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Letteratura latina
Capitolo 1. Le origini.
Con l'espressione età preletteraria latina si indica comunemente quella fase della storia della letteratura
latina che va dalla fondazione di Roma all'avvento della fase letteraria propriamente detta, il cui inizio suole
essere identificato con la rappresentazione nel 240 a.C. del primo dramma teatrale scritto in lingua latina,
per opera di Livio Andronico.
Durante tale periodo, cui corrispondono l'età regia e la prima età repubblicana, Roma, il cui nucleo
originario era formato da abitanti di stirpe latina, ebbe modo di accogliere le influenze provenienti dagli
altri popoli della penisola italica con cui ebbe contatti, quali gli Etruschi, i Sabini, gli Osci e i coloni della
Magna Grecia. Poté dunque svilupparsi una fiorente produzione di testi a prevalente carattere orale, privi
di finalità letteraria. Nel 240 a.C. Livio Andronico, liberto di stirpe greca, fece rappresentare la prima vera
opera teatrale della latinità. Il motivo principale secondo cui la letteratura latina nacque solo cinquecento
anni dopo la fondazione della città, risiederebbe nel fatto che Roma rimase per molti secoli un piccolo stato
agricolo, fondato su un'aristocrazia di piccoli proprietari terrieri in una società altamente militarizzata. Le
continue guerre per il dominio di nuovi territori, mal si conciliava, infatti, con lo sviluppo della fantasia e la
creatività letteraria. Il fatto poi che, sotto i Tarquini, Roma abbia avuto un periodo di relativo splendore ed
espansione economico-commerciale, proprio perché erano sovrani etruschi, non favorì di certo una cultura
latina originale. La letteratura latina poté, pertanto, nascere solo quando Roma ebbe il sopravvento
sull'intera Italia peninsulare, e quindi su molte città della Magna Grecia, che furono inglobate insieme alla
loro cultura ellenistica (vedi guerre pirriche). In effetti le forme della letteratura latina sono per la maggior
parte derivate da quella greca. Ciò non significa che la letteratura latina non riuscì, col tempo, ad affermare
una sua propria originalità, certamente partendo da una prima fase di imitazione di quanto i Greci erano
riusciti a costruire in secoli della loro storia. Vero è anche che la letteratura latina fu influenzata non solo
dai Greci del sud della penisola italica, ma anche dagli Etruschi (a nord), che dominarono Roma per almeno
un secolo. Questi ultimi, influenzarono enormemente la città latina, soprattutto nella concezione religiosa,
ossessionati com'erano dal pensiero della morte, dall'oltretomba,immaginato con caratteri assai
spaventosi, oltreché dall'arte degli aruspici e degli auguri.
La lingua latina, appartenente al ceppo occidentale delle lingue indoeuropee, nacque come parlata
regionale del Latium, ma si estese poi alle terre sotto il dominio di Roma, arricchendosi tramite gli influssi
italici, etruschi e greci. L'alfabeto latino, che iniziò a diffondersi attorno al VII secolo a. C., come
testimoniano le iscrizioni ritrovate su alcuni oggetti di uso quotidiano o su lastre di pietra, fu infatti derivato
da quello greco di Cuma tramite la mediazione degli Etruschi; la scrittura, inizialmente da destra verso
sinistra, assunse gradualmente andamento bustrofedico, per poi divenire definitivamente orientata da
sinistra verso destra.
Tra VII e VI secolo a.C., sotto il regno dei Tarquini, la diffusione della scrittura conobbe un forte impulso;
Roma tuttavia rimase fino alla fine dell'età regia sostanzialmente bilingue, con la coesistenza della lingua
etrusca accanto al latino. È attestata, attorno al IV secolo a.C., la presenza nell'Urbe di scribae professionisti,
al servizio dei magistrati incaricati dell'amministrazione statale; contemporaneamente, la lingua latina era
adoperata per scopi di natura giuridica o sacrale, seppure non esistesse una reale cultura letteraria.
Caratteristica di tale lingua, ancora instabile sul piano della grafia, era la sintassi semplice ed elementare,
prevalentemente paratattica. L'origine dei vocaboli, talvolta derivati direttamente dalle lingue dei popoli
limitrofi, era quella rurale e agreste; solo nel III secolo a.C., tramite il contatto con la letteratura e la
filosofia greca, il latino poté acquisire un vocabolario tecnico e concettuale più ampio e complesso.
Nella Roma arcaica del VII secolo a.C. era già diffusa la scrittura, sia per uso privato che pubblico: a
testimoniarlo sono i rari documenti epigrafici rinvenuti, scritti in maniera poco chiara con caratteri alfabetici
di derivazione greca, a conferma dell'influenza che ebbero le città della Magna Grecia sulla cultura romana.
Esempi dei primi documenti linguistici latini sono l'iscrizione bustrofedica del lapis niger, scoperto nel Foro
romano nel 1899; l'iscrizione del vaso di Dueno, scoperto nel 1880 e risalente al VI secolo a.C.; il lapis
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Satricanus, una pietra proveniente dall'antica città di Satricum (Lazio meridionale) che riporta una dedica di
un dono votivo Mamartei, "a Marte".
Si tratta di una serie di testi latini arcaici, orali e scritti, rinvenuti per via epigrafica su vari supporti, oppure
tramandati per via letteraria, che risalgono a un'epoca compresa tra gli inizi documentati della lingua latina
e la fine del III secolo a.C. I documenti letterari di questo lungo periodo possono essere, poi, suddivisi in
documenti ufficiali (in prevalenza di natura religiosa) e documenti privati (tra cui le iscrizioni funebri).
Si tratta di testi di vario genere, alcuni definibili "protoletterari", altri di carattere puramente occasionale,
non facenti parte delle prime opere della letteratura latina, la cui nascita coinciderebbe con le prime opere
scritte di Livio Andronico (metà del III secolo a.C.). I testi latini arcaici propriamente detti testimoniano in
modo più o meno fedele le fasi linguistiche più arcaiche del latino. L'arco cronologico di queste attestazioni
non si spinge oltre il 240 a.C., ritenuta solitamente la data approssimativa dell'inizio della letteratura latina.
Si inizia a diffondere la scrittura in diversi strati della popolazione, inclusa quella non elevata, nei trattati,
precetti, nei calendari (che dividono i giorni in fasti e nefasti), nei fasti e negli annales (i più importanti sono
gli Annales Maximi di Muzio Scevola).
Il carmen era una forma in versi, in bilico tra poesia e prosa, caratterizzata da ripetizioni foniche, utilizzata
presso i Romani per accompagnare un rito in tono solenne e dal carattere propiziatorio, augurale come il
Carmen Saliare e il Carmen Arvale. In latino il termine Carmen va spesso a indicare generi diversi dalla
poesia, come i responsi profetici, le formule magiche o di incantesimo. Pertanto i poeti che definivano la
propria poesia carmen potevano voler indicare una connessione con un ambito magico-sacrale. Perfino le
sentenze delle leggi delle XII tavole furono definite carmina. Venivano trasmessi oralmente di generazione
in generazione. Di questa produzione, che doveva costituire un patrimonio assai consistente, conosciamo
soltanto alcuni testi che sono stati messi per iscritto in età molto più tarda rispetto alla loro origine. Essi
sono documenti preziosi di cerimonie e riti più antichi e s'inquadrano in una concezione pragmatica,
utilitaristica e formalistica della religione. Essi si dividono in Carmen Saliare, Carmen Arvale e Carmen
Lustrale .
Si trattava di canti liturgici tradizionali degli Arvali (Fratres Arvales), un antico collegio sacerdotale romano
oppure dei sacerdoti Salii (conosciuti anche come i "sacerdoti saltellanti"). I riti erano imperniati attorno
alle figure degli déi Cerere (Arvales) Marte e Quirino (Salii). Consistevano in alcune processioni durante le
quali i sacerdoti, eseguivano le loro danze sacre e cantavano i vari Carmina arvale o saliare. I Salii ad
esempio, eseguivano il loro canto danzando e percuotendo i loro undici scudi sacri.
Il carmen lustrale invece era un carme preletterario latino consistente in una preghiera rituale del culto
privato rivolta al dio Marte, dove il pater familias rivolgeva alla divinità questa preghiera per ottenerne, in
cambio, la protezione e la purificazione (lustratio) degli arva, i campi coltivati, dalle forze e dagli spiriti
maligni. Sovente la recitazione del carmen era accompagnata dal sacrificio dei suovetaurilia, un rito a
carattere apotropaico tipico delle popolazioni indoeuropee.
Nell'ambito della produzione pre-letteraria latina, svolgono un ruolo di fondamentale importanza,
soprattutto per la successiva produzione teatrale, i fescennini versus, composizioni poetiche che venivano
recitate in particolari momenti dell'anno legati all'attività contadina e che riproducevano alterchi fra due o
più personaggi. Ricchi di insulti e contenuti osceni e volgari, i fescennini versus-come molte delle
espressioni popolari arcaiche (ad esempio le forse più famose falloforie)- avevano una forte valenza
apotropaica e si legavano indissolubilmente alla realtà rurale che caratterizzava l'età delle origini.
Carmina convivalia venivano poi chiamati quei canti, in versi saturni, che venivano intonati durante i
banchetti di famiglie aristocratiche per celebrare le glorie degli antenati della gens oppure i carmina
triumphalia, che venivano improvvisati dai soldati, per inneggiare il trionfo del loro comandante vittorioso.
Si trattava di un carmina convivalia, testo di argomento prevalentemente epico o leggendario che veniva
recitato durante i banchetti presso le case delle più prestigiose famiglie romane, di cui abbiamo notizia,
assieme al Carmen Priami. A differenza del Carmen Priami (che narrava della presa di Troia, collegandosi
alle leggendarie origini di Roma), però, il Carmen Nelei non era composto di versi saturni, ma di senari
giambici. Non è possibile stabilire con sicurezza quando l'opera fu scritta, probabilmente tra il III e il II
secolo a.C., tuttavia essa testimonia l'esistenza di una materia epica a Roma anche nella fase preletteraria.
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cambia destinazione, assumendo la caratteristica di critica della società o dei potenti dell'epoca, aprendo la
strada a Varrone Reatino e Orazio, che svilupperanno il genere 'satirico' in una forma indipendente ed
esclusivamente letteraria.
La laudatio funebris (lett. lode funebre) era l'orazione che veniva pronunciata presso i romani in memoria
di un defunto, durante la cerimonia funebre. Il rito del funerale prevedeva più fasi, tra cui una processione
durante la quale i familiari del defunto esponevano le imagines dei loro antenati, mentre donne
appositamente pagate intonavano i lamenti funebri, detti neniae. Vi era quindi la laudatio, recitata
normalmente da parte del figlio del defunto o di un suo parente, che esaltava anche la gens
d'appartenenza.
Capitolo 3. Nevio
Gneo Nevio fu insieme a Livio Andronico il più antico poeta latino. Fu un cittadino romano di origine
campana, che avevano ottenuto la cittadinanza romana dopo le guerre sannitiche conclusesi nel 295 a. C.
dunque doveva essere nato intorno al 270 A. C. e secondo le fonti antiche cominciò a mettere in scena, a
Roma, le prime opere teatrali intorno al 235 A. C. Si suppone che sia morto tra il 204 e il 201 A. C. in Africa
Fu importante perché fu il primo autore epico di cui è rimasto molto poco, se non qualche frammento.
Molto probabilmente partecipò alla seconda guerra punica contro Cartagine. Nevio era un uomo molto
fiero e di spirito libero e a differenza di Livio Andronico non aveva protettori, e più volte si schierò
apertamente contro gli uomini politici più importanti, attaccando più volte la famiglia dei Metelli, e per
questo motivo fu messo in carcere. Si conservano sei titoli e un certo numero di frammenti di tragedie di
argomento greco. Nevio fu inventore della praetexta (fabula tragica di argomento romano), tra cui
Romolus, che metteva in scena le vicende dell'origine di Roma e Clastidium che esaltava la vittoria Romana
sui Galli vicino Pavia (Casteggio) nel 222 A. C. utilizzando spesso la contaminatio. Altra tragedia molto
conosciuta fu Lucurgus di cui restano 24 frammenti che parlano della punizione inflitta dal dio Dionisio al re
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di Tracia Licurgo reo di averlo scacciato insieme alle Baccanti dalla propria terra, vendicandosi facendo
morire Licurgo e incendiando la sua reggia.
Il testo epico sicuramente più famoso fu il Bellum Punicum, un poema epico-storico dedicato alla
narrazione della prima guerra punica 264-241 A. C. utilizzando il saturnio. Nevio fonde mito e storia
inserendo l'archeologia, ovvero rievocazioni delle origini di Roma e dell'arrivo nel Lazio del troiano Enea, di
cui di tutta l'opera si conservano solo una sessantina di frammenti. Nevio scriveva in contentis scripturas,
uno stile molto fluido, semplice e conciso.
Capitolo 4. Plauto
Si tratta del primo autore di cui si hanno opere integre, e le notizie che possediamo relative alla vita di
Plauto, derivano da Gellio autore del II secolo D. C. noto antiquario interessato alla vita arcaica, mentre le
altre notizie sono fornite da San Gerolamo. Le notizie sulla vita di Plauto sono molto contrastanti e sembra
che vi siano "delle aggiunte" secondo i filologi moderni, lo stesso nome sembra sia molto dubbioso, ovvero
Tito Maccio Plauto, infatti il nome Plautus si ricava da alcuni prologhi delle sue commedie, così come il
nome Maccus che corrisponde ad una delle maschere dell'Atellana. Si suppone perciò che il poeta possa
aver utilizzato nomi diversi in momenti differenti della sua carriera:
Maccio, infatti, deriva dall'attività di attore, per il quale il poeta ha fatto grossi guadagni e che gli
hanno consentito di fare grossi investimenti che poi lo hanno fatto cadere in disgrazia e lo
costrinsero a girare la macina per guadagnarsi da vivere;
Plauto, invece, potrebbe derivare dal fatto che i filologi antichi credevano che fosse un nome
scherzoso, che potrebbe significare "dai piedi piatti" o "dalle orecchie a penzoloni" come quelle dei
cani.
Sappiamo che secondo Cicerone, nacque prima del 250 a. C. a Sarsina città dell'Umbria (oggi in Emilia-
Romano) e che morì del 184 a. C. e sempre secondo lo stesso iniziò a scrivere commedie a partire dagli anni
della seconda guerra punica (218- 202 A. C.) . Le sole commedie a datazione certa sono lo Stichus del 200 A.
C. e lo Pseudolus del 191 A. C. mentre altre commedie sono datate postume come le Bacchides e la Casina,
in cui si ritrovano allusioni ai riti bacchici, culti iniziatici e orgiastici che si erano diffusi a Roma per influssi
orientali, che furono severamente proibiti da un decreto del Senato del 186 A. C. Posteriore a tale decreto è
certamente la Casina, che potrebbe essere una delle ultime commedie prima della morte. La fama di Plauto
era talmente grande che 150 anni dopo la sua morte, Varrone conta più di 135 commedie in circolazione
con il suo nome, ma molte di queste potrebbero essere dei falsi, in quanto il nome Plauto era garanzia di
successo e quindi molti tra comici e commediografi lo usavano in quanto garanzia di fortuna. In realtà si
possiedono solo 20 e non 21 commedie in quanto della Vidularia si posseggono solo alcune frammenti.
Ben 16 su 20 commedie presentano, sia pur con qualche minima variante, la stessa fondamentale struttura,
derivante dalla commedia nuova greca.
Capitolo 5. Ennio
Quinto Ennio nacque nel 239 A. C. a Rudiae (vicino Lecce San Pietro in Lama) nella penisola salentina (oggi
in Puglia ma i Romani una volta la chiamavano Calabria). Diceva di avere tre cuori, in quanto parlava
fluentemente tre lingue: latino, greco e l'osco, un'antica lingua italica dell'Italia meridionale). Durante la
seconda guerra punica combatté in Sardegna tra le truppe ausiliarie che i Romani avevano arruolato in
varie parti d'Italia, e dalla Sardegna lo condusse a Roma nel 204 a. C., quando il poeta aveva trentacinque
anni. A Roma Ennio conquistò il favore di illustri personaggi schierati culturalmente su posizioni diverse da
quelle di Catone, fautori di quel processo di ellenizzazione della cultura e letteratura romana che Catone
avversava e a cui il dotto poeta avrebbe arrecato con le sue opere un notevolissimo contributo. Fu legato
da una profondissima amicizia con Scipione l'Africano, l'eroe della seconda guerra punica, di cui celebrò le
imprese sia nel grande poema epico-storico gli Annales, sia in un apposito poemetto intitolato Scipio; ebbe
inoltre tra i suoi protettori Marco Fulvio Nobiliore, che nel 189 A.C., lo volle con sé nella campagna militare
contro gli Etoli, culminata nella presa della città di Ambracia (Arta). L'iniziativa fu deplorata da Catone, che
giudicò disdicevole per un console portarsi al seguito un poeta; ciò esulava infatti dal costume tradizionale
romano (mos maiorum), mentre corrispondeva a un'usanza ellenistica di cui il caso più celebre era stato
quello di Alessandro Magno, seguito da un folto gruppo di letterati con il compito di descriverne ed
esaltarne le gesta. Ennio celebrò poi l'impresa etolica negli Annales. Nel 184 A. C. ottenne la cittadinanza
romana e salutò l'evento con grande entusiasmo e orgoglio. Morì nel 169 A. C. a Romal'anno in cui fu
rappresentata la sua ultima tragedia, il Tieste. Gli Scipioni vollero che una sua statua fosse collocata nella
loro tomba di famiglia, sulla via Appia, accanto alla statua di Scipione l'Africano, morto quattordici anni
prima.
Ennio forgia uno stile elevato e solenne ricorrendo spesso a quegli arcaismi intenzionali che erano presenti
nell'epica romana fin da Livio Andronico: accoglie cioè forme arcaiche, non più in uso ai suoi tempi nel
linguaggio comune, che conferiscono ai suoi versi una patina di preziosa antichità, come l'uso di falsi
arcaismi che gli consentivano di raggiungere un duplice scopo: quello di sostituire parole che per ragioni
metriche non potevano entrare nell'esametro e quello di dare allo stile una nobile solennità. Punta molto
sulle figure di suono e sulle allitterazioni per accentuare il pathos.
Capitolo 6. Pacuvio
Marco Pacuvio nacque attorno al 220 a.C. a Brundisium (Brindisi), in una zona di cultura greca, da una
famiglia di origini osche. Tali origini sembrano effettivamente essere confermate dalla forma del nome
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Pacuvio, anch'essa osca, e da alcuni particolarismi linguistici che si riscontrano nelle opere. Sua madre era,
secondo la testimonianza fornita da Plinio il Vecchio, sorella del celebre poeta e drammaturgo Quinto
Ennio; probabilmente errata risulta invece la testimonianza di Sofronio Eusebio Girolamo, secondo la quale
Pacuvio sarebbe invece stato figlio della figlia di Ennio, e dunque nipote abiatico del poeta.
Formatosi grazie alle influenze dello zio e maestro Ennio, da cui ereditò anche gli interessi filosofici e le
tendenze razionalistiche, Pacuvio visse e operò come tragediografo e pittore a Roma, dove giunse nel 204
a.C. Qui, secondo la testimonianza di Marco Tullio Cicerone, strinse un solido legame di amicizia con
l'aristocratico di ambiente scipionico Gaio Lelio; tale notizia potrebbe però costituire una finzione letteraria
elaborata a posteriori dallo stesso Cicerone per arricchire la trattazione pronunciata dallo stesso Lelio nel
Laelius de amicitia. La poetica di Pacuvio, altisonante e ricca di riferimenti mitologici, era infatti ben lontana
da quella proposta dal cosiddetto circolo degli Scipioni, che tentava, invece, di diffondere un ideale di
letteratura aderente alla vita reale e attenta all'individuo.
Ancora attivo nel 140 a.C., all'età di ottant'anni, Pacuvio compose una tragedia che mise in scena in
competizione con il giovane Lucio Accio, che si andava allora affermando e che dopo la morte dello stesso
Pacuvio sarebbe divenuto il maggior tragediografo in attività a Roma.
