3 sono i generi letterari che dominano in questo periodo: la prosa o la narrativa la cui massima
espressione si ebbe nella “novella picaresca”. Forme di prosa furono anche “Los tratados. Il genere
narrativo caratterizzato dal linguaggio artificioso garcilasiano era un genere destinato a un pubblico
colto; col romanzo si soddisfaceva il pretesto di moralizzare e al tempo stesso di sviluppare un gioco
artificioso e splendido di lingua. Altro genere fu quello del teatro con la nascita della “comedia nueva”
che al contrario del romanzo e della narrativa in generale era un teatro “para todos” ossia aperto al
popolo, concezione del teatro che va a sostituire quello di corte. Un teatro fatto di parole nude e di
poca scenografia. Terzo genere fu quello della poesia con la rivoluzione poetica di Gongora e Quevedo
e la nascita di due fenomeni letterati che prendono il nome di “conceptismo” ad opera di Quevedo e
“Culteranesimo” ad opera di Gongora. Oltre alla letteratura si ebbe anche un grande sviluppo artistico
come Velá zquez con “Las meninas”, Josè Rivera e Murillo
FRANCISCO DE QUEVEDO
Francisco de Quevedo nacque a Madrid nel 1580. Compì i suoi studi a Valladolid, allora sede della
corte e poi ritornò a Madrid al seguito dei reali. Esiliato e imprigionato in seguito cerca la protezione
del duca di Olivares. Quevedo di vastissima cultura diventa il creatore di una corrente poetica che
prende il nome di Conceptismo in cui l’artificio della lingua e la sua ingegnosità si pone al centro. La
poetica di Quevedo è infatti tutta incentrata sul gioco della lingua che modella a proprio gusto. Le sue
opere sono infatti caratterizzate da un linguaggio ricco e dall’utilizzo di diversi registri e stili che
vanno dall’angustia esistenziale alla burla più grossolana, dalle belle e intense poesie d’amore alle
jarchas con il gergo della malavita. Linguaggio destinato esclusivamente a un pubblico colto. Il suo
linguaggio è ricco di metafore, analogie e rimandi a una dimensione piuttosto simbolica che sfocia
soprattutto nello spaventoso e nel mostruoso che ritroveremo in seguito nella poetica dell’Esperpento
di Valle Inclan: il suo luogo di ambientazione preferito è la dimensione dell’Ade con le sue viscere fatte
di boschi di fecce e falci, luogo in cui non vi è mai la primavera. All’interno dei suoi versi l’amore è un
sentimento assoluto, senza necessità , possibilità o speranza e la dama oggetto d’amore è descritta
nella sua bellezza intensa e spaventosa. Oltre alla donna oggetto d’amore, altro simbolo di Quevedo è
la donna “vecchia” che nei suoi sonetti satirici sono impressionanti esperpentos. Oltre ai sonetti e alle
poesie morali in cui la preoccupazione etica percorre tutta l’opera e i temi orazioni vengono
trasformati dalla soprendente creatività dell’autore scrive anche letrillas e romances burleschi in cui è
sempre presente il gioco linguistico di distruzione verbale come testimonia il “Poema heroico de las
necedades y locuras de Orlando el enamorado”. Altra forma letteraria caratteristica della poetica di
Quevedo fu la “picaresca” con la stesura del Buscon. Il genere picaresco era uno dei generi di maggior
successo dell’epoca tra i lettori in quanto rifletteva fortemente la società del tempo e la maggior parte
dei lettori si rivedeva all’interno di quelle avventure narrate.
