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Canzoni e società italiana tra 1946 e 1958

Grande storia e piccole canzoni


In un’ampia prospettiva, la storia degli ultimi 70 anni appare divisa in due epoche storiche,
con gli anni settanta come svolta periodizzante. La prima di queste epoche è stata
autorevolmente definita, per l’Occidente, “l’età dell’oro”, perché segnata dalla “più rapida e
fondamentale trasformazione economica, sociale e culturale che la storia ricordi” (E.J.
Hobsbawm, Il secolo breve, 1994). Più recentemente, Alberto De Bernardi l’ha definita
“l’età del capitalismo statalmente organizzato”, contrapposta alla successiva epoca della
“globalizzazione neoliberista” (A. De Bernardi, Un paese in bilico, 2014). L’unitarietà di
quell’epoca storica vale per l’Occidente e dunque anche per l’Italia, che dal dopoguerra
agli anni ’70 (alla loro fine, nel caso italiano), compì la sua “grande trasformazione”: una
società ancora in gran parte agraria divenne industriale-urbana, con tutti i processi a
questo connessi, riassumibili nella categoria della modernizzazione.
All’interno di un’epoca fondamentalmente unitaria, però, va posta una sotto-
periodizzazione tra un “lungo dopoguerra”, durato fin verso la fine degli anni ’50, e il
successivo ventennio.

La svolta del 1958


Per l’Italia è ovvio assumere come svolta il 1958: il primo anno del “miracolo economico”;
l’anno in cui il numero dei lavoratori dell’industria sorpassò quello degli addetti
all’agricoltura; in cui iniziò la costruzione dell’autostrada del Sole e prese avvio il mercato
europeo, dopo il trattato di Roma firmato l’anno prima. Fu una svolta non solo per
l’economia. Silvio Lanaro, il primo a proporre questa periodizzazione (nel suo Storia
dell’Italia repubblicana, 1992), tratteggiò con grande efficacia l’atmosfera sociale, politica e
soprattutto culturale del “lungo dopoguerra”, e così hanno fatto poi le ricerche di Guido
Crainz (fino all’ultimo Storia della repubblica, 2016). L’epoca che essi richiamano fu quella
della “democrazia protetta” (espressione di De Gasperi che di fatto significò della
“Costituzione congelata” e, per molti cittadini, dei “diritti negati”); di uno Stato che nelle
norme come negli apparati mostrava vistosi tratti di continuità con quello fascista; di una
società che liberava sì energie nuove, ma anche umori antichi e profondi, efficacemente
definiti con la categoria dell’apotismo (cioè la convinzione tutta italiana di pensare di
“essere i furbi che non la bevono”); di una Chiesa cattolica che dispiegava tutto il suo
potere e la sua forza organizzativa in un disegno di egemonia integralista, insofferente sia
del pluralismo democratico sia dei valori della modernità (un solo esempio, tra
innumerevoli possibili: nel 1958 il vescovo di Prati fece leggere nelle chiese della città una
lettera in cui bollava come pubblici peccatori e concubini due coniugi che si erano sposati
con rito civile, in Crainz, cit., p.69). In questa prospettiva, il 1958 diventa data
periodizzante anche – e soprattutto – per la fine del pontificato di Pio XII, l’ultimo “principe
della Chiesa”, vessillifero della crociata contro il “comunismo ateo”, non in nome della
“civiltà occidentale” quanto dei valori tradizionali della “civiltà contadina”.

Differenze tra anni ’50 e ‘60


La differenza tra il clima politico-culturale degli anni ’50 e quello degli anni ’60 non è una
“anomalia” italiana. Se collochiamo la storia italiana nel contesto di quella delle società
occidentali, emerge che l’asprezza dei primi anni della guerra fredda e il clima interno di
crociata anticomunista erano comuni a tutto l’Occidente: si vedano il maccartismo negli
Usa e il prevalere ovunque di governi conservatori. Lo stesso si può osservare per il
tradizionalismo nei valori e nei comportamenti, in particolare nei rapporti di genere: gli anni
’50 videro l’esaltazione della donna casalinga, sia pur non più “angelo del focolare” bensì
moderna manager di una casa affollata di nuovi elettrodomestici, e come tale principale
destinataria dei nuovi sistemi di promozione dei consumi di massa.
Sottolineare questi tratti comuni agli altri paesi occidentali non impedisce di vedere alcune
specificità del caso italiano, ove furono più nette le differenze tra il clima del “lungo
dopoguerra” e quello dei decenni successivi. Nel nostro paese il poderoso processo di
trasformazione e di modernizzazione economica e sociale, in atto già dagli anni della
“ricostruzione”, rimase sotterraneo, pressoché invisibile fin quasi alla fine degli anni ’50.
Perché?

Le cause individuate dalla storiografia sono diverse, ma con effetti convergenti:

a) le condizioni iniziali molto più arretrate che nel resto dell’Occidente, in particolare nel
Sud, e ciò non solo nelle condizioni di vita ma anche nel tessuto sociale, civile e culturale;

b) lo strapotere padronale sui luoghi di lavoro, che faceva crescere i profitti e gli
investimenti ma non i salari, per cui rimanevano deboli i consumi delle famiglie;

c) i fattori prima richiamati, cioè la pesante eredità del ventennio fascista, i tratti illiberali
presenti sia nello Stato sia nella mentalità diffusa in vasti strati della società, e l’influenza
molto più forte e più diretta di una Chiesa in quegli anni realmente oscurantista.

Le canzonette riflettono i cambiamenti sociali


Per sintetizzare questo periodo, potremmo dire che in quel “lungo dopoguerra” la società
italiana “correva avanti ma guardava indietro”; ovvero stava realizzando un’enorme
trasformazione, sul piano strutturale, ma quasi senza rendersene conto, per il permanere
di una mentalità collettiva (valori, credenze, aspettative, fantasie) rivolta al passato.
Questo processo si osserva magnificamente nella canzone popolare, che in Italia si è soliti
chiamare “musica leggera”. Proprio perché destinata a un pubblico di massa, questa era la
forma di cultura più “sorvegliata” dal potere, più soggetta ai controlli e alle censure dei
governi democristiani del tempo e della Chiesa, al cui “magistero” la Dc degli anni ’50 si
rimetteva completamente, lasciandole il più ampio spazio d’influenza.

