato a prezzi accessibili. Molti progetti subirono
trasformazioni in corso d’opera e vennero destinati a terziario
o ad altri scopi, magari giocando sul tenerli sfitti per qualche
tempo.
Nel caso del passante ferroviario (il percorso nel sottosuolo
milanese di alcune linee ferroviarie regionali), alcuni progetti
d’indirizzo (predisposti con il «documento direttore»)
dovevano servire a dare ordine alla destinazione d’uso di certe
aree, in particolare tenendo conto della esistenza di ampie aree
dismesse. Si pensava che, agevolando la mobilità, si sarebbe
favorita una migliore progettazione dello spazio urbano. In
questa prospettiva vennero, in particolare, predisposti studi
d’area su due zone: il Portello (dove era insediata l’Alfa) e la
zona Repubblica-Garibaldi (allora di proprietà delle Ferrovie
dello Stato). Nel primo caso si pensò di farne un polo di nuove
attività fieristiche e un grande centro convegni; nel secondo di
concentrare in quella zona le attività del terziario avanzato,
dalla finanza alla moda.
L’obiettivo era quello di favorire lo sviluppo di una città
moderna come richiedevano i tempi; si parlò anche (allora
assoluta novità) di cablaggio di queste zone.
Malgrado la serietà di questi progetti, l’ipotesi si perse nelle
fumisterie di convegni e nelle discussioni tra addetti ai lavori.
Basti pensare che le due zone vedranno la realizzazione di
progetti concreti solo dopo circa quarant’anni, con «City Life»
(parzialmente) nel primo caso e delle torri Unicredit e il
«bosco verticale» nel secondo.
Da sottolineare in particolare è che lo sviluppo della città
non avvenne lungo la direttrice ovest-est (quella considerata
dal passante), ma verso nord (il complesso Bicocca della
Pirelli) o verso sud (con il quartiere Missaglia di Ligresti e la
difficile difesa del Parco Sud). In entrambi i casi, iniziative
private fuori dagli obiettivi auspicati dal «documento».
Molti progetti non riuscirono neppure a partire. Tra questi
alcune iniziative in campo culturale: ad esempio, l’idea di
trasformate una grande caserma della polizia (in piazza
Sant’Ambrogio) nel «Beaubourg milanese», proposito presto
dimenticato. La stessa costruzione della nuova sede del
Piccolo Teatro si prolungò per anni e con qualche difetto non
del tutto risolto. Non si riuscì a ricostruire il palasport distrutto
da una forte nevicata.
Una vicenda esemplare fu quella del «Piano parcheggi».
Questo era partito da una doppia intuizione corretta: risolvere
il traffico, complicato anche dallo «stare in strada» di molte
migliaia di automobili ferme, e privilegiare la costituzione di
cooperative private per risolvere il problema. Allo scopo
vennero studiate normative facilitanti; ancora una volta, però,
una legislazione incerta portò a procedure insicure e lente che
bloccarono la maggior parte delle iniziative per molti anni.
Emblematico è stato il caso del parcheggio di piazza
Sant’Ambrogio inaugurato solo recentemente.
Alcuni progetti innovativi non riuscirono ad andare in porto
in quanto di scarso interesse per i privati. Così, malgrado il
forte impegno per una progettazione «ordinata», la città finì
con il crescere essenzialmente secondo gli interessi dei grandi
costruttori. Questi diventarono protagonisti assoluti, grazie
anche alla loro rete di complicità politiche e alle grandi
protezioni bancarie.
L’estremo tentativo di governare il settore fu tentato tramite
quella che venne definita «urbanistica controllata o
contrattata» che consisteva nel chiedere a chi voleva costruire
in certe zone di lasciare una quota degli spazi da destinare a
verde o servizi. In qualche caso si lasciò costruire in altre zone
(da quelle previste dal piano) con una permuta (uno scambio)
nella proprietà dei terreni. In teoria, un procedimento snello e
utile. Era però un terreno scivoloso, come emerse quando
scoppiò nel 1987 il caso delle «aree d’oro». La magistratura
accertò che lo scambio di terreni non era stato a sfavore del
Comune e che non vi era stata nessuna pratica tangentizia. Ma
fu altrettanto evidente la non ritualità formale di queste
pratiche: in quest’area grigia si aprì un ampio varco per
costruttori privi di scrupoli e amministratori di modesta virtù.
Il caso emblematico che dà un’idea di questa stagione si
riferisce a un grande e scaltro costruttore, Ligresti. Fu
l’assoluto protagonista della politica urbanistica a Milano. Un
personaggio di cui si sa ancora poco, al di là dei «rumor» e
delle poche inchieste non confortate da prove inconfutabili. Su
di lui esistono solo due interviste che non illuminano a fondo
la sua storia e la sua personalità. Quello che è certo è che
Ligresti ha costruito, nel giro di circa trent’anni, interi quartieri
grazie alla sua influenza o grande abilità nello stabilire
relazioni, informali ma importanti, in molti campi.
Era un siciliano di modeste origini, la cui accumulazione
primitiva del suo capitale ha sollevato qualche dubbio su
possibili connivenze non «alla luce del sole»; anche in questo
caso una tale ipotesi non è stata però oggetto di riscontro
alcuno da parte della magistratura.
La grande riservatezza ha consolidato la sua fama di
intoccabile e inavvicinabile. È stato il massimo esempio del
«capitalismo di relazione», intendendo con questa formula i
suoi numerosi e sostanziali «appoggi» politici (dalla destra
missina del conterraneo La Russa alla sinistra socialista, con
Craxi come principale sponsor) e in campo finanziario, con la
lunga e forte collaborazione (qualcuno la definisce
«protezione») di Cuccia e di Mediobanca. Anche le forze
politiche di opposizione non hanno mai denunciato con forza
(e con successo) il suo operato. La chiesa ha avuto verso di lui
una posizione sostanzialmente di favore anche grazie a sue
cospicue donazioni. I grandi quotidiani hanno avuto un
atteggiamento (molto) «prudente» nei suoi riguardi.
Molto riservato lo era stato fin dai suoi inizi, quando ebbe
un’importante frequentazione con Virgillito, finanziere (che lo
iniziò alle grandi operazioni in borsa) e imprenditore (padrone
della Liquigas sino al suo fallimento); da lui «ereditò» il primo
pacchetto di azioni sai, perno della sua grande ricchezza.
Il suo impero era fondato su tre elementi: una grande
quantità di denaro (non solo è stato uno degli uomini più ricchi
del paese, ma era in grado di raccogliere enormi capitali in
quanto «appoggiato» dalle grandi banche), una intelligente
politica di acquisizioni di aree edificabili (magari poco
appetibili al momento dell’acquisto), una grande conoscenza
delle norme urbanistiche (grazie a una vasta e efficiente rete di
dipendenti-consulenti) che gli permisero abili strategie nelle
procedure di assegnazione dei lavori e nella definizione finale
della loro destinazione d’uso.
In questa prospettiva vanno considerate le sue realizzazioni
nel sud-est di Milano: una zona rimasta praticamente del tutto
«non-costruita» (mentre a nord la conurbazione era arrivata
fino a Monza e alla Brianza) e quindi terreno ideale di grandi
interventi speculativi con milioni di metri cubi edificabili, di
cui riuscì a mutare nel tempo la destinazione d’uso da
abitazioni in terziario (Balducci-Piazza, 1981).
Ligresti fu altrettanto abile nel seguire la trasformazione
della città anche nel centro storico, con l’acquisto di immobili
di prestigio da rivendere o affittare ai nuovi imprenditori nei
settori del lusso o della finanza. Finì anche con l’acquistare
uno dei simboli della città, la Torre Velasca.
Si disse che Ligresti fosse direttamente interessato al 70%
dei volumi in costruzione in quegli anni; probabilmente una
stima esagerata, ma che testimonia il suo potere (o la sua
fama) in quegli anni. Un non comune personaggio che teorizzò
come Milano, nel suo trasformarsi in metropoli moderna e
europea, avrebbe prodotto enorme ricchezza. Tutti avrebbero
potuto trarne vantaggio; implicitamente ritenendo che i più
abili ne avrebbero potuto approfittare in misura maggiore.
Il primo periodo della sua marcia trionfale fu frenato dal
sopraggiungere di molti problemi (anche giudiziari) a
proposito della «disinvolta» gestione sai. Fu salvato ancora una
volta da cordate a guida Mediobanca giunte in suo aiuto.
Passarono alcuni anni (fino alle soglie del duemila) prima che
tornasse a essere protagonista nella costruzione di grandi lotti
sulle aree che erano rimaste dismesse e quindi oggetto di
grandi investimenti a forte carattere speculativo.
Il suo fallimento (ancora per problemi legati più al ramo
assicurativo che alle costruzioni) fu definitivo nel 2012.
Con lui si chiuse la stagione dei grandi tycoon del mattone:
la crescente dimensione (e costi) degli investimenti obbligò i
anche i grandi costruttori ad agire in associazione e con il
sempre più decisivo intervento delle banche.
Stavano anche arrivando tempi difficili: l’offerta stava
diventando superiore alla domanda. I più giovani e meno
abbienti erano infatti obbligati a trovare casa nei grandi
paesoni dell’hinterland.
Il contesto sociale e politico stava inoltre decisamente
cambiando. Esplose il fenomeno della corruzione e delle
infiltrazioni mafiose sempre più estese. Alcuni gruppi (che
godevano di precisi appoggi politici in Regione) ebbero facile
accesso agli appalti; in altri la magistratura, con sempre
maggiore difficoltà, riuscì a smascherare i prestanome dietro
cui si nascondevano i gestori reali di grandi capitali di dubbia
provenienza.
Va comunque detto che il «sacco della città» non fu
drammatico, malgrado si fosse costruito come in nessuna altra
città, a eccezione di Napoli, e con ben altri esiti.
Il confronto tra il frenato sviluppo negli anni ottanta e
quello sfrenato degli anni duemila sembra prestarsi a un
dibattito teorico sui vantaggi della pianificazione rispetto a
quelli del liberismo assoluto. A dare qualche ragione ai
sostenitori della pianificazione e del controllo pubblico,
possiamo ricordare due fenomeni «perversi»: l’arrembaggio e
il fallimento dei «furbetti del quartierino» (i vari Ricucci,
Coppola, Zunino) che sono arrivati a costruire imperi edilizi
franati in poco tempo e l’esplosione del fenomeno delle
tangenti che hanno visto nell’edilizia il loro naturale ambito. A
dare qualche ragione ai secondi, va detto che l’opera dei
costruttori d’assalto ha indubbiamente mutato il panorama
della città (adesso più simile a quello delle metropoli moderne
e con un suo indubbio fascino), malgrado i difetti di sempre (il
verde e i servizi) non siano stati del tutto risolti.
A distanza di tempo, si può ritenere che a favore della
seconda giunta di centro-sinistra vada ascritto il merito di aver
cercato di governare il conflitto tra interesse pubblico e
interessi privati, con la costante ricerca di un equilibrio in base
ai criteri (non sempre facili da definirsi e da attuarsi) della
«concertazione» e dell’«equità». Ovviamente si entrò nel
territorio dello scambio politico, dove non sempre tutto
funzionò secondo giustizia e non per colpa esclusiva dei
politici.
Il binomio mattone-tangente cominciò a essere
praticamente inscindibile. Le giunte di sinistra ne furono
esenti, salvo casi di modeste dimensioni. Furono forse le
ultime a salvarsi. Non a caso, l’intervento della magistratura,
anche negli anni successivi, non mise in luce gravi scandali.
Nel giro di pochi anni la prassi corruttiva diventò però la
regola (in particolare riguardo alle opere pubbliche e agli
appalti conseguenti, come nel caso della metropolitana): tutto
ciò sarebbe venuto alla luce con Tangentopoli.
Per finire, si deve accennare ad alcune altre carenze da
attribuirsi al deficit tecnico-professionale di amministratori e
addetti ai lavori. Ad esempio, è mancata una politica di
redevelopment (abbattere case e quartieri per ricostruirli più
moderni ed efficienti, come avviene ad esempio a New York e
in altre metropoli) e di styling urbano, immediato indice di una
migliore vita in città.
Gli scarsi risultati ottenuti relativamente al social housing si
accompagnarono al prevalere di costruzioni con altri scopi e
funzioni non abitative. Ciò ha favorito indirettamente una
metropolizzazione selvaggia, come si può anche oggi vedere
dalla brutta conurbazione delle periferie dove, salvo poche
eccezioni, il panorama è caratterizzato da anonimi casermoni
con scarso spazio ad aree verdi e ai servizi in chiave
partecipativa.
Probabilmente ha anche influito negativamente una cattiva
comunicazione con i cittadini sugli obiettivi prioritari: i
necessari interventi sulle aree dismesse, la possibile
riprogettazione di quartieri in progressivo decadimento, le
difficili procedure «obbligate» per perseguire tali obiettivi.
Sarebbe stato necessario un maggior coinvolgimento attivo dei
cittadini nell’individualizzazione di «esigenze e fabbisogni»
(Mottini, 1985) e sulla valutazione (non astratta e ideologica
come è accaduto spesso nei quartieri interessati) sulle scelte e
le modalità operative.
Un grave difetto nella «politica narrativa» delle
amministrazioni; questa avrebbe dovuto cercare di coinvolgere
davvero l’intera comunità su un terreno di comune e rilevante
interesse. Non era certo facile. Tra l’altro gli strumenti di
comunicazione erano controllati da chi aveva altri interessi da
perseguire.

7. Quasi una postilla: il riformismo municipale


Il ruolo giocato dalle due giunte, con sindaco Tognoli, va
inquadrato in un discorso più generale sul riformismo. Quello
che non si è realizzato a livello nazionale, come abbiamo visto
nella prima parte di questo volume.
Possiamo definire «riformismo municipale» lo spazio in cui
hanno operato le giunte di Milano e di altre città del Nord. Una
stagione forse non esaltante ma a cui andare con un certo
«rimpianto», anche considerando cosa avvenne in quegli anni
a livello del Governo centrale.
Fu un riformismo fondato sulla «politica del fare», in cui lo
spirito pratico degli amministratori agiva sulla base su un
diffuso sentimento di solidarietà (a Milano di ispirazione
cattolica o socialista) e un forte senso del dovere civico (di
matrice comunista).
Un sentimento in linea con lo spirito dei tempi muovi: a
Milano la progressiva diffusione di benessere si sposava
naturalmente con fenomeni quali il lavoro come valore (difeso
anche con le lotte sindacali), il dialogo tra cattolici e
comunisti, il desiderio di modernità, un certo (tranquillo)
cosmopolitismo dalle venature locali ma non provinciali, ecc.
Valori partecipati da (forti) minoranze (cattoliche,
comuniste e socialiste) che frequentavano parrocchie, circoli e
sezioni, ma anche condivisi da gran parte dei cittadini-elettori.
L’esperienza delle due giunte di sinistra è sicuramente da
iscrivere in questo contesto.
Per dimostrarlo è necessario precisare cosa intendiamo con
tale concetto. Il riformismo è stato infatti un termine usato in
molti modi per definire più esperienze in diversi periodi o in
diverse parti del mondo. È stato perfino usato in tono
dispregiativo, come una dubbia e spesso perdente opposizione
contro le forze vincenti del capitalismo e del liberismo.
Per riformismo si può sicuramente intendere l’azione
politica di quei movimenti che si propongono di modificare
l’ordinamento politico-economico attraverso una lotta non
violenta (prevalentemente parlamentare, ma non solo) atta a
modificare le leggi e l’organizzazione istituzionale di un
Paese, attraverso riforme graduali ma sostanziali, capaci di
modificare senza stravolgerla la struttura istituzionale che un
Paese si è dato nel tempo; riforme necessarie sia per alleviare i
fenomeni sociali caratterizzati da gravi problemi e ingiustizie
sociali, sia per modernizzare un paese.
Il riformismo deve essere quindi fondato su un progetto
relativo al reale cambiamento del sistema sociale, deve cioè
incidere decisamente e (positivamente) nelle sue
trasformazioni. Per riuscirci deve avere (e chi vi collabora
deve crederci) «un profilo sociale prima che politico» relativo
ai valori-modalità in cui «si organizzano e si rappresentano gli
interessi collettivi.» (Terzi, 2011, p. 226) Quindi non è solo un
modo di gestire la politica. Il riformismo è prima di tutto un
modo di pensare, di intendere il proprio ruolo, da parte dei
politici e dei cittadini-elettori. Contrarie al riformismo sono le
ideologie, cioè una visione deterministica del mondo e di «ciò
che va fatto» sulla base di alcuni valori fondamentali ritenuti
indiscutibili e pertanto non modificabili.
Anche questa semplice definizione è sufficiente per
spazzare via le pretese riformistiche dei governi che si sono
succeduti in Italia, dal dopoguerra fino ai nostri giorni.
Riformista è stato invece il progetto delle Giunte di sinistra.
Non a caso il loro obiettivo primario fu di coinvolgere nella
partecipazione alla vita cittadina una popolazione spaventata
da terrorismo e violenza criminale attraverso iniziative di forte
valore culturale e sociale. Cioè cercando di coinvolgerla più
che di guidarla. Obiettivi non rivoluzionari ma concreti,
compresi e condivisi dalla popolazione che si espresse a favore
dell’operato di queste giunte e del sindaco che le guidava. Nel
riformismo municipale giocano infatti un ruolo fondamentale
le modalità del rapporto diretto tra i cittadini e i loro
rappresentanti, in particolare per quanto attiene l’operato
(nella gestione) degli amministratori, come correttezza e
risultati. In ciò gioca (anche) un problema di scala: in una città
(specialmente se di modeste dimensioni) «le cose si sanno»,
chi si presenta per essere eletto è più facilmente conosciuto e
giudicato rispetto ai politici a livello nazionale, di cui si sa
poco o nulla e solo attraverso la stampa.
Nel caso di Milano ci fu anche qualcosa in più. Innanzi
tutto la milanesità come atteggiamento attento all’efficienza e
diffidente invece con la «politica dei politici». Le giunte di
sinistra ressero finché Milano fu capace di resistere a Roma (o
meglio, alle direzioni centrali dei partiti) e fu possibile mettere
a punto e gestire una propria politica con obiettivi concreti e
riconoscibili. Cioè finché resse l’illusione che la società civile
fosse capace di opporsi alla politica dei «politicanti» o, detto
diversamente, finché la rappresentanza vinse sulla
rappresentazione.
A loro favore giocava la tradizione del «socialismo
municipale» che aveva visto alternarsi a Milano sindaci
socialisti (dal mitico Caldara al dopoguerra con Greppi,
Aniasi, Tognoli) in genere valutati molto positivamente. Era
l’eredità, da tempi ormai lontani, della matrice sociale-
socialista del socialismo «romantico» di Turati e Kuliscioff.
Non solo. Basti ricordare che alla fine dell’Ottocento un
ricchissimo filantropo (Moisè Loria) aveva permesso di
realizzare un’imponente struttura (la Società Umanitaria) con
lo scopo, allora modernissimo, di «mettere i diseredati, senza
distinzione, in condizione di elevarsi da sé medesimi,
procurando loro appoggio, lavoro e istruzione» (Pellegrino,
2010, p. 66).
I socialisti si riallacciarono a questa tradizione a partire dai
primi anni ottanta; strumentalmente da Craxi, con maggiore
adesione (e forte anticipo) da parte di Tognoli a Milano. Fu
possibile perché ne era ancora presente lo spirito: a Milano il
social-liberismo si manifestò ancor prima di essere teorizzato.
Non a caso anche la corrente migliorista del PCI vide qui molti
dei suoi esponenti più noti e fu parte attiva nel governo della
città.
Il riformismo «in salsa milanese» si legava anche a un altro
importante fenomeno: la modernità della città. Qui le grandi
industrie conservavano ancora i propri centri direzionali
(Montecatini, Olivetti, Edison) e nel tempo stava emergendo il
terziario, dalla finanza alla moda e al design. Modi diversi di
utilizzare tecnologia e ricerca senza più rifarsi alle modalità di
produzione di stampo fordista.
Per questo Milano era diversa dalle altre grandi città
italiane. Torino era caratterizzata dallo scontro tra una grande
azienda (padronale) e una classe operaia stretta attorno ai
sindacati e al Partito comunista. A Roma si realizzava una
sorta di blando interclassismo nella coabitazione, senza
dialogo, tra nobili e borghesi da un lato e «popolino»
dall’altro.
Milano vedeva, invece, la compresenza di una grande e
media borghesia con un vasto ceto operaio, in una sorta di
interclassismo meneghino. Per questo, l’incontro tra il
socialismo riformista e la corrente dei miglioristi nel PCI fu
possibile e riuscito. Fu anche possibile la politica del «filo
diretto» tra sindaci e cittadini sulla base di una certa fiducia e
rispetto reciproci. L’abbiamo più volte definita la «politica
dell’ascolto».
Purtroppo, il liberal-socialismo non ebbe modo di
realizzarsi appieno come era sembrato possibile. Anche a
Milano lo scarto tra «tra ciò che si dice e ciò che si fa», tra la
«rappresentazione e la pratica reale» (Terzi, ibid., p. 290)
divenne sempre più forte. Fenomeni di assoluta non
trasparenza (appalti e corruzione) divennero la traccia sottile e
sotterranea per decifrare negli anni successivi la vita politica
cittadina.
Non a caso a Milano dopo pochi anni sarebbe scoppiata
Tangentopoli.
4. Milano da capitale morale a capitale
dell’economia, poi dell’effimero (moda e TV) e infine
capitale (cosiddetta) immorale

