Sei sulla pagina 1di 7

Carlo Betocchi

Nato a Torino il 23 gennaio 1899, Carlo Betocchi è stato uno dei maggiori poeti italiani del
Novecento.
Si trasferisce a Firenze da bambino quando il padre, impiegato delle Ferrovie dello Stato, viene
destinato al capoluogo toscano. Rimasto orfano del padre nel 1911 si diploma perito agrimensore e
frequenta la scuola ufficiali di Parma; viene inviato al fronte nel 1917 e tra il 1918 e il 1920 è
volontario in Libia. Successivamente si trova in Francia e in diverse località dell’Italia centro-
settentrionale, per rientrare stabilmente a Firenze dal 1928 al 1938. Questo periodo corrisponde alla
sua intensa partecipazione, assieme con Piero Bargellini, allo sviluppo della rivista di ispirazione
cattolica «Frontespizio», sulla quale uscirà la sua prima raccolta poetica. Nel 1953 è di nuovo a
Firenze, impegnato nell’insegnamento di materie letterarie presso il Conservatorio Luigi Cherubini.
Dal 1961 al 1977 è redattore della rivista «L’approdo letterario». L’itinerario della poesia e del
pensiero di Carlo Betocchi va da una felice fiducia nella Provvidenza ai forti dubbi e ai dolenti
ripensamenti nella vecchiaia dopo una terribile esperienza di dolore. Lo stesso Betocchi affermava:
“La mia poesia nasce dall’allegria; anche quando parlo di dolore la mia poesia nasce dall’allegria. È
allegria del conoscere, l’allegria dell’essere e dell’essere e del saper accettare e del poter accettare”.
Dal 1932 sono numerose le raccolte poetiche di Betocchi con tanti passaggi, mai inutili, da Realtà
vince il sogno fino all’Estate di San Martino del 1961, Un passo, un altro passo del 1967 e Prime e
ultimissime del 1974 e ancora Poesie del sabato (1980). Dopo la seconda guerra mondiale
pubblicherà Notizie di prosa e poesia (1947), Un ponte sulla pianura (1953), Poesie (1955). In lui
l’ansia di illuminazione religiosa si incontra con una tenace volontà di concretezza e di accettazione
della realtà, per cui la trascendenza traspare dentro e oltre le misure visibili dei passaggi, degli
interni casalinghi, degli oggetti. Nelle ultime raccolte si accentua una più amara e dubbiosa visione
del mondo.
Muore a Bordighera, in provincia di Imperia, il 25 maggio 1986.

Vittorio Sereni
Nato a Luino (Varese), sul Lago Maggiore, nel 1913, studiò a Brescia e si laureò a Milano in
Lettere, nel 1936, con una tesi su Guido Gozzano. In quegli anni frequentò le lezioni di Estetica del
filosofo Antonio Banfi, collaborò a varie riviste legate all’Ermetismo («Il Frontespizio», «Campo di
Marte»), conobbe Bo, Gatto, Quasimodo, Sinisgalli, si inserì nell’ambiente culturale milanese dove
frequentò il critico letterario Luciano Anceschi. Dopo una breve esperienza di insegnamento a
Modena, diventò collaboratore di Ernesto Treccani alla rivista milanese «Corrente» (1938-1940), di
ispirazione antifascista. Chiamato alle armi nel 1941, combatté come ufficiale di fanteria in Africa
Settentrionale. Al suo ritorno in Italia nel 1943 fu fatto prigioniero dagli Alleati in Sicilia, rinchiuso
in un campo di prigionia a Orano (Algeria) e poi in Marocco, a Casablanca, dove trascorse due anni.