“EL BUSCON”
“Historia de la vida del buscon llamado don Pablos, ejemplos de vagamndos y espejo de tacanos” fu
pubblicato da Quevedo nel 1626 ed è meglio conosciuto con il nome di “Buscon”. La prima edizione
che risale a tale data, non fu autorizzata probabilmente da Quevedo ed è per questo motivo che non è
considerata affidabile in quanto piena di errori. La composizione dell’opera risale al 1605 ma è aperta
una questione circa la data di composizione in quanto alcuni sostengono che sia stata composta
intorno al 1603/1604 altri sostengono che sia stata composta intorno al 1620. Tuttavia, per scoprirlo
era necessario vedere se nell’opera erano presenti riferimenti ad altre opere o al contesto storico e
siccome non vi sono riferimenti al Chisciotte molto probabilmente è antecedente al 1605, data di
pubblicazione del Chisciotte.
L’opera è un romanzo picaresco, narrazione di una serie di avvenimenti della vita di Don Pablos
narrati in ordine cronologico e divisi in tre parti:
I PARTE: la prima parte dell’opera tratta della genealogia e dell’infanzia di Pablo che nacque
da genitori conversos e ciò fa di lui un uomo “deshonrado”, modello dell’antieroe caratteristico
del romanzo picaresco. Frequenta la scuola, e l’ambiente domestico tipico dei picaros, viene
sostiuito dunque con l’ambiente scolastico ma i suoi studi finiscono quando viene chiamato a
partecipare alla battaglia di “nabal”. Conosce don Diego, suo compagno di scuola che sarà anche
suo padrone e dunque segnerà il concetto di “apprendimento” in una duplice veste: da un lato
l’apprendimento scolastico ai tempi della scuola, dall’altro quello delle bricconate ai tempi in
cui egli era suo padrone.
II PARTE: la seconda parte tratta dell’adolescenza periodo in cui compie un viaggio da Alcalà
a Segovia e da Segovia a Madrid. Il tema del viaggio è tipico di un romanzo picaresco in quanto
indica e sottolinea la crescita del protagonista. Durante questo viaggi egli si imbatte in una
serie di figure stravaganti, che sembrano figure da entremés, per le strade e nelle locande
(luoghi centrali della narrazione picaresca). È vittima di crudeli scherzi e: piogge di sputi, feroci
burle e bastonate. È qui che apprende davvero a badare a sé stesso e capire come funzione la
“vera vita”. Inizia infatti a commettere abili furti che lo portano a guadagnarsi la fama di
“mascalzone furbastro”, imparando così ad essere un delinquente. Durante questo viaggio
raggiunge anche lo zio, carnefice che gli comunica che su padre era morto giustiziato. Pablos fa
esperienza di un mondo ripugnante e la morte del padre chiude questa tappa.
III PARTE: la terza parte tratta della gioventù in cui Pablo riscuote l’eredità dello zio e si reca
alla corte dei miracoli di Madrid in cui vive una serie di espedienti. Qui incontra don Toribio, un
hidalgo che lo inganna con l’apparenza, fino a che non gli cadranno le calze rendendo evidente
la sua miseria. Egli diventerà la guida di Pablos che si unirà alla banda di delinquenti. Pablos
viene però scoperto e incarcerato. Ottiene la libertà con l’astuzia e grazie al denaro con cui
pagherà il suo riscatto. Uscito dal carcere cambia aspetto e identità e cercherà di conquistare
una donna doñ a Ana, cugina di don Diego, ma una coltellata sul viso gli impedirà qualunque
altro travestimento successivo. Viene chiamato “el cruel” seduttore di monache e imbroglione,
s’introduce nella mala vita sivigliana e raggiunge il ruolo più alto “capo dei ruffiani”. Gli restano
solo le Indie per scappare alla giustizia il finale dell’opera è un finale aperto con
un’anticipazione negativa: come una sorta di promessa che le bastonate a tale picaro non
termineranno lì.
