Sei sulla pagina 1di 7

Lezione 4- Letteratura italiana contemporanea- 14/03/2023

Il saggio “Le due Napoli”, spesso richiamato all'attenzione nel Convegno, ha una funzione
paradigmatica nell'ambito delle teorizzazioni letterarie su Napoli. È un saggio che molti scrittori,
soprattutto negli anni seguenti, hanno preso a modello, o comunque sia un saggio col quale tutti
gli scrittori hanno dialogato quando si sono trovati a parlare della rappresentazione di Napoli in
letteratura. Ovviamente un dialogo che riguarda non solo scrittori d'area partenopea campana, ma
anche scrittori d'altra origine.
Domenico Rea ha centrato alcune questioni più importanti che riguardano la contrapposizione tra
una Napoli popolare e una Napoli Borghese e si appoggia ad un certo tipo di espressione, discorso
retorico che, seppur non condivisibile, ha degli elementi di verità che sono rimasti nel tempo.
Questo testo viene pubblicato sulla rivista “Paragone” nel 1951; da un punto di vista
dell’elaborazione teorica di questo saggio ci ritroviamo più o meno negli anni in cui Rea pubblica
“Spaccanapoli”(‘47/’50) quindi il modo di leggere e di raccontare la città di Napoli nei racconti
sicuramente risente di questa visione che è anche una premessa teorica: non è solo una visione di
Napoli letteraria, ma è anche un manifesto di poetica perché Domenico Rea, come hanno detto i
relatori al convegno, sceglie di raccontare la città da un punto di vista ben preciso che lui chiama
“dal fondo del pozzo”, richiamandosi alla novella “Andreuccio da Perugia” di Boccaccio, uno dei
suoi modelli letterari.
Ogni raccontino di “Spaccanapoli” è introdotto da una frase di esergo di grandi classici della
letteratura italiana (Machiavelli, Cellini o lo stesso Boccaccio), proprio perché Domenico Rea,
nonostante voglia raccontare una Napoli dal basso, quindi una Napoli plebea, primitiva e popolare,
non rinuncia a sottolineare il fatto che la sua tradizione letteraria però è molto elevata e si fonda
sulla lettura e la rielaborazione dei classici.
Raccontare Napoli dal punto di vista “basso” non significa sciatteria linguistica, oppure resa al
dialetto e al gergo, al parlato, anzi significa comunque provare a raccontare quel basso attraverso
la mediazione di una tradizione illustre, la più illustre che c'è in Italia, ovvero quella dei trecentisti e
del Rinascimento.
Incipit:
“Ogni tentativo di dare un’ennesima interpretazione di Napoli implica una buona dose di
presunzione e corre il rischio di ripetere il già detto. Ci si trova subito di fronte a una vasta
letteratura indigena e straniera, tanto antica e radicata da far legge.” -questo perché il discorso
che tradizionalmente appartiene alla città di Napoli molto spesso si fonda anche sui racconti degli
scrittori e pittori del Grand Tour, quindi una visione spesso mediata dal racconto degli stranieri che
però vedono la città attraverso un occhio diverso, magari più incline a farsi suggestionare dalle
bellezze del territorio e a raccontare in maniera macchiettistica le scene di miseria e di degrado.
Uno straniero non ha una conoscenza culturale, antropologica profonda che invece secondo Rea
merita chi prova a raccontare questa città; secondo lui i racconti che resistono si fermano alla
superficie- “Gli stessi napoletani hanno finito per credere di essere simili ai personaggi cantati,
narrati e rappresentanti dai loro scrittori. Quando qualcuno ha tentato la via della verità per primi i
napoletani si sono ribellati e non vi si sono riconosciuti, mentre credono di ritrovarsi nelle
canzonette e in altre opere scritte che hanno una prosa tanto vivace quanto superficiale.”