Rientrato in patria nell’agosto del 1945, riprese l’insegnamento in un liceo di Milano, poi, nel 1952,
passò all’Ufficio Stampa della Pirelli come responsabile della pubblicità e, infine, dal 1958 fu
direttore letterario della casa editrice Mondadori. È morto a Milano nel 1983. Le opere Sereni è
autore di raccolte poetiche (Frontiera, 1941; Diario d’Algeria, 1947; Gli strumenti umani, 1965;
Stella variabile, 1981), di prose saggistiche (Gli immediati dintorni, 1962; L’opzione e allegati,
1964; Il sabato tedesco, 1980), di saggi letterari (Letture preliminari, 1973) e di traduzioni (i poeti
francesi Guillame Apollinaire e René Char, l’autore teatrale statunitense Tennessee Williams). I
temi della sua produzione lirica sono il conforto dell’amicizia, il rapporto con i propri morti che
emergono dal passato, la Lombardia cittadina (Milano) e lacustre (i luoghi natii), il confronto
problematico tra l’intellettuale e la storia, tra l’io e il mondo, le insidie della società industriale
borghese. La fase ermetica
La prima raccolta Frontiera, legata al paesaggio lombardo dell’infanzia, risente della lezione
ermetica per le tematiche introspettive (desiderio di innocenza, fragilità della vita, incertezze
esistenziali, sentimento del tempo e della morte), l’eleganza della versificazione, la ricerca formale
e la tendenza al frammentismo. La «frontiera» cui allude il titolo è quella che separa l’Italia fascista
dall’Europa democratica: è «la frontiera reale, quasi visibile da Luino, fra Italia e Svizzera, o meglio
fra Italia fascista ed Europa civile» (Mengaldo, 1978). Sul paesaggio naturale incombe
continuamente una minaccia, presagio della realtà della guerra, negli anni in cui dall’Italia fascista
lo scrittore guardava a una mitica Europa, terra promessa e ignota. Vaga e non dichiarata emerge
l’aspirazione di carattere etico (e non ideologico) a un’armonia tra l’io e la società. Dopo la
prigionia, Sereni si apre con Diario d’Algeria (la struttura diaristica ricorda l’Allegria di Ungaretti)
a una tematica più realistica. Nella passività del ruolo di prigioniero egli sperimenta l’assenza dalla
storia, in particolare dalla Resistenza che si va organizzando in Europa, cui non può partecipare. Il
poeta, comunque, supera la dimensione autobiografica: la prigionia è un’esperienza non solo
individuale ma collettiva, emblema dell’estraniamento dal mondo e della negatività della vita. Il
linguaggio poetico intonato a strutture diaristiche aderisce maggiormente alla realtà, pur non
abbandonando qualche oscurità ermetica (analogismi, ambivalenze sintattiche). Si profila il
superamento dell’Ermetismo per l’influenza dell’opera di Pascoli, Gozzano, Montale e, a tal
proposito, il critico Giacomo Debenedetti parla di «contaminazione della narratività e della
purezza». Se le raccolte Frontiera e Diario d’Algeria sono sostanzialmente accomunate da un senso
di desolata impotenza e da un’atmosfera di sogno, nel poemetto Gli strumenti umani il sogno
scompare e cede il passo a uno stile energico, maturato nel contatto con la capitale industriale
d’Italia, la Milano degli anni Sessanta in cui visse il poeta. • Temi
I motivi tematici: l’alienazione dell’industria, la morte Il poemetto comprende la lunga lirica Una
visita in fabbrica, ascrivibile all’ambito della cosiddetta «letteratura industriale», che evidenzia le
contraddizioni dello sviluppo industriale e i mutamenti sociali che esso provoca. In particolare
l’autore si sofferma sui costi umani conseguenti alla diffusione del sistema di fabbrica, che riduce le
persone a ingranaggi della catena di montaggio e soffoca i valori più autentici della vita. In una città
straniata e in una fabbrica asettica, dove l’inquietudine e il vuoto di certezze sono velati
dall’efficienza organizzativa, Sereni avverte l’estraneità e l’impotenza dell’intellettuale nei
confronti di una realtà che «mura» l’individuo «in un lavoro dentro scroscianti città» e in reparti di
lavorazione come «asettici inferni». Il suo messaggio, privo del conforto della fede, assume toni
drammatici dinanzi alla Morte, l’unico dio che porta via ogni cosa senza lasciare alcuna speranza di
resurrezione. Nella poesia Le sei del mattino (in Gli strumenti umani), ispirata a un sogno incubo
fatto dal poeta sulla propria morte in solitudine, il discorso si allarga, diventa una riflessione sul
significato della morte nella vita delle persone, svolta attraverso il contrasto tra la città, Milano, che
all’alba si risveglia e riprende frenetica a pulsare di vita e la scomparsa di un uomo, del tutto
insignificante per chi resta: «Tutto, si sa, la morte dissigilla [apre]. / E infatti, tornavo, malchiusa
era la porta / appena accostato il battente. / E spento infatti ero da poco, / disfatto in poche ore. / Ma
quello vidi che certo / non vedono i defunti: / la casa visitata dalla mia fresca [recente] morte, / solo
un poco smarrita / calda ancora di me che più non ero, / spezzata la sbarra / inane [inutile] il
chiavistello / e grande un’aria e popolosa attorno / a me piccino nella morte, i corsi l’uno dopo
l’altro desti / di Milano dentro tutto quel vento».

