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EUGENIO MONTALE

Nasce a Genova nel 1896, ma lega la sua vita alla città ligure di Monterosso nelle Cinque Terre dove
trascorreva le sue vacanze estive. Si formò con la filosofia di Bergson e Shopenauer, con Svevo, i giornali su
cui scriveva Gobetti e gli ermetici. Studiò ragioneria e canto, voleva diventare un baritono. Fu ufficiale
sottotenente durante la Prima Guerra mondiale, ma restò sempre nelle retrovie e la Prima guerra mondiale
non ebbe un’importanza fondamentale come per Ungaretti, mentre molto più forte fu l’esperienza della
Seconda guerra mondiale. Fu influenzato dai Simbolisti francesi (Rimboud, Mallarmè, Verlaine). Frequenta
letterati antifascisti, in particolare Gobetti che era liberale e che fu ucciso come Matteotti a causa delle
botte dei fascisti. Nel 1925 sottoscrisse il Manifesto degli Intellettuali antifascisti di Benedetto Croce, ciò gli
creò diversi problemi. Avrebbe dovuto essere il Direttore di una biblioteca di Firenze e non gli venne dato il
lavoro perché non aveva la tessera del partito fascista. Vive durante il ventennio di governo Mussolini in
modo appartato ed esprime apertamente il suo sentimento antifascista scrivendo un tipo di poesia
antiretorica. Sempre nel 1925 pubblica “Ossi di seppia”. Collaborò con la rivista “Salaria” a Firenze. A Firenze
conosce Drusilla Tanzi, donna celebrata nelle sue poesie con il nome di “Mosca”, staranno insieme tutta la
vita. Ma nonostante questo grande amore ebbe numerose relazioni come con la poetessa americana di
origini ebree Irma Brandeis, che nelle poesie appare con il soprannome di “Clizia”. La relazione durerà fino
al 1938, anno delle leggi razziali in Italia, Irma Brandeis dovette lasciare Firenze per andare negli Stati Uniti.
Dopo la Prima guerra mondiale si dedica all’attività di critico letterario, manifestando una posizione
personale, non assimilata a quella della cultura dominante, scopre i romanzi di Italo Svevo, che erano stati
pubblicati nel disinteresse generale del pubblico e della critica italiana. Alle sue opere dedica un articolo
intitolato “Omaggio a Italo Svevo”, pubblicato nel 1925. Montale manifesta un vivo interesse per la
letteratura aperta alle novità culturali europee, come la psicoanalisi e l’innovazione formale del romanzo
d’avanguardia (Marcel Proust, James Joyce) e si sente, invece, distante dall’altisonante modello
dannunziano. Nel 1939 pubblica “Le occasioni”. Quando inizia la Seconda Guerra mondiale diventa membro
del Partito D’Azione (partigiani), di ispirazione liberale e antifascista, ma di questa attività rimase deluso:
Montale si distaccherà completamente dalla politica. Nel 1943, in piena guerra, ospiterà in casa sua alcuni
intellettuali perseguitati come Saba e Sanguinetti, il primo perché di origine ebraica e il secondo perché
comunista, rischiando la vita per questo gesto. In questo anno pubblica “Finis Terrae”. Dopo la guerra, già a
partire dal 1948 divenne un intellettuale molto famoso anche e soprattutto per il suo antifascismo. Diventa
giornalista per il Corriere della sera. Nel 1956 esce “Bufera e altro”, poesie che vanno dal 1939 al 1956,
quindi scritte durante la guerra. Nel dopoguerra scriverà anche qualcosa in prosa. Nel 1975 riceverà il
Premio Nobel per la Letteratura. Muore a Milano nel 1981. Montale è un poeta di difficile collocazione
all’interno di una corrente letteraria precisa. Sicuramente non è un’avanguardista, perché non rompe con la
tradizione precedente, infatti si rifà a Leopardi, a Petrarca e all’uso di versi classici come l’endecasillabo. La
sua poesia vuole svelare la condizione dell’uomo, la poesia è frutto del dolore, ma non è un dolore legato
agli eventi storici, ma è una condizione senza tempo. La visione cosmica del suo pessimismo è vicina a
quella di Leopardi. “L’argomento della mia poesia (e credo di ogni possibile poesia) è la condizione umana in
sé considerata: non questo o quell’avvenimento storico. Ciò non significa estraniarsi da quanto avviene nel
mondo; significa solo coscienza, e volontà, di non scambiare l’essenziale con il transitorio.” (in Sulla Poesia,
Mondadori, Milano 1976) “Avendo sentito fin dalla nascita una totale disarmonia con la realtà che mi
circondava, la materia della mia ispirazione, non poteva che essere quella disarmonia. Non nego che il
fascismo prima, e la guerra civile più tardi mi abbiano reso infelice; tuttavia, esistevano ragioni in me di
infelicità che andavano molto al di là e al di fuori di questi fenomeni. Ritengo che si tratti di un
inadattamento psicologico e morale che è proprio a tutte le nature a sfondo introspettivo, cioè a tutte le
nature poetiche.” (in Sulla Poesia, cit.) Oggetto della poesia è dunque l’uomo, la sua condizione di esiliato
nel mondo, lo spaesamento che nasce dalla caduta di ogni sistema di certezze. Si tratta di una tematica che
collega Montale a Svevo. L’inettitudine degli antieroi di Svevo non è per Montale soltanto una caratteristica
individuale, ma il segno di una nuova condizione umana, propria dell’intera civiltà moderna. L’incontro con i
personaggi sveviani è stato per Montale un autoriconoscimento.
OSSI DI SEPPIA (1925)

Il titolo è significativo, sono i residui rimasti sulla spiaggia, sono frammenti, oggetti di un organismo vivente
che non c’è più, che sono stati consumati dal mare e che sono passati da vivi a morti. Protagonista assoluto
nelle sue poesie è il Paesaggio ligure, un paesaggio secco, arso, all’opposto di quello panico di D’Annunzio, la
Liguria è una terra prosciugata dal sole. In Montale ci sono elementi di D’annunzio nell’uso del lessico e
anche di Pascoli nelle descrizioni delle piccole cose semplici. La Natura non si preoccupa del dolore degli
uomini, è indifferente, come abbiamo visto in Leopardi. All’interno di questo paesaggio arso e secco un
posto di grande rilievo ha il MURO, simbolo del limite umano, “del male di vivere...” È una muraglia che ha
in cima cocci aguzzi di vetro. Il muro non si può, quindi, valicare ed è simbolo, metafora di una verità che
non si può veramente cogliere. La visione di Montale è spezzata, divisa e informe. L’uomo è frammentato in
molte parti e assume forme diverse, come per Pirandello, Qual è l’antidoto al male di vivere? È
l’indifferenza, l’unica cosa che ci può salvare. C’è un rimando al pessimismo di Leopardi, anche se per
Montale a volte si apre un varco. Nelle sue poesie ci presenta condizioni di isolamento, di gabbia, ma c’è
una speranza...Montale parla di una maglia rotta nella rete che apre uno spazio, un varco, uno spiraglio.
Questo significa che un anello che compone la catena si è rotto. Questi oggetti di luce compaiono
rapidamente nelle poesie di Montale, ma vengono anche velocemente negati e scompaiono. Si scopre che
in realtà non è vero che c’è questo varco, questa speranza. Da qui nasce lo sconforto, il dolore. Il male di
vivere.
Correlativo oggettivo.
Tecnica usata anche dall’inglese Thomas Stearns Elliot. Consiste nel nominare degli oggetti, che non
diventano simboli come in Pascoli, e nel nominarli evoca il dolore. Non ci sono descrizioni, ci sono citazioni
che evocano da sole la morte. La poetica del correlativo relativo, che affida ad un oggetto concreto la
rappresentazione di un significato astratto, si collega apertamente con una figura del pensiero tipica della
cultura medievale e di Dante: l’allegoria. Ma se l’allegoria medievale, che si avvaleva di un repertorio di
associazioni conosciuto dai lettori, era comprensibile da chi condivideva quella cultura (il leone/la superbia,
la lonza/la lussuria), l’allegoria moderna appare priva di una chiara relazione tra l’oggetto e la realtà
rappresentata e ciò la rende difficilmente decifrabile dal lettore, che spesso non riesce ad attribuire un
senso certo agli oggetti rappresentati. Questa oscurità irrisolta si traduce nello smarrimento del lettore.
Differenza tra Ungaretti e Montale. Ungaretti ha una grande fiducia nella funzione della parola. La parola
può aiutarci a conoscere la realtà, al contrario Montale non crede che esista questa funzione salvifica della
parola. In Montale non c’è neppure la funzione e l’uso dell’Analogia come capace di farci conoscere meglio
la verità, il Mistero. Si passa così dalla poetica della parola di Ungaretti alla poetica degli oggetti di Montale.
Molti concetti astratti Montale li esprime attraverso gli oggetti. Per esempio, il male di vivere, concetto base
della poetica di Montale, lo esprime attraverso “...era il rivo strozzato”, “...era l’accartocciarsi delle foglie”,
“...era il cavallo stramazzato”. La verità viene espressa attraverso immagini non razionali, fatte di oggetti, di
cose: il muro scalcinato, l’anguilla, gli sterpi, le file di formiche rosse. Il lessico di Montale è particolarmente
stridulo, i ritmi sono spezzati, le scelte foniche (dei suoni delle parole) sono aspri. Tutto ciò per esprimere
l’aridità della vita, l’inadeguatezza di vivere. Spesso Montale fa scontrare il linguaggio alto, aulico, termini
ricercati con termini colloquiali e gergali di uso quotidiano.
OCCASIONI (1939)
Scritte dopo un mese dallo scoppio della Seconda guerra mondiale. Il poeta cerca delle occasioni per fuggire
dalla realtà e dal dolore. Una di queste occasioni è appunto la donna, l’amore. In questa raccolta viene
celebrata la relazione con Irma Brandeis “Clizia”. La relazione si era interrotta l’anno precedente a causa
delle leggi razziali e Montale la rimpiange. L’amore è visto come unica possibilità per alleviare il male di
vivere. L’amore è sognato, ricordato, atteso, sperato, non è quello vero, vissuto. In questa raccolta non c’è
più il paesaggio secco della Liguria, ma c’è Firenze. Anche in queste poesie il dolore non dipende dai fatti
storici, ma dal non-senso della vita.
Differenza tra Pascoli, D’Annunzio e Montale.
Montale prende apertamente le distanze dalla visione del mondo e della poesia di Pascoli e d’Annunzio:
rifiuta le pretese di eccezionalità della poesia dannunziana e la funzione profetica del poeta-vate, così come
l’idea pascoliana della superiore chiaroveggenza del poeta-fanciullo; più ancora si sente distante dal
modello del poeta-civile di Pascoli, proponendo, al contrario, la figura dimessa di un poeta che si sforza
dignitosamente di sfuggire all’assurda costrizione della realtà.
La lingua e lo stile.

Per riprodurre la condizione del “male di vivere”, Montale elabora uno strumento linguistico
deliberatamente lontano dal preziosismo dei simbolisti e di D’Annunzio, è alla ricerca di un tono sobrio. Nel
suo verso si può riconoscere una tendenza all’esattezza terminologica (come lo era per Pascoli) e
all’ampliamento del vocabolario: termini alti della tradizione letteraria si accompagnano a parole dimesse
che designano oggetti quotidiani. Montale parte da una metrica classica come quella di Pascoli, usa
endecasillabi, ma li rompe, o ci aggiunge una sillaba, oppure ne toglie. Fa un processo contrario a quello di
Ungaretti che nella prima raccolta “Allegria” rompe il verso e toglie la metrica per poi recuperare lo stile
classico nelle raccolte successive (“Il sentimento del tempo” e “Il dolore”). Montale si “abbassa” a molte
espressioni del parlato (come confort, pappe, seccatori, clacson ecc) che evidenziano l’aspetto banale e
anonimo della realtà. Non a caso Montale è un grande estimatore di Gozzano, “La signorina Felicita ovvero
la Felicità”.

