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MODULO B

LEZIONE 16 (20/11/2020) Benedetta Argiolas Falzoi

Contenuti del modulo B

Il tema portante del modulo B sarà il primo libro delle elegie di Tibullo e si cercherà di circoscrivere
questo argomento. Tibullo ha scritto tre libri di elegie e per lo meno a lui vengono attribuiti 3 libri di
elegie, ma noi non potremmo sviluppare tutto il discorso su questi tre libri e ci concentreremo sul
primo libro che è composto di 10 elegie

Come lo analizzeremo:

Ø Attraverso la lettura e il commento del primo libro delle elegie di Tibullo si illustreranno
i motivi principali della poetica dell’autore (che viene fuori commentando il testo), il contesto
storico-letterario, i caratteri dell’elegia latina e il rapporto con i modelli. Si tratta di quel
discorso che abbiamo fatto con Catullo quando abbiamo commentato i vari epigrammi
abbiamo sempre fatto riferimento alla poetica dell’autore, al contesto storico letterario, ai
modelli , ai caratteri dell’epigramma perché non ci si può limitare ad un’analisi puramente
superficiale , ma dobbiamo cercare di andare in profondità e di “spremere” il testo in modo
tale da far dire a questo testo tutte quelle informazioni che contiene (implicite o esplicite).

Ø Poi ovviamente cercheremo di affrontare seppure in maniera molto cursoria, il problema del
Corpus Tibullianum, cioè della formazione di questo corpus e soprattutto quali sono le
caratteristiche del terzo libro.

INTRODUZIONE A TIBULLO. L’ETÀ AUGUSTEA (DAL 44 A.C. AL 14 D.C.)

Trattiamo ora del contesto storico-culturale in cui è vissuto e ha agito Tibullo.

Siamo nell’età augustea, non più nell’età cesariana dove operò Catullo, ma nell’età successiva ad
essa.

Da un punto di vista storico l’età augustea può essere compresa tra queste due date cesorie:

il 44 a.C. corrisponde alla morte di Giulio Cesare nelle Idi di Marzo di quell’anno che conclude anche
l’età cesariana

e il 14 d.C. data che segna la morte di Ottaviano Augusto e quindi la fine dell’età augustea

Nota bene: tenete sempre presente che quando noi facciamo queste definizioni cronologiche, sono
sempre definizioni di carattere didattico perché nel passaggio da una fase all’altra, c’è sempre una
sorta di gradualità nelle trasformazioni e nei mutamenti, però siccome l’uomo per comprendere e per
apprendere necessita delle due categorie dello spazio e del tempo (che sono quelle due categorie
Kantiane) allora dobbiamo darci per forza degli schemi. L’importante è avere sempre la
consapevolezza della opinabilità della gradualità dei fenomeni sia storici che letterari e che di schemi
si tratta e quindi che non sono oro colato, la realtà è molto più fluida e variegata che non la
schematizzazione che noi ci proponiamo.

CARATTERI DELL’ETÀ AUGUSTEA

Quali sono quindi i caratteri generali del’età augustea?

- Come sappiamo l’età cesariana fu caratterizzata da forti tensioni sociali e politiche.


C’è una guerra civile in mezzo: i populares contro gli optimates, Cesare contro
Pompeo. Quindi dopo la morte di Cesare si sente l’esigenza di tornare alla normalità,
infatti è un’epoca segnata da una viva aspirazione alla pace e alla ricostruzione dopo
gli sconvolgimenti della guerra civile. I romani, dopo tanto tempo, volevano respirare
un po’ d’aria fresca e tornare appunto ad una condizione di tranquillità e di normalità.
E noi, negli autori dell’età augustea troviamo, sentiamo questa viva aspirazione alla
pace e alla ricostruzione dopo gli sconvolgimenti della guerra. Sono temi che troviamo
in tutti i poeti appartenenti a quest’età: in Virgilio, in Properzio in Tibullo, in Orazio,
in Ovidio. È un denominatore comune della letteratura di quest’età.

- Da un punto di vista più propriamente letterario noi possiamo evidenziare due fasi:

1) Abbiamo una fase di grande fioritura con la presenza di geni (nel vero senso della parola)
come Virgilio, Orazio, gli elegiaci Tibullo e Properzio e Ovidio furono dei grandi scrittori.
Notiamo poi che questi grandi scrittori nascono sempre nei periodi più critici, convulsi e
drammatici: la guerra civile e le tensioni sociali che hanno portato con sé, hanno creato quell’
hummus fecondo perché questi geni crescessero e alimentassero la loro sensibilità. Lo stesso
fenomeno si può evidenziare nel periodo dell’Umanesimo e del Rinascimento, che è il periodo
forse più florido della cultura italiana. Il periodo precedente ad esso è un “periodaccio”
caratterizzato da pestilenze di tutti i tipi, guerre ed eserciti che passavano in continuazione da
nord a sud Italia, crisi economica … e pure proprio in quella condizione così precaria nascono
questi geni. Si può dire che le ristrettezze economiche e le tensioni sociali è come se
rappresentassero un impulso alla crescita dell’attività umana ed ecco perché noi abbiamo alla
fine dell’età cesariana questa esplosione di creatività che poi si manifesterà tutta nell’età
augustea, proprio per questo motivo, si tratta di dinamiche umane della storia umana.

2) E poi la seconda fase è caratterizzata dal graduale esaurimento delle energie spirituali e
creative perché una volta che abbiamo avuto quest’esplosione, alla fine abbiamo anche una
sorta di inerzia, di periodo in cui ci si culla negli allori e quindi c’è una perdita di mordente,
così come accade nella letteratura italiana : dopo la parabola del Cinquecento di rinascenza
culturale abbiamo il Seicento caratterizzato dalla chiusura, la riproduzione degli stessi temi e
moduli, il barocchismo, il petrarchismo cioè in toto l’imitazione dei modelli classici perché
purtroppo succede così. Quindi noi troviamo nella fine dell’età augustea e all’inizio dell’età
giulio-claudia un esaurimento delle energie spirituali e creative. Pensiamo alla storiografia:
abbiamo nell’età cesariana Sallustio (che è ritenuto forse il più grande storico di Roma) e
Cesare (con i suoi “Commentarii De bello gallico e De bello civili”) quindi stiamo parlando
di personaggi veramente potenti; nell’età giulio-claudia troviamo il povero Velleio Patercolo
, Velleio Massimo , Curzio Rufo che fanno una sorta di storiografia salottiera, superficiale,
moralistica perché queste energie spirituali e creative vanno appunto a mancare , si
indeboliscono.

LA POLITICA CULTURALE DI AUGUSTO

È chiaro che Augusto salì al potere attraverso una serie di compromessi spesso anche dolorosi
(uno dei prezzi più alti che sono stati pagati fu la morte di Cicerone: Augusto si mise d’accordo
con Antonio ma quest’ultimo chiese la testa di Cicerone, uno dei più grandi intellettuali di
tutti i tempi non soltanto dell’età cesariana) e volle adottare una politica di restaurazione e di
moralizzazione.

Cosa si intende per politica di restaurazione e di moralizzazione?

- Per restaurazione si intende la restaurazione dei meccanismi della Roma Repubblicana


poi lui inaugura certamente il principato, ma formalmente le istituzioni sono ancora quelle
repubblicane; dopo tanto sfacelo e confusione vuole riportare l’ordine attraverso la
restaurazione degli Instituta civili e politici repubblicani.

- Per moralizzazione Augusto vuole riportare in sostanza la società all’obbedienza e


all’osservanza del mos maiorum quindi i valori tradizionali

Ø E allora lui per portare avanti questa politica che non è soltanto economica ma anche sociale
e culturale decise di avvalersi della collaborazione dei letterati
Quindi nasce la figura del letterato/ poeta impegnato oggi si direbbe militante: c’è questa
volontà di coinvolgere la intellighenzia per portare avanti questa politica di restaurazione e di
moralizzazione.

In questi poeti (Orazio, Virgilio, Tibullo, Properzio e in parte Ovidio) dunque troviamo questi
temi che sono consonanti con la politica di Augusto.

Quali sono questi valori?


(Si tratta dei motivi ricorrenti negli autori)
- La celebrazione della pietas tradizionale > che consiste alla devozione alla patria, agli dei,
alla famiglia; possiamo prendere come esempio l’Eneide dove la pietas è un monumento dove
il protagonista Enea è definito pius perché incarna questo valore fondamentale dell’etica
romana.

- La santità della famiglia e dei costumi > si deve ricordare che Augusto aveva proposto delle
leggi moralizzatrici come la Lex Iulia de adulteriis coercendis (con la quale poneva delle pene
piuttosto severe contro l’adulterio) la Lex Iulia de maritandis ordinibus (la quale impediva il
matrimonio fra ceti sociali diversi, per esempio tra una donna aristocratica un liberto e così
via che poi il cristianesimo smantellerà con l’azione di Papa Callisto). Possiamo vedere che
tutti questi motivi sono presenti in questi autori: il motivo della santità della famiglia è
evidente in Properzio o Tibullo che hanno una concezione della famiglia di tipo tradizionale
in senso romano e così anche per i costumi.
- Il ritorno alla terra > si pensi a Virgilio con le Georgiche o Tibullo il quale cercherà questa
aspirazione alla vita idilliaca della campagna e non è un motivo convenzionale in Tibullo ma
molto sentito (ad esempio quando dice “io da campagnolo comincerò a innestare le viti a
piantare delle piante da frutto” lui è sincero e lo sente davvero non si tratta soltanto di una
convenzione letteraria oppure un pedaggio che deve pagare alla politica augustea.

- La fede nel destino di Roma e la sua missione pacificatrice e civilizzatrice universale >
diciamo che l’Eneide è il grande monumento di questo punto della politica augustea ma anche
Ovidio che fu un po’ libertino compose, anche se non ebbe modo di concluderli i Fasti per
celebrare le antiche tradizioni romane.
Quindi c’è davvero un impegno da parte di questi letterati a contribuire alla restaurazione, o meglio,
alla ricostruzione di Roma e la sua moralizzazione. Il termine restaurazione è ideologicamente
connotato perché si intende parlare di un ritorno di un regresso, di un “ancien regime” si potrebbe
dire così ma RICOSTRUZIONE rende meglio questa volontà di tornare alla normalità.

AUGUSTUS PONTIFEX MAXIMUS > L’Augusto di via Labicana (Roma, Museo Nazionale I sec.
d.C.)

Questa è una bellissima immagine molto nota di Augusto in abiti


sacerdotali è il famoso Augusto di via Labicana che si trova nel Museo
Nazionale di Roma è del I sec. d.C. quindi siamo nel mezzo dell’età giulio-
claudia la quale raffigura Augusto come pontifex maximus > in questa
iconografia c’è la volontà di ricostruire e di moralizzare la società. Il
sovrano, il princeps che si pone come sacerdos, come pontifex maximus è
il simbolo di una ricostruzione della restaurazione della società romana.
I CIRCOLI INTELLETTUALI DELL’ETÀ AUGUSTEA.

Ora vediamo quali sono i circoli intellettuali che operano nell’età augustea.

La maggior parte degli intellettuali che aderirono in toto alla politica augustea si raccolsero nel
cosiddetto CIRCOLO DI MECENATE >

Mecenate era un collaboratore di Augusto, colui che svolgeva un ruolo simile ad un ministro della
politica culturale dell’età augustea, infatti lui cercava gli intellettuali più dotati, li aiutava (da cui
deriva “mecenatismo” come termine ancora utilizzato per definire un uomo ricco che aiuta gli artisti
che per definizione sono poveri secondo il detto di Orazio “ars non dat panem” per cui “l’arte non da
pane” perché in genere gli artisti sono sempre squattrinati e affamati). I poeti che ruotano intorno a
questo circolo sono Virgilio, Orazio (il quale era molto amico di Mecenate), Properzio.

Poi abbiamo altri circoli:

- Il CIRCOLO DI ASINIO POLLIONE


Asinio Pollione era il principale esponente dell’opposizione politica e letteraria. Fu un critico
letterario molto rigoroso e temuto ed era un irriducibile repubblicano, un tradizionalista, ma
fu anche creativo,non come Catone che voleva tornare per forza a tutti i costi alle vecchie
usanze, bensì cercava di prendere il buono della tradizione cercando di innovare (per esempio
una delle caratteristiche della politica e della produzione letteraria di Asinio Pollione era la
riproduzione del teatro classico di Accio, Pacuvio, tant’è vero che quando si parla della
tragedia in età augustea si fa riferimento ad Asinio Pollione anche se nulla ci è rimasto della
sua produzione.

Lo conosciamo appunto come critico letterario, fu amico di molti poeti (si pensi a Virgilio il
quale dedica una Bucolica a suo figlio e a lui) quindi lui era una persona carismatica che ebbe
la capacità di creare attorno a sé un cenacolo di letterati.
Lui era anticonformista, Augusto stesso lo temeva ma lo rispettava perché comunque era una
persona onesta, non era un arruffapopolo, non era un sovversivo, era uno che aveva delle idee
sue particolari ma non creava tensione e non si opponeva al potere in carica.

In che cosa si esprimeva il suo anticonformismo?


1) Si esprimeva nella retorica > perché lui fu un anticiceroniano.

Cicerone creò un modello che è giunto fino a noi; se oggi noi scriviamo in un certo modo
e organizziamo il pensiero in una certa maniera lo dobbiamo a Cicerone, all’insegnamento
che ha tramandato attraverso i secoli. Le scuole europee dall’Umanesimo in poi
insegnavano il latino prima ancora che le lingue volgari. Il latino veniva impartito
attraverso delle grammatiche che erano informate sulle opere di Cicerone. Lorenzo Valla
che scrisse le Elegantiae Linguae Latinae non fece altro che decodificare il De Oratore di
Cicerone quindi tutte quelle regole e norme presenti nell’opera lui le condensò e le
compendiò nella sua opera che si configura come una sorta di grammatica e stilistica latina
che fu usata come libro di testo per generazioni e generazioni di studenti. Ciò significa
che generazioni di studenti in tutta Europa hanno imparato a scrivere in latino e anche ad
organizzare il pensiero (perché la scrittura non è soltanto la messa su carta di parole ma è
anche organizzazione del pensiero in un certo modo) e che poi, quindi passando al volgare,
hanno riutilizzato quelle stesse categorie per esprimersi in volgare. Quindi se noi oggi
scriviamo un tema, un articolo, una tesi in un certo modo organizzandolo in paragrafi,
secondo una struttura ipotattica del periodo lo dobbiamo proprio a Cicerone la cui ombra
lunga arriva fino a noi oggi. Ecco perché Cicerone è un grande per l’impatto che il pensiero
e lo stile di Cicerone ha avuto nel pensiero occidentale fino a noi, ed è veramente un
gigante (lasciando perdere le sue debolezze umane perché chi è non ha debolezze di noi?
Non c’è nessuno perfetto, quindi se noi leggiamo il suo epistolario, che forse è stato
pubblicato a posta per metterlo in cattiva luce vedremo le sue debolezze).
Dunque c’erano delle persone che erano anticiceroniane uno di queste oltre a Sallustio era
Asinio Pollione, il quale rifiutava le sue regole grammaticali, retoriche, la sua concezione
e visione della lingua e proponeva qualcosa di diverso di tipo anomalistico esattamente
come Sallustio. Nell’Orator Cicerone dice “state attenti perché la lingua della poesia non
può essere come quella della prosa, ma deve essere ben distinta non solo nell’uso del
lessico, ma anche nel ritmo. Quindi noi non possiamo usare una clausola ritmica in prosa
che richiami quella della poesia. Ciò significa che in prosa non possiamo usare la fine
dell’esametro, la cosiddetta clausola eroica, perché questo si confonderebbe con la poesia.
Se prendiamo come esempio la Congiura di Catilina di Sallustio è piena zeppa di clausole
eroiche perché voleva proporre un modello stilistico nuovo e diverso attraverso questa
provocazione anticiceroniana; Asinio Pollione si metteva su questa linea si tratta di fatti
straordinari dal punto di vista culturale e antropologico

2) Si esprimeva nella storiografia> perché fu antimperialista


Non voleva infatti che Roma si espandesse più di tanto, ma che curasse il proprio
benessere interno senza andare a espandere i propri confini. In fondo, come è stato detto
da qualcuno, i romani hanno creato il loro impero per legittima difesa, per paura di venire
attaccati un domani da una popolazione straniera e per prevenire ciò la conquistavano, la
soggiogavano in modo da garantire la pace, quindi ideologicamente un imperialismo volto
ad una prospettiva di pace che poi di fatto ebbe delle conseguenze che noi sappiamo bene

Ø Un altro merito del nostro Asinio Pollione è l’apertura della prima biblioteca pubblica a
Roma (evento importante perché prima le biblioteche erano solo private e non di carattere
pubblico), lui ritenne che la cultura non dovesse essere chiusa soltanto nei circoli e nei
cenacoli intellettuali di aristocratici che potevano permettersi anche la produzione di libri, ma
dovevano essere a disposizione di tutti perché era un bene del popolo romano. Il patrimonio
della latinità non è un bene di pochi ma un bene del popolo romano e soltanto raffinando i
gusti del popolo si può anche aumentare il benessere sociale ed economico dello Stato.
Introdusse dunque il costume delle recitationes che avranno grande fortuna nell’impero: si
tratta di letture pubbliche in sale per conferenze.
La diffusione della cultura oggi è essenzialmente libresca ossia noi ci informiamo andando a
prendere un libro in biblioteca e lo leggiamo, mentre gli antichi non avevano questa grande
propensione per la lettura privata, in genere i libri venivano declamati e allora c’erano questi
luoghi, queste sale di conferenze dove i poeti e gli autori recitavano le loro opere: queste sono
le recitationes > sappiamo anche che Virgilio quando componeva un libro della sua Eneide (li
componeva per partes) per sperimentare la buona uscita del libro, lo recitava ad una cerchia
di persone; le biografie dicono che era talmente appassionato nel leggere i suoi versi che molti
piangevano dalla commozione quanto erano appassionanti e belli quei versi. Dunque questo
costume delle recitationes è stato reso canonico proprio da Asinio Pollione.

- IL CIRCOLO DI MESSALLA
di cui fece parte soprattutto Tibullo, fu un circolo che si formò intorno alla figura di Messalla
Corvino che forse era figlio di un altro Messalla Corvino Nigro che sposò Terenzia, la moglie
di Cicerone, la quale morì a 102 o 103 anni, ebbe una vita lunghissima ed ebbe diversi mariti.
L’insulto più grave che Terenzia fu di sposare Sallustio che era suo nemico anche dal punto
di vista culturale. Poi si sposò con un Messalla Nigro che forse era proprio il padre di Messalla,
fondatore del circolo.

Questo circolo si contrappone a quello di Mecenate per due punti:

1) Attua un’esplicita rinuncia all’impegno morale e civile (evidente in Tibullo); non che
coloro che ne facevano parte, non aderissero al programma augusteo, perché in fondo
Tibullo quando parla del ritorno alla terra sta in qualche modo obbedendo alla politica
augustea, però risulta un impegno meno evidente, c’è una libertà di pensiero che loro si
riservano, non amano l’etichetta di intellettuali di regime. Poi è evidente che anche loro
condividevano questa ansia e questa aspirazione alla pace e alla ricostruzione perché era
un pensiero collettivo era un sentimento universale però si rifiutano di essere degli
intellettuali di regime.

2) Si caratterizza per una poetica di evasione e di rifugio in una Arcadia letteraria e questo
sa molto di epicureo > gli epicurei, infatti, avevano questo principio del “λάθε βιώσας”
/laze biòsas/ del “vivi nascosto” e il circolo di Messalla incarna bene questo ideale. Anche
il circolo di Mecenate con Orazio e Virgilio amavano Epicuro; Orazio stesso si definiva
"Epicuri de grege porcus" cioè “un maialetto della mandria di Epicuro” così come Virgilio
sappiamo che a Napoli frequentava i filosofi epicurei però tutto sommato aderivano a
questo programma augusteo.

LA CLASSICITÀ DEI POETI DELL’ETÀ AUGUSTEA

• Abbiamo detto parlando della poesia neoterica che i neoteroi si rifanno alla poesia
alessandrina, Catullo ad esempio ha come modello Callimaco; anche il primo Virgilio ha per
modello Teocrito si tratta cioè di poeti dell’età alessandrina. Invece questi poeti maturi, il
Virgilio maturo , l’Orazio maturo e anche gli elegiaci non si rifanno più agli alessandrini ma
tornano ai poeti della Grecia classica perché gli alessandrini producono un tipo di poesia
che si inserisce in un contesto politico che è quello di una monarchia ellenistico-assolutistica
dove non c’era libertà di parola e quindi ogni tema di tipo politico e civile era soffocato perché
era il monarca assoluto che si occupava di questi ambiti mentre i letterati si dovevano occupare
di erudizione, di poesia amorosa ma non si potevano occupare di questioni civili e morali
perché questo compito era nelle mani del monarca > si può ben capire che i temi della poesia
alessandrina in un momento in cui c’era questa forte aspirazione civile e morale non era più
adeguata e allora si rifanno ai poeti e lirici greci (ad esempio Orazio richiama Archiloco,
Saffo, Alceo) che sono poeti animati da una forte tensione politica, da un forte impegno
politico. Nei modelli classici, infatti trovano consonanti queste aspirazioni all’impegno
morale e civile cosa invece che non trovano nei poeti che vivono in una monarchia assoluta
che pensa tutta lei a gestire i problemi della quotidianità.

Leggendo la slide:
”L’adesione dei letterati, soprattutto Virgilio e Orazio, al programma Augusteo li porta ad
accostarsi allo spirito e ai modelli della Grecia classica più che agli Alessandrini che avevano
perso il contatto con la società civile e il senso dei grandi ideali e i problemi della vita”

• Nel trattare le grandi questioni della vita (dunque stiamo parlando di problemi esistenziali)
mostrano un equilibrio spirituale e una perfetta misura dello stile: Orazio come persona
e come poeta ha questo obiettivo, trovare un equilibrio spirituale senza cadere negli eccessi,
una sorta di atarassia, lui era appunto un epicureo, quindi vuole incarnare nella sua poesia
questa forma di atarassia. Come lo fa? Per esempio con l’aiuto dell’ironia. Se prendiamo le
Satire di Orazio e di Giovenale, le Satire di Orazio sono venate di ironia quelle di Giovenale
sono venate di sarcasmo.

Attenzione!!! È una domanda che fa spesso agli esami

Che differenza c’è tra ironia e sarcasmo?


L’ironia e il sarcasmo sono due atteggiamenti differenti del poeta verso l’oggetto che viene
criticato.
L’ironia presuppone un distacco: possiamo criticare una persona, un costume, un modello di
vita stando comunque tranquilli in una olimpica serenità perché la cosa non ci tocca, il fango
del mondo non ci inzozza quindi si fa ironia perché tanto siamo tranquilli nel nostro mondo
nel nostro hortus conclusus nella mia turris eburnea.

Il sarcasmo invece presuppone il coinvolgimento emotivo del poeta verso l’oggetto della sua critica;
quando Giovenale dice “ facit indignatium versum” sta dicendo che il suo verso la sua poesia
scaturisce dall’indignazione, dallo sdegno che prova per qualcosa che non gli va a genio e quindi è
tutt’altro che serenamente olimpico è invece coinvolto, sanguigno, gli ribolle il sangue mentre critica
e descrive le cose che non vanno, invece Orazio è tranquillo, ride bonariamente delle cose che critica
e questo è segno di un equilibrio spirituale.

Ø Badate che il famoso “carpe diem” di Orazio va ben interpretato perché non significa “godi
tutto quello che la vita ti concede di bello perché è come la poesia di Lorenzo il Magnifico
(sta parlando della “Canzona di Bacco” del 1490 ca. che dice «Quant'è bella giovinezza che
si fugge tuttavia! […] Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c'è certezza.») che dice: “finchè
sei giovane godi quello che la vita ti dà perché poi quando c’è la vecchiaia non è più possibile
questo” > MA QUESTO NON È IL CARPE DIEM DI ORAZIO!!! Quello di Orazio non è
un invito a godere voracemente delle cose della vita, ma il vivere intensamente e
consapevolmente tutti i momenti che la vita ti dà consci del fatto che il passato non esiste più
e il futuro non esiste ancora quindi il tempo realmente esistente (come dirà bene Agostino) è
il presente e su questo bisogna concentrarci per vivere non nei sogni o nella nostalgia, ma
vivere intensamente e consapevolmente il presente che la vita ci porta > che è l’atteggiamento
del surfista che surfa sulla cresta dell’onda non è un cercare tutto quello che si può godere
perché poi altrimenti una volta che passa la giovinezza non è più possibile non è questo
l’atteggiamento che propugna Orazio.
Anche questo dettame di Orazio è segno di equilibrio spirituale. Questo equilibrio spirituale si
manifesta anche nella perfetta misura dello stile, se prendiamo Virgilio o Orazio non hanno eccessi
sono veramente perfetti, sono i classici per eccellenza, la loro versificazione è musica; quando
leggiamo gli esametri di Virgilio non stiamo leggendo Virgilio ma ascoltando Mozart; quando
leggiamo Orazio stiamo guardando qualcosa di bellissimo di insuperato

I contenuti espressi nella poesia di Orazio furono anche strumentalizzati e danneggiati durante il
ventennio fascista che prendeva come ideale la romanità per cui tutto quello che era romano era
perfetto e bello e siccome Orazio rappresentava quest’ideale allora i fascisti lo hanno utilizzato come
strumento di propaganda. Nelle scuole italiane durante il fascismo si leggeva moltissimo Orazio
mentre ora non si legge quasi più quasi per rifiuto per reazione, in realtà andrebbe recuperato Orazio
perché è un poeta forse fra i più grandi della letteratura antica e mondiale perché ha delle intuizioni
poetiche veramente insuperate di portata, di caratura universale, non è un autore facilissimo perché è
una persona molto matura, profonda quindi va compreso, però è un poeta veramente grandioso che
dietro ad un’apparente freddezza c’è una persona di grande profondità e umanità mentre in Virgilio
l’umanità è più percepibile in maniera quasi immediata in Orazio bisogna cercarla dietro il filtro
letterario.

• L’esponente della perdita di questa misura è Ovidio. La fase di fioritura piano piano va a
scemare verso una forma di decadenza e Ovidio è colui che comincia ad avere questa
stanchezza di ispirazione. Ovidio è forse il più grande versificatore dei suoi tempi: l’esametro
e il distico elegiaco che crea Ovidio sono insuperati non c’è paragone con quello dei suoi
predecessori. Molti dicono che la sua è una prosa versificata tanto scorre leggero il suo verso
sembra quasi di leggere prosa perché il suo verso scorre benissimo e questa è la grande tecnica
che lui aveva nella versificazione esametrica o dattilica.
Però cosa manca in Ovidio al di là di questa perfezione tecnica?
Manca il fatto che non ha più quella spinta ideale di Virgilio e Orazio egli diviene invece un
po’ salottiero, a volte sono temi un po’ vanesi, prendiamo ad esempio l’Ars Amatoria: questo
manualetto del seduttore che raggruppa tutte le tecniche per far sì che il ragazzo possa sedurre
la ragazza e viceversa, sono dei temi tutto sommato che non hanno grande caratura etica e
morale non hanno grande tensione spirituale sì, sono piacevoli perché sono scritti bene, sono
anche simpatici, però vediamo ormai che siamo nella stanca dell’onda, quando l’onda si è già
infranta e c’è una forma di inerzia a livello letterario e intellettuale. Ovidio è questo.
Poi c’è da dire che quando va in esilio a Tomi perché cade in disgrazia molti a tal riguardo
dicono che forse venne immischiato in tresche con la famiglia di Augusto, cosa anche
possibile, ma certamente poesie di quel tipo non potevano essere gradite ad un imperatore o
ad un princeps che voleva moralizzare la società anche se Ovidio afferma di rivolgersi
soprattutto alle libertine alle matrone romane però fatto sta che non era una letteratura che
poteva andare incontro a quella restaurazione che pensava Augusto e quindi fu mandato in
esilio. Non si trattò di un esilio vero e proprio, ma di una relegatio mentre l’esule perdeva tutti
i suoi beni, chi andava al confine manteneva i suoi beni. L’Ovidio dei Tristia e delle Epistulae
ex Ponto è un Ovidio diverso perché evidentemente la lontananza da Roma gli fece riscoprire
questa tensione morale, un Ovidio molto più profondo, sensibile e romantico e ci piace di più
per molti aspetti.

L’ELEGIA LATINA
Ora ci concentriamo soprattutto sul genere dell’elegia latina che è rappresentata nell’età
augustea da tre grandi personaggi che abbiamo già citato:

1) TIBULLO

2) PROPERZIO > è da alcuni definito il più grande dei tre anche se il professore non è
d’accordo su questa idea, la sua poesia però è piuttosto difficile un po’ tormentata, irrequieta
e questa irrequietezza si riverbera anche nello stile, che non è facile; oltre tutto è una poesia
ricca di riferimenti mitologici c’è un denso apparato mitologico che vuole essere segno di
erudizione di virtuosismo ma che soprattutto ad un lettore moderno crea fastidio. Certo, poi è
molto profondo è un poeta di tutto rispetto, di prim’ordine però è forse molto più lontano dalla
nostra sensibilità.

3) OVIDIO > lo abbiamo già detto è un poeta salottiero una specie di damerino che ama i salotti
le belle donne, la bella vita che soltanto alla fine della sua vita, quando si troverà relegato a
Tomi ritroverà una vena poetica più profonda e romantica.

Sono 3 personaggi diversi l’uno dall’altro ed è difficile confonderli

ALBIO TIBULLO (ca.55-19 a.C)


Il nome è Albio Tibullo. Dei tria nomina non conosciamo il praenomen (sappiamo che i
romani avevano i tria nomina il praenomen, il nomen, il cognomen) conosciamo soltanto il
nomen e il cognomen. Albius è probabilmente una gens di provincia non della Roma urbana,
ma si pensa, in base ad alcune fonti, che fosse nativo di Tusculum oppure di Alba Longa
(quindi Albio farebbe riferimento ad Alba cioè ad Alba Longa) alcuni pensano a Praeneste. A
volte gli studiosi mettono il cognomen in relazione con Tibur (nativo di Tivoli) oppure di
Tiberis (che è il Tevere). Insomma non era romano della città di Roma ma apparteneva ai
dintorni probabilmente di origine Sabina.
Se analizziamo le date la data di nascita è il 50 o il 55 a.C. ed è interessante perché quando
morì Catullo nacque Tibullo quindi assistiamo ad un passaggio di testimone tra la poesia
elegiaca che sperimentò Catullo in qualche epigramma un po’ più lungo e Tibullo che è il
primo grande elegiaco della letteratura latina.
Tibullo fece parte del circolo letterale di Messalla Corvino, che non era soltanto un uomo di
lettere e un uomo politico, ma era anche un generale e quindi spesso Tibullo lo accompagnava
in alcune campagne militari in Aquitania e in Cilicia anche se poi non riuscì a completare
quest’ultima campagna perché poi Tibullo si ammalò e restò Corfù.

Noi abbiamo sotto il nome di Tibullo 3 libri di elegie anche se l’autenticità del terzo libro è
molto discussa perché di fatto è un libro composito che contiene non soltanto poesie di
Tibullo, ma anche di altri poeti. È probabile che il terzo libro contenga alcuni componimenti
di altri poeti dello stesso circolo, quindi il grammatico che ha messo insieme questi tre libri
evidentemente ha incluso anche qualche altro componimento del circolo di Messalla. Noi
siamo sicuri della paternità dei primi due libri complessivamente però il terzo libro è un
problema filologico aperto, perché noi non abbiamo soltanto elegie di Tibullo ma anche di
altri personaggi, allora si discute chi possano essere questi autori inclusi nel terzo libro.
Un’ipotesi interessante è che il redattore del cosiddetto Corpus Tibullianum potrebbe avere
inserito nel terzo libro in coda,dei componimenti di altri poeti del circolo di Messalla.
Poi il problema rimane ancora aperto perché non abbiamo il nome di questi personaggi o
perlomeno abbiamo alcuni nomi ma chiaramente non tutti sono d’accordo sulla loro identità.

Si tratta, parlando della poetica di Tibullo, prevalentemente di poesia amorosa, di elegia


amorosa.
L’elegia nasce come componimento funebre έλεγος /elegos/ in greco è il lamento funebre però
poi l’elegia diventa un contenitore che può contenere temi di vario tipo e nella poesia latina
(e non soltanto latina), l’elegia diventa il contenuto per eccellenza del sentimento amoroso
quindi poesia erotica.

CHI SONO LE DONNE CANTATE DA TIBULLO?


Una è senz’altro Delia, quella più presente. Delia non è il vero nome secondo Apuleio nel De
Magia il vero nome di questa donna era Plania > possiamo notare una struttura ipisoprosodica
cioè la prosodia di Delia è sovrapponibile a quella di Plania cioè è un dattilo >
Dēlĭă (lunga-breve-breve) Plānĭă (lunga-breve-breve).
Ci sarebbe anche un gioco etimologico perché δῆλος /delos/ che significa in greco chiaro ed
evidente corrisponde per tanti aspetti al latino plānus e allora ci sarebbe la volontà di trovare
un termine latino che fosse congruente non soltanto per la prosodia ma anche nel significato
allo pseudonimo.
Si può individuare un altro gioco di parole: la donna di Catullo è Lesbia che è cioè la poetessa
di Lesbo ed è probabile che questa donna sia intesa come la donna la donna di Delo, dell’isola
di Delo > quindi Lesbia come donna dell’isola di Lesbo e Delia come donna dell’isola di Delo
( è una località cara al dio Apollo che era il patrono delle arti e della poesia) e per questo forse
ci sarebbe un riferimento all’isola.
Delia viene definita una figura evanescente e indefinita ma bisogna stare attenti perché è una
figura reale non è una finzione letteraria. Quando noi leggiamo le poesie di Orazio, vediamo
che le donne all’interno delle sue opere sono sparenti come quelle di Ariosto, dunque figure
evanescenti e indefinite; invece la Delia di Tibullo si capisce che è una Delia autentica e
reale anche se poi è chiaro che passi attraverso dei filtri letterari come facevano quasi tutti i
poeti latini e quindi è un procedimento che ormai conosciamo.
La storia tra Tibullo e Delia non andò a buon fine; Delia era una donna di estrazione sociale
non alta ma che evidentemente amava il bel mondo quindi Tibullo avrebbe voluto condurla
in campagna nella sua pace, nel suo hortus conclusus, ma Delia amava i salotti romani e nel
momento in cui poi alla fine Tibullo dovette accompagnare Messalla in una campagna
militare, (forse quella in Aquitania) Delia lo mollò e si mise con un altro ragazzo e quindi
Tibullo alla fine soffrì non ovviamente come Catullo, ma ha delle parole piuttosto crude non
tanto nei confronti della donna quanto nei confronti del ragazzo che l’ha portata via a lui.
Poi abbiamo una seconda figura femminile forse anche più indefinita il cui nome è Nemesi
(che significa vendetta in greco) non sa se il nome sia dovuto al fatto che abbia voluto adottare
quel procedimento di “chiodo schiaccia chiodo” cioè una seconda donna che sia la nemesi
ossia la vendetta della storia triste e sfortunata con Delia, cosa molto probabile. Nell’amore
di Nemesi c’è forse meno sentimento e più sensualità, cioè si tratta di un’attrazione più fisica
che un’aspirazione ad una vita familiare ad una vita di coppia più tradizionale in senso
romano, c’è qui maggiormente la voglia di godere dell’amore sensuale più che aspirare alla
costruzione di una famiglia in una coppia in senso proprio e tradizionale.

I TEMI DELLE ELEGIE DI TIBULLO


A Tibullo si riconosce il merito di aver eliminato l’apparato mitologico ed erudito e di
avere espresso i propri sentimenti in modo schietto. Già Catullo, lo sappiamo, soprattutto
nei Carmina Docta, fa uso abbondante dell’apparato mitologico che poteva essere gradito ad
un poeta raffinato ad un lettore abituato magari ad una poesia neoterica però ormai il mito
nell’età augustea non tira più tanto, non era più così gettonato; allora Tibullo sfronda la sua
poesia di tutti questi riferimenti eruditi, virtuosistici, il riferimento a miti piuttosto strani
magari poco noti, sconosciuti (che erano cari invece ai neoteroi) esprimendo i suoi sentimenti
non facendo riferimento a modelli mitologici; ad esempio non fa riferimento agli Ἐρωτικὰ
Παθήµατα “dei dolori di amore” /eroticà pazèmata/ di Partenio di Nicea ma descrive , sempre
attraverso l’utilizzo dei filtri, i propri sentimenti.
È con Tibullo che la elegia latina diventa veramente soggettiva. Come abbiamo già detto,
l’elegia greca è una elegia oggettiva in cui il poeta in genere non descrive mai i propri
sentimenti personali è sempre molto discreto, riservato nel parlare delle proprie cose; invece
i poeti latini,come per esempio appunto Tibullo e anche Properzio, esprimono i loro propri
sentimenti, quindi la elegia diventa soggettiva e personale. Non sarà mai un personalismo
comparabile a quello moderno c’è sempre di mezzo un filtro letterario.

QUALI SONO I TEMI RICORRENTI DELLE POESIE DI TIBULLO?


v L’amore per la donna amata inquadrato in un contesto domestico e agreste.
Tibullo non ama le avventure non è un viveur o un donnaiolo scapestrato, lui ama la
donna perché la vuole come compagna di tutta la vita, vuole che sia la regina della
casa e vuole soprattutto che viva in un contesto campagnolo di una campagna
idealizzata molto idilliaca, non ama la vita di città, quella vita tumultuosa di cui si
lamenterà Marziale nei secoli che verranno.
v Il mito dell’età dell’oro c’è questa voglia di ricostruire la società romana lacerata
dalle tensioni da tante ferite della guerra civile e quindi c’è una riproposizione dell’età
dell’oro come aveva già fatto Virgilio nelle Bucoliche “Sìcelidès Musaè, | paulò
maiòra canàmus!” quando dice: ”Ecco la palingenesi del mondo sta arrivando ora
che abbiamo un nuovo princeps come Augusto e un nuovo intellettuale come Asinio
Pollione”.

v L’immaginazione e il presagio della morte c’è una sorta di voluptas dolendi, quella
che troviamo per esempio in Petrarca, una specie di vittimismo o di
autocommiserazione; in Tibullo abbiamo anche temi di questo tipo quando lui, per
esempio, immagina la propria iscrizione funebre, la propria epigrafe nella sua tomba
si tratta di forme di vittimismo che sono molto delicate non sono niente di cupo di
macabro di sconvolgente è delicatissimo fa quasi tenerezza ed è tipico di questa poesia
tibulliana.

Ø Tutti questi temi sono soffusi di malinconia anche se Tibullo forse tra gli elegiaci tutto
sommato è quello più vicino alla nostra sensibilità moderna, questa leggera malinconia e la
voglia di condurre una vita più tranquilla, magari in campagna, una vita idealizzata, sono temi
che sono consonanti con la nostra aspirazione di oggi vista la società in cui ci troviamo a
vivere e soprattutto col problema della pandemia.

IL III LIBRO DEL CORPUS TIBULLIANUM

La critica più recente ritiene che sia opera di vari autori appartenenti al circolo di Messalla, sono 20
componimenti quindi un libro abbastanza sostanzioso rispetto agli altri, si pensi che il primo libro ha
10 elegie qui invece abbiamo il doppio dei componimenti.

• 1-6 > I primi sei componimenti sono attribuiti ad un certo Ligdamo che non sappiamo chi
sia e anche qui gli studiosi si interrogano su chi possa essere: c’è chi ritiene che Ligdamo sia
per esempio sia il Tibullo giovane dunque corrisponderebbero ai primi tentativi di Tibullo c’è
invece chi pensa, e questa è l’opinione che prevale, che siano i componimenti del giovane
Ovidio che evidentemente da ragazzo, nei suoi primi passi di poeta era vicino al circolo di
Messalla. È un’ipotesi interessante molto suggestiva però anche indimostrabile perché è molto
difficile sulla base dei dati linguistici dichiarare la paternità di un’opera se non ci sono altri
elementi che possano suffragare questa ipotesi di lavoro a meno chè un autore non abbia dei
tic espressivi così evidenti che allora ci danno quasi la conferma della paternità, ma se noi
prendiamo una poesia convenzionale come quella elegiaca dove a volte le espressioni o sono
quasi obbligate dalla metrica o sono espressioni che fanno parte di quel genere letterario è
difficile dire se quel componimento è sicuramente di Ovidio perché lo troviamo anche negli
Amores non ci sono prove che filologicamente funzionano ci devono essere altri elementi che
possono confermare o meno questi sospetti quindi è difficile dire se sia veramente il giovane
Ovidio è soltanto un’ipotesi.

• 7 > Il settimo componimento è il cosiddetto Panegyricus Messallae in esametri è un elogio


di Messalla di ignoto certamente non è né Ovidio né Tibullo perché si tratta di un versificatore
piuttosto scadente non si tratta di una bella poesia ci sono tante anomalie e irregolarità nella
versificazione, non denota un grande poeta bensì un praticante uno che ha fatto un tentativo
con risultati piuttosto deludenti. È interessante perché è un componimento particolare per lo
studioso che non si deve occupare solo di opere belle ma anche di opere scadenti per cercare
di capire e fare un confronto con i veri poeti, sono la cartina tornasole della poesia latina.

• 8-18> Le elegie che vanno dall’ottava alla diciottesima sono interessanti perché attribuite a
Sulpicia che sarebbe la prima poetessa latina di cui possiamo leggere qualcosa di consistente
(per il resto della tradizione letteraria possediamo soltanto nomi di altre poetesse e non
possediamo niente di chè). Sulpicia con queste 10 elegie sarebbe la prima donna poetessa di
cui conosciamo qualcosa scrisse delle poesie molto belle e non scadenti, conosce bene la
tecnica versificatoria sono elegie molto piacevoli non profondissime ma piacevoli. Alcuni
pensano che questa Sulpicia sia una finzione letteraria che Tibullo abbia voluto usare questo
pseudonimo femminile, ma secondo il professore sono idiozie e forse nascono da un
pregiudizio nei confronti della donna che nell’antichità era emarginata non potesse scrivere.
Sulpicia secondo il professore è una donna una scrittrice reale e possiamo attribuirle senz’altro
questa serie di componimenti.

• 19-20> Le ultime due 19 e 20 sono di Tibullo.

Come possiamo vedere questo terzo libro è composito e offre tanti problemi di discussione di
ricerca filologico-letteraria però questo carattere eterogeneo che si evince dalla diversità dello
stile dei diversi autori che confermerebbe l’attribuzione a diversi autori.

LEZIONE 17 (25/11/2020) Debora Cannas

Questa prima elegia è programmatica, non a caso Tibullo l’ha inserita prima del primo libro, perché
in questo testo vengono compendiati tutti i temi della poetica tibulliana: innanzitutto il tema
dell’amore, sappiamo che l’elegia romana è un’elegia erotica amorosa e abbiamo anche detto che la
donna del primo libro cantata da Tibullo è Delia quella che secondo Apuleio si chiamerebbe Plamia,
poi altro motivo tipicamente tibulliano è l’elogio della campagna, cioè il desiderio di poter
abbandonare la città e vivere da campagnolo ovviamente si tratta di una campagna un po’ idealizzata,
realistica certamente ma idealizzata perché l’attività agricola non è cosi tranquilla. poi abbiamo la
condanna della guerra sappiamo che Tibullo seguì Messalla in qualche impresa militare ma un po’
sempre controvoglia, c’è anche la condanna della ricchezze esagerate della prosperità esorbitante che
ovviamente può traviare la felicità dell’uomo e poi come ultimo motivo il presagio quello della morte,
c’è una forma di autocommiserazione. Sono distici perfetti da un punto di vista formale, non hanno
quella durezza che abbiamo trovato in Catullo. Il primo motivo è la condanna delle ricchezze lui
rifiuta una vita tutta intenta all’accumulo delle ricchezze lui preferisce una vita sobria, una vita non
misera naturalmente ma una povertà dignitosa cioè avere quello che serve per condurre una vita
tranquilla senza affannarsi ad accumulare le ricchezze.

Diuitias alius fuluo sibi congerat auro

et teneat culti iugera multa soli,

quem labor adsiduus uicino terreat hoste,

Martia cui somnos classica pulsa fugent;

me mea paupertas uita traducat inerti,

dum meus adsiduo luceat igne focus.

Traduzione: Altri amassi per se ricchezze di biondo oro, e possieda molti iugeri di terreno coltivato
ma lo atterrisca una preoccupazione continua per il nemico vicino e le trombe da guerra fatte squillare
gli scaccino il sonno, me invece la mia povertà conduca attraverso una vita tranquilla purché il mio
focolare risplenda di un fuoco continuo.

Il primo motivo è quello di condurre una vita tranquilla, non affannarsi in cerca delle ricchezze o
delle spedizioni militari ma cercare una povertà dignitosa che consenta una vita tranquilla.

• Antitesi tra il poeta e altri “alius”, altri possono scegliere una vita di questo tipo io invece
preferisco una povertà dignitosa. L’antitesi è molto chiara perché alius del verso 1 si contrappone al
me del verso 5. Il pronome me del verso 5 è messo all’inizio del verso proprio per far rimarcare
l’antitesi con alius.

• “Divitias” si contrappone a “paupertas”: la ricchezza / la povertà. Bisogna rimarcare che la


povertà non è la miseria, la fatica ma una povertà dignitosa cioè avere quello che serve per una vita
tranquilla

• “congerat” congiuntivo concessivo

In questa elegia l’oro è il simbolo della ricchezza

• L’oro è definito biondo, appunto perché è giallo, ed’è la prima volta che noi troviamo
l’aggettivo fulvus riferito ad aurum. In Ennio troviamo fulvus riferito al bronzo al rame ma non
all’oro, Tibullo è il primo ad attestare questa iunctura dell’oro come biondo. In latino ci sono due
aggettivi che indicano il biondo: “fulvus” e “flavus”. Fulvus è quel biondo un po’ più scuro che tende
un po’ quasi al rossiccio mentre flavus è un biondo più chiaro, l’oro è definito fulvus, rossiccio, perché
sicuramente l’oro nell’antichità era meno raffinato rispetto a quello nostro.

• Sibi è un dativo di interesse


• “Fulvo auro” è un ablativo, di che tipo? Ci sono due possibilità o è un ablativo di materia, nel
senso che specifica in cosa consiste la ricchezza cioè in oro biondo e allora potrebbe essere definito
un ablativo di materia, alcuni lo chiamano ablativo di abbondanza, oppure potrebbe essere anche uno
strumentale riferito più direttamente a congerat cioè: altri amassi per se ricchezze con oro biondo
come se fosse uno strumento dell’acquisizione delle ricchezze. Questa seconda interpretazione è
quella che convince meno il professore.