Amelia Rosselli
Nata a Parigi nel 1930, figlia del dirigente di “Giustizia e Libertà” Carlo Rosselli (assassinato in
Francia nel 1937, insieme con il fratello Nello, su mandato dei servizi segreti fascisti) e di Marion
Cave, una britannica di origine irlandese, visse un’infanzia e un’adolescenza segnate dalla tragedia
familiare. Dopo l’invasione della Francia da parte dei nazisti (1940) riparò con la madre e altri
familiari (la nonna, la zia Maria, vedova di Nello Rosselli, e i suoi quattro figli) in Inghilterra, poi,
di qui, negli Stati Uniti, vicino a New York. Nel 1946, dopo un altro anno a Londra per completare
il curriculum degli studi superiori, si stabilì a Firenze. Sul finire degli anni Cinquanta, dopo la morte
della madre, scelse di risiedere a Roma, dove collaborò a varie riviste (fra cui «Civiltà delle
macchine», «Il Verri», «Il Menabò») e svolse attività di consulente editoriale e di traduttrice. È
morta suicida nel 1996. Le opere Di formazione internazionale e di studi eterogenei (letterari,
filosofici e soprattutto musicali – è stata compositrice oltre che esecutrice), valente traduttrice e
saggista, Amelia Rosselli esordì nella poesia nel 1963, con ventiquattro liriche presentate da
Pasolini sulla rivista «Il Menabò». La sua opera è raccolta nei volumi Variazioni belliche (1964);
Serie ospedaliera (1969); Documento 1966-1973 (1976). Seguono il poemetto Impromptu
(“Improvviso”, 1981), Antologia poetica (1987) e testi in inglese (Sleep: poesie in inglese, 1992). I
fiori vengono in dono Il significato dell’esistenza e la scrittura-parlato Legata all’idea simbolista
dell’unità dei linguaggi nella musica e a una concezione surrealista della poesia come espressione
immediata dell’inconscio, la Rosselli affida ai propri versi la ricerca di un senso dell’esistenza. Le
libere associazioni analogiche sono rese da uno stile espressionista, da una punteggiatura che Pier
Vincenzo Mengaldo ha definito «emotiva», da una sintassi mobile che accumula frasi o periodi
senza ordine logico o che concatena gli enunciati con una struttura apparentemente ripetitiva ma,
poi, rivelante improvvise illuminazioni dell’inconscio: «Perché non spero giammai tornare nella
città delle bellezze / eccomi di ritorno in me stessa. Perché non spero mai ritrovare / me stessa,
eccomi di ritorno fra delle mura. Le mura pesanti / e ignare rinchiudono il prigioniero» (da
Variazioni belliche). La forzatura stilistica è diversa rispetto all’uso sperimentale che del linguaggio
fecero i poeti della Neoavanguardia, i quali contestavano le strutture logico-sintattiche della lingua
tradizionale come atto di denuncia nei confronti della civiltà industriale. Alcune sue liriche furono
inserite nell’antologia del Gruppo 63, curata da Balestrini e Giuliani, ma la Rosselli dichiarò di aver
avvertito unicamente l’influenza di Antonio Porta

Giorgio Caproni
LA VITA [1912-1990] La giovinezza Nacque a Livorno nel 1912; il padre, ragioniere e musicista
dilettante, era un positivista convinto. Si trasferì con la famiglia a Genova nel 1922 e tre anni dopo
si diplomò all’Istituto musicale Giuseppe Verdi. A diciotto anni abbandonò il violino per la poesia,
vocazione maturata in lui dall’incontro con i versi di Dante, Ungaretti, Montale e Sbarbaro; la sua
prima raccolta, Come un’allegoria, uscì nel 1936. Nello stesso anno avrebbe dovuto sposarsi, ma la
