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Teorema di Pier Paolo Pasolini riscritto nella letteratura

italiana di consumo
Franco Manai
University of Auckland
Riassunto

Questo saggio mette a confronto il romanzo e il film Teorema di Pier


Paolo Pasolini con la narrativa italiana di consumo esemplificata
nelle opere di Andrea De Carlo dove compare spesso e altrettanto
spesso viene tematizzato un modello narrativo incentrato sulla
seduzione, talvolta su un intreccio di seduzioni. Il deragliamento
dalla vita quotidiana, che la seduzione comporta in De Carlo, resta
sempre nell’ordine di una realtà privata, asfittica e autoreferenziale.
In Teorema invece lo sconvolgimento del tranquillo menage

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borghese causato dall’arrivo di un ‘angelo’ mette in luce una
situazione di crisi che investe tutta una società e tutto un modo di
vivere.

Abstract
This article is a discussion of the novel and movie Teorema by Pier
Paolo Pasolini and their influence in the works of low brow Italian
literature as represented by the works by Andrea De Carlo where
the theme of seduction is very often at the centre of the narration.
In De Carlo the derailment from daily life induced by seduction is
always contained within the narrow limits of private life. On the
contrary, in Teorema the derangement of the quiet middle-class

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routine caused by the arrival of an ‘angel’ highlights a crisis that
involves all aspects of society.

Letteratura e seduzione
Gli anni ‘80 e ‘90 hanno visto, all’interno della letteratura italiana,
un accelerarsi del processo di abbandono di tematiche legate a
problemi e vicende specificatamente peninsulari, e un più scoperto
sforzo di sprovincializzazione. In qualche modo giunge a
compimento il processo iniziato nel secondo dopoguerra, grazie
all’impegno di intellettuali come Pavese, Vittorini, Calvino. Ma si
tratta in realtà di un compimento molto diverso dalle intenzioni degli
iniziatori.
Sarà forse opportuno ricordare che il mutamento di rotta fu
avvertito fin dai suoi inizi, negli anni a cavallo tra ‘70 e ‘80, e

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definito col termine di ‘riflusso’. Tra gli ‘80 e i ‘90, circa, si sarebbe
aggiunta un’altra etichetta, a completare il quadro della esibita
sprovincializzazione, quella di ‘globalizzazione’. In realtà,
l’impressione complessiva è piuttosto quella di un nuovo tipo di
provincialismo letterario, che riflette d’altronde la triste realtà
politica e economica. In effetti, se il nostro Paese si conferma come
periferia dell’impero, del tutto privo di autonomia, appunto, politica
e economica, non c’è motivo che la sua letteratura, ma in generale
la sua arte, cinema compreso, esprima qualcosa di diverso
(Casadei).
Se dal centro dell’impero negli anni ‘60-‘70 era arrivata fin quaggiù
l’onda lunga della contestazione, e anzi aveva, in Italia e in Europa,
acquistato una sua originale corposità politico-sociale grazie al
contemporaneo dilagare della protesta operaia, negli anni ‘80-‘90 le

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parole d’ordine importate sono state deregulation e privatizzazione.
Sono principi ispiratori che, martellati ferocemente da tutto il
sistema della costruzione del consenso, e di conserva con l’imporsi
totalizzante della comunicazione televisiva come strumento cardine
di formazione e informazione, entrano prepotentemente in circolo,
mescolandosi con le istanze progressiste dominanti nel periodo
precedente, con risultati devastanti (Asor Rosa:578-610) .
La letteratura, dal canto suo, ha fatto il possibile per adeguarsi alla
nuova, lunga onda. L’istanza di intrattenimento consolatorio, già
fatta propria all’ennesima potenza dalla televisione, è stata assunta
come propria anche dagli scrittori italiani, probabilmente nella
convinzione di potersi così garantire l’accesso a un pubblico più
ampio. Anche qui sono state adottate alcune parole d’ordine proprie
della movimentata fase precedente, in particolare ‘trasgressione’ e

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‘anticonformismo’ che, trasformate in inoffensive etichette di moda,
possono aiutare parimenti nello smercio di un romanzo come in
quello di un paio di jeans o di un costume da bagno, o anche di una
utilitaria o di un nuovo tipo di conto in banca (Mondello).
Di questo orientamento generale il tema della seduzione costituisce
un’ottima cartina di tornasole, e come tale la vorremmo trattare in
questo scritto. Tra l’altro, anche la parola seduzione, con tutti gli
aggettivi e i sostantivi annessi e connessi, è una di quelle che nella
temperie postmoderna dominante a partire dagli anni ‘80 si è
imposta come un valore, tanto più attraente quanto più ambiguo. E
ricordiamo a questo proposito il diffondersi incontrollato del verbo
‘intrigare’, del tutto interno al campo semantico della seduzione.
Seducente deve essere la pubblicità, seducente deve essere il
conduttore di uno show televisivo, seducente deve essere un uomo

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politico di successo. Non si tratta certo di novità, ma si converrà che
in questi ultimi anni di tutto ciò abbiamo avuto esempi superiori a
ogni immaginazione, e frutti peggiori di ogni più nera aspettativa.
Ma seducente deve essere anche lo scrittore, che spesso tenta di
esserlo parlando proprio, esplicitamente di seduzione, mettendola in
scena e tematizzandola.
Per illustrare quello che secondo noi è stato un percorso più
generale della cultura italiana fra gli anni ‘70 e oggi, abbiamo scelto
due scrittori fortemente rappresentativi, l’uno per il prestigio e la
notorietà, anche violentemente discussi, acquisiti in patria e
all’estero; l’altro per l’indubbio successo soprattutto di pubblico,
anche in questo caso in patria e all’estero: Pier Paolo Pasolini e
Andrea De Carlo. Più precisamente, ai fini di questo raffronto ci

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serviremo delle opere di questi autori in cui più esplicitamente la
seduzione viene messa in campo e tematizzata.
La seduzione in Pasolini
Teorema (P. P. Pasolini Teorema [1° Ed. 1968]) viene abbozzato da
Pasolini nel 1966, insieme al gruppo compatto delle opere teatrali in
versi, Calderòn, Affabulazione, Pilade, Porcile, Orgia, Bestia da stile.
In particolare Affabulazione presenta personaggi, temi, situazioni,
strutture molto simili a quelli di Teorema e trattati da una
prospettiva ben più trasgressiva (Golino 151-53). Qui importa
sottolineare che Teorema mantiene l’impianto della struttura
teatrale, sia nella versione cinematografica sia in quella letteraria. Il
film venne poi girato e uscì nel 1968 (P. Pasolini); poco dopo il libro.
Il tran tran quotidiano, apparentemente saldamente organizzato, di
una famiglia alto borghese milanese viene sconvolto e rovesciato

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dalle fondamenta dall’arrivo di un Ospite, che in breve volgere di
tempo va a letto con la domestica, il figlio, la figlia, la madre e il
padre. Improvvisamente com’è arrivato, l’Ospite se ne va, ma la
vita della famiglia non ritorna allo status quo ante. Per ognuno dei
suoi membri, l’incontro con l’Ospite ha costituito un’esperienza
totalizzante, dopo la quale non è più possibile riprendere l’esistenza
precedente come se nulla fosse accaduto. L’Ospite ha esercitato nei
loro confronti un’opera di seduzione che rispetta il significato
etimologico della parola, quello di condurre via, separare da tutto
ciò a cui prima si era attaccati. Pasolini si era già misurato col
seduttore per eccellenza della storia occidentale, e il Vangelo
secondo Matteo è il frutto di questo incontro (P. P. Pasolini Il
Vangelo Secondo Matteo; Marcus:111-35; Baranski: 281-320). Al
Cristo del Vangelo basta uno sguardo per far sì che gli apostoli,

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sparsamente incontrati, lo seguano. E la sua è una seduzione senza
mezzi termini: “lascerai tuo padre e tua madre……”, con quel che
segue. Anche in Teorema la cifra sacra, la valenza religiosa della
vicenda e della sua rappresentazione sono presenti e dichiarate,
anzi ostentate. A differenza che nel Vangelo, tuttavia, il seduttore
non dà nulla in cambio della vecchia identità che l’incontro con lui
rende obsoleta, egli non conduce da nessuna parte: strappa via,
separa, ma non risarcisce, non compensa.
Le fattispecie dell’ospite, qui, non fanno pensare a Cristo, ma a un
Angelo, un nunzio, un messaggero, la cui funzione è quella di essere
strumento di una rivelazione, di fronte alla quale ciascuno dovrà
fare i propri conti. È, questa dell’Ospite, una rivelazione muta, si
potrebbe dire puramente negativa. Come nella migliore tradizione,
appunto, della teologia negativa, essa ricava la sua forza non da

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un’enunciazione in positivo, per forza di cose limitata, ma
precisamente da tutto ciò che non dice. L’irresistibile forza di
attrazione dell’Ospite risiede essenzialmente nel suo esserci, nel suo
puro e semplice esistere, o per dirla con Pasolini: nello scandalo
della sua bellezza. All’Ospite vengono attribuite tre caratteristiche
fondamentali: immediatezza, disponibilità, autonoma solidità. La
tranquilla sicurezza di sé, la capacità di essere padrone di sé e del
proprio tempo viene rappresentata, per esempio, nei momenti in cui
egli dorme sereno e attrae irresistibilmente la passione del giovane
Pietro, in cui legge sdraiato in giardino e convoglia la brama
disperata di Emilia, in cui guida allegro e spinge Paolo, il Padre, a
accarezzarlo teneramente. Questa tranquilla autonomia non è né
posa teatrale, né solipsismo autistico. Alla carezza di Paolo risponde
con un grato sorriso, e segue amplesso, alla corsa disperata di

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Emilia verso il gas accorre premuroso, e segue amplesso; alla
tremebonda esplorazione notturna di Pietro si sveglia, e segue
amplesso. Pasolini, peraltro, si guarda bene dallo zoomare
indiscretamente sui numerosi amplessi accennati in queste pagine,
sia quelli in cui è direttamente coinvolto l’Ospite, sia quelli che
conseguono alla sua azione disgregatrice, quelli cioè cui si lascia
andare Lucia, la Madre, dopo la sua partenza. Quel che interessa,
evidentemente, non è la meccanica del coito, dagli effetti più o
meno trascendenti, comunque facilmente ipotizzabili dall’arguto
lettore, ma la rappresentazione della irresistibile attrazione
esercitata dal connubio di quelle tre qualità che si sono appena
nominate, immediatezza, disponibilità, autonomia. È di questo
connubio che è sostanziata la scandalosa bellezza di questo Angelo,
che non recita nessuna annunciazione, non consegna lettere