• “molti iugeri” un grosso appezzamento di terra. Iugerum deriva da iugum : il giogo, e


anticamente iugerum era quell’estensione di terra che un giogo di buoi poteva arare in una giornata,
alla fine diventa nel mondo romano un unità di misura che corrisponde più o meno a un quarto di
ettaro. Qui non fa riferimento alla precisione, possiamo tradurre in italiano molti ettari di terreno
coltivato

• “Soli” sta per suolo

Dice poi che anche chi è ricco e ha molti appezzamenti di terra ha delle preoccupazioni. In genere chi
ha delle ricchezze ha molte preoccupazioni magari deve andare a fare delle campagne militari o
avevano altre rogne come i senatori a Roma

• “quem” verso 3 che ha come antecedente alius, è in rapporto avversativo, infatti noi possiamo
tradurre: ma una preoccupazione continua lo terrorizzi. Quindi le ricchezze non sono garanzie di
felicità perché i grossi latifondisti soprattutto di rango senatorio spesso venivano spediti in campagne
militari quindi non potevano neanche godere le ricchezze e il benessere che loro avevano accumulato.

• “Labor” al verso 3 non è ne la fatica ne il lavoro è la preoccupazione la sofferenza. Laborare


in latino significa faticare e anche soffrire. Laborare può essere utilizzato anche in altri contesti per
indicare la sofferenza generica. Qui labor è come metus. La differenza che c’è tra metus e pavor (che
indica la paura) : metus è una preoccupazione continua esattamente come il labor di questo verso
mentre il pavor è la paura improvvisa che dura poco.

• “Hoste vicino” complemento di causa : perché lo tormenti la preoccupazione continua del


nemico vicino.

• “adsiduus” -ad significa presso -sedior significa sedere quindi un tormento che ti siede sempre
accanto.

• “classica martia”classica sono le trombe. L’esercito convocato per andare a combattere si


chiamava nel latino arcaico -classis da caleo che significa chiamare, e allora quando c’era un pericolo
perché la città era assediata dai nemici il popolo si raccoglieva in armi, questo popolo raccolto in armi
è appunto la classis poi nel latino storico classis passa a significare semplicemente la flotta quindi la
marina militare però nell’epoca arcaica classis era l’esercito e allora classicum che si riferisce a classis
era la tromba che convocava l’esercito. Qui è specificato meglio classicum martium cioè la tromba
di Marte dio della guerra quindi classica martia sono le trombe di guerra. Altra preoccupazione.

• “Pulsa”: da pello : fatte squillare. C’è una piccola incongruenza perché pellere si riferisce a
strumenti a percussione che vanno pizzicati, va meno bene nelle trombe che sono strumenti a fiato.

• “Fugent”: viene da fugo causativo di fugio ce significa mettere in fuga


• “Somnos”: è plurale, è un plurale poetico perché non è soltanto il sonno di una notte ma è il
sonno di tante notti, ecco perché il plurale.

• “Vita inerti”: può essere uno strumentale oppure un moto per luogo figurato che in latino in
genere va in ablativo perché il complemento di tempo continuato quando esprime la totalità come in
questo caso tutta l’esistenza va in ablativo perché è un lasso di tempo circoscritto definito, mentre se
noi definiamo un lasso di tempo indefinito allora dovremo usare l’accusativo. Iners non significa una
vita oziosa nel senso di non fare nulla, iners deriva da in + ars , l’ars è il mestiere ma in questo caso
è il mestiere della guerra dei commercianti che procura delle ricchezze ma procura anche molte noie,
quindi si potrebbe dire che questo iners corrisponde all’otium latino nel senso dell’attività intellettuale
letteraria poetica.

• “Dum” : purché . come se fosse dummodo

• “focus”: è il focolare domestico, diverso da ignis che è il fuoco come fenomeno fisico.
Nell’antichità il focolare era sempre acceso nella casa, si spegneva solo in caso di lutto. Si augura
quindi che il suo focolare risplenda di una luce continua perché indica la serenità continua.

Ipse seram teneras maturo tempore uites

rusticus et facili grandia poma manu;

nec Spes destituat, sed frugum semper aceruos

praebeat et pleno pinguia musta lacu.

Nam ueneror, seu stipes habet desertus in agris

seu uetus in triuio florida serta lapis,

et quodcumque mihi pomum nouus educat annus,

libatum agricolae ponitur ante deo.

Io stesso pianterò nel tempo opportuno delle tenere viti da campagnolo e pianterò dei grandi alberi
da frutto con mano esperta ne mi abbandoni la speranza ma offra sempre covoni di grano e mosti
densi infatti io sono devoto sia che un tronco solitario nella campagna sia un’antica pietra in un
crocicchio porti delle ghirlande di fiori e ogni frutto che la nuova annata produce viene offerto come
primizia al dio della agricoltura

Qua abbiamo un motivo della campagna, il poeta immagina di condurre una vita tranquilla lontano
dalla città.

• “ipse”: si contrappone ad alius

• “Serere”: piantare/ seminare

• “Maturo tempore” : tempo opportuno


• “Rusticus”: è un predicativo, rusticus in latino non ha mai un’accezione negativa, ad esempio
il verbo rusticari, usato anche da Cicerone, significa villeggiare in campagna, quindi rusticus non
significa rozzo, è colui che abita in campagna.

• “Poma”:alberi da frutto, può darsi che ci sia una forma di sineddoche perché di per se -pomum
significa frutto.

Da notare che in latino per quanto riguarda gli alberi e i frutti noi abbiamo dei generi dedicati, cioè
noi usiamo il femminile per indicare l’albero, usiamo invece il neutro per indicare il frutto, se io dico
in latino –malus(femminile anche se con terminazione in –us) intendo dire il melo come albero se
invece uso il neutro -malum allora significa il frutto. Notare inoltre che in italiano i termini mela,
pera sono degli antichi neutri con valore collettivo che sono diventati poi singolari in italiano. Quindi
sicuramente –poma indica l’albero da frutto per sineddoche.

Nella genesi il racconto della mela che il serpente propone a Eva la poi la fa mangiare ad Adamo,
sicuramente almeno stando al testo ebraico non si tratta di una mela ma di un altro frutto, però
Girolamo quando ha fatto la traduzione della scrittura di genesi ha usato il termine malum per giocare
sulla valenza simbolica di quel gesto, cioè il malum è la mela ma in latino -malum è anche il malanno.

• “Grandia”: da intendere o come alberi da frutto che producono grandi frutti, oppure secondo
altri commentatori sarebbe: pianterò alberi da frutto che diventeranno grandi, quindi li pianta come
se fossero delle talee con la speranza che possano diventare grandi. Quindi o sono alberi che
producono frutti grossi, oppure sono gli alberi che diventeranno grandi.

• “Manu facili”: con mano esperta, notare l’aggettivo facilis che deriva da -facio può avere un
significato attivo o un significato attivo. Noi usiamo in italiano il significato passivo : facile è una
cosa che può essere fatta, ma in latino facilis può avere anche il significato attivo cioè una mano che
fa che è in grado di fare, quindi manu facili è una mano che sa fare delle cose, una mano esperta/abile.

nec Spes destituat, sed frugum semper aceruos

praebeat et pleno pinguia musta lacu.

Ne mi abbandoni la speranza, ma offra sempre cumuli di grano e mosti densi nel tino ricolmo

Notare che Spes è maiuscolo perché Tibullo tratta questi concetti astratti come se fossero delle
divinità. I romani in generale avevano un po’ questa mania di divinizzare i concetti astratti.

• “Desituat” “praebet” sono dei desiderativi perché sta esprimendo degli auguri

• “Acervos” significa mucchio e qui fa riferimento al covone delle spighe del grano

• “Musta pinguia” è un plurale perché non soltanto il mosto di un’annata ma l mosto di tutte
quante le annate

• “Pinguis” come πίων del greco significa grasso ma qui il mosto denso cioè molto zuccherino
preludio di vino buono

• “Lacus” è il tino che è ricolmo quindi l’annata era buona


Ora inizia un altro motivo che troviamo spesso in Tibullo, che ha un’anima molto religiosa sente
molto l’anelito al divino, non manca mai di ringraziare gli dei

Nam ueneror, seu stipes habet desertus in agris

seu uetus in triuio florida serta lapis

infatti sono devoto sia che un tronco solitario nei campi della campagna sia un’antica pietra in un
crocicchio abbia una ghirlanda di fiori

Qui si fa riferimento a un’usanza propria del mondo antico cioè quella di venerare anche oggetti del
mondo naturale come un tronco o una pietra.

• “Nam veneror”: secondo alcuni il complemento oggetto di questo verbo veneror, deponente,
si deve ricavare da ciò che viene dopo, ma potrebbe anche avere un valore assoluto: “infatti sono pio
sono devoto” non specifica a chi o a che cosa in generale.

• “Stipes desertus”: alcuni dicono che faccia riferimento a un palo piantato nella campagna
perché non risulta questa usanza, invece potrebbe far riferimento a un tronco secolare, desertus =
solitario nella campagna che veniva poi adornato di ghirlande di fiori in segno di venerazione.

• “Vetus lapis”: vecchia pietra ugualmente oggetto di venerazione

• “In trivio”: in un crocicchio,

• “Serta”: sono le ghirlande intrecciate, da serere =intrecciare

Quindi dice io ho rispetto sacro sia per questi alberi secolari sia per queste antiche pietre.

Possiamo dire che questo veneror corrisponde al greco σέβοµαι, sebomai, che indica il timore
reverenziale, un sentimento che ci investe dinanzi a una cosa religiosa

et quodcumque mihi pomum nouus educat annus,

libatum agricolae ponitur ante deo.

E ogni frutto che il nuovo anno produce viene messo/offerto prima come primizia al dio campagnolo/
al dio dell’agricoltura

• “Educare”: è l’intensivo di educere quindi va inteso come produrre, in latino ci sono questi
intensivi che sono inquadrati nella prima coniugazione perché sono caratterizzati da questa vocale
tematica. Altri esempi: capere e intensivo occupare (ob+capere) ; legere e intensivo ligare ;

• “Ante”: non può essere considerata una preposizione perché la preposizione ante regge
l’accusativo qui abbiamo deo, e allora si pensa che ci sia una sorta di anastrofe come se il verbo fosse
anteponitur cioè viene offerto, è una possibilità però un po’ ardita. Questo antes potrebbe significare
che prima di tutto in quanto primizia viene offerta al dio poi sarebbe stata mangiata anche dai fedeli
quindi viene offerta prima al dio della agricoltura come primizia

• “Ponitur”: ha il significato tecnico dell’offrire, in questo caso va interpretato come tecnicismo


della lingua religiosa per indicare l’offerta della lingua religiosa
• “Libatum”: participio passato di libare ed è in funzione predicativa rispetto a pomum cioè
qualunque frutto la nuova annata produce viene offerta (libatum)come offerta votiva prima al dio
campagnolo. Non sappiamo chi sia questo dio campagnolo, potrebbe essere Cerere, oppure Priapo
entrambi menzionati successivamente

• “Agricolae”: che è un dativo viene usato quasi come se fosse un aggettivo: al dio agricolo

Flaua Ceres, tibi sit nostro de rure corona

spicea, quae templi pendeat ante fores,

pomosisque ruber custos ponatur in hortis,

terreat ut saeua falce Priapus aues.

Vos quoque, felicis quondam, nunc pauperis agri

custodes, fertis munera uestra, Lares.

O bionda Cerere abbi dalla nostra campagna una corona di spighe che possa pendere dinanzi alle
porte del tuo tempio e un rosso custode venga messo nei giardini ricchi di frutti affinché Priapo con
la sua terribile falce possa spaventare gli uccelli.

Quindi inizialmente si parla genericamente della divinità dell’agricoltura poi si menzionano due
divinità specifiche, Cerere che è la divinità preposta alla custodia e alla protezione dei cereali, e poi
si parla di Priapo divinità greca poi passata a Roma che invece è la divinità preposta alla custodia
degli orti. Cerere è detta bionda perché appunto le messi sono bionde

• “Tibi sit”: dativo di possesso : a te sia = abbi; sit congiuntivo esortativo o desiderativo

• “Nostro de rure”: dalla nostra campagna

• “Corona spicea” in enjambement

• “Fores”: sono propriamente i due battenti della porta

• “Quae pendeat” relativa impropria di valore finale consecutivo : una corona di spighe
affinché/cosicché essa penda

• “Ruber custos” rosso custode. Priapo aveva la forma di un fallo perché era la divinità della
fecondità , e la punta di questo fallo veniva dipinta di rosso .

• “Ponatur” venga messo/venga piantato nei giardini

Quindi Priapo aveva la funzione un po’ di spaventapasseri.

Poi fa riferimento a un altro tipo di divinità questa volta domestica che sono i Larii . i Lari sono le
divinità protettrici della casa, notare che in Tibullo c’è questa visione molto tradizionale della
famiglia, e sono divinità che soltanto la famiglia venerava probabilmente all’inizio erano gli spiriti
degli antenati che custodivano la casa e queste immagini dei Larii queste statuette erano conservati
nella casa in una sorta di tempietto chiamato Lararium che si trovava di solito nell’atrio delle case
romane.

Vos quoque, felicis quondam, nunc pauperis agri custodes, fertis munera uestra, Lares.

anche voi o lari custodi di un campo un tempo produttivo ora povero avete i vostri doni

cioè anche se le cose non vanno più bene come un tempo tuttavia anche voi Lari non venite trascurati
ma avete i vostri doni.

In questa espressione custodes agri quondam felicis nunc pauperi c’è forse una nota autobiografica
perché dalla biografia che viene attribuita al de poetis di Svetonio ci dice che anche Tibullo subì
qualche danno esattamente come Virgilio durante le guerre civili perché molti campi furono confiscati
per essere dati ai veterani come ricompensa per il servizio prestato, e pare ci fosse anche Tibullo tra
i danneggiati , quindi si lamenta che prima aveva un terreno molto produttivo ora invece una
campagna che da giusto il tanto per la sopravivenza, altri pensano invece che non si tratti si una
diminuzione dell’estensione del territorio ma semplicemente una questione di produttività inferiore
perché durante la guerra civile c’erano anche delle requisizioni dei prodotti della campagna.

• “Felix” vuol dire produttivo che produce un buon raccolto

Anche voi o lari custodi di un campo un tempo fecondo ora povero avete i vostri doni

Tunc uitula innumeros lustrabat caesa iuuencos,

nunc agna exigui est hostia parua soli.

Agna cadet uobis, quam circum rustica pubes

clamet ‘Io messes et bona uina date’.

Allora una vitella immolata purificava innumerevoli giovenchi, ora un’agnella è la piccola vittima di
un terreno povero

• “Tunc nunc” in contrapposizione allora ora in un tempo passato un po’ anche idealizzato e
invece la drammaticità del presente. Nel tempo passata la vittima che si poteva offrire era addirittura
una giovenca che è un grosso capo di bestiame, ora nei tempi di magra l’unica vittima possibile è
un’agnella che è un piccolo capo di bestiame. Tutto ciò per indicare la ricchezza di un tempo contro
la paupertas del presente.

• “Caesa”: sacrificata caedere significa immolare

• “Lustrabat” : purificava. Lustrare ha la stessa radice lav di lavare, quindi la lustratio è la


purificazione. Procedimento della lustratio era un rito di purificazione dei campi che avveniva in
determinati mesi dell’anno.

• “Innumeros iuvencos”: un numero incalcolabile di giovenchi = espressione iperbolica.

• “Exiguus” forse non significa piccolo come estensione, ma forse il suolo è detto exiguus
perché è depauperato dalle confische del raccolto. Exiguus ha la stessa radice del verbo exigere
Agna cadet uobis, quam circum rustica pubes clamet ‘Io messes et bona uina date’.

Un agnella cadrà (sarà immolata) per voi intorno alla quale la gioventù campagnola gridi : evviva
date/concedete messi e buon vino!

• Notare il gioco di parole tra caedere e càdere, caedere = immolare, càdere = cadere per essere
immolato, come se il verbo cado venisse usato quasi come il passivo di caedo .

Qua c’è la contrapposizione tra il passato felice in cui la campagna rendeva molto e il presente meno
felice perché c’è solo lo stretto necessario

• La -i di iuvencos è una i semiconsonantica quindi non c’è elisione tra caesa e iuvencos

• Elisione di agna con exigui

• la prodelisione tra exigui est che si legge exiguist

LEZIONE 18 (26/11/2020) Giulia Giglio

I elegia

Nella lezione precedente stavamo commentando i primi versi della prima elegia del primo libro di
Tibullo e siamo arrivati fino al verso 24, dove Tibullo contrapponeva la produttività del campo, nei
tempi passati e felici, alla penuria del tempo presente, in seguito alle guerre civili.

Versi 23-24:

Agna cadet uobis, quam circum rustica pubes


clamet ‘Io messes et bona uina date’

Traduzione:

“Un’agnella sarà scarificata in vostro onore intorno alla quale la gioventù campagnola gridi ‘Evviva,
date delle messi e del buon vino’”.

Continua dal v 25 in poi a rilevare la sobrietà della vita di campagna a cui lui aspira, e infatti dice:

Versi 25-28:

Iam modo iam possim contentus uiuere paruo


nec semper longae deditus esse uiae,
sed Canis aestiuos ortus uitare sub umbra
Arboris ad riuos praetereuntis aquae.

Traduzione:
“Ormai io possa vivere contento del poco e non essere sempre occupato in un lungo viaggio, ma
possa evitare il sorgere estivo della canicola sotto l’ombra di un albero presso i ruscelli di acqua
corrente”.

C’è qui una scena idilliaca, bucolica, di Tibullo che cerca di prendere il fresco sotto un albero accanto
a un ruscello, una scena che ricorda le bucoliche di Virgilio. Qui il concetto principale è quello di
vivere soddisfatto del poco, il parvum in questo caso è la povertà, la paupertas che è stata elogiata
nei primi versi, non certo la miseria stentata. Lui si augura di poter avere il tanto che gli basta per
vivere serenamente e senza avere poi le preoccupazioni che comporta il possesso di un grande
ricchezza, ad esempio.

Possim: al verso 25, è un congiuntivo desiderativo.

Iam modo iam: “ora io possa finalmente” esprime tutta questa aspirazione, questo ideale di vita
sobrio, quasi che questo iam ripetuto due volte sia un po' l'espressione del desiderio di qualcosa che
si è già realizzato, a cui lui aspira ardentemente. Tra le scenette idilliache che lui si propone vi è quella
di evitare sotto l’ombra di un albero i raggi del sole estivo. Ma prima ancora di passare a questo al
verso 26 troviamo un concetto che si ripete spesso in Tibullo, ossia il rifiuto di intraprendere lunghi
viaggi, non soltanto di tipo commerciale, ma soprattutto viaggi che lo portano nelle campagne militari
al seguito di Messalla. “Via” nella poesia latina, e in latino in generale, non è soltanto la strada, cioè
lo strumento di comunicazione, ma corrisponde anche al nostro “viaggio” e la parola italiana non è
altro che un derivato di “via”, quindi in latino questo sostantivo ha un doppio significato, di “strada
lastricata” e di “viaggio”.

Ortus aestivos: un altro plurale poetico che indica la ripetizione, difatti ogni anno vorrebbe evitarli,
e questo concetto viene espresso attraverso l’uso del plurale.

Canis: genitivo. Il Cane è una costellazione che si rende visibile nella stagione estiva, la canicola
(callella, in sardo, che significa “cagnolina, cagnetta”) e fa quindi riferimento alla costellazione che
coincide con il periodo più caldo dell’anno; gli antichi, infatti, mettevano in correlazione
l’apparizione di questa costellazione con l’afa estiva. “e io possa evitare il sorgere estivo”
(letteralmente i raggi) della canicola sotto l’ombra di un albero. Da notare l’enjambement.
Si richiama qui la prima bucolica di Virgilio, in cui si ricorda un pastore sdraiato sotto un faggio; qui,
invece, Tibullo genericamente evita il sole, presso…

Rivos: ruscelli, (altro plurale poetico).

Praetereuntis aquae: di acqua che passa, corrente, participio in cui è compreso ed evocato anche il
mormorio, non soltanto il movimento dell’acqua che scorre.

Versi 29-32:

Nec tamen interdum pudeat tenuisse bidentem


aut stimulo tardos increpuisse boues,
non agnamue sinu pigeat fetumue capellae
Desertum oblita matre referre domum.
Traduzione:

“Tuttavia, talvolta, di quando in quando, non possa io provare vergogna di tenere in mano una zappa
e incitare con il pungolo i lenti buoi, non mi rincresca riportare a casa una agnella o un piccolo di
una capretta abbandonato da una madre dimentica”.

Sono tutte attività connesse con la campagna, sia l’agricoltura che la pastorizia.
pudeat, pigeat: sono dei congiuntivi desiderativi o esortativi. Sono, inoltre, due sinonimi: pudeat
significa “provare vergogna”, pigeat “provare disagio”, ma nell’uso latino i due concetti si
intersecano, si traducono più o meno allo stesso modo. Sono anche due verbi cosiddetti assolutamente
Impersonali, i famosi verba affectum, che non hanno un soggetto espresso e hanno l’accusativo della
persona che prova il sentimento e il genitivo della cosa per cui si prova. Abbiamo inoltre una
costruzione con infinito, con il genitivo, sottinteso il “me” (come fosse “me pigeat”). Questi verbi di
sentimento non hanno soggetto, ma l’accusativo della persona che prova il sentimento. Come già
detto, gli antichi avevano un senso della psicologia molto particolare; mentre noi riteniamo che il
sentimento sia il frutto di una modificazione del nostro animo, della nostra psiche, gli antichi invece
pensavano fosse un’incursione di una forza esterna nell’uomo, quindi non c’è soggetto, perché di
fatto il soggetto sottinteso è la forza esterna che determina questa azione, e quindi colui che prova il
sentimento va in accusativo perché è lui l’oggetto di questa incursione esterna, perché è la vittima
della forza esterna che determina quell’affectus, quei sentimenti che pertengono alla coscienza
dell’individuo (rincrescimento, risentimento, pudore), legati alla nostra intimità più profonda.
Tenuisse: il cosidetto infinito aoristico, non “aver tenuto la zappa”, ma “tenere di quando in quando
la zappa”; fa intendere che non è una attività che si conclude nel passato, ma una attività che si può
riproporre nel futuro, così come nel greco usiamo l’aoristo, perché indica un tempo indeterminato,
indefinito, ἀόρισ (“aoris”) “che non ha confini”, non ha delle terminazioni temporali precise, ma
indica una azione universale, l’azione in sé, senza alcuna connotazione di tipo cronologico. I latini
spesso lo imitano, come in questo caso, e usano l’infinito perfetto come avesse valore aoristico. Il
tenere, dunque, come azione che può accadere sempre, che è universale. Questo è dovuto anche alla
comodità metrica di questa forma, certamente, poiché i poeti, chi è abile nella versificazione, cercano
di combinare l’esigenza del metro con l’espressività della parola.

Bidens: è la zappa a due denti, per dissodare meglio il terreno, (in Virgilio, invece, indica la pecora
con i due incisivi sviluppati), corrisponde alla marra. Si passa a una scena pastorale

Stimolus: il pungolo, con il quale si pungevano i fianchi animali per farli andare avanti.

Increpuisse: da increpo, è un infinito perfetto di valore aoristico, significa letteralmente “lanciare un


grido per stimolarli ad andare avanti”, ma traduciamo semplicemente “stimolare” con un pungolo,
senza far riferimento all’aspetto uditivo.

Tardos boves: tardi buoi è un epiteto ornans, esornativo; i buoi sono sempre lenti, il loro passo è
cadenzato, solenne (vedi il loro uso nelle processioni, per rimarcarne il ritmo lento).
Quando si trasporta il gregge l’agnellino rimane indietro e il pastore lo deve raccogliere e riportare
all’ovile, è una scena tipicamente pastorale.

Pigeat è concordato con referre, “non mi rincresca di portare a casa”, poiché gli ovili sono adiacenti
alle dimore.
Capella: è il diminutivo di capra.

Fetum: è il piccolo, il cucciolo, dalla stessa radice di felix, di femina, è il cucciolo che viene ancora
allattato dalla madre.

Sinu: non è il seno, bensì il grembo; sinu indica infatti la piega della veste, la spira di un serpente, un
golfo di mare, una baia, una piega, una curva (il primo significato è proprio quello di piega), di una
veste, una tasca del vestito. Qui possiamo tradurre “in grembo”, il pastore mette nella sacca della
tonaca l’agnellino o il capretto.

Desertum: abbandonato.

Oblita matrem: per la maggioranza dei commentatori è inteso come ablativo assoluto, come participio
del verbo obliviscor “dimenticare”, da tradurre “poiché la madre se lo è dimenticato”, ma si potrebbe
intendere come ablativo di causa efficiente, “che se ne è dimenticata, dimentica”. La soluzione più
economica è quella di intenderlo come ablativo senza a /ab, senza che cambi il senso. Inoltre, in
desert_oblita c’è sinalefe, che è l’unica particolarità metrica, il resto del testo di Tibullo scorre senza
problemi, a differenza di Catullo, che è pieno di difficoltà e durezze di metrica.

Versi 33-36:

At uos exiguo pecori, furesque lupique,


parcite: de magno est praeda petenda grege.
Hic ego pastoremque meum lustrare quotannis
et placidam soleo spargere lacte Palem.

Traduzione:

“Ma voi, o ladri e lupi, risparmiate un gregge esiguo, il bottino va ricercato da un gregge numeroso,
cospicuo, qui io ogni anno sono solito purificare il mio pastore e aspergere di latte la placida Pale”.

Qui si riferisce a coloro che possono minacciare questo piccolo gregge, esprimendo la preoccupazione
che anche la paupertas possa essere minata da alcuni pericoli, in questo caso i ladri e i lupi che
ammazzano soprattutto le pecore; sostiene che se bisogna far bottino bisogna cercarlo in un gregge
grande, non in questo gregge modesto che lui desidera. Secondo Tibullo, questa paupertas dovrebbe
mettere al riparo dall’incursione dei briganti, perché si dovrebbe rubare dove c’è ricchezza.

At: è tipico delle minacce (come nel secondo libro dell’Eneide, quando Priamo sfida Neotolemo che
gli ha ucciso i figli, comincia l’invettiva con “at tibi). Sono fures e lupi, perché il gregge è soprattutto
fatto di pecore, non di buoi o giovenche.

Parcite: è imperativo, significa “risparmiare” e regge il dativo (abbiamo infatti exiguo pecori).
Exiguo: fa riferimento alla produttività, non al numero, determina una rendita abbastanza modesta, è
qualcosa che produce poco.

Pecori: abbiamo in latino due sostantivi quasi uguali, pecus-pecoris e pecus-pecuris; il primo è un
collettivo,”gregge, mandria”, il secondo fa, invece, riferimento ai singoli capi di bestiame (nel sardo
pegus è un capo di bestiame).

Praeda: il bottino sperato dai ladri e dai lupi, deve essere ricercato da un gregge sostanzioso,
cospicuo.

Petenda est: abbiamo una costruzione perifrastica passiva

Magno_st: vi è una prodelisione.

Parcite preda pretenda: abbiamo una alliterazione, questo espediente fonico ritmico abituale nella
poesia latina.

Hic: “qui, a questo punto, in campagna”, gli esegeti si sono sbizzarriti per capire se hic significasse
“questo”, molti lo cambiano addirittura in hunc.

Lustrare: è un verbo tecnico per indicare il rito di purificazione della campagna e del bestiame.

Quotannis: ogni anno, perché il rito si ripeteva il 21 aprile (data della fondazione di Roma).

Pastoremque meum: Tibullo aveva sicuramente degli aiutanti, non era soltanto lui a gestire il
bestiame.

Placidam Palem: Pale è la divinità protettrice del bestiame, che veniva celebrata nei cosiddetti
panilia.

Pargere lacte: è una azione rituale, in cui le statue e le immagini venivano asperse di latte come
offerta, così come avviene con il miele e il sale, sostanze solitamente utilizzate per venerare alcune
divinità.

Placidam: può essere inteso come epitetum ornans o anche come predicativo, “in modo da renderla
placida, propizia”.

Dobbiamo qui tenere a mente la mentalità contrattualistica della religione romana: gli antichi, infatti,
non avevano atteggiamento di affetto verso le divinità, ma bensì atteggiamento di paura; le preghiere
erano mirate a rendere propizie e placare le divinità, secondo il motto “do ut des, facio ut facias”. È
una soluzione più convincente del banale “placida Pale”, ma l’idea che si vuole dare è proprio che
questa non ostacoli i progetti del devoto. Nei versi successivi continua con le offerte.
Versi 37-40:

Adsitis, diui, neu uos e paupere mensa


Dona nec e puris spernite fictilibus.
Fictilia antiquus primum sibi fecit agrestis
pocula, de facili conposuitque luto.

Traduzione:

“Siate propizi, o dei, e non disprezzate i doni da una povera mensa, né da semplici vasi di terracotta,
l’antico contadino in passato costruì da solo i vasi di terracotta e li plasmò dal duttile fango”.

Adsitis: “siate propizi”, quindi congiuntivo esortativo, il verbo adsum è tipico del linguaggio liturgico,
per chiedere la propiziazione e il favore degli dèi (i cristiani hanno mutuato le formule dall’eucologia
pagana - es. omnipotens, per Giove e per Dio -). E non disprezzate i doni, come dire “questo è quello
che c’è, accettatelo”.

Neu spernite: rispetto a neque, che significa et non, neve/neu (forma ridotta) significa et ne, con la
congiunzione o negazione unita all’imperativo. Solitamente l’imperativo negativo nel latino classico
si forma in due modi: noli/nolite (“non vogliate”) più l’infinito, o con ne più il perfetto congiuntivo
(esito più letterario). Qui, invece, è usato l’imperativo positivo preceduto dalla negazione ne: questo
sintagma è tipico del latino arcaico e popolare, che i poeti utilizzano incoraggiati dal sintagma greco
es. me fileite (imperativo positivo); non è dunque l’uso normale, ma è un sintagma poetico (arcaico,
popolare e analogo al greco).

Paupere: sarebbe una eccezione nella terza declinazione, perché l’ablativo esce in -i per gli aggettivi,
ma alcuni lo mantengono in -e come i sostantivi; inoltre, nel metro, non ci starebbe la i (che sarebbe
lunga), mentre la e di paupere è breve.

Fictilibus: sono i vasi di terracotta, puri, semplici, senza arzigogoli, senza decorazioni, sobri. È usato
qui come aggettivo sostantivato; è l’aggettivo di fingo, che significa “plasmare” (come fingulus
“vasaio”). Quando gli aggettivi finiscono in -lis esprimono possibilità, e quindi significa propriamente
“ciò che si può plasmare”.

Purus: di per sé significa “pulito”, è ciò che viene purificato col fuoco, disinfettato, cauterizzato, qui,
invece, vale come “sobrio, semplice, senza ornamenti”, poiché è prodotto in casa dal contadino.

Agrestis: è usato come sostantivo (un “campagnolo”, senza connotazione negativa).

Poculum: sono tazze o bicchieri, utilizzati anche per le offerte agli dèi, e li componeva dal fango.

Facilis: duttile, qui nella sua accezione passiva, “che può essere lavorato”.

Luto: come ludu del sardo. Qui c’è il compiacimento di Tibullo di idealizzare la vita sobria degli
agricoltori e dei campagnoli.
Versi 41-44:

Non ego diuitias patrum fructusque requiro,


quos tulit antiquo condita messis auo:
parua seges satis est, satis requiescere lecto
si licet et solito membra leuare toro.

Traduzione:

“Io non vado in cerca delle ricchezze o delle rendite dei padri, degli antenati, rendite che una messe
ben riposta ha prodotto all’antico avo, mi è sufficiente un piccolo raccolto, riposare su un letto se è
lecito e alleviare le membra su un giaciglio”.

La vita ricercata da Tibullo non è una vita non all’insegna dell’inerzia, bensì della tranquillità, della
serenità; lui rifugge infatti le ricchezze, uno dei motivi che abbiamo subito sintetizzato all’inizio.

Fructus: è la rendita, non i frutti della campagna (anche in italiano “usufrutto”), è sinonimo di
divitias.

Quos condita messis: una messe riposta, un raccolto che era in esubero, sopravanzava alle necessità
dell’anno, riposto in un granaio, deposito di ricchezza. Lui, attraverso una avversativa per asindoto,
si contrappone agli altri.

Satis est: ripetuto in anafora.

Si licet: c’è sempre la preoccupazione che qualcosa possa turbare questa visione idilliaca della
campagna.

Toro: corrisponde a “letto, giaciglio”; torus è un sostantivo tipicamente poetico, che troviamo in
Virgilio e nella poesia elevata. Seguono delle scene molto belle, meritatamente famose, che
corrispondono alla nostra sensibilità.

Versi 45-48:

Quam iuuat inmites uentos audire cubantem


et dominam tenero continuisse sinu
aut, gelidas hibernus aquas cum fuderit Auster,
securum somnos igne iuuante sequi

Traduzione:

“Come è bello stando a letto sentire i venti impetuosi e stringere in un tenero abbraccio la donna
amata, oppure quando l’austro la avrà scaraventato le gelide acque inseguire il sonno senza
preoccupazioni con la compagnia del focolare”.
Sono due scenette intime, tipiche dei giorni invernali, quando si scatenano i venti e le acque; scene
molto delicate, che nulla hanno a che vedere con la passionalità di un Catullo.

Quam iuvat: è una espressione esclamativa, non la traduciamo tanto come “quando giova”, perché
corrisponde al nostro “essere bello”, e dunque “quanto è bello”, “che gioia da”. Da iuvare deriva,
infatti, l’aggettivo iucundus “felice”.

Cubantem: mentre si sta a letto.

Ventos inmites: impetuosi, non sono clementi. L’immagine non fa riferimento di tenere al seno la
donna, sinus è una curva, piega, è il tenero abbraccio dell’uomo che con una curvatura comprende la
donna amata.

Continuisse: è un infinito aoristico; è una azione che è bella sempre, è sempre piacevole, il
“contenere”, l’”abbracciare”.

Dominam: di per sé sarebbe la “padrona di casa”, della domus, come dominus è il “padrone di casa”,
poi pian piano diventa la “donna amata”, così nella poesia erotica (la donna, madonna della poesia
italiana del ‘300) c’è un piccolo passaggio da mulier o puella di Catullo, poi anche domina. Inoltre,
in Tibullo, è anch’essa padrona dell’azienda agricola così come il poeta, non è una donna avventizia,
ma corresponsabile dell’attività e della gestione dell’azienda, è un termine istituzionale.

Auster: è il vento del sud, più o meno si tratta del nostro scirocco, soffia carico di umidità, porta
acquazzoni, ma non torna l’identificazione, poiché anche in inverno lo scirocco non è mai freddo, il
cielo è coperto e dunque si solleva la temperatura, mentre qui si parla di gelide acque, quindi è meglio
identificabile con il libeccio, che porta correnti molto forti e fredde (è comunque in generale un vento
dei quadranti meridionali).

Somnos segui: letteralmente “inseguire il sonno”, ossia addormentarsi.

Securum: tranquillo, senza preoccupazioni, vale per se + cura = se indica una separazione (ha la
stessa radice del sed avversativo, o come sine) + preoccupazione, cura.

Igne iuvante: è un ablativo assoluto, “con la piacevolezza, la compagnia del fuoco”. Alcuni
manoscritti al posto di igne hanno imbre, cioè immaginano che Tibullo si addormenti con le gocce
della pioggia sul tetto, un tintinnio, martellio che favorisce il sonno. Secondo Piras è una banalità,
una ripetizione, il rimarcare il concetto dell’acqua sarebbe una zeppa riempitiva; mentre l’ipotesi di
igne appare più romantica, suggestiva, originale, creativa, arricchisce la scena.

Somnos: è un plurale poetico, poiché si ripete più volte. Per quanto riguarda la metrica: iuvat, la i è
semiconsonatica, quindi non c’è sinalefe. (quando in italiano si trasforma in “g” significa che era
semiconsonantica); si possono leggere due cesure nel verso 47, invece della semiquinaria femminile.
Versi 49-56:

Hoc mihi contingat. Sit diues iure, furorem


qui maris et tristes ferre potest pluuias.
O quantum est auri pereat potiusque smaragdi,
quam fleat ob nostras ulla puella uias.
Te bellare decet terra, Messalla, marique,
ut domus hostiles praeferat exuuias;
me retinent uinctum formosae uincla puellae,
et sedeo duras ianitor ante fores.

Traduzione:

“Questo a me capiti, sia pure a buon diritto ricco colui che è capace di sopportare il furore del mare,
burrasche e le tristi piogge. Vada in malora tutto l’oro o tutte le pietre preziose, piuttosto che una
qualche fanciulla pianga a causa dei/per i nostri lunghi viaggi. A te, o Messalla, si addice combattere
per terra o per mare perché la tua casa possa ostentare le spoglie dei nemici. A me invece tiene
avvinto la catena di una bella fanciulla e sto seduto come un portinaio dinanzi alle dure porte.”

Contingat: è un congiuntivo desiderativo, significa “toccare”, ossia “mi tocchi, avvenga”.

Sit: è un congiuntivo concessivo.

Iure: (ablativo di ius, iuris) ha funzione avverbiale, “legittimamente”.

Il poeta fa qui riferimento alle navigazioni che avvenivano con molto pericolo fuori dalle stagioni
tipiche della navigazione: gli antichi non navigavano tutto l’anno, ma la stagione iniziava in
primavera e finiva alla fine di ottobre/ inizi novembre, poi nel periodo invernale non si navigava
poiché era molto pericoloso, dato che le imbarcazioni non erano molto sicure, andavano alla deriva
facilmente, rischiavano di prendere una secca o di finire sugli scogli; anche se raramente
attraversavano il mare in maniera diretta e si praticava una navigazione lungo la costa. Tutto ciò
avveniva a meno che non ci fossero casi in cui bisognava partire anche in inverno (Pompeo: “navigare
necesse, vivere non necesse”). Il viaggio per mare era considerato negotium e periculum (non
significa tanto il pericolo, ma tutto ciò di cui non si conosce l’esito, il risultato, potrebbe essere un
processo in tribunale, un viaggio, un esame scolastico): l’esperienza del naufragio era una cosa
comunissima, era una esperienza normale (per es. anche Paolo subì l’esperienza del naufragio). È
anche un topos letterario, anche Esiodo riportava contro natura l’imbarcarsi “l’uomo è fatto per
camminare sulla terra”. Il periculum è tutto ciò, tutte le circostanze imprevedibili, qualunque cosa di
cui non si capisca come vada a finire. La radice per è quella di “provare”, experiori, experimento,
“ciò che viene tentato, sperimentato” e affrontato senza la certezza del buon esito.

Tristis: significa “uggiosa, fastidiosa”, mai cosa piacevole.


C’è poi, ai versi 51-52, una tirata un po’ retorica contro la ricchezza.
Notiamo la sintassi: quantum est auri o quantum est smaragdi, letteralmente “quanto c’è di oro e
piuttosto quanto c’è di smeraldi”.

Pereat: è un congiuntivo desiderativo.


Auri/ smaragdi: sono due aggettivi partitivi riferiti a quantum. Smaragdi è letteralmente “smeraldo”,
ma indica qualsiasi pietra che luccica, è al singolare ma è un collettivo, indica tutte le pietre.

Puella: si ritorna alla terminologia classica erotica. Poi, nei versi 53-54, si riferisce a Messalla
Corvino, personaggio ricordato come fondatore del famoso cenacolo, circolo culturale, ma anche
uomo di guerra, oratore e poeta, un uomo a tutto tondo. Notare la finezza e la sapienza della
disposizione, l’espressione monoblocco “terra mariquae” viene interrotta insolitamente da
“messalla”, un modo per dare risalto al personaggio, per indicare che era sempre per viaggio, per
terra e per mare.

Decet, è uno di quei verbi detti relativamente impersonali, perché non hanno solo la 3^ persona
singolare ma anche quella plurale, decent; hanno sempre l’accusativo.

Bellare: è verbo denominativo di bellum, guerreggiare.

Hostiles praeferat exuuias: le case degli aristocratici avevano dei trofei (come nelle Alpi i cacciatori
sono soliti appendere le teste dei cervi o cinghiali); i romani solevano appendere gli scudi o le spade
dei nemici sconfitti. Detto non con disprezzo, ma con bonaria amicizia, bonario rimprovero. Al v.55
un’altra contrapposizione, te/me, “a me invece tiene avvinto la catena di una bella fanciulla”: questo
avviene per asindeto, non c’è un sed, at, vero, solo la disposizione parole crea l’avversativa. La poesia
latina ha la capacità con la sola disposizione di creare un concetto, una tensione, atteggiamento,
situazione.
Abbiamo una figura etimologica, vinctum e vincla, rispettivamente il participio di vincio “legare”, (e
non di vinco, il cui participio sarebbe victum), e vincula dalla stessa radice (vincla è la forma
sincopata).
Qui è adombrato il motivo del παρακλαυσίθυρον “paraklausíthyron”, il tema dell’amante che insiste
davanti alla porta della casa della fanciulla amata, ma la porta è crudele, dura, non è sensibile ai
sentimenti dell’uomo che vorrebbe raggiungere la donna amata. Quasi una trasposizione, non tanto il
caso di pallage o enallage, poiché è la ragazza che non apre a essere dura, più che la porta.

LEZIONE 19 (27/11/2020) Anna Murgia

LEZIONE 20 (02/11/2020) Alessandra Malune

Elegia II

Paraclausithyron: è un termine greco composto da “para “che significa presso/accanto/dinanzi poi


abbiamo la seconda parte che deriva dal verbo greco “cleio” che significa chiudere e poi la parola
“tura” che significa porta .Per cui si tratta di un canto dinanzi ad una porta chiusa,il motivo dell’
exclusus amator ,cioè dell’ amante che viene escluso dalla casa dell’amata, per cui il genere si
diffonde in questa sorta di preghiera/lamento crudele dinanzi a questa porta crudele che non permette
agli amanti di incontrarsi. È un genere greco, che deriva dalla letteratura greca, troviamo qualche
inizio di questo sottogenere in Plauto anche se sotto forma di parodia, in Lucrezio…per cui diventa
un genere abbastanza codificato anche all’interno della letteratura latina.

Rilettura primi 4 versi commentati nella lezione precedente:

àdde merùm uinòque nouòs conpèsce dolòres,

òccupet ùt fessì lùmina uìcta sopòr,

nèu quisquàm multò percùssum tèmpora bàccho

èxcitet, ìnfelìx dùm requièscit amòr.

Commento:

v.1) c’è l’inizio a mescere del vino…”versa del vino e soffoca col vino i recenti dolori” (cioè le nuove
sofferenze in amore che il poeta subisce da parte della donna amata).Cerchiamo di contestualizzare
questi nuovi dolores: Tibullo seguì Messalla in una campagna in Cilicia però si ammalò durante il
viaggio, si fermò a Corfù e poi decise di mollare tutto e tornare a Roma ,quando lui tornò a Roma
trovò Delia, questa sua amata con un nuovo “consolatore” ,un altro uomo, quindi tutto si svolge
all’interno di questo contesto.

…e dice infatti v.2) “affinchè sopor (cioè il sonno) si impadronisca degli occhi vinti di me stanco “.
In questo secondo verso c’è un tipo di terminologia quasi militare, abbiamo il verbo vincere, il verbo
occupare proprio della tattica d’assedio di una città, l’impadronirsi di una città dopo un lungo assedio
…e quindi tutta questa terminologia richiama quel topos della “militia amoris “, cioè
dell’innamoramento come una sorta di servizio militare perché comporta a volte gli stessi disagi che
comporta un soldato in battaglia.

…poi dice v.3) “ neù quisquam excitet ,cioè nessuno mi risvegli colpite le tempie (percussum
tempora) dal molto vino

v.4) mentre o fintantochè ha tregua questo amore infelice.

Torniamo dopo questi 4 versi che fanno riferimento a quel motivo del vino liberatore dell’ansia. In
greco il vino, cioè Bacco, era chiamato come liaos? (non si capisce) traslitterato in latino come lyeus.
Da “luo” sciogliere le sofferenze, il vino scioglie le preoccupazioni e viene usato un po’ come
ansiolitico nel mondo antico anche se purtroppo ancora nel mondo moderno.

Al verso 5) si passa ad un altro elemento del paraclausithyron cioè il fatto che questa ragazza di cui
il poeta è innamorato viene tenuta in una stretta custodia. Qui non si capisce chi sia la custodia, se sia
il padrone di casa…certamente non il padre, certamente non il marito, è probabile che questa ragazza
stia in una casa, con un uomo forse di condizione servile che deve custodire l’integrità di questa
ragazza e non le permette di avere relazioni con eventuali spasimanti che provengono dall’esterno.

Nàm posita èst nostraè custòdia saèua puèllae, v5


clàuditur èt durà iànua fìrma serà.

Iànua dìfficilìs dominì, te uèrberet ìmber,

tè Iouis ìmperiò fùlmina mìssa petànt.

Traduzione e analisi dei primi versi:

Dice… v.5) ” infatti alla nostra fanciulla è stata posta una severa /crudele custodia e la porta “ianua
firma “cioè robusta viene chiusa con una dura sbarra.

Dice poi…v.6) “o porta di un difficile padrone possa colpirti la pioggia e le folgori (fulmina) scagliate
per ordine di Giove ti assalgano, ti aggrediscano.

Per cui vedete che il poeta dice che la fanciulla è custodita all’interno di una casa, che la porta della
casa è sbarrata e comincia quello che è il vero motivo del paraclausithyron cioè un dialogo che il
poeta ha con questa porta che non si apre e lui si scaglia con questi impropèri …possano colpirti le
folgori…per cui scaglia queste maledizioni …

Tornando al v.5 questa custodia potrebbe essere un astratto per il concreto, può essere un custode, o
può essere intesa come una stretta sorveglianza che è stata messa alla nostra fanciulla…nostra come
pluralis modestiae, si intenda la mia fanciulla… e puella è sempre il termine per indicare la donna
amata. Invece alcuni pensano che questo custodiae stia direttamente per custos, ovvero un feroce
custode che è stato posto a guardia di questa ragazza…ma se la poesia presenta un termine astratto
non vedo perché bisogna eliminarlo, si rischia di tradire il testo, per cui è preferibile lasciare “una
stretta sorveglianza “piuttosto che “un severo custode”.

E poi dice “ ianua firma “ cioè una porta robusta, perché il portoncino d’ingresso viene chiuso con
una dura sbarra. Notare al v.6 l’anastrofe clauditur et, cioè et clauditur. Questi sono procedimenti
dovuti a esigenze di metrica. Questo et può essere scomodo in questo puzzle che è la versificazione
latina e quindi a volte l’esigenza induce a postporlo al verbo cui si riferisce.

Attenzione poi perché ianua firma è il nominativo, dura sera è l’ablativo strumentale. è interessante
anche la disposizione delle parole perché è come se la porta robusta venga attraversata dalla sbarra,
abbiamo il complemento di strumento che incastona per così dire il soggetto e la sbarra/il passante
che attraversa la porta. La disposizione delle parole è rappresentativa anche della funzione che ha la
sbarra di chiudere, di bloccare fermamente la porta. “Sera”dunque è la sbarra o il passante. Notate
che il passante ”sera” è chiamata dura magari perchè di ferro come dice qualche commentatore ma
qui bisogna tener conto che il linguaggio poetico è un linguaggio simbolico ,quindi in una sorta di
enallage ,l’aggetivo durus si riferisce non tanto alla porta o alla sbarra ma alla persona che impedisce
l’ingresso attraverso quella porta, quindi diciamo che dura si pone sullo stesso piano di “saeva
custodia “ ma anche dura anche se qui questo aggettivo viene trasferito a un qualcosa di materiale, la
sbarra, ma qui non è la sbarra crudele, ma la persona che non lo lascia entrare ,ma questo è tipico
della poesia del paraclausithyron .

