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La prosa di Saba

Racconti
L’approccio di Saba alla prosa è assai più tardivo di quello poetico, e certamente più
marginale e Saltuario.
Il primo approccio alla prosa si ha nel 1907 con Sogno di un coscritto, nel quale già si nota un
forte distacco dall’ambiente familiare e dall’ebraismo in generale.

Le prime vere prose narrative sono databili tra il 1910-12, con il gruppo di 7 novelle Gli ebrei.
Se sul piano della poesia a quest’altezza Saba possiede già una voca strutturata, non si ha la
stessa maturità sul piano della prosa: si tratta di racconti di breve respiro, bozzetti di una
Trieste dell’800 (Trieste 1869), e rievocazioni di figure proprie dell’ambiente familiare
(L’ebreo intellettuale, Sofia e Leone Vita) e giudaico di quel tempo. L’ultima novella Ella gli
fa del bene presenta una migliore struttura e sembra anticipatrice della successiva serie di
sette novelle. Nella prefazione che Saba scrive alla raccolta nel 1952 l’autore mette in chiaro
il sentimento di anti-giudaismo alla base della stesura di questo racconto, quello di un uomo
di circa trent’anni che vuol distaccarsi dall’ambiente familiare con la volontà di costruirsi una
propria visione del mondo. L’ultima novella è ispirata a vicende familiari di Lina, e mira a
rappresentare la mancanza di sensibilità maschile di fronte ad un mondo femminile sempre
pronto ad adoperarsi per il bene del compagno.

Nel biennio della separazione da Lina 1912-13, parallelamente al “melodramma poetico”


Saba sviluppò un’analisi della vita di coppia in racconti più maturi, che riunì poi sotto il titolo
di Sette novelle. Una delle più riuscite è quella che dipinge la follia di Valeriano Rode che,
giunto alla follia, arriva a detestare moglie e figli, che abbandonerà cogliendo l’occasione del
licenziamento per rifarsi una vita senza di loro, lasciandogli metà della liquidazione. La
narrativa mira a mettere in luce il fallimento del matrimonio borghese e della involuzione di
alcune strutture mentali che esso provoca specie negli uomini.
Non solo i personaggi maschili svolgono ruoli negativi, nella novella un uomo il pittore
Scipio Ratta, innamorato della propria moglie Maria, viene tradita da questa per un artista, un
certo Nardi. Ratta si rassegna alla scelta della donna, e le chiede di posare ancora per lui fino

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all’ultimazione del ritratto in corso d’opera. Nel frattempo mantiene una condotta premurosa
nei confronti di Maria, facendo breccia di nuovo nel cuore: la donna prega di tornare insieme,
ma Scipio Ratta rifiuta da uomo, mentre Saba, che riaccoglie Lina, è un vile. Qui vediamo la
natura razionale dell’uomo, contrapposta a quella mobile, istintuale della donna: stesso tema è
presente in Numeri del lotto, dove la razionalità fredda e scientifica dell’uomo si scontra con
l’istintualità femminile, la quale di fronte alla prova dei fatti non riesce a trovare una buona
argomentazione a suo favore. In questi racconti Saba studia la psicologia dietro alle relazioni
fra i due sessi, e si vede l’influenza della lettura di Weininger di quegli anni (inferiorità della
donna e la volubilità del carattere ebraico. A detta del poeta la visione secondo cui l’amore
libero sarebbe stato in grado di risolvere il poeta risulta ingenua per una mente matura che
riconosce come a monte di ogni problema ci fosse la costituzionale distanza dei sessi, acuita
certamente dalla vita familiare. Le novelle non sono solo importanti nella loro
complementarietà al Canzoniere, ma in alcuni punti raggiungeva delle punte di grazie nella
narrazione breve al pari di altri autori giuliani, come Quarantotti Gambini o Stuparich. Tra
questi testi sulle dinamiche di amori coniugali che si disfano, ne trova uno nel quale si
illumina un altro tipo di rapporto, quello madre-figlio, La gallina. La novella ripercorre una
vicenda autobiografica, sotto lo pseudonimo di Odone Guaschi si cela il poeta. La storia è
livemente raccontata, in quanto come Saba afferma nella sua prefazione di Ricordi- racconti
egli afferma che di ritorno dall’impiego a seguito della prima paga, la zia Regina esigette la
paga, allora di risposta Umberto fuggì e spese l’interezza dello stipendio. Nella prima
redazione la madre assume il nome della zia, ma in quella finale viene presentata con il suo
vero nome, Rachele. Qui al rientro il ragazzo offre di sua sponte lo stipendio alla madre, la
quale, amorevolmente, glie ne lascia metà, con la quale Saba si compra una gallina, ricordo
della serena infanzia, e se la fa recapitare a casa. Si reca al lavoro, ma al suo ritorno la madre
ha ucciso e spennato la gallina, e minimizza quel fraintendimento. Il racconto si conclude con
l’affermazione dell’autore, che da quel giorno avrebbe amato sempre di meno la madre. Qui
la nota interpretazione di Lavagetto: la gallina rappresenta il totem, una felicità inattingibile
nel momento in cui gli altri, proprio quelli che dovrebbero più amarci, la distruggono.
Troviamo un raccordo con A mia moglie, di poco precedente, nel corso della novella stessa:
Odone amava ascoltare il canto dei pollai, delle galline, amava di meno il gallo. Una passione
per un animale normalmente associato ad una dimensione puramente gastronomica che lo

