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Letteratura latina

Capitolo 1. Le origini.
Con l'espressione età preletteraria latina si indica comunemente quella fase della  storia della letteratura
latina che va dalla fondazione di Roma all'avvento della fase letteraria propriamente detta, il cui inizio suole
essere identificato con la rappresentazione nel 240 a.C. del primo dramma teatrale scritto in lingua latina,
per opera di Livio Andronico.
Durante tale periodo, cui corrispondono l'età regia e la prima età repubblicana, Roma, il cui nucleo
originario era formato da abitanti di stirpe latina, ebbe modo di accogliere le influenze provenienti dagli
altri popoli della penisola italica con cui ebbe contatti, quali gli Etruschi, i Sabini, gli Osci e i coloni della
Magna Grecia. Poté dunque svilupparsi una fiorente produzione di testi a prevalente  carattere orale, privi
di finalità letteraria. Nel 240 a.C. Livio Andronico, liberto di stirpe greca, fece rappresentare la prima vera
opera teatrale della latinità. Il motivo principale secondo cui la letteratura latina nacque solo cinquecento
anni dopo la fondazione della città, risiederebbe nel fatto che Roma rimase per molti secoli un piccolo stato
agricolo, fondato su un'aristocrazia di piccoli proprietari terrieri in una società altamente militarizzata. Le
continue guerre per il dominio di nuovi territori, mal si conciliava, infatti, con lo sviluppo della fantasia e la
creatività letteraria. Il fatto poi che, sotto i Tarquini, Roma abbia avuto un periodo di relativo splendore ed
espansione economico-commerciale, proprio perché erano sovrani etruschi, non favorì di certo una cultura
latina originale. La letteratura latina poté, pertanto, nascere solo quando Roma ebbe il sopravvento
sull'intera Italia peninsulare, e quindi su molte città della Magna Grecia, che furono inglobate insieme alla
loro cultura ellenistica (vedi guerre pirriche). In effetti le forme della letteratura latina sono per la maggior
parte derivate da quella greca. Ciò non significa che la letteratura latina non riuscì, col tempo, ad affermare
una sua propria originalità, certamente partendo da una prima fase di imitazione di quanto i Greci erano
riusciti a costruire in secoli della loro storia. Vero è anche che la letteratura latina fu influenzata non solo
dai Greci del sud della penisola italica, ma anche dagli Etruschi (a nord), che dominarono Roma per almeno
un secolo. Questi ultimi, influenzarono enormemente la città latina, soprattutto nella concezione religiosa,
ossessionati com'erano dal pensiero della morte, dall'oltretomba,immaginato con caratteri assai
spaventosi, oltreché dall'arte degli aruspici e degli auguri.
La lingua latina, appartenente al ceppo occidentale delle lingue indoeuropee, nacque come parlata
regionale del Latium, ma si estese poi alle terre sotto il dominio di Roma, arricchendosi tramite gli influssi
italici, etruschi e greci. L'alfabeto latino, che iniziò a diffondersi attorno al VII secolo a. C., come
testimoniano le iscrizioni ritrovate su alcuni oggetti di uso quotidiano o su lastre di pietra, fu infatti derivato
da quello greco di Cuma tramite la mediazione degli Etruschi; la scrittura, inizialmente da destra verso
sinistra, assunse gradualmente andamento bustrofedico, per poi divenire definitivamente orientata da
sinistra verso destra.
Tra VII e VI secolo a.C., sotto il regno dei Tarquini, la diffusione della scrittura conobbe un forte impulso;
Roma tuttavia rimase fino alla fine dell'età regia sostanzialmente bilingue, con la coesistenza della lingua
etrusca accanto al latino. È attestata, attorno al IV secolo a.C., la presenza nell'Urbe di scribae professionisti,
al servizio dei magistrati incaricati dell'amministrazione statale; contemporaneamente, la lingua latina era
adoperata per scopi di natura giuridica o sacrale, seppure non esistesse una reale cultura letteraria.
Caratteristica di tale lingua, ancora instabile sul piano della grafia, era la sintassi semplice ed elementare,
prevalentemente paratattica. L'origine dei vocaboli, talvolta derivati direttamente dalle lingue dei popoli
limitrofi, era quella rurale e agreste; solo nel III secolo a.C., tramite il contatto con la letteratura e la
filosofia greca, il latino poté acquisire un vocabolario tecnico e concettuale più ampio e complesso.
Nella Roma arcaica del VII secolo a.C. era già diffusa la scrittura, sia per uso privato che pubblico: a
testimoniarlo sono i rari documenti epigrafici rinvenuti, scritti in maniera poco chiara con caratteri alfabetici
di derivazione greca, a conferma dell'influenza che ebbero le città della Magna Grecia sulla cultura romana.
Esempi dei primi documenti linguistici latini sono l'iscrizione bustrofedica del lapis niger, scoperto nel Foro
romano nel 1899; l'iscrizione del vaso di Dueno, scoperto nel 1880 e risalente al VI secolo a.C.; il lapis
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Satricanus, una pietra proveniente dall'antica città di Satricum (Lazio meridionale) che riporta una dedica di
un dono votivo Mamartei, "a Marte".
Si tratta di una serie di testi latini arcaici, orali e scritti, rinvenuti per via epigrafica su vari supporti, oppure
tramandati per via letteraria, che risalgono a un'epoca compresa tra gli inizi documentati della lingua latina
e la fine del III secolo a.C. I documenti letterari di questo lungo periodo possono essere, poi, suddivisi in
documenti ufficiali (in prevalenza di natura religiosa) e documenti privati (tra cui le iscrizioni funebri).
Si tratta di testi di vario genere, alcuni definibili "protoletterari", altri di carattere puramente occasionale,
non facenti parte delle prime opere della letteratura latina, la cui nascita coinciderebbe con le prime opere
scritte di Livio Andronico (metà del III secolo a.C.). I testi latini arcaici propriamente detti testimoniano in
modo più o meno fedele le fasi linguistiche più arcaiche del latino. L'arco cronologico di queste attestazioni
non si spinge oltre il 240 a.C., ritenuta solitamente la data approssimativa dell'inizio della letteratura latina.
Si inizia a diffondere la scrittura in diversi strati della popolazione, inclusa quella non elevata, nei trattati,
precetti, nei calendari (che dividono i giorni in fasti e nefasti), nei fasti e negli annales (i più importanti sono
gli Annales Maximi di Muzio Scevola).
Il carmen era una forma in versi, in bilico tra poesia e prosa, caratterizzata da ripetizioni foniche, utilizzata
presso i Romani per accompagnare un rito in tono solenne e dal carattere propiziatorio, augurale come il
Carmen Saliare e il Carmen Arvale. In latino il termine Carmen va spesso a indicare generi diversi dalla
poesia, come i responsi profetici, le formule magiche o di incantesimo. Pertanto i poeti che definivano la
propria poesia carmen potevano voler indicare una connessione con un ambito magico-sacrale. Perfino le
sentenze delle leggi delle XII tavole furono definite carmina. Venivano trasmessi oralmente di generazione
in generazione. Di questa produzione, che doveva costituire un patrimonio assai consistente, conosciamo
soltanto alcuni testi che sono stati messi per iscritto in età molto più tarda rispetto alla loro origine. Essi
sono documenti preziosi di cerimonie e riti più antichi e s'inquadrano in una concezione pragmatica,
utilitaristica e formalistica della religione. Essi si dividono in Carmen Saliare, Carmen Arvale e Carmen
Lustrale .
Si trattava di canti liturgici tradizionali degli Arvali (Fratres Arvales), un antico collegio sacerdotale romano
oppure dei sacerdoti Salii (conosciuti anche come i "sacerdoti saltellanti"). I riti erano imperniati attorno
alle figure degli déi Cerere (Arvales) Marte e Quirino (Salii). Consistevano in alcune processioni durante le
quali i sacerdoti, eseguivano le loro danze sacre e cantavano i vari Carmina arvale o saliare. I Salii ad
esempio, eseguivano il loro canto danzando e percuotendo i loro undici scudi sacri.
Il carmen lustrale invece era un carme preletterario latino consistente in una preghiera rituale del culto
privato rivolta al dio Marte, dove il pater familias rivolgeva alla divinità questa preghiera per ottenerne, in
cambio, la protezione e la purificazione (lustratio) degli arva, i campi coltivati, dalle forze e dagli spiriti
maligni. Sovente la recitazione del carmen era accompagnata dal sacrificio dei suovetaurilia, un rito a
carattere apotropaico tipico delle popolazioni indoeuropee.
Nell'ambito della produzione pre-letteraria latina, svolgono un ruolo di fondamentale importanza,
soprattutto per la successiva produzione teatrale, i fescennini versus, composizioni poetiche che venivano
recitate in particolari momenti dell'anno legati all'attività contadina e che riproducevano alterchi fra due o
più personaggi. Ricchi di insulti e contenuti osceni e volgari, i fescennini versus-come molte delle
espressioni popolari arcaiche (ad esempio le forse più famose falloforie)- avevano una forte valenza
apotropaica e si legavano indissolubilmente alla realtà rurale che caratterizzava l'età delle origini.
Carmina convivalia venivano poi chiamati quei canti, in versi saturni, che venivano intonati durante i
banchetti di famiglie aristocratiche per celebrare le glorie degli antenati della gens oppure i carmina
triumphalia, che venivano improvvisati dai soldati, per inneggiare il trionfo del loro comandante vittorioso.
Si trattava di un carmina convivalia, testo di argomento prevalentemente epico o leggendario che veniva
recitato durante i banchetti presso le case delle più prestigiose famiglie romane, di cui abbiamo notizia,
assieme al Carmen Priami. A differenza del Carmen Priami (che narrava della presa di Troia, collegandosi
alle leggendarie origini di Roma), però, il Carmen Nelei non era composto di versi saturni, ma di senari
giambici. Non è possibile stabilire con sicurezza quando l'opera fu scritta, probabilmente tra il III e il II
secolo a.C., tuttavia essa testimonia l'esistenza di una materia epica a Roma anche nella fase preletteraria.
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Capitolo 1.1. Origini del teatro latino.


Nel mondo greco-italico si assiste alla fioritura di spettacoli teatrali fin dal VI secolo a.C. nei quali prevale
l'aspetto buffonesco. In Magna Grecia e Sicilia dalla fine del V al III secolo a.C. si diffonde la farsa fliacica,
commedia popolare, in gran parte improvvisata in cui gli attori-mimi erano provvisti di costumi e maschere
caricaturali. Fissata in forma letteraria da Rintone di Siracusa, tutto quello che ne è rimasto sono le
raffigurazioni su vasi, ritrovate nei pressi di Taranto, il cui studio ha permesso solo una parziale
ricostruzione del genere.
Fin dall'epoca di Romolo si celebravano giochi in onore del dio Conso (Consualia) e corse di cavalli
(Equirria), celebrati due volte all'anno nel Campo Marzio. Tarquinio Prisco riorganizzò quelli che sarebbero
stati i ludi romani o magni, facendoli diventare la festa più importante della città, che cadeva attorno alla
metà di settembre.
Nel 364 a.C., durante i ludi romani fu introdotta per la prima volta nel programma della festa una forma di
teatro originale, costituita da una successione di scenette farsesche, contrasti, parodie, canti e danze,
chiamati fescennina licentia. Durante i fescennini si svolgevano canti, travestimenti e danze buffonesche. Il
genere, di derivazione etrusca, non ebbe mai una vera e propria evoluzione teatrale, ma contribuì alla
nascita di una drammaturgia latina.
Tito Livio, in Ab Urbe condita libri, racconta come in quell'anno i romani, non riuscendo a debellare una
pestilenza, decisero di inserire, per placare l'ira divina, anche ludi scenici, per i quali fecero venire
appositamente dei ludiones (cioè artisti e danzatori), dall'Etruria. Queste manifestazioni, per lo più
considerate come bassi divertimenti popolari, subirono la severità dei legislatori dell'epoca. Il carattere
licenzioso e gli attacchi a personalità di spicco dell'epoca incorsero nello sfavore delle autorità, che misero
dei limiti a queste rappresentazioni, con leggi austere a difesa dei costumi romani e persino la proibizione di
posti a sedere nei teatri.
L'atellana, farsa popolaresca di origine osca, proveniente dalla città campana di Atella, fu importata a Roma
nel 391 a.C.: prevedeva maschere ed era caratterizzata dall’improvvisazione degli attori su un canovaccio.
Era uno spettacolo in cui gli attori interpretavano i soliti quattro ruoli fissi, improvvisando su un intreccio di
base (trica): il vecchio stupido (Pappus), lo scimunito (Maccus), il cialtrone (Bucco), il gobbo furbo
(Dossennus). Le atellane ebbero molto successo a Roma, esercitando un'influenza notevole sulla successiva
produzione teatrale.
La farsa fliacica fu un genere drammatico comico sviluppatosi nelle colonie doriche della Magna Grecia in
età ellenistica, tra il IV e il III secolo a.C., e che influenzò la nascita del teatro latino. Il nome deriva dal greco
φλύακες (fliaci), che indicava gli attori o mimi che inscenavano tali rappresentazioni. Questi,
probabilmente, recitavano su di un palcoscenico e non nell'orchestra, vestiti di maschere grottesche od
oscene provviste di imbottiture che rendevano ridicole le figure.
I versi fascennini, tipicamente popolari, erano la più antica forma di arte drammatica presso i Romani. Di
derivazione etrusca, non ebbero mai una vera e propria evoluzione teatrale, ma contribuirono alla nascita
di una drammaturgia latina. Secondo il grammatico Festo, il termine "fescennini" avrebbe due diverse
origini. Secondo la prima, esso deriverebbe dalla città di Fescennium, al confine fra Etruria e Lazio, dove si
svolgevano feste agresti per il raccolto ed era radicato l'uso di festeggiare per l'abbondanza del raccolto
scambiandosi dei versi in forma sboccata e licenziosa, come ringraziamento alla divinità fallica. Per la
seconda, invece, il nome avrebbe origine da fascinum, che significa al tempo stesso "malocchio" e "membro
virile", in riferimento alle maledizioni che venivano lanciate sui carri (che trasportavano l'uva) degli altri
agricoltori durante la vendemmia. Per altri ancora, il termine avrebbe un senso marcatamente fallico,
essendo un sinonimo di veretrum. Questo genere letterario sarebbe quindi il risultato o dell'influenza
etrusca nella cultura romana o il tentativo di esorcizzare il forte timore che i romani avevano per il
malocchio scherzando su di esso ed irridendolo con il fallo.
Lo spirito farsesco dei fescennini e delle rappresentazioni di musica e danza etrusche generò la prima forma
drammaturgica latina di cui abbiamo notizia: la satura. "Satura quidem tota nostra est" (Institutio oratoria,
X, 1.93), diceva con orgoglio Quintiliano nel I secolo: rispetto ad altri generi importati, la satira
(letteralmente miscuglio) è totalmente romana.
Questo genere consisteva in una rappresentazione teatrale mista di danze, musica e recitazione. Ennio la
eleva in seguito a genere letterario; successivamente coltivò il genere anche Pacuvio. Con Lucilio la satura
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cambia destinazione, assumendo la caratteristica di critica della società o dei potenti dell'epoca, aprendo la
strada a Varrone Reatino e Orazio, che svilupperanno il genere 'satirico' in una forma indipendente ed
esclusivamente letteraria.
La laudatio funebris (lett. lode funebre) era l'orazione che veniva pronunciata presso i romani in memoria
di un defunto, durante la cerimonia funebre. Il rito del funerale prevedeva più fasi, tra cui una processione
durante la quale i familiari del defunto esponevano le imagines dei loro antenati, mentre donne
appositamente pagate intonavano i lamenti funebri, detti neniae. Vi era quindi la laudatio, recitata
normalmente da parte del figlio del defunto o di un suo parente, che esaltava anche la gens
d'appartenenza.

Capitolo 2. Livio Andronico.


Livio Andronìco (in latino: Livius Andronīcus; Taranto, 280 a.C. circa – 200 a.C. circa) è stato un poeta,
drammaturgo e attore teatrale romano. Nelle fonti antiche è con frequenza indicato semplicemente con il
nomen Livio, che ottenne una volta divenuto liberto, dalla gens cui era entrato a far parte, quando giunse a
Roma mantenendo sempre il suo nome greco di Andronìco, assumendolo come cognomen; le fonti antiche
attestano, inoltre, il nome di Lucio Livio Andronìco.
Di nascita e cultura greca, egli fece rappresentare a Roma nel 240 a.C. un dramma teatrale che è
tradizionalmente considerato la prima opera letteraria scritta in lingua latina. Compose in seguito numerose
altre opere, probabilmente traducendole da Eschilo, Sofocle ed Euripide. Con l'intento di avvicinare i
giovani romani allo studio della letteratura, tradusse in versi saturni l'Odissea di Omero.
Gli scarsi frammenti rimasti della sua opera permettono di rilevarne l'influenza dalla coeva letteratura
ellenistica alessandrina, e una particolare predilezione per gli effetti di pathos e i preziosismi stilistici,
successivamente codificati nella lingua letteraria latina. Anche se la sua Odusia rimase a lungo in uso come
testo scolastico, la sua opera fu considerata in età classica come eccessivamente primitiva e di scarso
valore, tanto da essere generalmente disprezzata. La traduzione dell'Odusia dovette nascere dall'attività di
grammatico, di fatti il termine Odusia deriva dalla traslitterazione del termine greco Odysseia.
Così sempre nella prospettiva della romanizzazione del testo greco, Andronico ricorre con abbondanza a
procedimenti stilistici che erano propri, a Roma, dei carmina religiosi, del linguaggio giuridico e politico.
Livio Andronico inventò la fabula palliata mettendo insieme le improvvisazioni delle secchi e satire e fu
chiamata così perché si indossava il pallium; fu anche inventore della fabula conturnata, cioè la tragedia
latina di argomento greco. Istituì il collegium scribarum presso il tempio di Minerva, un collegio di attori e
sceneggiatori.
Delle opere teatrali sono rimasti 8 titoli di tragedie (Achilles, Aegisthus, Andromeda, Equos Troianus) e 3
titoli di commedie tra cui Gladiolus e Ludius.

Capitolo 3. Nevio
Gneo Nevio fu insieme a Livio Andronico il più antico poeta latino. Fu un cittadino romano di origine
campana, che avevano ottenuto la cittadinanza romana dopo le guerre sannitiche conclusesi nel 295 a. C.
dunque doveva essere nato intorno al 270 A. C. e secondo le fonti antiche cominciò a mettere in scena, a
Roma, le prime opere teatrali intorno al 235 A. C. Si suppone che sia morto tra il 204 e il 201 A. C. in Africa
Fu importante perché fu il primo autore epico di cui è rimasto molto poco, se non qualche frammento.
Molto probabilmente partecipò alla seconda guerra punica contro Cartagine. Nevio era un uomo molto
fiero e di spirito libero e a differenza di Livio Andronico non aveva protettori, e più volte si schierò
apertamente contro gli uomini politici più importanti, attaccando più volte la famiglia dei Metelli, e per
questo motivo fu messo in carcere. Si conservano sei titoli e un certo numero di frammenti di tragedie di
argomento greco. Nevio fu inventore della praetexta (fabula tragica di argomento romano), tra cui
Romolus, che metteva in scena le vicende dell'origine di Roma e Clastidium che esaltava la vittoria Romana
sui Galli vicino Pavia (Casteggio) nel 222 A. C. utilizzando spesso la contaminatio. Altra tragedia molto
conosciuta fu Lucurgus di cui restano 24 frammenti che parlano della punizione inflitta dal dio Dionisio al re
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di Tracia Licurgo reo di averlo scacciato insieme alle Baccanti dalla propria terra, vendicandosi facendo
morire Licurgo e incendiando la sua reggia.
Il testo epico sicuramente più famoso fu il Bellum Punicum, un poema epico-storico dedicato alla
narrazione della prima guerra punica 264-241 A. C. utilizzando il saturnio. Nevio fonde mito e storia
inserendo l'archeologia, ovvero rievocazioni delle origini di Roma e dell'arrivo nel Lazio del troiano Enea, di
cui di tutta l'opera si conservano solo una sessantina di frammenti. Nevio scriveva in contentis scripturas,
uno stile molto fluido, semplice e conciso.

Capitolo 4. Plauto
Si tratta del primo autore di cui si hanno opere integre, e le notizie che possediamo relative alla vita di
Plauto, derivano da Gellio autore del II secolo D. C. noto antiquario interessato alla vita arcaica, mentre le
altre notizie sono fornite da San Gerolamo. Le notizie sulla vita di Plauto sono molto contrastanti e sembra
che vi siano "delle aggiunte" secondo i filologi moderni, lo stesso nome sembra sia molto dubbioso, ovvero
Tito Maccio Plauto, infatti il nome Plautus si ricava da alcuni prologhi delle sue commedie, così come il
nome Maccus che corrisponde ad una delle maschere dell'Atellana. Si suppone perciò che il poeta possa
aver utilizzato nomi diversi in momenti differenti della sua carriera:
 Maccio, infatti, deriva dall'attività di attore, per il quale il poeta ha fatto grossi guadagni e che gli
hanno consentito di fare grossi investimenti che poi lo hanno fatto cadere in disgrazia e lo
costrinsero a girare la macina per guadagnarsi da vivere;
 Plauto, invece, potrebbe derivare dal fatto che i filologi antichi credevano che fosse un nome
scherzoso, che potrebbe significare "dai piedi piatti" o "dalle orecchie a penzoloni" come quelle dei
cani.
Sappiamo che secondo Cicerone, nacque prima del 250 a. C. a Sarsina città dell'Umbria (oggi in Emilia-
Romano) e che morì del 184 a. C. e sempre secondo lo stesso iniziò a scrivere commedie a partire dagli anni
della seconda guerra punica (218- 202 A. C.) . Le sole commedie a datazione certa sono lo Stichus del 200 A.
C. e lo Pseudolus del 191 A. C. mentre altre commedie sono datate postume come le Bacchides e la Casina,
in cui si ritrovano allusioni ai riti bacchici, culti iniziatici e orgiastici che si erano diffusi a Roma per influssi
orientali, che furono severamente proibiti da un decreto del Senato del 186 A. C. Posteriore a tale decreto è
certamente la Casina, che potrebbe essere una delle ultime commedie prima della morte. La fama di Plauto
era talmente grande che 150 anni dopo la sua morte, Varrone conta più di 135 commedie in circolazione
con il suo nome, ma molte di queste potrebbero essere dei falsi, in quanto il nome Plauto era garanzia di
successo e quindi molti tra comici e commediografi lo usavano in quanto garanzia di fortuna. In realtà si
possiedono solo 20 e non 21 commedie in quanto della Vidularia si posseggono solo alcune frammenti.
Ben 16 su 20 commedie presentano, sia pur con qualche minima variante, la stessa fondamentale struttura,
derivante dalla commedia nuova greca.

Capitolo 4.1. Il corpus delle commedie


In posizione centrale troviamo l'adulescens innamorato di una giovane donna e ostacolato nel suo amore,
che potrebbe essere o la mancanza di denaro, qualora si trattasse di una cortigiana, oppure se la ragazza
fosse onesta da impedimenti familiari di lui o di lei al matrimonio per via della condizione troppo umile
della stessa. Il giovane svantaggiato in quanto dipendente economicamente dal padre, lotta per far valere i
diritti della gioventù e dell'amore ed è validamente sostenuto da uno o più aiutanti: un giovane amico, un
vecchio comprensivo, un parassita (cioè uno squattrinato che si mette al servizio di qualcuno chiedendo in
cambio ospitalità), un servo intelligente e audace. La trama spesso consiste in una serie di espedienti,
trovate ingegnose, messe in opera dal servo per raggirare e truffare gli antagonisti del giovane innamorato:
il padre avaro e severo (senex), il lenone (mercante e sfruttatore di cortigiane) cinico e arrogante, il soldato
(un mercenario al servizio di re orientali) ricco e borioso, prepotente e stupido e quindi bersaglio del servus
Callidus (servo scaltro). Nel lieto fine, immancabile nelle commedie plautine, il giovane e i suoi aiutanti
hanno la meglio sugli antagonisti e l'adulescens realizza i suoi sogni amorosi.
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Capitolo 4.2. I rapporti con i modelli greci.


Plauto traduce, riprende, rielabora commedie greche che noi non possediamo nel testo originale di
Menandro. Gli autori da cui Plauto ha attinto sono i principali rappresentanti della commedia nuova greca:
Menandro (Bacchides, Cistellaria, Stichus); Filemone (Mercator e Trinummus), Difilo (Casina e Rudens) e
Demofilo (Asinara). Il poeta li cita in alcuni prologhi e usa, per indicare il suo rapporto con essi,
l'espressione "vortere barbara", volgere dal greco al latino (assumendo il punto di vista dei Greci, per il
quale barbaro era lo straniero e quindi il latino era lo straniero). Plauto si è mantenuto fedele all'originale
conservandone l'ambientazione greca (tutte le sue commedie si svolgono ad Atene o in altre città del
mondo ellenistico): essa gli offriva, tra l'altro, il vantaggio di poter attribuire comportamenti spesso
moralmente discutibili o deplorevoli ai Greci e non ai Romani, e con altrettanta sicurezza apportava
modifiche, anche importanti, ogni qual volta gli sia sembrato necessario o opportuno, per raggiungere lo
scopo finale di far divertire il pubblico. Plauto fece uso della contaminatio che indica l'inserzione nella
commedia originale, di una o più o scene, talora anche di uno o più personaggi, tratta da un'altra
commedia, anch'essa greca. Un'altro elemento essenziale della commedia plautina è sicuramente
l'inserimento della musica e del canto, come esecuzioni al flauto, con la conseguenza che molte parti che
nei modelli corrispondevano a semplici dialoghi, senza musica, furono riscritti in metri diversi, in forma di
recitativi o di veri e propri pezzi cantati (cantica). Si trovano inoltre numerosissime battute di spirito basate
su giochi di parole che non hanno corrispondenti in greco. Il ricorso a queste battute anche di bassa
comicità deriva dalla vastità del pubblico a cui veniva presentate. Uno degli aspetti del teatro plautino è la
tendenza a sottolineare il carattere fittizio e ludico dell'evento teatrale. Plauto ama svelare e quasi
smascherare la finzione teatrale in quanto tale, come per richiamare gli spettatori alla consapevolezza di
star partecipando insieme con l'autore, a un gioco che li diverte entrambi. Una forma di rottura
dell'illusione scenica molto sfruttata da Plauto era il metateatro, teatro nel teatro, al teatro che
rappresenta se stesso o parla di se stesso. Altro procedimento di rottura dell'illusione scenica molto
frequente è l'inserimento di riferimenti romani n commedie di ambientazione greca come in un passo del
Curculio.

Capitolo 4.3. L'aulularia


Plauto ha saputo rielaborare e arricchire, accentuandone gli aspetti comici facendone delle vere e proprie
caricature:
 Euclione: rappresenta la tipica maschera del vecchio avaro; questa sua caratteristica principale,
come succede spesso nelle commedie, è ingigantita per renderla evidentemente comica, in quanto
il personaggio assume i tratti di pura e totale pazzia. La gelosia che ha per la sua pentola lo porta a
diffidare di ogni persona che incontra e scambia qualche parola con lui. Nei suoi dialoghi dimostra
anche di avere un'indole violenta e collerica con chiunque si frapponga tra lui e il denaro.
 Megadoro: questo personaggio è messo in confronto Euclione in quanto sono entrambi di età
avanzata, ma hanno un rapporto del tutto differente con il denaro. Euclione è povero e avaro;
Megadoro è invece benestante e non si fa riguardi a spendere. Questa differenza è sottolineata in
diverse situazioni che interessavano entrambi, come i preparativi per le nozze.
 Liconide: sarebbe forse il protagonista, ma il finale mancante ci impedisce di capire quanto sia lo
spessore riservato a questo personaggio; infatti ha la sua entrata verso la parte finale del testo
pervenutoci e le sue battute sono relativamente poche. Si trova a disputare per ottenere la fanciulla
con lo zio, ma la parentela non sembra influenzare il corso degli eventi. È evidente la sua funzione
di personaggio tipico delle commedie plautine, quella del giovane, coinvolto in una avventura
amorosa e in lotta con avversari tipici come in questo caso il vecchio avaro.
 Strobilo: è il servo di Liconide, la figura centrale della commedia, come di molte altre. Le sue doti di
arguzia e furbizia gli permettono di farla franca all'avversario del padrone per potere sperare di
riacquistare la libertà. Il conseguimento di questo premio da parte del servo è l'affrancamento,
promesso dal padroncino in cambio di aiuto nella situazione che sembra irrisolvibile.
 Lare Familiare: è una figura abbastanza marginale. Ha la funzione di introdurre lo spettacolo con il
Prologo; la scelta stessa del personaggio ha finalità introduttive in quanto inquadra l'ambiente,
quello di una famiglia.
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 Stafila: è la vecchia serva di Euclione, curiosa, petulante ma comunque servizievole e operosa. È


strano che la caratteristica principale che le si vuol attribuire è quella di bevitrice, come l'etimologia
del nome (=grappolo d'uva) conferma;
 Eunomia: pur essendo un personaggio abbastanza marginale, è di grande importanza per lo
svolgersi dei fatti: infatti condiziona sia Megadoro a prendere moglie, sia a rinunciare alla fanciulla
che il figlio Liconide ama. Prima si mostra una affettuosa e premurosa sorella; poi al figlio rivela di
voler averla vinta con il fratello.
 Congrione e Antrace: sono i due cuochi incaricati dei preparativi per le nozze; hanno funzione
marginale e danno il loro contributo nel rendere ilare e divertente la commedia.
 Fedria: è il nome che si riferisce alla fanciulla. Dal punto di vista della storia, il suo ruolo è il centro
di tutta la commedia e probabilmente dovrebbe essere considerata la protagonista. Ma dal punto
di vista teatrale ella non compare mai in scena; questo personaggio esiste solo di nome e ha solo
una voce che, tra l'altro, si sente solamente una volta al momento del parto. Dovendo dunque
considerare l'aspetto scenografico della commedia, questo personaggio è da considerare
marginale.
 Flautiste: il loro è un ruolo puramente marginale, coreografico.
Accanto a questi personaggi compaiono una serie di personaggi minori, cuochi, mezzane, ancelle, servi e
molti altri sapientemente orchestrati.
Euclione, un vecchio taccagno, eredita una pentola piena di monete e vive nel costante terrore che gli
venga sottratta. Eunomia consiglia al fratello Megadoro, vicino di casa di Euclione, di trovare moglie. Così
Megadoro decide di sposare Fedria, figlia di Euclione, e va da questo per chiedergli la mano della figlia. I
due si accordano di celebrare il matrimonio il giorno stesso; Euclione pensa che Congrione, il cuoco
chiamato per cucinare il banchetto nuziale, sia un ladro sentendolo più volte pronunciare la parola
"pentola" e lo malmena, ma poi si rende conto della paranoia e lo lascia continuare a cucinare. Per
sicurezza però Euclione decide di spostare la pentola d'oro nel tempio della fede.Il servo di Liconide, nipote
di Megadoro innamorato di Fedria,vede Euclione nascondere la pentola e fa per prenderla, ma il vecchio
avaro decide di rispostarla nel bosco Silvano e il servo avendolo seguito fin lì ruba la pentola e la nasconde
in casa di Megadoro. Il servo allora cerca di comprarsi la libertà offrendo la pentola a Liconide che però
rifiuta e portando la pentola a Euclione chiede la mano di Fedria.
La commedia presenta una trama abbastanza semplice e lineare ed è caratterizzata dalla comicità scaturita
dagli equivoci. L'acme si ottiene quando Liconide va da Euclione per confessargli di aver usato violenza
contro la figlia. Il vecchio, che si era appena accorto che la pentola gli era stata rubata, viene trovato dal
ragazzo a urlare per ciò che gli era accaduto. All'orecchio di Liconide che si sente in colpa, le frasi
pronunciate da Euclione sembrano riguardare la violenza da lui stesso perpetrata su Fedria. Tuttavia,
Euclione non sa niente delle vicende capitate alla figlia e Liconide non sa di quelle accadute ad Euclione.
Perciò inizia un discorso equivoco e comico per il pubblico, che invece conosce entrambi gli accadimenti. Il
tutto è giocato sull'utilizzo del pronome personale femminile, il quale indica per uno (Euclione) la pentola,
per l'altro (Liconide) la fanciulla.
La commedia presenta un prologo che appare come un monologo esterno alla commedia vera e propria.
Pertanto anche il personaggio che recita in esso, cioè il Lare domestico (Lar familiaris), non è coerente con
gli altri personaggi. Infatti, il Lar familiaris non si presenterà nel resto della commedia; per di più è una
figura propria della cultura e della religione romana: questo fatto risulta particolare in quanto la commedia,
che è scritta sul modello di una greca, fa apparire in scena solamente personaggi greci, sebbene molteplici
caratteristiche che appartengono loro siano tipicamente romane. Infatti, la decisione, da parte di Plauto, di
far aprire la commedia ad un personaggio così vicino ai romani fa parte di quel processo, conosciuto molto
bene dall'autore, per il quale le commedie greche vengono adattate alla mentalità e sensibilità del popolo
romano. Tuttavia, vengono mantenuti ambientazioni e personaggi greci cosicché gli accadimenti, purché
irreali e offensivi verso figure di rilievo nella società, non vengano screditati per la loro poca veridicità o
censurati da coloro i quali avevano potere. Così i romani si potevano immergere in un mondo fantastico,
come poteva essere creduta da loro la Grecia.
Il Lare domestico ha una triplice funzione che è direttamente legata al corpo dell'opera, la stessa posizione
di questa parte implica le sue finalità introduttive.
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Innanzitutto, il prologo ha decisamente caratteristiche di un'introduzione. La trama della commedia è qui