Rea tenterà la via della verità cioè raccontare Napoli provando a rendere nella rappresentazione
(che è pur sempre trasfigurazione) la verità del luogo, del paesaggio nel quale c'è la natura, c'è
l'uomo e c'è tutta la storia. Sostiene inoltre che purtroppo le narrazioni che hanno tentato di
raccontare la città con verità a volte sono state accolte male perché è molto più facile per gli
abitanti in qualche modo rispecchiarsi nei bei testi delle canzoni napoletane, e sottolinea il suo
atteggiamento assolutamente di rifiuto nei confronti della tradizione della canzone napoletana
perché dà un'immagine falsata della città. Questo è un fatto singolare ed è una disgrazia tale da
suggerire il dubbio che tra napoletani e i suoi interpreti più accreditati ci sia un fatto: fingere a se
stessi la vera essenza della loro natura.
“Ciononostante ne abbiamo il dubbio che tra la Napoli cantata, narrata, rappresentata e voluta dai
suoi medesimi abitanti e la vera, decorra una notevole differenza. Noi ritroviamo solo qualche
gesto e qualche colore della Napoli vera in quella letteraria”
Quindi guardando quelle persone, i racconti d’oggi, c'è una discrepanza insanabile tra il racconto
letterario e quella che è la realtà, tra le due Napoli, dove quella vera è più violenta ma ovviamente
merita di essere raccontata.
“Il fascino porta a una deviazione della verità che si ritrova integra nell'oggetto nudo del crudo,
senza il travaso fotografico, ossia senza la letteratura.”
Rea vuole raccontare la realtà nuda e cruda e non vuole che ci sia neanche il travaso fotografico,
un po' come avveniva anche nella letteratura naturalista, verista, in cui anche la fotografia in
qualche modo dà un’inquadratura e dà un senso di distacco patinato rispetto alla realtà.
Successivamente Rea parla di Di Giacomo che è un grande poeta, il maggior scrittore di canzoni
napoletane di fine ‘800: “il Di Giacomo infatti ci dice ben poco dell'eterno fenomeno di Napoli. Egli
è essenzialmente un poeta che ha composto un grande Canzoniere d'amore e in un dialetto che,
per forza poetica, ha la compiutezza di una lingua classica.”
Di Giacomo scrive in dialetto ma non è un dialetto tosto, verace, popolare, è comunque una lingua
letteraria, Rea dice “scrive un Canzoniere”, come Petrarca.
Pasolini si interessò moltissimo della poesia regionale, nei suoi scritti di “Passione e ideologia”,
parlando della musica a Napoli dice: “La forza di Di Giacomo è stata quella di avere un
effetto-canone per la letteratura a Napoli”, cioè un effetto modellizzante come Petrarca aveva
avuto nella tradizione letteraria italiana, tant'è che ci sarà il Petrarchismo con tutti i poeti che
imitano la lingua di Petrarca, che è una lingua letteraria.
Continua Rea: “Leggendo le sue opere è quasi visibile lo sforzo del poeta di modellare il napoletano
sulla lingua italiana. In Di Giacomo sono continue le presenze della lirica italiana e infatti si notano
movenze Settecentesche, inquietudini Leopardiane, gli amori Pascoliani. Sembra che Di Giacomo
tema di creare un mondo profondamente dialettale.”
In effetti Di Giacomo è stato uno di quei poeti che ha cercato- anche in ambito teatrale- di
affrancarsi dal dialetto, cioè di provare a tentare una letteratura a Napoli ma in lingua italiana.
“Il Di Giacomo resta un signore e non vuole sporcarsi le mani. Se dovessimo credere che le donne di
Di Giacomo sono le vere popolane napoletane ricadremmo nell'errore di scambiare la finzione
letteraria per la realtà stessa. Le creature femminili di Di Giacomo sono sempre timorate di Dio,
ingenue, appassionate, vittime della società e del maschio, traditrici e sospettose come buona
parte delle creature della letteratura romantica meridionale. Infatti cercheremo la femmina
violenta, acida e triste, che non tira dalla gola un solo rigo di canzone per un anno intero.”