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stesso ragazzo non sarebbe stato in grado di spiegare a parole. Qui l’animale non è termine di
paragone con Lina, ma assume ruolo di mediazione nel suo rapporto con un altra donna che
aveva inciso negativamente sulla vita infantile e adolescenziale del poeta. Qua il valore
terapeutico della narrativa sabiana raggiunge il suo culmine con l’esorcizzazione di un
dramma adolescenziale al quale conferisce anche valore eziologico nel momento in cui vede
in esso la radice del proprio turbamento. Abbiamo poi il leopardiano L’interpretazione in cui
la mediocre esistenza di una cucitrice con la passione per il canto, ma priva di sufficiente
talento, si nutre dell’illusione di divenire una grande cantante (la sua ambizione la rende
antipatica a tutti, e in lei nasce l’insofferenza verso gli uomini, motivo per cui resterà zitella).
Scritto a Bologna La guerra in sogno, contemporaneo a veduta di collina con la quale
condivide ambientazione e immagini. Saba sogna di essere un soldato nella prima guerra
d’indipendenza italiana. Appostato ai piedi di una collina, vede un nemico passare, ma
nonostante fosse un gran tiratore, tergiversa nel tirare, fantasticando su chi fosse l’uomo, e
cosa questi rappresentasse per la sua famiglia e sua madre, per questo motivo, preso alle
spalle, viene punito dalle risa e dal piombo dei nemici.
Le novelle si concludono con Come fui bandito dal Montenegro, rievocazione di un viaggio a
piedi fatto dieci anni prima con un amico in Montenegro, e in particolare del contenzioso con
un ospite che aveva presentato loro un conto eccessivamente esoso, e che era terminato con
l’intervento della polizia e la loro espulsione dal paese1.

Allo stesso periodo risalgono altre due novelle: Lissa e Ferruccio. La prima ispirata alla
celebre battaglia navale, che terminò con una sconfitta, della quale il poeta provava vergogna
da ragazzino, pretesto per ripescare un altro ricordo di matrice autobiografica, risalente al
periodo del servizio militare a Salerno, in una nuova esaltazione dell’umanità e della lealtà dei
soldati italiani. Ferruccio racconta la disperazione di una famiglia che non trova il proprio
figlioletto nel letto, quando questi, candidamente, si era allontanato nella notte solo per
pescare. Questa novella doveva essere, nei piani di Saba inclusa nelle sette, ma al momento
della redazione di Ricordi-Racconti, nel 1956, Saba non avrebbe ritrovato il manoscritto.

1 Saba attinge i suoi ricordi da un articolo Montenegro comparso sul «Lavoratore», nel quale egli
riserva particolare attenzione ai canti popolari, che, a suo dire, rievocherebbero la malinconia
dell’ascolto di Chopin. Nel racconto l’interesse antropologico verso i canti si fa più sfumato, ma fa da
sfondo alla vicenda.

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La prosa di Saba, per quanto fosse a breve respiro, deve ben poco alle correnti maggioritarie,
vale a dire quella verista e la frammentaria novellistica vociana. Nella sua introspezione
psicologica la narrativa di Saba può avvicinarsi a parte della novellistica di Pirandello, o a
quella del concittadino Svevo.