Poco più tardi, tuttavia, il vecchio Pacuvio, malato, fu costretto a ritirarsi a Tarentum, dove, attorno al 135
a.C., ricevette la visita dello stesso Accio che si apprestava a partire per un viaggio in Asia. Ritiratosi,
dunque, a Tarentum (Taranto), Pacuvio vi morì quasi novantenne attorno al 130 a.C.: egli stesso compose il
testo, secondo Gellio, dell'epitaffio che fu poi inciso sulla sua lapide tombale, "un garbato autoritratto che
comunica un senso di urbanità, di dignità e di riserbo".
Così come Plauto, Cecilio e Terenzio si erano per primi specializzati nel solo genere della commedia palliata,
Pacuvio fu il primo tra gli autori di lingua latina a specializzarsi in quello della tragedia. Dalle dubbie
testimonianze dei grammatici tardi Diomede e Pomponio Porfirione, di dubbia validità, si evince che
Pacuvio sarebbe anche stato autore di Saturae, affini a quelle di Ennio, che avrebbero però riscosso scarso
successo e avrebbero dunque acquisito importanza marginale. Dalla testimonianza di Plinio il Vecchio
risulta che abbia esercitato anche il mestiere di pittore: in età alto-imperiale si conservava ancora la
memoria di una sua opera che era stata esposta in Roma nel tempio di Ercole presso il foro boario.
Della sua opera letteraria, non particolarmente vasta, sono a oggi pervenuti circa 365 frammenti per un
totale di circa 400 versi. Fu autore di dodici o tredici tragedie cothurnatae (Antiope, Armorum iudicium,
Atalanta, Chryses, Dulorestes, Hermiona, Iliona, Medus, Niptra, Pentheus, Periboea e Teucer; incerta è
l'attribuzione del Protesilaus) e di una praetexta (Paulus).
Le cothurnatae, sviluppate per lo più a partire da originali greci oggi perduti dei tragici Eschilo, Sofocle ed
Euripide, trattavano in molti casi temi afferenti ai maggiori cicli mitici, quali quello troiano (Armorum
iudicium, Iliona, Niptra, Teucer, e Protesilaus), quello, connesso al troiano, di Oreste (Chryses, Dulorestes,
Hermiona), quello tebano (Antiope) e quello argonautico (Medus).
La cura che Pacuvio riservava alle sue opere gli procurò, mentre era ancora in vita, la fama di erudito;
l'erudizione, tuttavia, si prestava a degenerare in pedanteria, come dimostrano ad esempio i versi del
Chryses in cui la descrizione del cosmo e del sole è interrotta da una parentesi di riflessione filologica sui
termini con cui Greci e Romani indicavano il cielo. Ciò non precluse comunque a Pacuvio la possibilità di
riscuotere un ampio successo di pubblico presso il popolo romano e presso i suoi contemporanei: l'ampia
diffusione e il gradimento delle sue opere testimoniano inoltre la «capacità del pubblico romano di
apprezzare un testo teatrale serio».
L'autore satirico Gaio Lucilio, attivo nella seconda metà del II secolo a.C., nell'affermare la sua nuova
poetica legata all'esperienza personale, prese le distanze dalla poetica tragica di Ennio, ma soprattutto dei
contemporanei Pacuvio e Accio, che tentavano, a suo giudizio, di affascinare il pubblico proponendogli
esclusivamente storie di esseri fantastici quali «serpenti alati» o «draghi volanti». Tale critica, dettata
dunque da ragioni personali legate al modo di intendere l'attività letteraria stessa, nulla toglie comunque al
vasto successo che Pacuvio riscosse tra i suoi contemporanei.
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Capitolo 7. Accio
Lucio Accio o semplicemente Accio nacque da genitori liberti nel 170 a.C.; è incerto il luogo di nascita:
potrebbe essere nato a Roma ed essersi trasferito successivamente a Pesaro in occasione di una adscriptio
novorum colonorum, oppure proprio a Pesaro, dove visse da giovane. Esordì come autore tragico nel 140
A.C. a Roma e le sue prime opere, pare, destarono invidia nell'allora più celebre letterato Pacuvio, più
anziano di lui. Verso il 135 A.C. visitò Pergamo per poter meglio conoscere la cultura greca di quel periodo.
Tornato a Roma divenne uno dei principali esponenti del collegium poetarum (Corporazione dei poeti),
tanto da raggiungere una certa notorietà già attorno ai trent'anni.
Attorno al 120 raggiunse definitivamente la fama proponendosi non solo come teatrante, come era invece
ad esempio Plauto, ma come un grammatico che vive delle proprie opere. Fu quindi l'inizio di quel processo
che ha portato il teatro ad essere considerato parte integrante della letteratura.
Un curioso aneddoto a noi giunto riguarda la sua personalità orgogliosa, che lo spinse addirittura a
richiedere che venisse eretta un'enorme statua a sua somiglianza nella sede del collegium poetarum,
nonostante la sua bassa statura; anche a causa di questi comportamenti si guadagnò gli attacchi di Caio
Lucilio, il noto poeta satirico che era legato al Circolo degli Scipioni.
Decise successivamente di creare attorno a sé una ristretta associazione di letterati scelti da lui stesso. Morì
verosimilmente a Roma intorno all'85 a.C.
Pur essendo stato il più prolifico tragediografo della letteratura latina, di Accio non restano che frammenti:
circa 750 versi e 44 titoli di cothurnate, tragedie ambientate in Grecia; fu autore anche di alcune praetexte,
tragedie ad ambientazione romana. Una sua opera molto significativa è il Brutus, una delle due tragedie
latine. In questa opera l'autore narrava la vicenda di Lucio Giunio Bruto, capo della rivolta contro i Tarquini.
Com'era tipico delle preteste, anche il Brutus aveva un legame celebrativo con il presente: un discendente
di Bruto infatti trionfò sui Galleci dell'Iberia nel 136 a.C. Dell'opera rimane celebre il passaggio del sogno di
Tarquinio il Superbo, premonizione sulla futura grandezza dell'Impero Romano e della sua caduta.
Il Decius o Aeneadae trattava, forse, del nobile sacrificio di Publio Decio Mure alla battaglia di Sentino (295
a.C.). Il titolo Aeneadae sottolinea la discendenza dei Romani da Enea. Per quanto riguarda la forma dei suoi
testi, Accio viene considerato uno scrittore abile nell'utilizzare i mezzi tecnici e stilistici più disparati, tra cui
brilla la sua abilità nell'uso di assonanze e allitterazioni. Lucio Accio scrisse anche opere di filologia e di
erudizione. Lucio Accio non fu soltanto tragediografo, come il rivale Pacuvio, ma anche poeta e filologo.
Tuttavia poco sappiamo delle sue opere più erudite. Nei Didascalica, un misto di prosa e versi, intendeva
proporre probabilmente una serie di riforme ortografiche impostate secondo la teoria dell'analogia, ossia la
tendenza purista e conservatrice che propugnava una lingua modellata su quella dei classici.
Sono citati un Sotadicorum liber, gli Annales (in esametri) ed i Pragmatica che trattavano forse di questioni
critico-letterarie.
Capitolo 8. Terenzio
Il grammatico Donato ci ha tramandato, premettendola al suo commento delle commedie terenziane, la
Vita Terentii redatta da Svetonio e da lui inserita nel suo De poetis. La data di nascita non è conosciuta con
precisione; si ritiene sia nato lo stesso anno della morte di Plauto, nel 184 a.C., e comunque tra il 195 e il
183 a.C.. Di bassa statura, gracile e di pelle scura, era di razza punica (seguendo il cognome Afer se ne può
dedurre la razza libica)e nacque a Cartagine; arrivò a Roma come schiavo del senatore Terenzio Lucano.
Il senatore lo educò nelle arti liberali, e in seguito lo affrancò (la biografia dice "ob ingenium et formam",
per la sua intelligenza e la sua bellezza); il liberto assunse pertanto il nome di Publio Terenzio Afro. Fu in
stretti rapporti con il Circolo degli Scipioni, ed in particolare con Gaio Lelio, Scipione Emiliano e Lucio Furio
Filo: grazie a queste frequentazioni apprese l'uso alto del latino e si tenne aggiornato sulle tendenze
artistiche di Roma. Il grammatico Fenestella cita però altri esponenti della "nobilitas", ossia Sulpicio Gallo,
Quinto Fabio Labeone e Marco Popillio. Durante la sua carriera di commediografo (dal 166, anno di
rappresentazione della prima commedia, Andria, al 160 a.C.), venne accusato di plagio ai danni delle opere
di Nevio e Plauto (entrambi condividevano come lui le idee di Menandro) e di aver fatto da prestanome ad
alcuni protettori, impegnati in politica, per ragioni di dignità e prestigio (l'attività di commediografo era
considerata indegna per il civis romano), tanto che Terenzio stesso si difese tramite le sue commedie: nel
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prologo degli Adelphoe (I fratelli), per esempio, egli rifiuta l'ipotesi che lo vede prestanome di altri,
segnatamente dei membri dello stesso Circolo degli Scipioni. Venne accusato di mancanza di vis comica e
di uso della contaminatio.
Morì mentre si trovava in viaggio in Grecia nel 159 a.C., all'età di circa 26 anni. Era partito per la Grecia per
varie ragioni: la ricerca di altre opere di Menandro, per servirsene come modelli; la volontà di vivere
personalmente nei luoghi in cui ambientava le proprie opere; e comporvi delle opere, lontano dai sodali,
dimostrando quindi definitivamente d'esserne l'autore unico. Le cause della morte sono incerte; Svetonio
riporta alcune ipotesi, tra cui il naufragio e il dolore di aver perduto, con i bagagli, 108 commedie
rimaneggiate dagli originali di Menandro reperiti in Grecia. Probabilmente proprio per un accostamento
all'ispiratore Menandro, diffusa è anche la voce, senza riscontro, di una morte per annegamento.
Terenzio scrisse soltanto 6 commedie, tutte giunte a noi integralmente. La cronologia delle opere, frutto del
lavoro filologico e delle ricerche erudite dei grammatici antichi, è attestata con precisione nelle didascalie
anteposte, nei manoscritti, alle singole commedie.
Terenzio si adattò alla commedia greca; in particolare segue i modelli della Commedia Nuova (νέα
κωμωδία) attica e, soprattutto, di Menandro. Per questo forte legame artistico col commediografo greco fu
definito da Cesare dimidiate Menander, ovvero "Menandro dimezzato".
L'opera di Terenzio non si limitò ad una semplice traduzione e riproposizione degli originali greci. Terenzio,
infatti, praticava la contaminatio, ovvero introduceva all'interno di una stessa commedia personaggi ed
episodi appartenenti a commedie diverse, anch'esse comunque di origine greca. Parte della fortuna delle
sue commedie è da attribuire alle capacità del suo attore, Lucio Ambivio Turpione, uno dei migliori a
quell'epoca.
Rispetto all'opera di Plauto, tuttavia, quella di Terenzio si differenzia in modo sensibile in vari punti.
Innanzitutto, il pubblico ideale di Terenzio è più colto di quello di Plauto: infatti, in alcune commedie si
trovano alcuni argomenti socio-culturali del Circolo degli Scipioni, di cui faceva parte. Inoltre,
contrariamente alla commedia plautina, denominata motoria per la loro eccessiva spettacolarizzazione,
straniamento e presenza di cantica, l'opera di Terenzio è definita stataria, perché sono relativamente serie,
non comprendono momenti di metateatro né cantica. Data la maggiore raffinatezza delle sue opere, si può
dire che con Terenzio il pubblico semplice si allontana dal teatro, cosa che non era mai successa prima di
allora.
Altra differenza è la cura per gli intrecci, più coerenti e meno complessi rispetto a quelli delle commedie
plautine, ma anche più coinvolgenti in quanto Terenzio, al contrario di Plauto, non utilizza un prologo
espositivo (contenente gli antefatti e un'anticipazione della trama). Particolarmente importante in Terenzio
è anche il messaggio morale sotteso a tutta la sua opera, volta a sottolineare la filantropia (in latino
humanitas), cioè il rispetto che ogni uomo deve avere nei confronti di ogni altro essere umano, nella
consapevolezza dei limiti di ciascuno, ben sintetizzato dalla sua frase più famosa: « Homo sum: humani
nihil a me alienum puto ». È da sottolineare inoltre la differenza presente tra i personaggi plautini e quelli
terenziani. Terenzio infatti creò personaggi in cui lo spettatore potesse identificarsi, e viene messa in risalto
la psicologia di questi ultimi. Inoltre la figura dello schiavo, il vero personaggio delle commedie di Plauto,
viene notevolmente ridimensionata. Il linguaggio usato da Terenzio è quello della conversazione ordinaria
tra persone di buona educazione e cultura, quindi un linguaggio settoriale diverso dallo stile di Plauto, in cui
erano presenti neologismi e giochi di parole atti a far ridere lo spettatore. Il più antico commentatore
dell'opera terenziana è Elio Donato. Tuttavia la fortuna di Terenzio si protrasse per tutto il Medioevo e il
Rinascimento, come attestano le decine di manoscritti che contengono integralmente o almeno in parte le
sue commedie. Questo successo fu dovuto in particolare alla loro costante inclusione nei programmi
scolastici del tempo, in virtù del loro carattere edificante e dello stile, semplice ma allo stesso tempo
corretto e non banale.
Lo stile Terenziano pur riprendendo in tutto e per tutto Menandro allontanandosi da Plauto, non manca di
vivacità e calore, specialmente nei monologhi "patetici" in preda a conflitti interiori: in questi casi lo stile
esprime non solo i sentimenti e le emozioni dei protagonisti, ma anche il coinvolgimento e
l'immedesimazione del commediografo nell'azione scenica. I personaggi sono psicologicamente credibili e
lo spettatore spesso si identifica in esso, è ridimensionato il ruolo del servo, quasi principale nelle
commedie plautine, e passa in primo piano invece il rapporto tra padre e figlio: il primo risulta sempre
disponibile al dialogo pur mantenendo il ruolo di antagonista preoccupati al mantenimento dell'armonia
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familiare, mentre il secondo risulta avere problemi di sofferenza amorosa, che vengono espressi con
simpatia e partecipazione dal poeta, per questo si dice che i personaggi terenziano sono gentili. Da qui si
evince che il conflitto generazionale risulta attenuato e sfumato altra differenza rispetto alle commedie
plautine.
Capitolo 9. Lucrezio
Della vita di Lucrezio ci è ignoto quasi tutto: egli non compare mai sulla scena politica romana né sembra
esistere negli scritti dei contemporanei in cui non viene mai citato, eccezion fatta per la lettera di Cicerone
ad Quintum fratrem II, contenuta nella sezione Ad familiares, dove il celebre oratore accenna all'edizione
postuma del poema di Lucrezio, che egli starebbe curando. Un'altra fonte che lo cita è San Girolamo nel suo
Chronicon, in cui ci dice che circa nel 94 a.C. "Titus Lucretius Carus nascitur, qui postea a poculo amatorio in
furorem versus et per intervalla insaniae cum aliquot libros conscripsisset, quos postea Cicero emendavit,
sua manu se interfecit anno 44 "("nasce il poeta T. Lucrezio, che dopo essere impazzito per un filtro
d'amore e aver scritto alcuni libri [del poema?] negli intervalli della follia, che Cicerone pubblicò postumi, si
suicidò all'età di quarantaquattro anni"); tale dato non concorda tuttavia con quanto affermato da Elio
Donato (IV d.C.), maestro di San Gerolamo, secondo il quale Lucrezio sarebbe morto quando Virgilio (nato
nel 70 a.C.) indossò a 15 anni la toga virile, nell'anno in cui erano consoli per la seconda volta Crasso e
Pompeo. Questo dato ha fatto propendere a credere che Lucrezio nacque nel 98 a.C. per poi morire nel 55
a.C., all'età di quarantaquattro anni. Queste vengono comunemente considerate le uniche notizie
biografiche tramandate direttamente dall'antichità.
Ignoto risulta anche il luogo di nascita, che tuttavia taluni hanno creduto essere la Campania e più
precisamente Pompei o Ercolano, per la presenza di un Giardino Epicureo in quest'ultima città, e la
condizione sociale, sebbene i tria nomina e il suo anelito pacifista facciano credere che potesse essere di
nascita aristocratica. Neppure la sua militanza politica sembra essere ricostruibile: il desiderio di pace
accennato prima non sembra affatto ricordare il drammatico rancore dell'aristocratico (per altro stoico) che
vede sgretolarsi la Repubblica e la libertà, ma il desiderio dell'amico epicureo, che vede nella pace e il
benessere di tutti la possibilità di fare accoliti e viver serenamente.
Tale era, del resto, il suo desiderio di pace da auspicare alla fine del proemio della sua opera un "placida
pace" per i Romani. Questo anelito così forte alla pace è peraltro riscontrabile non solo in Lucrezio, ma
anche in Catullo, Sallustio, Cicerone, Catone l'Uticense e perfino in Cesare: esso rappresenta il desiderio di
un'intera società dilaniata da un secolo di guerre civili e lotte intestine.
Il latinista Luca Canali ha avanzato una tesi piuttosto bizzarra (per alcuni da intendere come provocazione)
ripresa da un'affermazione di San Girolamo, secondo la quale l'autore del De rerum natura sarebbe un
Cicerone giovane, mentre Lucrezio non sarebbe mai esistito. Tale tesi ha il difetto di non tenere nel dovuto
conto gli aspetti stilistici, non ciceroniani, dell'opera. Si ipotizza che Cicerone, poco convinto dell'opera,
l'avrebbe pubblicata sotto lo pseudonimo di "Lucrezio", in una specie di rinnegamento dei suoi scritti
giovanili. Tale tesi si basa principalmente sul fatto che Cicerone è l'unico contemporaneo a parlare di
Lucrezio. Inoltre: fu Cicerone a pubblicare il De rerum Natura per primo, con una nota introduttiva che
disprezzava l'opera, proponendola come esempio da non imitare, anche se, nel 54 a.C. in una lettera al
fratello Quinto Cicerone scrisse:"Lucretii poemata, ut scribis,ita sunt: multis luminibus ingenii, multae
tamen artis"(le poesie di Lucrezio, come tu mi scrivi, sono dotate di molti lumi di talento, e tuttavia di molta
arte.(Ep. ad Quintum fr. II 9)). Il prestigio del nome di Cicerone come autore, sostenuto da San Girolamo,
avrebbe così salvato l'opera in quanto ritenuta, appunto, di Cicerone. C'è anche da aggiungere che San
Girolamo, in veste di ecclesiastico, cercò di denigrare Lucrezio che, essendo un atomista, non credeva
nell'immortalità dell'anima.
Lucrezio, per il periodo in cui è vissuto, è stato un personaggio scomodo: gli ideali epicurei di cui era
profondamente intriso corrodevano le basi del potere di una Roma alla vigilia della congiura di Catilina. In
un'epoca di tensioni repubblicane, infatti, isolarsi dalla realtà politica nell'hortus epicureo significava
sottrarsi ai negotia politici e uscire di conseguenza anche dalla sfera d'influenza del potere.
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Le più forti correnti stoiche, ostili all'epicureismo, avevano permeato la classe dirigente romana in quanto
più conformi alla tradizione guerriera dell'Urbe. L'epicurismo era invece presente anche attraverso Diogene
di Enoanda e altri in Campania, dove Virgilio avrebbe approfondito la sua conoscenza dell'epicureismo.
La natura poetica del De rerum natura fa sì che Lucrezio col suo pessimismo esistenziale avanzi profezie
apocalittiche, visioni quasi allucinate, critiche e ambigue espressioni, che accompagnano il poema. Alcuni
teologi cristiani come San Girolamo ed altri, hanno dato di lui l'immagine di un ateo psicotico in preda alle
forze del male. Appoggiandosi alla psicoanalisi qualcuno ha sostenuto che in certi bruschi cambiamenti di
immagine e di pensiero ci fossero i sintomi di una pazzia delirante o di problemi di ordine psichico.
In realtà l'ipotizzata pazzia di Lucrezio potrebbe essere un tentativo di mistificazione per screditare il poeta,
così come la presunta morte per suicidio sarebbe stato l'esito di un modo di pensare perverso, che travia
chi lo segue. L'ipotesi dell'epilessia poi, viene avanzata sulla base dell'arcaica credenza che il poeta fosse
sempre un invasato; elemento quest'ultimo da collegare alla credenza che gli epilettici fossero sacri ad
Apollo e da lui ispirati nelle loro creazioni.