preannunciata, andando a cercare l'interesse e la curiosità degli spettatori. Ne sono rivelati i nuclei centrali,
come le vicende amorose intorno alla fanciulla e l'interesse alla pentola con il denaro.
In secondo luogo, questa prima parte serve a presentare brevemente i personaggi principali, in modo che
quando essi compariranno sulla scena, avranno già una personalità già delineata e il pubblico potrà
comprendere e apprezzare subito tutti gli effetti che ogni dialogo e ogni comportamento genera in quel
particolare contesto.
Infine qui vengono resi noti alcuni fatti accaduti prima del punto d’inizio della narrazione, che durante la
commedia non vengono ripresi o vengono solo accennati; ad esempio solo nel Prologo è detto dell'incontro
tra i due giovani durante la veglia in onore di Cerere. Anche la storia della pentola negli anni precedenti, pur
di importanza abbastanza marginale, è rivelata solamente in questo primo monologo con lo scopo
principale di inquadrare lo scenario nel quale si svolgerà la commedia. Tuttavia, queste informazioni sono
assai importanti per tutta la rappresentazione, in quanto senza di essi, né gli effetti comici, né la narrazione
stessa sarebbero capibili ed efficaci.
Precede il prologo un riassunto ("argumentum") della storia, proposto in versi secondo lo schema
dell'acrostico, attraverso il quale si legge il titolo dell'opera. Fatta eccezione per "Bacchides" e "Vidularia",
tutte le commedie di Plauto utilizzano questo accorgimento, sebbene non fosse stato lui l'autore, ma i
grammatici in epoca più tarda.
Le lettere evidenziate formano il titolo della commedia. Ne risulterebbe "AVLVLARIA", poiché nel latino
classico non esisteva la lettera "u", ma la "v" poteva essere letta come "u".
La commedia è ambientata ad Atene, come specifica l'annotazione nella parte iniziale dell'opera. Questa
connotazione, aspetto comune delle commedie di Plauto, è garante di un collegamento immediato al
modello greco.
In questa commedia è riscontrabile in diversi aspetti il mondo greco da cui Plauto ha preso il modello. Il
primo caso di questa “contaminatio” si ha analizzando l'etimologia dei nomi dei personaggi: infatti ogni
singolo nome è di origine greca. Così ad esempio “Euclione” deriva da éu, che significa «bene», e kléio, che
significa «chiudo», che è da collegare all'immagine dell'avaro che chiude il suo tesoro; naturalmente non ha
questa etimologia il Lare, essendo di origine romana. Nel testo sono presenti alcuni termini greci o derivati
dal greco, perlopiù termini specifici, la cui comprensione di certo non doveva risultare difficile al pubblico
romano. Ci sono inoltre due particolari curiosi che rivelano la presenza dell'influsso greco. Il primo riguarda
il riferimento alla veglia della festa in onore di Cerere, durante la quale il giovane avrebbe approfittato
dell'amata; a Roma esistevano realmente feste in onore di Cerere, ma vi partecipavano solo matrone e non
ci si attardava in veglie notturne. È quasi certo che Plauto si riferisce a feste in onore della stessa dea che si
tenevano però ad Eleusi, nei pressi di Atene, che invece si concludevano spesso con vere e proprie orge.
Anche un altro particolare non quadra con il mondo romano; il “magister curiae” nominato da Euclione è
un titolo che non esisteva ai tempi di Plauto e probabilmente ha messo insieme l'istituzione romana delle
curie e quella del magistrato ateniese. In entrambi i casi si nota che Plauto ha la necessità di riportare
elementi del modello greco in quanto gli è difficile trovarne il corrispettivo nel mondo romano.
La figura dell'avaro in questa commedia di Plauto si presta al confronto con quella di Arpagone ne L'avaro di
Molière. La trama della storia rappresentata differisce in qualche aspetto; infatti nella commedia francese
sono riprese e sviluppate le parti più divertenti dell'Aulularia, con qualche rielaborazione soprattutto per
quanto riguarda l'aspetto amoroso. L'esempio più evidente è l'aggiunta di Molière di una seconda coppia di
amanti formata dal figlio di Arpagone e dall'amata, della quale si è innamorato anche lo stesso Arpagone.
Quindi è inserita anche la tematica della rivalità in amore tra padre e figlio, cosa che Plauto fa in altre
commedie. Si può notare anche che intorno ad Arpagone ruotano una serie di personaggi minori, inseriti
per arricchire la commedia. Inoltre i due esempi di avari mostrano due tipi di avarizia differenti. Euclione è
un taccagno povero che è attaccato fino alla pazzia alla pentola, tutto quello che possiede; invece Arpagone
non si ferma alla spilorceria, ma soddisfa la sua sete di denaro esercitando l'usura per accrescere il già
consistente patrimonio. Infine Molière, a differenza di Plauto, inquadra il suo personaggio in un preciso
contesto socioculturale, dando riferimenti alla società e al costume del tempo.
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Capitolo 5. Ennio
Quinto Ennio nacque nel 239 A. C. a Rudiae (vicino Lecce San Pietro in Lama) nella penisola salentina (oggi
in Puglia ma i Romani una volta la chiamavano Calabria). Diceva di avere tre cuori, in quanto parlava
fluentemente tre lingue: latino, greco e l'osco, un'antica lingua italica dell'Italia meridionale). Durante la
seconda guerra punica combatté in Sardegna tra le truppe ausiliarie che i Romani avevano arruolato in
varie parti d'Italia, e dalla Sardegna lo condusse a Roma nel 204 a. C., quando il poeta aveva trentacinque
anni. A Roma Ennio conquistò il favore di illustri personaggi schierati culturalmente su posizioni diverse da
quelle di Catone, fautori di quel processo di ellenizzazione della cultura e letteratura romana che Catone
avversava e a cui il dotto poeta avrebbe arrecato con le sue opere un notevolissimo contributo. Fu legato
da una profondissima amicizia con Scipione l'Africano, l'eroe della seconda guerra punica, di cui celebrò le
imprese sia nel grande poema epico-storico gli Annales, sia in un apposito poemetto intitolato Scipio; ebbe
inoltre tra i suoi protettori Marco Fulvio Nobiliore, che nel 189 A.C., lo volle con sé nella campagna militare
contro gli Etoli, culminata nella presa della città di Ambracia (Arta). L'iniziativa fu deplorata da Catone, che
giudicò disdicevole per un console portarsi al seguito un poeta; ciò esulava infatti dal costume tradizionale
romano (mos maiorum), mentre corrispondeva a un'usanza ellenistica di cui il caso più celebre era stato
quello di Alessandro Magno, seguito da un folto gruppo di letterati con il compito di descriverne ed
esaltarne le gesta. Ennio celebrò poi l'impresa etolica negli Annales. Nel 184 A. C. ottenne la cittadinanza
romana e salutò l'evento con grande entusiasmo e orgoglio. Morì nel 169 A. C. a Romal'anno in cui fu
rappresentata la sua ultima tragedia, il Tieste. Gli Scipioni vollero che una sua statua fosse collocata nella
loro tomba di famiglia, sulla via Appia, accanto alla statua di Scipione l'Africano, morto quattordici anni
prima.
Ennio forgia uno stile elevato e solenne ricorrendo spesso a quegli arcaismi intenzionali che erano presenti
nell'epica romana fin da Livio Andronico: accoglie cioè forme arcaiche, non più in uso ai suoi tempi nel
linguaggio comune, che conferiscono ai suoi versi una patina di preziosa antichità, come l'uso di falsi
arcaismi che gli consentivano di raggiungere un duplice scopo: quello di sostituire parole che per ragioni
metriche non potevano entrare nell'esametro e quello di dare allo stile una nobile solennità. Punta molto
sulle figure di suono e sulle allitterazioni per accentuare il pathos.

Capitolo 5.1. Gli Annales.


L'opera principale di Ennio è un poema epico intitolato Annales. L'opera fu composta nel corso di molti
anni e pubblicata dallo stesso autore, a gruppi di libri, a mano a mano che veniva scritta. Del vastissimo
poema si conservano solo alcuni frammenti, per la maggior parte costituiti da un solo verso, per un totale di
circa 600 versi. Gli Annales indicano l'ordine cronologico della narrazione e l'intenzione di non raccontare
soltanto un episodio della storia romana, ma tutta la storia di Roma, dalle origine all'età contemporanea (di
Ennio). Infatti il titolo rimanda sia ai documenti ufficiali in cui i pontefici registravano avvenimenti politico-
militari, sia alle prime opere storiografiche, iniziate a Roma negli anni della seconda guerra punica. Ennio
abbandonò il saturnio per adottare l'esametro, il metro dell'epos greco. Ennio invoca le divinità greche della
poesia, le Muse, per trovare ispirazione. Nel seguito del poema il poeta narrava un sogno in cui gli era
apparsa l'immagine di Omero che, dopo avergli esposto, la dottrina pitagorica della metempsicosi (secondo
cui l'anima trasmigra da un corpo all'altro, vivendo vite successive) gli aveva rivelato che proprio in lui,
viveva, reincarnata, la sua anima: in questo il poeta latino presentava se stesso come un Omero redivivo,
l'erede spirituale e il diretto e legittimo successore del più grande poeta greco.
La narrazione della storia di Roma aveva inizio dalla caduta di Troia e dall'arrivo nel Lazio di Enea, esule di
Troia distrutta. Il libro I narrava la storia della figlia di Enea, Ilia, madre di Romolo e Remo, il salvataggio
miracoloso dei due gemelli dalle acque del fiume Tevere, il loro conflitto per la fondazione di Roma,
l'uccisione di Remo per mano del fratello e il regno di Romolo fino alla sua morte e divinizzazione.
Nel libro II e III raccontavano la storia degli altri re fino alla caduta della monarchia.

Capitolo 6. Pacuvio
Marco Pacuvio nacque attorno al 220 a.C. a Brundisium (Brindisi), in una zona di cultura greca, da una
famiglia di origini osche. Tali origini sembrano effettivamente essere confermate dalla forma del nome
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Pacuvio, anch'essa osca, e da alcuni particolarismi linguistici che si riscontrano nelle opere. Sua madre era,
secondo la testimonianza fornita da Plinio il Vecchio, sorella del celebre poeta e drammaturgo Quinto
Ennio; probabilmente errata risulta invece la testimonianza di Sofronio Eusebio Girolamo, secondo la quale
Pacuvio sarebbe invece stato figlio della figlia di Ennio, e dunque nipote abiatico del poeta.
Formatosi grazie alle influenze dello zio e maestro Ennio, da cui ereditò anche gli interessi filosofici e le
tendenze razionalistiche, Pacuvio visse e operò come tragediografo e pittore a Roma, dove giunse nel 204
a.C. Qui, secondo la testimonianza di Marco Tullio Cicerone, strinse un solido legame di amicizia con
l'aristocratico di ambiente scipionico Gaio Lelio; tale notizia potrebbe però costituire una finzione letteraria
elaborata a posteriori dallo stesso Cicerone per arricchire la trattazione pronunciata dallo stesso Lelio nel
Laelius de amicitia. La poetica di Pacuvio, altisonante e ricca di riferimenti mitologici, era infatti ben lontana
da quella proposta dal cosiddetto circolo degli Scipioni, che tentava, invece, di diffondere un ideale di
letteratura aderente alla vita reale e attenta all'individuo.
Ancora attivo nel 140 a.C., all'età di ottant'anni, Pacuvio compose una tragedia che mise in scena in
competizione con il giovane Lucio Accio, che si andava allora affermando e che dopo la morte dello stesso
Pacuvio sarebbe divenuto il maggior tragediografo in attività a Roma.
Poco più tardi, tuttavia, il vecchio Pacuvio, malato, fu costretto a ritirarsi a Tarentum, dove, attorno al 135
a.C., ricevette la visita dello stesso Accio che si apprestava a partire per un viaggio in Asia. Ritiratosi,
dunque, a Tarentum (Taranto), Pacuvio vi morì quasi novantenne attorno al 130 a.C.: egli stesso compose il
testo, secondo Gellio, dell'epitaffio che fu poi inciso sulla sua lapide tombale, "un garbato autoritratto che
comunica un senso di urbanità, di dignità e di riserbo".
Così come Plauto, Cecilio e Terenzio si erano per primi specializzati nel solo genere della commedia palliata,
Pacuvio fu il primo tra gli autori di lingua latina a specializzarsi in quello della tragedia. Dalle dubbie
testimonianze dei grammatici tardi Diomede e Pomponio Porfirione, di dubbia validità, si evince che
Pacuvio sarebbe anche stato autore di Saturae, affini a quelle di Ennio, che avrebbero però riscosso scarso
successo e avrebbero dunque acquisito importanza marginale. Dalla testimonianza di Plinio il Vecchio
risulta che abbia esercitato anche il mestiere di pittore: in età alto-imperiale si conservava ancora la
memoria di una sua opera che era stata esposta in Roma nel tempio di Ercole presso il foro boario.
Della sua opera letteraria, non particolarmente vasta, sono a oggi pervenuti circa 365 frammenti per un
totale di circa 400 versi. Fu autore di dodici o tredici tragedie cothurnatae (Antiope, Armorum iudicium,
Atalanta, Chryses, Dulorestes, Hermiona, Iliona, Medus, Niptra, Pentheus, Periboea e Teucer; incerta è
l'attribuzione del Protesilaus) e di una praetexta (Paulus).
Le cothurnatae, sviluppate per lo più a partire da originali greci oggi perduti dei tragici Eschilo, Sofocle ed
Euripide, trattavano in molti casi temi afferenti ai maggiori cicli mitici, quali quello troiano (Armorum
iudicium, Iliona, Niptra, Teucer, e Protesilaus), quello, connesso al troiano, di Oreste (Chryses, Dulorestes,
Hermiona), quello tebano (Antiope) e quello argonautico (Medus).
La cura che Pacuvio riservava alle sue opere gli procurò, mentre era ancora in vita, la fama di erudito;
l'erudizione, tuttavia, si prestava a degenerare in pedanteria, come dimostrano ad esempio i versi del
Chryses in cui la descrizione del cosmo e del sole è interrotta da una parentesi di riflessione filologica sui
termini con cui Greci e Romani indicavano il cielo. Ciò non precluse comunque a Pacuvio la possibilità di
riscuotere un ampio successo di pubblico presso il popolo romano e presso i suoi contemporanei: l'ampia
diffusione e il gradimento delle sue opere testimoniano inoltre la «capacità del pubblico romano di
apprezzare un testo teatrale serio».
L'autore satirico Gaio Lucilio, attivo nella seconda metà del II secolo a.C., nell'affermare la sua nuova
poetica legata all'esperienza personale, prese le distanze dalla poetica tragica di Ennio, ma soprattutto dei
contemporanei Pacuvio e Accio, che tentavano, a suo giudizio, di affascinare il pubblico proponendogli
esclusivamente storie di esseri fantastici quali «serpenti alati» o «draghi volanti». Tale critica, dettata
dunque da ragioni personali legate al modo di intendere l'attività letteraria stessa, nulla toglie comunque al
vasto successo che Pacuvio riscosse tra i suoi contemporanei.
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Capitolo 7. Accio
Lucio Accio o semplicemente Accio nacque da genitori liberti nel 170 a.C.; è incerto il luogo di nascita:
potrebbe essere nato a Roma ed essersi trasferito successivamente a Pesaro in occasione di una adscriptio
novorum colonorum, oppure proprio a Pesaro, dove visse da giovane. Esordì come autore tragico nel 140
A.C. a Roma e le sue prime opere, pare, destarono invidia nell'allora più celebre letterato Pacuvio, più
anziano di lui. Verso il 135 A.C. visitò Pergamo per poter meglio conoscere la cultura greca di quel periodo.
Tornato a Roma divenne uno dei principali esponenti del collegium poetarum (Corporazione dei poeti),
tanto da raggiungere una certa notorietà già attorno ai trent'anni.
Attorno al 120 raggiunse definitivamente la fama proponendosi non solo come teatrante, come era invece
ad esempio Plauto, ma come un grammatico che vive delle proprie opere. Fu quindi l'inizio di quel processo
che ha portato il teatro ad essere considerato parte integrante della letteratura.
Un curioso aneddoto a noi giunto riguarda la sua personalità orgogliosa, che lo spinse addirittura a
richiedere che venisse eretta un'enorme statua a sua somiglianza nella sede del collegium poetarum,
nonostante la sua bassa statura; anche a causa di questi comportamenti si guadagnò gli attacchi di Caio
Lucilio, il noto poeta satirico che era legato al Circolo degli Scipioni.
Decise successivamente di creare attorno a sé una ristretta associazione di letterati scelti da lui stesso. Morì
verosimilmente a Roma intorno all'85 a.C.
Pur essendo stato il più prolifico tragediografo della letteratura latina, di Accio non restano che frammenti:
circa 750 versi e 44 titoli di cothurnate, tragedie ambientate in Grecia; fu autore anche di alcune praetexte,
tragedie ad ambientazione romana. Una sua opera molto significativa è il Brutus, una delle due tragedie
latine. In questa opera l'autore narrava la vicenda di Lucio Giunio Bruto, capo della rivolta contro i Tarquini.
Com'era tipico delle preteste, anche il Brutus aveva un legame celebrativo con il presente: un discendente
di Bruto infatti trionfò sui Galleci dell'Iberia nel 136 a.C. Dell'opera rimane celebre il passaggio del sogno di
Tarquinio il Superbo, premonizione sulla futura grandezza dell'Impero Romano e della sua caduta.
Il Decius o Aeneadae trattava, forse, del nobile sacrificio di Publio Decio Mure alla battaglia di Sentino (295
a.C.). Il titolo Aeneadae sottolinea la discendenza dei Romani da Enea. Per quanto riguarda la forma dei suoi
testi, Accio viene considerato uno scrittore abile nell'utilizzare i mezzi tecnici e stilistici più disparati, tra cui
brilla la sua abilità nell'uso di assonanze e allitterazioni. Lucio Accio scrisse anche opere di filologia e di
erudizione. Lucio Accio non fu soltanto tragediografo, come il rivale Pacuvio, ma anche poeta e filologo.
Tuttavia poco sappiamo delle sue opere più erudite. Nei Didascalica, un misto di prosa e versi, intendeva
proporre probabilmente una serie di riforme ortografiche impostate secondo la teoria dell'analogia, ossia la
tendenza purista e conservatrice che propugnava una lingua modellata su quella dei classici.
Sono citati un Sotadicorum liber, gli Annales (in esametri) ed i Pragmatica che trattavano forse di questioni
critico-letterarie.

Capitolo 8. Terenzio
Il grammatico Donato ci ha tramandato, premettendola al suo commento delle commedie terenziane, la
Vita Terentii redatta da Svetonio e da lui inserita nel suo De poetis. La data di nascita non è conosciuta con
precisione; si ritiene sia nato lo stesso anno della morte di Plauto, nel 184 a.C., e comunque tra il 195 e il
183 a.C.. Di bassa statura, gracile e di pelle scura, era di razza punica (seguendo il cognome Afer se ne può
dedurre la razza libica)e nacque a Cartagine; arrivò a Roma come schiavo del senatore Terenzio Lucano.
Il senatore lo educò nelle arti liberali, e in seguito lo affrancò (la biografia dice "ob ingenium et formam",
per la sua intelligenza e la sua bellezza); il liberto assunse pertanto il nome di Publio Terenzio Afro. Fu in
stretti rapporti con il Circolo degli Scipioni, ed in particolare con Gaio Lelio, Scipione Emiliano e Lucio Furio
Filo: grazie a queste frequentazioni apprese l'uso alto del latino e si tenne aggiornato sulle tendenze
artistiche di Roma. Il grammatico Fenestella cita però altri esponenti della "nobilitas", ossia Sulpicio Gallo,
Quinto Fabio Labeone e Marco Popillio. Durante la sua carriera di commediografo (dal 166, anno di
rappresentazione della prima commedia, Andria, al 160 a.C.), venne accusato di plagio ai danni delle opere
di Nevio e Plauto (entrambi condividevano come lui le idee di Menandro) e di aver fatto da prestanome ad
alcuni protettori, impegnati in politica, per ragioni di dignità e prestigio (l'attività di commediografo era
considerata indegna per il civis romano), tanto che Terenzio stesso si difese tramite le sue commedie: nel
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prologo degli Adelphoe (I fratelli), per esempio, egli rifiuta l'ipotesi che lo vede prestanome di altri,
segnatamente dei membri dello stesso Circolo degli Scipioni. Venne accusato di mancanza di vis comica e
di uso della contaminatio.
Morì mentre si trovava in viaggio in Grecia nel 159 a.C., all'età di circa 26 anni. Era partito per la Grecia per
varie ragioni: la ricerca di altre opere di Menandro, per servirsene come modelli; la volontà di vivere
personalmente nei luoghi in cui ambientava le proprie opere; e comporvi delle opere, lontano dai sodali,
dimostrando quindi definitivamente d'esserne l'autore unico. Le cause della morte sono incerte; Svetonio
riporta alcune ipotesi, tra cui il naufragio e il dolore di aver perduto, con i bagagli, 108 commedie
rimaneggiate dagli originali di Menandro reperiti in Grecia. Probabilmente proprio per un accostamento
all'ispiratore Menandro, diffusa è anche la voce, senza riscontro, di una morte per annegamento.
Terenzio scrisse soltanto 6 commedie, tutte giunte a noi integralmente. La cronologia delle opere, frutto del
lavoro filologico e delle ricerche erudite dei grammatici antichi, è attestata con precisione nelle didascalie
anteposte, nei manoscritti, alle singole commedie.
Terenzio si adattò alla commedia greca; in particolare segue i modelli della Commedia Nuova (νέα
κωμωδία) attica e, soprattutto, di Menandro. Per questo forte legame artistico col commediografo greco fu
definito da Cesare dimidiate Menander, ovvero "Menandro dimezzato".
L'opera di Terenzio non si limitò ad una semplice traduzione e riproposizione degli originali greci. Terenzio,
infatti, praticava la contaminatio, ovvero introduceva all'interno di una stessa commedia personaggi ed
episodi appartenenti a commedie diverse, anch'esse comunque di origine greca. Parte della fortuna delle
sue commedie è da attribuire alle capacità del suo attore, Lucio Ambivio Turpione, uno dei migliori a
quell'epoca.
Rispetto all'opera di Plauto, tuttavia, quella di Terenzio si differenzia in modo sensibile in vari punti.
Innanzitutto, il pubblico ideale di Terenzio è più colto di quello di Plauto: infatti, in alcune commedie si
trovano alcuni argomenti socio-culturali del Circolo degli Scipioni, di cui faceva parte. Inoltre,
contrariamente alla commedia plautina, denominata motoria per la loro eccessiva spettacolarizzazione,
straniamento e presenza di cantica, l'opera di Terenzio è definita stataria, perché sono relativamente serie,
non comprendono momenti di metateatro né cantica. Data la maggiore raffinatezza delle sue opere, si può
dire che con Terenzio il pubblico semplice si allontana dal teatro, cosa che non era mai successa prima di
allora.
Altra differenza è la cura per gli intrecci, più coerenti e meno complessi rispetto a quelli delle commedie
plautine, ma anche più coinvolgenti in quanto Terenzio, al contrario di Plauto, non utilizza un prologo
espositivo (contenente gli antefatti e un'anticipazione della trama). Particolarmente importante in Terenzio
è anche il messaggio morale sotteso a tutta la sua opera, volta a sottolineare la filantropia (in latino
humanitas), cioè il rispetto che ogni uomo deve avere nei confronti di ogni altro essere umano, nella
consapevolezza dei limiti di ciascuno, ben sintetizzato dalla sua frase più famosa: « Homo sum: humani
nihil a me alienum puto ». È da sottolineare inoltre la differenza presente tra i personaggi plautini e quelli
terenziani. Terenzio infatti creò personaggi in cui lo spettatore potesse identificarsi, e viene messa in risalto
la psicologia di questi ultimi. Inoltre la figura dello schiavo, il vero personaggio delle commedie di Plauto,
viene notevolmente ridimensionata. Il linguaggio usato da Terenzio è quello della conversazione ordinaria
tra persone di buona educazione e cultura, quindi un linguaggio settoriale diverso dallo stile di Plauto, in cui
erano presenti neologismi e giochi di parole atti a far ridere lo spettatore. Il più antico commentatore
dell'opera terenziana è Elio Donato. Tuttavia la fortuna di Terenzio si protrasse per tutto il Medioevo e il
Rinascimento, come attestano le decine di manoscritti che contengono integralmente o almeno in parte le
sue commedie. Questo successo fu dovuto in particolare alla loro costante inclusione nei programmi
scolastici del tempo, in virtù del loro carattere edificante e dello stile, semplice ma allo stesso tempo
corretto e non banale.
Lo stile Terenziano pur riprendendo in tutto e per tutto Menandro allontanandosi da Plauto, non manca di
vivacità e calore, specialmente nei monologhi "patetici" in preda a conflitti interiori: in questi casi lo stile
esprime non solo i sentimenti e le emozioni dei protagonisti, ma anche il coinvolgimento e
l'immedesimazione del commediografo nell'azione scenica. I personaggi sono psicologicamente credibili e
lo spettatore spesso si identifica in esso, è ridimensionato il ruolo del servo, quasi principale nelle
commedie plautine, e passa in primo piano invece il rapporto tra padre e figlio: il primo risulta sempre
disponibile al dialogo pur mantenendo il ruolo di antagonista preoccupati al mantenimento dell'armonia
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familiare, mentre il secondo risulta avere problemi di sofferenza amorosa, che vengono espressi con
simpatia e partecipazione dal poeta, per questo si dice che i personaggi terenziano sono gentili. Da qui si
evince che il conflitto generazionale risulta attenuato e sfumato altra differenza rispetto alle commedie
plautine.

Capitolo 9. Lucrezio
Della vita di Lucrezio ci è ignoto quasi tutto: egli non compare mai sulla scena politica romana né sembra
esistere negli scritti dei contemporanei in cui non viene mai citato, eccezion fatta per la lettera di Cicerone
ad Quintum fratrem II, contenuta nella sezione Ad familiares, dove il celebre oratore accenna all'edizione
postuma del poema di Lucrezio, che egli starebbe curando. Un'altra fonte che lo cita è San Girolamo nel suo
Chronicon, in cui ci dice che circa nel 94 a.C. "Titus Lucretius Carus nascitur, qui postea a poculo amatorio in
furorem versus et per intervalla insaniae cum aliquot libros conscripsisset, quos postea Cicero emendavit,
sua manu se interfecit anno 44 "("nasce il poeta T. Lucrezio, che dopo essere impazzito per un filtro
d'amore e aver scritto alcuni libri [del poema?] negli intervalli della follia, che Cicerone pubblicò postumi, si
suicidò all'età di quarantaquattro anni"); tale dato non concorda tuttavia con quanto affermato da Elio
Donato (IV d.C.), maestro di San Gerolamo, secondo il quale Lucrezio sarebbe morto quando Virgilio (nato
nel 70 a.C.) indossò a 15 anni la toga virile, nell'anno in cui erano consoli per la seconda volta Crasso e
Pompeo. Questo dato ha fatto propendere a credere che Lucrezio nacque nel 98 a.C. per poi morire nel 55
a.C., all'età di quarantaquattro anni. Queste vengono comunemente considerate le uniche notizie
biografiche tramandate direttamente dall'antichità.
Ignoto risulta anche il luogo di nascita, che tuttavia taluni hanno creduto essere la Campania e più
precisamente Pompei o Ercolano, per la presenza di un Giardino Epicureo in quest'ultima città, e la
condizione sociale, sebbene i tria nomina e il suo anelito pacifista facciano credere che potesse essere di
nascita aristocratica. Neppure la sua militanza politica sembra essere ricostruibile: il desiderio di pace
accennato prima non sembra affatto ricordare il drammatico rancore dell'aristocratico (per altro stoico) che
vede sgretolarsi la Repubblica e la libertà, ma il desiderio dell'amico epicureo, che vede nella pace e il
benessere di tutti la possibilità di fare accoliti e viver serenamente.
Tale era, del resto, il suo desiderio di pace da auspicare alla fine del proemio della sua opera un "placida
pace" per i Romani. Questo anelito così forte alla pace è peraltro riscontrabile non solo in Lucrezio, ma
anche in Catullo, Sallustio, Cicerone, Catone l'Uticense e perfino in Cesare: esso rappresenta il desiderio di
un'intera società dilaniata da un secolo di guerre civili e lotte intestine.
Il latinista Luca Canali ha avanzato una tesi piuttosto bizzarra (per alcuni da intendere come provocazione)
ripresa da un'affermazione di San Girolamo, secondo la quale l'autore del De rerum natura sarebbe un
Cicerone giovane, mentre Lucrezio non sarebbe mai esistito. Tale tesi ha il difetto di non tenere nel dovuto
conto gli aspetti stilistici, non ciceroniani, dell'opera. Si ipotizza che Cicerone, poco convinto dell'opera,
l'avrebbe pubblicata sotto lo pseudonimo di "Lucrezio", in una specie di rinnegamento dei suoi scritti
giovanili. Tale tesi si basa principalmente sul fatto che Cicerone è l'unico contemporaneo a parlare di
Lucrezio. Inoltre: fu Cicerone a pubblicare il De rerum Natura per primo, con una nota introduttiva che
disprezzava l'opera, proponendola come esempio da non imitare, anche se, nel 54 a.C. in una lettera al
fratello Quinto Cicerone scrisse:"Lucretii poemata, ut scribis,ita sunt: multis luminibus ingenii, multae
tamen artis"(le poesie di Lucrezio, come tu mi scrivi, sono dotate di molti lumi di talento, e tuttavia di molta
arte.(Ep. ad Quintum fr. II 9)). Il prestigio del nome di Cicerone come autore, sostenuto da San Girolamo,
avrebbe così salvato l'opera in quanto ritenuta, appunto, di Cicerone. C'è anche da aggiungere che San
Girolamo, in veste di ecclesiastico, cercò di denigrare Lucrezio che, essendo un atomista, non credeva
nell'immortalità dell'anima.
Lucrezio, per il periodo in cui è vissuto, è stato un personaggio scomodo: gli ideali epicurei di cui era
profondamente intriso corrodevano le basi del potere di una Roma alla vigilia della congiura di Catilina. In
un'epoca di tensioni repubblicane, infatti, isolarsi dalla realtà politica nell'hortus epicureo significava
sottrarsi ai negotia politici e uscire di conseguenza anche dalla sfera d'influenza del potere.
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Le più forti correnti stoiche, ostili all'epicureismo, avevano permeato la classe dirigente romana in quanto
più conformi alla tradizione guerriera dell'Urbe. L'epicurismo era invece presente anche attraverso Diogene
di Enoanda e altri in Campania, dove Virgilio avrebbe approfondito la sua conoscenza dell'epicureismo.
La natura poetica del De rerum natura fa sì che Lucrezio col suo pessimismo esistenziale avanzi profezie
apocalittiche, visioni quasi allucinate, critiche e ambigue espressioni, che accompagnano il poema. Alcuni
teologi cristiani come San Girolamo ed altri, hanno dato di lui l'immagine di un ateo psicotico in preda alle
forze del male. Appoggiandosi alla psicoanalisi qualcuno ha sostenuto che in certi bruschi cambiamenti di
immagine e di pensiero ci fossero i sintomi di una pazzia delirante o di problemi di ordine psichico.
In realtà l'ipotizzata pazzia di Lucrezio potrebbe essere un tentativo di mistificazione per screditare il poeta,
così come la presunta morte per suicidio sarebbe stato l'esito di un modo di pensare perverso, che travia
chi lo segue. L'ipotesi dell'epilessia poi, viene avanzata sulla base dell'arcaica credenza che il poeta fosse
sempre un invasato; elemento quest'ultimo da collegare alla credenza che gli epilettici fossero sacri ad
Apollo e da lui ispirati nelle loro creazioni.
Comunque altri scrittori cristiani come Arnobio e Lattanzio affermarono che egli non fosse pazzo e che non
si fosse ucciso. L'ipotesi della follia e del suicidio attestata dal Chronicon di San Girolamo si fondava su
illazioni di Svetonio, peraltro di difficile verifica. Potrebbe anche esserci stata una confusione dovuta
all'abbreviazione Luc., impiegata indifferentemente nei codici latini per indicare i nomi di Lucillius, Lucullus
e Lucretius. Plutarco scrisse infatti di un certo Licinio Lucullo, politico, generale e cultore dei piaceri, che
morì dopo essere impazzito a causa di un filtro d'amore. L'errore di interpretazione dell'abbreviazione Luc.
potrebbe così aver permesso lo scambio dei due personaggi.
In un simile progetto Lucrezio scelse di doversi rifare ad un modello di stile arcaico, che vedeva in Livio
Andronico, ma soprattutto in Ennio e in Pacuvio i modelli emuli, per motivi fra loro quanto meno vari:
l'egestas linguae (povertà della lingua), lo vede costretto a dover arrangiare le lacune terminologiche e
tecnicistiche con l'arcaismo, ancora che proprio Lucrezio, insieme a Cicerone, sia uno dei fondatori del
lessico astratto e filosofico latino, e a colmare e ancor meglio comprendere l'oscurità del filosofo con la
mielosa luce della poesia. Discendendo più in profondità nelle anguste gole del poema, si notano anche
altri problemi cui dovette far fronte: primo fra tutti, come tradurre parole di pregnanza filosofica in latino,
che ancora non aveva termini confacenti. Finché poté, egli evitò la semplice translitterazione (ad es.
"Atomus" per Ατομος) e preferì invece usare altri termini presenti già nella sua lingua magari dandogli altra
accezione oppure (come mostrato anche sopra) creando neologismi. Ed è proprio grazie all'arcaismo che
Lucrezio riesce a rendere possibile tutto questo: infatti era proprio dello stile arcaico il neologismo
munificenza ed anche un certo uso (convulso a detta di antichi e moderni) delle figure di suono quali
allitterazioni, consonanze, assonanze e omoteleuti. Molto importante è anche il fatto che Lucrezio non si
limitò a trasmettere il messaggio di Epicuro con un arido scritto filosofico, ma lo fece attraverso un poema
che, a differenza del rigoroso linguaggio razionale della filosofia, parla per squarci imaginifici.