Ad ogni modo più che il vero contenuto dell’opera a Quevedo interessa il linguaggio: egli non è
interessato a ciò che dice il personaggio ma a come lo dice e presenta un artificio di giochi verbali. Egli
si è sbizzarrito soprattutto nell’utilizzo dell’iperbole, figura retorica che consiste nell’esagerazione di
concetti e situazioni per sottolinearne alcune caratteristiche. La storia tratta di Pablos, uomo in età
matura che narra la propria autobiografia e le vicende dalle sue origini all’età adulta rivolgendosi
come Lazaro a Vuestra Merced. Tuttavia, Quevedo non ci presenta però le circostanze in cui vive il
narratore (ossia Pablos adulto) e non possiamo conoscere dunque in che periodo della vita di Pablos
sia ambientato. Ciò sottolinea come Quevedo non si preoccupi di curare i dettagli del contenuto
dell’opera affinché essa abbia coerenza narrativa e verosimiglianza. Egli con questa storia non
pretende di commuovere né di moralizzare, anzi è un’opera fortemente ironica e grottesca in cui i
personaggi, molto spesso caricature e le situazioni risultano comici anche quando il protagonista è
vittima. Ma per Quevedo di un antieroe e del suo mondo ci si può prendere gioco e dunque i colpi di
scena si susseguono. Tuttavia, nonostante l’opera sia ironica e irreale, l’autore ripercorre tutta la
realtà spagnola e si rapporta quindi a varie classi sociali: poetastri, falsi eremiti, soldati fannulloni,
commercianti genovesi, boia, classi sociali attraverso le quali egli critica la società del tempo. Tuttavia,
il romanzo non si presenta come una vera e propria narrazione in quanto l’elemento descrittivo e
superiore a quello narrativo in rapporto di quantità . Dunque, manca di narrazione. Dalla critica infatti
non è stato definito come una grande creazione romanzesca ma come uno straordinario esercizio di
ingegno in cui le avventure più che pretesto per raccontare fatti successi diventano pretesti per
l’esercizio linguistico e per la satira. L’”Ingenio”, tipico della poetica di Quevedo, diventa un elemento
che superare l’oggetto del racconto e la narrazione.
ANALISI CAPITOLO 3
In tutto il capitolo come in tutta la storia vi sono brevi sequenze narrative e lunghissime sequenze
descrittive che mettono in evidenza l’estro dell’autore. La prima parte del capitolo è occupata dalla
descrizione del “clerigo cerbatana”, il dottor Cabra dal quale Pablos e il figlio di don Alonso, erano stati
mandati affinché lo servissero e lo accompagnassero. La descrizione è molto ricca, in effetti non c’è
narrazione ma solo una descrizione iperbolica dell’aspetto fisico di Cabra che in fin dei conti era “arci
povero e stramisero”: gli occhi profondi e scuri sembravano negozi di mercanti, iperbole che tende a
sottolineare come i negozi dei mercanti erano luoghi oscuri di imbrogli; il naso molto lungo sembrava
una strada che andasse da Roma alla Francia; la barba era scolorita dalla paura della bocca affamata e
i denti erano mancanti come se fossero stati esiliati. Era molto alto e magro e le sue gambe magre
facevano sì che sembrasse una forchetta o un compasso. La sua barba era molto lunga in quanto non la
tagliava mai, odiava la mano del barbiere e disse che si sarebbe lasciato morire prima che ciò fosse
accaduto. In quanto al suo abbigliamento, Pablos aveva molto da dire tanto che lo definisce un lacchè
della morte: il cappello era rovinato dai topi e ingrassato, la sottana misera e corte era miracolosa e
alcuni sostenevano che cambiasse colore. Poi passa a descrivere la stanza con il letto sul pavimento e
dormiva solo su un lato per non rovinare le lenzuola dall’altro. La seconda parte del capitolo è invece
occupata dalla descrizione del refettorio, luogo angusto e sporco che viene definito “un bugigattolo di
media misura”. Con la descrizione del refettorio e del momento della cena viene sottolineato sempre
attraverso iperboli il tema della fame eccessiva, tipico del romanzo picaresco e che troviamo anche nel
“Lazarillo de Tormes”. La fame e la miseria vengono portate alle estreme conseguenze attraverso le
iperboli presentate da Pablos narratore: a tavola si sedevano prima i padroni che consumavano un
pasto infinito lasciando gli scarti “tres madrugos y dos pellejas” ai servi, ragazzi del collegio; i ragazzi
erano molto magri in quanto chiunque entrava in quella casa ne usciva dimagrito e affamato e questa
eccessiva magrezza dei ragazzi tanto che sembravano spiritati balzò subito agli occhi di Pablos. La
magrezza sottolinea la fame eccessiva che si pativa. Altro elemento che sottolineava la fame fu il fatto
che non vi erano bagni e come sostiene un membro del collegio di vecchia data che dei bagni non v’era
bisogno in quanto mangiando così poco nessuna aveva nulla da espellere. Il richiamo alla fame ricorre
in numerose parti del capitolo e in molte parti dell’opera. Tale miseria è sottolineata ancora di più al
momento della cena in cui si mangiava ancor meno di ciò che si mangiava a pranzo in quanto Cabra
sosteneva che bisognava mantenersi leggeri per la notte.