LUIGI PIRANDELLO
Siamo di fronte ad un intellettuale che ancora una volta, avrà una chiave di letteratura della società diversa
rispetto agli altri autori. Egli avrebbe preferito vivere in un secolo che avesse maggiori certezze, avrebbe
preferito vivere in un secolo dove l’uomo avrebbe avuto qualcosa a cui appigliarsi ... vivere avendo qualcosa
che lo guidasse. Invece vive nel secolo delle incertezze, della disillusione, e nel secolo dove le poche
certezze che l’uomo aveva, vengono distrutte. La sua vita personale sicuramente non lo aiuta, i primi
dispiaceri gli vengono dalla vita privata; già fatica a trovare il suo posto nella società e neanche la famiglia
riesce a regalargli serenità. Tutte queste insoddisfazioni lo portano a non essere mai soddisfatto delle cose,
anche delle cose che potrebbero essere positive: vince il premo Nobel, ma neanche questo lo rende felice,
anzi, pensa di non meritarselo. È un l’emblema dell’uomo che non riesce proprio a trovare pace, né
esternamente che interiormente; neanche la scrittura riesce ad essere un’ancora di salvezza. L’unica cosa
che lo salva è la CONSAPEVOLEZZA: consapevole di vivere in una società che non lo rappresenta e che non
lo farà mai; un ambiente fatto solo in apparenza fatto di poca sostanza, c’è poco modo di scappare -
conformista consapevole, sa di non poter fare altrimenti. Il mondo fatta da conformisti e neanche lo sanno
di esserlo; lui almeno ne è consapevole, ma non c’è modo di uscirne. Nasce vicino ad Agrigento, la madre
faceva parte di una famiglia borghese che aveva vissuto per alcuni anni a Malta, dove conosce il padre. La
famiglia del padre commerciava zolfo. La sua infanzia è segnata da questa figura di padre “padrone”,
prepotente e invadente, padre che avrebbe voluto per lui un percorso di studi e di vita diverso e che
Pirandello tenta in ogni modo di sfidare. Frequenta degli studi classici e si laurea in linguistica; anche qui
segnato da vari ostacoli, no lineare. Si trasferisce a Roma dove sposa la donna che il padre aveva scelto per
lui, Antonietta figlia di un commerciante siciliano. Farà di tutto per evitare di essere fagocitato nell’impresa
familiare, per cercare invece di vivere di letteratura; uomo che nonostante venisse sempre “schiacciato”,
tutto sommato cercherà sempre di non rivoltarsi contro. Durante i primi anni di matrimonio inizia scrivere
alcune novelle e il suo primo romanzo - L’esclusa. I due hanno tre figli , e nel 1903 la famiglia viene colpita
da una vera e propria catastrofe economica che colpisce i suo intero patrimonio, iniziano due tipi di
problemi: economico, viene meno la rendita, si ritrova senza soldi, che fa “esplodere” la malattia mentale
della moglie. Si richiude casa, non esce più, e tormenta tutta la famiglia; contemporaneamente lui si ritrova
a lavorare in modo alacre. In questo clima pubblica due tra le suo opere più importati: Il fu Mattia Pascal
1904 - Saggio sull’umorismo 1908. Inizia quindi a riscuotere un certo successo dal punto di vista letterario, e
inizia ad approcciarsi al teatro. Inizia a scrivere degli atti unici che partono sempre da una novella, e tra il
1916-17 verranno messe in scena alcune delle sue opere che riscuotono grande successo tra cui: Così è se vi
pare. Nel 1919 svolta la sua vita perché decide di ricoverare la moglie in una casa di cura, e per lui questa è
una grande “liberazione”, una liberazione dal punto di vista personale sia per la sua carriera letteraria. Nel
1921 va in scena la sua opera teatrale più famosa, a Roma: Sei personaggi in cerca d’autore, dove vengono
messi in scena tutti i segreti del palcoscenico. Avrà un successo internazionale, la consacrazione definitiva.
Libero da ogni costrizione familiare più girare tutta l’Europa, coinvolgendo con il suo modo di fare teatro.
Accanto a questa produzione continua a scrivere novelle e romanzi. Pubblica due romanzi molto famosi: I
quaderni di Serafino Gubbio operatore 1925 - Uno nessuno centomila 1926; romanzo che meglio racchiude
la sua ideologia sulla società. Nel 1924 aderisce al fascismo, e questo è paradossale perché aderisce
quando è già diventato un regime totalitario. Nonostante tutto rimarrà sempre convinto che possa essere
la soluzione alla corruzione della politica italiana; non assisterà però ai legami fascismo - nazismo. Aderire
al fascismo significa avere un sostegno economico non indifferente per la sua carriera. Fonderà la
compagnia del teatro dell’arte, realizza il suo sogno di avere un teatro tutto suo con una compagnia gestita
da lui, e all’interno di esso conosce una donna della quale si innamora davvero. Stringerà una relazione con
lei, ma desidera di cambiare vita e trasferirsi in America, e questa decisione getterà Pirandello in una sorta
di depressione. Nonostante questo, continua a lavorare e nel 1934 vince il Nobel per la letteratura. Muore
nel 1936.
IDEOLOGIA:
All’interno del Fu Mattia Pascal, parla di uno strappo nel cielo di carta, fa riferimento ad una scenografia
teatrale, dove questo cielo è fatto di carta e Pirandello si domanda: cosa succederebbe se ad un certo
punto, nel bel mezzo del palcoscenico l’attore si accorgesse che è tutta una finzione? Cosa ci succede nel
momento in cui noi prendiamo consapevolezza del fatto che viviamo in un mondo fatto di finzione? Cosa ci
succederebbe nel momento in cui ci accorgessimo di indossare una maschera? Cosa ci succederebbe in cui
ci accorgiamo di vivere in una società fatta di grandi incertezze? Non si può fare affidamento su nulla, è
tutto incerto, finzione. Si giunge alla consapevolezza, apriamo gli occhi; però ci fermiamo lì, ce ne rendiamo
conto, ma non possiamo toglierci questa “maschera” pena l’esclusione dalla società. Riusciamo a capire da
questo estratto i capisaldi del suo pensiero : il primo il concetto della maschera. Nel momento in cui
nasciamo assumiamo una forma, che però è sempre una forma di costrizione rispetto a ciò che è vita;
l’uomo si sente imprigionato in questa forma, ma non può vivere senza. E’ consapevole che essa sia
limitante, sicuramente l’uomo aspira a liberarsi da questa forma, ma no può. Gli uomini non sono
consapevoli di non avere scelta, l’intellettuale sì. A peggiorare la situazione c’è la società che impone
all’uomo un’ulteriore restrizione, oltre quella che già abbiamo alla nascita, impone di indossare proprio le
maschere. Ognuno di noi assume un ruolo; ne assume di più in base alle situazioni, a seconda delle
persone con cui abbiamo a che fare. Abbiamo dunque degli obblighi sociali, affettivi, che ci impone di
comprati in modo diverso a seconda dei momenti, non essere se stessi e indossare una maschera; è così e
non si può fare a meno, altrimenti verremmo esclusi. La conseguenza è che perdiamo noi stessi. Arriva
domandarsi se certi tabù della società lo siano veramente, oppure siano solo imposti da essa. Non sono
degli obblighi imposti chissà se l’uomo farebbe il contrario se potesse. Questo è però, anche se tentiamo di
ribellarci non arriviamo mai fino in fondo. Le scelte sono due: continuiamo ad adattarci indossando le
maschere, oppure diciamo di non farlo e vivere una vita da nessuno. Conclusione pessimistica, pensiero
basato spesso su Schopenhauer: vita vissuta fino a se stessa, e questa considerazione negativa della vita
individuale. C’è da dire però che non fa troppa filosofia rispetto alla condizione umana.Da un punto di vista
più stilistico e contenutistico, siamo di fronte ad un autore un po’ tra la metà strada: tradizione e novità. E’
consapevole dell’importanza del passato, ma sa anche che c’è bisogno di un cambiamento, di modificare le
“vecchie forme”. Modificherà questi generi in modo avanguardistico, soprattutto visibile nelle opere
teatrali, dove vediamo per davvero la vera rivoluzione. La riflessione che Pirandello fa si struttura
all’interno di un saggio del 1808
L’UMORISMO:
La riflessione dello strappo dal cielo di carta che Pirandello fa, si struttura all’interno di questo saggio del
1908. L’umorismo nasce dalla consapevolezza di com’è la realtà: l’umorista è colui che ha preso
consapevolezza, ha smesso di illudersi, ed è in grado di raccontare la realtà in modo oggettivo, colui che
riflette su di essa, in grado di vedere oltre, colui in grado di farci ridere e ragionare. Lo mette a confronto
con il comico, che fa ridere e basta, l’umorista invece fa anche riflettere, diventando la parte più
importante.
NOVELLE PER UN ANNO:
Il genere novellistico sarà congeniale a Pirandello. La prima è del 1892 e da lì in avanti non smetterà mai,
arrivando a scrivere più di 200 testi; scrive per guadagnare. Genere così importante che a volte alcune
novelle gli serviranno per scrivere i testi teatrali; avvierà un progetto molto grande intitolato “Novelle per
un anno”, suddivisa poi in 24 volumetti. Opera fondamentale perché ci permette di vedere un’evoluzione,
un percorso artistico e ideologico allo stesso tempo: si passa da novelle da tematica sentimentale a novelle
da tematica quasi surrealista. Tutte sono però accumunate da alcune caratteristiche: l’umorismo, sempre
presente la parte di riflessione; gli avvenimenti che ci sembrano più importanti vengono messi da parte,
iniziando la narrazione concentrandosi su avvenimenti che ci sembrano quasi insignificanti, anche se non lo
sono, perché sono quelli che ci fanno capire davvero le cose (Pascoli); la varietà dei personaggi da ogni
punto di vista, accomunati dal fatto di essere tutti imprigionati nel loro destino, destinati a qualcosa che
non può essere cambiato, nulla di eroico, di esemplare: scrive commedie, ma la vera storia di queste
personaggi è la tragedia, ciò che accade è così assurdo a volte da farci ridere. La cosa che ci dice è che a
questa condizione umana tragica, neanche gli affetti possono dare sollievo
Pirandello Romanziere:
Scrive una serie di romanzi che lo consacrano nel mondo della letteratura. Il primo romanzo è l’Esclusa, poi
il Fu Mattia Pascal, Uno nessuno centomila, scritti in prima persona dove emerge il suo lato da narratore e
protagonista, e I quaderni di Serafino Gubbio operatore, scritto sotto forma di diario. Scriverà 7 romanzi
nella sua carriera molto diversi tra loro, all’interno dei quali però troviamo degli elementi in comune: la
visione pessimistica che lui ha dei rapporti sociali, ogni genere di rapporto umano alla fine si traduce in un
qualcosa che scaccia l’individuo, non esistono più tutti quei valori civili, morali e affettivi, che avevano
guidato l’uomo - “i lanternoni”; l’identità dell’uomo è sempre in crisi, l’uomo si nasconde dietro a queste
maschere che disgregano l’individualità, dove l’uomo non è più in grado di realizzare i propri sogni - “i
lanternini”. Da un punto di vista formale invece rimane legato alla tradizione, pur essendo consapevole
della difficoltà di raccontare la nuova società tramite il genere romanzesco, inadatto; apporta alcune
modifiche utilizzando la tecnica dell’umorismo e cercando di incentrarli non tanto sulla narrazione ma
sull’auto riflessione, la trama stessa molte volte è disarticolata.