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suggellate, non suona trombe apocalittiche, non brandisce nessuna
spada infuocata. Non fa nessuna di queste azioni tradizionalmente
deputate agli angeli, eppure è un po’ come se nel suo passaggio in
mezzo alla sbigottita famiglia le facesse tutte. Infine, è lui che
caccia tutti via dal loro sia pure meschino e artificiale paradiso, dopo
averli risvegliati da quella sorta di torpore in cui erano immersi, non
senza aver reso manifesta, grazie alla sua presenza ‘altra’ la
possibilità di un esserci, di un esistere differente, reale, pieno allo
stesso tempo di verità spirituale e di materiale concretezza,
insomma di autentico piacere.
Si parla in genere, seguendo i pronunciamenti dello stesso autore
(P. P. Pasolini "Appendice 1: Teorema"), di Teorema come
dell’opera in cui si fanno i conti con ciò che accade quando il sacro
fa irruzione nella piatta realtà borghese che, per sua natura e

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costituzione, a esso è totalmente refrattaria. E certo l’ispirazione
pasoliniana è qui scopertamente religiosa (Conti Calabrese; Di
Marco). L’autore stesso si premura di anticipare critici e filologi
fornendo in calce al libro alcuni puntuali riferimenti biblici, in
particolare dal Genesi (lotta di Giacobbe con lo sconosciuto, XXXII,
24) e da Geremia (I, 5-9 e XX, 7 e 10), che non esauriscono affatto
il fitto intreccio di elementi espliciti e allusioni che sostanzia l’opera,
dalla campana che segna le ore nel quieto suburbio residenziale in
cui vive la famiglia, al campanile che svetta fra le brume della
bassa, alla chiesetta di campagna dove va a capitare Lucia nelle sue
girovagazioni disperate dopo la partenza dell’Ospite, alla
trasformazione di Emilia in santa, alla finale crisi mistica di Paolo. In
realtà il confronto col sacro è presente ovunque nell’opera di
Pasolini, articolato in due versanti (La Porta Pasolini: Uno Gnostico

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Innamorato Della Realtà). Da una parte c’è il confronto con la
tradizione cattolica, in quanto elemento costitutivo dell’identità
culturale delle masse popolari contadine italiane, alla cui precipitosa
scomparsa gran parte dell’opera di Pasolini è dedicata in una sorta
di incessante lamentazione elegiaca. Dall’altra, ricorre
ossessivamente la meditazione sul sacro in quanto tale, cioè sul
senso del numinoso, del trascendente che ha segnato e segna
l’esperienza esistenziale dell’umanità sotto le più diverse condizioni
storiche e sociali. Valga come esempio la rielaborazione del mito di
Medea (P. P. Pasolini Il Vangelo Secondo Matteo; Edipo Re; Medea),
con le grandi scene del sacrificio umano nella Colchide all’inizio e
della morte della nuova sposa di Giasone alla fine, grazie agli artifici
di Medea resi possibili dalle sue facoltà magico-religiose, dal suo
potere sacerdotale.

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Insomma, la comparsa del tema del sacro non è in Teorema
qualcosa di estemporaneo né di inusitato, come non lo è del resto il
tema della seduzione. Quella di Medea è, infatti, una storia di
seduzione per eccellenza. Il greco Giasone, appartenente a una
cultura cittadina elaborata e ‘avanzata’, giunge nella lontana e
barbara Colchide per conquistare il Vello d’oro, oggetto di culto per
gli abitanti del posto. Seduce Medea, figlia del re e sacerdotessa del
culto, ne riceve un aiuto essenziale per rubare il Vello e scappare
via. Qui si ha la seduzione del profano sul sacro. Il mondano
Giasone spinge Medea ad abbandonare la sfera del sacro, che era
stata la sua propria, e a seguirlo in un’avventura che per lei si
rivelerà rovinosa. Una volta in patria, quando gli si profila
l’occasione di sposare la figlia del re, Giasone non esiterà ad
abbandonare Medea, incurante del fatto che lei gli abbia dato due

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figli, e tanto più incurante del fatto che per lui lei avesse
abbandonato tutto. Il fatto è che nel nuovo contesto Medea è un
essere privo di identità, relitto di uno stadio culturale arretrato
rispetto a quello in cui Giasone si muove a suo agio, e il suo destino
non può che essere di perdita, di annullamento. Ma il cattivo
rimosso, cioè le istanze più arcaiche represse senza essere state
rielaborate, si vendica con l’esplodere incontrollato di forze
distruttive che, se pure destinate nel complesso alla sconfitta,
possono ancora costituire una fonte di rovina e di infelicità. Medea,
esemplarmente, si vendica facendo morire, come s’è detto, la nuova
sposa di Giasone e contemporaneamente uccide i figli, in modo da
colpire Giasone in ciò che egli ha di più prezioso, la speranza nella
sua propria discendenza.

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In Teorema, al contrario, si ha la seduzione del sacro sul profano.
Non per questo gli esiti sono meno rovinosi. Dopo la conoscenza (in
senso biblico) dell’Ospite, l’ordinato microcosmo borghese va
letteralmente in pezzi.
La madre, Lucia, si dà alla ricerca disperata di giovani maschi che le
ricordino in qualche modo l’Ospite scomparso, e medita, fra l’altro,
l’incesto col figlio Pietro.
Quest’ultimo abbandona la casa di famiglia, si rinchiude a vivere in
uno studio d’artista nel centro città, e si dà furiosamente al
tentativo di creare opere d’arte, solo per andare incontro, di
continuo, alle più atroci delusioni, e finisce per orinare sulle sue
opere, nelle quali non riesce che a rappresentare un’assenza, quella
dell’Ospite.

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La figlia, Odetta, finisce in manicomio, ridotta a uno stato larvale,
immersa com’è in una sorta di attonita e immota contemplazione
del vuoto, con un’unica, assurda, manifestazione di volontà nel
pugno freneticamente serrato attorno al niente, all’aria catturata
nello sfiorare l’immagine dell’Ospite in una fotografia.
La serva, Emilia, abbandona anche lei la casa, per tornare al casale
contadino della Bassa da cui proviene. Non entra però in casa, ma si
siede su una panca nella corte, e lì rimane, nutrendosi di infusi
d’erbe fino a tingersi, nella pelle e nei capelli, di un colore
verdastro. I contadini dei dintorni iniziano a guardarla come
possibile fonte di miracoli, e infatti inizia a guarire i malati incurabili,
e infine levita in cielo, sopra il casale, oggetto di ammirazione e di
reverente stupore da parte di una folla contadina che è ancora tutta
interna a un sistema di vita e di credenze in cui il miracolo può

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tranquillamente trovar posto. All’elevazione in cielo fa seguito lo
sprofondamento nel seno della terra. Accompagnata da una
vecchia, silenziosa ma sufficiente garante della socialità del rito,
Emilia percorre un lungo cammino fino alla periferia di Milano, dove
la vecchia campagna è completamente sconvolta dai lavori di
costruzione di nuovi insediamenti urbani. In un cantiere aperto una
grande scavatrice ha già aperto nel terreno un’enorme voragine, sul
cui fondo l’ex serva si sdraia e, con l’aiuto della vecchia, si ricopre di
terra. L’unico segno di lei che resta è una pozzetta creata dalle
lacrime che continuano a uscire dai suoi occhi ormai completamente
ricoperti. Si tratta qui di una presa-alla-lettera di una poesia delle
Ceneri di Gramsci intitolata Il pianto della scavatrice(Siti CXXXV). La
mattina la scavatrice rovescia tonnellate di terra sulla buca, ma alla
superficie continua a sgorgare un ‘inconcepibile’ zampillo d’acqua

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che ben presto si rivela miracolosa: un operaio ferito vi bagna il
braccio maciullato da un qualche ingranaggio, e subito il braccio
guarisce.
Il padre, Paolo, muove anche lui alla ricerca disperata di un
sostituto dell’Ospite scomparso. Alla Stazione Centrale di Milano
accenna un approccio con un giovane, forse un operaio, forse un
disoccupato, ma al momento di seguirlo nei cessi della stazione, per
un incontro sessuale anonimo, del tipo di quelli cui si è data Lucia
coi ragazzi incontrati lungo la strada, Paolo ha come una
folgorazione. In mezzo alla folla stupita si spoglia dei suoi abiti, fino
a restare interamente nudo, e inizia la sua marcia nel deserto,
muovendo a fatica i piedi bruciati sotto il sole rovente. Ha donato la
sua fabbrica agli operai, e ciò suscita perplessità e commenti. In
particolare, viene avanzato il problema se una tale alienazione non

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possa essere vista come l’ultimo, definitivo trionfo della borghesia,
che trasforma anche gli operai in borghesi, finendo con l’omologare
a sé tutta la società. Dopo aver eliminato il mondo contadino,
cancellando le premesse strutturali della sua esistenza e riducendo
la sua cultura a un relitto senza futuro, la borghesia sconfigge
definitivamente anche l’ultimo superstite antagonismo, quello della
classe operaia, inculcando in essa i suoi miserabili valori e
contaminandola dei suoi gretti interessi.
Attraverso dunque la fantasmagoria dello scontro tra sacro e
profano, della perdizione e del miracolo, messa in movimento
dall’opera di seduzione condotta dall’Ospite nella prima parte,
Pasolini affronta una serie di problemi cruciali per la società
contemporanea. Non per nulla Teorema nasce dopo un viaggio negli
Stati Uniti, e precisamente a New York, che costituì per lui