Capitolo 9.1. De rerum natura


Il De rerum natura ("La natura delle cose") è un poema didascalico latino di natura epico-filosofica, scritto
da Tito Lucrezio Caro nel I secolo a.C.
In questo poema, composto di sei libri raggruppati in tre diadi, il filosofo e poeta latino si fa portavoce delle
teorie epicuree riguardo alla realtà della natura e al ruolo dell'uomo in un
universo atomistico, materialistico e meccanicistico: si tratta di un richiamo alla responsabilità personale, e
di un incitamento al genere umano affinché prenda coscienza della realtà, nella quale gli uomini sin dalla
nascita sono vittime di passioni che non riescono a comprendere.
L'opera è dedicata a Gaio Memmio; riproduce il modello prosastico e filosofico epicureo e la struttura del
poema Sulla natura (Περὶ φύσεως) di Empedocle (anche un'opera di Epicuro aveva il medesimo titolo).
Secondo i filologi vi sono corrispondenze e simmetrie interne che corrisponderebbero ad un gusto
alessandrino. L'opera infatti è suddivisa in tre diadi, che hanno tutte un inizio solare ed una fine tragica.
Ogni diade comincia con un inno ad Epicuro e l'ultimo libro termina con un altro inno ad Epicuro, mentre il
secondo libro inizia con un inno alla scienza e il terzo libro con l'esposizione dell'estetica di Lucrezio.
Essendo un poema didascalico, ha come modello Esiodo e quindi anche Empedocle, che aveva preso il
modello esiodeo come massimo strumento per l'insegnamento della filosofia. Altri modelli potrebbero
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essere i poeti ellenistici Arato di Soli e Nicandro di Colofone, che usavano il poema didascalico come sfoggio
di erudizione letteraria.
Il poema ha tre argomenti principali:
 La dilacerante antinomia fra ratio e religio: La ratio è vista da Lucrezio come chiarità folgorante
della verità «che squarcia le tenebre dell'oscurità», mentre la religio è ottundimento gnoseologico
e bovina ignoranza. Lucrezio scrive che occorre trattare la struttura fondamentale del cielo e degli
Dei per capire i principi delle cose, si tratta di spiegare razionalmente i fenomeni naturali senza
considerare l'intervento degli Dei o con la convinzione che l'uomo sia lo scopo ultimo della volontà
degli Dei. Lucrezio afferma che bisogna dimostrare le nefaste conseguenze della religione e adduce
come esempio il caso di Ifigenia, dicendo poi che il mito è una rappresentazione falsata della realtà
(si veda l'evemerismo).
 Dottrina epicurea: Riprende i temi principali della dottrina epicurea, che sono: l'aggregazione
atomistica e il clinamen (vita e morte), la liberazione dalla paura della morte, del dolore e degli Dei
e dalla spiegazione dei fenomeni naturali. La sostanza è unica, predefinita ed eterna. Gli atomi si
muovono in una dimensione infinita, il vuoto, attraversando tutto l'universo. L'universo è composto
solamente da atomi e vuoto. (Per questa ragione Lucrezio è un atomista). L'anima dell'uomo è
anch'essa costituita da atomi che, quando il corpo muore, si disperdono nell'universo, per essere
riutilizzati dalla natura.
 L'uomo e il progresso: Lucrezio nega ogni sorta di creazione, di provvidenza e di beatitudine
originaria e afferma che l'uomo si è affrancato dalla condizione di bisogno tramite la produzione di
tecniche, che sono trasposizioni della natura. Un dio o degli dei esistono, ma non crearono
l'universo, tanto meno si occupano delle azioni degli uomini. Lucrezio afferma che i saperi razionali
sulla natura ci mostrano un universo infinito formato da atomi che segue delle leggi naturali,
indifferente verso i bisogni dell'uomo, che si può spiegare senza ricorrere alle divinità.
Per quanto riguarda l'indifferenza della Natura per l'uomo Leopardi si ispirerà nella composizione
dell'operetta "dialogo di un Islandese con la Natura" ad un passo simile nel III libro del De rerum natura.
Lucrezio utilizza un linguaggio arcaico e solenne. Questo tono è ricercato dal poeta poiché, tramite la
vibrazione emessa dal ritmo della metrica simbolica, egli desidera trasmettere la sacralità della sua impresa.
Per questo motivo egli utilizza varie figure di suono come l'allitterazione, l'anafora, l'onomatopea, l'epifora.
Oltre ad esse ritroviamo anche varianti morfologiche superate o sintagmi arcaizzanti, molto probabilmente
dati dalla volontà di riprendere anche un altro poeta latino quale era Ennio, a cui Lucrezio si ispira. Inoltre si
possono trovare neologismi: non esistendo termini latini con lo stesso significato di alcuni termini greci
usati da Democrito ed Epicuro, Lucrezio dovette coniarne dei nuovi. In onore a Ennio, i neologismi
partivano da basi latine.

Capitolo 10. Catullo.


Gaio Valerio Catullo proveniva dalla Gallia Cisalpina e nacque precisamente a Verona nella Venetia et
Histria. San Gerolamo, studioso che si era occupato di molti autori latini, pone l'87 a.C. e il 57 a.C.
rispettivamente come data di nascita e di morte e specifica che appunto egli morì alla giovane età di
trent'anni, ma non ne si conosce la causa. Tuttavia, poiché nei suoi carmi vengono accennati avvenimenti
che riportano all'anno 55 a.C. (come l'elezione a console di Pompeo e l'invasione della Britannia da parte di
Cesare), si è maggiormente propensi a ritenere che egli sia nato nell'84 e morto nel 54 a.C., dato per certo il
fatto che sia morto a trent'anni.
Apparteneva a una famiglia agiata. Stando a quanto racconta Svetonio, il padre ospitò Q. Metello Celere e
Giulio Cesare in casa propria al tempo del loro proconsolato in Gallia. Trasferitosi nella Capitale si suppone
intorno al 61-60 a.C., cominciò a frequentare ambienti politici, intellettuali e mondani, conobbe personaggi
influenti e conosciuti dell'epoca, come Quinto Ortensio Ortalo, Gaio Memmio, Cornelio Nepote, e Asinio
Pollione, infine ebbe contatti ostili con Cesare e Cicerone; con una stretta cerchia d'amici letterati, quali
Licinio Calvo ed Elvio Cinna fondò un circolo privato e solidale per stile di vita e tendenze letterarie. Durante
il suo soggiorno prolungato a Roma ebbe una relazione travagliata con la sorella del tribuno Clodio, tale
Clodia. Viene soprannominata nei carmi con lo pseudonimo letterario Lesbia in riferimento alla grandezza
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della grande poetessa greca d'amore Saffo dell'isola di Lesbo. Lesbia, che aveva una decina d'anni più di
Catullo, viene descritta dal suo amante non solo graziosa, ma anche colta, intelligente e spregiudicata. La
loro relazione alternava periodi di litigi e di riappacificazioni ed è noto che l'ultima lettera che Catullo scrisse
all'amata fu del 55 o 54 a.C., proprio perché in essa viene citata la spedizione di Cesare in Britannia.
Soprannominato "Poeta Nuovo" da Cicerone in modo però del tutto dispregiativo.
Da alcuni suoi carmi emerge che il poeta ebbe anche un'altra relazione, con un giovinetto romano di nome
Giovenzio. Catullo si allontanò varie volte da Roma per trascorrere del tempo nella villa paterna a Sirmione,
sul lago di Garda, luogo da lui particolarmente apprezzato e celebrato per il suo fascino ameno, ma anche
perché situato nella sua terra di origine, causa per il poeta di periodi nostalgici. Nel 57-56 a.C. fece parte
della cohors praetoria, detta anche cohors amicorum, accompagnò Gaio Memmio in Bitinia (Turchia) e in
quella circostanza andò per rendere omaggio alla tomba del fratello sita nella Troade. Quel viaggio non recò
alcun beneficio al poeta, che ritornò senza guadagni economici, né la lontananza riuscì a fargli riacquistare
la serenità perduta a causa dell'incostanza e dell'indifferenza di Lesbia nei suoi confronti.
Catullo non partecipò mai attivamente alla vita politica, anzi voleva fare della sua poesia un ludus fra amici,
una poesia leggera e lontana dagli ideali politici tanto osannati dai letterati del tempo.
Catullo è uno dei più noti rappresentanti della scuola dei neoteroi (cioè "poeti nuovi"), che prendevano a
modello il poeta greco Callimaco, il quale creò un nuovo stile poetico che si distacca dalla poesia epica di
tradizione omerica divenuta a suo parere stancante, ripetitiva e dipendente quasi unicamente dalla
quantità (in riferimento all’abbondanza dei versi di quest’ultima) piuttosto che dalla qualità. Sia Callimaco
che Catullo, infatti, non descrivono le gesta degli antichi eroi o degli dei (eccezion fatta, forse, per i carmina
63 e 64) ma si concentrano su tematiche legate a episodi semplici e quotidiani. Da questa matrice
callimachea accresce anche il gusto per la poesia breve, erudita e mirante stilisticamente alla perfezione. Si
sviluppano, originari dell'alessandrinismo e nati da poeti greci come Callimaco, Teocrito, Asclepiade, Fileta
di Cos e Arato, generi quali l'epillio, l'elegia erotico-mitologica, l'epigramma, che più sono apprezzati e
ricalcati dai poeti latini.
Catullo stesso definì il suo libro expolitum (cioè "levigato") a riprova del fatto che i suoi versi sono
particolarmente elaborati e curati. Inoltre, al contrario della poesia epica, l'opera catulliana intende evocare
sentimenti ed emozioni profonde nel lettore.
Catullo apprezzava molto anche la poetessa greca Saffo, vissuta nel VI secolo a.C.: del resto, gli stessi
carmina del poeta romano costituiscono una fonte grazie alla quale è possibile conoscere l'opera della
poetessa greca. In particolare, il carmen catulliano numero 51 è una traduzione della poesia 31 di Saffo,
mentre i carmina 61 e 62 sono con tutta probabilità ispirati a lavori perduti della poetessa di Lesbo. Questi
ultimi due componimenti sono degli epitalami, cioè poesie d'amore dedicate al matrimonio. Saffo, del
resto, era molto famosa per i suoi epitalami (questa forma poetica, tuttavia, cadde poi in disuso nei secoli
successivi). Catullo, inoltre, recuperò e diffuse a Roma un particolare tipo di metro detto "strofe saffica",
molto usato da Saffo.

Capitolo 10.1. Il liber


Il Liber consta di 116 carmi divisi in tre sezioni:
 La prima parte (1-60) detta nugae, termine che significa "sciocchezze", "cose da poco" e che verrà
poi ripreso da Francesco Petrarca, raccoglie carmi brevi scritti in metro vario, soprattutto
endecasillabi faleci, ma anche trimetri giambici, scazonti e saffiche.
 La seconda parte (61-68) detta carmina docta, contiene elegie, epitalami e poemetti più lunghi ed
impegnativi in esametri e in distici elegiaci, scritti secondo il gusto erudito della poesia alessandrina.
In questi carmi si avverte un interesse ed una partecipazione poetica più accentuata.
 La terza parte (69-116) composta dagli epigràmmata ossia appunto da epigrammi in distici elegiaci.
All'inizio della raccolta vi è una dedica scritta rivolta a Cornelio Nepote (carme 1), che però non
sembra riferibile all'opera nella sua totalità infatti in questa prefazione dedicata, Catullo definisce i
suoi carmi come nugae, ovvero cosucce di poco conto, termine ben riferibile alla prima parte
anziché alla seconda dei Carmina Docta.
Nelle nugae e negli epigrammata il tema dominante è dato dall'amore per Lesbia, rappresentata come una
donna d'eccezionale fascino e cultura, che fa presa perennemente sul poeta. Catullo fu in gran misura
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influenzato da Saffo ma dalle poesie si evince comunque una passione autentica ed un'impronta
d'originalità.
Nei carmina docta invece, c'è un Catullo più composto e classico, in cui il mito rappresenta un modello
etico, o comunque un mezzo per affermare l'assolutezza e la sacralità di quei valori che Catullo sente
minacciati nella vita del suo tempo ma anche nella sua vita privata. Il primo ed il secondo carme sono
rispettivamente un epitalamo ed un contrasto corale. L'Attis, il carme successivo, narra la vicenda del
giovane omonimo, giunto in Frigia, che si evira in preda ad una furia religiosa così da poter divenire
sacerdote della dea Cibele. Rinsavito, Attis si rende conto del suo gesto e si abbandona ad un lamento in
riva al mare, creando un acceso lirismo narrativo. Il quarto carme, comunemente intitolato Le nozze di
Peleo e Teti fin dall'Umanesimo, è un epitalamio che racconta appunto le vicende delle nozze fra i due. La
peculiarità principale dell'epitalamo però è data dalla tecnica artistica, l'ekphrasis giunta dagli Alessandrini,
con cui il poeta introduce con un pretesto poetico mutuato dall'argomento focale, un altro episodio in
contrasto: l'abbandono di Arianna da parte di Teseo: i due nuclei narrativi devono contrapporre la fides e
linfidelitas. I successivi componimenti (65-66) sono in stretta relazione: il primo è la dedica indirizzata
all'oratore Ortensio Ortalo, la quale non è altro che la traduzione latina della callimachea Chioma di
Berenice. Il carme 67 tratta dell'argomento della 'porta chiusa', ovvero una nuova deformazione del
παρακλαυσίθυρον (paraklausìthyron), cioè del lamento dell'amante di fronte alla porta chiusa dell'amato:
in questo componimento infatti, una porta racconta le vicende che riguardano la moglie del padrone e delle
sue relazioni adulterine. L'ultimo componimento racconta della vicenda mitica riguardante Protesilao e
Laodamia, il quale riassume bene i due temi principali della poesia catulliana di questo periodo, ovvero la
morte di un congiunto (la scomparsa del fratello) e l'amore disperato e carnale (la passione per Lesbia).
La strutturazione del libro così come ci è pervenuto, probabilmente non ha origine dallo stesso Catullo ma è
stato ordinato in seguito da qualche editore che ne ha curato la pubblicazione postuma.
Una parte importante del Liber catulliano è costituita dai componimenti a sfondo amoroso dedicati a
Lesbia, dai quali si evince che la relazione ebbe un principio felice ma che nel protrarsi del tempo, fu
oscurata dai numerosi tradimenti della donna, alternando momenti di gioia a momenti di infelicità per il
poeta. La visione catulliana dell'amore è una concezione totalmente nuova per la società romana
tradizionalista, che considerava ufficiale soltanto il legame consacrato, ovvero il matrimonio e considerando
inferiori i rapporti extraconiugali. Per Catullo, il rapporto con Lesbia, anche se vissuto con estrema
trasgressività contro i moralisti (carme 5), è comunque fondato su un "patto" che comporta lealtà, stima,
rispetto reciproco e fedeltà incondizionata, e perciò non ha meno valore rispetto ad un matrimonio. Amare
e bene velle, il desiderio carnale e l'affetto, sono aspetti complementari ed indivisibili del rapporto:
l'infedeltà annienta l'inviolabilità del bene velle ed acuisce il desiderio, però divenuto sofferenza. Odio e
amore vengono così a convivere, in una coincidentia oppositorum che genera disorientamento, follia e
disperazione. Catullo portò la poesia ad un nuovo livello, fondendo i caratteri greco-ellenistici con la
profondità psicologica dell'avventura amorosa, intessendo il proprio lavoro di momenti di vita privata, volti
a raccontare la sua vicenda: ai dialoghi con l'amante, ricchi di vezzeggiativi e locuzioni familiari, si alternano
ombrosi soliloqui.
Un'altra forma d'amore descritta da Catullo è, non meno intensa, quella fraterna, che sfocia nel suo carme
101 (epigramma), dedicato appunto al fratello prematuramente scomparso e che termina con un accorato
addio, in cui viene esplicata l'impossibilità del poeta di intervenire, poiché le parole sono vane davanti ad
una tale sofferenza.
Oltre all'amore, vi sono numerosi altri temi affrontati in questa raccolta di carmi. Molti di essi sono dedicati
ad amici scrittori e lasciano intravedere uno spicchio di vita quotidiana che il poeta conduceva a Roma, e
soprattutto i rapporti con la cerchia dei neoterici. Venustas, lepos, iocunditas ovvero eleganza, grazia,
piacevolezza sono i princìpi letterari e comportamentali ai quali un poeta neoterico doveva attenersi: in
contrapposizione alla morale comune tradizionale, secondo la quale l'unico vero interesse del cives doveva
essere il negotium (ossia l'adempimento ai doveri pubblici e politici), questo gruppo di poeti avanguardisti
prediligeva l'otium (la vita privata e tutto ciò che la concerneva: l'amore, gli scherzi, le polemiche letterarie,
le frequentazioni, ecc..). Li univa il gusto per la raffinatezza e per l'anticonformismo, perciò anche la
derisione della grossolanità, del cattivo gusto e dell'effimera presunzione. Catullo compone i suoi carmi con
grande consapevolezza artistica, ma ciò nonostante conferisce loro forte spontaneità e immediatezza
espressiva.
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In ottemperanza al criterio callimacheo della poikilia (varietas in latino, varietà, intesa tanto in senso
tematico e metrico quanto linguistico), Catullo fa uso nella sua opera di più registri linguistici diversi, che
fonde assieme per creare una lingua letteraria che comprenda tanto forme colte e dotte quanto forme
"volgari", proprie del sermo familiaris. Di conseguenza, anche il lessico appare particolarmente ampio,
tanto da accogliere assieme forme oscene e volgari, diminutivi, grecismi, interiezioni, onomatopee ed
espressioni idiomatiche o proverbiali. La sintassi è prevalentemente semplice e paratattica, e richiama le
strutture della lingua parlata; si segnalano, in particolare, l'uso del partitivo in dipendenza da pronomi o
aggettivi neutri singolari o da avverbi; il congiuntivo esortativo alla seconda persona adoperato con valore
di imperativo; l'uso dell'indicativo nella proposizione interrogativa indiretta, normalmente costruita con il
congiuntivo; il pronome neutro in funzione predicativa retto dal verbo essere.
La costruzione e la scelta del lessico non sono però frutto del caso: Catullo seleziona attentamente,
stilizzandoli, gli elementi del linguaggio quotidiano e familiare, e li rielabora, mantenendone intatta
l'espressività, alla luce del suo fine gusto letterario. Egli non è, d'altro canto, il primo a fare uso del
linguaggio parlato in letteratura: lo stesso procedimento si era verificato in Grecia già a partire dalla lirica
arcaica, mentre a Roma le forme del linguaggio quotidiano erano caratteristiche del genere comico, ma
erano presenti anche nelle Satire di Gaio Lucilio.
La forte capacità espressiva ed emotiva dell'opera catulliana è testimoniata da alcuni stilemi ricorrenti,
come le forme dialogiche, le allocuzioni, le iterazioni, gli incipit ex abrupto, le metafore, i diminutivi, gli
aggettivi possessivi uniti ai nomi propri. Con l'intento di creare un effetto di marcato contrasto, Catullo
affianca a tali elementi del linguaggio colloquiale alcune forme e usi propri del linguaggio letterario, come le
allusioni, tipiche della letteratura alessandrina, gli epiteti di stampo epico, spesso ricalcati dal greco, gli
arcaismi ispirati al linguaggio di Omero ed Ennio.
Il fine gusto letterario catulliano interviene anche al livello compositivo, e definisce nei carmi una struttura
retorica elaborata ed equilibrata, basata su simmetrie, antitesi, parallelismi, riprese e Ringkomposition. Tale
precisa architettura stilistica è però efficacemente dissimulata, in modo tale da conferire ai carmi un senso
di grande immediatezza e potenza espressiva.
I componimenti brevi, nugae ed epigrammi, non presentano differenze di grande rilievo, sotto il profilo
della lingua e dello stile, rispetto ai carmina docta, anche se in questi lo stile appare più elaborato e dotto,
particolarmente ricco di riferimenti allusivi, arcaismi e grecismi. Appaiono infatti in essi particolarmente
forti gli influssi della poetica di Ennio, dell'epica e della tragedia arcaica in campo latino, ma soprattutto dei
poeti ellenistici in campo greco. Non mancano, tuttavia, elementi afferenti al linguaggio colloquiale, in
particolare i diminutivi. Tale esempio, in cui l'umanizzazione del mito operata in ambito alessandrino arriva
alla fusione tra la vicenda biografica personale e quella mitologica, è alla base dell'elegia di età augustea.

Capitolo 11. Cicerone.


Marco Tùllio Ciceróne (in latino Marcus Tullius Cicero) nato ad Arpino, 3 gennaio 106 a.C. e morto a Formia,
7 dicembre 43 a.C. è stato un avvocato, politico e scrittore romano.
Esponente di un'agiata famiglia dell'ordine equestre (cavalieri), Cicerone fu una delle figure più rilevanti di
tutta l'antichità romana. La sua vastissima produzione letteraria, che va dalle orazioni politiche agli scritti di
filosofia e retorica, oltre a offrire un prezioso ritratto della società romana negli ultimi travagliati anni della
repubblica, rimase come esempio per tutti gli autori del I secolo a.C., tanto da poter essere considerata il
modello della letteratura latina classica. Attraverso l'opera di Cicerone, grande ammiratore della cultura
greca, i Romani poterono anche acquisire una migliore conoscenza della filosofia. Tra i suoi maggiori
contributi alla cultura latina ci fu senza dubbio la creazione di un lessico filosofico latino: Cicerone si
impegnò, infatti, a trovare il corrispondente vocabolo in latino per tutti i termini specifici del linguaggio
filosofico greco. Tra le opere fondamentali per la comprensione del mondo latino si collocano invece le
Lettere (Epistulae, in particolar modo quelle all'amico Tito Pomponio Attico), che offrono numerosissime
riflessioni su ogni avvenimento, permettendo di comprendere quali fossero le reali linee politiche
dell'aristocrazia romana.
Cicerone occupò per molti anni anche un ruolo di primaria importanza nel mondo della politica: dopo aver
salvato la repubblica dal tentativo eversivo di Lucio Sergio Catilina ed aver così ottenuto l'appellativo di
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pater patriae (padre della patria), ricoprì un ruolo di primissima importanza all'interno della fazione degli
Optimates. Fu infatti Cicerone, che, negli anni delle guerre civili, difese strenuamente fino alla morte una
repubblica giunta ormai all'ultimo respiro e destinata a trasformarsi nel principatus augusteo.
Cicerone apparteneva alla classe equestre, la piccola nobiltà locale, e, anche se lontanamente imparentato
con Caio Mario, il leader dei Populares durante la guerra civile contro gli optimates di Lucio Cornelio Silla,
non aveva alcun legame con l'oligarchia senatoriale romana; era dunque un homo novus.
Cicerone si rivelò subito un uomo dotato di straordinaria intelligenza, distinguendosi tra i suoi coetanei a
scuola e accumulando fama e onore. Il padre, auspicando per i figli una brillante carriera forense e politica,
li condusse a Roma dove Marco venne introdotto nel circolo dei migliori oratori del suo tempo, protettori
della sua famiglia, Lucio Licinio Crasso e Marco Antonio. Particolare influenza ebbe il primo su Cicerone, per
cui rimase sempre modello di oratore e di statista. A Roma Cicerone poté anche formarsi nella
giurisprudenza, grazie alla guida di Quinto Mucio Scevola, eminente giurista. Tra i compagni di Cicerone
c'erano Gaio Mario il giovane, Servio Sulpicio Rufo (destinato a divenire un celebre avvocato, uno dei pochi
che Cicerone considerò superiori a sé stesso), e Tito Pomponio, che prese poi il cognomen di Attico dopo
una lunga permanenza ad Atene, e che divenne intimo amico di Cicerone.
In questo periodo Cicerone si avvicinò anche alla poesia cimentandosi nella traduzione di Omero e dei
Fenomeni di Arato, che influenzarono, più tardi, le Georgiche di Virgilio.
Particolarmente attratto dalla filosofia, alla quale avrebbe dato grandi contributi, tra i quali la creazione del
primo vocabolario filosofico in lingua latina, nel 91 a.C. incontrò, assieme all'amico Tito Pomponio (Attico),
il filosofo epicureo Fedro in visita a Roma. I due ne furono affascinati, ma solo Attico rimase per tutta la vita
seguace della dottrina epicurea. Nell'87 a.C. conobbe il maestro di retorica Apollonio Molone (che istruì,
pochi anni dopo, anche Gaio Giulio Cesare), e l'accademico Filone di Larissa, che esercitò in lui un'influenza
profonda. Questi era infatti a capo dell'Accademia che Platone aveva fondato ad Atene circa trecento anni
prima e Cicerone, grazie alla sua influenza, assimilò la filosofia platonica - pur rigettando, ad esempio, la
teoria delle idee - arrivando spesso a definire Platone come il suo dio.
Poco tempo dopo, Cicerone incontrò Diodoto, esponente dello stoicismo. Lo stoicismo era già stato
precedentemente introdotto a Roma, dove aveva ricevuto larghi consensi grazie all'enfasi posta sul
controllo delle emozioni e sulla forza di volontà, che sposava gli ideali romani. Cicerone non adottò
completamente l'austera filosofia stoica, ma preferì uno stoicismo modificato. Diodoto divenne poi un
protetto di Cicerone, dal quale fu ospitato fino alla morte. Il filosofo, dimostrando la sua piena adozione
dello stoicismo, continuò ad insegnare anche dopo la perdita della vista.
Il sogno di infanzia di Cicerone era quello di "essere sempre il migliore ed eccellere sugli altri", in linea con
gli ideali omerici. Cicerone desiderava dignitas ed auctoritas, simboleggiati dalla toga pretesta e dalla verga
dei littori. C'era un solo modo per ottenerli: percorrere i gradini del cursus honorum. Nel 90 a.C., tuttavia,
Cicerone era troppo giovane per approdare a qualsiasi carica del cursus honorum, ma non per acquisire
l'esperienza preliminare in guerra che una carriera politica richiedeva. Tra il 90 a.C. e l'88 a.C., Cicerone
servì sotto Gneo Pompeo Strabone e Lucio Cornelio Silla durante le campagne della Guerra Sociale,
sebbene lui non provasse alcuna attrazione per la vita militare. Era prima di tutto un intellettuale. Infatti,
molti anni dopo scrisse al suo amico Attico, che stava raccogliendo statue marmoree per le ville di Cicerone:
"Perché mi spedisci una statua di Marte? Sai che io sono un pacifista!".
L'ingresso di Cicerone nella carriera forense avvenne ufficialmente nell'81 a.C. con la sua prima orazione
pubblica, la Pro Quinctio, per una causa in cui ebbe come avversario il più celebre oratore del tempo,
Quinto Ortensio Ortalo. Ma il suo vero esordio nell'oratoria a carattere politico, almeno secondo le
testimonianze scritte a noi disponibili, si ebbe con la Pro Roscio Amerino, molto concitata ed a tratti
enfatica, che conserva molto di scolastico nello stile esuberante. Qui Cicerone difese con successo un figlio
ingiustamente accusato di parricidio, dimostrando grande coraggio nell'assumersene la difesa: il parricidio
era considerato tra i crimini peggiori, e i veri colpevoli dell'omicidio erano sostenuti dal liberto di Silla,
Crisogono.
Per sfuggire ad una probabile vendetta di Silla, tra il 79 ed il 77 a.C. Cicerone si recò, accompagnato dal
fratello Quinto, dal cugino Lucio e probabilmente anche dall'amico Servio Sulpicio Rufo, in Grecia ed in Asia
Minore. Particolarmente significativa fu la sua permanenza ad Atene. Qui incontrò nuovamente l'amico
Attico che, fuggito da un'Italia sconvolta dalle guerre, si era rifugiato in Grecia. Egli era poi diventato
cittadino onorario di Atene e poté presentare a Cicerone alcune tra le più importanti personalità ateniesi
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del tempo. Ad Atene, inoltre, Cicerone visitò quelli che erano i luoghi sacri della filosofia, a cominciare
dall'Accademia di Platone, di cui era allora capo Antioco di Ascalona. Di quest'ultimo Cicerone ammirò la
facilità di parola, senza tuttavia condividerne le idee filosofiche, ben differenti da quelle di Filone, delle
quali era convinto ammiratore. Dopo un breve soggiorno a Rodi, dove conobbe lo stoico Posidonio,
Cicerone tornò in Grecia, dove fu iniziato ai misteri eleusini, che lo impressionarono molto, e dove poté
visitare l'Oracolo di Delfi.
Tornato a Roma dopo la morte di Silla (avvenuta nel 78 a.C.), Cicerone diede inizio alla sua vera e propria
carriera politica, in un ambiente sostanzialmente favorevole: nel 76 a.C. si presentò come candidato alla
questura, la prima magistratura del cursus honorum. I questori, eletti in numero di venti, si occupavano
della gestione finanziaria, o assistevano propretori e proconsoli nel governo delle province. Eletto alla carica
per la città di Lilibeo, nella Sicilia Occidentale, svolse il lavoro con scrupolo ed onestà tanto da guadagnarsi
la fiducia degli abitanti del luogo. Durante la sua permanenza in Sicilia scoprì a Siracusa, nascosta tra i
cespugli, la tomba di Archimede. Grazie all'interesse di Cicerone per lo scienziato siracusano sono in nostro
possesso alcune importanti informazioni su di lui e in particolare la migliore testimonianza sul suo
planetario. Al termine del mandato, i Siciliani gli affidarono la causa contro il propretore Verre, reo di aver
dissanguato l'isola nel triennio 73-71 a.C. Cicerone raccolse con zelo le prove della colpevolezza, pronunciò
due orazioni preliminari (Divinatio in Quintum Caecilium e Actio prima in Verrem) e l'ex governatore,
oberato da prove schiaccianti, scelse l'esilio volontario. Le cinque orazioni preparate per le successive fasi
del processo (che costituiscono l'Actio secunda) furono pubblicate più tardi e costituiscono un'importante
prova del malgoverno che l'oligarchia senatoria esercitava a seguito delle riforme sillane. Attaccando Verre,
Cicerone attaccò la prepotenza della nobiltà corrotta, ma non l'istituzione senatoria, anzi fece proprio
appello alla dignità di tale ordine perché estromettesse i membri indegni. Acquisì, inoltre, un enorme
prestigio perché a difendere Verre era Quinto Ortensio Ortalo, considerato il più grande avvocato
dell'epoca: "sconfitto", Ortensio dovette accettare che il suo posto venisse preso da Cicerone. Nonostante
l'episodio, i due strinsero poi un buon legame di amicizia. Ad Ortensio, che elogiò anche nel Brutus,
Cicerone dedicò un'intera opera, non pervenutaci, l'Hortensius.
L'oratoria e l'attività forense erano, a Roma, uno dei principali mezzi di propaganda per i politici emergenti,
in quanto non esistevano documenti scritti di argomento politico, ad eccezione degli Acta Diurna, che
godevano di scarsa diffusione.
Contro Cicerone, però, rimaneva la naturale diffidenza dei nobili verso chi era un homo novus, accresciuta
dal fatto che l'ultimo homo novus ad acquisire rilevante peso politico era stato il concittadino dello stesso
Cicerone, Gaio Mario. Anche lo stesso Silla, tuttavia, fiero oppositore di Mario, aveva preso alcuni
provvedimenti che permettevano e facilitavano l'ingresso degli equites alla vita politica, dando così a
Cicerone la possibilità di raggiungere le vette del cursus honorum.
Il successo ottenuto da quelle orazioni (che vennero poi chiamate Verrine), anticipatrici dei principi di un
governo umano ed ispirato ad onestà e filantropia, portò Cicerone in primo piano sulla scena politica: nel
nel 66 a.C. diventò pretore con una elezione all'unanimità (a 40 anni).
Nel 65 a.C. Cicerone presentò la candidatura al consolato. Nel 64 venne eletto console per l'anno successivo
(ossia il 63 a.C.). La fiducia riposta in Cicerone dalla classe equestre venne ripagata già all'inizio del
consolato con la pronuncia di quattro orazioni De lege agraria contro la proposta di redistribuzione delle
terre tribuno Servilio Rullo.
Durante il suo consolato Cicerone dovette contrastare il tentativo di congiura messo in atto da Catilina.
Questi era un nobile impoverito che, dopo aver combattuto insieme a Silla e aver completato il cursus
honorem, aspirava a diventare console. Venuto a conoscenza del pericolo che la Repubblica correva grazie
alla soffiata di Fulvia, amante del congiurato Quinto Curio, Cicerone fece promulgare dal senato un senatus
consultum ultimum de re publica defendenda, cioè un provvedimento con cui si attribuivano, come era
previsto in situazioni di particolare gravità, poteri speciali ai consoli. Sfuggito poi ad un attentato da parte
dei congiurati, Cicerone convocò il senato nel tempio di Giove Statore, dove pronunciò una violenta accusa
a Catilina, con il discorso noto come Prima Catilinaria. Catilina, visti i suoi piani svelati, fu costretto a lasciare
Roma per ritirarsi in Etruria presso il suo sostenitore Gaio Manlio, lasciando la guida della congiura ad alcuni
uomini di fiducia.
A seguito del riemergere dei contrasti tra senatori e pubblicani, e dell'accordo tra Cesare e Pompeo ai danni
dell'oligarchia senatoria, Cicerone scivolò da parte. L'ultima possibilità di rientrare nel gioco politico gli fu
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offerta nel 60 a.C. dai tre più potenti uomini del momento, ovvero Pompeo, Cesare e Crasso, alla
conclusione dell'accordo per il primo triumvirato: essi chiesero a Cicerone di appoggiare la legge agraria a
favore dei veterani di Pompeo e della plebe meno abbiente. Cicerone, tuttavia, rifiutò non solo per non
apparire un traditore dell'aristocrazia, ma anche per l'attaccamento all'ordine legale e sociale di cui gli
ottimati si proclamavano difensori.
Dopo questo rifiuto e la costituzione del primo triumvirato, Cicerone si tenne fuori dalla politica ma ciò non
bastò a salvarlo dalle vendette dei populares: all'inizio del 58 a.C. il tribuno della plebe Clodio Pulcro,
nemico di Cicerone per un precedente processo per sacrilegio, fece approvare una legge con valore
retroattivo che condannava all'esilio chiunque avesse mandato a morte un cittadino romano senza
concedergli la provocatio ad populum. Si trattava, in realtà, di un'abilissima mossa politica di Cesare (che
per l'appunto prima di partire per la Gallia attese che Cicerone fosse fuggito da Roma) che, attraverso il suo
alleato Clodio, eliminava così dalla scena politica uno dei suoi avversari più tenaci, che lo avrebbero potuto
osteggiare durante la sua ascesa al potere. Cicerone fu dunque processato per la sua condotta durante il
processo ai Catilinari Lentulo e Cetego ma, costretto all'esilio, non si diede pace, implorando le sue
conoscenze perché favorissero il suo ritorno. Clodio, però, fece approvare anche una serie di altre leggi che
prevedevano che Cicerone non si potesse neppure avvicinare al confine dell'Italia, e che le sue proprietà
venissero confiscate. In realtà la villa sul Colle Palatino fu addirittura distrutta, ed una sorte simile toccò
poco dopo a quelle di Formia e di Tusculum. Nel 57 a.C. la situazione a Roma migliorò, allorché i nobili e
Pompeo posero un freno alle iniziative di Clodio Pulcro, permettendo a Cicerone di tornare e ricominciare la
sua lotta contro il tribuno della plebe.
Nel 56 a.C. Cicerone pronunciò l'orazione Pro Sestio in cui allargava il suo precedente ideale politico:
l'alleanza tra cavalieri e senatori a suo avviso non era più sufficiente per stabilizzare la situazione politica.
Occorreva, quindi, un fronte comune di tutti i possidenti per opporsi alla sovversione tentata dai populares.
Possidenti e plebe si scontravano con l'uso di bande armate, e in uno di questi scontri, più precisamente
sulla via Appia, Milone, organizzatore delle bande dei possidenti, uccise il tribuno Clodio. Al processo per
omicidio, tenutosi nel 52 a.C., Cicerone difese Milone, ma, non riuscendo a pronunciare il suo discorso con
la giusta forza per il clamore della folla e per il timore che gli incutevano i partigiani di Clodio nel foro,
Milone venne condannato all'esilio (una versione della Pro Milone venne pubblicata solo successivamente,
dando modo di verificare come fosse un'orazione tra le più abili e sottili sul piano giuridico).
Dopo essere stato nominato augure nel 53 a.C. al posto di Crasso, nel 51 a.C. come proconsole si recò in
Cilicia, proprio mentre i rapporti tra Cesare e Pompeo si inasprivano. Durante il soggiorno lontano da Roma,
i pensieri dell'oratore furono rivolti alla minaccia della guerra civile. Tornato in patria, non cessò di invitare
le parti alla moderazione ed alla conciliazione, ma i suoi inviti caddero nel vuoto anche a causa del
fanatismo che spingeva Pompeo all'intransigenza nei confronti delle richieste di Cesare. Quando Cesare
varcò il Rubicone, Cicerone cercò di accattivarsene il favore, ma poi decise ugualmente di lasciare l'Italia per
unirsi a Pompeo. Sbarcò, dunque, a Dyrrachium, ma, raggiunti i Pompeiani, si accorse di quanto le speranze
che egli riponeva in loro quali salvatori della repubblica fossero infondate: ognuno di loro era lì non in
difesa degli ideali, ma soltanto per tentare di trarre profitto dalla guerra. Dopo la grande vittoria di Cesare
nella battaglia di Farsalo, nel 48 a.C., Cicerone decise di tornare a Roma, dove ottenne il perdono dello
stesso Cesare nel 47 a.C.
La speranza di Cicerone di collaborare al governo di Cesare venne troncata dalla piega assolutistica e
monarchica presa dal potere. L'oratore si ritirò, iniziando la stesura di opere di carattere filosofico. A questo
si aggiunse il divorzio dalla moglie Terenzia e la morte della figlia Tullia, seguita dalla separazione dalla
seconda moglie Publilia, una giovinetta.
Quando Cesare fu ucciso, il 15 marzo del 44 a.C., a seguito della congiura ordita da Marco Giunio Bruto e
Gaio Cassio Longino, per Roma, e per lo stesso Cicerone, si avviò una nuova fase politica, che avrebbe avuto
termine solo con l'avvento dell'impero.
Cicerone non fu, certamente, colto di sorpresa dall'assassinio, da parte dei Liberatores, di Giulio Cesare: era
sicuramente al corrente della congiura che si andava tessendo, ma decise sempre di tenersene al di fuori,
pur manifestando una grande ammirazione per l'uomo che era destinato a divenire il simbolo stesso della
congiura, Bruto. E lo stesso Bruto, infatti, con il pugnale sporco del sangue di Cesare ancora in mano, additò
Cicerone definendolo l'uomo che avrebbe ristabilito l'ordine nella repubblica.
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La data della missiva non è conosciuta, ma viene solitamente ritenuta vicinissima o coincidente alla
congiura. L'espressione « quid agas quidque agatur » la indicherebbe come scritta prima che Cicerone si
recasse al Campidoglio, dove i cospiratori avevano trovato rifugio dopo l'assassinio, asserragliati nel tempio
capitolino e protetti dai gladiatori di Bruto.
Cicerone, infatti, tornò ad essere anche di fatto uno dei maggiori leader della fazione degli optimates,
mentre Marco Antonio, luogotenente e magister equitum di Cesare, prendeva le redini della fazione dei
populares. Antonio tentò di fare in modo che il senato decidesse di organizzare una spedizione contro i
Liberatores (che intanto si erano trasferiti nella penisola balcanica), ma Cicerone fu promotore di un
accordo che, assicurando il riconoscimento di tutti i provvedimenti presi da Cesare nel corso della sua
dittatura, garantiva l'impunità a Bruto e Cassio. Poco dopo, i due, assieme agli altri congiurati, fuggirono
verso la penisola ellenica.
Tra Cicerone ed Antonio, comunque, i rapporti non erano dei migliori, e i due, d'altra parte, si trovavano
all'esatto opposto in ambito politico: Cicerone era il difensore degli interessi della nobilitas senatoriale,
convinto sostenitore della repubblica, mentre Antonio avrebbe voluto fare suoi i progetti di Cesare ed
assumere gradualmente un potere monarchico. Intanto, un'altra figura si andava affermando dal nulla nel
panorama politico di Roma, la figura del giovane Ottaviano (destinato a diventare Augusto), pronipote di
Cesare e suo erede designato nel testamento. Ottaviano decise di adottare una politica filosenatoriale,
senza mostrare nessuna volontà di imitare le mosse di Cesare.
Cicerone, allora, si schierò ancora più apertamente contro Antonio, definendo Ottaviano come vero erede
politico di Cesare, e come uomo mandato dagli dei per ristabilire l'ordine. Cicerone sperava, infatti,
nell'affermazione di un giovane princeps in re publica che, assistito da un membro del senato di grande
esperienza, come lo stesso Cicerone, riportasse la pace e riformasse la repubblica. Iniziò, inoltre, tra il 44
a.C. e il 43 a.C., a pronunciare contro Antonio una serie di orazioni, note con il nome di Filippiche in quanto
richiamavano quelle omonime pronunciate da Demostene contro Filippo II di Macedonia. Intanto, Antonio,
nella volontà di condurre una nuova guerra in Gallia per accrescere il proprio prestigio, decise di marciare
contro Decimo Giunio Bruto Albino, governatore della Gallia Cisalpina, e lo assediò nella città di Modena.
Qui Antonio fu però raggiunto dagli eserciti consolari guidati da Aulo Irzio, Gaio Vibio Pansa e dallo stesso
Ottaviano, che lo sconfissero.
Cicerone lasciò allora Roma e si ritirò nella sua villa di Formia, che aveva ricostruito dopo gli episodi legati a
Clodio. A Formia, però, fu raggiunto da alcuni sicari inviati da Antonio, che, aiutati da un liberto di nome
Filologo, poterono trovarlo fin troppo facilmente. Cicerone, accortosi dell'arrivo dei suoi assassini, non
tentò di difendersi, ma si rassegnò alla sua sorte, e venne decapitato. Una volta ucciso, per ordine di
Antonio, gli furono tagliate anche le mani (o forse soltanto la mano destra, usata per scrivere ed indicare
durante i discorsi), con cui aveva scritto le Filippiche, che furono esposte in senato insieme alla testa,
appese ai rostri che si trovavano sopra la tribuna da cui i senatori tenevano le loro orazioni, come monito
per gli oppositori del triumvirato.
Una volta sconfitto Antonio, Ottaviano scelse Marco, figlio di Cicerone, come collega per il consolato, e
proprio Marco comminò le pene di Antonio, facendone abbattere le statue e decretando che nessun
membro della gens Antonia avrebbe più potuto essere chiamato Marco.
Plutarco racconta che quando, tempo dopo, insignito del titolo di Augusto, Ottaviano trovò un nipote che
leggeva le opere di Cicerone, gli prese il libro, e lo sfogliò. Una volta che glielo ebbe restituito, disse: "Era un
saggio, ragazzo mio, un saggio, e amava la patria".