Nel raccontino personaggi come Zì Lena, Zì Maria sono le femmine di cui parla Domenico Rea, che
hanno una fisicità e un modo di porsi assolutamente diverso dalle donne piccolo Borghesi
timorate, anche un po' angelicate e un po' sprovvedute, sicuramente idealizzate, che si trovano
nella tradizione Di Giacomiana. C'è questa differenza tra la femmina e la donna su cui riflettere
quando leggeremo poi il racconto.
Tornando a Rea: “L'uomo di Di Giacomo è invece nelle pene dell'amore sentimentale fino alla
nausea. Si stia facendo la barba, o cammini, o lavori, pensa all'amore angelico, dove non c'è posto
per il sesso che nella vita vera è la parte maggiore.”
L’aspetto della carnalità è presente e fortissimo in Rea, come nel suo scritto del ‘94 “Ninfa plebea”,
vincitore del premio Strega, dove c'è sesso in una dimensione primitiva carnale e animalesca ma
non nel senso negativo.
Rea è anche contro Matilde Serao che ne “Il Ventre di Napoli” aveva raccontato attraverso delle
inchieste in qualche modo la verità, la storia di Napoli dopo il risanamento, la questione della
miseria, del colera, ma secondo Rea neanche lei era riuscita poi a sfuggire agli stereotipi:
“Ne Il Ventre di Napoli la scrittrice traccia nudamente la situazione della città e invoca scuole,
ospedali e case popolari. Dimentica che queste opere si attuano mediante il lavoro e che ai
napoletani occorrono fabbriche e stabilimenti. Come ottenere questo lavoro? Lo studio del
problema ci porterebbe lontano, intanto sembra incredibile che la Serao, la più grande scrittrice
italiana, non abbia saputo trarre dal Ventre di Napoli un’opera che sapesse puntare direttamente
alle cose come seppe fare Verga, che spogliò le cose dal folclore siciliano e le rese nude.”
Rea condanna la Serao dunque di aver fatto un’inchiesta veritiera su dei fatti, ma di non aver
centrato la questione politica, e qui esce la sua ideologia comunista. La sua prospettiva rivolta alle
classi subalterne contadine e operaie si sposa anche con una militanza- che si interromperà nel ’56,
in quel famoso viaggio dove lui si ferma a Praga e per l'invasione dell'Ungheria restituisce la tessera
del partito-. Qui invece siamo nel ‘51 e c'è questo impegno concreto, e lui denunciando le
mancanze della Serao parla anche di se stesso, sottolineando l’importanza della questione
meridionale che può risolversi soltanto parlando della mancanza di lavoro.
La tematica del lavoro costituisce uno dei sintomi della vocazione politica di Rea, della sua
militanza, della sua vocazione pedagogica trasferita in letteratura. Inoltre si evidenzia sempre di più
quanto Verga sia il modello indiscusso, come esempio di stile, come colui che è riuscito a
raccontare i fatti nudi e terribili in quella lingua che imita il parlato ma non è il dialetto, e fa
quell’impasto meraviglioso che attinge ai proverbi, alle espressioni del parlato, ma non imitandole
propriamente.
“L’unico scrittore che ha raccontato Napoli in maniera nuda e cruda, dal basso, affrontando le
tematiche sociali, è Mastriani.” -Autore di centinaia di romanzi d’appendice, pertanto romanzi con
dei limiti importanti in quanto questa tipologia segue delle regole di leggibilità poiché viene
pubblicato a puntate nei quotidiani- “Nei 114 romanzi di Mastriani l’arte sfortunatamente decade e
i romanzi si trasformano in macchine che riproducono i fatti fedelmente, ma senza trasfigurazione.”