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un’esperienza fondamentale (Siciliano 408). Se nel progetto
originario la scena doveva essere ambientata proprio nella metropoli
americana, è altamente indicativo che la scelta definitiva sia caduta
su Milano, la città più moderna e internazionale d’Italia. Pasolini
consapevolmente si confronta con quanto accadeva nel centro
dell’impero, ma lo fa da una concretissima posizione europea e
italiana in specie.
La descrizione delle campagne della Bassa, peraltro precisa e quasi
fotografica (nel libro, direttamente documentaria nel film,
ovviamente) non ha nessuna valenza neorealistica, ma si muove
nell’ambito del generale lavoro di stilizzazione che caratterizza sia il
libro che il film, ma forse più il primo che il secondo. Pasolini diceva
di aver dipinto su fondo oro (Siciliano 409), come i pittori
pregiotteschi, come i maestri delle icone bizantine, che

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riproducevano sulla tela non delle individualità, ma delle funzioni
sacre. Come in una sacra rappresentazione agiscono l’angelo e il
demonio, il fedele e il peccatore, il santo e il tentatore, così in
Teorema sono in campo delle funzioni, e tanto l’ambientazione
quanto la successione delle scene esplicitamente si collocano a un
livello di stilizzazione altissimo, poiché rispondono a esigenze
dimostrative decisamente staccate da contingenze individualistiche.
Ma Pasolini non appartiene al medioevo, e i suoi personaggi, per
quanto stilizzati, sono comunque intrisi dell’individualismo peculiare
della modernità borghese. E infatti essi hanno dei nomi, mentre
l’Ospite ne è privo, così come, a altro livello, ne è priva la vecchia
che assiste Emilia nei suoi ultimi momenti. Anche in questo
contrasto tra la volontà di straniamento allegorico, e il prepotente
bisogno di dare corpo a delle fisionomie individualmente

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caratterizzate, trova espressione la più generale visione conflittuale,
tragicamente conflittuale, di chi vede con chiarezza i limiti
invalicabili della società borghese, della famiglia tradizionale, della
religione tramandata, dello stesso mondo contadino, ma non può
fare a meno di muoversi all’interno delle categorie proprie di questi
universi culturali.
Più ancora che nel film, il lettore è sempre impossibilitato a
‘perdersi’ nella storia. I personaggi e le situazioni vengono in genere
presentati come attraverso la cinepresa, e in questo è evidente il
legame col film, così come nel taglio delle diverse scene, ma la voce
narrante commenta e spiega; a tratti la prosa cede il passo alla
poesia, e sono queste, ovviamente, le parti col più alto tasso di
individuazione lirica. Per due volte viene inserita, attraverso la
figura del Cronista, la ‘fastidiosa’ voce non tanto dei mezzi di

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comunicazione di massa, ma quella della coscienza critico-razionale.
Il fatto che Pasolini ne prenda le distanze, presentando questi
inserti come, appunto, la voce di un sistema intellettuale ormai
massificato e irrimediabilmente ottuso, non toglie che questi inserti
abbiano in realtà un valore chiave, perché il tipo di ragionamento a
tratti baroccheggiante che in essi viene condotto, di chiara impronta
francofortese, è esattamente lo stesso che viene praticato dal
Pasolini saggista ideologico-politico.
Teorema è un libro di ‘brutta’ letteratura ma, ci si perdoni il
bisticcio, di ‘alta’ letteratura (Benedetti). La ‘sporcizia’ con cui è
composto fa pensare, per restare nell’universo pasoliniano, a quella
che presiede alla creazione di film come i tre della trilogia della vita
(Decameron, Racconti di Canterbury, Il fiore delle mille e una
notte), dove attori presi dalla strada vengono doppiati da altri attori

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presi dalla strada, con il cumulo quindi di due imperizie professionali
come fattore potentissimo di straniamento e di antirealismo. Vien
fatto di pensare alle parole di Alessandro Manzoni a Fauriel (Arieti
95), quando, dopo aver scritto l’Urania, poemetto accolto dal mondo
letterario come impeccabile realizzazione della poetica neoclassica
allora dominante, dichiarava che non avrebbe mai più scritto versi
di quel genere: forse ne avrebbe scritto di più brutti, ma mai più
così privi di interesse. Da questo proponimento sarebbero nati i
rivoluzionari Inni sacri. Pasolini si mostra lontano anni luce da ogni
tentazione sperimentalistica, ma nel perseguire le sue esigenze
comunicative legate a una implacabile ansia di approfondimento
conoscitivo e pedagogico, ha dato alla luce un libro destinato a
continuare a agire come un vivo fermento letterario e culturale.

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La seduzione nella letteratura di consumo: Andrea De Carlo
Con Andrea De Carlo è possibile esemplificare un estremo
completamente opposto del modo di concepire e praticare la
letteratura, in particolare il romanzo, e l’esempio ci sembra
particolarmente significativo, in quanto il successo di pubblico di De
Carlo, iniziato con il suo primo libro, Treno di panna, nel 1981, è
proseguito ininterrotto da allora a oggi, facendone un autore a suo
modo senz’altro significativo (Andrea De Carlo Treno Di Panna;
Andrea De Carlo Uccelli Da Gabbia E Da Voliera; Andrea De Carlo
Due Di Due; Andrea De Carlo Tecniche Di Seduzione; Andrea De
Carlo Arcodamore; Andrea De Carlo Uto; Andrea De Carlo Di Noi
Tre; Andrea De Carlo Nel Momento; Andrea De Carlo Pura Vita;
Andrea De Carlo I Veri Nomi; Andrea De Carlo Giro Di Vento;

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Andrea De Carlo Mare Delle Verità; Andrea De Carlo; Andrea De
Carlo Lei E Lui; Andrea De Carlo Metaphora; Andrea De Carlo Cuore
Primitivo). Nel seguito del saggiosi farà riferimento indicandone sa
queste opere indicando, quando necessario, il numero di pagina.
L’universo narrativo di De Carlo, tutto all’interno del romanzo facile
e di consumo, è interamente dominato da un punto di vista
prettamente adolescenziale che in modo vario ma sempre molto
vago si ispira a quello del romanzo cult adolescenziale per
eccellenza, Il giovane Holden di Salinger (Salinger). Infatti ci sono
sempre in De Carlo dei narratori adolescenti, vuoi anagraficamente,
vuoi psicologicamente, che tendono a presentarsi come personaggi
dalla sincerità allarmante, sia verso se stessi che verso gli altri,
arrabbiati, antisistema e contro tutte le istituzioni, dallo stato , alla
scuola, alla famiglia. De Carlo però non legge Salinger, come aveva

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fatto la generazione prima della sua negli anni ’60 nel mondo
occidentale, come paradigma del rifiuto morale, cioè politico, di
lasciarsi incanalare nei processi di maturazione borghese. De Carlo
si limita a imitare lo sguardo cinico del protagonista di Salinger –
tutto ciò che è phony disgusta il giovane Holden Caulfield e in De
Carlo fasullo è l’epiteto che caratterizza tutti i suoi obbiettivi
polemici -- nei confronti di una società nella quale si sente a
disagio, ma nella quale è pronto a rientrare non appena vengono
soddisfatte le sue esigenze personali.
Il punto di vista adolescenziale dei personaggi di De Carlo è
sostanziato di miti spesso di disarmante ingenuità, informato a una
fiducia cieca nei confronti dei concetti mercificati di cui si è parlato
all’inizio: anticonformismo, sincerità, spontaneità, naturalezza,
bellezza, fascino, mistero, libertà e, ovviamente, più di ogni altra

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cosa, amore. Ancor più che nei temi di volta in volta fatti oggetto
della narrazione, il tratto adolescenziale è dato nella tessitura stessa
della scrittura dall’importanza assolutamente preminente che tocca
alla categoria dell’apparire. Non solo i personaggi di De Carlo sono
ossessivamente dominati dall’attenzione al proprio apparire, come
vedremo meglio più avanti, ma la stessa tecnica narrativa, le figure
stilistiche risolutamente esibite concentrano l’attenzione appunto
sull’apparire. Tipico di De Carlo, in questo molto vicino al
contemporaneo Daniele Del Giudice (Del Giudice Lo Stadio Di
Wimbledon; Del Giudice Atlante Occidentale), è la ripresa di una
tecnica caratteristica dei minimalisti americani, ma anche della
francese école du regard, quella della macchina da presa, per cui la
modalità narrativa assolutamente dominante, è la descrizione. Il
modo è l’indicativo, il tempo il presente. I dialoghi, martellati dai

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continui “dico”, “dice”, ciascuno dei quali può essere ripetuto cinque
o sei volte di seguito, perdono qualsiasi possibile spessore
drammatico, per uniformarsi anch’essi al principio della descrizione:
tutto è colto nel suo apparire, e in base a questo diventa oggetto di
valutazione. È noto, soprattutto perché l’autore e i suoi editori lo
hanno sempre sbandierato, che Calvino aveva stimato
positivamente a suo tempo questa tecnica di De Carlo, tanto da
autorizzare che nel risvolto di copertina di Treno di Panna apparisse
il suo apprezzamento legittimante in questi termini: “proiettato
com’è sul ‘fuori’ non è escluso che egli riesca a farci intravedere
qualcosa del ‘dentro’”. È vero che tale tecnica aveva, come s’è
detto, dei precedenti letterari più o meno nobili, e che
potenzialmente avrebbe potuto dare esiti di oggettività
rappresentativa proprio attraverso la riduzione a pura percezione

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del soggetto che vede. E in Italia Del Giudice ha senz’altro con
coerenza e consapevolezza tentato questa via per dare conto nella
sua narrativa del mondo della modernità tecnologica, anche se con
risultati spesso fallimentari (Ceserani 91-93). In De Carlo tuttavia la
tecnica fotografica e cinematografica con effetti di rappresentazione
piuttosto che di interpretazione non è utilizzata in modo coerente
ma si alterna con quella opposta che dei personaggi mostra,
direbbe Calvino, direttamente il ‘dentro’, con risultati poco
convincenti. Si prenda per esempio una delle numerosissime scene
di amplesso eterosessuale con orgasmo presenti nella narrativa di
De Carlo, quella tra Leo e Malaidina, i protagonisti del romanzo
Uccelli di gabbia e di voliera di cui si parlerà in seguito:
Malaidina scalcia di lato, si libera delle coperte. Si
slaccia i pantaloni di cotone nero; si inarca all’indietro,
se li sfila poco alla volta, scalcia di nuovo per liberarsi

