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Letteratura italiana contemporanea 9/3/2023

Nella lezione precedente abbiamo parlato della rivista Sud che nasce quasi come una risposta
napoletana all’esperienza del politecnico di Vittorini. Questa rivista che aveva molto più clamore
rispetto ad altre e molti più fondi e che disponeva di un gran numero di collaboratori, diventa un
modello di dialogo per tutti gli scrittori meridionali dell’epoca. L’importanza di Vittorini e di questa
rivista Sud viene sottolineata anche da Raffaele La Capria in questo volumetto “False partenze” che
è una sorta di autobiografia letteraria, un’autobiografia in forma di saggio attraverso la quale
Raffaele La Capria ricostruisce i suoi esordi letterari a partire proprio da quella che è la formazione
letteraria; questa è la particolarità di questo libro, cioè non è un’autobiografia di fatti, egli non parla
tanto della sua famiglia anche se ci sono piccoli riferimenti a quest’ultima oltre quelli riguardanti la
sua estrazione sociale e i luoghi in cui è nato. Però la cosa interessante è che “False partenze”
racconta di come Raffaele La Capria si sia formato attraverso i libri che ha letto e attraverso gli
intellettuali amici che ha conosciuto. Questo testo che andremo a leggere “Sud giornale di cultura”
che è un paragrafo del saggio summenzionato, La Capria racconta dal suo punto di vista
l’esperienza di Sud come un’esperienza di amicizia, di entusiasmo e di afflato facendo al tempo
stesso una ricostruzione critica dell’esperienza che ha vissuto. Quindi in questo testo racconta di
come questi scrittori siano approdati alle poetiche del Realismo e di come sia nata l’ideologia
neorealista. Un’altra caratteristica fondamentale, come dice lo stesso La Capria, tutti gli intellettuali
che gravitavano intorno a Sud come accadeva con quelli del Politecnico, dovevano giustificare il
loro fare letteratura perché in quel periodo come si evince dall’editoriale di Vittorini, la letteratura
ha una visione pedagogica che proviene dall’ideologia comunista. La letteratura aveva il compito di
educare le masse e di abbattere quella frontiera fra l’intellettuale borghese e il popolo. Quindi
Raffaele La Capria in “False partenze” che è un testo ormai di secondo 900, riflette su questa cosa
ragionando anche sul limite che l’aspetto ideologico e politico aveva rappresentato per quella
generazione; generazione che comunque era investita di un ruolo pubblico che a volte poteva
pesare. Anche se La Capria non era ufficialmente iscritto al partito comunista e anche se la rivista
era principalmente letteraria, c’era questo condizionamento che proveniva dall’ideologia comunista.
La Capria, come abbiamo già detto, presenta una grande affinità con Italo Calvino da un punto di
vista di linee teoriche, come appunto la capacità di aver tramandato nel tempo la capacità di dare
una ricostruzione critica delle esperienze sociali e letterarie a differenza di Pavese che si allontana
un po' dalla visione di questi ultimi due essendo morto nel 1950 ed essendo molto più anziano
rispetto a La Capria e Calvino. La Capria cita spesso Calvino e quello che ha rappresentato per la
stagione del Neorealismo, infatti i due sono coetanei, appartengono alla stessa generazione. Pavese