Per questo motivo la canzone, assieme alla radio e alla neonata televisione (soggette ad
analoghi controlli), sono le forme di cultura di massa più rivelatrici del mutamento del clima
culturale che si ebbe dagli anni ’50 ai ’60. Certo è che, come si vedrà nel secondo studio
di caso proposto, anche in musica la svolta epocale fu nel 1958, con “Mister Volare”
(Domenico Modugno) e con l’irruzione dall’America delle mode musicali giovanili, a partire
dal rock’n roll.

Un passo indietro: le origini della “canzone all’italiana”


La fama dell’Italia come “Paese del bel canto” nacque nell’Ottocento da due tradizioni
canore che sarebbero state poi all’origine della canzone italiana: la romanza lirica del
melodramma (l’opera lirica era allora molto più popolare che ai nostri giorni) e le tradizioni
dialettali locali, in primo luogo la canzone napoletana. Con questa doppia derivazione, la
canzone italiana nacque nel primo Novecento ma divenne “adulta” solo negli anni ‘20 e
’30. Si affermarono allora i tratti tipici della “canzone all’italiana”, sulle orme di quella
napoletana: melodica, sentimentale, con temi spesso patetici e strappalacrime come amori
infelici (quasi sempre per colpa di donne “tentatrici” e “peccaminose”), o la nostalgia del
“bel tempo che fu”. C’era anche il filone delle canzoni molto allegre e orecchiabili, a volte
filastrocche comiche o surreali, giocate sul nonsense o su doppi sensi. Fondamentale:
erano tutte canzoni da ascoltare, cantare, ballare.
Negli anni ’30 iniziò l’influenza di musiche americane come il jazz e soprattutto lo swing,
più ritmiche (anche se fortemente ostacolate dal regime, che le bollava come “barbara
anti-musica negra”) e con esse la contrapposizione tra innovazione, derivante
dall’America, e tradizione, rappresentata dalla canzone melodica “all’italiana”. Negli anni
’30 vi furono altre grandi novità:

a) la radio, nata nel 1925, cominciò a diventare il principale canale di diffusione delle
canzoni, più del costoso grammofono;

b) il cinema divenne sonoro, nel 1930, con un film musicale (La canzone dell’amore) al
quale molti altri seguirono: fu il cinema musicale a dare un volto noto al pubblico ai
cantanti-attori; fino ad allora i cantanti erano solo voci che uscivano dai dischi e dalla
radio.
c) Nacquero le grandi orchestre, che si esibivano sia nelle più prestigiose sale da ballo sia
negli studi di registrazione della radio; Cinico Angelini e Pippo Barzizza erano i due
direttori – e arrangiatori – più prestigiosi, e sarebbero poi rimasti protagonisti fino agli anni
’60: il primo, alfiere della tradizione, il secondo della musica swing. Essi arricchirono la
canzone italiana degli anni ‘30, che già disponeva di grandi compositori e parolieri.

Dalle origini fino ai primi anni ’60, la canzone italiana si caratterizzò per testi scritti in una
lingua “alta”, aulica, molto lontana dal parlato. Su questo pesarono certo la derivazione
dalla lingua colta del melodramma, e più in generale le origini letterarie della nostra lingua
nazionale. L’influenza della lirica era molto forte anche sull’impostazione e sulla qualità
della voce dei cantanti: voci da tenori o da baritoni, gli uomini, e da soprani le donne.

La restaurazione musicale del dopoguerra, fino al 1958


Nell’immediato dopoguerra, la canzone italiana sembrò travolta dall’invasione della musica
e dei balli americani, portati dalle truppe d’occupazione: lo swing, il jazz e il
nuovissimo boogie woogie.
Ma durò poco, e per oltre un decennio la rinascita della canzone italiana avvenne lungo
due direttrici.