Poi dice…v.7 ) “Iànua dìfficilìs dominì, te uèrberet ìmber” questo verso può essere inteso in tanti
modi. Significa: “porta di un padrone intrattabile possa colpirti la pioggia…. Questo verberet così
come il successivo petant sono congiuntivi ottativi. Qual è qui il problema dal punto di vista della
traduzione testuale? Molti hanno messo in evidenza che questo “ianua difficilis domini” porta di un
difficile padrone ,sia una traduzione accettabile e allora…qualcuno interpunge in questo
modo…”ianua diffilicis , domini te verberet imber”,per cui questo domini sarebbe riferito a Giove
che compare dopo…quindi sarebbe…”o porta,possa colpirti la pioggia del signore” cioè di
Giove…(cosa che a Piras non convince).Ci sono alcuni manoscritti però che al posto di domini hanno
dominae, genitivo femminile, sarebbe quindi” porta di una difficile padrona”, domina nella poesia
erotica è la donna amata, potrebbe essere quindi porta di una donna amata intrattabile/riottosa, che
non accetta l’amante…ma io lascerei le cose così come sono nel testo… tenendo conto che può esserci
questa percentuale di dubbio sulla sicurezza del testo.

Noi crediamo sempre che i testi antichi siano giunti fino a noi così come furono scritti dalla penna
dell’autore. In realtà ci sono diversi manoscritti ed ogni manoscritto ha le sue caratteristiche, per cui
si pone il problema di quale sia la versione autentica, a volte bisogna basarsi sul iudicium, cioè su
una sensibilità personale che è sempre opinabile, ma purtroppo non si ha altro strumento per capire
quale sia la versione giusta.

…porta di un difficile padrone… ”verberare “ propriamente significa sferzare dunque è l’immagine


della pioggia che sferza, che batte sulla porta, “imber “sarebbe l’acquazzone, una pioggia
violenta…poi dice …”fulmina”, dunque siamo in una violenta tempesta, mandata su ordine di Giove,
ti colpiscano “te petant” anche questo verbo petere è tratto dal linguaggio militare infatti significa
l’assalire dell’esercito contro un nemico, per cui l’immagine è quella della porta da assediare da parte
dell ‘exclusus amator che è l’assediante di questa casa. Non è strano che venga utilizzato un
linguaggio proprio del sermo castrensis cioè del linguaggio militare.

Iànua, iàm pateàs unì mihi, uìcta querèli, (con i semiconsonantica non c’è elisione) v9

nèu furtìm uersò càrdine apèrta sonès.

èt mala sìqua tibiì dixìt demèntia nòstra,

ìgnoscàs: capitì sint precòr illa mèo.

Traduzione : ”o porta apriti finalmente soltanto a me, vinta dai miei lamenti e non far rumore una
volta aperta furtivamente, girando il cardine/mentre gira il cardine”

v.9) Ripete in ianua iam… anastrofe, smette di usare maledizioni e utilizza un altro metodo, quello
della “captatio benevolentiae” dice… “o porta apriti soltanto a me ora vinta dai miei lamenti e non
far rumore una volta aperta furtivamente mentre gira il cardine”. Qui le sta chiedendo di aprire e
perdonare anche se si stava scagliando contro di lei. “Pateas “ è un congiuntivo esortativo sarebbe ”
iam pateant” apriti finalmente, questo iam inteso come tamen ,”uni mihi “a me soltanto…ciò significa
che la ragazza aveva altri corteggiatori e forse per questo nella casa fu posta questa custodia, “victa
quereli”, vinta dai gemiti/lamenti.

V.10) E non far rumore (sones) (come anche in sardo “sonai” significa far rumore, “sonu “è il suono),
una volta aperta “furtim” furtivamente (avverbio), perché questo incontro deve avvenire di nascosto.
Anche questo incontro furtivo è un motivo dell’elegia amorosa, nelle nugae di Catullo si chiede che
le stelle possano guardare con pudore l’incontro dei due amanti clandestini.” Verso cardine” è un
ablativo assoluto sarebbe “una volta girato il cardine”, da versus/vertere che significa appunto girare.
Questo movimento del cardine poteva far rumore, era come una sbarra verticale di ferro che girava,
creava attrito per cui faceva rumore e poteva insospettire il custode della ragazza, per cui le chiede di
non far rumore girando il cardine. Qui abbiamo questo neu, non si potrebbe usare neque che equivale
a et non, neu equivale a et ne, qui siamo nell’ambito di un congiuntivo esortativo per cui si utilizza
nella forma negativa neu=et ne sones.

v.11) c’è appunto l’atteggiamento della “captatio benevolentiae “, prima si è sfogato contro la porta,
le ha lanciato delle maledizioni , ora invece chiede scusa di queste intemperanze e dice “ e se la nostra
follia ti ha detto delle male parole ,(ignoscas )perdona quelle maledizioni ti prego ricadano sul mio
capo” oppure “prego che quelle maledizioni ricadano sul mio capo”. Catullo dice “male dicere” qui
invece abbiamo “mala dicere” per cose cattive, ma il concetto è lo stesso. Notare che qui il soggetto
non è il poeta, era la nostra dementia , cioè la nostra follia a dire quelle maledizioni, non è stata colpa
mia, c’è questo motivo apologetico, cioè è la follia che lo ha portato a dire quelle cose, lui era fuori
di sè. Cosa significa dementia? Significa perdere il senno, l’equilibrio mentale, de è privativo e mens
/mentis è la mente, per cui vuol dire che in quel momento il poeta non usava la ragione. Demens e
amens sono due parole tipiche dell’elegia amorosa, il poeta perde la ragione, ecco perché l’amore e
la sessualità venivano condannati dalla filosofia razionalista, compreso Aristotele, perché si perde la
razionalità, per Aristotele era etica soltanto ciò che ispirato dalla ragione, dunque la sessualità che
sfugge la ragione era considerata un’azione immorale, non etica. Dunque il poeta è demens.” mala
sìqua tibiì dixìt demèntia nòstra”, questo qua è come se fosse aliqua, indefinito, è come se fosse “e se
la nostra demenza/la nostra follia ti avesse detto qualche cosa cattiva /qualche parola, perdona”
(esortativo).

v.12) “ignoscas”, congiuntivo esortativo, sarebbe non conoscere letteralmente, chi perdona dimentica
il torto subito. “Precor” si intende come un inciso parentetico, cioè quelle cose ricadano sul mio capo
,prego, oppure questo sint un congiuntivo paratattico dipendente da precor, quindi prego che quelle
male parole ricadano sul mio capo. Non cambia il senso, è solo una diversa interpretazione della
sintassi. Certo che se questo precor fosse parentetico allora questo sint sarebbe un congiuntivo
desiderativo invece se fosse un congiuntivo dipendente da precor sarebbe una completiva.

Congiuntivo paratattico: fenomeno usato anche in italiano ,dire “spero sia una buona giornata”
anziché dire “spero che sia”… completiva dichiarativa attaccata alla subordinata senza una
congiunzione

Tè meminìsse decèt, quae plùrima uòce perègi v13

sùpplice, cùm postì flòrida sèrta darèm.

Tù quoque nè timidè custòdes, Dèlia, fàlle, v15

àudendum èst: fortès àdiuuat ìpsa Venùs.

Traduzione e analisi:

v.13) a te si addice ricordare (fa riferimento sempre alla porta) (te=la porta) (quae plurima) le
tantissime cose che ho fatto con voce supplichevole quando io offrivo ghirlande di fiori allo stipite
della porta.
Sta ricordando queste attenzioni nei confronti della porta per cui indirettamente nei confronti della
donna.

Meminisse decet: ritmicamente verso bellissimo, nessun bisogno della cesura talmente scorre bene.
“Decet “ è un verbo relativamente impersonale e corrisponde al nostro “si addice”, relativamente
perché può sopportare una terza persona plurale decent o decuit al perfetto … in opposizione ai verbi
assolutamente impersonali, i verba affectum .E allora questo verbo regge un infinito “meminisse”
,sarebbe a te si addice ricordare o tu puoi ricordare ,quindi questo è il concetto. Da notare che
meminisse è un perfetto logico, cioè fa parte di quei verbi che hanno solo la forma del perfetto e il
perfetto ha significato di presente, non indicano l’azione che si è tenuta nel passato quanto l’esito di
un’azione compiuta nel passato, vuol dire ricondotto alla memoria o rievocato. (ripassare questi verbi)

“Quae plurima… supplice”: le tantissime cose che io ho detto con voce supplichevole, “perago “può
significare anche realizzare non proprio dire, perago significa realizzare/compiere. Sarebbe “le
tantissime cosa che io ho compiuto accompagnate da una voce supplichevole”. C’è un enjambement
tra voce e supplice, supplice dovrebbe essere supplici, l’ablativo degli aggettivi esce in i invece qua
esce in e (ablativo dei temi in consonante) non è proprio una irregolarità c’è piuttosto una certa licenza
poetica per questo ablativo, per ragioni metriche, la desinenza in i nella terza dec. è lunga qui serve
un dattilo per cui la e dell’ablativo è breve.

V.14) cum introduce una preposizione temporale, dunque sarebbe “mentre io offrivo (posti=lo stipite
della porta che per metonimia si potrebbe anche tradurre come porta, ma qui è proprio lo stipite) allo
stipite della porta delle ghirlande di fiori”(espressione presente anche nella prima elegia). Poi si
rivolge direttamente a Delia nel verso 15.

V.15) dice “anche tu o Delia, non ingannare i custodi timidamente (cioè abbi coraggio nell’ingannare
i tuoi custodi …audendum est... bisogna osare, la stessa Venere aiuta i coraggiosi. Te precedente si
riferisce alla porta, questo tu si riferisce a Delia, quindi alla donna amata. Poi c’è questo imperativo
negativo “ne falle “, cioè il sintagma formato dall’imperativo positivo preceduto dalla negazione ne
che non è regolare, è una sorta di costruzione arcaica, popolare che viene usata in greco e quindi
anche dai poeti latini. Ma qui la negazione ne sembra che getti la sua ombra più su timide che su falle
perché è come se dicesse “anche tu Delia inganna i custodi non timidamente “come se “ne timide”
fosse una sorta di litote per indicare con coraggio, però sintatticamente questo ne falle è un imperativo
negativo. Il verbo fallere significa appunto ingannare, imbrogliare, c’è un antico participio del verbo
fallere che è falsus, rimasto come un aggettivo, falso è ciò che è ingannevole, e questo conserva anche
il valore attivo, i participi perfetti hanno questo residuo di valore attivo anche se nell’aggettivo da cui
derivano. Poi c’è questa sorta di incoraggiamento “audendum est”, l’innamorato deve osare non può
essere timido…lo dice dopo…

V.16) qui c’è la riscrittura di un proverbio attestato in Terenzio “fortuna iuvat “qui prevede che non
sia la fortuna ad aiutare ma la stessa Venere in persona come divinità dell’amore che aiuta, i
coraggiosi, i forti. Qua c’è quell’ atteggiamento di allusività tra i poeti che si citano. Maestri di
allusività erano gli alessandrini, o anche Catullo che allude di continuo a Callimaco. Poi noi
conosciamo solo una parte della letteratura ellenistica, quindi spesso non cogliamo tutte le allusioni
che facevano…per cui per esempio Virgilio può aver citato più volte Ennio, suo modello, riscriveva
interi versi di Ennio, li correggeva e raffinava, li voleva perfezionare, Ennio aveva uno stile più
rudimentale…noi abbiamo individuato alcuni di questi versi ma probabilmente ce ne sono tanti altri…

ìlla fauèt, seu quìs iuuenìs noua lìmina tèmptat, v17

sèu reseràt fixò dènte puèlla forès;

ìlla docèt mollì furtìm derèpere lècto,

ìlla pedèm nullò pònere pòsse sonò, v20

ìlla uirò coràm nutùs confèrre loquàces

blàndaque cònpositìs àbdere uèrba notìs.

salto audio al minuto 45 fino al 51.30

In questi versi vengono esplicitate le circostanze in cui Venere interviene che sono quasi elencate
attraverso l’anafora di illa, riferito a Venere.

Quindi dice al v17) “illa favet”, ella viene in aiuto o letteralmente “favorisce”, nel caso che qualche
ragazzo tenti (anche questo tentare è un termine militare) delle soglie nuove cioè mai tentate prima,

v18) sia che la ragazza apra la porta con il chiavistello o infilando la chiave nel chiavistello;

v19) essa insegna a sgattaiolare furtivamente giù dal morbido letto,

v20) essa insegna a mettere piede cioè a fare i passi senza fare alcun rumore

v21) essa dinanzi a un uomo insegna a fare dei gesti loquaci

v22) e a nascondere in segni convenzionali dolci parole (verba blanda)

Analisi di queste circostanze:

La prima è quasi convenzionale, più canonica, è il giovane, il ragazzo che tenta (nova limina), che
quasi assedia la casa di una ragazza di cui si è innamorato, la casa di un nuovo amore, la soglia di un
nuovo amore. Il verbo “temptare” è proprio un verbo tipicamente militare, quello dell’esploratore in
avanscoperta per capire quali sono le difficoltà dell’assedio dell’accampamento nemico, significa
quindi sondare/vagliare, se si può o no conquistare quella ragazza. Venere assiste questa avventura
di esploratore (venere iuvat….al verso precedente).

Nel verso successivo abbiamo un riferimento alla ragazza dice…oppure favorisce se una qualche
ragazza “reserat fores “cioè apre la porta “fixo dente” sarebbe infilando la chiave nel chiavistello. Poi
c’è questo verbo “reserare” già visto prima, qui significa aprire la porta (lo usa anche Lucrezio
nell’inno a Venere per indicare lo spalancarsi della primavera). Dens / dentis sarebbe la chiave
dentata, fixo/figere cioè infilare la chiave dentata nel chiavistello in modo da poterlo aprire.

Altra circostanza: essa insegna a sgattaiolare “derepere”, strisciare giù/strisciare via, “lecto molli”
cioè dal letto morbido furtivamente. Alcuni hanno pensato che il letto da cui la fanciulla deve
sgattaiolare sia il letto del marito quindi si tratterebbe di un rapporto adulterino (Piras non è convinto
di questo perché siamo in età augustea e Augusto voleva moralizzare la società romana e promulgò
anche delle leggi per reprimere l’adulterio, per cui Tibullo non avrebbe espresso questi pensieri così
audaci che andassero contro la politica augustea, come fece Ovidio che infatti venne mandato in
esilio) quindi qui potrebbe essere la fanciulla che si trova a letto, che sente il ragazzo che sta facendo
il suo paraclausithyron e di nascosto scende dal letto per andare alla porta oppure potrebbe essere
anche il ragazzo che dopo un rapporto amoroso sgattaiola via dal letto, quindi questo non dovrebbe
trattarsi di un rapporto adulterino. Non c’è nemmeno il soggetto di “derepere”, per cui potrebbe essere
lui che va via oppure lei che si alza per aprire all’amante.

Al verso successivo, questo “posse ponere” retto da docet precedente, insegna a mettere piede, “nullo
sono” senza fare alcun rumore, perché? Perché c’è sempre il custos (saeva custodia) a guardia della
ragazza.

Ultimi due versi: essa dinanzi all’uomo, insegna sempre a “conferre nutus loquaces” cioè a fare degli
ammiccamenti loquaci, l’occhiolino per esempio, infatti “nutus “è il cenno, è il sostantivo che deriva
da “nuos” che significa fare un cenno, quindi sono cenni silenziosi ma loquaci per chi li intende. Poi
dice insegna a “abdere” nascondere ,“blanda verba” con parole dolci “conpositi notis” con dei segni
convenzionali. Queste scene le ritroviamo anche in Ovidio quindi sicuramente sono motivi
convenzionali.

Chi è questo vir di cui si parla? Anche i commentatori più spinti escludono che si tratti del marito, e
vir potrebbe essere o il custode cui la fanciulla è stata posta in custodia oppure una sorta di fidanzato
combinato che la ragazza non vuole sposare.

Noi sappiamo da alcune testimonianze anche giuridiche che era possibile combinare il matrimonio
con una specie di contratto preliminare, in una sorta di compromesso di vendita, in questo contratto,
fatto dal futuro marito e dai genitori c’era scritto che la ragazza doveva essere tenuta in custodia e
non doveva vedere nessuno. In antichità i matrimoni erano combinati perlopiù quindi la donna doveva
sposare un uomo che magari non amava. Perché questo contratto? La donna veniva vista come una
proprietà, l’adulterio era una sorta di violazione della proprietà privata, la donna entrava a far parte
del patrimonio del dominus e quindi ci si sposava per contratto. L’adulterio poi valeva per la donna
ma non per il marito, perché era la donna che tradendo il marito violava la sua proprietà privata non
il contrario.

“Viro coram” sarebbe “coram viro”, coram è una preposizione che qui è postposta in anastrofe.
”Compositis notis” sono i segni convenzionali, “blanda verba “ sono le blandizie.

Nèc docet hòc omnès, sed quòs nec inèrtia tàrdat v23

nèc uetat òbscurà sùrgere nòcte timòr.

Analisi e traduzione:

“e non insegna a tutti (Venere non aiuta tutti) ma aiuta coloro che né l’inerzia rallenta né la paura
vieta/impedisce di levarsi nel cuor della notte”.
L’uomo deve avere l’iniziativa di compiere quest’azione e poi Venere l’aiuterà, insegna soltanto a
quelli che osano. Da notare la costruzione di “doceo” col doppio accusativo, noi diciamo in italiano
“io insegno a te la matematica” c.oggetto e c. di termine, in latino abbiamo un accusativo della persona
che riceve l’insegnamento e l’accusativo di relazione della cosa che viene insegnata quindi “docet
omnes hoc” ,insegna a tutti questo. “Quos” è sempre l’accusativo di “docet “, quindi…insegna ma a
coloro i quali …

Poi “obscura nocte” è un ablativo di tempo e sarebbe nel cuor della notte. In latino ci sono due notti,
la “nox tempestiva “era quella parte della notte che ti consentiva di fare ancora qualcosa, poi c’era la
“nox intempesta “che non ti consentiva di fare qualcosa perché troppa buia. Dunque questa “obscura
nox” è la “nox intempesta”, quella degli amanti che vogliono intrufolarsi nella casa della fanciulla
amata.

èn ego cùm tenebrìs totà uagor ànxius ùrbe, v25

* * * (qua manca il pentametro)

Nèc sinit òccurràt quisquàm, qui còrpora fèrro

uòlneret àut raptà praèmia uèste petàt. V28

Analisi e traduzione:

v25) “Ecco io quando erro/vago, per tutta la notte/di notte (tenebris), (anxius) preoccupato/ansioso,
in città /per tutta la città,

v26) * * * questo verso è stato ricostruito da più persone, questi sono i tentativi di 3 umanisti:
Giovanni Aurispa, Francesco Fidelfo, e il Pontano.

1) L’ Aurispa propone questo : “sè curìn tenebrìs nè facitès tenebrùs” cioè “Venere fa si che io sia
sicuro nelle tenebre”. Questo verso non funziona per due motivi, tenebris è già presente nel verso 25,
e l’espressione “facit esse” non è una espressione poetica, questo causativo è un’espressione tarda
popolaresca, difficilmente si trova in un autore raffinato. L’ unica cosa buona è Venus perché il
soggetto effettivamente è Venere, poi c’è questa sinalefe “se curin” ... in un verso mancante dà l’idea
di un verso imperfetto, non è convincente.

2) Fidelfo propone: praèsidiò noctìs … (salto audio, non chiaro)… e sento che la dea è presente/mi
assiste come difesa nella notte. Questo praesidio noctis non è proprio tibulliano.

3) Pontano:” ìlle deùs certè dàt insignae viaè”? cioè …” quella divinità mi dà certamente il segnale
della via/della strada sicura. Ille deus riferito a Venere è un po’ fuori luogo, e questo avverbio “certe”
sembra una zeppa riempitiva, forse poteva andare bene come certae, cioè genitivo riferito a viae, cioè
quella divinità mi fornisce il segnale di una via certa, sicura, nel senso che lo sta guidando nella notte.

4) secondo Piras può essere: (non capisco le parole) traduzione… “la dea con la sua luce (lumina)mi
mostra un cammino sicuro”, oppure altro tentativo “tutum diva mihi praevia mostra itèr(?) “ cioè “la
dea mi mostra precedendomi (praevia) un cammino sicuro ,oppure altro tentativo per rispettare Venus
“ ipsa venus tutum provida (come assistente) (?) “cioè la stessa Venere provida (come assistente) mi
apre una via sicura.

Traduzione versi 26 e 27:

Né (Venere sarebbe il soggetto) permette che qualcuno mi venga incontro, che possa ferire il mio
corpo col ferro oppure possa far bottino (rapta praemia veste) rapinandomi.

LEZIONE 21 (03/12/2020) Rebecca Pisanu

Possiamo riprendere dal punto in cui ci siamo fermati ieri nel commentare la seconda elegia del primo
libro. Stavamo commentando questa lacuna, la lacuna si suppone sia di un solo pentametro, anche se
alcuni ritengono che possano mancare più pentametri, magari un intero distico. Questo non lo
sappiamo, però integrando con un pentametro poi alla fine il tutto si connette bene con quello che
segue quindi, quindi probabilmente manca soltanto un verso. Il perché di questa lacuna noi non
possiamo capirlo, può darsi che nell’archetipo da cui dipendono tutti i manoscritti che noi abbiamo,
in cui questa lacuna è presente, mancasse un pentametro per un guasto meccanico oppure perché il
copista passava da un verso all’altro, così per disattenzione, come succede anche a noi quando
copiamo qualcosa rischiamo di passare da una linea all’altra senza accorgerci. È chiaro poi che se
l’archetipo presenta questa lacuna, questo guasto si trasmette in tutta la tradizione manoscritta. A
volte può anche capitare che l’archetipo avesse un buco o magari una macchia di inchiostro rendesse
illeggibile il testo e allora il copista passava direttamente al verso successivo. Noi abbiamo visto ieri
così, anche un po’ per divertimento, si potrebbe dire, le soluzioni che hanno dato alcuni umanisti
come Naorispa, il Filelfo, Pontano e abbiamo visto anche un po’ quali sono le debolezze di queste
integrazioni. Poi mi sono permesso di proporre anche qualche mia integrazione che ha cercato un po’
di rispecchiare sia il senso che lo stile di Tibullo. Ora, è chiaro che sono sempre integrazioni molto
relative, non possiamo dire che Tibullo pensasse davvero qualcosa del genere, però a volte le
integrazioni servono per completare il senso, per non perdere il ritmo nella lettura e così via, sono un
po’ dei restauri. Quando si fanno i restauri dei monumenti antichi, in genere, quando c’è qualche
lacuna, magari nell’opera muraria la si integra mettendo bene in evidenza che si tratta di integrazioni.
All’inizio del corso vi ho detto che il lavoro del filologo non è molto diverso da quello
dell’archeologo. Anche l’archeologo ha a che fare con monumenti che devono essere ripuliti ed
integrati, così sono i testi antichi: monumenti, non monumenti di calce, ma monumenti scrittori e
anche questi monumenti vanno ripuliti da tutto quello che è una superfetazione, cioè tutto quello che
si è generato attorno al testo nel corso della tradizione manoscritta e se è il caso di integrare ciò che
manca. Io davvero quando ho a che fare con i manoscritti e cerco di ripulire tutti questi testi dai guasti,
dalle corruttele della tradizione manoscritta, mi sento un po’ un archeologo certo non uso la paletta,
il pennello, la cazzuola, però diciamo il lavoro intellettuale è molto simile; non ti sporchi le mani
certo toccando i libri, ma qualche volta te le riempi di polvere, visto che i libri, per definizione sono
ricettacoli di polvere. E allora cerchiamo di integrare questi testi mancanti, mettendo bene in evidenza
che si tratta di illazioni, di integrazioni, molto molto opinabili. È chiaro che si tratta che in integrazioni
di questo tipo, uno deve fare attenzione al modus scribendi di Tibullo. Per esempio, un’espressione
come quella del Filelfo “presidio noctis” è un’espressione scarsamente Tibulliana, perché a parte che
presidium è un termine prosaico, che Tibullo difficilmente avrebbe usato, ma poi tutta l’espressione
è un po’ medievale. Filelfo va bene è vissuto nel 400 ma è un po’ medievale come stile e così le altre
integrazioni mi sembrano poco plausibili. Bisogna cercare di trovare nel completare questo verso
mancante con espressioni che si trovano nella poesia latina. Per esempio, nell’espressione che io ho
proposto, “monstare iter”, questa iunctura la troviamo ad esempio in Virgilio. “Iter tutum” è una
iunctura abbastanza convenzionale, canonica, quindi ha una sua plausibilità, un restauro che non stona
troppo con il resto dell’edificio, come si fa in genere con il restauro di un edificio, si scelgono i
materiali analoghi a quelli originali, così si fa come questi testi. Andiamo quindi avanti, vi ho chiesto
ieri, così un po’ per scusa, un po’ per provocazione se qualcuno di voi volesse tentare di proporre una
sua integrazione, nessuno ha osato farlo, ma potete comunque farlo così, non per passatempo, perché
alla fine è anche una cosa importante, sono operazioni importanti perché vi fanno capire un po’ meglio
il funzionamento della la tecnica versificatoria, come se uno volesse fare l’archeologo e volesse
vedere come funzionava la tecnica edilizia degli antichi, magari poteva fare una prova con la malta
che si usava un tempo con il materiale che si usava un tempo giusto per capire anche le difficoltà, la
tenuta per esempio di un impasto di quel tipo. E la stessa cosa succede per noi, è un’operazione che
ritengo molto importante. Anzi, io avevo proposto, ve lo dico così per curiosità, al direttore del
dipartimento, soprattutto per i corsi magistrali di fare una sorta di seminario di composizione latina,
di versificazione latina. Non nell’intento di trasformare gli studenti in anacronistici poeti latini, ma
perché soltanto usando gli strumenti che usavano gli antichi, quindi il metro, il verso, la prosodia, il
lessico poetico uno si rende conto di come funzionava veramente la produzione poetica, che non è
sempre e soltanto pura inventiva, puro ingenium, c’è una τεχνη che si apprendeva e si apprendeva,
appunto, in questo modo. Il direttore ha accolto molto volentieri questa mia proposta il problema è
che io ho un carico didattico abbastanza pesante con tantissimi studenti, quindi purtroppo il tempo
scarseggia, però se un anno mi dovessi trovare libero da impegni, potrei certamente pensare di portare
avanti questo esperimento. Andiamo dunque avanti.

“Nec sinit occurrat quisquam, qui corpora ferro uolneret aut rapta praemia ueste petat.”

Fermiamoci qua perché ogni distico, come vedete, è un pensiero. La grandezza del poeta, questo
soprattutto Tibullo ma anche gli altri elegiaci, è che sono capaci di definire un pensiero o
un’immagine nel giro di un distico, di un esametro e di un pentametro, perché se tu ovviamente
sviluppi l’immagine, il discorso in più distici rischi poi di essere troppo frammentario e di non
catturare sufficientemente l’attenzione del lettore, mentre il lettore si aspetta che ogni distico sia una
specie di pannello di questo politico poetico che è appunto un’elegia. Allora dice (il soggetto di sinit
è ovviamente Venere, la dea di cui si parlava prima quindi):

“La dea non permette che alcuno mi si faccia incontro, che possa ferire il mio corpo, con un ferro/
con un'arma oppure che cerchi di far bottino cerchi bottino rubandomi la veste”.

Ancora evidentemente qui la scena è dell’amante, in questo caso di Tibullo, che gira per la città di
notte e che può incorrere ovviamente in malintenzionati: uno che magari può ferirlo con un arma, con
un coltello o per ucciderlo, oppure per rapinarlo o direttamente uno che pensa di poter far bottino, di
potergli rubare il portafogli di notte.

Qui…uolneret; qui…petat: Notate da un punto di vista della sintassi che queste relative sono relative
improprie, con valore consecutivo, come se fosse infatti ut corpora ferro volneret aut praemia petar
e così via. Sapete che anche in italiano le proposizioni relative possono essere proprie, quando hanno
l’indicativo, quindi hanno la funzione di vere e proprie proposizioni relative. Quando anche in italiano
hanno il congiuntivo allora vuol dire che sono improprie nel senso che nascondono un altro tipo di
frase. Cioè se io dico una frase di questo tipo: “Vorrei un amico che mi accompagnasse a Roma”,
vedete che io uso in italiano una proposizione relativa con il congiuntivo. La proposizione
chiaramente è consecutiva, cioè “vorrei un amico tale che mi accompagni a Roma”. In latino
funzionano stesso modo ci sono le proposizioni relative proprie che hanno l’indicativo, che in genere
sono, appunto, come dire, degli incisi all'interno della frase. Poi ci sono quelle improprie che
nascondono invece altre proposizioni che possono essere proposizioni causali, possono essere finali,
possono essere consecutive, a volte concessive, insomma, dipende un po' dal contesto in cui si
trovano.

Ferrum: Il tutto vedete espresso in maniera abbastanza poetica perché usare ferrum in una specie di
sineddoche per indicare l'arma è poetico, no? Qui si indica il materiale di cui l'arma è fatta, quindi
siamo veramente nell'ambito della figura retorica della sineddoche, per cui si indica la parte per il
tutto, in questo caso la materia per l'arma.

Corpora: Poi abbiamo ad esempio corpora, plurale poetico. Corpus non ci starebbe nel verso, plurale
poetico politico o plurale di indeterminazione, perché chiunque di notte possa girare per la città o
voglia girare per la città potrebbe essere tranquillamente ferito da un malintenzionato.

Praemium petat: Oppure la seconda possibilità che incontri non uno che lo uccide, un assassino ma
un rapinatore. E praemia petat significa appunto fare bottino, no? Premium come bottino, come
preda. In che cosa consiste questa preda? E qui ovviamente i commentatori come sempre si
sbizzarriscono, alcuni pensano che il premium stia, appunto, nella veste, quindi uno che gira di notte
per rubarti la veste, cosa che è possibile perché abbiamo qualche testimonianza, ad esempio, in
Petronio e in Properzio e anche in qualche altro autore, dove si parla di gente che in pratica ti ruba la
veste, ti scippa così la veste. Ma io non so se sia veramente così e francamente la cosa non mi
convince. Oltretutto, per esempio, il Della Corte cita un verso, chiaramente molto mutilo di Nevio, di
una commedia di Nevio, in cui si parla di un premiator o di premiatores solamente verso al plurale,
e non so perché Ribbeck, colui che cioè ha raccolto i frammenti anche di Nevio, pensa che questi
premiatores siano quelli che giravano di notte per rubare le vesti ai cittadini. Io, francamente, non so
perché. Mi son riguardato ovviamente il verso di Nevio ed è talmente ridotto all’osso questo
frammento che non ne ricaviamo nulla, quindi mi sembra un po' una ricostruzione un po' fantasiosa
da parte di Ribbeck, poi accettata da molti commentatori. Ora tenete conto un po’ del vestiario degli
antichi. Noi oggi abbiamo una giacca, abbiamo dei pantaloni il portafoglio lo teniamo in una tasca,
ma gli antichi avevano una tunica e aveva una toga e quindi spesso le pieghe della toga venivano usati
un po’ come tasca, il cosiddetto sinus, come si è detto anche in parte a proposito di un verso
precedente. Quindi non è tanto qui la veste che viene rapinata, quanto piuttosto quello che la veste
nasconde, il sinus vestis nasconde cioè appunto del denaro, delle ricchezze, possono essere quelle
degli oggetti preziosi più che la veste in sé. Poi francamente voi siete liberi di pensarla come volete,
a me questa storia che uno va in giro nella notte e viene derubato della veste mi sembra una cosa un
po’, un po’ così, un po’ poco probabile.
Rapta veste: vuol dire che appunto viene scippato, viene rapinato di ciò che la veste nasconde. Da un
punto di vista della sintassi questo rapta veste potrebbe essere o un ablativo assoluto visto che raptus
è participio di rapto, ‘rapinare’, ‘portare via’, oppure anche il tutto rapta veste potrebbe essere inteso
come una specie di strumentale, cioè petat praemium, quindi ‘cercare il bottino’, con il furto di ciò
che la veste contiene. Però diciamo vista del senso poi non cambia. Ripeto le decodificazioni a volte
grammaticali dei fenomeni linguistici hanno molto di opinabile, molto di discutibile non è che esista
una grammatica che viene fuori diciamo così, de iure divino, no, nel senso che noi proponiamo delle
decodificazioni di questi fenomeni che però si possono prestare anche ad altre interpretazioni, anche
ad altre decodificazioni. La categorizzazione grammaticale è un esercizio puramente mentale non è
qualcosa di diritto divino.

Andiamo avanti:

“Quisquis amore tenetur, eat tutusque sacerque qualibet: insidias non timuisse decet”

Vedete anche questo distico comprende già un pannello di questo questo mosaico, di questo poetico.

“Chiunque tenuto dell'amore (cioè chiunque è in preda dell’amore) vada sicuro e inviolato/
inviolabile dovunque voglia non si addice temere delle insidie.”

Perché chi ha preso l'amore è anche coraggioso, forse anche per la sua incoscienza, no, che presa dall’
amore non teme nulla, forse appunto in preda dell’incoscienza che dell'amore. E questo amore noi lo
scriviamo così come se fosse minuscolo, ma si potrebbe anche personificare chiunque è in preda, in
potere dell'Amore, quasi come una divinità visto che a Tibullo piace molto usare personificazioni di
sentimenti o dei concetti astratti.

Eat: quindi ‘vada’, eat, ‘vada’ pure, o è un concessivo non cambia molto, vada pure sicuro e
inviolabile. Vedete io prima ho integrato tutus iter, perché tra l'altro questo aggettivo Tibullo lo usa
spesso.

Tutus: vuol dire sicuro, cioè quasi munito, protetto. Tenete conto che tutus è collegato con tueor che
significa appunto ‘proteggere’, ‘custodire’ quindi vuol dire ‘protetto’ in sostanza.

Sacer: Cosa vuol dire? Sacer vuol dire ‘che è sotto la protezione degli dèi’. Prima si parlava di Venere
che assisteva gli amanti, addirittura spianava le strade di notte cosicché nessuno potesse disturbarli.
Poi si parla d’amore colui che è in preda dell'amore, che è sotto la protezione degli dèi. Cioè si
potrebbe tradurre ‘inviolabile’ ho inviolato appunto perché è protetto dagli dèi. Tenete conto che la
sacralità, il concetto di sacer, il sanctus, l'abbiamo forse già commentato in altre occasioni, porta in
sé sempre il concetto di separazione, separazione per esempio nel mondo profano. Quindi sacro è
colui che è in qualche modo separato, quindi blindato e inviolabile, nessuno lo può diciamo toccare
o smuovere dai suoi intendimenti, dalle sue intenzioni.
Abbiamo anche commentato o detto, mi pare, in un'altra occasione che l'aggettivo sacer è
anfibologico, nel senso che è vox media. In latino può significare o maledetto oppure anche santo.
Quando Virgilio, per esempio, si scaglia contro la ricchezza, vi ricordate, nell’Eneide e dice “Quod
non mortalia pectora cogis, auri sacra fames”, ricordate questo verso che ormai è diventato
proverbiale. “A che cosa tu non costringi i mortali o maledetta fame dell'oro/maledetta fame della
ricchezza.” In quel caso sacer ovviamente è ‘maledetto’, in altri casi comunque in questo è quasi
‘benedetto’, cioè ‘protetto dagli dei’. Perché questa anfibologia, perché questa, anche nel caso di
caprone di Catullo, certo. Per quale motivo questa anfibologia? Perché, appunto, sacer vuol dire
‘consacrato’ e può essere consacrato o alle divinità infernali e allora diventa maledetto, oppure
consacrato agli dei del cielo e dunque diventa benedetto. Qui ovviamente ha questo significato
positivo, anzi possiamo dire che in Tibullo sacer, se non ricordo male, ha sempre un significato
positivo, non è mai usato nel significato di maledetto. Quindi in questo caso l'amante è protetto perché
è sotto la benedizione, possiamo dire, delle divinità di Venere e di Amore. Quindi vada sicuro e
inviolabile qualibet, ‘dove vuole’.

Qualibet: di per se è un avverbio di moto per luogo, ‘per dove gli piace’. Vedete che qualibet è
composto da ‘qua’, che è un avverbio di moto per luogo, più libet, questa forma impersonale che
significa appunto ‘piace’, quindi sarebbe ‘per dove gli piace’, dove gli pare. Può andare tranquillo
che non ci sono c'è un pericolo per lui, perché gode della protezione dei. Infatti, poi la conclusione
qual è?

Insidias non timuisse decet: cioè “a lui, innamorato, non si addice temere le insidie, gli agguati”
Anche qua vedete il solito verbo relativamente impersonale decet e poi l'infinito auristico, cioè questo
infinito perfetto che indica un'azione universale, quindi diciamo che è sganciato dalle categorie del
tempo. Timuisse è il temere in assoluto, come concetto astratto, slegato da qualsiasi connotazione
temporale, perché, lo ripeto, quando noi usiamo l’infinito presente indichiamo in genere un'azione
che si sta svolgendo, che è in corso, il presente per l'appunto. Se vogliamo però indicare un'azione
universale quindi gnomica allora dobbiamo usare l'infinito perfetto, così come i greci usavano infinito
aoristo. L'ho già detto e quando noi oggi dobbiamo dire un proverbio per esempio “una piccola
scintilla provoca un grande incendio” usiamo il presente indicativo “provoca un grande incendio”,
ma i Greci e anche i Latini non usano il presente indicativo, usano sempre il perfetto, l'aoristo. Quindi
direbbero “una piccola scintilla ha provocato/provocò un grande incendio”, perché quell’azione
universale vale sempre, non soltanto in quel determinato momento. Quindi anche qua dice “agli
amanti in qualsiasi luogo in qualsiasi tempo non si addice aver paura delle insidie”. E qui appunto sta
descrivendo quali sono i disagi che l'amante può subire,

“Non mihi pigra nocent hibernae frigora noctis, non mihi, cum multa decidit imber aqua. Non labor
hic laedit, reseret modo Delia postes et uocet ad digiti me taciturna sonum.“

“Non mi potrà nuocere il freddo, che rende pigro/ indolente, di una notte invernale neanche quando
un acquazzone (timber) cade giù con un grande rovescio/ con molta acqua (multa aqua). Non è questa
la fatica che mi danneggia, purché Delia spalanchi le porte e taciturna/ silenziosa mi chiami con uno
schiocco delle dita.”

Allora vediamo anche qua di commentare. Abbiamo visto che i disagi della dell'amante sono tanti.
Qui ancora sono disagi di tipo meteorologico, l’amante non ha paura di affrontare un acquazzone
durante la notte in inverno per raggiungere la donna amata. E, infatti, vedete qui il freddo è chiamato
pigra frigora.
Pigra frigora: Perché? Perché è un freddo che intirizzisce, che paralizza e in genere rende pigri. Dice:
“Ma chi me lo fa fare con questa notte tempestosa uscire di casa? Com’è che dice il proverbio?
“Quando piove tira vento chiudi l'uscio stati dentro”, no? Così dicevano, diciamo, gli antichi italiani
nel senso che uno se ne sta a casa. Invece gli amanti sono presi da questa frenesia, da questa quasi
tempesta ormonale, no? È più forte della tempesta atmosferica e quindi affrontano questo disagio per
raggiungere la donna amata. È interessante vi dicevo l'uso dell'aggettivo pigra. Perché? Perché in
questo caso è un aggettivo che ha un valore non assoluto ma transitivo. Non è che sia il freddo pigro,
non è lui pigro, ma il freddo che rende pigri gli altri. Quindi vedete che il valore dell'aggettivo è
transitivo o se volete causativo perché non riguarda sé stesso ma riguarda l'effetto che fa sugli altri.
Quando per esempio anche, mi pare, Tibullo stesso parla di pigra senecta o pigra senectus non ricordo
bene l'espressione e parla di ‘pigra vecchiaia’ appunto perché una vecchiaia che rende pigri, non
consente più di fare certe cose, perché ti rende indolente la vecchiaia non hai più voglia di fare certe
cose. Quindi interessante l'uso di questo aggettivo. Vedete come i poeti plasmano gli aggettivi e danno
loro significati molto interessanti e del resto è la sostanza, l'essenza del linguaggio poetico. In che
cosa si caratterizza, lo ripeto perché è molto importante come concetto, in che cosa si caratterizza la
lingua poetica? Dallo scarto della norma, cioè usare parole, come diceva Orazio nell’Ars Poetica, che
usano tutti quanti, ma in combinazioni insolite, inusuali. E in questo consiste linguaggio politico cioè
quella vaghezza di cui parlava Leopardi, per cui queste combinazioni lessicali danno un non so che
di espressionistico, nel senso che rendono l'immagine vaga, non definita come un'espressione
matematica. E voi mi direte per quale motivo il linguaggio poetico e così efficace se ha questa
vaghezza per usare un termine di Leopardi perché questa natura indefinita del linguaggio poetico
consente al lettore al fruitore dell'opera d'arte di intervenire in una forma di immedesimazione. Anche
lettore in qualche modo è creatore dell'opera poetica perché quello che io sento leggendo una poesia,
magari un altro non lo sento, perché io in questi interstizi che consente la vaghezza inserisco la mia
esperienza personale, il mio vissuto. E allora veramente l'opera poetica è un’interazione tra quello
che crea il poeta e quello che il lettore aggiunge in questi spazi che consente la vaghezza. Non so se
il discorso è chiaro, però è un concetto molto importante, ragazzi, molto importante. Si è poeti in due:
sia chi scrive sia chi legge e chi ascolta la poesia. La poesia deve riverberare dentro di noi e attinge
al nostro vissuto quasi come operazione di completamento dell'opera d'arte. Ricordatevi di questo
concetto è molto importante questo vale non solo per letteratura Latina, ma vale per le lettere in
generale perché è un concetto di estetica letteraria.
Quindi dice ‘il freddo che rende pigri di una notte invernale, non mi potrà nuocere’. Qui guardate che
il verbo noceo regge il dativo mihi e poi questa espressione non mihi con cui si apre il verso 31, e
ripetuta al verso 32 non mihi, come per dire ‘neppure a me’, neanche quando imber un acquazzone
cade giù multa acqua ‘con molta acqua’.

Imber: ricordatevi è sempre l'acquazzone non è mai una pioggerella, quella è pluvia, ma imber è
sempre l'acquazzone, decidit vuol dire ‘cadere giù’.

Decidit: attenzione perché il verbo può essere ambiguo. Abbiamo decìdit che significa ‘tagliare via’
e décidit ‘cadere giù’, perché ricordatevi il discorso dell'anno scorso sull’apofonia latina. Una cosa è
la composizione de+cado che significa ‘cadere’, decado che diventa poi decido per apofonia latina.
Una cosa è de+caedo, che significa acceso, significa ‘tagliare’. Pensate cesoie, parto cesareo e così
via quindi decido di ‘tagliare via’. È un altro significato, qui tra l'altro decìdit non ci sarebbe il verso,
e poi non avrebbe senso. Quindi “cum multa decidit timber aqua”.
Multa aqua: è un complemento di modo, quindi quando un acquazzone cade con molta, quindi
quando c'è un rovescio, diciamo così, e cade l'acqua come si dice a secchiate.

Non labor hic laedit: ‘non è questa la fatica che danneggia’, dice. Prima usava il verbo noceo poi usa
il verbo laedo, appunto, ‘ledere’, ‘danneggiare’. Noceo è più grave di laedere perché ledere è un
danno parziale, no? Pensate, in italiano, una lesione è una ferita parziale, mentre il verbo noceo ha la
stessa radice di nex-necis, che è la morte. Quindi noceo è qualcosa di più pericoloso, di più dannoso
di una semplice lesione.

E allora poi continua quindi con un sinonimo quasi attenuando anche il concetto. ‘Non è questa la
fatica’ dell’amator exclusus. Non è questa la fatica,

Modo: ‘purché’ modo, cioè dummodo, questo modo introduce una condizionale restrittiva, ‘purché
Delia spalanchi le porte’.

Reseret: Abbiamo già visto questo bellissimo verbo poetico che tra l'altro si presta bene nella struttura
dell'esametro. ‘Spalanchi le porte’. Siamo nell'ambito del παρακλαυσίθυρον non dimentichiamolo
mai.

Furtim: ‘E mi chiami taciturna/silenziosa’. Perché? Perché non deve svegliare il custode e tutto deve
essere fatto furtim, vi ricordate, furtivamente. Le avventure amorose clandestine sono dei furta, come
dirà anche tra poco. Quindi ‘taciturna’ indica questo: non deve parlare per non insospettire il custode
che deve tenere la guardia.

E dice mi chiami ad digiti sonum, ‘con uno schiocco delle dita’.

Ad digiti sonum: quindi senza parlare ma soltanto con un leggero schiocco delle dita. Vedete qua la
scena è molto realistica perché lo schioccare delle dita è proprio un gesto che dura anche oggi, molto
quotidiano, no?
Molti commentatori fanno riferimento ad alcune fonti letterarie in cui lo schioccare delle dita indica
un’azione di comando. Io non sarei così, cioè non presenterei questa povera Delia come una pantera
che tiene sotto scacco continuamente il povero Tibullo. Qui lo schioccare delle dita è soltanto un
gesto sonoro per evitare di parlare, non sta chiamando il cameriere in ristorante con uno schiocco di
dita, quello è un altro contesto. Infatti, mi pare che alcuni commentatori citino contesti di questo tipo
cioè non lo chiama per esempio il cameriere per versare da bere, ma il contesto è completamente
diverso. Qui lo schioccare delle dita è semplicemente un segnale acustico molto comodo, molto
economico per far capire la presenza dell'amata. Non sta dicendo vieni qua Lessy a mangiare la pappa.
È chiaro che non è così, però sapete i commentatori a volte sono troppo legati alle fonti. Le fonti
vanno prese sempre con le pinze, cum grano salis, poi alla fine bisogna contestualizzare l'espressione.
Non è che siccome in Petronio, mettiamo, quel gesto significa questo, ha lo stesso significato anche
in Tibullo. Tu devi guardare bene il contesto perché le parole assumono sempre il loro significato dal
contesto ricordatevelo sempre. Le parole isolate, come diceva il grande linguista Van Henry, sono
parole virtuali. Soltanto le parole nel testo sono parole reali, quindi il vero significato noi lo dobbiamo
ricavare soltanto all'interno del contesto, cioè dalla relazione che quell’ espressione ha con le altre
parti del discorso, che sono attigue, ma questo è un principio che dovete tenere sempre presente.

Min. 36.34 Lettura metrica vv.31-34

Guardate che bello: non c'è neanche una elisione. Sono versi che scorrono perfettamente poi quando
ci sono queste brevi, quando cioè il secondo emistichio inizia con delle brevi nell’ esametro è
bellissimo. Sembra quasi un ritmo di danza, bellissimo.

Min. 37-50 Lettura metrica vv.35-38


Guardate che bello, veramente, è bellissimo, mi si scalda il cuore quando leggo questi versi.

“Parcite luminibus, seu uir seu femina fiat obuia: celari uolt sua furta Venus. Neu strepitu terrete
pedum neu quaerite nomen neu prope fulgenti lumina ferte face.”