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le caviglie. Ride. Siede sul bordo del materasso, si
toglie le calzette grigie, le comprime in due palline
velate, le lancia a caso attraverso la stanza. Si sfila la
maglietta lilla, la fa volare sopra la mia camicia. Si
lascia ricadere sul letto, si tira dietro un lembo di
lenzuolo scompigliato.
Rotolo verso di lei, le appoggio una mano su un
fianco, le passo l’altra a coppa dietro la nuca umida.
Rotoliamo a sinistra e a destra […]
Ricado in avanti e siamo a contatto di labbra, i nostri
occhi così vicini e distratti da non lasciarci quasi
riconoscere. Rotoliamo di fianco, con le mani sulle
reni uno dell’altra per non perdere la presa. Rotolo
sulla schiena e lei è sopra di me, inarcata all’indietro,
con occhi socchiusi e capelli confusi che le ricadono
sulle spalle, sulla fronte appena si curva a osservare il
nostro punto d’incontro.
Rotoliamo in lungo e in largo e in diagonale. Il tessuto
delle lenzuola e la consistenza del materasso e la
temperatura dell’aria vengono a fuoco e si
allontanano. (149)

34
È evidente qui l’uso della tecnica di far coincidere alla voce
narrante il punto di vista del narratore inteso proprio alla lettera; si
descrive cioè solo quello che il narratore vede, con tanto di primi
piani, campi lunghi, prospettive rovesciate, carrellate, etc. fino ad
arrivare al momento dell’orgasmo:
Sono al centro del letto e le mie mani accompagnano
le linee lattee delle cosce di Malaidina con la stessa
cadenza del mio sguardo, con la stessa attenzione
imprecisa. Le mie sensazioni si condensano in pochi
centimetri quadrati e poi esplodono all’infinito; si
riducono e riducono e poi allargano e allargano, finché
di colpo si fondono insieme.
Siamo sdraiati immobili, con braccia e gambe
intrecciate: sudati e ansimanti e sorpresi. Rido, e i
miei suoni riverberano sul soffitto, mi tornano
indietro. (149)

35
Se Remo Ceserani nel parlare di un altro amplesso descritto in un
altro romanzo di De Carlo, quello tra Liza e il dittatore Macno
dell’omonimo romanzo aveva detto “siamo a un centimetro dal
cadere al livello di un romanzo della serie ‘Harmony’” (Ceserani 70),
non crediamo di sbagliare se diciamo che qui invece siamo in pieno
kitsch soft porno. Ma non basta, perché De Carlo si intrattiene
anche con il post coitum abbandonando la tecnica cinematografica
o, se si vuole, ricorrendo alla voce fuori campo, e ammannisce
all’incauto lettore l’interiorità del personaggio nuda e cruda nella
sua demenzialità forse adolescenziale:
Mi giro verso di lei, le dico “Ci sono almeno dieci
situazioni diverse dove vorrei essere con te”. Ma
quello che avevo in mente era meno piatto e semplice
di così.
“Davvero?”, dice lei, con voce pigra e occhi che
radiano luce grigia.

36
“Sì”, dico. Penso ad altre cose da dire, ma in questo
momento le parole mi sembrano rigide e limitate
come piccole gabbie, con sbarrette intessute così fitte
che è difficile capire cosa racchiudano, a meno di non
poterle osservare controluce molto da vicino. Mi
sembra che in realtà ogni sensazione o voglia o idea
venga racchiusa in una specie di gabbia, diversa per
forma e dimensione a seconda di quello che contiene.
Ci sono gabbie lunghe e strette per desideri lineari,
gabbie cubiche per immagini mentali ben definite,
gabbie a cono per modi di fare, gabbie cilindriche per
modi di essere; gabbie minuscole per piume di
impressioni. Ma adesso sto pensando a quelle ancora
più piccole, il cui contenuto è così volatile e difficile da
maneggiare direttamente da rendere indispensabili a
chiunque non sia disposto a investire tempo in
inseguimenti lunghi e spesso inutili. Così uno si
procura una gabbietta, o una serie completa di
gabbiette calibrate come i piccoli pesi di una bilancina
da orefice ed è sicuro di poter definire qualunque
cosa. (150)

37
E così via delirando per un’altra mezza pagina. Il povero lettore o la
povera lettrice che si cimentasse a dare un senso si troverebbe in
grossa difficoltà. Si può qui ricordare che il giovane Holden, a cui
come si è accennato De Carlo malamente si ispira, giunto quasi al
termine del suo peregrinare newyorkese, si rifugia esausto nella
cameretta della sorella Phoebe e le espone la sua teoria del ‘Catcher
in the rye’: immagina migliaia di ragazzi che giocano felici in un
immenso campo di segale ma, incoscienti e ingenui come sono, non
sanno che esiste un dirupo in cui possono cadere. La cosa che
piacerebbe fare di più a Holden è quella di acchiappare quelli che
senza accorgersene stanno per cadere nel dirupo e quindi di
salvarli. Si tratta di una teoria certo immaginosa e strana, ma
comunque suggestiva e ricca di significato, tanto da poter essere
vista come mise en abîme del significato del romanzo stesso che
38
appunto si intitola The Catcher in the Rye e che vuole mettere in
guardia i lettori dall’accettazione passiva del mondo dei grandi, nella
fattispecie di quello borghese e orribile descritto nel libro. I pensieri
post coitum di Fiodor, sicuramente immaginosi, sembrano essere
semplicemente strampalati e fine a se stessi.
Parimenti di mitologia adolescenziale sa l’attenzione ossessiva
riservata ai vestiti indossati tanto dai protagonisti, quanto dalle
persone da loro incontrate, come pure ai modelli e alle marche delle
macchine che compaiono nelle varie vicende. Si potrebbe pensare a
una raffigurazione critica di uno dei lati più consumisticamente
compromessi della vita contemporanea, ma il ricorrere costante di
questa attenzione morbosa, la totale assenza in De Carlo del
registro dell’ironia, e soprattutto la congruenza di questo elemento
con la tecnica della macchina da presa, di cui si è detto, spingono

39
piuttosto a vedervi un sintomo dell’introiezione del tutto acritica di
uno degli elementi più caratteristici della visione del mondo
dominante nella moderna civiltà occidentale. In un contesto di
questo genere, come del resto è abbastanza prevedibile, le figure
della seduzione sono assolutamente dominanti, e ritornano con
assidua ripetitività.

Arcodamore: seduzione à gogo


Si potrebbe iniziare con Arcodamore del 1993. Protagonista e voce
narrante in prima persona è Leo Cernitori, fotografo, di recente
divorziato dalla madre dei suoi due figli, abbandonata per una
ragazza a sua volta abbandonata dopo non molto tempo. Leo vive in
uno stato di sospensione e attesa; vede regolarmente i figli, con cui
trascorre spesso i fine settimana; fa karatè; fotografa oggetti per

40
cataloghi commerciali; ha di tanto in tanto rapporti con donne
incontrate più o meno occasionalmente; ha intenzione di non
lasciarsi invischiare in storie e relazioni troppo impegnative. Dopo il
divorzio ha riallacciato rapporti con un cugino e sua moglie, che si
incaricano di fargli fare un po’ di vita sociale e di fargli sentire un po’
di calore familiare, profilandosi ai suoi occhi come un’unione stabile
e riuscita, come si manifesta dagli scelti mobili del salotto, dai figli,
dal regolare tran tran familiare. Il libro inizia con una festa di
compleanno a sorpresa organizzata dalla moglie del cugino in onore
di quest’ultimo. È da notare che né il cugino né sua moglie (come
neppure la moglie e i figli del narratore) vengono mai chiamati per
nome: essi sono presenti nel romanzo in quanto pure funzioni
sussidiarie. Di fronte alla sorpresa della festa in suo onore, dunque,
il cugino chiede l’aiuto di Leo per imboscarsi il tempo necessario per

41
andare in un bar trendy dove poter incontrare una donna di cui si è
perdutamente innamorato, Manuela Duini, con la quale in questa
occasione anche Leo fa conoscenza, per restarne subito affascinato.
Si scoprirà in seguito che anche lei è subito rimasta affascinata –
insomma, amore a prima vista. I tentativi del cugino con Manuela
falliscono miseramente, ma la nuova passione porta allo scoperto
l’insoddisfazione e la miseria della sua vita familiare, tanto che
presto segue la separazione. Leo, invece, incontra nuovamente
Manuela per caso, le fa un servizio di fotografie, e la passione
esplode in pieno. Nel frattempo Leo è andato a letto con Antonella
Sartori, giovane di ricca famiglia che fa la giornalista per una rivista
di arredamento. Con Antonella e il suo amico Ghigo, e la di lui
temporanea amante, Leo va a Montecarlo, solo per scapparne via a
tutta velocità sulla potente Porsche di Ghigo per raggiungere

42
Manuela a Milano. Questo è il momento della rivelazione piena della
passione. Nell’appartamento di Manuela, devastato da ignoti,
evidentemente alla ricerca di qualcosa che non hanno trovato, i due
fanno tumultuosamente l’amore, e da qui inizia un avvicendarsi di
alti e bassi, avvicinamenti e allontanamenti, la cui sequela, però,
non fa che cementare sempre più l’unione fra i due. Intanto anche
l’appartamento di Leo viene devastato da ignoti, e proprio il
weekend in cui lui deve tenere i figli.
Manuela Duini è un’arpista di grande talento, figlia di un famoso
direttore d’orchestra e sorella di un ancor più celebre violinista.
Quando il narratore la conosce, attraverso il cugino, Manuela
conduce una vita abbastanza sregolata, segnata dal rapporto con un
gruppo di africani amanti di alcool, spinelli e simili, con uno dei
quali, il bel Tamba, ha anche una relazione più intima, sia pure non

43
molto profonda. La comparsa di Leo fa finire questa fase, e ne apre
una interamente nuova, ma continuano a emergere frammenti del
movimentato passato, tra i quali spiccano i seguiti della relazione
con tale Mimmo Cerino, figura di gaglioffo ritagliata su quella di
Muccioli, il fondatore di san Patrignano (Guidicini and Giovanni). È
lui probabilmente all’origine della devastazione dei due
appartamenti. Quando il narratore, furioso, lo va a cercare nel suo
appartamento di Milano, per chiedergli conto della persecuzione cui
continua a sottoporre Manuela, lo trova impiccato,
nell’appartamento aperto e deserto, in cui aleggia dallo stereo la
registrazione di una musica d’arpa suonata da Manuela. Si è
suicidato.
La trama della vicenda è tutta intessuta di figure di seduzione, che
possono essere articolate in due gruppi: forte e debole (tralasciando

44
l’amplesso vorticoso tra Leo e Nadia, conoscenza di lavoro, nonché
le pregresse vicende fra Leo e la moglie, e quelle tra Leo e la
ragazza per la quale aveva abbandonato la moglie, nonché quelle
tra Manuela e lo smidollato aristocratico Dezza, e quella tra Manuela
e Tamba, tutte presenti, per così dire, nell’ordito, ma non attive a
livello di trama).