1) Dapprima ripresero smalto le tradizioni locali, prima tra tutte quella napoletana, ma
anche quelle romana e romagnola. A Napoli, già tra il ’44 e il ’45 uscirono le
famosissime Tammuriata nera, Simmo ‘e Napule paisà, Dove sta Zazà e Munasterio ‘e
Santa Chiara, ed emersero le voci di Roberto Murolo, Fausto Cigliano e Sergio Bruni.
Nella capitale, l’astro nascente della canzone melodica, il trasteverino Claudio Villa, lanciò
nel ’48 Vecchia Roma, e nel 1955 Renato Rascel compose l’ancora più celebre Arrivederci
Roma. In Romagna Raimondo Casadei, già dagli anni ’30 autore di centinaia di balli lisci
per la sua orchestra, produsse nel 1954 la canzone-simbolo del genere: Romagna mia.
2) La direttrice dominante divenne però la restaurazione della tradizionale canzone
melodica, sia nella sua intonazione nostalgico-sentimentale sia in quella dell’allegria.
Vennero rilanciate molte canzoni d’anteguerra, ma anche quelle nuove richiamavano in
tutto l’atmosfera degli anni trenta, anzi ne esasperavano i toni retorici e i temi patetici.
Ricordiamo che il contesto politico-ideologico era quello della guerra fredda, coi governi
del “centrismo” guidati dalla Democrazia Cristiana (Dc) dopo la rottura coi partiti di sinistra
(Pci e Psi). In musica, il decennio 1948-58 fu l’epoca della restaurazione dei valori
tradizionali, all’insegna della canzone melodica, quasi sempre strappalacrime, in gran
parte ispirata a valori non dissimili dalla triade Dio-patria-famiglia esaltata nel ventennio
fascista. Va sottolineato che tra i molti tratti di continuità con il regime fascista ci fu il
rapporto fra potere politico, comunicazione e cultura di massa, nel nostro caso la musica.
In tutto il “lungo dopoguerra”, infatti, la canzone era “di Stato”: la governavano la radiofonia
pubblica (l’Eiar, diventata Rai), e la sua controllata discografica, la Cetra, esattamente
come avveniva durante il fascismo. Il controllo governativo – cioè, di fatto, della Dc
secondo le direttive morali della Chiesa – dal 1954 si estese dalla radio alla televisione,
nata in quell’anno.
Nasce il “tempio” della “canzone all’italiana”, il festival di Sanremo
Il luogo principale di quella nuova-vecchia “canzone all’italiana” divenne il festival di
Sanremo. Nacque nel 1951, all’inizio sottotono, per rilanciare l’immagine turistica della
“città dei fiori”: era una gara canora, con soli tre concorrenti a proporre le venti canzoni in
competizione, affidate all’orchestra del maestro Angelini. La bolognese Nilla Pizzi trionfò
con Grazie dei fiori; l’anno dopo con Vola colomba, e in entrambe le edizioni si aggiudicò
anche il secondo (Papaveri e papere) e il terzo posto: non sorprende l’appellativo di
“regina della canzone” che l’accompagnò per anni.
I protagonisti di Sanremo, e della canzone italiana di quegli anni in generale, furono pochi
anche perché non esisteva ancora il legame cantante-canzone (che iniziò negli anni ’60):
lo stesso interprete ne eseguiva diverse, anche nella stessa competizione. Oltre alla Pizzi,
quei protagonisti erano Luciano Tajoli (Campanaro, 1953) Gino Latilla (Vecchio scarpone,
1953), Claudio Villa (Buongiorno tristezza, 1955), Achille Togliani (Amor di pastorello), il
Duo Fasano, Carla Boni (Casetta in Canada 1957), Giorgio Consolini (Tutte le mamme,
1954), Teddy Reno (Piccolissima serenata, 1957).
A proposito del controllo di Stato sulla musica, erano tutti artisti Rai e Cetra, ad eccezione
degli ultimi due. Teddy Reno, in particolare, che aveva fondato nel 1948 una sua casa
discografica indipendente, divenne un importante scopritore di nuovi talenti. Egli fu anche
uno dei pochi a seguire il crooning, la svolta “confidenziale” che era iniziata nella musica
americana dagli anni ’40, con l’invenzione del microfono: quella svolta consisteva in un
modo più sommesso, “intimo” di cantare, e i crooners che la avviarono furono due giganti
della canzone come Bing Crosby e Frank Sinatra. A parte Teddy Reno, gli altri sopra citati
rimasero quasi sempre legati all’uso lirico (a piena voce), a una gestualità molto enfatica e
a temi grondanti retorica. Ecco come la giornalista Camilla Cederna recensì per il
settimanale «l’Europeo» il Festival del 1953: «Mentre le coppie di innamorati
passeggiavano sotto gli alberi gonfi di mimose… per tre sere di seguito si pianse nella sala
degli spettacoli del Casinò municipale. Si pianse sull’amante che non torna, sull’uomo che
finge d’amare ma in realtà pensa a un’altra, sulla mamma del cieco che a furia di lacrime
si consuma gli occhi, sul tamburino del reggimento che muore sul campo, sulle logore
scarpe degli alpini… Nelle venti canzoni presentate al giudizio del pubblico, le parole più
ripetute furono “lacrime”, pianto”, “disperato”, “tristezza”, “Angoscia”, e poi “chiesetta”,
“Redentore”, “altare”». La critica (non solo la Cederna) storceva il naso, ma il grande
pubblico apprezzava molto quelle canzoni e quei cantanti. Nei primi anni ’60 però uscirono
tutti di scena, ad eccezione di Claudio Villa, travolti dalle novità musicali intervenute [vedi
2^studio di caso].
Le innovazioni: poche, isolate, con effetti non immediati
Dalla fine dei ’40 alla seconda metà dei ’50 gli amanti di novità dovettero rivolgersi
all’estero: i più raffinati, alla canzone francese di Edith Piaf (col suo successo mondiale
di La vie en rose nel 1947), Ives Montand, Juliette Greco, e più tardi di George Brassens; il
pubblico più largo, ai ritmi latino-americani come la rumba, il samba, il bajon, il mambo.
Altre grandi novità emersero negli Stati Uniti a metà dei ’50, ma la loro influenza in Italia si
avvertì alcuni anni dopo: il soul di Ray Charles e, soprattutto, il rock’n roll di Chuck Berry,
Bill Haley, Elvis Presley.
Enormi novità tecnologiche si verificarono alla metà del decennio, ma anch’esse
produssero effetti solo a ridosso di quello successivo, per cui ci limitiamo a citarle:

a) il mercato discografico vide un’espansione continua, a cui contribuì anche l’arrivo nel
1953 di un colosso multinazionale, l’americana RCA, che spezzò il quasi-monopolio della
Fonit-Cetra;

b) proprio l’RCA lanciò il disco 45 giri in vinile, che assieme al 33 giri soppiantò, a metà dei
’50, il vecchio disco 78 giri d’anteguerra;

c) nel 1954 nacque la televisione, che mise presto tra i suoi spettacoli di punta gare di
cantanti;

d) nel 1955 sbarcò in Italia il juke-box, che già spopolava da alcuni anni in America.

Fino al 1958, però, le voci innovative furono poche, e appartennero in gran parte a un
settore limitato, la “canzone da night”. In quella forma, Renato Carosone allestì un sestetto
che nel 1955 inaugurò La Bussola in Versilia (per molti anni il locale notturno più alla
moda). Con uno stile originalissimo, Carosone innestava le novità musicali americane
sulla tradizione napoletana partenopea, spettacolarizzava le performances e impregnava
di ironia le canzoni, alcune delle quali divennero celebri nel mondo: Tu vuo’ fa’
l’americano (1957), Torero, ‘O sarracino.
Interpreti della canzone da night, ma in versione “confidenziale” (crooning), furono anche
Fred Buscaglione (con il suo look da “duro” alla Clark Gable e con canzoni da “bulli e
pupe” come Che bambola, Eri piccola così) e Nicola Arigliano (Amorevole, Carina, I sing
ammore). Si è scritto che le canzoni da night “contribuirono a traghettare l’Italia canora
degli anni ’50 dal mondo delle vallate alpine e dei campanari a quello del jazz e dello
spettacolo moderno”.
Ancora più originale fu l’esperienza di Domenico Mudugno, che alla metà dei ’50 può
essere considerato il primo cantautore italiano moderno. Creava le sue canzoni sia in
dialetto siciliano (nonostante egli fosse pugliese) come La donna riccia, sia in lingua,
come Musetto e Vecchio frack (nel 1955), e le arricchiva con le sue straordinarie doti
interpretative. Tre anni dopo, proprio Modugno divenne Mister Volare e fece voltare pagina
alla canzone italiana, ma questo lo vedremo nello studio di caso sul periodo successivo.
All’inizio del “miracolo economico”, due terremoti musicali
Nel 1958, Modugno profana Sanremo e fa “volare” i sogni degli italiani