Comunque altri scrittori cristiani come Arnobio e Lattanzio affermarono che egli non fosse pazzo e che non
si fosse ucciso. L'ipotesi della follia e del suicidio attestata dal Chronicon di San Girolamo si fondava su
illazioni di Svetonio, peraltro di difficile verifica. Potrebbe anche esserci stata una confusione dovuta
all'abbreviazione Luc., impiegata indifferentemente nei codici latini per indicare i nomi di Lucillius, Lucullus
e Lucretius. Plutarco scrisse infatti di un certo Licinio Lucullo, politico, generale e cultore dei piaceri, che
morì dopo essere impazzito a causa di un filtro d'amore. L'errore di interpretazione dell'abbreviazione Luc.
potrebbe così aver permesso lo scambio dei due personaggi.
In un simile progetto Lucrezio scelse di doversi rifare ad un modello di stile arcaico, che vedeva in Livio
Andronico, ma soprattutto in Ennio e in Pacuvio i modelli emuli, per motivi fra loro quanto meno vari:
l'egestas linguae (povertà della lingua), lo vede costretto a dover arrangiare le lacune terminologiche e
tecnicistiche con l'arcaismo, ancora che proprio Lucrezio, insieme a Cicerone, sia uno dei fondatori del
lessico astratto e filosofico latino, e a colmare e ancor meglio comprendere l'oscurità del filosofo con la
mielosa luce della poesia. Discendendo più in profondità nelle anguste gole del poema, si notano anche
altri problemi cui dovette far fronte: primo fra tutti, come tradurre parole di pregnanza filosofica in latino,
che ancora non aveva termini confacenti. Finché poté, egli evitò la semplice translitterazione (ad es.
"Atomus" per Ατομος) e preferì invece usare altri termini presenti già nella sua lingua magari dandogli altra
accezione oppure (come mostrato anche sopra) creando neologismi. Ed è proprio grazie all'arcaismo che
Lucrezio riesce a rendere possibile tutto questo: infatti era proprio dello stile arcaico il neologismo
munificenza ed anche un certo uso (convulso a detta di antichi e moderni) delle figure di suono quali
allitterazioni, consonanze, assonanze e omoteleuti. Molto importante è anche il fatto che Lucrezio non si
limitò a trasmettere il messaggio di Epicuro con un arido scritto filosofico, ma lo fece attraverso un poema
che, a differenza del rigoroso linguaggio razionale della filosofia, parla per squarci imaginifici.
essere i poeti ellenistici Arato di Soli e Nicandro di Colofone, che usavano il poema didascalico come sfoggio
di erudizione letteraria.
Il poema ha tre argomenti principali:
La dilacerante antinomia fra ratio e religio: La ratio è vista da Lucrezio come chiarità folgorante
della verità «che squarcia le tenebre dell'oscurità», mentre la religio è ottundimento gnoseologico
e bovina ignoranza. Lucrezio scrive che occorre trattare la struttura fondamentale del cielo e degli
Dei per capire i principi delle cose, si tratta di spiegare razionalmente i fenomeni naturali senza
considerare l'intervento degli Dei o con la convinzione che l'uomo sia lo scopo ultimo della volontà
degli Dei. Lucrezio afferma che bisogna dimostrare le nefaste conseguenze della religione e adduce
come esempio il caso di Ifigenia, dicendo poi che il mito è una rappresentazione falsata della realtà
(si veda l'evemerismo).
Dottrina epicurea: Riprende i temi principali della dottrina epicurea, che sono: l'aggregazione
atomistica e il clinamen (vita e morte), la liberazione dalla paura della morte, del dolore e degli Dei
e dalla spiegazione dei fenomeni naturali. La sostanza è unica, predefinita ed eterna. Gli atomi si
muovono in una dimensione infinita, il vuoto, attraversando tutto l'universo. L'universo è composto
solamente da atomi e vuoto. (Per questa ragione Lucrezio è un atomista). L'anima dell'uomo è
anch'essa costituita da atomi che, quando il corpo muore, si disperdono nell'universo, per essere
riutilizzati dalla natura.
L'uomo e il progresso: Lucrezio nega ogni sorta di creazione, di provvidenza e di beatitudine
originaria e afferma che l'uomo si è affrancato dalla condizione di bisogno tramite la produzione di
tecniche, che sono trasposizioni della natura. Un dio o degli dei esistono, ma non crearono
l'universo, tanto meno si occupano delle azioni degli uomini. Lucrezio afferma che i saperi razionali
sulla natura ci mostrano un universo infinito formato da atomi che segue delle leggi naturali,
indifferente verso i bisogni dell'uomo, che si può spiegare senza ricorrere alle divinità.
Per quanto riguarda l'indifferenza della Natura per l'uomo Leopardi si ispirerà nella composizione
dell'operetta "dialogo di un Islandese con la Natura" ad un passo simile nel III libro del De rerum natura.
Lucrezio utilizza un linguaggio arcaico e solenne. Questo tono è ricercato dal poeta poiché, tramite la
vibrazione emessa dal ritmo della metrica simbolica, egli desidera trasmettere la sacralità della sua impresa.
Per questo motivo egli utilizza varie figure di suono come l'allitterazione, l'anafora, l'onomatopea, l'epifora.
Oltre ad esse ritroviamo anche varianti morfologiche superate o sintagmi arcaizzanti, molto probabilmente
dati dalla volontà di riprendere anche un altro poeta latino quale era Ennio, a cui Lucrezio si ispira. Inoltre si
possono trovare neologismi: non esistendo termini latini con lo stesso significato di alcuni termini greci
usati da Democrito ed Epicuro, Lucrezio dovette coniarne dei nuovi. In onore a Ennio, i neologismi
partivano da basi latine.
della grande poetessa greca d'amore Saffo dell'isola di Lesbo. Lesbia, che aveva una decina d'anni più di
Catullo, viene descritta dal suo amante non solo graziosa, ma anche colta, intelligente e spregiudicata. La
loro relazione alternava periodi di litigi e di riappacificazioni ed è noto che l'ultima lettera che Catullo scrisse
all'amata fu del 55 o 54 a.C., proprio perché in essa viene citata la spedizione di Cesare in Britannia.
Soprannominato "Poeta Nuovo" da Cicerone in modo però del tutto dispregiativo.
Da alcuni suoi carmi emerge che il poeta ebbe anche un'altra relazione, con un giovinetto romano di nome
Giovenzio. Catullo si allontanò varie volte da Roma per trascorrere del tempo nella villa paterna a Sirmione,
sul lago di Garda, luogo da lui particolarmente apprezzato e celebrato per il suo fascino ameno, ma anche
perché situato nella sua terra di origine, causa per il poeta di periodi nostalgici. Nel 57-56 a.C. fece parte
della cohors praetoria, detta anche cohors amicorum, accompagnò Gaio Memmio in Bitinia (Turchia) e in
quella circostanza andò per rendere omaggio alla tomba del fratello sita nella Troade. Quel viaggio non recò
alcun beneficio al poeta, che ritornò senza guadagni economici, né la lontananza riuscì a fargli riacquistare
la serenità perduta a causa dell'incostanza e dell'indifferenza di Lesbia nei suoi confronti.
Catullo non partecipò mai attivamente alla vita politica, anzi voleva fare della sua poesia un ludus fra amici,
una poesia leggera e lontana dagli ideali politici tanto osannati dai letterati del tempo.
Catullo è uno dei più noti rappresentanti della scuola dei neoteroi (cioè "poeti nuovi"), che prendevano a
modello il poeta greco Callimaco, il quale creò un nuovo stile poetico che si distacca dalla poesia epica di
tradizione omerica divenuta a suo parere stancante, ripetitiva e dipendente quasi unicamente dalla
quantità (in riferimento all’abbondanza dei versi di quest’ultima) piuttosto che dalla qualità. Sia Callimaco
che Catullo, infatti, non descrivono le gesta degli antichi eroi o degli dei (eccezion fatta, forse, per i carmina
63 e 64) ma si concentrano su tematiche legate a episodi semplici e quotidiani. Da questa matrice
callimachea accresce anche il gusto per la poesia breve, erudita e mirante stilisticamente alla perfezione. Si
sviluppano, originari dell'alessandrinismo e nati da poeti greci come Callimaco, Teocrito, Asclepiade, Fileta
di Cos e Arato, generi quali l'epillio, l'elegia erotico-mitologica, l'epigramma, che più sono apprezzati e
ricalcati dai poeti latini.
Catullo stesso definì il suo libro expolitum (cioè "levigato") a riprova del fatto che i suoi versi sono
particolarmente elaborati e curati. Inoltre, al contrario della poesia epica, l'opera catulliana intende evocare
sentimenti ed emozioni profonde nel lettore.
Catullo apprezzava molto anche la poetessa greca Saffo, vissuta nel VI secolo a.C.: del resto, gli stessi
carmina del poeta romano costituiscono una fonte grazie alla quale è possibile conoscere l'opera della
poetessa greca. In particolare, il carmen catulliano numero 51 è una traduzione della poesia 31 di Saffo,
mentre i carmina 61 e 62 sono con tutta probabilità ispirati a lavori perduti della poetessa di Lesbo. Questi
ultimi due componimenti sono degli epitalami, cioè poesie d'amore dedicate al matrimonio. Saffo, del
resto, era molto famosa per i suoi epitalami (questa forma poetica, tuttavia, cadde poi in disuso nei secoli
successivi). Catullo, inoltre, recuperò e diffuse a Roma un particolare tipo di metro detto "strofe saffica",
molto usato da Saffo.
influenzato da Saffo ma dalle poesie si evince comunque una passione autentica ed un'impronta
d'originalità.
Nei carmina docta invece, c'è un Catullo più composto e classico, in cui il mito rappresenta un modello
etico, o comunque un mezzo per affermare l'assolutezza e la sacralità di quei valori che Catullo sente
minacciati nella vita del suo tempo ma anche nella sua vita privata. Il primo ed il secondo carme sono
rispettivamente un epitalamo ed un contrasto corale. L'Attis, il carme successivo, narra la vicenda del
giovane omonimo, giunto in Frigia, che si evira in preda ad una furia religiosa così da poter divenire
sacerdote della dea Cibele. Rinsavito, Attis si rende conto del suo gesto e si abbandona ad un lamento in
riva al mare, creando un acceso lirismo narrativo. Il quarto carme, comunemente intitolato Le nozze di
Peleo e Teti fin dall'Umanesimo, è un epitalamio che racconta appunto le vicende delle nozze fra i due. La
peculiarità principale dell'epitalamo però è data dalla tecnica artistica, l'ekphrasis giunta dagli Alessandrini,
con cui il poeta introduce con un pretesto poetico mutuato dall'argomento focale, un altro episodio in
contrasto: l'abbandono di Arianna da parte di Teseo: i due nuclei narrativi devono contrapporre la fides e
linfidelitas. I successivi componimenti (65-66) sono in stretta relazione: il primo è la dedica indirizzata
all'oratore Ortensio Ortalo, la quale non è altro che la traduzione latina della callimachea Chioma di
Berenice. Il carme 67 tratta dell'argomento della 'porta chiusa', ovvero una nuova deformazione del
παρακλαυσίθυρον (paraklausìthyron), cioè del lamento dell'amante di fronte alla porta chiusa dell'amato:
in questo componimento infatti, una porta racconta le vicende che riguardano la moglie del padrone e delle
sue relazioni adulterine. L'ultimo componimento racconta della vicenda mitica riguardante Protesilao e
Laodamia, il quale riassume bene i due temi principali della poesia catulliana di questo periodo, ovvero la
morte di un congiunto (la scomparsa del fratello) e l'amore disperato e carnale (la passione per Lesbia).
La strutturazione del libro così come ci è pervenuto, probabilmente non ha origine dallo stesso Catullo ma è
stato ordinato in seguito da qualche editore che ne ha curato la pubblicazione postuma.
Una parte importante del Liber catulliano è costituita dai componimenti a sfondo amoroso dedicati a
Lesbia, dai quali si evince che la relazione ebbe un principio felice ma che nel protrarsi del tempo, fu
oscurata dai numerosi tradimenti della donna, alternando momenti di gioia a momenti di infelicità per il
poeta. La visione catulliana dell'amore è una concezione totalmente nuova per la società romana
tradizionalista, che considerava ufficiale soltanto il legame consacrato, ovvero il matrimonio e considerando
inferiori i rapporti extraconiugali. Per Catullo, il rapporto con Lesbia, anche se vissuto con estrema
trasgressività contro i moralisti (carme 5), è comunque fondato su un "patto" che comporta lealtà, stima,
rispetto reciproco e fedeltà incondizionata, e perciò non ha meno valore rispetto ad un matrimonio. Amare
e bene velle, il desiderio carnale e l'affetto, sono aspetti complementari ed indivisibili del rapporto:
l'infedeltà annienta l'inviolabilità del bene velle ed acuisce il desiderio, però divenuto sofferenza. Odio e
amore vengono così a convivere, in una coincidentia oppositorum che genera disorientamento, follia e
disperazione. Catullo portò la poesia ad un nuovo livello, fondendo i caratteri greco-ellenistici con la
profondità psicologica dell'avventura amorosa, intessendo il proprio lavoro di momenti di vita privata, volti
a raccontare la sua vicenda: ai dialoghi con l'amante, ricchi di vezzeggiativi e locuzioni familiari, si alternano
ombrosi soliloqui.
Un'altra forma d'amore descritta da Catullo è, non meno intensa, quella fraterna, che sfocia nel suo carme
101 (epigramma), dedicato appunto al fratello prematuramente scomparso e che termina con un accorato
addio, in cui viene esplicata l'impossibilità del poeta di intervenire, poiché le parole sono vane davanti ad
una tale sofferenza.
Oltre all'amore, vi sono numerosi altri temi affrontati in questa raccolta di carmi. Molti di essi sono dedicati
ad amici scrittori e lasciano intravedere uno spicchio di vita quotidiana che il poeta conduceva a Roma, e
soprattutto i rapporti con la cerchia dei neoterici. Venustas, lepos, iocunditas ovvero eleganza, grazia,
piacevolezza sono i princìpi letterari e comportamentali ai quali un poeta neoterico doveva attenersi: in
contrapposizione alla morale comune tradizionale, secondo la quale l'unico vero interesse del cives doveva
essere il negotium (ossia l'adempimento ai doveri pubblici e politici), questo gruppo di poeti avanguardisti
prediligeva l'otium (la vita privata e tutto ciò che la concerneva: l'amore, gli scherzi, le polemiche letterarie,
le frequentazioni, ecc..). Li univa il gusto per la raffinatezza e per l'anticonformismo, perciò anche la
derisione della grossolanità, del cattivo gusto e dell'effimera presunzione. Catullo compone i suoi carmi con
grande consapevolezza artistica, ma ciò nonostante conferisce loro forte spontaneità e immediatezza
espressiva.
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In ottemperanza al criterio callimacheo della poikilia (varietas in latino, varietà, intesa tanto in senso
tematico e metrico quanto linguistico), Catullo fa uso nella sua opera di più registri linguistici diversi, che
fonde assieme per creare una lingua letteraria che comprenda tanto forme colte e dotte quanto forme
"volgari", proprie del sermo familiaris. Di conseguenza, anche il lessico appare particolarmente ampio,
tanto da accogliere assieme forme oscene e volgari, diminutivi, grecismi, interiezioni, onomatopee ed
espressioni idiomatiche o proverbiali. La sintassi è prevalentemente semplice e paratattica, e richiama le
strutture della lingua parlata; si segnalano, in particolare, l'uso del partitivo in dipendenza da pronomi o
aggettivi neutri singolari o da avverbi; il congiuntivo esortativo alla seconda persona adoperato con valore
di imperativo; l'uso dell'indicativo nella proposizione interrogativa indiretta, normalmente costruita con il
congiuntivo; il pronome neutro in funzione predicativa retto dal verbo essere.
La costruzione e la scelta del lessico non sono però frutto del caso: Catullo seleziona attentamente,
stilizzandoli, gli elementi del linguaggio quotidiano e familiare, e li rielabora, mantenendone intatta
l'espressività, alla luce del suo fine gusto letterario. Egli non è, d'altro canto, il primo a fare uso del
linguaggio parlato in letteratura: lo stesso procedimento si era verificato in Grecia già a partire dalla lirica
arcaica, mentre a Roma le forme del linguaggio quotidiano erano caratteristiche del genere comico, ma
erano presenti anche nelle Satire di Gaio Lucilio.
La forte capacità espressiva ed emotiva dell'opera catulliana è testimoniata da alcuni stilemi ricorrenti,
come le forme dialogiche, le allocuzioni, le iterazioni, gli incipit ex abrupto, le metafore, i diminutivi, gli
aggettivi possessivi uniti ai nomi propri. Con l'intento di creare un effetto di marcato contrasto, Catullo
affianca a tali elementi del linguaggio colloquiale alcune forme e usi propri del linguaggio letterario, come le
allusioni, tipiche della letteratura alessandrina, gli epiteti di stampo epico, spesso ricalcati dal greco, gli
arcaismi ispirati al linguaggio di Omero ed Ennio.
Il fine gusto letterario catulliano interviene anche al livello compositivo, e definisce nei carmi una struttura
retorica elaborata ed equilibrata, basata su simmetrie, antitesi, parallelismi, riprese e Ringkomposition. Tale
precisa architettura stilistica è però efficacemente dissimulata, in modo tale da conferire ai carmi un senso
di grande immediatezza e potenza espressiva.
I componimenti brevi, nugae ed epigrammi, non presentano differenze di grande rilievo, sotto il profilo
della lingua e dello stile, rispetto ai carmina docta, anche se in questi lo stile appare più elaborato e dotto,
particolarmente ricco di riferimenti allusivi, arcaismi e grecismi. Appaiono infatti in essi particolarmente
forti gli influssi della poetica di Ennio, dell'epica e della tragedia arcaica in campo latino, ma soprattutto dei
poeti ellenistici in campo greco. Non mancano, tuttavia, elementi afferenti al linguaggio colloquiale, in
particolare i diminutivi. Tale esempio, in cui l'umanizzazione del mito operata in ambito alessandrino arriva
alla fusione tra la vicenda biografica personale e quella mitologica, è alla base dell'elegia di età augustea.
pater patriae (padre della patria), ricoprì un ruolo di primissima importanza all'interno della fazione degli
Optimates. Fu infatti Cicerone, che, negli anni delle guerre civili, difese strenuamente fino alla morte una
repubblica giunta ormai all'ultimo respiro e destinata a trasformarsi nel principatus augusteo.
Cicerone apparteneva alla classe equestre, la piccola nobiltà locale, e, anche se lontanamente imparentato
con Caio Mario, il leader dei Populares durante la guerra civile contro gli optimates di Lucio Cornelio Silla,
non aveva alcun legame con l'oligarchia senatoriale romana; era dunque un homo novus.
Cicerone si rivelò subito un uomo dotato di straordinaria intelligenza, distinguendosi tra i suoi coetanei a
scuola e accumulando fama e onore. Il padre, auspicando per i figli una brillante carriera forense e politica,
li condusse a Roma dove Marco venne introdotto nel circolo dei migliori oratori del suo tempo, protettori
della sua famiglia, Lucio Licinio Crasso e Marco Antonio. Particolare influenza ebbe il primo su Cicerone, per
cui rimase sempre modello di oratore e di statista. A Roma Cicerone poté anche formarsi nella
giurisprudenza, grazie alla guida di Quinto Mucio Scevola, eminente giurista. Tra i compagni di Cicerone
c'erano Gaio Mario il giovane, Servio Sulpicio Rufo (destinato a divenire un celebre avvocato, uno dei pochi
che Cicerone considerò superiori a sé stesso), e Tito Pomponio, che prese poi il cognomen di Attico dopo
una lunga permanenza ad Atene, e che divenne intimo amico di Cicerone.
In questo periodo Cicerone si avvicinò anche alla poesia cimentandosi nella traduzione di Omero e dei
Fenomeni di Arato, che influenzarono, più tardi, le Georgiche di Virgilio.