La terza parte tratta del momento della notte, ultima parte della giornata dei collegiali e della
quotidianità dei ragazzi. La notte, come il resto della giornata, era un momento terribile: per la fama
non riuscivano a dormire e rapidamente arrivava l’ora di alzarsi per seguire le lezioni. Una delle prime
bricconate che commette Pablos nel collegio fu quello di fingersi malato per non seguire le lezioni:
finse di avere mal di pancia in quanto fingere di avere la febbre sarebbe stato facilmente sgamabile.
Ma il lincenciado Cabra decise di farli visitare da una anziana signora infermiera che somministrò loro
una medicina. Pablo e Don Diego cercarono di sfuggire ma non fu possibile. Una volta sgamati Pablo
sperò che Cabra li cacciasse dal collegio ma così non fu e li affidò alla anziana signora che viene
descritta come sorda e cieca e fervente credente che tanto che pregava un giorno le finì il rosario in
una pentola e servì il brodo con il rosario all’interno. La scena descritta è molto comica in quanto i
ragazzi cercano di capire cosa siano quelle palline nere all’interno del brodo. Sembravano ceci ma
tanto che erano duri che si ruppero i denti. L’ultima scena descritta è quella della morte di un loro
compagno per sottolineare la miseria e la fame eccessiva che vi si pativa n quanto egli morì di stenti e
di fame. Fu così che questa fu la fortuna di Pablo e don Diego: Don Alonso, a cui era arrivata la notizia
dell’atroce morte del ragazzo, per paura di perdere il suo unico figlio, andò al collegio per riprendere
Don Diego e Pablo, che egli stesso aveva messo a servizio del figlio. Tanta era la fame che avevano
patito che erano diventati molto magri e sebbene stesse ro davanti agli occhi di don Alonso egli non li
riconosceva. Il capitolo si chiude con la fortuna di Pablo di sfuggire a quella misera vita con gli occhi
dei compagni piangenti che guardavano i loro compagni come due riscattati dalla Trinità . Il racconto
procede per immagini e soprattutto per descrizioni dettagliate e iperboliche che spesso diventano
caricaturali. La caricatura rende lo stile utilizzato da Quevedo uno stile ironico e grottesco.
“LOS SUEÑOS”
La maestria di Quevedo è visibile soprattutto nell’uso ingegnoso della lingua nei “Sueñ os” in cui
l’ingegno linguistico si acutizza sfiorando la satira.
L’opera è strutturata in 5 parti che sono i 5 sogni e fu scritta dal 1605 al 1608. Essi sono caratterizzate
da “sfilate” di condannati di tutte le categorie e gli strati sociali, servitori della vanità , dell’ipocrisia e
della pazzia.
“SUEÑO DEL JUICIO”: è il primo sueñ o in cui l’autore osserva la resurrezione dei morti e il
giudizio degli uomini. Vi è una variopinta sfilata di personaggi flagellati e criticati da Quevedo.