Il romanzo nel realismo invece non riproduce fedelmente i fatti, ma li trasfigura, c’è comunque un
processo di elaborazione letteraria che permette a quello stesso fatto di elevarsi ad arte, a
diventare esemplare. Una persona che diventa personaggio, secondo i modi del realismo, viene
trasfigurata dall'immaginazione dell'autore che ne costruisce poi tutta la trama, la carica di una
dimensione simbolica metaforica e soprattutto fa diventare di quella persona comune- potrebbe
un popolano, un venditore di patate- un personaggio esemplare, con dei valori propri e quindi con
un messaggio da dare che sia universale nei secoli. Quest'operazione è resa attraverso questo
procedimento di trasfigurazione, che non significa riproduzione dei fatti meccanica.
“In Mastriani gli uomini si chiamano vermi e i bambini creature, questo termine precisa l'idea di un
corpo umano indifeso e appena rivestito di un fragile lembo di carne” è importante
quest’attenzione sui bambini definiti creature, una riflessione che interessa ad esempio anche
Pasolini, sul realismo creaturale, cioè sulla capacità e possibilità dei romanzi realisti di raccontare
l'umanità, tutto il creato, da questa prospettiva, di aprire il ventaglio delle classi sociali
rappresentate e far leva sull'umanità di questi personaggi e non su alcune etichette sociali,
economiche, come nel realismo borghese.
Parlando del modello principale Rea afferma: “Se si dovesse indicare un altro scrittore che ha visto
Napoli nella sua classica verità e la sua gente incatenata a un’omertà di interessi dovremmo
riaprire l’Andreuccio da Perugia dei Boccaccio. Vista sempre dall'alto Napoli non ha avuto per una
sola volta nella sua storia la fortuna di dare i natali a un solo artista che potesse guardarla dal
fondo del pozzo”.
Andreuccio è un mercante perugino che arriva a Napoli e si fa raggirare da una prostituta fino a
finire proprio nel pozzo, nel letame e da lì risale. Ovviamente l’immagine è una metafora di chi
cade nel luogo più infimo, si sporca alla grande, ma risale. Rea dunque dice ci manca un artista
napoletano che può guardare dal fondo del pozzo, quindi dal basso verso l'alto.
“Il punto capitale per comprendere Napoli, che è la porta misteriosa di tutta l'Italia meridionale,
non consiste più nel dipingere, descrivere e cantare le sue creature umane dalle facce più strane,
solo scendendo in questo abisso a vortice si potrebbe venire a capo della meravigliosa vita
psicologica di personaggi capaci di tenere in braccio un tomo e accarezzarlo e parlarne come a un
cane o come a un qualsiasi amabile essere vivente.”
Domenico Rea sta facendo la sua dichiarazione di guerra sottolineando quello che è il suo fare
letterario, ovvero raccontare Napoli dall'abisso del pozzo dove ci sono chiaramente delle situazioni
apparentemente abbiette che invece si caricano di una naturalezza, di una verità, che diventano
rivelative, epifaniche, positive addirittura.
Sempre Rea: “È vero, la Napoli dal basso è violenta, perché violento è lo stato quasi animale,
primitivo dell'uomo. Questa violenza è stata taciuta credendo che essa disonorasse il paese
dell'allegria. Essa è invece il sentimento tragico della vita che esplode e che sta stampato sui volti.”
Non bisogna aver paura di raccontare anche la carica di violenza che proviene dal pozzo perché
quello è l'effetto della tragicità della vita, che va guardata.
La tragedia come avveniva? Morivano tutti: madri, padri, figli si uccidevano l’uno contro l'altro;
violenza, scene di guerra e personaggi di diverse classi sociali. Qui parliamo di letteratura del
pozzo, tendenzialmente ancora una volta carica del messaggio di ideologico militante gramsciano;
gli intellettuali della tradizione letteraria ottocentesca e primo-novecentesca sono Borghesi che
secondo Domenico Rea hanno voluto nascondere questo, mentre è il momento di raccontare tutta
la verità.