fidanzata Olga morì di setticemia; dal lutto si riprese grazie a un’altra donna, Rosa, che sposò nel
1938, anno della pubblicazione della seconda raccolta di versi, Ballo a Fontanigorda. Nello stesso
anno si trasferì a Roma per dedicarsi all’insegnamento. Gli anni della guerra Allo scoppio della
guerra nel 1940 fu richiamato alle armi e spedito al confine con la Francia; un’esperienza che egli
stesso definì «un capolavoro di insensatezza» e che volle affidare a un diario pubblicato nel 1942,
dopo pesanti tagli da parte della censura fascista, con il titolo Giorni aperti. Dopo l’armistizio entrò
nella Resistenza, anche se non partecipò ai combattimenti e preferì occuparsi dell’istruzione dei
ragazzi. Continuava intanto la sua produzione poetica: nel 1941 pubblicò Finzioni, che inglobava le
due precedenti raccolte con l’aggiunta di 23 nuove liriche; nel 1943 uscì Cronistoria, che
comprendeva di nuovo anche Finzioni. Il dopoguerra Tornato a Roma dopo la guerra, riprese la sua
occupazione di insegnante elementare, che proseguì fino al 1973, anno della pensione. Nella
capitale conobbe Pasolini e Bertolucci, scrisse diversi racconti ispirati alla Resistenza e tradusse dal
francese Hugo, Baudelaire, Verlaine e altri. Nel 1952 vinse il premio Viareggio con la nuova
raccolta di poesie Stanze della funicolare. Nel 1956 uscì Il passaggio d’Enea, riepilogo di tutta la
precedente produzione lirica, seguito da Il seme del piangere e dal Congedo del viaggiatore
cerimonioso & altre prosopopee (1965). Si dedicò inoltre alla critica letteraria scrivendo numerosi
articoli per quotidiani e riviste. Gli ultimi anni Caproni raggiunse il successo con Il muro della terra
(1975): cominciò a ottenere inviti da prestigiose istituzioni internazionali, vinse altri premi e nel
1984 ottenne dall’università di Urbino la laurea in lettere honoris causa. Agli anni ottanta datano le
ultime raccolte, Il franco cacciatore (1982) e Il conte di Kevenhüller (1986). L’ultima, Res amissa,
uscì postuma nel 1991: la morte lo colse infatti nel gennaio del 1990. Postuma uscì anche, nel 1996,
una raccolta di saggi critici dal titolo La scatola nera.
La poesia di Caproni si nutre di allegorie: le più frequenti sono legate a motivi come il viaggio,
l’ascensione, la città, l’osteria, la caccia. All’inizio egli attingeva la materia poetica dalla realtà
quotidiana, trasfigurandola immediatamente in chiave allegorica; successivamente preferì prelevare
le sue allegorie da altre opere letterarie o crearne di nuove, spesso prive di riscontri oggettivi. Per
Caproni l’allegoria aveva la funzione di suggerire verità universali di ordine metafisico e di
insinuare l’idea che il mondo fenomenico è solo un inganno. Il mestiere Caproni amava
rappresentare sé stesso come un «modesto artigiano» intento al proprio mestiere senza porsi troppi
problemi teorici; sempre fedele alla tradizione e dotato di straordinaria perizia tecnica, tenne in
grande considerazione la rima allo scopo di creare nuovi collegamenti semantici fra le parole, e
compose canzonette, sonetti, stanze, epigrammi. Nostalgico delle forme liriche chiuse della
tradizione, specchio di una concezione unitaria e armoniosa del mondo ormai perduta, egli volle
decostruire quelle forme, lacerandole e quasi volgendole in parodia, attraverso i frequenti
enjambements, i versi spezzati, gli spazi bianchi, la frantumazione dell’unità testuale.
