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LEZIONE N.

18 – 2/12 – FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO –

Io ieri ho introdotto un po’ le problematiche che stanno dietro alla teoria di Bratman, ma
senza citare Bratman, perché secondo me la sua teoria era stata già in qualche modo
sviluppata, anche se a grandissime linee, da Aristotele.
Sono partito da questo esempio: supponiamo che Davidson alla fine decida di mangiare la
caramella dell’esempio perché ha capito che non è avvelenata e supponiamo che lui stia
seduto alla sua scrivania. A questo punto vuole mangiare quella caramella. Che cosa deve
fare? Se le caramelle stanno nel soggiorno, lui si alza e va nel soggiorno (quindi desidera
andare nel soggiorno e crede che muoversi e fare 7 metri sia un buon metodo per arrivare
nel soggiorno). Poi, una volta che arrivato davanti alla caramella, la deve prendere (quindi
desidera prendere la caramella e crede che muovendo la mano prenderà la caramella),
poi la deve scartare e questa è un’altra azione ancora. Questi sono gli argomenti che poi
usa Bratman per riformulare la vecchia teoria secondo cui per ogni azione che noi
compiamo ci sia un desiderio e una credenza, il che per Bratman è fasullo, non è
possibile.
Ieri ho fatto anche un altro esempio: sono sceso giù per vedere se funzionava la
metropolitana, dunque vado giù. Ma per andare giù che devo fare? Devo aprire la porta di
casa, poi magari prendo l’ascensore e allora desidero arrivare giù e credo che prendere
l’ascensore sia il modo migliore per farlo etc. Il tutto diventerebbe un meccanismo
infernale.
Ho fatto poi vedere invece come funzionerebbe il metodo analitico in geometria e come in
realtà questo sia il modello di quella che poi Bratman chiamerà la Planning Theory,
perché è tutto basato sull’individuazione dei preliminari. Ad esempio, se io ho come
intenzione il trovare il perimetro, prima di calcolare il perimetro (che è la mia intenzione
primaria) devo capire qual è il metodo migliore per farlo, ossia sommare i tre lati (che poi è
anche l’unico modo, è la condizione necessaria e sufficiente). Però io non conosco tutti e
tre i lati, e allora per procurarmeli devo compiere una serie di operazioni. Questo è quanto
ci dice Aristotele, non stiamo parlando di Bratman, e il suo esempio è rivolto soprattutto al
metodo analitico teorematico, cioè lui fa riferimento al fatto che la somma degli angoli
interni di un triangolo sia sempre 180° e fa poi anche riferimento al teorema di Talete, ma
nel nostro caso il riferimento era più rivolto a mostrare il metodo analitico problematico,
cioè quello che risale all’indietro per arrivare poi alla conclusione.
Passo ora la parola a Caterina affinché possa spiegare che Bratman ha sviluppato una
sua teoria dell’intenzione molto più articolata di quella di Davidson e l’ha chiamata
Planning Theory of Intention (Teoria dell’Intenzione come Pianificazione).