L’immagine di Milano si è fondata su un mito: essere la


capitale morale di un Paese lontana dagli intrighi e
dall’inefficienza della capitale reale. Un mito nato
nell’Ottocento e che ha alimentato un orgoglio municipale che
è resistito a lungo; è entrato in crisi per qualche anno e oggi
(forse) è sul punto di rinascere. Un orgoglio che «ha fatto
sentire superiori» i suoi abitanti rispetto anche a chi era nato in
altre grandi città; non solo Roma, ma anche in quelle con un
passato glorioso come Venezia, Napoli, Firenze.
Era l’orgoglio di appartenere a una piccola patria (Milano e
la Lombardia), sebbene questa non avesse tutti i caratteri che
normalmente sono necessari per considerarla tale. Innanzi
tutto non aveva un territorio omogeneo e definito. In
Lombardia vanno, infatti, considerate almeno tre aree: quella
pedemontana che va dalle Alpi alla pianura (con città come
Como, Bergamo, Brescia, a forte vocazione industriale o
commerciale); quella che si riferisce a Milano e alla Brianza
(dalla metà del secolo scorso a vocazione terziaria); quella
delle zone a sud con una forte caratterizzazione agricola anche
se con la presenza di piccole-medie imprese manifatturiere.
Non ha neppure avuto una lingua comune: vi è sempre stata
la compresenza di più dialetti, diversi anche se tra loro
comprensibili. Il cibo lombardo (riso, polenta e panettone) ha
avuto scarsa competitività con quelli di altre regioni italiane,
come la pasta e la pizza (da Roma in giù), le carni toscane, i
dolci campani e siciliani.
Malgrado ciò, Milano ha sempre conservato una sua
identità, anche molto prima dell’Unità d’Italia, quando fu
territorio straniero (come parte dell’Impero austro-ungarico) o
occupata (dalla Spagna e dalla Francia di Napoleone).
A caposaldo della sua identità vi è sempre stata una forte e
valida vocazione amministrativa (con una efficiente
burocrazia) e un’accorta gestione delle specificità locali (una
forte vocazione manifatturiera, le scuole professionali) che
hanno permesso di conservare e tramandare i caratteri della
milanesità anche sotto bandiere diverse.
I vecchi milanesi si sono rifatti a lungo al mito
dell’efficienza della macchina amministrativa all’epoca di
Maria Teresa d’Austria. Nel periodo risorgimentale, Milano
riuscì a sdoppiarsi (senza perdere la sua anima) tra patrioti
ribelli e fedeli sudditi dell’Impero: gli uni e gli altri
frequentavano gli stessi luoghi (la Scala, la Galleria) sia pure
con cultura e aspirazioni diverse.
Come ogni mito, quello di Milano si fonda su alcuni
caratteri reali.
Due di questi ne hanno sicuramente definito le radici: un
impegno nel lavoro come autorealizzazione («dare il meglio di
se stessi»: un valore di stampo calvinista, eredità
dell’Illuminismo lombardo) e un ethos originato da
un’apparentemente contradditoria derivazione dai valori della
chiesa cattolica (con la sua etica solidaristica) e quelli
derivanti dal socialismo riformista milanese dei primi anni del
secolo.
Quanto al ruolo della chiesa lombarda basterebbe citare
Rumi (1999), secondo cui la chiesa lombarda ha sempre
parlato autorevolmente, da Borromeo a Martini, anche ai non
credenti sulla base di un’etica che era alla base di una «società
senza Stato» (una del tutto particolare forma di società civile
di matrice religiosa-tradizionale) che si riconosceva nei valori
di fondo del lavoro e della famiglia.
Quanto al riformismo milanese, questo ha sempre ha
fondato la sua ideologia sulla solidarietà e la lotta contro ogni
tipo di privilegio. Una sorta di propensione naturale per la
giustizia e il rifiuto di ogni discriminazione.
A queste due componenti principali si devono alcuni
caratteri delle radici della milanesità: innanzi tutto il
riconoscersi in un ordine sociale «solidale» che tiene conto (e
accetta) le differenze di classe-ceto senza assolutizzarle,
cercando anzi di temperarle con pratiche di conciliazione (nel
tempo, con la carità o con l’intervento sindacale), una «bontà
ruvida» (il «coeur in man» senza inutili smancerie e con uno
scarso humor con nessuna passione per l’ironia), un
atteggiamento favorevole alle tradizioni anche se aperto
all’innovazione (più sul lavoro che nelle pratiche sociali o
culturali), ecc.
Non a caso, la piccola patria si è riconosciuta anche nella
struttura urbana che ha visto la città svilupparsi in cerchi
concentrici a partire dal centro e dai suoi luoghi di riferimento
tradizionali e (da sempre) importanti: la chiesa (il Duomo) e il
castello (Sforzesco).
Quella lombarda può sembrare una cultura modesta e
spesso la si è considerata tale. Non ha rigide fondamenta
ideologiche, anzi le rifugge. È un misto di avvedutezza (come
organizzare la propria vita) e miopia sociale (scarso interesse
per quanto avviene fuori dai propri confini e per i tempi che
cambiano). L’arte e la cultura non hanno trovato in Milano un
territorio particolarmente favorevole; la città ha avuto più
mecenati che artisti. Ha sempre prevalso la ricerca
dell’efficienza, del lavoro compiuto nel modo migliore per
ottenere il massimo del risultato, per vincere la concorrenza e
insieme provare una profonda soddisfazione personale.
Con una solida convinzione. Per riuscire nel lavoro (per i
vecchi milanesi era come dire «riuscire nella vita») sono
necessarie competenze professionali-culturali che vanno
apprese con il medesimo impegno che si mette nello svolgerlo:
studiare non è sempre facile ma vale per ciò che può servire
«dopo» (trovare nuovi modi produttivi, professioni migliori,
salire di status) più che come accrescimento culturale
individuale. La cultura umanistica è un lusso e non è neppure
affascinante: serve a pochi e a poco.
Per questo si sono sempre investite grandi risorse
nell’istruzione tecnico-professionale. Moisè Loria ha creato la
Società Umanitaria per dare istruzione e capacità lavorative ai
più poveri per «elevarsi da sé medesimi»; i fratelli Bocconi
hanno creato l’Università Bocconi per dare rigore scientifico
al lavoro d’ufficio applicato al commercio. Il Politecnico di
Milano è stato sempre all’avanguardia delle scoperte
scientifiche e del rapporto ricerca-industria.
Da queste scuole è uscita un’«intellettualità tecnicamente
preparata e moralmente consapevole» (Spinazzola, 1981, p.
319) nell’ambito di una società che ha sempre teso a rifuggire
sia dal conservatorismo «immobilista» dei vecchi padroni, sia
dal progresso avventuristico delle avanguardie operaie. Un
progresso (siamo nell’Ottocento) come evoluzione e non come
rivoluzione; con alla base un senso morale individuale che
impone a ciascuno di comportarsi al meglio, seriamente e
senza scuse in caso di fallimento. Non c’è spazio per la
retorica e la drammaticità emotiva del Sud. Non si urla, ma si
parla a bassa voce.
Nella quotidianità questo senso morale sembra coincidere
con il «buon senso» che guida l’agire individuale nelle «scelte
di tutti giorni» ma vi si ricorre anche in quelle difficili da
prendere nei momenti fondamentali della vita.
Con un credo comune (profondamente sentito): se ognuno
lavora al meglio per sé, costruisce anche una società senza
gravi squilibri: quando ciò non è sufficiente c’è la solidarietà
che spinge ad aiutare gli svantaggiati come naturale
riconoscimento della dignità dell’altro al di là della sua
posizione sociale. C’è grande pietas verso i poveri, gli umili e
gli sconfitti: questi vanno aiutati, non emarginati.
In questo contesto è naturale che si condivida l’idea che
anche chi parte da un’umile condizione può arrivare al
successo. Il pragmatismo milanese è molto prossimo al
calvinismo per quanto attiene alla fiducia nell’individuo (nelle
sue motivazioni e capacità di elevarsi e migliorarsi); molto
meno al «sogno americano» e alla sua propensione per
l’ostentazione.
Per questo gli attori collettivi (le classi) sono rimasti a
lungo un concetto astratto: gli stessi borghesi milanesi
sentivano di appartenere più a un ceto, cioè a un certo modo di
intendere la vita e di comportarsi di conseguenza, che non a
condividere una stessa posizione sociale e politica. Ognuno
sentiva di essere responsabile di/per sé stesso, senza
condividere obbligatoriamente il destino di altri, sia pure simili
a lui.
Anche nel privato c’era spazio per un certo interclassismo:
il «buon senso operoso» portava a essere affabili (i padroni
davano del tu in modo non spocchioso ai loro operai), ad avere
una spontaneità affettiva immediata (la bonomia) con i pari, ad
accettare cordialmente chiunque volesse inserirsi con buon
volontà nella comunità a patto che si comportasse secondo
consuetudini e valori condivisi.
Del resto si poteva sempre diventare milanesi, non lo si era
solo per nascita. Un atteggiamento che ha anche favorito una
non complicata integrazione di chi veniva dal Sud o dalle
campagne.
Un quadro che potrebbe considerarsi idilliaco, ma forse non
del tutto vero. Anche nella borghesia milanese si coltivavano
profondi interessi che si vollero cautelare. Forse con una certa
sorpresa, i ricchi borghesi scoprirono, a cavallo del secolo, che
«la società è un luogo di competizione e di scontro serrati»
(Spinazzola, ibid.).
Quando la conflittualità con chi aveva invece imparato a
riconoscersi come classe (sfruttata) esplose, non fu più
sufficiente l’interclassismo paternalistico dei padroni buoni.
Questi, forse, non lo erano mai stati del tutto e chi lo era
davvero era diventato una minoranza in crisi di identità. La
maggioranza ebbe una forte paura di perdere i propri privilegi,
fino ad allora considerati naturali e legittimi. Si attrezzò così
per conservarli.
Entrò così in crisi il fondamento della solidarietà, il senso
della comunità «giusta» a cui voler appartenere. Si fece strada
l’ambiguo convincimento che non tutti avevano gli stesi diritti,
anche se si impegnavano nel lavoro e accettavano regole e
rituali del sociale.
Così le differenze di classe alla fine dell’Ottocento
esplosero. Il mito della piccola patria lombarda implose
quando si cominciò a coltivare il dubbio che la realtà non
corrispondeva ai valori su cui si era pensato si fondasse. Il
solidarismo interclassista non convinse più chi lavorava dentro
le fabbriche in condizioni che non tenevano conto della dignità
di chi vi operava. La carità non bastava più.
Emerse così un duro antagonismo, come avvenne con i
moti operai sul finire dell’Ottocento e circa settant’anni dopo
con le dure lotte sindacali che videro giovani operai (lombardi
o di recente immigrazione) «uniti nella lotta» per ottenere
migliori condizioni di lavoro.
Una parte della piccola-media borghesia aveva continuato a
riconoscersi nel socialismo riformista, romantico ma con una
sua efficienza concreta, come dimostrò il primo sindaco
socialista (Caldara, definito «un Barbarossa in Comune!»),
eletto nel 1914, che guidò la città nel periodo della guerra e del
primo dopoguerra.
Con un preciso segno dei tempi che stavano profondamente
mutando. Nella lista elettorale che proponeva Caldara come
sindaco comparve un nome presto famoso: Mussolini.
La grande e la media borghesia guardarono al nuovo che si
proclamava socialista, malgrado le sue bandiere fossero nere.
Era stato comunque questo gruppo sociale il protagonista
dell’importante sviluppo economico di Milano e della
Lombardia anche prima dell’Unità. In particolare la grande
borghesia, quella delle famiglie proprietarie di grandi imprese
come i Crespi, i Falck, i Pirelli. Una borghesia illuminata,
capace di seguire le innovazioni tecnologiche per meglio
gestire produzione e profitti. Illuminata ma non certamente
progressista e mai tentata di «entrare in politica» a livello
nazionale.
Nell’Ottocento, il loro era stato un cauto interclassismo, più
in chiave di solidarismo che di reale comprensione dei bisogni
della nuova classe operaia. Sembrava sufficiente la solidarietà
(di origine cattolica o socialista poco importa) per «correggere
la spietatezza disumanizzante dei meccanismi produttivi»
(ibid. p. 322), correggendone gli eccessi senza però tentare di
capirne le ragioni e di modificarli.
La mancata valutazione dei tempi nuovi venne chiaramente
in luce all’avvento del fascismo. Fu considerato una
«provvisoria» forma di conservazione del sistema; per questo
la piccola borghesia lombarda fu favorevole, anche se mai
entusiasta. Si illuse di poter arrivare a un modesto benessere
sulla base di una (apparentemente) efficiente gestione della
cosa pubblica. L’ordine era meglio di un (molto temuto)
disordine sociale.
Del resto, Milano aveva da sempre avuto un’attenzione
marcata per la politica locale (quella fondata sui problemi
concreti del territorio) ma scarsissima per quella nazionale;
quella dei partiti, il parlamentarismo fatto di chiacchere e
promesse ma dalle scarse realizzazioni concrete.
Non è un caso che concetti come patria ed eroismo non
siano mai stati elementi rilevanti della cultura lombarda.
Fin dall’Ottocento Milano ha avuto una dimensione
europea; il traforo del San Gottardo, la Grande Esposizione
Nazionale del 1881, ne furono una evidente dimostrazione.
Molto importante era stato anche il forte afflusso di denaro
(tedesco e svizzero) nelle banche lombarde: fu un
fondamentale volano per lo sviluppo economico.
Al passaggio del xix secolo, l’economia lombarda conobbe
momenti di eccellenza: Pirelli lavorò un materiale allora
d’avanguardia (la gomma); Bocconi inventò la grande
distribuzione aprendo i grandi magazzini che si sarebbero
chiamati (grazie a D’Annunzio) La Rinascente. Grandi
industrie si svilupparono nel tessuto stesso della città: nomi
come Breda, Falck, Pirelli e Crespi ne sono esempi precisi e
illuminanti. Accanto alle grandi industrie vi fu anche un forte
sviluppo della piccola-media industria manifatturiera,
specialmente nella cintura esterna alla città; in particolare, nei
settori del tessile, dell’abbigliamento e dell’alimentare.
Va ricordato che questa imprenditoria illuminata, nell’ottica
della solidarietà e del progresso, si impegnò anche nel creare,
attorno alla fabbrica, interi quartieri di case per gli operai e
primitive forme di assistenza sociale.
Ma il periodo d’oro della Milano borghese furono gli anni
venti, quando venne a maturazione il processo di sviluppo
industriale (l’elettricità ne era stata il motore) che era andato
progressivamente crescendo negli anni a cavallo tra i due
secoli. Milano fu conquistata dal grande mito della modernità.
La vocazione europea nacque in quegli anni.
Un quadro del 1929 di un modesto pittore (Savino Labò,
riprodotto in AA.VV., 2002) raffigura idealmente la periferia
della città in quegli anni (probabilmente l’attuale viale Zara);
in esso si vede una grande strada con quattro corsie (!) in cui
scorrono due macchine (una di rappresentanza e una sportiva-
elegante), molti tram (alcuni di questi modelli girano ancora
oggi nelle vie cittadine), due cavalli con eleganti gentleman,
dei pedoni tra cui una donna elegante con un ombrellino per
ripararsi dal sole. Sullo sfondo una costruzione avveniristica
sembra alludere a una fabbrica grande e moderna; il mito dei
tempi nuovi è ulteriormente espresso da due case eleganti (le
ville di città). Il tutto parla chiaramente di un certo benessere e
di un’«incredibile» modernità.
Un decoro borghese che emerse anche da un altro aspetto,
questo molto più concreto. Fino agli anni venti del secolo
scorso la borghesia milanese ha imposto il proprio stile nelle
costruzioni cittadine improntate a un severo classicismo (con
qualche isolato capriccio liberty), come si vede ancora nel
centro-città nella dorsale Foro Buonaparte - Piazza Cordusio,
dove i palazzi delle banche e delle assicurazioni fanno da
scenario a un’austera rappresentazione della «città dei grandi
affari».
Solo qualche edificio verso il parco Sempione poteva essere
riferito allo stile (le ville di città) dei ricchi borghesi che
celebravano il proprio status con un arredamento moderno
anche se severo e pesante. Al loro interno, i mobili erano il
revival di stili già superati come il rococò e il moresco. Tutto
ubbidiva alla tradizione, non al gusto per il nuovo che si stava
affacciando in altre città europee.
Gli imprenditori borghesi rifuggivano dall’esibire il lusso
come, in quegli anni, facevano invece i loro colleghi americani
per i quali l’ostentazione era prova del proprio valore e
successo. Così, anche le ricche case di vacanze, sui laghi o in
campagna, erano nascoste agli occhi dei comuni mortali da
grandi siepi e alti muri di cinta. Non a caso, pochi furono gli
edifici pubblici progettati in quel periodo e nessuno
monumentale o realmente importante e/o innovatore nel gusto
o nella cultura a livello europeo.
Un riserbo mostrato anche nel (modesto) mecenatismo:
poche furono le collezioni private di valore e tutte
caratterizzate da pezzi «sicuri», con scarsa propensione alla
modernità. Poco spazio fu dato, ad esempio, al movimento
futurista che in quegli anni conosceva invece un certo
successo. Sculture e ritratti «commissionati» dovevano servire
per una sorta di severa auto-rappresentazione per i
discendenti-eredi più che per un’auto-celebrazione di mecenati
illuminati.
Milano, del resto, non era una grandissima città; nel 1911
aveva poco più di 500 000 abitanti, di questi molti erano
operai o commercianti. Anche questo dato testimonia di una
dimensione che potremmo definire provinciale.
Milano non è stata una città fascista come altre nel Paese;
subito dopo la guerra sarebbe stata la città della Resistenza,
anche in questo caso senza grandi entusiasmi da parte della
ricca borghesia che era tornata a governare la città.
Nel dopoguerra, il primato di «Milano capitale», connotato
prevalentemente in chiave economica e culturale, si andò
ulteriormente consolidando. Negli anni che seguirono la
guerra fu sempre più evidente che, mentre Milano era il luogo
dove «avvenivano le cose» (dalla ricostruzione alla
trasformazione dell’impresa in chiave post fordista e
all’avvento del terziario e delle nuove professioni), le decisioni
politiche «riguardanti il Paese» venivano prese a Roma e in un
contesto (la politica dei partiti) a cui Milano aveva sempre
guardato con molta diffidenza.
L’intraprendenza in campo economico, la solidarietà sociale
e il clima di laica tolleranza, non trovarono per anni una
precisa rappresentanza, restando valori secondari e ininfluenti
nelle vicende della politica a livello nazionale negli anni
cinquanta-sessanta (Rosa, 2015). I politici «importanti» erano
(nati e operanti) del Sud e il loro valore principale che
difendevano era la conservazione. Nel loro modo di esprimersi
prevaleva la retorica del politichese: la concretezza sembrava
loro del tutto estranea.
L’operosità e il buon senso finirono per restare elementi
quasi caricaturali di una «maschera milanese» estranea ai
tempi che stavano sopraggiungendo: valori come l’etica del
lavoro, l’operosità e lo spirito imprenditoriale, la tolleranza, la
cultura connotata da cosmopolitismo e pragmatismo,
diventarono più un ricordo del passato che non validi motivi di
riferimento (Biorcio, 1998).
Ovviamente apparirono del tutto superati negli anni della
«Milano da bere»; erano stati invece importanti al tempo della
ricostruzione nel dopoguerra, negli anni cinquanta-sessanta.
La stratificazione sociale milanese, nell’immediato
dopoguerra, restava caratterizzata dal convivere del
proletariato (i lavoratori delle aziende manifatturiere) con la
piccola borghesia (commercianti, modesti impiegati) e le
grandi famiglie dei «padroni» della grande imprenditoria. Un
sistema non sempre armonico e funzionale ma apparentemente
solido: le condizioni estreme di miseria erano molto meno
diffuse che in altre parti d’Italia, specialmente nel Sud.
Contava ancora il ruolo «pacificatorio» della chiesa cattolica
con il suo paternalismo caritatevole, anche attraverso
l’efficiente rete delle parrocchie.
La ripresa fu veloce anche grazie al fatto che gli impianti
industriali erano stati salvati dalla distruzione da parte degli
operai e dei padroni accomunati dallo stesso intento; le banche
ripresero a sostenere massicciamente le nuove iniziative
industriali.
L’economia tornò a tirare. Milano era ancora la principale
città industriale del Paese: lo sarebbe stata fino alla
riconversione degli anni settanta, quando molte aziende si
ridimensionarono o cessarono le loro attività. Ma
nell’immediato dopoguerra, grandi famiglie come Pirelli,
Falck, Crespi, Bassetti, Galbani, o aziende come Montecatini,
Edison, Snia Viscosa, Borletti, Innocenti, Motta, Mondadori,
Rizzoli, erano ancora il nerbo centrale e influente della
struttura economica del Paese, non solo di Milano e della
Lombardia.
Per questa élite la politica restava quella locale e non quella
nazionale; da quest’ultima non si aspettavano (e per molto
tempo non chiesero) favori di alcun tipo, diversamente da
quello che avveniva in altri parti del Paese dove l’intervento
statale era una preziosa (se non l’unica) risorsa a cui attingere.
Il miracolo economico, partito da Milano e dalla
Lombardia, fu il prodotto di una ricetta estremamente
semplice: «duro lavoro e sacrifici». Lavoro ce n’era per tutti.
Si disse, forse solo con un pizzico di esagerazione, che un
occupato su dieci nel Paese lavorava nell’area milanese. Era
motivo di orgoglio: essere milanese significava appartenere
all’avanguardia di un Paese che stava diventando ricco e
moderno.
In città si avvertirono tempi nuovi; i piccoloborghesi
andavano al Piccolo Teatro a vedere il «rivoluzionario» Brecht
o a provare nostalgia per il Nost Milan di Bertolazzi; gli
aspiranti intellettuali frequentavano le grandi mostre e i locali
dove «andavano gli artisti». Un caffè, come il Giamaica, fu
luogo di incontri e di modeste ebbrezze mondane e culturali.
Manzoni inscatolava la «merda d’artista» e uno scrittore
(Bianciardi) poteva tranquillamente affermare di odiare la
società in cui viveva, tanto da volerla distruggere con le
bombe. I più impegnati frequentavano la Casa della Cultura
dove una elegante e sapiente signora (Rossana Rossanda), con
un delizioso golfino d’angora e un filo di perle al collo,
teorizzava seriamente e coerentemente sulla necessità di una
radicale trasformazione della società.
Milano continuava a essere la capitale dell’industria
culturale: giornali e libri venivano pensati e stampati in questa
città. Arnoldo Mondadori e Angelo Rizzoli erano leggende
viventi, tenendo anche conto delle loro umili origini.
Qualche anno dopo sarebbero prepotentemente emerse le
radio (prima) e le TV (dopo) private.
Negli anni sessanta era anche avvenuta una svolta
importante. Il duro taylorismo delle relazioni industriali più
tradizionali venne efficacemente contrastato dalla nuova
cultura (d’importazione) delle «relazioni umane» che contribuì
a cambiare le modalità del lavoro in fabbrica. In parallelo una
grande mobilitazione sindacale avrebbe portato a conquiste
sostanziali, come lo Statuto dei lavoratori.
A Milano (presso l’Umanitaria) si creò la prima scuola per
assistenti sociali; dalle università milanesi uscirono i primi
sociologi affascinati da temi come i consumi e le migrazioni
interne o i cambiamenti nella stratificazione sociale.
Non si dimentichi che anni prima Mattei aveva tentato
l’impossibile lotta contro le «sette sorelle» per una più equa
ripartizione (con i paesi da cui si estraeva) dei profitti relativi
al petrolio. Uno strano cardinale (Montini) faceva filtrare i
suoi messaggi, prudenti ma inequivocabili, in favore dei
lavoratori.
Milano riuscì, così, ad affrontare i tempi nuovi con
impegno graduale e riformista. Nacquero in questo spirito le
giunte di centro-sinistra ben diverse (nelle intenzioni e nei
risultati) da quelle nazionali. In Regione si sperimentarono le
prime timide politiche di programmazione; ne fu iniziatore un
politico proveniente da una famiglia di industriali (Bassetti,
definito bonariamente il «Kennedy milanese») e vi partecipò
anche una parte della DC (la «sinistra di base») ben diversa da
quella nazionale.
Si sviluppò una particolare forma di partecipazione
politico-sociale come prodotto delle interazioni (conflittuali
ma dialoganti) tra associazioni rappresentative dei lavoratori e
dei produttori.
Negli anni settanta sorsero altre forme di rappresentanza:
organismi di genitori e insegnanti si occupavano dei problemi
scolastici, gruppi-associazioni di categoria (magistrati, medici,
professionisti, ecc.) ebbero, in molti casi, un effetto
«mobilitante» di notevole impatto. Erano soggetti collettivi
diversi da quelli tradizionali, come le classi e i partiti, ma non
furono meno importanti nel raggiungere alcuni obiettivi di
carattere sociale e politico.
Ciò malgrado la situazione economica non fosse delle
migliori. La crisi della città era del resto già iniziata, in modo
strisciante, già negli anni sessanta; la grande borghesia
industriale non era riuscita neppure a impiegare al meglio la
grande massa di denaro arrivata come risarcimento per la
nazionalizzazione dell’energia elettrica. L’innaturale fusione
tra Edison e Montecatini sarebbe diventata una grande riserva
di denaro a cui attingere per molte tangenti.
Stava cambiando profondamente il Paese e, ovviamente,
anche Milano, che si andò trasformando in metropoli abitata
da un numero crescente di city users. Gli abitanti della città
andavano invecchiando. I poveri confluirono nelle periferie e,
anni dopo, avrebbero dovuto lottare con immigrati e abusivi
per conservare le loro case. Molte zone della periferia
divennero quartieri-dormitorio, senza alcuna occasione o
luoghi di partecipazione sociale o occasione culturale. L’unica
cosa che poteva fare chi vi abitava, dentro la propria casa e al
di fuori dall’orario di lavoro, era guardare la TV.
La politica culturale della città finì per essere caratterizzata
dagli «eventi» riservati a pochi anche se molto celebrati dalla
stampa. Alcune zone della città divennero il centro della vita
notturna: i locali (bar e ristoranti) costituirono il nuovo centro
di aggregazione e partecipazione, almeno per i più giovani e
modaioli. Brera e i Navigli ebbero una nuova vita, almeno alla
sera. Le differenze tra le diverse aree cittadine divennero
sempre più forti, anche quando erano limitrofe come nel caso
dei Navigli e del Giambellino. Quest’ultimo sarebbe stato
progressivamente occupato da immigrati e italiani poveri,
l’altro diventò il regno della movida.
La politica a livello nazionale non si interessò di Milano, se
non per le nomine dei vertici delle amministrazioni pubbliche
e una tacita accondiscendenza verso la prassi degli appalti
pilotati. I sindaci e i presidenti della Regione e della Provincia
furono «nominati» più che eletti.
In questo particolare clima si andò consolidando l’antica e
profonda diffidenza di Milano verso la politica. La
meridionalizzazione della politica era un fenomeno naturale
nelle zone costrette a ricorrere all’aiuto dello Stato (in forme
più o meno legittime) in carenza di altre risorse economiche».
(Terzi, 2011) Milano così non l’alimentò ma la subì, in
particolare nella seconda stagione del centro-sinistra
inefficiente e progressivamente più corrotto.
L’orgoglio milanese andò implodendo per la perdita di
alcune delle sue caratteristiche fondamentali: l’efficienza e la
produttività, ma soprattutto la solidarietà verso chi era restato
ai margini del sistema. Milano non aveva più il «coeur in
man». Era stata capace di accogliere i «terroni» e di integrare
gli immigrati extracomunitari di prima generazione, ma
sarebbe diventata sempre più diffidente verso l’arrivo di quelli
neri. Il numero, in continuo aumento, di venditori di
cianfrusaglie o di richiedenti la carità diventò nel tempo
motivo di crescente e diffuso fastidio. Solo l’antica vena
«caritatevole» ambrosiana ha resistito in qualche modo:
l’opera della Caritas, dei frati, di Libera, è stato un valido
baluardo verso questo fenomeno vissuto con un certo fastidio
da molti milanesi.
La città subì nel giro di meno di un ventennio una sorta di
profonda mutazione antropologica: i vecchi milanesi e il
dialetto di fatto scomparvero, lasciando il passo ai cittadini del
mondo (veri o presunti) che parlano una strana lingua con
parole e inflessioni (vagamente) inglesi. Dagli anni ottanta, il
«sciur Brambilla» (nelle vesti del piccolo imprenditore self
made man o dell’impiegato-tecnico versione ante literam del
manager) lascò il posto al professionista (nel design, nei
servizi finanziari), allo stilista, al progettista e al ricercatore:
tutti interpreti della seconda modernità. Un fenomeno del tutto
particolare rispetto al resto del Paese: basti pensare al
permanere (altrove) di figure quali l’impiegato dei ministeri di
Roma, il piccolo negoziante del Sud o il politico meridionale
tutto retorica e scarsa efficienza.
La voglia di fare senza favori e raccomandazioni, così come
il credere in una società giusta e solidale, rimasero sotto
traccia.
Non è un caso che la chiesa ambrosiana (da Montini a
Martini) continuasse a giocare un ruolo (morale e sociale) di
grande rilevanza in tempi di montante agnosticismo.
Basterebbero in proposito due citazioni; la prima di uno
storico cattolico (molto attento alle cose della sua città) che, a
Milano, rimproverò «una certa apatia da benessere, una certa
storditezza, week-end troppo lunghi e frequenti, un certo
cosmopolitismo generico, un relativismo spicciolo» (Rumi,
1999, p. 112). La seconda del cardinal Martini che già, nei
primi anni ottanta, aveva parlato di «tre pesti» (violenza,
solitudine, corruzione) che mietevano morte e disperazione,
«ammorbando il mondo».
Era una posizione ispirata a valori profondi (e sul punto
quasi di scomparire) quali il senso dell’onestà e del rigore
piuttosto che dell’ideologia, e ovviamente contraria a un
«individualismo con il culto del denaro, del successo,
dell’immagine e della potenza» (Garzonio, 2012, p. 15).
Anche per questo (ma non solo) l’esperienza (vincente)
delle giunte di sinistra arrivò fatalmente al capolinea. I due
partiti che la gestirono avevano interpretato, sia pure con
accenti diversi, il cambiamento. Non fu sufficiente: il PSI
dovette fare i conti con il dominio craxiano, il PCI con la
sconfitta dei «miglioristi».
Non bastò neppure il grande attivismo dei sindacati; nel
frattempo a Milano si era andato affermando quello «bianco»
(la CISL), spesso più rivendicativo di quello «rosso», anche se
nell’ambito di una politica unitaria (assieme alla cgil). Un’unità
d’intenti che si sarebbe rotta molti anni dopo.
Almeno fino agli anni ottanta si era conservato un forte un
tessuto cittadino a livello sociale e culturale: nel declinante
ruolo di sezioni di partito e di parrocchie, nuove occasioni di
partecipazione erano possibili nelle associazioni (importanti
quelle cattoliche come le ACLI o quelle legate all’arci per il
tempo libero) e nei centri culturali (il Turati, il Puecher, il De
Amicis) sempre molto frequentati.
Si iniziò anche a praticare il decentramento nei quartieri,
almeno come occasione e luoghi di incontro-discussione nelle
più lontane periferie.
Quando il riformismo municipale (fondato sulle «cose da
fare») non fu più possibile per l’ingerenza dei partiti a livello
nazionale, vi fu il definitivo trionfo degli aspetti meno positivi
della «Milano da bere»: il lusso ostentato (così poco
«milanese» fino ad allora), l’apparenza, le mode effimere, ecc.
Una Milano diversa dai suoi valori tradizionali, tanto che un
caustico Del Buono disse che Milano era diventata la capitale
«volgare» (e non più morale) del Paese.
Così la città non poté più fregiarsi di questo titolo: la
perversa pratica della corruzione e le infiltrazioni mafiose ne
inquinarono a fondo l’anima. La piccola patria lombarda,
onesta e austera, era ormai un ricordo. Si era inabissata nella
bufera di Tangentopoli.
Milano conservò a fatica anche il titolo di capitale culturale.
Roma era ormai una concorrente molto temibile: il cinema e la
TV pubblica «si facevano» lì, anche se nella città lombarda si
continuavano a produrre giornali e libri.
Il solidarismo fu «messo in maschera» dalle iniziative dei
centri sociali: tra espropri popolari e musica a tutto volume. La
borghesia milanese tradizionale si illuse che i grandi
imprenditori potessero sostituire i politici. Dagli anni ottanta in
poi Milano ha mandato a Roma, oltre a Bossi e alla Lega,
Craxi, Berlusconi, Monti. Tutti espressione (sia pure in modi
assai diversi) del rifiuto della «vecchia» politica in nome di un
valore (il decisionismo dei leader-manager) che, malamente
interpretato, ha lasciato ulteriore spazio a fenomeni quali il
populismo e l’antipolitica.
Non a caso, dalla fine degli anni novanta, molti milanesi
cominciarono a guardare alla propria città con la prevalente
lente della nostalgia (quella legata alla nebbia, ai Navigli),
almeno da parte dei più anziani. I più giovani stavano ormai
cominciando a vivere in un loro spazio virtuale.
Per arrestare la crisi della città, sarebbe stata necessaria una
progettualità (pubblica) diversa, tesa al recupero, in chiave
sociale, delle energie vitali di una comunità cittadina adesso
frammentata in molti gruppi sociali tra loro diversi, con
bisogni e interessi particolari. Anche se energie e creatività
esistevano ancora.
Dopo Tangentopoli Milano è caduta per anni in un sonno
profondo, limitandosi a navigare a vista. Il «centro del mondo»
era altrove: a Roma o nelle grandi capitali non solo europee.
L’economia e la cultura erano ormai globali: non era più
sufficiente essere una città moderna ed europea.
La cultura come partecipazione è andata realizzandosi su
pochi grandi eventi, soprattutto nelle Settimane della Moda o
del Mobile. Perfino la Scala e il Piccolo Teatro hanno
conosciuto qualche momento di stanca, così come il design. La
moda si è internazionalizzata sempre più, con stilisti e capitali
non solo italiani. Il made in Italy non è stato sostenuto come
avrebbe dovuto. Si è fatto anche poco per incentivare politiche
di ricerca e innovazione: la chiave vincente di una moderna
economia. Eppure Milano (e la Lombardia) ha sempre avuto
un eccellente sistema universitario.
È mancato soprattutto un ripensamento sull’economia e su
uno sviluppo possibile e sostenibile. Quello su cui si
decideranno gli esiti (in campo economico e sociale) nel
prossimo futuro.
Il prossimo capitolo della storia di questa città sarà deciso
dal «dopo Expo». Qualche cenno di risveglio indubbiamente si
è verificato. Potrebbero essere gli anni del rilancio di Milano
come capitale economica e (si spera) morale, sperando che il
grande sonno sia un ricordo di un passato anche recente.
Diventare una delle capitali del mondo è ancora possibile
anche se difficile.
Parte seconda
Due fenomeni avversi alla diffusione di una reale e
convinta partecipazione politica
Nelle prime due parti del volume abbiamo letto la storia del
nostro Paese dal dopoguerra agli anni ottanta attraverso due
particolari prospettive: il mancato riformismo (aggravato da
fenomeni quali inefficienza e corruzione dei politici) che ha
allontanato gli italiani dalla politica e la crisi della cultura alta
che non ha saputo leggere e interpretare il profondo
cambiamento avvenuto nel Paese, lasciando così grande spazio
ai media e ai loro «contenuti pop».
In questa terza parte riprenderemo questi due temi: una
sorta di verifica delle ipotesi che reggono questo lavoro.
Cominceremo dai tortuosi territori (anche se affascinanti) della
cultura alta (libri e giornali) che non hanno saputo attrarre il
gruppo sociale (i più scolarizzati e benestanti, i più giovani) di
loro naturale riferimento. Ciò ha contribuito, in mancanza di
suggerimenti alternativi, a spingere coloro che facevano parte
di questo gruppo verso un processo di individualizzazione e
autoformazione. Si sarebbe così realizzata la società degli
individui (Livolsi, 2006).
Analizzeremo poi la causa del mancato riformismo e cioè
lo sciagurato «duello» tra i due partiti della sinistra che ha
lasciato grande spazio alla conservazione e, indirettamente,
favorito la crisi della partecipazione politica. Non vi fu così
nessun antidoto ai fenomeni della lottizzazione e del
clientelismo.
Inizieremo dal considerare, per prima cosa, come i media
«alti» abbiano interessato solo una minoranza del loro
pubblico potenziale. La prima (e solo apparentemente banale)
spiegazione sta nel fatto che i giornali erano difficili: sia per i
contenuti lontani dalla vita della gente comune, sia per il loro
linguaggio non facile. Così come i libri non hanno parlato del
loro tempo: sia nei romanzi (volti prevalentemente a un
«intimismo» nostalgico), sia nei saggi che descrissero
superficialmente (ma non interpretarono) una società in forte
cambiamento.
Giornali e libri si sono così rivolti a una minoranza di
potenziali lettori (mai più del 30-40% degli italiani) e non
contribuirono a allargare i confini di un ceto (la piccola-media
borghesia) che stava conoscendo nuovi stili di vita, in
particolare di quella più progressista che avrebbe potuto
guidare il cambiamento.
La prova, in entrambi i casi, sta nel successo che ebbero i
«fenomeni» eccezionali o diversi. A proposito dei giornali, si
pensi a «Repubblica». A proposito dei libri, basterebbe
ricordare il successo di alcuni generi paraletterari, come i noir
(soprattutto) o i rosa, anche se questi ultimi in poco tempo
«restarono indietro» all’evoluzione del gusto delle loro
potenziali lettrici.
Nel capitolo successivo parleremo del «duello» tra i due
partiti della sinistra che non impedirono alla DC di governare
senza riforme e con i correlati fenomeni dell’inefficienza e
della tentazione consociativistica: i germi che avrebbero
distrutto la credibilità (e la legittimazione) dei partiti e degli
uomini politici. Ne sarebbe seguita la fuga nel privato,
caratterizzato dai due fenomeni del consumo e dell’evasione: i
due principali caratteri del «mostro mite» (Romano, 2008) che
divora la società della seconda modernità.
Nell’insieme, i due fenomeni fanno ritenere fondata la
nostra ipotesi di fondo: gli italiani sono diventati moderni nel
privato e non nel pubblico. Sono inoltre diventati grandi
fruitori mediali (forse più che in altri Paesi) anche per la forte
crisi delle tradizionali agenzie di socializzazione (famiglia,
chiesa, partiti) e dei valori che li avevano guidati fino ad
allora.
Ha messo così ulteriori e forti radici l’individualismo, tra
(astratto) edonismo e ricerca della felicità personale. Una
trasformazione, in chiave moderna, di uno dei tratti di sempre
dell’identità italiana di sempre. Adesso più «moderno», ma
sempre scarsamente interessato a un progetto di cambiamento
collettivo.
5. L’industria «artigiana» (giornali e libri)