Capitolo 11.1. Il pensiero politico di Cicerone.


Il pensiero politico di Marco Tullio Cicerone è l'insieme delle dottrine e delle tendenze politiche elaborate
durante tutta la sua attività dall'oratore e filosofo romano. Fortemente legato ai valori tradizionali del mos
maiorum e all'ordinamento repubblicano, Cicerone elaborò un pensiero volto a garantire la sopravvivenza
delle stesse strutture di governo repubblicane, minate da una forte crisi, tramite la ricerca di un ampio
consenso all'interno della compagine sociale. In questa direzione si muove dunque l'ideologia della
concordia ordinum, l'accordo e la collaborazione tra gli optimates e il ceto equestre, che Cicerone elaborò
durante i primi anni della sua attività politica e oratoria e che divenne vero Leitmotiv del consolato
ciceroniano del 63 a.C., durante il quale egli tentò di radunare attorno a sé tutte le forze sociali interessate
alla repressione della congiura di Catilina. Dopo l'esperienza traumatica della lotta contro Publio Clodio
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Pulcro e dell'esilio, Cicerone, deluso dal comportamento degli optimates, che avevano tentato di giungere a
un compromesso con lo stesso Clodio, sviluppò ulteriormente il suo disegno politico con l'intento di
ottenere un coinvolgimento sempre più ampio di tutti coloro che erano interessati alla sopravvivenza delle
strutture repubblicane e di creare una reale alternativa al potere dei triumviri: la concordia ordinum trovò
dunque la sua naturale evoluzione nel consensus omnium bonorum, cui Cicerone affiancò, nell'orazione Pro
Sestio, anche una nuova definizione di optimates. Contestualmente, l'arpinate venne elaborando anche una
nuova interpretazione del ruolo del princeps, che tuttavia non intese mai come una figura estranea
all'ordinamento repubblicano, ma come garante e tutore delle strutture repubblicane stesse.

Capitolo 11.2. Il pensiero filosofico di Cicerone.


Cicerone fu il primo degli autori romani a comporre opere filosofiche in latino: ne andava, infatti, molto
fiero, ma si scusava, allo stesso tempo, di aver dedicato alla filosofia così tanto tempo. Alcuni, infatti,
ritenevano che fosse disdicevole per un uomo romano dedicarsi alla filosofia, altri pensavano che
comunque non bisognasse dedicarle più di un certo tempo. Altri ancora, infine, erano convinti sostenitori
della totale superiorità della filosofia greca, e consideravano per l'appunto solo le opere greche degne di
essere lette.
Cicerone era però convinto che, se i Romani si fossero dedicati seriamente alla filosofia, avrebbero allora
raggiunto le stesse vette dei Greci, che già avevano eguagliato nella retorica. Ma il gusto per le speculazioni
filosofiche era totalmente estraneo alla società romana: il vir era, d'altronde, un uomo d'azione. I Romani
conobbero la filosofia grazie al contatto con i Greci, ma consideravano inutile, se non addirittura deleteria,
una vita spesa alla continua ricerca di un sapere che non portava nessuna gloria alla patria né alcuna
ricchezza. Il Senato arrivò, infatti, addirittura ad espellere dall'Urbe i filosofi ateniesi che vi erano giunti in
visita nel 161 a.C., Carneade, Diogene e Critolao.
La stessa nobilitas senatoriale non voleva, che il popolo ed i giovani si interessassero alla filosofia (che
avrebbe prodotto in loro un certo amore per l'otium, allontanandoli dalla vita reale), ma furono costretti ad
ammettere che nessun uomo degno di tale nome poteva restare estraneo a questa scienza. I senatori
decisero di richiamare a Roma i filosofi che avevano scacciato per prendere da loro delle vere e proprie
lezioni di filosofia, vietando, comunque, loro di insegnare la filosofia pubblicamente. Persino Marco Porcio
Catone, fiero oppositore della penetrazione della cultura greco-ellenistico a Roma, studiò la filosofia greca,
come tutti gli esponenti dell'oligarchia senatoriale del tempo.
A riscuotere un istantaneo successo a Roma fu lo stoicismo, ma presto ad esso si unirono le altre dottrine, i
cui esponenti arrivarono "in massa" a Roma nel corso del I secolo a.C. In poco tempo, dunque, la situazione
aveva subito un totale ribaltamento, e non esisteva più uomo estraneo alla filosofia.
Cicerone non si comportò diversamente dai suoi contemporanei, ma, almeno in gioventù, studiò la filosofia
convinto che si trattasse esclusivamente di un valido supporto per la retorica: iniziò a comporre opere
filosofiche, infatti, soltanto in tarda età, quando solo la composizione, appunto, poteva essere l'impiego del
suo tempo libero. Nella filosofia Cicerone cercò e seppe trovare la consolazione di cui aveva bisogno, il
rimedio somministratogli dall'antica saggezza.
Da giovane, Cicerone studiò d'impulso l'epicureismo, dottrina che aveva avuto numerosi discepoli anche a
Roma, tra cui Amafinio, Cazio e Lucrezio. In principio, Cicerone fu, infatti, allievo di filosofi epicurei, quali
Fedro e Zenone. Più tardi, sotto l'influsso di altri maestri, abbracciò, almeno in parte, lo stoicismo, ma non
ne fu mai un convinto sostenitore: come altri al suo tempo, elaborò una personale fusione tra le due
filosofie, in modo eclettico. Mostrò, tuttavia, forti preferenze per la dottrina accademica insegnatagli da
Filone: la teoria del probabilismo e del verosimile si adattavano perfettamente ad una personalità quale
quella di Cicerone, a cui si addiceva anche l'elevazione morale dello stoicismo. Questa particolare
mescolanza fra più filosofie fu la vera filosofia di Cicerone.

Capitolo 11.3. Le orazioni.


Per memorizzare i suoi discorsi Cicerone utilizzava una tecnica associativa che venne chiamata tecnica dei
loci o tecnica delle stanze. Egli scomponeva il discorso in parole chiave e parole concetto che gli
permettessero di parlare dell'argomento desiderato e associava queste parole, nell'ordine desiderato, alle
stanze di una casa o di un palazzo che conosceva bene, in modo creativo e insolito. Durante l'orazione egli
immaginava di percorrere le stanze di quel palazzo o di quella casa, e questo faceva sì che le parole
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concetto del suo discorso gli venissero in mente nella sequenza desiderata. È da questo metodo di
memorizzazione che derivano le locuzioni italiane "in primo luogo", "in secondo luogo" e così via.
Così come per Cicerone è difficile distinguere tra vita ed opere, così in particolare differenziare tra scritti
filosofici e retorici è sì pratico e chiaro, ma tuttavia non rappresenta pienamente la concezione e l'opinione
di Cicerone. Già nella sua prima opera conservata (De inventione I 1-5) chiarisce che la sapienza,
l'eloquenza e l'arte del governare hanno sviluppato un legame naturale, che indubbiamente ha contribuito
allo sviluppo della cultura degli uomini e che dev'essere ristabilito. Egli ha in mente quest'unità come
modello ideale sia negli scritti teoretici sia anche nella sua propria vita attiva al servizio della Repubblica o
almeno è così che egli ha voluto idealizzare e vedere la propria realtà.
Perciò non è affatto sorprendente se Cicerone ha sviluppato i suoi scritti filosofici con i mezzi della retorica
e strutturato le sue teorie della retorica su principi filosofici. La separazione tra sapienza ed eloquenza
Cicerone l'addossa alla "rottura tra linguaggio e intelletto" compiuta dalla filosofia socratica (De oratore III
61) e tenta attraverso i suoi scritti di "risanare" questa frattura; e quindi per una migliore attuazione la
filosofia e la retorica secondo lui devono essere dipendenti l'una dall'altra.
Cicerone stesso dichiara che "io sono diventato un oratore [...] non nelle scuole dei retori ma nei saloni
dell'Accademia": con ciò allude alla sua formazione sulle dottrine della Nuova Accademia di Carneade e
Filone di Larissa, suo maestro.
 Brutus: il libro dedicato a Marco Giunio Bruto venne scritto all'inizio del 46 a.C. e tratta nella forma
di un dialogo tra Cicerone, Bruto ed Attico la storia dell'arte retorica romana fino a Cicerone stesso.
Dopo un'introduzione (1-9) Cicerone inizia un confronto con la retorica greca (25-31) e sottolinea
che l'arte oratoria poiché è la più complessa di tutte le arti solo tardi giunse alla perfezione. Mentre
ritiene gli antichi oratori romani appena mediocri, parla di Catone come base della propria
esperienza; Lucio Licinio Crasso e Marco Antonio Oratore, entrambi protagonisti del De oratore,
sono dettagliatamente confrontati (139 e ss.). Dopo un'escursione sull'importanza del giudizio del
pubblico (183-200) e una riflessione sull'oratore Ortensio (201-283), Cicerone respinge fermamente
il modello dell'Atticismo (284-300). L'opera culmina in confronto tra l'arte oratoria di Ortensio e di
Cicerone stesso, non senza una grossa dose di autocelebrazione (301-328), egli infatti presenta sé
stesso come il punto d'arrivo di un processo di sviluppo dell'arte oratoria. Punto principale
dell'opera è la critica alla diffusione dello stile neoattico, a cui anche il giovane Bruto appartiene,
difendendo il suo stile, assai più ricco e magniloquente, dalla critica di essere un esempio dello stile
asiano.
 De inventione: ("Sul ritrovamento"): sviluppato tra l'85 a.C. e l'80 a.C. questo è il primo di due libri
di una descrizione globale della retorica, mai completata. Cicerone rinunciò a completarla, per
dedicarsi ad una più accattivante rappresentazione nel De oratore, e tuttavia l'opera servì,
nonostante il carattere frammentario, come testo d'insegnamento fino al Medioevo. La parte
completata tratta nel primo libro dei concetti principali della retorica (I 5-9), la dottrina
dell'insegnamento della retorica in riferimento ad Ermagora di Temnos (I 10-19) nonché il ruolo
dell'oratore (I 19-109); il secondo libro tratta delle tecniche d'argomentazione, soprattutto nelle
arringhe giuridiche (II 11-154) nonché brevemente sulle orazioni di fronte al popolo (II 157-176) e in
occasione di celebrazioni (II 177-178). Le dichiarazioni di Cicerone per quanto riguarda il contenuto
dell'opera presentano molte somiglianze con l'opera "La Retorica" di Erennio, ma per lungo tempo
erratamente ritenuta sua, cosa che ha portato a numerose discussioni tra gli studiosi riguardo al
rapporto tra le due opere. Entrambi gli scritti sono comunque all'incirca dello stesso periodo e si
basano direttamente o indirettamente sulla medesima o su affini fonti greche. Inoltre c'è
un'incredibile somiglianza letterale in alcuni periodi, cosa che suggerisce probabilmente anche una
comune fonte latina, forse originaria da un comune insegnante o dottrinario che ha mediato il
preponderante contenuto di origine greca.
 De optimo genere oratorum ("Sulla miglior arte dell'oratoria"): questa breve opera, scritta
probabilmente nel 46 a.C. o, secondo altri pareri, già nel 50 a.C., è un'introduzione alla traduzione
delle orazioni di Demostene ed Eschine, per e contro Ctesifonte. L'introduzione verte soprattutto
sugli atticisti romani, all'incirca con le stesse argomentazioni dell'Orator. La traduzione comunque
non ci è pervenuta, e non è chiaro se Cicerone l'abbia mai effettivamente completata. L'autenticità
dell'opera è stata più volte messa in discussione, ma oggi è per lo più accettata.
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 De oratore (Sull'oratore): la più importante opera sulla retorica di Cicerone non dev'essere confusa
con l'opera quasi omonima Orator. È un'opera composta nel 55 a.C. in forma di dialogo, così come
per il Brutus. I protagonisti stavolta sono Lucio Licinio Crasso e Marco Antonio, esempi, secondo
Cicerone, dei più grandi oratori della generazione precedente. Nel I libro è Crasso (portavoce di
Cicerone) ad esporre la tesi principale dell'opera ossia che il buon oratore deve avere
un'approfondita conoscenza dell'argomento di cui vuole trattare, osteggiando la concezione di
alcuni retori greci che ritenevano sufficiente una formazione basta su regole, tecnicismi ed esercizi
per affrontare qualsiasi discorso. Il II libro tratta invece delle "parti" in cui si suddivide la retorica,
cioè l'inventio, la dispositio e la memoria; nel III libro si parla dello stile, cioè lelocutio, e dellactio,
cioè il modo in cui l'oratore deve comportarsi durante l'orazione. Il de oratore è considerata l'opera
di Cicerone scritta con più cura formale ed è per questo motivo che è sempre stata utilizzata e
studiata come modello primo dello stile ciceroniano.
 Orator ("L'oratore"): Venne scritta nell'estate del 46 a.C. ed è anche questa un'opera dedicata a
Marco Giunio Bruto che descrive un modello ideale del perfetto oratore, riprendendo molti dei
temi già trattati nel De oratore. Contrariamente alla disputa di quel tempo tra gli atticisti, che -
come Bruto - pretendono dall'oratore uno stile sobrio e preciso, e gli asiani, che prediligono uno
stile molto ricercato e magniloquente, Cicerone ritiene che il perfetto oratore, come Demostene,
deve dominare tutti gli stili e saper passare da uno all'altro con naturalezza. Per questo motivo
bisogna dedicarsi soprattutto alla formazione filosofica: solo così potrà svolgere i tre compiti
dell'oratore: probare, delectare, flectere (dimostrare, divertire, convincere), i quali vengono ben
ordinati e descritti (76-99). Cicerone parla anche qui brevemente dell'inventio (44-49), della
dispositio (50) ma tratta soprattutto dell'elocutio (51-236), soffermandosi sulle figure retoriche e
sulla costruzione ritmica del periodo.
 Partitiones oratoriae ("Partizione dell'arte oratoria"): Quest'opera venne scritta nel 54 a.C., quando
il figlio di Cicerone, Marco, stava studiando la retorica, ed è ideata come una sorta di 'Catechismo',
trattando la teoria della retorica, soprattutto con divisioni schematiche, nella forma di domanda e
risposta tra padre e figlio. L'originalità di Cicerone in quest'opera spicca molto meno, a causa dello
stile molto semplice e delle poche novità introdotte.
 Topica (44 a.C.): Scritti nel corso del viaggio in Grecia, su sollecitazione dell'amico Trebazio, trattano
della dottrina dell'inventatio divulgata da Aristotele, ovvero l'arte di saper trovare gli argomenti. In
questa produzione retorica vengono considerati i luoghi (topoi) come ottimo spunto per ogni
genere di argomento ed utilizzabili per qualunque disciplina (poesia, politica, retorica, filosofia,
ecc.)

Capitolo 12. La storiografia


La storiografia romana deve ai Greci l'invenzione di questo genere letterario. I Romani ebbero grandi
modelli su cui basare le loro opere, come Erodoto e Tucidide. I modelli storiografici romani sono comunque
diversi da quelli greci, e esprimono preoccupazioni tipicamente romane. Diversamente da quella greca, la
storiografia romana non iniziò con una tradizione storica orale. Il suo stile si basava sul modello secondo cui
venivano registrati gli avvenimenti sugli Annali del Pontifex Maximus (o Annales pontificum). Gli Annales
pontificum includono una vasta gamma di informazioni, comprendenti documenti religiosi, nomi di consoli,
morti di sacerdoti, elezioni di politici, trionfi di generali, importanti fenomeni naturali ecc. sulla vita della
città. Tali documenti consistevano in una serie di tavolette di legno sbiancato, le Tabulae dealbatae
(tavolette bianche), contenenti informazioni sull'origine della repubblica.
L'iniziatore più conosciuto della storiografia romana, all'inizio del II secolo a.C. fu Quinto Fabio Pittore, noto
anche come il "Fondatore della Storiografia". Prima della seconda guerra punica, non dovette forse esistere
a Roma una storiografia: essa nacque probabilmente solo nel clima di fioritura letteraria seguito alla
vittoriosa conclusione del conflitto, favorita dal bisogno di celebrare quell'importante evento in un'ottica
interpretativa più consona alla posizione e al prestigio di Roma, accresciutisi rispetto al secolo precedente.
Negli stessi anni in cui il plebeo Nevio risolveva la materia storica nell'epos poetico del suo Bellum
Poenicum, l'aristocratico Quinto Fabio Pittore si assumeva il compito di scrivere in prosa una storia di Roma
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in greco, anziché in latino. L'opera, conosciuta come Annales o Rerum gestarum libri, era nota anche in
versione latina, probabile frutto di una traduzione fatta in seguito da altri. La scelta di scrivere nella koiné
greca, la lingua franca del Mar Mediterraneo, nasceva dal bisogno di rivolgersi ad un pubblico più ampio e
poter così più efficacemente contraddire altri autori, come Timeo, che a sua volta aveva scritto, ma con
accento sfavorevole, una storia di Roma fino alla Seconda Guerra Punica; o come Filino di Agrigento, allievo
di Timeo, la cui storia delle guerre puniche rifletteva un'impostazione filocartaginese. Pertanto, e in difesa
dello stato romano, Quinto Fabio Pittore scrisse in greco, usando la cronologia greca basata sulle
celebrazioni olimpiche e con accorgimenti e procedimenti dello stile espositivo ellenistico: il suo
atteggiamento che egli poneva nel vaglio e nell'utilizzo dei materiali storici – Annales pontificum, fonti
greche e, soprattutto, locali – era moderno, informato com'era ai criteri appresi dalla storiografia
ellenistica. Da quella tradizione, ad esempio, egli riceveva l'interesse per l'analisi eziologica delle vicende
storiche, da un punto di vista sia politico che psicologico; l'accuratezza nell'esposizione di dati e notizie sugli
spiegamenti di forze; l'attenzione agli aspetti cultuali e cerimoniali, e alla ricerca sulle loro origini, a cui egli
si applicava con diligente sensibilità erudita e antiquaria.
Lo stile di Quinto Fabio Pittore nello scrivere la storia difendendo lo stato romano e le sue azioni, ed usando
in modo massiccio la propaganda – cosa che gli valse il rimprovero di Polibio per il trattamento riservato
alla prima guerra punica – divenne alla fine una cifra distintiva della storiografia romana. Ma l'afflato
patriottico e l'inclinazione apologetica della sua opera, non vanno intesi come una cosciente e deliberata
tendenziosità: egli sembra piuttosto aver applicato, con serietà d'intenti, un metodo storiografico corretto
ad un repertorio documentale e testimoniale di impronta e provenienza prevalentemente romana.
Altra caratteristica, destinata a divenire paradigmatica, fu la sua scelta di porre particolare enfasi, ancor
maggiore rispetto al modello greco, sugli avvenimenti meno remoti: un'esigenza metodologica dettata non
solo dalla maggiore disponibilità di documentazione più vicina, ma anche dall'inclinazione prevalente del
pubblico romano, più interessato alla concretezza dell'attualità rispetto ai trascorsi meno recenti della
storia romana, dai contorni spesso mitici e leggendari. A tali aspetti, peraltro, come ci informa Plutarco, lo
stesso Fabio Pittore non si sottraeva quando, nel narrare la più remota età delle origini, si diffondeva con
ampiezza espositiva, dovizia di dettagli e stile drammatico e fantastico. Fabio Pittore, nel dare inizio alla
tradizione storiografica romana, fu probabilmente, per quanto ne sappiamo, anche il precursore della
letteratura in prosa con pretese artistiche. I romani traevano soddisfazione dai cimenti impegnativi e così la
stesura della storiografia divenne molto popolare tra quei membri della nobilitas che volessero spendere il
loro tempo libero in attività considerate meritevoli e virtuose secondo il comune sentire “romano”. Poiché
l'indulgere all'inazione, secondo quella stessa sensibilità, era considerata cosa disdicevole, lo scrivere di
storia divenne presto una degna attività con cui sottrarre all'otium gli intervalli liberi dall'impegno politico
e, in particolare, quelli dell'età del disimpegno politico nell'avanzata maturità. Fu quest'ultimo il caso già
citato della senescenza di Catone, ma anche, ad esempio, di storici come Sallustio e Asinio Pollione che, già
uomini politici, si dedicheranno alla storiografia solo in età avanzata.
Non appena i romani acquisirono familiarità con la storiografia, essa si divise in due filoni: quello condotto
secondo lo schema e la tradizione annalistica e quello improntato alla scrittura monografica.
Gli autori che usavano la tradizione annalistica scrissero fin dall'inizio le storie di anno in anno, il più delle
volte dalla fondazione della città fino al periodo che stavano vivendo. La gran mole di materiale disponibile
per la trattazione, anche a seguito dalla pubblicazione degli Annales maximi di Publio Muzio Scevola,
richiese la disponibilità di un tempo maggiore da dedicare alla redazione, determinando la nascita di una
nuova figura di storico semi-professionale: pur provenendo dai ceti elevati, questa lo storico annalista non
poté più essere, per circa un secolo, quella di un politico di spicco come lo era stato Catone il censore.
Le monografie sono più simili ai libri di storia che usiamo oggigiorno; essi sono in genere monotematici ma,
cosa più importante, non raccontano la storia dall'inizio, e addirittura non sono necessariamente annalistici.
Un'importante sottocategoria che emerse dalla tradizione monografica fu la biografia.
Spesso, soprattutto in momenti di agitazione politica o di tumulto sociale, gli storici riscrivono la storia per
adattarla ai loro peculiare visione dell'epoca. Pertanto, ci sono stati svariati storici che hanno rimaneggiato
un po' la storia per sostenere la loro opinione. Questo è stato particolarmente evidente negli anni settanta
a.C. quando si stavano svolgendo le guerre sociali tra i populares condotti da Mario, e gli optimates
capeggiati da Silla. Molti autori scrissero storie durante questo periodo, ognuno con la sua prospettiva. Gaio
Licinio Macro era contro Silla e scrisse la sua storia, basata su Gneo Gellio in 16 libri dalla fondazione della
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città fino al III secolo a.C., mentre Valerio Anziate, che era pro-Silla, scrisse una storia in 75 libri, dalla
fondazione della città fino al 91 a.C.
Gli annali rappresentano la trascrizione anno dopo anno degli avvenimenti storici. Nella storiografia romana
gli annali iniziano generalmente dalla fondazione di Roma. Gli annali compilati correttamente riportano
qualunque evento fosse importante in ogni anno, come pure altre informazioni, come i nomi dei consoli di
quell'anno, che costituiva il criterio col quale in genere i romani identificavano gli anni. Sembra che l'annale
venisse originariamente usato dalla classe sacerdotale per annotare i presagi ed i prodigi.
Il termine annalista graccano sembra indicare storici che adottarono il modello annalistico che si cominciò a
utilizzare dopo il periodo graccano. Paragonate ad altre forme di storia annalistica, queste sembrano più
romanzate poiché gli storici romani usavano le loro storie per descrivere temi del loro tempo, e non erano
necessariamente propensi a raccontare i fatti nudi e crudi. Si aggiunga che gli annalisti graccani hanno
generato una percezione profonda riferita all'epoca vissuta dallo scrittore, meno relativamente al tempo
del quale loro scrissero. Sallustio e Tacito sono esempi di spicco di annalisti graccani.
Una monografia è un lavoro esaustivo su un singolo argomento. La monografia poteva riguardare un
singolo evento, una tecnica, la retorica o uno qualsiasi di numerosi altri argomenti. Ad esempio, Plinio il
Vecchio una volta pubblicò una monografia sulle lance in uso dalla cavalleria. Le monografie erano fra i
avori storici e più comuni ritrovati negli scritti romani.
L'espressione Ab urbe condita, letteralmente "dalla fondazione della città" descrive la tradizione romana di
cominciare la storia dalla fondazione della città di Roma come, ad esempio, in Tacito, Tito Livio, Sallustio ed
altri. Nell'opera Ab Urbe condita di Tito Livio, la maggior parte del tempo è dedicato alla prima storia di
Roma e alla fondazione della città stessa. Nelle storie di Sallustio, la fondazione e la storia antica di Roma
viene trattata in poche frasi. Pertanto il modello 'Ab urbe condita' assume un'estrema variabilità mentre
continua a sfornare storie romane.
Con "Storia senatoriale" s'intende la storia che è stata scritta direttamente, o le cui fonti provengono, dal
Senato romano. Le storie senatoriali sono in genere considerate attendibili visto che si originavano da
"addetti ai lavori". Un modello comune delle storie senatoriali è che esse sembrano invariabilmente
indicare una ragione per cui l'autore si sta dedicando ad esse invece di occuparsi di politica.
Gli annalisti sillani diedero una linea politica al loro passato. Essi, attraverso le loro storie, che spesso
rimaneggiavano per adattarle alle proprie convinzioni, erano sostenitori della fazione di Silla che portava
avanti il conflitto con Mario. Alcuni annalisti sillani potrebbero aver rappresentato delle fonti per Tito Livio.
Anche Valerio Anziate era un annalista sillano, ma non era ritenuto uno storico credibile. Si crede che abbia
tentato di contrapporsi allo storico filo-Mariano Gaio Licinio Macro. La storia di Valerio Anziate, scritta in
settantasei libri, è melodrammatica e spesso infarcita di esagerazioni e bugie. Nella sua storia, chiunque si
chiami Cornelio è considerato un eroe e chiunque si chiami Claudio è un nemico e gli oppositori ai
populares non ebbero mai un nome vero e proprio, ma furono chiamati invece boni, optime o optimates,
sottintendendo che quelli fossero i bravi ragazzi.
La storiografia romana è anche ben conosciuta per gli stili di scrittura sovversivi. Le informazioni nelle
antiche storie romane sono spesso comunicate attraverso la suggestione, l'allusione, l'implicazione e
l'insinuazione perché i loro atteggiamenti non sarebbero stati sempre ben compresi. Tacito si oppose agli
imperatori ritenendo che essi fossero una delle ragioni del declino di Roma. Tacito scrisse, denigrandolo,
persino di Augusto, il più celebre ed adorato degli imperatori. Naturalmente, queste opinioni dovevano
essere tenute celate, dato che non sarebbero state molto ben accolte.
Nella storiografia romana i commentarii rappresentano semplicemente una lista di appunti grezzi non
destinati alla pubblicazione. Non erano considerati storia nel senso "tradizionale" del termine perché
mancavano del linguaggio necessario e dell'abbellimento letterario. In seguito, i Commentarii venivano di
solito trasformati in "storia". Molti ritengono che il resoconto di Cesare delle guerre galliche, il Commentarii
Rerum Gestarum venne chiamato commentarii per scopi propagandistici. Si ritiene che si tratti realmente di
"storia", dato che è scritta così bene, è filo-romana e si adatta molto bene ai modelli tradizionali della
storiografia.
Gli antichi storici romani non scrivevano nell'interesse di scrivere, ma sforzandosi di convincere i loro
lettori. La propaganda è sempre presente ed è la base della storiografia romana. Gli antichi storici romani
avevano tradizionalmente un bagaglio personale e politico e non erano osservatori neutrali. I loro resoconti
venivano scritti secondo le proprie convinzioni morali e politiche. Ad esempio Quinto Fabio Pittore avviò la
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tradizione della storiografia che si preoccupava della moralità e della storia, ed affermava il prestigio dello
stato romano e della sua gente.
Gli antichi storici romani scrissero storie pragmatiche allo scopo di arrecare benefici ai politici futuri. La
filosofia della storia pragmatica tratta gli eventi storici con particolare riferimento alle cause, alle condizioni
e ai risultati. Nella storiografia romana vengono presentati i fatti e l'impressione di quello che i fatti
significano. L'interpretazione fa sempre parte della storiografia; i romani non fecero mai delle simulazioni al
riguardo. Anzi, il contrasto tra i fatti e l'interpretazione di quei fatti è indice di un bravo storico. Polibio fu il
primo storico pragmatico. Le sue storie hanno un ethos aristocratico e rivelano le sue opinioni sull'onore, la
ricchezza e la guerra. Anche Tacito era un pragmatico. Le sue storie hanno qualità letteraria ed
interpretazioni di fatti ed eventi. Lui non era propriamente obiettivo, piuttosto i suoi giudizi servivano da
funzione morale.