Filo rosso della prosa di Saba è il tema della memoria, ben evidente quando, a distanza di
molti anni, nel 1946 si riaccosta a questa forma espressiva, quanto scrive, a Milano, Tre
ricordi meravigliosi. Il primo è la rievocazione dell’incontro con D’Annunzio in Versilia,
dell’elogio, e della promessa non mantenuta, che descrive alla perfezione il carattere
narcisista e fatuo dello scrittore. In questo periodo rievoca figure proprie dell’infanzia e del
panorama familiare come in Tommaso Salvini e il mio terribile zio (protagonista del racconto
giovanile Il fratello Giuseppe). In ultimo egli concepisce in questo periodo, come si evince da
una lettera a Lina, Italo Svevo all’Ammiragliato britannico, che si riferisce al più grande
affare, a detta di Svevo, della sua vita da uomo di affari: l’accordo per la fornitura alla Reale
Marina Britannica di un ingente quantità di vernice per sottomarini prodotta dalla sua azienda.
Qui la gioia bonaria di Svevo per l’affare concluso è paragonata all’arrivo per Saba per
l’ormai non più sperata consacrazione poetica. Saba nelle sue righe ci descrive, con affetto, i
tratti caratteriali di Svevo, una coniugazione di ironia, affabilità e genio.

In seguito Saba fece sempre meno uso della forma narrativa del racconto breve, ma in punto
di morte, su sollecitazione della figlia scrisse magistralmente Polpette al pomodoro, nel quale
il poeta parte dall’elogio delle magnifiche polpette cucinate da Lina per arrivare a parlare di
una immaginaria cena con Leopardi. Egli stesso fece la sinossi del racconto, ma troviamo
alcune discrepanze fra epistola e redazione finale: la descrizione dell’arrivo del Leopardi è
assente nell’epistola; nella redazione finale manca l’accenno alle controversie con Manzoni;
la descrizione del vestire di Leopardi non corrisponde; il motivo per cui il poeta se ne va è
diverso, nella lettera egli se ne va come fantasma quando Saba accenna a cosa era successo
negli anni della sua assenza, nel testo egli scompare quando Saba questiona la scelta di
accostare nel Sabato del villaggio rose e violette (come già Pascoli), così Leopardi scompare
come per fuggire ad una richiesta di auto-esegesi.

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Il teatro
A Trieste la vita teatrale era assai vivace: lo vediamo nell’entusiasmo dei fratelli Schmitz (uno
dei quali sarebbe divenuto Italo Svevo), così come Saba esplicita la sua passione per il teatro
in un passaggio di Ernesto.
Alfieri, Schiller, e Shakespeare, ma, quando si parla di teatro non bisogna dimenticare quello
in musica, il melodramma, da quello verdiano alla Carmen Bizet (che notoriamente fa sfondo
a Trieste e una donna), il Mefistofele di Boito (ricordato in Ernesto). Saba, come ci racconta
Debenedetti nel 1928, si sarebbe cimenteato in gioventù nella scrittura di drammi. Di questa
prima fase di teatro sabiano sopravvivono soltanto due atti di una tragedia, nella quale
emergono temi tipici della sua produzione, quale il travagliato rapporto con la madre,
l’assenza del padre e la figura della nutrice. Nel 1907, come dice a Debenedetti, Saba
compone altre tre tragedie (Il Masaccio, La giovanezza di Vittorio Alfieri, Giacomo Leopardi)
delle quali ad oggi non se ne ha traccia.

Al 1911, in occasione di un concorso bandito dal teatro Minimo di Trieste, Saba compone un
atto unico in sette scene, Il letterato Vincenzo, rappresentato nel 1913 presso lo stesso teatro,
che fu un fiasco completo. Il testo segue lo schema del teatro naturalista, e si fonda sul
triangolo amoroso con protagonista, moglie e una rivale: riecheggia la crisi e la separazione
da Lina di quegli anni, ribaltando tuttavia la situazione del tradimento, e concludendo con una
definitiva separazione dei protagonisti, con una trama fragile che in si accosta in certi punti a
quella di Un uomo, Ella gli fa del bene e a L’interpretazione. Vincenzo è uno scrittore sposato
con Lena (richiamo palese a Lina), ma convive con la scrittrice Bianca. Un giorno Lena torna
da lui in assenza di Bianca, poiché, essendo malata vuol lasciare a lui la figlia Paolina.
Vincenzo coglie l’occasione per dirle che continua a pensare a lei, e anche la donna, che lo
rimprovera per averla soppiantanta con una donna a lui utile per la carriera, confessa la
reciprocità della cosa. Qui Vincenzo rivela la sua superficialità dicendole che non l’aveva più
cercata in quanto distratto dalla conversazione con un altro letterato, divenuto poi suo
segretario: Lena riprende Paolina e lo lascia definitivamente2, poiché comprende che Bianca è
stata conosciuta dal poeta solo a seguito della separazione, e sarebbe, quindi, un semplice
ripiego, non la causa della separazione: questo rende Vincenzo un cattivo uomo.