L’ESCLUSA:
1901, dedicato a Luigi Capuana, autore verista. Ciò che gli interessa è di far emergere la società: non tanto
una descrizione oggettiva di essa e di tutti i meccanismi che ci sono dietro, ma proprio una riflessione, non
gli interessa descriverla come invece facevano di più i veristi. Sicuramente parte dal verismo, quindi guarda
la realtà in modo oggettivo, ma riflette su ciò che vede, compie il passo successivo. Paradossalmente è
molto più vicino a Verga rispetto a D’Annunzio
IL FU MATTIA PASCAL:
1904, esce prima a puntate su una rivista, narrazione in prima persona, dove il protagonista è Mattia Pascal
o Adriano Meis, a seconda del punto di vista della narrazione. Trama molto articolata, molte tematiche
diverse; dall’adolescenza, all’amore, a questa identità poliedrica, tutti in chiave umoristica. Tanti
avvenimenti che capitano a Mattia che sembrano divertente, ci possiamo rendere conto in realtà della
miseria umana. Rappresentazione della società dell’epoca dove emerge tutta l’incertezza di cui lui ci parla,
ci fa capire cosa intende con concetto di maschera, relativismo ecc.
UNO NESSUNO E CENTOMILA:
1926, anche se inizia a lavorarci prima, gli prenderà molto tempo. Un romanzo scritto in prima persona,
possiamo vedere dei punti di contato con Mattia Pascal e qui Vitangelo Moscarda. Con lui si conclude ciò
che Mattia aveva iniziato, presa di coscienza di essere diversi agli occhi degli altri, di assumere maschere
diverse a seconda della persona che abbiamo di fronte, e quindi la perdita di noi stessi. Moscarda arriverà
alla decisione definitiva, ossia spogliarsi di tutto e seguire il flusso vitale, abbandonando ogni contatto con
la realtà, quasi in maniera eccessiva. Parte tutto da questo naso che pende verso destra, qui inizia un
effetto domino.
TEATRO PIRANDELIANO:
Una vera e propria passione che intraprende fin da giovanissimo. Lui stesso ci dice che il genere teatrale e
soprattutto il momento in cui viene messa in scena un’opera, provoca in lui una sorta di magia, come se la
sua fantasia riuscisse a prendere vita. La sua passione non corrisponde anche ad un successo immediato,
fatica ad entrare in questo mondo, a farsi apprezzare e conoscere, tanto che abbandona il genere per un
periodo. L’anno di svolta è nel 1910, quando nasce il Teatro Minimo, promosso da Mino Martoglio che lo
chiamerà per una collaborazione e leggere e metterà in scena i suoi componimenti. Accetta, sicuramente
inizialmente per una questione economica, iniziando la sua carriera teatrale, un po’ per caso e per soldi.
Trova un teatro, in generale, diviso in du grandi filoni: teatro tradizionale, ancora legato al teatro dell’800;
nuovo teatro d’avanguardia, che demolisce tutti gli elementi della trazione. In particolare, la situazione
italiana non è particolarmente favorevole ad essa, no c’è una grande tradizione italiana consolidata.
Questo può essere visto come un male, ma anche come qualcosa di positivo: un po’ come una pagina
bianca dove può inserirsi e creare la sua. Decide di rinnovare il teatro, ma porta avanti una rivoluzione
“soft”, vuole sicuramente un ambiente, ma portato avanti passo per passo, accompagnare il pubblico a
questo cambiamento; deve incominciare ad apprezzare l genere e le sue novità. Vuole che veda nel teatro
un momento di serenità, divertimento e riflessione; vuole che non riamai scontato, che racconti qualcosa di
vero. Una sfida vera e propria, che deve essere ben strutturata per piacere. Il teatro non è solo un
momento di intrattenimento, deve insegnare qualcosa, un momento di condivisone - “un’ancora”.
Cambiamento profondo e non solamente esteriore. Avrà grande fortuna questo suo metodo. Gli elementi
comuni delle sue opere: ripresa di alcuni elementi tradizionali completamente ribaltati, dove lo spettatore è
consapevole - teatro che non ha segreti; trame complicate, spesso con un obiettivo un po’ parodico
(scandali familiari per esempio ridicolizzati); momenti riflessivi, tramite l’utilizzo di un dialogo su cose
importanti; immagine oggettiva della realtà - ciò che vediamo non è ciò ce realmente è; interiorità dei
personaggi - sfera inconscia; nelle sue opere si parla di teatro, si riflette sul ruolo dei personaggi, il ruolo del
registra - teatro nel teatro. Opere non “pesanti”, che però allo stesso tempo fanno riflettere; un modo più
leggere per far comprendere e comprendere tematiche importanti. Scriverà sempre delle opere pensate
per essere messe in scena; spesso costruisce le trame basandosi sugli attori. Un progetto vero e proprio,
tanto che unirà le sue opere teatrali, in particolare riunirà 39 drammi, sotto un’unica opera, Maschera
nuda (un ossimoro). Il suo lavoro sul teatro si può dividere in quattro fasi, percorso lento, ma rivoluzionario.
La prima fase è quella iniziale e prende il nome di TEATRO GROTTESCO: trame della tradizione vengono
esasperate da diventare grottesche. Sono simili tra di loro e solitamente i personaggi sono un uomo, una
donna e un terzo in comodo; parla quindi dell’adulterio che viene riproposto in vari modi e dove si pone
ancora l’attenzione su quanto l’esteriorità sia importante, da salvaguardare - la cosa si fa, l’importante è che
gli altri non lo sappiamo (salviamoci la faccia), condizione poi esasperata quando Pirandello inizia a
mettere in discussione l’oggettività del reale. Ciò che mi sembra di vedere, non è quello che è davvero
(maschera). La seconda fase prende il nome di META TEATRO, rappresentata dall’opera Sei personaggi in
cerca d’autore, è quella più riflessiva. Il pubblico è nello spettacolo, conosce tutti i retroscena. Nel teatro si
parla del teatro, vengono mostraste tutte le fasi dello spettacolo teatrale, dove viene meno la linea di
demarcazione tra spettacolo e pubblico. Esempio: non c’è il sipario, lo spettacolo viene messo a nudo, tutti
i meccanismi. La terza fase ossia IL TEATRO DELLA FOLLIA, con Enrico IV. Quello che ci dice che questa
messa in scena, questa finzione a volte è volontaria a volte è involontaria, quando recitiamo una parte, non
sempre siamo coscienti. La vita è un enorme messa in scena, diventa impossibile capire dov’è la realtà e
dov’è la recita. L’ultima fase lui stesso la definisce come fase DEI MITI, e racchiude in particolare tre opere
che si svolgono in uno spazio e tempo indefinito e che raccontano di eventi meravigliosi, fantastici. Uno di
queste tre opere si intitola i Giganti della montagna che è l’ultima opera a cui Pirandello lavoro, che si
conclude con una sua riflessione abbastanza negativa. Ci dice che alla società moderna dell’arte non
interessa niente, pensa solo a beni materiali, ma l’intellettuale nonostante tutto deve continuare a fare
arte. Pirandello rifiuta la vita sociale, ha capito come funzionano le cose, e proprio per questo preferisce
isolarsi; guadare ciò che accade criticandone in modo consapevole, guarda da lontano, si estranea ed è
quindi in grado ancora di più di guardarla in modo più veritiero. Chiama questa “tecnica” la filosofia del
lontano - guardo gli altri da lontano per conoscerli veramente. DECADENTISMO
A fine Ottocento, tra gli intellettuali, si diffonde un atteggiamento opposto a quello della cultura positivista
che era basata sull’orgoglio per il progresso e la fiducia nella scienza. Dunque a fine Ottocento, si respirava
un’aria negativa, infatti sembrava che il progresso fosse minacciato dai conflitti sociali e degli stati europei
che si stavano impegnando nella competizione coloniale. Questa situazione portava gli intellettuali a
pensare l’Europa si stava avvicinando al disfacimento; ed è proprio per questo che le parole chiave di
quest’epoca sono “tramonto”, “crepuscolo”, e “fine della civiltà”. È stata proprio la sensazione di star
arrivando alla fine della civiltà che portò al tema della decadenza, ossia una fine inesorabile che colpisce gli
uomini, le loro civiltà, e tutto ciò che esiste. Da qui nasce la tendenza letteraria del Decadentismo, che
caratterizzò l’epoca che va da fine Ottocento al 1915-20 circa. Il Decadentismo nacque in seguito a diverse
fasi: 1)la prima di queste è il dandysmo che è nato nella prima metà dell’Ottocento come fenomeno di
costume: dandy era chi viveva in modo elegante e raffinato. Il primo dandy fu George Brummel, ma il più
celebre è lo scrittore Oscar Wilde. - Dopodiché seguì l’Estetismo inglese, che si diffuse intorno al 1860-70,
ed era una forma di protesta di coloro che non si riconoscevano nell’età vittoriana. Il principale teorico
dell’Estetismo fu Walter Pater. Poi ci fu il Preraffaellismo che mirava alla venerazione del bello, e della
perfezione artistica in Italia, invece, ci fu la Scapigliatura, ossia, una corrente letteraria nata attorno al 1860-
70, ed era caratterizzata da contestazioni e proteste, ed è considerata una avanguardia letteraria.
Un’ulteriore anticipazione al Decadentismo si ebbe in Francia con Charles Baudelaire. Egli pensava che lo
scrittore avesse il compito di svelare i legami segreti che s’instaurano tra le cose e la natura, indagando nelle
zone misteriose della vita umana. I primi a prendere esempio da Baudelaire furono i poeti del
Parnassianesimo, ossia coloro che pubblicarono i propri testi nelle tre raccolte collettive del Parnaso
Contemporaneo; questi avevano un’ideale di poesia che doveva essere pura, lontana dalla quotidianità
perfetta: “l’arte per l’arte”. Da Baudelaire si ispirarono anche i poeti del Simbolismo francese, il Simbolismo
consiste in uno stile letterario dove la sensibilità individuale predilige gli stati d’animo, le sfumature e le zone
d’ombra. I narratori decadenti si dedicarono al culto della bellezza valorizzando la tendenza all’estetismo e la
tendenza all’arte per l’arte. Questo culto della bellezza veniva associato al “crepuscolo” e al “decadere”; e
ciò rappresentava il fatto che la bellezza del Decadentismo era una bellezza sfiorente, che può essere vista
solo da chi ha occhi allenati ed è in grado di coglierla, perché andava colta come se fosse un fiore prezioso.
Quindi possiamo dire che abbiamo un intreccio fra Estetismo e Simbolismo. Di cui l’estetismo consiste nel
fare della propria vita un’opera d’arte; mentre il simbolismo predilige gli stati d’animo, le sfumature, e le
zone d’ombra. Infatti, così come i simbolisti, anche i narratori decadenti si dedicano a ciò che sta oltre la
realtà, ciò che sta nell’ombra, che comunque attraggono per via della loro bellezza e preziosità. Questo tipo
di sensibilità porta a riflettere sulla psiche umana con tutte le sue contraddizioni e peculiarità; ed è per
queto che i decadenti iniziarono a studiare queste caratteristiche della psiche, e tutto ciò portò alla nascita
del romanzo psicologico.