Capitolo 13. Sallustio


Gaio Sallustio Crispo, o più semplicemente Sallustio nacque a Amiternum (L'Aquila) il 1º ottobre 86 a.C. e
morì a Roma il 13 maggio 34 a.C.
Proveniente da una famiglia plebea legata alla nobilitas municipale, compì a Roma il cursus honorum,
divenendo prima questore, poi tribuno della plebe ed infine senatore della res publica. Dopo esser stato
cacciato dal Senato per indegnità morale, partecipò alla  guerra civile del 49 a.C. tra Cesare e Pompeo,
schierato tra le file cesariane. Dopo la sconfitta di Pompeo, Cesare lo ricompensò per la sua fedeltà
conferendogli la pretura, riammettendolo in Senato e nominandolo governatore della provincia dell'Africa
Nova. Dopo la fallimentare esperienza di governo e a seguito dell'uccisione di Cesare, si ritirò dalla
vita politica; in questo momento si diede alla stesura di opere a carattere storico, in particolare le
due monografie De Catilinae coniuratione e il Bellum Iugurthinum, e le Historiae, un'opera di tipo
annalistico.
Poche sono le notizie certe riguardo alla vita di Sallustio; godono di una certa attendibilità la sua data di
nascita, le calende di ottobre (il 1º ottobre) dell'anno 86 a.C., ed il suo luogo di nascita, Amiternum, un
centro sabino del Samnium occidentale. La sua famiglia, probabilmente plebea, ma di condizione agiata e
legata alla nobilitas locale, si trasferì poco dopo a Roma, dove ebbe modo, come era prassi per i giovani figli
della nobilitas municipale, di dedicarsi alla carriera politica. Si adattò tuttavia ai costumi corrotti dell'Urbe,
che in seguito criticò aspramente nelle sue monografie con risentimento e rimpianto per i valori antichi (le
pristinae virtutes) del popolo romano. In lui però non mancavano una rigorosa tempra morale e delle serie
inclinazioni verso la filosofia; in particolare fu attratto dal neopitagorismo, filosofia allora particolarmente
in voga presso i ceti elevati della società romana, e venne in contatto con la scuola neopitagorica di Nigidio
Figulo. Nel 54 A.C. Sallustio diede inizio al suo cursus honorum con la carica di questore; la sua carriera
politica si rivelò però anomala, in quanto saltò alcune delle tappe principali del cursus honorum. È possibile
ipotizzare che, essendo un homo novus, abbia trovato naturale schierarsi col partito dei populares, il cui
leader era allora Giulio Cesare, nipote ed erede politico di Gaio Mario. Potrebbe anche aver avuto un
rapporto particolare con Marco Licinio Crasso, di cui era forse cliente (cliens): infatti, pur non esprimendo
mai un giudizio positivo nei suoi confronti, nel De Catilinae coniuratione (cap. 17,7; 48,9) traspare il fatto
che da lui ricevette delle importanti confidenze.
Nel 52 A.C. ricoprì la carica di tribuno della plebe. Durante il suo tribunato si trovò ad affrontare la grave
crisi scoppiata in seguito all'omicidio del tribuno Publio Clodio Pulcro, un populares candidato console per
quell'anno. L'assassinio si inquadra nella lunga serie di lotte, spesso con l'uso di bande armate, che
coinvolgevano ottimati e popolari, e in uno di questi scontri, più precisamente sulla via Appia, Tito Annio
Milone, organizzatore delle bande dei possidenti, uccise Clodio. In un simile clima politico, reso
ulteriormente incandescente anche dalle rivendicazioni di Cesare, allora impegnato a reprimere la rivolta di
Vercingetorige durante la conquista della Gallia, sulla leadership della factio dei populares, Sallustio si
schierò con decisione contro Milone ed i suoi sostenitori, tra cui Cicerone. Nel 51 A.C. Sallustio divenne
senatore, rimanendo sempre un fedele sostenitore di Cesare nella lotta contro Pompeo. Nonostante
l'amicizia di Cesare, nel 50 A.C. fu espulso dal senato probri causa, cioè "per indegnità morale"; pare
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tuttavia trattarsi di una vendetta politica messa in atto da parte dell'oligarchia senatoria, e in particolare da
Appio Claudio Pulcro e Lucio Calpurnio Pisone, censori in carica quell'anno e di dichiarata fede pompeiana.
Subito dopo l'espulsione dal senato, Sallustio raggiunse Cesare in Gallia, mentre si accingeva a completarne
la conquista, e fu al suo fianco nella guerra civile del 49 A.C., durante la quale Sallustio divenne uno dei capi
del partito cesariano; lo stesso anno fu riammesso in senato per intercessione di Cesare, mentre due anni
dopo gli fu assegnata la pretura. Durante il conflitto svolse alcuni importanti incarichi militari, in particolare
una fortunata spedizione nel 46 a.C., durante le operazioni in Africa, contro l'isola di Cercina (l'attuale
Chergui nell'arcipelago delle isole Kerkennah), presidiata dai pompeiani, allo scopo di derubarli delle riserve
di frumento. Nello stesso anno prese parte alla decisiva battaglia che ebbe luogo Tapso; in tale occasione
probabilmente diede buona prova di sé, dato che, dopo la sconfitta dei pompeiani, gli fu riconferita la
pretura e fu nominato governatore (con il titolo di propraetor) della neonata provincia nordafricana
dell'Africa Nova, originatasi dal disfacimento del regno di Numidia. Nei diciotto mesi del suo mandato poté,
secondo il malcostume del tempo, arricchirsi a dismisura, impadronendosi delle ricchezze dell'ultimo re
numida, Giuba I, ed incassando tangenti sugli appalti pubblici. Il suo malgoverno gli valse, al rientro a Roma,
l'accusa de repetundis.
Tornato a Roma nel 44 a.C., con i soldi accumulati durante il suo proconsolato acquistò una proprietà a
Tivoli, precedentemente appartenuta a Cesare, e si fece costruire nell'Urbe una sontuosa dimora fra il
Pincio e il Quirinale nota col nome di Horti Sallustiani ("Giardini sallustiani"), dal nome dei grandiosi giardini
(hortus significa infatti giardino) che circondavano il suo palazzo.
Accusato nuovamente di concussione, riuscì con estrema difficoltà ad evitare la condanna, ma la sua
carriera politica, irrimediabilmente compromessa a seguito di questo episodio, poteva dirsi definitivamente
conclusa. Fu forse lo stesso Cesare a suggerirgli, o addirittura imporgli, il ritiro a vita privata per evitargli
un'ulteriore condanna ed una nuova e degradante espulsione dal Senato.
In seguito sposò Terenzia, ex moglie di Cicerone, dal quale aveva divorziato nel 46 a.C.
Con la morte di Cesare, avvenuta alle idi di marzo (il 15 marzo) del 44 a.C., ebbe termine definitivamente la
carriera politica di Sallustio. Egli si dedicò allora all'otium privato ed alla composizione delle sue opere
storiche: le due monografie De Catilinae coniuratione e Bellum Iugurthinum e le Historiae, rimaste però
incompiute a causa della morte dello storiografo, avvenuta intorno al 35-34 a.C. (molto probabilmente il 13
maggio del 34), all'età di 52 anni.
Prima dell'esperienza monografica di Sallustio nella storiografia romana, salvo rari casi, la tipologia di opere
principalmente redatte erano i regesti, nei quali gli eventi erano narrati secondo una scansione per annum,
ovvero anno per anno. Sallustio è dunque colui che introduce a Roma il genere monografico, che consiste
nel raccontare solo un determinato fatto (come dirà lui nel De Catilinae coniuratione - cap. 4,2, vedi la
citazione sopra -, carptim = per episodi, monograficamente), arricchendolo di un'accurata indagine
introspettiva atta ad esaminare il contesto e le cause più viscerali che hanno contribuito al suo scatenarsi.
Sallustio crea una storiografia di carattere politico e una storiografia di carattere filosofico. L'obiettivo di
quest'ultima è storico, ma il risultato finisce per essere una filosofia della storia: il continuo scontro fra il
bene e il male. Sallustio è considerato il rinnovatore della storiografia latina. Il suo stile è fondato
sull'inconcinnitas e trae origine da due illustri modelli: lo storico greco Tucidide, il noto predecessore
Marco Porcio Catone, detto il Censore. Al contrario di Cicerone che si esprimeva con uno stile ampio,
articolato, ricco di subordinazione, Sallustio preferisce un discorso irregolare, pieno di asimmetrie, antitesi
e variazioni di costrutto; tale stile prende nome di inconcinnitas (disarmonia). La padronanza di una tecnica
simile crea un effetto di gravitas, producendo un'immagine essenziale di quello che si descrive.
Da Tucidide, Sallustio prende l'essenzialità espressiva, le sentenze brusche ed ellittiche, l'irregolarità e
variabilità (variatio) del testo, un periodare parattattico, pieno di frasi nominali, omissione dei legami
sintattici, ellissi dei verbi ausiliari (con un uso ritmato e continuo dell'infinito narrativo e del chiasmo): sono
evitate le strutture bilanciate e le clausole ritmiche del discorso oratorio. Da Catone prende l'eloquio
solenne, moralmente atteggiato, una lingua a volte severa ed aulica, a volte popolare, ruvida nelle forme,
austera e dalla pàtina arcaica, come nel lontano modello epico che anticipa la storiografia nella narrazione
delle gesta collettive. Il periodare essenziale è arricchito dagli arcaismi, che esaltano le frequenti
allitterazioni e asindeti.
Già dall'antichità fu riconosciuta a Sallustio una certa fama che col tempo non è andata scemando.
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Nel periodo immediatamente successivo alla morte di Sallustio, circola contro di lui una Invectiva in
Sallustium, erroneamente attribuita a Cicerone e considerata l'accesa replica all'Invectiva in Ciceronem,
anch'essa di dubbia origine; ma pare si tratti in entrambi i casi di un falso preparato in una scuola di
retorica. In seguito il commediografo Leneo si avventa contro di lui scagliandogli una satura, con la quale lo
accusa di aver saccheggiato e defraudato Cicerone. Apprezzato da Marziale e Quintiliano, ma criticato
piuttosto aspramente da Tito Livio e Asinio Pollione per l'eccessivo arcaismo, Tacito lo prende a modello del
suo "moralismo tragico" per comporre il De vita et moribus Iulii Agricolae (Vita e costumi di Giulio Agricola),
nel quale accende un'aspra polemica contro l'avida politica imperialistica di Roma, prendendo spunto
dall'analoga denuncia nel Bellum Iugurthinum. Fu celebrato ed ampiamente imitato nell'età degli Antonini
(Antonino Pio, Marco Aurelio e Commodo). Zenobio, paremiografo greco, traduce nella sua lingua tutti gli
scritti sallustiani. Fu apprezzato sia da pagani che da cristiani e fu ripreso sia nel Medioevo per i contenuti
morali sia in età umanistica per il pessimismo moralistico e la sentenziosità; lo apprezzò molto anche
Brunetto Latini, precettore di Dante Alighieri. Durante l'epoca umanistica viene preso come modello per la
prosa assieme a Tacito, in particolar modo da Leonardo Bruni ed Angelo Poliziano. Proprio il Poliziano
scrisse nel 1478 un commentarium (Pactianae coniurationis commentarium), di stile ed argomentazione
sallustiana, riguardante la congiura dei Pazzi. Tuttavia a partire dalla seconda metà del Cinquecento a lui
verrà preferito Tacito, sia come approccio linguistico che come stile.
Nel Settecento Vittorio Alfieri curerà due traduzioni in italiano delle monografie sallustiane. Il filosofo
tedesco Friedrich W. Nietzsche riconoscerà - nel «Crepuscolo degli Idoli» - a Sallustio il merito di averlo
destato nel gusto per lo stile, «dell'epigramma come stile».

Capitolo 13.1. De Catilinae coniuratione.


Il De Catilinae coniuratione è la prima vera e propria monografia storica mai composta in tutto il mondo
latino. L'opera, come si comprende dal titolo, tratta la congiura di Lucio Sergio Catilina e il moto che ne
seguì nel 63-62 a.C. Alla trattazione della cospirazione, Sallustio fa precedere un'analisi della condotta
cesariana del 66-63, dimostrata (anche se non lo fu realmente) del tutto esente da colpe nel tentativo
insurrezionale e vista come unica valida alternativa al corrotto "regime dei partiti" («mos partium atque
factionum») di cui auspica la fine, con conseguente riflesso sulle sue scelte politiche.
Dopo un proemio moraleggiante e filosofico (cap. 1), basato sull'affermazione che l'uomo è composto di
anima e di corpo e che le facoltà spirituali devono prevalere su quelle materiali (le facoltà spirituali
principali sono l'attività politica, militare, oratoria e storiografica), tutta la prima parte restante dell'opera è,
effettivamente, un'analisi e una forte introspezione della figura di Catilina e dell'inquietante fenomeno
rivoluzionario, alla luce di categorie storiche, morali e psicologiche. Ne risulta perciò un quadro largamente
dipinto a tinte fosche, ma vivace, di una società estremamente corrotta, su cui campeggia come figura
dominante Catilina, definito un monstrum (una stranezza) in quanto assomma nella sua complessa e
contorta personalità caratteristiche diverse, persino opposte e contrastanti tra loro: è intelligente,
coraggioso e malvagio; una figura sinistra, ma affascinante, al cui carisma sembra non riuscire a sottrarsi
neanche lo stesso Sallustio.
Accanto a Catilina si trovano poi altri personaggi "studiati" con simile interesse: i congiurati, tra cui
campeggia Sempronia, Cicerone (per quanto ridimensionato) e soprattutto Cesare e Catone il Giovane,
messi a confronto nei capitoli 53,5 e 54 e visti ambedue come estremamente positivi, persino
"complementari" per la salute della res publica di Roma, in quanto avevano una simile visione del mos
maiorum: uno con la sua liberalitas, munificentia e misericordia; l'altro con la sua integritas, severitas,
innocentia.
Come già si può desumere da quanto detto, il metodo e il fine adottati nell'analisi sono moralistici: Sallustio
ritiene che l'antica grandezza della repubblica fosse garantita dall'integritas e dalla virtus dei cittadini, e
vede nel successo, nella ricchezza e nel lusso (ambitio, avaritia atque luxus) le cause della decadenza e la
possibilità di tentativi di "impadronirsi dello stato" (rei publicae capiundae) come quello di Catilina.
Nel De Catilinae coniuratione l'autore si sofferma a rappresentare i mali nascosti di una società divenuta
ricca e potente dopo le vittorie su nemici esterni (soprattutto i Cartaginesi), ma che poi aveva abbandonato
i valori alla base di questi successi: giustizia, disinteresse, rettitudine, severità di vita, altruismo, e cioè i
valori alla base del mos maiorum tradizionale. Pagine decisive in questo senso si leggono
nell'«archaeologia» (cap. 6-13): dopo aver abbandonato questi ideali, la città si era divisa in factiones. È il
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tema dell'altra digressione, di grande tensione etico-politica, posta poco oltre la metà dell'opera, nei
capitoli 36,5-39, che ripercorre le cause che spinsero la plebe a dar credito alla rivoluzione di Catilina. La
nobilitas corrotta, invece di costituire, come in passato, la guida sicura dello stato, poteva ormai piegarsi a
forme di vera criminalità politica: Catilina è l'incarnazione del pericolo eversivo che minacciava ormai
apertamente la res publica.

Capitolo 13.2. Il Bellum lugurthinum.


Il Bellum Iugurthinum è la seconda monografia storica composta da Sallustio e narra, in 114 capitoli, la
guerra combattuta dai romani (111-105 a.C.) contro Giugurta, re di Numidia. Il pretesto bellico serviva però
a mascherare un'altra guerra: quella interna, del popolo che combatteva la prepotenza della nobiltà
senatoria, detentrice del monopolio delle imprese militari a vantaggio dei suoi appaltatori, avidi di nuovi
guadagni provinciali. Non si trattò in questo caso di una guerra voluta dall'avaritia (per usare un termine
sallustiano) della nobilitas. Infatti il Senato non aveva realmente alcun interesse in Africa e non avrebbe
tratto grandi giovamenti a combattere sul fronte africano, lasciando invece scoperto il fronte settentrionale,
minacciato da Cimbri e Teutoni. I ceti più interessati alla campagna africana erano in realtà i cavalieri,
sostenitori di una politica di sfruttamento delle risorse disponibili nel bacino del Mediterraneo, i ricchi
mercanti italici, la plebe romana ed italica che intravedeva la possibilità, con la conquista, di una
distribuzione delle terre africane.
In un quadro del genere è comprensibile come, dopo anni di guerriglia inconcludente, il conflitto sia stato
portato a termine da un rappresentante delle forze interessate alla conquista, l'homo novus Gaio Mario, e
non da generali aristocratici, che Sallustio inevitabilmente (ed ovviamente) accusa di corruzione, incapacità
e superbia.
Anche in quest'opera è presente un forte taglio moralistico ed essenzialmente politico. Sallustio, capace da
una parte di forti sintesi storiche, che tralasciano elementi essenziali all'analisi storica (come le descrizioni
geografiche ed etnografiche, assenti del tutto o trattate poco esaustivamente), dall'altra rivela un grande
vigore polemico nel denunciare l'incompetenza della nobilitas nella conduzione della guerra, e la sua
corruzione generale: egli valorizza le ragioni espansionistiche della classe mercantile, auspicando la nascita
di una nuova aristocrazia, fondata sulla virtus.
Sallustio apprezza quindi i valori che gli antenati hanno cercato di tramandare e di seguire; ma la corruzione
ha ormai dilaniato l'intera res publica.
Nel Bellum Iugurthinum Sallustio si concentra su un'epoca precedente, in un momento di ritorno alle origini
del male che, si presuppone, potrà essere vinto qualora se ne estirpino le radici. L'autore denuncia lo stato
di corruzione in cui versava l'aristocrazia romana del tempo della guerra giugurtina: qui, a suo giudizio, va
rintracciata l'origine della fiacca condotta di guerra, e, più in generale, dei mali della res publica. Accanto
alla prima vittoriosa resistenza dei populares, si delinea nell'opera quella radicalizzazione dello scontro
politico nelle due opposte fazioni che avrebbe condotto alle successive fasi della crisi istituzionale, dalla
guerra civile tra Mario e Silla (di cui il Bellum Iugurthinum costituisce di fatto il preambolo) alla coniuratio
capeggiata da Catilina, fino al conflitto generalizzato tra Cesare e Pompeo.
Sallustio punta il dito impietosamente contro i demagoghi, che aizzavano il popolo con false promesse, e
contro i nobili, che si facevano velo della dignità senatoria per consolidare ed estendere ricchezze e domini.
Specialmente dopo la dittatura sillana, la nobilitas senatoria, perduto ogni freno ed ormai pronta ad ogni
compromesso e ad ogni avventura politica, trova una grande polveriera nel panorama sociale ed umano
largamente variegato di Roma, punto d'incontro di diseredati, nullatenenti, contadini impoveriti, ex
possidenti indebitati, liberti senza patroni. Fuori da Roma, i provinciales (le popolazioni provinciali) non
tolleravano più le angherie dei governanti, mentre gli schiavi costituivano una riserva a basso prezzo per le
rivolte.
Questa «diagnosi», spassionata e per certi versi crudele, è ben intonata a quell'andamento «drammatico»
che è una caratteristica fondamentale della storiografia sallustiana. La sua analisi giunge dunque a toccare
alcuni aspetti socio-economici della crisi ed è anche questa una rilevante novità della monografia
sallustiana.
Quanto ai rimedi, Sallustio auspica la fine del «mos partium et factionum» ("regime delle fazioni", Bellum
Iugurthinum, cap. 41,1) e l'avvento di un potere super partes, nelle mani di Cesare, che dia corpo ad un
programma di riordinamento dello stato e di rinsaldamento delle sue strutture sociali. Oltre a ristabilire la
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concordia tra i ceti possidenti, bisogna ampliare la base senatoria, "arruolando nuove leve" dall'élite
municipale. Erano questi i punti salienti del programma intrapreso da Cesare nella breve durata della sua
dittatura ed è ben noto che Sallustio, oltre ad essere fiero oppositore della classe senatoria, era un aperto
sostenitore della politica cesariana. Il piano riformista di Cesare si basava sull'alleanza di classe tra gli
equites (che detenevano in esclusiva il monopolio commerciale) e l'allora potentissimo esercito.

Capitolo 13.3. Le Historiae.


Dopo le due monografie Sallustio si cimentò anche in un'opera annalistica di più ampia portata, le
Historiae. Esse dovevano narrare, secondo una scansione per annum, la storia dal 78 a.C., anno della morte
di Silla (a questo punto terminano le Historiae scritte dallo storiografo Lucio Cornelio Sisenna, giunte
incompiute, di cui Sallustio intendeva porsi come continuatore), fino al 67 a.C. (anno della vittoriosa
campagna di Pompeo contro i Pirati). Si tratta dunque del periodo che già nella prima monografia (De
Catilinae coniuratione, cap. 11) era stato definito cruciale nel processo di progressiva corruzione e
degenerazione dello stato repubblicano.
Dell'opera, che Sallustio lasciò incompiuta, restano solo dei frammenti, comunque significativi: ciò
consente, almeno in parte, di ricostruirne la struttura complessiva. È certo che era strutturata in cinque libri
(volumina) e che dopo il prologo iniziale seguiva un'ampia retrospezione sul mezzo secolo precedente di
storia. Al centro del libro I campeggiava la figura di Silla; nel II dominavano le guerre di Pompeo in Spagna e
in Macedonia, nel III la guerra mitridatica, la fine della guerra contro Sertorio e la rivolta di Spartaco; il libro
IV abbracciava i fatti del periodo 72-70 a.C., con la conclusione della guerra servile; il V racconta l'esito della
guerra di Lucullo e la guerra di Pompeo contro i pirati.
L'ampiezza dell'approfondimento storico-politico e la pregevolezza letteraria che contrassegna i frammenti
sopravvissuti rendono la perdita delle Historiae una delle più gravi, assieme a quella degli Ab Urbe condita
libri di Tito Livio, della letteratura latina. Alcuni frammenti superstiti sono di proporzioni piuttosto estese e
riguardano quattro discorsi e due lettere, tramandati dall'uso scolastico delle scuole di retorica; fra i discorsi
spicca quello di Lepido contro il sistema di governo dei sillani. Tra le lettere ha notevole rilievo l'epistola che
Sallustio immagina scritta da Mitridate, re del Ponto, al re dei Parti Arsace XII, e che dà voce alla protesta
dei provinciali contro il dispotismo romano.
Il quadro generale è improntato ad un marcato pessimismo; sulla scena si avvicendano solo avventurieri e
corrotti, in un clima di grave decadenza. Infatti, dopo la morte di Cesare, non erano più pensabili per
Sallustio attese o progetti di riscatto. La sua ammirazione va a quei ribelli che, come Sertorio, postosi a capo
di un regno indipendente nella penisola iberica, contestano apertamente le istituzioni repubblicane,
mettendosi però in luce grazie al proprio valore, non a manovre demagogiche. Pompeo invece viene
caratterizzato in modo polemico: Sallustio, fedele alla sua politica pro Caesare, non manca di atteggiarlo
come un attivista, che scatena le più basse passioni del popolo per meri fini politici.
La figura di Sallustio è fortemente rappresentativa della complessità e delle tensioni della societas romana,
che, proprio durante la vita dell'autore, era protagonista di una gravissima crisi che portò al collasso della
res publica ed all'avvento del principatus con Ottaviano Augusto. In un tale intrigo di vicende, in cui era
incredibilmente brutale la lotta per il potere ed appariva evidente un quasi incolmabile vuoto di ideali, non
era sicuramente agevole assumere una posizione ideologica definitiva. A riprova di ciò è possibile scorgere
in Sallustio un'enorme contraddizione tra il suo comportamento politico e le dichiarazioni di principio. Il suo
fu un comportamento da arrivista ed opportunista senza scrupoli, e per ciò ricevette le adeguate condanne;
al contrario le sue concezioni ideologiche sono improntate ad un irreprensibile moralismo, con una forte
nostalgia per le virtù antiche ed una altrettanto forte condanna del malcostume generale delle classi al
governo di Roma.
L'indagine storica si trasforma così in un'illustrazione della crisi della res publica oligarchica e nella ricerca
delle radici profonde di tale crisi; pur limitando l'attenzione su due argomenti ritenuti «minori» dal punto di
vista storico, come la congiura di Catilina e lo scandalo della guerra giugurtina, Sallustio approfondisce in
maniera analitica le dinamiche alla base di quel processo drammaticamente in atto che stava producendo lo
sfaldamento, morale prima ancora che istituzionale, delle basi dello stato repubblicano, che sfoceranno nel
crollo della repubblica e nell'avvento dell'impero.
Se dunque la crisi della res publica è il problema che le due monografie individuano con estrema
sistematicità di riflessione, l'autore evita però accuratamente di isolare tale tematica, scegliendo invece,
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per maggiore efficacia di analisi, di collocarla sullo sfondo di una visione più organica della storia romana.
Tale visione d'insieme emerge in alcuni momenti salienti delle due opere; per il resto Sallustio procede per
quadri emblematici ed approfonditi.

Capitolo 14. Varrone


Marco Terenzio Varrone nacque a Rieti (o in alta Sabina) nel 116 a.C. e morto a Roma quasi novantenne nel
27 A.C. per tale motivo è detto Reatino (attributo che lo distingue da Varrone Atacino, vissuto nello stesso
periodo).
Nato da una famiglia di nobili origini, aveva rilevanti proprietà terriere in Sabina, dove fu educato con
disciplina e severità dai familiari, integrati dall'acquisto di lussuose ville a Baia e fondi terrieri a Tusculum e
Cassino.
A Roma compì studi avanzati presso i migliori maestri del tempo: tra gli altri, studi di grammatica presso
Lucio Elio Stilone Preconino, che lo fece appassionare anche agli studi etimologici e oratori, e di linguistica e
filologia presso Lucio Accio, a cui dedicò la prima opera grammaticale De antiquitate litterarum.
Come molti giovani romani, compì un viaggio in Grecia fra l'84 a.C. e l'82 a.C., dove ascoltò filosofi
accademici come Filone di Larissa e Antioco di Ascalona, da cui dedusse una posizione filosofica di tipo
eclettico.
A differenza di molti altri eruditi del tempo non si ritirò dalla vita politica ma anzi vi prese parte attivamente
accostandosi agli optimates, forse anche influenzato dall'estrazione sociale. Dopo aver percorso le prime
tappe del cursus honorum (triumviro capitale nel 97 a.C., questore lo stesso anno, legato in Illiria nel 78
a.C.) fu vicino a Pompeo, per il quale ricoprì incarichi di grande importanza: fu legato e proquestore in
Spagna fra il 76 a.C. e il 72 a.C. e combatté nella guerra contro i pirati difendendo la zona navale tra la Sicilia
e Delo. Allo scoppio della guerra civile nel 49 a.C. fu propretore in Spagna: in una guerra che vedeva i
romani contro i romani, tentò un'incerta difesa del suo territorio che si concluse in una resa che Gaio Giulio
Cesare, nei Commentarii de bello civili definì poco gloriosa.
Dopo la disfatta dei pompeiani, si avvicinò a Cesare che apprezzò il Reatino soprattutto sul piano culturale
affidandogli la costituzione di due biblioteche, una di testi latini l'altra di testi greci, ma che, dopo le idi di
Marzo, furono sospese. Dopo la morte del dittatore, fu inserito nelle liste di proscrizione sia di Antonio che
di Ottaviano, interessati più alle sue ricchezze che a punire i congiuranti, da cui si salvò grazie all'intervento
di Fulvio Caleno per poi avvicinarsi a Ottaviano a cui dedicò il De gente populi Romani volto alla
divinizzazione della figura di Giulio Cesare.
La vasta produzione di Varrone fu suddivisa da San Gerolamo in un catalogo (incompleto, poiché sono
elencati circa la metà degli scritti del reatino); in totale, le opere varroniane sono verosimilmente 74,
suddivisi in 620 libri o volumi:
 opere di erudizione, filologia e storia
 opere giuridiche e burocratiche
 epitomi di grandi opere
 opere di filosofia e agricoltura
 poesia, orazioni, satire, varie prose
Di questa grande produzione è pervenuta (quasi integra) solo un'opera: il De re rustica; del De lingua Latina
sono pervenuti solo 6 libri su 25.
Il canone varroniano composto da due opere, le Quaestiones Plautinae e il De comoediis Plautinis,
ripartisce il corpus plautino, che includeva 130 fabulae, di queste 21 vengono definite autentiche, 19 di
origine incerta dette pseudo-varroniane e le restanti false.
I Logistorici è un'opera in 76 libri, composto in forma di dialogo in prosa, di argomento letterario e
antiquario, in cui ogni libro prendeva il nome di un personaggio storico e un tema di cui il personaggio
costituiva un modello.
Le Saturae Menippeae prendono come modello Menippo di Gadara, esponente della filosofia cinica (da cui
il nome), sono state scritte tra l'80 a.C. e il 46 a.C., si compongo di 150 libri, in prosa e in versi, di cui però ci
rimangono circa 600 frammenti e novanta titoli, di argomento soprattutto filosofico ma anche di critica dei
costumi, morale, con rimpianti sui tempi antichi in contrasto con la corruzione del presente.
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Ciascuna satira recava un titolo, desunto da proverbi (Cave canem con allusione alla mordacità dei filosofi
cinici) o dalla mitologia (Eumenides contro la tesi stoico-cinica per cui gli uomini sono folli, Trikàranos, il
mostro a tre teste, con un maligno riferimento al primo triumvirato).