non ha vissuto gli stessi anni di Calvino e La Capria a differenza di Vittorini che ha vissuto tutte
queste dinamiche del 900. Per quanto riguarda Sud, la rivista è stata riconosciuta dal politecnico
come una rivista di rilevanza nazionale; quindi, è quella rivista che legittima Prunas, che rispetto a
Vittorini ha un peso specifico inferiore, e soprattutto permette di far arrivare questo scrittore nelle
librerie del Nord. Un’altra consonanza riguarda l’apertura verso le letterature straniere che negli
anni del Realismo e Neorealismo, diventa la strada per lo svecchiamento della letteratura anche per
un’apertura alle poetiche del modernismo e della letteratura americana. Come abbiamo già detto
nelle lezioni precedenti nel contesto Neorealista, anche il cinema giocherà un ruolo fondamentale
infatti è giusto menzionare personaggi come De Sica, Pasolini; il cinema infatti è un punto focale
per la spiegazione delle tematiche neorealiste del 1900. Per quanto riguarda sempre il contesto
cinematografico, è giusto parlare di Fellini anche se quest’ultimo opera in una fase di crisi del
Neorealismo stesso ma è ancora più opportuno parlare di Lizzani, un regista di grande rilievo, che
fa una periodizzazione storica del cinema neorealista. Egli dice che c’è il cosiddetto Neorealismo
storico (1943-1955), poi c’è una fase di crisi neorealistica, il cosiddetto passaggio dalla cronaca alla
metafora e in questo passaggio in cui l’attenzione dei registi e dei film passa dai fatti della guerra e
della resistenza alla dimensione simbolica metaforica, una dimensione dove registi come Fellini si
posizionano. Pasolini invece rientra in un realismo più che neorealismo perché se pensiamo a film
come “Accattone” (1961), il linguaggio, il modo di pensare ai chiaroscuri, il peso della musica, il
peso che si dà alla dimensione metaforica, la disposizione cinematografica mettono in evidenza
alcuni concetti letterari come quelli di popolo e borghesia che appartengono ad una visione più
realistica che neorealistica. Ritornando a Sud, nel 1945 avviene la celebre “diaspora”, un’esperienza
di entusiasmo che va dal ’45 al ’47; nel giro di pochi anni, una grandissima parte di redattori di Sud
come La Capria, Annamaria Ortese e Gianni Scognamiglio e lo stesso Prunas vanno via da Napoli
per un motivo molto semplice: perché non riescono a collocarsi all’interno della città, non riescono
a trovare un’occupazione che gli permetta di vivere in maniera serena. Quindi trovano opportunità
di lavorare al di fuori del contesto napoletana, evento che sarà di particolare riflessione. Un motivo
di riflessione che poi si innesta su una polemica generata da un racconto del 1953 di Annamaria
Ortese “Il mare non bagna Napoli”, fortemente voluto da Calvino che sposa questo tipo di libro e la
sua ideologia. Il titolo di questo libro è di stampo marottiano, perché Marotta aveva scritto pochi
anni prima un libro “A Milano non fa freddo”, quindi parliamo di titoli antinomici che nascondono
ovviamente significati molto più profondi. Ne “Il mare non bagna Napoli” questo aspetto
antinomico è ovviamente molto più forte. Oggi leggiamo questo testo facente parte del libro della
Ortese, “Le giacchette grigie di Monte di Dio” che è un suo ricordo della redazione di Sud che era
appunto a casa di Pasquale Prunas a Monte di Dio.