1) Seduzione debole
1a) cugino «» Manuela
1b) Leo «» Antonella Sartori

2) Seduzione forte
2a) Leo «» Manuela

45
2)b Mimmo Cerino «» Manuela

In tutti questi casi la dinamica della seduzione è messa in


movimento dalla differenza, dal senso di mistero e di distanza che
separa i due elementi. Soprattutto, tanto più fondo il mistero, tanto
più potente la seduzione, come di prammatica. Ciò è tanto più
evidente nel gruppo 1). Il cugino, piatto pubblicitario, del tutto privo
di mistero, non esercita alcuna seduzione nei confronti di Manuela,
che invece ne esercita molta nei confronti di lui. L’insipida Antonella
Sartori non esercita che una blanda attrazione nei confronti del
narratore, che finisce per concedersi non certo perché travolto dalla
passione, ma al contrario perché rassicurato dalla mancanza di

46
ignoto e di pericolo. Viceversa lui, personalità ombrosa e
imprevedibile, è molto più importante per lei.
Nel gruppo 2) la relazione fra Manuela e Leo è fondamentalmente
paritetica, mentre quella tra Manuela e Mimmo è molto più contorta.
Lui è un essere spregevole che, finché ha potuto, ha esercitato un
influsso nefasto su di lei, mosso anche nei suoi confronti da
quell’istinto rapinoso di sopraffazione che caratterizza ingenerale i
suoi rapporti con gli altri. Solo a fatica lei è riuscita a liberarsi da
una sorta di rete di subordinazione e di fascinazione che a lungo
l’aveva tenuta prigioniera. Grazie all’analisi, Manuela ha
razionalizzato il periodo con Mimmo come una fase di un percorso
necessario per trovare se stessa al di là del mondo ingannevole
della musica, e della morbosa decadenza dell’aristocratico Dezza,
suo amante per un certo tempo, prima di Mimmo. Ma è evidente

47
che a sua volta lei, con la sua elegante spontaneità, con la sua
libera bellezza, ha esercitato nei confronti di Mimmo una seduzione
non meno forte, dal momento che lui cerca con tutti i mezzi di
riattivarla nella sua rete e poi si suicida ascoltando un disco di lei
che suona l’arpa.
Leo è attratto magneticamente da Manuela per la capacità di lei di
stabilire un’immediata comunicazione, come un’onda continua priva
di sforzo, ma all’occorrenza non di vivificante tensione. L’amore per
Manuela porta Leo a uscire prepotentemente dai binari della propria
vita sospesa, e a lasciarsi prendere dal vortice degli accadimenti che
ruotano attorno a Manuela, quasi da lei generati. Originalmente,
una molla fortissima che incrementa la forza della passione, fino a
farla esplodere in violenza anche fisica (Leo è esperto karateka,
Manuela pratica tai-chi), è la gelosia, anche retrospettiva. È poi

48
l’unione tra gelosia e istinto di protezione che porta Leo in
numerose occasioni a agire d’impulso, senza possibili mediazioni.
Eccolo allora che guida come un pazzo, bruciando semafori e limiti
di velocità (e mai che un vigile o un poliziotto lo colga in flagrante);
che prende la macchina di Ghigo, senza dire nulla a nessuno, per
tornare da Montecarlo a Milano alla massima velocità, poi la lascia
in zona rimozione e non muove un dito quando vede il carro attrezzi
portarla via; eccolo che si scatena con violenza cieca contro i due
forse scherani di Mimmo trovati a spiare la casa di Manuela; eccolo
che si lascia prendere la mano anche nei litigi con la stessa
Manuela, fino a provocare da parte di lei l’accusa di essere un
maniaco violento. Eccolo che si dimentica della festa di natale coi
suoi bambini, perché preso da una foia incontrollabile per una
donna che gli è sostanzialmente indifferente (prima che inizi la

49
tresca vera e propria con Manuela, e quando se ne accorge per
rimediare si precipita a comprare inconsultamente regali assurdi. E
infine eccolo che si abbandona totalmente alla vertigine degli
amplessi con Manuela, descritti in maniera abbastanza dettagliata in
3 o 4 occasioni.
L’incontro con Manuela, in realtà, non porta Leo da un’altra parte,
non lo fa uscire da nessun binario, ma semplicemente esalta un lato
della sua personalità già ben presente, operato e dichiarato, che
potrebbe riassumersi in un deciso anticonformismo, nella ricerca di
un modo di vivere libero e non legato da compromessi, soprattutto
non falso, ma sincero. È questo che lo porta a spezzare il
matrimonio, una volta compreso che esso era diventato una
finzione. È questo che lo porta, emblematicamente, a fare il
fotografo di oggetti, in modo da ridurre al minimo il rischio di

50
coinvolgimento personale e sentimentale nel lavoro. Questo è uno
degli aspetti, forse anzi è l’unico, che vengono messi in discussione
nel confronto con Manuela, in particolare con la sua irrefrenabile,
anche se sofferta e combattuta, passione per la musica. Leo a più
riprese si chiede se lui sarebbe ancora in grado di mettersi a fare un
lavoro tale da coinvolgerlo.
Discorso speculare si può fare per Manuela. La passione per Leo si
traduce in incontri incandescenti, in dialoghi svisceranti, in momenti
magici di varia natura, ma non cambia nulla - e neanche in
prospettiva – del suo modo di vivere e di essere. Da uno di questi
dialoghi profondi e “senza rete” emerge anche il significato del
titolo. Con la franchezza che li contraddistingue i due si confessano
che la loro più grande paura è che anche la loro storia d’amore
segua prima o poi la traiettoria tipica delle storie d’amore, quella

51
dell’arco, con un’ascesa, un culmine, una discesa. Loro vorrebbero
una diagonale, hanno terrore dell’arco.
Il libro è del 1993, e la storia è ambientata tra ’92 e ’93, cioè negli
anni di tangentopoli. Sono numerosi infatti i riferimenti al venire a
galla della dilagante corruzione, al dominio socialista su Milano, a
Craxi stesso. Tutti questi riferimenti non hanno assolutamente nulla
a che fare con la vicenda narrata e non c’entrano se non in quanto
sono oggetto, di quando in quando, di conversazioni da sala
d’aspetto e da vagone ferroviario, oppure se ne parla alla
televisione accesa per caso in un salotto o in un bar. Esterno alla
vicenda è anche il fatto che il padre di Antonella Sartori,
brevemente amante di Leo, è uno pesantemente compromesso col
sistema, anzi una sua parte integrante. Così pure esteriore è il
riferimento a Muccioli nel personaggio di Mimmo Cerino.

52
Sostanziale è invece l’autocontemplazione continua del narratore,
che appare intento a guardare se stesso in azione esattamente
come si guarda qualcosa alla televisione; e tutto, a cominciare da
sensazioni e sentimenti, viene squadernato con dovizia di particolari
al lettore.
Altrettanto sostanziale è il rapporto dicotomico che si stabilisce tra
“io” (Leo e Manuela) e gli altri, in particolare col mondo di viziati
figli di papà di cui Antonella Sartori e Ghigo sono i rappresentanti,
ma anche i professionisti più o meno in carriera amici del cugino e i
frequentatori del bar alla moda dove per la prima volta Leo incontra
Manuela. Questa umanità altra, che comprende mogli (di Leo e del
cugino), e amanti (di Leo e di Manuela), ma anche gli orchestrali e
in generale i musicisti colleghi di Manuela, in realtà comprende tutti
gli altri, ed è compendiata nella tetra figura della città di Milano,

53
invariabilmente piovosa, nebbiosa, falsa, atteggiata, indaffarata,
uggiosa, solitaria etc. Ma non molto diverse da Milano si rivelano in
realtà Montecarlo e Ferrara: tutte sono palcoscenici esistenti solo
per far spiccare l’eccezionalità del protagonista e dell’oggetto della
sua passione.
Tale unicità, però, è puramente affermata, e con costante impavida
esplicitezza ribadita, ma non si riflette nella rappresentazione, e in
particolare nella lingua. I due parlano esattamente come il cugino, e
dalla prima all’ultima pagine dominano le stesse figure, le solite di
De Carlo: polisindeto, asindeto, anafora, che hanno la funzione di
conferire ritmo e accelerazione a una storia che ne è e ne rimane
del tutto priva.