Capitolo 15. Virgilio.


Virgilio nacque il 15 ottobre del 70 a.C. vicino Mantova, e precisamente nel villaggio di Andes, località
identificata dal XIII secolo con il borgo di Pietole in tal senso si esprime Dante nella Divina Commedia
(Purgatorio, 18,83). Altri studi sostengono invece che l'effettivo luogo di nascita sia nella zona di Castel
Goffredo.
Il padre, di nome Stimicone Virgilio Marone (citato nelle Bucoliche, V,55), era un piccolo proprietario
terriero arricchitosi tramite l’apicoltura, l’allevamento e l’artigianato; mentre la madre, di nome Polla
Magio, era la figlia di un facoltoso mercante, Magio, al cui servizio aveva lavorato il padre del poeta. Virgilio
studiò prima a Cremona, poi a Milano ed infine a Roma lettere greche e latine ma anche matematica e
medicina. Qui conobbe molti poeti e uomini di cultura e si dedicò alla composizione delle sue opere. Nel
suo soggiorno romano, il futuro poeta fu infatti anche veterinario per i cavalli dell’imperatore Augusto.
Inoltre nella capitale portò a termine la propria formazione oratoria studiando eloquenza alla scuola di
Epidio, un maestro importante di quell’epoca. Lo studio dell’eloquenza doveva fare di lui un avvocato ed
aprirgli la via per la conquista delle varie cariche politiche. L’oratoria di Epidio non era certo congeniale alla
natura del mite Virgilio, riservato e timido, e dunque quantomai inadatto a parlare in pubblico. Infatti nella
sua prima causa come avvocato non riuscì nemmeno a parlare. In seguito a ciò Virgilio entrò in una crisi
esistenziale che lo porterà (non ancora trentenne) a spostarsi dopo il 42 a.C. a Napoli, dove si recò alla
scuola dei filosofi Sirone e Filodemo per apprendere i precetti di Epicuro, e dove conobbe diversi importanti
personaggi nel campo politico ed artistico.
Gli anni in cui Virgilio si trova a vivere sono anni di grandi sconvolgimenti a causa delle guerre civili: prima lo
scontro tra Cesare e Pompeo, culminato con la sconfitta di quest’ultimo a Farsalo (48 a.C.), poi l’uccisione di
Cesare (44 a.C.) in una congiura e lo scontro tra Ottaviano e Marco Antonio da una parte e i cesaricidi
(Bruto e Cassio) dall’altra, culminato con la battaglia di Filippi (42 a.C.). Egli fu toccato direttamente da
queste tragedie: infatti la distribuzione delle terre ai veterani dopo la battaglia di Filippi mise in grave
pericolo le sue proprietà nel Mantovano ma, grazie all'intercessione di personaggi influenti (Pollione, Varo,
Gallo, Alfeno e lo stesso Augusto), Virgilio riuscirà ad evitare la confisca. Si sposterà poi a Napoli.
Dopo il successo delle Bucoliche, venne in contatto con Mecenate ed entrò a far parte del suo circolo, che
raccoglieva molti letterati famosi dell’epoca. Il vate frequentava le tenute terriere di Mecenate, che egli
possedeva in Campania nei pressi di Atella ed in Sicilia. Attraverso Mecenate, Virgilio conobbe Augusto e
collaborò (forse in maniera forzata) alla diffusione della sua ideologia politica. Divenne il maggiore poeta di
Roma e dell’impero.
Morì a Brindisi il 21 settembre del 19 a.C. (calendario giuliano), di ritorno da un improvviso viaggio in
Grecia, secondo i biografi per una vampa di sole. Prima di morire, Virgilio raccomandò ai suoi compagni di
studio Tucca e Varo di distruggere il manoscritto dell’Eneide. Ma i due, per timore o per colpa,
consegnarono i manoscritti all’imperatore.
La fama del vate dopo la morte fu tale che egli fu considerato una divinità degna di ricevere onori, lodi,
preghiere, e riti sacri.
Egli divenne in particolare un simbolo dell’identità e della libertà politica di Napoli. Il ricordo di Virgilio però,
soprattutto nel popolo napoletano, rimase sempre vivo. Alla fama di sapiente per la tradizione colta, con il
tempo si affiancò quella di mago nella tradizione popolare, inteso come uomo che conosce i segreti della
natura e ne fa uso a fin di bene.
Durante l’alto Medioevo Virgilio fu letto con ammirazione, il che permise alle sue opere di essere
tramandate completamente.
L’interpretazione dell’opera virgiliana utilizzò largamente lo strumento dell’allegoria: al poeta fu infatti
attribuito un ruolo di profeta di Cristo, basandosi su un brano delle Bucoliche (la IV ecloga) annunciante la
venuta di un bambino che avrebbe riportato l'età dell'oro e identificato per questo con Gesù.
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Virgilio venne quindi rappresentato come vate, maestro e profeta nella Divina Commedia (Purgatorio,
canto XXII, vv. 67-72) da Dante Alighieri, il quale ne fece la propria guida attraverso i gironi dell'Inferno e del
Purgatorio.

Capitolo 15.1. L'Eneide


L'Eneide (in latino Aeneis) è un poema epico da Virgilio tra il 29 a.C. e il 19 a.C., che narra la leggendaria
storia di Enea, eroe troiano figlio di Anchise, fuggito dopo la caduta della città di Troia, che viaggiò per il
Mediterraneo fino ad approdare nel Lazio, diventando il progenitore del popolo romano.
Alla morte del poeta il poema, scritto in esametri dattilici e composto da dodici libri, rimase privo di
revisioni e di ritocchi ultimi dell'autore; perciò nel suo testamento Virgilio fece richiesta di farlo bruciare,
nel caso non fosse riuscito a completarlo, ma l'amico Vario Rufo, non rispettando le volontà del defunto,
salvaguardò il manoscritto dell'opera e successivamente l'imperatore Ottaviano Augusto ordinò di
pubblicarlo così com'era stato lasciato.
I primi sei libri raccontano la storia del viaggio di Enea da Troia all'Italia, mentre la seconda parte del poema
narra la guerra, dall'esito vittorioso, dei Troiani contro i Rutuli, i Latini e le popolazioni italiche in loro
appoggio, tra cui altri Etruschi; sotto il nome di Latini finiranno per essere conosciuti in seguito Enea e i suoi
seguaci.
Enea è una figura già presente nelle leggende e nella mitologia greca e romana, e compare spesso anche
nell'Iliade; Virgilio mise insieme i singoli e sparsi racconti dei viaggi di Enea, la sua vaga associazione con la
fondazione di Roma e soprattutto un personaggio dalle caratteristiche non ben definite tranne una grande
religiosità (pietas in latino), e ne trasse un avvincente e convincente "mito della fondazione", oltre ad
un'epica nazionale che allo stesso tempo legava Roma ai miti omerici, glorificava i valori romani tradizionali
e legittimava la dinastia Giulio-Claudia come discendenti dei fondatori comuni, eroi e dei, di Roma e Troia.
La divisione in dodici libri esprime la volontà di conciliare due esigenze, quella della proritas alessandrina (i
quattro libri delle Argonautiche) con la maggior lunghezza del poema classico omerico (Iliade e Odissea,
composti da ventiquattro libri ciascuno).
L'orientamento alessandrino verso il poema breve risalta ancor di più se si pensa che i dodici libri di Virgilio
rivaleggiano con entrambi i poemi omerici: i primi sei libri rinviano infatti al modello dell'Odissea (il viaggio
avventuroso) ; i secondi sei al modello dell'Iliade (la guerra). L'ordine delle vicende, rispetto ad Omero,
viene rovesciato e l'avventura viene trattata prima della guerra. Col suo modello Virgilio instaura un
rapporto di raffinata competizione innovativa. Il viaggio di Ulisse era un viaggio di ritorno, quello di Enea un
viaggio di rifondazione proiettato verso l'ignoto; la guerra nell'Iliade era una guerra di distruzione, quella di
Enea è rivolta alla costruzione di una nuova città e di una nuova civiltà; l'Iliade si concludeva con la disfatta
troiana, l'Eneide con la vittoria del troiano Enea, che risarcisce il suo popolo della patria perduta.
Gli dei presenti nel poema sono:
Venere (dea della bellezza e dell'amore e della fertilità), dea madre di Enea che nel racconto figura come
sua protettrice e anche come colei che fa sbocciare l'amore tra il capo troiano e Didone;
Giunone (dea del matrimonio e del parto), divinità avversa da sempre ai troiani e quindi anche a Enea;
Giove (padre di tutti gli dei), garante del Volere e del Fato: è, in questo poema, più che un dio, un'entità
astratta assai imparziale che rappresenta l'equilibrio; altri dei dell'Olimpo (Nettuno, Apollo, Diana,
Mercurio, Cupido, Iride, Vulcano), il dio Sonno, la Furia Aletto e divinità propriamente latine che sono
strumenti per attuare il volere maggiore.
Il personaggio principale è Enea, eroe caro alla maggior parte degli dei, infatti è detto pius. Enea è un capo
maturo e responsabile. Si sottomette completamente al volere degli dei, rispetta e venera il padre, è
attento verso il figlio, è leale ma ha momenti di incertezza e di dubbio. Per il resto Enea incarna le virtù dei
grandi personaggi romani: 1. Coraggio; 2. Lealtà; 3. Giustizia; 4. Clemenza; 5. Pietas, ovvero devozione verso
gli dei e rispetto verso gli uomini; 6. Pazienza; 7. Alto senso civico ed esaltazione dei valori di cittadino
romano (quelli che Augusto stava cercando di ripristinare).
La pietas, una delle doti di Enea, rappresenta il senso del dovere, la devozione, il rispetto delle norme che
regolano i rapporti tra gli dei e tra gli uomini. Solo occasionalmente l'eroe cede alla ferocia, come quando
priva il giovane Tarquito della sepoltura, impedendo così all'anima del nemico morto di raggiungere i
cancelli dell'Ade.
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Enea inoltre non rispecchia fedelmente i modelli omerici, Achille ed Ulisse. Infatti non è curioso ma cerca
solo il fato che lo fa andare avanti (labor = fatica), è valoroso ma non cerca guerre (labor = guerra).
Nei primi sei libri del poema svolgono un ruolo determinante Didone, la regina di Cartagine, e Anchise, che
profetizzerà al figlio Enea il destino glorioso dei suoi discendenti.
Nemico principale di Enea è Turno, il giovane re dei Rutuli, a tratti feroce in guerra; ma mai presentato
come figura negativa. Turno è anch'egli un uomo animato da profonda religiosità, tratta con grande rispetto
i genitori della promessa sposa e lo si vede spesso in ansia per la sorte del suo popolo: l'unico suo tratto
poco nobile è una certa tendenza all'ostentazione. Agli antipodi di Enea sta semmai il maggior alleato di
Turno, Mezenzio, per il suo spregio verso dei e nemici: tuttavia la morte di suo figlio Lauso rivelerà anche in
quest'uomo apparentemente insensibile alcuni tratti di insospettata umanità.
L'Eneide è anche il poema degli eroi giovanissimi, strappati troppo presto alla vita per colpa della guerra: il
poeta si commuove sempre per la loro morte, siano essi di parte troiana e filotroiana (Eurialo, Niso, Corebo,
Pallante, Salio) o italica (Tarquito, Clizio, Lauso, il cortigiano Almone, i gemelli Laride e Timbro, il bellissimo
Serrano, e altri ancora).
L'Eneide, come gli altri poemi epici classici, è scritta in esametri dattilici, il che significa che ogni verso ha sei
piedi composti da dattili e spondei. La metrica del poema ricopre la stessa funzione delle rime usate dai
poeti moderni: è un modo per rendere la composizione più gradevole all'ascolto. Virgilio fa inoltre ampio
uso di figure retoriche come l'allitterazione, l'onomatopea, la sineddoche e l'assonanza.
Il testo dell'Eneide è quasi interamente dedicato alla presentazione del concetto filosofico della
contrapposizione. La più facile da riscontrare è quella tra Enea che, guidato da Giove, rappresenta la pietas
intesa come devozione e capacità di ragionare con calma, e Didone e Turno che, guidati da Giunone,
incarnano il furor, ovvero un modo di agire abbandonandosi alle emozioni senza ragionare. Altre
contrapposizioni possono essere facilmente individuate: il Fato contro l'Azione, Roma contro Cartagine, il
maschile contro il femminile, l'Enea simile ad Ulisse dei libri I-VI contro quello simile ad Achille dei libri VII-
XII.
La pietas era il valore più importante di ogni onesto cittadino romano e consisteva nel rispetto di vari
obblighi morali: gli obblighi verso gli dei, verso la patria, verso i propri compagni, e verso la propria famiglia.
Virgilio insiste sulle forti relazioni presenti tra padri e figli: i legami tra Enea e Ascanio, Anchise ed Enea,
Evandro e Pallante, Mezenzio e Lauso, Dauco e i suoi figli gemelli, sono tutti in vario modo degni di essere
attentamente valutati. Molta rilevanza nel poema ha anche il sentimento dell'amicizia al maschile tra
commilitoni (Eurialo e Niso, Cidone e Clizio, Enea e Acate, Turno e Ramnete, Turno e Murrano); che talora
può sconfinare nell'eros. Il poema riflette evidentemente gli intenti della riforma morale intrapresa da
Augusto e quindi intende presentare degli edificanti esempi alla gioventù romana.
Il principale insegnamento dell'Eneide è che, per mezzo della pietas, si deve accettare l'operato degli dei
come parte del destino. Virgilio tratteggiando il personaggio di Enea allude chiaramente ad Augusto e
suggerisce che gli dei realizzano i loro piani attraverso gli uomini: Enea doveva fondare Roma, Augusto deve
guidarla, ed entrambi devono sottostare a quello che è il loro destino.

Capitolo 15.2. Le Bucoliche.


Le Bucoliche sono un'opera del poeta latino Virgilio (Publio Virgilio Marone), pubblicata intorno al 38 a.C.
costituita da una raccolta di dieci ecloghe esametriche con trattazione e intonazione pastorali; ogni
componimento è composto da 63 a 111 versi, per un totale di 829 esametri. Questa scelta colloca quindi
l'opera nel solco neoterico-callimacheo, e precisamente nel filone teocriteo.
“Bucoliche" deriva dal greco Βουκολικά (da βουκόλος = pastore, mandriano, bovaro); sono state definite
anche ἐκλογαί, egloghe, ovvero “poesie scelte”. Esse furono il primo frutto della poesia di Virgilio, ma, nello
stesso tempo, possono essere considerate la trasformazione in linguaggio poetico dei precetti di vita
appresi dalla scuola epicurea di Napoli.
La contestualizzazione dell'opera è quella di una realtà profondamente drammatica, quella dell'Italia del I
secolo a.C., scossa dalla guerra civile. Virgilio aveva assistito da piccolo alla congiura di Catilina, quindi
all'ascesa di Giulio Cesare, alla guerra tra costui e Pompeo, al suo assassinio nel 44 a.C. ed infine agli scontri
tra i cesariani e pompeiani. Mentre Virgilio scriveva la sua opera, Ottaviano aveva trionfato a Filippi.
Tornato a Roma, Ottaviano aveva espropriato i suoi contadini delle sue terre, per ridistribuirle tra i veterani
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come ricompensa per i servigi da loro resi. L'esproprio delle terre fu per Virgilio un'esperienza drammatica,
ed egli lo visse come un sintomo di barbarie.
Per Virgilio la poesia pastorale non era però semplicemente imitazione di Teocrito o mero esercizio
letterario; era qualcosa di strettamente connesso con la sua indole e le sue esperienze. L'esperienza della
guerra, dell'ingiustizia dell'esproprio, delle brutali vicende politiche, dalle quali il poeta fu sorpreso e
coinvolto nella filosofia, proprio là dove aveva sperato di essere al riparo da ogni affanno, servì a formare in
lui una certa concezione della vita come dominata dal dolore, dall'ingiustizia, che è propria delle Bucoliche.
Per Virgilio la poesia è un mezzo con il quale superare le passioni attraverso l'armonia, per creare una via di
fuga dalla tragica realtà di guerra e di stragi attraverso la contemplazione della natura.
Virgilio s'immedesima nei suoi pastori: in qualche modo essi rappresentano lui stesso. L'ironia di Teocrito
cede dunque il passo ad un'accorata partecipazione da parte del poeta mantovano; i pastori virgiliani
partecipano di più alle vicende, sono più inseriti nella realtà rispetto a quelli di Teocrito, e sono sempre
caratterizzati da un'ombra di malinconia, che si rispecchia nel paesaggio: l'ambientazione delle Bucoliche è
la fredda, nebbiosa pianura padana, spesso raffigurata al crepuscolo; quella degli Idilli è la Sicilia, dove la
natura è rigogliosa, e c'è sempre sole e caldo. Virgilio rinuncia all'impostazione geografica teocritea perché i
pastori siciliani erano ormai al servizio dei latifondisti romani, e non potevano più essere considerati come i
pastori dell'amore e del canto.
La principale differenza tra Teocrito e Virgilio è però il modo singolare in cui il poeta siracusano accosta il
realismo delle condizioni dei pastori a una grande raffinatezza in quanto a lessico e scelta metrica: negli
Idilli, Lìcida, un capraio, viene descritto esattamente come tale - con la pelle di un irsuto caprone, odorosa
di caglio sulle spalle, e con una vecchia tunica intorno al petto – ma si esprime tuttavia nei suoi discorsi in
modo elegante e ricercato; I pastori dell'Arcadia di Virgilio non compiono invece lavori logoranti o
degradanti, ma modulano “canti silvestri sul flauto sottile”, e nel loro mondo sereno si rifugiano dalla
tragica realtà; sono privi tanto della crudezza della vita di campagna quanto della eccessiva complessità di
quella di città. Virgilio si distacca dunque dal realismo per trasfigurare il paesaggio agreste in un locus
amoenus dove realizzare l'otium. L'Arcadia, che è il locus amoenus dei pastori virgiliani, è carico di
significati metaforici: è un luogo di riparo, un luogo dove vivere e cantare l'amore, anche deluso, ed è il
luogo della civiltà contrapposta alla barbarie. È un simbolo di felicità, un'immagine reale ma intatta della
realtà, immobile nello spazio e nel tempo, dove nulla si trasforma.
La prima egloga tratta dell'incontro tra due pastori, Titiro e Melibeo, che discutono riguardo all'abbandono
delle proprie terre. Secondo la critica, questa vicenda rimanda a fatti storici del tempo; in quel periodo,
infatti, Augusto aveva dato inizio a un esproprio di terre avvenuto in 18 città del Lombardo Veneto,
Mantova e Cremona, perché venissero distribuite tra i veterani nel 42 a.C. dopo la fine della battaglia di
Filippi.
Molti studiosi tendono ad identificare il personaggio del pastore Titiro nello stesso poeta Virgilio: il pastore
infatti, per intercessione di uno iuvenem, presumibilmente Augusto, riesce a salvare i suoi poderi; secondo
la tradizione biografica antica, anche Virgilio ne è dapprima spossessato, ma poi riuscì a riottenerli
mediante l'intervento degli amici Varo, Gallo, Pollione, vicini ad Augusto. A partire da ciò, studiosi hanno
letto le Bucoliche in chiave allegorica, cogliendo in ogni personaggio e situazione un riferimento storico.
Tuttavia, l'ipotesi è insoddisfacente, e non ci sono elementi certi che convalidino questa tesi. Titiro
potrebbe effettivamente essere Virgilio o potrebbe non esserlo; quello che è sicuro, è che il tema
dell'abbandono delle campagne e della violenza dei negotia lasciano una traccia profonda in Virgilio. Nelle
Bucoliche è dunque presente un forte legame con la contemporaneità, dato della poetica dell'autore.

Capitolo 15.3. Le Georgiche.


Le Georgiche (dal greco γεωργικός, "abile contadino", o, più semplicemente, "agricoltura") sono un poema
scritto in esametri, composto tra il 36 e il 29 a.C., diviso in quattro libri dedicati rispettivamente al lavoro
nei campi, all’arboricoltura, all’allevamento del bestiame e all’apicoltura, per un totale di 2188 versi. Il
titolo molto probabilmente deriva da un'opera del poeta greco didascalico Nicandro di Colofone.
L’opera fu "orientata" da Mecenate seguendo le ispirazioni ideologiche augustee: venne composta proprio
nel periodo relativo all’affermazione di Ottaviano a Roma e nello stesso periodo in cui Virgilio entrò a far
parte del circolo di Mecenate. Lo stile è più ricco e ricercato rispetto alle Bucoliche, anche se segue sempre i
canoni dell’alessandrinismo.
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Anche qui, come nelle Bucoliche, non troviamo componimenti sciolti ma un vero e proprio poema. I quattro
libri che lo compongono possiedono una chiara autonomia tematica, ma sono collegati da un piano
complessivo e da sottili riferimenti interni: il primo e il terzo terminano in modo pessimistico, il secondo e il
quarto in modo ottimistico. I primi due libri parlano di una natura inanimata (cioè campi e alberi), mentre
gli ultimi due si riferiscono ad una natura viva (il bestiame e le api).
I proemi, inoltre, si alternano tra lunghi, nei libri dispari, e brevi, nei libri pari: i più importanti sono quelli
del I e del III libro, in cui ricorrono anche inni di lode ad Ottaviano. Anche per quanto riguarda le digressioni
conclusive, si possono notare corrispondenze simmetriche. La descrizione delle guerre civili, nel libro I, si
lega a quella del libro III sulla peste che colpisce gli animali del Norico (gli orrori della storia e gli orrori della
natura); l'elogio della vita campestre, nel libro II, si oppone agli orrori della guerra e la rinascita prodigiosa
delle api, nel libro IV, risponde alla morte per pestilenza.
Il poema, benché rimanga all'interno del genere didascalico, non vuole solo spiegare il lavoro dei campi o
fornire indicazioni tecniche sull’agricoltura: mira anche a esaltare l'attività agricola come palestra di virtù
civili e partecipazione del cittadino a vantaggio della collettività, in accordo con l'ideologia augustea.
Virgilio, in alcuni punti, sembra rifarsi a Lucrezio, il poeta latino autore del poema didascalico De Rerum
Natura, anche se non condivide pienamente la sua visione della natura. Sotto certi aspetti preferisce
l’orientamento stoico; per altri, come la suddetta esaltazione del mondo agricolo e la sua minuziosa
descrizione, il poeta latino sembra avvicinarsi molto al greco Esiodo, con le sue Opere e i giorni (Ἔpγα καὶ
ἡμέραι).
Si avverte in lui la volontà di costruire intorno all’uomo un mondo “complice”: il mondo della natura
campestre è l’unico adatto ad una vita sana e virtuosa in contrapposizione alla vita cittadina e alla sua
corruzione.
La digressione sulle origini del lavoro presenta quest'ultimo come dono di Giove all'uomo affinché egli,
spinto dalla necessità, acuisse l'ingegno ideando le varie attività e perseguendo il progresso. In questo mito
Virgilio fuse due opposte concezioni del lavoro, una di Esiodo e l'altra di Lucrezio. Del primo mantenne il
valore sacrale del lavoro eliminandone il carattere punitivo (per Esiodo era una condanna di Giove), del
secondo mantenne il valore positivo ed eliminò i tratti laici e razionalistici (per Lucrezio erano stati la fatica
e l'ingegno dell'uomo a segnare la sua evoluzione dall'età primitiva all'età civile).
Il lavoro visto non più come una condanna, ma come dono divino, viene rivalutato dal punto di vista etico e
culturale. Da questo punto di vista assume una particolare importanza la figura delle api nella digressione
del IV libro. L'autore mostra le api riprendendo la metafora sociale di Cicerone: esse hanno
un’organizzazione comunitaria, caratterizzata dalla fedeltà alla casa e alle leggi, dalla condivisione delle
risorse e dalla dedizione al lavoro, in una tipica visione stoica della società. Le api, inoltre, sono disposte
anche al sacrificio personale per il bene comune e mantengono l’assoluta dedizione al capo: tutti elementi
del più puro idealismo augusteo. Con le Georgiche, Virgilio abbandonò la dolcezza consolatoria della natura
presente nelle Bucoliche per trasformare la natura in cultura, grazie al lavoro dell'uomo.
Nel Libro I vi si trova la dedica a Mecenate e al Princeps; spiega i vari aspetti della coltivazione dei campi:
qualità dei terreni, metodi (come aratura e semina), i segni celesti che il pastore deve leggere per evitare le
calamità naturali. Importanti gli excursus sulle origini del labor, su quelle del calendario e sui prodigi celesti
avvenuti dopo la morte di Cesare. Il libro termina raccontando della devastazione provocata nei campi dalle
guerre civili.
Nel Libro II c'è l'invocazione a Bacco e descrizione della coltivazione delle piante: le varietà, i metodi.
Particolare attenzione hanno la vite e l’olivo. Lodi all'Italia, in quanto terra fertile e ricca di eroi, e alla
primavera. Conclude con l'elogio della serena vita agreste.
Nel Libro III c'è l'invocazione agli dei, lode ad Augusto e preludio dell'Eneide; metodi di allevamento del
bestiame: buoi, cavalli, pecore e capre. Presente anche una sezione dedicata a cani e serpenti. Digressione
sulla pestilenza che sterminò il bestiame nel Norico.
Nel Libro IV nuova dedica a Mecenate e invocazione ad Apollo. Descrizione dell’apicoltura: descrive
abitudini e specie, spiega qual è la stagione migliore per prelevare il miele e come curare le malattie che le
colpiscono. Excursus sul vecchio di Còrico e narrazione dell'epillio del pastore Aristeo, con inserimento in
questo di una digressione del mito di Orfeo ed Euridice. È probabile che tale digressione abbia preso il
posto di un elogio a Gaio Gallo, amico di Virgilio, caduto in disgrazia presso l'imperatore a causa di una
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presunta congiura. Nell'epilogo dell'opera l'autore ricorda il soggiorno napoletano e la composizione delle
Bucoliche.

Capitolo 16. Orazio.


Quinto Orazio Flacco, in latino Quintus Horatius Flaccus e noto semplicemente come Orazio (Venosa, 8
dicembre 65 a.C. – Roma, 27 novembre 8 a.C.), è stato un poeta romano. Considerato uno dei maggiori
poeti dell'età antica, nonché maestro di eleganza stilistica e dotato di inusuale ironia, seppe affrontare le
vicissitudini politiche e civili del suo tempo da placido epicureo amante dei piaceri della vita, dettando quelli
che per molti sono ancora i canoni dell'ars vivendi.
Orazio nacque l'8 dicembre del 65 a.C. a Venosa, colonia romana fondata in posizione strategica tra Apulia
e Lucania, nell'attuale Basilicata, figlio di un fattore liberto che si trasferì poi a Roma per fare l'esattore delle
aste pubbliche (coactor), compito poco stimato ma redditizio. Il poeta era dunque di umili origini, ma di
buona condizione economica. Orazio seguì perciò un regolare corso di studi a Roma, sotto l'insegnamento
del grammatico Orbilio e poi ad Atene, all'età di circa vent'anni, dove studiò greco e filosofia presso
Cratippo di Pergamo. Qui entrò in contatto con la lezione epicurea ma, sebbene se ne sentisse
particolarmente attratto, decise di non aderire alla scuola. Sarà all'interno dell'ambiente romano che Orazio
aderirà alla corrente, la quale gli permise di trovare un rifugio nell'otium contemplativo. Il poeta espresse la
sua gratitudine verso il padre in un tributo nelle Satire (I, 6).
Quando scoppiò la guerra civile Orazio si arruolò, dopo la morte di Cesare, nell'esercito di Bruto, nel quale il
poeta incarnò il proprio ideale di libertà in antitesi alla tirannide imperante e combatté come tribuno
militare nella battaglia di Filippi (42 a.C.), persa dai sostenitori di Bruto e vinta da Ottaviano. Nel 41 a.C.
tornò in Italia grazie a un'amnistia e, appresa la notizia della confisca del podere paterno, si mantenne
divenendo segretario di un questore (scriba quaestorius), in questo periodo cominciò a scrivere versi, che
iniziarono a dargli una certa fama. Nel 38 a.C. venne presentato a Mecenate da Virgilio e Vario,
probabilmente incontrati nel contesto delle scuole epicuree di Sirone, presso Napoli ed Ercolano. Dopo
nove mesi Mecenate lo ammise nel suo circolo. Da allora Orazio si dedicò interamente alla letteratura, non
si sposò mai e non ebbe figli. Già in questo periodo Orazio risulta debole di occhi, avendo contratto una
congiuntivite.
Mecenate gli donò nel 33 a.C. un piccolo possedimento in Sabina, le cui rovine sono ancor oggi visitabili nei
pressi di Licenza (RM), cosa molto gradita al poeta che, in perfetta osservanza del modus vivendi predicato
da Epicuro, non amava la vita cittadina. Con la sua poesia fece spesso azioni di propaganda per l’imperatore
Augusto, anche se, a dire il vero, in questo periodo Ottaviano lasciò una maggiore libertà compositiva ai
suoi poeti (tendenza che sarebbe però stata invertita dopo la scomparsa di Mecenate: lo testimonia la
vicenda biografica di Ovidio). Esempi di propaganda augustea sono, ad ogni modo, alcune Odi e il Carmen
saeculare, composto nel 17 a.C. in occasione della ricorrenza dei Ludi Saeculares.
Morì nel novembre dell'8 a.C. e fu sepolto sul colle Esquilino, accanto al suo amico Mecenate, morto solo
due mesi prima.
Orazio aderisce parzialmente all’epicureismo, anch’egli alla ricerca di risposte sui grandi temi esistenziali,
risposte che di fatto non troverà mai: il poeta sembra infatti non essere mai sfuggito all’angoscia della
morte, percepita sempre come imminente. È interessante analizzare la visione che il poeta latino aveva
dell’aldilà, in quanto è indubbiamente molto sincera: sebbene velata da una certa sicurezza, propria di
quella "aurea mediocritas" di cui Orazio voleva essere esempio, in molteplici occasioni traspare una vena di
malinconia, accompagnata da cupe note di lirismo e di elegia, che tradisce il suo reale stato interiore.
Orazio appare, a sprazzi, come quello che forse veramente era: un uomo che ha trovato nella vita il rifugio
dalla morte, ma che in verità non è mai riuscito a curare del tutto la paura della morte, che preferisce
fuggire piuttosto che combattere stoicamente. La sua personalità può quindi risultare, ad una prima lettura,
ambigua. La rappresentazione dell’aldilà oraziano è comunque di forte stampo epicureo, e viene suggellata
nel modo migliore nell’affermazione, non priva di una nota malinconica, espressa nell’Ode 7 del Libro IV:
« Pulvis et umbra sumus »
In questa affermazione Orazio riesce ad esprimere non solo il suo punto di vista sulla morte, ma anche
l’angoscia che lo investe in vita, proprio in funzione del prossimo e certo annullamento dell’esperienza
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terrena. Dai versi di Orazio, quando il poeta parla della morte, risulta davvero difficile cogliere una nota di
serenità, di gioia: il sentimento che invece predomina e che si identifica nella reazione psicologica del poeta
di fronte alla morte, è una triste accettazione di un fatto naturale.
Inutile e vana è la religione, incapace di porre un rimedio (moram) all’incalzante vecchiaia e alla morte. La
religione è ormai incapace di dare spiegazioni sufficienti riguardo alla vita dopo la morte, il fervore religioso
(pietas) non potrà salvare l’uomo dalla sua naturale condizione di mortale.
È davvero grande la differenza che corre tra l’attacco e la critica che Lucrezio aveva fatto nei confronti della
religio, accusata di offuscare la ragione e di far nascere inutili tribolazioni e angosce, e questa, che suona
più come una triste constatazione dell’incapacità di essere rasserenati da una religione nella quale non si
riesce più a credere. Orazio appare a tratti molto pessimista: la morte è sempre in agguato e la vita
potrebbe finire in ogni momento; è meglio, quindi, non riporre le proprie speranze nel domani.
Il tempo è in una fuga perpetua, che non lascia adito a speranze future: occorre sfruttare al massimo il
tempo che ci è concesso, e considerare ogni momento che ci è dato come un dono; la sua concezione della
fuga temporis sarà un perfetto modello per un grande poeta italiano come Francesco Petrarca, che, dopo
aver letto classici come Orazio, Seneca e Agostino, lamenterà, nel Canzoniere, la caducità del tempo e la sua
essenza fuggitiva in liriche come La vita fugge via e non s'arresta un'ora, molto vicina alla poetica oraziana.
La morte non è, al contrario di quanto si crede, un evento che ci attende alla fine del nostro percorso vitale,
ma è qualcosa che ci lasciamo dietro ogni giorno e dietro ogni momento, che estingue e brucia, attraverso il
tempo.
Orazio è considerato dal classicismo uno dei più importanti poeti latini, citato addirittura nell'Inferno di
Dante nel Limbo, al verso 89 del Canto IV. Molte delle sue frasi sono diventate modi di dire ancora in uso:
esempi sono carpe diem, nunc est bibendum e aurea mediocritas, oltre che Odi profanum vulgus, et arceo,
e, recentemente, gli è stato intitolato anche un cratere sulla superficie di Mercurio.

