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LA LETTERATURA DELLE ORIGINI

Il dies natalis di Roma viene fissato, dallo storico Varrone, il 21 aprile 753 a. C.

Leggenda della fondazione di Roma: si dice che Ascanio, figlio di Enea, abbia fondato la città di Alba Longa.
Su di essa regna Numitore, legittimo re, spodestato dal fratello Amulio che costringe la figlia di Numitore,
Rea Silvia, a diventare vestale (sacerdotessa) e fare voto di castità. Tuttavia Rea Silvia ha una storia d’amore
con il dio della guerra, Marte, che la rende madre dei due gemelli Romolo e Remo. Il re Amulio ordina di
ucciderli ma la serva che ne è stato incaricata non ne ha il coraggio e li abbandona in una cesta sulle sponde
del Tevere; la cesta viene portata sulla riva e i bambini vengono allevati da una lupa. Vengono poi trovati da
un pastore, Faustolo, che li cresce insieme alla moglie. Diventati grandi, Romolo e Remo fanno ritorno ad
Alba Longa, uccidono l’usurpatore Amulio e rimettono sul trono il nonno Numitore. A questo punto hanno il
permesso di fondare una nuova città nel luogo in cui sono cresciuti: questa città, che acquisisce il nome di
Roma, è fondata da Romolo sul Palatino.

Latium et scriptio (il Lazio e la scrittura)


Iscrizioni in lingua latina sono attestate nel Lazio a partire dal VII sec. a.C. (in epoca quindi piuttosto arcaica
anche rispetto ad altre lingue indoeuropee). Nelle stesse zone del Lazio sono attestate iscrizioni in lingua
italica, greca ed etrusca. Ciò indica che il Lazio era in questo periodo un crocevia di popoli e di traffici. Il
Tevere si trovava in una posizione particolarmente strategica, compreso tra gli Etruschi a Nord e i Greci
della Magna Grecia a Sud. Per la sua conformazione territoriale, il Tevere e il villaggio che forma il primo
nucleo di Roma avevano tutti i presupposti per un’espansione politica e culturale.

Primae inscriptiones
Si tratta di brevi testi spesso redatti su oggetti quotidiani (coppe per bere, cippi, lapidi). Se ne deduce che la
scrittura fosse abbastanza diffusa nel VII secolo anche negli strati medio-bassi della popolazione.

Varìetas inscriptionum
La scrittura non è però ancora fissata: abbiamo infatti una grande varietà di iscrizioni e di alfabeti. Vi sono
iscrizioni latine attestate anche in alfabeto greco, o di tipo bustrofedico (“come il solco tracciato dai buoi”,
tipo di scrittura dove un rigo è scritto da destra a sinistra e il rigo successivo da sinistra a destra).

Lapis Niger
Un’iscrizione di tipo bustrofedico è il Lapis Niger, “pietra nera”, probabilmente la più antica iscrizione latina
rimasta, risalente al 575/550 a.C. Il Lapis Niger, trovato nella zona archeologica del Foro Romano, è così
chiamato perché era coperto da lastre di marmo nero. È scritto in uno stile bustrofedico irregolare: alcune
righe vanno lette da destra a sinistra, altre da sinistra a destra, altre ancora dall’alto verso il basso. Secondo
la leggenda, il Lapis Niger era stato collocato nel punto in cui era stato sepolto Romolo. È un’iscrizione di
tipo sacrale, religioso: un divieto di passaggio sul luogo. Si dice che chi violerà quel luogo sarà maledetto.
Per la sua arcaicità, è molto importante per lo studio dell’evoluzione della lingua latina, tanto che è stato
inserito al primo posto nel CIL, Corpus Inscriptionum Latinarum (CIL uno uno: primo testo della raccolta
delle iscrizioni latine ordinate in senso cronologico).

Foedera et leges
Oltre che soggetti di tipo quotidiano o su tombe, la scrittura aveva anche la funzione di registrare patti
(foedera) stabiliti fra le diverse città intorno a Roma o di fissare leggi (leges). Tra di esse, particolarmente
famose sono le leggi delle dodici tavole (duodecim tabularum leges) risalenti al 450 a.C. Erano scritte su
tavole di bronzo ed esposte nel Foro Romano; presentano uno stile con allitterazioni e assonanze. Sono
famose non solo per lo studio dell’evoluzione della lingua latina al suo stadio arcaico, ma anche per lo
studio del diritto romano e delle consuetudini giuridiche del popolo. Apparentemente le leggi delle dodici

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tavole stabilivano norme molto severe, con punizioni talvolta esemplari. Poiché rappresentano uno dei
primi tentativi di mettere le leggi per iscritto, sono anche uno strumento nelle mani del popolo, un primo
passo verso uno stadio più democratico poiché così il popolo aveva la possibilità di appellarsi contro l’abuso
dei potenti in nome di qualcosa di scritto e non di consuetudini orali che potevano essere più facilmente
interpretate a favore dei nobili. Dal punto di vista linguistico, troviamo forme di un latino particolarmente
arcaico. Rappresentano una forma linguistica di tipo orale e sono caratterizzate da molte ellissi, da frasi
brevi giustapposti; devono essere interpretate tenendo conto del contesto.

Exempla
 Si in ius vocat, ito. Ni it, antestamino: igitur em (sta per eum) capito.
Se qualcuno è chiamato in giudizio, vada (manca il soggetto). Se non va, deve essere chiamato
un testimone. Quindi lo si catturi.
 Si calvitur pedemve struit, manum endo iacito.
Se si sottrae o tenta di fuggire, si imponga la mano.
 Si morbus aevitasve vitium escit, iumentum dato. Si nolet, arceram ne sternito.
Se la malattia o l'età avanzata sono un impedimento, gli sia dato un mulo. Se non lo vuole, non
gli sia data alcuna lettiga.

Calendarium
La scrittura era usata anche per registrare il corso del tempo e per stabilire il cosiddetto calendarium
(chiamato così dalle calende, il nome del primo giorno del mese).
Il calendario romano era diviso in:
 giorni fasti, in cui era consentito sbrigare affari pubblici;
 giorni nefasti, in cui ciò non era consentito.
Il calendario romano cambiò diverse volte tra la fondazione di Roma e la fine dell’impero romano; la prima
forma viene attribuita a Romolo, e sembra che iniziasse con il mese di marzo; la prima riforma, in cui
vennero inseriti gennaio e febbraio, è attribuita al re Numa Pompilio. Il calendario romano era nato da una
forma di organizzazione del tempo di tipo lunare; aveva tre giorni particolarmente importanti in ogni mese:
le calende, le none e le idi, che cadevano in giorni diversi a seconda dei mesi.

Tabula dealbata (tavola sbiancata) e Annales


Il pontefice massimo esponeva una “tavola bianca” in cui erano registrati i nomi delle principali cariche
pubbliche così come i principali avvenimenti dell’anno in corso. Così come gli Annales, rappresenta una
delle prime forme di storiografia romana, registrata innanzitutto da figure di ceto sociale elevato (pontefici,
senatori) che fissavano le date anno per anno. Non era organizzata per temi ma per anni. Lo stesso tipo di
storiografia viene fissata negli Annales, che come la Tabula dealbata rappresentano la prima forma di
storiografia romana. Della Tabula dealbata né degli Annales abbiamo testimonianze soddisfacenti, ma
frammenti tramandati da scrittori successivi e testimonianze degli storici come Tito Livio e Tacito che, nello
scrivere le loro opere di storiografia, spesso espongono la loro poetica e il modo in cui si distaccano dalla
Tabula dealbata e dagli Annales (informazioni indirette sul modo in cui queste prime testimonianze
storiografiche erano scritte).

Carmina
Le prime testimonianze di scrittura della lingua latina attestate su oggetti comuni così come i frammenti di
leggi e di patti che abbiamo a disposizione, rappresentano un tipo di lingua fortemente orale. Questa oralità
è evidente soprattutto nei carmina (carmi). Il termine carmen (da cano “cantare”) indica un tipo di
letteratura dai tratti fortemente orali caratterizzata da allitterazione, costruzioni parallele, come una sorta
di canto.
Due sono i carmina più famosi:
 Carmen Saliare: recitato dai Salii, un collegio religioso istituito dal re Numa Pompilio. I Salii erano
sacerdoti del dio Marte, discendenti da famiglie patrizie, che istituivano processioni durante le quali

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portavano armature molto antiche e saltavano (da qui il loro nome, da salio, saltare).
 Carmen Arvàle: rappresenta un collegio sacerdotale addetto alla recitazione di questo canto per la
purificazione dei campi (arva). I Fratres Arvàles si dedicavano al culto della dea Cerere. Il carme è
caratterizzato da tipologie stilistiche orali; è un canto religioso con allitterazioni, anafore,
omoteleuti (parole con la stessa terminazione), iterazioni e altre figure retoriche. È un linguaggio
religioso che cerca di stabilire un rito, una ripetizione, che si ha anche nel nome di Marte, invocato
come Marmar, Mars o Marmor. Secondo Cicerone, neppure al suo tempo si potevano capire tutte
le parole del Carmen Arvale e del Carmen Saliare a causa della loro arcaicità.

Carmen Arvale
enos Lases iuvate
enos Lases iuvate
enos Lases iuvate
neve lue rue Marmar sins incurrere in pleoris
neve lue rue Marmar sins incurrere in pleoris
neve lue rue Marmar sins incurrere in pleoris
satur fu, fere Mars, limen sali, sta berber
satur fu, fere Mars, limen sali, sta berber
satur fu, fere Mars, limen sali, sta berber
semunis alterni advocapit conctos
semunis alterni advocapit conctos
semunis alterni advocapit conctos
enos Marmor iuvato
enos Marmor iuvato
enos Marmor iuvato
triumpe triumpe triumpe triumpe triumpe».

«Lari aiutateci,
Lari aiutateci,
Lari aiutateci,
non permettere, Marte, che rovina cada su molti
non permettere, Marte, che rovina cada su molti
non permettere, Marte, che rovina cada su molti.
Sii sazio, crudele Marte. Balza oltre la soglia. Rimani lì.
Sii sazio, crudele Marte. Balza oltre la soglia. Rimani lì.
Sii sazio, crudele Marte. Balza oltre la soglia. Rimani lì.
Invocate a turno tutti gli dei delle sementi.
Invocate a turno tutti gli dei delle sementi.
Invocate a turno tutti gli dei delle sementi.
Aiutaci Marte.
Aiutaci Marte.
Aiutaci Marte.
Trionfo, trionfo, trionfo, trionfo, trionfo».

Saturnius versus (verso saturnio)


Le testimonianze più antiche della lingua latina sono scritte in versi saturni; il saturnio è il più antico verso
tipicamente romano. Mentre le opere in poesia sono scritte in esametri, pentametri, distici elegiaci (versi
tratti direttamente dal greco e applicati alla lingua latina), il saturnio è un tipo di verso per cui non ci sono
modelli greci.
Il suo nome è riconducibile al dio Saturno, antica divinità italica legata all’agricoltura; si pensava che fosse il
padre di Cerere, Giove, Nettuno, Ade e, una volta detronizzato da Giove, si fosse rifugiato nel Lazio e avesse
qui fondato un’età dell’oro. Il nome di Saturno era legato ad un passato glorioso e alla tradizione agricola
tipicamente romana. In saturni sono scritti la traduzione dell’Odissea di Livio Andronico e il Bellum
Poenicum di Nevio.

Structura saturnii versus

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Il verso saturnio è composto da due membra (cola) separate da una pausa (dieresi).
Al di là della grande varietà metrica, il primo colon era generalmente in giambi (struttura breve-lunga) e il
secondo colon in trochei (struttura lunga-breve):
U — U — U —X | — U — U — U
Exemplum:
– malum dabunt Metelli Naevio poetae (un male daranno i Metelli al poeta Nevio).
Tramandato dai grammatici latini come un esempio prototipico di verso saturnio; questo verso è anche
importante per il contenuto perché ci testimonia la notizia, di cui abbiamo altre attestazioni, secondo cui il
poeta Nevio fu ostacolato dai Metelli, la famiglia nobile romana contro cui Nevio avrebbe diretto alcune
invettive.

LIVIUS ANDRONICUS
È il primo poeta latino di cui ci sia giunto il nome. È importante anche perché considerato dalla tradizione
romana il padre della letteratura latina.
Tempora et loca (i tempi e i luoghi)
La figura di Livio Andronico si colloca nel III secolo a.C., fra Taranto e Roma.
Siamo sullo sfondo della guerra fra Roma e Taranto, all’interno delle campagne di conquista della penisola
italica da parte di Roma. Fra queste campagne, possiamo ricordare:
 Guerra Latina (340-338 a.C.), in cui Roma assume il controllo delle altre città del Lazio;
 Guerre Sannitiche (343-295 a.C.), in cui Roma assume il controllo delle città sannitiche dell’Italia
meridionale;
 Guerra contro Taranto (Bellum Tarentinum): 280-272 a.C., in cui Roma si scontra contro una delle
più ricche e potenti città della Magna Grecia. È molto importante per la figura di Livio Andronico.
Prodromi: Taranto, colonia spartana che aveva esercitato la propria egemonia sul Mare Ionio, si
sente minacciata dall’espansione di Roma nel sud della penisola italica.
Casus belli (occasione che fece scoppiare la guerra): nel 280 a.C. una flotta romana oltrepassa il
Capo Lacinio (oggi capo Colonna, perché quello che resta del tempio è solo una colonna),
promontorio che segnava il limite occidentale del Golfo di Taranto e che, secondo un antico
trattato stipulato tra Roma e Taranto, non poteva essere oltrepassato da alcuna nave armata che
non fosse di Taranto.
Sentitasi minacciata da Roma, Taranto chiama in soccorso Pirro, re dell’Epiro, a cui si uniscono le
ultime resistenze di Sanniti, Bruzi, Lucani, Messapi, e di tutti gli altri popoli dell’Italia meridionale
che erano stati sconfitti dai Romani.
 280 a.C. vittoria di Pirro ad Eraclea, dove si impiegano anche elefanti (detti dai romani “buoi
lucani”). I romani, infatti, non li conoscevano e si spaventarono.
 279 a.C. tra Roma e Pirro si combatte la battaglia di Ascoli (Ascoli Satriano, oggi in provincia
di Foggia): Pirro vince ancora i Romani ma subisce dure perdite (da questa esperienza nasce
il detto “Vittoria di Pirro” per indicare una vittoria che costa molto cara).
 278 a.C. Pirro cerca ulteriori appoggi e sbarca in Sicilia, dove gli si oppongono insieme
Romani e Cartaginesi. Le sorti di Pirro e di Taranto peggiorano negli anni successivi.
 275 a.C. Pirro è sconfitto a Benevento. Il toponimo campano era, prima di questa battaglia,
Maleventum (l’origine etimologica di questo toponimo dipende probabilmente dal sostrato
pre-italico, ma in base a un’etimologia popolare i romani lo interpretarono mettendolo in
relazione con il “male”, e poi la cambiarono perché qui avevano vinto Pirro).
 272 a.C. Taranto si arrende ai Romani.
 270 a.C. Roma conquista anche Reggio, e diventa così padrona di tutta l’Italia meridionale.
Si ha dunque la capitolazione di tutto il Sud della penisola italica.

Livio Andronico: nomen


La battaglia di Taranto segna duramente il destino di Livio Andronico.
Il suo vero nome è probabilmente solo Andronìcus. Il praenomen Livius gli è stato dato dal suo patrono

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romano, Livio Salinatore, con cui giunse a Roma in seguito al Bellum Tarentinum.

La vita
Livio Andronico nasce a Taranto intorno al 280/260 a.C. È di madrelingua greca, poiché Taranto è una città
della Magna Grecia, antica colonia spartana.
Giunge a Roma in giovane età in seguito alla sconfitta di Taranto (272 a.C.) come schiavo di Livio Salinatore.
Queste notizie sono importanti anche in relazione ad altri autori del III sec. a.C., i quali non hanno
originariamente cittadinanza romana, sono schiavi di colonie di città sconfitte da Roma, dove arrivano come
schiavi o liberti di generali romani.
Giunto a Roma sotto la protezione di Livio Salinatore, Livio Andronico, fu grammaticus (insegnante di
lettere), autore e attore di teatro. Secondo la consuetudine dei tempi, egli scriveva e al tempo stesso
rappresentava le proprie opere teatrali.
• 240 a.C. in occasione dei Ludi Romani mette in scena una tragedia di argomento greco
(cothurnata) scritta in lingua latina. È la prima rappresentazione drammatica a cui viene
riconosciuta una certa ufficialità in una occasione importante; i Ludi Romani del 240 a.C. furono
stabiliti per festeggiare la vittoria dei Romani contro i Cartaginesi nella Prima Guerra Punica.
• 207 a.C. scrive un partenio (“canto di fanciulle”) solitamente dedicato a Giunone. Siamo in piena
Seconda Guerra Punica. Il cartaginese Asdrubale sta marciando verso il Sud Italia in aiuto del
fratello Annibale; contro questo pericolo, il senato romano incarica Livio Andronico, che già a
Roma godeva di una certa fama, di scrivere un canto propiziatorio in onore di Giunone. L’incarico
era probabilmente dovuto al fatto che il generale incaricato di combattere Asdrubale e i
cartaginesi era proprio il console Livio Salinatore, protettore di Livio Andronico.
• In seguito a una sanguinosa battaglia presso il fiume Metauro, i romani ottennero la vittoria sui
Cartaginesi. Di conseguenza Livio Salinatore e Livio Andronico ricevettero grandi onorificenze e
festeggiamenti a Roma; Livio Andronico, in particolare, riceve il riconoscimento della propria
associazione di autori e di attori (collegium scribarum histrionumque), che viene stabilita
sull’Aventino, nel tempio di Minerva. È la prima volta che ad un gruppo di artisti è riconosciuto
un ruolo ufficiale legato alla vita politica e civile di Roma.
• Livio Andronico, oltre ad essere importante per le proprie opere, ebbe anche una notevole
fortuna durante la propria vita: era un artista acclamato che componeva e recitava le proprie
opere.
• Muore intorno al 200 a.C.

Le opere
Le opere di Livio Andronico ci sono pervenute solo in forma frammentaria:
 di opere teatrali
(accanto a tragedie di tipo greco, compose palliate, fra cui il Gladiolus, ”Sciaboletta”)
 dell’Odusìa, traduzione dell’Odissea di Omero in lingua latina e in metro saturnio.

Odusìa
Opera più importante di Livio Andronico, essa rappresenta il primo tentativo di fondare una traduzione di
opere greche e una tradizione epica a Roma.
Rappresenta ciò che significa l’IMITATIO nei confronti dei modelli greci e il VERTERE dal greco al latino.
Quando consideriamo come gli autori latini si rapportano di fronte ai modelli greci, non dobbiamo avere in
mente il concetto di originalità come lo intendiamo nell’arte oggi; essere innovatore è un concetto che
nasce tardi nella cultura occidentale e che è assente nel mondo classico, dove rapportarsi ad un modello
significava imitarlo (dimostrare di conoscerlo bene):
 aderenza all’originale (non un’aderenza passiva, perché il modello greco va riportato nella società e
nella cultura romana);
 cambiamento in base all’ideologia romana (gli ideali greci vanno visti nella prospettiva
dell’ideologia romana, e tradurre significava interpretare in un’altra ideologia).
Argumentum (contenuto):

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È quello dell’Odissea di Omero, cioè il tormentato Viaggio di Ulisse, in seguito alla terra di Troia, verso la
patria Itaca: gli eventi e i personaggi sono quelli della mitologia greca.
L’Odusia rappresenta l’abbandono della mitologia romana autoctona, semplice e agreste, e l’accoglienza
del più articolato e raffinato pantheon greco. Le divinità romane prima di quest’opera erano divinità dei
boschi e dei fiumi, e rappresentavano un pantheon legato alla realtà naturalistica; la mitologia greca era
molto più ricca, era stata trattata in molte opere letterarie. Tradurre l’Odusia in latino significava anche
riprendere questa tradizione letteraria e riportarla a Roma.
Modus dicendi (lingua e stile):
Quella dell’Odusia è una lingua sperimentale (Livio Andronico non aveva alle proprie spalle un modello
epico in lingua latina, quindi si sforza lui di fondarne uno per gli autori successivi). La lingua è caratterizzata
da:
 Calchi dal greco (cf. titolo Odusia).
 Parole arcaiche latine che riprendono il lessico solenne degli annales pontificum.
 Neologismi.
 Hapax legomenon (parole che sono usate una sola volta nella letteratura latina).
 Varietà di registri e di tipologie di discorso.
 Stile arcaizzante caratterizzato da frasi brevi, spezzettate, con la varìetas, con figure di suono come
allitterazioni che riprendono tipologie di tipo orali.
 Metro saturnio (tipico della tradizione italica e latina; non esistevano modelli greci per questo
metro, poiché i poemi omerici sono scritti in esametri).
Incipit:
Virum mihi, Camèna, ìnsece versùtum
“Narrami, o Musa, quell’uomo astuto”
Si riprende esattamente l’inizio dell’Odissea di Omero ma con un cambiamento: le Muse di Omero
diventano le Camènae romane (da cano “canto”), ninfe delle sorgenti con poteri profetici e ispiratori. Usare
l’identità di una divinità italica al posto delle muse della tradizione più elevata della poesia greca significa
rivestire le divinità italiche di Roma di una dignità letteraria molto più alta). Le Camene erano quattro:
1. Egèria (da ager “campo”), ispiratrice del re Numa Pompilio.
2. Antevorta (“che è rivolta in avanti”)
3. Postvorta (“che è rivolta indietro”)
Entrambe erano protettrici del parto: il feto doveva presentarsi nella giusta posizione, cioè rivolto
con la testa in avanti; se ciò non avveniva, doveva intervenire Postvorta.
4. Carmenta, nome legato al verbo cano.
Erano divinità naturalistiche legate al canto e rappresentano i primi tentativi da parte di Livio Andronico di
fondare un nuovo pantheon romano che si assume anche le funzioni delle varie divinità greche.

CNAEUS NAEVIUS
La vita
Nevio si colloca nel III secolo a.C.; rappresenta, quindi, uno dei principali esponenti della letteratura latina
arcaica accanto a figure come Livio Andronico, suo predecessore, ed Ennio, di qualche anno successivo.
 nasce fra il 275 e il 270 a.C in Campania, probabilmente a Capua;
 viene da famiglia plebea ma è libero e ha la cittadinanza romana; questa caratteristica lo distingue
da Livio Andronico che, proveniente da Taranto, al tempo fuori dall’orbita romana, non ha la
cittadinanza, e a Roma viene condotto come schiavo.
Dopo le Guerre Sannitiche (conclusesi nel 290 a.C.), Capua era una civitas romana sine suffragio (“città con
cittadinanza romana ma senza diritto di voto”).
L’esperienza militare
Poiché dotato di cittadinanza romana, Nevio poteva svolgere la professione di soldato; infatti combatte nella
Prima Guerra Punica (dal 264 al 241 a.C.). Benché i Cartaginesi godessero ancora di un’ampia sfera di
influenza, alla fine della Prima Guerra Punica perdono il controllo della Sicilia, che era stata il casus belli
delle Guerre Puniche, e passa sotto l’orbita romana.

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Un poeta indipendente
Dopo l’esperienza militare, Nevio vive a Roma come autore di opere drammatiche. Il suo mestiere è lo
stesso che svolge Livio Andronico, ma a differenza di altri autori dell’età arcaica (Andronico, Ennio) non
sembra che Nevio avesse protettori nobili a Roma; era un poeta indipendente, cosa insolita per l’epoca.
La polemica anti-nobiliare
La poesia di Nevio è percorsa da polemiche anti-nobiliari, specialmente contro i Metelli, una delle
famiglie più potenti di Roma. L’albero genealogico della famiglia dei Metelli si fa risalire al III secolo
a.C. e si estende per molti anni, comprendendo personaggi del calibro di Crasso e Pompeo, avendo
quindi influenza diretta sulla storia di Roma per molti secoli. Inimicandosi i Metelli, la vita stessa di
Nevio sarà in pericolo.
Quando un membro dei Metelli arrivò al consolato, Nevio scrisse il verso:
“Fato Metelli Romae fiunt consules”
Questo verso può essere tradotto in due modi:
- “Per la rovina di Roma i Metelli sono stati fatti consoli” (la parola Romae è genitivo collegato a
fato);
- “Per volere del destino (e dunque senza alcun merito personale) i Metelli sono stati fatti consoli a
Roma” (qui Romae è un locativo, caso che può essere ricostruito per il proto-indeuropeo;
nonostante il latino non abbia questo caso, se ne hanno tracce solo in alcuni nomi che indicano
luoghi: domi “a casa”, ruri “in campagna”).
Le due interpretazioni non si escludono, anzi è probabile che Nevio giocasse sull’ambiguità per poter dire
qualcosa di non così negativo in apparenza, ma con un sottofondo di invettiva se si andava più a fondo;
questa doppia interpretazione è favorita dalla duplicità semantica del termine fato: da un lato “destino”,
dall’altro in senso dispregiativo “destino rovinoso, rovina”.
Prigione ed esilio
La polemica antinobiliare di Nevio non rimane senza conseguenze. I Metelli si vendicano e Nevio viene
incarcerato. Sappiamo dalle testimonianze antiche di un altro verso che può essere considerato la risposta
al verso precedente: “un male daranno i Metelli al poeta Nevio”, dove si allude al carcere da lui subito.
Muore in esilio ad Utica (nell’odierna Tunisia) nel 201 a.C. Dopo le guerre puniche, Utica diventa un
importante centro di cultura romana.

Le opere
Le polemiche anti-nobiliari non hanno giovato alla conservazione delle opere di Nevio, di cui ci restano solo
frammenti. Abbiamo frammenti anche di Livio e di Ennio, che però hanno goduto di fama, successo e
protezione da parte di nobili; nel caso di Nevio, alla perdita di gran parte delle sue opere può aver
contribuito la sua invettiva contro i Metelli e la loro persecuzione nei suoi confronti.
Scrisse:
 opere teatrali (commedie e tragedie);
 il Bellum poenicum, opera epica in versi saturni.

Opera scaenica (opere teatrali)


 Commedie
Composizione di commedie di ambientazione romana (togatae, da “toga”, tipico abbigliamento
romano); le commedie di ambientazione greca si chiamavano palliate (da “pallio”, mantello
indossato dai greci) fra cui:
- la Tarentilla (“la ragazza di Taranto”), storia di una bella ragazza dai facili costumi, di cui
abbiamo solo frammenti.
 Tragedie
Oltre alle tradizionali tragedie di ambientazione greca (cothurnatae da “coturni”, gli alti calzari
indossati dai greci), Nevio compone anche tragedie di ambientazione romana (praetextae), quali:
- Romulus
Titolo: Il titolo della prima tragedia di ambientazione romana di Nevio, Romulus, può
essere anche “Lupus”, la lupa.

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Trama: fondazione mitologica di Roma: la storia dei gemelli Romolo e Remo abbandonati sul
fiume Tevere e allevati dalla lupa.
- Clastidium
Titolo: “Casteggio”, cittadina nell’odierna provincia di Pavia.
Trama: vittoria dell’esercito romano, guidato dal console Marco Claudio Marcello, contro i Galli
ĺnsubri, guidati da Viridomàro, nel 222 a.C. La capitale dell’Insùbria, attraversata dal Po, era
Mediolanum (“in mezzo alla pianura”). Lo scontro con i Galli ĺnsubri rappresenta uno dei primi
incontri dei romani con tribù di origine celtica. La più grande manifestazione di questi incontro
avverrà in epoca tardo-repubblicana con le campagne di Cesare in Gallia. Un primo assaggio di
ciò si ha con la battaglia di Casteggio.
Con il Romulus ed il Clastidium, Nevio mette in scena i vecchi e i nuovi successi militari di Roma,
cosa inconsueta per delle opere teatrali. Tradizionalmente le tragedie rappresentavano storie
mitologiche, della letteratura, e non battaglie attuali. Quella del Clastidium è una novità che sarà
seguita anche da altri autori.
Il successo di Marco Claudio Marcello a Clastidium fu tale che nel suo trionfo gli fu concesso il raro
onore indossare le spolia opìma (“bottino abbondante”) strappate al nemico Viridomàro. Il generale
romano strappava le armi e gli indumenti più preziosi al nemico e li indossava al suo trionfo. Dopo
la battaglia di Casteggio, Marco Claudio Marcello fu la prima figura storica ad aver ricevuto questo
onore; i personaggi che avrebbero ricevuto il diritto di indossare le spolia opìma prima di lui sono
personaggi mitologici, tra cui lo stesso Romolo.

Opera epica: il Bellum Poenicum


L’intento celebrativo dei successi di Roma si manifesta ancora di più nell’opera epica di Nevio, il Bellum
Poenicum (“La guerra punica”), che rappresenta il suo capolavoro.
L’opera ha due nuclei narrativi:
 l’origine mitica di Roma a partire dal viaggio di Enea nel Lazio. Il racconto si riallaccia a Omero e alla
guerra di Troia: il troiano Enea, dopo la distruzione di Troia, si allontana per mare con un gruppo di
suoi uomini, tra cui il padre Anchise, il figlio Ascanio; arriva in Africa, dove incontra Didone, e infine
nel Lazio, dove si scontra con alcuni popoli indigeni; dopo la vittoria fonda alcune città. Il mito
dell’arrivo di Enea del Lazio rappresenta un importante modello per celebrazioni epiche successive,
tra cui l’Eneide di Virgilio.
 argomento attuale: Prima Guerra Punica (dal 264 al 241 a.C.), in cui Nevio stesso combatté.
I modelli
o Poemi omerici:
– nella storia di viaggi (come l’Odissea ); il viaggio di Enea da Troia al Lazio come il viaggio di Ulisse
raffigurato nell’Odissea;
– nella storia di guerra (come l’Iliade); la raffigurazione della prima guerra punica riprende molte
tematiche delle guerre rappresentate nell’Iliade.
o Tradizione annalistica della storiografia romana.
Questi due tipi di modelli implicano due tipi di raccontare la storia: la tradizione annalistica della
storiografia romana è anno per anno, riprende cioè tutti gli eventi principali di un periodo ed ha un intento
puramente cronachistico, registrare gli eventi, non un fine letterario; al contrario, i poemi omerici
rappresentano la storia, in questo caso combinata col mito, dando un taglio personale e originale alla
vicenda. Ad esempio l’Iliade non racconta tutta la guerra di Troia, ma comincia al decimo anno, l’ultimo dei
combattimenti, con l’ira di Achille contro Agamennone; finisce prima della distruzione di Troia, con la
rappresentazione dei funerali di Ettore. Si allude alla caduta di Troia ma non la si racconta direttamente.
Omero ha un modo di raccontare gli eventi non dall’inizio alla fine ma con un taglio che indica un piano
narrativo ed artistico.
Nevio, prendendo questi due modelli, si avvicina più all’intreccio narrativo dei poemi omerici che non a
quello della tradizione annalistica della storiografia romana; anche se riprende eventi della storia di Roma,
ne mette in luce alcuni (soprattutto quelli più recenti della prima guerra punica) e ne lascia in ombra altri.
Lo stile

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o Linguaggio sperimentale:
– combinazione di arcaismi (parole che già nel III secolo a.C. erano cadute in disuso) e neologismi
(parole create da Nevio stesso, soprattutto hapax legomenon, figura retorica che significa “dette
una volta sola”; dopo il loro uso in Nevio decadono).
o Figure di suono:
– Allitterazioni e assonanze
Le figure di suono sono importanti non solo in se stesse, in quanto rappresentano l’intento artistico
di curare l’aspetto formale di un’opera letteraria; sono importanti soprattutto perché testimoniano
l’importanza che l’oralità aveva nella cultura classica. Molti generi letterari, come l’oratoria, sono
legati ad un momento orale; anche la storiografia greca, come quella di Erodoto, implicava la
lettura della storia da parte dello scrittore di fronte ad un pubblico di ascoltatori. Più in generale, si
riteneva che la parola trasmessa dal parlante all’ascoltatore fosse rivestita di un prestigio superiore
alla parola scritta, tanto che pensatori come Socrate non hanno scritto nulla volutamente, perché si
riteneva che la manifestazione principale dell’insegnamento si dovesse attuare dialogando.
Un’origine orale è anche alla base dei poemi epici, che riprendono tradizioni trasmesse oralmente
attraverso i secoli.
o Metro saturnio
Usato anche nell’Odusìa di Livio Andronico. È un metro tipicamente romano, che non ha modelli in
Grecia, dove i poemi epici erano scritti in esametri. Usando il saturnio, Nevio e Livio dimostrano una
volontà di creare una tradizione epica propria di Roma. Così come con il linguaggio sperimentale,
con questa scelta metrica Nevio testimonia la sua indole di indipendenza e di libertà che aveva
testimoniato più generalmente nella propria vita.

Conclusioni
In questa lezione abbiamo analizzato la figura di Nevio, uno dei primi esponenti della letteratura latina
arcaica.
Elementi che Nevio ha in comune con gli altri poeti del III secolo a.C. (Livio ed Ennio): scelta dei generi
letterari (opere teatrali e opera epica).
Elementi di novità: vita indipendente dalla protezione dei nobili e polemica anti-nobiliare. Questa
indipendenza ha manifestazioni anche in alcune scelte originali della sua poetica.

QUINTUS ENNIUS
La vita
Ennio si colloca nel III secolo a.C.: nasce nel 239 a.C. a Rudiae (Rugge), cittadina nei pressi dell’odierna
Lecce.
Rudiae era un crogiolo di lingue e di culture:
– messapici
– osci
– greci
– romani
• Rudiae e i Messapi
I Messapi erano una stirpe indo-europea stanziata nella parte sud-orientale d’Italia (più o meno
corrispondente all’attuale Puglia);
Dei Messapi ci restano:
– iscrizioni;
– reperti archeologici di varia natura (vasi, suppellettili, ecc.);
– monumenti megalitici fra cui le famose specchie, tumuli di pietra talora alti fino a 15 metri, che
caratterizzano il paesaggio salentino. Il loro nome deriva dal latino specula, “luoghi di
osservazione”, perché si credeva che fossero edificate in origine come punti di vedetta o di guardia.
• Rudiae e gli Osci

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Gli Osci erano un popolo di stirpe indo-europea che già nel I millennio a.C. occupava gran parte
dell’Italia meridionale. Il loro nucleo principale era nella Campania, soprattutto in quella che poi è
diventata la città di Napoli.
Gli Osci furono sottomessi prima dai Sanniti (V secolo a.C.) e poi, insieme ai Sanniti stessi, dai Romani (IV
secolo a.C.) in seguito alle Guerre Sannitiche.
La lingua Osca, insieme a quella Umbra, costituisce il ramo Italico delle lingue indo-europee, del quale fa
parte anche il latino.
Alla tradizione osca risalgono le Atellànae, una forma di teatro pre-letterario caratterizzato da
personaggi stereotipati che improvvisavano sulla base di un canovaccio rudimentale.
• Rudiae e i Greci
Fra i vari insediamenti che si trovano a Rudiae, quali Messapi e Osci, i Greci hanno un’importanza molto
più grande. Il Salento è sempre stata un’importante area di insediamento greco, tanto che ancora oggi
in diversi comuni si parlano varietà linguistiche riconducibili al greco (griko o grecanico).
• Rudiae e i Romani
– In seguito alla conquista di Taranto (272 a.C.) il Salento entra nell’orbita romana.
– Il latino si impone sul greco e soprattutto sul messapico, che quasi scompare (del messapico
abbiamo solo iscrizioni, non veri e propri testi; della lingua messapica sappiamo molto poco).
– In questo momento di conquista romana, le città della costa adriatica, fra cui Lupiae (Lecce)
acquistano importanza in quanto teste di ponte verso l’Oriente. I romani stabilirono diverse
costruzioni nel Salento, tra cui la via Appia calabro-salentina.
Benché tutti questi stimolanti influssi provenienti dalla cultura messapica, osca, greca e romana abbiano
inciso sulla personalità di Ennio, la sua formazione vera e propria avvenne a Taranto, città ricca e raffinata
intrisa di cultura greca.
Era trilingue (parlava greco, latino e osco) e si definiva semigraecus (italo-greco); diceva anche di avere tre
anime, in riferimento alle tre lingue parlate. Dopo la conquista romana, Ennio giunge a Roma.
L’arrivo a Roma
Giunge al seguito di Catone il Censore a Roma, dove è insegnante e autore di teatro.
A Roma è legato alla casata degli Scipioni, che gli concedono la cittadinanza romana, onore riservato a
pochi artisti provenienti dalla provincia o da zone sottomesse a Roma. Un episodio importante nella vita di
Ennio è il viaggio in Grecia.
Il viaggio in Grecia
• 189-187 a.C.: accompagna in Grecia il generale Marco Fulvio Nobiliore. Il viaggio è:
– per Nobiliore, una campagna militare, che si concluderà con la vittoria di Ambracia (189 a.C.)
– per Ennio, un viaggio di cultura. Era già intriso di cultura greca, derivata dalla nascita a Rudiae e
dalla formazione a Taranto; queste basi vengono incrementate dal viaggio in Grecia, che anche
nella successiva epoca repubblicana diventa un impegno fisso per gli intellettuali romani, tra cui
Cicerone. L’obiettivo era quello di avere l’insegnamento diretto dei maestri greci e per vedere i
luoghi decantati nelle opere letterarie della loro cultura.
Stile di vita
Nonostante la fama, Ennio ebbe uno stile di vita modesto, e dedicò l’ultima parte della sua esistenza alla
stesura degli Annales, il suo capolavoro.
Morì nel 169 a.C. durante i Ludi Apollinares che si tenevano ogni anno.

Opera
Scrisse:
 opere teatrali (commedie e tragedie), di cui abbiamo frammenti;
 gli Annales, poema epico in esametri che non ci è pervenuto interamente.