GABRIELE D’ANNUNZIO
Intellettuale che percepisce una società in crisi, una società che ha perso determinati valori, ma che a
differenza di Baudelaire, avrà un modo di reagire completamente diverso. Si eleverà al di sopra di essa,
riuscendo a “cavalcare” l’onda, a trovare il suo spazio. Definisce lui stesso la sua vita “un’opera d’arte” e
invita il pubblico a vivere la propria vita come “un’opera d’arte”. Vivrà la sua vita come un vero e proprio
esteta, l’esteriorità avrà grande importanza, per lui sarà fondamentale condurre un certo tipo di vita e,
senza farsi troppi scrupoli, adeguerà il suo modo di scrivere ciò che al pubblico piace, mi adeguo e non
solo; “l’importante è che ci guadagno”. Sempre stato un grande promotore di se stesso, ha “costruito”
un’immagine importante, crea il “mito” di se stesso, alimentando il suo egocentrismo. E’ quasi vero dire
che è quasi più interessante sapere la vita che ha vissuto che studiare le sue opere; accumulatore di oggetti
stravaganti, gli interni del vittoriale fanno capire la sua personalità. Nasce nel 1863 a Pescara da una
famiglia borghese, studia all’interno di collegi prestigiosi. Inizia a scrivere da giovanissimo, a soli sedici anni
esce un primo “libretto” in versi intitolato “Primo Vere”, che fin da subito riscuote grande successo.
Compiuti diciotto anni si trasferisce a Roma per frequentare l’università, non porta però a termine gli studi
per potersi dedicare alla vita mondana. Le sue doti di scrittore lo portano a collaborare con una serie di
giornali, prima a Roma e poi a Napoli; scriverà sia articoli di cronaca che articoli di letteratura. Un pò per le
sue produzioni e un pò per le sue frequentazioni letterarie, diventa molto conosciuto. In campo letterario
iniziano ad uscire le sue prime produzioni, che fin da subito si caratterizzano per essere opere scandalose:
contenuti erotici che rispecchiavano la vita scandalosa che egli conduceva. E’ proprio in questo primo
periodo che inizia a costruire questa “maschera” dell’esteta dove si eleva appunto al di sopra di tutti gli
altri, rifugiandosi in questo mondo dove tutto è bello. Questa sua prima fase ha una svolta nel momento in
cui si entra negli anni ’90; cambia il mondo e di conseguenza lui sente la necessità di cambiare il suo modo
di scrivere, creando una nuova “maschera”, ossia quella del “super uomo”, rifacendosi al pensiero di
Nietche. Questo nuovo “personaggio” è carico di energia, non si limita più solamente alla contemplazione
della bellezza; come, per esempio, lo vedremo un molto attivo nell’ambiente politico. Questo suo essere un
pò una “banderuola”, rende le sue opere “brutte”, si vede che lo fa per ricavarci qualcosa; quando invece
viene meno questo desiderio, escono le opere davvero belle di D’Annunzio, come il “Il Piacere”. Il suo
obiettivo oltre che a scrivere opere che potessero piacere al pubblico, cerca di creare un vero e proprio
“mito”, anche grazie alla sua vita sentimentale tormentata; lunga relazione con l’attrice Eleonora Duse, che
gli porterà ancora più notorietà e contribuirà alla sua fama e a far sì che le sue opere si vendano di più. Ciò
che lui giudicava in maniera negativa era poi lui il primo a farlo; quindi, c’è sempre questa contrazione tra
ciò che “predica” e ciò che fa; qualcuno potrebbero leggerla in maniera negativa, o altrimenti in maniera
più positiva, la società non era bella e così allora mi adatto ad essa, trovo il modo per sopravviverci. In una
seconda fase ideologica sarà politicamente attivo e inizialmente viene eletto deputato dell’estrema destra;
quindi, difetto dichiara il suo disprezzo per tutto ciò che è democrazia, uguaglianza; sogna il ritorno ad
un’Italia imperiale. Nel 1900 si schiera invece politicamente alla sinistra; ci fa capire che va dove è più
comodo e dove può esprimere maggiormente la sua ideologia. Scriverà in questi anni “politici” una serie di
opere teatrali, poiché vede nel teatro un buon mezzo di comunicazione. Cerca di imporsi come poeta vate,
vuole diventare una guida per il popolo, vuole che il suo modo di pensare e le sue idee siano conosciute, e
ci riesce. Questo lo porta ad esasperare un pò i suoi atteggiamenti, si sente un pò un “Dio sceso in terra”.
Verso il 1910 vive degli anni di problemi economici ed è costretto a fuggire in Francia, inseguito dai
creditori. Riuscirà ad entrare in Italia soltanto con lo scoppio della prima guerra mondiale, dove prenderà
di nuovo posizione da un punto di vista politico, schierandosi a favore degli interventisti, quindi partecipare
subito alla guerra. Si arruola volontario e si rende protagonista di una serie di imprese politiche che attirano
molto l’attenzione su di sé (vola su Vienna lanciando volantini propagandistici). Essendo a favore degli
interventisti non prende bene la vittoria mutilata italiana e decide con una serie di volontari di marciare su
Fiume per rivendicare i territori sottratti ingiustamente all’Italia post guerra. A Fiume instaura una sorta di
governo personale, ponendosi al capo. Viene cacciato ben presto da Fiume e sono gli anni in cui emerge la
figura di Benito Mussolini, anni del fascino. Sarà legato a questa figura, e anche Mussolini vedrà in
D’Annunzio il perfetto intellettuale fascista. L’esperienza fascista non durerà molti anni perché si ritirerà nel
Vittoriale e lì rimarrà, uscendo un pò dalla scena. Sicuramente fino al suo ritiro scriverà moltissimo, sempre
e soprattutto per una questione di mercato; produzione importante di scritti, dove troveremo tantissime
nuove idee e un nuovo modo di pensare, ideologie che avranno una grande influenza sulla politica, ma
anche sociale, è come un pò se nascesse lo “stile d’Annunzio”- dannunzianesimo, come se fosse un pò uno
stile di vita che influenzerà vari ambiti della vita sociale. La sua produzione iniziale è influenzata dal
verismo, quindi Verga sicuramente con qualche accenno anche alla produzione di Carducci. Oltre alla sua
prima opera, il Piacere, che è più un esercizio stilistico che un’opera vera e propria, la seconda che
ricordiamo è CANTONOVO. La metrica che utilizza è barbara, riprende Carducci, e inizia a palesarsi in una
tecnica che sarà poi sua tipica, fusione tra uomo e natura che porta all’estremo e che con il tempo si
tradurrà nel panismo dannunziano; Iniziano anche già a sentirsi alcune tematiche tipiche del decadentismo.
TERRA VERGINE: il modello è Verga. Ci parla dell’Abruzzo, la sua terra. A differenza di Verga non c’è la
soggettività e l’eclissi del narratore, anzi entra in modo molto spesso prepotente all’interno di essa, e
inoltre, la terra descritta da D’Annunzio, è una natura idilliaca, ma fatta anche di violenza, passioni. Diciamo
quindi che in generale nelle sue prime opere si vede ancora una matrice verista ma anche delle tematiche
della letteratura decadente, una sorta di via di mezzo. Arriviamo agli anni ’80, dove l’influenza decadente si
farà sentire sempre di più e in particolare modo sentire l’influenza dei decadenti francesi e inglesi. Scrive in
questo periodo una serie di opere poetiche che già rappresentano l’idea che lui ha di come bisogna scrivere
a poesia: una poesia basata sul bello, sull’estetico, una poesia ricercata, elegante, artificiosa, che trae
ispirazione da molte fonti letterarie, come per esempio tutti i poeti classici, e che si basa su questa
affermazione di D’Annunzio - “il verso è tutto”. L’estetica è fondamentale, entriamo nella fase dell’estetismo
dannunziano; da qui in avanti nascerà definitivamente questo personaggio dell’esteta che, rispetto al
mondo borghese, si isola in un mondo a parte, dove tutto è bello, fatto di arte. Non solo teorizza questa
figura, ma la vuole vivere in prima persona, lui fa questa vita. Esteta e intellettuale che cercano di
sopravvivere a questo mondo borghese, cercano di sfruttare questo mondo a loro favore, e, in questo
riesce, riesce a tigrare il problema sociale a suo favore. Allo stesso tempo si rende conto che questa è una
condizione fragile, in cui gli intellettuali riescono sì a vivere, ma con difficoltà.
IL PIACERE : Una delle opere in cui meglio emerge la sua capacità di scrittura. Esce nel 1889. Il protagonista
di questo romanzo è proprio un esteta, chiamato Andrea Sperelli, che rappresenta il perfetto dandy
aristocratico; In Andrea possiamo vedere D’Annunzio stesso. Giovane aristocratico che vive in un mondo
fatto d’arte, che dedica la sua vita al piacere e al lusso, seduce una donna dopo l’altra, ma non riesce mai a
dimenticare il suo primo amore, Elena Muti. Infatti, dopo che si conclude la relazione con lei, è attratto da
un’altra donna già sposata, Maria Ferres, che però riesce a resistere alle sue lusinghe. Improvvisamente
Elena torna a Roma ed è sposata, e a questo punto è combattuto su quale delle due donne preferisca; non
riesce a decidersi e le due donne lo capiscono. Perde sia l’una che l’altra e questo lo fa cadere in una
“stanchezza di vivere” quasi. Tutta la prima parte dell’opera è una sorta di lungo flashback della sua prima
storia d’amore, la narrazione vera e propria inizia quando Elena torna a Roma. Il suo giudizio sul ragazzo
non è chiaro, nel descrivere Andrea, non si riesce a capire se disprezzi il suo stile di vita che conduce, o se in
realtà la sua critica sia solo apparente, finge di criticarlo perché deve farlo, ma che in realtà vorrebbe vivere
la sua vita. Lo stile è colto, elegante, sempre tutto portato all’estremo, con un utilizzo della lingua molto
raffinato; è un grado di utilizzare parole straniere, proveniente dalla classicità ecc, quindi è anche uno
sfoggio delle sue abilità. Nella prima parte ci fa una rassegna dell’albero genealogico degli famiglia Sperelli,
una famiglia di nobili origini, che possiede determinate qualità. GIOVINE SIGNORE
= richiama il giovine signore dell’opera di Parini - Il giorno. In Andrea Sperelli c’è un po’ di D’Annunzio,
rappresenta ciò che lui vorrebbe essere, ma non si sa; si legge nel testo. Forse lo fa anche per non lasciare
che la sua opinione sia rivelata e che possa non piacere al pubblico. “Habere, non haberi”- Avere e non
essere posseduto - la libertà personale per lui era fondamentale. Ciò che gli interessa è l’estetica, quasi più
della cultura. Nell’ultima parte mette in risalto i limiti e le debolezze di Andrea, la difficoltà lo farà entrare
in crisi.
IL TRIONFO DELLA MORTE: Il protagonista anche qui è un esteta colpito da, quella che D’Annunzio definisce
una “malattia interiore”, che lo porta ad una ricerca di un nuovo modo di vivere la vita. Ciò che rende la sua
vita difficile è la società in cui si trova a dover vivere; l’unica soluzione sembrerebbe quella di vivere la vita
come se fosse un’opera d’arte, di tuffarsi nella pienezza della vita, ma che in questo caso, il protagonista
non è ancora in grado di fare ciò; A prevalere infatti saranno le forze negative che lo porteranno a
suicidarsi. Il protagonista per lui rappresenta la sua parte “oscura”: decidere di farlo morire significa di
essersi liberato della sua parte “oscura” in maniera definitiva, essere finalmente libero di essere
quell’intellettuale “super uomo” che può essere una guida vate all’interno della società; influenza di
Nietzsche da qui in avanti. Intellettuale che rifiuta di conformarsi al mondo borghese e che si eleva al di
sopra di esso.