Particolarmente attratto dalla filosofia, alla quale avrebbe dato grandi contributi, tra i quali la creazione del
primo vocabolario filosofico in lingua latina, nel 91 a.C. incontrò, assieme all'amico Tito Pomponio (Attico),
il filosofo epicureo Fedro in visita a Roma. I due ne furono affascinati, ma solo Attico rimase per tutta la vita
seguace della dottrina epicurea. Nell'87 a.C. conobbe il maestro di retorica Apollonio Molone (che istruì,
pochi anni dopo, anche Gaio Giulio Cesare), e l'accademico Filone di Larissa, che esercitò in lui un'influenza
profonda. Questi era infatti a capo dell'Accademia che Platone aveva fondato ad Atene circa trecento anni
prima e Cicerone, grazie alla sua influenza, assimilò la filosofia platonica - pur rigettando, ad esempio, la
teoria delle idee - arrivando spesso a definire Platone come il suo dio.
Poco tempo dopo, Cicerone incontrò Diodoto, esponente dello stoicismo. Lo stoicismo era già stato
precedentemente introdotto a Roma, dove aveva ricevuto larghi consensi grazie all'enfasi posta sul
controllo delle emozioni e sulla forza di volontà, che sposava gli ideali romani. Cicerone non adottò
completamente l'austera filosofia stoica, ma preferì uno stoicismo modificato. Diodoto divenne poi un
protetto di Cicerone, dal quale fu ospitato fino alla morte. Il filosofo, dimostrando la sua piena adozione
dello stoicismo, continuò ad insegnare anche dopo la perdita della vista.
Il sogno di infanzia di Cicerone era quello di "essere sempre il migliore ed eccellere sugli altri", in linea con
gli ideali omerici. Cicerone desiderava dignitas ed auctoritas, simboleggiati dalla toga pretesta e dalla verga
dei littori. C'era un solo modo per ottenerli: percorrere i gradini del cursus honorum. Nel 90 a.C., tuttavia,
Cicerone era troppo giovane per approdare a qualsiasi carica del cursus honorum, ma non per acquisire
l'esperienza preliminare in guerra che una carriera politica richiedeva. Tra il 90 a.C. e l'88 a.C., Cicerone
servì sotto Gneo Pompeo Strabone e Lucio Cornelio Silla durante le campagne della Guerra Sociale,
sebbene lui non provasse alcuna attrazione per la vita militare. Era prima di tutto un intellettuale. Infatti,
molti anni dopo scrisse al suo amico Attico, che stava raccogliendo statue marmoree per le ville di Cicerone:
"Perché mi spedisci una statua di Marte? Sai che io sono un pacifista!".
L'ingresso di Cicerone nella carriera forense avvenne ufficialmente nell'81 a.C. con la sua prima orazione
pubblica, la Pro Quinctio, per una causa in cui ebbe come avversario il più celebre oratore del tempo,
Quinto Ortensio Ortalo. Ma il suo vero esordio nell'oratoria a carattere politico, almeno secondo le
testimonianze scritte a noi disponibili, si ebbe con la Pro Roscio Amerino, molto concitata ed a tratti
enfatica, che conserva molto di scolastico nello stile esuberante. Qui Cicerone difese con successo un figlio
ingiustamente accusato di parricidio, dimostrando grande coraggio nell'assumersene la difesa: il parricidio
era considerato tra i crimini peggiori, e i veri colpevoli dell'omicidio erano sostenuti dal liberto di Silla,
Crisogono.
Per sfuggire ad una probabile vendetta di Silla, tra il 79 ed il 77 a.C. Cicerone si recò, accompagnato dal
fratello Quinto, dal cugino Lucio e probabilmente anche dall'amico Servio Sulpicio Rufo, in Grecia ed in Asia
Minore. Particolarmente significativa fu la sua permanenza ad Atene. Qui incontrò nuovamente l'amico
Attico che, fuggito da un'Italia sconvolta dalle guerre, si era rifugiato in Grecia. Egli era poi diventato
cittadino onorario di Atene e poté presentare a Cicerone alcune tra le più importanti personalità ateniesi
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del tempo. Ad Atene, inoltre, Cicerone visitò quelli che erano i luoghi sacri della filosofia, a cominciare
dall'Accademia di Platone, di cui era allora capo Antioco di Ascalona. Di quest'ultimo Cicerone ammirò la
facilità di parola, senza tuttavia condividerne le idee filosofiche, ben differenti da quelle di Filone, delle
quali era convinto ammiratore. Dopo un breve soggiorno a Rodi, dove conobbe lo stoico Posidonio,
Cicerone tornò in Grecia, dove fu iniziato ai misteri eleusini, che lo impressionarono molto, e dove poté
visitare l'Oracolo di Delfi.
Tornato a Roma dopo la morte di Silla (avvenuta nel 78 a.C.), Cicerone diede inizio alla sua vera e propria
carriera politica, in un ambiente sostanzialmente favorevole: nel 76 a.C. si presentò come candidato alla
questura, la prima magistratura del cursus honorum. I questori, eletti in numero di venti, si occupavano
della gestione finanziaria, o assistevano propretori e proconsoli nel governo delle province. Eletto alla carica
per la città di Lilibeo, nella Sicilia Occidentale, svolse il lavoro con scrupolo ed onestà tanto da guadagnarsi
la fiducia degli abitanti del luogo. Durante la sua permanenza in Sicilia scoprì a Siracusa, nascosta tra i
cespugli, la tomba di Archimede. Grazie all'interesse di Cicerone per lo scienziato siracusano sono in nostro
possesso alcune importanti informazioni su di lui e in particolare la migliore testimonianza sul suo
planetario. Al termine del mandato, i Siciliani gli affidarono la causa contro il propretore Verre, reo di aver
dissanguato l'isola nel triennio 73-71 a.C. Cicerone raccolse con zelo le prove della colpevolezza, pronunciò
due orazioni preliminari (Divinatio in Quintum Caecilium e Actio prima in Verrem) e l'ex governatore,
oberato da prove schiaccianti, scelse l'esilio volontario. Le cinque orazioni preparate per le successive fasi
del processo (che costituiscono l'Actio secunda) furono pubblicate più tardi e costituiscono un'importante
prova del malgoverno che l'oligarchia senatoria esercitava a seguito delle riforme sillane. Attaccando Verre,
Cicerone attaccò la prepotenza della nobiltà corrotta, ma non l'istituzione senatoria, anzi fece proprio
appello alla dignità di tale ordine perché estromettesse i membri indegni. Acquisì, inoltre, un enorme
prestigio perché a difendere Verre era Quinto Ortensio Ortalo, considerato il più grande avvocato
dell'epoca: "sconfitto", Ortensio dovette accettare che il suo posto venisse preso da Cicerone. Nonostante
l'episodio, i due strinsero poi un buon legame di amicizia. Ad Ortensio, che elogiò anche nel Brutus,
Cicerone dedicò un'intera opera, non pervenutaci, l'Hortensius.
L'oratoria e l'attività forense erano, a Roma, uno dei principali mezzi di propaganda per i politici emergenti,
in quanto non esistevano documenti scritti di argomento politico, ad eccezione degli Acta Diurna, che
godevano di scarsa diffusione.
Contro Cicerone, però, rimaneva la naturale diffidenza dei nobili verso chi era un homo novus, accresciuta
dal fatto che l'ultimo homo novus ad acquisire rilevante peso politico era stato il concittadino dello stesso
Cicerone, Gaio Mario. Anche lo stesso Silla, tuttavia, fiero oppositore di Mario, aveva preso alcuni
provvedimenti che permettevano e facilitavano l'ingresso degli equites alla vita politica, dando così a
Cicerone la possibilità di raggiungere le vette del cursus honorum.
Il successo ottenuto da quelle orazioni (che vennero poi chiamate Verrine), anticipatrici dei principi di un
governo umano ed ispirato ad onestà e filantropia, portò Cicerone in primo piano sulla scena politica: nel
nel 66 a.C. diventò pretore con una elezione all'unanimità (a 40 anni).
Nel 65 a.C. Cicerone presentò la candidatura al consolato. Nel 64 venne eletto console per l'anno successivo
(ossia il 63 a.C.). La fiducia riposta in Cicerone dalla classe equestre venne ripagata già all'inizio del
consolato con la pronuncia di quattro orazioni De lege agraria contro la proposta di redistribuzione delle
terre tribuno Servilio Rullo.
Durante il suo consolato Cicerone dovette contrastare il tentativo di congiura messo in atto da Catilina.
Questi era un nobile impoverito che, dopo aver combattuto insieme a Silla e aver completato il cursus
honorem, aspirava a diventare console. Venuto a conoscenza del pericolo che la Repubblica correva grazie
alla soffiata di Fulvia, amante del congiurato Quinto Curio, Cicerone fece promulgare dal senato un senatus
consultum ultimum de re publica defendenda, cioè un provvedimento con cui si attribuivano, come era
previsto in situazioni di particolare gravità, poteri speciali ai consoli. Sfuggito poi ad un attentato da parte
dei congiurati, Cicerone convocò il senato nel tempio di Giove Statore, dove pronunciò una violenta accusa
a Catilina, con il discorso noto come Prima Catilinaria. Catilina, visti i suoi piani svelati, fu costretto a lasciare
Roma per ritirarsi in Etruria presso il suo sostenitore Gaio Manlio, lasciando la guida della congiura ad alcuni
uomini di fiducia.
A seguito del riemergere dei contrasti tra senatori e pubblicani, e dell'accordo tra Cesare e Pompeo ai danni
dell'oligarchia senatoria, Cicerone scivolò da parte. L'ultima possibilità di rientrare nel gioco politico gli fu
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offerta nel 60 a.C. dai tre più potenti uomini del momento, ovvero Pompeo, Cesare e Crasso, alla
conclusione dell'accordo per il primo triumvirato: essi chiesero a Cicerone di appoggiare la legge agraria a
favore dei veterani di Pompeo e della plebe meno abbiente. Cicerone, tuttavia, rifiutò non solo per non
apparire un traditore dell'aristocrazia, ma anche per l'attaccamento all'ordine legale e sociale di cui gli
ottimati si proclamavano difensori.
Dopo questo rifiuto e la costituzione del primo triumvirato, Cicerone si tenne fuori dalla politica ma ciò non
bastò a salvarlo dalle vendette dei populares: all'inizio del 58 a.C. il tribuno della plebe Clodio Pulcro,
nemico di Cicerone per un precedente processo per sacrilegio, fece approvare una legge con valore
retroattivo che condannava all'esilio chiunque avesse mandato a morte un cittadino romano senza
concedergli la provocatio ad populum. Si trattava, in realtà, di un'abilissima mossa politica di Cesare (che
per l'appunto prima di partire per la Gallia attese che Cicerone fosse fuggito da Roma) che, attraverso il suo
alleato Clodio, eliminava così dalla scena politica uno dei suoi avversari più tenaci, che lo avrebbero potuto
osteggiare durante la sua ascesa al potere. Cicerone fu dunque processato per la sua condotta durante il
processo ai Catilinari Lentulo e Cetego ma, costretto all'esilio, non si diede pace, implorando le sue
conoscenze perché favorissero il suo ritorno. Clodio, però, fece approvare anche una serie di altre leggi che
prevedevano che Cicerone non si potesse neppure avvicinare al confine dell'Italia, e che le sue proprietà
venissero confiscate. In realtà la villa sul Colle Palatino fu addirittura distrutta, ed una sorte simile toccò
poco dopo a quelle di Formia e di Tusculum. Nel 57 a.C. la situazione a Roma migliorò, allorché i nobili e
Pompeo posero un freno alle iniziative di Clodio Pulcro, permettendo a Cicerone di tornare e ricominciare la
sua lotta contro il tribuno della plebe.
Nel 56 a.C. Cicerone pronunciò l'orazione Pro Sestio in cui allargava il suo precedente ideale politico:
l'alleanza tra cavalieri e senatori a suo avviso non era più sufficiente per stabilizzare la situazione politica.
Occorreva, quindi, un fronte comune di tutti i possidenti per opporsi alla sovversione tentata dai populares.
Possidenti e plebe si scontravano con l'uso di bande armate, e in uno di questi scontri, più precisamente
sulla via Appia, Milone, organizzatore delle bande dei possidenti, uccise il tribuno Clodio. Al processo per
omicidio, tenutosi nel 52 a.C., Cicerone difese Milone, ma, non riuscendo a pronunciare il suo discorso con
la giusta forza per il clamore della folla e per il timore che gli incutevano i partigiani di Clodio nel foro,
Milone venne condannato all'esilio (una versione della Pro Milone venne pubblicata solo successivamente,
dando modo di verificare come fosse un'orazione tra le più abili e sottili sul piano giuridico).
Dopo essere stato nominato augure nel 53 a.C. al posto di Crasso, nel 51 a.C. come proconsole si recò in
Cilicia, proprio mentre i rapporti tra Cesare e Pompeo si inasprivano. Durante il soggiorno lontano da Roma,
i pensieri dell'oratore furono rivolti alla minaccia della guerra civile. Tornato in patria, non cessò di invitare
le parti alla moderazione ed alla conciliazione, ma i suoi inviti caddero nel vuoto anche a causa del
fanatismo che spingeva Pompeo all'intransigenza nei confronti delle richieste di Cesare. Quando Cesare
varcò il Rubicone, Cicerone cercò di accattivarsene il favore, ma poi decise ugualmente di lasciare l'Italia per
unirsi a Pompeo. Sbarcò, dunque, a Dyrrachium, ma, raggiunti i Pompeiani, si accorse di quanto le speranze
che egli riponeva in loro quali salvatori della repubblica fossero infondate: ognuno di loro era lì non in
difesa degli ideali, ma soltanto per tentare di trarre profitto dalla guerra. Dopo la grande vittoria di Cesare
nella battaglia di Farsalo, nel 48 a.C., Cicerone decise di tornare a Roma, dove ottenne il perdono dello
stesso Cesare nel 47 a.C.
La speranza di Cicerone di collaborare al governo di Cesare venne troncata dalla piega assolutistica e
monarchica presa dal potere. L'oratore si ritirò, iniziando la stesura di opere di carattere filosofico. A questo
si aggiunse il divorzio dalla moglie Terenzia e la morte della figlia Tullia, seguita dalla separazione dalla
seconda moglie Publilia, una giovinetta.
Quando Cesare fu ucciso, il 15 marzo del 44 a.C., a seguito della congiura ordita da Marco Giunio Bruto e
Gaio Cassio Longino, per Roma, e per lo stesso Cicerone, si avviò una nuova fase politica, che avrebbe avuto
termine solo con l'avvento dell'impero.
Cicerone non fu, certamente, colto di sorpresa dall'assassinio, da parte dei Liberatores, di Giulio Cesare: era
sicuramente al corrente della congiura che si andava tessendo, ma decise sempre di tenersene al di fuori,
pur manifestando una grande ammirazione per l'uomo che era destinato a divenire il simbolo stesso della
congiura, Bruto. E lo stesso Bruto, infatti, con il pugnale sporco del sangue di Cesare ancora in mano, additò
Cicerone definendolo l'uomo che avrebbe ristabilito l'ordine nella repubblica.
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La data della missiva non è conosciuta, ma viene solitamente ritenuta vicinissima o coincidente alla
congiura. L'espressione « quid agas quidque agatur » la indicherebbe come scritta prima che Cicerone si
recasse al Campidoglio, dove i cospiratori avevano trovato rifugio dopo l'assassinio, asserragliati nel tempio
capitolino e protetti dai gladiatori di Bruto.
Cicerone, infatti, tornò ad essere anche di fatto uno dei maggiori leader della fazione degli optimates,
mentre Marco Antonio, luogotenente e magister equitum di Cesare, prendeva le redini della fazione dei
populares. Antonio tentò di fare in modo che il senato decidesse di organizzare una spedizione contro i
Liberatores (che intanto si erano trasferiti nella penisola balcanica), ma Cicerone fu promotore di un
accordo che, assicurando il riconoscimento di tutti i provvedimenti presi da Cesare nel corso della sua
dittatura, garantiva l'impunità a Bruto e Cassio. Poco dopo, i due, assieme agli altri congiurati, fuggirono
verso la penisola ellenica.
Tra Cicerone ed Antonio, comunque, i rapporti non erano dei migliori, e i due, d'altra parte, si trovavano
all'esatto opposto in ambito politico: Cicerone era il difensore degli interessi della nobilitas senatoriale,
convinto sostenitore della repubblica, mentre Antonio avrebbe voluto fare suoi i progetti di Cesare ed
assumere gradualmente un potere monarchico. Intanto, un'altra figura si andava affermando dal nulla nel
panorama politico di Roma, la figura del giovane Ottaviano (destinato a diventare Augusto), pronipote di
Cesare e suo erede designato nel testamento. Ottaviano decise di adottare una politica filosenatoriale,
senza mostrare nessuna volontà di imitare le mosse di Cesare.
Cicerone, allora, si schierò ancora più apertamente contro Antonio, definendo Ottaviano come vero erede
politico di Cesare, e come uomo mandato dagli dei per ristabilire l'ordine. Cicerone sperava, infatti,
nell'affermazione di un giovane princeps in re publica che, assistito da un membro del senato di grande
esperienza, come lo stesso Cicerone, riportasse la pace e riformasse la repubblica. Iniziò, inoltre, tra il 44
a.C. e il 43 a.C., a pronunciare contro Antonio una serie di orazioni, note con il nome di Filippiche in quanto
richiamavano quelle omonime pronunciate da Demostene contro Filippo II di Macedonia. Intanto, Antonio,
nella volontà di condurre una nuova guerra in Gallia per accrescere il proprio prestigio, decise di marciare
contro Decimo Giunio Bruto Albino, governatore della Gallia Cisalpina, e lo assediò nella città di Modena.
Qui Antonio fu però raggiunto dagli eserciti consolari guidati da Aulo Irzio, Gaio Vibio Pansa e dallo stesso
Ottaviano, che lo sconfissero.
Cicerone lasciò allora Roma e si ritirò nella sua villa di Formia, che aveva ricostruito dopo gli episodi legati a
Clodio. A Formia, però, fu raggiunto da alcuni sicari inviati da Antonio, che, aiutati da un liberto di nome
Filologo, poterono trovarlo fin troppo facilmente. Cicerone, accortosi dell'arrivo dei suoi assassini, non
tentò di difendersi, ma si rassegnò alla sua sorte, e venne decapitato. Una volta ucciso, per ordine di
Antonio, gli furono tagliate anche le mani (o forse soltanto la mano destra, usata per scrivere ed indicare
durante i discorsi), con cui aveva scritto le Filippiche, che furono esposte in senato insieme alla testa,
appese ai rostri che si trovavano sopra la tribuna da cui i senatori tenevano le loro orazioni, come monito
per gli oppositori del triumvirato.
Una volta sconfitto Antonio, Ottaviano scelse Marco, figlio di Cicerone, come collega per il consolato, e
proprio Marco comminò le pene di Antonio, facendone abbattere le statue e decretando che nessun
membro della gens Antonia avrebbe più potuto essere chiamato Marco.
Plutarco racconta che quando, tempo dopo, insignito del titolo di Augusto, Ottaviano trovò un nipote che
leggeva le opere di Cicerone, gli prese il libro, e lo sfogliò. Una volta che glielo ebbe restituito, disse: "Era un
saggio, ragazzo mio, un saggio, e amava la patria".
Pulcro e dell'esilio, Cicerone, deluso dal comportamento degli optimates, che avevano tentato di giungere a
un compromesso con lo stesso Clodio, sviluppò ulteriormente il suo disegno politico con l'intento di
ottenere un coinvolgimento sempre più ampio di tutti coloro che erano interessati alla sopravvivenza delle
strutture repubblicane e di creare una reale alternativa al potere dei triumviri: la concordia ordinum trovò
dunque la sua naturale evoluzione nel consensus omnium bonorum, cui Cicerone affiancò, nell'orazione Pro
Sestio, anche una nuova definizione di optimates. Contestualmente, l'arpinate venne elaborando anche una
nuova interpretazione del ruolo del princeps, che tuttavia non intese mai come una figura estranea
all'ordinamento repubblicano, ma come garante e tutore delle strutture repubblicane stesse.
concetto del suo discorso gli venissero in mente nella sequenza desiderata. È da questo metodo di
memorizzazione che derivano le locuzioni italiane "in primo luogo", "in secondo luogo" e così via.