Opera scaenica (opere teatrali)


 Commedie
Composizione di commedie di cui ci restano solo frammenti, fra cui:
– La Caupuncola (“l’ostessa”);

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– Il Pancatiastes (“il lottatore”).
 Tragedie
Le tragedie di Ennio sono meglio conservate delle sue commedie (sebbene entrambe lo siano in
forma frammentaria).
Compose:
– tragedie di ambientazione greca (cothurnatae), come il Thyestes.
– tragedie di ambientazione romana (praetextae), quali:
• Sabinae
Trama: doveva raccontare il mito del ratto delle Sabine, ma abbiamo solo frammenti;
tuttavia è così noto da fonti indirette (ad esempio lo storico Tito Livio), che possiamo
ricostruirne facilmente la trama. Si dice che Romolo, dopo aver fondato Roma, si sia rivolto
alle popolazioni vicine con dei tentativi di alleanza per avere delle donne con cui popolare la
nuova città fondata; poiché i vicini rifiutarono, i romani ricorsero ad un espediente:
organizzarono uno spettacolo teatrale e in questa occasione rapirono le donne dei vicini. È
un mito legato ai primordi della città di Roma, di cui Tito Livio racconta: arrivò tantissima
gente, anche per il desiderio di vedere la nuova città, e soprattutto chi abitava più vicino; i
sabini vennero al completo, con tanto di figli e consorti; invitati ospitalmente nelle case, si
meravigliarono della rapidità con cui Roma era cresciuta; quando arrivò il momento
previsto dello spettacolo, e tutti erano concentratissimi sui giochi, scoppiò un tumulto e la
gioventù romana si mise a correre all’impazzata per rapire le ragazze; quelle che spiccavano
sulle altre per bellezza erano destinate ai senatori più insigni. Terminato lo spettacolo, i
genitori delle fanciulle fuggono accusando i romani di avere violato il patto di ospitalità e
invocando il dio in onore del quale erano venuti a vedere il rito e i giochi solenni, vittime di
una eccessiva fiducia nella legge divina. Le donne rapite non avevano maggiori speranze né
minore indignazione, ma Romolo le informava che ciò era successo per l’arroganza dei loro
padri, che avevano negato ai vicini la possibilità di contrarre matrimonio; le donne
sarebbero diventate loro spose, avrebbero condiviso i loro beni, la loro patria e i loro figli.
Esse avrebbero avuto dei mariti tanto migliori in quanto ciascuno si sarebbe sforzato di
supplire alla mancanza dei genitori e della patria.
Questo racconto, tratto dall’Ab urbe condita, cerca di giustificare questo inganno dei
Romani con le questioni della ragion di stato.
• Ambracia
Titolo: nome di una cittadina dell’Epiro.
Trama: vittoria dell’esercito romano, guidato dal generale Marco Fulvio Nobiliare, ad
Ambracia, nel 189 a.C. La battaglia fu importante perché fu una delle battaglie che chiudeva
la conquista della Grecia da parte dei romani.
Le due praetextae “Sabinae” e “Ambracia” rappresentano l’intento di combinare il filone
mitologico e quello attuale dei successi militari di Roma.
Modelli: soprattutto Nevio che, con le sue due praetextae “Romulus” e “Clastidium”, aveva espresso la
stessa combinazioni del mito e della storia contemporanea.

Opera epica: Annales


L’intento celebrativo dei successi di Roma si manifesta non solo nella tragedia Ambracia, ma anche
negli Annales (“Annali”).
Struttura: opera in diciotto libri e in versi esametri;
Trama: la storia di Roma dalla fondazione alla seconda guerra punica ed altre campagne militari del II secolo
a.C. Spaziava dalle origini mitologiche fino ad avvenimenti a lui contemporanei.
Intreccio
 I-III: proemio, arrivo di Enea in Italia, fondazione di Roma, storia di Romolo e Remo e dei primi re di
Roma.
 IV-VI: guerre contro i popoli italici e contro Pirro.

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 VII-X: guerre puniche (soprattutto la seconda, perché la prima era stata già narrata
abbondantemente da Nevio).
 X-XII: campagne militari in Grecia.
 XIII-XVI: campagne militari in Siria e nel Medio Oriente.
 XVI-XVIII: campagne militari recenti, fino alla morte di Ennio (169 a.C.).
I modelli letterari
 Tradizione annalistica della storiografia romana (Annales Maximi a cui allude già il titolo).
 Poemi omerici e repertorio mitologico greco.

 Poemi epici latini, quali:


– l’Odusìa di Livio Andronico;
– il Bellum Poenicum di Nevio.
Prima di Ennio, Livio e Nevio avevano percorso la difficile strada della sperimentazione del genere
epico a Roma.
Nonostante questi importanti modelli, gli Annales sono un’opera originale tanto nella forma quanto nel
contenuto.
L’originalità nella forma
 Abbandono del saturnio, il verso adoperato da Livio Andronico e da Nevio.
 Uso dell’esametro, il verso di Omero. L’adozione dell’esametro indica il tentativo di dare maggior
prestigio all’epica romana. Essendo il saturnio un verso tipico di Roma, non aveva alle spalle la
tradizione letteraria dell’esametro, che in Grecia era stato usato non solo da Omero e da Esiodo,
ma anche da chiunque componesse un’opera epica, di cui era il verso per eccellenza. In questo
modo Ennio vuole distaccarsi dai suoi predecessori Livio Andronico e Nevio.
L’originalità nel contenuto
 Sbilanciamento nell’intreccio:
 la materia storica e contemporanea (dalla seconda guerra punica in poi) è trattata in maniera
molto più approfondita rispetto alla materia mitologica (limitata ai libri I-III).
I proemi
Il racconto storico è interrotto da due Proemi, al libro I e al libro VII, in cui Ennio enuncia la sua poetica.
 Primo Proemio: Omero appare in sogno ad Ennio e gli rivela di essersi reincarnato in lui. Ennio
dimostra non solo la volontà di aderire alla poesia greca, ad Omero piuttosto che a Livio e Nevio,
ma anche di conoscere certe teorie filosofiche della reincarnazione che dovevano essere diffuse
nell’Italia meridionale.
 Secondo Proemio: raffigura e Muse dei poeti greci (e non più le Camène dei primi poeti latini), che
prendono la cittadinanza a Roma.
Lo stile
 Linguaggio sperimentale (come l’Odusia e il Bellum Poenicum): queste opere condividono uno stile
sperimentale perché condividono la mancanza di grandi modelli di opere epiche a Roma. In Ennio
questo linguaggio sperimentale comprende:
– combinazione di arcaismi e neologismi;
– figure di suono quali allitterazione e assonanza; l’importanza del suono riflette la tradizione
orale che sta alla base di questi racconti mitologici.
 Metro esametro (scelta decisiva per distaccarsi dal saturnio e dalle poesie più rudimentali dei suoi
predecessori). Per questo gli Annales di Ennio saranno il modello più importante per la poesia epica
di Virgilio.

Conclusioni
 In questa lezione abbiamo analizzato la figura di Ennio, forse il più importante poeta della
letteratura latina arcaica (III secolo a.C.).
 Trilingue, profondo conoscitore della cultura greca, Ennio stabilisce una vera e propria tradizione
epica romana con il suo capolavoro, gli Annales, che sarà anche il principale modello dell’Eneide di

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Virgilio.
 Con l’adozione dell’esametro e con il chiaro riferimento ad Omero e alle Muse, Ennio intende
distaccarsi dalle precedenti forme di letteratura latina, considerate rozze e inferiori ai modelli greci.

MARCUS PORCIUS CATO


Vita: tempora et loca
Catone si colloca fra il III e il II secolo a.C. (nell’età arcaica della letteratura latina): nasce nel 234 a.C. nel
Lazio, a Tusculo (Tusculum), nei pressi dell’odierna Frascati.
Appartiene a una famiglia benestante (benché non patrizia, cioè non discendente da quel numero ristretto
di famiglie nobili che derivavano dal periodo originario di Roma, quando era ancora un villaggio), la gens
Porcia, che secondo Varrone sarebbe stata chiamata così perché discesa da antenati contadini, dediti in
origine all’allevamento di suini. Nella cultura romana avere degli antenati che si collocavano nello strato
sociale di contadini dediti alla coltivazione o all’allevamento era considerato un vanto (a Roma c’era un
forte attaccamento alle origini; quelle di Roma erano di un villaggio abitato da contadini e agricoltori, non
marinai o commercianti, come i greci). Per questo nelle guerre puniche i romani ebbero sempre maggiori
problemi nelle guerre per mare rispetto a quelle per terra; i Cartaginesi, di stirpe fenicia, possedevano delle
agilissime navi da guerra, mentre quelle romane erano pesanti e antiquate; i romani ricorsero
all’espediente del rostro, uncini che si aggrappavano alla nave nemica facendo una sorta di ponte tra le due
navi trasformando quella che in origine era una battaglia per mare, in una battaglia per terra. Una famiglia
che si chiama “porcia” era dunque considerata motivo di vanto e di attaccamento ai valori degli antenati a
cui Roma è sempre stata legata.
Catone è educato, secondo la più antica tradizione romana, a condurre una vita militare e al tempo stesso a
prendersi cura delle attività agricole dei propri possedimenti, nella Sabina (regione del Lazio dove Catone
trascorre i suoi primi anni). Il fatto che una personalità come quella di Catone fosse educata secondo gli
ideali della vita militare e di quella agricola riprendeva l’educazione del romano prototipico. Le famiglie più
in vista cercavano di educare in questo modo i propri figli, differentemente dalle famiglie greche, i cui
giovani erano abituati allo studio della filosofia, della letteratura e accompagnavano, semmai, l’attività
militare con quella politica. Non c’era una cultura basata sulla coltivazione dei campi. Il civis romano
(cittadino) durante i tempi di guerra si trasforma in soldato e segue il proprio generale nelle campagne
militari; durante i periodi di pace, torna in patria e coltiva il proprio campo. Gli ideali del cittadino romano
prototipico sono quelli di una persona che non si individua in un mestiere ben definito, ma racchiude le
attività di soldato e contadino a seconda dei momenti della storia e della politica. La vita del civis secondo
questa ideologia viene incarnata dalla figura di Catone.
Non discendendo da una famiglia patrizia, per inserirsi nella vita politica di Roma ha bisogno di un patrizio
vero e proprio: Lucio Valerio Flacco. Grazie a lui giunge a Roma, dove ricopre varie cariche pubbliche fino a
percorrere tutte le tappe del cursus honorum (percorso degli onori, delle cariche pubbliche, che in genere si
disponevano in ordine sequenziale a seconda delle competenze e delle abilità).
Catone percorre tutte queste tappe: è un homo novus, ossia il primo della propria famiglia a ricoprire
cariche pubbliche. Fra i suoi antenati non c’era nessuno che avesse intrapreso la carriera politica; un altro
homo novus sarà Cicerone.
Fra le varie cariche assunte, fu:
– Console (195 a.C.), insieme a Lucio Valerio Flacco;
Durante il consolato spicca per essersi opposto (anche se inutilmente) al ritiro della Lex Oppia,
emanata al tempo della II guerra punica, che prevedeva una limitazione del lusso, specie delle donne; i
beni di piacere come gioielli scarseggiavano, era un periodo di ristrettezze economiche. Terminate le
guerre con i Cartaginesi, il senato romano aveva cercato di ritirare questa legge e di aprirsi all’acquisto
di beni e ricchezze, ma Catone si era opposto, perché per lui era essenziale mantenere questo clima di
austerità perché questi beni superflui erano qualcosa che i romani avevano appreso dal contatto con i
greci ed erano incompatibili con gli antichi ideali di rustìcitas, severità e austerità legati alle origini
contadine di Roma.

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Dopo il Consolato, gli fu affidata la provincia della Spagna Citeriore, che amministrò con grande
severità. Il consolato durava in genere un anno; alla fine del mandato gli ex consoli dovevano poi avere
un periodo di allontanamento da Roma in cui si amministrava una provincia. Questa legge era stata
emanata per scongiurare periodi di dittatura e per limitare il periodo di permanenza in una posizione
di potere (il console era la carica più alta, colui che prendeva le iniziative legislative e militari più
importanti); perché i valori della democrazia e della repubblica fossero saldi, il periodo di consolato
doveva essere breve. Perdevano così i contatti con i senatori e applicavano le proprie abilità
nell’amministrazione della provincia. La Spagna era una delle più antiche province di Roma, ad essa
legata da un clima di fedeltà e vicinanza (lo si vede, oggi, anche linguisticamente: l’italiano e lo
spagnolo sono molto più simili rispetto ad altre lingue neolatine per il fatto che sin dai tempi più
antichi era una provincia fortemente romanizzata; il latino era profondamente radicato in Spagna).
Prima della conquista romana era popolata anche dai celti; tuttavia del ceppo iberico abbiamo
pochissimi testi, per lo più iscrizioni: i romani presero sin dai tempi più antichi possesso della Spagna e
il latino si diffuse tra i diversi ceti della popolazione, dalle classi più umili a quelle più elevate. Le lingue
di sostrato, come le celtiche, si persero.
Nonostante la Spagna non fosse ribelle ma, per tradizioni e costumi, fosse vicina a Roma, Catone fu
molto severo. La sua severità, tuttavia, si evidenziò soprattutto durante il periodo della sua censura,
che diventò memorabile.
– Censore (184 a.C.), da cui deriva il suo appellativo censor (pronuncia: kensor, pronuncia “restituta”,
ricostruita dagli studiosi come la pronuncia originaria del latino, non scolastica) ancora insieme a Lucio
Valerio Flacco.
Catone svolse la carica di Censore con inflessibilità, epurando il Senato da tutti quanti egli ritenesse
moralmente indegni. Questa misura contribuì alla sua fama come censore, come personaggio politico
inflessibile: i senatori appartenevano alle famiglie patrizie, nobili, si ritenevano una casta al di là di
qualsiasi legge e restrizione politica. Catone, invece, pensava che proprio per la loro posizione politica
elevata, dovessero dare l’esempio agli altri, e quindi decise di cominciare la sua opera proprio dal
senato (espellere un senatore era qualcosa di molto forte, soprattutto quando chi li espelleva derivava
da una famiglia non in origine patrizia). Si permetteva di espellere patrizi dal senato quando questi si
fossero rivelati moralmente indegni: godere di beni superflui in maniera smodata, avere una ricchezza
non confacente alle proprie attività, non svolgere un’attività politica con vigore, darsi più al piacere che
al dovere. Le sue misure erano coerenti con questa idea di dirittura morale. Questo sottolinea la forza e
il coraggio di Catone. Le sue misure furono:
1. Contro il lusso:
introdusse tasse sul consumo di beni di lusso, come gioielli, vesti, ma anche sull’acquisto di schiavi
usati come amasii (giovani schiavi che erano acquistati come amanti) per limitarne la diffusione;
non c’era una forte opposizione verso le relazioni con persone giovanissime, anche dello stesso
sesso, anzi era un costume molto in voga. I senatori importarono questa pratica dai greci.
Introdusse tasse al consumo
2. Contro il filo-ellenismo:
si oppose all’amore per i costumi greci, per l’apertura verso il clima politico, culturale e sociale che
veniva a Roma dalla Grecia. Con la conquista della Grecia, arrivarono a Roma non solo ricchezze,
ma anche opere artistiche, testi, fu una rivoluzione culturale; la Roma contadina e allevatrice,
chiusa nei confini della Sabina e del bacino del Tevere, viene invasa da una serie di personalità con
uno spettro di conoscenze e di valori molto ampio estraneo alla mentalità pratica della Roma delle
origini. Non tutti i romani potevano godere di questa ondata culturale, ma solo le classi dirigenti
(ma non tutte, solo quelle aperte al contatto con la Grecia; c’era una contrapposizione tra
filoellenici -xenofili- e antiellenici -xenofobi-; i primi si riunivano intorno al circolo degli Scipioni).
Gli Scipioni erano una delle famiglie più nobili di Roma, particolarmente favorevole alla
circolazione della cultura greca; si fecero protettori di molti artisti e pensatori greci in un circolo
intellettuale all’avanguardia. Catone si scaglia contro gli Scipioni e il loro circolo filoellenico, che
rappresentavano per lui un infiacchimento degli antichi valori romani basati sulla cultura dell’arte
militare e dell’agricoltura. Per lui l’apertura verso la Grecia non era rivolta tanto verso la filosofia e
la letteratura, quanto verso i beni di lusso, il mercato libero, pratiche di costume sessuali libere

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contro cui si era sempre impegnato. Catone si scaglia contro il circolo ellenico degli Scipioni in
favore dei valori di una società agricola e patriarcale.
Atto pratico di questa sua attitudine anti-ellenica fu l’espulsione di alcuni filosofi greci (quali
Carneade, Critolao e Diogene lo Stoico) giunti a Roma come ambasciatori da Atene.
“Carneade, chi era costui?”: nei Promessi Sposi don Abbondio, rappresentato come un personaggio
fondamentalmente ignorante, legge e si chiede chi fosse Carneade. Egli è stato molto importante
nella filosofia degli scettici; fece parte dell’ambasceria mandata a Roma dagli Ateniesi, multati per
aver saccheggiato la città di Oropo; giunto a Roma, ne approfittò per diffondere lo scetticismo, che
si contrapponeva agli ideali ormai dati per saldi (le tradizioni più profonde della politica, della
religione, della filosofia). Carneade aveva sconvolto i romani con le sue teorie, e per questo fu
cacciato da Catone.

3. Contro i Baccanali e altri culti misterici arrivati da Oriente:


I Baccanali erano riti orgiastici in onore di Bacco. Erano eseguiti dalle Mènadi, donne danzanti in
preda all’ebbrezza, oggetto anche di una tragedia di Euripide. Di notte queste donne si ubriacavano
di vino, andavano cantando e danzando in luoghi isolati, spesso sui monti, e si scatenavano in orge
in onore di Diòniso (in Grecia) e di Bacco (a Roma). In Grecia erano culti molto diffusi e tollerati;
non erano giudicati particolarmente male, anzi c’erano personalità importanti (regine, donne
dell’alta società) dedite a queste pratiche, che facevano parte di quel clima politeistico della
Grecia, aperta ai culti misterici dell’Oriente basati sulla danza e sul canto e che, però, a Roma
vennero sempre compiuti di nascosto e apertamente osteggiati. Uno dei documenti più antichi del
latino arcaico è il “Senato Consulto dei Baccanali”, dove si vietano queste pratiche e si cercano di
regolamentare i costumi dei romani. Catone si inserisce in questo clima di censura di questi culti
misterici e di opposizione verso tutto ciò che proveniva dalla Grecia e dall’Oriente, visto come
corruttore delle antiche tradizioni contadine e militari o come uno sconvolgimento, un caos.
Nietzsche, nella sua distinzione filosofica tra apollineo e dionisiaco, raffigura l’apollineo come tutto
ciò che è pace, sobrietà, equilibrio, armonia, e tutto ciò che è dionisiaco come tutto ciò che è
disordine, caos, piacere, disarmonia. Queste due divinità, Apollo e Diòniso, venivano rappresentate
come i prototipi dei due spiriti forti che si rifanno alla cultura classica: uno spirito di armonia e di
equilibrio, impersonato dallo stile neoclassico, e uno stile di disordine e di ebbrezza che si ritrova in
altre opere. Queste due correnti di pensiero teorizzate da Nietzsche, il dionisiaco e l’apollineo,
convivono benissimo nella cultura greca ma non in quella romana, dove si privilegia l’apollineo e ci
si scaglia contro il dionisiaco.
4. Opposizione politica contro Cartagine:
anche dopo la censura, esortò i Romani ad intraprendere la III guerra punica. Siamo in periodo di
relativa pace, dopo la II guerra punica; Cartagine era stata sconfitta ma dava segni di ripresa.
Quando Catone fu mandato in Africa come ambasciatore, si rese conto che Cartagine, distrutta
nella II guerra punica, era stata subito ricostruita e si era data di nuovo al commercio e all’attività
marittima; si spaventò e cercò di rendere consapevoli i romani del pericolo che i cartaginesi
rappresentavano ancora per Roma. Catone pronunciò la celebre frase con cui concludeva ogni suo
discorso:
Ceterum censeo Carthaginem esse delendam
“Per il resto ritengo che Cartagine debba essere distrutta”
Questa frase, riassunta anche nel più breve “delenda Carthago” (Cartagine deve essere distrutta),
era il sigillo con cui Catone chiudeva ogni sua frase. Presentandosi al senato in un momento in cui si
discuteva se riprendere la guerra contro i Cartaginesi, nonostante fosse un tipo di poche parole e
molto sobrio, quando fu il suo turno di prendere la parola, tirò fuori un cesto di fichi freschi e disse:
“vengono da Cartagine” e si rimise a sedere. Fu un gesto simbolico perché i fichi sono frutti che,
dopo essere stati colti, si mantengono freschi per pochissimo tempo; il fatto che dei fichi freschi
fossero a Roma voleva dire che ci voleva poco tempo da Cartagine per arrivare a Roma, e che quindi
Cartagine fosse più vicina e, quindi, più pericolosa, di quanto si pensasse.
Gli ideali di Catone

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• Secondo le fonti, Catone fu:
– estremo conservatore nelle idee politiche, in questo mito dell’antica Roma degli agricoltori e
dei militari che restavano nel posto dove erano nati e non si confondevano con le idee
letterarie o filosofiche provenienti dalla Grecia o dagli altri paesi stranieri;
– grande fustigatore dei costumi corrotti; anche all’interno della classe dirigente romana,
cerca sempre di colpire la corruzione. È vero che fu uno xenofobo, ma è vero anche che tra i
suoi concittadini fu severo persino con personaggi politici importanti da lui ritenuti immorali.
– Nella vita privata, Catone ci viene tramandato come un severo marito, severo padre,
spietato con gli schiavi. Per lui gli schiavi erano dei veri e propri oggetti, secondo
un’ideologia propria dell’epoca greco-romana, soprattutto della Roma arcaica (Varrone,
quasi contemporaneo di Catone, definiva lo schiavo “attrezzo che parla”).

Opera
L’opera di Catone il Censore ci è pervenuta in maniera frammentaria.
Fra le sue opere, si segnalano:
 Orationes
Ci restano circa ottanta titoli di orazioni di Catone, molte delle quali risalenti al periodo della
censura, quindi nel pieno della sua attività politica.
Le orazioni a Roma comprendevano almeno le seguenti parti:
 Exordium (introduzione): veniva introdotto l’argomento di cui si sarebbe parlato.
 Narratio (esposizione dell’antefatto): che cosa era successo spiegato nei dettagli (coordinate
spazio-temporali, presentazione dei personaggi coinvolti, ecc.).
 Confirmatio (esposizione della propria tesi e prove a sostegno di essa).
 Refutatio (rifiuto di possibili obiezioni): si anticipavano possibili obiezioni e, al tempo stesso, si
anticipavano le possibili critiche.
 Peroratio (appello finale): spesso aveva carattere sia di riassunto di tutta l’orazione (soprattutto
se era piuttosto lunga), ma anche quello di una captatio benevolentiae, di rivolgersi in maniera
lusinghiera agli ascoltatori in modo da catturarne la simpatia.
 Origines
Le “Origini” sono un’opera storica, divisa in VII libri, di cui ci restano frammenti.
Intreccio:
– I: fondazione di Roma;
– II-III: origini delle città italiche;
– IV: prima guerra punica;
– V: seconda guerra punica;
– VI-VII: avvenimenti contemporanei (fino alla pretura di Servio Sulpicio Galba nel 152 a.C.,
nell’epoca in cui Catone stesso scriveva e svolgeva attività politica).
Come si può osservare dall’intreccio, nonostante il titolo, alle “origini” vere e proprie di Roma sono
dedicati solo i primi tre libri. Gran parte dell’opera è dedicata a eventi storici vicini o addirittura
contemporanei: ciò dimostra una sempre maggiore attenzione all’epoca contemporanea man mano
che l’opera procede.
 De agri cultura
o È l’opera più famosa a cui è legato il nome di Catone.
o È il primo testo latino che ci è pervenuto integralmente. Abbiamo molte altre fonti di testi latini,
ma solo frammentarie (quelle di Ennio, di Nevio, di Livio Andronico). È quindi importante anche
da un punto di vista filologico.
o È un trattato in prosa con finalità pratiche. Il fatto che sia in prosa dimostra l’ideale della
severità, dell’austerità di Catone; egli non intendeva scrivere poesia perché era l’arte del
piacere, della distrazione, della leggerezza anche quando affrontava temi importanti quali le

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storie originarie di Roma o le guerre combattute (come i poemi di Ennio e di Nevio); la poesia ha
comunque la funzione di delectare, e tutto questo non è cercato da Catone. È una prosa sobria,
scarna, senza parole superflue, perché in questa forma egli rispecchia il suo ideale di praticità.
Le finalità pratiche sono relative a:
 lo sfruttamento del latifondo da parte dei proprietari terrieri;
 la gestione di piante e animali;
 il trattamento degli schiavi.
Si rivolgeva al proprietario terriero, al latifondista, e gli spiegava come ottimizzare il proprio
patrimonio di terra, piante, animali e schiavi, elementi posti tutti sullo stesso piano.
o Valori trasmessi:
 Parsimonia (risparmiare nelle spese, condurre una vita sobria, priva di beni superflui come
gioielli o cibi troppo raffinati e costosi, avendo una condotta parca, limitata all’essenziale
tanto nello spendere quanto nel consumare);
 Duritia (avere un’austeritas della vita, un’inflessibilità anche nel rapporto con gli altri, essere
durus, severo con i figli, perché avessero una educazione improntata alla massima austerità e
con la moglie, perché stesse in casa a fare la maglia). Si pensi che gli epitaffi sulle tombe delle
antiche matrone romane (quindi non le donne di classi medio-basse) sono tipicamente
caratterizzate da questa espressione: “rimase a casa a lavorare la lana” (erano quindi
maggiormente stimate quando avevano una vita semplice dedicata ai lavori domestici; il
cucito era molto ben visto (si pensi, in Grecia, alla figura di Penelope che tesse). Il ricamo è
un’attività che richiede costanza, impegno, e la flessibilità di raffigurare scene di caccia e di
guerra, immagini della vita quotidiana dei romani. Catone consiglia al proprietario terriero di
educare così la propria moglie e di impedirle di vedere le proprie amiche in quanto perdita di
tempo e occasione di tentazioni.
 Industria (darsi da fare). Il proprietario terriero, nonostante fosse molto ricco, doveva essere
sempre all’erta per impedire di venire raggirato dai propri fattori (il tema costante del
trattato è quello di vigilare affinché i fattori e gli schiavi non tentino di sottrarsi al proprio
lavoro o di guadagnare più di quanto spetti loro) e perché è un ideale valido di per sé (è
molto più nobile per il proprietario terriero trattare di persona i propri interessi, conoscere
sempre i tempi di maturazione, di semina, di potatura; doveva essere il primo responsabile
dello sfruttamento della propria terra).
o Scopo
È quello di far sì che la classe dirigente, rimanendo legata alla terra, restasse legata anche ai
valori della società rurale tramandati dagli antenati (mos maiorum). Con questa opera
apparentemente solo didattica, Catone ha uno scopo molto più ambizioso: non si limita ad
insegnare come potare gli alberi o come seminare il raccolto, ma vuole perpetuare gli ideali di
attaccamento alla terra, all’allevamento, all’agricoltura che gli erano stati trasmessi
personalmente e che facevano parte del retaggio culturale di qualsiasi cittadino romano.

Modus dicendi
Lingua e stile
 Lo stile di Catone è scarno, semplice, con espressioni proverbiali tratte dalla saggezza popolare. La
prosa è scelta proprio per questo motivo, per rimanere aderente al contenuto senza lasciarsi
sfuggire niente di superfluo, volto a dilettare anziché a insegnare.
 La lingua è spesso arcaizzante (sceglie sempre vocaboli antichi, soprattutto nel campo semantico
dell’agricoltura e dell’allevamento). Vi sono anche termini tecnici: strumenti dell’agricoltura, piante,
ecc.
 Non mancano figure di suono quali allitterazioni (ripetizioni di consonanti simili) e assonanze
(ripetizione di vocali simili); ciò testimonia che Catone, nonostante il suo ideale di prosa scarna e
semplice, avesse delle capacità artistiche e letterarie. Il fatto che vi siano figure di suono vuole
essere un richiamo alla letteratura romana delle origini: le prime opere avevano un modo di
fruizione orale, risalivano a un periodo in cui la scrittura non esisteva ancora. Le opere delle origini

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come i carmina sono stati parzialmente fissati nella lingua scritta in un periodo di molto successivo
a quello della loro composizione. Proprio perché tramandati oralmente, facevano un grande uso di
figure di suono. Il fatto che Catone usi queste figure di suono vuole essere un’evocazione del modo
di esprimersi di queste opere delle origini.
Il motto tipico di Catone era: Rem tene, verba sequentur
“Padroneggia l’argomento, le parole seguiranno”
Questa massima è tratta dai Praecepta ad filium (“Insegnamenti al figlio”) in cui egli condensa un suo ideale
profondo: quello di dare più importanza al contenuto che non alla forma. il fatto che se un oratore o uno
scrittore conosce bene l’argomento, non deve preoccuparsi dell’arrangiamento delle parole perché esse gli
verranno comunque. In questo modo egli manifesta l’ideale di scrivere cose pratiche con finalità di
contenuto più che di forma. Accanto a questo aspetto c’è da tenere in considerazione il fatto che Catone
fosse un uomo molto colto; la tradizione dice che avesse imparato il greco in tarda età, cedendo di fronte
all’invasione artistica dei greci nonostante una vita trascorsa a scagliarsi contro le tradizioni greche. In
realtà alcuni studiosi pensano che egli avesse imparato il greco già da prima, seppure non ne facesse
mostra. È comunque certo che, seppure badasse al contenuto più che alla forma, il suo stile è semplice ma
al tempo stesso elegante che alcuni definiscono una “semplicità ricercata” come sarà poi anche per Cesare
(Cicerone stesso ci ha detto che Cesare era un grande oratore). Lo stile scarno è un modo di manifestare i
propri idali di aderenza allo stile delle origini. È una prosa semplice ma raffinata.

Conclusioni
 In questa lezione abbiamo analizzato la figura di Catone il Censore, vissuto fra il III e il II secolo a.C.
 Attivo partecipante alle vicende della res publica all’epoca delle guerre puniche, combatte per la
restaurazione della società agricolo-militare degli antichi romani.
 A livello culturale, si batte contro le tendenze innovatrici provenienti dalla Grecia da poco
conquistata, ed è antagonista della famiglia degli Scipioni.

IL TEATRO A ROMA
IL TEATRO DELLE ORIGINI
Tempora et loca
Forme pre-letterarie di teatro latino sono attestate a partire dall’età arcaica (III-II secolo a.C.), periodo in cui
abbiamo:
– la conquista della penisola italica;
– le tre guerre puniche (264-146 a.C.).
Prima dello scoppio delle guerre puniche, nel III secolo a.C., i Cartaginesi erano i padroni del Mediterraneo,
estendendo il loro dominio dall’Africa settentrionale alla Sicilia, Sardegna e Corsica, alle coste della Penisola
iberica e della Francia. In questo periodo abbiamo una prima espansione di Roma, che in un primo
momento si scontra con gli altri popoli della penisola italica come i sanniti, gli osci, gli umbri, fino a
prendere completo possesso della penisola; il successivo avversario saranno i Cartaginesi.
Le opere teatrali romane venivano recitate in occasione dei Ludi (giochi). Vi erano diversi ludi, che avevano
luogo in differenti momenti dell’anno:
– Ludi Megalenses, in onore della Magna Mater, in aprile;
– Ludi Apollinares, in onore di Apollo, in luglio;
– Ludi Romani, in onore di Giove Ottimo Massimo, in settembre;
– Ludi Plebei, dedicati ancora a Giove Ottimo Massimo, in novembre.
La maggior parte dei ludi erano dedicati a Giove, massima divinità del pantheon romano. I Ludi, le principali
occasioni in cui avevano luogo manifestazioni teatrali a Roma, erano organizzati dagli Edili, e spesso
comportavano anche spettacoli di gladiatori.
Tre date importanti nella storia del teatro latino

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• 240 a.C.
Prima regolare rappresentazione teatrale ad opera di Livio Andronico, il primo grande autore della
letteratura latina, in occasione dei Ludi Romani.
• 207 a.C.
Fondazione della confraternita di autori e attori (collegium scribarum histrionumque) legata alla
figura di Livio Andronico, a cui dobbiamo la prima traduzione latina dell’Odissea di Omero, l’Odusìa,
il primo tentativo di rappresentare la poesia epica a Roma. Livio Andronico non tenterà solo di
portare a Roma figure, motivi e storie dell’esperienza teatrale greca, ma cercherà anche di stabilire
un teatro veramente romano. Questa confraternita è stata importante proprio perché dà un vero e
proprio riconoscimento agli attori e agli autori di opere teatrali, che prima erano artisti che
componevano in maniera occasionale, a seconda della richiesta del committente, ed erano figure ai
margini della società. Con questa confraternita viene riconosciuto loro uno statuto ufficiale, con
un’importanza legata anche alle esperienze civili e politiche (come i ludi) in cui tutto il popolo si
raccoglieva. Il teatro romano si avvia verso una tradizione stabile e autonoma rispetto al modello
greco.

• 55 a.C.
Edificazione a Roma del primo teatro stabile, in pietra (il teatro di Pompeo), in sostituzione a
strutture di legno. Questo significa che ci stiamo avviando verso una tradizione a cui viene
riconosciuta un’importanza civile, manifestazione del riconoscimento di una stabilità legata alle
ricorrenze. Tutto ciò è legato al nome di Pompeo, grande politico e militare, famoso per essersi
scontrato con Cesare nelle guerre civili ma anche per le vicende civili e sociali come queste
aggregazioni di popolo in occasione dei ludi per le manifestazioni teatrali.
Modelli
Il teatro romano ha tre principali modelli:
– italico;
– greco;
– etrusco.
Tutti questi modelli si combinano nel formarsi di una tradizione teatrale latina.
Modelli italici
I modelli italici del teatro latino sono due:
 Atellane
Origine: Atella, città campana di lingua osca a cui devono il loro nome.
Gli Osci erano un popolo di stirpe indo-europea, appartenente al ramo italico insieme ad altri
popoli quali Umbri, Sabelli, etc. Si erano stanziati nel meridione della penisola italica; avevano una
propria lingua, di cui ci sono rimasti dei documenti; alcuni tratti di questa lingua sono tuttora
presenti nelle varietà regionali dell’italiano meridionale (es. assimilazione nasale dentale in nasale
nasale nd>nn: mondo>monno, tondo>tonno, dipende dal sostrato osco).
Nel V secolo a.C. gli Osci furono inglobati dai Sanniti, e in seguito alle tre Guerre Sannitiche (343-
290 a.C.) furono conquistati, insieme ai Sanniti stessi, dai Romani.
Atella fu una delle prime civitates italiche a ricevere la cittadinanza romana. Il passaggio sotto l’area
di influenza romana fu doloroso per le guerre, ma fece sì che queste zone fossero sempre sentite
saldamente legate a Roma e ricevessero presto la cittadinanza, godendo dei diritti civili e politici
molto più delle altre zone conquistate successivamente.
Le Atellane venivano eseguite con improvvisazione sulla base di un canovaccio rudimentale (una
sorta di scaletta degli eventi, sulla base della quale gli attori improvvisavano).
Prevedevano dei tipi caratteriali ricorrenti (che si sono mantenuti nella commedia dell’arte): il
vecchio avaro, il giovane squattrinato, la donna di facili costumi, etc. Sono tipi prestabiliti e, nel
momento stesso in cui il pubblico li vedeva (avevano delle maschere, quindi erano riconoscibili), già
capiva qualcosa della storia; si giocava sulla prevedibilità delle situazioni e sull’imprevedibilità delle
parole.
La commedia dell’arte riprende questo modello teatrale dell’atellana; è una forma di teatro diffusa

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da commedianti italiani in tutta Europa nel 1700.
 Fescennìni
Ci sono diverse ipotesi sull’etimologia del nome Fescennini; essa può derivare:
– dalla città di Fescennia, in Etruria, nell’attuale provincia di Viterbo, in cui si hanno alcune
esperienze teatrali pre-letterarie;
– da fascinum, che significa:
1. “malocchio”;
2. “membro virile”.
In Etruria si collocano alcune esperienze teatrali rilevanti che avranno importanza anche a Roma
perché la prima epoca arcaica, soprattutto quella delle origini della sua storia, quando era
governata dal re, era sotto l’influenza etrusca. Gli etruschi avevano raggiunto un potere economico,
militare e culturale già prima del III secolo a.C. Il loro nucleo principale di stanziamento era l’Etruria,
corrispondente all’attuale Toscana, e in epoca successiva si erano espansi nell’attuale zona
dell’Emilia Romagna, nella pianura padana, nel basso Lazio e nella Campania. In questa espansione
avevano incontrato i romani (Roma era ancora un piccolo villaggio) e avevano influenzato le loro
esperienze culturali e teatrali.
La seconda ipotesi può alludere al contenuto spesso scurrile dei Fescennini, che comportavano
battute salaci di carattere sessuale (spesso recitati in occasione di nozze) oppure espressioni di
diffamazione/maledizione. Da qui il significato “malocchio”. Erano espressione della cultura
apotropaica (contadina, arcaica, che vuole scongiurare con il malocchio la malattia, la fame, la
rovina del raccolto) delle feste rurali. Queste paure venivano scongiurate anche con la parola, con
nenie, canti popolari e anche con i fescennini, che cercavano di sdrammatizzare introducendo
battute scherzose e scurrili.
Modello greco
Il principale modello del teatro latino è comunque il teatro greco, ancora più importante rispetto a quello
italico per lo stabilirsi di un’esperienza letteraria teatrale a Roma, da cui vengono ripresi:
– soggetto;
– ambientazione;
– nomi dei personaggi;
– termini tecnici della drammaturgia.
Tuttavia, accanto alle evidenti somiglianze fra teatro latino e teatro greco, vi sono anche alcune differenze
dai modelli greci:
 formali (la tragedia romana NON ha il coro).
Il coro era una parte importante della tragedia greca: rappresentava un gruppo di persone
testimoni della vicenda teatrale che veniva raccontata, e accompagnavano la storia dei
protagonisti, la commentavano, spesso si rivolgevano direttamente ai personaggi, che potevano
dialogare con il coro. Era un elemento fondante della tragedia greca, tanto che avevano un proprio
stile. Ogni genere letterario, in Grecia, usa un proprio dialetto (ionico per le opere epiche in
omaggio a Omero, attico per le opere filosofiche in omaggio a Platone ed Aristotele, dialetti diversi
per le opere teatrali: il coro usa il dorico perché i grandi interpreti della poesia corale, che veniva
prodotta per essere cantata, avevano scritto in dialetto dorico; primo tra tutti Pindaro). Il coro era
talmente importante che doveva usufruire di un particolare dialetto all’interno dell’opera teatrale;
aveva uno statuto riconosciuto anche a livello linguistico, oltre che a livello d’intreccio del racconto.
 di contenuto (la commedia romana NON ha allusioni polemiche alla realtà politica
contemporanea).
Poiché privo di allusioni alla politica contemporanea, il teatro latino è più vicino alla Commedia
Nuova di Menandro, di epoca ellenistica, che alla commedia di Aristofane (V secolo a.C.), del
periodo classico. Aristofane, principale interprete della commedia greca, è autore di una serie di
commedie in cui la satira politica fa da padrona; egli si scaglia contro le figure politiche del tempo,
soprattutto quelle che avevano contribuito alla guerra del Peloponneso; da molte sue opere
emerge l’esigenza della fine di queste ostilità che avevano portato Atene sul tracollo economico e

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sociale; si scaglia anche contro gli intellettuali (ad esempio prende in giro Socrate, perso in pensieri
senza la minima utilità e la minima incidenza nella vita reale, chiuso nel proprio pensatoio). A Roma
tutto questo non c’era, anche perché era una società meno libera dal punto di vista dell’opinione
pubblica: non c’erano mai stati quei dibattiti politici e culturali che avevano illuminato la
democrazia di Atene.
In questo il teatro latino si ispira più alla commedia di epoca ellenistica di Menandro, che si colloca
in un periodo in cui erano finite le occasioni dei dibattiti. In quest’epoca la Grecia è volta verso
l’unificazione sotto Filippo prima, sotto Alessandro Magno dopo, e le polis perdono la propria
indipendenza finendo di scontrarsi l’una verso l’altra. Si va dalla democrazia verso il principato; non
c’è quel clima di libertà e democrazia che aveva caratterizzato il periodo classico di Atene nel V
secolo a.C. Non si può parlare di politica e allora si parla di vicende personali, di vita quotidiana;
questo tipo di commedia, chiamata “commedia nuova”, è quella che viene ripresa anche a Roma.
Modello etrusco
Gli Etruschi ebbero principalmente il ruolo di mediatori dei modelli teatrali greci a Roma, perché si erano già
espansi nella parte meridionale della penisola italica, quando Roma era ancora un villaggio (si erano
incontrati con i greci prima dei romani, quindi portarono a Roma esperienze e modelli teatrali della Grecia).