Caterina:
Io credo più che la teoria di Bratman sia un ampliamento di quanto aveva già elaborato
Davidson, perché lui parte da una critica della teoria Davidsoniana, e credo personalmente
che questa critica abbia poco fondamento.
Professore:
Ma la critica fondamentale che muove Bratman è quella che sia assurdo pensare al fatto
che per ogni azione (ad esempio se io devo andare nel soggiorno) devo pensare a tutta
una serie di altre azioni che hanno altri desideri e altre credenze, è paradossale.
Caterina:
Però Davidson a un certo punto fa un esempio proprio riguardo alla scrittura: per scrivere
la parola “azione” scrivo prima la lettera A, poi la lettera Z etc. E lui dice che questo è già
l’impianto di base, dice che io devo cercare semplicemente qual è la causa prima, non
voleva sviscerare chissà che. Quindi Davidson non ha detto che ci devono essere
desiderio e credenza sempre, semplicemente c’è un desiderio e una credenza e le altre
sono implicazioni.
Professore:
Certo sono implicazioni. Però se torniamo all’esempio della caramella, il fatto che se la
voglio mangiare io debba alzarmi, andare in soggiorno, prenderla, scartarla, anche queste
sono tutte azioni diverse quindi anche queste dovrebbero comportare desiderio e
credenza. Questa è una delle obiezioni fondamentali che Bratman muove contro la teoria
di Davidson.
Caterina:
Certo lui fa questa obiezione e fa obiezione anche circa le credenze che non sono
coerenti.
Ora passiamo alla lezione.
Credo vi ricordiate più o meno l’ultima tesi Davidsoniana, quella per cui dopo un
ragionamento pratico di tipo critico deliberativo la conclusione che si viene a formare è un
giudizio all out, ovvero quel giudizio che ha come contenuto proposizionale
un’intenzione. Questa teoria è generalmente accettata, però c’è qualcuno che muove
qualche critica rispetto alla questione dell’intenzione che si ferma al momento presente e
non rende conto di quella che può essere una caratteristica tipica umana: la
pianificazione.
Michael Bratman (filosofo ancora vivente, insegna a Stanford) in senso specifico ha fatto
una carriera su questa questione dell’intenzione. Egli ha rivalutato il concetto di intenzione
dandogli uno statuto ontologico a sé stante e soprattutto mettendolo in quello che è il
sistema funzionalista. Adesso non si parlerà più soltanto di causalità in senso stretto, ma il
principio di causa-azione sarà immesso in un concetto funzionalista. Come funziona il
modello di spiegazione dell’azione? Funziona grazie al ruolo che ricopre un determinato
stato mentale che è l’intenzione.
Ad ogni modo Michael Bratman dice che è insufficiente la spiegazione di Davidson perché
non rende conto dell’idea delle intenzioni orientate verso il futuro. Egli dice che noi siamo
degli agenti pianificatori, stabiliamo preventivamente piani più o meno ampi verso il futuro,
che comunque guidano il nostro comportamento (quello immediatamente successivo
come quello futuro) e questo è ciò che ci distingue dagli animali: gli animali possono avere
un comportamento finalizzato, ma non pianificano. Quindi sia il comportamento che il
ragionamento che sta dietro al comportamento è un po’ più complesso rispetto a come
strutturato da Davidson.

Professore:
Ci tenevo a specificare che il comportamento animale è un comportamento (quello che
piace ai comportamentisti) appreso.
Ad esempio la lepre che ha sete, e sente questo bisogno di acqua, a un certo punto la
vediamo che corre verso lo stagno e va a bere. Ora, un cucciolo di lepre questo non lo sa,
è mamma lepre che glielo insegna. Quindi il cucciolo per imitazione impara a fare la
stessa identica cosa: quando ha sete, corre pure lui verso lo stagno più vicino. Questo è
un comportamento appreso, e gli animali a quanto pare non vanno oltre questo.
Poi c’è il caso dello scimmione che con il bastone prende le banane fuori dalla gabbia
riuscendo a capire che il bastone poteva essere un mezzo, c’è già qualcosa di più
sofisticato qui.

Caterina:
Sì, si è visto che nei primati la pianificazione è presente, c’è anche un articolo a riguardo
del 2015, e proprio recentemente si faceva riferimento anche alla struttura cognitiva del
polpo, in quanto sono stati individuati alcuni recettori che probabilmente dimostrerebbero
la presenza di un comportamento finalizzato e strategico.

Professore:
Sono casi particolari che richiamano la nostra attenzione, perché noi possiamo pianificare
un comportamento a lungo termine. Pensiamo a una persona che deve comprare casa o
che desidera comprare un’automobile: il numero di cose che noi dobbiamo fare prima di
arrivare a comprare una casa o un’auto comporta tutta una strategia, una pianificazione.
È come l’esempio che facevo ieri del metodo analitico in geometria, devo fare una serie di
operazioni, una serie di cose in questo caso, finché alla fine riesco a comprarmi la casa.