LE VERGINI DELLE ROCCE: E’ il manifesto definitivo del “super uomo” di D’Annunzio, emerge al meglio la
sua nuova ideologia, dove emerge questo nuovo intellettuale che “gira” in maniera positiva, ciò che c’è di
negativo della società. Chiaramente questa evoluzione non avviene da un momento all’altro.
IL FUOCO: La caratteristica principale è quella di avere un personaggio indagato psicologicamente in modo
esagerato.
FORSE CHE SI’ FORSE CHE NO: Ogni elemento si carica di una simbologia, tutto è simbolo di qualcos’altro, si
va verso un’estremizzazione a livello di scrittura. Accanto ad un D’Annunzio romanziere, troviamo anche un
D’Annunzio poeta. La sua produzione lirica copre circa quarant’anni, inizia da giovanissimo a scrivere
poesie; significa che è una produzione molto varia, fortemente influenzata dagli avvenimenti storici e
sociali. Attraverso le sue poesie possiamo capire anche ciò che avviene a livello storico, forte
contaminazione. E’ uno scrittore “onnivoro”, prende spunto da tutto, molto ricettivo di fronte a quello che
gli accade. Il suo progetto è quello di riunire in un’opera summa tutti i suoi componenti poetici. Doveva
essere composta da sette libri che nell’ideale di D’Annunzio avrebbero raccontato tutto il reale. Nel 1903
termina e pubblica i primi tre libri intitolati: MAIA, ELETTRA e ALCYONE. La maggior parte di questi libri
prende il nome dalle stelle delle pleiadi. Nel 1912 viene concluso MEOPE. Viene pubblicato postumo
ASTEROPE, che raccoglie poesie inspirate alla prima guerra mondiale. Le ultime due non le scrive; opera
incompiuta.
MAIA: Non è un insieme di poesie, ma un unico grande poema di più di ottomila versi. Viene meno la
metrica tradizionale, vediamo il D’Annunzio sperimentale, utilizza un verso libero e vengono meno tutte le
caratteristiche generali della poesia tradizionale. E’ a tutti gli effetti una sorta di lode alla vita; inizia ad
emergere il concetto del panismo, in cui D’Annunzio si immedesima in tutte le forme viventi. Il poema parla
di una sorta di viaggio mitico in Grecia che aveva effettivamente compiuto. Si presenta come una sorta di
Ulisse che compie questo viaggio in un passato mitico, passato oncolico, messo subito a confronto con le
metropoli moderne e diventa ancora un’occasione per parlare della “mostruosità” della civiltà moderna.
Emerge ancora la nuova figura dell’intellettuale vate, che cerca anche all’interno di questa nuova società
qualcosa a cui aggrapparsi per continuare ad essere una guida; cerca di vedere qualcosa di positivo, perché
se così non fosse, non avrebbe modo di ergersi a guida. Rappresenta una svolta: pur di essere una guida
cerca di trovare una sorta di “luce” infondo al tunnel.
ELETTRA: Le poesie che la compongono sono poesie politiche e sono poesie di propaganda politica, dove
ancora un volta si sente forte il confronto tra passato e presente: un passato idealizzato e un presente che
invece ha bisogno di un riscatto sciale e politico, e un futuro che di fronte ad un riscatto, potrà essere
positivo. Guardando al passato, si concentra su alcuni periodi storici precisi, da cui secondo lui
bisognerebbe prendere esempio: parte dal periodo romano, rinascimento, risorgimento ecc. Come guida
verso questo momento glorioso, si pone lui stesso
ALCYONE: E’ il terzo libro e qui, definitivamente, viene messo in scena il panismo dannunziano, fusione con
la natura. Il poeta si fonde con la natura che lo circonda. Sono componimenti di evasione dal mondo e di
contemplazione di ciò che ci circonda. Comprende 88 componimenti ed è una sorta di diario di una vacanza
estiva. Scrive le poesie tra il 1899 e il 1903, disegno più organico. La sua idea è quella di raccontare
attraverso essi, il passaggio dalla primavera verso l’arrivo dell’autunno. La stagione esatta è quella estiva,
descritta come la stagione più vitale, la stagione perfetta in cui fondersi con la natura, mettere in pratica il
concetto di panismo. A livello stilistico troviamo versi musicali, tanto che la parola arriva a dissolversi,
troviamo un dialogo , un linguaggio, all’interno delle quali le parole si caricano sempre di significato,
all’interno delle quale le immagini sono sempre in corrispondenza l’una con l’altra. All’interno di questi
componimenti abbiamo la possibilità di vedere davvero la sua personalità, un privilegio, si fonde con la
natura (intellettuale); vediamo una poesia libera, genuina, libera da ogni forma di artificio. Riesce a
trasumanare, godere di un’esperienza che non è poi così tanto umana, va oltre i limiti umani. Capiamo
molto bene il desiderio di vivere a pieno ogni esperienza, tutte le esperienze che vadano oltre il limite
umano. Questa sua musicalità sarà utilizzata da Pascoli.
LA PIOGGIA NEL PINETO: Uno dei suoi compimenti più conosciuti, quello in cui si vede meglio il suo
concetto di panismo. Compone questa poesia nel 1902. Da un punto di vista stilistico emerge la sua
bravura, ricco di virtuosismi stilistici e lessicali ecc, ed emerge questo concetto di musicalità; troviamo tutte
le sue tecniche qui, le sue ideologie, “l’opera summa”. L’ambientazione è Marina di Pisa, naturale, dove si
realizzerà questo panismo dannunziano. La poesia è dedicata ad Eleonora Duse, che ribattezza con il nome
di Ermione, rimando mitologico. Si trovano all’interno di questa pineta quando all’improvviso inizia a
piovere e la poesia descrive proprio il rumore delle gocce di pioggia che cadono sulla vegetazione. Piano
piano il Pete e la donna si trasformano in degli elementi naturali. Quattro strofe, versi liberi. Fin da subito
notiamo l’insistenza dell’anastrofe “piove”. La prima parola con cui si apre è “taci” che è l’invito che il poeta
fa alla donna, perché per lui non è più il momento di ascoltare parole umane, ma il momento di ascoltare il
rumore della natura, in particolare di queste gocce, che a seconda della foglia su cui cadono, producono un
rumore diverso. Questo suono per lui è un linguaggio ricco di significato. Al verso 20 ci parla di “volti
silvani”, è qui che inizia la trasformazione, del panismo. Nella seconda strofa si percepisce bene che ogni
arbusto, ogni pianta, produce un suono diverso, un suono incessante, la pioggia sembra diventare come
una sorta di pianto del cielo. Prosegue questa loro trasformazione, questo panismo da a loro una nuova
vitalità. Continua questo suono incessante del cadere delle gocce e fa tacere altri rumori, come quello delle
cicale, ma allo stesso tempo ne fa nascere altri, come quello delle rane. Nell’ultima strofa si conclude
questa trasformazione panica della donna, il cui volto D’annunzio lo descrive verdeggiante, come se fosse
una pianta, e tutto diventa più vitale, vegetazione che la abbraccia; dal verso 116 c’è una ripresa identica
dei versi dal 20 al 32. Questi versi talvolta molto lunghi, corti, o con solo della parole, creano proprio un
ritmo, ogni parola si carica di un significato. Quello che vediamo è un po’ una sorta di climax, piano piano
l’assimilazione è completa. La musicalità è data da delle tecniche stilistiche, ma anche
dall’accompagnamento arguto di alcune parole, dall’utilizzo intelligente di allitterazioni, è come se fosse in
grado di farci percepire i suoni che scrive, non solo ce li fa immaginare.
ITALO SVEVO
Aron Hector Schmitz (Italo Svevo è uno pseudonimo), nacque a Trieste nel 1861 da una famiglia borghese. Il
padre era un commerciante di vetrami, e per questo venne indirizzato agli studi di commerciante in
Germania, ma la sua vera vocazione era quella di scrittore. Successivamente Svevo conobbe la
declassazione a causa del fallimento dell’industria del padre. Alla morte della madre, egli sposò poi la
cugina Livia Veneziani, che oltre a placare il suo animo rendendolo un padre sereno, innalzò anche la sua
condizione sociale, da piccolo borghese, divenne dirigente dell’industria di famiglia, lasciando l’attività
letteraria, e guardandola come qualcosa di dannoso, e ridicolo. Però, comunque gli interessi culturali
permangono, pian piano riaffiora il bisogno di scrivere, prende lezioni da James Joyce, e con Freud conosce
la psicoanalisi. Con lo scoppio della Prima guerra mondiale egli riprende a scrivere, poiché la fabbrica di
vernici fu requisita dalle autorità austriache. Quando scrisse il suo terzo romanzo: La coscienza di Zeno, non
ebbe molto successo così lo mandò all’amico Joyce che lo portò al successo in Francia. Solo in Italia rimase
intorno a lui un’atmosfera di diffidenza, l’unica eccezione fu costituita da Montale che gli dedicò un saggio
riconoscendo la sua grandezza. Progettò un quarto romanzo sempre con protagonista Zeno, di cui scrisse
ampi frammenti, ma nel 1928 morì in seguito a un incidente d’auto. Svevo non è un intellettuale alla
maniera tradizionale perché nasce in ambiente triestino, una città in cui convergono tre civiltà, italiana,
tedesca e slava, un intreccio di culture, infatti il suo stesso nome rimanda alla cultura italiana e quello
tedesca. Poi pur non essendo religioso, era di famiglia israelitica, di radici ebraiche, e non è un letterato
puro, ossia la sua attività principale non è la letteratura, egli è un borghese che fu prima impiegato di banca,
poi dirigente d’industria e uomo d’affari; la sua cultura fu acquisita da autodidatta.
LA CULTURA DI SVEVO
Le fonti che consentono di ricostruire la fisionomia letteraria e culturale di Svevo sono la dichiarazione di
poetica premessa al racconto LE CONFESSIONI DEL VEGLIARDO ed il PROFILO AUTOBIOGRAFICO. Alla base
dell’opera letteraria di Svevo vi è una robusta cultura filosofica ed un grande interesse verso le scienze.
Schopenhauer ebbe un peso determinante nella sua formazione per il quale “tutto ciò che è reale è
razionale” e che affermava un pessimismo radicale, indicando come unica via di salvezza dal dolore la
contemplazione e la rinuncia alla volontà di vivere. Più tardi Svevo conobbe anche Nietzsche e da lui trasse
l’idea del soggetto non come salda e coerente unità, ma come pluralità di stati in continua trasformazione
ed anche un profondo disprezzo per le convenzioni del mondo borghese.