2 Secondo Paolo Ferraro il testo avrebbe preso la mossa da La piccola fonte di Roberto Bracco.

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L’impianto narrativo è impacciato, elementare, si può dire legnoso, troviamo all’interno di
questo tentativo teatrale gran parte dei temi di Saba. Primo fra tutti il binomio Bianca Gallo,
Lena docile gallina, richiamo alla poesia A mia moglie. Dal punto di vista teatrle l’epilogo
non era all’altezza del crescere della tensione risultando deludente.
Saba abbandona il teatro riconducendo questi componimenti a dei semplici tentativi in età
giovanile. Si cimenterà in una sua versione del Macbeth negli anni ‘30, ripresa nel ‘47, ma
mai portata a termine, così come la sua versione dell’Agamennone, iniziativa che prese avvio
nel ‘45, ma della quale ci resta solo traccia in una lettera a Linuccia.

Scorciatoie e Raccontini
Si tratta di una raccolta di sentenze e pensieri di Saba dove il confine fra poesia e prosa si fa
assai labile. La dimensione narrativa dell’aforisma, che aveva notato nell’opera di Nietzsche,
iniziò ad essere di grande attrattiva per Saba tra il 1934-35, a questo tempo risale quel gruppo
di testi che prende il nome di Scorciatoie. Al momento di lasciare Trieste dopo l’otto
settembre del 1943, quando Saba sarà costretto a lasciare Trieste a causa delle persecuzioni
lascerà quei fogli nelle mani sicure di Quarantotti Gambini: le scorciatoie, per ammissione
stessa di Saba, erano al tempo impubblicabili a causa di numerosi componimenti politici, vale
a dire con riferimenti a temi scottanti nel tempo, quali la guerra in Etiopia. Lasciò così il
volume all’amico quando l’Italia, con l’invasione dei tedeschi, non fu più un luogo sicuro,
avendo cura di togliere nella copia che consegnò all’amico tutti quei componimenti più
compromettenti, in modo che, se mai avessero trovato in casa dell’amico tali scritti, costui
non ne sarebbe rimasto danneggiato.
Gran parte della genesi dell’opera risale alla primavera del ‘45, in virtù di una ripresa di
ispirazione, ma il fascino dell’aforisma lo aveva parzialmente distolto dalla poesia fin dal
primo balenargli nella mente durante gli anni Trenta.
Saba definisce Scorciatoie e raccontini le sue operette morali, chiaro riferimento a Leopardi,
ma non sono tali sul piano stilistico, in tal caso sarebbe stato più opportuno scegliere la forma
dei Pensieri, lo sono in quanto una riflessione filosofica parallela e talvolta sostitutiva
all’ispirazione poetica. La forma della scorciatoia ha come vantaggio quello di poter condurre
una meditazione, dar voce alla propria urgenza di riflessione, senza la necessità di dover
costruire un vero e proprio sistema di pensiero, come sono soliti fare i filosofi. Elena Salibra
afferma che in questo componimento l’arte di affilar sentenze si intreccia ad uno stile

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frammentario privo di presunzione dottrinaria, che procede a tappe attraverso intuizioni
provvisorie, dunque aperte possibili ripensamenti.
Saba si affida ad un genere non molto frequentato della letteratura italiana, per quanto fosse
comune in Francia. La sua principale rimonta fu, tuttavia, senz’altro Nietzsche. Lo stesso
autore non si fece scrupolo nel confessare la matrice di tale ispirazione nella scorciatoia 150
intitolata Nietzsche-Freud. In tale scorciatoia Saba c’entra l’intero dibattito del suo tempo
attorno alla responsabilità di Nietzsche sulla genesi dell’ideologia nazista, nata
dall’interpretazione e misinterpretazione del poeta. Oltre a ciò essa indica negli aforismi di
nitzchiani di Aurora una fonte d’ispirazione nella scrittura di Scorciatoie: in tale raccolta
Nietzsche avrebbe iniziato a porre i fondamenti per la sua critica alla morale comune
sviluppata sistematicamente in Al di là del bene e del male. Saba trova un riscontro con la sua
insofferenza per la mentalità borghese e al proprio anticonformismo. Non da sottovalutare il
fatto che Saba abbinasse al nome di Nietzsche quello di un altro innovatore, ossia Freud. A
tale binomio Saba ascrive le proprie considerazioni (la scorciatoia 61 è dedicata a Freud, la 21
espressione in forma di massima del determinismo freudiano, e importantissima la 165,
epilogo nella quale egli individua nel binomio Nietzsche-Fred la genealogia di Scorciatoie).
Questa è l’ispirazione dal punto di vista dei contenuti, dal punto di vista dello stile
l’ispirazione è Nietzsche, con particolare attenzione, leggendo Grafia di Scorciatoie, sugli
aspetti grafici e tipografici della sua prosa aforistica. E si sottintendevano in una serie di
fenomeni stilistici, in una scrittura fitta di incisi, la ricerca di brevità e al tempo stesso di
frammentarietà, che rappresenti l’asistematicità del pensiero.
Spesso lo spunto per le Scorciatoie veniva dall’attualità come dimostrano quelle riferite a
Mussolini (che Saba considerava uno statista mediocre non in grado di fronteggiare il corso
degli eventi) e al nazi-fascismo (regresso dell’umanità). Più volte nel corso della trattazione
si è parlato di antisemitismo di Saba, per cui è importante comprenderne lo statuto, che nasce
come una volontà di distacco dal mondo di valori della sua gioventù, e che si consolida con la
lettura di Weininger, ma che non ha nulla di autenticamente razzista. Vero che la persecuzione
fece maturare in lui un senso di repulsione verso un gruppo etnico dal quale si sentiva ormai
distante, e del quale non voleva in alcun modo, sempre di più far parte, ma egli ripudiò
sempre la persecuzione: nel 1948 fu tra i primi a riconoscere il valore di Se questo è un uomo
di Primo Levi, e volle esprimere in forma epistolare, sebbene non lo conoscesse la propria