“Napoli offre una ricca e multiforme storia agitata come quella di una città americana,” -anche
questo è un elemento importante ovvero Rea parla molto dell'America, in questo caso non in
termini letterari ma in termini di spazi- “ma la differenza è che in America si tratta della forza vitale
del dollaro e a Napoli della forza dei miserabili per vincere la miseria, la quale finisce per essere la
ricchezza stessa della città.” Quindi ribalta: e se la miseria fosse la ricchezza della città che
comunque racconta di un mondo che peraltro sta scomparendo? -direbbe Pasolini- di un mondo
ancestrale, primitivo, con dei valori solidi. E questa è la domanda che si fa Rea proprio in relazione
alla differenza di quanto accade in America dove c'è già una dimensione consumistica, per cui le
città americane non sono come Napoli negli anni ‘50. Vedremo che però avanti con il tempo,
soprattutto con i processi di industrializzazione che incominciano a interessare il sud, inizia anche
qui ad attecchire lentamente quella metamorfosi culturale; e lo vedremo registrato nei romanzi
degli anni ’70.

“Spaccanapoli” inizia con un racconto un po' lungo che si conclude con un’indicazione, posta prima
del racconto La segnorina, data da Domenico Rea che diceva: “Questo era il mio modo di scrivere
intorno agli anni ’40, poi venne la guerra e io presi a scrivere in un altro modo.”
Il racconto è scritto in prima persona; questo
protagonista che il lettore non conosce, si
comincia a configurare attraverso le
indicazioni della sua fisicità: mi riconobbe dal
passo, il rovescio della mano, la scorza mia e
le vene, sono quattro elementi
caratterizzanti, mentre non c'è ancora alcun
segno di introspezione, di pensieri. C'è questa
fisicità che ha una connotazione fortemente espressiva: la pelle della mano viene chiamata scorza,
le vene come dei solchi profondi e poi c'è il passo. Un'altra cosa che caratterizza questo
personaggio è una sorta di delimitazione spaziale-possessiva: nella mia strada, nell'incipit, dice
qualcosa del carattere che fa un po' il paio con la mia mano.
Una cosa da rimarcare dal punto di vista dei racconti
del neorealismo è il bilanciare le sequenze narrative
con quelle dialogiche, in quanto i dialoghi danno
ritmo e danno il senso di parlato.
Altre indicazioni fisiche: testa, capelli serpentini, occhi
di uomo, braccia abbandonate lungo i fianchi come mi
fossi arreso (in questo caso dà anche un modo in cui
interpretare questa visualizzazione che il direttore fa).
Ci sono due cose: questa dominanza della corporeità
che per Domenico Rea è prioritaria rispetto ai
pensieri; ma c'è qualche pensiero che affiora “aveva
ragione però gli dissi lazzarone” quindi incomincia in
questa seconda pagina ad emergere il pensiero dell’io
narrante, “Avrei voluto”; sono tutte delle pennellate
brevissime, Rea racconta per sottrazione, non è uno
che si dilunga tantissimo, in pochi tocchi presenta
innanzitutto dei corpi che già parlano per come sono
caratterizzati, e poi degli accenni di pensiero, di ciò
che accade nella testa di quest'uomo che è tornato a
casa e sta vedendo qualcosa che non va. In questa
introspezione ci sono anche dei piccoli richiami analettici, cioè dei Flashback fatti, anche questi, in
maniera rapidissima “me lo ricordo al catechismo che eravamo ragazzi” “la camera che ci aveva
visti sposi felici e contenti”.
Poi c’è addirittura un dialogo immaginato, quindi una
dimensione dei pensieri trasferite sottoforma di
dialogo, perché è un’immagine che si prefigura, però
in realtà non c'era nessuno nella stanza, e “la testa
aggrovigliata di pensieri che non riuscivo a tenere
alzata”.
