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MARINO MORETTI

Studente: Apetrei Andreea-Alexandra


Anno: III
Gruppo: Rumeno-Italiano
Marino Moretti nasce il 18 luglio del 1885 a Cesenatico, da Ettore,
impiegato comunale, e da Filomena, insegnante elementare. Dopo aver frequentato
la scuola primaria proprio nella classe della madre, nel 1896 viene iscritto
all’Istituto “Sant’Apollinare” di Ravenna, che lascia dopo appena un anno a causa
degli scarsi risultati. Passa dunque al liceo-ginnasio “Vittorino da Feltre” di
Bologna, che abbandona nel 1900 senza però riuscire ad ottenere la licenza
ginnasiale. Disse anche che la sua poesia non era tale ma era solo prosa-poesia...
salvo poi possedere un felicissimo senso per la rima, metriche perfette, capacità di
mettere in verso temi lontanissimi o forse sino ad allora ritenuti totalmente
inconciliabili con una intonazione lirica. La scrisse "col lapis" – per dire che
potevano anche essere cancellate - ma sono rimasti incancellabili nella memoria di
generazioni di lettori.
Ebbe il marchio di "crepuscolare", ma la luce di alcune immagini poteva
risultare folgorante; e la sua "poetica delle cose" non trascurò il senso più profondo
e recondito di quegli oggetti della sua poesia. A poco più di trent’anni dichiarò
anche che non avrebbe più scritto in versi, smentendosi brillantemente, superati gli
ottanta, con quattro raccolte uscite nella collana mondadoriana dello Specchio. E
finalmente malinconia fece rima con ironia.
Laico, sì, ma della misericordia, fu definito. E la bontà dei sentimenti talora
improvvidamente ravvisati nell’uomo e nei suoi personaggi, fu in realtà un demone
che mordeva lui e le sue creature pronte a rivelare le “molte unghie nascoste nel
suo velluto”.
Ritrosia e riservatezza sembravano connotazioni non coniugabili con il numero di
amicizie, non solo letterarie, che seppe stringere lungo l’arco di quasi un secolo
d’esistenza. Non si legò mai a una donna, ma seppe fare ritratti perfetti dell’anima
femminile. Moretti decise di assumere in bella evidenza il motivo "del doppio",
mai scegliendo fra intimo e realistico, umile o pretenzioso, provinciale ed europeo
ante-litteram. Essere, appunto, ricchi o poveri, forti o deboli, belli o brutti, adulti o
bambini, femmine o maschi, dei suoi personaggi, era motivo per comprendere
complessità e, in fondo, semplicità dell’esistenza. Il linguaggio della poesia e
quello della prosa scorre parallelo nell'opera di Moretti con la conseguenza della
scelta di una lingua molto vicina al parlato che si limita alla semplicità di una
comunicazione piccolo-borghese fino a giungere alla cantilena infantile e alla
cadenza ripetitiva con l'utilizzo di parole della quotidianità.Lo stile è pertanto da
ricercare nei moduli crepuscolari ma anche in un usus scribendi molto personale
con il ripetersi di termini e stilemi maggiormente elevati.Tra gli elementi distintivi
dello stile morettiano persistono le parole-cose che servono a determinare in modo
preciso gli oggetti oltre l'uso costante di diminutivi, di sostantivi e aggettivi che
vogliono indicare il grigiore, la noia, la malinconia. Si aggiungono inoltre tutti quei
termini tipici dell'infanzia legati al mondo della scuola, dell'amore materno e
dell'uso domestico che ricordano l'ascendenza pascoliana.
Il Moretti non ha grandi qualità di composizione. Concepisce il romanzo, o
la novella, come lo svolgimento, quasi sempre discendente, d’un semplice tema cui
basti provvedere di risalti e chiaroscuri indispensabili, e non già come
un’architettura di forze in opposizione. È un melodista, nel comune senso del
termine. Qualche volta s’è provato in un giuoco più complesso: nell’Isola
dell’amore (1920), trasportandosi in un’atmosfera un po’ arteffatta di commedia
fantastico-sentimentale, e nei “Due fanciulli” (1922), con uno sboccio di passione,
chef a di questo libro uno degli esempi più ragguardevoli della nostra narrativa
contemporanea. Ma nel “Segno della croce” (1926), egli ha ripreso in tutto le sue
abitudini.
Il taglio del libro fa pensare alle redelle d’altare nelle quali son schierate, una
accanto all’altra, figurine di martiri e di santi, come se qualcuno debba passarle in
rivista in un corridoio dove soltanto con qualche industria si evita di batter il capo
nel soffitto. “ E la figura, qui, è sempre della stessa persona, a tanti momenti della
sua carriera mortale: Delicati Clarice, una seguance di Santa Zita, protettrice,
come tutti sanno, delle povere serve.”1 . E par quasi di identificare Clarice con la
santa: una Santa Zita senza aureola, fra marmitte e grenate, per isbaglio o per burla
indotta in tentazione, una volta , perfino incinta, più e più con gli anni vilipesa e
più vicina a quello che lo scrittore assume come ideal tipo d’umanità.
Ripercorriamo la poetica di Moretti, prendendo in considerazione le sue raccolte di
versi più importanti. Partiamo da “Fraternità” (1905), opera dedicata al “fratello
morto” ed alla “madre viva e piangente”. Qui domina l’ambientazione pascoliana,
con al centro gli affetti domestici, il legame indissolubile, naturale con la madre,
l’opposizione crudele, a tratti agghiacciante fra la casa-nido ed il mondo esterno.
Nei poemetti contenuti nella “Serenata delle zanzare” (1908) le tematiche
cambiano, si abbassano, si degradano, quasi si logorano, orientate verso l’adesione
silenziosa e colpevole alla diffusa mentalità piccolo-borghese, da “romanzo
d’appendice”. I finali dai sentori favolistici celano una macabra ricerca di crudeltà
ed orrore.
La poesia di Moretti nasce da una condizioene di totale inappartenenza ed
estraneità ai modelli culturali vigenti, al febbrile universo letterario della
modernità, con il quale, da giovane provinciale, si trovò a confrontarsi nella
Firenze dell’inizio del secolo. Egli iniziò guardando soprattutto a Pascoli,
cercando, attraversi di lui, un linguaggio dell’intimità, delle cose, alcuna ricerca di
sensi nascosti e segreti, ed eluse qualunque richiamo dedl classicismo. Nelle tre
raccolte pubblicate tra i 1911 e il 1915 riuscì a dare voce a una condizione
particolare segnata dal non avere, dal non sapere, sal non essere: “ Moretti si vuole
poeta proprio perchénon partecipa al dibattito culturale, non possiede mezzi