Così come per Cicerone è difficile distinguere tra vita ed opere, così in particolare differenziare tra scritti
filosofici e retorici è sì pratico e chiaro, ma tuttavia non rappresenta pienamente la concezione e l'opinione
di Cicerone. Già nella sua prima opera conservata (De inventione I 1-5) chiarisce che la sapienza,
l'eloquenza e l'arte del governare hanno sviluppato un legame naturale, che indubbiamente ha contribuito
allo sviluppo della cultura degli uomini e che dev'essere ristabilito. Egli ha in mente quest'unità come
modello ideale sia negli scritti teoretici sia anche nella sua propria vita attiva al servizio della Repubblica o
almeno è così che egli ha voluto idealizzare e vedere la propria realtà.
Perciò non è affatto sorprendente se Cicerone ha sviluppato i suoi scritti filosofici con i mezzi della retorica
e strutturato le sue teorie della retorica su principi filosofici. La separazione tra sapienza ed eloquenza
Cicerone l'addossa alla "rottura tra linguaggio e intelletto" compiuta dalla filosofia socratica (De oratore III
61) e tenta attraverso i suoi scritti di "risanare" questa frattura; e quindi per una migliore attuazione la
filosofia e la retorica secondo lui devono essere dipendenti l'una dall'altra.
Cicerone stesso dichiara che "io sono diventato un oratore [...] non nelle scuole dei retori ma nei saloni
dell'Accademia": con ciò allude alla sua formazione sulle dottrine della Nuova Accademia di Carneade e
Filone di Larissa, suo maestro.
Brutus: il libro dedicato a Marco Giunio Bruto venne scritto all'inizio del 46 a.C. e tratta nella forma
di un dialogo tra Cicerone, Bruto ed Attico la storia dell'arte retorica romana fino a Cicerone stesso.
Dopo un'introduzione (1-9) Cicerone inizia un confronto con la retorica greca (25-31) e sottolinea
che l'arte oratoria poiché è la più complessa di tutte le arti solo tardi giunse alla perfezione. Mentre
ritiene gli antichi oratori romani appena mediocri, parla di Catone come base della propria
esperienza; Lucio Licinio Crasso e Marco Antonio Oratore, entrambi protagonisti del De oratore,
sono dettagliatamente confrontati (139 e ss.). Dopo un'escursione sull'importanza del giudizio del
pubblico (183-200) e una riflessione sull'oratore Ortensio (201-283), Cicerone respinge fermamente
il modello dell'Atticismo (284-300). L'opera culmina in confronto tra l'arte oratoria di Ortensio e di
Cicerone stesso, non senza una grossa dose di autocelebrazione (301-328), egli infatti presenta sé
stesso come il punto d'arrivo di un processo di sviluppo dell'arte oratoria. Punto principale
dell'opera è la critica alla diffusione dello stile neoattico, a cui anche il giovane Bruto appartiene,
difendendo il suo stile, assai più ricco e magniloquente, dalla critica di essere un esempio dello stile
asiano.
De inventione: ("Sul ritrovamento"): sviluppato tra l'85 a.C. e l'80 a.C. questo è il primo di due libri
di una descrizione globale della retorica, mai completata. Cicerone rinunciò a completarla, per
dedicarsi ad una più accattivante rappresentazione nel De oratore, e tuttavia l'opera servì,
nonostante il carattere frammentario, come testo d'insegnamento fino al Medioevo. La parte
completata tratta nel primo libro dei concetti principali della retorica (I 5-9), la dottrina
dell'insegnamento della retorica in riferimento ad Ermagora di Temnos (I 10-19) nonché il ruolo
dell'oratore (I 19-109); il secondo libro tratta delle tecniche d'argomentazione, soprattutto nelle
arringhe giuridiche (II 11-154) nonché brevemente sulle orazioni di fronte al popolo (II 157-176) e in
occasione di celebrazioni (II 177-178). Le dichiarazioni di Cicerone per quanto riguarda il contenuto
dell'opera presentano molte somiglianze con l'opera "La Retorica" di Erennio, ma per lungo tempo
erratamente ritenuta sua, cosa che ha portato a numerose discussioni tra gli studiosi riguardo al
rapporto tra le due opere. Entrambi gli scritti sono comunque all'incirca dello stesso periodo e si
basano direttamente o indirettamente sulla medesima o su affini fonti greche. Inoltre c'è
un'incredibile somiglianza letterale in alcuni periodi, cosa che suggerisce probabilmente anche una
comune fonte latina, forse originaria da un comune insegnante o dottrinario che ha mediato il
preponderante contenuto di origine greca.
De optimo genere oratorum ("Sulla miglior arte dell'oratoria"): questa breve opera, scritta
probabilmente nel 46 a.C. o, secondo altri pareri, già nel 50 a.C., è un'introduzione alla traduzione
delle orazioni di Demostene ed Eschine, per e contro Ctesifonte. L'introduzione verte soprattutto
sugli atticisti romani, all'incirca con le stesse argomentazioni dell'Orator. La traduzione comunque
non ci è pervenuta, e non è chiaro se Cicerone l'abbia mai effettivamente completata. L'autenticità
dell'opera è stata più volte messa in discussione, ma oggi è per lo più accettata.
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De oratore (Sull'oratore): la più importante opera sulla retorica di Cicerone non dev'essere confusa
con l'opera quasi omonima Orator. È un'opera composta nel 55 a.C. in forma di dialogo, così come
per il Brutus. I protagonisti stavolta sono Lucio Licinio Crasso e Marco Antonio, esempi, secondo
Cicerone, dei più grandi oratori della generazione precedente. Nel I libro è Crasso (portavoce di
Cicerone) ad esporre la tesi principale dell'opera ossia che il buon oratore deve avere
un'approfondita conoscenza dell'argomento di cui vuole trattare, osteggiando la concezione di
alcuni retori greci che ritenevano sufficiente una formazione basta su regole, tecnicismi ed esercizi
per affrontare qualsiasi discorso. Il II libro tratta invece delle "parti" in cui si suddivide la retorica,
cioè l'inventio, la dispositio e la memoria; nel III libro si parla dello stile, cioè lelocutio, e dellactio,
cioè il modo in cui l'oratore deve comportarsi durante l'orazione. Il de oratore è considerata l'opera
di Cicerone scritta con più cura formale ed è per questo motivo che è sempre stata utilizzata e
studiata come modello primo dello stile ciceroniano.
Orator ("L'oratore"): Venne scritta nell'estate del 46 a.C. ed è anche questa un'opera dedicata a
Marco Giunio Bruto che descrive un modello ideale del perfetto oratore, riprendendo molti dei
temi già trattati nel De oratore. Contrariamente alla disputa di quel tempo tra gli atticisti, che -
come Bruto - pretendono dall'oratore uno stile sobrio e preciso, e gli asiani, che prediligono uno
stile molto ricercato e magniloquente, Cicerone ritiene che il perfetto oratore, come Demostene,
deve dominare tutti gli stili e saper passare da uno all'altro con naturalezza. Per questo motivo
bisogna dedicarsi soprattutto alla formazione filosofica: solo così potrà svolgere i tre compiti
dell'oratore: probare, delectare, flectere (dimostrare, divertire, convincere), i quali vengono ben
ordinati e descritti (76-99). Cicerone parla anche qui brevemente dell'inventio (44-49), della
dispositio (50) ma tratta soprattutto dell'elocutio (51-236), soffermandosi sulle figure retoriche e
sulla costruzione ritmica del periodo.
Partitiones oratoriae ("Partizione dell'arte oratoria"): Quest'opera venne scritta nel 54 a.C., quando
il figlio di Cicerone, Marco, stava studiando la retorica, ed è ideata come una sorta di 'Catechismo',
trattando la teoria della retorica, soprattutto con divisioni schematiche, nella forma di domanda e
risposta tra padre e figlio. L'originalità di Cicerone in quest'opera spicca molto meno, a causa dello
stile molto semplice e delle poche novità introdotte.
Topica (44 a.C.): Scritti nel corso del viaggio in Grecia, su sollecitazione dell'amico Trebazio, trattano
della dottrina dell'inventatio divulgata da Aristotele, ovvero l'arte di saper trovare gli argomenti. In
questa produzione retorica vengono considerati i luoghi (topoi) come ottimo spunto per ogni
genere di argomento ed utilizzabili per qualunque disciplina (poesia, politica, retorica, filosofia,
ecc.)
in greco, anziché in latino. L'opera, conosciuta come Annales o Rerum gestarum libri, era nota anche in
versione latina, probabile frutto di una traduzione fatta in seguito da altri. La scelta di scrivere nella koiné
greca, la lingua franca del Mar Mediterraneo, nasceva dal bisogno di rivolgersi ad un pubblico più ampio e
poter così più efficacemente contraddire altri autori, come Timeo, che a sua volta aveva scritto, ma con
accento sfavorevole, una storia di Roma fino alla Seconda Guerra Punica; o come Filino di Agrigento, allievo
di Timeo, la cui storia delle guerre puniche rifletteva un'impostazione filocartaginese. Pertanto, e in difesa
dello stato romano, Quinto Fabio Pittore scrisse in greco, usando la cronologia greca basata sulle
celebrazioni olimpiche e con accorgimenti e procedimenti dello stile espositivo ellenistico: il suo
atteggiamento che egli poneva nel vaglio e nell'utilizzo dei materiali storici – Annales pontificum, fonti
greche e, soprattutto, locali – era moderno, informato com'era ai criteri appresi dalla storiografia
ellenistica. Da quella tradizione, ad esempio, egli riceveva l'interesse per l'analisi eziologica delle vicende
storiche, da un punto di vista sia politico che psicologico; l'accuratezza nell'esposizione di dati e notizie sugli
spiegamenti di forze; l'attenzione agli aspetti cultuali e cerimoniali, e alla ricerca sulle loro origini, a cui egli
si applicava con diligente sensibilità erudita e antiquaria.
Lo stile di Quinto Fabio Pittore nello scrivere la storia difendendo lo stato romano e le sue azioni, ed usando
in modo massiccio la propaganda – cosa che gli valse il rimprovero di Polibio per il trattamento riservato
alla prima guerra punica – divenne alla fine una cifra distintiva della storiografia romana. Ma l'afflato
patriottico e l'inclinazione apologetica della sua opera, non vanno intesi come una cosciente e deliberata
tendenziosità: egli sembra piuttosto aver applicato, con serietà d'intenti, un metodo storiografico corretto
ad un repertorio documentale e testimoniale di impronta e provenienza prevalentemente romana.
Altra caratteristica, destinata a divenire paradigmatica, fu la sua scelta di porre particolare enfasi, ancor
maggiore rispetto al modello greco, sugli avvenimenti meno remoti: un'esigenza metodologica dettata non
solo dalla maggiore disponibilità di documentazione più vicina, ma anche dall'inclinazione prevalente del
pubblico romano, più interessato alla concretezza dell'attualità rispetto ai trascorsi meno recenti della
storia romana, dai contorni spesso mitici e leggendari. A tali aspetti, peraltro, come ci informa Plutarco, lo
stesso Fabio Pittore non si sottraeva quando, nel narrare la più remota età delle origini, si diffondeva con
ampiezza espositiva, dovizia di dettagli e stile drammatico e fantastico. Fabio Pittore, nel dare inizio alla
tradizione storiografica romana, fu probabilmente, per quanto ne sappiamo, anche il precursore della
letteratura in prosa con pretese artistiche. I romani traevano soddisfazione dai cimenti impegnativi e così la
stesura della storiografia divenne molto popolare tra quei membri della nobilitas che volessero spendere il
loro tempo libero in attività considerate meritevoli e virtuose secondo il comune sentire “romano”. Poiché
l'indulgere all'inazione, secondo quella stessa sensibilità, era considerata cosa disdicevole, lo scrivere di
storia divenne presto una degna attività con cui sottrarre all'otium gli intervalli liberi dall'impegno politico
e, in particolare, quelli dell'età del disimpegno politico nell'avanzata maturità. Fu quest'ultimo il caso già
citato della senescenza di Catone, ma anche, ad esempio, di storici come Sallustio e Asinio Pollione che, già
uomini politici, si dedicheranno alla storiografia solo in età avanzata.
Non appena i romani acquisirono familiarità con la storiografia, essa si divise in due filoni: quello condotto
secondo lo schema e la tradizione annalistica e quello improntato alla scrittura monografica.
Gli autori che usavano la tradizione annalistica scrissero fin dall'inizio le storie di anno in anno, il più delle
volte dalla fondazione della città fino al periodo che stavano vivendo. La gran mole di materiale disponibile
per la trattazione, anche a seguito dalla pubblicazione degli Annales maximi di Publio Muzio Scevola,
richiese la disponibilità di un tempo maggiore da dedicare alla redazione, determinando la nascita di una
nuova figura di storico semi-professionale: pur provenendo dai ceti elevati, questa lo storico annalista non
poté più essere, per circa un secolo, quella di un politico di spicco come lo era stato Catone il censore.
Le monografie sono più simili ai libri di storia che usiamo oggigiorno; essi sono in genere monotematici ma,
cosa più importante, non raccontano la storia dall'inizio, e addirittura non sono necessariamente annalistici.
Un'importante sottocategoria che emerse dalla tradizione monografica fu la biografia.
Spesso, soprattutto in momenti di agitazione politica o di tumulto sociale, gli storici riscrivono la storia per
adattarla ai loro peculiare visione dell'epoca. Pertanto, ci sono stati svariati storici che hanno rimaneggiato
un po' la storia per sostenere la loro opinione. Questo è stato particolarmente evidente negli anni settanta
a.C. quando si stavano svolgendo le guerre sociali tra i populares condotti da Mario, e gli optimates
capeggiati da Silla. Molti autori scrissero storie durante questo periodo, ognuno con la sua prospettiva. Gaio
Licinio Macro era contro Silla e scrisse la sua storia, basata su Gneo Gellio in 16 libri dalla fondazione della
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città fino al III secolo a.C., mentre Valerio Anziate, che era pro-Silla, scrisse una storia in 75 libri, dalla
fondazione della città fino al 91 a.C.
Gli annali rappresentano la trascrizione anno dopo anno degli avvenimenti storici. Nella storiografia romana
gli annali iniziano generalmente dalla fondazione di Roma. Gli annali compilati correttamente riportano
qualunque evento fosse importante in ogni anno, come pure altre informazioni, come i nomi dei consoli di
quell'anno, che costituiva il criterio col quale in genere i romani identificavano gli anni. Sembra che l'annale
venisse originariamente usato dalla classe sacerdotale per annotare i presagi ed i prodigi.
Il termine annalista graccano sembra indicare storici che adottarono il modello annalistico che si cominciò a
utilizzare dopo il periodo graccano. Paragonate ad altre forme di storia annalistica, queste sembrano più
romanzate poiché gli storici romani usavano le loro storie per descrivere temi del loro tempo, e non erano
necessariamente propensi a raccontare i fatti nudi e crudi. Si aggiunga che gli annalisti graccani hanno
generato una percezione profonda riferita all'epoca vissuta dallo scrittore, meno relativamente al tempo
del quale loro scrissero. Sallustio e Tacito sono esempi di spicco di annalisti graccani.
Una monografia è un lavoro esaustivo su un singolo argomento. La monografia poteva riguardare un
singolo evento, una tecnica, la retorica o uno qualsiasi di numerosi altri argomenti. Ad esempio, Plinio il
Vecchio una volta pubblicò una monografia sulle lance in uso dalla cavalleria. Le monografie erano fra i
avori storici e più comuni ritrovati negli scritti romani.
L'espressione Ab urbe condita, letteralmente "dalla fondazione della città" descrive la tradizione romana di
cominciare la storia dalla fondazione della città di Roma come, ad esempio, in Tacito, Tito Livio, Sallustio ed
altri. Nell'opera Ab Urbe condita di Tito Livio, la maggior parte del tempo è dedicato alla prima storia di
Roma e alla fondazione della città stessa. Nelle storie di Sallustio, la fondazione e la storia antica di Roma
viene trattata in poche frasi. Pertanto il modello 'Ab urbe condita' assume un'estrema variabilità mentre
continua a sfornare storie romane.
Con "Storia senatoriale" s'intende la storia che è stata scritta direttamente, o le cui fonti provengono, dal
Senato romano. Le storie senatoriali sono in genere considerate attendibili visto che si originavano da
"addetti ai lavori". Un modello comune delle storie senatoriali è che esse sembrano invariabilmente
indicare una ragione per cui l'autore si sta dedicando ad esse invece di occuparsi di politica.
Gli annalisti sillani diedero una linea politica al loro passato. Essi, attraverso le loro storie, che spesso
rimaneggiavano per adattarle alle proprie convinzioni, erano sostenitori della fazione di Silla che portava
avanti il conflitto con Mario. Alcuni annalisti sillani potrebbero aver rappresentato delle fonti per Tito Livio.
Anche Valerio Anziate era un annalista sillano, ma non era ritenuto uno storico credibile. Si crede che abbia
tentato di contrapporsi allo storico filo-Mariano Gaio Licinio Macro. La storia di Valerio Anziate, scritta in
settantasei libri, è melodrammatica e spesso infarcita di esagerazioni e bugie. Nella sua storia, chiunque si
chiami Cornelio è considerato un eroe e chiunque si chiami Claudio è un nemico e gli oppositori ai
populares non ebbero mai un nome vero e proprio, ma furono chiamati invece boni, optime o optimates,
sottintendendo che quelli fossero i bravi ragazzi.
La storiografia romana è anche ben conosciuta per gli stili di scrittura sovversivi. Le informazioni nelle
antiche storie romane sono spesso comunicate attraverso la suggestione, l'allusione, l'implicazione e
l'insinuazione perché i loro atteggiamenti non sarebbero stati sempre ben compresi. Tacito si oppose agli
imperatori ritenendo che essi fossero una delle ragioni del declino di Roma. Tacito scrisse, denigrandolo,
persino di Augusto, il più celebre ed adorato degli imperatori. Naturalmente, queste opinioni dovevano
essere tenute celate, dato che non sarebbero state molto ben accolte.
Nella storiografia romana i commentarii rappresentano semplicemente una lista di appunti grezzi non
destinati alla pubblicazione. Non erano considerati storia nel senso "tradizionale" del termine perché
mancavano del linguaggio necessario e dell'abbellimento letterario. In seguito, i Commentarii venivano di
solito trasformati in "storia". Molti ritengono che il resoconto di Cesare delle guerre galliche, il Commentarii
Rerum Gestarum venne chiamato commentarii per scopi propagandistici. Si ritiene che si tratti realmente di
"storia", dato che è scritta così bene, è filo-romana e si adatta molto bene ai modelli tradizionali della
storiografia.
Gli antichi storici romani non scrivevano nell'interesse di scrivere, ma sforzandosi di convincere i loro
lettori. La propaganda è sempre presente ed è la base della storiografia romana. Gli antichi storici romani
avevano tradizionalmente un bagaglio personale e politico e non erano osservatori neutrali. I loro resoconti
venivano scritti secondo le proprie convinzioni morali e politiche. Ad esempio Quinto Fabio Pittore avviò la
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tradizione della storiografia che si preoccupava della moralità e della storia, ed affermava il prestigio dello
stato romano e della sua gente.
Gli antichi storici romani scrissero storie pragmatiche allo scopo di arrecare benefici ai politici futuri. La
filosofia della storia pragmatica tratta gli eventi storici con particolare riferimento alle cause, alle condizioni
e ai risultati. Nella storiografia romana vengono presentati i fatti e l'impressione di quello che i fatti
significano. L'interpretazione fa sempre parte della storiografia; i romani non fecero mai delle simulazioni al
riguardo. Anzi, il contrasto tra i fatti e l'interpretazione di quei fatti è indice di un bravo storico. Polibio fu il
primo storico pragmatico. Le sue storie hanno un ethos aristocratico e rivelano le sue opinioni sull'onore, la
ricchezza e la guerra. Anche Tacito era un pragmatico. Le sue storie hanno qualità letteraria ed
interpretazioni di fatti ed eventi. Lui non era propriamente obiettivo, piuttosto i suoi giudizi servivano da
funzione morale.
tuttavia trattarsi di una vendetta politica messa in atto da parte dell'oligarchia senatoria, e in particolare da
Appio Claudio Pulcro e Lucio Calpurnio Pisone, censori in carica quell'anno e di dichiarata fede pompeiana.