“ordine di prima” introduce a uno scarto temporale:
la situazione è cambiata, ora è così, prima era in un
altro modo, prima ordine ora disordine. C'è stata la
guerra, c'è il prima e il poi all'interno di questo
racconto, tutto il cambiamento che riguarda la vita di
questo protagonista ha un prima e un poi determinati
dalla guerra. L’uso di questa contrapposizione
temporale è il fulcro del racconto.
È presente un segmento coi pensieri del protagonista
sul dubbio riguardo la condotta di Lenuccia, la moglie,
che affiorano attraverso anche un dialogo con la
madre morta, quindi ovviamente immaginario e che è
un ulteriore espediente per fare emergere quello che
accade nella testa appesantita del narratore. Dopo c’è
questa sorta di dialogo con la divisa dello straniero, di
lui che vedendo la divisa nell'armadio realizza che sua moglie quantomeno ha un altro, a cui “dissi
mentalmente” quindi sottolinea quest’elaborazione concettuale che è tutto nella testa del
protagonista, ma attraverso questi dialoghi. Invece di raccontare i propri pensieri sottoforma di
descrizione o di monologo, c'è una sorta di rappresentazione dialogica di quello che accade in testa
con delle figure esistenti, la madre e in questo caso la divisa dello straniero.
Poi c'è anche una forte ellisse temporale “uscito fuori sembravo io stesso”: non si capisce quanto
tempo è passato. Questo rientra nella tecnica fortemente compatta, nello stile fortemente conciso
di Domenico Rea che è uno dei narratori più ellittici, per cui sono più tagli nella rappresentazione
del racconto, dell’azione narrativa.
Nell'incipit l'idea della “mia strada”, il possesso forte entra in contrasto con lo straniero che è
residente espatriato, cioè non si riconosce. Il protagonista ha un'identità legata allo spazio ed è
forte il tentativo di marcarla.
“lanciai alle galline la cioccolata che avevo trovato in tasca” la cioccolata all'epoca era merce di
contrabbando, la scelta di buttarla alle galline mostra un gesto d’ira, sentimenti primari che
porteranno al gesto tragico.
“Nessuno mi riconosceva e tutti credevano fossi un boi”
scritto come ipotetica ignoranza della lingua, ma in realtà
un elemento di grande verità e di grande realismo, perché
in quel periodo è chiaro che si crea una lingua, di cui
parlava anche Calvino, che impasta dialetto e le formule
provenienti dalla lingua dei soldati tedeschi, in questo
caso americani, quindi la forza di Rea è proprio quella di
non cedere al dialetto, ma cercare di ricreare una lingua
espressiva e vera e che quindi traduce questa mescolanza
linguistica. Attinge poco al dialetto, principalmente nella
sintassi, però non è fortemente caricato e soprattutto
accoglie il formulario di questo “inglese”.
“Segnorina ora, prima mogliera” prima e dopo in relazione
alla guerra, marca quindi il periodo storico.

“Maronna” non è un'espressione dialettale ma è proprio


l'urlo, il grido pesante della morte tragica e non il calco
folcloristico della popolana, si carica di un effetto molto
più importante ed è probabilmente una delle poche
espressioni dialettali nel racconto e che guarda caso
Domenico Rea mette in conclusione della scena. Un'altra
ellissi è “le infilai il braccio nel braccio” e poi “aspettare”
dove l’intervallo di tempo tra la passeggiata e l’arrivo
davanti alla porta di casa non è specificato. “con la voce di quando era mia” di nuovo il possessivo.
Tutto questo per dare il senso di quelle che sono le specificità di Domenico Rea in termini di
tecnica narrativa oltre che per l'aspetto contenutistico, in questo caso di una vicenda calata nel
contesto della guerra, della liberazione degli americani, che ha poi una sua resa formale
strettamente congruente con questo racconto e abbastanza esemplificativa di un certo
Neorealismo.