L’atro grande punto di riferimento per Svevo fu un pensatore e scienziato che appare agli antipodi rispetto a
Schopenhauer, Charles Darwin, l’autore della teoria evoluzionistica, fondata sulle nozioni della “ lotta per la
vita” e per il quale la “volontà” è l’elemento irriducibile e inconoscibile che sta all’origine del mondo. Pur
ammirando questi maestri, bisogna tener presente che Svevo tendeva ad utilizzarli in modo critico, come
strumenti conoscitivi che fornissero risposte alle sue personali esigenze. Così di Schopenhauer apprezzava
soprattutto la riflessione sul “carattere effimero e inconsistente della nostra volontà e dei nostri desideri” ed
il tentativo di smascherare gli autoinganni degli uomini che si illudono di avere libertà di scelta. Infatti nei
suoi romanzi e nei suoi racconti, Svevo mira sempre a smascherare gli autoinganni dei suoi personaggi, a
smontare gli alibi che essi si costruiscono per nascondere ai propri occhi le vere, inaccettabili motivazioni
dei propri atti, per tacitare i sensi di colpa e sentirsi innocenti. Allo stesso modo, per influenza del
determinismo positivistico darwiniano, Svevo fu indotto a presentare il comportamento dei suoi eroi come
prodotto di leggi naturali immodificabili, non dipendenti dalla volontà; però seppe anche cogliere come quei
comportamenti avessero le loro radici nei rapporti sociali e fossero quindi un prodotto non di natura, ma
storico. In questo modo arrivava a mettere in luce la responsabilità individuale dell’agire nei confronti della
coscienza borghese moderna. L’atteggiamento critico di Svevo dipende anche dall’influenza del pensiero
marxista di cui ebbe una buona conoscenza e che apprezzava per il socialismo. Dal marxismo lo scrittore
trasse la chiara percezione dei conflitti di classe che percorrono la società moderna, ma soprattutto la
consapevolezza del fatto che tutti i fenomeni, compresa la psicologia individuale, sono condizionati dalla
realtà delle classi. Di conseguenza la psicologia dei protagonisti dei suoi romanzi è legata alla realtà della
classe sociale a cui il singolo individuo appartiene, e i conflitti che li caratterizzano sono determinati dal
contesto costituito dalla società borghese tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento. Del marxismo
però Svevo non condivise le concrete proposte politiche, la dittatura del proletariato e la collettivizzazione e
preferì prospettive di tipo utopistico. Problematico fu il rapporto di Svevo con la psicoanalisi, che pure ebbe
un posto così importante nella sua riflessione e nella sua scrittura letteraria, a partire dal primo incontro,
avvenuto nel 1910. Verso Freud lo spingeva l’interesse per le tortuosità e le ambivalenze della psiche
profonda. Ma Svevo non apprezzò la psicoanalisi come terapia, che mira a guarire il malato di nevrosi, bensì
come puro strumento conoscitivo, capace di indagare più a fondo la realtà psichica. Sul piano letterario egli
stesso, nel Profilo autobiografico, chiarì di esser stato influenzato da romanzieri francesi come Balzac,
Stendhal e Flaubert che in Madame Bovary rappresenta la miseria della coscienza piccolo borghese. Infatti,
si parla di bovarismo dei personaggi sveviani, ossia eroi sognatori che evadono dalla misera vita quotidiana
in una realtà alternativa. Allo stesso modo Flaubert ispirò a Svevo la derisione dell'inettitudine della capacità
di illudersi, di mentire a se stessi dei protagonisti dei suoi primi due romanzi. Svevo subì anche l’influenza
del naturalismo di Zola, che si intravede nelle descrizioni minuziose degli ambienti, e di Bourget con il
romanzo psicologico che si rivela nell’interesse verso l’analisi dei processi interiori.Influenza determinante
ebbero anche scrittori russi come Turgheniev, che presenta personaggi inetti, e Dostoevskij, che coglie gli
impulsi più ambigui e segreti della psiche umana, e gli umoristi inglesi come Swift, Dickens, Sterne. Lo
scrittore irlandese James Joyce, amico di Svevo contribuì sicuramente a rafforzare nello scrittore triestino la
fiducia nelle proprie forze intellettuali e lo sostenne quando Svevo voleva smettere di scrivere. Alcuni critici
in passato avevano affermato che il “flusso di coscienza” dell’Ulisse di Joyce e la Coscienza di Zeno di Svevo
fossero molto simili, ma la critica attuale ha ormai definitivamente tolto credito a questo luogo comune: la
tecnica narrativa della Coscienza non ha nessun punto di contatto con quella dell’Ulisse. Se c’è un rapporto
tra le due opere, è solo al livello più generale e generico di una certa visione del mondo dell’avanguardia
novecentesca.
LA LINGUA
Nei suoi romanzi Svevo usa un linguaggio molto distante da quello della tradizione letteraria italiana. In un
primo momento la critica ha ritenuto che questo fosse un grave difetto dello scrittore, ma in tempi più
recenti si è compreso una sua scelta linguistica era finalizzata a riprodurre fedelmente il modo di esprimersi
dei personaggi. La lingua è influenzata dal dialetto triestino e dal tedesco.
IL PRIMO ROMANZO: UNA VITA (1892):
Svevo pubblica questo romanzo a sue spese ed inizialmente il titolo doveva essere “Un inetto”, ma l’opera
suscita scarsissima attenzione nella critica e nel pubblico.
• Trama: Il protagonista è Alfonso Nitti. Il padre, medico condotto, è morto, lasciando la famiglia in
ristrettezze. Alfonso Nitti lascia dunque il paese e la madre e si trasferisce a lavorare a Trieste, presso la
banca Maller. Afflitto da noia e insoddisfazione per la propria mediocre esistenza, sogna di diventare
scrittore. L’occasione per il riscatto della sua vita gli è offerta da un invito a casa del padrone della banca,
Maller. Qui conosce Annetta, la figlia di Maller, anch’essa con ambizioni letterarie, e il cugino di lei, Macario,
un giovane brillante e sicuro di sé con il quale stringe amicizia e che diventa per lui una sorta di modello da
imitare. Alfonso Nitti avvia una relazione con la donna, ma questa non gli dà né nuovi entusiasmi né gioia
autentica. Anzi, nel momento in cui gli si prospetta l’occasione di chiedere la sua mano, fugge al paese
natale accampando come pretesto una malattia della madre. Tornato al paese, trova effettivamente la
madre gravemente ammalata. Dopo la sua morte ritorna di nuovo a Trieste e trova la situazione mutata.
Annetta, sdegnata con lui, si è fidanzata con il cugino ed egli viene retrocesso a una posizione impiegatizia
inferiore. Alfonso Nitti affronta indignato il signor Maller, ma nell’emozione si lascia sfuggire frasi che
vengono interpretate come ricatti. Scrive ad Annetta e le chiede un appuntamento, per una definitiva
spiegazione. Ma all’appuntamento si presenta il fratello, che lo sfida al duello. Alfonso, sentendosi
«incapace alla vita», si suicida, ponendo fine al suo senso di inutilità e inadeguatezza
I modelli letterari: Una Vita ha legami con i modelli del romanzo moderno: da un lato il romanzo della
“scalata sociale”, in cui un giovane provinciale ambizioso si ripropone di conquistare il successo nella società
cittadina, anche se Alfonso si limita a sognare il successo, senza mai muovere un dito per conquistarlo, anzi
fuggendo dinanzi alle occasioni che gli si presentano; dall’altro lato il romanzo di formazione, che segue il
processo attraverso cui un giovane si forma alla vita. Vi si trova anche l’influsso di Zola e della scuola
naturalistica, nella volontà di ricostruire un determinato quadro sociale che si può notare nella descrizione
minuziosa degli aspetti più tecnici del lavoro della banca. Ma questo interesse sociale e documentario
costituisce solo la cornice del romanzo, poiché al centro della narrazione si colloca l’analisi della coscienza
del protagonista.
L’inetto e i suoi antagonisti: Il personaggio di Alfonso incarna la figura dell’”inetto” che ritornerà nei libri
successivi di Svevo. L’inettitudine è sostanzialmente una debolezza, un’insicurezza psicologica, che rende
l’eroe “incapace alla vita”. Alfonso è un piccolo borghese che dopo la morte del padre vive il declassamento
e questa sua diversità viene sentita come inferiorità. L’impotenza sociale diviene impotenza psicologica: il
giovane non riesce più a coincidere con un’immagine virile piena, forte e sicura, come quella imposta dalla
società borghese ottocentesca. E per questo si rifugia nel sogno ad occhi aperti, immaginando la gloria
letteraria e si costruisce una maschera per consolarsi da una vita vuota ed inappagata. Al suo contrario i suoi
antagonisti esibiscono tutte le prerogative che a lui mancano: prima di tutto Maller, il padrone, vera
incarnazione della figura del Padre, possente e terribile; poi il Rivale: il ruolo è ricoperto da Macario che
possiede tutte quelle doti che Alfonso non ha: brillante, disinvolto in società, sicuro di sé e perfettamente
adatto alla vita, conformato dalla natura alla lotta, tanto quanto Alfonso è incapace e sconfitto in partenza.
L’impostazione narrativa: La narrazione è condotta da una voce “fuori campo” e quindi in terza persona e
tutto si focalizza sul protagonista: il punto di vista da cui sono presentati gli eventi narrati è collocata nella
sua coscienza; tutto passa attraverso il filtro della sua soggettività; il lettore vede le cose come le vede
Alfonso. La voce del narratore interviene a giudicare le sue azioni o a smascherare i suoi autoinganni:
emerge così l'atteggiamento critico dell'autore nei confronti delle menzogne e delle doppiezze del suo
personaggio. In “Una vita” la coscienza del protagonista ci è mostrata da Svevo come un complicato
labirinto nel quale si intrecciano sogni, ambizioni, consapevolezze e contraddizioni e quindi un'analisi nella
psiche di Alfonso così intricata da confondere il lettore. Anche se nell’anno in cui esce Una vita, Freud
non aveva ancora pubblicato le sue teorie, Svevo ha delle intuizioni geniali vicine alla psicanalisi: i
comportamenti del protagonista del romanzo sono inconsapevolmente, ma inevitabilmente influenzati dall'
inconscio cioè la parte più remota e segreta della coscienza.
SENILITÀ(1898)
Il secondo romanzo di Svevo, Senilità , esce nel 1898 e non suscita né l'interesse del pubblico né quello della
critica. Il protagonista è Emilio Brentani, impiegato in un’ assicurazione a Trieste e ha una reputazione per
un romanzo pubblicato anni prima. Egli ha sempre evitato pericoli e piaceri appoggiandosi alla sorella
Amalia e all’amico Balli, scultore. Insoddisfatto della sua vita e si propone di divertirsi senza impegno con
una ragazza, Angiolina, ma se ne innamora e la idealizza come una donna angelicata. Cade in preda alla
gelosia quando scopre che Angiolina ha molti amanti, tra cui l’amico Balli, giovane forte e sicuro di sé. Anche
la sorella Amalia si innamora di Balli, e muore per una polmonite quando Emilio fa allontanare Balli da casa
sua. Dopo aver scoperto un ulteriore tradimento da Angiolina e dopo la morte di Amalia, Emilio torna a
rinchiudersi nel guscio della sua senilità (vecchiaia) guardando alla sua avventura come un vecchio alla sua
gioventù. E nei suoi sogni fonde insieme le due fondamentali figure femminili della sua vita, Amalia e
Angiolina, in un’unica figura, pensosa e intellettuale, che diviene anche il simbolo della sua utopia (realtà)
socialista. Il primo titolo pensato da Svevo per il romanzo era “Il carnevale di Emilio”, sia perché gran parte
della vicenda si svolge nel periodo del carnevale, sia perché la relazione di Emilio con Angiolina, è simile al
breve tempo del carnevale in cui ci si diverte (la gioventù) per poi ritornare alla noia della vita quotidiana (la
senilità).