1. Giornali e periodici
I giornali alla fine della seconda guerra mondiale erano
l’unica fonte (assieme alla radio) della «cronaca in diretta» di
ciò che accadeva nel paese e nel mondo. Ma non sfruttarono,
neppure negli anni seguiti al miracolo economico questa
potenzialità. I quotidiani italiani continuarono a dare grande
spazio alla politica e ai «potenti»: i loro proprietari e chi
governava. Sicuramente più ai loro interessi che non a quelli
dei propri lettori. Inoltre in tempi di pre-marketing, la
conoscenza del loro specifico target era affidata al fiuto del
direttore. In genere poco attento e scarsamente sensibile a
questo problema.
I giornali non erano considerati un oggetto da vendere; in
molti casi si limitavano a essere i portavoce delle «posizioni»
dei loro proprietari o referenti. In Italia non erano mai esistiti
editori puri, da intendersi come imprenditori che gestivano una
testata come un’impresa da cui ricavare lecitamente guadagni.
Ciò che, invece, caratterizzava da tempo molta della stampa
quotidiana degli altri paesi, specialmente quelli di lingua
inglese. Un vincolo che portava ad avere attenzione per i
propri lettori che li acquistavano solo riconoscendosi nei loro
contenuti e linguaggio.
In Italia, nel 1975, solo 17 testate di quotidiani su 74 (e non
le maggiori) dichiararono di avere un bilancio in pareggio
(Castronovo-Tranfaglia, 1994). Non avrebbero potuto
proseguire la loro attività (tra l’altro condotta non
spartanamente) senza i finanziamenti dalle grandi imprese
private o pubbliche; i nomi di Agnelli e Cefis, come esempi
delle prime e delle seconde, sono indicativi di una certa
stagione.
I giornali vendevano poco: per lungo tempo si disse che il
traguardo fosse di sei milioni di copie da vendere ogni giorno.
Quando questo traguardo fu superato (a metà degli anni
ottanta), si sperò di superare quello dei sette milioni. Non ci si
riuscì mai; anzi dagli anni novanta si verificò un lento ma
costante regresso nelle vendite che continua ai nostri giorni.
Va fatta una premessa per meglio comprendere questo dato:
il numero sulle copie vendute è strettamente connesso a quello
del numero dei lettori, ma ovviamente non coincide. Rimane
così il dubbio su quanti fossero davvero gli italiani che
leggevano un giornale. Le poche ricerche del tempo non vanno
considerate del tutto attendibili, sia per quanto riguardava i
proponenti (i giornali stessi), sia per quanto attiene alla
definizione di lettore. Ovviamente, un conto è parlare di «chi
ha letto o sfogliato un giornale il giorno precedente» (ma per
quanto tempo, ad esempio oltre i 15-20 minuti?) o di chi si è
limitato a sfogliarlo distrattamente, leggendo solo i titoli o
poco più. Ancora: diverso è il caso di chi si può considerare
lettore regolare (legge il giornale tutti i giorni o quasi) da
quello di chi dichiara di aver letto o sfogliato un giornale
«negli ultimi sette giorni», cioè un lettore saltuario e poco
coinvolto. La nostra ipotesi è che i lettori di quotidiani non
fossero più di un terzo degli italiani. Una stima confermata da
un semplice calcolo: quello che, partendo dal presupposto che
una copia di giornale possa avere almeno tre lettori (in
famiglia o nei locali pubblici) e facendo riferimento al dato di
6 milioni di vendite giornaliere, ci porta a ritenere che i lettori
di quotidiani fossero circa 18 milioni, pari cioè al 30-35%
degli italiani.
Sicuramente i lettori di quotidiani sono sempre stati una
minoranza composta da uomini, in età non giovanissima, di
buona istruzione e di ceto medio-alto e residenti
prevalentemente nel Nord e nelle grandi città. Un quadro forse
non precisissimo (e non troppo cambiato nel tempo) ma che
indica chiaramente nella media-alta borghesia il pubblico
privilegiato di questo mezzo in quegli anni.
Per quanto attiene invece al prodotto-giornale si può
ritenere che questo non abbia avuto grandi innovazioni fino
alla metà degli anni settanta. Le grandi testate (nazionali o
pluriregionali) si sono a lungo riferite al «Corriere della Sera»
come modello da seguire, anche a proposito delle scansioni
per genere: la prima pagina destinata alla politica, la «terza»
alla cultura, poi la cronaca e infine le ultime pagine (e scarso
spazio) a sport e spettacoli. Un modello poco accattivante,
aggravato da un linguaggio non immediato se non difficile.
A metà degli anni settanta avvennero tre fatti molto
importanti: nel 1974 i Rizzoli acquistarono «Il Corriere della
Sera» dagli storici proprietari (i Crespi, espressione della
grande borghesia milanese ormai al tramonto) e si proposero
come primo esempio di editore puro. La loro azienda era
leader nell’editoria libraria e la storia del suo fondatore (orfano
e poi self made man affermatosi nell’Italia della ricostruzione)
era esemplare di un mondo che stava scomparendo ma ancora
con saldi valori tradizionali. Un evento che si tramuterà nel
giro di pochissimi anni nella parabola dell’inefficienza e della
corruzione, quando l’azienda sarebbe stata salvata dalla
catastrofica gestione del figlio Andrea solo dall’intervento di
banche e banchieri «particolari» (da Calvi e dal Banco
Ambrosiano e dallo ior del Vaticano) «facilitati» nelle loro
operazioni dalla mediazione di personaggi nell’orbita della P2.
Quest’ultima finirà per avere, anche se per breve tempo, il
controllo della testata: proprietario, amministratore delegato e
direttore appartenevano tutti alla (poco venerabile) loggia P2.
Nello stesso anno, Montanelli uscì dal «Corriere» (per gravi
dissidi con la vecchia proprietà) e fondò e diresse «Il Giornale
Nuovo»; che tanto nuovo non era, per stile e contenuti ma
anche per il pubblico a cui intendeva rivolgersi. Era la piccola
borghesia conservatrice, prevalentemente milanese, che
diventerà il gruppo sociale a cui si riferì la «discesa in campo»
di Berlusconi. All’inizio Montanelli aveva cercato di
smarcarsi. Mentre aveva detto ai suoi lettori di votare DC
«turandosi il naso» nelle elezioni del 1975, cercò invano di
resistere al Cavaliere quando questi acquistò la testata. In
seguito Montanelli ritornò al suo vecchio e amato giornale,
anche se in posizione alquanto defilata: si limitò a curare la
«posta con i lettori».
Nel 1976 uscì «la Repubblica», senza dubbio un giornale
«nuovo» rispetto alla tradizione del giornalismo italiano: si
rivolgeva al «popolo della sinistra» (progressivamente deluso
e orfano del PCI) con uno stile (taglio delle notizie e
linguaggio) immediato; presto avrebbe trattando diffusamente
di argomenti quali spettacolo e sport fino ad allora marginali
nei quotidiani italiani.
Anche a causa del suo formato tabloid, fu obbligato a
ricorrere a titoli brevi e urlati, con rapidi richiami dalla prima
alle pagine interne. Ogni giorno prendeva netta posizione, fin
dai titoli della prima pagina, sui fatti più rilevanti. Non era
nello stile dei quotidiani italiani. Si disse che «Repubblica» era
un «partito» che aveva sostituito quelli della sinistra in crisi.
Fin dall’inizio collaborarono al giornale grandi firme sotto
la guida del suo fondatore Scalfari. La «macchina giornale»
era un esempio di organizzazione interna (Livolsi, 1984).
Nel giro di pochi anni il duello tra la «Repubblica» e il
«Corriere della Sera» (nel frattempo rigenerato da un drastica
cura di amministrazione controllata e poi acquistato dalla
grande alleanza: Agnelli, Pirelli, Mondadori) fu il contesto
entro il quale si vanno a inquadrare i cambiamenti (scarsi)
nell’editoria giornalistica del Paese.
Il fenomeno più evidente di questa modernizzazione si
riferisce alla cosiddetta «settimanalizzazione», cioè
l’affermarsi nelle pagine dei quotidiani di argomenti
(spettacoli, consumi, moda, viaggi, grandi personaggi) che
erano stati, fino ad allora, trattati dai settimanali. La
conseguenza, immediata e diretta, fu che questi ultimi
conobbero una progressiva perdita di lettori.
Il quadro complessivo va completato con poche altre testate
nazionali («La Stampa» di Torino e, sempre meno, «Il Giorno»
di Milano), da alcune testate pluriregionali («La Nazione» di
Firenze, «Il Messaggero» di Roma, «Il Mattino» di Napoli).
Insieme, questi giornali esaurivano circa la metà delle copie
vendute ogni giorno.
Il fatto più curioso era che il primo giornale per diffusione
fosse una testata sportiva («La gazzetta dello Sport»). Assieme
al suo concorrente del Centro-Sud («Il Corriere dello Sport»),
tiravano ogni giorno (ancor più il lunedì) oltre un milione di
copie: cioè quanto tutti i regionali e molto di più dei locali
(attestati a circa 600 000 copie). Questi ultimi avevano sempre
rappresentato una realtà provinciale più che locale, poco
progressiva sia politicamente che culturalmente. Avrebbero
potuto essere un importante veicolo di partecipazione (a
proposito di quanto avveniva nella propria «piccola» città):
finirono per soffrire la concorrenza dei notiziari locali della
terza rete televisiva.
Nei primi anni ottanta avvennero altri due fenomeni
rilevanti: il primo fu l’introduzione di alcune importanti novità
tecnologiche. Ad esempio il reperimento delle notizie
mediante l’utilizzo delle banche dati, la stampa a freddo
(questa provocò tensioni sindacali con i tipografi che temettero
il rischio di perdere il posto) e la diffusione delle copie anche
nelle lontane province mediante la teletrasmissione.
Il secondo fu il varo di una legge sull’editoria che vide il
considerevole impegno del Governo per ridurre (ma non
abbattere) i deficit aziendali. Forte fu anche il coinvolgimento
delle organizzazioni sindacali dei giornalisti che si batterono
(anche) per il pluralismo e la correttezza/completezza
dell’informazione. Traguardi che non si raggiunsero mai del
tutto ma che rappresentarono, sicuramente, un impegno
importante per una categoria che da quel momento (e in quelle
battaglie) prese maggiore coscienza del proprio ruolo.
Come si è già accennato, i giornalisti italiani non erano stati
fino ad allora dalla parte dei lettori, non ne avevano certo
difeso gli interessi come un feroce «cane da guardia» contro i
potenti. A cavallo degli anni settanta-ottanta qualcosa però,
cambiò. Il giornalismo d’inchiesta restò sempre alquanto
marginale, anche se i tempi avrebbero richiesto un maggior
impegno in questa direzione e malgrado che alcune firme
(Bocca, Pansa, Zavoli e Biagi anche in TV) percorressero il
Paese mettendone in luce problemi e fenomeni nuovi.
Non fu un periodo facile per la categoria; verso la fine degli
anni settanta alcuni giornalisti furono gambizzati o uccisi dalle
Brigate Rosse: erano accusati di essere schierati dalla parte dei
padroni. Un’accusa assurda e sciocca: sarebbe stato più
corretto affermare che spesso una maggiore determinatezza nel
leggere e approfondire ragioni e cause della cattiva gestione
politica ed economica del Paese sarebbe stata utile e
necessaria. Non era però questo un peccato da punire così
tragicamente.
I periodici ebbero un pubblico più numeroso e coinvolto,
specialmente nel caso dei meno colti, più anziani e marginali,
sia geograficamente che culturalmente. Si è stimato che quasi
tutti gli uomini e le donne (di più), sotto i 50 anni e con
almeno una discreta istruzione leggessero o sfogliassero
almeno un periodico ogni settimana.
L’elevato numero di queste testate e la loro estrema
frammentazione hanno reso difficile avere stime esatte sulle
diverse tipologie (fruizione e orientamento per
generi/contenuti) di lettori e/o testate. Limitiamoci pertanto a
una tipologia estremamente sintetica, iniziando dai «politici» o
«di costume», come «L’Espresso» e «Panorama». Arrivarono
a tirare il primo oltre 400 000 e il secondo circa 600 000 copie,
per poi declinare all’arrivo dei news-magazine (i supplementi
della «Repubblica» e del «Corriere della Sera»). Tra i due vi
era una differenza che sembrava riferirsi ai due quotidiani
maggiori. Disse, al tempo, Nello Ajello: «“L’Espresso” è un
giornale di battaglia […] la sua titolazione è immaginosa,
pungente, ironica (a volte barocca) allo stesso modo che quella
di “Panorama” è discreta, piana, rassicurante» (riportato in
Volli, 1994, p. 355).
Gli stili corrispondevano a differenti modi di considerare
«quegli anni» sulla base di due distinte visioni sociopolitiche
entrambe presenti all’interno dello stesso gruppo sociale: la
piccola-media borghesia. La prima si interessava di politica e
«prendeva posizione»; la seconda si interessava più a
tematiche del sociale o della contemporaneità. I primi
guardavano a Roma (ai palazzi del potere), i secondi al Paese
intero e al mondo che stava cambiando. Nell’insieme, una
minoranza attenta e coinvolta che probabilmente leggeva
anche almeno un quotidiano, sia pure saltuariamente.
Ben diversi i lettori dei «familiari», nati nell’immediato
dopoguerra: prima «Oggi» e poi «Gente» che finì per
sopravanzare il primo nelle vendite. Questo tipo di testate si
rivolgeva alla classe media più tradizionale e meno colta,
offrendo un’immagine del mondo fatta di «caute aperture alle
novità sociali e culturali, buoni sentimenti, analisi semplificate
dei fatti del mondo, […] casi emblematici e pietosi su cui
meravigliarsi e/o indignarsi ma soprattutto commuoversi […]»
(in Volli, p. 378).
Molto probabilmente questi lettori votavano in modo
diverso da quelli delle testate ricordate in precedenza e
avevano comunque un atteggiamento molto cauto verso ogni
cambiamento inaspettato: cioè praticamente verso ogni fatto o
fenomeno che mettesse a rischio (ai loro occhi) l’ordine
costituto. L’unica novità che accettarono fu la sostituzione
delle notizie sulle vite dei monarchi (regnanti o ex regnanti)
con quelle relative ai divi del cinema.
Dello stesso gruppo sociale possono essere considerati i
lettori di «Famiglia Cristiana», settimanale ovviamente in
linea con i valori del cattolicesimo (anche in politica) ma non
in chiave conservatrice: anzi, negli anni più vicini a noi la
testata aprì, cautamente ma chiaramente, ai tempi nuovi sulla
spinta di due direttori-sacerdoti di grande professionalità.
Assolutamente opposti a questo gruppo di lettori, come
interessi e curiosità, vanno considerati i giovani (soprattutto
ragazze) che fecero di «TV. Sorrisi e canzoni» il periodico
italiano più diffuso, con oltre due milioni di copie vendute
ogni numero. Erano i giovani non politicizzati che
perseguivano una particolare via verso la modernità attraverso
il disimpegno. Erano i fan dei divi della canzone pop e della
TV, con grande interesse al gossip e ai fatti della loro vita
privata. Probabilmente le lettrici erano quelle ragazze che non
potevano partecipare direttamente ai concerti pop-rock,
accontentandosi di seguire questo mondo da casa e attraverso
la TV.
Senza dubbio le testate che ebbero un profondo impatto sul
propri lettori (lettrici) furono le riviste femminili. Dirette a un
pubblico medio («Gioia») o medio-alto (in termini di potere di
acquisto, come nel caso di «Amica» e «Anna») o sofisticato
(da «Cosmopolitan» a «Vogue»), queste testate furono
sicuramente la fonte privilegiata di socializzazione per le
giovani donne che stavano decisamente cambiando modo di
vivere, anche se lontane dalla proposte del femminismo. Come
disse un grande esperto (che riuscì in molti progetti in questo
settore), Paolo Pietroni, queste riviste si rivolgevano a quelle
donne che «adoperano il mascheramento come un gioco di
intelligenza, di bellezza, e di divertimento con il fine di
esprimere la propria personalità […], per vivere con piacere e
intelligenza; […] anche per entrare in rapporto con gli altri,
come seduzione, provocazione…» (riportato in Lilli, 1994, p.
428).
Ad esempio le compagne degli yuppie erano sicuramente
più sofisticate, più sveglie e autonome, dei loro compagni che
seguivano passivamente la moda del tempo, limitandosi a
indossare una divisa (abito scuro e occhiali) «d’ordinanza». Le
loro compagne scoprivano invece mondi nuovi: psicologia
(nelle relazioni sociali, in particolare nei rapporti con l’altro
sesso), come «tenere la casa», fino alla realtà spesso
sconosciuta dei paesi lontani. Erano curiose e ricettive.
Le lettrici più coinvolte erano le donne di condizione
sociale modesta: quelle che lavoravano e che si interessavano
alle proposte di moda considerate utili (come vestirsi in
determinate occasioni) e alle rubriche varie di specialisti che
spiegavano «pianamente» il mondo, quello semplice delle
relazioni sociali nella quotidianità che loro frequentavano. Le
casalinghe, più che alle ricette di cucina (allora non così
importanti come oggi) erano attratte dai consigli di un modesto
bon ton, le più eccentriche su come truccarsi e flirtare (e dove
andare) nel tempo libero. Erano i veicoli di una modesta ma
importante mobilità sociale e culturale.
A rileggerle oggi queste testate, nel loro complesso,
appaiono una sorta di manifesto della nuova cultura del
disimpegno e dei consumi che ebbero nella «Milano da bere»
il loro palcoscenico. Era la società della moda e della
pubblicità, dei fotografi, del made in Italy. Vestirsi, truccarsi,
essere in forma, avere una bella casa, viaggiare in luoghi
esotici (ma lontani da ogni avventura), furono gli imperativi
del momento e lo restarono per anni. Apparire era considerato
più importante che essere. Il denaro divenne il metro su cui
misurare il successo, non il merito. Tutto il resto era poco
importante. Erano i «favolosi anni ottanta»: quelli in cui si
cercò di realizzare una (modesta e terrena) via alla felicità in
chiave di autorealizzazione personale giorno dopo giorno.
I contenuti delle riviste femminili dovevano far sognare,
suggerire, non informare. Solo alcune rubriche aprirono
cautamente al nuovo e diverso: ad esempio a un più attuale e
disinibito «senso del pudore». Queste eleganti giovani donne
erano moderne ma non spregiudicate: dopo qualche serata in
tornavano nelle loro case arredate secondo le mode e ai loro
bambini.
Donne che, in maggioranza, avevano scarso interesse per la
politica e i problemi sociali eppure, a modo loro, erano
moderne e aperte ai nuovi stili di vita che i media
proponevano.
Erano comunque ben lontane dal modo di vivere delle loro
madri. Curiosamente queste finirono con il seguire il loro
esempio, con un rovesciato (e paradossale) processo di
socializzazione: le madri presero esempio dalle figlie. Anche
per questa via il privato divenne moderno.
Alla fine degli anni ottanta comparvero i «maschili», dalle
cui pagine giovani uomini palestrati ricevevano «utili»
indicazioni sul modo di essere e comportarsi, soprattutto verso
le donne che andavano sedotte all’istante con il fascino
irresistibile del macho, nella realtà spesso alquanto modesto.
Nel complesso, i periodici sono stati una via per la
costruzione di una soggettività più libera dai vincoli della
tradizione e delle convenzioni. Sono stati un efficace araldo
dell’italian dream.
Ma per comprendere l’emergere di una nuova cultura,
specialmente a Milano, andrebbe considerato il caso di uno
strano periodico: «Linus». Nato nel 1966 (con la direzione del
suo creatore Gandini) ebbe però la sua massima diffusione e
popolarità negli anni settanta e ottanta sotto la direzione di uno
strano ma affascinante intellettuale (Oreste Del Buono),
presenza importante nell’editoria milanese come scrittore e
responsabile editoriale.
Era una proposta del tutto innovativa: dava grande spazio ai
fumetti, incrociando i Peatnuts di Charlie Brown (la terribile
Lucy e lo stupendo cagnetto scrittore-filosofo Snoopy) con la
spregiudicatezza della disinibita e bellissima Valentina di
Crepax. Oltre ai molti fumetti dei principali autori americani
ed europei, non c’era argomento rilevante nella Milano «bene»
di quegli anni che non fosse discusso su «Linus». O, spesso,
viceversa.
Tutti i grandi intellettuali della città (da Vittorini a Eco)
intervennero, con molta intelligenza e grande ironia, su temi
apparentemente frivoli fino ad allora ignorati dalla cultura alta.
Per chi era giovane e viveva intelligentemente il suo tempo
era impossibile non leggere «Linus».
Le strisce erano sempre esistite e avevano sempre avuto
molti lettori, anche se preferibilmente tra i ragazzi: dai tempi
dello strambo Jacovitti (con i suoi stravaganti disegni in cui
lische di pesce e salami erano i particolari più ricorrenti) sul
«Vittorioso» a quelle, divenute di culto, di Tex di Bonelli.
Senza considerare gli eroi Disney spesso scritti da italiani per
un pubblico italiano.
Negli anni cinquanta avevano già milioni di lettori ed erano
una forma non disprezzabile di narrativa popolare. Ma
«Linus» rappresentò la modernità. Era un segno dei tempi.
Ignorare i fumetti ha voluto dire non considerare un aspetto,
tutt’altro che banale, della cosiddetta cultura popolare.
Basterebbe porsi una semplice domanda: chi non ne ha mai
letto almeno uno?