Subito dopo l'espulsione dal senato, Sallustio raggiunse Cesare in Gallia, mentre si accingeva a completarne
la conquista, e fu al suo fianco nella guerra civile del 49 A.C., durante la quale Sallustio divenne uno dei capi
del partito cesariano; lo stesso anno fu riammesso in senato per intercessione di Cesare, mentre due anni
dopo gli fu assegnata la pretura. Durante il conflitto svolse alcuni importanti incarichi militari, in particolare
una fortunata spedizione nel 46 a.C., durante le operazioni in Africa, contro l'isola di Cercina (l'attuale
Chergui nell'arcipelago delle isole Kerkennah), presidiata dai pompeiani, allo scopo di derubarli delle riserve
di frumento. Nello stesso anno prese parte alla decisiva battaglia che ebbe luogo Tapso; in tale occasione
probabilmente diede buona prova di sé, dato che, dopo la sconfitta dei pompeiani, gli fu riconferita la
pretura e fu nominato governatore (con il titolo di propraetor) della neonata provincia nordafricana
dell'Africa Nova, originatasi dal disfacimento del regno di Numidia. Nei diciotto mesi del suo mandato poté,
secondo il malcostume del tempo, arricchirsi a dismisura, impadronendosi delle ricchezze dell'ultimo re
numida, Giuba I, ed incassando tangenti sugli appalti pubblici. Il suo malgoverno gli valse, al rientro a Roma,
l'accusa de repetundis.
Tornato a Roma nel 44 a.C., con i soldi accumulati durante il suo proconsolato acquistò una proprietà a
Tivoli, precedentemente appartenuta a Cesare, e si fece costruire nell'Urbe una sontuosa dimora fra il
Pincio e il Quirinale nota col nome di Horti Sallustiani ("Giardini sallustiani"), dal nome dei grandiosi giardini
(hortus significa infatti giardino) che circondavano il suo palazzo.
Accusato nuovamente di concussione, riuscì con estrema difficoltà ad evitare la condanna, ma la sua
carriera politica, irrimediabilmente compromessa a seguito di questo episodio, poteva dirsi definitivamente
conclusa. Fu forse lo stesso Cesare a suggerirgli, o addirittura imporgli, il ritiro a vita privata per evitargli
un'ulteriore condanna ed una nuova e degradante espulsione dal Senato.
In seguito sposò Terenzia, ex moglie di Cicerone, dal quale aveva divorziato nel 46 a.C.
Con la morte di Cesare, avvenuta alle idi di marzo (il 15 marzo) del 44 a.C., ebbe termine definitivamente la
carriera politica di Sallustio. Egli si dedicò allora all'otium privato ed alla composizione delle sue opere
storiche: le due monografie De Catilinae coniuratione e Bellum Iugurthinum e le Historiae, rimaste però
incompiute a causa della morte dello storiografo, avvenuta intorno al 35-34 a.C. (molto probabilmente il 13
maggio del 34), all'età di 52 anni.
Prima dell'esperienza monografica di Sallustio nella storiografia romana, salvo rari casi, la tipologia di opere
principalmente redatte erano i regesti, nei quali gli eventi erano narrati secondo una scansione per annum,
ovvero anno per anno. Sallustio è dunque colui che introduce a Roma il genere monografico, che consiste
nel raccontare solo un determinato fatto (come dirà lui nel De Catilinae coniuratione - cap. 4,2, vedi la
citazione sopra -, carptim = per episodi, monograficamente), arricchendolo di un'accurata indagine
introspettiva atta ad esaminare il contesto e le cause più viscerali che hanno contribuito al suo scatenarsi.
Sallustio crea una storiografia di carattere politico e una storiografia di carattere filosofico. L'obiettivo di
quest'ultima è storico, ma il risultato finisce per essere una filosofia della storia: il continuo scontro fra il
bene e il male. Sallustio è considerato il rinnovatore della storiografia latina. Il suo stile è fondato
sull'inconcinnitas e trae origine da due illustri modelli: lo storico greco Tucidide, il noto predecessore
Marco Porcio Catone, detto il Censore. Al contrario di Cicerone che si esprimeva con uno stile ampio,
articolato, ricco di subordinazione, Sallustio preferisce un discorso irregolare, pieno di asimmetrie, antitesi
e variazioni di costrutto; tale stile prende nome di inconcinnitas (disarmonia). La padronanza di una tecnica
simile crea un effetto di gravitas, producendo un'immagine essenziale di quello che si descrive.
Da Tucidide, Sallustio prende l'essenzialità espressiva, le sentenze brusche ed ellittiche, l'irregolarità e
variabilità (variatio) del testo, un periodare parattattico, pieno di frasi nominali, omissione dei legami
sintattici, ellissi dei verbi ausiliari (con un uso ritmato e continuo dell'infinito narrativo e del chiasmo): sono
evitate le strutture bilanciate e le clausole ritmiche del discorso oratorio. Da Catone prende l'eloquio
solenne, moralmente atteggiato, una lingua a volte severa ed aulica, a volte popolare, ruvida nelle forme,
austera e dalla pàtina arcaica, come nel lontano modello epico che anticipa la storiografia nella narrazione
delle gesta collettive. Il periodare essenziale è arricchito dagli arcaismi, che esaltano le frequenti
allitterazioni e asindeti.
Già dall'antichità fu riconosciuta a Sallustio una certa fama che col tempo non è andata scemando.
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Nel periodo immediatamente successivo alla morte di Sallustio, circola contro di lui una Invectiva in
Sallustium, erroneamente attribuita a Cicerone e considerata l'accesa replica all'Invectiva in Ciceronem,
anch'essa di dubbia origine; ma pare si tratti in entrambi i casi di un falso preparato in una scuola di
retorica. In seguito il commediografo Leneo si avventa contro di lui scagliandogli una satura, con la quale lo
accusa di aver saccheggiato e defraudato Cicerone. Apprezzato da Marziale e Quintiliano, ma criticato
piuttosto aspramente da Tito Livio e Asinio Pollione per l'eccessivo arcaismo, Tacito lo prende a modello del
suo "moralismo tragico" per comporre il De vita et moribus Iulii Agricolae (Vita e costumi di Giulio Agricola),
nel quale accende un'aspra polemica contro l'avida politica imperialistica di Roma, prendendo spunto
dall'analoga denuncia nel Bellum Iugurthinum. Fu celebrato ed ampiamente imitato nell'età degli Antonini
(Antonino Pio, Marco Aurelio e Commodo). Zenobio, paremiografo greco, traduce nella sua lingua tutti gli
scritti sallustiani. Fu apprezzato sia da pagani che da cristiani e fu ripreso sia nel Medioevo per i contenuti
morali sia in età umanistica per il pessimismo moralistico e la sentenziosità; lo apprezzò molto anche
Brunetto Latini, precettore di Dante Alighieri. Durante l'epoca umanistica viene preso come modello per la
prosa assieme a Tacito, in particolar modo da Leonardo Bruni ed Angelo Poliziano. Proprio il Poliziano
scrisse nel 1478 un commentarium (Pactianae coniurationis commentarium), di stile ed argomentazione
sallustiana, riguardante la congiura dei Pazzi. Tuttavia a partire dalla seconda metà del Cinquecento a lui
verrà preferito Tacito, sia come approccio linguistico che come stile.
Nel Settecento Vittorio Alfieri curerà due traduzioni in italiano delle monografie sallustiane. Il filosofo
tedesco Friedrich W. Nietzsche riconoscerà - nel «Crepuscolo degli Idoli» - a Sallustio il merito di averlo
destato nel gusto per lo stile, «dell'epigramma come stile».
tema dell'altra digressione, di grande tensione etico-politica, posta poco oltre la metà dell'opera, nei
capitoli 36,5-39, che ripercorre le cause che spinsero la plebe a dar credito alla rivoluzione di Catilina. La
nobilitas corrotta, invece di costituire, come in passato, la guida sicura dello stato, poteva ormai piegarsi a
forme di vera criminalità politica: Catilina è l'incarnazione del pericolo eversivo che minacciava ormai
apertamente la res publica.
concordia tra i ceti possidenti, bisogna ampliare la base senatoria, "arruolando nuove leve" dall'élite
municipale. Erano questi i punti salienti del programma intrapreso da Cesare nella breve durata della sua
dittatura ed è ben noto che Sallustio, oltre ad essere fiero oppositore della classe senatoria, era un aperto
sostenitore della politica cesariana. Il piano riformista di Cesare si basava sull'alleanza di classe tra gli
equites (che detenevano in esclusiva il monopolio commerciale) e l'allora potentissimo esercito.
per maggiore efficacia di analisi, di collocarla sullo sfondo di una visione più organica della storia romana.
Tale visione d'insieme emerge in alcuni momenti salienti delle due opere; per il resto Sallustio procede per
quadri emblematici ed approfonditi.
Ciascuna satira recava un titolo, desunto da proverbi (Cave canem con allusione alla mordacità dei filosofi
cinici) o dalla mitologia (Eumenides contro la tesi stoico-cinica per cui gli uomini sono folli, Trikàranos, il
mostro a tre teste, con un maligno riferimento al primo triumvirato).
Virgilio venne quindi rappresentato come vate, maestro e profeta nella Divina Commedia (Purgatorio,
canto XXII, vv. 67-72) da Dante Alighieri, il quale ne fece la propria guida attraverso i gironi dell'Inferno e del
Purgatorio.
Enea inoltre non rispecchia fedelmente i modelli omerici, Achille ed Ulisse. Infatti non è curioso ma cerca
solo il fato che lo fa andare avanti (labor = fatica), è valoroso ma non cerca guerre (labor = guerra).
Nei primi sei libri del poema svolgono un ruolo determinante Didone, la regina di Cartagine, e Anchise, che
profetizzerà al figlio Enea il destino glorioso dei suoi discendenti.
Nemico principale di Enea è Turno, il giovane re dei Rutuli, a tratti feroce in guerra; ma mai presentato
come figura negativa. Turno è anch'egli un uomo animato da profonda religiosità, tratta con grande rispetto
i genitori della promessa sposa e lo si vede spesso in ansia per la sorte del suo popolo: l'unico suo tratto
poco nobile è una certa tendenza all'ostentazione. Agli antipodi di Enea sta semmai il maggior alleato di
Turno, Mezenzio, per il suo spregio verso dei e nemici: tuttavia la morte di suo figlio Lauso rivelerà anche in
quest'uomo apparentemente insensibile alcuni tratti di insospettata umanità.
L'Eneide è anche il poema degli eroi giovanissimi, strappati troppo presto alla vita per colpa della guerra: il
poeta si commuove sempre per la loro morte, siano essi di parte troiana e filotroiana (Eurialo, Niso, Corebo,
Pallante, Salio) o italica (Tarquito, Clizio, Lauso, il cortigiano Almone, i gemelli Laride e Timbro, il bellissimo
Serrano, e altri ancora).
L'Eneide, come gli altri poemi epici classici, è scritta in esametri dattilici, il che significa che ogni verso ha sei
piedi composti da dattili e spondei. La metrica del poema ricopre la stessa funzione delle rime usate dai
poeti moderni: è un modo per rendere la composizione più gradevole all'ascolto. Virgilio fa inoltre ampio
uso di figure retoriche come l'allitterazione, l'onomatopea, la sineddoche e l'assonanza.
Il testo dell'Eneide è quasi interamente dedicato alla presentazione del concetto filosofico della
contrapposizione. La più facile da riscontrare è quella tra Enea che, guidato da Giove, rappresenta la pietas
intesa come devozione e capacità di ragionare con calma, e Didone e Turno che, guidati da Giunone,
incarnano il furor, ovvero un modo di agire abbandonandosi alle emozioni senza ragionare. Altre
contrapposizioni possono essere facilmente individuate: il Fato contro l'Azione, Roma contro Cartagine, il
maschile contro il femminile, l'Enea simile ad Ulisse dei libri I-VI contro quello simile ad Achille dei libri VII-
XII.
La pietas era il valore più importante di ogni onesto cittadino romano e consisteva nel rispetto di vari
obblighi morali: gli obblighi verso gli dei, verso la patria, verso i propri compagni, e verso la propria famiglia.
Virgilio insiste sulle forti relazioni presenti tra padri e figli: i legami tra Enea e Ascanio, Anchise ed Enea,
Evandro e Pallante, Mezenzio e Lauso, Dauco e i suoi figli gemelli, sono tutti in vario modo degni di essere
attentamente valutati. Molta rilevanza nel poema ha anche il sentimento dell'amicizia al maschile tra
commilitoni (Eurialo e Niso, Cidone e Clizio, Enea e Acate, Turno e Ramnete, Turno e Murrano); che talora
può sconfinare nell'eros. Il poema riflette evidentemente gli intenti della riforma morale intrapresa da
Augusto e quindi intende presentare degli edificanti esempi alla gioventù romana.
Il principale insegnamento dell'Eneide è che, per mezzo della pietas, si deve accettare l'operato degli dei
come parte del destino. Virgilio tratteggiando il personaggio di Enea allude chiaramente ad Augusto e
suggerisce che gli dei realizzano i loro piani attraverso gli uomini: Enea doveva fondare Roma, Augusto deve
guidarla, ed entrambi devono sottostare a quello che è il loro destino.
come ricompensa per i servigi da loro resi. L'esproprio delle terre fu per Virgilio un'esperienza drammatica,
ed egli lo visse come un sintomo di barbarie.
Per Virgilio la poesia pastorale non era però semplicemente imitazione di Teocrito o mero esercizio
letterario; era qualcosa di strettamente connesso con la sua indole e le sue esperienze. L'esperienza della
guerra, dell'ingiustizia dell'esproprio, delle brutali vicende politiche, dalle quali il poeta fu sorpreso e
coinvolto nella filosofia, proprio là dove aveva sperato di essere al riparo da ogni affanno, servì a formare in
lui una certa concezione della vita come dominata dal dolore, dall'ingiustizia, che è propria delle Bucoliche.
Per Virgilio la poesia è un mezzo con il quale superare le passioni attraverso l'armonia, per creare una via di
fuga dalla tragica realtà di guerra e di stragi attraverso la contemplazione della natura.
Virgilio s'immedesima nei suoi pastori: in qualche modo essi rappresentano lui stesso. L'ironia di Teocrito
cede dunque il passo ad un'accorata partecipazione da parte del poeta mantovano; i pastori virgiliani
partecipano di più alle vicende, sono più inseriti nella realtà rispetto a quelli di Teocrito, e sono sempre
caratterizzati da un'ombra di malinconia, che si rispecchia nel paesaggio: l'ambientazione delle Bucoliche è
la fredda, nebbiosa pianura padana, spesso raffigurata al crepuscolo; quella degli Idilli è la Sicilia, dove la
natura è rigogliosa, e c'è sempre sole e caldo. Virgilio rinuncia all'impostazione geografica teocritea perché i
pastori siciliani erano ormai al servizio dei latifondisti romani, e non potevano più essere considerati come i
pastori dell'amore e del canto.
La principale differenza tra Teocrito e Virgilio è però il modo singolare in cui il poeta siracusano accosta il
realismo delle condizioni dei pastori a una grande raffinatezza in quanto a lessico e scelta metrica: negli
Idilli, Lìcida, un capraio, viene descritto esattamente come tale - con la pelle di un irsuto caprone, odorosa
di caglio sulle spalle, e con una vecchia tunica intorno al petto – ma si esprime tuttavia nei suoi discorsi in
modo elegante e ricercato; I pastori dell'Arcadia di Virgilio non compiono invece lavori logoranti o
degradanti, ma modulano “canti silvestri sul flauto sottile”, e nel loro mondo sereno si rifugiano dalla
tragica realtà; sono privi tanto della crudezza della vita di campagna quanto della eccessiva complessità di
quella di città. Virgilio si distacca dunque dal realismo per trasfigurare il paesaggio agreste in un locus
amoenus dove realizzare l'otium. L'Arcadia, che è il locus amoenus dei pastori virgiliani, è carico di
significati metaforici: è un luogo di riparo, un luogo dove vivere e cantare l'amore, anche deluso, ed è il
luogo della civiltà contrapposta alla barbarie. È un simbolo di felicità, un'immagine reale ma intatta della
realtà, immobile nello spazio e nel tempo, dove nulla si trasforma.
La prima egloga tratta dell'incontro tra due pastori, Titiro e Melibeo, che discutono riguardo all'abbandono
delle proprie terre. Secondo la critica, questa vicenda rimanda a fatti storici del tempo; in quel periodo,
infatti, Augusto aveva dato inizio a un esproprio di terre avvenuto in 18 città del Lombardo Veneto,
Mantova e Cremona, perché venissero distribuite tra i veterani nel 42 a.C. dopo la fine della battaglia di
Filippi.
Molti studiosi tendono ad identificare il personaggio del pastore Titiro nello stesso poeta Virgilio: il pastore
infatti, per intercessione di uno iuvenem, presumibilmente Augusto, riesce a salvare i suoi poderi; secondo
la tradizione biografica antica, anche Virgilio ne è dapprima spossessato, ma poi riuscì a riottenerli
mediante l'intervento degli amici Varo, Gallo, Pollione, vicini ad Augusto. A partire da ciò, studiosi hanno
letto le Bucoliche in chiave allegorica, cogliendo in ogni personaggio e situazione un riferimento storico.
Tuttavia, l'ipotesi è insoddisfacente, e non ci sono elementi certi che convalidino questa tesi. Titiro
potrebbe effettivamente essere Virgilio o potrebbe non esserlo; quello che è sicuro, è che il tema
dell'abbandono delle campagne e della violenza dei negotia lasciano una traccia profonda in Virgilio. Nelle
Bucoliche è dunque presente un forte legame con la contemporaneità, dato della poetica dell'autore.
Anche qui, come nelle Bucoliche, non troviamo componimenti sciolti ma un vero e proprio poema. I quattro
libri che lo compongono possiedono una chiara autonomia tematica, ma sono collegati da un piano
complessivo e da sottili riferimenti interni: il primo e il terzo terminano in modo pessimistico, il secondo e il
quarto in modo ottimistico. I primi due libri parlano di una natura inanimata (cioè campi e alberi), mentre
gli ultimi due si riferiscono ad una natura viva (il bestiame e le api).
I proemi, inoltre, si alternano tra lunghi, nei libri dispari, e brevi, nei libri pari: i più importanti sono quelli
del I e del III libro, in cui ricorrono anche inni di lode ad Ottaviano. Anche per quanto riguarda le digressioni
conclusive, si possono notare corrispondenze simmetriche. La descrizione delle guerre civili, nel libro I, si
lega a quella del libro III sulla peste che colpisce gli animali del Norico (gli orrori della storia e gli orrori della
natura); l'elogio della vita campestre, nel libro II, si oppone agli orrori della guerra e la rinascita prodigiosa
delle api, nel libro IV, risponde alla morte per pestilenza.
Il poema, benché rimanga all'interno del genere didascalico, non vuole solo spiegare il lavoro dei campi o
fornire indicazioni tecniche sull’agricoltura: mira anche a esaltare l'attività agricola come palestra di virtù
civili e partecipazione del cittadino a vantaggio della collettività, in accordo con l'ideologia augustea.
Virgilio, in alcuni punti, sembra rifarsi a Lucrezio, il poeta latino autore del poema didascalico De Rerum
Natura, anche se non condivide pienamente la sua visione della natura. Sotto certi aspetti preferisce
l’orientamento stoico; per altri, come la suddetta esaltazione del mondo agricolo e la sua minuziosa
descrizione, il poeta latino sembra avvicinarsi molto al greco Esiodo, con le sue Opere e i giorni (Ἔpγα καὶ
ἡμέραι).
Si avverte in lui la volontà di costruire intorno all’uomo un mondo “complice”: il mondo della natura
campestre è l’unico adatto ad una vita sana e virtuosa in contrapposizione alla vita cittadina e alla sua
corruzione.
La digressione sulle origini del lavoro presenta quest'ultimo come dono di Giove all'uomo affinché egli,
spinto dalla necessità, acuisse l'ingegno ideando le varie attività e perseguendo il progresso. In questo mito
Virgilio fuse due opposte concezioni del lavoro, una di Esiodo e l'altra di Lucrezio. Del primo mantenne il
valore sacrale del lavoro eliminandone il carattere punitivo (per Esiodo era una condanna di Giove), del
secondo mantenne il valore positivo ed eliminò i tratti laici e razionalistici (per Lucrezio erano stati la fatica
e l'ingegno dell'uomo a segnare la sua evoluzione dall'età primitiva all'età civile).