Lettura del racconto:

“Temo di non aver mai visto davvero Napoli né la realtà napoletana; temo di non aver mai
conosciuto l’Italia né prima né dopo la guerra, ciò che mi ha consentito di accostare l’una e
l’altra e parlarne in qualche libro, sono state le emozioni e anche i suoni e le luci; e anche lo
stesso senso di freddo e nulla che da queste realtà procedeva. Insomma io non amavo il reale,
esso era per me, sebbene non fossi molto consapevole come non lo sono forse nemmeno ora,
intollerabile.”

Questo estratto è molto importante, perché è una dichiarazione di poetica di Annamaria Ortese che
diciamo è stata per tantissimo tempo sotto l’egida del Realismo o addirittura del Neorealismo per
alcuni racconti scritti da quest’ultima. Ma in realtà, lei è stata presa da una vocazione fortemente
surrealista, è una scrittrice visionaria legata alla dimensione del sogno:

“Il reale non mi interessa, mi interessa un altro aspetto che è una rivelazione allegorica,
personale, emotiva che riguarda il mio modo di vedere la realtà e che quindi mi impedisce di
raccontare Napoli nella sua realtà, di conoscerla perché io quando racconto Napoli, racconto me
stessa”
Annamaria Ortese è come se dicesse ai lettori: “quando leggete i miei racconti, non state leggendo
un’inchiesta, un reportage sulla città … non è che conoscete meglio la città ma state conoscendo la
mia visione, la mia prospettiva sulla realtà che è anche profondamente deformata, può essere molto
peggio di quella che è davvero Napoli oppure molto meglio, può essere una dimensione edulcorata
ma è la mia visione”.
I racconti de “Il mare non bagna Napoli” soprattutto, avevano destato molte polemiche perché
avevano dato un’immagine impietosa della città rispetto alla quale molti degli intellettuali in città si
erano ribellati visto che essi credevano che la Ortese li avesse dipinti come fannulloni, irrazionali,
immobilizzati in questo paradiso naturale ma non è così perché a Napoli si lavora, si cerca di
lavorare per il progresso culturale. Lei, in qualche modo, si era difesa già da queste accuse ma
quando deve scrivere sulla redazione di Sud, lo ribadisce “ricordatevi sempre che io non volevo
dare un racconto documentaristico e realistico in termini mimetici della realtà ma io sto dando una
mia visione fortemente condizionata dalla mia biografia personale, che è una biografia molto
sofferta”. Annamaria Ortese è una scrittrice di origini meridionali, viene a vivere a Napoli
giovanissima, vive al porto, in una strada che adesso non c’è più perché con la guerra tutta quella
zona viene distrutta. I genitori di Annamaria Ortese scappano da Napoli durante la guerra, è una
famiglia piccolo-borghese, non vivono in miseria ma la guerra livella tutta la popolazione e vanno a
vivere in un palazzo fatiscente del dopoguerra in via Palasciano, riviera di Chiaia. Annamaria
Ortese vive due anni in questo palazzo, lì inizia a soffrire tantissimo; ella ha una prospettiva sul
vicolo, sulla gente dalla quale si sente attratta e respinta perché una dimensione molto violenta e
feroce quella del vicolo, dall’altra parte iniziano le condizioni finanziarie pessime a causa degli
scarsi risultati come scrittrice nel contesto napoletano. Così, nel 1947 si trasferisce a Milano e poi a
Roma e a Rapallo vivendo sempre in condizioni di indigenza totale e vivrà sempre sulle spalle della
sorella, dipendente di posta. Questo romanzetto di Ortese viene scritto grazie all’editore Einaudi che
inizia a pagare Annamaria Ortese che nonostante ciò vive perennemente in condizioni economiche
alquanto disastrose. Attraverso Adriano Olivetti le danno una casa dove Annamaria Ortese scriverà
questo libro che ha avuto anche l’attenzione dei presidenti della Repubblica perché raccontava con
mirabile visione la realtà del mezzogiorno. La Ortese, inoltre, non ha avuto modo di studiare nel
senso che le donne all’epoca dovevano rispettare la volontà del padre e la sua unica possibilità era
quella di frequentare il professionale femminile a Napoli ma ella si rifiuta perché il taglio e il cucito
non erano adatti alla sua persona, lei avrebbe voluto fare studi letterari che gli avrebbero permesso
di approfondire la scrittura e la lettura. Non volendo andare al professionale, preferisce
interrompere gli studi. Prova, in seguito, con le lezioni di musica però anche lì i risultati sono
fortemente inconcludenti; poi arriva la guerra e la sua personalità sarà molto condizionata da questa
formazione mancata, una formazione da autodidatta ed irregolare che la rende quella che è oggi,
ovvero una scrittrice potentissima e non parliamo solo de “Il mare non bagna Napoli” ma di tutti i
romanzi che scrive e anche de “Il corpo celeste”, un libricino piccolo pubblicato da Adelfi ed è una
sorta di saggio autobiografico letterario ed è illuminante; si vede questo travaglio esistenziale ed è
la ragione per la quale la Ortese non avrebbe mai potuto mai raccontare realisticamente la realtà, se
non partendo da questo forte turbamento interiore determinato da condizioni sociali ed economiche
fortemente basse. In realtà, tutto il gruppo di Sud viveva in condizioni economiche misere, l’unico
che forse viveva in condizioni migliori era La Capria.
Continuo della lettura
“Da dove questa intollerabilità provenisse non sono ancora in grado di dire o dovrei interrogare
la metafisica… non era la mia realtà, non l’avevo cercata io … c’era stato accanto a me
Pasquale Prunas”