Caterina:
Ha fatto bene il professore a distinguere il comportamento animale da quello umano, che è
in senso stretto quello da cui parte Bratman insomma: è più complesso il comportamento
umano.
Di questa complessità, dice Bratman, ne rende conto proprio quello che è il rapporto tra
intenzione e pianificazione.
Quindi, arrivando a formare un giudizio all out come aveva fatto Davidson, secondo
Bratman non si dà il giusto peso a questa intenzione diretta al futuro, a questa
pianificazione futura, e quindi si trascura il ruolo funzionale del giudizio all out,
dell’intenzione, come input per altri ragionamenti pratici. Non viene presa in
considerazione neanche la dimensione coordinativa/organizzativa delle intenzioni, la
caratteristica fondamentale in senso stretto, quella di poter pensare alla nostra vita in
maniera razionale e coerente con noi stessi.
Per un modello di spiegazione dell’azione che sia fondato poi anche sulla razionalità
strumentale in senso stretto bisogna tenere in conto la pianificazione. Un modello che
possa tenerne conto deve prendere ad esempio qualcosa di più complesso del semplice
mangiare una caramella. Oltretutto, Bratman dice che formare intenzioni orientate al futuro
e quindi poi elaborare tutti questi piani d’azione è una capacità che sotto un certo punto di
vista avvantaggia l’essere umano evolutivamente.
Come lo avvantaggia in maniera evolutiva? Secondo Bratman lo fa attraverso una
specifica funzione: quella di coordinamento del tipo interpersonale e intrapersonale. In
altre parole, le intenzioni dirette al futuro non sono nient’altro che un supporto
all’aspettativa di ciò che farà l’agente, sia da parte degli altri sia da parte dell’agente
stesso. Questo di base è molto importante per Bratman.
Inoltre, formare un’intenzione orientata al futuro consente anche all’agente di andare oltre
quelle che sono le sue ridotte capacità di deliberazione ed elaborazione delle informazioni,
definita da Herbert Simon la Bounded Rationality (razionalità limitata) dell’essere umano.
Facendo un piano, che cosa fa l’essere umano? Crea una sorta di processo di formazione
verso il futuro, quindi tutta l’influenza di quello che lui nel momento presente fa si
estenderebbe oltre questo momento presente e permetterebbe anche di essere più
efficace nel momento in cui prende la decisione di agire nel momento stesso, perché
magari nel momento in cui è arrivata la decisione o l’azione da fare si potrebbe trovare
davanti a una scelta troppo rapida e di conseguenza potrebbe prendere una scelta che va
contro il proprio miglior giudizio, oppure potrebbe avere delle influenze, delle informazioni,
delle tentazioni che non gli permetterebbero di fare quello che si era pianificato.

Professore:
Forse vale la pena aprire una parentesi sul miglior giudizio e sul fatto che noi spesso
agiamo contro il nostro miglior giudizio. Cos’è questo miglior giudizio?

Caterina:
Il miglior giudizio non è nient’altro che il giudizio che uno si forma dopo aver soppesato
gli aspetti positivi e gli aspetti negativi di un’azione che ha davanti. Quindi come agirò
sapendo che la caramella è avvelenata? Il mio miglior giudizio in questo caso è di non
mangiarla, perché ho soppesato l’evenienza di avvelenarmi e l’evenienza di mangiarmi
qualcosa di dolce. Alla fine scelgo quella che è in economia viene definita la Low Cost
Solution, che è semplicemente un atto di teoria della decisione che va verso quello che
massimizza gli aspetti positivi minimizza quelli negativi dell’azione che si sceglie.
Spesso però può succedere che si vada contro il proprio miglior giudizio perché si è
incontinenti, si tratta di questioni anche limitate della razionalità.
Professore:
Diciamo che Davidson utilizza un termine greco sofisticato, acrasía, cioè il giudizio della
volontà. Ad esempio, posso pensare anche che non mi interessa che la caramella sia
avvelenata, voglio così tanto qualcosa di dolce che me la mangio lo stesso. Ecco, questo
è un comportamento completamente irrazionale. Certo, se io non lo so che è avvelenata
sono giustificato, ma se io so che è avvelenata non posso poi decidere di mangiarla
perché ovviamente questo va contro il mio miglior giudizio, che mi dice di non mangiare
cose avvelenate.