Il 1958 è considerato dagli storici il primo anno del “miracolo economico”, ma all’epoca
pochi se ne accorsero, meno di tutti i leader politici. Si pensi che quell’anno il segretario
del Pci Togliatti dichiarò alla Camera: «Noi andiamo incontro a un aggravamento della crisi
economica»; e il democristiano Segni, nel febbraio ‘59, nel presentare il suo nuovo
governo, affermò: «La congiuntura [economica] non è favorevole». Eppure, il mese dopo il
quotidiano inglese “Daily Mail” parlò di “miracolo economico” dell’Italia, e di lì a poco il
“Financial Times” assegnò alla lira l’Oscar della moneta (cfr. G. Crainz, 2016, pag.79).
In quel 1958, anche al festival di Sanremo le previsioni vennero clamorosamente smentite.
Erano favorite L’edera e Giuro d’amarti: le cantava entrambe la “regina” Nilla Pizzi, la
seconda, in coppia con il “reuccio” Claudio Villa. Questi presentava anche Fragole e
cappellini, assieme al Duo Fasano.
Vinse invece Nel blu dipinto di blu, diventata poi famosa come Volare: ne era autore e
interprete il pugliese Domenico Modugno, ed era la prima volta che a Sanremo si
presentava un “cantautore” (parola che, peraltro, non esisteva ancora in italiano, entrò in
uso solo l’anno dopo). Più che una vittoria fu un trionfo, anche perché Modugno non era
solo un cantautore ma un “cantattore”, che in scena sapeva usare la voce, la mimica e
tutto il corpo con straordinaria vitalità o originalità. A ben vedere, la canzone era scritta in
una lingua ancora tradizionale, cioè lontana dal parlato corrente. Si creò però una miscela
esplosiva tra la voce di Modugno, la sua gestualità così diversa dalla norma (le braccia
spalancate), la musica ritmata con echi del rhythm and blues, le parole liberatorie ed
eccitanti (con trasparenti significati sessuali, ma di una sessualità naturale, libera, gioiosa).
Si può dire che, all’inizio del “miracolo economico”, Modugno fece volare i sogni degli
italiani. Anche in musica, era finito il “lungo dopoguerra”!
Fu un successo mondiale: dappertutto la gente la cantava in coro, anche negli stadi di
calcio. Negli Stati Uniti Volare rimase in testa alle classifiche di vendite per 13 settimane e
venne interpretata dai cantanti più famosi. Nel mondo vendette 24 milioni di dischi,
seconda (fino ad allora) solo a Bianco Natale di Bing Crosby. Modugno è stato l’unico
cantante italiano (oltre a Carosone), a vendere dischi negli Stati Uniti senza inciderli in
inglese. Modugno, che nel 1958 aveva trent’anni, aveva già composto canzoni belle e
molto originali (vedi lo studio di caso sulle canzoni degli anni ’50), e proseguì a mietere
successi anche dopo Volare (già l’anno dopo rivinse a Sanremo con Piove), ma lo fece
rientrando nell’alveo della canzone tradizionale.
La rivoluzione avviata da Volare proseguì lungo altre traiettorie e con altri protagonisti,
molto più giovani di Modugno.

Il Rock’n roll: la musica che “fa nascere” i giovani

Il 1958 segnò musicalmente una svolta non solo per Volare. Nel mercato discografico,
quell’anno i dischi 45 giri soppiantarono definitivamente i vecchi 78 giri. I dischi venduti,
che erano 3 milioni nel 1951 e 9 milioni nel ’56, schizzarono a quasi 17 milioni. Inoltre,
proprio quell’anno, la Rca iniziò a distribuire in Italia i dischi di Elvis Presley, già imitato
dalla nuova generazione dei cosiddetti cantanti “urlatori”: così dall’America arrivò anche in
Italia la rivoluzione musicale del rock ’n roll.
Fu la prima corrente musicale specificamente giovanile, cioè dei giovani come diversi e
separati dal mondo degli adulti, con gusti e mode loro: nella musica, nel vestiario, nel look,
nel linguaggio, nei modi e nei luoghi di aggregazione. Tutto questo non esisteva fino agli
anni ’50: si era considerati bambini, poi di colpo adulti, passando direttamente dai calzoni
corti a giacca e cravatta.
Il rock nacque negli Usa ma unì i giovani su scala globale: Rock around the Clock, cantata
da Bill Haley nei titoli di coda del film del 1955 “Il seme della violenza”, fece il giro del
mondo in pochi giorni, un caso senza precedenti. Bill Haley non cantava le canzoni, le
gridava, con uno stile funzionale alla novità del juke-bok, pensato per luoghi chiassosi e
dispersivi come i bar e le sale da gioco. L’anno dopo esplose la fama di Elvis Presley
[Jaihouse Rock], il cantante più idolatrato di sempre, soprattutto dal pubblico femminile.
Egli si esprimeva con tutto il corpo, oltre che con una voce sensuale e gutturale capace di
incredibili cambiamenti di toni. Le parole che cantava un altro “indemoniato” del rock, Jerry
Lee Lewis («Vieni con me, piccola / prendiamo il toro per le corna: / c’è da fare un sacco di
su-e-giù»), Elvis le mimava in scena, tanto da essere soprannominato “Pelvis”. In America
il rock non fu però una rivoluzione solo musicale: i giovani che ne erano protagonisti
apparivano trasgressivi in tutto, come i Teddy Boy e le altre bande giovanili nate in quegli
anni, immortalate da divi del cinema come Marlon Brando in “Il selvaggio” (1953) e James
Dean in “Gioventù bruciata” (Rebels without a cause, 1955).