Allora quindi la Ortese ci dice che il suo primo libro “Angelici dolori” scritto negli anni ’30 fu
pubblicato grazie a Montempelli, figura importante e di rilievo. L’altro libro invece che è molto più
realistico è “Il mare non bagna Napoli” che lei scrive grazie a Pasquale Prunas.
“Qui, ciò che ricordo ancora del dopoguerra non sono i vicoli, né le strade di Forcella ma ciò che
ricordo è la località chiamata Monte di Dio e il collegio militare dell’Annunziatella e la casa
della nobile famiglia cagliaritana che vi abitava, la famiglia del colonnello Oliviero Prunas,
preside di quel collegio.”
Quindi Oliviero Prunas, padre di Pasquale Prunas, era il direttore del collegio dell’Annunziatella.

“L’Annunziatella, i suoi cortili, i suoi edifici severi, il silenzio, l’ordine di quella scuola militare e
per contrasto la vivacità e vitalità irrefrenabile del ragazzo Prunas e dei suoi amici e la
generosità e il calore della sua famiglia e dei loro amici… sono tutti il mio autentico ricordo.
Emozioni, luci, suoni non misura della grave realtà di Napoli e del mondo che aspettava fuori…
quella non l’accettavo e l’avevo intravista e respinta già altrove ma si dava il caso che il giornale
di Prunas, il quindicinale di critica al reale storico da lui ideato e voluto da lui e dai suoi amici,
quel modernissimo e oltranzista Sud avesse bisogno, oltranzista a suo modo rivoluzionario avesse
bisogno di documenti di questa realtà.”
Quindi lei parla di “quindicinale di critica al reale storico” quindi sottolinea quest’esigenza da
parte dei collaboratori di esprimere una letteratura in termini realistici non necessariamente
cronachistici, il che è diverso. Il realismo nel senso più ampio, una letteratura che dialoga con il
proprio tempo perché racconta del proprio tempo, quindi non è storica, non è metafisica, non è
surreale, non si ferma alla documentazione, alla testimonianza di ciò che accade.

“Pasquale Prunas era convinto che anche io potessi trovarne dei documenti di questa realtà e per
poter restare ancora senza troppi rimorsi all’ombra dell’incantata Annunziatella, io questi
documenti li cercai, erano le mie testimonianza della Napoli delle palafitte, dove era passata la
mia stessa adolescenza, perciò ricordai e confrontai con la Napoli storica che adesso avevamo
tutti sott’occhio e scrissi una parte o almeno tracciai l’intero disegno del mio libro su Napoli, il
quale dunque fu visione dell’intollerabile, non fu una vera misura delle cose e questa scelta fu
dovuta ad una decisione che ricordo con gratitudine del direttore del giornale”

Lei dice che “Il mare non bagna Napoli” viene concepito durante l’esperienza di Sud e in qualche
modo ad ispirarmi, ad invogliarmi a scrivere un libro sulla Napoli del dopoguerra è Pasquale
Prunas. Quindi lei ci dà delle informazioni sulla genesi di questo libro, questo libro pubblicato nel
1953, viene concepito nel 46-47, proprio nella stessa casa di Prunas perché lei ci andava anche a
dormire, dove ci aveva praticamente vissuto. Lei dice che scrisse questo racconto su Napoli come
visione dell’intollerabile, una visione intesa come sogno, il genere della visione medioevale, intesa
come un’elaborazione fantastica non in termini positivi ma una ricreazione non realistica del reale.
Infatti lei dice che non sta raccontando Napoli secondo la misura reale delle cose perché ella stessa
non è capace di avere una misura delle cose.

“Dico Direttore per smorzare il tono della mia voce, quello in realtà era un capo, un comandante
… giacchetta grigia … e questo fu Il mare non bagna Napoli”

Allora questo è importante, perché proprio in questo estratto si evince che “Il mare non bagna
Napoli” venne scritto proprio grazie a Pasquale Prunas.

“Venne il tempo di partire… Partimmo o morimmo, Pasquale Prunas restò ancora per un po' …
verso la città”

Questo saggio è emblematico nella misura in cui l’autrice comincia a scrivere in maniera ordinata e
descrittiva un fatto e poi si lascia andare ad una visione di immaginazione rispetto a quello che poi è
stato il sentimento di Prunas quando poi ha lasciato la città.