2. I libri
Subito dopo la guerra si ricominciò a leggere. Due furono i
principali filoni. Il primo, quello dell’impegno, fu promosso
dai comunisti. I cattolici rimasero fedeli alle loro letture
tradizionali con una cauta immissione di qualche autore
d’attualità, ad esempio don Sturzo. Il PCI si impegnò invece in
una politica editoriale (di cui rimane oggi scarsa traccia): era
per lo più destinata alle bibliotechine-librerie delle sezioni e si
proponeva la difesa di un’autentica e valida cultura popolare,
minacciata da quella ben più attraente che veniva dagli USA (il
cinema hollywoodiano e i romanzi) o dai vecchi-nuovi media
come i fotoromanzi (Gundle, 1995).
Basti pensare che i lettori di «Grand Hotel» erano a quel
tempo almeno due-tre milioni e ogni numero vendeva oltre un
milione di copie.
Il miracolo economico era alle porte. C’era qualche soldo in
più, ma contava anche la voglia di scoprire il «mondo nuovo»
(quello del mondo intero, anche lontano) e di comprenderlo.
Lo si chiedeva ai libri che, anche quando parlavano di
fenomeni drammatici, dovevano avere uno stile facile e
coinvolgente. Come nel caso di Faulkner (che raccontava la
miseria nei campi nel profondo sud americano) o, ancor più, di
Cronin che narrava della vita difficile dei minatori alla fame.
Al di là di ciò che narravano avevano una scrittura dallo stile
immediato e piano.
La Doxa stimò che circa il 30% degli italiani leggesse
almeno un libro: un dato (probabilmente) sovrastimato e senza
le necessarie indicazioni su «quanti e cosa» stessero leggendo.
Erano pur sempre una minoranza. Per dare un’idea del
periodo, ricordiamo che autori come Flaiano (1947) e Pavese
(1950) vinsero il Premio Strega; altri come Hemingway
(1953), Guareschi (1954), Pasternak (1958), con i loro libri più
facili e di successo, furono i vincitori del più popolare Premio
Bancarella.
Questi autori e questi libri sono il segnale di un fenomeno
editoriale (in Italia) molto importante, allora agli inizi, fondato
sul successo di pochi «best seller di qualità». Una produzione
assolutamente non disprezzabile e su cui si formò la
generazione dei lettori dagli anni sessanta in poi.
I due autori «icona» del periodo furono Pratolini e Pasolini.
Il primo con Metello (l’operaio fiorentino che iniziava un suo
percorso di vita tra lavoro e amore) sembrò rispondere alle
esigenze di un neorealismo letterario: curiosamente, fu più
lodato dai cattolici che non dai suoi compagni comunisti che
gli rimproverarono una scarsa coscienza proletaria, almeno
secondo i più tradizionali canoni marxisti.
Pasolini iniziò il suo «scandaloso» percorso letterario
parlando di sottoproletari e di omosessualità: negli anni
successivi sarebbe stata una delle voci più ascoltate della
«coscienza civile» degli italiani, anche se mantenne sempre
una qualche ambigua nostalgia per un passato che felice non
era mai stato. Le lucciole avevano riempito le notti di una
campagna povera, abitata da contadini con poco cibo e
nessuna speranza.
Ma la vera svolta nel gusto dei lettori va riferita a tre
romanzi che, per la prima volta nell’editoria italiana,
toccarono le centomila copie: Il Gattopardo (Tomasi di
Lampedusa, 1958), La ragazza di Bube (Cassola, 1960) e Il
giardino dei Finzi-Contini (Bassani, 1962). Diversi tra loro
(nell’ambientazione, nei personaggi), avevano però una
caratteristica comune: sembravano rappresentare lo
scetticismo e/o il pessimismo sul destino individuale, anche in
riferimento alla storia del nostro Paese dalla fine
dell’Ottocento fino ad allora. Specialmente gli ultimi due
parlavano di dolore e sofferenza vissuta tra amori infelici e
morte. Era una particolare (tra intimismo e pessimismo) chiave
di lettura dell’esperienza umana che finì con l’imporsi nel
gusto letterario del tempo.
Un grande successo di pubblico che forse si riconobbe, con
una qualche ambiguità, nel modo di vivere il proprio destino
tra sogni e disillusioni, tra speranze e timori che un futuro
migliore sarebbe stato comunque difficile da realizzare. Il
passato non rendeva ottimisti anche se i tempi «stavano
cambiando». Il futuro sembrava ancora incerto anche se si
sperava migliore degli anni che si stavano vivendo. Forse, per
molti italiani, il pessimismo del passato non aveva ancora
lasciato il passo all’ottimismo per il futuro.
La «patria delle lettere» reagì con supponenza. Pasolini
parlò di «restaurazione nello stile» perché si era usata la
formula «vecchia» del romanzo. Qualcuno definì, con intento
spregiativo, Cassola la nuova Liala. Asor Rosa scrisse di
«pateticità struggente» e di «bozzettismo pessimistico» per
quei personaggi che rinchiudevano la loro vita nel sacrificio
anziché nella lotta: era un restare nei canoni della letteratura
otto-novecentesca con personaggi «naturalmente» buoni, forti,
tenaci, che mettevano nella loro «eterna» sofferenza una
capacità infinita di sopportazione anziché di rivolta. In una
sola parola, dei perdenti. Del resto Asor Rosa ne aveva anche
per Pasolini (l’eretico) che «scambia sé stesso, letterato
decadente e palesemente conservatore, per uno scrittore
progressista, aperto ai drammi più vasti del mondo moderno»
(Asor Rosa, 2004, p. 449).
La distanza tra pubblico e critica si andò approfondendo:
anche l’avanguardia (il Gruppo 63) combatté il nuovo-vecchio
che si stava imponendo, senza però indicare alternative che
non fossero astratte e ideologiche. Perfino il vero
sperimentatore di un linguaggio nuovo e diverso (Gadda)
venne «salvato» considerando il suo libro (Quer pasticciaccio
brutto de via Merulana) un anomalo giallo di qualità.
Il gradimento del (potenziale) pubblico rispetto a questi
prodotti venne bollato come passatista, anche se era inseguito
e blandito dalla nascente industria editoriale (con i due colossi,
Rizzoli e Mondadori, in un contesto quasi oligopolistico) che
sfornava un grande numero di prodotti con l’unico obiettivo
della grande tiratura. Si cercavano pochi titoli per molti lettori
(i best seller) mentre si stampavano migliaia di volumi ogni
anno.
Nel frattempo si stava imponendo una nuova lingua, quella
di tutti i giorni e della gente comune; quella dei dialoghi dei
film e, con il tempo, della pubblicità televisiva. Non va
dimenticato che, negli anni precedenti, era esistita una
letteratura popolare che aveva usato una lingua analoga. I
fotoromanzi e i fumetti erano infatti caratterizzati da un
linguaggio essenziale, scarno, senza scrupoli di letterarietà.
Una lingua viva, diversa e più attraente, dal politichese-
burocratichese che aveva ancora grande spazio nella politica e
sui giornali.
Si tentarono nuove iniziative per «rincorrere» il grande
pubblico: la più importante fu l’invenzione dei tascabili.
L’uscita del primo volume nelle edicole (già questo un fatto
nuovo), nel 1965, di Addio alle armi di Hemigway, seguito da
La ragazza di Bube di Cassola, fu fenomeno epocale; all’inizio
un grande successo che proseguì per un certo (ma non lungo)
periodo. La caccia alla grande tiratura portò a pubblicare di
tutto, disordinatamente, senza alcuna informazione o apparato
critico per i lettori meno colti e preparati: grandi autori e altri
sconosciuti, classici e contemporanei, si succedevano in
rapidissima sequenza anche per l’entrata in campo di molti
editori. In breve tempo il disorientamento di un pubblico, non
in grado di scelte autonome anche se fortemente interessato,
aumentò e fu la causa principale di un progressivo calo nelle
vendite.
Nello stesso periodo avevano conosciuto grande successo le
pubblicazioni a dispense: un modo per conoscere mondi
diversi e accattivanti (dalla storia dell’arte agli hobby più
diversi) con un linguaggio assolutamente easy e con l’ausilio
di un rilevante e accattivante apparato fotografico. Con numeri
più modesti si pubblicarono anche alcune enciclopedie
popolari, specialmente rivolte ai ragazzi. I genitori volevano
che i figli studiassero: non sempre seppero scegliere gli
strumenti più utili a questo scopo.
Ancora più importanti furono i fenomeni della letteratura
popolare di genere. I gialli e i rosa catturarono un gran numero
di lettori: in prevalenza uomini nel primo caso e donne nel
secondo. Fu, in chiave meno ambiziosa (i letterati l’avrebbero
definita bassa letteratura o paraletteratura), l’arrivo di molti
nuovi lettori nel mondo dei libri. Un fatto sicuramente
positivo.
I lettori dei gialli aumentarono molto e in poco tempo:
facendo diventare questi libri i middle sellers dagli anni
novanta in poi: ai classici (con il sempreverde Simenon)
sarebbero seguiti altri autori di paesi diversi e lontani.
Avrebbero contribuito a rendere il «linguaggio dei libri»
sempre più semplice; con il tempo sarebbero diventati una
chiave di lettura per capire la contemporaneità nella sua
montante vena di violenza e follia individuale. Dalla Christie a
Marlowe (e Chandler), agli oltre mille titoli della collana
Mondadori, si è costruito un percorso lastricato di misteri e
omicidi che hanno accompagnato il tempo libero di milioni di
persone.
Le lettrici dei rosa ebbero una grande occasione con l’uscita
delle serie «Harmony» (Mondadori) e «Blue Moon» (Fabbri).
Per le lettrici della piccola borghesia fu anche un modo per
emanciparsi dalla morale tradizionale. Se Liala (si disse) aveva
fatto varcare alle sue lettrici, pudicamente, «la soglia delle
camere da letto», le sue più moderne epigoni fecero delle
proprie protagoniste delle spregiudicate protagoniste di amori
sentimentali ma anche molto passionali. Molte di queste
(modeste) eroine, come le loro lettrici, erano ancora confinate
nell’ambito della loro casa e del loro ruolo di mogli-madri, ma
ne sarebbero presto uscite. Le lettrici dei rosa non erano più gli
angeli del focolare, anche se non erano certo le femministe che
in quegli stessi anni lottavano per i diritti delle donne.
Questi due generi ebbero un forte successo: nel 1985 se ne
vendettero complessivamente oltre 24 milioni di copie, con
una tiratura media di quasi oltre 40 000 copie per titolo.
Nel frattempo, i grandi colossi dell’editoria continuavano
nella loro caccia al libro di successo, senza però riuscirci.
Alcuni autori ritornavano periodicamente nelle librerie: erano
gli autori più noti del tempo. Nessuno di loro riuscì, però, a
scrivere il «grande successo».
L’unico best seller fu quello di Elsa Morante (La Storia,
1974); ancora una volta un romanzo e ancora una volta con
protagonisti «perdenti» che non si ribellavano ma accettavano
il loro destino. Il successo di pubblico era assicurato, quello di
critica (specialmente «di sinistra») molto meno. Continuavano
a essere personaggi che guardavano «all’indietro» e non
avanti, cioè a un possibile cambiamento sociale o al loro
riscatto personale. C’era (un’oscura e difficilmente spiegabile)
nostalgia per un tempo che non era stato né facile né felice.
Non appariva la volontà di superarli, la voglia di cambiare.
Il disorientamento dei lettori era causato anche dal fatto che
si pubblicavano troppi libri. Nel periodo 1973-1983 (quello
delle giunte di centro-sinistra), si passò dai circa 12 000 titoli
(escludendo gli «scolastici») del 1973 agli oltre 17 000 del
1983 (Livolsi, 1986).
In questo stesso anno i lettori erano considerati al di sotto
del 50% degli italiani: dato destinato a non mutare negli anni
successivi. Le diverse indagini concordavano con limitati
scostamenti su questo dato. Tutte si riferivano a
un’autodefinizione di lettore, cioè alla dichiarazione
dell’intervistato di avere letto «almeno un libro» negli ultimi
3-6 mesi. Una soglia così bassa (e un certo obbligato
scetticismo su tali dichiarazioni) fanno ritenere alta la stima
del 50% di italiani come lettori. Sicuramente molti «non
lettori» (o lettori occasionali) dichiararono di esserlo: come
dire che la lettura dei libri conservava un certo prestigio anche
agli occhi di chi continuava a rimanerne lontano.
Sarebbe stato necessario distinguere tra lettori forti (quelli
che leggevano almeno un libro ogni due mesi) e saltuari (o
occasionali, o deboli); il dato sulla lettura, così, si sarebbe
ridimensionato immediatamente. I veri lettori probabilmente
non erano più del 20%-25% degli italiani. Le ricerche
mostravano come i primi leggessero prevalentemente narrativa
e saggistica, i secondi erano, invece, attratti da generi più
popolari. (Buzzi in Livolsi, 1986). È quasi scontato
sottolineare come i «lettori» fossero prevalentemente giovani
(i vecchi non avevano mai acquisito una tale abitudine), di
buona scolarità e condizione sociale, più donne che uomini.
Queste ultime attratte dalla narrativa, alta e bassa che fosse.
Se si considera che furono tirate, mediamente ogni anno,
150 milioni di copie, si può stimare che ogni italiano,
calcolando anche i bimbi e gli analfabeti, aveva acquistato
(non sempre letto) tre libri a testa. Una media perfetta tra i sei
(attribuiti dalle indagini ai forti lettori) e il nessuno dei non
lettori.
Sarebbe stato utile anche approfondire l’analisi relativa a
«quali» libri venivano pubblicati. Un dato è certo: nel gran
numero di libri pubblicati molti furono «pagati» dagli stessi
autori o, come mise in luce l’istat, molti altri erano strumento di
«pubbliche relazioni» da parte delle amministrazioni
pubbliche, con una valanga di opuscoli o pubblicazioni
occasionali.
Una stima attendibile fa quindi ritenere che i libri «veri»
non fossero più di 4-5000. Sempre un numero alto: come se
ogni giorno oltre 10 titoli arrivassero nelle librerie. La
difficoltà di un lettore (anche sufficientemente informato e già
questo non era facile) di scegliere adeguatamente in base ai
propri interessi, è con tutta probabilità il motivo principale
della scarsa lettura degli italiani di allora, probabilmente anche
di oggi.
Un filone nuovo e diverso fu quello della saggistica, molto
diversa da quella «togata» del passato: molti titoli furono
firmati dai più noti giornalisti del tempo, tra cui Biagi,
Goldoni e Bocca. Specialmente i primi due davano alle stampe
un titolo quasi ogni anno, creando così un particolare
fenomeno di fedeltà con i propri affezionati lettori. In questi
libri si parlava dell’Italia che stava cambiando e di alcune sue
realtà locali o (meno) del vasto mondo che, per molti italiani
prima dell’era dei viaggi organizzati, restavano ancora luoghi
alquanto misteriosi. Erano definiti saggi, ma in molti casi si
trattava di semplici narrazioni-descrizioni di eventi o fenomeni
(non sempre realmente) rilevanti socialmente.
I criteri del successo editoriale restarono essenzialmente
due: il primo consisteva nel creare (e curare) l’immagine di
alcuni autori quali «brand» riconoscibili e interessanti: fu ad
esempio il caso di Goldoni nella saggistica e di Chiara nella
narrativa. Chi acquistava un loro libro sapeva «cosa lo
attendeva» a proposito di personaggi, luoghi e trame, con la
sicurezza di una scrittura dallo stile piacevole e non
impegnativo.
Il secondo fu quello di affidarsi (o, meglio, costruire)
«casi» su cui fare insistita promozione sui periodici
specializzati e non. Una sorta di sofisticata lotteria.
Due esempi: uno, del tutto inaspettato, fu quello di Porci
con le ali, pubblicato da una piccola casa editrice (Savelli) e
scritto da due autori fino ad allora praticamente sconosciuti
(Lidia Ravera e Marco Lombardo Radice). Un romanzo
d’amore ambientato negli anni della contestazione e senza
alcun ricorso al romanticismo. Per analoghi motivi Love Story,
(1971), ottenne un grandissimo successo: vi si narrava, con un
linguaggio comune e piuttosto crudo, una (molto) romantica
storia d’amore. Il secondo esempio si riferisce a un’opera
attesa, promossa ancora prima che fosse terminata, come il
caso letterario dell’anno (Horcynus Orca di D’Arrigo): fu una
grande delusione, tanto che l’autore scomparve in fretta dalla
scena letteraria.
In entrambi i casi si può parlare di scarso intuito da parte
degli «addetti ai lavori». Non a caso ai responsabili editoriali
(che sceglievano autori e opere) si andarono affiancando gli
esperti di marketing. In molti casi un connubio poco felice:
l’accostamento non diede infatti grandi risultati.
Il periodo si chiuse con alcuni eventi di notevole
importanza. Uno fu il grande successo di un libro di Oriana
Fallaci (Un uomo, 1979) che narrava di un grande amore
ambientato in tempi politici difficili sia in Grecia che in Italia,
i paesi dei luoghi e dei fatti raccontati. Era l’opera atipica di
una grande e famosa (oltre che coraggiosa) giornalista, dalle
analisi condotte sulla base di un pensiero forte e senza dubbi.
Era il suo secondo best seller: il primo era stato Lettera a un
bambino mai nato (1975), in cui il desiderio di maternità
veniva descritto con accenti non tradizionali anche se molto
partecipati.
Un altro si riferisce ai libri di Francesco Alberoni,
specialmente Innamoramento e amore (1979). L’autore era un
noto professore universitario, autore di molti saggi accademici
notevoli, ma soprattutto conosciuto dal grande pubblico per
scrivere ogni lunedì un articolo sulla prima pagina del
«Corriere della Sera» oltre che per molte apparizioni
televisive. I suoi libri (e i suoi articoli) avevano un pregio
particolare: erano di facile lettura anche se trattavano problemi
complessi. Molti dei suoi lettori «provarono l’ebbrezza» di
capire finalmente cosa stava succedendo nel mondo (e intorno
a loro) potendone riflettere seriamente e personalmente.
Fondamentale era il soggetto trattato (l’amore e
l’innamoramento); non più argomento banale ma tema molto
rilevante non solo nella vita privata. Alberoni parlava
dell’amore come di una «rivoluzione a due», per intendere che
la profondità di questo sentimento cambiava la vita di chi ne
era coinvolto, non solo a livello dei sentimenti. Da qui, il
successo di vendite che avrebbero avuto anche i libri
successivi, anche se in progressivo calo. Fu comunque uno dei
titoli che permise alla saggistica di affiancarsi, nell’interesse di
un vasto pubblico e nelle vendite, alla letteratura.
In seguito però l’interesse per la saggistica, forse anche per
la sua «superficialità» di alcuni autori e delle loro analisi iniziò
a declinare.
Quanto alla letteratura dobbiamo ricordare un duplice
grande successo: assieme a quello di Calvino Se una notte
d’inverno un viaggiatore (1979), l’esempio più alto di una
narrativa di grande valore letta da un vasto pubblico, va
ricordato il successo de Il nome della rosa di Eco (1980).
Quest’ultimo apparteneva a un genere del tutto nuovo, tra il
giallo e il romanzo: colto, pieno di riferimenti eruditi. Un libro
nuovo e affascinante. Come si poteva leggere nella quarta di
copertina «ciò di cui non si può teorizzare, si deve narrare».
Era un discorso intrigante: sembrava riprendere quello che
«dopo Hiroshima e l’Olocausto non si può fare più poesia» e
quello (che si sarebbe potuto dire a proposito della narrativa
italiana degli anni settanta) che «dopo la psicoanalisi» sarebbe
stato difficile parlare in modo convincente di sentimenti ed
emozioni. Il mondo della fantasia iniziava a invadere il mondo
reale anche nella cultura alta.
In seguito furono pochi eventi da ricordare; oltre ai «soliti»
Cassola e Moravia, una qualche popolarità ebbero anche
Arpino, Chiara, Camon. Ma l’autore su cui si discusse di più
fu Sciascia per la sua (coinvolta e coinvolgente) attenzione ai
temi di attualità (sulla Sicilia dai mille misteri) trattati con un
linguaggio suggestivo ma non difficile.
Nel frattempo si stava imponendo la narrativa straniera: dal
collettivo innamoramento per quella sudamericana (si pensi a
Cent’anni di solitudine di García Márquez) a quelli di
avventura o spionaggio con autori molto popolari come
Follett, Cartland, Le Carré, ecc. Non mancarono opere
importanti come quelle di Hesse, Roth, Bukowski, Yourcenar.
Continuò il successo delle opere di Fromm.
Il pubblico dei lettori restava però una minoranza, per
quanto colta e informata. Non vi era più un «unico» pubblico
(su cui indirizzare i best seller) ma una progressiva
segmentazione del mercato librario in più target con interessi
differenziati. Comunque un mercato ristretto.