Il lavoro visto non più come una condanna, ma come dono divino, viene rivalutato dal punto di vista etico e
culturale. Da questo punto di vista assume una particolare importanza la figura delle api nella digressione
del IV libro. L'autore mostra le api riprendendo la metafora sociale di Cicerone: esse hanno
un’organizzazione comunitaria, caratterizzata dalla fedeltà alla casa e alle leggi, dalla condivisione delle
risorse e dalla dedizione al lavoro, in una tipica visione stoica della società. Le api, inoltre, sono disposte
anche al sacrificio personale per il bene comune e mantengono l’assoluta dedizione al capo: tutti elementi
del più puro idealismo augusteo. Con le Georgiche, Virgilio abbandonò la dolcezza consolatoria della natura
presente nelle Bucoliche per trasformare la natura in cultura, grazie al lavoro dell'uomo.
Nel Libro I vi si trova la dedica a Mecenate e al Princeps; spiega i vari aspetti della coltivazione dei campi:
qualità dei terreni, metodi (come aratura e semina), i segni celesti che il pastore deve leggere per evitare le
calamità naturali. Importanti gli excursus sulle origini del labor, su quelle del calendario e sui prodigi celesti
avvenuti dopo la morte di Cesare. Il libro termina raccontando della devastazione provocata nei campi dalle
guerre civili.
Nel Libro II c'è l'invocazione a Bacco e descrizione della coltivazione delle piante: le varietà, i metodi.
Particolare attenzione hanno la vite e l’olivo. Lodi all'Italia, in quanto terra fertile e ricca di eroi, e alla
primavera. Conclude con l'elogio della serena vita agreste.
Nel Libro III c'è l'invocazione agli dei, lode ad Augusto e preludio dell'Eneide; metodi di allevamento del
bestiame: buoi, cavalli, pecore e capre. Presente anche una sezione dedicata a cani e serpenti. Digressione
sulla pestilenza che sterminò il bestiame nel Norico.
Nel Libro IV nuova dedica a Mecenate e invocazione ad Apollo. Descrizione dell’apicoltura: descrive
abitudini e specie, spiega qual è la stagione migliore per prelevare il miele e come curare le malattie che le
colpiscono. Excursus sul vecchio di Còrico e narrazione dell'epillio del pastore Aristeo, con inserimento in
questo di una digressione del mito di Orfeo ed Euridice. È probabile che tale digressione abbia preso il
posto di un elogio a Gaio Gallo, amico di Virgilio, caduto in disgrazia presso l'imperatore a causa di una
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presunta congiura. Nell'epilogo dell'opera l'autore ricorda il soggiorno napoletano e la composizione delle
Bucoliche.
terrena. Dai versi di Orazio, quando il poeta parla della morte, risulta davvero difficile cogliere una nota di
serenità, di gioia: il sentimento che invece predomina e che si identifica nella reazione psicologica del poeta
di fronte alla morte, è una triste accettazione di un fatto naturale.
Inutile e vana è la religione, incapace di porre un rimedio (moram) all’incalzante vecchiaia e alla morte. La
religione è ormai incapace di dare spiegazioni sufficienti riguardo alla vita dopo la morte, il fervore religioso
(pietas) non potrà salvare l’uomo dalla sua naturale condizione di mortale.
È davvero grande la differenza che corre tra l’attacco e la critica che Lucrezio aveva fatto nei confronti della
religio, accusata di offuscare la ragione e di far nascere inutili tribolazioni e angosce, e questa, che suona
più come una triste constatazione dell’incapacità di essere rasserenati da una religione nella quale non si
riesce più a credere. Orazio appare a tratti molto pessimista: la morte è sempre in agguato e la vita
potrebbe finire in ogni momento; è meglio, quindi, non riporre le proprie speranze nel domani.
Il tempo è in una fuga perpetua, che non lascia adito a speranze future: occorre sfruttare al massimo il
tempo che ci è concesso, e considerare ogni momento che ci è dato come un dono; la sua concezione della
fuga temporis sarà un perfetto modello per un grande poeta italiano come Francesco Petrarca, che, dopo
aver letto classici come Orazio, Seneca e Agostino, lamenterà, nel Canzoniere, la caducità del tempo e la sua
essenza fuggitiva in liriche come La vita fugge via e non s'arresta un'ora, molto vicina alla poetica oraziana.
La morte non è, al contrario di quanto si crede, un evento che ci attende alla fine del nostro percorso vitale,
ma è qualcosa che ci lasciamo dietro ogni giorno e dietro ogni momento, che estingue e brucia, attraverso il
tempo.
Orazio è considerato dal classicismo uno dei più importanti poeti latini, citato addirittura nell'Inferno di
Dante nel Limbo, al verso 89 del Canto IV. Molte delle sue frasi sono diventate modi di dire ancora in uso:
esempi sono carpe diem, nunc est bibendum e aurea mediocritas, oltre che Odi profanum vulgus, et arceo,
e, recentemente, gli è stato intitolato anche un cratere sulla superficie di Mercurio.
Dal punto di vista più prettamente stilistico Livio procede sulle orme di Erodoto (più fiabesco) e segue il
modello di Isocrate, con la sua eloquenza piacevolmente narrativa.
Nato il 20 marzo del 43 a.C. a Sulmona da una famiglia facoltosa, appartenente alla classe equestre. A 12
anni si reca a Roma con il fratello Lucio, poi morto prematuramente, per completare gli studi. Frequenta le
lezioni di grammatica e retorica dei più insigni maestri della capitale, in particolare Marco Arellio Fusco e
Marco Porcio Latrone. Il padre lo vorrebbe oratore, ma Ovidio si sente già più portato per la poesia. Seneca
il Vecchio ricorda che Ovidio declamava raramente, per lo più suasorie. Più tardi Ovidio si recò, com'era
costume ormai da un secolo, in Atene, visitando durante il viaggio di ritorno le città dell'Asia minore; fu
anche in Egitto e per un anno soggiornò in Sicilia.
Tornato a Roma, Ovidio intraprende la carriera pubblica, senza distinguersi per zelo o importanza di
honores. È uno dei decemviri stilibus iudicandis e dei tresviri, i funzionari, forse, di polizia giudiziaria. Non
aspira poi al Senato romano, pago della propria dignità equestre; contrariamente al fratello e contro la
volontà di suo padre si dedica agli studi letterari. Inizialmente ha contatti con il circolo di Messalla Corvino
(filorepubblicano), che lo stimola a dedicarsi alle lettere; più tardi invece entra nel circolo di Mecenate
(filoaugusteo), conoscendo i più importanti poeti del tempo: Orazio, Properzio, Tibullo e, per poco tempo,
Virgilio. Tale ambiente aiuta Ovidio, che in questi anni ritrova la serenità e l'incentivo necessario per
esprimersi e produrre. Siamo nel periodo storico della pax augustea e i costumi di Roma tendono a
rilassarsi, c'è una concezione più libera e rilassata della morale che arriva dall'influenza ellenistica.
Ovidio è il più giovane dei poeti elegiaci e si differenzia in gran parte da loro. Se essi rifiutavano il mos
maiorum (le tradizioni degli avi) ma ne desideravano i benefici, Ovidio rifiuta questa contraddizione e il mos
in toto. Si può parlare anche di relativismo, poiché rifiuta i valori fissi e rigidi della vecchia società romana
per aprirsi alle mode del tempo, cercando di assecondare il gusto volubile del pubblico.
Ovidio si sposa per tre volte: ma se, nei primi due casi, divorzia presto, il terzo è invece il più significativo.
Delle prime due mogli non si sa nulla, tranne che da una di loro nasce Ovidia, a sua volta scrittrice colta. Il
terzo matrimonio avviene con Fabia, fedele consorte nella gioia e nel dolore, della quale il poeta, nelle sue
opere, conserva un ricordo commosso.
Nell'8 d.C., caduto in disgrazia presso Augusto, Ovidio viene relegato nella lontana Tomi (oggi Costanza), un
piccolo centro sul mar Nero, nell'attuale Romania.
Il poeta dunque attribuisce l'esilio ad un carmen et error, ma tale vaga espressione ha favorito il proliferare
di interpretazioni diverse, alcune probabili, altre più fantasiose, riguardo al possibile error:
Ovidio avrebbe avuto illecite relazioni con la figlia di Augusto Giulia maggiore, cantata negli Amores con lo
pseudonimo di Corinna; sarebbe stato sospettato di favoreggiamento e forse di correità nelle relazioni di
Giulia minore, nipote di Augusto e moglie di Lucio Emilio Paolo, col giovane patrizio Decimo Bruto Silano;
avrebbe scoperto illeciti rapporti di Augusto a corte o avrebbe curiosato imprudentemente sulla condotta
privata e sulle abitudini intime dell'imperatrice Livia; avrebbe assistito a qualcuno degli sfoghi di ira a cui
era soggetto Augusto, specialmente dopo il disastro di Publio Quintilio Varo; avrebbe partecipato alla
congiura di Agrippa Pòstumo, pretendente al trono, contro Tiberio.
Il termine carmen farebbe invece riferimento alle opere di Ovidio, in contrasto con i princìpi della
restaurazione augustea (specialmente l'Ars amatoria). Alla base della condanna c'è sicuramente un fatto
personale molto grave, tale da giustificare l'improvvisa decisione e da impedire il ritorno in patria del poeta,
nonostante le suppliche sue e degli amici.
Ovidio infatti non fa più ritorno nella capitale e muore tra il 17 e il 18 d.C. (più probabilmente nel 18), dopo
un decennio di relegazione in una terra selvaggia, a lui del tutto estranea.
L'oscurità delle cause dell'esilio di Ovidio ha dato luogo a infinite spiegazioni. Ovidio fa più volte riferimento
al suo reato, fornendo però spiegazioni vaghe o contraddittorie. Per questo, nel 1923, J.J. Hartmann
propose una nuova teoria: che Ovidio in realtà non abbia mai patito la relegatio, e che il riferimento
all'esilio sia il prodotto della sua fervida immaginazione. Questa teoria è stata sostenuta e respinta negli
anni trenta del '900, soprattutto da autori olandesi.
Nel 1985, uno studio di Fitton Brown ha avanzato nuove argomentazioni a sostegno dell'ipotesi; l'articolo
ha provocato una piccola polemica, con una serie di riprese e confutazioni. L'elemento principale affermato
da Fitton Brown per negare la realtà dell'esilio è che questo viene menzionato solo o soprattutto nelle
opere dello stesso Ovidio, e non si trovano riferimenti ad esso anche dove sarebbe stato lecito aspettarseli
(ad esempio in storici che hanno trattato l'età di Augusto come Tacito o Svetonio). Le eccezioni, di poco
posteriori alla morte di Ovidio, sono costituite da due brevissimi passaggi in Plinio il Vecchio, e in Stazio.
Poi, più niente fino al IV secolo, con brevi menzioni in Girolamo e nell'Epitome de Caesaribus.
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Oggi, tuttavia, la maggior parte degli studiosi ritiene poco credibili le ipotesi che negano la realtà dell'esilio
di Ovidio. Ovidio scrisse un gran numero di opere, che possono essere facilmente divise in tre gruppi: le
opere giovanili o amorose, le maggiori o della maturità e le opere dell'esilio. Altre opere sono andate
pressoché perdute, mentre altre sono state erroneamente attribuite al poeta.
Amores, in tre libri: 49 carmi che narrano la storia d'amore per una donna chiamata Corinna
(personaggio letterario), secondo lo stile e le convenzioni dell'elegia amorosa: il poeta è asservito
alla domina, soffre per le sue infedeltà, è geloso degli altri ammiratori e contrappone la vita militare
alla vita amorosa. Ma Ovidio non soffre drammaticamente come Catullo e mantiene sempre un
certo distacco intellettuale: vede l'amore come un gioco e questa concezione amorosa si traduce e
si esplica in un ribaltamento degli atteggiamenti e dei temi tradizionali (Ovidio giunge ad amare
anche due donne contemporaneamente, chiede all'amata di non essergli fedele ma di nascondergli
i tradimenti affinché lui possa fingere di non sapere).
Medea: tragedia a noi non pervenuta, ma lodata dai contemporanei.
Heroides: 21 lettere che Ovidio immagina scritte da donne famose ai loro amanti. Tre lettere, in
particolare, hanno una risposta da parte dell'uomo amato. Si tratta di una tipologia completamente
nuova per la letteratura latina: il filone erotico-mitologico viene per la prima volta svolto in forma
epistolare (alcuni studiosi hanno trovato per questo analogie con le suasoriae, discorsi fittizi rivolti a
personaggi mitici o storici per persuaderli o dissuaderli in determinate circostanze). Vi sono
numerosi parallelismi con l'epica e con la tragedia (in particolare i monologhi delle eroine
euripidee) e non mancano addirittura rivisitazioni e riscritture di alcuni miti (come nel caso della
lettera di Fedra a Ippolito, nella quale la matrigna veste i panni di una scaltra seduttrice piuttosto
che quelli di una donna disperata).
Ars amatoria, in tre libri. Secondo Concetto Marchesi, si tratta del "capolavoro della poesia erotica
latina" in cui Ovidio si fa praeceptor amoris, un ruolo comunque svolto da quasi tutti i poeti elegiaci
ma che, grazie a una sapiente mescolanza di generi (elegia, epica didascalica, precettistica tecnica),
riesce ad acquisire un'importanza maggiore. I primi due libri sono dedicati agli uomini e trattano,
rispettivamente, la conquista della donna e le tecniche di seduzione, e come far durare l'amore. Il III
libro si propone di dare preziosi consigli alle donne. Il modello più frequente è quello "predatorio
della caccia". L'oggetto della caccia non è più l'amore, ma il sesso. E infatti Ovidio consiglia di non
innamorarsi, ma di saper vivere l'amore come un gioco. Perciò egli ammette anche il tradimento in
una relazione. Per Ovidio il tradimento è un elemento base della società del suo periodo. Ma Ovidio
specifica anche che non si riferisce al rapporto del matrimonio e neanche alle donne perbene. Egli
dà consigli alle liberte, alle schiave e alle cortigiane. Quindi l'opera rappresenta vivacemente il
quadro sociale del tempo di Ovidio e dunque non stupisce il fatto che non sia stata apprezzata da
Augusto stesso (probabilmente per il velato rifiuto dei modelli etici arcaici).
Medicamina Faciei Feminae: operetta sui cosmetici delle donne. Di quest'opera ci sono pervenuti
solo 100 versi: i primi 50 costituiscono il proemio, i successivi 50 propongono 5 ricette di creme da
applicare sul viso.
Remedia amoris: 400 distici elegiaci per resistere all'amore o liberarsene.
Opere maggiori o della maturità:
Metamorfosi, in 15 libri di esametri. Il capolavoro di Ovidio, ultimato poco prima dell'esilio,
contiene 246 miti di trasformazioni, dal Caos all'apoteosi di Cesare e Augusto. Ovidio attinge dalle
Trasformazioni di Nicandro di Colofone opera del II secolo A.C. L'opera si chiude con una preghiera
agli dei, affinché questi preservino a lungo l'imperatore Augusto. Scritto in esametri, in quindici libri
(per circa 12 000 versi), vi si trova tutta la storia mitica del mondo, ma riorganizzata da Ovidio in
una serie di racconti continuati. Il criterio generale di compilazione segue l'ordine cronologico, ma
molto spesso Ovidio introduce eventi anteriori al fatto narrato o posteriori, collega le storie in base
a rapporti familiari, elabora i racconti secondo affinità o diversità. Insomma si tratta di un racconto
mosso e articolato, talvolta al limite dell'artificio, che mostra l'abilità stupefacente del poeta di
legare tra di loro storie che apparentemente non hanno un filo logico comune. L'unico principio
unificatore è la metamorfosi. Tra gli strumenti adottati dal poeta vi è il racconto nel racconto, grazie
al quale il poeta trasforma i personaggi "narrati" in personaggi "narranti" che raccontano vicende
proprie o altrui. L'opera lo rese illustrissimo presso i contemporanei.
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Fasti, in 6 libri. Nelle intenzioni dell'autore sarebbe dovuto essere di 12 libri, uno per ogni mese
dell' anno, ma Ovidio ne scrisse solo 6 (da gennaio a giugno) a causa dell'esilio. Egli intendeva
illustrare (secondo un procedimento simile a quello utilizzato negli Aitia di Callimaco) le feste
religiose e le ricorrenze varie del calendario romano introdotto da Cesare. Si tratta di un'opera di
carattere eziologico ed erudito, ispirata al gusto alessandrino; Ovidio narra aneddoti, favole, episodi
della storia di Roma, impartisce nozioni di astronomia, spiega usanze e tradizioni popolari. Ma
l'intento celebrativo rimane esteriore, non essendo sorretto né da un interesse storico-religioso, né
dal senso patriottico della grandezza di Roma.
Durante la relegazione scrisse:
Tristia, in 5 libri di distici elegiaci ed Epistulae ex Ponto, in 4 libri.
Ovidio riprende qui un tratto tipico della poesia elegiaca, il lamento. Ne derivano un centinaio di
componimenti, raggruppati in questi 5 libri. Le elegie dei Tristia sono senza destinatario, mentre
quelle delle Epistulae sono indirizzate a vari personaggi romani (tra cui la terza moglie del poeta,
rimasta a Roma) affinché potessero intercedere presso l'imperatore per porre fine all'esilio o,
quanto meno, trasferire il poeta in una località più vicina a Roma. Ma si tratta di elegie monotone e
ripetitive, in cui l'autocommiserazione la fa da padrona.
Epistulae ex Ponto, lettere poetiche indirizzate a vari personaggi romani.
Ibis, carme imprecatorio contro un anonimo avversario di Ovidio, prima suo amico e poi
calunniatore.
Halieutica, poemetto sulla pesca nel Ponto.
Phaenomena, poema astronomico non giunto.
Ovidio scrisse canti di vario genere, ai quali il poeta allude in particolare nelle Epistulae ex Ponto; sono:
un carme in lingua getica, in onore di Augusto e della famiglia imperiale (De Caesare);
un carme, sempre in lingua getica, in onore di Tiberio, vincitore degli Illiri;
un elogio in morte di Messalla Corvino;
un epitalamio per le nozze dell'amico Paolo Fabio Massimo.
Non sono di Ovidio, né il poemetto Nux di 182 versi (elegia in cui un noce si lamenta delle sassate che riceve
ingiustamente dai passanti), né una Consolatio ad Liviam di 474 versi, carme consolatorio alla moglie di
Augusto per la morte del figlio Druso, nel 9 a.C. Qualche tardo manoscritto li attribuisce ad Ovidio, ma
ragioni stilistiche e metriche, oltre che di contenuto, fanno pensare a qualche imitatore posteriore.
provenienza, in particolare stoica e pitagorica, e raccomandava ai suoi adepti una vita semplice e
morigerata, lontana dalla politica; Attalo fu seguace dello stoicismo con influenze ascetiche; Papirio Fabiano
fu un oratore e un filosofo, anch'egli appartenente alla setta dei Sestii, con influenze ciniche.
Seneca seguì molto intensamente gli insegnamenti dei maestri, che esercitarono su di lui un profondo
influsso sia con la parola sia con l'esempio di una vita vissuta in coerenza con gli ideali professati. Da Attalo
imparò i principi dello stoicismo e l'abitudine alle pratiche ascetiche. Da Sozione, oltre ad apprendere i
principi delle dottrine di Pitagora, fu avviato per qualche tempo verso la pratica vegetariana; venne distolto
però dal padre che non amava la filosofia e dal fatto che l'imperatore Tiberio proibisse di seguire
consuetudini di vita non romane.
Dopo essere tornato da un viaggio in Egitto iniziò l'attività forense e la carriera politica (divenne dapprima
questore ed entrò a far parte del Senato) godendo di una notevole fama come oratore, al punto di far
ingelosire l'imperatore Caligola, che nel 39 lo voleva eliminare, soprattutto per la sua concezione politica
rispettosa delle libertà civili. Si salvò grazie ai buoni uffici di una amante del princeps, la quale affermava
che comunque sarebbe morto presto a causa della sua salute.