Il teatro romano deve agli etruschi:


– Il termine histrio, “attore”; certamente non è greca né di origine indoeuropea;
– Tito Livio afferma l’origine etrusca degli spettacoli romani.

Formae
Due sono le principali forme del teatro romano:
 Commedia, detta palliata se ambientata in Grecia (da pallium, veste greca) o togata se ambientata
a Roma (da toga, veste del romano, da tego, “coprire”, da cui deriva anche tegula, “tegola”, quella
che copre). A seconda che si usasse un costume alla greca o alla romana veniva detta palliata o
togata; il costume era la manifestazione più evidente di tutta un’ambientazione più generale di
luoghi e di tempi.
 Tragedia, detta cothurnata se ambientata in Grecia (da cothurni, alti calzari greci) o praetexta (toga
orlata di porpora tipica dei magistrati romani) se ambientata a Roma.
Nella veste romana, togata o praetexta della commedia e della tragedia rispettivamente, la prima si rifà al
costume romano normale, mentre la seconda si rifà alla veste del magistrato romano, appartenente alle
classi alte (la tragedia rappresentava un’elevazione di stile e del contenuto, coinvolgeva personaggi di certi
ceti sociali, re, principi e senatori. Accanto alla rappresentazione di due tipi di vesti c’erano
rappresentazioni diverse (più bassa e più alta) di differenti forme teatrali. La commedia è più bassa, la
tragedia ha contenuti e forme più elevati.
Nell’esperienza teatrale romana, recitavano esclusivamente gli uomini, forniti di maschere sul volto; questo
accadeva anche in Grecia.
L’uso di maschere permetteva:
– di riconoscere immediatamente il tipo di personaggio: senex, adulescens (giovane squattrinato),
leno (lenòne, quello che sfruttava le prostitute), meretrix, etc.;
– di far recitare uno stesso attore in più ruoli.
Il termine tipico del linguaggio teatrale è quello di persona, che può significare anche maschera,
personaggio tipico.
• Le opere teatrali romane sono scritte in versi di diverso tipo (polimetria, cioè compresenza di molti
metri).
• Lo stile e il linguaggio cambiano a seconda:
– del genere: basso nella commedia, alto nella tragedia;
– dell’autore: nello stesso genere comico, ad esempio, il linguaggio di Terenzio è più alto di quello di
Plauto.

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Conclusioni
In questa lezione abbiamo analizzato il teatro latino arcaico:
 nelle sue forme (tragedia vs. commedia);
 nei suoi contenuti (intrecci prevedibili, spesso tratti da opere teatrali greche);
 nei suoi modelli (oltre a quello greco, vi sono influssi italici ed etruschi).

TITUS MACCIUS PLAUTUS


Vita: tempora et loca
Plauto nasce intorno al 250 a.C. a Sàrsina, cittadina appenninica dell’Umbria (intendendo l’Umbria al tempo
dei Romani, che era molto più estesa a nord dell’attuale Umbria: oggi Sàrsina è in Emilia-Romagna).
Siamo nel periodo delle Guerre Puniche: Plauto rappresenta le sue prime commedie durante la II Guerra
Punica.
A Sàrsina Plauto non conduce uno stile di vita elevato, anzi alcuni studiosi pensano che non avesse neppure
la cittadinanza romana. In questo caso i tria nomina (che solo i cittadini romani possedevano: Gaius Iulius
Caesar, Marcus Tullius Cicero) non sarebbero originali.

Probabilmente il nome del poeta era Titus Plautus o Titus Plotus, in cui:
 Titus è il praenomen;
 Plautus/Plotus è il cognomen (che significava probabilmente “dai piedi piatti” o “dalle grandi
orecchie”, spesso attributo di un cane);
 Maccius o Maccus è il nome di un personaggio dell’Atellana, ironicamente usato da Plauto al
posto di un gentilìcium.
Nel 200 a.C. rappresenta lo Stichus, la sua commedia più corta.
Nel 191 a.C. rappresenta lo Pseudolus, la sua commedia più lunga.
Altra data certa è quella della sua morte, avvenuta nel 184 a.C.

Opera
Plauto ebbe un grandissimo successo sia in vita che nei secoli successivi: anche per questo ci sono
pervenute molte sue opere, mentre degli altri autori del periodo arcaico della letteratura latina abbiamo
solo frammenti. Tuttavia, proprio per questa sua grande fama, molti autori successivi hanno spacciato le
proprie opere per opere di Plauto, per cui non tutto ciò che ci è pervenuto sotto questo nome è autentico.
Le commedie autentiche (secondo Varrone, nel De comoediis plautinis) giunte fino a noi sono 21:
Amphitruo, Asinaria, Aulularia, Bacchides, Captivi, Càsina, Cistellaria, Curculio, Epìdicus, Menaechmi,
Mercator, Miles gloriosus, Mostellaria, Persa, Poenulus, Pseudolus, Rudens, Stichus, Trinummus,
Truculentus, Vidulari.
Modelli
 Forme teatrali pre-letterarie dell’esperienza italica, soprattutto le Atellanae, a cui si deve il
personaggio ed il nome di Maccio.
 Commedia Nuova di Menandro della letteratura greca.
È proprio dal connubio tra queste due esperienze teatrali che deriva la commedia di Plauto.
Trama e intreccio
La trama delle commedie di Plauto è estremamente prevedibile, esposta fin dal prologo, e non ha alcun fine
didattico o morale.
Tipicamente, un giovane squattrinato si innamora di una donna, tenuta in condizione di meretrice o
schiava, e vuole liberarla dal perfido lenòne, spesso con il denaro del proprio padre avaro. Riuscirà nel
proprio intento grazie all’aiuto del servo astuto. Un riconoscimento finale può restituire dignità alla
meretrice, che spesso viene riconosciuta come figlia perduta o rapita di un personaggio libero e di
condizione elevata.
Elementi narrativi: equivoci, scambio di persona, agnizione (il riconoscimento), beffa messa in atto dal

22
servo.
Personaggi
I personaggi sono stereotipati, come nell’Atellana, senza alcun tentativo di approfondimento psicologico.
Questa sarà una differenza importante tra Plauto e Terenzio, che invece tenta un approfondimento
psicologico.
I personaggi di Plauto sono, ad esempio: servus (schiavo astuto), adulescens (giovane innamorato), senex
(vecchio avaro), leno (lenone), miles (soldato rozzo e spavaldo), meretrix (cortigiana), etc.
La figura del servo
Tra tutti questi personaggi stereotipati, quello a cui viene data maggiore importanza è il servo, cioè lo
schiavo, che viene innalzato al rango di motore della trama. Le commedie di Plauto sono caratterizzate dalla
presenza del servus callidus, cioè astuto, brillante.
Il servo è colui che riesce grazie alla propria astuzia a compiere imprese impossibili agli altri personaggi;
quando, ad esempio, si tratta di trovare i soldi per il giovane padroncino che vuole riscattare la cortigiana
tenuta schiava da un perfido lenone, è il servo che riesce a trovare questi soldi con l’astuzia e col raggiro.
Il servo è anche poeta: nei suoi monologhi (soprattutto nello Pseudolus, la sua commedia più lunga) si
compiace delle proprie capacità di creare situazioni e di mandare avanti la trama. Si rappresenta il servo
come un poeta nel senso etimologico del termine: dal greco “colui che fa fare, che agisce”, quindi motore
dell’intreccio e della trama.

Amphitruo (Anfitrione)
Giove, innamoratosi di Alcmena (moglie di Anfitrione re di Tebe), approfitta dell’assenza del re per
introdursi nel letto della donna ignara. Sulla porta, intanto, Mercurio nelle vesti di Sosia (il servo di
Anfitrione) sorveglia che il vero re non arrivi. All’arrivo improvviso del vero Anfitrione e del vero Sosia sorge
una serie di esilaranti equivoci. Alla fine Giove appare come deus ex machina, spiega il fatto e annuncia la
nascita di Èracle dal suo rapporto con Alcmena. Anfitrione si placa perché capisce che la moglie non lo ha
tradito e che comunque il suo rivale è un dio; anzi si sente anzi onorato di aver avuto un dio come rivale.
Elementi di rilievo dell’Amphitruo:
 È l’unica commedia di Plauto a soggetto mitologico.
 La parola “sosia” deriva proprio dalla vicenda di Mercurio, “doppio” del servo Sosia. Dal nome
proprio di un personaggio, copia di un servo (Mercurio si fingeva Sosia) deriva il nome comune
sosia per identificare colui che assomiglia a un’altra persona. È stata importante quindi anche nella
storia del lessema.
 È stata ripresa da Molière.
Asinaria “La commedia degli asini”
Un giovane squattrinato cerca di riscattare la donna amata, una cortigiana, vendendo asini. In questo è
aiutato in un primo tempo dal padre, che però dopo il riscatto compete con il figlio per conquistare le grazie
della donna. La commedia si conclude con la vittoria del figlio.
Aululària “La commedia della pentola”
Euclione, un vecchio avaro, vive in assoluta povertà ed è ossessionato dall’idea che qualcuno possa rubargli
la sua pentola piena d’oro. Per questo cambia continuamente posto alla pentola. I suoi movimenti, però,
sono osservati dal servo astuto del vicino, il quale ruba la pentola e la dà al giovane padrone. Il giovane è
innamorato della figlia di Euclione, ma questi vorrebbe maritarla ad un vecchio e ricco suo amico. Dopo
aver restituito la pentola ad Euclione, il giovane riesce ad ottenere la mano della figlia di costui. Anche
l’Aulularia viene ripresa da Moliére, nella commedia l’Avaro.
Bacchides
Bacchide è il nome di due sorelle gemelle, cortigiane (con allusione ai riti orgiastici delle baccanti), amate
da due giovani amici senza un soldo. Per riscattarle il servo astuto di uno dei due giovani raggira per due
volte il vecchio e avaro padrone, padre del ragazzo. Alla fine i due amici conquistano le due sorelle e
perfino i loro anziani e austeri padri si godono le grazie di due altre cortigiane. Qui vengono presi in giro i
valori tradizionali dell’austeritas e della severitas dei vecchi romanI; per Catone questi valori avevano
un’importanza fondante. Plauto lo prende bonariamente in giro presentando questi vecchi che alla fine si

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lasciano catturare dal fascino di queste baccanti. La satira di Plauto non è mai aggressiva, politica, sociale; è
piuttosto uno scherzoso prendere in giro.
Captivi “I prigionieri”
Un ricco proprietario dell’Etolia aveva due figli: uno gli venne rubato ancora bambino, e l’altro è fatto
prigioniero in seguito alla guerra fra Etolia ed Elide. Per recuperarlo con uno scambio di prigionieri, il
vecchio si procura due schiavi elèi. Alla fine non solo riesce a riavere il figlio catturato, ma riconosce
(agnizione) che uno dei due schiavi elei è proprio il figlio che gli era stato rapito anni prima.
I Captivi sono l’unica commedia di Plauto priva di intrecci amorosi; in primo piano ci sono il rapporto tra
padre e figlio e il riconoscimento, la perdita e il ritrovamento di una persona.
Càsina “La ragazza dal profumo di cannella”
Càsina è un’orfanella che è stata accolta nella casa di una coppia di coniugi, Lisìdamo e Cleòstrata. Una
volta diventata una bella ragazza, di Càsina si innamora (ricambiato) il giovane figlio della coppia, ma questi
deve affrontare la rivalità del vecchio padre libertino, che si è invaghito anch’egli di Càsina. Alla fine il
giovane ha la meglio e il vecchio Lisìdamo viene beffato dalla moglie e dal servo astuto.
Cistellaria “La commedia della cesta”
Selenio è un’orfana di oscuri natali, trovata in una cesta. Di lei è innamorato un giovane, che vorrebbe
sposarla, ma il padre di costui lo ostacola poiché vorrebbe dargli in moglie una fanciulla di origini più
elevate, figlia di un certo Demifòne. Mediante il meccanismo dell’agnizione, si scopre poi che Selenio è
anch’essa figlia di Demifone. Può quindi vantare illustri natali e sposare il giovane.
Curculio “Il gorgoglione”
Curculio (letteralmente il nome di un parassita roditore del grano) è un servo scaltro che aiuta il giovane
padrone a riscattare da un lenòne la donna amata, promessa ad un soldato. Dopo vari raggiri operati da
Curculio soprattutto a spese del lenone, il giovane può sposare la ragazza, che si scopre essere sorella del
soldato.
Epìdicus “Epidico”
Epidico è il servo astuto di un giovane volubile che si innamora di due ragazze diverse. Ciò comporta una
duplice richiesta di denaro al padre avaro del ragazzo. L’imbarazzo delle due donne è risolto dalla consueta
agnizione: una è la sorella del giovane, che quindi può sposare l’altra, una suonatrice di cetra.
Menaechmi
Menecmo è il nome di due fratelli gemelli che sono stati separati dalla nascita e che vivono in due città
diverse. Quando uno dei due va nella città dell’altro, scatena una grande confusione e una serie di
divertenti equivoci basati sull’apparente ubiquità di uno dei Menecmi.
I Menecmi sono quindi il prototipo della commedia degli equivoci, “the comedy of errors”.
Mercator “Il mercante”
Un giovane mercante si innamora di una ragazza, di cui però è invaghito anche il vecchio padre. Avviene la
consueta rivalità amorosa fra il senex e l’adulescens, vinta alla fine da quest’ultimo. Il vecchio viene beffato,
anche con l’intervento della moglie, e viene pronunciata scherzosamente una legge che vieta il
coinvolgimento in storie d’amore a chi ha compiuto 60 anni.
Miles gloriosus “Il soldato fanfarone”
Pirgopolinìce (letteralmente “conquistatore di torri e di città”) è un soldato sfacciato e millantatore, che
manda il servo a riscattare la donna amata, una cortigiana. Il servo, però, preferisce aiutare il suo ex
padrone, un giovane innamorato della stessa donna. Alla fine il giovane e la donna, Filocomàsio, si possono
sposare mentre il soldato rimane a mani vuote, e il lenone che teneva la ragazza schiava viene beffato.
Mostellaria “La commedia del fantasma”
Un servo astuto raggira il vecchio padrone, improvvisamente di ritorno da un viaggio, facendogli credere
che la casa è infestata dai fantasmi. Mostellum, infatti, è un diminutivo di monstrum “cosa sorprendente,
terrificante”. Lo scopo è quello di coprire il giovane figlio del padrone, che nel frattempo ha trasformato la
casa in un bordello. Alla fine l’inganno viene scoperto, ma il vecchio perdona allegramente le intemperanze
del giovane.
Persa “Il persiano”
Il servo Tòssilo, innamorato di una cortigiana, riesce a liberarla (con l’immancabile beffa ai danni del
lenòne) mediante l’aiuto di un amico, anch’egli schiavo. Per riuscire nell’intento, l’amico si traveste da
persiano. L’originalità del Persa è che lo schiavo qui non è solo l’aiutante, ma anche l’innamorato.

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Gradualmente sale l’importanza del servo nell’intreccio: da aiutante a protagonista.
Poènulus “Il cartaginesino”
Un giovane cartaginese, rapito da bambino, vive accanto a due fanciulle, anch’esse rapite e sfruttate dal
loro padrone. L’arrivo del cartaginese Annòne risolve la situazione con l’agnizione: le fanciulle sono le figlie,
e il giovane è suo nipote, che può quindi sposare una delle due.
Commedie come questa ci fanno vedere come Plauto tratta l’attualità: siamo nel periodo delle guerre
puniche (i Cartaginesi a Roma sono un argomento di scottante attualità) ma, invece di trattarne in maniera
critica con polemica politica o sociale, Plauto le inserisce nelle sue commedie rendendole protagoniste di
vicende personali: un rapimento, un’agnizione, una storia d’amore. La storia dunque entra nelle commedie
di Plaudo ma inserendosi in una cerchia di rapporti personali, non politici o di satira sociale.
Rudens “La gòmena”
Un lenone fa naufragio insieme a delle sue schiave. Una di queste fanciulle gli sfugge sulla spiaggia e viene
da lui inseguita. Sulla stessa spiaggia un pescatore recupera dal naufragio, tramite una gòmena (cioè una
fune), una cassetta. In essa vi sono le prove che la fanciulla è libera, non schiava, ed è anzi figlia del
padrone del pescatore.
Stichus
Stico è il servo di un giovane che, insieme ad un amico, è da tempo in viaggio per affari. I due amici
sono sposati a due sorelle, che di conseguenza restano a casa trascurate, tanto che il loro padre tenta
in ogni modo di spingerle al divorzio e a rifarsi una vita. Esse, però, resistono ad ogni tentazione. La
loro fedeltà coniugale viene premiata dal ritorno dei mariti a casa pieni di ricchezze.
Trinùmmus ”Le tre monete”
Un giovane sta dilapidando il patrimonio di famiglia con la sua vita libertina, mentre il padre è fuori casa
per affari. Un amico di famiglia, però, riesce a salvare almeno il denaro per la dote della sorella del giovane.
Per recuperare questa dote viene assoldato un uomo per “tre monete”, che danno il titolo alla
commedia.
Truculentus “Lo zoticone”
Lo zoticone è qui il servo di uno dei tre amanti di Fronèsio, cortigiana astuta e avida, che ordisce inganni al
fine di accumulare denaro. A differenza delle cortigiane delle altre commedie, Fronesio è qui personaggio
attivo, che muove gli eventi, benché sia rappresentata con tratti piuttosto negativi. Nelle altre commedie la
cortigiana è solamente un oggetto del desiderio: viene tenuta schiava, maltrattata dal lenone, amata dal
giovane e talvolta anche dal padre del giovane, e alla fine riesce ad essere liberata e a sposare il giovane di
cui è innamorata. Qui invece Fronesio sale nella rappresentazione di una donna consapevole, e muove
addirittura l’intreccio.
Vidularia “La commedia del baule”
Di questa commedia ci restano solo frammenti, in cui si parla di un baule dove si trovano gli oggetti
necessari a far riconoscere un giovane. In questo modo egli riacquista la propria posizione nella società.

Modus dicendi
 Linguaggio sperimentale: varietà lessicale, giochi di parole, neologismi.
 Figure retoriche di suono: allitterazioni (ripetizioni di una stessa consonante o di consonanti simili),
iterazioni (ripetizioni della stessa parola).
 Figure retoriche di contenuto: similitudini, metafore tratte da vari campi semantici (mondo
quotidiano, istituzioni militari, mito, etc.). A seconda dell’argomento della commedia Plauto mette
in atto una serie di metafore in cui attività ed oggetti vengono rappresentati metaforicamente con il
linguaggio tecnico di quel campo semantico (se si tratta di un soldato, la vita militare; c’è
un’estensione del linguaggio quotidiano a coprire metafore e linguaggio di sentimenti e di
sensazioni).
 Metri estremamente vari. Quelle di Plauto sono opere poetiche, e talvolta venivano anche cantate.
La varietà dei metri distingue Plauto da Terenzio, che ha una riduzione dei metri rispetto alla
polimetria di Plauto.

Conclusioni

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 In questa lezione abbiamo analizzato la figura di Plauto, il principale rappresentante del teatro
romano, vissuto fra il III e il II secolo a.C.
 Le sue commedie mettono in atto una serie di meccanismi (beffe, scambi di persona, equivoci,
agnizione) che si affermeranno anche nel teatro dei secoli successivi.
 Due sono i principali elementi originali di Plauto:
– a livello formale, lo stile e il linguaggio estremamente ricco e vario;
– a livello di contenuto, l’importanza data alla figura del servo, vero responsabile dell’intreccio.

PUBLIUS TERENTIUS AFER


Vita: tempora et loca
Terenzio nasce intorno al 185 a.C. a Cartagine, da cui il suo cognomen Afer (“africano”).
Giunge a Roma poco dopo la II guerra punica come schiavo del senatore romano Terenzio Lucano, da cui
deriva il suo gentilicium Terentius.
Il suo nomen originario era probabilmente solo Publius.
Come per Plauto, l’acquisizione dei tria nomina è un fatto secondario, che vuole sigillare la sua acquisita
integrazione nella società romana. Il fenomeno di intellettuali, persone colte e letterate che giungevano a
Roma a seguito di generali e conquistatori, è molto comune nel II e nel III secolo a. C.; anzi, i primi letterati
della cultura latina sono proprio di nazionalità e di gruppo etnico non romano.
A Roma entra nel Circolo degli Scipioni (uno dei capostipiti era Scipione l’Africano) e ha stretti rapporti
specialmente con Scipione Emiliano e Lelio, che saranno sempre suoi protettori. Fa quindi parte della
corrente culturale del filo-ellenismo. Nella Roma arcaica (III-II secolo a.C.) vi erano due correnti opposte: gli
xenofili, o filo-elleni, capeggiati soprattutto dagli Scipioni e da quelle famiglie appartenenti agli strati alti
della società, che erano rimasti affascinati dai modelli culturali greci e cercavano di integrare tutte le
influenze greche nella cultura romana e, dall’altra, gli xenofobi, capeggiati da Catone il Censore, cioè quei
romani più attaccati alle radici culturali latine secondo cui gli uomini dovevano avere un’educazione
militare e contadina al tempo stesso (militare in tempo di guerra e contadina in tempo di pace) secondo la
tradizione dei più antichi romani. Questi personaggi sono avversi alla cultura proveniente dalla Grecia e, più
in generale, dall’Oriente. Catone, nonostante questa sua avversione verso la Grecia, era tutt’altro che un
uomo rozzo e incolto, ma anzi era imbevuto di cultura anche greca, nonostante ostentasse di non
conoscerla (era più una posizione ideologica che effettiva). Il fatto di opporsi ai greci non significava essere
illetterati, ma rivendicare la maggiore importanza del retaggio culturale italo-latina. A questa tendenza
conservatrice si oppongono gli Scipioni, grandi innovatori, imbevuti di cultura greca, che inglobano nel loro
circolo personaggi provenienti da altri paesi, tra cui appunto Terenzio.
Intraprende un viaggio in Grecia per fini culturali (secondo un’abitudine obbligatoria diffusa anche nella
tarda repubblica). Lo farà anche Cicerone.
Nel corso di tale viaggio, nel 159 a.C., Terenzio muore, sembra per annegamento: probabilmente tale
notizia è un tentativo di accostare la sua morte a quella di Menandro, suo principale modello. Gli antichi
tendevano a presentare la vita degli autori in parallelo o in contrapposizione l’una con l’altra.
Terenzio si colloca dunque in un periodo ricco e pacifico per Roma, che da una parte stipula una tregua con
i Cartaginesi (Terenzio vive a cavallo fra la II guerra punica, terminata nel 201 a.C., e la III guerra punica,
iniziata nel 149 a.C.), e dall’altra completa la conquista della Grecia: nel 168 a.C. con la battaglia di Pidna si
assesta un colpo decisivo alla Macedonia. In seguito a tale battaglia arrivano a Roma dalla Grecia ricchezze,
opere d’arte e intellettuali come schiavi.

Opera
Le opere di Terenzio ci sono pervenute integre e provviste di dettagliate note filologiche.
Le sue commedie sono sei:
• Andria
• Hècyra
• Heautontimorùmenos
• Eunuchus

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• Phormio
• Adelphoe

Andria “La ragazza di Andro” (rappresentata nel 166 a.C.)


Il vecchio Simone ha combinato il matrimonio fra suo figlio, Panfilo, e la figlia del vicino di casa, Filumena.
Panfilo, però, ha una relazione con un’altra fanciulla, che è stata trovata e allevata da una cortigiana. Il
vecchio si oppone a questa relazione, ma alla fine, al funerale della cortigiana, si scopre che la fanciulla che
viveva con lei come una sorella era in realtà anch’essa figlia del vicino di casa, ed era stata persa durante un
naufragio avvenuto anni prima verso l’isola di Andro. La fanciulla è quindi sorella di Filumena, è di
riconosciuti natali, e può sposare il giovane. Un amico di costui sposa Filumena. Riconosciamo qui il
meccanismo dell’agnizione, del riconoscimento, per cui un personaggio che apparentemente sembrava di
ceto sociale basso, viene invece riconosciuto come appartenente alla società romana e spesso di ceto
elevato. Si sistema la situazione e il matrimonio può avere luogo.
L’ambientazione greca si ritrova in tutte le commedie di Terenzio; nell’Andria si vede addirittura nel titolo
(Andro è un’isola greca nel mar Egeo).
Hécyra “La suocera” (rappresentata nel 165 a.C.)
Panfilo è sposato con Filumena, ma non la ama e ha una relazione con la cortigiana Bacchide. Filumena
mesi addietro era stata violentata e messa incinta durante una festa notturna proprio da Panfilo (che in
quell’occasione le aveva strappato un anello), sebbene nessuno dei due sapesse dell’identità dell’altro.
Nato il bambino, sorge una serie di incomprensioni perché Panfilo, sicuro di non aver mai toccato la moglie,
vuole ripudiarla. La madre di Panfilo, Sòstrata, suocera di Filumena, che dà il titolo all’opera, si adopera per
appianare le divergenze fra i due sposi, e alla fine la situazione viene risolta con l’aiuto della cortigiana
Bacchide, a cui Panfilo nel frattempo aveva regalato l’anello. Proprio l’anello consente di ricostruire
l’antefatto, e Panfilo, una volta capito di essere stato lui a violentare la moglie, accetta lei e il figlio.
Anche qui troviamo elementi tipici delle commedie del II secolo a.C. e delle commedie greche alla
Menandro: una storia d’amore, un matrimonio che sembra in crisi ma poi si risolve felicemente, una festa
notturna (fenomeno molto diffuso nell’epoca arcaica spesso a causa degli influssi misterici provenienti dai
baccanali e dalle influenze orientali), l’agnizione, un anello che permette di riconoscere l’antefatto.
L’Hécyra non aveva molta vis comica ed ebbe uno scarso successo:
 La prima volta, nel 165 a.C., ebbe un totale insuccesso e il pubblico le preferì uno spettacolo di
funamboli.
 La seconda volta, cinque anni dopo, nel 160 a.C., il pubblico se ne andò alla notizia che vi era altrove
uno spettacolo di gladiatori.
 Solo al terzo tentativo, ancora nel 160 a.C., si riuscì ad arrivare alla fine della rappresentazione ma
solo perché il primo attore, famoso nel teatro del tempo, si rivolse direttamente agli spettatori
pregandoli di avere pazienze e di resistere fino alla fine della rappresentazione.
L’Hécyra manca di vis comica perché era una commedia del tutto innovativa, che difficilmente si inseriva
negli schemi del teatro del II secolo a.C. (il teatro arcaico a Roma è quello rappresentato prototipicamente
da Plauto, che prende i suoi modelli principalmente dal teatro italico -atellane e fescennini-, fatto di colpi di
scena, equivoci, scambi di persone; sono situazioni divertenti sottolineate da un linguaggio popolare che fa
ridere). L’Hècyra è molto diversa: innanzitutto rappresenta la suocera in modo del tutto anticonvenzionale,
come una donna comprensiva che cerca di riconciliare il figlio alla nuora. Quando scopre che è incinta e
pensa lei stessa che il padre del bambino non sia il proprio figlio, cerca comunque di proteggerla e di
risolvere la situazione, in maniera nuova non solo rispetto alla figura della suocera nel teatro precedente,
ma anche rispetto al senso comune della suocera che penserebbe prima al proprio figlio e poi al suo
consorte. Prevale il lato dell’introspezione psicologica rispetto alla comicità e al colpo di scena.
Heautontimorùmenos “Il punitore di se stesso” (rappresentato nel 163 a.C.) nome greco
Il vecchio Menedèmo confida al vicino Cremète di voler punire sé stesso con il duro lavoro dei campi per
aver avuto un comportamento troppo severo nei confronti del figlio. Quest’ultimo, infatti, si era
innamorato di una ragazza povera ma, poiché il padre non acconsentiva alle nozze, se ne era andato di casa
vivendo come mercenario. Al ritorno del ragazzo, Menedèmo lo accoglie con grande affetto. Poiché nel
frattempo si scopre che la sua innamorata è in realtà figlia di Cremète, il vicino di casa, il ragazzo può anche

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sposarla.
Anche qui il lato della comprensione prevale sul lato comico della rappresentazione: il padre non è colui che
ha un conflitto con il figlio, conflitto tipico delle commedie di Plauto, che solitamente rappresentava un
padre e un figlio che litigano tra loro o perché il figlio vuole derubare il padre o dissipare le sue ricchezze
per liberare o riscattare la ragazza da lui amata (di solito una cortigiana), o perché sono in competizione per
la stessa donna. Nelle commedie di Plauto il contrasto tra padre e figlio o tra vecchio e giovane era un
elemento portante e uno delle fonti prevalenti di comicità. In Terenzio la rappresentazione dei rapporti
filiali è totalmente diversa: qui il litigio c’è ma è nell’antefatto, nel passato, non è rappresentato. Nella
rappresentazione si ha un vecchio padre pentito di essere stato troppo duro con il figlio (rappresentazione
inaudita per la commedia romana antica ma anche per la cultura romana stessa, fortemente patriarcale).
Abbiamo anche qui l’agnizione: si scopre che questa ragazza non è di poveri natali ma è figlia del vicino di
casa, quindi si può avere il matrimonio. Il riconoscimento è importante nelle commedie antiche non solo
perché permette di risolvere un’impasse, uno stallo della situazione, ma anche perché consente di cedere al
personaggio più giovane senza intaccare i valori conservatori della società romana. Quando si ha il
riconoscimento il giovane non sposa la ragazza di poveri natali o priva della cittadinanza romana; il giovane
si sposa perché si scopre che la ragazza non è povera, non è senza cittadinanza romana. Il riconoscimento
permette di scoprire che un personaggio che sembrava umile in realtà non lo è; è innovatore fino a un certo
punto. Terenzio è innovatore nel rappresentare i lati più deboli dei personaggi a scapito dell’equivoco, della
comicità, del colpo di scena; tuttavia è pienamente integrato nella rappresentazione gerarchica della
società, per cui anche i matrimoni hanno buon fine solo se celebrati tra persone appartenenti allo stesso
ceto. Anche nella dissacrazione della commedia si ha una integrazione piena nei valori gerarchici della
società romana patriarcale e conservatrice.
L’opera è importante soprattutto per due motivi:
 Il senex, che in Plauto era solitamente un vecchio libertino in competizione con il figlio per ottenere
le grazie di una donna, è invece in Terenzio un padre severo e al tempo stesso capace di
manifestare sentimenti di pentimento e di affetto per il figlio.
 Dal I atto dell’Heautontimorùmenos è tratta la celebre frase:
Homo sum, humani nihil a me alienum puto
“Sono un uomo, non ritengo a me estraneo nulla che sia umano”, che ben sintetizza il concetto di
humanitas latina, concetto fondamentale soprattutto nel circolo degli Scipioni, che nella loro
concezione filo-ellenica, aperta allo straniero, a cui veniva riconosciuto uno statuto più elevato di
cultura, accentuava gli elementi comuni a tutti gli uomini, tra cui l’ humanitas, non solo quelli
rintracciabili nella cultura latina.
Eunuchus “L’eunuco” (rappresentata nel 161 a.C.)
Taide è la cortigiana di un soldato ma è innamorata di un giovane di buona famiglia, Fedria. Il soldato
riporta a Taide la sorella, a lei un tempo sottratta e venduta. Di questa fanciulla si innamora il fratello di
Fedria, che per stare con lei si traveste da eunuco. Alla fine si scopre che la fanciulla è in realtà cittadina
ateniese, e quindi il finto eunuco, che nel frattempo è stato smascherato, la può sposare.
Anche qui abbiamo un riconoscimento, che parte da una prima situazione di mascheramento consapevole
(si sapeva che il fratello di Fedria non era eunuco, ma si era mascherato per stare vicino alla ragazza amata);
è una forma diversa che comunque si inserisce nella tradizione dell’agnizione.
La figura di Taide compare nella Divina Commedia (If. XVIII). La citazione dantesca riprende un passo del III
atto dell’Eunuchus, quando il soldato chiede ad un mezzano se Taide gli sia grata per averle riportato la
sorella, ed egli risponde affermativamente:
"Magnas vero àgere gratias Thai mihi?” dice il soldato
"Ingentes" dice il mezzano
Dante cita scorrettamente questo passo di Terenzio, dove è il soldato che chiede ad un mezzano se Taide gli
sia grata; lei non parla, è il mezzano che risponde. In Dante è il soldato che interroga direttamente Taide.
Probabilmente non aveva davanti a sé il testo di Terenzio ma solo una fonte indiretta (un compendio o una
traduzione). All’epoca di Dante la classicità era fortemente stimata, ma anche conosciuta in maniera
indiretta: il greco non era conosciuto. La conoscenza dei poeti omerici è filtrata attraverso opere latine, ad
esempio Virgilio. Anche la letteratura latina che era stata tramandata nel medioevo, era spesso difficile; per

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questo fino al rinascimento anche i grandi intellettuali del medioevo potranno avere un accesso solo
parziale alla letteratura latina.
Phormio “Formione” (rappresentata nel 161 a.C.)
Formione è un parassita che con varie peripezie riesce ad aiutare i due cugini, Fedria e Antifòne, a riscattare
le due fanciulle di oscuri natali di cui essi sono innamorati. Mediante la solita agnizione si scopre alla fine
che una delle fanciulle è libera ed è anzi la cugina di uno dei ragazzi, che quindi può sposarla.
Adelphoe “I due fratelli” (rappresentata 160 a.C.) duale greco
Il vecchio Demèa ha due figli: uno, Ctesifòne, lo educa lui stesso secondo i metodi più severi; l’altro,
Èschino, lo dà in adozione al fratello Miciòne, che invece lo alleva nella più assoluta libertà. Demea critica il
modello educativo di Micione, e crede Eschino uno scapestrato. Tale opinione sembra confermata dalla
notizia che Eschino ha rapito una fanciulla. Quando però si scopre che Eschino ha rapito la donna per
conto del fratello, che di nascosto conduce una vita ancora più libertina, Demea si ricrede, e riconosce che
un’educazione più permissiva può dare frutti migliori di una troppo restrittiva.
È importante perché Terenzio vi rappresenta un paragone fra due modelli culturali:
 quello rigidamente attaccato al mos maiorum, incarnato da Catone;
 quello più permeabile agli insegnamenti provenienti dal mondo greco, portato avanti dal Circolo
degli Scipioni.
Con il fallimento del sistema educativo di Demea, Terenzio fa una scelta di campo, politica e culturale. Con
questa commedia Terenzio vuole dire che un’educazione più flessibile, un’adozione dei modelli più libertari
provenienti dalla Grecia, è migliore non solo perché più elevata culturalmente, ma anche perché dà
maggiori effetti di moralità: il ragazzo educato secondo il modello greco ha una vita più morale.
Un’educazione rigida, che apparentemente doveva portare a un maggior rispetto dei costumi, portava
invece a fare malefatte di nascosto. Questa commedia non è solo una rappresentazione di una storia, ma
anche una propaganda con una vena polemica.

I modelli
 Terenzio, come Plauto: si rifà alla Commedia Nuova di Menandro, ma la segue più fedelmente, con
indicazioni precise delle fonti (importanza del Prologo, che diventa uno spazio per esporre la
propria poetica).
Il concetto di originalità nella cultura greco-romana, per cui un’opera d’arte è considerata di
maggior valore se esprime qualcosa di nuovo rispetto ai modelli precedenti, è qualcosa di estraneo,
che viene messo in atto a partire dal Romanticismo; nella cultura greco-romana un’opera d’arte
aveva tanto più valore quanto più seguiva le proprie fonti e dimostrava una conoscenza profonda
dei modelli nello stile e nel contenuto (imitatio). L’arte era intesa non come qualcosa da creare ex
novo, ma come un porsi sulle orme dei grandi modelli del passato ( laudato temporis acti, cioè
“lodatori del tempo passato”). Il passato viene ritenuto come qualcosa di più alto, di insuperabile. A
livello dell’arte, ciò si riflette nella precisa poetica secondo cui un autore è tanto più bravo quanto
più dimostra di conoscere il proprio modello.
 Nonostante sia Plauto che Terenzio si rifacciano a Menandro, i due grandi commediografi del teatro
latino hanno anche importanti differenze.
A differenza di Plauto in Terenzio sono ridotti i contatti con le forme pre-letterarie delle Atellane
(c’è meno il concetto del comico, dell’equivoco, del colpo di scena, della battuta scherzosa); si ha
una commedia stataria (ossia statica, che non ha movimento) anziché una commedia motoria (con
un intreccio molto movimentato).
I personaggi
I personaggi di Terenzio sono quelli tipici della tradizione (il senex, l’adulescens), ma sono rappresentati con
approfondimento psicologico. L’attenzione alla psicologia rivela una visione del teatro colto, secondo i gusti
raffinati degli Scipioni piuttosto che delle masse popolari.
Scopi e ideali
Il proposito di Terenzio, e anche la sua originalità, è quello di esporre in una forma tradizionalmente
popolare quale il teatro il valore edificante dell’humanitas, propria della élite grecizzante. C’era anche

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l’intento di propagare questo valore nel popolo.