Il rock all’italiana

In Italia, la rivoluzione del rock fu molto annacquata. Il primo dei cosiddetti “urlatori”
nostrani fu Tony Dallara, dalla voce gridata e singhiozzante, con Come prima nel ’58. Che
abisso, però, dall’immagine dirompente e trasgressiva dei rock-singers americani! Molti lo
seguirono, come Joe Sentieri, Peppino di Capri, Little Tony. Tra quelli che parteciparono al
Festival del rock nell’affollatissimo Palaghiaccio di Milano, due furono presentati insieme al
grande pubblico televisivo nel 1959 da Mario Riva, nel suo popolarissimo programma
televisivo il Musichiere: Mina e Adriano Celentano.
Mina aveva iniziato a cantare per gioco a 18 anni, nell’estate del 1958, nel famoso locale
notturno La Bussola in Versilia, ove la famiglia passava le vacanze. Il successo arrivò
rapidissimo e, in veste di urlatrice, nel 1959 stravolse completamente una canzone
melodica cantata quell’anno a Sanremo da Wilma de Angelis e Betty Curtis: Nessuno, di
cui ella costruì una versione swing sincopata, incalzante e di prorompente vitalità.
Seguirono le surreali Tintarella di luna, Una zebra a pois, Le mille bolle blu. Poi
abbandonò l’immagine trasgressiva e divenne l’interprete più “classica” e più apprezzata a
livello internazionale, la più grande di sempre. La sua voce, eccezionale per estensione e
versatilità, le consentiva di cantare brani di ogni genere, fornendo sempre interpretazioni
inimitabili, tanto che il grande Amstrong la definì “la cantante bianca più grande del
mondo”. Furono ad esempio sue interpretazioni a rendere famose bellissime opere di
cantautori come Il cielo in una stanza (1960) di Gino Paoli o La canzone di Marinella di De
André. Primadonna di grande successo in fortunate trasmissioni televisive per tutti gli anni
’60 e ‘70, scelse poi di abbandonare le scene pubbliche, ma continuò a incidere canzoni di
altissimo livello.
Il “molleggiato” Celentano iniziò proponendosi come l’Elvis italiano e, dopo il primo
successo con Il tuo bacio è come un rock, nel ‘61 si presentò a Sanremo
con Ventiquattromila baci. Il suo era un rock molto edulcorato rispetto ai modelli americani,
ma nell’ambiente paludato di Sanremo la sua esibizione fu una bomba: il testo dissacrava
l’amore riducendolo a un ritmo tayloristico di mille baci all’ora («Niente bugie meravigliose /
frasi d’amore appassionate / ma solo baci chiedo a te / ye ye ye ye ye ye ye ye!»); e
Celentano lo cantava con una voce rabbiosa, dimenandosi come mai si era visto,
addirittura con un salto che lo portò a voltare le spalle al pubblico!
UN NUOVO MODO DI ESSERE GIOVANI
Ogni rivoluzione si può paragonare all’eruzione di un vulcano, che sconvolge il paesaggio e lo
lascia modificato per sempre al cessare della sua azione violenta, ma, proprio come lo scoppio
improvviso è preceduto dal lento formarsi nel sottosuolo delle condizioni fisiche che portano
all’esplosione, così le rivoluzioni sono l’epilogo di processi culturali latenti, lievitati nel tempo.
Ciò si è verificato anche per il Sessantotto: l’insieme degli eventi che sconvolse il mondo in
quell’anno è la conseguenza della crescita di sensibilità comuni nei giovani, avvenuta nei due
decenni precedenti, e della loro volontà di partecipare alla vita sociale, economica e politica del
mondo in trasformazione.

Dagli anni Cinquanta, negli Stati Uniti prima, in Europa e in Italia qualche anno più tardi,
emerge un nuovo soggetto sociale, autonomo e produttore di cultura: i giovani. Non che i
ragazzi di età compresa tra la pubertà e la maturità non fossero esistiti prima, ma mentre fino
alla seconda guerra mondiale si tratta solo di un dato anagrafico, ora la generazione del baby-
boom, cioè dei nati tra la metà degli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta, periodo in cui, con
l’aumento dei matrimoni, si registra una sensibile crescita demografica, comincia ad avere delle
caratteristiche che la distinguono nettamente da chi li ha preceduti: questi giovani, grazie alla
fase di sviluppo accelerato del mondo occidentale, godono di una maggiore disponibilità
economica, possono proseguire gli studi e fruire di nuovi prodotti culturali, molti dei quali
creati apposta per loro. Il termine che negli Stati Uniti li identifica è teenager, coloro che, nati
dopo la guerra, frequentano le scuole superiori e le università tra gli anni Cinquanta e
Sessanta.

Elvis Presley in una fotografia promozionale del film “Jailhouse Rock”. Di Metro-
Goldwyn-Mayer, Inc.
James Dean in una foto per il film “Gioventù bruciata” (Rebel Without a Cause) – Di In-
house publicity still – Warner Bros. publicity still for for the film Rebel Without a Cause,
Public Domain

La storia della musica e quella del cinema si legano strettamente alla nascita di questo nuovo
soggetto collettivo, perché è in questi ambiti culturali che si creano i modelli con i quali i
giovani cominciano a identificarsi, primo fra tutti Elvis Presley. È il 1956 quando il giovane
cantante esordisce in un programma televisivo visto in tutti gli Stati Uniti, l’Ed Sullivan Show; si
può dire che con questa esibizione nasca “ufficialmente” il rock and roll, nuovo genere
musicale associato alla figura di Elvis Presley e al suo modo di muoversi sul palco. Con il ritmo
sfrenato delle sue canzoni e i movimenti suadenti del bacino – per quei tempi al limite dello
scandalo – Elvis “the Pelvis” rompe tutti gli schemi e dimostra ai teenagers che, oltre ad esserci
un nuovo modo di fare musica, esiste la possibilità di rivendicare la propria giovinezza anche
attraverso un uso del corpo anticonformista e provocatorio.
Il cinema, a sua volta, racconta di giovani come il protagonista di Rebel without a
cause (Nicholas Ray, Usa, 1955; titolo in italiano Gioventù bruciata) rappresentato dall’attore
James Dean, “the bad boy from a good family”, che incarna la quintessenza dell’adolescente
temuto dagli adulti e dell’idolo venerato dai giovani. Un altro film di quegli anni, Blackboard
jungle (Richard Brooks, Usa, 1955, titolo italiano Il seme della violenza) racconta di un professore
democratico che si trova a insegnare a studenti aggressivi in una scuola molto difficile e ha la
particolarità di avere come colonna sonora proprio Rock around the clock, la canzone simbolo
del rock and roll e, per analogia, dei giovani disobbedienti e indomiti.
Gli adulti mostrano un sentimento ambivalente nei confronti di questa generazione: la
sfruttano come nuovo segmento di mercato, attraverso la moda e le produzioni
cinematografiche, ma allo stesso tempo la temono e tentano di controllarla. Anche per i
giovani, tuttavia, esiste un rapporto ambiguo nei confronti delle novità culturali proposte da
cinema e musica: da una parte le alimentano, dall’altra, pur cibandosene, le subiscono; da qui il
rapporto conflittuale dei giovani di queste generazioni con i nuovi beni culturali e di consumo
nei quali sono immersi.