54
Uccelli da gabbia e da voliera: Fiodor e le sue ‘situazioni’
amorose
La presenza del tema della seduzione come elemento centrale nella
costruzione della trama non è un evento sporadico nella narrativa di
De Carlo. Già nel secondo romanzo da lui pubblicato, Uccelli da
gabbia e da voliera (1982) tutta l’esile vicenda ruota attorno alla
reciproca seduzione tra il protagonista, e io-narrante, Fiodor Barna,
e la bella e misteriosa Malaidina. Lui, tipico figlio di papà di
formazione cosmopolita, finisce a Milano, a lavorare per una filiale
dell’azienda di famiglia, il cui cuore ormai è negli Stati Uniti. Fiodor
in realtà mantiene nei confronti dell’azienda un atteggiamento di
estremo distacco: come molti protagonisti di De Carlo, egli
fondamentalmente si lascia vivere, ovvero vive in uno stato di
sospensione, entrando e uscendo dalle “situazioni” (altra parola

55
magica di questi decenni) senza sentirsi mai davvero coinvolto. Così
è stato della sua esperienza immediatamente precedente, a Santa
Barbara, California, dove viveva con una donna, tentando di farsi
strada come chitarrista. Dopo un incidente di macchina idiota, che
fin alle prime righe del romanzo dà un’idea abbastanza chiara dello
spessore del personaggio, Fiodor lascia la ragazza, vola prima dal
padre in Costarica, ha con lui uno scontro, e subito se ne va
disgustato, per poi fare esattamente quel che il padre da lui
desiderava, e cioè recarsi a New York dal fratello in carriera, che gli
offre la possibilità di inserirsi nell’organigramma della ditta di
famiglia, spedendolo a Milano a farsi le ossa sotto la guida del
manager americano Bob. Qui Fiodor fa casualmente la conoscenza
di Mario Oltena, rappresentante abbastanza tipico della boheme
cittadina, e si innamora follemente della di lui sorella, Malaidina. Ma

56
Malaidina ha avuto una relazione con una persona pericolosa, un
uomo a sua volta legato al mondo del terrorismo di sinistra, e quindi
perennemente in fuga. Quando Fiodor interseca la traiettoria di
questo signore, considerato da un apparato poliziesco tutto votato
alla repressione un terrorista, anche se in realtà non lo è affatto, si
trova anche lui, o sembra trovarsi, in pericolo, e Malaidina è sparita.
La moglie di Bob allora lo porta nella loro casa in montagna, sotto la
sorveglianza di una guardia del corpo di professione, Elvio. Manco a
dirlo, senza averne nessuna intenzione Fiodor seduce Sue, che poi
ci resta malissimo quando lui decide all’improvviso di lasciare il
rifugio in montagna per tornare a Milano con la speranza di ritrovare
Malaidina. Non la trova, perché lei si nasconde (anche se, come
presto si scoprirà, senza motivo, perché nessuno le dà la caccia),
ma nel frattempo Fiodor ha stretto una virile amicizia con Elvio, che

57
ha deciso di abbandonare la professione di guardia del corpo, e di
emigrare in Australia insieme alla sua donna. I due affascinano
Fiodor, che partecipa alla loro pianificazione del futuro. Elvio e Paola
avevano progettato di mettersi a allevare pappagalli, ma lui li
convince che è molto più interessante allevare uccelli rari tropicali,
non uccelli da gabbia, ma da voliera, da vendere a caro prezzo a
intenditori, e solo a quelli seri, da cui ci si potrà aspettare che
trattino bene gli uccelli acquistati per passione, sistemandoli non
nelle misere gabbie in cui finiscono in genere i pappagalli, ma in
comode voliere. Fiodor rivela così, con sorpresa del mondo, di
essere esperto di uccelli, anzi che questa è l’unica cosa di cui
davvero si intende, chiaramente per via del padre, che in Costarica
si è dedicato appunto a collezionare, in immense voliere all’interno
di un’ancora più immensa piantagione, splendidi e rari uccelli

58
tropicali. Si può supporre che le disquisizioni sugli uccelli da gabbia
e da voliera, evidentemente importanti se danno il titolo al libro,
abbiano un profondo, quanto recondito, significato allegorico.
È questo il parere del benevolo critico Martin McLaughlin
(McLaughlin: 81) che afferma: “Despite treating predictable topics
De Carlo’s fiction exhudes a freshness and relevance that perhaps is
lacking in some of the older, more established Italian novelists”
(McLaughlin: 76) Quel che invece consta con certezza è che il
romanzo precipita verso un macchinoso, quanto scontato, lieto fine,
col ricongiungimento di Fiodor con la bella Malaidina.
Anche in questo romanzo è scoperto il tentativo di dare un po’ di
sostanza a una storia di esilità quasi incredibile attraverso gli
espliciti riferimenti alle sanguinose vicende dell’Italia di quegli anni.
Ma già qui i riferimenti storico-politici rimangono del tutto esterni

59
alla sostanza del romanzo, piuttosto incentrata sull’amore tra Fiodor
e Malaidina. Un grande amore, naturalmente, esattamente il
coronamento di un sogno adolescenziale, vissuto da personaggi
assolutamente adolescenziali. Anche qui i due hanno incontri
sessuali al fulmicotone, dialoghi che mettono a nudo l’anima, e allo
stesso tempo Fiodor ha la soddisfazione di sedurre anche le altre
donne che incontra, senza da parte sua restarne coinvolto. Modo di
pensare, di agire e di reagire, sistema di valori e di scelta: tali
all’inizio, tali alla fine, e allargando la prospettiva si potrebbe
aggiungere: tali in questo, altrettali negli altri romanzi dell’autore.

Tecniche di seduzione
Quanto la seduzione sia importante e centrale nella fantasia
creatrice di De Carlo è del resto confermato addirittura dal titolo di

60
un romanzo del 1992, Tecniche di seduzione. Roberto Bata,
praticante giornalista negli uffici di un settimanale milanese, e
aspirante romanziere, conosce ad una festa il famoso scrittore
Marco Polidori il quale, dopo aver letto un suo manoscritto ancora
incompleto, invita Roberto a trasferirsi a Roma perché, prese le
distanze dalla soffocante routine milanese, possa portare a termine
la stesura del suo romanzo.
Nonostante i dubbi della moglie Caterina Roberto, entusiasta e
spaventato, sbarca nella capitale dove, trovati facilmente casa e
lavoro, si dedica alla scrittura e alla progressiva esplorazione
dell'ambiente romano, popolato di potenti uomini politici, famosi
personaggi dello spettacolo e affermati critici letterari,
puntualmente guidato da Polidori, la cui personalità e il cui modo di
agire diventano il punto di riferimento non solo della vita pubblica di

61
Roberto, ma anche di quella privata, sconvolta dall'innamoramento
per una attrice già conosciuta a Milano e inaspettatamente
incontrata di nuovo a Roma: Maria Blini. Sempre più frastornato dal
turbinio dell'ambiente romano, a tratti prostrato dalla gelosia per
Maria e ormai insofferente rispetto alla sua passata vita milanese e
al rapporto con Caterina, Roberto trova sempre più difficile
continuare il proprio lavoro di scrittura, soprattutto dopo che
l'ammirazione per Polidori e per il suo modo di vivere e far
esperienza del mondo viene offuscata dalla rivelazione di un collega
di Roberto, che gli confessa di essere lui l'autore di buona parte
degli scritti che vengono pubblicati periodicamente a firma di Marco
Polidori.
Terminato comunque il manoscritto, per la cui pubblicazione è già
pronto un vantaggioso contratto, Roberto lo recapita a Marco e, al

62
culmine del coinvolgimento emotivo per Maria, corre a incontrarla a
Palermo dove lei si trova per lavoro; incalzata dalle domande di
Roberto, Maria gli rivela di avere una parallela storia sentimentale
proprio con Polidori, il quale dopo pochi mesi pubblicherà a proprio
nome il manoscritto di Roberto.
Anche in questo romanzo De Carlo fa usare ai suoi personaggi, si
suppone per dar loro una sorta di carattere speciale che li tiri un po’
su dalla loro intrinseca banalità, un linguaggio per così dire,
personalizzato, ma non nel senso che ciascun personaggio ha un
suo linguaggio particolare. Al contrario si tratta di una lingua
personale dell’autore che viene generosamente concessa ai
personaggi senza fare grandi distinzioni. È un idioma che oltre a
parecchie espressioni del gergo giovanile non sempre azzeccate, e
oltre a delle vere e proprie goffaggini e sgrammaticature -- si pensi

63
al vezzo di omettere la preposizione in un elenco di frasi dipendenti
dallo stesso verbo, peraltro simile all’altro vezzo consistente nel non
ripetere l’ausiliare del passato prossimo in una serie di frasi, ma si
vedano anche espressioni del tipo: “ero ammirato dell’intelligenza
con cui era scritto “ (57) [nel senso di: ero affascinato dal modo
intelligente in cui era scritto]; “ero ammirato all’idea che Polidori li
avesse scritti” (81) -- presenta una grossa quantità di strutture ed
elementi lessicali ricalcati sull’americano tra cui spiccano: gli
aggettivi possessivi al plurale al posto del singolare: “le ombre nei
loro modi di fare” (330); l’abuso di consecutive: “sono stato così
fradicio che ho lasciato perdere” (203) [qui si noti anche l’uso del
passato prossimo al posto dell’imperfetto], di concessive implicite,
di aggettivi possessivi, di verbi seguiti da preposizione: “lui ha
sciabattato qualche passo in giro” (244 ); l’uso quasi sempre

64
improprio della preposizione ‘attraverso’: “ho guardato attraverso il
finestrino opaco” (57); L’uso di espressioni tipo: “sai se c’è un altro
uomo o qualcosa?” (208); “Ti sei fatto due giorni di follia o cosa?”
(341); “ho dato una mancia al fattorino” (318) [per: la mancia].
Tale linguaggio poteva avere una qualche giustificazione come
elemento straniante e caratterizzante se messo in bocca a
personaggi cosmopoliti quali a esempio il Giovanni di Treno di
panna e i suoi amici americani, Fiodor di Uccelli da gabbia e da
voliera, i personaggi di Yucatan, di Uto. Ma stona e infastidisce
quando viene attribuito a personaggi che dovrebbero essere di
madrelingua italiana, come quelli a esempio di Due di due, o
addirittura a personaggi scrittori come in questo Tecniche di
seduzione. Si pensi per esempio a quando Polidori esprime un
parere tecnico sul romanzo di Roberto: “hai piallato via tutta la

65
ruvidezza” (352) facendo eco a Roberto che aveva appena detto: “le
crudezze che avevo scalpellato via senza il minimo riguardo”
(348).
Il romanzo è non solo pieno di seduzione in atto, ma è anche ricco
di disquisizioni sulle eponime tecniche di seduzione. Polidori,
assunto il ruolo di sulfureo Mefistofele nei confronti di un assai poco
faustiano Roberto, lo ammaestra sulla condotta da tenere per
conquistare la bella Maria Blini, insegnandogli, per esempio, che è
utile rendersi reperibili solo occasionalmente e che non bisogna mai
dare certezze a chi si vuole legare a sé; e questa è esattamente la
tecnica che lui Polidori mette in atto anche nei confronti di Roberto,
in maniera didatticamente ineccepibile: la teoria insegnata con
l’accompagnamento degli esempi.