Adesso vi leggo il testo di La Capria, egli parla di Sud con minore sofferenza e intensità rispetto ad
Annamaria Ortese:

“C’era in quel nostro approccio a scrittori e poeti d’oltralpe, anche il desiderio distillatoci da
Vittorini e Pavese di uscir fuori dai modelli proposti della nostra tradizione per trovare un modo
diverso di porci nei confronti della realtà e noi di Sud, oltre a voler mantenere l’impegno di
sentirci europei …”

Questo estratto si collega se i ricordate, all’editoriale di Prunas in cui dice testuali parole “Napoli è
Italia, Europa, Mondo … noi dobbiamo sentirci innanzitutto Europei e dobbiamo uscire dal
presunto localismo che questa città ci porta a vivere.”

“Ci sentivamo doppiamente spinti in quella direzione perché ci portava oltre i confini di una
certa napoletanità, ormai solamente ripetitiva e incapace di far fronte ai tempi nuovi che si
avvicinavano ma non per questo Napoli era esclusa dai nostri interessi, solo che volevamo
affrontarla da un punto di vista più libero.”

E il terzo numero di Sud (sono 7 in tutto) si apriva con la poesia di Compagnone intitolata “Napoli
1944” che cominciava così:
“Questa è la mia città senza grazia, qui gli uomini vivono dannati in una feroce tristezza, la mia
vecchia città coi suoi vicoli, le case sbilenche storte, l’hanno ubriacata come una puttana, la sua
anima malinconica e oscura, la sua anima è perduta fino alla morte persino gli stranieri tra le
sue gambe spalancate”
Qual è il problema qui? La Capria affronta subito una questione importante, perché Prunas vuole
sottolineare la sprovincializzazione del gruppo? Perché guarda a Vittorini? Perché Prunas dice
nell’editoriale “Noi siamo mondo”? Perché tutti gli scrittori dell’area napoletana si sentono gravati
da quest’ipoteca della napoletanità, cioè quest’idea di raccontare Napoli secondo un discorso
ottocentesco, stereotipato che è quello della canzone napoletana. Un altro esempio di stereotipo è la
Guasc che è l’emblema di un’immagine oleografica della città che non corrisponde alla realtà ma è
una sorta di illusione rispetto al reale ma non corrisponde in realtà nemmeno alla visione di Prunas
alla necessità di collocare Napoli in una dimensione europea. Gli scrittori si chiedono “come è
possibile che nel 45-46 raccontiamo ancora la favoletta della camorra?” che è un’ulteriore
stereotipizzazione o dall’altra parte “del paesaggio edenico che ci proviene da questa canzone
napoletana alla quale siamo universalmente associati”. La Capria dice che Napoli non è esclusa
dal suo ragionamento e da quello degli scrittori di Sud ma essi vogliono portare Napoli nel mondo
con una visione che sia più lontana da quella stereotipica della Guasc e della canzone napoletana;
quindi, questo verso di Compagnone è molto significativo “Questa è la mia città senza grazia”
perché attribuisce alla città stereotipizzata per eccellenza uno status negativo, stereotipo tra l’altro
edulcorato, mentre invece qui si parla di “senza grazia”. La Capria parla più avanti degli scrittori
che sono stati fonte di ispirazione per gli scrittori di Sud come per esempio Hemingway:
“Quest’ultimo veniva da me criticato perché per chi suona la campana, il protagonista Robert
Jordan appare come un intellettuale convinto che l’azione è solo un buon rimedio per esprimere i
propri problemi personali ed esistenziali, cosa che mi sembrava negativa e mi compariva come un
aspetto di nichilismo morale dell’autore. Questo per dire come eravamo severi a quel tempo e
contradditori e come eravamo sempre in ascolto con l’orecchio sinistro di un invisibile super io
come un istoide”