LA MUSICA È GIOVANE
Tra gli anni Cinquanta e Sessanta la musica contagia tutti i giovani, grazie ai nuovi mezzi di
diffusione, che contribuiscono a cambiare il modo di stare insieme. Nasce e di diffonde in
quegli anni un disco in vinile di piccolo formato, il 45 giri, che contiene una canzone per lato,
adatto per essere ascoltato, a basso costo, nei jukebox, apparecchi installati in bar o luoghi
pubblici, che permettono di scegliere e attivare con una moneta un brano musicale. Capita che
intorno ai jukebox i ragazzi si radunino non solo per ascoltare, ma anche per ballare e questa
semplice azione, connaturata all’essere giovane, comporta delle novità: non si tratta più di balli
di coppia, con ruoli ben stabiliti tra maschi e femmine, ma individuali; ciò significa che si balla
insieme ma senza toccarsi e senza che il ragazzo guidi la ragazza, così ognuno trova un modo
di esprimere la propria personalità individuale.

Con i jukebox avviene anche un’altra trasformazione. In un’Italia ancora profondamente divisa
in classi, succede che intorno a queste “macchine urlanti” – così chiamate in modo
dispregiativo dai critici adulti – si aggreghino ragazzi di tutte le categorie sociali: studenti e
operai, artigiani e impiegati. Ciò che li accomuna è il riconoscersi nella stessa musica, che li
rappresenta, perché è essa stessa giovane.

LA MUSICA È INDUSTRIA
Comincia a diffondersi, a partire dalla fine degli anni Cinquanta anche nelle famiglie italiane, il
giradischi; come per il jukebox non si tratta solo di uno strumento, ma di un oggetto simbolico
intorno al quale si crea una socialità che prima non esisteva: chi possiede un giradischi lo
mette a disposizione degli altri e lo utilizza con una serie di cautele, che creano una ritualità
nell’azione dell’ascoltare: si estrae il disco dalla sua custodia e siccome è un oggetto fragile, va
usato con cura: viene spolverato perché non faccia “saltare” la puntina che lo deve leggere, lo
si pone sul piatto e lo si avvia, per ascoltarlo poi interamente, tutti insieme, leggendo nel
contempo i testi presenti all’interno della copertina. Tutto questo crea un’abitudine alla musica,
un ascolto intensivo e condiviso, capace di fare comunità.

Un nuovo modo collettivo di stare insieme è dato anche dalle band: a metà degli anni Sessanta
complessi e orchestrine sono più di seimila in Italia e continuano ad aumentare. Mentre prima
di allora chi suonava uno strumento musicale doveva fare un percorso di studio esclusivo, ora
basta che acquisti una chitarra e impari a suonarla in modo amatoriale unendosi ad altri
giovani. Nascono anche i concorsi nazionali per band emergenti, spesso sponsorizzati proprio
dalle riviste musicali espressamente dedicate ai teenagers; in Italia hanno questi nomi: Big, Ciao
amici, Ciao 2001, Giovani.
Dagli elementi fin qui esposti si può notare come la musica dei giovani del baby-boom sia
motore di trasformazioni culturali e contemporaneamente industriali, perché crea
continuamente una domanda di beni di consumo, dai dischi ai giradischi, dagli strumenti
musicali alle riviste specializzate, prima inesistenti.

L’IMPORTANZA DELLA RADIO


Fin dalla sua nascita la radio è stato uno strumento privilegiato per l’ascolto della musica e
anche negli anni Sessanta acquista un ruolo fondamentale nella diffusione della musica per i
giovani, grazie ad alcune trasmissioni dedicate. I nuovi generi musicali sono osteggiati dai
vertici della Rai, che considerano questi ritmi troppo sfrenati, quindi pericolosi, diseducativi e
dannosi per le giovani generazioni; essendo la Rai l’unica emittente del Paese, è necessario che
trasmetta valori, idee e principi che nella musica rock non si trovano. D’altro canto ci sono delle
necessità industriali: i giovani rappresentano un nuovo target e vanno assecondati e
conquistati per trarne profitto. In seguito a queste spinte nascono delle trasmissioni che, in
qualche modo, confortano le ansie degli adulti, accontentano i giovani e fanno crescere
l’economia. Una di queste è Bandiera gialla.
Bandiera gialla – Di Unknown author – Radiocorriere, Public Domain, Link

Bandiera gialla nasce nel 1966 con Gianni Boncompagni e Renzo Arbore, due giovani
conduttori radiofonici con una lunga carriera di successo davanti a loro, prima nella radio – che
rivoluzionano con le loro innovazioni – poi in televisione. Durante le trasmissioni venivano
chiamati in studio gruppi di ragazzi per ascoltare e votare canzoni nuove, italiane o straniere; il
brano vincitore veniva trasmesso anche la settimana successiva. Il nome della trasmissione,
che, come diceva Boncompagni all’inizio di ogni puntata, «era severamente vietata ai maggiori
di diciotto anni», è molto significativo: la bandiera gialla è, in nautica, il segnale che indica una
pestilenza a bordo, un luogo potenzialmente pericoloso, una zona circoscritta da cui è
impossibile uscire. Con questo escamotage i conduttori riescono a fare accettare ai vertici della
Rai la messa in onda di canzoni, che altrimenti sarebbe stato difficile ascoltare: esse venivano
trasmesse solo durante Bandiera gialla, programma in cui i giovani, come animali in gabbia,
erano liberi di muoversi ma non di scappare.
Negli stessi anni nasce Per voi giovani, trasmissione di ascolto delle novità musicali, che diventa,
dall’inizio degli anni Settanta, con la conduzione di Paolo Giaccio e Mario Luzzatto Fegiz, una
vera e propria tribuna per i ragazzi: essi avevano l’occasione di fare sentire la loro voce nel
momento in cui i conduttori li intervistavano o li facevano confrontare su temi a loro cari, come
le occupazioni delle scuole o delle fabbriche e le motivazioni della loro protesta. Questa
trasmissione avrà una sorta di trasposizione in televisione; nasce in particolare Speciale per voi
TV, luogo in cui i personaggi più in auge, come per esempio Lucio Battisti, cantano in diretta e
si fanno intervistare dai ragazzi del pubblico; il tono delle domande di questi giovani, talvolta, è
così diretto da far sembrare le interviste quasi degli interrogatori.

I BEATLES NELLA COSTRUZIONE DI UNA IDENTITÀ COLLETTIVA


Uno degli elementi fondamentali per la creazione di un’identità giovanile collettiva è
rappresentato dalla musica dei Beatles. Il celebre quartetto inglese non è importante solo per
le trasformazioni musicali, che genera nel breve arco di dieci anni, ma anche perché incarna la
musica che tutti ascoltano.