LE OPERE Il passaggio d’Enea [1956] La raccolta costituisce un riepilogo e una sistemazione di
quanto Caproni aveva composto fino a quel momento; vengono riproposte, insieme a testi più
recenti, le precedenti raccolte, da Come un’allegoria (1936) a Ballo a Fontanigorda (1938), a
Finzioni (1941), a Cronistoria (1943), fino alle Stanze della funicolare (1952). La trilogia della
giovinezza Come un’allegoria, Ballo a Fontanigorda e Finzioni formano una sorta di trilogia della
giovinezza, popolata di volti femminili, feste paesane, musiche, balli, profumi, osterie. Si tratta di
liriche brevi, spesso in forma di canzonetta, che rievocano il tempo dell’adesione carnale alle cose,
dell’esultanza di chi si affaccia alla vita. Non mancano però i primi segni della labilità
dell’esistenza, come il ricordo della morte prematura della fidanzata Olga. In un articolo del 1947
Caproni aveva rivendicato la potenza creatrice del linguaggio poetico, «che non trasmette ma
genera una realtà»; il poeta inventa la realtà, dando vita al mondo che gli urge dentro. Caproni
adotta moduli tipici della lirica pura: linguaggio analogico, fonosimbolismo, stilizzazione delle
immagini, lessico manierato, gusto del frammento. Fedele al modello del monolinguismo
petrarchesco, il suo vocabolario poetico è fatto di poche parole a forte valenza evocativa che
tornano di continuo nelle liriche. La metrica non è regolare, i versi hanno in genere lunghezza
inferiore all’endecasillabo e l’impiego della rima è libero. Cronistoria A Olga, la fidanzata morta
prematuramente, è dedicata Cronistoria, e in particolare i 18 Sonetti dell’anniversario. Mentre Rina
(cioè la moglie Rosa), che compare nelle poesie precedenti, incarnava le promesse dell’amore e
della vita, abbracciate per soffocare il dolore della perdita, ora il poeta, elaborato finalmente il lutto,
può affrontare i fantasmi del passato e comporre un piccolo canzoniere in morte della donna amata
vittima di un destino crudele, allontanando così anche il rimorso di averla troppo presto dimenticata.
Anni tedeschi La sezione Anni tedeschi comprende poesie dedicate al dramma della guerra: il
dolore muto del poeta è espresso in versi ardui e involuti, in analogie oscure di gusto ermetico; la
struttura dei sonetti perde ogni cantabilità e piacevolezza; la desolazione del poeta trova sfogo nelle
frequenti interiezioni e nelle immagini taglienti e allucinate. Le stanze La sezione intitolata Le
stanze (1947-54), formata da tre poemetti (Stanze della funicolare, già incluso nell’omonima
raccolta, All alone, Il passaggio d’Enea), riprende la tradizione delle Stanzas del poeta romantico
inglese Shelley. Tema centrale è il disincanto della coscienza, non più capace di scommettere sulla
storia e sulla vita all’interno di un mondo in dissoluzione in cui i miti di un tempo sono ormai
svuotati. Come Enea, tradizionalmente raffigurato mentre regge il padre sulle spalle e tiene il
figlioletto per mano, così l’umanità uscita dalla guerra cerca di preservare un passato che vacilla e
di guidare un avvenire ancora incerto, ma invano: pallida controfigura dell’eroe antico, Enea ora
non appare all’altezza del compito e si arrende di fronte all’inutilità di ogni sforzo. L’immagine
della funicolare, infine, ricordo d’infanzia, diviene «allegoria della vita umana, vista come
inarrestabile viaggio verso la morte». Il seme del piangere [1959] e il Congedo del viaggiatore
cerimonioso & altre prosopopee [1965] Le due raccolte formano un dittico accomunato dal tema
della morte; il poeta tenta di esorcizzarla, di neutralizzare l’angoscia derivante dal pensiero che tutto
svanisce nel nulla. Privo di fede, Caproni prova un forte desiderio di credere, destinato però a
restare inappagato. Il seme del piangere Molte poesie della raccolta sono dedicate alla madre (morta
nel 1950). Per elaborare il lutto il poeta sceglie la via consolatoria della rievocazione, immaginando
la madre viva e giovane e recuperando la poetica stilnovistica della lode della donna amata. A
turbare questa visione interviene però improvvisa la realtà della morte: il poemetto Ad portam inferi
introduce una cesura tra rime in vita e rime in morte della madre, con un netto mutamento di tono.
Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee Il pensiero della morte è rivolto ora non al
passato, ma al futuro, e si fa presagio della fine imminente che attende il poeta; banali eventi
quotidiani risvegliano in lui l’idea della fine e il problema dell’oltre. Stazioni, binari, cancelli, così
come muri, cimiteri, nebbie sono le immagini che punteggiano la raccolta, in cui Caproni si ritrova
a pregare «perché Dio esista». L’inevitabilità della morte è l’unica certezza; dobbiamo perciò
prepararci, come il «viaggiatore cerimonioso», a scendere dal treno della vita salutando i nostri
compagni di viaggio. L’ultima stagione poetica Il muro della terra [1975] È la raccolta che inaugura
l’ultima stagione poetica di Caproni, totalmente assorbito nella ricerca di un fondamento metafisico
che dia senso all’esistenza. La vanità del tentativo è già nel titolo, di ispirazione dantesca; per
Caproni «nessuno / potrà mai perforare / il muro della terra», e ciò equivale a riconoscere
l’impotenza conoscitiva della ragione. Ma il «muro», oltre che limite contro il quale si infrangono i
nostri sforzi, è anche il perimetro della prigione esistenziale in cui è rinchiusa l’esperienza tragica
del male che caratterizza l’uomo.
Il franco cacciatore [1982] Ispirata a un noto melodramma romantico, la raccolta sviluppa il tema
della caccia come metafora dominante della ricerca metafisica del poeta; capovolgendo l’idea
agostiniana di Dio che “dà la caccia” all’uomo per amore, Caproni raffigura l’uomo impegnato in
una disperata caccia al fondamento divino delle cose, caccia destinata all’insuccesso.
Drammatizzando la dialettica fra la ragione che nega Dio e il desiderio che non può farne a meno, il
poeta è all’inseguimento di Dio per ucciderlo: il deicidio appare come unico modo, paradossale, di
chiamare Dio all’esistenza: «esiste soltanto / nell’attimo in cui lo uccidi». Ultima raccolta
pubblicata da Caproni in vita, ruota ancora attorno al tema della caccia. Il titolo richiama un avviso
del 1792 in cui il conte di Kevenhüller, funzionario austriaco, promuoveva una battuta di caccia per
stanare una «feroce Bestia» avvistata nei dintorni di Milano. Lo stesso Caproni ha chiarito come la
Bestia vada intesa quale metafora del male che abita nel cuore dell’uomo e trabocca nelle grandi
tragedie della storia.
Res amissa [1991] Pubblicata postuma, la raccolta si ricollega alla precedente: là si dava la caccia al
male, qui si riconosce che il bene è res amissa, cioè “cosa perduta” per sempre; tema centrale è
dunque, ancora, la perdita di Dio, unico bene che potrebbe salvare l’uomo dalla morte e dare un
senso alla vita, alla storia, al dolore.