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solidarietà; con la scoperta degli orrori del primo campo di sterminio scoperto, quello di
Maidaneck (5; 26; 49; 87), Saba avverte una perdita di senso di ogni cosa, e le vecchie gioie
non sono più tali (anticipando la celebre affermazione di Adorno secondo la quale dopo
Auschwitz scrivere poesia sarebbe stata una barbarie, ed è come se Saba stesso contenesse i
propri spunti poetici a riguardo venissero assorbiti nella forma di scorciatoia, e come afferma
Ruozzi, assumono valore terapeutico).
Esse sono sorelle di Mediterranee che nascono da un rilancio dell’ispirazione dovuto ad un
nuovo amore per l’umanità in grado di fagocitare lo sconvolgimento della scoperta dei Lager
nazisti, a seguito di un periodo assai difficile per il poeta.

Il libretto accoglie inevitabilmente alcuni pensieri sulla letteratura: Dante, Petrarca, Parini,
Foscolo, Leopardi, Carducci, Proust, Montale e Svevo sono i nomi di autori attorno ai quali si
incentra la riflessione di Saba. Altre sono una critica a Croce, alla sua estetica e della sua
vicinanza all’ideologia dominante nel corso del Ventennio fascista (3).
Le Scorciatoie come scrive Sereni hanno un carattere più propriamente poetico che razionale,
notiamo infatti una vicinanza al tono di Ultime cose, Varie o Poesie della vecchiaia. Nel 1946
esce il libro composto da cinque serie di scorciatoie, pubblicate nei 6 mesi precedenti sulla
rivista la Nuova Europa, più una di raccontini, vale a dire scorciatoie che si erano estese nella
loro forma fino ad assumere un vero e proprio carattere narrativo. Fu Debenedetti a far notare
questa eterogeneità a Saba, e nasce così il titolo della raccolta, importante nella storia
dell’aforisma in Italia, e certamente più grande manifestazione di questo genere letterario nel
‘900.

Storia e Cronistoria del Canzoniere


Saba, a differenza di Montale non fu mai un grande critico letterario: si limitava a supportare
l’opera di autori a suo parere ingiustamente messi da parte, o a sostenere un giovane
conterraneo amico, come Quarantotti Gambini e il suo romanzo L’onda dell’incrociatore
(1947) del quale Saba ideò il titolo, un illuminazione come fu per lui ai suoi tempi quello di
Serena disperazione.
Nonostante il suo narcisismo Saba fu molto generoso nell’aiutare i giovani scrittori che
stimava.per quanto riguarda le sue recensioni le tue importanti si contano sulle dita di una
mano: sono da ricordare quella giovanile alle poesie di tutti i giorni di Marino Moretti uscita