I Beatles vengono in Italia nel 1965 per una breve tournée, facendo tappa a Milano, Genova e
Roma; al termine di uno di questi concerti alcune ragazze rilasciano una testimonianza: «Noi
siamo state al concerto dei Beatles e per la prima volta abbiamo capito cosa significa essere
giovani». Sono ragazze, ma solo in quel momento acquistano la consapevolezza di essere
giovani in quanto parte di qualcosa che prima di allora era indefinito e astratto: il loro essere
giovani si concretizza in quelle voci, in quelle note, in quelle quattro figure sul palco, nelle loro
movenze, abbigliamento e pettinatura, e in quella folla di ragazzi che, come loro, amano
questa musica e chi l’ha creata. I Beatles riescono dunque a delineare e ad ampliare una
identità collettiva, altrimenti confusa e inespressa.

L’album “A hard day’s night” dei Beatles. Foto tratta da Flickr, badgreeb RECORDS, Licenza CC 2.0
Sono talmente compenetrati al mondo giovanile cui si rivolgono, che le loro canzoni subiscono
delle trasformazioni sorprendenti per bocca dei loro fan, come accade in occasione delle prime
manifestazioni studentesche a Berkley, in California. Nell’autunno-inverno del 1964 gli studenti
occupano l’Università; la loro lotta politica è sintetizzata nel nome del movimento nato in
quella stagione, chiamato Free Speech Movement, uno degli antenati, se così si può dire, delle
agitazioni degli anni successivi; la “presa di parola” sarà infatti una delle caratteristiche del
Sessantotto. Quando, a Berkley, accade che il rettore fa sgomberare i banchetti politici
all’interno del Campus, si crea una manifestazione studentesca e migliaia di ragazzi marciano
verso l’aula magna; in questa folla si sentono canzoni di lotta, una delle quali viene intonata
sulla melodia di un famosissimo brano dei Beatles: A Hard day’s night. Nelle voci degli studenti
le parole vengono cambiate in: «It’ll be a long hard fight». Accade qui una cosa molto speciale:
questi ragazzi non cantano inni tradizionali di protesta, né adattano le parole del Movimento
sulle classiche arie folk utilizzate in queste occasioni, ma si servono di una canzone
contemporanea, peraltro d’amore, e la trasformano in senso politico: «Sarà una lunga e dura
battaglia».
I Beatles, in quel momento, sono lontani dalla lotta politica (anche se qualche anno più tardi
alcuni dei componenti della band vi prenderanno parte, in particolare John Lennon), tuttavia il
loro modo di rispecchiare l’essere giovani diventa una chiave di lettura della realtà per questi
ragazzi che, in occasione delle proteste, esprimono loro stessi e la loro identità, il loro credo
politico, ricalcando la musica dei Beatles in cui si identificano.

UNA MUSICA NUOVA


[Si propone l’ascolto di Blowin’ in the wind (1966)]

Quante strade deve percorrere un uomo prima che lo si possa chiamare uomo?
Sì, e quanti mari deve sorvolare una bianca colomba prima che possa riposare sulla sabbia?
Sì, e quante volte le palle di cannone dovranno volare prima che siano bandite per sempre?

Sì, e quanti anni può esistere una montagna prima di essere spazzata fino al mare?
Sì, e quanti anni la gente deve vivere prima che possa essere finalmente libera?
Sì, e quante volte un uomo può voltare la testa fingendo di non vedere?

Sì, e quante volte un uomo deve guardare verso l’alto prima che riesca a vedere il cielo?
Sì, e quante orecchie deve avere un uomo prima che possa ascoltare la gente piangere?
Sì, e quante morti ci vorranno perché egli sappia che troppe persone sono morte?
Negli Stati Uniti nasce in questi anni una musica impegnata, i cui interpreti più famosi sono
Bob Dylan e Joan Baez. Blowin’ in the wind, è forse la canzone più celebre del cantautore, che si
ispira a una lunga tradizione di musica folk politica, ma utilizzata in senso nuovo. Bob Dylan
scrive questa canzone nel momento in cui viene acclamato come colui che può, attraverso le
sue canzoni, fornire una risposta alle inquietudini del suo tempo. La grandezza di questo
brano, che lo rende un classico perché trasversale a ogni epoca, è proprio nella sua incapacità
di dare risposte, di trovare soluzioni alle storture dell’uomo, all’ingiustizia mascherata da buone
intenzioni. L’agitazione nell’animo di Dylan è la stessa dei ragazzi del Free Speech Movement,
degli studenti che manifestano contro la guerra del Vietnam, o contro l’autoritarismo nelle
scuole, perché dietro a queste motivazioni più o meno contingenti ci sono domande
esistenziali profonde, relative al rapporto tra le forze che regolano il mondo e, più in generale,
alla prepotenza dell’uomo verso il suo simile.
Questa musica politica è diversa dalle precedenti, perché ha un respiro più ampio e un portato
poetico diverso. Non a caso Bob Dylan è stato insignito del Premio Nobel per la Letteratura nel
2016.

IN ITALIA
[Si propone l’ascolto di Che colpa abbiamo noi (1966)]

La canzone scelta è particolare perché cantata dai Rokes, una band inglese, che esegue cover
di canzoni americane in italiano. Negli anni Sessanta è prassi diffusa, da parte dei complessi
italiani, tradurre le canzoni provenienti da Stati Uniti e Inghilterra per portare queste melodie e
questi ritmi nuovi in Italia. I Rokes sono un gruppo beat; il termine deriva dalla beat generation,
quel movimento giovanile che si sviluppò in campo artistico e letterario negli anni Cinquanta
negli Stati Uniti; in Italia il portato di questa corrente culturale viene recepito qualche anno più
tardi e in modo diverso: il beat è soprattutto un modo di fare musica, che si innesta su un
genere in voga nei primissimi anni Sessanta, la cosiddetta musica yé-yé, ma ha caratteristiche
del tutto nuove. Come dice Caterina Caselli, una delle cantanti simbolo di questa stagione,
«lo yé-yé è un genere allegro, spensierato, carino, mentre il beat è un genere che batte in
quattro il tempo, che si fa con la voce arrabbiata, è tutta un’altra cosa». Cambia il modo di fare
musica, dal momento che si sta modificando lo spirito giovanile collettivo, e ciò avviene
progressivamente, dapprima in modo latente, quasi impercettibile, poi sempre più marcato.
Una canzone emblematica di questi anni prerivoluzionari è proprio quella di cui si è proposto
l’ascolto, Che colpa abbiamo noi: la melodia è leggera e scanzonata, ma se si presta attenzione
al testo troviamo qualcosa di nuovo: c’è il malcontento dei giovani per la società ingiusta
ereditata dalla generazione che li ha preceduti e che, oltretutto, li incolpa dei mali che lei
stessa ha creato; c’è la consapevolezza di subire un mondo sbagliato e la volontà di volerlo
migliorare. I temi del Sessantotto stanno prendendo corpo, lievitano nelle canzoni, nel modo in
cui vengono diffuse all’interno del mondo giovanile, mentre il divario con gli adulti, autoritari e
chiusi nella loro rigidità, cresce sempre più.