3. Per concludere
Da quanto detto nelle pagine precedenti, riteniamo che
l’ipotesi che ha aperto questo capitolo sia stata dimostrata: i
libri e i giornali non hanno aiutato il percorso di maturazione
critica e politica di un gruppo sociale (la piccola-media
borghesia) in ascesa economica e culturale.
Era come se anche i lettori guardassero all’indietro (come
facevano i protagonisti dei romanzi che leggevano) e si
rassegnassero a vivere un incerto presente senza essere indotti
a pensare a come cambiarlo. I romanzi parlavano di sentimenti
e di introspezione personale, senza alcun riferimento al mondo
in cui vivevano i protagonisti e, a maggior ragione, quello dei
loro lettori. Anche i saggi descrivevano una realtà in certi suoi
aspetti (non sempre i più rilevanti) descrivendoli senza
approfondirli, non inducendo così il lettore ad alcuna
riflessione sulle cause e sulle conseguenze di ciò di cui
trattavano.
In parallelo, i quotidiani davano una rappresentazione della
politica distante dagli interessi reali (e dal linguaggio) dei
propri lettori, mentre i periodici li coinvolgevano su diversi
aspetti del privato (dal gossip alla moda) insistendo
prevalentemente sulle tematiche rivolte all’evasione più che
all’impegno. Favorivano, così, la fuga nel privato, lasciando
ampio spazio alla spettacolarizzazione televisiva o al gossip:
un mondo «dove tutto è detto e descritto; anzi urlato e
sottolineato con effetti spettacolari» (Livolsi, 1986, p. 21).
Le parole vennero progressivamente sostituite dalle
immagini e per i giovani dalla musica.
I «media alti» hanno lasciato così grande spazio a quelli
«popolari» (in particolare film e musica e poi TV) nella
costruzione di una cultura comune a cui riferirsi. Per questa
via si imposero i sentimenti e la soggettività: divenne naturale
farsi coinvolgere all’istante (da quello che si vedeva o sentiva)
più che riflettere e valutarne il significato o l’effettiva
rilevanza.
La cultura pop era immediatamente convincente e più
intrigante. Il «piacere» (divertirsi, emozionarsi) vinse
abbastanza facilmente sul «dovere» di istruirsi o informarsi.
Anche grazie all’esperienza non esaltante che molti avevano
vissuto negli anni scolastici. La scuola aveva allontanato molti
da un impegno che non sembrava più del tutto giustificato: si
rimandava a un passato del tutto privo di fascino, come le
letture che venivano consigliate o imposte. Un problema anche
attuale e di cui si parla ancora poco.
Utilizzando il linguaggio della «drammatizzazione», tipico
dei media, potremmo parlare di colpa grave dei media alti,
almeno per quanto riguarda la non riuscita socializzazione ai
loro valori.
Volendo articolare questo giudizio, iniziamo dai quotidiani
con alcuni loro specifici difetti. Il primo si riferisce al voler
continuare a proporre contenuti superati dai tempi secondo
modelli tradizionali «alti ma difficili». Basterebbe fare
l’esempio della «terza pagina», dove letterati e filosofi
disquisivano su temi che interessavano solo una ristretta
minoranza che sembrava vivere ancora nel chiuso di polverose
biblioteche.
Più dannoso socialmente fu, però, il modo di «narrare» la
politica che nel tempo venne ad assumere un carattere
connotato da una forte ambiguità: i quotidiani continuavano a
dare grande spazio (la prima pagina e grandi titoli anche su
modesti eventi o dichiarazioni di politici di scarso peso reale)
e a manifestare deferenza (la critica arrivò tardi e fu
partigiana) ai politici. Ma dai primi anni ottanta i giornali
furono costretti, quasi quotidianamente, a riferire di tangenti e
corruzione. Il tono scandalizzato (senza però approfondire
responsabilità e analizzare la dinamica dei fatti) contribuì a
una certa «assuefazione senza sdegno» da parte dei lettori.
Mancava il materiale per comprendere non superficialmente e
valutare non superficialmente o ideologicamente.
I giornalisti italiani, salvo rare eccezioni, non furono
sicuramente gli avvocati (o, almeno, convinti portavoce)
dell’opinione pubblica, forse anche perché questa non si
esprimeva chiaramente. A ciò si aggiunga un altro difetto
«grave»: il linguaggio utilizzato. Non facile né accattivante, in
qualche caso simile al politichese, certamente «distante» da
quello utilizzato comunemente dai lettori nella vita quotidiana.
Il dubbio che non fosse necessario leggere i giornali tutti i
giorni si diffuse in larghi strati dei potenziali acquirenti; del
resto i convinti lettori di quotidiani erano sempre stati una
minoranza. E poi, ormai, per molti c’era la TV a fornire
l’informazione (ritenuta) strettamente necessaria.
La rincorsa dei quotidiani a una certa modernità (ad
esempio, dare spazio alle notizie sul mondo dello spettacolo e
dello sport) fu alquanto estemporanea e non sempre si trovò lo
stile più adatto. Ci si limitò a copiare i periodici più popolari,
come quelli politici/di costume («L’Espresso», «Panorama») o
femminili. Si tentò anche, senza riuscirci del tutto, la
«domenicalizzazione» (sull’esempio dei giornali inglesi) con
un supplemento, nel giorno festivo, di pagine dedicate
prevalentemente alla cultura del tempo anche a quella meno
«impegnata».
Non del tutto riuscito fu anche l’esperimento di dare largo
spazio alle fotografie. Il loro inserimento non seguì sempre
due funzioni essenziali: dare un’immagine immediata dei
luoghi e delle persone a cui si riferivano i testi o essere un
commento (un diverso e suggestivo modo di «leggere»)
immediato e diretto di un fatto o di un evento. Spesso le foto
sembravano semplicemente «aggiunte», non erano chiari i
motivi della loro scelta.
Iniziative che non salvarono la stampa quotidiana dal suo
declino ma affondarono quella periodica. In primis quella dei
generi vampirizzati: si pensi alla crisi irreversibile dei
femminili. Restarono a galla le testate rivolte a un target
mirato (non ampio ma fidelizzato): come quelle «auto-moto»
per gli uomini e di «giardinaggio-cucina» per le signore.
La condanna più dura (e con scarse attenuanti) va però
attribuita, sempre a nostro avviso, all’editoria libraria.
A proposito dell’editoria libraria, sicuramente non partiamo
dalle tesi (fuori dal tempo) della critica marxista per cui la
letteratura doveva servire a dare fondamento e spessore alla
coscienza di classe: motore rivoluzionario che avrebbe dovuto
unire, nella lotta, proletariato e borghesia. In questa
prospettiva, super ideologizzata, si criticarono non solo gli
scrittori «borghesi» (con un riferimento, allora obbligato, a
Cassola), ma anche opere come Metello di Pratolini e i primi
romanzi di Pasolini; non sfuggirono «all’indice» classici come
Gadda o Tommasi di Lampedusa.
Si può, però, convenire sul giudizio che la letteratura del
tempo si rifugiasse in un soggettivismo iperpsicologizzato
lavorando, esclusivamente ma superficialmente, sui sentimenti
dei protagonisti e «restando» in un passato da cui non veniva
alcun insegnamento. Un intimismo piuttosto «estraneo» a una
generazione di lettori che stava conoscendo il fascino delle
nuove prospettive (come stili di vita e diversa morale) che il
benessere prometteva. Molti di questi romanzi narravano la
vita di persone sconfitte quando una crescente parte degli
italiani (sicuramente i più giovani e curiosi) stava marciando
verso il condiviso (e adesso possibile) obiettivo di
«realizzarsi». In questa prospettiva il sacrificio, come valore
ultimo, era un destino da rifiutare.
Un approccio aggravato da una scrittura a volte alquanto
noiosa, non sempre di grande pregio letterario, come il genere
avrebbe dovuto invece garantire.
Ancora maggiori «colpe» vanno attribuite alla saggistica.
Questa per sua natura, più che la letteratura, avrebbe dovuto
«spiegare il mondo» che stava cambiando, suggerendo ipotesi
valide (scientifiche e meno ideologizzate) sulla realtà che si
presentava all’orizzonte immediato. La maggior parte di questi
saggi si limitò a dare una semplice descrizione dei fenomeni di
cui non si indicavano le cause, le responsabilità dei
protagonisti e, tanto meno, possibili prospettive di
cambiamento. Utilizzando più il «buon senso» che non la
ricerca. Giocando più sull’ironia e sul divertimento immediato
dei lettori che non stimolando in loro una qualche forma di
ragionamento critico.
La saggistica era distinta in due filoni: il primo (appena
descritto) era quello dei giornalisti-guru; il secondo quello,
alquanto astratto anche se scientificamente corretto, di un
limitato numero di accademici che si impegnarono in un’utile
opera di divulgazione, forse per desiderio di essere conosciuti
e popolari. I maggiori colpevoli furono questi ultimi, che
avevano gli strumenti per definire e interpretare i fenomeni più
rilevanti e indicare le vie attraverso le quali il Paese avrebbe
potuto crescere non solo economicamente. Quando lo fecero,
abbandonando il linguaggio da iniziati, ebbero un buon
successo. Lo provano i «casi» Eco e Alberoni, noti a tutti e
letti da molti. Invece uno stile incerto tra lo stile accademico e
una banale divulgazione non cambiò l’istituzione universitaria
e contribuì alla fuga di molti italiani verso la cultura mediale.
Una forte responsabilità per quanto riguarda il mancato
incontro libri-lettori va attribuita alle case editrici, soprattutto a
quelle maggiori. Inizialmente ossessionate dalla ricerca di
grandi tirature, poi limitandosi a pubblicare i titoli (ritenuti)
«sicuri» o finendo per ricorrere anche all’autofinanziamento
degli autori (magari come adozione in corsi universitari
affollati) o alla sovvenzione di qualche istituzione pubblica. Si
sarebbe così indebolita la credibilità di molti marchi editoriali,
un tempo immediata garanzia di qualità. Si è continuato a
pubblicare di tutto e troppo.
Si consideri inoltre la sparizione di una figura importante, il
libraio-consigliere: la chiusura di molte librerie è stata un
segnale sinistro per quanto riguarda il livello culturale del
Paese.
A causa di tutte queste ragioni i lettori, anche la minoranza
più attenta, finirono per essere profondamente disorientati.
Probabilmente lo sono ancor oggi.
6. Il riformismo mancato

A nostro avviso la vera causa del mancato cambiamento


della «politica» (e del conseguente declino della
partecipazione politico-sociale) fu la progressiva perdita di
credibilità (e di legittimazione) dei partiti.
Sicuramente della DC, che peraltro non aveva alcun
interesse a innovare per mantenere la propria posizione
egemonica. Era la sua missione di partito conservatore.
Maggiori responsabilità vanno attribuite ai due partiti di
sinistra che avrebbero dovuto combattere il mancato
riformismo e impegnarsi perché questo si realizzasse. Scelsero
invece la strada di «esaurirsi» in uno sterile scontro, anziché
proporre congiuntamente un’alternativa di cui il Paese aveva
assoluto bisogno.
La distanza tra i due partiti, che pure erano stati fianco a
fianco per molti anni prima e dopo la guerra, aumentò negli
anni. Il «duello a sinistra» o meglio lo scontro tra due diverse
concezioni della politica e del cambiamento sociale, ebbe
inizio a partire dagli anni settanta e proseguì fino alla
definitiva crisi della Prima Repubblica.
Non va dimenticata l’«impossibilità» per il PCI di arrivare al
Governo. Un ostacolo apparentemente insuperabile: vi si
opponevano gli USA, in base alla loro interpretazione degli agli
accordi di Jalta. Anche alla vigilia di un improbabile accordo,
Moro ricevette un chiaro segnale da Washington: i comunisti
dovevano restare fuori dalla compagine governativa.
In questa prospettiva si può considerare il compromesso
storico come una proposta politica alternativa per superare lo
status quo: come tentativo di rivolgersi ai cattolici (come
gruppo sociale) e alle altre forze politiche per creare un
movimento di opinione di cui la DC avrebbe dovuto tener
conto. In questa prospettiva anche i vertici democristiani
avrebbero potuto presentare questa operazione come il male
minore. Del resto la DC che era stata abile nell’assorbire i
socialisti, inglobandoli nel centro-sinistra a loro stabile guida
(come prima aveva fatto con i «partitini di centro», psdi, PLI,
PRI), avrebbe potuto così garantire agli Stati Uniti che sarebbe
riuscita a fare lo stesso con il PCI.
Il tentativo fallì, non solo per le resistenze «insuperabili»
della DC e per l’ostilità del PSI che temeva di restare subalterno
in questa alleanza, schiacciato dai due maggiori partiti che
insieme raccoglievano oltre il 70% dei votanti. Anche il Paese
non capì, restando incerto o ostile. Perfino il popolo
comunista, i militanti, considerò innaturale allearsi con il
«nemico storico»; neppure i simpatizzanti apprezzarono l’idea
di tenere al Governo i notabili democristiani che si erano
manifestati da sempre ostili a ogni cambiamento e che
avevano perfino fisicamente, nei loro volti e nel loro eloquio,
rappresentato la conservazione.
Così la proposta del compromesso storico, teoricamente
necessaria (si sarebbero potute varare le riforme necessarie) fu
impraticabile nella realtà. Era politicamente sbagliata: era
vissuta come un astratto disegno politico di cui la base (gli
elettori) faceva fatica a comprendere le ragioni.
Finì per diventare il contesto ostile a un già difficile
accordo tra i due partiti della sinistra.
Questi erano profondamente divisi da una diversa
concezione del riformismo, pur ritenendolo entrambi un
obiettivo da conseguire. Per il PCI l’unico riformismo possibile
era legato alle riforme strutturali: quelle necessarie per
cambiare il sistema capitalistico e le sue istituzioni, per
combattere le forze sociali che le difendevano. Per il PSI,
invece, il riformismo consisteva (come si espresse più volte
Craxi) nel gestire al meglio il governo del Paese provvedendo,
secondo necessità, a modificarne le strutture e leggi (Finetti,
2003).
Per gli uni il sistema politico-economico andava cambiato
più che riformato; per gli altri era possibile riformarlo in una
prospettiva socialdemocratica, come era avvenuto in alcuni
paesi europei.
Vi era anche una differenza antropologica tra i due popoli;
da una parte, la «falange coesa» (o come tale voleva apparire o
veniva considerata) dei comunisti, resa tale dalla pratica tenace
del centralismo democratico (prima che diventasse, secondo i
suoi detrattori, centralismo «burocratico»); dall’altra una
pletora di colonelli (con le loro truppe-correnti) che solo il
carisma decisionista di Craxi riuscì, non sempre e del tutto, a
guidare unitariamente.
Una ulteriore differenza esisteva (ancora maggiore) a
livello dei potenziali votanti: da un lato c’era chi credeva
«ciecamente» nel cambiamento necessario e nella guida del
partito e accettava compromessi, anche pesanti (come le
invasioni russe di Ungheria e Cecoslovacchia) pur di arrivare
alla meta finale; dall’altro vi era chi aveva un’idea della
modernità verso cui avviare il Paese e accettava la logica
«politica» (contrattuale) del partito come mezzo o strumento
per arrivare al Governo.