Allora in questa rivista, Raffaele La Capria pubblica spesso delle traduzioni di Hemingway facendo
anche dei saggi critici sulla letteratura contemporanea. Hemingway abbiamo detto è un riferimento
importante di stile e ritmo della prosa ma lui (La Capria) in questo saggio, ricordando la sua
immaturità critica dice:
“Io all’epoca avevo criticato questo personaggio perché suona la campana, perché il personaggio
era mosso all’azione quasi per motivi personali e non per motivi ideologici”

Il protagonista non veniva mosso da un’ideologia o una posizione politica ma quasi come sfogo,
come passione del proprio disagio personale. Questo aspetto aveva fortemente turbato La Capria e
lui ricordando ciò dice:
“Noi eravamo fortemente ideologizzati, anche chi non era iscritto al partito, in qualche modo
subiva la pressione dell’orecchio sinistro perché l’impegno era un qualcosa che doveva essere
giustificato politicamente e anche se uno intenzionalmente non lo voleva accettare, criticando
questo personaggio, io leggo questo tipo di dinamica, questo aspetto politico forte. L’invisibile
super io come un istoide”
La Capria, in seguito dice che questa redazione di Sud presentava anche redattori un po' fragili ed
estrosi come Gianni Scognamiglio che morirà a Roma barbone; era un personaggio molto
particolare perché fortemente instabile. Scognamiglio scrisse una poesia in cui parlava di una
Napoli disperata; questo concetto di disperazione ha un senso politico molto forte per questa
generazione. Questo concetto di disperazione lo ritroviamo anche in un’opera di Vittorini “Uomini e
no”; in un passaggio di questo libro, si ragiona su questo aspetto, sul fatto che un vero militante (è
un romanzo ambientato nella resistenza, nel contesto partigiano”, non dovrebbe mostrare la propria
debolezza; contemporaneamente nell’opera di Vittorini c’è un dialogo in cui ci sono due
personaggi: il primo mostra tutta la sua disperazione, il secondo lo rimprovera perché in battaglia
bisogna avere speranza nella fede, una speranza non nella fede cattolica ma nella fede dell’ideologia
partigiana. Secondo quest’ultima, un combattente militante può entrare in campo per una causa
superiore e deve avere la speranza, fede che sono due cose che vanno insieme, un qualcosa di
mistico e irrazionale, per cui l’aspetto della disperazione anche ideologicamente viene criticato
perché non sperare vuol dire che quella fede politica che ti sostiene sta venendo meno. Allora,
questa poesia di Scognamiglio (fondata sul concetto di disperazione) viene fortemente criticata da
coloro che provengono dal partito comunista, il cui obiettivo è quello di una letteratura educhi le
masse e sia espressione di un pensiero positivo, la letteratura deve avere personaggi che facciano la
storia in senso progressista, non ci può essere uno sconfitto in questa letteratura partigiana in
termini comunisti. La Capria continua:

“Anche Tommaso Giglio interveniva con un articolo intitolato Diritto alla disperazione e riapriva
la polemica contro la positività richiesta all’intellettuale di tipo marxista”
Quindi l’intellettuale marxista per il politico deve essere un intellettuale con una visione positiva,
un intellettuale che ci spiega che attraverso l’ideologia comunista si raggiunge un risultato di
progresso, di giustizia, valori, libertà, uguaglianza e miglioramento.

“Ribadiva che il diritto alla disperazione fa parte della licenza poetica perché un poeta è sempre
legato ad un mondo dominato dai suoi sentimenti”
Tommaso Giglio diceva quindi che il diritto alla disperazione fa parte della natura del poeta le cui
opere sono legate ad una dimensione in cui predominano appunto le sue passioni, le sue visioni e i
suoi sentimenti. Un poeta può disperarsi perché fa parte del suo animo tormentato. Continua La
Capria parlando di Scognamiglio:

“Scognamiglio spiegava che è impossibile non essere disperati in una città che condanna gli
intellettuali alla disoccupazione costringendoli ad emigrare e a vivere lontani dai familiari e di
vivere di collaborazioni i cui frutti finiscono per intero agli affittacamere, alle pensioni e ai
trattori”
Alla fine si ritorna sulla questione sociale e sulla disperazione che fa venir meno tutte quelle istanze
positive che derivano dall’ideologia marxista che pure era presente e dominante ma a conti fatti in
quel periodo non ha dato i giusti frutti. Il saggio di La Capria si chiude sulla figura di Annamaria
Ortese; quest’ultima secondo La Capria ci aveva visto giusto su Napoli, quando dice che nel 53 da
quest’immagine della classe intellettuale molto triste e racconta di intellettuali napoletani come
Domenico Rea facendo un ritratto non troppo felicissimo, sottolineando che quell’entusiasmo non si
era tradotto in una rivoluzione vera anzi tutto era andato morendo. La Capria dice:
“Non mi ritrovo in quello che scrisse di noi Annamaria Ortese, sei anni dopo nel mare non
bagna Napoli che uscì nel 53, ma cos’è che le fece cambiare atteggiamenti e sentimenti? Perché
divenne così impetuosa con noi e con il suo stesso passato? Certo è che nel capitolo Il silenzio
della Ragione ci diede tutti per morti o sopravvissuti, noi i suoi compagni di Sud mentre in realtà
eravamo tutti vivi, arzilli, intraprendenti e io stesso come la Ortese, eravamo tutti all’inizio del
nostro brillante avvenire ma tutti o quasi altrove non a Napoli. Si forse fu proprio questo, forse si
impadronì di lei una delusione enorme rispetto alle tante illusioni che avevamo coltivato al tempo
di Sud in quella cameretta di Monte di Dio, prima di tutte l’illusione che un piccolo sparuto
gruppo di giovanissimi intellettuali potesse rappresentare la voce della ragione e cambiare
qualcosa restando in una città che anche lei aveva descritto nel suo libro come la città della
disperazione”
Questa paginetta è importante perché La Capria dice che la Ortese nel 53 fa un ritratto impietoso
degli scrittori di Sud che avevano appunto la volontà di cambiare Napoli permettendone il
progresso, di riscattare questa città anche se non ci sono riusciti. La Capria inizialmente non era
d’accordo con la visione dell’Ortese ma poi riflettendoci bene dice che ognuno si è affermato nel
campo critico, letterario, cinematografico però lontano da Napoli, ognuno in un’altra città e questo
forse lo fa riflettere e gli fa rileggere “Il Silenzio della ragione” con un’ottica totalmente diversa. La
Capria diceva che Annamaria Ortese non aveva tutti i torti, forse lei a differenza degli altri scrittori
di Sud aveva intuito questa oggettiva disperazione molti anni prima. Con questo concludiamo la
parentesi su Sud e sull’interpretazione di quella rivista, su quello che ha rappresentato in termini di
visione, di prospettiva per questa città che in qualche modo, quell’esperienza riprendeva la
questione del dialogo fra popolo e intellettuale, cioè può un gruppo di intellettuali avere la capacità
di dare un nuovo corso agli eventi? La rivoluzione del 1799 ci dice di no e questo pensiero resta un
po' nell’ideologia partenopea e la caratterizza come nessun’altra città, quindi anche questo elemento
fa parte del discorso Napoli che ritroveremo negli scrittori a seguire. Gli scrittori su Napoli non
sono autoreferenziali però certamente vedremo questa città nelle sue specificità e negli scritti che
noi andremo a leggere, fra le righe vedremo le interpretazioni storiche e antropologiche di questa
città che si sono sviluppate nel corso del tempo e che si sono innestate sui cambiamenti nazionali
che approfondiremo pian piano. L’aspetto politico di questa generazione non caratterizza solo
Napoli e il Sud Italia ma tutta l’Italia e il peso del partito comunista è quell’elemento che distingue
il contesto neorealistico e letterario italiano di quest’epoca a livello nazionale, motivo per il quale le
dinamiche comuniste non vengono facilmente comprese all’estero per esempio; si tratta di
dinamiche, di specificità che dobbiamo comprendere ed approfondire. Adesso parliamo di
Spaccanapoli di Domenico Rea del 1947, lo leggiamo perché ha un peso nazionale importante.
Questa raccolta di racconti è importante perché nonostante il titolo, nessuno dei racconti di questa
raccolta è ambientato a Napoli ma Spaccanapoli è una metafora spaziale di una frattura, una ferita,
una separazione fra due realtà: borghesia e popolo, sono punti di vista differenti, modi di raccontare
differenti, letteratura del basso e dell’alto, stile accademico e popolare, lingua tosta e dialettale e
lingua aulica e accademica. Quello che succede a Domenico Rea è quello di essersi informato sulla
poesia ermetica, sulla prosa, sul frammento lirico e di essersi sporcato le mani con la guerra; questo
aspetto è dominante nella raccolta Spaccanapoli in cui prevale l’aspetto cronachistico nel contesto
della guerra e della liberazione degli alleati ma vale soprattutto il discorso formale, come racconto
la guerra, quali sono i cambiamenti formali e linguistici del mio modo di raccontare e quindi
sintassi, lingua che esprimono il Neorealismo. Questa cosa è sottolineata nel romanzo proprio in
maniera esplicita perché il primo racconto di Spaccanapoli si chiama la figlia di Casimiro Claus ed
è un racconto che è scritto alla maniera tradizionale, in una lingua abbastanza controllata, una
sintassi molto fluida, con pochi dialoghi, con un ritmo disteso, con molte parti descrittive e anche
una certa linearità e quando finisce questo racconto che viene datato, perché tutti i racconti vengono
datati per darci intuire la misura del cambiamento, la data ha a che fare con la consapevolezza che
lui vuole dare ad un cambiamento stilistico e di linguaggio che avviene dopo la cesura della guerra.
Domenico Rea dice così:
“Questo pressappoco era il mio modo di scrivere intorno agli anni ’40 poi avvenne qualcosa: la
guerra. L’Italia esplose e sentì il bisogno di usare un sistema linguistico più aderente alla nuova
realtà”