Mario Luzi
Nato nel 1914 a Castello, presso Firenze, dove il padre lavorava come capostazione, nel 1926 si
trasferì con la famiglia nel senese, dove compì gli studi superiori; nel 1936 si laureò in letteratura
francese all’università di Firenze. Collaboratore delle principali riviste f fiorentine, conobbe
Montale, Palazzeschi, Vittorini ed esordì come poeta con la raccolta La barca (1935). Dedicatosi
all’insegnamento, si trasferì prima a Parma e poi a San Miniato; furono anni di studio intenso,
vissuto anche come forma di evasione dal clima opprimente della dittatura fascista. Nel 1940 uscì il
suo secondo libro di poesie, Avvento notturno. Dalla Seconda guerra mondiale agli anni
sessanta Durante la guerra visse con la famiglia fra Roma e Firenze, scrivendo le poesie
successivamente raccolte in Un brindisi (1946) e in Quaderno gotico (1947) e le riflessioni critiche
sul rapporto fra arte e civiltà contemporanea riunite in L’inferno e il limbo (1949). Negli anni
cinquanta fu critico cinematografico e docente universitario di letteratura francese e scrisse diversi
interventi critici pronunciandosi contro l’impegno politico degli scrittori; pubblicò ancora due
raccolte di versi: Primizie del deserto (1952) e Onore del vero (1957). Agli anni sessanta risale la
collaborazione con il “Corriere della sera” e la pubblicazione delle raccolte Nel magma (1963), che
segna il superamento dell’Ermetismo, e Dal fondo delle campagne (1965), dedicata alla madre
morta. Gli ultimi anni Ormai noto a livello internazionale, Luzi a partire dagli anni settanta volle
cimentarsi anche con il genere teatrale, scrivendo Libro di Ipazia (1978), Rosales (1983), Il
Purgatorio. La notte lava la mente (1990) e altri testi drammaturgici. Per la Pasqua del 1999 scrisse
il testo della via crucis su invito di papa Giovanni Paolo II. Nello stesso anno pubblica la raccolta
poetica Sotto specie umana. Nel 2004 fu nominato senatore a vita e pubblicò la sua ultima raccolta
poetica: Dottrina dell’estremo principiante. Morì l’anno seguente a Firenze.
LE COSTANTI LETTERARIE Poesia e mistero Assunti il dubbio e la domanda come cifre
stilistiche e psicologiche, Luzi ha utilizzato la scrittura in versi per interrogare e mettere in
discussione il senso della realtà. Solo la parola poetica, secondo Luzi, possiede purezza e forza in
misura tale da restituire al lettore piena coscienza del significato assoluto della vita e del mondo. La
poesia è difficile nella misura in cui difficile è cogliere la verità; allontanandosi dalla superficie
caotica del mondo il poeta deve evocare una verità metafisica attraverso una tensione espressiva
assoluta.
Erede della lezione dei poeti simbolisti e di quella ungarettiana di Sentimento del tempo, nonché
massimo rappresentante dell’Ermetismo, Luzi era persuaso che la lingua poetica dovesse essere
alternativa a quella dell’uso quotidiano; in tal senso la sua poesia risulta sempre eccentrica ed
eccessiva: per la ricercatezza del lessico, la complessità della sintassi, la trama musicale e
l’accostamento sconcertante degli elementi della frase. Nulla di tutto ciò è però mai fine a sé stesso,
ma sempre funzionale allo scavo personale e interiore. I Secondo Luzi il poeta deve dire la realtà
intera, senza riduzioni e senza fermarsi al solo lato oggettivo e superficiale. Si può parlare in tal
senso di un realismo integrale e imparziale. Tema centrale della sua poesia è il mutamento: tutto si
trasforma e il tempo e la morte inghiottono ogni cosa. Il lato doloroso della vita è la prova che
ognuno deve affrontare per arrivare ad accogliere con gioia e riconoscenza, come un dono, anche la
propria fragilità. L’approdo finale dell’opera di Luzi è marcatamente religioso: la poesia diviene
atto d’amore nei confronti del creato e preghiera che esprime l’accettazione serena del mistero
LE OPERE La stagione ermetica
La barca [1935] La prima raccolta, ancora piena di suggestioni foscoliane, leopardiane,
dannunziane e ungarettiane, esprime innanzitutto il disagio morale e il dissenso civile di fronte al
fascismo. Teso a cogliere ciò che si cela al di là dei fenomeni ordinari, il poeta coglie il valore delle
cose, degli uomini, degli eventi di ogni giorno nella loro dimensione universale: tutto ciò che vive è
parte di un misterioso flusso esistenziale che scaturisce da Dio e va perciò accolto con umiltà e
carità di cuore. La scrittura poetica è colta e filosofica, intrisa di letture e studi. Concentrata su temi
universali come il tempo, la morte, il dolore, il senso dell’uomo, la poesia intende estrarre dalla
realtà le sue costanti e per farlo si serve di un linguaggio fatto di assolutezza, classicità, armonia,
musicalità.