1
Garzanti, “Storia della Letteratura Italiana, Il Novecento”, Nuova Edizione Accresciuta E Aggiornata Diretta Da
Natalino Sapegno, pag.302
tecnici,né capacità di vita, non ga né “remo” né “ali”, non ha letteralmente niente
da dire”.2
Le “Poesie scritte col lapis” (1910) sono percorse dalle tipiche atmosfere
crepuscolari, atmosfere impreziosite dal tocco lieve e pregiato di Moretti:
immagini di donne appassite dalla carezza inesorabile e grave del tempo; piccoli e
chiusi ambienti di provincia; la quotidiana noia incolore; ansie ed insoddisfazioni
represse, laceranti, mali privi di cure; i melanconici cani randagi che tanto
somigliano all’io errabondo del poeta; il senso disgustoso ed inconfutabile
dell’inutilità della vita, cui corrisponde sul foglio di carta un linguaggio uniforme,
a tratti monotono, fatto di molte ripetizioni ed altrettante riprese; e poi il mondo
infantile, quel mondo magico di banchi e compagni di scuola, di giochi e
scorribande, quando la vita aveva poca importanza e, proprio per questo, era
magnifica.
Le situazioni, i temi, i contenuti sono gli stessi anche nella raccolta poetica
successiva, intitolata “Poesie di tutti i giorni” (1911), dove è ribadito il rapporto
stretto tra l’infanzia e la quotidianità, e dove è tracciata una sorta di mappa dei
luoghi imperdibili della grigia noia cittadina. Con “Il giardino dei frutti” (1916),
Moretti conclude temporaneamente la sua esperienza lirica, accentuando i toni di
una insofferenza cronica che corrode non solo l’anima, ma anche il fisico, tanto è
devastante ed inarrestabile. In questi versi emerge una scarsa propensione del poeta
nei confronti di Leopardi, l’amore per la scrittrice Carolina Invernizio, la lettura
avida e passionale del D’Annunzio proibit. Emergono anche spaventosi momenti
di confessione ferina, psicanaliticamente così lucida e trasparente da causare
orrore. Il mondo domestico e provinciale diventa un’arida ed oscura ed obliosa
prigione, nella quale, dietro l’apparente felicità dei legami affettivi, si celano
ossessioni e frustrazioni senza rimedio. Il mondo borghese è un inferno, in esso
2
Giulio Ferroni, “Storia della letteratura italiana, Dall’Ottocento al Novecento”, Ed, “Einaudi”, 1991, pag. 545
tiranneggiano tragedia, dolore, inibizione e repressione, ed alcun tipo di sfogo,
alcun tipo di compensazione possono aiutare.
Nel rotolio monotono di quell’esistenza servile, nel movimento a temi
estremamente scarni, sul quale il Moretti ha condotto il racconto, era facile inserire
di tutto, a titolo d’abbellimento e divagazione, e non sempre la scelta è stata di
gusto. Si ricorderà il famoso colpo di pistola, nei “Due fanciulli”, che lasciò
perplesso più d’un lettore, e a molti, anche oggi, sembra impossibile che Moretti
l’abbia scaricata davvero quella pistolettata. Così, ora, l’ha ripreso l’illusione di
aver tavoolta bisogno di toni e passaggi assai crudi, e basterebbe citar l’episodio
della pandroncina di Clarice, con la quale lo sposo bestiale consuma a violenza la
prima festa delle nozze, in fondo a un palco.