In particolare, si scaglia contro i filosofi e i poeti
“EL ALGUACIL ENDEMONIADO”: è il secondo sueñ o in cui l’autore parla di una possessione
demoniaca dove il demonio riferisce le verità ascoltate dall’autore e da un chierico, il licenciado
calabrese. È il sueñ o in cui si scaglia contro le donne ed evidenzia la sua misoginia.
“EL SUEÑO DEL INFIERNO”: è il terzo sueñ o in cui sfilano una serie di peccatori appartenenti
alle classi più umili e al ceto dei lavoratori: sarti, calzolai, cocchieri, scrivani, poeti. Di questi
personaggi estremamente grotteschi conosciamo la condotta passata e dunque il perché sono
peccatori.
“EL MUNDO POR DENTRO”: è il quarto sueñ o in cui il tema portante è l’ipocrisia.
“EL SUEÑO DE LA MUERTE”: è il quinto sueñ o in cui l’autore addormentato assiste alla solita
sfilata di personaggi grotteschi di anime, defunti condannati tra cui si riconoscono alcune
figure letterarie e folcloristiche come il Re che morì di dolore, Mateo Pico e Pero Grullo.
I personaggi sono delle astrazioni prototipiche di condannati-peccatori di vario genere ma sono tutte
accomunate dall’avidità : Quevedo insiste molto sul tema dell’avidità perché il denaro per Quevedo era
considerato “el diablo”. Nell’opera questa critica al denaro e all’avidità viene fuori ponendo l’accento
sulla critica alle classi sociali o alle professioni che secondo Quevedo sono responsabili di questo
sistema sbagliato, della corruzione della classe media e della miseria degli ultimi. Quindi Quevedo si
scaglia contro la burocrazia , il mondo giuridico, gli intellettuali, i poeti, gli accademici, le donne
facendo trasparire la sua forte misoginia. Per quanto riguarda lo stile, i “Sueñ os” sono caratterizzati
dall’ingegnosità : la lingua è il suo strumento. Nell’opera vengono utilizzate tecniche della descrizione
grottesca e satirica che sfocia nella caricatura e nella riflessione morale. Il registro linguistico
utilizzato spesso quello dei bassifondi, inoltre è anche noto in quanto creatore di neologismi arditi,
metafore e lavora molto anche con la figura retorica dell’iperbole per portare all’estreme conseguenze
ciò che sta narrando, come già accade nel “Buscó n”. Il linguaggio è fatto inoltre di giochi di parole,
intarsi linguistici che servono per delineare i profili dei personaggi.
Il fluire dei “Sueñ os” culmina poi nelle “Fantasie morali”, in particolare nella geniale opera “La hora
de todos y la fortuna con eso” in cui Quevedo non risparmia alla satira nemmeno gli dèi. Giove è qui
presentato come il dio giudice che decreta un’ora in cui si trovano tutti gli uomini, ciascuno con ciò
che si merita. Una sorta di giudizio universale. I personaggi presentati sono di tutti i tipi, dai ruffiani ai
re, dai letterati agli alchimisti, osti pretendenti, signore e mezzane, e sarà proprio la poetica grottesca
e caricaturale di Quevedo che ispirerà l’Esperpento di Ramó n del Valle-Inclá n. La satira e l’ingegno
linguistico di Quevedo si faranno poi più precisi in argomenti diversi: nelle Premá ticas, nei “Cuentos
de cuentos”, ne “La aguja de navegar cultos” fino alla nascita di un vero e proprio movimento: il
culteranesimo.
ANALISI: “EL ALGUACIL ENDEMONIADO”
“El alguacil endemoniado” è un colloquio tra il narratore, che racconta in prima persona ciò di cui lui è
testimone, e il demonio circa vari personaggi che, dall’inferno, vengono passati in rassegna. Il genere è
quello delle visioni classico medievali e attraverso una satira crudele Quevedo passa in rassegna
l’universo dei vizi legati alle varie classi sociali. Sebbene ci possa essere un parallelismo con la
Commedia di Dante, in realtà Dante passa in rassegna i peccatori con il loro peccati mentre Quevedo si
limita a definire dei vizi della società passando in rassegna delle anime condannate per evidenziare
quanto la società sia e sia stata corrotta.