Modus dicendi
 Linguaggio urbanus, cioè tipico delle classi educate, privo di volgarità o battute salaci. In tutta la
letteratura latina vi è il contrasto tra urbanitas (forma di espressione legata allo stile cittadino, alle
classi alte, alla raffinatezza, alla permeabilità agli influssi greci) e rusticitas (maniera più popolare di
rappresentare le cose, più presente in Plauto; in Terenzio prevale l’urbanitas).
 Stile uniforme.
 Riduzione della varietà dei metri rispetto a Plauto, dove avevamo una varietà di metri
innumerevole, variabile anche da un verso all’atro. Lo stile di Terenzio è più omogeneo, raffinato,
attento alla singola parola che non doveva essere né troppo volgare né troppo popolare.

Conclusioni
 In questa lezione abbiamo analizzato la figura di Terenzio, vissuto nel II secolo a.C.
 Protetto dal Circolo degli Scipioni, diventa un elaboratore e un divulgatore delle ideologie sociali e
culturali filo-elleniche.
 Poiché, a differenza di Plauto, preferisce l’approfondimento psicologico alla comicità dell’ìtalu
acetu (“aceto italico”), ha poca fortuna fra i contemporanei.
Tuttavia avrà una enorme popolarità nel Medioevo, dove si ammira il suo stile “epurato” da battute
volgari. A questa popolarità di Terenzio nel Medioevo dobbiamo il fatto che le sue commedie ci
siano pervenute integre e anche in maniera filologicamente corretta.

LA STORIOGRAFIA DI ETÀ REPUBBLICANA


GAIUS IULIUS CAESAR
Vita: tempora et loca fino alla conquista della Gallia
Cesare nasce a Roma nel 100 a.C. da una potente famiglia patrizia, la gens Iulia, che si considerava derivata
da Iulo o Ascanio, figlio di Enea.
Con le sue putative origini di Iulo, la gens Iulia vantava:
 un collegamento con la stirpe dei re di Troia e con l’epoca degli eroi omerici;
 un’origine divina, visto che Enea era a sua volta figlio della dea Venere. Sappiamo dal mito
raccontato da Virgilio nell’Eneide che Enea, figlio di Venere, nel momento della distruzione di Troia,
affrontò un lungo viaggio insieme ad alcuni dei suoi uomini, tra cui il padre Anchise e il figlio
Ascanio, che lo portò nella penisola italica e poi alla fondazione della città di Roma. Con questo
mito la gens Iulia si ricollegava all’epos greco e ad origini asiatiche molto nobili.
Nonostante le sue origini aristocratiche, nel I secolo a.C. la gens Iulia non godeva di potere né di particolari
ricchezze:
 la famiglia di Cesare viveva nel quartiere popolare e malfamato della Suburra (quartiere di Roma);
 Cesare fu costretto a contrarre dei debiti per ottenere le prime cariche pubbliche.
Forse anche per queste origini patrizie ma non ricche, Cesare fu capo carismatico della parte popolare:
 Cesare parteggia per Mario contro Silla (sposa Cornelia, figlia del capo mariano Cinna).
 Nel 77 a.C. cita in giudizio il sillàno Dolabella accusandolo di concussione; quest’ultimo fu assolto, e
Cesare lascia Roma per evitare ritorsioni.
 Dopo la morte di Silla, Cesare rientra a Roma, dove comincia una brillante carriera politica
rivestendo varie cariche pubbliche:
– Tribuno militare nel 73 a.C.: da qui deriva il suo forte contatto con l’esercito, che continuerà
nel periodo di governatorato della Gallia.
– Tribuno della plebe nel 70 a.C.: da qui deriva il suo forte contatto con la plebe. Per tutta la sua

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carriera politica e militare Cesare ha un grande appoggio popolare.
– Questore nella Spagna Ulteriore nel 68 a.C.: da questo momento prende contatto con la realtà
delle province, che raggiungerà il culmine nel periodo in Gallia.
– Edìle nel 65 a.C.: in questo periodo offre spettacoli per guadagnarsi il favore popolare.
– Pontefice massimo nel 63 a.C.: ottiene la carica contro rappresentanti della nobiltà.
Già dal cursus honorum di Cesare possiamo vedere che egli intrattiene rapporti innanzitutto con l’esercito,
in secondo luogo con la plebe, in terzo luogo con la realtà delle province. Sin da questo primo periodo
dell’attività di Cesare, possiamo vedere che egli si schiera in opposizione all’oligarchia e al senato:
all’oligarchia si è visto il suo contrasto con Silla; nel senato egli si schiera contro rappresentanti della nobiltà
senatoriale già nel momento in cui acquisisce la carica di pontefice massimo (il contrasto col senato si
manifesterà in seguito nel periodo successivo a quello della guerra gallica.
Il contatto di Cesare con l’esercito e con il popolo si vede nella sua attività politica precedente alla conquista
della Gallia:
 Nel 63 a. C. c’è la congiura di Catilina, che sarà importante anche per la figura di Cicerone: Cesare
parla in Senato a favore di Catilina, la cui congiura anti-oligarchica viene denunciata da Cicerone e
repressa brutalmente. Questa difesa di Catilina da parte di Cesare è molto forte perché Catilina
aveva cercato prima di ottenere il potere per vie legali poi, sconfitto alle elezioni di console, decide
di raccogliere una serie di personaggi e di cospirare contro il senato. Cicerone, che si scaglia contro
Catilina ed è responsabile della condanna a morte senza processo di alcuni catilinari, esprime la
posizione anti-popolare di tutto il senato. Cesare, parlando in favore di Catilina, si schiera contro
Cicerone, contro il senato, contro la nobiltà, contro l’oligarchia; è una posizione pericolosa.
 Sin dalla sua prima attività politica e militare sceglie collaboratori da strati sociali diversi, anche
umili.
 Arruola le sue legioni non solo a Roma, come facevano spesso i capi a lui precedenti, ma anche in
alcune province (Gallia Cisalpina e parte dell’Illirico).

Nel 60 a. C. abbiamo il primo triumvirato stipulato fra Cesare, Pompeo e Crasso:


 Cesare aveva l’appoggio della plebe
 Pompeo aveva l’appoggio dell’esercito (con cui aveva combattuto soprattutto in Oriente)
 Crasso aveva le risorse economiche
In questo modo i tre ponevano le basi per un’alleanza contro il Senato.

Il consolato
Grazie all’appoggio dei triumviri, Cesare viene eletto console nel 59 a. C.:
 fa approvare una serie di leggi a favore della plebe e dei veterani, che erano sostenuti da Pompeo,
anche contro il volere del Senato;
 si impegna per l’assegnazione di lotti dell’ager publicus alla plebe e ai veterani ma senza espropri
dei piccoli proprietari terrieri.
Prima dello scadere del consolato, Cesare si fa assegnare per cinque anni la provincia della Gallia (prima
solo Cisalpina, poi anche Narbonense) e dell’Illirico. Era costume della Repubblica romana che i consoli, allo
scadere del loro periodo di consolato (un anno), dovessero allontanarsi da Roma per cinque anni ed essere
governatori di una provincia. Questa misura era stata stabilita per impedire che i personaggi prendessero
un forte potere personale nella città di Roma (il console era la carica più alta). In periodi di particolare
necessità, come una guerra impellente, deteneva il potere assoluto. In questo modo potevano prendere
contatto con la realtà delle province ed eventualmente combattere; Cesare non si fa assegnare la Gallia a
caso: erano regioni non del tutto conquistate, anzi spesso vi nascevano sommosse (la Spagna era invece
una regione già pacificata; a questo dobbiamo il fatto che le lingue celtiche abbiano in Spagna pochissime
attestazioni. Esse furono infatti sopraffatte molto presto dal latino. Lo stesso avverrà in Gallia: anche
nell’attuale Francia, nella penisola gallica, le attestazioni di lingua celtica sono poche, anche se maggiori
rispetto all’attuale Spagna). Cesare, facendosi assegnare la Gallia, poteva combattere e, in seguito a vittorie,
acquisire maggiore potere personale.

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DE BELLO GALLICO
La campagna di Gallia è l’oggetto di una della due opere più importanti di Cesare: i Commentarii de Bello
Gallico, o semplicemente il De Bello Gallico.
Il De Bello Gallico comincia con una descrizione della conformazione della Gallia. Della Gallia solo la parte
meridionale (Gallia Narbonense) era provincia romana, il resto era abitato da quelli che i romani
consideravano “barbari”, appartenenti a tre gruppi etnici principali:
 Belgi a Nord
 Aquitani a Ovest
 Celti (Galli stricto sensu) al centro. La parte orientale era abitata da tribù germaniche.
Così comincia il De bello gallico: “Gallia est omnis divisa in partes tres, quarum unam ìncolunt Belgae, aliam
Aquitani, tertiam qui ipsòrum lingua Celtae, nostra Galli appellantur” (la Gallia è, nel suo complesso, divisa
in tre parti: la prima la abitano i Belgi, l’altra gli Aquitani, la terza quelli che nella loro lingua prendono il
nome di Celti, nella nostra, di Galli). Il De Bello Gallico comincia con una descrizione geografica della Gallia e
dei popoli che la occupano; tutta l’opera parla di una campagna militare ma fa anche attenzione alla
descrizione dei luoghi che i romani incontrano, degli usi e costumi dei galli; è la fonte principale che ci
informa dei luoghi, degli usi e costumi dei celti, in particolare dei celti della Gallia. Essendo poi la Gallia stata
sopraffatta completamente dai romani, e divenendo una delle province più fedeli a Roma (in epoca
imperiale), le testimonianze celtiche sono pochissime e sono soprattutto indirette (attraverso il De bello
gallico), perché erano state cancellate dalle testimonianze in lingua latina.
Cesare descrive le varie tappe della sua conquista della Gallia:
1. La conquista della Gallia I: contro gli Elvezi
• 58 a.C.: gli Edui, alleati di Roma, chiedono l’aiuto di Cesare contro lo sconfinamento degli Elvezi
nei loro territori.
• La guerra contro gli Elvezi permise a Cesare di acquisire sotto il suo “protettorato” gran parte
della Gallia centrale.
• Parte dei Galli chiese l’aiuto di Cesare contro i Germani, capeggiati da Ariovìsto, che
sconfinavano spesso al di là del Reno (divisione naturale tra la Gallia a Ovest e la Germania a
Est). Cesare lo sconfisse e gli impose di non oltrepassare più il Reno.
La prima fase della guerra gallica è contro gli Elvezi e, in misura minore, contro i Germani.
2. La conquista della Gallia II: contro i Belgi
• Di fronte all’avanzare del potere di Cesare nella Gallia più interna, i Galli che lottavano per la
propria indipendenza si raccolgono attorno ai Belgi, a Nord.
• Cesare sconfigge i Belgi, infliggendo loro dure perdite, e conquista tutto il territorio della Mosa e
della Schelda.
• A Roma, quando giunge la notizia della vittoria romana contro i Belgi, si indicono quindici giorni
di preghiere pubbliche (supplicationes) agli dei (onore che non era mai stato offerto a un
generale romano)
Intermezzo: il secondo quinquennio proconsolare
Nel 56 a. C., prima dello scadere del quinquennio proconsolare, Cesare si riunisce a Lucca con Pompeo e
Crasso e ottiene di prolungare di altri cinque anni il suo soggiorno in Gallia al fine di conquistare l’intera
penisola: conquista dell’Aquitania (parte occidentale della Gallia, dove oggi c’è Bordeaux) e della
Normandia (popolata da tribù celtiche).
Nel 54 a. C. Cesare sbarca in Britannia, oltrepassa il Tamigi, impone ostaggi e tributi (impresa che nessuno
aveva mai compiuto: la marcia di Cesare nella Gallia e poi anche più a Nord sembra non conoscere
ostacoli), ma poi torna in Gallia per sedare altre rivolte (non pacifica tutti i popoli che incontra: la sua
conquista non è senza rivolte, pertanto torna indietro per poter stabilire più saldamente le parti della Gallia
conquistate).
3. La conquista della Gallia III: la presa di Alesia
Alla fine Cesare riesce a conquistare tutta la Gallia, e la conquista è legata soprattutto alla presa di
Alesia.
• Nel 52 a. C. Vercingetòrige, re degli Arverni, si ribella a Cesare, e attorno a lui si raccolgono
altre sacche di resistenza anti-romana.

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• Cesare assedia Gergòvia, capitale degli Arverni, che però resiste.
• Tutti i Galli si sollevano contro i Romani, perfino i fedeli Edui. La battaglia di Vercingetòrige è
l’ultima speranza dei Galli di riacquistare la propria libertà contro i romani.
• Vercingetòrige attacca le legioni romane, ma è costretto a chiudersi nella piazzaforte di Alesia.
• Assediato dai Romani, Vercingetòrige si arrende.
• Nel 51 a. C. la Gallia diventa provincia romana. La Gallia era una terra grande, ricca di risorse
naturali e di uomini che potevano integrare l’esercito romano; si trattava di una conquista
importantissima e difficile, perché i romani avevano trovato molti ostacoli nella loro marcia,
molte rivolte anche dai popoli che avevano già vinto e dai popoli che sembravano fedeli, come
gli Edui; tutti infine si erano uniti a Vercingetorige contro i romani. Con questa battaglia il
potere politico di Cesare era notevolmente aumentato; non poteva tornare ad essere un
tranquillo privato cittadino a Roma.
• Con la presa di Alesia si chiude il De Bello Gallico. In Francia ci sono segni di omaggio a
Vercingetorige, rappresentante della resistenza anti-romana.

Cesare varca il Rubicone


 Terminata con successo la campagna di Gallia, il potere di Cesare diventa fonte di timore per il
Senato Romano, con cui nascono aspri dissensi. Da una parte c’era, a Roma, la gioia per questa
conquista che poteva fruttare grandi ricchezze economiche, sociali e militari; dall’altra c’era la
paura che Cesare potesse ottenere un grande potere personale. Questo dissenso si manifesta
quando Cesare deve tornare a Roma.
 Secondo la legge romana nessun generale doveva penetrare armato il confine della penisola italica
(pomèrium sillano), ma Cesare non obbedisce a tale legge e varca il Rubicone (ruscello nell’attuale
Emilia Romagna che costituiva il confine naturale della penisola italica). Anche Pompeo, quando
torna dall’Oriente, a Brindisi, congeda le legioni. Varcando il Rubicone, Cesare apertamente
infrange la legge e si pone contro il senato.
 Nell’attraversare il Rubicone, Cesare pronuncia la celebre frase “alea iacta est” (il dado è tratto).

Conclusioni
 In questa lezione abbiamo analizzato la figura di Caio Giulio Cesare, vissuto nel I secolo a.C.
 Discendente da un’antica famiglia patrizia, Cesare è tuttavia capo della parte popolare e si schiera
spesso contro i privilegi del Senato.
 La conquista della Gallia, accompagnata da una serie di altre battaglie contro Germani e Britanni,
rappresenta la prima grande espansione di Roma nel territorio dei ‘barbari’ e al tempo stesso pone
le premesse per un forte potere personale del generale, che si pone in contrasto con le leggi della
res publica.

Vita: tempora et loca dopo la conquista della Gallia


Dopo la conquista della Gallia, Cesare ha acquisito a Roma un immenso potere personale. In particolare
può contare:
 sull’esercito;
 sull’appoggio della plebe.
Ciò lo porta ad entrare in contrasto con l’oligarchia senatoriale, che trova un proprio paladino in Pompeo
(nel frattempo l’altro triumviro, Crasso, era morto).
Si apre un periodo di conflitto fra gli optimates di Pompeo e i populares di Cesare.
Nel 49 a. C. il Senato dichiara apertamente guerra a Cesare: è la Guerra Civile (49-45 a.C.).

Principali tappe della Guerra Civile


 48 a. C.: battaglia di Farsàlo (in Tessaglia), dove Cesare sconfigge l’esercito di Pompeo.
Dopo la sconfitta di Farsàlo, Pompeo si rifugia in Egitto, dove viene ucciso dal faraone come atto di
compiacenza verso il vincitore Cesare.
 46 a. C.: battaglia di Tapso (nell’attuale Tunisia).

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Dopo la scomparsa di Pompeo, Cesare muove contro i pompeiani che si erano riorganizzati in Africa
sotto la guida di Catone il Giovane (pronipote di Catone il Censore, quello che poi verrà chiamato
Catone l’Uticense) e li sconfigge.
Dopo la sconfitta di Tapso, Catone il Giovane (di filosofia stoica) si suicida nella città di Utica. Da
allora sarà detto Catone “l’Uticense”, anche per distinguerlo dal suo antenato “il Censore”. La vita di
Catone l’Uticense testimonia anche le scelte difficili degli stoici in periodi di dittatura o di principato.
Gli stoici aspiravano alla libertà intellettuale, alla virtù, al rispetto dello stato e delle sue istituzioni;
grandissimi scrittori romani erano di filosofia stoica (Seneca, Lucano, in parte Cicerone). I principali
rappresentanti dello stato sono vicini allo stoicismo (sono comunque sempre più stoici che epicurei;
casi come Lucrezio, che era epicureo, sono del tutto marginali; egli infatti non avrà mai una
posizione nella vita politica di Roma). Catone fa parte di questa schiera che, nel momento in cui si
rende conto che esiste un grande potere personale, il principato o l’impero, ostili al senato e alla
tradizione della repubblica romana, preferisce togliersi la vita. Questo era un tratto tipico dello
stoicismo.
 45 a. C.: battaglia di Munda.
Cesare affronta le ultime resistenze pompeiane, che si erano raccolte in Spagna, e le sconfigge
definitivamente a Munda, nell’attuale regione dell’Andalusia (nel sud della Spagna). È la vittoria
definitiva di Cesare sui pompeiani, sul senato, sulla repubblica. I pompeiani avevano fatto un
movimento da Oriente, dalla Grecia, a Occidente passando per l’Africa (Pompeo in un primo
momento godeva dell’appoggio di popolazioni orientali, avendo a lungo combattuto in Oriente;
inoltre conosceva bene la geografia della Grecia e dell’Oriente). Poi, sconfitto Pompeo da Cesare in
Spagna, il senato capisce che non c’è più spazio per le istituzioni davanti al potere di Cesare.
Sostenitori di Cesare contro Pompeo:
1. Marco Antonio, tribuno della plebe, luogotenente di Cesare a Farsàlo;
2. Ottavio, pronipote di Cesare (poi divenuto primo imperatore con il nome di Augusto), combatté a
Munda.
La vittoria contro Pompeo non aveva posto fine all’insofferenza dei senatori e dei nobili contro Cesare, anzi
man mano che aumentava il suo potere militare e l’appoggio da parte della plebe, cresceva il timore di un
sempre più forte potere personale. I senatori, capendo che non c’era più via legale o militare per opporsi a
Cesare, decidono di ordire una congiura.
Cesare viene ucciso nelle Idi di Marzo (15 marzo) del 44 a. C. da una congiura capeggiata dai senatori Bruto
e Cassio. Questa congiura ebbe una grande eco non solo nella vita politica ma anche in quella letteraria e
artistica di tutto l’Occidente: è stata oggetto di opere importanti anche nell’età moderna (ad esempio di
Shakespeare). A seconda del periodo storico, le figure di Bruto e Cassio sono state viste con occhi diversi: gli
artisti e i politici che parteggiavano per la parte popolare rappresentavano Bruto (che era stato adottato da
Cesare) e Cassio come dei traditori; dall’altra i sostenitori della parte aristocratica e conservatrice li
vedevano come dei paladini delle istituzioni, della libertà repubblicana, come coloro che avevano ucciso un
tiranno.
Questo evento storico avrà importanza anche come metro di giudizio di principati, tirannie, sommosse,
congiure dei secoli successivi nella politica e nell’arte.

DE BELLO CIVILI
La Guerra Civile(49-45 a. C.) costituisce l’oggetto dei Commentarii de Bello Civili, o semplicemente De Bello
Civili, opera storica in tre libri.
Il De Bello Civili narra in particolare i primi eventi della Guerra Civile, quelli cioè dal 49 a.C. (nel I e nel II
libro) al 48 a.C. (nel III libro). Da ciò si è pensato che l’opera fosse incompiuta.
Ideali: Pars dèstruens (parte che distrugge)
 Contro la classe dirigente senatoriale, che viene rappresentata come corrotta e avida di privilegi.
Ad esempio prima della battaglia di Farsalo sono raffigurati i pompeiani mentre sono intenti a
stabilire pene e proscrizioni e a contendersi i beni degli avversari. Le proscrizioni caratterizzano la
storia romana nei periodi di dittatura e tirannia (c’erano state, ad esempio, all’epoca di Silla).
Quando vince un tiranno, egli tende a confiscare i beni dell’avversario e a impedirgli qualsiasi
movimento politico o sociale. I senatori, la classe oligarchica, erano spesso stati partecipi delle

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proscrizioni; si erano schierati contro Cesare perché vedevano in lui un nemico del proprio potere e
dei propri privilegi.
Ideali: Pars Construens (parte costruttiva)
 A favore dei populares moderati:
– Cesare non vuole apparire un rivoluzionario, e si contrappone a populares radicali come Celio
Rufo. La raffigurazione del rivoluzionario Celio Rufo consente a Cesare di specificare che non ha
idee così rivoluzionarie: si vuole porre nella tradizione ma non accetta il potere oligarchico del
senato.
– Cesare vuole rassicurare il ceto medio con un programma di ordine e di maggiore giustizia
sociale.
Ideali: clementia
 È una caratteristica tipica di Cesare, che si sforza di sottolineare anche nelle sue opere. Cesare si
presenta come un vincitore ma non un vendicatore, che vuole ristabilire la pax civilis.
 Evita le proscrizioni ed è disposto a provvedimenti di clemenza verso i vinti. Questo avviene anche
nel De Bello Gallico, dove spesso, quando una tribù si arrende spontaneamente o dopo essere stata
sconfitta, viene perdonata da Cesare e può mantenere i propri beni e le proprie ricchezze. Non
abitualmente rade al suolo le città dei Galli, ma solo in circostanze eccezionali: quando il suo
esercito è stato oggetto di tranelli o di imboscate, oppure quando si violano i diritti degli
ambasciatori (in tutta la civiltà antica il legato non poteva essere oggetto di violenza da nessuna
delle due parti). Non sempre questi diritti vengono rispettati dai barbari, e se non lo fanno (come i
Veneti) Cesare non ha pietà, e distrugge campi e città. Cesare, tranne questi episodi eccezionali, ha
infatti interesse, nel momento in cui si impossessa di una zona, che essa sia florida e porti ricchezze
a Roma. Quando sconfigge un popolo e lo priva delle armi, Cesare ordina ai popoli confinanti di non
approfittare del fatto che non abbia più le armi per conquistare la sua terra; è un gesto di clemenza.
Se già nel De Bello Gallico ha gesti di clemenza nei confronti dei Galli, a maggior ragione nel De
Bello Civili ne ha quando l’avversario è un cittadino romano come lui. Anche se i senatori mostrano
di arrendersi, egli li perdona. Questo però non basta a sedare il risentimento verso di lui.

Lingua e stile
 Nei suoi due Commentarii, De Bello Gallico e De Bello Civili, Cesare parla di sé in terza persona (per
dare un’immagine di obiettività, che è del tutto apparente, perché gli eventi sono rappresentati non
solo dal punto di vista dei romani, ma soprattutto da quello di Cesare stesso, quindi in prospettiva
populares e anti-senatoriale). È una scelta stilistica importante di narrare gli eventi in maniera
meno personale, meno soggettiva.
 Lo stile è semplice e chiaro (per essere più oggettivo possibile), con ricerca dell’ordo naturalis
(“ordine naturale”, cioè disporre gli eventi in maniera iconica nel modo in cui sono avvenuti, in
modo che l’intreccio coincida con la trama e i partecipanti al discorso siano presentati con ordine,
uno per uno, soggetto-oggetto-verbo).
 Il lessico tende alla ricerca dei verba usitata (delle parole usuali) e al rifiuto di parole oscure o di
costruzioni troppo ricercate. Ricorre pochissimo anche al prestito: nel De Bello Gallico uno dei pochi
casi di prestito è malacia, termine marinaresco greco che indica “bonaccia”; per le parole del
lessico nautico il latino spesso attinge al greco perché i greci erano marinai molto più esperti e la
navigazione aveva molta più importanza nella loro cultura. Questo è un corrispettivo stilistico della
sua ideologia politica di populares, di chi sta dalla parte del popolo: cerca sempre un’oggettività,
una chiarezza che sia comprensibile a tutti.
 Lo stile di Cesare è una manifestazione programmatica delle sue idee in materia di linguaggio.
 Cesare è un seguace dell’analogia o atticismo, contro la corrente dell’anomalia o asianesimo.
Analogia e anomalia sono due correnti che hanno attraversato la storia di tutta la repubblica
romana: gli uomini di Stato, gli scrittori, i pensatori si ponevano sempre dall’una o dall’altra parte.
- L’analogia (o atticismo) era quella scuola che si rifaceva ai grandi autori attici che scrivevano in
uno stile semplice, chiaro, con frasi brevi, un periodo non troppo complesso;
- L’anomalia (o asianesimo) aveva un lessico più originale, parole più scelte, linguaggio più

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forbito, arcaismi, periodi complessi, uso forte della subordinazione.
Seneca, ad esempio, sarà dalla parte dell’asianesimo; Cicerone cercherà di coniugare le due scuole
nello stile rodiese, forma intermedia tra asianesimo e atticismo. Il fatto che Cesare scriva in uno
stile vicino all’analogia è una manifestazione delle sue idee di populares in una coerenza tra attività
politica e militare da una parte, e artistica e letteraria dall’altra.

Conclusioni
 In questa lezione abbiamo analizzato la figura di Caio Giulio Cesare nella seconda parte della sua
attività politica e letteraria, incentrata sulla guerra civile contro Pompeo.
 Condottiero e rappresentante dei populares, è figura centrale della tarda repubblica, e determinerà
il passaggio al principato e all’impero.
 A livello culturale, porta avanti un programma di opere storiografiche, condotte con stile
(apparentemente) oggettivo, semplice e chiaro.

GAIUS SALLUSTIUS CRISPUS


Vita: Tempora et loca
Sallustio si colloca nel I secolo a. C., in epoca tardo-repubblicana, ed è contemporaneo di Cesare e di
Cicerone.
Nasce fra nell’ 86 a. C. ad Amiterno (Amiternum), che allora apparteneva alla zona della Sabina, e che oggi si
trova in Abruzzo, nei pressi de l’Aquila.
Sallustio proviene da una famiglia facoltosa che però non aveva mai ricevuto cariche pubbliche. È quindi
homo novus (colui che per primo, nella sua famiglia, riceve delle cariche pubbliche).

Cursus honorum e prima attività politica


Giunto a Roma, Sallustio intraprende la carriera politica, e nel contrasto fra optimates (patrizi, senatori,
rappresentanti delle classi più elevate) e populares (rappresentanti della plebe o delle classi più umili)
parteggia per questi ultimi. È una lotta intestina che pervade tutta l’età tardo-repubblicana, da Mario
(populare) e Silla (optimate), a Cesare (populare) e Pompeo (optimate) fino a Marco Antonio (populare) e
Augusto (optimate). Nel I secolo a. C. Roma è pervasa da questo conflitto: la plebe contro il patriziato.
Un giovane ambizioso proveniente dalla provincia, una volta giunto a Roma deve prendere posizione; forse
proprio a causa delle sue origini provinciali, Sallustio parteggia per i populares.
 nel 52 a. C . è tribunus plebis;
 sempre nel 52 a. C., in occasione della morte del popularis Clodio, si schiera contro il suo assassino,
l’optimas Milone, e contro Cicerone che l’aveva difeso nell’orazione Pro Milone. È un forte atto di
presa di posizione da parte di Sallustio.
 nel 51 a. C. viene ammesso al Senato, sebbene sia sempre fedele alla causa di Cesare contro
Pompeo e contro i senatori più conservatori.
La vendetta dei senatori
A causa delle sue simpatie per Cesare e per i populares, Pompeo suscita le vendette degli altri senatori, e
nel 50 a.C. viene espulso dal Senato probri causa “per indegnità morale” (pecca che grava su tutta la vita di
Sallustio: si schiera dalla parte dei più deboli, ha ideali vicini al popolo ma, quando gli vengono date cariche
pubbliche, dimostra corruzione e indegnità morale nella loro amministrazione. Per questo poi sarà
costretto a ritirarsi).
Seconda attività politica
L’attività politica di Sallustio riprende dopo la Guerra Civile (49-45 a. C.) e la vittoria di Cesare su Pompeo:
 essendo un popolare, grazie a Cesare viene riammesso al Senato;
 viene nominato da Cesare governatore (propraetor) della provincia di Africa Nova (l’attuale
Tunisia), tolta al regno della Numidia, il cui re (Giuba) aveva parteggiato per Pompeo. Cesare è
contro le proscrizioni (le confische dei beni degli avversari politici), ma questa sua clementia non si
manifesta sempre verso nemici esterni (non cittadini romani: Giuba aveva parteggiato per Pompeo
e quindi viene punito, perché la Numidia gli viene tolta e diventa una provincia romana; le

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ricchezze di Giuba furono poi saccheggiate da Sallustio nel suo governatorato in questa zona). È un
onore per Sallustio essere mandato in questa provincia, perché si tratta del suo primo governatore:
grandi erano le aspettative di Cesare, che tuttavia non vengono ripagate.
Nonostante l’appoggio di Cesare, Sallustio dà prova di cattiva amministrazione e di corruzione durante il
suo governatorato della provincia di Africa Nova.
Terminato il suo mandato di governatore, viene colpito da un’accusa di concussione (de repetundis). Per
evitargli una condanna Cesare gli consiglia di ritirarsi spontaneamente dalla vita politica.
Nel 44 a.C. Sallustio, dopo aver dato prova di cattiva amministrazione, si ritira a vita privata nella sua
sontuosa dimora, che aveva comprato con il denaro sottratto illecitamente durante il governatorato in
Africa Nova: è la dimora dei celebri Horti Sallustiani (giardini di Sallustio, collocati tra il Pincio e il
Quirinale). In questa splendida cornice, Sallustio si dedica pienamente all’otium e quindi alla
composizione delle sue opere letterarie. Nella cultura latina l’otium non equivale a quello che noi
indica pigrizia: a Roma aveva una valenza fortemente positiva, era il tempo libero dall’attività politica,
commerciale, giuridica; era il tempo che l’uomo poteva riservare alla lettura, alla scrittura. Aveva
un’importanza culturale: quasi tutti i personaggi romani lamentavano la mancanza di otium perché
troppo presi dai doveri del loro lavoro. C’è la bipartizione tra otium e negotium (dove nec è la
negazione non, cioè non otium), dove otium è il termine di base, positivo, e negotium la forma
negativa di otium il derivato.
Muore nella sua dimora nel 35 o 34 d. C.

DE CATILINAE CONIURATIONE
Titolo: De Catilinae coniuratione
Genere letterario: monografia storica.
Anno di composizione: dal 43 al 40 a. C.
Intreccio
Il De Catilinae coniuratione narra la congiura ordita nel 63 a. C. ad opera di Catilina, aristocratico decaduto
passato alla fazione dei populares.
Dopo essere stato sconfitto più volte alle elezioni consolari, raccoglie un gruppo di rivoltosi, che per
povertà o per sfuggire a condanne giudiziarie auspicano un cambiamento radicale di regime.
Catilina organizza anche una serie di attentati ai danni di Cicerone, allora console, che ottiene dal Senato i
pieni poteri per sedare la rivolta. La congiura di Catilina, scoppiata nel 63 a. C. ma organizzata già da prima,
è un evento drammatico che colpisce molto l’immaginario politico e culturale dei personaggi del tempo
(ricordiamo ad esempio l’importanza che ha avuto l’evento per Cicerone, che gli dedica le Orazioni
catilinarie; la congiura di Catilina era stata importante anche perché rappresentava una forma estrema del
movimento popolare, contro gli ottimati, i patrizi e il senato). È la punta dell’iceberg di un movimento molto
più grande, che in genere si articolava entro le istituzioni in maniera legale (Catilina stesso aveva provato ad
essere eletto console) ma che poi, vista la repressione del senato, spesso non esitava a prendere contorni
eversivi. In questa sua congiura Catilina fu sconfitto politicamente e militarmente.
Sconfitta militare di Catilina: l’esercito romano si scontra con la massa di rivoltosi, capeggiati da Catilina e
dal suo seguace Manlio, nella battaglia di Fiesole, presso Firenze (63 a.C.)
I congiurati vengono imprigionati e il Senato delibera sulla loro sorte. Due sono le proposte a questo
proposito:
 quella di Catone il Giovane (poi detto Catone l’Uticense), che voleva la condanna a morte dei
congiurati per dare l’esempio a chiunque osasse mettersi contro le istituzioni;
 quella di Cesare, noto per la sua clemenza, che auspicava una pena più mite.
La proposta di Catone il Giovane prevale e i condannati vengono giustiziati. Lo stesso Catilina, che era
riuscito a fuggire, subisce una nuova sconfitta militare nella battaglia di Pistoia (62 a.C.), dove muore da
valoroso. Sallustio, pur rappresentando Catilina e la sua congiura in maniera negativa, riconosce tuttavia la
sua forza d’animo e il suo valore militare.
Personaggi
 Catilina: viene rappresentato da Sallustio come un uomo corrotto, portato alla congiura da
motivazioni personali (miseria, debiti, non da ideali verso la plebe), ma anche come uomo dotato di
grande intelligenza e forza d’animo.

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Celebre è il ritratto di Catilina dato all’inizio del libro:
“L. Catilina nobili genere natus fuit magna vi et animi et corporis, sed ingenio malo
pravòque. Huic ab adulescentia bella intestina, caedes, rapinae, discordia civilis grata fuère;
ibique iuventutem suam exercuit. Corpus patiens inediae, algòris, vigiliae, supra quam
quòiquam credibile est. Animus audax subdolus varius quoius rei lubet simulator ac
disimulator, alieni àdpetens, sui profùsus, ardens in cupiditatibus; satis eloquentiae,
sapientiae parum”.
“L. Catilina, nato da nobile stirpe, fu di grande forza di corpo e di spirito, ma di indole
malvagia e corrotta. A costui fin dall’adolescenza furono gradite lotte intestine, stragi,
rapine, la discordia civile; in queste cose passò la sua gioventù. Il suo corpo era capace di
tollerare la scarsità di cibo, il freddo, la prolungata veglia in una misura superiore a quel che
chiunque possa credere. L’animo era sfrontato, subdolo, mutevole, simulatore e
dissimulatore di qualsiasi cosa volesse, bramoso dei beni altrui e dissipatore dei propri,
ardente nelle passioni; abbastanza fornito di eloquenza, ma poco di senno”.
Sallustio ama la variatio e l’opposizione di termini: alieni àdpetens, sui profùsus (parallelismo:
bramoso dei beni altrui, dissipatore dei propri); satis eloquentiae, sapientiae parum (chiasmo:
abbastanza fornito di eloquenza ma poco di senno). Sallustio ama periodi brevi ma con un
accumulo di aggettivi, adopera un linguaggio scelto, ama l’antitesi (sia come parallelismo, sia come
chiasmo).
“Vastus animus inmoderata, incredibilia nimis alta semper cupièbat. Hunc post
dominationem L. Sullae lubìdo maxima invàserat rei publicae capiundae; neque id quibus
modis adsequerètur, dum sibi regnum pararet, quicquam pensi habebat. Agitabatur magis
magisque in dies animus ferox inopia rei familiaris et conscentia scèlerum, quae utràque iis
artibus àuxerat quas supra memoravi. Incitabant praeterea corrupti civitatis mores quos
pessuma ac divorsa inter se mala, luxuria atque avaritia, vexabant”.
“Il suo animo insaziabile desiderava cose smodate, incredibili, sempre troppo alte. Costui
dopo il dominio di Silla fu preso da una grandissima brama di impadronirsi della res publica;
né riteneva qualcosa di importante il modo in cui lo conseguisse, purché si procurasse un
potere assoluto. Sempre di più, di giorno in giorno, il suo animo ardito si agitava per
l’impoverimento del patrimonio familiare e per il rimorso per i suoi delitti – le quali cose,
entrambe, egli aveva accresciuto con quei comportamenti che ho detto prima. Lo incitavano
inoltre i costumi corrotti della città, rovinati da sentimenti pessimi e tra loro opposti quali la
brama di lusso e la cupidigia di denaro”.
Viene qui rappresentata la motivazione della congiura di Catilina: Sallustio sta dalla parte dei
populares, quella del popolo contro i patrizi e i senatori; popolare era anche Catilina, che fa una
congiura della plebe contro il senato. Tuttavia, nonostante stiano dalla stessa parte, Sallustio
prende posizione contro Catilina perché la sua ideologia popolare è sempre dentro le istituzioni,
mentre Catilina se ne era posto al di fuori, era una congiura, e per questo Sallustio lo condanna in
quanto nata non da ideali nobili di vicinanza verso il popolo bensì da motivazioni basse e personali:
era oppresso dai debiti e dalla povertà e, vedendo che non riusciva ad ottenere potere per vie
legali, aveva raccolto una massa di persone senza aspettative, indebitate, che avevano compiuto
delitti, che quindi avevano motivazioni personali.
 Cicerone
Strenuo avversario di Catilina e principale responsabile della sua sconfitta, viene tuttavia
“ridimensionato” nella sua importanza da Sallustio. È rappresentato come un uomo che fa sì il suo
dovere, ma che è privo di quelle passioni e quegli ideali di un Catone o di un Cesare.
 Catone il Giovane
Discendente di Catone il Censore, si batte per la condanna esemplare dei congiurati. Viene
rappresentato come un uomo dalla moralità incorruttibile e dall’attaccamento ai valori del
passato, al pari del suo celebre antenato. Catone il Censore viene rappresentato nell’iconografia
romana come un personaggio inflessibile, severo, incorruttibile: nella guerra punica contro
Cartagine era uno strenuo sostenitore della proposta per cui Cartagine doveva essere distrutta.
Questa sua inflessibilità si trova anche nel nipote, che si batte per una condanna esemplare che

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possa togliere la speranza a future congiure di questo tipo.
 Giulio Cesare
Si batte in Senato contro la condanna a morte dei congiurati, a favore di un provvedimento di
clemenza. Per sostenere le sue argomentazioni, Cesare fa appello a considerazioni di legalità.
Questo rispecchia la propaganda degli ultimi anni di Cesare, quando egli si sforzava di far apparire il
suo potere personale come qualcosa di non incompatibile con le leggi della res publica. In questa
clementia si vede una manifestazione della qualità più nota di Cesare; anche nel De bello gallico e
nel De bello civili Cesare si presentava come un personaggio caratterizzato dalla clemenza, sia
contro i barbari nel De bello gallico, sia contro gli avversari politici romani nel De bello civili; era
tipico di Cesare, quando gli avversari si arrendevano, perdonarli; se non in pochi casi legati a nemici
barbari o a cittadini romani che avevano combattuto in maniera sleale, era anche contro le
proscrizioni (che avevano turbato tutto il primo periodo della tarda repubblica legata alla dittatura
sillana; rappresentante degli ottimati, Silla aveva confiscato tutti i beni dei mariani). Anche in questa
sessione del senato in cui si schiera con i catilinari, dà prova di questa clemenza.
Ideali
 Cesare e Catone, pur nella contrapposizione delle loro opinioni, sono rappresentati come gli unici
grandi personaggi di quel tempo, capaci di avere genuini ideali e senso dello stato.
 Sallustio attribuisce parte della responsabilità della congiura al clima della tarda repubblica e ai
costumi corrotti dell’Urbe e di tanti senatori.
 Terminate le guerre contro Cartagine, dopo che è venuto meno il metus hostilis (la paura del
nemico), la gioventù romana si è rammollita nel lusso e nei vizi.