Parcite luminibus: cosa significa? significa letteralmente ‘risparmiate gli occhi’, ‘risparmiate gli
sguardi’, cioè fate finta di non vedere, questo significa. Poi lo commentiamo bene.

“Risparmiate gli occhi, sia che un uomo sia una donna mi si faccia incontro: Venere vuole che i suoi
furti vengano celati.”

Allora qui cosa sta dicendo? Praticamente l'amante sta raggiungendo la casa dell'amata di notte e
quindi quasi chiede o prega qualcuno che lo può incontrare per strada di non guardare, di non
riconoscere identità di questo personaggio, perché Venere vuole che questa avventura amorosa
rimangano nascoste, non vengano propagandate.
Parcite luminibus: E allora questo parcite luminibus è bellissimo, perché sarebbe ‘risparmiate gli
occhi’, cioè fate finta di non vedere, no, è bellissimo. Lumina sappiamo che sono gli occhi e quindi è
come se, ricordate? Sì, certo vi ricordate, nella prima elegia quando diceva ‘risparmia i capelli sciolti’
Il concetto è lo stesso.
Il verbo parco viene usato come formula quasi di cortesia per indicare ‘non fate qualche cosa’, quindi
parcite luminibus vuol dire ‘risparmiato gli sguardi’, cioè non guardate il tutto, detto con molta
delicatezza e con appunto molta cortesia, sono espressioni delicate, molto delicate.

Seu…seu: ‘sia che una donna, sia che una donna’

Fiat obvia: obvia cosa vuol dire? Significa uno che ti si fa incontro per la strada. Del resto, l'aggettivo
ha una costituzione etimologica molto evidente ob+viam: ob significa ‘contro’, via la ‘strada’ quindi
obvia. Colui che ti si fa incontro nella strada eccolo che incontri, quindi, significa appunto ‘farsi
incontro’, ‘imbattersi in qualcuno’. Quindi ‘sia che un uomo sia una donna mi si faccia incontro’ e
poi spiega perché non vuole che la sua identità sia riconosciuta, perché appunto si tratta di un furtum,
cioè l'avventura amorosa magari anche audace e Venere, fa riferimento appunto alla dimensione
sacrale, ‘Venere vuole che i suoi furti’ cioè i furti a lei cari e le avventure amorose a lei care, ‘siano
nascosti.’
Celari: ‘rimangano nascosti’, bellissimo. Tra l'altro, va bene, ci sono motivi topici, perché anche in
Catullo nelle nugae noi troviamo motivi di questo tipo, però sono espressioni sempre molto delicate,
ecco.
Poi parla appunto di questi personaggi che circolano per la notte a Roma perché il tutto è ambientato
ovviamente a Roma. Chi sono questi personaggi? Molti hanno detto che sono dei bighelloni che
magari di notte girano a Roma così, ci sono anche no? In genere soprattutto nella bella stagione a
volte si passeggia, quando la notte tiepida si passeggia fino a tardi, fino a notte tarda e c’è qualcuno,
però probabilmente non si tratta di bighelloni o di perdigiorno. Forse si tratta di alcune pattuglie,
quasi dei vigili notturni che soprattutto all'epoca di Augusto giravano per la città di Roma per tenere
un po’ l'ordine pubblico. Quindi questi ovviamente chiedevano diciamo la carta identità e chiedevano
Chi sei? Chi non sei? Perché sei qua? Cosa ci fai? Insomma, i pattugliamenti notturni che sono tipici
che si facevano, adesso non so se si facciano ancora, perché di notte non esco più, ma, quando ero
ragazzo, magari, che facevo le ore piccole, passeggiando per il paese con gli amici, magari,
incontravamo una pattuglia dei carabinieri, ci fermavano e ci chiedevano i documenti. “Chi siete?
Cosa ci fai a quest'ora?” Quindi una forma di pattugliamento che si usava anche a Roma con i famosi
vigiles. Tra l'altro sono stati poi come dire irreggimentati da Augusto, ma prima di questo, di questa
regolamentazione, Augusto ha dato incarico a Mecenate di badare all'ordine pubblico della città anche
di notte, con l'istituzione appunto di pattuglie notturne. Quindi forse il riferimento è a queste pattuglie
e dice:

“Neu strepitu terrete pedum neu quaerite nomen neu prope fulgenti lumina ferte face.”

“Non spaventate, con il fracasso dei piedi/ dei passi, non chiedete il mio nome e non avvicinate lo
sguardo con una torcia che brilla.”

In pratica immaginate questo vigile e si avvicina l'amante, il poeta, avvicina gli occhi, il suo viso con
la torcia per riconoscerlo, gli chiede il nome, insomma le generalità, come si dice, l'identità. Qui dice:
“No evitate di fare tutto questo”. Quindi sta chiedendo di non spaventare, di non fare chiasso insomma
con i passi, non tanto perché spaventano lui, quanto, perché, magari, il chiasso di quei piedi possono,
come dire, destare l'attenzione di qualcun altro: magari si affaccia la finestra per vedere cosa sta
succedendo, succede anche nelle nostre città, invece non fate rumore con i piedi e non chiedete il mio
nome, appunto, per non sapere l'identità. E poi la cosa che, invece, vorrei farvi notare è questa
espressione lumina ferte.

lumina ferte: tutti quanti commentatori che ho visto, Della Corte e altri, per esempio, ugualmente
intendono questo lumina ferte come ‘non avvicinate la luce con la fiaccola che brilla/che arde/che fa
luce’. Io, francamente, non intenderei così. Ferte lumina prope vuol dire avvicinare gli occhi per
vedere esattamente chi sei e il riconoscimento avviene attraverso la fiaccola che arde, che brilla
perché, scusate, un attimo se noi intendiamo ferte lumina ‘vicino alla luce’, c’è già face, perché questo
pleonasmo lumina face? Fax-facis è la torcia che illumina, che fa luce, perché ripete il concetto così?
Abbiamo visto che lumina nei poeti, ma anche prima, sono gli occhi in genere parcite luminibus, no?
‘Risparmiate gli occhi, lo sguardo, la vista’. Quindi secondo me l'espressione va letta così: “ferte
lumina propre neu” à ‘Non portate lo sguardo vicino con la torcia accesa per far riconoscere
l'identità della persona, dopo avergli chiesto il nome’. Non so se la cosa vi convinca però a me questo
pleonasmo, così come intende commentatori, non convince, anzi lo ritengo veramente poco
plausibile; magari pensateci un po'.

Possiamo riprendere dunque dicevamo a proposito di questi versi 37 e 38, che si tratta di un
pattugliamento dei vigili e che, appunto, questi avvicinano sguardo gli occhi allo sconosciuto con la
torcia scesa per riconoscere l'identità. Abbiamo anche detto che probabilmente c'è un riferimento,
un’allusione ad un fatto reale perché Roma in quel tempo era veramente pattugliata. Sapete dopo la
guerra civile, comunque, Roma aveva ancora delle sacche, così, dei disordini, tensioni sociali quindi
Augusto ha pensato bene di incaricare Mecenate di organizzare questa pattuglia della città. Tuttavia,
al di là di questa allusione storica, c'è sicuramente anche qui un motivo letterario, motivo letterario
della poesia ellenistica in particolare. Mi viene in mente, leggendo questi così versi, un versetto del
Cantico dei Cantici, che diciamo è uno scritto biblico, ma come ho detto altre volte, è uno scritto che
risente molto della poesia mistica perché il poeta anche se scrive in ebraico però ha presente la poesia
di Meleagro, la poesia di Teocrito, perché ci sono riferimenti evidenti ai poeti ellenistici, che cerca
un po’ quasi di emulare. Ad un certo punto in un idillio di questo Cantico dei Cantici si parla di questa
donna, che di notte attraverso la città per raggiungere amato il suo ragazzo fidanzato e incontra, lo sta
cercando veramente, e incontra le sentinelle della notte che fanno la ronda nella città e chiede
informazioni a loro. Evidentemente c'è motivo topico altrimenti il poeta non avrebbe mai come dire
inventato questa scena, che fa parte insomma di quell’armamentario della poesia erotica antica. Io
faccio riferimento spesso alla gli scritti biblici e il vicino Oriente perché mi rifiuto di pensare che le
culture, soprattutto Mediterranee, vadano procede per compartimenti stagni. Sostengo, ma del resto
lo avrà insegnato anche il professor Putzu, che il Mediterraneo, in fondo, è una bacinella, dove tutti
bagnano i piedi, immergono i piedi e quindi le culture vivono una interazione fra loro. Non è che gli
scritti biblici, soprattutto quelli più tardi, di epoca ellenistica, non hanno risentito dell’influsso della
letteratura greca e viceversa. È ovvio che c'è stata una forma di interazione. Quindi, secondo anche
una impostazione scientifica, la cultura mediterranea, va sempre guardata come un'unica realtà,
un’unica dimensione pur con diverse caratteristiche e diverse specificità, ma non sono mondi
paralleli, non sono gli intermundia di lucreziana memoria. La cultura è la stessa, in fondo, siamo un
puntino nel globo terracqueo e chiaramente abbiamo avuto contatti da sempre, dall' epoca preistorica
fino a oggi. E questi collegamenti, queste connessioni sono sempre messe in evidenza. Non so se
abbiate pensato, abbiate riflettuto, durante il caffè, a questa espressione lumina ferte, cioè più che ‘far
luce’ mi sembra ‘avvicinare il viso/ lo sguardo’ allo sconosciuto per individuarlo. Mi sembra forse
una interpretazione meno banale e soprattutto evita il pleonasmo lumina face fulgenti. E poi va avanti
e dice:

“Siquis et inprudens adspexerit, occulat ille perque deos omnes se meminisse neget:”

“Se qualcuno indiscreto ha guardato bene per identificare la persona, egli lo nasconde e in nome di
tutti quanti gli dèi neghi di ricordare.”

Praticamente dice di fare un po’ di omertà come si potrebbe dire oggi.

Inprudens: Vedete inprudens cosa vuol dire? Io lo traduco come ‘indiscreto’. Una persona magari
eccessivamente curiosa, che vuole indagare l'identità o l’intenzione della persona è un inprudens,
quindi un incauto, un indiscreto direi. Quindi ‘se qualcuno ha guardato’. Tra l'altro, come detto, una
cosa che mi dà conforto, perché noi abbiamo interpretato questa ferte lumina come ‘avvicinare lo
sguardo per riconoscere identità’, più che ‘illuminare’. Qui poi c'è adspexerit che indica la stessa
cosa, la stessa azione, cioè ‘guardare verso’, ‘volgere lo sguardo verso’, ‘individuare una persona’,
quindi mi conforta, su questa mia interpretazione.

Ille oculat: quindi abbiamo un congiuntivo esortativo ‘egli lo nasconda/ lo tenga per sé e se qualcuno
mi domanda se ha visto qualcuno neghi, neghi per amore/ in nome di tutti quanti gli dei’

Neget se meminisse: sempre il solito congiuntivi esortativo ‘neghi di ricordare’. Abbiamo già
commentato la natura di questo verbo meminisse, quindi qui non starò a ripeterlo.

Gli dei ovviamente si vendicano se qualcuno non obbedisce diciamo la loro volontà, in fondo lo
diceva prima: è Venere che vuole che queste avventure amorose vengano celate, non sono soltanto le
intenzioni del singolo. Quindi se qualcuno contravviene a questa volontà degli dei, gli dei sicuramente
potranno vendicarsi è quello il concetto che dice subito dopo:

min. 53:53 lettura metrica


“Nam fuerit quicumque loquax, is sanguine natam, is Venerem e rapido sentiet esse mari.”

“Infatti chiunque sarà stato loquace, egli si accorgerà che Venere è nata dal sangue di Urano e si
accorgerà che deriva dal mare che tutto travolge.”

Qui fa riferimento al mito, sapete. Secondo la mitologia greca Venere sarebbe nata da una goccia del
sangue, in seguito all’evirazione da parte del figlio Crono. Urano, il padre, poi evirato come sapete
da Crono e in quest’ operazione una goccia di sangue cadde nel mare e da questa goccia di sangue
nel mare sarebbe nata quindi Venere. Quindi Venere ha questa doppia natura un po’ sanguigna e un
po’ marina. Ecco perché entrambe queste nature sono citate.

Is sanguine natam e poi cosa dice, sentiet esse e rapido mari. Cioè ‘ lui mai lui sperimenterà/si
accorgerà che Venere è nata dal sangue ed è nata dal mare tempestoso che tutto travolge’, quindi
sicuramente non farà mancare la propria vendetta. Non so se è chiaro.

Loquax vuol dire ‘chiacchierone’, quindi uno che parla troppo e soprattutto lo fa e magari per parlare,
non tanto per dare un'informazione importante, quanto per spettegolare. Quindi se qualcuno sarà stato
pettegolo, va bene loquax come pettegolo in italiano, lui si accorgerà sentiet.

Sentiet: ‘si accorgerà/ capirà/ constaterà/ sperimenterà’ nel sangue. Quindi sa essere anche violenta
quando vuole. Questo è il concetto espresso e sa essere anche travolgente, vedete.

Rapidus: Il mare, come tutti i liquidi, anche il fiume, viene chiamato rapidus, non perché scorre
rapidamente, ma va sempre rapportato alla sua costituzione etimologica. Rapidus viene da rapere
significa ‘travolgere’, ‘trascinare’, ‘rapire’, perché il mare tempestoso come un fiume scrosciante
porta via tutto quello che incontra nel proprio cammino. Ecco perché è chiamato rapidus, non pensate
come il Rush tedesco, speed dell'inglese: non è questo significa. Rapidus significa appunto
‘travolgente’. Quando Virgilio parla della calura estiva rapida, cosa vuol dire? Vuol dire che appunto
è travolgente, nel senso che non si può resistere, è irresistibile per l’uomo quindi uno deve per forza
rifugiarsi sotto l'ombra di qualche albero (questo nelle bucoliche di Virgilio). Quindi cercate un po’
di trovare l'eccezione giusta a questi aggettivi aggiuntivi che sono, sì aggettivi convenzionali, sono
quelli che si chiamano appunto epiteti ornansia, però, basta vanno sempre interpretati.

min.57.56 lettura metrica


“Nec tamen huic credet coniunx tuus, ut mihi uerax pollicita est magico saga ministerio. Hanc ego
de caelo ducentem sidera uidi, 45 fluminis haec rapidi carmine uertit iter, haec cantu finditque solum
Manesque sepulcris elicit et tepido deuocat ossa rogo; iam tenet infernas magico stridore cateruas,
iam iubet adspersas lacte referre pedem.”

“Tuttavia il tuo uomo non crederà a costui, così come mi ha promesso una maga verace con un rito
magico”.

Allora qui si passa ad un altro topos che troviamo un po’ nei poeti dell’età augustea che è quello della
magia. Se voi leggete Properzio anche Properzio ha qualche scena di qualche descrizione della
potenza che le maghe, gli stregoni avevano oppure se leggete anche Lucano. Insomma, ci sono autori
su per giù dell’età giulio-claudia in cui è presente questo motivo. Dicevo che questi riferimenti alla
magia possono scaturire da un modello che può essere ellenistico, però in genere la presenza di questo
motivo è sempre indizio di una sorta di irrequietezza, di senso di precarietà che si prova. Mi spiego.
Nella cultura italiana soprattutto nel Cinquecento-seicento è ugualmente presente questo motivo della
magia, della stregoneria, della negromanzia. Perché? Perché è un periodo molto travagliato con
tensioni di carattere politico e quindi la gente un po’ si rifugia nell’ irrazionale quindi evidentemente
anche in questo periodo, soprattutto con la stanchezza delle guerre civili, ha creato un po' di sicurezza
nell’individuo, che si rifugia nell’ irrazionale, nella magia. Quindi sono scene che vanno lette, non
soltanto come puri motivi letterari topici, ma vanno anche lette nel contesto un po' della mentalità del
tempo, della sensibilità del tempo, che evidentemente vive ancora questa precarietà come residuo,
come risacca della lunga guerra civile, che, come sapete, hanno lacerato la società romana.

Allora cosa dice?


“Nec tamen huic credet coniunx tuus, ut mihi uerax pollicita est magico saga ministerio.”

“Tuttavia, il tuo uomo non crederà a costui, così come mi ha promesso una maga verace con un rito
magico.”

Prima di andare avanti vorrei sapere un po’ su questo. Ci sono due cose da notare. Se anche una
persona poi dovesse aprire bocca contro il volere degli dèi, non solo incorrerà nella vendetta di
Venere, ma addirittura non verrà neanche creduto.

Coniunx tuus: non è il coniuge, come si diceva prima, in quanto il tutto si riferisce ad una storia
avventura adulterina. Coniunx, in latino, non è soltanto il coniuge, come marito legittimo coniunx è
anche il compagno che sta assieme a lei, che può essere lo stesso vir di cui si parlava prima. Quindi
può essere uno che abita con lei, può essere anche il custode, può essere anche il promesso sposo, ma
non un marito diciamo legittimo come potremmo appunto intenderlo noi oggi, ma su questo sono
d'accordo tutti quanti i commentatori, quindi siamo sicuri che le cose potrebbero essere veramente
così. Quindi ‘il tuo coniuge non crederà comunque a questi pettegolezzi perché questo me l'ha
garantito una maga’, la maga che riesce, diciamo così, a fare dei sortilegi anche per proteggere
diciamo così questa storia d'amore. La maga è detta saga, vedete.

Saga verax: maga che dice cose vere. Notate questo bellissimo, da un punto di vista lessicale,
sostantivo: saga. La saga è l’indovina colei che dice cose vere o che sa dire anche delle formule
magiche, ma è interessante l'etimologia di saga. Per chi conosce il tedesco sa che in tedesco ‘dire’, il
verbo ‘dire’ si dice sagen ed è imparentato con l’inglese to say, ‘dire’, oppure anche con l'italiano
saga, la saga di Harry Potter e così via. Perché saga propriamente è quella figura di maga legata alla
potenza, al senso della parola, la potenza magica della parola, sia perché riesce a prevedere il futuro,
ma anche perché conosce le parole, i carmina, le parole, le formule magiche per costringere anche le
divinità a fare il suo volere. Quindi bellissimo perché dietro questo saga c'è veramente tutto il mondo
della magicità della parola, come potenza capace di cambiare la realtà. Questa maga glielo ha
promesso quindi è verifica, quindi è degna di fede.
Pollicita est: verbo deponente letteralmente servire, perché ministerium è il servo, colui che viene
incaricato di fare. Quindi il ministerium e l’agire del ministerium del servo, quindi il servizio in questo
caso fa riferimento a un rito magico, tutta la procedura magica. E poi c'è vedete qui una specie di spot
pubblicitario, si potrebbe dire, elenca tutte le cose di cui la maga è capace di fare.

“Hanc ego de caelo ducentem sidera uidi, fluminis haec rapidi carmine uertit iter, haec cantu
finditque solum Manesque sepulcris elicit et tepido deuocat ossa rogo;”

‘Io ho visto costei (cioè la maga) trascinare giù dal cielo le stelle,
questa, con una formula magica, ha invertito il corso di un fiume impetuoso,
e questa con il canto e squarcia la terra e trae fuori dal fumante ancora tiepido le ossa di chi
evidentemente viene cremato.

Quindi sta facendo vi dicevo una specie di spot pubblicitario su tutte quelle attività quelle capacità
che è la strega è capace di fare di dimostrare.
Sono anche queste diciamo delle attività topiche perché, se prendiamo, ad esempio, non lo so un
epodo di Orazio, se prendiamo Virgilio anche nell'Eneide e ci sono queste frasi ovviamente con parole
diverse, ma il concetto, il succo è sempre questo. E una delle prove delle capacità forse più gettonate
di queste maghe, almeno in letteratura, non è la realtà evidentemente, era quella di portare giù dal
cielo le stelle, in particolare la luna, attraverso delle formule magiche.

Sidera: dietro questa sidera ci sono le costellazioni ma in particolare, ovviamente, la luna. Tenete
conto che gli antichi non distinguevano tra pianeti per esempio e stelle. Per loro erano comunque
delle cose molto diverse, voglio dire, non erano dei globi come per noi. Noi sappiamo che la luna è
un globo, che Giove è un globo che ha una sua consistenza, anche di materia. Invece per gli antichi
era che aveva una specie di sfera concava, non erano dei globi. L'unico globo fermo al centro
dell’l’universo è appunto la terra.
Cosa significa portare giù dal cielo? Probabilmente far scomparire, far eclissare questi pianeti, queste
costellazioni e in particolare la luna. Questo vuol dire trascinare giù dal cielo le costellazioni.
E poi questa è capace anche di invertire il corso di un fiume impetuoso anziché, cioè, farlo andare
verso il mare, farlo risalire verso la sorgente. E tutta questa lista di adinata, come si dice di cose
impossibili, che dovrebbero garantire la capacità, l'abilità della maga.

Carmine…cantu: Notate che tutto questo avviene attraverso l'uso della parola, non dimentichiamoci
che è una saga, infatti vedete che parla di carmine, come strumento della magia e poi nel verso
successivo di cantu, che non cambia molto. Carmen cosa significa? È una formula magica che
ovviamente veniva cantata o per lo meno veniva cantillata. Non so se ricordate, o se avete mai visto,
o voi siete molto giovani e poi soprattutto in città questo non è possibile, ma quando per esempio
nasceva un bambino si faceva al bambino la famosa medicina per il mal occhio, una specie di magia.
Per cui arrivava questo vecchietto del paese e cominciava a fare questi riti strani con dei chicchi di
grano in un bicchiere d'acqua e mentre, i brevus, esattamente. Da cosa deriva vero brevus deriva da
verbum, che sono le parole cioè le parole magiche. Mi ricordo nel il mio paese c'era questa vecchietta,
che veniva chiamata, prendeva questo bicchiere d'acqua con il grano e faceva le sue preghiere. Queste
preghiere erano cantilenate per questo carmine, non recitate ma diciamo una specie di cantilena. In
particolare, non pensate ovviamente alla Callas o a chissà quale soprano. Facevano queste preghiere
cantilenate, non erano veramente cantate. Ebbene queste formule erano appunto dei carmina, perché
venivano cantilenate, ecco perché dopo c’è scritto cantu ‘col canto’, perché fa riferimento alla
formula magica, alla parola capace appunto di piegare anche la volontà degli dèi o le forze della
natura, le leggi della natura. Quindi insomma per noi oggi è normale, ma nell'antichità c'era un po’
questa concezione magica. Pronunciare la parola era quasi diciamo, così, poteva costituire un certo
pericolo. Anche oggi è rimasto un po’ per scaramanzia, no? Quando si dice di non nominare quello
perché magari non menagramo perché porta sfiga, soltanto nominare quella persona. C’è dietro questa
concezione magica della parola come se la parola potesse fosse in grado di cambiare le leggi della
natura. È un discorso molto lungo non vorrei allungare il brodo, ma ci sono delle cose
interessantissime in tutta la cultura occidentale su questo argomento, veramente, cose stupende e cose
che ci toccano da vicino e di cui neanche ci rendiamo conto, ma molti nostri atteggiamenti sono dovuti
proprio a questa concezione magica della parola. Non posso dilungarmi troppo su questo punto
altrimenti poi parlo troppo.
Dunque, dicevamo che appunto il canto, la parola magica è capace di invertire, vertit, il corso, iter,
di un flumen, rapido anche questo vedete rapidus, epitetus hornans, vuol dire ‘impetuoso e
travolgente’.
E poi ancora ‘questa col canto’ e fa riferimento alla negromanzia, cioè l'arte di evocare gli spiriti
findit solum ‘squarcia, apre, spacca’, letteralmente, il suolo, la terra e trae fuori, elicit, dai sepolcri,
dalle tombe, gli spiriti dei defunti. E poi è anche capace di chiamare giù dal rogo tiepido quindi ancora
fumante le ossa del defunto. Sono tutte operazioni di negromanzia. Ovviamente la negromanzia, come
viene qui descritta, è sempre in funzione della divinatio, cioè di predire il futuro, perché la saga è una
che predice futuro, anche una specie di profetessa. Quindi son tutte operazioni volte, sono strumenti
volti a conoscere, indagare il futuro.

Findit solum: Perché dice che findit solum, perché appunto si sa che nell’ immaginario collettivo, le
anime dei defunti, si trovano sottoterra, nell’Ade, nello sheol come dicevano appunto gli antichi ebrei.
Quindi per poter comunicare con i defunti la terra si deve aprire, cioè si deve creare un varco di
comunicazione tra il mondo dell’al di qua ed il mondo dell'aldilà. Voi sapete che nelle leggende
popolari ci sono, son rimaste per esempio una grotta, una spaccatura del terreno e qui è l'ingresso
dell’inferno secondo gli antichi e non ci sono ancora queste credenze popolari, ma effettivamente gli
antichi credevano che molte spaccature o grotte del terreno fossero veramente l'accesso verso
l'inferno. Probabilmente, questo lo dico soltanto per chi magari è interessato di letteratura che
cristiana antica, che anche nel tempio di Gerusalemme si pensa ci fosse all'interno del tempio una
spaccatura che dava accesso al regno dei morti secondo la vecchia religione israelitica e questa
spaccatura fosse diciamo così coperta da un velo, da una specie di tenda d'accordo? Lo dico soltanto
per chi interessato. Se vi ricordate nel racconto del Vangelo della risurrezione dice che quando Gesù
risorse si squarciò il velo del tempio. Non so se avete mai sentito o ricordate questa espressione
appunto secondo quel racconto questa tendo, questo velo che squarcia è appunto quel velo che copriva
questo ingresso diciamo così nel mondo dei defunti, per indicare che risorgendo Cristo, appunto, ha
sconfitto anche la morte ed ha eliminato questa separazione tra il mondo dei defunti quello dei vivi,
quindi c’è un simbolismo all'interno di questa raccolta, perché molti si domandano che cos'è questo
velo del tempio? È quello che ho detto.
Riprendiamo allora il nostro testo e allora dice appunto findit quindi ‘squarcia in due la terra’ ed elicit
significa ‘attrarre’, attrarre quasi in maniera anche coatta, con la costruzione di tombe.

Sepulcris: Questo sepulcris è un complemento di moto da luogo, lo deduciamo dalla preposizione ‘e’
del verbo elicit, ossia ex+lacio à elicio (apofonia latina). Quindi è come se fosse lacit ex sepulcris,
‘trae fuori dai sepolcri’

Mani: sono le anime in generale, non soltanto dei defunti, ma qui sono già lo spirito di fondo. È poi
anche capace di fare una cosa strana, cioè devocat vuol dire ‘chiamare giù’, letteralmente ‘chiamare
giù le ossa’ di chi viene cremato, tepido logo, ‘dal luogo del rogo’, scusate, che è ancora tiepido, che
è ancora fumante, operazioni negromanzia. E poi continua ma forse non ce lo facciamo perché il
discorso si fa più lungo, e poi continua sempre con queste operazioni riesce ad evocare gli spiriti
infernali quando vuole e a farli tornare, poi nella loro dimora con dei riti particolari.

LEZIONE 22 (04/12/2020) Efisia Dessalvi – Maria Herres

TIBULLO, libro I, elegia II.

verso 47: haec cantu finditque solum Manesque sepulcris

elicit et tepido deuocat ossa rogo;

iam tenet infernas magico stridore cateruas,

iam iubet adspersas lacte referre pedem.

Cum libet,haec tristi depellit nubila caelo,

cum libet,aestiuo conuocat orbe niues.

Sola tenere malas Medeae dicitur herbas,

sola feros Hecates perdomuisse canes.


Haec mihi conposuit cantus,qui fallere posses:

ter cane,ter dictis despue carminibus.

Ille nihil poterit de nobis credere cuiquam

Non sibi,si in molli uiderit ipse toro.

Tu tamen abstineas aliis:nam cetera cernet

Omnia,de me uno sentiet ipse nihil.

Quid,credam?nempe haec eadem se dixit amores

Cantibus aut herbis soluere posse meos,

et me lustrauit taedis,et nocte serena

verso 64 : concidit ad magicos hostia pulla deos.

“Questa col canto spacca il suolo e trae fuori dalle tombe

gli spiriti dei defunti e chiama giù dal rogo ancora fumante le ossa,

ora quasi tiene in suo possesso, ora comanda di ritirarsi una volta

asperse di latte. Quando le garba costei ,le nubi dal cielo imbronciato,

convoca le nevi nella stagione estiva. Si dice che lei sola possieda le

erbe cattive di Medea, lei sola si dice abbia domato i feroci cani

di Ecate. Questa(maga) ha composto per me formule magiche

con cui tu potresti ingannare: ripeti cantando per tre volte

e per tre volte sputa per terra. Egli (coniuge) non potrà credere

a nessuno sul nostro conto, neppure a se stesso, se dovesse

vederci in prima persona sdraiati in un tenero giaciglio.

Tu però astieniti dagli altri: infatti vedrà tutti gli altri, lui non

si accorgerà di nulla solo del mio caso.

E come? Dovrei crederci? Certamente, mi ha detto di essere

In grado di sciogliere col canto e con le erbe i miei amori,

e mi ha purificato con le torce, e in una notte serena una vittima

scura è stata offerta alle divinità della magia.


La scorsa volta stavamo parlando delle capacità che questa maga/saga ha di compiere azioni
straordinarie, i cosiddetti adunata = cose impossibili che si iscrivono in una topica attestazione anche
in altri autori. Si parlava nei versi precedenti della necromanzia ossia capacità di evocare i morti,
spiriti dei defunti perché l’aiutassero a prevedere il futuro. La maga è un’indovina che prevede il
futuro. In italiano è rimasto il termine presagio che ha la stessa radice; pre = prima e sagio = fa
riferimento al sagus/saga ossia indovina.

Presagio= qualcosa che viene detto prima che avvenga. Tutte queste operazioni sono volte a scrutare
il futuro.

Chiama giù dal rogo ancora fumante le ossa = operazioni macabre legate alla negromazia

v. 49 Iam tenet infernas….cateruas =quando parla di schiere infernali ,non dobbiamo applicarli alla
categoria cristiana dell’inferno, come sede di demoni, diavoli. Qui inferno significa aldilà, inferi.
Questo è l’orientamento tipico delle “ nequiai ossia orientamento dall’alto verso il basso quindi spiriti
beati che stanno in alto, spiriti non beati in basso. Qui per cateruas infernas non pensate alla schiera
di demoni di dantesca memoria, chiaramente sono le schiere degli animi che stanno sottoterra, negli
Inferi, nella Sheol, nell’Ade: tutte le anime in sostanza. L’escatologia per cui le anime dei beati
andavano nella Galassia (sede deputata ad ospitare le anime dei beati) è tardiva. Le prime descrizioni
escatologiche sono infernali: tutti gli spiriti buoni e non buoni sono collocati in basso, in un mondo
infero (=sotto terra), quello che noi chiamiamo inferno ma con un’accezione un po’ diversa.

Tenet: tiene in suo pugno, capace di governarli, di gestirli. Come?

Magico stridore: con versi striduli, che hanno questa capacità magica. Secondo qualche
commentatore questi versi sono i gemiti/lamenti delle anime dei defunti. Piras non crede perché
“magico stridore” è uno strumentale, quindi è lo strumento della parola cantillata /cantilenata che è
capace di fare azioni necromantiche, quindi non immaginate fischi, sibili o suoni infernali dei film di
Dario Argento. Si riferisce invece a voce roca cantillata della saga/maga. Che ora comanda di
riportare indietro il piede quindi di tornarsene nella loro sede infernale una volta asperse di latte.

Iam ….iam dal punto di vista linguistico sono in correlazione; non tradurre “già….già” !

Si discute sul significato di adspersas lacte: non dal punto di vista grammaticale (>oggetto di “referre
pedem” sempre col soggetto “cateruas infernas” ossia le schiere). Si fa riferimento alla Tebaide di
Stazio in cui direbbe che il latte sarebbe usato come strumento esorcistico per far allontanare le ombre
dei defunti. Per Piras è un’interpretazione poco plausibile perché il latte era un’offerta convenzionale,
canonica che si dava ai defunti. Per Piras una volta che hanno avuto la loro offerta latte, miele o vino,
allora portano indietro i loro passi verso la loro sede infernale. Non pensa che il latte sia usato come
acquasanta per esorcizzare le anime dei defunti. Sembra poco plausibile, quindi una volta che questi
defunti hanno fatto il loro dovere, ossia aiutare la saga/maga, c’è un’offerta di latte per i defunti quasi
per placarne, per ricompensarle del loro aiuto.
Dopo che passa la capacità di evocare le forze infernali, Tibullo descrive la capacità della saga di
agire sulle forze atmosferiche: e infatti dice sempre in ANAFORA “ cum libet…….cum libet”.

NB: v 49/50 iam…..iam

Parallelismo intenzionale

V 51/52 cum libet….cum libet

Vv 51/52 “convoca le nevi nella stagione estiva” quindi riesce a stravolge il decorso delle stagioni
anche questi sono motivi topici, anche in altri autori ci sono questi fenomeni perché sono
convenzionali del repertorio del mago.

Tristi: inteso come cielo scuro/triste, come in sardo “non sereno”: scaccia via le nubi dal cielo
imbronciato, poi convocat contrario di depellit =chiama le nevicate.

Orbe: orbita del sole, qui è usato come sinonimo di sol-solis. Sole estivo ossia di orbita solare della
stagione estiva

Sola….sola fa riferimento non solo alla capacità di usare le formule magiche(magia delle parole),ma
usare le erbe per fare i filtri e gli incantesimi. E’ un’ANAFORA. Tutto è intenzionale, sorta di
elencazione delle capacità magiche di questa maga. Da notare dal punto di vista della sintassi la
costruzione personale di dicitur: “sola saga” è soggetto, lei sola si dice possedere quindi costruzione
personale.

Dicitur usato come impersonale: si dice … soggettiva con accusativo e infinito. Altrimenti usate il
nominativo con infinito ossia costruzione personale: lei sola è detta possedere le magiche erbe di
Medea. In latino sono ammesse le entrambe le costruzioni. Ma dicitur con costruzione personale è
più elegante, più raffinata, sfiziosa scelta dal punto di vista dello stile.

Tenere: non solo tenere/possedere ma anche sapere usare/trattare le erbe male ossia le erbe cattive,
perché sono piegate ad un uso cattivo ossia realizzare filtri magici.

E’ indicata Medea perché è il prototipo di una maga della letteratura latina, era la maga della Colchide
che usa le sue arti magiche prima per conquistare Giasone, poi per vendicarsi di lui. Viene vista quindi
come icona della maga.

Hecate : divinità lunare legata con gli inferi, la sua iconografia è quindi di una sorta di donna con tre
teste perché corrispondono alle tre fasi della luna (primo quarto, secondo quarto e luna piena; non
viene considerato il novilunio perché la luna non si vede), prevede inoltre che avesse dei cani feroci.
Si dice che si trascinasse e che questa donna (maga) lei sola (!) sia stata capace di domare i feroci
cani di Ecate.

V 54 perdomuisse Piras non pensa abbia un valore aoristico, forse è stata capace una volta di
dominare i cani di Ecate quindi forse VALORE PERFETTIVO, infinito passato= domare fino in
fondo. Poi questi tempi composti con la preposizione” per” indicano l’azione realizzata
perfettamente, portata a compimento.
Hecates: desinenza di genitivo alla greca, anziché Hecatae perché i nomi greci possono avere o la
desinenza latina o possono anche avere quella greca: in questo caso è preferito ,non per ragioni
metriche( se usate il normale dittongo -ae avrebbe rispettato la struttura del verso)

Questa donna ha composto il “cantus”: quindi non solo usava le formule tradizionali, ma era capace
di farne anche di altre; parla di COMPOSITIO ossia metter insieme delle parole che abbiano un certo
risultato, parole che possono ingannare qualcuno. La magia consiste in questo: la maga ha fatto sì che
i “furta” tra Tibullo e Delia rimanessero nascosti, mentre se Delia avesse avuto un altro “furtum”(=
avventura) con un altro uomo, questo si sarebbe palesato, quindi vale solo per Tibullo, non vale per
gli altri rivali o amati.

V 55 quis fallere posses: fa riferimento a questo particolare esito della formula ossia gli invisibili
furta tra Tibullo e Delia.

Quis non è da quis-quid, ma forma arcaica dell’Ablativo del relativo che vale per QUIBUS. La
desinenza di dativo/ablativo plurale può essere: arcaica in -bus, oppure della 2 in -is. Qui abbiamo la
seconda.

“formule con cui potresti ingannare i ladri”. A chi si riferisce con questo “posse”? Secondo alcuni a
Delia, per Piras è un tu generico. Noi lo usiamo anche in Italiano per indicare l’impersonale, forma
usuale anche in latino per indicare un soggetto impersonale. Le lingue antiche hanno qualche
difficoltà ad esprimere il soggetto impersonale, si fa col passivo (per azione subita e non compiuta) o
lo si fa con altri espedienti (tu generico, astratto e non reale). Le lingue romanze si sono arrangiate
diversamente: per esempio in Italiano “si dice” (vuotato di significato, il si riflessivo), in francese “on
va/on dis” che deriva da “homo dicit”, persona statica, questo diventa “on dis” in Francese allo stesso
modo che nell’Italiano del 1300 quando Dante o Boccaccio dicono “l’uom dice” che corrisponde a
“si dice”. Uno di questi espedienti, che può essere abbastanza ambiguo è l’uso della 2 persona
generica……. Quindi a parte questa considerazione Piras non direbbe che il “posse” si riferisca a
Delia (come altre volte invece) ma sia impersonale.

C’è una formula magica “tu potresti ingannare”, non tanto Delia quanto i rivali in amore. I gesti che
accompagnano questa formula consistono: ripetuta, cantata 3 volte (il 3 è il numero sacro!) e poi
bisogna sputare per terra: anche lo sputare per terra (Piras ha trovato diverse testimonianze non
soltanto tra i classici, ma in ambito vicino-orientale) era un gesto tipico, in modo da rendere più
efficace la formula stessa.

V 56 cane imperativo di cano=cantare e infatti carmen è una parola/formula cantata, è un sostantivo


da cano.

Dictis carminibus è un Ablativo Assoluto

Ter despue=sputare. Il “per terra” non c’è, ma il de-spue indica dall’alto verso il basso e quindi per
terra. Il de- indica sempre o privazione o dall’alto verso il basso: se dico “despicio” = sto guardando
dall’alto verso il basso e infatti indica anche disprezzare. Quindi despuo=sputare verso il basso.

Nei versi successivi gli effetti di questa azione magica: render incredulo il rivale/custode (il coniunx
o il vir) dei versi precedenti: “egli non potrà credere” . Ille non viene nominato, è il coniunx o il vir o
promesso sposo o chi ha in custodia questa ragazza.
V 57> costruzione “credere cuiquam nihil” = credere in niente sul nostro conto: se qualcuno dovesse
dire -tizio e tizia insieme-, lui non ci crederà perché la formula lo rende cieco/sordo. L’esito di questa
formula magica è l’incredulità cui dovrebbe circondare questa ragazza.

Questo nihil più che un complemento oggetto va inteso come un ACCUSATIVO di RELAZIONE”
egli non potrà credere ad alcuno in niente (in nessuna notizia, pettegolezzo), de nobis=su di noi.

Il verbo CREDO sopporta diversi costrutti: a-quello originario, primitivo col dativo=credere alle
parole di qualcuno(come in questo caso),perché credo significa affidare come primo significato. La
stessa radice in sanscrito significa affidare anche un deposito, del denaro, un prestito: questo è il
significato dell’indoeuropeo primitivo; b-costruzione con l’accusativo=credere nell’esistenza di
qualcuno. Vedi Seneca quando dice “Credere deos”=credere nell’esistenza degli dei ossia credere
nell’esistenza di dio come atteggiamento di fede ed è un cristianismo che non troviamo mai negli
scrittori classici, mai Cicerone dirà “Credo in Iovem” perché è un costrutto tipicamente cristiano, di
fatto calco di un sintagma ebraico.

Poi dice “non crederebbe addirittura sibi=a se stesso, se “ipse”=se lui stesso come testimone, se
direttamente coi propri occhi “viderit”(sottinteso nos)=ci vedesse “in molli toro”=in tenero giaciglio.
La cosa interessante è che il tutto è detto in un contesto di realtà, invece il latino usa il perfetto
congiuntivo=viderit o il futuro anteriore: significa che la cos è possibile, non irreale, ma è una
probabilità che potrebbe accadere. Poi se sia perfetto congiuntivo o futuro anteriore si può discutere,
ma l’origine è comune di questi due tempi, nel senso che il futuro anteriore è un derivato del perfetto
congiuntivo cioè di un antico congiuntivo aoristo; quindi è un problema di lana caprina: ma sia che
si tratti di perfetto congiuntivo sia di futuro anteriore sta enunciando una concreta possibilità che la
cosa possa avvenire.

V 59 “tu però stai lontana dagli altri divari, spasimanti, infatti lui (vir, coniunx o custode) vedrà tutti
gli altri furta (=in senso latino) non si accorgerà di nulla solo nel mio caso (perché sono solo io protetto
da questo filtro) quindi tieniti alla larga dagli altri: sembra che Tibullo non si fidi totalmente della sua
Delia.

Abstineas congiuntivo esortativo ossia tenersi alla larga, lontano da altri.

Verbo sentire= lo abbiamo trovato nell’epigramma di Catullo vedi Quinto Metello Celere, dove
Lesbia parla male di Tibullo: il “fesso” non si accorgeva di nulla (era il marito) e usava questo verbo
sentire però il contesto è simile perché si parla sempre di qualcosa che non funziona.

Vedi le ELISIONI al v 58 si in molli uiderit

V 60 omnia de me_uno.

V 61 credam= sorta di obiezione da parte di Delia, si potrebbe mettere il punto di domanda dopo il
quid,dipende dalla ragazza. E’ un CONGIUNTIVO DUBITATIVO = “dovrei crederci?” Spesso
anche in Cicerone Quid=e che? E come? Ma no? Una specie di esclamazione: E che? Dovrei crederci
forse? Esprime quasi una perplessità della ragazza. E la risposta? Certamente

Nempe avverbio asseverativo che corrisponde al nostro “si, certo”. In latino il si affermativo non
esiste come in lingue moderne: si usa o la ripetizione del verbo o “yes I do” usa avverbi asseverativi
come nempe, imo, uta. Poi sappiamo che il si italiano e spagnolo deriva dal sic latino; ma il sic in
latino non viene usato come il si italiano.

Si rifà all’autorità della maga stessa, ha detto che può sciogliere, vanificare i miei sentimenti d’amore(
quindi se vuole può far sparire i miei sentimenti per te): come? Con due strumenti principali: formule
magiche e filtri amorosi, erbe. E mi ha purificato taedis = con delle torce. Sappiamo che purificare è
anche con rito magico vedi la prima elegia “lustrati”

Il problema interpretativo riguarda questo “taedae”: sono propriamente le fiaccole nunziali. Quindi
alcuni dicono: ha senso che Tibullo venga purificato con fiaccole nunziali? Dipende da come noi
intendiamo tutto il gesto, il contesto. Se noi riferiamo questa espressione al fatto che Tibullo vuole
legarsi per sempre con Delia, allora l’uso delle fiaccole potrebbe essere un modo per rendere definita
questa passione, questo sentimento d’amore: perché le fiaccole si usano per legittimare il
connubium=matrimonio. Se invece questo questa espressione viene legata al concetto di sciogliere i
sentimenti d’amore le fiaccole nunziali sono usate quasi come strumento omeopatico, usa una fiaccola
per liberarti da questa passione amorosa. In ogni caso Piras pensa che queste taedae sono fiaccole
nunziali, sia che siano utilizzate a favore della passione amorosa, sia che vengano utilizzate come
strumento esorcistico per dissipare, per vanificare questa passione. La maggior parte dei
commentatori non è d’accordo.

Si fa anche un sacrificio “in una notte serena”; queste operazioni vengono fatte in determinate
condizioni del ciclo lunare: la luna dev’essere ben visibile(vedi tutt’ora per la magia bianca, per
eliminazione del malocchio verrà detto che l’operazione verrà fatto quando c’è la luna piena) , la
notte dev’essere serena, che renda visibili le stelle.

V 64 concidit ostia pulla =vittima scura che viene sacrificata in onore degli dei preposti

Con-cado una vittima cade viene sacrificata in onore degli dei, ha significato passivo per immolare,
quindi concidit=immolata est o immolatur.

Hostia =vittima, probabilmente una pecora

Pulla =indica il colore, magari una pecora dal velo scuro.

In latino ci sono 3 forme di pullus. 1- diminutivo di puer>puerus>pullus ossia pulcino, bambino, un


pullo di gabbiano. 2- diminutivo di purus=pulito. 3- livido ossia bianco che tende al blu, al livido
collegato al greco pellos ossia scuro in riferimento a capi di bestiame/pecore. La radice è quella che
troviamo in “pallidus” che in latino è quel bianco tendente al bluastro; radice che troviamo in
“palumbes”con apofonia=colombaccio col manto scuro.

E’ una parola che ha una storia particolare. Qua il termine pulla è utilizzato quasi come un tecnicismo,
la vittima dev’essere pulla, è il termine che doveva connotare le vittime che si dovevano sacrificare.

Ad magicos deos o presso gli dei della magia che favoriscono queste operazioni magiche. Alcuni
pensano alla vicinanza dei templi di questi dei, altri pensano che venga immolata in onore di questi
dei. Sono tutte plausibili e ragionevoli
Prima sta dicendo quasi come se fosse un avvertimento che questa maga è capace di liberare Tibullo
dalla passione amorosa che lo avvince. Si poi dice che la valuta a solo come possibilità reca dalla
maga non tanto perché sparisse l’amore ma per ottenerne uno amore ricambiato duraturo.

#Io non pregavo che l’amore svanisse tutto ma che fosse reciproco e non vorrei poter fare a meno di
te# una dichiarazione d’amore

Notate 2 cose interessanti: Questi congiuntivi abesset e mtuus esset sono in antinomia. Dipendono
paratatticamente da orabam (ut sottinteso) io non pregavo che l’amore svanisse ma che fosse
corrisposto reciproco vedete che non abbiamo l’ut absum=aseenza mutus esset un

Né io vorrei far a meno di te

Velim non è congiuntivo paratattico di orabam che ne regge i due sopracitati è preposizione
indipendente congiuntivo di cortesia

Careo mancare anche in un rapporto amoroso se ci pensate bene non ha supino forse. Nel vocabolario
mette cariturus participio futuro. Perché? È castus

Castus ha assunto un chiaro valore aggettivale colui che è privo di marito o moglie. Il verbonon è
messo a caso qua lui non vuole rimanere casto. Fa riferimento alla castità.

Nei versi successivi c’è una tirata contro coloro che preferiscono partire in spedizioni militari a casto
di stare lontani dalla donna amata se uno vuole premi e bottini vuole essere elogiato.. io no tengo la
mia donna come compagna

#Fu veramente di ferro colui che pur potendoti avere ha preferito da stolto andare in cerca di bottini
e armi. egli conduca pure dinnanzi a sé le schiere sconfitte dei ciclici e ponga il suo campo militare
in una terra conquistata e tutto rivestito di argento e oro cavalchi sul suo destriero per essere elogiato#

C’è questa contrapposizione tra le vite del soldato e del poeta. Quando parla di Ferreus77 ha tutta una
sua simbologia Non solo ha cuore duro ma Ferrum è sinonimo di arma Dello stesso ferro di cui sono
fatte le armi che usa per combattere è uguale la mancanza di sensibilità. D’altra parte getta l’ombra
sul metallo stesso con sui le armi sono costruite

Colui che pur potendoti avere posset congiunzione concessiva ha preferito da stolto per seguire bottini
e armi e le spoglie dei nemici sconfitti

Egli conduca pure. agat congiuntivo concessivo licet nasce come verbo impersonale qua diventa
avverbio che rimarca il valore concessivo conduca pure!