Struttura del protagonista: Il nuovo romanzo si concentra sui 4 personaggi centrali. Non sono più affrontati i
problemi di natura sociale, di conseguenza i fatti esteriori, l’intreccio romanzesco, la descrizione di ambienti
fisici e sociali hanno poco rilievo: è la dimensione psicologica che l’autore si preoccupa in primo luogo di
indagare. La parte fondamentale è assunta dall’analisi del protagonista. Emilio Brentani è un piccolo
borghese, la cui squallida condizione è anche nel suo caso effetto di un processo di declassazione; al tempo
stesso è un intellettuale. Dal punto di vista psicologico è un debole, un inetto, che ha paura di affrontare la
realtà e per questo si è costruito un sistema protettivo, un limbo, conducendo una vita calma e sicura che lo
fa rinunciare ad ogni godimento che viene definita senilità. È la negazione del modello ottocentesco del
borghese attivo e forte: psicologicamente immaturo, egli non sa guardare lucidamente in se stesso e non sa
affrontare la vita e Angiolina diventa per lui un simbolo di salute e pienezza vitale. Solo con lei Emilio
assapora per la prima volta il piacere e scopre il mondo, ma anche la sua inettitudine ad affrontare la realtà.
Questa inettitudine è soprattutto un’immaturità psicologica quasi infantile. Emilio ha paura della donna e
del sesso e per questo trasforma nei suoi sogni Angiolina, in una creatura angelica e purissima, chiaro
equivalente della madre. Infatti Emilio rivela soprattutto un bisogno di dolcezza materno. Il possesso fisico
lo lascia insoddisfatto e turbato, perché contamina quel puro ideale. L’atteggiamento di Emilio dimostra che
egli non riesce più a coincidere con una certa immagine virile, forte, vitale, energica ossia quella proposta
dallo stereotipo della società borghese ottocentesca. Emilio incarna la crisi del piccolo borghese e la sua
impotenza sociale che si traduce in impotenza psicologica nell'affrontare la realtà. Balli invece è un uomo
forte, sicuro di sé, dominatore. In realtà dietro l’apparenza, cela un’intima debolezza. I due personaggi
incarnano due risposte diverse ma complementari alla stessa crisi dell’individuo: Emilio rappresenta il
chiudersi vittimistico nella sconfitta e nell’impotenza, Balli rappresenta il tentativo di rovesciare l’impotenza
in onnipotenza, mascherando la debolezza con l’ostentazione della forza dominatrice.
Impostazione narrativa: Senilità è un romanzo focalizzato sul protagonista. I fatti sono filtrati attraverso la
sua coscienza e sono presentati come li vede lui. Ma poiché Emilio è portatore di una falsa coscienza e si
costruisce sempre maschere, alibi, autoinganni, il suo punto di vista è inattendibile. Questa inattendibilità
viene denunciata da Svevo attraverso tre procedimenti narrativi: 1)la voce del narratore che interviene con
commenti per smascherare le menzogne e agli autoinganni di Emilio; 2)il contrasto tra le bugie di Emilio e
la realtà che si delinea attraverso la narrazione; 3) l’utilizzo di un linguaggio del protagonista pieno di
stereotipi e di banalità che mette in luce la chiusura dei suoi schemi mentali e dei suoi orizzonti
culturali. Attraverso quello che può sembrare un puro romanzo psicologico, interessato all'esplorazione
dell'interiorità, Svevo fornisce l'analisi critica della mentalità e degli stereotipi culturali, letterari, linguistici
dell'intellettuale piccolo - borghese. L'autore ha un atteggiamento critico nei confronti del suo inetto che
rappresenta la miseria e le contraddizioni di una classe sociale in crisi.
LETTURA
IL RITRATTO DELL’INETTO – da “Senilità”, sono le prime pagine in cui si può cogliere la fisionomia del
protagonista grazie anche agli interventi del narratore, è evidente che egli mente in due casi: nasconde ad
Angiolina il fatto che per lui la ragazza non potrà essere più di un <<giocattolo>>, e mente anche a se stesso,
dicendo di non voler instaurare un legame serio a causa della famiglia e della carriera. Ma egli non ha
famiglia, non ha moglie né figli, bensì una sorella, e egli non ha una vera e propria carriera ma solo un
<<impieguccio>>. Quindi Emilio ha paura di affrontare la vita, rinuncia a vivere e si chiude nel nido familiare,
è questo il concetto di Senilità. Ma comunque d’altro canto egli sente il bisogno di vivere e di provare
piaceri, uscire dal nido, conoscendo Angiolina. Angiolina è trasfigurata dallo stesso Emilio in simbolo, ella è
emblema della vita della giovinezza e della salute, lui è emblema della senilità e mortificazione vitale, quindi
vi è questa contrapposizione malattia-salute. Già in queste prime pagine vediamo che il narratore non si
eclissa ma interviene a commentare e a smascherare le sue menzogne, come per esempio smonta l’alibi
della famiglia e della carriera.
LA COSCIENZA DI ZENO (1925)
Il terzo romanzo di Svevo appare 25 anni dopo Senilità, quindi appare diverso nella forma, anche perché vi è
stata la Prima guerra mondiale, le avanguardie, l’affacciarsi della psicoanalisi e della teoria della relatività e
da tutto ciò egli viene influenzato. Infatti, vediamo un nuovo impianto narrativo, la voce non è più esterna,
ma sembra una confessione autobiografica che il protagonista Zeno Cosini scrive su invito del suo
psicoanalista, il dottor S., a scopo terapeutico, ma Zeno si sottrae poi alla cura e il dottore si vendica
pubblicando questo manoscritto. La parte finale del libro è costituita da una sorta di diario di Zeno, in cui
spiega il suo abbandono della terapia. Anche il tempo muta, Svevo lo chiama <<tempo misto>>, poiché non
vi è un tempo lineare, cronologico, gli avvenimenti non si susseguono secondo una logica, ma il passato di
Zeno riaffiora e si intreccia continuamente con il presente, così la narrazione non appare scorrevole, ma
spezzata. Il protagonista si sforza di ricostruire il proprio passato intorno ad alcuni temi fondamentali, a
ciascuno dei quali è dedicato un capitolo e quindi la trama non si svolge in modo lineare ma va avanti e
indietro nel tempo. Dopo una Prefazione del dottor S. ed un Preambolo in cui Zeno racconta dei suoi
tentativi per risalire con la memoria alla prima infanzia, vi sono 5 capitoli : il vizio del fumo, la morte del
padre, la storia del proprio matrimonio e il rapporto con l’amante e la storia dell'associazione commerciale
con il cognato Guido. Infine, si trova il capitolo “psico-analisi”, che contiene il diario in cui Zeno sfoga il
proprio risentimento contro lo psicanalista e racconta la sua presunta guarigione.
TRAMA
Zeno è un inetto come Alfonso ed Emilio, anche se non appartiene più alla piccola borghesia, ma alla ricca
borghesia commerciale. Nella vita giovanile egli conduce una vita oziosa, senza mai dedicarsi ad un’attività
seria. Il padre non lo stima e lo considera irresponsabile ed immaturo, tanto che alla sua morte lo affida alla
tutela del suo amministratore Olivi. Zeno ama il padre, ma nel tempo la mancanza di stima genera in Zeno
reazioni ostili ed aggressive. Il vizio del fumo di Zeno, che si collega a molti sensi di colpa, ha nel suo fondo
inconscio proprio l'ostilità contro il padre ed il desiderio di avere le sue proprietà virili e di farle proprie.
Quando sta per morire il padre da uno schiaffo a suo figlio, e Zeno resta Nel dubbio angoscioso se sia stato
concesso involontario oppure una punizione e cerca quindi di costruirsi giustificazioni per notificare la
propria coscienza. Dopo la morte del padre, Zeno va subito alla ricerca di una nuova figura forte e sicura di
sé, un antagonista come Maller o Balli, e la trova in Malfenti, un uomo d'affari in carne immagini tipica del
Borghese abile sicuro di sé. Propone il matrimonio alla figlia di Malfenti, la più bella, Ada, ma lo rifiuta
perché fidanzata con Guido, un altro Antagonista sicuro di sé, all’altra figlia Alberta che lo rifiuta, e allora si
propone alla più brutta, Augusta, che, in realtà, il suo inconscio sceglie per lui perché si rivela dolce e
affettuosa come egli desiderava. Augusta è il perfetto campione di “sanità borghese”, l'antitesi di Zeno che
invece è diverso ed incapace, nel suo intimo, di integrarsi in quel sistema di vita. Zeno è malato e la sua
malattia è la nevrosi. Alla moglie Zeno affianca la giovane amante Carla, una ragazza povera che egli finge di
proteggere in modo paterno, ma il rapporto è molto difficile per i sensi di colpa di Zeno verso la moglie
finché Carla non lo abbandona per un uomo più giovane. il rivale in questo libro è incarnato dal cognato
Guido che ha sposato Ada. Egli è un uomo disinvolto e sicuro di sé e Zeno nutre verso di lui sentimenti
contrastanti: da un lato è suo amico, dall'altro lo odia profondamente proprio perché incarna quegli ideali di
persona a cui Zeno aspira, ma che in realtà non vuole diventare. Ormai anziano Zeno intraprende la cura
psicoanalitica, ma presto si ribella alla cura poiché il dottore lo accusa di complesso edipico. A questo punto
però lo scoppio della guerra gli favorisce alcune speculazioni commerciali che lo portano ad essere un abile
uomo d’affari, e così Zeno si proclama perfettamente guarito, ma in realtà sappiamo che egli non è guarito
davvero. Il narratore di questo romanzo è interno e la sua opinione è inattendibile, poiché colma di
autoinganni e menzogne determinati da processi inconsapevoli dell’inconscio, per cui la coscienza di Zeno
potrebbe essere chiamata l’incoscienza di Zeno. Inoltre, a differenza degli altri due romanzi, Zeno non è solo
oggetto di critica ma anche soggetto, egli critica tutto ciò che gli è intorno, dato che lui è caratterizzato da
una malattia, critica tutti gli altri “sani e normali”, questo perché egli ha un disperato bisogno di essere
normale, vorrebbe essere un buon padre di famiglia, un abile uomo d’affari, ma non riesce. La sua visione
della vita è straniata, fa apparire “malati” coloro che invece sono “sani”. Zeno non assume un atteggiamento
critico verso il mondo che lo circonda, ma al contrario avverte un disperato bisogno di salute cioè di
normalità. Ma il protagonista scopre anche che la salute è anche essa malattia e, in questo modo, mette in
luce come le certezze di chi si dichiara soddisfatto della propria vita, non siano fatto così certe ma al
contrario rivelano molte ambiguità. Rispetto ai primi romanzi Svevo mostra un atteggiamento più aperto è
problematico nei confronti della figura dell'inetto, che viene considerato positivamente come un abbozzo,
un individuo ancora non cristallizzato in una forma definitiva e per questo capace di evolversi in qualsiasi
direzione, mentre i sani, che sono già perfettamente compiuti, sono incapaci di evolversi ulteriormente
fissati in una forma rigida e definitiva. Così, in questo romanzo, l'atteggiamento di Svevo verso l'inettitudine
risulta meno critico: l’inetto infatti non è più considerato un individuo inferiore, condannato a sentirsi
sconfitto e inadatto al mondo, ma è un essere in divenire disponibile a ogni forma di sviluppo che rivela
anche lati positivi.