All’inizio vi è una dedica al Conde de Lemos, presidente delle Indie e del Regno di Napoli. La dedica
iniziale serviva per ottenere la protezione di grandi. Era una forma di captatio benevolentiae in cui si
omaggiava e si esaltava la grandezza della figura alla quale si stava dedicando l’opera. Dopo la captatio
benevolentiae l’autore passa rappresentare le categorie nelle quali si dividono gli sbirri disonesti, che
paragonati a dei demoni, sono le stesse che utilizza Psello nel suo libro dei demoni. Le categorie sono
gli ignei, gli aerei, gli acquativi, i terreni, i civili, i sotterranei. Gli ignei gli sbirri criminali: criminali si
intende coloro che si occupano di dare la caccia ai criminali ma anche gli sbirri che sono criminali,
esponendo così una prima critica alla classe degli sbirri. Gli aerei sono gli sbirri sussurratori, coloro
che in maniera silenziosa fanno imbrogli. Gli acquatici sono gli uscieri che si occupano di dare la caccia
a chi, ubriaco vuota il pitale nel momento sbagliato senza avvertire e quindi perciò acquatici. I terreni
sono i civili che a forza di commissioni e tangenti distruggono la società . I lucifughi sono coloro che
fanno la ronda notturna e quindi fuggono la luce. I sotterranei sono gli scrutinatori di vite, coloro che
dall’al di la giudicano e accusano dissotterrando i morti e schiacciando i vivi.
Dopo la dedica, è presente l’apostrofe al Pio Lettore in cui l’autore si dirige al lettore chiedendogli di
leggere la sua opera solo se veramente lo vuole, altrimenti non c’è pena o condanna per chi non la
legge. Lo chiama “Pio”, come era Pio Enea, ed è presente un gioco di parole: l’autore gioca sull’
onomatopea della parola che somiglia al verso del pollo. Qui si vede l’ingegno linguistico dell’autore.
Al lettore Quevedo presenta 3 categorie di uomini: gli ignoranti, lodevoli perché conoscendo se stessi
non scrivono nulla; i saggi che non comunicano il loro sapere per i quali chiede a Dio di perdonarli per
il loro passato e correggerli per il futuro; coloro che non scrivono per paura delle male lingue, da
reprimere perché inconcepibile per Quevedo in quanto sostiene che l’opera può finire o nelle mani di
un saggio, e un saggio non dice male di nulla, o nelle mani di un ignorante, che se dice male lo dice di
se stesso e se dice bene non lo capisce neanche. Alla fine della dedica al lettore, apostrofa la chiesa
Romana chiedendo di “correggere” la propria opera, affinché non sia eretica.
Dopo la dedica al lettore inizia il discorso, la storia vera e propria. Inizia con la presentazione del
Licenciado Calabrés, chierico di San Pietro a Madrid, che non ha pochi tratti in comune con il
licenciado Cabra del “Buscon”. La figura è una tipica caricatura Quevediana della quale egli denuncia
l’ipocrisia e la poca religiosità “tardon en la mesa y abreviador en la misa”, criticando la corruzione del
clero della società del Siglo de Oro. Presentato il chierico passa alla narrazione vera e propria. il
licenciado sta praticando un esorcismo su uno sbirro e inizia il suo dialogo con il demonio, lo spirito
indemoniato dello sbirro risponde alle domande del narratore definendosi egli stesso un diavolo
insbirrato e presentando un parallelismo tra il diavolo e gli sbirri. Questo parallelismo serve all’autore
per criticare il cattivo modo in cui veniva amministrata la giustizia. Sbirri e diavoli fanno lo stesso
mestiere, secondo la voce del demone, entrambi cercano peccatori e viziati sulla terra chi per proprio
sostentamento, per lavoro come gli sbirri, chi per compagnia come i demoni, entrambi fanno del male
agli uomini. I demoni fuggono la croce, gli sbirri la usano per far del male. Ecco che viene posto un
altro gioco di parole sul significato della parola “Croce”: da un lato intesa come croce religiosa,
dall’altro come strumento degli sbirri. Insomma, sbirri e demoni appartengono allo stesso ordine:
presentato qui come ordini religiosi, i demoni sono quelli in clausura, gli sbirri i secolari.