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sulla voce nel 1911 dove emerge per la prima volta la grande distanza tra la poetica di Saba e
quella dei crepuscolari; poi la bella la recensione al Diario d’Algeria di Sereni, nel 1947, che
mette in luce la novità del linguaggio lirico del giovane.
Importanti sono anche due interventi a favore della psicanalisi freudiana: il primo, nel 1946,
che si poneva in polemica con Croce, un testo piuttosto ingenuo a livello di struttura; il
secondo, risalente all’anno successivo, a margine di un libro pubblicato da Emil Ludwig. A
prescindere dagli esiti di questi due terzi, che abbiamo visto essere piuttosto parziali, è
significativo vedere come stava abbia ritenuto giusto schierarsi in favore di quella che
riteneva essere una delle più grandi scoperte mai fatte circa l’animo umano.
La riflessione critica di Saba era incentrata principalmente sulla propria arte. Nel 1911 egli
proponeva alla Voce un saggio dal titolo Quello che resta da fare ai poeti, che non venne
pubblicato dal concittadino Slataper, forse perché si trattava di una dichiarazione di poetica
allora inattuale, sebbene da lui condivisa, troppo in anticipo sui tempi.
Nel saggio, forse è mosso dal desiderio di rispondere e reagire alla stroncatura nella
medesima del suo primo volume Poesie, sosteneva le ragioni di una poesia onesta, sentita e
veritiera, contraria lo stile atteggiato e retorico prevalente. Evidente segno del superamento di
Saba della infatuazione per la poesia dannunziana, che lo aveva indotto in giovane età ad
imitarlo addirittura nei modi e nel vestire. Nel saggio egli afferma di preferire ai diversi
melodiosi, ma artificiosi, di D’Annunzio quelli brutti ma sinceri del Manzoni degli Inni sacri
e del coro di Adelchi. L’invettiva anzi dannunziana era contro corrente nella voce poteva
vedere un modello poetico passatista come il Manzoni degli Inni sacri. Carlo Bo, in
proposito, ha sottolineato che un’indicazione di candore era il ricevibile in quanto erano
emergenti le avanguardie, con il loro fare forzatamente spettacolare. Quello che vuol fare
Saba è opporsi a questa, che ai suoi occhi, è una deriva, convinto che poetiche costruite e
poco sincere rischiassero di sminuire la vera poesia. Così Saba porta un esempio di critica
genetica di un componimento intitolato il Sogno, poi estromesso dal canzoniere, una ricerca
della pura verità che passa per la rimozione di tutte le suggestioni di reminiscenza letteraria, o
per influenza del ritmo: unico obiettivo la verità interiore e di conseguenza verso il lettore.
Questa propensione all’autoriflessione ha fatto sì che egli si cimentasse nel proprio auto
commento, noto come Storia e cronistoria del Canzoniere pubblicata da Mondadori nel 1948,
testo che rende conto al lettore delle circostanze e del movente della stesura di molte poesie

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del suo libro maggiore. Negli stessi anni Montale, avvertendo il bisogno di commentarsi
pubblicamente, escogita l’espediente dell’Intervista fittizia (o Intervista immaginaria) in cui
le domande dell’intervistatore sono sostituite da una serie di punti di sospensione. Il
discorsivo commento d’autore di Saba prende la forma di una trattazione redatta da un
fantomatico Giuseppe Carimandrei e dedicata al suo più grande critico, Giacomo Debenedetti.
L’idea di questo saggio nacque nella Firenze appena liberata nell’autunno del 1944, come
reazione dello studio di Saba pubblicato in due puntate da Bruno Shacherl, fra il ‘42 e il ‘43,
su Letteratura, in cui il poeta non si riconosceva affatto, sentendosi bistrattato. L’idea, tuttavia,
rimonta tempi più lontani, già da tempo infatti Saba aveva accarezzato più volte l’idea di fare
una propria auto esegesi, che in questa occasione trasformò in un commento ragionato. Nella
conclusione del libro e chi si prendeva lo spazio necessario confutare i pronunciamenti di
Shacherl, ma soprattutto quelli più riduttivi, ma più influenti, di Alfredo Gargiulo, allegando
per contro gli interventi favorevoli di Piovene e di Quarantotti Gambini. In tale occasione
Saba confuta definitivamente quei giudizi critici, duri a morire, che lo inquadrano fra i
crepuscolari, o che lo vedono discendente da un filone minore di poesia ottocentesca (da
Lorenzo Stecchetti, agli scapigliati, a Vittorio Batteleoni, o addirittura a Tommaseo).
Saba ribadisce anche il ripensamento intorno alla radice petrarchesca della propria poesia, che
egli stesso aveva indicato scrivendo nel 1919 la prefazione al suo primo Canzoniere.
L’antitesi fra poesia onesta e mistificatrice che aveva originariamente contrapposto il Manzoni
degli Inni sacri a D’Annunzio si propone con un’evidenza maggiore negli archetipi di Dante e
Petrarca: in quest’ultimo Saba individua l’esempio del poeta elegante ma falso, divorzio fra
vita e poesia, mentre nel verso dantesco percepisce un modello più vicino, perché meno
levigato ma più immediato e non rivolto esclusivamente alla parola pura, ma sintonizzato con
il sentire intimo del poeta. Il petrarchismo diviene, come espressamente detto nella prefazione
alla prima edizione di Mediterranee, un male europeo per estensione ma italiano alle origini,
di cui Saba afferma di aver sofferto in adolescenza e nella prima gioventù, un fenomeno
dilagante nella poesia del proprio tempo. In una lettera a de Roberti s’del 22 settembre 1946
ritratta quanto affermato in gioventù, quando, senza pudore, affermava l’assoluta prevalenza
dei valori petrarcheschi su quelli danteschi, che sarebbe come dire che una candela emana più
luce e calore del sole, immagine che riprende anche in Storia e cronistoria. Assistiamo,
dunque, ad una vera e propria demonizzazione del Petrarca che diviene anche il prototipo del