I RACCONTI E LE COMMEDIE: Ai tre romanzi di Svevo si accompagnano articoli, saggi, pagine di diario, che
non furono raccolti organicamente. Solo tre fra essi furono pubblicati dall’autore: “Una lotta”
sull’”Indipendente”, poi sempre sull’”Indipendente” pubblica sotto lo pseudonimo di Samigli “L’assassinio di
via Belpoggio”, che anticipa temi dei romanzi a venire, e vi è un’analisi dei processi psicologici innescati da
un omicidio. Sulla rivista “Critica sociale” pubblica “Tribù”. Sono rimasti anche frammenti di un quarto
romanzo, che come definisce egli stesso è una continuazione di Zeno. Non sono legati tra loro da una trama
ma sono tutti discordanti, e presentano i nuovi membri della famiglia, mentre Zeno è di nuovo un narratore
inattendibile. Inoltre la passione per il teatro accompagnò tutto la vita di Svevo, infatti scrisse delle
commedie, e ce ne sono rimaste solo 13.
Il Fumo, La Coscienza di Zeno Capitolo
Obbedendo alla prescrizione del dottor S., Zeno comincia con il ricordare la propria vita passata. Inizia
ricostruendo la precoce passione per il fumo, nata dal divieto paterno di fumare e intrecciata, nell'arco degli
anni, con ripetute e sempre vane intenzioni di smettere.
Temi: La continua alternanza tra desiderio e rimorso è alla base del complesso rapporto del personaggio con
il fumo. A perpetuare in lui l'attaccamento al fumo è, paradossalmente, l'impegno solenne di astenersene
d'ora in avanti per sempre. Via via Zeno adduce degli alibi per giustificare la propria incapacità di smettere di
fumare. Una figura molto importante per Zeno è quella del padre, con il quale il personaggio ha un rapporto
di amore e odio. Il tema della malattia, centrale in tutto il romanzo, emerge fin dalle prime pagine. In questo
primo capitolo del suo diario, Zeno espone la propria concezione del tempo. Un'altra delle maggiori novità
della Coscienza di Zeno è la continua mescolanza, sul piano narrativo di eventi e giudizio, quest'ultimo
formulato da Zeno a molti anni di distanza.
Analisi: Zeno dedica un intero capitolo del diario a spiegare la sua viziosa passione per il fumo. In apparenza
vorrebbe smettere di fumare, così almeno dice; tuttavia, non riesce mai a realizzare questo proposito: da un
lato afferma di conoscere e desiderare la strada della salute, e dall'altro non si sa decidere ad abbandonare
la via della libertà. Non sapendo decidersi per il fumo o la salute, per vincere l'ansia il protagonista adotta
un compromesso: si abbandona al rituale dell'ultima sigaretta, gustata con una voluttà speciale perché
fumata con la prospettiva ambigua del mai più. La sua esistenza viene così a essere costellata di molte
ultime sigarette, ricordate, con tanto di data, ovunque: sui libri, perfino sulle pareti della sua stanza. Tutto si
presta a essere immortalato mediante un'ultima sigaretta: dalla morte del papa alla nascita del figlio, fino a
giorni numericamente significativi.
Significato del testo
Il comportamento ambiguo di Zeno nei riguardi del fumo è una spia, più in generale, della sua ambivalenza
psicologica come personaggio. Il perpetuarsi del vizio e tutti gli alibi e gli ostacoli per spiegare l’impossibilità
di smettere di fumare infatti rivelano la sua sostanziale inettitudine. La malattia di cui parla non è
semplicemente il vizio del fumo in quanto tale, ma piuttosto l'inefficacia dei suoi continui tentativi di
smettere. La sigaretta diventa nello stesso tempo un sintomo, causa e alibi della malattia: Chissà se
cessando di fumare io sarei divenuto l'uomo ideale e forte che m'aspettavo? Nel testo sono presenti anche
significati chiaramente connessi alla lettura psicoanalitica della realtà (da Freud): Fumare rappresenta infatti
anche la liberazione dalla figura paterna e l'infrazione ai suoi comandi ed il rapporto di amore e odio con il
genitore è un motivo cruciale del romanzo. Freudiano è anche il motivo dell'ultima sigaretta: nella coscienza
dell'individuo, ogni dichiarazione di proposito troppo radicale sottintende sempre l'inconscia volontà di
un'immediata trasgressione. Allo stesso modo Zeno, con l'alibi dell'ultima sigaretta, si garantisce non solo la
soddisfazione di un desiderio, ma anche il piacere supplementare derivante dall'infrazione di un divieto. La
linguistica :Il protagonista, come sempre avviene nel romanzo, è presentato su diversi piani temporali. La
coscienza di Zeno si distingue dai due romanzi precedenti perché il protagonista parla in prima persona.
L'ironia, che in precedenza era prerogativa del narratore, qui si accresce e diviene autoironia, a
testimonianza della maggiore complessità del personaggio.
La morte del padre, La coscienza di Zeno Capitolo
Siamo nel IV capitolo del romanzo, in cui lo scrittore ripercorre il rapporto conflittuale e di incomprensione
avuto sempre col padre. Quest’ultimo era un borghese conservatore dalle idee molto concrete e pieno di
certezze, mentre il figlio appariva come un giovane a volte stravagante e affetto da nevrosi.
2) Sintesi: All’inizio, Zeno fa un ritratto di suo padre e del loro rapporto corrosivo e cattivo, e Zeno vuole
inconsciamente essere proprio un inetto per contrapporsi al padre borghese e sicuro di sé. Così ha questi
impulsi aggressivi, che scatena soprattutto in occasione della malattia del padre, che lo fa apparire debole e
indifeso; Zeno così prova dolore ma allo stesso tempo desidera la sua morte. Quando il padre è ormai
delirante e prossimo alla morte, il medico raccomanda a Zeno di tenerlo calmo e immobile nel letto. Invece,
l’uomo cerca di alzarsi e Zeno lo trattiene con un gesto deciso, ma a questo punto l’uomo colpisce il figlio
con uno schiaffo violento, per ricadere, poi, sul letto, privo di vita. Zeno allora incomincia a sentirsi in colpa,
anche perché, nei giorni precedenti, in un colloquio con i medici, si era dichiarato favorevole a non lasciare il
padre in vita a tutti i costi e così interpreta lo schiaffo come una punizione. Per giustificarsi comincia a
descrivere il padre con <<la chioma bianca>> il corpo <<superbo e minaccioso>>, le mani <<grandi,
potenti>>, per farlo apparire terrificante e giustificare i suoi sentimenti. Subito poi cambia atteggiamento, e
per esorcizzare la figura paterna ne erige un’altra consolante, il padre <<debole e buono>>
3) Analisi e interpretazione
Il rapporto fra padre e figlio è sempre stato conflittuale anche perché le due figure sono una l’opposto
dell’altra. Il padre è un uomo appartenente alla borghesia, sempre molto sicuro di sé ed equilibrato. Il figlio
è superiore al padre dal punto di vista culturale, tuttavia è nevrotico (si lascia prendere facilmente da scatti
d’ira e di nervosismo) e vorrebbe avere l’equilibrio del padre, ma non ci riesce. Il giudizio che Zeno ha del
padre presenta elementi contrastanti. Da un lato, egli rimprovera a se stesso di non aver riconosciuto i primi
sintomi della malattia che hanno portato il vecchio alla morte, di non essersi sforzato abbastanza pere
aiutarlo a fargli conoscere le sue ultime parole. Dall’altro, però ritiene che il vecchio abbia un’eccessiva
fiducia nelle proprie capacità (afferma di conoscere tante cose, tutte le cose). Anche nel loro ultimo incontro
l’incomunicabilità padre-figlie resta. L’episodio dello schiaffo ha delle conseguenza nella coscienza di Zeno.
Esso interpreta lo schiaffo come una punizione e lo fa sentire ancora di più inadeguato nei confronti del
padre; infatti, una volta morto, il padre gli appare con maggiore autorità (rappresentata dal ricordo delle
mani grosse e potenti), conseguenza del senso di colpa che Zeno prova. Zeno arriva quindi alla conclusione
che era il padre ad essere quello più forte e lui il debole (= l’inetto) della situazione. Tuttavia nella sua
coscienza, Zeno mette in atto un meccanismo che gli permetta di eliminare tale senso di colpa e l’immagine
negativa del padre: fa in modo di ricordare di lui solo gli aspetti positivi e più sereni: il padre non è più una
figura autoritaria, ma diventa “debole buono”. Addirittura Zeno arriva a convincersi che lo schiaffo è stato un
atto involontario del padre e non un mezzo per punire il figlio. Tuttavia, dalla lettura del testo, il lettore non
riesce a capire bene se per il suo comportamento Zeno sia colpevole (e quindi lo schiaffo del padre è stato
volontario con lo scopo di punire) oppure innocente (perché partito casualmente, a seguito di un gesto non
controllato del padre, ormai in fin di vita). Zeno crea una situazione poco chiara, si autoinganna perché
dell’episodio dello schiaffo ci dà delle interpretazione diverse e in contrasto fra di loro.
La salute malata di Augusta,
L’inetto Zeno ha un disperato bisogno di integrarsi nella società borghese, perciò proclama il suo amore per
la moglie Augusta, la sua ammirazione per la perfetta “salute” di lei e la volontà di assomigliarle, la speranza
che il matrimonio possa condurlo ad essere un buon padre di famiglia e un abile uomo d’affari. La prima
condizione sembra realizzarsi (“Stavo collaborando alla costruzione di una famiglia patriarcale e diventavo io
stesso il patriarca che avevo odiato e che ora m’appariva quale il segnacolo della salute”) ma occorre porre
la dovuta attenzione alle affermazioni non sempre veridiche di Zeno. In realtà, infatti, la sensazione di
benessere che egli prova deriva solo dall’aver trovato in Augusta il perfetto sostitutivo della figura materna.
Accanto a lei Zeno si illude di una felicità fittizia, che già trova smentita nei disturbi patologici che egli prova
durante il viaggio di nozze: la paura di essere aggredito dai nemici, di essere accusato di furto, di
morire. L’inattendibilità del narratore Zeno si manifesta verso sé stesso ma soprattutto nei confronti della
moglie, il cui ritratto differisce completamente dalle prime apparenze. Dietro ai proclami di amore e
ammirazione si delinea una figura perfida, corrosiva, verso cui Zeno prova diffidenza, disprezzo, irrisione e
ostilità. Augusta, come già il padre e il dottor Coprosich, è un perfetto campione della “normalità” borghese
e della tetragona immobilità con cui è piantata nel mondo. Il suo rifiuto di movimento e la sua ottusa
sicurezza in ogni condizione la rendono, anzi, un caso anche più eclatante dei precedenti. Dunque, se da un
lato Zeno percepisce il bisogno di integrarsi nella società borghese per diventare finalmente “normale” e
“sano”, dall’altro è costretto dalla sua “diversità” a diffidare di quel mondo fastidioso. La sua ambivalenza fa
di lui lo strumento straniante delle nozioni comuni di “salute” e “malattia”: il narratore Zeno rende tutto
incerto, ambiguo, sconvolge le gerarchie e converte i concetti (“Io sto analizzando la sua salute, ma non ci
riesco perché m’accorgo che, analizzandola, la converto in malattia. E scrivendone, comincio a dubitare se
quella salute non avesse avuto bisogno di cura o d’istruzione per guarire. ”). Per questa ragione Zeno è
anche strumento di critica acutissimo del mondo borghese, chiuso nel suo angusto giro d’orizzonte ed
incapace di adattarsi alla mobilità del reale. In Zeno si fondano inestricabilmente falsità e verità: mente,
stravolge i fatti, si costruisce alibi, ma nel momento stesso in cui mistifica il senso del suo agire offre la
chiave per vedere più a fondo in ciò che lo circonda.

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