Caterina:
Ovviamente questo per quanto riguarda situazioni come questa del mangiare la caramella,
in cui il problema del veleno è esplicito, è più facile giudicare un comportamento
irrazionale. Ma ci sono situazioni più complesse che sono quelle in cui rientrano anche i
nostri Bias cognitivi, cioè spesso agiamo contro il nostro miglior giudizio ma in realtà è
perché abbiamo anche un tipo di conoscenza che è appresa e crediamo che quanto ci è
accaduto esperienzialmente in un modo possa riversarsi sulla situazione decisionale
presente.
Per questo è importante ciò che dice Bratman sul concetto del pianificare
preventivamente, perché altrimenti più vicino si è alla decisione più è possibile che ci siano
questi Bias cognitivi.

Detto ciò, vediamo come funziona questo modello bratmaniano.


Dopo che si sono valutate tutte le opzioni per soddisfare un determinato desiderio,
seguendo poi il modello desiderio-credenza Davidsoniano (desire-belief model), si viene
a formare anche per Bratman l’intenzione di fare qualcosa, che coincide con la decisione
(per lui “intenzione di” e “decisione” sono più o meno sinonimi).
Inoltre, il desiderio e la credenza, che presi insieme per Davidson si chiamavano ragione
primaria, per Bratman si definiscono come ragione desiderativa.
Cosa fa questa ragione desiderativa? Origina, dopo la valutazione deliberativa,
un’intenzione di, una decisione. Questa intenzione (o decisione) viene definita primaria e
avvia altri ragionamenti, sempre mezzi fini, che danno altre ragioni per le intenzioni che lui
chiama secondarie (o anche derivate) e per altre azioni intermedie che sono tutte quante
comunque volte a realizzare quel piano che lui aveva avviato nell’intenzione primaria,
permettendo così il compimento dell’azione.
Questo può sembrare solo un minimo ampliamento della teoria davidsoniana, ma c’è altro,
c’è una sorta di requisito di razionalità implicito che è quella coerenza tra credenze nel
ragionamento dell’agente. Questa coerenza permette di capire in senso stretto com’è
strutturata questa sorta di architettura mentale.
Succede che se un’agente intende fare un’azione X e crede che per fare X un’altra azione
Y sia una condizione necessaria per poter fare X, allora l’agente intenderà anche fare Y. È
una condizione preliminare, come il comprare un biglietto se voglio prendere l’autobus.
Dunque l’agente avrà una ragione per fare anche Y (sempre a meno che non sia
impossibilitato o non sia qualcosa di assurdo), e la stessa intenzione di fare Y porta poi ad
altre credenze e quindi ad altre condizioni necessarie o preliminari per fare Y che mi
porteranno quindi a fare altro ancora, magari c’è un’altra condizione preliminare per fare Y
e dovrò seguire anche quella.
Bratman dice che l’intero sistema di credenze porta a una questione fondamentale: alla
coerenza tra queste credenze e al fatto che esistono ragioni per agire che si basano sulla
coppia desiderio-credenza e ragioni che si basano sulle intenzioni. Quindi l’intenzione
diventa un vero e proprio stato che può causare un comportamento.