66
Siamo qui, è evidente, a livello di psicologia da settimanale
femminile, e senza neanche le finezze che spesso in molte pagine
del genere pure si trovano. Il fatto è che anche in questo romanzo,
come abbiamo visto in Arcodamore e in Uccelli da gabbia e da
voliera, il punto di vista centrale è quello di un adolescente moderno
o postmoderno, il cui immaginario è dominato da una mitografia
fumettistica e televisiva, ovvero da un superomismo da romanzo
d’appendice: la realizzazione sognata è il grande gesto, l’esibizione
teatrale, che strappa l’applauso a un pubblico idealmente sempre
presente. Ecco quindi Polidori che per conquistare definitivamente
Roberto si fa accompagnare in aereo e lo convince a lanciarsi col
paracadute, benché non abbia nessuna preparazione e muoia di
paura; ed ecco che, nel bel mezzo di profondissime disquisizioni
sulla vita e sulla morte, passando attraverso il suicidio, il famoso

67
scrittore tira fuori dal cruscotto una pistola carica, esibendola
all’esterrefatto discepolo quale prova di un atteggiamento di
dominio e padronanza della vita. Gusto del rischio, emozioni forti,
coraggio, sprezzo del pericolo, donne e potere: non manca nulla. E
che si tratti di idoli polemici, della rappresentazione di un modo
distorto di concepire la vita e i rapporti umani, non allevia in niente
la banalità della messa in scena, come non l’allevia quando si passa
a un altro tormentone di De Carlo, puntualmente ricorrente anche in
questo romanzo, il confronto tra Milano e Roma. La prima è gelida,
nebbiosa, velenosa, fredda, angosciosa e stressata; la seconda è
tiepida e rilassata. Milano è il luogo dell'operatività concreta ma
disumanizzante; Roma è il luogo del relax ma anche della truffa e
del sotterfugio, è affarista e corrotta. Per meglio esemplificare
questo originale concetto viene descritto l'incontro a pranzo tra

68
Polidori, Roberto e il presidente e il direttore della televisione di
stato. A sottolineare la consuetudine di far uso del potere in modo
sprezzante da parte di uomini politici di lungo corso viene
pesantemente rilevato il fatto che con tutta naturalezza i due
potenti di turno si alzano e escono dal ristorante senza nemmeno
accennare a pagare il conto, convinti che la loro posizione li ponga
al riparo da quisquilie di tal fatta. Non bastando un simile trionfo del
luogo comune, l’impavido scrittore ve ne aggiunge un altro:
Palermo, descritta come un luogo sospeso in una luce abbacinante
che scolpisce le sensazioni interiori, dove la luce totale equivale
all'immobilismo e all'accecamento, secondo il cliché reso popolare
dal Gattopardo (Tomasi di Lampedusa). Non siamo qui,
evidentemente, d’accordo con Filippo La Porta che pur avendo
espresso un giudizio in generale parecchio negativo rispetto al

69
romanzo dice: “di queste pagine vanno ricordate almeno le
descrizioni di Milano (della sua nebbia ‘gelata e velenosa’) e una
attenta fenomenologia delle tecniche di seduzione sociale”(La Porta
La Nuova Narrativa Italiana. Travestimenti E Stili Di Fine Secolo 37).
De Carlo non è scrittore che ami il non detto, e così non resiste alla
tentazione di abbozzare una sorta di definizione della seduzione,
attraverso le riflessioni di Roberto, che si chiede in che cosa
consista il segreto dell’irresistibile attrazione che Polidori esercita
sulle donne (anche qui: dimmi il tuo segreto, sembra di essere in un
talk show televisivo):
Mi chiedevo cosa esattamente le intrigava [le amiche
di Milano] di Polidori; e più della sua fama e delle sue
capacità artistiche mi sembrava che fosse il suo
interesse senza fine per le donne: la curiosità quasi
ossessiva che impregnava i suoi romanzi come i suoi

70
sguardi, arrivava al bersaglio anche attraverso una
semplice fotografia. (131)

È un po’ come se si identificasse la seduzione nell’atto di porgere


uno specchio, in cui il sedotto si vede non tanto come è, quanto
come vorrebbe essere, ai propri occhi prima ancora che a quelli del
seduttore. E infatti viene sedotto chi era già fermamente
intenzionato a farsi sedurre, anzi chi ne ha bisogno per suoi più o
meno nobili scopi. Nel nostro caso, Roberto vede in Polidori lo
strumento della possibile realizzazione del suo sogno nel cassetto
(perché a questo siamo, al sogno nel cassetto) e si getta a peso
morto nell’avventura perché spera di ricavarne qualcosa. E così in
generale la seduzione esercitata da Polidori è quella del carisma
dell’uomo di successo, la cui vicinanza può comunque essere in un
modo o nell’altro vantaggiosa e utile.

71
In qualche modo utile risulta, questa seduzione un po’ truffaldina,
anche per quanto riguarda Roberto. Alla fine, come il Renzo di
manzoniana memoria (si infima licet…), anche il nostro protagonista
tira le fila delle sue vicende, e si chiede che cosa ha imparato:
[Polidori] mi aveva fatto perdere una moglie e una
innamorata e il mio primo romanzo, ma in cambio mi
aveva lasciato abbastanza sentimenti scoperti da
scriverne un altro, questo. (355)

dove il lettore apprende cos’è che serve a scrivere un romanzo:


sentimenti scoperti.

Uto ovvero la seduzione che conferma e sancisce l’ordine


sociale e ideologico
Pochi anni dopo Tecniche di seduzione De Carlo torna sul luogo del
delitto, e ne commette un altro, questa volta forse ancora meno

72
perdonabile, perché molto vicino si sente l’eco del modello
pasoliniano dal quale abbiamo preso le mosse in questo discorso,
quello di Teorema. In Uto (1995) un ragazzo italiano di circa 19
anni viene mandato dalla madre presso la famiglia di un’amica che
vive a Peaceville, un’isolata cittadina del Connecticut in cui si è
stabilita una comunità di adepti di un anziano santone indiano. La
famiglia è esemplarmente composta dal padre Vittorio Foletti,
famoso pittore dal passato turbolento, dalla madre Marianne,
tedesca ma con alle spalle una lunga permanenza in Italia, Nina,
diciasettenne figlia di Vittorio e della sua precedente moglie, e infine
il quindicenne Giuseppe, figlio di Vittorio e di Marianne.
Vediamo come l’autore stesso presenta il romanzo nei vari siti web
che cercano di venderlo:

73
Un ragazzo cattivo che suona il piano come un dio
viene spedito da sua madre presso una famiglia di
amici che vive in una comunità spirituale negli Stati
Uniti. Ha l'effetto di un virus in un organismo sano, e
provoca reazioni a catena. Riflessioni sulle famiglie e
sulle comunità, sulla spiritualità, la vita di ogni giorno,
i ruoli, i miracoli. Sperimentale e sfaccettato, un
romanzo cubista. (Qlibri)

La differenza con il libro di Pasolini sta proprio in quello che De


Carlo chiama “un organismo sano”, ché tale certo non è la famiglia
dell’industriale. Tuttavia l’analogia con Teorema è abbastanza
evidente al primo sguardo. Già dopo pochissimo tempo il giovane
Uto percepisce, da parte della matura ma ancora bella e viva
Marianne, un interesse di natura chiaramente erotica nei suoi
confronti, e finisce comunque per fare l’amore con la quasi coetanea
Nina. Il più giovane Giuseppe è interamente soggiogato dal fascino

74
del nuovo arrivato, e finirà per uniformare il proprio comportamento
agli insegnamenti che quello gli ammannisce. Il padre, Vittorio, è
anche lui a suo modo fulminato dal fascino del giovane, ma vi
reagisce prima con un atteggiamento di sfida, di confronto nudo e
duro tra maschi, poi coglie l’occasione per recuperare la sua vera
natura, solo superficialmente offuscata e per così dire sedata
dall’accettazione delle regole di vita della comunità in cui lo aveva
trascinato Marianne; abbandonerà la famiglia e Peaceville, e
riprenderà, probabilmente, la vita scapestrata condotta in
precedenza. Se si tiene conto che in un autore come De Carlo
sarebbero impensabili le oltranze pasoliniane, e improponibile anche
un accenno di omosessualità e di sesso indiscriminato, la
discendenza dal modello sembra sicura. Tanto più diventa palese, e
sintomatica della diversa temperie culturale generale di cui abbiamo

75
parlato all’inizio, la riduzione dell’orizzonte intellettuale complessivo
e di conseguenza dell’impianto della rappresentazione artistica.
Se in Tecniche di seduzione il facile idolo polemico era il famoso
scrittore Polidori, incarnazione di un mondo di falsità e di
sopraffazione, in Uto il bersaglio degli strali del narratore è forse
ancora più facile. La famiglia Foletti appare fin dall’inizio come una
costruzione eccessivamente artificiale, basata su un’acritica
accettazione di regole di vita innaturali e forzosamente buoniste. La
serenità di cui la famiglia e tutta la comunità si fanno scudo e vanto
appare facilmente una superficie sotto la quale si agitano tensioni
irrisolte, e l’intera costruzione di Peaceville è per giunta chiaramente
basata sul privilegio economico garantito dalle pingui entrate di
alcuni membri, che rendono possibile il mantenimento di un tenore
di vita decisamente elevato e quindi la preservazione di un’isola di

76
pace e tranquillità che può sussistere solo a patto di ignorare il
mondo reale. Il cuore pulsante di casa Foletti, in realtà, non è il
focolare, ma l’ufficio in cui si conservano i documenti contabili, le
ricevute e gli ordinativi delle gallerie che vendono i quadri di
Vittorio, come acutamente nota il giovane Uto in una delle sue
scorribande semiclandestine di esplorazione della casa in cui si è
trovato come paracadutato. Che gravi problemi allignino nell’ombra
è inoltre reso manifesto al di là di ogni dubbio dall’anoressia di cui
soffre la giovane Nina. Ecco allora che il seduttore arriva a
scombussolare un ordine che è già di per sé estremamente
pericolante.
Al contrario quindi di quanto dice De Carlo nel riassunto che
abbiamo citato, il giovane Uto, il seduttore designato, non è affatto
“cattivo”, e tanto meno si può dire che operi come “un virus in un