Conclusioni
 In questa lezione abbiamo analizzato la figura di Sallustio, vissuto nel I secolo a.C., nell’età tardo-
repubblicana.
 Simpatizzante dei populares e del loro capo Cesare, intraprende una discutibile attività politica,
raccogliendo varie accuse per comportamenti illeciti e corruzione.
 Nelle sue opere, tuttavia, e in particolare nel Bellum Catilinae, Sallustio diventa accusatore dei
costumi corrotti del tempo, che vede incarnati nella figura del suo protagonista, Catilina.
BELLUM IUGURTHINUM
Titolo: Bellum Iugurthinum
Genere letterario: monografia storica (tratta vicende storiche relative a un episodio specifico: non la storia
di un periodo che va da un anno tot a un anno tot, ma la storia di un problema, in questo caso la guerra
giugurtina).
Anno di composizione: dal 43 al 40 a.C.
Intreccio
L’opera narra la guerra intrapresa da Roma contro Giugurta, re di Numidia, fra il 111 e il 105 a. C.
Giugurta aveva corrotto gli aristocratici romani che erano stati inviati a combatterlo, cosicché questi
continuavano la guerra senza ottenere risultati decisivi e senza motivazione.
Questa situazione di stallo viene risolta da Mario, capo dei populares, che nel 107 a.C. viene eletto console.
Inviato in Africa, egli riesce a terminare la guerra con successo.
Personaggi
 Giugurta, re di Numidia (più o meno l’attuale Tunisia), si era impadronito del regno mediante varie
azioni delittuose. Aveva corrotto i generali mandati dal Senato Romano, che così lo combattevano
in maniera inconcludente.
Viene infine tradito dal vecchio alleato Bocco, re di Mauritania, che lo consegna ai Romani,
quando il suo esercito viene sconfitto da quello di Mario.
 Bocco, re di Mauritania, tradisce l’alleato Giugurta consegnandolo ai Romani.
 Senato Romano, rappresentato attraverso vari senatori e generali dai costumi corrotti e
viziosi.
Arrivati in Numidia, questi si facevano distogliere dal loro compito dai copiosi doni di Giugurta,
preferendo l’arricchimento personale al dovere.

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 Mario, capo dei populares romani, storico avversario di Silla, appare come una personalità dai
costumi incorrotti.
Avvia una riforma dell’esercito, arruolando masse proletarie (capite censi “censiti per testa”,
anziché per gli averi, di cui essi erano privi).
Riesce a portare a termine con successo la guerra contro Giugurta e a trasformare la Numidia in
un’area di influenza romana.
Ideali
 Contro la politica dei senatori romani, personaggi che andavano in Africa per fare la guerra a
Giugurta ma invece di fare il loro dovere venivano corrotti dai doni del re e non portavano avanti la
campagna militare.
 A favore della parte dei populares rappresentata da Mario, che prefigura il ruolo di Cesare. Mario
era stato il primo grande personaggio, da parte dei populares, che comincia ad incarnare un forte
potere personale contro quello del senato. Questa tendenza verrà poi incarnata più propriamente
da Cesare. Sallustio, che parteggiava per i populares, si schiera a favore di Mario contro i senatori
romani. Affrontando un periodo storico che non era quello presente, Sallustio trova un modo di
esporre il proprio pensiero politico sul presente (dalla parte di Cesare).
Incipit:
“Bellum scripturus sum, quod populus Romanus cum Iugurtha rege Numidarum gessit, primum quia
magnum et atrox variaque victoria fuit, dei qui tunc primum superbia nobilitati obviam itum est”
“Mi accingo a raccontare la guerra che il popolo romano combatté con Giugurta, re dei Numidi, in primo
luogo perché essa fu lunga, aspra e con alterne vicende, poi perché allora per la prima volta fu contrastata
l'arroganza dei nobili” (1. 5).
Già nel proemio Sallustio annuncia un grande tema: la sua avversione alla cupidigia e alla corruzione del
Senato romano. Nonostante i suoi alti ideali, egli stesso fu accusato di corruzione nel governatorato in
Africa Nova, tanto che fu condannato e lo stesso Cesare gli suggerì di ritirarsi per evitare condanne pesanti.
Non è molto coerente con quello che dice, anche se è molto chiaro. L’occasione per esporre questo suo
pensiero politico è il racconto di una guerra. Le opere storiche sono opere di guerra, che è una materia
principe per fare storia e per essere scrittori, letterati. Ne avevano scritto i grandi storiografi greci: Erodoto
scrive la storia delle guerre persiane, Tucidide scrive la storia del Peloponneso (la guerra tra Atene e Sparta,
che vede quest’ultima vincitrice), Senofonte scrive la storia della guerra tra greci e persiani. La storia era
stata sempre una grande ispiratrice e a questo filone di opere storiografiche si dedica anche Sallustio.

HISTORIAE
Titolo: Historiae
Genere letterario: opera storica di tipo annalistico
Anno di composizione: dal 39 a.C. alla morte di Sallustio (opera incompiuta al V libro).
Con le Historiae Sallustio si distacca dal genere della monografia, rappresentata dal Bellum Catilinae e dal
Bellum Iugurthinum, e torna al genere più tradizionale dell’annalistica, modo di raccontare la storia
inaugurato dai pontefici, in cui si raccontava la storia anno per anno (indicato solitamente dal nome dei
consoli). Il filo conduttore è cronologico di tipo lineare, non è basato sull’argomento. Con le Historiae torna
a fare storia nella maniera più tradizionale dei romani; lo stesso titolo, così generico, riprende il filone delle
storie di Erodoto, che sono racconti fatti anno per anno.
Intreccio
Le Historiae narrano le vicende della res publica comprese fra la morte di Silla (78 a. C.) alla fine della guerra
di Pompeo contro i Pirati (67 a. C.).
La lettera di Mitridate
Nelle Historiae spicca una lettera che Sallustio immagina sia stata scritta da Mitridate, re del Ponto (sul Mar
Nero), che tanto a lungo combatté contro le ingerenze dei Romani. Mitridate scrive che i Romani,
nonostante tutta la loro propaganda, erano guidati nella loro espansione militare solo da brama di potere e
di ricchezze.
Attraverso questa lettera Sallustio esprime la propria critica verso il Senato e la politica ufficiale della res
publica. Il regno del Ponto apparteneva all’Oriente, e Roma vi aveva sempre combattuto attraverso la figura
di Pompeo che, nell’epoca repubblicana, si era impegnato col suo esercito nel fronte orientale. Nella guerra

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civile tra Cesare e Pompeo, quest’ultimo sceglie di iniziare la guerra in Oriente perché è la terra che
conosce meglio.
Modelli
1) Storiografia greca classica di Tucidide
Tucidide, storico ateniese vissuto nel V secolo a. C., scrisse la storia della guerra del Peloponneso,
combattuta tra Atene e Sparta. Insieme a Erodoto prima e Senofonte dopo, è stato uno dei
maggiori storici greci. Tra tutti gli storici greci, tuttavia, Sallustio preferisce Tucidide per:
 scarso valore dato alla Fortuna (in latino è una vox media, che significa tanto “buona sorte”
quanto “mala sorte”);
 ricerca dell’essenzialità e concisione stilistica.
Mentre Erodoto dà importanza al mito, alla favola, all’aneddoto, alla fortuna, al pettegolezzo,
Tucidide è il primo che racconta la storia in maniera più scientifica; si allontana dal modo di fare
tradizionale e ricerca le cause e gli effetti degli eventi. In lui non c’è posto per l’ornamento retorico,
che va in secondo piano rispetto alla ricerca dell’essenzialità e della concisione. Lo stile di Tucidide è
meno discorsivo di quello di Erodoto, perché l’interesse per il contenuto è maggiore rispetto a
quello per la forma.
2) Storiografia greca ellenistica (detta anche “peripatetica”)
Per ellenistica si intende la Grecia all’epoca di Alessandro Magno, quando la Grecia è unita, il greco
è una lingua comune (una koinè), una lingua di cultura, e viene parlata in tutto l’Oriente (dall’Egitto
alla Persia). In epoca ellenistica si hanno molte opere storiche di tipo diverso da quelle di epoca
classica, poiché in epoca ellenistica si privilegia:
 indagine psicologica dei personaggi;
 ricerca del pathos e della drammaticità, mediante discorsi e lettere fittizie;
 uso abbondante di figure retoriche.
3) Catone il Censore, ammirato per:
 rigore morale, costumi incorrotti;
 uso di uno stile arcaico.
L’ideale di Catone politico, sociale e culturale era quello di riportare Roma alle sue radici: aveva
una grande avversione per i costumi stranieri provenienti soprattutto dalla Grecia e una volontà di
recuperare le tradizioni agricole e militari di Roma. Lo stile arcaico era per Catone un riflesso di
questo suo ideale politico e sociale, a cui si rifà anche Sallustio, che incolpa i suoi personaggi
(Catilina, Giugurta) vedendo in essi il riflesso della decadenza dei tempi (il passato rappresenta un
modello da recuperare, a cui ispirarsi). Lo stile riflette questo modello del passato.

Originalità di Sallustio:
Sallustio è originale in primis nella scelta del genere della monografia storica, applicata nel Bellum Catilinae
e nel Bellum Iugurthinum, e per:
 motivi di contenuto: mettere a fuoco un singolo problema o un singolo personaggio, sullo sfondo
di una visione organica della storia di Roma;
 motivi di stile: comporre opere brevi, stilisticamente raffinate, anche grazie all’esperienza
neoterica (cf. Catullo), che aveva sottolineato l’importanza della brevitas e del labor limae (opere
brevi cesellate come dei gioielli).

La concezione della storia di Sallustio


La storia è concepita come lucida e concisa esposizione degli eventi, e come indagine del loro concatenarsi
in cause-effetti. Tale rigore scientifico è applicabile solo alla storia recente o contemporanea, della quale
comunque si cercano le cause nel passato. È anche per questa volontà di rigore scientifico che Sallustio
sceglie di trattare un passato recente (ha più informazioni e può affrontarlo con più rigore).
Le cause degli eventi, però, non vengono sempre colte nitidamente: esse vengono cercate più negli animi
dei grandi personaggi che nelle dinamiche economiche e sociali (per Sallustio sono i grandi personaggi a
fare la storia). La concezione del grande personaggio che muove la storia è tipica di tutta la classicità e di
tutta la storia successiva fino all’età moderna. Nella letteratura italiana il primo personaggio che capisce che

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a fare la storia sono i popoli e non i singoli individui sarà Manzoni, che mette in luce questo problema (il
capo fa un’operazione ma poi a combattere ci va il popolo).
In Sallustio l’interesse per i grandi personaggi determina la ricerca psicologica e l’attenzione al
comportamento umano.
L’atteggiamento di fondo è quello di un grande pessimismo: Sallustio vede il malcostume del presente con
gli occhi del moralista che loda il passato (prospettiva che in epoca classica viene chiamata: laudator
temporis acti, cioè “lodatore del tempo passato”, tipica di chi dice che prima le cose andavano meglio).

Modus dicendi
Stile
La frase di Sallustio è densa, asimmetrica, ricca di figure retoriche. Si segnalano le seguenti caratteristiche:
1) brevitas, concisione espressiva, raggiunta mediante asindeto (mancanza di congiunzioni), ellissi
(mancanza di qualcosa, che si evince tuttavia dal contesto ma non viene nominata esplicitamente),
construtio ad sensum (non rispetta le regole strettamente grammaticali ma si evince dal contesto);
2) inconcinnitas (disarmonia), è il contrario della ricerca cesariana della semplicità o di quella
ciceroniana della simmetria e dell’armonia. Viene ottenuta mediante un uso di antitesi e
asimmetrie, variatio sintattica (per cui due funzioni sintattiche uguali sono espresse con strutture
differenti; se per esempio un verbo ha due complementi oggetti, il primo si esprime ad esempio con
un puro accusativo, il secondo con preposizione e accusativo; oppure un verbo regge due
complementi che hanno la stessa funzione e sono introdotti da preposizioni differenti), artifici
retorici;
3) gravitas, stile solenne, nasce dall’incontro fra il dinamismo prodotto da asimmetrie o variationes e
il controllo vigoroso della concisione: brevità concettosa (c’è la brevità ma è densa di concetti, cioè
vuol dire molto di più di quello che letteralmente dice).
Lessico
Preferenza per parole desuete, arcaiche, che riflettono nella forma l’ammirazione per i valori dell’età
arcaica evidenziata anche nel contenuto delle opere di Sallustio.

Conclusioni
 In questa lezione abbiamo analizzato la figura di Sallustio, vissuto nel I secolo a. C., con attenzione

particolare alle sue ultime opere, il Bellum Iugurthinu e le Historiae.


 Abbiamo visto la concezione della storia di Sallustio, che analizza eventi del passato recente e ne
individua le cause nei grandi personaggi, descritti con attenzione alla psicologia.
 Lo stile è vario, asimmetrico, amante delle figure retoriche e di parole non comuni, tratte dalla
tradizione antica.

LA POESIA E L’ORATORIA DI ETÀ REPUBBLICANA


GAIUS VALERIUS CATULLUS
Vita: tempora et loca
Catullo si colloca nel I secolo a.C., in epoca tardo-repubblicana; è quindi quasi contemporaneo di
personaggi come Cesare, Cicerone, Sallustio. Viene dalla Gallia Cisalpina (parte occupata dai popoli celti
o galli al di qua delle Alpi): nasce a Verona o a Sirmione fra l’87 e l’84 a.C. Le notizie biografiche di Catullo
prima della sua venuta a Roma non sono molte; sappiamo però che apparteneva a una famiglia
benestante, che era quasi la regola per personaggi politici e letterari del tempo (senza una famiglia
benestante, non avrebbero potuto intraprendere gli studi).
Esperienza romana:
 giunto a Roma, Catullo entra in contatto con importanti personaggi del mondo politico e letterario,

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in particolare con i Neòteroi (in greco “più nuovi”, comparativo).
 Ha una relazione con l’aristocratica Clodia, da lui detta Lesbia, che sarà la musa delle sue poesie.
Clodia era una nobile romana, sorella di Clodio (sostenitore dei plebei), che sarà avversario di
Milone (sostenitore dei patrizi), il quale lo ucciderà. Cicerone, con la Pro Milone, difende Milone,
mentre Sallustio, che sta dalla parte dei popolari, si schiera con Clodio. Clodia apparteneva al più
alto patriziato romano ma aveva costumi disinibiti; aveva relazioni con vari uomini e non sarà
fedele nemmeno a Catullo.

I Neòteroi: definizione e provenienza


I Neòteroi, in latino poetae novi, erano poeti che nel I secolo a.C. sperimentarono a Roma un nuovo tipo di
fare poesia, sul modello dei poeti ellenistici (come Callimaco; scrivevano poesie brevi e molto curate, con
argomenti tratti dalla sfera della vita privata: l’amore, la passione, la gelosia, l’amore personale). Questo
modo di fare poesia, diverso da quello trattato da Omero, Eschilo, Sofocle, Euripide (guerra, patriottismo,
libertà, esperienze che investivano la polis), dall’epoca di Alessandro Magno in poi, rispecchia un periodo in
cui l’intellettuale non può più agire attivamente nella vita politica e sociale della polis, perché le poleis
stanno diventando accentrate in un unico potere, non hanno più la loro indipendenza politica e quindi non
c’è possibilità di intervento. L’intellettuale si rivolge ad altre attività, ad esempio la scienza: in questo
periodo si arrivò a capire che la terra era una sfera e quale potesse essere più o meno la sua superficie;
oppure si rivolgeva all’arte e alla letteratura: abbiamo uno sviluppo della grammatica e della filologia (i più
antichi testi della letteratura greca, se ci sono pervenuti, è soprattutto grazie ai grammatici e ai filologi
ellenistici, che trasmettevano scientificamente un testo in maniera più aderente possibile all’originale). I
temi sono più intimi ma non per questo meno degni di una attenzione formale.
I loro prodromi vanno individuati in poeti vissuti fra il II e il I secolo a.C., detti “poeti pre-neotèrici”, quali
Lutazio Càtulo, che si colloca nel periodo di Mario e Silla; a loro volta essi si ispirano ai grandi poeti
ellenistici dell’epoca di Alessandro Magno.
I poeti neoterici veri e propri, quali Valerio Catone, Furio Bibàculo, Varrone Atacìno, Calvo, Cinna etc.,
provengono in genere dalla Gallia (Cisalpina o Narbonense, cioè intorno alla città di Narbona) come Catullo
(sono di origine celtica anche se la loro area è ormai romanizzata).

Contenuto
I Neoteroi scrivevano opere poetiche d’amore, volutamente distanti dai temi politici e militari che
agitavano la tarda repubblica, epoca percorsa da grandi discordie civili (guerra civile tra Mario e Silla, tra
Cesare e Pompeo e tra Marcantonio e Augusto), pervasa dalla grande opposizione politica e sociale tra
populares, rappresentanti del popolo (anche se erano di estrazione sociale alta avevano idee più
democratiche, più progressiste, più vicine alla plebe) e optimates (rappresentanti del patriziato, dei
senatori, della classe conservatrice). Sallustio e Cesare erano populares; Cicerone era rappresentante degli
optimates. I Neoteroi si distaccano completamente da queste ostilità e cercano nella poesia la pace, la
serenità, una soddisfazione interiore.
Tali poesie erano definite dai Neoteroi nugae, in greco paignià “cose da bambini, sciocchezze, scherzi”.
I Neoteroi portano avanti un programma di distacco dall’impegno civile e di dedizione all’ otium (tempo
libero), per scrivere le loro opere letterarie.
Lo stile
Opere brevi (ideale della brevitas) ed estremamente curate nella forma (ideale del labor limae, una
cesellatura formale).
Nella loro poetica confluiscono le esperienze letterarie della Grecia Ellenistica o Alessandrina, arrivate a
Roma in seguito a un intenso periodo di conquiste e di scambi.
Il loro modello letterario è il poeta ellenistico Callimaco. In epoca ellenistica i due grandi poeti, tra loro
opposti, erano Callimaco e Apollonio Rodio, che scrive le “Argonautiche”, poema epico sull’esperienza degli
Argonauti che, guidati da Giàsone, si recano nel Caucaso per recuperare il vello d’oro; è un’opera molto
lunga ma poco curata stilisticamente. Callimaco invece scrive brevi poesie e segue il motto “grande libro
grande male”: per lui un libro troppo lungo era necessariamente cattivo; paragona la sua poesia a quella di

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Apollonio Rodio con le immagini di un confronto tra un fiume grande, lungo, dalle acque pesanti, sporche e
lente (Apollonio) e un ruscelletto fresco, guizzante, trasparente (lui).
Le critiche
I poetae novi, nonostante gli illustri modelli (poeti pre-neoterici a Roma e i poeti alessandrini, in particolare
Callimaco, in Grecia) ricevettero molte critiche. La definizione stessa di “poeti nuovi” è stata data da
Cicerone in maniera dispregiativa (per Cicerone non erano veri poeti).
Cicerone li critica per:
 Il loro distacco dall’impegno civile e politico (lui portava avanti un programma in cui arte e politica
si uniscono);
 il loro stile “artificioso”, lontano dai concetti di ingeniu e di natura ciceroniani.
La relazione con Clodia o Lesbia
A Roma Catullo conosce Clodia, donna aristocratica (appartenente alla gens Claudia; “Clodia” è un
mutamento del latino parlato di “Claudia”, con il monottongamento), ricca e bellissima, ma anche dai facili
costumi.
È la sorella del popularis Publio Clodio Pulchro, ucciso da Milone, e la moglie del nobile Quinto Metello
Celere. Si dice che fosse anche coinvolta nella morte del marito, uccidendolo lei stessa.
Catullo chiama Clodia con il nome di Lesbia per evocare la poetessa greca Saffo, vissuta a Lesbo nel VI
secolo a.C. Lesbo è un’isola nel mar Egeo, vicina all’Asia minore (alla parte settentrionale dell’Anatolia); a
Lesbo si parlava greco eolico (la poesia di Saffo è in dialetto eolico) ed è stata la patria anche di Alcèo. Due
dei più grandi poeti lirici della letteratura greca venivano da quest’isola; Alceo aveva tematiche politiche,
era direttamente impegnato nella guerra civile, delle quali a Catullo non importa. Saffo tratta di amore, di
moti intimi dell’animo, ed è a questi tipi di fare poesia che si rifà Catullo. Saffo era maestra del tìaso, scuola
di educazione femminile dove andavano le fanciulle di buona famiglia che venivano educate a lavori
domestici, soprattutto a tessere, ma anche a tematiche di poesia.
 57 a.C.: viaggio in Oriente, in Bitinia (zona dell’Anatolia), al seguito del governatore Gaio Memmio:
- per allontanarsi da Lesbia;
- perché i viaggi culturali in Grecia o in Asia Minore diventano comuni fra gli intellettuali del I
secolo a.C. Gli intellettuali romani, appartenenti a famiglie patrizie, erano intellettualmente
poveri (la cultura romana aveva prodotto poco rispetto a quella greca). Lo stesso Cicerone ne
farà uno, a Rodi, per motivi personali: aveva vinto un processo contro un sillano e voleva
allontanarsi per paura di ripercussioni politiche.
In Bitinia Catullo ha modo di visitare la tomba del fratello, nella Tròade (in Anatolia, dove si
presume sia stata Troia); ricorderà l’episodio in un carmen, imitato poi dal Foscolo nel Sonetto in
morte del fratello Giovanni (Foscolo riprenderà anche altri carmina di Catullo).
Catullo muore a soli 30 anni, nel 57 o nel 54 a.C.
Opera
116 carmina, raccolti in un liber.
Il liber è sulla base del metro e del contenuto diviso in tre parti:
1. 1-60: componimenti brevi (nugae, cioè “inezie, bagatelle”);
2. 61-68: componimenti polimetri (carmina docta, componimenti in vari metri dove Catullo
sperimentava il suo virtuosismo);
3. 69-116: epigrammi (epigràmmata).
Il liber è dedicato a Cornelio Nepote.
Contenuti
I carmina sono incentrati sul tema dell’amore per Lesbia, con tutte le possibili sfumature dalla passione alla
sofferenza e all’odio.
Quello con Lesbia è un foedus (“patto”) violato dai continui tradimenti della donna. Il “foedus” era il patto di
matrimonio tra due persone; Catullo e Lesbia non erano sposati (Lesbia era sposata con un altro), ma per
Catullo il loro rapporto è al pari di qualsiasi matrimonio.
L’amore viene rappresentato come il principale valore della vita, più importante di qualsiasi ideale civile o
politico. È una novità enorme perché per i grandi scrittori romani dell’età più arcaica, come Catone, che
sono anche dei personaggi politici, l’amore non era un argomento da trattare in quanto sciocco, puerile,
non importante. I temi importanti da trattare erano le origini di Roma, le guerre, le tematiche militari. Per

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Catullo diventa l’amore; ci sono delle opere in cui questi due temi vengono fusi, ma mai prima di Catullo
l’amore si era posto così prepotentemente al centro dell’esperienza culturale e poetica di un intellettuale.
Celebre la poesia “Odi et amo”:
Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris Nescio, sed fieri sentio et excrucior
“Odio e amo (ossimoro: due esperienze contrapposte che vengono sentite come contemporanee). Forse
ti domandi perché io lo faccia. Non so, ma sento che accade, e mi tormento”
Catullo esprime la propria indifferenza per le vicende politiche di quegli anni, e dice che non gli importa di
Cesare o di Pompeo.
Nil nimium studeo, Caesar, tibi velle placère nec scire utrum sis albus an ater homo
"Non mi interessa affatto piacerti, Cesare, nè sapere se tu sia bianco o nero.”
Cesare era tra i personaggi più popolari dell’epoca, era quasi inimmaginabile che qualcuno potesse
esprimere la più totale indifferenza per lui. È un nuovo modo di fare poesia.

Modus dicendi
Lingua e stile
 Lo stile di Catullo è estremamente elaborato, sul modello di Callimaco e degli altri poeti ellenistici.
 I metri sono vari: esametri, pentametri, gliconèi, ferecratèi, galliambi etc.
 I vocaboli sono scelti con cura, in modo da creare figure retoriche e da evocare rimandi a
precedenti modelli letterari.
 Gli ideali stilistici ricercati da Catullo sono:
- lepos = “grazia”
- venustas = “bellezza”
- urbanitas = “lingua cittadina”, con compresenza di termini aulici e volgari

Conclusioni
 In questa lezione abbiamo analizzato la figura di Catullo, vissuto nel I secolo a.C.
 Nonostante sia vissuto nell’epoca più turbolenta della storia romana (con l’impero le cose si
pacificano perché c’è un solo capo e gli altri obbediscono, mentre alla fine della repubblica, in
epoca tardo-repubblicana, si hanno discordie, lotte intestine, confische, proscrizioni, esilii), Catullo
è volutamente estraneo alle vicende politiche del tempo, e dedica la propria poesia a temi intimi
del sentimento. Questi ultimi, però, non sono rappresentati in maniera immediata: anche le
esperienze che sembrano più autobiografiche, più spontanee, sono filtrate attraverso una profonda
dottrina e imitatio dei modelli greci.
 A livello formale predilige una poesia molto curata, con grande varietà di metri.
TITUS LUCRETIUS CARUS
Vita: tempora et loca
Le notizie biografiche di Lucrezio sono poche e incerte.
Sappiamo che nasce intorno al 90 a. C. in Campania, a Pompei oppure a Ercolano, da una famiglia
aristocratica, e che muore intorno al 50 a. C., a poco più di quaranta anni.
La maggior parte delle notizie su Lucrezio provengono da San Girolamo, secondo cui sarebbe morto in
seguito a pazzia procuratagli da un filtro d’amore. Tale notizia è probabilmente falsa, diffusa dai detrattori
di Lucrezio, anche se è stato ipotizzato che Lucrezio soffrisse di una patologia depressiva. La notizia di San
Girolamo nel Chronicon:
Titus Lucretius Carus nascitur, qui postea a poculo amatorio in furorem versus et per intervalla
insaniae cum aliquot libros conscripsisset, quos postea Cicero emendavit, sua manu se interfecit
anno 44
"nasce il poeta Tito Lucrezio Caro, che dopo essere impazzito per un filtro d'amore e aver scritto
alcuni libri negli intervalli della follia, che Cicerone pubblicò postumi, si suicidò a quarantadue anni"
La scarsità e l’incertezza delle informazioni biografiche su Lucrezio dipende dalla sua adesione alla filosofia
epicurea: i seguaci di Epicuro, infatti, venivano considerati oppositori della repubblica e degli ideali stoici
che la difendevano. L’epicureismo a Roma è sempre stato avversato, di conseguenza anche gli autori vicini
a questa filosofia venivano trascurati: o si perdevano o, nel caso di Lucrezio, la cui opera ci è pervenuta,

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abbiamo pochissime notizie biografiche.

La filosofia epicurea
L’Epicureismo in Grecia: ideali fondamentali
La filosofia di Epicuro (vissuto tra IV e III secolo a. C.) si basa sulla fisica e riprende la concezione atomistica
fondata da Democrito e Leucippo (vissuti nella prima età classica, tra V e IV secolo a. C.), secondo cui la vita
e la morte sono determinate dalla continua aggregazione e disgregazione degli atomi (il termine atomo,
coniato da Democrito, significa in greco “indivisibile” -alfa privativo e temno, “taglio”- e indicava la minima
particella di materia). L’epicureismo predicava l’atarassia e insegnava a vincere le paure.
L’ Epicureismo in Grecia: scopo della filosofia
Epicuro considera la filosofia uno strumento per:
 liberarsi da false credenze e paure;
 raggiungere il piacere, concepito come atarassìa, ossia imperturbabilità e assenza di dolore.
Secondo lui i mali fondamentali della vita sono quattro, per cui suggerisce quattro medicine, il
tetrafarmaco.
Il tetrafarmaco di Epicuro
Male Medicina
1) Paura degli dei Idea per cui gli dei non si interessano agli uomini
(secondo Epicuro non ha senso aver paura degli dei
perché a loro non interessa degli uomini)
2) Paura della morte Paura che si può vincere pensando che se ci siamo noi
non c’è la morte; se c’è la morte non ci siamo noi (non
possiamo quindi sentire nulla)
3) Mancanza del piacere Secondo Epicuro il piacere è facilmente raggiungibile

4) Dolore fisico È il male più diffuso secondo Epicuro ma, se


sopportabile, non ci deve preoccupare; se
insopportabile, conduce presto alla morte e quindi non
ci deve preoccupare neppure in questo caso
Secondo Epicuro il male dell’uomo deriva dalle sue paure, e imputa la loro ragione a una società
fortemente superstiziosa, dedita alle religioni e ai culti misterici che lui cerca di allontanare con la
razionalità: di fronte a una paura ci dobbiamo rendere conto del motivo per cui esiste questa paura e capire
che a ogni paura si può reagire in maniera razionale. Ad esempio l’idea che gli dei non si interessano agli
uomini deriva da una concezione culturale che si diffonde nella filosofia e nella letteratura della Grecia della
tarda età classica. Nella tragedia, uno dei generi letterari greci più importanti, possiamo vedere uno
sviluppo nel pensiero tragico da Eschilo (il primo tragediografo) a Sofocle ed Euripide. Secondo Eschilo se
c’è un male vuol dire che c’è anche una colpa (o della persona stessa che soffre, o dei suoi antenati: le colpe
si possono scontare anche nei discendenti); il motto di Eschilo è “attraverso la sofferenza, l’insegnamento”:
se una persona ha un dolore c’è un motivo, è la punizione per qualcosa di sbagliato fatto da lui o dagli
antenati. Secondo Sofocle, di una generazione più giovane, questa certezza viene messa in discussione: ci
sono dei casi in cui un dolore non ha motivo di esistere, non c’è nessuna colpa dietro una tragedia.
Nell’Edìpo di Sofocle il protagonista non è consapevole della colpa che ha commesso, che sarebbe quella di
aver ucciso il padre e di aver sposato la madre, ma lui non lo sa, è una disgrazia (non sa che quello che sta
uccidendo è il padre e che quella che sta sposando è la madre). Dal punto di vista di Epicuro, non c’è
nessuna colpa: se fanno del male, lo fanno inconsapevolmente, eppure vengono puniti. Sofocle si chiede se
la punizione sia giusta dato che la colpa non è consapevole, mettendo in discussione il concetto stesso di
colpa. Secondo Euripide, l’ultimo di questi tragediografi, che si colloca una generazione più tardi rispetto a
Sofocle, la colpa e la punizione vengono totalmente ridiscusse: ci sono a volte dei dolori senza che ci sia
nessuna colpa, nemmeno inconsapevole. La sorte degli uomini è dunque del tutto irrazionale, senza un
piano. Dal punto di vista della filosofia, Epicuro riprende questa idea dell’indifferenza degli dei alla sorte
degli uomini che in letteratura si trova incarnata dalla tragedia di Euripide. Epicuro va visto nel suo tempo,
un po’ come tutti i filosofi, e Lucrezio riprende queste idee che in Grecia erano diffuse in varie forme di arte

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ma che a Roma avevano un impatto totalmente rivoluzionario, perché l’arte è intrinsecamente legata alla
politica; non poteva esistere un autore che non si interessasse alle vicende dello stato, e se c’era veniva
giudicato male, trascurato. Anche Catullo portava avanti un programma d’arte distaccato dalle vicende
politiche e sociali, ma Cicerone e gli altri grandi personaggi di Roma lo giudicano male. A Roma Lucrezio,
che portava avanti questi ideali di Epicuro, aveva un valore ancora più rivoluzionario di quanto avesse
Epicuro in Grecia, dove c’era una maggiore indipendenza del pensiero artistico rispetto a quello politico.
L’ Epicureismo in Grecia: destinatari
In Grecia il messaggio di Epicuro era universalistico, ossia si rivolgeva a tutti, donne comprese. Tale
universalismo era affidato ad una prosa semplice e chiara, che potesse essere compresa anche da persone
non colte.
L’ Epicureismo a Roma
A Roma l’epicureismo trova opposizione tra gli strati alti della società romana per due motivi fondamentali:
 predicando il piacere come sommo bene, spingeva a distogliersi dagli incarichi e dalle
responsabilità civiche per dedicarsi all’otium e agli interessi personali;
 confutando la religione tradizionale greco-romana, minava alla base tutte le istituzioni politiche e
civili della res publica, nonché le sue conquiste militari, che venivano presentate dal senato come
volute dagli dei.
Nei confronti dell’epicureismo a Roma si era avuta fin dall’inizio un’azione repressiva:
 nel II secolo a. C., ad esempio, il senato aveva fatto espellere due filosofi greci epicurei, Alceo e
Filisco.
Ma l’epicureismo continuava a diffondersi, in forma più o meno sotterranea, anche fra le classi alte,
soprattutto nel sud Italia, in Campania, nel I secolo a. C. Lucrezio viene dalla Campania e non a caso è
epicureo; in questo ambiente l’epicureismo era più forte che a Roma, ed era diffuso soprattutto a Napoli e
ad Ercolano.
A Ercolano, nella Villa dei Papiri appartenente a L. Calpurnio Pisone (suocero di Cesare) lezione Filodèmo di
Gàdara. A Napoli vi era un gruppo di epicurei capeggiati da Siròne. Qui studiarono in seguito anche Virgilio
e Orazio.
Accanto a questi gruppielitari, l’epicureismo veniva diffuso fra la plebe ad opera di Amafinio e Cazio, che in
cattiva prosa latina (secondo la testimonianza di Cicerone) cercavano di attrarre proseliti con il richiamo al
piacere. È un’idea un po’ falsata di Epicuro, perché nella sua filosofia il piacere non era un incitamento al
godere, ma un rendersi conto con razionalità che le paure non hanno ragione di esistere e che quindi
bisogna provare gioia dalla vita, senza farsi incatenare da questa paura.
L’epicureismo veniva spesso associato ad un’idea di lussuria, secondo una falsa interpretazione di Epicuro,
per cui invece il piacere era assenza di dolore e imperturbabilità.