Professore:
Forse dovremmo spiegare meglio il concetto di coerenza tra credenze.
È evidente che se io ho una certa credenza non posso fare delle cose che sono in conflitto
con altre credenze. Ad esempio, se sono una persona rispettosa delle leggi e so che una
delle leggi fondamentali mi obbliga a non commettere dei reati allora è ovvio che non
posso prendere in considerazione attività che comportano dei reati. È anche una forma di
agire contro il miglior giudizio. Se la legge mi impone di fermarmi al semaforo rosso, e io
desidero rispettare la legge, non posso passare col rosso. È questa la questione della
coerenza, tutto sta a vedere quello che io desidero e quello che io credo. Dobbiamo
sempre tenere questo in considerazione, e di solito chiamiamo irrazionali le persone che
non si comportano in questa maniera.
Non posso desiderare personalmente, ad esempio, di diventare Presidente della
Repubblica, so che non potrò mai esserlo, le credenze devono essere congruenti e le
stesse credenze devono essere congruenti tra loro, altrimenti ci si comporta in modo
irrazionale. Io mi devo porre quegli obiettivi che so che posso raggiungere.
Caterina:
Questo concetto della coerenza tra le credenze per Bratman è molto importante, perché
ad esempio, riprendendo l’esempio del professore, non posso pensare di diventare
Presidente della Repubblica a 25 anni, è incongruente con le possibilità. Devo quindi
sempre seguire certe strutture, quello che so, quello che credo devono essere coerenti sia
col desiderio, sia tra di loro, sia con lo stato di cose, altrimenti non ha senso neanche
analizzarlo un comportamento.

Professore:
Un comportamento deve avere un senso, sono quelle azioni che compio per uno scopo
plausibile, compatibile con i miei desideri, con le mie credenze, con lo stato di cose; non
posso desiderare una cosa assurda come il diventare Papa, nessuna credenza può
supportare questo mio desiderio, perché se non ho mai avuto a che fare con la chiesa, se
non sono un ecclesiastico né altro, questo risulta paradossale, irrazionale appunto.
Questo è interessante, perché ad esempio Hume aveva detto che i nostri desideri non
sono mai soggetti a un’analisi più fine, cioè il desiderio viene e basta. Però lui non si era
preoccupato dell’irrazionalità del desiderio, è ovvio che ci sono dei desideri che io non
posso avere e che devo immediatamente mettere da parte se dovessero venirmi.

Caterina:
Esatto. A questo punto facciamo un esempio secondo una struttura bratmaniana.
Io intendo andare a cena a casa di amici. Questa intenzione, mi porta all’altra intenzione di
prendere un mezzo di trasporto per arrivare a casa di questi amici. Mettiamo che io non
abbia la macchina e quindi debba prendere o la metro o il taxi: a questo punto farò un
ragionamento di tipo critico-deliberativo di tipo davidsoniano e mi deciderò per prendere o
la metro o il taxi. Questa decisione, facciamo finta che sia quella di andare in metro,
diventa una subintenzione (subintenzione di andare in metropolitana). Quest’ultima porta
ad un’altra intenzione, quella di comprare il biglietto, che è una condizione necessaria,
come dicevamo, per andare in metro. Per comprare questo biglietto farò un ulteriore
ragionamento, ovvero “il biglietto lo compro dal tabaccaio? Dal giornalaio? Usando
un’app?” e questo scatenerà una nuova deliberazione, basata sui desideri e le credenze
anche questa, e così via.
Si creano allora varie catene, mezzi, fini, scopi, quelli che lui definisce anche sottoscopi,
fino al raggiungimento di quello scopo ultimo nell’intenzione primaria, cioè quella di andare
a cena a casa di amici.

Professore:
È interessante perché lo scopo ultimo è l’intenzione, la realizzazione dell’intenzione. Non
dimentichiamo che l’intenzione è sempre un mezzo.
Come spiegavo nella lezione precedente, quando io voglio sommare i tre lati del triangolo,
a che scopo? Questo è il mezzo per lo scopo di ottenere il perimetro. Allora l’intenzione in
questo caso è un mezzo, ma diventa un fine. Mezzi e fini si sovrappongono (cosa che
diceva già Aristotele).

Caterina:
Sì, questo è importante perché diventano sia input che output allo stesso tempo, cioè un
input per creare nuovi ragionamenti pratici, diventano un mezzo per i sottoscopi e
diventano anche output.
Il tutto è guidato da un’intenzione primaria, questo è il punto fondamentale per Bratman:
sottolineare il ruolo che ha l’intenzione nel processo di pianificazione.

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