1. Il duello a livello nazionale


Nel PSI il rapporto dirigenti-potenziali elettori passava
attraverso due canali: circoli e federazioni locali (come nella
migliore tradizione socialista) e luoghi e occasioni del mondo
culturale (sempre più importante dagli anni ottanta in poi)
anche perché il partito voleva presentarsi come un alfiere della
modernità.
A caratterizzare l’anima socialista confluivano due filoni: il
tradizionale socialismo riformista (che si rifaceva al trio
Turati-Kuliscioff-Cavallotti), romantico ma anche eroico in
certi frangenti, e la modernizzazione in atto nel Paese. Due
linee in cui il pragmatismo si confrontava, non sempre
chiaramente, con il rigore ideologico. Nei socialisti vi erano
molte anime. Ciò portò a molte scissioni, spesso poi rientrate.
Nel PCI la logica dell’appartenenza era diversa: il rapporto
tra partito ed eletti era gestito e diretto dai vertici, locali o
nazionali, sulla base di una ferrea logica di conduzione
dell’apparato. Molto contava anche l’apporto degli iscritti
nelle sezioni e il loro duro lavoro di propaganda. Importante
era anche l’impegno degli eletti in ambito locale. Molto
contavano però anche i simpatizzanti. Questi erano il volano
delle posizioni del partito nel sociale, facendole diventare
«senso comune» largamente condiviso. Ciò che li convinceva
e li univa era il non accettare il conservatorismo culturale e
politico che aveva dominato nel Paese dal dopoguerra. Non
piaceva neppure la sottile arroganza (o supponenza) dei
piccolo-borghesi che si erano schierati per la continuità con il
passato.
Per i simpatizzanti il legame con l’urss non era
fondamentale; per la gran parte di loro era quel Paese che
aveva resistito alla Germania nazista (con il mito della difesa
di Stalingrado), non certo quello che si era riconosciuto in
Stalin o nel marxismo delle Internazionali. Per loro il PCI era
quello delle Feste dell’Unità, dove media borghesia e aspiranti
intellettuali «organici» incontravano il «popolo rosso» che
sacrificava le proprie ferie per il funzionamento di quelle
kermesse in cui, in un ordine assolutamente casuale, si
potevano trovare salsicce e spiedini, piatti finto-esotici,
dibattiti con non foltissime presenze (salvo al discorso finale
del segretario del partito o di chi per lui), cantanti famosi e
ballo liscio. Queste feste erano però una reale e forte occasione
di partecipazione, un forte strumento di propaganda oltre che
di raccolta fondi.
Sentirsi (o votare) comunisti non coincideva con l’essere
iscritto al partito e condividerne tutte le posizioni (ben pochi
leggevano l’«Unità»): consisteva semplicemente nel non
essere dalla parte della conservazione, come era espressa nei
fumosi discorsi dei leader democristiani. Era soprattutto
coltivare il senso di una certa «differenza»; non quella
dell’orgoglio e della supponenza, ma quella di una scelta di
campo, prima di tutto culturale, come adesione a una certa (sia
pure ingenua) visione del mondo che parlava di giustizia e di
lotta a ogni tipo di emarginazione dei più poveri, deboli e non
protetti, o dei popoli ancora sfruttati. Berlinguer fu,
naturalmente, il capo di questo popolo oltre che di quello degli
iscritti convinti e fedeli: impersonava quei valori con un
carisma naturale e immediato.
La differenza antropologica tra i popoli dei due partiti
sarebbe definitivamente «esplosa» negli anni novanta, nel
dividersi, secondo Ginsborg (1998), tra «borghesia riflessiva»
(quella che aspirava al cambiamento) e «borghesia di Stato»,
quella dei grandi commis delle imprese private e pubbliche o
degli aspiranti lotizzatori. Una differenza profonda che non si
sarebbe più ricomposta. Due gruppi sociali assolutamente
diversi che avrebbero trovato approdi differenti: l’Ulivo o
Berlusconi.
Per questo chi sostenne che, almeno alla vigilia di
Tangentopoli e prima del crollo della Prima Repubblica, si
sarebbe dovuto tentare un estremo tentativo di incontro tra le
due anime della sinistra non tenne conto delle profonde
differenze (non più conciliabili) dei due popoli e dei loro capi.
Non a caso, gran parte dei colonelli (ormai con scarse
truppe) usciti dal PSI dopo la sua fine si schierò ancora una
volta «contro i comunisti» (come esortava Berlusconi), senza
neppure accorgersi che non esistevano più. Il pds non era
certamente il PCI.
È utile riandare alle radici dell’«impossibile» alleanza o
accordo.
Reale e fondamentale oggetto del duello era la primazia
nella sinistra che entrambi i partiti rivendicavano. Questa,
come era successo dal dopoguerra fino all’avvento di Craxi,
era sempre stata del partito comunista come il numero dei
votanti indicava chiaramente.
Nei comunisti vi era, inoltre, un forte «peccato di
presunzione»: gli «altri» non possedevano un bagaglio teorico-
ideologico a cui rifarsi e erano quindi impossibilitati a
interpretare la società capitalistica e a maggior ragione a
cambiarla: per questo erano considerati dei validi compagni di
strada e poi, dalla fine degli anni settanta, degli opportunisti
con cui avere poco da spartire.
Il PSI si rifaceva invece alla storia della sinistra, anche
prima del 1921 e di Livorno. Anche nei socialisti giocava un
peccato di presunzione: dati i tempi nuovi e l’«arretratezza
interpretativa» (ideologica e superata) del PCI, era necessario
un progetto nuovo di «alternativa socialista» che ovviamente
solo i socialisti potevano portare avanti, come aveva
sperimentato con successo Mitterrand in Francia e succedeva
da tempo nei paesi del Nord Europa.
L’«illusione mitterrandiana» fu dura a morire. Alle radici
del successo in Francia c’era stato un ampio riconoscimento
per un partito aperto, nuovo e moderno: ciò che il PSI non
riuscì a incarnare del tutto (o a imitare) con successo.
Il duello esplose negli anni dal 1975 al 1992.
Consideriamo le «posizioni» dei due contendenti. La fase
del nuovo corso socialista ebbe iniziò con l’elezione di Craxi a
segretario del partito e con l’affermarsi della corrente
autonomista. Questa sostituì ai vertici quelle più
tradizionalmente filo-PCI che avevano avuto la leadership del
partito fino ad allora.
Alla sua nomina, Craxi si trovò a gestire un partito di
piccole dimensioni, scarso peso politico, stretto «a tenaglia»
tra DC e PCI che avevano ottenuto una grossa affermazione
elettorale nelle elezioni del 1975.
Nel suo primo discorso, il nuovo segretario affermò che
l’obiettivo prioritario era quello di mantenere in vita il partito
(«primum vivere, deinde philosophari») e dargli nuovo
slancio. Ciò spiega anche perché egli considerò con favore una
giunta di Sinistra a Milano: era l’unica possibilità di uscire da
un accerchiamento possibile e temuto.
Presto iniziò anche la stagione del «philosophari» affidata
alle riviste di partito; in primo luogo a «Tempi Moderni» e a
una notevole squadra di intellettuali, a iniziare dal direttore
Coen. Nume tutelare, anche se non sempre ascoltato e seguito,
fu Norberto Bobbio. Iniziò anche l’ascesa del futuro vice
segretario Martelli, uomo di buona cultura, forte
spregiudicatezza e acuto senso della comunicazione.
Questa prima fase, oggetto di molte «ricostruzioni», può
essere scandita sulla base di alcuni momenti fondamentali di
un percorso accidentato ma in fondo coerente: arrivare al
governo del Paese. Un percorso non lungo: le (altrettanto
rapide) fasi di ascesa e caduta del partito occuparono lo spazio
di meno di venti anni.
Il primo momento fondamentale (prevalentemente
culturale) fu quello della «Grande Riforma» (1978); un
progetto messo a punto dal gruppo di «Mondo Operaio» in
riunioni e incontri a cui parteciparono i maggiori intellettuali
vicini al partito. Si voleva esplorare la possibilità di una
«equidistanza» tra eurocomunismo e socialdemocrazia,
partendo dalla tradizionale posizione di sinistra in cui
l’obiettivo fondamentale restava quello dell’«uguaglianza
delle opportunità e parità di accesso alle fonti del potere e del
sapere».
I punti fondanti furono la critica al corporativismo e al
consociativismo che avevano fin lì paralizzato ogni sforzo teso
a governare il cambiamento: di conseguenza, si dovevano
cercare nuovi modi per arrivare a una maggiore efficienza e
stabilità dell’esecutivo, oltre a valorizzare le autonomie
territoriali, amministrative e sociali. Si parlò anche di un
maggior coinvolgimento delle imprese private e pubbliche per
un diverso e più incisivo sviluppo economico.
Craxi, in un articolo sull’«Avanti», diede una sua versione
particolare del progetto affermando che la «Grande Riforma»
era un’indicazione politica rivolta a «tutte le forze politiche e
sociali disponibili per un’opera di trasformazione sociale,
istituzionale, e di progresso […] [che doveva riguardare]
insieme l’ambito istituzionale, amministrativo, economico-
sociale e morale» (riportato in Finetti, p. 35). L’accento era
posto essenzialmente sulle trasformazioni istituzionali a livello
costituzionale; non mancò un accenno all’elezione diretta del
Capo dello Stato.
Sullo sfondo c’era una precisa attenzione al cambiamento
in campo economico e sociale, nella prospettiva di una
modernizzazione da governare e favorire. Un progetto teorico
che si muoveva senza dubbio nel contesto di un concreto
riformismo. Ebbe però scarse ricadute pratiche nell’agire del
partito. Il «philosophari» lasciò presto il posto alla strategia
decisionistica del segretario, impegnato a fare del PSI non più
un «partito di sostegno» a una qualche maggioranza ma
l’indispensabile «ago della bilancia» delle future coalizioni di
governo.
Per questo il leader socialista scelse di rivolgersi
direttamente all’opinione pubblica, probabilmente con lo
scopo di bypassare le tattiche senza respiro dei giochi politici
con i vertici degli altri partiti; posizione alquanto paradossale
per un abilissimo stratega politico come lui. Lo scopo evidente
era una avance alla borghesia colta (la protagonista della
modernità) affinché prendesse posizione a favore della
costituzione di future compagini governative in un’ottica di
«collaborazione-competizione» con la DC, abbandonando per
sempre il fantasma di una possibile alternativa di sinistra.
Nel successivo convegno di Palermo (1981), Craxi propose
di cambiare il nome della corrente (di cui era stato leader) da
«autonomista» a «riformista»: un passaggio simbolico in cui è
evidente il volersi richiamare alla tradizione del socialismo
milanese di fine secolo.
L’affermazione al congresso, facilmente prevedibile, del
segretario fu messa in discussione, ma solo formalmente, dalla
proposta dell’elezione diretta per acclamazione, anziché per
elezione. Proposta avanzata da Tognoli sulle ali del clima di
assoluto favore riscosso da Craxi nel corso dei lavori. Molti
dei presenti, però, protestarono (cantando Bella ciao e
Bandiera Rossa) e manifestarono un certo dissenso all’interno
del partito. Amato aveva già parlato (alla vigilia e a proposito
dell’articolo sull’«Avanti») di una produzione «saggistico-
predicatoria»; Bobbio dichiarò di essere assolutamente
contrario alla «gestione personale» del segretario. Capi
influenti come Mancini, De Martino, Lombardi e Signorile ne
chiesero (inutilmente) le dimissioni.
La piccola crisi fu rapidamente sventata. Probabilmente fu
questo pericolo a spingere Craxi a una gestione sempre più
decisionistica e personale anziché indurlo a una maggiore
collegialità. Solo i più vicini a lui ebbero un (limitato) diritto
di critica o di proposta.
Una posizione politica che ebbe uno scontato effetto sul
sempre più difficile incontro con il PCI. In occasione di quel
congresso, Berlinguer fu accolto con un’ovazione dei delegati;
nel 1984 sarebbe stato invece sonoramente fischiato. Con un
Craxi sfottente: «non l’ho fischiato solo perché non so
fischiare!». Una rapida parabola che porterà allo scontro finale
in un clima di assoluta incomunicabilità.
L’anno seguente, nel convegno di Rimini (dal titolo
emblematico «Governare il cambiamento»), fu presentato un
programma di minori ambizioni rispetto a quello della
«Grande Riforma»: fu semplicemente definito «programma
per governare». L’obiettivo prioritario, adesso, era quello di
una «democrazia governante» sulla base di modifiche
costituzionali quali la «sfiducia costruttiva» o importanti
modifiche nei regolamenti parlamentari atti a rendere più
agevole e veloce l’opera dell’esecutivo.
Una parte importante fu, però, rivolta anche alla questione
sociale: si parlò di una necessaria revisione del welfare. A
questo proposito, qualche critico arrivò a parlare della timida
comparsa di qualche emulo «thatcheriano» nel nostro Paese.
In questa occasione Martelli pronunciò il noto discorso sui
«meriti e bisogni». Importante perché si parlava dei meriti (da
premiare) di una nuova classe, la moderna borghesia. Era così
d’obbligo un’alleanza tra «tutti coloro posti nelle condizioni
determinate dal bisogno e tutti gli individui possessori di un
merito», cioè coloro che fanno «progredire la società con il
loro lavoro, la loro immaginazione, la loro creatività»
(Martelli, 2013).
Gli orizzonti proposti erano quelli del pluralismo e del
solidarismo, con un’evidente apertura ai cattolici. Prioritario
era lavorare «con e per» i ceti medi, in particolare con coloro
che erano impegnati nelle nuove professioni. Per Martelli era
necessario superare la «sociologia pietrificata delle classi»
(anche per la scomparsa della mitica classe operaia): l’intento
era quello di riferirsi al gruppo sociale (più un ceto che una
classe) caratterizzato dalla convinta adesione ai tempi nuovi.
Non a caso nel Paese si stava affermando il fenomeno di
«cetomedizzazione» (De Rita), più interessato a nuovi stili di
vita che a battaglie ideologiche.
Era come dichiarare la fine dell’«antagonismo sociale»,
della lotta di classe. Sicuramente una visione moderna del
riformismo, quella che aveva come scenario concreto la
Milano di quegli anni. Non a caso vi fu anche un accenno
relativo alla centralità dei cittadini-consumatori, suggerendo
(un po’ ingenuamente) che si doveva chiedere ai politici la
stessa attenzione dedicata dalle aziende ai loro clienti.
È evidente che il linguaggio della TV e della pubblicità si
stava affiancando al politichese.
Vale la pena ricordare che, un anno prima, Berlinguer aveva
parlato di «questione morale» e, prima ancora, della necessità
di un diverso sviluppo economico (sostenibile): la distanza tra
i due partiti della sinistra stava diventando abissale.
Nel convegno si parlò anche di socialismo liberale, anche
se tale definizione restò confinata più alle dichiarazioni che
non nel concreto agire del partito. Il termine «uguaglianza»
venne sostituito da quello di «equità» o «giustizia sociale» in
una logica (da molti condivisa) di liberismo concorrenziale.
Per meglio valutare il crescente successo del PSI non vanno
dimenticati i successi di Craxi: Sigonella (come dichiarazione
di orgoglio nazionale), il rinnovo dei patti lateranensi (la non
conflittualità con i cattolici) e il «blocco della scala mobile»
con la sconfitta del PCI alla Camera e nel successivo
referendum. L’inflazione diminuì fortemente e uno «spirito di
ripresa» caratterizzò quegli anni e giocò a favore delle
imprese, specialmente quelle nel settore del terziario, dalla
comunicazione (TV e pubblicità) al made in Italy. L’immagine
del Paese migliorò decisamente, ovviamente non solo per
merito dei politici.
Si entrò a pieno titolo nei g7. Si teorizzò anche che l’Italia
fosse la quinta potenza industriale del mondo.
La discrasia tra il «dire» (l’enunciazione) e il «fare»
(concreto) fu senza dubbio la causa più profonda dell’ascesa e
del crollo del PSI nel giro di poco più di dieci anni, dal 1983
(sale al governo Craxi) a Tangentopoli. È il «decennio lungo»
(1978/1992), come lo ha definito Quagliarella, in
contrapposizione al «secolo breve» (1918-1989) di
Hobsbawm.
È in questi convulsi anni che, a nostro avviso, si decise il
destino della Prima Repubblica.
Certamente il PSI non era più il partito «necessario ma non
sufficiente» (Bobbio): anzi, la centralità socialista diventò
sempre più rilevante tanto da portare Craxi alla guida del
Governo. Lo nominò un socialista «anomalo», molto amato, il
presidente della Repubblica Pertini. I tempi di Nenni e Saragat
appartenevano ormai al passato.
La gestione personale del partito fu ulteriormente
accentuata: le decisioni erano prese da Craxi e pochi altri
vicini a lui, ma sempre con il suo consenso. Il pragmatismo
politico, teorizzato in precedenza contro le fumisterie
ideologiche del PCI, si tramutò in molti casi in un
«arrembaggio» politico per la conquista di potere e di posti di
governo.
Iniziò a prendere forma il fenomeno della
«personalizzazione dei leader», per il quale l’immagine del
partito coincide con quella del capo. Il carisma personale
sostituì progressivamente la proposta di più articolate
posizioni politiche e/o programmi. Un fenomeno ormai
centrale nella politica dei nostri giorni, ma che nacque proprio
nel «decennio lungo» e con Craxi e il suo «esagerato
protagonismo» (Colarizzi, 2005).
Al partito dell’«integrazione sociale» si sostituì il «partito
elettorale di massa». La nuova politica (con i suoi non sempre
immacolati protagonisti) necessitò di un sempre maggior
afflusso di denaro. Fu la causa dell’affermarsi della pratica
delle tangenti e della corruzione, con la conseguenza di
un’esasperata lottizzazione. Colpì tutti partiti, in particolare il
PSI, ma mise anche in crisi la «diversità» del PCI: proprio a
Milano. Si teorizzò che fosse un «difetto comune a tutti i
partiti» e pertanto non condannabile, almeno giuridicamente.
Fu il pensiero di Craxi espresso nel suo ultimo discorso alla
Camera: una sorta di testamento (poco) morale.
La personalizzazione, con grande ricorso alla
comunicazione politica e grande attenzione della stampa a
tutto ciò che Craxi «faceva» o (soprattutto) «diceva», fu la
deriva verso un altro fenomeno che prese il via proprio in
questo periodo: la spettacolarizzazione della comunicazione
politica che sarebbe esplosa con la «discesa in campo» di
Berlusconi.
La cattiva gestione della TV pubblica, lottizzata e impegnata
in un’assurda gara «sugli ascolti» favorì indirettamente
l’affermazione di una cultura fondata sull’evasione e sui
consumi (comunque sul disimpegno) tipica delle TV private.
Non a caso il duopolio televisivo (in nome di una teorica
concorrenza) fu fortemente sostenute dal PSI e da Craxi in
persona.
L’apertura ai vertici del partito, ai «nani e ballerine» come
fu spregiativamente definito il fenomeno dell’apertura alla
«società civile» (studiosi e ricercatori, architetti, sociologi,
professionisti di fama) è stata una metafora (cattiva) della
proposta politica socialista, almeno nel suo modo di
presentarsi all’opinione pubblica.
Più grave fu il non contrastare (qualcuno disse il favorire)
l’affermarsi di una «zona grigia» alla confluenza di tre aree in
cui agivano i poteri forti: le clientele all’interno dei partiti
maggiori, gli ambigui rapporti dei vertici politici (e dei
«servizi deviati» dello Stato) con quelli economico-finanziari,
le mafie con la loro trasformazione in attori economici forti
sulla base delle sempre più ingenti risorse ricavate dal
riciclaggio del denaro acquisito con le attività criminali.
Sarebbe sciocco, oltre che ingiusto, attribuire tutto ciò
(corruzione, inefficienza, antipolitica, ecc.) al solo PSI;
certamente questo partito non fu un forte baluardo di fronte
all’insorgenza dei perversi fenomeni di falsa modernizzazione
e ambigua globalizzazione.
Parliamo adesso dell’altro «duellante»: anch’esso perdente,
anche se non fu costretto a sparire ma solo a «trasformarsi».
Parlare del PCI negli anni settanta è parlare di Berlinguer.
Non solo perché la pratica del «centralismo democratico» dava
sempre l’ultima parola al leader, ma anche per la sua non
comune statura di uomo e politico. Fu un anticipatore (una
sorta di profeta laico) che propose modelli che si sarebbero
realizzati dopo oltre trent’anni, ma che al momento in cui
furono avanzati rappresentarono invece un’occasione di
fraintendimento e di immediato insuccesso politico. Dopo
molto tempo l’alleanza tra comunisti e democristiani avrebbe
dato origine al pd (arrivato a essere partito leader); l’austerità
sarebbe diventata obbligo per una politica di sviluppo
sostenibile; la questione morale argomento sempre attuale e
tuttora irrisolto.
Molto si è scritto su Berlinguer, specialmente in questi
ultimi tempi e in chiave agiografica, con un approccio
partecipato ma spesso fuorviante per valutare il suo operato e
le conseguenze reali delle sue proposte politiche.
Cercheremo quindi, per valutarle meglio, di «inoltrarci
nella selva» dei suoi scritti allo scopo di evidenziarne i punti
centrali essenziali per approfondire (anche dal lato del PCI) le
tematiche più attinenti al confronto con il PSI. Queste si
riferiscono essenzialmente a tre grandi tematiche: il
compromesso storico, l’austerità e la questione morale.
La più nota è quella relativa al «compromesso storico». La
vulgata lo indicò, fin dalla sua presentazione, come lo
strumento per stabilire un’alleanza con la DC. Fu pensata anche
come l’unica strada per superare il veto americano e
l’ambiguità democristiana, sempre con lo scopo di perseguire
una via «italiana» a una democrazia partecipata. Era, fin dai
tempi di Togliatti, la linea politica del PCI.
I tre articoli su «Rinascita» (settembre-ottobre 1973) su
questo tema nascevano anche da una forte preoccupazione sui
pericoli che poteva correre una democrazia non fondata su una
larga e partecipata base di consenso popolare. Era appena
avvenuto con il caso della controrivoluzione cilena che aveva
abbattuto il governo del «socialismo leale» (sono le ultime
parole del presidente che sta per morire) di Allende. Non solo.
In Europa vi erano, al momento, tre dittature fasciste: in
Spagna, Portogallo, Grecia. In Italia gli attentati terroristici si
susseguivano da anni e quasi giornalmente. Si era nel pieno
degli «anni di piombo». Mancavano solo cinque anni per
arrivare all’omicidio Moro. Secondo un’ipotesi attendibile,
mai apertamente dichiarata ma non negata dallo stesso
Berlinguer, il secondo e il terzo intervento su «Rinascita»
furono scritti nel periodo di convalescenza seguito al
«misterioso» incidente automobilistico accaduto a Sofia e da
cui si salvò miracolosamente.
Il testo è un mix tra denuncia e responsabilità, secondo la
linea politica e culturale di «matrice togliattiana»: lavorare per
il partito e insieme per il Paese. Era la via italiana al
socialismo, dove «italiana» è un aggettivo fondamentale.
Seguiamo il testo (le citazioni, per semplicità, sono tutte
tratte da Gotor, 2013) prima di commentarlo. Il punto
fondamentale da cui partire è il seguente: per realizzare «la via
democratica al socialismo», con l’obiettivo della
trasformazione di cui l’Italia ha bisogno, si deve «coniugare la
forza (come “incessante vigilanza”)… che permetterà di
rintuzzare tempestivamente… le manovre, i tentativi e gli
attacchi alle libertà, ai diritti democratici e alla legalità
costituzionale» con il consenso «fondato sull’unità di tutte le
forze popolari e democratiche» (pp. 44-45).
Si doveva cioè lavorare sul doppio binario della forza e del
consenso. Un compito che spettava principalmente al
proletariato che restava la «forza motrice di ogni processo di
cambiamento della società», anche se non ancora egemone.
Per questo erano necessarie e obbligate le alleanze; anche
perché la società moderna era ormai da considerare una «rete
di categorie e stati intermedi» comprese nel generico termine
di «ceto medio» (ibid., p. 45).
Un passaggio che mette insieme una genericità (il
proletariato) assunta per tradizione ideologica e una precisa
anticipazione sulla società come rete di interessi di diversi
strati di popolazione nell’ambito di un rilevante processo di
cambiamento sociale. Era così necessario il consenso della
grande maggioranza della popolazione come «convergenza e
una collaborazione tra tutte le forze democratiche e popolari».
(ibid., p. 48).
Convergenza e collaborazione sono i termini di fondo della
proposta politica di Berlinguer. La prospettiva rivoluzionaria
apparteneva al passato. Solo con questo diverso più attuale
approccio si sarebbero potuti raggiungere gli «obiettivi non
soltanto economici e sociali, ma di sviluppo civile, di
progresso democratico, di affermazione della dignità della
persona […]» (ibid., p. 47).
Era così essenziale un’alternativa «democratica» e non solo
«di sinistra», sulla base di un’«intesa delle forze popolari di
ispirazione comunista e socialista con le forze popolari di
ispirazione cattolica, oltre che con formazioni di altro
orientamento politico» (ibid., p. 49).
Una proposta di «grande coalizione» e non solo di alleanza
con la DC, come si è spesso voluto intendere. Con questo
partito sarebbe stato comunque necessario collaborare anche
se, fino ad allora, era stato «sempre e ovunque schierato con la
reazione» e con la borghesia non progressista. Si doveva
inoltre considerare che attorno alle sue bandiere si erano
raccolte «anche altre forze e interessi economico-sociali, da
quelli di varie categorie di ceto medio sino a quelli, assai
consistenti soprattutto in alcune regioni e zone del paese, di
strati popolari, di contadini, di giovani, di donne e anche di
operai» (ibid., p. 51).
Quindi una grande alleanza per il riformismo e non solo un
accordo con la DC.
Si doveva inoltre considerare il rilevante peso della chiesa
come istituzione e della presenza, nel mondo cattolico, di
movimenti e tendenze che «si orientano in senso nettamente
anticapitalistico e antimperialistico». Si trattava di aprire ad
alcune componenti del mondo cattolico più che alla DC come
partito e si dovevano sollecitare in tal senso alcuni suoi leader
«meno» conservatori: un invito esplicito a Moro.
Una proposta che rimase praticamente «inascoltata».
Moro, principale interlocutore, restò sempre sordo a questo
invito: egli si spinse solo fino a pensare che, con tempi lunghi
e con successive prove di affidabilità (come quella di entrare
in un’indefinita «area di governo»), si sarebbe potuto pensare
a un’alternativa nell’ambito del gioco democratico, mai però a
un accordo diretto. Appare strano che un politico «di lungo
corso» come Moro potesse ignorare la prospettiva di un
possibile «ingabbiamento» dei comunisti, come era già
successo con i socialisti nei governi di centro-sinistra. Giocava
certamente il veto USA. Al momento l’unica prospettiva
possibile restava quindi quella della solidarietà nazionale, con
governi gestiti dalla DC con l’appoggio esterno dei comunisti.
Il rapimento e la successiva uccisione di Moro posero
drammaticamente fine alla possibilità che il dialogo, per
quanto difficilissimo, proseguisse. Senza cadere nel facile e
abusato «dietrismo», non sarebbe inutile approfondire il
discorso su chi mise a punto la strategia del rapimento (a
livello «militare») e lo gestì, con indubbia abilità, con la
«diffusione» delle «lettere» di Moro dalla prigionia. Resta un
mistero (uno dei tanti nella storia italiana) specialmente
considerando la «strana» coincidenza di tempo.
Alla proposta si erano dichiarati decisamente contrari i
socialisti: per loro la minaccia di essere schiacciati tra due
grandi forze politiche era evidente e temibile. Non a caso si
espressero, diversamente dalla maggioranza dei partiti (e dei
giornali), per una trattativa «umanitaria» che riportasse Moro
alla vita politica. Era un modo per differenziarsi e mettere in
crisi DC e PCI.
Arriviamo, così, al secondo tema: l’austerità. Un tema
proposto, per la prima volta, a un convegno a cui furono
chiamati molti intellettuali (soprattutto dell’area comunista)
svoltosi a Roma nel gennaio 1977.