Licet ha tre significati:

1.O lo prendiamo come “consentito” e può dipendere una completiva senza ut

È possibile che egli conduca davanti a sé le schiere dei nemici

Anche il valore concessivo scaturisce

2 licet come congiunzione concessiva benché sebbene ma la reggente non è evidente


3 licet come avverbio come abbiamo fatto noi egli conduca pure.

V69 victas è una lezione che funziona perché sono le schiere sconfitte da vinco. Ma c’è qualche
filologo che legge vinctas in catene e noi sappiamo molto bene dalle fonti che gli eserciti sconfitti
venivano portati in catene nei contesti trionfali (vincio=legare) victas contiene la sconfitta.

Ante è davanti a sé perché il generale era dietro al trionfo., bottino. non era per lui ma per le divinità
che avevano favorito l’operazione.

Non c’è nessun riferimento alla campagna di Cilicia con Messalla, non c’è invidia. Gli rimase sempre
molto amico. gli altri quando lui rimase a Corfù andarono e tornarono ricchi è un esempio di
campagna militare. Un fatto recente ma non c’è intento polemico

Ponat in capo.. Poi chi arriva deve costruire il suo accampamento et in anastrofe, va prima di poneat

Sembra ci sia un Hysteron proteron figura retorica per cui viene ribaltato l’ordine cronologico delle
azioni. Qui c’è prima la processione trionfale poi mette gli accampamenti: è chiaro che è il contrario.
Aver conquistato la popolazione li porta in trionfo. Ponat e agat congiuntivi concessivi

Classica Martina, richiamo della prima elegia. Gli accampamenti di Marte.

Tutto intessuto di argento e oro cavalchi con fregi e medaglietta sieda sopra letteralmente su un rapido
destriero per essere guardato.

Contexo tessere il soldato tessuto nell’oro e nell’argento l’anafora rende solenne il verso, in italiano
ripetuto risulta duretto

Conspiciendus è un bel gerundivo rende molto l’idea da conspicio da guardarsi. La cosa interessante
è che in un verso breve ci sono 5 sillabe in una parola inserita in un pentametro Ha la capacità di
rallentare il ritmo come si sentisse il cavaliere che avanza una parola sesquipedale che serve a
rallentare.

Ora si parla della contrapposizione del poeta che a tutto questo preferisce la sobria vita dei campi lo
fa con contrapposizioni mirate

#Io stesso se soltanto potessi aggiogare, o mia Delia i, buoi insieme a te e pascolare il bestiame nel
bel solito monte e finché ci sia consentito abbracciarci in un tenero abbraccio sarebbe così dolce il
sonno anche sulla dura terra#

Le contrapposizioni tra soldato e agricoltore

1Il militare porta avanti le schiere incatenate dei ciclici il contadino pungola I buoi invece porta avanti
il carro dei buoi

2 La terra che il soldato utilizza per piantare l’accampamento militare il contadino la utilizza per il
pascolo delle greggi e la per dormire la notte

3Il militare è cinto d’oro e d’argento il contadino che stringe la donna amata

La prima “si modo” se soltanto io potessi aggiogare i buoi con te mia Delia in vocativo con aggettivo
in iperbato per accostare mea con tecum per indicare un rapporto molto stretto. l’abbiamo visto anche
in Catullo un procedimento codificato della poesia erotica. Poi pascolare il bestiame nel solito monte.
Quello familiare! Attenzione perché Insolito è scritto attaccato nei codici. Dipende dalla nostra
sensibilità. ma dire nel solito monte è più affettivo e familiare piuttosto che una montagna in cui non
si è mai andati, insolita.

L’ambiente familiare caldo e domestico va verso la prima lezione (in solito)

È fintanto che è consentito (che il destino ce lo consente) trattenerti con le braccia affettuose.

Le braccia sono lacertis tenere ma non è che sia perché ha le braccia molli perché sono quelle di
Tibullo ma sono affettuose perché è l’azione in sé

Se soltanto potessi fare questo il sonno mi sarebbe dolce placido anche su una terra disagevole La
nuda terra come diciamo noi.

Periodo ipotetico possibilità:la protasi che comincia da si modo con leggera sfumatura concessiva
che prosegue fino a 75 poi protasi che si conclude tutta nel verso 76.

Trattandosi di contadini Certo che è scomodo il terreno su una terra non coltivata. il sonno è placido
perché non è come quello di chi dorme nell’accampamento. Questo pezzo è in totale contrapposizione
con la prima in maniera assolutamente antitetica

cosa serve avere ricchezza gloria se poi uno deve dormire solo la notte o peggio ancora perché l’amata
lha lasciato perché ha deciso di partire

#A cosa giova dormire su un giaciglio di porpora senza una amore corrisposto quando arriva una
notte che deve essere vegliata nel pianto (con il pianto) in questo caso allora né le piume né le coperte
ricamate potrebbero indurre al sonno e neanche il mormorio di un acqua tranquilla#

Paronomasia tra torus giaciglio e tyrus indica la città di Tiro monopolio dei fenici industria di porpora.
Le tele venivano imbevute con la secrezione di un mollusco murex brandarius una secrezione rosso
scuro messa in una vasta tela in ammollo poi lavorTopoi vendute a caro prezzo un letto ricco

Sine amore secundo senza una amore favorevole

Sequor agg secundus un amore che ti segue favorevole e felice.

i venti secundi son quelli favorevoli alla navigazione mi vien in mente la battuta dello studente cha
fa arrivare Cesare in Gallia in venti secondi ma poi con venti favorevoli è un Apax relativo non lo
usa altre volte. quando arriva la notte che deve essere vegliata nel pianto perché la donna amata non
ti ama più solalliterazione vigilanza venit. Vigilare usato di solito in maniera in maniera intransitava
ma visto che abbiamo un gerundivo va inteso in senso transitivo deve essere passata svegli fletu nel
pianto ablativo di modo

Il sonno non viene allora: Le comodità le plume i cuscini di piuma manufatto tipico dell’aristocrazia,
le coperte dipinte ma anche ricamate e neanche il mormorio di una acqua tranquilla alcuni pensano
faccia riferimento a una moda delle case di far passare piccoli ruscelli nella camera da letto cosa
pacchiana ma anche Seneca lo cita
Le camere da letto davano nell’impluvium cioè questo: un cortile interno dove c’era una vasca che
raccoglieva acqua piovana. Spesso dotato di una fontanella, uno zampillo. Le stanze che non avevano
finestra ma solo la porta che dava al cortile interno.

LEZIONE 23 (09/12/2020) Giorgia Solinas

Siamo arrivati al v 81 della seconda elegia di Tibullo, dove Tibullo diceva appunto che non serve a
nulla essere ricchi se manca l’amore di una donna amata. Dice, io non sono stato blasfemo nei
confronti della divinità quindi non vedo perché Venere debba negarmi l’amore e la consolazione della
donna amata.

Leggiamo dunque:

Num Veneris magne violavi numina verbo,

et mea nunc poenas impia lingua luit?

Num feror incestus sedes adisse deorum

Sertaque de sanctis deripuisse focis?

Traduzione: Forse ho offeso il nume della grande Venere con una parola e ora la mia empia lingua
ne sconta, forse si racconta che impuro sia penetrato nelle sedi degli dei e abbia strappato le ghirlande
dai santi focolari?

Nel verso 81 c’è un problema di critica testuale, va benissimo perché la grande venere ma alcuni
commentatori dicono l’aggettivo magnus non è un epiteto comune per la divinità di Venere quindi
alcuni pensano che non sia da leggere magnae ma magno, quindi riferito a verbo che viene in ultima
posizione. A me questo Veneris magnae non mi dispiace.

“Numen”: è la divinità che si esprime attraverso dei segni, numen è derivato del verbo nuo che
significa appunto accennare, fare un cenno. È chiaro che poi diventa la divinità, qua abbiamo il plurale
semplicemente per una questione metrica.

“Num…luit?”: Vedete che la interrogativa è retorica ed è introdotta da num sapete che ci sono quelle
interrogative retoriche con la risposta già nota (negativa). Poi un altro fatto che non può essere
attribuito a Tibullo è di recarsi al tempio e strappare le corone di fiori, al verso 83 abbiamo la
costruzione personale di fero che significa narrare come dico che regge l’infinito adisse.

“Incestus”: non lo intendo come non aver commesso incesto come fa Della Corte, per noi l’incesto è
una cosa precisa, avere rapporti tra consanguinei. In latino incestus è il contrario di castus, puro non
solo sessualmente. Incastus poi subentra l’apofonia latina che incestus. Anche Lucrezio lo usa per
indicare l’impuro, empio. Questo mi dà conforto.
“Deripuisse”: è il composto di de+rapio, strappare, de significa dall’alto, quindi queste corone
strappate dalla loro sede alta.

“Serta”: sono le corone di fiori, l’abbiamo già visto in Tibullo.

“De sanctis focis”: dai sacri focolari, lo sapete che nei templi c’erano quei fuochi perpetui alimentati
quotidianamente dai sacerdoti, è una sorta di variatio sinonimica rispetto al sedes deorum del verso
precedente.

Non ego, si merui, dubitem procumbere templis

Et dare sacratis oscula liminibus,

non ego tellurem genibus perrepere supplex

et miserum sancto tundere poste caput.

Traduzione: Se io l’avessi meritato, io non esiterei a prostrarmi ai templi e dare baci alle sacre soglie

Non esiterei a strisciare supplice con le ginocchia e a pestare la mia testa misera nel sacro stipite.

“Non dubitem”: Sono tutte manifestazioni un po’ iperboliche per indicare l’espiazione e il tutto
espresso con un periodo ipotetico della possibilità. Poi da dubitem dipendono gli infiniti procumbere,
dare, perrepere e tundere. Dubito con l’infinito corrisponde alla nostra perifrasi ‘non esiterei a’.

“Si merui”: è una protasi di un periodo ipotetico della irrealtà con un verbo che, però, rientra tra quelli
usati dal primo tipo, ma voi sapete che le forme dell’indicativo ogni tanto sono usate come falsi
condizionali.

“Procumbere”: da procumbo, fa riferimento alla proscinesi che è quella pratica orientale di inchinarsi
davanti ad un sovrano. Qua equivale a prostrarsi davanti ad una divinità.

“Sacratus”: dà luogo a sagrato in italiano. Usa oscula, non conosce il basium catulliano. Notate
l’anafora non ego, non ego.

“Perrepere tellurem”: perrepere significa ‘strisciare’. Regge l’accusativo perché c’è per. Anche
questo di strisciare con le ginocchia sul tempio, era tipico della adorazione verso la divinità. Altro
atteggiamento del penitente è quello di sbattere la testa nel sacro stipite, anche Cicerone lo descrive
nel De divinatione.

Qui si riferisce ad un interlocutore fittizio, at si usa per degli attacchi fittizi, avevo ricordato l’attacco
di Priamo contro Neottolemo nel secondo libro dell’Eneide. Fa da starter.

At tu, qui laetus rides mala nostra, caveto

Mox tibi: non uni saeviet usque deus.


Vidi ego, qui iuvenenum miseros lusisset amores,

post Veneris vinclis subdere colla senem

et sibi blanditias tremula conponere voce

et manibus canas fingere velle comas,

stare nec ante fores puduit caraeve puellae

ancillam medio detinuisse foro.

Traduzione:

Ma tu che lieto, ridi delle nostre sventure, bada a te stesso presto, la divinità non si accanisce sempre
verso una sola persona. Io stesso vidi un vecchio che sottometteva il collo alle catene di Venere per
aver preso in giro gli amori infelici dei giovani. Componeva da solo delle parole dolci con la voce
tremante, volersi acconciare i capelli canuti con le proprie mani e non si vergognò di stare davanti
alle porte e di stare in mezzo alla piazza con l’ancella di una cara ragazza.

In un vecchio tutto ciò diventa ridicolo. Venere anche se tardi si vendica di chi si ride degli amori
infelici.

“Caveto mox tibi”: tutta la frase è compendiaria, perché noi traduciamo letteralmente “bada presto a
te”. Cosa vuol dire? Bada che la stessa cosa non capiti presto a te. Ecco perché è compendiario.

“Caveto”: è un imperativo futuro, non è comune in poesia, esprime una carica anche eccessiva, in un
linguaggio alto, quasi sacrale, come un avvertimento.

“Mox tibi: non uni saeviet usque deus”: poi c’è questa frase, che è un po’ una gnome: “La divinità
non si accanisce sempre contro una sola persona”. Uni, è un dativo, ricordatevi che unus, solus, totus
hanno al genitivo e al dativo le desinenze pronominali. Anche come significato si avvicinano molto
a dei pronomi quasi determinativi.

“Saevire”: significa accanirsi quasi irrazionalmente con conseguenze disastrose.

“Vidi ego”: sono proprio testimone oculare del fatto, che un vecchio che in precedenza si era fatto
beffa degli amori infelici dei giovani, Incappare in età avanzata in una cotta per una ragazzina ed
avere degli atteggiamenti ridicoli per uno che ha i capelli canuti. Poi questo vidi regge tutta una serie
di infinitive: “post Veneris vinclis…”, “sibi blanditias tremula componere voce”, “fingere velle
comas…”.

“Qui”: che ha come antecedente senem, questa relativa è impropria perché il verbo è al congiuntivo,
piùcheperfetto congiuntivo di ludo. Se vogliamo esplicitare questa relativa impropria dovremmo
pensare sicuramente ad una causale: “poiché la sua follia è stata causata dalla sua presa in giro”.
Notate come la vendetta della divinità è tarda, non arriva subito, infatti c’è post (avverbio).
“Subdere colla”: è una espressione chiaramente poetica, tipico degli schiavi che devono piegare il
collo alle catene o degli animali che devono essere aggiogati.

“Vinclis”: notate la forma sincopata per vinculis, il tutto per motivi metrici. Vinculis darebbe esito a
un cretico che non è possibile da inserire nel pentamentro.

“Tremula voce”: appunto perché è vecchio e non ha più una voce stentorea tipica dei ragazzi.

“Velle fingere”: velle potrebbe sembrare pleonastico invece è anche un po’ tragico. Lui vuole, ma
non può perché comunque solitamente i vecchi hanno i capelli radi e bianchi, è una pretesa senza
esito. La volontà non corrisponde alla realtà.

“Nec puduit”: sta raccontando una cosa realmente accaduta, quindi usa giustamente l’indicativo, poi
lui stesso è costretto a fare un paraclausitiron, cosa che probabilmente lui stesso derideva da giovane.
Poi si accinge a fermare nella piazza la servetta della ragazza affinché possa intercedere, una scena
che richiama molto la commedia.

“Detinuisse”: questo è il solito infinito con valore aoristico, dovuto sempre a motivi metrici.

Il primo distico che abbiamo letto è sempre riferito al vecchio patetico che viene trattato come un
folle e su di lui vengono attuate anche delle pratiche di scaramanzia tipiche del mondo antico ma non
solo. L’ultimo distico invece si riferisce a Venere: chiede di risparmiare Tibullo che è sempre stato
fedele a lei.

Hunc puer, hunc iuvenis turba circumterit arta,

despuit in molles et sibi quisque sinus.

At mihi parce, Venus: semper tibi dedita seruit

Mens mea: quid messes uris acerba tuas?

Traduzione: I ragazzi e i giovani lo circondano in una ressa stretta e ciascuno sputa nei lembi della
propria veste. Ma invece abbi pietà di me, il mio animo sempre fedele è tuo schiavo. Perché crudele
vorresti bruciare le tue stesse messi?

“Hunc…sinus”: dunque, sono degli atteggiamenti di scaramanzia. Anche altre fonti testimoniano che
quando passava un folle i ragazzi erano soliti sfregarsi intorno a lui perché aveva l’effetto di
esorcizzare il malocchio.

“Circumterit”: io non so se vada scritto così attaccato oppure circum terit. Il problema è che il verbo
circumterere non è attestato. Si può pensare che questo circum sia semplicemente una preposizione.

“Turba arta”: è un ablativo di modo.

“Hunc…hunc”: Osservate l’anafora di hunc, hunc.


“Uris”: io lo tradurrei come una sorta di condizionale. L’elegia si conclude con una domanda aperta,
ma con la fiducia che questa divinità lo tuteli sempre, visto che lui non le ha mai mancato di rispetto.

III Elegia.

La terza elegia, molto nota, un po’malinconica in cui il poeta esprime la sua malinconia per non aver
potuto seguire Messalla in Cilicia in quanto si era ammalato e si era fermato a Corcira. Lì teme per la
sua salute, non era in condizioni ottimali.

Vedete che si rivolge a Messalla, Messalla Corvino che è un po’ il capo della spedizione e alla cohors,
la cohors non è tanto l’esercito che Messalla guida, ma è un termine che si usa per indicare il seguito
del generale, si portavano dietro anche intellettuali e scrittori.

Ibitis Aegaeas sine me, Messalla, per undas, o utinam memores ipse cohorsque mei.
Me tenet ignotis aegrum Phaeacia terris, abstineas auidas, Mors, modo, nigra, manus.
Abstineas, Mors atra, precor: non hic mihi mater quae legat in maestos ossa perusta sinus,
non soror, Assyrios cineri quae dedat odores et fleat effusis ante sepulcra comis,
Delia non usquam; quae me cum mitteret urbe, dicitur ante omnes consuluisse deos.

Traduzione: O Messalla, voi andrete senza di me per le onde dell’Egeo, o volesse il cielo che tu e la
tua coorte vi ricordiate di me. La Feacia mi trattiene malato in una terra sconosciuta. O morte nera,
tieni lontana da me le tue mani avide. Tieni lontana, o morte tenebrosa, ti prego: qui non c’è la madre
(sottinteso mia) che possa raccogliere le ossa bruciate nel suo triste grembo. Non la sorella, che
cosparga dei profumi assiri sulla mia cenere, che possa piangere con i capelli sciolti innanzi alla mia
tomba. Non c’è neanche Delia, la quale mentre mi congedava dalla città, si dice che abbia prima
consultato prima tutti quanti gli dei.

È bellissimo questo incipit, senza preambolo si rivolge direttamente ai compagni, è un atteggiamento


tipico anche della elegia, modelli simili in Orazio.

“Utinam”: si usa per esprimere un desiderativo. Vedete che la frase è ellitica del verbo.

“Phaeacia terries”: l’isola è quella di Corfù che viene identificata come la terra dei Feaci dove sbarcò
Odisseo e incontrò Nausicaa.

“Abstineas”: ai versi 4 e 5 usa in anafora un congiuntivo esortativo che significa tenere lontano.

“Avide”: deriva da aveo che significa bramare, che vogliono ghermire quante più anime possibile.

“Modo”: significa per adesso.

“Ater”: è più crudo come significato rispetto a nigra, e poi spiega il perché la morte debba stare
lontana.
“Quae legat”: è una proposizione consecutiva.

“Mestus”: non è riferito al grembo, ma alla madre ovviamente, quindi siamo nell’ambito della figura
retorica dell’enallage o ipallage.

“Non soror…comis”: la proposizione è sempre impropria. Erano molto preziosi questi profumi,
come il cinnamomo. Era usanza degli antichi era anche la sciatteria di non acconciarsi i capelli in
segno di lutto.

“Non usquam”: noi traduciamo come nemmeno Delia, in realtà nusquam significa in nessun luogo.

“Mitteret”: sarebbe emitteret tanto che qualche editore lo legge direttamente così.

“Dicitur”: al verso 10 abbiamo la costruzione personale del verbo.

“Ante”: è avverbiale, cioè prima che Tibullo partisse, tutto iperbolico perché lo dice dopo abbia
consultato solo Giove.

Qui Tibullo è abbastanza tenero, si immagina che Delia fosse disperata quando Tibullo era in viaggio
invece noi sappiamo che si fosse consolata con un altro uomo.

Illa sacras pueri sortes ter sustulit: illi rettulit e trinis omina certa puer.
Cuncta dabant reditus: tamen est deterrita numquam, quin fleret nostras respiceretque uias.

Traduzione: Essa levò per tre volte le sacre sorti del ragazzo: e per tre volte il ragazzo le riferì presagi
sicuri (si intende che sarebbe tornato). Tutti davano il ritorno: mai è stata distolta dal piangere e a
guardare con nostalgia al nostro viaggio.

A Preneste c’era questo santuario con questo ragazzo che aveva questi pezzi di legno, specie di dadi,
dove c’erano scritte delle parole. Venivano lanciati in aria e quando cadevano a terra si componeva
la frase ed era un po’ il responso che si dava.

LEZIONE 24 (10/12/2020) Gianluca Aru – Franca Zara

(seconda parte) Versi 27-44

Ora o Dea, ora vieni in mio aiuto, infatti molte tavolette votive dipinte nei tuoi templi dimostrano che
tu sei capace, in grado di guarire cosicchè la mia Delia, sciogliendo le sue preghiere votiva possa
sedere lì in abiti di lino dinnanzi alle sacre porte del tempio. Allora vediamo un po’. La divinità è
sempre Iside e quindi diciamo che Tibullo sembra quasi rivolgersi a questa divinità pur essendo un
tradizionalista ma è come chi non sa a quale santo votarsi e essendo in difficoltà cerca qualsiasi mezzo
per poter ottenere una grazia. Vedete il verbo “sucurro” vuol dire proprio “correre in aiuto a qualcuno”
infatti vedete regge il dativo, il concetto di “correre” è un po’ tipico della richiesta d’aiuto, non so se
avete presente il verbo greco boetheo: boao vuol dire gridare e theo vuol dire correre cioè correre
gridando in aiuto di qualcuno. Notate in questo primo emistichio anche l’anafora che intensifica la
richiesta: nunc…nunc , poi c’è questo piccolo inciso che descrive una nota della religiosità popolare
che continua ancora oggi. Infatti qui fa riferimento a dei quadretti votivi dipinti e appesi nei templi
che insegnano la capacità taumaturgica e soprattutto terapeutica della divinità. Non so se voi avete
esperienza di questo…ma io ricordo , nel mio paese, una chiesa dedicata a S. Lorenzo dove c’erano
appunto dipinti dei quadretti di arte popolare, fatte dalle persone che avevano ricevuto una grazia cioè
erano ex voto. Tibullo raffigura questa stessa consuetudine per il suo tempo quindi multa tabella picta.
Qui abbiamo il plurale collettivo, cioè numerosi quadretti . Templis tuis al verso 28 è un Ablativo di
luogo, “mederi” vuol dire “che possa guarire”, guardate che medeor è un verbo deponente e ha un
valore attivo, ut introduce una consecutiva .La mia Delia sciogliendo le voci cioè le preghiere votive
possa sedere “lino tecta” come atto di devozione nelle ante dei templi ricoperta di lino. Cosa vuol dire
:”coperta di lino” ? il lino era una veste bianca che indicava purezza rituale. In Egitto il lino era usato
per esempio per seppellire i morti quindi la devozione si mostrava anche attraverso l’abbigliamento
in particolare con questo tessuto. “ Ante sacras fores” dinanzi alle sacre porte del tempio. Il tempio
era probabilmente un saccello piccolino e la maggior parte dei fedeli era costretta a sostare all’esterno.
Noi in realtà non abbiamo testimonianze dirette dei templi di Iside al tempo di Tibullo. Può darsi che
questi rituali avvenissero anche all’aperto ecco perché stanno seduti dinanzi alle sacre porte. Versi 31
e segg. Al giorno sciolta la chioma debba cantare in tuo nome le tue lodi spiccando tra la folla
egiziana. E’ un altro atteggiamento di devozione cantare le lodi due volte al giorno. “sciolte le
chiome” è un altro atto di umiltà , “insignis turba in Phario” insignis cosa vuol dire? . Noi usiamo
quest’aggettivo in maniera generica ma in latino “insignis” indica qualcosa che è messo in evidenza,
in rilievo, che rappresenta cioè un segno In-signis cioè che spicca in mezzo alla folla egiziana. Turba
in latino non ha il significato negativo che assume in italiano o latino tardo. Turba è semplicemente
una folla , una moltitudine di persone invece Pharios significa “di Faro” isoletta che sta di fronte ad
Alessandria , e da il suo nome anche al faro in latino. “In Phario” vuol dire semplicemente” egiziano”.
Bis die =questo è un Ablativo detto complemento distributivo, non si dice in latino “semel in anno
licet insanire” ma “ semel anno licet insanire” , si esprime in Ablativo semplice . “ Resoluta Comas”
invece è un accusativo di relazione = sciolte le chiome , qua non abbiamo il verbo semplice solvo ma
resolvo probabilmente per questioni metriche. Il “tibi” del verso 31 si riferisce a Iside . Questo verso
mi ricorda il Vi libro dell’Odissea quando viene descritta Nausicaa in mezzo alle ancelle , Omero usa
un’espressione simile . Tutti questi aggettivi : insignis, esimius, ergregiu sono tutti termini che
indicano eccellenza infatti egregio è colui che spicca fuori dal gregge ex-grege, esimio ex-emo perché
si prende da fuori.

Versi 33-35

A me invece capiti di celebrare non tanto Iside quanto i padri Penati , le divinità domestiche della
famiglia, e rendere ogni mese incensi all’antico Lare. Qui c’è la contrapposizioni tra riti forestieri che
inquietavano i Romani tanto è vera che nell’epoca giulio-claudia vi saranno dei decreti di espulsione
degli adepti a quelle religioni orientali. “Contingat” è un congiuntivo desiderativo, capiti di venerare
i Penati della patria. Mi pare che “Penates” si trovi solo qui in unica volta perché Tibullo si dimostra
molto devoto ai Lari e non ai Penati ma qui diciamo che Lares e Penates sono quasi equivalenti, non
c’è alcuna differenza, fatto stà che si tratta di divinità domestiche, sono antichissime divinità che
derivano da un sostrato animistico, e mi capiti anche di offrire l’incenso ogni mese all’antico Lare.
Da notare “reddere” = offrire. Ricordate sempre lo spirito della religione romana di tipo contrattuale,
dout des, facio ut facias, cioè io ti restituisco una cosa che mi hai dato. “Menstrua” qui ha valore
predicativo non sono gli incensi mensili ma io restituisco mensilmente gli incensi. Poi nei versi
successivi vediamo che c’è una bellissima descrizione dell’età dell’oro, età felice. E’ uno dei temi
caratteristici della poesia elegiaca in generale, la troviamo per esempio nella quarta Bucolica di
Virgilio. Quando poi Giove spodestò Saturno si inaugurò l’età del ferro con le guerre e la fatica.

Versi 35-40

Oh come si viveva bene sotto il regno di Saturno prima che la terra si aprisse a lunghi viaggi e la nave
non aveva ancora sfidato le onde azzurre del mare e non aveva ancora offerto il suo seno dispiegato
ai venti né il marinaio errabondo in cerca di guadagni in terre ignote aveva stipato di merce forestiera
la sua nave. C’è una descrizione compendiata dei benefici e dei vantaggi dell’età di Saturno. Saturnus
è una divinità della terra ed è perché sotto il suo regno la terra da i suoi frutti senza essere lavorata, è
la divinità stessa che offre le sue ricchezze mentre Giove è una divinità celeste quindi sotto il suo
regno la terra smette di dare i suoi frutti. “Saturno rege”=ablativo assoluto, sotto il regno di Saturno
quando si stava felici quando la terra “patefacta est” cioè si spalancasse, il verbo patefacio al passivo
fa patefio è un verbo che significa dispiegarsi ampiamente e lo troviamo anche in Lucrezio. Nel
prologo del De Rerum Natura dice che “la primavera si spalanca”, poi parla dei lunghi viaggi per
mare e sembra di ricordare Esiodo che dice che l’uomo non è fatto per viaggiare per mare ma è un
animale terrestre, allora il mare è quasi una sfida alla divinit , una tentazione divina. Quando poi parla
di viaggi parla soprattutto di viaggi di mercatura, di commercio, oltre che di viaggi per spedizioni
militari e il riferimento che c’è dopo è appunto riferito al marinaio errabondo che cerca delle merci
straniere col pinus . Il “ pinus “è la barca , la nave non aveva ancora sfidato le onde del mare, “pinus”
è una sineddoche perché indica la materia per la nave ed effettivamente le navi anticamente erano
fatte col legno di pino almeno il fasciame perché è leggero e quindi scivola tranquilla nell’acqua. E
inoltre è resinoso e impermeabile all’acqua mentre la carena è fatta di legno di castagno, un legno
molto resistente. Il verbo “contemno “ significa disprezzare però quasi nel senso di sfidare, disprezzo
qualcosa perché ne sto sottovalutando le capacità, navigare è quasi una ibris cioè un gesto di
tracotanza. La nave non aveva ancora offerto il “sinus” con cui si fa riferimento alla sinuosità della
vela spiegata al vento. Soprattutto le vele latine si gonfiavano tanto ecco perché il termine sinus.
“Effusus” da effondo vuol dire “che si dispiega”. “Ventis” può essere Dativo d’agente oppure un
Dativo di termine o interesse. Al verso 40 La forma “navita” è una forma arcaica che troviamo pure
in Lucrezio, la forma classica è “nauta” , navita porta in sé navis =nave . L’aggettivo che fa riferimento
a navita è vagus , vedete l’iperbato fortissimo mitigato dal fatto che vagus ha qui funzione predicativa.
Va ricollegato al “vagari” che vuol dire errare e potrebbe tradurre in italiano col gerundio errando.
“Repetens compendia” al verso 39 = cercando, il participio presente ha quasi valore finale, lucri
(compendio è ciò che viene messo nella bilancia=guadagno) in terre sconosciute non aveva ancora
stipato ( letteralmente premuto) la nave di merce forestiera( Ablativo strumentale). “Natis” vuol dire
zattera in latino però in poesia diventa sinonimo di nave. I romani non navigavano da Ottobre a Marzo
per la pericolosità dei mari. A marzo con una processione inauguravano la navigazione in cui
portavano una navicella in miniatura inghirlandata e lasciata in balia delle correnti per propiziarsi il
mare.
Versi 41-44

In quel tempo( notare il dimostrativo che indica lontananza , che idealizza l’epoca dell’età dell’oro)
il toro robusto non andava sotto il giogo( perché la terra dava spontaneamente i suoi frutti), il cavallo
non mordeva i freni con la bocca domata(perché i cavalli erano allo stato brado),nessuna casa allora
aveva le porte (perché non c’erano i ladri , tutti avevano tutto) , non c’era nessuna pietra conficcata
nei campi che potesse segnare i campi stessi con confini ben definiti. Qui Tibullo usa il presente
mentre noi in italiano l’imperfetto. Qui si fa riferimento alle pietre terminali che delimitavano i confini
fra i vari terreni per capire la proprietà privata. Per i romani spostare i termini era un delitto
gravissimo. “Regeret” è una relativa con sfumatura consecutivo – finale per quello abbiamo il
congiuntivo. Da notare la differenza tra ager che è un terreno rurale e arvum che è un terreno arato,
coltivato.

LEZIONE 25 (11/12/2020) Maria Tuveri

Vedo che siamo abbastanza numerosi nonostante il seminario di ieri. Riprendiamo da dove ci siamo
fermati ieri. Ci siamo fermati la volta scorsa al verso 45. Nella descrizione dell’età dell’oro, una
descrizione abbastanza convenzionale perché un po’ tutti i poeti la descrivono, poi ovviamente
ciascuno la declina secondo la propria sensibilità, ma ci sono alcuni punti che sono canonici, quello
che abbiamo visto ieri la terra senza essere lavorata produce ciò che è necessario all’uomo e fa degli
esempi che sono fantastici e che hanno una loro finezza poetica. Tra le altre cose c’è l’immagine al
verso 45 delle querce che producono il miele e delle pecore che spontaneamente si presentano ai
pastori per essere munte e per offrire ai pastori le lor mammelle gonfie di latte. Quindi c’è tutto questo
scenario idilliaco, quasi edenico. Cominciamo a leggere.

“Ipsae mella dabant quercus, ultroque ferebant

obvia securis ubera lactis oves.

Non acies, non ira fuit, non bella, nec ensem

immiti saevus duxerat arte faber”.

Traduzione: Spontaneamente le querce producevano il miele e spontaneamente le pecore facendosi


incontro ai pastori tranquilli porgevano le mammelle di latte, non c’erano eserciti, non c’era rabbia,
non c’erano guerre: l’artigiano non aveva forgiato con la sua arte inclemente la spada.

“Quercus”: gli antichi non avevano la percezione che il miele fosse un prodotto delle api, pensavano
che fosse un prodotto della natura e che le api si limitassero a raccogliere le gocce di miele che gli
alberi producevano. Ecco perché parla delle querce che producono miele.
“Ipsae”: è un po’ come ultro del secondo emistichio, possiamo dire le stesse querce producevano
miele, ma vuole mettere in evidenza che si tratta di una cosa spontanea. Abbiamo un plurale, che può
essere un plurale poetico e che si riferisce alle varie goccioline di miele che come rugiada si trovavano
sugli alberi. Si può intendere come un plurale poetico dovuto ad esigenze metriche, visto che mella è
un trocheo che si inserisce comodamente all’interno dell’esametro.

“Ultro”: questo avverbio vuol dire volentieri, volontariamente è un avverbio che troviamo in questo
senso anche Virgilio, mi pare nella IV bucolica.

“Obvia”: grammaticalmente noi lo riferiamo a ubera ma è chiaro che poi di fatto si può riferire
logicamente alle pecore. Obvius significa uno che ci viene incontro nella via, ob è via, quindi queste
pecore che spontaneamente prestano le mammelle ai pastori.

“Securi”: abbiamo già commentato questo aggettivo, securus è colui che è separato da ogni cura, da
ogni affanno, perché non ci sono problemi o guerre o fame, quindi le persone che vivono in questa
dell’ora vivono sicure, senza nessuna preoccupazione.

“Acies”: di per sé è l’esercito schierato a battaglia.

“Ira”: è sempre in riferimento alla furia guerresca visto che tutto il concetto è dedicato al furor
bellicus.

“Saevus”: crudele non perché lo sia, ma perché gli strumenti che forgia nella sua officina, sono
strumenti di crudeltà.

“Duxerat”: qui abbiamo un verbo semplice per il composto, quindi l’artigiano non aveva ancora
forgiato, crudele, con la sua arte disumana, le armi.

“Inmiti”: è tutto ciò che non è immite quindi tutto ciò che contravviene alla tranquillità, si può
intendere come disumano.

“Ensem”: l’ensis è l’elsa della spada, la parte che separa il manico dalla lama, qui siamo nell’ambito
di una sineddoche, si indica una parte per indicare il tutto, ma non fa riferimento solo alla spada, ma
a qualsiasi arma di offesa. Può essere un giavellotto, una lancia, un pugnale o qualsiasi cosa. Non
c’era la guerra o motivo di combattere perché tutti avevano ciò di cui avevano bisogno senza
doverselo conquistare con la forza e quindi non c’erano le condizioni perché si potesse esercitare
l’arte della guerra. Ovviamente questa visione e situazione idilliaca termina quando Giove spodesta
Saturno e sale lui sul trono, allora l’età dell’oro finisce e comincia l’età del ferro, quell’età che è
caratterizzata dalla sofferenza, dal dolore, dalla fame, dalla fatica, dai viaggi etc.

“Nunc Iove sub domino caedes et vulnera semper,

nunc mare, nunc leti mille repente viae.

Parce, pater. Timidum non me periura terrent,

non dicta in sanctos inpia verba deos”.

Traduzione: “Ora, invece, sotto il dominio di Giove sempre stragi e sempre ferite, ora il mare, ora
mille modi improvvisamente di morte. Abbi pietà, padre. Non mi atterriscono gli spergiuri tanto da
intimidirmi e le parole dette contro i santi dei”.

“Sub domino Iove”: c’è qui un riferimento, un parallelismo al verso 35, avevamo Saturne rege, il
solito ablativo assoluto, qui invece abbiamo un’indicazione di tipo temporale.

“Cedes”: anziché la pace abbiamo le uccisioni. Sono le stragi, infatti deriva dal verbo cedeo che vuol
dire ‘uccidere’.

“Mare”: la fatica di dover attraversare il mare per la mercatura, per commerciare, non semplicemente
per fare spedizioni militari.

“Repente”: questo avverbio è dovuto a una forma di esigenza metrica, perché magari avremo avuto
in prosa qualche aggettivo che fosse connesso con il sostantivo leti. Siccome qui una parola in
genitivo non poteva starci per lo schema metrico Tibullo è ricorso all’uso di un avverbio.

“Parce”: si rivolge a Giove e manifesta la sua onestà, non ha mai violato i precetti degli dei non ha
mai bestemmiato, quindi non teme nulla. Questo verbo, all’imperativo, è usato per la richiesta della
misericordia da parte della divinità. È rimasto anche nel linguaggio cristiano, è una formula che è
rimasta anche nell’eucologia cristiana come eredità dell’eucologia pagana.
“Periuria”: sono gli spergiuri, Tibullo non ha mai spergiurato, per cui non ha di che temere. Per quale
motivo c’è un riferimento agli spergiuri? Voi sapete che un riferimento al giuramento, nell’antichità,
avveniva sempre chiamando a testimoni gli dei, quindi se uno chiamava a testimoni gli dei un
giuramento falso non soltanto faceva un torto alla persona cui si faceva il giuramento, ma anche agli
dei che erano stati chiamati a testimoni di una menzogna, ecco perché c’è questo riferimento.

“Timidum”: questo che vedete è in funzione predicativa, gli spergiuri non mi atterriscono tanto da
farmi diventare pauroso.

“Deos”: c’è sempre la mentalità contrattualistica del rapporto con il divino, chiede pietà a Giove
come contraccambio di una sua onestà. Io non ho mai fatto niente di male a voi e voi non fate niente
di male a me.

“Quodsi fatales iam nunc explevimus annos,

fac lapis inscriptis stet super ossa notis:

<Hic iacet inmiti consumptus morte Tibullus,

Messallam terra dum sequiturque mari>.”

Traduzione: “E se ormai noi abbiamo compiuto gli anni stabiliti per me dal destino fa che sopra le
mie ossa sia eretta una lapide con iscritte queste lettere: <Qui giace Tibullo consunto da morte crudele
mentre seguiva Messalla per terra e per mare>”

“Hic iacet…mari”: è un’iscrizione funebre che Tibullo ha inventato per sé stesso.

“Annos fatale”: è una iunctura che troviamo in Tibullo, ma la troviamo anche in Cicerone. Nel
somnium Scipionis, questa espressione si riferisce alla morte di Scipione l’Emiliano, in una sorta di
profezia, quando il corso del sole degli astri avranno compiuto gli anni fatali, cioè gli anni stabiliti
dal destino, succederà quel che succederò. Però, mentre Cicerone usa il verbo conficere, qui invece
usa il verbo explere, che significa portare a compimento.
“Fac stet”: congiuntivo paratattico, fa che sia. Abbiamo una proposizione completiva, però senza ut
e quando manca questa congiunzione, noi parliamo di congiuntivo paratattico perché è semplicemente
giustapposto alla principale senza alcuna congiunzione subordinante.

“Lapis”: è la pietra, la lapide.

“Stet”: in latino stare, non ha quella accezione un po’ sfumata, indebolita, che ha l’italiano. Stare in
latino vuol dire stare in piedi, stare ritto quindi essere eretto.

“Nota”: è qualsiasi segno, può indicare una lettera, una parola, un contrassegno, qualsiasi cosa venga
segnata. Questo distico è molto bello perché riproduce perfettamente anche la fraseologia delle
iscrizioni funerarie. Se voi leggete le iscrizioni funerarie latine sono molto ornamentali, qui Tibullo
ricorre a questa fraseologia che era corrente al suo tempo. Tra cui l’espressione che tutto noi
conosciamo “hic iacet”.

“Inmiti morte”: la morte è inclemente, perché è un dramma sociale, è qualcosa che l’uomo non riesce
a metabolizzare perché la natura respinge l’idea del nulla, dell’evento così distruttivo della morte. In
questo caso è inmitis perché Tibullo è giovane, una morte immatura, precoce.

“Sequiturque Messallam”: indica la circostanza per cui è successa questa morte straniera. Una cosa
bellissima dal punto di vista stilistico è l’uso dell’enclitica que. Di per sé questa iunctura monoblocco
è terra marique però il que non è messo dopo mari, ma dopo seuqitur. Quindi, c’è una specie di
iperbato dell’enclitica posta su un’altra parola anziché sulla parola propria. Stilisticamente è una
chiccheria. L’effetto che da è un po’ quello della prosodketon, qualcosa di inaspettato, cioè qualcosa
di originale. Vi ho detto tante volte che la caratteristica del linguaggio poetico è lo scarto dalla norma,
la norma sarebbe la iunctura monoblocco stereotipata terra marique. In questo caso, lo scarto della
norma è separare questa iunctura monolitica agganciando l’enclitica anziché alla seconda parola, al
verbo che lo precede. Quindi, qui il linguaggio poetico si attua attraverso una differente disposizione
delle parole e nella frantumazione di una iunctura che di per sé è monolitico. Proprio in questo scarto
della norma si realizza il linguaggio poetico, ma di tutte le lingue, non soltanto il latino. Da cosa
differisce il linguaggio di Dante da quello di Boccaccio, che è prosa? Dante attua questo scarto dalla
norma rispetto alla lingua parlata. Quando Pascoli diceva che è inutile parlare del latino che è una
lingua morta, qualsiasi lingua poetica è una lingua morta, perché nessuno parla come parla Dante,
nessuno parla come scrive Ungaretti, è impossibile perché una lingua poetica, quindi artificiale e
dunque una lingua morta. Il concetto di lingua morta è molto relativo. La bellezza dell’arte viene
proprio dal distanziarsi dalla normalità.
Adesso c’è la descrizione dei campi Elisi, poi ci sarà ovviamente la contrapposizione dell’Ade
riservato, cioè agli scellerati. Qui troviamo per la prima volta in Tibullo la descrizione di una
separazione tra gli spiriti magni e gli spiriti cattivi. Gli spiriti buoni, soprattutto gli spiriti amanti
vivono nei campi Elisi, una sorta di Paradiso, un luogo beato. Mentre gli spiriti scelerati, incapaci di
amare, vivranno nell’Ade.

Sed me, quod facilis tenero sum semper Amori,

ipsa Venus campos ducet in Elysios.

Hic chorae cantusque vigent, passimque vagantes

dulce sonant tenui gutture carmen aves,

fert casiam non culta seges, totosque per agros

floret odoratis terra benigna rosis;

ac iuvenum series teneris inmixta puellis

ludit, et adsidue proelia miscet Amor.

Traduzione: “Ma poiché io sono sempre docile al tenero Amore, Venere in persona mi condurrà nei
campi Elisi. Qui regnano danze e canti e vagando qua e là gli uccelli con le loro voci sottile (con la
loro gola sottile) fanno risuonare un carme, la terra non coltivata produce la lavanda e per tutta la
campagna la terra generosa fiorisce di rose profumate; la schiera dei giovani mescolata alle tenere
fanciulle gioca e Amore continuamente innesca battaglie.

“Amori”: amor viene personificato. È interessante da un punto di vista filosofico rilevare che questa
sede della beatitudine è riservata secondo Tibullo agli spiriti amanti. Anche per Agostino il discrimen
tra la civitas Dei e la civitas diaboli è l’amore. Anche se in una visione pagana, Tibullo dice già chi è
uno spirito amante avrà come eredità i campi Elisi, chi non è spirito amante andrà nell’Ade.

“Quod”: questa proposizione con quod come avrete capito è una proposizione causale.

“Me”: notate qui da un punto di vista della dispositio verborum il me si trova in prima posizione
perché è una posizione enfatica e vuole contrapporre questo concetto a quello triste della morte. È
vero io morirò in terra straniera, ma verrò condotto da Venere nei campi Elisi.
“Chorae”: anche la descrizione dei campi Elisi è una descrizione che trova molti confronti nella
letteratura greca, un luogo di beatitudine dove c’è sempre la gioia, le danze, i canti, la natura è sempre
felice, gli uccelli cantano questi canti dolci, una descrizione totalmente paradisiaca. Vedete questo
chorae è un grecismo. Choros in greco è la danza, quindi indica le danze.

“Vigent..vagantes”: è una paronomasia, se noi lo leggiamo con la pronuncia classica sarebbe uigent
uagantes, l’accostamento di due parole che hanno suoni simili, non è un’allitterazione, o una
omoarcto, ma una paronomasia, due parole come vigere e vagari che hanno dei suoni simili in
comune; sono effetti intenzionali.

“Sonant”: sonare qui è usato in maniera transitiva.

“Dulce”: uno potrebbe, anzi dovrebbe concordarlo con carmen, ma leggendolo sembrerebbe che
questo dulce sia una sorta di neutro avverbiale. Ricordate anche in Catullo ‘dulce ridente’ che ride
dolcemente. Questo evoca un po’ quel verso di Catullo, quindi uno potrebbe intenderlo come un
avverbio alla greca, poi andando avanti vede che c’è carmen e potrebbe legarlo a quello. I poeti
giocano molto su questa equivocità della sintassi perché il linguaggio poetico è un linguaggio aperto
che offre diverse interpretazioni, lascia lo spazio all’interpretazione del lettore.

“Casia”: parallelismo con la descrizione dell’età dell’oro di Saturno, nell’età dell’oro la terra veniva
coltivata e produceva i suoi frutti, qui dice la terra produce la casia. È un’erba odorosa, di difficile
interpretazione, può essere la cannella, la lavanda o un’altra erba profumata. Uno dei problemi più
spinosi della filologia classica sono i fitonimi, perché è difficilissimo individuare da un fitonimo a
quale erba oggi corrisponde.

“Seges”: è interessante l’utilizzo di questo seges. Vuol dire ‘messe’, ‘raccolto’, però qui viene usato
in senso traslato per indicare il campo, però, anche quando c’è un senso traslato, il lettore non può
mai fare a meno di tenere conto del significato usuale di messe. È come se dicesse che nei campi elisi
la messe non consiste nel grano perché l’anima del defunto non se ne fa nulla, ma consiste nella
lavanda, nell’erba profumata. Quindi è come se la messe non più qualcosa da mangiare, ma qualcosa
da godere, un bel fiore o una buona erba profumata. Seges quindi non bisogna banalizzarlo.

“Odoratis rosis”: è uno strumentale.

“Series”: notate questa parola è un apax relativo in Tibullo, non viene usato in altri punti e anche
come schiera è abbastanza raro come termine.
“Ludit”: attenzione perché qui ludere è come il greco paizein che ha anche un significato erotico,
non stiamo giocando a dama o scacchi.

“Inmixta…miscet”: c’è un gioco di parole perché al verso precedente abbiamo inmixta e il verbo è
inmisceo, e qui abbiamo miscet da misceo. Sicuramente c’è un gioco tra i due verbi, uno composto e
l’altro semplice.

“v. 61”: da un punto di vista metrico al verso 61 abbiamo due cesure.