Avvento notturno [1940] La poesia è luogo notturno, sottratto alla luce, cioè alla logica
elementare, ma in cui la verità si incarna e si fa parola. La poesia tende alla conoscenza intuitiva di
quanto sfugge alla ragione e per farlo ricorre in particolare all’artificio dell’interrogazione:
comporre una poesia significa per Luzi scrivere una domanda sul senso dell’esistere.
Un brindisi [1946] e Quaderno gotico [1947] Sullo sfondo drammatico della guerra dominano
situazioni e paesaggi lividi e irreali, allegorie del dolore provocato dalla violenza. Lo smarrimento
esistenziale del poeta si traduce nella confessione della fatica del vivere e del conoscere. Lo stile è
dominato da metafore, analogie, sinestesie e ripetizioni; il lessico è colto, fitto di echi classici; le
espressioni sono ricercate fino all’oscurità.
Primizie del deserto [1952] La scrittura di Luzi affianca ora all’interrogazione anche
l’invocazione: incapace di dare un senso alla propria vita, il poeta attende e invoca l’avvento di un
portatore di salvezza. Il deserto del titolo è, biblicamente, il luogo della penitenza e della tentazione:
Luzi sottolinea la durezza dell’esistere terreno e assieme ribadisce che proprio nel deserto deve
essere riscoperto il senso autentico dell’esistenza. L
Onore del vero [1957] Il poeta rinuncia all’isolamento spinto dal desiderio di solidarietà e
condivisione; alla sofferenza della morte oppone la tenacia dell’amore fraterno. Superata la stagione
ermetica, al carattere metafisico delle prime raccolte subentra la piena e grata accettazione della
vita “qui e ora”, la coscienza che far parte del flusso molteplice della vita è innanzitutto un dono.
Stilisticamente Luzi opta per soluzioni più descrittive o narrative, abbandonando la sublime
perfezione delle prime raccolte per accettare un taglio più prosastico e dialogico, di tono medio.
Nel magma [1963] Contrassegnata da una decisa e radicale disponibilità ad affrontare il mondo
reale, la raccolta mette in scena una sorta di incalzante inchiesta intorno alle convinzioni del poeta,
con un nuovo taglio drammatico e dialogico, largamente ispirato alla Commedia di Dante.
L’ultima stagione Nelle ultime raccolte, come Al fuoco della controversia (1978), Per il battesimo
dei nostri frammenti (1985), Frasi e incisi di un canto salutare (1990), fino a Viaggio terrestre e
celeste di Simone Martini (1994), la poesia diviene pura manifestazione dello sciame di idee,
immagini, sogni, emozioni, ricordi che attraversa il soggetto in uno stato simile al dormiveglia:
condizione privilegiata per cogliere il senso della vita e della storia. I testi assumono un andamento
libero e frammentario, con l’obiettivo di testimoniare la vita in tutte le sue molteplici e dissonanti
manifestazioni. Libere da ogni misura strofica, le poesie alternano versi brevissimi a versi
lunghissimi creando singolari geometrie sulla pagina. Da una poesia ontologica Luzi è passato
definitivamente a una poesia dialogica e critica, che riproduce il reale senza pretendere di spiegarlo;
il poeta si fa umile scriba nella persuasione che il mistero della vita sia racchiuso nella sua
inesauribile ricchezza. Luzi affronta anche temi civili (il terrorismo, la mafia, la guerra del Golfo),
con oscillazioni estreme a livello formale e tematico; descrive l’inferno della società contemporanea
ma testimonia come in essa la verità non cessi mai di accadere e rivelarsi. Scardinata ogni certezza e
ogni presunzione di verità, Luzi riconosce la vera vocazione dell’uomo nella figura del pellegrino e
nella coscienza che il mistero non va risolto, ma accettato.

Potrebbero piacerti anche