Capitolo 17.Tito Livio.


Della sua biografia si sa poco. Secondo San Girolamo nacque a Padova nel 59 a.C. Quintiliano ci ha
tramandato la notizia che Asinio Pollione rilevava in Livio una certa Patavinitas (padovanità o peculiarità
padovana): che indica o come patina linguistica rivelatrice della sua origine provinciale o piuttosto
l'accentuato moralismo, tipico delle tendenze conservatrici della sua patria. Morì a Padova nel 17 d.C.,
secondo Girolamo, o nel 12 d.C.,secondo Syme.
Livio fu sempre accusato di patavinitas (padovanità) ; ancora oggi non si è ancora riusciti a capire quale sia
il significato preciso del termine: la maggior parte dei critici rileva in ciò una critica nei confronti dello stile
"provinciale" dello storico (ma di suddetta provincialità non si rilevano tracce negli scritti a noi pervenuti)
mentre altri, come lo Syme, ritengono che il termine riguardi più la sfera morale e ideologica. Questa critica
è stata mossa inizialmente da Asinio Pollione, politico e letterato romano.
A Livio interessa comporre un'opera dilettevole sulla storia di Roma, non facendolo scientificamente (come
faceva Tucidide in Grecia), ma raccogliendo semplicemente le notizie dando così piacevolezza all'opera. Ciò
lo allontana dallo stile secco e chiuso tipico di Polibio e fa sì che la sua narrazione venga caratterizzata da
sfumature definibili "drammatiche", senza eccessi. La storia per lui è MAGISTRA VITAE dal punto di vista
morale, vivendo infatti in un periodo difficile per la società romana riteneva che il modello da seguire per
tornare la grande potenza di un tempo sarebbe stato quello degli antichi romani, per primo quello di
Romolo. Livio era un grande nostalgico del passato soprattutto riguardo alla morale e ai valori che avevano
reso grande Roma, che in quel periodo erano in grande declino.
Livio attribuisce ai vari personaggi che pone sotto analisi dei caratteri quasi assoluti, facendoli diventare dei
paradigmi di passioni (tipi). Un altro elemento tipico della drammatizzazione è quello di mettere in bocca ai
personaggi dei discorsi, sia in forma diretta che indiretta, informazioni utili ai fini della narrazione,
soprattutto per quanto riguarda la parte "dilettevole" del suo intento. I discorsi sono infatti costruiti in
maniera fantasiosa, e di fatto non sono da prendere come verità storiche oggettive ma come esigenze di
stampo narrativo e psicologico. Spesso lo storico padovano rileva come una situazione stia precipitando,
quando all'ultimo istante si ha un ribaltamento di fronte inatteso, il tipico procedimento teatrale greco del
"deus ex machina".
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Dal punto di vista più prettamente stilistico Livio procede sulle orme di Erodoto (più fiabesco) e segue il
modello di Isocrate, con la sua eloquenza piacevolmente narrativa.

Capitolo 17.1. Ab Urbe Condita Libri


Iniziata nel 27 a.C., la raccolta Ab Urbe condita si componeva di 142 libri che narravano la storia di Roma
dalle origini (nel 753 a.C.) fino alla morte di Druso (9 a.C.), in forma annalistica; è molto probabile che
l'opera si dovesse concludere con altri 8 libri (per un totale di 150) che proseguissero fino alla morte di
Augusto, avvenuta nel 14 d.C.
I libri furono successivamente divisi in decadi (gruppi di 10 libri) che avrebbero dovuto coincidere con
determinati periodi storici. Dell'intera opera, ce ne è pervenuta oggi solo una piccola parte, per un totale di
35 libri, cioè quelli dall'I al X e dal XXI al XLV (la prima, la terza, la quarta decade e cinque libri della quinta).
Gli altri sono conosciuti solo tramite frammenti e riassunti ("Periochae"). I libri che si sono conservati
descrivono in particolare la storia dei primi secoli di Roma dalla fondazione fino al 292 a.C., la seconda
guerra punica, la conquista della Gallia Cisalpina, della Grecia, della Macedonia e di una parte dell'Asia
Minore. L'ultimo avvenimento importante che si trova è relativo al trionfo di Lucio Emilio Paolo a Pidna.
Già il titolo dell'opera dà l'idea della grandezza dei propositi dello storico. Livio utilizzò uno stile che
alternava la cronologia storica alla narrazione, spesso interrompendo il racconto per annunciare l'elezione
di un nuovo console, dato che questo era il sistema utilizzato dai Romani per tener conto degli anni.
Nell'opera, Livio denuncia inoltre la decadenza dei costumi ed esalta al contrario i valori che hanno fatto la
Roma eterna.
Lo stesso Livio affermò inoltre che la mancanza di dati e fonti certe precedenti al sacco di Roma da parte dei
Galli, nel 390 a.C., aveva reso il suo compito assai difficile. A rendere più arduo il compito dello storiografo
fu il fatto che non poteva accedere, come privato cittadino, agli archivi e dovette accontentarsi di fonti
secondarie (documenti e materiali già elaborati da altri storici). Allo stesso modo, molti storici moderni
ritengono che, per la mancanza di fonti puntuali e precise, Livio abbia presentato per le stesse vicende sia
una versione mitica che una versione "storica", senza privilegiare nessuna delle due versioni, ma lasciando
alla discrezione del lettore la decisione su quale sia la più verosimile. Nella prefazione è l'autore a spiegare
che «quanto agli eventi relativi alla fondazione di Roma o anteriori, non cerco né di darli per veri o mentirli:
il loro fascino è dovuto più all'immaginazione dei poeti che alla serietà dell'informazione» (ne è un esempio
la presenza nell'opera del mito dell'ascensione al cielo di Romolo e di un racconto secondo il quale lo stesso
Romolo sarebbe stato ucciso). Il suo talento non va tuttavia ricercato nell'attendibilità scientifica e storica
del lavoro quanto nel suo valore letterario (il metodo con cui impiega le fonti è criticabile poiché non risale
ai documenti originali, qualora ve ne siano, ma utilizza quasi esclusivamente fonti letterarie).
Livio scrisse larga parte della sua opera durante l'impero di Augusto; nonostante ciò, la sua opera è stata
spesso identificata come legata ai valori repubblicani e al desiderio di una restaurazione della repubblica. In
ogni modo, non vi sono certezze riguardo alle convinzioni politiche dell'autore, dal momento che i libri sulla
fine della repubblica e sull'ascesa di Augusto sono andati perduti. Certamente Livio fu critico nei confronti
di alcuni dei valori incarnati dal nuovo regime, ma è probabile che il suo punto di vista fosse più complesso
di una mera contrapposizione repubblica/impero. D'altro canto, Augusto non fu affatto disturbato dagli
scritti di Livio, e anzi lo incaricò dell'educazione di suo nipote, il futuro imperatore Claudio. L'influenza di
Tito Livio su Claudio fu evidente nel periodo finale del regno di quest'ultimo, quando l'oratoria
dell'imperatore si rifece in maniera fedele alla storia di Roma raccontata dallo storico patavino.
Nella Storia di Roma (libro 9, sezioni 17-19) di Livio si trova la prima ucronia conosciuta, quando lo storico
immagina le sorti del mondo se Alessandro il Grande fosse partito per la conquista dell'occidente anziché
dell'oriente.

Capitolo 18. Ovidio


Publio Ovidio Nasone, più semplicemente Ovidio (in latino: Publius Ovidius Naso; Sulmona, 20 marzo 43
a.C. – Tomi, 17), fu un celebre poeta romano tra i maggiori elegiaci.
Sulla vita di Ovidio non si conosce molto e le uniche testimonianze provengono proprio dal poeta stesso:
scrive infatti un'elegia di natura autobiografica (la quarta dei Tristia).
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Nato il 20 marzo del 43 a.C. a Sulmona da una famiglia facoltosa, appartenente alla classe equestre. A 12
anni si reca a Roma con il fratello Lucio, poi morto prematuramente, per completare gli studi. Frequenta le
lezioni di grammatica e retorica dei più insigni maestri della capitale, in particolare Marco Arellio Fusco e
Marco Porcio Latrone. Il padre lo vorrebbe oratore, ma Ovidio si sente già più portato per la poesia. Seneca
il Vecchio ricorda che Ovidio declamava raramente, per lo più suasorie. Più tardi Ovidio si recò, com'era
costume ormai da un secolo, in Atene, visitando durante il viaggio di ritorno le città dell'Asia minore; fu
anche in Egitto e per un anno soggiornò in Sicilia.
Tornato a Roma, Ovidio intraprende la carriera pubblica, senza distinguersi per zelo o importanza di
honores. È uno dei decemviri stilibus iudicandis e dei tresviri, i funzionari, forse, di polizia giudiziaria. Non
aspira poi al Senato romano, pago della propria dignità equestre; contrariamente al fratello e contro la
volontà di suo padre si dedica agli studi letterari. Inizialmente ha contatti con il circolo di Messalla Corvino
(filorepubblicano), che lo stimola a dedicarsi alle lettere; più tardi invece entra nel circolo di Mecenate
(filoaugusteo), conoscendo i più importanti poeti del tempo: Orazio, Properzio, Tibullo e, per poco tempo,
Virgilio. Tale ambiente aiuta Ovidio, che in questi anni ritrova la serenità e l'incentivo necessario per
esprimersi e produrre. Siamo nel periodo storico della pax augustea e i costumi di Roma tendono a
rilassarsi, c'è una concezione più libera e rilassata della morale che arriva dall'influenza ellenistica.
Ovidio è il più giovane dei poeti elegiaci e si differenzia in gran parte da loro. Se essi rifiutavano il mos
maiorum (le tradizioni degli avi) ma ne desideravano i benefici, Ovidio rifiuta questa contraddizione e il mos
in toto. Si può parlare anche di relativismo, poiché rifiuta i valori fissi e rigidi della vecchia società romana
per aprirsi alle mode del tempo, cercando di assecondare il gusto volubile del pubblico.
Ovidio si sposa per tre volte: ma se, nei primi due casi, divorzia presto, il terzo è invece il più significativo.
Delle prime due mogli non si sa nulla, tranne che da una di loro nasce Ovidia, a sua volta scrittrice colta. Il
terzo matrimonio avviene con Fabia, fedele consorte nella gioia e nel dolore, della quale il poeta, nelle sue
opere, conserva un ricordo commosso.
Nell'8 d.C., caduto in disgrazia presso Augusto, Ovidio viene relegato nella lontana Tomi (oggi Costanza), un
piccolo centro sul mar Nero, nell'attuale Romania.
Il poeta dunque attribuisce l'esilio ad un carmen et error, ma tale vaga espressione ha favorito il proliferare
di interpretazioni diverse, alcune probabili, altre più fantasiose, riguardo al possibile error:
Ovidio avrebbe avuto illecite relazioni con la figlia di Augusto Giulia maggiore, cantata negli Amores con lo
pseudonimo di Corinna; sarebbe stato sospettato di favoreggiamento e forse di correità nelle relazioni di
Giulia minore, nipote di Augusto e moglie di Lucio Emilio Paolo, col giovane patrizio Decimo Bruto Silano;
avrebbe scoperto illeciti rapporti di Augusto a corte o avrebbe curiosato imprudentemente sulla condotta
privata e sulle abitudini intime dell'imperatrice Livia; avrebbe assistito a qualcuno degli sfoghi di ira a cui
era soggetto Augusto, specialmente dopo il disastro di Publio Quintilio Varo; avrebbe partecipato alla
congiura di Agrippa Pòstumo, pretendente al trono, contro Tiberio.
Il termine carmen farebbe invece riferimento alle opere di Ovidio, in contrasto con i princìpi della
restaurazione augustea (specialmente l'Ars amatoria). Alla base della condanna c'è sicuramente un fatto
personale molto grave, tale da giustificare l'improvvisa decisione e da impedire il ritorno in patria del poeta,
nonostante le suppliche sue e degli amici.
Ovidio infatti non fa più ritorno nella capitale e muore tra il 17 e il 18 d.C. (più probabilmente nel 18), dopo
un decennio di relegazione in una terra selvaggia, a lui del tutto estranea.
L'oscurità delle cause dell'esilio di Ovidio ha dato luogo a infinite spiegazioni. Ovidio fa più volte riferimento
al suo reato, fornendo però spiegazioni vaghe o contraddittorie. Per questo, nel 1923, J.J. Hartmann
propose una nuova teoria: che Ovidio in realtà non abbia mai patito la relegatio, e che il riferimento
all'esilio sia il prodotto della sua fervida immaginazione. Questa teoria è stata sostenuta e respinta negli
anni trenta del '900, soprattutto da autori olandesi.
Nel 1985, uno studio di Fitton Brown ha avanzato nuove argomentazioni a sostegno dell'ipotesi; l'articolo
ha provocato una piccola polemica, con una serie di riprese e confutazioni. L'elemento principale affermato
da Fitton Brown per negare la realtà dell'esilio è che questo viene menzionato solo o soprattutto nelle
opere dello stesso Ovidio, e non si trovano riferimenti ad esso anche dove sarebbe stato lecito aspettarseli
(ad esempio in storici che hanno trattato l'età di Augusto come Tacito o Svetonio). Le eccezioni, di poco
posteriori alla morte di Ovidio, sono costituite da due brevissimi passaggi in Plinio il Vecchio, e in Stazio.
Poi, più niente fino al IV secolo, con brevi menzioni in Girolamo e nell'Epitome de Caesaribus.
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Oggi, tuttavia, la maggior parte degli studiosi ritiene poco credibili le ipotesi che negano la realtà dell'esilio
di Ovidio. Ovidio scrisse un gran numero di opere, che possono essere facilmente divise in tre gruppi: le
opere giovanili o amorose, le maggiori o della maturità e le opere dell'esilio. Altre opere sono andate
pressoché perdute, mentre altre sono state erroneamente attribuite al poeta.
 Amores, in tre libri: 49 carmi che narrano la storia d'amore per una donna chiamata Corinna
(personaggio letterario), secondo lo stile e le convenzioni dell'elegia amorosa: il poeta è asservito
alla domina, soffre per le sue infedeltà, è geloso degli altri ammiratori e contrappone la vita militare
alla vita amorosa. Ma Ovidio non soffre drammaticamente come Catullo e mantiene sempre un
certo distacco intellettuale: vede l'amore come un gioco e questa concezione amorosa si traduce e
si esplica in un ribaltamento degli atteggiamenti e dei temi tradizionali (Ovidio giunge ad amare
anche due donne contemporaneamente, chiede all'amata di non essergli fedele ma di nascondergli
i tradimenti affinché lui possa fingere di non sapere).
 Medea: tragedia a noi non pervenuta, ma lodata dai contemporanei.
 Heroides: 21 lettere che Ovidio immagina scritte da donne famose ai loro amanti. Tre lettere, in
particolare, hanno una risposta da parte dell'uomo amato. Si tratta di una tipologia completamente
nuova per la letteratura latina: il filone erotico-mitologico viene per la prima volta svolto in forma
epistolare (alcuni studiosi hanno trovato per questo analogie con le suasoriae, discorsi fittizi rivolti a
personaggi mitici o storici per persuaderli o dissuaderli in determinate circostanze). Vi sono
numerosi parallelismi con l'epica e con la tragedia (in particolare i monologhi delle eroine
euripidee) e non mancano addirittura rivisitazioni e riscritture di alcuni miti (come nel caso della
lettera di Fedra a Ippolito, nella quale la matrigna veste i panni di una scaltra seduttrice piuttosto
che quelli di una donna disperata).
 Ars amatoria, in tre libri. Secondo Concetto Marchesi, si tratta del "capolavoro della poesia erotica
latina" in cui Ovidio si fa praeceptor amoris, un ruolo comunque svolto da quasi tutti i poeti elegiaci
ma che, grazie a una sapiente mescolanza di generi (elegia, epica didascalica, precettistica tecnica),
riesce ad acquisire un'importanza maggiore. I primi due libri sono dedicati agli uomini e trattano,
rispettivamente, la conquista della donna e le tecniche di seduzione, e come far durare l'amore. Il III
libro si propone di dare preziosi consigli alle donne. Il modello più frequente è quello "predatorio
della caccia". L'oggetto della caccia non è più l'amore, ma il sesso. E infatti Ovidio consiglia di non
innamorarsi, ma di saper vivere l'amore come un gioco. Perciò egli ammette anche il tradimento in
una relazione. Per Ovidio il tradimento è un elemento base della società del suo periodo. Ma Ovidio
specifica anche che non si riferisce al rapporto del matrimonio e neanche alle donne perbene. Egli
dà consigli alle liberte, alle schiave e alle cortigiane. Quindi l'opera rappresenta vivacemente il
quadro sociale del tempo di Ovidio e dunque non stupisce il fatto che non sia stata apprezzata da
Augusto stesso (probabilmente per il velato rifiuto dei modelli etici arcaici).
 Medicamina Faciei Feminae: operetta sui cosmetici delle donne. Di quest'opera ci sono pervenuti
solo 100 versi: i primi 50 costituiscono il proemio, i successivi 50 propongono 5 ricette di creme da
applicare sul viso.
 Remedia amoris: 400 distici elegiaci per resistere all'amore o liberarsene.
Opere maggiori o della maturità:
 Metamorfosi, in 15 libri di esametri. Il capolavoro di Ovidio, ultimato poco prima dell'esilio,
contiene 246 miti di trasformazioni, dal Caos all'apoteosi di Cesare e Augusto. Ovidio attinge dalle
Trasformazioni di Nicandro di Colofone opera del II secolo A.C. L'opera si chiude con una preghiera
agli dei, affinché questi preservino a lungo l'imperatore Augusto. Scritto in esametri, in quindici libri
(per circa 12 000 versi), vi si trova tutta la storia mitica del mondo, ma riorganizzata da Ovidio in
una serie di racconti continuati. Il criterio generale di compilazione segue l'ordine cronologico, ma
molto spesso Ovidio introduce eventi anteriori al fatto narrato o posteriori, collega le storie in base
a rapporti familiari, elabora i racconti secondo affinità o diversità. Insomma si tratta di un racconto
mosso e articolato, talvolta al limite dell'artificio, che mostra l'abilità stupefacente del poeta di
legare tra di loro storie che apparentemente non hanno un filo logico comune. L'unico principio
unificatore è la metamorfosi. Tra gli strumenti adottati dal poeta vi è il racconto nel racconto, grazie
al quale il poeta trasforma i personaggi "narrati" in personaggi "narranti" che raccontano vicende
proprie o altrui. L'opera lo rese illustrissimo presso i contemporanei.
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 Fasti, in 6 libri. Nelle intenzioni dell'autore sarebbe dovuto essere di 12 libri, uno per ogni mese
dell' anno, ma Ovidio ne scrisse solo 6 (da gennaio a giugno) a causa dell'esilio. Egli intendeva
illustrare (secondo un procedimento simile a quello utilizzato negli Aitia di Callimaco) le feste
religiose e le ricorrenze varie del calendario romano introdotto da Cesare. Si tratta di un'opera di
carattere eziologico ed erudito, ispirata al gusto alessandrino; Ovidio narra aneddoti, favole, episodi
della storia di Roma, impartisce nozioni di astronomia, spiega usanze e tradizioni popolari. Ma
l'intento celebrativo rimane esteriore, non essendo sorretto né da un interesse storico-religioso, né
dal senso patriottico della grandezza di Roma.
Durante la relegazione scrisse:
 Tristia, in 5 libri di distici elegiaci ed Epistulae ex Ponto, in 4 libri.
 Ovidio riprende qui un tratto tipico della poesia elegiaca, il lamento. Ne derivano un centinaio di
componimenti, raggruppati in questi 5 libri. Le elegie dei Tristia sono senza destinatario, mentre
quelle delle Epistulae sono indirizzate a vari personaggi romani (tra cui la terza moglie del poeta,
rimasta a Roma) affinché potessero intercedere presso l'imperatore per porre fine all'esilio o,
quanto meno, trasferire il poeta in una località più vicina a Roma. Ma si tratta di elegie monotone e
ripetitive, in cui l'autocommiserazione la fa da padrona.
 Epistulae ex Ponto, lettere poetiche indirizzate a vari personaggi romani.
 Ibis, carme imprecatorio contro un anonimo avversario di Ovidio, prima suo amico e poi
calunniatore.
 Halieutica, poemetto sulla pesca nel Ponto.
 Phaenomena, poema astronomico non giunto.
Ovidio scrisse canti di vario genere, ai quali il poeta allude in particolare nelle Epistulae ex Ponto; sono:
 un carme in lingua getica, in onore di Augusto e della famiglia imperiale (De Caesare);
 un carme, sempre in lingua getica, in onore di Tiberio, vincitore degli Illiri;
 un elogio in morte di Messalla Corvino;
 un epitalamio per le nozze dell'amico Paolo Fabio Massimo.
Non sono di Ovidio, né il poemetto Nux di 182 versi (elegia in cui un noce si lamenta delle sassate che riceve
ingiustamente dai passanti), né una Consolatio ad Liviam di 474 versi, carme consolatorio alla moglie di
Augusto per la morte del figlio Druso, nel 9 a.C. Qualche tardo manoscritto li attribuisce ad Ovidio, ma
ragioni stilistiche e metriche, oltre che di contenuto, fanno pensare a qualche imitatore posteriore.

Capitolo 19. Seneca.


Lucio Annéo Seneca, figlio di Seneca il Vecchio, nacque a Cordova, capitale della Spagna Betica, una delle
più antiche colonie romane fuori dal territorio italico, in un anno di non certa determinazione. Le possibili
date attribuite dagli studiosi sono in genere tre: il 3 a.C., il 4 a.C. o l'1 a.C.; sono tutte ipotesi possibili che si
fondano su vaghi accenni presenti in alcuni passi delle sue opere, in particolare nel De tranquillitate animi e
nelle Epistulae morales ad Lucilium. La famiglia di Seneca, gli Annaei era discendente da immigrati italici,
trasferitisi nella Hispania Romana nel II secolo a.C., durante la fase iniziale della colonizzazione della nuova
provincia.
Seneca, fin dalla giovinezza, ebbe alcuni problemi di salute; era soggetto a svenimenti e attacchi d'asma che
lo tormentarono per diversi anni e lo portarono a vivere momenti di disperazione.
Seneca ricevette a Roma un'accurata istruzione retorica e letteraria, come voleva il padre, benché egli si
interessasse più che altro di filosofia. Seguì quindi gli insegnamenti di un grammaticus e in seguito avrebbe
ricordato del tempo perduto presso di lui (Epistulae ad Lucilium, 58,5). Egli non mostrò dunque interesse
per la retorica, anche se questo tipo di formazione gli sarebbe stato utile per la sua esperienza futura di
scrittore. Fondamentale per lo sviluppo del suo pensiero fu la frequentazione della scuola cinica dei Sestii: il
maestro Quinto Sestio rappresentò per Seneca il modello dell'asceta immanente che cerca il continuo
miglioramento attraverso la nuova pratica dell'esame di coscienza.
Ebbe come maestri di filosofia Sozione di Alessandria, Attalo e Papirio Fabiano, appartenenti
rispettivamente al neopitagorismo, allo stoicismo e al cinismo. Sozione era legato alla setta dei Sestii,
fondata da Quinto Sestio in età cesariana e diretta poi dal figlio Sestio; essa raccoglieva elementi di varia
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provenienza, in particolare stoica e pitagorica, e raccomandava ai suoi adepti una vita semplice e
morigerata, lontana dalla politica; Attalo fu seguace dello stoicismo con influenze ascetiche; Papirio Fabiano
fu un oratore e un filosofo, anch'egli appartenente alla setta dei Sestii, con influenze ciniche.
Seneca seguì molto intensamente gli insegnamenti dei maestri, che esercitarono su di lui un profondo
influsso sia con la parola sia con l'esempio di una vita vissuta in coerenza con gli ideali professati. Da Attalo
imparò i principi dello stoicismo e l'abitudine alle pratiche ascetiche. Da Sozione, oltre ad apprendere i
principi delle dottrine di Pitagora, fu avviato per qualche tempo verso la pratica vegetariana; venne distolto
però dal padre che non amava la filosofia e dal fatto che l'imperatore Tiberio proibisse di seguire
consuetudini di vita non romane.
Dopo essere tornato da un viaggio in Egitto iniziò l'attività forense e la carriera politica (divenne dapprima
questore ed entrò a far parte del Senato) godendo di una notevole fama come oratore, al punto di far
ingelosire l'imperatore Caligola, che nel 39 lo voleva eliminare, soprattutto per la sua concezione politica
rispettosa delle libertà civili. Si salvò grazie ai buoni uffici di una amante del princeps, la quale affermava
che comunque sarebbe morto presto a causa della sua salute.
Due anni dopo, nel 41, il successore di Caligola, Claudio, lo condannò all'esilio in Corsica con l'accusa di
adulterio con la giovane Giulia Livilla (figlia di Germanico), sorella di Caligola.
In Corsica Seneca restò fino al 49, quando Agrippina minore riuscì ad ottenere il suo ritorno dall'esilio e lo
scelse come tutore del figlio Nerone. Secondo Tacito sarebbero tre i motivi che spinsero Agrippina a
questo: l'educazione di suo figlio, attirarsi le simpatie dell'opinione pubblica (Seneca era considerato uomo
di grande cultura) e avere stretti rapporti con lui per riuscire ad impadronirsi del potere.
Seneca accompagnò l'ascesa al trono del giovane Nerone (54 - 68) e lo guidò durante il suo cosiddetto
"periodo del buon governo", il primo quinquennio del principato. Assunse un grande potere politico, che gli
consentì di divenire estremamente ricco. Si narra che avesse una collezione di cento tavoli di cedro.
Progressivamente, a causa delle intemperanze del giovane imperatore, tale rapporto si deteriorò. Giustificò
come il "male minore" l'esecuzione della madre di Nerone, Agrippina, nel 59, e se ne assunse tutto il peso
morale. In seguito, il rapporto con l'imperatore peggiorò e temendo quindi per la propria vita Seneca si
ritirò a vita privata, donando a Nerone tutti i suoi averi e dedicandosi interamente ai suoi studi e
insegnamenti. Famoso il suo epistolario con Lucilio, al tempo Governatore della Sicilia, di origine
pompeiana. Finalmente adottò quello stile di vita che andava insegnando, dimostrando di essere un
amministratore dei suoi beni e non un amministrato.
Nerone, tuttavia, continuava a nutrire una crescente insofferenza verso Seneca e Sesto Afranio Burro,
Prefetto del Pretorio, morto nel 62. Egli non aspettava che un pretesto per eliminarlo. L'occasione venne col
fallimento della congiura dei Pisoni (aprile 65) contro la sua persona, della quale Seneca forse era
solamente informato, ma di cui non si sa se sia stato partecipe. Ricevette quindi l'ordine di togliersi la vita.
Si tagliò le vene, ma poiché il sangue, lento per la vecchiaia e la denutrizione, non defluiva, dovette
ricorrere alla cicuta, veleno usato anche da Socrate. Tuttavia la lenta emorragia non gli permise di deglutire;
così, secondo la testimonianza di Tacito, si immerse in una vasca di acqua calda per favorire la perdita di
sangue e raggiungere una morte lenta e straziante, che arrivò per soffocamento.
Il togliersi la vita, d'altronde, fu in perfetta armonia con i principi professati dallo stoicismo di età imperiale,
di cui Seneca fu uno dei maggiori esponenti: il saggio deve giovare allo stato, res publica minor, ma,
piuttosto che compromettere la propria integrità morale, deve essere pronto all'extrema ratio del suicidio.
La vita non è, infatti, uno di quei beni di cui nessuno ci può privare, rientrando quindi nella categoria degli
indifferenti, quelli sono solo la saggezza e la virtù; la vita è piuttosto come la ricchezza, gli onori, gli affetti:
uno di quei beni, dunque, che il saggio deve essere pronto a restituire quando la sorte li chiede indietro.
Seneca, perciò, affrontò l’ora fatale con la serena consapevolezza del filosofo: egli, come racconta Tacito
(Annales, LXII), non potendo fare testamento, lasciò in eredità ai discepoli l’immagine della sua vita,
richiamandoli alla fermezza per le loro lacrime, dato che esse erano in contrasto con gli insegnamenti che
lui aveva sempre dato loro. Il vero saggio deve raggiungere infatti l’apatheia, apatia, ovvero
l'imperturbabilità che lo rende impassibile di fronte ai casi della sorte.
Lo stile di Seneca fu definito, dal malevolo Caligola, "arena sine calce" (sabbia senza calce). Il filosofo deve
badare alla sostanza, non alle parole ricercate ed elaborate, che sono giustificate solo se, in virtù della loro
efficacia espressiva, contribuiscono a fissare nella memoria e nello spirito un precetto o una norma morale.
La prosa filosofica di Seneca è elaborata e complessa ma in particolare nei dialoghi l'autore si serve di un
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linguaggio colloquiale, caratterizzato dalla ricerca dell'effetto e dell'espressione concisamente


epigrammatica. Seneca rifiuta la compatta architettura classica del periodo ciceroniano, che, nella sua
disposizione ipotattica, organizza anche la gerarchia logica interna, e sviluppa uno stile eminentemente
paratattico, che, nell'intento di riprodurre la lingua parlata, frantuma l'impianto del pensiero in un
susseguirsi di frasi penetranti e sentenziose, il cui collegamento è affidato soprattutto all'antitesi e alla
ripetizione.
Tale prosa antitetica all'armonioso periodare ciceroniano, rivoluzionaria sul piano del gusto e destinata ad
esercitare grande influsso sulla prosa d'arte europea, affonda le sue radici nella retorica asiana procedendo
con un ricercato gioco di parallelismi, opposizioni, ripetizioni, in un succedersi di brevi frasi nervose e
staccate, realizzando uno stile penetrante, drammatico, ma che non sa evitare una certa teatralità. Egli
prende molti spunti dalla corrente filosofica del'epicureismo (non estremo) e da quella dello stoicismo.

Capitolo 19.1. I Dialoghi.