Illic est, cuiumque rapax mors venit amanti,

et gerit insigni myrtea serta coma.

At scelerata iacet sedes in nocte profunda

abdita, quam circum flumina nigra sonant:

Traduzione: Là si trova qualunque amante a cui è sopraggiunta la morte rapace e porta sulla chioma
adornata delle ghirlande di mirto. Invece la sede scelerata giace nascosta nella notte profonda intorno
alla quale risuonano i fiumi infernali.

“Illic…at”: c’è una contrapposizione tra coloro che sono destinati ai campi elisi che sono gli spiriti
amanti e poi c’è l’Ade, che ha una connotazione completamente diversa e che è riservata alla schiera
degli scelerati, cioè degli empi.

“Rapax”: ha valore di un epiteto ornans, perché la morte è sempre rapace, ghermisce tutti quanti, non
ha un valore predicativo, la morte è sempre rapace.

“Insigni”: indica tutto ciò che è cospicuo, che si mostra, che spicca per bellezza.

“Myrtea”: il mirto è una delle piante care a Venere, quindi trattandosi di spiriti amanti portano delle
ghirlande di mirto, questa pianta che è un po’ il simbolo dell’amore.

“At”: il verso 67 inizia con una forte contrapposizione, ‘mentre invece’.

“Scelerata”: non è la sede scelerata, ma è la sede riservata agli scelerati, cioè a coloro che hanno
compiuto delle nefandezze.
“Flumina nigra”: abbiamo visto che in Tibullo, si riferisce sempre alla morte e all’Ade, quindi
questo flumina nigra noi possiamo tranquillamente tradurlo come i fiumi infernali. Quali sono? Il
Lete, l’Acheronte, lo Stige, il Flegetonte, il Cocito, sono tutti questi fiumi inquietanti che si trovano
nell’Ade. Poi ci sono tutti i personaggi che abitano l’Ade, in parte sono responsabili delle sofferenze
di chi vi abita, in parte sono dei condannati, ad esempio Issione, Tizio, Tantalo, le Danaidi, i peccatori
esemplari che hanno tradito l’amicizia e l’amore.

Tisiphoneque inpexa feros pro crinibus angues

Saevit, et huc illuc inpia tirba fugit.

Tum niger in porta serpentum Cerberus ore

stridet et aeretas excubat ante fores.

Traduzione: Tisifone, non pettinata i feroci serpenti al posto dei capelli, impazza ed empia la schiera
(dei dannati) fugge di qua e di là. Poi Cerbero, nero, sulla porta, stride con la sua bocca di serpenti e
fa la guardia dinanzi alle porte di bronzo.

“Tisiphoneque”: il primo personaggio che viene presentato nell’Ade è Tisifone, una delle Furie.
Sapete che le Furie erano tre, ci sono Tisifone, Aletto e Megera. Tisifone viene presentata secondo la
iconografia tradizionale, al posto dei capelli aveva dei serpenti.

“Inpexa”: significa non pettinata, perché abbiamo in privativo + il verbo pectere che vuol dire
‘pettinare’.

“Feros angues”: accusativo di relazione.

“Pro crinibus”: complemento di sostituzione.

“Cerberus”: il secondo personaggio è Cerbero, anche questo molto noto, detto niger, sempre perché
è infernale. È presentato come il portinaio dell’inferno, anche lui ha una fisionomia infernale, la bocca
dei serpenti perché si immaginava che avesse una testa con tre serpenti e questi non parlavano, ma
sibilavano.
“Excubat”: questo verbo è un termine militaresco, vuol dire fare da guardia dinanzi alle porte
bronzee.

Poi dopo questi due grandi personaggi, Tibullo porta l’esempio di grandi peccatori che hanno a che
fare con l’amore. Ad esempio, abbiamo Issione che è stato condannato a girare in una ruota sempre
in movimento perché aveva osato insidiare Giunone. Era stato invitato al banchetto degli dei pur
essendo un mortale e aveva cercato di insidiare Giunone. Poi abbiamo Tizio che fu punito disteso in
terra, perché aveva insidiato Latona, anche qui c’è una violazione del sentimento dell’amore. Poi
abbiamo Tantalo, confidente di Giove, che tradì la sua amicizia confidando i segreti che aveva
ricevuto. Poi abbiamo le Danaidi, le figlie di Danao, che erano state date in sposa ai figli di Egitto,
ma su istigazione del padre, nella prima notte dopo le nozze, queste ragazze avevano ucciso i propri
mariti, quindi anche qui violazione di eros. L’unica figlia di Dano che non volle obbedire al padre
che è Ipermestra che salvò il marito Linceo.

Illic Iunonem temptare Ixionis ausi

Versantur celery noxia membra rota,

porrectusque novem Tityos per iugera terrae

adsiduas atro viscere pascit aves.

Tantalus est illic, et circum stagna, sed acre,

iam iam poturi deserit unda sitim,

et Danai proles, Veneris quod numina laesit,

in cava Lethaeas dolia portat aquas.

Traduzione: “Lì girano su una ruota veloce le membra colpevoli di Issione che aveva osato tentare
Giunone e Tizio sdraiato per nove iugeri di terre pasce continuamente gli uccelli (avvoltoi) con la sua
scura interiora. Tantalo si trova lì e stagna attorno a lui, ma l’onda delude la sete intensa di lui che è
lì per bere e le figlie di Danao, per il fatto che hanno danneggiato la divinità di Venere, trasportano
acqua su degli orci forati.

“Versari”: questo verbo significa girare in latino, perché versor è un verbo intensivo di vertere,
corrisponde al nostro girare. La ruota gira rapidamente.
“Noxius”: ha la stessa radice noceo, danneggiare. Vuol dire che ha commesso un danno, un delitto,
una colpa. Non sono le membra colpevoli, ma è Issione. Enallage: noxius è riferito grammaticalmente
a membra, ma logicamente va riferito ad Issione. L’accento è Ixìonis, la e è breve.

“Ausi”: participio di audeo, osare, participio congiunto. Audeo è un semi-deponente, dunque i tempi
che si formano dal tema del perfetto, sono tutti di forma deponente, dunque il participio perfetto ha
valore attivo.

“Tityos”: era un gigante, che aveva insidiato Latona. Venne legato a terra per nove iugeri di terra,
un’estensione grandissima. Lo iugero era circa 2500 metri quadri, qui è una cifra iperbolica. Un po’
come per prometeo dava continuamente da mangiare a questi avvoltoi con le proprie viscere che
ricrescevano in continuazione.

“Adsiduas”: qui dovrebbe essere tradotto come un avverbio perché non è gli uccelli continui, ma
continuamente. Anche qui c’è o scarto dalla orma che ti permette di creare una locuzione poetica. Gli
uccelli continui si possono intendere come gli uccelli che si susseguono continuamente a beccare le
viscere di questo personaggio, però noi ci attenderemo un avverbio. La cosa interessante è che
intenzionale, perché se avesse voluto utilizzare un avverbio, nel verso ci sarebbe stato perfettamente.

“Atro viscere”: una cosa da notare è che noi troviamo sempre il plurale viscera tant’è vero che anche
in italiano diciamo le viscere. Il singolare viscus, visceris, neutro, è rarissimo in latino.

“Circum”: non è un’apposizione, ma un avverbio. Perché gli stagni sono attorno a Tantalo? Perché
fanno parte della pena. Tantalo era perennemente assetato e vedere questi specchi d’acqua attorno a
lui accrescevano il senso della sete.

“Unda”: poetismo, unda per indicare l’acqua. Tenendo conto che il termine aqua in latino è un
pirrichio, sono due brevi e comincia per vocale, quindi non ci sta bene bene con il verso. Allora i
poeti utilizzano unda, perché un trocheo.

“Deserit”: si allontana, abbandona. Possiamo tradurre che l’onda delude la sete intensa.

“Poturi”: participio congiunto del participio futuro.


“Danai proles”: forse sono le più colpevoli. Erano maritate con i figli di Egitto e la prima notte di
nozze, quella più sacra, hanno ucciso i loro mariti su istigazione del padre, hanno violato
pesantemente le leggi di Venere.

“Proles”: poetismo, usato come collettivo e quindi tutto è al singolare.

“Dolia”: dolium vuol dire botte, orcio. L’orcio per noi è una cosa un po’ strana, ziru in sardo. Le
brocche grandi che si avevano nelle case per conservare l’acqua o altri liquidi. Sono detti Letheaes
perché sono infernali.

Illic sit, quicumque meos violavit amores,

optavit lentas et mihi militias.

At tu casta precor maneas, sanctique pudoris

Adsideat custos sedula semper anus.

Traduzione: Là vada, chiunque ha violato il mio amore e mi ha augurato dei lunghi periodi di servizio
militare. Ma tu, ti prego, rimani fedele e una vecchia si sieda sempre accanto a te, custode del tuo
santo pudore.

“At tu”: sembra tutto un ammonimento a Delia per fare attenzione.

“Sit illic”: è un desiderativo.

“Quicumque”: si riferisce o a un rivale che potrebbe approfittare dell’assenza di Tibullo, o anche di


Delia che potrebbe violare questo affetto che si è stretto tra i due amanti.

“Lentas militias”: più sta fuori casa più questi si divertono. Alcuni intendono questo come un amore
non corrisposto. Adriana della Casa intende così, l’amore non corrisposto, visto che il rapporto
amoroso è una militia amoris nella terminologia erotica dei latini.
“Et”: anastrofe, noi abbiamo et che è messo in posizione centrale, ma in realtà deve essere messo
prima.

“Precor”: non lo intenderei come un congiuntivo paratattico di precor. Precor invece preferisco
considerarlo una sorta di inciso. Maneas diventerebbe un congiuntivo esortativo.

“Anus”: chi sia questa anus, non si sa. Qualcuno pensa la mamma, ma non credo. Probabilmente è
la nutrice, una sorta di tata e quindi una vecchia sieda sempre accanto come custode del santo pudore.
È un’immagine convenzionale anche nella commedia, queste ragazze ambite sono sempre sotto
custodia di un vegliardo o una vegliarda, è un’immagine convenzionale che poteva anche
corrispondere alla realtà. E cosa doveva fare questa ragazza? Doveva dedicarsi al filare la lana e
restarsene a casa per le faccende domestiche.

Haec tibi fabellas referat positaque lucerna

deducat plena stamina longa colu

at circa gravibus pensis adfixa puella

paulatim somno fessa remittat opus.

Traduzione: Questa ti racconti delle fiabe e con la lucerna accesa tragga dalla piena conocchia dei
lunghi fili mentre intorno la fanciulla intenta alla dura fatica della filatura a poco a poco, stanca dal
sonno, interrompa il lavoro.

“Fabelle”: cosa sono? Qualsiasi tipo di racconto.

“Positaque lucerna”: è un ablativo assoluto.

“Longa”: é nominativo.

“Deducat”: il verbo è deducere perché si traeva fuori dalla conocchia lo stamo.


“Colu”: colus è uno dei pochi sostantivi in -us femminili. Prima il sostantivo faceva parte della
seconda declinazione, poi piano piano, siccome la seconda si è specializzata per i nomi maschili in -
us, è passato alla quarta declinazione. Ecco perché abbiamo plena colu, come ablativo della quarta.
C’è un manoscritto che ha colo al posto di colu, cioè lo considera come un sostantivo della seconda
declinazione. Non cambia nulla perché poi diventa eteroclito, può seguire indistintamente la seconda
e la quarta.

“Circa”: avverbio.

“Puella”: chi è questa ragazza? Molti intendono che sia Delia stessa che deve stare a casa con la
custodia della vegliarda e quindi deve dedicarsi alle faccende domestiche. Secondo altri sarebbero le
ancelle, quindi sarebbe un plurale collettivo, le fanciulle. Francamente questa seconda interpretazione
mi convince poco.

“Pensis”: viene da pensum, che è un termine tecnico dell’affilatura ed indica la quantità di filato che
una donna poteva produrre in una giornata. Da questo contesto originario, poi indica qualsiasi
compito, qualsiasi mansione. Il verbo è pendo pesare, il tanto veniva pesato e dovevi arrivare a una
certa quantità di filato al giorno, è chiaro che questa fatica era pesante.

LEZIONE 26 (16/12/2020) Giovanni Maria Soru

Riprendendo i versi precedenti, ricordiamo che il poeta era andato in Cilicia con Messalla però la
malattia l’aveva costretto a fermarsi a Corfù Corcia. Credendo di morire gli vengono cattivi pensieri,
pensieri di morte. Inizia a sognare che quando rientrerà, troverà Delia ad aspettarlo castamente sotto
la custodia di una vecchia (sappiamo però che si è consolata in altro modo).

Nei versi precedenti ricordiamo la scena della vecchia che stava filando con le ancelle (o Delia stessa)
attorno a lei che facevano lo stesso lavoro. Immagina e spera che in sua assenza Delia possa custodire
la sua castità e immagina la fanciulla che gli viene incontro (una tipica scena da sogno).
Tùm veniàm subitò, nec quìsquam nùntiet ànte

sèd videàr caelò mìssus adèsse tibì. 90

Tùnc mihi quàlis erìs, longòs turbàta capìllos,

òbvia nùdatò, Dèlia, cùrre pedè.

Hòc precor, hùnc illùm nobìs Auròra nitèntem

Lùciferùm roseìs càndida pòrtet equìs.

“allora possa io arrivare all’improvviso, senza che alcuno lo preannunci, ma possa apparire,
presentarmi a te come sceso dal cielo. Allora, come sarai, scarmigliati i lunghi capelli, oh Delia,
corrermi incontro a piedi nudi. Questo io mi auguro, l’aurora candida con i suoi cavalli di rosa possa
portare a noi (a me) proprio questo splendido giorno.”

La dimensione onirica in questi versi è sottolineata anche dai congiuntivi desiderativi. È un sogno
ovviamente: Il poeta spera di guarire, ritornare all’improvviso e trovare la sua amata, ancora mezzo
addormentata e stanca dalla filatura, che va incontro a lui scompigliata e scalza.

Veniam – non va inteso come un futuro indicativo, ma come un congiuntivo.

nec quisquam nuntiet ante – ‘nessuno lo annunci prima’.

videar – ‘io appaia’, siamo sempre nell’ambito del congiuntivo desiderativo. In questo caso videor è
inteso come ‘apparire’ e non ‘sembrare’ – come nel greco φαινω e δοκεω: entrambi significano
‘sembrare/apparire, ma solo il primo termine dà l’idea dell’apparizione improvvisa di un personaggio.
Adesse – ‘essere presente’, da ad-sum, è un verbo stativo, non indica un’azione. È come se la ragazza
lo vede già di fronte a sé, non lo vede arrivare.

Missus caelo – ‘caduto dal cielo’, riprende la semantica dell’avverbio ‘subito’. Missus è il verbo
semplice del composto demissus (= sceso giù dal).

La fraseologia è tipica dei racconti delle apparizioni improvvise di divinità.

Qualis eris – ‘così come sarai’, senza essersi adornata e preparata per l’arrivo dell’amato.

Longos turbata capillos – ‘spettinata i tuoi lunghi capelli’ troviamo un accusativo di relazione:
turbata è riferito a Delia e longos capillos è l’accusativo di relazione.

Delia – da notare la posizione centrale del nome nel pentametro (una posizione privilegiata).

Curre mihi obvia – ‘corri incontro a me’. Abbiamo un dativo di relazione (‘incontro a me’).

Nudato pede – ‘a piedi nudi’, complemento di modo.

Hoc precor – ‘questo mi auguro’. Tibullo stesso con questa espressione ammette che si tratta di un
sogno.

Aurora candida – nella poesia erotica l’aggettivo candidus è pertinente alla bellezza/estetica, in
questo caso l’aurora viene personificata come se fosse una bella ragazza.

Portet – un altro congiuntivo desiderativo. Va inteso come ’trasportare’

Hunc illum nitentem luciferum – ‘proprio questo giorno splendido’, è quello che viene trasportato.
Niteo significa ‘splendere’, usato spesso nella poesia elegiaca. Lucifer (= colui che porta la luce) è
propriamente il pianeta Venere – il primo pianeta ad apparire appena il sole tramonta e l’ultimo a
scomparire quando si leva l’alba – che appariva contestualmente al sorgere del sole.

Hunc è rafforzativo (‘proprio questo…’).


Roseis equis – ‘coi suoi cavalli rosa’. Probabilmente Tibullo nello scegliere questo aggettivo è stato
influenzato dagli epitheta ornantia di stampo omerico.

X elegia

Questa elegia viene indicata come “l’elegia della pace” perché troviamo il motivo della condanna
della guerra e l’elogio della pace (temi presenti anche nella prima elegia). Probabilmente è l’elegia
più antica non soltanto del primo libro, ma di tutti e tre i libri di elegie di Tibullo. Non è strano che
pur essendo la prima elegia sia stata messa alla fine del libro; era tipico degli antichi (anche tra gli
epodi di Orazio troviamo una situazione analoga a questa). Un ulteriore prova che conferma questa
sorta di arcaicità è che in questa elegia non viene mai citata Delia, non compare ancora.

Troviamo anche in questa elegia il motivo della campagna, riflessioni sulla morte (non sappiamo se
questi pensieri negativi fossero dovuti a una malattia o se fosse malinconico di natura).

L’incipit è molto famoso – forse un po’ ispirato a Callimaco, di cui abbiamo alcuni versi simili (se la
prendeva contro i calibi, che per primi avevano lavorato il ferro e di conseguenza avevano alimentato
le guerre nel mondo).

Quìs fuit, hòrrendòs primùs qui pròtulit ènses? 1

Quàm ferus èt verè fèrreus ìlle fuìt!

Tùm caedès hominùm generì, tum proèlia nàta,

tùm breviòr diraè mòrtis apèrta vià est.


“chi fu il primo che inventò le orribili armi? Quanto feroce e davvero di ferro fu colui. Allora nacquero
le stragi ai danni del genere umano, allora nacquero le battaglie, allora fu aperta una via più breve
della morte terribile.”

L’elegia comincia con una domanda, un procedimento tipicamente alessandrino che i poeti latini
hanno preso e rielaborato nel loro stile.

Enses – ‘armi’, si parla di armi in generale. Ensis è una sineddoche (perché riferita propriamente
all’elsa della spada), qui non fa però riferimento solo alle spade, ma a tutte le armi.

Protulit – ‘inventò’. Il verbo profero vuol dire propriamente ‘tirar fuori’, in questo caso va inteso
come ‘inventare’.

Horrendos – ‘orrende’. L’aggettivo horrendus nasce come un gerundivo del verbo horreo (= rizzare
i capelli), quindi va inteso appunto come qualcosa di raccapricciante/che fa rizzare i capelli, come
può essere la guerra e le sue conseguenze.

Al verso 2 abbiamo una paronomasia, un gioco di parole, probabilmente basata su una sorta di
paretimologia30: il poeta gioca con le parole ferus ‘feroce’ e ferreus ‘di ferro’. Questo gioco di parole
lo troviamo già in Ennio, poi anche nelle prose di Cicerone (in un passo anche lui gioca con le parole
ferus e fereus). Probabilmente per gli antichi c’era una connessione etimologica tra i due aggettivi
(oggi sappiamo che non è così, in quanto le radici sono diverse).

Abbiamo l’anafora di tum, ripetuto tre volte.

Nata – ‘è nata’, sottinteso nata est, che può essere ricavato dal verso successivo. Quindi est è in
comune con nata e aperta. La frase sarebbe tum caedes hominum generi, tum praelia nata sunt.

Caedes – plurale. Il verbo caedere significa ‘tagliare’, associato anche al taglio fatto con un’arma,
quindi ‘uccidere’ (il termine ‘uccido’ è infatti un composto di ob – caedo).

30
la paretimologia, "studio del vero significato delle parole" o etimologia popolare, è il processo con cui una parola viene
reinterpretata sulla base di somiglianze di forma o di significato con altre parole, deviando dalla forma o dal significato
originario.
Hominum generi – ‘del genere umano’, è un complemento di svantaggio, perché va appunto a
svantaggio del genere umano.

Proelia – ‘le guerre’. Proelium di per sé in latino significa ‘combattimento’, però è chiaro che qui
viene usato col significato di ‘battaglia/guerra’.

Dirae mortis – ‘della morte terribile’. L’aggettivo dirus era un’antica forma participiale che si può
collegare con la radice del verbo δειδω (pf. di διω, ‘temere’). Il significato di questo aggettivo è legato
anche al concetto di follia: la morte in guerra oltre ad essere terribile è folle, priva di senso, contro
natura (anche Virgilio usa questo aggettivo).

Prima della scoperta delle armi la gente moriva tranquillamente di morte naturale, mentre con la
guerra la morte diventa improvvisa e si accorcia la vita umana; per questo dice che ‘si è aperta la via
più breve’.

Àn nihil ìlle misèr meruìt, nos àd mala nòstra 5

vèrtimus, ìn saevàs quòd dedit ìlle feràs?

Dìvitis hòc vitiùm est aurì, nec bèlla fuèrunt

fàginus àdstabàt cùm scyphus ànte dapès.

“O forse quel poveretto non ha nessuna colpa e siamo noi che abbiamo volto a nostro danno ciò che
lui produsse contro le bestie selvagge? Questo è colpa dell’oro che arricchisce, non c’erano guerre
quando una coppa di legno di faggio stava davanti alle vivande.”

Ille – è riferito a colui che inventò le armi.


An – è una particella interrogativa, detta correttiva, perché prima si fa un’affermazione per poi
correggersi di quello appena detto (o forse…)

Meruit – in latino il verbo mereo non ha solo valore positivo come in italiano, ma può avere una
sfumatura negativa; puoi avere ‘colpa’ di qualcosa e non solo ‘merito’. In questo caso appunto non
viene visto come un merito l’aver inventato le armi, ma come una colpa (una cosa negativa, non
positiva).

Nos vertimus ad mala nostra – ‘noi abbiamo ritorto a nostro danno’. Vertimus potrebbe essere un
presente o un perfetto (ai fini della traduzione forse sarebbe meglio interpretarlo come un perfetto).
Le armi create a fin di bene sono state rivolte ai danni degli uomini stessi.

Dedit – ‘diede’, ha lo stesso significato di protulit (verso 1), perché è qualcosa che ha dato, che ha
prodotto.

In questi versi quindi Tibullo sta dicendo che le prime armi non furono inventate per le guerre, ma
soltanto per la caccia. Qual è la causa che ha portato a questo uso distorto delle armi, trasformandole
in arnesi di guerra? La brama di ricchezza dice Tibullo “questo è il difetto dell’oro che arricchisce”
(in riferimento a quella auri sacra fames di cui parlava anche Virgilio). Quando c’era una vita sobria
– e si usavano stoviglie modeste di legno – non c’era la necessità di fare guerre; ciascuno si
accontentava di quello che aveva. Col subentro della brama di ricchezza sono scoppiate anche le
guerre (una tematica possiamo dire ancora attuale).

Vitium – va inteso come ‘colpa/difetto’

Divitis auri – ‘ l’oro che arricchisce’ e non ‘l’oro ricco’. L’aggettivo dives viene usato in significato
attivo, quasi causativo ‘l’oro che rende ricchi’.

Faginus – è un aggettivo: fagus è il faggio e quindi va tradotto ‘di faggio/di legno di faggio’.

Scyphus – ‘coppa’, non un bicchiere, ma più una ciotola. È un termine greco (rimasto nel sardo
scifedda).
Adstabat – ‘stava sulla mensa’.

Ante dapes – ‘dinnanzi alle vivande’. Le dapes sono vivande elementari di prima necessità (pane,
formaggio etc.).

Quindi quando tutto si svolgeva in una dimensione di frugalità, non c’era bisogno delle armi e quindi
non c’erano neanche le guerre.

nòn arcès, non vàllus eràt, somnùmque petèbat

sècurùs sparsàs dùx gregis ìnter ovès. 10

Tùnc mihi vìta forèt, volgì nec trìstia nòssem

àrma nec àudissèm còrde micànte tubàm;

“non c’erano rocche, non c’erano trincee, e il pastore si addormentava tranquillo tra le pecore sparse
nella campagna. Allora io avrei dovuto vivere e non avrei dovuto conoscere le tristi armi del volgo,
ne udire la tromba da guerra con il cuore palpitante.”

Arces – ‘rocche’. Arx sarebbe l’acropoli, la parte alta di una città fortificata. Quindi il poeta ci dice
che in tempi di frugalità non c’era bisogno di guarnire le città con mura e trincee.

Vallus – ‘trincee/palizzate’. Il termine vallum propriamente è il palo piantato in terra che serviva per
costruire le palizzate. Vallum è neutro, mentre vallus (maschile) è il singolo palo conficcato in terra
come impedimento; quindi se vogliamo tradurlo come singolare possiamo considerarlo come un
collettivo, perché si riferisce alla palizzata.
Dux gregis – ‘il pastore’. Dux sarebbe in realtà il condottiero militare (militum), ma dato che allora
non c’erano guerre, l’unico dux era il pastore che conduceva il gregge. In altri poeti come Ovidio,
questa espressione è riferita al montone, ma non è questo il caso.

Securus – ‘tranquillo/senza preoccupazione’, un aggettivo.

Petebat somnum – ‘cercava il sonno/si addormentava’.

Inter oves sparsas – ‘tra le pecore sparse (nella campagna)’; non aveva nemmeno il timore che
qualcuno gli rubasse il bestiame; la vita era tranquilla, non c’era la brama di ricchezza e quindi
nemmeno il raziocinio. Alcune edizioni utilizzano varias invece di sparsas: usando varias la frase
sarebbe ‘le pecore screziate/dal manto screziato (variegato)’, frase che, secondo molti studiosi, fa
riferimento a un verso delle bucoliche di Virgilio. È una congettura che ha avuto evidentemente una
certa fortuna, anche se la maggior parte dei codici predilige comunque il termine sparsas.

Volgi – ‘popolo’. Molti studiosi hanno messo in discussione il senso di questo termine nel verso,
perché considerata una forzatura. Uno studioso utilizzò il termine valgi, un vocativo riferito a Valgio
Rufo (un poeta del circolo di Messalla, amico di Orazio), traducendo il verso ‘allora io avrei dovuto
vivere, oh Valgio…’; dunque Tibullo si starebbe rivolgendo a un suo amico. Anche questa ipotesi ha
avuto abbastanza fortuna.

Foret – è la forma alternativa per esset o fuisset. Ci sono nel paradigma del verbo sum alcune forme
che hanno un’altra radice: non c’è una vera e propria differenza tra loro, però (se vogliamo trovare
una sfumatura) le forme come foret mettono meglio in evidenza il carattere eventuale dell’azione. Il
significato sarebbe ‘allora la mia vita sarebbe dovuta (eventualmente) essere’. Tibullo ci dice che
avrebbe dovuto vivere in quel periodo frugale, privo di bramosia.

Nossem – forma contratta di novissem (novi – novisse è un perfetto logico31 )

Corde micante – è un ablativo assoluto. Micare significa ‘tremolare/palpitare’, quindi il poeta ci dice
che il cuore va in fibrillazione quando sente suonare la tromba di guerra (il classicum di cui si parlava
nella prima elegia, la tromba che convocava il popolo in armi).

31
Sono verbi che hanno soltanto la forma del perfetto; essendo risultativo, ha significato di presente.
Tubam – Ci sono due tipi di trombe in latino: la tuba, ovvero la tromba dritta, e il litus, la tromba
ricurva.

Nùnc ad bèlla trahòr, et iàm quis fòrsitan hòstis

haèsura ìn nostrò tèla gerìt laterè.

Sèd patriì servàte Larès: aluìstis et ìdem, 15

cùrsarèm vestròs cùm tener ànte pedès.

“Ora sono trascinato alla guerra, e forse già qualche nemico porta le frecce destinate a conficcarsi nel
nostro fianco. Ma voi, oh Lari paterni, salvate me! Voi stessi mi avete sostentato/visto crescere,
quando da bambino io sgambettavo dinnanzi ai vostri piedi.”

Nunc – si oppone a tunc (verso 11).

Trahor – ‘sono trascinato’; ci dà proprio l’impressione che il poeta vada a malincuore a combattere.
da un punto di vista metrico, la desinenza -or è breve, qui invece viene trattata come lunga per via
del fenomeno dell’allungamento in arsi 32 (succede raramente ed è più una licenza poetica).

Quis – ‘qualche’; è un indefinito (come aliquis), riferito a un nemico sconosciuto, di cui non si sa
l’identità (diverso da quidam che invece viene usato quando si conosce l’identità, ma non si vuole
rivelarlo.

32
Allungamento in arsi (= sillaba dove cade l’accento): quando una parola ha una sillaba breve per natura ma su di essa
cade l’accento ritmico del verso, il poeta può decidere di trattarla come sillaba lunga.
Tela – ‘le frecce’; letteralmente ‘la freccia’, è un plurale poetico. In latino telum o tela è sempre
riferito alle armi da lancio (frecce, lance, spiedi etc.).

Haesura – ‘conficcarsi’; participio futuro di haereo (= stare attaccato). Il participio futuro indica
l’azione futura e la destinazione di quella azione: il verso infatti recita ‘le frecce destinate a conficcarsi
nel nostro fianco’ (un saluto dei gladiatori era ave Caesar morituri te salutant, ovvero ‘ave Cesare, ti
salutano quelli destinati a morire’).

Gerit – il verbo gerere significa ‘portare nella faretra’.

Quando c’è il timore di morire si fa riferimento alla divintà. Prega quindi le divinità domestiche, i
Lari (divinità tradizionali che si tramandavano di padre in figlio), che possano proteggerlo e farlo
tornare sano e salvo dalla guerra.

Servate (me) – ‘proteggetemi’, Sottinteso c’è me. In latino non esiste il verbo ‘salvare’ (esiste solo
nel tardo latino). Si utilizza il verbo servare inteso come ‘custoditemi/proteggetemi’. L’aggettivo
salvus fa riferimento all’integrità della persona; è collegato etimologicamente con i greco ολος, ‘tutto
intero’. Quindi il senso di ‘salvare’ in latino è ‘mantenetemi integro/custoditemi’.

Idem – ‘voi stessi’; sta per iidem, plurale, riferito ai Lari.

Cursarem – è un verbo intensivo desiderativo, dal verbo currere (= correre). Il verbo cursare significa
‘scorrazzare/sgambettare’, tipico dei bambini piccoli.

Tener – ‘bambinello’.

Ante vestros pedes – ‘dinnanzi ai vostri piedi’. le immagini in legno dei Lari venivano conservate
nell’arario, un piccolo tempietto. Il poeta bambino scorrazzava nell’atrio dove c’erano esposte
appunto le immagini di queste divinità.
Nèu pudeàt priscòr vos èsse e stìpite fàctos:

sìc veterìs sedès ìincoluìstis avì.

Tùm meliùs tenuère fidèm, cum pàupere cùltu

stàbat in èxiguà lìgneus aède deùs. 20

“e non vi sia motivo di vergogna che siate stati fatti da un vecchio ciocco di legno. In questo modo
voi avete abitato la dimora dell’antico avo. Allora mantenevano meglio la parola data, quando una
divinità fatta di legno stava in un piccolo tempio con un povero arredamento.”

Neu pudeat – ‘e non vi sia vergogna’; neu o neve corrisponde a et-ne (mentre et-non diventa
nec/neque). È un congiuntivo esortativo negativo (N.b. pudeat è un verbo impersonale).

Prisco e stipite – ‘da un vecchio pezzo di legno’. Generalmente in età tarda le statue erano fatte in
marmo o in bronzo (seguendo i modelli greci), ma qui Tibullo richiama un periodo precedente, più
povero e sobrio, in cui le statue – compresi i Lari – erano fatti di legno. Prisco perché il legno era
antico, in quanto le statue venivano tramandate di padre in figlio (facevano parte del patrimonio
familiare).

Veteris – alcuni codici utilizzano veteres. Perché? È stato fatto notare che il termine avus non è mai
definito vetus, ma anticus oppure priscus. Vetus è riferito più a un oggetto che a una persona. Quindi
si è pensato di non leggere veteris come genitivo riferito a avi, ma come accusativo riferito a sedes in
poesia l’accusativo plurale può essere anche in -is); tradotto sarebbe ‘voi che avete abitato l’antica
dimora dell’antenato’.
Si ritorna nuovamente a un vagheggiamento dell’età antica, il ritorno al passato prima della brama di
ricchezza e via dicendo.

Tenuere – ‘mantennero’; sta per tenuerunt, forma alternativa della 3°persona del perfetto di teneo.

Fidem – ‘la parola data’.

Tum melius tenuere fidem - La traduzione letterale sarebbe ‘allora mantennero meglio la parola data’.
Tuttavia il senso generale è diverso: il poeta ci sta dicendo che quando il culto degli dei, le loro statue
erano fatte sobriamente, c’era una religiosità più viva, più sentita; e la traduzione di prima va intesa
come un segno di questa spiritualità. Possiamo tradurre quindi ‘allora avevano un maggior senso di
devozione (verso gli dei), quando un dio fatto di legno stava in una piccola cappella’.

Deus ligneus – ‘statua di legno’; si aveva questa maggiore spiritualità quando c’erano ancora le statue
di legno, non di bronzo o di marmo.

Aede – è un tempietto, una cappella.

Paupere cultu – il termine cultus può indicare sia l’insieme di riti e pratiche religiose, sia
l’arredamento del tempio stesso (le ciotole per le offerte o le offerte stesse), in questo caso un
arredamento ‘povero’.

Hìc placàtus eràt, seu quìs libàverat ùva,

sèu dederàt sanctaè spìcea sèrta comaè,


“lui era pago, sia che qualcuno avesse offerto dell’uva, sia che gli avessero dato delle ghirlande di
spighe alla santa chioma.”

Hic – è la divinità.

Placatus – questo placare è un verbo intensivo da placere. La divinità che viene placata, che gradisce
le offerte che riceve.

Uva – è un ablativo strumentale.

Sanctae comae – è un dativo che si spiega con la costruzione del verbo ‘dare’: il senso sarebbe ‘offro
ghirlande di spiga alla santa chioma’.

LEZIONE 27 (17/12/2020) Riccardo Pisu – Monica Scanga

Quis fuit, horrendos primus qui protulit enses?


Quam ferus et vere ferreus ille fuit!
Tum caedes hominum generi, tum proelia nata,
Tum brevior dirae mortis aperta via est.
An nihil ille miser meruit, nos ad mala nostra 5
Vertimus, in saevas quod dedit ille feras?
Divitis hoc vitium est auri, nec bella fuerunt,
Faginus adstabat cum scyphus ante dapes.
Non arces, non vallus erat, somnumque petebat
Securus sparsas dux gregis inter oves. 10
Tunc mihi vita foret, volgi nec tristia nossem
Arma nec audissem corde micante tubam;
Nunc ad bella trahor, et iam quis forsitan hostis
Haesura in nostro tela gerit latere.
Sed patrii servate Lares: aluistis et idem, 15
Cursarem vestros cum tener ante pedes.
Neu pudeat prisco vos esse e stipite factos:
Sic veteris sedes incoluistis avi.
Tum melius tenuere fidem, cum paupere cultu
Stabat in exigua ligneus aede deus. 20
Hic placatus erat, seu quis libaverat uva,
Seu dederat sanctae spicea serta comae,
Atque aliquis voti compos liba ipse ferebat
Postque comes purum filia parva favum.
At nobis aerata, Lares, depellite tela, 25
[***]
Hostiaque e plena rustica porcus hara.
Hanc pura cum veste sequar myrtoque canistra
Vincta geram, myrto vinctus et ipse caput.
Sic placeam vobis: alius sit fortis in armis
Sternat et adversos Marte favente duces, 30
Ut mihi potanti possit sua dicere facta
Miles et in mensa pingere castra mero.
Quis furor est atram bellis accersere mortem?
Inminet et tacito clam venit illa pede.
Non seges est infra, non vinea culta, sed audax 35
Cerberus et Stygiae navita turpis aquae;
Illic percussisque genis ustoque capillo
Errat ad obscuros pallida turba lacus.
Quam potius laudandus hic est, quem prole parata
Occupat in parva pigra senecta casa. 40
Ipse suas sectatur oves, at filius agnos,
Et calidam fesso conparat uxor aquam.
Sic ego sim, liceatque caput candescere canis,
Temporis et prisci facta referre senem.
Interea pax arva colat. pax candida primum 45
Duxit araturos sub iuga curva boves,
Pax aluit vites et sucos condidit uvae,
Funderet ut nato testa paterna merum,
Pace bidens vomerque nitent-at tristia duri
Militis in tenebris occupat arma situs- 50
Rusticus e lucoque vehit, male sobrius ipse,
Uxorem plaustro progeniemque domum.
Sed Veneris tum bella calent, scissosque capillos
Femina perfractas conqueriturque fores.
Flet teneras subtusa genas, sed victor et ipse 55
Flet sibi dementes tam valuisse manus.
At lascivus Amor rixae mala verba ministrat,
Inter et iratum lentus utrumque sedet.
A, lapis est ferrumque, suam quicumque puellam
Verberat: e caelo deripit ille deos. 60
Sit satis e membris tenuem rescindere vestem,
Sit satis ornatus dissoluisse comae,
Sit lacrimas movisse satis: quater ille beatus,
Quo tenera irato flere puella potest.
Sed manibus qui saevus erit, scutumque sudemque 65
Is gerat et miti sit procul a Venere.
At nobis, Pax alma, veni spicamque teneto,
Perfluat et pomis candidus ante sinus.

Nella lezione precedente stavamo commentando i versi 21 e 22.


Il poeta ha nostalgia per i tempi in cui regnava la sobrietà dove tutto si svolgeva con molta semplicità
e la sobrietà corrispondeva anche ad un più profondo e intenso sentimento di religiosità, qui espresso
nella locuzione “tenere fidem” che propriamente significa mantenere la parola data, ovviamente
chiamando a testimoni gli dèi. Gli dèi stessi si accontentavano anche di offerte modeste, come per
esempio un grappolo d’uva o una ghirlanda di spighe da appendere nella statua che li raffigura.

Hic placatus erat, seu quis libaverat uva,


Seu dederat sanctae spicea serta comae,

Il contesto è quello di un rito molto semplice, dove l’agricoltore che non ha un grosso raccolto offre
alla divinità quello che può e quello che ha.

Hic
Si riferisce al deus ligneus, quindi una statua, un simulacro fatto di legno e non di materiali preziosi
come il marmo il bronzo.

Placatus erat
Era pago. Alla divinità piacciono anche le offerte semplici, purché fatte col cuore. Abbiamo ricordato
che il verbo placare nasce come verbo intensivo di placere, quindi quasi un verbo causativo, fattitivo,
che ha il significato di “fa piacere a”, “soddisfa”, “appaga” qualcuno.

[…] seu quis libaverat uva,


Seu dederat sanctae spicea serta comae
La divinità era appagata “sia che qualcuno le avesse offerto dell’uva (un grappolo d’uva), sia che le
avesse offerto una ghirlanda di spighe alla santa chioma”. Bisogna, quindi, immaginare che questa
corona di spighe venisse posta sul capo del simulacro del dio.

Uva
Uva è probabilmente uno strumentale, perché va inteso come un ablativo: è lo strumento della
libagione, dell’offerta. Alcuni codici riportano direttamente l’accusativo uvam, che quindi è intesa
come l’oggetto della libagione. In questo caso potrebbe essere una lectio facilior, cioè una lezione
più semplice, più diretta, che i copisti inserivano per bypassare una difficoltà o una costruzione
inconsueta come può essere, appunto, lo strumentale. In ogni caso, il senso generale non cambia, sia
che lo si intenda come ablativo strumentale, sia come oggetto dell’offerta.

Libaverat
dederat
Abbiamo anche una variatio sinonimica, perché il verbo libare viene sostituito nel pentametro
successivo col verbo dare, che ha lo stesso significato.
Sanctae comae
Sanctae comae va inteso non tanto come genitivo ma come dativo di termine, ossia dare delle
ghirlande di spighe (spicea serta) alla santa chioma.

Atque aliquis voti compos liba ipse ferebat


Postque comes purum filia parva favum.

Qualcuno, dopo che il suo voto era stato soddisfatto, portava di persona delle focacce
E dietro, come compagna, la figlia piccola portava (offriva) del miele puro.

Aliquis
Qualcuno. Ha significato indeterminato.

Compos voti
Questa è un’espressione tecnica. Compos significa di per sé padrone, cioè uno che ha ottenuto
qualcosa. Votum è il voto che si fa davanti alla divinità, il desiderio che si esprime facendo una specie
di contratto: se tu mi fai questo, io ti offrirò quest’altra cosa. Dunque, chi ha ricevuto la grazia viene
chiamato compos voti, cioè che ha ottenuto il soddisfacimento del voto, del suo desiderio.
Letteralmente sarebbe “padrone del voto”, ma essendo un termine tecnico lo si può tradurre come
“qualcuno che ha ottenuto il voto, la grazia”.

Liba
Libum è una specie di torta, di focaccia, ma si potrebbe tradurre anche come pizza. Era una focaccia
di olio, di uova, di formaggio e veniva prodotta non soltanto per essere mangiata ma, soprattutto per
essere offerta alla divinità. Il locale Libarium (in Castello) prende il nome dai locali dove venivano
smerciate queste torte, focacce, pizze, che venivano offerte alla divinità.

Ipse ferebat
Lui stesso in persona si procurava (o faceva, addirittura) il libum - non demandava da altri questo
rito – e lo offriva alla divinità.

Postque comes purum filia parva favum.


Postque è avverbiale, sta per dietro. In una sorta di processione, dietro, c’è anche la bambina piccola,
la figlioletta (filia parva). Comes dobbiamo intenderlo come un aggettivo predicativo, dal significato
di “al seguito come compagna”. La figlia offre (il verbo è sempre ferebat) del miele puro. Miele puro
significa distillato, senza impurità, per differenziarlo da quello che porta le tracce del favo,
dell’alveare (che è comunque commestibile, essendo nient’altro che miele rappreso).

At nobis aerata, Lares, depellite tela, 25


[***]
[***]
Hostiaque e plena rustica porcus hara.

Ma, o Lari, scacciate da noi le armi di bronzo


[***]
[***]
e come vittima campagnola, verrà offerto un porcello dal porcile ricco.

Qui troviamo una lacuna abbastanza estesa. Non ci è dato sapere quanti siano i versi mancanti, ma se
ne può intuire più o meno il loro senso.

Vediamo prima i due versi di cui abbiamo testimonianza, che tra loro c’entrano poco.

At nobis aerata, Lares, depellite tela


Ma, o Lari33, scacciate da noi le armi di bronzo. Il poeta chiede ai Lari di non essere trascinato alla
guerra, come diceva prima (purtroppo vengo trascinato a combattere, mio malgrado, controvoglia).
Chiede che gli venga risparmiata una chiamata alle armi, una campagna militare.

Hostiaque e plena rustica porcus hara.


Nel pentametro che segue la lacuna, il poeta dice rustica hostia, cioè “come vittima campagnola, o
agreste”, e plena porcus hara, ossia verrà offerto “un porcello dal porcile ricco”.

Hostia rustica è un nominativo. Può essere inteso come un predicativo: verrà offerto da me un
maialetto come vittima rustica.

E plena hara significa che il porcus - si augura il poeta - venga da un porcile ricco, non povero, che
permetta appunto di fare un’offerta più sostanziosa di un po’ di miele, un po’ di farina o di una corona
di spighe.
Hara è un termine tecnico per indicare il luogo dove stanno i maiali. Lo troviamo anche nei trattati
De re rustica di Varrone, per esempio, anche se magari con sfumature un po’ diverse. È un tecnicismo
che ci sta bene nel verso. Abbiamo una breve è una lunga, è un giambo, perciò nel pentametro si
inserisce senza grosse difficoltà.

Porcus non è propriamente una parola poetica. La si trova soltanto qui in Tibullo a indicare il
maialetto selvatico. In altri testi, porcus invece indica direttamente il cinghiale. In effetti, in latino il
maiale si chiama sus, suis, da cui suino in italiano e sue (scrofa) in sardo.

Come detto, non conosciamo l’estensione della lacuna, però il passo logico sembra chiaro. Il poeta
potrebbe dire che se i Lari lo salveranno e lo faranno tornare incolume dalla guerra, allora lui potrà
offrire una vittima sostanziosa come ringraziamento per la salvezza ottenuta.

Hanc pura cum veste sequar myrtoque canistra


Vincta geram, myrto vinctus et ipse caput.

Io accompagnerò con una veste candida questa offerta e porterò dei canestri intessuti di mirto
Io stesso intrecciato il capo di mirto

33
Lari Divinità venerate dai Romani, specialmente nel culto privato presso il focolare domestico con Vesta e con i Penati.
Il lare familiare vegliava sulle fortune della casa e a lui i membri della famiglia rendevano culto quotidiano, specialmente
alle calende, none, idi. Secondo la leggenda, riportata solo da Ovidio, i L. furono due gemelli nati dalla ninfa Lara.
Sequar hanc
Vediamo che l’offerta avviene sempre processionalit, in processione, come del resto facevano anche
gli antichi. La vittima viene portata quasi in prima posizione, con gli offerenti che, appunto, seguono
l’offerta stessa.

Pura cum veste


Questo rito deve avvenire nella massima purità rituale. Il poeta dice “con una veste pura, candida,
una toga bianca” perché non ci deve essere alcuna macchia o impurità nel rito che si sta per compiere.
Quindi è il simbolo della purità rituale.

myrtoque canistra vincta geram

Porterò canistra. Canistra è rimasto anche nell’italiano canestro.

Vincta significa legate, propriamente, quindi intrecciate di mirto. Il mirto è una pianta sacra alle
divinità e soprattutto ai Lari e a Venere (come abbiamo visto). Chiaramente qui si parla dei Lari,
quindi si suppone che il riferimento sia alle divinità domestiche. Tra l’altro il mirto è anche una pianta
campestre, quindi richiama un po’ l’ambiente agro-pastorale34.

myrto vinctus et ipse caput

Caput è un accusativo di relazione.


Myrto è uno strumentale.

Non ci sono fenomeni particolari da segnalare. Ci sono giochi di parole, tipo vincta vinctus che è una
specie di poliptoto, però è tutto sia abbastanza limpido, semplice. Tibullo non ha quella contorsione
del periodo che troviamo, per esempio, in Properzio. Tutto scorre con molta tranquillità.

Sic placeam vobis: alius sit fortis in armis


Sternat et adversos Marte favente duces,
Ut mihi potanti possit sua dicere facta
Miles et in mensa pingere castra mero.

Così io possa esservi gradito: un altro (o altri) sia forte e coraggioso nelle armi
e abbatta, col favore di Marte, i condottieri nemici
Cosicché, il soldato, a me che bevo possa raccontare le sue imprese

34
Nella storia romana ci fu un generale che volle celebrare il trionfo dopo una campagna in Sardegna e chiese al Senato di poter
avere il trionfo a Roma con l’alloro. Il Senato gli rifiuto l’onore del trionfo, così lui si organizzò il trionfo a Cagliari e al posto dell’alloro
usò il mirto, che era la pianta tipica della Sardegna a quel tempo. Ovviamente l’ambiente è quello rustico, agro-pastorale. È
significativo che abbia usato il mirto anziché l’alloro.
Anche l’alloro era una pianta cara alla divinità domestica. Come anche nelle case sarde, ogni casa romana aveva una pianta di alloro,
non soltanto per fini culinari ma anche per il suo simbolismo. Infatti, l’alloro era il simbolo dell’unità familiare e, inoltre, si credeva
che fosse una specie di parafulmini.
Sic placeam vobis
Placeam è un congiuntivo desiderativo riferito a vobis, che sono gli dèi, soprattutto i Lari. Sic: così,
con questa semplicità, con questa sobrietà, possa io piacervi.
Notiamo che qua c’è quel gioco di parole di cui abbiamo accennato sopra: placare come verbo
intensivo di placere. La divinità è placata con l’offerta e lui spera così di piacere agli dèi. Dunque,
placare e placere sono in relazione stretta.