Opera
L’opera principale di Lucrezio è il De Rerum Natura “la natura delle cose”, poema didascalico in sei libri.
Poema  allude alla forma dell’opera, che è in versi.
Didascalico  allude alla funzione dell’opera, quella di insegnare la filosofia epicurea (dal greco didasko,
“insegno”).
De Rerum Natura: modelli
Il modello del poema didascalico è ripreso dalla tradizione greca.
 L’inventore del poema didascalico è Esiodo, che con la Teogonia (“nascita degli dei”) aveva
illustrato le genealogie degli dei, e con Le Opere e i Giorni aveva insegnato al fratello il modo di
coltivare la terra.
 Ma Lucrezio riprende soprattutto Empedocle, che aveva scritto il poema filosofico Perì physeos (perì
fiuseos,“sulla natura), in cui ipotizzava che la natura fosse basata su quattro elementi fondamentali,
quali aria, acqua, terra, fuoco.
De Rerum Natura: destinatari

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Il poema di Lucrezio è indirizzato alla classe dirigente romana, e quindi a persone colte anche se non
familiari con la filosofia epicurea:
 il patriziato romano era in genere educato alla filosofia stoica.
De Rerum Natura: originalità
 Lucrezio usa una raffinata forma poetica per presentare la materia filosofica di Epicuro.
 La scelta della forma poetica elaborata viene motivata con la metafora del miele e della medicina:
la poesia può rendere più gradita una materia difficile così come il miele rende più gradevole
l’ingestione di una medicina. L’apprendimento della filosofia è dunque necessario per vivere bene,
per liberarsi dalle paure e dalle superstizioni, così come è necessaria la medicina; rendere
gradevole questa medicina è compito della poesia.
De Rerum Natura: titolo
Il titolo De Rerum Natura (“sulla natura delle cose” o semplicemente “sulla natura”) traduce fedelmente il
titolo Perì physeos (perì fiuseos) che Epicuro (così come altri filosofi naturalistici che lo precedono, cioè i
presocratici) aveva dato alla sua opera filosofica.
De Rerum Natura: intreccio
È un poema didascalico in sei libri, divisi in tre gruppi di due (diadi) sulla base del contenuto:
 I-II: esposizione della teoria dell’atomismo;
 III-IV: esposizione della dottrina dell’anima;
 V-VI: esposizione della dottrina del mondo.
Corrispondenza strutturale tra le diadi:
 i libri I, III, V (i primi libri di ogni diade) si aprono con la lode a Epicuro;
 i libri II, IV, VI (i secondi libri di ogni diade) si chiudono con immagini catastrofiche.
Libro I
Si apre con l’Inno a Venere, che fa da proemio a tutta l’opera. Alcuni studiosi hanno visto una
contraddizione fra l’importanza data a Venere e la concezione di Epicuro e di Lucrezio per cui gli dei non
hanno influenza nelle vicende umane. Probabilmente Venere va vista qui come immagine della voluptas, il
piacere che genera la vita e che porta la pace, e anche come allegoria della natura vivificatrice. Venere
viene presentata come contrapposta a Marte, dio della guerra, che essa vince. Fare un proemio a Venere
significava dare un simbolo iconografico per rendere più facile capire una serie di concezioni filosofiche.
Dopo l’inno a Venere, compare la lode di Epicuro e quindi la teoria degli atomi, con il principio della fisica
secondo cui “nulla si crea e nulla si distrugge ma tutto si trasforma”.
Epicuro viene rappresentato come colui che ha liberato l’uomo dalla religio (da re-ligo “restringo”) vista
come superstitio (un termine che indica lo “stare sopra” (super+stare) di un’ideologia, e quindi qualcosa di
opprimente). In origine il termine “legare” della religione non aveva un valore negativo, voleva dire che si
creava una serie di precetti che volevano limitare la libertà dell’uomo, regolare una serie di comportamenti
(l’incesto, il furto, l’omicidio) alla base di ogni civiltà. Col tempo, questa religione era stata associata a riti e
credenze di paure che Epicuro vuole combattere (la religione vista come superstizione).
Il primo libro contiene la rappresentazione più serena dell’opera lucreziana, con il piacere e la ragione che
dominano guerra e superstizioni. Tale serenità, però, non appare mai veramente raggiunta, e questa è la
differenza fondamentale fra Lucrezio ed Epicuro:
 Epicuro affronta i problemi dalla prospettiva di colui che ha raggiunto la serenità in modo
filosofico;
 Lucrezio si limita ad aspirare alla serenità.
Libro II
Espone la dottrina del clinamen, letteralmente “inclinazione”, che sta alla base del libero arbitrio. Secondo
il clinamen gli atomi possono deviare dal loro percorso, nel qual caso interviene una scelta da parte
dell’individuo; anche le scelte, però, hanno alla base una motivazione fisica e materiale.
Dato che il clinamen permette una grande varietà di aggregazioni, i mondi possibili sono molti.
Libro III
Viene trattata la natura dell’anima, vista come formata dall’aggregazione di atomi. L’anima differisce dal
corpo solo nel tipo di atomi: quelli dell’anima sono più leggeri e più lisci.
Anima e corpo, comunque, si dissolvono insieme con la morte, che coincide con il nulla.

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Libro IV
Dopo la teoria della mortalità dell’anima, viene spiegata la dottrina della conoscenza, che deriva dalle
sensazioni.
La conoscenza non è data da proprietà innate dell’essere umano, bensì deriva empiricamente dai
simulacra, una sorta di membrane (composte anch’esse di atomi) che si staccano dagli oggetti percepiti e
arrivano fino agli organi sensoriali.
La conoscenza sensibile è sempre veritiera; l’errore nasce da una sua falsa interpretazione. È un punto di
grande differenza con i presocratici come Empedocle e Parmenide, che vedevano la conoscenza sensibile
come erronea; anche per Platone, la conoscenza sensibile è necessaria ma sempre falsa: la verità è
qualcosa di diverso. Epicuro dice invece che la conoscenza dei sensi è vera, ma talvolta viene interpretata
male dall’uomo.
La conoscenza sensibile spiega anche l’amore.
Lucrezio afferma che la passione amorosa ha unicamente origine nelle sensazioni e quindi nell’attrazione
fisica.
L’amore visto come ideale spirituale viene sarcasticamente criticato da Lucrezio.
Libro V
Viene discussa la natura, vista come madre ma, soprattutto, come matrigna.
Lucrezio vede la storia del mondo come un’evoluzione dalla specie animale e da forme di società primitive,
caratterizzate dalle prime scoperte (fuoco, linguaggio) e dall’instaurazione dei primi rapporti (amore,
famiglia).
Alla base della formazione della società c’è il criterio dell’utilità, perché associandosi è più facile
combattere i vari pericoli naturali.
Anche alla base del linguaggio c’è l’utilità, che nasce per il bisogno di comunicare.
Nella specie umana interviene una sorta di selezione naturale, per cui i più forti tendono a prevalere e
diventare capi.
Di fronte alla tendenza ad acquisire potere e ricchezze, le leggi servono a limitare l’istinto naturale alla
sopraffazione.
La religione, vista come superstizione, è un modo per conservare l’ordine stabilito con le paure.
L’uomo deve emanciparsi da tali paure e porsi in modo sereno nei confronti della natura.
Libro VI
Vengono trattati i fenomeni atmosferici e i moti della terra.
Le catastrofi accadono a causa di leggi di natura, del movimento casuale degli atomi, e non dalla volontà
divina o dalle colpe dell’uomo.
Le cosiddette “emozioni atomiche”, come le chiama Lucrezio, inquinano l’aria e provocano le epidemie. È
un punto rivoluzionario rispetto alla visione del mondo degli stoici per cui le disgrazie erano il risultato delle
colpe degli uomini. Per Lucrezio, la causa di tutto sono gli atomi.
Il libro VI si conclude con la descrizione della peste. Il modello è Tucidide, che nelle sue Storie aveva
raffigurato la peste di Atene avvenuta durante la Guerra del Peloponneso (V secolo a.C.).

De Rerum Natura: un poema incompiuto?


Alcuni hanno ritenuto che il poema sia incompiuto, poiché Lucrezio dichiara di voler trattare le “sedi degli
dei”, cosa che però non fa.
Anche dal punto stilistico sembra che il poema non abbia avuto una revisione finale.

Modus dicendi
Lingua e stile
 Lucrezio lamenta la patrii sermonis egèstas, ossia la povertà della lingua latina per esprimere il
contenuto filosofico.
 Per supplire alla mancanza di un lessico astratto, Lucrezio ricorre spesso a neologismi e ad
esempi esplicativi per illustrare la sua materia.
 Per facilitare la comprensione di passaggi o di punti difficili si usano spesso formule di ripetizione o
di transizione (quindi, peraltro, dunque, allora, etc.)

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 La lingua è spesso arcaizzante, per conferire maggiore solennità all’opera.
 Non mancano figure di suono quali allitterazioni e assonanze, secondo il gusto della poesia arcaica
prevalentemente orale.

LA RETORICA PRE-CICERONIANA
Tempora et loca
Differenze fra retorica greca e oratoria romana
La retorica in Grecia nasce per dirimere le contese nate soprattutto nell’ambito del commercio e dei traffici
marittimi. Pensiamo, ad esempio, a Lisia, uno dei più grandi oratori greci che tuttavia faceva l’avvocato:
nelle sue orazioni si occupa di vicende di vita quotidiana, che oggi afferiscono al diritto civile. Nell’orazione
per l’invalido, ad esempio, Lisia difende un uomo che aveva il sussidio di invalidità dallo stato ateniese ma
che era stato accusato di averlo ottenuto truffando lo stato, in quanto non era realmente invalido.
Nell’orazione contro Eratostene, Lisia lo difende dall’accusa di aver avuto una relazione con una donna
sposata e di averne ucciso il marito. La retorica, in Grecia, nasce dal diritto civile, dall’istituzione della
democrazia di Atene dove spesso nascevano dissidi legati all’ambito civile o anche al commercio. L’oratoria
romana, invece, è strettamente legata al dibattito politico e alle istituzioni dello stato; le orazioni romane
sono di senatori, tribuni, consoli che parlano a favore o contro proposte politiche.
La retorica in Grecia ha molte applicazioni didattiche, e matura un gusto per il “parlare ornato”, con figure
retoriche. Quello che si dice sia stato l’inventore delle figure retoriche è Gorgia che, come i sofisti, ha
teorizzato e catalogato diversi usi retorici che erano già stati sperimentati negli autori precedenti (non è
l’inventore vero e proprio). La valenza didattica ed artistica presente in Grecia è molto meno sentita
nell’oratoria romana, anzi a Roma l’insegnamento viene visto in maniera negativa; inoltre si guarda più al
contenuto che alla forma. Pur prendendo molto dalla retorica greca, quella romana è molto diversa.
La maggior parte delle testimonianze sull’oratoria latina pre-ciceroniana ci perviene dallo stesso Cicerone,
che nel Brutus fa una storia dell’oratoria latina.
“L’eloquenza è compagna della pace e socia del tempo libero e trova alimento in uno stato ormai ben
fondato” (Brutus 12,45)
Cicerone lega dunque l’oratoria latina allo Stato, alla politica.
I primi oratori romani si collocano nel III secolo a.C., al tempo delle Guerre Puniche (almeno in base a
quanto ci permette di ricostruire lo studio sulla retorica successivo di Cicerone). I primi testi di oratoria a
noi pervenuti, tuttavia, non sono anteriori al II secolo a.C.
 Prima metà del II secolo a.C.
161 a. C.: il Senato espulse da Roma gli insegnanti greci di retorica. Si deduce la presenza di
manuali e di scuole di retorica a Roma in questo periodo.
 Seconda metà del II secolo a. C.
Testimonianza di Lucilio:
Ora invece da mattina a notte in giorno festivo e feriale tutto il popolo e i patrizi del pari, tutti si
agitano al Foro. Non se ne vanno altrove, tutti si dedicano ad una sola e medesima occupazione e
arte, quella di imbrogliarsi accortamente con le parole, di contendere con gli inganni, di gareggiare
con i complimenti, di simulare di essere un uomo onesto e di tendere agguati come se tutti fossero
nemici di tutti.
Da questa testimonianza si vede come l’oratoria, in un primo momento, venga vista negativamente
a Roma, come un’arte che permette di usare la parola al fine di ingannare la gente. Per questo il
Senato nel 161 a.C. ha espulso da Roma gli insegnanti greci di retorica, che venivano concepiti come
maestri di inganno. È la prima reazione che la mentalità romana conservatrice militare e contadina
ha avuto nei confronti dei filosofi greci, i cui ragionamenti articolati venivano visti come troppo
sofisticati per il pensiero romano e come inganni.

Appio Claudio Cieco


Il primo oratore romano di cui abbiamo conoscenza è Appio Claudio Cieco. L’orazione latina più antica che
sia stata tramandata per iscritto è il De Pyrrho rege (280 a. C), tenuta da Appio Claudio Cieco in Senato per

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convincere i Romani a non fare la pace con Pirro dopo la sconfitta di Eraclea.
Di questa orazione Cicerone (I secolo a. C) e Quintiliano (II secolo d. C.) potevano ancora leggere il testo di
cui esprimono le lodi. Il poeta Ennio ne diede una rielaborazione poetica nei suoi Annales.
È possibile che il testo non sia mai stato scritto, ma sia stato inventato seguendo la rielaborazione poetica
data da Ennio in età posteriore ad Appio Claudio Cieco.

Tito Coruncanio
Altro oratore dell’alta repubblica è Tito Coruncanio (III secolo a.C.), citato da Seneca ed altri autori
successivi come modello dell’eloquenza arcaizzante. Di lui, però, non ci è rimasto nulla.

Marco Porcio Catone


Il primo oratore e studioso di oratoria di cui abbiamo testimonianze certe a Roma è Marco Porcio Catone,
detto il Censore (vissuto tra il III e il II secolo a. C.).
Le sue orazioni sono raccolte nelle Origines, se si tratta di episodi storici specifici, e nei Libri ad Marcum
filium, se invece trattano argomenti più generali di carattere morale.
Scrisse inoltre manuali di retorica in latino.
Catone intraprese lo studio della lingua e della cultura greca in età abbastanza avanzata ( aetate iam
declinata), ma seppe perfettamente elaborarlo e filtrarlo nei mores (costumi) della tradizione romana.
Nei libri Ad Marcum filium Catone dichiara avversione verso la tecnica retorica dei greci, portata a valutare
l’elemento estetico dello stile più di quello del contenuto.
Il motto di Catone, invece, è: “rem tene, verba sequentur” (padroneggia l’argomento, le parole
seguiranno).
Catone definisce l’oratore come un galantuomo onesto, esperto nell’arte del dire (vir bonus dicend peritu).
Fra le due componenti della res (il contenuto, espressione del vir bonus) e dell’elocutio (l’eloquenza,
espressione del dicendi peritus), la prima è giudicata senz’altro più importante.
Catone pose la questione del rapporto tra:
 res (materia del discorso)
 elocutio (forma del discorso)
Catone attribuiva un’importanza determinante all’inventio, ossia all’idea fondamentale su cui impostare
l’orazione. Secondo Cicerone, su una posizione simile si trovò, due generazioni dopo, anche Marco Antonio
(antenato del triumviro). Catone, nonostante abbia scritto orazioni e manuali di retorica, esplicita la sua
idea in maniera molto diversa da quella dei retori greci: per lui non conta la forma ma il contenuto. Già
dalle prime esperienze di Catone possiamo vedere le grandi differenze tra l’eloquenza romana e quella
greca.
Nonostante la sua avversione per la cultura greca, Catone ne appare un grande conoscitore. Della Grecia,
ad esempio di Aristotele, prende alcuni stilemi dell’argomentazione, come il procedere per induzione,
ponendo prima esempi pratici e poi ricavandone la norma generale (è il contrario della deduzione, dove
prima si espone la legge e poi la si illustra con degli esempi).

Il contenuto, invece, è prettamente romano, fondato sul mos maiorum (costume degli antenati) nelle sue
componenti di:
 Ius naturae (diritto di natura)
 Ius gentium (diritto delle genti, quindi il diritto civile)
 Ius legum (diritto delle leggi)
L’esame dell’Exordium della Pro Rhodiensibus (pronunciata da Catone nel 167 a.C., libro V delle Origines)
indica:
 che la maggior parte dei procedimenti retorici ha un suo strato italico, come ripetizioni e
allitterazioni, che in nessun testo greco ricorrono con tanta frequenza; nei testi greci dei retori
(soprattutto Isocrate e Demostene) si fa un uso molto attento della costruzione, che è molto

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attenta, ma non si hanno molte ripetizioni e allitterazioni. Anzi, per i greci il ripetersi era
considerato negativamente, come una mancanza di idee o di parole; questo atteggiamento è tipico
della lingua scritta. Le orazioni di Isocrate e Demostene, nonostante venissero pronunciate davanti
a un pubblico, erano prima scritte attentamente e poi pensate anche per essere lette. Le orazioni di
Catone dimostrano invece un attaccamento alle modalità orali dell’antica Roma.
 che le argomentazioni sono organizzate in forma di:
• entimemi: presenti nelle forme tipiche dell’uso retorico (ad es. i più delle volte, la maggior
parte, di solito);
• paradigmi o esempi: uso del ragionamento per induzione (da Aristotele).
Gellio analizza il procedimento di Catone per convincere i senatori a non considerare una colpa l’aver
desiderato che i Romani perdessero la guerra contro la Macedonia e dice:
Catone cercò e raccolse cose che né il diritto naturale né il diritto delle genti proibiscono, ma soltanto
leggi proposte e votate in circostanze particolari. Queste leggi vietano di fare talune cose, non di
desiderare di farle. Queste cose Catone paragonò e gradualmente mischiò con ciò che di per sé non è
onesto nel fare e nel voler fare.
Il riferimento a comportamenti vietati o consentiti dalle leggi condusse i senatori a considerare i rapporti
tra Roma e Rodi: non vi fu una punizione di Rodi, ed è possibile che i senatori siano stati persuasi dalle
argomentazioni di Catone.
Sembra che Catone abbia scelto le argomentazioni adatte e che i senatori non le abbiano considerate dei
sofismi: è verosimile che egli abbia conosciuto la retorica greca e che sapesse servirsene bene. Da una
parte dichiarava una forte avversione alla Grecia, i cui costumi venivano considerati un rammollimento di
quelli romani; dall’altra studiava il greco e lo conosceva bene (nonostante la sua avversione, è stato
influenzato dalla cultura greca).

Marco Antonio (143-87 a.C.)


Un altro grande oratore del II secolo a.C. fu Marco Antonio (143-87 a. C.), nonno del triumviro.
Scrisse il manuale di retorica “De ratione dicendi” (ossia “sulla tecnica del discorso”).
Fu il primo manuale di retorica latina, insieme agli scritti di Catone in materia. Si tratta di un insieme di
regole non approfondite, ma inserite comunque in un quadro sistematico.
Come Catone, Marco Antonio impartiva un tipo di formazione che non passava attraverso modelli greci, e
dava molta più importanza al contenuto (res) che non alla forma (elocutio).
La sua originalità sta nella convinzione di portare nella tecnica retorica l’esperienza viva dell’oratoria
forense. Egli sosteneva che il giovane avvocato dovesse svolgere il proprio tirocinio in cause reali. Reputava
più pertinente la pratica della professione forense piuttosto che una vasta cultura filosofica e letteraria.
Anche questa è una manifestazione della visione concreta della retorica che si aveva nell’età della prima
repubblica.
Nel De ratione dicendi egli teorizzava in latino la concezione tecnicistica (e non letteraria) della retorica,
lasciando solo un minimo spazio all’elocutio.
L’oratore doveva dunque esercitarsi in cause reali, nel foro, e non sui libri, e badare più al contenuto che
alle figure retoriche.

Lucio Licinio Crasso


Posizioni contrarie a quelle di Marco Antonio furono tenute dall’oratore Lucio Licinio Crasso, a cavallo fra II
e I secolo a. C. (140-91 a. C.).
Crasso non scrive le sue idee (non abbiamo niente di lui), che conosciamo solo indirettamente soprattutto
dalle parole di Cicerone che, nel Brutus, facendo la sua storia dei retori, ci racconta delle loro posizioni.
Dalla testimonianza indiretta di Cicerone sappiamo che Crasso proponeva un oratore con una profonda
cultura umanistica: la materia su cui esercitare l’inventio è una magna silva, densa di conoscenze sia
generali sia specifiche, sia letterarie sia scientifiche, di natura complessa e varia, che soltanto un oratore
molto colto e maturo è in grado di elaborare.

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Secondo Crasso, nella redazione del testo oratorio occupa un posto importantissimo l’ elocutio, necessaria
per dare forma ricca e personale al discorso, con:
 originali scelte lessicali;
 accurato ordine delle parole;
 complessa struttura delle frasi;
 repertorio di clausole metriche.
Pur scrivendo in prosa, bisognava usare una prosa poetica, capace di avere una sequenza di parole che
evocasse la musicalità del verso. Crasso sostiene che per affrontare con successo una causa pratica
l’oratore deve essere capace di dominare una vasta cultura e, in aggiunta, di dare importanza della forma. È
il primo oratore a Roma che riporti in primo piano l’elocutio.
Crasso ritiene che nella sua epoca non vi siano oratori all’altezza della sua idea di eloquenza:
La retorica sarà trattata elegantemente in latino quando vi saranno a farlo degli uomini molto eruditi, gli
uomini colti profondi conoscitori della cultura greca. Di tali uomini a Roma non ve ne sono ancora stati.
(Lucio Licinio Crasso, riportato da Cicerone nel De Orator).
Dato che Crasso pensava che non vi fossero a Roma oratori degni della sua alta idea di eloquenza e di
oratoria, non ci deve stupire il fatto che nel 92 a. C., assieme al collega console Gneo Domizio Enobarbo,
abbia emanato un editto con cui ordinava la chiusura delle scuole dei rhetores latini.
L’editto insisteva sulla trasgressione della consuetudine e della tradizione degli antenati:
I nostri antenati hanno stabilito che cosa i loro figli dovessero apprendere e quali scuole dovessero
frequentare. Queste novità trasgrediscono la consuetudine e la tradizione degli antenati, non incontrano
la nostra approvazione, né appaiono corrette.
La motivazione dell’editto era che queste scuole indebolivano gli ingegni e alimentavano la sfacciataggine, e
questi nuovi maestri non erano in grado di insegnare nulla se non l’arroganza. Attraverso la testimonianza
di Cicerone, Crasso dice:
Non volevo impedire che l’ingegno dei giovani si affinasse, volevo piuttosto impedire che esso si facesse
più ottuso e che invece si rafforzasse la sfrontatezza.

Lucio Plozio Gallo


Una delle scuole contro cui si scagliò Crasso era quella di Lucio Plozio Gallo (vissuto nella prima metà del I
secolo a. C.).
Poeta e amico di Gaio Mario, l’avversario di Silla, Plozio Gallo fu il primo in assoluto ad insegnare a Roma la
retorica in latino, quando Cicerone aveva appena 14 anni.
Il ludus (la scuola dove insegnava) di Plozio Gallo era aperto anche ai giovani provenienti dalle classi basse.
A costoro egli consentì di emanciparsi dal patronato patrizio.
La vastità del pubblico che assisteva alle sue lezioni, tuttavia, provocò critiche in quanti ritenevano che in
questo modo la retorica fosse impoverita e degradata.
I metodi di Plozio Gallo piacevano ai populares, ma non agli optimates, che lo chiamavano rabula “can che
abbaia” o gallus “gallo”, come se fosse capace soltanto di strillare (da qui il soprannome Gallo).
Una testimonianza su Plozio Gallo e sulla sua attività didattica è stata lasciata dall’optimas Varrone nelle
Satire Menippee:
il mio Automedonte, poiché avevo urlato come un vaccaro nella scuola di Plozio, non trascurò di
esprimere le sue condoglianze al padrone.
Questa è l’opinione che gli optimates hanno a Roma della scuola dei retores latini organizzata da Plozio che,
in questa sua apertura al popolo, a cui insegnava l’uso della parola, e quindi gli strumenti del potere, non
era ben visto dagli optimates.

Tiberio e Caio Gracco


Ci troviamo in un periodo in cui la plebe cerca di rivendicare i propri diritti nei confronti del patriziato.
Alcune leggi, ad esempio, avevano esteso il diritto di citare in giudizio un senatore anche a chi non fosse in
possesso della cittadinanza romana. In caso di vittoria, l’accusatore acquisiva di diritto:
 la cittadinanza romana per sé e per i propri discendenti;
 l’iscrizione nella tribù del condannato;

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 la vacatio militiae (esenzione dal servizio militare).
Siamo in un periodo in cui i soprusi dei patrizi sulla plebe stanno trovando un ostacolo. In quest’ottica si
pongono Tiberio e Caio Gracco. Il II secolo a. C. vede infatti svolgersi l’attività politica in favore della plebe a
parte di Tiberio e Caio Gracco, anch’essi importanti oratori.
Nelle loro orazioni, i due Gracchi portarono alla luce i problemi della vita sociale ed economica dell’Italia,
descrivendo le pene sofferte dalla plebe e le azioni ingiuste perpetrate dagli oligarchi.
Le orazioni dei Gracchi hanno come temi le problematiche della loro epoca (a cavallo tra II e I secolo a. C.),
soprattutto la proposta di una riforma agraria e di altre norme volte a migliorare la condizione della plebe.
Sappiamo che entrambi erano versati nell’arte oratoria, ma che avevano uno stile diverso:
 Tiberio Gracco era più misurato nell’espressione;
 Caio Gracco aveva un’esposizione più drammatica, che lasciava libero sfogo ai sentimenti. A ciò
aveva certamente contribuito il dolore e la rabbia per la tragica fine del fratello, che fu ucciso da
degli avversari politici.

Scipione Emiliano
Contro le opinioni dei Gracchi si schiera Scipione Emiliano (vissuto nel II secolo a. C.), rappresentante di
primo piano del circolo filellenico degli Scipioni e, più in generale, dell’aristocrazia romana.
Scipione Emiliano era imparentato con i Gracchi, perché aveva sposato la loro sorella Sempronia. Inoltre la
madre dei Gracchi, Cornelia, era figlia di Scipione l’Africano. Le famiglie patrizie dei romani erano poche;
capitava dunque che anche esponenti politici avversari avessero una parentela in comune.
L’attacco di Scipione Emiliano alle proposte dei Gracchi è condotto in nome degli alleati (socii) italici.
L’Emiliano sostiene nelle sue orazioni che la ridistribuzione dell’ager publicus avanzata dai Gracchi avrebbe
favorito sì la plebe, ma avrebbe anche danneggiato gli Italici. Questi ultimi possedevano grandi terre ma,
poiché non possedevano la cittadinanza romana, non potevano partecipare alla riforma agraria.
L’Emiliano considera gli alleati italici come i veri figli di Roma, mentre la plebe urbana, nutrita da ex
prigionieri di guerra, sarebbe formata dai “figli bastardi” dell’Italia, che come tali andavano emarginati.
Testimonianze sull’eloquenza di Scipione Emiliano ci vengono da un dictum di Velleio Patercolo e da un
dictum (aneddoto, discorso) di Valerio Massimo, secondo i quali l’Emiliano avrebbe esclamato:
Io che non ho mai avuto paura delle grida dei nemici armati. Come posso turbarmi per i vostri figli
bastardi dell’Italia? (Velleio Patercolo)
Non mi farete paura ora che siete liberi, voi che ho condotti qui in catene (Valerio Massimo)
Sono parole molto dure nei confronti della plebe romana; si colloca contro la plebe non in un nome di una
miope difesa dei privilegi dei patrizi, ma in nome di una difesa degli alleati italici.
L’oratoria di Scipione Emiliano era asciutta e misurata, schietta nel contenuto, regolare e simmetrica nella
forma.
Secondo lui le scelte stilistiche di un’orazione rispecchiano le scelte politiche e sociali del suo autore.
Nel contrasto fra l’idea di esporre didatticamente (rem docère) e quella di spingere enfaticamente gli animi
(animos impellere), l’Emiliano adotta la prima, mentre attribuisce la seconda ai suoi rivali Gracchi.

RHETORICA AD HERENNIUM
Si colloca nel I secolo a. C. la Rhetorica ad Herennium (risale al periodo che va dall’88 all’82 a. C.), opera di
retorica in latino dedicata ad un membro della potente famiglia filo-mariana degli Herenni.
L’opera è attribuita a Cornifìcio:
 uomo di condizione sociale elevata, amico di Marco Antonio (nonno del triumviro) e di Lutazio
Càtulo (poeta);
 filo-democratico (amico dei mariani, dei populares);
 in filosofia aderì alla Nuova Accademia (di stampo neoplatonico).
Alcuni passi della Rhetorica ad Herennium sono paralleli al De Inventione di Cicerone; da qui deriva la
tendenza ad attribuire l’opera a Cicerone. Probabilmente entrambe le opere derivano da una tradizione
greca, a capo della quale i dotti collocano una tekhnè di Ermagora di Temno:
 professore di retorica del II secolo a.C.;
 definisce la retorica una sottospecie della logica, nella cui competenza ricadono tutte le questioni

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del diritto pubblico, in particolare quelle giuridiche e politiche.
L’autore della Rhetorica ad Herennium, in polemica con Ermàgora, sostiene che in una “ars dicendi” si
devono introdurre esempi originali. Ermàgora era considerato un eterotecnico. I filosofi, perciò, lo
accusavano di avvalersi di esempi tratti da poeti e oratori e di non essere capace di formare veri oratori.
L’autore della Rhetorica ad Herennium porterà all’affermazione di una retorica di stampo umanistico
(secondo una tendenza sincretica, cioè non limitarsi ad una sola fonte).

Conclusioni
 In questa lezione abbiamo analizzato l’oratoria latina dalle origini fino al periodo pre-ciceroniano.
 Abbiamo delineato il periodo storico dei primi oratori, collocati nell’alta e media repubblica (III-II
secolo a. C.), quando Roma è impegnata nelle grandi guerre di conquista e nei tumulti fra patrizi e
plebei.
 Fin dalle origini l’oratoria latina appare saldamente legata alla politica e ai problemi sociali di Roma.
È questo il tratto di maggiore originalità dell’oratoria latina rispetto a quella greca.
 Gli oratori latini pre-ciceroniani, tuttavia, non si presentano come un gruppo omogeneo, e
mostrano differenze nello stile.
 Sebbene la conoscenza delle loro peculiarità sia impedita dallo stato frammentario in cui questi
testi ci sono pervenuti (di alcuni autori non abbiamo assolutamente nulla, di altri solo frammenti),
possiamo constatare il contrasto fra alcuni oratori che privilegiano un’esposizione semplice e piana,
e altri in cui invece risulta più importante il fine di commuovere e di rappresentare gli eventi in
maniera drammatica. In genere i primi hanno un orientamento filo-patrizio, mentre i secondi
parteggiano per la plebe.

MARCUS TULLIUS CICERO


Tempora et loca
Cicerone si colloca nel I secolo a. C. Nasce nel 106 a.C. ad Arpino, cittadina della Ciociarìa, oggi in provincia
di Frosinone. Appartiene ad un’agiata famiglia equestre. Giunge a Roma per compiere studi di retorica e di
filosofia.
Giunto a Roma, Cicerone comincia la sua pratica del Foro sotto la guida di Lucio Licinio Crasso e dei due
Scevola, l’Àugure e il Pontefice.
In questo periodo Cicerone conosce anche Tito Pomponio Attico, a cui sarà legato da amicizia per tutta la
vita. Celebri le sue epistole ad Attico.

OPERA ORATORIA
L’opera oratoria di Cicerone è legata alla sua attività di avvocatura.
Cicerone debutta come avvocato nel biennio 81-80 a. C. (a poco più di vent’anni). Le sue prime orazioni
sono:
 Pro Quinctio (81 a. C.);
 Pro Roscio Amerino (80 a. C.).

Pro Roscio Amerino (80 a. C.)


L’orazione in difesa di Roscio Amerìno, accusato di parricidio, è particolarmente importante perché la parte
avversa era sostenuta da Crisàgono, un liberto di Silla. La vittoria di Cicerone rappresenta quindi un
successo della res publica contro il partito sillano.
Già nella Pro Roscio Amerino Cicerone rivela un’avversione verso le figure come Silla che aspirano ad un
potere personale al di sopra delle istituzioni.
Tali figure sono tipiche dell’età cesariana, in cui si sente l’esigenza di un potere più centralizzato a causa
dell’estensione dei confini di Roma e dei numerosi disordini sociali.
Tutta la vita di Cicerone sarà volta a combattere queste figure e questa evoluzione ineluttabile che dalla

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repubblica porteranno al principato. Silla è solo la prima di queste figure; aveva dominato, insieme a Mario,
l’età politica della prima parte della tarda Repubblica ma, già nella sua figura, si annunciano le tendenze
politiche che più propriamente si realizzeranno con Cesare e con Pompeo.
Cicerone si batte per la restaurazione degli antichi valori repubblicani, a seconda delle circostanze, con la
forza o con il compromesso. Ad esempio, quando Cesare prende il potere vi sarà un’oscillazione di opinioni
in Cicerone. Tale oscillazione non è però segno di incoerenza, bensì di una ricerca della restaurazione anche
a costo di qualche cedimento. Cicerone si rende conto che una ricostruzione totale dell’antica Repubblica è
impossibile, perché sono profondamente cambiate le situazioni politiche, sociali ed economiche di Roma,
che non è più una piccola città alle foci del fiume Tevere; adesso è una potenza mondiale, che ha sconfitto i
Cartaginesi nelle guerre puniche. Questo allargamento di confine porta anche alla necessità di una
maggiore centralizzazione politica: è normale che si impongano delle figure all’interno del Senato, ma non è
normale che si snaturi l’impianto repubblicano di Roma, come vorrebbe Cicerone.

Il viaggio in Grecia
Dopo la Pro Roscio Amerino Cicerone si allontana per un periodo da Roma, anche per non subire le
conseguenze della vittoria su Silla. Nella Pro Roscio Amerino lo scontro era stato non tanto a favore o contro
Roscio Amerino, quanto a favore o contro Crisagono, sillano, che accusava Roscio Amerino. Avendo vinto,
era come se avesse vinto su Silla, pertanto si minacciavano ripercussioni.
La meta del suo viaggio è la Grecia, dove molti intellettuali del tempo si recano per approfondire i loro
studi. Accanto alla funzione politica di questo viaggio, allontanarsi da Roma, c’è una valenza culturale che si
inserisce nelle tendenze del tempo.
Sotto la guida di Apollonio Molone di Rodi, Cicerone impara il cosiddetto stile “rodiese” o “medio”,
intermedio cioè fra l’asianesimo e l’atticismo.
Al ritorno dalla Grecia Cicerone sposa Terenzia, da cui avrà i figli Tullia e Marco, e si getta di nuovo
nell’attività forense.
 Nel 75 a. C. viene nominato questore in Sicilia: qui viene messo al corrente degli abusi e dei
latrocini compiuti dal precedente governatore della Sicilia, Gaio Licinio Verre.

Verrinae (70 a. C.)


Cicerone pronuncia le orazioni contro Verre (Verrinae), e con questa vittoria riesce a conquistare
definitivamente la fama di principe del foro romano.
Accusando Verre di corruzione e concussione, Cicerone vuole mettere in primo piano la ripresa dei valori
repubblicani anche contro i membri del Senato giudicati immorali.
Con le Verrine Cicerone mostra di aver abbandonato il precedente stile asiano e di aver adottato lo stile
medio appreso in Grecia.

 Nel 66 a. C. Cicerone è pretore. In questo periodo si pone il problema di affidare o meno poteri
eccezionali a Pompeo per la lotta contro Mitridàte re del Ponto. Cicerone si schiera a favore della
proposta, con l’orazione Pro lege Manilia o De imperio Gnei Pompei (“A favore della legge Manilia”
o “Sul comando di Gneo Pompeo”).
Con la Pro lege Manilia Cicerone manifesta un cedimento o un compromesso di fronte all’emergere
di figure dotate di poteri straordinari come Pompeo.

Pro lege Manilia o De imperio Gnei Pompei


Cicerone acconsente alla proposta di cedere a Pompeo poteri straordinari contro Mitridate perché costui
era diventato un pericolo per gli equites (letteralmente “cavalieri”), appaltatori di imposte in Oriente.
Secondo Cicerone gli equites, rappresentanti della classe media, erano la migliore risorsa per contrastare la
decadenza della repubblica.
Nella visione della società di Cicerone, gli equites dovevano allearsi con gli optimates onesti in una sorta di
concordia òrdinum (armonia degli ordini sociali) formata dai boni cives (cittadini onesti).

Il consolato (63 a. C.)

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Durante il suo consolato Cicerone si trova ad affrontare la congiura di Catilina. Catilina era un nobile
decaduto che prima aveva tentato di conquistare il potere per vie legali e poi, sconfitto alle elezioni per
diventare console, aveva organizzato una congiura ai danni della repubblica e soprattutto di Cicerone.

Catilinarie (63 a. C., anno del consolato di Cicerone)


Con le quattro orazioni Catilinarie Cicerone denuncia la congiura di Catilina e mostra la necessità di
sopprimere duramente quei tentativi di raggiungere il potere per vie illegali, scavalcando le istituzioni.
Lo stesso tema viene affrontato da Sallustio, ma a differenza di quest’ultimo Cicerone non si sofferma sulle
contraddizioni psicologiche di Catilina e si basa solo sui fatti. Ciò dipende anche dalla differenza fra
l’orientamento democratico di Sallustio e quello conservatore di Cicerone: l’oratoria filo-democratica era
più portata ad uno stile enfatico e drammatico. C’erano due tendenze contenutistiche e stilistiche: da una
parte gli oratori più vicini al senato, più conservatori (Scipione Emiliano) avevano uno stile più chiaro e
semplice, mentre quelli più vicini alla plebe (i Gracchi) prediligevano uno stile appassionato, enfatico e
drammatico; Sallustio si pone su questa linea filo-popolare, Cicerone su quella opposta, filo-senatoriale.

Cicerone assiste con preoccupazione al Primo Triumvirato (60 a. C., quindi segue di pochi anni il consolato
di Cicerone):
 l’alleanza privata fra il potere crescente di Cesare, la ricchezza di Crasso e gli eserciti di Pompeo è
secondo Cicerone un pericolo per la tradizione repubblicana e per il potere del Senato.
 Inviso ai Triumviri, Cicerone viene mandato in esilio nel 58 a. C. con l’accusa di aver mandato a
morte i Catilinari senza processo. La sua casa viene rasa al suolo.

Modus dicendi
Lingua e stile delle orazioni
Nelle orazioni di Cicerone si avverte un cambiamento di stile, su cui incide il viaggio in Grecia e
l’insegnamento di Apollonio Molone di Rodi:
 le orazioni prima del viaggio in Grecia (Pro Quinctio e Pro Roscio Amerino, 81 e 80 a.C.) presentano
un modus dicendi di tipo asiano, caratterizzato da frasi complesse, asimmetriche, con un linguaggio
colorito ed elevato;
 tutte le orazioni successive sono invece espressione dello stile medio, una sorta di compromesso fra
asianesimo e atticismo. In questo Cicerone si ispira più propriamente ai grandi oratori greci come
Isocrate, che usava frasi complesse ma molto armoniche, equilibrate.

Cicerone cerca di restaurare i valori fondanti delle istituzioni e si contrappone all’emergere di nuovi poteri
personali, soprattutto del partito cesariano.
La tendenza verso il principato è però un fenomeno inarrestabile, e nel 58 a. C. Cicerone viene mandato in
esilio.

DOPO L’ESILIO (58 a.C.)


Rientrato a Roma nel 57 a. C., Cicerone riprende l’attività forense, ancora fortemente dominata da
tematiche politiche dell’attualità. Si trova però di fronte una Roma in preda all’anarchia, dove si
fronteggiano apertamente in strada le bande avversarie di:
 Clodio, esponente dei populares (parte politica più vicina al popolo);
 Milone, esponente degli optimates (i patrizi, la classe senatoriale).
Cicerone simpatizzava più per gli optimates, ed era amico personale di Milone. La sua avversione per Clodio
si manifesta soprattutto in tre orazioni, dette “anticlodiane”, quali:
 Pro Sestio (56 a. C.)
 Pro Caelio (56 a. C.)
 Pro Milone (52 a. C.)

ORAZIONI ANTICLODIANE
Pro Sestio (56 a. C.)