A dispetto di tale denominazione (di certo molto antica perché già utilizzata da Quintiliano), non si tratta di
veri e propri dialoghi, poiché il filosofo costituisce la voce narrante in prima persona senza che nella
trattazione vi siano interventi diretti né di sostenitori né di contraddittori delle tesi esposte nei dialoghi.
L'unica eccezione è rappresentata dal De tranquillitate animi, in cui Seneca immagina un colloquio fra sé e
l'amico Sereno. Il confronto con il precedente letterario latino di dialogo filosofico, le ciceroniane
tusculanae disputationes, rende subito evidente la differenza tra la forma dialogica pienamente rispettata
dall'illustre predecessore e la forma adottata di dialogo da Seneca, diversa perché diverso era il modello
greco di trattazione filosofica a cui Seneca si rifaceva.
Del resto l’uso e l’adattamento che Seneca ne fa comportano parecchie differenze rispetto alla διατριβή
greca. Intanto Seneca usa come interlocutori reali, non ipotetici, persone della sua cerchia, in questo
similmente alle lettere epicuree, da cui oltre che esortarli può cercare sostegno e appoggio alle sue tesi
morali che spesso adombrano la giustificazione filosofica di precisi comportamenti pubblici che il filosofo
teneva in quel torno di tempo. E la stretta, e a volte contraddittoria, dipendenza delle opere e dell’azione di
Seneca è parte non secondaria del suo fascino. Tutti gli interlocutori poi sono equites (cavalieri) o
appartenenti a classi alte della società romana. Ciò che darà all’esposizione di Seneca, pur mantenendo
spesso il vigore e la forza satirica dei modelli originali, un tono meno basso e volutamente volgare, urtante
addirittura che invece era proprio della predica popolare cinica. Seneca inoltre, sulla scia delle opere
filosofiche di Cicerone, romanizzerà molti degli exempla, cioè dei comportamenti esemplari pro o contro
una certa tesi morale, traendoli dalla storia romana anche recente, in cui spesso riverserà i suoi odi e le sue
amicizie e stime verso figure note con cui ebbe a che fare. Infine molto tipiche di Seneca e dei suoi gusti
sono le citazioni, anche queste adattate spesso al significato che a Seneca interessava dare, sparse di poeti:
l’amato Virgilio soprattutto e l’"immaginifico” Ovidio, che aveva anticipato in età augustea certi gusti
“barocchi”, sdegnosi della classica misura cioè, che fiorirono nell’età neroniana.
Quanto all’ordine di composizione, che a grandi tratti è possibile ricostruire, esso è importante per la
stretta connessione, già indicata, tra l’opera scritta e il momento in cui viene scritta, riflettendosi nelle
singole opere l’atteggiamento e la disposizione psicologica di Seneca nei confronti del potere e della società
di Roma che egli aveva in quel dato momento. L’importanza dell’insieme dei Dialogi perciò sta anche nel
fatto che la loro composizione, attraversando tutta l’altalenante vita e carriera pubblica di Seneca, ci
permette di avere uno sguardo sull’animo e i suoi cambiamenti del grande filosofo a seconda delle alterne
fortune politiche.
I Dialogi di Seneca sono dieci, distribuiti in dodici libri:
 Ad Lucilium de providentia; In questo dialogo Seneca sostiene che è nell’ordine provvidenziale che
i buoni abbiano incommoda (sventure, avvenimenti dolorosi) ma che essi sono immuni dai mala,
che sono i veri e propri mali morali. La divinità stessa ammette che i buoni subiscano disgrazie e
calamità per allenare e rinforzare la virtù e far in modo che possa concretamente manifestarsi nelle
azioni. D’altra parte la fortuna da cui gli incommoda dipendono, se giunge a rendere la vita
insopportabile e indegna d’essere vissuta, il buono non avrà esitazione a liberarsene scegliendo la
morte.
 Ad Serenum de constantia sapientis;
 Ad Novatum De ira in tre libri che allude a Nerone;
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 Ad Marciam de consolatione;
 Ad Gallionem de vita beata; È un dialogo apologetico che Seneca scrisse per difendersi dalle accuse
di incoerenza che gli erano state rivolte. "Aliter loqueris, aliter vivis", lo apostrofa l'interlocutore
immaginato nel dialogo: "dici una cosa, ne fai un'altra". Seneca non nega le sue colpe, ma
controbatte che nei suoi scritti parla in generale della virtù, non della propria vita personale. Lui si
definisce infatti un semplice aspirante alla saggezza (adsectator sapientiae): "non sum sapiens [...]
nec ero", cioè "non sono un saggio, né lo sarò"; non ritiene quindi di appartenere alla categoria dei
"sapientes", gli unici che hanno raggiunto la virtù. Afferma inoltre che il conseguimento della virtù è
uno dei mezzi per giungere alla felicità; la virtù è dunque un valore da ricercare ed esercitare.
 Ad Serenum de otio ;
 Ad Serenum de tranquillitate animi;
 Ad Paulinum de brevitate vitae; L'argomento trattato è il tempo e l'uso che dovrebbe farne il
"sapiens" (il saggio). Nonostante tutti si lamentino della brevità della vita, infatti, questa è lunga a
sufficienza "per la realizzazione delle cose più grandi"; agli uomini sembra breve perché essi ne
sprecano gran parte in futili occupazioni. Ed ecco perché il filosofo incita gli uomini della turba,
della plebaglia più infima, di coloro che inutilmente vivono ricercando qualcosa che non gli
appartiene, li incita a considerare con maggior acume la qualità, non la quantità, della vita
trascorsa. Anche in quest'opera Seneca non rinuncia al suo oramai consueto carattere parenetico.
 Ad Polybium de consolatione;
 Ad Helviam matrem de consolatione.

Capitolo 19.2. I trattati.


Il De beneficiis e il De clementia sono due trattati di carattere etico-politico e si riferiscono al momento
dell'impegno di Seneca a fianco di Nerone.
Il De beneficiis risale al periodo 62-64 ed è scandito in sette libri, sviluppa il concetto di "beneficenza" come
principio coesivo di una società fondata su una monarchia illuminata. Sembra che sia stato composto
quando Seneca si era reso conto del fallimento dell'educazione morale di Nerone. Concetto fondamentale
dell'opera è che il beneficium è un atto di generosità consapevole. Il "De beneficiis" è rivolto ad Ebuzio
Liberale, un amico che Seneca frequentò soprattutto durante gli anni successivi al ritiro a vita privata.
Seneca analizza il dare ed il ricevere, la gratitudine e l'ingratitudine; mette in luce i forti limiti connessi
all'istituto tipicamente romano dei favori reciproci, determinati dai diffusi rapporti clientelari tra i cittadini,
ed elabora una nuova concezione di beneficium - favore disinteressato, che possa basarsi su un sentimento
di giustizia e non sulla speranza di essere ricambiati. Egli ricorda inoltre come il desiderio di vendetta debba
essere estirpato dal proprio animo, poiché il vero sapiens è consapevole del fatto che sia bene restituire al
prossimo ciò che da lui riceviamo tranne quando egli ci fa un torto. In tal caso, la patientia, sopportazione
stoica derivante dalla propria superiorità alle questioni terrene, è la virtù da coltivare.
In un passo di quest'opera egli paragona gli uomini ad un popolo di mattoni, che messi in coesione l'uno
sull'altro si sostengono a vicenda e reggono la volta dell'edificio della società.
Il De clementia ("La clemenza") fu composto tra il 55 e il 56 e ci è giunto incompleto (non è chiaro se
incompiuto o mutilo). L'opera è indirizzata a Nerone, da poco divenuto imperatore, di cui Seneca elogia la
moderazione e la clemenza, definita come la "moderazione d'animo di chi può vendicarsi" o l'"indulgenza",
e che invita a comportarsi con i suoi sudditi come un padre con i figli. Seneca non mette in discussione il
potere assoluto dell'imperatore, ed anzi lo legittima come un potere di origine divino. A Nerone il destino
ha assegnato il dominio sui suoi sudditi, ed egli deve svolgere questo compito senza far sentire su di loro il
peso del potere. Questa tesi trova il supporto filosofico nella dottrina politica stoica, secondo cui la
monarchia è la forma di governo migliore, all'unica condizione che il sovrano sia sapiente, e trattenendo i
suoi sentimenti più violenti, sappia esercitare con temperanza il suo potere.
Le Naturales quaestiones sviluppate in sette libri, furono composte nell'ultima parte della vita di Seneca.
L'edizione a noi giunta non è integrale e differisce quasi sicuramente dall'edizione originale per ordine e
composizione. Interessante è il fatto che, per molti versi, Seneca appare ben poco stoico e più vicino a
considerazioni di tipo platonico, anche se egli non rinnegherà il suo stoicismo. Principi "platonici" possono
essere ritrovati soprattutto nella prefazione al primo libro, nella quale si avverte un forte contrasto tra
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anima e corpo (visto come prigione dell'anima) e dalla caratterizzazione trascendentale di Dio privo di
corporeità e non immanente. Questi, principalmente, sono gli argomenti su cui Seneca si sofferma:
1. libro: I fuochi - Gli specchi
2. libro: Lampi e folgori
3. libro: Le acque terrestri (completo)
4. libro: il Nilo - Neve, pioggia, grandine
5. libro: I venti
6. libro: I terremoti
7. libro: Le comete
Innanzitutto per comprendere appieno il testo è necessario capire che lo scopo che Seneca si prefigge, non
è quello di raccogliere ordinatamente ogni conoscenza dell'epoca (cosa che invece possiamo intendere
almeno in parte nel Naturalis historia di Plinio il vecchio) bensì quello di liberare l'uomo dalla paura e dalla
superstizione intorno ai fenomeni naturali, compiendo così una operazione simile a quella di Lucrezio nel
suo De rerum natura (seppur con le dovute differenze ed eccezioni).
Affrontando il testo, troviamo fin dal primo libro una chiara presa di posizione di Seneca nella quale si
scopre l'intento primo dell'opera: permettere all'uomo, una volta scevro dalle false credenze che avvolgono
la natura, di ascendere ad una dimensione più divina.
Spesso quest'opera viene tacciata di poca scientificità, tuttavia viene da domandarsi se di scientificità si
possa propriamente parlare: anche se per certi versi Seneca mostra alcuni atteggiamenti "scientifici", quali
l'osservazione diretta, la riflessione razionale posteriore ad essa e la discussione di eventuali altre teorie,
per Seneca la conoscenza è solo un mezzo per elevarsi sino a Dio; molto spesso, inoltre, l'autore divaga in
argomentazioni e questioni di tipo morale o religioso e non sono rare le parti propriamente "filosofiche".

Capitolo 19.3. Le epistole a Lucilio: la lettera filosofica come genere letterario.


Seneca, nella produzione successiva al ritiro dalla scena politica, volse la sua attenzione alla coscienza
individuale. L'opera principale della sua produzione più tarda, e la più celebre in assoluto, sono le Epistulae
morales ad Lucilium, una raccolta di 124 lettere divise in 20 libri di differente estensione (fino alle
dimensioni di un trattato) e di vario argomento indirizzate all'amico Lucilio (personaggio di origini modeste,
proveniente dalla Campania, assurto al rango equestre e a varie cariche politico-amministrative, di buona
cultura, poeta e scrittore).
È un'opera sulla quale v'è una discussione se siano vere e proprie lettere inviate da Seneca a Lucilio o una
finzione letteraria. Verosimilmente si tratta di un epistolario reale (varie lettere richiamano quelle di Lucilio
in risposta), integrato da lettere fittizie (quelle più ampie e sistematiche), inserite nella raccolta al momento
della pubblicazione.
L'opera, che è giunta incompleta e risale al periodo del disimpegno politico, sebbene l'idea di comporre
lettere di carattere filosofico indirizzate ad amici venga da Platone e da Epicuro, costituisce sostanzialmente
un unicum nel panorama letterario e filosofico antico, e Seneca è perfettamente consapevole di introdurre
un nuovo genere nella cultura letteraria latina. Il filosofo distingue le lettere filosofiche dalla comune
pratica epistolare, anche da quella di tradizione più illustre, rappresentata da Cicerone. Seneca prende
come esempio Epicuro, il quale, nelle lettere agli amici, ha saputo realizzare quel rapporto di formazione e
di educazione spirituale che Seneca istituisce con Lucilio.
Le lettere di Seneca vogliono essere uno strumento di crescita morale. Riprendendo un topos
dell'epistolografia antica, Seneca sostiene che lo scambio epistolare permette di istituire un colloquium con
l'amico, fornendo un esempio di vita che, sul piano pedagogico, è più efficace dell'insegnamento dottrinale.
Lo scrittore ritiene l'epistola lo strumento più adatto per la prima fase dell'educazione spirituale, fondata
sull'acquisizione di alcuni principi basilari; più tardi, con l'accrescimento delle capacità analitiche del
discente e del suo patrimonio dottrinale, sono necessari strumenti di conoscenza più impegnativi e
complessi. La forma letteraria si adegua, quindi, ai diversi momenti del processo di formazione e le singole
lettere, col procedere dell'epistolario, divengono sempre più simili al trattato filosofico.
Non meno importante dell'aspetto teorico è l'intento esortativo: Seneca vuole non solo dimostrare una
verità, ma anche invitare al bene. Il genere epistolare si rivela appropriato ad accogliere un tipo di filosofia
priva di sistematicità e incline alla trattazione di aspetti parziali o singoli temi etici. Gli argomenti delle
lettere, suggeriti per lo più dall'esperienza quotidiana, sono svariati, e nella varietà, nell'occasionalità e nel
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collegamento fra vita vissuta e riflessione morale, sono evidenti le affinità con la satira, soprattutto
oraziana. Seneca parla delle norme cui il saggio si deve attenere, della sua indipendenza e autosufficienza,
della sua indifferenza alle seduzioni mondane e del suo disprezzo per le opinioni correnti e propone l'ideale
di una vita indirizzata al raccoglimento e alla meditazione, al perfezionamento interiore mediante
un'attenta riflessione sulle debolezze e i vizi propri e altrui.
La considerazione della condizione umana che accomuna tutti i viventi lo porta ad esprimere una condanna
del trattamento comunemente riservato agli schiavi, con accenti di intensa pietà che hanno fatto pensare al
sentimento della carità cristiana: in realtà l'etica senecana resta profondamente aristocratica, e lo stoico
che esprime pietà per gli schiavi maltrattati manifesta anche il suo irrevocabile disprezzo per le masse
popolari abbrutite dagli spettacoli del circo. Nelle Epistole, l'otium è costante ricerca del bene, nella
convinzione che le conquiste dello spirito possano giovare non solo agli amici impegnati nella ricerca della
sapienza, ma anche agli altri, e che le Epistole possano esercitare il loro benefico influsso sulla posterità.
L'opera senecana, e soprattutto le “Epistulae ad Lucillium”, si inserisce in quel momento storico durante il
quale il principato con gli ultimi esponenti della famiglia Giulia stava soffocando le libertà civili e riducendo
il senato, un tempo garante del diritto, a semplice strumento sottoposto alla volontà del princeps. Si capisce
perciò il desiderio di Seneca di scrutare entro la propria coscienza e in essa ricercare i motivi fondamentali
delle virtù, e quindi della libertà interiore, attingendo al pensiero di Platone e di Aristotele, ma soprattutto
di Epicuro e della scuola stoica. Un Seneca alla ricerca del superamento delle remore negative del suo
tempo per proiettarsi in un'area universale, ridiventando così padrone di sé stesso. Forse un pessimismo
celato e rivolto all'inerzia? I critici, almeno in un primo momento, se lo sono chiesto; tuttavia non si può
escludere che egli abbia operato negli anni della sua maturità per evitare gli equivoci, le contraddizioni e
ogni forma di egoismo, proiettando nel contempo la persona, data la ricchezza dello spirito, oltre il tempo.
Quasi un porsi nella dimensione divina, per cui i beni terreni, fonte di egoismi e di ingiustizie, vengono
annullati. E al loro posto ecco la persona conscia della sua dignità. Di qui le tante lettere al suo discepolo e
amico, Lucilio, quasi proiezione di se stesso, o almeno di come avrebbe voluto essere. A sostegno di tutto
ciò la filosofia, vista come regola di vita.
Molti i critici e gli studiosi che vedono negli ultimi scritti di Seneca un allineamento, inconsapevole, alle tesi
fondamentali della dottrina paolina; e più tardi quasi ispiratori delle Confessioni di Sant'Agostino. Ed è
significativo che il pensiero di Seneca nel tempo attuale attragga molte persone e non pochi studiosi alla
ricerca di più vasti valori inerenti all'esistenza umana, così da sfuggire alle molteplici sollecitazioni che,
tramite i media, cercano di spingere verso un superficiale edonismo.

Capitolo 19.4. Le tragedie.


Le tragedie ritenute autentiche sono nove (qualche dubbio sussiste per l'Octavia), tutte di soggetto
mitologico greco.
 L'Hercules furens è costruito sul modello dell'Eracle euripideo: Giunone provoca la follia di Ercole.
In conseguenza a ciò l'eroe uccide moglie e figli. Una volta rinsavito, determinato a suicidarsi, egli si
lascia distogliere dal suo proposito e si reca infine ad Atene a purificarsi.
 Le Troades è la contaminazione dei soggetti di due drammi euripidei, le Troiane e l'Ecuba. La
tragedia rappresenta la sorte delle donne troiane prigioniere e impotenti dì fronte al sacrificio di
Polissena, figlia di Priamo e del piccolo Astianatte, figlio di Ettore e Andromaca.
 Le Phoenissae è l'unica tragedia senecana incompleta, improntata sulle Fenicie di Euripide e
sull'Edipo a Colono di Sofocle. La vicenda ruota attorno al tragico destino di Edipo e all'odio che
divide i suoi figli Etèocle e Polinice.
 La Medea naturalmente si rifà a Euripide e forse anche a un'omonima, e fortunata, tragedia
perduta di Ovidio. La tragedia narra la cupa vicenda della principessa della Colchide abbandonata
da Giasone e assassina, per vendetta, dei figli avuti da lui.
 La Phaedra presuppone il celebre modello euripideo dell'Ippolito, di una tragedia perduta di Sofocle
e della quarta delle Heroides ovidiane: tratta dell'incestuoso amore di Fedra per il figliastro Ippolito
e del drammatico destino che si abbatte sul giovane, restio alle seduzioni della matrigna, la quale,
per vendetta, ne provoca la morte denunciandolo al marito Teseo, padre di Ippolito.
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 L'Oedipus, ispirato all'Edipo Re sofocleo, narra il mito tebano di Edipo, inconsapevole uccisore del
padre Laio e sposo della madre Giocasta. Alla scoperta della tremenda verità egli reagisce
accecandosi.
 L'Agamemnon, si ispira, assai liberamente, all'omonimo dramma di Eschilo. La tragedia rievoca
l'assassinio del re, al ritorno da Troia, per mano della moglie Clitennestra e dell'amante Egisto.
 Il Thyestes rappresenta una vicenda mitica già trattata in opere perdute di Sofocle, Euripide e
Ennio. Atreo, animato da odio mortale per il fratello Tieste, che gli ha sedotto la sposa, si vendica
con un finto banchetto di riconciliazione in cui imbandisce al fratello ignaro le carni dei figli.
 Nell'Hercules Oetaeus (Ercole sull'Eta, il monte su cui si svolge l'evento culminante del dramma)
modellato sulle Trachinie di Sofocle, è trattato il mito della gelosia di Deianira, che per riconquistare
l'amore di Ercole innamoratosi di Iole, gli invia una tunica intrisa del sangue del centauro Nesso,
creduto un filtro d'amore e in realtà dotato di potere mortale: tra dolori atroci Ercole si uccide ed è
assunto fra gli dei. Fortissime, in quest'opera, le analogie con la vita di Gesù di Nazareth. Un fatto
che dà ragione a molti storici secondo i quali, già negli anni di Seneca, il Cristianesimo era diffuso
nei circoli degli intellettuali e tra i patrizi romani a pochi anni dalla morte di Gesù. L'Ercole di questa
tragedia, infatti, muore e risorge, è assunto tra gli dei, si rivolge a Giove come "pater", viene tradito
da un amico che si suicida. Non solo: alla sua morte getta un urlo fortissimo, ne segue un
terremoto, ascende al cielo ed è presente nel testo anche la trasfigurazione di Ercole. Infine, dopo
la risurrezione, Ercole si identifica con Giove e ne assume i poteri.
Le tragedie di Seneca sono le sole opere tragiche latine pervenute in forma non frammentaria, e
costituiscono quindi una testimonianza preziosa sia di un intero genere letterario, sia della ripresa del
teatro latino tragico, dopo i vani tentativi attuati dalla politica culturale augustea per promuovere una
rinascita dell'attività teatrale. In età giulio-claudia (27 a.C.–68 d.C.) e nella prima età flavia (69–96) l'élite
intellettuale senatoria ricorse al teatro tragico per esprimere la propria opposizione al regime (la tragedia
latina riprende ed esalta un aspetto fondamentale in quella greca classica, ossia l'ispirazione repubblicana e
l'esecrazione della tirannide). Non a caso, i tragediografi di età giulio-claudia e flaviana furono tutti
personaggi di rilievo nella vita pubblica romana.
Le tragedie di Seneca erano, forse, destinate soprattutto alla lettura, il che poteva non escludere talora la
rappresentazione scenica. La macchinosità o la truce spettacolarità di alcune scene sembrerebbero
presupporre una rappresentazione scenica, mentre una semplice lettura avrebbe limitato, se non annullato,
gli effetti ricercati dal testo drammatico. Le varie vicende tragiche si configurano come scontri di forze
contrastanti e conflitto fra ragione e passione. Anche se nelle tragedie sono ripresi temi e motivi delle
opere filosofiche, il teatro senecano non è solo un'illustrazione, sotto forma di exempla forniti dal mito,
della dottrina stoica, sia perché resta forte la matrice specificamente letteraria, sia perché, nell'universo
tragico, il logos, il principio razionale cui la dottrina stoica affida il governo del mondo, si rivela incapace di
frenare le passioni e arginare il dilagare del male.

Capitolo 20. Petronio.


Tito Petronio Nigro nacque a Massilia nel 27 e morì a Cuma nel 66. Petronius, conosciuto anche come
arbiter elegantiae, «arbitro d'eleganza» alla corte di Nerone, resta indicato, per tradizione manoscritta, col
nome di Petronius Arbiter.
Poche altre notizie aveva dato in precedenza Plinio il Vecchio, Plutarco riprende da Tacito la notizia del
testamento di Petronio indirizzato a Nerone, nel quale rinfacciava «ai dissoluti e agli scialacquatori
grettezza e sudiciume, come Tito Petronio fece con Nerone».
Si tende a risolvere la discordanza del praenomen, Gaius (C.) in Tacito e Titus in Plinio e Plutarco, a favore
del Titus, ritenendo il Gaius un errore di amanuense. Il Rose, in particolare, ritiene di identificare nello
scrittore il Titus Petronius Niger che fu console suffetto nell'anno 62 o 63.
Né Tacito, però, né Plinio e Plutarco identificano il personaggio condannato da Nerone come l'autore del
Satyricon: lo ipotizzano per primi l'umanista Giuseppe Giusto Scaligero verso il 1570 e il tipografo e libraio
di Orléans Mamert Patisson nel 1575. Le motivazioni addotte a favore di tale identificazione risiedono in
una serie di motivi: il cognomen «Arbiter», presente nei codici del romanzo, coincide con l'appellativo di
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«arbiter elegantiae» del cortigiano; l'esser morto in una sua villa a Cuma, in Campania, conferma la
famigliarità dello scrittore con questa regione, come si rileva nel romanzo;alcuni personaggi citati - il
cantante Apellete, il citareda Menecrate e il gladiatore Petraite sono personaggi realmente vissuti nella
prima metà del I secolo; la lingua, i riferimenti culturali e anche la situazione sociale che emerge dal
romanzo rispecchia i caratteri di quel secolo.

Capitolo 20.1. Il Satyricon


Il Satyricon è un prosimetro della letteratura latina attribuito a Petronio Arbitro (I secolo d.C.). La
frammentarietà e la lacunosità del testo pervenuto in età moderna hanno compromesso una comprensione
più precisa dell'opera.
I manoscritti che tramandano l'opera sono discordanti riguardo al titolo, riportandone diversi: Satiricon,
Satyricon, Satirici, o Satyrici (libri), Satyri fragmenta, Satirarum libri. È consuetudine, però, riferirsi all’opera
di Petronio con il titolo di Satyricon, da intendersi probabilmente come genitivo plurale di forma greca
(dov’è sottinteso libri), analogamente ad opere del periodo classico (come le Georgiche di Virgilio).
I codici, tuttavia, tramandano come titolo dell'opera anche Saturae, termine interpretabile in due modi:
"libri satirici" e "libri di cose da satiri", cioè "racconti satireschi", perché connessi alla figura del satiro.
Entrambe le accezioni del titolo concorrono a meglio definire il genere dell'opera come comico-satirico di
contenuto licenzioso.
L'identità dell'autore dell'opera non è certa, dal momento che il testo non fornisce riferimenti precisi per
riconoscerlo in modo inequivocabile.
L'opera è frammentaria e lacunosa. Stando ai codici, il Satyricon originariamente era molto ampio: le parti a
noi giunte appartengono soltanto ai libri XIV, XVI pervenuteci in gran parte e per intero il XV libro dello
scritto, scoperto nel 1654 in una biblioteca di Traù, in Dalmazia, contenente la celeberrima Cena
Trimalchionis ("La cena di Trimalchione"). L'inizio e la fine della storia narrata sono di fatto impossibili da
ricostruire in modo soddisfacente. Gli studiosi hanno suddiviso i frammenti tramandati in 141 capitoli.
La mutilazione dell'opera è attribuibile alla licenziosità dell'argomento e al realismo degli ambienti descritti,
che producono un'immagine moralmente disdicevole della Roma imperiale e poco edificante per il lettore.
L'opera racconta le vicissitudini di Encolpio, il giovane protagonista, di Gitone, il suo amato efebo, e
dell'infido amico-nemico Ascilto.
L'antefatto, soltanto deducibile, racconta di un oltraggio commesso da Encolpio nei confronti della divinità
fallica Priapo, che da lì in poi lo perseguita provocando al protagonista una serie di insuccessi erotici.
La narrazione tràdita si apre con una discussione tra Encolpio e il retore Agamennone sul tema della
decadenza dell'eloquenza. Il protagonista poi s'allontana per cercare il suo convivente Ascilto, che ritrova in
lupanare. Qui i due sono forse coinvolti in un'orgia. Scampatene, Encolpio apprende che Ascilto s'è unito col
suo amato Gitone. Da qui la rivalità dei due personaggi che, separatisi, intraprendono due percorsi diversi,
per poi ricongiungersi in breve tempo.
I due vanno in una Graeca urbs della Campania, forse Napoli o Pozzuoli o Cuma, dove fanno i conti col
sacrilegio commesso nel tempio di Priapo: la sacerdotessa, Quartilla, interrotta durante il rito, costringe
Encolpio e Ascilto ad un'orgia come metodo di redenzione. In questa è coinvolto anche Gitone, che poi
viene spinto ad unirsi con la settenne Pannichide. Terminata la vicenda, ritornano tutti a casa.
Il racconto da qui si sposta a casa di Trimalchione, un liberto arricchitosi immensamente attraverso l'attività
commerciale. Qui s'apre la scena della "cena". Occupando quasi metà dell'intero scritto pervenutoci,
l'episodio costituisce la parte centrale dell'opera. Al convivio sono ospiti, oltre ai tre giovani, anche vari
personaggi dello stesso rango di Trimalchione. La portata del cibo è spettacolare e altamente coreografica,
accompagnata da giochi acrobatici dei servi del padrone di casa e da racconti tra i commensali. I convitati
intrattegono poi una lunga conversazione, che tocca i più svariati argomenti: la ricchezza e gli affari di
Trimalchione, l'inopportunità dei bagni, la funzione del funerale, le condizioni climatiche e l'agricoltura, la
religione e i giovani, i giochi pubblici, i disturbi intestinali, il valore del vetro, il destino, i monumenti funebri,
i diritti umani degli schiavi. Tutto offre uno spaccato vivace e colorato, non senza punte di chiara volgarità,
della vita di quel ceto sociale.
In seguito, Encolpio, allontanatosi dagli altri due compagni, incontra Eumolpo, un vecchio letterato che,
notato l'interesse di Encolpio per un quadro raffigurante la presa di Troia, gliene declama in versi il
resoconto (è la celebre Troiae halosis). I due diventano quindi compagni di viaggio, rivali in amore a causa di
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Gitone e dopo una serie di avventure, che li vedono viaggiare per mare e rischiare anche la vita, si ritrovano
insieme nella città di Crotone, dove Eumolpo si finge un vecchio danaroso e senza figli, ed Encolpio e Gitone
si fanno passare per i suoi servi: così essi scroccano pranzi e regali dai cacciatori di eredità.
Nei frammenti successivi, Eumolpo recita un brano epico, in cui viene descritto il Bellum civile ("La guerra
civile") fra Cesare e Pompeo, e successivamente si legge di Encolpio che, per l'ira di Priapo, diventato
impotente, è vittima di una ricca amante che si crede disprezzata da lui e lo perseguita. Eumolpo, invece,
scrive il suo testamento dove specifica che gli eredi avranno diritto alle sue ricchezze solo se faranno a pezzi
il suo corpo e se ne ciberanno in presenza del popolo.
Il Satyricon di Petronio non rientra in un unico genere letterario codificato: è combinazione di generi molto
diversi tra loro. È per questo definito, pastiche letterario.
L'opera è sicuramente formata sul modello della satira menippea, da cui trae la tecnica della fusione di parti
in prosa e parti in poesia, dal taglio satirico pungente e moraleggiante. Come deducibile dal titolo stesso, il
Satyricon è anche ispirato al genere della satira. Questo è, però, realizzato attraverso un lucido distacco,
privo quindi del forte intento moralistico degli autori satirici precedenti.
Allo stesso modo, il Satyricon fu influenzato dal mimo, rappresentazione teatrale dal forte realismo
descrittivo. In ultima, sebbene molto più limitatamente, il rimando alla favola milesia, dalla quale prende
spunto per gli episodi macabri o licenziosi (come quello della Matrona di Efeso).
Esiste infine un'ipotesi più suggestiva, tuttavia non condivisa all'unanimità dagli studiosi, che accomuna il
Satyricon al modello del romanzo ellenistico. Con esso l'opera condivide diversi aspetti: la struttura
complessa, il rapporto amoroso fra i protagonisti e le disavventure che essi devono affrontare. Tuttavia
considerando le evidenti differenze con cui gli stessi temi del romanzo ellenistico sono trattati da Petroni
alcuni critici hanno sostenuto la tesi di un solo intento parodistico di Petronio verso questo genere ben
conosciuto e popolare.
All'estrema varietà di generi del Satyricon, s'aggiunge la grande componente parodica. Il Satyricon è,
altrettanto evidentemente, parodia dell'Odissea di Omero, romanzo di viaggio per eccellenza. L'opera di
Petronio riprende, infatti, il tema del viaggio, della persecuzione del dio (per Ulisse: Nettuno, per Encolpio:
Priapo), del naufragio e di particolari minori, quali l'avventura tra Encolpio-Polieno e Circe.
Allo stesso modo, si può intravedere la parodia dell'Eneide di Virgilio, di alcuni episodi in particolare.
Questo conferma l'intento parodistico rivolto a tutta la letteratura epica in generale.
Il realismo descrittivo di Petronio interessa, in modo quasi unico nella letteratura classica, anche il
linguaggio. L'autore corrisponde allo status sociale del personaggio un determinato registro linguistico.
Così, il colto Eumolpo utilizza un registro più alto, l'umile ma non infimo Encolpio un registro medio-basso
(sermo familiaris), mentre, per ultimi, gli ospiti di Trimalchione uno ancora inferiore (sermo plebeius) a cui
si somma l'uso di espressioni tipiche popolari.
Il Satyricon è spesso considerato come il primo esempio di quello che sarebbe poi diventato, nel tempo, il
romanzo moderno. Non esiste una filiazione diretta fra il romanzo antico e il romanzo moderno, tuttavia la
riscoperta dei frammenti superstiti di quest'opera ebbe, dopo il Rinascimento, un considerevole impatto
sulla narrativa occidentale.
Il contenuto dell'opera, incentrato sull'erotismo, la promiscuità sessuale e il culto di Priapo, motiva la sua
limitata trascrizione, e quindi la diffusione, specialmente in epoca cristiana. In età moderna, l'opera viene
tuttavia rivalorizzata.

Capitolo 21. Plinio il vecchio


Plinio il Vecchio nacque fra il 23 e 24 d.C. Discusso è il luogo della sua nascita: Verona per alcuni, Como
(Novocomum) per altri. A sostegno della tesi veronese ci sono dei manoscritti in cui è possibile leggere
Plinius Veronensis e il fatto che Plinio stesso, nella sua prefazione, citi Gaio Valerio Catullo come proprio
conterraneus (e Catullo era di Verona). Ad avvalorare l'idea di Como come luogo di nascita, si osserva
invece che Eusebio di Cesarea, nella sua cronaca, unisce in nome di Plinio con l'epiteto di Novocomensis.
Eusebio e gli autori successivi hanno però a lungo confuso Plinio, l'autore della Naturalis Historia, e Plinio il
giovane, suo nipote, l'autore delle lettere e del Panegirico di Traiano. L'argomentazione più considerevole a
favore di Como sono le iscrizioni presenti in questa città, nelle quali il nome di Plinio ritorna spesso.
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Plinio il Vecchio riveste cariche quali Ufficiale di cavalleria (eques) in Germania, grazie a sua madre,
compagna di Gaio Cecilio di Novum Comum, senatore e procuratore in Gallia e Spagna. Prima del 35 suo
padre lo portò a Roma, dove affidò la sua istruzione ad uno dei suoi amici, il poeta e generale Publio
Pomponio Secondo. Plinio vi acquisì il gusto di apprendere. Due secoli dopo la morte dei Gracchi, il giovane
ammirò alcuni dei loro manoscritti conservati nella biblioteca del suo tutore e dedicò loro più tardi una
biografia.
Plinio a Roma studiò botanica. Sotto l'influenza di Lucio Anneo Seneca, diventa uno studente appassionato
di filosofia e di retorica ed inizia ad esercitare la funzione d'avvocato. Plinio ricoprì cariche civili sotto
Vespasiano e Tito. Comandante della flotta tirrenica di stanza a Miseno, morì durante l'eruzione del Vesuvio
che distrusse Pompei, Ercolano e Stabia nel 79.
Plinio il Giovane, suo nipote, ce lo rappresenta come un uom