Alius sit fortis in armis


Qui abbiamo una contrapposizione. Io voglio vivere così sobriamente, un altro (o altri) sia forte e
coraggioso nelle armi.
Sit è un congiuntivo concessivo e significa sia pure: un altro sia pure forte, valoroso, eroe.

Sternat et adversos Marte favente duces


E abbatta, col favore di Marte, i condottieri nemici.
Sternat è un congiuntivo concessivo. Notiamo anche l’anastrofe, perché sarebbe et sternat et adversos
duces Marte favente (e abbatta i condottieri nemici col favore di Marte).
Marte favente è un ablativo assoluto.
Qui c’è una contrapposizione tra i Lari, come divinità tutelare domestica, e Marte che invece è la
divinità tutelare degli eroi, dei soldati. Una divinità placida, domestica, si contrappone alla divinità
della guerra.

Ut mihi potanti possit miles sua dicere facta


Ut ha valore sicuramente consecutivo e significa cosicché.
Mihi potanti significa a me che bevo - Tibullo si immagina di potersi sedere assieme a un soldato
reduce di guerra a bere del vino – possa raccontare le sue imprese.

et in mensa pingere castra mero.


Letteralmente: e dipingere sul tavolo gli accampamenti con il vino. Significa che il miles intinge il
dito nel vino e poi sul tavolo disegna, magari, gli schieramenti degli eserciti, la disposizione degli
accampamenti o i movimenti dei soldati, come se rappresentasse in una lavagna gli schieramenti degli
eserciti. Ovviamente per poter fare ciò, il vino dev’essere merula, perché se fosse annacquato non
lascerebbe alcun segno. È utile precisare questo aspetto (per quanto a noi oggi l’operazione possa
sembrare poco igienica) perché questa descrizione ha avuto una certa fortuna. Infatti, anche Ovidio
ha ripreso questo verso e lo ha emulato, dunque ha evidentemente una sua espressività, è realistico,
icastico.

Mero è uno strumentale: col vino. Il dito non c’è, ma noi immaginiamo che lo usi.
In mensa: sopra il tavolo (che funge un po’ da lavagna).

Quis furor est atram bellis accersere mortem?


Inminet et tacito clam venit illa pede.

Ma che follia è mai quella di richiamare la nera morte con le guerre?


Lei sovrasta [comunque] e viene clandestinamente a passi felpati (senza che noi ne sentiamo
i passi)

Tibullo si domanda: che senso ha andare in guerra per richiamare la morte? La morte già sovrasta su
tutti gli uomini, non c’è bisogno di andare a cercarla in guerra per morire prima e magari anche
peggio. Essa comunque deve venire, non è il caso di affrettarne l’arrivo.

Quis furor est atram bellis accersere mortem?


Inminet et tacito clam venit illa pede.

Quis furor est: ma che follia è mai quella di richiamare la nera morte con le guerre? Che bisogno c’è
di andare a cercarsi la morte nelle guerre?

Quis
Normalmente in latino questo aggettivo interrogativo dovrebbe essere qui, non quis (che è un
pronome e indica l’identità). Ma molte volte nella storia del latino troviamo questa alternanza e
fungibilità tra i due pronomi.

Furor
In latino furor non è il furore, la rabbia, bensì la follia. Tant’è vero che l’aggettivo furens (furente)
non significa rabbioso, ma folle; pensiamo ad esempio alle Furie, quelle divinità che fanno impazzire
gli uomini. Quale pazzia.

Accersere
Quale follia quella di richiamare, accelerare, provocare la nera morte con le guerre?
Alcuni manuali riportano arcessere, con la metatesi. È lo stesso verbo scritto diversamente.

Atram
La morte è detta atram, uno degli epiteti ornantia della morte (o niger, o ater). Ater ha una
connotazione più macabra rispetto a niger, perché niger è il colore, mentre ater è qualcosa di
orripilante.

Bellis
Bellis in questo caso è uno strumentale, perché la morte viene accelerata (richiamata) dalle guerre,
che sono appunto la causa, lo strumento della morte.

Inminet et tacito clam venit illa pede.


Verso molto bello, gnomico, questo pentametro ebbe molta fortuna come proverbio.

Illa inminet
Quella (la morte) sovrasta comunque su ognuno di noi e sull’umanità; sta sopra come la spada di
Damocle.

et venit clam
Clam è un avverbio. E viene clandestinamente, di nascosto

Tacito pede
A passi silenziosi, felpati (senza che noi ne sentiamo i passi) arriva la fine della nostra esistenza.

Dopo questa considerazione sulla morte, c’è una prima descrizione dell’aldilà; che non è comparabile
con quella che abbiamo visto prima. Qui si vede che Tibullo sta ancora sperimentando la sua
versificazione, perché la sua poesia è più schematica e, forse, anche un po’ ingenua. Quella vista nelle
elegie precedenti era più articolata perché c’erano i condannati, con la descrizione delle sofferenze e
il contrappasso. Qui invece la descrizione è molto più schematica, sintetica, convenzionale.

Non seges est infra, non vinea culta, sed audax


Cerberus et Stygiae navita turpis aquae;
Illic percussisque genis ustoque capillo
Errat ad obscuros pallida turba lacus.

Laggiù non c’è un campo coltivato, non c’è una vigna coltivata, ma un audace (sfrontato)
Cerbero e il turpe nocchiero della palude Stigia (Caronte).
Lì, con le guance ammaccate e con i capelli bruciacchiati
La pallida turba dei dannati erra presso le paludi oscure (infernali).

A tratti sembra di leggere Dante (che ovviamente conosceva questi poeti e anche a loro si è ispirato).
Tibullo, quando parla dell’aldilà deve contrapporre la desolazione dell’ambiente dell’aldilà con la
ricchezza e la bellezza idilliaca della campagna che lui desidera e a cui lui aspira.

Non seges est infra. Infra è un avverbio che significa laggiù, di sotto, da basso.

Non seges est: non c’è un campo che ti possa produrre delle messi. Seges è il campo coltivato, ma
anche il prodotto, la messe.

Non vinea culta


Non c’è una vigna che si possa curare, coltivare. Culta viene da colo.

sed audax Cerberus et Stygiae navita turpis aquae


Al posto del campo da coltivare ci sono due mostri.
Cerberus audax. Il Cerbero è audax, nel senso di sfrontato, in quanto non guarda in faccia nessuno,
tratta tutti allo stesso modo. Chi arriva nell’ade non può vantare nessun titolo, sia esso re o schiavo.
Navita turpis. L’altro è il turpe nocchiero. Navita è una forma arcaica per nauta, che sarebbe il
navigatore, il navigante. Qui è il nocchiero, colui che traghetta le anime dei defunti nell’aldilà. È detto
turpis, brutto, perché la morte è brutta. Quando i poeti latini usano l’aggettivo turpis hanno sempre
in mente il greco |aiscros|35, che non indica soltanto una bruttezza dal punto di vista fisico, ma anche

35
Questa è la pronuncia, forse. Chiedo scusa.
un qualcosa di impuro, repellente, detestabile anche dal punto di vista etico e morale. Quindi il turpe
nocchiero è brutto come fisionomia ma anche perché è detestabile l’ambiente in cui si trova.

Illic percussisque genis ustoque capillo


Errat ad obscuros pallida turba lacus.
Tibullo fa una descrizione delle anime, la pallida turba, e delle sofferenze che stanno patendo adesso
che sono nell’ade. La turba indica una massa indistinta. Essa è pallida perché pallido è il colore della
morte, dato che si tratta di anime di defunti.

Percussis genis usto capillo


Le anime vengono descritte anche con i contrassegni della stessa morte, magari dopo la cremazione.
Per esempio, usto capillo sono i capelli bruciacchiati e percussis genis sono le guance ammaccate,
consumate. Alcuni codici riportano perscissis al posto di percussis, che si può tradurre con graffiate,
lacerate.
Percussis genis usto capillo sono degli ablativi assoluti. Percussis da percutio e usto da uro, che
significa bruciare.

Errat ad obscuros pallida turba lacus.


Errat nel senso che la turba pallida vaga senza meta, senza pace. Ad non indica tanto la destinazione
ma il luogo in cui avviene questo vagare senza pace, ossia obscuros lacus, presso gli oscuri laghi.
Notiamo dunque che la morte e l’aldilà hanno sempre connotazioni tenebrose (ater, obscurus, niger).

Quam potius laudandus hic est, quem prole parata


Occupat in parva pigra senecta casa. 40
Ipse suas sectatur oves, at filius agnos,
Et calidam fesso conparat uxor aquam.

Quanto, piuttosto, è da lodare colui che dopo essersi procurato una prole
La vecchiaia lo raggiunge in una piccola (povera) capanna.
Lui stesso (in persona) pascola le proprie pecore, mentre il figlio piccolo pascola gli agnelli
E la moglie procura dell’acqua calda per il marito stanco dal lavoro

La descrizione che fa adesso Tibullo si contrappone a quella convulsa e drammatica del soldato che
se ne va in guerra senza avere una casa, una donna che possa amarlo e accudirlo, e senza figli attorno
a sé. Infatti, abbiamo una scenetta familiare ambientata nella campagna.

Quam potius laudandus hic est, quem prole parata

Potius
Il potius del verso 39 instaura una comparazione tra il soldato che fa una vita terribile, convulsa,
drammatica e il contadino che è placido, ha i suoi ritmi, cioè quelli dei pascoli che segue insieme al
figlio piccolo e con sua moglie che a fine giornata lo conforta e lo consola con un bagno caldo.

Laudandus est è una perifrastica passiva: quando, piuttosto, è da lodare, o va lodato.


Hic quem. Colui che.

Prole parata è un ablativo assoluto: dopo essersi procacciato una prole, dopo aver avuto dei figli.
Proles in latino è un termine poetico, ed è un termine collettivo perché non indica soltanto un figlio
ma la figliolanza.

Occupat in parva pigra senecta casa.

Occupat pigra senecta. Lo raggiunge la vecchiaia pigra, che lo rende pigro. La vecchiaia non consente
di fare ciò che si riusciva a fare da giovani, quindi il vecchio risulta non tanto pigro quanto impedito
nella possibilità di fare certe attività. L’augurio di Tibullo è quello di non morire da giovane
improvvisamente in battaglia ma di attendere che arrivi la pigra senecta, la vecchiaia. Si augura di
poter invecchiare tranquillamente in una vita ugualmente sobria, povera.
Notiamo la scelta di utilizzare il verbo occupare. È una notazione psicologica molto fine. La vecchiaia
arriva all’improvviso; uno si ritrova vecchio senza accorgersene.

In parva casa significa in una piccola capanna. In latino casa si dice domus, ma è un termine generico.
Il casa latino ha significato di capanna, di legno o di frasche. Il tutto serve a sottolineare la semplicità
e la sobrietà del tenore di vita che Tibullo idealizza.

Ipse suas sectatur oves


Ipse, cioè lui stesso, non demanda ad altri il suo lavoro, non ha servi pastori, ma lui in persona suas
sectatur oves, segue (insegue) le sue pecore (suas, di sua proprietà36). Sectari è un verbo frequentativo
di sequor. Sequor significa “seguire”, sectatur “seguire spesso” e, quindi, quasi “inseguire”,
“pascolare” in sostanza.

At filius agnos
At significa mentre e dà l’idea di contrapposizione. Infatti, il figlio (filius) sectatur agnos, cioè,
essendo più piccolo pascola gli agnelli, che sono meno impegnati rispetto alle pecore adulte.

Et calidam fesso conparat uxor aquam


Uxor, la moglie, conparat, ossia procura, prepara l’acqua calda (aquam calidam) per il marito stanco
(fesso).

Fesso è un dativo di vantaggio riferito al marito che torna stanco dal lavoro. Fessus è il participio
perfetto del verbo fatiscor, e significa affaticato. Non ha niente a che vedere con “fesso” in italiano.
Sono due parole omografe ma che non hanno nulla a che fare l’una con l’altra. L’omografia e
l’assonanza non sono una prova della familiarità, della parentela tra due termini. In italiano, “fesso”
deriva dal participio passato del verbo findere e significa “filato”. Si usava, ad esempio, per i piatti,
per le pentole filate, o per le campane fesse, filate, che fanno un suono sgradevole. Quindi, dire di
qualcuno che è fesso significa dire che ha il cervello filato, guasto.

36
Anche Virgilio e Orazio avevano questa cura di rimarcare nella sobrietà del tenore di vita che il bestiame che viene
pascolato è comunque di proprietà. Pur essendo poveri, hanno del bestiame da pascolare.
Notiamo che le norme igieniche fondamentali sono preservate. I romani erano persone molto pulite
dal punto di vista igienico e il bagno caldo lo facevano tutti i giorni. Seneca stesso diceva che un
bagno caldo quotidiano, magari alle terme, era un privilegio che non si poteva negare nemmeno a uno
schiavo. È una testimonianza di ciò anche il fatto che le terme erano la seconda cosa che i romani
costruivano dopo le strade. Quindi, anche in questa descrizione di semplicità, di povertà, di vita
agreste, il bagno caldo a fine giornata non manca.

Sic ego sim, liceatque caput candescere canis,


Temporis et prisci facta referre senem.

Così io possa essere (così io possa vivere), e sia consentito che il mio capo imbianchi di
canizie,
e da vecchio mi sia consentito raccontare gli eventi del tempo passato.

Sic ego sim è un congiuntivo desiderativo. Tibullo vuole condurre la sua vita così. Il sic fa pendant
con il sic visto prima (sic placeam vobis).

Liceat si traduce con “e mi sia consentito”. Da questo liceat dipendono due proposizioni soggettive
all’infinito:
- caput candescere canis. Mi sia consentito che il mio capo si incanutisca di capelli bianchi,
cioè mi sia consentito di raggiungere la vecchiaia.
- senem referre facta temporis prisci. Mi sia consentito da vecchio (senem) di raccontare le
azioni e gli eventi (facta) del tempo passato. Gli anziani sono la memoria storica.
In caput candescere canis c’è una forma di pleonasmo, perché è ovvio che il capo (caput) si imbianca
(candescere, imbiancarsi) di capelli bianchi (canis). Però questo pleonasmo consente al poeta di
ricorrere a un triplice omoarcto, ossia l’accostamento di tre parole che cominciano con la stessa
sillaba: caput candescere canis (candeskere, con pronuncia arcaica). Questa figura retorica di suono
rende tollerabile il pleonasmo. I romani non conoscevano le rime nella poesia, però godevano appunto
di espedienti fonici come allitterazione, paronomasia, chiasmo, omoteleuto, omoarcto; organizzavano
il verso in un altro modo, con la musicalità e il ritmo. La rima comincerà soltanto nella poesia tardo
imperiale come sperimentazione, poi prenderà piede nel medioevo.

Temporis et prisci è un’anastrofe. Infatti, et dovremmo trovarlo prima di temporis.

Interea pax arva colat. pax candida primum 45


Duxit araturos sub iuga curva boves,
Pax aluit vites et sucos condidit uvae,
Funderet ut nato testa paterna merum,
Pace bidens vomerque nitent-at tristia duri
Militis in tenebris occupat arma situs- 50
Abbiamo detto all’inizio che questa è un po’ l’elegia della pace, o almeno così viene chiamata, poiché
la pace ha un posto di rilievo. Infatti vedete che dal verso 45 fino al verso praticamente 50 noi abbiamo
la pace personificata, con P maiuscola, più volte citata, anche in polìptoto: Pax arva colat… Pax
candida… Pax aluit vites…Pace, vedete questa anafora continua, anche col polìptoto.

E poi inizia con questo interea,


cioè ‘prima’ che inizi la vecchiaia, ‘intanto la Pace coltivi i campi’.

colat
più che un desiderativo è un esortativo poiché vi è una richiesta di una pace alla divinità perché possa
favorire l’agricoltura, quasi che lei stessa dovesse coltivare i campi.

arva
abbiamo già commentato questo termine che indica i campi coltivati, la radice è quella del verbo arare
e aratum, quindi non sono i campi incolti ma i campi arati, che si possono coltivare e dunque
produttivi.

Quindi è la Pace che deve coltivare i campi in modo da renderli produttivi perché la guerra non
consente questo. Ricordatevi che i Romani avevano avuto brutte esperienze: prima, nella seconda
guerra punica con Annibale che aveva messo a ferro e fuoco la campagna italiana e poi con le guerre
civili, che avevano praticamente bloccato l’attività agricola anche perché c’era stata una
redistribuzione delle terre ai veterani con delle tensioni sociali fortissime. Quindi soltanto con la pace
e con la stabilità è possibile dedicarsi serenamente all’agricoltura. Ecco perché dice ‘sì, io vorrei
diventare vecchio con i capelli canuti nella mia povera capanna, purché ci sia la condizione della pace
che mi consenta di dedicarmi a questa vita con serenità e anche con profitto.

Pax candida
La pace è qui detta candida ovviamente perché qui candidus è il contrario di niger; niger si riferisce
alla morte, il candore alla vita. La pace è candida per questo motivo, perché è pura, non è macchiata
di sangue. Per cui primum, cioè ‘in passato’, ha condotto i buoi destinati ad arare araturos, sub iuga
curva, ‘sotto il giogo ricurvo’. Quindi soltanto in una condizione di pace l’uomo ha potuto trovare gli
espedienti che potessero facilitare il lavoro dei campi, la guerra non consente tutto questo. La pace
per la prima volta duxit, ha condotto, come condizione indispensabile perché ci sia coltura feconda e
produttiva.

Araturos
Col participio futuro di arare, ‘destinati ad arare’, non ‘che stanno per arare’

Sub iuga curva


Sotto il giogo ricurvo. E’ chiaro che curvus è un epitetus ornans di iugum, il giogo è infatti sempre
ricurvo (sempre ricurvi perché devono adattarsi al collo dell’animale)
Il plurale è poetico, poiché i luoghi sono tanti, ma noi in italiano, in questo contesto, utilizziamo il
singolare.

Pax aluit vitae et sucos condidit uvae


‘La pace ha atto crescere le viti e ha riposto il succo dell’uva?, ha consentito la vinificazione. La
guerra col disastro di terreni bruciati, incolti e abbandonati (poiché chiaramente i contadini venivano
chiamati alle armi) non consente né la produzione dell’uva né tantomeno quella del vino. Soltanto la
pace dà questa possibilità, ecco perché lei stessa sembra quasi che faccia questo lavoro quando è
chiaro che lo fanno gli uomini sotto il suo patrocinio.

Alere
Di per sé significa alimentare le viti, cioè far sì che le viti siano produttive, che le viti producano
grappoli d’uva sostanziosi che poi permettano di fare il vino, ecco perché alimentare le viti. Non so
se questo perfetto sia gnomico, dunque da tradurre con un presente ma la presenza di primum, in
passato, correlando aluit e condidit con primum, dobbiamo tradurlo con un passato remoto o con un
perfetto. Altrimenti se lo intendiamo come un perfetto gnomico al presente. La pace è infatti una
condizione perenne e universale perché si possa produrre efficacemente.

Conditi sucos uvae


È la produzione del vino, condere di per sé significa riporre perché una volta spremuto, il mosto viene
riposto prima nel timo e pi nelle botti. E un verbo quasi tecnico. In genere condere si usa per riporre
un qualsiasi frutto della terra, ad esempio i cereali.

Sucos uvae
È chiaramente il mosto

funderet ut nato testa patera merum (anastrofe funderet ut)


‘Affinché il boccale del padre versasse il vino al figlio’
La produzione del vino era un vantaggio per la famiglia, non era a fini commerciali ma per uso
familiare. Il padre poteva orgogliosamente versare il vino al proprio figlio, come si faceva un tempo.

Testa paterna
Testa, al femminile è un qualsiasi oggetto di terracotta, in questo caso il boccale in cui si versa il vino.
In sardo testu significa ‘vaso di terracotta’.

Funderet merum
Versasse il vino

Nato
Al proprio figlio

Pace bidens vomerque nitent


In tempo di pace la zappa e il vomere risplendono, luccicano, perché vengono usati molto,
contrariamente al periodo di guerra in cui si arrugginiscono. Questo pace è un ablativo quasi di tempo
‘in tempo di pace’, ‘durante la pace’.

bidens
Zappa, come in sardo marra, ma in questo caso è quella a due denti.
Vomere
Vomere dell’aratro

Nitere
Splendere, essere puliti, luccicare

C’è poi la contrapposizione con le armi che chiaramente arrugginiscono

At tristia duri militis in tenebris occupat arma situs


‘Mentre la ruggine occupa, si impadronisce delle tristi armi del duro soldato nelle tenebre, nel buio
di un ripostiglio, perché le armi non servono più.

Enjambement tristia..arma con un forte iperbato, tristia è al verso 49 e arma al verso successivo. Ciò
permette al poeta di accostare due aggettivi che evocano subito l’atmosfera della guerra, tristia e duri;
accostati, giustapposti evocano il clima bellicoso. Le armi sono tristi perché spietate nel generare
tristezza, il soldato è detto durus, crudele, perché deve uccidere i nemici. Sono due aggettivi che
hanno più o meno lo stesso significato di spietatezza e crudeltà.

Situs
Significa ruggine, anche squallore e polvere, viene usato anche per i luoghi. Quando ad esempio, un
luogo o un oggetto non vengono usati, si parla di situs, abbandono, polvere, ruggine, frutto del non
utilizzo. La ruggine occupa, imbrunisce nel buio dello sgabuzzino.

Contrapposizione voluta con nitent, che è il luccicare per la pulizia, e il buio del ripostiglio dove
alligna la ruggine, la polvere.

Tenebra ha in latino sempre una connotazione negativa.

Rusticus e lucoque veti, male sobrius ipse,


Uxorem plaustro progeniemque domum.

Alcuni pensano che fra il verso 50 e 51 ci sia una lacuna. In effetti questa elegia è più breve delle
altre, conta meno versi, quindi ci potrebbe essere una lacuna oltre a quella vista prima. Sembra infatti
che lo scarto logico sia un po’ forte: prima si dice che in pace gli arnesi per lavorare la terra sono
puliti e luccicanti, e poi nel distico successivo si parla del contadino che torna un po’ brillo da una
sagra paesana. Si potrebbe anche connettere con un po’ di fantasia, però alcuni hanno notato uno
scarto che ha fatto sospettare una lacuna.

Traduzione: ’Il campagnolo trasposta da un bosco sacro (in cui si è svolta la sagra), lui stesso poco
sobrio, un po’ brillo o ubriaco, la moglie e i figli a casa su un carro’.

Sono scene presenti anche nelle nostre tradizioni sarde nella vita campagnola (50 anni fa eravamo
come nell’antica Roma, avevamo l’aratro in legno come quello romano). Si fa riferimento alle sagre,
durante le quali le famiglie andavano con la ‘tracca’, cioè col carro dei buoi, agghindati come a sant’
Efisio. La scena è quella del contadino che rientra dalla sagra, brillo, che porta sul carro la moglie e i
figli a casa.

Rusticus
Abbiamo già visto che in Tibullo non ha una connotazione negativa, rusticus è il campagnolo, il
contadino, chi abita in campagna, non il grezzo e rozzo in italiano.

Lucus
E’ il bosco sacro, dove si svolgono le feste campestri, dove vi erano santuari (il corrispondente delle
nostre chiese campestri), dove in determinati giorni ci si radunava, si facevano i sacrifici e si beveva
e mangiava in festa.

Que
Sarebbe come e lucoque rusticus vehit, ‘e al ritorno dal bosco sacro, il contadino trasporta…’, notate
l’anastrofe.

Male sobrius ipse


E’ lui stesso poco sobrio (sobrius è il contrario di ebrius, ‘ubriaco’). Questa sibilante iniziale indica
separazione: s-ebrius, l’abbiamo visto, che con un piccolo mutamento fonetico diventa sobrius.
Qui però c’è una litote poiché male sobrius significa un po’ brillo. Tale litote ha un gusto popolaresco,
lo troviamo anche in italiano, ad esempio in espressioni qual fidato e mal fidato, dove mal fidato
significa non fidato. Qui l’avverbio male viene utilizzato per negare. Oppure malconcio, malridotto,
sono quelle formazioni aggettivali che praticamente nega, creando una litote. Quindi ‘egli stesso
stesso’ (ipse) un po’ sbronzo’. Porta poi a casa la moglie e la progenie.
Plaustro
E’ il carro pesante da lavoro, come la tracca che vediamo a Sant’Efisio, con le ruote piene che
trasportavano carichi piuttosto pesanti, in questo caso tutta la famiglia in festa che torna dalla sagra.

Vi è poi la scenetta del contadino un po’ sbronzo che torna a casa in cui si innesta la scena dei litigi,
delle guerre d’amore fra marito e moglie o in genere fra amanti. Anche qui vi è probabilmente una
lacuna perché lo scarto logico è molto forte. La scena del ritorno a casa brillo è serena, qui sembra
invece che si passi in città e da marito e moglie si passi ad amanti, probabilmente c’è una lacuna dopo
il verso 52, almeno così la pensano diversi critici e il professore è d’accordo.

Sed Veneris tum bella calent


‘Ma allora si accendono le guerre di Venere e la donna si lamenta che le siano stati strappati i capelli
e che sia stata abbattuta la sua porta’, torniamo cioè al motivo del paraklausituron, il motivo
dell’amante smanioso in preda alla voglia di incontrare la sua amante che desidera ma sfondando la
porta si crea un bisticcio e la donna in questa specie di rissa torna con i capelli strappati. Non c’entra
niente con la scena precedente, tranquilla, qui invece l’ambiente è completamente diverso.

Bella veneris,
guerre tra amante e amata che non necessariamente si corrispondono; la donna viene generalmente
rappresentata come un po’ ritrosa, perciò scoppiano sempre le liti fra i due.
Calent
‘si riscaldano, si accendono’

Al verso successivo c’è una piccola notazione sintattica perché dopo il soggetto femina abbiamo
conqueritur che significa ‘si lamenta’ e poi due infinitive, scissos (esse) capillos e perfractas fores,
che dipendono da conqueritur. Abbiamo forse un usteron proteron, prima l’amante focoso infatti
deve sfondare la porta e poi semmai strapparle i capelli, altrimenti non avrebbe senso. Qui abbiamo
prima i capelli strappati e poi lo sfondamento della porta. Perfrancta, da perfringo, scissos da scindo

Flet teneras subtusa genas, sed victor et ipse


Flet sibi dementes tam valuisse manus

La scena non è molto bella per la nostra sensibilità

‘Lei, ammaccate la guance tenere, piange ma lui stesso vincitore piange che le sue mani folli abbiano
avuto tanta forza, siano state tanto pesanti’. Lui piange per avere usato la mano pesante con lei.

Subtusa teneras genas


Abbiamo un participio da subtundo, ‘ammaccare’ ‘pestare’ mentre teneras genas è un accusativo di
relazione.

Sed et ipse,
Anche il maschio seppur vincitore, victor assume una sfumatura concessiva, è un predicativo, ma si
può rendere con ‘seppur vincitore’, e poi flet e un’altra oggettiva ‘che a lui siano state così pesanti le
mani’. Una cosa interessante è che le mani siano dementes perché le ha usate in un momento di
mancanza di senno de-mentes (de privativo), le mani hanno agito in un impulso irrazionale, un raptus
di follia, non sono state dosate bene le sue forze e ha fatto del male alla sua amata.

Non ci sono solo botte da orbi ma anche parolacce.

Infatti dice

At lascivuus Amor risse mala verba ministrat,


Inter et iratum lentus utrumque sedet.

‘Mentre l’amore lascivo (detto lascivo perché non ha nessuna coscienza) offre male parole alla rissa’,
come se Amore si divertisse a suggerire agli amanti che litigano le parolacce.

‘E lui (l’Amore), indifferente (nella sua olimpica serenità) siede tra i due arrabbiati, adirati’

Anastrofe inter e utrumque


Torniamo alla lettura dei versi 55 e 56 e valutiamo le cesure

prima ipotesi:
Flet teneras, pausa, cesura semiternaria
Subtusa genas, pausa, cesura semisettenaria
Sed victor et ipse

Oppure possiamo usare la semiquinaria femminile:


Flet teneras subtusa, cesura semiquinaria
Genas sed victor et ipse

Qual è preferibile? Forse la prima perché c’è la virgola, se usiamo le due cesure non spezziamo
l’interpunzione.
Possiamo poi giostrare come preferiamo mantenendo l’attenzione sulla catena logica.

Anafora flet…flet, piange lei e piange lui mentre Amore è personificato.

A, lapis est ferrumque, suam quicumque puellam


Verberat: e cielo deripit ille deos

Qui c’è la condanna dell’uso delle mani, anche nei litigi tra amanti

‘Ahi, è pietra e ferro chiunque chiunque picchia la propria fidanzata, chi fa così (ille) strappa giù dal
cielo gli dei’, cioè si sta procurando la vendetta degli dei, che non vogliono violenze fra uomo e
donna.

A, sta per ahi

Da un punto di vista metrico


A lapis est ferrumque, cesura semiquinaria
Suam quicumque paella, semiquinaria femminile.

Usando le altre cesure


A lapis est
Ferrumque suam
Non terremmo conto della virgola fra ferrumque e suam, coendo un eccessivo distacco da puellam

E’ pietra e ferro, indicano l’insensibilità di chi alza le mani sulla propria ragazza

Verberat
Verberare, significa propriamente fustigare, frustare, ma è chiaro che qui viene usato come ‘alzare le
mani’ non necessariamente con la frusta, genericamente picchiare

puellam
E’ nella poesia latina la persona amata
Ecco che chi si comporta così si sta attirando l’ira degli dei.
Ille deripit
'Egli strappa via giù dal cielo gli dei’
Li costringe a intervenire dal cielo per punire un’azione empia, infatti
Deripere
De-rapere, con apofonia, strappare via da…; vi è anche un senso rafforzativo perché dicendo deripit
non ci sarebbe bisogno di dire e caelo, perché è chiaro che è dal cielo, ma con questo effetto viene
resa l’azione dello strappare con forza dal cielo, del trascinare giù gli dei, dello strattonarli per
vendicare l’azione empia.

LEZIONE 28 (18/12/2020) Alessandra Nieddu

La decima elegia presenta il motivo di condanna della guerra, come abbiamo già visto nelle precedenti
elegie. Alla fine c’è una digressione sul litigio (tema del litigio tra amanti) che può accadere tra un
amante e la propria amata. Il litigio può anche degenerare in percosse. Tibullo condanna questo tipo
di atteggiamento dicendo che chi si comporta in questo modo non è degno dell’amore ma ha un cuore
di pietra, di ferro, e trascina giù dal cielo gli dei procurandone la vendetta. È normale che due persone
litighino, si strappino le vesti, si scompiglino le chiome ben ornate; è normale far piangere la fidanzata
ma deve avere un limite. Chi percuote la propria amata è meglio parta in battaglia per sfogare così la
sua violenza.

• V.60
ha il cuore di pietra e ferro chiunque percuote la propria donna amata: egli strappa giù dal
cielo gli dei.

(come se invocasse la vendetta degli dei).

Nei distici successivi c’è la descrizione degli effetti che un litigio normale può avere.

• V.61
Sia sufficiente strappare dalle membra un vestito sottile, sia sufficiente scompigliare la
chioma, sia sufficiente anche suscitare le lacrime ma quattro volte beato colui per la cui ira la
ragazza può piangere (meglio che pianga per un normale litigio piuttosto che per le percosse
violente).

Abbiamo una struttura parallela con una serie di anafore con variatio:
- verso 61: sit satis (cong. Concessivo) ripetuto esattamente nel pentametro successivo.
- nel distico successivo: variatio nella disposizione delle parole: sit satis con iperbato.

Dal punto di vista metrico, se leggessimo questo verso in prosa saremmo portarti a leggere dissolvisse
(scompigliare) però questo participio perfetto non ci sta nel pentrametro. Quindi la V che si
pronunciava U in latino classico viene trattata come se fosse una vera e propria vocale, quindi si
dovrebbe leggere dissoluisse, che consente di essere inserita all’interno del pentametro.
Dopo ornatus c’è la cesura, poi lunga, breve, breve, lunga, breve, breve, lunga.
Quater ille beatus: motivo del makarismòs (makarios = beato), il dichiarare qualcuno beato, felice
per qualcosa.
In genere noi abbiamo “tre volte beato”, qui invece è “quattro volte beato”. Probabilmente anche per
ragioni metriche ma il motivo è semplicemente iperbolico.

Quo irato: ablativo assoluto letteralmente: adirato il quale la tenera fanciulla può piangere.

La puella è sempre candida in Tibulo; o è candida o è tenera. È uno degli aggettivi che preferisce in
riferimento alla fanciulla o a situazioni affettuose.

Nel distico successivo: condanna di chi è manesco.

• V. 65
Ma colui che sarà violento con le mani, egli porti lo scudo e il palo e sia lontano dalla dolce
Venere, perché uno violento è inadatto alle storie d’amore.

Saevus: violento che agisce con impulso.

Sudis lo traduciamo come “palo” ma in realtà è una specie di giavellotto corto di legno usato come
arma di offesa.

Saeuus si contrappone a mitis.

L’ultimo distico è dedicato alla pace. Lui non vuole occuparsi della guerra ma godere dei benefici
della pace.

• V.67
Ma, o pace alma, vieni a noi e tieni in mano una spiga e dinanzi a te il tuo candido seno (lembo
della veste) trabocchi di frutti.

almus significa sostentare, nutrire, la pace infatti consente la produttività dei campi.

L’iconografia della pace soprattutto nelle monete era raffigurata come una donna che teneva in mano
una spiga o un fascio di spighe. Qui Tibullo vuole quindi riproporre l’iconografia tradizionale della
pace come donna che sostiene e favorisce la coltivazione dei campi.

anasterofe: et è messo dopo il verbo ma è come se fosse prima: et perfluat pomis candidus ante sinus.

QUINTA ELEGIA

È un’elegia molto particolare perché racconta una separazione, non un litigio occasionale, tra Tibullo
e Delia, a causa di un ricco amante che ha preso il posto di Tibullo. Qui Tibullo si pente di essere
stato intrattabile, scontroso, anche orgoglioso, avrebbe infatti detto, da quanto si deduce, che avrebbe
potuto vivere anche da solo e che non aveva bisogno di lei. Chiede in seguito di essere trattato come
uno schiavo fuggitivo, marchiato a fuoco, e di essere tormentato. La poesia di Tibullo è una poesia
molto lineare, i versi sono molto semplici. Qui notiamo una particolare asprezza, tanto da poter far
pensare, con una prima lettura, che questo testo non sia di Tibullo. Il dubbio può essere anche
legittimo ma bisogna fare diverse considerazioni: questa è una delle prime elegie, quindi forse non
aveva ancora raggiunto quella raffinatezza e perfezione versificatoria. Inoltre è probabile che la poca
linearità sia dovuta allo stato d’animo del poeta che è tormentato interiormente. Dopo questa prima
parte in cui si pente di aver usato parole altezzose nei confronti della donna amata racconta che
quando lei era malata si era prodigato affinché guarisse, addirittura facendo particolari riti di
purificazione della casa e della persona. Nella seconda parte dell’elegia invece è una specie di sogno:
Delia, donna di città, sogna di andare in campagna e di fare la padrona di casa gestendo una fattoria.
Immagina che in mezzo ad una giornata di lavoro arrivi Messalla (amico di Tibullo ormai noto) e che
Delia lo serva come si servono le persone importanti. È un sogno che Tibullo faceva spesso
evidentemente. Sapeva però che Delia non era una donna di campagna e che quindi il sogno non si
sarebbe mai avverato. Questa consapevolezza (che si trattava soltanto di un sogno) conferisce al testo
una certa malinconia.

Troviamo nel primo verso una sinalefe, cosa strana perché Tibullo non ama queste anomalie e
irregolarità. Il fatto che proprio nel primo verso inserisca una sinalefe è strano: o vuole dare uno stile
tormentato che deve corrispondere al suo stato d’animo oppure è un’elegia quasi giovanile che non
ha ancora raggiunto la perfezione tecnica nell’uso del distico.

• V.1
Io ero scontroso, ero intrattabile e dicevo di essere in grado di sopportare bene la separazione
ma ora sta molto lontana da me la gloria dell’eroe. Infatti sono sospinto come una trottola
messa in moto da una frusta per un terreno pianeggiante che un bambino fa girare rapido con
la sua arte esperta.

La sintassi non è lineare come nelle altre elegie.

La prima parola, asper, è un po' la chiave musicale di tutta l’elegia. Si nota una certa asperità nello
stile.
-loquebar, imperfetto. Significa che lo diceva abitualmente.

-discidium termine tecnico per indicare il divorzio tra due coniugi. Tibullo e Delia non sono sposati
sono soltanto amanti, però il rapporto è talmente intenso che una separazione è un vero e proprio
divorzio.
- fortis, si discute se sia un nominativo o un genitivo. Nel primo caso traduciamo “una gloria eroica”.
Nel secondo caso invece “la gloria dell’eroe”.

- abbiamo poi un pleonasmo perché abest absum vuol dire “sono lontano da”. Il fatto che ci sia longe
rafforza questo concetto della lontananza.

Nel primo verso si possono usare le due cesure: Asper eram et semiternaria, bene discidium
semisettenaria
Anche nel verso 3 due cesure.

- Citus participio perf. Di cieo, messo in moto (vd. Cinetica, stessa radice).
- Celer da intendere nella funzione predicativa
Rarissimo caso di complemento di causa espresso con a/ab + ablativo. Sottolinea la proveniente
dalla causa è un costrutto popolareggiante che si diffonde nel tardo latino. Il latino classico è stato
sempre attento all’utilizzo di espressioni popolareggianti ha cercato di lasciarle fuori dalla lingua
letteraria. Nel tardo latino, quando viene meno questo controllo della lingua perfetta e letteraria, si
introducono, anche nella prosa più letteraria, certi costrutti che erano rimasti confinati al linguaggio
quotidiano.

• v.5
brucia il ribelle e torturalo affinché non gli piaccia di dire alcun che di altezzoso da questo
momento in poi, doma le parole aspre.

Tibullo chiede di essere trattato come uno schiavo fuggitivo che va via dal suo padrone e poi chiede
di essere riammesso nella famiglia ma questo gli costerà la tortura, la punizione corporale e la
marchiatura a fuoco. Gli schiavi avevano questo simbolo per indicare che erano da tenere sotto
controllo.

-post haec espressione popolareggiante, vuol dire “dopo queste cose”, “da questo momento in poi”.

• V.7 – Tibullo chiede perdono alla donna amata.


Perdona tuttavia, te lo chiedo per il patto si questo rapporto furtivo, clandestino, per l’amore
che abbiamo consumato, per il mio capo che si è sdraiato accanto al tuo.

-Tamen espressione eucologia pagana. “abbi pietà”

-Te oggetto di quaeso. Iperbato. “te furtiui foedera lecti, / per uenerem quaeso”

Nei versi successivi descrive le sue benemerenze nei confronti di Delia, scrive che quando lei era
malata ha fatto anche dei riti sacri per strapparla alla morte; le chiede quindi di perdonarlo per le
dimostrazioni d’amore in quelle situazioni difficili.

• V. 9
Io mentre tu giacevi spossata da una triste malattia si dice che ti abbia strappato dalla morte
grazie alle mie preghiere, e io ti ho purificata tutt’intorno con zolfo puro dopo che una vecchia
aveva intonato formule magiche; io stesso ho fatto in modo che gli incubi non potessero
nuocerti, sogni da esorcizzare per tre volte con la santa mola;

L’incipit ille ego vuole mettere in evidenza la sua persona “sono io che…” lo troviamo anche in
Virgilio.

Alcuni commentatori pensano che Delia abbia avuto un attacco di malaria, perché anche in altri poeti,
quasi come topos della poesia erotica, si ammalano di malaria. Non abbiamo però nessuna prova.

-Dicor con infinitiva.


-eripio: strappare via ma anche salvarsi.

La vecchia del villaggio era depositaria delle formule / riti.

-praecino: cantare, intonare.

-carmine magico strumentale, canto magico, lo traduciamo come se fosse comp. Oggetto “dopo che
una vecchia aveva intonato delle formule magiche”.

Elenca le proprie benemerenze con un’anafora.

-procurare con la completiva ne è uno dei modi che il latino utilizza per esprimere il causativo. Non
ama usare come l’italiano il verbo fare. “faccio andare”. In latino si usano altre perifrasi es. procuro.

C’è una licenza prosodica: in procurare la O è una sillaba lunga qui trattata come se fosse breve.

La mola era fatta di farina, sale, usata come una sostanza quasi medica e magica. Si offriva per tre
volte e questo sacrificio avrebbe vanificato i sogni violenti. È una sineddoche perché la mola era lo
strumento con cui si tritavano i chicchi di grano ma qui indica il prodotto della macinatura.

-deueneranda è un nominativo pl. Neutro concordato con somnia

• V. 15
Io stesso col capo velato di lino e con le vesti sciolte ho offerto, nel silenzio della notte, a
Diana, nove voti.

I sacerdoti si velavano il capo durante i sacrifici. Il lino era bianco simbolo della purezza rituale. Le
vesti erano sciolte nel senso che non avevano cintura. Nove era sempre nell’ambito dei numeri sacri.

-nocte silente ab.assoluto

• V.17 Benemerenze vane perché Delia non mostra riconoscenza a Tibullo


Io ho fatto di tutto e ora un altro gode dell’amore e usufruisce beato delle mie preghiere. Ma io
sognavo fuori di me che la mia vita sarebbe stata felice se tu oh Delia fossi stata salva, ma un dio
lo impediva.

Alcuni commentatori sostengono che questo alter sia addirittura una terza persona rispetto al dives
amator, ma alter probabilmente è sempre quel dives amator che ha preso il posto di Tibullo.

-Abbiamo tre lunghe: omnia persolui

-Variatio sinonimica: fuitur e utitur hanno lo stesso significato


-Fingo significa plasmare, verbo tipico del vasaio che plasma i suoi oggetti. Questo quindi è un sogno
inconsistente che nasce dal suo essere fuori dalla realtà; è una sua produzione della mente.

-Periodo ipotetico dell’irrealtà: si salua fuisses protasi con piccheperfetto congiuntivo.

-avversativa con ab.assoluto: sed renuente deo probabilmente dietro questo dio generico c’è Venere.

• V.21 tema caro a Tibullo del sogno della vita in campagna

Io abiterò in campagna e la mia cara Delia sarà presente come custode delle messi mentre
l’aia trebbierà sotto il calore del sole le messi oppure custodirà per me le uve nei tini ricolmi
e il mosto spumeggiante, candito, pressato con piede veloce.

-Colam non da intendere come cong. Desiderativo ma come futuro, confermato dal successivo
futuro semplice: aderit

Linguaggio poetico come scarto della norma: l’aia è personificata.

vd. Virgilio che in un verso delle Bucoliche scrive “sotto il sole ardente gli arbusti risuonano le
cicale”.

-sole calente ab.assoluto

-Teret calpestare perché le messi erano ammassate in un punto dell’aia e poi calpestate affinché la
spiga si scomponesse e lasciasse cadere i chicchi.

-Linter, di legno, significa anche barca.

• V 25 altra scena familiare tipicamente campagnola perché in città gli schiavi abitavano
separatamente dai padroni.

Si abituerà a contare i capi di bestiame e si abituerà il figlio dello schiavo ciarliero a giocare
nel grembo della padrona affettuosa.

-Consuescet la U è trattata come se fosse semiconsonante

-Il primo Consuescet ha come soggetto Delia, il secondo consuescet ha come soggetto il bambino.

-uerna è lo schiavo nato in casa. Quindi una coppia di schiavi che abita la casa ha un figlio.

-Garrulus, che parla molto


• V 27
Ella imparerà a offrire al dio campagnolo un grappolo d’uva per le viti, le spighe per le messi
e le vivande per il gregge.

-Sciens è l’apprendista (Delia è una ragazza di città), regge l’infinito che è ferre che troviamo alla
fine del pentametro.

Traduciamo il pro vitibus come un complemento di vantaggio però c’è anche sfumatura di
sostituzione, ci richiama a quella dimensione contrattuale.

• V 29 Delia padrona indiscussa della fattoria


Ella gestisca tutti, a lei tutto stia a cuore. Invece mi piaccia non essere nulla, non contare più
nulla in tutta la casa.

Doppio dativo, omnia sint (esortstivo) illi (dativo di vantaggio) curae (dativo di fine).

• V 31 apparizione di Messalla. Epifania.


Qui verrà il mio Messalla per il quale Delia colga da alberi selezionati frutti maturi e
venerando un così grande uomo si occupi di lui premurosa. Per lui apparecchi la tavola e lei
stessa gli offra i piatti.

Gli alberi selezionati intende che sceglie gli alberi con i frutti migliori e più maturi. Messalla è
venerato quasi come un dio. Delia è ministra, che in latino valeva meno del maestro. Delia è tuttavia
poco interessata alla vita di campagna ma preferiva frequentare i salotti di Roma.

LEZIONE 29 (19/12/2020) Chiara Eleonora Scano

(Riprendendo analisi Elegia V di Tibullo)

Ieri abbiamo letto quella parte dell’elegia in cui Tibullo sognava che Delia si trasferisse dalla città
alla campagna e che fosse un po’ la padrona della fattoria, e a un certo punto, nel mezzo dell’attività
della villa, della fattoria sarebbe apparso Messalla, quasi come una divinità, e Delia stessa lo avrebbe
accudito, gli avrebbe preparato il pranzo e glielo avrebbe servito lei stessa. Ovviamente si tratta di un
sogno, anche se poi Tibullo usa sempre il futuro come se fosse qualcosa di reale, ma si rende conto
che è soltanto un’illusione, un sogno e lo dice appunto nel verso 35:

Haec mihi fingebam, quae nunc Eurusque Notusque 35

iactat odoratos uota per Armenios.


Traduzione: Queste cose io sognavo/ queste cose io m’inventavo /mi plasmavo, cose/ sogni che ora
Euro e Noto sballotta/ getta via (iactat) attraverso l’Armenia profumata.

v.35 fingebam: è il verbo proprio del vasaio che plasma i propri vasi; quindi si tratta di elucubrazioni,
si tratta di sogni, forse anche di desideri, visto che dopo questi sogni sono chiamati vota, “auspici”.
Quindi sono auspici, sogni che dei venti impetuosi, come possono essere l’Euro e il Noto, sballottano,
disperdono nell’Armenia odorosa. Sono tutti riferimenti piuttosto eruditi e si può dire che sia una nota
alessandrina all’interno della poesia di Tibullo.