Quindi lui non ne fa un discorso di contenuto ma un discorso di lingua e di forma che è l’aspetto
che contraddistingue lo scrittore. Come siamo partiti? Con Calvino che diceva: “sentiamo la
necessità di esprimere” ovvero fare una propria ricerca di linguaggio e Domenico Rea continua
questo ragionamento raccontando del suo cambiamento nel modo di scrivere e di esprimersi tramite
la lingua. Il racconto che segue è la “Segnorina”, un raccontino brevissimo in cui Rea introduce
pochi tocchi di personaggi e con quei pochi tocchi riesce a dare la rappresentazione psicologica e la
caratterizzazione sociale del personaggio. Il racconto procede con delle ellissi narrative, con dei
passaggi temporali che vengono saltati, si passa da un momento all’altro in maniera molto brusca e
con un’accelerazione finale drammatica, nel senso che il finale del racconto è molto triste, termina
con il cosiddetto “botto”. Rea mette in atto una manipolazione della lingua molto interessante,
perché interessante? Perché non usa semplicemente il dialetto, sarebbe stato troppo facile;
Domenico Rea racconta personaggi di estrazione popolare e proletaria, le vicende sono ambientate
nella provincia di Nofi, questa provincia lontana da Napoli dietro la quale si nasconde Nocera
Inferiore che sarebbe la città natale di Domenico Rea che è ovviamente rappresentata
realisticamente ma è anche una dimensione allegorica quasi come se fosse una cittadina antica dove
regnano valori primitivi in termini violenti. Dal punto di vista linguistico, sarebbe stato troppo
semplice scrivere in dialetto; Domenica Rea fa un’operazione molto più complessa, egli riesce ad
abbassarsi ad un formulario dialettale ma al tempo stesso non si tratta di un dialetto parlato ma è
una lingua che impasta italiano, regionalismi, un dialetto anche letterario e per finire avviene anche
l’innesto della lingua degli stranieri, quell’italiano parlato dai militari che vivevano a Napoli e che
parlavano con uno stretto accento napoletano. Domenico Rea riesce quindi a rendere questo mix
linguistico che riesce a dare un effetto di verità e di forza espressiva inedito. È uno stile che
trascende il documentarismo e la testimonianza e ha una carica espressiva incredibile perciò quando
noi leggiamo questo dialetto, nella nostra mente risuona questa lingua che ha uno spessore di
educare i sentimenti in modo molto più forte; quindi nelle opere di Rea leggiamo una lingua
fortemente espressiva.

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