Probabilmente è il punto più alto (come elaborazione
politico-culturale) e meno efficace (come risultati a livello
politico e nell’immediato) delle proposte di Berlinguer. Più
che un intervento in chiave di politica economica (su un
diverso sistema capitalistico e una diversa ridistribuzione delle
risorse), il suo discorso va interpretato, pensando a quegli
anni, come una suggestione di ordine filosofico-morale.
Molto simile alle proposte, oggi, di Latouche e al suo
modello della decrescita felice; dallo stesso autore francese
definito più una provocazione (una bomba semiotica) che
un’indicazione operativa concreta. Il successo, oggi, di una
tale proposta è ben lontano dalle moltissime critiche che ebbe
invece allora Berlinguer, salvo pochi interventi a favore tra cui
quello di La Malfa. Sarebbe poi parso inconcepibile, allora,
che questo tema potesse diventare oggetto di un’enciclica
papale.
Va anche detto che erano gli anni di una (ricorrente) crisi
economica a causa della scarsità e/o dell’alto costo del
petrolio. L’inflazione era alle stelle, arrivando al 18%. I
governi ricorrevano a continui aumenti e a (quanto oggi
definiremmo) «stangate» su tasse e prezzi relativi
all’alimentazione, ai trasporti, ecc. Era arduo, se non
impossibile, far accettare la logica dei sacrifici a chi aveva
appena intravvisto un benessere possibile, desiderato ma non
ancora sicuro.
A ciò si aggiunga che il PCI appoggiò i due governi
Andreotti: il primo con la «non sfiducia» e il secondo con un
appoggio concreto anche senza diretta responsabilità di
governo. Una posizione estremamente difficile per un partito
dell’opposizione e che dichiarava di voler difendere i più
deboli economicamente.
Non bastò dichiarare che c’erano due modi per considerare
l’austerità: o come strumento «di perpetuazione delle
ingiustizie sociali, oppure come occasione per uno sviluppo
economico e sociale nuovo […] per una profonda
trasformazione della società» (ibid., p. xxiv). Ovviamente,
l’austerità proposta era la seconda, con l’obiettivo di
«instaurare giustizia, efficienza, ordine […] e una moralità
nuova» (ibid., p. 14) per recuperare gli errori «nella politica
del suolo, del territorio, dell’ambiente.» (ibid., p. 15)
Dai più, anche dai simpatizzanti, fu invece percepita nel
primo modo. Era, infatti, molto difficile ritenere possibile una
svolta capace di mettere fine a un sistema «i cui caratteri
distintivi sono lo spreco e lo sperpero, l’esaltazione dei
particolarismi e dell’individualismo più sfrenati, del
consumismo più dissennato.» (ibid., p. 10).
Una proposta di austerità che oggi appare assolutamente
condivisibile non solo a sinistra; allora sembrò invece una
affermazione estremistica. Certamente una proposta che i
partiti al Governo (socialisti, cattolici e partitini del centro)
rigettarono con sdegno, ritenendo che il sistema poltico-
economico vigente fosse al più da migliorare, non da rigettare.
Nella proposta si possono individuare sicuramente alcuni
limiti. Innanzi tutto, come si è detto, l’«antistoricità»: non era
facile condividere, se non idealmente, la condanna di un
sistema «fondato su quella artificiosa espansione dei consumi
individuali che è fonte di sprechi, di parassitismi, di privilegi,
di dissipazione delle risorse, di dissesto finanziario.» (ibid., p.
12) Le più condivise aspettative della grande maggioranza
degli italiani erano altre. Sarebbe stata possibile accettare tale
proposta solo sulla base di una profonda trasformazione di
valori e credenze collettive. Allora impossibile. Proporre un
«austero» senso di solidarietà sociale al tempo delle illusioni
del benessere (e di una forte predisposizione al consumo) era
un’impresa impossibile. Ancora più astratto apparve, allora,
proporre l’obiettivo della salvaguardia del pianeta o la
questione ecologica, come la definiremmo oggi.
Non a caso, a proposito di questi temi (e dell’impegno nel
proporli) si usò l’etichetta «cattocomunismo», anche tenendo
conto dell’apporto di ascoltati consiglieri di Berlinguer come
Rodano e Tatò. In questa proposta c’era un ethos che
richiamava lo sdegno di Pasolini quando aveva denunciato la
deriva del Paese verso il consumismo, da lui definito il vero (e
ancor più pericoloso e subdolo) fascismo, in quanto
efficacissimo motore di falsa coscienza per i più poveri e/o per
i più ingenui e sprovveduti.
I richiami di Berlinguer non erano le «profezie nel passato»
del poeta. Erano invece uno sguardo verso un futuro
(prossimo) che avrebbe ricevuto grande danno nel caso di un
mancato processo di trasformazione del sistema economico.
Aprire solidarmente al Terzo Mondo avrebbe evitato molti
danni, fino all’epocale emigrazione dei nostri giorni. Così
come cominciare a riflettere sulla questione ecologica
(«scoppiata» dopo circa vent’anni) sarebbe stato
fondamentale. Su questi temi non c’era nessuna proposta
politico-economica alternativa, neppure nelle
socialdemocrazie del Nord Europa, malgrado Palme e Brandt
avessero cominciato a denunciare gli stessi problemi.
La denuncia non ebbe successo: suscitò molte perplessità
(nello stesso partito) e molte dure critiche, specialmente tra i
cultori della modernità e di un nuovo sistema economico di cui
i consumi erano il motore dello sviluppo e quindi
assolutamente da non demonizzare.
Nel periodo dei sacrifici imposti dal Governo (con
l’appoggio dei comunisti) era facile identificare l’austerità
come un tardivo rimedio a una politica inefficiente oltre che
corrotta. Chi aiutò Berlinguer nella stesura del testo ebbe
l’accortezza (non sufficiente) di non parlare di «sacrifici
necessari». Ma non bastò. Ovviamente non agli scatenati
interpreti della seconda ondata del movimento degli studenti
che inclusero i comunisti nel novero dei «padroni» contro gli
operai: non a caso Lama fu cacciato dall’università di Roma e
Bologna (città rossa per eccellenza) fu messa «a fuoco e
fiamme».
Il cambiamento culturale richiesto da questa proposta si
scontrava, inoltre, contro le suggestioni della nascente cultura
mediale con i suoi contenuti di fondo: consumi e evasione. La
cultura dei doveri (o dei sacrifici) si scontrò con quella
dell’autorealizzazione personale in chiave individualistica. Si
desiderava ardentemente sperimentare il nuovo (con le sue
suggestioni) e non «tornare indietro».
Eppure il messaggio, al di là dei toni morali e astratti,
conteneva un suo nocciolo profondo che avrebbe dovuto
essere almeno considerato: «un’enorme quanto silenziosa
ridistribuzione di denaro […] ha aumentato la forbice tra ricchi
e poveri» (ibid., p. 13).
Ebbe, così, buon gioco chi accusò il pensiero di Berlinguer
di «grave ritardo» nell’interpretare la modernità, sia nelle idee
che nel linguaggio. Era invece vero il contrario, come si
sarebbe visto anni dopo.
Arriviamo, così, all’ultimo messaggio di Berlinguer al
mondo della politica. Ancora più inascoltato degli altri.
L’intervista a Scalfari («la Repubblica», 28 luglio 1981 su
Che cos’è la questione morale?) fu una grande e orgogliosa
difesa della «diversità» dei comunisti rispetto agli altri partiti.
Basti una citazione: «I partiti di oggi sono soprattutto
macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata
conoscenza della vita e dei problemi della società, della gente,
idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione
civile zero […]. I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue
istituzioni, a partire dal Governo. Hanno occupato gli enti
locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche,
gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la RAI TV, alcuni
grandi giornali […] tutto è già lottizzato e spartito o si
vorrebbe lottizzare e spartire […]» (ibid., pp. 134-35).
Parole dure come pietre (ad esempio, nella definizione della
DC come immondezzaio): allora di grande scandalo, oggi senso
comune della maggioranza degli italiani fortemente tentati
dall’antipolitica.
Un secondo motivo di denuncia è indicato così: «Noi
pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto
ovunque si annidi […] che i poveri, gli emarginati, gli
svantaggiati vadano difesi […] che la professionalità e il
merito vadano premiati […]» (p. 138). Non era solo Martelli a
ritenere che si dovessero considerare insieme meriti e bisogni.
È, infine, il terzo (e il meno prevedibile) motivo di
diversità. Pur ritenendo che il «il mercato possa mantenere una
funzione essenziale, che l’iniziativa individuale sia
insostituibile, che l’impresa privata abbia uno spazio e
conservi un suo ruolo importante…», Berlinguer concludeva
però così: il capitalismo che si fonda su questi princìpi non
«funziona più». Il suo degenerare è causa «non solo della
attuale crisi economica, ma di fenomeni di barbarie, del
diffondersi della droga, del rifiuto del lavoro, della sfiducia,
della noia, della disperazione» (ibid., p. 139).
Al dubbio di Scalfari («dunque è l’accettazione della
socialdemocrazia?»), Berlinguer rispose che i problemi relativi
alla crisi di questa forma di capitalismo non erano stati risolti
neppure dalla socialdemocrazia tedesca o dal Labour Party in
Gran Bretagna. A suo dire, la socialdemocrazia aveva difeso i
«protetti», i lavoratori sindacalmente organizzati, ma non era
mai andata al fondo delle cause più profonde della crisi.
Solo alla fine dell’intervista vi è un minimo segnale di
attenzione ai socialisti che hanno «colto alcune esigenze nuove
che affiorano nel paese […] e stanno mandando segnali a strati
della borghesia» (ibid., p. 140). Ma per risolvere i veri
problemi del paese non erano sufficienti il «riformismo e
l’assistenzialismo» e, tanto meno (ovviamente!), la corruzione
e le clientele: i socialisti non erano credibili nel «condurre il
gioco e a garantirne le regole».
È evidente che, sulla base del pensiero di Berlinguer nelle
tre «proposte» sopra esposte, il duello a sinistra non poteva
che inasprirsi nel tempo. La crisi dei due partiti arrivò, nel giro
di dieci anni circa, al suo esito definitivo: quello comunista
costretto a trasformarsi prima in pds e poi in pd. Quello
socialista sparì per sempre. Il ventennio berlusconiano si
gioverà di questo drammatico esito: erediterà la «battaglia»
anticomunista e non pochi transfughi dal PSI.
La morte di Berlinguer accelerò la crisi comunista, anche se
questa era iniziata da qualche anno: lo aveva già ammesso lui
stesso: già «durante i governi di unità nazionale noi avevamo
perso il rapporto diretto e continuo con le masse… (per) errori
di verticismo, di burocratismo, e di opportunismo […]» (ibid.,
p. 146).
La crisi era dovuta anche a non pochi errori nella
conduzione del partito in quegli anni: il più grave fu quello
della lotta per pochi punti di scala mobile che non avevano
neppure «coinvolto» sindacati e industriali. Fu una battaglia
politica persa, così come la successiva (e quasi improvvisa)
deriva verso sinistra, con la difesa degli operai della Fiat e la
conseguente risposta «vincente» della «marcia dei
quarantamila» impiegati e quadri aziendali.
Malgrado questa drammatica deriva finale, c’è una frase
che può essere ricordata per definire l’uomo e il politico
malgrado i suoi errori: «la passione non è mai finita». Non finì
mai fino alla sua drammatica morte che coronerà il mito di un
uomo politico serio, onesto e molto amato.
Ma per un giudizio su quegli anni, c’è da porsi un quesito:
come fu possibile che i vertici del PCI non si rendessero conto,
per tempo, del montante e preoccupante fenomeno delle
tangenti? Eppure da Milano doveva essere arrivato qualche
segnale in proposito. Se questi segnali avevano spinto il
segretario alla denuncia, perché non vi diede vigoroso e
concreto seguito? La politica non era più emendabile? Forse
sarebbe stato difficile ammetterlo.
Al momento, il partito sembrò più preoccupato delle
reazioni suscitate dall’intervista di Berlinguer che del
problema. Natta, pur riconoscendone le ragioni, ne criticò il
tono «moralistico, settario» e la presunzione di presentarsi puri
ed eletti. Napolitano temette che questa «orgogliosa diversità»
potesse impedire il dialogo sul «terreno riformistico»
(Napolitano, 2005, p. 167).
Per entrambi la diversità si sarebbe dovuta coltivare in
campo politico e non solo in quelli ideologico-morale. A
maggior ragione era quindi necessario adoperarsi per un
avvicinamento tra PSI e PCI come «condizione ineliminabile per
la costruzione di un’alternativa democratica [per] non
perpetuare il dramma di una sinistra divisa» (ibid., pp. 177-
78). Una posizione difficile e alquanto ambigua anche se
presentata come «realistica».
Fu l’inizio di una fronda interna che non avrebbe giovato al
partito e che mise in grave difficoltà Berlinguer, tanto che
qualcuno avanzò l’ipotesi di una sua possibile sfiducia:
un’eresia all’interno di un partito come il PCI. Erano comunque
emerse due linee politiche presenti (e mai risolte) all’interno
del Partito: quelle che, non affrontate e tanto meno risolte,
portarono alla sua crisi definitiva.
I «miglioristi» furono messi ancora una volta al margine: fu
un errore.
Gli anni successivi furono molto difficili per il partito che
resse, probabilmente, solo per il credito «popolare» accordato
a Berlinguer da coloro che si sentivano «comunque diversi»,
senza troppo disquisire su quale tipo di linea politica fosse
migliore o possibile. Era più una questione morale, come
aveva sempre sostenuto Berlinguer nei suoi scritti. Una sorta
di eredità che sarebbe continuata come forma elementare (ma
forte) di «resistenza» a Berlusconi e alla sua cultura.
Il duello tra PSI e PCI si concluse a Verona quando (nel
congresso del PSI) Berlinguer venne sonoramente fischiato.
Pochi anni e si arrivò a Tangentopoli. Il riformismo, spesso
invocato, non era stato perseguito da nessuno dei due
contendenti e neppure declinato nei suoi caratteri di fondo e
necessari se non come occasione di confronto in chiave
ideologica.
Lo scontro continuo tra i due partiti «comportò la rovina di
entrambi» (Macaluso, 2013). Non si era trattato solo di uno
scontro tra massimalisti (gli «ultrasinistri» che inseguivano un
ormai impossibile sogno rivoluzionario nel crescente
disinteresse delle masse) e (blandi) riformisti. Restarono due
rigide posizioni tetragone alle «ragioni altrui».
Contribuì (anche se non è sicuramente l’unica causa del
mancato incontro) la differenza psico-antropologica tra i due
leader: uno estroverso, spregiudicato, impegnato a giocare sul
suo fascino-carisma (limitato, malgrado la piaggeria dei «servi
sciocchi» dei nani più che delle ballerine, comunque cercate e
«apprezzate»); l’altro schivo, apparentemente non incline a
cercare il successo immediato, malgrado il suo indubbio
carisma, in un certo senso antipolitico e antimoderno.
Erano differenze che venivano colte dai militanti che si
riconoscevano immediatamente nel loro diverso modo di
pensare e comportarsi e di presentarsi ai potenziali elettori.
Il duello continuò negli anni ottanta, malgrado si tentassero
incontri pubblici (in numerosi convegni) o informali tra alcuni
esponenti dei vertici dei due partiti nel tentativo di trovare un
possibile accordo o almeno di non aggravare lo scontro. Fu
inutile. Eurocomunismo ed eurosocialismo non si incontrarono
mai; la terza via non fu neppure esplorata come possibilità.
Blair e Giddens non ebbero seguito in Italia.
In particolare, a dividere i due partiti vi era il diverso
atteggiamento verso il terzo protagonista (la DC): a parole
antagonista per entrambi i partiti: nella realtà un rapporto
cercato dal PCI e praticato dal PSI. Ovviamente di tutto ciò si
avvantaggiò il partito cattolico che restò al potere malgrado la
scarsa attitudine a risolvere i problemi reali del paese e il suo
ostinato rifiuto ad affrontare qualsiasi riforma.
Il duello portò solo danni alla sinistra. La riprova si ebbe
con elezioni del 1979, quando PCI (di più) e PSI persero voti
non essendo riusciti a convincere gli elettori delle loro
differenti proposte, fondate sul compromesso storico (non
compreso o inviso) da parte del PCI e sulla «stabilità» (che
suonava come un accordo con la DC per governare) da parte
del PSI.
Entrambi i partiti persero anche di credibilità: alla DC era
già successo da tempo per una buona parte degli elettori; però
poteva sempre contare su un solido 30%-35% di
«conservatori» (tendenzialmente apolitici) adesso uniti nel
partecipare (in molti modi, per alcuni molto concretamente) al
potere diffuso e gestito «abilmente» negli enti locali e nelle
istituzioni, oltre che nel Governo. Ovviamente i conservatori si
dichiaravano fedeli ai valori della tradizione e della morale
cattolica.
Avvenne così che il voto premiò i partiti minori (in
particolare i radicali): era un preciso segnale di una domanda
per un’alternativa politica reale. Fu ignorato. Non era ancora
antipolitica, ma un progressivo disinteresse per proposte
politiche astratte, espresse in puro politichese. Secondo il
parere (condivisibile) di Bobbio, gli elettori cominciarono a
votare con meno partecipazione-convinzione che nel passato.
Si cominciò a votare per «il meno peggio» o «contro», non più
per adesione a dei programmi o per convinzione ideologica.
I due partiti di sinistra ne pagarono le conseguenze. La
delusione riguardò maggiormente il PCI per la mancata
«svolta» e la proposta (poco condivisa) di un possibile
apertura alla DC. Pochi colsero il distinguo di «aprire alle
componenti progressiste cattoliche» e non al partito che era
stato fino ad allora il principale avversario. Ma pagò anche il
PSI per il «divario molto marcato fra l’immagine del partito del
progetto» e la realtà della gestione dei suoi vertici che
sembravano interessati solo all’accordo politico a livello
parlamentare o a come gestire il potere locale.
Quello socialista era diventato sempre più «partito
d’apparato» e non d’opinione, secondo le pessimistiche
previsioni di Coen espresse già qualche anno prima (tavola
rotonda su «Una sinistra da ricostruire», «Mondo Operaio»,
giugno 1979). Lo stesso Coen, pochi mesi dopo
(nell’editoriale di dicembre dello stesso anno, in «Mondo
Operaio») aveva insistito sul «disagio nel partito e nell’area
socialista» per doversi considerare un partito controllato da
«oligarchie che si rinnovano solo per cooptazione». Secondo
questa (accorta e accorata) denuncia, ovviamente non
ascoltata, il PSI si stava trasformando in un partito di potere, un
«inquilino del Palazzo». Era svanita la volontà di affrontare «i
problemi vitali per l’avvenire della società italiana: ecologia,
droga, politica energetica, questione nucleare». Sarebbe stato
necessario «un rinnovamento del gruppo dirigente, […con] più
idee e meno poltrone» (ibid.).
Parole dure, senza bisogno di commento. Non è importante,
oggi, stabilire se fossero giuste o esasperate nella diagnosi.
Sicuramente risultarono profetiche. Celebrarono il definitivo
divorzio tra gli intellettuali (o, almeno, quelli attorno a
«Mondo Operaio», ma non solo) e i vertici del partito. Un
dissidio interno destinato a non essere più risolto. Qualche
anno dopo (tavola rotonda su «Il potere e il consenso. Le due
facce della questione socialista», ottobre 1983), alcuni degli
intellettuali (Coen, Covatta, Marianetti) che avevano
contribuito al «Progetto» osservarono (sconsolati) che non si
poteva avere un terzo delle «poltrone che contano» con un
nono dei voti ottenuti alle elezioni. Non c’era più traccia di
una «militanza disinteressata», mentre questa sembrava ancora
esistere nell’area comunista.
L’insensibilità per la «questione morale» teneva lontano un
certo numero di potenziali elettori del PSI (attratti dalla sua
«modernità») che non potevano condividerne l’atteggiamento
spregiudicato, progressivamente anche ostentato. Così non si
rubarono molti voti al PCI (nell’area dei ceti medi moderni e
riformisti) e non si riequilibrò il peso dei due partiti: restava
difficile proporsi alla guida di un’alleanza avendo solo poco
più di un terzo di voti del potenziale alleato.
Chi nel PSI temeva il nuovo corso e aveva suggerito per il
congresso (a Verona) due parole d’ordine (modernizzazione e
moralizzazione), da coniugare insieme a «atti esemplari e
regole nuove», non fu ascoltato. Anzi. Il congresso si concluse
con le bordate di fischi a Berlinguer che seppellirono ogni
speranza di alternativa.
Ma anche il congresso del PCI del 1983 non favorì alcun
possibile dialogo, malgrado fossero emersi accenni di stampo
riformista: in particolare parlando in modo nuovo di Stato e
mercato. Si arrivò a riconoscere il «profitto di impresa» e si
parlò di ridistribuzione sociale della ricchezza in chiave di
«intervento» (e non di negazione) sull’economia di mercato
attraverso precise politiche di programmazione.
Nello stesso congresso si parlò anche di una politica «del
fare», come era stata portata avanti con successo nelle giunte
locali che avevano affrontato (anche se non sempre risolto)
problemi come occupazione, sanità, scuola, trasporti, rifiuti,
ecc. Una politica di chiaro stampo riformista premiata dagli
elettori.
In qualche intervento dello stesso congresso emersero,
senza mai dichiararle esplicitamente, la possibilità e l’utilità di
pensare a un’alternativa al «governo», per poter poi realizzare
quelle di «sistema». Era un’apertura, alquanto involuta, a
favore di un’alleanza a sinistra.
Permaneva, però, una sorta di damnatio ideologica: si
continuava a parlare della classe operaia (come motore del
cambiamento) anche se questa aveva subito una profonda
mutazione con l’emergere di diffuse aspirazioni borghesi. Tra
l’altro anche non pochi rappresentanti-funzionari del partito
erano di provenienza impiegatizia-intellettuale, sempre meno
venivano dalle fabbriche (al più dai sindacati). Era la piccola
borghesia d’apparato che in molti casi veniva promossa in
cariche elettive rese sicure dalle precise indicazioni del partito.
Una contraddizione interna non di poco conto.
Ciò era in linea con un secondo aspetto della damnatio
ideologica: voler restare fedeli al centralismo democratico
quando questo era di fatto superato. Una resistenza
immediatamente evidente nel linguaggio, in rigido politichese,
usato all’interno del partito. Con un ulteriore difetto: i
funzionari obbligati a trasformarsi in tuttologi si dovevano
occupare dei più svariati problemi che una società in
trasformazione portava alla ribalta: furono perciò spesso
costretti a rifugiarsi nei «fumi dell’ideologia». Un peccato
pagato a caro prezzo.
Il duello si stava avviando a conclusione. Nei primi anni
ottanta, il PSI sembrò vincere: Craxi era alla guida del
Governo. Era la prima volta di un premier socialista con un
presidente della Repubblica socialista. In meno di dieci anni
dopo vicende alterne (non ultima una sorta di una congiura-
complotto interno per la rimozione del segretario), il partito
finì sotto la valanga di Tangentopoli. Non sarebbe più risorto.
Eppure, il PSI aveva saputo avanzare non poche proposte
politiche innovatrici. Specialmente l’ultima, e cioè la
ridefinizione del partito come «liberalsocialista», con un
evidente superamento della matrice socialdemocratica.
Proposte che erano (ancora una volta) il contributo di molti
intellettuali che non avevano abbandonato il partito, malgrado
le loro accuse di «autocensura e piaggeria di molti» e che
davano un importante contributo nelle riviste vicine al partito
o nei convegni. Come quelli organizzati a Milano dal Club
Turati o in molte città italiane dal Club dei Club di cui era
anima, nell’ideazione e nella gestione, fu Bruno Pellegrino.
(Pellegrino, 2010)
Non c’è dubbio che la cultura politica di stampo riformista
avesse avuto più spazio e attenzione (culturale, non come
realizzazione) in casa socialista; nel PCI i «miglioristi» fecero
sempre grande fatica a esprimere le loro posizioni. Furono
sempre poco ascoltati anche se rispettati, soprattutto
all’esterno del partito.
Diverso fu anche il destino (o il ruolo) degli intellettuali.
Esaurita nel PCI la stagione degli «intellettuali organici» che
non diedero complessivamente grande prova di innovatività e
comprensione dei cambiamenti in corso, molti si diedero a
operare nei più liberi pascoli dell’industria culturale (editoria,
TV, università) dove furono gli artefici di una sorta di
egemonia «nelle idee». Il partito non seppe però approfittarne
per farle seguire da conseguenti proposte politiche.
In sintesi si potrebbe dire che gli intellettuali di area
socialista operarono «dentro» (o vicino) al partito, mentre
quelli di area comunista operarono «a lato» del partito.
Indubbiamente, i primi compresero meglio e prima il
cambiamento sociale che stava avvenendo: non furono
ascoltati, in qualche caso vennero perfino dileggiati. I secondi,
esclusi dalla politica, contribuirono in modo determinante
all’affermazione di quella cultura moderna (in particolare
mediale) che mescolava, nelle sue proposte, prodotti di qualità
e kitsch, favorendo indirettamente quel carattere di ecclettismo
e di superficialità che favorì la fuga nel privato.
Un tragitto verso la modernità che avrebbe reso obsoleta
ogni tradizionale forma di partecipazione sociopolitica.
I primi cercarono, non riuscendoci, di innovare nel
«pubblico»; i secondi seppero invece proporre una decisa
innovazione nella cultura. Nel frattempo, la vecchia politica
moriva anche grazie al discredito che la rappresentazione
mediatica alimentava giorno dopo giorno.
In questo contesto sociale, vennero a formarsi i due tipi di
borghesia di cui si è già accennato. La prima, quella formata
prevalentemente dai manager delle aziende pubbliche o private
e dai politici di professione, impegnata di fatto a mantenere lo
status quo. La seconda era quella formata dai lavoratori
intellettuali (insegnanti o operatori culturali del mondo dei
media) continuava a coltivare, anche se astrattamente, l’ideale
di un cambiamento possibile. Muovendosi in una prospettiva
«concretamente» (nelle cose, nei progetti, ecc.) riformista.
Sarebbe troppo semplice definirli conservatori e
progressisti, ma è indubbio che tra i due gruppi crebbe, nel
tempo, una profonda differenziazione culturale, quasi
antropologica. Nella difficoltà di trovarne altre, possiamo
utilizzare i termini di «borghesia acquisitiva» e «borghesia
riflessiva» (Ginsborg).
In entrambi i casi, anche se in modi assai diversi, hanno
rappresentato un «salto in avanti» (come interessi e
formazione) rispetto alle generazioni precedenti e alle loro
idee. Indubbiamente grazie a loro l’Italia diventò un Paese
moderno. Nessuno di questi due gruppi è stato però artefice di
un reale cambiamento politico: i primi perché più coinvolti dal
proprio «particolare» (grande o modesto che fosse), i secondi
perché non ebbero progressivamente più voce e
rappresentanza.
Nella seconda metà degli anni ottanta andò così
tramontando ogni speranza (o illusione) di una possibile
politica riformistica (o riformatrice) relativa alle «cose che non
funzionavano». Sembrò essersi realizzata la profezia
marcusiana di una levigata seduzione (nell’evasione e nei
consumi) capace di sopire ogni coscienza critica.
Qualche spazio riformista restò solo nell’operato delle
giunte di sinistra di alcuni comuni o regioni, almeno finché fu
data loro la possibilità di operare al di fuori dalle indicazioni
delle segreterie nazionali. Un fenomeno realizzato in alcune
grandi città almeno fino alla metà degli anni ottanta. Poi anche
questo spazio si ridusse.
La conseguenza fu che gran parte degli italiani (o la quasi
totalità) si allontanò (per sempre?) dalla politica. Dai primi
anni novanta, disaffezione, distacco, disincanto erano i termini
più usati per definire il comune atteggiamento verso la politica
o, meglio, verso i «giochi» dei politici (Livolsi-Volli, 2000).
Un trend su cui si innestò naturalmente, negli anni
successivi, il fenomeno dell’antipolitica.