Quasi tutti i raccontini successivi al 1945 sono datati, mentre la data era solitamente tipica dei diari
e delle autobiografie, c'è invece in questo periodo la volontà di datare i racconti proprio in virtù del
racconto che cambia, e cambia nel modo e non solo nel contenuto.
Questa riflessione viene portata avanti anche negli altri scrittori come Incoronato, che rientra in
quest'ambito ma lì c'è ancora un uso della lingua particolare e diverso.
È importante da un lato guardare ai temi, soprattutto ricordando che si parla di una generazione di
scrittori che hanno esordito durante la resistenza e quindi bisogna cercare di inquadrare la loro
prospettiva sui temi in base all’ideologia politica. Dall'altra parte bisogna guardare alle forme, alla
lingua, soprattutto quel discorso lingua-dialetto che sarà un motivo di approfondimento.
Questi scrittori sono accomunati anche dal punto di vista teorico che riguarda una nuova identità
del romanzo meridionale, la questione meridionale, la questione di rappresentazione del sud, da
non intendere come un un'idea localistica, perché per esempio negli anni ‘60 la rivista “Il Menabò”
dedica lungo spazio al romanzo meridionale. Nel 1960 cade anche il Centenario dell'Unità d'Italia
che porta alla nascita del pensiero intorno alla questione meridionale, tema del racconto del Sud,
in particolare di Napoli, che è un discorso che interessa il dibattito letterario nazionale perché
interessa l’Italia stessa.

Un collega sottolinea come Rea cerca di sorprendere nel finale, e cerca in qualche modo di rendere
più vivida quella realtà trasportando il lettore con il colpo improvviso, ma in realtà lascia proprio
delle “briciole” durante il percorso, come nella frase “ti sta conservando un sacco di soldi” che
permette di intuire come Lenuccia andasse con altri uomini, che fosse una prostituta, una
condizione tipica di una certa realtà del dopoguerra.
La docente indica che non sia in realtà l’effetto sorpresa ad essere ricercato, ma che la cosa
potente di questo racconto stia nel ricalcare proprio una dimensione teatrale attraverso il dialogato
molto forte. La scena dura probabilmente una giornata, dalla mattina fino alla sera, non sappiamo
quando è iniziata, potrebbe essere il pomeriggio o la mattina, però si conclude quasi nel tempo
della lettura, e questo è molto teatrale. Il finale è tragico proprio nel senso teatrale del termine per
com’è composta la scena e non perché fa l’effetto sorpresa.
Fare in modo che il tempo lineare coincida con il tempo del racconto è tipico dei racconti
dell’epoca; anche il modo di raccontare i flashback attraverso queste battute è particolare e lo
rende più dinamico, più teatrale, perché non è un monologo di descrizione in cui c'è un racconto
del racconto.
Rea nel racconto non giudica il gesto del protagonista, cosa importante, perché appare una cosa
normale all’interno di questo contesto. La violenza è parte del mondo, è un sentimento tragico
della vita del dobbiamo prendere atto, non giudicare, senza capovolgerne il senso.
(Anche La Capria se ne va a Posillipo e racconta un altro spaccato sul Borghese, però comunque
con una chiave di lettura diversa e critica nei confronti di un certo tipo di borghesia, dall'interno, e
anche lì c'è un lavoro sulla lingua incredibile.)
Una collega sottolinea l'uso del coltello: nella penultima pagina è Lenuccia a dire che il marito era
un venditore di coltelli, una cosa di apparteneva al passato perché il marito era morto nei suoi
pensieri e lui prima di ucciderla è in compagnia del coltello e lo tiene stretto per paura di perderlo,
come se fosse l'unica cosa che gli era rimasta di questo passato.
Coltello come qualcosa che non è stato intaccato dal cambiamento della guerra, cambiamento di
valori della stessa Lenuccia e con lei tutta la strada, mentre non c’è il cambiamento del marito che
col coltello ripristina, o quantomeno vorrebbe ripristinare, l'equilibrio.

Potrebbero piacerti anche