A un certo punto della carriera di Marino Moretti, che all’incirca potrebbe


collocarsi dopo “La vedova Fioravanti” (1941), anche il lettore meno avvertito
ebbe l’impresione che qualcosa stesse succedendo. Non senza duro lavoro, il
Moretti era giunto alla immediatezza d’effetti e alla pienezza e sciolezza formale di
romanzi come “Il sole del sabato” (1916), “La voce di Dio” (1921), e si potrebbe
aggiunerne un’altra mezza dozzina. Ma ormai era chiaro che venivano cambiando
molte cose.
Lo stile si faceva più lento, complesso, analitico. Lo sviluppo delle emozioni
era più sommesso, sinuoso, e includeva pause riflessive d’una intonazione non di
rado ironica. Con crescente frequeza, il Moretti si serviva d’una materia di ricordi,
adoperandola in vere e proprie composizioni autobiografiche, o intercciandola a
motivi fantastici. Si allontanava con quelle del saggio e della divagazione lirica. O
inserva sue figure d’invegazione, sullo sfondo criticamente studiato e interpretato,
d’un ambiente storico, come nel “Fiocco verde”(1948), l’ambiente letterario e
religioso della Bologna umbertina3. E nello spirito di questa evoluzione s’impegnò
così risolutamente che, fra altre cose, egli rifece addirittura di pianta quel famoso
romanzo: “I due fanciulli” che, sotto un certo aspetto, potrebbe forse considerarsi
il suo più bello. Lo accrebbe largamente e trasformò, col titolo “Il pudore” (1950),
ed è inutile stare a discutere se il rifacimento valesse più della prima versione,
perché si tratta di cose del tutto diverse. Questa seconda maniera morettiana,
eventualmente avrebbe potuto anche disorientare ceri lettori, se il suo accettamento
non prendeva l’abbrivo dal robusto e cordiale successo che accolse, e che continua
ad accompagnare, le opere della prima maniera. La maggior parte del pubblico e
della critica, non si rese mai pienamente conto, e non dette mai giusto rilievo, a
tutto il suo merito e a tutta la sua industria di prosatore.

In conclusione, Marino Moretti è scrittore ingenuo e di grossa contentatura,


che ha prodotto in anni pieni di teorie e di manifesti, una grande poesia che
meriterebbe un’attenzione molto maggiore di quela che ha ricevuto: una poesia che
trova la sua forza proprio nella sua inattualità, nella sua indifferenza al divenire.
“Rammenti la domenica di qualche anno fa quando s'era insieme a Roma, in
Piazza San Pietro, e vedemmo apparire il Papa alla finestra? A me fece una
grande impressione, specie quando disse una frase molto bella: "la scena fugace
del tempo" che non dimenticai e ripetei due o tre anni dopo in una poesia
intitolata "La finestra".”4

3
Garzanti, “Storia della Letteratura Italiana, Il Novecento”, Nuova Edizione Accresciuta E Aggiornata Diretta Da
Natalino Sapegno, pag.303
4
Carteggio Moretti-Palazzeschi vol. IV, 1963-1974, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 2001, p. 386.
BIBLIOGRAFIA

1. Marino Moretti, “Poesie scritte col lapis”, Ricciardi,


Napoli 1910.

2. Garzanti, “Storia della Letteratura Italiana, Il


Novecento”, Nuova Edizione Accresciuta E
Aggiornata Diretta Da Natalino Sapegno

3. Giulio Ferroni, “Storia della letteratura italiana,


Dall’Ottocento al Novecento”, Ed. “Einaudi”, 1991

4. Carteggio Moretti-Palazzeschi vol. IV, 1963-1974,


Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 2001

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