Euro e Noto: sono due venti che troviamo anche in Omero, e sono in genere sempre appaiati, perché
sono venti che provengono dai quadranti meridionali: uno è un vento da sud, l’altro da sud-est. Sono
ricordati dagli antichi per essere venti piuttosto impetuosi, soprattutto creano delle raffiche molto
forti. Sappiamo anche oggi nell’esperienza quotidiana, che quando soffia un vento dai quadranti
meridionali, come possono essere lo scirocco e il mezzogiorno, ci si deve aspettare dei venti a raffica.
Sono quindi venti che possono disperdere con violenza, con impeto i sogni che Tibullo fa, che sono
vota, sono ‘auspici’.

Iactat: vuol dire “gettare di qua e di là”. Il verbo iacio significa ‘lanciare’, ‘gettare’; qui abbiamo il
frequentativo iactare, che appunto significa ‘gettare di qua e di là’, ‘gettare spesso’ e indica bene la
raffica di vento che disperde poi questi sogni.

Un’altra nota erudita è quella dell’Armenia profumata. L’Armenia è una regione orientale, lontana,
quasi ai margini del mondo allora conosciuto; è usata quindi per dire che questi sogni vengono portati
lontanissimo, nella parte più lontana della realtà. Una cosa particolare che è stata notata da quasi tutti
i commentatori è che non c’è una fonte che dica che l’Armenia sia profumata, e cioè che producesse
degli unguenti, dei profumi, perché nella convenzione letteraria la regione che produce ed esporta
profumi è l’Arabia oppure la Siria. Non risulta che l’Armenia fosse una regione che producesse o
esportasse profumi. Può darsi che la nostra fonte ci sfugga e che Tibullo abbia voluto alludere a
qualche poeta, magari alessandrino ellenistico, che noi non conosciamo. L’Armenia odorosa significa
o che produce delle erbe aromatiche da cui si ricavavano le essenze per i profumi, oppure
semplicemente perché esportava, cioè faceva un po’ da intermediaria per la commercializzazione di
questi prodotti che venivano dall’India, oppure anche da regioni più interne dell’Asia. Quindi è una
nota erudita abbastanza particolare, perché Tibullo è sempre molto semplice e lineare, non ama fare
il prezioso, però ogni tanto evidentemente c’è il tentativo di allusività.

Dinnanzi a questa illusione, o meglio delusione, Tibullo reagisce come può: il primo strumento per
combattere queste illusioni è il vino, come abbiamo già potuto constatare in una precedente elegia. Il
vino, abbiamo ricordato, è chiamato anche lieus, Bacco è chiamato Lieus, da lio che significa
‘sciolgiere, dissolvere’, perché riesce un po’ ad anestetizzare i dolori e le sofferenze dell’uomo.
Quindi Tibullo ha anche tentato di combattere questa delusione, questa sofferenza attaccandosi alla
bottiglia.

Saepe ego temptaui curas depellere uino,

at dolor in lacrimas uerterat omne merum.

Traduzione: spesso io ho tentato di scacciare via gli affanni/ le preoccupazioni (curas) col vino, ma
il dolore aveva trasformato tutto quanto il vino in lacrime.
Sono due versi molto belli non solo dal punto di vista concettuale, ma anche dello stile. Tibullo
evidentemente più beveva e più piangeva, nel senso che il vino anziché anestetizzarlo, accresceva,
aumentava ancora di più il proprio dolore.

v.37 temptavi: abbiamo il verbo temptare con l’infinito, che è come il nostro tentare, cioè ‘cercare’,
che non è un costrutto diffusissimo in latino, perché è più frequente l’uso del verbo conari, quindi
sarebbe “conatus sunt depellere vino”. Ma un verbo deponente (come conatus sunt), soprattutto al
passato, all’interno di un verso occupa troppo spazio, perché si tratta comunque di una
circonlocuzione; invece temptavi essendo un verbo “semplice”, si presta meglio a essere introdotto
nell’esametro. Quindi “spesso/più volte io ho tentato di cacciar via (depellere)”.

Depellere: “cacciar via”. Notare la preposizione de- che indica allontanamento, quindi “cacciar via
gli affanni (curas) col vino”

Vino: “col vino”. In questo caso è uno strumentale.

v.38 merum: variatio sinonimica di vinum del v.37. Merum significa il vino puro, non annacquato
come usavano gli antichi. In questo caso, però, è un mero sostituto, un surrogato di vino per non
ripetere la stessa parola.

Il dolore però, dice Tibullo, aveva volto/ trasformato (verterat) tutto il vino in lacrime (in lacrimas).
Accresceva dunque il dolore.

Altro tentativo, altro espediente, altro rimedio che Tibullo ha tentato è quello di gettarsi nelle braccia
di un’altra ragazza, secondo quella filosofia popolare del “chiodo schiaccia chiodo”: quando c’è una
passione amorosa che ti tormenta, magari non corrisposta, uno cerca di dimenticare quella passione
gettandosi fra le braccia di un’altra donna o di un altro uomo. Soltanto che neanche quest’espediente
ha funzionato per Tibullo, che non riusciva pienamente a godere della nuova ragazza, perché subito
pensava alla vecchia e quindi ogni passione e desiderio per la nuova passava. E dice il poeta, con
versi molto discreti (che qualcuno ha tradotto in maniera forse un po’ volgare):

Saepe aliam tenui, sed iam cum gaudia adirem,

admonuit dominae deseruitque Venus. 40

Traduzione: Io spesso ho tenuto fra le mie braccia (abbracciato/ lett. ho stretto) un’altra donna, ma
proprio quando stavo raggiungendo il colmo del godimento/della gioia Venere mi ha fatto ricordare
della donna amata (della domina, in questo caso Delia) e mi ha abbandonato.

Da notare l’anafora di saepe: i due rimedi, il vino e l’amore (il “chiodo schiaccia chiodo”) sono
introdotti dallo stesso avverbio, saepe in anafora.

Mentre era nelle sue effusioni amorose e stava raggiungendo il culmine di questo godimento, a
Tibullo è venuta in mente Delia e Venere l’ha reso impotente.

Venus deseruit: l’abbandono di Venere, è un modo eufemistico per dire che Venere lo ha punito
attraverso l’impotenza
Admonuit dominae: “mi ha fatto ricordare della domina”. È un’espressione interessante da due punti
di vista: Delia è chiamata domina, non soltanto perché domina è anche il termine che viene usato per
la donna amata nell’elegia erotica latina, seguendo il motivo della militia amoris, del servitium amoris
(quindi la donna è un po’ una tiranna, una che domina l’amante, soprattutto quello infelice), ma anche
perché prima Delia era stata presentata come la domina della villa, la padrona della fattoria che
Tibullo sognava; poi da notare la presenza del genitivo dominae, perché admoneo è un verbo di
memoria e i verbi di memoria o di dimenticanza reggono il genitivo della cosa che si ricorda o che si
dimentica. Va ricordato anche che il verbo admoneo, o meglio moneo come verbo semplice, è l’antico
causativo di memini: memini significa ‘ricordare’, moneo significa ‘far ricordare’. L’oggetto del
ricordo va quindi in genitivo, in questo caso dominae.

Tunc me discedens deuotum femina dixit

et pudet et narrat scire nefanda meam.

Traduzione: la ragazza partendo (andandosene da casa mia a mani vuote) disse che io ero stato
stregato37 (dixit me devotum) e si vergogna e va in giro a dire/racconta che la mia ragazza (Delia)
conosce dei segreti magici/misteriosi/arcani (scire nefanda).

Quest’altra ragazza che naturalmente è delusa da Tibullo, perché non riesce a godere di lei e a godere
con lei, gli ha detto che probabilmente Delia lo aveva stregato, perché c’era qualcosa che non
funzionava, c’era un ostacolo che si interponeva in questa storia d’amore alternativa.

Da notare che Delia, che è la vera donna amata da Tibullo, è chiamata domina, mentre la povera
ragazza che dovrebbe fungere da rimedio viene chiamata femina, in maniera generica, senza identità,
senza alcuna connotazione. Femina significa che quella donna per lui non ha nessuna importanza, è
una femina, una donna trattante, non è la domina, che appunto è quella che domina il cuore del poeta.
È quindi interessante questa antitesi, questa contrapposizione tra dominae e femina, perché è chiaro
che si gioca sullo scarto, sulla differenza semantica fra questi due termini.

Discendens: “andando via, partendo a bocca asciutta”

Dixit me devotum (esse sottointeso): “disse che io ero stato stregato”. Qui il verbo devoveo viene
usato quasi proprio come verbo tecnico per indicare una specie di maledizione, di incantesimo che
viene gettato su qualcuno, la cosiddetta devotio: cioè c’erano delle pratiche magiche per cui votavano
qualcuno agli dei inferi o a qualche divinità ostile e quindi era in balìa di queste forze oscure,
soprattutto forze negative. Devotum non è dunque da intendersi come il nostro ‘devoto’ italiano, che
per noi significa ‘pio’; qui devotum è proprio in riferimento alla devotio, questa consacrazione di un
individuo, di una persona a una divinità. Quindi noi traduciamo ‘che io ero stato stregato’.

Et pudet: “e si vergogna”. Perché la ragazza si vergogna? La poverina si vergogna perché se ne va a


mani vuote, si vergogna perché con lei Tibullo risulta praticamente impotente. E allora, anziché
andare a dire che lei non ha il fascino per poter eccitare Tibullo, va a dire che meam, che ‘la mia
fanciulla’, cioè Delia scire nefanda ‘conosce segreti arcani’, cioè i segreti sempre pertinenti alla

37
Da Delia ovviamente
devotio, a questa magia per cui rende il poeta impotente e lo rende insensibile dinnanzi alle altre
donne.

E qui però Tibullo viene subito in aiuto a Delia, e dice: no Delia non è una strega o una che fa cose
di questo tipo, mi ha stregato non con formule magiche, ma mi ha stregato col suo fascino, con il suo
aspetto, con i suoi abbracci, con i suoi bei capelli biondi e quindi non è una devotio in senso tecnico,
soltanto che lei è affascinante e quindi il suo fascino mi strega. Lo dice chiaramente nei versi che
seguono:

Non facit hoc uerbis, facie tenerisque lacertis

deuouet et flauis nostra puella comis.

Traduzione: “Non fa questo con le parole/ con delle formule, ma mi strega (devovet38) col suo aspetto
(facie), con le sue braccia tenere/ con i suoi abbracci teneri (teneris lacertis) e la nostra ragazza mi
strega con le sue chiome bionde (flavis comis).

Facie: facies non è tanto la faccia, come in italiano, ma piuttosto ‘le fattezze’, come uno è fatto (la
radice è quella del verbo facio), perché è ben fatta fisicamente, ‘con il suo fisico’ si potrebbe tradurre
in italiano.

Tener: sempre in riferimento all’amore: una ragazza è tenera, gli abbracci sono teneri, il fianco è
tenero. Tutto quello che pertiene alla donna amata incute tenerezza, quindi viene usato questo
aggettivo.

Flavis comis: “con le chiome bionde”. Abbiamo detto tante volte che gli antichi romani preferivano
le donne con i capelli neri, tant’è vero che quando Catullo descrive Lesbia la descrive con gli occhi e
i capelli neri. Però piano piano nella tarda repubblica e in età imperiale comincia un po’ a insinuarsi
anche il gusto per gli occhi chiari e per i capelli biondi, che erano tipici dei germani, perché avevano
un non so che di esotico, non erano così frequenti a Roma i capelli biondi e gli occhi chiari, quindi
era un qualcosa di raro e di esotico, come evidentemente è la Delia di Tibullo.

Ai vv.45-46 troviamo un distico che fa riferimento a un racconto mitologico e qualcuno, giustamente,


ha sollevato il dubbio che sia un distico interpolato, cioè di qualche ammiratore di Ovidio che ha
voluto inserire qua questo riferimento a Teti e a Peleo. È un’ipotesi possibile, anche perché noi
sappiamo che Tibullo non ama fare riferimenti mitologici. Oltretutto è un’inserzione piuttosto dura,
perché poi al v.47 si riprende con Haec nocuere mihi che non fa riferimento al distico mitologico, ma
si riferisce a facies, ai lacerti, ai capelli biondi, non a quello che si dice nei versi 45-46. Quindi è
probabile che si tratti di un distico interpolato. Molte volte le interpolazioni sono causate dal fatto che
qualche copista a margine del manoscritto mette un riferimento, come facciamo noi quando studiamo,
che mettiamo una nota o una osservazione a margine del libro; poi ovviamente nel corso della
trasmissione del testo queste note a margine vengono direttamente inserite nel corpo del testo, come
se fossero parte integrante del testo. Quindi, nel nostro caso, è probabile che magari a un ammiratore
di Ovidio, vedendo questa descrizione, sia tornata in mente la storia di Peleo e di Teti e abbia inserito

38
Sempre con riferimento alla devotio
questo distico, che effettivamente non c’entra molto con il discorso che sta facendo Tibullo ed è
estraneo al gusto di Tibullo fare riferimenti mitologici. Ecco i versi in questione:

Talis ad Haemonium Nereis Pelea quondam 45

uecta est frenato caerula pisce Thetis.

Traduzione: Tale la Nereide Teti azzurra39 fu trasportata un tempo (quondam) verso Peleo il re della
Emonia (ad Haemonium Pelea) su un delfino/ su un pesce a cui sono stati messi i freni40 (frenato
pisce).

Alla luce anche della lettura e della traduzione dei versi 45-46, capiamo che non c’entrano niente col
resto. La storia di Peleo e Teti qui non c’entra niente, anche perché Teti si innamorò di Peleo, si fa un
po’ riferimento alla storia degli Argonauti, che non c’entra niente con la storia di Tibullo con Delia,
è tutta un’altra storia. Quindi probabilmente si tratta di un’interpolazione.

Anche la disposizione delle parole non sembra tibulliana: abbiamo Thetis Nereis (perché è una
Nereide) caerula “azzurra” (sempre riferito a Teti) vecta est “è stata trasportata” dove? Ad
Haemonium Pelea “verso Peleo” (di cui poi s’innamorerà) re della Emonia, frenato pisce “su un
pesce” (un delfino in questo caso) frenato, cui sono stati messi i freni come un cavallo.

Anche stilisticamente questo distico sembra essere distante dall’usus scribendi di Tibullo, poi
comunque c’entra poco con il resto. Infatti, quando si riprende al verso 47 Haec nocuere mihi, quod
adest huic diues amator; uenit in exitium callida lena meum, il cui incipit recita “queste cose mi
hanno danneggiato, queste cose mi hanno fatto male” non fa riferimento a Teti o a Peleo, fa
riferimento alla facies, ai lacerti e alla chioma bionda. Quindi è evidente che ci sia un impedimento,
un ostacolo anche nel fluire del discorso e che il distico di tema mitologico è stato inserito un po’
forzatamente.

Riprendendo dal verso 47, Tibullo afferma che non è stata una devotio, il rito magico, la formula
magica ma “sono queste cose che mi hanno fatto male, che mi hanno danneggiato” cioè la bellezza
stessa di Delia (la facies, i lacerti, la chioma bionda, come ricordato prima).

Haec nocuere mihi, quod adest huic diues amator;

uenit in exitium callida lena meum.

Traduzione: queste cose mi hanno danneggiato, poiché un ricco amante (dives amator) si è avvicinato
ad essa41 (adest huic); una mezzana astuta (callida lena) è arrivata (venit) a mia rovina/a mio danno.

Bisogna mettersi d’accordo sull’interpunzione, perché molti commentatori (compreso il Canali) dopo
Haec nocuere mihi mettono il punto, in questo modo Haec nocuere mihi. Quod adest huic diues
amator, uenit in exitium callida lena meum. Interpungendo in questo modo Quod adest huic diues
amator viene riferito al periodo successivo. La traduzione dunque sarà: queste cose mi hanno

39
Azzurra perché è figlia del mare
40
Un pesce a cui sono stati messi i freni, come se fosse stato un destriero, un cavallo
41
Un dives amator si è avvicinato ad essa (adest huic), cioè a Delia: nel senso che ora la possiede un amante ricco, che
ha il fascino della ricchezza.
danneggiato. Per il fatto che un ricco amante le si è accostato, è giunta una mezzana astuta a mia
rovina. Nel senso che questo dives amator si è servito dei servigi di una mezzana.

v.47 nocuere: sta per nocuerunt, è la forma alternativa del perfetto di noceo. Ricordare che noceo
regge il dativo.

v.48 callida lena: “una mezzana astuta”. Callida lo intendiamo come ‘spregiudicata’, una mezzana
che non ha nessuna morale, come dirà tra poco anche Tibullo. Lena è la mezzana, la ruffiana, quella
che combina spudoratamente dei rapporti, soprattutto disonesti come in questo caso, visto che Delia
è stata sottratta a Tibullo.

v.48 in exitium meum: è un complemento di fine: questa mezzana spregiudicata è giunta per mia
rovina, per rovinarmi (in exitium meum).

La figura della mezzana fa un po’ da starter a tutta una serie di maledizioni che Tibullo le lancia, per
avergli fatto del male. Sono delle maledizioni abbastanza macabre, ma fanno parte del genere.
Sappiamo che anche Callimaco ha descrizioni di questo tipo, anzi spesso si è messa in evidenza la
dipendenza di Tibullo da Callimaco. Questo genere di descrizioni sono riprese anche da Properzio,
da Ovidio, quindi fanno un po’ parte degli ingredienti del genere letterario della elegia erotica. Tibullo
si muove quindi all’interno di una convenzione letteraria.

Sanguineas edat illa dapes atque ore cruento

tristia cum multo pocula felle bibat; 50

Traduzione: essa mangi carni insanguinate42 (edat illa dapes sanguineas) e con la bocca piena di
sangue (atque ore cruento) possa bere tristi coppe con molto fiele (cum multo felle).

Per questo distico alcuni hanno pensato che il riferimento sia al furto delle carni sacrificate agli dei:
agli dei venivano sacrificate soprattutto le interiora, quindi secondo questa interpretazione si pensa
che lei rubi queste carni sacrificate e senza neanche cuocerle se le mangi e si riempia anche la bocca
insanguinata (visto che ha mangiato carni non cotte) del fiele proprio delle viscere offerte agli dei.
Quindi viene presentata come una donna anche sacrilega, talmente ridotta a mal partito che è costretta
a rubare le carni offerte alla divinità.

Tristia pocula: sono “amare coppe”, “amare bevande”, perché sono rubate e nemmeno cucinate e
cum multo felle “con molto fiele”.

Questo distico (vv.49-50), che riporta la prima maledizione, è stato individuato come dipendente da
un frammento di Callimaco, dove si parla appunto di una maledizione in cui si augura a un
personaggio non specificato di mangiare delle carni con il fiele.

hanc uolitent animae circum sua fata querentes

42
Ovvero sia talmente povera da non avere nemmeno il fuoco per cucinare le carni che deve mangiare.
semper et e tectis strix uiolenta canat;

traduzione: intorno a lei (circum hanc) svolazzino le anime dei defunti che lamentano il proprio
destino e il gufo/il barbagianni che porta male/ malaugurante (strix violenta43) possa cantare sempre
dal suo tetto.

La scena si fa sempre più macabra. Questa è la seconda maledizione. Le anime dei defunti che
svolazzano intorno a lei sono sicuramente le vittime della sua arte, perché facendo appunto la mezzana
ha messo in croce tantissimi amanti infelici, ha procurato l’infelicità di molti amanti che magari si
sono anche dati la morte. Le vittime dell’arte di questa mezzana possano quindi svolazzare attorno a
lei, un po’ come delle Furie (l’immaginario collettivo è quello).

Hanc…cirucum: anastrofe con traiectio, dovrebbe essere “circum hanc”. Abbiamo dunque
l’anastrofe perché la preposizione è messa dopo e la traiectio perché tra hanc, l’accusativo, e circum,
la preposizione, ci sono due parole, volitent animae. La traiectio è lo spostamento evidente e piuttosto
consistente di una preposizione dalla parola a cui si riferisce. Quindi in questo caso abbiamo
un’anastrofe con traiectio, che significa ‘spostamento forzato’.

Volitent: volitare significa “svolazzare”, è il frequentativo di volare: volare è ‘volare’, volitare è


‘svolazzare di qua e di là’. C’è l’idea dell’anima che svolazza di qua e di là senza pace, in questo caso
per tormentare questa donnaccia.

Animae…querentes sua fata: “anime che lamentano il proprio destino”. Attenzione: querentes non
viene da quaero, quaeris, quaesivi, quaesitum, quaerĕre, ma da queror, quĕrĕris, questus sum, quĕri,
che significa “lamentarsi”. Si tratta di due verbi diversi: uno ha il dittongo, quaero; queror invece non
ha dittongo ed è deponente. C’è l’accusativo dell’oggetto: lamentano il proprio destino (sua fata)
infelice, cioè aver perso la vita a causa anche delle attività di questa donnaccia.

Strix violenta: il barbagianni o, come si dice in sardo, sa stria (strix e stria sono imparentati), che
sarebbe o il gufo o il barbagianni, ovvero un uccello notturno che porta male. Violentus significa
appunto ‘che porta male’, ‘di malaugurio’, più che ‘violento’ in sé stesso; si potrebbe anche intendere,
come qualcuno fa, ‘rapace’, perché si tratta comunque di un uccello rapace. Ma è preferibile intendere
violentus come ‘del malaugurio’, che crea violenza e sofferenza, perché porta sfiga. Quindi questa
‘stria’, questo barbagianni del malaugurio possa cantare sempre dal detto della sua casa. Il senso del
tutto è che a questa donnaccia capiti ogni male possibile.

Canat: congiuntivo desiderativo.

Semper et: anastrofe per et semper.

Prosegue questa scena macabra delle maledizioni:

ipsa fame stimulante furens herbasque sepulcris

quaerat et a saeuis ossa relicta lupis,

43
Un uccello del malaugurio.
Traduzione: lei (ipsa) sotto lo stimolo della fame (fame stimulante) folle vada a cercare erbe da
mangiare nelle tombe (quaerat herbas sepulcris) e delle ossa abbandonate dai lupi feroci (et ossa
relicta a saevis lupis).

Qualcuno avanza l’ipotesi che le ossa di cui si parla in questi versi siano ossa di morti, ma in genere
i morti sono sepolti, quindi i lupi non vanno a sbranare corpi sepolti; più probabilmente qui si tratta
delle ossa delle carcasse lasciate dai lupi. E quindi: quaerat “vada a cercare” herbas sepulcris, le erbe
che sono piuttosto grasse e ben nutrite se si trovano in prossimità di una tomba, e delle ossa, ma
magari di altri animali abbandonate dai lupi feroci, non di defunti (non è il caso di interpretare
diversamente).

Fame stimulante: potrebbe essere un ablativo assoluto, quindi ‘sotto lo stimolo della fame’ va a
cercare quello che trova anche in un posto macabro come il cimitero; potrebbe però essere anche un
ablativo di causa dipendente da furens, cioè ‘folle per la fame che la stimola’. Il senso rimane lo
stesso, non cambia nulla, è soltanto una diversa interpretazione della sintassi.

currat et inguinibus nudis ululetque per urbes, 55

post agat e triuiis aspera turba canum.

Traduzione: e corra con il ventre scoperto e ululi44 attraverso la città, e dietro di lei vada/la insegua
una muta inferocita di cani dai crocicchi/ usciti fuori dai crocicchi.

Siamo dunque al colmo della follia.

Anche sul verso 56 i critici hanno un po’ discusso. Questa aspera turba di cani, questa aspra muta di
cani, viene fuori dai trivi e insegue questa donna, oppure la allontana dal consorzio umano, cioè da
dove c’è gente, e la costringe ad andare in piena solitudine? Dipende da come intendiamo il
complemento e triviis, se è riferito al luogo da cui vengono fuori questi cani, oppure se è il luogo da
cui viene allontanata questa donna. Il problema è che agat, il verbo agere, qui è molto generico:
significa o ‘spingere’, quindi ‘cacciare via’, o anche, qualche volta, ‘inseguire’. Quindi bisogna
vedere come s’intende questo verbo e come s’intende il complemento e triviis.

Post: può essere inteso come avverbio, oppure sottintendendo eam, post (eam) agat, ‘dietro di lei
vada’ cioè la inseguano questa turba di cani inferociti.

Dopo aver espresso queste forti maledizioni, Tibullo dice “queste cose non sono soltanto un mio
desiderio, ma sono cose che avverranno perché una divinità me l’ha indicato, me ne ha dato quasi la
conferma”.

Eueniet: dat signa deus; sunt numina amanti,

saeuit et iniusta lege relicta Venus.

44
Corra ululando, come fanno i matti, i folli.
Traduzione: accadrà: un dio me ne dà il segnale/ un dio me ne indica la certezza; l’amante ha delle
divinità tutelari, Venere infuria/ si accanisce/ si vendica (saevit) se è abbandonata con una ingiusta
legge.

La mezzana ha dunque infranto una legge di Venere, perché quel patto che si è instaurato tra Tibullo
e Delia è consacrato da Venere stessa. Se questa donna interviene per rompere questo rapporto tra i
due amanti, sta abbandonando Venere e deve attendersi la vendetta della divinità. Tibullo rimane
dunque sotto la protezione della divinità.

At tu quam primum sagae praecepta rapacis

desere, nam donis uincitur omnis amor. 60

Traduzione: ma tu quanto prima abbandona le raccomandazioni/ i consigli di questa strega rapace,


infatti ogni amore viene vanificato/ sconfitto/ ucciso dai doni.

Qui ci sono diverse interpretazioni. Tibullo sta dicendo a Delia di non seguire i precetti della mezzana,
perché l’amore non si fonda sulla ricchezza degli amanti: Delia si è procurata un dives amator e pensa
che l’amore possa fiorire dove c’è la ricchezza, ma non è così, perché spesso l’amante povero è quello
che ama meglio e di più. Quindi dice a Delia di non seguire i precetti di questa saga (parola che
abbiamo visto in un’altra elegia), di questa strega. Nella elegia precedente la saga era una sorta di
profetessa che prediceva il futuro, mentre qui è una strega rapace, perché fa tutto questo per il denaro,
è una mezzana che fa queste cose per interessi personali, per puro lucro. Questi consigli della mezzana
non sono praecepta amoris, non sono raccomandazioni d’amore, ma al contrario sono
raccomandazioni che stanno violando il patto dell’amore.

Quello su cui i critici discutono è il secondo emistichio del verso 60, perché i manoscritti hanno nam,
ma molti critici sostengono che nam, questo nesso causale con quello che dice prima, non è molto
chiaro e sembra non c’entri molto, a meno che non s’intenda: “infatti ogni amore/ ogni rapporto
amoroso viene ucciso/ viene annullato (vincitur) dai doni (donis) che ti fa l’amante ricco”. Alcuni
però pensano che nam sia una corruttela dei manoscritti per num, e allora la punteggiatura cambia e
diventa desere: num donis vincitur omnis amor? “forse che ogni amore viene vinto dai doni?”, cioè
forse che l’amore si può conquistare attraverso i doni di un amante? Questa seconda interpretazione
è più convincente e anche dal punto di vista filologico è una proposta economica, perché nam e num
si alternano, nel senso che un copista che ha visto num ha sbagliato e ha scritto nam, perché le due
parole sono molto vicine paleograficamente. Anche come senso, l’interrogativa retorica è più
convincente. Si tratterebbe dunque di un’interrogativa retorica che implica una risposta negativa:
“Forse che ogni amore viene vinto/ viene conquistato con i doni?” “Certamente no” sarebbe la
risposta. Ricapitolando, se si legge nam, vincitur va inteso come “viene annullato, viene vinto, viene
ucciso dai doni”, se invece intendiamo num allora vincitur significa “viene conquistato”. Abbiamo
dunque due sfumature del verbo vinco, una positiva “conquistare”, e una negativa col significato di
“abbattere”.

Notiamo che nei testi di Tibullo ricorrono frequentemente le anastrofi, dovute proprio alla necessità
del metro. Notiamo infatti che l’anastrofe è presente quasi sempre nel pentametro: per esempio, nei
versi appena analizzati è presente al v. 52 semper et e tectis; poi ancora al v.54 quaerat et a saeuis;
poi ne abbiamo un’anastrofe al v.58 e una nel v.63. Quasi ogni pentametro ha la sua anastrofe, perché
è lo schema del pentametro a spostare la congiunzione et in seconda posizione.

Dal v.61 in poi, Tibullo fa l’elogio dell’amante povero. Il dives amator ha conquistato con i suoi doni
Delia, però il vero amante deve essere povero, perché il povero è sempre devoto, non ha nessun altro
interesse se non quello di compiacere la donna amata. Quindi Tibullo dice che un amante povero è
preferibile, come è lui d’altronde, come Tibullo si dichiara.

Pauper erit praesto semper, te pauper adibit

primus et in tenero fixus erit latere,

pauper in angusto fidus comes agmine turbae

subicietque manus efficietque uiam,

Traduzione: un povero (un amante povero) sarà sempre a tua disposizione, un amante povero si
presenterà a te per primo e ti resterà fisso/ resterà fisso (erit fixus) al tuo tenero fianco (sarà sempre
al tuo fianco), un amante povero sarà un compagno fidato (fidus comes) nella calca angusta della folla
(in angusto agmine turbae) e ti sosterrà con le sue mani (subicietque manus) e ti aprirà la via.

Tibullo sostiene dunque che un amante povero è più disponibile, più disposto anche a fare il lacchè,
che non l’amante ricco che mantiene sempre una sua alterigia, una sua arroganza, quindi non si
presterà a tutti i servigi per la donna amata.

Pauper…pauper: notare l’anafora di pauper, ripetuto due volte al v.61 e ripetuto all’inizio del v.63
(si ritroverà poi anche nei versi successivi). C’è proprio la volontà di contrapporre la povertà (che
non è la miseria) alla ricchezza del nuovo amante di Delia.

v.61 Pauper erit praesto semper: praesto esse significa ‘essere pronto, essere a disposizione’, una
espressione classica che troviamo anche in prosa. Il concetto che Tibullo vuole esprimere è che un
povero sarà sempre a tua disposizione, sarà sempre pronto, sarà sempre presente, sarà sempre
servizievole.

pauper te adibit primus: “un povero/ un amante povero ti si presenterà (te adibit) sempre puntuale”.
Primus può essere inteso come ‘puntuale’: mentre un amante ricco è pieno di affari che lo possono
distrarre e arriva magari con mezz’ora di ritardo, invece un amante povero è sempre puntuale davanti
alla casa dell’amata. Quindi primus lo intenderemo come ’puntuale, sempre in orario’.

Et in tenero fixus erit latere: “e sarà fisso/ attaccato al tuo fianco tenero”. Da notare tener sempre in
riferimento al fianco della donna amata. Qualche critico, tra cui Della Corte, intende qui tener come
‘giovanile’, ma qui la giovinezza non c’entra nulla: il fianco è tener perché si tratta del fianco a cui
Tibullo è affezionato, per cui prova tanto amore e quindi tutto quello che riguarda Delia è tener,
perché questo aggettivo ha un valore, un significato fortemente affettivo. Quindi possiamo tradurre
“il tenero fianco” o “il fianco amato”.

Poi il povero farà anche un po’ da bodyguard, da compagno fidus, soprattutto in mezzo alla calca
della città, in angusto agmine turbae. Questo ci fa capire che molte strade di Roma erano talmente
affollate per la loro ristrettezza che ci voleva qualcuno che potesse aprire un varco in mezzo alla folla.
Quindi Tibullo dice che un povero è sempre un fidus comes (comes, comitis), cioè “un compagno
fidato”, quasi un bodyguard in angusto agmine turbae. Agmen di per sé è la fiumana della gente che
si riversa in una strada. Agmen può anche essere un esercito schierato che sta marciando, ma anche
la fila delle formiche. In questo caso, visto che si tratta della fiumana della città, è proprio la gente
che invade in un senso o nell’altro una strada stretta, come erano appunto le strade della Roma antica.
Quindi è “un fido compagno/ un fedele compagno nella stretta calca della folla”.

Subicietque manus: “e ti sosterrà con le sue mani”, affinché tu non venga calpestata o urtata dalla
folla stessa. Propriamente sarebbe “sottopone le sue mani” a sostenere la ragazza perché non venga
calpestata o non venga urtata dalla folla che sopraggiunge.

Efficietque viam: “e aprirà la strada”, cercherà di aprire un varco in mezzo a questa folla; cosa che
un dives amator non potrà mai fare, perché il dives amator è talmente altezzoso che non si presterebbe
a fare da bodyguard o da lacchè alla propria donna amata.

pauper ad occultos furtim deducet amicos 65

uinclaque de niueo detrahet ipse pede.

Traduzione: il povero amante condurrà di nascosto (la donna amata) presso amici discreti (ad
occultos amicos) lui stesso (ipse) le scioglierà i calzari dai piedi bianchi come la neve (detrahet vincla
de niveo pede).

pauper ad occultos furtim deducet amicos: qui fa riferimento agli incontri amorosi che avvenivano
soprattutto tra la gioventù romana, che ovviamente non potevano incontrarsi liberamente, perché
erano rapporti clandestini, un po’ furtivi, non erano marito e moglie e quindi era necessaria una certa
prudenza, una certa discrezione nel portare con sé la propria ragazza a dei simposi, a dei banchetti.
Ecco perché dice che il povero condurrà furtim, “di nascosto”, perché si tratta di un amore furtivo, un
rapporto furtivo, non ancora ufficializzato, non pubblico.

Ad occultos amicos: “in casa di amici discreti”, che non riveleranno la natura di questo rapporto che
non è ancora ufficiale. Non è che siano occulti gli amici, sono gli amici che semmai occultano questo
segreto, che tengono questo segreto del rapporto che c’è, in questo caso, tra Tibullo e Delia. Quindi
occultus viene quasi usato con significato attivo: l’amico che nasconde, che tiene un segreto, non
l’amico che viene nascosto. In italiano ‘occulto’ ha questo significato passivo, qualcosa che viene
nascosto o che rimane nascosto; qui invece il significato è attivo, son gli amici che tengono nascosto
questo segreto. Nel linguaggio di questa elegia, come di tutte le elegie erotiche, c’è l’aggettivo
furtivus, oppure l’avverbio clam, perché tutto deve avvenire in una sorta di clandestinità.

detrahet vincla de niveo pede: “le scioglierà i calzari dai piedi bianchi come la neve”. C’era la moda,
la consuetudine, quando ci si sedeva a tavola (che poi non ci si sedeva, ma ci si sdraiava sui triclini
per i banchetti), di sciogliersi i calzari, di togliersi le scarpe. Un amante ricco non si abbasserebbe
mai a slacciare le scarpe della donna amata, mentre un amante povero è servizievole anche in questo,
in questo servizio che era proprio degli schiavi. Lui stesso detrahet “toglierà” vincla, che sono
propriamente i legacci (bisogna immaginare quei calzari tipicamente romani che erano legati fino al
ginocchio) dal piede candido, cioè bello, bianco come la neve.
Annotazioni di metrica: da notare che al v.66 vincla, che sta per vincula, è una forma sincopata dettata
da esigenze metriche, anche se questa forma sincopata si trova spesso anche in prosa, soprattutto nella
prosa elevata. Del resto, anche molte forme romanze presuppongono forme sincopate, che
evidentemente si diffondevano anche a livello popolare.

Heu canimus frustra, nec uerbis uicta patescit

ianua, sed plena est percutienda manu.

Traduzione: ahimè noi cantiamo invano/noi predichiamo invano, né la porta si spalanca vinta dalle
parole, ma bisogna percuoterla/ bussarla con la mano piena.

Qui capiamo, quasi alla fine dell’elegia, che si tratta anche qui di una forma di paraclausithyron,
come se tutto quello che Tibullo ha detto fin ora, l’abbia detto dinnanzi alla porta, o meglio rivolto
alla porta della casa di Delia che si trova chiusa. Ecco perché dice heu “ahimè” canimus frustra, son
parole a vuoto, che cadono a vuoto, cioè noi cantiamo (nel senso di poetiamo) invano, senza costrutto,
senza fine. Infatti, continua Tibullo, ianua non patescit, la porta non si spalanca vinta dalle parole,
non si lascia convincere dalle mie parole, dalle mie argomentazioni. L’unico argomento che la porta
conosce per farsi aprire è la mano piena, cioè la mano piena di denaro: la porta non si apre, non si
lascia corrompere dalle parole, ma si lascia corrompere soltanto dal denaro. Questa è ovviamente una
critica che fa verso la donna, che è sensibile al borsellino, al portafogli del dives amator, mentre non
è sensibile alle parole poetiche di Tibullo che è povero e non può competere con la ricchezza
dell’amante rivale. Ecco perché dice plena est percutienda manu, “bisogna percuotere questa porta
con la mano piena (di soldi)”. Uno potrebbe pensare “a manu prena”, come in sardo, cioè pestando la
porta con violenza, ma non è questo il significato di plena manu, bensì la mano piena di soldi.

Percutienda est: è una perifrastica passiva, la porta va percossa con le mani piene di doni.

Nota metrica: è presente una prodelisione al v.68 tra plena ed est45 (una delle poche prodelisioni che
abbiamo visto in Tibullo).

At tu, qui potior nunc es, mea fata46 timeto:

uersatur celeri Fors leuis orbe rotae.

Traduzione: ma tu che ora sei il preferito, temi/ preoccupati del mio destino: la Sorte mutevole gira
in una rapida ruota.

Qui Tibullo si rivolge direttamente al dives amator e lo avvisa: stai attento, stai in guardia perché
finora ti è andata bene, ma la fortuna gira e non gira sempre a tuo favore. Questo è il concetto che
viene espresso.

45
Qualche codice non riporta est, ma direttamente plena percutienda manu. Dal punto di vista metrico, però, non
cambia nulla (plena è un ablativo, dunque la a è lunga).
46
Alcune edizioni, tra cui quella del Canali, riportano furta in luogo di fata.
Qui potior nunc es: “tu che ora sei preferibile”. Potior è il comparativo da potis, pote, un aggettivo
un po’ irregolare, perché potis, pote sono delle forme invariabili. In principio, nel latino arcaico, potis
era riservato al maschile e al femminile e pote al neutro, come capita anche per gli altri aggettivi della
seconda classe a due uscite; ma in età storica, poi, sono diventate forme alternative, quasi avverbiali,
indeclinabili, quindi una vale l’altra. È rimasto però il comparativo potior che significa appunto
“preferibile”, “migliore”. Quindi “ma tu che ora” (ora, nunc, perché domani potrebbe essere
diversamente) “sei il preferito”, sei ritenuto il migliore. Potior è dunque una forma legata a questo
aggettivo positivo (potis,pote) che è appunto irregolare. Esiste anche potissimus come superlativo e
potissimum come avverbio che significa “soprattutto, particolarmente”. È dunque un aggettivo che
ha delle anomalie dal punto di vista morfologico.

Timeto: è un imperativo futuro, che ha una particolare solennità. Tibullo sta facendo al suo rivale
quasi una profezia, una premonizione, quindi non usa un infinito presente o una forma di congiuntivo
esortativo, usa proprio l’imperativo futuro che era tipico delle formule sacrali o anche delle leggi.
Quindi “bada bene”, “stai molto attento”, con una particolare solennità.

Fate/furta: sono due forme molto vicine paleograficamente, quindi la tradizione manoscritta poi alla
fine ha scelto o l’una o l’altra indifferentemente. Se si legge mea fata timeto, “temi il mio destino”,
ovvero preoccupati del mio destino perché non sarà sempre così sfavorevole, potrà toccare presto
anche a te. Se invece si legge mea furta timeto, si tradurrà: “preoccupati di ciò che mi hai rubato”,
per il fatto che mi hai rubato la donna. Furtum indica anche il tradimento amoroso, quindi Tibullo sta
mettendo in guardia questo dives amator, perché questo furto verrà sicuramente riscattato e vendicato
dalla divinità.

v.70 Fors levis: personificazione della Sorte, della Fortuna. Abbiamo anche detto, in un’altra lezione
che forse è una vox media, perché non sappiamo cosa porta la fortuna: la radice è quella del verbo
ferre, fero, quindi può portare qualcosa di buono o qualcosa di cattivo. La Fors è detta levis “leggera”
letteralmente, cioè “mutevole, volubile”, perché cambia di punto in bianco, quindi non abbiamo il
possesso, il controllo di questa forza che governa le vicende umane. E questa Fors levis versatur,
cioè “gira in continuazione”. Il verbo verso, e anche versor al passivo, è il frequentativo di vertere,
che già significa “girare”, quindi verso significa “gira in continuazione”.

Celeri orbe rote: complemento di modo, letteralmente “con un rapido giro di ruota”. Orbis è
“l’orbita”, “il giro” e la ruota è appunto la ruota della Fortuna, quindi si immagina che questa Fortuna
abbia i piedi su questa ruota che gira in continuazione rapidamente, quindi le sorti possono mutare
dall’oggi al domani.

Non frustra quidam iam nunc in limine perstat

sedulus ac crebro prospicit47 ac refugit,

47
Prospicit: quasi allunga il viso, la faccia per guardare dentro la porta.
Traduzione: non invano (non frustra) qualcuno già ora/ già in questo momento (iam nunc) se ne sta
piantato sulla soglia cocciuto/ caparbio/ pertinace (perstat sedulus in limine) e spesso/ frequentemente
sbircia e poi se ne scappa (ac crebro prospicit ac refugit)

In questi versi si fa riferimento a un altro pretendente di Delia e non sappiamo se dietro questo
misterioso pretendente ci sia lo stesso Tibullo. È possibile, anche se alcuni pensano a un terzo
personaggio, a un terzo uomo; ma è possibile, può darsi che invece si tratti dello stesso Tibullo.
Quidam indica una persona di cui si conosce l’identità ma non la si vuole rivelare, non è come aliquis
che è “qualcuno” in senso propriamente indefinito; nel caso di quidam è “un tizio, un tale”, di cui si
sa chi sia, ma non si vuole dire chi è. Non è dunque escluso che dietro ci sia lo stesso Tibulllo.

Perstat: perstare significa ‘stare continuamente’; il per- come preverbio indica un’azione continuata,
portata per lungo tempo, portata quasi al termine, alla perfezione. Quindi stare significa ‘stare ritto
in piedi’ e perstare significa ‘stare piantato continuamente’, in questo caso in limine, quindi nella
soglia della casa di Delia, della donna amata.

Sedulus: si dice sedulus soprattutto per uno schiavo che è diligente, una serva che è costante nel suo
lavoro. Ma qui è uno che fa il piantone, costantemente e in maniera caparbia.

Ac crebro: avverbio, “frequentemente”, riferito a prospicit

Prospicit: “sbircia”, questo è il significato del verbo in questo caso. Letteralmente sarebbe ”guardare
in avanti”, e dunque allungare il collo per vedere se magari all’interno della porta si vede la donna
oppure no.

Ac refugit: “e scappa”. Sbircia e scappa, sono tutte azioni rapidissime.

et simulat transire domum, mox deinde recurrit,

solus et ante ipsas excreat usque fores.

Traduzione: e fa finta di passare di fronte alla casa e poi di nuovo (deinde) torna indietro/ torna sui
suoi passi (recurrit) e solitario (et solus) si schiarisce la voce (excreat) continuamente dinnanzi alla
porta.

Come fanno tutti gli amanti et simulat transire domum “fa finta di passare di fronte alla casa”: magari
uno facendo finta di andare a fare una commissione, ne approfitta per passare di fronte alla casa
dell’amata. Simulat appunto perché è tutta una finzione. Quindi fa finta di transire domum, di passare
di fronte alla casa, di passare per quella casa. Da notare che transire qui viene usato come transitivo.
domum di per sé è un accusativo di moto per luogo, perché passa di fronte alla casa della donna amata.

Mox deinde recurrit: e poi nuovamente corre indietro, torna in dietro.

E poi fa dei gesti che sono canonici della poesia amorosa, perché anche Terenzio parla di alcuni gesti
che gli amanti fanno per attirare l’attenzione della donna amata: e quindi, per esempio, gemitus, tussis
‘la tosse’, oppure excreatus, come in questo caso, ‘lo schiarirsi la voce’, oppure risus, un risolino.
Tutti questi sono gesti convenzionali, che si trovano anche nella commedia di Plauto e Terenzio, per
attirare l’attenzione della donna amata. Immaginatevi dunque questo ragazzo che passa davanti alla
casa, poi torna indietro e si schiarisce la voce per dare un segnale fonico, un segnale sonoro, affinché
la donna si possa magari affacciare dalla finestra oppure dalla porta di casa.

Excreat: qualcuno lo traduce come “sputa”, ma difficilmente lo sputare davanti alla porta della casa
dell’amata può essere un gesto che riesce a ottenere risultati apprezzabili, perché fa schifo oggi e
probabilmente avrebbe fatto schifo anche all’epoca. Excreare non significa sputare, come traduce
qualcuno, ma significa “schiarirsi la voce”. Quindi Tibullo dice che si schiarisce la voce ante ipsas
fores, “dinnanzi alla porta stessa”, nella speranza che questa ragazza si possa affacciare.

Usque: significa “continuamente” e corrisponde a semper, quindi sempre si schiarisce la voce dinanzi
alla porta.

Al v.74: notare la solita anastrofe solus et per et solus (ricordare che nel pentametro l’anastrofe è un
po’ un’esigenza metrica).

Nescio quid furtiuus amor parat. utere quaeso, 75

dum licet: in liquida nat tibi linter aqua

traduzione: l’amore48 furtivo/ discreto sta preparando un non so che/ sta preparando qualcosa
(furtivus amor parat nescio quid). Godi te ne prego finché ti è consentito (dum licet): la tua barchetta
naviga (nat) su acque tranquille

nescio quid: può essere intesa come un’unica espressione monoblocco, può essere scritto anche tutto
attaccato ed è il complemento oggetto di parat. Come noi diciamo “un nonsoché” in italiano. Quindi
l’amore che è discreto, perché agisce discretamente, sta preparando un nonsoché, un non so che cosa,
intendendo qualcosa di brutto per il rivale.

Utere quaeso dum licet: utere è l’imperativo di utor. Sottinteso sfrutta la situazione, godi della
situazione finché ti è consentito (dum licet). Quaeso ha lo stesso significato please dell’inglese:
anticamente era un verbo, ma poi è diventata una forma avverbiale, che si usa soprattutto con gli
imperativi per rimarcare l’invito o il comando che viene dato, per attenuare anche il comando. “per
cortesia sfrutta la situazione finché ti è consentito”, questo è il senso.

in liquida nat tibi linter aqua: è un agnome finale, quasi un provverbio finale. È una frase ambigua.
Alcuni traducono: “la tua barchetta naviga in acque tranquille”, perché ormai tutto è tranquillo, per
adesso tutto è tranquillo. L’ambiguità è data dal fatto che liquidus indica anche qualcosa di instabile,
quindi la situazione non è poi così tranquilla come uno potrebbe credere; perché liquidus vuol dire sì
calmo (soprattutto in riferimento all’acqua e al mare, alla superficie del mare), però significa anche
che è mutevole. Quindi la tua barchetta naviga in un’acqua che può cambiare da un momento all’altro,
che sì adesso è tranquilla, ma domani potrebbe non esserlo più. C’è quindi una certa ambiguità che
ruota intorno a questo aggettivo liquidus, che può essere inteso, se uno è ottimista, come acque

48
Amore qui si potrebbe intendere anche come personificazione
tranquille, oppure come acque che possono nascondere un improvviso cambiamento di fortuna, quella
che i greci chiamavano καταστροϕή (katastrophé), un improvviso rivolgimento della situazione.

LEZIONE 30 (21/12/2020) Alessia

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