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poeta asservito al potere3, contrapposto al Dante integerrimo, e, in due delle sue scorciatoie
(12e 13) così come in un passo di Poesia, filosofia e psicanalisi, che si pone in polemica con
Croce, egli vede alla base dell’amore di Petrarca un celato complesso di Edipo. Questo
ribaltamento nei confronti di Petrarca e accompagnato da una rivendicazione della poetica
vera in apertura al saggio, e a margine del Piccolo Berto scrive che i versi rasotterra non sono
i più difficili, ma i più rari.
Di conseguenza di spiega anche la polemica contro l’obsucurisme dei poeti francesi, come
Mallarmé e Valéry, allora assai in voga: una poesia oscura e vaga è una poesia che non vuole
addentrarsi nella profondità dell’animo, per cui complicare le cose significherebbe
nascondersi. Essi erano dunque forieri di menzogna allo stesso modo di D’Annunzio e degli
ermetici poi, fautori di una parola tanto altisonante quanto fallace.
La scelta di inventare un narratore fittizio non mirava ad ingannare il lettore, come Saba
stesso dichiara nella prefazione: si trattava di una mera finzione diplomatica, egli non ha mai
avuto l’intenzione di nascondere la propria identità, anche perché, ammettendo che volesse
farlo, egli non avrebbe mai potuto, essendo il saggio ricco di particolari di fatti che solo il
protagonista delle vicende poteva conoscere. Lo schermo dell’interposta persona a degli
importanti riverberi sul piano stilistico: in primo luogo il parlare di sé in terza persona. È
evidente, inoltre, che Saba volesse calarsi nelle forme proprie della scrittura accademica,
motivo per cui Carletto Cerne gli diceva scherzando che tale libro era la sua tesi di laurea,
immagine della quale il poeta sia proprio riproponendola nella sua prefazione. La lettura della
sua poetica, tuttavia, è tutt’altro che imparziale, spesso e tendenziosa ed è dunque da prendere
con cautela. Per come èorganizzato il saggio, esso viene ad acquisire quasi il senso di
un’autobiografia scritta immagini delle poesie. Se il Canzoniere fu il romanzo in versi della
vita del poeta, il saggio che ne faceva storia e cronistoria non poteva che ripercorrerne le varie
fasi toccando, sporadicamente, quasi tutti i temi cruciali dell’esistenza di Saba, della passione
per il violino, alla figura della balia, al rapporto con la famiglia. Talvota il taglio si fa
aneddotistico come quando parla di Guido, uno dei ragazzi di Saba che troviamo nella Serena
disperazione, o in riferimento alla morte della vecchia balia.
Non è comune che il poeta ci dia la chiave esegetica, come fa con A mia moglie che viene
definita una poesia religiosa e al tempo stesso infantile (pulsione erotica non riflessa), che,

3In una lettera a Vladimiro Arrangio Ruiz datata 1948 egli afferma che “non c’è dubbio che il Petrarca
avrebbe scritto il suo bell’inno al Duce, pur sapendo di cosa si trattava”.

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sebbene accosti alla moglie gli animali da cortile nulla ha di misogino, sottolinea
semplicemente la maggiore genuinità dell’agire femminile nella sua innocenza.