77
organismo sano”. Prima di tutto l’organismo, come abbiamo visto,
non è poi così “sano”; in secondo luogo Uto è un ragazzo con suoi
problemi che, scaraventato in un ambiente non suo, cerca
comunque di sopravvivervi, mantenendo la propria identità. È
proprio questa coerenza con se stesso che colpisce al cuore i
membri della famiglia finta felice, facendoli uscire dai loro già
pericolanti binari.
Rispetto allo schema di Teorema, però, c’è un ulteriore scarto,
quello che forse qualcuno potrebbe considerare un vivido guizzo di
originalità. Alla fine il seduttore diventa il sedotto; il meccanismo
della seduzione rivela la sua natura ambigua di arma a doppio
taglio. Tra Uto e lo swami, il vecchio santone indiano che è il centro
spirituale della comunità di Peaceville, si crea una particolare

78
tensione a doppia direzione, e lo swami morente designa Uto come
suo successore a guida della comunità. E Uto accetta.
La comunità è a sua volta pronta ad accettarlo come capo sia
perché a suo tempo è stata testimone di un’esibizione pianistica
mozzafiato del giovane, che chiaramente si è distaccato di molto
dalle pallide strimpellate degli altri che in occasione di una
festicciola volenterosamente si esibivano al pianoforte, sia
soprattutto perché la successione è stata abilmente preparata dallo
stesso guru che, con l’istintiva complicità di Uto ancora ignaro dei
disegni di lui, ha messo in scena un doppio miracolo. Davanti alla
comunità radunata all’inizio dell’anno per sentirlo parlare in pubblico
per la prima volta dopo una lunga interruzione a causa di una grave
malattia (e sarebbe stata anche l’ultima volta), lo swami ringrazia
Uto per il sacrificio che ha fatto della sua mano, e quindi delle sue

79
possibilità di suonare il piano, per aiutare una donna della comunità.
Era infatti successo che Vittorio aveva chiesto l’aiuto di Uto per
tagliare legna per la vecchia Saraswati, e Uto, già in rotta di
collisione con il pater familias ormai in crisi di identità, preso dalla
foga del confronto tra maschi, tipico del loro rapporto, insiste per
usare lui la sega elettrica e si ferisce una mano. I medici non danno
speranze sul recupero della piena funzionalità dell’arto, ma già
prima della cerimonia Uto si era accorto che in realtà la mano era
tornata a essere sensibile e mobile. Quando lo swami afferma che
comunque le forze del bene finiscono sempre per prevalere, ecco
che il giovane si alza e con consapevole teatralità si toglie la
fasciatura e muove la mano. In mezzo all’entusiasmo scatenatosi
tra la folla, una donna paralitica e condannata alla sedia a rotelle si
alza e cammina. Se a questo si aggiunge che dopo una

80
conversazione con Uto già in precedenza Nina era guarita dalla sua
anoressia, è chiaro che tutte le premesse per l’apoteosi finale di Uto
quale guida carismatica erano state poste.
Uto è ancora una volta l’incarnazione di un sogno adolescenziale.
Come il Fiodor di Uccelli da gabbia e da voliera egli ha vissuto in
diversi paesi e si dice che parli correntemente inglese, tedesco e
spagnolo (anche se poi il brutto italiano che l’autore gli mette in
bocca, dalla sintassi facile e piatta, piena di elementi di gergo
giovanile, di parlato milanese, di neologismi non sempre azzeccati,
di vere e proprie gratuite sgrammaticature e soprattutto di calchi e
sovrimpressioni sintattici e lessicali dall’americano, non sembra
risentire neppure minimamente né del tedesco né dello spagnolo);
suona il piano “come un dio”; ha evidentemente alle spalle una
massa di esperienze, e di letture, per lo meno rara per un ragazzo

81
di quell’età; ha costruito un personaggio di se stesso attraverso i
vestiti rigorosamente neri, gli scarponi da motociclista, gli occhiali
da sole sempre addosso a creare uno schermo rispetto al mondo. Il
dramma familiare dal quale la madre è convinta che lo si debba
allontanare è quello del suicidio del patrigno, col quale non era mai
andato d’accordo, uccisosi in maniera drammatica e demenziale, col
gas in modo da provocare il crollo del palazzo e la morte di
numerose altre persone. Come tutti indistintamente i protagonisti di
De Carlo, Uto è perennemente concentrato su se stesso e attento al
suo apparire all’esterno, al modo in cui gli altri lo vedono e
all’impressione che ne traggono. Anche l’incontro con lo swami è
segnato da questa ansia di essere al centro dell’attenzione: nello
swami egli riconosce un maestro dell’arte, un modello da imitare

82
accuratamente, perché con un minimo sforzo ottiene i maggiori
risultati.
Alla fine, dunque, Uto si ritrova a essere in realtà quello che ha
subito la maggiore trasformazione. Dimessi i consueti abiti scuri, ha
preso a indossare le tuniche dai colori tenui tipiche dello swami e
della comunità, anche se con l’aggiunta dei pantaloni e delle scarpe
da jogging. Non si tinge più i capelli e ha abbandonato gli occhiali
da sole, per poter guardare dirittamente tutti negli occhi. Tiene
discorsi in pubblico che convincono anche i più scettici del fatto che
si tratti di un illuminato, e di buon grado si presta a eseguire al
pianoforte il lieve Mozart anziché il passionale Ciaikovskji col quale
aveva la prima volta fatto colpo sull’audience. Insomma, una
metamorfosi in piena regola, da individualista estremo al limite tra

83
metallaro e punk a guru interamente dedito alla comunità alla quale
si è trovato preposto.
A ben guardare, però, la portata di questa metamorfosi è
decisamente più limitata, specie se si considera che la posizione di
nuovo guru non fa che esaltare la componente di esibizionismo già
da subito presentata come centrale nella personalità del giovane
Uto, peraltro non realmente “cattivo”, e fin dall’inizio tutt’altro che
insensibile ai problemi degli altri.
Resta da vedere quali trasformazioni finisca per operare la
seduzione di Uto all’interno del nucleo familiare. Di Giuseppe non si
dice più nulla. Le ultime notizie lo davano sul punto di assumere un
atteggiamento di ribellione nei confronti della stucchevole vita
familiare e in generale di Peaceville, nell’imitazione del modello
fornitogli dal di poco più grande Uto. Magari non è necessario

84
vedere un simile sviluppo, in un quindicenne, come un fenomeno
strabiliante. Nina, grazie a Uto, è guarita dalla sua anoressia, il che
può tranquillamente essere annoverato tra i miracoli del ragazzo,
perché è noto che dall’anoressia è impossibile uscire con tanta
disinvoltura. Infine, diciassettenne, innamorata del diciannovenne
Uto, va a vivere con lui, col pieno accordo della madre, o meglio
matrigna, Marianne. Quest’ultima, che nel corso della vicenda, come
s’è accennato, aveva mostrato qualche pericolosa inclinazione,
peraltro sempre controllata, per Uto, si mostra del tutto felice e
appagata della piega che hanno preso le cose, del successo di Uto e
del suo desiderio di averla accanto nella sua nuova vita di
responsabile della comunità, per esserne aiuto nell’espletamento dei
suoi nuovi doveri. L’altra grande novità nella vita di Marianne è la
fine del rapporto con Vittorio, rapporto la cui natura forzata e priva

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di spontaneità era abbastanza presto venuta a galla. A sua volta
Vittorio, come già si è detto, riprende la vita che aveva lasciato per
seguire Marianne a Peaceville, dove in realtà non si era mai sentito
davvero a suo agio, benché avesse con tutte le sue forze provato a
far finta di aver trovato la soluzione di tutti i suoi problemi. In
definitiva, la seduzione che Uto ha esercitato a destra e a manca
non ha altro effetto se non quello di incoraggiare gli eventi a seguire
il loro corso, nell’ottica, entusiasticamente condivisa, della più piatta
e regolare e conformistica normalità borghese.
Benché stremato dalle ripetizioni incessanti di parole e di concetti,
di figure retoriche e di procedimenti, per così dire, stilistici, il lettore
nel finale potrebbe anche dare credito allo scrittore che tutta la
vicenda si inscriva in realtà sotto un segno di radicale ironia,
all’interno della quale deve essere letto non solo l’universo

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edulcorato di Peaceville e della famiglia Foletti, ma anche quello
dello stesso Uto, prima e seconda maniera. Ma anche a prescindere
dal fatto che il registro dell’ironia è in genere completamente
assente in De Carlo, tutte le indicazioni del testo indirizzano al
contrario verso una terribile seriosità del discorso. A contatto con il
mondo chiuso della comunità di Peaceville, Uto ne ha assorbito i
valori positivi, comunque presenti, e è maturato, portando in dote
alla comunità una ventata di aria fresca, forse in grado di migliorare
sostanzialmente il modo di vivere comunitario. In questa direzione
accenna anche la struttura chiusa del libro, che inizia e finisce con le
lettere delle due amiche, Marianne e Lidia, la madre di Uto.

Uto e Teorema

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Con Uto De Carlo compie il più radicale rovesciamento rispetto a
una pratica della letteratura quale quella che abbiamo visto in
Pasolini, aperta, contraddittoria e problematica. Il moto ondoso
scatenato dalla seduzione è dato solo in funzione del suo finale
pacificarsi, che conferma e sancisce l’ordine sociale e ideologico. Se
per Pasolini siamo giunti alla conclusione che ci trovavamo di fronte
a una letteratura ‘brutta’, ma ‘alta’, con De Carlo non ci resta che
constatare la rinuncia a un’operazione letteraria di sia pur minimo
spessore, e la pratica di una formula industriale consona ai
meccanismi della produzione intellettuale massificata, volta a
soddisfare le esigenze del consumo al dettaglio, in maniera del tutto
priva di qualsiasi istanza critica e conoscitiva, quel tipo di istanza,
cioè, che ancora ci ostiniamo a ritenere elemento costitutivo e
irrinunciabile della letteratura e dell’arte.

88
TESTI CITATI

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