Due anni dopo, nel 41, il successore di Caligola, Claudio, lo condannò all'esilio in Corsica con l'accusa di
adulterio con la giovane Giulia Livilla (figlia di Germanico), sorella di Caligola.
In Corsica Seneca restò fino al 49, quando Agrippina minore riuscì ad ottenere il suo ritorno dall'esilio e lo
scelse come tutore del figlio Nerone. Secondo Tacito sarebbero tre i motivi che spinsero Agrippina a
questo: l'educazione di suo figlio, attirarsi le simpatie dell'opinione pubblica (Seneca era considerato uomo
di grande cultura) e avere stretti rapporti con lui per riuscire ad impadronirsi del potere.
Seneca accompagnò l'ascesa al trono del giovane Nerone (54 - 68) e lo guidò durante il suo cosiddetto
"periodo del buon governo", il primo quinquennio del principato. Assunse un grande potere politico, che gli
consentì di divenire estremamente ricco. Si narra che avesse una collezione di cento tavoli di cedro.
Progressivamente, a causa delle intemperanze del giovane imperatore, tale rapporto si deteriorò. Giustificò
come il "male minore" l'esecuzione della madre di Nerone, Agrippina, nel 59, e se ne assunse tutto il peso
morale. In seguito, il rapporto con l'imperatore peggiorò e temendo quindi per la propria vita Seneca si
ritirò a vita privata, donando a Nerone tutti i suoi averi e dedicandosi interamente ai suoi studi e
insegnamenti. Famoso il suo epistolario con Lucilio, al tempo Governatore della Sicilia, di origine
pompeiana. Finalmente adottò quello stile di vita che andava insegnando, dimostrando di essere un
amministratore dei suoi beni e non un amministrato.
Nerone, tuttavia, continuava a nutrire una crescente insofferenza verso Seneca e Sesto Afranio Burro,
Prefetto del Pretorio, morto nel 62. Egli non aspettava che un pretesto per eliminarlo. L'occasione venne col
fallimento della congiura dei Pisoni (aprile 65) contro la sua persona, della quale Seneca forse era
solamente informato, ma di cui non si sa se sia stato partecipe. Ricevette quindi l'ordine di togliersi la vita.
Si tagliò le vene, ma poiché il sangue, lento per la vecchiaia e la denutrizione, non defluiva, dovette
ricorrere alla cicuta, veleno usato anche da Socrate. Tuttavia la lenta emorragia non gli permise di deglutire;
così, secondo la testimonianza di Tacito, si immerse in una vasca di acqua calda per favorire la perdita di
sangue e raggiungere una morte lenta e straziante, che arrivò per soffocamento.
Il togliersi la vita, d'altronde, fu in perfetta armonia con i principi professati dallo stoicismo di età imperiale,
di cui Seneca fu uno dei maggiori esponenti: il saggio deve giovare allo stato, res publica minor, ma,
piuttosto che compromettere la propria integrità morale, deve essere pronto all'extrema ratio del suicidio.
La vita non è, infatti, uno di quei beni di cui nessuno ci può privare, rientrando quindi nella categoria degli
indifferenti, quelli sono solo la saggezza e la virtù; la vita è piuttosto come la ricchezza, gli onori, gli affetti:
uno di quei beni, dunque, che il saggio deve essere pronto a restituire quando la sorte li chiede indietro.
Seneca, perciò, affrontò l’ora fatale con la serena consapevolezza del filosofo: egli, come racconta Tacito
(Annales, LXII), non potendo fare testamento, lasciò in eredità ai discepoli l’immagine della sua vita,
richiamandoli alla fermezza per le loro lacrime, dato che esse erano in contrasto con gli insegnamenti che
lui aveva sempre dato loro. Il vero saggio deve raggiungere infatti l’apatheia, apatia, ovvero
l'imperturbabilità che lo rende impassibile di fronte ai casi della sorte.
Lo stile di Seneca fu definito, dal malevolo Caligola, "arena sine calce" (sabbia senza calce). Il filosofo deve
badare alla sostanza, non alle parole ricercate ed elaborate, che sono giustificate solo se, in virtù della loro
efficacia espressiva, contribuiscono a fissare nella memoria e nello spirito un precetto o una norma morale.
La prosa filosofica di Seneca è elaborata e complessa ma in particolare nei dialoghi l'autore si serve di un
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Ad Marciam de consolatione;
Ad Gallionem de vita beata; È un dialogo apologetico che Seneca scrisse per difendersi dalle accuse
di incoerenza che gli erano state rivolte. "Aliter loqueris, aliter vivis", lo apostrofa l'interlocutore
immaginato nel dialogo: "dici una cosa, ne fai un'altra". Seneca non nega le sue colpe, ma
controbatte che nei suoi scritti parla in generale della virtù, non della propria vita personale. Lui si
definisce infatti un semplice aspirante alla saggezza (adsectator sapientiae): "non sum sapiens [...]
nec ero", cioè "non sono un saggio, né lo sarò"; non ritiene quindi di appartenere alla categoria dei
"sapientes", gli unici che hanno raggiunto la virtù. Afferma inoltre che il conseguimento della virtù è
uno dei mezzi per giungere alla felicità; la virtù è dunque un valore da ricercare ed esercitare.
Ad Serenum de otio ;
Ad Serenum de tranquillitate animi;
Ad Paulinum de brevitate vitae; L'argomento trattato è il tempo e l'uso che dovrebbe farne il
"sapiens" (il saggio). Nonostante tutti si lamentino della brevità della vita, infatti, questa è lunga a
sufficienza "per la realizzazione delle cose più grandi"; agli uomini sembra breve perché essi ne
sprecano gran parte in futili occupazioni. Ed ecco perché il filosofo incita gli uomini della turba,
della plebaglia più infima, di coloro che inutilmente vivono ricercando qualcosa che non gli
appartiene, li incita a considerare con maggior acume la qualità, non la quantità, della vita
trascorsa. Anche in quest'opera Seneca non rinuncia al suo oramai consueto carattere parenetico.
Ad Polybium de consolatione;
Ad Helviam matrem de consolatione.
anima e corpo (visto come prigione dell'anima) e dalla caratterizzazione trascendentale di Dio privo di
corporeità e non immanente. Questi, principalmente, sono gli argomenti su cui Seneca si sofferma:
1. libro: I fuochi - Gli specchi
2. libro: Lampi e folgori
3. libro: Le acque terrestri (completo)
4. libro: il Nilo - Neve, pioggia, grandine
5. libro: I venti
6. libro: I terremoti
7. libro: Le comete
Innanzitutto per comprendere appieno il testo è necessario capire che lo scopo che Seneca si prefigge, non
è quello di raccogliere ordinatamente ogni conoscenza dell'epoca (cosa che invece possiamo intendere
almeno in parte nel Naturalis historia di Plinio il vecchio) bensì quello di liberare l'uomo dalla paura e dalla
superstizione intorno ai fenomeni naturali, compiendo così una operazione simile a quella di Lucrezio nel
suo De rerum natura (seppur con le dovute differenze ed eccezioni).
Affrontando il testo, troviamo fin dal primo libro una chiara presa di posizione di Seneca nella quale si
scopre l'intento primo dell'opera: permettere all'uomo, una volta scevro dalle false credenze che avvolgono
la natura, di ascendere ad una dimensione più divina.
Spesso quest'opera viene tacciata di poca scientificità, tuttavia viene da domandarsi se di scientificità si
possa propriamente parlare: anche se per certi versi Seneca mostra alcuni atteggiamenti "scientifici", quali
l'osservazione diretta, la riflessione razionale posteriore ad essa e la discussione di eventuali altre teorie,
per Seneca la conoscenza è solo un mezzo per elevarsi sino a Dio; molto spesso, inoltre, l'autore divaga in
argomentazioni e questioni di tipo morale o religioso e non sono rare le parti propriamente "filosofiche".
collegamento fra vita vissuta e riflessione morale, sono evidenti le affinità con la satira, soprattutto
oraziana. Seneca parla delle norme cui il saggio si deve attenere, della sua indipendenza e autosufficienza,
della sua indifferenza alle seduzioni mondane e del suo disprezzo per le opinioni correnti e propone l'ideale
di una vita indirizzata al raccoglimento e alla meditazione, al perfezionamento interiore mediante
un'attenta riflessione sulle debolezze e i vizi propri e altrui.
La considerazione della condizione umana che accomuna tutti i viventi lo porta ad esprimere una condanna
del trattamento comunemente riservato agli schiavi, con accenti di intensa pietà che hanno fatto pensare al
sentimento della carità cristiana: in realtà l'etica senecana resta profondamente aristocratica, e lo stoico
che esprime pietà per gli schiavi maltrattati manifesta anche il suo irrevocabile disprezzo per le masse
popolari abbrutite dagli spettacoli del circo. Nelle Epistole, l'otium è costante ricerca del bene, nella
convinzione che le conquiste dello spirito possano giovare non solo agli amici impegnati nella ricerca della
sapienza, ma anche agli altri, e che le Epistole possano esercitare il loro benefico influsso sulla posterità.
L'opera senecana, e soprattutto le “Epistulae ad Lucillium”, si inserisce in quel momento storico durante il
quale il principato con gli ultimi esponenti della famiglia Giulia stava soffocando le libertà civili e riducendo
il senato, un tempo garante del diritto, a semplice strumento sottoposto alla volontà del princeps. Si capisce
perciò il desiderio di Seneca di scrutare entro la propria coscienza e in essa ricercare i motivi fondamentali
delle virtù, e quindi della libertà interiore, attingendo al pensiero di Platone e di Aristotele, ma soprattutto
di Epicuro e della scuola stoica. Un Seneca alla ricerca del superamento delle remore negative del suo
tempo per proiettarsi in un'area universale, ridiventando così padrone di sé stesso. Forse un pessimismo
celato e rivolto all'inerzia? I critici, almeno in un primo momento, se lo sono chiesto; tuttavia non si può
escludere che egli abbia operato negli anni della sua maturità per evitare gli equivoci, le contraddizioni e
ogni forma di egoismo, proiettando nel contempo la persona, data la ricchezza dello spirito, oltre il tempo.
Quasi un porsi nella dimensione divina, per cui i beni terreni, fonte di egoismi e di ingiustizie, vengono
annullati. E al loro posto ecco la persona conscia della sua dignità. Di qui le tante lettere al suo discepolo e
amico, Lucilio, quasi proiezione di se stesso, o almeno di come avrebbe voluto essere. A sostegno di tutto
ciò la filosofia, vista come regola di vita.
Molti i critici e gli studiosi che vedono negli ultimi scritti di Seneca un allineamento, inconsapevole, alle tesi
fondamentali della dottrina paolina; e più tardi quasi ispiratori delle Confessioni di Sant'Agostino. Ed è
significativo che il pensiero di Seneca nel tempo attuale attragga molte persone e non pochi studiosi alla
ricerca di più vasti valori inerenti all'esistenza umana, così da sfuggire alle molteplici sollecitazioni che,
tramite i media, cercano di spingere verso un superficiale edonismo.
L'Oedipus, ispirato all'Edipo Re sofocleo, narra il mito tebano di Edipo, inconsapevole uccisore del
padre Laio e sposo della madre Giocasta. Alla scoperta della tremenda verità egli reagisce
accecandosi.
L'Agamemnon, si ispira, assai liberamente, all'omonimo dramma di Eschilo. La tragedia rievoca
l'assassinio del re, al ritorno da Troia, per mano della moglie Clitennestra e dell'amante Egisto.
Il Thyestes rappresenta una vicenda mitica già trattata in opere perdute di Sofocle, Euripide e
Ennio. Atreo, animato da odio mortale per il fratello Tieste, che gli ha sedotto la sposa, si vendica
con un finto banchetto di riconciliazione in cui imbandisce al fratello ignaro le carni dei figli.
Nell'Hercules Oetaeus (Ercole sull'Eta, il monte su cui si svolge l'evento culminante del dramma)
modellato sulle Trachinie di Sofocle, è trattato il mito della gelosia di Deianira, che per riconquistare
l'amore di Ercole innamoratosi di Iole, gli invia una tunica intrisa del sangue del centauro Nesso,
creduto un filtro d'amore e in realtà dotato di potere mortale: tra dolori atroci Ercole si uccide ed è
assunto fra gli dei. Fortissime, in quest'opera, le analogie con la vita di Gesù di Nazareth. Un fatto
che dà ragione a molti storici secondo i quali, già negli anni di Seneca, il Cristianesimo era diffuso
nei circoli degli intellettuali e tra i patrizi romani a pochi anni dalla morte di Gesù. L'Ercole di questa
tragedia, infatti, muore e risorge, è assunto tra gli dei, si rivolge a Giove come "pater", viene tradito
da un amico che si suicida. Non solo: alla sua morte getta un urlo fortissimo, ne segue un
terremoto, ascende al cielo ed è presente nel testo anche la trasfigurazione di Ercole. Infine, dopo
la risurrezione, Ercole si identifica con Giove e ne assume i poteri.
Le tragedie di Seneca sono le sole opere tragiche latine pervenute in forma non frammentaria, e
costituiscono quindi una testimonianza preziosa sia di un intero genere letterario, sia della ripresa del
teatro latino tragico, dopo i vani tentativi attuati dalla politica culturale augustea per promuovere una
rinascita dell'attività teatrale. In età giulio-claudia (27 a.C.–68 d.C.) e nella prima età flavia (69–96) l'élite
intellettuale senatoria ricorse al teatro tragico per esprimere la propria opposizione al regime (la tragedia
latina riprende ed esalta un aspetto fondamentale in quella greca classica, ossia l'ispirazione repubblicana e
l'esecrazione della tirannide). Non a caso, i tragediografi di età giulio-claudia e flaviana furono tutti
personaggi di rilievo nella vita pubblica romana.
Le tragedie di Seneca erano, forse, destinate soprattutto alla lettura, il che poteva non escludere talora la
rappresentazione scenica. La macchinosità o la truce spettacolarità di alcune scene sembrerebbero
presupporre una rappresentazione scenica, mentre una semplice lettura avrebbe limitato, se non annullato,
gli effetti ricercati dal testo drammatico. Le varie vicende tragiche si configurano come scontri di forze
contrastanti e conflitto fra ragione e passione. Anche se nelle tragedie sono ripresi temi e motivi delle
opere filosofiche, il teatro senecano non è solo un'illustrazione, sotto forma di exempla forniti dal mito,
della dottrina stoica, sia perché resta forte la matrice specificamente letteraria, sia perché, nell'universo
tragico, il logos, il principio razionale cui la dottrina stoica affida il governo del mondo, si rivela incapace di
frenare le passioni e arginare il dilagare del male.
«arbiter elegantiae» del cortigiano; l'esser morto in una sua villa a Cuma, in Campania, conferma la
famigliarità dello scrittore con questa regione, come si rileva nel romanzo;alcuni personaggi citati - il
cantante Apellete, il citareda Menecrate e il gladiatore Petraite sono personaggi realmente vissuti nella
prima metà del I secolo; la lingua, i riferimenti culturali e anche la situazione sociale che emerge dal
romanzo rispecchia i caratteri di quel secolo.
Gitone e dopo una serie di avventure, che li vedono viaggiare per mare e rischiare anche la vita, si ritrovano
insieme nella città di Crotone, dove Eumolpo si finge un vecchio danaroso e senza figli, ed Encolpio e Gitone
si fanno passare per i suoi servi: così essi scroccano pranzi e regali dai cacciatori di eredità.
Nei frammenti successivi, Eumolpo recita un brano epico, in cui viene descritto il Bellum civile ("La guerra
civile") fra Cesare e Pompeo, e successivamente si legge di Encolpio che, per l'ira di Priapo, diventato
impotente, è vittima di una ricca amante che si crede disprezzata da lui e lo perseguita. Eumolpo, invece,
scrive il suo testamento dove specifica che gli eredi avranno diritto alle sue ricchezze solo se faranno a pezzi
il suo corpo e se ne ciberanno in presenza del popolo.
Il Satyricon di Petronio non rientra in un unico genere letterario codificato: è combinazione di generi molto
diversi tra loro. È per questo definito, pastiche letterario.
L'opera è sicuramente formata sul modello della satira menippea, da cui trae la tecnica della fusione di parti
in prosa e parti in poesia, dal taglio satirico pungente e moraleggiante. Come deducibile dal titolo stesso, il
Satyricon è anche ispirato al genere della satira. Questo è, però, realizzato attraverso un lucido distacco,
privo quindi del forte intento moralistico degli autori satirici precedenti.
Allo stesso modo, il Satyricon fu influenzato dal mimo, rappresentazione teatrale dal forte realismo
descrittivo. In ultima, sebbene molto più limitatamente, il rimando alla favola milesia, dalla quale prende
spunto per gli episodi macabri o licenziosi (come quello della Matrona di Efeso).
Esiste infine un'ipotesi più suggestiva, tuttavia non condivisa all'unanimità dagli studiosi, che accomuna il
Satyricon al modello del romanzo ellenistico. Con esso l'opera condivide diversi aspetti: la struttura
complessa, il rapporto amoroso fra i protagonisti e le disavventure che essi devono affrontare. Tuttavia
considerando le evidenti differenze con cui gli stessi temi del romanzo ellenistico sono trattati da Petroni
alcuni critici hanno sostenuto la tesi di un solo intento parodistico di Petronio verso questo genere ben
conosciuto e popolare.
All'estrema varietà di generi del Satyricon, s'aggiunge la grande componente parodica. Il Satyricon è,
altrettanto evidentemente, parodia dell'Odissea di Omero, romanzo di viaggio per eccellenza. L'opera di
Petronio riprende, infatti, il tema del viaggio, della persecuzione del dio (per Ulisse: Nettuno, per Encolpio:
Priapo), del naufragio e di particolari minori, quali l'avventura tra Encolpio-Polieno e Circe.
Allo stesso modo, si può intravedere la parodia dell'Eneide di Virgilio, di alcuni episodi in particolare.
Questo conferma l'intento parodistico rivolto a tutta la letteratura epica in generale.
Il realismo descrittivo di Petronio interessa, in modo quasi unico nella letteratura classica, anche il
linguaggio. L'autore corrisponde allo status sociale del personaggio un determinato registro linguistico.
Così, il colto Eumolpo utilizza un registro più alto, l'umile ma non infimo Encolpio un registro medio-basso
(sermo familiaris), mentre, per ultimi, gli ospiti di Trimalchione uno ancora inferiore (sermo plebeius) a cui
si somma l'uso di espressioni tipiche popolari.
Il Satyricon è spesso considerato come il primo esempio di quello che sarebbe poi diventato, nel tempo, il
romanzo moderno. Non esiste una filiazione diretta fra il romanzo antico e il romanzo moderno, tuttavia la
riscoperta dei frammenti superstiti di quest'opera ebbe, dopo il Rinascimento, un considerevole impatto
sulla narrativa occidentale.
Il contenuto dell'opera, incentrato sull'erotismo, la promiscuità sessuale e il culto di Priapo, motiva la sua
limitata trascrizione, e quindi la diffusione, specialmente in epoca cristiana. In età moderna, l'opera viene
tuttavia rivalorizzata.
Plinio il Vecchio riveste cariche quali Ufficiale di cavalleria (eques) in Germania, grazie a sua madre,
compagna di Gaio Cecilio di Novum Comum, senatore e procuratore in Gallia e Spagna. Prima del 35 suo
padre lo portò a Roma, dove affidò la sua istruzione ad uno dei suoi amici, il poeta e generale Publio
Pomponio Secondo. Plinio vi acquisì il gusto di apprendere. Due secoli dopo la morte dei Gracchi, il giovane
ammirò alcuni dei loro manoscritti conservati nella biblioteca del suo tutore e dedicò loro più tardi una
biografia.
Plinio a Roma studiò botanica. Sotto l'influenza di Lucio Anneo Seneca, diventa uno studente appassionato
di filosofia e di retorica ed inizia ad esercitare la funzione d'avvocato. Plinio ricoprì cariche civili sotto
Vespasiano e Tito. Comandante della flotta tirrenica di stanza a Miseno, morì durante l'eruzione del Vesuvio
che distrusse Pompei, Ercolano e Stabia nel 79.
Plinio il Giovane, suo nipote, ce lo rappresenta come un uom