2. E poi?…
Nella storia della Prima Repubblica si possono trovare
molte tracce del malessere sociale che caratterizza il tempo
presente nel nostro Paese.
L’Italia è ora una «società di individui», come tutte gli altri
Paesi investiti dalla post modernità. Da notare che
l’individualismo è stato, da sempre, un carattere preminente
dell’identità nazionale: da quello «amorale» (preoccuparsi
esclusivamente del proprio immediato intorno familiare)
studiato da Banfield (1976) negli anni immediati del
dopoguerra a quello egoista-edonista al passaggio del secolo.
Nel dopoguerra le premesse erano diverse. Il «vento del
Nord» (quello che aveva iniziato a spirare con la Resistenza)
aveva reso possibile l’illusione che potesse nascere una diffusa
partecipazione politico-sociale nell’ambito di profondo
cambiamento economico e culturale. Un vento piuttosto forte
al Nord, debolissimo al Sud.
Una speranza durata circa trent’anni, vanificata dal mancato
riformismo: non si sono fatte (o si sono malamente realizzate)
quelle riforme che avrebbero fatto dell’Italia un Paese
moderno.
Si è così assistito allo scempio delle città (e delle coste), al
malgoverno della scuola (carente nell’indirizzare a un lavoro
e/o costruire buoni cittadini), della giustizia (lenta e non
sempre adeguata ai tempi, anche se spesso obbligata a sanare i
guasti della politica), del sistema sanitario, dapprima assente e
poi carente (almeno nei tempi e nella sua organizzazione), e
così via. Alcune riforme non furono del tutto adeguate e
efficaci: basti pensare a quelle relative alle Regioni o alla RAI.
La conseguenza fu che la partecipazione venne a declinare
proprio quando sarebbe stata invece necessaria una forte opera
di proposta e vigilanza nei riguardi dei politici che si erano
messi in cammino verso una progressiva autoreferenzialità. La
politica finì con l’essere un mondo lontano se non estraneo per
la gran parte degli italiani che si erano da tempo impegnati a
fare, per il meglio e onestamente, il proprio lavoro.
La politica fu dominata per anni dalla DC (bigotta e
bacchettona) che aveva come missione il «progresso senza
avventure» ed era lacerata da correnti interne (guidate dai
«signori delle tessere») unite solo dalla comune pratica della
lottizzazione-corruzione. I clientes fedeli furono ricompensati
con un perverso utilizzo delle risorse pubbliche. Si mise in
moto un perverso welfare. Se ne pagano ancora le
conseguenze.
Chi avrebbe (i due partiti della sinistra) dovuto combatterla
con forza (e non era affatto facile!) esaurì le proprie energie in
uno sciagurato duello: lo persero entrambi e con loro il Paese.
Si creò così un vasto spazio per la «zona grigia» del Paese e
il suo malcostume: quella abitata da banchieri, faccendieri e
malavitosi, logge massoniche, mafie. Un luogo sempre di forte
attrazione per i politici peggiori: non furono pochi. Così come
non furono pochi gli italiani che cercarono di imitarli.
In precedenza vi erano stati gli anni del terrorismo nero e
rosso e la (breve) stagione delle bande criminali nelle grandi
città. Nel Sud le mafie consolidarono il loro dominio.
Perché gli italiani avrebbero dovuto riconoscersi in questo
sistema? La scontata conseguenza fu che il dialogo cittadini-
politici si interruppe o diventò sempre più ambiguo e colluso.
Una soluzione (molto diffusa) fu la «fuga nel privato».
Molti si lasciarono sedurre dalle lusinghe del benessere (i
consumi, i viaggi, il vestirsi secondo un proprio gusto) e dalle
magie del piccolo o grande schermo, ma anche dai settimanali,
dal canto libero dei cantautori. Contemporaneamente si
imposero gli spettacoli «modestamente sfarzosi» del sabato
sera televisivo: canzoni, comici, balletti. Perse smalto la
commedia all’italiana che aveva «preso in giro», ridendo,
l’italiano un po’ gaglioffo.
Lentamente ma inesorabilmente, gli italiani furono attratti
(come ipnotizzati) dalla «scena» pubblica (quella narrata dai
media) in cui si raccontavano le storie di personaggi famosi
anche se modesti: era la vita che molti avrebbero voluto vivere
e che sembrava possibile. Una ventata di collettivo
pettegolezzo (il gossip) fu la parte più consistente della
cronaca della quotidianità; una sorta di storia della
contemporaneità (quella dei «soliti noti») che fece da contesto
alla vita normale della gente comune. Un inconsueto ma
efficace canale di socializzazione ai tempi nuovi.
Gli italiani vissero così l’emozionante avventura di
diventare protagonisti del proprio personale progetto di vita:
scegliersi un partner, un lavoro, dove vivere, come divertirsi,
chi frequentare, come investire i primi risparmi.
Ciò che appariva sulla scena mediale era certamente più
coinvolgente di ciò che avveniva e caratterizzava la sfera
pubblica: quella in cui (secondo Habermas, 2002) si trattano,
si discutono e si prende posizione sui problemi comuni che
decidono del futuro di un gruppo sociale, di una nazione.
La sfera pubblica rimase esclusivo dominio dei politici; la
difesero da ogni possibile controllo esterno utilizzando un
linguaggio astruso, tessendo trame a cui facevano partecipare
solo i più fedeli seguaci (o complici?).
Criticare era possibile ma inutile. Pochi avevano voce e/o
ascolto da parte dei potenti. Non certo i bravi cittadini, sempre
più ai margini; ovviamente non si impegnavano in tal senso
coloro che cercavano di trarre qualche vantaggio dalla politica
del malaffare.
Non ci riuscirono neppure i media che avrebbero dovuto
essere i paladini della pubblica opinione. La TV era la voce
«ufficiale» dei potenti al Governo; i giornali prima dovettero
tener conto degli interessi (tra economia e politica) dei loro
editori, poi si abbandonarono a una cronaca intessuta da
continui scandali, senza però che se indicassero chiaramente le
cause e i responsabili. Produssero così più assuefazione (o
rassegnazione) che non un atteggiamento critico forte e
costruttivo.
Il confronto fu sempre più favorevole alla «scena», alle
storie e ai suoi protagonisti narrati dai media. Qualcuno cercò
anche di emularli: magari provando a cantare o a rispondere a
qualche domandina facile facile. Altrimenti c’erano
scommesse e lotterie varie. Le belle ragazze scoprirono che
«mostrarsi» era una via non troppo complicata alla notorietà e
a un certo benessere: prima come modelle e poi come vallette.
Non a caso tutto ciò era promozionato dalle due industrie
allora di grande successo: la televisione e la moda.
Il cambiamento a livello culturale fu comunque notevole,
anche se limitato alla sfera del privato. Anche grazie alla
«quasi-realtà» dei media che faceva apparire tutto possibile, da
«tentare»; spesso senza calcolare le risorse necessarie e le
possibili conseguenze. Fare «sogni a occhi aperti» (davanti a
un televisore o leggendo un settimanale femminile) era
ovviamente più attraente che ascoltare Andreotti o Moro o
seguire le poco convincenti proposte del compromesso storico
e dell’austerità: queste erano apparse estremamente
improbabili anche ai poco esperti spettatori della politica.
Le differenze non furono più di matrice ideologica, ma
determinate dagli stili di vita che ogni italiano si andava
scegliendo sulla base delle proprie scelte di fondo: chi si
sentiva moderno (e un poco spregiudicato) e guardava al
futuro anche in chiave europea, votava PSI; chi si sentiva
«diverso» (non riconoscendosi nei potenti di turno) e aspirava
a un deciso cambiamento (anche se il termine rivoluzione era
tramontato per sempre) votava PCI o radicali. Chi non voleva
che le cose cambiassero, da conservatore convinto (anche se
non amava definirsi tale), votava DC sulla base di una filosofia
e di una politica fondata su una occhiuta difesa dei propri
interessi. Quest’ultima una posizione («preideologica») che ha
stabilmente attirato almeno un terzo di tutti gli italiani lungo
tutta la storia del Paese. Chi era «nostalgico» (giovane o
vecchio che fosse) votava MSI; i «rivoluzionari» (post-
movimenti) per il pd. Gli altri, malgrado spesso valide ragioni
familiari o «geografiche», sembravano restare fuori dai giochi.
La democrazia dei partiti, nata nell’immediato dopoguerra,
declinò nel giro di circa trent’anni. La partecipazione politica
divenne una pratica che si andò svuotando di significato, quasi
un dovere inutile: non serviva a cambiare le cose.
Con Tangentopoli arrivò a conclusione la Prima
Repubblica; la storia narrata nelle pagine di questo libro
finisce qui. Da allora ne è iniziata un’altra che arriva ai giorni
nostri e che ha origine negli anni precedenti.
Di questa accenniamo solo a due fenomeni che, a nostro
avviso, hanno caratterizzato gli ultimi vent’anni: la
comunicazione politica e il fenomeno del leaderismo-
populismo.
Quanto al primo, si pensò di utilizzare la stessa arma (gli
stilemi di successo della comunicazione mediale, tra spot e
fiction), rivestendo di immagini (e quindi modernizzandoli)
slogan che lanciavano messaggi fulminanti: come quelli della
«discesa in campo» o del «milione di posti di lavoro».
Ovviamente, perché la comunicazione fosse efficace, erano
necessari protagonisti credibili e di immediato carisma, capaci
di «bucare lo schermo» arrivando alla pancia prima che alla
testa dei potenziali elettori, ormai ridotti a spettatori. L’altra
alternativa, molto battuta, sono stati i talk show, dove tutti
parlano senza ascoltarsi e senza confrontarsi sui fatti; magari
ricorrendo allo sberleffo, alla pesante ironia fino ad arrivare
all’insulto, nell’illusione di mantenere desta l’attenzione di chi
guarda e non sempre ascolta.
I cittadini-elettori sono così diventati «audience», da
«contare», da studiare con i sondaggi che dovrebbero dar
conto delle loro aspettative o richieste. Ovviamente in modo
del tutto superficiale.
È il passaggio dalla partecipazione alla politica-spettacolo,
senza però l’impegno di ricerca (le tecniche di marketing alla
base della comunicazione aziendale) e la imprescindibile
«professionalità» di abili comunicatori (che, come registi e
sceneggiatori) creano le apparentemente «facili» storie degli
spot.
I cosiddetti spin doctor nostrani sembrano una caricatura di
quelli che tentano di imitare sull’onda dei “racconti” che
provengono dagli USA, senza tener conto della diversa
preparazione e precise professionalità (anche tecniche, ad
esempio in chiave di comunicazione digitale) utilizzate. Senza
contare il notevolissimo impegno finanziario.
Non a caso molti politici che avevano messo il proprio
nome sulle bandiere di partito sono scomparsi in fretta. Basti
un solo esempio: quello dell’eroe di Mani Pulite, finito nel
tritacarne della politica «bassa» che aveva tentato di arrestare.
Il populismo, filosofia di fondo di questo perverso rapporto
con i cittadini-elettori, è fenomeno molto prossimo all’
antipolitica. Quest’ultima è, a nostro avviso, una forma molto
attuale di qualunquismo: una tentazione ricorrente negli
italiani nel loro rapporto con il gioco democratico (spesso
complicato e poco chiaro) della politica. Con un importante
risvolto: l’antipolitica dei tempi presenti è un fenomeno
negativo ma assolutamente comprensibile nelle sue
motivazioni. È il prodotto di quanto, nelle pagine del libro, si è
definito autoreferenzialità, inefficienza e corruzione dei
politici. Fenomeni che continuano tutt’ora: basti pensare alla
corruzione che ritorna puntualmente nella cronaca dei
quotidiani.
L’antipolitica è stata la risposta conseguente a quei
fenomeni. Altre sarebbero state possibili solo sulla base di una
rivolta culturale (o morale?) possibile, forse, senza la sbornia
mediale e del privato edonistico.
È stato quasi impossibile, negli ultimi vent’anni circa,
coltivare la «bellezza e dignità» della politica. La sua difesa
sarebbe stata la più importante delle riforme assolutamente
necessarie. Nessuno si è impegnato in tal senso.
Si è così passati dalla rappresentanza alla rappresentazione.
Ovviamente quest’ultima ha certamente favorito il rifiuto e/o il
disinteresse per la politica.
La generalizzata fuga nel privato ha finito per confluire,
naturalmente, nel più vasto alveo del fenomeno
dell’individualismo di massa e/o della «società degli
individui» (Livolsi, 2006): quella fondata essenzialmente sulla
rete delle relazioni sociali di chi ne fa parte, adesso (sempre
più) integrate dalle connessioni digitali che collegano con il
mondo virtuale della «realtà aumentata».
L’individualismo non si muove per progetti collettivi, ma
solo come esplosione di progetti individuali nel contesto di un
mondo magmatico, affollato di suggestioni e cose nuove. Un
mondo caotico, affascinante, di cui è difficile comprenderne le
tendenze e i reali valori di fondo. Una esperienza in cui
l’entusiasmo per il «tutto possibile e affascinante» convive con
il malessere di non riuscire a costruirsi un progetto individuale
di vita che corrisponda alle aspettative soggettive e alle
promesse del sociale mediato. Un progetto spesso reso difficile
dalle molte incertezze personali e dalle risorse (economiche,
ma non solo) non sempre adeguate.
Un contesto definito anche «società liquida» (Bauman); in
Italia coincisa con la «liquefazione» della prima modernità e
della Prima Repubblica. In questo più attuale contesto si
muove un «io liquido», dall’identità incerta e ondivaga:
prodotto del confronto tra ipertrofia delle possibilità
(apparenti) e i limiti-incertezze delle abilità individuali usate
per affrontale. L’«io liquido» è quello dell’attore «solitario»,
dall’identità multiforme e indefinita, preda spesso di un
«malessere» che nasce dalle esperienze di precarietà e
insicurezza e per la paura di non essere all’altezza dei compiti
e delle possibilità che si manifestano come continua tentazione
(Young, 2007).
Abbiamo dato molto spazio a Milano. Mettere a confronto
la «piccola patria lombarda» con quella nazionale ci è servito
per illustrare due diversi modi di «fare politica» o due modi di
intendere il rapporto tra politici e cittadini. O, detto
diversamente, di «illustrare le virtù» del riformismo inteso
come «ascolto» dei bisogni, interessi e attese, di chi fa parte di
una certa comunità.
Milano, negli anni settanta, era una realtà con molti
problemi. Era attraversata dalla crisi economica delle grandi
industrie milanesi e dalla tragica follia del terrorismo e da
quella (breve ma intensa) di alcune bande criminali. Una città
con mille problemi, forse non più una comunità a cui
appartenere con orgoglio: non più capitale economica e
sempre meno capitale morale.
Eppure, nel giro di dieci anni circa, passò dagli anni di
piombo alla «Milano da bere». Da intendersi non solo
nell’accezione negativa del facile consumismo o e del
malaffare, ma come la stagione di fenomeni economico-
culturali di assoluta rilevanza (nell’ormai prossima stagione
della seconda modernità) come la moda, il design, la
comunicazione (con le TV e le radio private), la pubblicità.
Un passaggio fondato sulla motivazione del voler «fare»
(dei milanesi e dei loro amministratori) anziché sulle sterili
discussioni-concertazioni in chiave lottizzatrice. Era questo un
carattere che apparteneva da sempre all’identità di Milano,
durato fino al doversi assoggettare alla politica del Palazzo e a
un diverso modo di fare politica.
Può sembrare scontato che sia più facile governare una
città-provincia che non un Paese: non solo come problema di
scala, ma come complessità dei problemi da affrontare e delle
risorse necessarie per avviarli a risoluzione.
Vero. Ma si può considerare anche il contrario. Ottenere
risultati concreti a livello nazionale (sulla base di riforme
portate efficacemente a termine) ha un valore simbolico ben
maggiore e una ricaduta di ben più vaste proporzioni.
Facciamo un solo esempio. Si pensi a quali effetti avrebbe
potuto ottenere una reale riforma della scuola e della ricerca
scientifica. Sicuramente il Paese avrebbe avuto un ben diverso
sviluppo, non solo a livello economico.
Un’ultima ipotesi. Un confronto tra Milano e la realtà
nazionale sarebbe intrigante anche proiettandolo nel futuro.
Dopo il «grande sonno» (in città fino all’Expo e nel Paese con
il ventennio della politica-spettacolo), le due «belle
addormentate» potrebbero (apparentemente vorrebbero)
svegliarsi. Perché ciò avvenga sono però necessari fenomeni-
fatti che avviino a una precisa discontinuità, agendo da volano
per il cambiamento.
Al momento non sono evidenti. In molti casi sono solo
ipotesi. Anticiparli, più che aspettarli, è il senso della sfida nel
prossimo futuro; a Milano e nel Paese.
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Indice

Prefazione
Il riformismo mancato
Parte prima. Milano. Italia
1. Dall’immediato dopoguerra agli anni ottanta
1. Verso la democrazia realizzata
2. Il Paese povero e incolto
3. Le vie soggettive verso la prima modernità
4. Gli anni del miracolo
5. Il sociale marciò più veloce della politica
6. Un primo cambiamento
7. La stagione dei governi di centro-sinistra,
8. Studenti e operai uniti nella lotta
9. La fuga nel privato
10. Gli anni di piombo
11. Gli anni del mancato cambiamento
12. La morte del cinema (italiano)
13. La modernità nel privato, l’egemonia della TV
14. A proposito di riflusso
15. Verso gli anni ottanta con sinistre previsioni

Parte seconda. Dagli anni di piombo alla «Milano da bere»


2. Milano e le giunte di sinistra
1. La prima giunta di sinistra
2. Anche la seconda giunta di sinistra arriva al suo termine
3. Verso gli anni spensierati della «Milano da bere»
4. Il fenomeno moda e Milano
5. Dopo…
3. Le ragioni del successo delle giunte di sinistra
1. Obiettivi e strategie
2. Teatro e spettacoli
3. Le grandi mostre
4. Un’arte minore (?): il design
5. Milano e Roma
6. Urbanistica e dintorni
7. Quasi una postilla: il riformismo municipale

4. Milano da capitale morale a capitale dell’economia, poi


dell’effimero (moda e TV) e infine capitale (cosiddetta)
immorale
Parte terza. Due fenomeni avversi alla diffusione di una reale
e convinta partecipazione politica
5. L’industria «artigiana» (giornali e libri)
1. Giornali e periodici
2. I libri
3. Per concludere

6. Il riformismo mancato
1. Il duello a livello nazionale
2. E poi?…

Bibliografia
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