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Cicerone difende Sestio, che era stato accusato da Clodio di atti di violenza.
La Pro Sestio è famosa per l’esposizione di una nuova proposta per superare le discordie civili, ossia il
consensus omnium bonorum (consenso di tutti gli onesti).
In un primo tempo, nella Pro lege Manilia, Cicerone aveva proposto la concordia òrdinum, basata
sull’alleanza fra senatori ed equites. Adesso, nella Pro Sestio, allarga la sua prospettiva: il consensus
omnium bonorum riguarda tutte le classi sociali (ovviamente medio-alte, la plebe non era nemmeno
considerata), e non si identifica con nessun ceto e nessuna professione particolare. Nella Pro lege Manilia
Cicerone aveva visto negli equites coloro che erano incaricati di creare quest’armonia delle classi sociali;
nella Pro Sestio ammette che debbano essere gli uomini onesti appartenenti a tutte le classi sociali a creare
i presupposti per questa nuova Repubblica.
Cicerone si rivolge a tutti i boni cives (onesti cittadini), che devono collaborare per restaurare i valori
fondanti della res publica e per scongiurare i pericoli della guerra civile.
Se i boni rappresentano il destinatario del messaggio politico di Cicerone, gli avversari vengono individuati
in coloro che, a causa di debiti o corruzione, auspicano res novae (letteralmente “novità”), ossia atti
sovversivi nei confronti delle istituzioni. Dal valore semantico di questo termine, res novae, che indica una
rivoluzione, si evince la mentalità conservatrice del potere romano, perché la novità viene vista
negativamente.

Pro Caelio (56 a. C.)


Cicerone difende l’amico Marco Celio Rufo, un giovane che era stato accusato di vari atti violenti, fra i quali
il tentato avvelenamento ai danni dell’amante Clodia, sorella di Clodio (nonché musa di Catullo).
Cicerone rappresenta Clodia come una donna di malaffare, sfrontata e intrigante, che aveva ordito l’accusa
per sbarazzarsi di un nemico politico del fratello. Nell’invettiva contro Clodia viene ovviamente coinvolto
anche Clodio.
Una volta dimostrata l’inconsistenza delle accuse di tentato omicidio, Cicerone giustifica le varie
intemperanze di Celio come un fatto tipico dei giovani.
Visto il radicale cambiamento dei tempi, dice Cicerone, occorre essere un poco più indulgenti con i giovani,
che da quei cambiamenti sono stati particolarmente disorientati. Con il passare del tempo essi
recupereranno i valori del passato e si mostreranno certamente più maturi.

Pro Milone (52 a. C.)


Lo scontro aperto fra le bande rivali di Clodio e Milone aveva portato all’assassinio di Clodio. L’accusa
ricade su Milone, di cui Cicerone assume la difesa.
Cicerone distingue fra “assassinio” e “tirannicidio”. L’uccisione di Clodio sarebbe da considerare un
tirannicidio, e pertanto più giustificabile. L’uccisione di Clodio avvenne sulla Via Appia, detta “regina delle
strade”.
Nella difesa di Milone, Cicerone insiste particolarmente sulla legittima difesa: lo stesso Milone sarebbe
stato più volte minacciato da Clodio e dai suoi seguaci.
Uccidendo Clodio, Milone avrebbe reagito solo all’ultimo dei numerosi attacchi rivolti contro la sua
persona.
Cicerone perde la causa, perché Milone viene giudicato responsabile della morte di Clodio; è costretto
all’esilio e si reca a Marsiglia.

Scoppiata la Guerra Civile (49 a. C.), Cicerone aderisce pur senza entusiasmo alla causa di Pompeo. Dopo la
sconfitta di Pompeo, viene perdonato da Cesare, con cui tenta una sorta di collaborazione o compromesso.

ORAZIONI CESARIANE
Composizione delle orazioni cesariane, quali:
 Pro Marcello
 Pro Ligario
 Pro rege Deiotaro
Cicerone difende alcuni ex-pompeiani pentiti, al fine di far loro ottenere la clementia di Cesare, famoso

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appunto per la sua clemenza nei confronti degli avversari sconfitti.
Le orazioni cesariane abbondano di elogi a Cesare, in cui Cicerone cerca adesso un appoggio.
Al tempo stesso, però, orazioni quali la pro Marcello vanno al di là del mero interesse personale: Cicerone si
sforza di dare consigli politici a Cesare e di indirizzare il suo crescente potere al rispetto delle istituzioni.
Con la morte di Cesare (44 a. C.) e lo scontro fra Antonio e Ottaviano, Cicerone si rende conto dell’ormai
inevitabile crollo delle istituzioni. La Repubblica era stata percorsa dallo scontro tra Mario e Silla prima,
Cesare e Pompeo, adesso Antonio e Ottaviano; non c’è più posto per chi rispetta le istituzioni, per il senato,
che si trova ormai esautorato da ogni potere.
Dovendo prendere posizione per uno dei due contendenti, si schiera con Ottaviano contro Antonio.
In questo periodo (44-43 a. C.) scrive le Philippicae.

Philippicae in Antonium
Le Filippiche evocano lecelebri orazioni di Demostene contro Filippo di Macedonia (IV secolo a. C.).
Anche Demostene (il grande oratore greco) aveva tentato inutilmente di opporsi al crollo della democrazia
della sua città (Atene) di fronte ad un forte potere personale (quello di Filippo di Macedonia, padre di
Alessandro Magno).
Probabilmente a causa del loro contenuto polemico, le Filippiche ci sono pervenute in maniera
frammentaria.
Oggi ne abbiamo quattordici, ma in origine erano di più, forse diciotto.
Accanto al titolo di Filippicae, erano anche chiamate Antonianae. Essendo apertamente schierate contro
Antonio, il successore di Cesare, affrontavano un tema politico molto scottante e forse per questo sono
state distrutte o comunque non conservate con la stessa cura delle altre opere.
Con le Filippiche (44-43 a.C.) Cicerone delinea la figura del princeps in opposizione a quella del tirannus:
 Il princeps è una sorta di primus inter pares scelto per la tutela degli interessi dello Stato;
 il tirannus è invece colui che agisce esclusivamente per il proprio potere.
Il princeps viene identificato in Ottaviano, mentre il tirannus è Antonio, il prosecutore estremista di Cesare.
Dopo la sconfitta di Antonio ad opera di Ottaviano, Cicerone assiste al voltafaccia di quest’ultimo: anziché
difendere gli interessi del Senato, Ottaviano si allea con Antonio e con Lepido nel Secondo Triumvirato (43
a. C.).
Antonio chiede ad Ottaviano la testa di Cicerone, che più di tutti lo aveva osteggiato, e l’ottiene.
Cicerone viene ucciso brutalmente nello stesso anno, il 43 a. C.

Fin dal suo rientro dall’esilio Cicerone si troverà sempre di fronte una città agitata da lotte intestine, fra
Clodio e Milone, fra Cesare e Pompeo, fra Antonio e Ottaviano.
Cicerone parteggia per il partito senatoriale e conservatore, che considera maggior garante delle istituzioni,
ma cerca anche un avvicinamento con i populares, alla vana ricerca di una concordia e una pace civile
secondo la tradizione repubblicana.

Cicerone si è sempre interessato dei problemi della retorica e dell’oratoria:


 la sua prima opera retorica, il De inventione, è composta nell’84 a.C., quando egli era ancora alle
prime esperienze di avvocato;
 nel suo viaggio in Grecia del 77 a. C. affina le sue conoscenze in materia e perfeziona il suo stile
grazie all’insegnamento di Apollonio Molone di Rodi.
Tuttavia, è soprattutto dopo il ritorno dall’esilio (57 a. C.) che Cicerone si volge alla scrittura di opere
specificamente dedicate all’oratoria e alla retorica. La riflessione su questi temi nasce dal bisogno di dare
una risposta culturale alla crisi di valori della res publica.
OPERA RETORICA

Differenza fra retorica ed oratoria


Nonostante il termine oratoria sia la traduzione latina del termine greco retoriché (sottinteso techné,
tecnica retorica), la retorica e l’oratoria non sono del tutto equivalenti.
 La retorica è l’arte del parlare, maturata in Grecia, e ha uno scopo logico ed estetico, come

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strumento per mettere insieme le parole in maniera coerente e piacevole per l’ascoltatore.
 L’oratoria è invece prettamente romana e indica il parlare in pubblico per uno scopo giudiziario,
politico o civile. Nelle opere di oratoria (orationes) è più forte il fine del persuadère.

DE ORATORE
Il modello ciceroniano dell’oratore è espresso nel De oratore (55 a. C.), un dialogo in tre libri che si
immagina avvenuto nel 91 a.C . (quando Cicerone era bambino) a Tuscolo, nella villa di Lucio Licinio
Crasso, uno dei protagonisti dell’opera.
Ambientazione
Cicerone sceglie di ambientare il De oratore ai tempi della sua giovinezza, nell’ambiente sereno di una villa
nelle campagne laziali, perché vuole evocare il periodo precedente allo scoppiare della crisi, delle congiure
e delle guerre civili.
D’altra parte, il 91 a. C. è l’anno della morte di Lucio Licinio Crasso. Anche Marco Antonio (il nonno del
triumviro) morirà di lì a poco nelle guerre civili.
Accanto alla ricercata serenità del dialogo, sulla villa di Tuscolo incombe già la crisi, e tutta l’opera è
pervasa dalla consapevolezza della rovina e della morte imminente.
Personaggi
I due principali interlocutori del De oratore sono:
 Lucio Licinio Crasso, grande oratore che aveva introdotto il giovane Cicerone alla pratica del Foro;
 Marco Antonio, anch’egli appassionato di retorica.
Le tendenze di questi due personaggi avevano condizionato gran parte dell’esperienza forense dalle origini
a Cicerone, anche se di loro ci sono pervenuti solo frammenti o testimonianze indirette, soprattutto tramite
Cicerone.
I due interlocutori del De oratore rappresentano le due principali correnti di pensiero, già esistenti in
Grecia, secondo cui per formare un buon oratore:
1. bastavano elementi tecnici e conoscenze specialistiche (tesi di Marco Antonio);
2. occorreva invece una cultura vasta e generica, anche di materie non strettamente legate all’arte
del parlare (tesi di Lucio Licinio Crasso).
Crasso imposta il suo modello di oratore al vir bonus (uomo onesto):
 ritiene che la formazione dell’oratore coincida con quella dell’uomo politico, padrone dell’arte
della parola e perciò in grado di convincere l’uditorio;
 polemizza contro la tendenza a un’eccessiva specializzazione;
 lamenta come, per opera di Socrate, si sia realizzata una scissione fra retorica e filosofia (secondo
Crasso queste due discipline dovevano essere unite e fare parte delle competenze dell’homo
universalis).
Crasso rivendica la tradizione aristocratica romana nella formazione retorica. Esempi di questa tradizione
sono:
 Sesto Elio, Manlio Manilio, ai quali ci si rivolgeva per avere consigli nel campo del diritto civile e
consigli di vita pratica (tecnica agricola, acquisto di un terreno, modalità di sposare i figli);
 soprattutto Catone il Censore, che non conosceva la cultura greca (ci sono però dei dubbi su
questo), ma per il resto ne possedeva tutte le doti.
La posizione di Crasso coincide con quella di un’aristocrazia che vuole mantenere unite le diverse forme del
sapere, per cui l’oratore deve essere allo stesso tempo:
 giurista
 uomo di stato
 filosofo
Secondo Crasso tali forme di sapere devono contribuire all’arricchimento delle potenzialità dell’oratore e
non possono essere autonome. Crasso nel De Oratore giustifica il proprio convincimento con queste parole:
“Non allontanare i giovani dalla ricchezza della tradizione culturale greca e mettere il veto all’impudenza
e all’audacia”
Impudentia: parlare senza saggezza, spinge ad uscire dal proprio ceto sociale fino a rovinare l’aristocrazia.
L’impudenza viene fortemente avversata, vista come espressione di quelle scuole di retores latini che

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cercavano di insegnare la retorica a tutti mettendo in pericolo la predominanza dell’aristocrazia.
Nel De oratore Antonio è l’antagonista dialettico di Crasso:
 si pronuncia in favore di un oratore istintivo e autodidatta, la cui arte si fonda sulla fiducia delle
proprie doti naturali e sulla pratica (usus);
 insiste sul fatto che ogni ars opera in un campo limitato e richiede conoscenze precise;
 nega l’assunto di Crasso che “l’eloquenza possa abbracciare tutte le arti liberali”.
Nel De oratore si contrappongono due modelli dialettici ma anche filosofici e politici, perché a Roma
l’oratoria non si limitava al campo del parlare ma trattava spesso di argomenti politici. Antonio e Crasso
manifestano la contrapposizione di due posizioni non limitate all’oratoria stessa.
Modello di Antonio: nessuna ars riveste un ruolo egemone (la retorica è un’arte che ha una certa
applicazione ed è separata da filosofia, letteratura, ecc.)
VS.
Modello di Crasso: l’eloquenza ha il ruolo di disciplina egemone (l’oratoria deve includere la politica, la
retorica, la filosofia, la letteratura, ecc.)

Ideologia del De oratore


Lucio Licinio Crasso è il portavoce di Cicerone. Anche secondo Cicerone, l’oratore necessita di un’ampia
preparazione filosofica, culturale e morale per poter svolgere appieno la pratica retorica.
Cicerone era ben consapevole del fatto che gran parte della tradizione del mos maiorum era ormai
compromessa.
Il desiderio di mantenere la cultura retorica a un livello elevato esprimeva l’esigenza di conservare l’arma
della parola nelle mani del ceto dirigente e della classe conservatrice.
In questa prospettiva Cicerone intende congiungere l’impegno civile romano con la dottrina dei retori e dei
filosofi greci (lo stesso genere del dialogo è ripreso dalla tradizione greca, da Platone).
Per Cicerone l’oratore è il vir bonus che si impegna nella res publica, non per persuadère demagogicamente
il popolo, bensì per servire i boni cives.

Il De oratore, composto dopo il ritorno dall’esilio, è ambientato all’epoca della giovinezza di Cicerone.
Mediante il personaggio di Crasso, Cicerone porta avanti un’idea di oratore che non si limiti alla conoscenza
tecnica della pratica del Foro, ma che coltivi tutte le arti liberali e conosca profondamente la cultura greca:
è l’homo universalis. Non è un caso che Cicerone sarà il principale autore latino ripreso e apprezzato nel
Rinascimento, dove abbiamo figure come Leon Battista Alberto, Leonardo, che sono “uomini universali”:
sono le figure degli uomini di lettere, gli intellettuali, che racchiudono in loro diversi saperi, non solo
letterari, ma anche filosofici, scientifici, ecc.

ORATOR
Dopo il dialogo del De oratore (55 a. C.), Cicerone riprende le tematiche retoriche nell’Oràtor: si tratta di un
trattato composto nel 46 a. C., quando Cesare aveva ormai sconfitto Pompeo nella Guerra Civile e la res
publica si stava dirigendo verso il principato. In questo periodo, Cicerone si trova emarginato dalla scena
politica e si ritira nell’otium.
Nell’Orator Cicerone:
 giustifica il ritiro dalla scena politica e l’impegno nella redazione di opere filosofiche;
 mette in relazione la composizione dei testi retorici all’insegnamento oratorio che egli impartisce
nella propria casa.
Cicerone aprì una specie di ludus nella propria casa, per sfuggire all’inattività cui lo costringe l’astensione
dalla politica. in una lettera a Peto scrive:
Se l’amico vorrà partecipare all’impresa è pronto per lui un seggio di ipodidàscalus (alunno)
Alle lezioni di Cicerone, impartite nella forma di declamazioni in greco e latino, assistevano allievi come
Irzio, generale di Cesare, e Dolabella.
Obiezioni degli avversari di Cicerone alla sua attività di insegnante di retorica:
 quanto egli stava intraprendendo non aveva precedenti nella tradizione romana;

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 vi era una scarsa dignitas nell’insegnamento. Nell’epoca antica, infatti, l’insegnamento non era
considerato un mestiere onorevole.
Repliche di Cicerone:
 gli oratori in passato non avevano tempo per l’insegnamento (essendo la loro attività concentrata
nella res publica);
 nella pratica del giureconsulto vi era comunque una sorta di insegnamento nel fornire un responso
o una consulenza;
 la scarsa dignitas valeva solo per chi impartisce lezioni in una scuola, non per chi insegna
privatamente e arricchisce i giovani con la propria esperienza e cultura. Cicerone non dice che vi è
dignitas nell’insegnamento, ma fa una distinzione tra insegnamento pubblico e insegnamento
privato. Nell’ottica patrizia romana, fortemente conservatrice, chi insegnava a livello pubblico
veniva visto in maniera negativa ma, secondo Cicerone, ciò non valeva per chi insegnava
privatamente, perché può scegliere il proprio allievo e la maniera in cui insegnare.
Nell’Orator Cicerone rompe con la tradizione che pretendeva dall’oratore la dissimulazione delle
conoscenze tecniche acquisite. Secondo lui è giusto per un oratore trasmettere ad altri le proprie
conoscenze.
Cicerone afferma inoltre di non aver mai cercato di nascondere il profitto che aveva tratto dalla
frequentazione di diversi maestri. Non solo dunque egli rivendica il diritto di insegnare, ma esprime la sua
gratitudine nei confronti di coloro che gli hanno insegnato.
A Roma una forma di insegnamento della retorica era sempre stata praticata da liberti greci. Lo stesso
Cicerone, al tempo del suo tirocinio, aveva potuto seguire le lezioni di precettori nella casa di Crasso.
Il ceto aristocratico preferiva che le proprie capacità di persuasione apparissero radicate in una vocazione
al potere, piuttosto che una competenza acquisita attraverso lo studio. L’insegnamento implicava che
chiunque potesse arrivare alla cultura e al potere, mentre se si considerava la cultura come qualcosa di
innato, dovuto a certe famiglie e non ad altre, il potere politico conservatore manteneva i propri privilegi.
Nell’idea di un’eloquenza insegnabile, la classe dirigente aveva fiutato il duplice pericolo di:
 svuotamento del carattere carismatico del proprio prestigio;
 possibilità di una divulgazione della tecnica oratoria, di cui potevano anche avvalersi rappresentanti
delle classi basse per mettere in discussione i rapporti di potere.
Cicerone si rivolge a uno stato sociale vasto (aristocrazia, ordine equestre, gruppi possidenti italici,
rappresentanti dei ceti emergenti).
Il suo insegnamento si prefigge lo scopo di omogeneizzare questi ceti fornendo una base comune di cultura
e di ideali etico-politici allo stato.
Egli intende riportare la cultura in cima agli interessi dell’egemonia politica ed operare una vera e propria
rigenerazione della classe dirigente romana.
Nell’Orator Cicerone delinea i tre principi dell’oratore ideale, a cui corrispondono tre stili differenti:
1. probare (dimostrare) sermo humilis
2. delectare (dilettare) sermo medius
3. flectere (piegare, persuadere) sermo patheticus (appassionato)

BRUTUS
Sempre nel 46 a. C. Cicerone compone un’altra opera retorica, il Brutus: si tratta di un dialogo che si
immagina avvenuto fra lo stesso Cicerone, l’amico Attico e Marco Bruto.
Il Brutus espone una storia dell’eloquenza, sia romana che greca, ma con maggior attenzione agli oratori
romani.
Cicerone ripercorre le tappe dell’eloquenza fino a se stesso. È una rappresentazione autoapologetica: il
proprio stile viene visto da Cicerone come il punto di arrivo e il completamento di tutte le esperienze
passate.
Cicerone vede la propria eloquenza come completamento delle tradizioni precedenti perché egli vuole
superare la separazione fra asianesimo (stile più ricco e complesso, basato su una scelta curata delle
parole, su una costruzione sofisticata) e atticismo (stile che privilegiava frasi semplici, omogenee, scelta di
parole conformi all’uso comune), che secondo lui devono essere entrambi integrati in diversi momenti e

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diversi registri dell’orazione. Per Cicerone entrambi gli stili sono validi purché non volti all’eccesso: egli
predilige una loro via di mezzo.
Cicerone muove delle critiche agli oratori che aderiscono esclusivamente all’asianesimo o all’atticismo.
Secondo lui:
 l’atticismo puro è uno stile troppo freddo e stringato, che non può commuovere né persuadere (il
flectere era invece una funzione importantissima dell’orazione latina);
 l’asianesimo puro è uno stile troppo artificioso, che non può risultare efficace nell’esposizione
obiettiva dei fatti.
Secondo motivi già presenti nell’Orator, Cicerone afferma anche nel Brutus che un’orazione deve attingere
a vari stili a seconda delle esigenze.
1. Il probare (ossia l’esposizione nuda dei fatti e l’elencazione delle prove a sostegno delle proprie
tesi) deve necessariamente impiegare uno stile rigoroso e umile, tipico dell’atticismo.
2. Il flectere (ossia il persuadere il pubblico della bontà delle proprie opinioni) deve far uso di uno stile
patetico o sublime, tipico dell’asianesimo.
3. Il delectare (ossia il rendere piacevole l’argomentazione e il collegamento fra le varie partes
orationis, cioè le parti del discorso) deve aderire allo stile medio, ispirato all’insegnamento di
Apollonio Molone di Rodi.
Cicerone è il primo oratore che mostra una padronanza di tutti questi stili, anche se personalmente
predilige lo stile medio. All’inizio della sua attività di avvocato, Cicerone aveva avuto un’esperienza in
Grecia, in particolare a Rodi, dove l’insegnamento di Apollonio Molone gli aveva trasmesso i valori dello
stile medio, cosicché aveva abbandonato lo stile asiano delle sue primissime opere e adottato questo stile
più moderato, più sobrio. Cicerone è il primo oratore che mostra una padronanza di tutti questi stili, anche
se personalmente predilige lo stile medio. La grande novità sta nel fatto che egli non adopera un unico stile,
mentre gli altri autori in genere sono legati ad un solo stile; Cicerone li padroneggia tutti e teorizza il
principio per cui un autore competente deve maneggiare tutti gli stili e adottare uno stile particolare in un
certo tipo di opera (lo stile si adatta all’opera).
Vi è un parallelismo fra la combinazione di stili diversi a livello retorico e l’eclettismo
(combinazione di diverse teorie) che vedremo nelle opere filosofiche di Cicerone.
Sia nell’Orator che nel Brutus Cicerone ribadisce che un oratore veramente completo non debba limitarsi a
conoscere i tecnicismi della più consumata pratica retorica, ma debba piuttosto ispirarsi ai valori più
profondi della tradizione latina, quali:
 pietas (insieme di valori prettamente romani che si condensano nella triade dell’amore verso la
patria, la famiglia, gli dei);
 humanitas (Terenzio: attaccamento ai valori tipici dell’uomo: la solidarietà, l’amore per il prossimo;
era estesa solo agli uomini liberi ed usciva dal patriziato, dalla propria classe di appartenenza);
 decorum (ciò che è appropriato fare dal punto di vista morale in base alle circostanze).

L’Orator e il Brutus sono stati composti nel 46 a. C., quando ormai Cicerone era stato allontanato dalla
scena politica e si era dedicato allo studio e all’insegnamento della retorica.
Sia l’Orator che il Brutus sono dedicati all’atticista Marco Bruto, e affrontano il problema del rapporto fra i
diversi stili dell’atticismo, dell’asianesimo e di una loro possibile combinazione. Cicerone propende per
quest’ultima opzione, in difesa di uno stile medio.

OPERA POLITICA
Cicerone compone le sue opere politiche nel periodo che va dal 54 al 51 a. C., ossia dopo il ritorno
dall’esilio, quando la sua emarginazione dalla scena politica lo spinge all’otium e alla riflessione.
Le lotte intestine che logorano Roma lo spingono a considerare quale siano lo stato ideale e le leggi ideali,
descritti rispettivamente nel De re publica (dialogo in sei libri, risalente al 54-41 a. C.) e nel De legibus
(dialogo risalente al 52 a. C.). Entrambi i testi ci sono pervenuti in maniera frammentaria. Nel Medioevo,
quando si copiavano le opere di Cicerone, che era uno dei principali poeti latini ad essere copiato, le opere
politiche venivano copiate con minore precisione rispetto alle opere oratorie e filosofiche, perché le opere
politiche avevano una portata più specifica al periodo in cui Cicerone viveva, mentre le opere filosofiche

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avevano una portata più universale, meglio apprezzata anche in altri periodi, e le orazioni erano le opere
principali di Cicerone.
De re publica (la Repubblica)
 ha lo scopo di trovare la perfetta costituzione e di stimolare l’uomo alla ricerca del bene comune.
De legibus (le leggi)
 ha lo scopo di trovare le leggi perfette e di diffondere tra le classi colte la filosofia ellenistica,
specialmente stoica e accademica.

DE RE PUBLICA (52 a. C.)


Nell’interrogarsi su quale sia la forma ideale di stato, Cicerone non suggerisce un modello astratto costruito
a tavolino, come aveva fatto Platone nella sua Repubblica, bensì ripropone un modello di stato del passato,
quello dell’epoca degli Scipioni.
La scelta dell’ambientazione non è casuale:
 l’età degli Scipioni è per Cicerone il periodo di maggiore splendore della storia romana;
 è il periodo in cui trova la sua realizzazione quell’equilibrio dei poteri (consoli, senato, comizi) che
giustifica la superiorità dello Stato romano su tutti gli altri.
Composto a partire dalla II metà del 54 a. C.
Trattato in sei libri, introdotto da un proemio.
Dialogo filosofico composto nel periodo di forzato ritiro.
 Prima giornata (libri I e II): discussione delle forme di governo
 Seconda giornata (libri III e IV): rapporto etico e politico
 Terza Giornata (libri V e VI): definizione dell’optimus princeps (il capo di stato ideale)
 Conclusioni: caratterizzate nel Somnium Scipionis (sonno di Scipione), mistica visione del premio
eterno per l’optimus princeps.
Ambientazione:
 periodo: 129 a. C.
 luogo: Villa suburbana di Scipione Emiliano
Protagonista: Scipione Emiliano
Personaggi: Furio Filo e Lelio, Spurio Mummio e Tuberone, Manlio Manìlio, Scevola e Fanio (tra i principali
frequentatori del circolo degli Scipioni).
Libri I-II: discussione delle forme di governo
L’equilibrio della repubblica all’epoca degli Scipioni è dato da una sorta di regime misto fra:
 Consoli manifestazione del potere monarchico
 Senato manifestazione del potere aristocratico
 Comizi manifestazione del potere democratico
Questi tre poteri garantivano un’armonia sociale. Tale equilibrio faceva sì che nessuno di questi poteri
degenerasse verso il suo estremo:
 la tirannide al posto della monarchia
 l’oligarchia al posto dell’aristocrazia
 l’oclocrazia (“potere della feccia”) al posto della democrazia.
Libri III-IV: rapporto tra etica e politica
Cicerone risponde alla critica che l’accademico Carneade aveva rivolto alla politica espansionista ed
imperialista dei Romani.
Cicerone difende la cosiddetta guerra giusta, per cui Roma si era espansa per portare aiuto agli alleati in
difficoltà o per difendersi dalle minacce nemiche.
È in discussione il concetto stesso di iustitia e il suo rapporto con le conquiste romane, che proprio in epoca
scipionica avevano conosciuto il loro grande avvio.
Libri V-VI: definizione dell’optimus princeps
Cicerone sperava che la causa di Pompeo, rappresentante del Senato, potesse avere la meglio su quella di
Cesare. Si illudeva che il suo princeps fosse ancora in grado di ripristinare la concordia. Secondo lui i
cittadini andavano educati:
 a comprendere la vanità del potere e della gloria umana;

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 a non identificare il bene supremo con il potere personale;
 ad aspirare alla ricompensa eterna proposta dal Somnium Scipionis (libro VI).
Modelli
Platone è certamente il modello principale del De Re publica, in cui è anche l’autore più citato. Ma se per
Platone il capo di stato ideale è il filosofo, per Cicerone il perfetto rector et gubernator rei publicae
(perfetto reggitore e governatore della Repubblica) è l’oratore, che è anche dedito all’attività civile, militare
o politica (non a caso il protagonista del dialogo è un grande uomo di Stato e non un filosofo).
Accanto a Platone, altri modelli sono da identificare nella filosofia stoica, soprattutto per:
 la dottrina del Magnus Annus e delle conflagrazioni universali;
 il concetto dell’anima ignea.
Entrambi sono contenuti all’interno del Somnium Scipionis, che avrà un destino indipendente dato che
anche dal punto di vista del contenuto si distacca molto dai libri precedenti.
Esempio: nella frase «Retinendus animus est in custodia corporis» (l’animo è da trattenere nella custodia
del corpo), si sovrappongono due diverse concezioni:
1. una pitagorico-platonica: vita come espiazione, corpo come prigione dell’anima;
2. l’altra pragmatista: l’uomo è chiamato a svolgere sulla terra il suo officium (dovere).

DE LEGIBUS (52 a. C.)


Cicerone prosegue la discussione politica con il De Legibus, dialogo in cinque libri, a noi giunto in maniera
frammentaria.
A differenza del De republica, il De legibus è ambientato nell’epoca contemporanea, e ha come
interlocutori lo stesso Cicerone, il fratello Quinto e l’amico Attico.
Cicerone afferma che le leggi non sono una convenzione soggetta agli arbitri della storia, bensì sono basate
sulla natura, sulla ragione, e sono date agli uomini dal dio.
Il modello principale è ancora Platone, il grande filosofo greco vissuto ad Atene nel V secolo a.C., che dopo
la Repubblica aveva scritto Le leggi. Ma se Platone individuava le leggi ideali in un progetto utopistico di
stato, Cicerone vede le leggi ideali nella costituzione romana, e in particolare nel diritto giuridico e sacrale
alla base della res publica.
In questo modo Cicerone cercava di difendere strenuamente le istituzioni, mostrandone la bontà a vari
livelli (politico, retorico, filosofico, etc.), in opposizione alle nuove tendenze verso il principato.

Fortuna delle opere politiche


Soprattutto al De re publica non mancarono lettori e grandi estimatori: Attico, Livio, Tacito, Seneca, Plinio il
Giovane, S. Agostino.
Se da una parte il De re publica non doveva destare l’entusiasmo degli imperatori per il suo messaggio
repubblicano, dall’altra l’ambiguità di Cicerone nei confronti di Cesare e di Ottaviano impedì a quest’opera
di diventare il manifesto dell’opposizione repubblicana.
Gli scrittori cristiani che ammirarono in Cicerone il maestro di retorica e il massimo esempio della prosa
latina continuarono a leggere il De re publica fino al V secolo d. C. Dopo se ne perdono le tracce.

Testimonianze filologiche sul De re publica


987 Lettera di Gerberto d’Aurillac (Papa Silvestro II) a Costantino Scolastico, con invito a portargli i libri del De re
publica.
1426 Lettera di Guarino Veronese a Giovanni Lamola, che annunciava il ritrovamento dei libri del De re publica in
una biblioteca di Colonia. Due anni dopo Poggio Bracciolini si accorse che era stato trovato solo il Somnium
Scipionis.
1820 Il cardinale Angelo Mai, a cui Leopardi dedicò una famosa composizione, rinveniva in un Palinsesto della
biblioteca Vaticana i primi due libri incompleti, un lungo frammento del II e alcuni passi del libro III - IV e V.

Il Palinsesto Vaticano (codice 5757):


 è un’opera scritta in regolari e spaziosi caratteri risalenti al IV-V secolo, cui si sovrappone la scrittura
più minuta del VII secolo del Commentario agostiniano;

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 è l’unico manoscritto del De re publica e uno dei più antichi testi in scrittura onciale (una sorta di
scrittura maiuscola corsiva).
Il Somnium Scipionis, di cui ci sono pervenuti il commento in due libri (uno di Macrobio Teodosio e l’altro di
Favonio Eulogio del v secolo d. C.) è rappresentato in numerosi codici di cui il più antico è risale al X secolo.

Abbiamo discusso la forma e il contenuto delle due opere politiche di Cicerone, il De re publica e il De
legibus.
Emarginato dalla scena politica, Cicerone approfitta dell’otium per riflettere su quale siano la forma di stato
e il tipo di leggi ideali, e le identifica nella res publica romana, in particolare in quella dell’alta e media
repubblica, nell’età degli Scipioni.

Somnium Scipionis
Mentre Cicerone scriveva il Somnium, ci si chiedeva quale delle due dittature, la cesariana o la pompeiana,
sarebbe prevalsa: si prevedeva che sarebbe prevalsa la meno moderata (quella di Cesare), quella che
richiamava ideali opposti a quelli per cui lo stesso Cicerone combatteva.
Due furono gli errori di Pompeo:
1. unirsi a Cesare
2. rompere l’alleanza (quella del triumvirato) una volta conclusa
Poco dopo la stesura del dialogo comincia a farsi strada l’idea che, da qualunque delle due parti fosse stata
la vittoria, ne sarebbe sempre uscita una tirannide.
Nel 51 a. C. Cicerone si incontra con Pompeo a Taranto, per manifestargli il suo (tiepido) appoggio e per
essere messo al corrente degli ultimi sviluppi della sua lotta con Cesare. Appoggia Pompeo perché
rappresentava gli ideali senatoriali; dovendo scegliere, e avendo un’ideologia conservatrice, si ritrovava di
più nelle idee di Pompeo. Inoltre secondo gli ideali di Cicerone, della prima Repubblica (cioè degli Scipioni),
già il fatto che ci fosse un nome-simbolo alla guida dello Stato era sbagliato, quindi non vi si poteva
ritrovare pienamente.
Cicerone approfondisce il suo pensiero politico nell’ultimo libro del De re publica, il sesto, detto Somnium
Scipionis, che ha avuto una vicenda filologica indipendente dai libri precedenti. Se gli altri libri ci sono
pervenuti in maniera frammentaria, il Somnium ci è giunto integro e separato dal resto. Esercitava
evidentemente un fascino particolare nei confronti dei copiatori medievali rispetto agli altri libri del De re
publica.
Il titolo, Somnium Scipionis, è dovuto al fatto che in questo libro uno dei partecipanti al dialogo, Scipione
Emiliano, racconta un sogno, in cui l’antenato Scipione l’Africano gli ha fatto delle rivelazioni politiche e
filosofiche.
Scipione l’Africano spiega quanto le cose terrene, anche la gloria, siano insignificanti dalla prospettiva
celeste e universale in cui egli si trova. Rivela inoltre la beatitudine eterna che attende i grandi uomini di
stato.
Nonostante faccia parte del De re publica, il Somnium Scipionis presenta degli elementi originali,
soprattutto tratti dal misticismo platonico-pitagorico, cristiano, neoplatonico.
 Argomento del De re publica  città terrena
 Argomento del Somnium  città celeste
Modelli
Platone è il modello principale del Somnium, soprattutto per alcuni dialoghi, attraverso i quali Platone
trasmette la propria concezione filosofica; secondo lui la filosofia era qualcosa a cui si arrivava attraverso un
procedimento interattivo tra maestro e discepolo, non era una verità data, ma qualcosa a cui si arrivava
piano piano con il ragionamento progressivo. Tra i dialoghi di Platone, quelli che per il loro contenuto
esercitano una maggiore influenza sul Somnium sono:
 Fedro: per la dimostrazione dell’eternità dell’anima;
 Timeo: per la dottrina delle sfere celesti;
 Fedòne: per l’identificazione della vera vita con la morte.

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Influssi pitagorici:
 credenza che la Via Lattea fosse la sede degli spiriti beati e che le anime impure soggiornassero
nell’atmosfera in attesa di nuova incarnazione; tipica del pitagorismo è l’idea della metempsicosi, la
trasmigrazione delle anime, la reincarnazione (questo influsso è presente in Platone e nel
Somnium);
 idea degli influssi astrali e dell’origine celeste dell’anima;
 simbolismo dei numeri, soprattutto del numero 7; Pitagora vedeva la matematica non come una
scienza pratica, ma dai risvolti mistici e religiosi. Tutti i grandi filosofi del passato della tradizione
greca, nonostante facessero discorsi sulla razionalità (il logos) erano anche degli “sciamani”, cioè
dei pensatori che avevano un forte legame con la magia naturalistica. Alle origini della filosofia, la
razionalità non è diversa dalla magia, anzi ci sono dei punti di contatto; Pitagora ne è uno dei
maggiori rappresentanti.
Nigidio Figulo (neopitagorismo): molto stimato da Cicerone, aveva contrapposto una dottrina spiritualistica
al materialismo epicureo. Affermava:
 una concezione panteistica dell’Universo;
 il ruolo egemonico del sole;
 l’origine ignea dell’anima umana;
 la dottrina del magnus annus (grande anno cosmico) e delle conflagrazioni che periodicamente
sconvolgono l’universo.
Spunti riconducibili ad altri autori greci:
 teoria della costituzione mista (Polibio, III secolo a.C.)
 dottrina delle cinque zone in cui è suddivisa la terra (geografo alessandrino Eratostene di Cirene)
 eco di opere giovanili di Aristotele e del filosofo Posidonio (135-50 a.C.)

Il Somnium anticipa l’eclettismo (attitudine ad accogliere spunti provenienti da diversi sistemi filosofici e a
fonderle in un sistema coerente) ciceroniano che si manifesterà compiutamente nelle opere filosofiche
tarde.

Genere del “sogno”


Il tema della visione escatologica (che guarda al fine, allo scopo) e del sogno ha una ricca tradizione
letteraria. Nella letteratura classica, grandissima importanza era riconosciuta al sogno profetico e
premonitore. Questi precedenti hanno certamente influenzato il Somnium di Cicerone. Ne ricordiamo i
principali:
In Omero i sogni sono considerati come visioni che non hanno bisogno di interpretazione, perché sono
messaggi diretti che gli dei mandano agli uomini.
Iliade, Sogno di Achille (XXIII libro)
«Patroclo, defunto, compare all’amico (Achille) con l’aspetto di un fantasma e chiede di essere sepolto.
Quando Achille tenta di abbracciarlo, il sogno svanisce»
Odissea, Sogno di Penelope (IX libro)
«Penelope narra di aver visto in sogno un’aquila calare dai monti ed uccidere una ventina di oche che
beccavano il grano nel cortile del palazzo. Penelope aveva pianto per la morte dei suoi animali. L’aquila
le aveva rivelato di essere Odisseo e che le oche rappresentavano i proci».
Eschilo, primo tragediografo greco, Sogno di Atossa (madre di Serse) (dai Persiani, vv. 180-198)
«La regina racconta di aver visto due donne vestite rispettivamente con abiti greci e persiani venire alle
mani, mentre Serse cercava di aggiogarle ad un carro. La donna greca non accettava la sottomissione,
ma lottava fino a far cadere il re».
Vi è un senso chiaramente premonitore del sogno: Serse non riuscirà a sottomettere la Grecia e sarà
sconfitto (con allusione alla II guerra persiana, 472 a. C.).
Platone, Mito di Er (Repubblica)
Er era un soldato della Panfìlia. Una volta posto sul rogo, egli tornava in vita dopo dodici giorni e raccontava
quello che aveva visto nell’aldilà. L’indagine sul sogno continuò anche in età ellenistica, quando gli stoici
difesero la possibilità che gli dei inviassero messaggi agli uomini. Al contrario, gli epicurei deridevano

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questa convinzione, e più in generale negavano ogni presupposto di una esistenza ultraterrena.