SANREMO 1967: UN TRAUMA CULTURALE


Nel 1967, durante il Festival di Sanremo, evento musicale come sempre atteso da tutta la
società italiana, accade un fatto tragico, che rappresenta un vero e proprio trauma culturale
per un’intera generazione: il cantante Luigi Tenco, escluso dalla finale, si suicida. Lascia un
biglietto con questo messaggio: «Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato
inutilmente cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita
(tutt’altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda Io tu e le rose in finale e ad
una commissione che seleziona La rivoluzione. Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno.
Ciao. Luigi».
La canzone proposta da Tenco, Ciao amore, ciao, è apparentemente una canzone d’amore, ma
in realtà racconta le trasformazioni sociali e culturali del Paese: affronta il tema delle grandi
migrazioni interne, dalle aree povere della campagna meridionale al triangolo industriale; parla
del senso di insicurezza dei giovani che abbandonano la propria vita, sacrificando gli affetti,
per partecipare alla costruzione di una modernità da cui, irrimediabilmente, restano esclusi.
Questo testo impegnato, mascherato da canzone popolare, non viene apprezzato dalla giuria
del Festival, che evidentemente ha un altro metro di misura: sceglie, tra le canzoni scartate, La
rivoluzione, che, a dispetto del titolo, è tutt’altro che rivoluzionaria. Ecco infatti le parole della
prima strofa:
Guarda quante facce scure
Piene di rancore
Sono ferme là
Guarda quei ragazzi uniti
Tutti colorati
Stan correndo qua
Ma che succederà?
Ci sarà la rivoluzione
Nemmeno un cannone però tuonerà
Ci sarà la rivoluzione
L’amore alla fine vedrai vincerà
E basteranno pochi anni oppure poche ore
Per fare un mondo migliore
Un mondo dove tutti saranno perdonati
Chi ha vinto e chi ha perduto
Vedrai si abbraccerà.

(La rivoluzione, voce di Gianni Pettenati, testo di Mogol)


È contro questa ipocrisia che Tenco sacrifica la propria vita. Il giorno dopo la sua morte, il
Festival prosegue come se nulla fosse e al funerale, a parte Fabrizio De André e pochi altri, il
mondo dello spettacolo è assente. Tutto questo rimarca la validità del suo messaggio: il
malessere espresso nei versi della sua canzone rappresenta il lato B del progresso e
dell’ubriacatura dei nuovi beni di consumo; il pubblico non vuole sentirne parlare e d’altra
parte la giuria sa che il Festival della canzone italiana è specchio del Paese e bisogna esaltare
l’immagine di un’Italia serena, moderna, innamorata; quell’anno vincono Claudio Villa e Iva
Zanicchi, con una classica canzone d’amore.

Il gesto di Luigi Tenco, tuttavia, lascia un segno nella cultura musicale italiana: da quel
momento si rafforza e diventa dominante un modo di fare musica, che prima esisteva ma in
modo solo marginale, quello delle canzoni d’autore. I cantautori saranno i veri protagonisti del
panorama musicale italiano negli anni Settanta e l’azione estrema di Tenco sarà narrata proprio
da due dei maggiori rappresentanti: Fabrizio De André, che gli dedica Preghiera in
gennaio (1967) e, un decennio più tardi, Francesco De Gregori, che scrive per lui Festival (1976).

I MEGACONCERTI: LA COSTRUZIONE DI UN’IDENTITÀ GIOVANILE


Il lento processo culturale, attraverso il quale, a partire dagli anni Cinquanta, i giovani
emergono come nuovo soggetto sociale e politico, porta allo scoppio di una rivoluzione, alla
fine degli anni Sessanta, che, in qualche modo, coinvolge tutto il mondo. Il Sessantotto è un
evento internazionale, senza però essere unitario: ogni realtà locale si muove autonomamente,
a seconda degli interessi e delle situazioni contingenti, ma le “parole d’ordine” sono senz’altro
comuni: l’essere giovani e lottare contro l’autoritarismo e la guerra, volere fare sentire la
propria voce e combattere per un mondo più equo. La musica, ancora una volta, rappresenta il
linguaggio comune per i giovani rivoluzionari e veicola il loro modo di sentire, anche
attraverso eventi musicali come i megaconcerti, che si tengono negli Stati Uniti e in Inghilterra,
e che funzionano come riti di costruzione dell’identità collettiva. Già dalla metà degli anni
Sessanta ci sono grandi raduni costruiti intorno alla musica, basti pensare alle “Summer of
love” di San Francisco nel 1967, il cui emblema è la canzone di Scott McKenzie If you are going
to San Francisco.
La sola idea di andare a questi eventi, di partecipare vestiti – o svestiti – allo stesso modo, l’uso
delle droghe come ricerca di un nuovo modo esprimere sé stessi, e, soprattutto, la musica rock
di artisti ormai leggendari: tutto questo fa da collante per un mondo giovanile, che gli adulti
continuano a non capire e a disprezzare.

[Si propone l’ascolto dell’assolo alla chitarra di Jimi Hendrix a Woodstock – 1969]

Woodstock, agosto 1969. Jimi Hendrix, distorcendo con la sua chitarra elettrica l’inno nazionale
degli Stati Uniti, realizza una doppia operazione dal grande significato simbolico, che il milione
di giovani spettatori capisce al volo: rende omaggio agli Stati Uniti, glorifica il grande Paese di
cui tutti loro fanno parte, che rende possibile la realizzazione di questo festival sterminato, ma
allo stesso tempo svela le storture del Paese, campione dell’imperialismo che schiaccia
popolazioni più deboli, come i civili in Vietnam.

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