Ernesto: il romanzo
Il romanzo incompiuto di Saba fu tardivo, nato fra maggio e settembre del 1953, perlopiù
durante il periodo dei ricoveri in clinica, prima a Roma e poi a Gorizia, a causa della sua
sindrome depressiva; venne definitivamente abbandonato due anni dopo, quando,
impossibilitato (scritto il quinto capitolo dovette cedere al decorso della malattia) a
concluderlo Saba chiese alla figlia di distruggerlo.
Il romanzo è ambientato nella Trieste del 1898, con forti atmosfere danubiane. Il romanzo
parla della scoperta dell’eros da parte dell’autore: probabilmente si volevano mantenere le
linee parallele fra iniziazione omosessuale ed eterosessuale, e primi amori (Ilio e forse
un’altra figura femminile appena accennata). Importante anche la figura della madre, che a
livello descrittivo appare antagonistica ad Ernesto, per quanto somigliante: una madre gelosa,
della balia e della zia, e anaffettiva. Il padre è assente, e demonizzato dalla madre: Saba
giustifica così freudianamente l’attrazione verso gli uomini. La prostituta è l’anti-madre e
riecheggia invece la figura della balia.
Abbiamo poi un giovane Saba che ha già le proprie convinzioni politiche: è infatti convinto
socialista, distaccandosi dalle idee proprie dell’ambiente familiare, e mettendosi così in
contrasto con lo zio Giovanni (Giuseppe nella realtà). Ernesto ha le sue prime esperienze con
un uomo di bassa estrazione sociale, il quale, una volta abbandonato, vede nel divario sociale
la causa dell’abbandono di Ernesto, quando, in realtà, probabilmente il suo essere umile
sarebbe stato di attrattiva per il giovane. Allo stesso tempo esso è anche causa indiretta del
logoramento del rapporto, in quanto Ernesto non trova in lui un qualcuno in grado di saziare il
suo bisogno di cultura e di un mentore, che potesse sostituire l’assente figura paterna.
Ernesto è fedele alla poetica del vero, che non gira attorno alle cose, ma che va dritta al punto,
che siano cose sublimi o deplorevoli. Non è un decadente, è un primitivo che agisce con
innocenza, senza secondi fini, in questo senso Ernesto è puro. Una purezza che non viene
compresa dalla morale comune, rappresentata dalla madre, che non comprende razionalmente
il comportamento del figlio, quando avrebbe dovuto ricondurre il comportamento del figlio
all’assenza di una figura paterna e alla sua eccessiva severità (evidente l’impostazione di Saba
che attinge dal determinismo freudiano di Weiss). Non è improbabile che per dare nome al

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proprio protagonista Saba si sia ispirata a The importance of beeing Ernest, titolo dell’opera
di Oscar Wilde che gioca sull’omofonia fra Ernest e honest.
Il romanzo si sarebbe dovuto concludere con l’approdo all’età adulta, passando per l’ambigua
amicizia con Ugo Chiesa (facile scorgerne i tratti in Ilio), e per l’innamoramento dei due per
la stessa ragazza.
Per quanto l’ambientazione Triestina sia evidente essa resta sfumanta, di carattere più
connotativo che descrittivo (“Trieste è bella”) e ciò aiuta a conferire all’insieme del racconto
una dimensione onirica. La dimensione di sogno di un’uomo che, giunto ormai al tramonto,
riscopre la sua gioventù, abbracciando nella propria vita la filosofia nietzchana dell’eterno
ritorno.

Epistolario
Al momento non possediamo una redazione completa dell’epistolario di Saba, che a lungo
Linuccia ha promesso di redigere, e dopo di lei la sua erede Raffaella Acetoso: ora delle oltre
duemila lettere a Linuccia ne abbiamo solo 100 in raccolte sparse. Saba fu un epistolografo
prolifico e di grande eleganza. La scrittura epistolare di Saba meriterebbe uno studio a sé, ma
ciò sarebbe possibile solo con un’edizione integrale di tale produzione. Il tono è il solito,
piuttosto lamentoso, che lo diventa sempre di più con l’acuirsi della nevrosi.
Particolarmente intense sono le epistole familiari, già dalla prima da fidanzati inviata a Lina
nel 1905, dove accenna alla volontà di suicidio.
Abbiamo dei ritratti interessanti, come quello di Svevo nella lettera a Nino Curiel.
Talvolta si abbandonava a brani di critica superficiali, ma rivelatori della sua intelligenza di
lettore, come quello in una lettera a Linuccia del 1947 su Carlo Levi.
Spesso descriveva dettagliatamente i propri sogni, come fa nella lunga lettera a Debenedetti
del 1927, a dimostrazione di come egli desse grande importanza all’interpretazione onirica
anche prima di entrare in terapia da Weiss.
Interessanti le aperture all’argomento politico come nella lettera che scrive a Lina nel 1948 a
seguito della sconfitta del Fronte popolare a favore della democrazia cristiana (dittatura dei
preti). Nelle ultime lettere, lagnose a causa dell’acuta depressione, ci sono degli slanci, come
in quella del 1956 a Nello Stock, dove Saba, in un moto di empatia, partecipa alla pietà di
Cristo uomo, solo, abbandonato da tutti tranne che dai suoi carnefici.

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