Ennio, Annales
Ennio scrive il primo poema epico in esametri a Roma, con chiara ripresa di Omero. Ennio ha diverse visioni
in quest’opera, in cui egli rappresenta tutta l’influenza che Omero ha su di lui (attraverso il sogno
rappresenta il suo retaggio culturale nei confronti di Omero). La finzione del sogno consente a Cicerone di
recuperare anche la dimensione letteraria romana, ricollegandosi al celebre sogno di Ennio, narrato nel
proemio degli Annales.
Nel I libro, Omero era apparso in sogno ad Ennio e gli aveva rivelato di essersi reincarnato in lui (secondo la
dottrina pitagorica della metempsicosi). In questo modo Ennio veniva investito come sommo poeta a Roma.
Ennio presenta un sogno profetico non solo nel proemio, ma anche all’interno della narrazione, con il sogno
di Rea Silvia:
Ilia, discendente dei Troiani (nota come Rea Silvia) sogna di vagare smarrita in luoghi sconosciuti dopo
essere stata rapita da un bell’uomo. Il sogno allude al destino della giovane che, rapita da Marte,
partorirà Romolo e Remo.
Lucrezio, De rerum natura
Secondo la credenza epicurea, Lucrezio rifiuta ogni valenza profetica del sogno, e lo collega all’esperienza
quotidiana dell’uomo, con le sue paure e speranze.
«I sogni riproducono ciò che l’uomo ha vissuto durante il giorno o raffigurano le emozioni, i desideri di
ogni persona, di ogni animale, e non vi è nulla di misterioso o soprannaturale perché l’atto della visione è
di origine fisica» (IV libro, vv. 162-1026).
La credenza del sogno di Lucrezio e degli epicurei è molto moderna: ancora oggi i sogni vengono spiegati
non come una premonizione ma come ricordi di ciò che l’uomo ha vissuto o come desideri e paure riguardo
al futuro.
Cicerone affronta la tematica del sogno anche in altre opere, quali il De divinatione.
Nel De divinatione, Cicerone propone una posizione razionalistica del sogno: il sogno non ha origine divina,
ma consiste in una sorta di rielaborazione delle esperienze vissute durante la veglia. È dunque una
posizione molto diversa da quella del Somnium.
Il topos letterario del sogno premonitore continua anche dopo Cicerone, con Virgilio, Ovidio, Lucano
etc.
Virgilio, Eneide
I libro: Didone è stata informata in sogno dell’assassinio del marito, ed è stata l’ombra stessa del
marito defunto ad invitarla a fuggire dal proprio fratello che l’aveva ucciso.
II libro: Quando i Greci si sono introdotti in città, ad Enea appare in sogno Ettore che lo incita a fuggire
e a fondare una nuova città.
Ovidio, Amores
Negli Amores (libro III) un personaggio racconta la propria visione ad un interprete di sogni.
Una candida giovenca ferita da una cornacchia abbandona il suo toro per raggiungerne altri.
Interpretazione: la donna del protagonista (il toro), sconvolta dalle lusinghe di qualcuno (la cornacchia),
tradirà il proprio uomo.
Con Ovidio il sogno premonitore viene introdotto anche nel poema elegiaco (non è più un motivo che si ha
solo nelle opere epiche, ma anche nelle poesie d’amore).
Lucano, Bellum civile (libro III)
a Pompeo, dopo che ha abbandonato per sempre l’Italia, appare in sogno la figlia di Cesare, che gli predice
sciagure e lo minaccia di seguirla nelle battaglie fino a che non saranno di nuovo riuniti.
Valerio Massimo (I secolo d. C.)
dopo la battaglia di Anzio, Ottaviano (vincitore di Antonio e di Cleopatra) si appresta a vendicarsi su quanti
hanno militato nel partito di Antonio, fra cui Cassio Parmense. Una notte appare in sogno a Cassio una
gigantesca figura nera che gli rivela il tragico destino che l’aspetta.
Nel Somnium Scipionis, Scipione l’Africano rivela al suo discendente Scipione Emiliano la superiorità delle
cose celesti rispetto a quelle terrene. Il suo è un invito alla vita contemplativa.
Esortazioni espresse dall’Africano:
“Contempla sempre queste cose celesti. Non darti pensiero di quelle umane”

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I personaggi
 Publio Cornelio Scipione Emiliano:
 adottato da Lucio Emilio Paolo (vincitore nella battaglia di Pidna nel 168 a.C.);
 figlio di Publio Cornelio Scipione l’Africano (vincitore di Annibale a Zama nel 202 a. C.);
 assunse il nome della gens Cornelia.
Ha tutti i requisiti per appartenere ad una delle famiglie più nobili della società romana.
 A 17 anni, nella battaglia del Ticino, ebbe il primo scontro contro Annibale, sconfitto nel 212 a.
C.;
 211 a. C.: conduce al posto del padre l’operazione militare in Spagna contro i Cartaginesi;
 205 a. C.: viene eletto console;
 183 a. C.: muore.
Scipione Emiliano compì una straordinaria carriera politica e militare (cursus honorum, percorso
degli onori, cioè l’insieme delle cariche pubbliche ricoperte; nella società romana, per i personaggi
nobili che volevano intraprendere la carriera politica, c’era un percorso definito che culminava con
la carica di console):
 151 a.C. - tribuno militare
 150 a.C. - legale del console Lucullo
 149 a.C. - capo della IV legione con il console Manilio durante la terza guerra punica
 147 a.C. - carica di console/conduce la guerra contro Cartagine
 142 a.C. - censore
 134 a.C. - secondo consolato/sconfigge i Celtiberi in Spagna
 133 a.C. - distrugge Numanzia
 132 a.C. - ottiene gli appellativi di Africano Minore e Numantino
La politica interna di Scipione Emiliano
 133 a. C.: a Roma viene approvata la legge agraria di Tiberio Gracco.
 L’Emiliano, tornato a Roma, fu il leader della posizione antigraccana e riuscì a fermare
momentaneamente l’attivazione della legge agraria (la sua opinione nei confronti di Tiberio
Gracco risulta dai due brevi frammenti dell’orazione tramandata da Macrobio e dal giudizio che
egli aveva chiaramente espresso parlando nel 131 a.C. contro la lex Papiria).
 La sua posizione gli valse l’odio popolare (il popolo appoggiava i Gracchi). Fu trovato morto nel
suo letto una mattina del 129 a.C. Stringeva ancora tra le mani una tavoletta con annotati i punti
di un discorso che quel giorno stesso avrebbe pronunciato in Senato contro alcune proposte di
legge avanzate dai sostenitori di Gaio Gracco.
Circolarono varie versioni sulla morte di Scipione l’Emiliano:
– alcuni accusavano i fautori del partito graccano;
– altri parlavano di decesso naturale;
– altri ancora pensarono ad un suicidio, motivato dall’impossibilità di mantenere le promesse fatte
agli alleati italici. Scipione Emiliano si opponeva ai Gracchi perché appoggiavano la plebe romana
e volevano una ridistribuzione dell’ager publicus a favore del popolo di Roma, mentre l’Emiliano
aveva a cuore gli interessi degli alleati italici, gli abitanti di altre zone dell’Italia che tuttavia
potevano appartenere anche a ceti non popolari. Disprezzava la plebe romana e ammirava gli
italici; aveva infatti paura che la ridistribuzione dell’ager publicus significasse togliere la terra agli
italici. A questo si opponeva l’Emiliano.
Cicerone, nel Somnium, attribuisce la causa ai parenti, in particolare alla moglie Sempronia (sorella
di Gaio Gracco e di Tiberio Gracco), che avrebbe agito con la complicità della madre Cornelia e del
fratello Gaio. In altri passi delle sue opere accoglie la tesi dell’assassinio politico.
 Lucio Emilio Paolo
 figlio del console Emilio Paolo;
 vincitore di Pèrseo, ultimo re di Macedonia;
 nonostante la gloria ottenuta e l’immenso bottino di guerra, visse sempre in dignitosa povertà.

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Per Cicerone rappresentava un ideale non solo di generale vittorioso, ma anche di uno stile di vita
sobrio, parco, rappresentante dell’alta repubblica.
Modus dicendi
Il Somnium Scipionis si distingue per la cura che lo scrittore pone nell’adeguare la lingua e lo stile all’altezza
del tema. Nella tradizione retorica classica, lo stile (verba) si doveva adeguare alla materia (res). I tratti
significativi della poeticità arcaizzante del Somnium sono:
 vocaboli arcaici
 nessi sinonimici
 variatio sintattica
 ampie perifrasi
 costrutto causale con de
 Grai per Greci
È un’elocutio che imita il modo di parlare arcaico. Il fatto che l’oggetto dell’opera sia un dialogo
avvenuto tra personaggi dell’alta repubblica ha ripercussioni sullo stile, perché di quel periodo egli
vuole riprodurre anche il modo di parlare.

Il Somnium Scipionis, sesto libro del De re publica, ha avuto sempre un successo e una trasmissione
filologica indipendente dal resto dell’opera. Nel Somnium, Scipione Emiliano racconta le rivelazioni
avute dal suo antenato Scipione Africano: le vicende umane sono ben poca cosa rispetto a quelle
celesti, e tuttavia i grandi statisti avranno la beatitudine eterna. In questa prospettiva Cicerone si
mostra più distaccato dalla vita politica del tempo, e si osserva quindi un’evoluzione rispetto all’attività
delle prime opere, soprattutto oratorie.

OPERA FILOSOFICA
La filosofia fa ingresso a Roma ben prima di Cicerone, nel 155 a. C., con l’ambasceria di Carneade, Diògene
e Critolào, filosofi scettici inviati da Atene per chiedere il condono di una multa: i tre filosofi tenevano
conferenza nel Foro, destando da una parte ammirazione e curiosità, ma dall’altra anche sconcerto di
fronte alle loro opinioni. Essi furono espulsi e rispediti in patria.
Fra le varie filosofie greche, fu soprattutto l’epicureismo ad essere colpito da intolleranza e sospetto a
Roma:
i maggiori rappresentanti dell’epicureismo romano del I secolo a. C., Cassio Rabirio e Rafirio, erano figure
disprezzate da Cicerone.
Cicerone nutrì sempre un profondo interesse per la filosofia, che secondo lui doveva far parte del bagaglio
culturale anche di un buon oratore e uomo politico. Nell’oratoria pre-ciceroniana c’erano due correnti
principali: da una parte quella di Marco Antonio, nonno del triumviro, secondo il quale un buon oratore
doveva avere una concezione tecnicistica della materia (conoscere i fatti ed esporli in maniera chiara, senza
dare importanza ai modelli greci e all’elocutio); dall’altra parte c’era Marco Licinio Crasso, secondo il quale
anche l’uomo politico doveva avere profonde conoscenze letterarie, che gli davano una visione umanistic
d’insieme importante anche per l’attività oratoria. Cicerone propendeva per la parte di Crasso, tuttavia si
dedicò alla composizione di opere filosofiche solo in periodi limitati di emarginazione politica, dopo il
ritorno dall’esilio.
Gli obiettivi di Cicerone nelle opere filosofiche erano:
 cercare nella filosofia un conforto alle proprie amarezze personali (nel 45 a.C. era anche morta la
figlia Tullia);
 divulgare a Roma la filosofia greca;
 creare una letteratura filosofica in lingua latina;
 saldare retorica e filosofia nell’educazione dell’oratore, fornendo così le basi per una conciliazione
fra prassi politica e teoria filosofica.
Le prime opere filosofiche di Cicerone sono di argomento etico (riguardante la morale) o gnoseologico
(concernente la conoscenza).

Eclettismo ciceroniano

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Cicerone ha un atteggiamento antidogmatico nei confronti della filosofia greca. Non solo ha una profonda
padronanza di tutte le correnti del pensiero filosofico greco, ma ispira la propria visione della filosofia a
orientamenti differenti. Fra i vari orientamenti un posto predominante spetta allo stoicismo (per il senso
del dovere e dello stato, l’impegno civile, il rigore morale).
Ma spiccano anche altri modelli, quali:
 Platone (struttura a dialogo, misticismo);
 Aristotele (importanza della logica nell’argomentazione, integrazione delle varie opinioni in un
sistema coerente).
Viene invece escluso l’epicureismo, criticato perché allontanava l’uomo dagli impegni di Stato.
Paradoxa Stoicorum (I paradossi degli stoici)
Sono la prima opera filosofica di Cicerone, composta nel 46 a. C., in cui egli riassume vari assunti dello
stoicismo, soffermandosi in particolare su quelli che più sono in contrasto con la morale comune (“i
paradossi degli Stoici”, come dice il titolo).

Academica (Le opere accademiche)


L’opera ha due versioni:
1. una prima, detta Academica priora
2. una seconda, detta Academica posteriora
Entrambe le versioni risalgono al 45 a. C., l’anno della morte della figlia di Cicerone, Tullia. L’opera ci è
giunta in maniera frammentaria.
Affrontano il problema della conoscenza (tema gnoseologico). Ci si chiede:
 se la verità si doveva trovare al di là delle apparenze (come sostenevano gli stoici e i platonici);
 oppure se la verità non si poteva in alcun modo conoscere (secondo lo scetticismo).
La risposta di Cicerone è che ci si può solo avvicinare al vero, mediante un calcolo delle probabilità. È
questa una posizione intermedia rispetto alle due suddette ipotesi, e segue la strada del probabilismo
accademico.

DE FINIBUS BONORUM ET MALORUM (Dei confini dei beni e dei mali)


Opera risalente al 45 a. C., affronta un problema etico, quello “del sommo bene e del sommo male”.
È diviso in cinque libri, e comprende tre dialoghi, dedicati alla discussione di tre teorie filosofiche principali:
 l’epicureismo (primo dialogo, libri I-II);
 lo stoicismo (secondo dialogo, libri III-IV);
 l’eclettismo (terzo dialogo, libro V).
Si parte dalla corrente filosofica più lontana e ci si muove verso quella più vicina per poi proporre una
visione propria, l’eclettismo.
Primo dialogo: l’epicureismo
Alla discussione delle tesi epicuree segue la forte confutazione di Cicerone.
Si rimprovera all’epicureismo il fatto di:
 spingere l’uomo a disinteressarsi della cosa pubblica;
 mettere in discussione la religione tradizionale.
Tutto ciò rappresenta per Cicerone un pericolo per la stabilità dello stato romano e delle sue
conquiste.
In un’epoca di lotte intestine, è soprattutto necessario rimanere uniti e ancorati alle istituzioni. La
tradizione etica e religiosa del mos maiorum rappresenta per Cicerone il principale motivo di unione.
Secondo dialogo: lo stoicismo
Cicerone è più aperto alle dottrine stoiche, di cui ammira il forte senso di responsabilità verso le
istituzioni e il rispetto delle tradizioni romane.
Tuttavia egli non accetta lo stoicismo in toto, e anzi si mostra piuttosto perplesso nei confronti di
alcuni atteggiamenti stoici come quello di Catone l’Uticense, che si era suicidato per un rifiuto assoluto
di Cesare.

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Secondo Cicerone il comportamento di Catone l’Uticense era anacronistico. Con le grandi conquiste
erano cambiati anche i costumi, e occorreva essere talvolta più aperti e moderare il proprio rigore
morale.
Terzo dialogo: l’eclettismo
Cicerone espone le teorie eclettiche di Antìoco di Ascalona, che era stato suo maestro, e per il quale
dimostra la propria approvazione.
Secondo Antioco e Cicerone occorreva attingere a diverse correnti di pensiero (ovviamente a parte gli
epicurei). Eclettismo, infatti, deriva dal greco eklektós “scelto, selezionato”.
Con il terzo dialogo il De finibus si rivela un’opera aporetica, priva cioè di una precisa conclusione, perché
oscilla verso posizioni ora più scettiche, ora più rigorose. Ancora una volta si sente l’influsso della teoria
probabilistica degli accademici.

TUSCULANAE DISPUTATIONES (Le discussioni di Tuscolo)


Opera in cinque libri risalente al 45 a. C.
Il titolo deriva dall’ambientazione a Tuscolo, cittadina laziale, nella villa di Cicerone.
È apparentemente un dialogo, ma l’interlocutore di Cicerone è un personaggio anonimo, per cui di fatto si
tratta di un monologo interiore.
Sono l’opera più vicina allo stoicismo ortodosso.
Affronta tutti i temi classici dell’etica antica, quali:
 la tristezza, il dolore, la morte;
 la virtù;
 la felicità.
Alcuni di questi temi erano particolarmente sentiti da Cicerone, che proprio nel 45 a.C. aveva perso la
figlia Tullia. Ciò determina una grande partecipazione dell’autore, nonostante l’intento di trattare i
temi filosofici con obiettività e rigore logico.
Seneca e Marco Aurelio sono due tra gli innumerevoli intellettuali stoici dell’antichità greco-romana. A
Roma gli intellettuali erano per la maggior parte stoici, proprio per il fatto che lo stoicismo proponeva
un modello di vita e di virtù che teneva in grande considerazione lo stato e il dovere verso le
istituzioni.
Cicerone si chiede come può l’uomo affrontare i mali della vita e nonostante tutto raggiungere la felicità. La
sua risposta è che soltanto la virtù del saggio può garantire la felicità. Solo la virtus e la sapientia possono
dare il giusto peso alle cose e far capire ciò che è veramente importante. La felicità viene identificata con la
libertà interiore, intesa anche come liberazione dai dolori.
Nelle Tusculanae Disputationes Cicerone ricorda che la Grecia ha raggiunto un grande successo nelle
discipline matematiche, ma che l’oratoria latina ha eguagliato e forse superato quella greca.
Rivendica quindi l’importanza della tradizione culturale prettamente romana.

Le prime opere filosofiche di Cicerone, in particolare Paradoxa Stoicorum, Academica, De finibus bonorum
et malorum, Tusculanae disputationes, sono state composte nel 46 e 45 a. C., un periodo che per Cicerone è
caratterizzato dall’emarginazione politica e da sofferenze personali e che tuttavia si riflette in una grande
fertilità artistica. Cicerone non si identifica in una precisa corrente filosofica, ma sostiene l’eclettismo.
Le differenti fonti filosofiche, tuttavia, non stanno tutte sullo stesso piano per Cicerone: lo stoicismo è il
pensiero a lui più vicino, l’epicureismo è quello da lui più lontano.

Le ultime opere filosofiche di Cicerone sono state scritte nel biennio 45-44 a. C., quando Cicerone era stato
costretto all’inattività politica dal crescente potere dei cesariani.
Visto che non c’era spazio per lui sulla scena di Roma, Cicerone si rifugia nell’ otium e nella scrittura di opere
filosofiche, politiche e retoriche.
Nelle opere filosofiche, in particolare, Cicerone cerca di trovare una soluzione ai drammi più profondi
dell’uomo.
 Nelle prime opere di Cicerone la filosofia è subordinata all’oratoria. Essa deve far parte del bagaglio
dell’oratore perché egli possa avere più successo nell’arte della persuasione.

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 Nelle sue ultime opere, invece, Cicerone riformula il rapporto fra retorica e filosofia: adesso la
filosofia acquista una posizione di primo rango fra le artes liberali, cioè fra le discipline umanistiche.
Le ultime opere filosofiche di Cicerone affrontano tematiche religiose (De natura deorum, De fato,
De divinatione) o etiche (De officiis).
Vi sono inoltre degli studi dedicati a temi specifici, quali la vecchiaia (Cato Maior de senectute) e
l’amicizia (Laelius de amicizia).

OPERE DI FILOSOFIA RELIGIOSA


Le opere filosofiche che affrontano tematiche specificamente religiose sono tre dialoghi: il De natura
deorum (45 a. C.), il De fato (44 a. C.) e il De divinatione (44 a. C.).
In questi dialoghi Cicerone ha un atteggiamento ambiguo verso la religione, perché:
 da una parte contesta l’assurdità di certe pratiche divinatorie, che talora sono manifestazioni
di superstizione (in accordo con gli scettici);
 dall’altra teme le gravi ripercussioni che l’incredulità potrebbe avere sulla religione romana (in
accordo con gli stoici).
Secondo Cicerone la religione tradizionale può essere discutibile agli occhi di un filosofo, ma deve ad
ogni costo essere salvata per fini politici, perché garantisce l’unità e la compattezza della res publica.

OPERE DI FILOSOFIA ETICA


De offìciis
Con il De officiis (“sui doveri”) Cicerone opta per il genere letterario del trattato, anziché del dialogo, e lo
divide in tre libri:
1. il primo libro è dedicato all’honestum;
2. il secondo libro è dedicato all’utile;
3. il terzo libro è dedicato al rapporto fra honestum e utile.
La fonte principale dei primi due libri è Panezio di Rodi, che aveva scritto un trattato dal titolo “sul
conveniente”. Per il terzo libro vi sono invece fonti variegate.
Nel De officiis Cicerone ha un progetto ambizioso: cercare nella filosofia, e in particolare nella filosofia
stoica, le basi per rigenerare la nuova classe dirigente di Roma.
Il modello a cui attingere è ancora lo stoicismo, ma questa volta il riferimento diretto a Panezio vuole
presentare una versione più moderata di questa filosofia.
Cicerone rifiuta l’eccessivo rigore morale di chi cerca di sopprimere gli istinti in nome della ragione e della
virtù. Per Panezio, infatti, gli istinti non sono di per sé negativi, e vanno solo controllati adeguatamente,
non soppressi.
Cicerone propone quelle che per Panezio di Rodi erano le principali virtù, fra le quali spiccano:
1. Socialità
Questa virtù consiste nella combinazione di altre due virtù, giustizia e beneficenza, e regola il vivere
dell’individuo nella società.
Tradizionalmente la beneficenza era intesa come un far del bene agli altri per ottenerne in cambio
onori o appoggi personali (il classico do ut des). Cicerone, invece, sostiene che la vera beneficenza
non deve essere posta al servizio delle ambizioni personali.
2. Magnanimità
La magnitudo animi (grandezza dell’animo) è basata sul naturale istinto a primeggiare sugli altri. È
una virtù che l’intero popolo romano ha mostrato di avere, e che i ceti dirigenti esercitano
all’interno dello stato romano (questo secondo Cicerone).
D’altra parte, si ha una vera grandezza d’animo solo quando l’ambizione a primeggiare è volta al
benessere della comunità. Essa deve essere accompagnata dal disprezzo per i beni materiali e per
gli onori personali, altrimenti dalla grandezza d’animo si passa facilmente alla tirannide.
3. Temperanza
È la virtù che deve regolare gli istinti con la razionalità. Se la necessità di frenare gli istinti è comune
a tutto lo stoicismo, non altrettanto comune è l’idea che vi debba essere un compromesso fra
ragione e istinto.

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La temperanza rappresenta l’ideale di armonia e di conciliazione che Cicerone propone anche a
livello politico e sociale.
Sulla base di queste virtù generali, ognuno deve poi regolare il suo comportamento tenendo conto delle
proprie attitudini e qualità particolari. Il De officiis presenta una minuziosa casistica del decorum, ossia di
ciò che “è conveniente” (decet) fare nelle più svariate circostanze.

OPERE FILOSOFICHE SU TEMI SPECIFICI


Abbiamo due dialoghi, entrambi composti nel 44 a. C. ed entrambi dedicati ad Attico, l’amico di lunga data
di Cicerone. Sono le uniche opere filosofiche con un soggetto specifico. Secondo l’idea di homo universalis
di Cicerone, infatti, un’opera filosofica doveva affrontare molte tematiche ed evitare la specializzazione.
Possiamo intendere le due opere come due sperimentazioni.
 Cato Maior de senectute (Catone il vecchio sulla vecchiaia)
Come emerge dal titolo, questo dialogo ha come tema la vecchiaia, e prende Catone il Censore
come modello di vecchiaia ben vissuta.
Cicerone contesta l’idea negativa di vecchiaia come perdita di forze. Nella vecchiaia si può invece
realizzare la conciliazione fra l’otium (ossia il tempo libero dedito alla lettura e alla scrittura) e
l’impegno politico. Tale conciliazione rappresenta anche l’obiettivo di Cicerone, che fa di Catone il
Censore il proprio portavoce.
 Laelius de amicitia (Lelio sull’amicizia)
Il dialogo ha come tema l’amicizia, e il suo protagonista è Lelio, l’amico degli Scipioni.
Cicerone afferma che l’amicizia era sempre stata per i Romani un mezzo per acquisire appoggi
politici. Una tale visione era soprattutto accentuata nell’epicureismo, per cui l’amicizia era fondata
sull’utile.
Cicerone rifiuta questa visione clientelare dell’amicizia, e cerca di presentarla come un rapporto
sincero, basato sulla probitas “onestà” e sulla virtus.
Il sentimento puro dell’amicizia è rivolto ai boni cives. Cicerone cerca di dare insegnamenti morali
alla nuova classe dirigente.
L’atmosfera relativamente più serena del De amicitia è probabilmente dovuta al fatto che l’opera è
stata scritta dopo la morte di Cesare, quando Cicerone vedeva con speranza la possibilità di un
rientro in politica.
Proporre l’amicizia come una virtù significava auspicare una conciliazione nazionale, il superamento
delle lotte intestine, il rafforzamento dei legami all’interno della classe aristocratica.

Modus dicendi
Il problema della lingua e dello stile è soprattutto evidente nelle opere filosofiche di Cicerone, dove egli ha
dovuto trovare una terminologia adeguata per rendere i termini greci.
L’opzione di Cicerone era essenzialmente puristica, intesa ad evitare il grecismo. Da ciò deriva una costante
sperimentazione nella traduzione di termini greci, che porta alla creazione di un lessico astratto (es.
qualitas, quantitas, essentia, tutti termini creati da Cicerone) destinato a divenire patrimonio della
tradizione culturale europea.
Nella creazione di un lessico filosofico latino, Cicerone evita in genere volgarismi ed arcaismi. Alla purezza
linguistica si unisce la ricchezza del lessico.
A livello sintattico Cicerone predilige la frase complessa, la sola che può riflettere le tappe di un pensiero
filosofico articolato. Il contributo più importante dato da Cicerone alla prosa europea è proprio la creazione
di un periodo sintattico complesso e armonioso, fondato sull’equilibrio e sulla rispondenza delle parti.
Secondo modelli greci quali Isocrate e Demostene, le frasi di Cicerone sono organizzate in ampie unità, che
manifestano un’accurata ed esplicita subordinazione delle varie parti rispetto al concetto principale.
L’ipotassi prevale sulla paratassi. Da ciò scaturiscono periodi lunghi, ma sempre chiari e ben ordinati
logicamente. Vengono eliminate le incoerenze della costruzione, gli anacoluti, la constructio ad sensum.
Lo stile è caratterizzato dalla varietà dei toni e dei registri. Cicerone adopera ciascuna delle tre gradazioni
del sermo (cioè del discorso: umile, medio, sublime) a seconda delle esigenze discorsive corrispondenti

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(probare, dimostrare, delectare, dilettare, flectere, persuadère).
La disposizione verbale rispetta sempre accuratamente il numerus, ossia la sonorità, il ritmo giusto, in
modo che i pensieri gravi abbiano un andamento solenne e quelli piani abbiano un andamento più
familiare.
Nonostante scriva in prosa, usa spesso sequenze metriche per raggiungere una più piacevole sonorità,
soprattutto nella clausola, la parte finale del discorso, quella che maggiormente resta impressa
all’ascoltatore.

Le ultime opere filosofiche di Cicerone, De natura deorum, De fato, De divinatione, De officiis, De senectute
e De amicitia, sono state composte nel 45-44 a. C., quando Cicerone si trova ai margini della scena politica e
tuttavia intravede, dopo la morte di Cesare, la speranza di una possibile ripresa dell’attività (speranza che
sarà presto delusa perché Cicerone verrà nuovamente emarginato, tradito da Ottaviano (che vende la sua
testa in cambio dell’alleanza con Marco Antonio) e ucciso. Nelle opere filosofiche Cicerone crea un lessico
filosofico in lingua latina, composto soprattutto da termini astratti. La sua prosa complessa e
armoniosa verrà imitata nei secoli successivi, e sarà tipica dello stile delle lingue romanze. Cicerone era
tra gli autori che più venivano copiati nel Medioevo, preso a modello nella composizione in latino e,
pertanto, le lingue romanze a livello scritto riflettono spesso lo stile ciceroniano, che emerge subito al
confronto tra una lingua letteraria romanza e una lingua letteraria germanica, che è molto più
stringata nella costruzione.

Riassunti di Stefania Chiarella

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Videolezione

La nascita della letteratura in lingua latina e rapporti con la produzione letteraria greca
La nascita della letteratura latina a Roma avviene contemporaneamente al generale processo di
ellenizzazione della cultura latina (particolarmente intenso nel III secolo a. C.).
I motivi di questa ellenizzazione della cultura romana:
 Estensione dell’egemonia romana in Grecia;
 Maggiori contatti con il mondo greco per motivi politici, commerciali, militari, amministrativi;
 Necessità concreta di apprendere la lingua greca;
 Intenso flusso di Greci a Roma.
Prima si imparava la lingua greca, poi la letteratura
Le prime scuole pubbliche nate a Roma verso la metà del III secolo erano gestite da grammatici di
origine greca. Il primo grammatico a Roma fu Livio Andronico, un liberto (schiavo affrancato)
originario di Taranto. Egli impartisce lezioni di greco e latino, insegnando agli alunni le letterature in
lingue diverse (per letteratura latina si intende “origine della letteratura latina”). Fu Livio ad
inaugurare ufficialmente la letteratura latina nel 240 a.C. mettendo in scena una fabula, un dramma di
autore greco scritta in latino.
La letteratura latina nasce all’insegna dell’imitazione di quella greca. L’acculturazione è resa possibile
dall’incontro di due civiltà dotate di culture molto simili. I romani seppero anche comprendere la
superiorità morale e civile dei greci e, se da una parte assistiamo ad un processo di conquista,
dall’altro abbiamo un processo di appropriazione culturale e di assimilazione del patrimonio.
Il rapporto tra i romani e greci è inizialmente ambivalente: c’è un fastidio nei confronti dei greci ma
anche ammirazione e interesse. Da un passo del Curculio di Plauto si evince che tra il III e il II secolo
a.C. c’è insofferenza verso i greci, considerati dei perdigiorno, in contrapposizione con il mos maiorum,
improntato ai valori tradizionali. I romani sono sospettosi verso la letteratura di importazione (da una
parte c’è un rifiuto, dall’altra interesse e curiosità).
L’atteggiamento cambia con Cicerone, che afferma la superiorità dei romani sui greci per quanto
riguarda i costumi (mores) ma ne riconosce comunque delle qualità. Ammette che all’inizio c’è un
terreno fertile per l’acculturazione della romanità. Cicerone spiega che a Roma la poesia si era
affermata in ritardo perché, diversamente dai Greci, i romani dell’antichità avevano assegnato alle arti
un valore marginale. La poesia latina, infatti, dipende dal modello di quella greca.
Troviamo le tracce di un cambiamento radicale in un’epistola di Orazio, dove viene riconosciuta
l’importanza decisiva dell’influsso greco; egli scrive che la Grecia conquistata sul piano politico e
militare conquistò a sua volta sul piano culturale il vincitore rozzo e introdusse le arti in una zona
agreste. Dal III secolo a.C. in poi i romani recepiscono dai greci i modelli delle arti figurative, delle
scienze, della filosofia e della letteratura.

I generi letterari fino all’età repubblicana


 Poesia
Tradizionalmente la poesia è ritenuta una forma letteraria pratica e utilitaristica utilizzata da

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letterati di professione sotto il controllo del potere politico.
 Genere epico (Livio Andronico, Nevio, Ennio, Lucrezio -poesia epico-didascalica-)
Ha intenti nazionalistici, patriottici e celebrativi di Roma, rivolta a determinate famiglie
aristocratiche o a personaggi dell’aristocrazia.
 Genere drammatico (teatro) (Livio Andronico, Nevio, Ennio, Plauto, Terenzio)
o Commedia
o Tragedia
Il teatro invece è praticato da professionisti di condizione sociale bassa e umile, ed è
gestito ed organizzato dallo Stato.
 Elegia ed epigramma (poeti neoterici e Catullo)
 Satira (Lucilio)

 Prosa
 Storiografia (Catone, Sallustio, Cesare)
 Oratoria (Cicerone)
Sono generi letterari strettamente connessi alla vita politica e coltivati da uomini di politica,
ricchi e influenti e fortemente radicati ai mores maiorum, cioè alle basi culturali e civili di
questa produzione letteraria.
Catone è un aristocratico oratore e storiografo, che impiegò la letteratura per usi celebrativi e
pratico utilitaristici (es. il De agri cultura, che è prosa scientifica).
Cesare è un uomo politico che utilizzò la storiografia per celebrare Roma e soprattutto il
proprio operato.
Sallustio è un aristocratico che si dedicò alla storiografia dopo aver dedicato tutta la sua vita
alla politica.
Cicerone è uno dei principali esponenti della politica romana dell’età repubblicana: la sua
eterogenea attività è espressione massima del connubio esemplare fra impegno civico e uso
della letteratura.
 Prosa scientifica o manualistica (Catone)
 Prosa epistolare (Cicerone)

L’epica
Quando si parla degli esordi della letteratura latina, si deve inevitabilmente trattare dell’opera di Livio
Andronico, Nevio ed Ennio. Spesso l’argomento è trattato in maniera superficiale, eppure parliamo di
testi importantissimi.
 È fondamentale sottolineare l’importanza di questa produzione, anche e soprattutto in virtù
della centralità del genere epico all’interno di tutta la produzione letteraria latina (alle origini,
in età repubblicana, in età augustea e post-augustea; pensiamo a Virgilio e all’Eneide)
 Studiare questi autori significa anche conoscere il genere principe della letteratura latina in
ambito poetico: l’epos
 Caratteristiche fondamentali dell’epica, genere encomiastico, propagandistico e celebrativo
 Partendo dagli Annales di Ennio (ma secondo una tendenza già presente in Nevio), dobbiamo
considerare i contenuti morali ed ideali dell’epica, che comincia ad essere considerata non solo
come racconto di gesta, ma anche come racconto di exempla di comportamenti e di valori
culturali
 I modelli sono quelli dell’epica greca; così come i poemi omerici erano depositari di valori etici
e tradizioni universali per l’uomo greco, i primi poemi epici romani tentano di offrire la
medesima poesia formativa
Siamo ancora alle origini della poesia epica, per cui un autore come Ennio deve essere analizzato in
quanto autore sperimentale, con uno stile innovatore.
Cosa analizzare dello stile di Ennio:
 Grecismi
 Metrica greca

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 Stile allitterante
 Sperimentalismo stilistico inserito all’interno della classicità dell’esametro
 Caratteristiche dell’esametro e della lingua
Ennio rappresenta un modello esemplare per l’epoca posteriore (per stile e contenuto).
L’epica celebrativa a tema storico inaugurata da Ennio sarà un genere praticato per tutta l’età
augustea (Virgilio, Ovidio), l’epoca imperiale successiva (Lucano, Stazio, Valerio Flacco) fino alla
produzione tardo-antica.
Il genere epico seppe sempre rinnovarsi e trovare nuove tematiche adatte ad essere narrate dalla
musicalità dell’esametro.
Dopo l’Eneide, la poesia epica si fissò indissolubilmente come la forma di celebrazione del concetto di
potere.

Considerando la suddivisione dei generi letterari e gli autori di cui il corso tratta, dovendo illustrare la
produzione letteraria di un determinato autore, è necessario innanzitutto:
o Contestualizzarlo cronologicamente
o Conoscere tutta la produzione di un autore, nel caso in cui si sia dedicato a più di un genere
letterario
o Illustrare contenuti e temi delle singole opere
o Individuare il preciso genere letterario di appartenenza
o Essere in grado di descrivere forma, stile e linguaggio delle opere

Esempio (articolazione di una risposta esaustiva su diversi aspetti): Sallustio, autore di prosa
 Attivo in età repubblicana (86/34 a.C.): cenni storico-biografici
 Contenuti delle due opere di Sallustio
 Opera storiografica di impianto monografico: spiegare e motivare la scelta monografica;
contenuti e ideologia dell’opera; metodologia storica impiegata
 Stile della prosa di Sallustio e le caratteristiche linguistiche: leggere almeno un passo in prosa
Esempio: Catullo, autore di poesia
Se si chiede di illustrare l’opera letteraria di Catullo, non è sufficiente descrivere solamente la storia
d’amore tra Catullo e Lesbia.
 Attivo in età repubblicana (86/34 a.C.): cenni storico-biografici
 Contenuto di tutto il liber catulliano (non solo cenni relativi alla storia d’amore con Lesbia, ma
anche i contenuti di nugae, carmina docta ed epigrammi)
 Descrizione della forma e delle caratteristiche del distico elegiaco e degli altri versi impiegati
(soprattutto l’esametro), e della tendenza stilistica alla ricerca del labor limae (tipico della
poesia neoterica e comune alla poesia di età ellenistica), plurilinguismo stilistico catulliano
 Sapere se all’interno del componimento ci sono rime e figure di suono
 Riconoscere la struttura circolare del componimento
 Individuare preziosismi linguistici nel lessico di Catullo
 Se possibile conoscerne la traduzione o quantomeno individuarne il contenuto:
 Sezione del liber;
 Storia d’amore con Lesbia (la vita attraverso il filtro letterario)
 Significato del componimento (perché rivolgersi a se stesso, il rimpianto di giorni felici,
tematiche come il foedus ecc.)

Per essere preparati alla prova d’esame bisogna:


o Distinguere i generi letterari ed essere in grado di descrivere contenuti e forma dei testi
studiati a lezione
o Comprendere l’importanza della poesia epica all’interno della produzione letteraria in lingua
latina, studiando con attenzione la poesia di Ennio, Nevio e Livio Andronico
o Saper illustrare le differenze formali di un testo in prosa e un testo in poesia, in accordo alle
esigenze del contenuto specifico dell’opera

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