Inizia un dialogo sulla struttura dell’inferno e dei condannati per i loro vizi. L’inferno veniva diviso in
parte secondo i vari tipi di condannati. Ciascuno dei condannati presentati presenta un vizio che
rappresenta la corruzione, l’ipocrisia e la cattiva gestione della società . Essi sono il male della società e
gli unici infatti a non essere presenti all’inferno sono i poveri che non possedendo nulla, non
invidiando nulla, non avendo amici, non possono peccare e sono gli unici che sanno davvero dare
valore alle cose e al tempo ed è per questo che non vengono condannati. Quevedo fa così un elogio alla
povertà .
I condannati, di cui Quevedo ci offre caricature sotto un punto di vista burlesco e moraleggiante,
invece sono:
POETI: sono i più numerosi all’inferno , tanto che con la sua ironia Quevedo dice che i diavoli
hanno dovuto addirittura allargare la zona a loro dedicata. La pena loro inflitta è continuare a
soffrire per ciò che li ha fatti soffrire in vita ad esempio se hanno peccato di invidia per le opere
altrui, sono costretti ad ascoltare eternamente le opere altru0i, altri vengono “lavati” perché
era pensiero comune pensare che i poeti non si lavassero, altri continuano a leggere quartine
sulla gelosia.
INNAMORATI: anche quello degli innamorati è un girone numeroso e dice che sono talmente
tanti quelli infiocchettati e pieni di lettere delle proprie amanti che vengono usati come legna
per il camino. Il diavolo sostiene che tutti sono innamorati, di cui molti di sé stessi. C’è chi è
innamorato del denaro, delle proprie opere, delle proprie parole e infine i meno numerosi sono
gli innamorati delle donne in quanto le donne danno possibilità all’uomo di farsi odiare e
pentirsi. Qui appare la misoginia di Quevedo che troverà massima espressione quando parla
del girone delle donne.
CORNUTI: altra figura satirica di Quevedo che apparirà spesso nei “Sueñ os”. Essi sono
condannati per la lussuria a un carcere perpetuo, in quanto rifiutati dalle donne non perdono la
pazienza in quanto niente più li spaventa.
RE: anche i re sono numerosi perché il potere e la libertà sono i vizi più estremi: finiscono
all’inferno tutti coloro che peccano di superbia, che distruggono invece di creare e che si fidano
di infami ministri. Essi esercitando il potere su dei sudditi e un seguito, non giungono mai
all’inferno da soli ma portano con sé il loro seguito
MERCANTI: i mercanti, soprattutto i genovesi, qui condannati perché la Spagna era in realtà in
debito con loro ed erano i mercanti a chiedere alla Spagna somme cospicue di denaro
GIUDICI: i giudici danno molto frutto all’inferno condannati perché la giustizia sulla terra è
assente, ribelle a Dio e assoggettata ai suoi ministri. È qui che Quevedo cita la leggenda di
Astrea: la Giustizia che non è ben voluta sale al cielo lasciando la terra, lasciando dunque al
cielo l’ultimo giudizio, il giudizio universale.
DONNE: le donne sono numerose all’inferno ed è in questo passo che si evidenzia al massimo
grado la misoginia dell’autore. Egli condanna soprattutto le donne brutte, in quanto le
considera peccatrici. Le donne belle appagano i propri desideri di appetito carnale e una volta
soddisfatte si pentono, al contrario le donne brutte non essendo appagate non si pentono.
Compare qui la figura di una vecchia, metafora dello sgradevole che sottolinea ancora di più la
misoginia di Quevedo. La figura della vecchia è descritta con disprezzo anche nel “Buscó n”.
SARTI: coloro che tagliano e cuciono e sono dunque metafora delle male lingue
CUOCHI: coloro che fanno pasticci metafora degli imbrogli della società e della giustizia
Il linguaggio utilizzato da Quevedo è un linguaggio satirico, ironico e grottesco che strappa al lettore
un sorriso nel corso della storia ma sottolineando amare verità sui vizi della società del suo tempo.
Numerosi sono i giochi di parole polisemiche attribuendo alla stessa parola più di un significato come
“criminales”, “civiles”, “lavaselos” ecc. numerosi sono anche i riferimenti biblici come al Vangelo di
Matteo “sepulcros blanqueados”, per sottolineare la differenza tra l’apparenza e la realtà interiore, al
vangelo di Giovanni “padre de la mentira”, e il riferimento al Re Erode al termine del racconto, che fa
riferimento al passaggio del vangelo in cui Erode crede che Cristo sia Giovanni Battista che è risorto
tra i morti e infine il riferimento al cantico di Zaccaria “salvezza dai nostri nemici, e dalle mani di
quanti ci odiano”
IL ROMANZO PICARESCO
La “novela picaresca” è il genere letterario che più si avvicina, riflette e si pone in relazione alla società
spagnola del tempo. Essa si sviluppa nel periodo che va dal regno di Felipe III al regno di Felipe IV,
periodo in cui vengono prodotti una serie di testi. In particolare con Felipe IV si ha un impulso verso la
cultura nonostante l’economia sia in decadenza. Il genere picaresco ottiene si dà subito un gran
successo e un riscontro nel popolo. Ciò accadde perché il popolo vi si riconosceva il popolo e
riconosceva aspetti della realtà e della propria società . Ed era proprio in questi ritratti della società il
primo motivo di successo dell’opera. Oltre al “Lazarillo de Tormes” che viene considerato a volte
erroneamente emblema del genere picaresco, nel 1562 viene pubblicato una sorta di “sequel”, “la
Segunda parte del Lazarillo de Tormes” anch’essa di autore anonimo come il primo libro. Altri testi
pubblicati furono “la Picarra Justina” pubblicata nel 1605 da Francisco Lopez de Ubeda che sempre
inspirandosi al “Lazarillo” ne scrive una versione femminile. Ultimo gradino del genere picaresco fu la
pubblicazione dell’opera “Estebanillo Gonzalez” composto da lui stesso e venne stampato 4 volte in
quanto ottenne un’ottima accoglienza tra i lettori tuttavia il vero autore del Estebanillo sarebbe uno
scrittore d’ufficio, Gabriel de la Vega personaggio reale, buffone del cardinale Ottavio Piccolomini. Lo
scenario dell’opera è la Guerra dei trent’anni e fu così che con l’”Estebanillo” il genere finiva per
fondersi con la realtà . Nel 1612 invece viene pubblicata la "Hija de Celestina" che appartiene al filone
della “Celestinesca” ossia filone a cui appartengono tutte le opere che si ispirano alla Celestina. Al
centro di quest’epoca letteraria vi sono infatti due focolai attorno ai quali si ritrovano gli autori: il
“lazarillo de Tormes” e “La celestina”. Intorno a questi due opere vengono realizzati “sequel” come nel
caso dell’opera anonima “La segunda parte del Lazarillo” e “la hija de Celesina”, storie che ruotano
intorno a personaggi o temi già presenti nella letteratura del tempo, o vengono realizzate opere che si
ispirano alle due precedenti e se ne creano di simili sulla scia di esse come “la Lozana Andaluza”. Le
correnti sono dunque la “Picaresca” e la “celestinesca.